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Italian Pages 369 Year 2014
«In questo ultimo volume del progetto Homo sacer il lettore troverà delle riflessioni su alcuni concetti- uso, esigenza, modo, forma-di-vita, inoperosità, potenz.a destituente- che hanno fin dall'inizio orientato una ricerca, che, come ogni opera di poesia e di pensiero, non può essere conclusa, ma solo abbandonata (e, eventualmente, continuata da altri)».
ISBN 978-88-545-0838•5
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9 788854 508385
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologi che degli otto volumi precedenti, qui si rida barano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato nel corso di quasi venti anni la ricerca in un territorio inesplorato, le cui fron tiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma a una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità -che non significa inerzia, ma un'attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere del l'economia, del diritto, dell'arte e della reli gione; al concetto di un potere costituente, at traverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cam biamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai rias sorbire in un potere costituito. E, ogni volta, nel tentativo di definire, al di là di ogni bio grafia, che cosa sia una forma-di-vita, l'analisi dei concetti si intreccia puntualmente con l'evo cazione della vita di alcuni personaggi decisivi del pensiero contemporaneo.
In copertina: Tiziano, Gli Andrii, particolare, Museo del Prado, Madrid. Grafica: Corrado Bosi, cdf-irrica.it
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la quarta prosa
collana diretta da Giorgio Agamben
DELLO STESSO AUTORE:
La potenza delpensiero Saggi e conferenze
Altissima povertà Regole monastiche e forma di vita Homo sacer, Iv, I
Il Regno e la Gloria
una genealogia teologica dell'economia e del governo Homo sacer, II, 2
Per
Giorgio Agamben
• L uso dei corpi Homo
sacer, IV, 2
NERI POZZA EDITORE
© 2014 Neri Po2z.a Editore, Vicenz.a 978-88-545-0838-5
ISBN
www.neripozz.a.it
Indice
9
Avvertenza
II
Prologo
19
1.
L'uso dei corpi
21
I.
L'uomo senz'opera
48
2.
Chresis
56
3· I.:uso e la cura
65
4· L'uso del mondo
78
5· L'uso di sé
88
6. L'uso abituale
97
ammato e la tecmca . 1· Lo strumento �
II4
8. L'inappropriabile
I33
Intermezzo I
149
n.
Archeologia dell' ontologia
155
I.
Dispositivo ontologico
179
2.
Teoria delle ipostasi
19 2
3· Per un'ontologia moda/e
229
Intermezzo II
247
m.
249
I.
La vita divisa
264
2.
Una vita inseparabile dalla sua forma
273
3· Contemplazione vivente
281
4· La vita è una forma generata vivendo
Forma-di-vita
286
5· Per un'a ntologia dello stile
298
6. Esilio di un solo presso un solo
305
7· «Così facciamo>>
3II
8. Opera e inoperosità
315
9· Il mito di Er
333
Epilogo Per una teoria della potenza destituente
353
Bibliografia
361
Indice dei nomi
Un ragazzino di Sparta, che aveva rubato una volpe e se l'era nascosta sotto la giacca, poiché la gente, per la sua stoltezza, si vergogna di un furto più di quanto noi temia mo la punizione, sopportò che essa gli straziasse il ventre piuttosto che scoprirsi. MoNTAIGNE, Essais, I, XIV
... è la volpe rubata che il ragazzo celava sotto i panni e il fianco gli straziava... V. SERENI, Appuntamento a ora insolita
Il libero uso del proprio è la cosa più difficile.
F. HòLDERLIN
Avvertenza
Coloro che hanno letto e compreso le parti prece denti di quest'opera sapranno che non devono aspettarsi né un nuovo inizio né tanto meno una conclusione. Oc corre, infatti, revocare decisamente in questione il luogo comune, secondo cui è buona regola che una ricerca co minci con una pars destruens e si concluda con una pars construens e, inoltre, che le due parti siano sostanzialmente e formalmente distinte. In una ricerca filosofica, non sol tanto la pars destruens non può essere separata dalla pars construens, ma questa coincide in ogni punto senza residui con la prima. Una teoria che, nella misura del possibile, ha sgombrato il campo dagli errori ha, con ciò, esaurito la sua ragione d'essere e non può pretendere di sussistere in quanto separata dalla prassi. l'.archè che l'archeologia porta alla luce non è omogenea ai presupposti che ha neu tralizzato: essa si dà integralmente soltanto nel loro cadere. La sua opera è la loro inoperosità. Il lettore troverà qui pertanto delle riflessioni su al cuni concetti - uso, esigenza, modo, forma-di-vita, ino perosità, potenza destituente - che hanno fin dall'ini� orientato una ricerca, che, come ogni opera di poesia e di pensiero, non può essere conclusa, ma solo abbandonata (e, eventualmente, continuata da altri) . Alcuni dei testi qui pubblicati sono stati scritti all'ini zio della ricerca, cioè quasi venti anni fa; altri - la maggior parte - sono stati scritti nel corso degli ultimi cinque anni. Il lettore comprenderà che, in una stesura così prolunga ta nel tempo, è difficile evitare le ripetizioni e, a volte, le discordanze.
Prologo
I. È curioso come in Guy Debord una lucida coscienza dell'insufficienza della vita privata si accompagnasse alla più o meno comapevole convinzione che vi fosse, nella propria esistenza o in quella dei suoi amici, qualcosa di unico e di esemplare, che esigeva di essere ricordato e comunicato. Già in Critique de la séparation, egli evoca così a un certo punto come intrasmissibile «cette clandestinité de la vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dérisoires>> (DEBORD, p. 49); e, tuttavia, nei suoi primi film e ancora in Panégyrique, non cessano di sfilare uno dopo l'altro i vol ti degli amici, di Asger ]orn, di Maurice W)rckaert, di /van Chtcheglov e il suo stesso volto, accanto a quello delle donne che ha amato. E non solo, ma in Panégyrique compaiono anche le case in cui ha abitato, il 28 della via delle Caldaie a Firenze, la casa di campagna a Champot, lo square des Missions étrangères a Parigi (in realtà il I09 della rue du Bac, il suo ultimo indirizzo parigino, nel cui salotto una fo tografia del Il}84 lo ritrae seduto sul divano di cuoio inglese che sembrava piacergli). Vi è qui come una contraddizione centrale, di cui i si tuazionisti non sono riusciti a venire a capo e, insieme, qual cosa di prezioso che esige di essere ripreso e sviluppato -forse l'oscura, inconfessata coscienza che l'elemento genuinamente politico consista proprio in questa incomunicabile, quasi ri dicola clandestinità della vita privata. Poiché certo essa - la clandestina, la nostra forma-di-vita - è così intima e vicina, che, se proviamo ad afferrarla, ci lascia fra le mani soltanto l'impenetrabile, tediosa quotidianità. E, tuttavia, forse pro prio quest'o monima, promiscua, ombrosa presenza custodisce il segreto della politica, l'altrafaccia dell'arcanum imperii, su
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L ' USO DEI CORPI
cui naufragano ogni biografia e ogni rivoluzione. E Guy, che era così abile e accorto quando doveva analizzare e descrivere leforme alienate dell'esistenza nella società spettacolare, è così candido e inerme quando prova a comunicare la forma della sua vita, a fissare in viso e a sfatare il clandestino con cui ha condiviso fino all'ultimo il viaggio. girum imus nocte et consumimur igni (I978) si apre con una dichiarazione di guerra contro il suo tempo e prosegue con un'analisi inesorabile delle condizioni di vita che la società mercantile allo stadio estremo del suo sviluppo ha istaurato su tutta la terra. Improvvisamente, tuttavia, circa a metà delfilm, la descrizione dettagliata e impietosa si arresta per lasciare il posto alla malinconica, quasi flebile evocazione di ricordi e vicende personali, che anticipano l'intenzione di chiaratamente autobiografica di Panégyrique. Guy rammen ta la Parigi della sua giovinezza, che non esiste più, nelle cui strade e nei cui caffè era partito con i suoi amici all'ostinata ricerca di quel «Graal néfoste, dont personne n'avait voulu». Benché il Graal in questione, «intravisto fuggevolmente», ma non «incontrato», dovesse avere indiscutibilmente un signifi cato politico, poiché coloro che lo cercavano «si sono trovati in grado di comprendere la vita falsa alla luce della vera» (DEBORD, p. 252), il tono della rievocazione, scandita da cita zioni dall'Ecclesiaste, da Ornar Khayyam, da Shakespeare e da Bossuet, è altrettanto indiscutibilmente nostalgico e tetro: «À la moitié du chemin de la vraie vie, nous étions environ nés d'u ne sombre mélancolie, qu'o nt exprimée tant des mots ràilleurs et tristes, dans le café de la jeunesse perdue» (ivi, p. 240). Di questa giovinezza perduta, Guy ricorda il disor dine, gli amici e gli amori («comment ne me serais-je pas souvenu des charmants voyous et des filles orgueilleuses avec qui )'ai habité ces bas-fonds. . . >> - p. 237), mentre sullo scher mo appaiono le immagini di Gil J Wolman, di Ghislain de Marbaix, di Pinot-Gallizio, di Attila Kotanyi e di Dona/d Nicholson-Smith. Ma è verso la fine del film che l'impulso autobiografico riappare con più forza e la visione di Firenze quand elle était libre s'intreccia con le immagini della vita privata di Guy e delle donne con cui è vissuto in quella città 2.
In
PROLOGO
13
negli anni settanta. Si vedono poi passare rapidamente le case in cui Guy ha vissuto, l'impasse de Clairvaux, la rue St. Jacques, la rue St. Martin, una pieve nel Chianti, Champot e, ancora una volta, i volti degli amici, mentre si ascoltano le parole della canzone di Gilles in Les visiteurs du soir: « Tristes enfants perdus, nous errions dans la nuit. . . ». E, po che sequenzeprima della fine, i ritratti di Guy a I9, 25, 27, JI e 45 anni. Il nefasto Graal, di cui i situazionisti sono partiti alla ricerca, concerne non soltanto la politica, ma, in qualche modo, anche la clandestinità della vita privata, di cui ilfilm non esita a esibire, apparentemente senza pudore, i «docu menti ridico/i>;. 3· L'intenzione autobiografica era, del resto, già presen te nel palindromo che dà il titolo al film. Subito dopo aver evocato la sua giovinezza perduta, Guy aggiunge che nulla ne esprimeva meglio lo scialo di questa «antica frase costruita lettera per lettera come un labirinto senza uscita, in modo che essa accorda perfettamente la forma e il contenuto della perdi ta: In girum imus nocte et consumimur igni. "Giriamo in cerchio nella notte e siamo divorati dalJùoco "». La frase, definita a volte il «verso del diavolo», proviene, in realtà, secondo una corsiva indicazione di Heckscher, dalla letteratura emblematica e si riferisce alle falene inesorabil mente attratte dalla fiamma della candela che le consumerà. Un emblema si compone di una impresa - cioè unafrase o un motto - e di un'immagine; nei libri che ho potuto consultare, l'immagine dellefalene divorate dalJùoco compare spesso, ma non è però mai associata al palindromo in questione, bensì a frasi che si riferiscono alla passione amorosa («così vivo pia cer conduce a morte>;, «così de ben amar porto tormento») o, in qualche raro caso, all'imprudenza in politica o in guerra («non temere est cuiquam temptanda potentia regis», «temere ac periculose»). Negli Amorum emblemata di Otto van Vt>en (I6o8) a contemplare lefalene che si precipitano verso la fiam ma della candela è un amore alato e l'impresa suona: brevis et damnosa voluptas. È probabile, quindi, che Guy, scegliendo il palindromo come titolo, paragonasse se stesso e i suoi compagni allefalene
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L ' uso DEI CORPI
che, amorosamente e temerariamente attratte dalla luce, sono destinate a perdersi e a consumarsi nelfuoco. Nellldeologia tedesca - un'opera che Guy conosceva perfettamente - Marx evoca criticamente la stessa immagine: «ed è così che lefoifalle notturne, quando ilsole dell'universale è tramontato, cercano la luce della lampada del particolare>>. Tanto più singolare è che, malgrado questa avvertenza, Guy abbia continuato a inseguire questa luce, a spiare ostinatamente la fiamma dell'e sistenza singolare e privata. 4· Verso la fine degli anni novanta, sui banchi di una libreria parigina, il secondo volume di Panégyrique, con tenente l'iconografia, si trovava - per caso o per un'ironica intenzione del libraio - accanto all'autobiografia di Pau! Ricceur. Niente è più istruttivo che comparare l'uso delle im magini nei due casi. Mentre le fotografie de/ libro di Ricceur ritraevano il filosofo unicamente nel corso di convegni ac cademici, quasi che egli non avesse avuto altra vita al di fuori di quelli, le immagini di Panégyrique pretendevano a uno statuto di verità biografica che riguardava l'esistenza dell'autore in tutti i suoi aspetti. «L'illustration authentique>> avverte la breve premessa «éclaire le discours vrai. . . o n saura donc enfin quelle était mon apparence à dijférentes ages; et quel genre de visages m'a toujours entouré; et quels lieux j'ai habités. . . >>. Ancora una volta, nonostante l'evidente insuffi cienza e la banalità dei suoi documenti, la vita - la clande stina - è in primo piano. 5· Una sera, a Parigi, Alice, quando le dissi che molti giovani in Italia continuavano a interessarsi agli scritti di Guy e aspettavano da lui una parola, rispose: «on existe, cela devrait leur suffire>>. Che cosa voleva dire: on existe? Certo, in quegli anni, essi vivevano appartati e senza telefono fra Parigi e Champot, in un certo senso con gli occhi rivolti al passato e la loro «esistenza>> era, per così dire,' interamente appiattita sulla «clandestinità della vita privata>>. Eppure, ancora poco prima del suicidio nel novembre del I994· il titolo dell'ultimo film preparato per Canal plus: Guy Debord, son art, son temps, non sembra - malgrado
PROLOGO
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quel son art davvero inaspettato - del tutto ironico nella sua intenzione biografica e, prima di concentrarsi con una stra ordinaria veemenza sull'orrore del «suo tempo>>, questa sorta di testamento spirituale reitera con lo stesso candore e le stesse vecchie fotografie l'evocazione nostalgica della vita trascorsa. Che cosa significa dunque: on existe? L'esistenza - que sto concetto in ogni senso fondamentale della filosofia prima dell'Occidente - ha forse costitutivamente a che fare con la vita. «Essere» scrive Aristotele «per i viventi significa vivere». E, secoli dopo, Nietzsche precisa: «Essere: noi non ne ab biamo altra rappresentazione che vivere». Portare alla luce - al di fuori di ogni vitalismo - l'intimo intreccio di essere e vivere: questo è certamente oggi il compito del pensiero (e della politica). 6. La società dello spettacolo si apre con la parola
«vita» (« Toute la vie des sociétés dans lesquelles règnent les conditions modernes de production s'annonce comme une immense accumulation de spectacles») efino allafine l'analisi de/ libro non cessa di chiamare in causa la vita. Lo spettacolo, in cui «ciò che era direttamente vissuto si allontana in una rappresentazione», è definito come una «inversione concre ta della vita». «Quanto più la vita dell'u omo diventa il suo prodotto, tanto più egli è separato dalla sua vita» (n. 33) La vita nelle condizioni spettacolari è una «falsa vita» (n. 48) o una «sopravvivenza» (n. I54) o uno «pseudo-uso della vita» (n. 49). Contro questa vita alienata e separata, viene fotto valere qualcosa che Guy chiama «vita storica» (n. I39), che appare già nel Rinascimento come una «rottura gioiosa con l'eternità»: mella vita esuberante delle città italiane . . . la vita si conosce come un godimento delpassaggio del tempo». Già anni prima, in Sur le passage de quelques personnes e in Critique de la séparation, di sé e dei compagni Guy dice che «essi volevano reinventare tutto ogni giorno, rendersi padroni e possessori della loro propria vita» (p. 22), che i loro incontri erano come «dei segnali provenienti da una vita più intensa, che non è stata veramente trovata» (p. 47). Che cosafosse questa vita «più intensa», che cosa venisse rovesciato o falsificato nello spettacolo, o anche soltanto che
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L ' USO DEI CORPI
cosa si debba intendere per «vita della società» non è chiari to in alcun momento; e, tuttavia, sarebbe troppo facile rim proverare all'autore incoerenza o imprecisione terminologica. Guy non fa qui che ripetere un atteggiamento costante nella nostra cultura, in cui la vita non è mai definita come tale, ma viene di volta in volta articolata e divisa in bios e zoè, vita politicamente qualificata e nudd vita, vita pubblica e vita privata, vita vegetativa e vita di relazione, in modo che ognuna delle partizioni non sia determinabile che nella sua relazione alle altre. Ed è, forse, in ultima analisi proprio l'in decidibilità della vita chefa sì che essa debba ogni volta essere politicamente e singolarmente decisa. E l'indecisione di Guy tra la clandestinità della sua vita privata - che, col passar del tempo, doveva apparirgli sempre più sfuggente e indocu mentabile - e la vita storica, tra la sua biografia individuale e l'epoca oscura e irrinunciabile in cui essa si iscrive, tradisce una difficoltà che, almeno nelle condizioni presenti, nessuno può illudersi di aver risolto una volta per tutte. In ogni caso, il Graal caparbiamente ricercato, la vita che inutilmente si consuma nella fiammtJ- non era riducibile a nessuno dei ter mini opposti, né all'idiozia della vita privata né all'incerto prestigio della vita pubblica e revocava anzi in questione la possibilità stessa di distinguerle. Ivan Illich ha osservato che la nozione corrente di vita (non «una vita», ma «la vita» in generale) è percepi ta come un «fotto scientifico», che non ha più alcun rap porto con l'esperienza del singolo vivente. Essa è qualcosa di anonimo e generico, che può designare di volta in volta uno spermatozoo, una persona, un'ape, una cellula, un orso, un embrione. Di questo «fotto scientifico», così generico che la scienza ha rinunciato a definirlo, la Chiesa ha fotto l'ultimo ricettacolo del sacro e la bioetica il termine chiave del suo impotente sciocchezzaio. In ogni caso, «vita» ha oggi più a che fare con la sopravvivenza che con la vitalità o la forma di vita dell'individuo. In quanto in essa si è insinuato in questo modo un resi duo sacra/e, la clandestina che Guy inseguiva è diventata an cora più inafferrabile. Il tentativo situazionista di restituire 1·
PROLOGO
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vita alla politica si urta a una difficoltà ulteriore, ma non è per questo meno urgente.
la
8. Che significa che la vita privata ci accompagna co me una clandestina? /nnanzitutto, che essa è separata da noi come lo è un clandestino e, insieme, da noi inseparabile, in quanto, come un clandestino, condivide nascostamente con noi l'esistenza. Questa scissione e questa inseparabilità defi niscono tenacemente lo statuto della vita nella nostra cultura. Essa è qualcosa che può essere diviso - e, tuttavia, ogni volta articolato e tenuto insieme in una macchina medica o filoso fico-teologica o biopolitica. Così non è soltanto la vita privata ad accompagnarci come una clandestina nel nostro lungo o breve viaggio, ma la stessa vita corporea e tutto ciò che tradi zionalmente si iscrive nella sfera della cosiddetta «intimità»: la nutrizione, la digestione, l'orinare, il defecare, il sonno, la sessualità . . . E il peso di questa compagna senza volto è così forte che ciascuno cerca di condividerlo con qualcun altro e, tuttavia, estraneità e clandestinità non scompaiono mai del tutto e permangono irrisolte anche nella convivenza più amorosa. La vita è qui veramente come la volpe rubata che il ragazzo nasconde sotto le vesti e non può confessare benché gli dilani atrocemente la carne. È come se ciascuno sentisse oscuramente che proprio l'opacità della vita clandestina racchiude in sé un elemento genuinamente politico, come tale per eccellenza condivisibile - e, tuttavia, se si prova a condividerlo, esso sfugge ostinata mente alla presa e non lascia dietro di sé che un resto ridicolo e incomunicabile. Il castello di Silling, in cui ilpotere politico non ha altro oggetto che la vita vegetativa dei corpi, è, in que sto senso, la cifra della verità e, insieme, delfallimento della politica moderna - che è, in realtà, una biopolitica. Occorre cambiare la vita, portare la politica nel quotidiano - eppure, nel quotidiano, il politico non può che naufragare. E quando, come avviene oggi, l'eclisse della politica e della sfera pubblica non lascia sussistere che ilprivato e la nu da vita, la clandestina, rimasta sola padrona del campo, deve, in quanto privata, pubblicizzarsi e provare a comunicare i propri non più risibili (e, tuttavia, ancora tali) documenti,
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L ' uso DEI CORPI
che coincidono ormai immediatamente con essa, con le sue uguali giornate riprese dal vivo e trasmesse sugli schermi ad altri, una dopo l'altra. E, tuttavia, solo se il pensiero sarà capace di trovare l'e lemento politico che si è nascosto nella clandestinità dell'esi stenza singolare, solo se, al di là della scissionefra pubblico e privato, politica e biografia, zoè e bios, sarà possibile deline are i contorni di una forma-di-vita e di un uso comune dei corpi, la politica potrà uscire dal suo mutismo e la biografia individuale dalla sua idiozia.
1.
L'uso dei corpi
1.
, r uomo senz opera
1.1. Lespressione «l'uso del corpo» (he tou somatos ch resis) si legge all'inizio della Politica di Aristotele (1254b 18) , nel punto in cui si tratta di definire la natura dello schiavo. Aristotele ha appena affermato che la città è composta di famiglie o case (oikiai) e che la famiglia, nella sua forma perfetta, è composta da schiavi e uomini liberi (ek doulon kai eleutheron, gli schiavi sono menzionati prima dei liberi - 1253b 3-5) . Tre specie di relazioni definiscono la famiglia: la relazione despotica (despotikè) fra il padrone (despotes) e gli schiavi, la relazione matrimoniale (gamikè) fra ma rito e moglie e la relazione parentale (technopoietikè) fra il padre e i figli (7-11) . Che la relazione padrone l schiavo sia in qualche modo, se non la più importante, almeno la più evidente è suggerito - oltre al suo essere nomina ta per prima - dal fatto che Aristotele precisa che le due ultime relazioni sono «anonime», mancano di un nome proprio (il che sembra implicare che gli aggettivi gamikè e technopoietikè siano solo una denominazione impropria escogitata da Aristotele, mentre tutti sanno che cos'è una relazione «despotica») . I n ogni caso, l'analisi della prima relazione, che segue immediatamente, costituisce in qualche modo la soglia introduttiva al trattato, quasi che solo una retta compren sione preliminare della relazione despotica permettesse l'accesso alla dimensione propriamente politica. Aristotele comincia col definire lo schiavo come un essere che, «pur essendo umano, è per natura di un altro e non di sé», chie dendosi immediatamente dopo «se un simile essere esista per natura o se, invece, la schiavitù sia sempre contraria alla natura» (1254a 15-18) .
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L ' USO DEI CORPI
La risposta passa attraverso una giustificazione del comando («comandare ed essere comandati fanno parte delle cose non soltanto necessarie, ma anche convenienti» - 21-22) , che, negli esseri viventi, viene distinto in co mando despotico (archè despotikè) e comando politico (archè politikè) , paragonati rispettivamente al comando dell'anima sul corpo e a quello dell'intelligenza sull'ap petito. E come, nel paragrafo precedente, aveva affermato in generale la necessità e il carattere naturale (physei) del comando non solo fra gli esseri animati, ma anche nel le cose inanimate (il modo musicale è, in Grecia, archè dell'armonia) , egli cerca ora di giustificare il comando di alcuni uomini sugli altri: l'anima comanda al corpo con un comando despotico, mentre l'intelletto comanda all'appetito con un comando politico o regale. Ed è chiaro, in questi esempi, che è con forme alla n� tura e conveniente per il corpo essere coman dato dall'anima e per la parte passionale essere comandata dall'intelletto e dalla parte che possiede la ragione, mentre la loro uguaglianza o la loro inversione sarebbe nociva ad entrambi . . . Lo stesso deve dunque avvenire anche per tut ti gli uomini . . . [1254b 5- 16] . N L'idea che l'anima si serva del corpo come di uno strumento e, insieme, lo comandi era stata formulata da Pla tone in un passo delfAlcibiade (IJOa I) che Aristotele doveva verisimilmente avere in mente quando cerca di fondare il dominio del padrone sullo schiavo attraverso quello dell'a nima sul corpo. Decisiva è, però, la precisazione, genuinamente aristo telica, secondo la quale il comando che l'anima esercita sul corpo non è di natura politica (la relazione «despotica)) fra padrone e schiavi è del resto, come abbiamo visto, una del le tre relazioni che, secondo Aristotele, definiscono loikia). Ciò significa - secondo la chiara distinzione che, nel pensie ro di Aristotele, separa la casa (oikia) dalla città (polis) che il rapporto anima/corpo (come quello padronelrchiavo) è un rapporto economico-domestico e non politico (com'è,
L ' UOMO SENZ' OPERA
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invece, quellofra intelletto e appetito). Ma ciò significa, an che, che la relazione fra il padrone e lo schiavo e quella fra l'anima e il corpo si definiscono a vicenda e che è anche alla prima che dobbiamo guardare se vogliamo comprendere la seconda. L'anima sta al corpo come il padrone allo schiavo. La cesura che divide la casa dalla città insiste sulla stessa soglia che separa e, insieme, unisce l'anima e il corpo, il pa drone e lo schiavo. Ed è solo interrogando questa soglia che il rapporto fra economia e politica in Grecia potrà diventare veramente intellegibile. 1.2. È a questo punto che compare, quasi in forma di una parentesi, la definizione dello schiavo come «l'essere la cui opera è l'uso del corpo»: quegli uomini che diff eriscono fra loro come l'anima dal corpo e l'uomo dalla bestia - e sono in questa condizione coloro la cui opera è l'uso del corpo [oson esti ergon he tou somatos chresis] e questo è il meglio (che può venire) da essi [ap' auton beltiston] questi sono per natura schiavi, per i quali è meglio essere comandati con questo comando, come sopra detto [1254b 17-20] . -
Il problema di quale sia l'ergo n, l'opera e la funzione propria dell'uomo, era stato posto da Aristotele nell'E tica nicomachea. Alla domanda se vi sia qualcosa come un'opera dell'uomo come tale (e non semplicemente del falegname, dell'auleta o del calzolaio) o se l'uomo non sia invece nato senz'opera (argos) , Aristotele aveva qui risposto affermando che «I'opera dell'uomo è l'essere-in opera dell'anima secondo il logos» (ergon anthropou psy ches energeia katà logon 1098a 7) . Tanto più singolare è, allora, la definizione dello schiavo come quell'uomo la cui opera consiste soltanto nell'uso del corpo. Che lo schiavo sia e resti un uomo è, per Aristotele, fuori que stione (anthropos on, «pur essendo uomo» - 1254a 16) . Ciò significa, tuttavia, che vi sono degli uomini il cui ergon non è propriamente umano o è diverso da quello degli altri uomini. -
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L ' USO DEI CORPI
Già Platone aveva scritto che l'opera di ciascun essere (che si tratti di un uomo, di un cavallo o di qualsiasi altro vivente) è «ciò che egli è il solo a fare o fa in un modo più bello degli altri» (monon ti e kallista ton allon apergazetai - Resp. , 353a 10) . Gli schiavi rappresentano l'emergere di una dimensione dell'umano in cui l'opera migliore («il meglio di essi» - il beltiston della Politica richiama verisi milmente il kallista della · Repubblica) - è non l'essere-in opera (energeia) dell'anima secondo il logos, ma qualcosa per cui Aristotele non trova altra denominazione che «l'u so del corpo». Nelle due formule simmetriche ergon anthropou psyches energeia katà logon ergon (doulou) he tou somatos chresis l'opera dell'uomo è l'essere- in- atto dell'anima secondo il
logos l'opera dello schiavo è l'uso del corpo,
energeia e chresis, essere-in-opera e uso, sembrano giustapporsi puntualmente come psychè e soma, anima e corpo. 1.3. La corrispondenza è tanto più significativa dal momento che noi sappiamo che, nel pensiero di Aristo tele, vi è, fra i due termini energeia e chresis, una stretta e complessa relazione. In uno studio importante, Strycker (STRYCKER, pp. 159-160) ha mostrato che la classica oppo sizione aristotelica di potenza (dynamis) e atto (energeia, lett. «essere-in-opera») aveva in origine la forma di un' op posizione fra dynamis e chresis (essere in potenza e essere in uso) . Il paradigma dell'opposizione si trova nell'Eutidemo di Platone (28od) , che distingue fra il possesso (ktesis) di una tecnica e degli strumenti appropriati senza servirsene e il loro impiego in atto (chresis). Secondo Strycker, Ari stotele avrebbe cominciato, sull'esempio del maestro, col
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distinguere (ad esempio in Top. , 130a 19-24) tra il possede re una scienza (epistemen echein) e l'usarla (epistemei chres thai) e avrebbe poi tecnicizzato l'opposizione sostituendo al comune chresis un vocabolo di sua invenzione, scono sciuto a Platone: energeia, essere-in-opera. In effetti, nelle opere giovanili, Aristotele si serve di chresis e chresthai in un senso simile a quello del più tardo energeia. Così, nel Protrettico, dove la filosofia è definita ktesis kai chresis sophias, «possesso e uso della saggezza>> (Di.iRING, fr. s8) , Aristotele distingue con cura coloro che posseggono la vista tenendo gli occhi chiusi e coloro che la usano effettivamente e, nello stesso modo, fra chi si serve della scienza e colui che semplicemente la possiede (ivi, fr. B79) . Che l'uso abbia qui una connotazione eti ca e non solo ontologica in senso tecnico, è evidente nel passo in cui il filosofo cerca di precisare il significato del verbo chresthai: Usare [chresthai] qualcosa consiste dunque in questo: quando vi sia la capacità [dynamis] di fare una sola cosa, questa si faccia; se invece le cose possibili sono molte, si faccia quella di esse che è la migliore, come avviene per l 'uso dei flauti, quando qualcuno usa il flauto nel modo unico e migliore . . . Si deve dire, pertanto, che usa colui che usa rettamente, poiché per colui che usa rettamente sono presenti tanto il fine che la conformità alla natura [fr. B84] .
Nelle opere più tarde, Aristotele continua a servirsi del termine chresis in un senso simile a quello di energeia e, tuttavia, i due termini non sono semplicemente sino nimi, ma vengono spesso affiancati quasi per integrarsi e completarsi a vicenda. Così, nei Magna moralia, dopo aver affermato che «l'uso è preferibile all'abito)) (hexis, che indica il possesso di una dynamis o di una techne) e che «nessuno vorrebbe avere la vista se non può vedere e deve tenere gli occhi chiusi)), Aristotele scrive che «la felicità consiste in un certo uso e nell' energeia)) (en chresei tini kai energeiai n84b 13-32) . La formula, che si trova anche -
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nella Politica (estin eudaimonia aretes energeia kai chresis tis teleios, «la felicità è un essere-in-opera e un certo uso per fetto della virtÙ» - Poi. , 1328a 38) mostra che i due termini sono, per Aristotele, insieme simili e distinti. Nella de finizione della felicità, l'essere-in-opera e l'essere-in-uso, prospettiva antologica e prospettiva etica si integrano e condizionano a vicenda. Poiché Aristotele non definisce il termine energeia se non in modo negativo rispetto alla potenza (esti d' he energeia to hyparchein to pragma me outos hosper legomen dynamei, «è energeia l'esistere di una cosa, ma non nel senso in cui diciamo che essa è in potenza» - Metaph. , 1048a 31) , tanto più urgente sarà provare a comprende re, in questo contesto, il significato del termine chresis (e del verbo corrispondente chresthai) . È certo, in ogni caso, che l'abbandono aristotelico del termine chresis a favore di energeia come termine chiave dell'antologia ha determina to in qualche misura il modo in cui la filosofia occidentale ha pensato l'essere come attualità. N Come il tenere gli occhi chiusi, così anche il sonno in Aristotele è per eccellenza il paradigma della potenza e della hexis, e, in questo senso, esso è contrapposto e subordinato all'uso, assimilato invece alla veglia: «L'esistenza tanto del sonno che della veglia implica quella dell'anima; ma la ve glia è simile al sapere in atto, il sonno a un avere senza eser citare» (echein kai me energein De an., 4J2a 25). L'i n feriorità del sonno, in quanto figura della potenza, rispetto a/l'energeia è affermata con ancora più decisione nelle opere etiche: «Che la felicità sia unenergeia, si vede da questo: se un uomo passa la vita a dormire, non lo diremmo certo feli ce. Egli ha, infatti, il vivere, ma non il vivere secondo virtÙ» (M. Mor., n85a 9-I4). -
1.4. Negli studi moderni sulla schiavitù nel mondo antico, il problema - con un singolare anacronismo, vi sto che gli antichi mancavano persino del termine cor rispondente - è considerato unicamente sotto il profilo dèll' organizzazione del «lavoro» e della produzione. Che
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i Greci e i Romani potessero vedervi un fenomeno di altro ordine, che richiedesse una concettualizzazione del tutto diversa dalla nostra, sembra irrilevante. Tanto più scandaloso appare allora ai moderni il fatto che i filoso fi antichi non soltanto non abbiano problematizzato la schiavitù, ma sembrino accettarla come ovvia e naturale. Capita così di leggere, all'esordio di un'esposizione re cente della teoria aristotelica della schiavitù, che questa presenta aspetti francamente «ignobili», mentre la più elementare cautela metodologica avrebbe dovuto sugge rire, piuttosto che lo scandalo, un'analisi preliminare del contesto problematico in cui il filosofo iscrive la questio ne e della concettualità attraverso la quale egli cerca di definirne la natura. Della teoria aristotelica della schiavitù esiste, fortu natamente, una lettura esemplare, che si sofferma sul ca rattere del tutto speciale della trattazione che il filosofo fa del problema. In un saggio del 1973, Vietar Goldschmidt mostra che Aristotele rovescia qui la sua metodologia abi tuale, secondo cui, di fronte a un fenomeno, occorre pri ma chiedersi se esso esista e solo successivamente provare a definirne l'essenza. Rispetto alla schiavitù, egli fa esatta mente il contrario: ne definisce prima - in verità, piuttosto sbrigativamente - l'essenza (lo schiavo è un uomo che non è di sé, ma di un altro) per passare poi a interrogarne l'e sistenza, ma anche questo in un modo affatto particolare. La domanda non riguarda, infatti, l'esistenza e la legittimi tà della schiavitù come tale, ma il «problema fisico» della schiavitù ( GoLDSCHMIDT, p. 75): si tratta, cioè, di stabilire se esista in natura un corpo corrispondente alla definizione dello schiavo. I..:inchiesta non è, cioè, dialettica, bensì fi sica, nel senso in cui Aristotele distingue nel De anima (403a 29) il metodo del dialettico, che definisce, ad esem pio, la collera come un desiderio di vendetta, da quello del fisico, che vedrà in essa soltanto un ribollire del sangue intorno al cuore. Raccogliendo e svolgendo il suggerimento di Gold schmidt, possiamo allora affermare che la novità e la spe cificità della tesi aristotelica è che il fondamento della
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schiavitù è di ordine strettamente «fisico» e non dialettico, che esso può, cioè, soltanto consistere in una differenza corporea rispetto al corpo dell'uomo libero. La domanda diventa a questo punto: «esiste qualcosa come un corpo (dello) schiavo?». La risposta è affermativa, ma con tali restrizioni, che ci si è potuto legittimamente chiedere se la dottrina di Aristotele, che i moderni hanno sempre in teso come una giustificazione della schiavitù, non dovesse invece apparire ai suoi contemporanei come un attacco (BARKER, p. 369) . La natura - scrive Aristotele - vuole [bouletai] rendere dif ferenti i corpi degli uomini liberi da quelli degli schiavi, facendo questi forti per l'uso necessario [pros ten ananka ian chresin] e i primi, invece, dritti di statura e inadatti per questo tipo di opere e adatti alla vita politica . . . ma capita spesso il contrario e alcuni hanno solo il corpo dei liberi e altri l'anima. È evidente, infatti, che se gli uomini liberi fossero diversi quanto al corpo come lo sono le statue degli dei, tutti converrebbero che quelli che sono inferiori meritano di servirli come schiavi. E se questo è vero per il corpo, sarebbe ancora più giusto affermarlo per l'anima; ma la bellezza dell'anima non è altrettanto facile da vedere che quella del corpo [Pol, I254b 28 sqq.] .
La conclusione che Aristotele immediatamente ne trae è, pertanto, incerta e parziale: «È chiaro [phaneron, che qui non indica in alcun modo una conclusione lo gica, ma vale piuttosto: "è un fatto"] che vi sono alcuni [tines] che sono liberi per natura e altri che sono schiavi, e per questi ultimi servire conviene ed è giusto [symphe rei to douleuein kai dikaion estin] » (1255a 1-2) . Come egli ripete poche righe dopo: «la natura vuole [bouletai] fare questo [scii. che da un genitore nobile e buono venga un figlio simile ad esso] , ma non lo può [dynatai] sempre» (1255b 4) . Lungi dall'assicurarle un fondamento certo, la trat tazione «fisica» della schiavitù lascia senza risposta la sola domanda che avrebbe potuto fondarla: «esiste o no una
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differenza corporea fra lo schiavo e il padrone?». Questa domanda implica almeno in via di principio l'idea che sia possibile un altro corpo per l'uomo, che il corpo umano sia costitutivamente diviso. Cercare di comprendere che cosa significa «uso del corpo» significherà anche pensare quest'altro possibile corpo dell'uomo. N L'idea di un fondamento della schiavitù è ri presa senza riserve secoli dopo da Sade, che mette sulle labbra de/ libertino Saint-Fond questa perentoria argomentazione:
Guarda le opere della natura e considera tu stesso l'estrema differenza che la sua mano ha posto nella formazione degli uomini nati nella prima classe [i padroni} e quelli nati nella seconda [i servi}. Hanno forse la stessa voce, la stessa pelle, le stesse membra, la stessa andatura, gli stessi gusti e - oserei dire - gli stessi bisogni? È vano obiettare che a stabilire queste differenze sono stati il lusso e l'educazione e che, nello stato di natura, gli uni e gli altri sono assolutamente simili fin dall'in fanzia. lo lo nego, ed è sia per averlo notato io stesso che per averlo fotto osservare da abili anatomisti che affermo che non vi è alcuna somiglianza nella conformazione degli uni e degli altri. . . Non dubitate più, juliette, di queste disuguaglianze e, visto che esse esistono, non dobbiamo esitare ad approfit tarne e a convincerci che, se la natura ha voluto farci nascere nella prima di queste due classi d'uomini, è perché possiamo godere come ci aggrada del piacere di incatenare l'altro e di farlo despoticamente servire a tutte le nostre passioni e a tutti i nostri bisogni.
La riserva di Aristotele è qui scomparsa e la natura rea lizza immancabilmente ciò che vuole: la differenza corporea fra padroni e schiavi. 1.5. Tanto più sorprendente è che Goldschmidt, do po aver registrato con tanta precisione il carattere «fisico» dell'argomentazione aristotelica, non la metta in alcun modo in relazione con la definizione dello schiavo in termini di «uso del corpo» che immediatamente precede
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né tragga da questa alcuna conseguenza quanto alla con cezione stessa della schiavitù. È possibile, invece, che la comprensione della strategia che spinge Aristotele a con cepire �n modo puramente «fisico» l'esistenza dello schia vo si dischiuda soltanto se si cerca preliminarmente di intendere il significato della formula «l'uomo la cui opera è l'uso del corpo». Se Aristotele riduce il problema dell'e sistenza dello schiavo a quello dell'esistenza del suo corpo, ciò è forse perché la schiavitù definisce una dimensione dell'umano (che lo schiavo sia un uomo è, per lui, fuori di dubbio) affatto singolare, che il sintagma «uso del corpo» cerca di nominare. Per comprendere che cosa Aristotele intenda con questa espressione, converrà leggere il passo, di poco pre cedente, in cui la definizione della schiavitù si incrocia con la questione del suo essere giusta o violenta, per na tura (physei) o per convenzione (nomoi) e col problema dell'amministrazione della casa (1253b 20 - 1254a 1). Dopo aver ricordato che, secondo alcuni, il potere del capofa miglia sugli schiavi (to despozein) è contro natura e quin di ingiusto e violento (biaion), Aristotele introduce una comparazione fra lo schiavo e i ktemata, le suppellettili (gli arnesi, nel senso ampio che questo termine ha in origine) e gli strumenti (organa) che fanno parte dell'amministra zione di una casa: L'insieme delle suppellettili [kt� sis] è parte della casa e l' ar te di usare le suppellettili [ktetikè] è parte dell'economia (senza le cose necessarie è, infatti, impossibile sia vivere che vivere bene) . Come per ogni tecnica determinata è necessario, se un'opera deve essere compiuta, che vi siano degli strumenti propri [oikeia organa] , così avviene anche per colui che amministra una casa [oikonomikoi] . Degli strumenti, alcuni sono inanimati, altri animati (per chi co manda una nave, il timone è inanimato, l'ufficiale di prua è, invece, animato; nelle tecniche, l'aiutante [hyperetes] esi ste nella forma di uno strumento) . Allo stesso modo anche la suppellettile [ktema] è uno strumento per la vita [pros zoen] e l'insieme delle suppellettili [ktesis] è una moltitu-
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dine di strumenti e anche lo schiavo è in un certo senso una suppellettile animata [ktema ti empsychon] e l'aiutante è come uno strumento per gli strumenti [organon pro or ganon, ovvero uno strumento che viene prima degli altri strumenti] . Se lo strumento potesse compiere la sua opera a comando o provvedendovi in anticipo, come le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto, i quali, secondo il poeta, entravano da soli [automatous] nel consesso degli dei, e se allo stesso modo le spole tessessero da sole e i plettri suo nassero la cetra, allora gli architetti non avrebbero bisogno di aiutanti né i padroni di schiavi.
Lo schiavo è qui paragonato a una suppellettile o a uno strumento animato, che, come i leggendari automi costruiti da Dedalo o da Efesto, può muoversi a coman do. Su questa definizione dello schiavo come «automa» o strumento animato avremo modo di tornare; notiamo, per ora, che lo schiavo, per un greco, sta, in termini moderni, più dalla parte della macchina e del capitale fisso che da quella dell'operaio. Ma si tratta, come vedremo, di una macchina speciale, che non è rivolta alla produzione, ma soltanto all'uso. N Il termine ktema, che abbiamo reso con «suppelletti le», viene spesso tradotto come «oggetto di proprietà». Questa traduzione è fuorviante, perché suggerisce una caratterizza zione in termini giuridici che manca nel termine greco. Forse la definizione più esatta del termine è quella di Senofonte, che spiega ktema come «ciò che è vantaggioso per la vita di ciascuno», precisando che è vantaggioso «tutto ciò di cui si sa fare uso» (Oec., VI, 4). Il vocabolo, com'è del resto evidente nei passi seguenti del testo di Aristotele, rimanda alla sfera dell'uso e non a quella della proprietà. Nella sua trattazione del problema della schiavitù, Aristotele sembra, cioè, inten zionalmente evitare la definizione della schiavitù in termini giuridici che ci aspetteremmo come la più ovvia per spostare la sua argomentazione sul piano dell'«uso del corpo». Che anche nella definizione dello schiavo come «t'uomo che non è di sé ma di altro>>, la contrapposizione autou/allou non vada
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intesa necessariamente in termini di proprietà è provato oltre che dalfotto che «essere proprietario di sé» non avrebbe senso - anche dall'analoga formula che Aristotele usa in Me taph., 982b 25, dove essa rimanda alla sfera dell'autonomia e non a quella della proprietà: «Come diciamo libero l'uomo che è in vista di sé e non di un altro /ho autou heneka kai me allou on}, allo stesso modo diciamo che la saggezza è la sola scienza libera». 1.6. Subito dopo, Aristotele, con un decisivo svolgi mento, collega il tema dello strumento a quello dell'uso: Gli strumenti appena menzionati [le spole e i plettri] so no organi produttivi [poietikà organa] , la suppellettile è, invece, uno strumento pratico [praktikon] . Dalla spola, infatti, si genera qualcosa oltre al suo uso [heteron ti gi netai parà ten chresin autes] , dalla veste e dal letto, invece, soltanto l'uso [he chresis monon] . Dal momento che pro duzione [poiesis] e prassi (praxis] sono differenti per specie e entrambe hanno bisogno di strumenti, è necessario che anche negli strumenti si trovi la stessa differenza. Il modo di vita [bios] è una prassi e non una produzione; pertan to lo schiavo è un aiutante per le cose della prassi. Ora ha lo stesso significato di «parte>> [morion, «pezzo>>, ciò che appartiene a un insieme] e la parte non è semplicemente parte di qualcos'altro [allou] , ma ne fa par te integralmente [holos- alcuni manoscritti hanno haplos, «assolutamente>>, o, con espressione ancora più forte, ha plos holos, «assolutamente e integralmente>>] . Lo stesso può dirsi per la suppellettile. Per questo il padrone è soltanto padrone dello schiavo e non è [parte] di esso; lo schiavo non è soltanto schiavo del padrone, ma è integralmente [parte] di esso. Quali siano la natura [physis] e la potenza [dynamis] dello schiavo è pertanto evidente: colui che, pur essendo uomo [anthropos on], è per natura di un altro, è schiavo per na tura; ed è di un altro l'uomo che, pur essendo uomo, è una suppellettile, cioè uno strumento pratico e separato [organon praktikon kai choriston] [1254a I-I?] .
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L'assimilazione dello schiavo a una suppellettile e a uno strumento è qui svolta distinguendo innanzitutto gli strumenti in strumenti produttivi e strumenti d'uso (che non producono nulla, se non il loro uso) . Nell'espressione «uso del corpo», uso deve essere inteso, pertanto, in senso non produttivo, ma pratico: l'uso del corpo dello schiavo è simile a quello de/ letto o della veste, e non a quello della spola o delplettro. Noi siamo a tal punto abituati a pensare l'uso e la strumentalità in funzione di uno scopo esterno, che non ci è facile intendere una dimensione dell'uso del tutto indipendente da un fine, qual è quella suggerita da Ari stotele: per noi anche il letto serve al riposo e la veste a ripararci dal freddo. Allo stesso modo, siamo abituati a considerare il lavoro degli schiavi alla stregua di quello, eminentemente produttivo, dell'operaio moderno. Una prima, necessaria precauzione è, pertanto, quella di sot trarre «l'uso del corpo» dello schiavo alla sfera della poiesis e della produzione, per restituirla a quella - secondo Ari stotele per definizione improduttiva - della prassi e del modo di vita. N La distinzione fra l'operazione che produce qualcosa di esterno e quella da cui risulta soltanto un uso doveva essere così importante per Aristotele, che egli la svolge in una pro spettiva propriamente antologica ne/ libro 7heta della Meta fisica, dedicato alproblema della potenza e de �l'atto.
Eopera [ergon} egli scrive è il fine e l'essere-in-opera [energeia} è un'opera, e da questa deriva il termine essere-in opera, che significa anche possedersi-nel-jine [entelecheia}. In certi casi, il fine ultimo è l'uso [chresis}, come avviene nella vista [opseos} e nella visione /horasis}, in cui non si produce -
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altro che una visione; in altri, invece, viene prodotto qual cos'altro, ad esempio l'arte di costruire produce, oltre all'a zione di costruire [oikodomesin}, anche la casa . . . In tutti quei casi, dunque, in cui vi è produzione di qualcosa oltre all'uso, l'essere-in-opera è nella cosa prodotta: l'azione di co struire è nella cosa costruita e l'azione di tessere nel tessuto . . .
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L ' USO DEI CORPI Al contrario, in quelle [operazioni} in cui non vi è alcuna opera oltre all'essere-in-opera, in esse risiede l'essere-in-opera, nel senso in cui la visione è nel vedente e la contemplazione [theoria} in colui che contempla e la vita nell'anima» {Me taph., IOJOa 2I-I OJOb I).
Aristotele sembra qui teorizzare un eccesso dell'energeia sull'ergon, dell'essere-in-opera sull'opera, che implica in qual che modo un primato delle operazioni in cui non si produce altro che l'uso su quelle poietiche, la cui energeia risiede in un'opera esterna e che i Greci tendevano a tenere in scarsa considerazione. È certo, in ogni caso, che lo schiavo, il cui ergon consiste soltanto nell'«uso del corpo••, andrebbe iscritto, da questo punto di vista, nella stessa classe in cui figurano la visione, la contemplazione e la vita. 1.7. L assimilazione dello schiavo a un ktema implica, per Aristotele, che esso sia parte (morion) del padrone, e parte in senso integrale e costitutivo. Il termine ktema che, come abbiamo visto, non è un termine tecnico del dirit to, ma dell' oikonomia, non significa «proprietà» in senso giuridico e designa, in questo contesto, le cose in quanto fanno parte di un insieme funzionale e non in quanto ap partengono in proprietà a un individuo (per quest'ultimo senso, un greco non direbbe ta ktemata, ma ta idia). Per questo Aristotele può considerare, come abbiamo visto, ktema come sinonimo di morion e ha cura di precisare che lo schiavo «non soltanto è schiavo del padrone, ma ne è integralmente parte» (1254a 13) . Nello stesso senso, occor re restituire al termine greco organon la sua ambiguità: es so indica tanto lo strumento che l'organo in quanto parte del corpo (scrivendo che lo schiavo è un organon praktikon kai choriston, Aristotele gioca ovviamente sul doppio sen so del termine) . Lo schiavo è a tal punto una parte (del corpo) del padrone, nel senso «organico» e non semplicemente stru mentale del termine, che Aristotele può parlare di una «comunità di vita» fra schiavo e padrone (koinonos zoes 126oa 40) . Ma come dobbiamo intendere, allora, l'«uso
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del corpo» che definisce l'opera e la condizione dello schiavo? E come pensare la «comunità di vita» che lo uni sce al padrone? Nel sintagma tou somatos chresis, il genitivo «del cor po» non va inteso soltanto in senso oggettivo, ma anche (in analogia all'espressione ergo n anthropou psyches ener geia dell'Etica nicomachea) in senso soggettivo: nell'uomo schiavo, il corpo è in uso come, nell'uomo libero, l'anima è in opera secondo ragione. La strategia che porta Aristotele a definire lo schiavo come parte integrante del padrone mostra a questo pun to la sua sottigliezza. Mettendo in uso il proprio corpo, lo schiavo è, per ciò stesso, usato dal padrone, e, usando il corpo dello schiavo, il padrone usa in realtà il proprio corpo. Il sintagma «uso del corpo» non soltanto rappre senta un punto di indifferenza fra genitivo soggettivo e genitivo oggettivo, ma anche fra il corpo proprio e quello dell'altro. N È opportuno leggere la teoria della schiavitù che ab biamo fin qui delineata alla luce dell'idea di Sohn-Rethel, secondo cui nello sfruttamento di un uomo da parte di un altro avviene una rottura e una trasformazione nel rapporto immediato di ricambio organico fra il vivente e la natura. Alla relazione del corpo umano con la natura, si sostituisce così una relazione degli uominifra di loro. Gli sfruttatori vi vono, cioè, dei prodotti de/ lavoro degli sfruttati e il rapporto produttivofra uomo e natura diventa oggetto di une relazione fra uomini, in cui la relazione stessa è reifìcata e appropriata. «Il rapporto produttivo uomo - natura diviene l'oggetto di un rapporto uomo - uomo, viene assoggettato al suo ordinamento e alla sua legge e perciò "snaturato " rispetto allo stato "natura le': per realizzarsi in seguito solo secondo la legge delle forme di mediazione che rappresentano la sua negazione affermati va» (ADORNO, SoHN-RETHEL, p. 32). Nei termini di Sohn-Rethel, si potrebbe dire che quel che avviene nella schiavitù è che il rapporto del padrone con la natura, come Hegel aveva intuito nella sua dialettica per il riconoscimento di sé, è ora mediato dal rapporto dello
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schiavo con la natura. Il corpo dello schiavo nel suo rapporto di ricambio organico con la natura viene, cioè, usato come medio del rapporto del corpo del padrone con la natura. Si può chiedere, tuttavia, se mediare la propria relazione con la natura attraverso la relazione con un altro uomo non sia fin dall'i nizio proprio dell'umano e se la schiavitù non contenga una memoria di questa originale operazione antropogene fica. La perversione comincia soltanto quando la relazione reciproca d'uso viene appropriata e reificata in termini giu ridici attraverso la costituzione della schiavitù come istitu zione sociale. Benjamin ha definito una volta la giusta relazione con la natura non come «dominio dell'uomo sulla natura>>, ma come «dominio del rapporto fra l'uomo e la natura>>. Si può dire, in questa prospettiva, che, mentre il tentativo dipadroneggiare il dominio dell'u omo sulla natura dà luogo alle contraddizioni di cui l'ecologia non riesce a venire a capo, un dominio della relazione fra uomo e natura è reso possibile proprio ddfotto che la relazione dell'uomo con la natura non è immediata, bensì mediata dd/a sua relazione con altri uomini. Io posso costituirmi come soggetto etico del mio rapporto con la natura solo perché questo rapporto è mediato dal rapporto con altri uomini. Se, però, io cerco di appropriarmi, attraverso quella che Sohn-Rethel chiama «socializzazione funzionale>>, della mediazione attraverso l'altro, allora la relazione d'uso decade in sfruttamento e, come la storia del capitalismo mostra a suf ficienza, lo sfruttamento è definito dall'impossibilità di essere padroneggiato (per questo l'idea di uno sviluppo sostenibile in un capitalismo «umanizzato>> è contraddittoria). 1.8. Si rifletta alla singolare condizione dell'uomo il cui ergon è l'uso del corpo e, insieme, alla natura partico lare di questo « Uso» . A differenza del calzolaio, del falegna me, dell'auleta o dello scultore, lo schiavo, anche se eser citasse queste attività - e Aristotele sa perfettamente che ciò poteva avvenire nell' oikonomia della casa - è e rimane essenzialmente senz' opera, nel senso che, a differenza di quanto avviene per l'artigiano, la sua prassi non è definita dall'opera che produce, ma solo dall'uso del corpo.
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Ciò è tanto più sorprendente, in quanto - come Jean-Paul Vernant ha mostrato in uno studio esemplare (VERNANT, VIDAL-NAQUET, pp. 28-33) - il mondo classico non considera mai l'attività umana e i suoi prodotti dal punto di vista del processo lavorativo che essi implicano, ma solo da quello del suo risultato. Yan Thomas ha così osservato che i contratti di opera non determinano mai il valore dell'oggetto commissionato secondo la quantità di lavoro che esso richiede, ma solo secondo i caratteri propri dell'opera prodotta. Gli storici del diritto e dell'e conomia sogliono, per questo, affermare che il mondo classico non conosce il concetto di lavoro. (Sarebbe più esatto dire che esso non lo distingue dall'opera che esso produce) . La prima volta - questa è la scoperta di Yan Thomas - che, nel diritto romano, qualcosa come un la voro appare come una realtà giuridica autonoma, è nei contratti di locatio operarum dello schiavo da parte di chi ne aveva la proprietà o - nel caso secondo Thomas esem plare - l'usufrutto. È significativo che l'isolamento di qualcosa come un ((lavoro» dello schiavo sia potuto avvenire soltanto sepa rando concettualmente l'uso (usus) - che non poteva es sere alienato dall' usuarius e coincideva con l'uso personale del corpo dello schiavo - dal fructus, che il fructuarius po teva alienare sul mercato: Il lavoro a cui ha diritto l' usuarius si confonde con l'uso personale o domestico che egli ha dello schiavo - un uso che esclude il profitto mercantile. Il lavoro a cui ha diritto il Jructuarius può, al contrario, essere alienato sul mercato in cambio di un prezzo: può essere dato in locazione. In entrambi i casi, che si tratti, cioè, di uso o di usufrutto dello schiavo, questi in concreto lavora. Ma la sua attività, che la lingua comune chiamerebbe il suo lavoro, non ha per il diritto lo stesso valore. O lo schiavo resta a disposi zione dell'usuario in persona: si tratta, allora, di un servizio per così dire in natura, che potremmo chiamare un lavoro d'uso, nel senso in cui si parla di un valore d'uso. Oppu re le sue operae, separate da lui, rappresentano una > [usager] e mai un produttore. Il vero problema dell'azione, almeno per quanto riguarda il rap porto dell'uomo con la natura, è quello del delle cose e non della loro trasformazione attraverso il la voro [VERNANT, VIDAL-NAQUET, p. 33] .
In questa prospettiva, l'interpretazione dell'attività dello schiavo in termini di lavoro appare, oltre che ana cronistica, estremamente problematica. In quanto si risol ve in un uso improduttivo del corpo, essa sembra quasi costituire l'altra faccia del buon uso delle cose da parte dell'uomo libero. È possibile, cioè, che l' e l'assenza di opera dello schiavo siano qualcosa di più o, comunque, di diverso da un'attività lavorativa e che essi conservino anzi la memoria o evochino il paradigma di un'attività umana che non è riducibile né al lavoro né alla produzione né alla prassi. 1.11. Hannah Arendt ha ricordato la differenza che separa la concezione antica della schiavitù da quella dei moderni: mentre per questi lo schiavo è un mezzo per pro curarsi forza-lavoro a buon mercato a fini di profitto, per gli antichi si trattava di eliminare il lavoro dall'esistenza propriamente umana, che era incompatibile con esso e che gli schiavi, assumendolo su di sé, rendono possibile. egli non ha mai in teso negare). Ciò significa che, nella cultura occidentale, lo schiavo è qualcosa come un rimosso. Il riemergere dellafigura dello schiavo nel lavoratore moderno si presenta quindi, se condo lo schema freudiano, come un ritorno del rimosso in forma patologica.
1.12. Come intendere quella particolare sfera dell'a gire umano che Aristotele chiama «uso del corpo»? Che
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cosa significa qui «usare»? Si tratta davvero, come Aristo tele sembra suggerire, forse per distinguerla dalla produ zione, di una sorta di prassi (lo schiavo è uno «strumento pratico»)? Nell'Etica nicomachea, Aristotele aveva distinto po iesis e praxis in base alla presenza o all'assenza di un fi ne esterno (la poiesis è definita da un telos esterno che è l'oggetto prodotto, mentre nella prassi «agire bene [eu praxia] è in sé il fine» - 1140b 6) . Che l'uso del corpo non appartenga alla sfera produttiva della poiesis, Aristotele lo afferma più volte senza riserve; ma nemmeno sembra possibile iscriver!o semplicemente nell'ambito della pras si. Lo schiavo è, infatti, assimilato a uno strumento e de finito come «strumento per la vita [zoè] » e «aiutante per la prassi»: ma, proprio per questo, è impossibile dire per le sue azioni che, come avviene per la prassi, agire bene sia in sé il fine. Ciò è tanto vero che Aristotele limita esplicitamente la possibilità di applicare all'azione dello schiavo il concet to di virtù (aretè) che definisce l'agire dell'uomo libero: in quanto lo schiavo è utile per le necessità della vita «è chiaro che egli ha bisogno di poca virtù, quanto basti perché non abbandoni l'opera per intemperanza o per svogliatezza» (Poi. , 126oa 35-36). Non vi è un'aretè dell'uso del corpo dello schiavo, così come (secondo M. Mor. , 1185a 26-35) non vi può essere un'aretè della vita nutritiva che, per que sto, è esclusa dalla felicità. E come sembra sfuggire all'opposizione fra physis e nomos, oikos e polis, l'attività dello schiavo non è nemme no classificabile secondo le dicotomie poiesis lpraxis, agire bene l agire male che dovrebbero definire, secondo Aristo tele, le operazioni umane. N Nel passo citato dei Magna moralia, Aristotele si chiede se sia pensabile una virtù della vita nutritiva (cioè quella parte della vita umana che gli uomini hanno in comune con le piante e che, a partire dai commentatori tardo-antichi, sarà definita «vegetativa»): «Che avviene se chiediamo se vi è una virtù anche per questa parte dell'ani-
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ma? Se sì, è chiaro che vi sarà anche qui un essere-in-opera [energeia} e la felicità è appunto l'essere-in-opera di una virtù perfetta. Se esista una tale virtù, non è qui il caso di discuterne; ma se anche esistesse, non vi sarà un essere-in opera di essa». È interessante riflettere sull'analogia fra un'attività umana priva di ergon e di virtù, qual è quella dello schiavo, e la vita vegetativa, in quanto vita umana esclusa dalla virtù. E come Aristotele sembra suggerire per quest'ultima la possibi lità di una virtù senza essere-in-opera («se anche esistesse, non vi sarà un essere-in-opera di essa»), allo stesso modo si potreb bepensareper il corpo dello schiavo una aretè che non conosce né ergon né energeia e, tuttavia, è sempre in uso. Forse uno dei limiti dell'etica occidentale è stata proprio l'incapacità di pensare una aretè della vita in tutti i suoi aspetti. La ragione per cui Aristotele non può ammettere un'e nergeia e una virtù in atto della vita vegetativa è che essa è, secondo lui, priva di hormè, di impulso o conatus. «Di ciò di cui non vi è hormè» prosegue il passo citato «non vi può essere energeia. Non sembra, infatti, che vi sia un impulso in questa parte dell'anima, ma essa sembra piuttosto simi le al fuoco. Se infatti qualcuno gli getta qualcosa, il fuoco lo divora; ma se non glielo diamo, il fuoco non ha impulso a prender/o. Così avviene per questa parte dell'anima: se le diamo nutrimento, essa si nutre, se non le diamo nulla, non ha impulso a nutrirsi. Non vi è essere-in-opera di ciò di cui non vi è impulso. Per questo l'anima nutritiva non contri buisce alla felicità». Secondo ogni evidenza, è la volontà di escludere dall'e tica la vita nutritiva (dire che qualcosa non contribuisce alla felicità significa, per un greco, escluderlo dall'etica) che induce Aristotele a negar/e qualcosa come un conatus. Un'etica che non wglia escludere una parte della vita dovrà essere in grado non soltanto di definire un conatus e una aretè della vita come tale, ma anche di pensare da capo gli stessi concetti di «impulso» e di «virtÙ». 1.13. Proviamo a fissare in una serie di tesi i caratteri dell'attività che Aristotele definisce «uso del corpo».
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1) Si tratta di un'attività improduttiva (argos, > e, secondo alcu ni, è per questo che nei più antichi sacramentari la messa è definita aedo e l'eucarestia actio sacrifìcii (CASEL, p. 39; BAUMSTARK, pp. 38-39). È un termine proveniente dalla sfera giuridico-religiosa che ha fornito alla politica il suo concetto fondamentale. Una delle ipotesi della presente ricerca è, revocando in questione la centralità dell'azione e delfare per la politica, quella di provare a pensare l'uso come categoria politica fondamentale.
2.
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2 . 1 . Nel marzo del 1950, Georges Redard discute presso l' École pratique de hautes études un mémoire sul si gnificato dei verbi greci chre, chresthai. La commissione era presieduta da É mile Benveniste, che era anche stato il direttore della ricerca. Il mémoire, che il sottotitolo definisce «uno studio di semantica», era stato concepito come un capitolo di una ricerca più ampia sulla termi nologia mantica (i verbi in questione, che noi riferiamo abitualmente alla sfera dell'uso, appartengono in ori gine in greco, secondo Redard, alla famiglia dei «verbi oracolari») . Ciò che più sorprende innanzitutto quando si esami na l'ampio materiale lessicale raccolto da Redard è che il verbo chresthai sembra non avere un significato proprio, ma acquista significati ogni volta diversi secondo il conte sto. Redard elenca così 23 significati del termine, da «con sultare un oracolo» a «avere rapporti sessuali», da «parla re» a «essere infelice», da «colpire col pugno» a «provare nostalgia». La strategia, comune nei nostri dizionari, che consiste nel distinguere i «diversi» significati di un termi ne, per poi rimandare all'etimologia il tentativo di ricon durli a unità, mostra qui la sua insufficienza. Il fatto è che il verbo in questione sembra trarre il suo significato da quello del termine che l'accompagna, che non è di nor ma, come noi moderni ci aspetteremmo, all'accusativo, ma al dativo o, a volte, al genitivo. Si consideri l'elenco seguente, desunto in gran parte dagli esempi menzionati da Redard:
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chresthai theoi, lett. «usare del dio» = consultare un oracolo; chresthai nostou, lett. «usare il ritorno» = provare nostalgia; chresthai logoi, lett. «usare il linguaggio» = parlare; chresthai symphorai, lett. «usare la sventura» = essere infelice; chresthai gynaikì, lett. «usare una donna» = avere rapporti sessuali con una donna; chresthai te polei, lett. «Usare della città» = partecipare alla vita politica; chresthai keirì, lett. «usare la mano» = colpire col pugno; chresthai niphetoi, lett. «usare la neve» = essere soggetto a nevicate; chresthai alethei logoi, lett. «usare un discorso vero» = dire la verità; chresthai lotoi, lett. «usare il loto» = mangiare il loto; cresthai orgei, lett. «usare la collera» = essere collerico; chresthai eugeneiai, lett. «usare la buona nascita» = essere di nobile stirpe; chresthai P/atoni, lett. «usare Platone» = essere amico di Platone. La situazione è del tutto analoga per il corrispondente verbo latino uti: uti honore, lett. «usare una carica» = ricoprire una carica; uti lingua, lett. «usare la lingua» = parlare; uti stultitia, lett. «usare la stoltezza» = essere stolto (o dar prova di stoltezza) ; uti arrogantia, «usare arroganza» = essere arrogante (o dar prova di arroganza); uti misericordia, lett. «usare la misericordia» = essere mise ricordioso (o dar prova di misericordia); uti aura, «usare la brezza» = avere il vento favorevole; uti aliquo, «usare di qualcuno» = avere dimestichezza con qualcuno; uti patre diligente, «usare di un padre diligente» = avere un padre diligente.
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2.2. Ciò che questa esemplificazione rende immedia tamente evidente è che il verbo in questione non può si gnificare, secondo il significato moderno del verbo usare, «servirsi di, utilizzare qualcosa». Si tratta ogni volta di un rapporto con qualcosa, ma la natura di questo rapporto è, almeno in apparenza, così indeterminata, che sembra im possibile definire un senso unitario del termine. Ciò è tan to vero che Redard, nel suo tentativo di identificare questo significato, deve contentarsi di una definizione generica e, in ultima analisi, tautologica, perché si limita a spostare il problema sul termine francese utilisation: chresthai signifi cherebbe rechercher l'utilisation de quelque chose (anche se non si vede come «essere soggetto a nevicate» possa signi ficare «cercare l'utilizzazione della neve» né in che modo «essere infelice» possa equivalere a «cercare l'utilizzazione della sventura») . È probabile che una più o meno consapevole proie zione del significato moderno del verbo «usare» su quello di chresthai abbia impedito allo studioso di cogliere il si gnificato del termine greco. Ciò è evidente nel modo in cui egli caratterizza la relazione fra il soggetto e l'oggetto del processo espresso dal ·verbo. Se cerchiamo ora di definire il processo espresso dal ver bo, costatiamo che esso si compie all'interno della sfera del soggetto . . . la costruzione di chresthai è intransitiva: l'oggetto è al dativo o al genitivo . . . Che si tratti di una persona o di una cosa, l'oggetto afferma ogni volta la sua indipendenza rispetto all'oggetto . . . Il dio che si consulta, il gioiello di cui ci si orna, il loto che si mangia, il giavel lotto che si utilizza, il nome di cui ci si serve, la lingua che si parla, il vestito che si porta, l'elogio a cui si ricorre, l'attività che si esercita, l'opinione che si segue, i costumi che si osservano, il gelo di cui si è vittima, il caso a cui si è sottoposti, la collera che vi afferra, l'autore che si frequen ta, il ritorno a cui si aspira, la nobiltà da cui si discende, tutte queste nozioni sono delle realtà indipendenti da colui che vi ricorre: l'oggetto esiste al di fuori del soggetto e non lo modifica mai [REDARD, p. 42] .
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È davvero singolare che Redard possa parlare di «este riorità», di intransitività e di assenza di modificazione fra il soggetto e l'oggetto, proprio quando ha appena evocato il «ritorno a cui si aspira», la «collera che vi afferra», il «gelo di cui si è vittima» e la (> significa più precisamente «attirare su di sé la sventura>> . . . Il rap porto soggetto - oggetto si definisce come un rapporto di appropriazione occasionale, del tipo fulmine - parafulmi ne, per riprendere la bella immagine del signor Ben veniste [ivi, p. 44] .
Ancora una volta, l'esemplificazione smentisce pun tualmente la tesi: «essere infelice>> non può significare appropriarsi occasionalmente della sventura, né «provare nostalgia)) appropriarsi del ritorno. 2.3. È probabile che proprio la relazione soggetto/ oggetto - così marcata nella concezione moderna dell'u tilizzazione di qualcosa da parte di qualcuno - risulti ina deguata a cogliere il significato del verbo greco. Eppure
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una spia di questa inadeguatezza era proprio nella forma stessa del verbo, che non è né attivo né passivo, ma nella diatesi che i grammatici antichi chiamavano «media» (me sotes) . Redard, registrando questo dato, rinvia all'articolo di Benveniste, apparso lo stesso anno in cui era stato di scusso il suo mémoire (Actif et moyen dans le verbe, 1950) . L a tesi d i Benveniste è perspicua: mentre, nell'attivo, i verbi denotano un processo che si realizza a partire dal soggetto e al di fuori di esso, «nel medio . . . il verbo indica un processo che ha luogo nel soggetto: il soggetto è in terno al processo» (BENVENISTE, p. 172, trad. it. p. 204) . L'esemplificazione dei verbi che hanno una diatesi media (media tantum) illustra bene questa peculiare situazione del soggetto all'interno del processo di cui è agente: gi gnomai, lat. nascor, «nascere»; morior, «morire»; penomai, lat. patior, «soffrire»; keimai, «giacere»; phato, lat. loquor, «parlare»; fungor, fruor, «godere» ecc. : in tutti questi ca si, «il soggetto è luogo di un processo, anche se questo processo, come nel caso del lat. fruor o del scr. manya te, richiede un oggetto; il soggetto è centro e nello stesso tempo attore di un processo: egli compie qualcosa che si compie in lui». L'opposizione con l'attivo è evidente in quei medi che ammettono anche una diatesi attiva: koimatai, «egli dor me», in cui il soggetto è interno al processo, diventa allora koima, «egli fa dormire, addormenta», in cui il processo, non avendo più il suo luogo nel soggetto, viene trasferito transitivamente in un altro termine che ne diventa l' ogget to. Qui il soggetto «posto fuori dal processo, lo sovrasta ormai come attore» e l'azione deve prendere conseguen temente come fine un oggetto esterno. Poche righe dopo, Benveniste precisa ulteriormente rispetto all'attivo la par ticolare relazione che il medio presuppone fra il soggetto e il processo di cui è insieme l'agente e il luogo: «si tratta ogni volta di situare il soggetto rispetto al processo, a se conda che egli sia esterno o interno e di qualificarlo in quanto agente, a seconda che effettui un'azione, nell'atti vo, o che, effettuandola, ne riceva per questo un'affezione [il ejfectue en s'ajfectant] , nel medio» (ivi, p. 173).
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2.4. Si rifletta alla singolare formula attraverso cui
Benveniste cerca di esprimere il significato della diatesi media: il ejfectue en s'affectant. Da una parte, il soggetto che compie l'azione, per il fatto stesso di compierla, non agisce transitivamente su un oggetto, ma implica e affezio na innanzitutto se stesso nel processo; dall'altra, proprio per questo, il processo suppone una topologia singolare, in cui il soggetto non sovrasta l'azione, ma è egli stesso il luogo del suo accadere. Come implicito nella denomina zione mesotes, il medio si situa, cioè, in una zona di inde terminazione fra soggetto e oggetto (l'agente è in qualche modo anche oggetto e luogo dell'azione) e fra attivo e pas sivo (l'agente riceve un'affezione dal suo proprio agire) . Si comprende, allora, perché Redard, insistendo sulla relazio ne soggetto/oggetto e sul significato moderno di «utilizza zione)), non sia riuscito a ricondurre a unità l'inspiegabile polisemia del verbo chresthai. Tanto più urgente è indaga re, nel caso che qui ci interessa, la singolare soglia che il medio istaura fra soggetto e oggetto e fra agente e paziente. Si chiarisce anche, in questa prospettiva «mediale)), perché l'oggetto del verbo chresthai non possa essere all'ac cusativo, ma sia sempre al dativo o al genitivo. Il processo non transita da un soggetto attivo verso l'oggetto separato della sua azione, ma coinvolge in sé il soggetto, nella mi sura stessa in cui questo si implica nell'oggetto e «si dà)) ad esso. Possiamo allora provare a definire il significato di ch resthai: esso esprime la relazione che si ha con sé, l'affezione che si riceve in quanto si è in relazione con un determina to ente. Colui che synphorai chretai fa esperienza di sé in quanto infelice, costituisce e mostra sé come infelice; colui che utitur honore si mette alla prova e si definisce in quanto ricopre una carica; colui che nosthoi chretai fa esperienza di sé in quanto è affetto dal desiderio del ritorno. Somatos chresthai, «usare il corpo)), significherà allora l'affezione che si riceve in quanto si è in relazione con uno o con dei corpi. Etico - e politico - è il soggetto che si costituisce in questo uso, il soggetto che testimonia dell'affezione che riceve in quanto è in relazione con un corpo.
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2.5. Forse da nessuna parte questo statuto singolare dell'agente è stato descritto con maggior precisione che in Spinoza. Nel cap. xx del Compendium grammatices linguae hebraeae, egli ha introdotto una mèditazione ontologica in forma di analisi del significato di una forma verbale ebraica, il verbo riflessivo attivo, che si forma aggiungen do un prefisso alla forma intensiva. Questa forma verbale esprime un'azione in cui agente e paziente, attivo e passivo si identificano. Per chiarirne il significato, il primo equi valente latino che gli viene in mente è se visitare, «visitar sé», ma esso gli pare così insufficiente, che egli lo specifica subito nella forma: se visitantem constituere, «costituir-sé visitante». Un secondo esempio, se ambulationi dare, «dar si alla passeggiata», anch'esso inadeguato, viene chiarito con un equivalente tratto dalla lingua materna della sua gente. «Passeggiare» si dice in ladino (cioè nello spagnolo che i sefarditi parlavano al momento della loro espulsione dalla Spagna) pasearse, «passeggiar-sé». Come espressione di un'azione di sé su sé, in cui agente e paziente entrano in una soglia di assoluta indistinzione, il termine ladino è particolarmente felice. Qualche pagina prima, a proposito della forma cor rispondente del nome infinitivo, Spinoza ne definisce la sfera semantica attraverso l'idea di una causa immanen te: «Fu dunque necessario inventare un'altra specie di infinito, che esprimesse l'azione riferita all'agente come causa immanente . . . la quale significa visitare se stesso, ovvero costituir sé visitante o, infine, mostrar sé visitan te» (SPINOZA, p. 342) . Qui la sfera dell'azione di sé su sé corrisponde all' ontologia dell'immanenza, al movimento dell' autocostituzione e dell' autopresentazione dell'essere, in cui non soltanto non è possibile distinguere fra agente e paziente, ma anche soggetto ed oggetto, costituente e costituito si indeterminano. È secondo questo paradigma che si deve intendere la singolare natura del processo che chiamiamo «USO». Co me, nell'esperienza del far visita espressa dal verbo ebrai co, il soggetto costituisce sé visitante, e, nell'esperienza del passeggiare, il soggetto innanzitutto passeggia se stesso, fa
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esperienza di sé in quanto passeggiante, allo stesso modo ogni uso è, innanzitutto, uso di sé: per entrare in relazione d'uso con qualcosa, io devo esserne affetto, costituir me stesso come colui che ne fa uso. Uomo e mondo sono, nell'uso, in rapporto di assoluta e reciproca immanenza; nell'usare di qualcosa, è dell'essere dell'usante stesso che innanzitutto ne va. Sarà opportuno riflettere sulla particolare concezio ne del soggetto e dell'azione implicita nell'uso. Mentre nell'atto del visitare l'essenziale è, secondo il significato della diatesi attiva, l'azione dell'agente al di fuori di sé, nell'uso (nel costituir-sé visitante) in primo piano non è l' energeia del visitare, ma l'affezione che l'agente - usante (che diviene così paziente) ne riceve. Lo stesso può dirsi del termine che, nella diatesi passiva, è oggetto dell'azione: nell'uso, esso costituisce sé visitato, è attivo nel suo essere passivo. All'affezione che l'agente riceve dalla sua azione corrisponde l'affezione che il paziente riceve dalla sua pas sione. Soggetto e oggetto sono così disattivati e resi inope rosi e, al loro posto, subentra l'uso come nuova figura della prassi umana. N È in questa prospettiva che si può intendere la singo lare prossimità fra uso e amore che Dante istituisce nel Con vivio (Iv, 22). Dopo aver affermato che l'appetito naturale (che chiama anche, con un vocabolo greco, hormen) ama innanzitutto se stesso e, attraverso questo amore di sé, anche le altre cose («e così amando sé principalmente e per sé le altre cose e amando in sé la miglior parte più, manifesto è che più ama l'animo che il corpo o che altre cose»), egli scrive: «Dun que se la mente si diletta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è frutto d'amore, in quella cosa che è massimamente amata è l'uso massimamente difettoso a noi». L'amore è qui, in qual che modo, l'affezione che si riceve dall'uso (che è sempre anche uso di sé) e resta in qualche modo indiscernibile da esso. Nel sintagma «uso della cosa amata», il genitivo è, insieme, sog gettivo e oggettivo. Il soggetto - oggetto dell'uso è l'amore.
3 · I.:uso
e
la cura
3.1. Nel corso su L'herméneutique du sujet, Foucault si era imbattuto nel problema del significato del verbo chresthai interpretando un passo dell'Alcibiade platoni co, in cui Socrate, per identificare il «se stesso» di cui ci si deve prendere cura, cerca di dimostrare che «colui che usa» (ho chromenos) e «ciò di cui usa» (hoi chretai) non sono la stessa cosa. A questo fine, egli ricorre all'e sempio del calzolaio e del citarista, che si servono tanto del trincetto e del plettro che delle loro mani e dei loro occhi come strumenti per tagliare il cuoio e per suonare la cetra. Se colui che usa e ciò di cui fa uso non sono la stessa cosa, ciò significa allora che l'uomo (che «usa di tutto il corpo», pantì toi somati chretai anthropos - 129e) non coincide col suo corpo e quindi, prendendosi cura di esso, si prende cura di «una cosa che è sua» (ta heautou), ma «non di se stesso» (ouk hauton) . Chi usa il corpo e ciò di cui occorre prendersi cura, conclude Socrate a questo punto, è l'anima (psychè). È commentando questi passi platonici, che Foucault cerca di definire il significato di chresthai, con considera zioni non troppo diverse da quelle che abbiamo appena esposto a proposito del mémoire di Redard. Certo chraomai vuoi dire: mi servo, utilizzo (uno stru mento) . Ma può anche designare un comportamento, un atteggiamento del soggetto. Ad esempio, nell'espressione hybriskos chresthai, il senso è: comportarsi con violenza (come in francese diciamo: user de violence} . Vedete che usare qui non ha affatto il senso di «Utilizzazione», ma significa: comportarsi con violenza. Chraomai signifi-
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ca dunque un certo atteggiamento [attitude] . Chresthai designa anche un certo tipo di relazione con gli altri. Quando si dice, ad esempio, theois chresthai (servirsi de gli dei) , questo non vuoi dire che si utilizzano gli dei a un fine qualsiasi. Significa che si hanno con gli dei le relazioni che si devono avere, che è regolare avere . . . chra omai designa anche un certo atteggiamento rispetto a se stessi: nell'espressione epithymiais chresthai, il senso non è > ( Vertrautheit, «confidente fami liarità>>) originaria fra esserci e mondo: «Il prendersi cura [das Besorgen] è già sempre ciò che è sul fondamento di una intimità col mondo. In questa intimità, l'esserci può perdersi in ciò che incontra nel mondo ed essere assorbito [benommen] da esso>> (p. 76) . Nella dimestichezza col mondo ritroviamo la plura lità di sensi e di forme, di «maniere dell'in-essere>> ( Wei sen des ln-Seins), che avevamo visto definire la polisemia della chresis greca: «avere a che fare con qualcosa [zutun haben mit etwas] , produrre [herstellen] qualcosa, ordinare o coltivare qualcosa, utilizzare [verwenden] qualcosa, ab bandonare o lasciar perdere qualcosa, intraprendere, im porre, ricercare, interrogare, considerare, discutere, deter minare . . . >> (p. 56) . E tutte queste modalità dell'in-essere sono comprese in quella «dimestichezza col mondo e con
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gli enti intramondani» che Heidegger definisce espressa mente come «1' essere dell'ente che si incontra per primo» (niichstebegegnenden Seienden - p. 66) . Questo ente primo e immediato è pre-tematico, poiché esso «non è oggetto di conoscenza teoretica del mondo, è, piuttosto, l'usato [das Gebrauchte] , il prodotto ecc. Lente che s'incontra in questo modo cade pretematicamente sotto lo sguardo di un "conoscere", che fenomenologicamente guarda prima riamente all'essere e sulla base di questa tematizzazione dell'essere con-tematizza l'ente di volta in volta in que stione» (p. 67) . E l'esserci non ha bisogno di trasparsi (sich versetzen) in questa dimestichezza: esso >. I concetti di cui Heidegger si serve sono qui tutti di ordine spaziale: il «dis-allontanamento>> (die Ent-fernung), la «prossimità>> (die Nahe), la «contrada>> (die Gegend), il «disporre nel lo spazio>> (Einraumen). E la spazialità non è qualcosa in cui l'esserci si trova o che a un certo punto gli sopravviene: «l'esserci è originariamente spaziale>> e «in ogni incontro col maneggevole>> di cui si prende cura e già insito «l'incontro con lo spazio come contrada>> (p. rn). A partire dal par. 65, invece, non soltanto è la tempo ralità e non la spazialità a costituire il senso ontologico della cura, ma la stessa struttura di questa (l'esser-già-in-anticipo su-di-sé in un mondo come esser-presso l'ente che si incon tra nel mondo) acquista il suo senso proprio a partire dalle tre «estasi>> della temporalità: avvenire, passato e presente. Non è un caso che mentre «t'esser-già>> e «t'essere-avanti a-sé» rimandano immediatamente al passato e al futuro, Heidegger osservi che «manca un corrispondente rimando>> (p. 328) proprio per quel terzo momento costitutivo della cu ra - l'esser-presso che definisce la sfera della maneggevolezza. Il tentativo di restituire anche l'esser-presso alla temporalità nella forma di una «presentificazione>> (Gegenwartigen, p. 328) risulta necessariamente forzato, dal momento che l'esser-presso definiva, nei parr. 22-23, la spazialità dell'es serci, una vicinanza spaziale {Nahe) e non un presente tem porale. È per questo che, nei parr. 69 e 70, Heidegger cerca ostinatamente di ricondurre la spazialità alla temporalità («l'i ngresso dell'esserci nello spazio è possibile solo sul fonda-
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mento della temporalità estatico-orizzontale» - p. 369); ma che molti anni dopo, nel seminario su Tempo e essere, si legga la laconica ammissione che «il tentativo, nel par. 70 di Essere e tempo, di ricondurre la spaziali tà dell'esserci alla tempora1ità, non può essere mantenuto>> (HEIDEGGER 2, p. 24). è significativo
4·5· Il primato della cura sull'uso si lascia iscrivere senza difficoltà nella peculiare dialettica che definisce l'a nalitica dell'esserci: quella fra improprio ( Uneigentlich) e proprio (Eigentlich) . Ciò che si presenta come primario, la dimensione in cui l'esserci è «innanzitutto e per lo più» non può che «cadere» sempre già nell'improprietà e nell'i nautenticità; ma, proprio per questo, il proprio non ha un luogo e una sostanza altra rispetto all'improprio: esso è «esistenzialmente soltanto un afferramento modificato di questo» (nur ein modifìziertes Ergreifen dieser - H EI DEGGER 1, p. 179) . Ciò significa che il primato del proprio sull'improprio (come anche della cura sulla maneggevolez za, della temporalità sulla spazialità) riposa su una strut tura d'essere singolare, in cui qualcosa esiste e si dà realtà solo afferrando un essere che lo precede e, tuttavia, dilegua e si toglie. Che si tratti qui di qualcosa come un proces so dialettico è suggerito dall'analogia con la dialettica che apre la Fenomenologia dello spirito, in cui la certezza sensi bile, che «è prima e immediatamente il nostro oggetto», si rivela poi essere l'esperienza più astratta e povera di verità, che diventerà vera solo attraverso un processo di mediazio ne e di negazione, il quale ha, però, bisogno di essa come l'inizio, che deve essere tolto per poter essere, solo alla fi ne, compreso. Come, per Hegel, la percezione ( Wahrneh mung, il prendere come vero) è possibile solo afferrando la non verità della certezza sensibile, così, in Essere e tempo, il proprio non è che un afferramento modificato dell'im proprio, la cura un afferramento dell'improprietà dell'uso. Ma perché, nella nostra tradizione filosofica, non soltanto la conoscenza, ma lo stesso esserci dell'uomo ha bisogno di presupporre un falso inizio, che deve essere abbandonato e tolto per dar luogo al vero e al più proprio? Perché l'u-
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mano può trovarsi solo presupponendo il non-veramente umano, l'azione politica libera e l'opera dell'uomo solo escludendo - e, insieme, includendo - l'uso del corpo e l'inoperosità dello schiavo? E che significa che la possibi lità più propria possa essere colta solo riprendendosi dallo sperdimento e dalla caduta nell'improprio? N Heidegger mette in guardia più volte contro la ten tazione di interpretare la «caduta» (das Verfallen) dell'es serci nell'improprio in termini teologici, come se si riferisse alla dottrina dello status corruptionis della natura umana («Non si tratta di decidere onticamente se l'uomo sia "spro fondato nel peccato ': se si trovi nello status corruptionis, se proceda nello status integritatis o se viva in uno stato inter medio, lo status gratiae>> - ivi, p. I8o). È difficile, tuttavia, che egli non si rendesse conto (come del resto aveva fotto a suo modo Hegel rispetto alla dottrina della redenzione) di aver secolarizzato nell'analitica dell'esserci la dottrina teologica della caduta e del peccato originale. Ma, ancora una volta, si trattava verisimilmente -per lui come per Hegel - di afferra re «propriamente» sul piano ontologico ciò che era stato «im propriamente» teorizzato sulpiano ontico. Lo spostamento di piano operato dalla secolarizzazione coincide spesso non con un indebolimento, ma con una assolutizzazione del paradig ma secolarizzato.
4.6. Nel 1946, nel saggio Der Spruch des Anaximan
der, Heidegger sembra voler restituire all'uso la centralità che in Essere e tempo gli aveva tolto in nome della cura. !:occasione è fornita dalla traduzione di un termine greco strettamente imparentato a chre e chresthai: to chreon, di solito tradotto con «necessità», ma che Heidegger rende senza riserve con der Brauch, «l'uso». lnnanzitutto, adot tando l'etimologia proposta da Bréal e rifiutata dalla mag gior parte dei linguisti, Heidegger iscrive questo termine nel contesto semantico della mano e del maneggiare (e, in questo modo, lo mette implicitamente in relazione con la dimensione della Zuhandenheit in Essere e tempo):
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in chreon vi è chrao, chraomai. In esso parla, cioè, he cheir, la mano: chrao significa: ich be-handle etwas, io tratto, man tengo qualcosa, la prendo in mano, do una mano [gehe es an und gehe ihm an die Hand] . Chrao significa anche: da re in mano, consegnare [in die Hand geben, einhandigen] , rimettere a un'appartenenza. Un tale dare in mano [Aus handigen, ] è, però, tale, che esso trattiene in mano [in der Hand behalt] il rimettere e, con ciò, il rimesso [ H EI D EGGER 3· P· 3371 ·
Decisivo è, però, che all'uso, così riportato nella sfera della mano, compete qui una funzione antologica fonda mentale, perché esso nomina la stessa differenza dell'essere e dell'ente, della presenza (Anwesen) e del presente (An wesendes) che Heidegger non si stanca di richiamare alla memoria. Il termine [to chreon] può solo significare l' essentificante nella presenza del presente [das Wesende im Anwesen des Anweseden] , cioè la relazione, che nel genitivo (del) vie ne oscuramente all'espressione. To chreon è, cioè, il dare in mano [das Einhandigen] della presenza, il quale dare in mano consegna [aushandigt] la presenza al presente e, in questo modo, trattiene in mano il presente come tale, cioè lo custodisce nella presenza [ibid ] .
Traducendo chreon con Brauch, Heidegger situa l'u so in una dimensione antologica. La relazione d'uso corre ora fra l'essere e l'ente, fra la presenza e ciò che viene alla presenza. Ciò implica, naturalmente, che «USO>> e «usare>>, Brauch e brauchen, siano sottratti alla sfera di significato dell'utilizzazione e, come abbiamo visto per chresis e chre sthai, restituiti alla loro originaria complessità semantica: Di solito intendiamo il termine nel senso di uti lizzare e dell'aver bisogno all'interno di un adoperare. Ciò di cui si ha bisogno nell'atto di un utilizzo diventa poi l'usuale [ublich] . Cusato è in uso [.UZs Gebrauchte ist im Brauch] . In questo significato abituale e derivato,
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L'uso DEI CORPI come traduzione di to chreon non viene pensato. Noi ci atteniamo piuttosto al significato etimologico: brauchen è bruchen, il latino frui, corrispondente al nostro termine te desco fruchten (fruttare) , Frucht (frutto) . Noi traduciamo liberamente come «gustare>> (geniessen); ma niessen signifi ca: esser lieto di una cosa e pertanto averla in uso. Gustare nel significato derivato designa il mero mangiare e bere. Il significato fondamentale di brauchen nel senso di frui lo si incontra, quando Agostino dice: Quid enim est aliud quod dicimus frui, nisi praesto habere, quod diligis? In frui è contenuto: praesto habere; praesto, praesitum significano in greco hypokeimenon, ciò che ci sta davanti nell'illaten za, l' ousia, ciò che è ogni volta presente. - cfr. PoHLENZ, p. 7] che ha di essa. Non sarebbe verisimile, infatti, che un vivente possa rendersi estraneo a sé [allotriosai] né che la
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natura che lo ha generato possa renderlo estraneo e non familiare a sé. Non resta dunque che affermare che, costi tuendolo, la natura lo ha reso familiare a se stesso [oikeiosai pros heautò] . Per questo egli è proclive a respingere ciò che lo danneggia e a ricercare ciò che è familiare [ ta oikeia] .
I l proton oikeion, ciò che è fin dall'inizio familiare a ciascun vivente, è, secondo questo passo, la sua stessa costituzione e la sensazione che egli ne ha. Nello stesso senso si esprime Ierocle nei suoi Fondamenti di etica: «Fin dalla nascita il vivente ha sensazione di sé e familiarità con se stesso e con la sua costituzione» (aisthanesthai te hautou kai oikeiousthai heautoi kai tei heautou systasei 7, 48 ; cfr. PoHLENZ, p. 1). L oikeiosis, la familiarità con sé, è pensabile, in questo senso, soltanto a partire da una synaisthesis, un con-sentimento di sé e della propria costi tuzione. È su quest'ultima nozione che si concentra, per tanto, l'attenzione degli stoici, per cercare di assicurarne a ogni costo la realtà. È a questo punto che il concetto di uso compare in funzione decisiva. La prova che gli animali posseggono la sensazione delle loro membra è, suggerisce Ierocle, il fatto che essi ne conoscono la funzione, sanno qual è la loro funzione e ne fanno uso: così «gli animali alati percepisco no che le loro ali sono adatte a predisposte al volo e per ciascuna delle parti del loro corpo percepiscono di averle e, insieme, qual è il loro uso» (chreia, funzionalità pro pria - BÉNATOUIL, p. 28) . Che noi percepiamo in qualche modo i nostri occhi, le nostre orecchie e le altre parti del corpo è provato, continua lerocle, dal fatto che «se vo gliamo guardare qualcosa, dirigiamo su di essa gli occhi e non le orecchie e quando vogliamo ascoltare, tendiamo gli orecchi e non gli occhi e se vogliamo camminare, non usiamo [chrometha] per questo le mani, ma i piedi e le gambe» (ivi, p. 29) . E, in un passo successivo, una prova ulteriore della percezione di sé è il fatto che gli animali che sono dotati di zoccoli, denti, zanne o veleno non esitano a «farne uso per difendersi nel combattimento con gli altri animali» (p. 34) .
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Un passo del trattato di Galeno, che porta tradizio nalmente il titolo De usu partium, insiste sul carattere de cisivo dell'uso per comprendere la funzione di ciascuna parte del corpo. La prima volta che vidi questa stranezza - egli scrive a pro posito della proboscide dell'elefante - pensai che questa parte fosse superflua e inutile; ma quando mi resi conto che l'elefante la usa come una mano, essa non mi sembrò più inutile . . . Se l'animale non facesse uso della sua probo scide, essa sarebbe inutile e la natura, facendola, non si �a rebbe mostrata veramente ingegnosa; ma poiché l'animale compie, grazie ad essa, delle azioni utilissime, essa è utile e ci rivela l'arte della natura . . . avendo appreso, in seguito, che l'elefante, quando si trova in un fiume profondo o in uno stagno e il suo corpo è interamente immerso nell'ac qua, solleva la proboscide e se ne serve per respirare, rico nobbi la previdenza della natura, non soltanto perché ha ben disposto tutte le parti degli animali, ma anche perché ha insegnato loro a farne uso [GALENO, pp. 438-439] .
In tutti questi testi - che si tratti, come per il medico Galeno, di affermare il carattere provvidenziale della na tura o, come per il filosofo lerocle, di provare la familia rità di ciascun animale con se stesso - l'elemento decisivo è, in realtà, ogni volta l'uso. Solo perché l'animale fa uso delle sue membra, qualcosa come una conoscenza di sé e, quindi, una familiarità con se stesso possono essergli at tribuite. La familiarità, l' oikeiosis del vivente con se stesso, si risolve senza residui nella sua percezione di sé e questa coincide a sua volta con la capacità del vivente di far uso delle proprie membra e della propria costituzione. È que sto nesso costitutivo fra oikeiosis e uso di sé che occorrerà pertanto chiarire. N
È in Lucrezio, ben più radicalmente che nella Stoa,
che l'uso sembra emanciparsi completamente da ogni relazio ne a un fine predeterminato, per a./fermarsi come la semplice relazione del vivente con il proprio corpo, al di là di ogni fi-
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nalità. Spingendo all'estremo la critica epicurea di ogni fina lismo, Lucrezio afferma così che nessun organo è stato creato in vista di un fine, né gli occhi per la visione, né le orecchie per l'udito, né la lingua per la parola: «Ciò che è nato genera il suo uso [quod natumst id procrear usum}. . . né la vista fu prima che nascesse il lume degli occhi, né il proferire parole prima chefosse creata la lingua; piuttosto la nascita della lin gua precorse di molto il parlare e le orecchie nacquero prima che udissero suoni e insomma tutte le membra precedettero, io credo, il /oro uso)) (Iv, 835-84J}. Il rovesciamento della relazione fra organo e funzione equivale, in realtà, a liberare l'uso da ogni teleologia prestabi lita. Il significato del verbo chresthai mostra qui la sua per tinenza: il vivente non si serve delle membra (Lucrezio non parla di organi) per una qualche funzione predeterminata, ma, entrando in relazione con esse, ne trova e inventa per così dire a tastoni l'uso. Le membra precedono il loro uso e l'uso precede e crea la funzione. Esso è ciò che si produce nell'atto stesso dell'esercizio come una delizia interna all'atto, come se a furia di gesticolare la mano trovasse alla fine il suo piacere e il suo «USO», l'occhio a forza di guardare s'innamorasse della visione, le gambe e le cosce piegandosi ritmicamente inventassero la passeggiata. Concorda con quella di Diogene Laerzio la testimo nianza di Cicerone: «[Gli stoici} sostengono che il vivente, ap pena nato (di qui bisognaprendere le mosse) è reso familiare e affidato in cura a se stesso [si bi conciliari et commendari, con cui Cicerone rende oikeiousthai} per conservarsi e aver cara la propria costituzione [status, che traduce systasis} e ciò che è atto a conservarla ed è reso estraneo [alienari, corrispon dente a allotriosai} alla propria morte e a ciò che sembra arre carla» (De fin., Ili, I6). Il tema della conoscenza di sé appare subito dopo: «Non sarebbe possibile che i cuccioli desiderassero qualcosa, se non avessero sensazione di sé e non si amassero» (nisi sensum haberent sui eoque se diligerent). N
5.2. Possediamo un breve trattato il cui tema è ap punto la relazione fra familiarità, sensazione e uso di sé: la
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lettera 121 di Seneca a Lucilio. La domanda cui la lettera intende rispondere è «se tutti i viventi abbiano la sensa zione della loro costituzione» (an esset omnibus animalibus constitutionis suae sensus). La risposta di Seneca rimanda all'innata capacità che ciascun vivente ha di «usare di sé»: Che la abbiano appare soprattutto dal fatto che essi muo vono le loro membra con destrezza e facilità, come se fossero stati a questo istruiti: non ve n'è alcuno che non mostri agilità rispetto alle sue membra. L'artefice maneg gia con facilità i suoi strumenti, il pilota manovra destra mente il timone della nave, il pittore trova subito, fra i tanti e svariati colori che ha davanti a sé, quelli che gli servono per ritrarre la somiglianza e passa senza difficoltà con lo sguardo e con la mano dalla cera all'opera: allo stes so modo l'animale è pronto in ogni uso di sé [sic animai in omnem usum sui mobilest] . Guardiamo con ammirazione coloro che sanno danzare, perché la loro mano è pronta a esprimere cose e affetti e i loro gesti uguagliano la velocità delle parole: ciò che a questi l'arte insegna, l'animale lo ha dalla natura. Nessun animale muove con difficoltà le sue membra, nessuno esita nell'uso di sé [in usu sui haesitat] .
All'obiezione secondo cui ciò che spinge l'animale a muoversi è la paura del dolore, Seneca risponde che gli animali tendono verso il loro movimento naturale malgra do l'impedimento del dolore: così il bambino, che desidera stare in piedi e cerca di assue farsi a camminare, appena comincia a provare le sue forze cade e, piangendo, si rialza finché, pur nel dolore, riesce a fare ciò che la sua natura esige . . . la tartaruga rovesciata non sente alcun dolore, eppure, inquieta solo per il deside rio della sua condizione naturale [naturalis status] , non ces sa di agitarsi finché non si rimette sui piedi. Tutti i viventi hanno, dunque, la sensazione della propria costituzione [constitutionis suae sensus] e una spedita maneggevolezza delle loro membra [membrorum tam expedita tractatio] e la prova migliore che essi vengono in vita con questa cono-
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scenza [notitia] è che nessun animale è maldestro nell'uso di sé [nullum animai ad usum sui rude est] .
Dopo aver sancito in questo modo il nesso costitutivo fra uso di sé e conoscenza di sé, usus sui e constitutionis suae sensus, Seneca affronta il tema, con questi strettamente in trecciato, dell' oikeiosis (che, seguendo l'esempio di Cicero ne, rende con conciliatio e conciliari): Voi dite, si obietta, che ogni animale fin dall'inizio si fami liarizza con la sua costituzione [constitutioni suae conciliari] e che l'uomo ha una costituzione razionale e, pertanto, si familiarizza a sé non come animale, ma come razionale: egli ama, infatti, se stesso, per quella parte per cui è uomo. Ma come può allora il bambino familiarizzarsi con la sua costituzione razionale se non ha ancora la ragione? Ogni età ha la sua costituzione: altra è quella del bimbo, altra quella del ragazzo, altra quella del vecchio. Il bambino non ha denti: è a questa costituzione che si familiarizza; gli nascono i denti: si familiarizza a questa costituzione. Così anche l'erba, che diventerà una spiga di frumento, ha una costituzione quando è tenera e appena spuntata dal solco, un'altra quando è cresciuta e si drizza sullo stelo pieghevole, ma capace di sopportare il suo peso, un'altra ancora quando la spiga, già bionda e indurita, aspetta di essere mietuta: in qualunque costituzione si trovi, si adatta ad essa e la conserva. Diverse sono le età del bambino, del fanciullo, del giovane e del vecchio: io sono, tuttavia, lo stesso, che fu bambino, fanciullo, giovane. Così, per quan to la costituzione sia ogni volta diversa, la familiarizzazione con la propria costituzione è sempre la stessa [conciliatio constitutioni suae eadem est] . La natura non mi rende caro [commendat, l'altro verbo con cui Cicerone traduceva oike iosai] il fanciullo, il giovane o il vecchio, ma me stesso. Per questo il bambino si familiarizza alla sua presente costi tuzione di neonato, non a quella che avrà poi da giovane. E se anche lo aspetta una condizione più grande in cui passare, non per questo quella in cui è nato non è secondo natura. È con se stesso che innanzitutto l'animale si fami-
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L'uso DEI CORPI liarizza [primum sibi ipsum conciliatur anima� ; dev'esserci, infatti, qualcosa a cui tutto il resto si riferisce. Cerco il piacere: per chi? Per me. Dunque prendo cura di me stesso [mei curam ago] . Fuggo il dolore: per che cosa? Per me: dunque prendo cura di me. Se faccio tutto per cura di me, allora la cura di me è anteriore a tutto [ante omnia est mei cura] . Questa inerisce a tutti i viventi e non si aggiunge ad essi in un secondo tempo, ma è innata.
Si rifletta allo straordinario intreccio di familiarizza zione e seità, di conoscenza e uso di sé che Seneca, sia pure non senza qualche contraddizione, svolge in queste den sissime pagine. L' oikeiosis o conciliatio non ha per oggetto ultimo la costituzione dell'individuo, che può di volta in volta mutare, ma, attraverso di essa, il se stesso (non enim puerum mihi aut iuvenem aut senem, sed me natura com mendat) . Questo sé - malgrado gli stoici sembrino a volte precostituirlo in una natura o in una scienza innata - non è quindi qualcosa di sostanziale né un fine prestabilito, ma coincide interamente con l'uso che il vivente ne fa (usus sui - che Seneca declina anche come cura di sé, cura mei) . Se si accetta questa interpretazione relazionale e non sostanziale del sé stoico, allora - che si tratti di sensazione di sé, di sibi conciliatio o di uso di sé - il sé coincide ogni volta con la relazione stessa e non con un telos predeter minato. E se usare significa, nel senso che si è visto, essere affetto, costituir sé in quanto si è in relazione con qualco sa, allora l'uso di sé coincide con l' oikeiosis, in quanto que sto termine nomina lo stesso modo d'essere del vivente. Il vivente usa di sé, nel senso che, nel suo vivere e nel suo entrare in rapporto con altro da sé, ne va ogni volta del suo stesso sé, sente sé e si familiarizza con se stesso. Il sé non è nient'altro che uso di sé. N Nel De anima libri mantissa, Alessandro di Aftodi sia riferisce la dottrina stoica delloikeiosis in questi termini: «Gli stoici . . . affermano che l'animale sia per se stesso la pri ma cosa familiare [to proto n oikeion einai to zoo n hautoi} e che ciascun animale - e anche l'uomo - appena nato si
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familiarizza con sé [pros hautò oikeiousthai}» (ALESSANDRO, p. I50); una dottrina simile è attribuita quasi negli stessi ter mini ad Aristotele («dicono che, secondo Aristotele, noi stessi siamo per noi stessi la prima cosa familiare» - einai proton oikeion emin emas autous - ibid.). È significativo che Alessandro identifichi risolutamen te familiarità e seità. Familiarità e relazione con sé sono la stessa cosa. N La dimestichezza e la sensazione di sé di cui parlano gli stoici non implicano una conoscenza razionale, ma sem brano oscuramente immanenti allo stesso uso di sé. Il vivente, scrive Seneca nella lettera citata, «conosce la sua costituzione, ma non che cosa essa sia . . . sente di esistere come vivente, ma non sa che cosa sia il vivente . . . sa di avere un impulso, ma non sa che cosa sia e da dove venga» (qui d si t constitutio non novi t, constitutionem suam novi t . . . quid si t animai ne scit, animai esse se senti t . . . conatum si bi esse sci t, quid si t aut unde sit nescit). Il sé si conosce attraverso l'articolazione di una zona di non conoscenza.
È forse in un passo delle Enneadi (VI, 8, 10) che la specificità dell'uso di sé trova, per così dire, la sua formula zione antologica. Cercando un'espressione provvisoria per il modo di essere dell'Uno, qui Platino, dopo aver negato che esso possa essere accidentalmente ciò che è, oppone recisamente l'uso alla sostanza, chresthai a ousia: H·
Che diremo allora? Se non è stato generato, è quale è, non essendo padrone della propria sostanza [ouk on tes autou ousias kyrios] ; e se non lo è, ma essendo chi è, non iposta tizzando se stesso, ma usando di sé qual è [ouk hypostesas heauton, chromenos de heautoi hoios estin] , sarà allora neces sariamente ciò che è e non altro.
Decisiva per noi, in questo passo, non è tanto la stra tegia di Platino, che mira a escludere dall'Uno tanto l' acci dentalità che la necessità, quanto la singolare opposizione che egli stabilisce fra uso e ipostasi. Dorrie ha mostrato che
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il termine hypostasis acquista a partire dal neoplatonismo il significato di «realizzazione»; hyphistamai significa pertan to: «realizzarsi in un'esistenza» (D6RRIE, p. 45) . Usare di sé significa non pre-supporsi, non appropriarsi dell'essere per soggettivarsi in una sostanza separata. Il sé di cui l'uso usa è espresso, per questo, soltanto dall'anafora hoios, «tale quale», che riprende ogni volta l'essere dalla sua iposta tizzazione in un soggetto. E proprio perché si mantiene nell'uso di sé, l'Uno si sottrae non solo alle categorie della modalità (non è né contingente né necessario: «né il suo essere così né una qualsiasi maniera d'essere gli capitano per accidente: è così e non altrimenti . . . non è ciò che è perché non ha potuto essere altro, ma perché così com'è è il meglio»), ma anche allo stesso essere e alle sue divisioni fondamentali («al di là dell'essere significa. . . che non è schiavo né dell'essere né di sé» - VI, 8, 19) . Proviamo a svolgere l'idea di un uso di sé non ipo statico, non sostanzializzante, che Platino sembra lasciar cadere subito dopo averla formulata. L'uso di sé, in questo senso, precede l'essere (o è al di là di esso e, quindi, anche della divisione fra essenza e esistenza) , è - come Platino scrive poco dopo dell'Uno con un'espressione volutamen te paradossale - «una energeia prima senza essere», nella quale il se stesso tiene luogo di ipostasi («esso stesso è la sua quasi ipostasi» - autò touto ton hoion hypostasin - VI , 8, 20) . Ovvero - si potrebbe anche dire, rovesciando l'ar gomentazione - l'essere, nella sua forma originaria, non è sostanza (ousia), ma uso di sé, non si realizza in un'ipostasi, ma dimora nell'uso. E usare è, in questo senso, il verbo arcimodale, che definisce l'essere prima o, comunque, al di fuori della sua articolazione nella differenza antologica esistenza/essenza e nelle modalità: possibilità, impossibi lità, contingenza, necessità. Occorre che il sé si sia prima costituito nell'uso fuori da ogni sostanzialità perché qual cosa come un soggetto - un'ipostasi - possa dire: io sono, io posso, io non posso, io devo . . . 5+ È in questa prospettiva che possiamo leggere la teoria messianica dell'uso che Paolo elabora nella prima
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lettera ai Corinzi. «Sei stato chiamato in condizione di schiavo?» egli scrive. «Non preoccupartene. Ma se anche puoi diventare libero, piuttosto fà uso» (mallon chresai cioè, della tua condizione di schiavo - I Cor. , 7, 21) . Le condizioni fattizie e giuridico-politiche in cui ciascuno si trova non devono, cioè, né essere ipostatizzate né sempli cemente cambiate. La chiamata messianica non conferisce una nuova identità sostanziale, ma consiste innanzitutto nella capacità di «usare» la condizione fattizia in cui cia scuno si trova. E in che modo questa nuova capacità di uso debba essere intesa è detto poco dopo: «Questo poi dico, fratelli, il tempo si è contratto; il resto è affinché gli aventi donna siano come non [hos me] aventi e i piangenti come non piangenti e gli aventi gioia come non aventi gioia e i compranti come non possedenti e gli usanti il mondo come non abusanti. Passa infatti la figura di questo mon do. Voglio che siate senza cura» (ivi, 7, 29-32) . Il «come non» paolina, mettendo in tensione ciascuna condizione fattizia verso se stessa, la revoca e disattiva senza alterarne la forma (piangenti come non piangenti, aventi donna come non aventi donna, schiavi come non schiavi) . La vocazione messianica consiste, cioè, nella disattivazione e nella de propriazione della condizione fattizia, che viene così aper ta a un nuovo possibile uso. La me abbiamo visto per la concezione aristotelica degli strumenti produttivi come la spola e il plettro, ha pensato il nesso fra lo strumento e il suo prodotto, sembra conce pire questo nesso in modo così stretto e immediato che lo strumento non poteva presentarsi come una forma auto noma di causalità. Heidegger avrebbe potuto ricordare che, come egli certamente sapeva, un tentativo di inserire lo strumento all'interno della categoria della causalità era stato invece compiuto dai teologi medievali. A partire dal secolo XII I , essi definiscono, accanto alla causa efficiente, una quinta causa, che chiamano instrumentalis. Con un audace rove sciamento, lo strumento, che Aristotele non avrebbe mai potuto classificare fra le cause, è ora considerato come un tipo speciale di causa efficiente. Ciò che definisce la causa strumentale - ad esempio la scure nelle mani di un fa legname che sta fabbricando un letto - è la particolarità della sua azione: da una parte, essa agisce non per virtù propria, ma in virtù dell'agente principale (cioè il fale gname) , ma, dall'altra, essa opera secondo la sua natura propria, che è di tagliare. Essa serve, cioè, a un fine altrui, solo nella misura in cui realizza il proprio. Il concetto di causa strumentale nasce, cioè, come uno sdoppiamento della causa efficiente, che si scinde in causa strumentale e in causa principale, assicurando così alla strumentalità uno statuto autonomo. 7+ Il luogo in cui la teologia scolastica svolge la te oria della causa strumentale è la dottrina dei sacramenti. Così, nella Somma teologica, essa è trattata nella questione
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62 della m parte, il cui titolo recita: De principali ejfectu sacramentorum, qui est gratia. La funzione del sacramento è di conferire la grazia e questa non può procedere che da Dio, che ne è la causa principale: il proprio del sacramen to è, però, che esso produce il suo effetto attraverso un elemento che agisce come causa strumentale (ad esempio, nel battesimo, l'acqua) . Più che la distinzione fra agem (o causa) principalis e agem (o causa) instrumentalis, la presta zione specifica di Tommaso consiste nella definizione della duplice azione dello strumento: Lo strumento - egli scrive (S. th. , m, q. 62, art. 1., sol. 2) ha una duplice azione: una strumentale, secondo la quale esso non agisce in virtù propria, ma in virtù dell'agente principale, e un'altra propria, che gli compete secondo la propria forma. Così compete alla scure tagliare in virtù della sua acuminatezza, ma fare il letto le compete in quan to è strumento dell'arte. Ma esso non può compiere l'azio ne strumentale, se non esercitando la propria: è tagliando che la scure fa il letto. Allo stesso modo i sacramenti corpo rei, attraverso l'operazione propria che esercitano sul cor po, che toccano, realizzano per virtù divina l'operazione strumentale sull'anima: così l'acqua del battesimo, lavando il corpo secondo la propria virtù, lava l'anima in quanto è strumento della virtù divina. Anima e corpo diventano così una cosa sola.
Si rifletta sulla natura particolare di questa azione, che, agendo secondo la propria legge o forma, sembra re alizzare l'operazione di un altro ed è stata per questo de finita «contraddittoria» e «difficile da comprendere» (Ro GUET, p. 330 ) . Nella prima parte della Summa, Tommaso la definisce, con un termine che è stato spesso frainteso, «operazione dispositiva»: «La causa seconda strumentale» egli scrive (1, q. 45, art. 4) «non partecipa dell'azione della causa principale, se non in quanto, in virtù di qualcosa che le appartiene in proprio [per aliquid sibi proprium] , agisce in modo dispositivo [dispositive operatur, agi sce come un dispositivo] per la realizzazione dell'effetto
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dell'agente principale». Dispositio è la traduzione latina del termine greco oikonomia, che indica il modo in cui, attraverso la propria articolazione trinitaria, Dio governa il mondo per la salvezza degli uomini. In questa prospetti va, che implica un immediato significato teologico, un'o perazione dispositiva (o, potremmo dire senza forzature, un dispositivo) è un'operazione che, seguendo la propria legge interna, realizza un piano che sembra trascenderla, ma le è in realtà immanente, così come, nell'economia della salvezza, Cristo opera dispositive - cioè secondo una «economia» - la redenzione degli uomini. Come Tom maso precisa senza mezzi termini: «la passione di Cristo, che riguarda la sua natura umana, è effettivamente causa della nostra redenzione, ma non nel modo di un agente principale, o per autorità, ma nel modo di uno strumen to» (q. 64, art. 3) . Cristo, che agisce nei sacramenti come causa principale, è, in quanto si è incarnato in un corpo umano, causa strumentale e non principale della reden zione. Esiste un paradigma teologico della strumentalità e l'economia trinitaria e la dottrina dei sacramenti sono i suoi luoghi eminenti. N La novità e l'importanza strategica del concetto di causa strumentale non erano sfuggite a Dante, che se ne serve in un passo decisivo del Convivio, per fondare la le gittimità del potere imperiale. A quelli che affermavano, cavillando, che l'autorità dell'imperatore romano sifondava in realtà non sulla ragione, ma sulla forza, egli risponde che «laforza non fu cagione movente, sì come credeva chi gavil lava, ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima delfabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, e ancora . divina, conviene esser stata principio del romano imperio» (Conv., IV, 4).
lvan Illich ha attirato l'attenzione sulla novità implicita nella dottrina della causa strumentale (ILLICH 1 , pp. 62-63) . Teorizzando per la prima volta la sfera del lo strumento come tale e conferendo ad esso un rango 7·5·
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metafisica, i teologi rispondono a loro modo alla straor dinaria mutazione tecnologica che caratterizza il secolo XII , con la nuova bardatura del cavallo che permette di utilizzare pienamente la forza animale e il moltiplicarsi dei congegni che usano l'energia dell'acqua non solo per far girare i mulini, ma per spingere i martelli che rompo no la roccia e i ganci che preparano la lana per la filatura. Ugo di San Vittore, elencando dettagliatamente nel suo Didascalicon gli strumenti delle sette tecnologie principali del suo tempo (la lavorazione della lana, la costruzione delle armi, la navigazione mercantile, l'agricoltura, la cac cia, la medicina e - curiosamente - gli spettacoli), elogia l'uomo che «inventando questi strumenti, piuttosto che possederli come doni della natura, ha rivelato meglio la sua grandezza» (1, 9 ). Proseguendo le considerazioni di Illich, possiamo dire, allora, che la scoperta della causa strumentale è il primo tentativo di dare una figura concettuale alla tecno logia. Mentre, per l'uomo antico, lo strumento si annulla nell' ergon che esso produce, cosl come il lavoro scompariva nel suo risultato, ora l'operazione dell'arnese si scinde in un fine proprio e in una finalità estrinseca e lascia emer gere in questo modo la sfera di una strumentalità che può essere rivolta a qualsiasi fine. Lo spazio della tecnica si apre a questo punto come la dimensione di una medialità e di una disponibilità propriamente illimitate, perché, pur mantenendosi in rapporto con la propria azione, lo stru mento si è qui reso autonomo rispetto ad essa e può rife rirsi a qualsiasi finalità estrinseca. È possibile, infatti, che vi sia, nello strumento tecni co, qualcosa di altro che la semplice «servibilità», ma che questo «altro» non coincida, come riteneva Heidegger, con un nuovo e decisivo svelamento - velamento epoca le dell'essere, quanto piuttosto con una trasformazione nell'uso dei corpi e degli oggetti, il cui paradigma origi nario va cercato in quello «strumento animato» che è lo schiavo, cioè l'uomo che, usando il suo corpo, è, in realtà, usato da altri.
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7.6. Nelle Questiones disputatae, trattando il problema «Se i sacramenti della legge nuova siano causa della gra zia», Tommaso insiste sulla scissione dell'operazione im plicita nell'idea di causa strumentale: «Sebbene» egli scrive «la sega abbia una certa azione che le compete secondo la propria forma, che è il tagliare, tuttavia ha un certo effetto che le compete solo in quanto è mossa dall'artefice, cioè fare un'incisione retta conveniente alla forma dell'arte; e così lo strumento ha due operazioni: una che gli compete secondo la propria forma e un'altra che gli compete se condo che è mosso dall'agente per sé, la quale trascende la virtù della propria forma» ( Quaest. disp. , 27, art. 4) . È significativo che l'operazione principale sia qui de finita attraverso il concetto di ars. La causa strumentale acquista in realtà il suo senso proprio in quanto è usata nel contesto di una tecnica. Ciò che sembra definire la causa strumentale è la sua indifferenza rispetto al fine che si pro pone la causa principale. Se il fine del falegname è fare il letto, la scure, che agisce come causa strumentale, è usata da una parte semplicemente secondo la propria funzione, che è quella di tagliare il legno, ma, dall'altra, secondo l'o perazione dell'artefice. La scure non sa nulla del letto, e tuttavia questo non può essere fabbricato senza di essa. La tecnica è la dimensione che si apre quando l'operazione dello strumento si è resa autonoma e, insieme, viene scissa in due operazioni distinte e collegate. Ciò implica che non soltanto il concetto di strumento, ma anche quello di «arte» subi scano ora una trasformazione rispetto al loro statuto nel mondo antico. La causa strumentale non è, dunque, soltanto una specificazione della causa efficiente: essa è anche e nella stessa misura una trasformazione della causa finale e della funzione propria di un certo ente - lo strumento - che vengono costitutivamente e necessariamente sussunte a una causa finale esterna, la·quale a sua volta, per realizzarsi, dipende altrettanto necessariamente da esse. Lapparizio ne del dispositivo della causa strumentale (che definisce, come abbiamo visto, la natura stessa di ogni azione «di spositiva») coincide, in questo senso, con una trasforma-
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zione radicale nel modo di concepire l'uso. Questo non è più una relazione di duplice e reciproca affezione, in cui soggetto e oggetto si indeterminano, ma una relazione ge rarchica fra due cause, definita non più dall'uso, ma dalla strumentalità. La causa strumentale (in cui lo strumento che nel mondo antico sembra fare tutt'uno colla mano di colui che se ne serve - raggiunge la sua piena autonomia) è la prima apparizione nella sfera dell'azione umana di quei concetti di utilità e di strumentalità che determineranno il modo in cui l'uomo moderno intenderà il suo fare nella modernità. 7·7· Il carattere di causa strumentale non compete, nei sacramenti, soltanto all'elemento materiale (l'acqua, l'olio consacrato, ecc.) : 'esso riguarda, innanzitutto, lo stes so celebrante. Il ministro è, infatti, a pieno titolo uno stru mento («la definizione del ministro» si legge nella q. 64, art. 1, «è identica a quella dello strumento»); a differenza, però, degli elementi materiali, che, in quanto strumenti inanimati, sono sempre e soltanto mossi dall'agente prin cipale, il ministro è uno «strumento animato» (instrumen tum animatum) , che «non solo è mosso, ma in qualche modo si muove da sé, in quanto muove le sue membra all'azione per volontà propria» {q. 64, art. 8 ) . Il termine «strumento animato» proviene, come sap piamo, dalla Politica di Aristotele, dove definiva la natu ra dello schiavo. Il termine minister significa, del resto, in origine «servo». Tommaso ne è perfettamente cosciente quando scrive: «il ministro si comporta al modo di uno strumento [habet se ad modum strumenti] , come dice il Fi losofo nel primo libro della Politica» (q. 63, art. 2) . (Nel suo commento alla Politica, probabilmente seguendo la traduzione latina che aveva davanti agli occhi, egli usa l'e spressione organum animatum, «organo animato», preci sando immediatamente: «come è l'aiutante nelle arti e il servo nella casa»). L assimilazione del celebrante a uno schiavo - che non ha personalità giuridica e i cui atti si imputano alla «persona» del padrone - è, dunque, perfettamente consa-
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pevole, ed è in virtù di questa consapevolezza che Tom maso può scrivere che «il ministro nel sacramento agisce in persona di tutta la Chiesa, di cui è ministro» (q. 62, art. 8 ) . Ciò significa che, attraverso il paradigma dello «strumento animato», il sacerdozio sacramentale è genea logicamente e non solo terminologicamente connesso alla schiavitù. La connessione fra la causa strumentale e la figura dello schiavo è, tuttavia, ancora più essenziale. Essa è im plicita nella stessa formula «l'uomo il cui ergon è l'uso del corpo» e nella definizione (che abbiamo visto avere carat tere antologico e non giuridico) dello schiavo come colui che, «pur essendo umano, è per natura di un altro e non di sé». Lo schiavo costituisce in questo senso la prima ap parizione di una pura strumentalità, cioè di un essere che, vivendo secondo il suo proprio fine, è, proprio per questa e nella stessa misura, usato per un fine altrui. 7 .8. La particolare efficacia «dispositiva» che com pete ai sacramenti grazie alla doppia natura della cau sa strumentale è svolta dai teologi attraverso una nuova scissione, che divide nel sacramento l'opera operante (opus operans, l'azione dell'agente strumentale, in parti colare del celebrante) e l'opera operata (opus operatum, l'effetto sacramentale in se stesso, che si realizza imman cabilmente, quale che sia la condizione del celebrante). In quanto il ministro è lo strumento animato di un'o perazione il cui agente principale è Cristo, non soltanto non è necessario che egli abbia la fede e la carità, ma anche un'intenzione perversa (battezzare una donna con l'intenzione di abusarne) non toglie validità al sacramen to, perché questo agisce ex opere operato e non ex opere operante (o operantis) . La distinzione fra le due opere, che era stata escogita ta per assicurare la validità del sacramento, lo trasforma di fatto in un congegno perfetto, in uno speciale dispositivo, che produce immancabilmente i suoi effetti. Il carattere «strumentale» dei sacramenti, che essi hanno in comune con le tecniche e le artes - Tommaso li definisce instrumen-
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ta Dei (S.e. G. , IV, 56) permette di considerarli come il paradigma di una tecnica superiore, una technologia sacra, al cui centro sta l'azione specialissima della causa strumen tale e l'inesorabile efficacia dell'opus operatum. Essi sono, in questo senso, una sorta di profezia del macchinismo, che si realizzerà solo cinque secoli dopo. Co me la macchina, materializzando il sogno dello strumento animato, funziona da sola e colui che la manovra non fa, in realtà, che obbedire alle possibilità di comando prescrit te dalla macchina stessa, così il sacramento produce il suo effetto ex opere operato, e il celebrante, di cui Tommaso dice che, «in quanto è mosso dall'agente principale, non è solo causa, ma in qualche modo anche effetto» (q. 62, art. 1), non fa che eseguire, più o meno meccanicamen te, la volontà dell'agente principale. I..: analogia può essere proseguita: se l'avvento della macchina, come già Marx aveva notato, ha avuto come conseguenza lo svilimento del lavoro dell'artigiano, che, perdendo la sua abilità tra dizionale, si trasforma in uno strumento della macchina, ciò corrisponde puntualmente alla dottrina dell'opus ope ratum, che, trasformando il celebrante in uno strumento animato, lo separa di fatto dall'impegno personale e dalla responsabilità morale, che non sono più necessarie all' ef ficacia della prassi sacramentale e restano confinate nella sua interiorità. -
Non stupisce che, qualche secolo dopo, alla fi ne della scolastica, il paradigma della causa strumentale possa essere spinto all'estremo, fino alla rottura del nesso necessario fra l'operazione propria dello strumento e quel la dell'agente principale e alla conseguente affermazione di una illimitata disponibilità «obbedienziale» dello stru mento all'intenzione dell'agente principale. Smirez, nel suo trattato sui sacramenti, può così scrivere che 7·9·
negli strumenti divini, non è necessaria l'azione connatu rata allo strumento precedente all'azione e all'effetto dell'a gente principale. La ragione è che . . . gli strumenti divini non aggiungono una potenza naturale, ma obbedienziale
110 L ' USO DEI CORPI [obedientia/em] e operano pertanto al di là dei limiti della perfezione naturale, per cui da essi non ci si aspetta una connessione naturale fra la loro azione e quella dell'agente principale . . . così mentre i diversi strumenti naturali o ar tificiali si rivolgono a effetti diversi, poiché la condizione dello strumento è adatta a quell'azione e non ad altra, gli strumenti divini non hanno questa determinazione, poi ché vengono assunti soltimto secondo una potenza obbe dienziale, la quale è indifferente a tutto ciò che non im plica contraddizione, a causa dell'illimitatezza della virtù divina (SUAREZ I, p. 149] . •
È legittimo supporre che l'assoluta strumentalità che viene qui pensata costituisca in qualche modo il para digma delle tecnologie moderne, che tendono a produr re dispositivi che hanno incorporato in sé l'operazione dell'agente principale e possono quindi «obbedire» ai suoi comandi (anche se questi sono in realtà iscritti nel fun zionamento del dispositivo, in modo che colui che li usa, premendo dei «comandi», obbedisce a sua volta a un pro gramma predeterminato). La tecnica moderna non deriva soltanto dal sogno degli alchimisti e dei maghi, ma anche e verisimilmente da quella particolare operazione «magica» che è l'assoluta, perfetta efficacia strumentale della liturgia sacramentale. 7.10. Il nesso costitutivo che unisce lo schiavo e la tecnica è implicito nell'ironica affermazione di Aristotele, secondo cui se gli strumenti, come le leggendarie statue di Dedalo, potessero compiere la loro opera da soli, né gli architetti avrebbero bisogno di aiutanti né i padroni di schiavi. La relazione fra la tecnica e la schiavitù è stata spes so evocata dagli storici del mondo antico. Secondo l'opi nione corrente, anzi, la singolare mancanza di sviluppo tecnologico nel mondo greco sarebbe dovuta alla facilità con cui i Greci, grazie alla schiavitù, potevano procurarsi mano d'opera. Se la civiltà materiale greca è rimasta alla fase dell' organon, cioè dell'utilizzazione della forza umana
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III
o animale attraverso una varietà di strumenti, e non ha avuto accesso alle macchine, ciò è avvenuto, si legge in un'opera classica sull'argomento, «perché non vi era alcun bisogno di economizzare la mano d'opera, dal momento che si disponeva di macchine viventi abbondanti e po co costose, diverse tanto dall'uomo che dall'animale: gli schiavi)) (ScHUHL, pp. 13-14). Non c'interessa qui verifi care la correttezza di questa spiegazione, i cui limiti sono stati mostrati da Koyré (KoYRÉ, pp. 291 sgg.) e che, come ogni spiegazione del genere, potrebbe essere facilmente ro vesciata (si potrebbe dire con altrettanta ragionevolezza, come fa in fondo Aristotele, che la mancanza di macchine ha reso necessaria la schiavitù) . Decisivo è piuttosto, nella prospettiva della nostra ricerca, chiedersi se non vi sia fra la tecnica moderna e la schiavitù un nesso più essenziale che il comune fine pro duttivo. Se è certo, infatti, che la macchina si presenta fin dal suo primo apparire come la realizzazione di quel paradigma dello strumento animato, a cui lo schiavo ave va fornito il modello originario, altrettanto vero è che ciò che entrambi si propongono non è tanto o non solo un incremento e una semplificazione del lavoro produt tivo, quanto anche o piuttosto, liberando l'uomo dalla necessità, di assicurargli l'accesso alla sua dimensione più propria - per i Greci, la vita politica, per i moderni la possibilità di padroneggiare le forze della natura e, quin di, le proprie. La simmetria fra lo schiavo e la macchina va dun que al di là dell'analogia tra due figure dello «strumento vivente)): essa concerne il compimento ultimo dell'antro pogenesi, il diventare pienamente umano del vivente uo mo. Ma ciò implica una simmetria ulteriore, questa volta rispetto a quella nuda vita che, situandosi sulla soglia fra zoè e bios, fra physis e nomos, permette, attraverso la propria esclusione inclusiva, la vita politica. Lo schiavitù sta, in questo senso, all'uomo antico, come la tecnica all'uomo moderno: entrambe, come la nuda vita, custodiscono la soglia che consente di accedere alla condizione veramente umana (e entrambe si sono mostrate inadeguate allo sco-
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po, la via moderna rivelandosi alla fine non meno disuma na dell'antica) . D'altra parte questa ricerca ha mostrato che, nella definizione aristotelica dello schiavo, l'idea dominante era quella di una vita umana che si svolge interamente nella sfera dell'uso (e non in quella della produzione) . In questione, nello strumento animato, non era, cioè, sol tanto la liberazione dal lavoro, ma piuttosto il paradigma di un'altra attività umana e di un'altra relazione con il corpo vivente, per la quale ci mancano i nomi e che non possiamo per ora che evocare attraverso il sintagma «uso del corpo». Di questo «uso del corpo», di cui abbiamo cercato di delineare i caratteri essenziali, la schiavitù come istituzione giuridica e la macchina rappresentano in un certo senso la cattura e la realizzazione parodica all'in terno delle istituzioni sociali. Ogni tentativo di pensare l'uso dovrà necessariamente scontrarsi con esse, perché forse solo un'archeologia della schiavitù e, insieme, della tecnica potrà liberare il nucleo arcaico che è rimasto in esse imprigionato. Occorre, a questo punto, restituire allo schiavo il si gnificato decisivo che gli compete nel processo dell'antro pogenesi. Lo schiavo è, da una parte, un animale umano (o un uomo - animale) , dall'altra e nella stessa misura, uno strumento vivente (o un uomo - strumento). Lo schiavo costituisce, cioè, nella storia dell'antropogenesi, una du plice soglia: in essa la vita animale trapassa nell'umano, così come il vivo (l'uomo) trapassa nell'inorganico (nello strumento) e viceversa. Linvenzione della schiavitù co me istituto giuridico ha permesso la cattura del vivente e dell'uso del corpo nei sistemi produttivi, bloccando tem poraneamente lo sviluppo dello strumento tecnologico; la sua abolizione nella modernità ha liberato la possibilità della tecnica, cioè dello strumento vivente. Nello stesso tempo, in quanto il suo rapporto con la natura non è più mediato da un altro uomo, ma da un dispositivo, l'uomo si è allontanato dall'animale e dall'organico per avvicinar si allo strumento e all'inorganico fin quasi a identificarsi con esso (l'uomo - macchina) . Per questo - in quanto ave-
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va perduto, insieme all'uso dei corpi, la relazione imme diata alla propria animalità - l'uomo moderno non ha potuto appropriarsi veramente della liberazione dal lavo ro che le macchine avrebbero dovuto procurargli. E, se l'ipotesi di un nesso costitutivo fra schiavitù e tecnica è corretta, non stupisce che l'ipertrofìa dei dispositivi tec nologici abbia finito col produrre una nuova e inaudita forma di schiavitù.
8 . I..: i nappropriabile
8.1. In Altissima·povertà (Homo sacer, IV, 1) abbiamo mostrato come il concetto di uso fosse al centro della stra tegia francescana e come proprio rispetto alla sua defini zione e alla possibilità di separarlo dalla proprietà si fosse prodotto il conflitto decisivo fra l'ordine e la curia. Preoc cupati unicamente di assicurare la liceità del rifiuto di ogni forma di proprietà, i teorici francescani hanno finito, tut tavia, col chiudersi in una polemica unicamente giuridica, senza riuscire a fornire altra definizione dell'uso che non fosse in termini puramente negativi rispetto al diritto. For se da nessuna parte l'ambiguità della loro argomentazione appare con maggiore evidenza come nella tesi volutamen te paradossale di Ugo di Digne, secondo cui i francescani «hanno questo solo diritto, di non avere alcun diritto» (hoc ius. . . nullum ius habere). La rivendicazione francescana della povertà si fonda, cioè, sulla possibilità per un soggetto di rinunciare al di ritto di proprietà (abdicatio iuris). Ciò che essi chiamano «USO» (e, a volte, come in Francesco di Ascoli, «uso corpo reo», usus corporeus) è la dimensione che si apre a partire da questa rinuncia. Nella prospettiva che qui ci interessa, il problema non è se la tesi francescana, che ha finito col soccombere agli attacchi della curia, fosse più o meno sal damente argomentata: decisiva sarebbe stata piuttosto una concezione dell'uso che non si fondasse su un atto di ri nuncia - cioè, in ultima analisi, sulla volontà di un sogget to - ma, per così dire, sulla natura stessa delle cose (come il frequente rimando allo stato di natura sembrerebbe, del resto, implicare).
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8.2. Nel 1916, Benjamin annota in uno dei suoi Notiz blocke un breve testo dal titolo Appunti per un lavoro sulla categoria della giustizia, che stabilisce una stretta connessio ne fra il concetto di giustizia e quello di inappropriabilità: Il carattere di proprietà - egli scrive - compete a ogni be ne limitato nell'ordine spazio-temporale come espressione della sua caducità. La proprietà, in quanto è imprigiona ta nella stessa finitezza, è, tuttavia, sempre ingiusta. Per questo nessun ordine di proprietà, comunque lo si voglia concepire, può condurre alla giustizia. Questa consiste piuttosto nella condizione di un bene, che non può essere appropriato [das nicht Besitz sein kann] . Questo solo è il bene, in virtù del quale i beni diventano senza possesso [besitzlos] [BENJAMIN 1, p. 41] .
La giustizia, prosegue Benjamin, non ha nulla a che fare con la ripartizione dei beni secondo i bisogni degli in dividui, perché la pretesa del soggetto al bene non si fonda sui bisogni, ma sulla giustizia e, come tale, si rivolge non «a un diritto di proprietà della persona, ma a un diritto-al bene del bene» (ein Gutes-Recht des Gutes - ibid. ) . A questo punto, con una singolare contrazione d i eti ca e antologia, la giustizia viene presentata non come una virtù, ma come uno «stato del mondo», come la categoria etica che corrisponde non al dover essere, ma all'esistente come tale: La giustizia non sembra riferirsi alla buona volontà di un soggetto, ma costituisce uno stato del mondo [einen Zu stand der Wélt] , la giustizia designa la categoria etica dell'e sistente, la virtù la categoria etica di ciò che è dovuto. Si può esigere la virtù, ma la giustizia in ultima istanza può soltanto essere, come stato del mondo o come stato di Dio.
Ed è in questo senso che essa può essere definita come «lo sforzo di fare del mondo il bene supremo» (ibid. ) . S e s i ricorda che l a giustizia, nel passo immediata mente precedente, coincideva con la condizione di un be-
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ne che non può essere appropriato, fare del mondo il bene supremo può soltanto significare: esperirlo come assoluta mente inappropriabile. In questo frammento in qualche modo radicalmente francescano, la povertà non si fonda, cioè, su una decisione del soggetto, ma corrisponde a uno «stato del mondo». E se, nei teorici francescani, l'uso appa riva come la dimensione che si apre quando si rinuncia alla proprietà, qui la prospettiva necessariamente si rovescia e l'uso si presenta come la relazione a un inappropriabile, come la sola relazione possibile a quello stato supremo del mondo, in cui esso, in quanto giusto, non può essere in alcun modo appropriato. 8.3. Che una simile concezione dell'uso come rela zione a un inappropriabile non sia affatto peregrina è te stimoniato dall'esperienza, che ci offre quotidianamente esempi di cose inappropriabili, con cui siamo tuttavia inti mamente in rapporto. Ci proponiamo qui di esaminare tre di questi inappropriabili: il corpo, la lingua, il paesaggio. Una corretta posizione del problema del corpo è stata messa durevolmente fuori strada dalla dottrina fenomeno logica del corpo proprio. Secondo questa dottrina - che ha nella polemica di Husserl e Edith Stein contro la teoria lippsiana dell'empatia il suo luogo t opico - l'esperienza del corpo sarebbe, insieme a quella dell'Io, ciò che vi è di più proprio e originario. La donazione originaria di un corpo - scrive Husserl - può essere soltanto la donazione originaria del mio corpo e di nessun altro [meines und keines andern Leibes] . L'apperce zione del mio corpo è in modo originalmente essenziale [urwesentlich] la prima e la sola che sia pienamente origi naria. Solo se ho costituito il mio corpo, io posso percepire ogni altro corpo come tale, e quest'ultima appercezione ha rispetto all'altra carattere mediato [ H u ssE RL 1, p. 7] .
E, tuttavia, proprio questo enunciato apodittico sul carattere originariamente «mio» della donazione di un cor po non cessa di suscitare aporie e difficoltà.
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La prima è la percezione del corpo altrui. Questo, infatti, non è percepito come un corpo inerte (Korper), ma come un corpo vivente (Leib), dotato, come il mio, di sensibilità e percezione. Negli appunti e nelle stesure frammentarie che compongono i volumi XII I e XIV degli Husserliana, pagine e pagine sono dedicate al problema della percezione della mano altrui. Com'è possibile perce� pire una mano come viva, cioè non semplicemente come una cosa, una mano di marmo o dipinta, ma come una mano «di carne e sangue» - e, tuttavia, non mia? Se alla percezione del corpo appartiene originariamente il caratte. re dell'esser mio, qual è la differenza fra la mano alu:ui, che in questo momento vedo e mi tocca, e la mia? Non può trattarsi di un'inferenza logica o di un'analogia, perché io «sento» la mano altrui, mi immedesimo in essa e la sua sensibilità mi è data in una sorta di immediata presentifi cazione ( Vergegenwiirtigung - HussERL 2, pp. 40-41) . Cosa impedisce, allora, di pensare che la mano altrui e la mia siano date cooriginariamente e che soltanto in un secondo te11Jpo si produca la distinzione? Il problema era particolarmente scottante, perché nel ' momento in cui Husserl scriveva i suoi appunti, il di battito intorno al problema dell'empatia (Einfohlung) era ancora assai vivo. In un libro pubblicato qualche anno pri ma (Leitfoden der Psychologie, 1903), Theodor Lipps aveva escluso che le esperienze empatiche, in cui un soggetto si trova di colpo trasferito nel vissuto di un altro, potesse ro essere spiegate attraverso l'imitazione, l'associazione o l'analogia. Quando io osservo con piena partecipazione l'acrobata che cammina sospeso nel vuoto e grido di ter rore quando questi minaccia di cadere, io sono in qualche modo «presso» di lui e sento il suo corpo come se fosse il mio e il mio come se fosse il suo. «Non avviene qui» scrive Husserl «che io prima costituisca solipsisticamente le mie cose e il mio mondo, e poi empaticamente afferri l'altro io, come costituente per sé solipsisticamente il suo mondo, e poi ancora che l'uno sia identificato con l'altro; piuttosto la mia unità sensibile, in quanto la molteplicità estranea non è separata dalla mia, è eo ipso empaticamente perce-
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pita come identica ad essa» (HussERL 1, p. 10). L'assioma dell'originari età del corpo proprio era, in questo modo, seriamente messa in questione. Come Husserl non poteva non ammettere, l'esperienza empatica introduce nella co stituzione solipsistica del corpo proprio una «trascenden za», in cui la coscienza sembra andare al di là di se stessa e distinguere un vissuto proprio dall'altrui diventa proble matico (ivi, p. 8). Tanto più che Max Scheler, che aveva cercato di applicare all'etica i metodi della fenomenologia husserliana, aveva postulato senza riserve - con una tesi che Edith Stein doveva definire «affascinante» anche se er ronea - una corrente originaria e indifferenziata di vissuti, in cui l'io e il corpo altrui sono percepiti allo stesso modo dei propri. Nessuno dei tentativi di Husserl e della sua allieva di restaurare ogni volta il primato e l' originarietà del corpo proprio risulta alla fine convincente. Come avviene ogni volta che ci si ostina a mantenere una certezza che l' espe rienza ha rivelato fallace, essi approdano a una contraddi zione, che_, in questo caso, prende la forma di un ossimoro, di un'«originarietà non originaria». «Né il corpo estraneo né la soggettività estranea» scrive Husserl «mi sono dati origina/iter; e, tuttavia, quell'uomo là mi è dato origina riamente nel mio mondo ambiente» (p. 234). E, in modo ancora più contraddittorio, Edith Stein: Vivendo nella gioia dell'altro, io non provo alcuna gioia originaria, questa non sgorga viva nel mio io e non ha nemmeno il carattere di essere-stata-viva-una-volta, co me la gioia ricordata . . . L'altro soggetto è originario ben ché io non lo viva come originario; la gioia che sgorga in lui è originaria benché io non la viva come originaria. Nel mio vissuto non originario, mi sento accompagnato da un vissuto originario, che non è vissuto da me e, tut tavia, esiste e si manifesta nel mio vissuto non originario (STEIN, p. 63] .
In questo «vivere non originariamente una originarie tà», l' originarietà del corpo proprio è mantenuta per così
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dire in m ala fede, soltanto a patto di dividere l'esperienza empatica in due momenti contraddittori. La partecipazio ne immediata al vissuto estraneo, che Lipps esprimeva co me il mio essere pienamente e angosciosamente deportato «presso» l'acrobata che cammina sul filo, viene così sbriga tivamente messa da parte. In ogni caso, ciò che l'empatia - ma, accanto ad essa, occorrerebbe menzionare l'ipnosi, il magnetismo, la suggestione, che in quegli stessi anni sem brano ossessivamente catturare l'attenzione degli psicologi e dei sociologi - mostra, è che quanto più si afferma il ca rattere originario della «proprietà» del corpo e del vissuto, tanto più forte e originaria si manifesta in essa l'invadenza di una «improprietà», come se il corpo proprio proiettasse ogni volta un'ombra portata, che non può in nessun caso essere separata da esso. 8-4- Nel saggio del 1935 De l'évasion, Emmanuel Lévi nas sottopone a una spietata disamina delle esperienze corporee tanto familiari quan to sgradevoli: la vergogna, la nausea, il bisogno. Secondo un suo gesto caratteristico, Lévinas esagera e spinge all'estremo l'analitica dell'Esserci del suo maestro Heidegger, fino a esibirne per così dire la faccia notturna. Se, in Essere e tempo, l'Esserci è irre parabilmente gettato in una fatticità che gli è impropria e che non ha scelto, in modo che egli ha ogni volta da assumere e afferrare la stessa improprietà, questa struttura antologica trova ora la sua formulazione parodica nell'a nalisi del bisogno corporeo, della nausea e della vergogna. Ciò che definisce, infatti, queste esperienze non è una mancanza o un difetto di essere, che cerchiamo di col mare o da cui prendiamo le distanze: esse si fondano, al contrario, su un duplice movimento, in cui il soggetto si trova, da una parte, consegnato irremissibilmente al suo corpo e, dall'altra, altrettanto inesorabilmente incapace di assumerlo. Si immagini un caso esemplare di vergogna: la vergo gna per la nudità. Se, nella nudità, proviamo vergogna, è perché in essa ci troviamo rimessi a qualcosa da cui non possiamo ad alcun costo disdirci.
120 L'uso DEI CORPI La vergogna appare ogni volta che non riusciamo a far di menticare la nostra nudità. Essa si riferisce a tutto ciò che si vorrebbe nascondere e che non possiamo coprire . . . Ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere inchiodati a noi stessi, l'impossibilità radicale di fuggirci per nasconderei a noi stessi, la presenza irremissibile dell'io a se stesso. La nudità è vergognosa quando è la patenza del nostro essere, della sua: intimità ultima . . . È la nostra inti mità, cioè la nostra presenza a noi stessi che è vergognosa (LÉYINAS I, pp. 86-87] .
Ciò significa che, nell'istante in cui ciò che ci è più intimo e proprio - il nostro corpo - è messo irreparabil mente a nudo, esso ci appare come la cosa più estranea, che non possiamo in alcun modo assumere e vorremmo, per questo, nascondere. Questo duplice, paradossale movimento è ancora più evidente nella nausea e nel bisogno corporeo. La nausea è, infatti, «una presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi» che, nell'istante in cui è vissuta, ci «appare insormonta bile» (ivi, p. 89) . Quanto più lo stato nauseabondo, con i suoi conati di vomito, mi consegna al mio ventre, come alla mia sola e irrefutabile realtà, tanto più esso mi diventa estraneo e inappropriabile: non sono che nausea e conato, e, tuttavia, non posso né accettarli né venirne fuori. «C'è, nella nausea, un rifiuto di restarci, uno sforzo per uscirne. Ma questo sforzo è fin dall'inizio caratterizzato come di sperato . . . Nella nausea, che è una impossibilità di essere ciò che si è, siamo nello stesso tempo inchiodati a noi stes si, stretti in un circolo che ci soffoca» (p. 90). La natura contraddittoria della relazione al corpo raggiunge la sua massa critica nel bisogno. Nel momento in cui provo un impulso incontenibile ad orinare, è come se tutta la mia realtà e la mia presenza si concentrassero in quella parte del mio corpo, da cui proviene il bisogno. Essa mi è assolutamente e implacabilmente propria e, tut tavia, precisamente per questo, appunto perché io vi sono inchiodato senza scampo, essa diventa la cosa più estranea e inappropriabile. L'istante del bisogno mette, cioè, a nudo
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la verità del corpo proprio: esso è un campo di tensioni polari i cui estremi sono definiti da un «essere consegnato a» e da un «non poter assumere». Il mio corpo mi è dato originariamente come la cosa più propria, solo nella mi sura in cui si rivela essere assolutamente inappropriabile. Il carattere di inappropriabilità e di estraneità che inerisce ineliminabilmente al corpo proprio emerge con par ticolare evidenza in tutti quei disturbi della gestualità e del la parola che, dal nome dello psichiatra francese Gilles de la Tourette, vengono comunemente definiti col termine «touret tismo>>. I tics, i proferimenti compulsivi (in genere di caratte re osceno), l'impossibilità di portare a termine un movimento, i tremiti della muscolatura (chorea) e tutta la vasta sintoma tologia che definisce questa sindrome delimitano un ambito del rapporto al corpo proprio che sfogge a ogni possibilità per i pazienti di distinguere con chiarezzafra il volontario e l'in volontario, il proprio e l'estraneo, il consapevole e l'inconscio. N
8.5. Esiste, in questa prospettiva, una an�ogia strut turale fra il corpo e la lingua. Anche la lingua, infatti - in particolare nella figura della lingua materna - si presen ta per ciascun parlante come ciò che che vi è di · più in timo e proprio; e, tuttavia, parlare di una «proprietà» e di un'«intimità» della lingua è certamente fuorviante, dal momento che la lingua avviene all'uomo dall'esterno, at traverso un processo di trasmissione e di apprendimen to che può essere arduo e penoso ed è piuttosto imposto all'infante che da lui voluto. E mentre il corpo sembra particolare a ciascun individuo, la lingua è per definizione condivisa da altri e oggetto, come tale, di uso comune. Come la costituzione corporea secondo gli stoici, la lin gua è, cioè, qualcosa con cui il vivente deve familiarizzarsi in una più o meno lunga oikeiosis, che sembra naturale e quasi congenita; e tuttavia - come testimoniano i lapsus, i balbettamenti, le improvvise dimenticanze e le afasie - es sa è e resta sempre in qualche misura estranea al parlante. Ciò è' tanto più evidente in coloro - i poeti - il cui mestiere è appunto quello di padroneggiare e far propria la
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lingua. Essi devono, per questo, innanzitutto abbandonare le convenzioni e l'uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili - stra niera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio altro e divino (la mu sa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L'appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l'atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntual mente appropriato. Possiamo chiamare stile e maniera i modi in cui que sto duplice gesto si segna nella lingua. Occorre qui abban donare le consuete rappresentazioni gerarchiche, per cui la maniera sarebbe una perversione e una decadenza dello stile, che le resta per definizione superiore. Stile e maniera nominano piuttosto i due poli irriducibili del gesto poe tico: se lo stile ne segna il tratto più proprio, la maniera registra un'inversa esigenza di espropriazione e inappar tenenza. Appropriazione e disappropriazione vanno qui prese alla lettera, come un processo che investe e trasforma la lingua in tutti i suoi aspetti. E non solo in letteratura, come nei dialoghi estremi di Platone, nel tardo Goethe e nell'ultimo Caproni, ma anche nelle arti (il caso esempla re è Tiziano) si assiste a questa tensione del campo della lingua, che la elabora e trasforma fino a renderla nuova e quasi irriconoscibile. 8.6. Se il manierismo, nella storia dell'arte e in psi chiatria, designa l'eccessiva adesione a un uso o a un mo dello (stereotipia, ripetizione) e, insieme, l'impossibilità di identificarsi veramente con essi (stravaganza e artificio), considerazioni analoghe possono farsi per la relazione del parlante alla sua inappropriabile lingua: essa definisce un campo di forze polari, tese fra l'idiotismo e la stereotipia, il troppo proprio e la più completa estraneità. E solo in questo contesto l'opposizione fra stile e maniera acquista il suo vero senso. Essi sono i due poli, nella cui tensione
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vive il gesto del poeta: lo stile è un'appropriazione disap propriante (una negligenza sublime, un dimenticarsi nel proprio), la maniera una disappropriazione appropriante (un presentirsi o un ricordarsi nell'improprio) . Possiamo, allora, chiamare «USO» il campo di tensio ne i cui poli sono lo stile e la maniera, l'appropriazione e l'espropriazione. E non soltanto nel poeta, ma in ogni uomo parlante rispetto alla sua lingua e in ogni vivente ri spetto al suo corpo, vi è sempre, nell'uso, una maniera che prende le distanze dallo stile, uno stile che si disappropria in maniera. Ogni uso è, in questo senso, un gesto polare: da una parte appropriazione e abito, dall'altra perdita ed espropriazione. Usare - di qui l'ampiezza semantica del termine, che indica tanto l'uso in senso stretto che l'abitu dine - significa incessantemente oscillare tra una patria e un esilio: abitare. Gregorio Magno (Dial., II, J, 37) scrive di san Be nedetto che, a un certo punto della sua vita, . Che cosa può significare «abitare con sé»? Habitare è un in tensivo di habere. L'uso, come relazione a un inappropriabile, si presenta come un campo di forze teso fra una proprietà e una improprietà, un avere e un non avere. In questo senso, se si ricorda la prossimità fra uso e abito e uso e uso di sé che abbiamo sopra evocato, abitare significherà essere in relazione d'uso così intensa con qualcosa, al punto da potersi perdere e dimenticare in essa, da costituirla come inappropriabile. Abitare con sé, abitare sé, nomina allora il tratto fon damentale dell'esistenza umana: la forma di vita dell'uomo è, nelle parole di Holderlin, una «vita abitante» (Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben . . . HOLDERLIN, p. JI4}. Ma, proprio per questo, nella lettera a Bohlendorffdel 4 dicembre 1801, in cui Holderlin ha for mulato il suo pensiero supremo, l'uso si presenta già sempre scisso in «proprio>> ed «estraneo>> e la tesi decisiva suona: «il libero uso del proprio [der freie Gebrauch des Eigenes} è la cosa più difficile>>. N
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8.7. Una definizione del terzo esempio di inappro priabile, il paesaggio, deve esordire dall'esposizione del suo rapporto con l'ambiente e con il mondo. E questo non perché il problema del paesaggio così come è stato affrontato dagli storici dell'arte, dagli antropologi e dagli storici della cultura sia irrilevante; decisiva è piuttosto la costatazione delle aporie di cui queste discipline restano prigioniere ogni volta che cercano di definire il paesaggio. Non soltanto non è chiaro se esso sia una realtà naturale o un fenomeno umano, un luogo geografico o un luogo dell'anima; ma, in questo secondo caso, nemmeno è chia ro se esso debba essere considerato come consustanziale all'uomo o non sia invece una invenzione moderna. Si è spesso ripetuto che la prima apparizione di una sensibilità al paesaggio sia la lettera di Petrarca che descrive l' ascen sione sul monte Ventoux sola videndi insignem loci alti tudinem cupiditate ductus. Nello stesso senso si è potuto affermare che la pittura di paesaggio, sconosciuta all'An tichità, sarebbe un'invenzione della pittura olandese del Quattrocento. Entrambe le affermazioni sono false. Non soltanto il luogo e la data di composizione della lettera sono probabilmente fittizi, ma la citazione di Agostino che Petrarca vi introduce per stigmatizzare la sua cupiditas videndi implica che già nel IV secolo gli uomini amassero contemplare il paesaggio: et eunt homines mirari alta mon tium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum. Numerosi passi testimoniano, anzi, di una vera e propria passione degli antichi per la contemplazione dall'alto (ma gnam capies voluptatem - scrive Plinio, Ep. , VI , 13 - si hunc regionis situm ex monte prospexeris), che gli etologi han no inaspettatamente ritrovato nel regno animale, dove si vedono capre, vigogne, felini e primati inerpicarsi su un luogo elevato per poi contemplare, senz'alcuna apparen te ragione, il paesaggio circostante (FEHLING, pp. 44-48). Quanto alla pittura, non soltanto gli affreschi pompeia ni, ma anche le fonti mostrano che i Greci e i Romani conoscevano la pittura di paesaggio, che chiamavano to piographia o «scenografia» (skenographia), e ci hanno con servato i nomi di paesaggisti, come Ludius, qui primus
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instituit amoenissimam parietum picturam, e Serapione, di cui sappiamo che sapeva dipingere scenografie di paesaggi, ma non figure umane (hic scaenas optime pinxit, sed homi nem pingere non potuit). E chi ha osservato gli impietriti, trasognati paesaggi dipinti sulle pareti delle ville campane, che Rostosvzev chiamava idillico-sacrali (sakral-idyllisch) , sa di trovarsi davanti a qualcosa estremamente difficile da comprendere, ma che riconosce inequivocabilmente come paesaggi. Il paesaggio è, cioè, un fenomeno che riguarda in modo essenziale l'uomo - e, forse, il vivente come tale - e, tuttavia, esso sembra sfuggire a ogni definizione. Solo a una considerazione filosofica esso potrà, eventualmente, dischiudere la sua verità. 8.8. Nel corso del semestre invernale 1 929-30 a Fri burgo (pubblicato col titolo I concetti fondamentali della metafisica. Mondo -finitezza -solitudine) Heidegger cerca di definire la struttura fondamentale dell'umano come un passaggio dalla ((povertà di mondo» dell'animale all'essere nel-mondo che definisce il Dasein. Sulla scorta dei lavori di Uexkiill e di altri zoologi, pagine estremamente acute sono dedicate alla descrizione e all'analisi del rapporto dell'ani male col suo ambiente ( Umwelt) . Lanimale è povero di mondo (we!tarm), perché egli resta prigioniero del rappor to immediato con una serie di elementi (Heidegger chia ma ((disinibitori» quelli che Uexkiill definiva ((portatori di significato») che i suoi organi ricettivi hanno selezionato nell'ambiente. Il rapporto con questi disinibitori è così stretto e totalizzante, che l'animale è letteralmente ((stordi to» e ((catturato» in essi. Come icastico esempio di questo stordimento, Heidegger riferisce l'esperimento in cui un'a pe viene posta in laboratorio davanti a una coppetta piena di miele. Se, dopo che essa ha cominciatç> a succhiare, si recide l'addome dell'ape, essa continua tranquillamente a succhiare, mentre si vede il miele scorrere via dall'addome reciso. L ape è così assorbita nel suo disinibitore, che non può mai mettersi di fronte ad esso per percepirlo come qualcosa che esista oggettivamente in sé e per sé. Certo, rispetto alla pietra, che è assolutamente priva di mondo,
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l'animale è in qualche modo aperto ai suoi disinibitori e tuttavia non può mai vederli come tali. «L'animale» scrive Heidegger «non può mai percepire qualcosa come qual cosa» (HEIDEGGER 5, p. 360). Per questo l'animale resta chiuso nel cerchio del suo ambiente e non può mai aprirsi in un mondo. Il problema filosofico del corso è quello del confine - cioè, insieme, della se'parazione estrema e della vertigi nosa prossimità - fra l'animale e l'umano. In che modo qualcosa come un mondo si apre per l'uomo? Il passaggio dall'ambiente al mondo non è, in realtà, semplicemente il passaggio da una chiusura a un'apertura. L'animale, in fatti, non soltanto non vede l'aperto, l'ente nel suo essere svelato, ma nemmeno percepisce la propria non-apertura, il suo essere catturato e stordito nei propri disinibitori. L'allodola, che si slancia nell'aria, «non vede l'aperto», ma nemmeno è in grado di riferirsi alla propria chiusura. «L'a nimale» scrive Heidegger «è escluso dall'ambito essenziale del conflitto fra svelamento e velamento» (HEIDEGGER 6, pp. 237-238). L'apertura del mondo comincia nell'uomo proprio a partire dalla percezione di una non-apertura. Ciò significa, allora, che il mondo non si apre su uno spazio nuovo e ulteriore, più ampio e luminoso, conqui stato al di là dei limiti dell'ambiente animale e senza rela zione con esso. Al contrario, esso si è aperto solo attraverso una sospensione e una disattivazione del rapporto animale col disinibitore. L'aperto, il libero spazio dell'essere, non nominano qualcosa di radicalmente altro rispetto al non aperto dell'animale: essi sono soltanto l'afferramento di un indisvelato, la sospensione e la cattura del non-vedere l'allodola-l'aperto. L'apertura che è in questione nel mon do è essenzialmente apertura a una chiusura e colui che guarda nell'aperto vede solo un richiudersi, vede solo un non-vedere. Per questo - in quanto, cioè, il mondo si è aperto solo attraverso l'interruzione e la nullificazione del rapporto del vivente col suo disinibitore - l'essere è fin dall'inizio tra versato dal nulla e il mondo è costitutivamente segnato da negatività e spaesamento.
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8.9. Si comprende che cos'è il paesaggio solo se s'intende che esso rappresenta, rispetto all'ambiente ani male e al mondo umano, uno stadio ulteriore. Quan do guardiamo un paesaggio, noi certo vediamo l'aperto, contempliamo il mondo, con tutti gli elementi che lo compongono (le fonti antiche elencano fra questi i bo schi, le colline, gli specchi d'acqua, le ville, i promontori, le sorgenti, i torrenti, i canali, le greggi e i pastori, gente a piedi o in barca, che va a caccia o vendemmia . . . ); ma questi, che non erano già più parti di un ambiente ani male, sono ora per così dire disattivati uno a uno sul pia no dell'essere e percepiti nel loro insieme in una nuova dimensione. Li vediamo, perfettamente e limpidamente come non mai e, tuttavia, non li vediamo già più, perduti - felicemente, immemorabilmente perduti - nel paesag gio. L'essere, en état de paysage, è sospeso e reso inoperoso e il mondo, divenuto perfettamente inappropriabile, va per così dire al di là dell'essere e del nulla. Non più ani male né umano, chi contempla il paesaggio è soltanto paesaggio. Non cerca più di comprendere, guarda soltan to. Se il mondo era l'inoperosità dell'ambiente animale, il paesaggio è, per così dire, inoperosità dell'inoperosità, essere disattivato. Né disinibitoci animali né enti, gli ele menti che formano il paesaggio sono antologicamente neutri. E la negatività, che, nella forma del nulla e della non apertura, i n eriva al mondo - poiché questo proveni va dalla chiusura animale, di cui era soltanto una sospen sione -, è ora congedata. In quanto si è portato, in questo senso, al di là dell'es sere, il paesaggio è la forma eminente dell'uso. In esso, uso di sé e uso del mondo coincidono senza residui. La giustizia, come stato del mondo in quanto inappropria bile, è qui l'esperienza decisiva. n paesaggio è la dimora nell'inappropriabile come forma-di-vita, come giustizia. Per questo, se, nel mondo, l'uomo era necessariamente gettato e spaesato, nel paesaggio egli è finalmente a casa. Pays!, «paese!» (da pagus, «villaggio»), è in origine, secondo gli etimologisti, il saluto che si scambiavano coloro che si riconoscevano dello stesso villaggio.
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8.10. Possiamo chiamare «intimità» l'uso di se m quanto relazione con un inappropriabile. Che si tratti della vita corporea in tutti i suoi aspetti (compresi que gli ethe elementari che abbiamo visto essere l'orinare, il dormire, il defecare, il piacere sessuale, la nudità . . . ) o della speciale presenza - assenza a noi stessi che viviamo nei momenti di solitudine, ciò di cui facciamo esperienza nell'intimità è il nostro tenerci in relazione con una zona inappropriabile di non-conoscenza. Qui la dimestichezza con sé raggiunge un'intensità tanto più estrema e gelosa, in quanto non si traduce in alcun modo in qualcosa che possiamo padroneggiare. È proprio questa sfera opaca di non conoscenza che nella modernità diventa il contenuto più esclusivo e pre zioso della privacy. L'individuo moderno si definisce in nanzitutto attraverso la sua facoltà (che può prendere la forma di un vero e proprio diritto) di regolare l'accesso alla sua intimità. Secondo la laconica definizione di uno studioso anglosassone, «la privacy è il controllo selettivo dell'accesso al sé . . . la regolazione della privacy è un proces so attraverso il quale gli individui rendono il confine tra sé e l'altro permeabile in alcune occasioni e impermeabile in altre» (ALTMAN , pp. 8 sgg) . Ma ciò che è in gioco in questa condivisione selettiva dell'uso di sé è in realtà la costitu zione stessa del sé. L'intimità è, cioè, un dispositivo circo lare, attraverso il quale, regolando selettivamente l'accesso a sé, l'individuo costituisce se stesso come il pre-supposto e il proprietario della propria privacy. Come suggerisce, ben al di là delle proprie intenzioni, lo stesso autore, vitale per la definizione del sé non è tanto l'inclusione o l'esclu sione degli altri, quanto la capacità di regolare il contatto quando lo si desidera: «il meccanismo della privacy serve a permettermi di definire me stesso» (ivi, pp. 26-28) . All'uso dei corpi, in cui soggetto e oggetto si indeterminavano, si sostituisce così il dominio sulla privacy, come costituzione della soggettività. Si comprende allora come, in una società formata da individui, la trasformazione dell'uso di sé e della relazione all'inappropriabile in un possesso geloso abbia in realtà un
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significato politico tanto più decisivo in quanto resta osti natamente nascosto. È nell'opera di Sade - cioè proprio nel momento in cui i singoli viventi come tali diventano i portatori della nuova sovranità nazionale - che questo si gnificato politico emerge con forza alla luce. Nel manifesto Français encore un e./fort si vous voulez etre républicains che il libertino Dolmancé legge nella Philosophie dans le bou doir, il luogo politico per eccellenza diventano le maisons in cui ogni cittadino ha diritto di convocare ciascun altro per usare liberamente del suo corpo. L'intimità diventa qui la posta in gioco nella politica, il boudoir si sostituisce in tegralmente alla cité. Se il soggetto sovrano è innanzitutto sovrano sul proprio corpo, se l'intimità - cioè l'uso di sé in quanto inappropriabile - diventa qualcosa come la so stanza biopolitica fondamentale, si comprende allora che in Sade essa possa presentarsi come l'oggetto del primo e inconfessato diritto del cittadino: ciascun individuo ha diritto di condividere a suo piacimento l'inappropriabile dell'altro. Comune è innanzitutto l'uso dei corpi. Ciò che nel pamphlet di Dolmancé era un contratto giuridico costituzionale, fondato sulla reciprocità repub blicana, nelle I20 giornate di Sodoma si presenta invece co me puro oggetto del dominio e della violenza incondizio nata (non è certo un caso che la perdita di ogni controllo sulla ,propria intimità fosse, secondo le testimonianze dei deportati, parte integrante delle atrocità del Lager) . Il pat to criminale che regge il castello di Silling, in cui i quattro potenti scellerati si rinchiudono con le loro quaranta vit time, stabilisce il controllo assoluto da parte dei padroni dell'intimità dei loro schiavi - persino le loro funzioni fi siologiche sono minuziosamente regolate -, l'uso integrale e illimitato dei loro corpi. La relazione con l'inappropria bile, che costituisce la sostanza biopolitica di ciascun indi viduo, viene così violentemente appropriata da colui che si costituisce in questo modo come signore dell'intimità, di quel libero uso del proprio che, nelle parole di Holderlin, si presentava come «la cosa più difficile». Contro questo tentativo di appropriarsi attraverso il dìritto o la forza dell'inappropriabile per costituirlo come
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arcanum della sovranità, occorre ricordare che l'intimità può conservare il suo significato politico solo a patto di re stare inappropriabile. Comune non è mai una proprietli, ma solo l'inappropriabile. La condivisione di questo inappro priabile è l'amore, quell'«uso della cosa amata» di cui l'u niverso sadiano costituisce la serissima e istruttiva parodia. Nel corso di questa ricerca sull'uso dei corpi, un ter mine non ha cessato di apparire: inoperosità. Gli elementi di una teoria dell'inoperosità sono stati elaborati in un volume precedente (AGAMBEN I, passim e, in part., pp. 262-276; ma cfr. anche AGAMBEN 2, pp. I2()-I59}; il concetto di uso che abbiamo tentato di definire può essere correttamente com preso solo se lo si situa nel contesto di quella teoria. L'uso è costitutivamente una pratica inoperosa, che può darsi solo sulla base di una disattivazione del dispositivo aristotelico potenza/atto, che assegna allenergeia, all'essere-in-opera, il primato sulla potenza. L'uso è, in questo senso, un principio interno alla potenza, che impedisce che questa si esaurisca semplicemente nell'atto e la spinge a rivolgersi a se stessa, a farsi potenza della potenza, a potere la propria potenza (e, quindi, la propria impotenza). L'opera inoperosa, che risulta da questa sospensione della potenza, espone nell'atto la potenza che l'ha portata in essere: se è una poesia, esporrà nella poesia la potenza della lingua, se è una pittura, esporrà sulla tela la potenza di dipingere (dello sguardo), se è un'azione, esporrà nell'atto la potenza di agi re. Solo in questo senso di può dire che l'inoperosità è poesia della poesia, pittura della pittura, prassi della prassi. Renden do inoperose le opere della lingua, delle arti, della politica e dell'economia, essa mostra che cosa può il corpo umano, lo apre a un nuovo possibile uso. L'i noperosità come prassi specificamente umana permet te anche di comprendere in che modo il concetto di uso qui proposto (come quello diforma-di-vita) si riferisca al concetto marxiano di «forme di produzione>>. È certamente vero che, come Marx suggerisce, le forme di produzione di un'epoca contribuiscono in modo decisivo a determinarne i rapporti sociali e la cultura; ma, in relazione a ogni forma di produN
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zione, è possibile individuare una «forma di inoperosità» che, pur tenendosi in stretto rapporto con quella, non ne è deter minata, ma ne rende, anzi, inoperose le opere e ne permette un nuovo uso. Unicamente concentrato sull'analisi delle for me diproduzione, Marx ha trascurato l'analisi delle forme di inoperosità, e questa carenza è certamente alla base di alcune aporie del suo pensiero, in particolare per quanto concerne la definizione dell'attività umana nella società senza classi. Sarebbe essenziale, in questa prospettiva, una fenomenologia delleforme di vita e di inoperosità che procedesse di pari passo a un'analisi delle corrispondenti forme di produzione. Nell'i noperosità, la società senza classi è già presente nella società capitalistica, così come, secondo Benjamin, le schegge del tem po messianico sono presenti nella storia in forme eventual mente infami e risibili.
Intermezzo
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I. In un breve scritto, pubblicato quattro anni dopo la morte di Miche/ Foucault, Pierre Hadot, che lo aveva cono sciuto e episodicamente frequentato a partire dalla fine del r98o, ha cura di precisare le «convergenze» e le «divergenze>> fra il suo pensiero e quello dell'amico nel corso di un dialogo troppo presto interrotto. Se, da una parte, egli dichiara di ritrovare in Foucault gli stessi suoi temi e gli stessi interessi, che convergono in una concezione della filosofia antica - e della filosofia in generale - come «esercizio» e «stile di vi ta», dall'altra egli prende fermamente le distanze dalle tesi dell'amico. In questo lavoro di sé su sé, in questo esercizio di sé anch'io riconosco, per parte mia, un aspetto essenziale della vita fi losofica: la filosofia è un'arte di vivere, uno stile di vita che impegna tutta l'esistenza. Esiterei, tuttavia, a parlare, come fo Foucault, di «estetica dell'esistenza>>, tanto a proposito dell'Antichità, che, in generale, per il compito del filosofo. Miche/ Foucault intende . . . questa espressione nel senso che la nostra propria vita è l'opera che noi dobbiamo fore. Il termine «estetica>> evoca, infotti, per noi moderni risonanze molto diverse da quelle che la parola «bellezza>> (kalon, ka los) aveva nell'Antichità. I moderni hanno infatti tendenza a rappresentarsi il bello come una realtà autonoma indipen dente dal bene e dal male, mentre per i Greci, al contrario, il termine, riferito agli uomini, implica normalmente un valo re morale. . . Per questo, invece di parlare di «cultura di sé», sarebbe meglio parlare di trasformazione, di trasfigurazione, di «superamento di sé». Per descrivere questo stato, non si può eludere il termine «saggezza», che, mi sembra, in Fou-
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2. A prima vista, l'opposizione appare perspicua e sembra riflettere una divergenza reale. Come Hadot stesso osserva, in questione è «quell'estetica dell'esistenza» che fu per Foucault la sua ultima concezione della filosofia e che corrisponde, del resto, con ogni probabilità alla filosofia che egli ha concreta mente praticato per tutta la vita>> (ivi, p. 230). In un articolo che Hado t cita poco prima a sostegno della sua diagnosi, Paul Vryne, uno storico dell'Antichità che Foucault sentiva par ticolarmente vicino, sembra, almeno in apparenza, andare nella stessa direzione. L'idea di stile d'esistenza ha svolto un ruolo importante nelle conversazioni e forse anche nella vita interiore di Foucault negli ultimi mesi della sua vita, che lui solo sapeva minac ciata. «Stile" non significa qui distinzione: la parola va presa nel senso dei Greci, per i quali un artista era prima di tutto un artigiano e un'opera d'arte un'opera. . . L'io, prendendo se stesso come opera da compiere, potrebbe dar fondamento a una mo.rale che né la tradizione né la ragione sembrano più sostenere; artista di se stesso, egli godrebbe di quell'autonomia di cui la modernità non può fare a meno [VEYNE, p. 939}.
3· La biografia pubblicata in inglese da ]ames Miller nel I993, col titolo significativo The passi o n of Miche! Foucault, contiene ampie sezioni sulla vita privata di Foucault, in par ticolare sulla sua omosessualità e sulle assidue frequentazioni
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delle saune e dei locali gay sadomasochisti (come la Hothouse a San Francisco) durante i suoi soggiorni negli Stati Uniti. Ma già pochi anni dopo la morte di Foucault, un giovane scrittore che gli era stato vicino negli ultimi anni, Hervé Gui bert, aveva riferito in due libri (Les secrets d'un homme, H)88, e À l'ami qui ne m'a pas sauvé la vie, I9!JO) i ricordi infantili e i traumi segreti che Foucault gli avrebbe comuni cato sul letto di morte. Ancor prima, al momento del primo decisivo soggiorno in California, Simeon wtzde, un giovane studioso che aveva accompagnato ilfilosofo in una memora bile escursione nella Death Valley, aveva accuratamente re gistrato in un quaderno manoscritto le sue reazioni durante " un'esperienza con l'acido lisergico, quasi che questefossero, per la comprensione del pensiero di Foucault, altrettanto preziose e importanti delle sue opere. Certo Foucault stesso, che aveva aderito a un certo punto al FHAR e dichiarato apertamente la sua omosessualità, pur essendo, secondo la testimonianza degli amici, una persona schiva e discreta, non sembra mai tracciare divisioni nettefra la sua vita pubblica e quella privata. In numerose interviste, egli si riferisce così al sadomasochismo come a una pratica di invenzione di nuovi piaceri e di nuovi stili di esistenza e, più in generale, agli ambienti omosessuali di San Francisco e di New York come a «laboratori» in cui «si tenta di esplo rare le diverse possibilità interne del comportamento sessua le» nella prospettiva della creazione di nuove forme di vita (FouCAuLT 2, p. JJI; cfr. anche p. 737). È possibile, perciò, che proprio l'idea foucaldiana di un'arte dell'esistenza, già chiaramente enunciata all'inizio degli anni ottanta, e la sua crescente attenzione allepratiche attraverso le quali gli uomi ni cercano di modificarsi e difare della propria vita qualcosa come un'opera d'arte, abbia contribuito ad autorizzare l'inte resse per aspetti dell'esistenza che di solito non sono considerati pertinenti per la comprensione del pensiero di un autore. 4· Hadot intende innanzitutto l'estetica dell'esistenza, che attribuisce a Foucault come «la sua ultima concezione dellafilosofia>>, secondo la sua risonanza moderna, in cui essa, come «realtà autonoma indipendente dal bene e dal male», si
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oppone alla dimensione etica. In questo modo, · egli attribuisce in qualche modo a Foucault il progetto di una estetizzazione dell'esistenza, in cui il soggetto, al di là del bene e del male, simile più al Des Esseintes di Huysmans che al Socrate plato nico, plasma la sua vita come un'opera d'arte. Una ricogni zione dei luoghi in cui Foucault si serve dell'espressione «este tica dell'esistenza>> mostra invece al di là di ogni dubbio che Foucault situa risolutamente e costantemente l'esperienza in questione nella sfera etica. Già nella prima lezione del corso del I98I-82 su L ermeneutica del soggetto egli, quasi avesse previsto in anticipo l'obiezione di Hadot, mette in guardia contro la tentazione moderna di leggere espressioni come «cu ra di sé» o «occuparsi di se stessi>> in senso estetico e non mora le. « Voi sapete>> egli scrive «che esiste una certa tradizione (o forse più di una) che ci impedisce (noi, oggi) di dare a tutte questeformulazioni . . . un valore positivo e soprattutto difar ne il fondamento di una morale. . . Esse suonano piuttosto alle nostre orecchie. . . come una sorta di sfida e di vanteria, una volontà di rottura etica, una specie di dandismo morale e di affermazione spavalda di uno stadio estetico e individuale insuperabile>> (FouCAULT I, p. I4). Contro questa interpre tazione per così dire estetizzante della cura di sé, Foucault sottolinea invece che è proprio «a partire dall'ingiunzione di "occuparsi di se stessi " che si sono costituite le morali forse più austere, più rigorose e più restrittive che l'Occidente abbia mai conosciuto>> (ìbid.). 5· L'espressione «estetica dell'esistenza>> - e il tema, a que sta congiunto, della vita come opera d'arte - è sempre usata da Foucault nel contesto di una problematizzazione etica. Così nell'intervista del I{j8J a Dreyfos e Rabinow (a cui an che Hadot fo riferimento) egli dichiara che «L'idea del bios come materiale di un'opera d'arte estetica è qualcosa che mi affoscina>>; ma aggiunge immediatamente, per precisare che ciò che ha in mente è una forma di etica non normativa: «E anche l'idea che la morale può essere una struttura molto forte dell'esistenza, senza per questo doversi legare a un sistema au toritario né giuridico in sé, né a una struttura di disciplina>> (FouCAULT 2, p. 390). In un'altra intervista, pubblicata nel
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maggio I984 col titolo redazionale Un'estetica dell'esistenza, l'espressione è preceduta da un'analoga precisazione: «Questa elaborazione della propria vita come un'opera d'arte perso nale, anche se obbediva a dei canoni collettivi, era al centro, mi sembra, dell'esperienza morale e della volontà di morale dell'Antichità, mentre invece, nel cristianesimo, con la reli gione del testo, l'idea di una volontà divina e il principio di obbedienza, la morale prendeva in misura assai maggiore la forma di un codice di regole» (FouCAULT 2, p. 7JI). Ma è soprattutto nell'introduzione al secondo volume della Storia della sessualità che la pertinenza dell'«estetica dell'esistenza» alla sfera etica è chiarita al di là di ogni dubbio. Se Foucault si propone qui di mostrare come il piacere sessuale sia stato problematizzato nell'Antichità «attraverso delle pratiche di sé che mettono in gioco i criteri di un'estetica dell'esistenza» (FouCAULT J, p. IJ), ciò avviene per rispondere alla doman da genuinamente etica: «perché il comportamento sessuale, le attività e i piaceri che ne dipendono costituiscono l'oggetto di una preoccupazione morale?» (ivi, p. rs). Le «arti dell'esi stenza» di cui il libro si occupa e le tecniche di sé attraverso le quali gli uomini hanno cercato di fare della loro vita «un'o pera che esprima certi valori estetici e risponda a determina ti criteri di stile», sono in realtà delle «pratiche volontarie e ragionate» attraverso le quali gli uomini si fissano dei canoni di comportamento che svolgono una funzione che Foucault definisce «eto-poietica» (pp. IS-IJ). In questione non è una improbabile genealogia dell'estetica, ma una «nuova genea logia della morale» (FouCAULT 2, p. 7JI) Si tratta di rein trodurre nell'etica «il problema del soggetto che avevo più o meno lasciato da parte nei miei primi lavori . . . di mostrare come il problema del soggetto è stato presente dall'inizio alla fine nel problema della sessualità)) (ivi, p. 705). La cura di sé non è, infatti, per i Greci, un problema estetico, «è in se stessa qualcosa di etico)) (p. 7I4). 6. Hadot non nasconde la sua tardiva conoscenza dell'o pera di Foucault («devo confessare, con mia grande vergo gna, che, troppo assorbito nelle mie ricerche, conoscevo allora (r98o) assai male la sua opera))), Questo può in parte spiegare
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che anche le altre «divergenze» denunciate da Hadot sembra no riposare su dati imprecisi. Quando egli scrive che «invece di parlare di "cultura di sé" sarebbe meglio parlare di trasfor mazione, di trasfigurazione, di "superamento di sé">> e che, per descrivere questo stato, «non si può eludere il termine saggez za, che, mi sembra, in Foucault appare di rado se non mai»; e quando nota, infine, che «Foucault, che pure rende giustizia alla concezione della filosofia come terapeutica, non sembra accorgersi che questa terapeutica è innanzitutto destinata a procurare la pace dell'anima>>, si tratta puntualmente ogni volta di inesattezze fattuali. Gli indici del corso su Lerme neutica del soggetto, che costituisceper così dire il laboratorio delle ricerche sulla cura di sé, mostrano, infatti, che il termine «saggezza» appare almeno I8 volte, e quasi altrettante volte il termine «saggio>>. Nello stesso corso, si legge che, nell'ambito della spiritualità che Foucault intende ricostruire, «la verità è ciò che illumina il soggetto, che gli dà la beatitudine; la verità è ciò che gli dà la tranquillità dell'anima. In breve, vi è, nella verità e nell'accesso alla verità, qualcosa che compie il soggetto stesso, che compie l'esser stesso del soggetto o che lo trasfigura>> (FouCAULT I, p. I8). E, poche righe prima, Foucault scrive che «(la spiritualità) esige che il soggetto si modifichi, si trasformi, si dislochi, divenga, in una certa misura e fino a un certo punto, altro che lui stesso>> (ivi, p. I7) .
1· Le divergenze non concernono tanto lo spostamento dall'ambito estetico a quello etico o una semplice differenza di vocabolario, quanto la stessa concezione dell'etica e del sogget to. Hadot sembra non riuscire a distaccarsi da una concezione del soggetto come trascendente rispetfo alla sua vita e alle sue azioni e, per questo, pensa il paradigma foucaldiano della vita come opera d'arte secondo la rappresentazione comune di un soggetto autore che plasma la sua opera come un oggetto a lui esterno. Eppure, in un celebre saggio del If}69, Foucault aveva inteso mettere in questione precisamente questa conce zione. Riducendo l'autore a una finzione giuridico-sociale, egli suggeriva di vedere nell'opera non tanto l'espressione di un soggetto anteriore ed esterno ad essa, quanto piuttosto l'a pertura di uno spazio in cui il soggetto non cessa di sparire
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e identificava nell'indifferenza rispetto all'autore «uno dei principi etici fondamentali della scrittura contemporanea>) (FouCAULT 4, p. 820). In questo egli era fedele, ancora una volta, all'insegnamento di Nietzsche, che, in un aforisma del I88s-86 (su cui Heidegger non aveva mancato di richiamare l'attenzione - HEIDEGGER 3, p. 222), aveva scritto: «L'opera d'arte là dove essa appare senza artista, per esempio come cor po vivente {Leib}, come organizzazione (il corpo degli ufficia li prussiani {preussisches 0./fizierkorps}, l'ordine dei gesuiti). In che misura l'artista non sia che un grado preliminare. Il mondo come opera d'arte che partorisce se stessan. Nello stesso senso, nell'intervista a Dreyfus e Rabinow, Foucault precisa che parlare della vita come opera d'arte implica appunto re vocare in questione ilparadigma dell'artista creatore esclusivo di un'opera - oggetto: «Mi stupisce che, nella nostra società, l'arte sia diventata qualcosa che è in rapporto con gli oggetti e non con gli individui e con la vita; e anche che sia conside rata un ambito specialistico fotto da esperti che si chiamano artisti. Ma la vita di ciascun individuo non potrebbe essere un'opera d'arte? Perché una lampada o una casa sono oggetti d'arte e non la nostra vita?n (FouCAULT 2, p. 392). 8. Come intendere, allora, questa creazione della propria vita come un'opera d'arte? Ilproblema, per Foucault, è inse parabile dalla sua problematizzazione del soggetto. La stessa idea della vita come opera d'arte deriva dalla sua concezione di un soggetto che non può mai essere separato in una origi naria posizione costituente. «Penson egli scrive nell'intervista citata «che vi sia un solo sbocco pratico all'idea di un soggetto che non è dato in anticipo: noi dobbiamo fare di noi stessi un'opera d'arte. . . non si tratta di legare l'attività creatric.e di un individuo al rapporto che egli intrattiene con se stesso, ma di legare questo rapporto con se stesso a un'attività creatrice)) (ivi, _pp. 392-393). La relazione con se stesso ha, cioè, costitu tivamente la forma di una creazione di sé e non vi è altro soggetto che in questo processo. Per questo Foucault rompe con la concezione del soggetto come fondamento o condizione di possibilità dell'esperienza: al contrario, «l'esperienza non è che la razionalizzazione di un processo, esso stesso provviso-
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rio, che produce alla fine un soggetto, o più soggetti>) (p. 706). Ciò significa che non vi è propriamente un soggetto, ma solo un processo di soggettivazione: «Chiamerò soggettivazione il processo attraverso il quale si ottiene la costituzione di un sog gettmj (ìbid.). E ancora: «Io penso che non esista un soggetto sovrano, fondatore, una forma universale di soggetto che sia possibile ritrovare ovunque. . . Penso al contrario che il sog getto si costituisce attraverso pratiche di assoggettamento o, in modo più autonomo, attraverso pratiche di liberazione, di libertà . . . jj (p. 733). 9· È chiaro che non è possibile distinguere qui fra un soggetto costituente e un soggetto costituito; vi è un solo sogget to, che non è mai dato in anticipo, e l'opera da costruire è lo stesso soggetto costruente. È questo il paradosso della cura di sé che Hadot non riesce a intendere quando scrive che «non si tratta della costruzione di un sé, ma al contrario, di un superamento dell'imi. «Sb non è per Foucault una sostan za, né il risultato oggettivabile di un'operazione (la relazione con sé): è l'operazione stessa, la stessa relazione. Non vi è, cioè, un soggetto prima del rapporto con sé e dell'uso di sé: il soggetto è questo rapporto e non uno dei termini di esso (cfr. supra, p. 58). Secondo la sua essenziale pertinenza alla sfera della filosofia prima, il soggetto implica un'o ntologia, che non è però, per Foucault, quella del/'hypokeimenon aristotelico né quella del soggetto cartesiano. È soprattutto da quest'ulti mo, probabilmente seguendo una suggestione heideggeriana, che Foucault prende le distanze. La prestazione specifica di Descartes è, infatti, «di essere riuscito a sostituire un soggetto fondatore di pratiche di conoscenza a un soggetto costituito grazie a pratiche di sb (FouCAULT 2, p. 4IO). IO. L'idea che l'etica coincida non con la relazione a una norma, ma innanzitutto con un «rapporto con sé» è costantemente presente in Foucault. È questo e non altro che egli ha scoperto nelle sue ricerche sul souci de soi nel mon do classico: «Pour le Grecs, ce n'est pas parce qu'il est souci des autres qu'il est éthique. Le souci de soi est éthique en lui-mémejj (ivi, p. 7I4). Certo ogni azione morale comporta
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«una relazione alla realtà in cui si iscrive o a un codice cui si riferisce»; ma essa non può ridursi a un atto o a una serie di atti conformi a una regola, perché implica in ogni caso «Un certo rapporto con sé» (p. 558). E questo rapporto - pre cisa Foucault - non deve essere inteso semplicemente come una «coscienza di sé», bensì come la «costituzione di sé come soggetto morale» (ibid.). «È la relazione con sé che occorre istaurare, il rapporto con sé che determina il modo in cui l'individuo deve costituirsi soggetto morale delle sue proprie azioni>> (p. 618). L'etica è cioè, per Foucault, la relazione che si ha con sé quando si agisce o si entra in relazione con altri, costituendosi di volta in volta soggetto dei propri atti, che questi appartengano alla sfera sessuale, economica, politica, scientifica ecc. Così ciò che è in questione nella Storia della sessualità non è in alcun modo una storia sociale o psicolo gica dei comportamenti sessuali, ma il modo in cui l'uomo sia giunto a costituirsi come soggetto morale dei propri com portamenti sessuali. E, allo stesso modo, ciò che poteva in teressar/o nelle esperienze delle comunità omosessuali di San Francisco o di New York era, ancora una volta, la relazione con sé che la loro novità implicava e la conseguente costitu zione di un nuovo soggetto etico. II. Nell'ultimo corso al Collège de France, Le courage de la vérité, concluso pochi mesi prima della morte, Foucault evoca, a proposito dei cinici, il tema della vita filosofica come vera vita (alethes bios}. Nel résumé per il corso del 1981-82 su Lherméneutique du su jet, in cui il tema della cura di sé era stato svolto at traverso una lettura delll\lcibiade platonico, Foucault aveva scritto che «s'occuper de soi n'est pas une simple préparation momentanée à la vie; c'est une forme de vie>> (FouCAULT I, p. 476). Ora, nel paradigma della vita filosofica, egli lega strettamente il tema della verità e quello del modo di vita. Il cinismo, egli scrive, ha posto una domanda importante, che restituisce la sua radicalità al tema della vita filosofica: «la vie, pour etre vraiment la vie de la vérité, ne doit-elle pas hre une vie autre, une vie radicalement et paradoxalement autre?>> (FouCAULT 5, p. 226). Vi sono, cioè, nella tradizio-
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ne della filosofia classica, due modalità diverse di legare la pratica di sé al coraggio della verità: quella platonica, che privilegia i mathemata e la conoscenza, e quella cinica, che dà invece alla pratica di sé la forma di una prova (épreuve) e cerca la verità dell'essere umano non in una dottrina, ma in una certa forma di vita, che, sovvertendo i modelli correnti nella società, fa de/ bios philosophikos una sfida e uno scan dalo (ivi, p. 243). Nella discendenza di questo modello cinico, Foucault iscrive anche il «militantismo come testimonianza attraverso la vita, nella forma di uno stile di esistenza» (p. I?O) nella tradizione dei movimenti rivoluzionari fino al gauchisme, certo ben familiare alla sua generazione. «La résurgence du gauchisme» egli scrive usando dei termini forse più adatti a caratterizzare il situazionismo, che, curiosamente, non è mai menzionato nei suoi scritti, «comme tendance permanente à l'intérieur de la pensée et du projet révolutionnaire européem, s'est toujoursfaite en prenant appui non pas sur la dimension de l'organisation, mais sur cette dimension du militantisme qui est la socialité secrète ou le style de vie, et quelques fois le paradoxe d'une socialité secrète se manifestant et se rendant visible par des formes de vie scandaleuses» (p. I7I). Vicino a questo è ilparadigma dell'artista nella modernità, la cui vita «nella forma stessa che assume, deve costituire la testimonian za di ciò che è l'arte nella sua verità>> (p. I7J). Nell'analisi del «tema della vita d'artista, così impor tante per tutto il secolo XIX>> (ibid.), Foucault ritrova la pros simità fra arte e vita e l'idea di «un'estetica dell'esistenza>> che aveva formulato ne L' usage des plaisirs. Se, da una parte, l'arte conferisce alla vita la forma della verità, dall'altra le vera vita è la garanzia che l'opera che si radica in essa è vera mente un'opera d'arte. In questo modo, vita e arte s'indeter minano e l'arte si presenta come forma di vita nel momento stesso in cui la forma di vita appare come un'opera d'arte. In ogni caso, tanto nel bios del filosofo che in quello dell'artista, la pratica di sé come costituzione di una forma di vita altra è il vero tema del corso, che si chiude nel ma noscritto con l'affermazione, che può essere forse considerata come una sorta di estremo lascito testamentario: «il ne peut
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vérité que dans la forme de l'autre monde et de la vie autre» (p. JII).
I2. Per comprendere il particolare statuto ontologico di questo soggetto che si costituisce attraverso la pratica di sé, può giovare l'analogia con una coppia categoriale tratta dalla sfera del diritto pubblico: potere costituente e potere co stituito. Anche qui l'aporia, che ha paralizzato la teoria giu spubblicistica, nasce dalla separazione dei due termini. La concezione tradizionale pone all'origine un potere costituen te, che crea e separa fuori di sé, in un'incessante circolarità, un potere costituito. Véro potere costituente non è quello che produce un potere costituito da sé separato, il quale rimanda al potere costituente come suo inattingibile fondamento, che non ha però altra legittimità che quella che gli deriva dall'a ver prodotto un potere costituito. Costituente è, in verità, soltanto quelpotere - quel soggetto - che è capace di costituir sé come costituente. La pratica di sé è questa operazione in cui il soggetto si adegua alla propria relazione costitutiva, re sta immanente ad essa: «il soggetto mette in gioco se stesso nel prendersi cura di sé» (FouCAULT I, p. 504). Il soggetto è, cioè, la posta in gioco nella cura di sé e questa cura non è che il processo attraverso cui il soggetto costituisce se stesso. Ed etica non è l'esperienza in cui un soggetto si tiene dietro, sopra o sotto la propria vita, ma quella il cui soggetto si costituisce e trasforma in indissolubile relazione immanente alla sua vita, vivendo la sua vita. IJ. Ma che cosa significa «costituir-sé»? Si ha qui qual cosa come il «costituir-sé visitante)) o il «passeggiar-sé>) con cui Spinoza (cfr. supra, pp. 54-55) esemplificava la causa im manente. L'identità fra attivo e passivo corrisponde all'on tologia dell'immanenza, al movimento dell'autocostituzione e dell'autopresentazione dell'essere, in cui non soltanto viene meno ogni possibilità di distinguere fra agente e paziente, soggetto e oggetto, costituente e costituito, ma in cui anche mezzo efine, potenza e atto, opera e inoperosità si indetermi nano. La pratica di sé, il soggetto etico foucaldiano è questa immanenza: l'essere soggetto come passeggiar-sé. L 'essere che
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si costituisce nella pratica di sé non resta - o non dovrebbe restare - mai sotto o prima di sé, non separa - o non dovreb be separare - mai da sé un soggetto o una «sostanza>>, ma rimane immanente a sé, è la sua costituzione, e non cessa di costituir-sé, esibir-sé e usar-sé come agente, visitante, pas seggiante, amante. Di qui difficoltà e aporie di ogni genere. Il problema del soggetto foucaldiano è il problema dell'auto costituzione dell'essere e una corretta comprensione dell'etica implica qui necessariamente una definizione del suo statuto ontologico. Quando qualcosa come un «soggetto» è stato sepa rato e ipostatizzato nell'essere in posizione costituente? L'o n tologia occidentale è fin dall'inizio articolata e percorsa da scissioni e cesure, che dividono e coordinano nell'essere soggetto (hypokeimenon) ed essenza (ousia), sostanze prime e sostan ze seconde, essenza ed esistenza, potenza e atto e solo un'in terrogazione preliminare di queste cesure può permettere la comprensione del problema di ciò che chiamiamo «soggetto>>. I4· Proprio perché la teoria del soggetto implica un pro blema ontologico, ritroviamo qui le aporie che ne hanno se gnato fin dall'origine lo statuto nella filosofia prima. La rela zione con sé determina, come abbiamo visto, il modo in cui l'individuo si costituisce soggetto delle proprie azioni morali. Il sé, tuttavia, non ha, secondo Foucault, alcuna consistenza sostanziale, ma coincide col rapporto stesso, è assolutamente immanente in esso. Ma come può, allora, questo sé, che non è altro che una relazione, costituirsi come soggetto delle pro prie azioni per governarle e definire uno stile di vita e una «vita veran? Il sé, in quanto coincide col rapporto con sé, non può mai porsi come soggetto del rapporto né identificarsi col soggetto che si è, in esso, costituito. Esso può soltanto costituir sé come costituente, ma mai identificarsi con ciò che ha co stituito. E, tuttavia, in quanto soggetto costituito, esso è, per così dire, l'ipostasi gnostica o neoplatonica che la pratica di sé lascia sussistere fuori di sé come un residuo ineliminabile. Avviene, per la relazione fra il sé e il soggetto morale, qualcosa di simile a quanto Sartre descriveva per il rapporto fra la coscienza e l'ego: il sé, che ha costituito il soggetto, si lascia ipnotizzare e riassorbire in esso e da esso. O, ancora,
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quel che, secondo Rudolf Boehm, avviene nella scissione ari stotelicafra essenza e esistenza: queste, che dovrebbero definire l'unità dell'essere, lo scindono in ultima analisi in un'essenza inesistente e in un'esistenza inessenziale, che rimandano in cessantemente l'una all'altra e cadono senza fine l'una fuori dell'altra. Sé e soggetto sono, cioè, legati circolarmente in una relazione costituente e, insieme, proprio per questo si trovano nell'assoluta impossibilità di coincidere una volta per tutte. Il soggetto, che deve governare e condurre le sue azioni in una forma di vita, si è costituito in una pratica di sé che non è altro che questa stessa costituzione e questa forma di vita. I5. L'aporia antologica si ritrova in Foucault, com'era prevedibile, sul piano della prassi, nella teoria delle relazioni di potere e del governo degli uomini che in esse si attua. Le relazioni di potere, a differenza degli stati di dominio, im plicano necessariamente un soggetto libero, di cui si tratta di «condurre» e governare le azioni e che, in quanto libero, ostinatamente resiste al potere. E, tuttavia, proprio in quan to il soggetto conduce e governa «liberamente» se stesso, esso entrerà fatalmente in relazioni di potere, che consistono nel condurre la condotta di altri (o lasciar condurre da altri la propria). Colui che, «conducendo» la sua vita, si è costituito soggetto delle proprie azioni, sarà così «condotto» da altri soggetti o cercherà di condurne altri: la soggettivazione in una certa forma di vita, è, nella stessa misura, l'assoggetta mento in una relazione di potere. L'aporia della democrazia e del suo governo degli uomini - l'identità di governanti e governati, assolutamente separati e, tuttavia, altrettanto as solutamente uniti in una relazione inscindibile - è un'apo ria antologica, che riguarda la costituzione del soggetto come tale. Come potere costituente e potere costituito, la relazione con sé e il soggetto sono l'una per l'altro insieme trascendenti e immanenti. E, tuttavia, è proprio l'immanenza fra sé e soggetto in una forma di vita che Foucault ha cercato osti natamente di pensare fino alla fine, avvolgendosi in aporie sempre più stridenti e, nello stesso tempo, indicando con for za nella sola direzione in cui qualcosa come un'etica poteva per lui diventare possibile.
146 L ' USO DEI CORPI I6. Nell'intervista rilasciata a «Les nouvelles littéraires>> meno di un mese prima della morte e pubblicata postuma il 28 giugno I984, Foucault torna sulla questione del sogget to e, definendo le sue ultime ricerche, scrive che in queste si trattava per lui «di reintrodurre il problema del soggetto che avevo più o meno lasciato da parte nei miei primi studi. . . ciò che ho voluto realmente fare era mostrare come il proble ma del soggetto non ha cessato di esistere nel corso di tutta la questione della sessualità>> (FouCAULT 2, p. 705). Subito dopo, tuttavia, egli precisa che, nell'Antichità classica, viene posto con forza il problema della cura di sé, mentre una teoria del soggetto manca del tutto. Ciò non significa, però, che i Greci non si siano sforzati di de finire le condizioni in cui poteva darsi un'esperienza non del soggetto, ma dell'individuo in quanto cerca di costituirsi come padrone di sé. L'Antichità classica non ha problematizzato la costituzione di sé come soggetto; a partire dal cristianesimo, vi è stata, invece, una confisca della morale da parte di una teoria del soggetto. E un'esperienza morale centrata essenzial mente sul soggetto non mi pare oggi più soddisfacente [ivi, p. 706}.
Se l'Antichità offre l'esempio di una cura e di una costi tuzione di sé senza soggetto e il cristianesimo quello di una morale che riassorbe interamente nel soggetto la relazione eti ca con sé, la scommessa di Foucault è, allora, quella di tener ferma la reciproca coappartenenza dei due elementi. I7. Si comprende, in questa prospettiva, l'interesse che poteva presentare ai suoi occhi l'esperienza sadomasochista. Il sadomasochismo è innanzitutto per Foucault un esperimento di fluidificazione delle relazioni di potere. Si può dire - egli dichiara in un'intervista del I982 che il s!M sia una erotizzazione del potere, l'erotizzazione dei rap porti strategici. Ciò che mi colpisce nel s!M è il modo in cui si differenzia dal potere sociale. Il potere si caratterizza in quanto costituisce un rapporto strategico che si stabilizza in -
INTERMEZZO I 147 un'istituzione. All'interno dei rapporti di potere, la mobilità è perciò limitata . . . i rapporti strategici fra gli individui si defi niscono attraverso la loro rigidità. Da questo punto di vista, il gioco s!M è molto interessante perché, pur essendo un rapporto strategico, esso è sempre fluido. Vi sono, certo, dei ruoli, ma ciascuno sa benissimo che essipossono essere rovesciati. A volte, all'inizio del gioco, uno è il padrone e l'altro lo schiavo, ma, alla fine, colui che era schiavo diventa il padrone. Ma anche quando i ruoli sono fissi, i protagonisti sanno che si tratta pur sempre di un gioco: o le regole sono trasgredite o vi è un ac cordo, esplicito o tacito, che fi�sa certe frontiere [FouCAULT 2, pp. 742-743l
La relazione sadomasochista è, in questo senso, del tutto immanente a una relazione di potere («il sadomasochismo non è la relazionefra una persona che soffre e una che infligge la sofferenza, ma fra un padrone e la persona su cui si esercita la sua autorità>> - ivi, p. JJI), che utilizza e trasforma in funzione del piacere. «Il s!M è l'u tilizzazione di un rapporto strategico come fonte di piacere (di piacere fisico)>> (p. 743). Se il sadomasochismo interessa Foucault, ciò è perché esso mostra che è possibile agire su queste relazioni, sia per fluidi ficarle e invertirne i ruoli, sia per spostar/e dal piano sociale a quello sessuale e corporeo, utilizzando/e per l'invenzione di nuovi piaceri. Ma, in ogni caso, la relazione di potere perma ne, anche se si apre in questo modo a una nuova dialettica, rispetto a quellafra potere e resistenza attraverso cui Foucault ne aveva definito la struttura. L'orizzonte delle relazioni di potere e della governamentalità resta non soltanto insupera bile, ma anche, in qualche modo, inseparabile dall'etica («la notion de gouvernementalité>> aveva scritto nella lunga inter vista del gennaio I984 «permet de foire valoir la liberté du sujet et le rapport aux autres, c'est-à-dire ce qui constitue la matière meme de l'éthique>> -p. 729). Eppure la trasformazione delle relazioni di potere che avviene nel sadomasochismo non poteva non implicare una trasformazione sulpiano dell'antologia. La relazione s!M, con i suoi due poli in reciproco scambio, è una relazione antologi ca, per la quale vale paradigmaticamente la tesi foucaldiana
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secondo cui «il sé con cui si ha rapporto non è altro che il rapporto stesso». Foucault non ha, cioè, svolto tutte le impli cazioni di quella «adeguazione antologica di sé al rapporto», che pure aveva intravisto. Certo il soggetto, il sé di cui egli parla non si lascia iscrivere nella tradizione dell'hypokeime non aristotelico e, tuttavia, Foucault - probabilmente con delle buone ragioni - ha costantemente evitato quel confronto diretto con la storia dell'a ntologia che Heidegger si era dato come compito preliminare. Ciò che Foucault non sembra vedere, malgrado l'Anti chità sembrasse o./frirne in qualche modo un esempio, è la possibilità di una relazione con sé e di una forma di vita che non assumano mai la figura di un soggetto libero; cioè, se le relazioni di potere rimandano necessariamente a un soggetto, di una zona dell'etica del tutto sottratta ai rapporti strategici, di un Ingovernabile che si situa al di là tanto degli stati di dominio che delle relazioni di potere.
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n.
Archeologia dell'antologia
Nelle pagine che seguono ci proponiamo di verificare se l'accesso a una filosofia prima, cioè a un'antologia, sia oggi ancora - o nuovamente - possibile. Per ragioni che cercheremo di chiarire, questo accesso è, almeno a partire da Kant, divenuto così problematico, che non è pensabile se non nella forma di una archeologia. La filosofia prima non è, infatti, un insieme di formulazioni concettuali che, per quanto complesse e raffinate, . non escono dai limiti di una dottrina: essa apre e definisce ogni volta lo spazio dell'agire e del sapere umano, di ciò che l'uomo può fare e di ciò che egli può conoscere e dire. Lontologia è gravida del destino storico dell'Occidente non già perché all'essere competa un'inspiegabile e metastorico potere magico, ma, proprio al contrario, perché l'antologia è il luogo origina rio dell'articolazione storica fra linguaggio e mondo, che conserva in sé la memoria dell'antropogenesi, del momen to in cui si è prodotta quell'articolazione. A ogni muta mento dell'antologia, corrisponde pertanto un mutamen to non già del «destino», ma del plesso di possibilità che l'articolazione fra linguaggio e mondo ha dischiuso come «storia» ai viventi della specie Homo sapiens. Lantropogenesi, il divenir umano dell'uomo non è, infatti, un evento che si è compiuto una volta per tut te nel passato: esso è, piuttosto, un evento che non cessa di avvenire, un processo tuttora in corso in cui l'uomo è sempre in atto di divenire umano e di restare (o divenire) inumano. La filosofia prima è la memoria e la ripetizione di questo evento: essa custodisce, in questo senso, l'a priori storico dell'Homo sapiens ed è a questo a priori storico che l'indagine archeologica cerca ogni volta di risalire.
I52 L ' USO DEI CORPI N Nella prefazione a Les mots et les choses (I966), Foucault si serve del termine «a priori storico» per definire ciò che, in una determinata epoca storica, condiziona la possibi lità della formazione e dello sviluppo dei saperi e delle cono scenze. L'espressione è problematica, perché mette insieme due elementi almeno in apparenza contraddittori: l'a priori, che implica una dimensione paradigmatica e trascendentale, e la storia, che si riferisce a una realtà eminentemente fattuale. È probabile che Foucault abbia tratto il termine dall'Ori gine della geometria di Husserl, che Derrida aveva tradotto in francese nel n;62, ma certamente non il concetto, perché mentre lo historisches Apriori designa in Husserl una sorta di a priori universale della storia, esso si riferisce invece ogni volta in Foucault a un determinato sapere e a un determi nato tempo. E tuttavia, se esso non rimanda in alcun modo a una dimensione archetipica al di là della storia, ma resta immanente a questa, la sua formulazione contraddittoria porta all'espressione il fotto che ogni ricerca storica si urta inevitabilmente a una disomogeneità costitutiva: quella fra l'insieme dei fotti e dei documenti su cui lavora e uno strato che possiamo definire archeologico, che, pur senza trascender li, resta irriducibile ad essi e ne permette la comprensione. Overbeck ha espresso questa eterogeneità attraverso la distin zione, in ogni ricerca, di preistoria (U rgeschichte) e storia (Geschichte), dove preistoria non designa ciò che intendiamo di solito con questo termine - cioè qualcosa di cronologica mente arcaico (uralt) , bensì la storia delpunto d'insorgen za (Emstehungsgeschichte), in cui il ricercatore deve fare i conti con un fenomeno originario (un U rphanomen nel senso goethiano) e, insieme, con la tradizione che, mentre sembra trasmetterei il passato, incessantemente ne ricopre la sorgività e la rende inaccessibile. Si può definire l'archeologia filosofica come il tentativo di portare alla luce gli a priori storici che condizionano la storia dell'umanità e ne definiscono le epoche. È possibile, in questo senso, costruire una gerarchia degli a priori storici, che risale nel tempo verso forme via via più generali. L'ontologia o filosofia prima ha costituito per secoli l'a priori storico fon damentale del pensiero occidentale. -
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L'archeologia che tenta di riaprire l'accesso a una fi losofia prima deve, tuttavia, innanzitutto fare i conti col fatto singolare che, a partire da un momento per il quale il nome di Kant può servire da segnavia, proprio l'impos sibilità di una filosofia prima è diventata l'a priori storico del tempo in cui ancora in qualche modo viviamo. La vera svolta copernicana del criticismo kantiano non riguarda tanto la posizione del soggetto, quanto l'impossibilità di una filosofia prima, che Kant chiama metafisica. Come Foucault aveva precocemente intuito «è probabile che noi apparteniamo a un'epoca della critica, di cui l'assenza di una filosofia prima ci ricorda a ogni istante il regno e la fatalità» (FoucAULT 6, pp. XI-xn) . Certo Kant, nel mo mento stesso in cui sanciva l'impossibilità della metafisica, ha cercato di assicurarne la sopravvivenza trincerandola nella roccaforte del trascendentale. Ma il trascendentale - che nella logica medievale designava ciò che si è sempre già detto e conosciuto quando si dice «essere» - implica necessariamente uno spostamento dell'a priori storico dall'evento antropogenetico (l'articolazione fra linguag gio e mondo) alla conoscenza, da un essere che non è più animale ma non è ancora umano al soggetto conoscente. L'antologia si trasforma così in gnoseologia, la filosofia prima diventa filosofia della conoscenza. Fino a Heidegger, tutti o quasi i filosofi professionali postkantiani si sono attenuti alla dimensione trascenden tale come se essa andasse da sé e, in questo modo, creden do di salvare il prestigio della filosofia, l'hanno di fatto asservita a quelle scienze e a quei sa peri di cui pensavano di poter definire le condizioni di possibilità, proprio quando questi, proiettati verso uno sviluppo tecnologico senza li miti, dimostravano di non averne in realtà alcun bisogno. Sono stati dei filosofi non professionali, come Nietzsche, Benjamin e Foucault e, in un senso diverso, un lingui sta come É mile Benveniste, a cercare una via d'uscita dal trascendentale. E lo hanno fatto spostando all'indietro l'a priori storico dalla conoscenza al linguaggio: e, in questo, non attenendosi al piano delle proposizioni significanti, ma isolando ogni volta una dimensione che metteva in
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questione il puro fatto del linguaggio, il puro darsi degli enunciati, prima o al di là del loro contenuto semantico. Il parlante o il locutore si è così sostituito al soggetto tra scendentale di Kant, la lingua ha preso il posto dell'essere come a priori storico. Questa declinazione linguistica dell'antologia sembra essere oggi giunta al suo compimento. Certamente mai il linguaggio è stato così onnipresente e pervasivo, sovrap ponendosi in ogni ambito - non solo nella politica e nella comunicazione, ma anche e soprattutto nelle scienze della natura - all'essere, apparentemente senza lasciare residui. Ciò che è mutato, tuttavia, è che il linguaggio non fun ziona più come un a priori storico, che, restando impen sato, determina e condiziona le possibilità storiche degli uomini parlanti. Identificandosi integralmente con l'esse re, esso si pone ora come un'effettualità neutrale astorica o post-storica, che non condiziona più alcun ravvisabile senso del divenire storico né alcuna articolazione epoca le del tempo. Ciò significa che viviamo in un tempo che non è - o, almeno, pretende di non essere - determinato da alcun a priori storico, cioè un tempo post-storico (o, piuttosto, un tempo determinato dall'assenza o dall'im possibilità di un tale a priori) . È in questa prospettiva che cercheremo di tracciare - sia pure in forma di uno schizzo sommario - un'arche ologia dell'antologia, o, più precisamente, una genealogia del dispositivo antologico che ha funzionato per due mil lenni come a priori storico dell'Occidente. Se l'antologia è innanzitutto un' odologia, cioè la via che l'essere apre storicamente ogni volta verso se stesso, è l'esistenza oggi di qualcosa come una odos o una via che cercheremo di interrogare, chiedendoci se il sentiero che si è interrotto o perduto possa essere ripreso o non debba, invece, essere definitivamente abbandonato.
r.
Dispositivo antologico
1.1. Un'archeologia della filosofia prima deve comin ciare dal dispositivo di scissione dell'essere che definisce l' ontologia aristotelica. Questo dispositivo - che divide e, insieme, articola l'essere ed è, in ultima istanza, all'origine di ogni differenza ontologica - ha il suo focus nelle Ca tegorie. Qui Aristotele distingue una ousia, una entità o essenza, «che si dice più propriamente, in primo luogo e soprattutto» (kyriotata te kai protos kai malista legomene) dalle essenze seconde (ousiai deuterai) . La prima è definita come «quella che non si dice di un soggetto [hypokeime non, ciò che giace sotto, sub-iectum] né è in un soggetto» ed è esemplificata attraverso la singolarità, il nome proprio e la deissi («questo certo uomo, Socrate; questo certo ca vallo») ; le seconde sono «quelle nelle cui specie le essen ze dette prime sono presenti, e inoltre i generi di queste specie - ad esempio, "questo certo uomo" appartiene alla specie "uomo" e il genere di questa specie è "animale"» (Cat. , 2a 10-15) . Qualunque siano i termini in cui la divisione si arti cola nel corso della sua storia (essenza prima / essenza se conda, esistenza / essenza, quod est/ quid est, anitas l quid ditas, natura comune l supposito, Dass sein l 'Was sein, essere l ente) , decisivo è che nella tradizione della filosofia occidentale, l'essere, come la vita, sarà interrogato sempre a partire dalla scissione che lo traversa. Traduciamo hypokeimenon con «soggetto» (sub iectum). Il termine significa etimologicamente «ciò che giace sotto o alfondo». · Non è qui il luogo per mostrare attraverso quali vicende e quali peripezie l'hypokeimenon aristotelico N
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diventerà il soggetto della filosofia moderna. È certo, in ogni caso, che, attraverso le traduzioni latine, questo passo delle Categorie ha determinato in modo decisivo il vocabolario della filosofia occidentale. Nella terminologia di Tommaso, l'articolazione aristotelica dell'essere si presenta, pertanto, in questo modo: Secondo ilfilosofo, sostanza [substantia] si dice in due modi. In un primo modo è la quidditas della cosa, che è espressa nel la definizione, e in questo senso noi diciamo che la definizione designa la sostanza della cosa, che i Greci chiamano ousia e noi essentia. In un secondo modo, è il soggetto [subiectum} o il suppositum [«ciò che è posto sotto,] che sussiste [subsistit] nel genere della sostanza. Questo può essere espresso con un termine che significa l'intenzione e, allora, si chiama suppo si rum. Ma lo si designa anche con tre termini che indicano la cosa: cosa di natura {res naturae], sussistenza [subsistentia], ipostasi [hypostasis}. In quanto esiste in sé e non in altro, è chiamata subsistentia, in quanto è presupposta alla natura in generale, è chiamata cosa naturale determinata: così «que sto uomo" è una cosa di natura umana. In quanto, infine, è pre-supposta agli accidenti [supponitur accidentibus] è detta ipostasi o sostanza /S.th., l, q. 29, art. 2, Resp.}.
Quale che sia la terminologia in cui di volta in vol ta si esprime, questa scissione dell'essere è alla base di quella «dijfèrenza ontologica>> che, secondo Heidegger, definisce la metafisica occidentale. 1.2. TI trattato sulle Categorie o predicazioni (ma il termine greco kategoriai significa nel linguaggio giuridico «imputazioni, accuse») è classificato tradizionalmente tra le opere logiche di Aristotele. Esso contiene tuttavia, ad esempio nel passo in questione, tesi di indubbio carattere antologico. I commentatori antichi discutevano pertanto su quale fosse l'oggetto (skopos, il fine) del trattato: le paro le (phonai) , le cose (pragmata) o i concetti (noemata) . Nel prologo al suo commento, Filopono scrive che secondo alcuni (fra cui Alessandro di Mrodisia) oggetto del trattato
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sono soltanto le parole, secondo altri (come Eustazio) sol tanto le cose e secondo altri, infine (come Porfirio) , solo i concetti. Più corretta è, secondo Filopono, la tesi di Giam blico (che egli accetta con qualche precisazione) secondo cui skopos del trattato sono le parole in quanto significano le cose attraverso i concetti (phonon semainouson pragmata dia meson noematon - FILOPONO, pp. 8-9) . Di qui l'impossibilità di distinguere, nelle Categorie, logica e antologia. Aristotele tratta qui delle cose, degli enti, in quanto sono significati dal linguaggio, e del lin guaggio in quanto si riferisce alle cose. La sua antologia presuppone il fatto che, come egli non si stanca di ripetere, l'essere si dice (to on legetai . . . ), è già sempre nel linguag gio. Lambiguità fra logico e antologico è così consustan ziale al trattato che, nella storia della filosofia occidentale, le categorie si presenteranno tanto come generi della pre dicazione che come generi dell'essere. 1.3. All'inizio del trattato, subito dopo aver defini to gli omonimi, i sinonimi e i paronimi (cioè, le cose in quanto sono nominate) , Aristotele precisa questa implica zione onta-logica fra essere e linguaggio nella forma di una classificazione degli enti secondo la struttura della sogget tivazione o pre-supposizione: Degli enti, alcuni sono detti di un soggetto [kath' hypochei menou, lett.: ] , ma non sono in alcun soggetto [en hypocheimenoi oudenì] , ad esempio è detto sulla presupposizione [sogget tivazione] di questo certo uomo, ma non è in alcun sogget to . . . Altri sono in un soggetto, ma non sono detti di nes sun soggetto . . . ad esempio, un certo sapere grammaticale è nel soggetto anima, ma non si dice di alcun soggetto . . . altri ancora sono detti di un soggetto e sono in un sogget to: ad esempio la scienza è detta della grammatica e si dice del soggetto grammatica. Altri poi né sono in un soggetto né sono detti di un soggetto: ad esempio un certo uomo, un certo cavallo [Cat. , Ia 20 - 1b 5] .
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La distinzione dire (dire di un soggetto) e essere (essere in un soggetto) non corrisponde tanto all'opposizione fra linguaggio e essere, linguistico e non linguistico, quanto alla promiscuità fra i due significati del verbo «essere» (ei nai) , quello esistentivo e quello predicativo. La struttura della soggettivazione l presupposizione resta nei due casi la stessa: l'articolazione operata dal linguaggio pre-sup-pone sempre una relazione di predicazione (generale / particola re) o di inerenza (sostanza / accidente) rispetto a un sogget to, un esistente che giace-sotto-e-al-fondo. Legein, «dire», significa in greco «raccogliere e articolare gli enti attraverso le parole>>: onto-logia. Ma, in questo modo, la distinzione tra dire e essere resta ininterrogata ed è questa opacità della loro relazione che sarà trasmessa da Aristotele alla filosofia occidentale, che l'accoglierà senza beneficio di inventario. N È noto che nelle lingue indoeuropee il verbo «essere>> ha generalmente un doppio significato: il primo significato corrisponde a una funzione lessicale, che esprime l'esistenza e la realtà di qualcosa («Dio è», cioè esiste), il secondo - la copula - ha una funzione puramente logico-grammaticale ed esprime l'identità fra due termini («Dio è buono>>). In molte lingue (come in ebraico e in arabo) o, nella stessa lingua, in epoche diverse (come in greco, in cui in origine la funzione co pulativa è espressa da una frase nominale priva di verbo: ari ston hydor, «la cosa migliore è l'acqua>>) i due significati sono invece lessicalmente distinti. Come scrive Émile Benveniste,
è importante comprendere che non vi è alcun rapporto, né di natura né di necessità, tra una nozione verbale «esistere, esser ci realmente» e la funzione di copula. Non ci si deve chiedere come possa avvenire che il verbo «essere» manchi o sia omesso. Questo significa ragionare a rovescio. La vera domanda sa rebbe, al contrario: come può esistere un verbo «essere», che dà espressione verbale e consistenza lessicale a una relazione logica in un enunciato assertivo? [BENVENISTE, p. I89}.
Proprio la promiscuitàfra i due significati è alla base di molte aporie e difficoltà nella storia dell'antologia occidentale,
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che si è costituita, per così dire, come una macchina doppia, volta a distinguere e, nello stesso tempo, ad articolare insieme in una gerarchia o in una coincidenza le due nozioni. 1.4. Poco dopo, a proposito della relazione fra sostan ze seconde e sostanze prime, Aristotele scrive: Da quanto detto risulta con chiarezza che delle cose che si dicono di un soggetto [kath' hypokeimenou, «sulla pre-sup posizione di un giacente-sotto»], il nome e la definizione si predicano [kategoreisthai] anche del soggetto. Così «uo mo>> si dice sulla soggettivazione [sulla pre-sup-posizione] di questo certo uomo e il nome «uomo>> si predica di esso; infatti si predicherà di un certo uomo e la defini zione dell'uomo si predicherà di un certo uomo. Questo certo uomo è, infatti, anche un uomo, e il nome e la defi nizione saranno predicati di un soggetto [ Cat. , 2a 19-25] .
La soggettivazione dell'essere, la presupposizione di un giacente-sotto è, dunque, inseparabile dalla predicazio ne linguistica, è parte della struttura stessa del linguaggio e del mondo che esso articola e interpreta. In quanto, nel le Categorie, l'essere è considerato dal punto di vista della predicazione linguistica, dal suo essere «accusato» (katego rein significa in greco innanzitutto «accusare>>) dal linguag gio, esso si presenta «più propriamente, in primo luogo e soprattutto» nella forma della soggettivazione. L'accusa, la chiamata in giudizio che il linguaggio rivolge all'essere lo soggettiva, lo presuppone nella forma di un hypokeimenon, di un esistente singolare che giace-sotto-e-al-fondo. Lousia prima è ciò che non si dice sulla presupposizione di un soggetto né è in un soggetto, perché è essa stessa il soggetto che è pre-sup-posto - in quanto puramente esistente - come ciò che giace sotto ogni predicazione. 1. 5 La relazione pre-supponente è, in questo senso, la potenza specifica del linguaggio umano. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico o l'irrelato con cui il linguaggio ha stabilito
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la sua relazione. Questo potere presupponente è così forte, che noi immaginiamo il non linguistico come qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche modo di afferrare come tale, senza accorgerci che ciò che in questo modo cerchiamo di afferrare non è che l'ombra del lin guaggio. Il non-linguistico, l'indicibile è, come dovrebbe essere evidente, una categoria genuinamente linguistica: essa è, anzi, la «categoria» per eccellenza - l'accusa, cioè la chiamata in causa operata dal linguaggio umano, che nessun vivente non parlante potrebbe mai concepire. La relazione onto-logica corre, cioè, tra l'ente presupposto dal linguaggio e il suo essere nel linguaggio. lrrelata è, come tale, innanzitutto la stessa relazione linguistica. È nella struttura della presupposizione che si articola l'intreccio di essere e linguaggio, ontologia e logica che co stituisce la metafisica occidentale. Chiamato in causa dal punto di vista del linguaggio, l'essere si scinde fin dall'ini zio in un essere esistentivo (l'esistenza, l' ousia prima) e in un essere predicativo (l' ousia seconda, che di esso si dice) : compito del pensiero sarà allora quello di ricomporre in unità ciò che il pensiero - il linguaggio - ha presupposto e diviso. Il termine «presupposizione» indica, cioè, il sog getto nel suo significato originale: ciò che, giacendo pri ma e al fondo, costituisce il «su-cui» (sul presupposto del quale) si dice e che non può, a sua volta, essere detto su qualcosa. Il termine «presupposizione» è etimologicamen te pertinente: hypokeisthai è usato, infatti, come perfetto passivo di hypotithenai e hypokeimenon significa pertanto «ciò che, essendo stato pre-sup-posto, giace sotto». In que sto senso Platone - che è forse il primo a tematizzare il potere presupponente del linguaggio, che, nella lingua, si esprime nella opposizione fra nomi (onomata) e discorso (togos) - può scrivere: «l nomi primi, ai quali in alcun mo do altri nomi sono presupposti [hypokeitai] , in che modo ci manifesteranno gli enti?» ( Crat. , 422d) , o ancora: «a cia scuno di questi nomi è presupposta [hypokeitai] una esi stenza [ousia] particolare» (Prot. , 349b) . Lessere è ciò che è presupposto al linguaggio che lo manifesta, ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice.
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(È questa struttura presupponente del linguaggio che Hegel - di qui il suo successo e il suo limite - cerche rà insieme di catturare e liquidare attraverso la dialettica; Schelling, per parte sua, tenterà invece di afferrarla sospen dendo il pensiero, in attonimento e stupore. Ma, anche in questo caso, ciò che la mente quasi attonita contempla senza riuscire a neutralizzarla è la struttura stessa della pre supposizione) . N Aristotele esprime più volte con perfetta consapevolez l'i ntreccio onto-logico di essere e dire: «per sé si dice l'essere secondo quanto significano lefigure delle categorie: secondo il modo in cui si dice, così l'essere significa» {kath' autà de ei nai legetai osaper semanei ta schemata tes kategorias: osa chos gar legetai, tosautachos to einai semanei - Metaph., IOI7a 22 sq.). L'ambiguità è del resto implicita nella celebre formulazione di Metaph., Io28a IO sq. : «L'essere si dice in molti modi . . . significa infatti da un lato il che cos'è e il que sto, dall'altro il quale e il quanto e ciascuna delle altre cose che si predicano in questo modo>>. L'essere è costitutivamente qualcosa che «si dice» e «significa>>. za
1.6. Aristotele fonda perciò il primato della determi nazione soggettiva dell' ousia in questi termini: Tutte le altre cose si dicono sulla pre-sup-posizione [kath' hypokeimenou, sulla soggettivazione] delle ousiai prime o sono nella presupposizione di esse . . . così «animale>> è pre dicato dell'uomo, dunque anche di questo certo uomo; se non lo fosse di nessuno di questi uomini particolari, nem meno lo sarebbe dell'uomo in generale . . . Se le sostanze [ousiai] prime non fossero, sarebbe impossibile che vi fosse qualcos'altro; tutto il resto si dice, infatti, sul presupposto del loro star-sotto o è in questo presupposto . . .
Questo primato delle sostanze prime - espresse nel linguaggio da un nome proprio o da un pronome osten sivo - è ribadito poche righe dopo: «Le ousiai prime, in quanto sono supposte [hypokesthai] a tutte le altre cose e
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tutte le altre si predicano di esse o sono in esse, sono dette per questo per eccellenza ousiai» (2a 34 - 2b 6) . Lessenza prima è «più propriamente, in primo luo go e soprattutto» ousia, perché essa è il punto limite della soggettivazione, dell'essere nel linguaggio, quello oltre il quale non si può più nominare, predicare o significare, ma solo indicare. Così, se «ogni sostanza sembra significare un certo questo» (tode ti), ciò è vero in senso proprio solo delle sostanze prime, che manifestano sempre «un che di individuale e di uno» (atomon kai hen aritmoi); le sostan ze seconde, ad esempio «uomo» o «animale», «significano invece piuttosto una certa qualità: il soggetto [il giacente al-fondo] non è infatti uno, come nella sostanza prima, ma "uomo" si predica di molte cose e anche "animale"» (3b 10-16). I. 7· È a causa del primato di questa determinazione soggettiva dell'essere come hypokeimenon primo, come la singolarità impredicabile che sta-sotto-e-al-fondo della predicazione linguistica, che nella tradizione della filosofia occidentale il termine ousia viene tradotto in latino con substantia. A partire dal neoplatonismo, infatti, il tratta to sulle Categorie acquista un posto privilegiato nel cor pus delle opere aristoteliche e, nella sua traduzione latina, esercita un'influenza determinante sulla cultura medieva le. Boezio, nella cui versione il Medioevo ha conosciuto le Categorie, pur rendendosi conto che la traduzione più corretta sarebbe stata essentia (ousia è un deverbale forma to a partire dal participio del verbo einai e, nel suo trattato teologico contro Eutyche e Nestorio, Boezio fa pertanto corrispondere a ousia il termine essentia e riserva substantia al greco hypostasis) , si servì invece del termine substantia e orientò così in modo determinante il vocabolario e la comprensione dell'ontologia occidentale. Lessere può ap parire come ciò che giace-sotto-e-al-fondo solo dal punto di vista della predicazione linguistica, cioè a partire dal primato della determinazione soggettiva dell' ousia come hypokeimenon primo che sta al centro delle Categorie ari stoteliche. Tutto il lessico dell'ontologia occidentale (sub-
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stantia, subiectum, hypostasis, subsistentia) è il risultato di questo primato della sostanza prima come hypokeimenon, come giacente-al-fondo di ogni predicazione. 1.8. Nel libro vn della Metafisica, al momento di por re la domanda ((che cos'è l' ousia?», e dopo aver distinto quattro sensi del termine, Aristotele si riferisce esplicita mente alla determinazione soggettiva dell'essere elaborata nelle Categorie. J:,hypokeimenon, il soggetto [ciò che giace-sotto-e-al-fon do] è ciò su cui le altre cose si dicono, mentre esso non si dice di altro; per questo esso deve essere definito per pri mo, perché il soggetto primo sembra essere innanzitutto [malista] ousia [1028b 3 5 - 1029a 1 ] .
A questo punto, però, egli sembra mettere in questio ne il primato del soggetto e affermare, anzi, la sua insuf ficienza: Abbiamo ora detto in generale [rypoi, «come in uno schiz W>>] che cosa è l'ousia, cioè ciò che non è (né si dice) su un soggetto, ma su cui tutto (è e si dice) . Ma non si de ve definirla solo in questo modo, perché non è sufficiente [hikanon] : non soltanto è oscuro [adelon] , ma in questo modo la materia sarebbe ousia . . . [1029a 9-12] .
A partire da questo momento, i� primato della deter minazione soggettiva dell'essere cede il posto a quell'al tra determinazione dell' ousia che Aristotele chiamerà to ti en einai (quod quid erat esse nelle traduzioni medieva li). Comprendere l'antologia aristotelica significa situare correttamente la relazione fra queste due determinazioni dell' ousia. 1.9. Al problema di questa apparente contraddizio ne del pensiero aristotelico, che sembra insieme afferma re e negare il primato del soggetto, ha dedicato un'analisi penetrante un allievo di Heidegger, Rudolf Boehm. Egli
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critica l'interpretazione tradizionale che, a partire dal Me dioevo, mantiene il primato del «giacente-al-fondo» (das Zugrundeliegende) e mostra che Aristotele introduce il ti en einai proprio per rispondere alle aporie implicite in quel primato. La determinazione soggettiva dell'essenza pensa, infatti, l' ousia non in se stessa, ma in quanto qualcos'altro la richiede ed esige come ciò che sta-sotto-e-al-fondo di sé. Il primato del soggetto in Aristotele è, cioè, solidale della tesi secondo cui la domanda sull'ousia ha senso solo se la si articola come relazione ad altro, cioè nella forma «attra verso che cosa qualcosa è predicato di qualcosa?». Questa determinazione introduce, però, nell'essere una scissione fondamentale, per cui esso si divide in una essenza inesi stente e in un esistente senza essenza. Se si pensa, cioè, l'es sere a partire dal «giacente-al-fondo», si avrà da una parte un essere inessenziale (un «che è» senza essere, un quod est senza quidditas) e, dall'altra, un'essenza inesistente: «Es senza [ Wésen] e essere [Sein] cadono l'uno fuori dell'altro e, in questo modo, rompono l'uno con l'altro, nel doppio senso del termine: rompono con l'altro e cadono in pezzi» (BOEHM R., p. 169). Attraverso il concetto ti en einai, Aristotele cerca, cioè, di pensare l'unità e l'identità dell'esistenza e dell'essenza, dell'essere esistentivo della sostanza prima e dell'essere pre dicativo della sostanza seconda, ma lo fa in modo tale, che, in ultima analisi, il soggetto giacente-al-fondo risulta inac cessibile e l'essenza appare come qualcosa di non esistente. Il ti en einai esprime, cioè, l'irriducibile contrapposizione reciproca ( Widerspief) di essere ed esistere, che Boehm, nella prospettiva del suo maestro Heidegger, riconduce in ultima analisi alla «meraviglia che l'essente sia», la cui sola espressione adeguata è la domanda: «perché vi è l'essere piuttosto che il nulla?» (ivi, pp. 202-203) . 1.10. Condizione preliminare di ogni interpretazione del ti en einai è una analisi della sua struttura grammati cale, che curiosamente Boehm lascia da parte. Ciò è tanto vero, che la stessa espressione è tradotta in modo diverso da Boehm (das Sein-was-es-war, «I' essere-ciò-che-era»), da
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Natorp (das was es war sein, «ciò che era essere»), da Tom maso e gli scolastici medievali (quod qui d erat esse), da Ross e da altri (semplicemente con «essenza»). Finché l'insolita struttura grammaticale dell'espressione - e l'altrettanto in solita presenza del passato en («era») in luogo del presente esti - non saranno state chiarite, il passaggio alla sua inter pretazione filosofica non è in alcun modo possibile. A un'analisi anche grammaticale del ti e n einai ha de dicato nel 1938 uno studio esemplare un giovane filologo, che doveva cadere in guerra nel 1942: Curt Arpe. Egli mo stra che, per comprendere il senso del ti en einai, occorre completare mentalmente la formula con due dativi, uno puro e uno predicativo. Aristotele, infatti, esprime comu nemente la predicazione essenziale con un dativo predica tivo - così, proprio nel passo in cui si cerca la definizione del ti en einai (1029b 12-20) : to soi einai, «I' essere te» (lett. «l'essere a te»), to mousikoi einai, «I'essere colto» (lett. «1' es sere al colto»), to epiphaneiai einai, «l'essere superficie», e, altrove, to anthropoi einai, «l'essere uomo» - o «all'uomo». Poiché, tuttavia, Aristotele non parla qui soltanto dell'es ser uomo in generale, ma dell'esser uomo di questo cer to uomo, occorre inserire nella formula un dativo puro o concreto. «Con ciò» scrive Arpe «Si chiarisce la forma grammaticale della domanda ti en. . . einai; essa richiede, per esser compresa, il completamento attraverso un dativo puro e un dativo predicativo prodotto per assimilazione. Premettendo l'articolo to, la formula acquista il significato di una risposta alla domanda» (ARPE, p. 18). To ti en einai significa, cioè (nel caso di un essere uma no): «il che cos'era per x (per Socrate, per Emma) essere (Socrate, Emma)». La formula esprime I'ousia di un certo ente, trasformando la domanda «che cos'è per questo cer to ente essere?», nella risposta «il che cos'era per quel certo ente essere». N Che i l suggerimento di Arpe sia corretto è provato an che dalfotto che in Ca t., I a 5, Aristotele scrive: ((se qualcuno deve dire che cos'è per ciascuno [ekateroi, dativo puro] di essi {scii. l'u omo e il bue] essere un animale [zooi, dativo predi-
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cativo}. . . ». Da notare che nelle Categorie il verbo è ancora alpresente (ti esti). Come abbiamo visto, la formula to ti en einai permet te due traduzioni: «Il che cos'era l'essere>> e «l'essere ciò che era». Entrambe vanno, in qualche modo, mantenute, per ché la formula esprime precisamente il movimento dall'una all'altra, senza che esse possano mai coincidere. Com'è stato notato, «con i due termini hypokeimenon e ti en einai sono nominati i due significati, nei quali Aristotele usa il termine ambivalente ousia» (TUGENDHN, in BoEHM R., p. 25). E, tuttavia, «ciò che era l'essere per X>> non potrà mai «essere>> veramente ciò che era. 1 . 1 1 . Se, in questo modo, la struttura grammaticale e il senso della formula si chiariscono, resta il problema dell'imperfetto «era» (en) : perché Aristotele deve intro durre nella definizione dell'essenza un passato, perché «che cos'era» invece di «che cos'è»? Proprio questo risulta essere il problema decisivo, che definisce il dispositivo an tologico che Aristotele ha lasciato in eredità alla filosofia occidentale. Gli studiosi hanno proposto delle spiegazioni che, pur corrette sotto certi aspetti, non colgono il problema nella sua complessità. Arpe ha così buon gioco nel re spingere come platonica la soluzione di Trendelenburg, secondo cui l'imperfetto deriverebbe dalla precedenza del modello nella mente dell'artista rispetto all'opera (ARPE, p. 15 ) . Ma anche la soluzione di Natorp, che Arpe sembra condividere, per quanto corretta, non esaurisce il proble ma. Secondo Natorp, infatti, il ti en einai significherebbe «ciò che di volta in volta per un certo soggetto "era" o significava in ogni caso la stessa cosa, se gli si affiancava questo o quel predicato. È possibile che nel passato "erà' si nasconda qualcosa di più profondo, ma in primo luogo es so non vuoi dire nulla di più profondo del fatto che il ter mine, di cui deve essere data la definizione, si presuppone già noto attraverso l'uso e che anche la sua denotazione si presuppone fattualmente identica e che ora questa identità deve essere messa particolarmente in rilievo e portata alla
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coscienza» (ivi, p. 17). Quanto a Boehm, egli vede nell'im perfetto l'espressione dell'unità e dell'identità dell'essere e dell'essenza, nel senso che l'identità dell'essere di un essen te con ciò che esso è implica necessariamente «l'identità del suo essere con ciò che esso era già»: si tratterebbe, cioè, di assicurare la continuità di un certo essere con se stes so. «Lidentità essenziale di essere e essenza sarebbe nello stesso tempo l'identità incessantemente riaffermata di un essente autonomo in generale» (p. 171). Se Aristotele avesse voluto esprimere soltanto il fatto banale che il soggetto presupposto è necessariamente già noto o affermare l'identità con se stesso di ogni essente es senziale (ed entrambe le cose corrispondono certamente al suo pensiero), egli avrebbe potuto ricorrere a formule più precise che non il semplice imperfetto en. In questione qui è, piuttosto, la struttura stessa del dispositivo antologico aristotelico, che scinde ogni volta l'essere in esistenza ed essenza, in un soggetto presupposto su cui qualcosa si dice e in una predicazione che di esso si dice. Una volta posta questa scissione, il problema diventa: come è possibile di re la sostanza prima, il sub-iectum? Come si può afferrare ciò che è stato presupposto nella forma dell' hypokeimenon, cioè l'esser Socrate di Socrate, l'essere Emma di Emma? Se è vero, come le indagini di Boehm hanno mostrato, che l'essere è stato scisso in un essente inessenziale e in un'essenza inesistente, come sarà possibile superare questa scissione, far coincidere la semplice meraviglia «che qual cosa sia» con «il che cosa questo essere è»? Il «che cos'era per questo essente essere» è il tentativo di rispondere a queste domande. Se, in quanto è stato pre supposto, l'individuo non può essere afferrato che come un passato, l'unico modo per cogliere la singolarità nella sua verità è il tempo. Il passato «era» nella formula ti en einai esprime certamente l'identità e la continuità dell'es sere, ma la sua prestazione fondamentale, che Aristotele ne fosse o meno pienamente consapevole, è l'introduzione del tempo nell'essere. Il «qualcosa di più profondo» che «SÌ nasconde» nel passato «era» è il tempo: l'identità dell'es sere, che il linguaggio ha scisso, implica necessariamente,
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se si tenta di pensarla, il tempo. Nello stesso gesto con cui scinde l'essere, il linguaggio produce il tempo. 1.12. La domanda a cui il «che cos'era l'essere» deve dare una risposta è: data la scissione fra un sub-iectum, un esistente giacente-al-fondo inessenziale e un'essenza ine sistente, come è possibile cogliere l'esistenza singolare? Si tratta di un problema simile a quello che Platone aveva posto nel Teeteto, facendo dire a Socrate che gli elementi primi e semplici non hanno definizione (logos), ma pos sono essere solo nominati (onomasai monon, 201a 1 sqq.). Nella Metafisica (1043b 24) Aristotele attribuisce questa «aporia» ai seguaci di Antistene, che affermavano che si può dare una definizione solo delle sostanze composte e non di quelle semplici. Il problema è tanto più rilevante, in quanto il dispo sitivo logico che secondo Aristotele deve orientare ogni ricerca si enuncia: «ogni domanda sul perché deve sem pre avere la forma: "perché qualcosa è [o appartiene a, hyparchei] qualcos'altro?"» (1041a 11 sqq.). Si tratta, cioè, di eliminare ogni domanda del tipo: «perché qualcosa è qualcosa?», articolandola nella forma: «perché qualcosa è (appartiene a) qualcos'altro?» (quindi non «perché un uo mo colto è un uomo colto?», bensì: «attraverso che cosa l'uomo è un vivente di questo o quel tipo?»; non «perché una casa è una casa?», ma «attraverso che cosa questi mate riali, mattoni e tegole, sono una casa?») . Il dispositivo si urta a una difficoltà particolare quan do una cosa non è predicata di un altro, come se si chiede: «che cos'è l'uomo?». In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte a un'espressione semplice (haplos legesthai 1041b 2), che non è analizzabile in soggetto e predicati. La soluzione che Aristotele dà a questo problema mostra che il ti en einai è precisamente ciò che serve a cogliere l'essere di una sostanza semplice o prima. Anche in questo caso, egli suggerisce, la domanda - ad esempio, «che cos'è una casa?» - deve essere articolata nella forma: «perché queste cose sono una casa?», e questo è possibile «perché è presen te [o appartiene loro] ciò che era l'essere della casa» (hoti -
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hyparchei ho en oikiai einai - 1041b 5-6) . Nella formula ho en oikiai einai, che richiama esplicitamente quella del ti en einai, il passato «era>> rimanda certamente all'esistenza del la casa come qualcosa di già noto ed evidente (poco prima Aristotele aveva scritto: hoti hyparchei, dei delon einai, «che esista, deve essere evidente)) - 1041a 22); ma non s'intende il funzionamento del dispositivo, se non si comprende che il modo di questa esistenza è essenzialmente temporale, implica un passato. 1.13. Se chiediamo ora di che tipo di temporalità si tratta, è evidente che non può trattarsi di una temporalità cronologica (come se la preesistenza del soggetto potesse essere misurata in ore o in giorni), ma di qualcosa come un tempo operativo, che rimanda al tempo che la mente im piega per realizzare l'articolazione fra il soggetto presuppo sto e la sua essenza. Per questo le due possibili traduzioni della formula to ti en einai vanno entrambe mantenute: il «che cos'era per x essere)) si riferisce all' hypokeimenon pre supposto e «1' essere ciò che era>> al tentativo di afferrarlo, di far coincidere soggetto e essenza. Il movimento di questa coincidenza è il tempo: «essere che cos'era per x essere>>. La divisione dell'essere operata dal dispositivo serve a mettere in movimento l'essere, a dargli tempo. Il dispositivo onta logico è un dispositivo temporalizzante. Nella tradizione della filosofia occidentale, questa temporalità interna al soggetto verrà pensata a partire da Kant nella forma dell'autoaffezione. Quando Heidegger scriverà: «Il tempo, nella sua qualità di autoaffezione pura, forma la struttura essenziale della soggettività)) (HEIDEG GER 7, par. 34), occorre non dimenticare che, attraverso il dativo sottinteso e il passato «era>> del ti en einai, Aristo tele aveva già segnato nell' hypokeimenon, nel subiectum, il luogo logico di quella che sarebbe diventata la soggettività moderna, indissolubilmente legata al tempo. 1.14. Aristotele non tematizza esplicitamente l'in:. traduzione del tempo nell'essere implicita nel ti en einai. Tuttavia, al momento di spiegare (Metaph. , 1028a 30 sqq.)
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in che senso l' ousia è protos, prima e innanzi tutto, egli di stingue tre aspetti di questo primato: secondo la nozione (logoi), secondo la conoscenza (gnosei) e secondo il tempo (chronoi) . Secondo la nozione, in quanto nella nozione di ciascuna cosa è necessariamente presente quella dell' ousia, secondo la conoscenza, perché conosciamo meglio qual cosa, quando sappiamo che cosa essa è. L'esplicitazione del terzo aspetto del primato, quello temporale, sembra mancare. In luogo di questa, Aristotele enuncia il com pito del pensiero in questi termini: kai de kai to palai te kai nyn kai aei zetoumenon kai aei aporoumenon, ti to on, touto esti tis he ousia («e proprio ciò che in passato e ora è sempre cercato e sempre rimane problematico, che cos'è l'essere, questo è che cos'è l' ousia») . Se, secondo. la conse quenzialità logica, questa frase deve essere letta come un chiarimento del senso temporale del protos, essa non può allora riferirsi soltanto a un tempo cronologico. Aristotele cita qui implicitamente un passo del Sofista platonico, che Heidegger doveva porre in esergo a Essere e tempo: «voi da tempo sapete che cosa intendete quando dite "essere", noi invece un tempo fpro tou] lo sapevamo, ma ora siamo caduti in aporia [eporekamen] » (244a) . L'essere è ciò che, se si cerca di afferrarlo, si divide in un «prima» (palai), in cui si credeva di poterlo comprendere, e in un «ora» (nyn) in cui diventa problematico. La comprensione dell'essere implica, cioè, sempre il tempo. (La riproposizione hei deggeriana del problema dell'essere è una ripresa dell'an tologia aristotelica e resterà fino alla fine solidale delle aporie di questa) . 1 . 15. Nel dispositivo antologico che Aristotele lascia in eredità alla filosofia occidentale, la scissione dell'essere in essenza e esistenza e l'introduzione del tempo nell'esse re sono opera del linguaggio. È la soggettivazione dell'es sere come hypokeimenon, come ciò-su-cui-si-dice, che mette in moto il dispositivo. D'altra parte, come abbiamo visto, l' hypokeimenon è sempre già nominato attraverso un nome proprio (Socrate, Emma) o indicato attraverso il deittico «questo». Il ti en einai, il «che cos'era per Emma
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essere Emma», esprime una relazione che corre fra l'ente e il suo essere nel linguaggio. Sottraendosi alla predicazione, l'essere singolare re trocede in un passato come il sub-iectum sulla cui presup posizione si fonda ogni discorso. I..:essere su-cui-si-dice e che non può essere detto è sempre già pre-supposto, ha sempre la forma di un «ciò che era». Presupponendosi in questo modo, il soggetto mantiene a un tempo il suo pri mato e la sua inaccessibilità. Nelle parole di Boehm, esso è inaccessibile grazie al - e, insieme, malgrado il - suo primato ed ha il suo primato malgrado la - e, insieme, grazie alla - sua inaccessibilità (BoEHM R., pp. 210-211 ) . Ma, come Hegel comprenderà nella dialettica della cer tezza sensibile che apre la Fenomenologia, questo passato è precisamente ciò che permette di afferrare nel linguaggio il «qui» e «ora» immediato come tempo, come «una storia». I..:impossibilità di dire - altrimenti che nominandolo l'essere singolare produce il tempo e si risolve in esso. (Che Hegel pensi l'assoluto come soggetto e non come sostanza significa appunto questo: che il presupposto, il «soggetto» come hypokeimenon è stato liquidato, mandato a fondo come presupposto e, insieme, catturato, attraverso la dia lettica e il tempo, come soggetto in senso moderno. La struttura presupponente del linguaggio viene così svelata e trasformata in motore interno della dialettica. Schelling cercherà invece, senza riuscirei, di arrestare e neutralizzare la presupposizione linguistica) . 1.16. Si comprende ora che cosa intendessimo affer mando che l'antologia ha costitutivamente a che fare con l'antropogenesi e, insieme, quale sia la posta in gioco nel dispositivo antologico aristotelico - e, più in generale, in ogni trasformazione storica dell'antologia. In questio ne, nel dispositivo come in ogni sua nuova declinazione storica, è l'articolazione fra linguaggio e mondo che l'an tropogenesi ha dischiuso come «Storia» ai viventi della specie Homo sapiens. Scindendo il puro esistente (il che è) dall'essenza (il che cos'è) e inserendo fra di essi il tempo e il movimento, il dispositivo antologico riattualizza e ripete
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l'evento antropogenetico, apre e definisce ogni volta l'o rizzonte tanto dell'agire che del sapere, condizionando nel senso che si è visto come un a priori storico ciò che l'uomo può fare e ciò che egli può conoscere e dire. Secondo la particolare struttura presupponente del linguaggio («il linguaggio» secondo la precisa formulazio ne di Mallarmé «è un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni principio» - cioè, trasformando ogni archè in un presupposto), nell'antropogenesi l'evento di linguaggio pre-suppone come non (ancora) linguistico e non (ancora) umano ciò che lo precede. Il dispositivo deve, cioè, catturare nella forma della soggettivazione il vivente, presupponendolo come ciò su cui si dice, come ciò che il linguaggio, avvenendo, presuppone e manda a fondo. Nell' ontologia aristotelica, l' hypokeimenon, il puro «che è», nomina questo presupposto, l'esistenza singolare e impredicabile che deve essere insieme esclusa e cattura ta nel dispositivo. L «era» (en) del ti en einai è, in questo senso, un passato più arcaico di ogni passato verbale, per ché esso si riferisce alla struttura originaria dell'evento di linguaggio. Nel nome (in particolare nel nome proprio, e ogni nome è in origine un nome proprio), l'essere è già sempre presupposto dal linguaggio al linguaggio. Come Hegel doveva comprendere perfettamente, la precedenza, che in esso è in questione, non è, infatti, cronologica, ma è un effetto della presupposizione linguistica. Di qui l'ambiguità dello statuto del soggetto - hypo keimenon: da una parte esso è escluso in quanto non può essere detto, ma solo nominato e indicato; dall'altra esso è il fondamento su cui tutto si dice. E questo è il senso della scissione fra «che è» e «che cos'è», quod est e quid est: il ti en einai è il tentativo di superare la scissione, includendola per superarla (nella formula medievale quod quid erat esse, questo tentativo di tenere insieme il quod est e il quid est è evidente) . N Secondo l'assioma formulato da Aristotele nel De anima, 415b 13 («Essere per i viventi è vivere», to de zen tois zosi to einai estin), ciò che vale sulpiano dell'essere viene tra-
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sposto in modo del tutto analogo sul piano del vivere. Come l'essere, anche «il vivere si dice in molti modi)) (pleonachos de legomenou tou zen - ivi, 4I3a 24) e anche qui uno di questi sensi - la vita nutritiva o vegetativa - viene separato dagli altri e presupposto ad essi. Come abbiamo mostrato al trove, la vita nutritiva diventa così ciò che deve essere escluso dalla città - e, insieme, incluso in essa - come il semplice vi vere dal vivere politicamente qualificato. Ontologia e politica si corrispondono perfettamente. 1.17. Affatto diverso è il paradigma antologico in Pla tone. Egli è il primo a scoprire la struttura presupponente del linguaggio e a fare di questa scoperta il fondamento del pensiero filosofico. Sia il passo - altrettanto celebre quanto frainteso - della Repubblica (5nb) in cui Platone descrive il metodo dialettico: Apprendi ora l'altra sezione dell'intellegibile, che il lin guaggio stesso [autos ho logos] tocca [aptetai] con la poten za del dialogare [tei tou ditdegesthai dynamei] , trattando i presupposti [hypotheseis, etimologicamente «ciò che è po sto sotto, alla base»] non come principi [archai] , ma come propriamente presupposti, cioè come gradini e impulsi per andare fino al non presupposto [anypotheton] verso il principio di tutto e, avendolo toccato [apsamenos autes] , attenendosi alle cose che ne dipendono, discendere fino al la fine, senza assolutamente servirsi del sensibile, ma delle idee stesse attraverso le idee verso le idee, finendo alle idee.
Il potere del linguaggio è quello di trasformare il principio (l'archè) in un presupposto («ipotesi», ciò che la parola presuppone come il suo referente) . È quello che facciamo in ogni discorso non-filosofico, in cui diamo per scontato che il nome si riferisca a un non-linguistico che trattiamo, per questo, come un dato, come un principio da cui possiamo partire per acquisire la conoscenza. Il fi losofo è, invece, colui che, consapevole di questo potere presupponente del linguaggio, non tratta le ipotesi come principi, ma, appunto, come presupposti, che devono es-
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sere usati solo come gradini per raggiungere il principio non presupposto. Contro un equivoco ricorrente, è im portante comprendere che il metodo che Platone descrive non ha nulla a che fare con una pratica mistica, ma si situa rigorosamente all'interno del linguaggio (come egli dice al di là di ogni possibile dubbio, in questione è ciò che «il linguaggio stesso tocca con la potenza del dialogare») . Si tratta, cioè, una volta riconosciuto il potere presupponen te del logos - che trasforma la realtà che il pensiero deve raggiungere nel referente dato di un nome o di una defi nizione - di riconoscere e eliminare le ipotesi presupposte (Platone le chiama anche «ombre» - skiai - e «immagini» - eikones - Resp. , 510e), servendosi del linguaggio in mo do non presupponente, cioè non referenziale (per questo Platone, quando si tratta di affrontare i problemi decisivi, preferisce ricorrere al mito e allo scherzo). Il filosofo libera, cioè, il linguaggio dalla sua ombra e, invece di dare per scontate le ipotesi, cerca di risalire da queste - cioè dalle parole denotanti - verso il principio non presupposto. I.:idea è questa parola liberata dalla sua ombra, che non presuppone come data l' archè, ma cerca di raggiungerla in quanto non presupposta al nome e al discorso. Il discorso filosofico si muove sempre e soltanto attraverso queste parole non presupponenti, emancipate dal loro riferimento sensibile, che Platone chiama idee e che, significativamente, esprime attraverso il nome ogni volta in questione preceduto dall'aggettivo autos («stes so») : il cerchio stesso (autos ho kyklos - Epist. , vn, 342a-b), la cosa stessa. La cosa stessa, che è qui in questione, non è un oscuro presupposto non linguistico del linguaggio, ma ciò che appare quando, una volta presa coscienza del suo potere presupponente, si è liberato il linguaggio dal la sua ombra. Il «cerchio stesso» è la parola «cerchio» in quanto significa non semplicemente il cerchio sensibile, ma se stessa in quanto lo significa. Solo spegnendo il po tere presupponente della parola è possibile che essa lasci apparire la cosa muta: la cosa stessa e il linguaggio stesso (autos ho logos) sono, in quel punto, a contatto - uniti solo da un vuoto di significazione e di rappresentazione. (Una
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parola può significare se stessa solo attraverso un vuoto rappresentativo - di qui la metafora - del «toccare»: l'idea è una parola che non denota, ma «tocca»; cioè, come av viene, nel contatto, manifesta la cosa e, insieme, anche se stessa - si ricordi, nel De anima, 423b 15, la definizione del tatto come ciò che percepisce non «attraverso un medio» [metaxy] , ma «insieme [ama] al medio»). In questo senso, Kojève ha ragione di dire che la fi losofia è quel discorso che, parlando di qualcosa, parla anche del fatto che ne sta parlando. Va da sé, però, che questa consapevolezza non esaurisce il compito filosofico, perché, a partire da essa, sono possibili prospettive diver se e perfino opposte. Mentre, infatti, secondo Platone, il pensiero deve cercare di raggiungere il principio non presupposto, eliminando il potere presupponente del lin guaggio, Aristotele - e Hegel, dopo di lui - metteranno invece alla base della loro dialettica proprio il potere pre supponente del logos. 1.18. Lontologia pensa l'essere in quanto è detto e chiamato in causa nel linguaggio, è, cioè, costitutiva mente onto-logia. Nel dispositivo aristotelico, ciò si ma nifesta nella scissione dell'essere in un hypokeimenon, in un giacente-al-fondo (l'essere nominato o indicato di un esistente singolare, in quanto non si dice di un soggetto, ma è presupposto a ogni discorso) e in ciò che si dice sulla presupposizione di esso. Nel ti en einai Aristotele cerca di pensare la loro identità, di articolare insieme ciò che era stato diviso: l'essere è ciò che era ogni volta presupposto nel linguaggio e dal linguaggio. Cioè: esistenza e identità coincidono - o possono coincidere attraverso il tempo. Il compito che, in questo modo, il dispositivo, co me a priori storico, apre alla storia dell'Occidente è tanto speculativo che politico: se l'essere è diviso nel logos e, tuttavia, non irriducibilmente scisso, se è possibile pen sare l'identità dell'esistente singolare, allora su questa identità divisa e articolata sarà anche possibile fondare un ordine politico, una città e non semplicemente un pa scolo di animali.
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Ma si dà veramente una tale articolazione - insie me divisa e unitaria - dell'essere? O non vi è, piuttosto, nell'essere così concepito uno iato incolmabile? Il fatto che l'unità implichi un passato ed esiga, per realizzarsi, il tem po, la rende quanto meno problematica. Nel ti en einai, essa ha la forma: «ciò che era ogni volta per questo esi stente essere (o vivere)». Il passato misura il tempo che si insinua necessariamente fra la determinazione esistentiva dell'essere come hypokeimenon (questo esistente, il tode ti, il soggetto primo) e il suo perseverare nell'essere, il suo essere identico a sé. Lesistenza si identifica con l'essenza attraverso il tempo. Cioè: l'identità di essere e esistenza è un compito storico-politico. E, insieme, essa è un compito archeologico, perché ciò che si deve afferrare è un passato (un «era»). La storia, in quanto cerca di accedere a una presenza, è già sempre archeologia. Il dispositivo antologi co, in quanto è cronogenetico, è anche «historiogenetico», produce e mantiene in movimento la storia e solo in que sto modo può mantènersi. Politica e antologia, dispositivi antologici e dispositivi politici sono solidali, perché hanno bisogno gli uni degli altri per realizzarsi. N Essere e storia sono, in questo senso, solidali e insepa rabili. vale qui l'assioma benjaminiano secondo cui si dà sto ria di tutto ciò di cui vi è natura (cioè: essere). Riprendendo la tesi aristotelica secondo cui «la natura è in cammino verso se stessa», si potrà dire che la storia è il cammino della natura verso se stessa (e non, come nella concezione corrente, qualcosa di separato da essa).
1.19. Alla fine di Homo sacer 1, l'analogia fra la situa zione epocale della politica e quella dell'antologia era sta ta definita a partire da una crisi radicale, che investe la possibilità stessa di distinguere ed articolare i termini del dispositivo antologico-politico. Il bios giace oggi nella zoè esattamente come, nella defi nizione heideggeriana del Dasein, l'essenza giace (liegt) nell'esistenza. Schelling esprimeva la figura estrema del suo
DISPOSITIVO ONTOLOGICO 177 pensiero nell'idea di un essere che è soltanto il puramente esistente. Ma in che modo un bios può essere solo la sua zoè, come può una forma di vita afferrare quell' haplos che costituisce insieme il compito e l'enigma della metafisica occidentale? (AGAMBEN 3, pp. 2I0-2II] •
.Esistenza e essenza, essere esistentivo e essere copula tivo, zoè e bios sono oggi integralmente divaricati o altret tanto integralmente appiattiti l'uno sull'altro e il compito storico di una loro articolazione sembra ineseguibile. La nuda vita dell'Homo sacer è l'ipostasi irriducibile che ap pare fra di essi a testimoniare dell'impossibilità della loro identità come della loro distinzione: «ciò che era per x es sere o vivere» è ora soltanto nuda vita. Allo stesso modo, il tempo, insieme cronologico e operativo, in cui si compiva la loro articolazione, non è più afferrabile come il medium di un compito storico, in cui l'essere poteva realizzare la propria identità con se stesso e gli uomini assicurare le condizioni di un'esistenza umana, cioè politica. Il dispo sitivo ontologico aristotelico, che ha garantito per quasi due millenni la vita e la politica dell'Occidente, non può più funzionare come a priori storico, nella misura in cui l'antropogenesi, che esso cercava di fissare nei termini di una articolazione fra linguaggio e essere, non si rispecchia più in esso. Giunta al punto estremo della sua secolarizza zione, la proiezione dell'ontologia (o della teologia) sulla storia sembra divenuta impossibile. N Il tentativo di Heidegger di afferrare - in perfetta co erenza col proprio modello aristotelico - l'essere come tempo non poteva, per questo, che fallire. Nella sua interpretazio ne di Kant, Heidegger afferma che il tempo, come forma del senso interno e autoaffezione pura, si identifica con l1o. Ma, proprio per questo, l1o non può afferrarsi nel tempo. Il tempo, che, con lo spazio, dovrebbe renderepossibile l'esperienza, è es so stesso inesperibile, misura soltanto l'impossibilità dell'espe rienza di sé. Ogni tentativo di afferrare l'io o il tempo implica per questo una sfosatura. Questa sfasatura è la nudd. vita, che non può mai coincidere con se stessa, è sempre in un certo
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senso mancata e mai veramente vissuta. O, se si vuole, vivere è appunto questa impossibilità delfesperienza di sé, questa impossibilità di far coincidere il proprio esistere e il proprio essere. (Questo è il segreto dei romanzi di ]ames: possiamo vivere solo perché manchiamo la nostra vita). Ilprecetto «diventa ciò che sei>>, in cui si potrebbe espri mere l'intenzione del dispositivo aristotelico (con la piccola correzione: «diventa ciò che eri>>), in quanto affìda al tempo un compito di cui esso non può venire a capo, è contradditto rio. Secondo il suggerimento di Kojève, esso dovrebbe piuttosto essere riformulato in questo modo: «diventa ciò che non potrai mai essere>> (o «sii ciò che non potrai mai diventare>>). È solo a prezzo dellafollia che Nietzsche, alla fine della storia della metafisica, ha creduto di poter mostrare in Ecce homo: «wie man wird, was man ist>>, «come si diventa ciò che si è>>.
2.
Teoria delle ipostasi
2.1. Un mutamento epocale nell' ontologia dell'Oc cidente si situa tra il n e il m secolo d.C. e coincide con l'ingresso nel vocabolario della filosofia prima di un ter mine quasi completamente sconosciuto al pensiero clas sico (del tutto assente in Platone, in Aristotele compare solo nel senso originario di «sedimènto, residuo»): ipostasi (hypostasis) . In uno studio dedicato alla storia semantica del termine, Dorrie ha mostrato come questo vocabolo, che appare per la prima volta nell' ontologia stoica, si dif fonda progressivamente a partire dal neoplatonismo come un vero e proprio Modewort (DoRRIE, p. 14) nelle scuole filosofiche più diverse per designare, in luogo del classi co ousia, l'esistenza. In questo carattere di «termine alla moda», esso costituisce un singolare antecedente dell' ana loga diffusione del termine «esistenza» nelle filosofie del Novecento. Vi è, alla fine del mondo antico, una proli fetazione dell'ipostasi nel vocabolario filosofico-teologico come, nel discorso filosofico del Novecento, vi sarà una proliferazione dell'esistenza. Ma mentre, nell' esistenzia lismo novecentesco, al primato lessicale corrisponde an che un primato di rango dell'esistenza rispetto all'essenza, nel pensiero tardo-antico la situazione dell'ipostasi è più ambigua: il presupposto della diffusione del termine è, infatti, un processo inverso per cui l'essere tende ostinata mente a trascendere l'esistenza. Al dislocarsi dell'Uno al di là dell'essere corrisponde così il suo altrettanto esasperato darsi esistenza e manifestarsi nelle ipostasi. E, a questo mutamento dell'a priori storico corrisponde, in ogni am bito della cultura, una trasformazione epocale di cui - in quanto viviamo forse ancora sotto il suo segno - non sia-
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mo ancora in grado di misurare la portata. C essere (come oggi è evidente) tende a estenuarsi e a scomparire, ma, scomparendo, lascia al suo posto, la pura effettività resi duale dell'ipostasi, la nuda esistenza come tale. La tesi di Heidegger secondo cui «I' essenza giace [liegt] nell' esisten za» è, in questo senso, l'ultimo - quasi sepolcrale - atto dell'antologia ipostatica. 2.2. Il significato originario del termine hypostasis è - accanto a quello di «base, fondamento» - «sedimento» e si riferisce al residuo solido di un liquido. Così in lppo crate hyphistamai e hypostasis designano rispettivamente il depositarsi dell'urina e il sedimento stesso. In Aristotele il termine appare solo in questo senso, per significare il sedi mento di un processo fisiologico (De part. an. , 677a 15) e gli escrementi come residui della nutrizione (ivi, 647b 28, 671b 20, 677a 15) . Occorre riflettere sul fatto che proprio un termine che significava in origine «sedimento» e «re siduo» sia diventato il termine chiave o il Modewort per esprimere un concetto antologico fondamentale: l'esi stenza. In un articolo esemplare, Benveniste ha suggerito che, in presenza di morfemi identici dotati di significati del tutto diversi, si deve cercare innanzitutto se esista un uso del termine in grado di ricondurre a unità l'apparente diversità dei significati (in questo modo, egli ha potuto spiegare, come vedremo, i due significati, in apparenza in conciliabili, di trepho: «nutrire» e «cagliare» - BENVENISTE, pp. 290-293). Sarà allora opportuno chiedersi in questa prospettiva quale significato di hyphistamai e di hypostasis permetta di dar ragione di uno svolgimento semantico del termine in apparenza incomprensibile. In realtà, la diversità dei significati si spiega senza difficoltà se si considera che, se il verbo significa in origine «produrre un residuo solido» - e, quindi, «raggiungere lo stato solido, darsi una consistenza reale» - lo svolgimento verso il significato di «esistenza» è perfettamente naturale: l'esistenza appare qui - con una trasformazione radicale dell'antologia classica - come il risultato di un processo attraverso il quale l'essere si reifica
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e si dà consistenza. Non soltanto il significato originario non scompare nel nuovo, ma esso permette di compren dere come un pensiero, qual è quello neoplatonico, che cerca ostinatamente di dislocare l'Uno al di là dell'essere, non possa poi concepire l'esistenza che come «ipostasi», cioè come il residuo e il sedimento materiale di quel pro cesso trascendente. 2.3. Mentre l'hypokei�nenon, l'esistente puro, era per Aristotele la forma prima e immediata dell'essere, che non aveva alcun bisogno di un fondamento, poiché era esso stesso il soggetto primo (o ultimo), sul presupposto del quale ogni comprensione e ogni predicazione diventano possibili, già gli stoici si erano invece serviti dei termini hyphistasthai e hypostasis per definire il passaggio dall'essere in sé all'esistenza. Essi designavano così col verbo hyphi stasthai il modo di essere degli incorporei, come il «dici bile», il tempo e l'evento, mentre si servivano del verbo hyparchein in riferimento alla presenza dei corpi. Vi è una dimensione incorporea dell'essere, che ha la natura di un processo o di un evento, e non di una sostanza. Svolgen do ulteriormente questa tendenza, l'ipostasi diventa ora qualcosa come un'operazione - concettualmente se non geneticamente seconda - attraverso la quale l'essere si rea lizza nell'esistenza. Per questo Dione di Prusa può scrivere: «ogni essere ha un'ipostasi» (pan to on hypostasin echei DoRRIE, p. 43). L essere è distinto dall'esistenza, ma questa è, insieme, qualcosa (ancora una volta l'immagine del sedi mento è illuminante) che l'essere produce e che, tuttavia, necessariamente gli appartiene. Non vi è altro fondamento all'esistenza che un'operazione, Un'emanazione o una ef fettuazione dell'essere. N Che la nuova terminologia ipostatica, che prende forma a partire dalla Stoa, risultasse all'inizio poco compren sibile, si mostra con chiarezza in un passo di Galeno, in cui egli definisce una «pedanteria>) la distinzione che alcunifilo sofi fanno fra l'essere e l'ipostasi: «dico che è una pedanteria [mikrologia} distinguere secondo il genere l'essere e l'ipostasi
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[to on te kai to yphestos}>> {Meth. Med., 11, 7). Ma che questa > dell'u omo da parte dell'Essere possa avvenire non è spiegato in alcun modo, se non con quel «di conseguenza», che resta tanto più problematico, in quanto l'Esser-ci è stato appena allontanato da ogni riferi mento all'uomo. Non sorprende, a questo punto, che il paragrafo si con cluda con una frase in cui gli stilemi spigolosi liquidano e
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lasciano del tutto irrisolto il problema: >, che Essere e tempo si propone di rinnovare, suppone una preliminare gigantomachia intorno al Ci, che si svolge fra il vivente uomo e l'Esserci. Il Ci dell'Esserci ha luogo nel non luogo del vivente uo mo. E, tuttavia, questo conflitto - o questo reciproco offrir si -, che in Essere e tempo non è tematizzato come tale e nei Beitrage compare solo come esigenza di una «trasforma zione dell'u omo in Esser-ci>>, resta coperto e assorbito dalla relazionefra Esser-ci e Essere. In questo modo, il Ci è l'oggetto di un gioco di bussolotti dialettico fra l'Esser-ci e l'uomo, in cui esso, che non può che provenire dall'uomo, èfotto proprio dall'Esser-ci come sefosse già sempre «SUO>> ed è poi appropria to dall'essere come la sua propria radura. 6. La presupposizione del vivente come l'elemento an tropoforo che funge per così dire da sostrato all'u manità dell'uomo è un tratto costante della filosofia moderna. In questione qui è, infatti, il problema - schiettamente archeo logico - di tutte le definizioni - come quella dell'uomo come animai rationale - che consistono nell'aggiungere una deter minazione qualificativa a un elemento che funge da fonda mento. Se l'uomo è veramente tale solo quando da semplice mente vivente diventa razionale, allora si dovrà presupporre un animale - uomo non ancora veramente umano. Allo stesso modo, se l'uomo è veramente tale solo quando, diventando Esser-ci, si apre all'essere, se l'uomo è essenzialmente tale solo quando «è la radura dell'essere>>, ciò significa che vi è prima o sotto di lui un uomo non-umano che può o deve essere trasformato in esserci.
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Nella Lettera sull' umanismo, Heidegger sembra in qualche modo cosciente di questo dilemma. La metafisica, egli scrive, «pensa l'uomo a partire dalla sua animalitas e non in direzione della sua umanità)) (HEIDEGGER Io, p. I55). Ciò che occorre innanzitutto chiedere è «se in generale l'es senza dell'uomo giaccia nella dimensione dellànimalitas)), se possiamo cogliere questa essenza, finché definiamo l'uomo come un essere vivente (Lebewesen) fra gli altri. L'errore del biologismo non è ancora superato in quanto si aggiunge alla corporeità dell'u omo l'anima, e all'anima lo spirito. L'uo mo dimora nella sua essenza, solo in quanto è rivendicato dall'essere, ek-siste estaticamente «nella radura dell'essere)) (m der Lichtung cles Seins) e questa ek-sistenza «non può mai essere pensata come una modalità specifica fra le altre che definiscono l'essere viventen. In questa prospettiva, «an che ciò che, in paragone all'animale, attribuiamo all'uomo come animalitas)) deve essere pensato a partire della sua ek sistenza (ibid.). «Il corpo dell'uomm) scrive Heidegger a questo punto «è qualcosa di essenzialmente altro rispetto a un organismo ani malen. Questa tesi enigmatica, avanzata sbrigativamente ma senza riserve, avrebbe forse potuto costituire il germe di una diversa concezione del rapporto non soltanto fra /'animalitas e /'humanitas, ma anchefra l'uomo e l'Esserci. In questione è qui, come per il corpo dello schiavo in Aristotele, nulla di me no della possibilità di un altro corpo dell'uomo. Tuttavia, nel testo della Lettera, essa non è ripresa né ulteriormente svilup pata. Al contrario, poche pagine dopo, la relazionefra l'u omo e l'Esserci è evocata in termini che, malgrado il tentativo di prendere da essa le distanze, sembrano ricadere nell'aporia di un essere vivente che solo accettando la rivendicazione dell'es sere diventa veramente umano. L'essenza dell'u omo consiste in ciò, che egli è più che il nudo uomo [mehr als der blosse Mensch], nella misura in cui questo è inteso come vivente dotato di ragione. «Più» non deve essere qui compreso in modo additivo, come se la definizio ne tradizionale dell'uomo dovesse restare la determinazione fondamentale e subire poi un ampliamento attraverso l'ag-
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giunta dell'esistenziale. Il > (ILLICH 2, p. 230; cfr. supra, pp. J6-IJ). «La nozione di una entità "vita">> egli scrive «che può essere protetta legalmente e professionalmente è stata tortuosamente costruita per mezzo di un discorso legale-medico-religioso-scientifico, le cui radici si addentrano profondamente nel passato teologico>>. Chiesa e istituzioni laiche convergono oggi nel considerare questa nozione spettrale, che può applicarsi nello stesso modo a tut to e a nulla, come l'oggetto sacro e precipuo delle loro cure, qualcosa che può essere manipolato e gestito e, insieme, difeso e protetto. N
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1.7. Decisivo, nella nostra prospettiva, è che questa
divisione della vita abbia come tale immediatamente un significato politico. Perché la zoè possa raggiungere l' au tarchia e costituirsi come una vita politica (bios politikos) , è necessario che essa sia divisa e che una delle sue artico lazioni sia esclusa e, nello stesso tempo, inclusa e posta a fondamento negativo della politeia. Per questo n ell'Etica nicomachea, Aristotele ha cura di precisare che l'uomo po litico deve conoscere ciò che riguarda l'anima e sapere che vi è in essa una parte - la vita nutritiva (o vegetativa) - che non partecipa in alcun modo della ragione e, non essendo pertanto veramente umana, rimane esclusa dalla felicità e dalla virtù (e quindi dalla politica) :
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Bisogna dunque che anche l'uomo politico conosca ciò che concerne l'anima . . . e abbiamo detto che vi è una parte di essa che è priva di ragione, un'altra che invece la possiede. Se queste siano separate come avviene per le membra del corpo e per tutto ciò che è composto di parti o se invece esse, pur essendo due secondo la loro definizione, siano però per natura inseparabili, come in una superficie sferica la parte concava e la parte convessa, ciò non implica alcuna differenza per il presente discorso. Della parte irrazionale, una sembra comune [a tutti i viventi] e vegetale, cioè il principio della nutrizione e della crescita, e, infatti, una tale facoltà dell'anima la si trova in tutti gli esseri che si nu trono, negli embrioni come anche negli esseri completi . . . La virtù di una tale facoltà appare quindi comune a tutti gli esseri e non propriamente umana [anthropine] . Questa parte e questa facoltà sono in atto soprattutto nel sonno e, in quanto dormono, il buono e il cattivo non differiscono quasi in nulla, per cui si dice che per metà della vita le per sone infelici non differiscono affatto da quelle felici . . . Pos siamo pertanto lasciare da parte la vita nutritiva, in quanto essa non partecipa della virtù umana [n02a 23 - no2b 14] .
Nei Magna moralia questa esclusione è ribadita in particolare rispetto alla felicità: «I' anima nutritiva non contribuisce alla felicità» (u8sa 35). N Nel De anima, Aristotele stabilisce una singolare cor rispondenza fra il tatto e la vita nutritiva, quasi che al tatto competesse, sul piano della sensazione, lo stesso ruolo primor diale che corrisponde alla nutrizione. Dopo aver ribadito che «la facoltà nutritiva deve trovarsi in tutti gli esseri che cre scono e si corrompono», egli scrive che «poiché l'animale è un corpo animato ed ogni corpo è tangibile [apton} e tangibile è ciò che è percepibile attraverso il tatto [aphei}, allora è neces sario che il corpo animale possegga la capacità tattile, affinché l'animale possa conservarsi . . . Per questo ilgusto è una specie di tatto, poiché il suo oggetto è l'alimento e l'alimento è un corpo tangibile. . . ed è evidente che senza il tatto l'animale non può esistere» (434 b 12-20).
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E come, rispetto alla facoltà nutritiva, la sensazione e l'intelletto implicano un supplemento eterogeneo che differen zia l'animale e l'uomo dalla pianta, così, mentre il tatto rende possibile la vita, «gli altri sensi esistono in vista del bene» (ivi, 24), e come non è possibile separare nei mortali l'anima nutritiva dalle altre, allo stesso modo ((senza il tatto non è pos sibile che vi sia alcun altro senso . . . e, con la perdita del tatto, gli animali muoiono» (435b 3-4). Il dispositivo metafisico politico che divide e articola la vita agisce in tutti i livelli del corpo vivente. 1.8. Possiamo a questo punto precisare ulteriormente
l'articolazione fra semplice vita e vita politicamente qua lificata, zoè e bios, che, in Homo sacer 1, avevamo posto alla base della politica occidentale. Quella che possiamo ora chiamare la macchina ontologico-biopolitica dell'Oc cidente si fonda su una divisione della vita, che, attraverso una serie di cesure e di soglie (zoè l bios, vita insufficien te l vita autarchica, famiglia l città) acquista un carattere politico di cui era all'inizio sprovvista. Ma è proprio attra verso questa articolazione della sua zoè che l'uomo, unico fra i viventi, diventa capace di una vita politica. La funzio ne propria della macchina è cioè un'operazione sul vivente che, «politicizzando» la sua vita, la rende «sufficiente», cioè capace di aver parte alla polis. Ciò che chiamiamo politica è, cioè, innanzitutto, una speciale qualificazione della vita, attuata attraverso una serie di partizioni che passano nel corpo stesso della zoè. Ma questa qualificazione non ha al tro contenuto che il puro fatto della cesura come tale. Ciò significa che il concetto di vita non potrà essere veramente pensato finché non sarà stata disattivata la macchina bio politica che l'ha sempre già catturato al suo interno attra verso una serie di divisioni e di articolazioni. Fin allora, la nuda vita peserà sulla politica occidentale come un oscuro e impenetrabile residuo sacrale. Si capisce allora il significato essenzialmente onto logico-politico e non soltanto psicologico della divisione delle parti dell'anima (facoltà nutritiva, sensitiva, intellet tiva) nel libro n del De anima. Tanto più determinante a p-
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pare, in questa prospettiva, il problema, su cui Aristotele non manca di soffermarsi, della separabilità soltanto logica o anche fisico-spaziale delle varie parti. Mentre il proprio dell'anima vegetativa è, infatti, di poter esistere indipen dentemente dalle altre (co me avviene nelle piante) , le altre parti, almeno negli esseri mortali (la restrizione lascia in tendere che ciò sia forse possibile negli dei) non possono essere separate da quella. Ciascuna di queste facoltà - chiede Aristotele - è un'ani ma o una parte dell'anima? E se è una parte, è separabile soltanto logicamente [logoi] o anche secondo il luogo [to poi] ? In alcuni casi non è difficile verificar! o, mentre altri comportano delle difficoltà. Infatti, come, per le piante, si osserva che alcune di esse continuano a vivere anche se vengono divise e se le loro parti sono separate le une dalle altre (come se l'anima che si trova in esse fosse unica in atto in ciascuna pianta, ma molteplice in potenza) , così vediamo avvenire anche per le altre differenze dell'anima, come negli insetti, quando vengono sezionati . . . Quanto all'intelletto e alla potenza del pensiero nulla è chiaro, ma sembra che sia un genere diverso e che questo soltanto possa essere separato, come l'eterno dal corruttibile. Da quanto si è detto risulta chiaro che le altre parti dell'anima non sono separabili, come alcuni ritengono. Che lo siano, però, secondo il logos è evidente [413b 14-29] .
Il logos può dividere ciò che non può essere fisicamen te diviso e la conseguenza che questa divisione «logica» esercita sulla vita è di rendere possibile la sua politicizza zione. La politica, come ergon proprio dell'uomo, è la prassi che si fonda sulla separazione, operata dal logos, di funzioni altrimenti inseparabili. La politica appare qui come ciò che permette di trattare una vita umana come se, in essa, le vita sensitiva e intellettiva fossero separabili da quella ve getativa - e quindi, dal momento che ciò è impossibile nei mortali, di darle legittimamente la morte. (Questo è il sen so della vitae necisque potestas che abbiamo visto definire il potere sovrano - cfr. AGAMBEN 4, pp. 97-101) .
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Per questo, nella storia della biopolitica occidentale, una soglia decisiva viene raggiunta quando, nella seconda metà del xx secolo, attraverso lo sviluppo delle tecniche di rianimazione (l'espressione è significativa: in questio ne sono, ancora una volta, l'anima e la vita), la medicina riesce a realizzare ciò che Aristotele riteneva impossibile, cioè la separazione, nell'uomo, della vita vegetativa dal le altre funzioni vitali. Non deve stupire se, a partire da questo momento, anche tutti i concetti fondamentali della politica vengono messi nuovamente in questione. A una ridefinizione della vita consegue necessariamente una ri definizione della politica. N Occorre riflettere sul senso dell 'analogia fra essere e vivere nella strategia aristotelica. La tesi metafisica-politica suona: «Essere è per i viventi vivere» (to de zen tois zosi to einai estin De an., 4I5b IJ). Tanto l'essere che il vivere, tuttavia, «si dicono in molti modi» e sono quindi già sempre articolati e divisi. Come l'articolazione dell'essere permette di introdurre in esso il movimento e di render/o, alla fine, pen sabile, così la divisione della vita, togliendo/a alla sua unidi mensionalità, permette di farne ilfondamento della politica. All'isolamento di un essere «che si dice più propriamente in primo luogo e soprattutto» corrisponde, sul piano del vivere, la separazione di una sfera della vita (la vita vegetativa), che funge da archè, «attraverso la quale il vivere appartiene ai viventi». La vita è, in questo senso, la declinazione politica dell'essere: al pleonachos legesthai di questo, corrisponde il pleonachos legesthai di quella, al dispositivo antologico, che articola e mette in movimento l'essere, corrisponde la macchi na biopolitica, che articola e politicizza la vita. E una disat tivazione della macchina biopolitica implica necessariamente una disattivazione del dispositivo antologico (e viceversa). -
1 . 9 . Ciò che permette alla vita nutritiva di fungere da fondamento e da motore della macchina bio-politica è, innanzitutto, la sua separabilità dalle altre sfere della vita (mentre le altre non possono separarsi da essa) . Ma ciò che costituisce il suo privilegio è anche ciò che ne au-
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torizza l'esclusione dalla città e da tutto ciò che definisce l'umano come tale. Una lettura più attenta della sezione del De anima de dicata alla facoltà nutritiva mostra, tuttavia, che essa con tiene degli elementi che potrebbero permettere di guardare ad essa in tutt'altro modo. Al momento di definire gli erga propri di questa facoltà, cioè la generazione e l'uso dell'ali mento (gennesai kai trophei chresthai - 415a 26) , Aristotele sembra istituire una singolare corrispondenza fra la parte più bassa e quella più alta dell'anima umana, il pensiero (nous) : «Lopera più naturale dei viventi . . . è di produrre un altro simile a sé: l'animale un animale, la pianta una pianta, in modo da partecipare nella misura del possibile all'eterno e al divino» (415a 3-5) . Poche pagine dopo, egli scrive che il nutrimento «conserva l'essere» (sozei ten ou sian) del vivente e che la facoltà nutritiva «è un principio [archè] capace di conservare colui che lo possiede come ta le» (416b 15-16). Tanto in Aristotele che nei commentatori si riscontra, inoltre, una curiosa prossimità terminologica fra l'anima nutritiva (o vegetativa) e quella intellettiva: an che l'intelletto è, infatti, «separabile» (choristos - 430a 18) e, come l'intelletto, anche il principio nutritivo è «attivo» (poietikon - 416b 15; ancora più decisamente in Alessandro di Mrodisia, il teorico dell'intelletto agente (o poetico) : «il principio nutritivo è poietikon» (ALESSANDRO, p. 74) . In un saggio esemplare, Émile Benveniste ha attira to l'attenzione sull'apparentemente inspiegabile doppio significato del verbo greco trepho, che significa tanto «nu trire» che «addensare, coagulare un liquido» (ad esempio trephein gala, «far cagliare il latte») . La difficoltà si risolve se si comprende che il vero significato di trepho non è sem plicemente nutrire, quanto piuttosto «lasciar crescere o fa vorire lo sviluppo naturale di qualcosa». Non vi è contrad dizione fra trephein gala («nutrire il latte», cioè «!asciarlo cagliare») e trephein paidas ( ). La scommes sa è qui che possa darsi un bios, un modo di vita, che si definisce soltanto attraverso la sua speciale e inseparabile unione con la zoè e non ha altro contenuto che questa (e, reciprocamente, che si dia una zoè che non è altro che la sua forma, il suo bios). Proprio e soltanto a questo bios e
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a questa zoè così trasfigurati competono gli attributi della vita politica: la felicità e l'autarchia, che, nella tradizio ne classica, si fondavano invece sulla separazione del bios e della zoè. Ha un bios politico colui che non ha mai la sua zoè come una parte, come qualcosa di separabile (cioè come nuda vita), ma è la sua zoè, è integralmente forma di-vita.
4· La vita è una forma generata vivendo
4.1. Uno dei luoghi attraverso cui i concetti plotiniani di vita e di forma di vita (eidos zoes) vengono trasmessi agli autori cristiani è l'Adversus Arium di Mario Vittorino, un retore romano convertitosi al cristianesimo che, con la sua traduzione delle Enneadi, ha esercitato un'influenza deter minante su Agostino. Vittorino cerca di pensare il paradig ma trinitario, che sta prendendo forma in quegli anni, at traverso categorie neoplatoniche, non soltanto svolgendo in questa prospettiva la dottrina delle tre ipostasi (essere, vita, pensiero), ma anche e innanzitutto approfondendo l'unità fra essere e vita che abbiamo visto definire la bio ontologia plotiniana. Già Aristotele, in un passo del De a ni ma che doveva avere una lunga discendenza, aveva af fermato, sia pure corsivamente, che ((essere per i viventi è vivere». Si tratta ora, traducendo integralmente il vocabo lario ontologico in un vocabolario ((bio-logico», di pensare l'unità e la consustanzialità - e, insieme, la distinzione fra il Padre e il Figlio come unità e articolazione di ((vivere» e ((vita» in Dio. A questo arduo problema teologico, mo bilitando fino all'eccesso gli artifici e le sottigliezze della sua arte retorica, Vittorino dedica l'intero quarto libro del suo trattato: >: dunque il pedone non segue la regola, ma è la regola. Ma che cosa può significare «essere» la propria regola? Qui si ritrova la stessa indeterminazione fra regola e vita che avevamo osservato nelle regole mo nastiche: esse non si applicano alla vita del monaco, ma la costituiscono e definiscono come tale. Ma, proprio per questo, come i monaci avevano subito compreso, la regola si risolve senza residui in una prassi vitale e questa coincide in ogni punto con la regola. La «vita regolare» è una «rego la vitale» e, come in Francesco, regula e vita sono perfetta mente sinonimi. Si può dire allora del monaco, come del pedone nel gioco degli scacchi, che «egli è l'insieme delle regole secondo cui si muove»? 7-4- Coloro che si servono del concetto «regola costi
tutiva» sembrano implicare che la regola, pur risolvendosi nella costituzione del gioco, resti separata da questo. Ma, com'è stato notato, ciò vale solo fin tanto che il gioco sia considerato come un insieme formale di cui la regola de scrive la struttura (o fornisce le istruzioni per l'uso) . Se consideriamo invece il gioco come si dà nella realtà, cioè come una serie di «concreti episodi interattivi, in cui so no implicate persone reali, coi loro scopi specifici, le loro abilità e capacità linguistiche e di altro genere» (BLACK, p. 328), se, in una parola, guardiamo al gioco nella pro spettiva dell'uso e non in quella delle istruzioni, allora la separazione non è più possibile. Sul piano della pragma tica, il gioco e la regola diventano indiscernibili e ciò che appare nel loro indeterminarsi è un uso o una forma di vita. «Come posso obbedire a una regola? . . . Se ho esaurito le giustificazioni, ho toccato il fondo e la mia spada è rove sciata. Allora sono portato a dire: "questo è semplicemente quello che faccio"» (WITTGENSTEIN I, par. 2J7) . Allo stesso modo, se guardiamo alla lingua dal punto di vista delle regole grammaticali, si può dire che queste definiscono la lingua come sistema formale pur restando distinte da essa; ma se guardiamo al linguaggio in uso (cioè alla parole e non alla langue), allora è altrettanto se non più vero dire che le regole della grammatica sono
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tratte dall'uso linguistico dei parlanti e non si distinguo no da esso. 7·5· In realtà la distinzione, spesso invocata, fra regole costitutive e regole pragmatiche non ha ragion d'essere, ogni regola costitutiva - l'alfiere si muove in questo o quel modo - può esser formulata come una regola pragmati ca - «non puoi muovere . l'alfiere se non obliquamente» - e viceversa. Lo stesso avviene per le regole grammaticali: la regola sintattica «nella lingua francese il soggetto de ve normalmente precedere il verbo» può essere formulata pragmaticamente come: «non puoi dire pars je, puoi dire solo je pars». Si tratta, in verità, di due modi diversi di con siderare il gioco - o la lingua -: una volta come un sistema formale che esiste in sé - cioè come una langue - e un'altra come un uso o una prassi - cioè come una parole. . Per questo a ragione si è chiesto se sia possibile trasgre dire una regola degli scacchi, come quella che stabilisce lo scacco matto. Si sarebbe tentati di dire che la trasgressione, che è impossibile sul piano delle regole costitutive, è pos sibile su quello della pragmatica. In realtà, chi trasgredisce la regola cessa semplicemente di giocare. Di qui la speciale gravità del comportamento del baro: chi bara non trasgre disce una regola, ma finge di continuare a giocare quando in realtà è uscito dal gioco. 7.6. Ciò che è, in realtà, in questione nelle regole co stitutive, ciò di cui esse cercano di dar inadeguatamente ragione è qualcosa come il processo di autocostituzione dell'essere, cioè quello stesso processo che la filosofia aveva espresso nel concetto di causa sui. Come Spinoza aveva opportunamente ricordato, questo non può certo signifi care che «qualcosa, prima di essere, si è fatto essere, il che è assurdo e impossibile» (KV, n, xvn); significa piuttosto l'immanenza dell'essere a se stesso, un principio interno di automovimento e modificazione di sé, per cui ogni essere, come Aristotele dice della physis, è sempre in cammino verso se stesso. La regola costitutiva, come la forma di vita, esprime questo processo autoipostatico, in cui il costituen-
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te è e resta immanente al costituito, si realizza e esprime in esso e attraverso di esso, inseparabile. È, se lo si legge con attenzione, quanto Wittgenstein scrive in uno dei rari passi in cui egli si serve (in inglese) del termine «costituire» rispetto alle regole degli scacchi. Che idea abbiamo del re negli scacchi e qual è la sua rela zione con le regole degli scacchi? . . . Forse che queste regole conseguono dall'idea? . . . No, le regole non sono contenute nell'idea e non sono ottenute analizzandola. Esse la co stituiscono [thry constitute it] . . . Le regole costituiscono la «libertà>> dei pezzi (WITTGENSTEIN 5, p. 86] .
Le regole non sono separabili in qualcosa come un'i dea o un concetto del re (il re è quella pedina che si muove secondo questa o quella regola) : esse sono immanenti ai movimenti del re, esprimono il processo di autocostituzio ne del loro gioco. Nell'autocostituzione di una forma di vita è in questione la sua libertà. 7·7· Per questo Wittgenstein non considera la forma
di vita dal punto di vista delle regole (costitutive o prag matiche che siano), ma da ·quello dell'uso, cioè a partire dal momento in cui spiegazioni e giustificazioni non sono più possibili. Si tocca qui un punto in cui «dar ragione, comunque giustificare un'evidenza giungono al termine>> (WITTGENSTEIN 6, par. 204) , qualcosa come un «fondo>> che corrisponde a un livello per così dire animale nell'uo mo, alla sua «storia naturale>>. Come recita uno dei raris simi passi in cui il termine «forma di vita>> compare al di fuori delle Ricerche filosofiche: «io vorrei ora considerare questa sicurezza non come qualcosa di simile a un' avven tatezza o a una superficialità, ma come forma di vita . . . questo vuoi dire, però, che voglio concepirla come qual cosa che giace al di là del giustificato e dell'ingiustificato - dunque, per così dire, come un che di animale>> (ivi, parr. 3 58-359). Lanimalità, che è qui in questione, non si contrappone in alcun modo, secondo la tradizione del la filosofia occidentale, all'uomo come essere razionale e
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parlante; sono, anzi, proprio le pratiche più umane - il parlare, lo sperare, il raccontare - che raggiungono qui il loro terreno ultimo e più proprio: «Comandare, doman dare, raccontare, chiacchierare sono parti della nostra sto ria naturale come camminare, mangiare, bere, giocare» (WITTGENSTEIN I, par. 25) . Per questo suolo impenetrabile alle spiegazioni, che le regole costitutive cercano invano di afferrare, Wittgenstein. si serve anche dei termini «uso, costume, istituzioni»: «Questo è semplicemente quello che facciamo. Questo è fra di noi un costume o un fatto di storia naturale» (WITTGENSTEIN 2, par. 63); «obbedire a una regola, fare una relazione, dare un ordine, giocare agli scacchi sono costumi (usi, istituzioni)» (WITTGENSTEIN I, par. I99) . .Lopacità delle forma di vita è di natura pratica e, -in ultima analisi, politica.
8. Opera e inoperosità
8.1. Nel corso su L'herméneutique du sujet, Foucault lega strettamente il tema della verità e quello del modo o della forma di vita. A partire da una riflessione sul cinismo greco, egli mostra che la pratica etica di sé prende qui la forma non di una dottrina, come nella tradizione plato nica, ma di una prova (épreuve), in cui la scelta del modo di vita diventa la questione in ogni senso decisiva. Nella discendenza del modello cinico, che fa della vita del filo sofo una sfida incessante e uno scandalo, Foucault evoca due esempi in cui la rivendicazione di una certa forma di vita diventa ineludibile: lo stile di vita del militante politi co e, subito dopo, la vita dell'artista nella modernità, che sembra presa in una curiosa e inestricabile circolarità. Da una parte, infatti, la biografia dell'artista deve testimoniare attraverso la sua stessa forma della verità dell'opera che in essa si radica; dall'altra sono, invece, la pratica dell'arte e l'opera che essa produce a conferire alla sua vita il sigillo dell'autenticità. Benché il problema della relazione fra la verità e la forma di vita sia certamente uno dei temi essenziali del corso, Foucault non si sofferma ulteriormente su questo statuto insieme esemplare e contraddittorio della condi zione dell'artista nella modernità. Che non si tratti di una questione accidentale è testimoniato oltre ogni possibile dubbio dal fatto che la coincidenza fra vita e arte che è qui in questione è, dal Romanticismo all'arte contempo ranea, una tendenza costante, che ha portato a una radi cale trasformazione nel modo di concepire la stessa opera d'arte. Non soltanto, infatti, arte e vita hanno finito con l'indeterminarsi in tale misura, che è diventato spesso im-
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possibile distinguere pratica di vita e pratica artistica, ma, a partire dalle avanguardie del Novecento, ciò ha avuto come conseguenza una progressiva dissoluzione della stes sa consistenza dell'opera. Il criterio di verità dell'arte si è spostato a tal punto nella mente e, molto spesso, nel corpo stesso dell'artista, nella sua fisicità, che questi non ha biso gno di esibire un'opera se con come cenere o documento della propria prassi vitale. L'opera è vita e la vita non è che opera: ma, in questa coin�idenza, invece di trasformarsi e cadere insieme, esse continuano a inseguirsi a vicenda in una fuga senza fine. 8.2. È possibile che nella paradossale circolarità del la condizione artistica emerga alla luce una difficoltà che concerne la natura stessa di ciò che chiamiamo forma-di vita. Se la vita è qui inseparabile dalla sua forma, se zoè e bios sono qui intimamente in contatto, come concepire la loro non-relazione, come pensare il loro darsi insieme e si multaneamente cadere? Che cosa conferisce alla forma-di vita la sua verità e, insieme, la sua erranza? E che rapporto vi è fra la pratica artistica e la forma-di-vita? Nelle società tradizionali e, in minor misura, ancor oggi, ogni esistenza umana è presa in una certa prassi o in un certo modo di vita - mestiere, professione, occupazio ne precaria (o, oggi, sempre più spesso, in forma privativa, disoccupazione) - che in qualche modo la definisce e con cui essa tende più o meno completamente a identificarsi. Per ragioni che non è qui il luogo di indagare, ma che at tengono certamente allo statuto privilegiato che, a partire dalla modernità, viene attribuito all'opera d'arte, la pratica artistica è diventata il luogo in cui questa identificazione conosce una crisi duratura e la relazione fra l'artista co me produttore e la sua opera diventa problematica. Così mentre, nella Grecia classica, l'attività dell'artista era de finita esclusivamente dalla sua opera ed egli, considerato per questo come banausos, aveva uno statuto per così dire residuale rispetto all'opera, nella modernità è l'opera a co stituire in qualche modo un residuo imbarazzante dell' at tività creatrice e del genio dell'artista. Non sorprende, per-
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tanto, che l'arte contemporanea abbia compiuto il passo decisivo, sostituendo all'opera la vita stessa. Ma, a questo punto, se non si vuole restare imprigionati in un circolo vizioso, il problema diventa quello, affatto paradossale, di provarsi a pensare la forma di vita dell'artista in se stessa, che è appunto ciò che l'arte contemporanea cerca, ma non sembra in grado di fare. 8.3. Ciò che chiamiamo forma-di-vita non è definito dalla relazione a una prassi (energeia) o a un'opera (ergon), ma da una potenza (dynamis) e da una inoperosità. Un vivente, che cerchi di definirsi e darsi forma attraverso la propria operazione, è, infatti, condannato a scambiare in cessantemente la propria vita con la propria operazione e viceversa. Si dà, invece, forma-di-vita solo là dove si dà contemplazione di una potenza. Certo contemplazione di una potenza si può dare soltanto in un'opera; ma, nel la contemplazione, l'opera è disattivata e resa inoperosa e, in questo modo, restituita alla possibilità, aperta a un nuovo possibile uso. Veramente poetica è quella forma di vita che, nella propria opera, contempla la propria potenza di fare e di non fare e trova pace in essa. La verità, che l'arte contemporanea non riesce mai a portare all'espressio ne, è l'inoperosità, di cui cerca a ogni costo di far opera. Se la pratica artistica è il luogo in cui si fa sentire con più forza l'urgenza e, insieme, la difficoltà della costituzione di una forma-di-vita, ciò è perché in essa si è conservata l'esperienza di una relazione a qualcosa che eccede l'opera e l'operazione e, tuttavia, resta inseparabile da esse. Un vivente non può mai essere definito dalla sua opera, ma soltanto daUa sua inoperosità, cioè dal modo in cui, man tenendosi, in un'opera, in relazione con una pura potenza, si costituisce come forma-di-vita, in cui zoè e bios, vita e forma, privato e pubblico entrano in una soglia di indiffe renza e in questione non sono più la vita né l'opera, ma la felicità. E il pittore, il poeta, il pensatore - e, in generale, chiunque pratichi una poiesis e una attività - non sono i soggetti sovrani di un'operazione creatrice e di un'opera; sono, piuttosto, dei viventi anonimi che, rendendo ogni
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volta inoperose le opere del linguaggio, della visione, dei corpi, cercano di fare esperienza di sé e di costituire la loro vita come forma-di-vita. E se, come suggerisce Bréal, il termine ethos non è che il tema pronominale riflessivo e seguito dal suffisso -thos e significa, dunque, semplicemente e letteralmente «seità», cioè il modo in cui ciascuno entra in contatto con sé, allo ra la pratica artistica, nel senso che si è qui cercato di de finire, appartiene innanzi tutto all'etica e non all'estetica, è essenzialmente uso di sé. Nel punto in cui si costituisce come forma-di-vita, l'artista non è più l'autore (nel senso moderno, essenzialmente giuridico, del termine) dell' ope ra né il proprietario dell'operazione creativa. Questi sono soltanto qualcosa come i residui soggettivi e le ipostasi che risultano dalla costituzione della forma di vita. Per questo Ben jamin poteva affermare di non volere essere ricono sciuto (!eh nicht erkannt sein will - BENJAMIN 3, p. 532) e Foucault, ancora più categoricamente, di non voler identi ficare se stesso (Iprefer not to identiJY myselj) . La forma-di vita non può né riconoscersi né essere riconosciuta, perché il contatto fra vita e forma e la felicità che in essa sono in questione si situano al di là di ogni possibile ricono scimento e di ogni possibile opera. La forma-di-vita è, in questo senso, innanzitutto l'articolazione di una zona di irresponsabilità, in cui le identità e le imputazioni del di ritto sono sospese.
9· Il mito di Er
9.1. Alla fine della Repubblica, Platone racconta il mito di Er il Panfilio, che, ritenuto morto in battaglia, era inaspettatamente tornato in vita quando il suo cor po era stato ormai disteso sulla pira per essere bruciato. Il resoconto che egli fa del viaggio della sua anima in «un certo luogo demonico», dove assiste al giudizio delle ani me e allo spettacolo della loro reincarnazione in un nuovo bios, è una delle visioni più straordinarie dell'aldilà, para gonabile, per vivacità e ricchezza di significati, alla nekyia dell'Odissea e alla Commmedia dantesca. La prima parte del racconto descrive il giudizio delle anime dei morti: tra due contigue voragini sulla terra e altre due aperte nel cie lo, siedono i giudici (dikastai) che, dopo aver pronunciato il loro verdetto, ordinano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo, con un segno della sentenza appuntato sul petto, agli ingiusti di imboccare quella a sinistra, avendo anch'essi, ma sulla schiena, dei contrassegni dov'erano indicate le loro azio ni. Quando fu giunto il turno di Er, i giudici gli dissero che doveva diventare messaggero [angelon] per gli uomi ni delle cose che aveva là visto e gli raccomandarono di ascoltare e osservare tutto ciò che avveniva in quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, se ne andavanò verso una delle voragini del cielo e della terra, mentre dall'altra apertura risalivano anime piene di spor cizia e di polvere e da quella nel cielo scendevano invece altre anime pure [katharas] . E tutte queste, che giungeva no continuamente, pareva venissero da un lungo viaggio e fosser felici di giungere in quel prato per accamparvisi co-
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L ' uso DEI coRPI me in una festa solenne [e n penegyrei] . Le anime che si co noscevano si abbracciavano a vicenda e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie delle cose del cielo e quelle che provenivano dal cielo delle cose della terra. E le une facevano il loro racconto gemendo e piangendo al ricordo dei mali di ogni sorta che avevano sofferto e veduto nel loro viaggio di mille anni sotto terra, mentre quelle che venivano dal cielo parlavano invece di piaceri e di visioni di inconcepibile bellezza [theas amechanous to kallos] . I particolari, o Glaucone, richiederebbero trop po tempo, ma, ricapitolando, Er raccontava questo: per ogni ingiustizia commessa e ogni persona offesa, le anime scontavano una pena decupla: ciascuna pena era calcolata in cento anni, che è la durata di una vita umana, in mo do che l'espiazione fosse dieci volte superiore alla colpa ( 6I4c-6I5b) .
9.2. La parte, almeno per noi, più significativa del mito comincia soltanto a questo punto e riguarda la scelta che ogni anima, prima di rientrare nel ciclo della nascita e della morte, deve fare della sua forma di vita, del suo bios. Tutte le anime, dopo aver trascorso sette giorni nel prato, l'ottavo giorno devono mettersi in viaggio per raggiungere dopo quattro giorni un luogo da dove scorgono tesa attraverso il cielo e la terra una luce dritta come una colonna, molto simile a un arcobaleno, ma più splendente e più pura. Dopo un altro giorno di cammino la raggiun sero e videro al centro della luce le estremità delle catene che pendevano dal cielo, perché questa luce era il vincolo che teneva insieme [syndesmon] il cielo e ne abbracciava l'intera orbita, come i canapi che fasciano la chiglia delle triremi. Da queste estremità pendeva il fuso [atrakton] di Ananke, per mezzo del quale girano tutte le sfere. I.:asta e l'uncino erano d'acciaio, il fusaiolo [sphondylos] era una mescolanza di questo e di altri metalli. La natura del fusaiolo era questa: per la forma era simile a quelli di quag giù, ma, a quanto diceva Er, bisognava immaginarlo come un grande fusaiolo vuoto e scavato all'interno, nel quale
IL MITO DI ER 3I7 era incastrato un altro più piccolo, come quelle scatole che s'infilano una dentro l'altra, e allo stesso modo ce n'era dentro un terzo, e poi un quarto e ancora altri quattro. I fusaio li erano dunque in tutto otto, uno dentro l'altro, e in alto si vedevano gli orli simili a cerchi, che formavano la superficie continua di un unico fusaiolo intorno all'a sta, che attraversava in mezzo da parte a parte l'ottavo. Il primo fusaiolo, il più esterno, aveva il bordo circolare più largo; seguivano poi, in ordine decrescente di larghezza, il sesto, il quarto, l'ottavo, il settimo, il quinto, il terzo e il secondo. Il bordo del fusaiolo più esterno era screziato, quello del settimo più splendente, quello dell'ottavo rice veva il suo colore dal settimo, che lo illuminava, quelli del secondo e del quinto, molto simili fra loro, erano più gialli dei precedenti, il terzo era il più bianco di tutti, il quarto rossastro e il sesto teneva il secondo posto per bianchezza. Il fuso rotava tutt'intero su se stesso in moto uniforme e, nella rotazione dell'insieme, i sette cerchi interni giravano lentamente in senso contrario al tutto. Il più rapido era l'ottavo, seguito dal settimo, dal sesto e dal quinto, che procedevano di pari passo fra loro; poi il quarto, che, in questa rotazione in senso opposto, pareva alle anime che tenesse per velocità il terzo posto, poi il terzo che appariva quart� e il quinto secondo. Il fuso stesso ruotava sulle ginocchia di Ananke e sull'alto di ciascun cerchio stava una Sirena che si muoveva con esso e emetteva una sola nota in un unico tono e queste otto note formavano insieme una sola armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio, ciascuna su un trono, a uguale distanza l'una dall'altra: erano le Moire, figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende, e cantavano sull'armonia delle Sirene: Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Clo to, con la destra, toccava a intervalli determinati la super ficie esterna del fuso per aiutarlo a ruotare, lo stesso faceva Atropo con la mano sinistra per i cerchi interni e Atropo con entrambe le mani di volta in volta per l'una e per gli altri [6I6b-6I?d] .
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9·3· A questa visione straordinaria, tutt'intera sotto il segno della necessità e della perfetta - anche se cupa armonia, segue, in stridente contrasto, la descrizione della scelta che le anime fanno dei loro modi vita. Al rigore in defettibile di una macchina cosmica, che opera attraverso vincoli e catene e produce come risultato un ordine armo nico, simboleggiato dal canto delle Sirene e delle Moire, subentra ora lo spettacolo .«pietoso, ridicolo e meraviglioso insieme» (619e) del modo in cui le anime entrano di nuo vo nel ciclo «tanatoforo» (617d) della nascita. Se là tuito era vincolo, destino e necessità, qui Ananke sembra cedere a Tyke il suo regno e tutto si fa caso, contingenza e sor teggio; e se la cifra della necessità era il mirabile fusaiolo metallico che regola il movimento delle sfere celesti, quella della contingenza ha qui un nome tutto umano ed errati co: airesis, «scelta»: Appena giunte, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. Per prima cosa, un araldo [prophetes] le mise in fila, poi, prendendo dalle ginocchia di Lachesi le sorti [klerous - la tavoletta o il pezzo di coccio che ciascun cittadino contras segnava e poi poneva in un recipiente per il sorteggio] e gli esempi dei modi di vita [bion paradeigmata] , salì su un'alta tribuna e disse: «Proclama della vergine Lachesi, figlia di Ananke. Anime effimere, comincia per voi un nuovo ci clo di vita mortale, portatore di morte (periodou thnetou genous thanatephorou] . Non sarà un demone a scegliervi, ma voi sceglierete [airesesthe] il vostro demone .. Chi è stato sorteggiato per primo, scelga la forma di vita a cui sarà unito per necessità [aireistho bion oi synestai ex anankes] . La virtù invece è libera [adespoton, senza padrone, inasse gnata] e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda che la onori o la disprezzi. La colpa [aitia] è di chi ha scelto, dio è innocente>> . Dopo aver pronunciato queste parole, gettò su tutti le sorti e ognuno prese [anairesthai, lo stesso verbo che nel libro vn della Repubblica, Platone riferisce alle ipotesi] quella che le era caduta vicino, tranne Er, al quale non fu permesso; e ciascuno conobbe così il numero d'ordine che gli era toccato. Subito dopo, l'araldo
IL MITO DI ER 3I9 gettò a terra davanti a loro gli esempi dei modi di vita, in numero molto maggiore delle anime presenti. Ce n'erano di ogni sorta: tutte le forme di vita [bious] degli animali e degli uomini. Vi erano fra esse delle tiranni di, alcune com piute, altre spezzate nel mezzo che finivano in miseria, esi lio e mendicità. E c'erano forme di vite di uomini illustri, sia per l'aspetto, la bellezza e il vigore fisico e il coraggio nei combattimenti che per la nobiltà di stirpe e le virtù degli antenati, ma c'erano anche vite di uomini oscuri per le stesse ragioni e altrettante anche per le donne. Non vi era un'ordine delle anime, perché ciascuna diventava necessa riamente diversa secondo i modi di vita che avevano scelto. E questi erano mischiati fra loro, gli uni uniti alle ricchezze o alla povertà, gli altri alle malattie o alla salute; altri era no in uno stato intermedio [mesoun] . . Poi il messaggero venuto di laggiù riferì che in quel momento l'araldo disse: «Anche chi arriva per ultimo, se sceglierà con intelligenza e vivrà con serietà, può avere una vita amabile e non disdi cevole. Il primo a scegliere non sia trascurato né l'ultimo si perda d'animo». Come l'araldo ebbe proferito queste parole, raccontava Er, il primo nel sorteggio andò subito a scegliere la più po tente tirannide e, per stoltezza e ingordigia, la prese senza considerarne le conseguenze e non si accorse che la sorte lo destinava a divorare i propri figli e a commettere altre azio ni malvagie. Ma quando l'ebbe esaminata con attenzio ne, si batté il petto e deplorò la sua scelta, compiuta senza badare alle prescrizioni dell'araldo: e di questi mali non accusava se stesso, ma la sorte [tyken] , i demoni e ogni altra cosa fuorché se stesso. Costui era di quelli che venivano dal cielo e nella vita precedente aveva vissuto in una città bene ordinata e aveva praticato la virtù per abitudine, ma senza filosofia. A dire il vero, coloro che, provenendo dal cielo, si lasciavano sorprendere in questo modo, non erano meno numerosi degli altri, perché non avevano esperienza del dolore; quelli che venivano dalla terra, invece, poiché avevano sofferto essi stessi e visto altri soffrire, non face vano di solito una scelta avventata. Per questo e per via della casualità del sorteggio [dià ten tou klerou tyken] per .
320 L ' USO DEI CORPI la maggior parte delle anime si produceva uno scambio di mali e di beni, poiché se ciascuno, quando viene in questa vita, si occupasse seriamente di filosofia e il sorteggio della scelta non gli capitasse fra gli ultimi, è probabile, stando a quanto ci viene riferito dell'aldilà, che non solo sarebbe fe lice su questa terra, ma compirebbe anche il viaggio da qui a là e il ritorno, non per una strada sotterranea [chtonian] e dura, ma liscia e celeste. Valeva la pena, dicev � Er, di contemplare lo spettacolo [thean] delle anime che sceglievano le loro forme di vita: era uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso insieme [eleinen. . . kai geloian kai thaumasian] , perché la maggior parte di esse sceglieva secondo l'abitudine [.rynetheian] del la vita precedente. Raccontò di aver visto l'anima di Orfeo scegliere la forma di vita di un cigno, perché, per odio ver so le donne che lo avevano ucciso, non voleva nascere dal grembo di una donna. Vide poi l'anima di Tamira scegliere la vita di un usignolo. Ma vide anche un cigno e altri ani mali canori scegliere la vita di un uomo. L'anima, che nel sorteggio aveva avuto il ventesimo posto, scelse la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che non voleva ri nascere uomo, ricordando il giudizio sulle armi di Achille. Dopo questa venne l'anima di Agamennone: anche questa, che aveva in odio il genere umano per le sventure subite, preferì la vita di un'aquila. L'anima di Atalanta, invece, ca pitata a metà del sorteggio, visti i grandi onori tributati a un atleta, non passò oltre e scelse questa condizione. Vide poi l'anima di Epeo, figlio di Panopeo, che si apprestava ad assumere la natura di una donna laboriosa; lontano, fra le ultime, scorse l'anima del buffone Tersite rivestire la forma di una scimmia. Venne infine a fare la sua scelta l'anima di Ulisse, che per caso era stata sorteggiata per ultima: libera ta dall'ambizione grazie al ricordo dei dolori passati, andò a lungo cercando la vita di un privato qualsiasi sfaccendato e a stento riuscì a trovarne una, che era stata trascurata dagli altri: quando la vide, disse che l'avrebbe presa anche se fosse stata sorteggiata per prima, e la scelse contenta. Per gli animali avveniva lo stesso, alcuni passavano nella condizione di uomini, altri in quella di altre bestie, gli in-
IL MITO DI ER J2I giusti nelle specie selvagge, i giusti in quelle domestiche, e avvenivano mescolanze d'ogni sorta. Quando tutte ebbero scelto la loro forma di vita, si pre sentarono a Lachesi secondo l'ordine del sorteggio ed essa assegnava a ciascuna come custode della vita e esecutore della scelta il demone che si era preso. Questi per prima cosa la conduceva da Cloto, ponendola sotto la sua mano e sotto il fuso che essa faceva girare, sancendo in questo modo il destino [moiran] che aveva scelto dopo il sorteg gio. Dopo che aveva toccato il fuso, il demone conduceva l'anima al filo di Atropo, rendendo irrevocabile [ametastro pha] la trama filata. Di qui, l'anima andava senza voltarsi al trono di Ananke e passava dall'altro lato e, quando tutte erano passate, si avviavano verso la pianura di Lete sotto una calura soffocante e terribile, perché questa pianura era spoglia di alberi e di tutto ciò che nasce dalla terra. Discesa la sera, esse si accamparono sulle rive del fiume Ameles, la cui acqua non può essere contenuta da nessun vaso. Tutte dovevano bere una certa quantità di quest'acqua, ma quel le prive di prudenza ne bevevano più del giusto e via via che bevevano dimenticavano ogni cosa. Quando si furono addormentate, nel mezzo della notte si produssero un tuo no e un terremoto, e all'improvviso le anime si slanciarono da ogni parte verso l'alto, filando come stelle. A Er non fu permesso di bere l'acqua, non sapeva come e per quale via fosse tornato nel suo corpo, ma a un tratto, aprendo gli occhi, si vide disteso all'alba sul rogo [617b-62Ib] .
9+ Ogni lettura del mito di Er deve provarsi a de finire la strategia in cui esso si iscrive, individuando in nanzitutto il problema che Platone cerca di comprendere attraverso di esso. Proda, nel suo commento, lo formula in questo modo: si tratta di «mostrare tutta la provvidenza, sia degli dèi che dei demoni, per quanto concerne le ani me, la loro discesa nella nascita [genesis] e il loro separarsi da questa e i modi multiformi del loro comportamento». Detto più precisamente: il problema di cui Platone vuoi dare ragione attraverso il mito è il fatto che, con la nascita, ogni anima sembra trovarsi necessariamente e irrevocabil-
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mente unita a una certa forma di vita (bios), che abban dona con la morte. La vita (zoè) dei mortali (l'anima è il principio della vita) si dà sempre in un certo bios, in un certo modo di vita (noi diremmo che è «gettata» in esso) e, tuttavia, non coincide con questo né è unita ad esso da un qualche nesso sostanziale. Il mito spiega questa unione fattizia - che contiene una non-coincidenza e uno scarto e, insieme, un vincolo necessario - attraverso l'idea di una «scelta»: ciascuna anima, entrando nella nascita, sceglie il suo bios e poi dimentica di averlo fatto. A partir� da quel momento, essa si trova unita alla forma di vita che ha scel to da un vincolo necessario (oi synesthai ex anankes). Per questo Lachesi può dire che «la colpa è di colui che ha scelto, dio è innocente». . Il mito sembra, cioè, spiegare l'unione irreparabile di ciascuna anima con una certa forma di vita in termi ni morali e, in qualche modo, persino giuridici: vi è stata una «scelta» e vi sono, pertanto, una responsabilità e una colpa (aitia). Alla fisica della prima parte del racconto, che spiega la necessità in termini di una macchina cosmica, corrisponde una necessità a posteriori, che consegue a una scelta etica (Proda parla per questo di una «necessità di conseguenza» - PROCLO, p. 234).
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9·5· Karl Reinhardt ha mostrato che, in Platone, my thos e logos, spiegazione attraverso il racconto e acribia dialettica, non sono contrari, ma si integrano a vicenda (REINHARDT, passim). Ciò significa che, anche nel nostro caso, il mito è una figura complessa, che cerca di dar ra gione di qualcosa che il logos da solo non potrebbe chiarire e che esige, dunque, a sua volta, una capacità ermeneuti ca fuori del comune. Il mito di Er sembra, così, sugge rire che l'unione fattizia di anima e forma di vita debba essere spiegata come una scelta, che introduce pertanto nell'armoniosa necessità del cosmo qualcosa come una colpa morale (Porfirio, sia pure con molte riserve, parla qui di qualcosa come un «libero arbitrio», to eph' emin, ciò che è in nostro potere - PoRFIRIO, Su/ libero arbitrio, in PROCLO, p. 353). Ma è veramente così? Davvero le ani-
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me scelgono liberamente la loro vita fra gli «esempi» (pa radeigmata) che la figlia della necessità, Lachesi (il nome significa semplicemente: «quella che distribuisce le sorti») mette loro davanti? Innanzi tutto . sarà bene non lasciarsi sfuggire che l'immagine della necessità cosmica, che occupa la prima parte del racconto di Er, non solo non è così serena e ar monica come pretendono i commentatori, ma contiene dei tratti decisamente sinistri. Platone non poteva certo ignorare che le Moire si iscrivono nella discendenza di quella Notte, davanti alla quale perfino Zeus prova terro re (in Omero, la Moira è definita «distruggitrice» e «diffi cile da sopportare») . Ciò che le M oire filano sono i giorni della nostra vita, che Atropo (il nome significa «colei che non può essere dissuasa», «l'inesorabile») tronca improv visamente. Creature altrettanto sinistre, vere e proprie dee della morte (I> (ivi, p. I94). Essa non im plica, infatti, la ripresa de/ lavoro «dopo concessioni esteriori e qualche modificazione nelle condizioni lavorative>>, ma la de cisione di riprendere un lavoro solo integralmente trasformato e non imposto dallo Stato, cioè un «sovvertimento che que sta specie di sciopero non tanto provoca [veranlasst}, quanto piuttosto realizza [vollzieht]>> (ìbid.). Nella differenza fra veranlassen, «indurre, provocare>>, e vollziehn, «compiere, realizzare>>, si esprime l'opposizione fra il potere costituente, che distrngge e ricrea sempre nuove forme del diritto, senza mai definitivamente destituirlo, e la violenza destituente, che, in quanto depone una volta per tutte il diritto, inaugura im mediatamente una nuova realtà. «Ne consegue che la prima di queste operazioni pone in essere diritto, la seconda è invece anarchica>> (ìbid.). All'i nizio del saggio, Benjamin definisce la violen za pura attraverso una critica della relazione scontata tra mezzi e fini. Mentre la violenza giuridica è sempre mezzo - legittimo o illegittimo - rispetto a un fine - giusto o ingiu sto -, il criterio della violenza pura o divina non va cercato nella sua relazione a un fine, ma in «una distinzione nella sfera dei mezzi, senza riferimento ai fini che essi perseguo no>> (p. 179). Il problema della violenza non è quello, così spesso perseguito, di identificare dei fini giusti, ma quello di «individuare una violenza d'altro genere. . . che non si riferisca in generale ad essi come mezzo, ma in qualche altro modo>> (p. I96).
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In questione qui è quella stessa idea di strumentalità, che, a partire dal concetto scolastico di «causa strumentale», abbiamo visto caratterizzare la concezione moderna dell'uso e la sfera della tecnica. Mentre queste erano definite da uno strumento che appare come tale solo in quanto viene incor porato nella finalità dell'agente principale, Benjamin ha qui in mente un «medio puro», cioè un mezzo che si mostra come tale, solo in quanto si emancipa da ogni relazione a ùn fine. La violenza come mezzo puro non è mai mezzo rispetto a un fine: essa si attesta soltanto come esposizione e destituzione del rapporto fra violenza e diritto, fra mezzo e fine. 7· Una critica del concetto di relazione è stata accen nata nel capitolo 2.8 della seconda parte della presente ri cerca, a proposito del teorema agostiniano: «ogni essenza che si dice in modo relativo, è anche qualcosa eccettuato il relativo» (omnis essentia quae relative dicitur, est etiam ali quid excepto relativo) . Si trattava, per Agostino, di pensare la relazione fra unità e trinità in Dio, cioè di salvare l'unità dell'essenza divina senza negare la sua articolazione in tre persone. Abbiamo mostrato che Agostino risolve questo problema escludendo e insieme includendo la relazione nell'essere e l'essere nella relazione. La formula excepto re lativo va qui letta secondo la logica dell'eccezione: il rela tivo viene insieme escluso e incluso nell'essere, nel senso che la trinità delle persone è catturata nell'essenza-potenza di Dio, in modo tale che questa si mantiene, però, distin ta da quella. Nelle parole di Agostino, l'essenza, che è e si dice nella relazione, è qualcosa al di fuori della relazione. Ma ciò significa, secondo la struttura dell'eccezione so vrana che abbiamo definito, che l'essere è un presupposto della relazione. Possiamo allora definire la relazione come ciò che co stituisce i suoi elementi presupponendoli, insieme, come irrelati. La relazione cessa in questo modo di essere una categoria fra le altre e acquista uno speciale rango anto logico. Tanto nel dispositivo aristotelico potenza-atto, essenza-esistenza che nella teologia trinitaria, la relazione inerisce all'essere secondo un'ambiguità costitutiva: l'esse-
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re precede la relazione ed esiste al di fuori di essa, ma è sempre già costituito attraverso la relazione e incluso in questa come il suo presupposto. 8. È nella dottrina scotiana dell'essere formale che il rango antologico della relazione trova la sua espressione più coerente. Da una parte, egli riprende l'assioma ago stiniano e lo precisa nella forma omne enim quod dicitur ad aliquid est aliquid praeter relationem («ciò che si dice rispetto a qualcosa è qualcosa al di fuori della relazione» - Op. Ox. , I, d. 5, q. I, n. I8; cfr. BECKMANN, p. 206) . La correzione mostra che in questione per Scoto è il pro blema della relazione come tale: se, come egli scrive, «la relazione non è inclusa nel concetto dell'assoluto» (ibid ) , ne consegue che è l'assoluto a essere sempre già incluso nel concetto di relazione. Con un apparente rovesciamento del teorema agostiniano, che porta alla luce l'implicazio ne che vi restava nascosta, egli può scrivere pertanto che omne relativum estaliquid excepta relatione («ogni relativo è qualcosa eccettuata la relazione» - ivi, I, d. 26, q. I, n. 33) . Decisivo è, in ogni caso, che per Scoto la relazione implichi un'antologia, sia una forma particolare dell'esse re, che egli definisce con una formula che avrà fortuna nel pensiero medievale, come ens debilissimum: «fra tutti gli enti la relazione è un essere debolissimo, perché è sol tanto il modo di essere di due enti l'uno rispetto all'altro» (relatio inter omnia entia est ens debilissimum, cum sit sola habitudo duorum - Super praed. , q. 25, n. 10) . Ma questa forma infima dell'essere - che, in quanto tale, è difficile da conoscere (ita minime cognoscibile in se - ibid.) - svolge, in realtà, nel pensiero di Scoto - e, a partire da lui, nella storia della filosofia fino a Kant - una funzione costitutiva, perché essa coincide con la prestazione specifica del suo genio filosofico, la definizione della distinzione formale e dello statuto del trascendentale. Nella distinzione formale Scoto ha, cioè, pensato l'es sere del linguaggio, che non può essere realiter diverso dal la cosa che nomina, altrimenti non potrebbe manifestarla e farcela conoscere, ma deve avere una qualche consistenza
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propria, altrimenti si confonderebbe con la cosa. Ciò che si distingue dalla cosa non rea/iter, ma forma/iter è il suo aver nome - il trascendentale è il linguaggio. 9· Se alla relazione compete uno statuto antologico privilegiato, ciò è perché in essa viene all'espressione la stessa struttura presupponente del linguaggio. Ciò che il teorema di Agostino afferma è, infatti: «tutto ciò che si di ce entra in una relazione e, pertanto, è anche qualcos'altro prima e fuori della relazione (è, cioè, un irrelato presuppo sto)». La relazione fondamentale - la relazione onto-logica - corre tra l'ente e il linguaggio, tra l'essere e il suo esser detto o nominato. 11 /ogos è questa relazione, in cui l'ente e il suo essere detto sono insieme identici e differenti, remoti e indisgiungibili. Pensare una potenza puramente destituente significa in questo senso interrogare e revocare in questione lo sta tuto stesso della relazione, mantenendosi aperti per la pos sibilità che la relazione antologica non sia, in verità, una relazione. Ciò significa confrontarsi in un corpo a corpo decisivo con quell'essere debolissimo che è il linguaggio. Ma proprio perché il suo statuto antologico è debole, il linguaggio, come Scoto aveva intuito, è difficilissimo da conoscere e afferrare. La forza quasi invincibile del lin guaggio è nella sua debolezza, nel suo rimanere impensato e non-detto in ciò che dice e in ciò di cui si dice. Per questo la filosofia nasce in Platone proprio come un tentativo di venire a capo dei logoi e, come tale, essa ha immediatamente e fin dall'inizio carattere politico. E per questo quando, con Kant, il trascendentale cessa di essere ciò con cui il pensiero deve incessantemente venire a capo e diventa, invece, la fortezza in cui esso si trincera, allora la filosofia smarrisce definitivamente la sua relazione con l'essere e la politica entra in una crisi decisiva. Una nuova dimensione per la politica si aprirà soltanto quando gli uomini - gli esseri che h;mno il logos nella stessa misu ra in cui ne sono posseduti - saranno venuti a capo di questa potenza debolissima che li determina e li implica tenacemente in un'erranza - la storia - che sembra inter-
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minabile. Solo allora - ma questo «allora» non è futuro, ma sempre in corso - sarà possibile pensare la politica al di fuori di ogni figura della relazione. 10. Come la tradizione della metafisica ha sempre pensato l'umano nella forma di un'articolazione fra due elementi (natura e logos, corpo e anima, animalità e uma nità), così la filosofia politica occidentale ha sempre pen sato il politico nella figura della relazione fra due figure che si trattava di legare insieme: la nuda vita e il potere, la casa e la città, la violenza e l'ordine istituito, l'anomia (l'anarchia) e la legge, la moltitudine e il popolo. Nella prospettiva della nostra ricerca, dobbiamo invece provare a pensare l'umano e il politico come ciò che risulta dalla sconnessione di questi elementi e investigare non il mi stero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e pÒlitico della loro disgiunzione. Sia la definizione della relazione come ciò che costi tuisce i suoi elementi presupponendoli, insieme, come ir relati. Così, ad esempio, nelle coppie vivente/linguaggio, potere costituente/potere costituito, nuda vita/diritto, è evidente che i due elementi si definiscono e si costitui scono ogni volta a vicenda attraverso la loro relazione op positiva e, in quanto tali, non possono preesistere ad essa; e, tuttavia, la relazione che li unisce li presuppone come irrelati. Ciò che nel corso della ricerca abbiamo definito come bando è il vincolo, insieme attrattivo e repulsivo, che lega i due poli dell'eccezione sovrana. Chiamiamo destituente una potenza capace di de porre ogni volta le relazioni ontologico-politiche per far apparire fra i loro elementi un contatto (nel senso di Col li, cfr. supra, pp. 301-302) . Il contatto non è un punto di tangenza né un quid o una sostanza in cui i due elementi comunicano: esso è definito soltanto da un'assenza di rap presentazione, solo da una cesura. Dove una relazione vie ne destituita e interrotta, i suoi elementi saranno in questo senso a contatto, perché viene esibita fra di essi l'assenza di ogni relazione. Così nel punto in cui una potenza de stituente esibisce la nullità del vincolo che pretendeva di
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tenerli insieme, nuda vita e potere sovrano, anomia e no mos, potere costituente e potere costituito si mostrano a contatto senz' alcuna relazione; ma, perciò stesso, ciò che era stato diviso da sé e catturato nell'eccezione - la vita, l' a nomia, la potenza anarchica - appare ora nella sua forma libera e indelibata. n. La prossimità fra potenza destituente e ciò che, nel corso della ricerca, abbiamo chiamato col termine >, sostituendo al prin cipio di autorità un principio razionale, Heidegger avrebbe pensato un principio anarchico, in cui l'origine come venire alla presenza si emancipa dalla macchina delle economie epo cali e non governa più il divenire storico. Il limite dell'in terpretazione di Schurmann appare con evidenza nello stesso sintagma, volutamente paradossale, che fornisce il titolo al libro: il «principio d'anarchia>>. Non basta separare origine e comando, principium e princeps: come abbiamo mostrato
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in Il Regno e la Gloria, un Re che regna ma non governa non è che uno dei due poli del dispositivo governamentale e giocare un polo contro l'altro non è sufficiente ad arrestarne il funzionamento. L'anarchia non può mai essere in posizione di principio: essa può solo liberarsi come un contatto, là dove tanto larchè come origine che larchè come comando sono esposti nella loro non-relazione e neutralizzati. Nel dispositivo potenza / atto, Aristotele ha stret to insieme in una relazione due elementi inconciliabili: il contingente - che può essere e non essere - e il necessario - che non può non essere. Secondo il meccanismo della relazione che abbiamo definito, egli pensa la potenza come esistente in sé, nella forma di una potenza di non o impo tenza (adynamia) e l'atto come antologicamente superio re e precedente alla potenza. Il paradosso - e, insieme, la forza - del dispositivo è che, se lo si prende alla lettera, la potenza non può mai trapassare nell'atto e l'atto anticipa già sempre la propria possibilità. Per questo Aristotele deve pensare la potenza come una hexis, un «abito», qualcosa che si «ha» e il passaggio all'atto come un atto di volontà. Tanto più complessa è la disattivazione del disposi tivo. Ciò che disattiva l'operosità è certamente un' espe rienza della potenza, ma di una potenza che, in quanto tiene ferma la propria impotenza o potenza di non, espone se stessa nella sua non-relazione all'atto. Poeta non è chi possiede una potenza di fare e, a un certo punto, decide di metterla in atto. Avere una potenza significa in realtà: essere in balia della propria impotenza. In questa espe rienza poetica, potenza e atto non sono più in relazione, ma immediatamente a contatto. Dante esprime questa speciale prossimità di potenza e atto quando scrive, nel De monarchia, che tutta la potenza della moltitudine sta sub actu, «altrimenti si darebbe una potenza separata, il che è impossibile». Sub actu significa qui, secondo uno dei possibili significati della preposizione sub, la coincidenza immediata nel tempo e nello spazio (come in sub manu, immediatamente a portata di mano, o sub die, subito, nel giorno stesso) . 13.
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Nel punto in cui il dispositivo è così disattivato, la potenza diventa una forma-di-vita e una forma-di-vita è costitutivamente destituente. N I grammatici latini chiamavano deponenti (depo sitiva o, anche, absolutiva o supina) quei verbi che, simili ai verbi medi (che, sulle tracce di Benveniste, abbiamo ana lizzato per cercarvi il paradigma di una diversa antologia), non si possono dire propriamente né attivi né passivi: sedeo, sudo, dormio, iaceo, algeo, sitio, esurio, gaudeo. Che cosa ccdepongono" i verbi medi o deponenti? Essi non esprimono un'operazione, ma la depongono, la neutralizzano e rendono inoperosa e, in questo modo, la espongono. Il soggetto non è semplicemente, nelle parole di Benveniste, interno al pro cesso, ma, avendo deposto la sua azione, si è esposto insieme ad essa. Nella forma-di-vita, attività e passività coincidono. Così, nel tema iconografico della deposizione - ad esempio, nella deposizione di Tiziano al Museo del Louvre - Cristo ha interamente deposto la gloria e la regalità che, in qualche modo, ancora gli competevano sulla croce e, tuttavia, proprio e soltanto in questo modo, quando egli è ormai al di là della passione e dell'azione, la destituzione compiuta della sua re galità inaugura la nuova età dell'umanità redenta.
14. Tutti gli esseri viventi sono in una forma di vita, ma non tutti sono (o non sempre sono) una forma-di-vita. Nel punto in cui la forma-di-vita si costituisce, essa desti tuisce e rende inoperose tutte le singole forme di vita. È soltanto vivendo una vita che si costituisce una forma-di vita, come l'inoperosità immanente in ogni vita. La costi tuzione di una forma-di-vita coincide, cioè, integralmente con la destituzione delle condizioni soèiali e biologiche in cui essa si trova gettata. La forma-di-vita è, in questo sen so, la revocazione di tutte le vocazioni fattizie, che depone e mette in tensione dall'interno nel gesto stesso in cui si mantiene e dimora in esse. Non si tratta di pensare una forma di vita migliore o più autentica, un principio supe riore o un altrove, che sopravviene alle forme di vita e alle vocazioni fattizie per revocarle e renderle inoperose. L'i-
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noperosità non è un'altra opera che sopravviene alle opere per disattivarle e deporle: essa coincide integralmente e co stitutivamente con la loro destituzione, col vivere una vita. Si comprende allora la funzione essenziale che la tra dizione della filosofia occidentale ha assegnato alla vita contemplativa e all'inoperosità: la forma-di-vita, la vita propriamente umana è quella che, rendendo inoperose le opere e funzioni specifiche del vivente, le fa, per così dire, girare a vuoto e, in questo modo, le apre in possibilità. Contemplazione e inoperosità sono, in questo senso, gli operatori metafisici dell'antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quel la particolare assenza di opera che siamo abituati a chia mare «politica» e «arte». Politica e arte non sono compiti né semplicemente «opere»: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono di sattivate e contemplate come tali per liberare l'inoperosità che è rimasta in esse imprigionata. E in questo consiste il massimo bene che, secondo il filosofo, l'uomo può spera re: «una letizia nata da ciò, che l'uomo contempla se stesso e la propria potenza di agire».
Bibliografia
La bibliografia contiene solo i libri citati nel testo. La traduzione italiana di opere straniere che viene eventualmente citata è stata, se necessario, modificata in aderenza all'originale. ADORNO, S oHN-RETHEL: THEODOR W ADoRNo, ALFRED S oHN-RETHEL, Briefwechsel I936-I969, hrsg. Christoph Godde, Miinchen, edition text + kritik, I99I (trad. it. : Carteggio I936-I969, Roma, Manifestolibri, 2000) . AGAMBEN I: GIORGIO AGAMBEN , L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. AGAMBEN 2: GIORGIO AGAMBEN , Il Regno e la Gloria. Per una ge nealogia teologica dell'economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza, 2007. AGAMBEN 3 : GIORGIO AGAMBEN , Nudità, Roma, Nottetempo, 2009. AGAMBEN 4: GIORGIO AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2009. ALESSANDRO: Alexandri Aphrodisiensispraeter commentaria scrip ta minora. De anima liber cum mantissa, edidit Ivo Bruns, Berolini, Reimer, I887. ALTMAN: lRWIN ALTMAN , Privacy: A conceptual analysis,