Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale
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Zitiervorschau

SAMUEL P. HUNTINGTON

Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale

GARZANTI

Prima edizione: Settembre 1997

Traduzione dall'inglese di Sergio Minucci

Titolo originale dell'opera: The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order Copyright © 1996 by Samuel P. Huntington ISBN 88-11-59972-5 © Garzanti Editore s.p.a., 1997 Printed in Italy

A Nancy c h e h a s o p p o r t a t o lo « S c o n t r o » col s o r r i s o sulle l a b b r a

PREFAZIONE

Nell'estate del 1993 la rivista «Foreign Affairs» pubblicò u n mio saggio intitolato «Scontro tra le civiltà?». Quell'articolo, s e c o n d o gli editori della rivista, ha scatenato in questi tre anni u n dibattito più intenso di quello provocato da qualsiasi altro articolo da loro pubblicato a partire dagli anni Q u a r a n t a . Di certo più intenso di qualsiasi altra cosa abbia mai scritto. Reazioni e c o m m e n t i sono piovuti da numerosissimi paesi di tutti i continenti. L ' o p i n i o n e pubblica è rimasta impressionata, affascinata, offesa, atterrita e perplessa dalla mia tesi s e c o n d o cui l ' e l e m e n t o centrale e più pericoloso dello scenario politico internazionale che va delineandosi oggi è il crescente conflitto tra g r u p p i di diverse civiltà. Al di là di tutto, l'articolo h a certam e n t e toccato u n n e r v o scoperto presso tutte le civiltà. Alla luce dell'interesse, dei f r a i n t e n d i m e n t i e delle controversie suscitati dall'articolo, mi è sembrato o p p o r t u n o esplorare più a f o n d o i temi in esso affrontati. In g e n e r e , u n m o d o costruttivo di p o r r e u n p r o b l e m a è quello di avanzare un'ipotesi. L'articolo, il cui titolo conteneva u n p u n t o interrogativo ignorato pressoché da tutti, rappresentava u n tentativo in tal senso. Questo libro i n t e n d e f o r n i r e u n a risposta più esauriente, app r o f o n d i t a e d o c u m e n t a t a alla d o m a n d a posta dall'articolo. L'obiettivo è quello di elaborare, precisare, c o m p l e t a r e e, laddove necessario, ridefinire i temi affrontati nell'articolo, nonché di sviluppare nuove idee e sviscerare n u m e r o s i a r g o m e n t i in esso assenti o solo superficialmente accennati. Questi comp r e n d o n o : il concetto di civiltà (al plurale); la questione dell'esistenza o m e n o di u n a civiltà universale; il r a p p o r t o tra potere e cultura; i m u t a m e n t i in atto negli equilibri di p o t e r e tra le varie civiltà; l'«indigenizzazione» culturale nelle società n o n occidentali; la struttura politica delle civiltà; i conflitti generati dall'universalismo occidentale, dall'integralismo m u s u l m a n o e

dal d i n a m i s m o cinese; la politica di allineamento o di contrapposizione in risposta al crescere della potenza cinese; cause e d i n a m i c h e delle g u e r r e di faglia; il f u t u r o della civiltà occidentale e di quella mondiale. Un tema di f o n d a m e n t a l e importanza n o n a f f r o n t a t o nell'articolo era quello del fortissimo impatto p r o d o t t o dallo sviluppo d e m o g r a f i c o in termini di instabilità e di equilibrio dei poteri. U n s e c o n d o tema di g r a n d e rilevanza anch'esso assente nell'articolo è sintetizzato nel titolo del libro e nella sua frase conclusiva: «Nell'epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri fra civiltà r a p p r e s e n t a n o la più grave minaccia alla pace mondiale, e u n o r d i n e internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di u n a g u e r r a mondiale». Q u e s t o libro n o n vuole essere u n o studio di scienze sociali, q u a n t o piuttosto u n ' i n t e r p r e t a z i o n e dell'evoluzione mostrata dalla politica internazionale n e l l ' e p o c a post-Guerra f r e d d a . Int e n d e presentare u n m o d e l l o interpretativo dello scenario politico m o n d i a l e che risulti valido p e r gli studiosi e utile p e r i politici. Il b a n c o di prova della sua validità e utilità n o n sta nel considerare se esso contempli o m e n o tutto q u a n t o avviene oggigiorno nel c a m p o della politica internazionale - cosa che ovviamente n o n p o t r e b b e mai fare - , q u a n t o piuttosto nel verificare se o f f r a o m e n o u n a lente attraverso cui osservare gli sviluppi internazionali migliore e più utile di q u a l u n q u e m o d e l l o alternativo. Inoltre, nessun m o d e l l o è valido p e r l'eternità. Se u n a p p r o c c i o interpretativo di questo tipo, basato cioè sullo studio delle civiltà, p u ò risultare utile p e r c o m p r e n d e r e la politica internazionale a cavallo tra xx e xxi secolo, ciò n o n significa c h e lo sarebbe stato a m e t à xx secolo o che d e b b a continuare ad esserlo a m e t à del xxi. Le idee che h a n n o d a t o vita all'articolo e quindi a questo lib r o sono state espresse in pubblico p e r la prima volta in occasione di u n a «Bradley Lecture» t e n u t a all'American Enterprise Institute di Washington nell'ottobre del 1992 e successivamente elaborate in u n saggio p r e p a r a t o p e r u n p r o g e t t o dell'Olin Institute dal titolo «The C h a n g i n g Security E n v i r o n m e n t a n d A m e r i c a n National Interests», sponsorizzato dalla Smith Ric h a r d s o n F o u n d a t i o n . In seguito alla pubblicazione dell'articolo, venni coinvolto in u n a serie infinita di seminari e dibattiti c o n e s p o n e n t i del m o n d o accademico, governativo e im-

prenditoriale organizzati ai q u a t t r o angoli degli Stati Uniti sul t e m a dello «scontro». Inoltre, h o avuto la f o r t u n a di partecipare a discussioni sull'articolo e sulle tesi in esso c o n t e n u t e in molti altri paesi, tra cui Argentina, Belgio, Cina, Francia, Germania, Inghilterra, Corea, G i a p p o n e , Lussemburgo, Russia, Arabia Saudita, Singapore, Sudafrica, Spagna, Svezia e Taiwan. Tali discussioni mi h a n n o p o r t a t o a contatto con tutte le maggiori civiltà del pianeta a eccezione di quella indù, e mi h a n n o p e r m e s s o altresì di trarre e n o r m i benefici dalle opinioni e suggerimenti dei suoi partecipanti. Nel 1994 e 1995 h o t e n u t o a H a r v a r d u n seminario sulla n a t u r a dell'era post-Guerra f r e d d a , e i c o m m e n t i , sempre appassionati, a volte critici, degli studenti mi h a n n o o f f e r t o u n ulteriore stimolo. La realizzazione di questo libro h a p o t u t o inoltre beneficiare dello stimolante ambiente del J o h n M. Olin Institute for Strategie Studies e del C e n t e r f o r International Affairs di Harvard. Il manoscritto è stato letto i n t e r a m e n t e da Michael C. Desch, Robert O. Keohane, Fareed Zakaria e R. Scott Z i m m e r m a n n , i cui c o m m e n t i h a n n o consentito significativi miglioramenti sia nella sostanza che nella struttura del libro. D u r a n t e tutta la stesura del testo, Scott Z i m m e r m a n n mi ha inoltre f o r n i t o u n supp o r t o indispensabile nel lavoro di ricerca; senza il suo costante, energico e c o m p e t e n t e aiuto questo libro n o n sarebbe mai stato completato nei tempi in cui è avvenuto. U n r u o l o importante h a n n o svolto a n c h e i nostri collaboratori n o n laureati, Peter J u n e Christiana Briggs. Grace de Magistris h a digitato alcune p r i m e versioni del manoscritto, e Carol Edwards ha riorganizzato il manoscritto con g r a n d e i m p e g n o e s u p e r b a efficienza u n così gran n u m e r o di volte che c r e d o d e b b a o r m a i conoscerne b u o n a parte a m e m o r i a . Denise S h a n n o n e Lynn Cox della Georges Borchard, e R o b e r t Asahina, R o b e r t B e n d e r e J o h a n n a Li della Simon & Schuster h a n n o seguito con entusiasmo e professionalità il libro l u n g o tutto il processo di pubblicazione. Sono i m m e n s a m e n t e grato a tutte queste p e r s o n e p e r il c o n t r i b u t o da loro o f f e r t o alla realizzazione di q u e s t ' o p e r a , c h e h a n n o reso migliore di q u a n t o sarebbe stata altrimenti. Delle manchevolezze che ancora presenta sono ovviamente l'unico responsabile. Q u e s t o libro è stato reso possibile grazie al c o n t r i b u t o finanziario della J o h n M. Olin F o u n d a t i o n e della Smith Richardson

F o u n d a t i o n . Senza la loro assistenza, il suo c o m p l e t a m e n t o sar e b b e stato rinviato di anni. Apprezzo d u n q u e i m m e n s a m e n t e il g e n e r o s o s u p p o r t o da essi o f f e r t o a questa mia impresa. Laddove altre fondazioni h a n n o i n c e n t r a t o il p r o p r i o interesse su a r g o m e n t i di politica interna, la Olin F o u n d a t i o n e la Smith Ric h a r d s o n m e r i t a n o u n plauso particolare p e r il loro i m m u t a t o interesse e p e r il s u p p o r t o c o n c r e t o o f f e r t o nei c o n f r o n t i di temi quali la g u e r r a , la pace e la sicurezza nazionale e internazionale. S. P. H.

UN M O N D O DI CIVILTÀ

CAPITOLO PRIMO

La n u o v a era della politica m o n d i a l e

Bandiere e identità culturale Il 3 gennaio 1992, nell'auditorium di un edifìcio governativo di Mosca si svolse un incontro tra studiosi russi e americani. Due settimane prima, l ' U n i o n e Sovietica aveva cessato di esistere e la Federazione russa era diventata un paese indipendente. Di conseguenza, la statua di Lenin che prima ornava il palco dell'auditorium era scomparsa, e al suo posto sulla parete di f o n d o , campeggiava la bandiera della Federazione russa. L'unico problema, come ebbe a osservare un delegato americano, era che la bandiera era stata appesa alla rovescia. Allorché f u fatta notare la cosa, alla prima interruzione dei lavori gli ospiti russi provvidero celermente e compostamente a correggere l'errore. Gli anni successivi alla G u e r r a f r e d d a videro l'inizio di mutam e n t i drammatici nelle identità dei popoli e nei simboli che le incarnavano. Il q u a d r o politico m o n d i a l e iniziò a essere riconfigurato in base a criteri culturali. Le b a n d i e r e appese alla rovescia f u r o n o u n simbolo di tale transizione, m a sempre più numerose sono oggi le b a n d i e r e p i e n a m e n t e e c o r r e t t a m e n t e dispiegate al vento, e i russi e tanti altri popoli v a n n o mobilitandosi e m a r c i a n d o dietro questi e altri simboli delle loro nuove identità culturali. Il 18 aprile 1994 duemila p e r s o n e scesero in piazza a Sarajevo sventolando le b a n d i e r e dell'Arabia Saudita e della Turchia. Esibendo tali vessilli, anziché quelli delle Nazioni Unite, della Nato o degli Stati Uniti, i n t e n d e v a n o identificarsi con i loro correligionari m u s u l m a n i e mostrare al m o n d o intero chi fossero i loro veri amici e chi solo i presunti. Il 16 ottobre 1994 settantamila p e r s o n e m a n i f e s t a r o n o a Los Angeles sotto «un m a r e di b a n d i e r e messicane» p e r protestare c o n t r o la «Proposition 187», u n r e f e r e n d u m che se approvato

avrebbe abrogato in California n u m e r o s i sussidi statali a tutti gli immigrati illegali e ai loro figli. «Perché s c e n d o n o in strada a c h i e d e r e che questo paese dia loro l'istruzione gratis sventol a n d o la bandiera messicana?», si chiese chi assisteva alla scena. «E la b a n d i e r a americana che d o v r e b b e r o sventolare». D u e settimane d o p o , u n a folla ancor più n u m e r o s a si riversò nuovam e n t e in strada. Questa volta i manifestanti sventolavano u n a b a n d i e r a americana, m a alla rovescia; u n a protesta che assicurò la vittoria della «Proposition 187» con il 59 per cento dei voti. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a le b a n d i e r e sono importanti, al pari di altri simboli di identità culturale: croci, mezzelune, e persino copricapi; p e r c h é la cultura è i m p o r t a n t e , e l'identità culturale è p e r la gran parte degli u o m i n i il valore primario. Il g e n e r e u m a n o sta s c o p r e n d o nuove, m a spesso a n c h e vecchie identità, e sta m a r c i a n d o sotto nuove (ma spesso a n c h e vecchie) b a n d i e r e che p o r t a n o a c o m b a t t e r e g u e r r e c o n t r o nuovi (ma spesso a n c h e vecchi) nemici. U n a ben triste Weltanschauung per questa nuova era è stata ben espressa dal demagogo nazionalista veneziano protagonista del romanzo di Michael Dibdin, Dead Lagoon: «Non esistono veri amici senza veri nemici. Se n o n odiamo ciò che n o n siamo, n o n possiamo amare ciò che siamo. Sono queste le antiche verità che stiamo dolorosamente riscoprendo d o p o u n secolo e passa di ipocriti sentimentalismi. Chi osa negarle, nega la propria famiglia, la propria tradizione, la propria cultura, il proprio diritto di nascita, la propria stessa persona! E n o n sarà perdonato tanto facilmente». Statisti e studiosi n o n possono ignorare tali antiche verità: per tutti i popoli intenti a ricercare un'identità e a reinventarsi u n vincolo d ' a p p a r t e n e n z a etnica, l'individuazione di un nemico costituisce un elemento essenziale, e i focolai di inimicizia potenzialmente più pericolosi scoppiano sempre lungo le linee di faglia tra le principali civiltà del m o n d o . La tesi di f o n d o di questo saggio è che la cultura e le identità culturali - c h e al livello più a m p i o c o r r i s p o n d o n o a quelle delle rispettive civiltà - siano alla base dei processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il m o n d o postG u e r r a f r e d d a . Le cinque parti in cui è suddiviso e l a b o r a n o vari corollari di tale tesi. Parte I: p e r la prima volta nella storia, lo scenario politico m o n d i a l e a p p a r e a u n t e m p o multipolare e caratterizzato da

u n alto n u m e r o di civiltà diverse; modernizzazione n o n è sinon i m o di occidentalizzazione, e tale processo in atto n o n p r o d u ce alcuna f o r m a significativa di civiltà universale, n é l'occidentalizzazione delle società n o n occidentali. Parte II: gli equilibri di p o t e r e tra le varie civiltà stanno mutando: l'influenza relativa d e l l ' O c c i d e n t e è in calo; le civiltà asiatiche accrescono la loro forza economica, militare e politica; il m o n d o islamico vive un'esplosione demografica con conseguenze destabilizzanti p e r i paesi m u s u l m a n i e i loro vicini; le civiltà n o n occidentali in generale r i a f f e r m a n o il valore delle p r o p r i e culture. Parte III: e m e r g e u n o r d i n e mondiale f o n d a t o sul concetto di «civiltà»: le società culturalmente affini t e n d o n o a c o o p e r a r e tra loro; i tentativi di alcune società di passare a u n ' a l t r a civiltà falliscono; i vari paesi si raccolgono i n t o r n o agli stati guida della p r o p r i a civiltà. Parte IV: con le sue pretese universalistiche, l ' O c c i d e n t e sta e n t r a n d o sempre più in conflitto con altre civiltà, in particolare con l'Islam e la Cina, m e n t r e a livello locale lo scoppio di g u e r r e tribali, s o p r a t t u t t o tra m u s u l m a n i e n o n m u s u l m a n i , provoca la «chiamata a raccolta dei paesi fratelli», innesca il pericolo di u n ' e s p a n s i o n e del conflitto e i n d u c e perciò gli stati guida a tentare di porvi fine. Parte V: la sopravvivenza dell'Occidente dipende dalla volontà degli Stati Uniti di c o n f e r m a r e la propria identità occidentale, e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà com e qualcosa di peculiare, ma n o n di universale, e di unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società n o n occidentali. La possibilità di scongiurare una guerra globale tra opposte civiltà dipende dalla disponibilità dei governanti del m o n d o ad accettare la natura «a più civiltà» del q u a d r o politico mondiale e a cooperare alla sua preservazione.

Un mondo multipolare e a più civiltà Per la prima volta nella storia dell'epoca post-Guerra fredda, il q u a d r o politico mondiale appare al c o n t e m p o multipolare e suddiviso in più civiltà. Per gran parte dell'esistenza u m a n a i contatti tra le varie civiltà sono stati intermittenti o del tutto

inesistenti fino a che, con l'inizio dell'era m o d e r n a , i n t o r n o al 1500, la politica mondiale assunse u n a duplice dimensione. Per oltre q u a t t r o c e n t o anni, gli stati nazionali dell'Occidente - Inghilterra, Francia, Austria, Prussia, Germania, Stati Uniti e altri - d i e d e r o vita a u n sistema internazionale multipolare all'intern o della civiltà occidentale e nell'ambito di tale sistema interagirono, in p e r e n n e lotta gli uni contro gli altri. Nel c o n t e m p o , le nazioni occidentali si espansero e conquistarono, colonizzar o n o o influenzarono f o r t e m e n t e tutte le altre civiltà (Cartina 1.1). D u r a n t e la G u e r r a fredda, il q u a d r o politico mondiale divenne bipolare e il m o n d o si divise in tre parti. Un g r u p p o di società più ricche e democratiche, guidate dagli Stati Uniti, e n t r ò in forte competizione - ideologica, politica, economica e a volte militare - con u n g r u p p o di società comuniste più povere, capeggiate dall'Unione Sovietica. Gran parte di tale conflitto si c o n s u m ò al di fuori di questi d u e campi, nel Terzo M o n d o , costituito da paesi spesso poveri, politicamente instabili, di recente i n d i p e n d e n z a e che si definivano n o n allineati (Cartina 1.2). Alla fine degli anni Ottanta del Novecento l'universo comunista è crollato, e il sistema internazionale caratteristico della G u e r r a f r e d d a è entrato a far parte della storia. Nel m o n d o postGuerra fredda, le principali distinzioni tra i vari popoli n o n sono di carattere ideologico, politico o economico, bensì culturale. Popoli e nazioni tentano di rispondere alla più basilare delle dom a n d e che u n essere u m a n o possa porsi: chi siamo? E lo f a n n o nel m o d o tradizionale in cui l'essere u m a n o ha sempre risposto: f a c e n d o riferimento alle cose che p e r lui h a n n o maggior significato. L ' u o m o si autodefinisce in termini di progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni. Si identifica con gruppi culturali: tribù, gruppi etnici, comunità religiose, nazioni e, al livello più ampio, civiltà. L ' u o m o utilizza la politica n o n solo p e r salvaguardare i propri interessi m a anche per definire la propria identità. Sappiamo chi siamo solo q u a n d o sappiamo chi n o n siam o e spesso solo q u a n d o sappiamo contro chi siamo. Gli stati nazionali restano gli attori principali della scena internazionale. Le loro azioni sono ispirate come in passato dal perseguimento del potere e della ricchezza, ma anche da preferenze, comunanze e differenze culturali. I principali raggruppamenti di stati n o n sono più i tre blocchi creati dalla Guerra fredda, ma le sette o otto maggiori civiltà del globo (Cartina 1.3). Le

società n o n occidentali, particolarmente in Asia orientale, stann o sviluppando le loro potenzialità economiche e creano le basi per l'acquisizione di u n a maggiore potenza militare e influenza politica. Via via che acquisiscono sempre maggiore potere e sicurezza di sé, le società n o n occidentali t e n d o n o a d i f e n d e r e sempre più strenuamente i propri valori culturali e a rifiutare quelli «imposti» loro dall'Occidente. «Il sistema internazionale del xxi secolo», ha osservato H e n r y Kissinger, «...conterà almeno sei grandi potenze - Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, Russia e probabilmente India - e u n a miriade di paesi piccoli e medi». 1 Le sei grandi potenze elencate da Kissinger a p p a r t e n g o n o a ben cinque civiltà molto diverse tra loro. Oltre a esse, vi sono poi importanti stati islamici che per posizione geografica, sviluppo demografico e / o risorse petrolifere esercitano u n ruolo molto influente sulla scena internazionale. In questo nuovo m o n d o , la politica al livello locale è basata sul concetto di etnia, quella al livello globale sul concetto di civiltà. La rivalità tra superpotenze è stata soppiantata dallo scontro di civiltà. In questo nuovo m o n d o i conflitti più profondi, laceranti e pericolosi n o n saranno quelli tra classi sociali, tra ricchi e poveri o tra altri g r u p p i caratterizzati in senso economico, bensì tra g r u p p i appartenenti ad entità culturali diverse. All'interno delle diverse civiltà si verificheranno guerre tribali e conflitti etnici. La violenza tra stati e g r u p p i a p p a r t e n e n t i a civiltà diverse presenta tuttavia il rischio di u n a possibile escalation via via che altri stati e gruppi a c c o r r o n o in aiuto dei rispettivi «paesi fratelli».2 Il sanguinoso scontro di clan in Somalia n o n presenta alcun rischio di a m p l i a m e n t o del conflitto; l'altrettanto sanguinoso scontro di tribù in Rwanda ha delle implicazioni p e r l'Uganda, lo Zaire e il Burundi, ma la cosa si f e r m a lì; gli scontri di civiltà in Bosnia, nel Caucaso, in Asia centrale o nel Kashmir, viceversa, p o t r e b b e r o d e g e n e r a r e in g u e r r e di dimensioni ben più vaste. Nel conflitto jugoslavo, la Russia ha offerto appoggio diplomatico ai serbi, m e n t r e Arabia Saudita, Turchia, Iran e Libia hann o f o r n i t o armi e d e n a r o ai bosniaci, il tutto n o n per ragioni ideologiche, strategie di p o t e r e o interessi economici, m a p e r motivi di affinità culturale. «I conflitti culturali», ha osservato 1 Henry A. Kissinger, Diplomacy, New York, Simon & Schuster, 1994, pp. 23-4. 2 L'espressione è di H.D.S. Greenway, «Boston Globe», 3 dicembre 1992, p.19.



L'Occidente e gli altri: 1920

I

| Parti del mondo dominate dall'Occidente | Parti del mondo nominalmente o realmente indipendenti dall'Occidente

Il mondo all'epoca della Guerra fredda: 1960-1970

|

| Mondo libero j Blocco comunista Paesi alleati

Il mondo delle civiltà: dopo il 1990

| Occidentale Latino americana |

Africana Islamica

|

1 Ortodossa

¡§§ Sinica

|

[ Buddista

Xj] Indù

[IIIIHl Giapponese

Vàclav Havel, «stanno a u m e n t a n d o sempre più e oggi sono più pericolosi di q u a n t o lo siano mai stati in q u a l u n q u e altra epoca storica»; e Jacques Delors si è detto d ' a c c o r d o sul fatto che «i futuri conflitti saranno innescati da fattori culturali più che economici o ideologici». 3 E i conflitti culturali più pericolosi sono quelli che c o r r o n o lungo le linee di faglia tra civiltà diverse. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a , la cultura è u n a forza al cont e m p o disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall'ideologia m a c u l t u r a l m e n t e o m o g e n e e v e n g o n o a unificarsi, c o m e h a n n o fatto le d u e G e r m a n i e e c o m e s t a n n o iniziando a fare le d u e Coree e le varie entità territoriali cinesi. Società unite dall'ideologia o da circostanze storiche m a a p p a r t e n e n t i a differenti civiltà finiscono viceversa c o n lo sgretolarsi, c o m ' è accad u t o a l l ' U n i o n e Sovietica, alla Jugoslavia, alla Bosnia, o p p u r e sono scosse da violente tensioni, c o m e ad esempio in Ucraina, Nigeria, Sudan, India, Sri Lanka e in molti altri luoghi. I paesi c u l t u r a l m e n t e affini c o o p e r a n o sul p i a n o e c o n o m i c o e politico. Le organizzazioni internazionali cui aderiscono stati cultur a l m e n t e affini, c o m e l ' U n i o n e e u r o p e a , h a n n o molto più successo di quelle c h e t e n t a n o di trascendere le barriere culturali. Per q u a r a n t a c i n q u e a n n i la «cortina di ferro» è stata la principale barriera di divisione dell'Europa. Oggi tale b a r r i e r a si è spostata di diverse centinaia di chilometri a est e separa i popoli cristiano-occidentali da quelli m u s u l m a n i e ortodossi. Gli assunti filosofici che caratterizzano valori, relazioni sociali, costumi e concezioni di vita in generale delle varie civiltà sono molto diversi tra loro. Il risveglio religioso in atto in gran parte del m o n d o acuisce ancor più tali differenze. Le culture possono cambiare, e la n a t u r a del loro impatto sugli scenari politici ed economici p u ò variare da u n p e r i o d o all'altro. N o n c'è dubbio, tuttavia, che le differenze più p r o f o n d e nello sviluppo politico ed e c o n o m i c o delle varie civiltà siano radicate nella diversità delle loro culture. Il b o o m e c o n o m i c o dell'Asia orientale a f f o n d a le proprie radici nella peculiare cultura est-asiatica, e lo stesso vale p e r le difficoltà che i n c o n t r a n o le società est-asiatiche nel creare stabili sistemi politici democratici. La cultura 3 Vàclav Havel, «The New Measure of Man», in «New York Times», 8 luglio 1994, p. A27; Jacques Delors, «Questions Concerning European Security», Address, International Institute f'or Strategie Studies, Bruxelles, 10 settembre 1993, p. 2.

islamica spiega in gran p a r t e il m a n c a t o successo della d e m o crazia in quasi tutto il m o n d o m u s u l m a n o . Gli sviluppi nelle società post-comuniste e s t e u r o p e e e dell'ex U n i o n e Sovietica son o stati d e t e r m i n a t i dalla peculiare identità delle rispettive civiltà di a p p a r t e n e n z a . Quelle di tradizione cristiano-occidentale stanno p r o c e d e n d o l u n g o la strada dello sviluppo economico e di u n sistema politico democratico; le prospettive di svil u p p o e c o n o m i c o e politico dei paesi ortodossi sono incerte; quelle delle r e p u b b l i c h e m u s u l m a n e a p p a i o n o fosche. L ' O c c i d e n t e è e resterà p e r gli anni a venire la civiltà più potente. Il suo p o t e r e in relazione a quello di altre civiltà, tuttavia, si va progressivamente r i d u c e n d o . Dinanzi al tentativo occidentale di i m p o r r e i p r o p r i valori e proteggere i p r o p r i interessi, le società n o n occidentali si trovano a u n bivio. Alcune t e n t a n o di e m u l a r e l ' O c c i d e n t e e di unirsi o allinearsi a esso. Altre società, c o m e quelle c o n f u c i a n e o islamiche, t e n t a n o di e s p a n d e r e il p r o p r i o p o t e r e e c o n o m i c o e militare al fine di c o n t r a p p o r s i all'Occidente. U n e l e m e n t o chiave del q u a d r o politico m o n d i a l e post-Guerra f r e d d a diventa quindi l'interazione tra p o t e r e e cultura occidentale da u n lato e p o t e r e e cultura delle civiltà n o n occidentali dall'altro. In sintesi, il m o n d o post-Guerra f r e d d a è u n m o n d o composto da sette o otto grandi civiltà. Le affinità e le differenze culturali d e t e r m i n a n o gli interessi, gli antagonismi e le associazioni tra stati. I paesi più i m p o r t a n t i del m o n d o a p p a r t e n g o n o in g r a n d e prevalenza a civiltà diverse. I conflitti locali con maggiori probabilità di d e g e n e r a r e in g u e r r e globali s o n o quelli tra g r u p p i e stati a p p a r t e n e n t i a civiltà diverse. Il m o d e l l o dom i n a n t e di sviluppo politico ed e c o n o m i c o varia da u n a civiltà all'altra. I principali nodi da sciogliere nel c a m p o della politica internazionale r i g u a r d a n o le differenze tra le varie civiltà. Il p o t e r e sta passando dalle tradizionali civiltà occidentali alle civiltà n o n occidentali. Lo scenario politico mondiale è diventato multipolare e caratterizzato da più civiltà.

Altri mondi? Mappe e modelli. Questa i m m a g i n e di u n q u a d r o politico m o n d i a l e post-Guerra f r e d d a d o m i n a t o da fattori culturali e

dalle interazioni tra stati e g r u p p i di civiltà diverse è ovviamente u n a semplificazione. O m e t t e molte cose, ne distorce altre, ne n a s c o n d e altre ancora. E tuttavia, se i n t e n d i a m o riflettere seriamente sul m o n d o in cui viviamo e agire c o n c r e t a m e n t e all ' i n t e r n o di esso, u n a qualche sorta di cartina semplificata della realtà, di teoria, concetto, m o d e l l o o p a r a d i g m a diventa indispensabile. In assenza di tali artifici intellettuali ci sarebbe soltanto, c o m e ha a f f e r m a t o William James, u n a «gran confusione». Il progresso intellettuale e scientifico, c o m e T h o m a s K u h n h a dimostrato nel suo classico La struttura delle rivoluzioni scientifiche, consiste nel sostituire u n m o d e l l o sempre m e n o in g r a d o di spiegare fatti nuovi o a p p e n a scoperti, con u n o n u o v o capace di d a r e a tali fatti u n a spiegazione più soddisfacente. «Per essere accettata c o m e modello», h a scritto K u h n , «una teoria deve apparire migliore di altre teorie rivali, ma n o n h a bisogno di spiegare - e di fatto n o n lo fa mai - tutti gli eventi con i quali viene a misurarsi».' «Per potersi orientare su u n terr e n o sconosciuto», ha saggiamente osservato J o h n Lewis Gaddis, «occorre di n o r m a u n a mappa». La cartografia, al pari della conoscenza in q u a n t o tale, è u n a semplificazione necessaria che ci consente di vedere dove siamo e dove p o t r e m m o andare». L ' i m m a g i n e - tipica della G u e r r a f r e d d a - della competizione tra s u p e r p o t e n z e , osserva Gaddis, ha r a p p r e s e n t a t o u n m o d e l l o di questo tipo, definito p e r p r i m o da H a r r y T r u m a n c o m e u n «esercizio di cartografia geopolitica che illustra il pan o r a m a internazionale in termini comprensibili a c h i u n q u e , e che in tal m o d o ha p r e p a r a t o la strada p e r la sofisticata strategia del c o n t e n i m e n t o che sarebbe da lì a p o c o seguita». Visioni globali del m o n d o e teorie causali sono guide indispensabili p e r la politica internazionale.' Per q u a r a n t ' a n n i studiosi e protagonisti degli affari internazionali h a n n o pensato e agito in a c c o r d o con tale m o d e l l o di

4 T h o m a s S. Kuhn, The Strutture ofSrientific Revolutions, Chicago, University of Chicago Press, 1962, pp. 17-8 (trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978'). 5 J o h n Lewis Gaddis, «Toward the Post-Cold War World», in «Foreign Affaire», n. 70, Primavera 1991, p. 101; Judith Goldstein e Robert O. Keohane, «Ideas and Foreign Policy: An Analytical Framework», in Goldstein e Keohane (a cura di), Ideas and Foreign Policy: Betiefs, Institutions, and Politicai Change, Ithaca, Cornell University Press, 1993, pp. 8-17.

r a p p o r t i internazionali, quello a p p u n t o d e t t o della G u e r r a f r e d d a . Tale modello n o n era certo in g r a d o di spiegare ogni singolo f e n o m e n o della politica mondiale. Vi f u r o n o , p e r usare l'espressione di K u h n , molte anomalie, e a volte esso i m p e d ì a statisti e studiosi di prevedere sviluppi a n c h e importanti, quali ad esempio la rottura sino-sovietica. E tuttavia, in q u a n t o modello semplificato di relazioni internazionali, teneva c o n t o di u n n u m e r o di f e n o m e n i i m p o r t a n t i maggiore di qualsiasi altro m o d e l l o alternativo, costituiva u n q u a d r o di p a r t e n z a essenziale p e r riflettere sulle relazioni internazionali, f u accettato quasi universalmente e p e r d u e generazioni caratterizzò il m o d o di p e n s a r e la politica mondiale. Modelli o cartine semplificate sono indispensabili p e r il pensiero e le azioni d e l l ' u o m o . Possiamo scegliere di esplicitare tali teorie o modelli e usarli c o m e guide di c o m p o r t a m e n t o , opp u r e possiamo n e g a r e la necessità di tali guide e r i t e n e r e di poter agire esclusivamente sulla base di specifici fatti «oggettivi», di e n t r a r e «nel merito» di ogni singolo caso. P r e s u m e r e di poter fare questo, tuttavia, significa semplicemente i n g a n n a r e se stessi. Nel f o n d o della nostra m e n t e , infatti, covano pregiudizi, preconcetti e opinioni che d e t e r m i n a n o il nostro m o d o di percepire la realtà, di preselezionare i fatti che a t t r a g g o n o la nostra attenzione e il m o d o di giudicarne il merito e la sostanza. Abbiamo bisogno di modelli espliciti o impliciti che ci consent a n o di: 1. o r d i n a r e e creare delle generalizzazioni in merito alla realtà che ci circonda; 2. c o m p r e n d e r e le relazioni causali tra i f e n o m e n i ; 3. capire in anticipo e, se siamo fortunati, p r e a n n u n z i a r e gli sviluppi futuri; 4. discernere cosa è i m p o r t a n t e da cosa n o n lo è; 5. c o m p r e n d e r e quale strada seguire p e r conseguire i nostri obiettivi. Q u a l u n q u e tipo di m a p p a o m o d e l l o è un'astrazione e sarà d u n q u e più utile p e r certi fini e m e n o p e r altri. U n a m a p p a stradale ci indica c o m e arrivare in automobile da A a B, m a n o n ci servirà a molto se stiamo pilotando u n aereo, nel qual caso avremo piuttosto bisogno di u n ' a p p o s i t a m a p p a con indi-

cazione di aeroporti, radiofari, corridoi aerei e tracciati topografici. Senza m a p p a , tuttavia, ci p e r d e r e m m o . Q u a n t o più u n a cartina è dettagliata, tanto più f e d e l m e n t e r i p r o d u c e la realtà. E tuttavia u n a m a p p a eccessivamente minuziosa n o n p u ò servire a molti scopi. Se i n t e n d i a m o p r e n d e r e l'autostrada p e r andare da u n a g r a n d e città a un'altra, n o n ci occorre e p o t r e m m o anzi trovare c o n t r o p r o d u c e n t e utilizzare u n a cartina p i e n a di informazioni n o n attinenti alla rete autostradale e in cui questa viene a intrecciarsi e c o n f o n d e r s i con u n a fitta ragnatela di arterie secondarie. D'altronde, u n a cartina che indicasse soltanto le autostrade n a s c o n d e r e b b e b u o n a p a r t e della realtà delle cose e n o n ci p e r m e t t e r e b b e di scegliere strade alternative nel caso in cui l'autostrada fosse bloccata a causa di u n incidente. In breve, a b b i a m o bisogno di u n a cartina che al c o n t e m p o mostri la realtà e la semplifichi nel m o d o più utile ai nostri fini. Alla fin e della G u e r r a f r e d d a f u r o n o p r o p o s t e diverse m a p p e o modelli di relazioni internazionali. Un solo mondo: euforia e armonia. U n modello e s t r e m a m e n t e diffuso era basato sul presupposto che la fine della G u e r r a fredda significasse la fine dei grandi conflitti internazionali e la nascita di u n m o n d o relativamente armonioso. La f o r m u l a z i o n e più discussa di tale m o d e l l o è la tesi della «fine della storia» p r o p u g n a t a da Francis Fukuyama. 1 ' «E possibile», sostenne Fukuyama, «che siamo giunti [...] alla fine della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea dell'evoluzione ideologica dell ' u m a n i t à e all'universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale f o r m a ultima di governo dell'umanità». Certo, q u a l c h e conflitto sarebbe a n c o r a p o t u t o scoppiare nel Terzo M o n d o , ma la conflittualità al livello globale era o r m a i finita, e n o n soltanto in Europa. «E p r e c i s a m e n t e nel m o n d o n o n europeo» che sono occorsi i maggiori cambiamenti, particolarm e n t e in Cina e in U n i o n e Sovietica. La g u e r r a p e r motivi ideologici è giunta al t e r m i n e . Fautori del marxismo-leninismo possono a n c o r a esistere «in posti c o m e Managua, Pyongyang e Cambridge, Massachusetts», m a nel complesso la democrazia li6 Una linea di pensiero parallela fondata n o n sulla fine della Guerra fredda bensì sull'esistenza di tendenze sociali ed e c o n o m i c h e di lungo periodo destinate a sfociare in una «civiltà universale» viene discussa nel capitolo 3.

berale ha trionfato. Il f u t u r o n o n sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, m a piuttosto a risolvere concreti p r o b l e m i economici e tecnici. E il tutto, concludeva a l q u a n t o m e s t a m e n t e Fukuyama, sarà a l q u a n t o noioso. 7 Tale aspettativa di a r m o n i a era a m p i a m e n t e condivisa. Lead e r politici e intellettuali e l a b o r a r o n o previsioni di ugual segno. Il m u r o di Berlino era stato abbattuto, i regimi comunisti e r a n o crollati, le Nazioni Unite avrebbero acquisito u n ' i m p o r tanza tutta nuova, gli ex paesi rivali della G u e r r a f r e d d a avrebb e r o sviluppato rapporti di «collaborazione» e sarebbe stato siglato u n «grande patto» in g r a d o di assicurare e salvaguardare la pace universale. Il presidente della nazione leader del m o n d o proclamò il «nuovo o r d i n e mondiale»; il presidente di quella che - discutibilmente - è considerata la prima università del m o n d o impedì la n o m i n a di u n professore di studi sulla difesa e la sicurezza perché n o n ce n ' e r a più bisogno: «Evviva! N o n dobbiamo più studiare la guerra, p e r c h é la guerra n o n esiste più». Il m o m e n t o di euforia che seguì la fine della G u e r r a f r e d d a g e n e r ò un'illusione di a r m o n i a destinata b e n presto a rivelarsi a p p u n t o tale. All'inizio degli anni Novanta il m o n d o era effettivamente cambiato m a n o n era diventato necessariamente più pacifico. Il m u t a m e n t o era inevitabile, n o n altrettanto il progresso. Simili illusioni di a r m o n i a fiorirono, f u g a c e m e n t e , al t e r m i n e di tutti gli altri grandi conflitti del xx secolo. La Prima g u e r r a m o n d i a l e avrebbe dovuto «porre fine alle g u e r r e » e p r e p a r a r e il m o n d o alla democrazia. La Seconda g u e r r a m o n diale, s e c o n d o le parole di Franklin Roosevelt, avrebbe «messo fine al sistema di iniziative unilaterali, alle alleanze esclusive, agli equilibri di potere e a tutti gli altri espedienti tentati p e r secoli e p u n t u a l m e n t e falliti». Al suo posto a v r e m m o avuto u n a «organizzazione universale» di «nazioni amanti della pace» e l'inizio di u n a «struttura di pace permanente». h La Prima guerra mondiale, tuttavia, partorì il c o m u n i s m o , il fascismo e l'inversione di u n a secolare t e n d e n z a alla democrazia. La Seconda g u e r r a m o n d i a l e produsse u n a G u e r r a f r e d d a che coinvolse 7 Francis Fukuyama, «The End of History», in «The National Interest», n. 16, Estate 1989, pp. 4, 18; cfr. anche La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. 8 «Address to the Congress Reporting on the Yalta Conferenze», 1 marzo 1945, in Samuel I. Roseninan (a cura di), Public Papers and Addresses of Franklin I). Roosevelt, New York, Russell and Russell, 1969, voi. XIII, p. 586.

l'intero pianeta. L'illusione di a r m o n i a creatasi alla fine della G u e r r a f r e d d a è stata b e n presto dissipata dal proliferare di conflitti razziali e di «pulizie etniche», dal m a n c a t o rispetto della legge e d e l l ' o r d i n e , dall'insorgere di nuovi modelli di alleanze e conflittualità tra stati, dalla rinascita di movimenti neocomunisti e neofascisti, dall'intensificarsi del f o n d a m e n t a l i s m o religioso, dalla fine della «diplomazia dei sorrisi» e della «politica dei sì» nei rapporti tra Russia e Occidente, dall'incapacità d e l l ' O n u e degli Stati Uniti di s o p p r i m e r e i sanguinosi conflitti locali e dall'atteggiamento s e m p r e più d e t e r m i n a t o di u n a Cina in via di espansione. Nei c i n q u e anni trascorsi dalla caduta del m u r o di Berlino la parola «genocidio» è stata p r o n u n c i a ta molto più spesso che in tutti i lustri della G u e r r a f r e d d a . Il m o d e l l o di u n unico m o n d o a r m o n i o s o a p p a r e p a l e s e m e n t e t r o p p o distante dalla realtà p e r p o t e r f u n g e r e da utile guida nel m o n d o post-Guerra f r e d d a . Due mondi: noi e loro. Se le aspettative di u n u n i c o m o n d o si m a n i f e s t a n o al t e r m i n e di g r a n d i conflitti, la t e n d e n z a a pensare in termini di u n m o n d o diviso in d u e esiste da s e m p r e nella storia dell'umanità. Gli u o m i n i sono s e m p r e tentati di dividere l ' u m a n i t à in «noi e loro», l'uguale e il diverso, la p r o p r i a civiltà e l'altrui barbarie. Gli studiosi h a n n o analizzato il m o n d o in termini di O r i e n t e e Occidente, N o r d e Sud, c e n t r o e periferia. I m u s u l m a n i lo h a n n o tradizionalmente diviso in Dar ai-Islam e Dar al-Harb, la d i m o r a della pace e la d i m o r a della guerra. Tale distinzione venne ripresa, e in u n certo senso rovesciata, alla fin e della G u e r r a f r e d d a dagli studiosi americani, i quali divisero il m o n d o in «aree di pace» e «aree di disordini». Le p r i m e comp r e n d e v a n o l'Occidente e il G i a p p o n e , con circa il 15 p e r cento della popolazione mondiale, le seconde tutti gli altri. 9 A seconda di c o m e v e n g o n o definite le parti, la schematizzazione di u n m o n d o diviso in d u e p o t r e b b e in q u a l c h e misura 9 Si veda Max Singer e Aaron Wildasky, The Real World Order: Zones ofPeace, Zones ofTunnoil, Chatham NJ, Chatham House, 1993; Robert O. Keohane e Joseph S. Nye, «Introduction: T h e End of the Cold War in Europe», in Keohane, Nye e Stanley Hoffmann (a cura di), After the Cold War: International Institutions and Stale Strategies in Europe, 1989-1991, Cambridge, Harvard University Press, 1993, p. 6; e James M. Goldgeier e Michael McFaul, «A Tale of Two Worlds: Core and Periphery in the Post-Cold War Era», in «International Organization», n. 46, Primavera 1992, pp. 467-91.

c o r r i s p o n d e r e alla realtà. La divisione più c o m u n e , definita con svariati nomi, è tra paesi ricchi (moderni, sviluppati) e paesi poveri (arretrati, sottosviluppati o in via di sviluppo). Storic a m e n t e correlata a tale divisione e c o n o m i c a c'è poi la divisione culturale tra O c c i d e n t e e Oriente, in cui l'accento è posto m e n o su differenze di carattere e c o n o m i c o e più su quelle di valori, filosofia e m o d o di vita.1" Pur riflettendo alcuni elementi di realtà, ciascuna di tali immagini presenta tuttavia dei limiti. I paesi ricchi e m o d e r n i condividono alcune caratteristiche c h e li differenziano dai paesi tradizionali e poveri, i quali pres e n t a n o a loro volta dei tratti in c o m u n e . Differenti livelli di benessere possono scatenare conflitti tra società, m a l'esperienza dimostra che ciò accade p r i n c i p a l m e n t e q u a n d o le società più ricche e potenti t e n t a n o di conquistare e colonizzare quelle più povere e arretrate. L ' O c c i d e n t e ha fatto esattamente questo p e r q u a t t r o c e n t o anni; in seguito, alcune colonie si ribellar o n o d a n d o vita a g u e r r e di liberazione c o n t r o le p o t e n z e coloniali, le quali avevano p r o b a b i l m e n t e perso ogni ambizione imperiale. Nel m o n d o o d i e r n o , il processo di decolonizzazione è stato o r m a i completato e alle g u e r r e coloniali di liberazione si sono sostituiti conflitti tra i popoli liberati. A u n livello più generale, i conflitti tra paesi ricchi e paesi poveri s o n o p o c o probabili in q u a n t o i secondi, se n o n in circostanze speciali, n o n h a n n o l'unità politica, la forza economica e le capacità militari p e r p o t e r sfidare i primi. Lo sviluppo e c o n o m i c o in Asia e in America latina sta in q u a l c h e m o d o off u s c a n d o quella che u n t e m p o era la netta divisione tra paesi abbienti e n o n abbienti. Gli stati ricchi p o t r e b b e r o ingaggiare tra loro g u e r r e commerciali, gli stati poveri p o t r e b b e r o affrontarsi in g u e r r e militari; m a la possibilità di u n a g u e r r a di classe internazionale tra il Sud povero e il N o r d ricco è un'ipotesi altrettanto avulsa dalla realtà di quella che postula l'esistenza di un unico m o n d o armonioso. Ancora m e n o utile risulta la divisione del m o n d o in senso culturale. A u n certo livello, l ' O c c i d e n t e p u ò essere considerato u n ' e n t i t à coesa. Cosa unisce, invece, le società n o n occidentali, oltre al fatto di essere n o n occidentali? Le civiltà giappo10 Si veda F. S. C. Northrop, The Meeting ofEast and West: An Inquiiy World Understanding, New York, Macmillan, 1946.

Concerning

nese, cinese, indù, m u s u l m a n a e africana h a n n o b e n p o c o in c o m u n e in termini di religione, struttura sociale, istituzioni e valori d o m i n a n t i . L'unità del m o n d o n o n occidentale e la contrapposizione Est-Ovest s o n o miti creati d a l l ' O c c i d e n t e , c h e p r e s e n t a n o i difetti tipici della teoria dell'«Orientalismo», di cui Edward Said ha giustamente criticato la t e n d e n z a a esaltare la «differenza tra ciò che è familiare (l'Europa, l'Occidente, «noi»), e ciò che è estraneo (l'Oriente, l'Est, «loro»), e a pres u m e r e u n ' i n n a t a superiorità dei primi sui secondi." All'epoca della G u e r r a f r e d d a il m o n d o era rigidamente diviso da u n o spartiacque ideologico, m a n o n esisteva nessuno spartiacque culturale. La polarizzazione culturale tra «Est» e «Ovest» è in p a r t e u n ' u l t e r i o r e conseguenza dell'universale m a infelice abit u d i n e di chiamare la civiltà e u r o p e a civiltà occidentale. Anzic h é di «Oriente e Occidente» sarebbe più a p p r o p r i a t o parlare di «Occidente e gli altri», il c h e implica q u a n t o m e n o l'esistenza di più soggetti n o n occidentali. Il m o n d o è t r o p p o complesso p e r c h é lo si possa con q u a l c h e profitto dividere semplicem e n t e in N o r d e Sud da u n p u n t o di vista e c o n o m i c o e in Est e Ovest da u n p u n t o di vista culturale. 184 stati, più o meno. U n a terza cartina del m o n d o post-Guerra f r e d d a scaturisce da quella che viene spesso definita la teoria «realista» delle relazioni internazionali. Secondo tale teoria gli stati sono i protagonisti, anzi, gli unici attori di rilievo della scena internazionale; ma poiché il r a p p o r t o intercorrente tra gli stati è di anarchia, per garantire la propria sopravvivenza e sicurezza ciascuno di essi tenta invariabilmente di accrescere q u a n t o più possibile il proprio potere. Se u n o stato ritiene che u n altro stato stia accrescendo il proprio potere e diventi quindi u n a potenziale minaccia, tenterà di salvaguardare la propria sicurezza rafforzando a sua volta il proprio potere e / o alleandosi con altri stati. Gli interessi e le azioni dei circa 184 stati del m o n d o postG u e r r a f r e d d a sono desumibili in base a tali presupposti. 12 11 Edward W. Said, Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978, pp. 43-4 (trad. it. Orientalismo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991). 12 Si veda Kenneth N. Waltz, «The Emerging Structure of International Politici», in «International Security», n. 18, A u t u n n o 1993, pp. 44-79; J o h n J. Mearsheimer, «Back to the Future: Instabilty in Europe after the Cold War», in «International Security», n. 15, Estate 1990, pp. 5-56.

Tale q u a d r o «realista» del m o n d o è u n utilissimo p u n t o di p a r t e n z a p e r lo studio delle relazioni i n t e r n a z i o n a l i e spiega molti dei c o m p o r t a m e n t i adottati dai singoli paesi. Gli stati s o n o e r e s t e r a n n o i protagonisti della scena politica i n t e r n a zionale: costituiscono eserciti, m a n t e n g o n o r a p p o r t i diplomatici, n e g o z i a n o trattati, c o m b a t t o n o g u e r r e , c o n t r o l l a n o organizzazioni internazionali, i n f l u e n z a n o e in considerevole m i s u r a d e t e r m i n a n o la p r o d u z i o n e e il c o m m e r c i o . I governi nazionali d a n n o priorità alla salvaguardia dei rispettivi stati da m i n a c c e e s t e r n e ( s e b b e n e finiscano spesso col d a r e invece priorità alla p r o p r i a salvaguardia c o m e g o v e r n o dalle minacce i n t e r n e ) . Nel complesso, tale m o d e l l o «statalista» o f f r e effettivamente u n ' i m m a g i n e e u n a g u i d a alla politica m o n d i a l e più realistici di q u a n t o facciano i modelli del m o n d o u n i c o o dei d u e m o n d i . Anch'esso, tuttavia, p r e s e n t a grossi limiti. Esso p r e s u m e che tutti gli stati percepiscano i p r o p r i interessi allo stesso m o d o e agiscano allo stesso m o d o . Il suo semplice p r e s u p p o s t o che «il p o t e r e è tutto» è u n p u n t o di p a r t e n z a p e r c o m p r e n d e r e il c o m p o r t a m e n t o dei singoli stati, m a n o n p o r t a molto lontano. Gli stati definiscono i propri interessi in termini di p o t e r e m a a n c h e di molte altre cose. Essi t e n t a n o spesso, c o m ' è ovvio, di assicurare u n giusto equilibrio di poteri nell'ar e n a internazionale; m a se si limitassero a fare soltanto questo, alla fine degli anni Q u a r a n t a i paesi d e l l ' E u r o p a occidentale si sarebbero alleati con l ' U n i o n e Sovietica c o n t r o gli Stati Uniti. Gli stati reagiscono soprattutto a ciò che percepiscono c o m e u n a minaccia, e a q u e l l ' e p o c a gli stati e u r o p e i occidentali videro nell'Est u n a minaccia politica, ideologica e militare. Interp r e t a r o n o i p r o p r i interessi in u n m o d o che la teoria «realista» classica n o n avrebbe mai p o t u t o pronosticare. Valori, cultura e istituzioni i n f l u e n z a n o f o r t e m e n t e il m o d o in cui gli stati definiscono i p r o p r i interessi, e tali interessi v e n g o n o inoltre determinati n o n solo dai rispettivi valori e istituzioni i n t e r n e , m a a n c h e da n o r m e e organismi internazionali. Al di sopra e al di là dei p r o p r i interessi basilari in materia di sicurezza, tipi di stato diversi definiscono i p r o p r i interessi in m o d o diverso, m e n tre stati con culture e istituzioni simili avranno u n c o m u n e sentire. Gli stati democratici p r e s e n t a n o elementi di c o m u n a n z a e d u n q u e evitano di combattersi. Il C a n a d a n o n h a bisogno di al-

learsi con u n ' a l t r a potenza p e r scongiurare un'invasione degli Stati Uniti. A u n livello generale, i presupposti del modello statalista si sono rivelati validi in tutte le e p o c h e storiche. Da questo p u n t o di vista, d u n q u e , questi presupposti n o n ci aiutano a c o m p r e n d e r e in c h e m o d o il q u a d r o politico m o n d i a l e post-Guerra f r e d d a si differenzierà da quello esistente p r i m a e d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a . E tuttavia evidente che tali differenze esistono, e il m o d o in cui gli stati p e r s e g u o n o i p r o p r i interessi cambia da u n ' e p o c a all'altra. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a , gli stati v a n n o s e m p r e più d e f i n e n d o i p r o p r i interessi in termini di civiltà di a p p a r t e n e n z a . T e n d o n o a c o o p e r a r e e ad allearsi con stati di cultura uguale o simile, m e n t r e accade più spesso che e n t r i n o in conflitto con paesi di diversa cultura. Identificano la presenza di u n a possibile minaccia sulla base delle intenzioni palesate da altri stati, e tali intenzioni, n o n c h é il m o d o in cui v e n g o n o percepite, sono p r o f o n d a m e n t e condizionate da considerazioni di carattere culturale. I governanti e i cittadini di u n o stato si s e n t o n o m e n o minacciati da p e r s o n e c h e ritengon o c u l t u r a l m e n t e affini e m a g g i o r m e n t e affidabili in virtù di u n a c o m u n a n z a di lingua, religione, valori, istituzioni e cultura, e molto di più, invece, da stati le cui società h a n n o culture diverse e c h e quindi essi n o n possono c o m p r e n d e r e o di cui n o n r i t e n g o n o di potersi fidare. O r a che n o n esiste più u n ' U n i o n e Sovietica marxista-leninista a minacciare il « m o n d o libero» e gli Stati Uniti n o n p o n g o n o più u n ' o p p o s t a minaccia al c a m p o comunista, i paesi di e n t r a m b i i m o n d i si s e n t o n o sempre più minacciati da società c u l t u r a l m e n t e diverse. S e b b e n e gli stati restino gli attori principali della politica internazionale, la loro sovranità, funzioni e p o t e r e v a n n o sempre più riducendosi. Le istituzioni internazionali rivendicano oggi il diritto di giudicare e influenzare l ' o p e r a t o dei singoli stati all ' i n t e r n o dei loro stessi confini. In alcuni casi, soprattutto in Europa, gli organismi internazionali h a n n o assunto f u n z i o n i i m p o r t a n t i che prima e r a n o prerogativa dei singoli stati, e sono state create potenti organizzazioni amministrative internazionali che si rivolgono d i r e t t a m e n t e ai singoli cittadini. Si è innescata u n a t e n d e n z a generalizzata c h e vede i governi statali perd e r e p o t e r e a n c h e attraverso la delega di importanti f u n z i o n i ad autorità politiche regionali, provinciali e locali. In molti sta-

ti, inclusi quelli del m o n d o sviluppato, esistono dei movimenti regionali fautori di u n a p r o n u n c i a t a a u t o n o m i a o di u n a vera e p r o p r i a secessione. I governi statali h a n n o p e r d u t o in considerevole misura la capacità di controllare il flusso m o n e t a r i o in entrata e in uscita dal p r o p r i o paese e trovano s e m p r e maggiori difficoltà a controllare quello di idee, tecnologia, beni e persone. In p o c h e parole, i confini di stato sono diventati s e m p r e più permeabili. Tutti questi sviluppi h a n n o i n d o t t o n u m e r o s i analisti a prevedere la graduale fine del granitico stato «a palla di biliardo» che sembra essere stata la n o r m a a partire dal Trattato di Westfalia del 1648," e l ' e m e r g e r e di u n variegato, complesso e m u l t i f o r m e o r d i n e internazionale m a g g i o r m e n t e simile a quello dell'epoca medievale. Caos totale. L ' i n d e b o l i m e n t o degli stati e il venir m e n o di alcuni di essi c o n t r i b u i s c o n o a evocare u n a q u a r t a i m m a g i n e , quella di u n m o n d o d o m i n a t o dall'anarchia. Tale m o d e l l o pres u p p o n e : il crollo dell'autorità statale; la disgregazione degli stati, l'intensificarsi dei conflitti tribali, etnici e religiosi; l'em e r g e r e di organizzazioni mafiose criminali internazionali; l ' a u m e n t o stratosferico del n u m e r o di rifugiati; la proliferazion e delle armi nucleari e di altri strumenti di distruzione di massa; il diffondersi del terrorismo; il moltiplicarsi di massacri e operazioni di pulizia etnica. Tale i m m a g i n e di u n m o n d o in p i e n o caos è illustrata e c o m p e n d i a t a con g r a n d e incisività nei titoli di d u e p e n e t r a n t i o p e r e pubblicate nel 1933: Il mondo fuori controllo di Zbigniew Brzezinski e Pandaemonium di Daniel Patrick Moynihan. 14 Al pari del m o d e l l o statalista, il p a r a d i g m a del caos si avvicin a molto alla realtà, o f f r e u n q u a d r o accurato di b u o n a p a r t e di q u a n t o avviene nel m o n d o e, a differenza del p r i m o , sottolin e a i significativi m u t a m e n t i intervenuti nel q u a d r o politico 13 Stephen D. Krasner contesta l'importanza del trattato di Westfalia c o m e spartiacque. Si veda il suo «Westphalia and Ali That», in Goldstein e Keohane (a cura di), Ideas and Foreign Policy, pp. 235-64. 14 Zbignew Brzezinski, Out of Control: Global Turmoil on the Ève oflhe Twenty-first Century, New York, Scribner, 1993 (trad. it. Il mondo fuori controllo, Milano, TEA, 1995); Daniel Patrick Moynihan, Pandaemonium: Ethnicity in International Politici, Oxford, Oxford University Press, 1993; si veda inoltre Robert Kaplan, «The Corning Anarchy», in «Atlantic Monthly», n. 273 (Febbraio 1994), pp. 44-76.

m o n d i a l e c o n la fine della G u e r r a f r e d d a . È stato calcolato, ad esempio, c h e all'inizio del 1993 e r a n o in atto in tutto il m o n d o 48 g u e r r e etniche, e che nella sola ex U n i o n e Sovietica esistevano 164 «attriti e conflitti etnico-territoriali in materia di confini», di cui 30 e r a n o sfociati in q u a l c h e sorta di conflitto arm a t o . 1 ' A n c o r più di quello statalista, tuttavia, tale m o d e l l o pecca di un'eccessiva adesione alla realtà. Il m o n d o p u ò a n c h e essere avvolto nel caos, m a n o n è t o t a l m e n t e privo di o r d i n e . U n ' i m m a g i n e di anarchia universale e indifferenziata o f f r e pochi e l e m e n t i p e r c o m p r e n d e r e il m o n d o , p e r catalogare gli eventi e valutarne l'importanza, p e r prevedere le possibili linee di sviluppo di tale anarchia, p e r distinguere tra i diversi tipi di caos e le loro svariate cause e conseguenze, e p e r sviluppare delle linee di indirizzo p e r gli u o m i n i di governo.

Mondi a confronto: realismo, norma, previsioni Tutti e q u a t t r o questi modelli o f f r o n o u n a diversa combinazione di realismo e n o r m a . Nessuno di essi, tuttavia, è privo di limiti e carenze. Si p o t r e b b e forse ovviare a tali difetti coniug a n d o insieme più modelli e asserendo, ad esempio, c h e il m o n d o è i m p e g n a t o in u n processo parallelo di f r a m m e n t a z i o n e e di integrazione." 5 E n t r a m b e le t e n d e n z e sono effettivam e n t e in atto, e u n m o d e l l o più complesso sarà c e r t a m e n t e più a d e r e n t e alla realtà di q u a n t o p o t r e b b e esserlo u n o più semplice. Tale scelta, tuttavia, p r e m i a il realismo a discapito della n o r m a e, se perseguita f i n o in f o n d o , p o r t e r e b b e al rifiuto di tutti i modelli o teorie. Inoltre, i n g l o b a n d o d u e t e n d e n z e o p p o s t e e simultanee, il m o d e l l o frammentazione-integrazione n o n spiega in quali circostanze p r e v a r r e b b e u n a t e n d e n z a e in 15 Si veda «New York Times», 7 febbraio 1993, pp. 1, 14; e Gabriel Schoenfeld, «Outer Limits», in «Post-Soviet Prospects», n. 17 (Gennaio 1993), p. 3, c h e cita le cifre fornite dal Ministero della Difesa russo. 16 Si veda Gaddis, «Toward the Post-Cold War World»; Benjamin R. Barber, «Jihad vs. McWorld», in «Adantic Monthly», n. 269 (Marzo 1992), pp. 53-63; e idem, Jihad vs. McWorld, New York, Times Books, 1995; Hans Mark, «After Victory in the Cold War: T h e Global Village or Tribal Warfare», in J. J. Lee e Walter Korter (a cura di), Europe in Transition: Politicai, Economie, and Security Prospects for the 1990s, LBJ School of Public Affairs, University of Texas at Austin, Marzo 1990, pp. 19-27.

quali l'altra. L'obiettivo è sviluppare u n m o d e l l o in g r a d o di c o n t e m p l a r e gli eventi più i m p o r t a n t i e offrire u n a c o m p r e n sione delle t e n d e n z e in atto migliore degli altri paradigmi a u n uguale livello di astrazione intellettuale. Questi q u a t t r o modelli s o n o inoltre incompatibili tra loro. Il m o n d o n o n p u ò essere u n ' e n t i t à al c o n t e m p o coesa e nettam e n t e divisa tra Est ed Ovest o N o r d e Sud. Né lo stato nazionale p o t r à mai f u n g e r e da fulcro delle relazioni internazionali se viene f r a m m e n t a t o e lacerato da g u e r r e civili. Il m o n d o p u ò essere c o m p o s t o da u n u n i c o stato, o p p u r e d a d u e , o d a 184 stati, o p p u r e da u n n u m e r o pressoché infinito di tribù, g r u p p i etnici e nazionalità. Vedere il m o n d o in termini di sette od otto civiltà p e r m e t t e di s u p e r a r e molti di questi problemi. U n simile a p p r o c c i o n o n sacrifica il realismo alla n o r m a c o m e f a n n o i modelli del m o n d o u n i c o o dei d u e m o n d i , n é sacrifica la n o r m a al realismo, c o m e f a n n o i modelli statalista e del caos. Esso o f f r e u n a cornice c o n c e t t u a l m e n t e semplice p e r c o m p r e n d e r e il m o n d o , distinguere quali tra i molteplici conflitti in atto s o n o i m p o r t a n t i e quali no, prevedere sviluppi f u t u r i e offrire linee di indirizzo alle élite politiche. Esso, inoltre, c o n t e m p l a ed elabora elem e n t i p r o p r i di altri modelli ed è m a g g i o r m e n t e compatibile con essi di q u a n t o questi lo siano gli uni con gli altri. U n approccio basato sul c o n c e t t o di civiltà, ad esempio, sostiene che: • L'impulso all'integrazione nel m o n d o è reale, ed è esattam e n t e questo che g e n e r a resistenza ai distinguo culturali e a u n a maggiore presa di coscienza della p r o p r i a civiltà di appartenenza. • Il m o n d o è in u n certo senso diviso in d u e , m a la distinzion e basilare è tra l ' O c c i d e n t e in q u a n t o o d i e r n a civiltà domin a n t e e tutte le altre, le quali, tuttavia, h a n n o p o c o o nulla in c o m u n e tra loro. Il m o n d o , in altre parole, è diviso tra u n ' e n tità occidentale f o r t e m e n t e coesa e u n a miriade di entità n o n occidentali. • Gli stati nazionali s o n o e r e s t e r a n n o i protagonisti della politica internazionale, m a i loro interessi, legami e conflitti v e n g o n o determinati in misura sempre maggiore da fattori inerenti alla loro cultura e civiltà d ' a p p a r t e n e n z a . • Il m o n d o è effettivamente avvolto nell'anarchia, dilaniato

da conflitti tribali e nazionali, m a i conflitti che p o n g o n o i maggiori pericoli alla stabilità sono quelli tra stati o g r u p p i appart e n e n t i a civiltà diverse. U n m o d e l l o «delle civiltà», d u n q u e , mostra u n a m a p p a relativamente semplice m a n o n t r o p p o semplificata p e r capire q u a n t o va a c c a d e n d o nel m o n d o sul finire del xx secolo. Nessun modello, tuttavia, va b e n e p e r sempre. Il m o d e l l o della G u e r r a f r e d d a c o m e criterio d ' i n t e r p r e t a z i o n e della politica internazionale è stato utile e i m p o r t a n t e p e r q u a r a n t ' a n n i , m a alla fine degli a n n i O t t a n t a è diventato obsoleto, e p r i m a o poi il m o d e l l o delle civiltà a n d r à i n c o n t r o a u n m e d e s i m o destino. Per l'epoca attuale, tuttavia, o f f r e u n ' u t i l e guida p e r distinguere tra cosa è i m p o r t a n t e e cosa lo è m e n o . Ad esempio, sappiam o c h e p o c o m e n o della m e t à dei 48 conflitti etnici esistenti nel m o n d o all'inizio del 1993 coinvolgevano g r u p p i apparten e n t i a civiltà diverse. L'approccio basato sulle civiltà i n d u r r e b be il segretario generale delle Nazioni Unite e il segretario di Stato a m e r i c a n o a c o n c e n t r a r e i loro sforzi di pace su tali conflitti, più di altri passibili di sfociare in g u e r r e di più a m p i o raggio. I modelli sviluppano a n c h e previsioni, e u n test basilare p e r verificare la validità e l'utilità di u n m o d e l l o rispetto a u n altro è la maggiore precisione delle previsioni che consente di fare. Un m o d e l l o statalista, ad esempio, i n d u c e J o h n M e a r s h e i m e r a p r e v e d e r e c h e «tra Ucraina e Russia la situazione è o r m a i matura p e r c h é tra i d u e paesi esploda un'accesa rivalità in materia di sicurezza. Le grandi p o t e n z e divise da u n a linea di c o n f i n e m o l t o estesa e n o n protetta, c o m e quella che separa Russia e Ucraina, e n t r a n o spesso in contrasto spinte dalla p a u r a p e r la p r o p r i a sicurezza. Russia e Ucraina p o t r e b b e r o s u p e r a r e tale dinamica e i m p a r a r e a convivere in a r m o n i a , m a u n a soluzione di questo tipo sarebbe a l q u a n t o inusuale». 17 Un a p p r o c c i o basato sulla civiltà, invece, t e n d e a sottolineare gli stretti legami storici, culturali e personali c h e u n i s c o n o Russia e Ucraina e il f o r t e g r a d o di assimilazione reciproca esistente tra le popolazioni di e n t r a m b i i paesi, e a rimarcare invece la p r o f o n d a ce1 7 J o h n J. Mearsheimer, «The Case for a Nuclear Deterrent», in «Foreign Affaire», n. 72, Estate 1993, p. 54.

sura culturale che divide l'Ucraina orientale ortodossa e l'Ucraina occidentale uniate, u n antico e basilare d a t o storico che Mearsheimer, f e d e l e alla c o n c e z i o n e «realista» degli stati in q u a n t o entità coese e o m o g e n e e , ignora c o m p l e t a m e n t e . Laddove l'approccio statalista evidenzia la possibilità di u n a g u e r r a russo-ucraina, il m o d e l l o f o n d a t o sulle civiltà la ritiene m o l t o p o c o probabile e sottolinea invece la possibilità che l'Ucraina si spacchi in due, u n a divisione che la presenza di fattori culturali f a r e b b e i m m a g i n a r e più violenta di quella cecoslovacca m a molto m e n o sanguinosa di quella jugoslava. Da tali previsioni divergenti scaturiscono a loro volta priorità politiche diverse. La previsione statalista di Mearsheimer di u n a possibile g u e r r a e della conquista dell'Ucraina da p a r t e russa lo i n d u c e a prop u g n a r e il m a n t e n i m e n t o di armi nucleari in Ucraina. U n approccio f o n d a t o sulle civiltà, viceversa, i n c o r a g g e r e b b e la cooperazione tra Russia e Ucraina, esorterebbe l'Ucraina a disfarsi del p r o p r i o arsenale nucleare, p r o m u o v e r e b b e f o r m e consistenti di assistenza e c o n o m i c a e altre misure volte al mantenim e n t o dell'unità e d e l l ' i n d i p e n d e n z a ucraina e sponsorizzer e b b e iniziative speciali p e r far f r o n t e a u n a possibile spaccatura dell'Ucraina. Molti i m p o r t a n t i sviluppi successivi alla fine della G u e r r a f r e d d a si sono dimostrati compatibili con il m o d e l l o della civiltà e prevedibili in base a esso. Questi c o m p r e n d o n o : il crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica e della Jugoslavia, le g u e r r e scoppiate nei loro ex territori, l'ascesa del f o n d a m e n t a l i s m o religioso in tutto il m o n d o , i conflitti di identità scoppiati in Russia, Turchia e Messico, l'intensificarsi dei conflitti commerciali tra Stati Uniti e G i a p p o n e , l'opposizione degli stati islamici alla pressione occidentale su Iraq e Libia, i tentativi degli stati islamici e confuciani di acquisire armi nucleari e i mezzi p e r impiegarle, l'ascesa della Cina al r u o l o di g r a n d e potenza, il c o n s o l i d a m e n t o di nuovi regimi democratici in alcuni paesi e n o n in altri, la costante escalation militare in Asia orientale. L ' i m p o r t a n z a del m o d e l l o della civiltà p e r il m o n d o che va e m e r g e n d o è dimostrata dal n u m e r o di eventi rientranti nel suo a m b i t o concettuale verificatisi in sei mesi del 1993: • il persistere e l'intensificarsi degli scontri tra croati, musulm a n i e serbi nell'ex Jugoslavia;

• il rifiuto occidentale di garantire u n sostegno significativo ai m u s u l m a n i bosniaci o di d e n u n c i a r e le atrocità croate con la stessa fermezza con cui f u r o n o d e n u n c i a t e quelle serbe; • la riluttanza della Russia a unirsi agli altri m e m b r i del Consiglio di sicurezza d e l l ' O n u nel convincere i serbi della Croazia a siglare la pace con il governo croato, e la proposta dell'Iran e di altre nazioni m u s u l m a n e di inviare diciottomila soldati a protezione dei musulmani bosniaci; • l'intensificarsi della g u e r r a tra a r m e n i e azeri, le richieste di Turchia e Iran che gli a r m e n i restituissero i territori conquistati, lo spiegamento di t r u p p e t u r c h e sul confine azerbaigiano e di quelle iraniane al di là di tale confine, l ' a m m o n i m e n t o russo che l'iniziativa iraniana contribuiva ad u n a «escalation del conflitto» e lo spingeva «ai limiti o l t r e m o d o pericolosi di u n a sua internazionalizzazione»; • il perpetuarsi degli scontri tra t r u p p e russe e guerriglieri mujaheddin in Asia centrale; • la spaccatura verificatasi alla C o n f e r e n z a sui diritti u m a n i di Vienna tra l'Occidente, guidato dal segretario di Stato americano W a r r e n Christopher, c h e d e n u n c i ò il «relativismo culturale» e u n a coalizione di paesi islamici e confuciani c h e rifiutavano 1'«universalismo occidentale»; • la parallela riproposizione da p a r t e degli strateghi militari russi e della Nato della «minaccia proveniente d a Sud»; • la votazione, avvenuta sulla base di netti e palesi schieram e n t i culturali, che ha assegnato a Sydney, anziché a Pechino, l'organizzazione delle Olimpiadi del 2000. • la vendita al Pakistan di c o m p o n e n t i missilistici da parte della Cina, la conseguente imposizione statunitense di sanzioni contro la Cina e lo scontro tra Stati Uniti e Cina su presunti trasferimenti da parte di quest'ultima di tecnologia nucleare all'Iran; • la violazione della m o r a t o r i a e la ripresa dei test nucleari da p a r t e della Cina, n o n o s t a n t e le veementi proteste degli Stati Uniti, e il rifiuto della Corea del N o r d di c o n t i n u a r e a partecipare ai colloqui inerenti il p r o p r i o p r o g r a m m a di a r m a m e n to nucleare; • la rivelazione che il D i p a r t i m e n t o di Stato a m e r i c a n o stava p e r s e g u e n d o u n a politica di «doppio c o n t e n i m e n t o » nei conf r o n t i di Iran e Iraq; • l ' a n n u n c i o , da parte del D i p a r t i m e n t o della Difesa statuni-

tense, di u n a nuova strategia di p r e p a r a z i o n e a d u e «grandi conflitti regionali», u n o c o n t r o la Corea del N o r d , l'altro contro Iran o Iraq; • l'appello del p r e s i d e n t e i r a n i a n o alla costituzione di alleanze con Cina e India in m o d o da poter «avere l'ultima parola sugli eventi internazionali»; • la nuova legislazione tedesca che limita drasticamente l'ingresso dei profughi; • l'accordo tra il presidente russo Boris Eltsin e il presidente u c r a i n o Leonid Kravciuk sulla dislocazione della flotta del Mar N e r o e su altre questioni; • il b o m b a r d a m e n t o di B a g h d a d da parte degli Stati Uniti, il sostegno pressoché u n a n i m e a tale iniziativa espresso dai governi occidentali e la sua c o n d a n n a , invece, da p a r t e di quasi tutti i governi m u s u l m a n i quale ulteriore esempio di politica dei «due pesi e d u e misure» adottata dall'Occidente; • l'inclusione del Sudan n e l l ' e l e n c o di stati terroristi d a parte degli Stati Uniti e l'accusa lanciata allo sceicco O m a r Abdel R a h m a n e ai suoi seguaci di cospirare al fine di «scatenare u n a g u e r r a di terrorismo m e t r o p o l i t a n o c o n t r o gli Stati Uniti»; • le migliori prospettive di u n a f u t u r a ammissione nella Nato di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia; • le elezioni politiche russe del 1993, che h a n n o dimostrato q u a n t o la Russia sia u n paese «in bilico», con le élites di p o t e r e e la popolazione tutta a n c o r a incerta se unirsi o contrapporsi all'Occidente. Si p o t r e b b e compilare u n e l e n c o simile p e r quasi qualunq u e altro semestre dei primi anni Novanta. Nei primi anni della G u e r r a fredda, lo statista canadese Lester Pearson p u n t ò con grande preveggenza l'indice sulla rinascita e la vitalità delle società n o n occidentali. «Sarebbe assurdo», ammonì, «immaginare che queste nuove società politiche che vann o oggi nascendo a Est saranno pure e semplici copie di quelle alle quali noi occidentali siamo abituati. La rinascita di queste antiche civiltà assumerà f o r m e nuove». Nel ricordare come «per diversi secoli» i rapporti internazionali fossero stati limitati in sostanza ai rapporti tra gli stati europei, Pearson sostenne che «i problemi m a g g i o r m e n t e gravidi di conseguenze n o n sorgono più tra nazioni appartenenti a u n ' u n i c a civiltà, ma tra le civiltà

stesse».18 Il lungo periodo di bipolarismo causato dalla Guerra f r e d d a ha ritardato gli sviluppi previsti da Pearson. La fine della G u e r r a fredda ha liberato quelle culture e civiltà pulsanti da lui individuate negli anni Cinquanta, e u n gran n u m e r o di studenti e osservatori ha riconosciuto e sottolineato il nuovo ruolo assunto da tali fattori nel q u a d r o politico mondiale. 19 «Per tutti quanti si interessano al m o n d o odierno», ha saggiamente a m m o n i t o F e r n a n d Braudel, «e ancor più per quanti desiderano p r e n d e r e parte attiva al suo sviluppo, "conviene" imparare a leggere sulla cartina geografica del m o n d o quali sono le civiltà oggi esistenti, a definirne i confini, i rispettivi centri e periferie, le loro province e quale aria vi si respiri, le "condizioni" generali e particolari esistenti al loro interno. In caso contrario, p o t r e b b e r o conseguirne degli errori di prospettiva assolutamente catastrofici!». 2 " 18 Lester B. Pearson, Democracy in World Politics, Princeton, Princeton University Press, 1995, pp. 82-3. 19Johan Galtung ha compiuto un'analisi molto simile alla mia sulla rilevanza delle sette od otto grandi civiltà e dei relativi stati guida nello scenario politico mondiale. Si veda il suo «The Emerging Conflict Formations», in Katharine e Majid Tehranian (a cura di), Restructuring for World Peace: On the Threshold of the Twenty-First Century, Cresskill NJ, Hampton Press, 1992, pp. 23-4. Galtung individua sette raggruppamenti regional-culturali emergenti dominati da paesi egemoni: Stati Uniti, Comunità europea, Giappone, Cina, Russia, India ed un «nucleo islamico». Altri autori che nei primi anni Novanta hanno avanzato tesi simili in relazione alle civiltà sono: Michael Lind, «America as an Ordinary Country», in «American Enterprise», n. 1, Settembre/Ottobre 1990, pp. 19-23; Barry Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twenty-first Century», in «International Affairs», n. 67, 1991, pp. 441, 448-9; Robert Gilpin, «The Cycle of Great Powers: Has It Finally Been Broken?», Princeton University, inedito, 19 maggio 1993, p. 6 sgg.; William S. Lind, «North-South Relations: Returning to a World of Cultures in Conflict», in «Current World Leaders«, n. 35, Dicembre 1992, pp. 1073-80; idem, «Defending Western Culture», in «Foreign Policy», n. 84 (Autunno 1994), pp. 40-50; idem, «Looking Back from 2992: A World History, cap. 13: T h e Disastrous 21st Century», in «Economist», 26 dicembre 1992-8 gennaio 1993, pp. 17-9; idem, «The New World Order: Back to the Future», in «Economist», 8 gennaio 1994, pp. 21-3; idem, «A survey of Defence and the Democracies», in «Economist», 1 settembre 1990; Zsolt Rostovanyi, «Clash of Civilizations and Cultures: Unity and Disunity of World Order», saggio indito, 29 marzo 1993; Michael Vlahos, «Culture and Foreign Policy», in «Foreign Policy», n. 82, Primavera 1991, pp. 59-78; Donald J. Puchala, «The History of the Future of International Relations», in «Ethics and International Affairs», n. 8, 1994, pp. 177-202; Mahdi Elmandjra, «Cultural Diversity: Key to Survival in the Future», d o c u m e n t o presentato al Primo Congresso messicano sugli studi del futuro, Mexico City, Settembre 1994. Nel 1991 Elmandjra pubblicò in arabo un libro apparso l'anno successivo in francese col titolo Premiere Guerre Civilisationelle, Casablanca, Ed. Toubkal, 1982, 1994. 20 Fernand Braudel, On History, Chicago, University of Chicago Press, 1980, pp. 210-11 (tr. it. Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973).

CAPITOLO SECONDO

Le civiltà nella storia e nel m o n d o c o n t e m p o r a n e o

La natura delle civiltà La storia u m a n a è la storia delle civiltà. È impossibile pensare allo sviluppo dell'umanità in termini diversi da questi, u n o svil u p p o che p e r c o r r e intere generazioni di civiltà, dalle antiche civiltà sumera ed egizia a quella classica e centroamericana, a quella occidentale e islamica, alle successive manifestazioni di civiltà siniche e indù. Nel corso della storia le civiltà h a n n o rappresentato per l ' u o m o la più i m p o r t a n t e fonte di identificazione. Di conseguenza, le origini, la nascita, lo sviluppo, le interazioni, l'espansione, il declino e la fine delle civiltà sono state accurato oggetto di studio da parte di eminenti storici, sociologi e antropologi tra cui Max Weber, Emile Durkheim, Oswald Spengler, Pitirim Sorokin, Arnold Toynbee, Alfred Weber, A. L. Kroeber, Philip Bagby, Carroll Quigley, Rushton C o u l b o r n , Christopher Dawson, S. N. Eisenstadt, F e r n a n d Braudel, William H. McNeill, Adda Bozeman, I m m a n u e l Wallerstein e Felipe Fernàndez-Arnesto.' Tutti questi studiosi (e molti altri ancora) 1 «La storia universale è la storia delle grandi culture», Oswald Spengler, Dedine of the West, New York, Knopf, 1926-1928, II, p. 170 (trad. it. Il tramonto dell'Occidente, Milano, Longanesi, 1978). Tra le maggiori o p e r e di questi studiosi c h e analizzano la natura e la dinamica delle civiltà troviamo: Max Weber, The Sociology of Religion, trad. ingl. Boston, B e a c o n Press, 1968 (trad. it. Sodologia della religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1982); Emile D u r k h e i m e Marcel Mauss, «Note o n the N o t i o n o f Civilization», in «Social Research», n. 38, 1971, pp. 808-13; Oswald Spengler, Decline of the West, cit.; Pitirim Sorokin, Social and Cultural Dynamics, N e w York, American Book Co., 4 voli., 1937-1985 (trad. it. La dinamica sodale e culturale, T o r i n o , Utet, 1975); A r n o l d T o y n b e e , A Study of History, L o n d o n , O x f o r d University Press, 12 voli., 1934-1961; Alfred Weber, Kulturgeschichte als Kultursoziologie, Leiden, A. W. SijthofFs Uitgerversmaatschappij N.V., 1935; A. L. Kroeber, Configurations of Culture Growth, Berkeley, University o f California Press, 1944, e Style and Civilizations, Westport, CT, G r e e n w o o d Press, 1973; Philip Bagby, Culture and History: Prolegomena to the Comparative Study of Civilizations, L o n d o n , L o n g m a n s , Green, 1958;

h a n n o p r o d o t t o u n a vasta, erudita e raffinata letteratura incentrata sull'analisi comparata delle civiltà la quale, p u r palesando differenze prospettiche, metodologiche e concettuali di vario grado, presenta tuttavia u n a generale concordanza di vedute in merito alla natura, all'identità e alla dinamica delle varie civiltà. Primo. Esiste u n a distinzione tra «la civiltà» al singolare e «le civiltà» al plurale. Il concetto di civiltà f u sviluppato dai pensatori francesi del XVIII secolo in contrapposizione a quello di «barbarie». La società civilizzata si distingueva dalla società primitiva per il suo carattere stanziale, u r b a n o e colto. Essere civili era bene, essere incivili era male. Il concetto di civiltà f u eletto a m e t r o di giudizio delle società, e nel corso del xix secolo gli stati europei profusero grandi sforzi intellettuali, diplomatici e politici per stabilire dei criteri in base ai quali decretare le società n o n europee sufficientemente «civilizzate» da poter essere ammesse nel sistema internazionale da essi dominato. Al contempo, si iniziò Carroll Quigley, The Evolution of Civilizations: An Introduction to Historical Analysis, N e w York, Macmillan, 1961; Rushton Coulborn, The Origin of Civilized Societies, Princeton, Princeton University Press, 1959; S. N. Eisenstadt, «Cultural Traditions and Political Dynamics: T h e Origins a n d M o d e s o f l d e o l o g i c a l Politics», in «British Journal of Sociology», n. 32, G i u g n o 1981, pp. 155-81; Fern a n d Braudel, History of Civilizations, N e w York, Allen Lane-Penguin Press, 1994, e On History, Chicago, University o f Chicago Press, 1980; William H. McNeil, The Rise of the West: A History of the Human Community, Chicago, University of C h i c a g o Press, 1963; A d d a B. B o z e m a n , «Civilizations U n d e r Stress», in «Virginia Quarterly Review», n. 51 (Inverno 1975), pp. 1-18, Strategic Intelligence and Statecraft, Washington, Brassey's (US), 1992, e Politics and Culture in International History: From the Ancient Near East to the Opening of the Modern Age, N e w Brunswick, NJ, Transaction Publishers, 1994; Christopher Dawson, Dynamics of World History, LeSalle, IL, S h e r w o o d S u g d e n Co., 1978, e The Movement of World Revolution, N e w York, S h e e d and Ward, 1959; I m m a n u e l Wallerstein, Geopolitical and Geoculture: Essays on the Changing World-system, Cambridge, Cambridge University Press, 1992; Felipe Fernàndez-Armesto, Millennium: A History of the Last Thousand Years, N e w York, Scribners, 1955. A queste possiamo a g g i u n g e r e l'ultima, tragicamente segnata, opera di Louis Hartz, A Synthesis of World History, Zurich, Humanity Press, 1983, il quale, «con straordinaria intuizione», c o m e osserva S a m u e l Beer, «prevede u n a divisione del g e n e r e u m a n o m o l t o simile all'odierno m o d e l l o post-Guerra fredda» in cinq u e grandi «aree culturali»: cristiana, musulmana, indù, c o n f u c i a n a e africana. N o t a c o m m e m o r a t i v a su Louis Hartz, in «Harvard University Gazette», n. 89, 27 m a g g i o 1994. Un'indispensabile panoramica riassuntiva e d introduttiva all'analisi delle civiltà è quella di Matthew Melko, The Nature of Civilizations, Boston, Porter Sargent, 1969. D e v o inoltre m o l t o agli utili suggerimenti contenuti nel saggio critico sul m i o articolo pubblicato su «Foreign Affairs» a firma di Hayward W. Alker, Jr., «If N o t H u n g t i n g t o n ' s "Civilizations", T h e n Whose?», saggio inedito, Massachusetts Institute o f T e c h n o l o g y , 25 marzo 1994.

sempre più spesso a parlare di civiltà al plurale. Ciò significò la «rinuncia al concetto di civiltà definita come u n ideale, o piuttosto come l'ideale» e l ' a b b a n d o n o del presupposto che esistesse u n unico metro di giudizio per stabilire cosa fosse civile, «prerogativa», secondo l'espressione di Braudel, di p o c h e persone o g r u p p i privilegiati, 1'«élite» dell'umanità. Esistevano invece molte civiltà, ciascuna delle quali civilizzata a suo m o d o . In breve, la civiltà al singolare «perse parte del proprio carattere distintivo», cosicché u n a civiltà intesa in senso plurale poteva di fatto essere completamente n o n civilizzata nel senso singolare del termine. 2 Questo libro si o c c u p a delle civiltà intese al plurale. La distinzione tra singolare e plurale conserva tuttavia g r a n d e importanza, e l'idea di civiltà al singolare è t o r n a t a a riaffiorare nella tesi c h e p r o p u g n a l'esistenza di u n ' u n i c a civiltà universale. Si tratta di u n a tesi n o n sostenibile, m a è tuttavia utile indagare, c o m e f a r e m o nel capitolo conclusivo, se le civiltà stiano diventando o m e n o più civili. Secondo. Eccetto che in G e r m a n i a , u n a civiltà r a p p r e s e n t a s e m p r e u n ' i d e n t i t à culturale. I pensatori tedeschi del xix secolo o p e r a r o n o u n a netta distinzione tra il concetto di civiltà, che implicava la meccanica, la tecnologia e altri fattori materiali, e il concetto di cultura, che implicava invece valori, ideali e le più alte qualità morali, artistiche e intellettuali di u n a società. Tale distinzione è p e r d u r a t a a l u n g o nel pensiero tedesco m a è stata rifiutata altrove. Alcuni antropologi sono giunti finanche a rovesciare tale r a p p o r t o e a parlare di culture in r i f e r i m e n t o alle società primitive, immodificabili, n o n u r b a n e , e di civiltà in r i f e r i m e n t o alle società più complesse, sviluppate, u r b a n e e din a m i c h e . Tali tentativi di distinguere tra cultura e civiltà n o n h a n n o tuttavia attecchito, e al di là dei confini tedeschi esiste u n a pressoché totale c o n c o r d a n z a con l ' o p i n i o n e di Braudel s e c o n d o cui è «illusorio voler separare, come f a n n o in Germania, la cultura dalla civiltà che la produce». 1 2 Braudel, On History, pp. 177-81, 212-14, e History of Civilizations, pp. 4-5; Gerrit W. Gong, The Standard, of «Civilization» in International Society, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 81 sgg., 97-100; Wallerstein, Geopolitics and Geoculture, pp. 160 sgg. e 215 sgg.; Arnold J. Toynbee, Study of History, voi. X, pp. 274-5, e Civilization on Trial, New York, Oxford University Press, 1948, p. 24 (trad. it. Civiltà al paragone, Milano, Bompiani, 1983). 3 Braudel, On History, p. 205. Per una dettagliata panoramica delle definizioni dei termini cultura e civiltà, e in particolare della distinzione fatta al ri-

Civiltà e cultura f a n n o e n t r a m b e r i f e r i m e n t o allo stile di vita generale di u n p o p o l o , e u n a civiltà n o n è altro che u n a cultura su larga scala. E n t r a m b e si r i c h i a m a n o a «valori, n o r m e , istituzioni e m o d i di pensare ai quali generazioni successive di u n a data società h a n n o attribuito i m p o r t a n z a basilare». 4 Per Braudel, u n a civiltà è «uno spazio, u n ' " a r e a culturale"», «un insieme di caratteristiche e di f e n o m e n i culturali». Wallerstein la definisce «una particolare concatenazione di elementi - visione del m o n d o , cultura (sia la cultura "alta" che quella materiale), consuetudini e strutture - che f o r m a u n a sorta di entità storica coesa e coesiste (seppur n o n s e m p r e simultaneamente) con altre varietà del m e d e s i m o f e n o m e n o » . Per Dawson, u n a civiltà è il p r o d o t t o di «uno specifico, originale processo di creatività culturale sviluppato da u n d e t e r m i n a t o popolo», m e n t r e p e r D u r k h e i m e Mauss è «una sorta di società morale che abbraccia u n certo n u m e r o di nazioni di cui ciascuna cultura n o n è che u n a specifica espressione del tutto». Per Spengler u n a civiltà è «l'inevitabile destino della Cultura ... gli stati più esterni e artificiali di cui u n a specie u m a n a sviluppata è capace ... u n a conclusione, il divenuto che succede al divenire». La cultura è il tem a c o m u n e a qualsiasi definizione di civiltà. ' Gli elementi culturali di base c h e definiscono u n a civiltà venn e r o enucleati in termini classici dagli ateniesi allorché rassicur a r o n o gli spartani che mai li avrebbero traditi con i persiani: Sono molto gravi i motivi che ci impedirebbero di agire così, anche se lo volessimo. Primo e principale le statue e le dimore degli dèi date guardo in Germania, si veda A. L. Kroeber e Clyde Kluckhohn, Culture: A Criticai Review of Concepii and Defmitions, Cambridge, Papers of the Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology, Harvard University, voi. XLVII, n. 1, 1952, passim, ma soprattutto le pp. 15-29 (trad. it. Il concetto di cultura, Bologna, Il Mulino, 1982 2 ). 4 Bozeman, «Civilizations U n d e r Stress», p. 1. 5 Durkheim e Mauss, «Notion of Civilization», p. 811; Braudel, On History, pp. 177, 202; Melko, Nature oj Civilizations, p. 8; Wallerstein, Geopolitics and Geoculture, p. 215; Dawson, Dynamics of World History, pp. 51, 402; Spengler, Decline of the West, voi. I, p. 31. Particolare interessante, VInternational Encyclopedia ofthe Social Sciences (New York, Macmillan e Free Press, a cura di David L. Sills, 17 voli., 1968), n o n contiene tra le sue voci principali il termine «civiltà» inteso al singolare o al plurale. Il «concetto di civiltà» (al singolare) è illustrato in una sottosezione della voce «Rivoluzione urbana», mentre quello di civiltà al plurale viene menzionato di passaggio nella voce intitolata «Cultura».

alle fiamme e abbattute, che noi siamo tenuti a vendicare il più duramente possibile; altro che venire a patti con chi ne è responsabile! Poi c'è il senso della grecità, la comunanza di sangue e di lingua, di santuari e riti sacri, di usi e costumi simili, male sarebbe che gli ateniesi ne diventassero traditori.^

Sangue, lingua, religione e m o d o di vita e r a n o q u a n t o accomunava i greci e li distingueva invece dai persiani e da altri popoli n o n greci. Di tutti gli elementi formali che definiscono le civiltà, tuttavia, il più i m p o r t a n t e è g e n e r a l m e n t e la religione, c o m e sottolineavano gli ateniesi. Quasi tutte le maggiori civiltà nella storia d e l l ' u m a n i t à sono state strettamente identificate con le grandi religioni del m o n d o , e popolazioni di uguale lingua ed etnia ma di diversa religione possono benissimo massacrarsi a vicenda, c o m ' è accaduto in Libano, nell'ex Jugoslavia e in India. 7 Esiste u n a notevole c o r r i s p o n d e n z a tra la divisione dei popoli in civiltà, basata sulle caratteristiche culturali, e quella in razze, basata invece sulle caratteristiche fisiche. Civiltà e razza n o n sono tuttavia concetti equivalenti: popoli di uguale razza possono essere divisi da civiltà assai diverse, e popoli di razze diverse possono a p p a r t e n e r e alla m e d e s i m a civiltà. In particolare, le grandi religioni missionarie, cristianesimo e islamismo, abbracciano società razziali molto e t e r o g e n e e . Le distinzioni basilari che caratterizzano le diverse c o m u n i t à u m a n e concern o n o i rispettivi valori, credenze, istituzioni e strutture sociali, n o n la statura fisica, il colore della pelle o la c o n f o r m a z i o n e cranica. Terzo. Le civiltà sono entità finite, vale a dire che nessuna delle sue unità costitutive p u ò essere compresa a p p i e n o senza riferimenti concreti alla civiltà di cui è parte. Le civiltà, h a sostenuto Toynbee, «inglobano ma n o n sono inglobate da altre entità». U n a civiltà è u n a «totalità». Le civiltà, a f f e r m a Melko, presentano un certo grado di integrazione. Le parti che la compong o n o sono definite dal rapporto esistente tra ciascuna di esse e con il tutto. Se la civiltà è composta da stati, questi stati svilupperanno rapporti maggiori tra loro piuttosto che con stati estranei alla loro civiltà. 6 Erodoto, Le Storie, Garzanti, Milano, 1990, vili, 144 (p. 121). 7 Edward A. Tiryakian, «Reflections o n the Sociology of Civilizations», in «Sociologica! Analysis», n. 35 (Estate 1974), p. 125.

Gli scontri e gli scambi diplomatici saranno più frequenti. Saranno più interdipendenti economicamente, e saranno pervasi da correnti estetiche e filosofiche comuni."

U n a civiltà è la più ampia entità culturale esistente. Villaggi, regioni, g r u p p i etnici, nazionalità, g r u p p i religiosi, p r e s e n t a n o tutti culture distinte a diversi livelli di eterogeneità culturale. La cultura di u n paese dell'Italia del Sud p u ò essere diversa da quella di u n o dell'Italia settentrionale, m a e n t r a m b i condivid o n o u n a cultura italiana che li distingue dai paesi tedeschi. Le c o m u n i t à e u r o p e e , a loro volta, c o n d i v i d o n o caratteristiche culturali c h e le distinguono dalle c o m u n i t à cinesi o indù. Cinesi, i n d ù e occidentali, tuttavia, n o n sono p a r t e integrante di u n a più ampia entità culturale: essi costituiscono delle civiltà. U n a civiltà r a p p r e s e n t a d u n q u e il più vasto r a g g r u p p a m e n t o culturale di u o m i n i ed il più a m p i o livello di identità culturale che l ' u o m o possa raggiungere d o p o quello che distingue gli esseri u m a n i dalle altre specie. Essa viene definita sia da elementi oggettivi c o m u n i , quali la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia dal processo soggettivo di autoidentificazione dei popoli. L ' u o m o presenta vari livelli di identità: u n abitante di R o m a p u ò definirsi con u n variabile g r a d o di intensità r o m a n o , italiano, cattolico, cristiano, e u r o p e o o d occidentale. La civiltà di a p p a r t e n e n z a è il livello di identificazione più a m p i o al quale aderisce strettamente. Le civiltà r a p p r e s e n t a n o il più a m p i o «noi» di cui ci sentiamo culturalmente p a r t e integrante in contrapposizione a tutti gli altri «loro». Le civiltà possono c o m p r e n d e r e u n gran n u m e r o di persone, come ad esempio quella cinese, o u n n u m e r o e s t r e m a m e n t e esiguo, c o m e ad esempio quella caraibica anglofona. La storia presenta n u m e rosi casi di piccoli g r u p p i di p e r s o n e in possesso di u n a cultura distinta e privi di u n a qualsiasi identificazione culturale più ampia. S o n o state fatte distinzioni in termini di d i m e n s i o n e e imp o r t a n z a tra civiltà principali e civiltà periferiche (Bagby) o tra civiltà fiorenti e civiltà estinte o abortite sul nascere (Toynbee). In questo libro vengono analizzate quelle che sono considerate le maggiori civiltà della storia u m a n a .

8 Toynbee, Study of History, voi. I, p. 455, cit. in Melko, Nature of pp. 8-9; e Braudel, On History, p. 202.

Civilizations,

Le civiltà n o n h a n n o confini n e t t a m e n t e delimitati, n o n h a n n o u n inizio e u n a fine precisi. L ' u o m o è in g r a d o di ridefinire - e lo fa - la propria identità, cosicché f o r m a e composizione delle civiltà v e n g o n o a cambiare nel tempo. Le culture dei popoli interagiscono e si sovrappongono, di m o d o che anc h e il livello di somiglianza o diversità tra le culture delle singole civiltà p u ò variare considerevolmente. Ciò n o n o s t a n t e , le civiltà sono entità e s t r e m a m e n t e rilevanti e i confini c h e le sep a r a n o , b e n c h é r a r a m e n t e b e n definiti, sono confini reali. Q u a r t o . Le civiltà m u o i o n o , ma h a n n o a n c h e u n a vita molto lunga; si evolvono, si adattano, e sono le più d u r a t u r e tra tutti i tipi di associazione tra uomini, «realtà di estrema longue durée». La loro «essenza peculiare e particolare» consiste nella «loro p r o l u n g a t a continuità storica. Quella della civiltà è di fatto la più lunga di tutte le storie». Gli imperi sorgono e c a d o n o , i governi v a n n o e vengono, le civiltà invece restano e «sopravvivon o ai rivoluzionamenti politici, sociali, economici e finanche ideologici». 9 «La storia internazionale», c o n c l u d e Bozeman, « d o c u m e n t a a p p r o p r i a t a m e n t e la tesi s e c o n d o cui i sistemi politici sono espedienti transitori del tutto marginali rispetto alle civiltà, e c h e il destino di ciascuna c o m u n i t à linguisticamente e m o r a l m e n t e coesa d i p e n d e in ultima analisi dalla sopravvivenza di certe idee strutturali di f o n d o alle quali le generazioni successive h a n n o aderito e c h e d u n q u e simboleggiano la continuità della società».'" Praticamente tutte le maggiori civiltà del m o n d o del xx secolo esistono da u n millennio o p p u r e , c o m e accade in America latina, sono discendenti dirette di u n a prec e d e n t e civiltà di antica tradizione. Oltre a vivere a lungo, le civiltà si evolvono. Sono entità din a m i c h e , fioriscono e deperiscono, si f o n d o n o e si dividono, e c o m e sanno molti studiosi di storia, possono a n c h e scomparire e finire seppellite dalla sabbia del t e m p o . Le fasi della loro evoluzione sono definibili in vari modi. Quigley ritiene c h e le civiltà attraversino sette stadi: confluenza, gestazione, espansione, epoca di conflittualità, i m p e r o universale, d e c a d e n z a e invasione. Melko ha invece elaborato u n m o d e l l o di c o n t i n u o m u t a m e n t o : da u n sistema f e u d a l e consolidato a u n sistema 9 Braudel, History of Civilizations, p. 35, e On History, pp. 209-10. 10 Bozeman, Strategie Intelligence and Statecraft, p. 26.

f e u d a l e in transizione a u n sistema statale consolidato a u n sistema statale in transizione a u n sistema imperiale consolidato. Toynbee ritiene c h e la civiltà nasca c o m e risposta a d e t e r m i n a te sfide e attraversi quindi u n p e r i o d o di sviluppo c h e implica u n s e m p r e maggiore controllo del p r o p r i o a m b i e n t e da p a r t e di u n a m i n o r a n z a creativa, cui fa seguito u n p e r i o d o di disordini, la nascita di u n o stato universale e infine la disintegrazione. Pur p r e s e n t a n d o significative differenze, tutte queste teorie p r o p u g n a n o u n m e d e s i m o percorso: evoluzione attraverso u n p e r i o d o di disordini o di conflittualità, nascita di u n o stato universale, d e c a d i m e n t o e disintegrazione." Quinto. In q u a n t o entità culturali e n o n politiche, le civiltà n o n provvedono di p e r sé a m a n t e n e r e l'ordine, amministrare la giustizia, raccogliere tasse, c o m b a t t e r e g u e r r e , negoziare trattati o assolvere le altre i n c o m b e n z e solitamente espletate dai governi. La composizione politica delle civiltà varia da caso a caso e si modifica altresì nel t e m p o a l l ' i n t e r n o di ciascuna di esse. In tal m o d o , u n a civiltà p u ò c o n t e n e r e u n a o più entità politiche. Tali entità possono essere città-stato, imperi, federazioni, confederazioni, stati nazionali, stati multinazionali, e tutte possono avere svariate f o r m e di governo. Via via che u n a civiltà si evolve, di n o r m a h a n n o luogo dei m u t a m e n t i nel num e r o e nella n a t u r a delle entità politiche che la costituiscono. In casi estremi, u n a civiltà p u ò coincidere con u n ' e n t i t à politica. La Cina, ha osservato Lucian Pye, è «una civiltà mascherata da stato». 1 " Il G i a p p o n e , invece, è effettivamente al c o n t e m p o u n a civiltà e u n o stato. La maggior parte delle civiltà, tuttavia, c o n t i e n e più stati o entità politiche. Nel m o n d o m o d e r n o , gran p a r t e delle civiltà c o n t i e n e d u e o più stati. Infine, gli studiosi c o n c o r d a n o g e n e r a l m e n t e sull'individuazione delle maggiori civiltà della storia e su quelle esistenti nel m o n d o m o d e r n o , m e n t r e invece dissentono spesso sul n u m e ro totale di civiltà esistite nella storia. Quigley individua sedici casi storici evidenti più altri otto m o l t o probabili. Toynbee fis11 Quigley, Evolution of ('.ivilizations, p. 146 sgg.; Melko, Nature of Civilizations, p. 101 sgg. Si veda D. C. Somervell, «Argument», nel suo c o m p e n d i o di Arnold f. Toynbee, A Study ofUistory, voli. I-M. Oxford, Oxford University Press, 1946, p. 569 sgg. 12 Lucian W. Pve, «China: Erratic State, Frustrated Society», in «Foreign Affairs», n. 69 (Autunno 1990), p. 58.

sò tale n u m e r o p r i m a a v e n t u n o , poi a ventitré. Spengler elenca otto grandi culture, McNeill parla di nove civiltà in tutta la storia; a n c h e Bagby vede nove grandi civiltà, o undici volendo separare G i a p p o n e e m o n d o ortodosso da Cina e O c c i d e n t e . Braudel h a identificato nove e Rostovanij sette grandi civiltà c o n t e m p o r a n e e . " Tali differenze n a s c o n o in parte a s e c o n d a c h e si ritenga che d e t e r m i n a t i g r u p p i culturali quali gli indiani o i cinesi a b b i a n o posseduto nel corso della storia u n a singola civiltà, o p p u r e d u e o più civiltà strettamente correlate, discend e n t i u n a dall'altra. N o n o s t a n t e tali differenze, tuttavia, l'identità delle maggiori civiltà n o n è oggetto di discussioni. Esiste u n a «ragionevole convergenza di opinioni», c o n c l u d e Melko d o p o aver passato in rassegna tutta la letteratura sul tema, sull'esistenza di a l m e n o dodici grandi civiltà, di cui sette o r m a i estinte (mesopotamica, egiziana, cretese, classica, bizantina, c e n t r o a m e r i c a n a , a n d i n a ) e cinque a n c o r a esistenti (cinese, giapponese, indiana, islamica e occidentale). 1 4 A queste sei civiltà del m o n d o c o n t e m p o r a n e o sembra utile ai nostri fini a g g i u n g e r e quella l a t i n o a m e r i c a n a e forse a n c h e quella africana. Riassumendo, d u n q u e , le maggiori civiltà c o n t e m p o r a n e e sono le seguenti. Sinica. Tutti gli studiosi riconoscono l'esistenza o di u n ' u n i ca, distinta civiltà cinese risalente a l m e n o al 1500 a.C. o forse a n c h e a mille anni prima, o p p u r e di d u e civiltà cinesi, succedutesi tra loro nei primi secoli dell'epoca cristiana. Nel mio articolo su «Foreign Affairs» definii tale civiltà «confuciana». E tuttavia più a p p r o p r i a t o usare il t e r m i n e «sinica». S e b b e n e il c o n f u c i a n e s i m o sia u n e l e m e n t o cardine della civiltà cinese, quest'ultima va b e n al di là del confucianesimo e trascende la Cina in q u a n t o entità politica. Il t e r m i n e «sinica», adottato da n u m e r o s i studiosi, sintetizza e ingloba in m o d o a p p r o p r i a t o la cultura c o m u n e alla Cina e alle c o m u n i t à cinesi dell'Asia sudo13 Si veda Quigley, Evolution of Civilizations, cit., cap. 3, soprattutto le pp. 77, 84; Max Weber, «The Social Psvchology of the World Religions», in H. H. Gerth e C. Wright Mills (cura e traduzione di), From Max Weber: Essays in Sociology, L o n d o n , Routledge, 1991, p. 267; Bagby, Culture and History, pp. 16574; Spengler, Decline of the West, voi. II, p. 31 sgg; Toynbee, Study of History, voi. I, p. 133; voi. XII, pp. 546-7; Braudel, History of Civilizations, passim; McNeill, The Rise of the West, passim; e Rostovanyi, «Clash of Civilizations», pp. 8-9. 14 Melko, Nature of Civilizations, p. 133.

rientale e delle altre regioni e s t e r n e alla Cina, e le culture affini di Vietnam e Corea. Giapponese. Alcuni studiosi f a n n o confluire le culture giapp o n e s e e cinese in u n ' u n i c a civiltà estremo-orientale. La maggior p a r t e di essi, tuttavia, considera il G i a p p o n e u n a civiltà a sé stante, d i s c e n d e n t e da quella cinese ed emersa nel p e r i o d o c o m p r e s o tra il 100 e il 400 d.C. Indù. E stata o r m a i universalmente riconosciuta in India l'esistenza, a partire a l m e n o dal 1500 a.C., di u n a o più civiltà successive solitamente d e n o m i n a t e indiana o indù, con u n a preferenza p e r quest'ultima definizione p e r q u a n t o riguarda la civiltà più recente. In u n m o d o o nell'altro, a partire dal n millennio a.C. l'induismo h a svolto u n r u o l o f o n d a m e n t a l e nella cultura indiana: «Più che u n a religione o u n sistema sociale, esso è il c u o r e stesso della civiltà indiana». 1 ' L'induismo ha contin u a t o a espletare tale r u o l o a n c h e in e p o c a m o d e r n a , s e b b e n e lo stato i n d i a n o in q u a n t o tale includa u n a cospicua c o m u n i t à m u s u l m a n a e varie altre m i n o r a n z e culturali di m i n o r e entità. Al pari di «sinico», il t e r m i n e «indù» serve a distinguere tra il n o m e della civiltà e quello del suo stato guida, cosa o p p o r t u n a q u a n d o , c o m e in questi casi, la cultura della civiltà trascende i confini di tale stato. Islamica. Tutti i più e m i n e n t i studiosi riconoscono l'esistenza di u n a distinta civiltà islamica. Originatosi nella penisola arabica nel vii secolo d.C., l'islamismo si diffuse r a p i d a m e n t e in N o r d Africa e nella penisola iberica n o n c h é , a est, in Asia centrale, in India e in Asia sudorientale. Di conseguenza, all'intern o dell'Islam coesistono n u m e r o s e culture o sottociviltà a sé stanti, tra cui l'araba, la turca, la persiana e la malaysiana. Occidentale. La nascita della civiltà occidentale viene fatta gen e r a l m e n t e risalire i n t o r n o al 700 o 800 d.C. Gli studiosi sono soliti suddividerla in tre rami principali: e u r o p e o , n o r d a m e r i cano e latinoamericano. Latinoamericana. L'America latina p r e s e n t a tuttavia u n a propria identità diversa d a quella d e l l ' O c c i d e n t e . S e b b e n e sia u n ' e m a n a z i o n e diretta della civiltà e u r o p e a , l'America latina si è evoluta secondo u n modello diverso da quello e u r o p e o e nordamericano. H a avuto u n a cultura corporativa e autoritaria che 15 Braudel, On Hìstory, p. 226.

l ' E u r o p a ha s p e r i m e n t a t o in misura m o l t o m i n o r e e c h e in N o r d America è s e m p r e stata assente. Sia l ' E u r o p a c h e il N o r d America h a n n o avvertito gli effetti della Riforma, i n g l o b a n d o al p r o p r i o i n t e r n o sia la cultura cattolica che quella protestante. Storicamente, s e b b e n e possano esserci oggigiorno dei mutamenti in tal senso, L'America latina è sempre stata esclusivam e n t e cattolica. La civiltà latinoamericana i n c o r p o r a culture indigene, c h e in E u r o p a n o n sono mai esistite e in N o r d America sono state spazzate via, e la cui i m p o r t a n z a varia d a paese a paese, con Messico, America centrale, Perù e Bolivia a u n estrem o e Argentina e Cile all'estremo opposto. L'evoluzione politica e lo sviluppo e c o n o m i c o latinoamericani h a n n o seguito strad e c o m p l e t a m e n t e diverse d a quelle prevalenti nei paesi nordadantici. Gli stessi latinoamericani sono divisi in merito alla p r o p r i a autoidentificazione. Alcuni dicono: «Sì, facciamo parte dell'Occidente». Altri sostengono: «No, possediamo u n a nostra cultura distinta», ed esiste u n ' a m p i a letteratura latino e nordam e r i c a n a c h e descrive le rispettive differenze culturali. 16 L'America latina p u ò essere considerata o u n a sottociviltà nell'ambito della civiltà occidentale, o p p u r e u n a civiltà a sé stante strett a m e n t e associata all'Occidente e divisa in merito alla sua app a r t e n e n z a o m e n o ad esso. Per un'analisi dell'impatto politico delle civiltà sullo scacchiere internazionale, compresi i rapporti tra America latina da u n lato e N o r d America ed E u r o p a dall'altro, la seconda ipotesi a p p a r e più utile ed appropriata. L'Occidente, d u n q u e , c o m p r e n d e l'Europa, il N o r d America, più altri paesi a f o r t e colonizzazione e u r o p e a quali l'Australia e la Nuova Zelanda. Il r a p p o r t o tra le d u e principali unità costitutive d e l l ' O c c i d e n t e , tuttavia, è m u t a t o nel t e m p o . Per gran p a r t e della loro storia, gli americani h a n n o d e f i n i t o la p r o p r i a società in termini di contrapposizione all'Europa. L'America era la patria della libertà, dell'uguaglianza, delle opp o r t u n i t à , del f u t u r o ; l ' E u r o p a simboleggiava oppressione, conflitti di classe, gerarchia, arretratezza. Si arrivò finanche a sostenere c h e quella a m e r i c a n a fosse u n a civiltà a sé stante. Tale p r e s u n t a contrapposizione tra America e E u r o p a f u soprat16 Per un ulteriore, importante contributo a questa letteratura offerto negli anni Novanta da u n o studioso che c o n o s c e b e n e entrambe le culture, si veda Claudio Veliz, The New World of the GothicFox, Berkeley, University of California Press, 1994.

tutto conseguenza del fatto che, a l m e n o fino alla fine del xix secolo, l'America ebbe solo contatti sporadici con le civiltà n o n occidentali. U n a volta affacciatisi sulla scena mondiale, tuttavia, gli Stati Uniti svilupparono ben presto u n più forte senso di identificazione con l ' E u r o p a . " Se l'America d e l l ' O t t o c e n t o si definiva diversa e contrapposta all'Europa, l'America del xx secolo si è definita parte integrante e anzi e l e m e n t o di p u n t a di u n a più a m p i a identità, l ' O c c i d e n t e , c o m p r e n d e n t e a n c h e l'Europa. Il t e r m i n e «l'Occidente» viene oggi universalmente impiegato p e r indicare quella c h e u n a volta si soleva definire Cristianità occidentale. Quella occidentale è d u n q u e l'unica civiltà identificata da u n p u n t o cardinale anziché dal n o m e di u n particolare popolo, religione o area geografica. 1 8 Tale caratterizzazione astrae la civiltà occidentale dal p r o p r i o contesto storico, geografico e culturale. Se storicamente la civiltà occidentale c o r r i s p o n d e alla civiltà e u r o p e a , nell'era m o d e r n a essa corris p o n d e invece alla civiltà e u r o a m e r i c a n a o nordatlantica. L'Europa, l'America e il N o r d Atlantico sono entità p e r f e t t a m e n t e individuabili su u n a cartina geografica, l'Occidente no. Il term i n e «Occidente» ha inoltre g e n e r a t o il concetto di «occidentalizzazione», p r o m u o v e n d o u n ' i n g a n n e v o l e sinonimia tra oc17 Si veda Charles A. e Mary R. Beard, The Rise of American Civilization, New York, Macmillan, 2 voli., 1927, e Max Lerner, America as a Civilization, New York, S i m o n 8c Schuster, 1957. Con fervore patriottico, Lerner sostiene che «Nel b e n e e nel male, l'America è quella che è: una cultura a p i e n o titolo, con molti tratti costitutivi e propulsivi del tutto peculiari, rappresentante insieme alla Grecia e a Roma di una delle grandi civiltà distintive della storia». Egli, tuttavia, ammette anche che «senza quasi eccezioni di sorta, le grandi teorie della storia n o n c o n t e m p l a n o il concetto di America c o m e civiltà a se stante» (pp. 58-9). 18 L'utilizzo dei termini «Oriente» e «Occidente» per identificare delle aree geografiche è ingannevole ed etnocentrico. «Nord» e «Sud« presentano nei rispettivi poli dei punti di riferimento fissi universalmente accettati. «Oriente» e d «Occidente» n o n h a n n o alcun analogo punto di riferimento. La questione è: oriente e occidente rispetto a cosa? Tutto d i p e n d e dal l u o g o in cui ci si trova. Si presume che i termini «Occidente» e «Oriente» facessero in origine riferimento alle parti occidentale e orientale dell'Eurasia. Dal p u n t o di vista di un americano, tuttavia, l'Estremo Oriente è di fatto l'Estremo Occidente. Per gran parte della storia cinese l'Occidente ha significato l'India, mentre «in Giappone "l'Occidente" significava generalmente la Cina». William E. Naff, «Reflections on the Question of "East and West" from the Point of View o f j a p a n » , in «Comparative Civilizations Review», nn. 13-14 (Autunno 1985/Primavera 1986), p. 228.

cidentalizzazione e modernizzazione: possiamo i m m a g i n a r e u n G i a p p o n e c h e si sta «occidentalizzando», molto m e n o invece u n G i a p p o n e c h e si sta «euroamericanizzando». Ad ogni modo, la civiltà e u r o a m e r i c a n a viene oggi universalmente definita civiltà occidentale, e p e r t a n t o sarà qui adottato tale termine, n o n o s t a n t e le sue gravi inadeguatezze. Africana (forse). Ad eccezione di Braudel, la maggior p a r t e dei più e m i n e n t i studiosi delle civiltà n o n riconosce u n a distinta civiltà africana. Il n o r d e la costa orientale del c o n t i n e n t e africano a p p a r t e n g o n o alla civiltà islamica. L'Etiopia h a tradizionalmente costituito u n a civiltà a sé. Altrove, l'imperialismo e la colonizzazione e u r o p e a h a n n o i n t r o d o t t o elementi della civiltà occidentale. In Sud Africa, i coloni olandesi, francesi e q u i n d i inglesi d e t t e r o vita a u n a cultura e u r o p e a o l t r e m o d o variegata. 19 Cosa ancor più i m p o r t a n t e , l'imperialismo e u r o p e o introdusse il cristianesimo in gran p a r t e del c o n t i n e n t e a sud del Sahara. In tutta l'Africa, tuttavia, p u r essendo le identità tribali assai intense e radicate, gli africani stanno al c o n t e m p o sviluppando u n senso sempre più forte della propria identità di africani in senso lato, e l'Africa sub-sahariana p o t r e b b e a n c h e d a r vita a u n a sua distinta civiltà, con il Sud Africa nella possibile veste di stato guida. La religione è u n basilare e l e m e n t o caratterizzante delle civiltà, e c o m e ha a f f e r m a t o C h r i s t o p h e r Dawson «le grandi religioni sono le f o n d a m e n t a su cui p o g g i a n o le grandi civiltà».2" Delle c i n q u e «religioni mondiali» definite da Weber, q u a t t r o cristianesimo, islamismo, i n d u i s m o e c o n f u c i a n e s i m o - s o n o associate a grandi civiltà. La quinta, il buddismo, invece, n o . Perché? Al pari dell'islamismo e del cristianesimo, il b u d d i s m o si suddivise b e n presto in d u e t r o n c o n i principali, e al pari del cristianesimo n o n è sopravvissuto nella sua terra d'origine. A partire dal i secolo d.C., il b u d d i s m o mahayana f u esportato in 19 Sul ruolo avuto da frammenti della civiltà europea nella creazione di nuove società in N o r d America, America latina, Sud Africa e Australia, si veda Louis Hartz, TheFounding of New Societies: Studies in the History of the United States, Latin America, South Africa, Canada, and Australia, New York, Harcourt, Brace Se World , 1964. 20 Dawson, Dynamics of World History, p. 128. Si veda anche Mary C. Bateson, «Beyond Sovereignty: An Emerging Global Civilization», in R. B. J. Walker e Saul H. Mendlovitz (a cura di), Contending Sovereignties: Redefining Politicai Community, Boulder, Lynne Rienner, 1990, pp. 148-49.

Cina e successivamente in Corea, Vietnam e Giappone. In queste società, esso v e n n e in vario m o d o adattato, assimilato alla cultura a u t o c t o n a (in Cina ad esempio, al c o n f u c i a n e s i m o e al taoismo) e soppresso. Per cui, s e b b e n e il b u d d i s m o resti u n a c o m p o n e n t e i m p o r t a n t e delle loro culture, tali società n o n costituiscono e n o n si i d e n t i f i c h e r e b b e r o c o m e parte di u n a civiltà buddista. Esiste invece quella c h e p u ò essere legittimam e n t e descritta c o m e u n a civiltà buddista therevada nello Sri Lanka, in Birmania, in Thailandia, nel Laos e in Cambogia. Inoltre, le popolazioni del Tibet, della Mongolia e del B h u t a n h a n n o tradizionalmente adottato la variante lamaista del buddismo mahayana: tali società costituiscono u n a seconda area di civiltà buddista. Nel complesso, tuttavia, la virtuale estinzione del b u d d i s m o in India ed il suo a d a t t a m e n t o e la sua incorporazione nelle culture esistenti in Cina e in G i a p p o n e stanno a indicare che il buddismo, 2 1 p u r essendo u n a g r a n d e religione, n o n h a costituito la base di u n a g r a n d e civiltà."2

/ rapporti tra le civiltà Incontri: le civiltà prima del 1500 d. C. I rapporti tra le civiltà h a n n o attraversato d u e fasi e oggi ne stanno vivendo u n a terza. Per oltre tremila anni successivi alla nascita delle prime civiltà, i

21 T o y n b e e classifica sia il buddismo theverada che quello lamaista tra le civiltà estinte. 22 Cosa dire della civiltà ebraica? La gran parte degli studiosi delle civiltà n o n ne fa m e n z i o n e . In termini numerici, l'ebraismo n o n è ovviamente una grande civiltà. T o y n b e e la descrive c o m e una civiltà estinta evolutasi dalla più antica civiltà siriaca. Storicamente è stata affiliata sia al cristianesimo c h e all'islamismo, e per diversi secoli gli ebrei h a n n o preservato la propria identità culturale all'interno della civiltà occidentale, ortodossa e islamica. Con la creazione dello stato di Israele, gli ebrei h a n n o acquisito tutti gli elementi costitutivi formali propri di una civiltà: religione, lingua, costumi, letteratura, istituzioni e una propria dimora sia territoriale c h e politica. Ma cosa dire dell'identificazione individuale? Gli ebrei residenti in altre culture s o n o schierati l u n g o un a m p i o ventaglio di posizioni c h e va dalla totale identificazione dell'ebraismo c o n Israele, a un ebraismo solo nominale, fino alla totale identificazione c o n la civiltà in cui risiedono. Quest'ultima soluzione, tuttavia, risulta adottata principalmente dagli ebrei c h e vivono in Occidente. Si veda Mordecai M. Kaplan, Judaism as a Civilization, Philadelphia, Reconstructionist Press, 1981 (prima e d i z i o n e 1934), in particolare le pp. 173-208.

contatti tra esse sono stati, salvo alcune eccezioni, o del tutto inesistenti, o limitati, o p p u r e intermittenti e intensi. La natura di tali contatti è ben compendiata nel termine impiegato dagli studiosi p e r descriverla: «incontri»." 3 Le civiltà e r a n o distanti nel t e m p o e nello spazio. Solo u n piccolo n u m e r o di esse era presente in ciascuna epoca storica, ed esiste u n a significativa distinzione, come h a n n o sostenuto Benjamin Schwartz e Shmuel Eisenstadt, tra civiltà dell'«Età assiale» e civiltà precedenti, a sec o n d a che riconoscessero o m e n o u n a distinzione tra «ordini trascendentali e ordini terreni». Le civiltà dell'«Età assiale», a differenza dei loro predecessori, possedevano dei miti trascendentali propagati da u n a distinta classe intellettuale: «i profeti e sacerdoti ebrei, i filosofi e i sofisti greci, i letterati cinesi, i bramini induisti, i sangha buddisti e gli ulema islamici».24 Alcune regioni h a n n o sperimentato d u e o tre generazioni di civiltà affiliate, con la caduta di una, cui seguiva, d o p o un intervallo di tempo, l'avvento di una generazione successiva. La Figura 2.1 mostra u n a cartina semplificata (riprodotta da Carroll Quigley) dei rapporti tra le maggiori civiltà eurasiatiche nel corso del tempo. Le civiltà e r a n o separate a n c h e g e o g r a f i c a m e n t e . Fino al 1500 la civiltà a n d i n a e quella c e n t r o a m e r i c a n a n o n e b b e r o alc u n contatto n é reciproco n é con altre civiltà. A n c h e le p r i m e civiltà fiorite nelle valli dei fiumi Nilo, Tigri-Eufrate, I n d o e Fium e giallo n o n e b b e r o alcun tipo di r a p p o r t o . Alla fine, i contatti tra civiltà v e n n e r o a moltiplicarsi nel M e d i t e r r a n e o orientale, in Asia sudoccidentale e nell'India settentrionale. Tuttavia, le comunicazioni e i r a p p o r t i commerciali e r a n o ostacolati 23 Si veda, ad esempio, Bernard Lewis, Islam and the West, New York, Oxford University Press, 1993 (trad. it. L'Europa e l'Islam, Bari, Laterza, 1995); Toynbee, Study of History, cap. IX, «Contacts between Civilizations in Space (Encounters between Contemporaries)», Vili, p. 88 sgg.; Benjamin Nelson, «Civilizational Complexes and Intercivilizational Encounters», in «Sociological Analysis», n. 34 (Estate 1973), pp. 79-105. 24 S. N. Eisenstadt, «Cultural Traditions and Politicai Dynamics: T h e Origins and Modes of Ideological Politics», in «British Journal of Sociology», n. 32 (Giugno 1981), p. 157, e «The Axial Age: T h e Emergence of Transcendental Visions and the Rise of Clerics», in «Archives Europeennes d e Sociologie», 22, n. 1, 1982, p. 298. Si veda anche Benjamin I. Schwartz, «The A g e of Trans c e n d e n c e in Wisdom, Revolution, and Doubt: Perspectives o n the First Mill e n n i u m B.C.», in «Daedalus», n. 104 (Primavera 1975), p. 3. Il concetto di «Età assiale» è tratto da Karl Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zurich, Artemisverlag, 1949.

Figura 2.1 I^e civiltà dell'emisfero

orientale [Culture Neolitiche]

F o n t e : Carroll Q u i n g l e y , The Evolulion of Civilizations: An Introductìon Historical Analysis, I n d i a n a p o l i s , Liberty Press, 1979', p. 83.

to

dalle l u n g h e distanze c h e separavano le varie civiltà e dai limitati mezzi di trasporto disponibili p e r coprirle. S e b b e n e già esistesse u n certo livello di scambi commerciali via m a r e nel Med i t e r r a n e o e n e l l ' O c e a n o I n d i a n o , «fu il cavallo delle steppe, n o n il veliero transoceanico, il principale mezzo di trasporto grazie al quale le diverse civiltà del m o n d o , così c o m e questo appariva nel 1500 d.C., e r a n o collegate, p e r quel p o ' di contatti reciproci effettivamente esistenti». 2 " I d e e e tecnologie c o n f l u i r o n o da u n a civiltà all'altra, m a tale processo impiegò spesso dei secoli. La più i m p o r t a n t e propagazione culturale che n o n fosse f r u t t o di conquista f u forse la diffusione del b u d d i s m o in Cina, circa seicento anni d o p o la sua nascita nell'India settentrionale. La stampa f u inventata in 2 5 T o y n b e e , Civilization on Trial, p. 69. Cfr. William H. McNeil, The Rise ofthe West, pp. 295-98, c h e sottolinea la misura in cui all'epoca dell'avvento dell'era cristiana «rotte c o m m e r c i a l i organizzate, sia via terra c h e via mare, ... collegavano le quattro grandi culture del c o n t i n e n t e » .

Cina nell'viii secolo d.C., e i caratteri mobili nell'xi, m a tale tecnologia n o n raggiunse l ' E u r o p a p r i m a del 1500. La carta f u introdotta in Cina nel n secolo d.C., giunse in G i a p p o n e nel VII e si diffuse a ovest in Asia centrale nell'viii, in N o r d Africa nel x, in Spagna nel xn e in N o r d E u r o p a nel xm. Un'altra invenzione cinese, la polvere da sparo, risalente al ix secolo, si diffuse tra gli Arabi q u a l c h e centinaio di a n n i d o p o e raggiunse l ' E u r o p a nel xiv secolo. 2 " I contatti più significativi, e d r a m m a t i c i , tra civiltà si ebber o a l l o r c h é le p o p o l a z i o n i di u n a civiltà c o n q u i s t a r o n o ed elim i n a r o n o o s o g g i o g a r o n o quelle di u n ' a l t r a . Di n o r m a , questi contatti f u r o n o n o n solo violenti, m a a n c h e f u g a c i e int e r m i t t e n t i . A partire dal VII secolo d.C., contatti relativamente costanti e a tratti a n c h e intensi p r e s e r o tuttavia a svilupparsi tra Islam e O c c i d e n t e e tra Islam e India. Il grosso dei r a p p o r t i commerciali, culturali e militari si sviluppò tuttavia n e l l ' a m b i t o delle singole civiltà. Se da u n lato, ad e s e m p i o , I n d i a e Cina f u r o n o o c c a s i o n a l m e n t e invase e soggiogate da altri p o p o l i ( m o g h u l , m o n g o l i ) , dall'altro e n t r a m b e q u e s t e civiltà s p e r i m e n t a r o n o al p r o p r i o i n t e r n o l'esistenza, p e r lunghi p e r i o d i di t e m p o , di «stati guerrieri». In ugual m o d o , i greci c o m b a t t e r o n o e c o m m e r c i a r o n o tra loro m o l t o più di q u a n t o n o n a b b i a n o fatto c o n i persiani o con altri p o p o l i n o n greci. L'impatto: l'ascesa dell'Occidente. Il cristianesimo europeo iniziò a emergere come civiltà a sé stante nell'viii e ix secolo. Per diverse centinaia di anni, tuttavia, il suo livello di sviluppo segnò il passo rispetto a molte altre civiltà. La Cina sotto le dinastie T'ang, Sung e Ming, il m o n d o islamico dall'vm al xn secolo e Bisanzio dall'viii all'xi secolo superarono di gran lunga l'Europa per ricchezza, estensione geografica, potenza militare e livello artistico, lettera26 Braudel, Ori History, p. 14: «... l'influenza culturale giunse a piccole dosi, ritardata dalla lunghezza e lentezza del viaggio da intraprendere. Se d o b b i a m o credere agli storici, le m o d e cinesi dell'era T'ang [618-907] viaggiarono così lentamente che raggiunsero l'isola di Cipro e la sfavillante corte di Lusignano solo nel xv secolo. Da lì, si diffusero, al più rapido ritmo degli scambi commerciali nel Mediterraneo, all'eccentrica corte di Carlo vi, dove cappelli a pan di zucchero e scarpe appuntite divennero immesamente popolari, eredità di un m o n d o da t e m p o scomparso, così c o m e la luce di stelle già estinte continua a raggiungerci».

rio e scientifico. 2 ' Tra l'xi e il xm secolo la cultura europea iniziò a svilupparsi, agevolata dalla «zelante e sistematica appropriazione di elementi di valore dalle superiori civiltà dell'Islam e di Bisanzio, n o n c h é dal processo di adattamento di tale eredità ai particolari interessi e condizioni dell'Occidente». Nello stesso periodo, Ungheria, Polonia, Scandinavia e paesi baltici vennero convertite al cristianesimo occidentale, cui seguì l'introduzione del diritto r o m a n o e di altri aspetti della civiltà occidentale; così posto, il confine orientale della civiltà occidentale si sarebbe poi stabilizzato su tale linea senza subire ulteriori modifiche di rilievo. Nel corso del XII e xm secolo gli occidentali tentarono di espandere con le armi il proprio controllo in Spagna, riuscendo a imporre il proprio dominio sul Mediterraneo. Successivamente, tuttavia, l'ascesa della potenza turca portò al crollo del «primo impero d'oltremare dell'Europa occidentale». 2 " Ciò nonostante, nel 1500 il Rinascimento della cultura europea era già in pieno sviluppo e il pluralismo sociale, l'espansione del commercio e i progressi tecnologici gettarono le basi per u n a nuova epoca nei rapporti internazionali. Tali limitati o intermittenti incontri multidirezionali tra civiltà cedettero il passo alla prolungata, opprimente, unidirezionale influenza dell'Occidente su tutte le altre civiltà. La fine del xv secolo vide la definitiva riconquista della penisola iberica a spese dei Mori e l'inizio della penetrazione portoghese in Asia e di quella spagnola nelle Americhe. Nei successivi duecentocinq u a n t ' a n n i l'intero emisfero occidentale n o n c h é u n a significativa parte dell'Asia f u r o n o assoggettati al governo o al dominio europeo. La fine del xviii secolo vide una contrazione del controllo diretto europeo: d a p p r i m a gli Stati Uniti, Haiti poi e quindi la maggior parte dell'America latina si ribellarono al d o m i n i o e u r o p e o e conquistarono l'indipendenza. Nell'ultimo scorcio del xix secolo, tuttavia, il risorto imperialismo occidentale estese il proprio controllo su gran parte dell'Africa, rafforzò l'influenza dell'Occidente in India e in altre regioni asiatiche e all'inizio del xx secolo dominava direttamente o indirettamente l'intero Medio Oriente a eccezione della Turchia. L'Europa o le ex colonie e u r o p e e (nelle Americhe) controllavano il 35 p e r cento 27 Si veda Toynbee, Study o/History, voi. Vili, pp. 347-48. 28 McNeill, Rise o/the West, p. 547.'

dell'intera superficie terrestre nel 1800, il 67 per cento nel 1878 e l'84 p e r cento nel 1914. Nel 1920 tale percentuale era ancora maggiore in seguito alla spartizione dell'Impero o t t o m a n o tra Inghilterra, Francia e Italia. Nel 1800 l'Impero britannico contava 2,4 milioni di chilometri quadrati e 20 milioni di cittadini. Nel 1900 l'Impero vittoriano su cui n o n tramontava mai il sole comprendeva 26,4 milioni di chilometri quadrati e 390 milioni di sudditi. 29 Nel corso dell'espansione europea, le civiltà andina e centroamericana f u r o n o letteralmente spazzate via, quelle indiana e islamica soggiogate al pari dell'Africa, e anche la Cina venne subordinata all'influenza occidentale. Solo le civiltà russa, giapponese ed etiope, tutte e tre governate da autorità imperiali f o r t e m e n t e centralizzate, riuscirono a resistere ai furiosi attacchi dell'Occidente e a preservare un certo grado di indipendenza. Per quattrocento anni i rapporti tra le civiltà si ridussero in pratica alla subordinazione di altre società alla civiltà occidentale. Tra le cause di un così drammatico e straordinario sviluppo vi f u r o n o la struttura sociale e i rapporti di classe invalsi in Occidente, la nascita delle città e del commercio, la distribuzione del potere nelle società occidentali tra corona e parlamento e tra autorità laiche e religiose, il senso di coscienza nazionale emergente tra i popoli dell'Occidente e lo sviluppo delle burocrazie statali. L'origine immediata dell'espansione occidentale fu tuttavia di carattere tecnologico: l'invenzione di navi transoceaniche capaci di raggiungere popoli distanti e lo sviluppo delle capacità militari atte a conquistare tali popoli. «In larga parte», ha osservato Geoffrey Parker, «l'"ascesa dell'Occidente" è stata fondata sul ricorso alla forza, sul fatto che gli equilibri militari tra gli europei e i loro avversari d'oltreoceano sono stati costantemente a favore dei primi; ... la chiave del successo occidentale nella creazione tra il 1500 e il 1750 dei primi imperi realmente mondiali va ricercata precisamente in quei progressi nell'arte di fare guerra definiti "la rivoluzione militare"». L'espansione dell'Occidente fu altresì facilitata dalla superiore organizzazione, disciplina e addestramento dei loro eserciti e successivamente dal superiore livello di armamenti, mezzi di trasporto, organizzazione 29 D. K. Fieldhouse, Economies and Empire, 1830-1914, London, Macmillan, 1984, p. 3; F. J. C. Hearnshaw, Sea Power and Empire, London, George Harrap and Co, 1940, p. 179.

logistica e sanitaria derivante dalla propria leadership nella Rivoluzione industriale/" L'Occidente conquistò il m o n d o n o n grazie alla forza delle proprie idee, dei propri valori o della propria religione (ai quali ben pochi esponenti delle altre civiltà fur o n o convertiti), ma in virtù della superiore capacità di scatenare violenza organizzata. Gli occidentali dimenticano spesso tale circostanza; i n o n occidentali n o n la dimenticano mai. Nel 1910 il m o n d o era ormai u n ' e n t i t à politica ed economica coesa come mai prima nella storia dell'uomo. La percentuale del c o m m e r c i o internazionale sul p r o d o t t o mondiale lordo giunse a livelli inusitati e mai più uguagliati fino agli anni Settanta e Ottanta. La percentuale degli investimenti internazionali rispetto agli investimenti totali toccò u n livello superiore a quello di qualsiasi altra epoca." Civiltà era sinonimo di civiltà occidentale, e l'Occidente controllava o dominava la gran parte del m o n d o . Il diritto internazionale era il diritto internazionale occidentale, nella tradizione di Grozio. Il sistema internazionale era il sistema occidentale westfaliano di stati nazionali sovrani ma «civilizzati» e dei territori coloniali da essi controllati. La nascita di tale sistema internazionale modellato dall'Occidente r a p p r e s e n t ò il s e c o n d o g r a n d e evento della scena politica m o n d i a l e nei secoli successivi al 1500. Oltre al r a p p o r t o di d o m i n i o con le società n o n occidentali, i paesi occidentali interagivano r e c i p r o c a m e n t e su u n p i a n o di maggiore uguaglianza. Tali interazioni tra entità politiche a p p a r t e n e n t i a u n a stessa civiltà ricalcavano f e d e l m e n t e quelle invalse nell'ambito della civiltà cinese, indiana e greca: e r a n o cioè f o n d a t e su u n a o m o g e n e i t à culturale che abbracciava «la lingua, la religione, l'organizzazione giuridica e amministrativa, l'agricoltura, le 30 Geoffrey Parker, The Mililary Revolution: Mililary Innovation and the Rise of the West, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 4 (trad. it. La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990); Michael Howard, «The Military Factor in European Expansion» in Hedley Bull e Adam Watson (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Clarendon Press, 1984, p. 33 sgg. 31 A. G. Kenwood e A. L. Lougheed, The Growth of the International Economy 1820-1990, London, Routledge, 1992, pp. 78-9, Angus Maddison, DynamicForces in Capitolisi Development, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 326-7; Alan S. Blindcr, citato in «New York Times», 12 marzo 1995, p. 5E. Si veda anchc Simon Kuznets, «Quantitative Aspects of the Economie Growth of Nations - X. Level and Structure ofTorcigli Trade: Long-term Trends», in «Economie Development and Cultural Change», n. 15 (Gennaio 1967, parte II), pp. 2-10.

p r o p r i e t à terriere e forse a n c h e i legami di sangue». I popoli e u r o p e i «avevano u n a cultura c o m u n e e m a n t e n e v a n o stretti c o n t a t a attraverso un'attiva rete commerciale, u n m o v i m e n t o costante di p e r s o n e e u n fittissimo intreccio di famiglie regnanti». Inoltre, essi e r a n o in pratica c o s t a n t e m e n t e impegnati a farsi la g u e r r a : tra gli stati e u r o p e i la pace era l'eccezione, n o n la regola." S e b b e n e p e r gran p a r t e di questo p e r i o d o l'Imp e r o o t t o m a n o controllasse fino a u n q u a r t o di quella che venne spesso considerata Europa, esso n o n f u mai considerato u n m e m b r o del sistema internazionale e u r o p e o . Per 150 anni i rapporti politici all'interno della civiltà occidentale f u r o n o dominati dal g r a n d e scisma religioso e dalle g u e r r e religiose e dinastiche. Nel secolo e mezzo successivo alla Pace di Westfalia i conflitti del m o n d o occidentale f u r o n o in larga parte conflitti tra teste coronate: imperatori, m o n a r c h i assoluti e m o n a r c h i costituzionali intenti a espandere il p r o p r i o a p p a r a t o amministrativo, il p r o p r i o esercito, la p r o p r i a forza economica mercantilista e, cosa più importante, il territorio su cui regnavano. Nel corso di tale processo crearono degli stati nazionali, e a partire dalla Rivoluzione francese il più diffuso modello di contrapposizione conflittuale fu quello tra nazioni anziché tra sovrani. Nel 1793, c o m e ha osservato R. R. Palmer, «Le g u e r r e di sovrani e r a n o ormai finite, ed e r a n o cominciate le g u e r r e di popoli». 33 Tale modello, caratteristico del xix secolo, è d u r a t o fino alla Prima g u e r r a mondiale. Nel 1917, in conseguenza della Rivoluzione russa, ai conflitti tra gli stati nazionali si aggiunsero i conflitti di ideologie, dapprima tra fascismo, comunismo e democrazia liberale, quindi tra gli ultimi due. Negli anni della Guerra f r e d d a tali ideologie si incarn a r o n o nelle d u e superpotenze, ciascuna delle quali definì la propria identità attraverso la propria ideologia e nessuna delle quali era u n o stato nazionale nel senso della tradizione europea. L'ascesa al potere del marxismo dapprima in Russia e quindi in Cina e in Vietnam rappresentò u n a fase di transizione dal sistema

32 Charles Tilly, «Reflections o n the History of European State-making», in Tilly (a cura di), The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 18. 33 R. R. Palmer, «Frederick the Great, Guibert, Bulow: From Dynastic to National War», in Peter Paret (a cura di), Makers of Modem Strategy from Machiavelli to the NucUar Age, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 119.

e u r o p e o internazionale a un sistema post-europeo a più civiltà. Il marxismo è stato un prodotto della civiltà europea, ma in Europa non ha mai attecchito e non si è mai propagato, mentre invece fu importato in Russia, Cina e Vietnam da élite dirigenti rivoluzionarie e modernizzatrici. Lenin, Mao e H o Chi-minh lo adattarono ai propri fini e lo utilizzarono per sfidare il potere occidentale, mobilitare le rispettive popolazioni e affermare l'identità e l'autonomia nazionale dei propri paesi nei confronti dell'Occidente. Il crollo di tale ideologia in U n i o n e Sovietica e il suo sostanziale addomesticamento in Cina e Vietnam non significa necessariamente, tuttavia, che tali società importeranno l'altra ideologia occidentale, quella della democrazia liberale. Gli occidentali che lo pensano resteranno probabilmente sorpresi dalla creatività, tempra e autorevolezza delle culture n o n occidentali. Interazioni: un sistema a più civiltà. Nel xx secolo, i rapporti tra le varie civiltà sono d u n q u e passati da u n a fase caratterizzata dall'influenza unidirezionale di u n a civiltà su tutte le altre a u n a serie di interazioni variegate e multidirezionali tra tutte le civiltà, ed e n t r a m b e le caratteristiche di f o n d o della p r e c e d e n te era di r a p p o r t i tra civiltà h a n n o cominciato a scomparire. In primo luogo, per rifarci alle d u e espressioni preferite dagli storici, l'«espansione dell'Occidente» è terminata, ed è iniziata la «rivolta contro l'Occidente». Seppur in m o d o lento, con pause e inversioni di rotta, il potere dell'Occidente è diminuito in r a p p o r t o a quello di altre civiltà. La cartina del m o n d o del 1990 assomiglia ben poco a quella del 1920. Gli equilibri mondiali in materia di potere militare ed economico e di autorità politica son o mutati (e verranno esaminati in maggior dettaglio in un capitolo successivo). L'Occidente ha continuato a esercitare un'influenza significativa su altre società, ma i rapporti tra la civiltà occidentale e le altre civiltà sono stati sempre più caratterizzati dalle reazioni degli occidentali agli sviluppi occorsi in tali civiltà. Lungi dall'essere semplicemente oggetti passivi di u n a storia forgiata dall'Occidente, le società n o n occidentali stanno diventando in misura sempre maggiore, artefici e protagoniste tanto della propria storia q u a n t o di quella dell'Occidente. In secondo luogo, come risultato di tali sviluppi, il sistema internazionale si è espanso oltre i confini occidentali e ha inglobato in sé u n a pluralità di civiltà. Nel contempo, i conflitti tra gli

stati occidentali - che p e r secoli h a n n o caratterizzato quel tipo di sistema - sono giunti al termine. Alla fine del xx secolo la civiltà occidentale è ormai uscita dalla fase di sviluppo caratterizzata da un coacervo di «stati guerrieri» per passare alla costruzione di u n o «stato universale». Tale fase era ancora incompleta, con il r a g g r u p p a m e n t o degli stati nazionali occidentali in d u e stati semiuniversali, in Europa e in Nord America. Queste d u e entità, e le loro unità costitutive, sono tuttavia unite da u n a rete straordinariamente fitta di vincoli istituzionali formali e informali. Gli stati universali delle precedenti civiltà e r a n o imperi. Ma poiché l'espressione politica della civiltà occidentale è la democrazia, l'emergente stato universale della civiltà occidentale non è u n impero ma piuttosto u n complesso di federazioni, confederazioni e regimi e organizzazioni internazionali. Le grandi ideologie politiche del xx secolo c o m p r e n d o n o il liberalismo, il socialismo, l'anarchismo, il corporativismo, il marxismo, il c o m u n i s m o , la socialdemocrazia, il conservatorismo, il nazionalismo, il fascismo, la democrazia d'ispirazione cristiana. Tutte queste ideologie h a n n o u n e l e m e n t o in comune: sono prodotti della civiltà occidentale. Nessun'altra civiltà ha d a t o vita a u n ' i d e o l o g i a politica di rilievo. L'Occidente, dal canto suo, n o n ha mai p r o d o t t o u n a g r a n d e religione. Tra le maggiori religioni del m o n d o nessuna nasce in O c c i d e n t e e tutte, nella maggior parte dei casi, sono antecedenti a esso. Via via c h e il m o n d o esce dalla sua fase occidentale, le ideologie che h a n n o caratterizzato l'epoca più recente di queste civiltà t e n d o n o a declinare e il loro posto è preso dalle religioni e da altre espressioni culturali di identità e di a p p a r t e n e n z a . La separazione westfaliana tra religione e politica internazionale, u n p r o d o t t o idiosincratico della civiltà occidentale, si sta o r m a i avviando alla fine e la religione, c o m e osserva Edward Mortimer, «penetrerà p r o b a b i l m e n t e in misura sempre maggiore negli affari internazionali»." Lo scontro di ideologie sviluppatosi nell'ambito della civiltà occidentale sta lasciando il posto a u n o scontro di culture e di religioni tra civiltà diverse. La geografia politica m o n d i a l e è passata dall'unico m o n d o del 1920 ai tre m o n d i degli a n n i Sessanta agli oltre sei m o n d i degli anni Novanta. Parallelamente, gli imperi occidentali uni34 Edward Mortimer, «Christianity and Islam», in «International Affaire», n. 67 (Gennaio 1991), p. 7.

versali del 1920 si sono ridotti al b e n più circoscritto «Mondo libero» degli anni Sessanta ( c o m p r e n d e n t e molti stati n o n occidentali avversari del c o m u n i s m o ) , e q u i n d i all'ancor più ristretto «Occidente» degli anni Novanta. U n a trasformazione che tra il 1988 e il 1993 ha avuto quale riflesso semantico il parziale disuso del t e r m i n e stesso « M o n d o libero» e la diffusion e dell'espressione «Occidente» intesa nel senso di civiltà occidentale (si veda la tabella 2.1). U n passaggio riflesso altresì nei riferimenti, s e m p r e più f r e q u e n t i , all'Islam c o m e a u n f e n o m e n o politico-culturale, alla «Grande Cina», alla Russia e ai paesi attigui dell'ex impero, a l l ' U n i o n e e u r o p e a : tutti termini che rim a r c a n o le rispettive civiltà di a p p a r t e n e n z a . I rapporti tra le diverse civiltà sono in questa terza fase molto più f r e q u e n t i e intensi di q u a n t o lo siano stati nella prima, e molto più paritari e reciproci rispetto alla seconda. Inoltre, diversamente dall'epoca della G u e r r a f r e d d a , n o n esiste u n ' u n i c a p r o f o n d a linea di demarcazione ideologica, q u a n t o piuttosto svariate divisioni sia tra l ' O c c i d e n t e e le altre civiltà c h e all'interno delle n u m e r o s e civiltà n o n occidentali. Un sistema internazionale, ha sostenuto Hedley Bull, si crea « q u a n d o d u e o più stati sviluppano u n livello di contatti e u n a capacità di influenza sulle altrui decisioni tali da i n d u r r e ciaTabella 2.1 Utilizzo dei termini «Mondo libero» e «Occidente•

Numero di riferimenti 1988 1993

% di modifiche nei riferimenti

«New York Times» M o n d o libero Occidente

71 46

44 144

-38 +213

«Washington Post» M o n d o libero Occidente

112 36

67 87

-40 +142

Congresso Usa M o n d o libero Occidente

356 7

114 10

-68 +43

Fonte: I^exis/Nexis. Il numero delle citazioni si riferisce ad articoli o rapporti contenenti i termini sopraindicati. I riferimenti al termine «Occidente» sono stati ricontrollati per accertarsi che nei rispettivi ambiti contestuali esso indicasse effettivamente una civiltà o entità politica.

scuno di essi a comportarsi - a l m e n o in qualche misura - c o m e u n a sola entità». U n a società internazionale, tuttavia, esiste solo q u a n d o gli stati a p p a r t e n e n t i a u n sistema internazionale h a n n o «interessi c o m u n i e valori comuni», «si c o n s i d e r a n o vincolati da u n codice di regole comuni», «lavorano congiuntam e n t e alla creazione di istituzioni comuni», e possiedono «una cultura o u n a civiltà comune». 3 ' Al pari dei loro predecessori sumeri, greci, ellenici, cinesi, indiani e islamici, a n c h e il sistema internazionale e u r o p e o affermatosi dal XVIII al xix secolo f u u n a società internazionale. Nel xix e xx secolo il sistema internazionale e u r o p e o si espanse, fino a c o m p r e n d e r e società praticamente di tutte le civiltà esistenti. Alcune istituzioni e consuetudini e u r o p e e sono a n c h e state esportate in queste società, che tuttavia sono ancora prive di quella cultura c o m u n e c h e sta alla base della società internazionale e u r o p e a . Nel linguaggio tipico della teoria britannica delle relazioni internazionali, il m o n d o o d i e r n o è u n sistema internazionale b e n sviluppato, m a u n a società internazionale a n c o r a p r o f o n d a m e n t e primitiva. Ciascuna civiltà si considera il centro del m o n d o e descrive la propria storia come trama principale della storia u m a n a . Ciò è stato forse ancor più vero per l'Europa rispetto alle altre culture. Tali interpretazioni monocentriche, tuttavia, assumono sempre m i n o r e utilità e rilevanza in u n m o n d o costituito da più civiltà. Da tempo ormai gli studiosi delle civiltà h a n n o riconosciuto questo semplice truismo. Nel 1918 Spengler d e n u n c i ò la m i o p e visione della storia prevalente in Occidente, con la sua netta divisione in tre e p o c h e - antica, medievale, m o d e r n a - che h a n n o un significato solo per l'Occidente. E necessario, osservò Spengler, a b b a n d o n a r e un simile «approccio tolemaico alla storia» a favore di u n approccio copernicano, e sostituire «la vacua finzione di u n ' u n i c a storia lineare, con la realtà di u n a pluralità di 35 H e d l e y Bull, The Anarchica! Society, N e w York, Columbia University Press, 1977, pp. 9-13. Si veda a n c h e A d a m Watson, The Evolution of International Society, L o n d o n , Routledge, 1992; e Barry Buzan, «From International System to International Society: Structural Realism and R e g i m e T h e o r y M e e t the English School», in «International Organization», n. 4 7 (Estate 1993), pp. 327352, c h e distingue tra modelli «di civiltà» e modelli «funzionali» di società internazionale e c o n c l u d e c h e «le società internazionali basate su u n ' u n i c a civiltà h a n n o avuto u n ruolo d o m i n a n t e nella storia», e c h e « n o n risulta esistan o e s e m p i di società internazionali funzionali pure» (p. 336).

possenti culture». 36 Alcuni d e c e n n i dopo, Toynbee criticò il «provincialismo e l'impertinenza» dell'Occidente manifestatisi nella «egocentrica illusione» che il m o n d o ruotasse i n t o r n o ad esso, che esistesse un «Oriente inamovibile» e che il «progresso» fosse qualcosa di inevitabile. Al pari di Spengler respinse la teoria dello sviluppo unitario della storia, l'idea che esista «un unico fiume della civiltà, il nostro, e che tutti gli altri o sono suoi affluenti o vanno a spegnersi nelle sabbie del deserto»." Cinq u a n t a n n i d o p o Toynbee, anche Braudel sostenne la necessità di elaborare u n più ampio q u a d r o interpretativo per riuscire a c o m p r e n d e r e «i grandi conflitti culturali esistenti nel m o n d o e la molteplicità delle sue civiltà».38 Le illusioni e i pregiudizi denunciati da questi studiosi, tuttavia, sono ancora oggi, alla fine del xx secolo, ben vivi, e traggono nuova linfa vitale nella diffusa, provinciale convinzione che la civiltà e u r o p e a dell'Occidente sia la civiltà universale dell'intero globo.

36 Spengler, Decline of the West, vol. I, pp. 93-4. 37 Toynbee, Study of History, vol. I, p. 149 sgg., 154, 157 sgg. 38 Braudel, On History, p. xxxiii.

CAPITOLO TERZO

U n a civiltà universale? Modernizzazione e occidentalizzazione

Civiltà universale: significati E stato sostenuto che l ' e p o c a attuale stia assistendo alla nascita di quella che V. S. Naipaul h a definito u n a «civiltà universale». 1 Cosa si i n t e n d e con tale definizione? In generale, implica l'idea di u n processo di aggregazione culturale d e l l ' u m a n i t à e la s e m p r e più diffusa accettazione di valori, credenze, orientamenti, usi e istituzioni c o m u n i da p a r t e dei popoli di tutto il m o n d o . Più specificamente, tale concetto p u ò implicare alcune tesi p r o f o n d e m a n o n p e r t i n e n t i , altre p e r t i n e n t i m a n o n p r o f o n d e , altre ancora n o n p e r t i n e n t i e superficiali. Prima tesi: gli esseri u m a n i di pressoché tutte le civiltà condividono certi principi (ad esempio che l'omicidio sia u n crimine) e certe istituzioni (ad e s e m p i o u n qualche tipo di organizzazione familiare) di f o n d o . Quasi tutti i m e m b r i di quasi tutte le società condividono u n c o m u n e «senso morale», u n a moralità m i n i m a di f o n d o relativa ai concetti di b e n e e male. 2 Se p e r civiltà universale si i n t e n d e questo, tale concetto è qualcosa di p r o f o n d o e di e s t r e m a m e n t e i m p o r t a n t e , m a al cont e m p o n o n è n é nuovo n é p e r t i n e n t e . Il fatto che nel corso della storia l ' u o m o abbia condiviso alcuni valori e istituzioni f o n d a m e n t a l i p u ò forse spiegare alcune costanti del comportam e n t o u m a n o , m a n o n serve a spiegare o far luce sulla storia, 1. V. S. Naipaul, «Our Universal Civilization», T h e 1990 Wriston Lecture, T h e Manhattan Institute, in «New York Review of Books», 30 ottobre 1990, p. 20.

2 Si veda James Q. Wilson, The Maral Sense, New York, Free Press, 1993 (trad. it. Il senso morale, Milano, Edizioni di Comunità, 1995); Michael Walzer, Thick and Thìn: Moral Argumenl at Home and Abroad, Notre Dame, University of Notre D a m e Press, 1994, soprattutto i capp. 1 e 4; e per una breve disamina, Frances V. Harbour, «Basic Moral Values: A Shared Core», in «Ethics and International Affairs», n. 9, 1995, pp. 155-70.

c h e è fatta di m u t a m e n t i nel c o m p o r t a m e n t o u m a n o . Inoltre, se esiste u n a civiltà universale c o m u n e all'intera umanità, quale t e r m i n e a d o p e r e r e m o allora p e r identificare i maggiori ragg r u p p a m e n t i culturali della razza u m a n a ? L ' u m a n i t à è suddivisa in sottogruppi: tribù, nazioni ed entità culturali in generale. Solitamente, essi v e n g o n o definiti civiltà. Se il t e r m i n e civiltà viene ampliato e attribuito esclusivamente a tutto q u a n t o è com u n e all'umanità intera, allora o bisogna inventare u n nuovo t e r m i n e che caratterizzi i maggiori r a g g r u p p a m e n t i in cui è suddivisa l ' u m a n i t à tutta, o p p u r e d o b b i a m o ritenere c h e tali r a g g r u p p a m e n t i , ampi m a n o n c o m p r e n d e n t i l'intero g e n e r e u m a n o , t e n d a n o a scomparire. Vaclav Havel, ad esempio, h a sostenuto che «oggi viviamo in u n ' u n i c a civiltà globale», la quale, tuttavia, «non è altro che u n sottile strato di vernice» c h e «copre o n a s c o n d e l ' i m m e n s a varietà di culture, di popoli, di m o n d i religiosi, di tradizioni storiche e di secolari atteggiam e n t i brulicanti "al di sotto" di esso»/ 1 E tuttavia, se restringiam o l'uso del t e r m i n e «civiltà» al solo livello globale e designam o c o m e «culture» o «sottociviltà» tutte le maggiori entità culturali storicamente s e m p r e definite civiltà, o t t e r r e m o soltanto u n a gran c o n f u s i o n e semantica. 4 S e c o n d a tesi: il t e r m i n e «civiltà universale» p u ò essere impiegato p e r indicare ciò c h e le società civili h a n n o in c o m u n e , ad e s e m p i o le città e la letteratura, e c h e le distingue dalle società primitive e dai barbari. E questo, e v i d e n t e m e n t e , il significato «al singolare» attribuito al t e r m i n e nel xvin secolo, e in tal senso u n a cultura universale sta effettivamente e m e r g e n d o , con o r r o r e dei vari a n t r o p o l o g i e di q u a n t ' a l t r i guard a n o con s g o m e n t o alla scomparsa dei popoli primitivi. La civiltà intesa in questo senso si sta g r a d u a l m e n t e e s p a n d e n d o 3 Vaclav Havel, «Civilization's Thin Veneer», in «Harvard Magazine», n. 97 (Luglio-Agosto 1995), p. 32. 4 Hayward Alker ha acutamente osservato c o m e nel mio articolo su «Foreign Affairs» il sottoscritto «rifiutasse per definizione» l'idea di una civiltà universale d e f i n e n d o la civiltà c o m e «il più ampio raggruppamento culturale di esseri umani ed il livello più alto di identità culturale da essi posseduto d o p o quello che distingue gli umani dalle altre specie». Questo è, naturalmente, il m o d o in cui il termine è stato impiegato dalla gran parte degli studiosi della civiltà. In questo capitolo, tuttavia, ammorbidisco tale definizione, conced e n d o la possibilità che popoli di tutto il m o n d o si identifichino con una distinta cultura globale che accompagna o soppianta le civiltà nel senso occidentale, islamico o sinico del termine.

nel corso della storia u m a n a , e il diffondersi della civiltà al singolare è stato del tutto compatibile con l'esistenza di molte civiltà al plurale. Terza tesi: il t e r m i n e «civiltà universale» p o t r e b b e riferirsi a idee, valori e dottrine oggigiorno condivise da molti popoli della civiltà occidentale e da alcuni popoli di altre civiltà. Potremm o definire questa ipotesi «Cultura di Davos». Ogni a n n o , u n migliaio circa di imprenditori, banchieri, funzionari di governo, intellettuali e giornalisti provenienti da svariati paesi si riuniscono a Davos, in Svizzera, p e r partecipare al F o r u m mondiale sull'economia. Quasi tutti i partecipanti sono laureati in scienze fisiche, scienze sociali, e c o n o m i a o giurisprudenza, lav o r a n o con le parole e / o con i n u m e r i , p a r l a n o ragionevolm e n t e b e n e inglese, sono stati assunti da governi, aziende e istituti accademici p e r attività di respiro internazionale e si recano di f r e q u e n t e all'estero. Tutti condividono in linea di massima gli ideali dell'individualismo, d e l l ' e c o n o m i a di m e r c a t o e della democrazia politica, valori c o m u n i , questi, ai popoli della civiltà occidentale. I delegati presenti a Davos controllano praticamente tutti gli organismi internazionali, moltissimi governi nazionali e il grosso del potenziale e c o n o m i c o e militare del pianeta. La Cultura di Davos ha, quindi, u n ' i m p o r t a n z a straordinaria. A livello mondiale, tuttavia, q u a n t e sono le p e r s o n e che la condividono? Al di f u o r i dell'Occidente, si tratta probabilmente di m e n o di 50 milioni, ossia l'I p e r cento della popolazione mondiale, o forse addirittura u n decimo dell'I p e r cento della popolazione mondiale. Essa è b e n lungi dall'essere u n a cultura universale; oltretutto, n o n necessariamente q u a n t i la condividono d e t e n g o n o u n saldo p o t e r e nelle rispettive società di provenienza. Questa «cultura intellettuale c o m u n e » , ha osservato Hedley Bull, «esiste solo al livello di élite; in molte società le sue radici sono o l t r e m o d o fragili ... [ed] è d u b b i o c h e finanche al livello diplomatico essa abbracci quella c h e veniva definita u n a cultura morale c o m u n e o u n insieme di valori com u n i , intesi c o m e qualcosa di distinto da u n a cultura intellettuale c o m u n e » . ' Q u a r t a tesi: p r e n d e c o r p o l'idea che il diffondersi in tutto il 5 Hedley Bull, The Anarchical Society: A Study Order in World Politici, New York, Columbia University Press, 1977, p. 317.

m o n d o del m o d e l l o consumistico e della cultura p o p o l a r e occidentali stia d a n d o vita a u n a civiltà universale. Q u e s t a tesi n o n è n é p r o f o n d a n é p e r t i n e n t e . Nel corso della storia è sempre accaduto c h e le m o d e culturali fossero trasmesse da civiltà a civiltà. Le innovazioni i n t r o d o t t e in u n a civiltà v e n g o n o regol a r m e n t e assorbite da altre civiltà, m a si tratta o di f e n o m e n i tecnici privi di conseguenze culturali significative, o di m o d e che v a n n o e v e n g o n o senza alterare la cultura di f o n d o della civiltà c h e le recepisce. Tali importazioni «fanno presa» nella civiltà di destinazione o p e r c h é esotiche e affascinanti o p e r c h é v e n g o n o imposte. Nei secoli passati il m o n d o occidentale è stato p e r i o d i c a m e n t e pervaso da folate di entusiasmo p e r svariati aspetti della cultura cinese o i n d ù . Nel xix secolo, le importazioni culturali d a l l ' O c c i d e n t e d i v e n n e r o popolari in Cina e India p e r c h é sembravano in q u a l c h e m o d o riflettere la potenza occidentale. La tesi oggigiorno invalsa secondo cui la diffusione a livello m o n d a l e della cultura p o p e dei beni di c o n s u m o rappresenti il trionfo della civiltà occidentale svilisce la cultura occidentale. L'essenza della civiltà occidentale è la M a g n a Carta, n o n il «Big Mac». 6 Il fatto c h e i n o n occidentali possano divorare il s e c o n d o n o n ha alcuna attinenza con la loro accettazione della prima. Così c o m e n o n ha alcuna attinenza con i loro atteggiamenti nei c o n f r o n t i d e l l ' O c c i d e n t e . In q u a l c h e parte del Medio O r i e n t e p o t r e b b e benissimo esserci u n g r u p p e t t o di ragazzi che indossa jeans, beve Coca-Cola, ascolta musica r a p e tra u n a genuflessione e l'altra alla Mecca mette u n a b o m b a su u n aereo di linea statunitense. Negli a n n i Settanta e O t t a n t a del Novecento gli americani h a n n o c o m p r a t o milioni di automobili, televisori, videocamere e apparecchi elettronici giapponesi senza p e r questo essersi «giapponesizzati» e sviluppando anzi nel c o n t e m p o u n atteggiamento s e m p r e più antagonistico nei conf r o n t i del G i a p p o n e . Solo u n ' i n g e n u a arroganza p u ò i n d u r r e gli occidentali a c r e d e r e che i n o n occidentali v e r r a n n o «occidentalizzati» s e m p l i c e m e n t e a c q u i s t a n d o merci occidentali. C h e i m m a g i n e dà l ' O c c i d e n t e di se stesso se gli occidentali identificano la loro civiltà con bibite gasate, pantaloni alla moda e cibi ipercalorici? 6 U n prodotto della catena alimentare americana McDonald's (n.d.t.).

U n a versione l e g g e r m e n t e più sofisticata della tesi sulla cultura p o p o l a r e universale è incentrata n o n sui beni di c o n s u m o in generale, m a sui mezzi di comunicazione, su Hollywood anziché sulla Coca-Cola. Il controllo dell'America sull'industria m o n d i a l e cinematografica, televisiva e delle videocassette è sup e r i o r e persino al d o m i n i o da essa esercitato nel c a m p o dell'industria aeronautica. Dei c e n t o film più visti in tutto il mond o nel 1993, ottantotto e r a n o americani, m e n t r e d u e organizzazioni americane e d u e e u r o p e e d o m i n a n o la raccolta e diffusione delle notizie su base mondiale. 7 Tale situazione riflette d u e f e n o m e n i . Il p r i m o è l'universalità dell'interesse u m a n o p e r l ' a m o r e , il sesso, la violenza, il mistero, l'eroismo e la ricchezza, n o n c h é l'abilità delle grandi società, p r i n c i p a l m e n t e americane, di trarre vantaggio da esso. Scarsa o nulla è tuttavia l'evidenza a sostegno della tesi s e c o n d o cui l ' e m e r g e r e di u n sistema di comunicazioni globale stia p r o d u c e n d o u n a convergenza significativa di valori e atteggiamenti. «Spettacolo», h a osservato Michael Vlahos, «non significa conversione culturale». Il s e c o n d o f e n o m e n o è questo: l ' u o m o i n t e r p r e t a il flusso di comunicazioni attraverso l'ottica dei p r o p r i valori e p u n t i di vista soggettivi. «Le stesse immagini trasmesse c o n t e m p o r a n e a m e n t e nelle case di tutto il m o n d o » , osserva Kishore Mahbubani, «scatenano reazioni opposte. Nelle case occidentali si app l a u d e q u a n d o i missili Cruise colpiscono Baghdad. La gran parte degli spettatori n o n occidentali, invece, nota c o m e l'Occidente reagisca p r o n t a m e n t e alle iniziative di paesi n o n di razza bianca c o m e l'Iraq e la Somalia, m a n o n a quelle di popoli bianchi, c o m e i serbi; u n segnale, questo, pericoloso da qualsiasi p u n t o di vista»." La c o m u n i c a z i o n e globale è u n a delle più i m p o r t a n t i manifestazioni c o n t e m p o r a n e e della p o t e n z a occidentale. Tale egem o n i a , tuttavia, incoraggia gli e s p o n e n t i politici populisti delle 7 J o h n Rockwell, «The New Colossus: American Culture as Power Export», e A A . W . , «Channel-Surfing T h r o u g h U.S. Culture in 20 Lands», in «New York Times», 30 g e n n a i o 1994, sez. 2, p. 1 sgg; David RiefF, «A Global Culture», in «World PolicyJournal», n. 10 (Inverno 1 9 9 S 4 ) , pp. 73-81. 8 Michael Vlahos, «Culture and Foreign Policy», in «Foreign Policy», n. 82 (Primavera 1991), p. 69; Kishore Mahbubani, «The Dangers of Decadence: Wliat the Rest Can Teach the West», in «Foreign AfFairs», n. 72 (SettembreOttobre 1993), p. 12.

società n o n occidentali a d e n u n c i a r e l'imperialismo culturale occidentale e a incitare l ' o p i n i o n e pubblica i n t e r n a a salvag u a r d a r e la sopravvivenza e l'integrità della p r o p r i a cultura autoctona. Il d o m i n i o pressoché totale d e l l ' O c c i d e n t e sui mezzi di c o m u n i c a z i o n e m o n d i a l i costituisce d u n q u e u n a g r a n d e f o n t e di r i s e n t i m e n t o e ostilità dei popoli n o n occidentali nei c o n f r o n t i dell'Occidente. Inoltre, nei primi a n n i Novanta la modernizzazione e lo sviluppo e c o n o m i c o avviati nelle società n o n occidentali stavano p o r t a n d o alla nascita di industrie di comunicazioni a carattere regionale e locale che facevano leva sui particolari gusti di tali società. 9 Nel 1994, ad esempio, la CNN I n t e r n a t i o n a l calcolò di avere u n ' a u d i e n c e potenziale di 55 milioni di spettatori, pari all'I p e r cento circa della popolazione m o n d i a l e (una p e r c e n t u a l e c u r i o s a m e n t e equivalente in termini n u m e r i c i e in gran p a r t e senza d u b b i o c o r r i s p o n d e n t e in t e r m i n i culturali agli e s p o n e n t i della Cultura di Davos), e il suo p r e s i d e n t e a f f e r m ò c h e le sue trasmissioni in lingua inglese avrebbero p o t u t o r a g g i u n g e r e in f u t u r o dal 2 al 4 p e r c e n t o del mercato. Per cui sarebbero n a t e reti televisive regionali (vale a dire i n c e n t r a t e su u n a specifica civiltà) c h e avrebbero trasmesso in spagnolo, giapponese, arabo, francese (per l'Africa occidentale) e in altre lingue. La «Redazione globale», h a n n o concluso tre studiosi, «si trova a n c o r a davanti a u n a T o r r e di Babele». 10 Ronald D o r e h a dimostrato con g r a n d e incisività com e stia n a s c e n d o u n a cultura intellettuale universale tra diplomatici e f u n z i o n a r i governativi. Anch'egli, tuttavia, g i u n g e a u n a comprovata conclusione in m e r i t o alle influenze esercitate da u n sistema di comunicazioni a n c o r più intensificato: «A parità di tutte le altre condizioni [il corsivo è suo], u n flusso di comunicazioni s e m p r e più intenso dovrebbe p r o d u r r e u n a maggiore c o m u n a n z a di sentimenti tra le nazioni, o q u a n t o m e n o tra le classi medie, o nella peggiore delle ipotesi tra i diplomatici di tutto il m o n d o » ; ma, aggiunge, «alcune tra le possibili 9 Aaron L. Friedberg, «The Future of American Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 109 (Primavera 1994), p. 15. 10 Richard Parker, «The Mith of Global News», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Inverno 1994), pp. 41-44; Michael Gurevitch, Mark R. Levy e Itzhak Roeh, «The Global Newsroom: convergences and diversities in the globalization of television news», in Peter Dahlgren e Colin Sparks (a cura di), Communication and Citizenship: Journalism and the Public Sphere in the New Media, London, Routledge, 1991, p. 215.

condizioni di disparità p o t r e b b e r o avere u n a grandissima rilevanza»." Lingua. Gli elementi basilari di u n a qualsiasi cultura o civiltà sono la lingua e la religione. Se stesse e m e r g e n d o u n a civiltà universale, dovrebbe essere in atto u n a tendenza alla nascita di u n a lingua universale e di u n a religione universale. U n a tesi in tal senso viene spesso avanzata in relazione alla lingua. «La lingua universale è l'inglese», c o m e h a osservato il direttore del «Wall Street Journal». 1 " Ciò p u ò significare d u e cose, di cui solo u n a sosterrebbe la tesi di u n a civiltà universale. La p r i m a è che u n a p a r t e sempre più a m p i a della popolazione m o n d i a l e parla inglese. N o n esiste tuttavia alcuna prova a sostegno di tale tesi, m e n t r e gli indizi più consistenti di cui disponiamo, e c h e c o m u n q u e n o n possono essere molto precisi, d i m o s t r a n o esattamente il contrario. I dati disponibili, che c o p r o n o oltre u n t r e n t e n n i o (1958-1992), i n d i c a n o che la t e n d e n z a mondiale in materia di diffusione delle lingue n o n ha subito modifiche sostanziali; che la p e r c e n t u a l e di p e r s o n e che p a r l a n o inglese, francese, tedesco, russo e giapponese ha registrato u n a significativa riduzione; che u n declino s e p p u r di m i n o r e entità si è verificato nel n u m e r o di p e r s o n e che parlano m a n d a r i n o ; e che è invece a u m e n t a t a la p e r c e n t u a l e di p e r s o n e c h e p a r l a n o hindi, malese-indonesiano, arabo, bengalese, spagnolo, portoghese e altre lingue. La p e r c e n t u a l e di p e r s o n e che in tutto il m o n d o p a r l a n o inglese è scesa dal 9,8 p e r cento di tutti coloro c h e nel 1958 conoscevano lingue parlate da a l m e n o u n milione di persone, al 7,6 p e r c e n t o nel 1992 (Tabella 3.1). La proporzione della popolazione m o n d i a l e che parla le cinque principali lingue occidentali (inglese, francese, tedesco, p o r t o g h e s e , spagnolo) è scesa dal 24,1 p e r cento del 1958 al 20,8 p e r c e n t o del 1992. Nel 1992 il n u m e r o di p e r s o n e che parlavano mand a r i n o costituiva il 15,2 p e r c e n t o della popolazione mondiale, il d o p p i o di quelli che p a r l a n o inglese, e u n altro 3,6 p e r c e n t o parlava altri tipi di cinese (Tabella 3.2).

11 Ronald Dore, «Unity and Diversity in World Culture», in Hedley Bull e Adam Watson (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 423. 12 Robert L. Bartley, «The Case for Optimism - T h e West Should Believe in Itself», in «Foreign Affairs», n. 72 (Settembre-Ottobre 1993), p. 16.

Tabella 3.1 Percentuale della popolazione mondiale che pratica le principali

lingue*

Lingua

1958

1970

1980

1992

Arabo Bengalese Inglese Hindi Mandarino Russo Spagnolo

2,7 2,7 9,8 5,2 15,6 5,5 5,0

2,9 2,9 9,1 5,3 16,6 5,6 5,2

3,3 3,2 8,7 5,3 15,8 6,0 5,5

3,5 3,2 7,6 6,4 15,2 4,9 6,1

* Numero totale di persone che c o n o s c o n o lingue parlate da 1 milione o più di persone. Fonte: percentuali calcolate sulla base dei dati compilati dal Professor Sidney S. Culbert, dipartimento di Psicologia della University of Washington, Seattle, sul numero di persone che conoscono lingue parlate da un milione o più di persone e riportate annualmente nel World Almanac and Book ofFacts. Le sue stime c o m p r e n d o n o soggetti sia «madrelingua» che «non madrelingua» e derivano da censimenti nazionali, indagini su campioni di popolazione, analisi di trasmissioni radiofoniche e televisive, dati sullo sviluppo demografico ed altre fonti. Tabella 3.2 Numero e percentuale della popolazione pali lingue cinesi e occidentali

Lingua

1958 N. praticanti % (in milioni) del m o n d o

Mandarino Cantonese Wu Min Hakka Lingue cinesi Inglese Spagnolo Portoghese Tedesco Francese Lingue occidentali Totale del mondo

mondiale che pratica le princi-

1992 N. praticanti % (in milioni) del m o n d o

444 43 39 36 19

15,6 1,5 1,4 1,3 0,7

907 65 64 50 33

15,2 1,1 1,1 0,8 0,6

581

20,5

1119

18,8

278 142 74 120 70

9,8 5,0 2,6 4,2 2,5

456 362 177 119 123

7,6 6,1 3,0 2,0 2,1

684

24,1

1237

20,8

2845

44,5

5979

39,4

Fonte: percentuali calcolate dai dati sulle lingue compilati dal Professor Sidney S. Culbert, dipardmento di psicologia della University of Washington, Seatde, e riportati in World Almanac and Book ofFacts degli anni 1959 e 1993

Da u n lato, u n a lingua sconosciuta al 92 p e r c e n t o della popolazione mondiale n o n p u ò essere considerata la lingua universale. Dall'altro tuttavia possiamo definirla tale se si tratta dello s t r u m e n t o che popoli di diversa lingua e cultura utilizzano p e r c o m u n i c a r e , se è la lingua f r a n c a del m o n d o o, in termini linguistici, la principale «lingua di comunicazione generale» (Language of Wider C o m m u n i c a t i o n , o LWC). 13 Chi deve com u n i c a r e con gli altri h a bisogno di u n mezzo p e r farlo. Si p u ò r i c o r r e r e a i n t e r p r e t i e traduttori professionisti c h e p a r l a n o c o r r e n t e m e n t e d u e o più lingue, m a si tratta di u n sistema antiquato, lento e costoso. Ecco p e r c h é nel corso della storia abb i a m o s e m p r e assistito a l l ' e m e r g e r e di lingue f r a n c h e . Il latino nel m o n d o classico e medievale, il francese per svariati secoli in Occidente, lo swahili in molte regioni dell'Africa e l'inglese in gran p a r t e del m o n d o nella seconda metà del xx secolo. Diplomatici, imprenditori, scienziati, turisti e relative agenzie di supp o r t o , piloti di aerei e controllori di volo necessitano di u n mezzo p e r c o m u n i c a r e efficacemente gli uni con gli altri, e oggi questo mezzo è in larga p a r t e l'inglese. Da questo p u n t o di vista, l'inglese è il principale mezzo di comunicazione interculturale del pianeta, così come il calendario cristiano è il mezzo impiegato in tutto il m o n d o p e r calcolare il tempo, i n u m e r i arabi sono il sistema mondiale di conteggio e il sistema metrico è il criterio di misurazione invalso in grandissima parte del pianeta. L'utilizzo dell'inglese per tali fini, tuttavia, è u n mezzo di comunicazione interculturale, e in q u a n t o tale pres u p p o n e l'esistenza di culture diverse. U n a lingua franca è u n m o d o di superare le differenze linguistiche e culturali, n o n di eliminarle. E u n o s t r u m e n t o di comunicazione, n o n u n a f o n t e di identità e comunanza. Il fatto che u n banchiere giapponese e u n i m p r e n d i t o r e i n d o n e s i a n o c o m u n i c h i n o in inglese n o n significa, infatti, che u n o q u a l u n q u e dei d u e si sia anglicizzato od occidentalizzato. Lo stesso discorso vale per u n o svizzero di lingua tedesca e u n o di lingua francese, i quali possono comunicare i n d i f f e r e n t e m e n t e tra loro in inglese o p p u r e in u n a delle 13 Si v e d a j o s h u a A. Fishman, «The Spread of English as a New Perpsective for the Study of Language Maintenance and Language Shift», in Joshua A. Fishman, Robert L. Cooper e Andrew W. Conrad, The Spread of English: The Sociologa of English as an Addilional Language, Rowley, MA, Newbury House, 1977, p. 108 sgg.

rispettive lingue nazionali. Allo stesso m o d o , il m a n t e n i m e n t o dell'inglese c o m e seconda lingua nazionale in India, nonostante i p r o g r a m m i di N e h r u in senso opposto, testimoniano l'intenso desiderio della popolazione indiana n o n di lingua hindi di preservare la propria lingua e cultura e la necessità p e r l'India di restare u n a società multilinguistica. C o m e h a osservato l ' e m i n e n t e linguista J o s h u a Fishman, è più facile accettare u n a lingua c o m e lingua franca se essa n o n è identificata con u n particolare g r u p p o etnico, religione o ideologia. In passato, l'inglese ha avuto molte di queste caratterizzazioni, m e n t r e in seguito è stato «de-etnicizzato (del tutto o in grandissima parte)», così c o m e in passato è avvenuto con l'accadico, l'aramaico, il greco e il latino. «Fa parte del relativo successo dell'inglese c o m e lingua secondaria il fatto che all'incirca nell'ultimo quarto di secolo i suoi padri - sia inglesi che americani - n o n siano stati omologati a u n preciso contesto etnico o ideologico» [il corsivo è dell'autore]. 1 1 L'uso dell'inglese p e r le comunicazioni interculturali aiuta in tal m o d o a preservare e anzi a rafforzare le peculiari identità culturali dei popoli. Proprio p e r c h é d e s i d e r a n o preservare la propria identità culturale, utilizzano l'inglese p e r c o m u n i c a r e con p e r s o n e di altre culture. Le p e r s o n e che p a r l a n o inglese ai q u a t t r o angoli del m o n d o finiscono altresì sempre più col parlare diversi tipi di inglese. La lingua inglese viene assorbita e arricchita di colorazioni locali che la t r a s f o r m a n o in u n a pletora di idiomi locali nettam e n t e distinti dall'inglese britannico o a m e r i c a n o e c h e in casi estremi risultano pressoché incomprensibili tra loro, così com e avviene con i molti idiomi cinesi. L'inglese nigeriano, l'inglese i n d i a n o e altri tipi di inglese v e n g o n o incorporati nelle rispettive culture locali e c o n t i n u e r a n n o p r e s u m i b i l m e n t e a differenziarsi fino a diventare lingue affini m a distinte, così c o m e le lingue r o m a n z e sono e m a n a z i o n i dal latino. A differenza dell'italiano, del francese e dello spagnolo, tuttavia, queste lingue derivate dall'inglese s a r a n n o parlate soltanto da u n a piccola p a r t e delle rispettive società o p p u r e v e r r a n n o utilizzate p r i n c i p a l m e n t e p e r fini comunicativi tra particolari g r u p p i linguistici. 14 Fishman, «Sprcad of English as New Pcrspcctive», pp. 118-19.

U n esempio di tutti questi processi in atto ci viene o f f e r t o dall'India. Nel 1983 in India c ' e r a n o 18 milioni di p e r s o n e c h e parlavano inglese su u n a popolazione complessiva di 733 milioni; nel 1991 si era passati a 20 milioni su 867. La percentuale di coloro che c o n o s c o n o l'inglese rispetto alla popolazione totale è quindi rimasta relativamente stabile tra il 2 e il 4 p e r cento. 1 ' Al di là di un'élite relativamente esigua, l'inglese n o n serve n e a n c h e come lingua franca. «La verità p u r a e semplice», sostengono d u e professori di inglese dell'Università di Nuova Delhi, «è c h e q u a n d o dal Kashmir si scende alla p u n t a meridionale del Kanyakumari, il mezzo di comunicazione migliore è u n a varietà di hindi anziché l'inglese». Inoltre, l'inglese ind i a n o va s e m p r e più acquisendo p r o p r i e caratteristiche peculiari, si sta «indianizzando», o piuttosto sarebbe meglio dire che va s e m p r e più «indigenizzandosi» via via che a u m e n t a n o le diff e r e n z e nell'inglese parlato dai popoli delle più svariate lingue." 1 L'inglese viene s e m p r e più assorbito nella cultura indiana, così c o m e in e p o c h e p r e c e d e n t i è accaduto al sanscrito o al persiano. Nel corso della storia, la diffusione delle lingue nel m o n d o ha s e m p r e ricalcato la diffusione del potere. Le lingue più diffuse - inglese, m a n d a r i n o , spagnolo, francese, arabo, russo sono o sono state le lingue di stati imperiali che ne p r o m o s s e r o attivamente l'adozione da p a r t e di altri popoli. U n m u t a m e n t o nella d i f f u s i o n e del p o t e r e p r o d u c e u n analogo m u t a m e n t o nell'utilizzo delle lingue. «Due secoli di d o m i n i o coloniale, commerciale, industriale, scientifico e tributario da p a r t e di inglesi e americani h a n n o lasciato in tutto il m o n d o u n a forte imp r o n t a nel c a m p o dell'istruzione superiore, dell'arte di governo, del c o m m e r c i o e della tecnologia». 1 ' Francia e Inghilterra h a n n o s e m p r e insistito affinché nelle rispettive colonie si par15 Randolf Quirk, in Braj B. Kachru, The Indianization of English, Delhi, Oxford, 1983, p. ii; R. S. Gupta e Kapil Kapoor (a cura di), English and India Issues and Problems, Delhi, Academic Foundation, 1991, p. 21. Cfr. Sarvepalli Gopal, «The English Language in India», in «Encounter», n. 73 (LuglioAgosto 1989), p. 16, il quale calcola che 35 milioni di indiani «parlano e scrivono un qualche tipo di inglese». World Bank, World Development Report 1985, 1991, New York, Oxford University Press, tabella 1. 16 Kapoor e Gupta, «Introduction», in Gupta e Kapoor (a cura di), English in India, p. 21; Gopal, «English Language», p. 16. 17 Fishman, «Spread of English as New Perspective», p. 115.

lasse la loro lingua. D o p o l ' i n d i p e n d e n z a , tuttavia, gran p a r t e delle colonie ha tentato in diversa misura e con diverso successo di sostituire la lingua imperiale con quella a u t o c t o n a . Ai tempi del massimo s p l e n d o r e d e l l ' U n i o n e Sovietica, il russo era la lingua f r a n c a da Praga a H a n o i . Al declino della p o t e n z a russa si è a c c o m p a g n a t o u n parallelo declino nell'uso del russo c o m e seconda lingua. C o m e accade con altre f o r m e di cultura, un accresciuto p o t e r e g e n e r a al c o n t e m p o u n atteggiamento linguistico più assertivo in chi lo d e t i e n e e una maggiore propensione in tutti gli altri a i m p a r a r e quella lingua. Nei concitati giorni che seguirono la caduta del m u r o di Berlino, q u a n d o sembrava c h e la G e r m a n i a unificata dovesse essere il nuovoBehemot, tra i delegati tedeschi ai vari incontri internazionali (e che conoscevano l'inglese) si verificò u n a notevole t e n d e n z a a esprimersi in tedesco. L'ascesa della potenza e c o n o m i c a del G i a p p o n e ha stimolato lo studio del giapponese, e lo sviluppo e c o n o m i c o della Cina sta p r o d u c e n d o u n parallelo exploit della lingua cinese. Quest'ultima sta r a p i d a m e n t e s o p p i a n t a n d o l'inglese c o m e lingua principale di H o n g Kong,1* e alla luce del r u o l o svolto dalle varie c o m u n i t à cinesi in Asia sudorientale è diventata la lingua nella quale viene conclusa la gran p a r t e degli affari internazionali in quell'area. Via via che il p o t e r e dell'Occidente si riduce rispetto a quello di altre civiltà, l'uso dell'inglese e di altre lingue occidentali all'interno di altre società e c o m e mezzo di comunicazione tra nazioni verrà anch'esso l e n t a m e n t e a scemare. Se in u n f u t u r o r e m o t o la Cina soppianterà l'Occidente c o m e civiltà d o m i n a n t e del pianeta, l'inglese cederà al m a n d a r i n o la p a l m a di lingua franca m o n d i a l e . Via via che le ex colonie reclamavano e conquistavano l'ind i p e n d e n z a , la p r o m o z i o n e o l'impiego delle lingue a u t o c t o n e e l'abolizione della lingua imperiale f u p e r le élite nazionaliste un m o d o di distinguersi dall'Occidente colonialista e definire la propria identità. In seguito all'indipendenza, tuttavia, tali élite avvertirono l'esigenza di distinguersi dal resto della popolazione locale. La b u o n a conoscenza dell'inglese, del francese o di u n ' a l t r a lingua occidentale offrì loro tale segno di distinzione. Di conseguenza, accade spesso che le élite delle società n o n occidentali riescano a c o m u n i c a r e meglio con gli occidentali o 18 Si veda «Newsweek», 19 luglio 1993, p. 22.

tra di loro che n o n con i c o m u n i cittadini dei loro stessi paesi (una situazione simile a quella verificatasi in O c c i d e n t e nel xvii e xviii secolo, q u a n d o gli aristocratici di paesi diversi comunicavano agevolmente tra loro in francese ma n o n conoscevano l'idioma del loro stesso paese). Nelle società n o n occidentali s e m b r a n o essere oggi in atto d u e t e n d e n z e opposte. Da u n lato, l'inglese è sempre più utilizzato al livello universitario p e r p r e p a r a r e a d e g u a t a m e n t e i laureati a scendere in lizza nella competizione mondiale p e r la conquista di capitali e clienti. Dall'altro, le pressioni sociali e politiche spingono sempre più a u n utilizzo generalizzato delle lingue autoctone, cosicché l'arabo sostituisce il francese in N o r d Africa, l ' u r d u s u b e n t r a all'inglese c o m e lingua di governo e delle classi colte in Pakistan, m e n t r e in India i mezzi di comunicazione nell'idioma locale sostituiscono quelli in lingua inglese. U n tale sviluppo f u previsto già nel 1948 dalla Commissione indiana p e r l'istruzione pubblica, allorché sostenne che «l'uso dell'inglese ... divide il p o p o l o in d u e distinte nazioni, i pochi che g o v e r n a n o e i molti che sono governati, gli uni incapaci di parlare la lingua degli altri, e n t r a m b i incapaci di comprendersi». Q u a r a n t a n n i d o p o , la persistenza dell'inglese c o m e lingua d'élite aveva di fatto realizzato tale previsione e creato «una situazione innaturale in u n sistema democratico basato sul suffragio universale. ... L'India di lingua inglese e l'India politicamente attiva v e n g o n o s e m p r e più a divergere», stimolando «tensioni tra l'elite di min o r a n z a che conosce l'inglese e i molti milioni di semplici cittadini - armati del loro diritto di voto - che n o n lo parlano». 1 9 Nella misura in cui le società n o n occidentali d a n n o vita a istituzioni d e m o c r a t i c h e e le loro popolazioni p a r t e c i p a n o più a m p i a m e n t e alla vita politica, l'uso delle lingue occidentali tende a ridursi e gli idiomi locali finiscono col prevalere. La fine d e l l ' i m p e r o sovietico e della G u e r r a f r e d d a h a stim o l a t o la proliferazione e la rinascita di lingue soppresse o dimenticate. In gran p a r t e delle ex repubbliche sovietiche sono oggi in atto pressanti tentativi di ridare vita alle varie lingue tradizionali. Estone, lettone, lituano, ucraino, g e o r g i a n o e arm e n o sono oggi lingue nazionali di stati i n d i p e n d e n t i . La stes19 Cit. in R. N. Srivastava e V. P. Sharma, «Indian English Today», in Gupta e Kapoor (a cura di), English in India, p. 191; Gopal, «English Language», p. 17.

sa reviviscenza linguistica ha avuto luogo tra le repubbliche musulmane: Azerbaigian, Kirghizistan, T u r k m e n i s t a n e Uzbekistan h a n n o modificato il p r o p r i o alfabeto, passando dai caratteri cirillici dei loro ex d o m i n a t o r i russi a quelli occidentali dei loro consanguinei turchi, m e n t r e il Tagikistan, di lingua persiana, ha adottato i caratteri arabi. I serbi, dal canto loro, chiam a n o oggi la loro lingua serbo e n o n più serbo-croato, e sono passati dal carattere latino dei loro avversari cattolici a quello cirillico dei loro c o n s a n g u i n e i russi. Parallelamente, oggi i croati c h i a m a n o la loro lingua croato e stanno t e n t a n d o di epurarla di tutte le parole di origine turca e straniera in generale, m e n t r e gli stessi «imprestiti turchi e arabi, sedimenti linguistici a r i c o r d o della presenza nei Balcani, protrattasi p e r 450 anni, d e l l ' I m p e r o o t t o m a n o , sono tornati in voga» in Bosnia. 2 " Le lingue v e n g o n o d u n q u e a riallinearsi e ridefinirsi in base alle identità e ai confini delle civiltà. Alla f r a m m e n t a z i o n e del potere fa seguito quella delle lingue. Religione. L'avvento di u n a religione universale è altrettanto improbabile di quello di u n a lingua universale. La fine del xx secolo ha registrato u n a reviviscenza generale delle varie religioni in tutto il m o n d o (si v e d a n o le pp. 131-142). Tale fenom e n o ha implicato l'intensificarsi della coscienza religiosa e la nascita di movimenti fondamentalisti, r i n f o r z a n d o in tal m o d o le differenze tra le religioni p u r senza necessariamente implicare m u t a m e n t i significativi a livello m o n d i a l e nelle p e r c e n tuali di adepti alle diverse fedi. I dati disponibili sulla diffusion e delle religioni nel m o n d o sono a n c o r a più f r a m m e n t a r i e inattendibili di quelli sulla diffusione delle lingue. La tabella 3.3 illustra dati tratti da u n a f o n t e a m p i a m e n t e utilizzata. Questi e altri dati d i m o s t r a n o c o m e la forza n u m e r i c a delle diverse religioni del pianeta n o n abbia subito nel corso del Novecento m o d i f i c h e sostanziali. La variazione più significativa indicata dalla tabella è l ' a u m e n t o p e r c e n t u a l e dei soggetti classificati c o m e «non religiosi» ed «atei», che passano c o n g i u n t a m e n t e dallo 0,2 p e r cento nel 1900 al 20,9 p e r cento nel 1980. Tale dato p o t r e b b e p r e s u m i b i l m e n t e indicare u n processo di crescen20 «New York Times», 16 luglio 1993, p. A9; «Boston Globe», 15 luglio 1993, p. 13.

te disaffezione dalla religione, e che nel 1980 la rinascita religiosa fosse a p p e n a agli inizi. S e n o n c h é , a tale a u m e n t o del 20,7 p e r c e n t o del n u m e r o di n o n credenti fa riscontro u n a parallela r i d u z i o n e del 19 p e r c e n t o dei soggetti classificati nelle «religioni p o p o l a r i cinesi», che passano dal 23,5 p e r c e n t o del 1900 al 4,5 del 1980. Tali variazioni pressoché identiche suggeriscon o c h e c o n l'avvento del c o m u n i s m o il grosso della popolazion e cinese sia stata s e m p l i c e m e n t e riclassificata, vale a dire spostata dalla categoria dei seguaci delle religioni popolari a quella dei n o n credenti. Tabella 3.3 Percentuale della popolazione dizioni religiose

Anno

mondiale che aderisce alle maggiori tra-

1900

1970

1980

1985 (stima)

26,9 7,5 12,4 0,2 12,5 7,8 23,5 6,6 0,0

30,6 3,1 15,3 15,0 12,8 6,4 5,9 2,4 4,6

30,0 2,8 16,5 16,4 13,3 6,3 4,5 2,1 4,5

29,7 2,7 17,1 16,9 13,5 6,2 3,9 1,9 4,4

Religione Cristiana occidentale Cristiana ortodossa Musulmana Nessuna Induista Buddista Popolare cinese Tribale Ateista

2000 (stima) 29,9 2,4 19,2 17,1 13,7 5,7 2,5 1,6 4,2

Fonte: David B. Barret (a cura di), World, Christian Enciclopédia: A Com-

parative study of churches and religions in the modem world a.d. 1900-2000, Oxford, Oxford University Press, 1982.

A u m e n t i reali mostra invece la tabella per q u a n t o riguarda la p e r c e n t u a l e della popolazione m o n d i a l e a d e r e n t e alle d u e religioni c h e vantano il maggior n u m e r o di proseliti - l'islamismo e il cristianesimo - nel corso di o t t a n t ' a n n i . I cristiani occidentali e r a n o stimati al 26,9 p e r c e n t o della p o p o l a z i o n e m o n d i a l e nel 1900 e al 30 p e r c e n t o nel 1980. Ancora maggiore a p p a r e l ' a u m e n t o dei musulmani, che passano dal 12,4 p e r c e n t o nel 1900 al 16,5 o, s e c o n d o altre stime, al 18 p e r cento nel 1980. Negli ultimi d e c e n n i del xx secolo sia l'islamismo sia il cristianesimo h a n n o avuto notevole diffusione in Africa, m e n t r e in Corea del Sud si è avuto un massiccio accostamento al cristianesimo. Le società in rapida espansione, nelle quali la

religione tradizionale n o n riesce ad adeguarsi ai bisogni della modernizzazione, o f f r o n o g r a n d i possibilità di d i f f u s i o n e sia p e r il cristianesimo occidentale sia p e r l'islamismo. In tali società, i protagonisti di maggior successo della cultura occidentale n o n sono gli economisti neoclassici, i democratici da crociata o i dirigenti di multinazionali; sono, e c o n t i n u e r a n n o prob a b i l m e n t e a essere, i missionari cristiani. Né A d a m Smith n é T h o m a s J e f f e r s o n p o t r a n n o mai soddisfare i bisogni psicologici, emotivi, morali e sociali degli emigrati dei centri u r b a n i e dei diplomati della p r i m a generazione. Forse n e a n c h e Gesù Cristo riuscirà a farlo, m a è probabile che abbia maggiori chances. Nel l u n g o p e r i o d o , tuttavia, il vero vincitore sarà M a o m e t t o . Se il cristianesimo si d i f f o n d e p r i n c i p a l m e n t e attraverso l'arm a della conversione, l'islamismo lo fa con quelle della conversione e della r i p r o d u z i o n e . La p e r c e n t u a l e di cristiani nel m o n d o ha r a g g i u n t o la p u n t a massima del 30 p e r c e n t o circa negli a n n i O t t a n t a del Novecento, si è poi stabilizzata; attualm e n t e è in fase di declino e nel 2025 si attesterà sul 25 p e r cento circa della p o p o l a z i o n e m o n d i a l e . In conseguenza degli altissimi tassi di crescita d e m o g r a f i c a (si veda il capitolo 9), la p e r c e n t u a l e di m u s u l m a n i nel m o n d o c o n t i n u e r à a crescere a ritmo sostenuto, r a g g i u n g e n d o il 20 p e r cento della popolazione m o n d i a l e all'incirca a cavallo del secolo, s u p e r a n d o il n u m e r o di cristiani q u a l c h e a n n o d o p o e t o c c a n d o probabilm e n t e il 30 p e r c e n t o della p o p o l a z i o n e m o n d i a l e e n t r o il 2025. 2 '

Civiltà universale: argomentazioni Il concetto di civiltà universale è u n p r o d o t t o distintivo della civiltà occidentale. Nel xix secolo l'idea della «responsabilità d e l l ' u o m o bianco» contribuì a giustificare l'estensione del dominio politico ed e c o n o m i c o occidentale sulle altre società. Alla fine del xx secolo il concetto di civiltà universale contribuisce 21 Oltre alle stime c o n t e n u t e nella «World Christian Encyclopedia», si vedano quelle di Jean Bourgeois-Pichat, «Le nombre des hommes: Etat et prospective», in Albert Jacquard et al., Les Scientifiques Parlent, Paris, Hachette, 1987, pp. 140, 143, 151, 154-56.

a giustificare il d o m i n i o culturale d e l l ' O c c i d e n t e su altre società e la necessità p e r queste ultime di imitare istituzioni e modi di vita occidentali. L'universalismo è l'ideologia d o m i n a n t e d e l l ' O c c i d e n t e nei c o n f r o n t i delle culture n o n occidentali. Com e spesso accade con gli ibridi o i convertiti, tra i più accesi fautori della civiltà universale troviamo intellettuali emigrati in Occidente, quali ad esempio Naipaul e Fouas Ajami, p e r i quali tale principio fornisce u n a risposta del tutto soddisfacente alla d o m a n d a di f o n d o : «Chi sono io?». «Schiavi negri dei bianchi»: così u n intellettuale a r a b o ha definito tutti questi emigrati." L'idea di u n a civiltà universale trova infatti scarso seguito presso altre civiltà. I n o n occidentali definiscono occidentale ciò c h e gli occidentali definiscono universale. Ciò che gli occidentali v e d o n o come u n utile mezzo di integrazione globale, ad esempio la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazione, viene d e n u n c i a t o dai n o n occidentali c o m e n e f a n d o imperialismo occidentale. L'integrazione del m o n d o in u n ' u n i c a entità è percepita dai n o n occidentali c o m e u n a minaccia. La tesi s e c o n d o cui starebbe e m e r g e n d o u n a q u a l c h e sorta di civiltà universale si basa su tre presupposti. Primo, la convinzione, di cui a b b i a m o discusso nel capitolo 1, che il crollo del c o m u n i s m o sovietico abbia significato la fine della storia e la vittoria universale della democrazia liberale in tutto il m o n d o . Tale p r e s u p p o s t o c o n t i e n e u n e r r o r e di f o n d o c h e p o t r e m m o definire il «sofisma dell'unica alternativa». E infatti f o n d a t o sull'errata convinzione, tipica della G u e r r a f r e d d a , che l'unica alternativa al c o m u n i s m o sia la democrazia liberale e c h e la scomparsa del p r i m o c o m p o r t i a u t o m a t i c a m e n t e la diffusione su scala universale della seconda. E n o t o invece c o m e nel mond o c o n t e m p o r a n e o esistano molte f o r m e di autoritarismo, nazionalismo, corporativismo e c o m u n i s m o di m e r c a t o (ad esempio in Cina) vive e vegete. Cosa ancor più i m p o r t a n t e , esistono poi le diverse alternative religiose che t r a s c e n d o n o il m o n d o percepito in termini di ideologie secolari. Nel m o n d o m o d e r no, la religione è u n a forza f o n d a m e n t a l e , forse la forza p e r eccellenza capace di motivare e mobilitare le masse. Pensare che p o i c h é il c o m u n i s m o sovietico è crollato l ' O c c i d e n t e abbia 22 Edward Said su V. S. Naipaul, cit. in Brent Staples, «Con Men and Conquerors», in «New York Times Book Review», 22 maggio 1994, p. 42.

conquistato il m o n d o u n a volta e p e r sempre e che musulmani, cinesi, indiani e altri popoli si stiano p r e c i p i t a n d o ad abbracciare il liberalismo occidentale quale unica alternativa, è p u r a arroganza. La divisione d e l l ' u m a n i t à p r o d o t t a dalla G u e r r a f r e d d a è venuta m e n o , m a le b e n più f o n d a m e n t a l i divisioni d e l l ' u m a n i t à in termini di etnia, religione e civiltà restano imm u t a t e e i n n e s c a n o nuovi conflitti. Secondo, c'è chi ritiene che u n a maggiore interazione tra i popoli - commercio, investimenti, turismo, mass-media, comunicazioni elettroniche in g e n e r a l e - stia g e n e r a n d o u n ' u n i c a cultura planetaria. I progressi tecnologici compiuti nel c a m p o dei trasporti e delle comunicazioni h a n n o c e r t a m e n t e reso più agevole e m e n o costoso m u o v e r e d e n a r o , beni, persone, conoscenze, idee e immagini in tutto il m o n d o . Nessuno dubita c h e il traffico internazionale di tutti questi articoli sia a u m e n t a t o . Molti dubbi, invece, solleva l'impatto p r o d o t t o da tale a u m e n t o del traffico. Lo sviluppo commerciale, ad esempio, a u m e n t a o riduce la probabilità di conflitti? La tesi che riduca le probabilità di g u e r r a tra nazioni è q u a n t o m e n o n o n comprovata, m e n tre esistono numerosi indizi del contrario. Il c o m m e r c i o internazionale si è espanso in m o d o significativo negli a n n i Sessanta e Settanta del Novecento, e nel d e c e n n i o successivo la Guerra f r e d d a giunse al termine. Nel 1913, tuttavia, il c o m m e r c i o internazionale registrava livelli record, m a ciò n o n i m p e d ì che negli a n n i i m m e d i a t a m e n t e successivi le nazioni si massacrassero a vicenda in u n a g u e r r a di dimensioni senza precedenti. 2 3 Se a n c h e a u n livello così alto il c o m m e r c i o internazionale n o n è in g r a d o di impedire u n a g u e r r a , q u a n d o potrà mai riuscirvi? L'esperienza storica semplicemente n o n supporta la tesi liberale, internazionalista, s e c o n d o cui il c o m m e r c i o p r o m u o v e r e b b e la pace. Nuovi studi compiuti negli anni Novanta gettano ulteriori dubbi su tale ipotesi. U n o di essi, ad esempio, conclude che «livelli crescenti di scambi commerciali p o t r e b b e r o costituire u n fattore f o r t e m e n t e disgregativo ... p e r la politica internazionale», e che «è improbabile che lo sviluppo del commercio nel sistema internazionale possa, di p e r sé, agevolare la 23 A. G. Kenwood e A. L. Lougheed, The Growth of the International Economy 1820-1990, London, Routledgè, 1992', pp. 78-9. Angus Maddison, Dynamic Force.s hi Capitalist Development, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 326-7; Alan S. Blinder, «New York Times», 12 marzo 1995, p. 5E.

distensione o p r o m u o v e r e u n a maggiore stabilità internazionale».24 U n altro studio sostiene che alti livelli d ' i n t e r d i p e n d e n z a e c o n o m i c a «possono essere u n o stimolo alla pace c o m e alla g u e r r a , a seconda delle aspettative sui f u t u r i sviluppi c o m m e r ciali». L ' i n t e r d i p e n d e n z a e c o n o m i c a p r o m u o v e la pace solo « q u a n d o gli stati pronosticano c h e tali alti livelli di interscambio c o n t i n u e r a n n o p e r u n prevedibile futuro». Se invece gli stati n o n r i t e n g o n o possibile la continuazione di tale alto livello di i n t e r d i p e n d e n z a , è probabile che n e consegua u n a guerra.2"' Tale incapacità del c o m m e r c i o e delle comunicazioni di gen e r a r e pace o sentimenti di c o m u n a n z a b e n coincide con i risultati delle ricerche delle scienze sociali. Nel c a m p o della psicologia sociale, la teoria della differenziazione sostiene c h e l ' u o m o si autodefinisce in r a p p o r t o a q u a n t o lo r e n d e diverso dagli altri all'interno di u n d e t e r m i n a t o contesto: « l ' u o m o percepisce se stesso nei termini delle caratteristiche c h e lo disting u o n o dagli altri, soprattutto da q u a n t i a p p a r t e n g o n o al suo stesso a m b i e n t e sociale ... u n a psicologa in c o m p a g n i a di u n a dozzina di altre d o n n e c h e si o c c u p a n o d'altro si considererà u n a psicologa; in c o m p a g n i a di u n a dozzina di psicologhe, si considererà u n a donna». 2 6 1 popoli definiscono la p r o p r i a identità p e r esclusione. Via via c h e l'intensificarsi delle comunicazioni, del c o m m e r c i o e dei viaggi moltiplica le interazioni tra le diverse civiltà, i popoli d a n n o s e m p r e maggiore i m p o r t a n z a alla peculiare civiltà che li identifica. D u e europei, u n tedesco e u n francese, c h e v e n g o n o a contatto si i d e n t i f i c h e r a n n o rispettivamente c o m e u n tedesco e u n francese. Se d u e europei, u n o tedesco e l'altro francese, v e n g o n o a contatto con d u e arabi, u n o saudita e l'altro egiziano, si i d e n t i f i c h e r a n n o rispettivam e n t e c o m e e u r o p e i e arabi. L'immigrazione n o r d a f r i c a n a in Francia g e n e r a ostilità tra i francesi e al c o n t e m p o u n a migliore disposizione nei c o n f r o n t i dell'immigrazione polacca, vale a

24 David M. Rowe, «The Trade and Security Paradox in International Politics», d o c u m e n t o inedito, O h i o State University, 15 settembre 1994, p. 16. 25 Dale C. Copeland, «Economie Interdependence and War: A Theory of Trade Expectations», in «International Security», n. 20 (Primavera 1996), p. 25. 26 William J. McGuire e Claire V. McGuire, «Content and Process in the Experience of Self», in «Advances in Experimental Social Psychology», n. 21, 1988, p. 102.

dire di cittadini cattolici ed europei. Gli americani reagiscono molto peggio agli investimenti nel loro paese fatti da giapponesi c h e a quelli provenienti dal C a n a d a e dai paesi europei. In ugual m o d o , c o m e ha osservato Donald Horowitz, «in quella c h e era la r e g i o n e orientale della Nigeria, u n ibo p o t r e b b e essere... u n ibo owerri o u n ibo onitsha. A Lagos, è semplicemente u n ibo. A L o n d r a è u n nigeriano. A New York è u n africano». 2 ' Nel c a m p o della sociologia, la teoria della globalizzazione giunge d u n q u e a questa conclusione: «in u n m o n d o sempre più globalizzato, caratterizzato da u n livello straordinariamente alto d ' i n t e r d i p e n d e n z a tra civiltà, società e così via, n o n c h é dalla diffusa consapevolezza di tale stato di cose, si verifica un'^sasperazione della propria autocoscienza etnica, sociale e culturale». La reviviscenza della religione su scala planetaria, «il ritorn o al sacro», è u n a risposta alla percezione del m o n d o c o m e di « u n ' u n i c a casa». 28

L'Occidente e la modernizzazione Il terzo e più generale p r e s u p p o s t o a sostegno della tesi sec o n d o cui starebbe e m e r g e n d o u n a civiltà universale considera u n a simile entità c o m e il risultato dei p r o f o n d i processi di modernizzazione avviati a partire dal XVIII secolo. Modernizzazione significa industrializzazione, urbanizzazione, maggiori livelli di alfabetizzazione, istruzione, ricchezza e mobilità sociale, nonché strutture occupazionali più complesse e diversificate. La modernizzazione è u n p r o d o t t o della straordinaria espansione delle conoscenze tecniche e scientifiche iniziata a partire dal xviii secolo e che h a permesso a l l ' u o m o di controllare e plasmare il p r o p r i o a m b i e n t e in m o d i totalmente nuovi. La modernizzazione è u n processo rivoluzionario paragonabile soltanto al passaggio dalle società primitive a quelle civilizzate, va-

27 D o n a l d L. Horowitz, «Ethnic Conflict M a n a g e m e n t e for Policy-Makers», in J o s e p h V. Montville e Hans Binnendijk (a cura di), Conflict and Peacemaking in Multiethnic Societies, Lexington, MA., L e x i n g t o n Books, 1990, p. 121. 28 Roland Robertson, «Globalization T h e o r y and Civilizational Analysis», in «Comparative Civilizations Review», n. 17, ( A u t u n n o 1987), p. 22; Jeffrey A. Shad, Jr., «Globalization and Islamic Resurgence», in «Comparative Civilizations Review», n. 19 ( A u t u n n o 1988), p. 67.

le a dire alla nascita della civiltà al singolare, iniziata nelle valli del Tigri e dell'Eufrate, del Nilo e d e l l ' I n d o i n t o r n o al 5000 a.C." Atteggiamenti, valori, conoscenze e cultura degli u o m i n i di u n a società m o d e r n a differiscono f o r t e m e n t e da quelli propri di u n a società tradizionale. In q u a n t o prima civiltà a modernizzarsi, l'Occidente è in testa nel processo di acquisizione di u n a cultura m o d e r n a . Via via che altre società acquisiscono modelli simili in materia di e d u c a z i o n e , lavoro, ricchezza e struttura di classe, viene sostenuto, tale cultura m o d e r n a occidentale diventerà la cultura universale del pianeta. C h e esistano differenze significative tra culture m o d e r n e e culture tradizionali è f u o r di dubbio. Da ciò, tuttavia, n o n consegue necessariamente che le società con culture m o d e r n e assomiglino di più tra loro di q u a n t o n o n somiglino tra loro quelle con culture tradizionali. Ovviamente, u n m o n d o c o m p o s t o da società altamente m o d e r n e e società f o r t e m e n t e tradizionali sarà m e n o o m o g e n e o di u n m o n d o in cui tutte le società presentano u n livello u n i f o r m e m e n t e alto di m o d e r n i t à . Ma cosa accadrebbe in u n m o n d o composto solo da società tradizionali? Un tale m o n d o esisteva fino p o c h e centinaia di anni fa: era forse m e n o o m o g e n e o di q u a n t o p o t r e b b e presumibilmente esserlo u n f u t u r o m o n d o composto da tutte società m o d e r n e ? Probabilmente no. «La Cina dei Ming ... era c e r t a m e n t e più vicina alla Francia dei Valois», sostiene Braudel, «di q u a n t o lo sia la Cina di Mao Tze-tung alla Francia della Q u i n t a Repubblica». M Vi sono tuttavia d u e motivi p e r i quali le società m o d e r n e potrebbero assomigliarsi più di q u a n t o n o n facciano le società tradizionali. Primo, la maggiore interazione tra società m o d e r n e p u ò a n c h e n o n generare u n a cultura c o m u n e , m a c e r t a m e n t e facilita il trasferimento di tecniche, invenzioni e consuetudini da u n a società all'altra con u n a rapidità e a u n livello impossibili da raggiungere nel m o n d o tradizionale. Secondo, la società tradizionale era f o n d a t a sull'agricoltura; quella m o d e r n a invece sull'industria, la quale p u ò evolversi dall'industria artigiana al29 Si veda Cyril E. Black, The Dynamics of Modemization: A Study in Comparative History, New York, Harper Se Row, 1966, pp. 1-34; Reinhard Bendix, «Tradition and Modernity Reconsidered», in «Comparative Studies in Society and History», n. 9 (Aprile 1967), pp. 292-93. 30 Fernand Braudel, On History, Chicago, University of Chicago Press, 1980,

l'industria pesante classica fino all'industria tecnologica. I modelli di sviluppo agricolo e la struttura sociale che ne consegue d i p e n d o n o , in misura molto maggiore rispetto ai modelli industriali, dall'ambiente naturale, i quali variano a seconda del clima e del tipo di terreno, e p o t r e b b e r o d u n q u e dar vita a f o r m e diverse di proprietà, di struttura sociale e di governo. Pur ricon o s c e n d o tutti i meriti della tesi della civiltà idraulica di Wittfogel, l'agricoltura f o n d a t a sulla costruzione di massicci sistemi di irrigazione p r o m u o v e senza d u b b i o l'avvento di sistemi politici centralizzati e burocratici. E n o n p o t r e b b e essere altrimenti. Un t e r r e n o fertile e u n b u o n clima t e n d o n o a incoraggiare lo svil u p p o di piantagioni su vasta scala e c o n s e g u e n t e m e n t e u n a struttura sociale composta da u n a piccola élite di ricchi latifondisti e u n ' a m p i a classe di contadini, schiavi o servi che lavorano nelle piantagioni. Condizioni inadatte all'agricoltura su larga scala p o t r e b b e r o invece incoraggiare la nascita di u n a società di agricoltori i n d i p e n d e n t i . Nelle società agricole, in breve, la struttura sociale è forgiata dalla geografia. L'industria, al contrario, d i p e n d e in misura molto m i n o r e dall'ambiente naturale. Le differenze i n t e r n e alle organizzazioni industriali derivano più facilmente da differenze di cultura e struttura sociale che n o n dalle condizioni geografiche, e m e n t r e le p r i m e possono p r e s u m i b i l m e n t e essere ricomposte, le seconde no. Le società m o d e r n e h a n n o d u n q u e molto in c o m u n e . Ma devono necessariamente confluire nell'omogeneità? La tesi a favore del sì è f o n d a t a sul presupposto che la società m o d e r n a debba convergere verso u n unico tipo di società, quella occidentale, che la civiltà m o d e r n a sia la civiltà occidentale, e che la civiltà occidentale sia la civiltà m o d e r n a . Tale tipo di identificazione, tuttavia, è totalmente e r r o n e o . La civiltà occidentale è emersa nell'vin e ix secolo ed ha sviluppato i propri caratteri distintivi nei secoli successivi, m a n o n h a iniziato il proprio processo di modernizzazione prima del xvii e XVIII secolo. L'Occidente era Occidente molto prima di essere m o d e r n o . Le caratteristiche peculiari dell'Occidente, quelle che lo distinguono da altre civiltà, sono antecedenti alla sua modernizzazione. Quali e r a n o d u n q u e le caratteristiche distintive della società occidentale nelle centinaia di anni che p r e c e d e t t e r o la sua modernizzazione? Vari studiosi h a n n o f o r n i t o risposte che p u r differenziandosi su alcuni aspetti specifici c o n c o r d a n o nell'indivi-

d u a r e u n certo n u m e r o di istituzioni, consuetudini e c r e d e n z e che possono legittimamente essere identificate c o m e il fulcro della civiltà occidentale. Esse sono: 31 L'eredità classica. In q u a n t o civiltà di terza generazione, l'Occidente ha ereditato molto dalle civiltà precedenti, e in particolare da quella classica. I lasciti della civiltà classica all'Occid e n t e sono o l t r e m o d o numerosi, e c o m p r e n d o n o la filosofia e il razionalismo greci, il diritto r o m a n o , il latino, il cristianesimo. A n c h e le civiltà islamica e ortodossa vantano n u m e r o s i lasciti dalla civiltà classica, m a in misura infinitamente inferiore rispetto all'Occidente. Cattolicesimo e protestantesimo. Il cristianesimo occidentale, d a p p r i m a solo il cattolicesimo, quindi a n c h e il protestantesimo, r a p p r e s e n t a storicamente l ' e l e m e n t o distintivo più importante della civiltà occidentale. Per b u o n a parte del suo p r i m o millennio, anzi, quella che oggi è conosciuta c o m e civiltà occidentale è stata definita cristianità occidentale. Tra i popoli cristiani dell'Occidente esisteva u n p r o f o n d o senso di c o m u n a n z a e u n a b e n radicata coscienza della loro diversità da turchi, mori, bizantini e altri popoli; in n o m e di Dio, oltre che dell'oro, gli occidentali p a r t i r o n o alla conquista del m o n d o nel XVI secolo. La Riforma e C o n t r o r i f o r m a e la divisione del m o n d o cristiano occidentale in u n N o r d protestante e u n Sud cattolico sono anch'essi tratti caratteristici della storia occidentale, total31 La letteratura sui caratteri distintivi della civiltà occidentale è, naturalmente, sterminata. Si veda, tra gli altri, William H. McNeil, Rise of the West: A History of the Human Community, Chicago, University of Chicago Press, 1963; Braudel, On History, e le sue opere pecedenti; Immanuel Wallerstein, Geopolitics and Geoculture: Essays on the Changing World-System, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Karl W. Deutsch ha prodotto un esauriente, succinto e suggestivo raffronto tra l'Occidente e nove altre civiltà sulla base di v e n t u n o fattori geografici, culturali, economici, tecnologici, sociali e politici, in cui sottolinea la differenza esistente tra il primo e le altre. Si veda Karl W. Deutsch, «On Nationalism, World Regions, and the Nature of the West», in Per Torsvik (a cura di), Mobilization, Center-Periphery Structures, and Nationbuilding: A Volume in Commemoration of Stein Rokkan, Bergen, Universitetsforlaget, 1981, pp. 51-93. Per un succinto riepilogo dei tratti distintivi e più salienti della civiltà occidentale nel 1500, si veda Charles Tilly, «Reflections on the History of European State-making», in Tilly (a cura di), The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 18 sgg.

m e n t e assenti nel m o n d o ortodosso orientale e in gran parte rimossi dall'esperienza latinoamericana. Lingue europee. In q u a n t o e l e m e n t o di disunzione fra popoli di culture diverse la lingua è seconda soltanto alla religione. L'Occidente differisce da b u o n a parte delle altre civiltà per il gran num e r o di idiomi utilizzati. Giapponese, hindi, m a n d a r i n o , russo e arabo sono universalmente riconosciute come le lingue principali delle rispettive civiltà. L'Occidente ha ereditato il latino, ma in seguito emerse u n certo n u m e r o di nazioni e con esse le relative lingue nazionali, grosso m o d o raggruppate nelle d u e grandi categorie delle lingue romanze e germaniche. Nel xvi secolo tali lingue di n o r m a avevano già assunto la loro f o r m a odierna. Separazione Ira autorità spirituale e temporale. Nel corso della storia occidentale, la Chiesa prima, e molte chiese poi, h a n n o condotto un'esistenza separata dallo Stato. Il dualismo tra Dio e Cesare, Chiesa e Stato, autorità spirituale ed autorità temporale è sempre stato u n elemento prevalente nella cultura occidentale. Solo nella civiltà indù troviamo u n a distinzione altrettanto netta tra politica e religione. Nell'Islam, Dio è Cesare; in Cina e Giapp o n e Cesare è Dio; nel m o n d o ortodosso, Dio è il braccio destro di Cesare. La separazione e i ricorrenti conflitti tra Stato e Chiesa che caratterizzano la civiltà occidentale n o n sono esistiti in nessun'altra civiltà. Tale separazione di autorità ha contribuito in m o d o incommensurabile allo sviluppo della libertà in Occidente. Stato di diritto. Il concetto della centralità del diritto p e r u n ' e sistenza civile f u ereditato dai r o m a n i . I pensatori medievali e l a b o r a r o n o l'idea del diritto naturale, in base al quale i sovrani e r a n o tenuti a esercitare il p r o p r i o potere, e l'Inghilterra sviluppò la tradizione della « c o m m o n law». D u r a n t e la fase assolutista del xvi e xvii secolo, lo stato di diritto fu osservato più in teoria c h e in pratica; tuttavia l'idea che il p o t e r e u m a n o dovesse essere s u b o r d i n a t o a qualche c o n d i z i o n a m e n t o e s t e r n o rimase in vigore: «Non sub homine sed sub Deo et lege». La tradizione dello stato di diritto gettò le basi del costituzionalismo e della difesa dei diritti u m a n i - diritto di p r o p r i e t à incluso c o n t r o l'esercizio arbitrario del potere. In gran parte delle altre civiltà il r u o l o del diritto nell'educazione del pensiero e dell'azione u m a n a è stato molto m e n o rilevante.

Pluralismo sociale. Nel caso della storia, la società occidentale ha avuto u n carattere m a r c a t a m e n t e pluralista. C o m e osserva Deutsch, l ' e l e m e n t o distintivo dell'Occidente «è la nascita e la persistenza di svariati g r u p p i a u t o n o m i n o n fondati su legami di sangue o sull'istituto del matrimonio». 3 2 A p a r u r e dal vi e vii secolo, tali g r u p p i compresero in un p r i m o m o m e n t o monasteri, ordini monastici e gilde, p e r poi espandersi fino a c o m p r e n d e re in molte aree d ' E u r o p a u n a svariata g a m m a di altre organizzazioni e società. 33 Al pluralismo di associazioni si a c c o m p a g n ò u n pluralismo di classi. Gran p a r t e delle società e u r o p e e occidentali c o m p r e n d e v a un'aristocrazia relativamente forte e aut o n o m a , u n ' a m p i a classe c o n t a d i n a e u n a piccola ma importante classe mercantile. In molte nazioni e u r o p e e la forza dell'aristocrazia feudale ebbe un r u o l o particolarmente rilevante quale f r e n o all'espansione dell'assolutismo. Tale pluralismo contrasta f o r t e m e n t e con la povertà della società civile, la debolezza dell'aristocrazia e la forza degli imperi burocratici centralizzati esistenti c o n t e m p o r a n e a m e n t e in Russia, Cina, nelle terre o t t o m a n e e in altre società n o n occidentali. Corpi rappresentativi. Il pluralismo sociale dette b e n presto vita a stati, parlamenti e altre istituzioni nate p e r d i f e n d e r e gli interessi dell'aristocrazia, del clero, dei mercanti e di altri gruppi. Tali organismi incarnavano f o r m e di rappresentanza c h e in seguito ài sono evolute nelle istituzioni della democrazia m o d e r na. In alcuni casi, nel p e r i o d o dell'assolutismo f u r o n o aboliti o il loro p o t e r e drasticamente ridotto. A n c h e q u a n d o ciò accadde, tuttavia, p o t e r o n o in seguito essere riportati in vita, c o m e ad esempio in Francia, e f u n g e r e da veicolo di u n a più vasta partecipazione politica. Nessun'altra civiltà c o n t e m p o r a n e a possiede u n a simile tradizione di organismi rappresentativi risalenti a u n millennio addietro. A n c h e al livello locale, a partire all'incirca dal ix secolo, movimenti di autogoverno presero a svilupparsi nelle città italiane e q u i n d i a espandersi verso n o r d , «costringendo vescovi, baroni locali e altri grandi nobili a condividere il p o t e r e con i borghesi e spesso, alla fine, a conse32 Deutsch, «Nationalism, World Regions, and the West», p. 77. 33 Si veda Robert D. Putnam, MakingDemoaracy Work: Civil Tradilion in Modem Italy, Princeton, Princeton University Press, 1993, p. 121 sgg. (trad. it. La tradizione civile nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993).

gnarglielo del tutto». 14 Alla rappresentanza a livello nazionale si a c c o m p a g n ò d u n q u e u n a certo g r a d o di a u t o n o m i a locale del tutto assente in altre regioni del m o n d o . Individualismo. Molte di queste caratteristiche della civiltà occidentale h a n n o contribuito allo sviluppo di u n forte senso individualista e a u n a tradizione di diritti e libertà individuali assolutamente senza uguali tra le società civili. L'Individualismo si sviluppò nel xiv e xv secolo, m e n t r e il diritto alla libera scelta individuale - quella che Deutsch definisce «la rivoluzione di Rom e o e Giulietta» - prevalse a partire dal xvn secolo. F u r o n o espresse, a n c h e se n o n universalmente accettate, a n c h e le rivendicazioni alla parità di diritti per tutti gli individui («L'uomo più povero d'Inghilterra ha u n a vita da vivere esattamente come l ' u o m o più ricco»). L'individualismo rimane u n a caratteristica assolutamente peculiare dell'Occidente rispetto alle altre civiltà del xx secolo. In un'analisi svolta su campioni simili di cinquanta paesi, tra i primi venti paesi in cui il tema dell'individualismo trovava maggiore p r e m i n e n z a figuravano tutte le nazioni occidentali, ad eccezione del Portogallo, più Israele.'' L'autore di u n ' a l t r a indagine interculturale sul tema dell'individualismo e del collettivismo ha anch'egli rilevato il p r e d o m i n i o dell'individualismo in Occidente di c o n t r o al prevalere altrove del collettivismo, c o n c l u d e n d o n e che «i valori ritenuti più importanti in O c c i d e n t e sono quelli m e n o i m p o r t a n t i su scala mondiale». Tanto gli occidentali q u a n t o i n o n occidentali indicano d u n que nell'individualismo la caratteristica m a g g i o r m e n t e peculiare dell'Occidente.'" 34 Deutsch, in Torsvik (a cura di), Mobilization, p. 78. Si veda anche Stein Rokkan, «Dimensions of State Formation and Nation-Building: A Possibile Paradigm for Research on Variations within Europe», in Charles Tilly, The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 576; e Putnam, Making Democracy Work, pp. 124-27. 35 Geert Hofstede, «National Cultures in Four Dimensions: A Research-based Theory of Cultural Diferences a m o n g Nations», in «International Studies of Management and Organization», n. 13, 1983, p. 52. 36 Harry C. Triandis, «Cross-Cultural Studies of Individualism and Collectivism», in Nebraska Symposium on Motivation 1989, Lincoln, University of Nebraska Press, 1990, pp. 44-133, e «New York Times», 25 dicembre 1990, p. 41. Si veda anche George C. Lodge ed Ezra F. Vogel (a cura di), Ideology and National Competitiveness: An Analysis of Nine Countries, Boston, Harvard Business School Press, 1987, passim.

Q u e s t o elenco n o n p r e t e n d e certo di esaurire tutti i caratteri peculiari della civiltà occidentale, n é i n t e n d e ovviamente implicare che tali caratteristiche siano state sempre ed universalm e n t e presenti nella società occidentale: i tanti despoti che la storia occidentale ci h a regalato i g n o r a r o n o sistematicamente lo stato di diritto e sospesero gli organi rappresentativi. Né esso i n t e n d e suggerire che nessuna di tali caratteristiche sia mai apparsa in altre civiltà: il C o r a n o e la sharia f u n g o n o da leggi fond a m e n t a l i delle società islamiche, m e n t r e G i a p p o n e e India p r e s e n t a n o sistemi classisti paragonabili a quelli dell'Occidente (e forse p r o p r i o p e r questo sono le u n i c h e tra le g r a n d i società n o n occidentali a vantare u n a l u n g a tradizione di governi democratici). Preso singolarmente, quasi nessuno di tali fattori costituisce u n e l e m e n t o peculiare della civiltà occidentale; ciò che contraddistingue l'Occidente è la loro presenza congiunta. Tali concezioni, modi di vita e istituzioni h a n n o semplicemente prevalso in O c c i d e n t e più c h e in altre società e f o r m a n o q u a n t o m e n o u n a parte del n u c l e o costitutivo tradizionale della civiltà occidentale. Costituiscono la parte occidentale m a n o n m o d e r n a dell'Occidente; sono a n c h e in gran p a r t e i fattori c h e h a n n o permesso all'Occidente di assumere il c o m a n d o nel processo di modernizzazione del m o n d o .

Reazioni all'Occidente e alla modernizzazione L'espansione dell'Occidente ha stimolato la modernizzazione e l'occidentalizzazione delle società n o n occidentali. Le élite politiche e intellettuali di quelle società h a n n o risposto all'influenza occidentale f o n d a m e n t a l m e n t e in tre modi: rifiut a n d o e n t r a m b e ; abbracciando e n t r a m b e ; abbracciando la prim a e rifiutando la s e c o n d a . " Rifiuto totale. Sin dai primi contatti con l'Occidente, risalenti al 1542, e fino a m e t à xix secolo il G i a p p o n e ha adottato u n a 37 I dibattiti sull'interazione tra civilità finiscono inevitabilmente col produrre una qualche variante di tale tipologia di risposte. Si veda Arnold J. Toynbee, Study ofHistory, London, Oxford University Press, 1935-61, voi. II, p. 187 sgg.; voi. Vili, pp. 152-3, 214; J o h n L. Esposito, The Islamic Threat: Myth or Reality, N e w York, Oxford University Press, 1992, pp. 53-62; Daniel Pipes, In the Path of God: Islam and Politicai Power, New York, Basic Books, 1983, pp. 105-42.

politica di sostanziale rifiuto dell'Occidente, c o n s e n t e n d o solo f o r m e limitate di modernizzazione, ad esempio nel settore degli a r m a m e n t i , e vietando severamente ogni f o r m a di importazione della cultura occidentale e del cristianesimo in particolare. A m e t à del xvii secolo gli occidentali f u r o n o a d d i r i t t u r a espulsi fisicamente dal paese. Questa posizione di totale chiusura si concluse con l ' a p e r t u r a forzata del G i a p p o n e da p a r t e del c o m m o d o r o Perry nel 1854 e poi con i notevoli sforzi di app r e n d i m e n t o dall'Occidente successivi alla restaurazione Meiji del 1868. Per diversi secoli a n c h e la Cina ha tentato di impedire qualsiasi f o r m a significativa di modernizzazione o di occidentalizzazione. Emissari cristiani f u r o n o ammessi in Cina nel 1601 p e r esserne cacciati nel 1722. A differenza del G i a p p o n e , la politica di chiusura della Cina a f f o n d a in gran parte le proprie radici n e l l ' i m m a g i n e di R e g n o di Mezzo che il paese coltiva di sé e nella f e r m a convinzione della superiorità della cultura cinese rispetto a quella di tutti gli altri popoli. L'isolamento cinese, al pari di quello giapponese, venne i n f r a n t o con le armi d a l l ' I n g h i l t e r r a nella G u e r r a d e l l ' o p p i o del 1839-42. C o m e questi esempi suggeriscono, nel corso del xix secolo il p o t e r e occidentale rese sempre più difficile e alla fine impossibile p e r le società n o n occidentali aderire a strategie di totale isolamento. Nel xx secolo, i progressi compiuti nel c a m p o dei mezzi di trasporto e di comunicazione e il processo di i n t e r d i p e n d e n z a planetaria h a n n o accresciuto in m o d o d r a m m a t i c o i costi della politica di isolamento. Fatta eccezione p e r piccole e isolate com u n i t à rurali disposte a vivere a u n m e r o livello di sussistenza, il rifiuto totale sia della modernizzazione sia dell'occidentalizzazione è pressoché impossibile in u n m o n d o che va diventand o s e m p r e più m o d e r n o e s e m p r e più interconnesso. «Solo i fondamentalisti più estremi», scrive Daniel Pipes a proposito dell'Islam, «rifiutano sia la modernizzazione sia l'occidentalizzazione. Essi gettano i televisori nei fiumi, vietano gli orologi da polso e b a n d i s c o n o il m o t o r e a combustione interna. L'inattuabilità del loro p r o g r a m m a limita tuttavia f o r t e m e n t e la capacità di attrazione di tali g r u p p i , e in diversi casi - ad esempio gli Yen Izala di Kano, gli assassini di Sadat, gli assalitori di moschee alla Mecca e alcuni g r u p p i dakwah malaysiani - le sconfitte riportate a seguito di violenti scontri con le autorità h a n n o

p o r t a t o a u n a loro pressoché completa sparizione». 18 U n destino, questo, c h e caratterizza di solito le politiche di chiusura totale. Il fanatismo, per usare l'espressione di Toynbee, è semplic e m e n t e u n a strada impraticabile. Kemalismo. U n a s e c o n d a possibile risposta a l l ' O c c i d e n t e è quello che Toynbee definisce «Erodianesimo», vale a dire l'ap e r t u r a sia alla modernizzazione sia all'occidentalizzazione, e si basa sul p r e s u p p o s t o che la modernizzazione sia desiderabile e necessaria, c h e la cultura a u t o c t o n a sia incompatibile con la modernizzazione e vada d u n q u e a b b a n d o n a t a o abolita, e c h e per potersi modernizzare con successo la società d e b b a occidentalizzarsi in toto. Modernizzazione e occidentalizzazione si r a f f o r z a n o a vicenda e devono p r o c e d e r e di pari passo. Q u e s t o approccio f u teorizzato da alcuni intellettuali giapponesi e cinesi del tardo xix secolo, s e c o n d o i quali p e r potersi modernizzare le loro società avrebbero dovuto a b b a n d o n a r e la p r o p r i a lingua tradizionale e adottare l'inglese c o m e lingua nazionale. Questa o p i n i o n e , c o m ' è facile capire, ha avuto miglior accoglienza in Occidente che n o n tra le élite n o n occidentali. Il suo messaggio è: «Per avere successo, devi essere c o m e noi; il nostro sistema è l'unico possibile». La tesi è che «i valori religiosi, i precetti morali e le strutture sociali di queste società [ n o n occidentali] sono estranee q u a n d o n o n ostili ai valori e ai m o d i di vita della società industriale», p e r cui lo sviluppo e c o n o m i c o «richiede u n a radicale riedificazione della vita e della società n o n c h é , spesso, u n a reinterpretazione del significato stesso dell'esistenza così c o m e è stata concepita d a quanti vivono in queste civiltà».19 Pipes sostiene la m e d e s i m a tesi in relazione all'Islam: Per sfuggire all'anomia, i musulmani n o n hanno altra scelta, poiché la modernizzazione richiede necessariamente l'occidentalizzazione. ... L'Islam n o n offre una via di modernizzazione alternativa. ... Il secolarismo è una strada obbligata. La scienza e la tecnologia m o d e r n e richiedono un assorbimento dei processi mentali che le accompagnano. Lo stesso vale anche per le istituzioni politiche. Poiché il contenuto va emulato non m e n o della forma, occorre che il predominio 38 Pipes, Path o/God, p. 349. 39 William PfaiF, «Reflections: Economie Development», in «New Yorker», 25 dicembre 1978, p. 47.

della civiltà occidentale sia apertamente riconosciuto aftinché si possa imparare da esso. Le lingue europee e le istituzioni educative occidentali non possono essere evitate, anche se queste ultime promuovono indubbiamente l'indipendenza di pensiero e modelli di vita più spigliati. Solo quando accetteranno esplicitamente il modello occidentale i musulmani saranno in grado di attrezzarsi tecnicamente e quindi di svilupparsi.4"

S e s s a n t a n n i prima che fossero scritte queste parole, Mustafa Remai Ataturk era giunto a conclusioni simili, c r e a n d o dalle rovine d e l l ' I m p e r o o t t o m a n o u n a nuova Turchia e lanciandosi in u n g r a n d e tentativo di occidentalizzarla e modernizzarla. Imb o c c a n d o questa strada e r i f i u t a n d o il passato islamico Ataturk fece della Turchia u n «paese in bilico», u n a società m u s u l m a n a p e r religione, tradizioni, costumi e istituzioni, ma con u n a classe dirigente decisa a r e n d e r l a m o d e r n a , occidentale e legata all'Occidente. Negli ultimi a n n i del xx secolo vari paesi h a n n o adottato tale via kemalista e stanno t e n t a n d o di sostituire l'identità occidentale alla propria. I loro sforzi in tal senso verr a n n o analizzati nel capitolo 6. Riformismo. La posizione di chiusura totale implica il vano tentativo di isolare u n a società da u n m o n d o m o d e r n o la cui presenza va facendosi s e m p r e più stringente. Il kemalismo implica il difficile e traumatico c o m p i t o di distruggere u n a cultura vecchia di secoli e sostituirla con u n a totalmente nuova imp o r t a t a da u n ' a l t r a civiltà. U n a terza strada consiste nel tentare di u n i r e modernizzazione e preservazione dei valori, costumi e istituzioni autoctoni di u n a data società. Tale soluzione è stata, c o m p r e n s i b i l m e n t e , la più p o p o l a r e tra le élite n o n occidentali. In Cina, nelle ultime fasi della dinastia Ching lo slogan fu 77Yong, «Cultura cinese p e r i principi di f o n d o , cultura occidentale p e r i fini pratici». In G i a p p o n e f u Wakon, Yosei, «Spirito giapponese, tecnica occidentale». In Egitto, negli a n n i T r e n t a d e l l ' O t t o c e n t o M u h a m m e d Ali «tentò di realizzare u n a modernizzazione tecnica senza un'eccessiva occidentalizzazione culturale», m a fu in seguito costretto dall'esercito britannico a a b b a n d o n a r e b u o n a p a r t e delle sue r i f o r m e in tal senso. Di conseguenza, osserva Ali Mazrui, «le sorti dell'Egitto n o n hann o ricalcato n é la strada g i a p p o n e s e di modernizzazione tecni40 Pipes, Path ofGod, pp. 197-8.

ca senza occidentalizzazione culturale, n é quella di Ataturk di u n a m o d e r n i z z a z i o n e tecnica attraverso l'occidentalizzazione culturale». 11 Nell'ultimo scorcio del xix secolo, tuttavia, J a m a l ai-Din ai-Afghani, M u h a m m e d A b d u h ed altri riformatori tent a r o n o u n a nuova riconciliazione tra Islam e m o d e r n i t à , sosten e n d o «la compatibilità dell'Islam con le scienze sociali e con il meglio del pensiero occidentale» e f o r n e n d o u n a «giustificazione islamica p e r l'accettazione di idee e istituzioni m o d e r n e , fossero esse scientifiche, tecnologiche o politiche (costituzionalismo e governo rappresentativo)»/ 2 Si trattava di u n riformismo ad a m p i o raggio, con t e n d e n z e kemaliste, che accettava n o n solo il concetto di m o d e r n i t à m a a n c h e alcune istituzioni occidentali. U n r i f o r m i s m o di questo tipo è stato la risposta p r e d o m i n a n t e all'Occidente da p a r t e delle élite m u s u l m a n e per c i n q u a n t ' a n n i , dagli anni Settanta d e l l ' O t t o c e n t o agli a n n i Venti del Novecento, allorché f u messo in discussione dall'avvento del kemalismo p r i m a e q u i n d i da u n riformismo molto più p u r o nella veste del f o n d a m e n t a l i s m o . Queste tre alternative - chiusura totale, kemalismo e riformismo - si basano su diversi presupposti in merito a cosa sia possibile e cosa desiderabile. Per i fautori della chiusura totale, sia la modernizzazione che l'occidentalizzazione sono f e n o m e ni indesiderabili, c h e è possibile rifiutare. Per i kemalisti, sia la m o d e r n i z z a z i o n e che l'occidentalizzazione sono desiderabili (la seconda p e r c h é s t r u m e n t o indispensabile p e r il raggiungim e n t o della prima) e possibili. Per i riformisti, la modernizzazione è desiderabile e possibile a n c h e senza occidentalizzazione, c h e invece n o n è desiderabile. Esistono d u n q u e dei contrasti tra la teoria del rifiuto totale e quella kemalista in merito alla desiderabilità della modernizzazione e dell'occidentalizzazione, e tra kemalismo e riformismo sulla possibilità di p o t e r acquisire la modernizzazione senza occidentalizzazione. La Figura 3.1 illustra questi tre diversi indirizzi. Quello di chiusura totale resterebbe f e r m o al P u n t o A; quello kemalista g i u n g e r e b b e d i a g o n a l m e n t e al P u n t o B; quello riformista avanz e r e b b e orizzontalmente verso il P u n t o C. Qual è, tuttavia, il 41 Ali Al-Amin Mazrui, CulturalForces in World Politici, London, James Currey, 1990, pp. 4-5. 42 Esposito, Islamic Threat, p. 55 e, più in generale, le pp. 55-62; Pipes, Path of God, pp. 114-20.

Figura 3.1 Risposte alternative

all'impatto

dell'Occidente

Modernizzazione

percorso r e a l m e n t e c o m p i u t o dalle società? Ovviamente, ciascuna società n o n occidentale h a seguito u n p r o p r i o corso, che p o t r e b b e a n c h e differire in m o d o sostanziale da questi tre modelli. Mazrui arriva a sostenere c h e Egitto e Africa h a n n o proc e d u t o verso il P u n t o D attraverso u n «doloroso processo di occidentalizzazione culturale senza modernizzazione tecnologica». Nella misura in cui le risposte delle società n o n occidentali all'Occidente possono in q u a l c h e m o d o indicare u n m o d e l l o g e n e r a l e di m o d e r n i z z a z i o n e e d occidentalizzazione, questo sembra p r o c e d e r e l u n g o la curva A-E. Inizialmente, occidentalizzazione e modernizzazione sono strettamente correlate: la società n o n occidentale assorbe elementi sostanziali della cultura occidentale ed avanza l e n t a m e n t e verso la modernizzazione. Via via c h e il ritmo della modernizzazione a u m e n t a , tuttavia, il tasso di occidentalizzazione si riduce e la cultura autoctona t o r n a a emergere. In seguito, l'ulteriore modernizzazione finisce con l'alterare gli equilibri di p o t e r e tra l'Occidente e la

società n o n occidentale, a l i m e n t a il p o t e r e e l'autostima di quella società e rafforza in essa il senso di a p p a r t e n e n z a alla propria cultura. Nelle p r i m e fasi del processo di m u t a m e n t o , d u n q u e , l'occidentalizzazione stimola la modernizzazione. Nelle ultime, la m o d e r n i z z a z i o n e p r o m u o v e la de-occidentalizzazione e la rinascita della cultura a u t o c t o n a in d u e modi: al livello sociale, la m o d e r n i z z a z i o n e accresce il p o t e r e e c o n o m i c o , militare e politico della società nel suo complesso e stimola i m e m b r i di quella società ad avere fiducia nella p r o p r i a cultura e a rivendicare la p r o p r i a a u t o n o m i a culturale; al livello individuale, m a n m a n o c h e i tradizionali legami e r a p p o r t i sociali v e n g o n o a lacerarsi, la m o d e r n i z z a z i o n e g e n e r a sentimenti di alienazion e e a n o m i a che s c a t e n a n o crisi di identità alle quali la relig i o n e o f f r e u n a risposta. La Figura 3.2 illustra in f o r m a semplificata questo flusso causale. U n simile ipotetico m o d e l l o generale è c o n g r u e n t e sia con la teoria delle scienze sociali c h e con l'esperienza storica. Nel riesaminare a p p r o f o n d i t a m e n t e gli indizi a disposizione relativi alla «ipotesi dell'invarianza», Rainer B a u m c o n c l u d e c h e «l'incessante ricerca da p a r t e d e l l ' u o m o di u n ' a u t o r i t à riconosciuta e di u n ' a l t r e t t a n t o riconosciuta a u t o n o m i a personale si estrinseca in m o d i c u l t u r a l m e n t e diversi. In questo c a m p o n o n esiste alcuna convergenza verso u n m o n d o culturalmente sempre più o m o g e n e o . Invece, s e m b r a esserci un'invarianza nei modelli sviluppatisi in f o r m e distinte nelle diverse fasi storiche»." La teoria degli «imprestiti», così c o m e è stata elaborata tra gli altri da Frobenius, Spengler e Bozeman, sottolinea la misura in cui le civiltà destinatarie acquisiscono in m o d o selettivo d e t e r m i n a t i aspetti di altre società e li adattano, li t r a s f o r m a n o e li assimilano in m o d o da preservare e rafforzare la sopravvivenza dei valori di f o n d o , o paideuma, della propria cultura." 43 Rainer C. Baum, «Authority and Identity T h e Invariance Hypothesis II», in «Zeitschrift fùr Soziologie», n. 6 (Ottobre 1977), pp. 368-9. Si veda anche Rainer C. Baum, «Authority Codes: T h e Invariance Hypothesis», in «Zeitschrift fur Soziologie, n. 6 (Gennaio 1977), pp. 5-28. 44 Si veda Adda B. Bozeman, «Civilizations U n d e r Stress», in «Virginia Quarterly Review», n. 51 (Inverno 1975), p. 5 sgg; Leo Frobenius, Paideuma: Umrisse einer Kultur-und Seelenlehre, Munich, C. H. Beck, 1921, p. 11 sgg.; Oswald Spengler, TheDecline ofthe West, New York, Alfred A. Knopf, 2 voli., 1926, 1928, voi. II, p. 7 (trad. it. Il tramonto dell'Occidente, Milano, Longanesi, 1978).

Figura 3.2 Modernizzazione Società

e rinascita

culturale Maggior potere economico, milit"'" politico

Modernizzazione Individuo

Alienazione e crisi d'identità

Rinascita culturale e religiosa

Quasi tutte le civiltà n o n occidentali del m o n d o esistono da alm e n o u n millennio - in alcuni casi da diversi millenni - e tutte vantano u n più o m e n o l u n g o elenco di acquisizioni, m u t u a t e da altre civiltà e finalizzate alla sopravvivenza della propria. L'importazione cinese del b u d d i s m o dall'India, c o n c o r d a n o gli studiosi, f u b e n lungi dal causare l'«indianizzazione» della Cina. I cinesi a d a t t a r o n o il b u d d i s m o ai p r o p r i fini e alle p r o p r i e necessità; la cultura cinese rimase tipicamente cinese. Fino a oggi i cinesi h a n n o c o s t a n t e m e n t e sconfitto i reiterati tentativi occidentali di convertirli al cristianesimo. Se a u n certo p u n t o dovessero i m p o r t a r e il cristianesimo, c'è da attendersi c h e verrà anch'esso assorbito e adattato in m o d o da rafforzare il s e m p i t e r n o paideuma cinese. Allo stesso m o d o , gli arabi musulm a n i acquisirono, a p p r e z z a r o n o e utilizzarono 1'«eredità ellenica p e r scopi essenzialmente utilitaristici. Essendo interessati soprattutto ad acquisire certe caratteristiche esteriori o determinati aspetti tecnici, essi s e p p e r o c o m e ignorare tutti gli elementi presenti nel pensiero greco che e r a n o in conflitto con la 'verità' stabilita dalle loro n o r m e e precetti coranici». 4 ' La medesima strada seguì il G i a p p o n e , che nel VII secolo i m p o r t ò la cultura cinese c o m p i e n d o la «trasformazione di propria iniziativa, libero da pressioni e c o n o m i c h e e militari» all'alta civiltà. «Nei secoli successivi, a periodi di relativo isolamento dalle influenze dell'Occidente - d u r a n t e i quali i p r e c e d e n t i imprestiti venivano elaborati e quelli più utili assimilati - si a l t e r n a r o n o periodi di rinnovati contatti e acquisizioni culturali». 46 Attraverso tutte queste fasi, la cultura giapponese ha m a n t e n u t o il p r o p r i o carattere peculiare. 4 5 B o z e m a n , «Civilizations u n d e r stress», p. 7. 4 6 William E. Naff, «Reflections o n the Q u e s t i o n o f East and West f r o m the Point o f View o f Japan», in «Comparative Civilizations Review», nn. 1 3 / 1 4 ( A u t u n n o 1985 e Primavera 1986), p. '222.

La variante m o d e r a t a della tesi kemalista, s e c o n d o cui le società n o n occidentali potrebbero modernizzarsi attraverso u n a loro occidentalizzazione, resta ancora da provare. La sua variante estrema, s e c o n d o cui p e r modernizzarsi le società n o n occidentali debbano occidentalizzarsi, n o n si p r o p o n e c o m e tesi universale, m a solleva tuttavia la questione: esistono società n o n occidentali in cui gli ostacoli posti alla modernizzazione dalla cultura indigena sono così grandi da richiedere, se la si vuole perseguire, la sua sostituzione c o m p l e t a c o n la c u l t u r a occidentale? In teoria, questa ipotesi dovrebbe dimostrarsi più probabile con le culture consumistiche c h e n o n con quelle strumentali. Queste ultime sono «società nelle quali esiste u n notevole g r a d o di separazione e i n d i p e n d e n z a tra fini i n t e r m e d i e fini ultimi». Tali sistemi «riescono a innovarsi agevolmente dispiegando il m a n t o della tradizione sul m u t a m e n t o stesso. ... Possono innovarsi senza d a r mostra di alterare a f o n d o le proprie istituzioni sociali. Piuttosto, l'innovazione viene messa al servizio della tradizione». I sistemi consumistici, invece, «sono caratterizzati da u n a forte correlazione tra fini i n t e r m e d i e fini ultimi ... la società, lo stato, l'autorità e via dicendo, f a n n o tutti p a r t e di u n complesso sistema f o r t e m e n t e solidaristico in cui il principio della religione c o m e g u i d a alla conoscenza è dilagante. Tali sistemi sono s e m p r e stati ostili alle innovazioni». 17 Apter utilizza queste categorie p e r analizzare i m u t a m e n t i avvenuti nelle tribù africane. Eisenstadt applica un'analisi parallela alle grandi civiltà asiatiche e giunge a u n a conclusione analoga. La trasformazione i n t e r n a è « f o r t e m e n t e agevolata dall ' a u t o n o m i a delle istituzioni sociali, culturali e politiche». 48 Perciò, le più strumentali società g i a p p o n e s e e induista h a n n o avviato il loro processo di modernizzazione p r i m a e in m o d o più agevole di q u a n t o a b b i a n o fatto le società c o n f u c i a n e e islamiche, dimostrandosi m a g g i o r m e n t e capaci di i m p o r t a r e la tecnologia m o d e r n a e di utilizzarla p e r p r o m u o v e r e la p r o p r i a cultura. La società cinese e quella islamica devono d u n q u e o ri47 David E. Apter, «The Role of Traditionalism in the Politicai Modernization of Ghana and Uganda», in «World Politics», n. 13 (Ottobre 1960), pp. 47-68. 48 S. N. Eisenstad, «Transformation of Social, Politicai, and Cultural Orders in Modernization», in «American Sociological Review», n. 30 (Ottobre 1965), pp. 659-73.

n u n c i a r e sia alla modernizzazione c h e all'occidentalizzazione, o p p u r e abbracciarle e n t r a m b e ? L'alternativa n o n a p p a r e così drastica. Oltre al G i a p p o n e , a n c h e Singapore, Taiwan, Arabia Saudita e, in m i n o r misura, Iran sono diventate società m o d e r n e senza diventare occidentali. Di fatto, il tentativo dello shah di seguire u n corso kemalista h a g e n e r a t o u n a reazione fortem e n t e antioccidentale m a n o n a n t i m o d e r n a , m e n t r e la Cina sembra aver c h i a r a m e n t e imboccato u n a via riformista. Le società islamiche h a n n o palesato u n a certa difficoltà a modernizzarsi, e Pipes sostiene la p r o p r i a tesi che l'occidentalizzazione sia u n requisito indispensabile p o r t a n d o ad esempio i conflitti sorti tra l'Islam e la m o d e r n i t à in settori economici quali le leggi sul profitto, sul d i g i u n o e sulla successione, nonché la partecipazione delle d o n n e alla forza lavoro. A n c h e lui, tuttavia, c o n c o r d a con Maxine Rodinson, secondo cui «non c'è nulla c h e indichi in m o d o incontrovertibile che la religione m u s u l m a n a impedisce al m o n d o m u s u l m a n o di svilupparsi sec o n d o i c a n o n i del capitalismo m o d e r n o » e sostiene c h e in quasi tutti i settori di carattere n o n e c o n o m i c o , Islam e modernizzazione n o n sono in contrapposizione. I fedeli musulmani possono coltivare le scienze, lavorare con grande profitto nelle fabbriche o utilizzare armi sofisticate. La modernizzazione n o n i m p o n e alcuna particolare ideologia politica o assetto istituzionale; elezioni, confini nazionali, organizzazioni civili e tutti gli altri elementi distintivi della vita occidentale n o n sono necessari per la crescita economica. Come fede religiosa, l'islamismo soddisfa in pari m o d o consulenti aziendali e contadini. La sharia n o n dice nulla sui mutamenti che accompagnano la modernizzazione, quali ad esempio il passaggio dall'agricoltura all'industria, dalla campagna alla città o dalla stabilità alla mobilità sociale; né interviene su questioni quali l'istruzione di massa, la diffusione delle comunicazioni, nuove forme di trasporti o l'assistenza sanitaria.4'1

Analogamente, a n c h e i più strenui sostenitori dell'antioccidentalismo e della rinascita delle culture autoctone n o n esitano a impiegare tecnologie m o d e r n e quali la posta elettronica, le videocassette e la televisione p e r p r o m u o v e r e la loro causa. Modernizzazione, in definitiva, n o n significa necessariamen49 Pipes, Path ofGod, pp. 191, 107.

te occidentalizzazione. Le società n o n occidentali possono modernizzarsi, e l ' h a n n o fatto, senza a b b a n d o n a r e la p r o p r i a cultura e senza adottare in blocco valori, istituzioni e costumi occidentali. Il che, peraltro, sarebbe pressoché impossibile: qual u n q u e ostacolo posto dalle culture n o n occidentali alla modernizzazione impallidirebbe dinanzi a quelli posti all'occidentalizzazione. C o m e osserva Braudel, sarebbe quasi «fanciullesco» pensare che la modernizzazione o «il trionfo della civiltà al singolare» m e t t e r e b b e fine della pluralità di culture storiche i n c a r n a t e p e r secoli nelle grandi civiltà del pianeta. >0 Al contrario, la modernizzazione rafforza tali culture e riduce il p o t e r e relativo dell'Occidente. Sotto molti importanti aspetti, il mond o sta d i v e n t a n d o più m o d e r n o e m e n o occidentale.

50 Braudel, On History, pp. 212-3.

I MUTAMENTI IN AITO NEGLI EQUILIBRI TRA LE CIVILTÀ

CAPITOLO QUARTO

Il declino dell'Occidente: potere, cultura e indigenizzazione

Il potere occidentale: dominio e declino Due sono le immagini ricorrenti del potere dell'Occidente in r a p p o r t o alle altre civiltà. La prima è u n ' i m m a g i n e di trionfante e pressoché totale dominio. La disintegrazione dell'Unione Sovietica ha eliminato dalla scena l'unico serio antagonista dell'Occidente, e di conseguenza il m o n d o è e sarà configurato in base a obiettivi, priorità e interessi delle principali nazioni occidentali, forse con l'occasionale collaborazione del Giappone. In q u a n t o unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti p r e n d o n o insieme a Francia e Gran Bretagna tutte le più importanti decisioni in materia di politica e sicurezza, e insieme a G e r m a n i a e G i a p p o n e tutte quelle in materia di economia. L'Occidente è l'unica civiltà ad avere interessi sostanziali in tutte le altre civiltà o regioni del m o n d o n o n c h é la capacità di influenzarne gli indirizzi politici, economici e di sicurezza. Le società appartenenti ad altre civiltà h a n n o di n o r m a bisogno dell'aiuto occidentale p e r raggiungere i propri obiettivi e difendere i propri interessi. Le nazioni occidentali, come ha b e n riassunto u n o studioso, • • • • • •

Possiedono e dirigono il sistema bancario internazionale C o n t r o l l a n o tutte le valute pregiate Sono il principale acquirente del m o n d o F o r n i s c o n o la maggior p a r t e dei prodotti finiti del m o n d o D o m i n a n o i mercati internazionali dei capitali Esercitano u n a considerevole leadership morale a l l ' i n t e r n o di molte società • S o n o in g r a d o di c o m p i e r e massicci interventi militari • C o n t r o l l a n o tutte le rotte navali • S o n o all'avanguardia della ricerca e sviluppo in c a m p o tecnico e scientifico

• • • • •

Controllano i settori di p u n t a dell'istruzione tecnica D o m i n a n o lo spazio D o m i n a n o l'industria aerospaziale D o m i n a n o le comunicazioni internazionali D o m i n a n o l'industria degli a r m a m e n t i ad alta tecnologia 1

La seconda immagine d e l l ' O c c i d e n t e è c o m p l e t a m e n t e diversa. E l'immagine di u n a civiltà in declino, il cui p o t e r e politico, e c o n o m i c o e militare in a m b i t o internazionale va s e m p r e più riducendosi rispetto a quello di altre civiltà. La vittoria dell ' O c c i d e n t e nella guerra f r e d d a ha p o r t a t o n o n al trionfo, ma all'esaurimento. L'Occidente è s e m p r e più afflitto da p r o b l e m i e bisogni interni: crescita e c o n o m i c a lenta, disoccupazione, e n o r m i disavanzi pubblici, u n ' e t i c a del lavoro in declino, bassi tassi di risparmio n o n c h é - in molti paesi compresi gli Stati Uniti - disintegrazione sociale, droga e criminalità. Il p o t e r e e c o n o m i c o si sta r a p i d a m e n t e spostando in Asia orientale, e altrettanto iniziano a fare a n c h e il p o t e r e militare e l'influenza politica. L'India è a un passo dal decollo economico, m e n t r e il m o n d o islamico mostra nei confronti dell'Occidente un'ostilità s e m p r e maggiore. La remissività delle altre società nei conf r o n t i delle imposizioni e dei dettami occidentali sta rapidam e n t e svanendo, al pari del senso di autostima e della volontà di p r e d o m i n i o dello stesso Occidente. La fine degli anni Ottanta h a visto un intenso dibattito sul p r e s u n t o declino degli Stati Uniti, e a metà anni Novanta Aaron Fridberg ha concluso: Sotto molti e importanti aspetti il loro [degli Stati Uniti] potere relativo diminuirà a un ritmo sempre crescente. In termini di pure e semplici capacità economiche, la posizione degli Stati Uniti in relazione al Giappone e in futuro anche alla Cina è probabilmente destinata a peggiorare ancora. In campo militare, l'equilibrio di potere in termini di capacità reali tra gli Stati Uniti e un certo numero di potenze regionali in fase di sviluppo (comprese probabilmente Iran, India e Cina) si sposterà dal centro alla periferia. Parte del potere strutturale dell'America passerà ad altre nazioni; parte (compresa una parte del suo potere «persuasivo») finirà nelle mani di organismi non governativi, quali ad esempio le società multinazionali." 1 Jeffrey R. Barnett, «Exclusion as National Security Policy», in «Parameters», n. 24 (Primavera 1994), p. 54. 2 Aaron I.. Friedberg, «The Future of American Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 109 (Primavera 1994), pp. 20-1.

Quale di queste d u e o p p o s t e immagini del f u t u r o r u o l o dell ' O c c i d e n t e nel m o n d o descrive la realtà? La risposta, naturalm e n t e , è: e n t r a m b e . L ' O c c i d e n t e o c c u p a oggi u n a posizione d o m i n a n t e e resterà il n u m e r o u n o in termini di p o t e r e e influenza p e r b u o n a p a r t e del xxi secolo. Nel c o n t e m p o , tuttavia, si sta verificando u n graduale, inesorabile e f o n d a m e n t a l e mut a m e n t o nei r a p p o r t i di forze tra le varie civiltà, e il p o t e r e dell ' O c c i d e n t e in r a p p o r t o a quello di altre civiltà c o n t i n u e r à a declinare. Via via che il p r i m a t o d e l l ' O c c i d e n t e si riduce, buona p a r t e del suo attuale p o t e r e finirà s e m p l i c e m e n t e con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su base regionale tra le altre g r a n d i civiltà e i rispettivi stati guida. L ' a u m e n t o di potere più significativo viene oggi registrato, e c o n t i n u e r à a esserlo in f u t u r o , dalle civiltà asiatiche, c o n la Cina che sta grad u a l m e n t e a s s u m e n d o il r u o l o di maggior antagonista dell'Occidente in fatto di influenza su scala mondiale. Tali spostamenti di p o t e r e tra civiltà p o r t a n o e p o r t e r a n n o a n c h e in f u t u r o le società n o n occidentali a u n maggiore desiderio di affermazion e culturale e a rifiutare s e m p r e più decisamente la cultura occidentale. Il declino dell'Occidente presenta tre caratteristiche di fondo. Primo, è u n processo lento. L'ascesa d e l l ' O c c i d e n t e d u r ò q u a t t r o c e n t o anni; la sua recessione p o t r e b b e richiedere u n t e m p o altrettanto lungo. Negli a n n i O t t a n t a l ' e m i n e n t e studioso inglese Hedley Bull sostenne che «possiamo dire c h e il d o m i n i o e u r o p e o o d occidentale sulla società internazionale universale abbia r a g g i u n t o il p r o p r i o a p o g e o i n t o r n o al 1900».' Il p r i m o volume d e l l ' o p e r a di Spengler vide la luce nel 1918 e da allora il «declino dell'Occidente» è stato u n t e m a centrale nella storia del xx secolo. Tale processo si è p r o t r a t t o p e r l u n g a p a r t e del secolo, m a oggi p o t r e b b e registrare u n a n e t t a accelerazione. La crescita e c o n o m i c a e degli altri indici di sviluppo di u n paese s e g u o n o solitamente u n a curva a esse: u n avvio lento, q u i n d i u n a r a p i d a accelerazione seguita da u n r a l l e n t a m e n t o e quindi da u n assestamento. A n c h e il declino di u n paese p o t r e b b e seguire u n a sorta di curva a esse o p p o 3 Hedlev Bull, «The Revolt Against the Worst», in Hedley Bull e Adam Watson (a cura di), Expansion of International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 219.

sta, c o m ' è a c c a d u t o a l l ' U n i o n e Sovietica: inizialmente m o d e rato, q u i n d i s e m p r e più r a p i d o f i n o a toccare il f o n d o . Il declin o d e l l ' O c c i d e n t e è a n c o r a nella sua p r i m a fase, quella più lenta, m a p r i m a o poi p o t r e b b e subire u n a d r a m m a t i c a accelerazione. S e c o n d o , il processo di declino n o n è u n m o t o u n i f o r m e , bensì u n f e n o m e n o f o r t e m e n t e irregolare con pause, inversioni e dimostrazioni di forza successive a manifestazioni di debolezza. Le società d e m o c r a t i c h e a p e r t e d e l l ' O c c i d e n t e h a n n o grandi capacità di a u t o r i n n o v a m e n t o . Inoltre, a differenza di molte civiltà, l'Occidente ha avuto d u e grandi centri di potere. Il declino c h e Bull ha visto iniziare i n t o r n o al 1900 era essenzialmente il declino della c o m p o n e n t e e u r o p e a della civiltà occidentale. Dal 1910 al 1945 l ' E u r o p a è stata i n t e r n a m e n t e divisa e lacerata da p r o b l e m i economici, sociali e politici. Negli anni Q u a r a n t a , tuttavia, e b b e inizio la fase americana di p r e d o minio occidentale, e nel 1945 gli Stati Uniti quasi d o m i n a r o n o p e r breve t e m p o il m o n d o in u n a misura paragonabile al potere c o n g i u n t o d e t e n u t o dalle p o t e n z e alleate nel 1918. La decolonizzazione postbellica ridusse u l t e r i o r m e n t e l'influenza eur o p e a m a n o n quella dell'America, c h e al tradizionale i m p e r o territoriale sostituì u n nuovo imperialismo transnazionale. Negli anni della G u e r r a f r e d d a , tuttavia, la potenza militare americana f u raggiunta da quella sovietica, e il p o t e r e e c o n o m i c o statunitense diminuì rispetto a quello giapponese. Ciò n o n o stante, si e b b e r o periodici tentativi di rinascita militare ed economica. Nel 1991 u n altro e m i n e n t e studioso britannico, Barry Buzan, sostenne che «la realtà di f o n d o è che oggi il c e n t r o h a u n a posizione più d o m i n a n t e e la periferia u n a posizione più subordinata di q u a n t o sia mai avvenuto dall'inizio della decolonizzazione». 4 La veridicità di tale affermazione, tuttavia, viene m e n o m a n m a n o che si affievolisce la vittoria militare da cui essa e b b e origine. Terzo, p o t e r e significa la capacità, di u n g r u p p o o di u n individuo, di modificare la c o n d o t t a di u n altro g r u p p o o individuo. Ciò p u ò avvenire m e d i a n t e induzione, costrizione o esortazione e richiede da parte di chi detiene il p o t e r e grandi ri4 Barry G. Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twentv-first Century», in «International Affairs», n. 67 (Luglio 1991), p. 451.

sorse e c o n o m i c h e , militari, istituzionali, d e m o g r a f i c h e , politiche, tecnologiche, sociali e via dicendo. Il potere di u n o stato o di u n g r u p p o viene quindi calcolato r a p p o r t a n d o le sue risorse a quelle degli stati o g r u p p i che sta t e n t a n d o di influenzare. La p e r c e n t u a l e di b u o n a parte (ma n o n tutte) delle risorse deten u t e dall'Occidente h a raggiunto la p u n t a massima all'inizio del xx secolo ed inizia ora a calare rispetto a quelle di altre civiltà. Territorio e popolazione. Nel 1490 le società occidentali controllavano gran p a r t e della penisola e u r o p e a al di qua dei Balcani, all'incirca 2,5 milioni di chilometri quadrati su u n a superficie terrestre complessiva (escludendo l'Antartide) di circa 85 milioni di chilometri quadrati. Nel 1920, al culmine della p r o p r i a espansione territoriale, l'Occidente governava direttamente u n territorio di circa 41 milioni di chilometri quadrati, p o c o più della m e t à del pianeta. Nel 1933 tale controllo si era ridotto della metà, passando a circa 20 milioni di chilometri quadrati. L'Occidente era in tal m o d o t o r n a t o al p r o p r i o tradizionale nucleo e u r o p e o , più i vasti territori colonizzati del N o r d America, dell'Australia e della Nuova Zelanda. La superficie territoriale delle società islamiche indipendenti, viceversa, è passata dai 2,8 milioni di chilometri quadrati del 1920 agli oltre 17 milioni del 1993. Mutamenti di ugual segno si sono avuti a n c h e dal p u n t o di vista del controllo della popolazione. Nel 1900 gli occidentali costituivano all'incirca il 30 p e r cento della popolazione mondiale, e gli stati occidentali governavano quasi il 45 p e r cento di tale popolazione nel 1900 e il 48 p e r cento nel 1920. Nel 1993, a eccezione di alcuni piccoli residui imperiali come H o n g Kong, gli stati occidentali governavano esclusivamente le popolazioni occidentali. Queste a m m o n t a v a n o a p o c o più del 13 p e r cento dell'umanità e sono destinate a scendere a circa l ' i l p e r cento e n t r o l'inizio del nuovo secolo e al 10 p e r cento e n t r o il 2025. 1 In termini di popolazione complessiva, nel 1933 l'Occidente occupava il q u a r t o posto alle spalle delle civiltà sinica, islamica e indù. 5 Project 2025 (bozza), 20 settembre 1991, p. 7; World Bank, World Development Report 1990, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 229, 244; The World Almanac and Book ofFarts 1990, Mahwah, NJ, Funk Se Wagnalls, 1989, p. 539.

Tabella 4.1 Territorio sotto il controllo politico delle varie civiltà,

1900-1993

T e r r i t o r i o s o t t o il c o n t r o l l o p o l i t i c o d e l l e civiltà, 1 9 0 0 - 1 9 9 3 Anno

Occid.

Afric. Sinica

Indù

Islam.

1900 1920 1971 1993

20290 25447 12806 12711

164 400 4636 5682

54 54 1316 1279

3592 1811 9183 11054

1900 1920 1971 1993

38,7 48,5 24,4 24,2

4317 3913 3936 3923

Giapp. Latino amer. 161 261 142 145

7721 8098 7833 7819

Ortod.

Altre

8733 10258 10346 7169

7468 2258 2302 2718

S t i m e d e l territorio m o n d i a l e in p e r c e n t u a l e * 0,3 0,8 8,8 10,8

8,2 7,5 7,5 7,5

0,1 0,1 2,5 2,4

6,8 3,5 17,5 21,1

0,3 0,5 0,3 0,3

14,7 15,4 14,9 14,9

16,6 19,5 19,7 13,7

14,3 4,3 4,4 5,2

Nota: Quote territoriali basate sui confini statali in vigore nell'anno indicato * La cifra sulla superficie emersa del globo di 8.320.000 Km" non comprende l'Antartide. Fonti: Statesman's Year-Book, New York, St. Martin's Press, 1901-1927; World Book Atlas, Chicago, Field Enterprises Educational Corp., 1970; Britannica Book of the Year, Chicago, Encyclopaedia Britannica Inc., 1992-1994. Tabella 4.2 Popolazione dei paesi appartenenti 1993 (in migliaia)

Sinica Islamica Indù Occidentale

1.340.900 927.600 915.800 805.400

alle maggiori civiltà della terra,

Latinoamericana Africana Ortodossa Giapponese

507.500 392.100 261.300 124.700

Fonte: tabella elaborata in base ai dati contenuti in Encyclopedia Britannica, 1994 Book of the Year, Chicago, Encyclopedia Britannica, 1994, pp. 764-69.

Dal p u n t o di vista quantitativo, d u n q u e , gli occidentali rapp r e s e n t a n o u n a m i n o r a n z a s e m p r e più esigua della popolazione mondiale. A n c h e dal p u n t o di vista qualitativo, tuttavia, gli equilibri tra l'Occidente e le altre popolazioni s t a n n o m u t a n do. I popoli dei paesi n o n occidentali stanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati, meglio istruiti. Nei primi a n n i Novanta i tassi di mortalità infantile in America latina, Africa, Medio Oriente, Asia meridionale, Asia orientale e Asia sudorientale oscillavano tra u n terzo e u n q u a r t o rispetto a quelli di t r e n t ' a n n i prima. La speranza di vita in queste regioni era a u m e n t a t a significativamente con progressi che a n d a v a n o dagli undici a n n i dell'Africa ai ventitré dell'Asia orientale. Nei primi a n n i Sessanta, in gran p a r t e del Terzo M o n d o il tasso di alfabetizzazione n o n raggiungeva u n terzo della popolazione adulta; nei primi anni Novanta, fatta eccezione p e r l'Africa eran o pochissimi i paesi con u n tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 p e r cento. Circa la m e t à degli indiani e quasi i d u e terzi dei cinesi sapevano leggere e scrivere. Nel 1970 il tasso m e d i o di alfabetizzazione nei paesi in via di sviluppo era del 41 p e r c e n t o rispetto a quello dei paesi sviluppati; nel 1992 si era passati al 71 p e r cento. Nei primi a n n i Novanta, in tutte le regioni del m o n d o a eccezione dell'Africa, il 100 p e r c e n t o dei bambini f r e q u e n t a v a n o la scuola e l e m e n t a r e . Cosa ancor più significativa, nei primi anni Sessanta in Asia, America latina, Medio O r i e n t e e Africa, m e n o di u n terzo dei b a m b i n i f r e q u e n t a v a n o la scuola secondaria; nei primi a n n i Novanta, ad eccezione dell'Africa, tale p e r c e n t u a l e era arrivata al 50 p e r cento. Nel 1960 i residenti u r b a n i costituivano m e n o di u n q u a r t o della popolazione del m o n d o m e n o sviluppato; tra il 1960 e il 1992 tale p e r c e n t u a l e era passata dal 49 al 73 p e r c e n t o in America latina, dal 34 al 55 p e r c e n t o nei paesi arabi, dal 14 al 29 p e r cento in Africa, dal 18 al 27 p e r c e n t o in Cina e dal 19 al 26 p e r c e n t o in India/'

6 U n i t e d Nations D e v e l o p m e n t Program, Human Development Report 1994, New York, Oxford University Press, 1994, pp. 136-7, 207-11; World Bank, «World D e v e l o p m e n t Indicators», World Development Report 1984, 1986, 1990, 1994; Bruce Russet et al., World Handbook of Political and Social Indicators, New Haven, Yale University Press, 1994, pp. 222-6.

Tabella 4.3 Percentuali della popolazione mondiale sotto il controllo politico delle civiltà, 1900-2025

Anno [Totale Occid. mondo]

Afric. Sinica Indù

Islam. Giapp. Latino Ortod. Altre amer.

1900 1920 1971 1990 1995 2010 2025

0,4 0,7 5,6 8,2 9,5 11,7 14,4

4,2 2,4 13,0 13,4 15,9' 17,9' 19,2'

[1,6] 44,3 [1,9] 48,1 [3,7] 14,4 [5,3] 14,7 [5,8] 13,1 [7,2] 11,5 [8,5] 10,11

19,3 17,3 22,8 24,3 24,0 22,3 21,0

0,3 0,3 15,2 16,3 16,4 17,1 16,9

3,5 4,1 2,8 2,3 2,2 1,8 1,5

3,2 4,6 8,4 9,2 9,3 10,3 9,2

8,5 13,9 10,0 6,5 6,1 2 5,4 2 4,9 2

16,3 8,6 5,5 5,1 3,5 2,0 2,8

Note: Cifre calcolate in base ai confini nazionali relativi all'anno indicato. Le cifre relative agli anni 1995, 2010 e 2025 sono calcolate in base ai confini del 1994. "In miliardi 1 I dati n o n includono i membri della Comunità di Stati Indipendenti e della Bosnia 2 1 dati includono Comunità di Stati Indipendenti, Georgia ed ex Jugoslavia Fonti: United Nations, Population Division, Department for Economie and Social Information and Policy Analysis, World Population Pro-

speets, The 1992 Revision, New York, United Nations, 1993; Statesman's YearBook, New York, St. Martin's Press, 1901-1927; World Almanac and Book ofFacts, New York, Press Pub. Co., 1970-1993.

Questi m u t a m e n t i nei livelli di alfabetizzazione, istruzione e urbanizzazione h a n n o creato popolazioni socialmente mobili con maggiori capacità e aspettative, le quali possono essere mobilitate a fini politici in m o d i impensabili ai tempi dei contadini analfabeti. U n a nazione con u n alto tasso di mobilità sociale è più p o t e n t e . Nel 1953, q u a n d o in Iran la p e r c e n t u a l e di alfabetizzazione era inferiore al 15 p e r cento e la popolazione u r b a n a n o n raggiungeva il 17 p e r cento, Kermit Roosevelt e u n g r u p p e t t o di funzionari della Cia soppressero con relativa facilità u n ' i n s u r r e z i o n e scoppiata in quel paese e reinsediarono lo shah sul trono. Nel 1979, q u a n d o il 50 p e r cento degli iraniani e r a n o istruiti e il 47 p e r cento viveva in città, nessun dispiego di potenza militare a m e r i c a n a avrebbe p o t u t o m a n t e n e r e lo shah sul trono. U n significativo divario separa ancor oggi cinesi, indiani, arabi e africani da occidentali, giapponesi e russi; esso

tuttavia si sta r a p i d a m e n t e c o l m a n d o . Al t e m p o stesso, u n nuovo e diverso tipo di divario sta oggi p r e n d e n d o f o r m a . L'età m e d i a di occidentali, giapponesi e russi si m a n t i e n e o r m a i cos t a n t e m e n t e stabile, e la maggior percentuale di popolazione che h a smesso di lavorare i m p o n e u n o n e r e sempre più gravoso sulla parte produttiva della popolazione. Altre civiltà s o n o oberate da u n gran n u m e r o di bambini, m a i b a m b i n i sono futuri lavoratori e soldati. Attività economica. A n c h e la p e r c e n t u a l e occidentale dell'attività e c o n o m i c a mondiale ha raggiunto il culmine negli a n n i Venti, m a a partire dalla Seconda g u e r r a mondiale ha iniziato a declinare. Nel 1750 la Cina rappresentava quasi u n terzo, l'India quasi u n q u a r t o e l'Occidente m e n o di un q u i n t o della produzione manifatturiera mondiale. Nel 1830 l ' O c c i d e n t e aveva superato la Cina, e nei d e c e n n i successivi, c o m e osserva Paul Bairoch, l'industrializzazione d e l l ' O c c i d e n t e p o r t ò alla de-industrializzazione nel resto del m o n d o . Nel 1913 la p r o d u z i o n e manifatturiera dei paesi n o n occidentali era d u e terzi circa di quella del 1800. Dalla m e t à del xix secolo, la percentuale occidentale crebbe in misura spettacolare, r a g g i u n g e n d o nel 1928 la p u n t a massima dell'84,2 p e r c e n t o della p r o d u z i o n e manifatturiera mondiale. In seguito, tale percentuale iniziò a declin a r e a causa di u n tasso di crescita modesto, n o n c h é della rapida espansione produttiva dei paesi m e n o industrializzati d o p o la Seconda g u e r r a mondiale. Nel 1980, l'Occidente deteneva il 57,8 p e r cento della p r o d u z i o n e manifatturiera m o n d i a l e , all'incirca la stessa p e r c e n t u a l e di 120 anni prima. 7 I dati sull'attività e c o n o m i c a nel p e r i o d o p r e c e d e n t e la Sec o n d a g u e r r a mondiale n o n s o n o affidabili. Nel 1950, tuttavia, l ' O c c i d e n t e costituiva all'incirca il 64 p e r cento del p r o d o t t o m o n d i a l e lordo; negli anni Ottanta, tale percentuale era scesa al 49 p e r c e n t o (Tabella 4.5). S e c o n d o u n a stima, nel 1991 q u a t t r o delle sette maggiori p o t e n z e e c o n o m i c h e del m o n d o e r a n o paesi n o n occidentali: G i a p p o n e (al s e c o n d o posto), Cin a (terzo), Russia (sesto) e India (settimo). Nel 1992 gli Stati 7 Paul Bairoch, «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», in «Journal of European Economie History», n. 11 (Autunno 1982), pp. 296, 304.

Tabella 4.4 Suddivisione paese, 1750-1980

della produzione

manifatturiera

mondiale per civiltà o

(in percentuale. Totale = 100%) Paese 1750 Occidente 18,2 Cina 32,8 Giappone 3,8 India/Pakistan24,5 Russia/Urss* 5,0 Brasile/Messico Altri 15,7

1800 23,3 33,3 3,5 19,7 5,6 14,6

1830 1860 1880 19001913 1928 1938 1953 19631973 1980 31,1 53,7 68,8 77,4 81,6 84,2 78,6 74,6 65,4 61,2 57,8 29,8 19,7 12,5 6,2 3,6 3,4 3,1 2,3 3,5 3,9 5,0 2,8 2,6 2,4 2,4 2,7 3,3 5,2 2,9 5,1 8,8 9,1 17,6 8,6 2,8 1,7 1,4 1,9 2,4 1,7 1,8 2,1 2,3 5,6 7,0 7,6 8,8 8,2 5,3 9,0 16,0 20,9 20,1 21,1 - 0,8 0,6 0,7 0,8 0,8 0,8 0,9 1,2 1,6 2,2 13,1 7,6 5,3 2,8 1,7 1,1 0,9 1,6 2,1 2,3 2,5

* Inclusi i paesi del Patto di Varsavia durante gli anni della Guerra fredda Fonte: Paul Bairoch, «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», in «Journal of European Economie History», n. 11 (Autunno 1982), pp. 269-334.

Uniti e r a n o la maggiore e c o n o m i a del m o n d o , e le p r i m e dieci p o t e n z e e c o n o m i c h e del m o n d o c o m p r e n d e v a n o c i n q u e paesi occidentali più gli stati leader di altre cinque civiltà: Cina, Giapp o n e , India, Russia e Brasile. Stime verosimili indicano c h e nel 2020 le p r i m e cinque e c o n o m i e mondiali a p p a r t e r r a n n o a cinque diverse civiltà e che tra le p r i m e dieci vi s a r a n n o solo tre paesi occidentali. Il declino relativo d e l l ' O c c i d e n t e è, ovviam e n t e , addebitabile in b u o n a p a r t e all'impetuoso sviluppo econ o m i c o est-asiatico. 8 I semplici dati statistici sull'attività economica n a s c o n d o n o tuttavia gran p a r t e del vantaggio di cui g o d e l ' O c c i d e n t e in termini di qualità. L ' O c c i d e n t e e il G i a p p o n e d o m i n a n o quasi c o m p l e t a m e n t e le industrie a tecnologia avanzata. Queste tecnologie, tuttavia, vanno o r m a i s e m p r e più d i f f o n d e n d o s i nel m o n d o e l'Occidente - se i n t e n d e preservare la p r o p r i a superiorità - farà di tutto p e r c o n t e n e r e il più possibile tale processo di diffusione. Ma p r o p r i o a causa degli stretti legami che lo

8 «Economist», 15 maggio 1993, p. 83, c h e cita l'International Monetary Found, World Economie Outlook, «The Global Economy», in «Economist», 1 ottobre 1994, pp. 3-9; «Wall Street Journal», 17 maggio 1993, p. A12; Nicholas D. Kristof, «The Rise of China», in «Foreign Affaire», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 61; Kishore Mahbubani, «The Pacific Way», in «Foreign Affaire», n. 74 (Gennaio-Febbraio 1995), pp. 100-3.

Tabella 1992

4.5 Suddivisione

per civiltà

Anno Occid. Afric. Sinica Indù 1950 1970 1980 1992

dell'attività

economica

mondiale,

1950-

(%)

64,1 53,4 48,6 48,9

0,2 1,7 2,0 2,1

3,3 4,8 6,4 10,0

3,8 3,0 2,7 3,5

Islam.

Giapp.

Latino amer.

2,9 4,6 6,3 11,0

3,1 7,8 8,5 8,0

5,6 6,2 7,7 8,3

Ortod." Altre" 16,0 17,4 16,4 6,2

1,0 1,1 1,4 2,0

La stima relativa alla civiltà ortodossa per il 1992 comprende l'ex Urss e l'ex Jugoslavia * «Altre» comprende altre civiltà e gli errori di approssimazione. Fonti: le percentuali per gli anni 1950, 1970 e 1980 sono state calcolate sulla base dei dati in dollari costanti contenuti in Herbert Block,

The Planetary Produci in 1980: A Creative Pause?, Washington D.C., Bureau of Public Affaire, U.S. Dept. of State, 1981, pp. 30-45. Le percentuali per il 1992 sono state calcolate in base alle stime sulla parità di potere d'acquisto fatte dalla Banca mondiale e contenute nella tabel-

la 30 del World Development R£port 1994, New York, Oxford University Press, 1994.

stesso O c c i d e n t e ha stabilito, rallentare la diffusione di tecnologia nelle altre civiltà a p p a r e impresa s e m p r e più ardua, tanto più in assenza di u n specifica e b e n riconosciuta minaccia - com e d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a - c h e consentiva u n (seppur modesto) controllo del p a t r i m o n i o tecnologico. S e m b r a probabile che, p e r b u o n a p a r t e della p r o p r i a storia, quella cinese sia stata la maggiore e c o n o m i a del m o n d o . La d i f f u s i o n e di tecnologia e lo sviluppo e c o n o m i c o delle società n o n occidentali nella s e c o n d a m e t à del xx secolo s t a n n o oggi p r o d u c e n d o u n r i t o r n o a quella situazione storica. Si tratterà di u n processo lento, m a è probabile c h e e n t r o la m e t à del xxi secolo, se n o n prima, il m o d e l l o di distribuzione della p r o d u zione e c o n o m i c a tra le principali civiltà verrà a ricalcare quello del 1800. Il bisecolare d o m i n i o occidentale d e l l ' e c o n o m i a m o n d i a l e g i u n g e r à al capolinea. Capacità militare. La p o t e n z a militare h a q u a t t r o dimensioni: quantitativa (il n u m e r o di u o m i n i , armi, a p p a r e c c h i a t u r e e risorse); tecnologica (efficacia e sofisticatezza di armi ed appar e c c h i a t u r e ) ; organizzativa (coesione, disciplina, addestra-

m e n t o e m o r a l e delle t r u p p e , efficacia dei r a p p o r t i di c o m a n d o e di controllo) ; e sociale (capacità e p r o p e n s i o n e di u n a società all'uso della forza militare). Negli a n n i Venti l ' O c c i d e n t e era m o l t o più avanti di c h i u n q u e altro in tutte e q u a t t r o i campi; negli a n n i successivi tuttavia la sua p o t e n z a militare si è ridotta rispetto a quella di altre civiltà: u n declino, questo, evidenziato dal m u t a t o r a p p o r t o n u m e r i c o del p e r s o n a l e militare, u n o dei q u a t t r o e l e m e n t i - a n c h e se ovviamente n o n il più i m p o r t a n t e - c h e caratterizzano la forza militare di u n paese. Modernizzazione e crescita e c o n o m i c a g e n e r a n o negli stati il desiderio e le risorse e c o n o m i c h e necessarie p e r sviluppare le p r o p r i e capacità militari, e sono b e n p o c h i quelli c h e vi rinunciano. Negli a n n i T r e n t a del Novecento, G i a p p o n e e U n i o n e Sovietica c o s t r u i r o n o u n possente a p p a r a t o militare, c o m ' e b b e r o m o d o di dimostrare nella S e c o n d a g u e r r a m o n d i a l e . All ' e p o c a della G u e r r a f r e d d a l ' U n i o n e Sovietica era u n a delle d u e maggiori p o t e n z e militari del m o n d o . Oggi soltanto l'Occ i d e n t e è in g r a d o di dislocare ingenti forze militari convenzionali in ogni angolo del globo. C h e continui a m a n t e n e r e tale capacità n o n è affatto sicuro, m a a p p a r e r a g i o n e v o l m e n t e certo, tuttavia, c h e n e s s u n o stato o g r u p p o di stati n o n occidentale svilupperà u n a capacità comparabile p e r i prossimi decenni. Nel complesso, p e r q u a n t o riguarda l'evoluzione delle capacità militari a livello globale gli a n n i successivi alla G u e r r a fredda sono stati dominati da c i n q u e t e n d e n z e f o n d a m e n t a l i . 1) Le forze a r m a t e sovietiche s o n o state smantellate subito d o p o c h e l ' U n i o n e Sovietica ha cessato di esistere. A p a r t e la Russia, solo l'Ucraina h a ereditato u n potenziale militare significativo. L'esercito russo ha subito u n a drastica riduzione e si è ritirato d a l l ' E u r o p a centrale e dagli stati baltici; il Patto di Varsavia è stato sciolto; l'obiettivo di c o m p e t e r e con la Marina statunitense è stato a b b a n d o n a t o ; le attrezzature militari sono state v e n d u t e o p p u r e a b b a n d o n a t e a se stesse e rese inutilizzabili; il bilancio della Difesa ha subito drastici tagli; la demoralizzazione è dilagata tra le t r u p p e c o m e tra il c o r p o ufficiali. Nel c o n t e m p o , i vertici militari russi v a n n o r i d e f i n e n d o dottrina e ambito operativo, ristrutturandosi in f u n z i o n e della difesa dei cittadini russi e della soluzione dei conflitti regionali presenti nei paesi limitrofi.

2) La precipitosa c o n t r a z i o n e d e l l ' a p p a r a t o militare russo ha stimolato u n a più lenta m a significativa riduzione delle spese, dei c o n t i n g e n t i e del potenziale militare d e l l ' O c c i d e n t e . Sotto le amministrazioni Bush e Clinton, il b u d g e t militare statunitense ha subito u n a contrazione del 35 p e r cento, passando dai 342,3 miliardi di dollari (valuta del 1994) nel 1990 ai 222,3 miliardi nel 1998, a n n o in cui l ' a p p a r a t o militare nel suo complesso oscillerà tra la m e t à e i d u e terzi di quello c h e era alla fine della G u e r r a f r e d d a . Il personale militare complessivo passerà da 2,1 a 1,4 milioni di unità. Molti dei principali programmi di a r m a m e n t o sono stati e v e n g o n o a tutt'oggi cancellati. Tra il 1985 e il 1995 gli acquisti a n n u i di armi sono passati da 29 a 6 navi, da 943 a 127 aerei, da 720 a 0 carri armati e da 48 a 18 missili strategici. A partire dalla fine degli anni Ottanta, Inghilterra, G e r m a n i a e, in m i n o r misura, Francia h a n n o avviato u n a parallela contrazione del p r o p r i o a p p a r a t o militare e delle spese p e r la difesa. A m e t à a n n i Novanta la G e r m a n i a prevedeva di p o r t a r e i p r o p r i effettivi da 370.000 a 340.000 o forse anche a 320.000 unità, e la Francia di passare dalle 290.000 unità del 1990 a 225.000 nel 1997. Il personale militare britannico è passato da 377.000 unità nel 1985 a 274.800 nel 1993.1 m e m b r i e u r o p e i della Nato h a n n o inoltre ridotto la d u r a t a del servizio Tabella 4.6 Suddivisione Anno 1900 1920 1970 1991

per civiltà del personale militare nel mondo

Occid. Afric. Sinica [Totale 1 ] [10.086] 43,7 1,6 10,0 [8.645] 48,5 3,8 17,4 [23.991] 26,8 2,1 24,7 [25.797] 21,1 3,4 25,7

Indù Islam 0,4 0,4 6,6 4,8

16,7 3,6 10,4 20,0

Giapp. 1,8 2,9 0,3 1,0

(%)

Latino Ortod. Altre amer. 9,4 16,6 0,1 12,8* 0,5 10,2 4,0 25,1 2,3 3,5 6,3 14,3

Note: Le stime sono basate sui confini nazionali in vigore nell'anno indicato. 1 In migliaia. " La c o m p o n e n t e sovietica della cifra è una stima per l'anno 1924 fatta da J.M. Mackintosh in B.H. Liddell-Hart, The Red Army: The Red

Army 1918 to 1945, The, Soviet Army 1946 to present, New York, Harcourt, Brace, 1956. Fonti: U.S. Arms Control and Disarmament Agency, World Military

Expenditures and Arms Transfers, Washington, D.C., The Agency, 19711994; Statesman's Year-Book, New York, St. Martin's Press, 1901-1927.

militare di leva e discusso la possibilità di abolire completam e n t e l'istituto della coscrizione. 3) Le t e n d e n z e in atto in Asia orientale sono molto diverse da quelle prevalenti in Russia e in Occidente. A u m e n t i delle spese militari e r a f f o r z a m e n t o d e l l ' a p p a r a t o militare s o n o all ' o r d i n e del giorno. La Cina ha fatto da battistrada in tal senso. Stimolate sia dalla maggiore prosperità i n t e r n a che dall'escalation cinese, a n c h e altre nazioni est-asiatiche stanno modernizz a n d o ed e s p a n d e n d o il p r o p r i o esercito. Il G i a p p o n e h a continuato a migliorare il suo già a l t a m e n t e sofisticato a p p a r a t o militare; Taiwan, Corea del Sud, Thailandia, Malaysia, Singap o r e e I n d o n e s i a h a n n o tutte a u m e n t a t o le spese p e r la difesa e s t a n n o acquistando aerei, carri armati e navi da Russia, Stati Uniti, G r a n Bretagna, Francia, G e r m a n i a e altri paesi. M e n t r e le spese p e r la difesa della Nato h a n n o registrato tra il 1985 e il 1993 u n a riduzione di circa il 10 p e r cento passando da 539,6 a 485 miliardi di dollari (valuta del 1993), in Asia orientale sono a u m e n t a t e del 50 p e r cento, passando nello stesso p e r i o d o da 89,8 a 134,8 miliardi di dollari. 9 4) Gli arsenali militari, c o m p r e s e le a r m i di distruzione di massa, si stanno d i f f o n d e n d o in tutto il m o n d o . Di pari passo con lo sviluppo economico, i vari paesi acquisiscono la capacità di p r o d u r r e armi. Tra gli anni Sessanta e Ottanta, ad esempio, il n u m e r o di paesi del Terzo M o n d o p r o d u t t o r i di aerei da c o m b a t t i m e n t o è passato da u n o a otto; i p r o d u t t o r i di carri armati, da u n o a sei; di elicotteri, da u n o a sei; di missili tattici, da zero a sette. Gli anni Novanta h a n n o registrato u n a generale t e n d e n z a alla globalizzazione dell'industria p e r la difesa, cosa che p r o b a b i l m e n t e r i d u r r à a n c o r più il vantaggio militare dell'Occidente."' Molte società n o n occidentali o possiedono armi nucleari (Russia, Cina, Israele, India, Pakistan e forse Corea del N o r d ) , o stanno t e n t a n d o in tutti i m o d i di e n t r a r n e in possesso (Iran, Iraq, Libia e forse Algeria) o si stanno attrezzando in m o d o da poterle avere r a p i d a m e n t e ove se n e verificasse la necessità ( G i a p p o n e ) .

9 International Institute for Strategie Studies, «Tables and Analysis», The Mililary Balance 1994-95, London, Brassey's, 1994. 10 Project 2025, p. 13; Richard A. Bitzinger, The Globalization of Arms Production: Defense Markets in Transition, Washington, D.C., Defense Budget Project, 1993, passim.

5) Tutte queste linee di sviluppo indicano nella regionalizzazione la t e n d e n z a principale della strategia e del p o t e r e militari nel m o n d o post-Guerra f r e d d a . Essa fornisce la giustificazione logica p e r la riduzione del potenziale militare russo e a m e r i c a n o e la crescita di quello di altri stati. La Russia n o n h a più u n a capacità di i n t e r v e n t o militare globale, m a sta concent r a n d o la p r o p r i a strategia e le p r o p r i e forze sui paesi dell'ex i m p e r o . La Cina h a o r i e n t a t o la p r o p r i a strategia verso u n a proiezione delle p r o p r i e forze all'esterno su scala locale e verso la difesa degli interessi cinesi in Asia orientale. A n c h e i paesi e u r o p e i s t a n n o r i o r i e n t a n d o le p r o p r i e forze, sia in sede Nato sia in sede comunitaria, p e r far f r o n t e all'instabilità c h e pervade la periferia d e l l ' E u r o p a occidentale. Gli Stati Uniti h a n n o esplicitamente m u t a t o la p r o p r i a strategia militare da u n a politica di c o n t e n i m e n t o e di c o n f r o n t o con l ' U n i o n e Sovietica su scala globale a u n a c h e le p e r m e t t a di far f r o n t e parallelamente alle contingenze regionali del Golfo Persico e del Nord-Est asiatico. N o n sembra, tuttavia, che gli Stati Uniti a b b i a n o le capacità militari p e r p o t e r r a g g i u n g e r e questo obiettivo. Per sconfiggere l'Iraq, l'America h a dispiegato nel Golfo Persico il 75 p e r cento della propria flotta di aerei tattici, il 42 p e r c e n t o dei suoi m o d e r n i carri armati da g u e r r a , il 46 per c e n t o delle portaerei, il 37 per cento del personale militare di terra ed il 46 p e r c e n t o di quello di mare. Alla luce della f u t u r a cospicua riduzione delle p r o p r i e forze armate, p e r gli Stati Uniti sarà già difficile p o t e r effettuare u n intervento, figuriamoci d u e , contro le maggiori potenze regionali esterne all'emisfero occidentale. La sicurezza militare nel m o n d o d i p e n d e sempre più n o n dalla distribuzione globale del p o t e r e e dalle azioni delle sup e r p o t e n z e , ma bensì dalla distribuzione del potere a l l ' i n t e r n o di ciascuna regione del m o n d o e dal m o d o in cui gli stati guida delle diverse civiltà si m u o v e r a n n o . In conclusione, nel complesso l'Occidente resterà la civiltà più potente fino ai primi decenni del xxi secolo. In seguito, contin u e r à probabilmente a d e t e n e r e u n sostanziale vantaggio nel campo del personale scientifico, della ricerca e sviluppo e dell'innovazione tecnologica militare e civile. Il controllo sulle altre fonti di potere, tuttavia, sta sempre più suddividendosi tra gli stati guida e i principali paesi delle civiltà n o n occidentali. Il controllo di queste risorse da parte dell'Occidente raggiunse il culmine ne-

gli anni Venti, cui seguì l'inizio di u n lento m a signifìcadvo declino. Negli anni Venti del Duemila, cento anni d o p o aver toccato la p u n t a massima, l'Occidente controllerà probabilmente il 24 per cento circa della superficie del pianeta (rispetto al 49 per cento di un secolo prima), il 10 p e r cento di tutta la popolazione mondiale (rispetto al 48 per cento) e forse il 15-20 per cento della popolazione socialmente atdva, circa il 30 per cento dell'attività economica mondiale (rispetto ad u n a p u n t a massima verosimile del 70 p e r cento), forse il 25 per cento della produzione manifatturiera (rispetto all'84 per cento) e m e n o del 10 per cento del personale militare di tutto il m o n d o (rispetto al 45 per cento). Nel 1919, Woodrow Wilson, Lloyd George e Georges Clemenceau messi insieme controllavano il m o n d o . C o m o d a m e n t e seduti a Parigi, decidevano quali paesi avrebbero continuato a esistere e quali no; quali nuovi stati sarebbero stati creati, quali n e sarebbero stati i confini e chi li avrebbe governati, e in che m o d o il Medio O r i e n t e e altre parti del m o n d o sarebbero state spartite tra le p o t e n z e vincitrici. Decidevano anche in merito a u n possibile intervento militare in Russia e alle concessioni e c o n o m i c h e da i m p o r r e alla Cina. Cento anni dopo, nessun g r u p p o ristretto di statisti p o t r e b b e mai d e t e n e r e u n potere paragonabile al loro, e ove mai si creasse n o n sarebbe certo costituito da tre leader occidentali, m a bensì dai leader degli stati guida delle sette o otto maggiori civiltà del m o n d o . I successori di Reagan, della Thatcher, di Mitterand e di Kohl dovranno rivaleggiare con quelli di D e n g Xiaoping, Nakasone, Gandhi, Eltsin, Khomeini e Suharto. L'epoca del dominio occidentale sarà giunta al termine. Nel frattempo, il declino dell'Occidente e la nascita di altri centri di potere sta già p r o m u o v e n d o u n processo di indigenizzazione a livello globale e la rinascita delle culture n o n occidentali.

Indigenizzazione: la rinascita delle culture non occidentali La distribuzione delle culture nel m o n d o rispecchia la distribuzione del potere. Il c o m m e r c i o p u ò seguire o m e n o la bandiera, m a la cultura segue quasi s e m p r e il potere. Nel corso dell'intera storia u m a n a l'espansione del p o t e r e di u n a civiltà si è di n o r m a verificata parallelamente al fiorire della propria cultura e h a quasi sempre c o m p o r t a t o il ricorso a quel p o t e r e p e r

estendere i propri valori, costumi e istituzioni ad altre civiltà. U n a civiltà universale richiede u n p o t e r e universale. Il p o t e r e di Roma creò u n a civiltà quasi universale circoscritta al m o n d o classico. Il p o t e r e occidentale, nella veste del colonialismo eur o p e o nel xix secolo e dell'egemonia americana nel xx, h a esteso la cultura occidentale a b u o n a p a r t e del m o n d o c o n t e m p o raneo. Il colonialismo e u r o p e o è scomparso; l'egemonia americana va riducendosi; il risultato è u n ' e r o s i o n e della cultura occidentale via via che usi, costumi, lingue, credenze e istituzioni autoctone di g r a n d e tradizione storica t o r n a n o alla ribalta. Il crescente p o t e r e che la modernizzazione h a regalato alle società n o n occidentali sta p o r t a n d o in tutto il m o n d o a u n a reviviscenza delle culture n o n occidentali." Esiste tuttavia u n a differenza, ha sostenuto J o s e p h Nye, tra il «potere coercitivo» {hardpower), vale a dire il p o t e r e di comandare f a c e n d o leva sulla forza economica e militare, e il «potere persuasivo» {softpower), cioè la capacità di u n o stato di i n d u r r e «altri paesi a volere ciò che esso stesso vuole» in virtù dell'attrattiva esercitata dalla propria cultura e ideologia. C o m e lo stesso Nye riconosce, il m o n d o sta assistendo a u n a g r a n d e diffusione del p o t e r e coercitivo, e le nazioni maggiori «sono m e n o capaci che in passato di utilizzare le loro fonti di p o t e r e tradizionali per raggiungere i propri obiettivi». Nye sostiene quindi che se «la cultura e l'ideologia [di u n o stato] sono attraenti, gli altri sar a n n o più disposti ad accettare» la sua leadership, p e r cui il potere persuasivo è «altrettanto i m p o r t a n t e del p o t e r e di comand o coercitivo». 12 Cos'è, tuttavia, che r e n d e attraenti u n a cultura e un'ideologia? Esse diventano attraenti q u a n d o si ritiene che i loro f o n d a m e n t i siano l'autorevolezza e il successo materiale. Il p o t e r e persuasivo è tale solo q u a n d o poggia su u n f o n d a m e n t o 11 II nesso tra potere e cultura viene pressoché totalmente ignorato sia tra i fautori dell'avvento di civiltà universale, sia da chi sostiene c h e l'occidentalizzazione sia un prerequisito della modernizzazione. Essi rifiutano di ammettere che l'espansione e il c o n s o l i d a m e n t o del d o m i n i o occidentale sul m o n d o è una conseguenza logica della loro tesi, e che se si consente ad altre società di determinare a u t o n o m a m e n t e il proprio destino, queste rinvigoriranno vecchie credenze, usi e costumi che, s e c o n d o i teorici della cultura universale, s o n o nemici del progresso. Ben di rado, tuttavia, quanti propug n a n o le virtù di una civiltà universale p r o p u g n a n o anche le virtù di un impero universale. 12 J o s e p h S. Nye, «The Changing Nature of World Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 105 (Estate 1990), pp. 181-2.

di p o t e r e coercitivo. Un a u m e n t o di p o t e r e coercitivo militare ed e c o n o m i c o p r o d u c e u n a maggiore autostima, arroganza e convinzione nella superiorità della propria cultura (cioè del potere persuasivo) rispetto ad altri popoli, e accresce altresì la propria attrattiva agli occhi di altre società. U n a riduzione del potere e c o n o m i c o e militare g e n e r a dubbi, crisi di identità e tentativi di trovare in altre culture la chiave del successo economico, militare e politico. Q u a n t o più le società n o n occidentali accrescono le p r o p r i e capacità e c o n o m i c h e , militari e politiche, tanto più f e r m a m e n t e s b a n d i e r e r a n n o le virtù della propria cultura, dei p r o p r i valori e delle proprie istituzioni. L'ideologia comunista affascinò i popoli di tutto il m o n d o negli anni Cinquanta e Sessanta, q u a n d o f u associata al successo e c o n o m i c o e alla potenza militare d e l l ' U n i o n e Sovietica. Tale fascino svanì allorché l ' e c o n o m i a sovietica iniziò a ristagnare e n o n f u più in g r a d o di sostenere il potenziale militare del paese. I valori e le istituzioni dell'Occidente h a n n o affascinato i popoli di altre culture che vedevano in essi la fonte del suo p o t e r e e della sua ricchezza. E u n processo che si p e r p e t u a da secoli. Tra il 1000 e il 1300, sostiene William McNeill, il cristianesimo, il diritto r o m a n o e altri elementi della cultura occidentale v e n n e r o adottati da ungheresi, polacchi e lituani, e questa «accettazione della civiltà occidentale fu stimolata da un misto di p a u r a e ammirazione p e r le virtù militari dei sovrani occidentali». 13 Via via che il p o t e r e dell'Occidente viene a ridursi, diminuiscono anche sia la p r o p r i a capacità di i m p o r r e ad altre civiltà i suoi ideali di rispetto p e r i diritti u m a n i , liberalismo e democrazia, sia l'attrattiva stessa di questi ideali agli occhi di altre civiltà. Q u e s t a inversione di t e n d e n z a è del resto già in atto. Per svariati secoli i popoli n o n occidentali h a n n o invidiato il benessere e c o n o m i c o , la raffinatezza tecnologica, la potenza militare e la coesione politica delle società occidentali. C e r c a r o n o il segreto di questo successo nei valori e nelle istituzioni occidentali, e allorché r i t e n n e r o di aver individuato la chiave giusta, tent a r o n o di applicarla alla p r o p r i a società. Per diventare ricchi e p o t e n t i occorreva diventare c o m e l'Occidente. Oggi tuttavia in Asia orientale la teoria kemalista è scomparsa. Le popolazioni 13 William H. McNeill, The Rise oflhe West: A History o/the Human Chicago, University of Chicago Press, 1963, p. 545.

Community,

di questa regione attribuiscono il loro impetuoso sviluppo econ o m i c o n o n all'importazione della cultura occidentale, q u a n t o viceversa alla rigida adesione alla p r o p r i a cultura. Il successo li premia, sostengono, p e r c h é si sono differenziati dall'Occidente. Al t e m p o in cui si sentivano deboli in r a p p o r t o all'Occidente, le società n o n occidentali si r i c h i a m a r o n o ai valori occidentali d e l l ' a u t o d e t e r m i n a z i o n e , del liberalismo, della democrazia e d e l l ' i n d i p e n d e n z a p e r giustificare la loro opposizione al dominio occidentale. Adesso che n o n sono più deboli e c h e al contrario diventano sempre più forti, queste stesse società n o n esitano a scagliarsi c o n t r o quegli stessi valori in p r e c e d e n z a utilizzati p e r p r o m u o v e r e i p r o p r i interessi. La rivolta c o n t r o l'Occidente v e n n e originariamente legittimata m e d i a n t e la p r o p u gnazione dell'universalità dei valori occidentali; oggi viene legittimata m e d i a n t e la p r o p u g n a z i o n e della superiorità dei valori n o n occidentali. L'insorgere di simili atteggiamenti è u n a manifestazione di quella che Ronald D o r e h a definito il « f e n o m e n o di indigenizzazione della seconda generazione». Sia nelle ex colonie occidentali che in paesi i n d i p e n d e n t i c o m e Cina e G i a p p o n e , «la p r i m a generazione "modernizzatrice" o "post-indipendenza" è stata spesso addestrata in università straniere (occidentali) e ha assorbito u n linguaggio cosmopolita di stampo occidentale. Forse a n c h e p e r c h é q u a n d o si recavano all'estero p e r la p r i m a volta questi giovani e r a n o a n c o r a inesperti e f a c i l m e n t e impressionabili, l'assorbimento di valori e m o d i di vita occidentali poteva risultare molto p r o f o n d o » . Gran parte della (ben più vasta) seconda generazione, viceversa, p u ò studiare in patria, nelle università costruite dalla p r i m a generazione e nelle quali p r e d o m i n a s e m p r e più l'idioma locale anziché quello coloniale. Q u e s t e università « o f f r o n o u n contatto m o l t o più diluito c o n la cultura m e t r o p o l i t a n a internazionale», e «la cultura vien e rielaborata in senso a u t o c t o n o attraverso le traduzioni, solit a m e n t e di bassa qualità e limitata a pochi ambiti». I laureati in queste università s o f f r o n o il p r e d o m i n i o della generazione prec e d e n t e addestrata all'estero p e r cui sovente «soggiacciono ai richiami dei movimenti di opposizione localistici». 14 Via via c h e 14 Ronald Dore, «Unity and Diversity in Contemporary World Culture», in Bull e Watson (a cura di), Expansionism of International Society, pp. 420-1.

l'influenza occidentale viene a ridursi, i giovani aspiranti leader possono g u a r d a r e sempre m e n o all'Occidente c o m e f o n t e di p o t e r e e ricchezza, e devono trovare la strada p e r il successo all ' i n t e r n o della propria società, a d e g u a n d o s i perciò ai valori e alla cultura di quella società. Il processo d'indigenizzazione n o n deve c o m u n q u e attendere l'avvento della seconda generazione. I dirigenti più capaci, lungimiranti e flessibili della p r i m a generazione provvedono infatti a riconvertirsi da sé. Tre illustri esempi al r i g u a r d o sono M o h a m m e d Ali J i n n a h , H a r r y Lee e Solomon Bandaranaike. Tutti laureati a pieni voti, rispettivamente a Oxford, Cambridge e Lincoln's I n n , e m i n e n t i avvocati ed e s p o n e n t i p i e n a m e n t e occidentalizzati delle élite delle rispettive società. J i n n a h era u n convinto laicista. Lee era, s e c o n d o le parole di u n ministro di g a b i n e t t o britannico, «il miglior d a n n a t o inglese a est di Suez». Bandaranaike f u e d u c a t o alla f e d e cristiana. E tuttavia, p e r p o t e r guidare i loro paesi a l l ' i n d i p e n d e n z a e quindi governarli negli a n n i seguenti dovettero riconvertirsi alle rispettive culture tradizionali c a m b i a n d o identità, n o m e , f e d e e abbigliam e n t o . L'avvocato inglese M. A. J i n n a h divenne il pakistano Quaid-i-Azam; H a r r y Lee diventò Lee Kuan Yew. Il laicista Jinn a h si t r a s f o r m ò in u n f e r v e n t e sostenitore dell'Islam quale f o n d a m e n t o dello stato pakistano. L'anglicizzato Lee i m p a r ò il m a n d a r i n o e divenne u n e l o q u e n t e divulgatore del confucianesimo. Il cristiano Bandaranaike si convertì al b u d d i s m o e si richiamò al nazionalismo singalese. Indigenizzazione è stata la parola d ' o r d i n e in tutto il m o n d o n o n occidentale negli anni O t t a n t a e Novanta. La rinascita dell'Islam e la «re-islamizzazione» sono temi centrali nelle società m u s u l m a n e . In India la t e n d e n z a prevalente è il rifiuto degli usi e costumi occidentali e l'«induizzazione» della politica e della società. In Asia orientale i governi p r o m u o v o n o il confucianesimo e i leader politici e intellettuali p a r l a n o di «asianizzare» i p r o p r i paesi. A m e t à a n n i O t t a n t a il G i a p p o n e f u ossessionato dal «Nihonjinron, o teoria del G i a p p o n e e del giapponese». In seguito, u n n o t o intellettuale n i p p o n i c o sostenne che storicamente il G i a p p o n e h a s e m p r e attraversato «cicli di importazione di culture straniere» e altri cicli di «"indigenizzazion e " di quelle culture m e d i a n t e duplicazione e a d a t t a m e n t o , con inevitabili disordini causati all'esaurirsi degli impulsi crea-

tivi importati dall'Occidente; a questa fase, infine, n e succedeva u n a di r i a p e r t u r a al m o n d o esterno». Attualmente il Giapp o n e «sta attraversando la seconda fase di questo ciclo». 1 ' C o n la fine della G u e r r a f r e d d a la Russia è tornata ad essere u n paese «in bilico», con il r i e m e r g e r e del classico scontro tra occidentalisti e slavofili. Da u n d e c e n n i o a questa parte, tuttavia, la t e n d e n z a generale si è spostata a favore dei secondi, con l'occidentalizzato Gorbacèv che ha c e d u t o il passo a Eltsin, russo nello stile e occidentale nei valori, il quale era a sua volta minacciato d a Zirinovskij e da altri nazionalisti c h e incarnavano l'ep i t o m e dell'indigenizzazione ortodossa russa. Il processo di indigenizzazione è u l t e r i o r m e n t e favorito dal paradosso della democrazia: l'adozione di istituzioni d e m o c r a tiche occidentali da p a r t e delle società n o n occidentali consente lo sviluppo e finanche l'avvento al p o t e r e di movimenti politici antioccidentali. Negli a n n i Sessanta e Settanta del Novecento i governi occidentalizzati e filoccidentali di vari paesi in via di sviluppo f u r o n o minacciati da rivoluzioni e colpi di stato; negli a n n i O t t a n t a e Novanta h a n n o corso e c o r r o n o tuttora il rischio sempre maggiore di essere rimossi in seguito a elezioni politiche. La democratizzazione fa a p u g n i con l'occidentalizzazione, e quello d e m o c r a t i c o è p e r sua stessa n a t u r a u n processo di provincializzazione anziché d'internazionalizzazione. Gli e s p o n e n t i politici delle società n o n occidentali n o n vinc o n o le elezioni f a c e n d o vedere a tutti q u a n t o sono occidentali. Al contrario, la competizione elettorale li i n d u c e ad abbracciare quelli che considerano i valori prevalenti nel paese, e questi h a n n o solitamente u n carattere etnico, nazionalista e religioso. Risultato di tutto ciò è la mobilitazione p o p o l a r e c o n t r o le classi dirigenti formatesi in O c c i d e n t e e d'ispirazione filoccidentale. Nelle p o c h e elezioni politiche svoltesi nei paesi musulmani i g r u p p i fondamentalisti islamici h a n n o o t t e n u t o buoni risultati e in Algeria sarebbero addirittura giunti al p o t e r e se l'esercito n o n avesse invalidato le elezioni del 1992. In India, la 15 William E. NafF, «Reflections on the Question of "East and West" from the Point of'View o f j a p a n » , in «Comparative Civilizations Review», n. 1 3 / 1 4 (Aut u n n o 1985/Primavera 1986), p. 219; Arata Isokazi, «Escaping the Cycle of Eternai Resources», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Primavera 1992), p. 18.

ricerca del sostegno p o p o l a r e h a p r e s u m i b i l m e n t e incoraggiato sia gli appelli all'unità tribale che la violenza tra c o m u n i t à diverse."' Nello Sri Lanka, la democrazia permise al Partito della libertà singalese di scavalcare nel 1956 l'elitario e filoccidentale Partito nazionale unito, e negli anni O t t a n t a consentì la nascita del m o v i m e n t o nazionalista singalese Pathika Chintanaya. Prima del 1949, sia le classi dirigenti del Sud Africa sia quelle d e l l ' O c c i d e n t e consideravano la Repubblica Sudafricana u n paese occidentale. C o n l'avvento al p o t e r e del regime d e l l ' a p a r t h e i d , tuttavia, i governi occidentali iniziarono grad u a l m e n t e a estromettere il Sud Africa dal c a m p o occidentale, s e b b e n e i sudafricani di pelle bianca continuassero a considerarsi occidentali. Per p o t e r r i p r e n d e r e il p r o p r i o posto in seno all'ordine internazionale occidentale, questi ultimi h a n n o dovuto far p r o p r i e le istituzioni d e m o c r a t i c h e occidentali, le quali a loro volta h a n n o p r o d o t t o l'ascesa al p o t e r e di u n a élite nera f o r t e m e n t e occidentalizzata. Se tuttavia dovesse avere effetto a n c h e qui il fattore della seconda generazione, i loro successori avranno u n aspetto m o l t o più m a r c a t a m e n t e xhosa, zulù e africano, e il Sud Africa finirà s e m p r e più con l'autoidentificarsi c o m e u n o stato africano. Più volte, p r i m a del xix secolo, bizantini, arabi, cinesi, ottomani, mongoli e russi p o t e r o n o vantare la propria forza e i propri successi rispetto a quelli dell'Occidente. E sempre, in tali occasioni, essi si m o s t r a r o n o sprezzanti dell'inferiorità culturale, dell'arretratezza istituzionale, della c o r r u z i o n e e della decadenza occidentali. Via via che i successi d e l l ' O c c i d e n t e vengon o progressivamente a scemare, tali atteggiamenti t e n d o n o a ricomparire. Più p o t e r e p o r t a con sé u n a maggiore autostima culturale. I popoli n o n occidentali s e n t o n o di «non essere più costretti a subire». L'Iran è u n caso estremo in tal senso ma, com e h a n o t a t o u n osservatore, «i valori occidentali v e n g o n o rifiutati in m o d i diversi m a n o n m e n o decisi a n c h e in Malaysia, Indonesia, Singapore, Cina e Giappone». 1 7 Oggi assistiamo alla «fine d e l l ' e p o c a del progresso» d o m i n a t a dalle ideologie occi16 Richard Sission, «Culture and Democratization in India», in Larry Diam o n d , Politicai Culture and Democracy in Deueloping Countnes, Boulder, Lynne Rienner, 1993, pp. 55-61. 17 Graham E. Fuller, «The Appeal ol lran», in «National Interest», n. 37 (Aut u n n o 1994), p. 95.

dentali p e r e n t r a r e in u n ' e r a in cui svariate e diverse civiltà verr a n n o ad interagire, c o m p e t e r e , coesistere e adattarsi reciprocamente.'" Questo processo globale di indigenizzazione h a la sua manifestazione più evidente nella reviviscenza della religione in tante parti del m o n d o e, più specificamente, nella rinascita culturale in atto nei paesi asiatici ed islamici, in p a r t e g e n e r a t a dal loro d i n a m i s m o e c o n o m i c o e demografico.

La rivincita di Dio Nella p r i m a m e t à del xx secolo le élite intellettuali h a n n o di n o r m a c r e d u t o che la modernizzazione e c o n o m i c a e sociale dovesse p o r t a r e alla scomparsa della religione quale e l e m e n t o significativo dell'esistenza u m a n a . Tale convinzione era comune tanto a chi l'applaudiva q u a n t o a chi la deplorava. I laicisti modernizzatori guardavano con soddisfazione al fatto c h e la scienza, il razionalismo e il p r a g m a t i s m o stessero spazzando via le superstizioni, i miti, gli irrazionalismi e i rituali che e r a n o alla base delle religioni esistenti. La società e m e r g e n t e sarebbe stata tollerante, razionale, pragmatica, progressista, umanistica e laica. Dal canto loro, i conservatori mettevano in guardia contro le terribili c o n s e g u e n z e c h e avrebbero a c c o m p a g n a t o la scomparsa delle c r e d e n z e e delle istituzioni religiose e della guida morale offerta dalla religione al c o m p o r t a m e n t o u m a n o individuale e collettivo. Il risultato finale sarebbe stato anarchia, depravazione, distruzione della vita civile. «Se n o n avrai Dio (e Lui è u n Dio geloso)», disse T. S. Eliot, «allora dovrai ossequiare Hitler o Stalin».1'1 La seconda m e t à del xx secolo ha dimostrato l'infondatezza di quelle speranze c o m e di quelle p a u r e . La modernizzazione e c o n o m i c a e sociale ha raggiunto dimensioni mondiali, e p p u r e al t e m p o stesso si è verificata u n a generale rinascita religiosa. Q u e s t o f e n o m e n o , la revanche deDieu, c o m e l ' h a definita Gille Kepel, h a interessato tutti i continenti, tutte le civiltà, praticam e n t e tutù i paesi. A metà degli anni Settanta, osserva Kepel, la 18 Eisuke Sakakibara, «The End of Progressivism: A Search for New Goals», in «Foreign Affairs», n. 74 (Settembre-Ottobre 1995), pp. 8-14. 19 T. S. Eliot, Idea of a Christian Soàety, New York, Harcourt, Brace and Company, 1940, p. 64 (tr. it. L'idea di una società cristiana, Milano, Edizioni di Comunità, 1983).

tendenza alla secolarizzazione e all'adattamento della religione al laicismo i m p e r a n t e «invertì la rotta. Venne alla luce u n nuovo approccio religioso, volto n o n più a u n a d e g u a m e n t o ai valori laici, bensì al r e c u p e r o della sacralità invece c o m e fondam e n t o dell'organizzazione della società, se necessario a n c h e attraverso u n c a m b i a m e n t o della società stessa. Q u e s t a posizione, variamente articolata, invocava il distacco da u n m o d e r n i smo rivelatosi fallace nel m o m e n t o in cui aveva voluto allontanarsi da Dio. Il p u n t o in questione n o n era più u n aggiornamento2", m a u n a «seconda "evangelizzazione dell'Europa". L'obiettivo i n s o m m a n o n era più modernizzare l'Islam, m a bensì "islamizzare la modernità"». 2 1 Tale rinascita religiosa ha in p a r t e c o m p o r t a t o l'espansione di alcune religioni, che h a n n o conquistato nuovi proseliti in società dalle quali e r a n o in p r e c e d e n z a assenti. Ma soprattutto ha significato il r i t o r n o e rinvigorimento delle religioni tradizionali delle rispettive comunità, n o n c h é l'attribuzione a esse di nuovi significati. Cristianesimo, islamismo, ebraismo, induismo, buddismo, ortodossia h a n n o g o d u t o tutte di u n rinnovato impulso in termini di adesione e partecipazione p o p o l a r e . All ' i n t e r n o di ciascuna di queste religioni sono sorti movimenti fondamentalisti dediti alla purificazione delle p r o p r i e d o t t r i n e e istituzioni, n o n c h é a u n a riconfigurazione dei c o m p o r t a m e n ti individuali, sociali e pubblici in accordo con i d o g m i religiosi. I movimenti fondamentalisti sono u n f e n o m e n o di alto profilo e possono esercitare u n ' i m p o r t a n t e influenza politica. Tuttavia, essi sono soltanto le increspature di superficie di u n a b e n più g r a n d e e impetuosa o n d a t a religiosa che alla fine del xx secolo sta d a n d o u n nuovo volto all'esistenza u m a n a . La rinascita religiosa in atto in tutto il m o n d o trascende di gran lunga le attività degli estremisti fondamentalisti. In u n n u m e r o s e m p r e maggiore di società si manifesta nella vita e nel lavoro quotidiani dei suoi membri, riflettendosi sugli atteggiamenti e sui p r o g r a m m i dei rispettivi governi. La rinascita culturale c h e nella laica cultura confuciana assume l'aspetto di u n a diffusione di valori asiatici, nel resto del m o n d o si manifesta attraverso la 20 In italiano nel testo [ n . d . t ] 21 Gilles Kepel, Revenge ofGod: The Resurgence of ¡slam, Christianily andJudaism in the Modem World, trad. ingl. University Park, PA, Pennsylvania State University Press, 1994, p. 2. (tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991).

diffusione dei valori religiosi. La «de-secolarizzazione del mondo», h a osservato George Weigel, è u n o dei f e n o m e n i sociali più significativi di questa fine secolo. 22 L'onnipresenza e l'importanza della religione si è manifestata in tutta la sua drammatica evidenza negli ex stati comunisti. R i e m p i e n d o il vuoto lasciato dal crollo dell'ideologia, la rinascita religiosa è divampata in tutti questi paesi, dall'Albania al Vietnam. In Russia la fede ortodossa h a avuto u n a vera e propria esplosione. Nel 1994 il 30 p e r c e n t o dei russi al di sotto dei venticinque anni a f f e r m ò di essere passato dall'ateismo alla f e d e in Dio. Il n u m e r o di chiese attive nell'area di Mosca è passato da 50 nel 1988 a 250 nel 1993. Tutti i leader politici del paese, senza distinzione di sorta, sono diventati molto rispettosi della religione e il governo u n suo attivo sostenitore. Nelle città russe, c o m m e n t ò nel 1993 u n acuto osservatore, «il s u o n o delle camp a n e delle chiese è t o r n a t o a riempire l'aria. Cupole dorate di fresco scintillano al sole. Chiese fino a p o c o t e m p o addietro ridotte ad u n ammasso di rovine oggi riecheggiano di canti meravigliosi. Le chiese sono i luoghi più affollati della città». 23 Parallelamente alla rinascita dell'ortodossia nelle repubbliche slave, u n a reviviscenza islamica h a travolto tutta l'Asia centrale. Nel 1989 esistevano in Asia centrale 160 moschee e u n medressah (sem i n a r i o islamico); all'inizio del 1993 c ' e r a n o circa diecimila moschee e dieci medressah. Benché caratterizzata a n c h e dalla nascita di alcuni movimenti politici fondamentalisti ed incoraggiata esternamente da Arabia Saudita, Iran e Pakistan, questo fen o m e n o si presenta principalmente c o m e u n movimento culturale con u n a base sociale molto vasta.24 C o m e si spiega u n a simile rinascita religiosa a livello mondiale? Ovviamente, esistono fattori specifici o p e r a n t i in singoli paesi e civiltà. Sarebbe i n g e n u o , tuttavia, p e n s a r e c h e tante svariate cause a b b i a n o p r o d o t t o sviluppi uguali e simultanei in b u o n a p a r t e del m o n d o . U n f e n o m e n o di dimensioni generali 22 George Weigel, «Religion and Peace: An Argument Complexifìed», in «Washington Quarterly», n. 14 (Primavera 1991), p. 27. 23 James H. Billington, «The Case for Orthodoxy», in «New Republic», 30 maggio 1994, p. 26; Suzanne Massie, «Back to the Future», in «Boston Globe», 28 marzo 1993, p. 72. 24 «Economist», 8 gennaio 1993, p. 46; James R u p e « , «Dateline Tashkent: Post-Soviet Central Asia», in «Foreign Policy», n. 87 (Estate 1992), p. 180.

esige u n a spiegazione generale. Per q u a n t o gli eventi succedutisi in particolari paesi possano essere stati influenzati da fattori specifici, n o n c'è d u b b i o c h e d e b b a n o esserci state delle motivazioni d ' o r d i n e generale. Quali? La causa più ovvia, saliente e i m p o r t a n t e è esattamente la stessa c h e si pensava spiegasse la m o r t e della religione: i processi di modernizzazione sociale, e c o n o m i c a e culturale divampati nel m o n d o nella seconda m e t à del xx secolo. Sistemi che avevano o f f e r t o ai cittadini identità e autorità sono crollati. Masse di u o m i n i e d o n n e si spostano dalle c a m p a g n e alle città, r e c i d o n o le loro p r o p r i e radici e si t u f f a n o in u n n u o v o lavoro o p p u r e restano disoccupati. Interagiscono con u n a moltitudin e di stranieri e stabiliscono nuovi tipi di rapporti sociali. Necessitano di nuove fonti di identificazione, nuove e stabili form e di c o m u n a n z a , nuovi corpi di regole morali che d i a n o u n senso e u n o scopo alla loro vita. La religione, sia quella tradizionale che quella fondamentalista, risponde a tutte queste necessità. C o m e Lee Kuan Yew ha spiegato a proposito dell'Asia orientale: Le nostre sono società agricole che si sono industrializzate nel corso di una o due generazioni. Ciò che in Occidente è accaduto nel corso di duecento anni o più, qui sta accadendo nell'arco di cinquant'anni circa o anche meno. Tutto è compresso in un ridottissimo lasso di tempo, ed è dunque inevitabile che vi siano problemi e disfunzioni. Se guardiamo ai paesi in rapido sviluppo - Corea, Thailandia, Hong Kong e Singapore - possiamo notare l'esplosione di un unico fenomeno straordinario: l'avvento della religione. ... I costumi e le religioni tradizionali - il culto degli antenati, lo sciamanesimo - non soddisfano più appieno. C'è la ricerca di una spiegazione più alta circa il fine dell'umanità, del perché esistiamo. Tutto questo si accompagna a periodi di grande stress sociale.2' Gli u o m i n i n o n vivono di solo cervello. N o n possono pensare e agire razionalmente nel p e r s e g u i m e n t o del p r o p r i o interesse fino a q u a n d o n o n g i u n g o n o a u n a definizione di se stessi. La politica del profitto p r e s u p p o n e u n a identità. In tempi di rapidi m u t a m e n t i sociali le identità si dissolvono, l'io deve es25 Fareed Zakaria, «Culture Is Destiny: A Conversation with Lee Kuan Yew», in «Foreign Affairs», n. 73 (Marzo-Aprile 1994), p. 118.

sere ridefinito, o c c o r r e creare nuove identità. Le questioni di identità a s s u m o n o priorità rispetto a quelle di interesse. Gli uomini s e n t o n o il bisogno di capire: Chi sono? A chi a p p a r t e n g o ? La religione o f f r e risposte soddisfacenti, e i g r u p p i religiosi r a p p r e s e n t a n o piccole c o m u n i t à sociali in g r a d o di sostituire quelle p e r d u t e a seguito d e l l ' i n u r b a m e n t o . Tutte le religioni, ha osservato Hassan Al-Turabi, f o r n i s c o n o «un senso di identità e o r i e n t a m e n t o nella vita». In tale processo, inoltre, gli uomini r i s c o p r o n o le p r o p r i e identità storiche o n e c r e a n o di nuove. Q u a l u n q u e fine universalistico possano avere, le religioni f o r n i s c o n o agli u o m i n i u n senso di identità stabilendo u n a distinzione di f o n d o tra credenti e n o n credenti, tra u n «noi» superiore ed u n «altro» diverso e inferiore. 2r> Nel m o n d o m u s u l m a n o , sostiene B e r n a r d Lewis, si è avuta u n a «tendenza ricorrente, in tempi di emergenza, ad individ u a r e la p r o p r i a f o n t e principale di identità e di fedeltà nella c o m u n i t à religiosa, vale a dire in u n ' i d e n t i t à definita n o n già da criteri etnici o geografici bensì dall'islamismo». A n c h e Gilles Kepel sottolinea l ' i m p o r t a n z a f o n d a m e n t a l e di questa ricerca di identità: «La re-islamizzazione "dal basso" è innanzitutto u n m o d o di ricostruire u n ' i d e n t i t à in u n m o n d o che h a p e r d u to di significato ed è diventato a m o r f o ed alienante». 27 In India, «una nuova identità i n d ù è in via di costituzione» c o m e risposta alle tensioni e d all'alienazione creata dalla modernizzazione». 2 " In Russia, la rinascita religiosa è il risultato «di u n o s t r e n u o desiderio di trovare u n ' i d e n t i t à c h e solo la Chiesa ortodossa, unico legame a n c o r a n o n reciso con il p r o p r i o passato millenario, p u ò offrire», così c o m e nelle r e p u b b l i c h e islamiche la medesim a rinascita deriva «dalle più p r o f o n d e aspirazioni dei popoli centroasiatici: p o t e r a f f e r m a r e quelle identità che Mosca aveva soppresso p e r decenni». 2 9 1 movimenti fondamentalisti, in par-

26 Hassan Al-Turabi, «The Islamic Awakening's S e c o n d Wave», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Estate 1992), pp. 52-5; T e d G. Jelen, The Politicai Mohilization ofReligious Belief, New York, Praeger, 1991, p. 55 sgg. 27 Bernard Lewis, «Islamic Revolution», in «New York Review of Books», 21 g e n n a i o 1988, p. 47; Kepel, Revenge of God, p. 82. 28 Sudhir Kakar, «The Colors of Violence: Cultural Identities, Religion, and Conflict», manoscritto inedito, cap. 6, «A New H i n d u Identity», p. 11. 29 Suzanne Massie, «Back to the Future», p. 72; Rupert, «Dateline Tashkent», p. 180.

ticolare, r a p p r e s e n t a n o «un m o d o di superare l'esperienza del caos, la perdita d'identità, di o r i e n t a m e n t o e di strutture sociali sicure causate dalla rapida i n t r o d u z i o n e di modelli politici e sociali di stampo occidentale, del laicismo, della cultura scientifica e dello sviluppo economico». I «movimenti [ f o n d a m e n talisti] davvero importanti», c o n c o r d a William H. McNeill, «...sono quelli che f a n n o proseliti in tutti gli strati sociali e si d i f f o n d o n o p e r c h é r i s p o n d o n o , o s e m b r a n o r i s p o n d e r e , ai nuovi bisogni d e l l ' u o m o . ... N o n è u n caso che tutti questi movimenti siano sorti in paesi in cui la pressione d e m o g r a f i c a r e n d e impossibile p e r gran p a r t e della popolazione il perpetuarsi del vecchio modello del villaggio e in cui le comunicazioni di massa, i m p e r n i a t e su u n o stile di vita u r b a n o , penet r a n d o nei villaggi h a n n o iniziato a c o r r o d e r e u n a tradizione di vita agreste vecchia di secoli». 1 " Più in generale, il rifiorire della religione in tutto il m o n d o è u n a reazione al laicismo, al relativismo morale e all'autoindulgenza, e la riproposizione di valori quali l'ordine, la disciplina, il lavoro, l'aiuto reciproco e la solidarietà. I g r u p p i religiosi vengon o incontro ai bisogni sociali lasciati insoddisfatti dalle organizzazioni statali. Questi c o m p r e n d o n o servizi medici ed ospedalieri, asili nido e scuole, assistenza agli anziani, p r o n t o intervento in caso di terremoti ed altre catastrofi, sostegno sociale ed assistenziale in periodi di difficoltà economiche. La disgregazione dell'ordine e della società civile crea dei vuoti che a volte vengono riempiti dai gruppi religiosi, spesso fondamentalisti. 1 1 Se le religioni tradizionali d o m i n a n t i n o n soddisfano i bisogni emotivi e sociali dei disadattati, altri g r u p p i religiosi provv e d o n o a farlo, accrescendo in tal m o d o sia la p r o p r i a consistenza n u m e r i c a che l ' i m p o r t a n z a della religione nella vita sociale e politica. La Corea del Sud è s e m p r e stata p e r tradizione u n paese prevalentemente buddista, con u n a presenza cristiana » 30 Rosemary Radford Ruther, «A World 011 Fire with Faith», in «New York Times Book Review», 26 g e n n a i o 1992, p. 10; William H. McNeill, «Fundamentalism and the World of the 1990s», in Martin E. Marty e R. Scott Appleby (a cura di), Fundamentalisms and Society, Chicago, University of Chicago Press, 1993, p. 561. 31 «New York Times», 15 g e n n a i o 1993, p. A9; Henry Clement Moore, Images of Development: Egyptian Engineers in Search of Industry, Cambridge, M.I.T. Press, 1980, pp. 227-8.

valutabile nel 1950 i n t o r n o all'1-3 p e r cento. Q u a n d o il paese imboccò la strada di r a p i d o sviluppo economico, con u n a massiccia urbanizzazione e u n a f o r t e differenziazione occupazionale, il b u d d i s m o si rivelò del tutto inadeguato. «Per i milioni di p e r s o n e riversatesi nelle città e p e r molti di coloro c h e rimasero in u n a c a m p a g n a c o m u n q u e stravolta, il quiescente buddismo della vecchia epoca agraria perse tutto il suo fascino. Il cristianesimo, con il suo messaggio di salvezza personale e di destino individuale, offriva u n c o n f o r t o più sicuro in u n ' e p o c a di c o n f u s i o n e e mutamento». 3 2 A m e t à anni O t t a n t a i cristiani, per la gran p a r t e presbiteriani e cattolici, r a p p r e s e n t a v a n o alm e n o il 30 p e r cento della popolazione sudcoreana. U n m u t a m e n t o simile e parallelo si è verificato in America latina. Qui il n u m e r o dei protestanti è passato da 7 milioni circa nel 1960 a 50 milioni nel 1990.1 motivi di tale successo, ammisero i vescovi cattolici latinoamericani nel 1989, c o m p r e n d e vano la «lentezza [della Chiesa cattolica] nell'adeguarsi agli aspetti tecnici della vita u r b a n a » e «la sua struttura, c h e a volte la r e n d e incapace di r i s p o n d e r e ai bisogni psicologici dell'uom o m o d e r n o » . A differenza della Chiesa cattolica, h a osservato u n sacerdote brasiliano, le chiese protestanti soddisfano «i bisogni più intimi d e l l ' u o m o : calore u m a n o , c o n f o r t o , p r o f o n dità dell'esperienza spirituale». La diffusione del protestantesim o tra i poveri dell'America latina n o n significa tanto la sostituzione di u n a religione con un'altra, q u a n t o piuttosto u n a crescita d e l l ' i m p e g n o e della partecipazione religiosa nella misura della crescita della p o p o l a z i o n e protestante. In Brasile, ad esempio, nei primi anni Novanta il 20 p e r cento della popolazione si definiva protestante e il 73 p e r cento cattolica, e p p u r e la d o m e n i c a 20 milioni di p e r s o n e si recavano nelle chiese protestanti e circa 12 milioni in quelle cattoliche. 33 Al pari delle altre religioni universali, il cristianesimo sta vivendo u n m o m e n to di rinascita connesso alla modernizzazione, e in America la* tina ha acquisito u n a f o r m a protestante più che cattolica. 32 Henry Scott Stokes, «Korea's Church Militant», in «New York Times Magazine», 28 novembre 1972, p. 68. 33 Rev. Edward J. Dougherty, S. J., in «New York Times», 4 luglio 1993, p. 10; Timothy G o o d m a n , «Latin America's Reformation», in «American Enterprise», n. 2 (Luglio-Agosto 1991), p. 43; «New York Times», 11 luglio 1993, p. 1; «Time», 21 g e n n a i o 1991, p. 69.

In Corea del Sud e in America latina, m u t a m e n t i di ugual seg n o riflettono l'incapacità del b u d d i s m o e del cattolicesimo tradizionale di soddisfare i bisogni psicologici, emotivi e sociali di quanti subiscono i traumi della modernizzazione, m e n t r e in altre parti del m o n d o l'entità del f e n o m e n o d i p e n d e dalla misura in cui la religione prevalente è in g r a d o di soddisfare tali bisogni. Alla luce della sua aridità emotiva, il confucianesimo appare particolarmente vulnerabile. Nei paesi confuciani, protestantesimo e cattolicesimo p o t r e b b e r o esercitare un'attrattiva simile a quella esercitata dal protestantesimo evangelico sui latinoamericani, dal cristianesimo sui sudcoreani e dal fondamentalismo su m u s u l m a n i e induisti. Nella Cina di fine anni Ottanta, con la crescita d e l l ' e c o n o m i a a n c h e il cristianesimo a n d ò d i f f o n d e n d o s i «soprattutto tra i giovani». Oggi i cinesi cristiani sono forse 50 milioni. Il governo ha tentato di impedire la loro proliferazione a r r e s t a n d o ministri del culto, missionari ed evangelisti, vietando e s o p p r i m e n d o cerimonie e attività religiose n o n c h é , nel 1994, v a r a n d o u n a legge che proibisce agli stranieri di fare proselitismo o di organizzare scuole o altre organizzazioni religiose e vietando ai g r u p p i religiosi di i n t r a p r e n d e r e attività i n d i p e n d e n t i e finanziate dall'esterno. A Singapore, c o m e in Cina, circa il 5 p e r cento della popolazione è cristiana. Tra la fine degli a n n i O t t a n t a e i primi anni Novanta il governo a m m o n ì gli evangelisti a n o n sconvolgere «i delicati equilibri religiosi» del paese, gettò in carcere gli attivisti, ivi compresi alcuni f u n z i o n a r i delle organizzazioni cattoliche, e vessò in vario m o d o g r u p p i e p e r s o n e di f e d e c r i s t i a n a . C o n la fine della G u e r r a f r e d d a ed il susseguente rilassamento del clim a politico, le chiese occidentali sono p e n e t r a t e a n c h e nelle ex repubbliche sovietiche ortodosse, c o m p e t e n d o con le rivitalizzate chiese locali. A n c h e qui, c o m e in Cina, si è t e n t a t o di stroncare la loro o p e r a di proselitismo. Nel 1993, su richiesta della Chiesa ortodossa il p a r l a m e n t o russo approvò u n d e c r e t o che imponeva ai g r u p p i religiosi stranieri c h e i n t e n d e v a n o compiere attività pedagogiche o missionarie di farsi accreditare presso lo stato o di affiliarsi a un'organizzazione religiosa russa. Il presidente Eltsin, tuttavia, si rifiutò di t r a m u t a r e tale d e c r e t o 34 «Economist», 6 maggio 1989, p. 23; 11 novembre 1989, p. 41; «Times» (Londra), 12 aprile 1990, p. 12; «Observer», 27 maggio 1990, p. 18.

in legge.' 1 Da q u a n t o è d a t o di vedere, sembra c o m u n q u e c h e nel complesso la revanche deDieu p r e m i p r e v a l e n t e m e n t e le religioni locali: solo laddove i bisogni spirituali ravvivati dalla modernizzazione n o n v e n g o n o soddisfatti dalle fedi tradizionali la g e n t e si rivolge a religioni d ' i m p o r t a z i o n e emotivamente più appaganti. Oltre ai traumi psicologici, emotivi e sociali della modernizzazione, altri stimoli alla rinascita religiosa sono stati la ritirata d e l l ' O c c i d e n t e e la fine della G u e r r a f r e d d a . A partire dal xix secolo, gli atteggiamenti delle civiltà n o n occidentali nei confronti d e l l ' O c c i d e n t e si sono evoluti attraverso u n a serie di ideologie i m p o r t a t e d a l l ' O c c i d e n t e . N e l l ' O t t o c e n t o , le élite n o n occidentali assimilarono i valori liberali occidentali, e le loro p r i m e manifestazioni di opposizione all'Occidente vestirono i p a n n i del nazionalismo liberale. Nel xx secolo, le élite russe, asiatiche, arabe, africane e l a t i n o a m e r i c a n e i m p o r t a r o n o l'ideologia socialista e marxista, cui c o n i u g a r o n o il nazionalismo c o m e s t r u m e n t o di opposizione all'imperialismo occidentale. Il crollo del c o m u n i s m o in U n i o n e Sovietica, le p r o f o n d e modifiche cui è stato sottoposto in Cina e la comprovata incapacità delle e c o n o m i e socialiste di creare u n o sviluppo a d e g u a t o h a n n o p r o d o t t o un vuoto ideologico. Governi, g r u p p i e organismi internazionali dell'Occidente, quali ad esempio il F o n d o m o n e t a r i o internazionale e la Banca mondiale, h a n n o tentato di riempire questo vuoto con le dottrine della neo-ortodossia e c o n o m i c a e della democrazia politica. N o n si sa in che misura tali d o t t r i n e p o t r a n n o avere u n impatto d u r a t u r o sulle culture n o n occidentali. Nel f r a t t e m p o , tuttavia, i popoli v e d o n o nel c o m u n i s m o nient'altro che l'ultimo deus laico sconfitto, e in assenza di nuove e seducenti divinità secolari si volgono con sollievo e passione al Dio religioso. La religione viene d u n q u e a sostituire l'ideologia, e il nazionalismo religioso soppianta il nazionalismo laico.31' I movimenti per la rinascita religiosa sono antisecolari, antiuniversalistici e, a eccezione di quelli d'ispirazione cristiana, antioccidentali. Rifiutano altresì il relativismo, l'egotismo e il 35 «New York Times», 16 luglio 1993, p. A9; «Boston Globe», 15 luglio 1993, p. 13. 36 Si veda Mark Juergensmeyer, The New Colà War? Religious Nationalism Confronti the Serular State, Berkeley, University of California Press, 1993.

consumismo associati a quello c h e Bruce B. Lawrence h a definito «modernismo» c o m e f e n o m e n o distinto dalla «modernità». Nel complesso, questi movimenti n o n r e s p i n g o n o fenom e n i quali urbanizzazione, industrializzazione, sviluppo, capitalismo, scienza e tecnologia e tutto q u a n t o essi implicano p e r l'organizzazione della società. In tal senso, n o n sono affatto antimoderni. Accettano, c o m e osserva Lee Kuan Yew, la m o d e r nizzazione, «l'inevitabilità della scienza e della tecnologia nonché il c a m b i a m e n t o di m o d i di vita c h e esse c o m p o r t a n o » ; essi tuttavia sono «sordi all'idea di farsi occidentalizzare». Né il nazionalismo n é il socialismo, a f f e r m a Al-Turabi, h a n n o p r o d o t t o sviluppo nel m o n d o islamico. «La religione», per contro, «è il m o t o r e dello sviluppo», e u n islamismo purificato svolgerà nell'epoca c o n t e m p o r a n e a u n r u o l o paragonabile a quello avuto dall'etica protestante nella storia dell'Occidente. Né la religione è incompatibile con lo sviluppo di u n o stato m o d e r n o . 3 ' I movimenti fondamentalisti islamici h a n n o o t t e n u t o maggior successo nelle società m u s u l m a n e più avanzate e a p p a r e n t e m e n t e più laicizzate quali Algeria, Iran, Egitto, Libano e Tunisia.18 I movimenti religiosi, e in particolare quelli f o n d a m e n t a listi, sono molto abili nello sfruttare le più m o d e r n e tecniche organizzative e comunicative p e r d i f f o n d e r e il loro messaggio, c o m e dimostra lo spettacolare successo o t t e n u t o dal tele-evangelismo protestante in America centrale. I protagonisti della rinascita religiosa p r o v e n g o n o da tutte le classi sociali, m a in particolare da d u e ceti, e n t r a m b i di estrazione u r b a n a ed entrambi socialmente mobili. Gli elementi di fresca urbanizzazione h a n n o g e n e r a l m e n t e bisogno di sosteg n o e guida emotiva, sociale e materiale, tutte cose che i gruppi religiosi o f f r o n o più di c h i u n q u e altri. Per loro, c o m e ha osservato Régis Debray, la religione n o n è «l'oppio dei popoli, ma la vitamina dei deboli». 39 L'altro ceto principale è la nuova classe media in cui si incarna il « f e n o m e n o dell'indigenizzazio-

37 Zakaria, «Conversation with Lee Kuan Yew», cit., p. 118; Al-Turabi, «Islamic Awakening», p. 53. Si veda Terrance Carroll, «Secularization and States of Modernity»^ in «World Politics», n. 36 (Aprile 1984), pp. 362-82. 38 J o h n L. Esposito, The Islamic Threat: Mith or Reality, New York, Oxford University Press, 1992, p. 10. 39 Régis Debray, «God and the Political Planet», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Primavera 1994), p. 15.

ne della seconda generazione» rilevato da Dorè. Nei paesi musulmani c o m e altrove, la rinascita religiosa è u n f e n o m e n o urb a n o e coinvolge p e r s o n e di mentalità m o d e r n a , istruite, imp e g n a t e in carriere di successo in a m b i t o professionale, statale e commerciale. 1 " Tra i m u s u l m a n i , i giovani sono religiosi, i loro genitori laici. Pressoché uguale è la situazione con l'induismo, dove i leader dei rinati movimenti religiosi a p p a r t e n g o n o alla seconda generazione indigenizzata e sono spesso «imprenditori e amministratori di successo» che la stampa i n d i a n a etichetta c o m e «Scuppies», yuppie color zafferano. I loro sostenitori dei primi anni Novanta provenivano in misura s e m p r e maggiore dalle fila della «solida classe media indù dell'India», cioè «commercianti e ragionieri, avvocati ed ingegneri»; o p p u re dai r a n g h i ciei suoi «alti funzionari pubblici, intellettuali e giornalisti». 11 In Corea del Sud, negli anni Sessanta e Settanta g e n t e della stessa estrazione cominciò ad affollare le chiese cattoliche e presbiteriane. La religione, a u t o c t o n a o i m p o r t a t a che sia, o f f r e dei valori ed u n senso di o r i e n t a m e n t o alle élite e m e r g e n t i delle società in via di modernizzazione. «L'attribuire valore a u n a religione tradizionale», ha osservato Ronald Dorè, «è u n a rivendicazione di pari dignità nei confronti delle altre nazioni dominanti, nonché spesso - c o m e obiettivo più i m m e d i a t o - di u n a classe dirig e n t e locale che ha abbracciato valori e stili di vita di quelle stesse nazioni». «Più di ogni altra cosa», osserva William McNeill, «la riaffermazione dell'islamismo, quale c h e sia la f o r m a specifica di settarismo da esso assunta, significa il ripudio dell'influenza americana e e u r o p e a sulla società autoctona, sulle sue scelte politiche e sui suoi valori morali». 12 In tal senso, la rinascita delle religioni n o n occidentali è la più possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società n o n occidentali. N o n costituisce u n rifiuto della m o d e r n i t à : è u n rifiuto 40 Esposito, hlximic Threat, p. 10; Gilles Kepel, cit. in Sophie Lannes, «La revanche de Dieu - Interview with Gilles Kepel», in «Geopolitique», n. 33 (Primavera 1991), p. 14; Moore, Images of Development, pp. 214-6. 41 Juergensmeyer, The New Gold War, p. 71; Edward A. Gargan, «Hindu Rage Against Muslims Transforming Indiati Politics», in «New York Times», 17 settembre 1993, p. A l ; Khushwaht Singh, «India, the H i n d u State», in «New York Times», 3 agosto 1993, p. A l 7 . 42 Dorè in Bull e Watson (a cura di), Expansion of International Society, p. 411; McNeill in Martv e Appleby (a cura di), Fundamentalisms and Society, p. 569.

d e l l ' O c c i d e n t e e della cultura laica, relativista e d e g e n e r a t a ad esso associata. E u n rifiuto di quella che è stata definita l'«intossicazione occidentale» delle società n o n occidentali. E u n a dichiarazione di i n d i p e n d e n z a culturale dall'Occidente, la fiera dichiarazione c h e «saremo m o d e r n i , m a n o n saremo c o m e voi».

CAPITOLO QUINTO

Economia, d e m o g r a f i a e civiltà antagoniste

Indigenizzazione e rinascita religiosa sono f e n o m e n i di dimensioni globali. Tuttavia si sono palesati con maggiore evidenza nel tentativo di a f f e r m a z i o n e della p r o p r i a identità culturale da parte dell'Asia e dell'Islam e dalla sfida che tali civiltà, le più d i n a m i c h e dell'ultimo q u a r t o del xx secolo, h a n n o lanciato all'Occidente. La sfida islamica si esplicita nella dilagante rinascita culturale, sociale e politica dell'islamismo nel m o n d o m u s u l m a n o e nel parallelo rifiuto dei valori e delle istituzioni occidentali. La sfida asiatica trova espressione in tutte le civiltà est-asiatiche - sinica, giapponese, buddista e m u s u l m a n a - e rimarca le differenze culturali rispetto all'Occidente n o n c h é , a volte, certi elementi c o m u n i , identificati perlopiù nel confucianesimo. Asiatici e m u s u l m a n i p r o c l a m a n o e n t r a m b i la superiorità della p r o p r i a cultura rispetto a quella occidentale. Per contro, i popoli di altre civiltà n o n occidentali - indù, ortodossa, latinoamericana, africana - p u r rivendicando il carattere distintivo della propria cultura, q u a n t o m e n o fino a m e t à a n n i Novanta esitavano a p r o c l a m a r e la p r o p r i a superiorità su quella occidentale. Asia e Islam s o n o d u n q u e sole, e a volte alleate, nella loro sfida all'Occidente. Dietro queste sfide vi sono motivi correlati ma diversi. Il desiderio di affermazione asiatico si f o n d a sulla crescita economica; quello m u s u l m a n o scaturisce in considerevole misura dalla mobilità sociale e dallo sviluppo demografico. E n t r a m b e le sfide h a n n o - e c o n t i n u e r a n n o ad avere nel xxi secolo - conseguenze f o r t e m e n t e destabilizzanti sul q u a d r o politico mondiale. La natura di tali conseguenze, tuttavia, differisce in m o d o significativo. Lo sviluppo e c o n o m i c o della Cina e delle altre società asiatiche fornisce ai rispettivi governi gli incentivi e le risorse necessari a supportare u n a maggior intransigenza nei rapporti con gli altri paesi. La crescita demografica nei paesi musulmani, e in

particolare l'espansione della fascia d ' e t à compresa tra i quindici e i ventiquattro anni, alimenta il fondamentalismo, il terrorismo, l'insurrezionismo e il flusso migratorio. La crescita economica rafforza i governi asiatici, quella demografica minaccia i governi m u s u l m a n i e le società n o n m u s u l m a n e .

L'affermazione asiatica Lo sviluppo economico dell'Asia orientale è stato u n o dei fen o m e n i più significativi della seconda metà del xxi secolo. H a avuto origine in Giappone negli anni Cinquanta, e per un certo periodo si pensò che il G i a p p o n e fosse la tipica eccezione che c o n f e r m a la regola: u n paese n o n occidentale modernizzatosi con successo e diventato e c o n o m i c a m e n t e sviluppato. Invece, il processo di sviluppo e c o n o m i c o si diffuse alle «quattro tigri» ( H o n g Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore), per allargarsi poi a Cina, Malaysia, Thailandia e Indonesia e infine alle Filippine, all'India e al Vietnam. Tutti questi paesi da oltre u n decennio sostengono tassi medi di crescita a n n u a dell'8-10 per cento e oltre. U n ' e s p a n s i o n e altrettanto spettacolare degli scambi commerciali ha avuto luogo d a p p r i m a tra l'Asia e il resto del m o n d o e quindi all'interno del continente asiatico. Questa p e r f o r m a n c e economica contrasta in m o d o stridente con il modesto tasso di crescita delle economie e u r o p e a ed americana e con la stagnazione che ha colpito b u o n a parte del resto del m o n d o . L'eccezione, d u n q u e n o n è più limitata al solo Giappone, m a sta investendo l'intero c o n t i n e n t e asiatico. Le equazioni Occid e n t e = ricchezza, non-Occidente = sottosviluppo n o n sopravviv e r a n n o al xx secolo. La trasformazione è stata s o r p r e n d e n t e m e n t e rapida. C o m e h a osservato Kishore M a h b u b a n i , Gran Bretagna e Stati Uniti i m p i e g a r o n o rispettivamente cinquantotto e quarantasette anni p e r r a d d o p p i a r e la loro p r o d u z i o n e p r o capite; il G i a p p o n e ci è riuscito in trentatré anni, l'Indonesia in diciassette, la Corea del Sud in undici e la Cina in dieci. Negli anni O t t a n t a e nella prima m e t à degli anni Novanta l ' e c o n o m i a cinese è cresciuta a u n tasso m e d i o a n n u o dell'8 p e r cento, seguita a r u o t a dalle tigri asiatiche (Figura 5.1). «L'area economica cinese», dichiarò la Banca mondiale nel 1993, è diventata il «quarto polo di sviluppo» del m o n d o accanto a Stati Uniti,

G i a p p o n e e Germania. Quasi tutte le stime c o n c o r d a n o sul fatto che all'inizio del xxi secolo l ' e c o n o m i a cinese diventerà la prima del m o n d o . Se negli a n n i Novanta l'Asia annoverava tra le sue fila la seconda e la terza maggiore economia del m o n d o , entro il 2020 p o t r e b b e vantarne quattro tra le prime cinque e sette tra le p r i m e dieci. Per quella data le società asiatiche potrebbero rappresentare oltre il 40 p e r cento dell'attività economica mondiale. A n c h e la maggior parte delle e c o n o m i e più competitive saranno p r o b a b i l m e n t e asiatiche. 1 Se a n c h e la crescita economica asiatica si stabilizzasse più rapidamente di quanto ci si attende, le conseguenze dello sviluppo raggiunto sino a oggi sarebbero già e n o r m i sia p e r l'Asia sia per il m o n d o intero. Lo sviluppo economico dell'Asia orientale sta alterando gli equilibri di potere tra Asia e Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti. U n a forte crescita economica genera autostima e desiderio di affermazione in chi la p r o d u c e e ne beneficia. La ricchezza, al pari del potere, è considerata u n a prova di virtù, u n a dimostrazione di superiorità morale e culturale. U n a volta raggiunto il successo economico, gli est-asiatici h a n n o valorizzato la propria cultura, a f f e r m a n d o la superiorità dei propri valori e del proprio stile di vita rispetto a quelli dell'Occidente e di altri paesi. Le società asiatiche sono sempre m e n o ricettive alle richieste e agli interessi degli Stati Uniti e sempre più in grado di resistere alle pressioni americane o di altri paesi occidentali. U n a «rinascita culturale», osservò nel 1993 l'ambasciatore T o m m y Koh, «sta s c u o t e n d o l'intera Asia». Essa c o m p o r t a u n a «sempre maggiore fiducia in sé», il che significa che gli asiatici «non c o n s i d e r a n o più tutto q u a n t o è occidentale o a m e r i c a n o c o m e il meglio». 2 Questa rinascita si manifesta in m o d o s e m p r e più marcato sia nell'identità culturale dei singoli paesi asiatici, sia nei valori c o m u n i alle culture asiatiche che le distinguono dalla cultura occidentale. Il significato di questo processo è b e n visibile nel m u t a m e n t o in atto nei rapporti tra le d u e maggiori società est-asiatiche e la cultura occidentale.

1 Kishore Mahbubani, «The Pacific Way», in «Foreign Affairs», n. 74 (Gennaio-Febbraio 1995), pp. 100-3; IMD Executive O p i n i o n Survey, in «Economist», 6 maggio 1995, p. 5; World Bank, Global Economie Prospects and the Developing Countries 1993, Washington, 1993, pp. 66-7. 2 T o m m y Kohl, America's Role in Asia: Asian Views, Asia Foundation, Center for Asian Pacific Affairs, Report No. 13, Novembre 1993, p. 1.



USA

——Cina

— r— Tigri

• • •• • • Giappone

•••••••••Europa

Fonte: W o r l d Bank, World Tables 1995, 1991, Baltimore, J o h n s H o p k i n s University Press, 1995, 1991; Directorate-General of Budget, A c c o u n t i n g a n d Statistics, R. O. C., Statistical Abstract of National Incoine, Taiwan Area, Republic of China, 1951-1995 Nota: i dati illustrati r a p p r e s e n t a n o m e d i e p o n d e r a t e triennali.

In seguito alla penetrazione occidentale in Cina e G i a p p o n e alla m e t à del xix secolo, d o p o u n a t e m p o r a n e a infatuazione per il kemalismo le élite d o m i n a n t i o p t a r o n o p e r u n a strategia riformista. Con la Restaurazione Meiji in G i a p p o n e salì al potere u n dinamico g r u p p o di riformatori, che studiarono e adott a r o n o tecniche, costumi e istituzioni occidentali, avviando così il processo di modernizzazione del paese. Nel c o n t e m p o , tuttavia, fecero in m o d o da preservare i tratti salienti della cultura tradizionale nipponica, il che contribuì sotto molti aspetti al processo di modernizzazione e permise al G i a p p o n e di riprendere, riformulare e utilizzare certi elementi della loro tradizione p e r giustificare e legittimare la politica imperialista perseguita negli anni Trenta e Q u a r a n t a di questo secolo. In Cina,

invece, la d e c a d e n t e dinastia Ching n o n f u capace di adattarsi all'impatto con l'Occidente: il paese finì sconfitto, sfruttato e umiliato dal G i a p p o n e da un lato e dalle potenze e u r o p e e dall'altro. Al crollo della dinastia nel 1910 seguirono divisioni, g u e r r a civile e il richiamo da p a r t e di leader politici ed intellettuali di diverse ideologie a valori e principi occidentali in contrasto tra loro: i tre precetti di Sun Yat Sen - «Nazionalismo, Democrazia e Benessere», il liberismo di Liang Ch'i-ch'ao, il Marxismo-Leninismo di Mao Tse-tung. Alla fine degli a n n i Q u a r a n t a il modello sovietico finì col prevalere sui valori occidentali - nazionalismo, liberalismo, democrazia, cristianesimo - e la Cina divenne u n a società socialista. In G i a p p o n e , la disfatta subita nella Seconda g u e r r a mondiale produsse un caos culturale n o n m e n o generalizzato. «E molto difficile p e r noi», osservò nel 1994 u n occidentale esperto di cose n i p p o n i c h e , «capire oggi a p p i e n o c o m e tutto - religione, cultura, ogni singolo aspetto dell'esistenza intellettuale di questo paese - fosse stato messo al servizio della g u e r r a . La sconfitta bellica f u p e r i giapponesi u n o shock assoluto». 1 Ne conclusero che l'intero sistema n i p p o n i c o fosse da buttare, m e n t r e tutto q u a n t o proveniva dall'Occidente e in particolare dalla potenza vincitrice, gli Stati Uniti, finì p e r diventare b u o n o e desiderabile. E, così, c o m e la Cina emulava l ' U n i o n e Sovietica, il G i a p p o n e tentò di e m u l a r e l'America. Alla fine degli anni Settanta, l'incapacità del c o m u n i s m o di p r o d u r r e sviluppo e c o n o m i c o e il successo del capitalismo in G i a p p o n e e poi sempre più a n c h e in altre società asiatiche convinsero la nuova classe dirigente cinese ad allontanarsi dal modello sovietico. Il crollo dell'Urss u n d e c e n n i o più tardi ratificò l'inadeguatezza di tale modello. A questo p u n t o , i cinesi dovettero a f f r o n t a r e il d i l e m m a se volgersi a O c c i d e n t e o p p u r e puntare su se stessi. Molti intellettuali e altre personalità invocaron o la c o m p l e t a occidentalizzazione del paese, u n a t e n d e n z a che raggiunse il culmine sia culturale che di popolarità con la serie televisiva RiverElegy e con la «Dea della democrazia» eretta in Piazza T i e n a n m e n . Q u e s t o o r i e n t a m e n t o filoccidentale, tuttavia, n o n trovò il sostegno n é delle p o c h e centinaia di persone che contavano a Pechino, n é degli ottocento milioni di 3 Alex Kerr, «Japan Times», 6 novembre 1994, p. 10.

contadini che abitavano le c a m p a g n e . La completa occidentalizzazione n o n era più realizzabile nel xx secolo di q u a n t o lo fosse alla fine del xix. La leadership cinese scelse invece u n a nuova versione di Ti-Yong. capitalismo e partecipazione all'econ o m i a m o n d i a l e da u n lato, autoritarismo e r i t o r n o alla tradizionale cultura cinese dall'altro. Alla legittimità rivoluzionaria del Marxismo-Leninismo il regime sostituì da u n lato la legittimità produttivistica derivante dall'impetuoso sviluppo economico e dall'altro quella nazionalista f o m e n t a t a attraverso il ric h i a m o ai tratti distintivi della cultura cinese. «Il regime postPiazza T i e n a n m e n » , osservò u n c o m m e n t a t o r e , «ha entusiastic a m e n t e abbracciato il nazionalismo cinese c o m e nuova f o n t e di legittimità» sobillando ad arte l'antiamericanismo al fine di giustificare il p r o p r i o p o t e r e e le p r o p r i e scelte. 1 Nasce d u n q u e u n nazionalismo culturale cinese, che u n dirigente di H o n g Kong nel 1994 ha riassunto cosi: «Noi cinesi ci sentiamo nazionalisti c o m e mai era accaduto prima. Siamo cinesi e siamo orgogliosi di esserlo». S e m p r e in Cina, nei primi anni Novanta iniziò a svilupparsi u n «desiderio generale di tutto q u a n t o è autenticamente cinese, ossia - spesso - patriarcale, sciovinista e autoritario. Nell'ambito di tale r i t o r n o alle proprie radici storiche, la democrazia viene screditata e considerata, al pari del leninismo, n i e n t e più che u n ' a l t r a imposizione straniera». 1 All'inizio del xx secolo gli intellettuali cinesi, p a r a f r a s a n d o inconsapevolmente Weber, identificarono nel c o n f u c i a n e s i m o l'origine dell'arretratezza cinese. A fine secolo, i leader politici cinesi, p a r a f r a s a n d o i sociologi occidentali, celebrano il confucianesimo, c o m e f o n t e del loro progresso. Negli anni Ottanta, il governo iniziò a p r o m u o v e r e l'interesse per il confucianesim o che i leader del partito d e f i n i r o n o «corrente principale» della cultura cinese/' Il c o n f u c i a n e s i m o suscitò n a t u r a l m e n t e 4 Yasheng Huang, «Why China Will N o i Collapse», in «Foreign Policy», n. 95 (Estate 1995), p. 57. 5 «Cable News Network», 10 maggio 1994; Edward Friedman, «A Failed C.hinese Modernity», in «Daedalus», n. 122 (Primavera 1993), p. 5; Perry Link, «China's "Core" Problem», in ibid., pp. 201-4. 6 «Economist», 21 gennaio 1995, pp. 38-9; William T h e o d o r e de Bary, «The New Confucianism in Beijing», in «American Scholar», n. 64, (Primavera 1995), p. 175 sgg.; Benjamin L. Self, «Changing Role for Confucianism in China», in «Woodrow Wilson Center Report», n. 7 (Settembre 1995), pp. 4-5; «New York Times», 26 agosto 1991, p. A19.

a n c h e l'entusiasmo di Lee Kuan Yew, che vide in esso u n a delle chiavi del successo di Singapore e dei cui valori si fece portavoce in tutto il m o n d o . Negli a n n i Novanta, il governo di Taiwan si è a u t o d e f i n i t o «erede del p e n s i e r o confuciano» e il presid e n t e Lee Teng-hui ha individuato le radici del processo di democratizzazione taiwanese nel suo «patrimonio culturale» cinese risalente a Kao Yao (xxi secolo a.C.), C o n f u c i o (v secolo a.C.) e Mencio (IH secolo a.C.). 7 Sia c h e desiderino giustificare l'autoritarismo, sia che i n t e n d a n o p r o m u o v e r e la democrazia, i leader cinesi ricercano la p r o p r i a legittimazione nella c o m u n e cultura cinese e n o n nei precetti importati dall'Occidente. Il nazionalismo promosso dal regime di P e c h i n o è u n nazionalismo H a n , e questo contribuisce a eliminare le differenze linguistiche, regionali ed e c o n o m i c h e p e r il 90 p e r c e n t o della popolazione cinese. Al t e m p o stesso, tuttavia, enfatizza le differenze con le m i n o r a n z e etniche n o n cinesi, che costituiscono m e n o del 10 p e r cento dell'intera popolazione della Cina m a o c c u p a n o il 60 p e r c e n t o del territorio. Il nazionalismo o f f r e inoltre u n a base p e r l'opposizione di regime al cristianesimo, alle organizzazioni cristiane e al proselitismo cristiano, che tocca forse il 5 p e r cento della popolazione e p r o p o n e u n a f e d e di stampo occidentale alternativa al vuoto lasciato dal crollo del Maoismo-Leninismo. I n t a n t o , l ' i m p e t u o s o sviluppo e c o n o m i c o registrato dal G i a p p o n e negli anni Ottanta, di c o n t r o al p r e s u n t o fallimento e «declino» del sistema sociale ed e c o n o m i c o americano, produsse nei giapponesi u n crescente disincanto verso i modelli occidentali e la sempre più f e r m a convinzione c h e le motivazioni del successo andassero ricercate a l l ' i n t e r n o della p r o p r i a cultura. La cultura nipponica, che nel 1945, p o r t ò al disastro militare e dovette quindi essere ripudiata, nel 1985 p o r t ò , viceversa, al trionfo e c o n o m i c o e potè d u n q u e essere n u o v a m e n t e abbracciata. La maggior familiarità dei giapponesi con la società occidentale permise loro di «rendersi c o n t o c h e essere occidentali n o n è qualcosa di intrinsecamente meraviglioso». Se i giapponesi della Restaurazione Meiji a d o t t a r o n o u n a politica di «allontanamento dall'Asia e avvicinamento all'Europa», 7 Lee Teng-hui, «Chinese Culture and Politicai Renewal», in «Journal of Democracv», n. 6 (Ottobre 1995), pp. 6-8.

i giapponesi della rinascita culturale di fine xx secolo h a n n o perseguito u n a politica di « a l l o n t a n a m e n t o dall'America e di avvicinamento all'Asia». 8 Tale t e n d e n z a ha implicato in p r i m o luogo u n processo di rinnovata identificazione con le tradizioni culturali n i p p o n i c h e e la riscoperta dei valori p r o p r i di quelle tradizioni; e in s e c o n d o l u o g o - e l e m e n t o questo più complesso - un tentativo di «asianizzare» il G i a p p o n e identificandolo, a dispetto della sua peculiare civiltà, con u n a più generale «cultura asiatica». Vista la p r o f o n d i t à con cui alla fine della Seconda g u e r r a m o n d i a l e il G i a p p o n e , a differenza della Cina, si identificò con l'Occidente, e visto che quest'ultimo, quali c h e siano i suoi difetti, n o n è crollato totalmente c o m e invece è acc a d u t o all'Unione Sovietica, si capisce c o m e il G i a p p o n e n o n abbia mai avuto u n incentivo a p r e n d e r e le distanze dall'Occid e n t e paragonabile a quello che spinse la Cina a distanziarsi sia dal m o d e l l o sovietico che da quello occidentale. D'altro canto, la peculiarità della civiltà giapponese, il ricordo dell'imperialismo n i p p o n i c o ancora vivo in altri paesi e la rilevanza economica della Cina in gran p a r t e degli altri paesi asiatici significan o a n c h e che p e r il G i a p p o n e sarà più facile distaccarsi dall ' O c c i d e n t e c h e n o n congiungersi all'Asia. 9 Nel riasserire la p r o p r i a identità culturale, il G i a p p o n e sottolinea la propria peculiarità e le proprie differenze sia rispetto alla cultura occidentale che a quella asiatica. Se cinesi e giapponesi h a n n o scoperto nuovi valori nelle rispettive culture, a unirli è la c o m u n e riassunzione del valore della cultura asiatica in generale rispetto a quella dell'Occidente. L'industrializzazione e il conseguente sviluppo e c o n o m i c o h a n n o dato vita negli anni O t t a n t a e Novanta a un f e n o m e n o che p u ò b e n essere definito «l'affermazione asiatica»: u n insiem e di atteggiamenti f o n d a t o su q u a t t r o punti chiave. 1) Gli asiatici r i t e n g o n o che il r a p i d o sviluppo e c o n o m i c o dell'Asia li p o r t e r à b e n presto a sorpassare l'Occidente in termini di attività e c o n o m i c a e ad acquisire perciò un p o t e r e semp r e maggiore in c a m p o internazionale rispetto a quello dell'Occidente. La crescita e c o n o m i c a stimola nelle società asiati8 Alex Kerr, in «Japan Times», 6 novembre 1994, p. 10; Kazuhiko Ozawa, «Ambivalence in Asia», in «Japan Update», n. 44 (Maggio 1995), pp. 18-9. 9 Per alcuni di tali problemi, si veda Ivan P. Hall, «Japan's Asia Card», in «National Interest», il. 38 (Inverno 1994-95), p. 19 sgg.

c h e u n senso di potenza n o n c h é la manifesta convinzione di poter tener testa all'Occidente. «Sono finiti i tempi in cui quand o gli Stati Uniti starnutivano il G i a p p o n e p r e n d e v a il raffreddore», dichiarò u n i m p o r t a n t e giornalista n i p p o n i c o nel 1993, e u n f u n z i o n a r i o malaysiano, r i p r e n d e n d o la m e t a f o r a medica, disse anzi c h e «se a n c h e l'America si buscasse u n f e b b r o n e , all'Asia n o n verrebbe n e a n c h e u n colpo di tosse». Nei loro rapporti con gli Stati Uniti, a f f e r m ò u n altro leader asiatico, p e r gli asiatici era «finita l'epoca della soggezione ed era iniziata quella della replica». «Il crescente benessere dell'Asia», a f f e r m ò il vice p r i m o ministro malaysiano, «significa c h e essa è ora in grad o di offrire serie alternative agli accordi politici, sociali ed economici vigenti in c a m p o internazionale». 1 " Ciò significa anche, sostengono gli est-asiatici, che l'Occidente sta r a p i d a m e n t e perd e n d o il p o t e r e di i m p o r r e alle società asiatiche p r o p r i canoni in materia di diritti u m a n i ed altri valori. 2) Secondo, per gli asiatici il successo economico conseguito è in gran parte u n p r o d o t t o specifico della cultura asiatica, superiore a quella d e c a d e n t e dell'Occidente. Negli esaltanti anni Ottanta, q u a n d o l'economia, le esportazioni, la bilancia commerciale e le riserve di valuta estera del G i a p p o n e toccarono lo zenit, i giapponesi, al pari dei sauditi in passato, cominciarono a vantarsi del proprio p o t e r e economico, c o n t r a p p o n e n d o l o con disprezzo al declino dell'Occidente. Anche in questa occasione, il successo f u attribuito alla superiorità della loro cultura. Nei primi anni Novanta, il trionfalismo asiatico trovò nuova espressione in quella che n o n p u ò altrimenti essere definita che 1'«offensiva culturale di Singapore». Da Lee Kuan Yew in poi, i lead e r politici di Singapore vantarono lo sviluppo asiatico contrapp o n e n d o le virtù della cultura asiatica, nella fattispecie quella confuciana, artefice del successo - ordine, disciplina, responsabilità familiare, lavoro duro, collettivismo, astemia - all'autoindulgenza, indolenza, individualismo, criminalità dilagante, min o r istruzione, mancanza di rispetto p e r l'autorità e «sclerotizzazione mentale» responsabili del declino occidentale. Per com10 Casimir Yorst, «America's Role in Asia: O n e Year Later», Asia Foundation, Center for Asian Pacific Affairs, Report No. 15, Febbraio 1994, p. 4; Yoichi Funabashi, «The Asianization of Asia», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 78; Anwar Ibrahim, «International Herald Tribune», 31 gennaio 1994, p. 6.

petere con l'Oriente, si sostenne, gli Stati Uniti «devono mettere in discussione le proprie convinzioni di f o n d o in merito alla propria organizzazione sociale e politica e, al c o n t e m p o , imparare u n a cosa o d u e dalle società est-asiatiche»." Per gli est-asiatici, insomma, il successo conseguito è princip a l m e n t e il f r u t t o dell'accento posto dalla propria cultura sulla collettività anziché sull'individuo. «I valori e i costumi comunitari dei paesi est-asiatici - G i a p p o n e , Corea, Taiwan, H o n g Kong e Singapore - si sono dimostrati altrettanti vantaggi nel processo di recupero», sostiene Lee Kuan Yew. «I valori p r o p u gnati dalla cultura est-asiatica, quali la priorità degli interessi della collettività su quelli dell'individuo, s o r r e g g o n o lo sforzo di g r u p p o globale necessario p e r u n r a p i d o sviluppo». «L'etica del lavoro di giapponesi e coreani, fatta di disciplina, dedizione e diligenza», sostiene il p r i m o ministro malaysiano, «è stato il m o t o r e dello sviluppo e c o n o m i c o e sociale dei rispettivi paesi. Questa etica nasce dalla convinzione che il g r u p p o e il paese siano più importanti dell'individuo». 1 2 3) Pur riconoscendo le differenze esistenti tra le società e civiltà asiatiche, gli est-asiatici p r o p u g n a n o al c o n t e m p o l'esistenza di significativi valori c o m u n i . F o n d a m e n t a l e tra questi, ha osservato un dissidente cinese, è «il sistema di valori del confucianesimo, cui la storia ha reso o n o r e e che è condiviso dalla gran parte dei paesi della regione», e in particolare la sua sottolineatura dei concetti di parsimonia, famiglia, lavoro, disciplina. U g u a l m e n t e i m p o r t a n t e è il c o m u n e rifiuto dell'individualismo e il prevalere di u n autoritarismo «morbido» o di form e molto limitate di democrazia. Le società asiatiche h a n n o u n c o m u n e interesse che li differenzia dall'Occidente: la difesa dei loro valori distintivi e la p r o m o z i o n e dei p r o p r i interessi economici. Ciò h a richiesto lo sviluppo di nuove f o r m e di cooperazione interasiatica, c o m e ad esempio l ' a m p l i a m e n t o dell'Associazione delle nazioni dell'Asia sudorientale e la creazio11 Kishore Mahbubani, «Asia and a U n i t e d States in Decline», in «Washington Quarterly», n. 17 (Primavera 1994), pp. 5-23. Per una replica, si veda Eric Jones, «Asia's Fate: A Response to the Singapore School», in «National Interest», n. 35 (Primavera 1994), pp. 18-28. 12 Mahathir bin Mohamad, Mare jirenma (Il dilemma malaysiano), Tokyo, Imure B u n k a j i g y o , 1983, p. 267, cit. in Ogura Kazuo, «A Cali for a New Concept of Asia», in «Japan Echo», n. 20 (Autunno 1993), p. 40.

n e di u n Comitato p e r l ' e c o n o m i a est-asiatica. Se l'interesse e c o n o m i c o i m m e d i a t o delle società est-asiatiche è m a n t e n e r e l'accesso ai mercati occidentali, nel l u n g o p e r i o d o il regionalismo e c o n o m i c o finirà p r o b a b i l m e n t e col prevalere: p e r questo l'Asia orientale deve s e m p r e più incentivare gli scambi commerciali e gli investimenti interasiatici. 11 In particolare, è necessario che il G i a p p o n e , in q u a n t o paese leader dello sviluppo asiatico, m e t t a fine alla sua tradizionale «politica di de-asianizzazione e di occidentalizzazione» p e r imboccare «la strada della ri-asianizzazione» o, in termini più generali, p e r p r o m u o v e r e «l'asianizzazione dell'Asia», c o m e ha già fatto g o v e r n o di Singapore. 1 4 4) Gli est-asiatici a f f e r m a n o che lo sviluppo e i valori asiatici sono modelli che altre società n o n occidentali d o v r e b b e r o e m u l a r e p e r p o t e r raggiungere l'Occidente, e che l ' O c c i d e n t e dovrebbe fare p r o p r i al fine di rinnovarsi. Il «modello di svil u p p o anglosassone, tanto o s a n n a t o negli ultimi q u a r a n t a n n i c o m e il m o d o migliore di m o d e r n i z z a r e le e c o n o m i e delle nazioni in via di sviluppo e di costruire u n efficace sistema politico, n o n sta f u n z i o n a n d o » , sostengono. Al suo posto va s e m p r e più s u b e n t r a n d o il m o d e l l o est-asiatico, via via che svariati paesi, dal Messico al Cile, dall'Iran alla Turchia alle ex r e p u b b l i c h e sovietiche, t e n t a n o oggi di trarre lezione dal loro successo, così c o m e le generazioni p r e c e d e n t i t e n t a r o n o di trarle dal successo occidentale. L'Asia deve «trasmettere al resto del m o n d o i valori asiatici, che h a n n o rilevanza universale ... la trasmission e di questi ideali c o m p o r t a l'esportazione del m o d e l l o sociale asiatico ed est-asiatico in particolare». E necessario c h e il Giapp o n e e altri paesi asiatici p r o m u o v a n o la «globalizzazione dell'area del Pacifico», che «globalizzino l'Asia» e quindi «forgino con decisione il carattere del n u o v o o r d i n e mondiale». 1 " 13 Li Xiangiu, «A Post-Cold War Alternative from East Asia», in «Straits Times», 10 febbraio 1992, p. 24. 14 Yotaro Kobayashi, «Re-Asianize Japan», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Inverno 1992), p. 20; Funabashi, «The Asianization of Asia», cit., p. 75 sgg.; George Yong-Soon Yee, «New East Asia in a Multicultural World», in «International Herald Tribune», 15 luglio 1992, p. 8. 15 Yoichi Funabashi, «Globalize Asia», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Inverno 1992), pp. 23-4; Kishore M. Mahbubani, «The West and the Rest», in «National Interest», n. 28 (Estate 1992), p. 7; Hazuo, «New C o n c e p t of Asia», p. 41.

Le società potenti sono universalistiche, quelle deboli s o n o particolaristiche. La sempre maggiore fiducia in sé che pervade le società est-asiatiche ha d a t o vita a u n a sorta di universalismo asiatico paragonabile a quello che ha contraddistinto l'Occidente. «I valori asiatici sono valori universali. I valori e u r o p e i s o n o valori europei», dichiarò nel 1996 il p r i m o ministro Mahathir ai capi di governo europei. 1 0 A tutto ciò si aggiunge poi u n «Occidentalismo» asiatico che dipinge l ' O c c i d e n t e con le stesse tinte fosche e prive di s f u m a t u r e con cui l'Orientalismo occidentale era u n a volta accusato di guardare all'Oriente. Per gli est-asiatici la prosperità e c o n o m i c a è prova di superiorità m o r a l e . Se in f u t u r o l'India dovesse s o p p i a n t a r e l'Asia orientale c o m e area di più i n t e n s o sviluppo e c o n o m i c o del m o n d o , è b e n e che il m o n d o si prepari ad a f f r o n t a r e l u n g h e disquisizioni sulla superiorità della cultura indù, sul c o n t r i b u t o o f f e r t o dal sistema a caste allo sviluppo e c o n o m i c o e su come, t o r n a n d o alle proprie radici e s u p e r a n d o la perniciosa eredità occidentale lasciata dall'imperialismo britannico, l'India abbia finalmente conquistato il posto che le competeva nel gotha delle civiltà. L'affermazione culturale segue a r u o t a il successo materiale; il p o t e r e coercitivo g e n e r a il p o t e r e persuasivo.

La Rinascita islamica M e n t r e gli asiatici, forti del loro sviluppo e c o n o m i c o , diventavano s e m p r e più agguerriti, grandi masse di m u s u l m a n i si rivolgevano c o n t e m p o r a n e a m e n t e all'Islam c o m e f o n t e di identità, o r i e n t a m e n t o , stabilità, legittimità, sviluppo, p o t e r e e speranza, u n a speranza simboleggiata nello slogan «La soluzione è l'Islam». La Rinascita islamica," in tutta la sua ampiezza e

16 «Economist», 9 marzo 1996, p. 33. 17 Qualche lettore potrebbe domandarsi perché la parola «Rinascita» dell'espressione «Rinascita islamica» è in maiuscolo. Il motivo è che essa si riferisce ad un evento storico estremamente importante che coinvolge un quinto o forse più dell'umanità; vale a dire c h e è importante almeno quanto la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese o la Rivoluzione russa, la cui «r» viene di solito scritta in maiuscolo, e che è simile e paragonabile alla Riforma protestante nella società occidentale, la cui «r» iniziale viene anch'essa quasi sempre scritta in maiuscolo.

p r o f o n d i t à , r a p p r e s e n t a l'ultimo stadio dell'incessante processo di definizione dei rapporti tra civiltà islamica e Occidente, u n tentativo di trovare la «soluzione» n o n nelle ideologie occidentali m a nell'Islam. In essa troviamo l'accettazione della modernità, il rifiuto della cultura occidentale e la rinnovata adesione all'Islam quale guida culturale, religiosa, sociale e polidca alla vita nel m o n d o m o d e r n o . C o m e un alto f u n z i o n a r i o saudita spiegò nel 1994, «le "importazioni straniere" v a n n o b e n e in q u a n t o "oggetti" sfavillanti o di alta tecnologia. Ma le intangibili istituzioni sociali e politiche i m p o r t a t e da fuori possono risultare letali: chiedete in proposito allo Shah dell'Iran. ... L'islamismo p e r noi n o n è soltanto u n a religione, m a u n m o d o di vita. Noi sauditi desideriamo modernizzarci, m a n o n vogliamo necessariamente occidentalizzarci». 1 " La Rinascita islamica incarna il tentativo dei m u s u l m a n i di raggiungere tale obiettivo. Si tratta di u n vasto movimento intellettuale, culturale, sociale e politico che p e r v a d e l'intero m o n d o islamico. Il f o n d a m e n t a l i s m o islamico g e n e r a l m e n t e inteso c o m e islamismo politico è solo u n c o m p o n e n t e del b e n più a m p i o f e n o m e n o di reviviscenza delle idee, dei costumi e del linguaggio islamici e del riaccostamento all'islamismo da p a r t e delle popolazioni m u s u l m a n e . Quello della Rinascita è u n fen o m e n o vasto e generalizzato, n o n estremista e marginale. La Rinascita ha coinvolto i m u s u l m a n i di tutti i paesi e quasi tutti gli aspetti sociali e politici di gran p a r t e dei paesi musulmani. «Gli indizi di u n risveglio islamico nella vita di u n individuo», ha scritto J o h n L. Esposito, sono numerosi: maggiore osservanza dei precetti religiosi (frequentazione delle moschee, preghiere, digiuno), il proliferare di programmi e pubblicazioni religiose, maggiore attenzione all'abbigliamento e ai valori islamici, reviviscenza del sufismo (misticismo). A questa rinascita generale si è accompagnata una riaffermazione dell'islamismo nella vita pubblica, con un aumento del numero di governi, organizzazioni, leggi, banche, servizi sociali e istituti pedagogici orientati in senso islamico. Governi e movimenti d'opposizione hanno entrambi cominciato a guardare all'islamismo come a uno strumento per accrescere la propria autorità ed acquisire consenso popolare. ... Buona parte dei sovrani e degli uomini di governo, compresi quelli di stati 18 Bandar bin Sultan, in «New York Times», 10 luglio 1994, p. 20.

maggiormente laici come la Turchia e la Tunisia, resisi conto della potenziale forza propulsiva dell'islamismo hanno manifestato una maggiore sensibilità verso le questioni riguardanti l'Islam.

Parimenti, p e r un altro e m i n e n t e studioso dell'Islam, Ali E. Hillal Dessouki, il f e n o m e n o della Rinascita implica il tentativo di r e i n t r o d u r r e il diritto islamico in sostituzione del diritto di s t a m p o occidentale; u n maggior ricorso al linguaggio e al simbolismo religioso; l'espansione dell'istruzione islamica (che si manifesta nel moltiplicarsi delle scuole islamiche e nell'islamizzazione dei p r o g r a m m i di studio nelle scuole statali); u n a maggiore adesione ai precetti islamici di condotta sociale (ad esempio l'astinenza dall'alcol o l'uso del velo p e r le d o n n e ) ; u n a maggiore osservanza religiosa; il p r e d o m i n i o dei g r u p p i islamici c o m e forze di opposizione ai governi laici nelle società m u s u l m a n e ; e u n o sforzo sempre maggiore di sviluppare la solidarietà internazionale tra gli stati e le società islamiche. 19 La revanche deDieu è un f e n o m e n o globale, ma Dio, o piuttosto Allah, ha c o n s u m a t o la propria vendetta fino in f o n d o nell'uwimah, la c o m u n i t à islamica. Nelle sue manifestazioni politiche, la Rinascita islamica presenta dei tratti in c o m u n e con il marxismo: i suoi testi sacri, la sua visione della società perfetta, la dedizione al c a m b i a m e n t o radicale, il rifiuto delle autorità costituite e dello stato nazionale, e u n a disomogeneità dottrinaria che consente di accorpare tanto i riformisti m o d e r a t i q u a n t o gli estremisti rivoluzionari. Ancor più calzante, tuttavia, è l'analogia con la Riforma protestante. E n t r a m b e sono f e n o m e n i di reazione alla stagnazione e alla c o r r u z i o n e delle istituzioni esistenti; e n t r a m b e invocano il r i t o r n o a un'espressione più p u r a e severa della religione; ent r a m b e esaltano i valori del lavoro, dell'ordine e della disciplina; e n t r a m b e g u a r d a n o al dinamico ed e m e r g e n t e ceto medio; e n t r a m b e , infine, sono movimenti complessi, costituiti da varie c o m p o n e n t i di cui d u e d o m i n a n t i (luteranesimo e calvinismo da u n lato, f o n d a m e n t a l i s m o sciita e sunnita dall'altro) e che

19 J o h n L. Esposito, The Islamic Threal: Myth or Keality, New York, Oxford University Press, 1992, p. 12; Ali E. Hillal Dessouki, «The Islamic Resurgence», in Ali E. Hillal Dessouki (a cura di), Islamic Resurgence in the Arab World, New York, Praeger, 1982, pp. 9-13.

p r e s e n t a n o finanche dei parallelismi tra Giovanni Calvino e l'ayatollah Khomeini, che t e n t a r o n o di i m p o r r e la loro disciplina monastica alle rispettive società. Lo spirito di f o n d o tanto della R i f o r m a q u a n t o della Rinascita è u n a riforma globale. «La r i f o r m a deve essere universale», dichiarò u n pastore puritano, «... r i f o r m a r e tutti i luoghi, tutti gli individui e le professioni; r i f o r m a r e i tribunali, i magistrati di g r a d o inferiore. ... R i f o r m a r e le università, r i f o r m a r e le città, r i f o r m a r e i paesi, r i f o r m a r e le scuole inferiori, r i f o r m a r e il g i o r n o di riposo, r i f o r m a r e gli o r d i n a m e n t i , riformare il culto di Dio». Allo stesso m o d o , Al-Turabi asserisce c h e «questo risveglio è o n n i c o m prensivo: n o n riguarda soltanto la f e d e individuale, n o n è soltanto intellettuale e culturale, o soltanto politico. E tutte queste cose insieme: u n a ricostruzione generale, da cima a f o n d o , della società». 2 " Ignorare le conseguenze della Rinascita islamica sul q u a d r o politico dell'emisfero orientale di fine xx secolo significa ignorare l'impatto avuto dalla Riforma protestante sulla politica e u r o p e a del tardo xvi secolo. La Rinascita si differenzia tuttavia dalla Riforma p e r u n aspetto fondamentale: l'impatto di quest'ultima f u limitato in larga parte all'Europa settentrionale, trovando b e n p o c o spazio in Spagna, Italia, Europa orientale e nelle terre asburgiche in generale; la Rinascita, viceversa, h a toccato quasi tutte le società musulmane. A partire dagli anni Settanta simboli, credenze, costumi, istituzioni, strategie politiche e organizzazioni musulmane h a n n o ottenuto un sostegno sempre crescente tra il miliardo di musulmani disseminati dal Marocco all'Indonesia e dalla Nigeria al Kazakistan. L'islamizzazione si è di n o r m a manifestata innanzitutto in campo culturale, p e r poi diffondersi nella sfera sociale e politica. Che l'appoggiassero o m e n o , le élite intellettuali e politiche n o n h a n n o p o t u t o né ignorarla né evitare di fare in u n m o d o o nell'altro i conti con essa. Le generalizzazioni sono sem-

20 T h o m a s Case, cit. in Michael Walzer, The Revolution of the Saints: A Study in the Origini of Radicai Politici, Cambridge, Harvard University Press, 1965, pp. 10-11; Hassan Al-Turabi, «The Islamic Awakening's S e c o n d Wave», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Estate 1992), p. 52. II testo che più aiuta a c o m p r e n d e r e il carattere, il fascino, i limiti e i) ruolo storico del fondamentalismo islamico di fine xx secolo è forse lo studio di Walzer sul puritanesimo calvinista inglese del xvn secolo.

pre pericolose e spesso errate; una, tuttavia, appare p i e n a m e n t e giustificata: ad eccezione dell'Iran, nel 1995 tutù i paesi a popolazione prevalentemente islamica e r a n o più islamici e islamisti dal p u n t o di vista culturale, sociale e politico di q u a n t o lo fossero stati quindici anni addietro. 21 In gran p a r t e di questi paesi, u n e l e m e n t o basilare del processo di islamizzazione è stato lo sviluppo di organizzazioni sociali islamiche e la fagocitazione da p a r t e di g r u p p i islamici delle organizzazioni già esistenti. Gli islamisti h a n n o prestato particolare attenzione sia alla creazione di scuole islamiche c h e all'espansione dell'influenza islamica nelle scuole statali. In sostanza, i g r u p p i islamici h a n n o d a t o vita a u n a «società civile» islamica che ha affiancato, s u p e r a t o e spesso soppiantato p e r dimensioni e attività le spesso fragili istituzioni della società civile laica. In Egitto, nei primi anni Novanta gli islamici avevano sviluppato u n ' a m p i a rete di organizzazioni le quali, riempiend o u n vuoto lasciato dal governo, fornivano servizi medici, sociali, scolastici ed altri a n c o r a ad u n gran n u m e r o di p e r s o n e povere. D o p o il t e r r e m o t o c h e colpì il Cairo nel 1992, tali organizzazioni «erano in strada nel giro di p o c h e ore a distribuire coperte e cibo, m e n t r e l'intervento governativo segnò u n f o r t e ritardo». In Giordania, la «confraternita musulmana» h a scientemente perseguito u n a politica di sviluppo di u n a «infrastruttura [sociale e politica] di u n a repubblica islamica», e nei primi anni Novanta questo piccolo paese di q u a t t r o milioni di abitanti contava u n g r a n d e ospedale, venti cliniche, q u a r a n t a scuole islamiche e centoventi centri di studio coranici. Poco più in là, a Gaza e nella West Bank, le organizzazioni islamiche h a n n o creato e avviato «sindacati studenteschi, organizzazioni 21 Donald K. Emerson, «Islam and Religion in Indonesia: Who's Coopting Whom?» (inedito, 1989), p. 16; Nasir Tamara, Indonesia in the Wake of Islam, 1965-1985, Kuala Luinpur: Institute of Strategie and International Studies Malaysia, 1986, p. 28; «Economist», n. 14 (Dicembre 1985), pp. 35-6; Henry Tanner, «Islam Challenges Secular Society», in «International Herald Tribune», 27 giugno 1987, pp. 7-8; Sabri Sayari, «Politicization of Islamic Retraditionalism: Some Preliminary Notes», in Metin Heper e Raphael Israeli (a cura di), Islam and Politics in the Modem Middle East, London, Groom Helm, 1984, p. 125; «New York Times», 26 marzo 1989, p. 14; 2 marzo 1995, p. A8. Si vedano, ad esempio, le inchieste su questi paesi in «New York Times», 17 novembre 1985, p. 2E; 15 novembre 1987, p. 13; 6 marzo 1991, p. A l i ; 20 ottobre 1990, p. 4; 26 dicembre 1992, p. 1; 8 marzo 1994, p. A15, ed in «Economist», 15 giugno 1985, pp. 36-7 e 18 settembre 1992, pp. 23-5.

giovanili e associazioni religiose, sociali e p e d a g o g i c h e » , ivi comprese scuole che v a n n o dagli asili n i d o a un'università islamica, n o n c h é cliniche, o r f a n o t r o f i , ospizi e u n ' a m p i a rete di avvocati ed arbitri islamici. Organizzazioni islamiche si s o n o diffuse in tutta l'Indonesia negli anni Settanta e Ottanta. Nei primi anni Ottanta, la maggiore di queste, la Muhhammadijah, contava sei milioni di iscritti, costituiva u n o «stato sociale religioso all'interno dello stato laico» e forniva servizi «dalla culla alla bara» p e r l'intero paese attraverso u n a fitta rete di scuole, cliniche, ospedali ed istituti di livello universitario. In queste c o m e in altre società m u s u l m a n e , le organizzazioni islamiche, i n t e r d e t t e dall'espletare attività politiche, f o r n i s c o n o n o n d i m e n o servizi sociali paragonabili a quelli delle m a c c h i n e politiche negli Stati Uniti dei primi del secolo."" Le iniziative politiche della Rinascita h a n n o avuto m i n o r rilevanza rispetto a quelle sociali e culturali, ma restano tuttavia il fen o m e n o politico più importante delle società m u s u l m a n e dell'ultimo quarto di secolo. Intensità e provenienza del sostegno politico di cui g o d o n o i movimenti islamisti variano da paese a paese. Esistono tuttavia delle tendenze generali. In linea di massima, questi movimenti n o n trovano grande supporto tra le élite rurali, i contadini e gli anziani, e vengono alimentati in forte prevalenza da coloro che sono al c o n t e m p o artefici e f r u t t o dei processi di modernizzazione. Si tratta di giovani m o d e r n i e socialm e n t e mobili che a p p a r t e n g o n o prevalentemente a tre gruppi. C o m e s e m p r e accade in tutti i movimenti rivoluzionari, il suo nucleo centrale è costituito da studenti e intellettuali. In gran parte dei paesi, la conquista del controllo di sindacati studenteschi ed organizzazioni simili da parte dei fondamentalisti ha segnato la prima fase nel processo di islamizzazione politica, con lo «sfondamento» islamico negli anni Settanta nelle università di Egitto, Pakistan e Afghanistan diffusosi poi in altri paesi musulmani. Il richiamo islamista è stato p a r t i c o l a r m e n t e 22 «New York Times», 4 ottobre 1993, p. A8; 29 novembre 1994, p. A4; 3 febbraio 1994, p. 1; 26 dicembre 1992, p. 5; Erika G. Alin, «Dynamics of the Palestinian Uprising: An Assessment of Causes, Character, and Consequences», in «Comparative Politics», n. 26 (Luglio 1994), p. 494; «NewYork Times», 8 marzo 1994, p. A15; James Peacock, «The Impact of Islam», in «Wilson Quarterly», n. 5 (Primavera 1981), p. 142; Tamara, Indonesia in the W'ake of Islam, p. 22.

forte tra gli studenti di istituti tecnici, delle facoltà di ingegneria e dei dipartimenti scientifici. Negli anni Novanta, in Arabia Saudita, Algeria e altri paesi «l'indigenizzazione della seconda generazione» si è manifestata attraverso u n costante a u m e n t o degli studenti universitari che studiavano nella p r o p r i a lingua natia e che d u n q u e e r a n o m a g g i o r m e n t e esposti alle influenze islamiche." Spesso gli islamisti h a n n o esercitato u n a f o r t e attrazione sulle d o n n e : la T u r c h i a ad e s e m p i o ha vissuto u n o scontro assai aspro tra la vecchia generazione di d o n n e laiche e quella delle loro figlie e nipoti, seguaci dei precetti islamici. 21 U n o studio c o m p i u t o da dirigenti dei g r u p p i islamici egiziani rilevava cinque caratteristiche di f o n d o c o m u n i agli islamisti di altri paesi. Si trattava di giovani, p r e v a l e n t e m e n t e tra i venti e i q u a r a n t ' a n n i . La p r o p o r z i o n e di studenti universitari o laureati era dell'80 p e r cento. Oltre la m e t à proveniva da università esclusive o da settori tecnici specialistici p a r t i c o l a r m e n t e impegnativi quali medicina o ingegneria. Per oltre il 70 p e r cento provenivano dalla classe medio-bassa «di estrazione modesta, ma n o n povera» ed e r a n o la p r i m a generazione, nell'ambito delle p r o p r i e famiglie, in possesso di u n ' i s t r u z i o n e superiore. Avevano trascorso l'infanzia in cittadine o in aree rurali e si e r a n o quindi trasferiti in grandi città. 2 ' Se studenti e intellettuali f o r m a v a n o i quadri di militanti e le t r u p p e d'assalto dei movimenti islamici, la classe m e d i a u r b a n a costituiva il grosso dell'esercito. Si tratta in parte di g r u p p i della classe media «tradizionale»: bottegai, commercianti, piccoli imprenditori, bazaarì. Essi svolsero u n r u o l o f o n d a m e n t a l e nella Rivoluzione iraniana e h a n n o o f f e r t o u n sostegno significati23 Olivier Roy, The Failure of Political Islam, London, Tauris, 1994, p. 49 sgg.; «New York Times», 19 gennaio 1992, p. E3; Washington Post», 21 novembre 1990, p. A l . Si veda Gilles Keppel, The Revenge of God: The Resurgence of Islam, Christianity, and Judaism in the Modern World, University Park, PA, Pennsylvania State University Press, 1994, p. 32; Farida Faouzia Charfi, «When Galileo Meets Allah», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Primavera 1994), p. 30; Esposito, Islamic Threat, p. 10. 24 Mahnaz Ispahani, «Varieties of Muslim Experience», in «Wilson Quarterly», n. 13 (Autunno 1989), p. 72. 25 Saad Eddin Ibhrahim, «Appeal of Islamic Fundamentalism», ( d o c u m e n t o presentato alla Conferenza su «Islam e politica nel m o n d o m u s u l m a n o contemporaneo», Harvard University, 15-16 ottobre 1985, pp. 9-10, e «Islamic Militancy as a Social Movement: T h e Case of Two Groups in Egypt», in Dessouki (a cura di), Islamic Resurgence, pp. 128-31.

vo a n c h e ai movimenti fondamentalisti in Algeria, Turchia e Indonesia. Per lo più, tuttavia, i fondamentalisti a p p a r t e n e v a n o ai settori più «moderni» della classe media. Gli attivisti islamici « c o m p r e n d o n o p r o b a b i l m e n t e u n n u m e r o spropositatamente alto dei più istruiti e brillanti giovani delle rispettive popolazioni», compresi medici, avvocati, ingegneri, scienziati, insegnanti, funzionari pubblici. 26 La terza c o m p o n e n t e chiave del m o v i m e n t o islamista è costituita dai nuovi immigrati urbani. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, la popolazione u r b a n a dell'intero m o n d o islamico è cresciuta a u n ritmo spettacolare. Ammassati in ghetti fatiscenti e spesso primitivi, gli immigrati u r b a n i p o t e r o n o u s u f r u i r e dei provvidenziali servizi sociali offerti dalle organizzazioni islamiche. Inoltre, sostiene Ernest Gellner, l'Islam offriva un'«identità dignitosa» a quelle «nuove masse di diseredati». A Istanbul e Ankara, al Cairo e ad Asyut, ad Algeri e Fes e nella striscia di Gaza, i partiti islamici h a n n o p o t u t o organizzarsi con successo appellandosi agli «oppressi e i diseredati». «Le masse dell'Islam rivoluzionario», h a a f f e r m a t o Oliver Roy, sono «un f r u t t o della società m o d e r n a ... sono i nuovi immigrati urbani, i milioni di contadini c h e h a n n o triplicato la popolazione delle grandi metropoli musulmane». 2 ' A m e t à degli anni Novanta, governi esplicitamente islamici e r a n o al p o t e r e solo in Iran e in Sudan. U n piccolo n u m e r o di paesi musulmani, quali la T u r c h i a e il Pakistan, aveva regimi con q u a l c h e pretesa di legittimità democratica. I governi dei circa q u a r a n t a altri paesi m u s u l m a n i e r a n o p r e v a l e n t e m e n t e n o n democratici: m o n a r c h i e , sistemi monopartitici, regimi militari, dittature personali o u n a c o m b i n a z i o n e di tutti questi elementi, di solito f o n d a t i su base familiare, tribale o di clan, e in alcuni casi f o r t e m e n t e d i p e n d e n t i dal sostegno straniero. D u e regimi, in Marocco e Arabia Saudita, h a n n o tentato di ri26 «Washington Post», 26 ottobre 1980, p. 23; Peacock, «Impact of Islam», cit., p. 140; Ilkay Sunar e Binnaz Toprak, «Islam in Politics; T h e Case of Turkev», in «Government and Opposition», n. 18 (Autunno 1983), p. 436; Richard W. Bulliet, «The Israeli-PLO Accord: T h e Future of the Islamic Movement», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 42. 27 Ernest Gellner, «Up from Imperialism», in «New Republic», 22 maggio 1989, p. 35; J o h n Murray Brown, «Tansu Ciller and the Question of Turkish Identity», in «World PolicyJournal», n. 11 (Autunno 1994), p. 58; Roy, Fatture of Politicai Islam, p. 53.

chiamarsi a u n a qualche sorta di legittimità islamica. Per lo più, tuttavia, a questi governi mancava qualsiasi base p e r autogiustificarsi in termini di valori islamici, democratici o nazionalisti. Erano, p e r usare l'espressione di C l e m e n t H e n r y Moore, «regimi bunker», repressivi, corrotti, del tutto indifferenti ai bisogni e alle aspirazioni della loro società. Regimi di questo tipo possono sopravvivere per lunghi periodi di t e m p o e n o n sono necessariamente condannati a cadere. Nel m o n d o m o d e r n o , tuttavia, le possibilità di un loro m u t a m e n t o o crollo sono molto alte. Di conseguenza si p o n e la questione: u n a volta crollati, che tipo di regime si affermerebbe? A m e t à degli anni Novanta, in quasi tutti questi paesi il regime che aveva maggiori probabilità di successo era un regime islamico. Negli anni Settanta e Ottanta, u n ' o n d a t a di democratizzazion e dilagò in tutto il m o n d o , travolgendo diverse decine di paesi. Questa o n d a t a ebbe un certo impatto sulle società musulmane, a n c h e se limitato. Laddove i movimenti democratici guadag n a r o n o forza e giunsero al p o t e r e in E u r o p a meridionale, America latina, nella periferia est-asiatica e in E u r o p a centrale, i movimenti islamici a n d a r o n o parallelamente rafforzandosi nei paesi musulmani. L'islamismo f u il corrispettivo funzionale dell'opposizione democratica all'autoritarismo nelle società cristiane, e fu in larga parte il p r o d o t t o di cause analoghe: mobilità sociale, inefficienza dei regimi autoritari con conseguente perdita di legittimità, nonché u n q u a d r o internazionale in rapido m u t a m e n t o , ivi incluso il rincaro del petrolio, che nel m o n d o m u s u l m a n o incoraggiò tendenze islamiste più che democratiche. Sacerdoti, ministri del culto e g r u p p i religiosi laici h a n n o svolto u n importante ruolo di opposizione ai regimi autoritari nelle società cristiane. Un r u o l o comparabile h a n n o avuto anche ulema, islamisti e gruppi religiosi islamici nei paesi musulmani. Se il Papa è stato un e l e m e n t o d e t e r m i n a n t e p e r la caduta del regime comunista in Polonia, l'ayatollah lo è stato altrettanto nel crollo del regime dello shah in Iran. Negli anni Ottanta e Novanta i movimenti islamici h a n n o dom i n a t o e, spesso, monopolizzato l'opposizione ai governi nei paesi musulmani. La loro forza è in parte u n riflesso della debolezza delle fonti di opposizione alternative. I movimenti comunisti e di sinistra sono stati screditati e quindi seriamente compromessi dal crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica e del c o m u n i s m o

internazionale. G r u p p i di opposizione liberali e democratici son o s e m p r e esistiti in gran parte delle società m u s u l m a n e , sepp u r ridotti sovente ad u n m a n i p o l o di intellettuali ed altri elementi con forti radici o legami con l'Occidente. T r a n n e rare eccezioni, i democratici liberali n o n h a n n o saputo conquistare u n solido sostegno popolare nelle società musulmane, e finanche il liberalismo islamico n o n è riuscito a m e t t e r e radici. «Sono sempre di più le società musulmane», osserva Fouad Ajami, «in cui parlare di liberalismo e di tradizione borghese nazionale significa recitare il necrologio di u o m i n i c h e raccolsero u n a sfida impossibile e f u r o n o sconfitti».™ La generale incapacità della democrazia liberale di attecchire nelle società m u s u l m a n e , manifestatasi alla fine dell'Ottocento, a p p a r e u n a costante di tutto il secolo successivo. Tale incapacità trova a l m e n o in parte spiegazione nella natura inospitale della cultura e della società islamica p e r i principi liberalistici occidentali. Il successo registrato dai movimenti islamisti nell'assumere la guida dell'opposizione e nel presentarsi c o m e l'unica alternativa possibile ai regimi in carica è stato inoltre m o l t o agevolato dagli indirizzi politici perseguiti da quei regimi. D u r a n t e la G u e r r a f r e d d a , molti governi, compresi quelli di Algeria, Turchia, Giordania, Egitto e Israele, incoraggiarono e sostennero quei movimenti c o m e forza di opposizione ai comunisti o a movimenti nazionalisti ostili. A l m e n o fino alla g u e r r a del Golfo, Arabia Saudita e altri stati del Golfo h a n n o o f f e r t o generosi finanziamenti alla C o n f r a t e r n i t a m u s u l m a n a e ai g r u p p i islamici di n u m e r o s i paesi. Il d o m i n i o delle forze d'opposizion e da p a r t e dei g r u p p i islamici è stato altresì rafforzato dall'op e r a di soppressione delle opposizioni laiche attuata dai governi. La forza dei fondamentalisti variava g e n e r a l m e n t e in misura inversamente proporzionale a quella dei partiti democratici o nazionalisti laici ed era m i n o r e in quei paesi, quali ad esempio il Marocco e la Turchia, c h e consentivano u n certo g r a d o di c o m p e t i z i o n e multipartitica. 21 ' L'opposizione laica, tuttavia, è 28 Fouad Ajami, «The Impossible Life of Muslim Liberalism», in «New Republic», 2 giugno 1986, p. 27. 29 Clement Henry Moore, «The Mediterranean Debt Crescent», inedito, p. 346; Mark N. Katz, «Emerging Patterns in the International Relations of Central Asia», in «Central Asia Monitor», n. 2, 1944, p. 27; Mehrdad Haghayeghi, «Islamic Revival in the Central Asian Republics», in «Central Asian Survey», 13 (n. 2, 1994), p. 255.

più vulnerabile alla repressione di q u a n t o lo sia l'opposizione religiosa. Q u e s t ' u l t i m a p u ò infatti o p e r a r e a l l ' i n t e r n o e dietro le q u i n t e di u n a fitta rete di m o s c h e e , organizzazioni assistenziali, f o n d a z i o n i e altre istituzioni m u s u l m a n e c h e i governi n o n possono p e r m e t t e r s i di s o p p r i m e r e . I democratici liberali n o n d i s p o n g o n o di tale c o p e r t u r a e possono d u n q u e essere più facilmente controllati o eliminati dai rispettivi governi. Nel tentativo di p o r r e u n f r e n o al diffondersi di t e n d e n z e islamiste, i governi h a n n o ampliato l'istruzione religiosa nelle scuole statali, c h e spesso h a n n o finito con l'essere d o m i n a t e da idee e insegnanti islamici, ed esteso il loro sostegno alla religione e agli istituti educativi religiosi. Tali iniziative in p a r t e testimoniavano la loro adesione all'islamismo, e in p a r t e consentivano, attraverso cospicui finanziamenti, di e s t e n d e r e il controllo governativo sulle istituzioni e organizzazioni educative islamiche. Esse, tuttavia, h a n n o a n c h e finito con l ' e d u c a r e grandi masse di studenti ai valori islamici, r e n d e n d o l i più sensibili al r i c h i a m o islamista e l a u r e a n d o giovani militanti c h e h a n n o poi c o n t i n u a t o ad adoperarsi p e r la causa islamista. La forza della Rinascita islamica e il richiamo esercitato dai movimenti islamisti h a i n d o t t o i governi a p r o m u o v e r e istituzioni e adottare simboli e costumi tipicamente islamici. Al livello più generale, ciò h a significato il riconoscimento o la riaff e r m a z i o n e della n a t u r a islamica del loro stato e della loro società. Negli a n n i Settanta e O t t a n t a i leader politici si sono precipitati a identificare se stessi e i rispettivi regimi con l'Islam. Re Hussein di Giordania, certo del fatto c h e i governi laici avesser o b e n p o c o f u t u r o nel m o n d o arabo, ha parlato della necessità di creare u n a «democrazia islamica» e di u n «Islam in via di modernizzazione». Re Hassan di Marocco ha sottolineato la p r o p r i a discendenza dal Profeta e il suo r u o l o di « C o m a n d a n t e dell'esercito di fedeli». Il sultano del Brunei, mai distintosi in p r e c e d e n z a p e r la p r o p r i a f e d e islamica, è diventato «sempre più devoto» e h a definito il p r o p r i o regime u n a «monarchia m u s u l m a n a malese». In Tunisia, Ben Ali ha iniziato a invocare r e g o l a r m e n t e Allah nei suoi discorsi e ad «avvolgersi nel m a n t o dell'Islam» p e r t e n e r e sotto controllo il crescente richiamo dei g r u p p i islamici."' Agli inizi degli a n n i Novanta S u h a r t o h a 30 «New York Times», 10 aprile 1989, p. A3; 22 dicembre 1992, p. 5; «Economist», 10 ottobre 1992, p. 41.

esplicitamente adottato u n a politica m i r a n t e a r e n d e r e il proprio paese «più m u s u l m a n o » . In Bangladesh, negli a n n i Settanta il principio del «secolarismo» è stato b a n d i t o dalla costituzione, e nei primi a n n i Novanta l'identità laica e kemalista della Turchia ha iniziato, per la p r i m a volta, a essere seriamente minacciata. 1 1 A sottolineare la loro f e d e islamica, i leader di g o v e r n o - Òzal, Suharto, Karimov - si sono precipitati alla loro hajh. I governi dei paesi m u s u l m a n i h a n n o a n c h e iniziato a «islamizzare» l ' o r d i n a m e n t o giuridico. In Indonesia i precetti e le c o n s u e t u d i n i giuridiche islamiche sono stati i n c o r p o r a t i nel preesistente o r d i n a m e n t o laico. D'altra parte, la Malaysia, c h e ha u n a nutrita c o m u n i t à n o n m u s u l m a n a , h a p r o m o s s o lo svil u p p o di d u e distinti o r d i n a m e n t i giuridici, u n o islamico e u n o laico. 32 In Pakistan, d u r a n t e il regime del generale Zia ul-Haq vi f u u n pressante tentativo di islamizzare il diritto e l'economia. Vennero introdotte punizioni islamiche, f u creato u n sistema di corti f o n d a t o sulla sharia, la legge coranica, e la stessa sharia è stata dichiarata legge s u p r e m a del paese. Al pari di altre manifestazioni di revival religioso su scala globale, la Rinascita islamica è a u n t e m p o u n p r o d o t t o della modernizzazione e u n tentativo di venire a patti con essa. Le cause di f o n d o del suo manifestarsi sono quelle g e n e r a l m e n t e responsabili delle t e n d e n z e all'indigenizzazione in atto nelle società n o n occidentali: urbanizzazione, mobilità sociale, più alti livelli di alfabetizzazione e istruzione, maggiore diffusione dei mezzi di c o m u n i c a z i o n e n o n c h é u n a più a m p i a interazione c o n la cultura occidentale e di altre società. Tali sviluppi indeboliscono i tradizionali legami di villaggio e di clan e g e n e r a n o alienazione e crisi d'identità. Simboli, credenze e valori islamici soddisfano tali bisogni psicologici, m e n t r e le organizzazioni assistenziali islamiche r i s p o n d o n o ai bisogni sociali, culturali 31 «Economist», 20 luglio 1991, p. 35; 21 dicembre 1991-3 g e n n a i o 1992, p. 40; Mahfulzul H o q u e Choudhury, «Nationalism, Religion and Politics in Bangladesh», in Rafiuddin A h m e d (a cura di), Bangladesh: Society, Religion and Politics, Chittagong, South Asia Studies Group, 1985, p. 68; «New York Times», 30 novembre 1994, p. A14; «Wall Street Journal», 1 marzo 1995, pp. 1, A6. 32 Donald L. Horowitz, «The Qur'an and the C o m m o n Law: Islamic Law Reform and the Theory of Legai Change», in «American Journal of Comparative Law», n. 42 (Primavera ed Estate 1994), p. 234 sgg.

ed economici dei m u s u l m a n i coinvolti nel processo di m o d e r nizzazione. I m u s u l m a n i avvertono i n s o m m a il bisogno di torn a r e alle idee, ai costumi e alle istituzioni islamiche quale bussola e m o t o r e della m o d e r n i z z a z i o n e . " La Rinascita islamica, è stato sostenuto, è stata a n c h e «un p r o d o t t o del declinante p o t e r e e prestigio dell'Occidente. ... Via via che l'Occidente perdeva il p r o p r i o ascendente universale, i suoi ideali e le sue istituzioni h a n n o perso attrattiva». Più specificamente, la Rinascita è stata stimolata e alimentata dal b o o m petrolifero degli anni Settanta che ha e n o r m e m e n t e accresciuto la ricchezza e il p o t e r e di molte nazioni m u s u l m a n e e ha consentito loro di rovesciare il tradizionale r a p p o r t o di dominio-asservimento con l'Occidente. C o m e osservò a quell'epoca J o h n B. Kelly, «i sauditi t r a g g o n o i n d u b b i a m e n t e u n doppio motivo di soddisfazione nell'infliggere certe umiliazioni agli occidentali; esse infatti sono n o n solo u n a manifestazione di p o t e r e e di i n d i p e n d e n z a da parte dell'Arabia Saudita, m a e s p r i m o n o altresì, c o m ' e r a loro intenzione, il disprezzo p e r il cristianesimo e la superiorità dell'islamismo». Le azioni degli stati m u s u l m a n i ricchi di petrolio, «se collocate nel loro giusto contesto storico, religioso, razziale e culturale, equivalgono n é più n é m e n o c h e a u n audace tentativo di assoggettare l'Occid e n t e cristiano al versamento di u n tributo all'Oriente musulm a n o » . " I governi saudita, libanese e di altri paesi h a n n o usato il loro prezioso petrolio p e r stimolare e finanziare l'ascesa musulmana. Il sopraggiunto benessere ha i n d o t t o nei m u s u l m a n i u n c a m b i a m e n t o da u n s e n t i m e n t o di attrazione nei c o n f r o n t i della cultura occidentale a un p r o f o n d o coinvolgimento nella p r o p r i a cultura n o n c h é al desiderio di i n c r e m e n t a r e la presenza e l'importanza dell'Islam nelle società n o n islamiche. C o m e in passato il benessere occidentale era stato considerato prova della superiorità della cultura occidentale, così la ricchezza arrecata dal petrolio è stata vista c o m e u n a prova della superiorità dell'Islam. Se la g r a n d e spinta g e n e r a t a dal rincaro del petrolio v e n n e 33 Dessouki, Islamic lìesurgence, p. 23. 34 Daniel Pipes, In the Path of Cori: Islam and Politimi Power, New York, Basic Books, 1983, pp. 282-3, 290-92; John Barre« Kellv, Arabia, the Gulj and the West, New York, Basic Books, 1980, pp. 261,423, cit. in Pipes, Path ofGod, p. 291.

ad affievolirsi negli anni Ottanta, lo sviluppo d e m o g r a f i c o ha c o n t i n u a t o a f u n g e r e da incessante m o t o r e propulsivo. Se l'ascesa est-asiatica è stata alimentata da spettacolari tassi di crescita economica, la Rinascita dell'Islam è stata sostenuta da altrettanto spettacolari tassi di crescita demografica. L ' a u m e n t o di popolazione nei paesi islamici, in particolare nei Balcani, nel N o r d Africa e in Asia centrale, è stato molto maggiore di quello registrato nei paesi confinanti e nel m o n d o in generale. Tra il 1965 e il 1990, la popolazione complessiva del pianeta è passata da 3,3 a 5,3 miliardi, e il tasso di crescita a n n u o è stato dell'1,85 p e r cento. Nelle società m u s u l m a n e il tasso di crescita è stato quasi sempre di oltre il 2 p e r cento, e h a spesso superato il 2,5 e a volte a n c h e il 3 p e r cento. Tra il 1965 e il 1990, ad esempio, la popolazione m a g h r e b i n a è cresciuta a u n tasso ann u o del 2,65 p e r cento, passando da 29,8 a 59 milioni, e gli algerini in particolare si sono moltiplicati secondo u n tasso ann u o del 3 p e r cento. In quegli stessi anni, il n u m e r o di egiziani è cresciuto del 2,3 p e r cento a n n u o , passando da 29,4 a 52,4 milioni. In Asia centrale, nel p e r i o d o 1970-1993 la popolazione è a u m e n t a t a del 2,9 p e r c e n t o a l l ' a n n o in Tagikistan, del 2,6 p e r c e n t o in Uzbekistan, del 2,5 p e r cento in T u r k m e n i s t a n , d e l l ' I , 9 p e r cento in Kirghizistan, m a solo dell'1,1 p e r c e n t o in Kazakistan, la cui popolazione è quasi p e r m e t à russa. Pakistan e Bangladesh h a n n o avuto u n tasso di crescita d e m o g r a f i c a di oltre il 2,5 p e r cento a n n u o , e l'Indonesia di oltre il 2 p e r cento. Nel complesso, i m u s u l m a n i costituivano grosso m o d o , com e già detto, il 18 p e r cento della popolazione m o n d i a l e nel 1980; nel Duemila s u p e r e r a n n o p r o b a b i l m e n t e il 20 p e r cento, e nel 2025 r a g g i u n g e r a n n o il 30 p e r cento. 1 ' I tassi di sviluppo d e m o g r a f i c o nel M a g h r e b e altrove h a n n o o r m a i raggiunto il picco massimo e stanno iniziando a calare, m a la crescita in termini assoluti c o n t i n u e r à a essere molto sostenuta e le sue conseguenze si f a r a n n o sentire p e r tutta la prim a m e t à del xxi secolo. Per gli anni a venire, la popolazione 35 United Nations Population Division, World Populalion Perspeclìves: The 1992 Rmnsion, New York, United Nations, 1993, tabella A l 8; World Bank, World Development Report 1995, New York, Oxford University Press, 1995, tabella 25; Jean Bourgeois-Pichat, «Le N o m b r e des H o m m e s : Etat et Prospective», in Albert Jacquard (a cura di), IJ?S Srientijiques Parlent, Paris, Hachette, 1987, pp. 154, 156.

m u s u l m a n a sarà costituita in stragrande maggioranza d a giovani, con u n notevole balzo in avanti nel n u m e r o di adolescenti e di giovani sotto i t r e n t ' a n n i (Figura 5.2). Inoltre, la popolazion e c o m p r e s a in questa fascia di età sarà p r e v a l e n t e m e n t e urbana e avrà nella maggioranza dei casi c o m e m i n i m o u n livello di istruzione secondaria. Questa c o m b i n a z i o n e di consistenza numerica e mobilità sociale c o m p o r t a tre significative conseguenze d ' o r d i n e politico. 1) I giovani sono i protagonisti di f e n o m e n i quali movimenti di protesta, instabilità, r i f o r m e e rivoluzioni. L'esperienza dimostra c o m e l'esistenza di u n a m p i o s e g m e n t o di popolazione giovane abbia coinciso con il manifestarsi di tali f e n o m e n i . «La Riforma protestante», è stato a f f e r m a t o , «è u n esempio di u n o dei più straordinari movimenti giovanili nella storia». Lo svil u p p o demografico, ha sostenuto in m o d o assai persuasivo Jack Goldstone, è stato u n e l e m e n t o centrale delle d u e o n d a t e rivoluzionarie che h a n n o sconvolto l'Eurasia a metà xvii e nel tardo XVIII secolo.* U n a notevole espansione della fascia giovanile nei paesi occidentali coincise con 1'«epoca della rivoluzione democratica» negli ultimi d e c e n n i del XVIII secolo. Nel xix secolo, industrializzazione ed emigrazione ridussero l ' i m p a t t o politico di tale f e n o m e n o sulle società e u r o p e e . La p e r c e n t u a l e di giovani t o r n ò tuttavia a crescere verso il 1920, f o r n e n d o adepti al m o v i m e n t o fascista e ad altri g r u p p i estremisti/' Q u a r a n t a n n i d o p o , la generazione del «baby b o o m » nata d o p o la Seconda g u e r r a m o n d i a l e conseguì u n g r a n d e successo politico con le manifestazioni e le proteste degli anni Sessanta. 2) I giovani islamici si s t a n n o rivelando l'asse p o r t a n t e della Rinascita islamica. Allorché questa e b b e inizio negli a n n i Settanta e prese q u i n d i a espandersi negli a n n i O t t a n t a , la prop o r z i o n e di giovani (vale a dire quelli tra i quindici e i ventiq u a t t r o a n n i ) nei maggiori paesi m u s u l m a n i registrò u n a notevole espansione e s u p e r ò il 20 p e r c e n t o della p o p o l a z i o n e totale. In molti paesi m u s u l m a n i la p e r c e n t u a l e di giovani rag36 Jack A. Goldstone, Revolution and Rebellion in theEarly Modem World, Berkeley, University of California Press, 1991, passim, in particolare le pp. 24-39. 37 H e r b e r t Moeller, «Youth as a Force in the M o d e m World», in «Comparative Studies in Society and History», n. 10 (Aprile 1968), pp. 23760; Lewis S. Feuer, «Generations a n d the T h e o r y of Revoluton», in «Survey», n. 18 (Estate 1972), pp 161-88.



USA

— 0 — Europa

— ù — Paesi musulmani ••••••••• Federazione russa

Fonte: United Nations, Population Division, Department for Economie and Social Information and Policy Analysis, World Population Prospects, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1995; United Nations, Population Division, Department for Economie and Social Information and Policy Analysis, Sex and Age Dìstribution of the World Population, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1994.

giunse la p u n t a massima negli a n n i Settanta e O t t a n t a , m e n t r e in altri la toccherà all'inizio del prossimo secolo (Tabella 5.1). In tutti questi paesi, le p u n t e massime reali o stimate s u p e r a n o c o m e d e t t o il 20 p e r cento, con l'unica eccezione dell'Arabia Saudita, p e r la quale la p u n t a massima stimata p e r il p r i m o dec e n n i o del xxi secolo risulta di p o c o inferiore. Questi giovani f u n g o n o da serbatoio delle organizzazioni e dei movimenti politici islamisti. N o n è forse p u r a coincidenza il fatto c h e la perc e n t u a l e di giovani rispetto al totale della p o p o l a z i o n e iranian a abbia registrato u n a u m e n t o spettacolare nel corso degli a n n i Settanta, r a g g i u n g e n d o il 20 p e r c e n t o nella p r i m a m e t à d e l . d e c e n n i o successivo, e c h e la rivoluzione iraniana sia scoppiata p r o p r i o nel 1979; o c h e la stessa p e r c e n t u a l e sia stata

r a g g i u n t a in Algeria nei primi a n n i Novanta, p r o p r i o q u a n d o il Fis islamista h a conquistato u n g r a n d e consenso p o p o l a r e , c h e lo h a p o r t a t o fino alla vittoria elettorale. L ' i n c r e m e n t o p e r c e n t u a l e dei giovani m u s u l m a n i p r e s e n t a tuttavia variazioni regionali p o t e n z i a l m e n t e m o l t o i m p o r t a n t i (Figura 5.3). S e b b e n e i dati disponibili v a d a n o presi con cautela, le proiezioni i n d i c a n o che la p e r c e n t u a l e di giovani bosniaci e d albanesi s c e n d e r à r a p i d a m e n t e a cavallo del secolo. L ' a u m e n t o di giovani resterà invece m o l t o sostenuto negli stati del Golfo. Nel 1988, il p r i n c i p e ereditario saudita Abdullah a f f e r m ò c h e la minaccia più grave al p r o p r i o paese era costituita dall'ascesa del f o n d a m e n t a l i s m o tra i giovani. , a S e c o n d o queste stime, questa minaccia c o n t i n u e r à a gravare p e r b u o n a p a r t e del xxi secolo. Nei maggiori paesi arabi (Algeria, Egitto, Marocco, Siria, Tunisia), il n u m e r o di ventenni in cerca di lavoro crescerà all'incirca fino al 2010. Rispetto al 1990, i nuovi ingressi sul mercato del lavoro a u m e n t e r a n n o del 30 per cento in Tunisia, di circa il 50 per cento

Tabella 5.1 Punte massime della fascia di giovani nei paesi

1970-1980 Bosnia Bahrein EAU Iran Egitto Kazakistan

1980-1990 1990-2000 Siria Algeria Albania Iraq Yemen Giordania Turchia Marocco Tunisia Bangladesh Pakistan Indonesia Malaysia Kirghizistan Tagikistan Turkmenistan Azerbaigian

musulmani

2000-2010 Tagikistan Turkmenistan Egitto Iran Arabia saudita Kuwait Sudan

2010-2020 Kirghizistan Malaysia Pakistan Siria Yemen Giordania Iraq Oman Libia Afghanistan

Decenni nei quali la fascia d'età compresa tra i 15 e i 24 anni ha toccato o toccherà la punta massima come percentuale della popolazione totale (quasi sempre superiore al 20 per cento). In alcuni paesi tale punta massima viene toccata due volte. Fonte: Si veda la Figura 5.2 38 Peter W. Wilson e Douglas F. Graham, Saudi Arabia: The Coming Armonk, NY, M. E. Sharpe, 1994, pp. 28-9.

Storm,

Figura 5.3 Punte massime della fascia

1965 1970 • Balcani

1980

di giovani

1990

— a — Paesi del Golfo

• Asia centrale ••••••••• Medio Oriente

musulmani

2000

per regione

2010

• Africa Settentrionale •Asia Meridionale

2020 2025 O — S u d Est Asiatico

Fonte: United Nations, Population Division, Department for Economic and Social Information and Policy Analysis, World Population Prospects, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1995; United Nations, Population Division, Department for Economic and Social Information and Policy Analysis, Sex and Age Distribution of the World Population, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1994. in Algeria, Egitto e Marocco e di oltre il 100 per cento in Siria. Anche la rapida espansione dell'alfabetizzazione nelle società arabe accentua il divario tra la giovane generazione di persone istruite e la generazione precedente prevalentemente analfabeta, determin a n d o in tal modo una «spaccatura tra cultura e potere» che potrebbe produrre «lacerazioni nei sistemi politici».™ 3) Popolazioni più n u m e r o s e r i c h i e d o n o maggiori risorse, cosicché le società d e n s a m e n t e p o p o l a t e o in r a p i d o sviluppo d e m o g r a f i c o t e n d o n o a proiettarsi all'esterno, a o c c u p a r e ter39 P h i l i p p e Fargues, « D e m o g r a p h i c E x p l o s i o n or Social U p h e a v a l » , in G h a s s e n S a l a m e (a cura d i ) , Democracy Without Democrats? The Renewal of Politics in the Muslim World. L o n d o n , I. B. Tauris, 1994, pp. 158-62, 175-7.

ritorio e a esercitare pressione su altri popoli demograficam e n t e m e n o dinamici. La crescita della popolazione islamica è d u n q u e u n ' i m p o r t a n t e causa di esasperazione dei conflitti e m e r g e n t i l u n g o i confini del m o n d o islamico tra m u s u l m a n i ed altre popolazioni. La pressione demografica unita alla stagnazione e c o n o m i c a stimola l'emigrazione m u s u l m a n a nelle società occidentali e n o n m u s u l m a n e in generale, d e t e r m i n a n do u n i n a s p r i m e n t o del p r o b l e m a dell'immigrazione. La contrapposizione tra culture, u n a in r a p i d a espansione demografica e l'altra in fase di stagnazione, i n d u c e all'adozione di contromisure di carattere e c o n o m i c o e / o politico nelle società di a m b e d u e i fronti. Negli anni Settanta, ad esempio, gli equilibri demografici nell'ex U n i o n e Sovietica h a n n o subito u n drastico m u t a m e n t o , con u n a crescita del 24 p e r cento dei m u s u l m a n i rispetto al 6,5 p e r cento dei russi, il che h a suscitato grossi timori tra i dirigenti comunisti dell'Asia c e n t r a l e / " I n ugual modo, l ' i m p e t u o s a crescita d e m o g r a f i c a degli albanesi n o n rassicura serbi, greci o italiani. Gli israeliani g u a r d a n o con timore all'alto tasso di crescita dei palestinesi, m e n t r e la Spagna, con u n tasso di sviluppo d e m o g r a f i c o inferiore allo 0,2 p e r c e n t o a n n u o , è minacciata dai vicini paesi m a g h r e b i n i , che invece registrano tassi di crescita di oltre dieci volte superiori e u n Pnl p r ò capite di circa u n d e c i m o rispetto a quello spagnolo.

Nuove sfide Nessuna società p u ò sostenere all'infinito u n a crescita econ o m i c a a d u e cifre, e il b o o m e c o n o m i c o asiatico è destinato a placarsi e n t r o i primi anni del xxi secolo. A m e t à anni Settanta, il tasso di crescita e c o n o m i c a g i a p p o n e s e h a subito u n a sostanziale riduzione e da allora n o n si è più dimostrato sostanzialm e n t e superiore a quello degli Stati Uniti o dei paesi europei. U n o d o p o l'altro, a n c h e altri stati asiatici protagonisti del «miracolo economico» v e d r a n n o il p r o p r i o tasso di crescita ridursi e approssimarsi ai livelli «normali» delle e c o n o m i e m a t u r e . In ugual m o d o , nessuna reviviscenza religiosa o m o v i m e n t o cultu40 «Economisti», 29 agosto 1981, p. 40; Denis Dragounski, «Threshold of Violence», in «Freedom Review», n. 26 (Marzo-Aprile 1995), p. 11.

rale d u r a all'infinito, e prima o poi la Rinascita islamica si placherà e svanirà nella storia. Ciò accadrà con maggiori probabilità allorché l'impulso demografico che la sostiene si indebolirà nel s e c o n d o e terzo d e c e n n i o del prossimo secolo. A quel p u n to, le fila di militanti, guerriglieri ed emigranti si assottiglierann o e l'alto livello di conflittualità presente all'interno del m o n do islamico con altre popolazioni (si veda il capitolo 10) verrà p r o b a b i l m e n t e a calare. I r a p p o r t i tra Islam e O c c i d e n t e n o n d i v e r r a n n o certo intimi, m a s a r a n n o m e n o conflittuali, e agli stati di g u e r r a strisciante (si veda il capitolo 9) s u b e n t r e r a n n o p r o b a b i l m e n t e situazioni di g u e r r a f r e d d a o finanche di pace fredda. Lo sviluppo e c o n o m i c o in Asia p r o d u r r à u n a serie di economie più ricche e più complesse, con u n alto livello di coinvolg i m e n t o internazionale, u n a borghesia ricca e u n a classe media benestante. E possibile c h e ciò porti a sviluppi politici in senso più pluralistico e forse a n c h e più democratico, il che, tuttavia, n o n significa n e c e s s a r i a m e n t e più filo-occidentale. L'accresciuto potere stimolerà viceversa negli asiatici u n attegg i a m e n t o s e m p r e più spavaldo in c a m p o internazionale, n o n ché il tentativo di spostare gli indirizzi globali in u n a direzione m e n o congeniale all'Occidente e di riforgiare le organizzazioni internazionali in m o d o da allontanarle dai modelli e dalle norm e di stampo occidentale. La Rinascita islamica, al pari di movimenti simili quali ad e s e m p i o la Riforma protestante, prod u r r à a n c h e altre conseguenze. I m u s u l m a n i s v i l u p p e r a n n o u n a più p i e n a coscienza degli elementi c o m u n i tra loro e delle differenze c o n i n o n musulmani. La nuova generazione di lead e r c h e s u b e n t r e r à al p o t e r e nei prossimi anni n o n sarà necessariamente fondamentalista, m a sarà c e r t a m e n t e m o l t o più sensibile ai valori islamici rispetto a quanti li h a n n o preceduti. Il processo di indigenizzazione si rafforzerà. La Rinascita lascerà in eredità u n a rete di organizzazioni sociali, culturali, econ o m i c h e e politiche islamiste nazionali e transnazionali. Essa avrà inoltre dimostrato che «l'Islam è la soluzione» ai p r o b l e m i di moralità, identità, o r i e n t a m e n t o e fede, m a n o n a quelli dell'ingiustizia sociale, della repressione politica, dell'arretratezza e c o n o m i c a e della debolezza militare. Questi fallimenti pot r a n n o g e n e r a r e u n a p r o f o n d a delusione nei c o n f r o n t i dell'islamismo politico, u n a reazione c o n t r o di esso e u n a ricerca di

soluzioni «alternative». È presumibile c h e possano e m e r g e r e nuovi nazionalismi a n c o r a più f o r t e m e n t e antioccidentali, i quali p o t r e b b e r o addossare all'Occidente la responsabilità dei fallimenti dell'Islam. O p p u r e , se Malaysia e I n d o n e s i a contin u e r a n n o a perseguire la strada del progresso e c o n o m i c o , pot r e b b e r o offrire u n «modello islamico» di sviluppo alternativo a quello occidentale e asiatico A ogni m o d o , p e r i prossimi d e c e n n i la crescita e c o n o m i c a asiatica avrà effetti p r o f o n d a m e n t e destabilizzanti sull'ordine internazionale oggi d o m i n a t o dall'Occidente. In particolare, lo sviluppo della Cina, se c o n t i n u e r à , p r o d u r r à u n massiccio spostamento negli equilibri di p o t e r e tra le civiltà. Inoltre, l'India p o t r e b b e avviare u n a fase di rapida espansione e c o n o m i c a e rivelarsi u n a seria c o n t e n d e n t e della Cina per l'acquisizione di influenza n e l l ' a r e n a internazionale. Nel f r a t t e m p o , lo svil u p p o d e m o g r a f i c o m u s u l m a n o costituirà u n fattore destabilizzante sia p e r le società m u s u l m a n e che p e r i paesi confinanti. Il gran n u m e r o di giovani dotati di istruzione secondaria contin u e r à ad alimentare la Rinascita islamica e a f o m e n t a r e l'attivismo, il militarismo e l'emigrazione m u s u l m a n a . Nei prossimi d e c e n n i assisteremo perciò alla persistente ascesa del p o t e r e e della cultura n o n occidentali e allo scontro dei popoli n o n occidentali sia tra loro sia con l'Occidente.

Ili L'ORDINE EMERGENTE DELLA CIVILTÀ

CAPITOLO SESTO

La ridefinizione culturale dello scenario politico m o n d i a l e

Alla ricerca del gruppo: la politica dell'identità Stimolato dal processo di modernizzazione, il q u a d r o politico mondiale sta attraversando un processo di ridefinizione culturale. Popoli e paesi di uguale cultura t e n d o n o sempre più ad avvicinarsi, m e n t r e popoli e paesi di diversa cultura t e n d o n o ad allontanarsi. Gli schieramenti nati dal credo ideologico e politico delle d u e superpotenze stanno c e d e n d o il passo a schieramenti determinati da concetti quali cultura e civiltà. Sempre più spesso i confini politici vengono ridisegnati in m o d o da ricalcare quelli culturali: etnici, religiosi e di civiltà. Le alleanze tra paesi culturalmente affini stanno sostituendo i blocchi prodotti dalla Guerra fredda, e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando i principali punti di conflitto dello scacchiere internazionale. D u r a n t e la G u e r r a f r e d d a u n paese poteva dichiararsi n o n allineato, c o m e accadde in molti casi, o p p u r e , c o m e fece qualcuno, passare da u n a p a r t e all'altra della barricata. I leader di u n paese potevano compiere tali scelte in base a considerazioni di sicurezza, a calcoli di equilibrio di p o t e r e o alle loro p r e f e r e n z e ideologiche. Nel nuovo m o n d o , invece, l ' e l e m e n t o principale che d e t e r m i n a associazioni e antagonismi tra gli stati è l'identità culturale. Se ai tempi della G u e r r a f r e d d a u n paese poteva scegliere di n o n allinearsi, oggi n o n p u ò n o n avere u n a propria identità. Alla d o m a n d a «Da c h e p a r t e stai?», se n e è sostituita un'altra, b e n più f o n d a m e n t a l e : «Chi sei?». A questa d o m a n d a ogni stato è t e n u t o a r i s p o n d e r e , e la risposta, esplicando la sua identità culturale, n e decide la collocazione sullo scacchiere politico m o n d i a l e d e t e r m i n a n d o amici e nemici. Gli anni Novanta h a n n o visto esplodere u n a crisi d ' i d e n t i t à su scala mondiale. O v u n q u e si guardi, la gente sembra chiedersi, «Chi siamo?», «A cosa apparteniamo?» e «Chi sono gli al-

tri?». D o m a n d e basilari n o n solo p e r i popoli che t e n t a n o di dare vita a nuovi stati nazionali, c o m e nel caso dell'ex Jugoslavia, ma a n c h e in u n senso molto più generale. A m e t à degli a n n i Novanta, tra i paesi in cui la questione dell'identità nazionale era attivamente dibattuta figuravano: Algeria, Canada, Cina, G e r m a n i a , G i a p p o n e , G r a n Bretagna, India, Iran, Marocco, Messico, Russia, Siria, Stati Uniti, Sudafrica, Tunisia, Turchia e Ucraina. I p r o b l e m i r i g u a r d a n t i l'identità sono c o m ' è ovvio p a r t i c o l a r m e n t e sentiti in paesi divisi dove vivono g r u p p i consistenti di p e r s o n e provenienti d a civiltà diverse. Posto dinanzi a u n a crisi d'identità, ciò che p e r u n u o m o conta più di ogni altra è il sangue, la f e d e e la famiglia. Egli tende a far q u a d r a t o con q u a n t i c o n d i v i d o n o con lui progenie, religione, lingua, valori ed istituzioni, e ad allontanarsi da q u a n t i n e differiscono. In Europa, all'epoca della G u e r r a f r e d d a paesi c o m e Austria, Finlandia e Svezia, di matrice culturale occidentale, dovettero separarsi d a l l ' O c c i d e n t e e proclamarsi neutrali; oggi possono ricongiungersi al p r o p r i o c e p p o culturale n e l l ' U n i o n e e u r o p e a . I paesi cattolici e protestanti dell'ex Patto di Varsavia - Polonia, U n g h e r i a , Repubblica Ceca e Slovacchia - stanno p r e p a r a n d o s i a u n f u t u r o ingresso n e l l ' U e e nella Nato, seguiti dappresso dagli stati baltici. Le p o t e n z e europ e e f a n n o c h i a r a m e n t e i n t e n d e r e di n o n desiderare l'ingresso n e l l ' U n i o n e e u r o p e a di u n o stato m u s u l m a n o , la Turchia, e n o n a p p a i o n o p e r nulla contenti di ritrovarsi u n s e c o n d o stato m u s u l m a n o , la Bosnia, nel c o n t i n e n t e e u r o p e o . A Nord, il crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica stimola la rinascita di nuovi (e vecchi) modelli associativi tra le r e p u b b l i c h e baltiche e tra queste, la Svezia e la Finlandia. Il p r i m o ministro svedese n o n p e r d e occasione di ricordare alla Russia c h e le repubbliche baltiche fann o p a r t e dei «paesi limitrofi» della Svezia, la quale n o n potrebbe d u n q u e restare neutrale in caso di aggressione russa ai loro danni. Riallineamenù simili vanno compiendosi a n c h e nei Balcani. All'epoca della G u e r r a fredda, Grecia e Turchia facevano parte della Nato, Bulgaria e Romania del Patto di Varsavia, la Jugoslavia era n o n allineata e l'Albania era u n paese isolato, occasion a l m e n t e vicino alla Cina comunista. Oggi questo allineamento va c e d e n d o il posto a schieramend di tipo nuovo, fondati sulla fede ortodossa e islamica. I leader dei paesi balcanici vorrebbe-

ro formalizzare un'alleanza greco-serbo-bulgara di matrice ortodossa. Le «guerre nei Balcani«, ha sostenuto il p r i m o ministro greco, «... h a n n o fatto rimbombare l'eco degli antichi legami ortodossi ... Questo è u n vincolo. Era come u n letargo, m a con gli sviluppi verificatisi nei Balcani sta ora diventando u n a cosa concreta. In u n m o n d o in costante trasformazione l ' u o m o è alla ricerca di identità e di sicurezze. E in cerca di radici e di amici p e r proteggersi dall'ignoto». O p i n i o n i simili sono state espresse dal leader del principale partito d'opposizione serbo: «La situazione creatasi in E u r o p a sudorientale i m p o r r à b e n presto la f o r m a z i o n e di u n a nuova alleanza balcanica di paesi ortodossi c o m p r e n d e n t e Serbia, Bulgaria e Grecia, p e r opporsi all'invadenza dell'Islam». A n o r d , Serbia e Romania, e n t r a m b e ortodosse, collaborano strettamente alla risoluzione dei loro problemi c o m u n i nei confronti della cattolica Ungheria. Con la scomparsa della minaccia sovietica, l'alleanza «innaturale» tra Grecia e Turchia p e r d e significato alla luce dei s e m p r e più aspri conflitti in atto tra i d u e paesi in relazione al Mar Egeo, a Cipro, ai reciproci equilibri militari, al loro ruolo nella Nato e nell'Un i o n e e u r o p e a e ai loro rapporti con gli Stati Uniti. La Turchia t o r n a a rivendicare il p r o p r i o r u o l o di protettrice dei musulmani balcanici e sostiene la Bosnia. Nella ex Jugoslavia, la Russia sostiene la Serbia ortodossa, la G e r m a n i a appoggia la Croazia cattolica, i paesi musulmani a c c o r r o n o in aiuto del governo bosniaco, m e n t r e i serbi c o m b a t t o n o c o n t r o croati, m u s u l m a n i bosniaci e musulmani albanesi. Nel complesso, i Balcani sono stati ancora u n a volta «balcanizzati» lungo linee di demarcazion e religiose. «Stanno e m e r g e n d o d u e poli b e n distinti», ha osservato Misha Glenny, «avvolti l ' u n o nella tunica dell'ortodossia orientale, l'altro nel velo islamico», e c'è il pericolo che si scateni «una lotta sempre più intensa p e r la conquista di influenza tra l'asse Belgrado-Atene e l'alleanza turco-albanese». 1 Nell'ex U n i o n e Sovietica, intanto, le ortodosse Bielorussia, Moldavia e Ucraina gravitano nell'orbita russa; a r m e n i e azeri 1 Andreas Papandreou, «Europe Turns Left», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Inverno 1994), p. 53; Vuk Draskovic, cit. in Janice A. Broun, «Islam in the Balkans», in «Freedom Review», n. 22 (Novembre-Dicembre 1991), p. 31; F. Stephen Larrabee, «Instability and Change in the Balkans», in «Survival», n. 34 (Estate 1992), p. 43; Misha Glenny, «Heading Off War in the Southern Balkans», in «Foreign Affairs», n. 74 (Maggio-Giugno 1995), pp. 102-3.

si c o m b a t t o n o a vicenda, m e n t r e i rispettivi confratelli russi e turchi t e n t a n o al c o n t e m p o di assisterli e di circoscrivere il conflitto. L'esercito russo c o m b a t t e c o n t r o i fondamentalisti musulmani in Tagikistan e c o n t r o i nazionalisti m u s u l m a n i in Cecenia. Le ex r e p u b b l i c h e sovietiche m u s u l m a n e t e n t a n o di svil u p p a r e tra loro varie f o r m e di associazione economica e politica e di e s p a n d e r e i rispettivi legami con i paesi limitrofi musulmani, m e n t r e Turchia, Iran e Arabia Saudita p r o f o n d o n o grandi sforzi p e r instaurare r a p p o r t i con questi nuovi stati. Nel s u b c o n t i n e n t e , India e Pakistan s o n o sempre ai ferri corti rig u a r d o al Kashmir e ai rispettivi equilibri militari; gli scontri nel Kashmir v a n n o intensificandosi, m e n t r e in India divampan o nuovi conflitti tra fondamentalisti m u s u l m a n i e i n d ù . In Asia orientale, patria di sei diverse civiltà, la corsa agli arm a m e n t i sta accelerando il passo e stanno s o r g e n d o nuove dispute territoriali. Le tre «Cine minori» - Taiwan, H o n g Kong e Singapore - e le c o m u n i t à cinesi residenti nel Sud-Est asiatico m a n i f e s t a n o nei c o n f r o n t i di P e c h i n o u n ' a t t e n z i o n e s e m p r e maggiore, n o n c h é , coinvolgimento e subordinazione. Le d u e Coree avanzano a passi esitanti m a significativi verso la riunificazione. In tutta l'area del Sud-Est asiatico i r a p p o r t i tra musulmani da u n lato e cinesi e cristiani dall'altro si f a n n o s e m p r e più tesi e a volte violenti. In America latina, le associazioni e c o n o m i c h e - Mercosur, Patto a n d i n o , Patto trilaterale (Messico, Colombia e Venezuela) , Mercato c o m u n e c e n t r o a m e r i c a n o - assurgono a nuova vita, con ciò c o n f e r m a n d o q u a n t o già icasticamente dimostrato d a l l ' U n i o n e e u r o p e a e cioè che l'integrazione e c o n o m i c a procede più s p e d i t a m e n t e se è f o n d a t a su u n a c o m u n a n z a culturale. I n t a n t o Stati Uniti e C a n a d a t e n t a n o di coinvolgere il Messico nel Nafta (l'Area n o r d a m e r i c a n a di libero scambio) mediante u n processo il cui successo di l u n g o p e r i o d o d i p e n d e in gran p a r t e dalla capacità o m e n o del Messico di ridefinirsi da paese latinoamericano a paese n o r d a m e r i c a n o . Con la fine d e l l ' o r d i n e della G u e r r a f r e d d a , d u n q u e , i paesi di tutto il m o n d o sviluppano nuovi antagonismi ed associazioni, o n e rinvigoriscono di vecchi. T e n t a n o di costituirsi in grupp o e cercano di farlo con paesi di uguale cultura e civiltà. I lead e r di governo invocano e l ' o p i n i o n e pubblica si identifica con c o m u n i t à culturali «grandi» che t r a s c e n d o n o i confini nazio-

nali: «Grande Serbia», «Grande Cina», «Grande Turchia», «Grande Ungheria», «Grande Croazia», «Grande Azerbaigian», «Grande Russia», «Grande Albania», «Grande Iran», «Grande Uzbekistan». Simili schieramenti politici ed economici v e r r a n n o s e m p r e a coincidere con quelli legati alla cultura e alla civiltà di appartenenza? N a t u r a l m e n t e no. Considerazioni di equilibrio dei poteri p o r t e r a n n o a volte ad alleanze tra civiltà diverse, c o m e avv e n n e q u a n d o Francesco i si alleò con gli o t t o m a n i c o n t r o gli Asburgo. Inoltre, associazioni sorte in passato p e r servire i fini di d e t e r m i n a t i stati t e n d e r a n n o a perpetuarsi a n c h e in f u t u r o , m a è tuttavia probabile c h e v e n g a n o a p e r d e r e di forza e significato e c h e d e b b a n o ristrutturarsi in m o d o da p o t e r adeguatam e n t e o t t e m p e r a r e agli imperativi dettati dalla nuova epoca. Grecia e Turchia r e s t e r a n n o c e r t a m e n t e m e m b r i della Nato, m a è probabile che i loro r a p p o r t i con gli altri m e m b r i di questa organizzazione si a t t e n u e r a n n o . Lo stesso p o t r e b b e accadere all'alleanza f o r m a l e degli Stati Uniti con G i a p p o n e e Corea, a quella de facto con Israele e ai suoi legami con il Pakistan in materia di sicurezza. Le organizzazioni internazionali composte da più civiltà, quali l'Asean, 2 f a r a n n o p r o b a b i l m e n t e sempre più fatica a m a n t e n e r e la coesione interna. Paesi c o m e India e Pakistan, all'epoca della G u e r r a f r e d d a schierati sui d u e opposti versanti, stanno oggi r i d e f i n e n d o i p r o p r i interessi e cercano nuove associazioni che riflettano le realtà culturali del q u a d r o politico internazionale. I paesi africani u n t e m p o d i p e n d e n t i dal sostegno occidentale volto a contrastare l'influenza sovietica nel continente, g u a r d a n o oggi sempre più al Sudafrica c o m e paese leader. P e r c h é la c o m u n a n z a culturale dovrebbe facilitare la cooperazione e la coesione tra i popoli, e le differenze culturali promuovere invece spaccature e conflitti? 1) O g n i essere u m a n o p r e s e n t a molteplici identità, complem e n t a r i o contrapposte: di consanguineità, di educazione, professionale, culturale, istituzionale, territoriale, ideologica, e altre ancora. Identità inerenti a u n a data d i m e n s i o n e possono scontrarsi con quelle i n e r e n t i ad u n a d i m e n s i o n e diversa. U n 2 Association of Southeast Asian Nations, Associazione delle Nazioni del SudEst asiatico [n.d.t.]

esempio classico è quello degli operai tedeschi c h e nel 1914 dovettero scegliere tra il proletariato internazionale da u n lato e il p o p o l o e l ' i m p e r o tedesco dall'altro. Nel m o n d o contemp o r a n e o , l'identità culturale sta a s s u m e n d o u n ' i m p o r t a n z a sempre maggiore rispetto alle altre f o r m e di identità. Nell'ambito di ogni singola dimensione, l'identità assume la massima rilevanza al livello più i m m e d i a t o di contrapposizione. N o n necessariamente, tuttavia, le identità più circoscritte contrastano con quelle più ampie. U n ufficiale militare p u ò identificarsi al livello istituzionale con la p r o p r i a compagnia, reggim e n t o , divisione ed esercito. Allo stesso m o d o , u n a p e r s o n a p u ò identificarsi culturalmente con il p r o p r i o clan, g r u p p o etnico, nazionalità, religione e civiltà. C o m e ha suggerito Burke, «L'amore p e r il tutto n o n viene soffocato da questa parzialità subordinata. ... Essere affezionati alla sottoentità, a m a r e il nostro p l o t o n c i n o d ' a p p a r t e n e n z a a l l ' i n t e r n o della società, è il p r i m o principio ( p o t r e m m o dire il g e r m e ) degli affetti umani». In u n m o n d o in cui ciò che conta è la cultura, i plotoni son o le tribù e i g r u p p i etnici, i r e g g i m e n d sono le nazioni, e gli esercid sono le civiltà. La misura s e m p r e maggiore con cui i popoli di tutto il m o n d o si differenziano l u n g o linee di demarcazione culturali significa che i conflitti tra g r u p p i culturali diversi diventano sempre più importanti; le civiltà r a p p r e s e n t a n o le più vaste entità culturali, perciò i conflitti tra g r u p p i appartenenti a civiltà diverse a s s u m o n o rilevanza f o n d a m e n t a l e sullo scacchiere politico internazionale. 2) L'accresciuta i m p o r t a n z a dell'identità culturale, c o m e visto nei capitoli 3 e 4, è in larga p a r t e il risultato, della m o d e r nizzazione socioeconomica verificatasi sia al livello individuale, dove alienazione e d i s o r i e n t a m e n t o c r e a n o il bisogno di più strette identità, sia al livello sociale, dove l'accresciuta forza e le maggiori potenzialità delle società n o n occidentali stimolano il risveglio delle identità e culture a u t o c t o n e . 3) A qualsiasi livello - individuale, tribale, razziale, di civiltà l'identità è definibile esclusivamente in r a p p o r t o a u n «altro», a u n a diversa persona, tribù, razza o civiltà. Storicamente, i rapporti tra stati o altre entità a p p a r t e n e n t i alla m e d e s i m a civiltà sono s e m p r e stati diversi rispetto a quelli tra stati o entità di civiltà differenti. Codici diversi g o v e r n a n o l'atteggiamento uman o verso chi è «come noi» e verso i «barbari» diversi da noi. Le

n o r m e c h e regolavano i rapporti tra nazioni cristiane differivan o da quelle che c o n t r a p p o n e v a n o dette nazioni ai turchi e ad altri popoli «infedeli». I m u s u l m a n i h a n n o agito in m o d o diverso nei c o n f r o n t i degli e s p o n e n t i del Dar ai-Islam, e di quelli del Dar al-harb. I cinesi trattano gli stranieri di origine cinese in m o d o b e n diverso da quelli di altra origine. La contrapposizione tra «noi» m e m b r i della civiltà e gli «altri» barbari è u n a costante nella storia del g e n e r e u m a n o . Tali differenze di comp o r t a m e n t o h a n n o le seguenti motivazioni: a. U n s e n t i m e n t o di superiorità (ma a volte a n c h e di inferiorità) nei c o n f r o n t i di popoli ritenuti c o m p l e t a m e n t e diversi. b. La p a u r a o la m a n c a n z a di fiducia nei c o n f r o n t i di questi popoli. c. Le difficoltà di comunicazione con essi, dovuta alle diversità linguistica ma a n c h e a u n a diversa interpretazione del concetto di c o m p o r t a m e n t o civile. d. La m a n c a n z a di familiarità con i valori, i r a p p o r t i e le consuetudini sociali di altri popoli. Nel m o n d o d'oggi, i progressi conseguiti nel settore dei trasporti e delle comunicazioni h a n n o p o r t a t o a u n g r a d o di interazione tra i popoli di culture diverse molto più ampio, intenso e paritario, il che ha a sua volta stimolato u n a maggiore coscienza della propria civiltà d ' a p p a r t e n e n z a . Francesi, tedeschi, belgi e olandesi v a n n o s e m p r e più considerandosi cittadini europei. I m u s u l m a n i mediorientali si identificano e si schierano con i bosniaci e i ceceni. I cinesi di tutta l'Asia orientale identificano i p r o p r i interessi con quelli della Repubblica popolare. I russi si identificano e si schierano con i serbi e gli altri popoli ortodossi. Questi ampi livelli di identificazione della p r o p r i a civiltà si t r a d u c o n o in u n a maggiore sensibilità alle differenze c h e c o n t r a d d i s t i n g u o n o u n a civiltà dall'altra e nel bisogno di proteggere tutto q u a n t o distingue «noi» da «loro». 4) Le cause di conflittualità tra stati e g r u p p i a p p a r t e n e n t i a civiltà diverse sono, in larga parte, le stesse di quelle che da s e m p r e h a n n o g e n e r a t o conflitti tra i popoli: controllo sulla popolazione, territorio, ricchezza, risorse e p o t e r e relativo, vale a dire la possibilità di i m p o r r e i nostri valori, istituzioni e canoni culturali a un altro g r u p p o e impedire che tale g r u p p o fac-

eia lo stesso con noi. La conflittualità tra g r u p p i di diversa cultura, tuttavia, p u ò a n c h e investire questioni di carattere, app u n t o , culturale. Le differenze ideologiche tra Marxismo-Leninismo e democrazia liberale possono q u a n t o m e n o essere discusse, se n o n risolte. Le vertenze di carattere materiale posson o essere negoziate e spesso risolte m e d i a n t e u n compromesso. Nessuna di tali soluzioni è invece possibile con i p r o b l e m i di n a t u r a culturale. E poco probabile c h e i n d ù e m u s u l m a n i possano risolvere la disputa se ad Ayodhya d e b b a essere costruito u n t e m p i o o u n a moschea c o s t r u e n d o e n t r a m b i , o p p u r e n é l ' u n o n é l'altra, o p p u r e e r i g e n d o u n edificio sincrético c h e f u n g a al c o n t e m p o da tempio e da moschea. Né quella c h e potrebbe s e m b r a r e u n a questione di carattere strettamente territoriale tra musulmani albanesi e serbi ortodossi p e r il Kosovo, o tra ebrei e arabi su G e r u s a l e m m e , p u ò trovare facile soluzione, in q u a n t o questi luoghi h a n n o p e r e n t r a m b i i popoli u n p r o f o n d o significato storico, culturale ed emozionale. Allo stesso m o d o , n é le autorità francesi n é i genitori m u s u l m a n i semb r a n o disposti ad accettare u n c o m p r o m e s s o che consenta alle studentesse m u s u l m a n e di indossare il velo a scuola u n g i o r n o sì e u n o no. Questioni culturali c o m e questa implicano prese di posizione nette, o n e r o o bianco. 5) La conflittualità è universale. Odiare è u m a n o . Per potersi definire e per trovare le o p p o r t u n e motivazioni, l ' u o m o ha bisogno di nemici: concorrenti in affari, avversari in qualsiasi tipo di competizione, rivali in politica. Egli diffida istintivamente e considera u n pericolo quanti sono diversi da lui e possono in qualche m o d o danneggiarlo. La risoluzione di u n conflitto e la scomparsa di un nemico scatenano forze individuali, sociali e politiche che p o r t a n o alla nascita di nuovi conflitti e nemici. «La tendenza al "noi" contro "loro"», ha osservato Ali Mazrui, «in campo politico, è pressoché universale». 1 Nel m o n d o contemporaneo, «loro» significa sempre più spesso popoli di diversa civiltà. La fine della Guerra f r e d d a n o n ha posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere nuove identità radicate nella cultura e nuovi canoni di conflittualità tra gruppi di culture diverse e, a livello più generale, di civiltà diverse. Nel contempo, la co3 Ali Al-Amin Mazrui, Cultural Forres in World Politics, London, James Currey, 1990, p. 13.

m u n a n z a culturale incoraggia la cooperazione tra stati e gruppi, come c o n f e r m a n o i modelli e m e r g e n d di associazione regionale tra paesi, particolarmente in c a m p o economico.

Cultura e cooperazione economica Nei primi anni Novanta si è molto parlato di regionalismo e di regionalizzazione della politica mondiale. I conflitti regionali h a n n o sostituito il conflitto globale quale principale tema di dibattito internazionale in materia di sicurezza. G r a n d i potenze quali Russia, Cina e Stati Uniti, n o n c h é alcune p o t e n z e m i n o r i quali ad esempio Svezia e Turchia, h a n n o ridefìnito i p r o p r i interessi in materia di sicurezza in termini esplicitamente regionali. Il c o m m e r c i o a l l ' i n t e r n o delle singole regioni si è espanso più r a p i d a m e n t e di quello interregionale, e molti hann o previsto la nascita di alcuni blocchi economici regionali: eur o p e o , n o r d a m e r i c a n o , est-asiatico e forse altri ancora. Il t e r m i n e «regionalismo», tuttavia, n o n descrive in m o d o adeguato q u a n t o sta accadendo. Le regioni sono e n d t à geografiche, n o n politiche o culturali. C o m e è accaduto nei Balcani o in Medio Oriente, possono essere lacerate da conflitti interni a u n a data civiltà o p p u r e tra d u e o più civiltà diverse. Le regioni costituiscono una base p e r la cooperazione tra stati solo nella misura in cui i confini geografici coincidono con quelli culturali. Se così n o n è, la contiguità fisica n o n promuove affatto la com u n a n z a e p o t r e b b e viceversa p r o d u r r e il risultato opposto. Le alleanze militari e le associazioni e c o n o m i c h e r i c h i e d o n o la cooperazione tra i vari m e m b r i che le c o m p o n g o n o ; la cooperazione si basa sulla fiducia, e la fiducia nasce principalmente da cultura e valori comuni. Di conseguenza, b e n c h é tradizione e c o m u n a n z a d'interessi svolgano u n ruolo importante, la reale efficacia delle organizzazioni regionali varia di n o r m a in misura inversamente proporzionale al n u m e r o di civiltà che n e f a n n o parte. In linea generale, le organizzazioni costituite da u n ' u n i c a civiltà sono più attive e o t t e n g o n o maggiori risultati di quelle composte da più civiltà. Questo vale sia per le organizzazioni politiche e di sicurezza che p e r quelle economiche. Il successo della Nato è dipeso in gran parte dal fatto di essere la principale struttura di difesa di paesi occidentali acco-

m u n a t i dagli stessi valori e dalla m e d e s i m a filosofia di vita. L'Un i o n e e u r o p e a è il p r o d o t t o di u n a c o m u n e cultura e u r o p e a . L'Organizzazione p e r la sicurezza e la cooperazione in E u r o p a (Osce), viceversa, c o m p r e n d e paesi di a l m e n o tre diverse civiltà e con valori ed interessi dissimili: ciò p o n e grossi ostacoli alla creazione di u n a significativa identità istituzionale e all'es p l e t a m e n t o di molte i m p o r t a n t i attività. La C o m u n i t à caraibica (Caricom), composta da tredici ex colonie britanniche di lingua inglese e a p p a r t e n e n t i a u n ' u n i c a civiltà, ha realizzato u n ' a m p i a g a m m a di accordi di cooperazione, con f o r m e di associazione p a r t i c o l a r m e n t e intense tra alcuni sottogruppi. Vari tentativi di creare organizzazioni caraibiche allargate c h e inglobassero la linea di faglia anglo-ispanica sono, tuttavia, punt u a l m e n t e falliti. Allo stesso m o d o , l'Associazione dell'Asia meridionale p e r la cooperazione regionale, creata nel 1985 e comp r e n d e n t e sette stati indù, m u s u l m a n i e buddisti, si è rivelata u n fallimento pressoché totale, al p u n t o di n o n riuscire neanche a organizzare i p r o p r i incontri. 4 Il r a p p o r t o tra cultura e regionalismo risalta con particolare evidenza nel c a m p o dell'integrazione economica. In o r d i n e crescente di integrazione, i q u a t t r o livelli di associazione econ o m i c a tra stati c o m u n e m e n t e riconosciud sono: 1. 2. 3. 4.

area di libero scambio; u n i o n e doganale; mercato comune; u n i o n e economica.

L ' U n i o n e europea è l'organizzazione che più di altre ha imboccato la strada dell'integrazione, con la creazione di un mercato c o m u n e e di molti altri elementi propri di u n ' u n i o n e economica. Nel 1994, i paesi relativamente omogenei del Mercosur e del Patto a n d i n o avevano già avviato un processo di u n i o n e doganale. In Asia, l'Asean, organismo multiculturale, ha iniziato a muoversi verso la creazione di u n ' a r e a di libero scambio soltanto nel 1992. Altre organizzazioni economiche c o m p r e n d e n t i più civiltà e r a n o in fase ancor più arretrata. Nel 1995, con la parziale 4 Si veda, ad esempio, «Economist», 16 novembre 1991, p. 45; 6 maggio 1995, p. 36.

eccezione del Nafta, nessuna organizzazione di questo tipo aveva dato vita a u n ' a r e a di libero scambio, p e r n o n parlare di f o r m e più estese di integrazione economica. In E u r o p a occidentale e in America latina la c o m u n e civiltà stimola la cooperazione e l'organizzazione su base regionale. Europei occidentali e latinoamericani s a n n o di avere molto in c o m u n e . In Asia orientale convivono cinque civiltà (sei volendo includere la Russia). Questa regione è d u n q u e il b a n c o di prova ideale p e r tentare di sviluppare organizzazioni i m p o r t a n t i n o n radicate in u n a c o m u n e civiltà. Ancora nei primi a n n i Novanta n o n esisteva in Asia orientale alcuna organizzazione p e r la sicurezza o alleanza militare multilaterale paragonabile alla Nato. Nel 1967 venne creata un'organizzazione regionale a più civiltà, l'Asean, composta da d u e stati musulmani, u n o sinico, u n o buddista e u n o cristiano, tutti alle prese con reali pericoli di sommosse comuniste i n t e r n e o con potenziali minacce di invasioni comuniste dal Vietnam del N o r d e dalla Cina. L'Asean viene spesso citata come esempio di efficace organizzazione multiculturale. In realtà, essa è u n perfetto esempio dei limiti insiti in tale tipo di organizzazione. N o n è un'alleanza militare: se alcuni dei suoi m e m b r i a volte collaborano militarmente su base bilaterale, quel che è certo è che tutti a u m e n t a n o il bilancio per la difesa e ampliano il proprio arsenale militare, in stridente contrasto con le riduzioni in atto in Europa occidentale e America latina in entrambi i settori. Sul versante economico, sin dalla nascita l'Asean era stata concepita per conseguire «la cooperazione, più che l'integrazione economica», cosicché il regionalismo è andato sviluppandosi a un «ritmo modesto» e fin a n c h e l'attuazione di u n a semplice area di libero scambio n o n sarà realizzata prima del xxi secolo.' Nel 1978 l'Asean ha inaugurato le cosiddette «Conferenze post-ministeriali», in cui i ministri degli Esteri dei rispettivi paesi membri potevano incontrare quelli dei propri «partner di dialogo»: Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Comunità europea. Tale organismo, tuttavia, si è rivelato principalmente un f o r u m per contatti bilaterali e non è stata in grado di affron5 Ronald B. Palmer e T h o m a s J. Reckford, Building ASEAM: 20 Years ofSoulheast Asian Cooperation, New York, Praeger, 1987, p. 109; «Economist», 23 luglio 1994, pp. 31-2.

tare «nessun tema importante in materia di sicurezza». b Nel 1993 l'Asean dette vita ad un ente ancora più ampio, il «Forum regionale dell'Asean», c o m p r e n d e n t e i propri membri ed i partner di dialogo, più Russia, Cina, Vietnam, Laos e Papua Nuova Guinea. C o m e il n o m e stesso lascia intendere, tuttavia, questo organismo è un luogo di discussione anziché di azione collettiva. Nel corso della prima riunione, svoltasi nel luglio del 1994, gli stati membri si limitarono a «esprimere le rispettive opinioni sui temi inerenti alla sicurezza regionale», ma le questioni più controverse f u r o n o accuratamente evitate in quanto, come osservò un funzionario, se fossero state sollevate «le parti interessate avrebbero cominciato ad accusarsi a vicenda».' L'Asean e le organizzazioni da essa derivate i n c a r n a n o insomma i limiti inerenti agli organismi regionali c o m p r e n d e n t i civiltà diverse. La creazione di organizzazioni regionali est-asiatiche significative sarà possibile solo q u a n d o in quell'area esisterà u n a com u n a n z a culturale capace di sostenerle. Le società est-asiatiche h a n n o sicuramente delle cose in c o m u n e che le differenzia d a l l ' O c c i d e n t e . Il p r i m o ministro malaysiano, M a h a t h i r M o h a m m a d , sostiene che tali valori c o m u n i sono la base di u n a possibile associazione, p r o p o n e n d o in tal senso la creazione di u n o speciale organismo, il Comitato per l ' e c o n o m i a est-asiatica (East Asian Economie Caucus, Eaec), di cui dovrebbero far parte i paesi dell'Asean, la Birmania, Taiwan, H o n g Kong, la Corea del Sud e, soprattutto, Cina e G i a p p o n e . Mahatir sostiene c h e l'Eaec a f f o n d a le radici in u n a cultura c o m u n e e che dovrebbe essere considerato «non u n semplice r a g g r u p p a m e n t o geografico, solo p e r c h é si trova in Asia orientale, ma a n c h e u n ragg r u p p a m e n t o culturale. S e b b e n e gli est-asiatici possano essere giapponesi, o coreani o indocinesi, culturalmente essi presentano delle similitudini. ... Gli e u r o p e i si uniscono in g r u p p o , gli americani si uniscono in g r u p p o . A n c h e noi asiatici d o v r e m m o unirci in g r u p p o » . Scopo dell'organismo, c o m e ha a f f e r m a t o u n o dei suo collaboratori, è quello di p r o m u o v e r e «il c o m m e r cio regionale tra i paesi asiatici uniti da valori comuni»." 6 Barry Buzan e Gerald Segai, «Rethinking East Asian Security», in «Survival », n. 36 (Estate 1994) , p. 16. 7 «Far Eastern Economie Review», 11 agosto 1994, p. 34. 8 Conversazione tra Datsuk Seri Mahatir bin Mohamad della Malaysia e Kenichi O h m a e , pp. 3, 7; Rafidah Azia, «New York Times», 12 febbraio 1991, p. D6.

Il p r e s u p p o s t o di f o n d o dell'Eaec è d u n q u e c h e l ' e c o n o m i a segue la cultura. Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti n e sono escluse p e r c h é c u l t u r a l m e n t e n o n sono paesi asiatici. Il successo dell'Eaec, tuttavia, d i p e n d e f o n d a m e n t a l m e n t e dalla partecipazione di Cina e G i a p p o n e . Mahathir ha supplicato il Giapp o n e di parteciparvi. «Il G i a p p o n e è u n paese asiatico. Il Giapp o n e fa p a r t e dell'Asia orientale», a f f e r m ò dinanzi ad u n pubblico di giapponesi. «Questa è u n a realtà geopolitica che n o n p o t e t e ignorare. Voi fate p a r t e dell'Asia». 9 Il governo nipponico, tuttavia, si è mostrato riluttante ad e n t r a r e nell'Eaec, in parte p e r timore di irritare gli Stati Uniti, in parte p e r c h é diviso s u l l ' o p p o r t u n i t à o m e n o di identificarsi con l'Asia. Se il Giapp o n e entrasse a far parte dell'Eaec, finirebbe col dominarla, il che c r e e r e b b e p r o b a b i l m e n t e timori e incertezze tra gli altri partecipanti, n o n c h é u n f o r t e a n t a g o n i s m o con la Cina. Per anni si è fatto u n gran parlare della possibilità che il G i a p p o n e desse vita a u n «blocco dello yen» asiatico c o m e contraltare all ' U n i o n e e u r o p e a ed al Nafta. Il G i a p p o n e , tuttavia, è u n paese isolato con b e n pochi legami culturali con gli stati confinanti, cosicché a tutto il 1995 n o n si era ancora verificata alcuna iniziativa in tal senso. S e b b e n e l'Asean p r o c e d a a fatica, il blocco dello yen sia rimasto u n sogno, il G i a p p o n e si mostri titubante e l'Eaec n o n sia mai decollato, il livello di interscambio e c o n o m i c o in Asia orientale è a u m e n t a t o e n o r m e m e n t e . Questa espansione a f f o n d a le proprie radici nei legami culturali tra le c o m u n i t à cinesi dell'Asia orientale; questi legami h a n n o d a t o vita a u n incessante processo di «integrazione informale» di u n a rete econ o m i c a internazionale, incentrata sulla Cina, paragonabile p e r molti aspetti alla Lega anseatica, e c h e «potrebbero forse cond u r r e alla creazione di u n m e r c a t o c o m u n e cinese de facto»"' (si v e d a n o le pp. 243-253). In Asia orientale, c o m e altrove, la com u n a n z a culturale è stata il prerequisito p e r u n a significativa integrazione economica. La fine della G u e r r a f r e d d a h a stimolato l ' i m p e g n o a creare nuove organizzazioni e c o n o m i c h e regionali o a riportare in vi9 «Japan Times», 7 novembre 1994, p. 19; «Economist», 19 novembre 1994, p. 37. 10 Murray Weidenbaum, «Greater China: A New Economie Colossus?», in «Washington Quarterly», n. 16 (Autunno 1993), pp. 78-80.

ta quelle preesistenti. Il successo di questi tentativi è dipeso sop r a t t u t t o d a l l ' o m o g e n e i t à culturale degli stati p r o m o t o r i . Il p r o g e t t o di u n m e r c a t o c o m u n e m e d i o r i e n t a l e avanzato nel 1994 da S h i m o n Peres è p r o b a b i l m e n t e destinato a r i m a n e r e a n c o r a per qualche t e m p o u n «miraggio nel deserto»: «Il mond o arabo», h a c o m m e n t a t o u n f u n z i o n a r i o arabo, «non ha alcun bisogno di un'istituzione o di u n a banca per lo sviluppo di cui faccia p a r t e a n c h e Israele»." L'Associazione degli stati caraibici, creata nel 1994 p e r collegare il Caricom ed Haiti e ai paesi di lingua spagnola della regione, n o n sembra p o t e r superare le differenze culturali e linguistiche dei suoi m e m b r i , nonché l'impenetrabilità delle ex colonie b r i t a n n i c h e e la loro marcata p r o p e n s i o n e filoamericana. 1 2 Buoni progressi sembrava invece stessero o t t e n e n d o i tentativi di coinvolgere organizzazioni c u l t u r a l m e n t e più o m o g e n e e . S e b b e n e divise in differenti sottociviltà, nel 1985 Pakistan, Iran e Turchia r i p o r t a r o n o in vita la m o r i b o n d a C o o p e r a z i o n e regionale p e r lo sviluppo, creata nel 1977, r i d e n o m i n a n d o l a «Organizzazione p e r la Cooperazione Economica» (Oce). In seguito f u r o n o raggiunti accordi in materia di riduzioni tariffarie e su altre questioni, e nel 1992 l ' O c e si allargò con l'ingresso dell'Afghanistan e delle sei ex r e p u b b l i c h e sovietiche m u s u l m a n e . Nel f r a t t e m p o , le cinq u e ex r e p u b b l i c h e sovietiche dell'Asia centrale raggiunsero nel 1991 u n accordo di principio p e r la creazione di u n mercato c o m u n e , e nel 1994 i suoi d u e maggiori stati, Uzbekistan e Kazakistan, f i r m a r o n o u n a c c o r d o che prevedeva la «libera circolazione di beni, servizi e capitali» e il c o o r d i n a m e n t o delle rispettive politiche fiscali, m o n e t a r i e e tariffarie. Nel 1991, Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay d e t t e r o vita al Mercosur, organizzazione nata con l'obiettivo di saltare a piè pari le n o r m a li fasi di integrazione e c o n o m i c a e c h e nel 1995 aveva già realizzato u n a parziale u n i o n e doganale. Nel 1990, il Mercato com u n e c e n t r o a m e r i c a n o , fino ad allora stagnante, creò u n ' a r e a di libero scambio, e nel 1994 l'altrettanto abulico Patto a n d i n o diede vita a u n ' u n i o n e doganale. Nel 1992 i paesi del Visegrad 11 «Wall Street Journal.», 30 settembre febbraio 1995, p. A6. 12 «Economist», 8 ottobre 1994, p. 44; tion of Caribbcan States: Raising S o m e Interamerican Studies», n. 36 (Inverno

1994, p. A8; «New York Times», 17 Andres Serbili, «Toward an AssociaAwkward Qucstions», in «Journal of 1994), pp. 61-90.

(Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) raggiunsero u n accordo p e r la creazione di un'«Area di libero scambio c e n t r o e u r o p e a » , e nel 1994 accelerarono i tempi della sua realizzazione. 11 L'espansione commerciale segue l'integrazione economica, e tra gli anni O t t a n t a e i primi a n n i Novanta il c o m m e r c i o intraregionale ha acquisito u n ' i m p o r t a n z a s e m p r e maggiore rispetto a quello interregionale. Nel 1980 gli scambi commerciali intracomunitari a m m o n t a v a n o al 50,6 p e r cento dell'intero volume di scambi della C o m u n i t à e u r o p e a ; nel 1989 si era passati al 58,9 p e r cento. Indirizzi simili a favore del c o m m e r c i o su base regionale si s o n o verificati in N o r d America e in Asia orientale. In America latina, la creazione del Mercosur e il rit o r n o in auge del Patto a n d i n o ha stimolato nei primi anni Novanta un'efflorescenza dell'interscambio tra paesi latinoamericani c h e ha portato tra il 1990 e il 1993 a triplicare il volume degli scambi commerciali tra Brasile e Argentina e a q u a d r u plicare quello tra Colombia e Venezuela. Nel 1994 il Brasile ha soppiantato gli Stati Uniti quale principale p a r t n e r c o m m e r ciale dell'Argentina. Allo stesso m o d o , la creazione del Nafta è stata a c c o m p a g n a t a da u n significativo a u m e n t o degli scambi commerciali tra Stati Uniti e Messico. A n c h e gli interscambi interni alla regione est-asiatica si sono espansi più r a p i d a m e n t e di quelli extraregionali, b e n c h é l'espansione sia stata f r e n a t a dalle t e n d e n z e protezionistiche del G i a p p o n e . Gli scambi tra i paesi dell'area culturale cinese (Asean, Taiwan, H o n g Kong, Corea del Sud e Cina), d'altro canto, sono passati d a m e n o del 20 p e r c e n t o del volume totale nel 1970 a quasi il 30 p e r c e n t o nel 1992, m e n t r e quelli con il G i a p p o n e sono passati dal 23 al 13 p e r cento. Nel 1992, il volume di esportazioni nei paesi della p r o p r i a area culturale superava sia quello diretto negli Stati

13 «Far Eastern Economie Review», 5 luglio 1990, pp. 24-5, 5 settembre 1991, pp. 26-7; «New York Times», 16 febbraio 1992, p. 16; «Economist», 15 gennaio 1994, p. 38; Robert D. Hormats, «Making Regionalism Safe», in «Foreign Affairs», n. 73 (Marzo-Aprile 1994), pp. 102-3; «Economist», 10 g i u g n o 1994, pp. 47-8; «Boston Globe», 5 febbraio 1994, p. 7; Sul Mercosur, si veda Luigi Manzetti, «The Politicai Economy of MERCOSUR», in «Journal of Interamerican Studies», n. 35 (Inverno 1993-94), pp. 101-4, e Felix Pena, «New Approaches to Economie Integration in the Southern Cone», in «Washington Quarterly», n. 18 (Estate 1995), pp. 113-22.

Uniti c h e il totale c o m b i n a t o delle esportazioni in G i a p p o n e e nella C o m u n i t à europea. 1 4 In q u a n t o società e civiltà a se stante, il G i a p p o n e h a difficoltà a sviluppare legami economici con l'Asia orientale e a gestire le p r o p r i e differenze e c o n o m i c h e con l ' E u r o p a e gli Stad Uniti. Per q u a n t o intensi possano diventare scambi e invesdm e n d tra G i a p p o n e e gli altri paesi est-asiatici, la sua diversità culturale rispetto a questi, e soprattutto alle loro élite econom i c h e p r e v a l e n t e m e n t e cinesi, gli preclude la possibilità di d a r vita a u n r a g g r u p p a m e n t o e c o n o m i c o regionale a guida nipp o n i c a p a r a g o n a b i l e al Nafta o a l l ' U n i o n e e u r o p e a . Al cont e m p o , la sua diversità culturale con l'Occidente inasprisce inc o m p r e n s i o n i e antagonismi nei r a p p o r t i economici c o n Europa e Stad Uniti. Se d u n q u e è vero, c o m e sembra, che l'integrazione e c o n o m i c a d i p e n d e dalla c o m u n a n z a culturale, il Giapp o n e , in q u a n t o paese culturalmente isolato, p o t r e b b e avere dinanzi a sé u n f u t u r o di isolamento economico. In passato, gli o r i e n t a m e n t i commerciali delle nazioni seguivano e ricalcavano le alleanze politiche. 1 ' Nel m o n d o che già ora sta e m e r g e n d o , gli o r i e n t a m e n t i commerciali s a r a n n o fort e m e n t e influenzati dagli s c h i e r a m e n t i culturali. Gli u o m i n i d'affari preferiscono stringere accordi con p e r s o n e che posson o c o m p r e n d e r e e di cui possono fidarsi; gli stati c e d o n o la p r o p r i a sovranità ad associazioni internazionali c o m p o s t e da paesi c u l t u r a l m e n t e affini c h e essi c o m p r e n d o n o e di cui si fid a n o . Le radici della cooperazione e c o n o m i c a a f f o n d a n o , insomma, nel t e r r e n o delle affinità culturali.

La struttura delle civiltà All'epoca della G u e r r a f r e d d a , le varie nazioni si qualificava14 «New York Times», 8 aprile 1994, p. A3, 13 giugno 1994, pp. D l , D5, 4 g e n n a i o 1995, p. A8; Conversazione tra Mahatir e O h m a e , pp. 2, 5; «Asian Trade New Directions», in «AMEX Bank Review», n. 20 (22 marzo 1993), pp. 1-7. 15 Si veda Brian Pollins, «Does Trade Still Follow the Flag?», in «American Political Science Review», n. 83 (Giugno 1989), pp. 465-80; J o a n n e Gowa ed Edward D. Mansfield, «Power Politics and International Trade», in «American Political Science Review», n. 87 (Giugno 1993), pp. 408-21; e David M. Rowe, «Trade and Security in International Relations», inedito, O h i o State University, settembre 1994, passim.

n o in r a p p o r t o alle d u e s u p e r p o t e n z e c o m e paesi alleati, satelliti, clienti, neutrali, n o n allineati. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a , esse si qualificano rispetto alle civiltà c o m e stati m e m bri, stati guida, paesi isolati, paesi divisi, paesi in bilico. Al pari delle tribù e delle nazioni, le civiltà possiedono strutture politiche. U n o stato membro è u n paese p i e n a m e n t e identificato dal p u n t o di vista culturale con u n a civiltà, c o m e p u ò esserlo ad esempio l'Egitto con la civiltà araba islamica e l'Italia c o n quella e u r o p e a occidentale. U n a civiltà p u ò inoltre c o m p r e n d e r e popoli che si identificano con la sua cultura, m a c h e risiedono in paesi d o m i n a t i da m e m b r i di u n ' a l t r a civiltà. Le civiltà hann o solitamente u n o o più luoghi considerati dai p r o p r i m e m b r i c o m e la f o n t e o le fonti principali di cultura di quella civiltà, e che sono spesso ubicate negli stati guida di quella civiltà, vale a dire negli stati più potenti e c u l t u r a l m e n t e più influenti. Il n u m e r o e il r u o l o degli stati guida varia da civiltà a civiltà e p u ò m u t a r e nel tempo. La civiltà giapponese si identifica pratic a m e n t e nel suo stato guida, c h e è a n c h e l'unico: il G i a p p o n e . Le civiltà sinica, ortodossa e i n d ù p r e s e n t a n o tutte u n o stato guida d o m i n a n t e , vari stati m e m b r i e popoli a p p a r t e n e n t i alla loro civiltà m a residenti in stati d o m i n a t i da popoli di civiltà diverse (i cinesi al di f u o r i della Rpc, i russi residenti nelle rep u b b l i c h e dell'ex i m p e r o sovietico, i tamil dello Sri Lanka). Nel corso della storia, l ' O c c i d e n t e ha avuto svariati stati guida; a t t u a l m e n t e n e ha due: gli Stati Uniti e un'asse franco-tedesca in Europa, con la Gran Bretagna nel r u o l o di c e n t r o di p o t e r e aggiunto. Islam, America latina e Africa n o n h a n n o stati guida. Ciò si spiega in parte con l'imperialismo delle p o t e n z e occidentali, che provvidero a spartirsi l'Africa, il Medio O r i e n t e e, nei secoli p r e c e d e n t i e in m i n o r misura, l'America latina. L'assenza di u n o stato guida islamico p o n e notevoli problemi sia alle società m u s u l m a n e sia a quelle n o n m u s u l m a n e (di cui si discuterà nel capitolo 7). Rispetto all'America latina, la Spagna sarebbe p o t u t a p r e s u m i b i l m e n t e diventare lo stato guida di u n a civiltà ispanica o iberica, m a i suoi leader h a n n o del i b e r a t a m e n t e scelto di f a r n e u n o stato m e m b r o della civiltà e u r o p e a , p u r m a n t e n e n d o al c o n t e m p o legami culturali con le p r o p r i e ex colonie. Dimensioni, risorse, popolazione, capacità militari ed e c o n o m i c h e f a n n o del Brasile u n potenziale leader dell'America latina, ed è presumibile che possa diventarlo. Il

Brasile, tuttavia, sta all'America latina c o m e l'Iran sta all'Islam. S e p p u r qualificate p e r assurgere al r u o l o di stato guida, la presenza al loro i n t e r n o di differenze culturali (religiose in Iran, linguistiche in Brasile) r e n d e problematica l'acquisizione di tale ruolo. L'America latina c o m p r e n d e d u n q u e diversi stati Brasile, Messico, Venezuela e Argentina - che c o o p e r a n o tra di loro e c o m p e t o n o p e r la conquista della leadership. La situazione l a d n o a m e r i c a n a è u l t e r i o r m e n t e complicata dal tentativo del Messico di ridefinire la p r o p r i a identità da stato latinoamericano a stato n o r d a m e r i c a n o , con il Cile e altri paesi c h e pot r e b b e r o seguire il suo esempio. Nel lungo periodo, la civiltà latinoamericana p o t r e b b e confluire e diventare u n a sottovariante della civiltà occidentale con tre diverse ramificazioni. Nell'Africa sub-sahariana la possibilità per qualsiasi stato di conquistare la leadership è pregiudicata dalla divisione del continente africano in paesi f r a n c o f o n i e paesi anglofoni. Per u n certo periodo, la Costa d'Avorio ha avuto il ruolo di stato guida dell'Africa francofona. A occupare lo stesso ruolo, tuttavia, ha provveduto in misura considerevole la stessa Francia, che anche d o p o l ' i n d i p e n d e n z a ha m a n t e n u t o strettissimi r a p p o r t i economici, militari e politici con le proprie ex colonie. I d u e paesi africani meglio qualificati a diventare stati guida sono entrambi anglofoni. Dimensioni, risorse e collocazione geografica f a n n o della Nigeria u n potenziale stato guida, m a la sua disom o g e n e i t à culturale, la c o r r u z i o n e dilagante, l'instabilità politica, il carattere repressivo del suo governo e i problemi economici che l'affliggono n e h a n n o f o r t e m e n t e ridotto la capacità di assolvere questo ruolo, sebbene occasionalmente lo abbia fatto. La fine negoziata e pacifica dell'apartheid in Sud Africa, il suo forte potenziale industriale, l'alto livello di sviluppo e c o n o m i c o p a r a g o n a t o a quello di altri paesi africani, le capacità militari, le risorse naturali e la sua sofisticata élite politica bianca e nera, son o tutti elementi che contribuiscono a fare di questo paese lo stato guida sicuramente dell'Africa meridionale, probabilmente dell'Africa anglofona e forse di tutta l'Africa sub-sahariana. U n paese isolato è u n paese privo di legami culturali con altre società. L'Etiopia, ad esempio, con la sua lingua p r e d o m i n a n t e (l'amarico, che fa uso di caratteri etiopici), la sua tradizione imperiale, la sua religione prevalente (l'ortodossia copta), è u n pae-

se culturalmente isolato rispetto agli stati p r e v a l e n t e m e n t e musulmani che lo circondano. Sebbene l'elite haitiana abbia tradizionalmente coltivato legami culturali con la Francia, la lingua creola, la religione voodoo, la popolazione d'origine costituita di ex schiavi insord e u n a storia costellata di violenze sono tutù elementi che contribuiscono a f a r n e u n paese isolato. «Ogni nazione è di p e r sé unica», ha osservato Sidney Mintz, ma «Haiti a p p a r t i e n e a u n a categoria a se stante». Di conseguenza, in occasione della crisi haitiana scoppiata del 1994, i paesi latinoamericani n o n consid e r a r o n o Haiti u n p r o b l e m a «loro» e si rifiutarono di accogliere i rifugiati haitiani come invece fecero con quelli cubani. «In America latina», ha a f f e r m a t o il presidente eletto di Panama, «Haiti n o n è considerata u n paese latinoamericano. GIL haitiani parlano u n a lingua diversa, h a n n o radici etniche diverse, u n a cultura diversa. Sono diversi in tutto». Altrettanto distante app a r e Haiti dagli stati caraibici anglofoni di razza nera. «Agli occhi di u n abitante di G r e n a d a o della Giamaica», ha osservato u n c o m m e n t a t o r e , gli haitiani «appaiono estranei q u a n t o potrebbe esserlo u n o dello Iowa o del Montana». Haiti, «il vicino che nessuno vuole», è davvero u n paese c o m p l e t a m e n t e solo."' Il più i m p o r t a n t e tra i paesi isolati è il G i a p p o n e , c h e è al c o n t e m p o lo stato guida, n o n c h é l ' u n i c o stato, della civiltà giapponese. La sua peculiare cultura n o n è p r e s e n t e in nessun altro paese, e gli immigrati nipponici in altre nazioni o sono n u m e r i c a m e n t e ininfluenti o p p u r e h a n n o assimilato la cultura dei paesi ospitanti (ad esempio i nippo-americani). Q u e s t o isol a m e n t o è accentuato dal fatto che la sua cultura è f o r t e m e n t e particolaristica e n o n c o n t e m p l a alcuna religione (cristianesim o , islamismo eccetera.) o ideologia (liberalismo, comunismo) p o t e n z i a l m e n t e universale che possa essere esportata in altre società in m o d o da creare legami culturali con le popolazioni autoctone. Quasi tutti i paesi del m o n d o sono eterogenei, nel senso c h e c o m p r e n d o n o d u e o più g r u p p i etnici, razziali e religiosi. Molti paesi sono divisi in q u a n t o le differenze e i conflitti tra tali 16 Sidney W. Mintz, «Can Haiti Change?», in «Foreign Affairs», n. 75 (Gennaio-Febbraio 1995), p. 73; Ernersto Perez Bailaderas e j o c e l y n McCalla, cit. in «Haiti's Traditions of Isolation Makes U.S. Task Harder», in «Washington Post», 25 luglio 1995, p. A l .

g r u p p i a s s u m o n o u n r u o l o i m p o r t a n t e negli o r i e n t a m e n t i politici di questi paesi. Di solito la p r o f o n d i t à di questa spaccatura varia nel t e m p o . Gravi divisioni i n t e r n e possono p r o d u r r e alti tassi di violenza o minacciare l'esistenza stessa di u n paese. Q u e s t ' u l t i m o pericolo e la nascita di movimenti autonomisti o separatisti sono più probabili laddove alla separazione culturale si aggiunge quella geografica. Se confini culturali e confini geografici divergono, p u ò accadere che si decida di farli coincidere attraverso il genocidio o la migrazione forzata. Paesi che p r e s e n t a n o distinti r a g g r u p p a m e n t i culturali app a r t e n e n t i alla stessa civiltà possono f o m e n t a r e forti divisioni e alfine spaccarsi (Cecoslovacchia) o c o r r e r n e il rischio (Canada). Molto più probabile, tuttavia, è la nascita di p r o f o n d e spaccature a l l ' i n t e r n o di u n paese diviso, vale a dire u n paese c h e p r e s e n t a ampi r a g g r u p p a m e n t i sociali a p p a r t e n e n t i a civiltà diverse. Simili divisioni, con le tensioni che ne scaturiscono, nascono g e n e r a l m e n t e q u a n d o u n g r u p p o maggioritario tenta di utilizzare lo stato c o m e p r o p r i o s t r u m e n t o politico e di identificare la p r o p r i a lingua, religione e simboli con quelli dell'intera nazione, c o m e indù, singalesi e m u s u l m a n i h a n n o tentato di f a r e rispettivamente in India, Sri Lanka e Malaysia. I paesi divisi che accorpano al loro i n t e r n o le linee di faglia tra diverse civiltà incontrano particolari difficoltà a preservare la propria unità. Nel Sudan è in corso da decenni u n a guerra civile tra il n o r d musulmano e il sud prevalentemente cristiano. La stessa spaccatura tra civiltà ha t o r m e n t a t o la polidca nigeriana per lungo tempo, scatenando u n a vera e propria guerra di secessione oltre a u n gran n u m e r o di insurrezioni, colpi di stato e altre esplosioni di violenza. In Tanzania, il continente animista cristiano e l'isola di Zanzibar, araba e musulmana, sono andate sempre più distanziandosi, diventando sotto molti aspetti d u e paesi distinti. Nel 1992 Zanzibar entrò segretamente a far parte dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, salvo poi uscirne, dietro pressione del governo tanzaniano, l'anno successivo." La stessa divisione tra cristiani e musulmani ha generato tensioni e conflitti in Kenya. Nel C o r n o d'Africa, l'Etiopia a maggioranza cristiana e l'Eritrea prevalentemente musulmana si separ a r o n o nel 1993. L'Etiopia, tuttavia, continua a ospitare una con17 «Economist», 23 ottobre 1993, p. 53.

sistente minoranza musulmana tra la popolazione oromo. Altri paesi i n t e r n a m e n t e divisi tra più civiltà sono: India (musulmani e indù), Sri Lanka (singalesi buddisti e tamil induisti), Malaysia e Singapore (musulmani cinesi e malaysiani), Cina (cinesi han, buddisti tibetani, musulmani turchi), Filippine (cristiani e musulmani) e Indonesia (musulmani e cristiani di Timor). L'effetto disgregante di queste linee di faglia tra civiltà diverse è stato più evidente in quei paesi divisi che f u r o n o tenuti uniti d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a dagli autoritari regimi comunisti ispirati dall'ideologia marx-leninista. Con il crollo del com u n i s m o la cultura si è sostituita all'ideologia quale polo di attrazione e repulsione; di conseguenza, Jugoslavia e U n i o n e Sovietica si sono f r a m m e n t a t e p e r poi d a r e successivamente vita a nuovi r a g g r u p p a m e n t i f o n d a t i sulla c o m u n e civiltà di appartenenza: r e p u b b l i c h e baltiche (protestanti e cattolici), ortodosse e m u s s u l m a n e nell'ex U n i o n e Sovietica; Slovenia e Croazia (cattoliche), Bosnia-Erzegovina (parzialmente m u s u l m a n a ) , Serbia-Montenegro e M a c e d o n i a (ortodosse) nella ex Jugoslavia. Laddove questi nuovi stati continuavano a c o m p r e n d e r e g r u p p i di civiltà diverse, si sono create ulteriori ripartizioni. La g u e r r a h a suddiviso la Bosnia-Erzegovina in tre aree distinte: serba, m u s u l m a n a e croata, m e n t r e la Croazia è stata teatro di g u e r r a tra serbi e croati. Il tradizionale clima di pace c h e contraddistingue il Kosovo - abitato da albanesi m u s u l m a n i - all ' i n t e r n o della Serbia slava e ortodossa a p p a r e oggi compromesso, e la Macedonia è scossa da tensioni tra la m i n o r a n z a albanese m u s u l m a n a e la maggioranza slava ortodossa. A n c h e molte ex r e p u b b l i c h e sovietiche c o m p r e n d o n o civiltà diverse, in p a r t e p e r c h é le autorità sovietiche stabilirono i vari confini nell'esplicito i n t e n t o di creare r e p u b b l i c h e divise, assegnando la C r i m e a (russa) all'Ucraina e il Nagornyj-Karabach (armen o ) all'Azerbaigian. La Russia ospita diverse e relativamente esigue m i n o r a n z e m u s u l m a n e , soprattutto nel Caucaso settentrionale e nella regione del Volga. Estonia, Lettonia e Kazakistan p r e s e n t a n o sostanziose m i n o r a n z e russe, anch'esse in gran p a r t e f r u t t o del calcolo politico delle autorità russe. L'Ucraina è divisa tra u n occidente uniate, nazionalista e di lingua ucrain a e u n oriente ortodosso di l u n g a russa. In u n paese diviso, i principali g r u p p i di d u e o più civiltà in sostanza a f f e r m a n o : «Siamo popoli diversi e a b b i a m o civiltà di-

verse». La forza di repulsione t e n d e a separarli ed essi gravitan o i n t o r n o a civiltà di altri paesi. U n paese in bilico, invece, possiede u n a sola cultura d o m i n a n t e e a p p a r t i e n e a u n ' u n i c a civiltà, m a i suoi leader politici lo collocano coattivamente all'int e r n o di u n a civiltà diversa. In questi paesi si afferma: «Siamo u n solo p o p o l o e a p p a r t e n i a m o a u n ' u n i c a civiltà, m a vogliamo cambiarla». A differenza di q u a n t o avviene nei paesi divisi, i vari g r u p p i dei paesi in bilico c o n c o r d a n o circa la p r o p r i a identità m a n o n sulla civiltà di a p p a r t e n e n z a . Di n o r m a , u n a parte significativa delle élite di p o t e r e aderisce alla posizione kemalista, e decide c h e la loro società dovrebbe rifiutare la p r o p r i a cultura e le p r o p r i e istituzioni, unirsi all'Occidente e imboccare e n t r a m b e le strade, quella della modernizzazione e quella dell'occidentalizzazione. La Russia è u n paese in bilico sin dai tempi di Pietro il G r a n d e , diviso tra chi lo vorrebbe p a r t e integrante della civiltà occidentale e chi invece il fulcro di u n a peculiare civiltà ortodossa eurasiatica. Il paese di Mustafa Kemal è, ovviamente, il classico esempio di paese in bilico, i m p e g n a t o sin dagli a n n i Venti a modernizzarsi, occidentalizzarsi e diventare p a r t e dell'Occidente. D o p o quasi d u e secoli d u r a n t e i quali il Messico si è autodefinito u n paese latinoamericano in opposizione agli Stati Uniti, negli anni O t t a n t a i suoi dirigenti n e h a n n o fatto u n paese in bilico allorché h a n n o tentato di ridefinirlo c o m e n o r d a m e r i c a n o . Le autorità australiane, viceversa, h a n n o tentato negli anni Novanta di separare il p r o p r i o paese dall'Occidente e r e n d e r l o p a r t e integrante dell'Asia, c r e a n d o in tal m o d o u n paese in bilico in senso inverso. I paesi in bilico p r e s e n t a n o di n o r m a d u e e l e m e n d caratterizzanti. I loro leader politici sono soliti definirli u n «ponte» tra d u e culture, m e n t r e gli osservatori esterni li descrivono c o m e u n a sorta di Giano bif r o n t e . «La Russia g u a r d a a O c c i d e n t e e a Oriente»; «Turchia: O r i e n t e , Occidente, cosa è meglio?»; «Nazionalismo australiano: fedeltà divise»: sono definizioni tipiche che sottolineano i p r o b l e m i di identità di u n paese in bilico. 1 " 18 «Boston Globe», 21 marzo 1993, pp. 1, 16, 17; «Economist», 19 novembre 1994, p. 23, 11 g i u g n o 1994, p. 90. La similitudine, sotto tale aspetto, tra Turchia e Messico è stata sottolineata da Barry Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twenty-first Century», in «International Affairs», n. 67 (Luglio 1991), p. 449, e dajagdish Bhagwati, The World Trading System ai Rìsk, Princeton, Princeton University Press, 1991, p. 72.

O-.. Paesi in bilico: il fallimento dei cambi di civiltà P e r c h é possa ridefinire con successo la propria civiltà di appartenenza, u n paese in bilico deve soddisfare a l m e n o tre prerequisiti. Primo, la sua élite politica ed economica deve sosten e r e tale passaggio con g r a n d e entusiasmo. Secondo, la sua o p i n i o n e pubblica deve mostrarsi q u a n t o m e n o acquiescente. Terzo, gli elementi d o m i n a n t i della civiltà di a p p r o d o , quasi sempre quella occidentale, devono essere disposti ad accettare il nuovo adepto. Il processo di ridefinizione della p r o p r i a identità sarà lungo, costellato di interruzioni e doloroso da u n punto di vista politico, sociale, istituzionale e culturale. Per di più, fino a oggi è s e m p r e fallito. Russia. Il Messico è u n paese in bilico da diversi anni. La T u r c h i a lo è da diversi d e c e n n i . La Russia, invece, è u n paese in bilico da diversi secoli, e a differenza del Messico o della T u r c h i a r e p u b b l i c a n a essa è a n c h e lo stato guida di u n a grande civiltà. Se a n c h e la Turchia o il Messico riuscissero a ridefinirsi c o m e m e m b r i della civiltà occidentale, le c o n s e g u e n z e sulla civiltà islamica o su quella latinoamericana s a r e b b e r o trascurabili o c o m u n q u e m o d e s t e . Viceversa, se la Russia diventasse u n paese occidentale, la civiltà ortodossa cesserebbe di esistere. Il crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica ha riacceso tra i russi il dibattito sulla questione cruciale dei rapporti tra Russia e Occidente. L'evoluzione dei r a p p o r t i tra Russia e civiltà occidentale è contraddistinta da q u a t t r o fasi. Nella prima, d u r a t a fino al reg n o di Pietro il G r a n d e (1689-1725), la Rus' di Kiev e la Moscovia c o n d u s s e r o un'esistenza a u t o n o m a d a l l ' O c c i d e n t e ed e b b e r o c o n le società e u r o p e e occidentali soltanto contatti sporadici. La civiltà russa si sviluppò c o m e e m a n a z i o n e di quella bizantina fino a q u a n d o , a m e t à del xm secolo, n o n f u asservita dai Mongoli, il cui d o m i n i o si protrasse p e r d u e secoli. La Russia è stata d u n q u e p o c o o p e r nulla esposta ai fenom e n i storicamente caratterizzanti della civiltà occidentale: cattolicesimo r o m a n o , f e u d a l e s i m o , Rinascimento, Riforma, espansione e colonizzazione d ' o l t r e m a r e , Illuminismo e nascita dello stato nazionale. Sette delle otto caratteristiche distintive della civiltà occidentale (religione, lingue, separazione tra

stato e chiesa, stato di diritto, pluralismo sociale, corpi rappresentativi, individualismo) s o n o p r e s s o c h é assenti dall'esperienza russa. L'unica possibile eccezione è costituita dalla tradizione classica, che c o m u n q u e si diffuse in Russia attraverso Bisanzio e f u quindi sostanzialmente diversa da quella approdata in O c c i d e n t e d i r e t t a m e n t e da Roma. La civiltà russa è d u n q u e il f r u t t o di u n o sviluppo a u t o c t o n o ed a f f o n d a le proprie radici nella Rus' di Kiev e nella Moscovia, n e l l ' i m p a t t o con Bisanzio e nella l u n g a d o m i n a z i o n e m o n g o l a . Tali influenze f o r g i a r o n o u n a società e u n a cultura b e n p o c o somiglianti a quelle sviluppate d a l l ' E u r o p a occidentale sotto l'influsso di forze c o m p l e t a m e n t e diverse. Alla fine del xvn secolo, la Russia n o n era solo diversa dall ' E u r o p a , m a a n c h e a r r e t r a t a rispetto ad essa, c o m e e b b e mod o di constatare Pietro il G r a n d e d u r a n t e il viaggio in E u r o p a c o m p i u t o nel 1697-1698 e dal q u a l e t o r n ò col f e r m o proposito di m o d e r n i z z a r e e insieme occidentalizzare il p r o p r i o paese. P e r far assomigliare il p r o p r i o p o p o l o agli e u r o p e i , a p p e n a t o r n a t o a Mosca Pietro o r d i n ò ai nobili di tagliare la b a r b a e vietò loro di indossare le l u n g h e t o n a c h e e i tipici c o p r i c a p o a f o r m a conica. N o n abolì l'alfabeto cirillico, m a lo r i f o r m ò e lo semplificò, i n t r o d u c e n d o a n c h e p a r o l e ed espressioni occidentali. La massima priorità, tuttavia, a n d ò allo sviluppo e alla m o d e r n i z z a z i o n e d e l l ' a p p a r a t o militare: creazione di u n a m a r i n a militare, i n t r o d u z i o n e della coscrizione, sviluppo delle industrie collegate alla difesa, istituzione di scuole tecniche, invio di p e r s o n a l e a studiare in O c c i d e n t e e importazion e d a l l ' O c c i d e n t e delle più a g g i o r n a t e cognizioni scientific h e in m a t e r i a di a r m a m e n t i , i n g e g n e r i a navale, t e c n i c h e di navigazione, gestione amministrativa e in altri c a m p i essenziali p e r elevare l'efficienza d e l l ' a p p a r a t o militare. P e r consentire simili innovazioni, egli r i f o r m ò e ampliò drasticamente il sistema fiscale, p r o c e d e n d o altresì negli ultimi a n n i del suo r e g n o a u n a riorganizzazione g e n e r a l e della s t r u t t u r a governativa. Deciso a f a r e della Russia n o n solo u n paese europ e o m a a n c h e u n a p o t e n z a in E u r o p a , lasciò Mosca, c r e ò u n a n u o v a capitale a San P i e t r o b u r g o e si lanciò nella G r a n d e g u e r r a del N o r d c o n t r o la Svezia c o n l ' i n t e n t o di f a r e della Russia la p o t e n z a d o m i n a n t e sul Baltico e a f f e r m a r e così la p r o p r i a presenza in E u r o p a .

Nel tentativo di fare della Russia u n paese m o d e r n o e occidentale, Pietro consolidò a n c h e i tratti p r e t t a m e n t e asiatici del paese p e r f e z i o n a n d o il p r o p r i o regime dispotico e s t r o n c a n d o qualsiasi f o n t e potenziale di pluralismo politico o sociale. Ridusse u l t e r i o r m e n t e il già esiguo p o t e r e della nobiltà russa ampliando le file della nobiltà di servizio e i n t r o d u c e n d o u n a Tavola dei Ranghi basata sul merito anziché sulla nascita o sulla condizione sociale. Ai nobili f u fatto obbligo di servire lo stato al pari dei contadini, c r e a n d o così quella «aristocrazia di servizio» che in seguito fece tanto infuriare Custine. 1J L ' a u t o n o m i a dei servi della gleba f u u l t e r i o r m e n t e ridotta con l'introduzion e di u n sistema che finì col legarli in m o d o ancor più definitivo sia alla terra sia ai proprietari terrieri. La Chiesa ortodossa, da s e m p r e soggetta a u n rigoroso controllo statale, f u riorganizzata e posta sotto l'autorità di u n Sinodo i cui m e m b r i e r a n o eletti d i r e t t a m e n t e dallo zar. Questi acquisì a n c h e la facoltà di n o m i n a r e il p r o p r i o successore senza doversi a t t e n e r e alle tradizionali linee di discendenza. In virtù di questi m u t a m e n t i , Pietro avviò ed esemplificò in Russia la stretta connessione tra modernizzazione e occidentalizzazione da u n lato e dispotismo dall'altro. Sul modello petrino, sia Lenin che Stalin - n o n c h é , p r i m a a n c o r a e in m i n o r misura, Caterina li e Alessandro n t e n t a r o n o anch'essi in m o d i diversi di m o d e r n i z z a r e e occidentalizzare la Russia r a f f o r z a n d o nel c o n t e m p o il p o t e r e autocratico. A l m e n o fino agli a n n i Ottanta, se i riformatori democratici russi f u r o n o solitamente occidentalisti, gli occidentalisti n o n f u r o n o affatto dei riformatori democratici. La lezione c h e la storia russa ci insegna è c h e la centralizzazione del potere è u n prerequisito essenziale della r i f o r m a sociale ed economica. Alla fine degli a n n i O t t a n t a l ' e n t o u r a g e di Gorbacèv, nel l a m e n t a r e gli ostacoli creati dalla glasnost'al processo di liberalizzazione economica, ammise in pratica di n o n aver saputo riconoscere questa verità. Pietro e b b e maggior successo nel r e n d e r e la Russia p a r t e d e l l ' E u r o p a che n o n nel r e n d e r e l ' E u r o p a parte della Russia. A differenza d e l l ' I m p e r o o t t o m a n o , alla fine l ' I m p e r o russo f u accolto c o m e illustre e legittimo m e m b r o del sistema interna19 Si veda Marquis d e Custine, Empire of the Czar: A Journey Through Eternai Russia, New York, Doubleday, 1989 (pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1844), passim.

zionale e u r o p e o . Sul p i a n o i n t e r n o , tuttavia, b e n c h é le r i f o r m e avessero p r o d o t t o qualche c a m b i a m e n t o , la società russa rimase u n a sorta di ibrido: a eccezione di u n a sparuta élite, costumi, istituzioni e credenze asiatiche e bizantine c o n t i n u a r o n o a essere p r e d o m i n a n t i e c o m e tali v e n n e r o percepiti tanto dai russi q u a n t o dagli europei. «Gratta la pelle di un russo», osservò de Maistre, «e uscirà sangue tataro». Pietro fece della Russia u n paese in bilico, e nel xix secolo sia gli slavofdi che gli occidentalisti se ne l a m e n t a r o n o , salvo poi litigare su c o m e risolvere il problema: se p o r t a n d o a t e r m i n e il processo di europeizzazione o p p u r e b a n d e n d o q u a l u n q u e influenza e u r o p e a p e r tornare all'autentica a n i m a russa. U n occidentalista c o m e Caadaev sostenne c h e «il sole è il sole dell'Occidente» e c h e la Russia dovesse s f r u t t a r n e la luce p e r illuminare e m u t a r e le p r o p r i e istituzioni tradizionali. U n o slavofilo c o m e Danilevskij d e n u n ciò, in termini che sarebbero poi riecheggati negli anni Novanta, gli sforzi di europeizzazione c o m e tentativi di «distorcere la vita del p o p o l o e di sostituire le p r o p r i e usanze con costumi stranieri ad esso estranei», di «importare istituzioni straniere e trapiantarle in terra russa», e di «considerare i p r o b l e m i e i rapporti sia interni c h e internazionali della vita russa da u n p u n t o di vista esterno, e u r o p e o ; di vederle, p e r così dire, attraverso u n vetro con u n angolo di refrazione eurocentrico». 2 " Nel prosieguo della storia russa Pietro divenne l'eroe degli occidentalisti e il satana dei loro oppositori, la cui frangia più estremista - gli eurasiatici degli a n n i Venti - definì Pietro u n traditore e applaudì i bolscevichi p e r aver rifiutato l'occidentalizzazione, sfidato l ' E u r o p a e riportato la capitale a Mosca. La Rivoluzione bolscevica i n a u g u r ò u n a terza fase nei rapporti tra Russia e Occidente, molto diversa da quella ambivalente protrattasi p e r d u e secoli. Essa creò u n sistema politcoe c o n o m i c o in n o m e di u n ' i d e o l o g i a nata in Occidente. Slavofili e occidentalisti avevano discusso se la Russia potesse differenziarsi dall'Occidente senza essere arretrata rispetto a esso. Il c o m u n i s m o risolse brillantemente il quesito: la Russia era di20 P.Ja. Caadaev , Stat'i ì pisma ("Articoli e lettere"), Moskva, 1989, p. 178, e N. Ja. Danilevskij, Rossija i Europa ("Russia ed Europa"), Moskva, 1991, pp. 267-8, cit. in Sergei V. Chugrov, «Russia Between East and West», in Steve Hirsch (a cura di), MEMO 3: In Search of Answrrs in the Post-Soviet Era, Washington, D.C., Bureau of National Affairs, 1992, p. 138.

versa e in f o n d a m e n t a l e contrapposizione all'Occidente perc h é più avanzata rispetto a esso. Stava a s s u m e n d o il c o m a n d o della rivoluzione proletaria destinata a divampare in tutto il m o n d o . La Russia incarnava n o n u n arretrato passato asiatico, ma u n progressista f u t u r o sovietico. In pratica, la rivoluzione permise alla Russia di saltare a piè pari il modello occidentale e di differenziarsi da esso n o n p e r c h é «siamo diversi e n o n div e n t e r e m o c o m e voi», c o m e avevano sostenuto gli slavofili, m a p e r c h é «siamo diversi e prima o poi diventerete c o m e noi», com e recitava l ' i n n o dell'Internazionale comunista. Tuttavia, se da u n lato il c o m u n i s m o consentì ai leader sovietici di distinguersi dall'Occidente, dall'altro creò con esso stretti legami. Marx ed Engels e r a n o tedeschi; molti dei più e m i n e n t i sostenitori delle loro idee del tardo xix e p r i m o xx secolo e r a n o e u r o p e i occidentali; nel 1910 molti sindacati e partiti laburisti e socialdemocratici di società occidentali aderivano alla loro ideologia e a n d a v a n o acquisendo s e m p r e maggiore i m p o r t a n z a sulla scena politica e u r o p e a . D o p o la Rivoluzione bolscevica, i partiti di sinistra si divisero in comunisti e socialisti, e gli uni e gli altri diventarono spesso forze i m p o r t a n t i in molti paesi europei. In b u o n a p a r t e d e l l ' O c c i d e n t e la visione marxista fini col prevalere: c o m u n i s m o e socialismo f u r o n o considerati l ' o n d a del f u t u r o e a m p i a m e n t e adottati sotto varie f o r m e dalle élite politiche e intellettuali. Cosicché, il dibattito in Russia tra slavofdi e occidentalisti sul f u t u r o della Russia f u soppiantato dal dibattito in E u r o p a tra destra e sinistra sul fut u r o dell'Occidente e sul quesito se l ' U n i o n e Sovietica incarnasse o m e n o questo f u t u r o . D o p o la Seconda g u e r r a mondiale, il potere d e l l ' U n i o n e Sovietica rafforzò il fascino del comunismo sia in Occidente sia, cosa ancor più i m p o r t a n t e , in quelle civiltà n o n occidentali c h e iniziavano a ribellarsi a esso. All ' i n t e r n o di queste ultime, le élite m a g g i o r m e n t e inclini a blandire l'Occidente c o m i n c i a r o n o a parlare di autodeterminazion e e democrazia; quelle più decise a contrapporvisi cominciar o n o a parlare di rivoluzione e liberazione nazionale. A d o t t a n d o u n ' i d e o l o g i a occidentale e quindi i m p i e g a n d o l a p e r sfidare l'Occidente, i russi finirono in u n certo senso col legarsi a quest'ultimo più strettamente e i n t i m a m e n t e di q u a n t o fosse mai avvenuto in precedenza. S e b b e n e l'ideologia liberaldemocratica e quella comunista fossero molto diverse, i rispet-

tivi partiti parlavano in un certo senso la stessa lingua. Il crollo del c o m u n i s m o e d e l l ' U n i o n e Sovietica h a posto fine a questa interazione politico-ideologica tra Russia e O c c i d e n t e . Quest'ultimo sperava e credeva che il risultato finale sarebbe stato il trionfo della democrazia liberale in tutto l'ex i m p e r o sovietico. Un tale epilogo, tuttavia, n o n era assolutamente scontato. A tutto il 1995 il f u t u r o della democrazia liberale in Russia e nelle altre r e p u b b l i c h e ortodosse appariva incerto. Inoltre, n o n a p p e n a i russi h a n n o smesso di comportarsi da marxisti e hann o iniziato a comportarsi da russi, il divario tra Russia e Occid e n t e si è ampliato. Lo scontro tra democrazia liberale e Marxismo-Leninismo era u n conflitto tra ideologie che, p e r q u a n t o diverse tra loro, e r a n o e n t r a m b e m o d e r n e e laiche e si rifacevano ai medesimi valori: libertà, uguaglianza, benessere materiale. U n d e m o c r a t i c o occidentale p o t r e b b e t r a n q u i l l a m e n t e a f f r o n t a r e u n dibattito con u n marxista sovietico, m e n t r e gli riuscirebbe impossibile con u n nazionalista ortodosso russo. D u r a n t e gli anni del regime sovietico lo scontro tra slavofili e occidentalisti si i n t e r r u p p e , soppiantato dalla c o m u n e opposizione sia dei vari Solzenicyn sia dei vari Sacharov all'ideologia comunista. C o n il crollo del c o m u n i s m o , il dibattito sulla vera identità della Russia è riemerso in tutto il suo vigore. La Russia dovrebbe fare p r o p r i i valori, le istituzioni e i costumi occidentali e tentare di diventare p a r t e integrante dell'Occidente? Opp u r e dovrebbe incarnare u n a distinta civiltà eurasiatica e ortodossa diversa da quella occidentale e destinata a far da p o n t e tra E u r o p a e Asia? In questo, le élite politiche e intellettuali e l ' o p i n i o n e pubblica in generale si trovarono p r o f o n d a m e n t e divise. Da u n lato, c ' e r a n o gli occidentalisti, «cosmopoliti», o «atlanticisti», dall'altro i successori degli slavofili, variamente etichettati c o m e «nazionalisti», «eurasiatisti» o «derzavniki» (sostenitori di u n o stato forte) ,21 Le principali differenze tra questi d u e g r u p p i riguardavano la politica estera e, in misura m i n o r e , le r i f o r m e e c o n o m i c h e e la struttura dello stato. Le opinioni e r a n o alquanto variegate. A u n estremo c ' e r a n o gli artefici del «nuovo pensiero» p r o p u '21 Si veda Leon Aron, «The Battle for the Soul of Russian Foreign Policy», in «The American Enterprise», n. 3 (Novembre-Dicembre 1992, p. 10 sgg.; Alexei G. Arbatov, «Russia's Foreign Policy Alternatives», in «International Studies», n. 18 (Autunno 1993), p. 5 sgg.

g n a t o da Gorbacèv ( c o m p e n d i a t o nel suo obiettivo di creare u n a «casa c o m u n e e u r o p e a » ) , n o n c h é da molti illustri consiglieri di Eltsin ( c o m p e n d i a t o nell'aspirazione di questi a fare della Russia «un paese normale» che venga accettato c o m e ottavo m e m b r o del club del G-7 delle maggiori democrazie industrializzate). Nazionalisti più m o d e r a t i c o m e Sergej Stankevic sostenevano che la Russia dovesse rifiutare il corso «atlanticista» e d a r e priorità alla protezione dei russi residenti in altri paesi, privilegiando i legami con le popolazioni m u s u l m a n e e di razza turca e p r o m u o v e n d o «un p r o f o n d o r i o r i e n t a m e n t o delle nostre risorse, dei nostri indirizzi, dei nostri legami e dei nostri interessi a favore dell'Asia, o c o m u n q u e a est». 22 1 fautori di questa linea accusavano Eltsin di aver s u b o r d i n a t o gli interessi della Russia a quelli dell'Occidente, di aver indebolito la potenza militare russa, di n o n aver saputo sostenere adeguatam e n t e amici tradizionali quali la Serbia e di p r o m u o v e r e la r i f o r m a e c o n o m i c a e politica in m o d i che suonavano ingiuriosi p e r il p o p o l o russo. Un sintomo di questa t e n d e n z a era il rit o r n o in auge delle idee Peter Savitskij, il quale negli a n n i Venti sosteneva che la Russia costituisse u n a peculiare civiltà eurasiatica. I nazionalisti più estremi si sono divisi in nazionalisti russi com e Solzenicyn - i quali auspicavano u n a Russia che c o m p r e n desse tutti i russi più bielorussi e ucraini, anch'essi slavi ortodossi f o r t e m e n t e affini ai russi, m a nessun altro - e nazionalisti imperiali c o m e Vladimir Zirinovskij - che volevano far rivivere l ' i m p e r o sovietico e ripristinare la potenza militare russa. I seguaci di quest'ultimo g r u p p o h a n n o dato prova, talora, di antisemitismo, oltreché di sentimenti antioccidentali. Il loro obiettivo era quello di riorientare la politica estera russa verso est e sud o attraverso il d o m i n i o degli stati meridionali m u s u l m a n i (come sostenuto da Zirinovskij), o attraverso la c o o p e r a z i o n e con essi e con la Cina c o n t r o l'Occidente. I nazionalisti chiedevano a n c h e u n maggiore sostegno ai serbi nella loro g u e r r a c o n t r o i musulmani. Le differenze tra cosmopoliti e nazionalisti h a n n o trovato u n riflesso a livello istituzionale negli atteggiamenti dell'Esercito e del Ministero degli Esteri, n o n c h é nel22 Sergei Stankevich, «Russia in Search ofltself», in «National Interest», n. 28 (Estate 1992), pp. 48-9.

l'altalenante c o n d o t t a di Eltsin in materia di difesa e di politica estera. L ' o p i n i o n e pubblica russa n o n era m e n o divisa delle classi dirigenti. U n sondaggio c o n d o t t o nel 1992 su u n c a m p i o n e di 2069 russi e u r o p e i indicava che il 40 p e r cento degli intervistati era «favorevole all'Occidente», il 36 p e r cento «contrario all'Occidente» e il 24 p e r c e n t o «incerto». Alle elezioni parlam e n t a r i del d i c e m b r e 1993 i partiti riformisti o t t e n n e r o il 34,2 per cento dei voti, i partiti nazionalisti e anti-riforma il 43,3 p e r cento e i partiti di c e n t r o il 13,7 p e r c e n t o . " Alle elezioni presidenziali svoltesi nel g i u g n o del 1996 l'elettorato russo si è nuovamente diviso, con circa il 43 p e r c e n t o dei voti a favore del candidato sponsorizzato dall'Occidente, Eltsin, e di altri candidati riformisti, e il 52 p e r cento a favore dei candidati nazionalisti e comunisti. Sul p r o b l e m a f o n d a m e n t a l e della p r o p r i a identità, la Russia degli anni Novanta r i m a n e p a l e s e m e n t e u n paese in bilico tra slavofilia e occidentalismo: «un tratto inalienabile del... carattere nazionale»." Turchia. Con u n a serie attentamente mirata di riforme messe in atto tra gli anni Venti e Trenta, Mustafa Kemal Ataturk tentò di sradicare il suo popolo dal proprio passato o t t o m a n o e musulmano. I principi di fondo, (le cosiddette «sei frecce») del kemalismo sono: populismo, repubblicanesimo, nazionalismo, secolarismo, statalismo e riformismo. Contrario all'idea di un impero multinazionale, Kemal tentò di dar vita ad u n o stato nazionale o m o g e n e o , d e p o r t a n d o e trucidando a questo scopo armeni e greci. Quindi depose il sultano e instaurò u n sistema politico repubblicano di tipo occidentale. Abolì il califfato, p e r n o dell'autorità religiosa, soppresse i tradizionali ministeri della religione e dell'istruzione, abolì scuole e università religiose private, creò un sistema di pubblica istruzione unificato e laico e dissolse i tribunali religiosi che applicavano la legge islamica sostituen-

23 Albert Motivans, «"Openness to the West" in European Russia», in «RFE/RL Research Report», n. 1, 27 novembre 1992, pp. 60-2. Gli studiosi hanno calcolato la distribuzione dei voti in modi diversi, o t t e n e n d o risultati pressoché simili. Per i dati citati mi sono basato sull'analisi di Sergei Churgov, «Politicai T e n d e n c i e s in Russia's Regions: Evidence from the 1993 Parliamentary Elections», inedito, Harvard University, 1994. 24 Chugrov, «Russia Between East and West», p. 140.

doli con u n nuovo sistema giuridico basato sul codice civile svizzero. Sostituì inoltre il calendario tradizionale con quello gregoriano e decretò f o r m a l m e n t e la fine dell'islamismo quale religione di stato. E m u l a n d o Pietro il Grande, proibì l'uso del fez in q u a n t o simbolo di tradizionalismo religioso, incoraggiò l'uso di cappelli di foggia occidentale e decretò la sostituzione nella lingua scritta dei caratteri arabi con quelli romani. Quest'ultima riforma ebbe u n ' i m p o r t a n z a fondamentale: «Essa rese praticam e n t e impossibile per le nuove generazioni istruite con i caratteri romani accostarsi alla gran parte della letteratura turca tradizionale, incoraggiò l ' a p p r e n d i m e n t o delle lingue e u r o p e e éd agevolò f o r t e m e n t e lo sviluppo dell'alfabetizzazione».'' U n a volta ridefinita l'identità nazionale, politica, religiosa e culturale del popolo turco, negli anni Trenta Kemal si dedicò anima e corpo a promuovere lo sviluppo economico del paese. L'Occidentalizzazione a n d ò di pari passo con la modernizzazione, di cui f u il principale strumento. D u r a n t e la g u e r r a civile che tra il 1939 e il 1945 dilaniò l'Occidente, la Turchia rimase neutrale. Al t e r m i n e del conflitto, tuttavia, t o r n ò presto a identificarsi ancor più strettamente con l'Occidente. E m u l a n d o esplicitamente i modelli occidentali, la Turchia passò da u n sistema a partito unico a u n o pluripartitico. Chiese e infine o t t e n n e , nel 1952, l'ammissione alla Nato, in tal m o d o c o n f e r m a n d o il p r o p r i o status di m e m b r o del « M o n d o libero». Ricevette d a l l ' O c c i d e n t e miliardi di dollari sotto f o r m a di assistenza economica e militare; il suo esercito f u addestrato ed equipaggiato dall'Occidente e quindi integrato nella struttura di c o m a n d o della Nato; ospitò basi militari americane. La Turchia finì con l'essere considerata d a l l ' E u r o p a il p r o p r i o bastione di c o n t e n i m e n t o a est c o n t r o l ' e s p a n s i o n e d e l l ' U n i o n e Sovietica verso il Mediterraneo, il Medio O r i e n t e e il Golfo Persico. Questa autoidentificazione con l ' O c c i d e n t e costò alla Turchia la messa all'indice da parte dei paesi n o n occidentali e n o n allineati alla C o n f e r e n z a di B a n d u g del 1955 e l'accusa di eresia da parte dei paesi islamici."1' Al t e r m i n e della G u e r r a f r e d d a , la classe dirigente turca si è 25 Samuel P. Huntington, Politicai Order in Changing Societies, New Haven, Yale University Press, 1968, pp. 350-1. 26 Duygo Bazoglu Sezer, «Turkev's Grand Strategy Facing a Dilemma», in «International Spectator», n. 27 (Gennaio-Marzo 1992), p. 24.

mostrata in g r a n d e m a g g i o r a n z a favorevole al p r o s e g u i m e n t o della politica filoccidentale e f d o e u r o p e a . L ' a p p a r t e n e n z a alla N a t o è p e r essa indispensabile p e r lo strettissimo l e g a m e organizzativo c h e o f f r e c o n l ' O c c i d e n t e , e p e r controbilanciare la Grecia. L ' a d e s i o n e della T u r c h i a all'Occidente, sancita dall ' a p p a r t e n e n z a alla Nato, f u c o m u n q u e u n p r o d o t t o della G u e r r a f r e d d a . La fine di q u e s t ' u l t i m a fa c a d e r e la principale giustificazione di quell'adesione, p r o v o c a n d o l ' i n d e b o l i m e n t o di quel legame e la necessità di u n a sua ridefinizione. La Turchia n o n serve più a l l ' O c c i d e n t e c o m e bastione c o n t r o la minaccia da n o r d , m a piuttosto, c o m ' è accaduto nella g u e r r a del Golfo, c o m e possibile p a r t n e r c o n t r o m i n a c c e di m i n o r e entità p r o v e n i e n t i da sud. In quella g u e r r a la Turchia ha o f f e r t o u n c o n t r i b u t o f o n d a m e n t a l e alla coalizione anti-Saddam Hussein, sia c h i u d e n d o l ' o l e o d o t t o c h e attraversava il p r o p r i o paese e m e d i a n t e il quale il petrolio i r a k e n o raggiungeva il Medit e r r a n e o , sia p e r m e t t e n d o agli aerei americani di decollare dalle sue basi p e r colpire l'Iraq. Q u e s t e iniziative del presid e n t e Òzal h a n n o tuttavia suscitato forti critiche in Turchia, fino a p o r t a r e alle dimissioni del ministro degli Esteri, della Difesa e del c a p o di Stato maggiore, n o n c h é a g r a n d i m a n i f e stazioni di piazza c o n t r o la politica di stretta c o o p e r a z i o n e c o n gli Stati Uniti perseguita da Òzal. Successivamente, sia il presidente Demirel sia il p r i m o ministro Ciller chiesero la fine i m m e d i a t a delle sanzioni e c o n o m i c h e imposte dalle Nazioni U n i t e all'Iraq, e che costituivano u n considerevole o n e r e econ o m i c o a n c h e p e r la T u r c h i a . " La disponibilità della T u r c h i a a collaborare c o n l ' O c c i d e n t e n e l l ' a f f r o n t a r e le m i n a c c e islam i c h e provenienti da sud a p p a r e d u n q u e m e n o certa di quella dimostrata n e l l ' o p p o r s i alla minaccia sovietica. D u r a n t e la crisi del Golfo, inoltre, il rifiuto della G e r m a n i a , tradizionale alleata della Turchia, a e q u i p a r a r e u n attacco missilistico i r a k e n o c o n t r o la T u r c h i a a u n attacco c o n t r o la N a t o h a dim o s t r a t o c o m e la T u r c h i a possa c o n t a r e b e n p o c o sul sosteg n o occidentale in caso di attacco da sud. Il c o n f r o n t o c o n l ' U n i o n e Sovietica d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a n o n sollevò il 27 Clyde Haberman, «On Iraq's Other front», in «New York Times Magazine», 18 novembre 1990, p. 42; Bruce R. Kuniholm, «Turkey and the West», in «Foreign Affairs», n. 70 (Primavera 1991), pp. 35-6.

p r o b l e m a d e l l ' i d e n t i t à della civiltà turca; nei r a p p o r t i postG u e r r a f r e d d a con i paesi arabi, invece, questo p r o b l e m a è fortemente presente. A partire dagli anni Ottanta, u n obiettivo f o n d a m e n t a l e , se n o n addirittura l'obiettivo primario, della classe dirigente filoccidentale turca è stato quello di e n t r a r e a far p a r t e dell'Un i o n e e u r o p e a . La Turchia fece d o m a n d a f o r m a l e di ammissione nell'aprile del 1987. Nel d i c e m b r e del 1989 le f u risposto c h e la sua d o m a n d a n o n sarebbe stata presa in considerazione p r i m a del 1993. Nel 1994 l ' U n i o n e e u r o p e a accettò le d o m a n d e di ammissione di Austria, Finlandia, Svezia e Norvegia, e f u a n n u n c i a t o con largo anticipo che negli anni a venire sarebbe stato d a t o responso favorevole a quelle di Polonia, U n g h e r i a e Repubblica Ceca, e in seguito p r o b a b i l m e n t e a n c h e a quelle di Slovenia, Slovacchia e delle r e p u b b l i c h e baltiche. I turchi furon o molto contrariati dal fatto che a n c o r a u n a volta la Germania, il m e m b r o più influente della C o m u n i t à e u r o p e a , n o n si fosse prodigato p e r far passare la loro c a n d i d a t u r a e avesse invece promosso quella degli stati centroeuropei."" Su pressione statunitense, l ' U n i o n e e u r o p e a h a negoziato c o n la Turchia u n ' u n i o n e doganale, m a l'ammissione a p i e n o titolo nella com u n i t à resta u n a possibilità d u b b i a e remota. P e r c h é la T u r c h i a è stata scavalcata, e s e m b r a essere semp r e l'ultima della fda? In pubblico, i f u n z i o n a r i e u r o p e i parlavano del basso livello di sviluppo e c o n o m i c o t u r c o e del loro rispetto n o n p r o p r i o scandinavo p e r i diritti u m a n i . In privato, t a n t o gli e u r o p e i q u a n t o i turchi c o n c o r d a v a n o sul fatto c h e il vero motivo fosse costituito dalla f o r t e o p p o s i z i o n e greca n o n c h é , cosa più i m p o r t a n t e , dal fatto c h e la T u r c h i a è u n paese m u s u l m a n o . I paesi e u r o p e i n o n volevano trovarsi di f r o n t e all'eventualità di dover aprire i p r o p r i c o n f i n i all'imm i g r a z i o n e di u n paese di sessanta milioni di m u s u l m a n i e c o n u n altissimo tasso di disoccupazione. Ma, più a n c o r a , rit e n e v a n o c h e i turchi n o n a p p a r t e n e s s e r o c u l t u r a l m e n t e all ' E u r o p a . La q u e s t i o n e dei diritti u m a n i c o m e causa del m a n cato ingresso della T u r c h i a n e l l ' U n i o n e e u r o p e a è, c o m e aff e r m ò il p r e s i d e n t e Òzal nel 1992, «una scusa... Il vero motivo 28 Ian Lesser, «Turkey and the West After the Gulf War», in «International Spectator», n. 27 (Gennaio-Marzo 1992), p. 33.

è c h e noi siamo m u s u l m a n i e l o r o cristiani». Solo c h e , aggiunse, «non lo dicono». I f u n z i o n a r i e u r o p e i , da p a r t e loro, c o n c o r d a v a n o sul fatto che l ' U n i o n e e u r o p e a fosse u n «club di cristiani» e c h e «la T u r c h i a è t r o p p o povera, t r o p p o p o p o losa, t r o p p o m u s u l m a n a , t r o p p o rigida, t r o p p o diversa cultur a l m e n t e , t r o p p o tutto». L ' « i n c u b o r e c o n d i t o » degli e u r o p e i , ha c o m m e n t a t o u n osservatore, è la m e m o r i a storica dei «predatori saraceni in E u r o p a occidentale e dei turchi alle p o r t e di Vienna». Tali a t t e g g i a m e n t i h a n n o a loro volta g e n e r a t o «la sensazione assai diffusa tra i turchi» che « l ' O c c i d e n t e ritiene c h e in E u r o p a n o n ci sia posto p e r u n a T u r c h i a musulmana». 2 9 Avendo voltato le spalle alla Mecca e vistasi respinta d a Bruxelles, la Turchia colse l ' o p p o r t u n i t à creata dalla dissoluzione d e l l ' U n i o n e Sovietica p e r volgersi in direzione di Taskent. Il presidente Òzal e altri leader turchi c o m i n c i a r o n o a vagheggiare la creazione di u n a c o m u n i t à di popoli turchi e ded i c a r o n o grandi forzi p e r sviluppare legami con i «turchi esterni» dell'ex i m p e r o «dall'Adriatico ai confini con la Cina». Particolare attenzione venne prestata all'Azerbaigian e alle q u a t t r o r e p u b b l i c h e centroasiatiche di lingua turca: Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan e Kirghizistan. Nel 1991 e 1992 la Turchia avviò u n ' a m p i a g a m m a di iniziative volte a rinsaldare i legami e ad accrescere la propria influenza in queste nuove repubbliche: prestiti a lungo t e r m i n e e a interesse agevolato p e r u n totale di 1,5 miliardi di dollari; 79 milioni di dollari in assistenza umanitaria; televisione via satellite (al posto del canale in lingua russa); reti telefoniche, servizi aerei, migliaia di borse di studio e corsi di f o r m a z i o n e in Turchia p e r banchieri, i m p r e n ditori, diplomatici e ufficiali militari centroasiatici e azeri. Fur o n o inviati insegnanti di lingua turca e sono nate circa duemila imprese miste. La c o m u n a n z a culturale ha c e r t a m e n t e aiutato i rapporti economici. «La cosa più i m p o r t a n t e p e r avere successo in Azerbaigian o in Turkmenistan», ha detto u n u o m o d'affari turco, «è trovare il p a r t n e r giusto. Per i turchi, questo 29 «Financial Times», 9 mar/o 1992, p. 2; «New York Times», 5 aprile 1992, p. E3; Tansu Giller, «The Role oi Turkev in "the New World"», in «Strategie Review», n. 22 (Inverno 1994), p. 9; Haberman, «Iraq's Other Front», p. 44; John Murray Brown, «Tansu C'.iller and the Question of Turkisli Identity», in «World Politicai Journal», n. 11 (Autunno 1994), p. 58.

n o n è diffìcile. Abbiamo la stessa cultura, più o m e n o la stessa lingua, e la stessa cucina»/" Il nuovo o r i e n t a m e n t o turco in direzione del Caucaso e dell'Asia centrale era alimentato n o n solo dal sogno di mettersi a capo di u n a c o m u n i t à di nazioni turche, q u a n t o a n c h e dal desiderio di impedire a Iran e Arabia Saudita di e s p a n d e r e la propria influenza e d i f f o n d e r e il f o n d a m e n t a l i s m o islamico in quella regione. I turchi si consideravano i latori del «modello turco» o dell'«idea di Turchia», u n o stato m u s u l m a n o d e m o cratico e laico con u n ' e c o n o m i a di mercato. Inoltre, la Turchia sperava in tal m o d o di ostacolare il r i t o r n o dell'influenza russa. F o r n e n d o un'alternativa alla Russia e all'Islam, essa avrebbe così sostenuto le p r o p r i e richieste di aiuto da p a r t e della Com u n i t à e u r o p e a fino a f a r n e p a r t e essa stessa. L'iniziale d i n a m i s m o turco nei c o n f r o n t i delle r e p u b b l i c h e di razza turca ha subito nel 1993 u n r a l l e n t a m e n t o dovuto a svariati motivi: scarsità di risorse, la n o m i n a a p r e s i d e n t e di Suleyman Demirel in seguito alla m o r t e di Òzal, n o n c h é il riaffermarsi dell'influenza della Russia in u n ' a r e a c h e essa considerava u n a sorta di p r o p r i o «vicinato». Q u a n d o le ex repubblic h e sovietiche di etnia turca acquisirono l ' i n d i p e n d e n z a , i loro leader si p r e c i p i t a r o n o ad Ankara p e r corteggiare la Turchia, salvo poi, in seguito alle pressioni e agli incentivi russi, fare di n o r m a marcia i n d i e t r o e p r e d i c a r e la necessità di r a p p o r t i «equilibrati» tra il loro cugino culturale e il loro ex dominatore imperiale. I turchi, tuttavia, h a n n o c o n t i n u a t o a tentare di sfruttare la c o m u n a n z a culturale per e s p a n d e r e i p r o p r i legami economici e politici riuscendo - in quello che resta il loro successo e c o n o m i c o più rilevante - a siglare u n a c c o r d o tra i governi interessati e le c o m p a g n i e petrolifere p e r la costruzione di u n oleodotto che attraverso la Turchia faccia g i u n g e r e il petrolio dell'Asia centrale e dell'Azerbaigian f i n o al Mediterraneo. M e n t r e la Turchia si adoperava a sviluppare i p r o p r i legami 30 Sezer, «Tiukey's Grand Strategy», p. 27; «Washington Post», 22 marzo 1992; «New York Times», 19 giugno 1994, p. 4. 31 «New York Times», 4 agosto 1993, p. A3; 19 giugno 1994, p. 4; Philip Robins, «Between Sentiment and Self-Interest: Turkey's Policy toward Azerbaijan and the Central Asian States», in «Middle EastJournal», n. 47 (Autunn o 1993), pp. 593-610; «Economist», n. 17 (Gennaio 1994), p. 94.

con le ex r e p u b b l i c h e sovietiche di razza turca, la p r o p r i a identità laica e kemalista veniva i n t e r n a m e n t e minacciata. 1) Per la Turchia - c o m e p e r tanti altri paesi - la fine della G u e r r a f r e d d a , unita alle difficoltà create dallo sviluppo sociale ed e c o n o m i c o , sollevò grossi p r o b l e m i di «idendtà nazionale e identificazione etnica», 32 e la religione era lì, p r o n t a ad offrire u n a risposta. L'eredità laica di Ataturk e della classe dirigente turca protrattasi p e r d u e terzi di secolo finì sempre più sotto tiro. L'esperienza degli emigrati turchi all'estero c o n t r i b u ì al diffondersi di sentimenti islamisti in patria. I turchi di r i t o r n o dalla G e r m a n i a occidentale «reagivano al clima di ostilità lì trovato t o r n a n d o a q u a n t o era loro familiare, cioè l'Islam». Idee e m o d i di vita c o m u n i acquisirono u n carattere s e m p r e più marc a t a m e n t e islamista. Nel 1993 u n articolo riferiva c h e «in Turchia le b a r b e di foggia islamica e le d o n n e col velo sono proliferate, che le m o s c h e e attirano masse di fedeli ancor più numerose e che alcune librerie si s t a n n o r i e m p i e n d o di libri e giornali, cassette, CD e videocassette c h e celebrano la storia, i precetti e lo stile di vita islamico ed esaltano il r u o l o svolto dall ' I m p e r o o t t o m a n o nella preservazione dei valori del p r o f e t a Maometto». Lo stesso articolo informava poi che «non m e n o di 290 case editrici e tipografie, 300 pubblicazioni tra cui q u a t t r o quotidiani, circa u n centinaio di stazioni radiofoniche pirata e circa 30 canali televisivi anch'essi clandestini p r o p a g a n d a v a n o tutti l'ideologia islamica». 11 Di f r o n t e alla marea m o n t a n t e dell'Islam, i governanti turchi h a n n o tentato di adottare costumi islamici e di guadagnarsi il sostegno dei fondamentalisti. Negli anni O t t a n t a e Novanta, il sedicente laico governo turco m a n t e n e v a u n Ufficio affari religiosi c o n u n b u d g e t superiore a quello di alcuni ministeri, h a finanziato la costruzione di moschee, imposto l'istruzione religiosa in tutte le scuole pubbliche e sovvenzionato le scuole islamiche, che negli anni O t t a n t a sono quintuplicate di n u m e r o , con il 15 p e r cento degli studenti iscritti alle scuole superiori. In queste scuole si p r e d i c a n o d o t t r i n e islamiste e da esse sono usciti migliaia di laureati, molti dei quali sono poi entrati negli 32 Bahri Yilmaz, «Turkey's new Role in International Politics», in «Aussenpolitik», n. 45 (Gennaio 1994), p. 94. 33 Eric Rouleau, «The Challenges to Turkey», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 119.

uffici pubblici. In simbolica, m a significativa contrapposizione alla Francia, il governo ha in pratica concesso alle studentesse di indossare il tradizionale velo islamico, s e t t a n t a n n i d o p o c h e Ataturk vietò il fez. M Simili iniziative del governo, in gran p a r t e motivate dal desiderio di far terra bruciata i n t o r n o ai fondamentalisti, d i m o s t r a n o q u a n t o fertile fosse quel t e r r e n o negli anni O t t a n t a e primi anni Novanta. 2) La rinascita dell'Islam h a m u t a t o il carattere della politica turca. I leader politici, e T u r g o Òzal in particolare, si identific a r o n o s e m p r e più esplicitamente con gli e m b l e m i e gli orientamenti politici musulmani. In Turchia, c o m e altrove, la d e m o crazia ha rafforzato il processo di indigenizzazione e il r i t o r n o alla religione. «Nella loro b r a m a di accattivarsi i favori dell'opin i o n e pubblica e di g u a d a g n a r e voti, i politici - e f i n a n c h e i militari, vero bastione e custode del secolarismo - h a n n o dovuto t e n e r c o n t o delle aspirazioni religiose della popolazione: n o n p o c h e delle concessioni fatte odoravano di demagogia». I movimenti popolari h a n n o assunto u n a f o r t e caratterizzazione religiosa. S e b b e n e le élite di p o t e r e e burocratiche, in particolare l'esercito, fossero di t e n d e n z a laica, l'islamismo h a iniziato a far breccia tra le forze armate, e nel 1987 diverse centinaia di cadetti f u r o n o espulsi dalle accademie militari p e r c h é sospettati di nutrire sentimenti islamisti. I maggiori partiti politici avvert o n o s e m p r e più la necessità di cercare sostegno elettorale tra le risuscitate tarika m u s u l m a n e , o società selezionate, messe al b a n d o da Ataturk.'' Alle elezioni locali del marzo 1994 il fondamentalista Partito del Benessere, unico tra i principali cinq u e partiti del paese, accrebbe il p r o p r i o consenso elettorale, o t t e n e n d o circa il 19 p e r c e n t o dei voti rispetto al 21 p e r c e n t o del Partito della Retta Via del p r i m o ministro Ciller e al 20 p e r c e n t o del Partito della M a d r e p a t r a di Òzal. Il Partito del Benessere si assicurò il controllo delle d u e principali città del paese, Istanbul e Ankara, e risultò e s t r e m a m e n t e forte nella p a r t e sudorientale del paese. Alle elezioni del d i c e m b r e 1995, il Partito del Benessere conquistò più vod e più seggi in p a r l a m e n t o di qualsiasi altra f o r m a z i o n e politica, e sei mesi d o p o a n d ò al governo in coalizione con u n o dei partiti laici. C o m e in altri 34 Rouleau, «Challenges», pp. 120-1; «New York Times», 26 marzo 1989, p. 14. 35 Ibid.

paesi, il sostegno ai fondamentalisti p r o v e n n e dai giovani, dagli emigranti tornati in patria, dagli «oppressi e i diseredati» e dai «nuovi emigrati urbani, i "sanculotti" delle grandi città»."' 3) La rinascita dell'islamismo ha influenzato la politica estera turca. Sotto la guida del presidente Òzal, la Turchia si era decisamente schierata a fianco d e l l ' O c c i d e n t e nella g u e r r a del Golfo, nella speranza di accelerare così il p r o p r i o ingresso nella C o m u n i t à e u r o p e a . Ciò, tuttavia, n o n è accaduto, e le esitazioni della N a t o su cosa avrebbe fatto in caso di u n attacco irakeno alla Turchia d u r a n t e la g u e r r a del Golfo n o n h a n n o p e r nulla rassicurato i turchi circa la posizione della Nato in caso di u n a minaccia n o n russa al p r o p r i o paese. 1 ' Il governo di Ankara ha tentato di rafforzare i rapporti militari con Israele, il che ha provocato le vibrate proteste degli islamisti turchi. Cosa ancor più significativa, nel corso degli anni O t t a n t a la Turchia ha intensificato i rapporti con i paesi arabi e con altri paesi musulmani, e negli anni Novanta h a attivamente promosso gli interessi islamici o f f r e n d o u n significativo sostegno ai m u s u l m a n i bosniaci e all'Azerbaigian. Sia nei Balcani sia in Asia centrale e in Medio Oriente, la politica estera turca è andata s e m p r e più islamizzandosi. Per molti anni la Turchia ha soddisfatto d u e dei tre requisiti minimi necessari p e r c h é u n paese in bilico possa m u t a r e la propria civiltà di a p p a r t e n e n z a . Le élite turche h a n n o f o r t e m e n t e sostenuto questo passaggio, e l ' o p i n i o n e pubblica si è mostrata acquiescente. Tuttavia le élite della civiltà d ' a p p r o d o , cioè quella occidentale, n o n si sono mostrate b e n disposte, e m e n t r e la questione continuava a restare in sospeso, la ripresa dell'islamismo ha iniziato a indebolire s e m p r e più l ' o r i e n t a m e n t o laicista e filoccidentale delle classi dirigenti turche. Gli ostacoli alla trasformazione della Turchia in u n paese p i e n a m e n t e europeo, i limiti alla sua capacità di svolgere u n ruolo d o m i n a n t e in r a p p o r t o alle ex r e p u b b l i c h e sovietiche di razza turca e la nascita di t e n d e n z e islamiche c h e m i n a n o l'eredità lasciata da Ataturk sono tutti fattori indicanti c o m e la Turchia resterà u n paese in bilico. Riflettendo tali opposte pulsioni, i leader turchi h a n n o pun36 Brown, «Question ofTurkish Identity», p. 58. 37 Se/.er, «Turkev's (.ranci Strategy», pp. 29-30.

t u a l m e n t e definito il p r o p r i o paese u n «ponte» tra d u e culture. La Turchia, ha a f f e r m a t o il p r i m o ministro Tansu Ciller nel 1993, è insieme u n a «democrazia occidentale» e «parte integ r a n t e del Medio Oriente», e «fa da p o n t e , fisicamente e filosoficamente, tra d u e civiltà». Così nei suoi discorsi pubblici alla nazione la Ciller appariva sovente c o m e u n a m u s u l m a n a , mentre q u a n d o si rivolgeva alla Nato sosteneva c h e «la realtà geografica e politica dice che la Turchia è u n paese e u r o p e o » . Anc h e il presidente Suleyman Demirel h a definito la Turchia «un p o n t e molto i m p o r t a n t e in u n a regione che si estende da ovest ad est, vale a dire d a l l ' E u r o p a alla Cina». 1 " Un p o n t e , tuttavia, è u n a creazione artificiale c h e unisce d u e entità fisiche, m a n o n è p a r t e integrante di nessuna delle due. Q u a n d o i leader turchi definiscono il p r o p r i o paese u n p o n t e , essi c o n f e r m a n o eufemisticamente che la Turchia è u n paese in bilico. Messico. La Turchia è diventata u n paese in bilico negli anni Venti, il Messico soltanto negli anni Ottanta. Tuttavia la storia dei rispettivi rapporti con l'Occidente presenta alcune similitudini. Al pari della Turchia, il Messico aveva u n a cultura prec i p u a m e n t e n o n occidentale. A n c h e nel xx secolo, ha affermato Octavio Paz, «l'anima del Messico è india. N o n è europea».™ Al pari d e l l ' I m p e r o o t t o m a n o , nel xix secolo il Messico f u s m e m b r a t o per m a n o dell'Occidente. Al pari della Turchia, negli anni Venti e T r e n t a visse u n a rivoluzione c h e gettò nuove basi di identità nazionale e creò u n nuovo sistema politico monopartitico. In Turchia, tuttavia, la rivoluzione c o m p o r t ò al c o n t e m p o il rifiuto della tradizionale cultura islamica e ottom a n a e il tentativo di i m p o r t a r e la cultura occidentale assimilandosi all'Occidente. In Messico, c o m e in Russia, la rivoluzion e implicò l'importazione e l ' a d a t t a m e n t o di alcuni elementi della cultura occidentale, c h e a sua volta produsse u n nuovo 38 Ciller, «Turkey in the "New World"», p. 9; Brown, «Question o f T u r k i s h Identity», p. 56; Tansu Ciller, «Turkey and NATO: Stability in the Vortex of Change», in «NATO Review», n. 42 (Aprile 1994), p. 6; Suleyman Demirel, BBC Svmmary of World Broadcast, 2 febbraio 1994. Per altri ricorsi alla metafora del ponte, si veda Bruce R. Kuniholm, «Turkey and the West», in «Foreign Affairs», n. 70 (Primavera 1991), p. 39; Lesser, «Turkev and the West», p. 33. 39 Octavio Paz, «The Border of Time», intervista a Nathan Gardels, in «New Perspectives Quarterly», n. 8 (Inverno 1991), p. 36.

nazionalismo in opposizione al capitalismo e alla democrazia di stampo occidentale. Così, p e r s e s s a n t a n n i la Turchia ha tentato di definirsi u n paese e u r o p e o , m e n t r e il Messico ha tentato di definirsi u n paese antitetico agli Stati Uniti. Dagli a n n i Trenta agli anni O t t a n t a i dirigenti messicani h a n n o perseguito u n a politica e c o n o m i c a ed estera di contrapposizione agli interessi americani. Negli anni Ottanta tutto questo è cambiato. Prima il presid e n t e Miguel de la Madrid e poi il suo successore Carlos Salinas o p e r a r o n o u n a ridefinizione globale degli obiettivi, dei costumi e dell'identità messicana. U n tentativo di m u t a m e n t o così radicale n o n si vedeva dai tempi della rivoluzione del 1910. Salinas divenne in sostanza il Mustafa Kemal del Messico. Ataturk promosse il secolarismo e il nazionalismo, temi all'epoca d o m i n a n t i in Occidente; Salinas promosse il liberalismo economico, u n o dei d u e temi d o m i n a n t i nell'Occidente degli anni O t t a n t a (l'altro, la democrazia politica, v e n n e invece scartato). C o m e accadde p e r Ataturk, queste opinioni e r a n o a m p i a m e n te condivise dalle élite e c o n o m i c h e e politiche del paese: molti loro esponenti, c o m e Salinas e de la Madrid, e r a n o stati educati negli Stati Uniti. Salinas ridusse drasticamente l'inflazione, privatizzò u n gran n u m e r o di imprese pubbliche, promosse gli investimenti esteri, ridusse tariffe e sussidi, ristrutturò il debito estero, sfidò il p o t e r e dei sindacati, a u m e n t ò la produttività e g u i d ò l'ingresso del Messico nel Nafta, l'Accordo sul libero scambio n o r d a m e r i c a n o con Stati Uniti e Canada. C o m e le r i f o r m e di Ataturk intesero trasformare la Turchia d a u n paese m u s u l m a n o mediorientale in u n paese laico e u r o p e o , così le r i f o r m e di Salinas p u n t a r o n o a trasformare il Messico d a paese latinoamericano a paese n o r d a m e r i c a n o . N o n si trattò di u n a scelta obbligata. Le classi dirigenti messicane avrebbero p o t u t o p r e s u m i b i l m e n t e proseguire il corso antiamericano, terzomondista, nazionalista e protezionista imboccato dai loro predecessori p e r b u o n a p a r t e del secolo. In alternativa, c o m e q u a l c u n o sostenne, avrebbero p o t u t o tentare di sviluppare con Spagna, Portogallo e i paesi s u d a m e r i c a n i un'associazione di nazioni ispanofone. Riuscirà il Messico ad acquisire u n ' i d e n t i t à n o r d a m e r i c a n a ? La grandissima maggioranza delle élite politiche, e c o n o m i c h e e intellettuali favorisce u n tale corso. Inoltre, a differenza di

q u a n t o avviene p e r la Turchia, le élite della civiltà di a p p r o d o h a n n o incoraggiato il riallineamento culturale del Messico. Il motivo di questo diverso atteggiamento va ricercato nella questione cruciale dell'immigrazione. Il timore di u n a massiccia immigrazione turca ha dissuaso governi e o p i n i o n e pubblica e u r o p e a dal far entrare la Turchia in Europa. Viceversa, la massiccia immigrazione messicana, legale e n o n , negli Stati Uniti è servita da puntello alla richiesta di Salinas di e n t r a r e a far parte del Nafta: «O accettate le nostre merci o accettate la nostra gente». Inoltre, la distanza culturale tra Messico e Stati Uniti è di gran lunga inferiore a quella che separa la Turchia dall'Europa. Il Messico è in parte u n paese occidentale: la sua religion e è il cattolicesimo; la sua lingua lo spagnolo, le sue classi dirigenti h a n n o storicamente g u a r d a t o a l l ' E u r o p a (nelle cui scuole m a n d a v a n o i loro figli) e più di recente agli Stati Uniti (dove m a n d a n o oggi i figli). L ' a d a t t a m e n t o tra il N o r d America anglo-americano e il Messico indo-ispanico dovrebbe risultare molto più agevole di quello tra l ' E u r o p a cristiana e la Turchia m u s u l m a n a . N o n o s t a n t e questi valori c o m u n i , d o p o la ratifica del Nafta negli Stati Uniti è cresciuta l'opposizione a stringere u l t e r i o r m e n t e i legami con il Messico, con richieste di restrizioni all'immigrazione, proteste p e r il trasferimento delle industrie verso sud e d u b b i sulla capacità del Messico di aderire ai precetti n o r d a m e r i c a n i di libertà e stato di diritto. 4 " Il terzo prerequisito indispensabile p e r c h é u n paese in bilico possa realizzare il passaggio d ' i d e n t i t à è u n a g e n e r a l e acquiescenza - m a n o n necessariamente l'attivo sostegno - dell'opin i o n e pubblica. L ' i m p o r t a n z a di questo fattore d i p e n d e in certa misura dal peso che l ' o p i n i o n e pubblica di u n paese esercita sulle scelte di governo. Fino al 1995, il filoccidentalismo del Messico n o n era stato a n c o r a sottoposto all'esame della d e m o cratizzazione. La «Rivolta di C a p o d a n n o » c o n d o t t a da q u a l c h e migliaio di guerriglieri del Chapas b e n organizzati e finanziati dall'estero n o n è stata, di p e r sé, indizio di u n a sostanziale opposizione alla nordamericanizzazione. E tuttavia la g e n e r a l e simpatia con la quale essa è stata accolta tra intellettuali, gior40 Per un e s e m p i o relativo a quest'ultima preoccupazione, si veda Daniel Patrick Moynihan, «Free Trade with an Unfree Society: A C o m m i t t m e n t and its Consequences», in «National Interest», Estate 1995, pp. 28-33.

nalisti e altri influenti opinionisti messicani s e m b r e r e b b e indicare che la nordamericanizzazione in generale e il Nafta in particolare p o t r e b b e r o incontrare u n a resistenza sempre maggiore sia da parte delle élite sia d e l l ' o p i n i o n e pubblica messicana. Il presidente Salinas è stato molto attento a privilegiare la riform a e c o n o m i c a e l'occidentalizzazione rispetto alla r i f o r m a politica e alla democratizzazione. Sia lo sviluppo e c o n o m i c o sia il s e m p r e maggiore avvicinamento agli Stati Uniti, tuttavia, consolideranno inevitabilmente le forze che p r o p u g n a n o u n a reale democratizzazione del sistema politico messicano. La questione chiave p e r il f u t u r o del Messico è la seguente: in c h e misura m o d e r n i z z a z i o n e e democratizzazione s t i m o l e r a n n o la deoccidentalizzazione, r a p p r e s e n t a t a da u n drastico ridimens i o n a m e n t o del Nafta se n o n dalla fuoriuscita del Messico dallo stesso e da significative m o d i f i c h e agli indirizzi politici imposti al Messico negli anni O t t a n t a e Novanta dalla p r o p r i a classe dirigente? La nordamericanizzazione del Messico è compatibile con la sua democratizzazione? Australia. A differenza di Russia, Turchia e Messico, l'Australia è s e m p r e stata, sin dalle sue origini, u n a società occidentale. Per tutto il xx secolo è stata i n t i m a m e n t e legata alla Gran Bretagna p r i m a e agli Stati Uniti poi, e d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a ha fatto p a r t e n o n solo d e l l ' O c c i d e n t e m a a n c h e della coalizion e spionistico-militare britannico-americana-canadese-australiana che dell'Occidente era asse p o r t a n t e . All'inizio degli anni Novanta, tuttavia, i leader politici australiani decisero, in b u o n a sostanza, che l'Australia dovesse staccarsi dall'Occidente, ridefinire la p r o p r i a identità c o m e società asiatica e coltivare stretti legami con i p r o p r i vicini territoriali. L'Australia, dichiarò il suo p r i m o ministro Paul Keating, n o n doveva più essere u n a «filiale dell'impero», m a diventare u n a repubblica e p u n t a r e a «confluire» nell'Asia. Q u e s t o era necessario p e r la sua identità di paese i n d i p e n d e n t e . «L'Australia n o n p u ò presentarsi agli occhi del m o n d o come u n a società multiculturale, stabilire u n legame convincente con l'Asia e c o n t e m p o r a n e a m e n t e restare, a l m e n o dal p u n t o di vista costituzionale, u n paese marginale». L'Australia, dichiarò Keating, h a sofferto innumerevoli anni di «anglofilia e torpore» e p e r p e t u a r e l'associazione con la Gran Bretagna avrebbe avuto u n effetto «debilitante sulla nostra cul-

tura nazionale, sul nostro f u t u r o e c o n o m i c o e sul nostro destin o in Asia e nel Pacifico». Simili sentimenti f u r o n o espressi anc h e dal ministro degli Esteri Gareth Evans/ 1 La decisione di ridefinire l'Australia c o m e un paese asiadco si fondava sul p r e s u p p o s t o che il destino delle nazioni viene forgiato molto più d a l l ' e c o n o m i a che dalla cultura. L'incentivo maggiore è venuto dal d i n a m i c o sviluppo delle e c o n o m i e estasiatiche, c h e ha a sua volta stimolato u n a rapida crescita degli scambi commerciali tra Australia e Asia. Nel 1971 l'Asia orientale e sudorientale assorbiva il 39 p e r cento delle esportazioni australiane e rappresentava il 21 p e r cento del suo volume di importazioni. Nel 1994 queste cifre e r a n o passate rispettivam e n t e al 62 e 41 p e r cento. Viceversa, nel 1991 solo l'I 1,8 p e r c e n t o delle esportazioni australiane andava alla C o m u n i t à eur o p e a e il 10,1 p e r cento negli Stati Uniti. Tale accresciuto leg a m e e c o n o m i c o con l'Asia è stato altresì rinforzato dalla convinzione maturata dagli australiani c h e il m o n d o stesse proced e n d o verso la creazione di tre grandi blocchi economici e che il posto dell'Australia fosse a l l ' i n t e r n o del blocco est-asiatico. N o n o s t a n t e questi legami economici, tuttavia, n o n s e m b r a c h e il tentativo di asianizzazione dell'Australia presenti alcuno dei prerequisiti necessari p e r c h é u n paese in bilico possa operare con successo u n passaggio di civiltà. Innanzitutto, a n c o r a nel 1995 la classe politica australiana n o n appariva affatto comp a t t a m e n t e entusiasta di tale corso, e i leader del Partito liberale si mostravano viceversa perplessi o contrari. Forti critiche venivano al governo laburista a n c h e da u n a m p i o n u m e r o di intellettuali e giornalisti. In breve, n o n esisteva u n consenso g e n e r a l e tra le élite di p o t e r e australiane. In s e c o n d o luogo, l ' o p i n i o n e pubblica ha mostrato u n atteggiamento ambiguo. Dal 1987 al 1993, la p e r c e n t u a l e di cittadini australiani favorevole a p o r r e fine alla m o n a r c h i a era passata dal 21 al 46 p e r cento. Poi, però, il sostegno in tal senso iniziò ad affievolirsi e a scemare. La p e r c e n t u a l e di cittadini favorevole ad eliminare l ' « U n i o n J a c k » dalla b a n d i e r a australiana scese dal 42 p e r cento del maggio 1992 al 35 p e r c e n t o dell'agosto 1993. C o m e disse u n f u n z i o n a r i o australiano nel 1992, «per l ' o p i n i o n e pubbli41 «Financial Times», 11-12 settembre 1993, p. 4; «New York Times», 16 agosto 1992, p. 3.

ca è d u r a da digerire. O g n i volta che dico che l'Australia dovrebbe far p a r t e dell'Asia, lei n o n h a idea di q u a n t e lettere di protesta ricevo»/ 2 Terzo e più importante punto: le élite dei paesi asiatici h a n n o esibito nei c o n f r o n ù delle proposte australiane u n a freddezza ancora maggiore di quella palesata dalle élite e u r o p e e nei confronti della Turchia. H a n n o affermato esplicitamente che per far parte dell'Asia l'Australia dovrebbe diventare u n a nazione genuinam e n t e asiatica, e ritengono ciò improbabile se n o n impossibile. «Il successo dell'integrazione australiana all'Asia», ha affermato un funzionario indonesiano, «dipende da un'unica cosa: fino a che p u n t o gli stati asiatici g u a r d a n o con favore al proposito australiano. L'accettazione dell'Australia da parte dell'Asia d i p e n d e da q u a n t o il governo e il popolo australiani riusciranno a comp r e n d e r e la cultura e le società asiatiche». Gli asiatici sottolinean o u n a contraddizione tra la retorica filoasiatica degli australiani e il loro stile di vita perversamente occidentale. I thailandesi, sec o n d o u n diplomatico australiano, reagiscono alle insistenze australiane sulla propria natura asiatica con «ilare condiscendenza»." «Dal p u n t o di vista culturale, l'Australia è ancora europea», ha dichiarato nell'ottobre del 1994 il primo ministro malaysiano Mahathir, «... noi pensiamo che sia europea», e d u n q u e l'Australia n o n dovrebbe entrare a far parte dell'Eaec, il comitato per l'economia dell'Asia meridionale. «[Noi asiatici] siamo m e n o inclini a criticare aspramente altri paesi o a esprimere giudizi su di loro. L'Australia invece, essendo culturalmente europea, pensa di avere il diritto di dire agli altri cosa fare e cosa n o n fare, cosa è giusto e cosa è sbagliato. E questo, ovviamente, n o n è compatibile con il g r u p p o . Questa è la mia motivazione [per n o n accettare l'ingresso dell'Australia nell'Eaec], N o n è u n a questione di colore della pelle, ma di cultura»/ 4 Gli asiatici, in breve, sono ferma42 «Economist», 23 luglio 1994, p. 35; Irene Moss, membro della Commissione per i diritti umani (Australia), «New York Times», 16 agosto 1992, p. 3; «Economist», 23 luglio 1994, p. 35; «Boston Globe», 7 luglio 1993, p. 2; «Cable News Network», News Report, 16 dicembre 1993; Richard Higgot, «Closing a Branch Office of Empire: Australian Foreign Policy and the UK. at Century's End», in «International Affairs», n. 70 (Gennaio 1994), p. 58. 43 Jat Sujamiko, «The Australian», 5 maggio 1993, p. 18, cit. in Higgot, «Closing a Branch», p. 62; Higgott, «Closing a Branch», p. 63; «Economist», 12 dicembre 1993, p. 34. 44 Intervista a Keniche O h m a e , trascrizione, 24 ottobre 1994, pp. 5-6. Si veda anche «Japan Times», 7 novembre 1994, p. 19.

m e n t e intenzionati a escludere l'Australia dal loro club per lo stesso modvo che spinge gli europei a escludere la Turchia dal proprio: sono diversi. Al p r i m o ministro Keadng piaceva dire che avrebbe trasformato l'Australia da u n paese tagliato fuori dall'Asia ad u n o «tagliato dentro» l'Asia. Il che è u n controsenso: n o n si p u ò essere «tagliati dentro». 4 ' C o m e h a a f f e r m a t o Mahathir, cultura e valori costituiscono i principali ostacoli all'unificazione tra Australia e Asia. Periodici scontri sorgono in merito all'adesione dell'Australia alla democrazia, alla difesa dei diritti u m a n i , alla libertà di stampa, e alle loro proteste p e r le violazioni dei diritti p e r p e t r a t e di fatto dai governi di tutti gli stati limitrofi. «Il vero p r o b l e m a dell'Australia nella regione», h a dichiarato u n alto diplomatico australiano, «non sta nella nostra bandiera, m a nei nostri valori basilari. C r e d o c h e n o n esista u n solo australiano disposto ad abb a n d o n a r e u n o soltanto di quei valori p u r di essere accettato nella regione». 4 " N o n m e n o grandi sono le differenze di carattere, stile e c o m p o r t a m e n t o . C o m e sostiene Nahathir, nel perseguire i loro obiettivi nei r a p p o r t i con gli altri, gli asiatici adott a n o g e n e r a l m e n t e u n m o d o di fare sottile, indiretto, ambiguo, pragmatico, conciliante e n o n moralistico. Quello australiano, p e r contro, è il p o p o l o più schietto, diretto, esplicito e - direbbe q u a l c u n o - insensibile di tutto il m o n d o a n g l o f o n o . Un simile scontro di culture risalta in m o d o ancor più evidente negli atteggiamenti assunti dallo stesso Paul Keating con gli asiatici. K e a d n g i n c a r n a le caratteristiche nazionali australiane elevate all'ennesima potenza. È stato descritto c o m e u n «politico ruvido», dotato di u n o stile « i n n a t a m e n t e provocatorio e pugnace». Egli stesso n o n ha esitato a etichettare i p r o p r i oppositori politici c o m e u n a «massa di rifiuti umani», «gigolò profumati» e «pazzi criminali dal cervello bacato»." Nel suo p e r o r a r e l'asianizzazione dell'Australia, Keating finiva i m m a n c a b i l m e n t e con l'irritare, sbigottire e contrariare con la sua r u d e franchez-

45 In inglese il gioco di parole è tra «odd man out», indicante una persona isolata, c h e n o n lega con gli altri, e «odd man in» [n.d.t.]. 46 Ex ambasciatore Richard Woolcott (Australia), «New York Times», 16 agosto 1992, p. 3. 47 Paul Kelly, «Reinventing Australia», in «National Interest», n. 30 (Inverno 1992), p. 66; «Economist», 11 dicembre 1993, p. 34; Higgott, «Closing a Blanch», p. 58.

za i leader politici asiatici. Il divario tra le d u e culture era così p r o f o n d o da impedire al sostenitore della loro convergenza di accorgersi di c o m e il suo stesso c o m p o r t a m e n t o fosse inviso ai suoi pretesi fratelli culturali. La scelta di Keating ed Evans p u ò essere interpretata c o m e la m i o p e decisione di chi sopravvaluta i fattori economici e decide di ignorare, anziché rinnovare la cultura del p r o p r i o paese, n o n c h é c o m e u n a manovra tattica p e r distrarre l'attenzione dai p r o b l e m i economici del paese. In alternativa, p o t r e b b e essere considerata u n a lungimirante iniziativa volta ad aggregare e identificare l'Australia con i centri e m e r g e n t i del p o t e r e econ o m i c o , politico e in f u t u r o a n c h e militare dell'Asia orientale. Sotto questo aspetto, l'Australia p o t r e b b e essere il p r i m o di (forse) molti paesi occidentali c h e t e n t a n o di disertare il camp o occidentale e salire sul c a r r o vincente delle e m e r g e n t i civiltà n o n occidentali. All'inizio del XXII secolo gli storici pot r e b b e r o rivalutare la scelta Keating-Evans c o m e u n a pietra miliare nel processo di declino dell'Occidente. Se questa scelta verrà mai messa in atto, tuttavia, essa n o n eliminerà certo l'eredità occidentale p r o p r i a dell'Australia, e il «paese f o r t u n a t o » sarà p e r s e m p r e u n paese in bilico, ossia da u n lato la «succursale dell'impero» d e p r e c a t a da Paul Keating e dall'altro la «nuova feccia bianca dell'Asia» c o m ' è stata s p r e z z a n t e m e n t e definita da Lee Kuan Yew.1" U n simile epilogo n o n era e n o n è u n destino ineluttabile p e r l'Australia. Pur accettando il loro desiderio di r o m p e r e i ponti con la Gran Bretagna, i leader australiani, anziché definire il p r o p r i o paese c o m e potenza asiatica p o t r e b b e r o definirlo u n paese del Pacifico, c o m e t e n t ò di fare il predecessore di Keating, Robert Hawke. Se l'Australia desidera diventare u n a repubblica i n d i p e n d e n t e dalla c o r o n a britannica, p o t r e b b e allinearsi con il p r i m o paese al m o n d o ad averlo fatto, u n paese che, al pari dell'Australia, è di origine britannica, è c o m p o s t o da immigrati, ha dimensioni continentali, parla inglese, è stata sua alleata in tre g u e r r e e la cui popolazione è p r e m i n e n t e m e n t e e u r o p e a , a n c h e se, al pari dell'Australia, con u n a semp r e più forte c o m p o n e n t e asiatica. Sul p i a n o culturale, i valori della Dichiarazione di I n d i p e n d e n z a del 4 luglio 1776 sono 48 L e e Kuan Yew, cit. in Higgott, «Closing a Brandi», p. 49.

molto più simili ai valori australiani di q u a n t o lo siano quelli di u n q u a l u n q u e paese asiatico. Sul p i a n o e c o n o m i c o , anziché tentare di farsi strada a fatica in u n g r u p p o di società alle quali è c u l t u r a l m e n t e estranea e che p e r tale motivo li rifiutano, i leader australiani p o t r e b b e r o p r o p o r r e di allargare il Nafta e trasformarlo in un'organizzazione tra N o r d America e Pacifico m e r i d i o n a l e c o m p r e n d e n t e Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. U n r a g g r u p p a m e n t o siffatto concilierebbe in sé cultura ed e c o n o m i a e d a r e b b e all'Australia u n a solida e duratura identità n o n basata su futili tentativi di asianizzazione. Il virus occidentale e la schizofrenia culturale. Mentre i leader australiani partivano alla ricerca dell'Asia, quelli di altri paesi in bilico - Turchia, Messico, Russia - tentavano di inglobare l'Occidente nella propria società, e viceversa. L'esperienza, tuttavia, dimostra c h i a r a m e n t e la forza, la resistenza e la pervicacia delle culture a u t o c t o n e e la loro capacità di rinnovarsi e f r e n a r e , respingere e assorbire le importazioni occidentali. Se u n a chiusura totale all'Occidente è inattuabile, la soluzione kemalista si è dimostrata fallimentare. Se i n t e n d o n o modernizzarsi, le società n o n occidentali devono farlo a m o d o loro, n o n alla maniera degli occidentali, e f o n d a r e , c o m e ha fatto il G i a p p o n e , sulle p r o p r i e tradizioni, valori e istituzioni. I leader politici tanto tracotanti da pensare di p o t e r stravolgere e riforgiare da capo sin nelle f o n d a m e n t a la cultura della p r o p r i a società sono destinati a fallire. Possono i n t r o d u r r e alcuni ingredienti della cultura occidentale, ma n o n s o p p r i m e r e o eliminare per sempre gli elementi di f o n d o della p r o p r i a cultura autoctona. Viceversa, u n a volta inoculato in u n ' a l t r a società, il virus occidentale è difficile da espungere. N o n è letale m a p e r m a n e nell'organismo; il paziente sopravvive, m a n o n guarisce mai. I leader politici possono fare la storia, m a n o n possono sfuggirvi. P r o d u c o n o paesi in bilico, n o n c r e a n o società occidentali. I n f e t t a n o il p r o p r i o paese con u n a schizofrenia culturale che finisce col diventarne l ' e l e m e n t o costante e caratterizzante.

CAPITOLO SETTIMO

Stati guida, cerchi concentrici e l ' o r d i n e delle civiltà

Le civiltà e l'ordine internazionale Nello scenario politico internazionale che va e m e r g e n d o , le d u e s u p e r p o t e n z e d e l l ' e p o c a della G u e r r a f r e d d a v e n g o n o s e m p r e più soppiantate, nel loro r u o l o di polo di attrazione e repulsione, dagli stati guida delle maggiori civiltà del pianeta. Il processo è più evidente nelle civiltà occidentale, ortodossa e sinica. Al loro i n t e r n o stanno e m e r g e n d o dei r a g g r u p p a m e n t i p e r civiltà che coinvolgono stad guida, stati m e m b r i , m i n o r a n ze di popolazioni culturalmente affini residenti in stati limitrofi n o n c h é , s e c o n d o modalità più controverse, popolazioni lim i t r o f e a p p a r t e n e n t i ad altre culture. A l l ' i n t e r n o di q u e s d blocchi di civiltà, gli stati t e n d o n o spesso a distribuirsi s e c o n d o cerchi concentrici i n t o r n o allo stato o agli stad guida, in base al g r a d o di idendficazione e di integrazione con essi. M a n c a n d o di u n o stato guida ufficialmente riconosciuto, il m o n d o islamico sta acquisendo u n a maggiore coscienza c o m u n e , c h e p e r ò fino a oggi n o n è a n d a t a oltre u n a r u d i m e n t a l e struttura polidea unificata. Gli stati t e n d o n o ad allinearsi a paesi di uguale cultura e a contrapporsi a quei paesi con cui, viceversa, n o n h a n n o alcun legame culturale. Questo succede soprattutto, ovviamente, nei c o n f r o n t i degli stati guida. Per motivi di sicurezza, gli stad guida possono tentare di inglobare o d o m i n a r e popoli di altre civiltà, i quali, a loro volta, t e n t a n o di resistere o di sottrarsi a tale controllo (Cina c o n t r o tibetani e uiguri; Russia c o n t r o tatari, ceceni e m u s u l m a n i centroasiatici). Rapporti di antica tradizione e considerazioni di equilibrio dei poteri possono d'altro canto i n d u r r e alcuni paesi a opporsi all'influenza dei p r o p r i stati guida. Georgia e Russia sono e n t r a m b i paesi ortodossi, epp u r e i georgiani si sono tradizionalmente o p p o s u sia al domi-

nio russo sia, successivamente, a u n a stretta associazione con Mosca. Vietnam e Cina sono e n t r a m b i paesi confuciani, divisi anch'essi da u n ' a n a l o g a tradizione di ostilità. Col passare del t e m p o , tuttavia, la c o m u n a n z a culturale e lo sviluppo di u n a maggiore coscienza della p r o p r i a civiltà p o t r e b b e r o contribuire ad avvicinare questi paesi, così c o m ' è avvenuto p e r gli stati d e l l ' E u r o p a occidentale. L ' o r d i n e instaurato all'epoca della G u e r r a f r e d d a f u il prod o t t o del d o m i n i o delle d u e s u p e r p o t e n z e sui rispettivi blocchi e dell'influenza da essi esercitata nel Terzo M o n d o . Nel m o n d o e m e r g e n t e , il concetto di potenza globale è ormai obsoleto, il villaggio globale u n sogno. Nessun paese, n e a n c h e gli Stati Uniti, vanta significativi interessi di sicurezza su scala globale. Gli elementi costitutivi d e l l ' o r d i n e internazionale, in u n mond o più complesso ed e t e r o g e n e o c o m e quello o d i e r n o , v a n n o individuati all'interno delle singole civiltà e nelle interazioni tra esse. Il m o n d o sarà o r d i n a t o p e r civiltà, o n o n lo sarà affatto. Al suo interno, gli stati guida delle diverse civiltà p r e n d o n o il posto delle superpotenze, si e r g o n o a tutori d e l l ' o r d i n e all ' i n t e r n o delle rispettive civiltà n o n c h é , m e d i a n t e negoziati con altri stati guida, nei r a p p o r t i tra esse. U n m o n d o in cui gli stati guida svolgono u n r u o l o basilare o d o m i n a n t e è, inoltre, u n m o n d o diviso in sfere di influenza, m a a n c h e u n m o n d o in cui l'influenza esercitata dallo stato guida è f r e n a t a e m o d e r a t a dalla c o m u n a n z a culturale c h e lo lega agli stati m e m b r i della propria civiltà. Tale c o m u n a n z a legittim a la leadership e il r u o l o di tutore dell'ordine dello stato guida agli occhi sia degli stati m e m b r i , sia delle p o t e n z e e istituzioni esterne. A p p a i o n o quindi del tutto inutili iniziative quali quella adottata nel 1994 dal segretario generale d e l l ' O n u Boutros Boutros-Ghali, il quale p r o m u l g ò u n a n o r m a di «prevenzione delle sfere di influenza» in base alla quale n o n più di u n terzo delle unità costituenti le forze di pace multinazionali delle Nazioni Unite o p e r a n t i in u n a d e t e r m i n a t a area dovessero provenire dalla potenza d o m i n a n t e della regione. Questa imposizione ignora il p u r o e semplice dato di fatto geopolitico che in qualsiasi regione nella quale vi sia u n o stato d o m i n a n t e , la pace p u ò essere raggiunta e m a n t e n u t a solo attraverso la leadership di quello stato. Le Nazioni Unite n o n sono u n ' a l t e r n a tiva al p o t e r e regionale, p o t e r e che diventa responsabile e le-

gittimo solo q u a n d o viene esercitato dagli stati guida nei confronti di altri m e m b r i della p r o p r i a civiltà. U n o stato guida p u ò svolgere la sua f u n z i o n e di tutore dell ' o r d i n e p e r c h é gli stati m e m b r i lo c o n s i d e r a n o c u l t u r a l m e n t e affine. U n a civiltà è c o m e u n a g r a n d e famiglia, e al pari dei m e m b r i più anziani di u n a famiglia gli stati guida garantiscono o r d i n e e disciplina. In assenza di u n siffatto legame di parentela, le possibilità per u n o stato più p o t e n t e di risolvere i conflitti e i m p o r r e l'ordine nella propria regione sono molto limitate. Pakistan, Bangladesh e p e r f i n o lo Sri Lanka n o n a c c e t t e r a n n o mai l'India c o m e tutrice d e l l ' o r d i n e in Asia meridionale, così c o m e nessun altro stato est-asiatico potrà mai accettare che il G i a p p o n e svolga questo r u o l o in Asia orientale. Q u a n d o u n a civiltà è priva di u n o stato guida, il p r o b l e m a di stabilire l ' o r d i n e al p r o p r i o i n t e r n o o di negoziarlo tra più civiltà si fa più arduo. L'assenza di u n o stato guida islamico che potesse legittimamente e autorevolmente f u n g e r e da p u n t o di r i f e r i m e n t o p e r i bosniaci, così c o m e la Russia lo è stata p e r i serbi e la G e r m a n i a p e r i croati, obbligò a questo r u o l o gli Stati Uniti. Ma il tentativo fallì p e r la m a n c a n z a di interessi strategici statunitensi nella d e t e r m i n a z i o n e dei nuovi confini nell'ex Jugoslavia, p e r l'assenza di u n qualsiasi legame culturale tra Stati Uniti e Bosnia, e p e r l'opposizione e u r o p e a alla creazione di u n o stato m u s u l m a n o in E u r o p a . L'assenza di stati guida sia in Africa che nel m o n d o arabo ha e n o r m e m e n t e complicato i tentativi di risolvere la g u e r r a civile sudanese. Laddove invece son o presenti, gli stati guida r a p p r e s e n t a n o gli elementi cardine del nuovo o r d i n e internazionale f o n d a t o sulle civiltà.

I nuovi confini dell'Occidente D u r a n t e la G u e r r a f r e d d a gli Stati Uniti e r a n o al c e n t r o di u n a m p i o e variegato g r u p p o di paesi a c c o m u n a t o dall'obiettivo di i m p e d i r e l'ulteriore espansione d e l l ' U n i o n e Sovietica. Q u e s t o g r u p p o , variamente d e n o m i n a t o «Mondo libero», «Occidente» o «Alleati», c o m p r e n d e v a molte ma n o n tutte le società occidentali, Turchia, Grecia, G i a p p o n e , Corea, Filippine, Israele n o n c h é , in f o r m a più blanda, altri paesi quali ad esempio Taiwan, Thailandia e Pakistan. Sul versante opposto c'era

u n g r u p p o di nazioni l e g g e r m e n t e m e n o e t e r o g e n e o c h e includeva tutti i paesi ortodossi a eccezione della Grecia, alcuni paesi storicamente occidentali, il Vietnam, Cuba, in misura min o r e l'India e a volte u n o o più paesi africani. Con la fine della G u e r r a f r e d d a , i g r u p p i interculturali si sono disgregati. La dissoluzione del sistema sovietico, e in particolare quella del Patto di Varsavia, è stata traumatica e r e p e n t i n a . Più l e n t a m e n t e , m a su binari simili, 1'«Occidente» multiculturale della G u e r r a fredda si sta r i c o n f i g u r a n d o in u n nuovo r a g g r u p p a m e n t o più o m e n o coincidente con la civiltà occidentale. A t t u a l m e n t e è in corso u n processo di delimitazione dei confini dell'Occidente e di definizione dei criteri di a p p a r t e n e n z a alle organizzazioni internazionali occidentali. S t r e t t a m e n t e connesso agli stati guida d e l l ' U n i o n e e u r o p e a , Francia e G e r m a n i a , c'è u n g r u p p o più c o m p a t t o f o r m a t o da Belgio, O l a n d a e Lussemburgo, i quali h a n n o accettato di elim i n a r e ogni b a r r i e r a al m o v i m e n t o di beni e p e r s o n e ; seguon o q u i n d i altri stati m e m b r i c o m e Italia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Inghilterra, I r l a n d a e Grecia; q u i n d i gli stati entrati n e l l ' U n i o n e nel 1995 (Austria, Finlandia, Svezia), e infine i paesi che nel 1995 e r a n o solo m e m b r i associati (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e R o m a n i a ) . Alla luce di questo stato di cose, n e l l ' a u t u n n o del 1994 il partito di g o v e r n o in G e r m a n i a e i massimi e s p o n e n t i di g o v e r n o francesi avanzarono la p r o p o s t a di creare u n ' U n i o n e differenziata. Il p i a n o tedesco p r o p o n e v a c h e il «nocciolo d u r o » dell ' U n i o n e fosse costituito dai m e m b r i originari m e n o l'Italia e c h e « G e r m a n i a e Francia costituissero il nocciolo del nocciolo duro». Questi paesi avrebbero r a p i d a m e n t e tentato di realizzare u n ' u n i o n e m o n e t a r i a e di integrare le rispettive politiche estere e di difesa. Quasi s i m u l t a n e a m e n t e , il p r i m o ministro f r a n c e s e E d o u a r d Balladur p r o p o s e di d a r vita a u n ' U n i o n e a tre velocità, con i c i n q u e stati filointegrazionisti in testa, gli altri stati m e m b r i a seguire e i nuovi stati associati in coda. Successivamente, il ministro degli Esteri francese Alain J u p p é elab o r ò u l t e r i o r m e n t e il c o n c e t t o p r o p o n e n d o u n «anello estern o di stati " p a r t n e r " c o m p r e n d e n t e l ' E u r o p a centrale e orientale; u n anello i n t e r m e d i o di stati m e m b r i cui sarebbe toccato accettare discipline c o m u n i in certi campi ( m e r c a t o u n i c o , u n i o n e d o g a n a l e eccetera), e diversi anelli interni di "coope-

razione rafforzata" c o m p r e n d e n t i q u a n t i fossero disposti e in g r a d o di p r o c e d e r e più s p e d i t a m e n t e di altri in settori quali ad e s e m p i o la difesa, l'integrazione m o n e t a r i a , la politica estera e così via».' Altri l e a d e r politici p r o p o s e r o tipi diversi di organizzazione; tutti, p e r ò , prevedevano u n g r u p p e t t o di stati più s t r e t t a m e n t e associati, e diversi g r u p p i di stati via via s e m p r e m e n o integrati con lo stato guida, fino a raggiungere il confin e periferico c h e separa gli stati m e m b r i dagli altri. La creazione di u n c o n f i n e e u r o p e o è stata u n a delle principali sfide che l ' O c c i d e n t e h a dovuto a f f r o n t a r e nel m o n d o post-Guerra f r e d d a . D u r a n t e la G u e r r a f r e d d a , l ' E u r o p a c o m e entità a se stante n o n esisteva. C o n il crollo del c o m u n i s m o , tuttavia, divenne giocoforza porsi e d a r e risposta al quesito: C h e cos'è l'Europa? I confini settentrionale, occidentale e meridionale d e l l ' E u r o p a sono delimitati dal mare, e a sud c o i n c i d o n o olt r e t u t t o con n e t t e d i f f e r e n z e culturali. Ma qual è il c o n f i n e orientale dell'Europa? Chi dev'essere considerato e u r o p e o e q u i n d i potenziale m e m b r o d e l l ' U n i o n e Europea, della Nato e di organizzazioni analoghe? Il c o n f i n e p i ù n a t u r a l e e g e n e r a l m e n t e r i c o n o s c i u t o è il g r a n d e spartiacque storico, c h e esiste d a secoli e divide i popoli d e l l ' o c c i d e n t e cristiano d a quelli m u s u l m a n i e ortodossi. Q u e s t a linea risale alla divisione d e l l ' I m p e r o r o m a n o nel iv secolo e alla creazione del Sacro R o m a n o I m p e r o nel x secolo, e d è rimasta grosso m o d o i m m u t a t a p e r a l m e n o cinquec e n t o anni. P a r t e n d o da n o r d , c o r r e l u n g o quello c h e oggi è il c o n f i n e tra Finlandia e Russia e tra stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e Russia, attraversa la Bielorussia occidentale e q u i n d i l ' U c r a i n a s e p a r a n d o l ' o c c i d e n t e u n i a t e dall'or i e n t e o r t o d o s s o , divide la R o m a n i a tra la Transilvania ung h e r e s e cattolica e il resto del paese, e p e r c o r r e l'ex Jugoslavia l u n g o il c o n f i n e c h e separa Slovenia e Croazia dalle altre r e p u b b l i c h e . Nei Balcani, n a t u r a l m e n t e , la linea coincide c o n la divisione storica tra gli i m p e r i austro-ungarico e o t t o m a n o . È q u e s t o il c o n f i n e culturale d e l l ' E u r o p a , n o n c h é , nel m o n d o p o s t - G u e r r a f r e d d a , quello politico e d e c o n o m i c o d e l l ' E u r o pa e d e l l ' O c c i d e n t e . 1 «Economist», 14 gennaio 1995, p. 45; 26 novembre 1994, p. 56, c h e compendia l'articolo di Juppé su «Le Monde», 18 novembre 1994; «New York Times», 4 settembre 1994, p. 11.

Cartina 7.11 confini orientali civiltà occidentale

della

Il m o d e l l o delle civiltà f o r n i s c e d u n q u e u n a risposta chiara e precisa alla d o m a n d a c h e gli e u r o p e i occidentali si p o n g o n o spesso: dove finisce l ' E u r o p a ? L ' E u r o p a finisce là dove finisce il cristianesimo occidentale e iniziano l'islamismo e l'ortodossia. Q u e s t a è la risposta c h e gli e u r o p e i occidentali vog l i o n o sentire, c h e nella s t r a g r a n d e m a g g i o r a n z a dei casi d a n n o «sotto voce» e c h e vari intellettuali e l e a d e r politici h a n n o esplicitamente a d o t t a t o . E necessario, c o m e s o s t e n n e Michael H o w a r d , r i c o n o s c e r e la distinzione, messa in o m b r a d u r a n t e gli a n n i sovietici, tra E u r o p a c e n t r a l e o Mitteleuropa, ed E u r o p a o r i e n t a l e vera e p r o p r i a . L ' E u r o p a c e n t r a l e comp r e n d e «quelle t e r r e u n t e m p o a p p a r t e n e n t i al cristianesimo o c c i d e n t a l e ; i vecchi t e r r i t o r i d e l l ' I m p e r o asburgico, l'Austria, l ' U n g h e r i a , la R e p u b b l i c a Ceca e la Slovacchia, insieme alla P o l o n i a e ai c o n f i n i orientali della G e r m a n i a . Il t e r m i n e " E u r o p a o r i e n t a l e " a n d r e b b e riservato a quelle regioni svil u p p a t e s i sotto l ' e g i d a della Chiesa ortodossa: le c o m u n i t à del Mar N e r o di Bulgaria e R o m a n i a affrancatesi dal d o m i n i o o t t o m a n o soltanto n e l xix secolo, e le parti " e u r o p e e " dell'Un i o n e Sovietica». P r i m o c o m p i t o d e l l ' E u r o p a occidentale, sostiene H o w a r d , è «riassorbire i p o p o l i d e l l ' E u r o p a c e n t r a l e nella n o s t r a c o m u n i t à c u l t u r a l e e d e c o n o m i c a , alla q u a l e essi a p p a r t e n g o n o : ricucire i r a p p o r t i tra L o n d r a , Parigi, R o m a , M o n a c o e Lipsia, Varsavia, Praga e Budapest». Sta n a s c e n d o u n a «nuova linea di d e m a r c a z i o n e » , c o m m e n t ò P i e r r e B e h a r d u e a n n i d o p o , « u n o s p a r t i a c q u e p r e t t a m e n t e culturale tra u n ' E u r o p a caratterizzata dal cristianesimo o c c i d e n t a l e (cattolico r o m a n o o p r o t e s t a n t e ) da u n lato ed u n ' E u r o p a contrassegnata dal cristianesimo o r i e n t a l e e dalle tradizioni islam i c h e dall'altro». S e c o n d o u n e m i n e n t e studioso f i n n i c o q u e s t a divisione d e l l ' E u r o p a , c h e è a n d a t a a sostituire la cortina di f e r r o , è «l'antica linea di d e m a r c a z i o n e culturale tra O r i e n t e e O c c i d e n t e » e p o n e «le t e r r e d e l l ' e x I m p e r o austrou n g a r i c o , n o n c h é la Polonia e gli stati baltici», e n t r o i confini d e l l ' E u r o p a occidentale, e gli altri paesi balcanici e d est-eur o p e i al di f u o r i di essa. Era questo, h a c o n f e r m a t o u n emin e n t e studioso inglese, «il g r a n d e spartiacque religioso ... tra Chiesa o r i e n t a l e e Chiesa o c c i d e n t a l e : in t e r m i n i g e n e r a l i , tra q u e i p o p o l i c h e ricevettero la f e d e cristiana d i r e t t a m e n t e da R o m a o attraverso i n t e r m e d i a r i celtici o tedeschi, e quelli

dell'Est e del Sud-Est ai quali giunse attraverso C o s t a n t i n o p o li (Bisanzio)». 2 Tale spartiacque è riconosciuto a n c h e dai popoli dell'Europa centrale. I paesi che h a n n o registrato significativi progressi n e l l ' o p e r a di dismissione dell'eredità comunista e di passaggio alla democrazia politica e all'economia di mercato e q u a n d invece n o n lo h a n n o fatto sono separati dalla «linea che divide cattolicesimo e protestantesimo da u n lato e ortodossia dall'altro». Secoli fa, h a c o n f e r m a t o il presidente della Lituania, i lituani dovettero scegliere tra «due civiltà» e « o p t a r o n o p e r il m o n d o latino, si convertirono al cattolicesimo r o m a n o e scelsero u n tipo di organizzazione statale f o n d a t o sul diritto». In termini simili, i polacchi a f f e r m a n o di far parte d e l l ' O c c i d e n t e sin dai tempi in cui scelsero, nel x secolo, di schierarsi a fianco del cristianesimo latino e c o n t r o Bisanzio. 1 I popoli dei paesi est-europei ortodossi, p e r contro, m o s t r a n o u n a certa ambiguità rispetto a questa linea di d e m a r c a z i o n e culturale. Bulgari e r u m e n i da u n lato v e d o n o b e n e i grandi vantaggi che comp o r t a far p a r t e d e l l ' O c c i d e n t e e delle sue istituzioni, m a dall'altro si identificano con la p r o p r i a tradizione ortodossa nonché, p e r q u a n t o riguarda i bulgari, con il legame tradizionalm e n t e intimo che li unisce alla Russia e a Bisanzio. L'identificazione d e l l ' E u r o p a con il cristianesimo occidentale o f f r e u n chiaro criterio p e r l'ammissione o m e n o dei nuovi m e m b r i nelle organizzazioni occidentali. L ' U n i o n e e u r o p e a è la principale e n d t à occidentale in E u r o p a e il suo a m p l i a m e n t o è ripreso nel 1994 con l'ingresso di Austria, Finlandia e Svezia, paesi di cultura occidentale. Nella primavera del 1994 l ' U n i o n e decise di escludere p e r il m o m e n t o dalla p r o p r i a organizzazion e tutte le ex r e p u b b l i c h e sovietiche a eccezione degli stati baltici. H a inoltre firmato «accordi di associazione» con i q u a t t r o 2 Michael Howard, «Lessons of the Cold War», in «Survival», n. 36 (Inverno 1994), pp. 102-3; Pierre Behar, «Central Europe: T h e New Lines of Fracture», in «Geopolitique», n. 39 (ed. ingl. Agosto 1992), p. 42; Max Jakobson, «Collective Security in Europe Today», in «Washington Quarterly», n. 18 (Primavera 1995), p. 69; Max Beloff, «Fault Lines and Steeples: T h e Divided Loyalties of Europe», in «National Interest», n. 23 (Primavera 1991), p. 78. 3 Andreas Oplatka, «Vienna and the Mirror of History», in «Geopolitique», n. 35 (trad. ingl., Autunno 1991), p. 25; Vytautas Landsbergis, «The Choice», in «Geopolitique», n. 35 (ed. ingl., A u t u n n o 1991), p 3; «New York Times», 23 aprile 1995, p. 5E.

stati c e n t r o e u r o p e i (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e con d u e paesi orientali (Romania e Bulgaria). Ness u n o di tali stati, tuttavia, diventerà p r o b a b i l m e n t e m e m b r o effettivo dell'Ue prima del xxi secolo, e gli stati c e n t r o e u r o p e i acquisiranno sicuramente tale status p r i m a di R o m a n i a e Bulgaria, ove mai questi ultimi dovessero u n g i o r n o riuscirci. Nel f r a t t e m p o le possibilità di accoglimento p e r i paesi baltici e la Slovenia a p p a i o n o p r o m e t t e n t i , m e n t r e le d o m a n d e di ammissione di Turchia ( m u s u l m a n a ) , Malta ( t r o p p o piccola) e Cipro (ortodossa) e r a n o a n c o r a in sospeso nel 1995. Nel d e c i d e r e l'ammissione all'Ue, la p r e f e r e n z a va ovviamente agli stati che f a n n o c u l t u r a l m e n t e parte d e l l ' O c c i d e n t e e che t e n d o n o inoltre a essere e c o n o m i c a m e n t e più sviluppati. Se tale criterio venisse applicato, gli stati del Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, U n g h e r i a ) , le r e p u b b l i c h e baltiche, Slovenia, Croazia e Malta diventerebbero prima o poi m e m b r i dell'Ue e in tal m o d o i confini d e l l ' U n i o n e v e r r e b b e r o a coincidere con quelli della civiltà occidentale così c o m e si è storicamente svil u p p a t a in Europa. La logica delle civiltà d e t t e r e b b e u n ' u g u a l e evoluzione in m e r i t o all'allargamento della Nato. La G u e r r a f r e d d a iniziò con l'espansione del controllo politico e militare sovietico sull ' E u r o p a centrale. Gli Stati Uniti e i paesi d e l l ' E u r o p a occidentale c r e a r o n o la Nato p e r scoraggiare ed e v e n t u a l m e n t e sventare ulteriori aggressioni sovietiche. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a , la N a t o è l'organismo di difesa della civiltà occidentale e il suo u n i c o scopo è evitare il r i t o r n o alle condizioni del passato, i m p e d e n d o che la Russia riacquisti il controllo politico e militare sull'Europa centrale. In q u a n t o organismo p r e p o s t o alla sicurezza dell'Occidente, la Nato è aperta a tutti i paesi occidentali che desiderino f a r n e p a r t e e che soddisfino i dovuti requisiti in termini di c o m p e t e n z a militare, democrazia politica e controllo civile delle forze a r m a t e . La politica americana nei c o n f r o n t i degli accordi post-Guerra f r e d d a sulla sicurezza e u r o p e a h a adottato in u n p r i m o mom e n t o u n a p p r o c c i o più universalistico i n c a r n a t o nel prog r a m m a «Partner for Peace» e g e n e r i c a m e n t e a p e r t o ai paesi e u r o p e i ed a n c h e eurasiatici. Q u e s t o tipo di approccio conferisce u n a certa i m p o r t a n z a al r u o l o dell'Osce (Organizzazione p e r la sicurezza e la cooperazione in E u r o p a ) , e trova u n a pre-

cisa espressione nelle dichiarazioni rilasciate dal p r e s i d e n t e a m e r i c a n o Clinton d u r a n t e il suo tour e u r o p e o del g e n n a i o 1994: «Oggi i confini della libertà devono essere definiti da u n nuovo m o d o d'agire, n o n d a u n a storia o r m a i superata. A tutd quanti vogliono tracciare u n a nuova linea di d e m a r c a z i o n e in Europa... io dico: n o n precludiamoci la possibilità di costruire il miglior f u t u r o possibile p e r l'Europa: democrazia ovunque, e c o n o m i a di mercato ovunque, paesi c h e collaborano alla sicurezza reciproca ovunque. D o b b i a m o rifiutare q u a l u n q u e obiettivo inferiore a questo». U n a n n o d o p o , tuttavia, l'amministrazione a m e r i c a n a dovette riconoscere l'importanza dei confini stabilid dalla «storia ormai superata» ed accettare u n «obiettivo inferiore» che riflettesse le realtà delle diverse civiltà. Il govern o a m e r i c a n o si è attivamente a d o p e r a t o a elaborare tempi e m o d i di u n a m p l i a m e n t o della Nato con l'ingresso nelle sue file d a p p r i m a di Polonia, U n g h e r i a , Repubblica Ceca e Slovacchia, quindi della Slovenia, e infine, p r o b a b i l m e n t e , delle rep u b b l i c h e baldche. La Russia si è opposta f e r m a m e n t e a qualsiasi a m p l i a m e n t o della Nato, s o s t e n e n d o p e r bocca dei suoi e s p o n e n t i di orient a m e n t o più liberale e filoccidentale che ciò avrebbe sensibilm e n t e rafforzato le formazioni politiche nazionaliste e antioccidentali del p r o p r i o paese. U n ' e s p a n s i o n e della N a t o limitata ai paesi storicamente p a r t e del cristianesimo occidentale, tuttavia, g a r a n t i r e b b e alla Russia l'esclusione di Serbia, Bulgaria, Romania, Moldova, Bielorussia e Ucraina (fino a q u a n d o l'Ucraina resta unita), e a c c e n t u e r e b b e inoltre il r u o l o della Russia quale stato guida di u n a distinta civiltà ortodossa, tutore dell ' o r d i n e lungo i confini dell'ortodossia e al loro i n t e r n o . L'utilità di suddividere i paesi p e r civiltà risalta in m o d o particolare nel caso delle r e p u b b l i c h e baldche. Queste sono le sole ex r e p u b b l i c h e sovietiche p a l e s e m e n t e occidentali p e r storia, cultura e religione, e il loro destino è s e m p r e stato motivo di p r o f o n d o interesse p e r l'Occidente. Gli Stati U n i d n o n hann o mai riconosciuto il loro a c c o r p a m e n t o all'Unione Sovietica, n e h a n n o incoraggiato i moti di i n d i p e n d e n z a all'epoca dell ' i m m i n e n t e crollo d e l l ' i m p e r o sovietico, e h a n n o insistito perc h é i russi rispettassero i tempi concordati p e r l'evacuazione delle p r o p r i e t r u p p e dal loro territorio. Il messaggio ai russi era chiaro: quale che fosse l'influenza che intendeva instaurare

nei c o n f r o n t i delle altre ex r e p u b b l i c h e sovietiche, Mosca poteva scordarsi di coinvolgervi gli stati baldci. Questo successo di Clinton r a p p r e s e n t ò , s e c o n d o le parole del p r i m o ministro svedese, «uno dei più i m p o r t a n d contributi alla sicurezza e alla stabilità dell'Europa», a i u t a n d o altresì i democratici russi in q u a n t o metteva in chiaro che qualsiasi mira revanchista dei nazionalisti russi sarebbe a n d a t a a infrangersi c o n t r o l'esplicito i m p e g n o occidentale a favore delle repubbliche.' Pur avendo prestato molta attenzione all'espansione dell'Un i o n e e u r o p e a e della Nato, la riconfigurazione culturale di queste organizzazioni solleva anche la questione di u n a loro possibile contrazione. U n paese n o n occidentale, la Grecia, fa parte di entrambi gli organismi; u n altro, la Turchia, è m e m b r o della Nato e h a fatto d o m a n d a di ammissione all'Unione europea. Questi rapporti sono u n prodotto diretto della G u e r r a fredda. C'è ancora posto p e r essi nel m o n d o post-Guerra fredda? L'ingresso della Turchia n e l l ' U n i o n e e u r o p e a a p p a r e problematico e improbabile, m e n t r e la sua adesione alla Nato è stata contestata dal Partito del Benessere. E tuttavia probabile che la Turchia c o n t i n u e r à a far p a r t e della Nato, a m e n o che il Partito del Benessere n o n conquisti u n a schiacciante vittoria elettorale o il paese n o n rifiuti s p o n t a n e a m e n t e l'eredità di Ataturk e si ridefinisca c o m e paese leader del m o n d o islamico. Questa soluzione è possibile e finanche desiderabile p e r la Turchia, m a a n c h e n o n m e n o improbabile p e r l'immediato f u t u r o . A prescindere dal p r o p r i o r u o l o all'interno della Nato, è probabile che la Turchia persegua s e m p r e più i n t e n s a m e n t e i propri interessi particolari nei Balcani, nel m o n d o arabo e in Asia centrale. La Grecia n o n a p p a r t i e n e alla civiltà occidentale, m a è stata la patria della civiltà classica, c h e dell'occidentale è stata un'imp o r t a n t e antenata. Nella loro storica opposizione ai turchi, i greci si sono sempre considerati gli alfieri del cristianesimo. Diversamente da serbi, r u m e n i o bulgari, la loro storia è stata int i m a m e n t e legata a quella dell'Occidente. Al t e m p o stesso, tuttavia, la Grecia r a p p r e s e n t a u n ' a n o m a l i a , l'outsider ortodosso delle organizzazioni occidentali. La sua partecipazione all'Ue e 4 Cari Bildt, «The Baltic Litmus Test», in «Foreign Affairs», n. 73 (SettembreOttobre 1994), p. 84.

alla Nato è sempre stata caratterizzata da u n a certa difficoltà ad adattarsi ai principi e ai criteri operativi di e n t r a m b i gli organismi. Da m e t à anni Sessanta a metà anni Settanta la Grecia f u governata da u n a giunta militare e n o n potè e n t r a r e a far parte della C o m u n i t à e u r o p e a fino a q u a n d o n o n passò alla democrazia. I suoi leader d a n n o spesso l'impressione di mettercela tutta p e r distaccarsi dalle n o r m e di c o n d o t t a occidentali e c o n t r a p p o r s i ai governi d e l l ' O c c i d e n t e . Il più povero tra i m e m b r i d e l l ' U e e della N a t o h a spesso perseguito politiche e c o n o m i c h e c h e s e m b r a v a n o voler irridere le direttive di Bruxelles. Il c o m p o r t a m e n t o t e n u t o d u r a n t e il p r o p r i o t u r n o di presidenza del Consiglio e u r o p e o nel 1994 p o r t ò gli altri stati m e m b r i all'esasperazione, e in privato certi funzionari europei occidentali definiscono esplicitamente un e r r o r e la sua ammissione all'organizzazione. Nell'epoca post-Guerra f r e d d a , gli o r i e n t a m e n t i politici della Grecia sono andati sempre più differenziandosi da quelli dell'Occidente. L ' e m b a r g o da essa attuato ai d a n n i della Macedonia f u f e r m a m e n t e c o n d a n n a t o dai governi occidentali e sfociò in u n a richiesta di ingiunzione ai suoi d a n n i presso la Corte di Giustizia e u r o p e a da p a r t e della Commissione e u r o p e a . Rig u a r d o ai conflitti esplosi nell'ex Jugoslavia, la Grecia prese le distanze dalle scelte politiche delle principali p o t e n z e occidentali e sostenne attivamente i serbi in flagrante violazione delle sanzioni adottate d a l l ' O n u c o n t r o questi ultimi. C o n il crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica e la fine della minaccia comunista, la Grecia h a sviluppato u n a c o m u n a n z a di interessi con la Russia c o n t r o il n e m i c o c o m u n e , la Turchia. H a permesso u n a nutrita presenza di russi nella Cipro di p a r t e greca, e in virtù della «loro c o m u n e religione ortodossa orientale» i ciprioti greci h a n n o accolto a braccia aperte sull'isola sia i russi sia i serbi. ' Nel 1995, a Cipro o p e r a v a n o circa d u e m i l a imprese russe e venivano stampati giornali russi e serbo-croati, m e n t r e il governo grecocipriota acquistava dai russi grandi quantitativi di armi. La Grecia ha a n c h e studiato insieme alla Russia la possibilità di far giungere il petrolio dal Caucaso e dall'Asia centrale fino al Med i t e r r a n e o attraverso u n o l e o d o t t o bulgaro-greco c h e aggiri la Turchia e altri paesi musulmani. Nel complesso, gli indirizzi di 5 «New York Times», 15 giugno 1995, p. AIO.

politica estera di Atene h a n n o assunto u n o r i e n t a m e n t o marc a t a m e n t e ortodosso. F o r m a l m e n t e la Grecia resterà senza d u b b i o u n m e m b r o della Nato e d e l l ' U n i o n e e u r o p e a . Via via che il processo di reidentificazione culturale acquisirà forza, tuttavia, la sua partecipazione a tali organismi diverrà sicuram e n t e più inconsistente e marginale, n o n c h é sempre più problematica per le parti interessate. Il rivale dell'Urss negli a n n i della G u e r r a f r e d d a va trasformandosi, nell'epoca post-Guerra f r e d d a , in u n alleato della Russia.

La Russia e i paesi dell'ex impero Il sistema succeduto agli imperi zarista prima e comunista poi è u n blocco culturale paragonabile p e r molti aspetti a quello dell'Occidente in Europa. Al suo centro la Russia, l'equivalente di Francia e Germania, è i n t i m a m e n t e legata a u n g r u p p o di paesi c o m p o s t o dalle d u e repubbliche a prevalenza slavo-ortodossa della Bielorussia e della Moldova, dal Kazakistan, la cui popolazione è costituita p e r il 40 p e r cento da russi, e dall'Armenia, da s e m p r e stretta alleata della Russia. A m e t à degli anni Novanta, tutti questi paesi e r a n o guidati da governi filorussi giunti al p o t e r e generalmente attraverso elezioni. Rapporti buoni m a più tenui legano la Russia a Georgia e Ucraina, paesi a grandissima (Georgia) o g r a n d e (Ucraina) maggioranza ortodossa, m a con u n senso molto spiccato della propria identità nazionale e passata indipendenza. Nei Balcani di fede ortodossa la Russia coltiva stretti rapporti con Bulgaria, Grecia, Serbia e Cipro, più tenui invece con la Romania. Le repubbliche musulm a n e dell'ex U n i o n e Sovietica restano f o r t e m e n t e d i p e n d e n t i dalla Russia sia in c a m p o e c o n o m i c o sia in quello della difesa. Le r e p u b b l i c h e baltiche, viceversa, attratte nell'orbita e u r o p e a , si sono definitivamente staccate dalla sfera di influenza russa. Nel complesso, la Russia sta c r e a n d o u n blocco costituito da u n n u c l e o centrale ortodosso sotto la p r o p r i a leadership e da u n circostante cuscinetto di stati islamici relativamente deboli che essa controllerà in varia misura e che tenterà di isolare dall'influenza di altre potenze. Mosca si aspetta inoltre che il mond o riconosca e accetti questo sistema. I governi stranieri e le organizzazioni internazionali, h a a f f e r m a t o Eltsin nel f e b b r a i o

del 1993, devono «assicurare alla Russia poteri speciali in quanto g a r a n t e della pace e della stabilità nelle ex regioni dell'Urss». Se l ' U n i o n e Sovietica era u n a s u p e r p o t e n z a con interessi globali, la Russia è u n a g r a n d e potenza con interessi regionali inerenti alla p r o p r i a civiltà di a p p a r t e n e n z a . Le repubbliche ortodosse dell'ex U n i o n e Sovietica sono di i m p o r t a n z a f o n d a m e n t a l e p e r lo sviluppo di u n blocco russo coeso nell'arena eurasiatica e mondiale. D u r a n t e il crollo dell'Urss, tutti e cinque questi paesi i m b o c c a r o n o inizialmente u n corso di stampo f o r t e m e n t e nazionalista, a sottolineare la ritrovata i n d i p e n d e n z a e la presa di distanza da Mosca. Successivam e n t e il d u r o c o n f r o n t o con la realtà economica, geopolitica e culturale indusse gli elettori di q u a t t r o paesi su cinque a scegliere governi e indirizzi politici fdorussi e a cercare il sostegno e la p r o t e z i o n e di Mosca. Nel quinto, la Georgia, u n analogo m u t a m e n t o d'indirizzo politico f u imposto al governo locale tramite l'intervento militare russo. L'Armenia ha tradizionalmente identificato i p r o p r i interessi con la Russia, la quale si è erta a sua protettrice contro i paesi musulmani limitrofi. Il loro rapporto si è ancor più rafforzato negli anni post-sovietici. L'Armenia è e c o n o m i c a m e n t e e militarm e n t e d i p e n d e n t e dal sostegno russo e ha appoggiato i russi in tutte le questioni relative ai rapporti tra le ex repubbliche sovietiche. I d u e paesi h a n n o interessi strategici convergenti. A differenza dell'Armenia, la Bielorussia n o n h a u n f o r t e senso di identità nazionale. Inoltre d i p e n d e a n c o r più dell'Arm e n i a dal sostegno russo. Molti dei suoi abitanti si identificano tanto con la Russia q u a n t o con il p r o p r i o paese. Nel g e n n a i o del 1994 l'assemblea legislativa sostituì l ' e s p o n e n t e nazionalista e di c e n t r o che era capo dello stato con u n conservatore e filorusso. Nel luglio del 1994, l'80 p e r c e n t o degli elettori scelse c o m e p r e s i d e n t e u n estremista filorusso alleato di Vladimir Zirinovskij. La Bielorussia è stata tra i primi firmatari della costituenda C o m u n i t à di Stati I n d i p e n d e n t i , è stata u n ' a r t e f i c e d e l l ' u n i o n e e c o n o m i c a costituita nel 1993 con Russia e Ucraina, h a accettato l ' u n i o n e m o n e t a r i a con la Russia, h a conseg n a t o alla Russia il p r o p r i o arsenale militare e h a accettato lo stazionamento di t r u p p e russe sul p r o p r i o territorio fino alla fine di questo secolo. In pratica, la Bielorussia è p a r t e integrante della Russia in tutto e p e r tutto, a eccezione del n o m e .

Q u a n d o , in seguito alla dissoluzione dell'Urss, la Moldova acquisì l ' i n d i p e n d e n z a , molti a u s p i c a r o n o u n suo ricongiungim e n t o con la Romania. La p a u r a di u n tale epilogo g e n e r ò a sua volta n e l l ' o r i e n t e russificato u n m o v i m e n t o secessionista sostenuto tacitamente da Mosca e attivamente dalla 14- Armata russa, c h e p o r t ò alla creazione della Repubblica del TransDniestr. In seguito, l'entusiasmo dei moldavi all'idea dell'unificazione con la Romania si affievolì a causa dei p r o b l e m i economici che affliggevano e n t r a m b i i paesi e della pressione econ o m i c a esercitata dei russi. La Moldova e n t r ò a far p a r t e della Csi e gli scambi commerciali con la Russia a u m e n t a r o n o . Alle elezioni parlamentari del f e b b r a i o 1994 i partiti filorussi ottenn e r o u n a schiacciante vittoria. In questi tre stati, l ' o p i n i o n e pubblica, r i s p o n d e n d o a varie combinazioni di interessi strategici ed economici, ha p r o d o t t o governi favorevoli ad un rigido allineamento con la Russia. U n corso alquanto simile ha seguito l'Ucraina. Diversa, invece, è stata la strada imboccata dalla Georgia, u n paese i n d i p e n d e n t e fino al 1801, q u a n d o il suo sovrano, re Giorgio xin, chiese protezione ai russi c o n t r o i turchi. Per i tre anni successivi alla Rivoluzione russa, dal 1918 al 1921, la Georgia t o r n ò a essere u n paese i n d i p e n d e n t e , finché i bolscevichi n o n l ' a c c o r p a r o n o c o a t t a m e n t e n e l l ' U n i o n e Sovietica. Con la fine d e l l ' i m p e r o sovietico, la Georgia t o r n ò a dichiararsi i n d i p e n d e n t e . Le elezioni f u r o n o vinte da u n a coalizione nazionalista, il cui leader imboccò tuttavia un'autodistruttiva politica di repressione c h e p o r t ò al rovesciamento violento del suo governo. E d u a r d A. Sevarnadze, già ex ministro degli Esteri d e l l ' U n i o n e Sovietica, t o r n ò alla guida del paese e f u poi c o n f e r m a t o al p o t e r e in seguito alle elezioni presidenziali del 1992 e del 1995. Egli tuttavia dovette far f r o n t e a u n m o v i m e n t o separatista in Abkazia, f o r t e m e n t e sostenuto dai russi, n o n c h é a u n tentativo insurrezionale guidato dall'ex presidente rovesciato, Gamsachurdia. E m u l a n d o re Giorgio, Sevarnadze giunse alla conclusione che «non [c'era] molto da scegliere» e chiese aiuto a Mosca. In c a m b i o d e l l ' i n t e r v e n t o delle t r u p p e russe in suo favore, la Georgia dovette aderire alla Csi. Nel 1994 i georgiani accettar o n o la presenza sul p r o p r i o territorio p e r un t e m p o indefinito di tre basi militari russe. L'intervento militare russo, volto dapp r i m a a indebolire il governo g e o r g i a n o e poi a sostenerlo, ha così p o r t a t o la filo-indipendentista Georgia nel c a m p o russo.

Russia a parte, la più g r a n d e e i m p o r t a n t e ex repubblica sovietica è l'Ucraina. Più volte nel corso della sua storia l'Ucraina è stata u n paese i n d i p e n d e n t e . Per b u o n a p a r t e dell'era mod e r n a , tuttavia, è stata p a r t e di u n a entità politica governata da Mosca. L'evento decisivo occorse nel 1654 allorché Bogdan Chmelnickij, leader cosacco di u n ' i n s u r r e z i o n e c o n t r o il d o m i n i o polacco, giurò fedeltà allo zar in cambio del suo aiuto c o n t r o i polacchi. Da allora e fino al 1991, eccezion fatta p e r u n breve intervallo tra il 1917 e il 1920 in cui f u u n a repubblica indip e n d e n t e , l ' o d i e r n a l'Ucraina è stata controllata politicamente da Mosca. L'Ucraina, tuttavia, è un paese diviso, patria di d u e distinte culture. La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa infatti il cuore del paese, e così è stato p e r secoli. In passato, l'Ucraina ha fatto parte ora della Polonia, ora della Lituania, ora d e l l ' I m p e r o austro-ungarico. U n ' a m p i a p a r t e della sua popolazione aderisce alla Chiesa uniate, che segue il rito ortodosso m a riconosce l'autorità del Papa. Storicam e n t e , gli ucraini occidentali h a n n o sempre parlato u c r a i n o e h a n n o s e m p r e esibito u n atteggiamento f o r t e m e n t e nazionalista. La popolazione dell'Ucraina orientale, viceversa, è s e m p r e stata in forte prevalenza di religione ortodossa e parla russo. All'inizio degli anni Novanta, i russi a m m o n t a v a n o al 22 p e r cento e i m a d r e l i n g u a russi al 31 p e r cento dell'intera popolazione. Nella maggioranza delle scuole primarie e secondarie le lezioni e r a n o t e n u t e in russo/' La Crimea è popolata in maggioranza da russi e ha fatto p a r t e della Federazione russa fino al 1954, q u a n d o Chruscèv la c o n s e g n ò all'Ucraina a p p a r e n t e m e n t e quale atto di riconoscimento p e r la decisione presa da Chmelnickij oltre trecento anni prima. Le differenze tra Ucraina orientale e occidentale si manifestano negli atteggiamenti delle rispettive popolazioni. Alla fine del 1992, p e r esempio, u n terzo dei russi residenti in Ucraina occidentale, rispetto a solo il 10 p e r cento di quelli abitanti a Kiev, m a n i f e s t a r o n o sentimenti antirussi.' La spaccatura tra est e ovest apparve evidente in tutta la sua drammaticità in occasione delle elezioni p a r l a m e n t a r i del luglio 1994. Il presidente 6 «RFL/RL Research Bulletin», n. 10 (16 marzo 1993), pp. 1,6. 7 William D. Jackson, «Imperiai Temptations: Ethnics Abroad», in «Orbis», n. 38 (Inverno 1994), p. 5.

in carica, Leonid Kravciuk, che p u r avendo lavorato in stretta collaborazione con i leader russi si definiva u n nazionalista, stravinse nelle tredici province dell'Ucraina occidentale c o n maggioranze a n c h e superiori al 90 percento. Il suo rivale, Leonid Kucma, che nel corso della c a m p a g n a elettorale aveva preso lezioni di ucraino, trionfò nelle tredici province orientali con maggioranze analoghe. Kucma vinse le elezioni c o n il 52 p e r c e n t o dei voti. In tal m o d o , p e r u n ' e s i g u a maggioranza la popolazione ucraina c o n f e r m ò nel 1994 la scelta fatta da Chmelnickij nel 1654. Le elezioni, disse u n osservatore americano, « h a n n o rispecchiato e a n c o r più cristallizzato la spaccatura esistente tra gli slavi europeizzati dell'Ucraina occidentale e la visione slavo-russa dello stato ucraino. N o n si tratta tanto di polarizzazione etnica, q u a n t o piuttosto di culture diverse»." In c o n s e g u e n z a di tale divisione, i r a p p o r t i tra Russia e Ucraina p o t r e b b e r o svilupparsi in tre direzioni. Nei primi anni Novanta tra i d u e paesi esistevano i m p o r t a n t i contenziosi rela-

Chernihiv 72,3(25,1)

Zbytomir « 1 , 6 (55.6) iegione di Kh 38,4 (58.3)

Poltava 59,2 (37.4)

Kharkiv 71,0 (26,0)

Temopil [39,3 (5; ! . 8 (94.8*

Luhansk

88,0(10.1).

Vinnytsia 4 2 , 3 (54,3)

Dnipropetrovsk 67,8 (29,7)

Kirovohrad 4 9 , 7 (45,7)

«25,s2i(70, - s5) 35,4101.0; D O M A M I A . R O M A N I

v

,

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Regioni che /

hanno votato per: I

I

I

1 Leonid Kravciuk

Gallina

Zaporizhzhia 7 0 , 7 (26,8)

Kherson 64,6 (32,0) Mar

Leonid Kuàma

Le cifre indicano la % dei voti* per K u é m a e (Kravciuk) * Il t o t a l e i n c l u d e i v o t i nulli.

7.2 Ucraina:

un paese

Mar

Donetsk 79,0(18.5)

Nero

Crimea 69,7 (8,8)

Sebastopoli 91,9 (6,5)
U n a d r a m m a t i c a intensificazione delle identità culturali si è manifestata in Bosnia, e in particolare nella sua c o m u n i t à musulmana. Storicamente le identità di g r u p p o n o n e r a n o mai state forti in Bosnia: serbi, croati e m u s u l m a n i vivevano pacific a m e n t e gli u n i accanto agli altri. I m a t r i m o n i misti e r a n o pratica c o m u n e , le idendficazioni religiose molto tenui. I musulmani, si era soliti dire, e r a n o bosniaci che n o n f r e q u e n t a v a n o la moschea, i croati e r a n o bosniaci che n o n f r e q u e n t a v a n o la basilica e i serbi e r a n o bosniaci che n o n f r e q u e n t a v a n o la chiesa ortodossa. U n a volta frantumatasi la più ampia identità jugoslava, tuttavia, le identità religiose t o r n a r o n o ad assumere g r a n d e importanza, e gli scontri, u n a volta iniziati, si diffusero e intensificarono r a p i d a m e n t e . La commistione etnica si dissolse, e ciascun g r u p p o si identificò sempre più con la p r o p r i a specifica c o m u n i t à culturale definita in termini religiosi. I serbi bosniaci d i v e n n e r o accesi nazionalisti e si identificarono con la G r a n d e Serbia, con la Chiesa ortodossa serba e con la più generale c o m u n i t à ortodossa. I croati bosniaci d i v e n n e r o i più ferventi fautori del nazionalismo croato, si c o n s i d e r a r o n o cittadini della Croazia, rinsaldarono il loro cattolicesimo n o n c h é , insieme ai croati di Croazia, i loro legami con l ' O c c i d e n t e cattolico. Ancor più intenso f u il risveglio di coscienza tra i musulmani. Prima che scoppiasse la guerra, i m u s u l m a n i bosniaci esibivano u n atteggiamento f o r t e m e n t e laico, si consideravano europei ed e r a n o i più accesi sostenitori di u n a società e di u n o stato bosniaco multiculturale. Q u e s t o a t t e g g i a m e n t o tuttavia 6 Raju G. C. Thomas, «Secessional Movement* in South Asia», in «Survival», n. 36 (Estate 1994), pp. 99-101, 109; Stefan Wagstyl, «Kashiniri Condici Destroys a "Paradise"», in «Financial Times», 23-24 ottobre 1993, p. 3.

m u t ò n o n a p p e n a la Jugoslavia si dissolse. Al pari di serbi e croati, alle elezioni del 1990 i m u s u l m a n i voltarono le spalle ai partiti multiculturali, v o t a n d o in massa p e r il Partito musulman o di azione democratica (Sda) guidato da Izetbegovic, u n fervente religioso imprigionato dal g o v e r n o comunista p e r il suo attivismo islamista, e che in u n libro pubblicato nel 1970 dal titolo La dichiarazione islamica sostenne 1'«incompatibilità dell'Islam con i sistemi n o n islamici. N o n p u ò esserci pace né coesistenza tra la religione islamica e le istituzioni sociali e politiche n o n islamiche». U n a volta acquistata forza sufficiente, il movim e n t o islamico dovrà conquistare il p o t e r e e creare u n a repubblica islamica. In questo n u o v o stato, sarà particolarmente i m p o r t a n t e c h e istruzione e mezzi di c o m u n i c a z i o n e «siano nelle m a n i di p e r s o n e la cui morale islamica e la cui autorità intellettuale siano indiscutibili». 7 Q u a n d o la Bosnia è diventata i n d i p e n d e n t e , Izetbegovic ha p e r o r a t o la creazione di u n o stato multietnico nel quale i musulmani s a r e b b e r o stati il g r u p p o d o m i n a n t e s e b b e n e n o n maggioritario. Tuttavia n o n era certo in g r a d o di opporsi all'islamizzazione del suo paese p r o d o t t a dalla guerra. La sua riluttanza a r i p u d i a r e p u b b l i c a m e n t e ed esplicitamente La dichiarazione islamica suscitò forte a p p r e n s i o n e nei n o n musulmani. Col proseguire della g u e r r a , serbi e croati bosniaci c o m i n c i a r o n o a emigrare dalle aree controllate dal governo bosniaco, e chi rimase si vide g r a d u a l m e n t e escluso dai posti più ambiti e dalla p a r t e c i p a z i o n e alle istituzioni sociali. «L'islamismo acquistò maggiore i m p o r t a n z a all'interno della c o m u n i t à nazionale musulmana, e ... u n a forte identità nazionale m u s u l m a n a divenne p a r t e i n t e g r a n t e della vita politica e religiosa». Il nazionalismo m u s u l m a n o , in contrapposizione al nazionalismo multietnico bosniaco, h a trovato sempre più spazio nei mezzi di comunicazione. L ' i n s e g n a m e n t o religioso si è espanso nelle scuole e nuovi libri di testo sottolineano i benefici effetti del d o m i n i o o t t o m a n o . La lingua bosniaca viene promossa c o m e distinta da quella serbo-croata e s e m p r e più arricchita di parole t u r c h e e arabe. I f u n z i o n a r i governativi si scagliano sempre più c o n t r o i m a t r i m o n i misti e c o n t r o la diffusione della musica «degli aggressori», vale a dire serba. Il g o v e r n o ha incoraggiato la reli7 Alija Izetbegovic, The Islamic Declaration, 1991, pp. 23, 33.

g i o n e islamica e privilegiato i m u s u l m a n i nelle assunzioni e promozioni. Fatto a n c o r più significativo, l'esercito bosniaco è stato islamizzato: nel 1995 il 90 p e r cento del suo personale era costituito da musulmani. S e m p r e più alto è il n u m e r o di soldati che si professano islamisti e c h e a d o t t a n o consuetudini e simboli islamici. Le unità speciali sono state ampliate di n u m e r o e totalmente islamizzate. Questa t e n d e n z a ha sollevato le proteste - c o m p l e t a m e n t e ignorate - di c i n q u e m e m b r i (di cui d u e croati e d u e serbi) del governo bosniaco di Izetbegovic, e nel 1995 h a p o r t a t o alle dimissioni del p r i m o ministro Haris Silajdzic, di o r i e n t a m e n t o multietnico. 8 Dal p u n t o di vista politico, il partito m u s u l m a n o di Izetbegovic, lo Sda, ha esteso il p r o p r i o controllo sullo stato e la società bosniaca. Nel 1995 dominava «l'esercito, l'amministrazione statale e le imprese pubbliche». «I m u s u l m a n i n o n iscritti al partito», f u riferito, «per n o n parlare dei n o n musulmani, f a n n o fatica a trovare u n lavoro decente». Il pardto, accusarono i suoi critici, è «diventato u n o s t r u m e n t o di autoritarismo islamico caratterizzato dai m e t o d i di u n governo comunista». 9 Nel complesso, ha c o m m e n t a t o u n altro osservatore, Il nazionalismo musulmano sta diventando sempre più estremistico. Non tiene più in alcun conto altre sensibilità nazionali; è proprietà, prerogativa e strumento politico della nazione musulmana oggi predominante. ... Principale conseguenza del nuovo nazionalismo musulmano è una tendenza all'omogeneizzazione nazionale. ... Il fondamentalismo religioso islamico sta inoltre diventando il criterio predominante di determinazione degli interessi nazionali musulmani.10 L'intensificazione dell'identità religiosa p r o d o t t a dalla guerra e dalle operazioni di pulizia etnica, le inclinazioni dei suoi leader, il sostegno e le pressioni di altri stati m u s u l m a n i h a n n o l e n t a m e n t e m a i n e l u t t a b i l m e n t e trasformato la Bosnia dalla Svizzera dei Balcani nell'Iran dei Balcani. 8 «New York Times», 4 febbraio 1995, p. 4; 15 giugno 1995, p. A12; 16 giugno 1995, p. A12. 9 «Economist», 20 gennaio 1996, p. 21; «New York Times», 4 febbraio 1995, p. 4. 10 Stojan Obradovic, «Tuzla: T h e Last Oasis», in «Uncaptive Minds», n. 7 (Autunno-Inverno 1994), pp. 12-13.

Nelle g u e r r e di faglia, ciascuna delle d u e pard in causa ha interesse a rimarcare n o n soltanto la p r o p r i a identità culturale, m a a n c h e quella dell'antagonista. I d u e c o n t e n d e n d si consid e r a n o in g u e r r a n o n solo c o n t r o u n altro g r u p p o etnico, ma c o n t r o u n ' a l t r a civiltà. Così la minaccia viene dilatata e accresciuta in virtù delle risorse messe a disposizione da u n a g r a n d e civiltà, e la sconfitta c o m p o r t a conseguenze n o n solo p e r la parte d i r e t t a m e n t e in causa, ma p e r l'intera civiltà cui essa appartiene. Da qui l'imperativo, p e r u n a civiltà, di schierarsi al suo fianco nel conflitto in atto. La g u e r r a locale si ridefinisce quindi c o m e g u e r r a di religione: u n o scontro di civiltà carico d u n q u e di conseguenze p e r u n a p a r t e consistente dell'umanità. Nei primi anni Novanta, q u a n d o la religione e la chiesa ortodossa t o r n a r o n o a essere elementi centrali dell'identità nazionale russa, «schiacciando altre confessioni russe, di cui l'Islam è la più i m p o r t a n t e » , " i russi e b b e r o interesse a definire il conflitto tra clan e regioni in corso in Tagikistan e la loro g u e r r a c o n t r o la Cecenia c o m e parti di u n più g e n e r a l e e secolare scontro tra Ortodossia e Islam, con i p r o p r i oppositori locali nella veste di nuovi adepti del f o n d a m e n t a l i s m o islamico e della jihad, emissari di Islamabad, T e h e r a n , Riyadh e Ankara. Nell'ex Jugoslavia, i croati si c o n s i d e r a r o n o i prodi guardiani delle f r o n t i e r e dell'Occidente c o n t r o gli assalti dell'Ortodossia e dell'Islam. I serbi d e f i n i r o n o i p r o p r i nemici n o n semplicem e n t e c o m e croati bosniaci e musulmani, bensì c o m e «il Vaticano», «fondamentalisti islamici» e «turchi infedeli» c h e da secoli minacciavano il cristianesimo. «Karadzic», a f f e r m ò u n diplomatico occidentale a proposito del leader serbo-bosniaco, «vede questo conflitto c o m e la g u e r r a antimperialista dell'Europa. Sostiene di avere la missione di cancellare le ultime tracce d e l l ' i m p e r o turco o t t o m a n o in Europa». 1 2 I m u s u l m a n i bosniaci, dal canto loro, si c o n s i d e r a r o n o vittime di u n genocidio, ignorati d a l l ' O c c i d e n t e a causa della loro religione e perciò meritevoli di s u p p o r t o da p a r t e del m o n d o m u s u l m a n o . Tutte le parti in causa, e la gran p a r t e degli osservatori esterni, fini11 Fiona Hill, Russia 's Tinderbox: Conflicl in the North Caucasus and Its Implicalions for the Future of the Russian Federatimi, Harvard University, John F. Kennedy School of Government, Strengthening Democratic Institution Project, Settembre 1995, p. 104. 12 «New York Times», 6 dicembre 1994, p. A3.

r o n o in tal m o d o con l ' i n t e r p r e t a r e il conflitto in atto c o m e u n a g u e r r a religiosa o etnico-religiosa. Il conflitto, sostenne Misha Glenny, «ha assunto s e m p r e più le caratteristiche di u n a lotta religiosa, caratterizzata da tre grandi fedi e u r o p e e - cattolicesimo r o m a n o , ortodossia orientale e islamismo - , i detriti confessionali degli imperi le cui f r o n t i e r e collidevano in Bosnia»." L'interpretazione delle g u e r r e di faglia c o m e scontri di civiltà h a dato altresì nuova linfa alla «teoria del d o m i n o » in auge all'epoca della G u e r r a f r e d d a . Ora, però, i paesi guida delle rispettive civiltà h a n n o cercato essi stessi di scongiurare il pericolo di u n a sconfitta in u n conflitto locale c h e avrebbe rischiato di innescare u n a sequenza di altre sconfitte e c o n d u r r e infin e al disastro. La f e r m a posizione assunta dal governo i n d i a n o sul Kashmir è motivata in gran p a r t e dalla p a u r a che la perdita di quel territorio avrebbe incoraggiato la lotta p e r l'indipendenza di altre m i n o r a n z e etniche e religiose e p o r t a t o alla disgregazione dell'India. Se la Russia n o n avesse posto fine alla violenza politica in Tagikistan, a m m o n ì il ministro degli Esteri Kozyrev, questa sarebbe p r o b a b i l m e n t e dilagata in Kirghizistan e in Uzbekistan. Ciò, f u sostenuto, avrebbe p o t u t o p r o m u o v e r e la f o r m a z i o n e di movimenti secessionisd nelle repubbliche mus u l m a n e della Federazione russa. Q u a l c u n o si spinse ad afferm a r e c h e questo avrebbe p o t u t o significare a d d i r i t t u r a l'ingresso del f o n d a m e n t a l i s m o islamico sulla Piazza Rossa. Ecco p e r c h é il c o n f i n e tra Afghanistan e Tagikistan è, c o m e disse Eltsin «in sostanza u n c o n f i n e russo». Gli europei, dal canto loro, espressero il timore che la creazione di u n o stato musulman o nell'ex Jugoslavia potesse fare da canale di diffusione dell'immigrazione m u s u l m a n a e del f o n d a m e n t a l i s m o islamico, intensificando così quelli che J a c q u e s Chirac definì «les odeurs d'Islam» in Europa. 1 4 1 confini della Croazia sono, in sostanza, i confini dell'Europa. 13 Si veda Mojez, Yugoslavian Inferno, cap. 7: «The Religious C o m p o n e n t in Wars»; Denitch, Ethnìc Nationalism, pp. 29-30, 72-3, 131-3; «New York Times», 17 settembre 1992, p. A14; Misha Glenny, «Carnage in Bosnia, for Starters», in «New York Times», 29 luglio 1993, p. A23. 14 «New York Times», 13 maggio 1995, p. A3; 7 novembre 1993, p. E4; 13 marzo 1994, p. E3; Boris Eltsin, cit. in Barnett R. Rubin, «The Fragmentation of Tajikistan», in «Survival», n. 35 (Inverno 1993-94), p. 86.

Man m a n o che u n a g u e r r a di faglia cresce, ciascuna p a r t e in causa demonizza i p r o p r i avversari, spesso dipingendoli c o m e s u b u m a n i , e d u n q u e giustificando la loro eliminazione. «I cani randagi v a n n o uccisi», a f f e r m ò Eltsin riferendosi ai guerriglieri ceceni. «Questa gente incivile deve essere eliminata... e noi la elimineremo», sostenne il g e n e r a l e i n d o n e s i a n o Try Sutrisno in riferimento al massacro del 1991 c o n t r o gli abitanti di T i m o r orientale. R i c o m p a i o n o i fantasmi del passato: i croati diventan o «ustascia», i musulmani, «turchi» e i serbi «cetnici». Massacri, torture, stupri, esodi forzati: l'odio etnico c o n t i n u a senza posa ad autoalimentarsi e tutto diventa giustificabile. I simboli e i p r o d o t t i caratteristici della cultura opposta diventano obiettivi da colpire. I serbi distrussero sistematicamente m o s c h e e e monasteri francescani, m e n t r e i croati fecero saltare in aria i monasteri ortodossi. In q u a n t o depositari di cultura, musei e librerie diventano luoghi p a r t i c o l a r m e n t e vulnerabili: le forze di sicurezza singalesi d e t t e r o alle fiamme la biblioteca pubblica di J a f f n a , d i s t r u g g e n d o « d o c u m e n t i letterari e storici insostituibili» relativi alla cultura tamil; l'artiglieria serba b o m b a r d ò e distrusse il Museo nazionale di Sarajevo. I serbi ripulirono la città bosniaca di Zvornik dei suoi quarantamila m u s u l m a n i e p i a n t a r o n o u n a croce al posto della torre o t t o m a n a a p p e n a fatta saltare in aria, che aveva sostituito la chiesa ortodossa rasa al suolo dai turchi nel 1463. 1 ' Nelle g u e r r e tra culture, la cultura p e r d e sempre.

La chiamata a raccolta delle civiltà: paesi fratelli e diaspore D u r a n t e i q u a r a n t a n n i di G u e r r a f r e d d a , il conflitto a n d ò g r a d u a l m e n t e e s p a n d e n d o s i via via c h e e n t r a m b e le superpotenze t e n t a r o n o di conquistare p a r t n e r e alleati e di c o r r o m p e re, convertire o neutralizzare p a r t n e r e alleati del c a m p o opposto. Ovviamente, la competizione f u particolarmente intensa nel Terzo M o n d o , dove stati a n c o r a deboli f u r o n o sollecitati dalle d u e s u p e r p o t e n z e ad e n t r a r e nella g r a n d e sfida mondia15 «New York Times», 7 marzo 1994, p. 1; 26 ottobre 1995, p. A25; 24 settembre 1995, p. E3; Stanley Jeyaraja Tambiah, Sri Lanka: EthnicFratricide and theDismantling of Democracy, Chicago, University of Chicago Press, 1986, p. 19.

le. Nel m o n d o post-Guerra f r e d d a , u n a pletora di conflitti lo- " cali h a sostituito il g r a n d e scontro globale tra s u p e r p o t e n z e . Q u a n d o coinvolgono g r u p p i a p p a r t e n e n t i a civiltà diverse, i conflitti locali t e n d o n o ad espandersi e a crescere d'intensità. Ciascuna parte tenta di conquistarsi il sostegno di paesi e gruppi a p p a r t e n e n d alla propria civiltà, sostegno che, in u n a f o r m a o nell'altra, ufficiale o m e n o , esplicito o m e n o , materiale, umano, diplomatico, finanziario, simbolico o militare che sia, n o n m a n c a mai di arrivare. Più u n a g u e r r a di faglia si prolunga, più alto è il n u m e r o di paesi che verrà p r o b a b i l m e n t e coinvolto in attività di sostegno, coercizione e mediazione. A causa di questa «sindrome dei paesi fratelli», i conflitti di faglia p r e s e n t a n o u n rischio di escalation molto maggiore rispetto a u n conflitto tra paesi a p p a r t e n e n t i a u n a stessa civiltà, e il loro c o n t e n i m e n to e soluzione finale richiede solitamente la cooperazione delle rispettive civiltà d ' a p p a r t e n e n z a . A differenza di q u a n t o accadeva ai tempi della G u e r r a f r e d d a , la conflittualità n o n filtra dall'alto verso il basso, m a trasuda dal basso verso l'alto. Nelle g u e r r e di faglia, i vari stati e g r u p p i h a n n o livelli di coinvolgimento diversi. Al livello principale troviamo i contendenti veri e propri, quelli che si u c c i d o n o a vicenda. P u ò trattarsi di stati, c o m e nelle g u e r r e tra India e Pakistan e tra Israele e paesi confinati, m a a n c h e di g r u p p i locali, che n o n sono stati o p p u r e lo sono, nella migliore delle ipotesi, solo a livello embrionale, c o m ' è accaduto in Bosnia e con gli a r m e n i del Nagornyj-Karabach. Vi sono poi i partecipanti di s e c o n d o livello, solitamente gli stati più i n f i m a m e n t e legad agli attori principali, c o m e ad esempio i governi di Serbia e Croazia nell'ex Jugoslavia e quelli di A r m e n i a e Azerbaigian nel Caucaso. S e g u o n o poi gli stati di terzo livello, a n c o r più defilati rispetto al conflitto vero e proprio, m a c h e vantano legami culturali con le parti belligeranti, c o m e ad esempio G e r m a n i a , Russia e stati islamici rispetto all'ex Jugoslavia, e Russia, Turchia e Iran nel caso della disputa tra a r m e n i e azeri. Questi partecipanti di terzo livello s o n o spesso gli stati guida delle rispettive civiltà. Laddove esistono, le diaspore dei partecipanti di p r i m o livello svolgono spesso anch'esse u n r u o l o attivo. Alla luce delle esigue forze militari, in termini di u o m i n i ed a r m a m e n t i , messe solitamente in c a m p o dalle fazioni d i r e t t a m e n t e i m p e g n a t e nello scontro, u n sostegno esterno relativamente m o d e s t o in d e n a r o , arma-

m e n t i o volontari sortisce speso u n effetto significativo sulle sorti del conflitto. Gli interessi in gioco degli altri partecipanti al conflitto n o n sono uguali a quelli di p r i m o livello. Il sostegno maggiore e più p a r t e c i p e alle parti belligeranti proviene di n o r m a dalle c o m u n i t à della diaspora, le quali si identificano strettamente con la causa dei p r o p r i confratelli e finiscono col diventare «più papisti del Papa». Più complessi sono invece gli interessi dei governi di secondo e terzo livello. Anch'essi f o r n i s c o n o di n o r m a sostegno alle parti belligeranti, e a n c h e laddove ciò n o n avviene essi sono c o m u n q u e sospettati di farlo dai g r u p p i rivali, che in questo m o d o si s e n t o n o giustificati a intervenire a loro volta. Al t e m p o stesso, tuttavia, i governi di secondo e terzo livello h a n n o interesse a c o n t e n e r e lo scontro e a n o n farvisi coinvolgere direttamente. Perciò, p u r sostenendo i protagonisti di p r i m o livello, essi t e n t a n o di frenarli e indurli a m o d e r a r e i loro obiettivi. Essi t e n t a n o inoltre di negoziare con le controparti di s e c o n d o e terzo livello e i m p e d i r e così l'escalation di u n conflitto locale in u n a g u e r r a generale che coinvolga gli stati guida. La Figura 11.1 illustra i tipi di r a p p o r t o che legano questi potenziali partecipanti alle g u e r r e di faglia. N o n tutti i conflitti di questo tipo p r e s e n t a n o u n n u m e r o di attori così elevato, m a alcuni sì, c o m e ad esempio quelli dell'ex Jugoslavia e della Transcaucasia, e pressoché tutte le g u e r r e di faglia posson o p o t e n z i a l m e n t e espandersi e arrivare a coinvolgere i partecipanti di tutti i livelli. In u n m o d o o nell'altro, tutte le g u e r r e locali scoppiate negli a n n i Novanta h a n n o coinvolto le diaspore e i paesi loro consanguinei. Dato il gran n u m e r o di casi in cui i g r u p p i musulm a n i h a n n o svolto u n r u o l o primario, i governi e le associazioni m u s u l m a n e risultano i più f r e q u e n t i partecipanti di s e c o n d o e terzo livello. I governi più attivi sono stati quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Iran, Turchia e Libia, che insieme, e a volte con altri stati musulmani, h a n n o assicurato u n livello variabile di sostegno ai m u s u l m a n i impegnati in Palestina, Libano, Bosnia, Cecenia, in Transcaucasia, Tagikistan, Sudan, nel Kashmir e nelle Filippine. Oltre al sostegno di vari governi, molti g r u p p i m u s u l m a n i di p r i m o livello sono stati aiutati da u n a Internazionale islamica di guerriglieri provenienti dalla g u e r r a a f g h a n a e che ha preso parte ad u n a lunga serie di conflitti

Figura

11.1 La struttura

di una guerra di faglia

complessa

Civiltà A

Civiltà B

^ ^ m Violenza Sostegno

Coercizione Negoziato

che v a n n o dalla g u e r r a civile in Algeria alla Cecenia alle Filippine. L'Internazionale islamica è stata coinvolta nell'«invio di volontari con l'obiettivo di i m p o r r e la legge islamica in Afghanistan, nel Kashmir e in Bosnia; in g u e r r e di p r o p a g a n d a contro governi ostili agli islamisti in vari paesi; nella creazione di centri islamici tra le c o m u n i t à della diaspora, con f u n z i o n e di quartier generali politici p e r tutte queste fazioni». 16 A n c h e la Lega Araba e l'Organizzazione della C o n f e r e n z a Islamica hann o contribuito a tal fine r a f f o r z a n d o i g r u p p i m u s u l m a n i impegnati nei diversi conflitti di civiltà. L ' U n i o n e Sovietica è stata u n a protagonista diretta nella 16 Khalid, Duran, cit. in Richard H. Schultz, Jr. e William J. O l s o n , Ethnic and Religious Conflict: Emerging Threat to U.S. Security, W a s h i n g t o n , D.C., National Strategy I n f o r m a t i o n Center, p. 25.

g u e r r a c o n t r o l'Afghanistan, e negli anni successivi alla G u e r r a f r e d d a la Russia è stata u n a p a r t e c i p a n t e di p r i m o livello nella g u e r r a cecena, di s e c o n d o livello negli scontri in Tagikistan e di terzo livello nella ex Jugoslavia. L'India ha avuto u n coinvolg i m e n t o diretto nel Kashmir e secondario a Sri Lanka. I principali stati occidentali sono stati partecipanti di terzo livello nella ex Jugoslavia. Le diaspore h a n n o svolto u n r u o l o principale su e n t r a m b i i versanti del l u n g o conflitto tra arabi e israeliani, n o n c h é di sostegno ad a r m e n i , greci e ceceni nei rispettivi conflitti. Attraverso televisione, fax e posta elettronica, «l'impegno delle varie diaspore viene rafforzato e a volte estremizzato mediante u n contatto costante con le rispettive ex m a d r e p a t r i e ; dove "ex" n o n significa più quello c h e significava u n a volta». 17 Nella g u e r r a del Kashmir, il Pakistan ha f o r n i t o un esplicito sostegno diplomatico e politico ai ribelli n o n c h é , s e c o n d o fonti militari pakistane, ingenti quantità di d e n a r o ed armi, addestramento, s u p p o r t o logistico e rifugio politico. Inoltre h a esercitato pressioni a loro favore presso altri governi musulmani. Risulta c h e nel 1995 le forze ribelli f u r o n o rinforzate dall'arrivo di a l m e n o 1200 guerriglieri mujaheddin provenienti da Afghanistan, Tagikistan e Sudan, equipaggiati di missili Stinger e di altre armi ricevute dagli americani p e r la loro g u e r r a c o n t r o l ' U n i o n e Sovietica». 18 L'insurrezione M o r o nelle Filippine ricevette p e r u n certo p e r i o d o f o n d i e mezzi dalla Malaysia; i governi arabi f o r n i r o n o anch'essi d e n a r o ; diverse migliaia di guerriglieri f u r o n o addestrati in Libia, e il g r u p p o ribelle estremista, Abu Sayyaf, v e n n e organizzato da fondamentalisti pakistani e afghani. 1 9 In Africa, il S u d a n f o r n ì costante aiuto ai ribelli m u s u l m a n i eritrei c o n t r o l'Etiopia, e p e r ritorsione l'Etiopia f o r n ì «supporto logistico e asilo» ai «cristiani ribelli» in Sudan. Uguale sostegno ricevettero questi ultimi dall'Uganda, a 17 Khaching Tololyan, «The Impact of Diasporas in U.S. Foreign Policy», in Robert L. Pfaltzgraff, Jr. e Richard H. Schultz, Jr. (a cura di), Ethnic Conflict and Regional Instability: Implications far U.S. Policy and Army Roles and Missioni, Carlisle Barracks, PA, Strategie Studies Institute, U.S. Army War College, 1994, p. 156. 18 «New York Times», 25 g i u g n o 1994, p. A6; 7 agosto 1994, p. A9; «Economist», 31 ottobre 192, p. 38; 19 agosto 1995, p. 32; «Boston Globe», 16 maggio 1994, p. 12; 3 aprile 1995, p. 12. 19 «Economist», 27 febbraio 1988, p. 25; 8 aprile 1995, p. 34; David C. Rapoport, «The Role of External Forces in Supporting Ethno-Religious Conflict», in Pfaltzgraff e Schultz, Ethnic Conflict, p. 64.

parziale riconoscimento dei suoi «intimi legami religiosi, razziali ed etnici con i ribelli sudanesi». Il governo sudanese, da parte sua, ricevette dall'Iran a r m i di fabbricazione cinese p e r u n valore di 300 milioni di dollari n o n c h é l'invio di consiglieri e addestratori militari iraniani, il c h e gli permise nel 1992 di scagliare u n a g r a n d e offensiva c o n t r o i ribelli. U n gran n u m e r o di organizzazioni cristiane occidentali f o r n i r o n o cibo, medicine, vettovaglie e, secondo il g o v e r n o sudanese, armi ai ribelli cristiani. 2 " Nella g u e r r a tra i ribelli tamil induisti e il governo buddista dello Sri Lanka, le autorità i n d i a n e f o r n i r o n o inizialmente u n significativo sostegno ai ribelli, addestrandoli nel sud del proprio paese e f o r n e n d o loro armi e d e n a r o . Nel 1987, q u a n d o le forze governative e r a n o sul p u n t o di sconfiggere le «tigri tamil», v e n n e mobilitata l ' o p i n i o n e pubblica c o n t r o il «genocidio» in atto e il governo i n d i a n o inviò ai tamil aiud alimentari m e d i a n t e p o n t e aereo, «facendo in tal m o d o i n t e n d e r e [al presidente] Jayewardene c h e l'India era decisa a usare la forza p u r di impedirgli di s o p p r i m e r e le Tigri». 21 1 governi i n d i a n o e singalese raggiunsero quindi u n a c c o r d o in base al quale lo Sri Lanka avrebbe concesso u n notevole g r a d o di a u t o n o m i a alle aree tamil e i ribelli avrebbero consegnato le armi al g o v e r n o indiano. L'India schierò cinquantamila soldati sull'isola a salvaguardia dell'accordo, m a le tigri si rifiutarono di c o n s e g n a r e le armi e le t r u p p e indiane si ritrovarono b e n presto coinvolte in u n a g u e r r a c o n t r o quelle stesse forze di guerriglia che in p r e c e d e n z a avevano appoggiato. Nel 1988 le t r u p p e indiane c o m i n c i a r o n o a ritirarsi. Nel 1991 il p r i m o ministro i n d i a n o Rajiv G a n d h i f u assassinato, s e c o n d o gli indiani, da u n sostenitore dei ribelli tamil, nei c o n f r o n t i dei quali l'atteggiamento del governo indiano si fece s e m p r e più ostile. Il governo, tuttavia, n o n p o t è ignorare la s i m p a d a e il sostegno di cui i ribelli g o d e v a n o presso i c i n q u a n t a milioni di tamil residend nel sud dell'India. Così i funzionari del g o v e r n o tamil N a d u , disobbe20 Rapoport, «External Forces», p. 66; «New York Times», 19 luglio 1992, p. E3; Carolyn Fluehr-Lobban, «Protraeteci Civil War in the Sudan: Its Future as a Multi-Religious, Multi-Ethnic State», in «Fletcher Forum of World Affairs», n. 16 (Estate 1992), p. 73. 21 Steven R. Weismar, «Sri Lanka: A Nation Disintegrates», in «New York Times Magazine», 13 dicembre 1987, p. 85.

d e n d o agli ordini di Nuova Delhi, c o n s e n d r o n o alle dgri tamil di o p e r a r e nel p r o p r i o stato c o n c e d e n d o loro «praticamente m a n o libera» l u n g o 650 chilometri di costa e di inviare vettovaglie ed armi ai ribelli nello Sri L a n k a attraverso lo Stretto di Palk. 22 A partire dal 1979, i sovietici e quindi i russi sono stati coinvolti in tre grandi g u e r r e di faglia l u n g o i confini meridionali con i loro vicini musulmani: la g u e r r a a f g h a n a del 1979-89, il suo p r o s e g u i m e n t o con la g u e r r a tagika, iniziata nel 1992, e la g u e r r a cecena iniziata nel 1994. D o p o il crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica, in Tagikistan salì al p o t e r e u n nuovo governo comunista. C o n t r o di esso insorse nella primavera del 1992 u n ' o p p o s i zione composta da g r u p p i etnici e regionali rivali e c o m p r e n d e n t e e l e m e n d sia laici c h e islamici. Nel settembre del 1992 l'opposizione, alimentata dalle armi provenienti dall'Afghanistan, rovesciò ed espulse il g o v e r n o filosovietico dalla capitale, Dusanbe. T e m e n d o il diffondersi del f o n d a m e n t a l i s m o islamico, i governi russo ed uzbeko r e a g i r o n o con veemenza. La 201Divisione fucilieri motorizzati, rimasta di stanza in Tagikistan, f o r n ì armi alle forze filogovernative, e la Russia inviò ulteriori t r u p p e a difesa dei confini con l'Afganistan. Nel n o v e m b r e del 1992 Russia, Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan d i e d e r o il loro assenso a u n intervento militare c o n g i u n t o russo e uzbeko, ufficialmente in veste di forza di pace, m a in realtà p e r partecip a r e attivamente alla guerra. Grazie a questo aiuto, cui si aggiunse l'invio di d e n a r o e a r m i russe, le forze dell'ex governo riuscirono a riconquistare D u s a n b e e a ristabilire il p r o p r i o controllo su gran parte del paese. Seguì poi u n ' o p e r a z i o n e di pulizia etnica, con le t r u p p e di opposizione costrette a rifugiarsi in Afghanistan. I governi m u s u l m a n i mediorientali p r o t e s t a r o n o c o n t r o l'intervento militare russo. Iran, Pakistan e Afghanistan a i u t a r o n o l'opposizione sempre più f o r t e m e n t e islamista con d e n a r o , armi e a d d e s t r a m e n t o . Risulta c h e nel 1993 diverse migliaia di guerriglieri venivano addestrati dai mujahedin afghani, e tra la primavera e l'estate del 1993 i ribelli tagiki lanciarono dall'Af22 «New York Times», 29 aprile 1984, p. 6; 19 giugno 1995, p. A3; 24 settembre 1995, p. 9; «Economist», 11 giugno 1988, p. 38; 26 agosto 1995, p. 29; 20 maggio 1995, p. 35; 4 novembre 1995, p. 39.

ghanistan diversi attacchi oltreconfine u c c i d e n d o molte guardie di f r o n t i e r a russe. La Russia rispose dislocando ulteriori t r u p p e in Tagikistan e scagliando «un massiccio f u o c o di sbarr a m e n t o di artiglieria» e attacchi aerei su obiettivi afghani. I governi arabi, tuttavia, f o r n i r o n o ai ribelli i f o n d i necessari p e r consentire l'acquisto di missili Stinger e far f r o n t e agli attacchi aerei. Nel 1995 la Russia aveva circa 25.000 soldati in Tagikistan e forniva b e n oltre la m e t à dei f o n d i necessari p e r sostenere il governo. I ribelli, dal canto loro, e r a n o attivamente sostenuti dal g o v e r n o a f g h a n o e da altri stati musulmani. C o m e ha osservato Barnett Rubin, l'incapacità delle associazioni internazionali o d e l l ' O c c i d e n t e di f o r n i r e u n aiuto significativo sia al Tagikistan che all'Afghanistan rese i d u e stati t o t a l m e n t e dip e n d e n t i il p r i m o dai russi ed il secondo dai confratelli musulmani. «Qualsiasi ufficiale a f g h a n o che oggigiorno speri in u n aiuto straniero deve o piegarsi alle richieste dei finanziatori arabi e pakistani desiderosi di d i f f o n d e r e la jihad in Asia centrale, o rivolgersi al mercato della droga».' 3 La terza g u e r r a a n t i - m u s u l m a n a c o n d o t t a dai russi, quella nel Caucaso settentrionale c o n t r o i ceceni, e b b e u n p r o l o g o negli scontri del 1992-93 tra d u e p o p o l i contigui: gli osseti ortodossi e gli ingusci m u s u l m a n i . Questi ultimi, i n s i e m e ai ceceni e ad altri popoli m u s u l m a n i , e r a n o stati d e p o r t a t i in Asia c e n t r a l e d u r a n t e la S e c o n d a g u e r r a m o n d i a l e , e le loro proprietà o c c u p a t e dagli osseti. Nel 1956-57 i popoli d e p o r t a t i p o t e r o n o f i n a l m e n t e fare r i t o r n o , e subito sorsero dispute sui diritti di p r o p r i e t à e sul c o n t r o l l o del territorio. Nel novemb r e del 1992 gli ingusci l a n c i a r o n o dalla loro r e p u b b l i c a u n a serie di attacchi p e r r i c o n q u i s t a r e la r e g i o n e di Prigorodnyj, c h e il g o v e r n o sovietico aveva assegnato agli osseti. I russi risposero con u n massiccio i n t e r v e n t o di u n i t à cosacche a sostegno degli osseti ortodossi. Testimonia u n osservatore straniero: «Nel n o v e m b r e del 1992 i villaggi ingusci in Ossezia so23 Barnett Rubin, «Fragmentation of Tajikistan», pp. 84, 88; «New York Times», 29 luglio 1993, p. 11; «Boston Globe», 4 agosto 1993, p. 4. Per gli sviluppi della guerra in Tagikistan mi s o n o basato soprattutto su Barnett R. Rubin, «The Fragmentation of Tajikistan», pp. 71-91; Roland Dannreuther, Creatina New States in Central Asia, International Institute for Strategie Studies, Adelphi Paper n. 288, marzo 1994; Hafizulla Emadi, «State Ideology, and Islamic Resurgence in Tajikistan», in «Central Asian Survey», 13, n. 4, 1994, pp. 565-74; e su resoconti giornalistici.

n o stati circondati e b o m b a r d a t i dai carri a r m a t i russi. I sopravvissuti al b o m b a r d a m e n t o s o n o stati uccisi o d e p o r t a t i . Il massacro è stato p e r p e t r a t o dalle s q u a d r e ossete d e l l ' O m o n [la polizia speciale], m a le t r u p p e russe inviate nella r e g i o n e "per m a n t e n e r e la pace" h a n n o fatto a n c h ' e s s e la loro parte».24 «E difficile», riferì l'«Economist», capire c o m e u n a tale d i s t r u z i o n e si sia p o t u t a c o n s u m a r e in m e n o di u n a settimana». Fu quella «la p r i m a o p e r a z i o n e di pulizia etnica nella Fed e r a z i o n e russa». All'epoca, la Russia si servì di q u e s t o conflitto p e r minacciare i ceceni alleati degli ingusci. Ciò, a sua volta, «portò a l l ' i m m e d i a t a mobilitazione della Cecenia e alla nascita della C o n f e d e r a z i o n e dei Popoli del Caucaso (Knk), con f o r t e prevalenza m u s u l m a n a . Il Knk minacciò di inviare 500.000 volontari c o n t r o le forze russe se queste n o n si fosser o ritirare dal territorio c e c e n o . D o p o u n a fase di stallo carica di tensione, Mosca decise di ritirarsi p e r evitare c h e il conflitto tra osseti del n o r d e ingusci d e g e n e r a s s e in u n conflitto su scala regionale». 2 " U n a conflagrazione più a m p i a e intensa scoppiò invece nel d i c e m b r e del 1994 q u a n d o la Russia lanciò u n massiccio attacco militare c o n t r o la Cecenia. I leader di d u e r e p u b b l i c h e ortodosse, Georgia e A r m e n i a , a p p o g g i a r o n o l'iniziativa russa, m e n t r e il presidente u c r a i n o m a n t e n n e u n a «diplomatica neutralità, limitandosi ad auspicare u n a soluzione pacifica della crisi». L'azione russa trovò l'appoggio a n c h e del g o v e r n o ortodosso dell'Ossezia del N o r d e del 55-60 p e r cento della sua popolazione. 2 6 Viceversa, i m u s u l m a n i d e n t r o e f u o r i la Federazione russa si schierarono nella stragrande maggioranza dei casi con i ceceni. L'Internazionale islamica inviò i m m e d i a t a m e n te guerriglieri dall'Azerbaigian, Afghanistan, Pakistan, Sudan e altri paesi. Gli stati m u s u l m a n i a b b r a c c i a r o n o in blocco la causa cecena; in particolare, risulta c h e Turchia e Iran a b b i a n o f o r n i t o aiuti materiali, il che indusse la Russia a cercare di amm o r b i d i r e u l t e r i o r m e n t e i r a p p o r t i con l'Iran. U n flusso costante di a r m i p e r i ceceni cominciò a p e n e t r a r e nella Federazione russa dall'Azerbaigian, costringendo la Russia a c h i u d e r e 24 Urszula Doroszewska, «Caucasus Wars», in «Uncaptive Minds», n. 7 (Inverno-Primavera 1994), p. 86. 25 «Economist», 28 novembre 1992, p. 58; Hill, Russia's Tinderbox, p. 50 26 «Moscow Times», 20 g e n n a i o 1995, p. 4; Hill, Russia's Tinderbox, p. 90.

le f r o n t i e r e c o n quel paese e i n t e r r o m p e n d o così a n c h e i riforn i m e n t i di medicine e altre vettovaglie ai ceceni. 27 I popoli m u s u l m a n i della Federazione russa si schierarono a favore dei ceceni. S e b b e n e gli appelli a u n a g u e r r a santa dei m u s u l m a n i di tutto il Caucaso c o n t r o la Russia n o n producessero il risultato sperato, i leader delle sei r e p u b b l i c h e centroasiatiche chiesero alla Russia di m e t t e r e fine all'intervento militare, e rappresentanti delle r e p u b b l i c h e m u s u l m a n e del Caucaso invocarono u n a c a m p a g n a di disobbedienza civile c o n t r o il d o m i n i o russo. Il presidente della repubblica ciuvascia dispensò i soldati di leva ciuvasci dall'intervenire c o n t r o i loro fratelli musulmani. Le «proteste più vibranti c o n t r o la guerra» si e b b e r o nelle d u e r e p u b b l i c h e limitrofe dell'Inguscezia e del Daghestan. Gli ingusci attaccarono le t r u p p e russe in marcia p e r la Cecenia, i n d u c e n d o il ministro della Difesa russo a dichiarare che il governo inguscio aveva «praticamente dichiarato g u e r r a alla Russia». Attacchi alle forze russe si verificarono a n c h e in Daghestan. I russi risposero b o m b a r d a n d o i villaggi ingusci e daghestani.' 8 La distruzione totale del villaggio di Pervomajskoe successiva al raid c e c e n o nella città di Kizlyar del g e n n a i o del 1996 accrebbe u l t e r i o r m e n t e l'ostilità dei daghestani nei c o n f r o n t i della Russia. La causa cecena fu aiutata a n c h e dai ceceni della diaspora f r u t t o , quest'ultima, dell'aggressione p e r p e t r a t a dai russi nel xix secolo ai d a n n i delle popolazioni m o n t a n e del Caucaso. La diaspora raccolse fondi, p r o c u r ò armi, e f o r n ì volontari alle forze cecene, dimostrandosi p a r t i c o l a r m e n t e f o r t e in Giordania e Turchia. Ciò spinse la Giordania a p r e n d e r e f e r m a m e n t e posizione c o n t r o i russi e rafforzo l'inclinazione filocecena dei turchi. Nel g e n n a i o del 1996, la g u e r r a si allargò alla Turchia. L ' o p i n i o n e pubblica turca salutò con u n a certa simpatia la cat27 «Economist», 14 gennaio 1995, p. 43 sgg.; «New York Times», 21 dicembre 1994, p. A18; 23 dicembre 1994, p. AIO; 21 dicembre 1994, p. A18; 23 dicembre 1994, pp. A l , AIO; 3 gennaio 1995, p. 1; 1 aprile 1995, p. 3; 11 dicembre 1995, p. A6; Vicken Cheterian, «Chechenya and the Transcaucasian Republic», in «Swiss Review of World Affaire», febbraio 1995, pp. 10-11; «Boston Globe», 5 g e n n a i o 1995, p. 1 sgg.; 12 agosto 1995, p. 2. 28 Vera Tolz, «Moscow and Russia's Ethnic Republics in the Wake of Chechenya», Center for Strategie and International Studies, in «Post-Soviet Prospeets», n. 3 (Ottobre 1995), p. 2; «New York Times», 20 dicembre 1994, p. A14.

tura di u n a nave russa e relativi ostaggi da parte di m e m b r i della diaspora. C o n l'aiuto dei leader ceceni, il governo turco negoziò la soluzione della crisi c a u s a n d o u n ulteriore peggioram e n t o nei già precari rapporti tra Turchia e Russia. L'incursione c e c e n a in Daghestan, la reazione dei russi e l'assalto alla nave russa all'inizio del 1996 misero in luce i possibili rischi di allargamento del conflitto in u n a conflagrazione generale tra i russi e le popolazioni m o n t a n e sulla falsariga della lotta perpetuatasi p e r d e c e n n i nel xix secolo. «Il Caucaso settentrionale è u n a polveriera», a m m o n ì Fiona Hill nel 1995. «Un conflitto in u n a repubblica p u ò fare da miccia p e r u n a conflagrazione regionale che d e b o r d e r e b b e dai p r o p r i confini p e r dilagare in tutta la Federazione russa, e che coinvolgerebbe Georgia, Azerbaigian, Turchia e Iran e le loro diaspore nordcaucasiche. C o m e dimostra la g u e r r a in Cecenia, il livello di conflittualità nella regione n o n è facile da controllare ... e gli scontri sono dilagati nelle r e p u b b l i c h e e nei territori a d i a c e n d alla Cecenia». A n c h e s e c o n d o u n analista russo si stavano c r e a n d o «coalizioni informali» basate s u l l ' a p p a r t e n e n z a a u n a stessa cultura. «Georgia, Armenia, Nagornyj-Karabach e Ossezia settentrionale, paesi cristiani, si s t a n n o alleando c o n t r o Azerbaigian, Abkazia, Cecenia e Inguscezia, paesi musulmani». D o p o essere stata coinvolta in u n conflitto in Tagikistan, la Russia correva d u n q u e «il pericolo di farsi trascinare in u n prolungato c o n f r o n t o con il m o n d o musulmano». 2 9 U n ' a l t r a g u e r r a tra ortodossi e m u s u l m a n i ha visto gli armeni residenti nell'enclave del Nagornyj-Karabach in lotta p e r l ' i n d i p e n d e n z a c o n t r o il governo e il p o p o l o dell'Azerbaigian. Il governo dell'Armenia era u n partecipante di secondo livello, m e n t r e Russia, Turchia e Iran e r a n o attori di terzo livello. U n r u o l o i m p o r t a n t e è stato svolto a n c h e dalla nutrita diaspora arm e n a in E u r o p a occidentale e in N o r d America. Lo scontro iniziò nel 1988, prima del crollo d e l l ' U n i o n e Sovietica, si intensificò nel 1992-93 p e r placarsi d o p o il negoziato di u n a tregua nel 1994. Turchi e altri popoli m u s u l m a n i si s c h i e r a r o n o con l'Azerbaigian, m e n t r e la Russia sostenne gli a r m e n i , utilizz a n d o poi la propria influenza su di essi a n c h e p e r contrastare 29 Hill, Russia's Tinderbox, p. 4; DmitryTemin, «Decision Time f'or Russia», in «Moscow Times», 3 febbraio 1995, p. 8,

l'influenza turca in Azerbaigian. Questa g u e r r a f u l'ultimo episodio sia della secolare lotta tra I m p e r o russo e I m p e r o ottom a n o p e r il controllo della regione caucasica e del Mar Nero, sia dell'intenso a n t a g o n i s m o tra a r m e n i e turchi risalente ai massacri perpetrati dai secondi ai d a n n i dei primi all'inizio del xx secolo. In questa guerra, la Turchia si schierò c o s t a n t e m e n t e dalla parte dell'Azerbaigian e c o n t r o gli a r m e n i . Il p r i m o riconoscim e n t o in assoluto d e l l ' i n d i p e n d e n z a di u n a ex repubblica sovietica n o n baltica è stato quello della Turchia nei c o n f r o n t i dell'Azerbaigian. D u r a n t e tutto il conflitto la Turchia f o r n ì all'Azerbaigian sostegno materiale e finanziario e a d d e s t r a m e n t o militare. C o n l'intensificarsi dello scontro nel 1991-92 e con l'avanzata degli a r m e n i in territorio azerbaigiano, l ' o p i n i o n e pubblica turca insorse e il governo turco f u sollecitato a sosten e r e i p r o p r i fratelli etnico-religiosi, p u r t e m e n d o c h e ciò avrebbe accentrato la divisione tra cristiani e m u s u l m a n i , provocato l'intervento occidentale a favore dell'Armenia e suscitato la reazione dei suoi p a r t n e r della Nato. La Turchia f u d u n q u e soggetta alle classiche pressioni incrociate di u n partecip a n t e di s e c o n d o o terzo livello in u n a g u e r r a di comunità. A ogni m o d o , alla fine il governo turco decise c h e fosse p r o p r i o interesse sostenere l'Azerbaigian e opporsi all'Armenia. «Non si p u ò restare impassibili q u a n d o i tuoi fratelli v e n g o n o uccisi», a f f e r m ò u n f u n z i o n a r i o turco, ed u n altro aggiunse: «Siamo sotto pressione. I nostri giornali traboccano di foto p i e n e di atrocità... Forse d o v r e m m o dimostrare all'Armenia che in questa regione esiste u n a g r a n d e Turchia». Il presidente T u r g o t Òzal ratificò poi questa posizione, a f f e r m a n d o che la Turchia «dovrebbe m e t t e r e u n p o ' di p a u r a agli armeni». La Turchia, spalleggiata dall'Iran, a m m o n ì gli a r m e n i che n o n avrebbe tollerato alcun m u t a m e n t o dei confini. Òzal bloccò i r i f o r n i m e n ti alimentari e di altro g e n e r e in transito p e r la Turchia e diretti all'Armenia, il che p o r t ò nell'inverno 1992-93 la popolazione a r m e n a sull'orlo della carestia. A questo p u n t o il maresciallo russo Evgenij Saposnikov a m m o n ì che «se u n ' a l t r a fazione [vale a dire la Turchia] venisse coinvolta» nella guerra, «ci trover e m m o sull'orlo della Terza g u e r r a mondiale». U n a n n o d o p o Òzal mostrava ancora propositi bellicosi. «Cosa p o t r e b b e r o fare gli armeni», a f f e r m ò sarcasticamente, «nel caso in cui do-

vesserò esserci degli spari ... Marciare sulla Turchia?» La Turchia «mostrerà i denti». 3 " Nell'estate-autunno del 1993 l'offensiva a r m e n a , c h e p o r t ò le p r o p r i e t r u p p e vicino ai confini con l'Iran, scatenò ulteriori reazioni da p a r t e sia della Turchia sia dell'Iran, in competizion e tra loro p e r l'influenza in Azerbaigian, n o n c h é tra gli stati m u s u l m a n i dell'Asia centrale. La Turchia dichiarò che l'offensiva minacciava la propria sicurezza, chiese il ritiro «immediato e senza condizioni» delle t r u p p e a r m e n e dal territorio dell'Azerbaigian, e rafforzò militarmente i p r o p r i confini con l'Armenia, dove risulta vi siano stati degli scontri a f u o c o tra t r u p p e russe e turche. Il Primo ministro turco Tansu Ciller a f f e r m ò c h e avrebbe dichiarato g u e r r a nel caso in cui le t r u p p e a r m e n e avessero invaso l'enclave azera di Nachicevan, vicino al c o n f i n e turco. A n c h e l'Iran fece e n t r a r e le p r o p r i e t r u p p e in Azerbaigian, a sua detta p e r creare dei campi p r o f u g h i p e r accogliere q u a n t i cercavano di sottrarsi alle offensive a r m e n e . L'iniziativa iraniana indusse i turchi a c r e d e r e di p o t e r p r o m u o v e r e ulteriori misure senza scatenare reazioni da p a r t e russa, stimolandoli inoltre ad inasprire la competizione con l'Iran p e r la prem i n e n z a sull'Azerbaigian. Alla fine la crisi si allentò a seguito dei negoziati svoltisi a Mosca tra i dirigenti di Turchia, A r m e n i a e Azerbaigian, delle pressioni a m e r i c a n e sul governo a r m e n o e di quelle del governo a r m e n o sugli a r m e n i del Nagornyj-Karabach." Vivendo in u n paese piccolo, privo di sbocchi sul mare, avaro di risorse e circondato da ostili popolazioni turche, gli arm e n i h a n n o da s e m p r e cercato la protezione dei loro confratelli ortodossi: russi e georgiani. La Russia, in particolare, è s e m p r e stata vista dagli a r m e n i c o m e u n fratello maggiore. Q u a n d o , tuttavia, l ' U n i o n e Sovietica f u sul p u n t o di crollare e gli a r m e n i del Nagornyj-Karabach iniziarono la loro lotta d'ind i p e n d e n z a , il regime di Gorbacèv respinse le loro richieste e inviò p r o p r i e t r u p p e nella regione a sostegno di quello che era 30 «New York Times», 7 marzo 1992, p. 3; 24 maggio 1992, p. 7; «Boston Globe», 5 febbraio 1993, p. 1; Bahri Yilmaz, «Turkey's New Role in International Politics», in «Aussenpolitik», n. 45 (Gennaio 1994), p. 95; «Boston Globe», 7 aprile 1993, p. 2. 31 «Boston Globe», 4 settembre 1993, p. 2; 5 settembre 1993, p. 19; 10 settembre 1993, p. A3.

considerato il fedele governo comunista di Baku. D o p o la dissoluzione d e l l ' U n i o n e Sovietica, queste considerazioni lasciar o n o il passo ad altre, di più a n d c a tradizione storica e culturale, e l'Azerbaigian accusò «il g o v e r n o russo di aver o p e r a t o un'inversione di 180 gradi» e di sostenere attivamente l'Armenia cristiana. L'assistenza militare russa agli a r m e n i era in realtà iniziata già da t e m p o tra le forze a r m a t e sovietiche, dove gli a r m e n i venivano promossi alle alte cariche e assegnati a unità di c o m b a t t i m e n t o molto più spesso dei musulmani. U n a volta iniziata la guerra, il 366 9 r e g g i m e n t o motorizzato fucilieri dell'Esercito sovietico, di stanza nel Nagornyj-Karabach, svolse u n r u o l o di p r i m o p i a n o nell'attacco scagliato dagli a r m e n i c o n t r o la città di Chodjali, dove f u r o n o massacrati circa mille azeri. In seguito, t r u p p e specnaz russe presero p a r t e attiva al conflitto. Nell'inverno del 1992-93, ai tempi d e l l ' e m b a r g o turco, l'Armenia f u «salvata dal totale collasso e c o n o m i c o grazie ai miliardi di rubli di credito offerti dalla Russia». Nel corso di quella primavera le t r u p p e russe si schierarono r e g o l a r m e n t e a fianco di quelle a r m e n e p e r aprire u n c o r r i d o i o di collegam e n t o tra l ' A r m e n i a e il Nagornyj-Karabach. Un c o n t i n g e n t e russo di q u a r a n t a carri armati partecipò poi all'offensiva nel Karabach dell'estate del 1993.32 L'Armenia, da p a r t e sua, c o m e h a n n o osservato Hill e Jewett, «non e b b e altra scelta se n o n quella di allearsi con i russi. Essa infatti d i p e n d e completam e n t e dalla Russia p e r q u a n t o r i g u a r d a le materie p r i m e , i r i f o r n i m e n t i alimentari ed energetici e la difesa del p r o p r i o territorio dai nemici storici d'oltre confine: Azerbaigian e Turchia. L'Armenia ha firmato tutti gli accordi economici e militari previsti dalla Csi, h a permesso lo stazionamento di t r u p p e russe sul p r o p r i o territorio e h a soddisfatto tutte le rivendicazioni russe sugli ex beni sovietici». 33 Il sostegno russo agli a r m e n i accrebbe l'influenza dei russi sullo stesso Azerbaigian. Nel g i u g n o del 1993 il leader naziona32 «New York Times», 12 febbraio 1993, p. A3; 8 marzo 1992, p. 20; 5 aprile 1993, p. A7; 15 aprile 1993, p. A9; T h o m a s Goltz, «Letter from Eurasia: Russia's H i d d e n Hand», in «Foreign Policy», n. 92 (Autunno 1993), pp. 98-104; Fiona Hill e Pamela Jewett, Back in the USSR: Russia's Intervention in the Internai AJfairs of the Former Soviet Republics and the Implications far the United States Policy Toward Russia, Harvard University, J o h n F. Kennedy School of Government, Strengthening Democratic Institutions Project, Gennaio 1994, p. 15. 33 Hill e Jewett, Back in the USSR p. 10.

lista azero Abulfez Elchibej f u rovesciato in seguito a u n colpo di stato e sostituito dall'ex comunista e p r e s u m i b i l m e n t e filorusso Gaider Alijev. Alijev ammise la necessità di propiziarsi la benevolenza russa p e r f r e n a r e l'Armenia. Ribaltando la linea politica fino allora perseguita, accettò di aderire alla Csi e acconsentì allo stazionamento di t r u p p e russe sul p r o p r i o territorio. Aprì inoltre la strada alla partecipazione russa in u n consorzio internazionale p e r l'estrazione del petrolio azerbaigiano. In cambio, la Russia si prese carico d e l l ' a d d e s t r a m e n t o di t r u p p e azere e fece pressione sull'Armenia p e r c h é cessasse di appoggiare le forze a r m a t e del Karabach e le inducesse a ritirarsi dal territorio azero. Spostando il p r o p r i o peso politico da u n a parte all'altra, la Russia è riuscita a o t t e n e r e risultati positivi a n c h e p e r l'Azerbaigian e a controbilanciare l'influenza iraniana e turca in quel paese. Il sostegno all'Armenia, d u n q u e , n o n solo ha rafforzato il più stretto alleato della Russia nel Caucaso, ma ha altresì indebolito i suoi principali rivali m u s u l m a n i in quella regione. Russia a parte, la maggiore f o n t e di sostegno p e r l'Armenia f u la sua nutrita, ricca e i n f l u e n t e diaspora in E u r o p a occidentale e in N o r d America (che conta u n milione circa di a r m e n i negli Stati Uniti e 450.000 in Francia), la quale offrì n o n solo d e n a r o e rifornimenti p e r aiutare l'Armenia a sopravvivere all ' e m b a r g o turco, ma a n c h e funzionari p e r il governo e volontari per le forze armate. A m e t à a n n i Novanta, i contributi versati agli a r m e n i dalla c o m u n i t à a m e r i c a n a a m m o n t a v a n o a u n a cifra compresa tra i 50 e i 75 miliardi di dollari l ' a n n o . Gli arm e n i della diaspora esercitarono a n c h e u n a notevole influenza politica sui governi dei rispettivi paesi di residenza. Le più vaste comunità di armeno-americani si trovano in stati chiave: California, Massachusetts e New Jersey. Ciò indusse il Congresso americano a proibire q u a l u n q u e f o r m a di aiuto all'Azerbaigian e a fare dell'Armenia il terzo maggiore beneficiario p r ò capile di aiuti americani. Tale sostentamento dall'estero si rivelò essenziale p e r la sopravvivenza dell'Armenia, che fu giustamente chiamata «Israele del C a u c a s o » / ' C o m e gli attacchi russi al Caucaso settentrionale del xix secolo d i e d e r o vita a quella dia34 «New York Times», 22 maggio 1992, p. A29; 4 agosto 1993, p. A3; 10 luglio 1994, p. E4; «Boston Globe», 25 dicembre 1993, p. 18; 23 aprile 1995, pp. 1, 23.

spora c h e aiutò poi i ceceni a resistere ai russi, così i massacri perpetrati all'inizio del xx secolo dai turchi ai d a n n i degli arm e n i p r o d u s s e r o u n a diaspora che h a poi consentito all'Armenia di resistere alla Turchia e sconfiggere l'Azerbaigian. L'ex Jugoslavia è stato il teatro del più complesso, c o n f u s o e variegato intreccio di g u e r r e di faglia dei primi anni Novanta. Al livello primario, in Croazia g o v e r n o e p o p o l o croato h a n n o c o m b a t t u t o c o n t r o i serbi di Croazia, m e n t r e in Bosnia-Erzegovina il governo bosniaco si è o p p o s t o a serbi bosniaci e croati bosniaci, c h e a loro volta si combattevano reciprocamente. AI s e c o n d o livello, il governo serbo p r o p u g n a v a la creazione di u n a «Grande Serbia» a i u t a n d o serbi bosniaci e serbi croati, m e n t r e il governo croato aspirava ad u n a «Grande Croazia» e sosteneva i croati bosniaci. Al terzo livello si è verificato u n massiccio schieramento di civiltà: Germania, Austria, il Vaticano, altri paesi e g r u p p i cattolici e u r o p e i n o n c h é , successivamente, gli Stati Uniti, dalla p a r t e della Croazia; Russia, Grecia e altri paesi e g r u p p i ortodossi dalla p a r t e dei serbi; Iran, Arabia Saudita, Turchia, Libia, l'Internazionale islamica e i paesi islamici in generale dalla p a r t e dei m u s u l m a n i bosniaci. Q u e s d ultimi h a n n o o t t e n u t o il s u p p o r t o a n c h e degli Stad Unid: u n ' a n o m a lia in u n o s c h i e r a m e n t o che p e r tutti gli altri aspetti riflette app i e n o le diverse civiltà di a p p a r t e n e n z a . La diaspora croata in G e r m a n i a e quella bosniaca in Turchia sono accorse in aiuto delle rispettive madrepatrie. Chiese e g r u p p i religiosi sono stati attivi in tutti e tre gli schieramenti. Le iniziative di n u m e r o s i governi - c e r t a m e n t e di quelli tedesco, turco, russo e american o - sono state f o r t e m e n t e influenzate dai g r u p p i di pressione e d a l l ' o p i n i o n e pubblica. Il sostegno o f f e r t o dai partecipanti di secondo e terzo livello è stato f o n d a m e n t a l e p e r il corso della g u e r r a , e le restrizioni da essi imposte f o n d a m e n t a l i p e r la sua conclusione. I governi serbo e croato h a n n o f o r n i t o armi, vettovagliamento, d e n a r o , rifugio e a volte forze militari ai rispettivi popoli in lotta in altre r e p u b b l i c h e . Sia i serbi sia i croati sia i m u s u l m a n i h a n n o ricevuto dalle rispettive popolazioni c o n s a n g u i n e e residenti al di f u o r i dell'ex Jugoslavia sostanziosi aiuti in d e n a r o , armi, vettovaglie, volontari, a d d e s t r a m e n t o militare e sostegno politico e diplomatico. I serbi e i croati d i r e t t a m e n t e impegnati nel conflitto - i partecipanti di p r i m o livello — sono stati in generale i

più estremisti nel loro nazionalismo, i più inflessibili nelle loro rivendicazioni e i più pugnaci nel p e r s e g u i m e n t o dei loro obiettivi. I governi serbo e croato (partecipanti di s e c o n d o livello) in u n p r i m o t e m p o h a n n o f o r t e m e n t e sostenuto i rispettivi popoli, d o p o d i c h é i loro int