L'Abolizione Del Lavoro - Di Bob Black [PDF]

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Zitiervorschau

Le pulci elettriche 1

Bob Black

L’ABOLIZIONE DEL LAVORO

Marotta & Cafiero editori

Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons “Attribuzione Non Commerciale - Non opere derivate 2.0”, consultabile in rete all’indirizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero e può essere riprodotto e distribuito con ogni mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifiche, ad uso privato e a fini non commerciali.

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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it [email protected] ISBN: 978-88-97883-135 Editing e traduzione a cura di Monica Calignano Titolo originale: The Abolition of Work

L’abolizione del lavoro

Nessuno dovrebbe mai lavorare. Il lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mondo. Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine dal lavoro o dal vivere in un mondo finalizzato al lavoro. Per smettere di soffrire, dobbiamo smettere di lavorare. Questo non significa che dobbiamo smettere di fare ogni cosa. Vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul gioco; in altre parole, compiere una rivoluzione ludica. Per “gioco” intendo anche festa, creatività, convivialità, socialità, e forse persino arte. Per quanto i giochi infantili siano degni di nota, le possibilità di gioco sono molto più numerose. Propongo un’avventura collettiva all’insegna di una gioia generalizzata e di un’esuberanza libera e interdipendente. Il gioco non è un’attività passiva. Indubbiamente noi tutti necessitiamo di dedicare tempo alla pigrizia e all’indolenza più assolute, molto più di quanto facciamo ora, e ciò senza doverci preoccupare del reddito e dell’occupazione; ma una volta superato lo stato di prostrazione determinato dal lavoro, pressoché tutti desideriamo svolgere una qualche attività. L’Oblo9

movismo e lo Stakanovismo sono due facce della stessa moneta svalutata. La vita ludica è totalmente incompatibile con la realtà attuale. Allora, tanto peggio per la “realtà”, questo buco nero che succhia la vitalità da quel poco che ancora distingue la nostra vita dalla semplice sopravvivenza. Stranamente – o forse non tanto – tutte le vecchie ideologie sono conservatrici, in quanto tutte credono nel lavoro. Per alcune di esse, come il Marxismo e la maggior parte delle varianti dell’anarchismo, la loro fede nel lavoro appare tanto più salda in quanto non vi è molto altro in cui esse ripongano speranza. I liberali dicono che dovremmo abolire la discriminazione sul lavoro: io dico che dovremmo abolire il lavoro. I conservatori appoggiano le leggi sul diritto al lavoro. Allo stesso modo di Paul Lafargue, l’ostinato genero di Karl Marx, io sostengo il diritto alla pigrizia. La sinistra è a favore della piena occupazione. Come i surrealisti – tranne per il fatto che io parlo seriamente – io sono a favore della piena disoccupazione. I trotskisti si battono per la rivoluzione permanente: io mi batto per la baldoria permanente. Ma se tutti gli ideologi (così come accade) difendono il lavoro – e non solo perché hanno in mente di far fare ad altri la parte di esso che loro compete – tuttavia sono stranamente riluttanti ad ammetterlo. Continuano a disquisire all’infinito di salari, orari, condizioni di lavoro, sfruttamento, produttività e profitto. Parlano volentieri di qualsiasi argomento, purché pertenga al lavoro stesso. Questi esperti che si offrono di pensare per noi raramente ci rendono partecipi 10

delle loro conclusioni riguardo al lavoro, malgrado il rilievo che esso assume nella vita di tutti noi. Fra di loro cavillano sui dettagli. Sindacati e imprenditori concordano sul fatto che sia necessario per noi vendere tempo della nostra vita in cambio della sopravvivenza, benché poi contrattino sul prezzo. I marxisti pensano che dovremmo essere diretti da burocrati; gli ultraliberali da uomini d’affari; le femministe non si pongono il problema di quale forma assuma il comando, fin tanto che i dirigenti sono donne. Questi mercanti di ideologie mostrano chiaramente un notevole disaccordo su come dividersi i benefici del potere; ma è assolutamente chiaro che nessuno di essi ha nulla da obiettare sul potere in quanto tale, e che tutti costoro vogliono che noi continuiamo a lavorare. Vi starete forse chiedendo se io stia scherzando o parlando seriamente: l’uno e l’altro. Essere ludici non vuol dire essere ridicoli. Il gioco non è necessariamente un’attività frivola, sebbene essere frivoli non significhi essere futili: molte volte è necessario prendere seriamente ciò che appare frivolo. Mi piacerebbe che la vita fosse un gioco, ma che la posta in gioco fosse alta. Voglio continuare a giocare per sempre. L’alternativa al lavoro non è solo l’ozio. Essere ludici non è essere quaaludici. Per quanto apprezzi grandemente il piacere del sonnecchiare, questo non è mai così appagante come quando fa da pausa rispetto ad altri piaceri e distrazioni. Non che io promuova quella valvola di sfogo regolata dal tempo chiamata “tempo libero”: lungi da me. Il tempo libero è il non-lavoro che 11

esiste in funzione del lavoro stesso. Il tempo libero è tempo impiegato a riprendersi dal lavoro, non è altro che il tentativo frenetico e frustrante di dimenticarsi del lavoro. Molta gente torna dalle vacanze talmente spossata che non vede l’ora di tornare al lavoro per potersi finalmente riposare. La principale differenza tra il lavoro e il tempo libero è che al lavoro almeno vieni pagato per la tua alienazione e per il logoramento dei tuoi nervi. Non sto proponendo giochi di parole a nessuno. Quando dico che voglio abolire il lavoro, intendo dire esattamente questo, ma voglio chiarire la questione definendone i termini in modo meno stravagante. La definizione minima di lavoro che propongo è quella di lavoro forzato, cioè produzione obbligatoria. Entrambi gli elementi sono essenziali. Il lavoro è produzione applicata attraverso strumenti economici o politici, cioè col metodo del bastone e della carota. (La carota non è altro che la continuazione del bastone, ma con altri mezzi.) Ma la creazione non è sempre lavoro. Il lavoro non è mai un’attività fine a se stessa, ma è sempre svolto in vista di un qualche prodotto o risultato che il lavoratore (o, più spesso, qualcun altro) trae da esso. Questo è ciò che il lavoro necessariamente rappresenta. Fissarne i parametri significa disprezzarlo. Ma il lavoro è di solito molto peggiore di quanto la sua definizione esprima. La dinamica del dominio intrinseca al lavoro tende a evolversi nel corso del tempo. Nelle società avanzate basate sul lavoro, e cioè in tutte le società industriali sia capitalistiche che “comuniste”, il lavoro invariabil12

mente acquisisce connotati ulteriori che ne accentuano il carattere ripugnante. Di solito – e questo è ancor più vero nei paesi “comunisti” che in quelli capitalisti, dove lo Stato è quasi l’unico datore di lavoro e ognuno è lavoratore dipendente – il lavoro è impiego, vale a dire lavoro salariato, ciò che significa vendersi a rate. Così il 95% degli americani che lavora, lavora per qualcun altro (o qualcos’altro). Nell’Unione Sovietica, a Cuba, in Jugoslavia o qualsiasi altro modello alternativo cui si voglia far riferimento, la percentuale corrispondente si avvicina al 100%. Solo gli assediati baluardi contadini del Terzo Mondo – cioè Messico, India, Brasile, Turchia – al momento ospitano significative concentrazioni di agricoltori che perpetuano l’organizzazione tradizionale, comune alla maggior parte dei lavoratori negli ultimi millenni, cioè il pagamento di tasse (= riscatto) allo Stato o dell’affitto a proprietari terrieri parassitari, in cambio dell’essere lasciati in pace. Persino un affare così brutale inizia ad apparirci accettabile. Tutti i lavoratori nell’industria (e negli uffici) sono impiegati salariati e sottoposti a un tipo di sorveglianza che ne assicura il servilismo. Ma il lavoro moderno implica conseguenze ancora peggiori. Le persone non solo lavorano, ma svolgono degli “incarichi”. Ogni persona svolge costantemente un unico compito produttivo in forma coercitiva. Anche nel caso in cui il lavoro presenti un certo interesse intrinseco (carattere sempre meno presente in molte occupazioni) la monotonia derivante da tale coercitiva esclusività prosciuga il suo potenziale ludico. Un “inca13

rico” che, qualora venisse svolto per il piacere che ne deriva, impegnerebbe le energie di alcune persone per un lasso di tempo ragionevolmente limitato, si tramuta in niente più che un peso per coloro che lo devono svolgere per quaranta ore la settimana, senza poter proferir parola su come dovrebbe essere svolto; e questo per il profitto di proprietari che non contribuiscono affatto al progetto, e senza alcuna opportunità di dividersi i compiti o di distribuire il lavoro fra quelli che effettivamente lo devono compiere. Questa è la realtà del mondo del lavoro: un mondo di confusione burocratica, di molestie e discriminazioni sessuali, di capi ottusi che sfruttano e tiranneggiano i loro subordinati i quali - secondo ogni criterio razionale e tecnico - sarebbero in realtà nella posizione di decidere da soli. Ma nel mondo reale il capitalismo subordina l’ottimizzazione razionale della produttività e del guadagno alle esigenze di tenere sotto controllo l’organizzazione della produzione. Il sentimento di umiliazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme di prevaricazioni, le quali possono essere riassunte nel termine “disciplina”. Foucault ha problematizzato questo fenomeno, che tuttavia è di per sé abbastanza semplice. La disciplina consiste nell’insieme di quei sistemi di controllo totalitari che vengono applicati sul posto di lavoro: sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all’entrata e all’uscita, ecc. La disciplina è ciò che la fabbrica, l’ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e l’ospedale psichiatrico. È un prodotto 14

storico ed è qualcosa di terrificante. Un tale risultato fu al di là delle capacità di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan e Ivan il Terribile. Nonostante tutte le loro peggiori intenzioni, essi semplicemente non disponevano di apparati atti a un controllo dei loro sudditi così capillare, quanto quelli di cui dispongono i despoti moderni. La disciplina è il diabolico mezzo di controllo per eccellenza dell’epoca moderna, è un corpo estraneo mai visto prima d’ora, e che deve essere espulso alla prima occasione. Tale è la natura del “lavoro”. Il gioco è esattamente l’opposto. Il gioco è sempre volontario. Ciò che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando si è costretti a farlo: questo è lampante. Bernie de Koven ha definito il gioco la «sospensione delle conseguenze». Tale definizione è inaccettabile se implica che il gioco sia un’attività senza conseguenze. La questione non è se il gioco sia privo di conseguenze: affermare ciò significherebbe svilire il gioco. Il fatto è piuttosto che le sue conseguenze, quando ci sono, sono arbitrarie. Il giocare e il donare sono attività fortemente correlate, sono aspetti comportamentali e transazionali relativi a uno stesso impulso, l’istinto del gioco. Condividono lo stesso aristocratico disprezzo per i risultati. Il giocatore ottiene qualcosa dal giocare: questo è il motivo che lo spinge a giocare. Ma la ricompensa essenziale sta proprio nell’esperienza di quell’attività, (qualunque essa sia). Alcuni insolitamente attenti studiosi del gioco, come Johan Huizinga (Homo Ludens), definiscono il gioco come un’attività retta da regole. Per quanto io 15

nutra rispetto per l’erudizione di Huizinga, respingo energicamente tali limitazioni. Esistono, è vero, numerosi e ottimi giochi (scacchi, baseball, monopoli, bridge) che seguono regole ben precise. Tuttavia, l’attività ludica comprende molto più che il gioco regolamentato. La conversazione, il sesso, il ballo, i viaggi: queste attività non seguono regole, eppure si tratta di giochi, senza dubbio alcuno. E delle regole ci si può prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa. Il lavoro si fa beffe della libertà. La versione ufficiale è che a tutti sono riconosciuti dei diritti e che tutti viviamo in una democrazia. Ma esistono individui meno fortunati che non sono liberi come noi e che vivono in stati di polizia. Tali vittime sono costrette a eseguire ordini senza discussione, per quanto questi ordini possano essere arbitrari. Le autorità le sorvegliano strettamente; i burocrati di Stato controllano anche i più piccoli particolari della loro vita quotidiana; i funzionari che le comandano a bacchetta rispondono solo a diretti superiori, siano essi pubblici o privati. Il dissenso e la disobbedienza vengono entrambi puniti; gli informatori riferiscono regolarmente alle autorità. Ovviamente tutto ciò rappresenta una situazione terrificante. Tale è la situazione, sebbene non si tratti d’altro che della descrizione di un moderno luogo di lavoro. I liberali, i conservatori e gli ultraliberali che si lamentano del totalitarismo sono falsi e ipocriti. C’è più libertà in una moderata dittatura destalinizzata di quanta ve ne sia in un comune luogo di lavoro in America. In un ufficio o in una fabbrica trovi lo stesso genere di gerarchia o di 16

disciplina proprio di una prigione o di un monastero. Anzi, come Foucault e altri hanno dimostrato, prigioni e fabbriche nacquero all’incirca nello stesso periodo, e i loro gestori presero consapevolmente in prestito l’uno dall’altro le tecniche di controllo. Il lavoratore è uno schiavo part-time. Il datore di lavoro stabilisce quando devi presentarti sul luogo di lavoro, quando puoi andar via, e cosa devi fare in quel lasso di tempo. Ti dice quanto lavoro devi fare e a che ritmo. Ha la facoltà di spingere il suo controllo fino a estremi umilianti, stabilendo, se lo desidera, quali vestiti devi indossare e quanto spesso puoi recarti al gabinetto. Con poche eccezioni può licenziarti per una ragione qualsiasi, o senza ragione alcuna. Può spiarti facendo uso di informatori e ispettori, e così facendo colleziona un dossier per ogni impiegato. L’atto di ribattere viene chiamato “insubordinazione”, proprio come se il lavoratore fosse un bambino impertinente, e non solo ti costa il licenziamento, ma ti fa anche perdere il diritto all’indennità di disoccupazione. Senza necessariamente approvare un tale atteggiamento in rapporto ai bambini stessi, è degno di nota che a scuola e a casa essi ricevono lo stesso trattamento, giustificato nel loro caso dalla loro presunta immaturità. Cosa dice tutto ciò dei loro genitori e dei loro insegnanti in quanto lavoratori? Per decenni, e per la maggior parte delle loro vite, l’umiliante sistema di dominio che ho descritto regola più della metà del tempo che la maggior parte delle donne e la stragrande maggioranza degli uomini passano in stato di veglia. In rapporto a certi scopi, non è 17

del tutto fuorviante chiamare il nostro sistema democrazia, capitalismo o – meglio ancora – industrialismo, ma i termini più appropriati sarebbero fascismo di fabbrica e oligarchia d’ufficio. Chiunque dica che queste persone sono “libere” o mente o è uno sciocco. Tu sei quello che fai: se fai un lavoro noioso, stupido, monotono, hai buone probabilità di diventare noioso, stupido e monotono anche tu. Il lavoro è la migliore spiegazione per lo strisciante incretinimento da cui siamo circondati, ancor più dei pur potenti meccanismi di istupidimento messi in atto dalla televisione e dal sistema di istruzione. Persone irreggimentate da tutta una vita, sospinte dalla scuola al lavoro, ingabbiate nella famiglia all’inizio della loro vita e in una casa di cura alla fine, non possono che essere assuefatte alla gerarchia e mentalmente schiave. Ogni loro inclinazione all’autonomia risulta talmente atrofizzata che la paura della libertà è in queste persone una delle poche fobie razionalmente fondate. Esse trasferiscono l’addestramento all’obbedienza a lavoro nelle famiglie che si creeranno, riproducendo così il sistema in più di una maniera, nell’ambito della politica, della cultura, e in ogni altro campo di attività. Una volta che la vitalità delle persone sia stata loro sottratta nell’ambito del lavoro, è molto probabile che costoro si sottometteranno alla gerarchia e alla saggezza degli esperti in ogni situazione. Ci sono abituati. Siamo così immersi nel mondo del lavoro che non ci rendiamo completamente conto di quanto esso determini la nostra esistenza. Dobbiamo così affidarci a osservatori esterni d’altri tempi e di altre culture, se vo18

gliamo essere in grado di comprendere il carattere severo e patologico della nostra condizione presente. Vi fu un’epoca nel nostro passato in cui “l’etica del lavoro” sarebbe stata incomprensibile, e Weber era forse sulla strada giusta quando collegò la sua comparsa all’apparizione di una nuova religione, il Calvinismo, poiché se tale religione fosse comparsa oggi, invece di quattro secoli fa, sarebbe stata immediatamente e giustamente etichettata come culto. Comunque stiano le cose, possiamo solo far ricorso alla saggezza degli antichi se vogliamo collocare il lavoro in una giusta prospettiva. Gli antichi consideravano il lavoro per ciò che effettivamente è, e il loro punto di vista ha prevalso, nonostante gli eccentrici calvinisti, fino a quando le loro idee non sono state spazzate via dall’industrialismo, ma non prima di ricevere l’approvazione dei suoi profeti. Ammettiamo per un momento che il lavoro non riduca gli esseri umani a una condizione di indolente sottomissione. Ammettiamo pure, a dispetto di ogni plausibile visione della psicologia e dell’ideologia dei suoi sostenitori, che il lavoro non abbia alcun effetto sulla formazione del carattere. Conveniamo, ancora, che il lavoro non sia così noioso, sfiancante e umiliante come tutti ben sappiamo che è. Persino allora, il lavoro si farebbe beffe di tutte le aspirazioni di carattere umanistico e democratico, e ciò proprio nella misura in cui esso usurpa una così gran parte del nostro tempo. Socrate ha detto che i lavoratori manuali diventano dei cattivi amici e dei pessimi cittadini, in quanto non dispongono del tempo necessario all’adempimento dei doveri inerenti 19

all’amicizia e alla cittadinanza. Aveva perfettamente ragione. A causa del lavoro, qualunque cosa facciamo, la facciamo guardando l’orologio. L’unico significato di “libero” nel cosiddetto tempo libero è che esso non costa nulla al padrone. Il tempo libero è dedicato soprattutto a prepararsi al lavoro, all’andare al lavoro, a tornare dal lavoro. Il tempo libero è un eufemismo che allude alla singolare modalità in cui la forza lavoro, come fattore di produzione, non solo provvede a sue spese al proprio trasporto al e dal posto di lavoro, ma si assume l’onere principale della propria manutenzione e della propria riparazione. Il carbone e l’acciaio questo non lo fanno; il tornio e la macchina da scrivere neppure. I lavoratori invece sì. Nessuna meraviglia che Edward G. Robinson, in uno dei suoi film di gangster, proclami: «Il lavoro è per gli imbecilli!». Sia Platone che Senofonte attribuiscono a Socrate, naturalmente concordando con lui, una profonda consapevolezza degli effetti distruttivi del lavoro sul lavoratore, sia in quanto cittadino sia come essere umano. Erodoto individuò nel disprezzo per il lavoro un tratto caratteristico della Grecia classica all’apice della sua fioritura. Per citare un esempio dalla civiltà romana, osserviamo che Cicerone affermava che «chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso, e pone sé medesimo nel novero degli schiavi». Oggigiorno una tale franchezza è molto rara, ma le società primitive contemporanee, quelle che noi siamo abituati a guardare dall’alto in basso, hanno prodotto rappre20

sentanti che sono stati capaci di illuminare gli antropologi occidentali. I Kapauku della Nuova Guinea Occidentale, secondo Posposil, possiedono una concezione della vita come equilibrio e, coerentemente a essa, lavorano solo a giorni alterni, essendo il giorno del riposo destinato «a riguadagnare le energie perdute e la salute». I nostri antenati, ancora fino al XVIII secolo, quando già si erano inoltrati lungo il cammino che ha portato alla nostra difficile situazione attuale, erano almeno consapevoli di ciò che noi abbiamo dimenticato, e cioè del lato oscuro dell’industrializzazione. La loro religiosa osservanza del “Lunedì Santo” – che rendeva di fatto la settimana di cinque giorni, 150-200 anni prima della sua instaurazione per legge – era la disperazione dei primissimi proprietari di industria. Fu necessario molto tempo prima che essi accettassero di sottomettersi alla tirannia della campanella, che precedette il timbracartellino. Furono anzi necessarie una o due generazioni perché gli adulti maschi venissero sostituiti da donne abituate all’obbedienza e da bambini che potevano essere plasmati per accomodare le necessità dell’industria. Perfino i contadini sfruttati nell’ancien régime riuscivano a strappar via una considerevole quantità di tempo al lavoro che prestavano per i loro proprietari terrieri. Secondo Lafargue, un quarto del calendario dei contadini francesi era dedicato alle domeniche e alle festività, e i dati desunti da Chayanov relativamente ai villaggi della Russia zarista, una società quasi per nulla progressista, mostrano analogamente che i contadini dedicavano al riposo un quarto o un quinto dei loro giorni. Control21

lando la produttività, noi siamo ovviamente molto più indietro rispetto a queste società arretrate. I contadini russi sfruttati sarebbero oggi molto stupiti del fatto che vi sia ancora qualcuno di noi che lavori. E noi dovremmo condividere il loro stupore. Al fine di comprendere pienamente la profondità del deterioramento della nostra condizione, tuttavia, consideriamo ora le condizioni di vita dell’umanità primitiva, senza stato né proprietà, quando conducevamo un’esistenza errabonda come cacciatori e raccoglitori. Hobbes ha ipotizzato che la vita fosse allora breve, pericolosa e brutale. Altri sostengono che la vita fosse una lotta incessante e disperata per la sopravvivenza, una guerra contro una Natura ostile, con morte e catastrofe in agguato per i meno fortunati o per chiunque non si fosse rivelato all’altezza della sfida posta dalla lotta per l’esistenza. In realtà, tali idee non rappresentavano nient’altro che una proiezione del timore diffuso del collasso dell’autorità dello Stato, proprio di comunità non abituate a fare a meno di essa, come appunto l’Inghilterra di Hobbes ai tempi della Guerra Civile. I connazionali di Hobbes avevano già incontrato forme alternative di società che indicavano modi di vita diversi, particolarmente nel Nord America, ma queste erano già troppo lontane dalla loro esperienza per risultare comprensibili. (I ceti inferiori, più vicini alla condizione degli Indiani, compresero meglio questo modo di esistenza, e ne furono spesso attratti: durante tutto il XVII secolo i coloni inglesi abbandonarono il loro mondo per unirsi alle tribù indiane o, catturati in guerra, rifiutarono di tor22

narvi. Gli indiani, al contrario, non si rifugiavano presso gli insediamenti dei bianchi, non più di quanto i tedeschi saltassero il muro di Berlino da ovest verso est.) La versione darwiniana della «sopravvivenza del più adatto» – quella di Thomas Huxley – ha costituito una fedele immagine più delle condizioni economiche dell’Inghilterra vittoriana che della selezione naturale, come l’anarchico Kropotkin ha dimostrato nel suo libro Il mutuo appoggio, un fattore dell’evoluzione. (Kropotkin fu uno scienziato, un geografo, che ebbe modo, del tutto involontariamente, di sperimentare a fondo il lavoro nei campi durante il suo esilio in Siberia: sapeva bene di cosa parlava.) Come la maggior parte delle teorie sociali e politiche, la storia che Hobbes e i suoi successori hanno raccontato è null’altro che un’autobiografia non autorizzata. L’antropologo Marshall Sahlins, studiando i dati disponibili sulle tribù di cacciatori e raccoglitori contemporanei, ha demolito il mito hobbesiano in un articolo dal titolo La società affluente originaria. I cacciatori e raccoglitori lavorano molto meno di noi, ed è difficile distinguere il loro lavoro da ciò che noi consideriamo gioco. Sahlins conclude che «i cacciatori e raccoglitori lavorano meno di noi; la ricerca di cibo, invece di essere una fatica continua, è un’attività saltuaria; essi dispongono di molto tempo da dedicare allo svago, e la quantità di tempo consacrata al sonno da ciascun individuo nel corso di un anno è molto maggiore che in qualsiasi altro tipo di società». Essi lavorano in media quattro ore al giorno, presumendo che si possa ancora chiamare “lavoro” tale attività. Il loro “lavoro”, così come esso 23

ci appare, è un lavoro qualificato che coinvolge tutte le loro capacità fisiche e intellettuali; un lavoro non qualificato su larga scala, dice Sahlins, è impossibile eccetto che nell’industrialismo. Tale attività è pertanto adeguata alla definizione di gioco data da Friedrich Schiller, secondo la quale esso costituisce l’unico ambito in cui l’essere umano può realizzare completamente la sua umanità, mettendo in “gioco” entrambi i lati della sua duplice natura, intelletto e sentimento. Schiller afferma: «l’animale lavora quando la privazione diventa l’impulso fondamentale della sua attività, e gioca quando questo impulso fondamentale proviene dalla pienezza delle sue forze, quando una vitalità sovrabbondante è il suo stimolo all’attività». (Una versione moderna di tale pensiero – dal dubbio carattere evolutivo – è data dalla contrapposizione che Abraham Maslov istituisce tra motivazione da “carenza” e motivazione da “crescita”.) In rapporto alla produzione, gioco e libertà sono coestensivi. Persino Marx, che (nonostante tutte le sue buone intenzioni) appartiene al pantheon dei produttivisti, ha osservato che «il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro obbligato da necessità e utilità esterne». Marx non giunse mai del tutto a identificare questa felice condizione per quella che è, cioè come abolizione del lavoro: sarebbe piuttosto anomalo, del resto, essere allo stesso tempo a favore dei lavoratori e contro il lavoro. Noi, invece, possiamo permettercelo. L’aspirazione ad andare indietro o avanti in una vita senza lavoro è manifesta in ogni serio resoconto storico, sociale o culturale che sia, dell’Europa pre-industriale; 24

tra questi, Inghilterra in transizione di M. Dorothy George e Cultura popolare nell’Europa moderna di Peter Burke. Pertinente è anche il saggio di Daniel Bell Il lavoro e le sue insoddisfazioni, che è, credo, il primo scritto che tratta ampiamente della “rivolta contro il lavoro”, e che, quando venga correttamente interpretato, incrina fortemente il generale compiacimento che circonda il volume in cui esso compare, La fine dell’ideologia. Né i detrattori né gli estimatori di Bell hanno notato che la sua tesi del tramonto dell’ideologia segnalava non la fine delle agitazioni sociali, bensì l’inizio di una nuova, inesplorata fase, libera e ignara di ogni ideologia. È stato Seymour Lipset (ne L’uomo politico), e non Bell, ad annunciare, in quello stesso periodo, che «i problemi fondamentali della rivoluzione industriale sono stati risolti», e ciò solo pochi anni prima che i malcontenti post-moderni o meta-industriali, manifestati dagli studenti del college, inducessero Lipset ad abbandonare l’Università della California a Berkeley per la situazione relativamente (e temporaneamente) più tranquilla di Harvard. Come sottolinea Bell, ne La ricchezza delle nazioni, Adam Smith, nonostante tutto il suo entusiasmo per il mercato e la divisione del lavoro, era più consapevole (e anche più onesto) riguardo al carattere squallido del lavoro, rispetto a Ayn Rand, agli economisti di Chicago, o a qualsiasi moderno epigono di Smith stesso. Come Smith ha osservato, «le idee della maggior parte degli individui sono necessariamente determinate dalle loro occupazioni ordinarie. L’essere umano la cui vita trascorre nell’esecuzione di poche semplici operazioni… 25

non ha occasione di esercitare la sua capacità di comprensione… Generalmente diventa stupido e ignorante come solo un essere umano può diventare». Qui, in queste poche aspre parole, sta la mia critica del lavoro. Bell, scrivendo nel 1956, nell’Età d’oro dell’imbecillità di Eisenhower e dell’autocompiacimento americano, già avvertiva il malessere disorganizzato e non organizzabile che si sarebbe manifestato dagli anni ’70 in poi; quel malessere che nessun orientamento politico è in grado di controllare, e che è stato identificato nel rapporto Il lavoro in America redatto dal Dipartimento per la Salute, l’Istruzione e il Benessere; quel malessere da cui non si può trarre alcun vantaggio e che viene dunque ignorato. Tale problema è la rivolta contro il lavoro. Esso non compare negli scritti di alcun economista del laissez-faire – Milton Friedman, Murray Rothbard, Richard Posner – poiché, per dirla come gli eroi di Star Trek, è un problema che «non quadra». Se queste obiezioni, nutrite dall’amore per la libertà, non riescono a persuadere gli umanisti a compiere una svolta utilitaristica o anche paternalistica, ve ne sono altre delle quali essi non possono non tener conto. Prendendo a prestito il titolo di un libro, dirò che il lavoro è pericoloso per la salute. Il lavoro è anzi un assassinio di massa, un genocidio. Direttamente o indirettamente, il lavoro ucciderà la maggior parte delle persone che legge queste righe. Ogni anno in questo paese, tra i 14.000 e i 25.000 lavoratori vengono uccisi sul lavoro. Oltre 2 milioni rimangono invalidi. Dai 20 ai 25 milioni restano feriti ogni anno. E queste cifre si basano su di una stima 26

molto prudente di quello che costituiscono gli incidenti sul lavoro: non tengono conto pertanto del mezzo milione di casi di malattie professionali che insorgono ogni anno. Ho dato uno sguardo a un testo di medicina sulle malattie professionali, che era lungo 1.200 pagine. Persino questo a malapena affronta il problema. Le statistiche disponibili riguardano i casi più evidenti, come i 100.000 minatori che contraggono la silicosi, dei quali 4.000 muoiono ogni anno, cioè una percentuale di decessi ancor più elevata, ad esempio, di quella dell’AIDS, cui i media prestano così tanta attenzione. Tutto ciò riflette l’assunto non dichiarato secondo il quale l’AIDS affligge dei pervertiti che potrebbero controllare la loro depravazione, mentre i minatori svolgono un’attività sacrosanta e fuori discussione. Quello che le statistiche non lasciano trapelare è il fatto che il lavoro abbrevia la durata della vita a decine di milioni di persone, ciò che, d’altra parte, è il significato proprio del termine omicidio. Per non parlare di quei dottori che si ammazzano di lavoro all’età di cinquant’anni, e di tutti gli altri maniaci del lavoro. Anche se non restate uccisi o mutilati mentre siete effettivamente al lavoro, ciò può tranquillamente accadervi mentre vi recate al lavoro, mentre tornate dal lavoro, mentre lo state cercando, o mentre tentate di dimenticarvene. La stragrande maggioranza delle vittime di incidenti d’auto stava svolgendo attività legate al lavoro, oppure è stata travolta da qualcuno impegnato in esse. A questo esteso conteggio dei cadaveri occorre aggiungere le vittime dell’inquinamento industriale e au27

tomobilistico, dell’alcolismo indotto dal lavoro e della dipendenza da droghe. Anche il cancro e le malattie cardiache sono dei mali moderni normalmente attribuibili, direttamente o indirettamente, al lavoro. Il lavoro, dunque, istituzionalizza l’omicidio come stile di vita. La gente crede che i Cambogiani fossero pazzi dal momento che si sterminavano a vicenda, ma siamo noi poi molto diversi? Il regime di Pol-Pot, per quanto in modo confuso, si poneva almeno nella prospettiva di una società egualitaria; noi sterminiamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di sei cifre (come minimo) per vendere Big Mac e Cadillac ai superstiti. I 40.000 o 50.000 morti che registriamo annualmente sulle nostre autostrade sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla, o, piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro non è qualcosa per cui valga la pena di morire. Cattive notizie per i liberali: in un contesto che si presenta come una questione di vita o di morte, i sistemi di controllo normativi sono inutili. L’Amministrazione per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (OSHA) fu istituita dai federali per vigilare sul nucleo centrale del problema, la sicurezza sul posto di lavoro. Ma anche prima che Reagan e la Corte Suprema la soffocassero, l’OSHA era già una farsa. Nonostante i precedenti e (in confronto agli standard attuali) generosi finanziamenti dell’era Carter, anche allora ci si poteva aspettare, sul posto di lavoro, un’ispezione casuale ogni quarantasei anni, da parte di un funzionario dell’OSHA. Affidare il controllo dell’economia allo Stato non è una soluzione. Semmai, il lavoro è più pericoloso negli 28

Stati socialisti di quanto non lo sia qui. Migliaia di lavoratori russi sono stati uccisi o feriti durante la costruzione della metropolitana a Mosca. Le voci su disastri nucleari verificatisi nell’Unione Sovietica, e passati sotto silenzio, fanno sembrare Times Beach e Three Mile Island semplici esercitazioni di allarme aereo per scuole elementari. D’altro canto, la deregolamentazione, ora di moda, non servirà a molto, anzi probabilmente peggiorerà la situazione. Dal punto di vista della salute e della sicurezza, e non solo, il lavoro ha mostrato il suo lato peggiore proprio nel periodo in cui l’economia si avvicinava di più al modello del laissez-faire. Storici come Eugene Genovese – analogamente a quanto affermavano gli apologeti della schiavitù prima della guerra di secessione – hanno sostenuto in maniera persuasiva la tesi secondo la quale i dipendenti delle fabbriche negli stati del Nord America e dell’Europa vivevano in condizioni assai peggiori di quelle degli schiavi nelle piantagioni del Sud. Nessuna riorganizzazione dei rapporti tra burocrati e uomini d’affari può cambiare qualcosa per quanto concerne la produzione. L’imposizione di misure coercitive, o anche solo l’applicazione della piuttosto vaga normativa vigente, che in teoria l’OSHA potrebbe imporre, comporterebbero probabilmente il blocco dell’economia. Sembra che i tutori dell’ordine apprezzino ciò, poiché finora non hanno nemmeno tentato di inasprire i controlli sui trasgressori. Quello che ho detto finora non dovrebbe suscitare grandi opposizioni. Molti lavoratori sono stufi del lavoro. 29

Si manifestano forti e crescenti tassi di assenteismo, dimissioni, furti e sabotaggi compiuti dai dipendenti, scioperi selvaggi e generali frodi sul lavoro. Ciò può significare che vi sia un movimento verso un rigetto cosciente, e non solo viscerale, del lavoro. Eppure, il sentimento prevalente e universalmente diffuso sia tra i padroni e i loro agenti, che tra i lavoratori stessi, è che il lavoro stesso sia inevitabile e necessario. Non sono d’accordo. È possibile fin d’ora abolire il lavoro e sostituirlo, nella misura in cui sia finalizzato a scopi utili, con una molteplicità di diverse attività libere. Al fine di abolire il lavoro è necessario procedere lungo due direzioni, una quantitativa e l’altra qualitativa. Per quanto riguarda il lato quantitativo, dobbiamo ridurre enormemente la quantità complessiva di lavoro che si svolge. A tutt’oggi la maggior parte del lavoro è inutile, o peggio che inutile, e noi semplicemente dobbiamo liberarcene. D’altra parte – e penso che qui stia il nodo cruciale di tutta la questione e il nuovo punto di partenza per il movimento rivoluzionario – dobbiamo prendere il lavoro utile rimasto e trasformarlo in una piacevole varietà di passatempi simili al gioco e all’artigianato, indistinguibili cioè da altri gradevoli passatempi, salvo che per essi si dà il caso che generino un utile prodotto finale. Di sicuro ciò non li renderebbe per questo meno allettanti. Tutte le barriere artificiali dei rapporti di potere e di proprietà verrebbero allora meno. La creazione potrebbe diventare ricreazione, e noi tutti potremmo cessare ogni diffidenza gli uni verso gli altri. 30

Non sto suggerendo che la maggior parte del lavoro sia in questo modo recuperabile: d’altra parte, gran parte del lavoro non val neanche la pena che lo si recuperi. Solo una piccola, e sempre decrescente, parte del lavoro serve a fini che siano realmente utili e indipendenti dalla difesa e dalla riproduzione del sistema-lavoro e delle sue sovrastrutture giuridiche e politiche. Vent’anni fa, Paul e Percival Goodman stimarono che appena il 5% del lavoro svolto – e presumibilmente questa cifra, se esatta, è ora perfino inferiore – sarebbe già di per sé sufficiente a soddisfare i nostri bisogni minimi di cibo, vestiario e abitazione. La loro è solo un’erudita congettura, ma la questione principale è abbastanza chiara: direttamente o indirettamente, la maggior parte del lavoro viene svolto per i fini improduttivi del commercio e del controllo sociale. In un batter d’occhio potremmo liberare dal lavoro decine di milioni di commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, padroni di casa, addetti alla sicurezza, pubblicitari, e tutti quelli che lavorano per loro. Si verificherebbe una reazione a catena per cui ogni volta che un pezzo grosso viene spodestato, vengono liberati anche i suoi valletti e tirapiedi. In tal modo l’economia imploderebbe. Il 40% della forza lavoro è costituita da colletti bianchi, e la maggior parte di loro svolge lavori tra i più noiosi e idioti che siano mai stati inventati. Industrie intere, assicurazioni, banche e agenzie immobiliari, ad esempio, sono costituite da nient’altro che da un inutile ammasso di cartaccia. Non è un caso che il “settore terziario”, 31

cioè il settore dei servizi, stia crescendo, mentre il “settore secondario” (l’industria) sia stagnante, e il “settore primario” (l’agricoltura) sia sul punto di scomparire. Poiché il lavoro non è necessario se non per coloro ai quali esso assicura il potere, i lavoratori vengono trasferiti da occupazioni relativamente utili ad altre relativamente inutili, in quanto questa misura garantisce l’ordine pubblico. Qualsiasi cosa è meglio del non far nulla. Questo è il motivo per cui non puoi semplicemente andare a casa, anche se hai finito presto il tuo lavoro. Vogliono il tuo tempo, in misura sufficiente da farti loro, anche se della maggior parte di quel tempo non sanno che farsene. Altrimenti perché la settimana lavorativa media sarebbe diminuita appena di qualche minuto negli ultimi cinquant’anni? E ora passiamo ad applicare il nostro coltello da macellaio anche al lavoro produttivo stesso. Non più produzioni belliche, energia nucleare, cibo spazzatura, deodoranti per l’igiene intima femminile e, soprattutto, nessuna più industria automobilistica di cui parlare. Una Stanley Steamer o una Model-T d’occasione possono andare bene, ma l’autoerotismo da cui dipendono lazzaretti come Detroit e Los Angeles è fuori questione. Senza neanche muovere un dito, abbiamo già virtualmente risolto la crisi energetica, la crisi ambientale e svariati altri problemi sociali senza soluzione. Infine, dobbiamo abolire ciò che rappresenta di gran lunga l’occupazione più diffusa, quella con l’orario più lungo, il compenso più basso, e con alcuni dei compiti più noiosi che sia dato vedere. Mi riferisco alle casalinghe, 32

quelle che svolgono i lavori domestici e crescono i bambini. Con l’abolizione del lavoro salariato e con il raggiungimento della piena disoccupazione, mineremo la divisione sessuale del lavoro. La famiglia nucleare così come la conosciamo costituisce un inevitabile adattamento alla divisione del lavoro imposta dal moderno lavoro salariato. Che ci piaccia o meno, per come le cose sono andate da uno o due secoli a questa parte, risulta razionale, dal punto di vista economico, che l’uomo si guadagni il pane; che la donna faccia un lavoro di merda per offrirgli un rifugio in un mondo senza cuore; e che i bambini vengano fatti marciare verso quei campi di concentramento per giovani chiamati “scuole”, in primo luogo per allontanarli dalle braccia della mamma, tenendoli comunque sotto controllo, e secondariamente per far loro acquisire la consuetudine all’obbedienza e alla puntualità così necessaria ai lavoratori. Se vuoi liberarti dal patriarcato, devi sbarazzarti della famiglia nucleare, il cui lavoro “sommerso” non pagato, come afferma Ivan Illich, rende possibile il sistema-lavoro che ne rende necessaria l’esistenza. Parte integrale di questa strategia pacifica è l’abolizione dell’infanzia e la chiusura delle scuole. In questo paese ci sono più studenti a tempo pieno che lavoratori a tempo pieno. Abbiamo bisogno dei bambini come insegnanti, e non come studenti. Essi possono dare un grosso contributo alla rivoluzione ludica perché meglio degli adulti sanno come si gioca. Adulti e bambini non sono identici, ma potrebbero diventare uguali attraverso l’interdipendenza. Solo il gioco può colmare il gap generazionale. 33

Non ho neanche ancora accennato alla possibilità di ridurre il poco lavoro rimanente tramite l’automazione e la cibernetica. Tutti gli scienziati, gli ingegneri e i tecnici, liberati dal fastidioso impegno della ricerca a fini bellici o dell’obsolescenza programmata del prodotto, potrebbero dedicare il loro tempo al piacevole compito di progettare dispositivi atti a eliminare la fatica, la noia e il pericolo da lavori come l’attività estrattiva nelle miniere. Senza dubbio troveranno altri progetti con cui dilettarsi. Forse istituiranno un sistema integrato di comunicazione multimediale esteso a tutto il mondo, oppure fonderanno colonie nello spazio cosmico. È possibile. Per quanto mi riguarda, non sono un maniaco della tecnologia. Non vorrei vivere in un paradiso fatto di pulsanti. Non desidero robot schiavi che facciano tutto: voglio fare le mie cose da solo. Credo che vi sia spazio per una tecnologia che faccia risparmiare fatica, ma uno spazio modesto: le testimonianze storiche e preistoriche non sono incoraggianti. Quanto la tecnologia produttiva si evolse da quella propria dei cacciatori e raccoglitori a quella agricola e poi a quella industriale, il lavoro aumentò, mentre le abilità e la capacità di determinare la propria vita diminuirono. L’ulteriore evoluzione dell’industrialismo accentuò quella che Harry Braverman ha chiamato la degradazione del lavoro. Gli osservatori più svegli sono sempre stati consapevoli di tale fenomeno. John Stuart Mill scrive che tutte le invenzioni finora escogitate per risparmiare fatica non hanno mai fatto risparmiare effettivamente un solo attimo di lavoro. Secondo Karl Marx «sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni, realizzate a partire 34

dal 1830, con il fine esclusivo di fornire al capitale armi contro le rivolte della classe lavoratrice». I tecnofili entusiasti – quali Saint-Simon, Comte, Lenin, B.F. Skinner – hanno mostrato altresì di essere impassibili e autoritari; vale a dire, dei tecnocrati. Dovremmo essere oltremodo scettici riguardo alle promesse dei mistici dei computer. Costoro lavorano come cani; è probabile che, se avranno via libera, lo stesso accada per tutti noi. Tuttavia, se possono offrire qualche particolare contributo più direttamente subordinato ai fini umani che la corsa all’alta tecnologia, diamo pure loro ascolto. Ciò che essenzialmente vorrei vedere realizzato è la trasformazione del lavoro in gioco. Il primo passo sarà smantellare le nozioni di “incarico” e “occupazione”. Persino per quelle attività che presentano già ora qualche contenuto ludico accade che esse ne perdano la maggior parte, quando vengono ridotte ad attività imposte a certi individui, e solo a loro, mentre altri ne sono esclusi. Non è strano che i braccianti agricoli fatichino penosamente nei campi, mentre i loro padroni tornano nelle loro case con aria condizionata ogni week-end e si dilettano con lavoretti di giardinaggio? In un sistema di festa permanente, saremo testimoni della nascita di una nuova Età d’Oro dell’amatorialità, che farebbe impallidire persino l’età rinascimentale. Non esisteranno più lavori, ma solo cose da fare e persone che le fanno. Il segreto per volgere il lavoro in gioco, come ha già dimostrato Charles Fourier, sta nell’organizzare le attività utili, traendo profitto da qualsiasi cosa diversi individui in tempi diversi di fatto già amino fare. Per far sì 35

che gli individui facciano le cose che amano fare, è sufficiente estirpare le irrazionalità e le deformazioni che minano queste attività nel momento in cui vengono ridotte a lavoro. A me, per esempio, piacerebbe impegnarmi un po’ (non troppo) nell’insegnamento, ma non voglio avere a che fare con studenti costretti a stare lì, e non voglio leccare i piedi a qualche patetico pedante per ottenere un incarico di ruolo. In secondo luogo, vi sono cose che le persone amano fare di tanto in tanto, ma non troppo a lungo, e di certo non per tutto il tempo. Può essere gradevole fare il mestiere di baby-sitter per qualche ora, in modo da godere della compagnia dei bambini, ma non così gradevole come lo è per i loro genitori. I genitori, nondimeno, apprezzano moltissimo la libertà temporanea che tu con il tuo lavoro hai donato loro, ma diventano ansiosi se rimangono lontani dalla loro prole troppo a lungo. Sono queste differenze tra gli individui che rendono possibile una vita di libero gioco. Lo stesso principio può essere applicato a molti altri campi di attività, e soprattutto a quelli primari. Allo stesso modo molte persone si divertono a cucinare quando lo possono fare davvero a loro piacimento, ma non quando devono fare rifornimento a corpi umani per lavoro. In terzo luogo – ma le altre considerazioni sono di pari importanza – alcune cose che sono sgradevoli se fatte da soli, o in un ambiente spiacevole, oppure agli ordini di un padrone, diventano piacevoli, almeno per qualche tempo, se tali circostanze vengono modificate. Probabilmente questo è vero, in qualche misura, per 36

tutti i lavori. Le persone possono mettere a frutto la propria ingegnosità, altrimenti sprecata, trasformando in gioco le fatiche meno allettanti, nel miglior modo possibile. Attività che interessano alcune persone non sempre interessano tutti; ma tutti, almeno potenzialmente, posseggono una certa varietà di interessi e un certo interesse per la varietà. Come dice il proverbio, «il gioco è bello quando dura poco». Fourier fu maestro nell’escogitare modi in cui le inclinazioni più aberranti e perverse potessero trasformarsi in attività utili in una società postcivilizzata, quella che egli denominò Armonia. Egli pensava che l’imperatore Nerone avrebbe potuto venire su bene, se da bambino avesse potuto soddisfare la sua propensione verso gli spargimenti di sangue lavorando in un macello. I bambini più piccoli, che notoriamente amano sguazzare nel sudiciume, potrebbero essere organizzati in “Piccole Frotte” che pulirebbero i gabinetti e svuoterebbero i contenitori della spazzatura, con l’assegnazione di medaglie ai migliori. Non voglio proporre in concreto proprio questi specifici esempi, ma il principio che soggiace a essi penso renda perfettamente l’idea di una delle dimensioni che ogni radicale trasformazione rivoluzionaria dovrebbe avere. Tenete presente che non dobbiamo prendere il lavoro così come si presenta oggi e abbinarlo alle persone adatte, alcune delle quali potrebbero anche essere perverse. Se la tecnologia può avere un ruolo in tutto ciò, non sarà quello di automatizzare il lavoro cancellandolo completamente, ma sarà piuttosto quello di aprire nuovi orizzonti alla ri/creazione. In un certo senso, potremmo voler tornare 37

all’artigianato, attività che William Morris considerava uno degli esiti probabili e auspicabili della rivoluzione comunista. L’arte verrà riconquistata, sottraendola alle mani degli snob e dei collezionisti, abolita come categoria specialistica rivolta a un pubblico elitario, e i suoi caratteri estetici e creativi verranno restituiti alla pienezza della vita cui sono stati sottratti dal lavoro. Fa riflettere il fatto che le urne greche di cui tessiamo le lodi nella scrittura e che esponiamo nei musei, furono usate nella loro epoca per conservare l’olio d’oliva. Dubito che i nostri manufatti comuni avranno una sorte altrettanto gloriosa in futuro, se mai ne avranno una. Il fatto è che, nel mondo del lavoro, non esiste una cosa chiamata “progresso”: semmai è proprio il contrario. Non dovremmo esitare a saccheggiare il passato per quello che ci può offrire: gli uomini del passato non ci perdono nulla, mentre noi ne veniamo arricchiti. Reinventare la vita quotidiana significa oltrepassare i confini delle nostre mappe. È pur vero che, in merito a ciò, esistono ipotesi molto più suggestive di quanto la gente possa immaginare. Oltre a Fourier e a Morris – e persino a qualche allusione, qua e là, di Marx – ci sono gli scritti di Kropotkin, dei sindacalisti Pataud e Pouget, di anarco-comunisti vecchi (Berkman) e nuovi (Bookchin). La Communitas dei fratelli Goodman è esemplare nell’illustrare quali forme conseguono da determinate funzioni (scopi), e possiamo desumere qualcosa dagli stessi confusi messaggeri della tecnologia alternativa/appropriata/intermedia/conviviale, come Schumacher e soprattutto Illich, una volta disattivate le 38

loro macchine del fumo. I situazionisti – rappresentati da Vaneigem nel suo Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni e nell’antologia dell’Internazionale Situazionista – sono tanto spietatamente lucidi quanto esilaranti, ma non hanno mai completamente superato la contraddizione consistente nel sostenere da una parte il potere dei consigli operai e dall’altra l’abolizione del lavoro. La loro incongruenza è preferibile a tutte le versioni del sinistrismo ancora in circolazione, i cui adepti appaiono come gli ultimi difensori del lavoro, in quanto se non esistesse il lavoro non vi sarebbero lavoratori e, in assenza di lavoratori, chi mai potrebbe organizzare la sinistra? Gli abolizionisti si troverebbero pertanto a essere nettamente soli. Nessuno può dire quello che potrebbe risultare dalla liberazione del potere creativo, ora frustrato dal lavoro. Potrebbe accadere di tutto. L’estenuante problema del dibattito fra libertà e necessità, con i suoi risvolti teologici, si risolve praticamente da sé una volta che la produzione dei valori d’uso sia coestensiva al consumo di una piacevole attività ludica. La vita diventerà un gioco, o piuttosto una molteplicità di giochi, ma non – come accade ora – un gioco a somma zero. Un’intesa ottimale sul piano sessuale è il paradigma di un gioco produttivo. I partecipanti potenziano il piacere l’uno dell’altro, non viene assegnato alcun punteggio, e ognuno vince. Più dai, più ottieni. Nella vita ludica, il meglio del sesso si diffonderà nella parte migliore della vita quotidiana. Il gioco generalizzato porta all’erotizzazione della vita. Il sesso, a sua 39

volta, può diventare meno urgente e disperato, più giocoso. Se giochiamo bene le nostre carte, possiamo ottenere dalla vita molto di più di quanto vi mettiamo, ma solo se giochiamo per sempre. Nessuno dovrebbe mai lavorare. Lavoratori del mondo… rilassatevi!

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BIOGRAFIA

Bob Black, pseudonimo di Robert Charles Black Junior, nasce a Detroit il 4 gennaio 1951. Avvocato, attivista e scrittore, Black è conosciuto per l’ispirazione anarchica dei suoi scritti, che criticano duramente il lavoro e le tendenze autoritarie della società contemporanea. Profondamente deluso dagli ambienti di sinistra degli Stati Uniti degli anni ’70, Bob Black si avvicinò ben presto alle teorie anarchiche, al socialismo utopico (fra gli altri, del francese Fourier) e al situazionismo, nonché a tutte le correnti di sinistra che criticavano aspramente il Marxismo-Leninismo. Nel 2011, durante B.A.S.T.A.R.D., la conferenza anarchica che si tiene ogni anno a Berkeley, in California, Bob Black ha presentato un workshop incentrato sul crimine come principale metodo anarchico di controllo nella società contemporanea, soprattutto per coloro i quali sono sistematicamente maltrattati dal sistema legale corrente. The Abolition of Work and Other Essays (1985), tradotto in più di dieci lingue, è la sua opera più conosciuta.

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