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Italian Pages 0 [491] Year 2007
MACROBTO Testo latino a fronte
Saggio introduttivo di Tlaria Ramelli Traduzione, bibliografia, note e apparati di Moreno Neri
In appendice: Mdrco Tullio Cicerone, rl Sogno di Scipione (con testo latino a fronte) Moreno Neri, Sogni e magnartimità nelle orti (con iconografia scipioniana) Paolo Antonio Rolli, Scipione Pietro Metaitasio, Il Sogno di Scipione
IL PENSIERO OCCIDENTALE @ BOMPTANT
O 2007 H.C.S. Libri S.p.A., Milano I edizione Bompiani 11 Pensiero Occidentale aprile 2007
SAGGIO INTRODUTTIVO di Ilaria Ramelli
SOMMARIO ANALITICO DEL COMMENTO DI MACROBIO AL SOGNODI SCIPIONE
LIBRO PRIMO CAPITOLO I Preambolo: differenza e conformità tra la Repubblica di Platone e quella di Cicerone. Perché essi hanno inserito in questi trattati il primo, I'episodio della rivelazione di Er; il secondo, quello del Sogno di Scipione.
CAPITOLO I1 Risposta alle critiche dell'epicureo Colote che pensa che a un filosofo sia vietato ogni sorta di mito. Le diverse categorie dei miti in letteratura. I miti ammessi dalla filosofia e gli argomenti nei quali sono consentiti.
CAPITOLO I11 Tipologza dei sogni: i loro cinque generi. Quello di Scipzone racchiude i primi tre generi.
CAPITOLO IV Natura e scopo del Sogno di Scipione.
CAPITOLO V Breve riassunto del preambolo. Prima citazione del Sogno. Esposizione aritnzologica: la nozione di pienezza aritmetica. Benché tutti i numeri siano perfetti, il sette e I'otto lo sono particolarmente. Virtu del numero otto.
CAPITOLO VI Vivtzì del numero sette. La combinazione di pari (otto) e di dispari
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SOMMARIO ANALITICO
(sette). Le combinazioni che producono il sette, Uno più sei, virtzi dell'uno e virtù del sei. Due più cinque: virtù del due e virtù del cinque. Tre più quattro: capacità di legame di questi due numeri. Cunione degli elementi secondo il Timeo di Platone. La doppia capacità di legame del sette. Vzrtù spec&che del sette: antologiche, astronomiche (cicli limari, solari e celestd, cicli delle maree, cicli della vita umana (sviluppo dell'embrione, periodo post-natale, infanzia e giovinezza, età adulta e vecchiaia), anatomia umana. Conclusione dell'esposizione aritmologica. Le numerose proprietà che fanno meritare al numero sette la qualifca di numero pieno.
CAPITOLO VI1 Sulla divinazione. Ambiguità e mistero dei sogni e dei presagi relativi alle avversità. In che modo racchiudano tuttavia circostanze che possono, comunque, condurre sulla strada della verità l'investigatore dotato di perspicacia.
CAPITOLO VI11 Szrllanima. Seconda citazione del Sogno. Le virtz2 filosofiche sono le sole a dare la felicità? I quattro generi di virtzi nel sistema di Plotino: uirtu politiche, virtù purificatrici, uirtù dell'anima già purificata e virtù esemplari. Dato che la virtii costituisce la felicità e dato che le virtù del primo genere appartengono a coloro che dirigono le istituzioni politiche, ne consegue che le virtù politiche danno la felicità.
CAPITOLO IX La dimora celeste dellaninza. In che senso si deve intendere che i reggitori delle istituzioni politiche sono scesi dal cielo e che l ì ritorneranno.
CAPITOLO X Terza citazione del Sogno. Opinione degli antichi teologi sugli inferi e quello che bisogna intendere, secondo essi, con vita o morte dell'anima.
SOMMARIO ANALITICO
CAPITOLO XI Opinione dei platonici sugli inferi e sulla loro dislocazione. In quale modo concepiscono la vita o la morte dell'anima. La prima, la seconda e la terza tesi platonica. CAPITOLO XII La strada che percorre l'anima, scendendo dalla parte più elevata dell'universo, attraverso le sfere celesti, verso la parte inferiore che noi occupiamo. CAPITOLO XIII Quarta citazione del Sogno. Sul suicidio. Suo divieto secondo Platone e secondo Plotino. Vi sono per I'uomo due tipi di morti: una ha luogo quando I'anima lascia il corpo, la seconda, quando l'anima, restando unita al corpo, rifiuta i piaceri dei sensi e compie la rinuncia ad ogni godimento e sensazione materiale. Quest'ultima morte deve essere I'oggetto dei nostri voti; non dobbiamo affrettare la prima, ma aspettare che Dio stesso rompa i vincoli che legano l'anima al corpo. CAPITOLO XIV Quinta citazione del Sogno. Natura deltanima. Perché l'universo è chiamato tempio di Dio. Delle diverse accezioni delle parole anima e animus. L'emanazione delle ipostasi. La creazione delle anime umane. Gli altri esseri uzirenti: animali e vegetali. Interpretazioni allegoriche di Vivgilzo e di Omero (la catena aurea). Applicazione di queste nozioni al testo di Cicerone e in che senso bisogna intendere che la parte intelligente dell'uomo è della stessa natura di quella degli astri. Diverse opinioni sulla natura dellanzina Esposzzione astronomica e sua terminologia: in che cosa differisce una stella e un astro; che cos'è una sfera, un cerchio, un circolo; da dove viene il nome di corpo errante dato ai pianeti. CAPITOLO XV I circoli celesti: la Via Lattea; lo zodzaco; I'eclittica; i paralleli; i coluri; il meridiano; l'orizzonte.
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CAPITOLO XVI Sesta citazione del Sogno. Le stelle: le stelle che non possiamo vedere dell'emisfero australe; la loro dimensione in generale. CAPITOLO XVII Settima citazione del Sogno. Le sfere celesti. Sommavio dell'esposizione. Perché il cielo si muove incessantemente e sempre in senso circolare. La sfera stellata. In che modo va inteso chi sia il Dio supremo. Se le stelle che si sono chiamatefisse hanno un movimento proprio. CAPITOLO XVIII Le sfere planetarie. Tesi da dimostrare: le stelle erranti hanno un movimento proprio, contrario a quello del cielo. Dzrezione dello spostamento dei pianeti. Esempi del movimento della luna e di quello del sole. CAPITOLO XIX Dell'opznione di Platone e di quella di Cicerone sul posto che occupa il sole tra i corpi erranti. Della necessità in cui si trova la luna diprendere in prestito la sua luce dal sole, in modo che illumini, ma non riscaldi. Della ragione per la quale si dice che il sole non è esattamente al centro, ma quasi al centro dei pianeti. Origine dei nomi dei pianeti. Le loro influenze astrologiche: perché vi sono deipianet i che ci sono funesti e altri fauorevoli. CAPITOLO XX Trattato sul sole: i differentinomi del sole; le sue funzioni neli'universo; la sua grandezza. Metodi fallaci per misurare il sole e il corretto metodo égiziano". Il calcolo della circonferenza e la lunghezza delI'ombra della terra. Circonferenza e diametro terrestre. Lunghezza dell'orbita solare. Misura del diametro solare. CAPITOLO XXI Lo zodiaco e i suoi segni. Perché si dice che i pianeti si spostino "nei" segni dello zodiaco. Della causa della disuguaglianza di tempo nella
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durata delle loro rivoluzioni. Dei mezzi che gli Egiziani hanno adoperato per diuidere lo zodiaco in dodici parti. Perché l'Ariete è il primo dei segni, I domicik zodiacali. Sommario degli ultimi cinque capitoli. L'aria: mondz supralunare e sublunare.
CAPITOLO XXII Perché la terra è immobile al centro del mondo e perché tutti i c o v i gravitano verso di essa con il proprio peso. Dimostrazione: la caduta delle piogge.
LIBRO SECONDO CAPITOLO I Prima citazione del Sogno. Esposzzione musicale. Princ+i dell'armonia musicale: l'aria colpita emette un suono. Dell'armonia prodotta dal movimento delle sfere. Mezzi adoperati da Pitagora per conoscere i rapporti matematici dei suoni armonici. Dei valori numerici propri agli accordi musicali e del numero di questi rapporti armonici.
CAPITOLO I1 La musica delle sfere. In quale proporzione, secondo il Tirneo di Platone, Dio adoperò i numeri nella composizione dell'Anzma del Mondo. Preliminari: i solidi e i diversi corpi matematici. Da questa organizzazione dell'anima universale risulta l'armonia dei corpi celesti.
CAPITOLO I11 Si possono apportare ancora altre prove e dare altre ragioni della necessità dell'armonia delle sfere. Interpretazioni allegoriche: le Sirene; le Muse; i riti religiosz;. miti d'Orfeo e d'Amfione. Musica delle sfere e intervalli planetari.
CAPITOLO IV DescrzZione dell'armonia che scaturisce dalle sfere planetarie. Della causa per cui, tra le sfere celesti, ve ne sono alcune che danno dei
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suoni bassi e altre dei suoni acuti. Larmonia celeste è costituitd da sette note. Limiti della presente esposizione musicale. Dei generi dellarmonia. Del perché l'uomo non può sentire la musica delle sfere.
CAPITOLO V Seconda citazione del Sogno. Esposizione geografica e suo schema. Il nostro emisfero è diviso in cinque zone. Zone terrestri e loro clima. Delle fasce terrestri soltanto due sono abitabili (le zone temperate): una di esse è occupata da noz; I'altra da uomini la cui specie ci è sconosciuta. I nomi dei punti cardinali. I venti. Le zone abitate sulla terra: l'emisfero opposto è simmetrico al nostro. Anche l'emisfero australe è abitato dagli uomini. La teoria delle quattro regioni abita&.
CAPITOLO VI Della dimensione delle fasce della terra abitate e di quelle deserte.
CAPITOLO VII Corrispondenza delle zone della terra e di quelle celesti. Il corso del sole, cui dobbiamo il clima, ossia il caldo o il freddo, a seconda che esso si avvicini o si allontani da noi, ha fatto immaginare queste differenti zone.
CAPITOLO VI11 Dove si di, per inciso, il modo d'interpretare un passo virgiliano delle Georgiche, apparentemente sconcertante, che riguarda il circolo dello zodiaco.
CAPITOLO IX Il nostro globo è avvolto dall'oceano, non in un senso, ma in due dgferenti sensi. Oceano e regioni abitabili. La forma della parte che abitiamo: ristretta verso i poli e piìì larga verso il suo centro. Della scarsa superficie dell'oceano che ci sembra cosi grande e della terra.
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CAPITOLO X Tena citazione del Sogno. Esposizione astronomica: i cicli cosmici. Benché il mondo sia eterno, l'uomo non può sperare di pelpetuare, tra i posteri, la sua gloria e la sua fama; perché tutto ciò che contiene questo mondo, la cui durata non avrà mai fine, è soggetto, come &nostrano argomenti leggendari, storici e filosofici, al periodico alternarsi di distruzione e di riproduzione. La rinascita della civiltà. CAPITOLO XI Quarta citazione del Sogno. C'è pi& di un modo di ualutare gli anni, Gli anni planetari L'anno del mondo: sua definizione. Il grande anno, l'anno veramente pevfetto, comprende quindicimila dei nostri anni. CAPITOLO XII Quinta citdzione del Sogno. Il perché della citazione a questo punto del Sogno. Esposizione metafisica: l'anima immortale è un dio; l'uomo non è corpo, ma spirito. Dimostrazione della tesi sull'immortalità dell'anima da parte di Plotino e opinione di Cicerone. In questo mondo nzrlla muore, nulla si distrugge. CAPITOLO XIII Sesta citazione del Sogno. L'anima autocinetica è immortale. Definizione dell'immortalità e del movimento. Dei tre sillogismi platonici che provano l'immortalità e l'autocinesi dell'anima. CAPITOLO XIV Gli otto argomenti di Aristotele per dimostrare, contro il parere di Platone, che l'anima non ha movimento di per sé. Prima obiezione. Seconda obiezione. Terza obiezione. Quarta obiezione. Quinta obiezione. Sesta obiezione. Settima obiezione. Ottava obiezione.
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CAPITOLO XV Argomenti dei Platonici a favore del loro maestro per confutare Aristotele. Metodo utilizzato dall'autore. Confutazione della prima obiezione: dinzostrazione dei platonici dell'esistenza di qualcosa che
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si muove di per sé e che questa sostanza non è altro che I'anima. Considerazioni grammaticali: I'artivo e il passivo. Le prove fornite dai Platonìci distruggono la prima obiezione di Aristotele.
CAPITOLO XVI Nuoui argomenti dea' platonici contro le altre sette obiezioni di Aristotele. Conclusione generale della confutazione. CAPITOLO XVZI Settima citazione del Sogno. Conclusioni: ricompensi e castighi dell'anima dopo la morte; la pratica delle virtù assicura la felicità e i consigli dell'Africano a suo nipote hanno avuto anche per oggetto le virtù contemplative e le virtù attive. I l destino delle anime malvage. Il Sogno di Scipione di Cicerone non ha trascurato nessuna delle tre parti della filosofia: sua perfezione.
MACROBII AMBROSII THEODOSII VIRI CLARISSIMI ET ET ILLVSTRIS
IN SOMNIVM SCIPIONIS MACROBIO AMBROGIO TEODOSIO
COMMENTO AL SOGNO DI SCIPIONE
LIBER PRIMVS
1. 1. Inter Platonis et Ciceronis libros, quos de re publica uterque constituit, Eustachi fili, uitae mihi dulcedo pariter et gloria, hoc interesse prima fronte perspeximus quod ille rem publicam ordinauit, hic retulit; alter qualis esse deberet, alter qualis esset a maioribus instituta disseruit. 2. In hoc tamen uel maxime operis similitudinem seruauit imitati0 quod, cum Plato in uoluminis conclusione a quodam uitae reddito quam reliquisse uidebatur indicari faciat qui sit exutarum corporibus status animarum, adiecta quadam sphaerarum uel siderum non otiosa descriptione, rerum facies non dissimilia significans a Tulliano Scipione per quietem sibi ingesta narratur. 3. Sed quid uel illi commento tali uel huic tali somnio in his potissimum iibris opus fuerit, in quibus de rerum publicarum statu loquebantur, quoue attinuerit inter gubernandarum urbium constituta circulos orbes globosque describere, de stellarum modo de caeli conuersione tractare quaesitu dignum et mihi uisum est et aliis fortasse uideatur, ne uiros sapientia praecellentes nihilque in inuestigatione ueri nisi diuinum sentire solitos aliquid castigato operi adiecisse superfluum suspicemur. De hoc ergo prius pauca dicenda sunt ut liquido mens operis de quo loquimur innotescat. 4. Rerum omnium Plato et actuum naturam penitus inspiciens aduertit in omni sermone de rei publicae institutione proposito infundendum animis iustitiae amorem, sine qua non solum res publica sed nec exiguus hominum coetus nec domus quidem parua constabit. 5. Ad hunc porro iustitiae affectum
LIBRO PRIMO
1. I. Tra i due trattati sulla Repubblica, scritti uno da Platone e l'altro da Cicerone, abbiamo in primo luogo constatato, Eustazio, mio caro figlio, dolcezza e gloria insieme della mia vita, la seguente differenza: l'organizzazione della repubblica del primo è ideale, quella del secondo è effettiva. Platone discute su quali dovessero essere le istituzioni e Cicerone sul modo in cui furono organizzate dai nostri antenati. 2. C'è tuttavia un punto in cui l'imitazione ha, senza dubbio, marcatamente mantenuto la somiglianza con il modello. Mentre Platone, a conclusione del suo libro, si serve di un personaggio, richiamato alla vita che sembrava aver perduta, per fargli indicare quale sia la condizione delle anime una volta liberate dei loro corpi, con in più una descrizione non inutile delle sfere celesti e degli astri, Cicerone fa raccontare al suo Scipione una scena dello stesso genere, vista in sogno 1. i.Ma, in quegli scritti dedicati alla politica, che necessità vi era per Platone di una simile trovata e per Cicerone di un simile sogno? E a che pro unire alle leggi fatte per governare le società umane, quelle che determinano il cammino dei pianeti nelle loro orbite e il sistema 2 delle stelle fisse, trascinate col cielo in un movimento comune? La questione, che mi è parsa degna d'indagine - e questo interesse sarà senza dubbio condiviso da altri -, assolverà due uomini, eminenti per sapienza e che nella ricerca del vero non hanno avuto che ispirazioni divine, dal sospetto d'avere aggiunto qualcosa di superfluo a produzioni tanto perfette. Bisognerà prima di tutto dire alcune cose, affinché risulti chiaro il succo dell'opera di cui si parla. 4. Osservatore profondo della natura di ogni cosa e del movente delle azioni umane, Platone non perde mai l'opportunità, in tutta l'esposizione che forma il codice della sua Repubblica, di infondere nei nostri animi l'amore per la giustizia, senza la quale non potrebbe esistere non solo lo Stato, ma nemmeno la più piccola comunità di uomini, o addirittura reggersi la più modesta famiglia 3.5. Giudicò dunque che il mezzo
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MACROBIO
pectoribus inoculandum nihil aeque patrocinaturum uidit quam si fructus eius non uideretur cum uita hominis terminari. Hunc uero superstitem durare post haminem qui poterat ostendi nisi prius de animae immortalitate constaret? Fide autem facta perpetuitatis animarum consequens esse animaduertit ut certa iilis loca nexu corporis absolutis pro contemplatu probi improbiue meriti deputata sint. 6. Sic in Phaedone inexpugnabilium luce rationum anima in ueram dignitatem propriae immortalitatis adserta sequitur distinctio locorum quae hanc uitam relinquentibus ea lege debentur quam sibi quisque uiuendo sanxerunt. Sic in Gorgia post peractam pro iustitia disputationem de habitu post corpus animarum morali grauitate Socraticae dulcedinis admonemur. 7. Idem igitur obseruanter secutus est in illis praecipue uoluminibus quibus statum rei publicae formandum recepit. Nam postquam principatum iustitiae dedit docuitque animarn post anima1 non perire, per illam demum fabulam - sic enim quidam uocant - quo anima post corpus euadat uel unde ad corpus ueniat in fine operis adseruit ut iustitiae uel cultae praemium uel spretae poenam animis quippe immortalibus subiturisque iudicium seruari doceret. 8. Hunc ordinern Tullius non minore iudicio reseruans quam ingenio repertus est: postquam in omni rei publicae otio ac negotio palmam iustitiae disputando dedit, sacras immortalium animarum sedes et caelestium arcana regionum in ipso consummati operis fastigio locauit indicans quo his perueniendum uel potius reuertendum sit qui rem publicam cum prudentia iustitia fortitudine ac moderatione tractauerint. 9. Sed ille Platonicus secretorum relatoi. Er quidam nomine fuit, natione Pamphylus, miles officio, qui cum uulneribus in proelio acceptis uitam effudisse uisus duadecimo demum die
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più efficace d'ispirarci nei petti questa inclinazione verso il giusto fosse di persuaderci che i frutti della giustizia non hanno termine con la vita umana. Ma chi era in grado di mostrare che questo frutto sopravvive all'uomo, se non ci si fosse prima di tutto resi conto dell'immortalità dell'anima? Una volta stabilita l'eternità delle anime, Platone dovette assegnare, di conseguenza, delle dimore particolari alle anime liberate dai legami del corpo, in ragione dei loro meriti o demeriti. 6. Così, nel Fedone, dopo avere dimostrato, d a luce di ragioni inconfutabili, i diritti dell'anima al conseguimento dell'immortalità, distingue le dimore, che saranno irrevocabilmente assegnate a coloro che lasciano quest'esistenza, in funzione della legge che ciascun individuo, secondo il modo in cui avrà vissuto, ha sancito per sé 4. Ancora del pari, nel Gorgia, dopo una dissertazione in favore della giustizia, prende a prestito la morale dolce e grave di Socrate per esporci lo stato delle anime che hanno lasciato il corpo 5 . 7. Questo modo di procedere, che adotta costantemente, si fa particolarmente notare in quei libri dedicati d'organizzazione della repubblica. Comincia col dare alla giustizia il primato tra le virtù, poi insegna che l'anima non perisce con l'essere animato; poi, grazie a questo mito - è l'espressione che adoperano certe persone -, determina, alla fine del suo trattato i luoghi dove si reca l'anima dopo essere uscita dal corpo e da dove venga quando viene ad abitarlo. Tali sono i suoi mezzi per persuaderci che le nostre anime immortali saranno giudicate, quindi ricompensate o punite, secondo il nostro rispetto o il nostro disprezzo per la giustizia. 8. Cicerone, conservando quest'ordine, mostra un discernimento non inferiore al genio, stabilendo dapprima, con una ponderata discussione, che alla giustizia spetta la palma della virtù, in ogni affare pubblico o privato dello Stato 6 ; poi colloca nel punto culminante della sua opera che ha terminato 7 lo sviluppo sulle sacre dimore delle anime immortali e sui misteri delle regioni celesti, dove devono recarsi, o meglio ritornare, le anime di coloro che hanno amministrato con prudenza, giustizia, fortezza e temperanza 8. 9. Ma in Platone colui che racconta questi segreti è un uomo di nome Er, pamfilo d'origine 9 , soldato di mestiere; lasciato come morto in seguito alle ferite ricevute in combattimento,
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MACROBIO
inter ceteros una peremptos ultimo esset honorandus igne, subito seu recepta anima seu retenta quicquid emensis inter utramque uitam diebus egerat uideratue tamquam publicum professus indicium humano generi enuntiauit. Hanc fabulam Cicero licet ab indoctis quasi ipse ueri conscius doleat irrisam, exemplum tamen stolidae reprehensionis uitans excitari narraturum quam reuiuiscere maluit.
2. 1. Ac priusquam somnii uerba consulimus, enodandum nobis est a quo genere hominum Tullius memoret uel irrisam Platonis fabulam uel ne sibi idem eueniat non uereri. Nec enim his uerbis uult inperitum uulgus intellegi sed genus hominum ueri ignarum sub peritiae ostentatione quippe quos et legisse talia et ad reprehendendum animatos constaret. 2. Dicemus igitur et quos in tantum philosophum referat quandam censurae exercuisse leuitatem, quisue eorum etiam scriptam reliquerit accusationem et postremo quid pro ea dumtaxat parte quae huic operi necessaria est responderi conueniat obiectis. Quibus, quod factu facile est, eneruatis iam quicquid uel contra Ciceronis opinionem etiam in Scipionis somnium seu iaculatus est umquam morsus liuoris seu forte iaculabitur dissolutum erit. 3. Epicureorurn tota factio aequo semper errore a uero deuia et illa semper aestimans ridenda quae nesciat, sacrum uolumen et augustissima irrisit naturae seria. Colotes uero, inter Epicuri auditores loquacitate notabilior, etiam in librum retulit quae de hoc amarius cauillatus est. Sed cetera quae iniuria notauit - si quidem ad somnium de quo hic procedit sermo non attinent - hoc loco nobis omittenda sunt: illam calumniam persequemur quae nisi supplodetur manebit Ciceroni cum Platone communis. 4. Ait a philosopho fabulam
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nell'istante stesso in cui il suo corpo, disteso da dodici giorni 10 sul campo di battaglia, stava per ricevere gli ultimi onori della pira, insieme a tutti gli altri suoi compagni con lui periti, all'improwiso ricevette di nuovo o riprese la vita; e, come un araldo incaricato di un rapporto ufficiale, riferì al genere umano tutto quello che aveva fatto e veduto nei giorni trascorsi tra l'una e l'altra esistenza. Ma Cicerone, che si duole nel vedere degli ignoranti volgere in ridicolo questo mito 11 - consapevole, però, della realtà delle cose -, non osò tuttavia consentir loro stupidi commenti e preferì far risvegliare il suo narratore piuttosto che farlo resuscitare.
2. 1. Prima di commentare i termini del Sogno, dobbiamo far conoscere la categoria di uomini che Cicerone segnala come dileggiatori della finzione di Platone, e di cui non teme per sé i medesimi sarcasmi. Infatti, con queste parole, egli non ha in mente il volgo ignorante, bensì quel tipo di uomini che non sono meno lontani della strada del vero, pur ostentando competenza, in quanto risulta che hanno letto tali cose e sono intenzionati a farne una critica spietata. 2. Diremo dunque chi, secondo Cicerone, abbia osato, con superficialità, censurare un così grande filosofo, e chi, fra essi, abbia lasciato anche per iscritto le sue critiche; infine diremo a quali delle loro obiezioni occorre rispondere, essendo necessario confutarle anche nell'interesse solo di questo nostro lavoro. Smantellate queste obiezioni - e lo saranno senza fatica -, tutto il veleno lanciato dall'invidia e quello che potrebbe ancora scagliarsi, in contrasto con l'opinione di Cicerone 12, avrà perso ogni sua efficacia. 3. La setta intera degli Epicurei, sempre costante nel suo errore, allontanandosi dalla verità e prendendo come proprio compito quello di ridicolizzare ciò che è sopra la sua portata, si è beffata di un libro sacro e delle serie e maestosissime realtà della natura. 13 Colote 14 poi, il conversatore più brillante tra i discepoli di Epicuro, ha lasciato in un libro un'aspra critica di quest'opera. Devo qui tralasciare di confutare i suoi malevoli cavilli, dato che il Sogno di Scipione non vi è interessato, ma respingerò la calunnia, che se non verrà soffocata, essendo diretta a Platone, raggiungerebbe Cicerone. 4. Sostiene Colote
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non oportuisse confingi quoniam nullum figmenti genus ueri professoribus conueniret. «Cur enim, inquit, si rerum caelestium notionem, si abitum nos animarum docere uoluisti, non simplici et absoluta hoc insinuatione curatum est sed quaesita persona casusque excogitata nouitas et composita aduocati scaena figmenti ipsam quaerendi ueri ianuam rnendacio polluerunt?» 5. Haec quoniam, dum de Platonico Ere iactantur, etiam quietem Africani nostri somniantis accusant - utraque enim sub adposito argumento electa persona est quae accommoda enuntiandis haberetur -, resistamus urgenti et frustra arguens refellatur, ut una calumnia dissoluta utriusque factum incolumem, ut fas est, retineat dignitatem. 6. Nec omnibus fabulis philosophia repugnat, nec omnibus adquiescit; et ut facile secerni possit quae ex his a se abdicet ac uelut profana ab ipso uestibulo sacrae disputationis excludat, quae uero etiam saepe ac libenter admittat, diuisionum gradibus explicandum est. 7. Fabulae, quarum nomen indicat falsi professionem, aut tantum conciliandae auribus uoluptatis aut adhortationis quoque in bonarn frugem gratia repertae sunt. 8. Auditum mulcent uel comoediae, quales Menander eiusue irnitatores agendas dederunt, uel argumenta fictis casibus amatorum referta, quibus uel multum se Arbiter exercuit uel Apuleium non numquam lusisse miramur. Hoc totum fabularum genus quod solas aurium delicias profitetur, e sacrario suo in nutricum cunas sapientiae tractatus eliminat. 9. Ex his autem quae ad quandam uirtutum speciem intellectum legentis hortantur fit secunda discretio. In quibusdam enim et argumentum ex ficto locatur et per mendacia ipse relationis ordo contexitur, ut sunt iUae Aesopi fabulae elegantia fictionis illustres, at in aliis argumentum quidem fundatur ueri soliditate, sed haec ipsa ueritas per quaedam composita et ficta profertur, et hoc iam uocatur nar-
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che un filosofo deve vietarsi ogni specie di mito, perché non c'è nessun tipo d'invenzione che si addica a chi professa la verità. «Perché infatti» aggiunge «se volevi darci una nozione dei fenomeni celesti e rivelarci la natura dell'anima, non hai adoperato un'affermazione semplice e diretta? Perché escogitare un personaggio, inventare una situazione straordinaria, la messa in scena di una finzione presa da chissà dove, hanno insozzato con la menzogna la porta stessa del tempio della verità?» 15 5. Poiché tali rimproveri, che hanno di mira 1'Er di Platone, accusano nello stesso tempo il sognatore di Cicerone, l'Africano, - entrambi, infatti, sono personaggi inseriti in una trama adatta per enunciare una dottrina -, facciamo dunque fronte all'assalto del nemico e respingiamo le sue vane argomentazioni: ridurre al nulla d'un sol colpo la calunnia e rendere incolume una di queste invenzioni, restituirà entrambi i racconti alla dignità che essi meritano. 6. Vi sono miti che la filosofia rigetta, altri che accoglie. Classificandoli nell'ordine che conviene loro, potremo più comodamente distinguere quelli che esclude come cose profane dal vestibolo stesso dei venerabili soggetti di cui si occupa e quelli che ammette spesso e volentieri 16. 7. La favola, che è una falsità convenuta, come indica il suo nome 17, fu inventata o per affascinare solamente i nostri orecchi o per esortarci al bene. 8. Deliziano le orecchie degli ascoltatori, ad esempio, le commedie che Menandro e i suoi imitatori fecero rappresentare, cosi come quelle avventure romanzesche piene di vicende d'innamorati, su cui si è molto esercitato Petronio Arbitro e con cui talvolta si divertì, come leggiamo stupiti, Apuleio 18. Tutte le finzioni di questo genere, il cui solo scopo è dilettare chi le ascolta, sono bandite dal santuario della filosofia e lasciate alle culle delle nutrici. 9. Invece di quelle che offrono all'intelligenza del lettore una qualche immagine di virtù, occorre farne due suddivisioni. Nella prima, metteremo le favole in cui, oltre l'argomento che è immaginario, anche lo sviluppo della narrazione è intessuto di menzogne: tali sono quelle di Esopo, famose per l'eleganza dell'invenzione 19. Nella seconda, porremo quelle il cui soggetto è fondato su una veridica e solida base, anche se questa verità tuttavia si mostra sotto una forma abbellita dall'immaginazione ed è perciò chia-
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MACROBIO
ratio fabulosa, non fabula, ut sunt cerimoniarum sacra, ut Hesiodi et Orphei quae de deorum progenie actuue narrantur, ut mystica Pythagoreorum sensa referuntur. 10. Ergo ex hac secunda diuisione quam diximus, a philosophiae libris prior species, quae concepta de falso per falsum narratur, aliena est. Sequens in aliam rursum discretionem scissa diuiditur: nam cum ueritas argumento subest solaque fit narrati0 fabulosa, non unus repperitur modus per figmentum uera referendi. 11. Aut enim contextio narrationis per turpia et indigna numinibus ac monstro similia componitur, ut di adulteri, Saturnus pudenda Caeli patris abscindens et ipse rursus a filio regno potito in uincla coniectus - quod genus totum philosophi nescire malunt -; aut sacrarum rerum notio sub pio figmentorum uelamine honestis et tecta rebus et uestita nominibus enuntiatur. Et hoc est solum figmenti genus quod cautio de diuinis rebus philosophantis admittit. 12. Cum igitur n d a m disputationi pariat iniuriam uel Er index uel somnians Africanus, sed rerum sacrarum enuntiatio integra sui dignitate his sit tecta nominibus, accusator tandem edoctus a fabulis fabulosa secernere conquiescat. 13. Sciendum est tamen non in omnem disputationem philosophos adrnittere fabulosa uel licita, sed bis uti solent cum uel de anima uel de aeriis aetheriisue potestatibus uel de ceteris dis locuntur. 14. Ceterum cum ad summum et principem omnium deum, qui apud Graecos ~ a y a e ò v qui , -rrpo-rov ai-riov nuncupatur, tractatus se audet attollere, uel ad mentem, quem Graeci voGv appelant, originales rerum species, quae i6Éai dictae sunt, continentem, ex summo natam et profectam d e ~cum , d e his inquarn locuntur summo deo et mente, nihil fabulosum penitus attingunt; sed, si quid de his adsigna-
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mata racconto mitico e non favola: tra questi scritti collocheremo, ad esempio, i rituali sacri dei misteri, quello che Esiodo e Orfeo narrano sulla genealogia e le imprese degli dèi o le arcane massime dei Pitagorici 20. 10. Di questa seconda divisione di cui abbiamo detto, la prima specie, cioè le favole, quelle il cui fondo non è meno immaginario della narrazione, è sconveniente ai trattati di filosofia. La seconda categoria vuole essere suddivisa ancora per consentire un'ulteriore distinzione: infatti, quando la verità è alla base di un soggetto e il solo sviluppo narrativo è favoloso, non si riscontra un unico modo di esprimere la verità attraverso la finzione. 11. Lo sviluppo del racconto può essere composto di un tessuto d'azioni turpi e indegne degli dèi, di cose simili al mostruoso, come quelle che ci rappresentano gli dèi adulteri, Saturno che priva suo padre Cielo delle pudenda e lui stesso, a sua volta, detronizzato e messo ai ferri da suo figlio -un genere di cose che i filosofi preferiscono ignorare totalmente 21. Oppure la nozione delle cose sacre può essere coperta da un casto velo di invenzioni, protette e rivestite da nomi e fatti che non fanno arrossire: è l'unico genere di invenzioni che la prudenza permette al filosofo, quando si tratta di cose divine. 12. Ora, il rivelatore Er e il sognatore Scipione, i cui nomi garantiscono, anzi, un'intatta dignità nell'esposizione di dottrine sacre, non offendono per niente l'argomento in discussione; così, l'accusatore, che adesso deve aver imparato a distinguere tra favola ed elemento mitico, deve soltanto starsene zitto. 13. È bene tuttavia sapere che i filosofi non ammettono indistintamente in tutti gli argomenti l'elemento mitico, per quanto esso sia lecito. È loro costume servirsene solamente in quelli dove si tratta dell'Anima, delle potenze celesti o eteree e di tutti gli altri dei 22. 14. Quando però, prendendo un volo più ardito, si alzano fino alla divinità somma, sovrana universale, chiamata dai Greci ~ a y a 0 ò v[il Bene] e - r r p U ~ o va h o v [la Causa Prima] 23, oppure all'Intelletto, detto dai Greci voGs 24, che comprende in sé le forme originarie delle cose, dette i6Éal [Idee], Intelletto che è nato e proviene dalla divinità somma, allora, come dicevo, quando parlano di questi argomenti, il Dio Supremo e l'Intelletto, evitano la benché minima finzione e il loro genio, che si sforza di darci alcuni ragguagli su esseri
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re conantur quae non sermonem tantummodo, sed cogitationem quoque humanam superant, ad similitudines et exempla confugiunt. 15. Sic Plato cum de -raya@ loqui esset animatus, dicere quid sit non ausus est, hoc solum de eo sciens, quod sciri quale sit ab homine non possit, solum uero ei simiilimum de uisibilibus solem repperit, et per eius similitudinem uiam sermoni suo attollendi se ad non comprehendenda patefecit. 16. Ideo et nullum eius simulacrum, cum dis aliis constituerentur, finxit antiquitas, quia summus deus nataque ex eo mens, sicut ultra animam, ita supra naturam sunt, quo nihil fas est de fabulis peruenire. 17. De dis autem, ut dixi, ceteris et de anima non frustra se nec ut oblectent ad fabulosa conuertunt, sed quia sciunt inimicam esse naturae apertam nudamque expositionem sui, quae, sicut uulgaribus hominum sensibus intellectum sui uario rerum tegmine operimentoque subtraxit, ita a prudentibus arcana sua uoluit per fabulosa tractari. 18. Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur ne uel haec adeptis nudam rerum talium se natura praebeat, sed, summatibus tantum uiris sapientia interprete ueri arcani consciis, contenti sint reliqui ad uenerationem figuris defendentibus a uilitate secretum. 19. Numenio denique inter philosophos occultorum curiosiori offensam numinum, quod Eleusinia sacra interpretando uulgauerit, somnia prodiderunt, uiso sibi ipsas Eleusinias deas habitu meretricio ante apertum lupanar uidere prostantes, admirantique et causas non conuenientis numinibus turpitudinis consulenti respondisse iratas ab ipso se de adyto pudicitiae
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che la parola non può descrivere e che la stessa intelligenza umana non può afferrare, è obbligato a ricorrere a immagini e similitudini. 15. Questo è ciò che fa Platone: quando, trascina, osando to dal suo argomento, vuole parlare del ~ a y a e ò vnon definirlo, si accontenta di dire che tutto ciò che sa di esso è soltanto che è impossibile per l'uomo conoscere la sua essenza; e, non trovando immagine piu vicina di questo essere invisibile del sole che illumina il mondo visibile 25, si servì di questa similitudine per spiccare il volo verso le regioni più inaccessibili della metafisica. 16. Gli antichi per questo non assegnarono alcun simulacro ad esso, al contrario di quanto si faceva per gli altri dèi, dal momento che il dio supremo e l'intelletto nato da esso sono sostanze oltre l'anima e, di conseguenza, al di sopra della natura26: è perciò un sacrilegio awicinarvisi partendo dalla finzione. 17. Del resto, come stavo dicendo, quando si tratta dell'Anima e degli altri dèi in sottordine, i filosofi ricorrono ad elementi mitici non senza motivo, né coll'intenzione di divertirsi, ma lo fanno sapendo bene che la natura detesta essere esposta senza veli e nuda a tutti gli sguardi e che non solo essa ama travestirsi con vari veli e coperture di cose per sfuggire ai rozzi occhi degli uomini comuni, ma allo stesso modo esige dai saggi che si occupino dei suoi segreti attraverso narrazioni simboliche. 18. Ecco perché gli stessi misteri sono protetti dai segreti meandri dei simboli, affinché neppure agli iniziati si offra tutta nuda la natura di queste cose, ma affinché solo agli uomini eminenti, in virtù deu'interpretazione fornita dalla sapienza, possano giungere a conoscere l'arcano della verità, mentre gli altri uomini devono accontentarsi di tributarle venerazione, perché le figure simboliche impediscono che il segreto possa diffondersi tra il volgo 27. 19. Si racconta a questo proposito che Numenio 28, tra i filosofi uno dei più ardenti investigatori dell'esoterismo, si vide rimproverato in sogno di aver offeso le divinità, avendo divulgato l'interpretazione dei misteri eleusini. Sembrò al filosofo di vedere le stesse dee onorate ad Eleusi rivestite dell'abito delle meretrici che si prostituivano sulla soglia di un lupanare. Stupito, dopo aver chiesto loro la ragione di un avvilimento così poco adatto alla loro divinità, si sentì rispondere da esse, corrucciate, che lui stesso le aveva
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suae ui abstractas et passim adeuntibus prostitutas. 20. Adeo semper ita se et sciri et coli numina maluerunt qualiter in uulgus antiquitas fabulata est, quae et imagines et simulacra formarum tahum prorsus alienis, et aetates tam incrementi quam diminutionis ignaris, et amictus ornatusque uarios corpus non habentibus adsignauit. 21. Secundum haec Pythagoras ipse atque Empedocles, Parmenides quoque et Heraclitus de dis fabulati sunt, nec secus Timaeus qui progenies eorum sicut traditum fuerat exsecutus est.
3. l. His praelibatis antequam ipsa somnii uerba tractemus, prius quot somniandi modos obseruatio deprehenderit, cum licentiam figurarum quae passim quiescentibus ingeruntur sub definitionem ac regulam uetustas mitteret, edisseramus, ut cui eorum generi somnium quo de agimus adplicandum sit innotescat. 2. Omnium quae uidere sibi dormientes uidentur quinque sunt principales et diuersitates et nomina. Aut enim est o v ~ i p o 5secundum Graecos quod Latini somnium uocant, aut est o p a p a quod uisio recte appellatur, aut est x p q ~ a ~ i a p 6 ~ quod oraculum nuncupatur, aut est ~VUTIVIOVquod insomnium dicitur, aut est q a v ~ a o u aquod Cicero quotiens opus hoc nomine fuit uisum uocauit. 3. Vltima ex his duo cum uidentur, cura interpretationis dico V indigna sunt quia nihil diuinationis adportant, ~ V U ~ T V I O et qav-raopa.
4. Est enim tvU-rrviov quotiens cura oppressi animi corporisue siue fortunae, qualis uigilantem fatigauerat, talem se ingerit dormienti: animi si amator deliciis suis aut fruentern se uideat aut carentem, si metuens quis imminentem sibi uel insidiis uel potestate personam aut incurrisse hanc ex imagine cogitationum suarum aut effugisse uideatur; corporis, si temeto ingurgitatus aut distentus cibo uel abundantia praefocari se aestimet uel grauantibus exonerari, aut contra si esuriens cibum aut potum sitiens desiderare quaerere uel etiam inuenis-
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strappate dal santuario della loro pudicizia e le aveva prostituite come donne pubbliche. 20. Tanto è vero che le divinità hanno sempre preferito essere conosciute e onorate sotto quelle forme che gli antichi avevano dato loro per rivelarle al volgo. È per questa ragione che si prestarono immagini e simulacri di forme ad esseri del tutto estranei a tali forme, ed età a chi non conosceva né crescita né vecchiaia, e ricche vesti e ornamenti a chi non aveva corpo. 21, Sono su queste prime nozioni che Pitagora ed Empedocle, Parmenide ed Eraclito hanno trattato in forma niitica gli dèi e neppure Timeo, nella sua teogonia, si è scostato da questa tradizione 29.
3. 1. Dopo questi preliminari, prima di passare all'analisi del testo del Sogno, esponiamo la definizione dei vari generi di sogni riconosciuti dall'Antichità, che ha posto regole e metodi per interpretare tutte queste figure bizzarre e confuse che vediamo dormendo. In questo modo ci sarà poi facile stabilire in quale genere vada classificato il sogno che esaminiamo. 2. Tutto quello che ci sembra di vedere nel sonno, può essere sistemato sotto cinque gruppi fondamentali, differenti per , dicono genere e nomi 30. Può trattarsi infatti di o v ~ i p o scome i Greci e che i Latini chiamano somnium [sogno], di o p a p a che può essere ben tradotto con uisio [visione], di Xpqua~ i o p o s ,ossia di oraculum [oracolo]; di iv\j.rrviov, ossia di insomnzunz {visione interna al sogno]; di q a v - r a o ~ ache Cicerone, ogni qual volta si trovò ad usare questo termine, tradusse con visum [apparizione] 31. 3. I due ultimi generi, ossia l'ivfi-rrviov e il q a v ~ a a p a , quando si manifestano, non meritano di essere spiegati, perché non si prestano alla divinazione. 4. L'ivhrviov ha luogo, infatti, quando proviamo, dormendo, le stesse opprimenti ansie d'origine psichica, fisica ed esterna che ci assillano essendo svegli. Lo spirito è agitato nell'amante che sogna di godere o di essere privato dell'oggetto amato e anche in colui che, temendo le insidie o il potere di un nemico, s'immagina sognando di incontrarlo inaspettatamente o di sfuggire al suo inseguimento. I1 corpo è agitato nell'uomo che ha ecceduto nel vino o si è rimpinzato di cibo 32, quando crede di provare dei soffocamenti o di sbarazzarsi di un fardel-
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se uideatur; fortunae, cum se quis aestimat uel potentia uel magistratu aut augeri pro desiderio aut exui pro timore. 5. Haec et his similia, quoniam ex habitu mentis quietem sicut praeuenerant ita et turbauerant dormientis, una cum somno auolant et pariter euanescunt. Hinc et insomnio nomen est, non quia per somnum uidetur - hoc enim est huic generi commune cum ceteris -, sed quia in ipso somnio tantummodo esse creditur dum uidetur, post somnium nullam sui utilitatem uel significationem relinquit. 6. Falsa esse insomnia nec Maro tacuit: sed falsa ad caelum mittunt insomnia manes,
caelum hic uiuorum regionem uocans quia sicut di nobis ita nos defunctis superi habemur. Amorem quoque describens, cuius curam semper secuntur insomnia, ait: haerent infixi pectore uultus uerbaque nec placidam membris dat cura quietem,
et post haec Anna soror quae me suspensam insomnia terrent?
7. @ a v ~ a a p auero hoc est uisurn, cum inter uigiliam et adultam quietem in quadam, ut aiunt, prima somni nebula adhuc se uigilare aestimans, qui dormire uix coepit, aspicere uidetur irruentes in se uel passim uagantes formas a natura seu magnitudine seu specie discrepantes uariasque tempestates
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lo incomodo, o, al contrario, ha provato la fame o la sete e s'immagina di desiderare e di cercare cibo e bevande e anche di trovare il mezzo per soddisfare i suoi bisogni. Si è turbati relativamente alle fortune esterne, quando, desiderando onori e dignità, sogniamo che le nostre speranze si realizzino o che le nostre paure di perderli si verifichino 33.5. Questi tipi di agitazioni e altre simili, poiché derivano da uno stato della mente che aveva preceduto e quindi turbato il riposo del dormiente, spariscono con il sonno e svaniscono insieme ad esso. Donde il nome d'insomnium e questo non è perché si veda qualcosa nel sogno in un modo più particolare delle altre categorie enunciate sopra, ma perché vi si dà credito soltanto per il tempo in cui agisce su di noi: finito il sogno, esso non lascia alcuna traccia d'interesse o di significato. 6. La falsità di questo genere di sogni non è stata taciuta neanche da Virgilio: sed falsa ad caelum mittunt insommia manes, [E di qui falsi sogni mandano i Mani su al cielo] 34
chiamando, qui, cielo la regione dei viventi, il poeta intende che come gli dèi stanno sopra di noi, noi siamo sopra i defunti. Anche quando descrive l'amore e le sue inquietudini sempre seguite da insomnia, cioè da questi sogni, si esprime così: haerent infixi pectore vultus verbaque, nec placidam membris dat cura quietem, [è fitto in cuore quel volto, La voce: placido sonno non dà aiie membra il tormento] 35
e in seguito: Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent [Anna, sorella, Quali sogni mi han dato ansia e sgomento!]
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7. In quanto al q a v ~ a o p acioè , l'«apparizione» 37, esso si verifica in quegli istanti tra veglia e sonno profondo, nel momento in cui, come si dice, si sta per cedere d'influenza dei primi vapori soporiferi, quando il dormiente, che pensa di essere ancora sveglio mentre invece ha appena cominciato a dormire, si crede assalito da figure fantastiche le cui le forme e grandezza non hanno niente d'analogo in natura o le vede errare qua -
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rerum uel laetas uel turbulentas. In hoc genere est ~ T L ~ ~ T quem publica persuasi0 quiescentes opinatur inuadere et pondere suo pressos ac sentientes grauare. 8. His duobus modis ad nullam noscendi futuri opem receptis, tribus ceteris in ingenium diuinationis instruimur. Et est oraculum quidem curn in somnis parens uel alia sancta grauisue persona seu sacerdos uei etiam deus aperte euenturum quid aut non euenturum, faciendum uitandumue denuntiat. 9. Visio est autem curn id quis uidet quod eodem modo quo apparuerat eueniet. Amicum peregre commorantem quem non cogitabat uisus sibi est reuersum uidere, et procedenti obuius quem uiderat uenit in arnplexus. Depositum in quiete suscepit et matutinus ei precator occurrit mandans pecuniae tutelam et fidae custodiae celanda committens. 10. Somnium proprie uocatur quod tegit figuris et uelat ambagibus non nisi interpretatione intellegendam significationem rei quae demonstratur, quod quale sit non a nobis exponendum est, curn hoc unus quisque ex usu quid sit agnoscat. Huius quinque sunt species: aut enim proprium aut alienum aut commune aut publicum aut generale est. 11. Proprium est, curn se quis facientem patientemue aliquid somniat, alienum curn alium, commune cum se una cum alio; publicum est, curn ciuitati foroue uel theatro seu quibuslibet publicis moenibus actibusue triste uel laetum quid aestimat accidisse; generale est, curn circa solis orbem lunaremue globum seu dia sidera uel caelum omnesue terras aliquid somniat innouatum. 12. Hoc ergo quod Scipio uidisse se retulit et tria illa quae sola probabilia sunt genera principalitatis amplectitur, et
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e là intorno a sé, sotto situazioni diverse, ora liete ora turbolente. L'E-rriaATES [incubo] appartiene a questa categoria. 11 volgo è persuaso che s'impossessi di coloro che dormono e che gravi col suo peso su di essi prostrandoli e facendoli soffrire 38. 8. Abbiamo detto che questi due generi di sogno non possono aiutarci a conoscere il futuro, ma gli altri tre ci offrono i mezzi divinatori. L'oracolo, in effetti, si manifesta quando ci appare durante il sonno un parente o un personaggio venerabile ed importante, come un sacerdote o una divinità stessa, per informarci di ciò che ci accadrà o non ci accadrà e di ciò che dobbiamo fare o dobbiamo evitare. 9. La visione ha luogo, quando le persone o le cose che vedremo in realtà più tardi si sognano come saranno allora. H o un amico in viaggio in un paese straniero e al quale non penso affatto; una visione me lo mostra di ritorno ed ecco che mentre passeggio sono davanti a lui che avevo visto in sogno e cadiamo nelle braccia l'uno dell'altro. Mi sembra in sogno che mi si affidi una somma in deposito ed ecco che la mattina una persona viene a pregarmi di essere dawero depositario di una somma di denaro che mette sotto la segreta salvaguardia della mia lealtà 39. 10. I1 sogno propriamente detto nasconde ciò che ci comunica sotto uno stile simbolico e velato di enigmi il cui significato incomprensibile esige il soccorso dell'interpretazione 40. Non ne definiremo le sue caratteristiche, perché non c'è nessuno che non le conosca per esperienza. Si suddivide in cinque tipi, perché un sogno può essere particolare, estraneo, comune, pubblico e universale. 11. È personale, quando il sognatore si vede mentre sta agendo o subendo; estraneo quando è un altro a compiere o subire un'azione; comune, quando gli sembra che altri condividano la sua stessa situazione; pubblico, quando una città, il foro, il suo teatro, o qualche altra parte della sua cinta o del suo territorio, ci sembrano essere il luogo della scena di una disgrazia o di un lieto evento; è universale quando si sogna qualcosa di nuovo che riguarda la sfera del sole o il globo lunare, o altri corpi celesti o il cielo o tutta la Terra 41. 12. Ora, il sogno raccontato da Scipione comprende i soli tre tipi di sognare da cui si possano trarre conseguenze proba-
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omnes ipsius somnii species attingit. Est enim oraculum quia Paulus et Africanus uterque parens, sancti grauesque ambo nec alieni a sacerdotio, quid illi euenturum esset denuntiauerunt. Est uisio, quia loca ipsa in quibus post corpus uel qualis futurus esset aspexit. Est somnium quia rerum quae illi narratae sunt altitudo, tecta profunditate prudentiae, non potest nobis nisi scientia interpretationis aperiri. 13. Ad ipsius quoque somnii species omnes refertur: est propriurn, quod ad supera ipse perductus est et de se futura cognouit; est alienum, quod quem statum aliorum animae sortitae sint deprehendit; commune, quod eadem loca tam sibi quam ceteris eiusdem meriti didicit praeparari; publicum, quod uictoriam patriae et Carthaginis interitum et Capitolinum triumphum ac sollicitudinem futurae seditionis agnouit; generale, quod caelum caelique circulos conuersionisque concentum, uiuo adhuc homini noua et incognita, stellarum etiam ac luminum motus terraeque omnis situm suspiciendo uel despiciendo concepit. 14. Nec dici potest non aptum fuisse Scipionis personae somnium quod et generale esset et publicum quia necdum illi contigisset amplissimus magistratus, immo cum adhuc, ut ipse dicit paene miles haberetur. Aiunt enim non habenda pro ueris de statu ciuitatis somnia nisi quae rector eius magistratusue uidisset, aut quae de plebe non unus sed multi similia somniassent. 15. Ideo apud Homerum, cum in concilio Graecorum Agamemnon somnium quod de instruendo proelio uiderat publicaret, Nestor, qui non minus ipse prudentia quam omnis iuuenta uiribus iuuit exercitum, concilians fidem relatis: «De
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bili e, inoltre, è in relazione con tutte le cinque specie del sogno propriamente detto. C'è l'oracolo, poiché suo padre, Emilio Paolo, e il suo avo, l'Africano, entrambi genitori di Scipione, ambedue personaggi autorevoli e venerabili, tutti e due investiti del sacerdozio 42, informano 1'Emiliano di ciò che gli accadrà. Vi si trova la visione, poiché gode della vista dei luoghi stessi in cui dimorerà dopo aver lasciato il suo corpo e di quella che sarà la sua condizione. C'è il sogno, poiché l'altezza delle cose narrate, protetta dalla profondità della prudenza, non ci può essere svelata, senza la scienza dell'interpretazione. 13. In questo stesso sogno, inoltre, si trovano comprese le cinque specie di cui abbiamo appena ~ a r l a t oÈ . personale, perché il giovane Scipione è stato di persona trasportato nelle regioni superiori e ha conosciuto il suo awenire; è estraneo, perché osserva la condizione delle anime di altri che non sono più; è comune, perché apprende che i medesimi luoghi sono destinati a lui così come ad altri di ugual merito; pubblico, poiché la vittoria della patria e la distruzione di Cartagine sono predette a Scipione, così come il suo trionfo in Campidoglio e la sedizione successiva che gli causerà tante inquietudini 43; universale, poiché il sognatore, sia alzando sia abbassando il suo sguardo, comprese il cielo, le sfere e l'armonia della loro rotazione - cose nuove e ignote ad un uomo ancora vivo - e anche il moto delle stelle e dei luminari e la geografia della Terra intera. 14. Non ci si obietterà che il sogno, essendo pubblico e universale, non possa convenire alla persona di Scipione, con il pretesto che non aveva ancora rivestito la principale magistratura e che, anzi, come egli stesso riferisce, il suo grado lo distingueva appena da un semplice soldato 44. È vero che, secondo l'opinione comune, non si possono considerare autorevoli quei sogni, in rapporto alla condizione politica, se non quando sono stati fatti dal capo dello stato o da un magistrato, o ancora quando i sogni fatti non riguardano un semplice cittadino, ma sono comuni a un gran numero di cittadini 45. 15. Effettivamente, si legge in Omero che Agamennone avendo reso noto ai Greci riuniti in consiglio il sogno che gli intimava l'ordine di attaccare il nemico, Nestore, la cui prudenza non era meno utile all'esercito della forza fisica dei suoi giovani guerrieri,
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statu, inquit, publico credendum regio somnio, quod si alter uidisset repudiarernus ut futile.» 16. Sed non ab re erat ut Scipio, etsi necdum adeptus tunc fuerat consulatum nec erat rector exercitus, Carthaginis somniaret interitum cuius erat auctor futurus audiretque uictoriam beneficio suo publicam, uideret etiam secreta naturae, uir non minus philosophia quam uirtute praecellens. 17. His adsertis, quia superius falsitatis insomniorum Vergilium testem citantes, uersus fecimus mentionem eruti de geminarum somnii descriptione portarum, si quis forte quaerere uelit cur porta ex ebore falsis et e cornu ueris sit deputata, instruetur auctore Porphyrio, qui in commentariis suis haec in eundem locum dicit ab Homero sub eadem diuisione descriptum: 18. «Latet, inquit, omne uerum. Hoc tamen anima cum ab officiis corporis somno eius paululum libera est, interdum aspicit, nonnumquam tendit aciem nec tamen peruenit, et, cum aspicit, tamen non libero et directo lumine uidet, sed interiecto uelamine, quod nexus naturae caligantis obducit.» 19. Et hoc in natura esse idem Vergilius asserit, dicens: aspice - namque omnem quae nunc obducta tuenti mortaies hebetat uisus tibi et humida circum caligat nubern eripiam . . .
20. Hoc uelamen cum in quiete ad uerum usque aciem animae introspicientis admittit, de cornu creditur, cuius ista natura est ut tenuatum uisui peruium sit; cum autem a uero hebetat ac repellit obtutum, ebur putatur, cuius corpus ita natura densatum est ut ad quamuis extremitatem tenuitatis erasum nullo uisu ad ulteriora tendente penetretur,
4. 1. Tractatis generibus et modis ad quos somnium Scipionis refertur, nunc ipsam eiusdem somnii rnentern ipsum-
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presta fede al racconto del re di Micene e dice: «Quando riguarda la situazione pubblica, un sogno fatto dal re merita ogni fiducia, ma se lo avesse fatto un altro sarebbe per noi di poca importanza» 46. 16. Tuttavia si può supporre, senza considerarlo assurdo, che Scipione, anche se non aveva ancora ottenuto il consolato né era allora a capo dell'esercito, sognasse la distruzione di Cartagine di cui, più tardi, sarà artefice e intendesse parlare della pubblica vittoria di cui Roma gli sarà un giorno debitrice. Si può supporre anche che un personaggio così notevole per il suo sapere quanto per le sue virtù fosse iniziato, durante il suo sonno, a tutti i segreti della natura. 17. Detto questo, ritorniamo al verso di Virgilio citato precedentemente a testimonianza dell'opinione del poeta sulla fallacità degli insomnia e che abbiamo tratto d d a sua descrizione delle due porte che danno origine ai sogni 47. Coloro che fossero curiosi di sapere perché la porta d'avorio è riservata ai sogni menzogneri e quella di corno ai sogni veritieri, possono consultare Porfirio. Ecco ciò che dice nel suo Commento sullo stesso passo di Omero 48 relativo a questa suddivisione: 18. «Ogni verità si tiene nascosta. Tuttavia l'anima talvolta la intravede, quando il corpo addormentato gli lascia più libertà; qualche volta l'anima vi tende lo sguardo, e tuttavia non riesce a scoprirla, e quand'anche vi riesce, non la vede aila luce libera e diretta, ma solamente dietro il velo che stende su di essa il tessuto oscuro della natura» 49. 19. Tale è anche il sentimento di Virgilio riguardo alla natura quando dice: Guarda: tutta la nube che ti fascia la vista E ottunde i tuoi occhi mortali e umida intorno Vapora un velo di caligine, io toglierò.. . 50
20. Questo velo che, durante il sonno, lascia penetrare lo sguardo dell'anima fin dentro la verità, è, si dice, della natura del corno, materiale che può essere assottigliato fino alla trasparenza; il velo, invece, che impedisce e respinge lo sguardo verso la verità, si crede che sia della natura dell'avorio, talmente opaco che, per quanto assottigliato sia, non si lascia mai attraversare da nessuno sguardo che tenti di vedere oltre 51.
4. 1. Abbiamo appena discusso le categorie e le specie di sogni che rientrano in quello di Scipione. Cerchiamo adesso,
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que propositum, quem Graeci a ~ o n o vuocant, antequam uerba inspiciantur, temptemus aperire et eo pertinere propositum praesentis operis asseramus, sicut etiam in principio huius sermonis adstruximus, ut animas bene de re publica meritorum post corpora cado reddi et illic frui beatitatis perpetuitate nos doceat. 2. Nam Scipionem ipsum haec occasio ad narrandurn somnium prouocauit, quod longo tempore se testatus est silentio condidisse. Cum enim Laelius quereretur nullas Nasicae statuas in publico in interfecti tyranni remunerationem locatas, respondit Scipio post alia in haec uerba: d e d guamquam sapientibus conscientia ipsa factorum egregiorum amplissimum uirtutis est praemium, tamen illa diuina uirtus non statuasplumbo inhaerentes nec triumphos arescentibus laureis, sed stabiliora quaedam et uiridiora praemiorum genera desiderat.» - «quae tamen ista sunt?» inquit Laelius. 3. Tum Scipio: «Patimini me, quoniam tertium diem iam feriati sumus,» et cetera quibus ad narrationem somnii uenit, docens ilIa esse stabiliora et uiridiora praemiorum genera quae ipse uidisset in caelo bonis rerum publicarum seruata recroribus, sicut his uerbis eius ostenditur: 4. d e d quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto: omnibus qui patriam conseruarbzt, adzauerirzt, auxerint, certum esse in caelo definitum locum ubi beati aeuo sempiterno fruantur» Et paulo post hunc certum locum qui sit designans ait: d e d sic, Scipio, ut auus hic tuus, ut ego qui te genui, iustitiam cole et pietatem quae cum magna in parentibus et propinquis tum in patria maxima est. Ea uita uia est in caelum et in hunc coetum eorum qui iam uixere et corpore laxati illum incolunt locum quem uides», significans ya ha5iav. 5. Sciendum est enim quod locus in quo sibi uidetur esse Scipio per quietem, lacteus circulus est, qui yaha>. ca l'idea di un annientamento totale. Vorrei dunque che tu mi dica, chiede al suo avo, se mio padre Paolo e tutti gli altri con-
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hanc interrogationem, quae et de parentibus ut a pio fiio, et de ceteris ut a sapiente ac naturam ipsam discutiente processit, quid ille respondit? «Immo uero, inquzt, hi uiuunt, qui e corporum uznclis tamquam e carcere euolauerulzt: uestra uero quae dicitur esse uita mors est.» 7. Si ad inferos meare mors est et uita est esse cum superis, facile discernis quae mors animae, quae uita credenda sit, si constiterit qui locus habendus sit inferorum, ut anima, dum ad hunc truditur, mori, cum ab hoc procul est, uita frui et uere superesse credatur. 8. Et quia totum tractatum, quem ueterum sapientia de inuestigatione huius quaestionis agitauit, in hac latentem uerborum paucitate reperies, ex omnibus aliqua, quibus nos de rei quam quaerimus absolutione sufficiet admoneri, amore breuitatis excerpsimus. 9. Antequam studium philosophiae circa naturae inquisitionem ad tantum uigoris adolesceret, qui per diuersas gentes auctores constituendis sacris caerimoniarum fuerunt, aliud esse inferos negauerunt quam ipsa corpora, quibus inclusae animae carcerem foedum tenebris horridum sordibus et cruore patiuntur. 10. Hoc animae sepulcrum, hoc Ditis concaua, hoc inferos uocauerunt, et omnia, quae illic esse credidit fabulosa persuasio, in nobismet ipsis et in ipsis humanis corporibus adsignare conati sunt, obliuionis fluuium aliud non esse adserentes quam errorem animae obliuiscentis rnaiestatem uitae prioris qua, antequam in corpus truderetur, potita est, solamque esse in corpore uitam putantis. 11. Pari interpretatione Phlegethontem ardores irarum et cupiditatum putarunt, Acherontem quidquid fecisse dixisseue usque ad tristitiam humanae uarietatis more nos paenitet, Cocytum quidquid homines in luctum lacrimasque compellit, Stygem quidquid inter se humanos animos in gurgitem mergit odiorum.
dividono con te la sopravvivenza. 6, A questa domanda, che è quella di un figlio pio a proposito della sorte dei suoi genitori e di un saggio indagatore della natura stessa a proposito della sorte degli altri, che cosa risponde il suo avo? d n z i » fu la risposta «sono costoro i veri uzvi, coloro che sono sfuggiti con un colpo d'ala 174 dai vincoli del corpo come da una prigione, mentre la vost~a,che ha nome vita, è in realtà una morte» 175. 7. Se la morte consiste nell'essere relegati negli inferi e se la vita è stare insieme ai Superi, è facile capire che cosa vada considerato come la morte e come la vita dell'anima; occorrerà determinare solamente che cosa si deve intendere per regioni infere nelle quali l'anima che vi è cacciata muore, mentre quella che si tiene lontana da questi luoghi gode di tutta la pienezza della vita e realmente sopravvive. 8. E poiché il risultato di tutte le ricerche, che la saggezza degli Antichi ha consacrato nel risolvere questo problema, lo troverai dissimulato in queste poche parole di Scipione, così noi, per amore di concisione, abbiamo tratto da tutto questo insieme alcuni elementi sufficienti a risolvere il problema che ci siamo posti 176. 9. Prima che gli studi di filosofia sui problemi della natura si sviluppassero fino a raggiungere quel vigore che gli è proprio, coloro che s'incaricarono di organizzare i sacri rituali, tra le diverse nazioni, affermarono che gli inferi non erano altro che gli stessi corpi umani, in cui le anime, trattenute, patiscono un carcere 177 che le tenebre rendono spaventoso, il fetore e il sangue, orribile. 10. Davano a questo corpo i nomi di csepolcro dell'anima» 178, «cavità di Dite» 179, «inferi», e si sforzavano di attribuire a noi stessi e ai nostri stessi corpi umani tutto ciò che le credenze nei miti ritiene esistere laggiù, sostenendo che il fiume dell'oblio 180 non era altro che l'errore dell'anima, che ha obliato la maestà della sua vita precedente, quella di cui godeva prima di essere gettata nel corpo, e che si è convinta che la sola vita sia quella in un corpo. 11. Un'uguale interpretazione faceva loro ritenere che il Flegetonte rappresentasse gli ardori delle collere e delle passioni; I'Acheronte, tutto ciò che, secondo quell'incostanza tipicamente umana, rimpiangiamo d'aver fatto o detto fino a produrre la tristezza; il Cocito, tutti gli avvenimenti che spingono l'uomo al lutto e alle lacrime; lo Stige, infine, era creduto che rappresentasse tutto ciò che inghiotte gli animi umani nel gorgo degli odi reciproci Is1.
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12. Ipsam quoque poenarum descriptionem de ipso usu conuersationis humanae sumptam crediderunt, uulturem iecur immortale tondentem nihil diud intellegi uolentes quam tormenta conscientiae, obnoxia flagitio uiscera interiora rimantis, et ipsa uitalia indefessa admissi sceleris admonitione laniantis, semperque curas, si requiescere forte temptauerint, excitantis tamquam fibris renascentibus inhaerendo, nec ulla sibi miseratione parcentis, lege hac qua «se iudice nemo nocens absoluitur», nec de se suam potest uitare sententiam. 13. 1110s aiunt, epulis ante ora positis, excruciari fame et inedia tabescere, quos magis magisque adquirendi desiderium cogit praesentem copiam non uidere; et, in affluentia inopes, egestatis mala in ubertate patiuntur, nescientes parta respicere, dum egent habendis. 14.1110s radiis rotarum pendere districtos qui, nihil consilio praeuidentes, nihil ratione moderantes, nihil uirrutibus explicantes, seque et actus omnes suos fortunae permittentes, casibus et fortuitis semper rotantur. 15. Saxum ingens uoluere inefficacibus laboriosisque conatibus uitam terentes; atram silicem lapsuram semper et cadenti similem illorum capitibus .imminere qui arduas potestates et infaustam ambiunt tyrannidem, numquam sine timore uicturi, et, cogentes subiectum uulgus odisse dum metuat, semper sibi uidentur exitium quod merentur excipere. 16. Nec frustra hoc theologi suspicati sunt. Nam et Dionysius aulae Siculae inclementissimus incubator, familiari quondam suo solam beatam existimanti uitam tyranni uolens, quarn perpetuo metu misera quamque inpendentium semper periculorum plena esset ostendere, gladium uagina raptum et a capu-
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12. Erano persuasi che la descrizione dei castighi fosse desunta dall'esperienza stessa delle relazioni umane e volevano che «l'awoltoio che divora il fegato immortale» 182 non fosse altro che l'immagine dei tormenti della coscienza, che scava nelle viscere più profonde dell'anima del colpevole di azioni vergognose, e la lacera negli organi vitali col ricordo instancabile del crimine commesso, ridestando senza posa gli affanni, per poco che tentassero di trovar requie, restando avvinta come «alle fibre che rinascono» 183 e non mostrandosi indulgente verso se stessa per un sentimento di pietà, in conformità a quella legge per cui «nessun colpevole è assolto se egli stesso è suo giudice* 184, né può sottrarre se stesso alla sua propria sentenza. 13. Coloro che, avendo di fronte agli occhi tavole imbandite di pietanze, sono tormentati dalla fame e si consumano d'inedia, sono gli uomini, dicono, cui l'ansia di un sempre maggior guadagno non fa vedere i beni presenti: indigenti nell'abbondanza, soffrono in mezzo all'opulenza tutti i mali deli'indigenza, non considerando ciò che hanno, perché non hanno tutto ciò che desidererebbero avere. 185 14. Coloro i quali stanno «legati appesi ai raggi delle ruote» 186, sono gli uomini che non prevedono alcunché col giudizio, nuIla dispongono con la ragione, nulla risolvono con le virtù, abbandonando al caso se stessi e la cura dei loro affari: il caso e il fortuito 1i tiene in balia d'una rotazione perpetua. 15. Sono costretti incessantemente a rotolare «un masso enorme» coloro che consumano la loro vita in imprese faticose e infruttuose 187; la nera pietra, sempre sul punto di scivolare e che sempre minaccia e sembra pronta ad abbattersi, è sospesa sul capo degli ambiziosi che brigano per ottenere ardui incarichi e funeste tirannidi 188, destinati a non vivere mai privi di paura; e costringono la massa dei loro sudditi «ad odiarli purché li tema» 189, avendo sempre l'impressione di stare per subire quella fine che meritano. 16. Queste congetture dei teologi sono fondate. Infatti, anche Dionigi, il più crudele degli usurpatori di palazzo della Sicilia, volendo un giorno disilludere uno dei suoi cortigiani 190 che credeva la vita del tiranno l'unica felice e dargli invece un'idea giusta di quanto quell'esistenza fosse infelice per il continuo timore e sempre piena di pericoli incombenti, sguainata
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lo de filo tenui pendentem mucrone demisso iussit familiaris illius capiti inter epulas imminere; cumque ille et Siculas et tyrannicas copias praesentis mortis periculo grauaretur, «Talis est» inquit Dionysius «uita quam beatam putabas: sic semper mortem nobis imminentem uidemus. Aestima quando esse felix poterit qui timere non desinit.» 17. Secundum haec igitur quae a theologis adseruntur, si uere quisque suos patimur rnanes
et inferos in his corporibus esse credimus, quid aliud intellegendum est quam mori animam cum ad corporis inferna demergitur, uiuere autem curn ad supera post corpus euadit? 11. 1. Dicendum est quid his postea ueri sollicitior inquisitor philosophiae cultus adiecerit. Nam et qui primum Pythagoram et qui postea Platonem secuti sunt, duas esse mortes, unam animae, anirnalis alteram prodiderunt, mori anima1 curn anima discedit e corpore, ipsam uero animam mori adserentes cum a simplici et indiuiduo fonte naturae in membra corporea dissipatur. 2. Et quia una ex his manifesta et omnibus nota est, altera non nisi a sapientibus deprehensa, ceteris eam uitam esse credentibus, ideo hoc ignoratur a plurimis cur eundem mortis deum modo Ditem, modo immitem uocemus, cum per alteram, id est animalis mortem, absolui animam et ad ueras naturae diuitias atque ad propriam libertatem remitti faustum nomen indici0 sit; per alteram uero, quae uulgo uita existimatur, animam de inmortalitatis suae luce ad quasdam tenebras mortis inpelli uocabuli testemur horrore. 3. Nam ut constet animal, necesse est ut in corpore anima uinciatur. Ideo corpus GÉuas, hoc est uinculum, nuncupatur, et oGva, quasi
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dal fodero una spada e fattala appendere per il pomo ad un sottile filo con la punta rivolta in basso, comandò di sospenderla al di sopra della testa del cortigiano durante un festino; e siccome questi, pur avendo di fronte a sé tutta l'abbondanza della Sicilia e della tirannia, non l'apprezzava a causa dell'incombenza del pericolo mortale, Dionigi gli disse: «Tale è la vita che credevi così felice: vediamo sempre la morte a noi vicina. Pensa perciò quanto possa essere felice chi non può mai smettere di temere!». 17. Quindi, secondo queste asserzioni dei teologi, se è vero che ognuno i Mani suoi soffre
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e se crediamo che gli inferi siano in questo corpo, che cosa bisogna intendere per morte dell'anima, se non la sua immersione negli inferi del corpo, e, per sua vita, il suo ritorno alle regioni superne, dopo che è uscita dal corpo?
11. 1. Alle opinioni appena esposte, va aggiunta quella formulata successivamente dalla ricerca filosofica, più scrupolosa nell'investigazione della verità. I discepoli di Pitagora, infatti, e poi quelli di Platone hanno sostenuto che esistano due morti, quella dell'anima e quella dell'essere animato, dichiarando che l'essere animato muore quando l'anima esce dal corpo, ma che l'anima muore quando abbandona la fonte unica e indivisibile della natura per distribuirsi nelle membra del corpo. 2. La prima asserzione è evidente e nota a tutti, l'altra non è conosciuta se non dai sapienti, perché gli altri s'immaginano che questa morte costituisca la vita; perciò la maggior parte delle persone ignora perché il dio dei morti sia invocato talora sotto il nome di Dite 192 e talora sotto quello di «Crudele». Non sanno che il primo epiteto, di felice augurio, indica che la prima morte, quella dell'essere animato, libera l'anima e la restituisce alle vere ricchezze della natura e alla propria libertà; quanto alla seconda morte - quella che il volgo ritiene vita -, usando un termine terrificante, testimoniamo che essa strappa l'anima dalla luce splendente dell'immortalità per precipitarla, per così dire, nelle tenebre della morte. 3. Infatti, affinché un essere animato esista, occorre che l'anima sia incatenata nel corpo. Per questo il corpo è chiamato GÉpas, cioè
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quoddam ofjua, id est animae sepulcrum. Vnde Cicero, pariter utrumque significans, corpus esse uinculum, corpus esse sepulcrum, quod carcer est sepultorum, ait: PRIMO,
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24. Quanto a «circoli» e «orbite» sono due nomi che esprimono due cose diverse e Cicerone ne fa un uso che varia da caso a caso. Infatti adopera «orbita» per «circolo» quando scrive di «orbita lattea» e «orbita» in luogo di «sfera» come in «nove orbite, o piuttosto globi» 280. Ma dà anche il nome di «circoli» a quelli che cingono la sfera più grande, come vedremo nel seguito del trattato; uno di essi è quello latteo che definisce come «il circolo che risplende tra ifuocbi celesti>>281. 25. Ma qui con i termini di «circolo» e «orbita» non ha voluto intendere nessuno di questi significati; in questo brano, «orbita» si applica all'intera e completa rivoluzione di una stella, cioè al suo ritorno nello stesso punto da cui è partita, dopo aver descritto tutto il giro della sfera su cui si muove. I1 «circolo» è invece, qui, la linea che circonda la sfera e che, a mo' di sentiero, segna i limiti del percorso dei due luminari e d'interno del quale è contenuta la regolare erranza 282 dei pianeti. 26. E se gli Antichi hanno usato per i pianeti il termine «errare», è perché si muovono lungo un loro percorso particolare e procedono in senso contrario al moto della sfera più grande, cioè al cielo stesso, da occidente ad oriente. Tutte queste stelle hanno una velocità uguale, un moto simile e anche un identico modo di spostarsi 283; ma non tutte descrivono i loro cerchi e le loro orbite nel medesimo tempo. 27. Per questo la loro stessa velocità è definita «ammirevole», perché, pur identica per tutte e pur non potendo nessuna di queste stelle essere più rapida o più lenta, tutte tuttavia non percorrono nello stesso lasso di tempo il loro percorso. La ragione del perché, con la stessa velocità, lo spazio di tempo è ineguale, ce lo insegneranno con più precisione le pagine seguenti 284.
15. i. Dopo questa esposizione sulla natura degli astri e sull'origine astrale dell'intelletto umano, il padre, avendo esortato di nuovo suo figlio alla pietà verso gli dèi e alla giustizia verso i suoi simili, aggiunse, ancora una volta, una ricompensa, mostrandogli il circolo latteo, soggiorno dovuto alle virtù e colmo dei beati che vi si raccolgono, che evoca in questi termini: «vi era poi quel circolo che risplende di un abbagliante candore tra i fuochi celesti e che voi avete appreso dai Greci a cbiamare circolo latteo» 285.
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2. Orbis hic idem quod circus in lactei appellatione significat. Est autem lacteus unus e circis qui ambiunt caelum. Et sunt praeter eum numero decem, de quibus quae dicenda sunt proferemus, cum de hoc competens sermo processerit. Solus ex omnibus hic subiectus est oculis, ceteris circulis magis cogitatione quam uisu conprehendendis. 3. De hoc lacteo multi inter se diuersa senserunt, causasque eius alii fabulosas, naturales alii protulerunt; sed nos, fabulosa reticentes, ea tantum quae ad naturam eius uisa sunt pertinere dicemus. 4. Theophrastus lacteum dixit esse compagem qua de duobus hemisphaeriis caeli sphaera solidata est, et ideo ubi orae utrimque conuenerant, notabilem claritatem uideri. 5. Diodorus, ignem esse densetae concretaeque naturae in unam curui limitis semitam discretione mundanae fabricae coaceruante concretum, et ideo uisum intuentis admittere, reliquo igne caelesti lucem suam nimia subtilitate diffusam non subiciente conspectui. 6. Democritus, innumeras stellas breuesque omnes, quae spisso tractu in unum coactae, spatiis quae angustissima interiacent opertis, uicinae sibi undique et ideo passim diffusae lucis aspergine, continuum iuncti luminis corpus ostendunt. 7. Sed Posidonius, cuius definitioni plurium consensus accessit, ait lacteum caloris esse siderei infusionem, quam ideo aduersa zodiaco curuitas obliquauit ut, quoniam sol numquam zodiaci excedendo terminos expertem feruoris sui partem caeli reliquam deserebat, hic circus, a uia solis in obliquum recedens, uniuersitatem flexu calido temperaret. Quibus autem partibus zodiacum intersecet, superius iam relatum est. Haec de lacteo. 8. Decem autem alii, ut diximus, circi sunt, quorum unus est ipse zodiacus, qui ex his decem solus potuit latitudinem hoc modo quem referemus adipisci. 9. Natura caelestium cir-
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2. Qui il termine orbis, con l'aggettivo Iucteus, ha la stessa accezione di cz'rcus, cioè «circolo». Vi è infatti un solo circolo latteo tra quelli che cingono il cielo. Oltre ad esso, ve ne sono dieci 286, di cui riveleremo ciò che c'è da dire quando la nostra esposizione sarà opportunamente venuta in tema. È il solo che si offra all'occhio umano, gli altri circoli si intuiscono più con il pensiero che con lo sguardo. 3. Riguardo questo circolo latteo vi sono state opinioni molto diverse e alcuni hanno proposto spiegazioni mitiche, altri spiegazioni naturali; quanto a noi, passando sotto silenzio le interpretazioni favolose, ci atterremo solamente a quelle che sembrano pertinenti alla sua natura 287. 4. Teofrasto 288 disse che il circolo latteo era la sutura con cui la sfera celeste, formata da due emisferi, è stata riunita: per questo motivo il punto in cui i bordi, da una parte e dall'altra, sono stati congiunti, appare d'una brillantezza notevole. 5. Diodoro 289 asserì che si trattasse di un fuoco di una natura densa, concentrato in un sentiero unico di forma curvilinea, e che si accumula sulla linea di demarcazione della struttura cosmica: questa la ragione per cui è visibile, mentre il resto del fuoco celeste sottrae alla vista la sua luce, troppo rarefatta e tenue. 6. Democrito 290 ritiene che si tratti d'innumerevoli piccole stelle che, concentrate in uno spazio così esiguo che gli intervalli ridottissimi che le separano si trovano occultati, essendo tra di loro contigue, e per questa ragione, diffondendo in tutte le direzioni la loro aspersione di luce, offrono allo sguardo l'aspetto di un unico corpo dalla luminosità ininterrotta. 7. Posidonio 291, la cui opinione ha ottenuto la maggioranza dei consensi, sostiene invece che la Via Lattea sia un travaso del calore astrale, la cui curvatura, opposta allo zodiaco, è su un piano obliquo; di modo che, poiché il sole non esce mai dai limiti dello zodiaco, lasciando le regioni restanti del cielo prive del suo calore, questo circolo, allontanandosi obliquamente dal tragitto del sole, riscalda l'universo con la sua calda curva. Quanto ai punti in cui il circolo latteo interseca lo zodiaco, lo si è già indicato in precedenza292. Questo è quanto occorre sapere sulla Via Lattea. 8. Vi sono, come abbiamo detto, altri dieci circoli, uno dei quali è 10 zodiaco stesso e che è l'unico di questi dieci che abbia potuto giungere ad avere una larghezza, nel modo che spiegheremo. 9. I circoli celesti sono per natura linee immateriali, che
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culorum incorporalis est linea, quae ita mente concipitur ut sola longitudine censeatur, latum habere non possit; sed in zodiaco latitudinem signorum capacitas exigebat. 10. Quantum igitur spatii lata dimensio porrectis sideribus occupabat, duabus lineis limitatiim est; et tertia ducta per medium ecliptica uocatur, quia, cum cursum suum in eadem linea pariter sol et luna conficiunt, alterius eorum necesse est euenire defectum: solis, si ei tunc luna succedat; lunae, si tunc aduersa sit soli. i l . Ideo nec sol umquam deficit nisi cum tricesimus lunae dies est, et nisi quinto decimo cursus sui die nescit luna defectum. Sic enim euenit ut aut lunae contra solem positae ad mutuandum ab eo solitum lumen sub eadem inuentus linea terrae conus obsistat, aut soli ipsa succedens obiectu suo ab humano aspectu lumen eius repellat. 12. In defectu ergo sol ipse nil patitur, sed noster fraudatur aspectus, luna uero circa proprium defectum laborat non accipiendo solis lumen, cuius beneficio noctem colorat. Quod sciens Vergilius, disciplinarum omnium peritissimus, ait: defectus solis uarios lunaeque labores
Quamuis igitur trium linearurn ductus zodiacum et claudat et diuidat, unum tamen circum auctor uocabulorum dici uoluit antiquitas. 13. Quinque alii circuli paralleli uocantur. Horum medius et maximus est aequinoctialis, duo extremitatibus uicini atque ideo breues, quorum unus septentrionalis dicitur, alter austral i ~ Inter . hos et medium duo sunt tropici maiores ultimis, medio rninores, et ipsi ex utraque parte zonae ustae terminum faciunt. 14. Praeter hos alii duo sunt coluri, quibus nomen dedir inperfecta conuersio. Ambientes enim septentrionalern uerticem atque inde in diuersa diffusi, et se in summo intersecant,
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vengono concepite mentalmente come aventi la sola lunghezza e mancanti d'ampiezza; ma, nel caso dello zodiaco, il fatto che contenesse i segni esigeva che avesse una larghezza 293, 10. Si è dunque delimitato lo spazio occupato in larghezza da questo circolo con le sue vaste costellazioni con due linee; inoltre una terza linea, condotta attraverso il mezzo, è chiamata eclittica 294, perché c'è eclissi di sole o di luna tutte le volte che questi due astri compiono il loro percorso nello stesso tempo lungo questa medesima linea: se la luna è in congiunzione, c'è eclissi di sole; quando è in opposizione, c'è eclissi di luna. 11. Ne consegue che il sole non può avere eclissi se non quando la luna finisce la sua rivoluzione di trenta giorni e che la luna non può subire un'eclissi se non nel quindicesimo giorno del suo corso. Difatti, in quest'ultimo caso, la luna, opposta al sole da cui chiede in prestito la sua consueta luce, si trova oscurata dal cono d'ombra 295 della terra che si trova sulla medesima linea; o, nel primo caso, nel passare sotto al sole, la sua interposizione tra la terra e il sole ci priva della vista della luce di quest'ultimo. 12. Quindi, durante un'eclissi, il sole non perde nessuno dei suoi attributi, ma siamo noi ad essere privati della sua luce; mentre la luna. al momento della sua eclissi, soffre nel non ricevere la luce del sole grazie al quale dà colore alle nostre notti. Sapendo ciò, Virgilio, dottissimo in ogni scienza, dice: le molte eclissi del sole e le fasi della luna.
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Sebbene lo zodiaco sia delimitato e diviso da tre linee, l'Antichità, inventrice di tutti i vocaboli, volle che se ne parlasse come di un circolo solo. 13. Cinque altri circoli sono chiamati paralleli. Quello di mezzo che è anche il più grande è il circolo equinoziale; due sono vicini ai poli e perciò piccoli; uno di essi è chiamato circolo settentrionale e l'altro australe. Tra questi e quello di mezzo vi sono i due tropici, più ampi dei circoli estremi e più piccoli di quello mediano; essi servono da limite da una parte e dall'altra alla zona torrida 2"'. 14. Oltre a questi, ce sono altri due, i coluri, il cui nome deriva dal fatto che descrivono una circonferenza incompleta. Infatti, cingendo il polo settentrionale e allontanandosi in direzioni opposte, s'intersecano al vertice e determinano su ciascu-
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et quinque parallelos in quaternas partes aequaliter diuidunt, zodiacum ita intesecantes ut unus eorurn per Arietem et Libram, alter per Cancrum atque Capricornum meando decurrat; sed ad australem uerticem non peruenire creduntur. 15. Duo qui ad numerum praedictum supersunt, meridianus et horizon, non scribuntur in sphaera, quia certum locum habere non possunt, sed pro diuersitate circumspicientis habitantisue uariantur. 16. Meridianus est enim quem sol, curn super hominum uerticem uenerit, ipsum diem medium efficiendo designat. Et quia globositas terrae habitationes omnium aequales sibi esse non patitur, non eadem pars caeli omnium uerticem despicit; et ideo unus omnibus meridianus esse non poterit, sed singulis gentibus super uerticem suum proprius meridianus efficitur. 17. Similiter sibi horizontem facit circumspectio singulorum. Horizon est enim, uelut quodam circo designatus, terminus caeli quod super terram uidetur. Et quia ad ipsum uere finem non potest humana acies peruenire, quantum quisque oculos circumferendo conspexerit, proprium sibi caeli quod super terram est terminum facit. 18. Hic horizon, quem sibi unius cuiusque circumscribit aspectus, ultra trecentos et sexaginta stadios longitudinem intra se continere non poterit. Centum enim et octoginta stadios non excedit acies contra uidentis; sed uisus, cum ad hoc spatium uenerit, accessu deficiens in rotunditatem recurrendo curuatur, atque ita fit ut hic numerus, ex utraque parte geminatus, trecentorum sexaginta stadiorum spatium quod intra horizontem suum continetur efficiat, semperque, quantum ex huius spatii parte postera procedendo dimiseris, tantum tibi de anteriore sumetur; et ideo horizon semper quantacumque locorum transgressione mutatur. 19. Hunc autem, quem diximus, admittit aspectum aut in terris aequa planities aut pelagi tranquilla libertas, qua nullam oculis obicit offensam. Nec te moueat quod saepe in longissi-
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no dei cinque circoli paralleli quattro parti uguali, intersecando lo zodiaco così da incontrare nel loro tracciato, uno l'Ariete e la Bilancia e l'altro il Cancro e il Capricorno; ma non si crede che giungano fino al polo australe 298. 15. I due ultimi circoli che rimangono per completare il numero annunciato, il meridiano e l'orizzonte, non sono iscritti sulla sfera celeste, perché non possono avere una posizione fissa, ma sono variabili secondo le differenti posizioni dell'osservatore o dell'abitante. 16. I1 meridiano è, infatti, il circolo determinato dal sole, quando è giunto sulla perpendicolare della testa di ciascuno e segna esattamente il mezzogiorno. E poiché la sfericità della terra si oppone al fatto che l'aspetto dei luoghi sia lo stesso ovunque e che sopra le teste degli uomini vi sia la stessa parte di cielo, ne consegue che non ci potrà essere uno stesso meridiano allo zenit, ma ogni persona avrà allo zenit un proprio meridiano 299. 17. Allo stesso modo è lo sguardo circolare d'ogni individuo che definisce per esso l'orizzonte. L'orizzonte, infatti, è il limite, sotto forma di una sorta di circolo, della porzione di cielo visibile sopra la terra. E siccome l'occhio umano non può veramente raggiungerne il limite, l'estensione che comprende quanto ciascuno riesce ad osservare volgendo attorno il proprio sguardo, fissa per ciascuno di noi la linea di confine personale della porzione di cielo che sovrasta la terra 300. 18. Quest'orizzonte, che lo sguardo di ognuno circoscrive per proprio conto, non potrà superare la distanza di trecentosessanta stadi 301. Infatti, quando si guarda dritto di fronte a sé, la vista non va aldilà di centottanta stadi 302; ma, una volta giunti a questa distanza, la vista, che non può andare oltre sulla rotondità terrestre, ritorna indietro e si curva 303, di modo che questo numero, raddoppiato poiché vi sono due parti, realizza una lunghezza di trecentosessanta stadi, ossia lo spazio contenuto all'interno dell'orizzonte individuale; e non possiamo procedere, guadagnando in avanti dello spazio, senza vederlo accorciarsi nella stessa proporzione in quello che ci è retrostante; perciò l'orizzonte si modifica continuamente in funzione dei nostri spostamenti. 19. Ma questa estensione della vista che ho descritto può avere luogo solo nel mezzo di una vasta pianura, o sulla superficie di un mare calmo, quando nessun ostacolo si L
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mo positum montem uidemus aut quod ipsa caeli superna suspicimus. Aliud est enim cum se oculis ingerit altitudo, aliud cum per planum se porrigit et extendit intuitus, in quo solo horizontis circus efficitur. Haec de circis omnibus quibus caelum cingitur dicta sufficiant.
16. 1. Tractatum ad sequentia transferamus: «Ex quo mihi onznia contemplanti praeclara cetera et mirabilia uidebantur. Erant autem eae stellae quas numquam ex hoc loco uidimus, et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea minima, quae ultima a caelo, citima terris luce lucebat aliena: stellarum autem globi terrae magnitudinem facile uincebant.» 2. Dicendo: «ex quo mihi omnia contemplanti», id quod supra rettulimus adfirmat: in ipso lacteo Scipionis et parentum per somnium contigisse conuentum. Duo sunt autem praecipua quae in stellis se admiratum refert, aliquarum nouitatem et omnium magnitudinem. Ac prius de nouitate, post de magnitudine disseremus. 3. Plene et docte adiciendo: q u a s numquam ex boc loco uidimus», causam cur a nobis non uideantur ostendit. Locus enim nostrae habitationis ita positus est ut quaedam stellae ex ipso numquam possint uideri, quia ipsa pars caeli, in qua sunt, numquam potest hic habitantibus apparere. 4. Pars enim haec terrae, quae incolitur ab uniuersis hominibus - quos quidem scire nos possumus -, ad septentrionalem uerticem surgit, et sphaeralis conuexitas australem nobis uerticem in ima demergit. Cum ergo semper circa terram ab ortu in occasum caeli sphaera uoluatur, uertex hic qui septentriones habet, quoquouersum mundana uolubilitate uertatur, quoniam super nos est, semper a nobis uidetur ac semper ostendit Arctos Oceani metuentes aequore tingui.
COMMENTO AI, «SOGNO DI SCIPIONE», LIBRO
PRIMO, 15.
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frappone ai nostri occhi. Non deve influenzarti il fatto che spesso noi vediamo la distante cima di un'alta montagna o leviamo lo sguardo alla superna volta celeste. Una cosa infatti è quando si presenta alla vista un'altitudine, un'altra quando la vista si protende e si estende su un terreno piano, perché è solo quest'ultimo caso che costituisce il circolo dell'orizzonte. Ma a questo punto pensiamo di aver parlato abbastanza dei circoli di cui il cielo è cinto.
16. l. Passiamo al commento del brano seguente: «Da quel luogo, mentre contemplavo tutto l'universo, tutto m i appariva magn$co e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, certe stelle che da qui non abbiamo mai visto e tutte erano di una grandezza che non avremmo mai pensato possibile; fra esse la più piccola, che è la più lontana dalla volta celeste e la più vicina alla terra, brillava di luce rzflessa: i globi stellart; poz; superavano nettamente la grandezza della terra» 30.1. 2. Dicendo «da quel luogo, mentre contemplavo tutto l'universo» si conferma quanto abbiamo segnalato sopra: è proprio nella Via Lattea che ebbe luogo, nel sogno, il colloquio di Scipione con i suoi avi 305. Due cose suscitano in particolare la sua ammirazione: di alcune stelle la novità nel vederle, di tutte la loro grandezza. Cominciamo parlando di queste nuove stelle, in seguito ci occuperemo della grandezza degli astri. 3. Con l'aggiungere l'esatta ed esauriente precisazione: «che da qui non abbiamo mai visto» mostra il motivo per cui questi astri non ci sono visibili. Infatti il luogo da noi abitato occupa una posizione tale che alcune stelle non possono mai essere visibili, perché la regione del cielo in cui si trovano non può mai offrirsi ai nostri sguardi. 4. Questa parte della terra, abitata dall'insieme degli uomini - quelli almeno che c'è dato conoscere 306-, si volge difatti verso il polo settentrionale e per noi la convessità della sfera inabissa in profondità il polo australe. Quindi, siccome il movimento della sfera celeste intorno alla terra ha luogo sempre da oriente ad occidente 307, questo polo che comprende i «sette buoi» 308, qualunque sia la direzione verso la quale lo volge il movimento rotatorio cosmico, trovandosi sopra di noi, è sempre visibile e sempre presente al nostro sguardo le Orse che temono d'immergersi neli'acqua deU'Oceano.
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5. Australis contra quasi seme1 nobis pro habitationis nostrae positione demersus, nec ipse nobis umquam uidetur nec sidera sua, quibus et ipse sine dubio insignitur, ostendit. Et hoc est quod poeta naturae ipsius conscius dixit: hic uertex nobis semper sublimis; at dlum sub pedibus Styx atra uidet Manesque profundi.
6. Sed cum hanc diuersitatem caelestibus partibus uel semper uel numquam apparendi terrae globositas habitantibus faciat, ab eo qui in caelo est omne sine dubio caelum uidetur, non impediente aliqua parte terrae, quae tota puncti locum pro caeli magnitudine uix obtinet. 7. Cui ergo australis uerticis stellas numquam de terris uidere contigerat, ubi circumspectu libero sine offensa terreni obicis uisae sunt, iure quasi nouae admirationem dederunt, et quia intellexit causam propter quam eas numquam ante uidisset, ait: cerant autem eae stellae quas numquam ex hoc Zoco uidimus», hunc locum demonstratiue terram dicens in qua erat dum ista narraret. 8. Sequitur illa discussio, quid sit quod adiecit: «et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus». Cur autem magnitudines quas uidit in stellis numquam homines suspicati sint, ipse patefecit addendo: «steZZarum autem globi terrae magnitudinem facile uincebanh>.9. Nam quando horno, nisi quem doctrina philosophiae supra horninem, imrno uere hominem fecit, suspicari potest stellam unam omni terra esse maiorem, cum uulgo singulae uix facis unius flammam aequare posse uideantur? Ergo tunc earum uere magnitudo adserta credetur, si maiores singulas quam est omnis terra esse constiterit. Quod hoc modo licet recognoscas.
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5. I1 polo australe, invece, che per noi è, in un certo senso, sommerso una volta per sempre, a causa della posizione del luogo da noi abitato, sfugge in permanenza al nostro sguardo, né ci mostra i suoi astri che pure, senza dubbio, possiede. Questo è quanto esprime il poeta, sapiente conoscitore della natura, nei seguenti versi: questo vertice settentrionale è sempre immanente su di noi; ma quello antipode è visibile soltanto al tetro Stige e ai profondi Mani. 310
6. Ma siccome la diversità che fa sì che alcune arti del cielo siano sempre visibili e altre sempre invisibili è dovuta, per i suoi abitanti, alla sfericità della terra, non c'è dubbio che per chi si trova in cielo la volta celeste è interamente visibile, senza che s'interponga alcuna parte della terra, la cui totalità occupa solamente lo spazio di un punto 311, a paragone dell'immensità del cielo. 7. Si comprende dunque perché a chi non era mai stato dato di vederedalla terra lestelle del polo australe, e che, gettando liberamente uno sguardo circolare senza incontrare l'ostacolo della terra, le ha vedute, sia stato preso da ammirazione di fronte a queste stelle che erano per-lui nuove, e perché, riconoscendo allora il motivo per cui non le aveva mai scorte in precedenza, dice: >, eandem temperatorum cingulorum continuatam esse temperiem; et cum ait in terra maculas habitationum uideri, non eas dicit quae in parte nostrae habitationis non nullis desertis locis interpositis incoluntur. 29. Non enim adiceret «in zpsis maculis uastas solitudines interiectas», si ipsas solitudines diceret, inter
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LIBRO SECO&W,
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24. Infatti si deve ritenere che i suddetti abitanti di laggiù respirino la stessa aria, poiché lo stesso clima temperato regna nelle loro zone su tutta la lunghezza dell'identica circonferenza; hanno lo stesso sole, di cui si dirà per loro che tramonta quando sorge per noi e che sorgerà quando deve tramontare per loro; come noi calcheranno il suolo e sopra la loro testa vedranno sempre il cielo; 25. né avranno timore di cadere dalla terra nel cielo, perché niente può mai cadere verso l'alto. Infatti, se da noi si ritiene il basso là dov'è la terra e l'alto là dov'è il cielo (cosa che per noi soltanto dirla è ridicola), anche per loro l'alto sarà ciò verso il quale dal basso levano lo sguardo, né mai potranno cadere nelle regioni a loro soprastanti. 26. Arriverei ad affermare che anche quelli meno istruiti tra loro pensano lo stesso a proposito di noi e non possono credere che noi possiamo vivere nel luogo dove siamo, convinti che se qualcuno provasse a stare in piedi nella regione sotto di loro, finirebbe per cadere. Nessuno di noi, ciò nonostante, ha mai temuto di cadere nel cielo: dunque neppure presso di loro qualcuno è destinato a cadere verso l'alto 96; perché verso la terra «sono attratti tutti i gravi, per una forza che è loro propria» 97, come ha dimostrato un precedente ragionamento 98. 27. Inoltre, ci si contesterà che nella sfera terrestre le regioni che sono dette inferiori siano all'opposto di quelle che le sono superiori, come è l'oriente rispetto all'occidente? Infatti un diametro, da qualunque parte sia tracciato, è sempre uguale. Essendo dunque provato che l'oriente e l'occidente sono entrambi abitati, quale ragione vi è per escludere che vi sia una sede abitata, diametralmente opposta a questa 99? 28. Tutto ciò che ho appena detto un lettore diIigente lo può trovare nelle righe così concise 100 di Cicerone. Infatti dicendo che la terra è «avvolta e cinta da» sue >e, infatti, Macrobio traduce «hyle» con siluestris turnultus, che noi abbiamo qui reso con «il turbinoso disordine che regna nella materia». I1 concetto di selva è l'intera materia del g a n d e poema di Bernardo Silvestre, De universitate mundi sive Megacosmus et Microcosmus, e dunque percorre tutta la riflessione della scuola di Chartres. Rtcompare ovviamente in Dante, nel Convzvzo,ma soprattutto nella Commedia, con la ((selva oscura» deil'inizio del poema. Ultima di tutte le cose è hyle, che «noi diciamo selva e che sta nel luogo più basso», preciserà Cristoforo Landino, che recupera, come aveva già fatto Scoto Eriugena, anche il significato proprio di hyle: legno, materiale da costruzione. Il demiurgo che agisce nella selva, per produrre le cose, è lignariusjaber, e la selva «contiene un legno scabro e informe». 211 Platone, Fedone, 79 C. 212 La costeilazione del Cratere, o Coppa, si trova nell'emisfero australe, vicino alla costellazione del Corvo, da cui la separa quella deii'Idra. I1 catasterismo delle tre costellazioni è legato da un unico mito: i1 corvo era stato incaricato dal dio Apollo, che doveva offrire un sacrificio a Zeus, d i raccogliere l'acqua con una coppa da una sorgente, ma si attardò presso un fico per raccoglierne i frutti non ancora maturi. Apollo dovette provvedere in maniera diversa. Dopo qualche giorno, il corvo, sazio dei frutti, volò da Apollo con la sua tardiva coppa colma d'acqua, imputando all'idra, un serpente d'acqua, di non aver permesso l'avvicinamento alla fonte. Apollo che conosceva sempre la verità castigò il corvo a patire la sete tutta la vita. In ricordo dell'accaduto il dio pose il Corvo, la Coppa e 1'Idra insieme in cielo. I1 cratere era il vaso o coppa in cui i greci mescolavano al vino l'acqua e Libero è uno degli epiteti di Bacco o Dioniso. 213 Questo paragrafo ha strette attinenze con alcuni passi di Arnobio, Adversus Nationes [Contro i gentili] (11. 16 e 111, 28). La dottrina platonica secondo la quale l'anima, dopo la caduta nel mondo della generazione, subisce il potere dell'«opinione», conduceva alla conclusione che nel mondo terreno ogni religione e filosofia avesse un valore relarivo in rapporto al mistero dell'assoluto intelligibile. Per l'apologista cristiano Arnobio (255 ca.-327 ca.) invece la convinzione dell'esistenza del divino è innata neii'anima, malgrado la sua materialità (I, 33) perché la rivelazione lo ha reso partecipe della
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NOTE AI. TESTO
sapienza divina ed essa può pertanto raggiungere l'immortalità attraverso la grazia di Dio. 214 Lectto significa «lettura» e traduce il vocabolo greco a v c i y v o o l ~ ,che ha, d t r e ai medesimo significato, anche quello di «riconoscimento». E la nota dottrina socratica, di derivazione orfico-pitagorica, dell'anàgnoris, più nota come anàmnesis ( a v a p v ~ o i r= reminiscenza). Platone (Fedone 72 e; Fedm 249 C;Menone 81 d - 86 a) ritiene che l'anima, prima di legarsi ad un corpo, abbia vissuto un'esistenza disincarnata nella quale ha potuto vedere le idee, il cui ricordo viene risvegliato a contatto con la realtà sensibile. In questo senso, conoscere equivale sia a recuperare la conoscenza sia a ricordare. 215 Fin dai poemi omerici ed esiodei nettare e ambrosia erano il nutrimento degIi dèi che gli assicuravano l'immortalità e l'eterna giovinezza. Originariamente indistinti, in seguito il nettare divenne la bevanda e I'ambrosia il cibo. *l6 Cfr. sopra I, 10, 10 e nota 180. 217 È verosimile che il mito della passione dello smembramento di Dioniso avesse una parte centrale e preminente nella rivelazione orfica. Diodoro Siculo (80-20 ca. a.C.) scrive nella sua Biblioteca storica che «Orfeo ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri lo smembramento di Dioniso» (V, 75,4). E in un altro passo Orfeo viene presentato come riformatore dei misteri dionisiaci: & per questo che le iniziazioni dovute a Dioniso sono chiamate orfiche>>(III,65,6).Nel delitto dei Titani si riconosce, dunque, un antico scenario iniziatico che raffigura la frantumazione, nel molteplice, della divinità Una, che, dopo essere stata smembrata, va, per così dire, ri-membrata. Lo smembramento dell'intero, la frantumazione e la pluralizzazione dell'Origine, è conoscenza del furore e del sacrificio di sangue, della passione del corpo straziato e martoriato di Dioniso, della dissoluzione che ogni istante.si consuma, come un rituale eterno, della interezza del tutto e della sua scissione. La creazione è perciò concepita come una morte cosmogonica in cui l'Uno, nella sua potenza concentrato, viene offerto e disperso, ma questa discesa e diffusione della potenza divina sono seguite dalla sua risurrezione, allorché i Molti vengono ricomposti nell'uno. I1 mito deiio smembramento di Dioniso, attestato sin dal VI secolo da Onomacito (Orphicorum~fragmentu, a cura di Otto Kern, Berlin, 1922, test. 194 e fr. 210), c'è pervenuto soprattutto attraverso autori cristiani (Firmico Materno, Cevrore delle religioni profane 6; Clemente Alessandrino, Protrettico a i Greci 11, 17, 2 e 18; Arnobio, Adt~ersusNationes V, 19), ma qui ha particolare importanza Origene (Contro Celso IV, 17) che afferma che i greci interpretano allegoricamente il mito della lacerazione delle membra e della loro riunione come allegoria deiia discesa dell'anima nel corpo umano e della sua risalita e lo paragona alla resurrezione di Cristo. Questo brano, insieme all'lside e Osiride di Plutarco (18), è stato la probabile fonte delle similitudini presenti nella sezione 15, 87 dell'Oratio de hominis dignitute di Pico della Mirandola, dove si produce una sorta di sintesi dei due miti, in cui la morte assume il significato di rinnovamento della vita (cfr. anche Commento sopra una canzone d'amore di Beniuieni2,8). Vedi anche I'lutarco, Sull' ~i dille& (9):«Quando il dio si cambia e si distribuisce in venti, acqua, terra, stelle, piante e animali, i
NOTE AL TESTO
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sapienti occultano questo processo sotto i simboli della «lacerazione e dello «smembramento». Essi Io chiamano con i nomi di Dioniso.. . e creano miti di morti e sparizioni, seguite da rinascite e palingenesi». Per voUg i r h i ~ & , mente materiale, cfr. Macrobio, Saturnali T, 18, 15, dove si ricorda che Orfeo e in seguito a lui i physici chiamarono il sole Dioniso, il cui nome viene fatto derivare da A i 0 5 voUs (mente di Zeus), perché i fisici consideravano quest'astro la mente del mondo. 218 Allusione a l l ' o x q ~ ~veicolo a, o cocchio di luce, etereo e splendente, deil'anima, o corpo astrale, o corpo di luce che, dopo il Timeo, da Proclo in poi assunse una notevole importanza nella tradizione esoterica ed escatologica occidentale, ma anche scita, dove viene chiamato corpo sottile. In Occidente, dopo Macrobio appare nella Consolazione della Filosofa, diventando un concetto famigliare nel Medioevo. In Dante, ad esempio appare nel Purgatorio XXV, 88-108. Durante le rinascite del Platonismo a Costantinopoli, nel XI e nel XV secolo, la dottrina del corpo astrale riemerse nelle opere dedicate agli Oracoli Caldaici di Michele Psello e di Giorgio Gemisto Pletone. Per il rivestimento etereo dell'anima vedi sopra I, 11, 12 e nota 200. 219 La dottrina della discesa (e del ritorno) dell'anima attraverso le sfere planetarie e della sua acquisizione dei relativi influssi celesti ha antiche origini iranico-caldee. Qui Macrobio adotta il sistema eliocentrico detto waldeo», dove il Sole occupa il quarto posto nella seric- dei pianeti. Tre sono posti più in alto di esso, Marte, Giove e Saturno. e tre sotto, Venere, Mercurio e la Luna, mentre la sequenza planetaria egizia o ordine «platonico» è il seguente: Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove e Saturno. Quest'ultimo ordine, che si ritrova in Proclo e in Porfirio, sembra altrove (I, 19 e 21 e 11, 3) essere accettato da Macrobio. Si ipotizza che la fonte di Macrobio sia Numenio, attraverso perduti trattati di Porfirio. 220 L'elenco deile facoltà acquisite dall'anima nella sua discesa attraverso le sfere planetarie risulta dalla sovrapposizione della tripartizione dell'anima secondo Platone ( ~ O ~ L O T I K~ ~U VH ,I K ~ EV T, T I ~ U ~ ~ T L=Krazionale, ~ V concupiscibile, irascibile; cfr. supril I, 6, 42 e nota 121) e secondo Aristotele ( h o y i a ~ i ~ o CvI ~, C J ~ ~ T I K Ò~VN,T I K O V = ràzionale, sensitiva, vegetativa: cfr. infva I, 14, 7 e nota 240), a cui Macrobio aggiunge due qualità supplementari, per Giove e per Mercurio, per arrivare al numero sette, equivalente a quello dei classici pianeti. Anche in questo caso si ipotizza che la fonte dell'esposizione di Macrobio risalga a Numenio. Nella contemplazione rnacrobiana della scala del cielo planetario in rapporto alla dottrina orfico-pitagorica della discesa dell'anima in Terra dai cielo superiore, il Sole è la facoltà che anima i sensi e ne sintetizza le impressioni; il Sole è quindi I'archetipo della vita spirituale e sensoriale. Secondo la visione sufi esposta da Abd al Karim al Jili (1365-1428), nel suo libro Al Insuil a l Kamil (L'uomo pehtto - vedine una sua versione parziale in italiano sotto il titolo L'uomo Universale,tradotta dal francese e a cura di Titus Burckhardt, Roma, 1975). il Sole rappresenta il cuore (al-qalb),l'organo della conoscenza intuitiva ed armonizzatrice: allo stesso modo in cui i1 Sole comunica la sua luce ai pianeti, così la luce del cuore illumina tutte le facoltà dell'anima. A Giove è attribuita la risoluzione (in arabo al-hirnmah):rappresenta, dunque, qualcosa come la forma spiritua-
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NOTE AL TESTO
le deila volontà. A Marte corrisponde l'audacia; al Jili gli attribuisce anche l'immaginazione attiva (al-wahm);entrambe le proprietà si riferiscono d a volontà demiurgica precipitata nel mondo. Per Macrobio, come per tutti i cosmologi ellenisti, Venere è l'astro della passione amorosa, mentre per l'alchimista di Baghdad è, innanzitutto, il modello della forza immaginativa passiva (al-khiyioche si modella sull'immaginazione o fantasia marziale come la cera al sigillo. Per tutti i cosmologi, Mercurio è I'esempio del pensiero analitic0 (al-fikr).Macrobio attribuisce alla Luna la facoltà della generazione, il movimento fisico, attributo che Alberto Magno descrive con precisione come rnotus quos movet in sequendo naturam corporis, ut attrahendo, mutuando, augendo et generando; che sono appunto le funzioni dello spirito vitale (spiritus vitalis, ar-&h) che al Jili assegna allo stesso astro. 221 Cfr. Plotino, Enneadi, I, 8, 13,20. 222 Cicerone, Repubblica VI, 15 = Sogno di Scipione 3 , 5 . 223 Platone, Fedone, 67 e. z24 Platone, Fedone, 61 d e in seguito per il § 6 cfr. 64 c-d e 67 d, per il § 8 62 b-C. 225 In I, 11, 1. 226 In I, 8, 8. 227 In Enneadi I, 9: il breve trattato Il suicidio razionale ( l l ~ p~ì i h 6 y o v ESaywyqs). 228 Plotino, Enneddi I, 9, 10. 229 Plotino, Enneadi I, 9, 14 sgg. 230 Plotino, Enneadi I, 9, 3 e 8 sgg. 23' Cfr. sopra I, 14, 19, dove questa idea è attribuita a Pitagora e a Filolao. L'idea che un ritmo biologico unisse anima e corpo si ritrova in Aristide Quintiliano, autore di un trattato Sulla musica (I1 sec.), in Plotino, Porfirio, Giamblico e in numerosi trattati ermetici. 232 Virgilio, Eneide VI, 545. I1 significato di questo verso, che conclude il dialogo di Deifobo, figlio di Priamo, con Enea, è oscuro. Anche Servio (VI, 545) ne propone più interpretazioni, una delle quali si avvicina a quella di Macrobio, il concetto cioè che l'anima non si allontana dal corpo finché non ha finito il numero musicale, e fatale, col quale fin dalla nascita è stata congiunta d o stesso corpo. Vi è dunque un numero che non si può oltrepassare, chiamato fato o corso fatale. Altri, invece che con completare questo numero fatale, interpretano che Deifobo con la sua espressione sottintenda completare il numero delle ombre, ossia che dichiari che ritornerà a far parte del novero di esse, dopo il suo dialogo con Enea. 233 Plotino, Enneadi I, 9, 17 sgg. 234 Si aliude al perduto trattato di Porfirio De reditu aninzae ( l l ~ p\yvxij~ ì hav08ou, di cui Agostino nella Città di Dio cita lunghi passi sotto il titolo leggermente diverso De regressu animae. Tra le «dispute esoteriche» si può ricordare la concezione egiziana, secondo cui i defunti non «giustificati», il cui cuore sulla bilancia di Anubi risultava più pesante della piuma ma'at, erano condannati a una morte definitiva e privati anche di quella forma sur-
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rogatoria e del tutto parziale, sia nel tempo che nello spazio - come vedremo nei prosieguo del testo di Macrobio -, di revivescenza e di gloria e in qualche modo di socialità garantita dalla memoria dei posteri e dalla fama estesa tra la gente. 235 Cicerone, Repubblica VI, 15 = Sogno diSc@ione 3,5. 236 In I, 22. 237 L'idea che l'universo è il vero tempio di Dio è patrimonio della poesia a partire da Ennio fino a Manilio. Si ritrova tra i retori come Dione Crisostomo e in opere filosofiche (Seneca, Porfirio, Plutarco). Nelle Leggi (11, 10, 26 - 11, 27) Cicerone attribuisce l'idea ai magi persiani «per consiglio dei quali si dice che Serse bruciò i templi della Grecia, perché rinchiudevano entro pareti quegli dèi ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei quali tutto questo mondo è tempio e sede. Meglio si comportarono invece gli Elleni ed i nostri padri, i quali vollero che essi abitassero le stesse città nostre, affinché aumentasse la pietà verso gli dei; questa credenza sostiene infatti che il culto sia utile alle città, se, come disse il dottissimo Pitagora, proprio allora la pietà ed il culto maggiormente si radicano negli animi, cioè quando ci dedichiamo alle cose divine; e ricordiamo il detto di Talete, uno dei sette sapienti, che gli uomini sono convinti che tutto [quanto] vedono debba essere pieno di dèi; tutti saranno infatti più puri, come se si trovassero in templi che ispirano la massima religiosità. Secondo questa concezione infatti, si presenta una certa immagine degli dèi non soltanto negli animi, ma anche innanzi agli occhi*. 238 Qui Macrobio, da buon grammatico, dovendo commentare un brano dove Cicerone adopera il termine animus nel senso di mens (mente, inteiietto) e poi in quel0 improprio di «soffio vitale», sottolinea la distinzione classica secondo la quale animus è la traduzione del greco voi35 ed ha come sinonimo in latino mens, mentre anima, traduzione del greco iyuxi, è il soffio vitale, il pneuma, sinonimo dell'altro termine latino spiritus. Con l'avvento del cristianesimo il sostantivo anirnus uscì dall'uso, soppiantato da anima, intesa come parte spirituale e immortale dell'uomo. Solo nel secolo scorso la distinzione tra animus e anima ritornerà ad essere fondamentale nella riflessione junghiana. 239 Dato che qui e nei due seguenti § Macrobio descrive la teoria neoplatonica delle ipostasi per theologt devono qui intendersi i filosofi neoplatonici e in particolare Plotino. Macrobio usa qui pertanto un plurale mazestatis. Per questi passi cfr. Plotino, Enneadi V, 2, 1, 1-22 e III,4,2-3. La teoria emanatista, qui descritta da Macrobio nei 5 6 e seguenti, ossia quella che postula che Dio creò in principio l'Intelligenza e che attraverso la sua mediazione creò il resto del mondo sarà oggetto di critica di Meister Eckhart (Commento alla GefzesiI , 2 1) . 240 Si tratta della tripartizione delle funzioni dell'anima d'origine aristotelica (L'Anima 11 (B), 2 , 4 13 b) su cui vedi sopra nota 220. La distinzione fu ripresa da Plotino, Enneadi, III,4, 2-3. 241 L'idea era divenuta un tòpos dell'antropologia antica a partire da Platone (Timeo 90 a-b; Cratilo 396 b-C):la si ritrova in Aristotele, Senofonte, Cicerone, Sahsrio, Ovidio, Manilio, Firniico Materno.
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242 Forma sferica, e movimento circolare, sono caratteristiche del divino: cfr. I, 1 2 , 5 e nota 207. Secondo Platone (Timeo 44 d ) la testa è l'unica parte del corpo rotonda, ad immagine del mondo, perché sede dell'intelletto, la componente più omogenea al divino. 243 Cfr. Platone Tzmeo 91 C; Cratilo 596 a. Molti degli autori citati nella precedente nota 24 1 associano alla stazione verticale dell'uomo il disprezzo verso la posizione prona degli animali. 244 Cfr. Aristotele, L'Aninza I1 (B), 2,414 a-b; Plotino, Enneadi, 111, 4'2. 245 Virgilio, Eneide VI, 726. 246 Virgilio, Eneide VIII, 403. 247 Virgilio, Eneide VI, 727. 248 Virgilio, Et-ze2.de VI, 728. 249 Virgilio, Eneide VI, 73 1 . 250 È un'immagine che si ritrova in Plotino (specialmente Enneadi I, 1, 8, 17-19 ma anche I, 4, 10). 251 Eimmagine della catena d'oro si trova in Ilzade VIII, 19 sgg. per descrivere l'onnipotenza assoluta di Zeus, che, anche se tirato con una catena da tutti gli dèi e le dee, non potrebbe essere tirato giù dal cielo e tratto a terra. Al contrario, se Zeus volesse, sarebbe in grado di trarre tutto, la terra intera e il mare stesso, fino al cielo e, avvolgendo questa catena alla vetta delllOlimpo, potrebbe sospendere in cielo tutte le cose di questo mondo. Sono le parole con cui Zeus cerca di mettere fine alla disputa tra gli dèi circa la guerra di Troia: non impedirà che gli uomini continuino a battersi e nemmeno che gli dèi prodighino i loro consigli, ma impedirà che vi s'immischino con un loro intervento diretto, evitando che Ia guerra si estenda dalla terra fino ailo stesso Olimpo. Il passo ebbe numerose interpretazioni allegoriche. Per Platone la catena d'oro era un simbolo del Sole (Teeteto, 153 C); Aristotele vi vedeva un'ailusione, sotto il velo mitico, della sua dottrina del Motore immobile. Gli Stoici ritenevano che fosse un'allegoria dell'interdipendenza dei quattro elementi e delllequilibrio del corso planetario. Una perturbazione di questo equilibrio avrebbe condotto al cataclisma e «Zeus non sarebbe attirato verso il basso, ma le cose in basso si sarebbero innaizate con il trionfo del fuoco» (Eustazio di Tessaionica, Commento all'Iliade di Omero). In Macrobio l'immagine è assunta neo-platonicamente come metafora della degradazione deila vita nella materia e del legame ininterrotto che unisce le cose divine tra esse ed esse con l'uomo. Attraverso Macrobio e altre simili interpretazioni neoplatoniche l'immagine è passata nel cristianesimo. Dal Rinascimento in poi, l'interpretazione di questo simbolo ha ricevuto una notevole impronta esoterica, in particolare negli scritti alchemici e teosofici, e, nel XX secolo, si ritrova specialmente in Jung. 252 Cicerone, Repubblica VI, 15 = Sogno dt Scipione 3 , 4. 253 L'idea dell'anima ignea è molto antica. Servio nel Commento all'Eneide (I, 83) ricorda la gravità per l'anima, secondo Omero, della morte in mare, vale a dire in un elemento contrario. Anche il Logos di Eraclito è legato al fuoco (cfr. infra al seguente 5 14); addirittura Eraclito associava la
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dissennatezza all'einumidirsi dell'animan, owero al suo allontanarsi dal Fuoco. Benché l'origine astrale dell'anima sia indiscussa e patrimonio di tutti i «veri filosofi» (cfr. supra I, 9, 1 e nota 160) la formulazione di Cicerone è indubbiamente di tenore stoico: le anime razionali sono delle particelle che provengono dalla sostanza ignea degli astri. Per un neoplatonico come Macrobio, che concepisce l'anima come un puro intelligibile, la concezione stoica secondo cui ogni cosa, incluso Dio e l'Anima, è corporea - anche se non proprio materialista come noi oggi intendiamo il termine -, doveva apparire inaccettabile. Di qui la sottile, laboriosa e per certi versi artificiosa esegesi del passo ciceroniano, con la manipolazione della preposizione de, di cui Macrobio fa un sinonimo di unde. Per altro verso, quest'idea di un principio igneo a carattere universale, a metà strada tra il naturale e il soprasensibile, è di grande importanza nell'immaginario cosmologico occidentale e si diversificherà in numerosi temi e motivi, divenendo per esempio una deile idee più diffuse nel pensiero alchemico o nella medicina omeopatica. 254 Cfr. Platone, F e d ~ o245 C. Senza seguire un ordine cronologico né secondo una suddivisione per «scuole», Macrobio, cominciando da Platone, cita i filosofi che ritengono in qualche modo l'anima immateriale (oltre a Platone, Senocrate, Aristotele, Pitagora, Filolao, Posidonio, Asclepiade); poi quelli che la definiscono carporea e composta di un solo elemento (Ippocrate, Eraclide Pontico, Eraclito, Zenone, Democrito, Critolao, Ipparco - da intendersi Ippaso, cfr. lizfva nota 266 -, Anassimene, Empedocle, Crizia), o di due elementi (Parmenide, Senofane, Boeto), o di tre (Epicuro). 255 Senocrate (396-314 a.C.), discepolo di Platone, successe a Speusippo nella direzione delllAccademia. Accentuò l'influenza pitagorica del pensiero del suo maestro, assimilando le idee ai numeri. Di lui ci restano solo frammenti: quello qui citato è il fr. 68 Heinze (= 188 Isnardi Parente). 256 O ~ v G E A É x E ~ u . La dottrina dell'endelecbeia, termine greco derivante da en (uno) e delechos (lunghezza, sostantivo poi eliminato da mekos), che significa appunto un movimento continuo e perenne, professata dal primo Aristole in una perduta opera De Philosophia, che evidentemente conservava il carattere platonico-accademico ed è essenzialmente diversa da quella esposta nel De Anima, è stata messa in luce da Ettore Bignone (L'A~istotele perduto e la formazbzefilosofica di Epicuro, Firenze, 1 9 7 3 , P ed. accresciuta, vol. I, pp. 202 sgg.). Più nota è la pii1 tarda dottrina aristotelica dell'enteléchci', termine composto da en (in) trfos (compimento) ed cicbein (avere), ossia la realizzazione della potenza, vale a dire la caratteristica propria degli enti in atto di avere ogni propria possibilità espressa nel proprio essere, secondo la quale l'anima è, invece, un principio immobile che ha il proprio fine in se stesso ed è forma del corpo, ossia principio che determina e specifica il corpo cui dà vita. Fin dal Rinascimento il termine endelecheia che si ritrova anche nelle Tuscolane di Cicerone (I, 22) fu quindi emendato in entelécheia, considerandolo un errore, e così anche una parte della tradizione manoscritta dei Cornmentarii di Macrobio. Altri traduttori preferiscono attenersi alla lezione della maggioranza dei manoscritti mantenendo il termine di È V T E ~ É X E I U in luogo di È v 8 d É x ~ i a .
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257 Filolao di Crotone (seconda meta del V sec. a.C.), filosofo, astronomo e matematico, fu uno dei principali esponenti della scuola pitagorica, cui si deve la prima organizzazione sistematica delle dottrine. 258Posidonio di Apamea (135-51 a.C.) è il maggior esponente dello stoicismo del periodo, che integrò con idee platoniche e aristoteliche. Fu visitato da Cicerone tra il 79 e il 77 a.C. Di lui restano pochi frammenti, ma gli si attribuisce, tra le sue 23 opere, una intitolata Sull'anima. Può essere considerato la fonte principale dell'ellenismo orientalizzato e offre molti parallelismi con Numenio (sul quale vedi supra nota 28): come questi, tenterà di interpretare la teologia trascendente di Platone in funzione dell'oriente. Posidonio sembra avere mescolato la mistica inmanentista dello stoicismo con elementi orientali, e, se Cicerone utilizzò senza dubbio il Protreptikos di Posidonio nel suo Sogno diScipione, Macrobio s'ispirerà quasi certamente a Numenio per il suo commento del Sogno. 259 Molto probabilmente, Asclepiade di Prusa (130-40 a.C.) medico e filosofo atomista che fu amico di Cicerone. Ma c'è anche un Asclepiade di Eretria (IV-I11 sec. a.C?, membro della scuola platonica, oppure un altro Asclepiade egiziano, profondo conoscitore della teologia egizia, citato da Svetonio (Augusto,94). L'identificazione non è agevole: vi sono non meno di una trentina di personaggi con questo nome e, anche escludendo i poeti e i tragici, va tenuto presente che fu un nome portato da diversi medici (ossia fisici e perciò non distinguibili dai veri e propri filosofi), che assunsero tale appellativo come titolo onorario in riferimento all'antica famiglia degli Asclepiadi che si dichiaravano discendenti del dio deila medicina Asclepio o Esculapio, o perché effettivamente appartenevano ad essa. 260 Ippocrate (460-377 a.C.), membro degli Asclepiadi (su cui vedi la nota sopra, nonché la nota 1351, è il celebre medico dell'antichità, cui si atrribuisce il Corpus Nippocraticum (circa 70 testi che raccolgono l'intera produzione dell'antica medicina greca, alcuni dei quali certamente non suoi), oltre all'altrettanto famoso testo etico noto come «giuramento d'Ippocrate». 261 Eraclide Pontico 090-310a.C.), discepolo di Platone, lo sostituì nella guida delllAccademia durante il suo terzo viaggio a Siracusa. Notevoli le sue teorie astronomiche sulla centralità del sole che furono d'ispirazione a Copernico. 262 La testimonianza su Eraclito (VI sec. a.C.), il celebre e oscuro filosofo presocratico del divenire, è dovuta ad Aristotele, L'Anima I ( A ) ,2, 405 a 25. 263 Zenone di Cizio (333-263 a.C.), da non confondersi con Zenone di Elea, fu il fondatore dello stoicismo ed ebbe una concezione del mondo come materia animata. 264 Democrito (460 ca.-370 ca. a.C.) fu il fondatore del primo atomismo greco. Anche in questo caso la testimonianza è dovuta ad Aristotele, L'Anima I ( A ) ,2,404 a. 265 I1 peripatetico Critolao (11 sec. a.C.) fu il quinto scolarca del Liceo dopo Aristotele, succedendo ad Aristone. È ricordato da Macrobio nei Saturnali (I, 5 ) per la sua eloquenza colta e armoniosa.
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266 Erroneamente Macrobio attribuisce a Ipparco (un pitagorico, maestro di Epaminonda, che operò intorno al 380 a.C.) la dottrina dell'anima come fuoco e principio di tutte le cose che va invece attribuita a un altro pitagorico ed eracliteo, Ippaso (cfr. Aristotele, Metafisica I (A), 3 , 984 a), fondatore deila setta degli acusmatici in opposizione a queiia dei matemati&. Questi operò nella prima metà del V sec. a.C. e fu accusato di aver divulgato il segreto dell'iscrizione del dodecaedro nella sfera. Anche Ipparco fu espulso dai pitagorici per aver insegnato le dottrine della scuola pubblicamente, rivelando l'esistenza dei numeri irrazionali. nonostante le ingiunzioni pitagoriche, e, forse, la confusione deriva da questo fatto. L'errore di attribuzione si ritrova in Tertulliano e Nemesio. 267 Anassimene di Mileto (586-528 ca. a.C.) appartenne alla scuola ionica. Per lui principio di tutte le cose è l'aria, sostanza mobile, origine quindi anche dell'anima umana, intesa come soffio vivificante. 268 Empedocle di Agrigento, attivo nel V sec. a.C., espresse la sua filosofia in versi con notevoli punti di contatto con la dottrina orfica sul ciclo delle nascite. Pone la sede dell'attività razionale e del pensiero, appunto, nel sangue. 269 Crizia (460 ca.-403 a.C.), personaggio dei dialoghi platonici, fu uno dei Trenta Tiranni. Frequentò il circolo socratico, ma le sue idee e i suoi propositi furono più simili a quelli dei sofisti. Anche qui il riferimento alla sua concezione dell'anima si ritrova in Aristotele, L'Anima I ( A ) ,2, 405 b, attestato dal fr. 23 Diels-Kranz. 270 Parmenide (prima metà del V sec. a.C.) fu uno dei grandi maestri di Elea e autore del poema didascalico in esametri Sulla natura, di cui ci restan o alcuni frammenti. Anche per lui il riferimento alla sua concezione dell'anima si ritrova in Aristotele, Metafisica I (A), 3, 984 b. 271 Senofane di Colofone (560 ca.-470 ca. a.C.), poeta e filosofo girovago, secondo Aristotele fu il fondatore della scuola eleatica. 272 Boeto di Sidone fu un filosofo stoico che visse prima di Crisippo (111 sec. a.C.) e scrisse diverse opere andate perdute, tra cui Sulla Natura e DelFato. 273 Sulla concezione di Epicuro (341-270 a.C.), il celebre filosofo fondatore del Giardino e della scuola che da lui prese nome, cfr. Lucrezio, La natura delle cose, 111, 269-281. 274 Da qui fino al capitolo 9 del Libro Secondo segue una lunga sezione dedicata alla cosmografia che ebbe un gran successo al punto di circolare separatamente da1 resto dei Conzmentarii, come opera autonoma, talvolta unita ad altri estratti manoscritti del medesimo tenore. 275 L'osservazione ci fa ricordare che Macrobio è anche un fine grammatico, autore di un De uerborum graeci et latini d~erentzisuel societatzbus. La figura retorica qui descritta è la ouvwvuciia che consiste nella ripetizione e nella ricorrenza di termini aventi lo stesso senso in espressioni diverse, siano esse sinonimi veri e propri o tropi. Naturalmente, si tratta per lo più di equivalenza, non di identità perfetta di senso, Oltre a questo significato lessicale, la sinonimia si verifica anche stilisticamente, come accumulazione pleonastica, in figure come la perifrasi, l'iperbole e l'enfasi e, in particolare la dittologia (unione di due parole conlplementari e simili per significato: alcune rese
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fisse dall'uso e spesso memor@zabili grazie all'allitterazione: «grandi e grossi, come mi pare e piace»). E a quest'ultimo caso stilistico che Macrobio pensa nel commentare l'espressione ciceroniana sidera et stella. Sulla prima e seconda definizione di sinonimia cfr. Quintiliano, For7zazzone dell'oratore VIII, 3, 16: .. . cum idem frequentissime plura sign¢, quod synonyntia vocatuv, iam sunt alizs alia bonestiora sublimiora nitidiora iucundiora vocaliora. Nam ut syllabae e Iittertr mrlius sonantibw clarzores, ita uerba e syllabti rnagzs vocalza, et quo plus quodque spiritus habet, auditu pulchrius. Et quod facit syllabarum, idem verborum quoque inter se copulatio, ut aliud alzi iunctum melius sonet; e Isidoro di Siviglia Etimologie I1 - della retorica e dialettica, 2 1,6:Synonymia est, quotiens in conexa oratione pluribus verbis unam rem signficarnus, ut ait Cicero (Catil. l,??):«nzbil agis, nibil moliris, nihil cogitas». 276 Ariete e Toro sono le note costellazioni corrispettive ai primi due segni dello zodiaco. L'Ariete è l'animale alato dal vello d'oro che trasporta via Frisso e la sua sfortunata sorella Elle per sottrarli alle persecuzioni della matrigna h o . Dopo essere stato sacrificato il suo vello fu oggetto dell'impresa degli Argonauti. La costellazione del Toro ha due riferimenti mitologici: il primo è relativo al rapimento di Europa, l'altro alla vergine Io, trasformata in giovenca. Andromeda è una costellazione molto estesa sopra gli orizzonti della zona temperata settentrionale per buona parte dell'anno. Secondo il mito Andromeda, figlia della regina etiope Cassiopea, espiava le colpe della madre che aveva offeso il dio del mare, vantandosi deiia bellezza della figlia. Fu legata a uno scoglio dove avrebbe dovuto essere divorata da un mostro marino, inviato da Poseidone a devastare il regno, ma fu salvata da Perseo, di ritorno in patria dopo aver ucciso la Gorgone Medusa, che pietrificava chiunque osasse guardarla negli occhi. Perseo trasformò il mostro (rappresentato dalla costellazione di Ceto) in pietra, mostrandogli la testa di Medusa e poi liberò e sposò Andromeda. La costeilazione di Perseo, nel cuore di una delle più splendenti regioni della Via Lattea nell'emisfero boreale, confina a nord con Andromeda e a sud con l'Ariete e il Toro. La costellazione rappresenta Perseo in cielo mentre sorregge la testa della Medusa, il cui occhio fatale splende ancora nella stella Algol (che in arabo significa «occhio del diavolo»). La Corona Boreale (ce n'è anche una australe, ma piccola e irrilevante) ha un nome che le deriva dalla disposizione delle sue stelle pih brillanti in forma di ghirlanda. Secondo il mito si tratta della corona di Arianna, figlia di Minosse, re di Creta. Dioniso gliene fece dono, per conquistarla e consolarla dell'abbandono di Teseo, in un'isola deserta, dopo l'impresa del Labirinto, nel quale l'eroe aveva ucciso il Minotauro ed aveva ritrovato la strada del ritorno grazie al filo donatogli da Arianna, che egli aveva sedotta. 277 Macrobio definisce da buon grammatico la terminologia corretta nella maniera pih scrupolosa. NelIJuso classico del latino stella si applica a una stella a sé stante e può accadere tuttavia che designi una stella che fa parte di una costellazione, ma considerandola isolatamente e non come parte della costellazione. Se ci si riferisce ai pianeti, il termine appare raramente da solo, ma stellae è solitamente accompagnato da un aggettivo come precisa Macrobio: qui errattcae (vedi anche I , 18, 4; I, 20, 5 ) ; errantes ( I , 14, 26); o ancora vagae (I, 6, 18; I, 11, 10; I I , 4 , 8);e vagantes (I, 6,47; I, 14,25).Sono , significa precisamente tutti la traduzione del greco ( a o ~ p a- )r r h a v q ~ ache
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astri erranti e che designa appunto i pianeti, e la spiegazione di questa denominazione e data da Macrobio nel 5 26 (cfr. anche I, 6, 18 e nota 104). Quanto a ridur, che originariamente aveva significati molto diversi (quali, ad es., stagione, giorno brumaie, clima, tempo, zona, regione, cielo) dal I sec. a.C. cominciò ad assumere in ambito poetico (Catullo, Virgilio) il significato di costellazione, che si estese in seguito anche presso i prosatori (Igino, Plinio, ecc.1. 278 Macrobio osserva anche l'ambiguità del termine sphaera (in greco a ~ a i p ache ) può designare sia la sfera solida che costituisce gli astri (stelle e pianeti), sia la sfera concava e immobile ( a - r r h a v i ~del ) cielo che trasporta le stelle, sia le sfere ugualmente concave e trasparenti, e nel sistema tolemaico concentriche, su cui si muovono i pianeti. 279 È il classico termine astronomico con cui s'identificano il Sole e la Luna, per distinguerli dagli altri cinque pianeti. Oltre alla loro luminosità, da cui il termine duo lumztza, ciò che li contraddistingue è la loro dimensione apparente, la mancanza di retrogradazione e i1 fenomeno delle eclissi (richiamato in I, 15, 10-12). 280 Proseguendo nei suoi scrupoli di grammatico Macrobio continua i suoi appunti sull'anibiguità del lessico astronomico latino. Benché circulus significhi sempre cerchio, circonferenza, circolo, orbis resta un termine ambiguo soggetto a più interpretazioni. Come segnala Macrobio, può essere sinonimo di circulus come di solito in Cicerone. Ma talora nello stesso autore può designare l'orbita d'una stella o di un pianeta. Infine, come si dice in questo stesso passo, può essere l'equivalente di sphaera in ognuno dei sensi sopra descritti in 5 23 e nota 278. Glohus si applica ad ogni sfera, sia piena che cava. 2x1 Cicerone, Repubblzca VI, 16 = Sogno dz Scipzone 3 , 6. Anticipazione della citazione che sarà fatta in I, 15, 1. 2x2 Legitimus error. Le apparenti irregolarità del corso dei pianeti nelle loro retrocessioni (cfr. supra I, 6, 18 e infra I, 18 e nota 104) che sono delle deviazioni rispetto al percorso circolare rappresentava un problema per l'astronomia antica, che approntò una serie di espedienti matematici estremamente sofisticati per intendere il moto visibile dei pianeti come somma di pure orbite circolari. Soltanto la circonferenza rappresenta infatti il movimento perfetto, poiché solo il cerchio non conosce alcuna fine e alcun principio: in ogni istante inizia e finisce. Fu perciò elaborato un sistema complesso secondo il quale ogni pianeta si muoveva in un piccolo cerchio chiamato epiciclo, il centro del quale ruotava attorno alla terra descrivendo un cerchio perfetto. Via via che sopravvenivano delle irregolarità, si dovevano ideare degli altri epicicli, finché tutto il sistema divenne terribilmente artificioso e complesso, allo scopo di farlo obbedire a certe leggi. Per la spiegazione che ne dà Macrobio vedi ijzfra I, 18, 4-9 e in particolare nota 340. 283 Si tratta di un principio costante nell'astronomia antica: vedi nota precedente. 284 Macrobio spiegherà in I, 21,5-6 che la differenza dei periodi dei pianeti, che viaggiano tutti alla stessa velocità, dipende dalla maggiore o minor lunghezza deli'orbita da percorrere.
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285 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Sczpzone 3 , 6-7 (già citato in I, 4-5). Ciò che Cicerone chiama orbis lacteus è l'equivalente di y a h a ~ ~ l o s K ~ ~ K ~ ilO circolo S , latteo. Questa traduzione della Via lattea, pur non essendo rara, è meno usuale in prosa di quella di lacteus ci~culur,adoperato ad es. da Plinio, ma anche dallo stesso Cicerone. 286 Per la concezione astronomica di Macrobio i circoli celesti sono undici: il circolo latteo (l'unico ad essere un circolo reale e non teorico), lo zodiaco (la fascia di sfera celeste che circonda l'eclittica, detto anche circolo obliquo perché inclinato rispetto all'equatore, descritto in 5 8-9), i cinque paralleli (cioè l'equatore, i due tropici e i due circoli polari, come in seguito spiegherà Macrobio in § 13), i due coluri (su cui vedi più avanti § 14 e nota 298), il meridiano (il circolo massimo della sfera che passa per il polo nord celeste, per lo zenit, per il polo sud celeste e per il nadir, descritto in 5 15-16) e l'orizzonte (cioè il piano, perpendicolare alla verticale, che passa per l'occhio dell'osservatore, e delimita la parte visibile della sfera locale da quella invisibile, descritto in § 17-19). 287 Allusione al mito del latte colato dalle mammelle di Era, mentre nutriva Eracle, che produsse la striscia lattea nel firmamento. Ma numerosi erano i miti relativi alla Via Lattea. Un'altra versione favoleggia che Eracle, avendo succhiato piu latte di quanto la sua bocca ne potesse contenere, ebbe un rigurgito. Altri ancora, come Filone, ne facevano la traccia del passaggio di Ercole che conduceva il bestiame di Gerione. Secondo una tradizione mitica diversa Rea aveva presentato a Crono una pietra modellata come un bambino; ma il dio invece di inghiottire l'infante, come era solito fare, ordinò alla moglie di allattarlo. La dea, che doveva fingere di allattare un neonato, premette la pietra contro la mammella con tanta forza da far sprizzare un fiotto di latte che si sparse nel cielo stellato disegnando la Via Lattea. Un'altra versione narrava che la Via Lattea avesse avuto origine dall'incendio suscitato in cielo da Fetonte durante la sua folle corsa con il Carro del Sole prima che Zeus lo fermasse con la folgore. Per altri si trattava di una ruota abbandonata dal Sole. I Pitagorici, ispirandosi al mito di Fetonte, affermavano che essa si fosse prodotta dall'uscita del Sole dal proprio cammino;in conseguenza di ciò esso bruciò la parte di cielo attraversata lasciando traccia evidente del suo passaggio. Per Ovidio la Via Lattea era il percorso che gli dèi facevano per recarsi da Zeus. Un antico racconto popolare greco narrava che la Via Lattea era stara tracciata dalle spighe di grano lasciate cadere da Iside che fuggiva inseguita dal gigante Tifone. 288 Teofrasto (373 ca.-287 ca. a.C.), filosofo e scienziato greco, che frequentò l'Accademia, durante la vecchiaia di Platone, per poi passare al liceo di Aristotele, di cui divenne il ~ u p i l l oe suo successore nella direzione della scuola. Macrobio, dopo aver passato sotto silenzio le spiegazioni mitiche, non menziona tutte le numerose spiegazioni fisiche dell'origine del circolo galattico, ma nella sua dossografia fornisce una cernita selezionatissima. 289 Su Diodoro Siculo, fisiologo e matematico contemporaneo di Cicerone e Cesare e autore di una storia universale, vedi anche sopra nota 217. *yO Su Democrita vedi sopra nota 264.
NOTE AL TESTO
Su Posidonio vedi sopra nota 258. 292 In I, 12, 1-3: la descrizione delle «porte del sole». 293 Lo zodiaco, diversamente dagli altri circoli celesti, ha una larghezza (cfr. 1, 6, 53 e nota 13 1) sotto l'aspetto geometrico, e non dal punto di vista della realtà materiale, a differenza del circolo galattico (cfr. supra nota 286). Si attribuisce tale dimensione per segnare lo spazio entro ii quale i pianeti compiono il loro giro. Mentre il sole compie la sua orbita apparente su una stessa linea, detta eclittica (vedi S 8-9 e nota successiva), che è per l'appunto la metà della larghezza dello zodiaco, gli altri pianeti si allontanano dal mezzo dello zodiaco, per circa 6' gradi per lato secondo gli Antichi (per un totale di 12" - in realtà circa 17"). 294 Come spiega Macrobio il nome eclittica (ÈKAEIITTLKOV) deriva da , eclissi poiché su questo circolo awengono le eclissi (dal greco E K A E I ~ I Smancare, venir meno, sparire, sottinteso, della luce). L'eclittica, inclinata rispetto all'equatore, rappresenta la circonferenza sulla sfera celeste del percorso apparente del Sole nell'arco di un anno e le eclissi awengono durante l'allineamento di Terra, Sole e Luna. 295 Per la lunghezza di tale ombra cfr. I, 20, 11 sgg. 296 Virgilio,Georgiche 11, 478. 297 Paralleli è la traslitterazione del greco -rrapahhrlhoi. Nel sistema delle coordinate celesti (del tutto analogo per proiezione a quello definito sulla Terra) i cerchi della sfera celeste perpendicolari all'asse del mondo, ossia ai poli, sono i paralleli. I1 maggiore di essi è l'equatore (qui sinteticamente chiamato aequifloctialis perché su di esso giacciono i due punti diametralmente opposti degli equinozi), gli altri cerchi paralleli a questo sono i due polari, settentrionale e australe e i due tropici. Nell'astronomia geocentrica l'equatore celeste era definito come il luogo dei punti della sfera celeste equidistanti dai poli celesti. Macrobio, in questo passo, si attiene ad un'enumerazione di questo reticolato, senza darne una spiegazione. 298 Coluro è infatti un calco del termine greco ~ O h o u p o «senza ~ coda», composto di KOAOS «mutilato» e o u p a «coda». I coluri sono i due circoli di declinazione che passano l'uno per i due equinozi e l'altro per i due solstizi, marcando con la divisione dell'equatore e dello zodiaco le quattro stagioni dell'anno. Secondo Proclo (De Sphaera 10) sono così denominati perché sembrano aver la coda tagliata in quanto se ne vede solo una parte nell'orizzonte dell'emisfero visibile. 299 Merzdianus (circulus) è il calco del greco p ~ o q ~ P p i v 0(KVKAO~). 5 Sempre nel sistema delle coordinate celesti proiettabili sulla Terra il meridiano è ii circolo massimo passante per i poli celesti e per i punti detti zenit e nadir di un dato luogo (punti opposti d'intersezione della verticale del luogo con la volta celeste, rispettivamente superiore e inferiore). 300 Houizon è traslitterazione del greco opi[av (KUKAOS). Dell'orizzonte si possono dare due definizioni: a) l'orizzonte vero o celeste o astronomico, ossia l'intersezione del piano tangente al luogo d'osservazione con la sfera celeste o, in altri termini, il grande cerchio celeste che passa per il centro della sfera e il cui piano è perpendicolare al meridiano di un dato luogo, deli291
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mitando così la sfera in due emisferi di cui uno è teoricamente visibile, detto anche orizzonte razionale; b) l'orizzonte visibile ossia il circolo che termina intorno alla nostra vista e delimita la porzione di cielo visibile al di sopra della terra, tanto più vasto quanto più è alto il punto d'osservazione. Macrobio fornisce entrambe le definizioni, senza darne ulteriori spiegazioni. 301 Verosimilmente Macrobio si riferisce allo stadio di Eratostene, equivalente secondo alcuni studiosi a 157, 5 m e, secondo altri, a 185 metri. La misura di lunghezza, il cui nome coincide con quello degli spazi dedicati alle corse, alle gare di lotta e pugilato proprio perché erano lunghe uno stadio, era comunque variabile a seconda delle località e mutò anche nel tempo. Nell'epoca di Macrobio il più diffuso era quello detto «filiteriano», introdotto dagli Antonini, che corrispondeva ai nostri 210 metri. 302 Macrobio ripete questa stessa asserzione in Saturnali VII, 14, 15. L'orizzonte visibile, sulla base deilo stadio di Eratostene, dovrebbe quindi variare a un dipresso tra i 28 e i 33 km (che raddoppiati danno una cifra di circa 56/66 h. Cfr. nota seguente). In realtà per un uomo di statura media è visibile, sul liveilo del mare, fino a 4, 5 km e solo a un'altezza di 100 m diventa visibile fino alla distanza di 36 km. 303 È stato notato come l'espressione di Macrobio non sia particolarmente chiara. In rotunditatem designa verosimilmente la sfericità delia terra e si coilega a accessu deficzens, ossia al fatto che la curvatura della terra impedisce allo sguardo di procedere oltre. Sembrerebbe dunque che l'osservatore giunto al limite dell'emisfero visibile, si volti e osservi il punto opposto a quello di partenza. Resta tuttavia sorprendente l'uso dell'espressione verbale curuatur nel senso di vertituv. Se si considera che effettivamente la rifrazione atmosferica influenza il raggio visuale deil'osservatore curvandolo e allungandone la portata ci si è chiesti se Macrobio non alluda proprio a questo fenomeno. 304 Cicerone, Repubblica V I , 16 = Sogno di Scipione 3, 7 . Macrobio nel successivo 5 7 non lascia alcun dubbio sul fatto che Scipione stia parlando delle stelle vicine al Polo Sud, che non erano state mai osservate dai Romani, ma la cui conoscenza poteva provenire da un'antica tradizione che si era trasmessa al suo tempo. Probabilmente il passo ispirò i versi di Dante Alighieri (Purgatorio I, 22-27): 1' mi volsi a man destra, e puosi mente / a l'altro polo, e vidi quattro stelle / non viste mai fuor ch'a la prima gente. / Goder pareva '1 ciel di lor f2ammelle: / oh settentrional vedovo sito, / poi che privato se' di mirar quelle! jo5 In I, 4,4-5. 306 Probabile allusione alla teoria di Cratete di Mallo che sarà illustrata in 11,5, 13-17 e 27-36. 307 11 fatto che la sfera celeste giri da est a ovest, e non da occidente a oriente, non modifica in un luogo dato la delimitazione dell'orizzonte celeste, di cui qui si tratta (cfr. sopra I, 15, 17 e nota 300). Macrobio vuol significare che l'asse del movimento celeste è immutabile. Tuttavia non tiene conto della precessione degli equinozi che illustrerà in I, 17, 16-17 e non precisa neppure che le stelle visibili non sono le stesse a seconda della latitudi; ne dell'osservatore, come aveva spiegato nella sua definizione di orizzonte. E
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dunque implicito che, commentando il testo di Cicerone, vuole significare che ragiona partendo dalla latitudine di Roma o meglio da quella della Numidia dove si ritiene si sia svolto il sogno. 3O8 I septem triones, cioè secondo l'antica etimogia di Varrone (Lingua Latina VII, 74) i sette buoi da lavoro o meglio i sette buoi per l'aratura, sono le sette stelle dell'orsa Maggiore o Gran Carro, perché presentano la figura di sette buoi aggiogati a un carro, stelle che con il loro lento regolare e maestoso giro attorno al polo richiamavano alla memoria I'aratura dei campi. È noto che per la precessione degli equinozi il polo nord celeste si trovava anticamente in una zona vuota tra le due Orse. 309 Virgilio, Georgiche I, 246. Essendo le Orse costellazioni circumpolari (cfr. nota precedente) nella latitudine europea non sorgono né tramontano, ma sono sempre visibili, non scomparendo mai dall'orizzonte. L'immagine da Omero in poi (Odzssea V, 275) divenne un topos letterario destinato a crescere progressivamente (Arato, Ovidio, Igino, Avieno). 31° Virgilio, Georgichr I, 242-243. 311 Che la Terra non è che un punto in proporzione all'estensione degli spazi celesti era un'idea fondamentale nel sistema geocentrico, o meglio geostatico, degli Antichi. In seguito Macrobio preciserà che è un punto immobile al centro deli'universo (cfr. I, 2 2 , 3 e infra nota 414). 312 Da Aristotele in poi era noto che la Terra era molto più piccola di molte stelle. In seguito per Manilio e Cleomede tutte le stelle sono più grandi della Terra. 3 l 3 Traduciamo letteralmente il termine latino fax con face, con cui si indicano le stelle e gli astri, e non con fiaccola, perché si tratta di un vocabolo, anche nella letteratura classica latina, quasi esclusivamente usato in poesia e che anche nella letteratura italiana diventerà una metafora usuale per indicare le stelle. In questo passo Macrobio aiiude ad Epicuro che affermava (Lettera a Pztocle 91): «. . . la grandezza del soie, deiia luna e degli altri corpi celesti, relativamente a noi, è tale quale appare», seguito da Lucrezio (LaNatura delle cose V, 555-556):«Néla ruota del sole può essere molto maggiore, / né il suo calore molto minore di quel che appare ai nostri sensi»; e ancora che i fuochi che scorgiamo suila terra (zbidem 577-578):«si può concludere che di pochissimo possono essere minori / di come ci appaiono o d'un'esigua e breve parte maggiori». 314 Cfr. supra 5 6 e nota 3 11. 315 Cfr. i+ I, 20, 30-3 I . In realtà la misura angolare del diametro apparente del Sole ha un valore medio di 3 1' 59" (con valori oscillanti fra 3 1' 3 1" e 32' 36") secondo la distanza Terra Sole nel loro perielio e afelio. Non si capisce bene da dove Macrobio abbia ricavato la misura angolare di 1" 40', nettamente superiore a quella reale. Alcuni studiosi, osservando che Macrobio, nel successivo capitolo 20 (dove spiegherà anche i dati s d a dimensione del sole rispetto alla sua orbita e rispetto alla terra), attribuisce agli «Egiziani» la misura del diametro apparente del sole, hanno proposto che si tratti di un'errata interpretazione degli astronomi alessandrini, dato che la misura di lo 40' è quella che Tolomeo attribuisce al diametro del cerchio d'om-
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bra della terra sulla luna. In ogni caso la misura è assai distante da quella fornita da altri astronomi e commentatori antichi, quali Anassimandro (do), Archimede (54'/45'), Aristarco ( j O ' ) , Posidonio (29'), Cleomede (28' 48"), Tolomeo (33' 20n),Marziano Capella (36').Cunico valore a cui si avvicina è quello di 2" che Aristarco (attivo tra il 280 e il 264 a.C.) in un'opera giovanile, Sulla grandezza e la distanza del Sole e della Luna, attribuì al diametro apparente del sole per poi in seguito formulare un valore più accurato e approssimativamente esatto. 3'6In I, 19, 9-10. 317 Cicerone, Repubbltca VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 1-3. 318 L'espressione pidam, «alcuni» utilizzata da Macrobio è estremamente restrittiva se si tiene presente che la formula TÒ T T ~ per V definire l'universo è già ampiamente utilizzata dai presocratici, è presente fin da Platone nella tradizione platonica e neoplatonica per non parlare dello stoicismo. 319 Virgilio, Eneide VI, 727. j20 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Timeo, 36 e. 321 Macrobio, com'è solito fare, fornisce lo schema della sua prossima esposizione, che occuperà tutto il Libro Primo da qui fino alla fine. Tratterà, uno dopo l'altro, i seguenti argomenti: la rotazione del cielo delle steile fisse (I, 17, 8-17); il movimento dei pianeti (I, 18);l'ordine delle sfere planetarie (I, 19, 18-27) aggiungendovi alcune osservazioni astrologiche (I, 19, 18-27)e un'esposizione specifica sul sole (un chiarimento degli epiteti con cui Cicerone qualifica il sole: I, 20, 1-8; il suo diametro: I, 20,9-32);il movimento che fa gravitare i corpi pesanti sulla terra (I,22). 322 Per dimostrare il movimento del cielo Macrobio ricorre ad argomenti ontologici e n?n astronomici. La sua fonte è Plotino, Enneadi I I , 2 , menzionato al § l i . E il trattato dal titolo Il mouzmento circolare di cui adatta liberamente il testo, scompigliandone l'ordine ma conservandone i concetti chiave e i passaggi logici, dando prova, come è stato osservato, di una sapienza consumata di traduttore. Per l'inizio di questo 5 8 cfr. Plotino, Enneadi II,2, 1, 1-4. 323 I1 cielo ha un movimento circolare eterno, in quanto ha ricevuto queste qualità dal suo creatore, cioè l'Anima, vale a dire la terza ipostasi (cfr. § 121, anch'essa sempre in movimento come Macrobio dimostrerà in 11, 13-16. La nozione che i1 movimento del mondo sia dovuto d'anima cosmica risale a Platone (Tinzeo, 36 e). Ne Il Cielo, Aristotele si confrontò polemicamente con la cosmologia pitagorico-platonica che postulava l'azione di cause intelligenti, quali il Demiurgo e l'Anima. Aristotele si propose invece di spiegare la costituzione e il movimento del cielo sulla base di principi rigorosamente fisici: gli astri sono corpi naturali, per quanto nobili e perfetti, e come tali hanno in sé il principio del movimento. L'etere, di cui sono formati il cielo e gli astri, è per natura dotato di un movimento. Gli astri non si muovono liberi intorno alla Terra, ma stanno incastonati sulle sfere. Sono le sfere che ruotano, trascinando con sé i pianeti, i quali sono come dei nodi o ispessimenti della sostanza eterea delle sfere. il cui movimento risulta comunque dali'azione di un primo motore immobile.
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Cfr. Plotino, Enneadi II,2, 1,23-25 e 27-30. 325 Cfr. Plotino, Enneadi I I , 2 , 1,45-49. 326 Si è qui osservato da parte di Macrobio un elaborato tentativo d'adattamento del testo ciceroniano alla filosofia neoplatonica e d a sua dottrina delle tre ipostasi, per la quale il dio supremo non può che essere la prima ipostasi e non v'è ragione d'identificarlo a una realtà materiale, fosse anche la sfera celeste. Anche in questo caso Macrobio si trae d'impaccio da questo passo difficile grazie a una interpretazione acrobatica di summus e di deus. In Cicerone, come nella maggior parte degli stoici, il summus deus, la divinità, è l'etere, identificato con il cielo. Ma è consuetudine degli stoici usare metafore organicistiche: come l'uomo è una sola realtà, nella quale però distinguiamo un elemento passivo, il corpo, e un elemento attivo che muove e che comanda (perciò detto egemonico) l'anima o l'intelletto, così anche