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Italian Pages 427 Year 2012
Leonardo Bich L’ordine invisibile Organizzazione, autonomia e complessità del vivente Prefazione di Gianluca Bocchi
RubbettinoUniversità
RubbettinoUniversità
e 19,00
Leonardo Bich è ricercatore “Juan de la Cierva” presso l’IAS-Research Center dell’Universidad del Pais Vasco. È Dottore di Ricerca in Antropologia ed Epistemologia della Complessità presso l’Università degli studi di Bergamo, con cui collabora. Le sue ricerche, caratterizzate da un’impostazione sistemica, si focalizzano principalmente sullo studio dei processi di emergenza e di auto-organizzazione, sull’epistemologia dei sistemi complessi, la filosofia della scienza e la biologia teorica.
Leonardo Bich L’ordine invisibile
Che cos’è il vivente e cosa lo differenzia da un sistema fisico o da un artefatto? Ripartire dalla domanda fondamentale della biologia, troppo spesso ignorata, significa ripensarne i fondamenti teorici ed epistemologici. Significa affrontare i grandi temi del confine tra vita e non vita, dell’evoluzione e delle scienze dell’artificiale. Il vivente sfugge alle metafore della macchina e del genoma come programma e richiede un cambiamento paradigmatico. Questo volume raccoglie la sfida presentando un approccio alternativo di matrice sistemica, basato sulla nozione di autonomia, che si radica nella tradizione della cibernetica e delle scienze dell’auto-organizzazione. Nel fare ciò introduce un modo nuovo di considerare la relazione tra Natura e conoscenza: invita a pensare in termini di sistemi complessi, a formulare modelli qualitativamente nuovi, aprendosi così a un dibattito interdisciplinare che coinvolge filosofia e storia della scienza, fisica e biologia, ecologia e scienze umane.
Collana del Dipartimento di Scienze della Persona Università degli Studi di Bergamo 23
Leonardo Bich
L’ordine invisibile Organizzazione, autonomia e complessità del vivente Prefazione di Gianluca Bocchi
Rubbettino 2012
Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze della Persona Università di Bergamo
© 2012 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it
Perhaps the first lesson to be learned from biology is that there are lessons to be learned from biology Robert Rosen, Essays on Life Itself, 2000
alla memoria di Enzo Frati
Prefazione
Per gli sviluppi delle scienze biologiche, i decenni centrali del novecento (dagli anni quaranta agli anni sessanta) sono stati un periodo di scoperte davvero seminali. La scoperta della collocazione dei geni sui cromosomi del nucleo cellulare, la delineazione della struttura biochimica del DNA, la decifrazione del codice genetico sono state altrettante tappe miliari nella costituzione del nuovo campo di ricerca della biologia molecolare, che tanti misteri ha dissipato del mondo vivente. Come tante volte era già accaduto, soprattutto nell’ambito delle scienze fisiche, le giuste celebrazioni di importantissime realizzazioni scientifiche si sono però prolungate in indebite affermazioni trionfalistiche. Così nel 1970 Jacques Monod, appunto uno degli scienziati di punta della nascente biologia molecolare, compendiava in un popolare best-seller (Il caso e la necessità) quello che per lui era il senso profondo delle ricerche in atto, spingendosi ad asserire che le domande di fondo concernenti l’evoluzione e la natura stessa del vivente in linea di principio erano già state risolte dalle ultime, recenti acquisizioni. Rimanevano naturalmente aperte le domande di lunga e autorevole tradizione sull’integrazione del vivente nell’economia complessiva dell’universo. Queste domande, però, Monod le riteneva irrisolvibili. Dinanzi ad esse la scienza non poteva che pronunciare un deciso ignorabimus. Il vivente, a sua parere ormai compreso nella sua logica di fondo, sarebbe rimasto per sempre un estraneo in un universo dominato da leggi inflessibili e da una tendenza complessiva verso la disgregazione entropica. Come tante volte era già accaduto, gli sviluppi delle ricerche scientifiche di punta hanno smentito direttamente le estrapolazioni dal presente al futuro compiute da esponenti rispettabilissimi della ricerca stessa. A poco più di quarant’anni dalle affermazioni di Monod, il clima è cambiato 9
notevolmente e – a nostro parere, almeno –positivamente. Molti sono i campi in cui nuove scoperte e nuove riflessioni hanno smentito anche le previsioni più caute e ragionevoli. Il caso più evidente e più popolare è quello degli sviluppi scientifici che sono culminati con la decifrazione del genoma umano, insieme a quelli di molte altre specie animali e vegetali. Anzitutto, hanno avuto luogo sorprese spettacolari di ordine quantitativo. Il genoma di Homo sapiens possiede un numero di geni non molto superiore a quello di un verme nematode, senza correlazione apparente fra le rispettive complessità dei rispettivi organismi, mentre il peso del DNA di talune specie di rane è estremamente superiore a quello di un mammifero medio. Nello stesso tempo, la questione delle relazioni fra genoma e ambiente che ormai sembrava cristallizzata nel “dogma della biologia molecolare” e nell’immagine di una catena monodirezionale che va dal DNA alle proteine via RNA è stata riaperta ed è ormai correntemente contemplata la direzione inversa: per molti aspetti lo stesso darwinismo e lo stesso lamarckismo ormai non ci appaiono più opposti, bensì complementari. Tutti questi sviluppi hanno condotto a rimettere in discussione la nozione stessa di gene che solo pochi anni fa sembrava scontata, auto-evidente, e che oggi è invece oggetto di serrate indagini scientifiche ed epistemologiche. Come sempre, la fase di riproblematizzazione e di molteplicazione delle possibili linee di sviluppo conseguenti scoperchiare un campo di ricerca in passato seppellito appare a prima vista caotica, ma è feconda. Soprattutto, è grazie a questa fasi caotiche che l’orizzonte del nostro sguardo riesce successivamente ad ampliarsi e a distaccarsi, sia pure con fatica, dal peso stereotipo di risposte ormai logore. Una descrizione tassonomica dei campi di ricerca delle scienze del vivente che oggi sono maggiormente “caldi” fuoriesce evidentemente dai limiti del nostro discorso. Per taluni di questi aspetti, del resto, l’autore di questo testo, Leonardo Bich, ci guida per mano con notevole sicurezza. Qui vogliamo solo sottolineare un altro campo di ricerca dagli sviluppi altrettanto sorprendenti di quelli della genomica: un campo di ricerca che potremmo compendiare con il titolo di una rivista ad esso dedicata, e cioè Origine della vita ed evoluzione delle biosfere. Questo campo è definito dalle indagini e dalle riflessioni su tematiche quali: la delineazione dello scenario della prima origine della vita sulla Terra; la possibilità (niente affatto scontata) di definire un confine tra vita e non vita; la possibilità (sempre più asserita) di riscontare radici pre-biotiche nell’universo non 10
biotico; la ricostruzione delle tappe del percorso evolutivo che ha condotto dalle prime forme di vita alle forme di vità attuali, di un livello di complessità assai elevato; le condizioni necessarie e sufficienti che hanno consentito un tale percorso. La convergenza fra le ricerche relative a tutte queste tematiche sta oggi delineando una serie di domande intriganti, indispensabili per approfondire la nostra comprensione del fenomeno della vita. Quanti e quali aspetti della vita sulla Terra sono necessari e quanti e quali sono contingenti? In altri termini: le caratteristiche per noi fondanti della vita sulla Terra potevano essere differenti? E quale è l’ambito ammesso di variazione? La vita sulla Terra è un caso anomalo o un caso tipico della vita nell’universo? Grazie all’approfondimento teorico comportato da un tal genere di domande la stessa astrobiologia è diventata una scienza a pieno titolo: essa oggi avanza ipotesi e propone modelli teorici forti sulle forme viventi che potremmo o non potremmo attenderci di trovare nel sistema solare e, rispettivamente, nei sistemi extrasolari. Le ipotesi e i modelli teorici così enunciati possono risultare controllabili, anche se a lungo termine, sulla base delle nostre esplorazioni condotte con i mezzi raffinati delle attuali osservazioni astronomiche e con i mezzi ancora più raffinati delle sonde automatiche. Una delle conseguenze più interessanti di questo nuovo scenario delle scienze del vivente è la rinascita della biologia teorica, di un ambito di ricerca ad un tempo scientifico e filosofico che si volge a indagare il vivente al di là e insieme attraverso le molteplici e variegatissime forme che esso ha assunto e assume sull’unica traiettoria di vita per ora da noi conosciuta, quella sul nostro pianeta. Soprattutto, si tratta di indagare condizioni di possibilità e caratteristiche definitorie del vivente, non con un approccio statico e in definitiva essenzialista ma con un’attenzione allla dinamicità e alla continua proliferazione di forme alle quali lo stesso mondo vivente ci rende costantemente familiari. In questo senso la biologia teorica propone ipotesi e modelli in linea di principio controllabili attraverso le eventuali forme di vita extraterrestre: si chiede anche quali siano le caratteristiche universali delle forme viventi e quali siano gli ambiti di variazioni che esse possono ammettere. Il testo che qui presentiamo di Leonardo Bich, L’ordine invisibile: organizzazione, autonomia e complessità del vivente, è una riflessione assai originale su molte delle linee di sviluppo più interessanti della biologia teorica contemporanea. Il suo scopo principale è quello di problematizzare gli apporti concettuali più rilevanti, scientifici e filosofici ad un 11
tempo, che oggi emergono dalle scienze del vivente e di indicare talune direzioni di possibile sviluppo della ricerca ove la cooperazione tra scienza, epistemologia e filosofia tout court è non solo benvenuta, ma anche indispensabile. Nello stesso tempo, però, è anche un’introduzione, critica e non banalmente compilativa, a una ricca letteratura sui problemi fondamentali della biologia che in Italia è stata fino ad oggi trascurata e che qui viene posta nella dovuta evidenza. Linea conduttrice dell’intero libro è la chiarificazione del senso e delle prospettive di un approccio sistemico alla biologia. Viene sostenuta e argomentata con forza la tesi di una sua maggiore fecondità rispetto agli approcci a tutt’oggi assai diffusi nelle scienze del vivente, più o meno concordanti col modello implicitamente riduzionista della biologia molecolare e più o meno inadeguati a quelle caratteristiche di fondo del vivente e della sua evoluzione delineate dalla ricerca di punta dei nostri giorni. La critica centrale avanzata dalla biologia sistemica alla tradizione metodologica (e spesso anche ontologica) del riduzionismo è che ogni entità vivente presenta un aspetto di unità integrata che non è minimamente compreso sulla base della sua dissoluzione in componenti atomisticamente separate, in circuiti biochimici smontati e rimontati secondo una pratica e una teoria per molti aspetti ancora continue con l’antica metafora influente della macchina. Il modello particolare da cui la discussione prende il via è quello della teoria dell’autopoiesi, sviluppato originariamente da Humberto Maturana e Francisco Varela, di cui si propone un approfondimento rigoroso dal punto di vista epistemologico e una riflessione più ampia sulla sua pertinenza biologica. Una domanda connessa a tale riflessione è se e fino a qual punto concetti definitori centrali nel modello autopoietico, quali chiusura ed invarianza organizzazionale, possano essere fatti oggetto di un’adeguata trattazione formale, assente o al più implicita nelle formulazioni originarie. Il punto d’arrivo della riflessione è invece una matura visione processuale e co-evolutiva di un’entità vivente, che emerge come un’unità ben integrata attraverso le relazioni fra le sue componenti e che a sua volta fa parte di ulteriori dinamiche sistemiche definite dalle relazioni di accoppiamento che intrattiene con il sua ambiente. Questa visione dà l’innesco a una domanda ulteriore: se e come sia possibile elaborare un impianto teorico adeguato per intepretare la nozione di emergenza, che ci oggi ci appare pervasiva non solo nella caratterizzazione sistemica del vivente ma anche nell’immagine della storia 12
naturale solidale agli sviluppi delle scienze evolutive nel loro complesso e, ancora più in generale, delle scienze che mirano a rendere conto degli sviluppi storici della biosfera (paleoclimatologia, geologia storica). Un problema particolare su cui si concentra la riflessione dell’autore è quello dell’analisi epistemologica della cosiddetta causalità verso il basso (downward causality), una caratteristica di molti sistemi viventi che fino ad oggi è sfuggita a spiegazioni coerenti. L’esigenza di una sua trattazione adeguata non può che spingerci a un approfondimento del ruolo costruttivo dell’osservatore nel cogliere gli aspetti definitori dei sistemi viventi e nell’elaborarne i modelli pertinenti. Ulteriormente, viene mostrato come la questione dell’emergenza sia strettamente connessa con una questione ampiamente discussa nella biologia evoluzionistica degli ultimi decenni: quella del significato, dei limiti e della possibile decostruzione della nozione di adattamento, sviluppata in particolare da Richard Lewontin. Dal modello dell’autopoiesi e dalla centralità del concetto di autonomia che esso propone scaturisce una nozione di “deriva naturale” (Maturana, Varela, Mpodozis) assai coerente con i tratti dell’evoluzione dei sistemi viventi messi in evidenza dai biologi evoluzionisti degli ultimi decenni, in particolare Stephen J. Gould e Niles Eldredge. La convergenza fra la tradizione di ricerca basata sugli sviluppi della nozione di autonomia e la tradizione di ricerca del pluralismo evolutivo basata su una rivisitazione critica dell’eredità darwiniana propone oggi l’idea di evoluzione come dinamica sistemica multilivello, punteggiata da una successione di emergenze diacroniche che spostano, moltiplicano e reinterpretano i vincoli sistemici complessivi. Un tale approccio ha importanti conseguenze per una rivisitazione teorica ed epistemologica del concetto cardine di cambiamento, nel contesto dei tempi lunghi della storia naturale. Peraltro questa rivisitazione del concetto di cambiamento operante nei modelli della storia naturale oggi ispira in maniera assai creativa anche i teorici che si accostano al problema del cambiamento nei tempi meno lunghi della storia umana (politica, economica, tecnologica) e persino nei tempi, in comparazione assai brevi, dello sviluppo di una singola cultura, di una singola società o persino di un singolo individuo. Questo è un corto-circuito transdisciplinare che qui possiamo semplicemente enunciare, sottolineando però la sua importanza per la cultura dei nostri giorni, scientifica ed umanistica ad un tempo. 13
La tesi di fondo è che tutta la storia naturale sia caratterizzata dall’emergenza di nuove entità e di nuove regole di interazione fra le entità biosferiche, che reinterpretano lo stesso significato e le stesse potenzialità delle entità preesistenti alla luce delle novità di volta in volta introdotte. In questo modo nella storia naturale sorgono, per lo meno in particolari momenti critici, nuovi e in genere più ampi spazi di possibilità ove le traiettorie evolutive in atto possono ulteriormente biforcarsi e intersecarsi, dando origine a nuove traiettorie evolutive del tutto innovative e in genere inconcepibili sulla base del solo spazio di possibilità originario. Seguendo un tale filo conduttore, le ricerche e i dibattiti scientifici ed epistemologici imperniate sulle odierne scienze del vivente hanno iniziato ad elaborare lo sviluppo di modelli gerarchici del cambiamento evolutivo. Il tratto più significativo di questi modelli è la presenza di una relazione cooperativa, e non già oppositiva, fra la continuità e la discontinuità che storicamente erano stati gli attributi più usati (in modo, appunto, alternativo fra loro) allorché l’obiettivo era quello di ridurre il cambiamento della storia naturale a una singola dinamica. In particolare, l’apparente ritmo continuo del cambiamento con cui i sistemi viventi si presentano a un primo livello gerarchico appare interrotto da punti e da fasi di discontinuità dall’intensità e dalle conseguenze più o meno rilevanti. Nella storia naturale esisterebbe non solo una relazione gerarchica fra continuità e discontinuità, con la discontinuità situata a un livello diverso e in certo senso più profondo della continuità, ma anche una relazione gerarchica fra le discontinuità stesse. Le emergenze che hanno luogo in natura possono essere più o meno radicali, più o meno radicali sono i cambiamenti di regole da esse introdotti, più o meno ampi gli spazi di possibilità che allora si genera, più o meno esteso il fascio delle traiettorie evolutive che si sviluppano. Le prime delineazioni di un modello gerarchico del cambiamento nella storia naturale hanno avuto luogo in una stretta connessione con i dibattiti evoluzionistici della seconda metà del novecento, in particolare quello relativo all’ipotesi degli equilibri punteggiati avanzata quale risposta innovativa al problema dell’orgine delle specie animali (Gould ed Eldredge 1972) e quello relativo alle estinzioni di massa che è apparso un fattore di radicale cambiamento delle regole della biosfera, innescato dall’ipotesi della fine catastrofica dei dinosauri a causa di un impatto extraterrestre (1980). 14
Dobbiamo proprio a Niles Eldredge una chiara enunciazione di un modello gerarchico del cambiamento per le scienze evolutive contemporanee. A suo parere, il cambiamento nell’evoluzione animale sarebbe gerarchizzato in almeno cinque livelli ben distinti, in dipendenza degli spazi (in una direzione che va dal locale al planetario) e delle influenze ambientali coinvolti. Tali livelli opererebbero anche con diversa frequenza: i più rari sarebbero anche quelli che eserciterebbero influenze più radicali sulla storia della biosfera. Solo al primo livello potremmo parlare di cambiamenti continui: si tratta dell’ordinario procedere delle generazioni di una specie in cui avvengono ordinari mutamenti secondo un modello quasi neodarwiniano di mutazione e di selezione. Al secondo livello si situano invece le discontinuità dei processo di speciazione, cioè la nascita di nuove specie come descritta dal modello degli equilibri punteggiati. In questo caso l’influenza dell’ambiente è già assai rilevante, anche se ridotta a un ambito ristretto: è espressa nella comparsa di quelle barriere geografiche che innescano la separazione di una sottopopolazione dall’ambito di distribuzione complessiva delle altre popolazioni di una sua specie e quindi il suo distacco genealogico che porta rapidamente alla speciazione vera e propria. Possiamo anche dire che lo spazio caratteristico di questo livello di cambiamento è locale: si tratta infatti dell’habitat di una singola specie. Il terzo e il quarto livello gerarchico di cambiamento sono definiti da Eldredge come livelli che coinvolge spazi di tipo areale (regionale) e spazi di tipo continentale. In questo caso abbiamo a che fare con la sostituzione (turnover) di molteplici specie appartenenti a gruppi animali differenti: a un’ondata di estinzioni si accompagna (in genere fa seguito) un’ondata di speciazioni. La coordinazione fra queste estinzioni e speciazioni in spazi areali o continentali è dovuta a un pronunciato ed esteso influsso ambientale: un cambiamento climatico verso il freddo o verso il caldo, con molteplici conseguenze sulla distribuzione della vegetazione e quindi sulle catene alimentari delle varie specie. Il quinto livello di cambiamento è infine di ordine propriamente planetario. È il livello, appunto, a cui si collocano delle estinzioni di massa, dovute a influssi, eventi e processi ambientali di vario genere (caduta di asteroidi, eruzioni vulcaniche a catena, deriva dei continenti) che sono comunque in grado di ristrutturare globalmente gli equilibri e i rapporti di forza in seno ai vari ecosistemi della biosfera. 15
Con il modello di Eldredge, tuttavia, la gerarchia dei tipi di cambiamento nella storia naturale è solo all’inizio. È anzi immediato prolungare il modello con un sesto livello gerarchico di cambiamento sul quale si colloca una discontinuità ulteriore: la cosiddetta “esplosione cambriana”, cioè l’origine alquanto subitanea degli antenati dei maggiori piani di organizzazione animale, collocabile nei pochi milioni di anni dell’inizio del periodo cambriano (a partire, dunque, da 542 milioni di anni fa). Allora sono sorte le forme degli ecosistemi animali così come ancor oggi le conosciamo, caratterizzate da una notevole diversità morfologica e comportamentale delle specie in gioco e da complesse relazioni fra predatori e prede. Allora, possiamo dire, sono sorte le stesse regole dell’evoluzione degli animali così come oggi le conosciamo, e si sono relativamente stabilizzate le strutture di fondo dei loro genomi, probabilmente sottoposte nelle fasi immediatamente antecedenti a radicali trasformazioni. Anche in questo caso l’influenza dell’ambiente appare decisiva, per quanto accoppiata con queste radicali trasformazioni del sistema genetico: si tratta infatti del periodo in cui la concentrazione dell’ossigeno aumenta radicalmente nell’atmosfera, e soprattutto negli strati profondi dei mari e degli oceani. Fino ad allora la vita animale marina era confinata a una piccola regione superficiale, mentre in questo momento critico essa può dilagare in enormi spazi inesplorati e ristrutturarsi di conseguenza. Per quanto protratta e ricca di discontinuità, la storia degli animali oggi ci appare a sua volta come un singolo capitolo, e per di più un capitolo tardo, dell’intera storia del vivente. Essa come è noto prende il via in un periodo che è collocabile all’incirca a 3 miliardi 800 milioni di anni fa, mentre i primi inizi delle specie animali vere e proprie (antecedenti all’esplosione cambriana) oggi sono stimati risalire a non più di 700 milioni di anni fa. È proprio in questo immenso periodo di tempo, in cui la vita è in gran parte monocellulare e in cui solo lentamente e progressivamente hanno luogo i primi esperimenti di organismi viventi multicellulari, che sono collocate le maggiori transizioni della storia della vita sul nostro pianeta. È proprio in questo periodo di tempo che sono collocate le più rilevanti soglie di discontinuità in senso forte, ove si ha l’emergenza di nuovi attori e di nuove entità evolutive. È proprio rispetto alle transizioni che hanno luogo in questo periodo di tempo che devono essere messi alla prova i modelli e le interpretazioni della nozione di emergenza e di quell’immagine della storia naturale che la considera una storia ininterrotta dell’emergenza di nuovi spazi di possibilità. 16
Il dibattito sull’individuazione, sulla portata e sul significato delle transizioni evolutive è oggi in pieno svolgimento e costituisce uno dei punti più caldi sia scientifici che filosofici dell’odierna biologia evoluzionistica. Il libro di Leonardo Bich si inserisce senz’altro come un contributo importante a questo dibattito e, soprattutto, converge con la tesi epistemologica di fondo di altri importanti protagonisti (pensiamo soprattutto a Stuart Kauffman): che il mondo (e soprattutto il mondo del vivente) non è già dato, implicitamente, nelle scienze fisico-chimiche che così descriverebbero un ipotetico livello fondamentale di descrizione e di osservazione dei fenomeni. I livelli dei sistemi viventi di vario ordine, che nella storia del mondo si sono storicamente generati, non sono né epifenomeni né casi particolari del livello originario: sono qualitativamente diversi. In questo senso possono apportano nel mondo novità radicali e a noi stessi ci possono insegnare molte cose nuove. In particolare ci portano a mettere in atto una diversa epistemologia, ad interrogare la natura in termini di sistemi complessi dotati di proprie specifici caratteri e di proprie specifiche logiche. Sulla base di questa epistemologia, oggi stiamo ricostruendo l’intera indagine del mondo vivente e stiamo rigenerando le emozioni che ogni genuina scoperta ci hanno sempre apportato. Gianluca Bocchi
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Ringraziamenti
Ringrazio innanzitutto Gianluca Bocchi, grazie al quale questa pubblicazione è stata possibile. La sua guida, il suo supporto e la sua amicizia, con il suo entusiasmo e i suoi infiniti stimoli, hanno contribuito a mantenere, nutrire e rilanciare costantemente la mia passione per la ricerca. Con lui ringrazio Mauro Ceruti ed Enrico Giannetto, per avermi accolto alla scuola di dottorato del CE.R.CO. (Centro di Ricerca sull’Antropologia e l’Epistemologia della Complessità dell’Università degli studi di Bergamo) e avermi dato così la possibilità di coltivare la mia passione per lo studio dei sistemi complessi. La loro guida ha costituito una fonte costante di stimoli e approfondimenti, incoraggiando allo stesso tempo i miei sforzi esplorativi e contribuendo all’ampliamento dei miei orizzonti intellettuali in molteplici domini. Ringrazio i miei colleghi al CE.R.CO. con i quali ho condiviso parti del mio percorso. Particolarmente importanti sono stati l’amicizia e il sostegno di Federico Tresoldi, Marco Toscano, Giulia Giannini, Eloisa Cianci, Pierangela Di Lucchio, Simone Rosati, Desirée Pangerc e Irene Favara. Un ringraziamento speciale va a Luisa Damiano. La sua amicizia e la condivisione di una stessa passione intellettuale hanno trasceso le distanze e sono state di sostegno e incoraggiamento nei momenti più difficili, ponendo le basi per numerose collaborazioni. Ho portato a termine la stesura di questo libro a San Sebastián, lavorando presso l’IAS-Research Centre for Life, Mind, and Society dell’Universidad del Pais Vasco. I costanti stimoli intellettuali e le idee emerse negli incontri e seminari, sono stati fonti di apertura, arricchimento e rigorizzazione e sono convogliati in questo stesso testo. Per questo e soprattutto per la dimensione di vita e di lavoro che vi ho trovato, ringrazio 19
tutto il gruppo diretto da Alvaro Moreno: in particolare Alba Amilburu, Argyris Arnellos, Xabier Barandiaran, Antonio Casado da Rocha, Hanne De Jaegher, Ezequiel Di Paolo, Arantza Etxeberria, Matteo Mossio, Kepa Ruiz-Mirazo, Cristian Saborido, Ben Shirt-Ediss, Jon Umerez e Agustin Vicente. Prezioso per la mia crescita intellettuale è stato il contributo di Eliano Pessa, che mi ha guidato nei miei primi passi nel mondo della sistemica, insegnandomi il rigore scientifico. L’entusiasmo derivato dalle nostre discussioni e i suoi preziosi consigli, sono stati di importanza fondamentale per lo sviluppo delle idee contenute in questo libro. Ringrazio inoltre Ignazio Licata, che è stato sempre una fonte di aperture e di incoraggiamento, dandomi numerose opportunità di confrontarmi con problematiche teoriche cruciali e di pubblicare i risultati delle mie ricerche; e Giuseppe Longo, che durante e dopo il mio periodo di ricerca all’École Normale Supérieure di Parigi è stato un punto di riferimento per l’elaborazione di una riflessione rigorosa sul vivente e sulla sua modellizzazione. Per la ricerca presentata in questo libro è stato determinante il periodo trascorso presso l’Universidad de Chile sotto la supervisione di Humberto Maturana, Jorge Mpodozis e in particolare di Juan-Carlos Letelier, la cui ospitalità e generosità intellettuale è stata per me una fonte inesauribile di idee e stimoli, e a cui devo la comprensione del modello di Rosen. Ringrazio tutti i membri del Laboratorio de Neurobiologia y Biología del Conocer, che hanno reso la mia permanenza in Cile un’esperienza indimenticabile. In questi anni sono stati fondamentali anche gli incontri e i dialoghi con Nora Bateson, Michel Bitbol, Maria Luz Cárdenas, Gregory Chaitin, Athel Cornish-Bowden, Massimo Di Giulio, Stuart Kauffman, Pier Luigi Luisi, Gianfranco Minati, Jorge Soto-Andrade, Pasquale Stano, Silvano Tagliagambe e molti altri, che hanno costituito fonti preziose di stimoli e di spunti di riflessione. Ringrazio infine le persone che mi sono state più vicine in questi anni, e con cui vivo le dimensioni più belle dell’Emergenza: la mia famiglia, i miei amici di sempre e infine Laura, con cui la chiusura organizzazionale si completa diventando apertura al mondo, e con cui condivido ogni avventura. La mia ricerca è attualmente finanziata dal Ministero Spagnolo della Ricerca e Innovazione (MICINN-Subprograma Juan de la Cierva) e dal Governo Basco (Gobierno Vasco: Proyecto IT 505-10).
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Introduzione Affrontare la crisi nascosta della biologia
“[…] Without the proper technological advances the road ahead is blocked. Without an adequate guiding vision there is no road ahead; biology becomes an engineering discipline […] that slips into the role of changing the living world without trying to understand it […]” Carl R. Woese, A New Biology for a New Century, 2004 “While we cannot dispense with metaphors in thinking about nature, there is the great risk of confusing the metaphor with the thing of real interest. We cease to see the world as if it were like a machine and take it to be a machine. The result is that the properties we ascribe to our object of interest and questions we ask about it reinforce the original metaphorical image and we miss the aspects of the system that do not fit the metaphorical approximation” Richard Lewontin, The Triple Helix, 2000
Questo studio si propone di intraprendere un percorso critico di analisi epistemologica e concettuale all’interno della biologia teorica contemporanea al fine di ridelineare e rigorizzare un quadro teorico alternativo derivato dallo studio delle scienze della complessità. L’intento è triplice: portare alla luce e decostruire la assunzioni teoriche che caratterizzano la sintesi tra darwinismo e biologia molecolare e in particolare la metafora del programma genetico; ripensare il vivente a partire dai concetti sistemici di unità emergente, di organizzazione e di osservatore; trarre le conseguenze che scaturiscono da questo tipo di approccio costruttivista e non meccanicista: in particolare la nuova idea di conoscenza scientifica che ne deriva e il diverso punto di vista sulle relazioni tra discipline come la biologia, la fisica e la matematica. Il punto di partenza teorico consiste nel riconoscimento della precedenza logica e teorica del concetto di individuo o organismo vivente nel dominio biologico. Esso si pone in contrapposizione critica con l’approccio tradizionale e, ancora oggi, mainstream al fenomeno biologico, il quale si focalizza su due livelli di descrizione – quello dei componenti molecolari e quello delle specie – perdendo così di vista il problema 21
della definizione e caratterizzazione dell’unità biologica fondamentale. Al fine di proporre un approccio alternativo alla sintesi meccanicista tra biologia molecolare e darwinismo, che ne affronti le contraddizioni implicite e ne permetta un superamento, sarà perciò necessario ripartire dalla domanda fondativa della biologia: “cos’è il vivente?”, ovvero “cosa caratterizza il continuo fluire intrecciato di processi di produzione e trasformazione di componenti che un osservatore riconosce come realizzante un sistema vivente e come generatore di tutta la fenomenologia biologica? Che tipo di ordine lo caratterizza e a quale livello di indagine?”. Allo stesso tempo sarà necessario analizzare le diverse definizioni implicite del vivente da cui prendono avvio i principali filoni della ricerca biologica contemporanea al fine di mostrare le assunzioni teoriche e le metafore che ne sono alla base. Come denuncia il microbiologo Carl Richard Woese1 (Woese, 2004), la biologia teorica sta attraversando un momento di stallo. Il motivo risiede nell’abbandono dell’approccio teorico-critico e dell’attenzione alle domande fondamentali di questo dominio di indagine. È infatti data per scontata la validità di certe impostazioni concettuali condivise, ereditate dal periodo d’oro della biologia molecolare. L’attenzione è perciò completamente indirizzata verso problemi di tipo ingegneristico. L’effetto di questa tendenza è duplice: in primo luogo porta a mascherare i limiti del paradigma biologico tradizionale, evitando di affrontare direttamente le domande e problematiche teoriche che via via emergono; in secondo luogo li trasferisce nella dimensione applicativa, ovvero li ripropone come limiti di tipo meramente tecnico, accompagnati dalla promessa di un superamento con il progredire degli strumenti tecnologici disponibili. Delineare una possibile linea di investigazione della domanda su “cos’è il vivente” significa, invece, riportare l’attenzione della biologia dal controllo e utilizzo dei sistemi viventi alla comprensione del loro funzionamento, questo attraverso una revisione critica dei fondamenti teorici della disciplina. Senza un continuo passaggio bidirezionale tra l’indagine tecnica a quella teorica, infatti, la via intrapresa dalla biologia sembra 1. Carl Richard Woese, studioso del RNA ribosomale e dei processi di trasferimento orizzontale di geni individuati come possibile motore evolutivo nelle prime fasi della vita sulla terra, è stato uno dei fautori della tesi del RNA-word (1967) sull’origine del vivente e della separazione del dominio degli Archea da quello dei Bacteria che ha portato a ridisegnare l’albero filogenetico degli organismi unicellulari.
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condannata ad arenarsi, rendendo impossibile affrontare le nuove sfide così come le domande lasciate aperte dalla linea di ricerca tradizionale. Altri autori muovono le loro critiche alla biologia contemporanea su questa stessa linea. Essi individuano in quello odierno un momento di crisi paradigmatica in senso kuhniano (Pichot, 1999; 2003) ed auspicano la ricerca critica di uno scenario teorico alternativo (Cornish-Bowden, 2005; 2006), oppure l’integrazione di apparati teorici in precedenza marginalizzati, come ad esempio è il caso delle ricerche sui processi di epigenesi (Strohman, 1997)2. Questi studi mettono in evidenza la forma e le caratteristiche assunte dalla crisi teorica della biologia sia nella pratica scientifica effettiva che dal punto di vista della sua matrice socioculturale (Pichot, 2003): i punti focali di questa crisi sono individuabili nella relazione tra teoria e pratica e nella mancanza di una via alternativa praticabile. Al livello della comunicazione scientifica, la costruzione dell’immagine della biologia contemporanea è spesso incentrata sul contributo del settore di punta applicativo, quello delle biotecnologie, il cui substrato concettuale può essere ricondotto al paradigma del controllo, di tipo ingegneristico. I due grandi programmi di ricerca su cui si è focalizzata questa linea, la decodifica del genoma e l’ingegneria genetica, lasciano in sospeso le questioni teoriche fondamentali, concentrando gli sforzi sui problemi di ordine tecnico. Ciononostante, sono frequenti i proclami di grandi successi, di scoperte rivoluzionarie sia dal punto di vista conoscitivo che applicativo, i cui effetti sono ampiamente sopravvalutati3. In realtà in biologia non ci si trova di fronte a una rivoluzione scientifica di tipo kuhniano (Kuhn, 1962). Questa fase apparentemente “rivoluzionaria” ha, infatti, una natura puramente tecnologica4 e mediatica e, soprattutto, non nasce in opposizione a un paradigma precedente. Piuttosto, essa si costruisce su un vuoto teorico il quale impedisce che vengano prese in considerazione le istanze che questo stesso sviluppo tecnologico porta alla luce. Ed è proprio lo sviluppo tecnologico, infatti, che pone in evi2. Per uno studio storico sulle relazioni tra la linea principale della biologia molecolare e gli studi epigenetici si rimanda a Fox Keller (2002). 3. Spesso si arriva ad esagerazioni come quella di attribuire a un singolo gene il potere di controllare o determinare un tipo di comportamento, attitudine, o preferenza di un individuo, ad esempio: il gene dell’alcolismo, il gene del gioco d’azzardo, etc. 4. Si vedrà più avanti che questa caratteristica è comune anche alla Systems Biology, nonostante il nome voglia richiamare allo studio delle proprietà sistemiche in opposizione al meccanicismo dominante.
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denza gli stessi limiti concettuali e applicativi del paradigma di cui è frutto: “queste presunte rivoluzioni sono solo dei cedimenti consecutivi attraverso cui, pezzo dopo pezzo, crolla la cornice teorica della genetica molecolare (e da lì quella della biologia moderna, di cui la genetica è il perno)” (Pichot, 2003). Il problema consiste nel fatto che questi limiti da un lato non possono essere pienamente compresi senza una guida teorica, e dall’altro vengono negati oppure mascherati come presunti successi. Invece che generare nuove domande vengono lasciati in sospeso e la loro soluzione è affidata a sviluppi tecnologici futuri. Di fronte alla carenza di riflessione teorica è necessario ripercorrere criticamente i fondamenti concettuali impliciti della biologia molecolare. Essi possono essere fatti risalire all’applicazione al vivente di una concezione meccanicistica della natura; un procedimento, questo, che è alla base della nozione di determinismo genetico (o teoria del gene come programma), contrapposta alla concezione unitaria o, meglio, sistemica, dell’organismo. La cornice teorica del determinismo genetico ha le sue origini storiche tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo5, con la ricerca dei fattori elementari dei meccanismi di eredità. Essa deve una sua prima concettualizzazione ai tentativi di sintesi tra darwinismo e genetica mendeliana e alla ricerca di una componente materiale, all’interno dei sistemi viventi, che corrispondesse ai fattori funzionali studiati dalla genetica: il substrato materiale dei caratteri individuali trasmessi di generazione in generazione. Viene assunta cioè “l’esistenza di un’unita intrinsecamente stabile, potenzialmente immortale, che possa essere trasmessa intatta di generazione in generazione” (Keller, 2000: 14). Questa linea di ricerca trova la sua rigorizzazione teorica nella riflessione di Ervin Schrödinger (1944), che prende spunto dal modello di struttura del gene di Timoféeff-Ressovky, Zimmer e Delbrück del 1935 derivato dallo studio del funzionamento dei virus batteriofagi (Dyson, 1999)6 e caratterizzato dall’introduzione dell’idea di gene come cristallo stabile ma anche aperiodico e perciò in grado di esprimere una certa variabilità. Rielaborando teoricamente questo modello, Schrödinger ripropone in un quadro fisico un’idea già proposta da August Weismann con la 5. Si rimanda qui a Rossi (1988), Pichot (1999) e Fox Keller (2000). 6. È da notare la rilevanza di questo aspetto in quanto i virus, a metà strada tra il mondo organico e quello inorganico, sono privi di metabolismo.
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teoria del “plasma germinativo” nel 1893: quella di un determinismo dei processi caratteristici del vivente dovuto al ruolo giocato da una struttura perfettamente ordinata. La teoria di Schrödinger si basa sul concetto di trasmissione di ordine, o “ordine dall’ordine”: un processo reso possibile dalla struttura posizionale del cristallo aperiodico. Essa, infatti, descrive i processi viventi e i meccanismi di eredità che li caratterizzano, come determinati dal controllo esercitato da un gruppo di atomi che si mantiene stabile e che allo stesso tempo trasmette il proprio ordine strutturale alle altre strutture molecolari. Quello teorizzato da Schrödinger è, perciò, un meccanismo di trasmissione di un ordine fisico attraverso una sostanza fisicamente ordinata. Si tratta, cioè, di un processo che, a partire dalla struttura di un certo tipo di molecola, va a definire l’ordine globale dell’organismo vivente, e la cui teorizzazione porta necessariamente con sé l’assunzione di una corrispondenza tra il livello microscopico e quello macroscopico. Con la scoperta della struttura dei DNA a opera di James Watson e Francis Crick nel 1953, l’acido nucleico viene identificato con questa sostanza ordinata, e la corrispondenza tra i livelli micro e macro viene situata sul piano della relazione tra geni e proteine. L’uso ancora attuale dei concetti di computazione, di informazione e di programma come metafora guida per la biologia molecolare, deriva da un adattamento di questo approccio teorico, che assume così un valore più omnicomprensivo. Esso si basa fondamentalmente sull’identificazione della separazione, netta e insuperabile, tra genotipo e fenotipo con quella tra il software – fatto corrispondere al programma genetico – e l’hardware – assimilato ai processi metabolici che coinvolgono enzimi e proteine: il secondo esegue le istruzioni del primo, a cui è attribuito un ruolo primario. Questa caratterizzazione dei sistemi viventi sulla base di un modello trasferito dal dominio dell’intelligenza artificiale di tipo computazionale, può essere fatta risalire al lavoro di von Neumann sugli automi autoriproduttori (von Neumann, 1966), derivato dalle ricerche di Turing, e a cui sarà dedicato ampio spazio nel terzo capitolo. Viene pubblicato nel 1966 come raccolta dei testi delle lezioni dello stesso von Neumann, la cui riflessione su questo tema può essere fatta risalire agli anni precedenti. Il primo utilizzo dell’espressione “programma genetico” si ha però già nel 1961 a opera, contemporaneamente, dei padri della biologia molecolare Francis Jacob e Jaques Monod – nel loro articolo Genetic Regulatory Me25
chanisms in the Synthesis of Proteins7 apparso su «Journal of Molecular Biology» – e dell’evoluzionista Ernst Mayr – nel suo articolo Cause and Effect in Biology8, pubblicato dalla rivista «Science»: La scoperta dei geni regolatori ed operatori della regolazione repressiva dell’attività dei geni strutturali, rivela che il genoma non solo contiene una serie di blue-print9, ma un programma coordinato di sintesi proteica e i mezzi per controllare la sua esecuzione (Jacob e Monod, 1961: 354). Il biologo funzionale tratta tutti gli aspetti della decodificazione dell’informazione contenuta nel programma del DNA dello zigote fecondato. Il biologo evoluzionista, invece è interessato alla storia di questi programmi di informazione e alle leggi che controllano i cambiamenti di tali programmi da una generazione all’altra (Mayr, 1961 in Mayr, 1976: 191). Il programma DNA […] è il programma del calcolatore comportamentale di un individuo (Mayr, 1961 in Mayr, 1976: 196).
In queste citazioni è evidente la natura computazionale della metafora del programma genetico. Ma è anche evidente la peculiarità della riflessione teorica in biologia. Essa si fonda su due assunzioni fondamentali, incarnate anche dalle appartenenze sottodisciplinari degli autori appena citati. Da una parte la teoria dell’evoluzione darwiniana, che si situa al livello delle popolazioni di organismi. Da essa deriva l’attenzione per ciò che viene tramandato stabilmente da una generazione all’altra o nella cui variazione casuale consiste il motore dell’evoluzione biologica. Questa assunzione corrisponde alla famosa espressione di Theodosius Dobzhansky secondo cui “niente ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione” (Dobzhansky, 1973), che ben esprime il fatto che l’unica macroteoria in biologia è la teoria dell’evoluzione. Dall’altra il modello genetico-molecolare dei meccanismi di trascrizione e traduzione che descrivono i processi che portano alla sintesi proteica. Questo, come si può notare nella citazione dell’articolo di Jacob e Monod laddove si parla di “regolazione repressiva”, o “feedback”, e di “programma coordinato” 7. Jacob e Monod, 1961. 8. E. Mayr, 1961, Cause and Effect in Biology, in «Science», v. 134, pp. 1501-1506 (in Mayr, 1976,: 188-205). 9. Il programma inteso come stampo.
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e “mezzi per controllare la sua esecuzione”, è integrato con i modelli di controllo di origine cibernetica. Deve essere però posto in evidenza che si tratta di un meccanismo cibernetico di tipo “gerarchico”, dove il nucleo cellulare è identificato come il centro di comando della cellula. Vi è una differenza significativa rispetto ai meccanismi regolatori di tipo “eterarchico”, sistemico, che Norbert Wiener (1948; 1950) attribuiva al vivente e che, ripresi tra gli altri da Heinz von Foerster (1981), Humberto Maturana e Francisco Varela (1973), costituiscono uno dei cardini della linea teorica alternativa che sarà delineata in questo studio10. Questa seconda assunzione si situa sul livello più basso dei processi che riguardano il fenomeno biologico, ovvero quello dei componenti materiali di tipo fisicochimico: il dominio molecolare. Quello che manca è, invece, il livello dell’individuo vivente, la concettualizzazione del carattere unitario dell’organismo, che al contrario dovrebbe avere invece una precedenza dai punti di vista logico, operazionale e fenomenologico (Bich e Damiano, 2007). Per quello che riguarda il punto di vista evolutivo, infatti, è l’individuo che si riproduce e dà origine al processo evolutivo: è necessario che esista l’organismo affinché ci sia evoluzione. Dal punto di vista molecolare è necessario prendere in considerazione le condizioni specifiche sotto cui i processi metabolici specifici del vivente possono avere luogo e dare così origine, attraverso la loro integrazione, all’unità biologica individuale. Lo scenario teorico della biologia molecolare, basato sul concetto di programma genetico, connette quindi due livelli secondari rispetto a quello del vivente in senso proprio, che di conseguenza sfugge a questo tipo di concettualizzazione11. Le caratteristiche di questo approccio sono ancora più evidenti prendendo in considerazione La logique du vivant12 di Jacob (Jacob, 1970). Pur ammettendo nel vivente l’importanza dei diversi livelli di 10. La caratterizzazione gerarchica basata sull’assunzione dell’esistenza di un centro di controllo è comune anche ad alcuni approcci sistemici al vivente, come quello di James Miller (Miller, 1970). Un esempio di applicazione del modello cibernetico gerarchico usato come metafora del funzionamento dell’organismo in un altro dominio, quello dei sistemi sociali, è dato dal progetto CyberSyn ideato da Stafford Beer (Beer, 1972) su commissione del ministro Fernando Flores allo scopo di gestire l’economia cilena. Esso si basa proprio sulla creazione di un centro di comando sul modello del nucleo cellulare e del cervello umano. 11. Per la connessione tra la teoria dell’evoluzione e il concetto di programma genetico in biologia molecolare si rimanda anche a Maynard-Smith, 2000. 12. Il cui sottotitolo è significativo da questo punto di vista: Une historie de l’hérédité.
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integrazione, o “integroni”, dotati di una propria autonomia, Jacob individua come elemento fondamentale della sua teoria del vivente il determinismo incarnato dal programma genetico. Nell’introduzione al suo saggio egli pone l’enfasi sulla permanenza delle forme nel mondo biologico, e sull’eredità come aspetto fondamentale. Il testo inizia con questa affermazione: Pochi fenomeni si manifestano con tanta evidenza nel mondo vivente come l’origine del simile dal simile (Jacob, 1970: 9).
E di seguito l’eredità viene connessa al concetto di programma genetico: L’eredità oggi viene descritta in termini di informazione, di messaggi, di codici. La riproduzione dell’organismo è ricondotta alla riproduzione delle molecole che lo costituiscono […]. Di generazione in generazione vengono trasmesse le “istruzioni” che determinano le strutture molecolari, i piani architettonici del futuro organismo, gli strumenti per mettere in esecuzione questi piani e per coordinare le attività del sistema. Ogni uovo contiene, dunque, nei cromosomi trasmessigli dai genitori, tutto il proprio avvenire, le tappe del suo sviluppo, la forma e le proprietà dell’essere a cui darà origine. In tal modo, l’organismo diventa la realizzazione di un programma prescritto dal patrimonio ereditario (Jacob, 1970: 10).
In questo passo è particolarmente chiaro quello stretto legame tra programma genetico ed evoluzione che tende a oscurare il livello dell’unità vivente. È emblematico di quel passaggio che dalla concezione di Schrödinger, incentrata sul trasferimento di ordine dal livello microscopico a quello macroscopico, porta alla concezione dell’organismo come macchina computazionale. Il meccanismo di codifica delle proteine viene elevato a meccanismo generale di tutto l’organismo e, conseguentemente, lo scopo della biologia diventa quello di interpretare le proprietà del vivente a partire dalla struttura delle molecole che lo costituiscono. La metafora del programma e l’analogia tra organismo e macchina sono esplicite nel testo di Jacob, laddove sostiene che: Il programma rappresenta un modello preso in prestito dai calcolatori elettronici: esso assimila il materiale genetico di un uovo al nastro magnetico di
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un ordinatore, evoca una serie di operazioni da effettuare, la rigidità della loro successione nel tempo, il disegno che le sottende (Jacob, 1970: 18).
Ma sono altresì chiare anche all’autore alcune differenze sostanziali che caratterizzano l’applicazione del concetto di programma nei due diversi domini. Esse possono sembrare solo formali e quindi trascurabili senza per questo inficiare l’utilizzo della metafora. Non vengono considerate come un vero e proprio limite all’applicazione del concetto di programma genetico in biologia. Come si mostrerà nel corso di questo studio invece, queste differenze sono significative dell’inizio della crisi della biologia molecolare, dell’emergere dei suoi limiti concettuali proprio nel momento del massimo successo del suo approccio teorico alla biologia. Un approccio che, non più messo in discussione ma, anzi, assunto implicitamente come fondamento negli sviluppi successivi della ricerca biologica, ha rivelato i suoi limiti senza aver dato spazio a linee di ricerca alternative in grado di sostituirlo. Quelle differenze individuate da Jacob nell’applicazione del concetto di programma tra il dominio computazionale e quello biologico sono almeno quattro: 1. Il programma del computer si modifica aggiungendo o sottraendo informazione nel corso del suo funzionamento: la struttura del nucleo cellulare, invece, non si modifica durante la vita dell’organismo e viene trasmessa invariabile nel corso delle generazioni; 2. Le istruzioni della macchina non hanno effetto sui componenti che la costituiscono. Nel vivente invece questo è diverso; esse regolano la produzione di componenti (permettendone il rinnovamento), anche di quelli che contribuiscono all’esecuzione del programma stesso; 3. Una macchina in grado di autoriprodursi darebbe vita a copie di se stessa al momento della riproduzione. Negli organismi viventi invece a ogni generazione si riparte dalla cellula singola e le istruzioni contenute nei suoi geni permettono di percorrere l’intero ciclo vitale; 4. Nella macchina le istruzioni sono fisse, mentre il programma genetico non fissa tutto rigidamente e spesso impone soltanto dei vincoli all’agire dell’organismo nel suo ambiente. Questo aspetto però è subito ridimensionato da Jacob, il quale afferma che la rigidità o meno del programma genetico è sempre fissata dal programma stesso, che definisce e determina il proprio grado di elasticità. 29
Tra questi punti è particolarmente significativo il secondo, che sembra incrinare la netta separazione tra software e hardware che caratterizza il modello computazionale: i due livelli appaiono più intrecciati. Si indebolisce la logica del frazionamento di matrice meccanicista, che tende a segregare diverse proprietà in diverse strutture materiali. Si può osservare inoltre, sia nel secondo che nel quarto punto, il riconoscimento di una certa circolarità autoreferenziale, che allontana il vivente dal modello computazionale. È qui opportuno soffermarsi su alcune considerazioni teoriche ed epistemologiche riguardanti il paradigma della biologia molecolare appena delineato, prima di indicare alcune della anomalie che gli sviluppi tecnologici dello stesso hanno portato alla luce, innescandone la crisi. Innanzitutto si tratta di un approccio di tipo ontologico, che non prende in considerazione l’attività dell’osservatore in interazione con i sistemi viventi. Non riconosce il ruolo dei diversi livelli di organizzazione identificati in uno stesso sistema, i quali vengono invece collocati sullo stesso piano. L’errore di tipo epistemologico che viene commesso è quello di estendere al ruolo di ordinamento generale del vivente un aspetto limitato, costituito dal meccanismo di codifica genetica – incentrato sulla corrispondenza tra l’ordine interno dei geni, la sequenza dei nucleotidi, e quello delle proteine, la struttura primaria, costituita dalla sequenza degli amminoacidi – senza prendere in considerazione il contributo delle interazioni globali del sistema. Il procedimento consiste nel partire dai componenti materiali di base, appartenenti al livello fisicochimico e caratterizzati in base alle loro proprietà intrinseche. Attraverso un processo di assemblaggio concettuale, questi elementi considerati “fondamentali” vengono messi insieme per ottenere un’unità di tipo aggregativo. Secondo questo tipo di approccio, quindi, il vivente come oggetto di studio non costituisce il punto di partenza del percorso di investigazione teorica, l’oggetto da investigare in quanto unità che esibisce proprietà specifiche non individuabili in altri domini di indagine scientifica. Secondo questo approccio l’unità vivente è, al contrario, il punto di arrivo di un processo di costruzione, analogo a quello di produzione delle macchine artificiali: il risultato è un sistema inteso come insieme frazionabile di elementi, le cui proprietà rilevanti sono rintracciabili in quelle dei suoi componenti di base. Questo intento è ben chiaro nelle parole di Monod relative ai processi di regolazione intracellulari: 30
Se c’è un campo d’indagine della biologia molecolare che evidenzia meglio di altri la sterilità delle tesi organicistiche di fronte alla potenza del metodo analitico, questo è proprio lo studio della cibernetica microscopica […]13. L’analisi delle interazioni allosteriche14 dimostra che le prestazioni teleonomiche15 non sono appannaggio esclusivo dei sistemi complessi a componenti multipli, poiché una sola molecola proteica si rivela già capace non solo di attivare selettivamente una reazione, ma di regolare la propria attività in funzione di molteplici informazioni chimiche (Monod, 1970: 84)16.
Al livello della caratterizzazione dell’intero organismo vivente, questo procedimento vede come punto di partenza le proprietà, di tipo istruttivo, di un singolo componente: il DNA inteso come programma. A partire da queste proprietà l’intero sistema viene ricostruito concettualmente attraverso il principio della trasmissione di ordine introdotto da Schrödinger. In questo modo il fenotipo – cioè l’organismo così come si presenta al mondo naturale – viene ridotto a epifenomeno, perché è concepito come determinato esaustivamente dal livello fondamentale, del quale rispecchia l’ordine strutturale. Si riscontrano perciò una dipendenza funzionale di tutti i livelli di organizzazione del sistema vivente da un componente fondamentale, e una caratterizzazione dei suoi elementi costitutivi unicamente nei termini delle loro proprietà intrinseche, identificabili al livello fisicochimico. Il contesto sistemico, ovvero l’unità che questi elementi integrano e realizzano, non ha nessun ruolo effettivo. Secondo questa prospettiva teorica, ciò che caratterizza l’organismo come sistema biologico è perciò totalmente riconducibile alle proprietà del livello di 13. L’autore di riferisce qui all’approccio cibernetico della biologia molecolare, di tipo gerarchico. 14. Con “interazioni allosteriche” si intendono quei cambiamenti nella struttura delle proteine, dovuti al legame con altre molecole (effettori), che ne alterano il funzionamento. È un esempio di meccanismo di feedback cibernetico. 15. Un processo è detto “teleonomico” quando è orientato a un fine attraverso l’operare di un programma. È un comportamento attivo, determinato dall’interno, differente dai casi in cui la direzionalità è passiva, regolata da forze esterne, conseguenza di leggi naturali per i fenomeni fisici o dell’intervento di un costruttore per i sistemi artificiali (processi “teleologici”). 16. In Monod rimane però il problema dell’origine e della spiegazione di queste proprietà, che egli cerca di evitare ricorrendo al ruolo della contingenza, attraverso la nozione di “gratuità”.
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base, e più precisamente di un componente fondamentale, invece che alle interazioni tra i processi che lo realizzano come unità. Nel caso della biologia molecolare, quindi, la domanda teorica fondamentale che ne guida implicitamente o esplicitamente la ricerca, assume una forma diversa da quella proposta all’inizio come linea guida. In quel caso il punto di partenza è la definizione e la caratterizzazione dell’unità biologica fondamentale – l’organismo – e la sua modellizzazione avviene attraverso i filtri posti dall’osservatore al fine di individuare i processi rilevanti che permettono di esprimerne il funzionamento integrato (Bich, 2012). Si procede dal riconoscimento della permanenza nel tempo di un’unità di livello superiore a dispetto del continuo cambiamento che caratterizza i suoi componenti. Essa è poi generatrice dell’intera fenomenologia biologica e, duplicandosi, dà origine a nuove unità viventi. L’approccio di tipo computazionale, invece, procede dall’identificazione di quel componente che rimane stabile nel corso delle generazioni e cerca di spiegare la fenomenologia vivente a partire da esso. Si tratta in questo caso di un approccio meccanicista caratterizzato da una forte componente preformista. Con il termine meccanicismo si intende qui genericamente una concezione passiva della natura, i cui eventi consistono nella combinazione o nel riarrangiamento di entità preesistenti semplici, le cui proprietà sono definite intrinsecamente e rimangono identiche attraverso tutte le combinazioni in cui possono essere coinvolte: non viene prodotto nulla di qualitativamente nuovo. Nel caso della biologia molecolare il tipo di componenti e le possibili interazioni in cui essi possono entrare a far parte, sono determinati al livello del programma genetico. Questo è il risultato di due processi teorici: 1. l’isolamento di un componente fondamentale dal continuum dell’unità del sistema. Il DNA è identificato nella dinamica temporale come l’elemento che si mantiene (abbastanza) stabile nel processo filogenetico; esso viene astratto dalla rete sincronica di interazioni che lo coinvolgono e posto come responsabile delle dinamiche del sistema; 2. l’ipostatizzazione dei componenti di un sistema in elementi autosufficienti e isolati: le interazioni che li coinvolgono sono concepite come estrinseche, indipendenti dalla natura del tutto che realizzano. È un procedimento analogo a quello che Alfred North Whitehead attribuisce alla fisica classica e che esplicita attraverso i concetti di “fallacia 32
della concretezza mal posta”17, di “operazione di astrazione estensiva”18 e di “principio di localizzazione semplice della materia”19 (Whitehead, 1920; 1926a). Su questa linea si muovono la critiche all’impianto concettuale della biologia molecolare come quelle di David Bohm (Bohm, 1969), di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers (Prigogine e Stengers, 1978), di Robert Rosen (Rosen, 1991) e di Carl Richard Woese (Woese, 2004). Esse denunciano l’assunzione da parte della biologia di una prospettiva teorica ereditata dalla fisica classica, proprio quando la fisica stessa ha mostrato i limiti della categorie meccaniciste su cui si basava. Dopo aver ripercorso lo scenario teorico della biologia molecolare è possibile individuare in modo più chiaro quali limiti applicativi di questa linea di ricerca si presentano come anomalie in grado di mettere in discussione il paradigma stesso. Con anomalie si intendono in questo caso quei fenomeni biologici che non sono spiegabili a causa di limiti strutturali dell’impianto teorico assunto, e la cui soluzione non è quindi delegabile a sviluppi tecnologici futuri. Esse possono rendere necessaria l’integrazione di nuove sottoteorie o l’investigazione di linee di ricerca alternative fondate su basi teoriche differenti. Il primo di questi limiti riguarda proprio uno degli assunti di base della biologia molecolare: la corrispondenza tra l’ordine strutturale dei geni e quello delle proteine. La validità di questo modello è limitata alla determinazione delle sole strutture primarie e secondarie delle proteine sintetizzate. Non esiste invece un modello che descriva la formazione della struttura terziaria – cioè, dei siti attivi che permettono le interazioni regolative intracellulari – a partire da quella primaria. Questo limite riguarda quindi uno degli aspetti fondamentali della modellizzazione delle dinamiche cellulari. Il problema è sottoposto a un tentativo di aggiramento da parte di Monod, che ricorre alla contingenza, espressa per 17. L’utilizzo di alcune astrazioni come fondamento del mondo naturale dimenticando il processo di costruzione concettuale che le ha originate. In questo caso il processo di costruzione dell’organismo a partire da un componente elementare. 18. Gli oggetti del mondo meccanicista sono il risultato di un’operazione di approssimazione al limite applicata alla continuità percepita dai sensi. Nel caso appena analizzato si tratta dell’astrazione del ruolo del DNA rispetto all’unità dell’organismo secondo un criterio di stabilità di tipo temporale. 19. Il postulare una materia autosufficiente, caratterizzabile in base alla sole proprietà intrinseche, e che produce unicamente riarrangiamenti estrinseci. È il caso dei componenti molecolari per mezzo delle sole proprietà strutturali (sequenze di nucleotidi o di amminoacidi) e senza alcun riferimento allo spazio sistemico dell’unità a cui appartengono.
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mezzo del concetto di “gratuità” (Monod, 1970), al fine di escludere l’introduzione di ipotesi organiciste. Una via di indagine alternativa consiste invece, almeno al livello di una modellizzazione di tipo concettuale, nel considerare i siti attivi come proprietà relazionali nonlocali e dipendenti dalla dinamica sovrasistemica. Istanze di questo tipo provengono anche dagli studi sul processo di traduzione20, il secondo dei due step su cui si fonda la corrispondenza tra geni e proteine, la cui complessità non è riconducibile alle sole proprietà fisicochimiche dei componenti coinvolti e la cui origine richiama a una spiegazione di tipo storico invece che deterministico (Woese, 1998; 2001; 2002; 2004). Lo stesso tipo di problema è anche alla base della contrapposizione tra teorie stereochimiche e coevolutive sul problema dell’origine del codice genetico. Le prime si basano su considerazioni strutturali deterministiche di tipo fisicochimico. Le seconde, invece, focalizzano l’attenzione sulle relazioni biosintetiche tra gli amminoacidi e fanno ricorso a una spiegazione storica di tipo genericamente emergentista (Wong, 1976; 2005; Di Giulio, 2004; 2005). Le teorie coevolutive, inoltre, sono caratterizzate da un interessante spostamento concettuale dalla preminenza del codice genetico all’intreccio tra l’evoluzione amminoacidica (metabolica) e quella genetica al livello delle interazioni tra amminoacidi e RNA-transfer. La teoria del programma genetico, inoltre, nella sua versione tradizionale legata a una concezione monolivello dell’attività del genoma basata su di un gradualismo di mutazioni puntuali, non riesce a rendere conto della mancanza di correlazione tra la complessità del genoma e le differenze tra le specie, e tra il cambiamento genetico e quello evolutivo. Queste richiedono una cornice teorica più complessa e stratificata in livelli di organizzazione (Gould, 1985a). Un altro problema riguarda la corrispondenza tra genotipi e fenotipi, che non sempre è precisa: possono esserci fenotipi diversi con identici genotipi e viceversa21. La spiegazione di questi fenomeni richiede di focalizzare l’attenzione sugli aspetti sistemici riguardanti l’interazione tra 20. Il passaggio dalla sequenza di nucleotidi del RNA-messaggero a quella di amminoacidi della proteina per mezzo degli RNA-transfer. Il primo step è la trascrizione, tra DNA e RNA-messaggero. 21. Esempi di ricerche applicative e riflessioni teoriche su questo tema, in modo specifico riguardanti il fenomeno delle “fenocopie”, si trovano in Piaget, 1970 e Waddington, 1975.
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processi, come ad esempio attraverso gli strumenti teorici elaborati negli studi dei meccanismi di sviluppo ontogenetici. Inoltre, le funzioni o disfunzioni biologiche nella maggior parte dei casi non sono riconducibili alle proprietà strutturali dei singoli geni, ma alle interazioni di interi insiemi o, meglio, sottosistemi di geni. Un ruolo fondamentale è perciò giocato dagli effetti nonlineari presenti al livello delle reti di geni o delle reti proteiche. Uno dei limiti fondamentali, che mina profondamente l’impianto teorico della biologia molecolare, è posto in evidenza dal teorema di Kacser del 197322. Esso mette in discussione uno dei fondamenti applicativi della biologia molecolare e delle odierne biotecnologie, cioè l’idea che ogni percorso metabolico è caratterizzato dalla presenza di un “rate-limiting step”, un passaggio cruciale da cui dipende il flusso e che è catalizzato da un enzima chiave il quale, una volta identificato, può essere limitato o sovraespresso o controllandone la concentrazione oppure attivando o disattivando il gene che lo sintetizza. È il tipico meccanismo cibernetico spiegato dai modelli di Jacob e Monod. Esso funziona in vitro negli esperimenti nel test tube, ma non funziona in vivo, se non in casi limitati, nemmeno in organismi molto semplici come i lieviti (Cornish-Bowden, 2006). Kacser dimostra che il controllo del flusso non è una proprietà di un singolo enzima, ma nella maggior parte dei casi è condivisa in modo equo tra tutti gli enzimi dello stesso percorso metabolico. Di conseguenza, a parte rari esempi di percorsi metabolici molto semplici, il controllo su un solo enzima ha un effetto trascurabile dovuto alla presenza di flussi molto complessi, che coinvolgono un numero elevatissimo di enzimi e di percorsi metabolici alternativi. La capacità di controllo sul flusso non è perciò propria di un singolo enzima, ma è una proprietà sistemica che dipende da come i diversi percorsi metabolici sono interrelati23. Non si 22. Kacser e Burns, 1973. Ne sarà proposta un’analisi dettagliata nel sesto capitolo. 23. Cfr. Cornish-Bowden, 2006; Fell, 1997a; 1997b; 1998; Gunawardena, 2002; Savageau et al., 2002; Stelling et al., 2004; Thomas e Fell, 1998; Visser e Heijnen, 2002. I risultati del teorema di Kacser hanno dato vita a una linea di ricerca in biochimica, la Metabolic Control Analisis, che ha sviluppato uno specifico impianto matematico per analizzare le relazioni di dipendenza delle variabili dei sistemi biochimici come flusso, specie e concentrazioni, dai parametri di rete. Quello che manca a questo tipo di approccio è il passaggio da una descrizione matematica di aspetti fenomenici dei flussi metabolici all’individuazione ed eventuale descrizione delle cause nel tipo di organizzazione del sistema cellulare. Si riesce a descrivere formalmente l’indipendenza del flusso dalle concentrazioni dei singoli
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tratta qui soltanto di meccanismi di feedback monolivello, ma di secondo ordine, situati sul piano dell’organizzazione globale del metabolismo cellulare, e che richiedono perciò l’assunzione di un punto di vista più ampio rispetto alla singola reazione. La storia di questo teorema, dimostrato negli anni Sessanta, sostenuto da evidenze sperimentali, ma ancora quasi sconosciuto, è indicativa dei meccanismi di difesa del paradigma della biologia molecolare. I suoi limiti e la crisi del suo apparato teorico sono occultati attraverso l’enfatizzazione mediatica dei rari (per limiti di principio) successi applicativi, a dispetto dell’incremento delle tecniche disponibili24. Anche di fronte al riconoscimento dei problemi strutturali del paradigma basato sul concetto di programma genetico, le risposte sono state di tipo retrogrado, come: la rivalutazione del ruolo delle proteine; il tentativo di Jean-Jaques Kupiec e Pierre Sonigo (Kupiec e Sonigo, 2000) di introdurre i meccanismi di selezione darwiniana a livello molecolare, ripercorrendo un’ipotesi già formulata alla fine del diciannovesimo secolo da Francis Galton, Wilhelm Roux e August Weissmann (Pichot, 1999)25; o la proposta teorica avanzata da Henri Atlan (Atlan, 1999) di allargare il concetto di programma a tutta la cellula, con problemi sia per quello che riguarda la teoria dell’eredità (Pichot, 1999), sia per quello che concerne la conseguente scomparsa dell’esecutore del programma, l’hardware. Una particolare attenzione deve essere rivolta al tentativo della Systems Biology di rinnovare la biologia molecolare. Questa linea di ricerca raccoglie un eterogeneo campo di studi che si diffondono a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, accomunati dal connubio tra ricerca biologica e modellizazione matematica. Trova il suo riconoscimento come linea di ricerca a partire dal 2000 con l’organizzazione di un primo congresso internazionale a Tokio e l’introduzione della denominazione “Systems Biology” a opera di Hiroaki Kitano (Kitano, 2001). A partire da questa data si assiste alla moltiplicazione di Istituti e Centri di Ricerca e alla nascita di una riflessione filosofica in questo campo (ÒMalley e Dupré, 2005; Boogerd et al, 2007). enzimi ma non si conosce il perché di questo effetto, che risiede nell’organizzazione che caratterizza la rete metabolica. 24. Un esempio di sviluppo tecnologico è la decodifica del genoma che, nonostante i proclami, non ha portato a uno sviluppo di nuove applicazioni, ma solo all’introduzione di una notevole mole di dati. 25. Il concetto di “selezione intrabiotica”.
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Il riferimento alla tradizione sistemica è esplicito, in particolare ai lavori teorici di Ludwig von Bertalanffy (von Bertalanffy, 1968), alla applicazioni di Mihajlo Mesarovic (Mesarovic, 1962, 1968) e alla cibernetica (Wiener, 1948; 1950). Essa nasce come tentativo di far fronte all’esplosione di dati dovuta allo sviluppo delle tecniche di indagine biomolecolare e alla decodificazione del genoma, approfittando della disponibilità di supporti computazionali più potenti, che incrementano le possibilità di analisi di dati e di costruzione di modelli matematici. Di fronte ai limiti della biologia molecolare di laboratorio, che impediscono di interpretare in un quadro unitario l’incredibile mole di dati raccolta26, lo scopo teorico e tecnico della Systems Biology è quello di sviluppare un approccio allo stesso tempo non-riduzionista e quantitativo (ÒMalley e Dupré, 2005). Questo intento si realizza nella costruzione di modelli matematici integrativi che, grazie all’aumentata potenza dei computer disponibili, consentono di prendere in considerazione non solo singole reazioni, ma interazioni di insiemi di componenti biomolecolari molto ampi e di descrivere le proprietà delle reti che essi realizzano. Tra la principali linee di ricerca che costituiscono la Systems Biology è possibile individuare: –– la già citata Metabolic Control Analisis, che però ha una storia più lunga, un approccio critico e una preminenza degli aspetti teorici su quelli computazionali; –– lo studio dei vincoli termodinamici alle reti metaboliche in stato stazionario lontano dall’equilibrio, erede della termodinamica delle strutture dissipative di Prigogine (Prigogine, 1978; Prigogine e Stengers, 1979; 1988)27. Tra questi studi ha avuto grande sviluppo la Metabolic Pathway Analisis di Bernard Palsson che si focalizza sulle simulazioni termodinamiche dei percorsi metabolici dalle reti di geni alle proteine sintetizzate28; 26. Deve essere comunque messo in evidenza che i dati raccolti non sono neutrali, ma sono una funzione dall’impianto teorico delle biologia basato sul concetto di determinismo genetico. Le metafore e le unità rilevanti assunte sul dominio biologico influenzano cioè le operazioni analitiche di raccolta dei dati. 27. Una pubblicazione pionieristica in questo campo è quella di Heinrich e Rapoport, 1974. Tra gli studi più recenti si segnalano Beard et al, 2004 e Quian e Beard, 2005. 28. Shilling et al, 1999; Covert et al, 2001; Shilling et al, 2001; Palsson, 2002; Allen e Palsson 2003; Covert e Palsson, 2003; Palsson et al, 2003; Wiback et al, 2003; Papin et al 2004.
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–– gli approcci che integrano Systems Biology e teoria dei sistemi dinamici complessi, come quelli di Stuart Kaffman29 e Kunihiko Kaneko30; –– gli studi di Laszlo Barabasi (Barabasi, 2002) sulle reti genetiche e sociali: la Small World Topology che studia la topologia, gli effetti di scala, e le evoluzioni delle reti31; –– l’analisi e la modellizzazione della trasmissione dei segnali di regolazione nelle reti genetiche e metaboliche da parte del gruppo di Rostok, aperto anche a investigazioni di tipo teorico32. L’approccio quantitativo della Systems Biology, incentrato su modellizzazioni matematiche e simulazioni computazionali non rinnova la cornice teorica della biologia molecolare, che ne rimane ancora la linea guida. I suoi concetti fondamentali, come quello di determinismo genetico con relazioni di input-output tra geni e proteine, e di meccanismi regolativi di feedback cibernetici, sono mantenuti. Anche la ricerca di un approccio non riduzionista si limita a un’attitudine aggregativa invece che sistemica. La differenza sostanziale con la biologia molecolare non consiste, perciò, nello sviluppo di un approccio propriamente sistemico ma, piuttosto, nell’uso delle simulazioni e nell’estensione del numero degli elementi presi in considerazione. Le domande teoriche fondamentali non vengono affrontate e rimangono pertanto aperte. Il fatto che alcune in particolare tra queste siano ignorate è significativo della crisi in atto nella biologia teorica: 1. Cos’è un organismo vivente? Non vi è una caratterizzazione dell’unità minimale della biologia, ma solo lo studio di ampi sottoinsiemi di componenti. Il paradigma rimane quello tradizionale basato sul programma genetico e la teoria dell’evoluzione; 2. Cos’è un sistema? Manca una riflessione teorica sul concetto di sistema, e su cosa rende tale un insieme di elementi. I riferimenti si limitano spesso ai soli lavori di von Bertalanffy (von Bertalanffy, 1968); 29. Kauffman, 1992; 1993; 1995. Le ricerche più recenti (Kauffman, 2000) si caratterizzano per un approccio più sistemico legato al concetto di organizzazione. 30. Kaneko, 2006. 31. Barabasi et al, 2002; Farkas et al, 2002; 2003; Barabasi e Oltvai, 2004; Kuo e Banzaf, 2005. 32. Wolkenhauer, 2000; 2001; 2002; Cho e Wolkenhauer, 2003; Cho et al, 2005; Wolkenhauer e Mesarovic, 2005; Wolkenhauer et al, 2005.
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3. Come l’appartenenza al sistema vincola o influenza il comportamento dei singoli componenti? Questa è una delle domande fondamentali della sistemica e richiama ai concetti di emergenza e di causalità verso il basso (downward causation). Gli approcci delineati sopra invece, partono dalla descrizione degli elementi materiali per ricostruire i processi biologici; 4. Qual è il ruolo dell’osservatore? Esso riguarda in primo luogo le operazioni di identificazione dei sistemi viventi e la necessità di problematizzare l’osservatore stesso, in quanto membro di questa classe di sistemi. È una domanda fondamentale per quello che concerne l’identificazione delle funzioni biologiche oggetto di studio, che vengono astratte a partire dall’unità dell’organismo biologico; l’identificazione dei componenti rilevanti cui possono poi essere attribuite funzioni specifiche; il campo di validità dei modelli costruiti. Senza una riflessione approfondita sul ruolo dell’osservatore queste operazioni rimangono arbitrarie. I limiti intrinseci del paradigma della biologia molecolare nella sua forma tradizionale e nell’approccio della Systems Biology, lasciano quindi aperte le domande fondamentali della biologia. Per rispondere a esse si rende necessario lo sviluppo critico di una biologia sistemica, o Systemic Biology, come cornice teorica alternativa. Questo è l’approccio che si intende delineare in questo studio. Come accennato, si propone di affrontare il problema del vivente a partire dalla caratterizzazione dell’unità sistemica di base, in questo caso l’unità biologica fondamentale: l’individuo vivente nella sua forma minimale. È perciò un percorso orientato alla caratterizzazione del fenomeno “vita”, che prende avvio dalla forma più semplice per individuarne i caratteri definitori comuni al mondo biologico. È il procedimento inverso rispetto a quello intrapreso da Hans Jonas33, che parte dalla natura dell’individuo umano per ricercare gli elementi che lo accomunano al resto del dominio biologico. Entrambi questi percorsi si incontrano come parte di un movimento teorico circolare che congiunge il livello biologico e quello cognitivo e ritrova l’osservatore nel suo fondamento come sistema vivente. L’analisi del concetto di unità sistemica vivente, a differenza dell’approccio della biologia molecolare, non prende avvio dallo studio delle 33. Jonas, 1966.
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proprietà intrinseche dei componenti degli organismi biologici. Procede invece lungo un percorso su due livelli, o domini di studio, corrispondenti a due punti di vista osservativi: quello esterno, che riguarda l’interazione tra organismo e ambiente; e quello interno, ovvero le modalità di interazione di componenti biologici, specificate dalle condizioni relazionali imposte dal sistema di appartenenza. Questo approccio si rifà alla tradizione inaugurata da Claude Bernard34 con l’introduzione del concetto di “milieu intérieur”35. Nata con l’intento di superare la contrapposizione tra meccanicismo e vitalismo (Fantini, 1976), questa linea teorica trova la sua specificità nel tentativo di mettere in relazione la relativa indipendenza dei processi biologici dai fenomeni ambientali con la necessaria interazione con questi ultimi (Bernard, 1965: 62-63). Non fa appello quindi al principio organicista ingenuo dell’unità vivente come tutto non analizzabile né, all’estremo opposto, a quello di unità aggregativa infinitamente divisibile, in ogni caso inerte, già data e compiuta, caratterizzata da relazioni di pura esteriorità. Lo scopo è quello di elaborare una definizione di unità di tipo sistemico-dinamico, che permetta di caratterizzare l’organismo vivente come una totalità in atto, mai compiuta: un continuo processo in cui la tendenza unificatrice si scontra con l’inerzia della molteplicità che la realizza in un continuo rapporto di interiorità. A differenza che nell’approccio meccanicista, dove si ha una caratterizzazione puramente intrinseca dei componenti e un tipo di interazione esclusivamente estrinseco, in questo caso si ha un processo opposto, di caratterizzazione relazionale dei componenti con interazioni di tipo inerente, cioè relazioni di interiorità che ne definiscono e modificano le proprietà. Assume quindi un’importanza fondamentale il problema dell’emergenza, cioè della creazione di una unità di livello superiore che esibisce una certa indipendenza rispetto ai suoi componenti alla dinamica sottostante che la realizza, a cui non è totalmente riducibile, ma che allo stesso tempo è continuamente intrecciata alla dinamica sottostante. In biologia assume la forma di un passaggio continuo “dei componenti alla creazione di una totalità. […] ma questa totalità, questa unità emergente 34. Bernard, 1865; 1878. 35. L’ambiente interno al sistema vivente, mantenuto invariante in alcuni suoi aspetti fondamentali, a dispetto dei continui cambiamenti che hanno luogo nell’ambiente esterno all’organismo.
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o demarcazione dello spazio cellulare ha anche un effetto ‘verso il basso’ che vincola le molecole e i processi elementari. Quindi, non è solo la materia a far emergere la vita, c’è anche la vita che va a vincolare la materia. È questa nozione di circolo che fa sì che il locale e il globale non siano separabili” (Varela, 2002: 161)36. Il concetto di emergenza è quindi una delle linee guida teoriche di questo studio, il punto di partenza problematico e il punto di arrivo critico in grado di aprire nuove domande e direzioni di indagine. Essa si pone come chiave concettuale fondamentale per la comprensione dell’unità biologica e della relazione bidirezionale tra il sistema e le sue componenti. L’obiettivo di indagine primario, espresso nella declinazione della domanda iniziale “cos’è il vivente?”, è costituito dall’identificazione del processo di emergenza che caratterizza l’unità biologica e del tipo di ordine che la esprime come totalità. Questa avviene attraverso il riconoscimento di un meccanismo cibernetico di secondo ordine – di varianzainvarianza – che ha luogo su due livelli e scale temporali differenti: la continua trasformazione al livello dei componenti, e l’invarianza dell’unità, ovvero delle relazioni che connettono i processi di trasformazione molecolari. È un meccanismo di secondo ordine perché non riguarda un singolo processo, bensì le relazioni tra i processi. Al fine di specificarlo è necessario porsi su un livello astratto di descrizione più alto rispetto a quello molecolare: il livello delle relazioni tra questi processi. Ciò che caratterizza il vivente come unità emergente deve perciò essere definito al livello della “organizzazione”, intesa come “la topologia delle relazioni che permette ad un osservatore di identificare un sistema come un’unità appartenente ad una certa classe”, in questo caso quella dei 36. In modo simile Jean Paul Sartre definisce il concetto di totalità biologica e sociale: “La dialettica è la legge di totalizzazione che fa sì che ci siano collettivi, società, una storia, vale a dire realtà che si impongono agli individui; ma nello stesso tempo deve venir tessuta da milioni di atti individuali. Si dovrà stabilire come possa essere insieme ‘risultante’ senza essere media passiva, e ‘forza totalizzante’senza essere fatalità trascendente, come debba realizzare ad ogni istante l’unità tra il pullulare dispersivo e l’integrazione” (Sartre, 1960: vol. 1: 161-162). “Si dirà forse che, l’ipotesi metafisica d’una dialettica della Natura è più interessante allorché ci si serve di essa per capire il passaggio dalla materia inorganica ai corpi organici e l’evoluzione della vita sul globo. È vero. Sennonché, farò notare che questa interpretazione ‘formale’della vita e dell’evoluzione resterà un pio sogno finché gli scienziati non avranno gli strumenti per utilizzare come ipotesi direttrice la nozione di totalità e quella di totalizzazione” (Sartre, 1960, vol.1, n. 8,: 168, enfasi nostra). Il riferimento al pensiero di Sartre è esplicito in Varela (Varela, 1979; 1996a).
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sistemi viventi. Su questo livello di analisi è possibile definireun ordine FKH QRQ q GL SHUWLQHQ]D GH ³RUGLQH LQYLVLELOH´ FKH FRPH ³RUGHU LQ WKH QRWKLQJ´ relazionale astratto, unHVSULPHUHPR “ordine invisibile” che esprimeremo come “order 37 VLQJROLFRPSRQHQWLPDVLUHDOL]]DHGqPDQWHQXWRQHOFRQWLQXRIOXVVRGLSURFHVVLGLWUDVIRUPD]LRQ in the nothing” , che non è di pertinenza dei singoli componenti ma si realizza ed è mantenuto nel continuo flusso di processi di trasformazione FKHFDUDWWHUL]]DQRLOSURFHVVRJOREDOHHPHUJHQWHGLWRWDOL]]D]LRQH che caratterizzano il processo globale emergente di totalizzazione. ,OUXRORGHLFRQFHWWLGLHPHUJHQ]D HGLRUJDQL]]D]LRQH±LQWHVDFRPHOLYHOORDVWUDWWRGLDQDOLVL Il ruolo dei concetti di emergenza e di organizzazione – intesa come ULFKLHGRQR LO ULFRQRVFLPHQWR GHOO¶LPSRUWDQ]D GHL OLYHOOL RVVHUYDWLYL H GHOOH UHOD]LRQL WUD L GLYHUV livello astratto di analisi – richiedono il riconoscimento dell’importanza dei livelli osservativi e delle relazioni tra i diversi modelli, concettuali e PRGHOOLFRQFHWWXDOLHIRUPDOLFKHOLGHVFULYRQR/¶DWWLYLWjGHOO¶RVVHUYDWRUHVLVLWXDVXDOPHQRGX formali, che li descrivono. L’attività dell’osservatore si situa su almeno OLYHOOL HSLVWHPRORJLFL YLFDULDQWL FKH JHQHUDQR ULVSHWWLYDPHQWH GXH GLQDPLFKH GL LQWHUD]LRQH due livelli epistemologici vicarianti, che generano rispettivamente due VWUXWWXUD WULDGLFD TXHOOD aRVVHUYDWRUHXQLWjDPELHQWH TXHOOD RVVHUYDWRUHFRPSRQHQWLXQLW dinamiche di interazione struttura triadica: quella Hosservatore-unitàambiente e quella osservatore-componenti-unità relazionale. UHOD]LRQDOH 266(59$725(
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Come è stato posto in evidenza anche rispetto ai limiti dell’impianto
teorico della Systems Biology, la riflessione sul ruolo dell’attività osser5LSUHQGHQGRHULFRQWHVWXDOL]]DQGRXQDIHOLFHHVSUHVVLRQHGL7LERU*DQWL*DQWL vativa, che consiste nella definizione delle unità rilevanti, dei domini di analisi e della costruzione di modelli, diventa in questo modo inscindibile dal percorso di rielaborazione del paradigma biologico. Al fine di ripensare il vivente secondo le linee teoriche appena proposte, si assume come linea guida l’approccio epistemologico e concettuale della Teoria dei Sistemi Autopoietici elaborata da Humberto Maturana e Francisco Varela (1973; 1974; 1984), erede della tradizione sistemicocibernetica e incentrata sul ruolo dell’organizzazione nel vivente. Essa si basa sull’assunzione di un impianto epistemologico costruttivista e sull’indagine del concetto di “autonomia” intesa come:
37. Riprendendo e ricontestualizzando una felice espressione di Tibor Ganti (Ganti, 2003: 19).
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–– capacità di reagire alle perturbazioni esterne attraverso variazioni autodeterminate che tendono a cancellare gli effetti delle perturbazioni endogene (punto di vista esterno al sistema, o “autonomia esterna”); –– autoproduzione, automantenimento e autodistinzione dall’ambiente attraverso il controllo attivo da parte dell’unità relazionale sui propri processi di trasformazione (punto di vista interno al sistema, o “autonomia interna”); La teoria dell’autopoiesi, che si caratterizza per il disancoraggio della riflessione sul vivente dalla teoria dell’informazione e della computazione, sarà il punto di partenza per un approfondimento della modellizzazione concettuale e formale della “autonomia biologica”, incentrato sul concetto di “chiusura organizzazionale”. Con questa espressione si intende la topologia circolare dei processi di produzione dei componenti che costituiscono e realizzano l’unità vivente. La circolarità consiste nella capacità da parte dell’organismo di produrre quegli stessi componenti necessari per il suo funzionamento. Essa determina il coincidere nel sistema vivente di produttore e prodotto, di identità e attività. Lo scopo è quello di delineare il meccanismo generativo dell’autonomia biologica – “approccio generativo” – in alternativa all’assunzione di quest’ultima come principio esplicativo e alla modellizzazione delle sue sole manifestazioni – “approccio fenomenico”. La teoria dell’autopoiesi fa già un passo in questa direzione, definendo concettualmente il meccanismo chiave dell’autonomia attraverso il concetto di chiusura organizzativa e analizzandone alcune implicazioni. La chiusura però viene solo definita e assunta come base della caratterizzazione del vivente, senza essere elaborata in profondità. Questo è invece il percorso che segue indipendentemente Robert Rosen38, il quale la analizza dall’interno sia dal punto di vista teorico che matematico. Si tenterà perciò di operare un’integrazione tra i due approcci al fine di approfondire e rigorizzare i modelli proposti. Una volta delineato rigorosamente l’impianto teorico necessario alla ridefinizione del vivente, se ne analizzeranno le conseguenze per la conoscenza scientifica e la visione della natura, e per ciò che concerne la fenomenologia biologica, in particolare la teoria dell’evoluzione. Per quello che riguarda il primo di questi due aspetti, ovvero il significato 38. Cfr. Rosen, 1958a; 1958b; 1959a; 1972b; 1991; 2000.
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epistemologico dell’approccio che caratterizzerà questo studio, è interessante notare come la teoria dell’autopoiesi sia caratterizzata da alcune assunzioni meccaniciste consistenti nell’eredità della teoria del controllo39 e nell’enfasi posta sul concetto di “produzione”40, di origine tecnologica. Anche Claude Bernard (1865: 63) per descrivere il vivente usa la metafora della macchina, sebbene attribuendole una natura particolare, più complessa rispetto a quella caratteristica delle macchine artificiali41. L’approfondimento e la rigorizzazione dell’approccio derivato dall’autopoiesi mostreranno, però, come l’investigazione del concetto di autonomia metta in crisi non solo la metafora della macchina applicata al vivente, mostrandone l’autocontradditorietà, ma contribuisca anche a mettere in crisi una certa visione della scienza. Ci si riferisce qui a quella che Gregory Chaitin (2006) definisce la “Software View of Science”, che considera la teoria scientifica sulla falsariga di un programma che predice informazioni su un mondo oggettivo e deterministico, in cui tutto è già dato nelle condizioni iniziali e dove lo scopo dello scienziato consiste nell’individuare l’algoritmo necessario a descriverlo: una natura senza emergenze. La decostruzione della metafora 39. L’influenza dello studio del funzionamento delle macchine artificiali è evidente nel primo articolo sul vivente scritto da Maturana e Varela (1972), dove si accomunano proprio macchine ed esseri viventi per mezzo del concetto di organizzazione. Sarà necessario specificarne la distinzione, nei prossimi capitoli, attraverso una differenziazione del significato di organizzazione nei due diversi domini. 40. Questa è il fulcro di una critica di matrice heideggeriana: “se infatti il concetto di organismo esprime il modo d’essere di quell’ente che, a differenza dell’artefatto, non è prodotto da qualcos’altro da sé, ma invece è prodotto da se stesso, ciò che comunque il concetto di organismo non riesce a trascendere è quanto di più essenziale costituisce l’ambito rispetto al quale esso si vuole differenziare – il prodotto della tecnica – e cioè l’idea del fare che costituisce lo sfondo di qualsiasi procedimento tecnico, ovvero quel fare che è produrre. Se si pretende infatti di determinare la differenza fra il modo d’essere del vivente e il modo d’essere dell’artefatto semplicemente riconoscendo che uno ha l’origine della propria produzione in altro da sé – l’artefatto- mentre l’altro – il vivente – ha l’origine della propria produzione in se stesso, in realtà ci si muove comunque all’interno dello stesso livello ontologico, in cui, […] il vivente appare sostanzialmente riducibile ad un tipo particolare di artefatto: a quell’artefatto, cioè, che riproduce se stesso” (Illetterati; 2002). Questa critica, rivolta al concetto di autopoiesi, si mostrerà invece più calzante per approcci come quello di von Neumann (1966). 41. “Ora, un organismo vivente non è niente altro che una fantastica macchina dotata delle più meravigliose proprietà e fatta funzionare per mezzo del più complesso e delicato meccanismo” (Bernard, 1865: 63). L’enfasi su aspetti ancora meccanicisti è dovuta alla necessità di escludere derive vitaliste.
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meccanicista in biologia e l’approfondimento della Tesi di Rosen (1991) sulla noncomputabilità dei modelli che descrivono l’organizzazione dei sistemi viventi, hanno implicazioni profonde per una teoria della conoscenza scientifica e possono costituire il primo passo di una critica di questo approccio informazionale che può eventualmente indirizzare verso la confutazione della celebre Tesi di Churh-Turing estesa ai processi naturali42. In questo caso si aprirebbe la strada vero la formulazione di un “risultato negativo” in biologia, al pari di quelli di Poincaré e Heisemberg in fisica e di Gödel in matematica. Esso permetterebbe di escludere definitivamente derive meccaniciste e, come auspicano Francis Bailly e Giuseppe Longo (2006, p. 254), rendere possibile attraverso queste limitazioni, il costruirsi di un campo di possibilità per un’autonomia della biologia dal punto di vista matematico e teorico. Questo percorso è strutturato in quattro macropassaggi concettuali. Sulla linea delle considerazioni appena fatte, nel primo si procede all’esplicitazione e all’analisi di una posizione epistemologica costruttivista basata sull’approccio biogenico alla cognizione. e focalizzata sul dominio delle interazioni tra osservatore e sistemi complessi. Il problema dei diversi livelli osservativi e delle loro relazioni è imprescindibile per uno studio sistemico focalizzato sul problema dell’organizzazione, oltre che per un’analisi esaustiva del concetto di emergenza. A partire da considerazioni epistemologiche e metodologiche che portano a mettere tra parentesi l’assunzione di una realtà oggettiva di fronte alla quale l’osservatore si porrebbe come registratore passivo di eventi, particolare risalto è dato alla riflessione sul concetto di modello – un passo necessario verso la distinzione tra modelli fisici e biologici – e sui concetti di funzione e di fine in biologia, usati solitamente per esprimere la specificità del dominio biologico. Il passaggio costruttivo successivo consiste nell’approfondimento della caratterizzazione del vivente basata sulla nozione di autonomia. A questo scopo è introdotta una riflessione comparativa sulle diverse modalità di identificazione degli invarianti fondamentali nell’investigazione biologica, esplicitando le differenti definizioni di “vita” che da esse derivano. Si procede quindi: a un’analisi della genealogia della nozione di 42. Secondo cui tutto ciò che è computabile, anche i processi del mondo fisico, può essere computato da una macchina di Turing. È la domanda che si pone Chaitin di fronte alla sfida della complessità biologica (Chaitin, 1982).
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autonomia del vivente a partire dalla tradizione cibernetica ed embriologica; a un approfondimento teorico della teoria dei sistemi autopoietici; e ad un’analisi formale al fine di sviluppare una modellizzazione dei concetti chiave di questo approccio al vivente usando gli strumenti matematici della Teoria delle Categorie. Il terzo passaggio è dedicato a un’analisi della procedura di costruzione teorica della biologia molecolare, basata sull’assunzione della metafora computazionale. A questo scopo si rende necessario porre in evidenza la connessione tra la riflessione di von Neumann sugli automi autoriproduttori e quella di Jacob e Monod sui meccanismi di produzione e regolazione intracellulari, mostrandone le conseguenze per la modellizzazione biologica – facendo riferimento anche alle rielaborazioni più recenti di questo impianto teorico, legate alla nozione di “proteoma” – e i limiti, di tipo epistemologico, logico e fenomenologico. Inoltre, un’analisi delle differenze paradigmatiche tra i due approcci – quello basato sulla nozione di autonomia e quello meccanicista basato sulla metafora computazionale – permette di porre in evidenza la specificità del dominio biologico rispetto a quello delle macchine, di analizzare come questa si rispecchi anche nella diversità delle modellizzazioni, e di trarre alcune considerazioni teoriche e metodologiche per quello che riguarda il dominio dell’Artificial Life, nelle sue applicazioni computazionali e molecolari. L’ultimo passaggio consiste nell’applicazione degli strumenti teorici sviluppati alla riflessione inter e transdisciplinare sui processi di “emergenza”, specificando le differenze tra questi fenomeni nei domini fisico e biologico. Il problema dell’emergenza, fondamentale per comprendere la natura sistemica del vivente, sarà affrontato da un punto di vista epistemologico basato sull’approccio costruttivista proposto, che rende possibile l’elaborazione di una soluzione epistemologica al paradosso della causalità sistemica verso il basso, o downward causation, con importanti risvolti modellistici. Il nodo concettuale cruciale consiste nella distinzione tra i fenomeni di emergenza esibiti dai sistemi autonomi e quei processi di generazione di configurazioni spaziali ordinate, legati alla nozione fisicochimica di stabilità strutturale, solitamente noti come processi di “auto-organizzazione”. La sovrapposizione dei due concetti è infatti spesso fonte di errori teorici e fraintendimenti Infine, un’analisi della nozione di emergenza nella sua dimensione diacronica rende possibile una reinterpretazione della teoria dell’evolu46
zione e una critica del concetto di adattamento alla luce della ridefinizione del vivente proposta. Il risultato è un approccio neutralista e non deterministico all’evoluzione, considerata come un processo open ended di ridefinizione reciproca tra organismi e ambiente che non converge verso comportamenti stabili e può essere definita concettualmente come successione temporale di discontinuità emergenti.
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Parte prima La doppia domanda sulla conoscenza What is a number, that a man may know it, and a man that he may know a number? Warren McCulloch, Embodiments of Mind, 1965 Nature and the Laws of Nature are notions concerned with the explanation of experience, not with the explanation of reality as a domain of independent entities […]. So, we human beings do not exist in nature, nature arises with us and we ourselves arise with it as we explain the way in which we are as we operate as observers Humberto Maturana, The Nature of the Laws of Nature, 2000 La conoscenza è dunque l’azione di colui che conosce, e trova le sue radici nell’organizzazione di colui che conosce in quanto essere vivente Mauro Ceruti, Per una storia naturale della conoscenza, 1987
1. 1.
Natura e conoscenza
1. Un nuovo modo di considerare la relazione soggetto-oggetto La ridefinizione sistemica del vivente, oltre che alla domanda fondamentale “che cos’è la vita?”, richiama e presuppone allo stesso tempo alcune domande relative alle modalità attraverso cui è possibile relazionarsi conoscitivamente agli organismi biologici: attraverso quali operazioni è possibile riconoscere e definire un sistema come vivente? Quali tipi di descrizione sono disponibili per un osservatore al fine di catturare la specificità del vivente? Il primo passo di questo percorso consiste nell’investigazione teoricoepistemologica della relazione osservatore-sistema. La necessità di intraprendere questa trattazione risiede nel riconoscimento che la nozione di sistema non è epistemologicamente neutra, ma è strettamente legata alle operazioni osservative che permettono di identificare e caratterizzare un’unità di un certo tipo – in questo caso un organismo biologico – insieme al suo dominio di esistenza. Non solo, a livello filosofico le concezioni della Natura e della conoscenza non sono indipendenti, ma strettamente intrecciate. La linea teorica di riferimento per questa indagine è quella derivata dalla tradizione di studi afferente alle scienze della complessità. Essa raccoglie una serie di approcci interconnessi, i quali mettono in comunicazione scienze della cognizione, studi sulle macchine artificiali e sui sistemi fisici, e trovano una rigorizzazione nella teoria dell’autopoiesi (Maturana e Varela, 1973). L’interesse che li accomuna è quello per il problema della conoscenza come dinamica relazionale che ha luogo nel dominio delle interazioni tra sistema e ambiente, e per l’organizzazione interna che caratterizza questi poli relazionali “dialoganti” (Damiano, 2009) e che 51
rende possibili le loro dinamiche interazionali. Tra questi approcci sono particolarmente significativi l’epistemologia sperimentale (McCullogh, 1965)1, l’embriologia (C.H. Waddington, 1962; 1968a; 1968b; 1969; 1975; P.Weiss, 1969), l’epistemologia genetica (Piaget, 1967; 1971; Bocchi e Ceruti, 1981; Ceruti, 1989)2, l’analisi filosofica e scientifica derivata dallo studio delle strutture dissipative (Prigogine e Stengers, 1979)3, il neoconnessionismo (Atlan, 1972; 1979; 1981; 1985), la cibernetica di primo e secondo ordine (Wiener, 1948; 1950; Ashby, 1956; Yovits et al, 1962; von Foerster e Zopf, 1962; von Foerster, 1981; 1985)4. Queste linee di ricerca hanno contribuito a sviluppare una cornice epistemologica che invece di analizzare il modo in cui viene conosciuta una realtà oggettiva, focalizza l’attenzione sull’esperienza conoscitiva e spiega la conoscenza come attività, come interazione con un mondo che è definito attraverso le operazioni dell’osservatore o, meglio, codefinito nell’interazione osservatore-ambiente. L’impianto epistemologico è, quindi, di tipo costruttivista invece che rappresentazionista, e si caratterizza non solo per lo studio delle dinamiche di interazione tra osservatore e sistema, ma anche e soprattutto per quello dei meccanismi endosistemici che le generano. Così facendo, pone una particolare enfasi sulle radici biologiche della conoscenza. Il problema dell’organizzazione del vivente si colloca in una cornice epistemologica di questo tipo. La definizione data nell’introduzione, come “topologia delle relazioni che permette a un osservatore di identificare un sistema come un’unità appartenente ad una certa classe”, nel caso degli organismi si pone su un livello di descrizione astratto dalle dinamiche di continuo rinnovamento dei componenti. Perciò non può che richiamare l’attenzione sul ruolo attivo delle operazioni compiute dall’osservatore.
1. Laddove un’epistemologia normativa assume un corpus di conoscenze scientifiche acquisite al fine di determinarne le condizioni atemporali di validità, un’epistemologia sperimentale utilizza e promuove delle indagini scientifiche per capire come la norma si generi “tramite i dati mobili dello sviluppo” (Ceruti, 1987: 10). 2. Lo scopo dell’epistemologia genetica è quello di elaborare “una storia naturale della conoscenza e quindi una storia naturale del soggetto” (Ceruti, 1987: 10). 3. Il cui scopo è di reinserire il soggetto conoscente, l’osservatore, nel mondo naturale che egli stesso studia, e di ricucire lo strappo tra scienze umane e scienze naturali. 4. In particolare la cibernetica di secondo ordine, caratterizzata da uno spostamento di punto di vista dai sistemi osservati ai sistemi che osservano.
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La prospettiva epistemologica che si andrà delineando, si fonda sull’impossibilità di considerare la conoscenza scientifica indipendentemente delle attività di osservazione e categorizzazione eseguite da un osservatore. Si scontra con l’idea classica della conoscenza che fa dello scienziato uno “spettatore assoluto” della natura, il cui punto di vista, neutrale ed esterno al mondo naturale, garantisce il potere di intelligibilità che lo rende in grado di accedere alla realtà in sé e di considerare le leggi di natura come preesistenti (Prigogine e Stengers, 1979). Una prima rottura della cornice epistemologica classica è quella operata dalla fisica quantistica, che mostra l’inseparabilità tra l’attività osservativa e l’oggetto osservato. La crisi del concetto di oggettività e di rappresentazione è amplificata dagli approcci appena citati, che contribuiscono a delineare un’epistemologia alternativa in cui l’osservatore ha un ruolo attivo nella determinazione dell’oggetto che investiga. Quest’ultimo non è dato e definito a priori, ma costruito nel corso di un processo di co-costruzione reciproca tra osservatore e sistemi naturali, collocato sul piano delle interazioni tra soggetto e oggetto: emerge come una coerenza di esperienze nel dominio comportamentale dell’osservatore (Piaget e Inhelder, 1969; von Foerster, 1981; 1985). Il rifiuto dell’assunzione di una realtà a priori si accompagna a un’investigazione del concetto stesso di osservatore: i due aspetti procedono intrecciati. Con l’espressione “doppia domanda sulla conoscenza” che dà il titolo a questo capitolo, si intende una riformulazione di secondo ordine, una “conoscenza della conoscenza” che non assume le capacità cognitive dell’osservatore come proprietà costituite ma le pone come oggetto di indagine insieme al mondo naturale. La domanda che viene posta dallo scienziato di fronte ai fenomeni naturali, “da cosa dipende una certa proprietà che si osserva in un oggetto?” viene perciò affiancata da una seconda: “che cosa nella struttura dell’osservatore rende possibile il riconoscimento di quella proprietà e di quell’oggetto?”. Contestualizzando questa operazione nel caso dello studio del colore, ad esempio, prendere in considerazione solo la prima delle due domande porta a localizzare le proprietà di riflessione superficiale esclusivamente nell’oggetto osservato, indipendentemente dalle capacità percettive dell’osservatore. La seconda porta a focalizzare l’attenzione sulle modalità dei processi percettivi: diverse specie di organismi percepiranno colori diversi (Varela et al, 1991). Mettendo in relazione queste due domande, il soggetto e l’oggetto della conoscenza emergono insieme. 53
Il necessario intreccio tra il rifiuto del ricorso a una realtà oggettiva e l’investigazione del meccanismo generativo dell’osservatore è esplicito in Humberto Maturana: Ascoltare una risposta esplicativa, quando non si assume la domanda sull’origine delle abilità dell’osservatore, equivale ad ascoltare sperando di udire un riferimento a una realtà indipendente da noi per accettare come spiegazione la riformulazione presentata come risposta alla domanda che chiede una spiegazione. […]. Ma quando accettiamo di interrogarci sull’origine delle abilità dell’osservatore, quello che di fatto accettiamo è il domandarsi: come faccio a fare le affermazioni che faccio in quanto osservatore? Come posso fare affermazioni? Com’è che posso rendermi conto, se mi rendo conto, di ciò che realmente è, e anche sbagliarmi? Come opera il mio operare in quanto osservatore? (Maturana e Dàvila, 2006: 49-50).
Nella prima opzione il punto di partenza è una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore, nella seconda l’attività di quest’ultimo. Il procedimento di sovrapposizione dei due punti di vista segna un passaggio dalla definizione degli oggetti dell’indagine scientifica per mezzo delle loro sole proprietà intrinseche o di quelle del soggetto conoscente, all’investigazione del dominio di interazione tra soggetto e oggetto. Entrambi diventano essi stessi oggetto di un’indagine scientifico-epistemologica di secondo ordine, situata però all’interno del dominio delle operazioni dell’osservatore. All’interno di questo percorso di decostruzione-ricostruzione rimane quindi sempre esplicito il riferimento all’attività osservativa come processo di elaborazione teorica: Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore (Maturana,1970: 53).
Il passaggio concettuale determina anche un cambiamento nello status di entrambi gli elementi della relazione. Essi, infatti, perdono il valore di punto di partenza sostanziale e fondativo5, ma si definiscono reciprocamente. 5. “Con questo non intendo affermare che non esistono oggetti che non sono in grado di specificare un certo ambito di riferimento, la cui esistenza avverto come indipendente da me. Quello che intendo sostenere ponendo tra parentesi l’oggettività è che mi rendo conto
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2. Dalla domanda sulla Natura alla domanda sul soggetto conoscente, e viceversa Le scienze della complessità si caratterizzano esplicitamente per l’attenzione rivolta a quei fenomeni che sfuggono alle categorizzazioni e alle capacità di modellizzazione della scienza classica, di cui portano alla luce i limiti teorici e epistemologici. Così facendo, aprono la strada a nuovi modi di pensare la Natura e rendono possibili, e allo stesso tempo necessari, una revisione critica e un rivoluzionamento dell’epistemologia tradizionale. Uno dei meriti dell’approccio epistemologico sviluppato all’interno delle scienze della complessità consiste infatti nel mettere in discussione l’univocità6 del concetto di conoscenza, che nella prospettiva tradizionale è concepita come una proprietà a priori dell’essere umano, immutabile e astorica7. I risultati della linea di ricerca che dai primi studi della cibernetica conducono alla teoria dell’autopoiesi, portano quindi alla luce un legame profondo tra la visione della Natura e della conoscenza. Le implicazioni di questa prospettiva di ricerca sono ovviamente più profonde quando il dominio di indagine è quello biologico, dove l’intreccio tra osservatore e osservato è più stretto. Per rispondere alla sfida lanciata dalla crisi teorica della biologia contemporanea, investigare il vivente assumendo un punto di vista sistemico, contrapposto a quello meccanicista, porta quindi con sé la necessità di elaborare una cornice epistemologica: “questa prospettiva esige un ‘deuteroapprendimento’8, che cerchi di riformulare non solo molte risposte a molte domande, ma i tipi stessi di domande con le quali accostarsi al problema della conoscenza e al problema della vita” (Ceruti, 1989: 13). I processi di rielaborazione teorica della Natura e della conoscenza scientifica procedono insieme. di non poter pretendere di avere la capacità di fare riferimento a una realtà indipendente da me, e che me ne faccio carico nell’intento di capire ciò che accade con i fenomeni della conoscenza, del linguaggio, e con i fenomeni sociali, non usando alcun riferimento a una realtà indipendente dall’osservatore per convalidare le mie spiegazioni” (Maturana e Dàvila, 2006: 53). 6. Sia dal punto di vista ontogenetico che filogenetico. 7. Essa è cioè postulata, con la conseguenza di escludere dal campo d’indagine quei processi storici e strutturali che la rendono possibile e che specificano i modi del suo funzionamento. Questa concezione può generare quindi solo un’epistemologia di tipo normativo, a cui si contrappongono l’epistemologia sperimentale e l’epistemologia genetica (Ceruti, 1989). 8. Bateson, 1972.
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Per capire ciò, è necessario in primo luogo analizzare il percorso che porta da una concezione della Natura e del soggetto conoscente caratteristica della scienza meccanicista, alle istanze che rendono necessaria una investigazione epistemologica di tipo costruttivista. Come si è posto in evidenza nell’introduzione, la prospettiva teorica del meccanicismo si basa su una concezione della Natura come puro oggetto. Dal punto di vista teorico si caratterizza come un insieme di elementi passivi, posti in relazione da interazioni di tipo estrinseco, che non ne modificano le proprietà e il comportamento. Al mondo naturale non è attribuita una produttività interiore, ma soltanto un riarrangiamento di elementi preesistenti con proprietà predefinite. All’assenza di produzione di novità si affianca una modellizzazione di carattere deterministico, in cui tutto è già specificato nelle proprietà intrinseche degli oggetti naturali e nelle loro modalità di interazione. Non si riscontra quindi una differenza qualitativa tra istanti temporali diversi. Il concetto fondamentale cui si ricorre al fine di cogliere le caratteristiche di questa Natura meccanicista è quello di causalità classica, ovvero della connessione necessaria tra antecedente e conseguente. Una relazione estrinseca tra gli elementi di una Natura che non si fa realmente, ma è lo scenario di interazioni non trasformative, inter-oggettuali invece che intra-oggettuali, sul modello delle palle da biliardo. Il carattere intrinseco degli oggetti che stanno in tali relazioni rimane inalterato. […]. Nel caso di relazionalità effettiva b [cioè, la proprietà dovuta all’interazione] fa una differenza effettiva nella natura intrinseca dell’oggetto. L’oggetto è in qualche modo alterato. C’è qualche cambiamento nell’andamento degli eventi che hanno luogo in esso. Ma sotto una relazionalità di tipo non-effettivo […] b non fa nessuna differenza. Se A, B e C sono tre oggetti arrangiati posizionalmente in modo tale che B stia tra A e C, il carattere di questi oggetti, come palle da biliardo, possiamo dire, rimane inalterato dalla loro sola posizione spaziale (Lloyd Morgan, 1923: 79-80).
La causalità si impone quindi dall’esterno sugli oggetti naturali, privati della loro produttività e di qualsiasi riferimento ad altre regioni spaziali o istanti temporali (Whitehead, 1926a). La sua validità euristica è pertanto garantita attraverso l’assunzione dei concetti di isotropia e omogeneità, ovvero dell’identità dello spazio e del tempo in ogni direzione. Una concezione di questo tipo, definita dal connubio tra passività e causalità 56
deterministica, necessita di un concetto di legge naturale come predeterminata e imposta agli oggetti. Dietro l’idea comune di causalità, c’è l’idea di una chiara connessione tra l’antecedente e il conseguente realizzatasi secondo una regola, e infine l’idea di legge, di una regola della Natura. Descartes, Kant e Comte pensano l’esistenza di rapporti eterni in quanto fenomeni mediante i quali le cose sono determinate in modo immutabile […] (Merleau-Ponty, 1995: 41).
Non vi è quindi né trasformazione né storia: il tempo e le interazioni sono puri epifenomeni. La natura meccanicista è quindi immobilizzata, “presentificata”, totalmente riconducibile alle proprietà (prevalentemente posizionali) dei suoi elementi e alla legge di interazione9, come è esemplificato in modo radicale nelle parole di Pierre-Simone de Laplace: passato, presente e futuro si equivalgono. In questo caso determinismo implica la possibilità – almeno in principio – di predire tutti i comportamenti futuri del fenomeno osservato così come di ricostruire quelli passati10. Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi (Laplace, 1814: 243)11. 9. È evidente qui l’origine del concetto di programma genetico dalla tradizione teorica meccanicista della fisica classica, basato su un ordine posizionale predeterminato insieme alle regole per la sua realizzazione. La differenza è che in biologia molecolare l’ordine è delegato a un componente interno che tuttavia non partecipa alle dinamiche del sistema: non è imposto dall’esterno. Il sistema vivente rimane comunque privato della sua produttività. 10. Questa identificazione di determinismo e predicibilità viene messa in discussione dalla linea di ricerca che, a partire dai lavori di Poincaré sul problema dei tre corpi (1892), dà origine agli studi sul cosiddetto “caos deterministico”. 11. È rilevante mettere in evidenza la differente immagine che propone l’emergentista Charlie-Dunbar Broad, esponente di un approccio che inizia a prendere in considerazione la produttività intrinseca della Natura e legata in modo stretto allo studio del vivente: “Se è vera la teoria emergente dei composti chimici, un arcangelo matematico, dotato del
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Come viene concettualizzato quindi il ruolo del soggetto conoscente? Di fronte a una Natura caratterizzata come pura esteriorità, l’interiorità e la produttività sono lasciate a Dio, il legislatore, e all’uomo. Quest’ultimo ha status ambiguo, a metà tra i due mondi. Nella concezione Cartesiana (Descartes, 1637) è sia pura estensione e materia nella sua corporeità – res extensa – che pensiero – res cogitans – nell’ambito cognitivo. Egli è quindi separato dalla natura in ciò che gli conferisce la specificità rispetto agli oggetti inanimati e viventi, cioè la capacità di conoscere un mondo in cui la differenza tra organico e inorganico è ricondotta a un puro aumento di complicazione. Concepito come uomo proprio nella sua separazione dal mondo naturale, ne diviene lo spettatore assoluto. Natura e conoscenza acquistano quindi due statuti ontologici diversi, che tuttavia si implicano reciprocamente: la mancanza di produttività della natura richiede un pensiero che sia posizionato all’esterno di essa per comprenderla. Ma anche questo pensiero è passivo nella sua modalità di approccio alla natura. Esso è pura rappresentazione o, meglio, contemplazione di entità preesistenti semplici12, ontologicamente indipendenti dall’osservatore. Si realizza come correlazione tra le proprietà dell’intelletto e la legalità a priori della natura. In questo modo acquisisce quella forma di tendenza all’onniscienza che le attribuisce Laplace nel passo sopra citato, in cui l’essere divino può essere paragonato a un calcolatore che, a partire da misurazioni perfette, è in grado di ricostruire l’intera storia passata e futura dell’universo a partire da qualsiasi istante. La conoscenza è quindi passiva, una registrazione di eventi. L’unico aspetto di attività che rimane all’uomo è perciò l’attività di modificazione tecnologico-strumentale della natura-macchina. A livello epistemologico la reciproca estrinsecità tra uomo e Natura si riflette quindi in una reciproca relazione di passività. Concepire la potere di percepire la struttura microscopica degli atomi […], non potrebbe più predire il comportamento dell’argento o del cloro o delle proprietà del clorato di argento senza aver osservato esempi di questa sostanza […]. E non potrebbe dedurre il resto delle proprietà di un elemento o composto chimico da una selezione delle sue proprietà più di quanto non possiamo noi” (Broad, 1925: 71). È posto un limite intrinseco per una conoscenza della natura secondo gli schemi conoscitivi meccanicisti. 12. Come sottolineato nell’introduzione, questa concezione della Natura è invece essa stessa conseguenza di operazioni di astrazione condotte dall’osservatore scientifico. Questo aspetto è messo in risalto da Whitehead attraverso i concetti di “fallacia della concretezza mal posta”, “operazione di astrazione estensiva” e “principio di localizzazione semplice della materia” (Whitehead, 1920; 1926a).
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causalità come un principio di intelligibilità caratterizzato da relazioni di pura esteriorità, porta a teorizzare sia le interazioni materiali che quelle cognitive nello stesso modo. Si tratta di una dinamica circolare che si autorinforza. Da un lato la Natura come puro oggetto meccanico rende necessario separare e allontanare l’osservatore, con la conseguenza di considerarlo passivo nelle sua modalità conoscitive. Dall’altro lato, come sottolinea Sartre: […] la posizione dello sperimentatore de-situato tende a mantenere la Ragione analitica come tipo d’intelligibilità; la sua passività di scienziato rispetto al sistema gli rivelerebbe una passività del sistema rispetto a se stesso (Sartre, 1960, vol. 1: 163).
Un primo colpo alla concezione rappresentazionista è dato dal costruttivismo kantiano della Critica della Ragion Pura (Kant, 1781), ovvero la “rivoluzione copernicana” della conoscenza che porta l’uomo al centro del problema conoscitivo. Questo approccio è però ancora legato alla concezione meccanicista della Natura. Infatti, ha lo scopo di fornire una giustificazione epistemologica alla prospettiva teorica della fisica classica. Il tentativo kantiano nasce dalla necessità di ritrovare una giustificazione del concetto di causalità dopo la critica di David Hume alla procedura di induzione tramite la quale viene rilevata la relazione causale. L’intento è perciò quello di salvare l’impianto teorico della fisica classica. Dal punto di vista concettuale le leggi della fisica classica non sembrano in grado di esprimere una connessione causale necessaria tra gli eventi. La povertà delle relazioni di implicazione che la caratterizzano non è in grado di esprimere in un evento qualcosa che richiami il passato e si riferisca all’immediato futuro. Le leggi di tipo newtoniano non si fondano su una necessità di questo tipo ma, come abbiamo sottolineato in precedenza, possono essere interpretate come regolarità garantite dall’uniformità dello spazio e del tempo. Lo spazio vuoto è il sostrato delle relazioni geometriche passive tra i corpi materiali: queste relazioni sono puri fatti statici e non comportano nessuna conseguenza necessaria (Whitehead, 1938: 195)
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Il limite del concetto di causalità, così come viene posto in evidenza da Whitehead, è collocato quindi al livello della povertà di implicazioni caratteristica dell’impianto concettuale della fisica classica. La causalità fisica è esteriore rispetto agli elementi che dovrebbe connettere: non ha origine in essi e non ne modifica le proprietà. Dal punto di vista della modellizzazione, è espressa attraverso una regolarità di tipo matematico (Rosen, 1991) che, incarnando la visione meccanicista della natura, trasferisce nei modelli del mondo fisico una separazione tra gli stati del sistema che si succedono temporalmente e le leggi che ne governano la dinamica. Le leggi, infatti, non sono generate dagli elementi che esse regolano, e rimangono immutabili nel tempo e nello spazio: le regole di implicazione meccanicista sono al di fuori della portata della loro stessa azione. Essendo di carattere estrinseco anche la relazione tra le proprietà degli elementi descritti e le regole di implicazione, la causalità è ridotta esclusivamente alla regolarità della successione degli stati. L’operazione epistemologica condotta da Immanuel Kant (Kant, 1781) al fine di salvare questo impianto teorico, consiste nello spostare il punto di vista sul soggetto conoscente. Questo è caratterizzato come soggetto assoluto e garante dell’intelligibilità del mondo naturale. Viene postulato un io trascendentale, a priori, il cui accesso è negato all’esperienza. La conoscenza scientifica viene ricondotta di conseguenza a ciò che è percepito dai sensi e categorizzato per mezzo dell’attività legislatrice dell’intelletto. È in quest’ultimo che viene riposizionato il concetto di causalità, una delle categorie della ragion pura, in modo da renderne possibile, almeno dal punto di vista operazionale, il mantenimento nella forma elaborata dalla scienza meccanicista. Anche se il punto di vista è posto sul soggetto, la causalità meccanica è la garanzia di intelligibilità di un mondo di relazioni di tipo matematico13. Il soggetto assoluto è quindi ancora esterno alla natura che indaga. È vero che viene introdotto un limite di principio nel soggetto, per quello che riguarda la sua capacità di accesso al mondo. Esso è specificato attraverso la distinzione tra “noumeno” – la realtà in sé – e “fenomeno” – ciò a cui ha accesso l’esperienza – che diventa il dominio della conoscenza scientifica rigorosa. L’impianto conoscitivo però, non si caratterizza come 13. “Nelle sua fasi iniziali, la natura per Kant era un sistema oggettivo di relazioni fisicomatematiche costruite dall’appercezione soggettiva e necessaria dello spazio e del tempo e delle categorie della ragion pura” (Weber e Varela, 2002: 104).
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una costruzione attiva della realtà. Si tratta, in questo caso, di un “costruttivismo passivo”, fondato sul filtro categoriale sovrapposto all’esperienza sensibile del mondo. Non tutti i fenomeni naturali possono però essere compresi per mezzo dei principi a priori della ragion pura. Il limite dell’approccio epistemologico kantiano emerge nello studio del mondo organico, come posto in evidenza nella Critica del Giudizio (Kant, 1790). Kant ha il merito di porre per primo il problema dell’autonomia del vivente in una forma analoga a quella che elaborerà poi la tradizione degli studi sull’auto-organizzazione biologica. […] se una cosa, in quanto prodotto della natura, deve contenere in se stessa e nella sua possibilità interna una relazione a fini, vale a dire che deve essere possibile soltanto come fine della natura e senza la causalità dei concetti di esseri ragionevoli ad essa esterni, si richiede […] che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma. […] (Kant, 1790:§ 65, 428) In un simile prodotto della natura ogni parte è pensata come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo); il che però non basta (perché potrebbe essere anche pensata come uno strumento dell’arte, e quindi essere rappresentata solo come uno scopo possibile in generale); dev’essere pensata come un organo che produce tutte le parti (ed è reciprocamente prodotto da esse), mentre nessuno strumento dell’arte può essere così, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell’arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere organizzato e che si organizza da sé, può essere chiamato un fine della natura […] (Kant, 1790: § 65: 429, enfasi nostra).
Affrontando l’autonomia del vivente, espressa attraverso il concetto di “fine della natura”, Kant introduce una forma di relazionalità di tipo inerente. Con “fine della natura” si intende una finalità interna realizzata da una totalità interrelata di mezzi e fini. Quella manifestata dagli organismi biologici è una circolarità che mette in crisi la concezione del mondo naturale come macchina ordinata. In un orologio, una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre; ma una ruota non è la causa efficiente della produzione delle altre; una parte esiste bensì in vista delle altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa
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produttrice dell’orologio e della sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma sta al di fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile mediante la sua causalità. […]. Un essere organizzato non è dunque una semplice macchina, che non ha altro che la forza motrice: possiede una forza formatrice, tale la comunica alle materie che non l’hanno (le organizza): una forza formatrice, che si propaga14, e che non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento (il meccanismo) (Kant, 1790: § 65: 429).
L’organizzazione e la propagazione di organizzazione che caratterizzano gli organismi viventi riportano la produttività originaria all’interno del mondo naturale, non più definibile come oggetto passivo o macchina. La causalità stessa della fisica classica non è infatti in grado di esprimere una relazione di implicazione di tipo inerente che “si sdoppia e ritorna su se stessa” (Merleau-Ponty, 1995: 35)15. Il vivente perciò sfugge all’impostazione teorica della scienza moderna, perché non è descrivibile per mezzo di “leggi naturali non ordinate da alcun intento” (Kant, 1790: §75: 483): la “causalità” circolare, associata al concetto di fine interno come unico strumento concettuale alternativo alla concezione meccanicista, è esclusa dalla spiegazione scientifica: L’organizzazione della natura non ha dunque alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo. […] non si può spiegare con alcuna analogia con qualche facoltà fisica e naturale che conosciamo […] neppure con una stretta analogia con l’arte umana (Kant, 1790: §65: 431).
Mancano quindi gli strumenti teorici e concettuali per concepire e rappresentare anche solo per analogia l’organizzazione del vivente. L’organismo infatti mostra una “causalità” che il soggetto non conosce e non può conoscere. Il vivente pertanto può essere concettualizzato solo nega14. A questo passo di Kant si riferisce esplicitamente Stuart Kauffman con il concetto di “propagazione dell’organizzazione”, linea guida dello studio termodinamico del vivente come ciclo di processi di produzione di vincoli (organizzazione) che rendono possibile il processo metabolico che li produce: una relazione circolare tra lavoro e vincoli (Kauffman, 2000). 15. Difatti, è assolutamente certo che non possiamo imparare a conoscere sufficientemente, e tantomeno a spiegare gli essere organizzati e le loro possibilità interna, secondo principi puramente meccanici della natura (Kant, 1790: §75: 483).
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tivamente, come ciò che sfugge alle categorie del soggetto trascendentale kantiano, e quindi alla descrizione di tipo fisico. La posizione di Kant si pone in una situazione di compromesso instabile. Non nega la validità della prospettiva teorica della fisica di tipo newtoniano che egli stesso tenta di giustificare epistemologicamente, ma allo stesso tempo mostra che il vivente non è conoscibile in questi termini. Ma non è detto che se il meccanicismo fallisce come approccio alla biologia, non sia possibile ricercare una via alternativa. Si rende invece necessario tracciare un percorso teorico in grado di ripensare la natura e la conoscenza a partire da questi limiti. In questa idea di resistenza da parte di una Natura che non si lascia racchiudere all’interno di un modello preformato […] non bisogna forse cogliere un nuovo senso del termine “Natura” […]? (Merleau-Ponty, 1995: 35).
Si tratta di ri-radicare il soggetto conoscente kantiano in una concezione della Natura di cui l’autonomia del vivente diventa un aspetto fondamentale16, e della quale il soggetto stesso è espressione in quanto organismo17. La vita perciò non diventa solo il residuo inerte di ciò che è colto dall’osservatore. Ha invece una sua produttività intrinseca e raccoglie il soggetto conoscente al suo interno. L’uomo e il mondo sono indissolubilmente intrecciati, e la Natura è ciò in cui l’uomo è situato, non qualcosa di osservato da una distanza incolmabile, dal limite di una frattura ontologica. Riconoscere questo intreccio originario significa riportare l’osservatore al livello del mondo naturale, reinserirlo attivamente all’interno della scienza, creando un ponte in grado di ricongiungere le scienze naturali 16. Questa prospettiva è comune anche al pensiero di Hans Jonas: “[…] visto che la materia ha dato notizia di sé così, ovvero si è effettivamente organizzata in questo modo e con questi risultati, il pensiero dovrebbe renderle giustizia e attribuirle la possibilità di ciò che ha fatto come insita nella sua essenza iniziale. Questa potenza originaria dovrebbe essere inclusa parimenti nel concetto di sostanza fisica, così come dovrebbe essere inclusa nel concetto di causalità fisica la tenacia di propositi che compare nelle attualizzazioni di tali propositi, ossia nelle creature” (Jonas, 1966: 7-8). E ancora: “[…] quando un presunto principio cosmico non può rendere ragione della vita, che informa di sé ogni parte del cosmo, allora quel determinato principio si rivela insufficiente anche per il cosmo stesso” (Jonas, 1966: 96). 17. Kant intuisce questo aspetto, proponendo negli scritti postumi una fondazione della conoscenza sul corpo vivente (Weber e Varela, 2002: 109).
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con quelle dell’uomo (Prigogine e Stengers, 1979). La domanda sulla Natura diventa quindi necessariamente domanda sul soggetto conoscente come parte di essa, suo prodotto e come sua origine epistemologica18. Il principio di causalità trova una sua ricollocazione epistemologica all’interno di questo quadro, come espressione dell’attività del soggettoorganismo. Non è un principio postulato nel soggetto, l’io trascendentale, ma è generato nel processo vitale: […] non è il puro intelletto, bensì unicamente la vita corporea, nel gioco reciproco fra forze che sentono se stesse e il mondo, a poter essere la fonte dell’idea di forza e con ciò di causalità (Jonas, 1966: 31).
La causalità non si mostra quindi sul piano dell’intelletto, quello della connessione logica, ma su quello dell’attività corporea, dell’interazione tra organismo e ambiente. Deriva dalla resistenza del mondo al movimento vitale dell’organismo. La causalità non è quindi fondamento aprioristico dell’esperienza, bensì essa stessa esperienza. Essa viene acquisita nello sforzo che devo compiere per superare nel mio essere attivo la resistenza della materia mondana e per resistere io stesso all’impatto della materia mondana (Jonas, 1966: 31).
La natura non diventa quindi conoscibile a partire dal concetto a priori, ma dall’esperienza radicata nella vita attraverso il corpo inteso come struttura sia fisica che esperenziale19. Questi due aspetti non si escludono più a vicenda, generando paradossi, poiché il dualismo mente-corpo viene superato ricollocando il soggetto nel mondo naturale. Il corpo assume perciò un diverso significato nel passaggio da una prospettiva realista, in cui è considerato come un limite al potere della razionalità, a una costruttivista, in cui è inteso come campo di possibilità della conoscenza. Queste considerazioni sono ancora più evidenti per quello che riguarda lo studio del vivente, la cui specificità sfugge alla concezione teorico 18. “La materia, parlando metaforicamente, è la creazione dello spirito (il modo di esistere dell’osservatore in un dominio del discorso), e […] lo spirito è la creazione della materia che esso crea” (Maturana, 1980b: 31). 19. Su questa linea di pensiero si muovono anche Merleau-Ponty (Merleau-Ponty, 1995) e Varela (Varela et al, 1991).
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epistemologica kantiana. Esso non può essere compreso né concepito secondo i modelli della mente disincarnata, che si limitano a cogliere l’esteriorità delle relazioni. La vita non può essere conosciuta se non da parte del vivente stesso, attraverso l’esperienza organica come esperienza della totalità interrelata e delle relazioni di interiorità. A un’indagine di carattere meccanicista la molteplicità della materia del vivente rimane aggregazione inerte e passiva e non un’attività di integrazione e interiorità. L’epistemologia costruttivista contemporanea, che trova la sua espressione più rigorosa nella teoria dell’autopoiesi, deriva da questo passaggio concettuale e si caratterizza come una costruzione del mondo a partire dalle operazioni di un osservatore incarnato. Si tratta di una prospettiva antifondativa, che non si radica né in un mondo preesistente né nelle proprietà postulate di un soggetto trascendentale. Bensì si caratterizza come una “via di mezzo della conoscenza” (Varela et al, 1991), collocata nel punto di incontro tra soggetto e oggetto. È un’epistemologia antiaprioristica, strettamente legata alla sua matrice biologica; e che, in quanto generativa e storica, concepisce la conoscenza a livello individuale, sociale ed evolutivo come un processo non predefinito ma creativo20. Questa prospettiva, che identifica la conoscenza con le operazioni dell’osservatore vivente, è particolarmente adatta per le esigenze di modellizzazione della biologia, in particolare per quello che riguarda i problemi dei livelli sistemici, dei processi di emergenza e dell’identificazione e descrizione dell’organizzazione. Problemi in cui si rende necessario prendere in considerazione in modo effettivo il ruolo che le attività dell’osservatore assumono implicitamente all’interno dei modelli. Due sono le istanze fondamentali da cui scaturiscono l’esigenza e l’importanza di una prospettiva epistemologia costruttivista negli studi biologici. La prima riguarda la necessità di tenere conto del duplice ruolo dell’osservatore radicato nel mondo naturale, che studia i sistemi viventi essendo allo stesso tempo un membro della stessa classe. Ci sono, infatti, due modi distinti in cui l’irruzione dell’osservatore diventa evidente […]. Da una parte, vediamo la necessità di riconoscere il ruolo 20. “La nostra metafora guida è che una via esista solo nell’atto di percorrerla, ed è nostra convinzione che come primo passo si debba affrontare il problema dell’infondatezza della nostra cultura scientifica” (Varela et al., 1991: 281).
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del processo tramite il quale distinguiamo le unità di cui parliamo […]. Un secondo modo in cui l’osservatore entra in questa visione delle unità […] è che noi stessi facciamo parte della stessa classe – c’è una continuità in senso biologico, e nei meccanismo cognitivi […] (Varela, 1979: ivi).
Allo stesso tempo però, questa stessa doppia natura si ripete dal punto di vista dei sistemi studiati. Essi stessi in quanto sistemi viventi svolgono, a diversi livelli di complessità, un’attività di osservatore selezionando le perturbazioni esterne. Oppongono quindi una resistenza all’attività dello scienziato dovuta all’intrinseca attività e produttività del vivente, espressa per mezzo del concetto di “autonomia”. Vi è una refrattarietà dei processi organici all’indagine scientifica. Dal punto di vista sperimentale essa è conseguenza della reazione attiva alle perturbazioni portate dall’osservatore; dal punto di vista teorico della difficoltà di modellizzarne le dinamiche, a causa delle continue trasformazioni effettive che avvengono nel sistema. Questo è uno dei motivi per cui l’osservatore non può essere concepito come spettatore di un processo che gli si disvela, ma le sue concettualizzazioni sorgono sul piano delle interazioni che egli ha col sistema, in una sorta di gioco di mosse e contromosse con un avversario a cui non può mai avere un accesso diretto. I suoi modelli sono quindi espressione di queste interazioni e non dell’essenza del sistema studiato. Queste sono le istanze fondamentali a cui l’approccio costruttivista della teoria dell’autopoiesi tenta di fornire una rigorizzazione concettuale, al fine di sviluppare un’epistemologia che trovi le sue radici nella biologia e di rendere possibile una conoscenza della biologia. La cognizione è un fenomeno biologico e lo si può capire solo come tale: qualsiasi indagine epistemologica nel dominio della conoscenza richiede questa comprensione (Maturana, 1970: 51). I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione (Maturana, 1970: 59).
Come si vedrà nel capitolo seguente, si tratta di un percorso circolare che consiste nel partire dall’attività dell’osservatore per giungere di nuovo a esso come risultato del suo operare come essere vivente.
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2. 2.
Costruttivismo epistemologico
1. Un approccio biogenico alla cognizione La prospettiva epistemologica sviluppata da Maturana e Varela assume il riconoscimento dell’autonomia del vivente come elemento fondamentale: il punto di partenza concettuale ma anche l’obiettivo del loro percorso investigativo sulla conoscenza e il vivente. Nel fare ciò i due scienziati cileni portano a compimento le indagini scientifiche dello strutturalismo biologico di von Bertalanffy (von Bertalanffy, 1949), della cibernetica e dell’embriologia, caratterizzati dal riconoscimento dell’importanza dei fattori interni nei sistemi viventi, in grado di determinarne le risposte agli stimoli ambientali. I risultati di queste linee di indagine sono posti al centro della teoria della conoscenza e affiancati allo studio del funzionamento del sistema nervoso. Il punto focale diventa la natura attiva dell’organismo, considerata sia dal punto di vista dell’osservatore che del sistema osservato. Sul piano concettuale il punto di partenza è il manifestarsi dell’autonomia nel dominio delle interazioni tra organismo e ambiente e, nel caso della conoscenza, tra osservatore e sistema. Il passo successivo, che dà origine alla biologia autopoietica, è quello di indagare approfonditamente il livello delle dinamiche interne al vivente il meccanismo che genera questo tipo di manifestazioni comportamentali. La natura dell’interazione tra organismo e ambiente si caratterizza per quella “resistenza attiva”, non inerziale, alle perturbazioni esterne individuata dalle ricerche sull’autoregolazione portate avanti dalla cibernetica per mezzo del concetto di omeostasi (Wiener, 1948; 1950); dall’embriologia attraverso lo studio dei processi di sviluppo ontogenetico canalizzati e la formulazione del concetto di “creodo” o “attrattore” (Waddington, 67
1968a; 1968b; 1975), e la una teorizzazione del concetto di sistema come unità dotata di una maggiore resistenza alle perturbazioni rispetto ai suoi componenti (Weiss, 1969); dagli studi sulla termodinamica dei sistemi lontani dall’equilibrio, focalizzata sulla descrizione dei processi di creazione di forma, caratterizzati dall’esibizione di una certa stabilità strutturale in contrapposizione alla tendenza entropica alla degradazione e al disordine (von Bertalanffy, 1949; Prigogine, 1978; Prigogine e Stengers, 1979; 1988); infine da quella linea di ricerca puramente matematica inaugurata da Nicholas Rashevsky, indirizzata allo sviluppo degli strumenti formali necessari alla modellizzazione dei processi di morfogenesi intesi come successioni di destabilizzazioni e stabilizzazioni (Rashevsky, 1960; Turing, 1952; Thom, 1968; 1980)1. L’interazione tra sistema e ambiente è caratterizzata in base a un modello alternativo rispetto a quello meccanico di tipo comportamentista di stimolo e risposta. La risposta del sistema autonomo alle perturbazioni esogene non viene fatta dipendere dalla natura dello stimolo stesso, ma dalla struttura interna dell’organismo. […] lo scopo principale è (lo studio) dell’organizzazione intrinseca dell’entità studiata, la sua struttura e le sue proprietà; le relazioni tra l’oggetto e ciò che lo circonda è relativamente incidentale (Rosenblueth et al, 1943: 18). La struttura dell’input non produce la struttura dell’output, ma modifica solamente le attività nervose interne, che possiedono una organizzazione strutturale di per sé (Weiss, 1951)2.
Non vi è quindi una risposta di tipo lineare allo stimolo ambientale, a cui il sistema reagisce passivamente, in modo determinato dalla natura dell’input. Il significato della perturbazione e la natura della risposta dipendono dalla struttura del sistema. Inoltre, l’intensità della reazione
1. Questi approcci sono da considerarsi interdipendenti, caratterizzati da un continuo scambio reciproco di concetti, modelli, strumenti teorici e sperimentali, domande e problemi. Un’eccezione è da individuarsi forse nei lavori di Rashevsky e Turing, che hanno avuto poco seguito a causa dell’elevato livello di astrazione rispetto ai fenomeni che si proponevano di modellizzare e della complessità degli strumenti matematici utilizzati (Fox Keller, 2002). 2. In Jeffress (a cura di), Cerebral Mechanisms in Behavior. The Hixon Symposium, Wiley, New York, citato in Koestler, 1969: 204).
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può essere amplificata o smorzata rispetto a quella dello stimolo a causa dell’azione di meccanismi interni. Von Foerster esprime la differenza tra la relazione stimolo-risposta e la mediazione attraverso una struttura, citando un esempio preso dal dominio delle macchine artificiali3: la distinzione tra macchine “banali” e “non-banali” (von Foerster, 1985), che riprende il principio della “scatola” di Ashby. Una macchina “banale” è caratterizzata da una relazione semplice tra input ed output, definita da una funzione f. Il suo comportamento è facilmente analizzabile, perché fornisce sempre la stessa risposta a uno stesso input. Essa è perciò prevedibile, indipendente dalla storia, e può essere studiata anche dal punto di vista del suo comportamento, perché il suo risultato è determinabile. Una macchina “non-banale” è invece più complessa. La differenza dipende dalla presenza di una certa “struttura”. Essa possiede uno stato interno, che influenza il suo comportamento. L’input è collegato quindi a due operatori: il primo produce l’output in base allo stato interno, il secondo modifica quello stato. Può quindi esibire un comportamento diverso in risposta allo stesso input. Il risultato dell’interazione non dipende più dalla natura dello stimolo esterno, ma dal funzionamento dei processi interni. Queste macchine dipendono dalla storia delle perturbazioni incontrate e non sono predicibili nel loro comportamento a meno di non conoscerne la struttura interna. Come si può evincere dall’esempio portato da von Foerster, il concetto di interazione mediata dalla struttura interna del sistema interagente non si applica esclusivamente al mondo organico, bensì a tutti quei sistemi a cui è attribuita una struttura dotata di una certa plasticità e di meccanismi di regolazione di tipo retroattivo. Dal punto di vista del mondo fisico e degli artefatti però, manca la componente interna dell’autonomia, ovvero la capacità di autoprodursi e di mantenersi in base a delle condizioni specificate dal sistema stesso, invece che da parametri esterni. Si può quindi affermare che alcuni sistemi inorganici esibiscono dei comportamenti analoghi a quelli autonomi caratteristici del vivente, ma generati in modo diverso. “Simulano”, quindi, alcuni aspetti fenomenici dell’autonomia biologica invece che realizzarla. Entrambe queste classi di sistemi sono caratterizzabili per una certa dipendenza endosistemica, ma nel dominio 3. Una delle costanti degli studi della cibernetica è lo scambio di modelli teorici dal mondo delle macchine a quello degli organismi viventi e viceversa.
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inorganico questa è individuabile al livello degli “stati” interni. Nel vivente invece, come si mostrerà anche dal punto di vista formale, è situata anche al livello delle “funzioni” interne. Maturana e Varela fanno di questa dinamica il punto di partenza e l’elemento teorico centrale del loro approccio epistemologico, introducendo il concetto di “determinismo strutturale”. Nel dominio delle interazioni sistema-ambiente, il cambiamento dello stato interno del sistema in un certo istante è determinato dalla sua struttura in quell’istante, e non dalla natura dello stimolo. Quest’ultimo è considerato come una perturbazione generica, il cui effetto non è dovuto alle sua caratteristiche intrinseche ma dipende dalla struttura del sistema ricevente. Qualsiasi cambiamento intervenga in un’unità […] sarà un cambiamento strutturale, necessariamente determinato ad ogni istante dalla struttura che essa avrà in quell’istante […] Inoltre, anche i cambiamenti strutturali che […] subisce come effetto di un’interazione sono determinati dalla sua struttura […]. Quindi un agente esterno che interagisca con un’unità […] si limiterà ad innescare e non determinare in essa un cambiamento strutturale (Maturana, 1988: 29).
Tutto ciò che avviene in un sistema strutturalmente determinato dipende dalla sua struttura nell’istante considerato. Questa determina tutti i cambiamenti possibili del sistema e l’insieme delle possibili perturbazioni significative4. Sono qui considerati sia quei cambiamenti che mantengono invariata l’identità del sistema, che quelli che portano invece alla sua disgregazione. L’uso dell’espressione “determinismo strutturale” porta con sé una certa ambiguità terminologica5, che è sintomo di un’ambiguità anche a livello concettuale, dovuta all’eredità, seppur negata, del paradigma del controllo6. Richiama infatti al concetto di determinismo e quindi a 4. Alcuni tipi di stimoli infatti non hanno nessun effetto perturbativo sul sistema. 5. Si ringrazia Enrico Giannetto per aver portato alla mia attenzione la necessità di esplicitare questo problema terminologico. 6. Questa ambiguità è riscontrabile ad esempio nel pensiero di Wiener, che identifica una corrispondenza tra la struttura di un automa e quella del vivente nel dominio delle interazioni con l’ambiente: “[…]I molti automi presenti oggi sono accoppiati con il mondo esterno sia per quello che riguarda la ricezione di impressioni che per l’esecuzione di azioni. Essi contengono organi di senso, effettori, ed informazione dagli uni agli altri. Si
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una concezione della causalità di tipo meccanico, oltre che alla possibile predicibilità delle dinamiche strutturali. L’utilizzo di questo termine nella teoria autopoietica può essere reinterpretato alla luce della necessità di esprimere lo stretto legame tra la struttura del sistema e i suoi possibili cambiamenti, escludendo il riferimento ai processi di tipo deterministico7. Anche se si è sempre nel dominio osservativo, è necessario distinguere tra il processo generativo e il modello che lo descrive. Il problema ha quindi due aspetti. Il primo consiste nel fatto che nell’affrontare il problema dell’autonomia dal punto di vista teorico non interviene infatti il concetto di determinismo, legato alla definizione di un dominio di elementi e di interazioni incompatibili con l’autonomia stessa. In secondo luogo, le considerazioni sul problema della contingenza e del determinismo appartengono al dominio delle costruzioni dell’osservatore, e non hanno un riferimento al sistema in sé (Bich et al, 2010). Si situano quindi sul piano dei modelli formulati dall’osservatore, dove sono pertinenti le considerazioni sul problema della possibile predicibilità o no del comportamento del sistema. Nel caso dell’esempio delle macchine non-banali vi è un determinismo strutturale descrivibile, se si conosce la struttura interna, per mezzo di modelli deterministici; in quello dell’autonomia questi sono esclusi. Al livello del sistema in sé invece queste considerazioni non hanno prestano molto bene a una descrizione in termini fisiologici. Non è probabilmente un miracolo che possano essere inclusi in una stessa teoria con i meccanismi della fisiologia” (Wiener, 1948: 43). Il proposito della prima cibernetica è, infatti, quello di individuare le analogie tra le due classi di sistemi al fine di permettere uno scambio reciproco di modelli. In questo caso la direzione dello scambio è, però, orientata prevalentemente sull’asse macchina→organismo che su quella opposta, almeno per quello che riguarda un certo substrato meccanicista nella modellizzazione: un’interpretazione della cibernetica avanzata anche – in modo più radicale – da Dupuy, che vi vede un tentativo di meccanizzazione della mente (Dupuy, 1994; 1999). Oggi invece, a causa della crisi del paradigma computazionalista, si assiste a un’inversione di tendenza. Il ruolo della componente meccanicista nella riflessione degli autori della teoria dell’autopoiesi, è particolarmente evidente nel loro saggio preliminare sul vivente (Varela e Maturana, 1972). Qui gli organismi e le macchine artificiali sono posti in una stessa classe di sistemi, le macchine, in cui il ruolo centrale è svolto dal concetto di organizzazione: “[…] i sistemi viventi sono macchine di una certa classe” (Varela e Maturana, 1972: 380). Nei prossimi capitoli si specificheranno meglio le differenze tra questi due tipi di sistemi a partire principalmente da una diversa caratterizzazione del concetto di organizzazione nei due casi. 7. Al riguardo si rimanda anche a von Glasersfeld, 1990.
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significato, perché le sue dinamiche si realizzano senza riferimento al possibile, che è un concetto appartenente al dominio dell’osservatore8. Il concetto di determinismo strutturale deve quindi esprimere al massimo una dipendenza strutturale del comportamento del sistema. Esso permette di riconcettualizzare il problema delle interazioni sistemiche senza fare ricorso alla teoria dell’informazione. 1. Le interazioni non sono “istruttive” ma “selettive”9. Esse innescano un cambiamento senza determinarne la natura. 2. L’interazione non contiene informazione o un messaggio. Il suo significato non è intrinseco ma è definito dal sistema perturbato. 3. Non vi è differenza tra perturbazione interna o esterna. Come conseguenza del fatto che è determinata internamente al sistema, questo non distingue se proviene dall’ambiente o dipende da una variazione delle relazioni tra i suoi componenti. Dal punto di vista del sistema tutto è interno, così come per quello che riguarda l’osservatore tutto è interno al suo dominio. Invece, se il punto di vista è spostato al di fuori del sistema, l’osservatore può distinguere quali perturbazioni sono dovute all’interazione con il medium e quali alle dinamiche interne. Se il punto di vista osservativo è spostato dall’interazione tra sistema e ambiente generico a quella tra due sistemi, si noterà che questi risponderanno alle perturbazioni reciproche con cambiamenti strutturali determinati internamente. Non essendoci né interazioni istruttive né scambio di informazione, avrà luogo una serie di interazioni selettive detta “accoppiamento strutturale”. 8. Si può individuare qui un parallelismo con il concetto di “movimento retrogrado del vero” di Henri Bergson (Bergson, 1934). La “creazione” in linguaggio bergsoniano, o la dinamica strutturale in questo caso, non consistono nella mera realizzazione di un possibile a priori. L’uso ontologico del concetto di possibilità è una fonte di errori, a meno che non sia usato nel significato di mancanza di ostacoli alla realizzazione, che lo rende però tautologico. Nel significato di alternativa preesistente, la possibilità è frutto dello sguardo a posteriori sul reale o della modellizzazione antecedente al comportamento studiato, che constatano che la realizzazione sarebbe potuta avvenire o potrebbe avvenire anche in modi diversi. Queste modalità alternative vengono quindi rigettate indietro come anteriori, già presenti nell’istante iniziale del processo considerato. 9. “[…] il medium, come entità indipendente, che interagisce con esso, non specifica attraverso le interazioni la configurazione strutturale che esso adotta nel suo continuo cambiamento strutturale, ma le seleziona attraverso il loro innesco differenziale” (Maturana, 1980a: 70-71).
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Due strutture plastiche diventano accoppiate strutturalmente come risultato delle loro interazioni sequenziali quando le loro reciproche strutture sono sottoposte a cambiamenti sequenziali senza perdita di identità (Maturana, 1975: 162).
La serie di perturbazioni può portare all’emergere di coerenze comportamentali nel dominio relazionale, sotto forma di corrispondenze ricorrenti di comportamenti reciproci. Queste sono analoghe agli “autovalori” (von Foerster, 1981; 1985) che possono emergere da un’operazione matematica applicata ricorsivamente. Il concetto di “determinismo strutturale” informa tutto l’approccio epistemologico della biologia della cognizione. Anche la relazione tra osservazione e sistema, infatti, non può essere di tipo stimolo-risposta. Di conseguenza la conoscenza non è interpretabile come un trasferimento di informazione tra i due termini della relazione, come avviene nell’approccio rappresentazionista. Essendo anche l’osservatore un sistema strutturalmente determinato, è la sua struttura interna a conferire un significato alle interazioni. La conoscenza si caratterizza quindi come un processo di accoppiamento strutturale assimilabile a quello tra due sistemi autonomi. Per questo motivo l’osservatore non ha accesso diretto all’oggetto del suo studio, ma solo ai propri cambiamenti strutturali: non rappresenta quindi il sistema, ma ipotizza in esso un processo strutturalmente determinato come modello in grado di rendere conto dell’origine del comportamento del sistema “che assume essere responsabile delle sue osservazioni” (Maturana, 1978a: 35). Il ruolo di punto di partenza imprescindibile della conoscenza del mondo naturale è attribuito all’osservatore come sistema biologico strutturalmente determinato. Conoscere la conoscenza significa quindi studiare il meccanismo secondo cui il soggetto produce le sue osservazioni. […] l’osservare è sia il punto di partenza ultimo che la domanda più fondamentale (Maturana, 1988b: 27).
Egli può conoscere solo per mezzo dei cambiamenti che le interazioni con il mondo naturale innescano in lui. L’indagine epistemologica Maturana e Varela è strettamente legata alla studio dei processi percettivi al livello del sistema nervoso, di cui rivoluziona la prospettiva di riferimento tradizionale. Maturana partecipa 73
alle ricerche sulla percezione visiva delle rane-toro al MIT con alcuni dei padri dell’epistemologia sperimentale (Lettvin et al, 1959), ma ancora all’interno un quadro epistemologico tradizionale in cui “c’è una realtà oggettiva (assoluta), esterna all’animale, e indipendente da esso (non determinata da esso), che esso poteva percepire […]” (Maturana, 1980b: 26)10. Verso la metà degli anni Sessanta lo studio dei colori rende però necessario un approccio diverso, che ribalta la concezione tradizionale della percezione: i colori non vengono più riferiti esclusivamente alle proprietà della luce, ma vengono interpretati come il risultato di configurazioni di attività relativa tra i neuroni11. Non potevamo dar ragione delle molteplici esperienze cromatiche dell’osservatore definendo una corrispondenza del mondo colorato visibile con l’attività del sistema nervoso […]. E se, invece di tentare di correlare l’attività della retina con gli stimoli esterni all’organismo avessimo fatto diversamente, ed avessimo cercato di correlare l’attività della retina con l’esperienza del colore del soggetto? (Maturana, 1980: 27).
Il sistema nervoso è sottoposto a delle perturbazioni che innescano dei cambiamenti strutturali. Sono poi questi processi i responsabili delle immagini percepite, che perciò non sono interpretabili come una semplice registrazione di oggetti indipendenti dall’osservatore. Il concetto di perturbazione come innesco di un cambiamento strutturale viene applicato quindi al livello delle dinamiche neuronali. Queste sono le responsabili del contenuto della percezione, come conseguenza di quello che von Foerster definisce “Principio di Codifica Indifferenziata”: La risposta di una cellula nervosa codifica soltanto l’intensità della perturbazione a cui viene sottoposta, e non la natura fisica dell’agente perturbatore (von Foerster, 1981: 172).
Analizzando la dinamica strutturale del sistema nervoso, Maturana e Varela introducono uno dei concetti di “chiusura” che segnano il loro 10. Deve essere però riconosciuto che già nell’articolo citato si affronta il problema della rilevanza delle perturbazioni in base alla struttura del sistema percettivo della rana-toro. 11. Per l’interpretazione costruttivista della percezione del colore si rimanda a Maturana, 1980b: 26-28; Winograd e Flores, 1986: cap.4; Varela et al, 1991: cap. 8.
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impianto teorico, quello di “chiusura operazionale”. Il sistema nervoso non può essere descritto in termini di input e output, ma solo in termini di attività neurali relative, descritte attraverso la coordinazione, detta di accoppiamento senso-motorio, tra recettori ed effettori12. Questi non sono più intesi come moduli predisposti alle attività di ricezione degli stimoli ambientali, i primi, e di emissione di stimoli, i secondi, ovvero come strutture legate al modello della relazione stimolo-risposta. Sono invece definiti in funzione dell’attività globale del sistema. La nozione di chiusura in questo contesto teorico assume quindi il significato di ricorsività, secondo cui “l’attività neuronale conduce sempre ad attività neuronale” (Maturana e Varela, 1973: 189). Questa impostazione teorica mette in crisi anche dal punto di vista scientifico il concetto di rappresentazione e di osservatore ideale, assoluto. Le sue proprietà sono radicate nella sua biologia e quindi definite dalla sua struttura. La conoscenza implica interazioni, e non possiamo uscire dal nostro dominio di interazioni, che è chiuso. Noi viviamo, dunque, in un dominio di conoscenza dipendente dal soggetto e di realtà dipendente dal soggetto. Questo significa che se le domande “Cos’è l’oggetto della conoscenza?” o “Cos’è la realtà oggettiva di un oggetto?” sono intese come rivolte a un osservatore assoluto, allora esse sono prive di significato, perché un tale osservatore assoluto è intrinsecamente impossibile nel nostro dominio cognitivo (Maturana, 1978a: 60).
Maturana propone quindi di mettere “l’oggettività tra parentesi”13, che significa sospendere il giudizio sul mondo indipendente dall’osservatore, perché egli non può averne un accesso diretto. La realtà non è quindi il fondamento della conoscenza e il criterio ultimo di validazione delle descrizioni. Ciò che ha un’evidenza primaria è l’esperienza dell’osservatore: non è possibile fare ricorso a niente di esterno a essa. 12. “Tutta l’attività sensoria in un organismo conduce ad attività nelle superfici effettrici, e tutta l’attività effettrice conduce a cambiamenti nelle sue superfici sensorie” (Maturana e Varela, 1973: 189). 13. Per un confronto tra la posizione epistemologica della teoria autopoietica e le riflessioni di Husserl, Heidegger e Gadamer si rimanda a Winograd e Flores, 1986; e Mingers, 1994.
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L’osservatore viene a trovarsi immerso nell’esperienza come sua condizione costitutiva. Essa è l’elemento non analizzabile da cui partire: “[…] qualsiasi cosa ci succeda, ci succede come un’esperienza che viviamo come se non provenisse da nessun luogo” (Maturana, 1988b: 27). Ogni spiegazione quindi è secondaria rispetto a questo riconoscimento. Si parte dall’esperienza dell’osservatore per proporre un meccanismo che produca e renda conto delle proprietà dell’osservatore, in una circolarità senza fine. Anche lo stesso determinismo strutturale non è un principio assunto su una realtà oggettiva a cui è delegato il ruolo di fondamento concettuale e operazionale. È anch’esso un’astrazione dalle coerenze dell’attività dell’osservatore. La realtà, specificata dalle operazioni dell’osservatore, non può essere il fondamento e il punto di partenza, ma nemmeno può esserlo il soggetto aprioristico kantiano. Di conseguenza il cammino della conoscenza assume una forma circolare e può trovare un criterio di validità solo nella coerenza globale del proprio procedere14. Si caratterizza come una prassi, come un’attività di produzione di realtà. L’attività primaria dell’osservatore è la distinzione di un’unità da uno sfondo, che crea una differenza in un mondo prima indistinto15. È un’operazione che dipende dallo suo scopo e dal punto di vista dell’osservatore, e specifica le condizioni che definiscono l’identità del sistema considerato, così come il suo dominio di esistenza. L’identità del sistema è perciò dipendente dall’osservatore. La generazione teorica e operazionale di un confine, o distinzione, è caratterizzata da due aspetti: un criterio tramite cui si individuano le entità rilevanti, e che dipende dal livello di osservazione su cui ci si pone; uno scopo o un valore, per cui essa diventa un’indicazione16, ovvero una delle due parti che sono distinte è considerata primaria e l’altra diviene il suo sfondo o termine di relazione (Spencer Brown, 1969)17. Il concetto di 14. von Glasersfeld, 1990. 15. In modo simile, per Gregory Bateson, il punto di partenza è il rilevare le differenze: “[…] la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza” (Bateson, 1979: 46). In questo caso si tratta però di una “produzione” di differenza. 16. “Dobbiamo inoltre indicare dove si suppone che l’osservatore sia posizionato in relazione all’espressione” (Spencer Brown, 1969: 103). 17. Spencer Brown negli anni ’60 sviluppa un’aritmetica, detta calculus of indications, basata sulla semplice operazione di distinzione. A partire da questa aritmetica, caratte-
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indicazione implica non solo quale dei due domini è preferito, ma anche l’impossibilità di porsi da entrambe le parti contemporaneamente. In questo modo viene esclusa la possibilità di una descrizione della realtà indipendente dall’osservatore, che è sempre implicato all’interno della descrizione stessa. Un universo viene ad essere quando uno spazio è diviso o smontato. […]. Questa azione è il primo tentativo di distinguere oggetti differenti dove, in primo luogo, i confini possono essere tracciati ovunque vogliamo. A questo stadio l’universo non può essere distinto da come agiamo su di esso (Spencer Brown, 1969: XXIX).
La realtà non è distinguibile dalle operazioni condotte da un osservatore. Pertanto rivela le proprietà e i criteri di indagine del soggetto conoscente, prima ancora che quelle dell’oggetto distinto. Così come non è possibile distinguere l’oggetto conosciuto dall’attività del soggetto conoscente, non è possibile nemmeno isolare l’osservatore puro dall’attività che svolge nel corso del suo processo di accoppiamento strutturale con l’ambiente. […] queste distinzioni sono più pertinenti a una rivelazione di dove si situa l’osservatore che a una costituzione intrinseca del mondo il quale appare, per mezzo di questo stesso meccanismo di separazione tra osservatore e osservato, sempre elusivo […]. Nel ripercorrere all’indietro i nostri passi fino all’indicazione, troviamo poco più che una immagine di rispecchiamento reciproco di noi stessi e del mondo. […]. Una descrizione, quando investigata con attenzione, rivela le proprietà dell’osservatore. Noi osservatori distinguiamo noi stessi precisamente per mezzo del distinguere ciò che apparentemente non siamo, il mondo (Varela, 1975: 22).
rizzata da un unico operatore, è possibile costruire un’algebra e una logica, quest’ultima non più caratterizzata dai valori vero e falso ma dallo stato indicato e non indicato. Come sottolinea Varela (1979: 120), il calcolo sviluppato da Spencer Brown è molto utile per una descrizione sistemica, sia per l’importanza della distinzione al fine di caratterizzare le unità e il loro dominio di esistenza, sia perché tiene intrinsecamente conto del ruolo attivo dell’osservatore. Questo formalismo viene usato inoltre da Varela stesso per indagare dal punto di vista matematico il problema della circolarità autoreferenziale caratteristica dei sistemi viventi autonomi (Varela, 1975; 1979).
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XQDFRVWLWX]LRQHLQWULQVHFDGHOPRQGRLOTXDOHDSSDUHSHUPH]]RGLTXHVWRVWHVVRPHFFDQLVPR GLVHSDUD]LRQHWUDRVVHUYDWRUHHRVVHUYDWR VHPSUHHOXVLYR>«@1HOULSHUFRUUHUHDOO¶LQGLHWURL QRVWUL SDVVL ILQR DOO¶LQGLFD]LRQH WURYLDPR SRFR SL FKH XQD LPPDJLQH GL ULVSHFFKLDPHQWR UHFLSURFRGLQRLVWHVVLHGHOPRQGR>«@8QDGHVFUL]LRQHTXDQGRLQYHVWLJDWDFRQDWWHQ]LRQH ULYHOD OH SURSULHWj GHOO¶RVVHUYDWRUH 1RL RVVHUYDWRUL GLVWLQJXLDPR QRL VWHVVL SUHFLVDPHQWH SHU PH]]RGHOGLVWLQJXHUHFLzFKHDSSDUHQWHPHQWHQRQVLDPRLOPRQGR9DUHOD
Quella alla baseGL delGLVWLQ]LRQH processo di distinzione è quindi una dinamica 4XHOOD DOOD EDVH GHO SURFHVVR q TXLQGL XQD GLQDPLFD FLUFRODUH WULDGLFD LQ FXL
circolare triadica, in cui l’interazione tra due elementi, ad esempio l’osservatore e l’unità distinta, avviene sempre alla luce di un ulteriore elemento GLXQXOWHULRUHHOHPHQWRFKHDVVXPHLOUXRORGLVIRQGRHTXLQGLGL³WHU]RUHJRODWRUH´GHOSURFHVVR che assume il ruolo di sfondo e quindi di “terzo regolatore” del processo, di definire gliIDWWRUL altri due fattori della relazione all’interno di un XQLWDULR FKH SHUPHWWHche GL permette GHILQLUH JOL DOWUL GXH GHOOD UHOD]LRQH DOO¶LQWHUQR GL XQ SURFHVVR processo unitario integrato. Si tratta quindi di un processo di definizione LQWHJUDWR6LWUDWWDTXLQGLGLXQSURFHVVRGLGHILQL]LRQHUHFLSURFDRGLUHFLSURFDLQFOXVLRQHLQFXL reciproca, o di reciproca inclusione, in cui emergono tutti e tre i termini HPHUJRQR WXWWL H WUH L WHUPLQL GHOOD UHOD]LRQH WULDGLFD ± RVVHUYDWRUH XQLWj H VIRQGR ± RJQXQR GHL della relazione triadica – osservatore, unità e sfondo – ognuno dei quali opera nel ruolo di “terzo” dal punto di vista della relazione tra gli altri due. TXDOLRSHUDQHOUXRORGL³WHU]R´GDOSXQWRGLYLVWDGHOODUHOD]LRQHWUDJOLDOWULGXH
O¶LQWHUD]LRQHWUDGXHHOHPHQWLDGHVHPSLRO¶RVVHUYDWRUHHO¶XQLWjGLVWLQWDDYYLHQHVHPSUHDOODOXFH
Quella della distinzione è un’operazione per un approc4XHOOD GHOOD GLVWLQ]LRQH q XQ¶RSHUD]LRQH IRQGDPHQWDOHfondamentale SHU XQ DSSURFFLR GL WLSR VLVWHPLFR DOOD
cio di tipo sistemico alla conoscenza, in quanto si focalizza sull’identificazione di un’unità rispetto allo sfondo ambientale con cui interagisce. FRQFXLLQWHUDJLVFH,QROWUHDVHFRQGDGHOSXQWRGLYLVWDROLYHOORRVVHUYDWLYRDVVXQWRO¶DWWHQ]LRQH Inoltre, a seconda del punto di vista o livello osservativo assunto, l’attenzione può rivoltaLQWHUQD alla costituzione del sistema o GL allaLQWHUD]LRQH sua SXz HVVHUH ULYROWD DOOD essere FRVWLWX]LRQH GHO VLVWHPDinterna R DOOD VXD GLQDPLFD FRQ dinamica di interazione con l’ambiente. O¶DPELHQWH Maturana e Varela individuano almeno due livelli che possono essere distinti su una stessa unità sistemica, a seconda che si assuma un punto di vista 0DWXUDQDH9DUHODLQGLYLGXDQRDOPHQRGXHOLYHOOLFKHSRVVRQRHVVHUHGLVWLQWLVXXQDVWHVVDXQLWj interno o esterno a essa. Ognuno di questi definisce un dominio di esistenza VLVWHPLFD D VHFRQGD FKH VL DVVXPD XQ SXQWR GL YLVWD LQWHUQR R HVWHUQR18D HVVD 2JQXQR GL TXHVWL differente caratterizzato dalla presenza di elementi specifici . Ma al fine di poter affrontare il problema della modellizzazione dei sistemi complessi e quello dell’emergenza che caratterizza il vivente in contrapposizione ai sistemi meccanici, è opportuno definire anche un ulteriore livello di distinzione dallo status particolare, quella delle “parti materiali” (Bich, 2009; 2012). FRQRVFHQ]D LQ TXDQWR VL IRFDOL]]D VXOO¶LGHQWLILFD]LRQH GL XQ¶XQLWj ULVSHWWR DOOR VIRQGR DPELHQWDOH
18. “La distinzione di un’unità ne realizza il dominio di esistenza come uno spazio di distinzioni: le dimensioni di tale spazio sono definite tramite la loro distinzione, lo implicano come dominio di coerenze operative nella prassi dell’osservatore. […] Uno spazio è un dominio di distinzioni” (Maturana, 1988a: 37).
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GHILQLVFHXQGRPLQLRGLHVLVWHQ]DGLIIHUHQWHFDUDWWHUL]]DWRGDOODSUHVHQ]DGLHOHPHQWLVSHFLILFL0D DO ILQH GL SRWHU DIIURQWDUH LO SUREOHPD GHOOD PRGHOOL]]D]LRQH GHL VLVWHPL FRPSOHVVL H TXHOOR GHOO¶HPHUJHQ]D FKH FDUDWWHUL]]D LO YLYHQWH LQ FRQWUDSSRVL]LRQH DL VLVWHPL PHFFDQLFL q RSSRUWXQR GHILQLUH DQFKH XQ XOWHULRUH OLYHOOR GL GLVWLQ]LRQH GDOOR VWDWXV SDUWLFRODUH TXHOOD GHOOH ³SDUWL PDWHULDOL´%LFK
Il primo livello di distinzione, corrispondete al punto di vista esterno ,O SULPR OLYHOOR GL GLVWLQ]LRQH FRUULVSRQGHWH DO SXQWR GL YLVWD HVWHUQR DO VLVWHPD ULJXDUGD al sistema, riguarda l’identificazione in base agli obiettivi dell’osservatore, O¶LGHQWLILFD]LRQH LQ EDVH DJOL RELHWWLYL GHOO¶RVVHUYDWRUH GL XQ¶XQLWj ULVSHWWR DOO¶DPELHQWH FRQ FXL di un’unità rispetto all’ambiente con cui interagisce. È il livello della “unità LQWHUDJLVFHcaratterizzata Ê LO OLYHOOR GHOOD ³XQLWj XQ WXWWR QRQ DQDOL]]DELOH H semplice”, come unVHPSOLFH´ tutto nonFDUDWWHUL]]DWD analizzabileFRPH e definita in base alla proprietà esibite nel suo dominio comportamentale. GHILQLWDLQEDVHDOODSURSULHWjHVLELWHQHOVXRGRPLQLRFRPSRUWDPHQWDOH
Distinzione dell’unità semplice
',67,1=,21('(//¶81,7È6(03/,&(
secondoOLYHOOR livello, FKH che aggiungiamo rispettoDOO¶LPSLDQWR all’impiantoHSLVWHPRORJLFR epistemolo- GHOOD WHRULD ,O IlVHFRQGR DJJLXQJLDPR ULVSHWWR gico della teoria dell’autopoiesi, riguarda invece le “parti materiali” che GHOO¶DXWRSRLHVL ULJXDUGD LQYHFH OH ³SDUWL PDWHULDOL´ FKH FRPSRQJRQR LO VLVWHPD OH TXDOL compongono il sistema, le quali appartengono quindi al dominio della DSSDUWHQJRQRTXLQGLDOGRPLQLRGHOODVXDVWUXWWXUDPDWHULDOH6RQRGLVWLQWHDQFK¶HVVHULVSHWWRDOOR sua struttura materiale. Sono distinte anch’esse rispetto allo sfondo amVIRQGRDPELHQWDOHLQEDVHDOOHORURSURSULHWjLQWULQVHFKHLQYHFHFKHSHUOHSURSULHWjUHOD]LRQDOLFKH bientale, in base alle loro proprietà intrinseche invece che per le proprietà relazionali che le integrano nel sistema considerato. OHLQWHJUDQRQHOVLVWHPDFRQVLGHUDWR
Distinzione delle parti materiali del sistema
',67,1=,21('(//(3$57,0$7(5,$/,'(/6,67(0$
³/DGLVWLQ]LRQHGLXQ¶XQLWjQHUHDOL]]DLOGRPLQLRGLHVLVWHQ]DFRPH XQRVSD]LRGLGLVWLQ]LRQLOHGLPHQVLRQLGLWDOH VSD]LR VRQR GHILQLWH WUDPLWH OD ORUR GLVWLQ]LRQH OR LPSOLFDQR FRPH GRPLQLR GL FRHUHQ]H RSHUDWLYH QHOOD SUDVVL GHOO¶RVVHUYDWRUH>«@8QRVSD]LRqXQGRPLQLRGLGLVWLQ]LRQL´0DWXUDQDD
79 ,O WHU]R OLYHOOR GL GLVWLQ]LRQH FRUULVSRQGHQWH DO SXQWR GL YLVWD LQWHUQR DO VLVWHPD FRVWLWXLVFH LO GRPLQLRGHOOHLQWHUD]LRQLGHL³FRPSRQHQWL´FKHUHDOL]]DQRO¶XQLWjHFKHVRQRGLVWLQWLLQUHOD]LRQHDO VRYUDVLVWHPDFKHLQWHJUDQRHUHDOL]]DQRÊLOOLYHOORGHOOD³XQLWjFRPSRVLWD´ ',67,1=,21('(//¶81,7È&20326,7$
,O WHU]R OLYHOOR GL GLVWLQ]LRQH FRUULVSRQGHQWH DO SXQWR GL YLVWD LQWHUQR DO VLVWHPD FRVWLWXLVFH LO
Il terzo livello di distinzione, corrispondente al punto di vista interno
GRPLQLRGHOOHLQWHUD]LRQLGHL³FRPSRQHQWL´FKHUHDOL]]DQRO¶XQLWjHFKHVRQRGLVWLQWLLQUHOD]LRQHDO al sistema, costituisce il dominio delle interazioni dei “componenti” che
VRYUDVLVWHPDFKHLQWHJUDQRHUHDOL]]DQRÊLOOLYHOORGHOOD³XQLWjFRPSRVLWD´ realizzano l’unità, e che sono distinti in relazione al sovrasistema
integrano e realizzano. È il livello della “unità composita”.
che
',67,1=,21('(//¶81,7È&20326,7$
Distinzione dell’unità composita
I componenti non coincidono necessariamente con le parti mate, FRPSRQHQWL QRQ FRLQFLGRQR QHFHVVDULDPHQWH FRQ OH SDUWL PDWHULDOL GLVWLQWH GDOOR VIRQGR
riali distinte dallo sfondo ambientale e caratterizzate in base alle loro proprietà intrinseche . Essi sono infatti identificabili solo a partire VROR D SDUWLUHche GDOO¶XQLWj FKH LQWHJUDQR 6RQR SHUFLz FDUDWWHUL]]DWL LQ EDVH DOOH ORUR SURSULHWj dall’unità integrano. Sono perciò caratterizzati in base alle loro proprietà relazionali: non possono essere isolati operativamente dalla UHOD]LRQDOL QRQ SRVVRQR HVVHUH LVRODWL RSHUDWLYDPHQWH GDOOD UHWH D FXL SDUWHFLSDQR H GD FXL rete a cui partecipano e da cui dipendono sia dal punto di vista episteGLSHQGRQRVLDGDOSXQWRGLYLVWDHSLVWHPRORJLFRFKHIXQ]LRQDOH mologico che funzionale.
DPELHQWDOH H FDUDWWHUL]]DWH LQ 19EDVH DOOH ORUR SURSULHWj LQWULQVHFKH (VVL VRQR LQIDWWL LGHQWLILFDELOL
I componenti di un’unità composita, quindi, sono componenti solo in re-
1HOFDVRGHOORVWXGLRGHOVLVWHPDQHUYRVROHSDUWLPDWHULDOLFRUULVSRQGRQRDOOHXQLWjDQDWRPLFKH³,QHXURQLVRQROH lazione all’unità (il tutto) che essi integrano, e sono distinguibili come tali XQLWj DQDWRPLFKH GHO VLVWHPD QHUYRVR PD QRQ VRQR JOL HOHPHQWL VWUXWWXUDOL GHO VXR IXQ]LRQDPHQWR *OL HOHPHQWL solo riferimento al GHYRQR tutto che costituisce lo sfondo da cui VWUXWWXUDOL GHO in VLVWHPD QHUYRVR >«@ HVVHUH HVSUHVVL LQ WHUPLQL GL LQYDULDQWL GL sono DWWLYLWjdistinti UHODWLYH WUD QHXURQL LQ TXDOFKH(Maturana, PRGR PDWHULDOL]]DWL LQ LQYDULDQWL GL UHOD]LRQL GL LQWHUFRQQHVVLRQL H QRQ LQ WHUPLQL GL HQWLWj DQDWRPLFKH 1980a: 47). VHSDUDWH´0DWXUDQD
19. Nel caso dello studio del sistema nervoso, le parti materiali corrispondono alle unità anatomiche. “I neuroni sono le unità anatomiche del sistema nervoso, ma non sono gli elementi strutturali del suo funzionamento, Gli elementi strutturali del sistema nervoso […] devono essere espressi in termini di invarianti di attività relative tra neuroni, in qualche modo materializzati in invarianti di relazioni di interconnessioni, e non in termini di entità anatomiche separate” (Maturana, 1970: 98-99).
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Ognuno di questi livelli distinti su una stessa unità ne specifica i domini di esistenza, i quali sono caratterizzati dalla presenza di elementi di tipo specifico e di proprietà pertinenti al fine dell’indagine scientifica condotta. I livelli delle parti materiali e dei componenti, che nel caso dei modelli meccanicisti possono essere considerati come coincidenti, hanno uno status particolare. Non possono infatti essere considerati in relazione gerarchica tra loro, come invece avviene rispetto all’unità semplice che li contiene. La loro differenza è dovuta invece alla modalità dell’operazione di distinzione, per proprietà intrinseche nel primo caso, per proprietà relazionali nel secondo. Ritornando alla distinzione sistemica tra unità semplice e unità composita, la loro differenza non è considerata in assoluto, ma dipende dal punto di vista e dal livello epistemologico su cui viene operata la distinzione: il componente è una unità semplice rispetto allo sfondo dell’unità composita. A sua volta, considerato come unità composita, è composto dalle unità semplici che lo realizzano. A ogni livello si può quindi distinguere il piano del comportamento (unità semplice) da quello della fisiologia (unità composita). Come si è posto in evidenza, ogni livello di un’unità definisce un dominio specifico di esistenza caratterizzato da propri elementi e proprietà rilevanti, frutto di un’operazione osservativa differente. Non sono quindi investigabili attraverso le stesse modalità. È perciò necessario tenere in considerazione questi aspetti epistemologici nel definire la relazione tra i diversi domini di distinzione identificati su uno stesso sistema. Infatti, non possono essere posti in relazione sullo stesso piano senza incorrere nell’errore metodologico di appiattire più livelli su uno solo. Allo stesso tempo però sono in relazione di definizione reciproca: generativa dal basso; di perturbazione/selezione dall’alto. Escludendo la possibilità di un’interazione diretta, i domini dell’unità semplice e composita possono essere quindi descritti come ortogonali, non intersecanti.
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La linea di intersezione X della figura è da considerarsi come un insieme vuoto dal punto di vista operazionale. Appartiene invece ad un /DOLQHDGLLQWHUVH]LRQH;GHOODILJXUDqGDFRQVLGHUDUVLFRPHXQLQVLHPHYXRWRGDOSXQWRGLYLVWD metalivello di corrispondenze stabilito da un osservatore che consideri RSHUD]LRQDOH$SSDUWLHQHLQYHFHDGXQPHWDOLYHOORGLFRUULVSRQGHQ]HVWDELOLWRGDXQRVVHUYDWRUHFKH entrambi i domini allo stesso tempo. Essa è il luogo ipotetico delle proFRQVLGHUL HQWUDPEL L GRPLQL DOOR VWHVVRaiWHPSR (VVD q LODal OXRJR LSRWHWLFR GHOOH SURLH]LRQL GHJOL iezioni degli elementi appartenenti due domini. punto di vista metaforico, riconoscendo il posizionamento sul metalivello osservativo, HOHPHQWLDSSDUWHQHQWLDLGXHGRPLQL'DOSXQWRGLYLVWDPHWDIRULFRULFRQRVFHQGRLOSRVL]LRQDPHQWR essiVXO si comportano come dueHVVL sistemi in accoppiamento strutturale, inteso PHWDOLYHOOR RVVHUYDWLYR VL FRPSRUWDQR FRPH GXH VLVWHPL LQ DFFRSSLDPHQWR VWUXWWXUDOH come processo di selezione reciproca di comportamenti. LQWHVRFRPHSURFHVVRGLVHOH]LRQHUHFLSURFDGLFRPSRUWDPHQWL
[…] Uno dei maggiori valori analitici implicati dal riconoscimento dei due >«@8QRGHLPDJJLRULYDORULDQDOLWLFLLPSOLFDWLGDOULFRQRVFLPHQWRGHLGXHGRPLQLIHQRPHQLFL domini fenomenici in cui YLYHQWH esiste un sistema vivente, è che permette di riLQ FXL HVLVWH XQ VLVWHPD q FKH SHUPHWWH GL ULFRQRVFHUH L IHQRPHQL JHQHUDWL GDOOH RSHUD]LRQL GL XQ VLVWHPD YLYHQWH XQLWj VHPSOLFH FRPH vivente VHOHWWRULcome GHO SURFHVVR GL conoscere i fenomeni generati dalle FRPH operazioni di un sistema VWUXWWXUDOH FXLdel q processo VRWWRSRVWDdiFRPH XQLWj FRPSRVLWD GLQDPLFD unitàFDPELDPHQWR semplice come selettori cambiamento strutturale, cui èH YLFHYHUVD 0DWXUDQD sottoposta come unità composita dinamica, e viceversa (Maturana, 1980: 77).
8QD YROWD GHILQLWD O¶RSHUD]LRQH RVVHUYDWLYD IRQGDPHQWDOH q SRVVLELOH UDGLFDUH LO FRQFHWWR GL
Una volta definita l’operazione osservativa fondamentale, è possibile RUJDQL]]D]LRQH GLVWLQWR GD TXHOOR GL VWUXWWXUD DOO¶LQWHUQR GL TXHVWD FRUQLFH HSLVWHPRORJLFD radicare il concetto di organizzazione, distinto da quello di struttura, FRVWUXWWLYLVWD(VVDqGHILQLWDFRPHO¶LQVLHPHGHOOHUHOD]LRQLFKHLQWHJUDQRLFRPSRQHQWLGLXQ¶XQLWj all’interno di questa cornice epistemologica costruttivista. Essa è definita FRPSRVLWDGLXQDFHUWDFODVVHGHWHUPLQDQGROHSURSULHWjFKHHVVDSRVVLHGHTXDQGRqGLVWLQWDFRPH come l’insieme delle relazioni che integrano i componenti di un’unità XQLWjVHPSOLFH GHILQLVFHTXLQGL composita di una/¶RUJDQL]]D]LRQH certa classe, determinando le O¶LGHQWLWjGHOVLVWHPDRYYHUROHUHOD]LRQLFKHOR proprietà che essa possiede quando è distinta come unità semplice. L’organizzazione definisce quindi GHILQLVFRQRFRPHWRWDOLWjGLVWLQJXHUHXQ¶XQLWjFRPSRVLWDVLJQLILFDVSHFLILFDUQHTXLQGLODWRSRORJLD GL UHOD]LRQL SHUWLQHQWH ,O FRQFHWWR GL RUJDQL]]D]LRQHTXLQGL ³QRQ GLFH QXOOD GHOOH FDUDWWHULVWLFKH R
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l’identità del sistema ovvero le relazioni che lo definiscono come totalità: distinguere un’unità composita significa specificarne quindi la topologia di relazioni pertinente. Il concetto di organizzazione quindi “non dice nulla delle caratteristiche o proprietà dei componenti; sappiamo solo che essi, attraverso le loro interazioni nel realizzarla, devono soddisfare le relazioni definitorie dell’organizzazione di quell’unità” (Maturana, 1988a: 28). Essa specifica il dominio dei possibili componenti che possono partecipare alla composizione del sistema. La realizzazione effettiva del sistema appartiene invece al dominio della “struttura” ovvero dei componenti che costituiscono il sistema. Anche l’organizzazione, quindi, non è una proprietà oggettiva della realtà, ma dipende dall’operazione di distinzione eseguita dall’osservatore. È costruita concettualmente a un livello di astrazione superiore rispetto a quello strutturale dei componenti. Non solo, su una stessa unità possono essere definite organizzazioni diverse in base allo scopo dell’osservatore, che può individuare differenti classi di relazioni rilevanti. L’approccio epistemologico della teoria dell’autopoiesi definisce quindi un impianto teorico e metodologico orientato all’investigazione di problematiche sistemiche, strettamente connesse al concetto di unità come totalità di relazioni. In particolare sviluppa un approccio che si radica nella biologia e che allo stesso tempo permette di affrontare le sfide teoriche del pensiero biologico. Costruisce, infatti, un pensiero epistemologico che definisce la conoscenza come “struttura-specifica” e “specie-specifica”. […] accettando la domanda sull’origine della nostra capacità di osservare, interviene la biologia. Vale a dire che, interrogandoci sull’origine delle capacità cognitive dell’osservatore, non possiamo non vedere che queste si alterano o scompaiono con l’alterarsi della nostra biologia […] (Maturana e Dàvila, 2006: 55).
Inoltre, l’ancoraggio biologico della conoscenza ha un’ulteriore importante conseguenza per il pensiero biologico. Attraverso il concetto di determinismo strutturale identifica la relazione soggetto-oggetto con quella tra organismo e ambiente. Così facendo ripropone nel dominio dei processi evolutivi le implicazioni epistemologiche di questo approccio costruttivista. Il fenomeno dell’adattamento interpretato come accoppiamento strutturale tra sistemi viventi e ambiente, non può essere 83
configurato teoricamente come un’aderenza dei cambiamenti strutturali dell’organismo a un medium preesistente, sul modello della rappresentazione cognitiva (Maturana e Varela, 1984; Varela et al, 1991; Maturana e Mpodozis, 2000). Come si vedrà più avanti, questo ha conseguenze rilevanti per la teoria dell’evoluzione. 2. Conoscenza scientifica e costruzioni modellistiche La concezione tradizionale della conoscenza scientifica si caratterizza per due assunzioni fondamentali, più o meno esplicite. La prima consiste nell’affermazione che il metodo scientifico rivela una realtà che esiste indipendentemente dall’osservatore. La seconda che la validità delle spiegazioni fornite dalla scienza dipende dalla connessione con questa realtà oggettiva (Maturana, 1990). Queste valgono come ipotesi fondative a prescindere dalla maggiore o minore resistenza della realtà all’indagine conoscitiva, dalla capacità di accesso ai fenomeni naturali da parte dell’osservatore, dalle assunzioni paradigmatiche alla base della teoria di riferimento. In ogni caso ciò che distingue quella scientifica dalle altre modalità conoscitive è l’aderenza preferenziale al mondo oggettivo resa possibile dal suo metodo. Dal punto di vista della biologia della cognizione invece, quello scientifico non è qualitativamente differente dagli altri domini cognitivi. Tutti infatti si caratterizzano per l’impossibilità di un accesso diretto alla realtà, che ha come conseguenza l’imprescindibile posizionamento delle modalità conoscitive all’interno del dominio delle operazioni dell’osservatore. Inoltre, ogni tipo di conoscenza è interpretata come contingente dal punto di vista non solo storico (Fleck, 1935; Kuhn, 1962; Feyerabend, 1975), ma anche onto e filogenetico (Piaget, 1967; Maturana, 1970; Maturana e Varela, 1973; 1984; Ceruti, 1989). Dipende infatti dalla struttura biologica della specie umana, e in particolare dalla conformazione del nostro sistema nervoso. È infatti localizzata al livello del nostro dominio linguistico, un sottoinsieme del dominio delle attività osservative. Con questo però non si vuole intendere la scienza come una pratica arbitraria e priva di regole. La cornice teorica costruttivista non intende infatti negare la validità del metodo scientifico ma, negando la dipendenza dalla realtà oggettiva, lo reinterpreta come una delle modalità di spiegazione dell’esperienza dell’osservatore. In un certo senso rifonda la scienza e ne spiega la peculiarità rispetto agli altri tipi di conoscenza all’interno di 84
una nuova prospettiva, in cui è inserita in modo imprescindibile l’attività osservativa. Quello che cambia rispetto alle altre modalità conoscitive e ne definisce la specificità è solo il criterio di validazione delle spiegazioni ammesse in questo dominio linguistico: la coerenza delle esperienze vissute da un “osservatore standard”20, le cui regolarità sono espresse nei modelli che egli costruisce. Questo approccio si allinea con la tradizione di ricerca delle scienze della complessità, che pone il criterio di giudizio di un modello scientifico nell’efficacia delle interazioni che esso rende possibili. Non concepiamo più le leggi della fisica come applicabili ad un qualche mistico mondo fisico di realtà dietro le nostre osservazioni e strumenti. Costituiscono puramente un’asserzione intelligibile del modo in cui le nostre osservazioni e la lettura dei nostri strumenti si sorreggono a vicenda. La fisica è solamente un modo coerente di descrivere le letture degli strumenti fisici (Wiener, 1936: 311). L’intento ed il risultato dell’indagine scientifica è quello di ottenere una comprensione ed un controllo di alcune parti dell’universo (Rosenblueth e Wiener, 1945: 316).
È evidente il passaggio dalla descrizione scientifica della realtà in sé a quella di un mondo inteso come dominio delle esperienze del soggetto conoscente. È riconcettualizzato come lo spazio in cui è possibile operare in modo effettivo e che allo stesso tempo è definito attraverso queste stesse operazioni. Il mondo naturale, in quanto termine di relazione, ha il ruolo di limitare lo spazio della loro applicabilità. È quindi il dominio in cui fenomeni naturali possono essere trattati per mezzo dei modelli formulati dall’osservatore. Per Maturana la spiegazione scientifica si caratterizza come l’insieme delle azioni adeguate nel dominio dei fenomeni naturali. Le spiegazioni scientifiche sono riformulate non come rappresentazioni, bensì come esperienze sottoposte a criteri di validazione che ne stabiliscono l’adeguatezza in un determinato dominio. La procedura di riformulazione si articola in quattro passaggi fondamentali (Maturana e Varela, 1984: 47-48; Maturana, 1990): 20. In questo attributo, di osservatore generico, risiede la pretesa di oggettività della scienza.
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1. Il primo consiste nella presentazione del fenomeno, inteso come esperienza del soggetto conoscente, che viene formulata nella forma delle operazioni che un “osservatore standard” deve eseguire per poterla sperimentare nel suo dominio di interazioni con l’ambiente. Con osservatore standard si vuole porre in rilievo che questa esperienza deve poter essere rivissuta da qualsiasi osservatore scientifico che ne rispetti le modalità, indipendentemente dalle sue specificità individuali; 2. La seconda fase riguarda la formulazione di un “meccanismo generativo”, ovvero di una serie di operazioni – concettuali, formali o pratiche – che permettano all’osservatore di ottenere come risultato l’esperienza che intende spiegare; 3. Lo step successivo riguarda le deduzione di nuove esperienze – fenomeni naturali – a partire dal meccanismo esplicativo proposto; 4. Infine la parte sperimentale, cioè la verifica operazionale delle esperienze dedotte. L’aspetto interessante di questo tipo di caratterizzazione della conoscenza scientifica risiede nel fatto che questa viene inserita in una prospettiva costruttivista fondata sulle operazioni eseguite dall’osservatore, ma non ridotta a mera arbitrarietà. La riproducibilità delle esperienze indipendentemente dalla caratteristiche individuali del soggetto, è infatti la garanzia della coerenza e dell’uniformità del metodo scientifico. Il termine di riferimento è quindi la comunità scientifica, e l’accettazione comune dello stesso metodo di validazione delle spiegazioni prodotte21. Le conseguenze più rilevanti riguardano in primo luogo il ruolo dell’osservatore, identificato come punto di partenza e come costruttore dei modelli, e caratterizzato da uno specifico dominio di esperienze. In secondo luogo viene modificato il criterio di validità: dall’oggettività del mondo naturale alla coerenza e riproducibilità delle attività eseguite nel dominio relazionale dell’osservatore. Infine, l’importanza delle categorie conoscitive prodotte non risiede nel concetto di verità o falsità caratteristico di un approccio oggettivista, ma nella pertinenza nel dominio di riferimento. Si tratta perciò di una coerenza logica e operazionale. Il valore delle leggi risiede nella capacità di garantire certi tipi di intera21. È quindi coerente con gli studi di carattere epistemologico-sociologico sulla scienza come comunità (Fleck, 1936; Kuhn, 1962).
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zioni e, quindi, certe esperienze conoscitive in grado di dare vita a una spiegazione del fenomeno studiato. La novità è che ora possiamo vedere e capire come il dominio fisico sorga nella nostra esistenza nell’intersoggettività come un modo di spiegare alcune delle regolarità delle nostre operazioni come sistemi viventi linguistici nel flusso di coordinazioni di azioni. Le leggi di natura sono pertinenti a questo dominio, questa è la loro natura. Le nostre difficoltà sorgono quando iniziamo ad usare le “leggi di natura” come principi esplicativi, oscurando le coordinazioni di coordinazioni di azioni da cui sorgono (Maturana, 2000a: 468).
Le leggi scientifiche non sono quindi preesistenti all’attività dell’osservatore, ma sono costruzioni che esprimono regolarità esperite nel suo dominio comportamentale. L’elemento centrale del procedimento costruttivista proposto da Maturana – fondamentale per comprendere come avviene la produzione effettiva dei modelli dei fenomeni naturali intesi come esperienze dell’osservatore – è il cosiddetto “meccanismo generativo”22. Con questa espressione si indica la formulazione di un processo ipotetico che se operasse darebbe vita all’esperienza da spiegare: ovvero proporre un sistema strutturalmente determinato in grado di produrre la fenomenologia presa in esame al livello delle interazione tra osservatore e oggetto osservato considerati come unità semplici. È l’ipotesi di un processo al livello dell’unità composita in grado di generare le proprietà del sistema come unità semplice. Ma quando si tratta di definirlo, questo concetto si caratterizza per delle ambiguità simili a quelle poste in evidenza riguardo al concetto di determinismo strutturale, e dovute in parte anche a una tendenza a identificare quest’ultimo con l’autonomia, con la conseguente estensione generalizzata della relazione di ortogonalità tra i domini dell’unità semplice e di quella composita. Un rischio che si è cercato di evitare attraverso l’introduzione del livello di distinzione delle parti materiali. 22. Va segnalato come in filosofia della biologia sia in corso una fertile ricerca sul concetto di meccanismo, con premesse epistemologiche diverse da quella portata avanti di Maturana e Varela. In questa linea di studio il meccanismo è inteso come modalità di spiegazione alternativa alla legge scientifica. A questo proposito si rimanda a Machamer et al, 2000.
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Maturana definisce il processo esplicativo ipotizzato come “intrinsecamente meccanicista” ma allo stesso tempo non riduzionista. In quanto meccanismi generativi […] le spiegazioni scientifiche sono costitutivamente meccaniciste nel senso che hanno a che vedere solo con sistemi strutturalmente determinati e con il determinismo strutturale implicate nel dominio operazionale in cui sono proposte (Maturana, 1990: 19). Questa relazione non riduzionista tra il fenomeno da spiegare e il meccanismo che lo genera è il caso dal punto di vista operazionale perché il risultato vero e proprio di un processo e le operazioni nel processo che danno origine ad esso in una relazione generativa hanno luogo in domini fenomenici indipendenti e non intersecanti (Maturana, 1990: 20).
Il problema dipende dalla possibilità di rendere meccaniche tutte le relazioni caratteristiche di uno stesso livello ed emergentiste tutte quelle che definiscono il rapporto tra livelli diversi. Si perderebbe quindi la specificità sia di quei fenomeni su cui la riduzione sotto certe condizioni sembra funzionare, sia quelli, come il vivente, su cui sembra valido il contrario. Per mantenere una posizione epistemologica adatta a riconoscere queste specificità si era infatti già definito il determinismo strutturale come dipendenza strutturale endosistemica. Senza bisogno di uscire dal dominio osservativo come punto di partenza per le nostre considerazioni teoriche, si può notare come Maturana caratterizzi il meccanismo generativo in senso non riduzionista perché si pone sul piano della generazione di un nuovo dominio ortogonale a quello di partenza. Definendolo però anche come meccanicista, fa un’assunzione sulle proprietà rilevanti al singolo livello: sono quelle di relazionalità estrinseca, modellizzabili deterministicamente: la conseguenza dovrebbe essere quella di poter frazionare il sistema23 e renderlo quindi descrivibile come unità semplice in base alle proprietà dei suoi componenti. 23. Un esempio è dato dal processo di riduzione funzionale, che identifica una relazione tra proprietà dell’unità globale intese come funzioni e componenti o gruppi di componenti al livello inferiore. Esempi sono noti sia nel dominio delle spiegazioni evolutive, con l’identificazione della funzione con certi processi molecolari fino al genoma che li codifica, sia in quello della relazione corpo-mente, che identifica certe funzioni cognitive con aree del sistema nervoso in cui vengono localizzate (per questo secondo tipo di riduzione si fa riferimento a Kim, 1997; 1998).
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Il termine “meccanicista” porta quindi con sé delle ambiguità. Sembra infatti limitare le possibilità teoriche della definizione di unità composta come totalità relazionale dipendente da interazioni di tipo inerente. Sembra inoltre limitare anche il valore del riconoscimento del concetto di autonomia per caratterizzare alcuni tipi di fenomeni in contrapposizione a quelli assimilabili a una descrizione di tipo meccanicista nel senso classico del termine. Prendendo ad esempio le macchine non banali di cui parla von Foerster (1981; 1985), la relazione con l’unità semplice si caratterizza come generazione di comportamenti non prevedibili per un osservatore esterno, e quindi in qualche modo emergenti: i domini esterno e interno, quest’ultimo ipotizzato come meccanismo generativo, possono essere definiti quindi euristicamente come ortogonali. Ma se ci si pone al livello interno, il meccanismo è facilmente comprensibile, e i comportamenti prima imprevedibili possono essere descritti interamente come espressione dei processi individuati all’interno: la spiegazione a questo punto diventa di tipo totalmente meccanico. La differenza tra i due domini diventa solamente epifenomenica, intesa come differenza di “scala” osservativa, e non di “domini” osservativi effettivi: non è più concettualizzabile come uno scarto vero e proprio che rende impossibile esprimerli per mezzo di una stessa descrizione. Quindi, non tutti i meccanismi generativi sono non riduzionisti. Questo non sembra avvenire nel caso dell’autonomia del vivente, ma il motivo risiede nel fatto che si attribuisce all’unità composita un ruolo diverso da quello che avrebbe se si assumesse una spiegazione di tipo meccanicista. Essa è infatti intesa come relazionalità inerente. Questi problemi, insieme alla necessità di risolvere successivamente il paradosso sistemico della downward causation24, sono i motivi per cui si è deciso di introdurre nel paragrafo precedente un terzo tipo di distinzione, quella delle parti materiali. Questa non è in contraddizione con l’approccio costruttivista della teoria dell’autopoiesi, ma permette di precisarne l’impianto epistemologico, dandogli più profondità. Lo scopo è di renderne più ampio lo spazio di applicazione, in modo da rendere possibile affron24. È il problema del potere causale del tutto sulle parti che lo compongono nei sistemi che mostrano fenomeni di emergenza, ovvero, in un dominio osservativo, che sono descrivibili tramite modelli non riduzionisti. Questi aspetti verranno esplicitati nei capitoli dedicati all’emergenza.
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tare la differenza di assunzioni richiesta dalle spiegazioni meccaniciste e biologiche. Infatti, le spiegazioni del primo tipo si riferiscono a operazioni di distinzione in cui le parti materiali coincidono con i componenti dell’unità composita, la seconda invece si applica a quelle in cui questa identificazione non è possibile. Il rischio della posizione associata al concetto contemporaneamente meccanicista e non riduzionista di meccanismo generativo, è quello di creare una posizione di compromesso, al fine di mantenere una modellizzazione meccanicista ma rendendo allo stesso tempo possibile un approccio multilivello ai fenomeni che meccanicisti non sembrano. Il fatto che le spiegazioni scientifiche siano proposizioni meccaniciste non limita la possibilità di usarle per spiegare quello che sembra essere nonmeccanicista come l’auto-consapevolezza o le esperienze spirituali (Maturana, 1990: 20).
Questa posizione potrebbe però risultare ambigua e in certi casi anche contraddittoria. Potrebbe infatti rendere meccanicisti tutti i modelli dei fenomeni naturali per quello che riguarda le loro assunzioni di base sul tipo di processi contemplati, e emergentisti nelle relazioni tra livelli anche nei fenomeni dove la riduzione è possibile. L’emergenza invece è legata intrinsecamente a una posizione non meccanicista. La conseguenza sarebbe quella di appiattire tutte le specificità su uno stesso piano, laddove, invece, dovrebbe proprio risiedere il punto di forza di una posizione costruttivista biologica, che nasce dai limiti del concetto di rappresentazione o di soggetto a priori nel comprendere il vivente, e che tenta di proporne una concettualizzazione differente su entrambi i piani: epistemologico e teorico. Si produrrebbe una categorizzazione in cui l’autonomia del vivente sarebbe fatta coincidere implicitamente o esplicitamente con il determinismo strutturale, di cui è invece un caso particolare25. In questo modo si creerebbe una certa confusione tra i processi viventi e i processi strutturalmente determinati in generale, descrivibili in termini strutturali, compresi quelli fisici o appartenenti al
25. Come si è posto in evidenza nel paragrafo precedente, alcuni sistemi strutturalmente determinati sono passibili di descrizione meccanicista a seconda del livello di osservazione.
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dominio delle macchine artificiali26. È sì vero che modificando la prospettiva epistemologica e allargando quella teorica al fine di comprendere il vivente, si può e si deve poter comprendere anche il mondo fisico, ma un approccio di questo tipo, oltre a racchiudere le ambiguità poste in evidenza, rischia di appiattire i diversi fenomeni invece di renderne possibile la caratterizzazione nei loro termini specifici. Sarebbe quindi un errore sorvolare sull’ambiguità terminologica, ma anche concettuale, delle espressioni usate nella teoria autopoietica. Quello che si vuole dimostrare, infatti, attraverso un approfondimento e una precisazione teorica, è che per spiegare i sistemi complessi sono necessari modelli non meccanicisti. In particolare, comprendere il vivente come un’unità definita da un’organizzazione circolare che identifica produttore e prodotto, mette in crisi proprio le assunzioni di base del meccanismo. A partire da questa riflessione sui concetti di determinismo strutturale e di meccanismo generativo, ci si proporrà di utilizzare i termini “dipendenza strutturale endosistemica” e “processo generativo” invece delle espressioni originali proposte da Maturana e Varela. Si utilizzeranno queste ultime solo nel caso di un riferimento esplicito alla teoria dell’autopoiesi in senso stretto ed ai suoi testi originali. L’espressione determinismo strutturale è, infatti, estremamente rilevante dal punto di vista storico, perché è uno dei concetti fondamentali su cui si basa tutto l’approccio costruttivista della teoria dell’autopoiesi e raccoglie l’eredità della tradizione di studi sull’autonomia. Le considerazioni fin qui prodotte dovranno essere tenute presenti nel procedere più nel dettaglio nell’analisi dei processi di costruzione di modelli dei fenomeni naturali nel dominio dell’osservatore. Nel corso di questo percorso saranno introdotte alcune classificazioni al fine di comprendere più in profondità il processo costruttivista di elaborazione modellistica e rendere più comprensibili le riflessioni che verranno proposte nei prossimi capitoli. 26. Ad esempio i fenomeni di stabilità strutturale descritti tra gli altri dai modelli delle strutture dissipative di Ilya Prigogine (Prigogine, 1978; Prigogine e Stengers, 1979; 1988). Il vivente esibisce fenomeni di questo tipo, essendo caratterizzabile come un sistema aperto dal punto di vista termodinamico, ma non è in questo che consiste la sua specificità. Si tratta di fenomeni diversi – sebbene si intersechino parzialmente su alcuni livelli di osservazione – e, quindi, l’importanza dei modelli che li devono descrivere risiede nella capacità di cogliere questa differenza.
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Il punto di partenza della modellizzazione consiste nell’individuazione di coerenze operazionali nel dominio delle esperienze dell’osservatore. Queste si situano al livello delle unità, ottenute per mezzo delle operazioni di distinzione, e delle loro relative proprietà. I modelli costruiti in base a queste esperienze hanno lo scopo di dare una spiegazione, ovvero fornire un processo generativo ipotetico in grado di riproporre in un altro dominio le regolarità osservate. Il nuovo dominio può essere quello caratteristico di un altro sistema che riproponga le stesse esperienze rilevanti (un modello per analogia), o di una costruzione matematica (un modello formale). Il secondo è particolarmente interessante perché si tratta di una costruzione in un dominio astratto. I modelli formali si caratterizzano per l’istituzione di un isomorfismo tra le regolarità esperite nel dominio relazionale dell’osservatore e una matrice di relazioni geometrico-matematiche specificate in un dominio di ordine superiore, quello linguistico. Ogni volta che ci si confronta con una collezione di processi, o una collezione di distinzioni, o una collezione di eventi che sono relati gli uni agli altri, si può trovare un formalismo matematico che, come metadominio di coordinazioni di azioni, genera una matrice di relazioni in cui ha luogo la collezione di processi, distinzioni, o eventi (Maturana, 2000b: 150).
I modelli costruiti per mezzo di un formalismo matematico hanno quindi origine dall’osservazione di regolarità nelle esperienze osservative, tra le quali instaurano una relazione nel dominio astratto in cui sono generati. Un esempio di questo tipo di trasferimento di regolarità operazionali al livello delle matrici di relazioni geometrico-matematiche, può essere individuato nel concetto di causalità citato in precedenza con riferimento alla riflessione di Jonas (1966). Esso infatti nasce dalle esperienze corporee di interazione tra l’osservatore come sistema vivente e l’ambiente come resistenza alle sue azioni, nel dominio che li comprende entrambi. Un approccio differente riguarda un approccio di tipo realista e meccanicista che è stato citato nell’introduzione: la Software View of Science (Chaitin, 2006). Questa si basa sul concetto di calcolo computazionale e sulla divisione tra il dominio del software, che comprende le leggi di natura preesistenti, intese come algoritmo o programma, e i dati delle misurazioni, l’input o condizioni iniziali, e quello dell’hardware che comprende l’apparato di calcolo, ovvero le operazioni dell’osservatore con 92
gli eventuali supporti. Questo approccio si caratterizza in primo luogo per l’imposizione al mondo fisico di una certa struttura di tipo computazionale e meccanicista, espressa per esempio dall’estensione della Tesi di Church-Turing ai sistemi naturali: la scienza, tanto al livello delle dinamiche dei sistemi naturali che a quello dell’attività dello scienziato, è ridotta a calcolo. In secondo luogo si fonda sulla separazione dell’osservatore dal dominio del sistema naturale. Nell’approccio del costruttivismo epistemologico questa visione della conoscenza è esclusa proprio perché la separazione netta e incolmabile tra software e hardware, tra sistema naturale e osservatore, è messa in crisi. Entrambi i fattori entrano in relazione in modo inscindibile all’interno del dominio delle esperienze dell’osservatore. Diversi tipi di regolarità possono essere individuati nei fenomeni naturali, intesi sempre come esperienze dell’osservatore nel suo dominio di interazioni. Essi danno origine a costruzioni modellistiche di natura differente. Un esempio può essere individuato nella differenza tra “modelli dinamici” e “modelli relazionali”. I primi, che si basano essenzialmente sul processo di misurazione come punto di partenza teorico e operativo, esprimono regolarità di tipo temporale: la matrice di relazioni proposta riguarda quindi una successione di stati temporali successivi. I secondi, introdotti da Rashevsky con lo scopo di produrre una modellizzazione in grado di cogliere la specificità del vivente (Rashevsky, 1954), sono focalizzati sull’organizzazione del fenomeno da descrivere. La dinamicità di questi modelli, se prevista, riguarda trasformazioni di tipo topologico nel dominio astratto dell’organizzazione, intese a stabilire quali cambiamenti nel numero e nella natura dei componenti considerati permettono di conservare la matrice di relazioni di partenza. Si tratta quindi di modelli qualitativi che si concentrano sulle modalità in cui gli elementi sono connessi piuttosto che sulla connessione temporale di successioni di misurazioni27. I modelli formali, inoltre, possono essere costruiti a partire da due operazioni compiute dall’osservatore scientifico: quella di “analisi” e quel27. Un approccio intermedio, che tenta di riprodurre i risultati della prima classe di modelli nei termini della seconda è quello della Network Thermodynamics (Mikulecky, 2001). Lo scopo è quello di rendere conto di quale forma di interazioni rende possibili i processi termodinamici come quelli delle strutture dissipative nei sistemi lontani dall’equilibrio. È tuttavia un approccio ancora in fase embrionale, sebbene alcuni studi seminali ma poco conosciuti risalgano agli anni Cinquanta (Tellegen, 1952).
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la di “sintesi”. Con la prima si intende un processo di divisione del sistema nei suoi componenti fondamentali, con la seconda un’operazione di ricostruzione del sistema a partire dalla sue parti. Sono spesso usati diversi criteri di valutazione riguardo a queste diverse operazioni, a seconda del problema da risolvere e dell’impianto teorico assunto come paradigma di base: di solito l’analisi è associata a un approccio riduzionista, che riduce la complessità del fenomeno studiato smembrando il sistema nei suoi componenti di base per studiarne le proprietà individuali28; la sintesi invece è riferita a un impianto di tipo olista od organicista, in cui gli elementi vengono messi insieme a formare il tutto. Il percorso che si propone qui è invece legato al problema della natura delle relazioni pertinenti alla descrizione del vivente, se di carattere estrinseco o intrinseco, e dalle operazioni nel dominio delle interazioni tra osservatore e sistema. In base a queste considerazioni, i due procedimenti vengono caratterizzati con un significato opposto a quello usuale, basato sul riconoscimento del ruolo effettivo svolto dalle operazioni di distinzione analizzate nel paragrafo precedente. L’analisi quindi assume un’accezione di tipo sistemico: è un’operazione che ha come punto di partenza la totalità del sistema e ne individua i componenti che lo realizzano come unità relazionale a partire proprio dalle condizioni specificate dalle relazioni che definiscono l’unità di riferimento. È l’operazione che ha come punto di partenza la distinzione dell’unità composita. La sintesi assume invece un’accezione di tipo riduzionista: il punto di partenza è l’individuazione delle parti materiali caratterizzate in base alla loro proprietà intrinseche. Il sistema è costruito attraverso l’aggregazione di queste ultime, senza tenere conto delle eventuali proprietà relazionali di livello superiore, ovvero del ruolo effettivo dell’organizzazione. È l’operazione che ha come punto di partenza la distinzione delle parti materiali. Le due operazioni, che danno origine alle due classi di modelli omonimi, si caratterizzano per la dipendenza da due diverse relazioni di distinzione e per la produzione di due costruzioni differenti: relazionale nel primo caso e aggregativo nel secondo. A questo stadio della trattazione del processo di modellizzazione è opportuno riferirsi all’operazione di misurazione. I modelli infatti non trattano gli stati dei sistemi in se stessi, ma piuttosto relazioni tra mappings 28. È quella che in questo studio intendiamo come “frazionabilità”.
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che esprimono le operazioni di misurazione al livello delle interazioni tra osservatore e sistema. Queste infatti sono definite come valutazioni di osservabili sul sistema, che inducono su di esso delle classi di equivalenza. Dato un osservabile f definito su un sistema S: f (S) = S / Rf
(1.1)
Con Rf la classe di equivalenza indotta dall’osservabile f su S. I modelli quindi non descrivono gli stati del sistema, ma solo le classi di equivalenza che l’operazione di misurazione rende possibile osservare, ovvero agli elementi che l’osservabile – che rappresenta l’operazione osservativa – rende distinguibili29. Rosen distingue tre diverse modalità di misurazione, le prime due riguardanti prevalentemente i sistemi fisici e una, ancora da approfondire, legata in modo specifico ai sistemi biologici (Rosen, 1996): 1. misurazione di sistemi classici macroscopici: siano questi fisici o biologici, questi ultimi gli elementi strutturali del vivente, intesi secondo il paradigma concettuale della biologia molecolare. 2. misurazione di sistemi quantistici: si tratta del livello microscopico, dove valgono le relazioni di indeterminazione. 3. misurazione di sistemi biologici. È una operazione particolare. Nei sistemi biologici gli aspetti rilevanti non sono quelli che definiscono lo stato temporale del sistema, incarnati nelle parti materiali, le strutture molecolari. Sono invece i “siti” attivi che emergono con la struttura terziaria delle molecole metaboliche, e che non sono ricavabili né a partire dalla sequenza di amminoacidi, né per mezzo di un frazionamento della struttura molecolare30. La misurazione dovrà quindi assumere una forma più vicina all’operazione di analisi definita sopra. Ovvero ricavare i “siti” attivi dalla struttura relazionale del tutto. Alla luce delle considerazioni fatte è possibile definire tre grandi classi di modelli. L’intento è quello di mostrare quali di queste rendano pos29. Per una trattazione formale dettagliata del processo di misurazione e delle strutture formali che questo induce sul sistema si rimanda a Rosen, 1978. 30. La formazione della struttura terziaria delle proteine infatti non è ricavabile per mezzo di algoritmi basati sulla minimizzazione dell’energia libera, che convertano la struttura primaria lineare in una forma tridimensionale terziaria. Un approccio alternativo sembra poter essere quindi di tipo relazionale o misto.
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sibile costruire delle modellizzazioni in grado di esprimere l’autonomia del vivente, inteso come un’unità organizzata in continuo processo di totalizzazione. La prima classe può essere definita dei “modelli descrittivi”. Questi si fondano sulla costruzione di osservabili prevalentemente per mezzo di operazioni di sintesi. Il sistema è ricostruito a partire da essi per mezzo dell’individuazione di un isomorfismo tra le regolarità – o regole di implicazione – di tipo temporale, nel dominio delle esperienze operative dell’osservatore (“causalità”) e in quello astratto formale (matrice di relazioni geometrico-matematiche). Le relazioni di tipo formale costituiscono il processo generativo del fenomeno studiato (esperienze dell’osservatore). È un approccio costruttivo che ha come punto di partenza il processo di misurazione (codifica). Attraverso la connessione degli osservabili ottenuti, dà quindi origine a una descrizione di tipo fenomenico e predittivo dei sistemi naturali modellizzati. I risultati del calcolo del modello vengono poi confrontati con il comportamento effettivo del sistema studiato attraverso un processo di decodifica. Questi passaggi avvengono sempre senza uscire dal dominio delle operazioni dell’osservatore.
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SUHVHQ]D GL LQWHUD]LRQL QRQ OLQHDUL KD FRPH HIIHWWR OD QRQ SUHGLFLELOLWj ROWUH XQD FHUWD VRJOLD WHPSRUDOH 3ULJRJLQH 3ULJRJLQH H 6WHQJHUV 5RVHQ ,O VHFRQGR LQYHFH ULJXDUGDODSRVVLELOHSUHVHQ]DQHOIHQRPHQRVWXGLDWR GLRVVHUYDELOLQRQFDWWXUDWLGDOPRGHOOR PD OHJDWL D TXHOOL SUHVL LQ FRQVLGHUD]LRQH $QFKH LQ TXHVWR FDVR VL DYUj XQD GLYHUJHQ]D WUD L GXH
I limiti in cui possono incorrere questi modelli sono prevalentemente di due tipi, e hanno come conseguenza la comparsa di un problema di non predicibilità a lungo termine del comportamento del sistema a partire dal calcolo del modello formale: una divergenza nel tempo tra i due fattori della relazione di modellizzazione. Il primo riguarda l’impossibilità pratica di ottenere una misurazione di precisione infinita32 delle condizioni iniziali del fenomeno di riferimento, che in presenza di interazioni non lineari ha come effetto la non predicibilità oltre una certa soglia temporale (Prigogine, 1978; Prigogine e Stengers, 1979; 1988; Rosen, 1978). Il secondo invece riguarda la possibile presenza, nel fenomeno studiato, di osservabili non catturati dal modello ma legati a quelli presi in considerazione. Anche in questo caso si avrà una divergenza tra i due comportamenti, quello osservato nel sistema e quello calcolato dal modello. Il motivo risiede nel fatto che gli osservabili che lo definiscono non sono pienamente descritti per mezzo delle relazioni che esso esprime, e quindi saranno soggetti a comportamenti non contemplati nel modello (Rosen, 1978; 1985b). La seconda classe è quella dei “modelli di simulazione”. Si tratta della riproposizione del sistema studiato in un dominio differente, quello computazionale33. Non si tratta dello stabilirsi di un isomorfismo tra due sistemi di implicazioni: quelle del fenomeno studiato non sono infatti prese in considerazione, ma sono riprodotte al livello della struttura del modello computazionale. Riprendendo la metafora di software e hardware, si può definire in questo caso il primo come i dati del calcolo, e il secondo come le regole di inferenza o “causali”34. In questo caso l’hardware del sistema naturale assume il ruolo di software all’interno del sistema computazionale: uno dei due termini della relazione di modellizzazione è perciò portato all’interno dell’altro. Si tratta perciò di uno “pseudomodello” che non deriva dalla formulazione di un processo generativo e non propone un isomorfismo con i processi interni al sistema osservato. Il punto di vista infatti è focalizzato sulla produzione di comportamenti analoghi a quelli del sistema che si vuole studiare, ma in un medium e per mezzo di processi che possono avere natura diversa rispetto a quelli del fenomeno naturale di interesse. L’approccio è di tipo “sintetico”. 32. Per la relazione tra non predicibilità e misurazione nel contesto matematico si rimanda a Bailly e Longo, 2006. 33. Gli esempi più rilevanti provengono dai domini dell’Intelligenza Artificiale e della Vita Artificiale computazionale. 34. Si può notare che a seconda del livello di osservazione può cambiare la distinzione tra i fattori considerati come software e come hardware.
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Nello studio del vivente la modellizzazione intesa come simulazione è 1HOOR caratteristica dell’approccio detto di biomimesis (Rosen, 1991), che si VWXGLR GHO YLYHQWH OD PRGHOOL]]D]LRQH LQWHVD FRPH VLPXOD]LRQH q FDUDWWHULVWLFD presenta come l’opposto di quello generativo. Il processo di costruzione GHOO¶DSSURFFLR GHWWR GL ELRPLPHVLV 5RVHQ FKH VL SUHVHQWD FRPH O¶RSSRVWR GL TXHOOR parte da un inventario delle proprietà fenomeniche esibite dagli organismi JHQHUDWLYR ,O SURFHVVR FRVWUX]LRQH GD XQ LQYHQWDULR GHOOH SURSULHWj HVLELWH viventi, e fabbrica unGLsistema cheSDUWH le esprima per aggregazione, ma IHQRPHQLFKH in un medium diverso, con regole di implicazione specifiche del nuovo medium GDJOLRUJDQLVPLYLYHQWLHIDEEULFDXQVLVWHPDFKHOHHVSULPDSHUDJJUHJD]LRQHPDLQXQPHGLXP eGLYHUVR non isomorfe a quello di partenza: un modello chePHGLXP incarniHtutte queste D TXHOOR GL FRQ UHJROH GL LPSOLFD]LRQH VSHFLILFKH GHO QXRYR QRQ LVRPRUIH proprietà è poi considerato come modello del vivente. L’idea alla base, SDUWHQ]DXQPRGHOORFKHLQFDUQLWXWWHTXHVWHSURSULHWjqSRLFRQVLGHUDWRFRPHPRGHOORGHOYLYHQWH erede dell’approccio “black box”, è quella del “parity principle”, secondo cui /¶LGHDDOODEDVHHUHGHGHOO¶DSSURFFLR³EODFNER[´qTXHOODGHO³SDULW\SULQFLSOH´VHFRQGRFXLGXH due sistemi che esibiscono uno stesso comportamento sono equivalenti. VLVWHPLFKHHVLELVFRQRXQRVWHVVRFRPSRUWDPHQWRVRQRHTXLYDOHQWL L’autonomia richiede invece una classe di modelli totalmente differente, sia per il tipo di interazione che intercorre tra osservatore e sistema vivente, sia per l’importanza delle dinamiche interne, circolari, dell’orga 6L SXz QRWDUH FKH D VHFRQGD GHO OLYHOOR GL RVVHUYD]LRQH SXz FDPELDUH OD GLVWLQ]LRQH WUD L IDWWRUL FRQVLGHUDWL FRPH VRIWZDUHHFRPHKDUGZDUH nismo. Si rende perciò necessaria una modellizzazione di tipo generativo. I “modelli generativi” non derivano esclusivamente da una misurazione degli osservabili relativi al comportamento o alle parti materiali del sistema ma, soprattutto, dalla considerazione della dinamica globale, con la conseguente formulazione di un’ipotesi sulla forma del processo interno. Inoltre, la domanda di partenza a cui il modello tenta di rispondere non è posta al livello dei funzionamenti del sistema (dominio
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comportamentale), ma a quello della sua produzione, o autoproduzione del caso del vivente. A differenza dei modelli fisici di tipo fenomenico-descrittivo, che si focalizzano sulla ricostruzione formale delle proprietà esibite dal sistema al livello delle operazioni di quest’ultimo (descrizione dei comportamenti), in questo caso si procede dal riconoscimento dell’autonomia, e si cerca di elaborare concettualmente la forma del processo che dà origine a essa. Non si costituisce nemmeno come aggregazione di osservabili delle parti materiali del sistema. La costruzione del modello procede dal riconoscimento di una proprietà della dinamica globale, ne propone un processo generativo plausibile, propone nuovi osservabili sistemici pertinenti che poi sono testati sperimentalmente nel sistema naturale investigato. Il modello è definito al livello dell’unità composita, caratterizzata da relazioni inerenti. Le misurazioni pertinenti sono poi dedotte a partire da esso. A differenza dei modelli simulativi, l’obiettivo non è quello di generare alcune proprietà “comportamentali” del sistema a prescindere dalla specificità del suo funzionamento interno, ma di proporre un modello di quest’ultimo. Ad esempio, l’obiettivo non è proporre in un qualsivoglia dominio un sistema-modello che si riproduca o che esibisca un certo comportamento, ma elaborarne uno che faccia ciò secondo le modalità proprie del sistema oggetto di indagine, e rispettando le caratteristiche del dominio in cui questo sistema è studiato. Lo scopo, quindi, è trovare un isomorfismo non solo tra proprietà o comportamenti ma anche, e soprattutto, tra i processi generativi di questi comportamenti.
5LDVVXPHQGR LO SXQWR GL SDUWHQ]D GHL99 PRGHOOL JHQHUDWLYL FRQVLVWH QHOOD GHILQL]LRQH FRQFHWWXDOH GHOO¶RUJDQL]]D]LRQH GHOO¶XQLWj FRPSRVLWD /H UHJRODULWj SHUWLQHQWL O¶RUJDQL]]D]LRQH VRQR IRUPDOL]]DWHSHUPH]]RGLXQDGHVFUL]LRQHUHOD]LRQDOHDVWUDWWD$SDUWLUHGDTXHVWDYHQJRQRGHGRWWH OH PLVXUD]LRQL QHFHVVDULH SHU ULFDYDUH TXDOL VRQR OH VWUXWWXUH ULOHYDQ]D SHU OD GHVFUL]LRQH GHOOD GLQDPLFD GHO VLVWHPD QDWXUDOH FRQVLGHUDWR OD FXL SHUWLQHQ]D q WHVWDWD VSHULPHQWDOPHQWH 4XHVWD
Riassumendo, il punto di partenza dei modelli generativi consiste nella definizione concettuale dell’organizzazione dell’unità composita. Le regolarità pertinenti l’organizzazione sono formalizzate per mezzo di una descrizione relazionale astratta. A partire da questa, vengono dedotte le misurazioni necessarie per ricavare quali sono le strutture rilevanza per la descrizione della dinamica del sistema naturale considerato, la cui pertinenza è testata sperimentalmente. Questa modalità di operazione è di tipo analitico, e procede dalle proprietà relazionali del tutto a quelle dei componenti. Un esempio applicativo di questo tipo di procedura è fornito dal già citato problema della misurazione dei “siti attivi” in biologia, non localizzabili nella struttura fisicochimica dei componenti molecolari che ne costituiscono le “parti materiali”. Le caratteristiche peculiari di questo modello riguardano: 1. L’assenza di un processo di codifica dal sistema naturale a quello formale; 2. la posizione dell’operazione di misurazione all’interno del processo di modellizzazione, che è spostata nella direzione che procede dal modello al sistema studiato; 3. la procedura analitica che caratterizza la misurazione; 4. l’attenzione per le proprietà relazionali di tipo inerente, posta in evidenza dal ruolo centrale assegnato all’unità composita. Si tratta perciò di una forma di modello generativa, relazionale e analitica. Un esempio di modello di sistema vivente autonomo appartenente a questa classe sarà analizzato dal punto di vista formale nella seconda parte di questo studio, a partire dai lavori di Rosen sugli (M/R)-Systems with organizational invariance35. 3. Considerazioni epistemologiche sui concetti di fine e funzione in biologia A partire dall’impianto epistemologico costruttivista delineato nei paragrafi precedenti, è possibile affrontare criticamente il problema della descrizione funzionale in una prospettiva incentrata sul riconoscimento del ruolo centrale dell’osservatore. 35. Rosen, 1958a; 1958b; 1959a; 1964a; 1964b; 1966; 1967; 1972b; 1985a; 1991; 2000; Letelier et al, 2006.
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Le spiegazioni implicanti il concetto di finalità sono state sempre oggetto di critiche nel processo di costruzione teorica delle scienze naturali, e pertanto sono state escluse come non rigorose. L’opposizione all’utilizzo del concetto di fine nella spiegazione scientifica deriva dal tipo di causalità che esso sottintende. Questa infatti non si caratterizza come la relazione di implicazione tra antecedente e conseguente ma piuttosto come un effetto del futuro sul presente, che inverte così la freccia temporale. In fisica il concetto di fine è svuotato di significato, e sostituito ad esempio dal “principio geodesico”36 o da concetti, come quello di attrattore37. Questi, pur riguardando fenomeni che esibiscono la tendenza di un processo verso un certo risultato finale, non dipendono dall’assunzione di un effetto di implicazione temporale inversa, e mantengono perciò una determinazione coerente con la caratterizzazione tradizionale della causalità scientifica38. 36. O principio di minima azione, il percorso più breve tra due punti. Sull’importanza di questo concetto nella descrizione fisica all’interno di un confronto con le scienze biologiche si rimanda a Bailly e Longo, 2006. 37. Il concetto di attrattore è legato a una descrizione fisica di tipo qualitativo, situata in uno spazio astratto n-dimensionale detto “spazio delle fasi”, nel quale a ogni variabile del sistema è associata una coordinata. Possono essere distinte tre grandi classi di attrattori: 1. il più semplice è quello “a punto fisso”, rappresentato da una spirale convergente. È quello che caratterizza i fenomeni che tendono inesorabilmente all’equilibrio, come ad esempio un pendolo con attrito; 2. il secondo tipo è l’attrattore “periodico”, tipico del non equilibrio lineare, in cui il sistema ritorna ciclicamente sui suoi valori. 3. L’attrattore di terzo tipo è detto “strano”, ed è caratterizzato da un comportamento caotico. Esso è caratterizzato da una geometria frattale ripiegata all’infinito, per cui un comportamento non è stabile e riproducibile come negli altri due casi ma una piccola differenza può portare nel corso del tempo a grandi conseguenze. Considerando due sistemi con una stessa descrizione iniziale a un istante iniziale t0, essi divergeranno in modo esponenziale con il passare del tempo, richiedendo per la loro predizione oltre un certo orizzonte temporale – definito dal “tempo di Ljapunov” – una conoscenza sempre più precisa delle condizioni iniziali (Prigogine e Stengers, 1988). La precisione richiesta nella misurazione è infinita, e rende quindi impossibile la predizione delle traiettorie future. 38. Sono descrizioni “quasi finalistiche”, in quanto lo stato finale del processo viene raggiunto automaticamente. Teorizzazioni matematiche e concettuali di questo tipo di processi in fisica e in biologia sono dovute anche ai lavori di C.H. Waddington (Waddington, 1962; 1968a; 1968b; 1975) sui processi di canalizzazione nello sviluppo embrionale resi attraverso il concetto di creodo (attrattore). Un’analisi del problema della relazione temporale di finalità nella descrizione di questi fenomeni in biologia è fornita in Sommerhoff, 1950.
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In biologia, invece, la finalità assume un ruolo importante come strumento esplicativo anche all’interno di prospettive teoriche meccaniciste come quella proposta dalla biologia molecolare. Non viene però posto in contrapposizione con la causalità diacronica, ma assume invece un valore di finalità intrinseca. Il concetto di funzione è quello dove appare più esplicitamente il problema del fine in biologia, all’interno tuttavia di un paradigma coerente con le assunzioni della scienza moderna. Esso è utilizzato come strumento esplicativo in almeno due domini: quello della descrizione del funzionamento degli organi di un sistema vivente, e quello della spiegazione dei processi evolutivi, in connessione con il concetto di adattamento39. Segue perciò la tendenza della biologia tradizionale ad accostare il livello strutturale e quello evolutivo, ignorando il problema della totalità del sistema vivente come se fosse puramente epifenomenico. Nel processo di spiegazione scientifica la caratterizzazione della funzione biologica assume la forma di una connessione tra una parte del sistema vivente oggetto di studio ed una proprietà del sovrasistema a cui essa dà un contributo significativo. Quest’ultima è vista come la motivazione esplicativa della presenza del componente considerato (Ayala, 1970). In quanto strumento esplicativo, essa non si esaurisce in una mera considerazione sull’utilità del carattere considerato, ma assume invece la forma di una descrizione del “meccanismo” attraverso cui un elemento contenuto in un sistema vivente dà origine a una determinata proprietà di quest’ultimo: la proprietà viene descritta come conseguenza della presenza del componente considerato40. La funzione biologica si riferisce a una relazione parti-sovrasistema, che non viene però assunta come necessaria intrinsecamente, ma è riferita alle condizioni storico-evolutive – diacroniche41 – e ambientali – sincro39. I due livelli sono ovviamente connessi tra loro quando l’adattamento è riferito a quei caratteri del sistema che incarnano le funzioni biologiche. Questo accostamento è una costante degli approcci concettuali al concetto di funzione (Nagel, 1961; Ayala, 1970; Wright, 1973; Cummings, 1975; Millikan, 1989). 40. La differenza tra funzione e utilità dipende quindi dal tipo di spiegazione: quello che appare come un riferimento interno nel primo caso e un riferimento esterno nel secondo. Un esempio tratto da Wright (Wright, 1973) può contribuire a chiarire meglio. Ad una descrizione funzionale appartiene l’espressione: “il cuore pompa per far circolare il sangue”. La seguente invece si riferisce al concetto di utilità: “il naso è fatto per tenere gli occhiali”. 41. Il processo evolutivo attraverso cui sono prodotte. Per Millikan (Millikan, 1989) la storia evolutiva è sufficiente a determinare una funzione. Deve essere però precisato, che
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niche42. La spiegazione di tipo causale legata alla funzione può quindi o spiegarne l’origine (evoluzione), o la presenza (“meccanismo” di realizzazione della proprietà). Nel secondo caso la funzione è interpretata come “capacità” di un certo componente del sistema considerato (Cummings, 1975). È legata a un approccio su di una procedura di frazionamento. Le “capacità” del sovrasistema sono assimilate alle “capacità” dei sottosistemi che lo compongono. Il valore di questo tipo di spiegazione funzionale risiede quindi nella possibilità di ridurre la complessità del tutto rintracciandola nella maggiore semplicità dei componenti. Il termine di riferimento esplicito è lo studio delle macchine artificiali, di tipo modulare, i cui componenti semplici danno origine a comportamenti globali sofisticati (Cummings, 1975)43. Sono due i limiti che emergono da questo tipo di spiegazione applicata ai sistemi biologici. Il primo è di ordine teorico e consiste nell’assunzione dell’ipotesi della Natura come una macchina44. La spiegazione funzionale si trova connessa a relazioni interlivello della forma “uno a uno”: delle corrispondenze strette che non lasciano spazio a proprietà relazionali in senso proprio. Perciò i sistemi viventi sono frazionabili e le loro funzioni sono localizzate, come negli automi. Inoltre, il concetto di funzione è legato in modo indissolubile a quello di “ottimizzazione” sia sul piano della performance del processo preso in considerazione, che per quel che riguarda il valore adattativo delle proprietà esibite dal sistema biologico, espresso attraverso il concetto di fitness45. È connessa con considerazioni di carattere ingegneristico sulla massimizzazione di un processo o di proprietà relativi a un componente del sistema. non si intende l’evoluzione come processo orientato a uno scopo, ma come processo che per mezzo della selezione determina le funzioni in base al loro valore adattativo. 42. Il termine di riferimento per l’esercizio della funzione esibita dal sistema. Può essere l’ambiente interno dell’organismo se si tratta di un organo, ad esempio il sistema circolatorio per il cuore, o l’ambiente esterno se riguarda una proprietà dell’organismo intero. 43. È riconducibile a quell’approccio al vivente come sistema modulare, frazionabile, esposto in modo chiaro da Jacob, (Jacob, 1970) e Simon, (Simon, 1973), con una chiara accezione funzionalista. 44. Già qui si può notare come il concetto di fine non sia necessariamente in contrapposizione con quello di macchina, anzi, è strettamente legato all’idea di artefatto. 45. L’ottimizzazione può essere “assoluta”, e tendere al valore massimo di un certo parametro, o “relativa” alle condizioni imposte dal contesto di riferimento.
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Un secondo limite è invece di natura epistemologica. Il rischio di questo tipo di spiegazione consiste nell’identificare come funzioni tutte le proprietà di un sistema che possono essere localizzate in strutture materiali definite. Ma la sola spiegazione del “meccanismo” che li produce non è sufficiente per caratterizzare una certa relazione come funzionale. Si rende necessario introdurre un criterio esterno al sistema che la esibisce. In caso contrario, l’attribuzione del ruolo funzionale sarebbe applicabile a tutte le proprietà localizzabili. Il battito del cuore, ad esempio, produce un rumore tra i suoi effetti, ma questo non è interpretato come una sua funzione. Se il punto di vista è focalizzato sul contributo del cuore al funzionamento dell’organismo, allora la sua funzione è quella di far circolare il sangue. Ma se ci si pone invece in un dominio osservativo diverso, ad esempio al livello del rapporto madre-bambino, al rumore del battito può essere attribuito un valore funzionale adattativo all’interno di questa relazione tra due sistemi biologici. Il limite epistemologico di questo tipo di approccio dipende dall’arbitrarietà del criterio di attribuzione della funzione, che è sempre situato al livello delle operazioni di un osservatore, che stabilisce quali tipi di relazioni sono pertinenti per lo studio o l’applicazione di suo interesse: lo scopo risiede quindi nell’osservatore stesso. Sono il suo punto di vista e i suoi criteri di valutazione che determinano quale effetto è considerabile come una funzione o no. Questa critica è coerente con l’impianto epistemologico caratteristico dell’approccio biologico della teoria dell’autopoiesi. Fin dai primi testi (Varela e Maturana, 1972), lo scopo è messo in relazione a quello che per un osservatore esterno è l’output del sistema. Anche laddove ci sono delle descrizioni strutturali del processo di generazione dell’output di interesse, la cornice teorica è assimilabile a quella behaviourista di relazione stimolo-risposta, che la teoria dell’autopoiesi mette in discussione, attraverso il concetto di determinismo strutturale. I limiti della descrizione funzionale che sono stati posti in evidenza, mostrano i problemi relativi alla possibilità di applicare una descrizione meccanica ai sistemi biologici, una mancanza teorica che si ripercuote anche sul tipo di descrizioni che possono essere adottate. Come sottolineano i due autori cileni (Varela e Maturana, 1972), in fisica non è necessaria una descrizione di tipo funzionale perché è disponibile una teoria soddisfacente dei fenomeni descritti. In biologia invece essa sopperisce all’assenza di una descrizione dei processi effettivi che hanno luogo al 104
livello dell’integrazione dell’unità biologica. Così facendo produce un artificio descrittivo che permette di aggirare il problema della totalità sistemica e di riferire le proprietà del tutto a quelle dei singoli componenti. Ma questo procedimento si caratterizza come un salto tra due tipi di descrizioni di natura differente: una al livello delle “operazioni” del sistema, pur sempre riferite alle esperienze dell’osservatore che tenta di caratterizzarle focalizzando l’attenzione sul dominio descrittivo dell’unità composita, e una al livello del “discorso” dell’osservatore. Quest’ultima modalità descrittiva ricolloca l’oggetto studiato in un contesto ambientale o sociale più ampio che lo include, e lo descrive per mezzo di relazioni stimolo-risposta. Al livello dell’organizzazione che definisce l’unità del sistema vivente non vi è un riferimento al fine, ma solo alle proprietà dei componenti costitutivi e alle loro modalità di interazione. L’organizzazione […] stabilisce soltanto relazioni tra i componenti e regole per le loro interazioni e trasformazioni, in una maniera che specifica le condizioni di emergenza dei diversi stati […] che, allora, hanno origine come risultato necessario ogni volta che occorrono tali condizioni. Così, le nozioni di scopo e di funzione non hanno alcun valore esplicativo nel dominio fenomenologico che pretendono di illuminare, perché non si riferiscono in alcun modo a processi operanti nella generazione di qualunque suo fenomeno. […] ogni riferimento ad uno stato precedente per spiegarne uno successivo in termini funzionali o finalizzati è un artificio della […] descrizione, fatto nella prospettiva della simultanea osservazione mentale dei due stati, che induce nella mente dell’ascoltatore una realizzazione abbreviata […]. I sistemi viventi, come macchine autopoietiche fisiche, sono sistemi senza scopo (Maturana e Varela, 1973: 140-141).
Il funzionamento del sistema e i concetti di fine e funzione appartengono quindi a due tipi di descrizione diversi, in quanto sono diversi i domini in cui sono espressi. La prima è la descrizione “operazionale”, i cui termini appartengono al dominio del sistema che produce il fenomeno studiato. La seconda, “simbolica”, è stabilita in un contesto più ampio, dove sono stabiliti legami tra eventi non connessi tra loro in modo effettivo, e i cui termini non partecipano alla costruzione del processo generativo del fenomeno considerato. Mentre la prima ha un valore descrittivo, la seconda ha un valore illustrativo, in quanto permette di evitare alcuni dei passaggi che caratterizzano il processo studiato, ma non costituisce una 105
spiegazione scientifica, perché non è in questo dominio che si formula l’ipotesi sul processo generativo del fenomeno. La critica epistemologico-teorica della spiegazione funzionale tocca anche il concetto di comportamento orientato a uno scopo. In particolare si applica a quegli approcci scientifici che individuano nel vivente una finalità di tipo intrinseco, che sembra perciò sfuggire a un’operazione di attribuzione da parte dell’osservatore, e ad un conseguente posizionamento nel dominio delle descrizioni di tipo simbolico. L’utilizzo del concetto di comportamento finalizzato caratterizza due settori dello studio dei sistemi biologici, entrambi legati a metafore prese dal dominio delle macchine artificiali: la cibernetica e la biologia molecolare. Il primo caso è costituito dalla descrizione dei processi di controllo tramite meccanismi di retroazione, comuni alle macchine come ai sistemi viventi (Rosenblueth et al., 1943; Wiener, 1948; 1950). Il concetto alla base dei modelli costruiti seguendo questo approccio consiste nelle operazioni di correzione del comportamento di un sistema in base alle informazioni provenienti dall’esterno, in modo da garantire il raggiungimento di una condizione finale a prescindere dalle perturbazioni a cui il sistema può essere sottoposto. Lo stato finale è interpretato come lo scopo intrinseco del processo, e la sua origine è attribuita alla natura unitaria del sistema considerato, invece che ai singoli componenti che lo costituiscono46. La finalità è perciò portata all’interno del sistema e considerata dipendente dall’organizzazione da cui esso è definito. In questo modo si intende escludere il ruolo diretto dell’osservatore nel definire lo scopo dall’esterno. Questo meccanismo è considerato comune sia agli automi con sistemi di regolazione che agli esseri viventi. Di conseguenza, secondo la cibernetica entrambe queste classi di sistemi possono essere considerate in grado di esibire un comportamento finalizzato. Il problema di questa operazione di spostamento dipende però da un fraintendimento concettuale che porta a sovrapporre due dei concetti su cui è costruita la spiegazione cibernetica di questi processi, concetti che sono invece caratterizzati da significati e implicazioni diverse: “eseguire 46. Quella di attribuire le proprietà all’organizzazione del sistema invece che ai suoi componenti è l’attitudine teorica che differenzia la cibernetica in senso proprio dalle applicazioni dei suoi modelli all’espressione genica e al metabolismo cellulare operate dalla biologia molecolare.
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uno scopo” e “avere uno scopo” (Jonas, 1966: 164)47. Il primo riguarda la capacità di raggiungere un fine, ovvero quei meccanismi di retroazione che permettono al sistema studiato di raggiungere uno stato finale predefinito e determinato dalla sua stessa organizzazione. Il secondo invece, lo scopo in senso proprio, concerne la possibilità di attribuire un fine a un comportamento, e dipende anche in questo caso alla relazione con un contesto più ampio definito dall’osservatore. Appartiene quindi al dominio del discorso, ed è caratteristico di una spiegazione di tipo simbolico, nel senso attribuitole dalla teoria dell’autopoiesi. Il concetto di finalità intrinseca in questo caso dipende da un fraintendimento che oscura il secondo fattore. Ri-esplicitare il ruolo dell’osservatore permette di ridefinire il problema: i meccanismi compensatori di retroazione sono una condizione per il raggiungimento di uno scopo, ma la presenza di quest’ultimo è sempre dipendente da un’attribuzione da parte dell’osservatore. […] il comportamento conforme a uno scopo richiede la presenza di scopi, se lo scopo qui presente viene compreso come […] uno scopo estrinseco al sistema. In assenza di tale scopo il meccanismo, anche qualora la prestazione fosse identica, diventa privo di scopo a questo livello dell’osservazione (Jonas, 1966: 164).
Secondo questa critica non esiste uno scopo intrinseco al sistema, se non il raggiungimento dell’entropia massima, lo stato finale a cui tendono tutti i sistemi fisici. Lo scopo inteso come finalità è invece attribuito dall’osservatore48, e appartiene quindi al dominio linguistico di quest’ultimo. 47. Jonas H., 1953, A Critique of Cybernetics, in «Social Research», 20, pp. 172-192, ripubblicato in Jonas, 1966: 149-169. 48. Il sistema può essere anche l’osservatore stesso. L’attribuzione di uno scopo, però, non è comunque intrinseca alla sua attività come sistema vivente al livello del suo funzionamento strutturale, ma è sempre posizionata nel suo dominio linguistico di osservatore. Jonas però ammette un fine intrinseco nei sistemi viventi in generale, non solo in quelli in grado di stabilire un dominio linguistico. Esso consiste nel bisogno, come scopo implicito del loro agire: la necessità di mantenere il loro vivere in interazione con l’ambiente. In modo simile caratterizza il vivente anche Sartre (Sartre, 1960). Nel caso delle macchine artificiali invece l’osservatore può essere il costruttore, che progetta il suo artefatto per eseguire un determinato compito, o un osservatore generico esterno,
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Proprio questa separabilità di scopo ed esecuzione ci permette di delegare quest’ultima in modo così esteso e distribuito ad altri, a intere catene di agenti subordinati e persino a macchine (Jonas, 1966: 165).
L’altro dominio dove il concetto di fine intrinseco ha un ruolo fondamentale è quello della biologia molecolare. Secondo Mayr (Mayr, 1976) i meccanismi di retroazione di tipo cibernetico rappresentano, come per Jonas, solo una condizione che permette di raggiungere uno scopo. Sono degli elementi che migliorano il processo di raggiungimento di uno stato finale definito. Il fine, però, non è un concetto epistemologico dipendente dall’osservatore, ma è posizionato al livello di quello che per questo paradigma biologico è il componente fondamentale: il DNA. L’aspetto veramente caratteristico del comportamento finalizzato non è che esistano meccanismi per migliorare la precisione con la quale si raggiunge un fine, ma piuttosto che esistano meccanismi che iniziano e che sono “causa” di questo comportamento finalizzato (Mayr, 1976: 217-218).
Il programma genetico infatti, è codificato in una struttura materiale e implica la determinazione di un processo orientato a un fine, ovvero la sua esecuzione. Lo stato finale determinato dal programma consiste di volta in volta nella formazione di una struttura, di un componente, o nella realizzazione di una funzione biologica Inoltre, coerentemente con l’assunzione di un approccio teorico meccanicista, non richiede un’inversione del concetto di causalità dal conseguente all’antecedente, perché il fine è definito in anticipo. L’inversione della relazione temporale riguarda piuttosto i modelli costruiti dall’osservatore: i modelli teleologici sono deterministi nel definire gli stati futuri a partire dalle condizioni iniziali ma non necessariamente ricostruibili deterministicamente a posteriori. Uno stesso stato finale, infatti, può essere raggiunto per mezzo di percorsi differenti, come nei casi dei fenomeni di “degenerazione”49 o nei modelli che descrivono attrattori50. Con comportamento teleologico si intende che interagisce con il sistema durante il suo funzionamento. Gli scopi che essi individuano possono divergere a seconda dei nessi che essi stabiliscono nel loro dominio osservativo. 49. Più strutture differenti possono produrre lo stesso effetto. 50. Per cui più traiettorie nello spazio delle fasi possono convergere o tendere verso un’unica traiettoria finale.
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quindi un processo predeterminato, in questo specifico caso dalla presenza di un programma. Per indicare la peculiarità di questa classe di fenomeni teleologici definiti internamente, la biologia molecolare introduce il termine teleonomia (Monod, 1970; Mayr, 1976). I processi teleonomici si distinguono dai normali processi fisici di raggiungimento di uno stato finale (teleomatici51) in quanto lo scopo è programmato a priori al livello genetico; dagli altri fenomeni teleologici per l’interiorizzazione del fine. Il concetto di teleonomia si applica sempre sul doppio livello, molecolare ed evolutivo, che si articola nella dinamica tra progetto e invarianza riproduttiva, e che caratterizza il nucleo teorico della biologia molecolare. il progetto teleonomico essenziale consiste nella trasmissione, da una generazione all’altra, del contenuto di invarianza caratteristico della specie. […] ogni struttura e ogni prestazione teleonomica corrisponde a una certa quantità di informazione che deve essere trasmessa perché quella struttura si realizzi e quella prestazione si compia. […]. Si può allora affermare che il “livello teleonomico” di una data specie corrisponde alla quantità di informazione che dev’essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva (Monod, 1970: 27).
Questo costituisce anche il punto di partenza della soluzione epistemologica al problema della finalità in questo dominio52. L’operazione
51. Nei modelli fisici deterministi, però, lo stato finale è determinato dalla condizioni iniziali e dalle regole di implicazione. L’unica differenza con i modelli basati sul concetto di programma consiste nel fatto che a quest’ultimo sono attribuite le regole per la propria esecuzione (incarnate dagli elementi metabolici che esso stesso produce), mentre negli altri queste (le causalità) sono esterne al sistema considerato, e attribuite di volta in volta a quello che è distinto come ambiente. Nei sistemi fisici meccanicisti le regole non sono autogenerate ma imposte dall’esterno: “sono ‘diretti a un fine’ solo in modo passivo, automatico, regolato da forze o condizioni esterne” (Mayr, 1976: 215). 52. “La capacità e la tendenza del materiale genetico a riprodursi e preservarsi generazione dopo generazione attraverso la codifica delle specie molecolari nel DNA, è indicata da Monod come la chiave della vita. Questa comunque spinge tutte le proprietà pertinenti all’unità individuale come tutto cooperativo in una singola specie molecolare, il DNA, che ora contiene una qualche descrizione astratta del progetto teleogenetico della cellula” (Varela, 1979: 5).
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epistemologica di attribuzione di una finalità di tipo teleonomico al DNA, consiste infatti in quattro operazioni osservative: 1. l’individuazione di un oggetto invariante nelle generazioni a cui è ricondotta la costanza dei caratteri che definiscono una specie; 2. l’attribuzione a questo del ruolo di punto di partenza dei processi di produzione del fenotipo dell’organismo (i caratteri) 3. l’individuazione dei caratteri, a cui è attribuito il ruolo di output del processo; 4. l’identificazione di corrispondenze tra l’oggetto invariante (il DNA) e gli output fenotipici, alle quali è data un’interpretazione in termini di finalità. La finalità teleonomica quindi è passibile delle stesse critiche formulate per il concetto di funzione. Ne segue le stesse modalità costruttive nel dominio di un osservatore che istaura corrispondenze tra due aspetti di uno stesso sistema in un contesto più ampio, astraendo dalla dinamica integrata dell’unità che dovrebbe connetterli. Inoltre, l’identificazione del DNA con il programma del sistema vivente – secondo uno schema concettuale basato sulla relazione di stimolo-risposta – conferisce a questo il ruolo di “componente istruttivo” nella sua interazione con la struttura dell’organismo vivente, il fenotipo. Ma questa relazione è in contrasto con il concetto di dipendenza strutturale endosistemica analizzato nel paragrafo 1.3. La spiegazione di tipo simbolico, infatti, a causa delle modalità stesse secondo cui è costruita, non è in grado di rendere conto di questo tipo di interazione, dipendente dalla struttura interna del sistema considerato. Le spiegazioni teleologiche o teleonomiche, quindi, escludono necessariamente uno degli elementi imprescindibili per la descrizione dei sistemi viventi, che può essere colto solo al livello della spiegazione di tipo operazionale. A partire da queste considerazioni sull’utilizzo dei concetti di funzione e scopo in biologia, si può evincere che le considerazioni teoriche sulla finalità non sono in contraddizione con una prospettiva meccanicista come quella della biologia molecolare. Ne sono invece una componente fondamentale. Meccanicismo e finalismo non sono quindi due prospettive che si escludono vicendevolmente, bensì sono due aspetti complementari di una stessa prospettiva sulla natura53. Entrambi si fondano su una fran53. Bergson, ad esempio, fa di questi due approcci il bersaglio di una stessa critica a partire dall’investigazione del vivente come continuo processo di creazione di novità
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tumazione dei sistemi naturali e su una imposizione di un determinismo dall’esterno54: la causalità meccanica o la finalità, entrambi legati a una visione della Natura come artefatto. Questa ambiguità è caratteristica di un percorso che da Aristotele in poi ha sempre associato la finalità al vivente, pur mantenendo un parallelismo con gli oggetti fabbricati dall’uomo. Ma allo stesso tempo il concetto di fine è stato caratterizzato anche come l’elemento chiave per comprendere la specificità del vivente dagli approcci vitalisti, esplicitamente contrapposti alla visione meccanicista55. A partire dal Kant della Critica del Giudizio (Kant, 1790) questa seconda accezione della finalità, privata dell’accezione vitalista, è usata con l’intento di esprimere i limiti della cornice teorica del meccanicismo nel descrivere i processi che caratterizzano l’organismo vivente. Il “fine della natura”, diventa la finalità interna, che non è intesa come un progetto o un programma, ma come un’alternativa alla finalità esterna degli artefatti, e alla loro conseguente frazionabilità. Essa viene riferita all’unità biologica considerata come una coincidenza di causa ed effetto, di produttore e prodotto che si realizza come una totalità interrelata e inscindibile. Il fine rimane però sempre un principio esplicativo, non analizzabile, usato per colmare un vuoto teorico. Per questo motivo è caratterizzabile solo in negativo, come ciò che del vivente non è riconducibile a una descrizione di tipo fisico. Ma allo stesso tempo apre alla considerazione di un nuovo tipo di ordine, che rende possibile ed è reso possibile dalla conservazione di un’unità di totalizzazione in continua trasformazione, fine e mezzo del suo stesso processo di realizzazione56. (Bergson, 1907). Entrambi si fondano su una predeterminazione dei processi naturali, nel passato il meccanicismo e nel futuro il finalismo, che esclude la produttività creativa del vivente. Canguilhem mostra non solo la compatibilità, ma anche lo stretto legame tra meccanicismo e finalità (Canguilhem, 1965). 54. Anche il programma è sempre caratterizzato, in un certo senso, esterno al processo della sua esecuzione, a causa della necessaria separazione tra il dominio del software e quello dell’hardware. 55. Per una storia del concetto di fine in biologia si rimanda a Hall, 1968, Gilson, 1971, Fantini, 1976 (per una prospettiva sul Novecento), Rossi (a cura di), 1988. 56. “Il cambiamento d’ordine che si attua quando si passa dall’inorganico all’organico è stato definito molto bene […] come il passaggio dall’ordine in cui le parti condizionano il tutto a quello in cui il tutto condiziona le parti e, in questo senso, le precede. È, diremmo a nostra volta, come se le parti esistessero in vista del tutto o, almeno, richieste da esso. È ciò che si chiama l’ordine della finalità” (Gilson, 1971: 196).
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A partire dalla finalità interna kantiana, intesa come unione di fine e mezzo, si sta facendo strada una nuova interpretazione del concetto di funzione (Christensen e Bickhard, 2002; Mossio et al, 2009) che ha come scopo la “naturalizzazione” – o la “operazionalizzazione”, in una prospettiva costruttivista – di questa nozione. Si tratta di un approccio “organizzazionale” che si basa sull’assunzione che lo scopo interno di un sistema vivente è il proprio automantenimento o, meglio, il mantenimento della propria organizzazione. La funzione di un sottosistema dell’organismo biologico sarà perciò definita come il suo contributo al mantenimento del sistema che lo comprende, con due ulteriori condizioni (Mossio et al, 2009): (i) che il sottosistema sia prodotto e mantenuto dall’organismo; (ii) che il sistema-organismo sia internamente differenziato. Questo tentativo ha il merito di rendere operazionale il concetto di funzione, prendendo in considerazione il contributo dei processi al mantenimento dell’unità globale: il sistema vivente Non più relativo a capacità interessanti del sistema, la cui identificazione è arbitraria, ma come emergenza come punti di stabilità della sua dinamica, il termine “funzionale” perde così la sua accezione finalista per assumere un significato più vicino a quello di “relativo al funzionamento”: un processo, un sottosistema è funzionale in quanto è una componente necessaria (della descrizione) del funzionamento dell’organizzazione del sistema che lo ingloba. Rimane però aperta la questione della crucialità o meno delle operazioni osservative nell’individuare le componenti funzionali in cui il sistema vivente sarebbe internamente differenziato: la strutturazione interna così come ci appare – le parti materiali – coincide con quella funzionale, o quest’ultima è dipendente in modo più profondo dalle operazioni di analisi del sistema? Una domanda che in ultima istanza riguarda lo status della nozione di organizzazione. A partire da questi risultati critici è possibile fare un passo in più dal punto di vista teorico, e analizzare attraverso il concetto di organizzazione l’ordine invisibile che caratterizza questa unità sistemica di processi di trasformazione. Questo abbandono della causalità e della finalità è un superamento dell’homo faber e delle sue tecniche di pensiero verso un Essere inglobante, colto dall’interno e non sorvolato, fabbricato (Merleau-Ponty, 1995: 381).
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Parte seconda Order in the nothing The first approach is behavioral, whereas the other is what I will now call organizational. […] The first is a mirror, only concerned with the picture to reflect; the other puts flesh on the bones, constructing a whole behind the mirror George Kampis, Organization, Not Behavior, 2001 By uniting two constituents of a domain, producer and produced, description and describer, into a third state which blends the two preceding ones through a circular closing, we see the appearance of a much more inclusive domain. It appears as if different, successively larger levels are connected and intercross at the point where the constituents of the new lower level refer to themselves, where antinomic forms appear, and time sets in Francisco Varela, A Calculus for Self-Reference, 1975
3. 3.
La costruzione teorica dell’autonomia del vivente
1. L’organizzazione biologica: definire l’ordine del vivente In cosa consiste il carattere peculiare del vivente? Che cosa lo rende diverso rispetto ai sistemi fisici e alle macchine artificiali? E ancora, qual è il fattore che accomuna tutti gli organismi viventi nella loro varietà di forme, che fa di un singolo individuo, nelle innumerevoli trasformazioni dei suoi componenti e nelle sue fasi di sviluppo o della molteplicità di forme della biosfera delle variazioni su un tema comune? È la presenza di uno specifico elemento o la generazione di una forma di qualche tipo, il risultato di un processo statistico o di uno specifico sistema di relazioni tra processi? Di fronte ai limiti epistemologici e teorici della prospettiva meccanicista e del suo surrogato finalista, per descrivere i sistemi viventi in quanto tali e, quindi, delineare un approccio in grado di rispondere a questi quesiti, si rende necessario operare un cambiamento di paradigma accompagnato dall’introduzione di strumenti concettuali differenti da quelli implementati dalla biologia teorica di matrice molecolare/evolutiva. Nella prima parte di questo studio è stato delineato un approccio alternativo alla conoscenza rivolto ad affrontare il problema della specificità del vivente. Nel corso di questa indagine epistemologica è stata posta in risalto la dinamica circolare che mette in relazione biologia e conoscenza. In primo luogo, l’assunzione di un punto di vista non meccanicista, derivato dal riconoscimento del problema dell’autonomia biologica, implica un modo diverso di intendere la relazione tra osservatore e sistema vivente. In secondo luogo, un impianto conoscitivo costruttivista apre a nuove modalità di spiegazione scientifica, che si attualizzano nella creazione di nuove classi di modelli e da osservabili diversi. 115
È stata, infatti, avanzata l’ipotesi sulla necessità di sperimentare nuovi modelli generativi di tipo analitico e relazionale, che trovano l’osservabile fondamentale nell’organizzazione dell’unità composita, invece che nelle caratteristiche dei componenti. Le proprietà rilevanti che questi modelli esprimono sono perciò diverse rispetto a quelle che intervengono nella costruzione dei modelli descrittivi. Una volta stabilita la cornice epistemologica, lo scenario teorico che si intende delineare al fine di sviluppare una “Systemic Biology” si caratterizza, in primo luogo, per la ricerca di procedure conoscitive alternative rispetto a quelle riduzioniste che si muovono dalle scienze fisicochimiche alla biologia. Si ritiene, infatti, necessario un ripensamento teorico della biologia che derivi direttamente dal riconoscimento dalla specificità dei problemi che essa affronta. Questa operazione deve condurre alla produzione di modelli concettuali e formali in grado di rendere conto delle esperienze che l’osservatore scientifico vive nella sua dinamica di interazione con i sistemi viventi. Assumendo questa prospettiva, però, non si intende sostenere la necessità di una separazione tra le discipline, né una nuova forma di riduzionismo, questa volta derivato dalle scienze biologiche. Il percorso circolare che unisce visione della Natura e visione della scienza è infatti una dinamica continua di scambio di domande e strumenti concettuali, in cui ogni compimento del circolo conoscitivo si caratterizza come una nuova apertura, come una riorganizzazione dialogica tra le diverse discipline. Il primo a capire l’importanza dell’opportunità offerta in questo senso dallo studio dei sistemi biologici è Schrödinger, che da fisico si pone la domanda sul vivente (Schrödinger, 1944). […] da tutto ciò che abbiamo imparato sulla struttura della materia vivente dobbiamo essere preparati a vederla comportarsi in un modo che non può ridursi alle ordinarie leggi della fisica. E ciò, non in base al fatto che sia o non sia in gioco una qualsiasi “nuova forza”, la quale diriga il comportamento dei singoli atomi in un organismo vivente, ma perché la costruzione è diversa da tutto ciò che noi abbiamo fin qui esaminato nelle nostre esperienze in un laboratorio di fisica (Schrödinger, 1944: 131).
Schrödinger propone un allargamento degli strumenti teorici delle scienze naturali per mezzo dell’assunzione di un punto di vista diverso rispetto a quello situato al livello delle parti materiali del vivente. Per fare ciò 116
è necessario elaborare nuove modalità descrittive, incentrate sui concetti di organizzazione1 e di ordine. La ricerca di nuove leggi per la biologia, quindi, è per lui parte integrante dello sviluppo di una nuova fisica. Questa è anche la via intrapresa da Prigogine (Prigogine, 1978; Prigogine e Stengers, 1979; 1988) che prende avvio da problematiche e concetti derivati dallo studio dei sistemi viventi – come quello di sistema aperto proposto dalla biologia organicista di von Bertalanffy già a partire dagli anni Venti (von Bertalanffy, 1949), come il problema dell’autonomia affrontato dalla cibernetica e quello della creazione di forme stabili nello sviluppo epigenetico, studiato dall’embriologia – e affronta il problema dell’irreversibilità temporale, che emerge sia in fisica con il concetto di “entropia”, che in biologia con la teoria dell’evoluzione. Raccogliendo questa eredità di teorie e domande aperte, Prigogine apre la strada allo sviluppo di una nuova branca della termodinamica, quella delle strutture dissipative, essenziale per una descrizione strutturale degli scambi energetici che hanno luogo nei sistemi viventi, ma non solo. Essa permette di comprendere fenomeni fisicochimici come gli oscillatori chimici, le reazioni autocatalitiche, e in generale i sistemi stabili multicomponente lontani dall’equilibrio termodinamico. Questo tipo di percorso teorico è associabile anche agli studi, meno conosciuti, portati avanti da Rosen. Riferendosi esplicitamente alle intuizioni di Schrödinger (Rosen, 2000) egli affronta dal punto di vista teorico e formale2 il problema dell’integrazione dell’unità biologica, di cui indaga le conseguenze epistemologiche. Questa linea di indagine lo porta a formulare un approccio teorico e metodologico esteso ai sistemi complessi in generale, di cui i sistemi meccanicisti classici sono considerati come un caso particolare (Rosen, 1978; 1985; Mikulecky, 2000; 2001a). Nella sezione precedente è stato proposto un impianto conoscitivo incentrato sulla costruzione di strumenti epistemologici adatti a comprendere il vivente in una prospettiva sistemica. A questo stadio del percorso circolare tra Natura e soggetto conoscente è necessario affrontare il problema della costruzione teorica del vivente a partire dalla domanda fondamentale proposta nell’introduzione, ma arricchita dai risultati del cammino percorso fin’ora. Alla domanda “cos’è il vivente?” infatti, deve 1. L’organizzazione viene intesa sia come modo in cui i componenti sono connessi, sia come entropia negativa. 2. Sulla stessa linea metodologica del suo maestro Nicholas Rashevsky.
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essere affiancata la problematizzazione del processo tramite cui l’osservatore lo conosce e lo definisce teoricamente, ovvero: “come riconosciamo un sistema vivente e in base a quale criterio lo possiamo definire come tale?”. Anche in questo caso riformulare la domanda di partenza in forma doppia porta a decostruire le assunzioni fondamentali alla base di ogni approccio teorico che abbia l’intento di affrontare il dominio della biologia. Permette di esplicitare e analizzare la costruzione concettuale dei componenti considerati fondamentali, dei processi pertinenti per le descrizioni modellistiche e delle modalità di interazione contemplate all’interno di queste ultime. Inoltre, questo processo di indagine procede evidenziando il ruolo delle operazioni osservative di distinzione. Sia le assunzioni teoriche che i criteri di validità delle descrizioni che ne conseguono, dipendono dai domini di esistenza stabiliti dall’osservatore. La definizione del vivente, la risposta alla domanda fondamentale della biologia, è strettamente legata al problema della caratterizzazione dell’unità che viene distinta dall’osservatore scientifico. Più precisamente, è connessa in modo inscindibile all’interrogazione riguardante il tipo di “ordine” che può essere individuato nel sistema considerato, e che vi conferisce quel carattere unitario che rende possibile stabilire una differenza effettiva tra esso e il suo medium. Prima di affondare il problema della definizione del vivente, però, è opportuno analizzare una diversa attitudine teorica che caratterizza in modo implicito la ricerca biologia, quella di tipo “simulativo”. Nella linea teorica principale della biologia non sono presenti una o più definizioni esplicite degli organismi viventi. Questa situazione – paradossale se si pensa che il dominio di investigazione è quello del vivente – è dovuta principalmente a due fattori: il primo è una mancanza teorica, che porta a considerare come unica macroteoria biologica quella dell’evoluzione (Stein e Varela, 1993), ignorando il livello dell’unità vivente individuale. Il secondo, invece, è rintracciabile in una radicata e teoricamente motivata attitudine a escludere derive vitaliste, ovvero quegli approcci che identificano la vita con una sostanza o forza speciale, e il cui esempio emblematico è costituito dal pensiero biologico di Hans Driesch e dal riutilizzo della nozione di entelechia (Driesch, 1926; Hall, 1968; Fantini, 1976)3. 3. Un’attitudine che non è però evitata del tutto, allorché la biologia molecolare tende a identificare la vita con il programma genetico: “in una spiegazione vitalista, l’osservatore assume implicitamente o esplicitamente che le proprietà del sistema, o le caratteristiche
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Si è ripetutamente tentato di definire la “vita”. Questi tentativi sono assai futili, poiché è ora del tutto evidente che non vi è alcuna sostanza, oggetto o forza che possa essere identificata con la vita (Mayr, 1982: 53).
Per delimitare il dominio di indagine della biologia, l’alternativa alla definizione del vivente consiste nell’elencazione di una lista delle caratteristiche che, proprie degli organismi, possano permettere di distinguerli dai sistemi inorganici. Questa operazione presenta però dei limiti epistemologici e teorici (Bich e Damiano, 2007). In primo luogo essa produce un circolo vizioso, in quanto l’identificazione delle proprietà rilevanti e la possibilità di stabilire quando la lista è completa richiede a priori la conoscenza necessaria a riconoscere un organismo. La lista, quindi, non descrive il vivente ma lo dà per scontato, e nel fare ciò si basa, tra l’altro, su un solo esempio di realizzazione possibile, quello disponibile sul pianeta Terra. Inoltre, questa procedura porta con sé implicitamente l’idea che i sistemi viventi possano essere frazionati, ad esempio in moduli funzionali che esprimono le proprietà rilevanti. È perciò legata a un riduzionismo di tipo additivo, basato sulla tesi che la differenza tra vivente e non vivente è soltanto di soglia. Un sistema che mostri un certo numero di proprietà oltre una certo valore definito arbitrariamente, può essere considerato come vivente. Essa non focalizza, quindi, l’attenzione sulla specificità del vivente come sistema: si basa sulla sua fenomenologia invece che sui processi che lo realizzano e che generano questa stessa fenomenologia trasformando continuamente una pluralità disordinata di elementi fisicochimici in una totalità attiva e integrata. Più nel dettaglio, l’approccio alla caratterizzazione del vivente per mezzo di una lista di proprietà è tipico di una procedura conoscitiva simulativa, o di rispecchiamento, legata a una prospettiva comportamentista. È un’operazione mimetica o, meglio,di biomimesis, che assume un punto di vista esterno al sistema ed è orientata a riprodurre gli stessi output – in questo caso le proprietà – del vivente indifferentemente dal processo interno che le genera: si concentra su cosa il vivente fa, e non su come è in grado di farlo. Il problema consiste nel fatto che sistemi del fenomeno da spiegare, debbano essere trovate tra le proprietà o tra le caratteristiche di almeno uno dei componenti che costituiscono il sistema o il fenomeno” (Maturana, 1978a: 30). A partire da questa considerazione, Maturana inserisce provocatoriamente tra i vitalisti anche Jacob e Monod.
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appartenenti a classi diverse possono esibire comportamenti analoghi al vivente, senza tuttavia condividere una stessa dinamica interna. Sono molteplici le liste di proprietà usate per individuare il vivente. Mayr ad esempio individua otto proprietà (Mayr, 1982: 53-59) che è possibile ricondurre a quattro fondamentali. 1. riproduzione. È una conseguenza dell’essere vivo, e riguarda il dominio delle interazioni tra organismo e ambiente. Questa proprietà è comune anche ad altri sistemi. Ad esempio un cristallo è in grado di innescare la formazione di un altro cristallo identico con le stesse proprietà geometriche di quello di partenza. 2. evoluzione (natura storica e selezione naturale). È anch’essa una conseguenza della vita, e non una sua caratteristica definitoria, e si situa al livello della specie invece che a quello dell’individuo. A seconda della definizione di evoluzione, questa proprietà è individuabile anche in sistemi non viventi. Se la si considera come il cambiamento storico dovuto all’adattamento a delle condizioni ambientali esterne, può essere caratteristica di tutti i sistemi dotati di una certa plasticità strutturale e soggetti a un processo di selezione 3. metabolismo. Riguarda il livello sottosistemico del vivente, quello delle trasformazioni che coinvolgono i suoi componenti. Senza un riferimento a una caratterizzazione dell’unità di livello superiore in cui queste trasformazioni hanno luogo, e da cui dipendono le loro condizioni di esistenza, anche il metabolismo può essere attribuito a un qualsiasi processo fisico dove si ha trasformazione di componenti. 4. presenza di un programma. Identificato nel genotipo e in particolare in una certa struttura materiale molecolare che rimane immutata a dispetto delle operazioni di trasformazione che avvengono a livello fenotipico. Il programma è una metafora caratteristica dei sistemi computazionali, estesa successivamente al vivente. L’elemento che caratterizza l’approccio al vivente per mezzo di una lista di proprietà è la tendenza a ignorare, o al massimo presupporre, il livello dove la vita di manifesta in modo primario dai punti di vista logico, fenomenico e operazionale: ovvero l’unità biologica individuale, dalla cellula alle realizzazioni multicellulari più complesse (Bich e Damiano, 2007). Prendiamo ad esempio una lista ancora più semplice, quella di solito utilizzata nel dominio di indagine sull’origine della vita, che non tratta organismi sofisticati ma il vivente nella sua forma minimale. Essa 120
consiste di tre proprietà delle quattro proposte nell’elenco precedente: metabolismo, riproduzione ed evoluzione. Il principale limite di questa formulazione sta nel fatto che si posiziona su livelli di descrizione – quello molecolare per il metabolismo e quello delle popolazioni e specie per la riproduzione e l’evoluzione – che mancano del tutto il problema del funzionamento e della realizzazione dell’unità biologica individuale. In tal modo le categorie proposte non forniscono criteri di identificazione e caratterizzazione del vivente ma li presuppongono. Infatti è l’individuo vivente che si riproduce e, così facendo, mette in moto il processo evolutivo: deve esserci un organismo affinché ci sia riproduzione ed evoluzione. Non è sufficiente nemmeno la categoria teorica generica di metabolismo che, se rimane al livello di elaborazione tipico della biologia molecolare, non è in grado di esprimere specifiche condizioni sotto cui le trasformazioni, metaboliche danno vita e sono integrate in un individuo biologico invece che in un generico processo chimico. A causa dei limiti posti in evidenza, la caratterizzazione per mezzo di una lista di proprietà, o approccio “mimetico-simulativo”, non soddisfa i criteri di validità necessari per l’accettazione di una spiegazione scientifica operazionale ma, piuttosto, rientra in una modalità di descrizione simbolica che si apre a una molteplicità di critiche. Procede per mezzo di una classificazione di attributi la cui rilevanza e pertinenza dipende da un contesto definito arbitrariamente, senza cercare all’interno degli organismi i processi da cui dipendono le proprietà identificate. Come posso sapere che un essere è vivo? Quali sono i miei criteri? Nel corso della storia della biologia sono stati proposti molti criteri […] o una qualche combinazione di tali criteri, cioè un elenco di proprietà. Ma come sapere quando l’elenco è completo? Per esempio, se si costruisce una macchina capace di riprodursi, ma fatta di ferro e plastica e non di molecole organiche, la si può considerare vivente? (Maturana e Varela, 1984: 57-58).
Definire il vivente senza cadere nel vitalismo significa, invece, formulare il processo generativo interno che lo realizza, rispettando comunque la coerenza con la fenomenologia che gli organismi esibiscono quando interagiscono con l’osservatore come unità semplici. Il nostro obiettivo è dunque procedere scientificamente: se non si può fare un elenco che caratterizzi un essere vivente, perché non proporre un sistema
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che, funzionando, produca tutta la sua fenomenologia? (Maturana e Varela, 1984: 63).
La definizione ha quindi un carattere non solo descrittivo ma generativo, nel senso che non assume la vita come principio esplicativo, ma mostra il processo che la rende possibile. Essa fornisce l’ipotesi fondamentale per una caratterizzazione del dominio di studio della biologia, determinando anche le linee di ricerca teoriche, modellistiche e sperimentali da condurre. Inoltre, la sua applicazione non deve essere necessariamente limitata alla vita come la conosciamo, quella del pianeta Terra, ma in principio deve essere in grado di rendere conto anche delle eventuali forme di vita alternative, extraterrestri e non, ad esempio costruite sinteticamente in laboratorio. Vi sono diverse linee di approccio al vivente, caratterizzate da differenti definizioni implicite o esplicite dell’unità biologica fondamentale. Queste si differenziano per il livello epistemologico considerato, per le assunzioni teoriche di base e per le modalità descrittive considerate rilevanti. Ogni definizione si fonda su un diverso concetto di ordine, che permette di esprimere l’invariante fondamentale per la distinzione e la caratterizzazione del vivente come unità in accordo con lo scenario teorico di appartenenza. Si propone qui una distinzione tra tre diverse nozioni di ordine, legate a tre ampie linee di ricerca, ciascuna caratterizzata da una definizione diversa di essere vivente (Bich e Damiano, 2008): 1. order from disorder, un ordine di tipo statistico; 2. order from order, un ordine posizionale, o relazionale statico; 3. order in the nothing4, un ordine relazionale dinamico di livello superiore. I primi due hanno in comune il punto di partenza epistemologico, ovvero il dominio di esistenza definito dalla distinzione della parti materiali, ma mostrano alcune profonde differenze. In primo luogo derivano da una diversa assunzione relativa alle interazioni che sono considerate pertinenti nel dominio considerato. In secondo luogo attribuiscono un ruolo diverso alla nozione di organizzazione. 4. Un’espressione usata da Tibor Ganti (Ganti, 2003).
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Nel primo e nel terzo caso, le nozioni di ordine considerate possono essere associate per l’attenzione posta al mantenimento di una forma unitaria a dispetto della variazione strutturale dei processi metabolici del vivente. Ma si contrappongono proprio per il significato operativo ed epistemologico che attribuiscono all’unità. Nel primo caso è riconoscibile visivamente ma non implica una differenza effettiva nei processi sottostanti. Si caratterizza come un epifenomeno che dipende sostanzialmente da una differenza di scala osservativa. Nel secondo caso invece ha un ruolo effettivo nel definire i componenti e le interazioni rilevanti. Inoltre, si pone su un livello di astrazione superiore risultato di un processo di costruzione teorica, invece che di un’operazione percettiva. La seconda e la terza definizione di ordine convergono sull’importanza cruciale attribuita all’organizzazione del sistema vivente. Ma nei due casi questa viene teorizzata secondo due modalità divergenti. Un’ulteriore differenza riguarda il livello descrittivo considerato come fondamentale:quello relativo alle parti materiali nel primo caso; all’unità composita nel secondo. Il primo passo verso una caratterizzazione dell’ordine proprio del vivente inteso in senso sistemico, consiste nel differenziarlo dall’ordine puramente statistico o order from disorder (Schrödinger, 1944). Questo tipo di ordine, che caratterizza la prima classe di definizioni, è caratteristico del livello della descrizione termodinamica o cinetica, e si fonda sullo studio delle relazioni energetiche nei sistemi con un ampio numero di elementi. Il concetto fondamentale per questa modalità di approccio è quello di sistema termodinamicamente aperto, in grado di automantenersi attraverso le interazioni con l’ambiente nonostante la tendenza spontanea all’aumento di entropia. L’unità del vivente è individuata al livello della forma ordinata risultante dalle interazioni degli elementi di base, e ritenuta descrivibile nei termini di questi ultimi. Un sistema vivente è un ordine gerarchico di sistemi aperti che si mantiene nello scambio di componenti in virtù delle proprie condizioni sistemiche (von Bertalanffy, 1949: 129).
Questa definizione indica alcune delle condizioni fisiche necessarie alla realizzazione strutturale del vivente, tuttavia è incapace di coglierne il carattere specifico. La capacità di mantenersi per mezzo dello scambio energetico con l’ambiente, così come la produzione di regolarità fenome123
niche, non sono infatti assenti in biologia, ma non sono i fattori che permettono di distinguere un organismo vivente dai sistemi fisici e artificiali, che esprimono anch’essi queste stesse proprietà. Questa definizione non consente di distinguere la vita dai fenomeni di auto-organizzazione – o meglio di auto-ordinamento – come per esempio la colonna di un tornado o le celle di Benard. Il punto di partenza epistemologico, infatti, non è costituito dalla distinzione dell’unità del vivente, ma dalla descrizione di processi fisicochimici che hanno luogo anche in un organismo. L’unità è solo il punto di arrivo di un processo di assemblaggio teorico. Concetti come quello di totalità o di organizzazione assumono lo status di epifenomeni, risultanti dai processi dinamici di formazione di forme regolari. All’interno di questa linea teorica basata sull’ordine di tipo statistico, assume una particolare rilevanza teorica l’approccio proposto da Kupiec e Sonigo, che propone un’alternativa critica alla biologia molecolare per quello che riguarda le modalità di interazione considerate. A partire da una decostruzione del concetto di gene, i due autori assumono la nozione di ordine dal disordine come l’elemento cruciale per descrivere i processi viventi (Kupiec e Sonigo, 2000). La loro posizione teorica si caratterizza innanzitutto per una critica delle interazioni proposte nei modelli della biologia molecolare, definite come istruttive5 in quanto costruite sulla nozione di stereospecificità. Non sono ritenute sufficienti a produrre un ordine globale, perché i componenti – come dei mattoncini di lego – rimangono comunque sempre distinti, nella loro differenziazione, non consentendo alcuna integrazione. L’alternativa proposta consiste nel considerare le specie chimiche e cellulari, sulla stregua delle specie viventi nel processo evolutivo darwiniano6. Nel modello definito di “hasard-sélection” elaborato da Kupiec e Sonigo, i componenti molecolari interagiscono casualmente, ma la selezione opera in direzione di un’ottimizzazione delle risorse energetiche, determinando quali interazioni sono più adeguate. 5. La posizione critica nei confronti delle interazioni istruttive avvicina questa posizione alla teoria dell’autopoiesi, ma la motivazione è di tipo diverso. Infatti dipende teoricamente da un’estensione del concetto darwiniano di selezione naturale a tutti i livelli della biologia, e da un rifiuto dei modelli teorici lamarkiani, invece che dalla prospettiva epistemologica di riferimento. 6. Come già accennato nell’introduzione, si rifanno implicitamente alla linea di ricerca di Galton, Roux e Weissmann, basata sul concetto di “selezione intrabiotica” (Pichot, 1999).
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Se si accerta che il modello di hasard-sélection è realmente capace di spiegare tutti questi fenomeni [evoluzione, embriogenesi, immunologia, sistema nervoso], allora vorrà dire che Darwin non ha solamente enunciato la legge dell’evoluzione, ma ha scoperto i fondamenti di una teoria generale capace di spiegare sia l’emergenza che la diversificazione di una struttura biologica (Kupiec e Sonigo, 2000: 15-16). […] è perché le relazioni tra i componenti di un ecosistema possiedono un grande grado di libertà che si possono avere dei raggruppamenti di individui identificabili in specie. La selezione naturale è un principio di creazione di ordine a partire dal disordine di queste relazioni non specifiche (Kupiec e Sonigo, 2000: 56, enfasi nostra).
La produzione di ordine a livello molecolare7 è considerata in modo analogo alla formazione di nuove specie viventi. A differenza delle interazioni istruttive modellizzate dalla biologia molecolare, che si basano su un meccanismo di imposizione di una forma ordinata a una materia altrimenti informe, in questo caso è la selezione interna, secondo criteri di tipo energetico, che definisce quali trasformazioni portano alla produzione di una forma adeguata. Il problema di questa posizione, però, consiste nel fatto che l’ordine prodotto riguarda le specie molecolari, ovvero le specificità delle interazioni tra i componenti metabolici. Quindi risulterebbe comunque necessaria un’ulteriore operazione concettuale successiva per poter attribuire il carattere di unità al sistema così formato. Secondo questo approccio, infatti, la totalità e la sua organizzazione sono epifenomeni, essendo solo l’effetto su larga scala delle interazioni tra le specie chimiche, a loro volta dipendenti da una dinamica casuale sottoposta ai vincoli energetici del dominio fisicochimico. Le altre due nozioni di ordine, quello posizionale e quello relazionale dinamico, si differenziano dal precedente poiché identificano l’ordine con l’organizzazione del sistema. Fin dai loro lavori preliminari sul problema della modalità di descrizione più pertinente al fine di cogliere la specificità del dominio del vivente, Maturana e Varela, analogamente a Schrödinger, propongono la tesi secondo cui le macchine e gli organismi si distinguono dai sistemi fisici per il modo in cui gli elementi sono connessi.
7. O intercellulare nel caso degli organismi complessi.
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Ciò che rende peculiare la fisica è il fatto che la materialità è implicata per sé; così, le strutture descritte incarnano concetti che sono derivati dalla materialità stessa, e non hanno senso senza di essa (Varela e Maturana, 1972: 379). I sistemi viventi sono macchine appartenenti a una o più classi definite […] l’elemento definitorio nell’organizzazione vivente [e nelle macchine] è una certa struttura8 indipendente dalla materialità che la incarna; non la natura dei componenti, ma le loro interrelazioni (Varela e Maturana, 1972: 380).
Il problema di come sono connessi gli elementi di un sistema vivente costituisce è il cuore del modello concettuale proposto da Schrödinger, secondo cui non è sufficiente una descrizione statistica di tipo fisico per cogliere la peculiarità del vivente. La differenza tra i sistemi fisici e quella classe di sistemi che raccoglie le macchine e gli organismi, risiede nel modo in cui gli elementi di quest’ultima sono costruiti e non nelle proprietà dei loro componenti, che in ultima istanza seguono sempre una descrizione fisica9. L’ordine comune agli organismi e alle macchine artificiali è espresso da Schrödinger con il concetto di order from order. Nel vivente esso è realizzato grazie alla presenza di un solido aperiodico, caratterizzato da una struttura posizionale. I processi metabolici sono controllati da un gruppo ordinato di atomi che si mantiene invariato e trasmette la sua struttura posizionale ad altre strutture molecolari. L’elemento cruciale per comprendere la vita è individuato nell’organizzazione spaziale del solido aperiodico, che viene conservata a dispetto delle dinamiche interne dell’organismo e dei processi evolutivi intergenerazionali. 8. In questo testo Maturana e Varela non hanno ancora definito terminologicamente con struttura e organizzazione la distinzione tra materialità e relazioni. In questo passo con struttura si intende ciò che nei testi successivi sarà chiamato con il termine organizzazione. 9. “[...] un ingegnere che abbia pratica di sole macchine termiche, dopo aver esaminata la costruzione di un motore elettrico, si aspetterebbe di vederlo funzionare secondo principi ch’egli ancora non comprende […] Egli sarebbe convinto che si tratta dello stesso rame e dello stesso ferro, soggetti alle medesime leggi di natura e avrebbe in questo ragione. La differenza nella costruzione è sufficiente per prepararlo a un modo di funzionare completamene diverso” (Schrödinger, 1944: 131-132). “[…] ci sono fenomeni le cui evidenti caratteristiche sono visibilmente basate direttamente sul principio dell’ordine dall’ordine e sembrano non aver nulla a che fare con la statistica e col disordine molecolare” (Schrödinger, 1944: 138).
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La vita sembra dipendere da un comportamento, ordinato e retto da leggi rigorose della materia, non basato esclusivamente sulla tendenza di questa a passare dall’ordine al disordine, ma basato in parte sulla conservazione dell’ordine esistente (Schrödinger, 1944: 119).
Non è sufficiente quindi una descrizione statistica per spiegare il vivente, ma è necessaria un’indagine del meccanismo secondo cui l’ordine posizionale di un componente fondamentale è conservato e trasmesso agli altri elementi. […] noi constatiamo il fatto che l’ordine esistente manifesta il potere di mantenere se stesso e di produrre eventi ordinati (Schrödinger, 1944: 133).
Il modello concettuale di Schrödinger associa il vivente a una macchina, descrivendola concettualmente come un meccanismo analogo a un orologio, con sottomeccanismi interconnessi in modo tale che sono le posizioni reciproche degli ingranaggi l’elemento rilevante. […] sembra evidente che tutti gli eventi puramente meccanici seguono direttamente il principio del “ordine dall’ordine” (Schrödinger, 1944: 139). Gli orologi sono capaci di funzionare […] perché sono costituiti da corpi solidi, la cui forma si mantiene costante[…]. Ora, mi sembra, poche altre parole sono necessarie per mostrare il punto di rassomiglianza tra un orologio e un organismo. Si tratta semplicemente e soltanto del fatto che anche quest’ultimo si basa su un solido, il cristallo aperiodico, che costituisce la sostanza ereditaria ed è ben lontano dal disordine dell’agitazione termica (Schrödinger, 1944: 145).
Egli quindi solidifica il flusso biochimico interno all’organismo in una sorta di meccanismo chimico in cui l’ordine microscopico del codice genetico è trasmesso posizionalmente all’ordine macroscopico del vivente. Negli organismi, intesi come delle macchine, la forma strutturale è ciò che è conservato e trasmesso nei processi di ontogenesi e filogenesi, e come un programma dirige i processi del vivente10. 10. È l’idea che ha poi portato all’elaborazione della metafora computazionale da parte di von Neumann, nel cui modello (von Neumann, 1966) il programma svolge il ruolo del solido, del cristallo aperiodico.
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Infatti, è semplicemente un dato di osservazione che il principio direttore di ogni cellula è impersonato da un singolo sistema di atomi […] ed è un dato di osservazione che un tale sistema riesca a produrre eventi che sono un modello di regolarità (Schrödinger, 1944: 136).
L’espressione “è semplicemente un dato di osservazione” richiama all’operazione fondamentale alla base della definizione di questo approccio allo studio del vivente: l’identificazione di un ordine rigido, geometrico, percepibile visivamente come forma ordinata e che si propaga a diversi livelli, dal DNA alle strutture molecolari fino agli organi degli organismi complessi. Ma è anche l’identificazione di un ordine costante nelle generazioni, e che viene sempre identificato con l’acido nucleico. Quello incarnato nel codice genetico è perciò considerato l’invariante fondamentale che si manifesta sia al livello molecolare che evolutivo, i due livelli su cui è costruita la cornice teorica della biologia molecolare. La definizione di vivente implicita in questa prospettiva teorica si basa sull’identificazione delle proprietà centrali del vivente nel genotipo. Il fenotipo che interagisce con l’ambiente ne è soltanto il veicolo, la manifestazione. La sua natura epifenomenica lo esclude quindi dalla definizione. Questa operazione è esplicitata in modo radicale da Richard Dawkins. Si tratta di un gruppo di informazioni che si trasmette per molte generazioni e che costituisce il materiale su cui può agire la selezione naturale (Dawkins, 1995: 65). La selezione naturale agisce sui replicatori, nel senso che quelli che hanno successo tendono a rimpiazzare quelli che non ne hanno. L’affermazione dei primi sui secondi si misura dalla loro maggiore abilità nel costruire i veicoli, ossia i fenotipi, più appropriati (Dawkins, 1995: 70).
Collegando il livello del genotipo come “principio direttore di ogni cellula” con quello sovrasistemico dei cambiamenti evolutivi dove agisce il meccanismo della selezione naturale, è possibile formulare una definizione di quello che è il vivente secondo la biologia molecolare. “Una selezione naturale di replicatori caratterizzati da una struttura solida ordinata che si trasmette in modo conservativo alla struttura macroscopica dei loro veicoli”. Il concetto di order from order permette di focalizzare l’attenzione sull’organizzazione interna del sistema, ovvero su come i componenti 128
sono connessi tra loro, ma ha due caratteristiche che lo rendono inapplicabile al vivente. In primo luogo la topologia di relazioni non dipende dall’unità ordinata di livello superiore, bensì dall’aggregazione delle parti materiali, che possono essere assemblate una a una. Inoltre, il vivente è descritto come una macchina, in cui i processi metabolici sono solidificati, e in cui ciò che ha una rilevanza decisiva è la successione dei nucleotidi dei geni, trasmessa alla sequenza degli amminoacidi delle proteine. A differenza dell’ordine statistico espresso dal concetto di order from disorder, che non permette di operare una distinzione tra un organismo e un sistema fisico, in questo caso non è invece possibile cogliere la specificità del vivente rispetto alle macchine artificiali. L’unica soluzione in questo senso rimarrebbe l’artificio teorico di introdurre il concetto di finalità intrinseca, che può servire come principio esplicativo, ma di per sé non fornisce una giustificazione, a livello descrittivo operazionale, per un’effettiva differenziazione dei due domini. Tuttavia l’elemento cruciale per poter distinguere tra organismi e macchine risiede ancora nel concetto di organizzazione, che necessita, però, di essere indagato più in profondità. Nelle macchine l’organizzazione è definita come un ordine posizionale. Gli automi, infatti, sono caratterizzati organizzativamente da vincoli geometrici spaziali. A differenza di alcuni oggetti fisici come i cristalli, però, non si esauriscono in pure simmetrie, ma i loro componenti hanno un funzionamento interattivo esprimibile per mezzo di modelli basati sullo schema stimolo-risposta. Un esempio – si vedrà nel dettaglio nella parte terza – è costituito dagli automi autoriproduttori di von Neumann (von Neumann, 1966), che non producono realmente se stessi o copie di se stessi, ma ricreano solo una certa disposizione spaziale di componenti definiti a priori. La fenomenologia esibita dai sistemi viventi è però radicalmente differente. Ad un osservatore interno essa si mostra come un flusso di processi di trasformazione che ha luogo in quella che appare come una mescolanza11. La difficoltà descrittiva dipende dal fatto che il sistema risulta caratterizzato da un processo di cambiamento continuo al livello dei suoi componenti strutturali, ma ciononostante rimane in qualche modo invariante come totalità, mantenendo quindi se stesso. A differenza 11. Si fa riferimento in questo caso al sistema vivente minimale, non caratterizzato da compartimentazioni intracellulari, come negli eucarioti, né da organi di livello superiore, come negli organismi pluricellulari complessi.
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che nelle macchine, dove le parti materiali sono disposte in un ordine percepibile visivamente, nell’organismo i componenti chimici sono mischiati in un continuo flusso di processi di produzione, trasformazione e degradazione che hanno luogo contemporaneamente in una rete fluida di relazioni. L’ordine, perciò, non è posizionale, non è localizzato, in quanto ogni elemento è dissolto in uno spazio di relazioni più simile a quello espresso dalla nozione di “campo” che da relazioni geometriche. Per definire il vivente si rende perciò necessario ripartire dalla distinzione che ne coglie la specificità come un invariante globale. Come in ogni altra esperienza conoscitiva, un osservatore in interazione con un sistema vivente può operare una molteplicità di distinzioni a seconda del suo punto di vista e del suo scopo. I criteri possono essere i più diversi: la produzione di un certo enzima o di un prodotto di scarto espulso dal sistema; l’identificazione di un certo percorso metabolico o dei processi termodinamici relativi a esso. Ma per identificarlo come sistema vivente, deve operare un tipo specifico di distinzione. Innanzitutto è necessario considerare che l’organismo vivente si autoproduce, e nel farlo realizza costantemente un’unità integrata che si mantiene a dispetto del cambiamento che avviene al livello sottostante. Specifica e produce, quindi, una propria topologia a livello macroscopico, che coincide con gli stessi confini funzionali12 dei suoi processi interni. [La vita] è individualità che ha in sé il proprio centro, che è per sé e in opposizione al resto del mondo, con un confine essenziale tra interno ed esterno – nonostante, anzi, sulla base dello scambio effettivo (Jonas, 1966: 110). La distinzione operata dall’osservatore deve tenere conto di questa coincidenza di produttore e prodotto, di confine topologico e funzionale. Per identificare un sistema vivente si rende perciò necessario operare una distinzione che ne definisca l’identità nello stesso dominio in cui esso stesso la specifica attraverso le proprie dinamiche interne, ovvero al livello dell’unità composita. Poiché è una caratteristica […] di un sistema autopoietico che esso debba specificare i suoi stessi confini, un’identificazione adeguata di un 12. Con il termine funzionale in questo caso non si intende il concetto di funzione biologica, ma quello di funzionamento. Si tratta della dinamica interna al sistema che ha luogo al livello dell’unità composita, contrapposta al comportamento, ovvero alla dinamica dell’unità semplice in interazione con l’ambiente.
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sistema autopoietico come unità, richiede che l’osservatore esegua un’operazione di distinzione che definisca i limiti del sistema nello stesso dominio in cui esso li specifica attraverso la sua autopoiesi (Varela, 1979: 54). La distinzione, quindi, è operata al livello dell’organizzazione che connette i componenti del sistema in modo tale che essi realizzano e mantengono come unità integrata distinguibile la stessa organizzazione che li rende possibili. Ciò che rende un sistema unitario l’insieme di processi che hanno luogo nel vivente, deve perciò essere rintracciato su un livello differente rispetto a quello della descrizione fisicochimica e di quella meccanica. Le parti materiali infatti sono continuamente prodotte, trasformate e degradate. L’identità del sistema è invece mantenuta costante in questo cambiamento continuo e, quindi, non appartiene allo stesso dominio descrittivo. Vi è qualcosa che si conserva al livello dell’unità composita, ma non si tratta di uno o più componenti strutturali, né di una loro disposizione spaziale. È invece una forma invariante di natura particolare, non assimilabile a una regolarità fenomenica generata per aggregazione di elementi materiali. Per ogni altra forma di aggregazione può essere vero che l’unità evidente che la fa apparire come un tutto, non sia altro che il prodotto della nostra percezione sensoriale […]. La totalità qui integra se stessa nell’atto stesso di compiersi; la forma non è il risultato, bensì la causa delle accumulazioni materiali di cui essa successivamente consiste. L’unità è qui autounificante per mezzo della pluralità che si trasforma. […] la differenza tra materia e forma, che rispetto al mondo inanimato è una mera astrazione, si presenta per la prima volta come reale (Jonas, 1966: 111).
È un aspetto rivoluzionario rispetto alla concezione meccanicista della Natura, secondo cui l’invariante è costituito dai componenti materiali, e le modalità aggregative sono soltanto “accidenti” che non ne influenzano la natura. Partire dal vivente invece porta a ribaltare la visione sul mondo, portando la forma al livello di invariante fondamentale, e attribuendo alle relazioni il ruolo definitorio delle proprietà dei componenti che ne sono il substrato. Per Maturana e Varela, è l’invarianza di questa forma l’elemento fondante della teoria della biologia, dalla definizione dell’unità di base alla spiegazione di tutta le fenomenologia biologica. 131
Pensiamo […] che il mantenimento dell’identità e l’invarianza delle relazioni definenti delle unità viventi siano alla base di ogni possibile trasformazione evolutiva e ontogenetica nei sistemi biologici, e questo noi intendiamo esplorare. Così il nostro scopo è: capire l’organizzazione dei sistemi viventi in relazione al loro carattere unitario (Maturana e Varela, 1973: 127).
Questa forma è l’organizzazione dell’unità composita, e da essa dipende la natura dei componenti che realizzano l’unità. Non può essere individuata al livello spaziale come nelle macchine materiali, perché è logicamente precedente ai componenti, anche se operativamente è ad essi concomitante. Va invece rintracciata sul piano dei processi di produzione di questi ultimi e in particolare al livello delle interconnessioni tra questi processi. L’ordine macroscopico unitario non è la conseguenza delle strutture microscopiche degli elementi di livello inferiore, ma è realizzato da essi e allo stesso tempo definisce la forma delle interconnessioni tra questi ultimi. L’organizzazione definisce perciò un ordine relazionale astratto, di relazioni di interazioni, che può essere identificato solo assumendo un livello di astrazione superiore al flusso di cambiamenti che esso rende possibile. È con un’operazione epistemologica di posizionamento su un livello di descrizione superiore che si può rintracciare l’ordine astratto del vivente, che integra il processo indistinto e transitorio di trasformazione materiale. Un ordine che, riprendendo un’espressione di Ganti (2003), può essere definito come “order in the nothing”. L’ordine organizzazionale del vivente – distinto dall’ordine strutturale riscontrabile al livello inferiore, espressione di una regolarità fenomenica percepibile – è un ordine invisibile alla percezione, che non può essere rintracciato nel livello sottostante. Genera una topologia di relazioni astratta e dinamica, perché non si basa sulla fissità dei componenti. Mettendo in relazione processi, invece che elementi materiali, si caratterizza come un “metalivello di relazioni” che emerge quando il flusso di trasformazioni assume una forma che rende possibile la realizzazione dell’autoproduzione e dell’automantenimento. Questo ordine caratteristico del vivente appartiene, quindi, a un dominio astratto, indipendente ma complementare a quello dei componenti materiali: quello dell’organizzazione, così come è definita dalla teoria autopoietica, come relazioni tra processi. Per essere investigato richiede lo sviluppo di una modellistica specifica che risponda ai criteri fissati in precedenza per i modelli generativi, relazionali e analitici. 132
Nella tabella riassuntiva sono indicate le assunzioni di base implicate dalle diverse nozioni di ordine che sono state definite in questo paragrafo. Riguardano il tipo di processo generativo, le interazioni pertinenti ai diversi livelli di descrizione e le classi di sistemi di cui permettono la modellizzazione. Processo Generativo
Interazioni
Classi di sistemi
Order from disorder
Statistico
Non-posizionali (tra componenti definiti a priori)
Sistemi fisicochimici
Order from order
Relazionale di tipo spaziale (tra componenti)
Posizionale (tra componenti definiti a priori)
Sistemi artificiali (macchine)
Order in the nothing
Relazionale astratto (tra processi)
Non-posizionali (tra componenti prodotti all’interno del sistema)
Sistemi viventi
Le prime due nozioni di ordine hanno in comune il punto di partenza epistemologico, ovvero il dominio di esistenza definito dalla distinzione della parti materiali, ma mostrano alcune profonde differenze. In primo luogo derivano da una diversa assunzione relativa alle interazioni che sono considerate pertinenti nel dominio considerato. In secondo luogo attribuiscono un ruolo diverso alla nozione di organizzazione. Nel primo e nel terzo caso, le nozioni di ordine considerate possono essere associate per l’attenzione posta al mantenimento di una forma unitaria a dispetto della variazione strutturale dei processi metabolici del vivente. Ma si contrappongono proprio per il significato operativo ed epistemologico che attribuiscono all’unità. Nel primo caso è riconoscibile visivamente ma non implica una differenza effettiva nei processi sottostanti. Si caratterizza come un epifenomeno che dipende sostanzialmente da una differenza di scala osservativa. Nel secondo caso, invece, ha un ruolo effettivo nel definire i componenti e le interazioni rilevanti. Inoltre, si pone su un livello di astrazione superiore, risultato di un processo di costruzione teorica, invece che di un’operazione percettiva. 133
La seconda e la terza definizione di ordine convergono sull’importanza cruciale attribuita all’organizzazione del sistema vivente, che è però teorizzata secondo due modalità divergenti. Un’ulteriore differenza riguarda il livello descrittivo considerato come fondamentale: quello relativo alle parti materiali nel primo caso; all’unità composita nel secondo. Macchine e sistemi viventi, infatti, sono accomunati da un ordine organizzazionale. Ma questo accostamento può trarre in inganno. Si tratta di due concetti di organizzazione diversi. I primi si basano su una relazionalità spaziale statica, e i componenti elementari (le parti materiali) sono il punto di partenza per definirla: è un’organizzazione di tipo strutturale. I secondi sono caratterizzati per mezzo di un’organizzazione di secondo ordine, astratta, non localizzata e invisibile: un “campo di relazioni” tra interazioni dinamiche (processi). Inoltre, è l’organizzazione il punto di partenza per la definizione dei componenti e non viceversa. I due approcci si basano perciò su due significati del termine profondamente diversi e incompatibili. Porli sullo stesso piano significherebbe perdere la capacità di descrivere gli aspetti distintivi di entrambe le classi di sistemi. È opportuno però rimarcare un ulteriore aspetto: la relazione tra descrizione termodinamica e descrizione relazionale astratta. Queste non sono incompatibili, perché sono frutto di due diverse operazioni di distinzione su uno stesso sistema13. Appartengono perciò a due domini diversi, complementari e quindi non mutuamente esclusivi. L’apertura termodinamica e la cinetica molecolare sono le condizioni di possibilità del vivente. Non ne costituiscono i fattori definitori, perché comuni a una classe più ampia di sistemi. Sono elementi appartenenti al livello dei modelli strutturali di processi che possono aver luogo anche nel vivente, ma non dicono nulla sull’organizzazione unitaria di quest’ultimo14. 13. Uno stesso sistema può essere infatti distinto secondo modalità diverse a seconda dell’interesse dell’osservatore. Nella definizione del sistema vivente unitario l’attenzione è rivolta alle relazioni tra processi, nella sua descrizione termodinamica alle relazioni di trasformazione energetica: “le strutture dei due sistemi si intersecano, ma sono sistemi totalmente differenti dal punto di vista operazionale, perché sono definiti da differenti organizzazioni” (Maturana, 1981: 30). 14. Esistono però approcci intermedi, che hanno l’intento di riportare il concetto di organizzazione al livello della fisica, non attraverso un’operazione di riduzione, bensì allargando il dominio descrittivo di questa disciplina con l’introduzione di nuove leggi. Un primo esempio è l’approccio di Kauffman che cerca di ritrovare l’organizzazione nei vincoli termodinamici prodotti dal sistema vivente stesso. Egli indaga il campo di possibilità di formulazione di una quarta legge della termodinamica in grado allargare il
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Al termine di questa analisi sulla nozione di ordine in biologia è opportuno riproporre la domanda fondamentale della biologia formulata nell’introduzione e introdurre una definizione di vita derivata dalla teoria dell’autopoiesi (Maturana e Varela, 1973: 131) coerente con il concetto di order in the nothing, inteso come l’ordine relazionale astratto del vivente. “Cos’è il vivente? Cosa caratterizza il continuo fluire intrecciato di processi di produzione e trasformazione di componenti che un osservatore riconosce come realizzante un sistema vivente e come generatore di tutta la fenomenologia biologica?” Un sistema vivente è definito come un’unità organizzata come una rete di processi di produzione, trasformazione, degradazione di componenti che: 1. attraverso le loro interazioni e trasformazioni realizzano ricorsivamente e rigenerano la stessa rete che li produce; 2. costituiscono il sistema come un’unità concreta nello spazio in cui esistono, stabilendo il suo confine e specificando così il suo dominio topologico. 2. La teoria autopoietica e la sua genealogia: elaborazione della duplice complementarità struttura/organizzazione e apertura/chiusura L’elaborazione della teoria del vivente basata sulla nozione di organizzazione è il risultato degli sforzi teorici di una tradizione scientifica sviluppatasi tra gli anni Trenta e Settanta in alternativa alla sintesi neodarwinista. È importante sottolineare che si tratta della stessa linea di ricerca che porta alla formulazione del paradigma epistemologico costruttivista, mostrando ancora una volta la stretta relazione tra biologia e conoscenza. mondo fisico a comprendere anche i processi viventi (Kauffman, 2000). Un altro scenario teorico è quello proposto da Bailly e Longo, che tentano di affrontare il problema della peculiarità del vivente come singolarità fisica attraverso la formulazione del concetto di “criticità estesa” (Bailly e Longo, 2006). Inoltre, a partire da una riflessione che prende in considerazione le istanze presentate dalla teoria dell’autopoiesi e alcuni aspetti trascurati del pensiero di Schrödinger sul vivente, propongono una misurazione dell’organizzazione in termini di entropia negativa, come informazione globale del sistema. Infine esiste un approccio poco sviluppato, quello della Network Thermodynamics (Mikulecky, 2001b) derivato in parte dagli studi di Rosen, che procede in direzione inversa rispetto a quelli appena elencati. Propone infatti di pensare il legame tra termodinamica e organizzazione affrontando la prima con un approccio relazionale e non la seconda con un approccio fisico, producendo una modalità descrittiva ibrida.
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Dal punto di vista della ricerca biologica, essa racchiude una molteplicità di campi di studio raccolti sotto la denominazione di “genealogia dell’auto-organizzazione” (Ceruti, 1989; Bich e Damiano, 2007; Damiano, 2009; Damiano, 2012). L’elemento che accomuna cibernetica, embriologia, termodinamica delle strutture dissipative ed epistemologia genetica è l’interesse per la modellizzazione dell’autonomia del vivente. In primo luogo questa indagine è focalizzata sul comportamento dei sistemi biologici nel loro ambiente, e l’autonomia è caratterizzata come la parziale indipendenza del sistema dalle perturbazioni ambientali (“autonomia esterna”), modellizzata attraverso il concetto di autoregolazione: la risposta attiva agli stimoli esterni. Ma nel corso del tempo cresce l’attenzione per il processo generativo della fenomenologia dei sistemi autonomi (“autonomia interna”), con il conseguente sviluppo di una prospettiva teorica anche internalista, la cui peculiarità consiste nel rivolgere l’attenzione agli aspetti relazionali, considerati come complementari a quelli puramente materiali, o strutturali. La proprietà generica “esterna” di parziale indipendenza dall’ambiente – che nei sistemi viventi consiste in un autoconfinamento dovuto alla produzione di una membrana, e in una capacità di rispondere attivamente alle perturbazioni ambientali non specificata dalla natura delle perturbazioni stesse – è spiegata come conseguenza dei processi interni di autoproduzione e automantenimento dell’intera rete di processi. Con lo spostamento di punto di vista all’interno del sistema, sorgono delle difficoltà concettuali nel tentativo di catturare cosa rende un sistema vivente un’unità, e che tipo di ordine è possibile attribuire a essa. Ci si trova di fronte, infatti, a sistemi caratterizzati da un continuo cambiamento al livello dei componenti ma che, ciononostante, si mantengono come unità. Come è stato posto in evidenza, gli strumenti teorici e applicativi forniti dalle simulazioni nel dominio computazionale e dagli studi dei processi fisicochimici di autoassemblaggio, in cui i componenti sono disposti in un ordine identificabile secondo proprietà spaziali, mostrano profondi limiti in questo dominio. L’ordine unitario, l’invariante caratteristico di questi sistemi, infatti, non può essere attribuito ai singoli componenti: non è localizzabile. Perciò questa tradizione inizia a sviluppare un approccio differente, di tipo sistemico-relazionale. La teoria autopoietica eredita gli interrogativi e gli strumenti concettuali elaborati da questa tradizione multiforme e ne dà una rigorizzazione che integra i livelli interno ed esterno dell’autonomia biologica tramite una descrizione organizzazionale. Allo stesso modo eredita una modalità di approccio che ha come punto di partenza le operazioni osservative. 136
Questa lunga elaborazione, che conduce alla definizione sistemica del processo generativo del vivente riproposta al termine del capitolo precedente, si caratterizza per tre aspetti. 1. L’attenzione per il carattere unitario ma allo stesso tempo dinamico del sistema: la forma emergente, nelle sue diverse caratterizzazioni epifenomeniche o effettive. 2. Il posizionamento su un livello epistemologico astratto dalle dinamiche che coinvolgono i componenti fisicochimici del sistema, quello dell’organizzazione. 3. L’assunzione del concetto di interazione retroattiva, che porta la relazione di implicazione “causale” e formale di natura circolare al centro stesso dell’indagine scientifica. Nel corso delle successive elaborazioni la nozione interna di autonomia viene sempre più identificandosi con una topologia chiusa – circolare – di processi di interazione, contrapposta alla necessaria apertura allo scambio materiale ed energetico. Si tratta di un lungo processo di costruzione teorica del vivente, le cui caratteristiche definitorie sono elaborate a partire dall’integrazione sistemica dell’unità relazionale complessa che costituisce l’organismo biologico, e della dipendenza endogena (autonomia) dei processi che la caratterizzano. Il concetto di partenza, che nelle sue successive rielaborazioni si mostrerà cruciale per entrambi gli aspetti, è quello di “omeostasi” elaborato dalla prima cibernetica, in particolare nei lavori di Wiener (Wiener, 1948; 1950)15. In origine è una nozione organizzazionale di primo livello, basata sulle modalità di connessione spaziale tra i componenti di un meccanismo di retroazione negativa che ha come caratteristica quella di rendere possibile una regolazione del valore delle variabili significative interne di un sistema meccanico. Nasce infatti nel dominio della modellizzazione dei servomeccanismi16 ma, con un’attitudine di scambio continuo tra settori disciplinari che contraddistingue la cibernetica, è estesa anche al dominio del vivente. 15. È opportuno ricordare qui anche il contributo apportato, a partire dagli anni Trenta, da uno dei padri della riflessione cibernetica russa Pyotr Kuzmich Anokhin, con la sua teoria dei Sistemi Funzionali e l’introduzione del concetto di “reverse afferentation” (cfr. Anokhin, 1974 e Egizaryan e Sudakov, 2007). 16. In particolare quelli relativi ai dispositivi di puntamento delle batterie antiaeree di cui si occupa Wiener durante la Seconda Guerra Mondiale (Wiener, 1948; 1950). Ma l’origine applicativa di questi meccanismi può essere fatta risalire all’epoca della rivoluzione industriale e in particolare ai termostati delle macchine a vapore.
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Un enorme gruppo di casi in cui una qualche sorta di meccanismo di retroazione […] è assolutamente essenziale per la continuazione della vita è rintracciato in ciò che è noto come omeostasi. […]. La nostra economia interna deve contenere un assemblaggio di termostati, di controlli automatici delle concentrazione degli ioni di idrogeno, di regolatori e simili, che sarebbero adeguati per una immensa centrale chimica. Questi sono ciò che consideriamo collettivamente come il nostro meccanismo omeostatico (Wiener, 1948: 114-115). DGHJXDWLSHUXQDLPPHQVDFHQWUDOHFKLPLFD4XHVWLVRQRFLzFKHFRQVLGHULDPRFROOHWWLYDPHQWH FRPHLOQRVWURPHFFDQLVPRRPHRVWDWLFR:LHQHU
Il veicolo che permette il passaggio teorico dalle macchine agli orga,O YHLFROR FKH SHUPHWWH LO SDVVDJJLR WHRULFR GDOOH PDFFKLQH DJOL RUJDQLVPL q LO FRQFHWWR GL nismi è il concetto di organizzazione. La descrizione relazionale consente RUJDQL]]D]LRQH /D GHVFUL]LRQH UHOD]LRQDOH GL WUDODVFLDUH OH relativi SURSULHWj LQWULQVHFKH GHL di tralasciare le proprietà intrinseche dei FRQVHQWH componenti materiali, PDWHULDOLconsiderata, UHODWLYL DOOD FODVVH GL VLVWHPL FRQVLGHUDWD SHU IRFDOL]]DUH allaFRPSRQHQWL classe di sistemi per focalizzare l’attenzione sulle mo-O¶DWWHQ]LRQH VXOOH dalità di connessione. In questo modo una stessa topologia di relazioni PRGDOLWj GL FRQQHVVLRQH ,Q TXHVWR PRGR XQD VWHVVD WRSRORJLD GL UHOD]LRQL q WUDVIHULELOH GD XQ è trasferibile da un dominio all’altro. GRPLQLRDOO¶DOWUR Il meccanismo di regolazione retroattiva proposto da Wiener è de,O PHFFDQLVPR GL UHJROD]LRQH UHWURDWWLYD :LHQHU q GHVFULWWR FRPH XQ VLVWHPD GL scritto come un sistema di relazioni che SURSRVWR connetteGDdue componenti – il UHOD]LRQLFKHFRQQHWWHGXHFRPSRQHQWL±LOVHQVRUHHO¶HIIHWWRUH±DWWUDYHUVRXQWHU]R±LOUHJRODWRUH sensore e l’effettore – attraverso un terzo – il regolatore – che in un certo senso permette il ripiegamento della topologia di WRSRORJLD relazioniGLsuUHOD]LRQL se stessa. ± FKH LQ XQ FHUWR VHQVR SHUPHWWHLO ULSLHJDPHQWR GHOOD VX VH VWHVVD ,QSXW H Input e output sono connessi tra di loro per mezzo del terzo componente. RXWSXWVRQRFRQQHVVLWUDGLORURSHUPH]]RGHOWHU]RFRPSRQHQWH
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138 UHJROD]LRQHUHWURDWWLYDTXHOORWHFQRORJLFR,QQDQ]LWXWWRLOPHFFDQLVPRLGHQWLILFDWRGD:LHQHUFRQ O¶DXWRQRPLDGHOYLYHQWHqTXHOORGLDXWRVWDELOL]]D]LRQH1HOOHPDFFKLQHLQIDWWLLFRPSRQHQWLVRQR JLjGDWLQRQVLPRGLILFDQRHVRSUDWWXWWRQRQVRQRSURGRWWLGDOVLVWHPDVWHVVR/DGHVFUL]LRQHGHO ORURFRPSRUWDPHQWRqGHILQLWDGDIXQ]LRQLGLWUDVIHULPHQWRILVVHFKHFRQVHQWRQRYDULD]LRQLVRORDO OLYHOOR GHL YDORUL DVVXQWL GDOOH YDULDELOL e TXLQGL XQD QRUPDOH FRQVHJXHQ]D FKH OD UHJROD]LRQH
Alcuni aspetti di questo modello teorico saranno gradualmente superati dalle elaborazioni successive; in particolare quelli maggiormente dipendenti dal dominio di origine della nozione di regolazione retroattiva, quello tecnologico. Innanzitutto il meccanismo identificato da Wiener con l’autonomia del vivente è quello di autostabilizzazione. Nelle macchine, infatti, i componenti sono già dati, non si modificano e, soprattutto, non sono prodotti dal sistema stesso. La descrizione del loro comportamento è definita da funzioni di trasferimento fisse, che consentono variazioni solo al livello dei valori assunti dalle variabili. È quindi una normale conseguenza che la regolazione agisca come stabilizzazione dei valori dei parametri: è una regolazione degli “stati interni” e non dei “processi”, i quali rimangono invariati. Inoltre, l’autonomia è ancora concepita primariamente come una relazione tra sistema e ambiente, nel senso di uno smorzamento o una compensazione degli effetti di quest’ultimo. L’anello funzionale che collega l’effettore al sensore è ancora parzialmente aperto all’esterno. Il regolatore, infatti, connette sul versante interno il secondo al primo, ma l’interazione dal primo al secondo è ancora situata nel dominio ambientale. Il meccanismo di regolazione cibernetico comporta perciò la presenza di una fonte di riferimento esterna (Varela, 1979: 56). Infine, come in ogni applicazione derivante dal dominio degli automi, il modello omeostatico non è in grado di rendere conto del processo che definisce l’intervallo di valori della variabili interne che è mantenuto costante. Mentre nelle macchine è fissato nella funzione che definisce ogni componente e che dipende dallo scopo del costruttore esterno, nel vivente è necessario ricorrere al principio esplicativo della finalità intrinseca (Rosenblueth et al, 1943), con i problemi già posti in evidenza. Questi aspetti sono una conseguenza del modello di interazione meccanicista assunto in partenza17 e dal concetto di unità frazionabile, entrambi implicati dallo stesso paradigma di riferimento. Anche laddove Wiener si riferisce specificamente al vivente, l’integrazione unitaria è solo accennata, non definita in base all’organizzazione del sistema. Significativo in questo senso è l’uso del termine “assemblaggio” per descrivere l’aggregazione di singoli sistemi regolativi che “collettivamente” rendono possibile l’autostabilizzazione dell’organismo. 17. Una critica degli aspetti meccanicisti impliciti nella tradizione della prima cibernetica è presentata anche in Dupuy, 1994.
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Un secondo contributo teorico di estrema rilevanza ereditato dalla teoria dell’autopoiesi è quello apportato dall’embriologia, in cui si assiste alla rielaborazione dei concetti cibernetici, come quello di omeostasi. In questo caso la prospettiva, però, è dinamico-trasformativa. Il concetto di retroazione è ripensato a partire dalla nozione di “canalizzazione” (Waddington, 1968a; 1969)18, ovvero una regolazione dinamica che non riguarda solo dei parametri ma convoglia interi processi. Questa rielaborazione permette di applicare il modello retroattivo dell’omeostasi cibernetica di stabilizzazione degli stati interni ai processi biologici trasformativi. Nel vivente, infatti, le variabili non rimangono necessariamente costanti, ma la regolazione si applica piuttosto a interi flussi di processi. I fenomeni che implicano il mantenimento costante di alcuni parametri […] sono conosciuti da molto tempo. Ci si riferisce di solito a questa come una situazione di “omeostasi”. Qui abbiamo a che fare con un concetto simile, ma di natura più generale, in quanto ciò che è mantenuto costante non è un singolo parametro ma il corso di un cambiamento esteso nel tempo, cioè, una traiettoria. Ci si può dunque riferire a questa come situazione di “omeoresi”, cioè di flusso stabilizzato invece che di stato stabilizzato (Waddington, 1968a: 12).
Quella affrontata dagli embriologi è una dinamica distribuita. I fattori descrittivi determinanti dipendono dalle proprietà dei singoli componenti o dalla funzione di trasferimento in misura minore che nella descrizione cibernetica wieneriana. Gli effetti di stabilizzazione sono piuttosto dovuti all’azione collettiva degli elementi del sistema considerato. La totalità prodotta dall’interazione dei suoi componenti mostra infatti un campo di variabilità minore rispetto a quella delle entità che la realizzano (Weiss, 1969). Se si considerano gli elementi A, B, C…n e le rispettive deviazioni possibili dalle medie dei valori dei loro parametri fisicochimici VA, VB, VC,… Vn, e allo stesso modo l’unità S che essi integrano, la cui variabilità è espressa da VS.: Allora il complesso è un sistema se la variabilità delle caratteristiche del tutto collettivo è significativamente minore rispetto alla somma delle variabilità dei suoi costituenti, o scritto nella formula: 18. Con l’introduzione della nozione di creodo, o attrattore.
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VS