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Italian Pages 310 [308] Year 2004
OTTIERO OTTIERI
L'IRREALTÀ QUOTIDIANA
A quattro decenni dalla sua pubblicazione, scrive Giovanni Raboni nell'Introduzione, L'irrealtà quotidiana non ha perso nulla della sua dirompente unicità, della sua strepitosa capacità di sconcertare il lettore. «Di che cosa esattamente si tratti fu questione non poco dibattuta nel corso di quel 1966 che vide, oltre alla comparsa del libro, anche il suo annunciato e tuttavia, alla resa dei conti, non incontrastato trionfo al Premio Viareggio (...). Alla fine si fece strada la formula del 'saggio romanzato': definizione tutto sommato accettabile e, almeno in parte, tuttora utile a patto di rendersi conto che dopo i romanzi per così dire tradizionali e persino vagamente neorealistici pubblicati da Ottieri prima d'allora L'irrealtà quotidiana ha segnato per lui una svolta decisiva, un autentico punto di non ritorno. Da quel momento in poi, voglio dire, nessuno dei suoi libri (...) sarebbe più stato classificabile dentro un unico genere.» Sono parole che segnalano il carattere davvero cruciale di una delle opere più controverse e significative di Ottiero Ottieri, un libro che fu definito da Andrea Zanzotto «violento, sacrificale, intimativo». L'esemplarità dell' Irrealtà quotidiana risiede proprio nella qualità che ha contraddistinto anche la produzione successiva di Ottieri: quel coraggio, ricorda ancora Raboni, «con cui entrambi, opera e autore, assumono su di sé, somatizzano, fisicizzano, trasformano in propria carne e proprio sangue» il dibattito e il confronto di idee che per altri rimangono su un piano più astratto. E oggi, a quasi quarant'anni dalla sua prima apparizione, L'irrealtà quotidiana mantiene intatta tutta la sua forza ideologica, la sua piagata corporeità, la sua dolente unicità.
In copertimi: Michelangelo Pistoletto, Bottiglia, 1962 © F o n d a z i o n e Pistoletto, Biella Sul i r i i o Otticro Ottieri in una foto di Elisabetta Catalano (ìrafit
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Sciiriibottolo
Ottiero Otticri nasce a Roma nel 1924. A ventuno anni si laurea in Lettere. Dal 1946 inizia a collaborare alla «Fiera Letteraria» e successivamente a diverse riviste letterarie. Nel 1948 si trasferisce a Milano, nel 1953 entra all'Olivetti, e nel 1955 si trasferisce a Pozzuoli, nella sede della nuova fabbrica. Da questa esperienza nasce nel 1959 Donnarumma all'assalto che, insieme alla Linea gotica (1963, ora riproposto nelle Fenici Tascabili), dà avvio alla letteratura industriale in Italia. In seguito, abbandonato il lavoro presso l'Olivetti, Ottieri si trasferirà definitivamente a Milano. Tra le sue opere pubblicate ricordiamo: Memorie dell'incoscienza, Tempi stretti, L'impagliatore di sedie, I divini mondani, Campo di concentrazione, Diario del seduttore passivo, L'infermiera di Pisa, I due amori, Il palazzo e il pazzo, Contessa, Il poema osceno. Presso Guanda sono usciti: Storia del PSI nel centenario della nascita, La psicoterapeuta bellissima, De morte, Una tragedia milanese, Cery e Una irata sensazione di peggioramento. Lo scrittore è mancato nel luglio 2002.
€ 16,50 (i.i.)
Il nostro indirizzo internet è: www.guanda.it
BIBLIOTECA DELLA FENICE
La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 1966 dalla Casa Editrice Bompiani
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ISBN 88-8246-622-1 © 2004 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma
OTTIERO OTTIERI L'IRREALTÀ QUOTIDIANA Introduzione di Giovanni
Raboni
UGO GUANDA EDITORE IN PARMA
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INTRODUZIONE
di Giovanni Raboni
A quattro decenni dalla sua pubblicazione (poco importa se non ancora compiuti: un decennio è comunque qualcosa di diverso, di meno volatile, di più riconoscibile dei singoli anni che lo compongono) mi sembra che L'irrealtà quotidiana non abbia perso niente, ma proprio niente della sua dirompente unicità, della sua strepitosa capacità di sconcertare e, diciamolo pure, mettere in crisi anche il più esperto e blasé dei lettori. Di che cosa esattamente si tratti - se di una grandiosa, incontenibile metastasi scientifico-filosofica formatasi cellula dopo cellula attorno a una sorta di embrione o, meglio, di feto romanzesco, oppure, al contrario, di una strana, strisciante vegetazione narrativa proliferata di soppiatto e quasi all'insaputa dell'autore nei recessi o fra le macerie d'un edificio saggistico non meno imponente che impossibile - fu questione non poco dibattuta nel corso di quel 1966 che vide, oltre alla comparsa del libro, anche il suo annunciato e tuttavia, alla resa dei conti, non incontrastato trionfo al Premio Viareggio: dove non mancarono, appunto, le obiezioni d'una parte dei giurati alla sua inclusione (e conseguente vittoria) nella sezione riservata ai saggi. (Fra
Vili le opere di narrativa e poesia vinse quell'anno, sia detto di sfuggita, La storia delle vittime di Alfonso Gatto; anche da questo specifico, limitato punto di vista erano, ammettiamolo, tempi migliori dei nostri.) Alla fine si fece strada - e parve, stando alle recensioni e ai commenti d'epoca, mettere tutti d'accordo - la formula del « saggio romanzato »: definizione tutto sommato accettabile e, almeno in parte, tuttora utile a patto di rendersi conto che dopo i romanzi per così dire tradizionali e persino vagamente neorealistici pubblicati da Ottieri prima d'allora L'irrealtà, quotidiana ha segnato per lui una svolta decisiva, un autentico punto di non ritorno. Da quel momento in poi, voglio dire, nessuno dei suoi libri - dai più apparentemente «narrativi» ai più apparentemente «teorici», da quelli in prosa a quelli in versi (quella sua prosa, quella sua versificazione rese diversamente ma in ugual misura inconfondibili da un'insaziabile motilità, da un'inquietudine ritmica e sintattica e microfigurale che non conosce né concede requie) - sarebbe più stato classificabile dentro un unico genere, tutti avrebbero condiviso (ciascuno, s'intende, a suo modo, con una sua diversa coloritura o, meglio, una sua svolta, un suo scarto timbrico e tonale) la sorte non meno inebriante che rischiosa d'una doppia o tripla o multipla appartenenza: racconto, trattato, diario, confessione, pamphlet... - fino, in prospettiva, a un vero e proprio sgretolamento, a una vera e propria dissoluzione, non programmatica, certo, ma proprio per questo così effettiva e radicale, di qualsiasi vecchia e finanche, perché no? novissima convenzione formale. Eppure nemmeno questo — nemmeno la clamo-
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rosa e persistente anomalia che esso costituisce dal doppio punto di vista della struttura e della pronuncia — basta a spiegare fino in fondo l'irresistibile, dissestante fascino del libro; né credo che solo a questo pensasse Andrea Zanzotto quando parecchi anni dopo (precisamente nel novembre dell'83, commentando, vedi caso, il ventennale della neoavanguardia) lo definì « il libro più violento, sacrificale, intimativo [...] apparso in quei decenni». Sì, l'unicità di questo libro - e, più in generale, l'unicità di Ottieri, il suo essere a tal punto (con le parole, ancora, di Zanzotto) « un isolato, un erratico» rispetto al contesto di quegli anni e, oserei dire, rispetto a qualsiasi contesto culturale minimamente ordinario e prevedibile - ha radici non soltanto di forma, di struttura, di scrittura, ma anche e soprattutto di sostanza; e ha certamente molto a che vedere con il coraggio (un coraggio che rasenta la temerarietà) con cui entrambi, opera e autore, assumono su di sé, somatizzano, fìsicizzano, trasformano in propria carne e proprio sangue il vischioso e labirintico viluppo di ciò che per altri — anzi, in un certo senso, per tutti gli altri — era invece in quegli anni un importante e magari centrale o forse addirittura decisivo, ma pur sempre astratto e dunque indolore (e in ogni caso incruento) dibattito e confronto di idee. Della doppia o multipla valenza del concetto di alienazione, della possibilità o necessità d'approfondirne la portata e le implicazioni alla luce di Marx oppure di Freud oppure del combinato disposto, come dicono i giuristi, del pensiero dei due, nonché dei conseguenti riflessi e ricadute non solo sulla teoria, ma anche sulla prassi politica - e, per quanto ci riguardava più direttamente e più da vicino,
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non solo sulla teoria, ma anche sulla prassi artistica e letteraria - erano pieni per non dire affollati, allora, i nostri discorsi. E nemmeno ignoravamo, in termini di riflessione e, perché no? di immaginazione culturale, l'instabilità e labilità dei confini che separano l'alienazione sociale dall'alienazione psichica, il disagio dalla patologia. Ma un conto è parlare d'una cosa, rifletterci, discuterne, e un altro conto è viverla - viverla interamente e integralmente, viverla su di sé e dentro di sé, viverla in ogni fibra e giuntura del proprio essere e della propria storia. Ebbene, questo - l'incarnazione assoluta del simbolo, la sua metamorfosi in ferita, in stigmate - è ciò che a Ottieri (e, guardandosi intorno ad occhio nudo, si poteva legittimamente aggiungere: a nessun altro) era davvero e drammaticamente toccato in sorte; questo ciò di cui i suoi libri, da L'irrealtà quotidiana in poi, ininterrottamente e grandiosamente testimoniano. E di nuovo Zanzotto a darne atto, in quello scritto dell'83, con la più consapevole e fraterna precisione, quando sottolinea che soltanto nel libro (nei libri) di Ottieri era possibile (è stato possibile, è tuttora possibile) riscontrare «evidenza e presenza di sintomo». Ed è appunto l'irrefutabilità d'una tale evidenza, è proprio la dolente, piagata corporeità d'una tale presenza a fare dell 'Irrealtà quotidiana o, meglio, del libro ininterrotto che con L'irrealtà quotidiana Ottieri ha cominciato e non ha più smesso di scrivere quell'opera totalmente sui generis, refrattaria a qualsiasi collocazione e persino a qualsiasi descrizione, di cui ho cercato più volte e probabilmente invano di evocare l'immagine. Da qui a dire che si tratta anche di uno dei po-
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chi, dei pochissimi capolavori che l'età e la cultura del malessere abbiano regalato alla letteratura italiana il passo è, credo, non meno obbligato che breve. Giancarlo Vigorelli, in una sollecita e acuta recensione apparsa sul settimanale «Tempo», accostò L'irrealtà quotidiana a un libro altrettanto unico e inclassificabile pubblicato mezzo secolo prima, La persuasione e la retorica di Michelstaedter. Oggi, volendo trovare a Ottieri un vicino meno remoto nel tempo, il solo nome che mi viene in mente è quello del suo coetaneo e, finché visse, fraterno amico Paolo Volponi; ma con la precisazione - non troppo paradossale, spero - che la vicinanza, la somiglianza, la consanguineità che mi sembra di intravedere in Ottieri non è tanto con l'autore di Memoriale e delle Mosche del capitale, quanto con i suoi personaggi, da Albino Saluggia a Bruto Saraccini. Il che, credo, ci porta una volta di più e per una via solo apparentemente indiretta o tortuosa a riflettere sulla natura (per citare ancora Zanzotto) violentemente sacrificale e dunque, come ho più volte suggerito, cruenta del rapporto che lega lo scrittore Ottieri (in prima o per interposta persona - magari, come qui, la persona del più intimo e facilmente smascherabile degli eteronimi) da un lato all'oscurità e densità della sua materia, dall'altro all'illuministica e fin gioiosa clarté della sua scrittura; in altre parole, sul cortocircuito terribile e al tempo stesso esilarante (niente è più comico del dolore, sembra ricordarci ogni segmento, ogni cadenza, ogni inflessione di questo testo e, d'ora in avanti, d'ogni suo testo) che scatta senza sosta, senza remissione, senza scampo, in lui e per lui, fra idea e sintomo, fra ragionamento e rappresentazione, fra nozione della sofferenza e percorso della sofferenza.
CAPITOLO PRIMO
LA SVOLTA A "U"
Il meccanismo (ossessivo) di questo vecchio dramma della scelta è semplice: appena si decide una via, si finisce per decidete anche la via opposta. Appena si tocca una cosa o certezza, si rimbalza, per ciò stesso, su un'altra cosa o certezza che si trova o inventa. Non si è dubbiosi metodicamente ma disperatamente e quindi non vale la famosa certezza del dubbio; si è dubbiosi in quanto accanitamente ambivalenti e si è ambivalenti anche verso la propria ambivalenza. Si vogliono due cose sempre ma come volendone una sola. Ho necessità di vedere come si incarna nella vita questo meccanismo: lo ritrovo nella mente e nel comportamento. Se io sono incerto fra due corni di un dilemma sul piano mentale, se devo scegliere fra due immagini prefiguranti in base alle quali agire nel futuro, posso starmene seduto, fare qualsiasi cosa materiale ( non mentale, certo ) intanto che nella mia testa avviene il cozzo, no, il subdolo ed estenuante confronto fra le due immagini accostate come due carte da gioco aperte in una mano, ora sovrapposte quasi intieramente e quasi combacianti, ora lentamente divaricate, vicinissime o più lontane a seconda che la
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mente ritenga più facile scegliere fra due corni appaiati o due corni discosti. Intanto la mente è spinta a scegliere da una forza vitale immane che la preme, dalla possibilità di scegliere, dalla "possibilità angosciante di potere", insomma dall'ambivalenza, e mai potrebbe rassegnarsi a non scegliere. E non sceglie. Confronta le due carte soppesandone i prò e i contro all'infinito poiché, essendo immagini, ne dispone in maniera onnipotente. Crede che andando avanti nel tempo a furia di confronti si arrivi ad una eliminatoria finale, da cui scaturisca il vincitore. Perciò la mente ha la fobia (ossessiva) di qualsiasi altro pensiero che la distrarrebbe dal confronto e le sottrarrebbe tempo e concentrazione utili a partorire la scelta. ( È l'angoscia, soltanto si chiede, che provoca il dramma della scelta o è il dramma della scelta che provoca l'angoscia? Qual è insomma la fonte prima dell'angoscia? Ardua richiesta). Questa fobia concentra e insieme stordisce tutta la mente, la quale rifugge da una scelta che, nel migliore dei casi, nòn sarebbe che rassegnazione. Rifugge dalla rassegnazione come dal peggior male del mondo. Dovendo scegliere fra A e B che si escludono a vicenda, la mente può vivere mentalmente tutte le immagini per A e tutte le immagini per B, prevedendo A e B, e illudendosi che sottilizzando sempre più, accumulando le motivazioni, si elabori nella testa una scelta motivata e convinta. Dimentica che qualsiasi motivata scelta faccia, sarà richiamata potentemente verso l'immagine scartata; spera sempre. La mente è in preda a opposti venti incontrollabili, che nascono e rinascono con una loro autonoma origine prepotente, che a turno la riempiono e la succhiano verso le fotografie contrarie A e B. Oppure è vittima di soffi improvvisi che la incal-
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zano verso una varietà di istantanee A, B, C, D...: senza nemmeno che, da fuori, si veda molto. Al massimo si vedrà il soggetto un po' imbambolato. La mente, sempre per il dominio assoluto che ritiene di avere su A e B, su A B C D..., si dedica a numerose operazioni (mentali), quali credere di risolvere tutto con un compromesso fra A e B, scegliere C, scegliere prima A poi B (diacronia), non scegliere affatto; ovvero ritirarsi in un punto a alto sul terreno arato e martoriato del tira-e-molla, li arroccarsi e riacquistare una unità che assiste alla lacerazione come fosse la lacerazione di un altrove alla zuffa delle motivazioni immaginate come uno spettatore segue la palla a una partita di tennis. Castellino di carte, che non la realtà, ma la mente stessa fa subito crollare accorgendosi di essere ancor peggio smembrata sugli angoli di un triangolo avente per vertici A, B, a. Allora la mente si risolve ad abdicare e decide di scendere dagli occhi interni della testa, nel comportamento. Il vantaggio di poter non scegliere essendo mente e immagine e non realtà, di poter infinitamente confrontare A e B con la speranza che una delle due foto si appalesi migliore dell'altra — si è esaurito. La mente desidera il mondo, con cui aveva rotto i contatti. Realizza che A e B erano appunto le due vie per entrare nel mondo. La mente si dispera di se stessa, schiava di un meccanismo da cui non concepisce di uscire, anche se intravede oscuramente e astrattamente che la scelta non sprigionerà mai da quel meccanismo, che è il meccanismo puro della scelta, quindi il meccanismo della necessità imprescindibile di scegliere e quindi della non scelta. Per esso, se per caso scelgo B eliminando A, subito compare un C a contrapporsi a B ed a riaprire il bivio. Questo piano mentale è intermedio fra il piano
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teoretico (filosofico) di cui ancora non parlo, e il piano del comportamento. Sul piano del comportamento valgono le leggi dello spazio e del tempo, che la mente aveva creduto di infrangere con onnipotenza. Siano A e B due città. O vado nell'una o vado nell'altra. Non posso andare in tutte e due contemporaneamente. Potrei andare prima nell'una poi nell'altra, ma la voglia di tutte e due è per definizione sincronica. Se nell'incertezza mentale giungo a una illusoria miscela degli opposti o mi muovo dall'uno all'altro cosi velocissimamente, con spostamenti cosi piccoli e cosi rapidi che tendono all'infinitamente piccolo e rapido, verso la stasi, la quale è una catatonia o Una sconfinata libertà — nell'incertezza comportamentistica devo fare i conti con il corpo, cioè con il mio corpo. Ora il corpo partecipa di A e B, li vive, e fa capire alla mente che dove non c'è il corpo non c'è niente, e che la libertà mentale di non scegliere, in attesa che si elabori la scelta, è una miserevole libertà angosciosa e che a è la più gran bugia che la mente tenti di far inghiottire a se stessa. La libertà di non scegliere è soltanto catatonica. Si apre una tensione fra la mente e il corpo, perché posso: andare in A con il corpo, e la mente ancorata in B; andare in B con il corpo, e la mente ancorata in A. La qualità della larghezza di divaricazione della mente rispetto al corpo e viceversa non è facilmente definibile. (Si può anche chiamare alienazione ). Quindi non so mai, in astratto, se questa divaricazione è reale o metaforica, dolorosa o consolatoria, coraggiosa o pavida. La cosiddetta capacità d'essere altrove non è completamente una forza né completamente una debolezza r è la lotta fra l'immagine e la realtà. Di solito è arduo stabilire se l'immagine sia più giusta della realtà o viceversa:
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ma certo, in concreto ogni immagine ossessiva è un colpo che fa piegare le ginocchia della realtà. Posso andare con il corpo e buona parte della mente da A a B, da B ad A, su e giù, senza essere mai da nessuna parte ma sempre per la strada. In ultimo, essere bloccato dalla incertezza in (3 — il luogo dove sono, perché sempre, assiomaticamente, si è in un luogo — e da cui dovrei muovere verso A o verso B. P non è come a' una menzogna, (3 esiste ed io lo so benissimo, anche se è un sapere passivo. Esiste la legge che regola l'incertezza sul piano del comportamento: è la legge dello status quo. Essa dice: sul piano del comportamento la non scelta è sempre una scelta, la scelta dello status quo. Se l'incertezza fra A e B è tale che non mi lascia nemmeno muovere, io, non scegliendo ho scelto, sia pure passivamente, perché nel comportamento la non scelta è sempra una scelta (passiva, dello status quo). La fenomenologia di tale scelta passiva meriterebbe un capitolo a parte, perché è senza dubbio una delle grandi scelte umane.
Più romanzescamente. Ecco l'uomo dal balzellio mentale delle immagini, irresistibile; come un uccellino semistecchito ma frenetico, indomabile, inarrestabile, che in gabbia credendosi libero saltella da un ramo a un altro, con saltelli di un millimetro sempre più veloci. Oppure ecco l'incertezza come è sorta: prima dall'accostamento magari piacevole di due immagini ignare, poi dal loro confrontarsi squadrandosi, infine dal sentimento della loro reciproca distruzione; opposizione ancora a onde lunghe, larghe, lente, quasi maestose; a onde opposte sempre più corte; con un vento prima tollerante, regale, poi
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strappante, infine furioso, nero interiore, che si precipita verso A, giunge all'acme, si rovescia in folate furiose su B, per poi ristravolgersi in A. Poi in B, in A, in B, in A. E un comportamentista direbbe che passo da un conflitto attrazione-attrazione ad uno repulsione-repulsione. Fino a una tragica falsa maturazione secondo la quale una parte dell'uomo si stacca man mano e dallo sbandamento in A e dallo sbandamento in B, per ritirarsi nel ruolo di spettatrice ferma, finta, attonita in una bonaccia desertica e davanti a questo podio arido il fenomeno orrendo degli sbandamenti accade come l'alternarsi di un metronomo naturale, esterno all'uomo, distante, che sia distante; invece è sotto la grondaia del cervello. Il metronomo è parte dello stesso cervello. L'uomo ormai sta sempre sdraiato nel suo letto. Il vento soffiando non lo lascia più stare ritto. Preferisce stare supino per fantasticare la libertà di non scegliere, la possibilità di scegliere questo o quello, di procurarsi a bagnomaria la maturazione della scelta: farcirsi e inzupparsi di motivazioni e soppesamenti infiniti per cui egli tutto ha preveduto e bilanciato e ormai merita la scelta; merita che la scelta si produca da sé, spuntando da una terra pregna. Sta a letto piuttosto che alzarsi e subito imbattersi nel corpo incatenato alla legge dello status quo. Alzandosi, il peso stesso del corpo spinge coscientemente verso A o B o A come non B, B come non A, p come non A e non B. Giace, piuttosto che rischiare di scegliere davvero nel comportamento, e orribilmente, come crede, rinunciare; che poi non è nemmeno rinunciare nella vita, ma rinuncia all'ossessione: lo sa, eppure non può rinunciarci. È libero, non rinuncia, fino a che sta a letto: questo schiavo inchiodato come una far-
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falla dal perno delle pendolarità del mentale, Cristo incerto se agonizzare guardando il braccio destro o il braccio sinistro della croce. Si prefigura A, poi B, tanto ha il tempo di tornare ad A, e il corpo è svanito sotto l'invasione del cervello: tutto il corpo è una grande mente infilzata per la fronte al letto. Si prefigura A e B contemporaneamente, e ciò, nonostante tutto, è impossibile. Chiede l'impossibile alla immaginazione; allora essa non vuole assolutamente essere distratta da altro compito, dalla realtà; però si rarefa, si logora, si isola. Egli è completamente risucchiato nella pre-visione, vi si innalza, ne sprofonda nel vuoto. L'uomo è in treno o in automobile. Pare che abbia deciso per A; non ha deciso: ma insomma ci si dirige. Quando il corpo si muove una decisione c'è: è la seconda legge che regola l'incertezza sul piano del comportamento. È per questa legge, ad esempio, che questo libro, che è un fatto, un comportamento, può esistere. Perché se scrivendolo e architettandolo, mi accade di vivere esattamente il dramma che descrivo, per esempio su come cominciare il libro, essendo io incerto fra due inizi — che cosa accade? Che sono colpito dal ritrovare la verità di ciò che descrivo e lusingato dall'idea molto moderna di approfittarne per riportare sulla carta il dramma della scelta quale esso è, atteggiando ad esso la rappresentazione. Ecco, direi, il descritto è identico al vissuto: ho il dramma della scelta mentre racconto il dramma della scelta. Vi è niente di più moderno? Non do il dramma della scelta già chiuso e risolto, tradendolo, ma la struttura del dramma ancora aperta, omologa al dramma. Per cui do tutti e due gli inizi fra i quali sono incerto (come quei film che hanno due finali) e faccio cosi un'opera di avanguar-
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dia che comincia in due o più modi. Ma per il motivo fisico, comportamentale di doverli dare in una successione, ecco che devo scegliere fra l'inizio A e l'inizio B, se pur voglio appoggiare il pennino sulla carta: la priorità obbligata del comportamento — cui non la simultaneità ma la tendenza al nulla si contrappone, e assiomaticamente l'uomo rifiuta il vero nulla — diviene una scelta già fatta ( non più nel suo farsi o non farsi), sia pure rassegnata, a bocca amara e con riserva. Dunque il corpo va verso A perché una frazione sufficiente di intenzione ce lo induce lungo una strada ( statale o autostrada ) della realtà, in basso; e in. alto, all'altezza degli occhi e dietro essi, lungo il corridoio buio del cervello. Ma il flusso di intenzione verso A lentamente rimatura per B dentro al corridoio del cervello e arretra, rifluisce, gira, fa una svolta a U proibitissima sull'autostrada e riparte contro un muro d'aria solida. Se è in treno scende alla prossima stazione sconosciuta e li attende ore il convoglio per la parte contraria sconquassato in sala d'aspetto dalla visione di due film insieme che egli continua a proiettarsi: l'incertezza è la più prolifica produttrice d'immagini, perché sostituisce la realtà con immagini di infinite altre realtà. Assiste ai due film che gli storcono gli occhi della mente e spostando il cervello di qua e di là, lo aspirano fuori dal cranio verso una direzione esterna quindi verso un'altra. Il cervello si protende come un braccio. Le pupille fisiche stanno sbarrate e intontite su una realtà che non vedono più perché la massa grigia è impegnata con le sue pupille mentali sbarrate a oscillare come il carico di una stiva mezza vuota e mezza piena, durante una tempesta, e alternativamente a precipitarsi sbatacchiando da poppa a prua da prua a poppa. E inutilissimo è chiedere aiuto a un
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altro. Ogni consiglio esterno subito si impiglia nell'ingranaggio oscillatorio, si sfrange e si ridicolizza. Perciò il dramma della scelta realizza la assolutezza della solitudine. Si obietta che questa è una caduta nel patologico. È caduta nel meccanicismo, è diverso. Nei meccanismi si incontrano il patologico e il normale, perché ogni patologia è piena di meccanismi e nessuna normalità è priva di essi. La indistinzione fra patologia e normalità non è un capriccio umanistico confusionario: bensì il riconoscimento di una stessa qualità di motore e di trasmissioni nel malato e nel sano. Vorrei sfruttare il meccanicismo e pensare a una macchina elettronica che mi aiutasse nella scelta, dandomi la soluzione ottimale dopo aver correlato le variabili di tutte le motivazioni per A e per B. Se qualcuno si lamenta che fra poco gli imprenditori industriali affideranno la scelta agli automi e se qualcuno protesta di questa disumana abolizione del rischio umano, io ne sarei felicissimo e subito proporrei automi nei quali introdurre programmi della vita privata per ricavarne la decisione dopo un vaglio immenso e velocissimo, nel quale la mente si perderebbe. Me la riderei se il dramma esistenziale della scelta andasse per aria assorbito da un calcolatore elettronico da tavolo o, meglio ancora, da polso, che dà in uscita la risposta a un dilemma fra due inizi o due villeggiature o due visioni del mondo. La scienza allora servirebbe a calcolare le tragedie del soggettivismo e del cervello, rendendole puro comportamento, come oggi serve a calcolare il rendez-vous spaziale. Si obietta che scavalco l'istinto, l'intuizione e
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l'intenzione ecc., i quali, al contrario della ragione preda facilissima e classica dell'inazione e dell'amletismo, nota costruttrice di problemi inesistenti, possiedono una forza originaria e vitale, che alla fine (o in principio) sceglie al posto della ragione. Ma no. Esponevo appunto una incertezza a livello dell'istinto, una conflittualità istintuale, solo dopo razionalizzata in A e in B, segni che hanno un valore simbolico. L'istinto ha l'istinto di scegliere per sfogarsi, ma ha orrore di scegliere. Sempre sarà da se stesso costretto a scegliere, ma con la Riserva che è in lui (che non cala dalla mente in lui o che ne cala solo in apparenza). Sempre dirà Si o No, con riserva, una riserva che sembra mentale, ed è istintuale. Forse l'istinto fu colpito assai giovane quando non potè scegliere fra il padre e la madre, quando nei loro contrasti all'ora di pranzo sentiva tutta la lacerazione del mondo e tutta la ragione di qua e tutta la ragione di là, senza poter dare ragione né all'uno né all'altra. Avevano, a tavola, perfetta ragione tutti e due e appena il ragazzino pencolava da una parte, subito argomenti e affetti lo strappavano dall'altra lacerandolo. Non poteva, non poteva scegliere l'uno contro l'altra. Era come un disperato metronomo le cui vibrazioni coincidevano con una coatta immobilità, e tutto il mangiare, nei silenzi che seguivano i contrasti, gli andava per traverso e gli si mescolava con il rifiuto disumano della violenza che ingenerava quei contrasti e di quei contrasti che ingeneravano violenza. Da allora egli ha la fobia della violenza e della scelta che essa comporta o della scelta che comporta la violenza. Da allora egli non è che un autoaggressivo mediatore atterrito, un Cagliostro involontario della violenza s u b d o l a indiretta, l'unica
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che egli può permettersi. Da allora egli entrò sotto il controllo di un meccanismo oscillatorio ed ebbe riserva verso il certo e riserva verso l'incerto. Egli si prova a comporre una dialettica degli opposti A e B che trovino sintesi in X, il quale diverrà l'Ai del successivo gradino quando una nuova Bi gli si opporrà e gli proporrà il superamento reciproco in Xi il quale diverrà l'A2... e, notoriamente, cosi via. L'antinomia gli sbarra il cammino, e per meglio sconfiggere la dialettica si traveste con contenuti ingannevolmente realistici, con A e B veri, del comportamento, per esempio due città che veramente si escludono a vicenda: la scelta trova nella polla antinómica che la rifornisce nomi reali, che la frustano. Il dubbio è più aspro quando ha fogge verosimili, partecipi della realtà. Invece tutta questa realtà non è che una espressione simbolica. ( Perché dunque non provare a formalizzarla e a metterla nel cervello di un automa senza angoscia? ) Se scendendo verso il basso, A e B rappresentano due poli della ambivalenza oscura, istintuale, forse il padre e la madre, forse due qualunque alternative viscerali e mitiche tendenti a rimanere nella vita dell'inconscio e ad agire da li sotto — salendo verso l'alto, per successive eliminatorie, A e B finiscono per rappresentare la vita e la morte. Naturalmente morte significa morte scelta. È giusto che il dramma della incertezza e della certezza, salendo a spirale, riguardi in ultimo la lotta fra istinto di morte e istinto di vita. A questo livello la scelta ha caratteristiche singolari, pur se rimane dello stesso tipo di una scelta mentale e comportamentistica fra A e B. Chi costeggia il salto del suicidio a lungo, è preso dalla
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vertigine e questi sono i suoi pensieri: per la legge dello status quo, finché non mi decido vivo, quindi decido di vivere. Ho comunque uguali ragioni di scegliere A e di scegliere B, come quando sono incerto fra due cravatte e due città: altrimenti non sarei incerto. Sono ugualissimamente incerto tra la vita e la morte. No. Non sono completamente libero di scegliere la morte. Perché? Che cosa è questa ovvietà che mi separa tanto ferreamente da B come morte scelta? Tale ovvietà comunque mi rimbalza via dal dilemma logico, estremo. Torno indietro verso quei dilemmi the mi avevano pian piano innalzato al dilemma estremo, e che ora mi accolgono di nuovo. La mia vita è in certo senso degradata: proseguo a dubitare fra due cravatte e due città in attesa che l'aria calda fatale ascensionale di un pensiero, che più che incerto è ambivalente, mi reimmetta nell'orbita estrema, in attesa che il razzo vettore della antinomia mi ci spari. Forse il sentimento d'irrealtà è una incertezza come solitudine e ambivalenza, e non come scetticismo, giunta al gradino dove la realtà si biforca dal suo contrario, che è l'irrealtà. Forse è questa la genesi dell'irrealtà. Cosi sembra, almeno, a chi si è lasciato alle spalle il dramma della scelta e vuole ora matematicamente riscegliere ( anche se nella matematica esiste pur sempre il concetto di infinito), perché sa scegliere.
CAPITOLO SECONDO
UN FULMINE LENTO
Dopo alcuni mesi misteriosi F. ricomparve. Come al solito nessuno gli chiedeva dove fosse stato. Bastava che tornasse, pallido, un po' gonfio, ma vestendo panni. Adesso era normale. Un mese dopo il ritorno, ho sentito per la prima volta parlare da lui di un preciso sentimento di irrealtà. Qualche settimana avanti aveva detto fuggevolmente come per caso: "Non si può scegliere di non morire. Ma si può scegliere di morire. " Il sentimento d'irrealtà può essere la evaporazione di una idea del suicidio rimasta in bilico a lungo sul suicidio. F. però non fa alcun collegamento tra scelta, suicidio, irrealtà, soltanto lascia filtrare il sentimento d'irrealtà cercando di esprimere proprio l'inesprimibile, giacché la caratteristica quasi esclusiva e recidiva del suo sentimento d'irrealtà è l'ineffabilità. Alcuni periodi storici sono stati segnati dal tema dell'ineffabile mistico-religioso. Ma F. è impeccabilmente moderno, razionale e amoreggia con le scienze; nonostante appartenga a una generazione "umanistica", intravede ora nella
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scienza un futuro di totale prosciugamento della coscienza e vagheggia un comportamentismo puro senz'ansia. Poiché lo stimolo è sufficiente a dar conto della risposta, non c'è bisogno di spiegare il comportamento riflesso con concetti quali mente o libero arbitrio. La sua vita privata è talmente segreta, che sembra davvero non esserne rimasto che un comportamento misurabile, senza mente. Le scelte sembrano bruciate. Mai a nessuno F. dice nulla di sé, egli è cosi segreto come se non avesse più segreti (o ne avesse una atterrita vergogna). Unico spiraglio: l'irrealtà, prova superstite di un comportamento interiore: Ma il comportamento visibile di F. è inspiegato, trattenuto, perplesso. Qualche cosa lo frena. È difficile indovinare se e quali altri sentimenti, oltre quello d'irrealtà, lo conducano. Molte voci sono corse sulle sue scomparse: in sostanza sono periodi in cui egli non tollera la realtà e di ciò si ammala. Non ha trovato un equilibrio tra fantasticheria sregolata, inconcludenza ed efficienza; tra passione e ordine. Quando non è nell'ordine cade in una agitazione ossessiva che non può decorosamente essere vissuta in mezzo agli altri e degli altri ha orrore; la sua coscienza è un cancro proliferante. Quando non è in agitazione fantasmatica, è in un ordine matematico e dalla apparenza completamente pudica e arida, tranne il piccolo scolo dell'irrealtà. E non c'è dubbio che una fase ottimistica stia dietro al suo comportamentismo; una fase pessimistica dietro al suo soggettivismo. Egli è un dirigente industriale. Ma se qualcuno per l'ennesima volta osserva che sono le raffinerie, i fumi giallastri, il vetro-cemento a fare impazzire gli uomini, egli sorride. Ricorda come impazziva di più nel suo paese ventoso, depresso, splendido, quando
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nella sua adolescenza cominciò a essere squartato fra l'istinto e la mente. Non comunica dunque che questa incomunicabile irrealtà, attraverso una mitezza un po' obliqua. Non accusa mai altri che se stesso, diversamente da molti che accusano a destra e a sinistra della loro irrealtà. Sulle prime non parlava nemmeno di irrealtà. Diceva: "Ho un senso," "Un senso di...," quindi con l'abitudine reciproca: "Ho quel senso." Con altri conduceva sempre una conversazione impersonale ritraendosi al minimo accenno intimo. Era divenuto assolutamente incapace di parlare di sé poiché aveva in uguale misura la vergogna e l'impossibilità di spiegarsi, e dunque coincideva con i suoi colleghi ingegneri che avevano abolito la vita privata e i comportamenti non misurabili. Sentiva in sé tutto cosi concatenato che o diceva tutto o non era possibile tagliarne fuori un pezzo. Aveva trovato questo sbocco estremo dell'irrealtà, cui intendeva dare il massimo di significante e il minimo di significato. Pareva che, da un lato, stesse con le parole come con un fucile spianato a cogliere l'irrealtà al balzo, come una lepre. Dall'altro, aveva la fobia di delimitare l'irrealtà con le parole e quindi la sottraeva al comportamento e, a maggior ragione, ad ogni filosofia o scienza come analisi linguistica. Non era nemmeno l'irrealtà. Credette di sentire qualcosa di abbastanza simile al sentimento d'irrealtà, dopo averlo scoperto su certi libri, ma poi il suo "senso", era diverso da altri avvenimenti interiori che gli studiosi elencano come parti integranti del disturbo. Era... "La sensazione improvvisa che gli altri appartengano a un altro mondo, no, che me ne sto sopra e di fianco al mondo." Subito precisava che non era affatto questo, cancellandolo.
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Questo gli era chiaro: la sensazione, mentre la provo, è indicibile per sua essenza e definizione. Quando esce dal tappo della coscienza muta, l'effluvio svanisce, e la memoria è impotente davanti all'irrealtà. Di nuovo, ritornava la coscienza: a causa di questa irrealtà la scienza non riusciva a prosciugare la coscienza, benché occupasse con la logica e la matematica tutto l'orizzonte scientifico-industriale di F. Ma la irrealtà era davvero la coscienza? Essa ha un marchio tutto diverso dalla coscienza. Torna all'inizio infinitesimale di una piega dell'incurvamento di F. su se stesso, quindi somiglia alla coscienza. Ma poi vi è in essa un disorientamento, un buio, una cupezza che sono il contrario della coscienza. D'altra parte ancora, essa è una vertigine, ma "spirituale", perché il disturbo non deforma in F. la percezione delle cose, del mondo, del corpo. Sottrae, ma non altera. È una vertigine meta-fisica, breve, trasparente e insieme cupa, che non impaccia il gesto e la parola; di cui gli altri non ricevono il minimo segnale esterno; il comportamento di F. era intatto nel mondo mentre dentro distruggeva il mondo. E. non interrompeva, in preda a sentimento d'irrealtà, né l'azione né la meditazione. Non si reggeva la fronte: a fronte alta veniva preso da un grande soffio interno che non filtrava dalla sua pelle, e lambito da un miscuglio esattamente composto di stupore e angoscia. Dicono che il sentimento d'irrealtà si accompagni sempre a quello di vuoto e di estraneamento. Ora F. non provava precisamente estraneamento... L'irrealtà non era forse che la caccia all'introvabile definizione di se stessa? No, ha dei contenuti e chiari, e bisogna trovare le parole per essi. Quali contenuti? La sensazione esatta, la certezza
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che c'è un altro mondo, ugualmente terreno, oltre a questo mondo. Migliore? No. Posteriore? No. Sta di fatto che improvvisamente la sera in un salotto fra la gente e le poltrone F. provava il suo torbido stravolgimento di pensiero, o guardando in faccia quello con cui parlava o abbracciando con lo sguardo tutti, stordito. Oppure quando montava in automobile, dopo aver parlato e lavorato con forte partecipazione con uno degli ingegneri del 2000 che 10 circondavano, appena si rifletteva solo nell'abitacolo cadeva il vento che teneva tesa la vela (che lo "oggettivava"), il vento dell'ansia e della presa diretta. La vela si afflosciava ripiegandosi. F. senza distrarsi affatto, anzi con una attenzione ossessiva alla strada, sentiva una irrealtà fosca, pesante come una grossa tenda sulla gola. Non era angoscia, bensì qualcosa che può essere accompagnata dall'angoscia. Tanto è vero che F. non mandava barriti di angoscia, zitto cercava di inghiottire il sentimento d'irrealtà dicendosi insieme che non poteva più passargli ( tanta è la sua forza di persuasione logica ) e che di li a un momento gli sarebbe passato per forza (tanta è la istantaneità con cui stringe il cervello). Le soste, i ripensamenti, favoriscono l'irrealtà, che però non è semplicemente la solitudine e nemmeno, come hanno sospettato alcuni, l'astrazione dei filosofi, per lo stesso motivo per cui non è la coscienza, bensì è attigua alla coscienza. F. sostiene che 11 sentimento d'irrealtà non è affatto filosofia: può stare in rapporto con la filosofia, proprio perché non «lo è. Può condurre a una occlusione del pensiero, a uno stordimento atòno, miserevole. È un incrocioingorgo fra la perdita della ovvietà quotidiana concepita come verità e la medesima perdita conce-
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pita come catastrofe, da parte di uno il cui amore per il mondo è disfatto. Non dal suo viso, dalla sua voce, civili, smussati, monotoni capivo che l'ingorgo di F. non era intellettuale bensì, sotto spoglie intellettuali, un intero sussulto agghiacciante della sua esistenza. Ma dalla reclusione della sua intimità e da un breve irrigidimento dei suoi occhi, dietro i quali il sentimento di irrealtà era ( come direbbe Sartre) uno spasmo dell'Io. F. intanto non ha mai voluto parlare delle cause di ciò che provava. Ama il causalismo, ma risalire all'inizio del gomitolo avrebbe sciorinato il suo segreto. Nell'occasione del sentimento d'irrealtà egli diveniva assolutamente gratuito. Ricopre i suoi moventi come un assassino cancella le tracce del delitto. Alle spalle, sembra non avere niente; non ha che, davanti a lui, una misteriosa vaghezza di scopi personali e questo futuro generale verso cui l'avanguardia tecnocratica e scientifica lo spinge. Se qualche ossessione banale lo rode, l'ha rinchiusa come una particella di radium in un cilindro di piombo. Egli non ha memoria, non possiede niente. Non sono mai stato capace di raccontargli di una persona la cui irrealtà era scomparsa da quando ne aveva riconosciuto i motivi: F. e i suoi ingegneri privi d'ansia debordante dal comportamento secco, parlano continuamente di motivazioni e dividono il mondo in motivato e in non motivato, ma da che cosa insomma è motivato F.? È egli motivato, per esempio, o non è motivato affatto a occuparsi delle motivazioni degli altri, come gli hanno ordinato nella sua azienda? (Accade che una azienda destini allo studio accanito delle motivazioni qualcuno che non è motivato affatto a occuparsi di motivazioni). Respinti da F,, non lo si può interpretare che con qualche causali-
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smo tipico, come quello del dramma della scelta vissuto quale "essere-altrove". F. sarebbe uno che per abitudine vive dentro a un sistema per il quale è sempre altrove. Andando avanti negli anni una cremagliera lo trascina e lo costringe a svilupparsi, arrampicando per una salita che dall'Altrove, in senso fisico e spaziale, si evolve in Alibi in senso interiore e poi in Al di là nel senso metafisico dell'altro mondo. Prima io sono altrove, in un'altra città — e mi ci porta la forza della mia immaginazione assieme alla debolezza della mia esistenza labile, non appoggiata su se stessa, sempre un altro —, poi sono dentro a un pensiero tutto mio e segreto, diverso dalla realtà; poi vado verso l'altro mondo. In ultimo ho consumato tutte le stazioni. Fino a che per qualche scuotimento, progresso, o ulteriore corrosione del tempo, l'incancrenito Sistema dell'essere sempre altrove si spacca. Ne restano le abitudini. Per esempio il meccanismo del partire per raggiungere l'altrove, l'alibi o l'ai di là. All'uomo incallito nel difendersi dalla presenza del presente, del qui e ora, e nel vivere in una temporalità coagulata o di Nostalgia o soprattutto di Utopia, viene a mancare il luogo verso cui partire: dura a morire non muore la consuetudine quotidiana e romanzesca alla evasione ( cioè riserva ) mentale e alla partenza, una specie di zampillo dello spirito di vita e di morte che sprizza in alto e subito si reinfila dentro se stesso. Si parte, e nel tempo di un istante ci si ricorda di non avere più mete. L'irrealtà sarebbe questa simultanea andata e ritorno. Ci si dice, in automobile, in corridoio, al mare: "Non è tutto qui! Perché è assurdo che sia tutto qui." Immediatamente e
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quasi simultaneamente ci si dice: "È tutto qui! Perché è assurdo che non sia tutto qui." La giusta opposizione delle due assurdità è forse la causa prossima del sentimento d'irrealtà. Scese le scale di corsa, F. guardava nell'androne le cassette postali. Si allontanavano, arretravano, non nella sua percezione che continuava ad avere una misura esatta della loro distanza: ma in una sua intuizione parallela e sovrastante la percezione, che apriva fra lui e le cassette uno spazio esagerato, riempito di pulviscolo pesante. Ognuno di questi corpuscoli impalpabili (ineffabili) diceva: "C'è dell'altro, c'è dell'altro." Non c'era niente altro. Cosi si descrive l'irrealtà univocamente, come una difesa contro il dovere maturo di rassegnarsi al finito; e poi come una rinuncia all'infinito, all'infinita possibilità, da parte di un uomo che si fa adulto e impara faticosamente l'esame di realtà. Senza ancora volerlo, siamo scivolati in una interpretazione di tipo psicoanalitico della irrealtà. È il sentimento d'irrealtà una difesa, forse la difesa estrema, di F. contro la maturità, la difesa di qualcosa che pure lo trivella di sofferenza, al punto che aborre rivelarla? Non vuole definire il sentimento d'irrealtà per rimanere meglio irresponsabile e ambivalente verso l'irrealtà e non affrontare il problema affettivo che essa tiene incapsulato? Si tratta anche di stabilire se F. è come uno scrittore sperimentalista e di avanguardia in giusta rivolta contro l'ovvietà tradizionale della lingua e che, tramite la rivoluzione dell'ineffabile, intenda creare un ordine e una lingua nuovi. Ovvero se contrabbanda dietro una neo-utopia linguistica una vecchia ansia tanto perfezionistica nel cercare definizioni del sentimento d'irrealtà, quanto vile nell'affrontare il mondo intimo.
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Certo F. ripete all'infinito che la definizione della sua irrealtà è perfettibile all'infinito, sia perché è intrinsecamente ineffabile (ma, non essendo al di sotto del livello del linguaggio, deve essere detta per guarirla, o per innalzarla); sia perché è cangiante. Mai sazia d'ammodernarsi si trasforma. Oggi è una frequente, coatta, fastidiosa e minuziosa meraviglia di F. verso gli oggetti più comuni, un lapis, un ascensore. C'è in F. una disponibilità a irrealizzare qualsiasi cosa e ritiene lui stesso che si tratti di una polverizzazione, appiccicosa e ossessivizzante, del primitivo senso di irrealtà e di una volatilizzazione dell'angoscia. "Ma il mio vero senso di irrealtà" dice con desiderio di tornare all'origine di esso, alla paura di esso "non è affatto il solito distacco, il diaframma anaffettivo col mondo. Se cedessi a dire cosi, lo farei per conformismo, comodità. È invece uno stupore doloroso e nero. La sensazione mentale e insieme viscerale, come se la mente fosse un viscere evacuante, che... che... Non è l'estasi, non l'epoché, non la schizofrenia, non la dialettica, né il sublime, il mistero, l'abisso. Sono io che guardo e penso nella quotidianeità, e che senza percepire nulla di fisicamente cambiato in me o nel mondo, giudico repentinamente tutto con un nuovo metro. Perdo l'inconsapevole ritmo dell'antica misura e di colpo intuisco luminosamente una specie di buia verità, nuvolosa, con un sobbalzo cerebrale. Verità che però è palesissima, altro sobbalzo. Perché questo ribaltamento, sotto-sopra, testa-coda rapidissimo e rivelatore di chissà che cosa è per forza effimero e bugiardo, siccome contraddice ogni legge per la quale è tradizionale e consolante vivere. Noli prendo mescalina. D'un tratto mentre fisso uno dei miei ingegneri del 2000, della ricerca operativa, della teoria delle informazioni, del-
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la razionalità e realtà totale, sono costretto a constatare, con la tattilità della mente, la inadeguatezza della realtà come di una coperta che o mi copre i piedi o mi copre il collo. Però mi aggrappo alla coperta perché il concetto di inadeguatezza della coperta mi ripugnarmi abbatte. È un fulmine lento, un tuono silenzioso, uno sgambetto al mondo, un auto-sgambetto. " Un poco si esalta, un poco ha orrore. Capisce di ridurre tutto al vecchio espediente di accostare gli opposti. Mentre tace, in conclusione, tutto di sé e sta li appannato, con questa scienza che tutto assorbe, inibito, si accanisce a vivisezionare l'irrealtà che gli sembra mentale ( ed è istintuale ) e che gli sfugge dalla mente. "Non credere" si raccomanda "che l'irrealtà sia la contraddizione." Certo, sarebbe banale! Aggiunge sicuro: "Non ho ancora detto la sensazione che l'uomo non è cosi importante. È la mia scoperta. Ho scoperto questa domanda: chi ha Stabilito che è cosi importante? Rifiuto le visioni e le evoluzioni del mondo dove l'uomo o il superuomo sono il traguardo, perché ho la certezza, irrealistica, devalorizzatrice, che non l'ha stabilito nessuno. Respingo il perenne umanesimo di destra e di sinistra. Non mi preoccupo affatto che l'uomo si salvi dalla cibernetica, dalla cinematica, dalla matematica, dalla segnaletica. Non perché sono scientista. Perché l'uomo è inferiore alla irrealtà, che pure è schifosissima. E per niente mi interessano coloro che vogliono salvare l'uomo; avranno ragione, ma sono tautologici. Termini di misura dell'umano, come umano, disumano, abumano, sono impossibili da tarare, e quindi non hanno senso." O l'angoscia non lascia tracce. O F. ha un viso di gomma. Ora l'angoscia non si legge fra i suoi lineamenti un po' arrotondati, se-
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mitici. Ora riprende a discutere di obiettivi, di goals comportamentistici e matematizzabili con i suoi ingegneri. F. è persona pragmatica e colta. Sembra sfuggirgli una bizzarra e comune caratteristica del mentale, quando muove, alla lontana, dalla normalità verso la follia. Accade al sentimento d'irrealtà di rappresentare la cuspide sottile, abitabile da una persona soltanto, inimitabile, della eccezionalità individuale, della irripetibilità e della irriducibilità, del monadismo misterioso che fa gridare a ciascuno, orgoglioso adesso del proprio solipsismo, di avere un essere-nelmondo unico-al-mondo. Al punto da far restare senza parole e interrompere la comunicazione con una diga di silenzio sempre nuova per ciascuno. La famosa incomunicabilità, dilagante nell'era della teoria delle comunicazioni tanto cara agli ingegneri elettronici di F. e un po' meno a lui, perché lui ha questo deforme coscienzialismo da opporre loro, non è che la conseguenza della assoluta originalità del proprio codice, tanto che il tessuto comune, concordato nel patto sociale della lingua e dei segni, si straccia. ( Quale è allora la sorte del futuro su cui F. e i suoi ingegneri si sporgono come fuori di un balcone? Con quali segni agganciarlo? ) Non si nega affatto l'ineffabilità. Eppure il sentimento di irrealtà si ribalta. È un sintomo. Come sintomo è un prodotto di serie, stereotipato, monotono. L'occhio della scienza, tanto cara a F., vede coincidenze flagranti tra i vari sentimenti di irrealtà, li diagnostica, li classifica, li riduce. Le solitudini uniche e le ineffabilità originali sono tutte uguali. Cosi la bizzarria, soprattutto quella morbosa, è una mono-
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tonia. L'imprevedibilità prevedibilissima. L'incomunicabilità comunicabilissima: quando uno smaniando viene a dirmi che non sa che cosa prova, che è una cosa stranissima, che non riesce a dirla nemmeno a se stesso, figuriamoci all'Altro, allora io so benissimo che cosa prova e glielo dico io.
CAPITOLO TERZO
RENÉE E GLI ALTRI
Ma F. ha una paura nascosta dietro gli occhi. Consideri pure con disinvoltura e con brillante attenzione il proprio sentimento d'irrealtà. Quante volte egli è stato vinto dalla repulsione per la infinitamente fonda spiacevolezza di esso, dal bisogno di scacciarlo come una mosca dietro la fronte e di non indietreggiare a cogliere questa meta-vita. Ed F. ha sentito troppo spesso certi studiosi dichiarare quanto sia difficile cogliere il salto o lo scivolamento tra nevrosi e psicosi. C'è, alle spalle desertiche di F., nella sua attuale normalità avveniristica, il pazzo terrore della pazzia, quando egli credeva di avere una febbre che l'avrebbe un bel momento, d'un colpo, inchiodato nella schizofrenia che ridicolizza passato e avvenire, prassi e filosofia. Una ragazza come la famosa Renée ha infatti cominciato con l'irrealtà ed ha finito con la schizofrenia. Da F. non arriviamo direttamente a lei: passiamo attraverso a questi depersonalizzati (il sentimento d'irrealtà è stato incluso dagli studiosi nella categoria psicopatologica della depersonalizzazione) che non delirano. Parlano, parlano, rincorrono qualcosa con le parole.
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"Io non sono più lo stesso, il mondo mi sembra cambiato, scolorito, io cammino, lavoro, rispondo alle domande come se fossi un automa; dispiaceri e gioie per me non esistono più, qualunque progetto per l'avvenire mi è impossibile perché tutto sarebbe uguale. Ed il tragico è che assisto al trascorrere insignificante della mia vita; per me vivere o morire è la stessa cosa."1 Questi è, per ora, più nella banale depressione che nella depersonalizzazione. Il peso delle sue parole, se sono tristezza o follia, lo dice il futuro. Tuttavia il soggetto ha già chiara una uguaglianza tra la vita e i a morte: è uno dei passaggi tipici della scelta, giuntá all'ultimo stadio. "È tutt'altro, non trovo le parole per esprimermi, per dire se è che non esisto. Perciò dico che sono inconsapevole, e invece esisto. Lei potrebbe interrogarmi per parecchio tempo, non potrei dire nulla 'di più, non ci sono parole per esprimerlo, occorrerebbe un linguaggio speciale. Mi sento trasformata in una forza in movimento, in un movimento che non va da nessuna parte. Sono il mondo e il mondo sono io... Per me non c'è più niente e non sono, io, più niente, non sono che tutto e niente perché non ho più limiti, sono confusa con il tutto, non mi sento né io né gli altri. È perciò che dico che sono incosciente, che ho perso coscienza, ma in realtà non sono mai stata cosi cosciente, sono all'erta, tesa rattrappita terrorizzata... Mi rendo conto di tutto quanto c'è di contraddittorio in quello che dico. È impossibile descrivere questi stati. È abominevole e nello stesso tempo incomunicabile, ci vorrebbe un linguaggio speciale. È qualcosa di ordine cosmico,
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sarebbe necessario avere un linguaggio che corrisponda a un linguaggio di questo ordine." 2 Anche questa donna ricorre alla contraddizione. Come quest'altra: "Non è come se provassi il vuoto; io sono il vuoto. Non direi che soffro i tormenti dell'inferno; sono l'inferno... Sono il vuoto; per cui, non esisto ( ich bin die Leere und darum bin ich nicht ). "La morte sarebbe più facile ma non esiste in quanto morte. È perché sono morta che non ho nessun bisogno del concetto di morte. Sono la morte. Si è completamente privi di essere (Das Sein ist einem vollständig entzogen ). È questo che mi irrita follemente. Si è tuttavia esseri umani... Il mio universo è il vuoto. Ci sono e insieme non ci sono. Uno ha perduto tutto eccetto la coscienza di quello che ha perduto... Dite che ho condotto una esistenza monotona. Non ho condotto mai alcuna esistenza, semplicemente non c'ero. Come si può cadere cosi in basso? La pienezza non può essere vissuta dalla pienezza, il vuoto dal vuoto. Ci spostiamo nel vuoto e siamo il vuoto, ma in realtà il vuoto si parte da noi, penetra nel mondo e ce lo fa perdere... Normalmente esperimentiamo il vuoto con la pienezza. Ammalati, non abbiamo che il vuoto. "3 Quest'altra donna non si lamenta di inesprimibili tà. È forse più matura. Usa poi, come tutti, il vecchio linguaggio logico facendolo esplodere dal di dentro a furia di contraddizioni, ubriacandolo e spremendone un fumo di irrealtà. Ma uno stabile sistema di riferimento lo possiede: è l'essere, nonostante tutto. Infatti migliorerà. Gabel, che la cita nel suo libro "La fausse conscience", coglie questo sistema di riferimento all'essere; interpretando la frase di lei
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"Sono la morte", annota: "Essere la morte è un modo d'essere immortali." Infatti non si tocca l'essenza fenomenica della morte e non ci si atteggia ad essa, se non morendo. Altrimenti, ogni scienza o mimesi della morte non è che un modo di vivere di più, un esorcismo. Si pensa alla morte e per quanto ci si atteggi ad essa si è vivi, la si controlla stando in salvo dal gorgo, arrampicati sul palo alto della vita. Questa depersonalizzata, inoltre, è molto filosofica. Ma non si può concludere che un massimo di sentimento d'irrealtà porti a un massimo di filosofia. ( Si rivedrà questo problema). Un'altra dose di sofferenza, una consapevolezza di vera malattia impregna i discorsi di questi depersonàlizzati. Sono diversi dai momenti compiaciuti di sentimento d'irrealtà che affiorano ogni tanto da F. e che in lui possono prendere un tono di lusso ontologico, di persona sensibile e semplicemente molte isterica: sembra che istericamente F. simuli gli attimi d'irrealtà vuota vaganti nell'universo; in maniera istantanea li brucia e volente o nolente torna al pieno (magari un po' sgonfio) dell'esistere. Chi lungamente prova il vuoto ed è, ir realisticamente, il vuoto, chi non tiene più d'occhio il confine fra sé e il mondo, prova la strana, potente, intermittente angoscia del sentimento d'irrealtà. La quale non lo accompagna puntualmente e fissamente, come fa con altri sintomi. Si intreccia con esso in scambi bizzarri, ora emergendo accanto ad esso, ora scomparendo per fiumi comunicanti sotterranei. Se il sentimento d'irrealtà è spesso il vapore appannante di una angoscia che sta ormai terminando di bollire, e cioè tende a sostituire l'angoscia, poi esso mede-
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simo richiama e riattizza l'angoscia. Al punto che non si sa se ogni angoscia racchiuda la depersonalizzazione o se ogni depersonalizzazione racchiuda l'angoscia, e se occorra più distinguerle o più impastarle. Ed è molto soggettivo se sia peggiore l'angoscia o peggiore l'irrealtà. L'angoscia comunque gioca un ruolo importante nei sentimenti d'irrealtà, nelle depersonalizzazioni, nelle alienazioni. La si potrebbe addirittura usare per cominciare a distinguere, con la sua maggiore o minore presenza, tra sentimenti d'irrealtà (e tra alienazioni). Ma l'angoscia, come discriminante, è pericolosa. Come la febbre, è anche un segno ( reattivo ) positivo. Non esistono due angosce, una responsabilizzante e una "cosificante". Non esistono chiaramente distinte l'angoscia moderata dei filosofi, dei corifei dell'angoscia moderata; e l'angoscia sfrenata degli psicopatologi. Ma non c'è dubbio che esista un'angoscia come consapevolezza, progresso; e una mancanza d'angoscia come reificazione, stasi. Si fanno belli di questo tutti i simpatizzanti e lodatori dell'angoscia, di solito simpatizzanti e lodatori dell'angoscia altrui, i quali sostenendo che le alienazioni consapevoli sono molto meno gravi di quelle inconsapevoli, si augurano l'angoscia e soprattutto la augurano agli altri. Dimenticano intanto che la inconsapevolezza senza angoscia del mio agente di borsa è pur sempre diversa dalla inconsapevolezza senza angoscia di un delirante del Paolo Pini. E poi adottano la teoria della doppia angoscia, perché mai vorrebbero, per gli altri ma soprattutto per sé, una angoscia-consapevolezza altro che tiepidina. Rimane tuttavia che l'angoscia può presentarsi con segno negativo e con segno positivo. Allora ciò
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che discrimina davvero è il rapporto con la realtà e non l'angoscia. L'angoscia rimanda al rapporto con la realtà ed esso si comprende attraverso una analisi dei precedenti e degli sviluppi, delle cause e dei fini, del sentimento d'irrealtà. "... sdraiato a letto nell'oscurità, senti a un tratto il suo pollice gonfiarsi smisuratamente. Questo pollice divenne mostruoso, riempi tutta la camera, la casa, il mondo intero. Il corpo del paziente nuotava nello spazio, non gli apparteneva più, una angoscia inesprimibile lo prese. Poi un'immagine sorse da questo caos: il pollice era divenuto un organo enorme, mostruoso, quello di suo padre, che il paziente avvicinava alla bocca col desiderio ardente di succhiarlo. Egli mi ripete più volte l'ineííabile piacere, veramente sovrumano, che egli avrebbe avuto a succhiare: ma nello stesso tempo, dai bassifondi dell'inconscio, sorgeva l'impulso contrario — di mordere, sputare, di rimordere, risputare — dunque le reazioni primitive più distruttive. Vi prego di notare che questo paziente era fra l'altro affetto da una inibizione a masticare."4 A un congresso sulla depersonalizzazione la psicoanalista Tornasi di Palma ha portato questo fenomeno del pollice. Ella accetta l'ipotesi "narcisistica" di Bouvet (da vedere più avanti) ma precisa che in tutti gli attacchi da lei osservati di depersonalizzazione, si rinveniva un Io che perdeva la facoltà di distinguere il reale dall'immaginario, dinanzi all'assalto subitaneo di un desiderio rimosso. ("Che era del resto sempre composto di due istinti: distruttivo e sessuale insieme, unendo in una immagine il desiderio incestuoso al desiderio omicida").
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La signora Tornasi racconta pure di una donna che subì una crisi di irrealtà alla stazione: non sapeva più dove fosse, i suoi bambini con lei erano degli estranei, il suo corpo non le apparteneva più. Pati la crisi un momento dopo aver avuto l'immagine, ricordata solo più tardi, di una locomotiva che arrivando da dietro trascinava i suoi bambini sotto le ruote. L'idea delirante della nevrosi di questa paziente era: "Mi trovo qui, separata da mio padre, in procinto di mettere al mondo i figli di un altro, mentre egli è stato sotterrato con la sua carne molle e fresca per congiungersi con me.'" Pittoreschi esempi di irrealtà, ricchi di immagini, figurativi. La signora Tornasi infatti ne sottolinea il carattere di crisi acuta nel corso di nevrosi, vicina al delirio. Stanno all'opposto del sentimento d'irrealtà cieco, privo di immagini, e dove la depersonalizzazione apre un vuoto senza volerlo riempire, dove essa sottrae e non sostituisce, affinché la realtà diventi quasi vera e pure (inesprimibile) non-realtà. Insomma il sentimento di F. Gli esempi della signora aiutano a capire per contrasto che è il sentimento d'irrealtà nell'ambito di una depersonalizzazione riguardante, diciamo cosi, la propria anima, il più modulabile in un puro sentimento di irrealtà, e non della irrealtà, e il più vicino a quel termine che Amiel sarebbe stato il primo ad usare: "Tout m'est étrange, je puis être en dehors de mon corps et de mon individu, je suis depersonnalisé, détaché, envolé. Une seule forme m'est peu naturelle, c'est la mienne. Est-ce là de la folie? Non." 6 Ma anche la derealizzazione ( depersonalizzazione riguardante il mondo) può presentarsi in maniere
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brevi, inesprimibili, senza sostanziali alterazioni percettive, ma come vago oscuramento totale e riflessivo. Ecco un esempio portato da Perrotti: "Un mio amico astronomo mi ha raccontato una esperienza fatta durante l'ultima eclissi solare. Nel momento dell'eclissi egli era occupato a far funzionare i suoi apparecchi registratori, ma guardando il panorama circostante lo trovò cambiato, irreale, e ciò non certo per l'oscuramento, ma perché gli oggetti, alberi, cose e persone non avevano più ombre, apparivano diversi. Egli ebbe un senso di leggero estravamento > accompagnato da ansia che peraltro non gli fu di ostacolo per il suo lavoro di precisione. Tutte le persone ebbero lo stesso fenomeno. Egli inoltre mi faceva osservare che, secondo lui, proprio questo senso di derealizzazione era responsabile della più volte constatata paura dei primitivi di fronte all'eclissi."7 Ha avuto una ben esatta intuizione, Antonioni, nel chiamare "L'eclisse" il film i cui veri protagonisti sono l'irrealtà oggettiva, e non autopercepita, di lui e il sentimento d'irrealtà soggettivo, autopercepito, di lei. Questi fantasmatici protagonisti impediscono l'amore fra lui e lei, mettono legittimamente e filologicamente nel film il tema della alienazione non da salotto e una sorta di suo sviluppo in reificazione-cosificazione: nel finale del film si assiste alla scomparsa, all'assenza dei personaggi umani e non a una loro cosificazione ma alla venuta in primo piano delle cose. L'egemonia delle cose è uno dei fenomeni più concreti di ogni alienazione: non tanto come cosificazione di se stessi, quel sentirsi ridotto a cosa che è più una metafora che una realtà verosimile (l'uomo non è mai abbastanza cosa o vuole esserlo troppo ) ;
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quanto perché ogni alterazione ed eclissi vitale esaspera il sentirsi attorno gli oggetti, ossessivizza il rapporto con essi, esasperandoli. Inutili a consolarmi mi stanno intorno con prepotenza, non vedo che la loro prevaricazione, non mi occupo che di loro, mi annoio di loro, soffro di loro. Nel dolore, valgono più di me. Quando io non mi amo, odio loro, i permanenti, i costanti, i monotoni, i duri. "Eravamo in villeggiatura ed ero andata come altre volte da sola in campagna. "D'un tratto si udì un canto in lingua tedesca proveniente dalla scuola davanti a cui passavo in quel momento: erano bambini che stavano a lezione di canto. Mi fermai per ascoltare e fu in quell'istante che un sentimento bizzarro si fece strada in me, un sentimento difficile da analizzare, ma che assomigliava a tutti quelli che dovevo provare più tardi: l'irrealtà. Mi sembrava di non riconoscere più la scuola, era diventata grande come una caserma e i bambini che cantavano mi pareva fossero dei prigionieri obbligati a cantare. Era come se la scuola e il canto dei fanciulli fossero stati separati dal resto del mondo. In quel momento scorsi un campo di grano di cui non vedevo i limiti e questa immensità dorata, luminosa sotto il sole, legata al canto dei bambini-prigionieri nella scuola-caserma di pietra liscia mi diede una tale angoscia che scoppiai in singhiozzi. Poi tornai di corsa nel nostro giardino e mi misi subito a giocare affinché le cose tornassero come ogni giorno, cioè per rientrare nella realtà. Fu la prima volta che percepii quegli elementi che più tardi dovevano sempre essere presenti nel mio sentimento d'irrealtà: la luce abbagliante ed il nitido
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liscio della materia. Non mi spiego come ciò accadde, ma fu in quel periodo che venni a sapere che mio padre aveva un'amica e che faceva piangere mia madre. Questa scoperta mi sconvolse perché avevo sentito mia madre dichiarare che si sarebbe uccisa se mio padre l'avesse abbandonata. "8 Il famoso diario di Renée (il "Diario di una schizofrenica") si apre con questo ricordo. Renée è lontana da F.; già bambina la sua percezione si altera. F. è un dilettante dell'irrealtà in confronto a Renée. F. può tremare di paura al racconto di Renée e con il suo carattere isterico simulare anche una caduta a picco nella schizofrenia. Ancora, intanto, non ci è caduto, e può vagheggiare i suoi comportamenti misurabili e senza residui. Renée ci è caduta. Oltre a una differenza quantitativa ovvia fra le irrealtà dei due, in F. l'alterazione affettiva riguarda più il tempo ( sempre, ma specie negli ultimissimi tempi il suo sentimento d'irrealtà ha preso di mira il tempo), in Renée più lo spazio: e l'alterazione del tempo, più impalpabile, è cosa più filosofica rispetto all'alterazione percettiva dello spazio. F. vede un buio torbido e, sia pure, "luminoso". Ma soprattutto prova un vuoto d'aria come se lanciato in una quasi inavvertibile corsa lungo il rettilineo piatto del tempo, all'improvviso superasse un dosso, saltando, e scendendone veloce sentisse vibrare alle cosce, allo stomaco, il risucchio. È il sentimento d'irrealtà che assomiglia di più al vuoto ontologico (o, meglio, preontologico). Renée vede il bianco, la sua irrealtà è sicuramente bianca; vede recidivamente la luce abbagliante, il nitido liscio della materia. L'alterazione dello spazio è più eterogenea rispetto all'ontologia, o meglio riempie il vuoto con immagini alterate della realtà. Inoltre in Renée la
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ostilità (prima, del mondo; poi verso il mondo) già cova ira le righe del primissimo ricordo infantile: bimbi immediatamente prigionieri, nella scuola immediatamente caserma. In F. l'ostilità (che in lui è piuttosto autoaggressiva) non appare. Ma i due "sentimenti di" affrontano la realtà totale intaccandola nello stesso modo; tanto in F. quanto in Renée sono una sospensione ( della libido ) una distanza, un attonimento e improvviso trattenimento del fiato psichico, governato da sistole e diastole inconsce. È verosimile che abbiano una oscura matrice comune ed F. è il più misterioso. In Renée che scrivendo il diario si giova di una terapia psicoanalitica (per quanto lunga e sui generis ) la matrice è fin troppo chiara. Il suo primo ricordo è già gonfio di tutto, persino dell'accenno preciso alla causale effettiva. C'è l'insorgere improvviso di un sentimento bizzarro, indotto da un momento di riflessività. Secondo, il sentimento nasce indicibile, viene detto con un termine a posteriori. Terzo, la percezione si altera. Quarto: scuola-caserma, bambini-prigionieri: tema cruciale della distanza e della inimicizia. Quinto, angoscia. Sesto, lotta per rientrare nella realtà. Settimo, connessione fra irrealtà e nodo affettivo. Il punto quarto nei lamenti degli altri depersonalizzati non si era manifestato. In Renée è lo scatto reificante che la porterà oltre la depersonalizzazione: la distanza e la inimicizia si sviluppano longitudinalmente verso il delirio. "Per raggiungere il sanatorio dovevo seguire un sentiero corto e ben tracciato nella foresta: ma la nebbia era cosi fitta che mi persi e, mentre giravo attorno al sanatorio senza vederlo, la mia paura aumentava. Capii ben presto che era il vento
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a darmi tanta paura. Compresi infine il significato del suo messaggio: forse il vento gelido del Polo Nord voleva far saltare la terra, mandarla in mille pezzi; o forse era un presagio, un segno che la terra stava per esplodere." Più avanti: "Un po' per volta confidai alle mie compagne che il mondo stava per esplodere, che bombardamenti aerei ci avrebbero annientato. Credevo fermamente a quanto dicevo anche se spesso 10 dicevo in tono scherzoso e desideravo render partecipi gli altri della mia paura per sentirmi meno sola. Ciò nonostante non potevo credere che la terra stesse per esplodere come potevo credere ad altri fatti veramente reali. Intuivo oscuramente che tale credenza era legata alla mia paura personale e che non era generale." Qui si vede Renée che sa ancora oscuramente che 11 Mondo sta per saltare perché sta per saltare l'Io; questo pauroso dubbio sull'Io aumenta la sua solitudine. Prima del delirio florido e stabilizzato, inattaccabile da smentite oggettive, lo spavento è più forte perché l'Io ancora combatte la sua lotta più disperata, quella con gli altri protagonisti della personalità. Renée raccoglie ora tutto il turbamento della depersonalizzazione passata e tutto il delirio della follia futura. E arriva alla WUE. Questa sigla non dovrà essere dimenticata da chi fa la storia della ridda di sigle moderne: è la Weltuntergangerlebnis, la ben nota in psicopatologia esperienza fantasmatica e delirante della Fine del Mondo, che si ritrova in tutte le apocalissi.
CAPITOLO QUARTO
FUORI DEL SALOTTO
Tornando dall'apocalisse indietro alla sua prima polla, si ritrova il sentimento d'irrealtà suggerito da F. e che, con uno scarto non grande, è quella medusa detta "perdita della funzione del reale", "senso di stranezza del reale", "sentimento di vuoto". Spesso è teorizzato di sfuggita e di solito è aspirato in altri concetti che lo comprendono e lo comprimono. ( L'assurdo per esempio è già diverso, più razionalistico e meno connesso con la psicopatologia). Molto vicini ad esso sono alcuni psicoanalisti: quella secrezione è un organismo dell'Io, un sussulto che cadendo dall'astratto intellettuale nell'esistenza trova il grembo più accogliente nel regno legittimo degli psicologi del profondo, studiosi del comportamento interiore, distinto per confini sfumanti dalla normalità a sud e dalla pazzia a nord. Bouvet, psicoanalista, ha spiegato bene a quale acqua bisogna dare una forma. "Il mondo dell'irrealtà è lontano da noi quanto un delirio e nello stesso tempo vicino come una metafora; è senza dubbio a questa ambiguità che deve l'interesse che suscita, perché il soggetto... lo descrive usando espressioni degne
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del più inveterato delirio e, insieme, sembra considerarlo un'illusione."1 Anche Bouvet cattura il sentimento d'irrealtà nella depersonalizzazione; messo fra metafora e delirio il sentimento d'irrealtà, e con esso la depersonalizzazione, hanno una corsa lunghissima: scorrono dalla schizofrenia indietro fino alla introspezione elementare. Infatti "certi autori hanno voluto vedere nella depersonalizzazione uno stato che non era senza rassomiglianza con il pensiero psicologico ( Reik ). Per lui ogni volta che adottiamo un atteggiamento introspettivo ci mettiamo in una situazione di depersonalizzazione. " È probabile che non ci sia una secca barriera fra sentimento d'irrealtà e quell'atteggiamento introspettivo sfuggente ad ogni comportamentismo, non misurabile, perehnemente umido, che dà il primo tocco alla membrana dell'animo perché vibri filosoficamente. Si può anzi indulgere all'ipotesi che l'uomo tenderebbe a divenire — o a sentirsi — irreale quando pensa o meglio si pensa (o si percepisce). Il sentimento d'irrealtà irrealizzerebbe il sé, e l'oggetto. La partenza diverrebbe Cogito ergo non sum. "La partenza " filosofica è sempre una appercezione di noi come noi, del mondo come mondo. E per Sartre l'appercezione del mondo come mondo è nullificante. Dice: "Dal momento che il mondo appare come mondo si pone come non essente che quello.'" Non capitava anche a F.? (E che cosa accade a Gagarin quando si allontana dal mondo e lo vede come una limitata palla, non essente che quella? Il pensiero planetario riassorbe il sentimento d'irrealtà nella realtà del cosmo, o il sentimento d'irrealtà continua sempre a rapportarsi all'infinito e all'ineffabile? )
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La negazione per Sartre nasce dall'interrogazione e l'interrogazione è resa possibile da un arretramento dell'interrogatore dall'interrogato, da un rinculo nullificante. Tale arretramento, o rinculo, o è quello di Gagarin, o ha somiglianze impressionanti con quella distanza dell'uomo da sé e dal mondo che si stende come una striscia lunare desertica nella depersonalizzazione e nel sentimento d'irrealtà. La confusione tra pieghe morbose e pieghe riflessive potenzialmente teoretiche allarma subito alcuni e specialmente lo psicoanalista medico. Questi paventa ogni assunzione culturale che rischi di ottundere il filo tecnico, quindi terapeutico, di una analisi destinata a tagliare la mollezza sfuggente dell'anima e a non indulgervi mai: ed è il rischio di ogni fondazione filosofica, oggi tanto reclamata, della psicopatologia. C'è un altro che può temerlo come il medico: il paziente. Per lui ad esempio sarà anche suggestivo che l'angoscia sia l'angoscia di essere ( liberi); difatti si dice, parallelamente a Cartesio: Angor ergo sum; ma la parte sana del paziente che sta davvero male, dell'Angor ergo sum si infischia, anzi si irrita, e teme che il medico partendo dalla cornice sartriana dell'angoscia, "un modo d'essere della libertà come coscienza d'essere", non sappia dove mettere le mani e se le tenga sconsolatamente in grembo. Per la coppia medico-paziente, famigerata agli occhi di molti sapienti umanisti cui sconvolge i piani spiritualistici, l'angoscia è piuttosto un modo d'essere della schiavitù come coscienza di non essere. L'angoscia è l'albero a camme che lega il malato al su e giù del meccanismo sterile dei sintomi, che rimbecillisce; e il malato dunque, specie se migliora, tende a odiare l'angoscia, a considerare l'altra partenza dell'uomo, la emotiva, l'Angor ergo sum, come An-
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gor ergo non sum. (Senza che, comunque, si abbia mai nell'Angor ergo sum una angoscia come libertà responsabilizzante tutta opposta all'Angor ergo non sum come schiavitù: si abbiano cioè due angosce. La teoria della doppia angoscia è ancora una volta pericolosa. Esiste un'ansia sterile e mortifera e una ansia di vita, ma tutte le volte che si tenta di distinguere nettamente fra due angosce, si crea assurdamente un'angoscia che fa bene e un'angoscia che fa male. Ora, l'angoscia fa sempre male. Anche quando è vitale, "non patologica", è sempre pericolosissima e potenzialmente alienante perché attigua alla depressione. La coppia ansia-depressione dà una delle più energiche spinte dentro l'imbuto del male ). Non vogliamo ugualmente spaventarci all'ipotesi verosimile che tra sentimento d'irrealtà e atteggiamento introspettivo non ci sia un diaframma duro e netto. A maggior ragione mi chiedo che cosa significa non sum. Istituendo un rapporto fra Cogito ergo non sum e Angor ergo non sum, il primo può dirsi l'inizio di una ambiguità, il secondo di una cosificazione. Il secondo perciò può anche significare una concreta e non metaforica mancanza di essere, come mancanza di libertà emotiva e quindi di libertà in senso assoluto poiché non sopravvive una libertà "dello spirito" in una affettività coatta. Ma che cosa significa il primo non sumì Non è perspicuo se il non sum sia una metafora, o un disinvolto momento o movimento dialettico del sum, o letteralmente la morte. Invece la differenza fra dialettica e morte è importante perché ne va della vita. Analogamente: qualora l'irrealtà si sganci dal
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"sentimento di" che la rifornisce come un cordone ombelicale tenendola attaccata all'esistere del soggetto, essa sfocia nell'immaginazione ( che è irrealizzante), nel delirio... nella morte? Che cosa è insomma l'irrealtà in se stessa? Questo problema è insieme futile e immane. Lo si può attaccare da mille parti, metafìsiche, letterarie, spiritistiche (e sperimentali: se io avvicino molto un mio dito ai miei occhi, essi ne percepiscono due: quale dei due è irreale?). Per rimanere nell'orbita del mio discorso, di sicuro si conosce che il sentimento d'irrealtà è suscettibile di evolversi in irrealtà in se stessa come delirio. Ma bisogna osare di più. Cercare, anche confusamente, e senza una vera possibilità di verifica, se il sentimento d'irrealtà — o il suo sviluppo, l'irrealtà in se stessa — si incontrino con il non essere o con il nulla o con il non esistere o in qualche modo con la morte. Se misuro con il termometro il sentimento d'irrealtà che va da un freddo 35 (temperatura che Gabel chiamerebbe attitudine subrealista) a un febbrone da cavalli (pazzia), c'è una frazione di grado, nel mezzo, dove il sentimento d'irrealtà forse scostandosi impercettibilmente dalla normalità, forse rimanendoci dentro, comincia a librarsi con tenuissime ali e li la percezione oscilla, sta per alterarsi; li vibra come l'ala di una vespa quel momento iniziale, mentale, segreto, che si confonde con la sorgente della negazione e del nulla. L'uomo è oscillante, volubile, ambivalente verso l'oggetto e verso se stesso; e notoriamente fatto in modo che pone l'essere e anche il non essere: il sentimento d'irrealtà è interpretabile appunto come una ambivalenza. L'uomo, o.un certo tipo d'uomo? Di preferenza (è naturale) l'uomo del tipo ambivalente. E chi è
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l'uomo del tipo ambivalente? È l'uomo narcisistico, di contro all'uomo genitalizzato (secondo la distinzione di Freud riguardante la relazione d'oggetto: immatura se ferma alla fase narcisistica, pre-edipica; matura se post-edipica e genitalizzata ). Questo narcisismo, dirà Bouvet, porta a una equidistanza dall'oggetto, alla necessità di non avvicinarsi troppo ad esso e insieme di non perderlo: è la legge del narcisismo istintuale, il quale determina, per l'influenza del carattere sulle forme mentali, una ragione narcisistica, cioè un pensiero la cui legge sia l'equidistanza. Il pensiero equidistante è per eccellenza un pensiero incerto e ambivalente, impossibilitato a scegliere. Colui che sceglie è l'uomo genitalizzato. Ma io sospetto che l'uomo genitalizzato totalmente non esiste e che sia una utile, operativa utopia psicologica. Perciò l'uomo è sempre parzialmente narcisistico, pre-edipico e la legge della equidistanza alita sempre dai sotterranei dell'inconscio sino ai fastigi della conoscenza teoretica. Fa scoppiare il dramma mentale e infine anche comportamentistico, della scelta di un oggetto e, contiguo, il sentimento d'irrealtà come non scelta dell'oggetto in sé: ossia della realtà. Il non essere, cosi, non è tanto dialettico e ridicolo quando si incarna robustamente in non esistere e il non esistere, aiutato dalla vertigine verso il vuoto del sentimento d'irrealtà, si srotola concretamente e si indurisce verso la scelta del suicidio. Infatti di scelta in scelta (o di non scelta in non scelta) irresistibilmente il pensiero narcisistico sale alla scelta ultima, o alla non scelta ultima. È davvero bizzarra la vita dell'uomo narcisistico. Cammina lungo l'altissimo cornicione di una casa, in sottile equilibrio. Egli sa che non scegliendo tra vita e morte, sceglie la vita; eppure vive soggettiva-
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mente la non scelta tra vita e morte come fra due oggetti piazzati davanti a lui in perfetto equilibrio. Ha il terrore di morire e insieme di infrangere l'equidistanza, cioè di troppo avvicinarsi ("rapprocher" come dice Bouvet) alla vita. Sa che non basta un menomo battito di ciglia della propria volontà per gettarsi sul marciapiede o per aggrapparsi alle tegole del tetto; eppure crede che questo menomo, volontario battito di ciglia sia a sua disposizione. È a sua disposizione? Non è a sua disposizione? Il dilemma non è tanto il vecchio essere o non essere, quanto la vertigine del capire che, nel dubbio fra essere e non essere, pur sempre si è: e tuttavia sembra effettivamente, anche, che non si è. Nell'esistere si sperimenta il non esistere: pur lucidamente trapassando il velo di questo esperimentare impossibile, assurdo, ingannevole, e vedendo la verità oltre la polvere della bugia. L'uomo sul cornicione è dunque l'equilibrista supremo, consapevole di non essere affatto un equilibrista; agita le braccia aperte a contrappeso come un ginnasta veritiero: invece è un mistificatore, inganna se stesso e la platea. È uno sveglissimo sonnambulo. Non si creda, perciò, che il sentimento d'irrealtà sia senz'altro l'anticamera del suicidio, e che questa stanza di decompressione prima del vuoto lo differenzi dagli svolazzi del non sum dialettico. Il sentimento d'irrealtà è accanitamente ambiguo. Esso è anche una difesa dalla realtà — cosi gli psicoanalisti lo vedono — quindi dalla realtà come suicidio e dal suicidio come realtà. Esso contemporaneamente evoca e tiene lontano il non esistere concreto. Un poco l'ambivalenza dell'uomo verso il sé, l'oggetto e la realtà è un trucco per preservare meglio l'oggetto,
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il sé, la realtà. Un poco è una scarnificazione di sé e della realtà, tale che effettivamente la dialettica aerea, leggiadra, astratta fra essere e non essere, si rovescia e comincia a marciare, come altre famose dialettiche, sulle gambe invece che sulla punta della testa. Camminando sulle gambe questa dialettica non abbraccia più l'essere e il non essere, ma la vita e la morte, le quali stanno fra loro in una dialettica che è tipica per essere sempre sull'orlo di irrigidirsi in antinomia. Il che accade quando l'ambivalenza si blocca sul proprio corno negativo ( il non essere, il non esistere, il vuoto) e ci resta, secca: dal regno del nulla inteso come antinómica morte, viene avanti la scelta della morte, parata con i suoi veli definitivi. Se è l'idea del suicidio, posso ancora scioglierla dialetticamente nella vita: ma se è il fatto davvero, partorito da una sorta di maturità succeduta all'immaturità narcisistica, da esso non torno dialetticamente né all'essere né all'esistere, a meno che io creda nell'aldilà. (Ma se ci credo, non dovrei suicidarmi ).
Il sentimento di irrealtà non coincide tutto né con l'anticamera del suicidio, né con il problema del nulla che ho da vivo (esempio: "La coscienza è un essere per il quale c'è nel suo essere coscienza del nulla del suo essere"3). Esso è una sia pure ambigua affermazione di vita, visceralità della vita. In questo senso si incarna meglio nella psicopatologia della depersonalizzazione. Come tale, indica subito due spinte. Una è quella del linguaggio. F. cercava un linguaggio nuovo e la depersonalizzata si sfogava cosi: "Non ci sono parole per esprimerlo, occorrerebbe un
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linguaggio speciale. " Altri sentimenti rimangono senza parole. Ma quello di irrealtà possiede oltre a un turgore filosofico, una irrequietezza semantica che lo avvicina a molta arte contemporanea, incerta fra metafora e delirio e tipica per esigere anzitutto linguaggi nuovi. Come vuole essere molta arte contemporanea, il sentimento d'irrealtà è sommamente ambiguo. È sommamente autocosciente e punta verso una poesia che porta con sé la propria poetica: punta di per se stesso all'avanguardia e allo sperimentalismo letterario con le domande: si può rappresentare realisticamente il senso d'irrealtà? Non è invece necessario uno speciale irrealismo? Inoltre, come tendenzialmente ineffabile, tende a sottrarsi ad osservazioni comportamentistiche e, tanto più, alla "analisi del linguaggio" e alla verificabilità. Può veramente sottracene? La seconda spinta indica che il sentimento d'irrealtà forza a studiare i nessi o gli spacchi fra alienazione in sede psicologica e alienazione in sede sociologica. Per l'appunto, Entfremdung dice Marx per la "sua" alienazione; Entfremdung dice Freud per la "sua" depersonalizzazione. Senza contare che YEntfremdung di Marx è già la derivazione materialista di un'altra Entfremdung, quella idealistica di Hegel. Riflettere poco sulla differenza fra alienazione psicologica e alienazione sociologica, e infischiarsi del loro rapporto, ha portato l'alienazionismo in salotto. Al contrario c'è l'obbligo di chiarire alienazione psicologica e psichiatrica rispetto ad alienazione filosofica, politica ed economica, oggi che la malattia mentale è vicina alla cultura e reciprocamente; e che mai l'alienazione più celebre, quella dell'operaio, si è tanto allargata all'universo: la scoperta sociologica
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più inflazionata negli ultimi anni non è stata la diagnosi di alienato al povero uomo che sembrava scegliesse di più, a colui che ingenuamente si credeva un libero, capriccioso consumatore di beni di consumo? È stato l'ultimo pilone per completare il Ponte dell'Alienazione che ora scavalca tutta l'umanità e non si vede su quale disalienazione si appoggi. (L'ultimo pilone è subdolo: interessatamente l'hanno infitto i persuasori occulti, spostando il baricentro del neocapitalismo da monte a valle, dalla fabbricazione alla distribuzione, per la maggior gloria del consumismo imperante). Al primo colpo d'occhio il sentimento d'irrealtà sembra la rete di confine fra alienazione in sede psicologica, che spesso ne è invasa, e alienazione sociologica dove l'infiltrazione del sentimento d'irrealtà sarebbe respinta da una superficie liscia e oggettiva come la pietra. ( Mentre nell'alienazione filosofica, di stampo hegeliano, più delicato rimarrebbe l'eventuale rapporto con il sentimento d'irrealtà). Avrei finalmente una cartina di tornasole da immergere nell'alienazionismo mescolato e generico. Il sentimento d'irrealtà sarebbe squisitamente individualistico ( cosi come per Camus l'assurdo è sempre individuale ). Se infatti il sentimento d'irrealtà sopprime la realtà, sopprime gli altri, è una alienità che cancella l'alterità: che importanza allora può avere, soggettivamente, se gli altri lo provano o no? Oltre che individualistico è per definizione solipsistico ed estraneo ad ogni origine ed esperienza collettive. Ma il sentimento d'irrealtà non ha mai origini univoche e residenze certe. Che non si trovi nell'alienazione sociologica, vissuta soggettivamente, non è sicuro. UEntfremdung rimane bivalente (marxiana e freudiana).
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Essa è una alienazione-a-qualcosa, un rinunciare a se stessi per consegnarsi a un potere estraneo, un non agire nei confronti di qualcosa che non siamo più noi, come dice Eco.4 (È la vera alienazione: va distinta dalla Verfremdung, alienazione-da-qualcosa, estraniamento di noi alla cosa, attivo, voluto, come nella poetica teatrale di Brecht). La caratteristica passiva e ineluttabile della Entfremdung, che ben si addice al modo in cui l'uomo subisce il sentimento d'irrealtà, risalta meglio se paragonata da un lato con la reificazione, Verdinglichung, o cosificazione, in cui l'alienazione pare trasformarsi e svilupparsi; da un altro con l'oggettivazione (Entäusserung). Sulla scia di Lukacs ripresa da Jean Hyppolite,5 si osserva che Marx rimproverava a Hegel di non aver distinto fra Entäusserung ed Entfremdung. L'oggettivazione è la faccia ottimistica, assolutamente priva di sentimento d'irrealtà, satura di sentimento di realtà, della "alienazione" intesa come prassi: l'oggettivazione dell'uomo che giustamente si fa cosa, si esprime nella natura attraverso il lavoro; alienazione positiva perché dialettica e non nello spirito ma nella realtà concreta, storicomateriale. Che non è alienazione passiva, ma riscattata continuamente. Non è, posso aggiungere, identificazione, che per la psicoanalisi significa un processo di mimesi largamente inconscia per lo più alienante. Tanto meno è reificazione, totale perdita nel mondo.
(Questa reificazione è una sorta di destino involutivo della alienazione non riscattata. Per Gabel si dividerebbe, appunto, in reificazione, insieme esistenziale che comporta fenomeni di spazializzazione e devalorizzazione, cioè, la schizofrenia; e in cosifi-
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cazione, designando lo stato d'animo del malato che si sente come una cosa, il suo scacco dall'" Io libero all'oggetto schiavo."6 Sempre per Gabel, la struttura di tale reificazione è analoga a quella della reificazione che Lukàcs sviluppa dalla alienazione marxiana: ambedue sarebbero un modo d'essere non dialettico dell'uomo. La reificazione o cosificazione, fenomeni psicotici, fanno capire per quale strada si va verso la follia, al di là del sentimento d'irrealtà: nel sentimento d'irrealtà cade il "sentimento di", non reificante, e rimane una irrealtà reificata, indurita, priva della dialettica angosciosa, ma pur sempre dialettica, della nevrosi. Curiosamente e paradossalmente, devo qui dire che esiste anche una "cosificazione nevrotica". È il divenire cosa del paziente nella terapia per essere meglio manipolato come un oggetto dal terapeuta. Sempre un oggetto è più maneggiabile di un'anima. Su questa cosificazione, che è desiderio d'essere cosa per essere guariti, torno spesso. Essa è abbastanza ignorata e impopolare giacché tutti si scandalizzano sempre alla prospettiva che l'uomo diventi o, peggio, voglia diventare una cosa; sembra, per l'uomo, la massima rovina. Sartre ribatte cosi la tesi freudiana che afferma i determinismi psicologici inconsci, con questa massima fra le condanne: essi sono ammissibili solo se noi all'improvviso ci sembreremo come cose del mondo. Il bello è che il malato, tranne quando usa la "spiritualità", la "anticosalità" come una difesa della terapia, non ha lo spavento di divenire cosa. Lo auspica, se la cosificazione aiuta il medico ad operarlo meglio — come in buona parte è vero — per estrarre il tumore dell'angoscia. Sa che è l'angoscia a farlo
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diventare cosa, più che la terapia dell'angoscia. Se l'angoscia con l'infido motto dell'Angor ergo sum lo illude di potenziare la sua sensibilità ed esistenzialità; se egli è in qualche modo affezionato all'angoscia perché di essa ha sempre vissuto e perciò senza angoscia si sente vuoto, privo d'appoggio e d'essenza: arriva il momento in cui egli sceglie di rinunciare ai vantaggi dell'angoscia e vede chiaro il processo reificante che è in essa. Giacché essa, quando si fa intollerabile, porta alla cosificazione psicotica, che è difesa da essa e diminuzione di essa: ora, nessuno può augurarsi di diventare matto per soffrire meno angoscia ). La depersonalizzazione nevrotica si arresta prima della reificazione, si salva proprio perché il sentimento d'irrealtà rimane fluido, ambivalente, incerto sull'oggetto che intenziona, incerto su se stesso, e consapevole. Da qui la costitutiva vaghezza della depersonalizzazione. Gli studiosi hanno cercato di mettervi un ordine. L'hanno divisa in Autopsichica, in cui si ha una incertezza sulla propria entità personale, sulla propria esistenza, sulla propria personalità che si avverte cambiata, estranea, irreale; in Somatopsichica, in cui l'irrealtà riguarda il proprio corpo; in Allopsichica in cui è il mondo esterno che appare irreale, strano, cambiato.7 La depersonalizzazione vera sarebbe la autopsichica; derealizzazione sarebbe quella che riguarda il corpo e il mondo. Freud stesso aveva proposto di chiamare depersonalizzazione la autopsichica; le altre due EntfremdungPer esprimere dunque il soggettivo sentimento
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d'irrealtà che riguarda il mondo, Freud usa la stessa parola che Marx usa per la sua assolutamente oggettiva alienazione (Entfremdung), e che già era nella tradizione filosofica e giuridica. Il sentimento d'irrealtà che riguarda se stessi e quello che riguarda il proprio corpo rimarrebbero allora fuori da un rapporto diretto con l'alienazione filosofica ed economica, e da una comunanza di termini. Ma le tre sezioni della depersonalizzazione non formano unità separate fra loro; si confondono, e tutti sono d'accordo che l'una richiama l'altra strutturalmente. La struttura della depersonalizzazione è una sola; e per la psicoanalisi è sempre una debolezza dell'Io che provoca una "debolezza" del mondo: la psicoanalisi tende sempre a partire dall'Io invece che dal Mondo e ne vedremo le buone ragioni. Le alienazioni di Marx e di Freud sembrano in conclusione assomigliarsi molto, se non altro perché sono espresse dalla medesima parola. Adesso tocca osservarne le analogie e anche tutto ciò che le separa. La alienazione di Hegel o viene assorbita e superata nell'alienazione di Marx, o rimane in un modello speculativo che il marxismo non ha completamente dissolto. Per Hegel la coscienza si aliena nell'oggetto, vi trova la effettualità. E lo spirito, nel suo movimento dialettico, si viene alienando e poi da questa alienazione torna a se stesso. Il sentimento di irrealtà può ficcarsi negli ingranaggi delicati e ottimistici di questa dialettica e farli saltare. Può togliere allo spirito l'oggetto e non restituirglielo più. Nel movimento dell'andare mio verso l'oggetto e del tornarmene da esso a me, insinua una frattura tra me e l'oggetto. Si affina cosí
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nel soggetto una "contemplazione" che non è soltanto autocoscienza e che si sporge su una dolorosissima mancanza o distorsione prospettica dell'oggetto (come sé e come realtà), sul vuoto, sull'irreale. Il sentimento d'irrealtà è adesso una non oggettivazione, una contemplazione il più sovente atterrita dalla vista di estranee e strane novità. È tale terrore a ricondurre il sentimento d'irrealtà di tipo gnoseologico ed ontologico ( dove la depersonalizzazione si incontrerebbe con l'alienazione intesa quale momento dialettico dell'affermazione-negazione ) verso le alienazioni ben più verificabili, dolorose e negative per eccellenza, quelle psicologiche ed economiche; passandosi cosi da una filosofia idealista ad una di tipo esistenziale e ad una patologia individuale e sociale. Queste alienazioni dell'esistere, più che dello spirito, partono da un disorientamento iniziale, ambivalente, e possono giungere fino alle apocalissi. Macinano ed erodono quella che De Martino chiama la ovvietà quotidiana nel suo saggio su "Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche.'" L'irrealtà quotidiana è per l'appunto il contrario della ovvietà quotidiana, è la perdita di essa e dell'ovvio calore dell'esserci. Ma troviamo che l'ovvio è bifronte o concepito in due maniere opposte. De Martino lo guarda storicisticamente con familiare affetto, considerandolo l'unica possibilità di vivere e "la patria dell'agire". Per l'altra maniera (fenomenologica) l'ovvio deve essere sospeso e bucato al fine di scoprire al di là di esso la vera vita come orizzonte di verità e conquista del non ovvio. Cosicché il sentimento d'irrealtà e la perdita del-
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l'ovvio sono destinati a oscillare tra la verità e la maledizione. L'ambiguità del sentimento d'irrealtà non è una invenzione letteraria. È nella sua essenza effettiva ed ambivalente; e costringe ad andare oltre il sentimento d'irrealtà, verso qualcosa che sia meno ambiguo del sentimento d'irrealtà. Il qualcosa di meno ambiguo è il male, la cui natura è ambigua, ma che mai è da noi avvertito ambiguamente. Mai è ambigua la nostra pragmatica reazione al male. La minore o maggiore contiguità con il male determina in modo assolutamente univoco la natura più o meno angosciosa e deformante e "vuota" del sentimento d'irrealtà. Parlo del male, che scopriremo soltanto alla fine di questo libro.
CAPITOLO QUINTO
NEC TECUM NEC SINE TE
L'irrealtà culturale di Moravia conduce dritta all'apocalisse. Egli dice che l'alienazione, ossia la crisi del rapporto con la realtà, è il fenomeno fondamentale del mondo moderno; che grazie al neocapitalismo si è estesa su tutta la faccia della terra; che è altrettanto alienato l'operaio di Ford e il suddito di Stalin; il lavoratore e il datore di lavoro; che la volgarità e l'irrealtà affliggono il mondo moderno.1 Enuncia la legge della Attuale Alienazione Universale, usufruendo dell'allargamento della alienazione di partenza — quella marxiana dell'operaio — ad ogni categoria; infatti "l'uomo è adoperato come mezzo per raggiungere un fine, che non è l'uomo bensì qualche feticcio. " Il feticcio non è soltanto economico ( la merce ), può essere il potere, il successo. Moravia attribuisce l'Alienazione Universale ad una causa storica precisa, il neocapitalismo, e a degenerazioni politiche del comunismo, e nell'orizzonte all'industrialismo. Ignora qualsiasi oggettivazione e le sue condizioni inevitabilmente "alienanti". La legge moraviana cosi costeggia i baratri della coscienza infelice e da storica si sporge sull'infinito orizzonte di una invariante antropologica, su un modo reci-
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divamente negativo di sentire la condizione umana. Rischia di tornare alla filosofia come interpretazione pessimistica della alienazione hegeliana, di tornare dalla politica alla filosofia: dietro l'apocalisse storica fa capolino una apocalisse esistenziale. È lo scotto che paga ogni apocalisse storica quanto più è gigantesca e traccia righe sempre più sfumate tra una esistenza alienata di fatto, cioè per via di un sistema sociale mutabile, e una esistenza alienata di diritto, cioè semplicemente perché l'uomo per vivere ha bisogno di agire ed essere agito, di sporcarsi fatalmente le mani. Tuttavia se un padrone è alienato come un suo operaio; un americano come un cinese e un russo; chi guadagna un milione al mese come un manovale a settantamila mensili; se chi consuma beni di consumo e compra due frigo, una lavatrice e tre spazzolini da denti elettrici, è alienato come chi non consuma che le scarpe e la propria vita; se il mio direttore commerciale che gode fatturando con il suo cervello due miliardi all'anno è molto più alienato di me che gli scrivo a mano le fatture, ed è tanto più alienato perché non si accorge di esserlo, mentre io me ne accorgo e quindi sono progressivo rispetto a lui e dovrei dirglielo in faccia deprimendolo al punto che non vorrà vendere più nemmeno uno spillo, e dove compreremo più gli spilli che ci servono? — se tutto ciò è vero, non c'è scampo ora. Quale scampo ci sarà domani? I rimedi che uno propone alla alienazione, cioè i modi di intendere la disalienazione, sono la migliore spia per intendere come egli intende l'alienazione. Basta la rivoluzione? La rivoluzione è necessaria ma non sufficiente? Che cosa occorre in più o al posto di essa: l'accettazione della dialettica alienazione-disalienazione, tipica della vita ottimistica? La nostal-
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già, l'utopia? La filosofia, la religione? Il tempo libero? La contemplazione? L'efficienza? La scienza? Moravia è uno scrittore e agli scrittori non si usa chiedere rimedi, solo denunce. Tuttavia nelle ultime pagine del suo romanzo "La noia", per il protagonista Dino dopo accecanti traversie irrealistiche sorge una magra rimediante alba contemplativa. Dino riapre gli occhi fenomenologicamente o religiosamente sul mondo in sé. Moravia ama molto la contemplazione; l'ha definita l'autentico, rispetto all'inautentico che è l'azione. Non è facile definire la contemplazione né i suoi rapporti con l'ambiguo sentimento d'irrealtà, senza riferirsi a quel parametro non ambiguo che è il male. La contemplazione può essere sentimento d'irrealtà e insieme la negazione, l'oblio di esso. Non credo comunque che la contemplazione non abbia mai nulla da spartire con il sentimento d'irrealtà. E se la contemplazione ha commercio con il sentimento d'irrealtà, deve anche essere più o meno in rapporto con il male. Una contemplazione a ridosso del male è assurda, non c'è: il male la costringe assiomaticamente all'intervento operativo e alla interpretazione, che è il contrario della contemplazione. Presa in sé, senza rapporto con il sentimento d'irrealtà, la contemplazione è una intellettuale e romantica interruzione del tempo, utilizzabile, al massimo, dall'artista come poesia: ma allargare la poesia a rimedio disalienante per tutti gli uomini, è una operazione decadente. Una contemplazione in sé, ha, come suggerisce Eco, una parentela allarmante con l'hegeliana Anima Bella. E nell'anima bella "portata a tale purezza la coscienza è la sua figura più povera; e la povertà costituente il suo unico possesso è essa stessa un dileguare... Manca la forza
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dell'alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l'essere. La coscienza vive nell'ansia di macchiare con l'azione e con l'esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto della effettualità e s'impunta nella pervicace impotenza di rinunziare al proprio Sé affinato fino all'ultima astrazione e di darsi sostanzialità... Quel vuoto oggetto ch'essa si produce la riempie ora dunque della consapevolezza della vuotaggine; il suo operare è l'anelare che non fa se non perdersi nel suo farsi oggetto privo di essenza e che, ricadendo oltre questa perdita, in se stesso, si trova soltanto come perduto; — in questa lucida purezza dei suoi momenti, una infelice anima bella... arde consumandosi in se stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell'aria... L'anima bella priva di effettualità; nella contraddizione del suo puro Sé e della necessità che questo ha di alienarsi a Essere e di mutarsi in effettualità, nell'immediatezza di questa opposizione fissata... l'anima bella, dunque, come cosciènza di questa contraddizione nella sua inconciliata immediatezza, è sconvolta fino alla pazzia e si consuma in tisiche nostalgie."2 Compare in fondo a una pseudo-disalienazione la follia e la cenere che aspettavo di veder luccicare torvamente nel pozzo della alienazione. Nella "Noia" tuttavia non sulla contemplazione bensì sull'alienazione di Dino batte il cuore del narratore, il quale rappresenta assai meglio l'alienazione che la contemplazione. Il sentimento sincero, sofferto, di Dino è una alienazione "economica", la quale vissuta soggettivamente sviluppa sentimento d'irrealtà (ossia la noia, che ne è una variante romanzesca). Dino è un esempio vivo di sentimenti d'irrealtà a provenienza
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economica; contrasta con la prima ipotesi, fatta al primo colpo d'occhio, che solo da una alienazione psicologica filtri sentimento d'irrealtà. In Dino, però, economia e psicologia si mescolano: l'irrealtà di Dino è provocata dai soldi non guadagnati e che la madre gli elargisce ricattandolo affettivamente, con un miscuglio di privilegio sociale e di edipismo. Non è una irrealtà filosofica, perché non sprigiona dai movimenti peristaltici della coscienza dell'uomo, che digerisce se stessa e l'oggetto; denuncia invece una situazione particolare, che ha cause particolari e non per orizzonte un infinito sempre uguale orizzonte umano. Il sentimento d'irrealtà storico prevale ora sulla ipotesi di un sentimento d'irrealtà eterno; come "storico" ora lo seguiamo. Allora subito mi impegno nella ricerca delle sue cause e del loro intreccio. Se anche intravedessi che le forme dei sentimenti di irrealtà delle più diverse provenienze si assomigliano strutturalmente e che è questa analogia che più conta, io non so come non badare innanzitutto alle loro provenienze e, ridico la parola oggi vergognosa, alle loro cause. Quindi alle loro intenzioni. Naturalmente non voglio che questo causalismo sia meccanicistico, astorico, unilineare. Delle tre vergogne il meccanicismo è la meno turpe. La regina del causalismo, la psicoanalisi, scienza del profondo, nella pratica terapeutica più globalistica, indeterminata e aperta, discute di meccanismi ininterrottamente. Su di essi, come leve, fa forza.
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Il malato se non altro la costringe al meccanicismo e di più al causalismo, chiedendo affannosamente perché? perché? Dall'uomo che prova angoscia sprizza sempre per prima la domanda sui motivi dell'angoscia. La terapia si fonda sul passaggio emozionale dal perché conscio al perché inconscio. Non importa se le risposte deludono; sempre, finché c'è angoscia, il perché esplode come un gas da una terra trivellata e marcia. L'astoricismo, la collocazione non storico-sociale dell'alienazione, trascina ad errori come all'errore bigotto di ritenere alienante il denaro sempre. Il denaro aliena chi,ce l'ha (ma non sempre); sempre non aliena chi non ce l'ha. Il semplicismo o causalismo unilineare ha un suo fondo di cocciuta ragione: esigo la causa, ne esigo una e una sola. Ma l'unilinearità (e non la causalità in se stessa: è detto per coloro che snobbano la causalità) tradisce. Ogni semplificazione uccide la diagnosi, la prognosi, la terapia e la rappresentazione artistica, a meno che non voglia essere grottesca, dell'imbroglio che è la nevrosi, l'irrealtà. E taccio della invadente equazione lineare che in ispecie il cinema ama impormi: Civiltà industriale = Nevrosi. Oppure: Panorama di fabbriche sullo sfondo = Donna alienata in primo piano. Chi è convinto che gli uomini odierni siano pazzi per gli uffici di vetro e i tubi di distillazione, fa male a credere che si stia meglio in campagna. (Chi scrive si occupa di nevrosi e industria dal 1946 eppure adesso non è insensibile al grido di saturazione: alleggeriamo la poetica dei nervi e del tubo.) La morbosità nervosa e mentale è appunto un intrico di radici il cui misterioso affondare spesso è l'anima della malattia. Malattia è il non saperne mai
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tutte le cause, è il buio smarrimento del senso dei precedenti, della "ragione" o delle "ragioni" e dei legami chiari innocenti con la realtà; per questo la psicoterapia non è che il loro inseguimento all'infinito. Persino l'ortodosso metodo freudiano, nato cosi riduttivo e monoriduttivo, appena si applica a una psiche viva prolifera in schemi ad albero; e specialmente se durante l'analisi il paziente si affeziona troppo all'idea del trauma unico, solitario capostipite dei suoi mali infiniti, il terapeuta gliela scompiglia o lo abitua a intrichi, labirinti, strutture, indefiniti orizzonti e rovesciamenti di dogmi. (No, non è l'amore per la madre. Non si accorge che è l'amore per suo padre? La sua vera madre è suo padre, è questo il suo Edipo ). Il terapeuta allena il paziente affinché veda il passato, quindi il presente, il futuro con rapidità di riflessi pronti per ogni nuova scoperta e per il sussulto delle evenienze che proditoriamente gli scattano sotto i piedi. Lo allena come un tiratore a volo, che sulla pedana non sa da quale cestello si alza il piccione. Non solo nella recente psicologia "la spiegazione si discosta dalla causalità unilineare e dalle teorie unilaterali che ne derivano (biologismo, psicologismo, sociologismo); e la preoccupazione maggiore si fa quella della interazione dei determinismi, della causalità a reticolo."3 Ma la terapia ha come scopo di irrobustire per sopportare l'imprevedibile e la più infettiva delle frustrazioni: l'indeterminato e l'incertezza. Tollerare l'incertezza è, in fondo, l'unica bandiera della guarigione. L'ansia del dubbio, il bisogno di pre-vedere, di pre-vivere per annullare la eventualità del dolore e anche di una paurosa feli-
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cità, riguardano, è vero, le forme ossessive. Ma sono la febbre dell'anima; la reazione atterrita e di generico allarme di tutta l'anima a tutta la realtà, quando questa, solo perché imprevedibile, fa orrendo spavento in sé.
Ripensando a F., ora sono più colto di lui perché sto con i libri e le cause dietro il tavolo. Come un dottore sfoltisco il suo dramma linguistico. Intuisco che, nel suo caso, l'irrealtà, contro cui peraltro si lotta come contro l'angoscia, è una sostituzione della angoscia, direi che la segue e si estende come un pianoro brullo dopo che si ricade giù dal vano arrampicamento ansioso. Forse durante le scomparse F. annega nell'angoscia e quando riemerge su una sponda asciutta e tutta visibile ha quella distanza, prosciugata sospensione dell'essere, arretramento pallido che sono la irrealtà. L'angoscia si dissecca e nell'aria arida,che lascia si forma la membrana della irrealtà, bianchissima, disidratata, paurosa di ogni affetto. L'irrealtà non sarebbe dunque che una difesa dalla realtà. Gli autori psicoanalisti hanno visto quasi tutti nella depersonalizzazione una funzione difensiva, Essi dicono pure che i sentimenti di irrealtà proteggono dalla rottura delirante con la realtà, anche se sono vissuti come rottura con la realtà. E dicono che un individuo non può essere veramente arrabbiato ed avere sentimenti d'irrealtà nello stesso tempo. È complesso il rapporto fra l'irrealtà, l'inimicizia col mondo e il delirio; non è pacifico se la depersonalizzazione sia del tutto staccata dal delirio o se
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alcuni soggetti (psicotici) si difendano dalla depersonalizzazione proprio strutturando un delirio." Comunque il sentimento d'irrealtà si colloca come una difesa estrema o un estremo pericolo, il punto di rottura della personalità. Diviene cosi più chiaro perché il sentimento d'irrealtà appare come in F. un'ultima Thule, il traguardo che riflette se stesso, la difesa somma, il massimo pericolo... Forse si escludono: ma il sentimento d'irrealtà qui somiglia al pensiero della morte. Tutti e due si appollaiano fuori, più in alto, al di là della vita; e necessariamente sono nella vita. Sono meta-vita e vita. Mi accade in un certo momento della mia vita, di pensare principalmente alla morte. Tale pensiero della morte è un modo di pensare di quel momento della mia vita. La riprova è che pur essendo il pensiero della morte per definizione definitivo, insuperabile, da cui non si torna indietro, può passarmi: viene superato o cade dietro nuove fasi e pensieri della vita. Il pensiero della morte travalica la vita, nello stesso tempo è un suo prodotto sovente passeggero, uno fra i molti suoi travestimenti beffardi. Ma adesso si deve dietro il tavolino diagnostico, pure se nel sentimento d'irrealtà legittimamente si respira un odore di intuizione e gnoseologia estrema e se negli occhi di F. si vede addirittura una esperienza mistica ( almeno tutta l'esperienza mistica che può avere a Milano un direttore centrale), si deve catalogarne il travaglio linguistico in una fra le tante forme d'ansia; e afferrare l'effluvio di irrealtà che esce da F. — ridotto a semplice paziente — per stringerli dentro una cronologia di sintomi che si evolvono. Ieri la scelta, oggi l'irrealtà, e domani? La guarigione o magari di nuovo la scelta? So che
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F. e il mondo chiedono diagnosi e prognosi. È da ricercare la realtà che si esprime nell'irrealtà, e questa non è filosofia, è terapia. La terapia non può rimanere sospesa in una estasi. Bouvet ha elaborato una tesi tecnica, una causazione verosimile. Per Bouvet la depersonalizzazione è una sospensione della libido, dovuta alla perdita di un oggetto narcisistico. Ecco l'irrealtà, malata parentesi in mezzo alla realtà. Con Bouvet la relazione oggettuale, il rapporto affettivo verso l'oggetto balza avanti quale causa storica e individuale. Non è il sentimento d'irrealtà a produrre la solitudine, ma la' solitudine non cosmica, non generica e incomunicabilista, provocata dalla perdita di quel dato nominabile oggetto, a produrre il sentimento di irrealtà. L'irrealtà che aveva scoperto, sia pure irrealisticamente, che l'uomo non è un animale sociale, viene ritrascinata a confronto con la "normalità". Questa non è astratta e impossibile, anche se è un po' inafferràbile e un po' pedestre: è il famoso "normale inserimento", l'integrazione dell'uomo innanzitutto con gli altri uomini, condizionata dalla relazione di oggetto. La psicoanalisi, esaltazione del razionale e del relazionale affettivo, fa se necessario dell'irrealista un aborto dì superuomo solipsistico, lo reincalza verso l'oggetto d'amore. Come un Golia l'irrealista viene abbattuto dal sasso preciso del terapeuta. Il quale se ne infischia della meta-vita. Non contempla. Interpreta. Si riferisce a una dottrina e non si preoccupa tanto se questa dottrina sia positivistica. Se è d'accordo con Bouvet, coglie l'origine dell'irrealtà nel periodo pregenitale, narcisistico. L'oggetto è narcisistico, dice Bouvet, quando dal
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possesso incondizionato e assoluto di tale oggetto, che può andare fino alla distruzione di esso, dipende il mantenimento della strutturazione dell'Io. La libido non ha subito la genitalizzazione delle pulsioni, i desideri istintuali non hanno conosciuto trasformazioni, non hanno acquistato sfumature, obbediscono sempre alla legge del "tutto o niente", non esiste un ventaglio di posizioni affettive che vada dal semplice interesse alla passione; la relazione oggettuale è sempre chiusa in un dilemma che le impedisce di risolversi o in maniera positiva o in maniera negativa... Il soggetto non può confondersi nell'oggetto né perderlo.5 Si pensa a: nec tecum nec sine te vivere possum. Dandone una generalizzazione scientifica e patologica, Bouvet teorizza il dramma umano della distanza dall'oggetto ( perciò il sentimento d'irrealtà è quella astrale distanza, perché nasce dalla sconfitta della distanza umana), il dramma della equidistanza. All'inseguimento dell'equidistanza tanti sono dilacerati e compressi: se mi avvicino troppo all'oggetto d'amore lo distruggo, se mi allontano lo perdo. Tale equidistanza è una forma della ambivalenza. Allora tendo a ristabilire continuamente l'equidistanza e l'equilibrio dell'ambivalenza, non faccio che correre di qua e di là nella mia anima e nella impossibile realtà per ridare parità alla bilancia: è la mia maledizione narcisistica, il narcisismo ferito — come sempre dice Bouvet — col suo bisogno di apporti narcisistici continui e continuamente divorati, insaziabile di conferme, che alla fine mi fa perdere l'oggetto e me stesso. Perduto l'oggetto io provo quel vuoto, io sono quel vuoto prosciugato e sospeso, quel rattenimento pauroso e pavido: fra esso e la realtà scende il nero ( o bianco ) velario di organza del sentimento d'irrealtà.
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Il sentimento d'irrealtà ha cosi la sua storia. La strutturazione della libido lo comanda. Bouvet può aggredirlo tecnicamente, distinguerlo in: Crisi acute di depersonalizzazione sopravvenienti lungo una evoluzione nevrotica. Nevrosi di depersonalizzazione. Depersonalizzazione cronica nel corso di una nevrosi. Come una qualunque piccola passione il sentimento d'irrealtà può spegnersi. Oppure col tempo organizzarsi in un florido delirio. Non riesce, come vorrebbe, a fermare il tempo. Certo io ho estratto finora dalla depersonalizzazione il sentimento d'irrealtà, che rimane della depersonalizzazione l'elemento più immortale e puro, quello che non rinuncia a tentare di erodere la corda del tempo. Ma il tempo si rafforza su se stesso, non si erode. Pretende o di guarire o di abituarsi o di precipitare verso la WUE, la persecuzione e la follia.
CAPITOLO
SESTO
L'OPERAIO PAZZO
Con una foggia già clownesca e raccapricciante, con la convinzione del veleno nella minestra, si fanno i primi passi per riempire il vuoto indicibile della realtà mercé una nuova realtà reificata e dicibilissima — la chiamano affabulazione delirante — catastrofica e nemica. La WUE è un fantasma terminale, un capolinea: non per nulla è il fantasma della fine del mondo. Con essa esplode, fra il punto tre e il punto quattro del primo ricordo di Renée, l'inimicizia del mondo da cui ci si sente distanti, la trasformazione del diaframma affettivo con la realtà in persecuzione. Al delirio persecutorio non si balza esclusivamente dalla pedana del sentimento d'irrealtà. La Susanna Urban di Binswanger nella autobiografia disegna un'aria persecutoria animatasi, diciamo, all'improvviso. Narra una fatale serie di disgrazie e scene atroci e nessuna irrealtà; di colpo dice, mentre racconta il suo primo ricovero: "Al primo colpo d'occhio noto tutta una folla di uomini che sembrano attendermi (nel vestibolo dell'ospedale) e che mi considerano con un sorriso sarcastico, e molte donne anche hanno una faccia molto ironica. Sento subito una atmosfera contraria, odiosa, da parte di tutta
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quella gente... Mi accorgo allora che il medico parla ironicamente..."1 Invece lo psichiatra Van den Berg riferisce dell'arrivo di un giovanotto nel suo studio, il quale denuncia una serie di sentimenti d'irrealtà, finché — molto somigliando a Renée e facendoci capire la meccanicità dei sintomi — alla domanda del medico di indicare i cambiamenti avvenuti, risponde che le strade hanno cominciato a sembrargli larghissime, le case prive di colore scure e sporche e cosi vecchie e cadenti da dargli l'impressione di dover crollare da un momento all'altro. Si avvicina il triste monotono decollo dell'inimicizia. "La vista della gente lo riempie di inquietudine, di solitudine, di paura e d'ira, tutt'insieme. Vorrebbe poter distruggere quelle figure ostili. Per dire propriamente quello che pensa: tutti gli esseri umani gli sono nemici. "2 Inevitabilmente e monotonamente, l'inimicizia del mondo e col mondo sembra la conclusione "logica" di un sentimento d'irrealtà che non si esaurisca o non si cronicizzi nelFestraneamento e nella paralisi affettiva, ma si sviluppi nella reificazione. C'è puntualmente tale freccia prevalente nei distacchi dal mondo, come se fosse impossibile all'uomo sopportare il distacco, il vuoto, a lungo e si dovesse riempirlo in qualche modo. Il limbo dell'irrealtà è un trattenimento acrobatico di fiato, inumano. È fisiologica, anche al di fuori di ogni psicopatologia, una spinta vitale a odiare, distruggere, colpevolizzare, a sentirsi odiati e distrutti, quando si rompono i patti con l'antagonista che è il mondo. Immediatamente la frustrazione si ribalta in accusa, la distanza è colpa: di qualcuno. Il mancato flusso della libido bloccata scatena la destrudo, nel vuoto avanza e si accampa l'istinto di morte. E si riprendono cosi
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i contatti col mondo. C'è da credere che questo spurgo della violenza sia un bene, una sanità. Ho un esempio non psicopatologico ma culturale, di lotta col mondo, dove ritrovo sintomaticamente l'irrealtà. Un critico insieme di sinistra e d'avanguardia dichiara: "Lo zero di significazione del romanzo più recente è uno zero significante perché rifiuta le ideologie borghesi correnti e in particolare quelle della cultura di massa: invece di dare all'irreale l'apparenza del reale, dà al reale l'apparenza dell'irreale."3 Tipico modo di impegno avanguardistico e non contenutistico: si lancia una nuova specie di irrealtà: l'irrealtà-protesta, vendetta cosciente, arma. Si proclama irreale o meglio si deforma nell'irreale, "atteggiandosi" all'irrealtà, ciò che non si capisce o non si accetta, o non ci accetta. Si altera nell'irrealtà significante il negativo sociale e individuale, piuttosto che indicarlo nel suo negativo significato: il mondo industriale o una donna o un padrone o una domenica pomeriggio. E appunto non si vuole dare realtà ( significato) a questa irrealtà, stando al gioco del nemico (il significato e l'ordine tradizionale); si irrealizza il suo gioco, con l'operazione rivoluzionaria del significante. Tale irrealtà protestataria somiglia molto al sentimento d'irrealtà ma soprattutto ai suoi eventuali sviluppi reificanti. Se nella irrealtà della sede psicopatologica la distanza del mondo è una irrealtà che sviluppandosi crea l'inimicizia col mondo; e nella irrealtà protestataria l'inimicizia del mondo e verso il mondo è una distanza che viene rappresentata con l'irrealtà, magari grottesca: i due processi si somigliano e addirittura muovono per gli stessi passaggi, inimicizia, distanza, irrealtà, basta ricordarsi che
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il processo psicopatologico è inconscio — mentre conscio per definizione dovrebbe essere quello culturale — e quindi l'inimicizia iniziale, in esso, l'errata relazione d'oggetto, rimane rimossa e scambiata con l'irrealtà finale. E ambedue i processi terminano con una dichiarazione di guerra. La vera differenza fra loro sta nella intenzione e nel bersaglio. In F. ed altri simili a lui pare che non ci sia bersaglio, non accusano il mondo. Semmai accusano se stessi o accusano il mondo ma attraverso se stessi. Il sentimento d'irrealtà non è cosi travolgente da oscurare in loro la consapevolezza della propria responsabilità nell'irrealizzare il mondo. Sono degli auto-aggressivi che per carattere battono il versante del suicidio piuttosto che quello dell'omicidio. Al contrario, in Renée, nel caso più ambiguo del giovanotto (nevrotico? schizofrenico?) di Van den Berg —• pur restando vive le loro tendenze autoaggressive e viva in Renée fino all'ultimo la lotta contro il proprio delirio — e nel critico di sinistra e d'avanguardia, l'irrealtà si collega, a monte e a valle, con la inimicizia del mondo e col mondo, fino a un sistema di battaglia dove perentoria squilla la WUE. Per Renée e per il giovanotto di Van den Berg lo squillo annuncia la fine del Mondo. Per il critico, la fine del mondo borghese. (Almeno me lo auguro: che il critico non scambi qualche sua intima apocalissi con l'apocalissi culturale ). La rivolta dei primi è solitudine. Dei secondi è legame con i compagni, con gli amici. Queste ovvie distinzioni vanno ricordate quando corre troppo l'abitudine di mescolare alienazione filosofica, economica, politica e psicolo-
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gica in base a certe loro somiglianze e di pasticciare con una Alienazione Unica Confusa. L'alienazione politica si sgancia da quella economica, quando si osservano alienazioni sociali sorgenti e risorgenti dalle ceneri della alienazione economica (cioè dalle ceneri della merce che diviene valore e dell'uomo che diviene merce). Se "possono esserci fenomeni di reificazione della coscienza al di fuori del contesto capitalistico o indipendentemente anche da un contesto economico qualsiasi " ( Gabel ), quali sono le altre radici di questi fenomeni? I comunisti sono sempre tentati di dire che questi fenomeni nascono da strutture economiche non ancora perfettamente comunistiche, da residuati capitalistici, e rischiano la utopia (altra sorta di alienazione come reificazione del futuro ) della struttura comunistica perfetta. I "revisionisti" vedono quei fenomeni come antropologici: per Gabel sono psicosociologici, quali l'egocentrismo collettivo o sociocentrismo o etnocentrismo; la struttura di tali malattie sociali è analoga al processo schizofrenico, secondo la sua tesi che ideologia e falsa coscienza da un lato e schizofrenia dall'altro siano un medesimo modo d'essere non dialettico, reificato, dell'uomo. (Con questa tesi si dà una interessante interpretazione marxistica, strutturale, della schizofrenia: che però è l'opposto di una diagnosi differenziale e causale ). Quanto ai pessimisti, essi sono catastrofici se convinti che i suddetti fenomeni stanno insiti nella eterna coscienza infelice dell'uomo; sono invece critici se ne accusano l'industrialismo, ma considerandolo irreversibile e perciò migliorabile (dialettizza-
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bile) solo dal di dentro, o inglobandolo, frenandolo in una società più civile; se lo considerano catastroficamente e identico sia nell'accezione capitalistica che in quella socialistica, sono catastrofici anche loro. Ognuno dei punti di vista ha naturalmente una ricetta diversa sia per proporre, o non proporre, rimedi, cioè per la disalienazione; sia di considerare l'oggettivazione o alienazione "positiva" (o meglio inevitabile e augurabile). I comunisti, che dovrebbero essere i depositari della dialettica moderna, tendono a onorare sommamente l'oggettivazione, sottraendola persino alle vicende della 'dialettica perenne e ibernandola in un futuro mondo migliore, fermo. L'eternità della dialettica perenne viene acciuffata dai revisionisti i quali ci si immergono fino al collo e reificano la dialettica: dimenticano, ad esempio, le rotture della dialettica in antinomia. Gli apocalittici non amano altra oggettivazione che la contemplazione, la poesia. I religiosi puntano tutte le carte su un al di qua in funzione dell'ai di là (essi sono i più coerenti). Ecco la polemica tèoretico-politica del mondo contemporaneo, cui si potrebbero aggiungere i vari tipi di avveniristi: i profeti pessimisti della bomba atomica e gli ottimisti anticipatori alla "Planète", di una coscienza evoluzionistica e cosmica. ( Anzi, gli avveniristi guadagnano sempre più terreno sugli storici: il confronto con il tempo viene oggi fatto più in avanti che indietro.) Noi stiamo però seguendo, in particolare, l'attuale pasticcio alienazionistico che confonde il momento psicologico e il momento sociale nell'alienazione unica confusa.
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L'alienazione filosofica è la più misteriosa. Per essere più concreti, diciamo l'alienazione che si prova filosoficamente; o, addirittura, l'alienazione dei filosofi. Se attribuiamo al sentimento d'irrealtà certe doti, privilegi, quali la parentela stretta con l'introspezione, l'autocoscienza, l'ambivalenza da cui si dipartono dialettica e antinomia, non dovrà il filosofo provarlo tecnicamente quando arrivi al vertice della speculazione? O il sentimento d'irrealtà del filosofo non è altro che la rarefazione del pensiero astraente, che sarebbe confusionario e gratuito chiamare sentimento di irrealtà? Insomma il filosofo deve depersonalizzarsi o no per essere vero filosofo? Si è già visto come i rapporti fra sentimento d'irrealtà e ontologia siano i più complessi di tutti. Se il sentimento d'irrealtà in quanto tale, e non come senso del mistero ( vecchio come il mondo ), fosse indispensabile al filosofare, si riaffaccerebbe l'altrettanto vecchio problema della nevrosi positiva. Ora noi tendiamo a una accezione il più possibile negativa della nevrosi. Per principio riteniamo la nevrosi positiva un sepolcro imbiancato. Che fare allora? Non possiamo che seguire una strada: battere all'inseguimento della nevrosi accanitamente, tentare di sconfiggerla in ogni fronte. Ciò che resta, sarà nominato nevrosi-destino, nevrosi che si deve accettare ed elaborare, non guarire. Tanto, qualcosa resta sempre. Basterà ed avanzerà, come razzo vettore, per lanciare il filosofo nell'orbita teoretica. Ma non rispetteremo mai una nevrosi in sé, come a priori, e mai la teorizzeremo come privilegio del pensiero. Sarebbe assurdo, per chi conosce la perfidia e l'oscurantismo della nevrosi. Egli non desidera che una scienza che la bruci.
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Anche una generica alienazione psicologica può andare esente da sentimento d'irrealtà. È abbastanza esatto dire che è psicologicamente alienato Carlo, infelice in amore, e Ambrogio costretto dal padre notaio a intraprendere la carriera notarile che egli detesta. Le loro due alienazioni sono legate alla tristezza, alla frustrazione, al dolore, non necessariamente all'irrealtà. Ma per noi la vera alienazione psicologica è quella satura di sentimento d'irrealtà. Altrimenti l'alienazione rientra nel giro generico e mondano. Ed è per noi necessario distinguere tra una infelicità nevrotica e una infelicità normale; ora, il sentimento d'irrealtà è buona parte di questa distinzione, insieme all'angoscia.
La domanda adesso che scatta più pittoresca di tutte è se sia rintracciabile, isolabile il sentimento d'irrealtà nella più classica, oggettiva, esplosiva delle alienazioni, quella che ha portato il concetto di alienazione nella cultura moderna: l'alienazione dell'operaio che' diviene merce; e per analogia in tutte le alienazioni allargate dei feticisti del denaro, dei prigionieri politici imbavagliati, delle dive, delle dattilografe, dei portieri di calcio e di condominio. Indagine non oziosa, difficile. La consapevolezza o la inconsapevolezza dell'alienazione oggettiva — che in qualche modo deve pur essere soggettivamente vissuta: è concepibile una alienazione oggettiva senza alcun riflesso psichico? — non si lamenta, non si drammatizza sempre tramite il sentimento d'irrealtà. Però c'è Dino, il personaggio di Moravia, il quale da una alienazione "economica" (pur infarcita di edipismo ) arriva alla noia, variante precisa o sinonimo del sentimento d'irrealtà. Dino è prova di
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irrealtà soggettiva innescata da alienazione socio-economica. Ma l'operaio? C'entra il sentimento d'irrealtà con lui? In un buco della più infernale officina di grande serie, legato al compito più parcellare e monotono immaginabile in questo periodo di lunghissima transizione fra automatismo e automazione, diciamo in una fase di lavoro di 35 secondi per otto ore, tagliato fuori con un sempre povero salario e nessuna voce in capitolo dai cervelli decisionali della più oscurantistica ditta del mondo, priva persino di una larva di commissione interna, l'operaio rimugina fra sé un monologo interiore e gli scorre davanti agli occhi della mente un nastro di idee e sensazioni, in cui il sentimento d'irrealtà fa si o no capolino? Si deve usare o no il sentimento d'irrealtà come spartitraffico fra alienazione (o meglio depersonalizzazione psicologica) e alienazione sociale oggettiva? Debbo dire che testimonianze di sentimento d'irrealtà da condizione operaia non risultano. Eppure come essere sicuro che più o meno chiaramente nella testa o nel petto di un operaio e di altre vittime dell'alienazione allargata non si apra il risucchio di un sentimento d'irrealtà? Quante volte sento dire di irrealtà sociali, miscuglio di sofferenza passiva e protesta, accanimento sulla realtà e perdita di una realtà devalorizzata, straordinariamente analoghe al carattere difensivo e ostile della depersonalizzazione. È che seguendo le affascinanti analogie si rischia di passare sotto silenzio il fatto macroscopico che all'operaio il mondo da irreale ed estraneo può diventare nemico, nel senso della lotta di classe. Che al pazzo il mondo può diventare estraneo, irreale, nemico, nel senso della paranoia in fondo a cui la demenza aspetta.
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Che cosa accade all'operaio pazzo? Oggi l'alienazionismo confusionario è di preferenza sociologizzante. È petulante e non è nemmeno marxista. Ama agganciare qualsiasi alienazione agli uncini più ovvi e sporgenti dell'industrialismo. Se per esempio io descrivo una ragazza ossessiva, depressa, carina e segretaria di azienda e se tutti i miei sforzi si concentrano nel riportarne lo squilibrio ad una, sia pure misteriosa, motivazione personalissima — poiché lavora in una grande azienda moderna non c'è verso che non la trasformino in un mulino a vento contro cui si gettano stuoli di giornalisti sociologizzanti per derivarne a tutti i costi la nevrosi dal vetro-cemento, dalle scaffalature metalliche, dalla segnaletica stradale e da tutto l'armamentario neocapitalistico. Addio al suo destino personale cui, senza essere un fornitore d'alibi individualistici al neocapitalismo, soprattutto ero legato. Ma che cosa accade all'operaio pazzo? La mia segretaria, per me matta in proprio, rifiuta l'addossamento d'ogni individuale follia al puro smog. Rimane che la civiltà industriale produce con facilità sia merci che malati di nervi e crea personaggi come Albino Saluggia nel romanzo di Volponi "Memoriale", un operaio con mania persecutoria che nel finale diventa scioperante. Dal vedere genericamente in tutti dei nemici, alla fine pare identificare i veri nemici nei padroni. Paranoico o marxista? Paranoico che guarisce col marxismo o marxista aizzato, quindi ideologicamente devalorizzato, dalla paranoia? O tutti e due? Nel senso che la distinzione non importa? Su quale piano non importa? Sul piano della vita, la vita dà di continuo personaggi misti a mezzo tra affabulazione delirante e
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affabulazione rivoluzionaria, tra mistica, filosofia e follia, per cui sarebbe inutile tentare la suddivisione dell'indivisibile. Sul piano dell'arte, un critico dell'avanguardia ha deciso che non solo la distinzione non importa; anzi, poeticamente l'indistinzione giova. Secondo lui Volponi rappresenta cosi vividamente le cose industriali proprio perché le. guarda dall'angolo visuale di una psicopatologia.4 Sembra che l'alterazione psichica serva a sfuggire da quel naturalismo verso cui gli uomini dell'avanguardia sono acutamente fobici: si intende, una alterazione psichica non descritta naturalisticamente! Non positivista, nosografica, causalizzata, ottocentesca! Poco più di una sfumatura divide la fobia del naturalismo dall'idea di un intrico di misteriose radici, idea che ho proposto come retroterra della morbosità psichica. Una sfumatura significativa: su un versante soffia la fobia dell'accostamento causale, sull'altro una lunga storia risalente alle lotte primeve per l'egemonia di una causa prima. Lotte che sono in via di indebolimento, a meno di fulminee riaccensioni. Sul piano dell'ideologia un caso misto è sempre un pericoloso fiammifero. Un caso misto aizza il tiro alla fune degli ideologi, almeno i superstiti, per il possesso intero del soggetto. Sono distribuiti nelle due arcaiche squadre degli individualistici e dei socialistici, non ancora debellate. Esse anzi non amano accordarsi sulla fredda (e non qualunquistica) constatazione che nell'uomo si stratificano e alternano due ordini di causazione e due momenti: il sociale e l'individuale. Una squadra potrebbe illuminare uno, una squadra l'altro. Impresa ardua; anche se l'uomo stesso, il sog-
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getto disputato, sarebbe d'accordo, poiché egli stesso ora vive di più il proprio momento sociale, ora il proprio momento individuale, e sente come legittima, naturale questa alternanza. Del resto si conoscono molte altre analoghe famose coppie di momenti. La polemica di LéviStrauss con Sartre è un indizio recente della coppia di moda: variazione-invarianza. Per l'antropologo la conoscenza storica non merita che la si contrapponga alle forme di conoscenza come una forma assolutamente privilegiata. Allora anticipo la domanda: che cosa convince a ritenere privilegiata una forma di conoscenza invece che un'altra? Al problema conduce una frase dello stesso Lévi-Strauss: "Il mio marxismo, a differenza di quello di Marx, è un marxismo pessimista.'" Come sovente pessimismo e ottimismo, due fra le più banali diagnosi del temperamento umano, vengono caricate di conseguenze filosofiche enormi. Il fenomeno non può passare senza una ulteriore conseguenza: uno stato d'animo, una psicologia, spingono a ritenere privilegiata una forma di conoscenza piuttosto che un'altra. È un invito pressante a una psicologia della conoscenza. Quante volte Giancarlo ha con sussiego teoretico affermato che tutto cambia al mondo, perché si trovava in un periodo di grandi viaggi, traslochi e rivoluzioni interiori; ha poi sostenuto che nulla cambia al mondo, durante un inverno monotono nella sua città. Ugualmente è vero che tutto il mondo è paese, ma anche che moglie e buoi dei paesi tuoi.
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Il gioco dei momenti, l'individuale e il sociale, la loro distinzione, riporta al gioco delle cause, dei determinismi intrecciati e distinti. Indirizzata invece verso la struttura, la cultura è stata recentemente presa da un vento acausalista. Conosciamo le miserie del causalismo. È frustrante, vacuo. Si comprende a perfezione la nausea dell'inseguimento perpetuo della causa prima, cui volenti o nolenti il causalismo aizza; la ripienezza di cervello che l'ammassamento delle cause e dei loro attorcigliamenti produce. Che aria più fresca tira, quando ogni valore è autoposto, o quando il valore è la struttura, il modello. L'acausalismo è una libertà, una eterna verginità dello sguardo; sorge un sole assolutamente nuovo ogni volta. Buttati via i salvagente causali, mollate le maniglie, dà refrigerio stare nell'acqua, sia pure variegatissima, dell'essenza e della struttura, godere dell'eterno presente e magari dell'avvenire. La storia ci ha seccati. Come un chiodo in una scarpa rispunta la lotta per la supremazia di una causa prima storica, la spietata necessità interiore di credere a un momento unico che si mangia il suo contrario: come una vecchia ossessione ferisce di nuovo una coscienza liberata.
SECONDA
PARTE
LA PSICO AN ALISI E L'UTOPIA PSICOLOGICA
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CAPITOLO PRIMO
L'AMBIVALENZA EUFORICA E DISFORICA
Ignoro se Marx abbia mai riflettuto sull'operaio pazzo. Si legge però questa pagina del sommo maestro dell'"in ultima analisi": "Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore compendi, ecc. Un delinquente produce delitti. Se si considera più da vicino la connessione esistente fra questa ultima branca di produzione e l'insieme della società, si abbandoneranno molti pregiudizi. Il criminale non solo produce crimini, ma anche il diritto penale e quindi anche il professore che tiene cattedra di diritto penale e l'inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta sul mercato generale i suoi contributi come 'merce'. Ciò provoca un aumento di ricchezza nazionale senza contare il piacere personale che... la composizione del manuale procura al suo autore. Il criminale produce inoltre tutta l'organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc. e tutte quelle differenti professioni che formano altrettante categorie nella divisione sociale del lavoro, sviluppano facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli (...). Mentre il delitto sottrae una parte della eccessiva
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popolazione al mercato del lavoro..., la lotta contro il delitto assorbe un'altra parte della stessa popolazione. Il crimine appare cosi come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di 'utili occupazioni'.'" Della connivenza psichica fra poliziotto e criminale si è sentito parlare più volte; ma la pagina di Marx è magnificamente rivoluzionaria e butta in aria con allegria montagne di ipocrisia. Però palesemente la complicità psicologica fra il delinquente e i suoi giudici non è toccata. Alexander e Staub vi hanno dedicato un libro, che si chiama proprio "Il delinquente e i suoi giudici'" e studia i sorprendenti nessi fra l'anima delle guardie e l'anima dei ladri, le loro simmetriche aggressività. Il giudice sceglie la sua professione seguendo una spinta interiore collegata all'aggressività; al punire. Del resto, gli aspetti psicogeni della violenza (e della guerra) vanno assunti in una critica dell'anima che è rivoluzionaria e affine alla critica della società e non può confluire in qùest'ultima annullandosi. In un momento del dopoguerra la polemica Marx-Freud fu abbastanza vivace in Italia, fino a qualche giorno prima ignara e sfondata dallo spiritualismo volgare fascista. Come bambini molti non si domandavano che perché? perché? (il bello è che se lo domandano ancora ), interrogando i maestri del perche-sostanza ingannevolmente nascosto dietro il perché-apparenza e questo tolse loro il tempo di studiare il problema della sostanza dell'apparenza e dell'apparenza della sostanza. Stavano stretti fra le due morse del motivo e dello scopo, del retroscena e dell'orizzonte, violentemente causalistici e finalistici.
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Pur nella fortissima politicizzazione, che è la reciproca negazione dei punti di vista, ci si accorgeva a forza delle sorprendenti analogie di metodo fra marxismo e psicoanalisi: nei determinismi economici e psicologici, nelle prese di coscienza, negli interventi maieutici della dottrina e dei suoi depositari ( sindacalisti, analisti ), nel confronto fra ideologia e razionalizzazione. Lo stesso, si ebbe un breve clima da eliminatoria finale: al di là delle analogie importava se Freud inglobasse Marx, o Marx Freud. La polemica divenne presto grigia perché in Italia i politici ( come i magistrati) ignorano la psicologia, e gli psicologi seri nostrani ( specie i freudiani) amano giustamente le distinzioni e meno giustamente diffidano dei rapporti fra settori di una stessa disciplina e fra le discipline, e fra le visioni del mondo. L'arcigna diffidenza scende dall'atteggiamento causalistico arcaico, abituato alla lotta ideologica per il possesso dell'"in ultima anàlisi"; ovvero da un opposto gusto scientista dei compartimenti stagni. L'abitudine interdisciplinare, la teoria della necessità di questa abitudine, sono di un'altra cultura. È il concetto di struttura che oggi favorisce massimamente i rapporti perché favorisce le analogie. Molti psicologi e psichiatri anche italiani sono stati già scossi dalla ondata fenomenologica, con la quale parecchi non hanno tardato a farsi penne di pavone. E molti cercano adesso il confronto con il secondo grande ceppo della cultura contemporanea, quello neopositivistico, con le analisi del linguaggio e con le teorie della comunicazione. Continuamente psichiatri colti parlano di cibernetica. Quanto al causalismo, paradossalmente io posso attaccarmi al mito di una causalità riposante e fisicalistica: perché proprio nelle vaghezze dell'animo
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voglio un minimo di catene e legamenti per non perdermi; ma ho assorbito fino all'infradiciamento il relativismo del mio carattere — che è anche il carattere contemporaneo — e il probabilismo della scienza moderna, l'urto della mentalità statistica e dell'indeterminismo. Il causalismo è stato sfibrato al punto, che forse sta rispuntando un neocausalismo. Nel suo libro postumo "Le visible et l'invisible" Merleau-Ponty nega che Freud voglia indicare delle catene di causalità. ( Quale analista infatti ha mai preteso di trovare in un uomo una concatenazione esatta di cause?) Tuttavia qualcosa di collegato deve rimanere, ed è il carattere. Merleau-Ponty fa rilevare in Freud la "fissazione di un 'carattere' per investimento in un Essente dell'apertura all'Essere che, ormai, si fa attraverso quell'EssenteÈ già una posizione verso il causalismo psicoanalitico differente da quella di Sartre, un riconoscimento appunto del carattere, come di qualcosa di fissato. Nel marzo del 1965 è uscito nella rivista "AutAut" (N° 86,) un articolo di Paci sulla "Struttura della Scienza". Dice: "Whitehead analizza l'esperienza della causa come un nesso, come esperienza dell'efficacia causale: per cui la spiegazione causale ritorna, in senso nuovo, possibile. " Parallelamente la polemica Marx-Freud si è sfrangiata in ripicchi inutili fra paleo-causalisti ed è divenuta stantia. Gli psicologi hanno dovuto "socializzare" le loro dottrine; come è raro sentirsi dire dai marxisti che la psicoanalisi è reazionaria: c'è un marxismo aperto, spalancato non solo alla psicologia, ma a tutti i venti fenomenologici e logici. Rimane qualcosa di vivo nel contrasto simboleggiato dal match Marx-Freud?
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Esso non è liquidato. Si è convinti ormai che non si possa giustapporre meccanicamente l'Io al Mondo. Io e Mondo non sono enti autonomi. Un rapporto strutturale fondamentale ("allgemeine Totalitàtsbeziehung") corre fra loro4. Ma le conseguenze individualistiche in partenza dall'Io e le socialistiche in partenza dal Mondo non si sono squagliate al sole alto della comprensione strutturale. Ad ogni sconfitta teoretica del determinismo sociale e di quello individuale, non dico di uno circa l'altro bensì di tutti e due circa la mentalità non deterministica e non ideologica, c'è una loro alzata di testa in qualche campo di battaglia del pianeta o fuori del pianeta. La bandiera dell'individuo e la bandiera della società hanno ancora tanto prestigio, da tirarsi dietro ciascuna una parte del mondo. Questo non è solamente un riconoscimento della tenace politicizzazione del mondo, che può essere ribattuta o sostenuta secondo avvenimenti, idee, desideri anche contingenti. È un guardarsi dentro e uno spiare il pensiero degli altri, dove ancora si scorge una antica lotta di emozioni e riflessioni, non spenta. Come non posso tradire o ridicolizzare oggi il causalismo della mia gioventù — quella sorta di archetipo del pensiero — non sono capace di livellare con una botta della mano lo stampo e i rilievi della mia prima ragione: essi disegnavano appunto il determinismo sociale e il determinismo psicologico, i loro antagonismi e i loro impasti. Si discute oggi della possibilità di costruire automi i quali costruiscano altri automi migliori dei primi e quindi di noi, della generazione umana. Che questa nuova generazione razionale e lucente per
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prima cosa esca ( o ci si cali completamente ) dall'imbroglio dei determinismi, dal modo umano e arruffato di comporli, o di non comporli: sarà la sua vera potenza e il riscatto dall'imbroglio umano! Questo vecchio modo umano è per ora uno stampo indelebile, prima emotivo, poi logico, poi metodologico: troppe volte si è vissuta con tutta la forza immediata, ripetitiva, coatta dell'istinto la domanda se le due bandiere del determinismo sociale e del determinismo individuale possano fra loro combinarsi in una ragionevole dialettica. Cosi si è noi vissuta la dialettica. Sul fondo dei determinismi, contro le rocce subacquee che sono i contenuti profondi di essi, ho sempre visto la mia coscienza mentale dare il colpo di calcagno che la spinge di scatto sopra il pelo del mare, riemergendo verso l'aria sempre più rarefatta delle forme della conoscenza, succhiata dalla spirale della ragione dialettica e della ragione antinómica. Quel colpo di calcagno è il mio tic gnoseologico. Quale è la prima sintesi di quella ragionevole dialettica fra determinismi? Irresistibilmente hanno l'aria di voler porre nella sintesi o il determinismo psicologico o il determinismo economico. Una ragionevole e superante dialettica è contrastata da una ragionevole e schiacciante antinomia. Per la ragione dialettica vi è una ulteriore dialettica fra dialettica e antinomia. Per la ragione antinómica una ulteriore antinomia fra antinomia e dialettica. Allora per uscire da questa strada morta dove dialettica e antinomia vogliono, nella mia mente, al livello mentale, sopraffarsi, chiedo: che cosa sottende la ragione dialettica e che cosa la ragione antinómica? Immagino dietro le ragioni le abitudini ed il carattere, le categorie dell'affettività bassa sot-
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to le forme alte del pensiero. Con antica vocazione ricordo di avere scoperto, da un tempo incalcolabile, le passioni e i patimenti occhieggiare narcisisticamente dietro le ragioni. E rischio il panpsicologismo. Quando la dialettica si spezza in antinomia? È vero, quando i suoi contenuti sono la vita e la morte. Ma anche prima. Già è stata detta la frase del marxismo pessimistico di Lévi-Strauss. E in un saggio di Eco c'è scritto: "... ogni soluzione non fa che riproporre il problema, sia pure a livello diverso. Questa situazione — che in un momento di pessimismo potremmo definire irrimediabilmente paradossale, inclinando cosi a riconoscere una certa 'assurdità' fondamentale della vita — è di fatto semplicemente dialettica: cioè non può essere risolta eliminando semplicemente uno dei suoi poli. E l'assurdo non è che la situazione dialettica vista da un masochista."5 Sarebbe meglio dire da un depresso. Si passa allora dalla dialettica all'antinomia tramite il pessimismo, cioè la depressione? E se la depressione dura più di "un momento"? Soffia ora sulla conoscenza un vento psicologico violento: si fonda una psicologia o addirittura una caratteriologia della conoscenza. L'ambivalenza, che è anche equidistanza dall'oggetto, sembra essere la categoria istintuale e caratteriale più a ridosso della dialettica e dell'antinomia. Collegata con il sentimento d'irrealtà attraverso l'equidistanza e il narcisismo, essa è appunto affermazione-negazione. Ed essa viene vissuta, agita, in due maniere: la successiva o diacronica, la simultanea o sincronica. Nella prima maniera spinge a vivere sue-
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cessivamente l'impulso negativo e l'impulso positivo verso x; in certo senso i due impulsi non si disturbano a vicenda dandosi strada rispettivamente, alternandosi al comando, mentre c'è uno, l'altro non grida, cova; a osservare da vicino senza prospettiva pare che l'ambivalenza non ci sia più, smembrata e appiattita nelle sue successioni lineari: solo chi gode una visione panoramica dall'alto la rivede longitudinalmente. Nella seconda maniera, pulsione negativa e pulsione positiva verso x si accavallano, sono vissute simultaneamente. Nonostante che ciò sia impossibile. Poiché risulta impossibile, non solo logicamente, vivere gli opposti assolutamente nel medesimo tempo, la mia affettività ricorre a stratagemmi: la frenetica intercambiabilità degli opposti. (Ora oscillo scivolando vischiosamente dall'uno all'altro a ondate cupe, lunghe, melmose, verso destra, verso sinistra, pendolari, scavanti un alveo sempre più profondo nel fondo del cervello e del petto: seppure non si creano mulinelli, piccole rabbiose ondette contraddittorie, c'è nel flusso verso destra la potenzi alita del flusso verso sinistra, come alla foce il fiume fluisce nel mare, ma il mare nel fiume, fiume-mare e mare-fiume, e le correnti drenano in su e in giù la sabbia dell'animo risucchiandolo torvamente. Ora balzello da un opposto all'altro col pimpinellare di un uccellino di zampa cortissima, cosi rapido e sempre più rapido, che alla fine si rattrappisce e tende al pimpinellare infinitamente breve di una stasi tremante, ansiosa). L'ambivalenza diacronica mira a una dialettica che è vita come vitalità, e l'ambivalenza sincronica a una antinomia che è morte come ansia-depressione. Non però che la vita sia la verità e la morte l'errore.
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La vita e la morte si equivalgono poiché non esiste rigorosamente fondato un valore della vita superiore al valore della morte. Non esiste che un valore affettivo ( o religioso ), l'istinto a "guarire" da una ambivalenza sincronica, preferita dal pensiero narcisistico, verso una ambivalenza diacronica, caldeggiata dal pensiero maturo (maturità come orizzonte). È uno degli scopi della psicoterapia, riportare all'ovvio — ovvio perché non rigorosamente fondato — calore-valore dell'esserci, la cui prolungata mancanza genera il male attiguo alla morte: male che ci imporrà uno scarto di valore tra la vita e la morte, a cieco e ovvio favore della prima. Si è detto morte. In realtà, lo sappiamo, è morte scelta. È vero che la vita nella maggior parte dei casi vince, anzi è possibile dire che la vita vince sempre. Le basta un niente. Vince tutte le volte che un uomo zeppo di pensieri di morte, convinto di averla anticipata con fantasie sottili, previsioni perfette e quindi di cavalcarla essendosi acquistato meriti irreversibili verso di essa — che lo rendono uno specialista mentale della morte — però vive. Ma è altrettanto vero che l'uomo non ha, e non c'è niente da fare, la suprema potenza dell'immortalità, mentre ha il potere estremo del contrario della immortalità, la scelta della morte anche subito. Non tiene la vita, bensì la morte, dalla parte del manico. La vita è prepotente, trionfante dalle sue cadute e del dubbio si giova magnificamente perché mentre uno è in dubbio tra la vita e la morte, intanto vive e magari si sente immortale. Ma a questo valore in sé del vivere, dato e non
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scelto, assiomatico, scontato, degnamente e senza fare troppe brutte figure si contrappone il suicidio come intervento dell'uomo in uno dei due fatti che per tradizione molto antica gli sfuggono, la nascita e il decesso. Tuttavia una barriera importante divide il suicidio dall'idea del suicidio: voglio suicidarmi anche per sfuggire a un dolore che prima mi tenta al suicidio e poi, proprio sulla strada dell'arrivare veramente al suicidio, diventa cosi forte che quasi mi convince a non suicidarmi più. Naturalmente alludo sempre al suicidio preceduto dall'idea del suicidio, cioè meditato. Quanto capita a uno che va in casa dell'amata, un po' agitato ma del tutto ignaro di alternative assolute, l'amata lo respinge, lui, non dico allegro ma secondo alcuni testimoni repentino e baldanzoso, scavalca la ringhiera del terrazzino e si butta dal quarto piano come un tuffatore esperto — non so immaginarlo. In lui il rapporto fra idea del suicidio e suicidio è completamehte alterato e io sospetto che il suicidio subitaneo da raptus sia- un'invenzione della cronaca nera. Mi riferisco a un rapporto in cui deflagri lentamente dopo l'esplosione silenziosa di tutti gli stadi intermedi, l'ultimo stadio di quel fenomeno a gradi che è la scelta. Nel suicidio meditato un massimo male, l'agonia scelta, si trasforma in male minore rispetto alla vita scelta: trasformazione oscura, convinzione assoluta ma torbida, per la quale il suicidio, che è più pauroso della morte e della vita, diventa meno pauroso della morte e della vita, tanto è vero che lo si preferisce. L'idea del suicidio è sempre una soprav-
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vivenza, mentre lo sfondamento misterioso del massimo male è voluto da un gesto scelto, comportamentistico, la cui forza è un misto imperscrutabile di volontà matura e di schiavitù puerile.
CAPITOLO
SECONDO
IL TEMPO AMMALATO
Il suicidio, con il sentimento d'irrealtà suo complice ambiguo e infido ( poiché anche ripara dal suicidio ), posseggono una necessità e logicità, sia pure narcisistiche, che li esaltano ai nostri occhi come un perfezionamento concreto e supremo della nostra coscienza la quale ( anche se si avviasse alla maturità) rimane pur sempre invischiata nei suoi poteri irrealizzanti e nullificanti. L'idea del suicidio, come equidistanza narcisistica dalla vita, insidia continuamente la dialettica fra la vita e l'idea della morte, aizzandola a spezzarsi in antinomia, sul cui corno vuoto e negativo, reificato, l'idea del suicidio appunto si installa. Se posso suicidarmi non sono tanto fanfarone quando ben attaccato alla realtà comoda vuoi dell'essere vuoi dell'esistere, parlo di irrealtà, di non essere. Una fattiva potenzialità di non esistere sul serio mi strappa dal giocare al non essere, dal lusso metafisico della negazione mentre approfitto di ogni vantaggio dell'esistere e dell'affermazione, prendendo due piccioni con una fava. Con tutto ciò, la concretezza del suicidio è astratta. Solo astrattamente la possibilità del suicidio è l'unica coerenza concreta dell'uomo ambivalente, equi-
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distante e problematico, dell'uomo narcisistico, che tende a genitalizzarsi e mai del tutto si genitalizzerà, di colui che (perché immaturo? ) mette in questione tutto e anche la totalità, ossia la realtà (méttere in questione la realtà deve poter dire, oltre che difesa dalla irrealtà, eventualità di far fuori la realtà sostituendola con l'irrealtà). La concretezza del suicidio è concretizzazione mal posta; è astratta poiché la logicità potente e tirannica del suicidio abbassa il capo contro una superlogica ovvia che ha il nome banale di istinto di conservazione. Tale istinto fisiologico e il suo gemello psicologico, 1'"ovvio calore dell'esserci", sono illogici, un po' sciocchi, ma si impongono come evidenza prima. Meglio: si impongono come evidenza prima negativa; sono il male metalogico che provo se non li provo e li nego cosi da giungere alla distruzione di me stesso, alla piena esplicazione dell'istinto di morte autoaggressivo. Questo male viene percepito al di fuori di una dialettica fra male e non male, non viene vissuto problematicamente, bensì univocamente e senza ambiguità, anche se è di natura ambigua. Questo male è annidato nel narcisismo e dalla sua nicchia insidia tutto, pensiero immaturo e pensiero maturo: spinge al suicidio che è il modo vero per liberarsene; ma per giungere al suicidio effettivo c'è un'erta finale dove questo male si drizza tenendo a distanza in quella terribile salita ( aumento verticale del male) proprio colui che aveva attratto. Come il sentimento d'irrealtà, il male è dunque ambiguo perché incalza e trattiene. Ma la sua differenza dal sentimento d'irrealtà è nel gesto non ambiguo, pratico e monovalente che l'uomo compie nel
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tenersi lontano da esso male, Tale gesto affiora come uno scoglio non erodibile e certo sul mare del dubbio, e dà al male medesimo un contenuto di certezza. È una certezza beffardamente positiva. Dichiara che vivo soltanto perché non posso morire, che i miei valori sono unicamente le mie incapacità di superare l'erta del male, ossia le mie incapacità alla morte. Vivo in mancanza di meglio, impossibilitato ad altro, e mi aggrappo a tale impossibilità come all'unica teoria di valori ( narcisistici). E se vivo, la vita è di fatto dialettica, finché è vita, costretta all'ottimismo. Il nudo e crudo vivere mi obbliga all'ottimismo, anche nella depressione. Se non scelgo la morte, sono per forza dialettico; ma l'antinomia mi risucchia sempre giacché vivo soltanto perché la scelta della non vita è impedita dal male della non vita come scelta. Esito di fronte alla morte scelta, non per rispetto e venerazione della dialettica (passeggero o estrema), e perché non voglio provare a porre in essere concreto il corno micidiale dell'antinomia estrema e necessaria; ma perché il male metaragionevole che cova e divampa sulla via del suicidio, poi mi discosta e mi diaframma dal suicidio stesso. Vivo dialetticamente perché non ne posso fare a meno: di malavoglia. Nel timore del male e per il timore di esso. L'idea del suicidio è più una rivelazione e intuizione terminale che una vera scelta. Il suicidio invece è un gesto materiale, comportamentistico, che per forza si tira dietro l'intero armamentario che affligge la scelta e dove in più l'agonia, invece di essere nelle mani di un corpo che si spenge per leggi sue eteronome rispetto alla scelta, è in mano a se stessa e si autoregola. Tutta l'agonia è tutta volontà e tutta scelta. Il determinismo del corpo non scarica
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dalla responsabilità e ogni minuto secondo dell'agonia è procurato. L'idea del suicidio è suddivisa dal suicidio per mezzo di un sistema di chiuse, canali, ponti che irrorano un deserto rendendolo navigabile. Il suicida deve far saltare le vive chiuse e i ponti irrimediabilmente, per non tornare indietro. Assiste con un terrore grigio e ghiaccio a tali distruzioni. I suoi occhi sono sbarrati. Egli è bloccato come una statua. Assiste a una incertezza che attivamente si decide per l'unica scelta irreversibile. Tace. Non grida mai. Sta impalato di fronte a se stesso. Il prossimo minimo gesto sarà irrimediabile. Intanto vive, indurito, il suo massimo male: la morte viva e l'agonia non come abbandono, ma come totale impegno. Quale piccola o grande spinta fa scattare il grilletto del gesto? Nessun sapiente lo sa bene. Si parla di una indomabile e incontrollabile ( involontaria ) cristallizzazione dell'autoaggressività, entrata nel circolo dell'essere o non essere al seguito dell'istinto di morte. È però anche una scelta volontaria. O non è - una scelta volontaria? Quando il mio simile, quando io stesso, superiamo (vogliamo superare? siamo costretti a superare?) il male del suicidio per porlo in opera, non è cosa conoscibile. Si dice, per esempio, che molti si suicidano per essere immortali e per paura della morte. Forse è una paura del tutto inconscia. Sta di fatto che nella coscienza il suicidio è molto più pauroso della morte. E la vita lieta? L'idea del suicidio non passa mai per la testolina di essa, che "non la concepisce". Se questa ignaritudine non è poi tanto interessante, la vita lieta ha la sua formidabile e importante potenza:
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la concordia con lo spazio e l'armonia con il tempo. Filosofica e categoriale potenza, che lievemente è sorretta da una mano leggiadra. L'attitudine ottimistico-dialettica significa una cenestesi, un comfort ragionevole e irragionevole negli alvei dello spazio accettati come ovvi, e perciò amichevoli; e una fluidità del tempo in cui sto immerso (tempo vissuto) un po' consapevolmente e un po' inconsapevolmente, senza che né la consapevolezza né la inconsapevolezza si raffreddino in un embolo che ostruisce la circolazione permanente della memoria e del suo ottimismo ( il proverbiale ottimismo mnestico che trattiene i bei ricordi e liquida i brutti ) e l'instancabile progetto del futuro. A raccontarla, è da non credersi la tenacia con cui ci si inventa un futuro e non si sottilizza tanto sull'assurdo stato del presente inesistente tra passato e futuro, su un sentimento d'irrealtà il quale ( più che alterare la percezione dello spazio) estrae come un succo dalla realtà la assurdità del qui e ora: il qui e ora di oggi che, da un lato, riassume tutti gli ieri e i domani, l'avvenirismo e la storia; da un altro, non c'è, perché o è avvenire o è storia. Voglio dire che mi spavento a pensare il rapporto fra l'attimo fuggente e l'esistenza perdurante. Sono esattamente le tre e tredici, la vita mi pare tutta qui, ma anche ieri le tre e tredici c'erano, dove sono andate? Dove sono le tre e tredici di domani? Sento il vuoto d'aria tipico del sentimento d'irrealtà quando realizzo che oggi sono uguale a ieri e domani: faccio la stessa cosa alla stessa ora, ma il tempo, passando, cambia. Ricordo e immagino il 24 ore prima e il 24 ore dopo e questo irrealizza il qui e ora. Di nuovo, l'inesprimibilità arriva. Come potrò esprimere che tutto è presente, oppure che esistono i due reattori succhianti del precedente e del postcedente?
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Che accosto la presenza alla memoria e alla immaginazione e confondo le tre cose: sono a colazione, sarò a colazione, ero a colazione? Si può soltanto dire che la verità, concepita come dialettica e normalità, sta nell'ignorare il problema della colazione di ieri e di quella di domani, nell'enfasi della colazione di oggi: nell'accettare il tempo e non patirlo. Non distillarlo, non subirlo, non sprecarlo, non divorarlo, non mettere disordine nell'ordine aritmetico del suo scorrere e del suo dividersi in precise frazioni contabili. Ma anche l'antinomia è verità. Se l'ambivalenza diacronica è euforica, la sincronica — è vero — è disforica, ma vale almeno quanto l'euforica, poiché nulla a priori le valorizza diversamente in senso logico, se non poi un valore affettivo negativo, la mancanza del male nell'euforica. La normoforia dovrebbe essere allora la verità. Eppure la normoforia aleggia in un punto centrale, che non c'è: poiché dialettica e antinomia non si mediano se non come, nuovamente, ò dialettica o antinomia. La medianità paradossale, inesistente della normoforia riporta alla dialettica e all'antinomia, e alla ambivalenza effettiva che le sottende. Solo una "guarigione" perfetta sarebbe capace di sciogliere totalmente la mia ambivalenza in ambivalenza successiva o in un sistema maturo e monovalente e monogamico. Nei fatti, sempre restano la labilità e i grumi sincronici, antinomia : i quali di livello in livello giungono inesorabilmente al livello estremo e ritrascinano davanti al suicidio, che deve essere per l'uomo problema permanente, come scelta. La morte non è una scelta. Perciò nella coscienza il suicidio è più pauroso della morte. E se anche ogni male dell'uomo può essere riferito al suo desti-
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no di morte e al suo vivere per la morte, la morte non è però nel tempo perché non è scelta. Il suicidio invece è tutto tempo. E il male non sorge dalla morte ma dal tempo. Come concepisco il sentimento di irrealtà una sospensione del tempo più che una alterazione dello spazio, e il bene in funzione del tempo, e l'ambivalenza pure, sincronica o diacronica — anche il male è tempo. Se il bene è dimenticarsi del tempo e usufruirlo senza pensarlo, il male è il tempo malato, una malattia del tempo. Come nel "Diario" di Pavese, il tempo, insidioso, si rivolta contro l'uomo: mi diventa il nemico peggiore e chiaramente l'essenza del dolore è il tempo ammalato. Questo stesso dolore che può allontanarmi dal suicidio perché non voglio attraversarne l'ultimo pezzo di tempo desertico — può proiettarmi agli occhi interni l'idea del suicidio. L'idea del suicidio si disegna sullo schermo come impossibilità di tollerare l'abbozzo del domani e le concrete ore di oggi. L'idea matura nel buio e magari si proietta di colpo, sempre intrisa di tempo. Se l'euforico si compiace innanzitutto del vago o preciso futuro, nella depressione fissata, nemmeno più antinómica ma reificata, cioè nel male, tutti gli odori emananti dalla frustrazione, dalla sofferenza e dalla noia si fanno insopportabili se respirati da un cervello che immagina le prossime ore e in più subisce la irreversibilità del tempo, l'impossibilità della retroazione nella esistenza. Accanto alla depressione che mi toglie lo scopo, l'ansia mi procura la prima uscita dalla realtà come fuoriuscita dal tempo. L'ansia è il mio diventare precipitoso e non stare più al passo del tempo. Allora precedo il tempo e lo mangio, lo ingoio tutto. L'intera linea orizzontale, misteriosissima e avente il termi-
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ne sicuro della morte, sempre saputa e sempre dimenticata, che è la vita da-qui-in-avanti, cosi orizzontale a livello dell'anima che l'anima la conosce senza però poter salire nemmeno su un sasso per scrutarla meglio da un po' più alto, l'intera linea piatta si drizza come un serpente, si mette ritta e rigida e mi incombe tutta sugli occhi come un'asta nello spazio invece che come acqua corrente e piatta nel tempo. La morte, infilata sulla cima dell'asta, compare a un palmo di naso. È a questa morte in faccia, che il suicidio viene preferito. In questo caso della morte addosso è legittimo dire che ci si suicida per paura della morte e che il suicidio fa meno paura della morte. In questo caso il male che tiene lontani dal suicidio, ci sbatte a strattoni contro il suicidio e forza l'immaturità narcisistica verso una maturità ribaltata. Perché il suicidio è, rispetto all'idea del suicidio, una maturazione genitalizzata. Una decisione da genitalizzazione dell'idea della morte scelta, genitalizzazione paradossale perché mista a una debolezza adolescenziale. Mortalmente matura, verticalizzata, la vita è un muro immobile, atemporale, ma insieme distillato dal tempo! La spazializzazione del tempo l'uomo non la sopporta, perché essa non uccide del tutto il tempo: allora l'uomo fugge nel delirio o scopre, come una intuizione geniale, l'idea del suicidio. Ecco! non ci avevo pensato, dice. Il male-tempo proietta l'idea del suicidio anche agli occhi innocenti di chi non ci aveva mai pensato e non ne sospettava l'esistenza. Il suicidio è una scoperta. Un'idea! Con stupore lo vedo la prima volta e subito la geniale trovata si cosifica: barbiturici, finestra, rivoltella, corda, oggetti che tengono in loro una possibilità totale come un uovo tiene un pulcino. Una volta avuta la rivelazio-
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ne della possibilità, questa non è più dimenticabile. O viene sepolta sotto uno strato di sospensione, di ovvietà dell'esserci (quindi di ovvietà del non nonesserci ), di relativa dialettica o di abitudine incallita disperata all'antinomia, e si vive; o la possibilità si accumula comprimendosi su se stessa ed esplode quando il male-tempo è divenuto più forte del male-suicidio. Forse allora uno riesce a suicidarsi, per esplosione di strati compressi: ma insisto a dire che le forze, le quali provocano il coraggio del vero suicidio, rimangono misteriose e diverse da quelle, analizzabili, che nutrono l'idea del suicidio. Agonia voluta, premeditata, misteriosa per definizione (come la provenienza della vita e la sua destinazione ). Maturità nella morte, antipodale ma analoga alla maturità nella vita. Parlo di un suicidio non stoico, non romano né da comandante di nave che affonda. Con il suicidio non riteniamo di salvare il nostro onore. Ma vivendo; non perché si consideri il suicidio una viltà di fronte al coraggio del vivere: tutto il contrario, vivere può essere una immatura viltà. Ma è una viltà cui il male del suicidio coraggiosamente costringe. Non si sa con esattezza se la vita sia un bene. È assiomaticamente augurabile, però, che il male dello scegliere la non vita sia tanto forte da tenerla lontana e non cosi misteriosamente forte da farla abbracciare come liberatrice, far saltare dall'idea all'atto, al maturo fatto. Compiuto.
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CAPITOLO TERZO
UNA FORESTA DI EGOCENTRICI E L'UTOPIA PSICOLOGICA
Se le categorie del pensiero sono prima categorie della affettività, se il narcisismo non si genitalizza del tutto mai e un pensiero prosciugato dall'umidità psicologica non è che un orizzonte, il pan-psicologismo è addirittura una caratteriologia della conoscenza. È tanto assurda? Le si chiederà intanto di spiegare se stessa. Ce la fa la psicologia a fondare se stessa? Sembra che non domandi di meglio. Uno psicoanalista dice allegro che si è psicologi per motivi psicologici e che si sceglie la psicoanalisi invece della teoria della gestalt per motivi psicoanalitici. Il paziente si fa paziente della psicoanalisi invece che della psichiatria o della magia per motivi che la psicoanalisi spiega con la psicoanalisi: a un paziente la volontà di sottoporsi ad analisi fu interpretata come volontà d'essere frustrato, dal momento che egli aveva uno smodato bisogno di frustrazione ( inconscio ) e che non c'è terapia più frustrante della psicoanalisi. L'analista medesimo può interpretare se stesso. Giungerà ad alcuni a priori che non sono più psicologici ma filosofici, o per lo meno a generalizzazioni
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epistemologiche. Ma la scelta di una filosofia, di una scienza, è caratteriologicamente influenzata. Psicologia e teoresi si inseguiranno a vicenda nella circolarità viziosa che imbriglia ogni teoria o autofondazione pura, nell'inseguimento perpetuo del pensiero maturo, quello che sorretto da una affettività postnarcisistica, perfettamente equilibrata, lascia che la percezione e il pensiero non siano figli che di loro stessi e partano da una pedana di lancio affettiva che li carica ma non li determina. Intanto la psicologia, pur essendo scienza della misteriosa soggettività, si comporta come scienza di fatto. È il suo compito, la sua tendenza operativa di fronte alla necessità del mutare. ( E vedremo perché il mutare è necessario ). Restiamo su un pensiero carico di affettività, dove "ciascuno dei due momenti (l'intellettuale e l'affettivo) corrompe l'altro."1 Ma si dà un pensiero non affettivo? un pensiero dove il ragionamento non esprima "lo stato del soggetto e nulla più"? Le esperienze degli schizofrenici sono state definite "un miscuglio inestricabile di percezioni, pensieri e sentimenti'". Si ha voglia di definire con tale miscuglio il pensiero di chiunque e di rinviare a migliori tempi il pensiero del sano. La psicoanalisi indubbiamente lo prefigura, come pensiero genitalizzato e come razionalità di colui che sa eseguire un "esame di realtà" e obbedire al "principio di realtà". La psicoanalisi dà grande importanza alla categoria delle categorie, la realtà (e perciò acutamente si occupa della irrealtà); al punto che quando ha restituito il paziente alla realtà, molla lui e noi. Sul piano della conoscenza la realtà è una tautologia, sul piano della terapia è tutto, e ride chi è stato portato per merito della psicoanalisi dalla irrealtà alla realtà, se gli obietto che l'hanno sbar-
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cato in un continente che non sono capaci di definire né di nominare non tautologicamente. La psicoanalisi ama molto la guarigione (anche quando non guarisce affatto) e poco il concetto di guarigione. Preferisce, per quanto attiene alle forme del pensiero, affrontare il concetto, negativo, di razionalizzazione. Crudele e paziente lo psicoterapeuta serio aspetta. Dalla sua seggiola analitica diffida. Diffida ad esempio delle teorie che come interminabili anelli di fumo si levano dall'uomo in angoscia, catatonico o agitato, frenetico o lento. Aspetta. Cerca di asciugare, fino a distruggerne anche la polvere, il fango ideologico del paziente, impaziente o tramortito. Prima di questa bonifica afferra con il forcipe dell'interpretazione qualunque feto ideologico del paziente e lo rimira scetticamente. Basti dire che lo chiama sintomo invece che idea. La ribellione del povero paziente scaricato a zero è dolorosa, o rabbiosa, o ancora ideologica. Una sua fede o una sua sensazione esistenziale sono mangiucchiate d'ogni valore. Eppure, se il transfert lo ha incatenato allo psicoterapeuta, già comincia a sapere che il valore lo ricostruirà, se mai lo ricostruirà, solo dopo aver spazzato anche la polvere delle sue razionalizzazioni umide, proliferanti, distrutte. La psicoanalisi batte senza pietà contro il pensiero narcisistico, egocentrico ( il padre dell'irrealtà ). Di esso denuncia con forza la smaccata origine inconscia o preconscia e soprattutto la strutturazione falsamente razionale, lo scimmiottamento della razionalità. ( Prende cosi facendo un tale slancio che le è doloroso arrestarsi: in analogia con la denuncia marxiana della ideologia, scavalcando la terapia approda nel campo delle visioni del mondo, attestan-
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dosi fra le teorie demistificatrici e magari continuando a usare il concetto di inconscio o quello di razionalizzazione, non più tecnicamente, ma culturalmente. E i pericoli del metodo interpretativo applicato culturalmente sono grandi, sia per la psicoanalisi sia per coloro cui viene applicato: bisogna tornare a soppesarli. Dico intanto che non è colpa della psicoanalisi se i confini fra sanità e malattia della psiche sono cosi proverbialmente sfumati, se non tutti i matti sono in manicomio ). La psicoanalisi addita la menzogna inconsapevole, razionalizzatrice, del malato, offrendo uno strumento che è impossibile non usare per additare la semi-consapevole, semi-ipocrita razionalizzazione del semi-sano. Troppe volte senza psicoanalisi si vede a occhio nudo il semi-sano che sta elevando a potenza di teoria generale, con una impudicizia che sembra assurda perché trasparente come l'aria, il suo stato d'animo particolarissimo e magari passeggero. La semi'-razionalizzazione sconcerta: è arduo capire fino a che punto il razionalizzante si inganna e vuole ingannare. Sembra di saltare al di là della buona e cattiva fede, in una stupida palestra dove l'uomo si esercita ad arrampicarsi su per le scale svedesi della ragione e narcisisticamente esibisce la propria acrobazia mentale, pura, disinteressata; ma lo strano è che lui stesso fa il puro acrobata ( e lo sa ) proprio per non affermare che se stesso. Voglio dire che proprio nel momento in cui sembra più razionale lo è di meno: quando si dispone a pensare per tutti, allora non pensa che a sé ( dandosi a modello ). La sua ideologia non è che egemonia; la sua teoria di stasera è semplicemente la semi-astrazione di quello che gli è successo oggi pomeriggio, a lui, a lui, e dentro la superba e fragile astrazione ci
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vedo lui con le sue gambe e braccia di burattino che si agita inconsapevolmente nel mondo per difendersi o per attaccare, e che adesso mi porta questa boccettina piena di neutra essenza da lui raccolta mungendo la sapienza del mondo. Quella boccettina tradisce spudoratamente l'odore caratteristico della urina di lui. Continuamente colgo con angoscia, perché è una delle più gravi delusioni che un uomo dà a un uomo, nella generalizzazione colgo un castello logico che ha tutti i merli del razionale e ha la facciata abbellita da tutte le strutture del duraturo e dell'intersoggettivo: la facciata nasconde appena, arrossando appena, equivocamente ingenua, il fatto crudo, passionale, emotivo, egocentrico, egoistico, effimero, instabile. E avendo questa esasperata coscienza della razionalizzazione altrui, come mi comporto io? Razionalizzo anch'io? Per sfuggire alla trappola che conosco tanto bene e odio, mi spingo a sostenere il contrario della mia convinzione, di quella che vedo in trasparenza come generalizzazione della mia privata esperienza? Per non essere egocentrico, mi nego e mi suicido spiritualmente? Ma il suicidio è massimamente egocentrico. Per essere disinteressato, non sono che masochistico. Allora taccio. Nemmeno posso tacere. Cola dall'autocontrollo feroce e continuo un parlare fioco, astraente, sempre più astraente, per compensare l'egocentrismo con un massimo di ragionevolezza e di quintessenza allocentrica. Ecco qual è il mio egocentrismo. Quanto agli altri, arretro verso la rassegnazione, la convinzione che agire è dire una cosa oggi per rimangiarsela domani, come fanno tutti; che vivere nella incoerenza, rappresentandosi coerenti, è là eoe-
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renza violenta dei forti. Mi rassegno a esistere in una foresta tropicale di pensieri egocentrici, come baobab che intrecciano le loro fronde enormi rubandosi l'aria a vicenda, con liane che si aggrappano e tirano l'una con l'altra e un sottobosco viscido che soffoca come aborti tutti i semi del pensiero maturo. Vedo saltare davanti agli occhi la piccola razionalizzazione rabbiosa: la grande razionalizzazione pomposa: la serpe: l'elefante della pseudorazionalità: il bufalo alla carica, tutto aggressivo e narcisistico nonostante la fronte squadrata. Quel ragionatore parla a vanvera, quell'altro è solo un astutò, quell'altro ancora un esibizionista, non dà spettacolo razionale che per piacere alle donne. Evidentemente anche la mia cauta, filante, mortificata ragione equilibrata col milligrammo è spettacolo alla mia maniera, violenza obliqua, esibizionismo inibito e sordo. L'amarezza che la razionalizzazione procura è profonda, giacché svilisce l'ingranaggio astraente del pensiero, cui tutti teniamo. Ce lo mostra non quando disocculta — dovrebbe essere il suo orgoglio — ma quando occulta (e goffamente). Possibile che il razionalizzante abusi tanto del pensiero, lo sputtani cosi? Ecco perché allo sputtanamento dell'umano pensiero, che ferisce anche noi, si reagisce leggendo con rabbia dietro la pomposità oggettiva dello pseudo-razionale la miseria soggettiva del basso-istintuale egocentrico, riaffermando l'ideale di un pensiero che agogni con forza, con disperazione (non troppa! altrimenti di nuovo è razionalizzazione masochistica ), che aneli alla razionalità con disinteresse maturo. E insensibilmente dalla conoscenza si scivola nell'etica; dove la bontà non è altro che un pensiero infinitamente disinteressato, un altruismo che non sia la
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maschera di un egoismo cosi vizioso che si traveste anche da altruismo per insinuarsi meglio. Perché la bontà è cosi impermeabile alla descrizione e teorizzazione? Perché in se stessa non esiste. C'è come volontà limite, equilibrio instabile fra il giovare agli altri, e il giovare loro soltanto per alleviare noi stessi. Molte delle persone che professionalmente fanno del bene, filantropi, assistenti sociali, altruisti generici, tappano cosi e cosi soltanto le fughe di gas della propria ansia. Mettono l'ansia degli altri sopra la propria, coprendola. Si slanciano verso gli altri soltanto per sfuggirsi. Orribilmente si esaltano col dolore per gli altri. L'area riservata alla vera bontà si restringe in un perimetro tendenzialmente invisibile. La consapevolezza di ciò, rinfocolata dalle teorie moderne dello smascheramento, della ricerca dei moventi strutturali sotto le sovrastrutture, ha reso remoti i buoni sentimenti i quali attraversano, per esempio nell'arte, un periodo di magra assoluta o si trascendono nella pazzia. L'etica perciò sta in sala d'attesa, aspetta che tutti gli altri moventi siano stati interpretati e scartati, prima di reintrodurre i due maestosi personaggi puri: la bontà e la malvagità. C'è un individuo che il miracolo economico ha portato alla libertà dal bisogno; egli ha superato nel dopoguerra un pesante mercato del lavoro, non esattamente la paura della fame ma la paura della porta chiusa, si è arrampicato sopra un cumulo enorme di inferiorità sociali, è riuscito a dominarle. Questa, diciamo apparente, libertà conquistata, i condizionamenti macinati e dissolti, una agiatezza quasi frivola, lo conducono mollemente per mano ad una riflessio-
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ne tutta psicologica su di sé e su buona parte del mondo. Che egli sia quasi diventato un'anima bella? Il pomeriggio che in ufficio ambiguamente gli telefona il suo direttore ("Guardi, è stato deciso che le posizioni di ognuno vengano riviste") di colpo si sveglia. Il primo alito di crisi lo rimbalza contro la coscienza dei determinismi economico-sociali, l'ideologia egemonica e di ferro da cui era partito e che aveva impiegato quindici anni ad ammorbidire. Di colpo egli cade indietro di quindici anni e realizza che oltre ai licenziamenti letti sui giornali, può essere licenziato lui. Il suo cervello impaurito si sgombra della minima scoria psicologica, fa un breve slalom di passaggi logici, taglia un traguardo neo-egemonicamente marxista. La psicologia in lui è morta. Tale uomo testimonia a netto vantaggio del determinismo economico. Ma se non vengo licenziato con lui e mi lasciano dieci minuti di sicurezza sociale per riflettere, rifletto che una società del benessere, sia pure effimera, dà la prova di una futura era psicologica. Sanno tutti ormai che ogni determinato determina il suo determinante. È un pezzo che le cinghie di trasmissione fra struttura e sovrastruttura si sono moltiplicate, vanno a marcia avanti e marcia indietro, attraversano infrastrutture complicatissime, la causalità si fa dialettica. Nascono nuovi concetti di struttura, come quello della linguistica, che fanno concorrenza al concetto economico. In questa rottura di schematizzazioni, fra queste fusioni e intrecci carnali di determinismi, uno dei più resistenti è lo psicologico-psicoanalitico. La trasmissione fra affettività e razionalità intriga ancora e si estende come un'ombra sull'avvenire maturo utopico. Il determinismo psicologico sembra più eterno
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del suo rivale, il determinismo economico. Sembra che il determinismo psicologico ci accompagni fino all'orlo estremo dell'immaginazione sull'uomo da noi conosciuto, prima che si evolva da lui un nuovo uomo o un automa tutto diverso, splendidamente comportamentistico, genitale e razionale. L'era psicologica sopravvive all'era economica cui succede. La liberazione dal bisogno deve prima o poi adempiersi se l'idea di progresso conserverà un senso anche minimo; comunque se è sacrosanto che la psicologia può essere un trucco dei ricchi quando ancora ci sono i poveri, è sacro che non si dovrà mantenere la povertà allo scopo di continuare a relegare la psicologia fra i lussi ipocriti. L'utopia psicologica non è un umanesimo tautologico instaurabile quando, liberato dal bisogno, l'uomo si dedicherà tutto agli svaghi, alle belle arti e agli amori per diventare, come dicono, più umano (ma che cosa vuol dire? Né vogliono dire molto espressioni come superumano, potenziamento interiore dell'uomo, le frasi fatte dell'avvenirismo spiritualistico, dell'utopia moraleggiante). L'utopia psicologica riguarda una ideologia, meglio, uno strumento che controlli l'anima insidiata dal narcisismo, dall'egocentrismo, e soprattutto che tenga lontano il male ad essi consanguineo. Rideranno gli anti-ideologi contemporanei e soprattutto i nichilisti del grado zero a sentire di questo strumento illuministico che brilla sotto il sole futuro come una falce e martello. Ridono; poi una ideologia ce l'hanno anche loro e non vogliono saperlo: è l'ideologia del restare in vita. L'uomo sembra libero, il suo dubbio concernerà, prima o poi, il dubbio vero: rinascere riscegliendo ogni volta la vita, morire scegliendo il suicidio ( che
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una volta scelto, non si risceglie più: è la sua essenza). Occorre giungere al grado ideologico zero dove scelta della morte e riscelta della vita si bilanciano perfettamente e ammettere spietatamente questo equilibrio: solo da una simile spietatezza totale, da un inabissamento cui molto conducono l'ambivalenza e il sentimento d'irrealtà, è lecito risalire di un primissimo gradino e qui riconoscere che la scelta della vita e della morte scelta non si equilibrano perfettamente. Dunque il circolo dell'esistenza è quello dell'esistenza la quale pone attraverso l'equidistanza, che però è gonfia di male potenziale, la scelta della non esistenza. La libertà vera di questa scelta è disturbata dallo stesso male che l'aveva posta e che quindi rimanda all'esistenza. L'idea del suicidio si distingue dal fatto deh suicidio perché il male dell'idea è minore del male del fatto. Ma, chiedo, si tratta sempre dello stesso male? Si risponde: è quello dell'idea che possiamo conoscere, immaginare, descrivere, o comunque quello dentro l'esistenza. Quello del fatto non è tanto ineffabile quanto inconoscibile per definizione, poiché sfugge all'esperienza e all'immaginazione ed è l'inverificabilità per eccellenza. C'è, in conclusione, a favore della scelta della vita una ideologia della vita (del restare in vita) e dell'istinto di conservazione, e un istinto di conservazione dell'ideologia. Mentre l'unica coerenza di chi fra l'essere e il nulla scegliesse il nulla, è il suicidio, — serpeggia per tutto il mondo coi più diversi mezzi, fini, pretesti, una ideologia della sopravvivenza e una circolarità dell'esistenza tenace.
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Lo psicologicismo psicoanalitico ha un altro punto di vantaggio rispetto all'economicismo: ha il suo economicismo. La libido viene concepita economicamente: è data per ognuna una quantità definita e non umanisticamente indefinita di libido; anche la libido soggiace al concetto economico di rarità. Pure se le manca l'unità di misura oggettiva, la libido va distribuita saggiamente come un reddito fisso e si debbono evitare gli "investimenti" (libidici) sbagliati e occorre fare una politica di investimenti per non rimanere a terra. L'angoscia per esempio è un immobilizzo di libido prima inutile, poi dannoso perché finisce per autodistruggersi. E non c'è libido mai a sufficienza per permettersi lo spreco della angoscia. Questa è già la traccia per una indicazione di valore economico, anti-angoscia, alla psicologia. Il giorno in cui l'era economica avesse chiuso con i suoi affanni della rarità, se ne ritroveranno nell'era psicologica le leggi, fra cui la rarità (della libido ). Cosi l'era psicologica si mangia l'era economica e persino i suoi concetti materialistici. Si può stare tranquilli che l'era psicologica non sarà spiritualistica.
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CAPITOLO QUARTO
LE DUE INFELICITÀ
Nell'attesa dell'era psicologica la psicoanalisi che dovrebbe esserne un protagonista, fa una vita un po' appartata. Presente e assente. Spesso la cultura la ignora, ed essa ignora la cultura. Pare che stia semisepolta nel recente passato come un'arma tradizionale rispetto a un missile aria-aria. Ciò che inequivocabilmente la richiama è un dramma incancrenito che pur faticosamente si impone all'occhio nudo degli astanti ed al terrore di chi lo subisce: l'infelicità nevrotica: lo scarto tra l'infelicità nevrotica e l'infelicità "normale". Diciamo anche fra infelicità ed angoscia: dal momento che tendiamo a non distinguere invece tra angoscia normale e angoscia patologica, per non dare troppo spago ai filosofi della angoscia moderata (o "normale"). L'infelicità nevrotica si impone anche su coloro che, a proposito delle cause affettive del sentimento d'irrealtà, avevano esclamato: perché tanti discorsi sull'oggetto narcisistico, non basta a giustificare l'irrealtà il dolore terribile, normale per la perdita di una persona importantissima, centrale nella propria vita? Non basta al male cibarsi di questo dolore? No, non gli basta.
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E la psicoanalisi irrompe per un pertugio anche dove più la tengono a bada. Questo pertugio è il buco del sospetto che l'infelicità morbosa esista. Il senso comune è di solito orgoglioso di rifiutare una scala metrica della sofferenza morale e salti di qualità fra sofferenze dette morali. Si sdegna con il superbo e povero sciocco che si ritiene più in alto nella gerarchia del dolore. In nome della unicità soggettiva, personalistica, incommensurabile della sofferenza umana condanna le gare a chi soffre di più e la eventuale consolazione della vittoria in queste gare. Insomma non ammette che uno sopporti e che l'altro dichiàri: "Perché ho un male maggiore, io non ce la faccio e chiamo il dottore." Dice che il secondo è pigro e vile e che non ricorre alla forza di volontà. Alla osàervazione che la nevrosi e il dolore nevrotico sono proprio volontà di star male e convinzione pseudo-razionale che il male sia giustificato obiettivamente e che dunque occorre proseguirlo, volerlo cocciutamente, non distrarsi mai da esso — distrarsi è un 'autoinganno ancora più doloroso, di cui si viene puniti con i più atroci risvegli; lo scivolo delle pene va percorso sino in fondo, fermarsi è rassegnarsi e accettare una mediocre infelicità per sempre: impossibile, impossibile! almeno nel dolore voglio essere estremo, ossessivo; come un bambino? come un bambino, ma respingo la consolazione infantile, nessuna forza al mondo mi convincerà che debbo distrarmi dal mio dolore convinto, dalla mia convinzione del dolore; la distrazione mi fa orrore come un lago di fango coperto da uno strato di fiori anestetici finti, una idea distraente è una tigre che sbrana me e l'idea coatta del dolore, meglio questa coazione che la tigre, e la distrazione è un punitissi-
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mo sacrilegio rispetto all'ossessione, sacrilegio che non potrò assolutamente commettere mai — all'osservazione che sembra assurdo guarire con la forza della volontà un dolore tanto bramato dalla forza (debolezza?) della volontà conscia e inconscia, il senso comune rimane interdetto. Tenace si riprende, torna a rifiutare la teoria di un dolore che l'ossessività coatta esige; scarta l'ipotesi di una patologia irresponsabile e incontrollabile dell'anima e l'indigestissima ipotesi dell'inconscio ( a meno che l'idea di una infelicità "autre" non riguardi i pazzi furiosi). Nonostante lo sdegno popolare, insinuo che l'idea di una differenza dinamitarda tra le due infelicità sia un sospetto di cui il senso comune ormai si libera difficilmente. Certo, è un'idea strisciante. Scava sotto alla morale del libero arbitrio, alla giusta potenza di decidere senza ricorrere a uno specialista chi sia un forte e chi sia un debole; alla concezione dolce e antica che l'anima non sia pesabile e ricoverabile come un corpo. D'ora in avanti la prima sciocca al primo sgraffio fingerà uno sbrano al cuore e alla mente, chiederà e otterrà di diritto gli irresponsabili onori dell'elettroshock, la profumata spesa della psicoterapia, alibi e consolazione pagata (diecimila lire all'ora ). Persino un medico e psicoanalista come Perrotti, parlando ai suoi colleglli, ha voluto riscoprire la distinzione fra le due infelicità, come fosse una novità che anche loro dovevano accettare. Concludendo proprio il suo studio sulla depersonalizzazione ha detto che i suoi pazienti affetti da depersonalizzazione non conoscevano il dolore psichico e che ciò lo ha stupito. Che essi di fronte a ogni frustrazione, ad ogni perdita d'oggetto, ad ogni offesa al loro narcisismo,
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invece di provare dolore provavano angoscia e poi depersonalizzazione, come se non riuscissero a tollerare le frustrazioni, ad elaborarle in dispiacere e dolore. "È questo uno dei motivi fondamentali per cui passano tutta la loro vita ad evitare e combattere le emozioni: rabbia, amore e persino una gioia improvvisa."1 Forse i sussulti metafisici di F. non sono che il rimbalzo penoso di una sua paura mortale segretissima di essere deluso; il terrore d'ogni incertezza come di una esecuzione capitale che lo attende. Ma quando l'uomo non può tollerare le disillusioni e le mortificazioni in senso costruttivo (forse F. segretissimamente ritiene che per lui non ci sia più nulla di costruttivo nel tollerare la delusione, che la sua misura è colma, che parla bene chi non teme lo scacco come la forca; e che lui, F., è pronto ora a elaborare la felicità, non la infelicità), l'uomo "paga la negazione della parte dolorosa del nostro contatto con il mondo con la sensazione che la nostra vita reale diviene estranea a noi stessi." (F. dirà forse che è stanco di pagare altrimenti l'affermazione della parte dolorosa del suo contatto con il mondo; e che il suo è un caso di malvagio destino assolutamente particolare. Perciò con qualsiasi mezzo lo fugge: non lo elabora). La differenza fra dolore e angoscia sembra perspicua in qualsiasi nevrotico. Ma nei depersonalizzandi la difesa dal dolore prende quel tono estremo di attonimento, distacco, impallidimento di vita. Il nostro psicoanalista la interpreta bene anche se pare condannarla con una punta di moralismo che di solito gli psicoanalisti si compiacciono di vietarsi, e anche se il suo stupore ci stupisce. La eco divulgativa di una simile diagnosi differenziale sta nel "Male oscuro" di Berto: sul finire
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del romanzo e della psicoterapia narrata, il protagonista — che deve essere stato paziente proprio di Perrotti — scopre di non provare più angoscia, lui che la provava per un graffio, ma dolore, al repentino tradimento della moglie: lo scopre la sera, e la mattina l'analista l'aveva dimesso giudicandolo «
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guarito . La non allegra guarigione in psicoanalisi è tutta qui: nel passaggio (nel migliore dei casi) dall'angoscia intollerabile al dolore che dovrebbe essere maturo: non importa se chi intraprende l'analisi spera nella magica scomparsa narcisistica con l'angoscia di ogni dolore. L'analisi è il rullo compressore delle illusioni. Il cuore del cuore psicoanalitico è tutto nel filo invisibile che corre dalla realtà al passato, dall'angoscia di oggi a quella di ieri; l'esserci o il non esserci del filo morboso distingue fra infelicità nevrotica, se è innestata sul tronco di un bieco terrore antico, e infelicità normale se il dolore sembra vergine, rugiadoso. Forse credere o beffarsi della psicoanalisi è credere o beffarsi del lunghissimo verme che porta alla miccia attuale dalla bomba remota; credere che un cunicolo esista benché sconosciuto alla collina che sopra vi si fa bella (ipotesi dell'inconscio, di un essere interiore senza percipi). Il fiammifero magari derisorio di oggi fa esplodere la vecchia dinamite semi-dimenticata e un Io che sembrava dignitoso salta per aria? La risposta del paziente ex-dignitoso sarà una banderuola. Gira a destra: vuole crederci per riportare la sofferenza di ieri sera a una brace che ha lo spessore di tutto il passato, ma riscavabile a nudo e spengibile, di cui non ha la responsabilità diretta e di cui non subisce l'offesa bruciante, velenosa al narcisismo; il rinvio al passato non è sempre consola-
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torio? non fa vedere il dramma dell'altro? il dolore di oggi ustiona a morte ed è irrimediabile vergogna. Gira a sinistra: non può crederci perché la ferita di ieri sera appare esclusivamente, smaccatamente attualità cocente, al massimo eterna fatalità: la presenza mostruosa dell'angoscia è tale in quanto attuale e senza mediazioni. La causa di ieri sera è giudicata arcisufficiente per la disperazione neonata ma gigantesca di oggi. Allora il flash-back esaspera il paziente ancora peggio, come un fregio che il terapeuta incida divertendosi sul legno della forca. Anche il terapeuta ha il suo daffare. Deve approfittare della buona disposizione di almeno una parte del paziente a voltarsi indietro, facendogliela utilizzare con intenti diversi da quelli di lui, che gira la testa soltanto per rinvenire un deus ex machina infantile. Il terapeuta ora riporta ogni dramma ad un passato non responsabile eticamente ma psicologicamente si. Ora ha per unico scopo di far sbattere la faccia del paziente sulla responsabilità psicologica e morale odierna. Poiché fine della psicoanalisi è la molto lodata maturità e poiché la psicoanalisi è una critica, non moralistica, della volontà attuale, una teoria della responsabilità individuale, e una tecnica non esortativa, neutrale, per rafforzarla, e per combattere il sentimento di irrealtà.
CAPITOLO QUINTO
TAHITI E LA REALTÀ
La psicoanalisi è forse il vecchio fucile riposto in soffitta per qualche ultima e legittima difesa dalle difese? Chi constata l'insufficienza teoretica della psicoanalisi e batte altre vie accantonando e relegando il causalismo psicoanalitico — non lo distrugge. Non vuole sbaragliarla, nonostante il naturalismo vieto di essa. Si vede spesso la psicoanalisi circondata di freddo rispetto. Ieri erano le "difese" dalla psicoanalisi a osteggiarla più di ogni altra dottrina; oggi c'è un rispetto, un po' cieco come quelle difese, che ne salva il causalismo come un vecchio arnese ancora servibile nei casi estremi, come una purga eccezionale. Ci sono poi una serie di atteggiamenti variegati e forzatamente emotivi che le ballano intorno. Lo studioso onnisciente ha letto la psicoanalisi sui libri, ma come un paralitico che legge un manuale di sci. Il paziente psicoanalitico, subodorando la dottrina, non va oltre il suo naso. Lo psicoanalista, esperto di pratica e di dottrina, sta chiuso nella sua chiesa.
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Interessa di più l'uomo di cultura che l'ha filosoficamente circoscritta ma che per esperienza diretta o intuito la conserva, un po' irrazionalmente, come terapia o uno degli insostituibili livelli — o modelli — del capire l'uomo; il paziente migliorato, ancora incerto se crederci o non crederci; il paziente cui non è servita a nulla, che ci crede tuttavia come a un occhiale che gli ha mostrato la verità verosimile, pure se non l'ha guarita. Ci interessa tutta questa ambivalenza verso l'intrinseca polivalenza della psicoanalisi, e il rinvio del giudizio su di essa a un totale esistenziale, a un giudizio di Dio, a un infinito traguardo verso la maturità antinarcisistica e realistica. Essa è, in sintesi, alternativamente vissuta come visione del mondo, modello per capire, scienza di fatto, e i tre aspetti si rimandano a vicenda. Lo studioso vuol saperne l'efficacia terapeutica; il paziente la validità ideologica... È difficile trovare chi sia davvero in grado di giudicarla. La psicoánalisi intanto, pur insidiata dalla tendenza a permanere del narcisismo, è in una botte di ferro; ogni scacco nella ideologia e nella terapia può venire addossato alla difesa dello studioso o del paziente: essa per prima ha elaborato una teoria che ingloba le possibilità di venire negata, inutilizzata. È in un vaso di coccio: la teoria si misura con l'efficacia terapeutica. La spiegazione psicoanalitica potrebbe ritirarsi sull'Aventino di una maniera acuta, inventiva, probabile del comprendere dove sarebbe arduo verificarla. Ma è legata all'esito terapeutico della sua stessa essenza che è operativa e che affronta l'angoscia come qualcosa da togliere e non da "porre". In questo modo, riesca o non riesca, l'impegno di guarire c'è. Guarire significa capire per
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cambiare interiormente. La psicoanalisi è compromessa irrimediabilmente con la mutazione come maturità, e con una mutazione dentro, non fuori, di sé, che l'uomo deve essere aiutato a compiere da solo perché la maturità è forza nella solitudine, non bisogno di appoggiarsi all'oggetto narcisistico. L'efficacia curativa è in certo senso nelle mani dei suoi pazienti ( a meno che essa psicoanalisi, come accade, dopo una prima esplorazione si sia dichiarata inapplicabile). La verifica della psicoanalisi subisce l'ambivalenza non dottrinaria ma istintuale, verso di sé, di un tipo tutto suo di paziente: il nevrotico, colui per eccellenza che vuole e non vuole guarire. Essa deve introdursi nei congegni del paziente, nel sistema di lui a mutarlo affinché egli voglia star bene. Non voglia più star male. Deve convincerlo emotivamente di una convenienza economica a star bene. Non inficia la libertà del paziente; non lo costringe a star bene (magari!); egli rimane liberissimo di star male. Ma il nevrotico sa che l'angoscia, i sintomi e in parte il narcisismo sono una non-libertà, perciò offre, pur con tutte le difese e le riserve, i propri congegni all'analisi. Tuttavia ha una grande paura di guarire, non vuole essere guarito. Fa quindi di tutto perché la verifica sia difficile. Ma una verifica c'è, quando la psicoanalisi riesce a mutare i determinismi al male in determinismi al bene. La psicoanalisi è una terapia e una ristrutturazione della volontà, dell'intenzione, le quali vengono trattate naturalisticamente ma lo stesso rimangono libere perché il trattamento mira, cosifìcandole, a potenziarle nella libertà del bene e perciò a renderle "meno cose" possibile.
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A maggior ragione ha valore l'ipotesi della psichiatria organicistica di modificare il tono e l'umore, cioè la volontà e la visione del mondo, tramite il farmaco. lì farmaco intende costringere la volontà ad essere libera. In questo senso organicismo e psicoanalisi sono complementari e affini, più che nemici come si usa dire. Io sono un analista socialista e viene da me per curarsi un "compagno". Egli si lamenta che il padre è reazionario; che si odiano; che è solo, perché la presente società fa schifo. Odia quindi la realtà e un po' vuol fare la rivoluzione subito, un po' andare a Tahiti. Mi alzo dalla sedia, esco con lui, corro nella sua famiglia, trasformo la sua solitudine, imbocco la porta della sezione del nostro partito per organizzare la rivoluzione con lui o, deluso come lui, lo accompagno a Tahiti? Io non esco dalla mia stanza. Chiuso in essa, fermo con il sederè di pietra e l'anima di piombo sulla mia sedia analitica, comincio il lavoro: la causa dei suoi mali sta in lui. Primo, perché adesso funziono da medico e non da compagno, miro al transfert e non alla solidarietà; secondo, perché la terapia agisce tecnicamente riportando il male dall'esterno all'interno del paziente. La terapia è lavoro di autodenuncia e autoconoscenza, non denuncia e conoscenza oggettiva del mondo; mira a cambiare l'Io e non il Mondo, il tentativo di cambiare gli altri dalla mia stanza è privo di senso. Il compagno-paziente ribatte che i suoi mali possono derivare obiettivamente dalla società, infatti la combattiamo; si lamenta che è crudele gravare lui individuo di tutte le colpe del mondo. Infatti è crudele. Per addolcirlo
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spiego al paziente-compagno che sotto accusa non è il suo ambiente attuale bensì quello passato; e non in se stesso — poiché è passato — ma come è rimasto in lui; vale a dire, lui è ormai sotto accusa anche se io non lo accuso affatto ("Come, non mi accusi!" egli esclama; non distingue ancora fra accusa morale e accusa terapeutica); è sotto "accusa", cioè sotto analisi, la sua introiezione e individualizzazione dell'ambiente passato, che condiziona ogni suo gesto nell'ambiente presente. Il mio dovere e mestiere è spiegargli perché è incerto fra la sezione, Tahiti e oggi anche Israele (Israele sarebbe il compromesso fra la sezione a Milano e Tahiti) e perché nel frattempo vive col padre reazionario e la mamma ansiosa. La mia funzione prima è lapalissiana e sublime: rimetterlo nella realtà e fargliela accettare. "Ah, nella realtà borghese" risponde secco. "Infatti" bisogna replicare senza spavento. Reifico la sua realtà attuale e la considero pre-politica. Non ho paura di tradire ideologicamente il nostro dogma della politique d'abord, perché egli è un paziente: non è venuto lui da me come paziente? Come tutti i pazienti accusa gli altri essendo in fuga dalla propria realtà interiore ed esteriore; la spia rossa che è in fuga, è l'angoscia. So che egli mai muterà la realtà attuale sua e del mondo; la muterà nella misura in cui l'ha accettata, vi si è "adattato", e quanto meno la sofferenza lo indebolisce. Debbo sganciare la sua rivoluzione dalla sua fuga nella persecuzione. Eccito il momento individuale ai danni di quello sociale per non venir trascinato in una denuncia verbale del mondo o della società o della fatalità; in una crisi del rapporto con la realtà cioè in una soggezione da
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schiavo o una rivolta da donchisciotte, che accomunano il rivoluzionario e il reazionario. In termini politici potrei comunicare al compagno che egli deve accettare il capitalismo per instaurare il socialismo; che il suo disadattamento è rivoluzionarismo verbale. Se egli mi ribattesse che fiuta dietro la mia "accettazione" fetore di rassegnazione, ho un impercettibile sussulto. So che il calibramento giusto dell'accettazione e dell'adattamento per distinguerli dalla rassegnazione è un calibramento arduo, e che spalanca una grande questione della psicologia nei riguardi del destino. Questa griande questione aperta non offusca la ragione di una terapia come accettazione per la mutazione e come responsabilizzazione dell'individuo. La responsabilizzazione analitica sposta tecnicamente tutti i fari della presa di coscienza del reale, dal sociale al familiare e dal familiare all'individuo. Ha un motivo d'eccezione per rimanere individualistica, per resistere alle ovvie pressioni perché si socializzi. Ogni scienza generalizza e ogni cura differenzia; ma, assai più, ho il motivo tecnico di replicare con un eccesso di responsabilizzazione a un eccesso di irresponsabilità causato dall'angoscia. Per via dell'angoscia, la psicoanalisi rimane individualistica in modo radicale e strumentale. Non ignora l'ambiente dell'uomo. Come potrebbe, se concepisce la strutturazione dell'Io in funzione delle relazioni d'oggetto (e l'oggetto sono gli altri)? E se batte tanto sulla famiglia? Ma il padre del paziente-compagno è l'immagine che il figlio dalla nascita ha digerito di lui, e non lui oggi-, come sarebbe
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molto più comodo, reazionario o progressista che quel padre sia. Naturalmente, l'isolamento dell'individuale realizzato in laboratorio deve uscirne con cautela. Si debbono odiare le visioni psichiatriche del mondo e l'universo strozzato da una rete di transfert, di controtransfert, interpretazioni reciproche, complessi rinfacciati a vicenda. Soltanto alla moderazione dell'intelligenza si può affidare la psicoanalisi fuori del laboratorio, dal momento che una terapia dell'anima difficilmente si astiene da un giudizio sull'uomo. L'individualismo analitico si ritrova in una curiosa affermazione di Gabel: "La cura analitica si indirizza agli elementi individuali, ciò che spiega il fatto che malgrado i successi terapeutici non abbia dato ancora una teoria coerente della schizofrenia: la situazione della Daseinsanalyse è quasi la contraria."1 Intende dire che la Daseinsanalyse si indirizza anche e di più agli elementi sociali e perciò dà una interpretazione completa della schizofrenia come modo di essere nel mondo, ma con risultati terapeutici scarsi? Ecco, la psicoanalisi, efficace o non efficace che sia, ha scelto di non sottostare ai facili ricatti "socialistici" e insegue i suoi fini sicura di non essere reazionaria ogni volta che li raggiunge. (Tante volte uno dei massimi psicoanalisti, Musatti, che è anche socialista, ha sostenuto questa tesi ). Per comprendere il sentimento d'irrealtà la psicoanalisi è uno strumento molto fine. Non per niente il sentimento di irrealtà ci ha sospinti sulla psicoanalisi. La quale delude e diventa di proposito
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rozza, se voglio salvare la carica ontologica del sentimento d'irrealtà. Ciò dipende dal necessario concetto reificato di realtà che la psicoanalisi, esprime e dal suo concetto tipicamente clinico di una guarigione come reinserimento, adattamento alla realtà. Ora il più grande nemico della psicoanalisi è l'irrealtà: sconfittala, si accontenta e abbandona il "guarito", appena lo abbia riconsegnato con buone probabilità che non torni indietro, alle guardie di frontiera e alla ovvietà della realtà. Non lo accompagna con il consiglio né con l'ideologia né con alcun giudizio di valore che non sia il valore-realtà e ciò che esso sottintende. Dà più consigli, insinua più visioni del mondo lo psichiatra organicista, colui che non si impiglia nei labirinti della psiche e cura la forma morbosa, non il suo contenuto. La neutralità ideologica cui si tiene stretta l'analisi riesce abbastanza rigorosa perché sostenuta da due dogmi terapeutici: rimettere il paziente in grado di camminare con le sue gambe e con qualsiasi mezzo verso qualsiasi meta, purché siano mezzi e mete nella realtà; rimanere, l'analista, neutrale perché solo cosi (sembrerebbe il contrario) si scatena su di lui quel transfert senza il quale come una piantina senz'acqua non attecchisce la cura. Più che ideologici, sono due dati tecnici, che perciò l'empiria è in grado da sola di convalidare. In verità, la terapia analitica incide ideologicamente e pragmáticamente sul paziente con la sua neutralità, più di tante terapie psicosintetiche, spiritualistiche, d'appoggio, ecc.: gli lascia il segno di una specie di ideologia neutrale, che ha il primo assioma nella ideologizzazione della realtà in quanto tale. Viene aiutata dal fatto che per chi è stato fuori
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a lungo dalla realtà o sempre in bilico verso il vuoto reggendosi all'ultima sporgenza di essa — la realtà è un valore. È per definizione, come la chiama Renée, la bella realtà. Può essere quanto si vuole anticonformistica e magari inefficiente, ma è pur sempre realtà rispetto alla irrealtà patologica. La misura soggettiva della "realtà" è la non-angoscia, l'oggettiva il comportamento. (Il comportamento è per definizione misurabile ). La psicoanalisi parte dall'angoscia per distruggere l'angoscia e da un massimo di introspezionismo ( non la ordinaria introspezione che si arresta li dove il soggetto arriva da solo) per toccare un massimo di comportamentismo. Il suo paradosso è che quando è stata efficace, ha accompagnato per anni un uomo con una terapia che finiva per riguardare anche l'ideologia o almeno tutte le fonti dell'ideologia, quanto più è stata efficace, tanto più si ritrae per lasciare il posto a una realtà emotiva e ideologica di cui professa fede di non impicciarsi. È l'assurdità del concetto astratto di guarigione e genitalizzazione. La filosofia ha il gioco facile nel volatilizzare il naturalismo di questo concetto. Ma non occorre la filosofia, basta la realtà. Dopo la più clamorosa, assurda, astratta, comportamentistica delle guarigioni, poiché una guarigione non è mai definitiva e l'uomo vive sempre accanto alla possibilità del male, pensa la realtà a richiamare di continuo la psicoanalisi e il suo corteggio di introspezione analitica, interpretazione, razionalizzazione ed angoscia. Ne fa l'esperienza quel curioso uomo prosciugato di valori che è l'uomo dopo l'esperienza analitica. Il quale guarito non si sentirà mai, né reso
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simile ai suoi simili analizzati: la personalità di ognuno fa la sua strada individuale inesorabile. Certo, è passato su lui, su loro, un rullo, un metodo, una lotta, una passione comune. Quest'uomo si conoscerà abbastanza bene e non razionalizzerà più come un gallo, un pavone, un coniglio, è ovvio. Non cadrà come un ubriaco nei buchi dell'inconscio: alcune nuove difese le ha elaborate. Soprattutto non dimenticherà quello scatto che ha ribaltato la responsabilità su di lui: e ha riportato esclusivamente nella sua "volontà economica", nella sua scelta di convenienza a star bene o a star male, quel che prima era un caos disperso di motivazioni reali, irreali, fatalità, onnipotenze, miserie, eccessive accuse a sé, eccessive accuse agli altri. Ciò lo riduce alla convenienza economica, all'osso. Egli è davvero uomo del grado zero, indotto a stimare due cose soltanto: la non-angoscia e il comportamento efficace? Non necessariamente. Anche se ogni comportamentismo opta per un efficientismo, quello post-analitico può distaccarsi dall'efficientismo purché nella non efficienza non vi sia angoscia. La non-angoscia a qualunque costo, anche a costo della non efficienza, è sempre più efficiente della angoscia. Ecco la sua teoria dei valori, che tradizionalmente non sono valori. Neppure lui sa se il suo pensiero narcisistico è, verrà, prosciugato. Il suo unico valore esistenziale è per ora il non stare male, la non-angoscia. Diviene anche un uomo cinico. Ha capito che stando male faceva stare male anche gli altri e cosi li possedeva; ma che in fondo ci rimetteva lui, stava più male di tutti e quindi può possederli di più con la non angoscia (sua e loro). Il positivo è per lui la mancanza del negativo ( del male ). Saprà ben definire ciò che egli non deve essere;
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non si azzarderà a definire ciò che deve essere. Il suo dover essere è tramortito. Continua a pagare lo scotto al male, che lo ha marchiato, come tutti i sopravvissuti: la paura e la tenuta a bada del male sono i suoi valori, come non avesse tempo per altro. Tarda, tarda molto in lui a riaffiorare la cosiddetta coscienza morale anche se l'essere stato nuovamente posto nel sentimento della responsabilità dovrebbe farne un individuo idoneo all'etica. Si tratta di una responsabilità bizzarra, più tecnica che morale, in equilibrio instabile fra accettazione e rassegnazione; di una convinzione non solo intellettuale ma emotiva, non morale ma tecnica, che le cose si superano affrontandole e non fuggendole. Se le fuggiamo, allora ci dominano. Se puniamo gli altri mettendoli in angoscia con la nostra angoscia, riusciamo a molto, ma in ultima analisi — questa è la vera scoperta — soffriamo più di tutti. Avrò ridotto lui alla disperazione, ma me in agonia. È passato il tempo in cui fuggivo urlando nel male, nella sua spaventosità, per sbaragliare tutti, per vincere perdendo. Apriamo gli occhi sul fatto che la responsabilità conviene più dell'angoscia, mentre prima eravamo emotivamente (e poi razionalisticamente, seppure conflittualmente) convinti del fatto contrario. Più che fluire da un classico indirizzo etico, la responsabilità post-analitica è spremuta fuori dalla assimilazione ( cioè conoscenza emotiva ) di un meccanismo psichico, quello detto appunto della maturità: per esso so che l'angoscia-fuga di una cosa è tenace attaccamento alla cosa, impossibilità di allontanarmi dall'angoscia e quindi dalla cosa, impossibilità alla libertà in uno sfrenato e irrealizzante ( narcisistico, infantile) desiderio di libertà come assurda equidi-
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stanza. Imparo che il principio del piacere è più vicino al principio di realtà, che all'angoscia. Che la distanza o l'avvicinamento sono più vitali e convenienti (efficienti?) della equidistanza. Che rinuncio di più non scegliendo, che scegliendo (scegliere non è rinunciare, è fruire di oggetti successivamente ). Più che di valori autoposti, la responsabilità è figlia della non-angoscia e della realtà, poiché la nonangoscia è lo stato unico che permette le scelte. E tale non-angoscia non riguarda soltanto l'uomo postanalitico del grado zero; riguarda l'uomo, fino a che non si costruirà un uomo diverso. L'uomo • post-analitico è tutto da interrogare e studiare, nel riguardi del principio del piacere, principio di realtà, principio di prestazione. Erra, per ora, in un mondo di uomini pre-analitici o ab-analitici; incontra di rado qualche collega; è incerto se rappresentare l'uomo rappezzato o la prefigurazione dell'uomo psicologicamente utopico. Ha questo accanimento e insieme questa prudenza di definirsi solo negativamente. E ognuno è rimasto, in certo modo, se stesso: occorrerebbe trovare gli elementi comuni a tutti i post-analitici. Sono uomini buoni? Cattivi? Verso quali visioni e moralità del mondo, intanto e nonostante tutto, la psicoanalisi spinge gli altri e se stessa? Spinte oscure. Inevitabilmente una scienza-tecnica dell'angoscia finisce per correre lungo i crepacci dell'esistenzialismo. Tuttavia che l'angoscia della psicoanalisi sia angoscia da medicare invece che da teorizzare a emblema esistenziale, apre una fessura stretta eppure profondissima tra esistenzialismo e psicoanalisi. Forse può unirli maggiormente una riflessione sul tempo.
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Se il male è il tempo, il bene è il non-tempo, ossia un modo di vivere il tempo: un modo fluido, non spazializzato, col progetto incessante del futuro. Modo che rimane un valore pregiudiziale per quell'uomo che la psicoanalisi riporti dal tempo-male al tempo-bene. Bisogna riconoscere che è soltanto la forma del valore, non il suo contenuto. Al tempo-bene manca un contenuto di valore che non sia il puro rovescio del tempo-male, cioè il tempo-bene, cioè se stesso. Ora, la psicoanalisi spinge verso un valore qualsiasi, purché stia nel tempo-bene. È qui l'immoralità e la neutralità della psicoanalisi, nonostante il suo moralismo economicistico della libido, la sua spinta insinuante verso l'investimento monogamico e monovalente (dal momento che smaschera tutti i trucchi e i falsi vantaggi dell'equidistanza e dell'ambivalenza)? È qui il suo cinismo anti-esistenziale? La sua sardonica cattiveria pragmatica? Cinismo, cattiveria soffiano verso un comportamentismo "efficace", un successo, una ragion dello stato psichico. Il valore-misura di questo comportamentismo è la normalità "realistica" (crudele? machiavellica? ma era più crudele l'angoscia ), un a priori sfuggente e non pittoresco che si ciba d'equilibrio, maturità, economicità sbrigativa. L'uomo post-analitico non è tanto pietoso. Ma come era egocentrica la sua pietà! Si ciba di una tendenza alla genitalizzazione del pensiero, verso un pensiero maturo che sostituisca il pensiero narcisistico, dongiovannistico, labile negli investimenti. Ma il pensiero genitalizzato è solo un orizzonte. Il concetto post-analitico di comportamento incoraggia culturalmente verso una empiria logica (verso il neopositivismo, con una sorta di ritorno alle origini positivistiche freudiane). Si potrà "formalizza-
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re" una psicologia, esprimerla in termini logico-matematici, fare risolvere da un calcolatore i problemi delle scelte psichiche? Si potranno verificare le spiegazioni della psicoanalisi? Il meccanismo è un comportamentismo? Per oggi la cisterna dell'inconscio è inesauribile e il male sempre in agguato, il sentimento d'irrealtà domina questo prolungato pensiero narcisistico, l'introspezionismo perciò non dà mai strada completa a un comportamentismo, ad una pura analisi del linguaggio. Una sottile eppure profondissima fessura separa la psicoanalisi dalla logica. La psicoanalisi poi è attratta dalla fondazione fenomenologica, a patto che la fondi è non la affondi. Con il marxismo, si è abituata a far coppia, come due amanti nemici. Cosi, scienza oggettiva ma della soggettività; scienza del comportamento ma interiore; in contatto con la metafisica, ma alle prese con la verificabilità empirica; disinteressata gnoseologia, ma legata al successo pragmatico, in polemica con la fenomenologia e quindi sospinta verso il comportamentismo, ma in polemica con il comportamentismo: occupa un luogo originale in mezzo a tutte le filosofie, le soggettive e le oggettive, e le scienze, che seriamente la considerano e ne diffidano. Anch'essa le considera seriamente e ne diffida. Sa con i suoi pazienti che resta sempre un margine di angoscia sufficiente a nutrire il filo di quel sentimento d'irrealtà utile al senso ontologico e che serve all'uomo per non essere, cioè essere con la coscienza d'essere; non c'è quindi bisogno mai di coltivare l'angoscia e l'irrealtà. È, in succo, il dogma dell'uomo post-analitico, maturo? Egli non ha davvero paura di inaridirsi, spengersi, appiattirsi ecc.
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come i profani temono: addirittura temono che l'uomo post-analitico, se era un artista, perda la sua sensibilità artistica; se era una sensitiva, diventi un bruto. Essi dimenticano di temere l'unico nemico vero, e scambiano l'efficienza con l'ansia. Ritorniamo cosi al problema della efficienza. In una utopia psicologica, avveratasi l'utopia economica, più che una utopia produttivistica ( capitalistica) o una efficienza sociale (neo-socialistica, post-narcisistica), l'efficienza è una pura "oggettivazione". Tale oggettivazione è l'antidoto dell'idea del suicidio, ossia è la capacità dell'individuo di fare qualcosa di se stesso, che non sia il mettersi a morte; di "occuparsi" e di "realizzarsi". Ma fino a che il narcisismo non sia decaduto per sempre e finché, nonostante la psicoanalisi sua diretta nemica, esso ribadisca l'immaturità dell'uomo, sempre il sentimento d'irrealtà si insinuerà fra l'Io e l'Oggetto in cui l'Io dovrà oggettivarsi. L'uomo rimane insidiato fra un comportamentismo assoluto, tutto di successo, e il non sapere, poiché si trova fra le mani se stesso e si rapporta a sé, che cosa fare di sé. La trascendenza o l'oggettivazione totali non sono che la morte. La contemplazione è una ipocrisia.
CAPITOLO SESTO
LO SCRUPOLO E LO SGABELLO
Ma, della psicoanalisi, bisogna continuare a dire del suo rapporto con l'Altro. Nella psicoanalisi, come analisi, come ragione analitica, l'Altro per eccellenza è il terapeuta. Il rapporto, il legame con lui è il transfert. Uno degli scopi finali, se non lo scopo finale della terapia, è scioglierlo e spingerlo verso un rapporto vuoto di drammaticità emotiva: verso un transfert, appunto, di realtà, dove il paziente lapalissianamente non ha più bisogno dell'analista, non tanto "perché l'analista lo dichiara ex cathedra guarito, quanto perché il paziente ora sceglie lui di guarire e continuamente risceglie, perché più conveniente, la soluzione della responsabilità e della accettazione piuttosto che quella della fuga e dell'angoscia (nello stesso tempo si ritrova meno capace, senza volerlo, di provare angoscia, e si stupisce che la pompa dell'angoscia si sia sgonfiata — pur temendo sempre che di colpo riesploda). Tutto ciò si dice "liquidare il transfert" ed è in sostanza l'unico e vero ultimo scopo dell'analisi: che resta una sorta di scopo, di telos, della vita, per aspirare ad un pensiero maturo, il quale stia ritto senza appoggiarsi al transfert, al terapeuta. Penso che una liquidazione totale del transfert
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non si compia mai (con questo pensiero mi proteggo dalla paura della maturità e della responsabilità, dalla paura di essere adulto per non essere più narcisista, dalla paura della guarigione). Penso che il transfert rimanga un tipo di rapporto fra l'uomo e l'uomo, fra l'uomo e l'oggetto, e anche fra l'uomo e se stesso. Tende a maturarsi e a spengersi sempre più e completamente non si spenge mai. In tal modo esso istituisce un tipo di rapporto quasi permanente: il rapporto gerarchico. Cui si contrappone, all'orizzonte, il rapporto paritetico, maturo (guarito, pauroso). Questo transfert perenne è anche il rinvio del giudizio interpretativo su di me all'Altro, ad un altro che io hon potrò a mia volta interpretare. Se per esempio io sono un causalista, il mio causalismo deve essere spiegato, per definizione, non da me stesso, ma dall'altro. Secondo Roland Barthes questo è il destino dello scrittore, di non avere mai l'ultima parola su se stesso. Dunque anche come scrittore devo cedere all'altro l'ultima parola. Eppure ¿ono di coloro che vogliono disperatamente dire l'ultima parola su di sé, che hanno l'orgoglio e l'ansia di prevenire ogni critica, ogni superamento, ogni interpretazione di sé. Non è questo il compito del filosofo autocosciente, nel suo cammino sempre-definitivo mai-definitivo? Il quale filosofo, inoltre, pone l'altro in una pariteticità inter-umana dove, se io non ho l'ultima parola su di me, l'altro ce l'ha, e se non ce l'ha su di sé, ce l'ho io su di lui. Ma la scienza oggettiva della soggettività (contraddizione in termini? ), la psicologia, mi suggerisce che in verità io sono, prima che uno scrittore o un filosofo, una terza cosa: sono uno scrupoloso. Se teorizzo una psicologia della conoscenza non posso sfuggire al tentativo di rivelare e scoperchiare la
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psicologia della mia conoscenza. La personalità scrupolosa è la mia. Essa smonta la gloria della filosofia. Essa ha "come elementi fondamentali l'insicurezza, il temperamento schizotimico e l'egocentrismo". È stata distinta, entro certi limiti, dalla personalità anancastica e dalla nevrosi coatta (e di ciò mi rallegro) e definita "un genere psicopatico di reazione caratterizzato da esagerata autopossessione e autoriflessione, da accuratezza formalistica, coscienziosità, tendenza alla compulsività e alla fissazione di conflitti interni.'" Ora, dalla personalità scrupolosa può uscire un tipo di intellettuale, rigoroso e antinómico. Essendo insicuro, ha la propensione di affidarsi, attaccarsi all'Altro; ma essendo autopossessivo e autoriflessivo, pretende di sempre sostituirsi all'Altro. Essendo egocentrico si incontra con il pensiero narcisistico ed è ambivalente verso l'Altro. Dichiara di voler essere, di dover essere bruciato dall'Altro, poi sale sul rogo da lui stesso acceso. L'accuratezza formalistica ne fa un logico. La fissazione ai conflitti interni ne fa un antinomia). Lo scrupolo nel suo insieme lo trascina al rigorosamente fondato. Che cosa distingue un valido intellettuale di questo tipo, da un povero fissato? Quando il primo si rovescia e annulla nel secondo? Quando "l'equilibrio fra intenzione e influenza della circostanza si sposta a favore di quest'ultima appunto a causa della insicurezza che indebolisce la precisa specificazione della volontà, mentre ingigantisce l'influenza delle circostanze.'" È l'insicurezza che conta, la bifronte: da una parte ha la faccia del savio mai sicuro di nulla perché tutto esamina e riesamina nel sempre-definitivo mai-definitivo, cammino glorioso e
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aspro della filosofia e della scienza; dall'altra ha la faccia del nevrotico imbelle, di colui che ha sempre colpa, torto. Il senso di colpa che sta dietro l'insicurezza ora mi spinge verso l'incessante ricerca, ora verso lo spappolamento e l'abdicazione alle circostanze che mi sbattono di qua e di là polverizzandomi. Con l'intenzione io debbo far quagliare e sorreggere me stesso. L'intenzione deve essere verificata. È il tempo che la verifica. Cosi io mi apro verso il futuro. Il futuro separa l'ingegno insonne dei ricercatore, dallo scrupolo che inchioda in un presente incatenato. Io mi rinvio ad una verifica. Ed il futuro mi costringe ad affrontare l'avvenirismo e l'utopia (all'avvenirismo mi spinge la scienza, all'utopia l'ideologia). Il brivido misterioso del tempo ora lo sento pensando in avanti invece che pensando all'indietro. Ma l'avvenire è veramente l'avvenire, o tutto l'avvenire (come l'altro ieri tutta la storia) non è che avvenire con temporaneo? Se mi sporgo il cervello sulla realtà scientifica di domani, si tratta veramente di domani o di un modo in cui si sfoga, si appalesa il mio sentimento d'oggi? Qual è l'esatto momento della verifica? Il rinvio è all'infinito? Faccio in modo di non poter essere mai adulto? E conosco ogni bellezza, ogni tranello dell'utopia. Come rinvio, essa è reificazione (del futuro) e speranza. Come speranza tonifica in avanti il tempo, riempie di oggetti solidi la paurosa, indeterminata liquidità assoluta dell'intenzione; di tutte le evasioni è l'evasione più degna. Come reificazione essa è l'alibi di un tipo psiconevrotico e socionevrotico: un tipo che non vive, ma vive in attesa della vita; sta al di qua di un fossato, profondissimo e più largo
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di un passo, non tanto più di un salto spericolato. Tutte le campane del suo cuore suoneranno a stormo il giorno che salterà — ne è sicuro. Ha vissuto sempre cosi, ci vive ancora. Si aggira sotto alla finestra illuminata altissima dell'avvenire, dietro cui sta la sua amata unica. Sa come il futuro deve essere, compimento d'ogni intenzione e d'ogni desiderio; si prepara al salto dal marciapiede al quinto piano. Salto impossibile che egli rinvia come fosse possibile. Benché abbia cominciato ad attendere dall'adolescenza e adesso si sporga sulla vecchiaia e con poco tempo da sprecare, lui aspetta e non la vecchiaia e non la morte. Benché eterna, e perciò si potrebbe pensare sempre delusa; con una serie di maschere di raggiungimento che man mano butta via rimostrando la sua faccia nuda, aspettante; benché chiara nel suo meccanismo d'alibi, di rinvio, nel suo incarognimento: l'attesa non gli si può logorare, non avendo egli vissuto d'altro che d'attesa. Brutto colpo scoprire che per lui la vita non è niente altro che questa attesa; non considerare più l'attendere un'attesa, ma un vizio, che per lui è tutto, per la realtà e per la verifica è niente. Nel campo delle utopie collettive, il comunista è il padre di ogni moderna utopia. Egli è il simbolo dell'utopia, della forza e delle scappatoie di essa. Prima, prima di sentire i critici revisionisti dire: non c'è niente da aspettare, tu reifichi, non sei più dialettico, l'attesa è soltanto il tuo modo di ingannarti con la Cosa Futura; e vederli innalzare davanti ai tuoi occhi un cartello con la scritta "ATTESA, come categoria del tuo temperamento — di cui devi
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prendere coscienza per non aspettare più — perché tutto quello che dovevi avere domani è ciò che hai O G G I " (viene allora una fobia dell'attesa, desiderata sempre pazzamente e insieme temuta più della morte, più' della paura della verifica che sotto sotto ha generato quell'attesa): già da prima uno si era accorto di quanto spesso i comunisti si rizzino in piedi tenendosi sempre accanto lo sgabello dell'utopia. Per appoggiarsi da eventuali cadute (dal ragionamento ). Nei dibattiti alle Case delle Culture parla prima uno storicista, un moderatore: vede il fiume secolare dall'alto. Poi uno dell'avanguardia: sfrange l'orrendo cadaverè del naturalismo borghese dalla cui putrefazione si sparpagliano le crisalidi del nuovo modo di formare, dato che a lui quelle del nuovo modo di fare non competono ( per lui ragion pratica e ragion poetica sono distinte). Infine un comunista: quando il dibattito si è intrigato in una ridda e le varie causalità impazzano per sopraffarsi tra loro e lottano, aggrovigliandosi, con le modalità, un comunista raccoglie' i detriti e i blocchi sparsi, ne fa un cumulo compatto. Come? Si appoggia alla quarta parete dell'avvenire terreno che solo per lui è solida. Usa l'attesa è l'utopia come diga che raccoglie tutte le acque, le sabbie, le pietre e sbarra il confuso lago problematico, potenziandolo. Ancora oggi il comunista (in parte anche il socialista democratico e gradualista) non può fare a meno di rinviare tutto, economia, psicopatologia, amore, problema dei posteggi, alla creazione di una nuova società. Gli si sente dietro la nuova società risolutrice: lo si sente — mentre parla come l'essere più lacerato e vagolante della terra, distantissimo da conclusioni, tutto problematico e aperto,
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magari ammiratissimo di qualche opposto polo — avvicinarsi piano, pianissimo, di soppiatto. D'un colpo preme tutte le idee contro la diga, potenziandole nella compressione, salta lui sulla compressione e sulla diga. È fatta. Usata ancora, sempre, per tutto, questa nuova società in agguato, onnipresente e lucente all'orizzonte, è l'utopia. Abbiamo già tentato di spiegare come un'utopia psicologica sia più utopica di questa utopia sociale e quindi le sopravviva. Ma l'utopista psicologico deve sapere bene che cosa lo distingue dall'utopista sociale; inoltre deve distinguere fra utopia e ATTESA come eterno rinvio, deve aver ingoiato il contraccolpo per cui l'attesa ormai non aspetta che se stessa, il domani è l'oggi: la verifica va fatta subito. Comunque il sentimento d'irrealtà può sostituire avvenirismi e utopie. Può mettere in crisi la trascendentalità e la verifica. Con la sua ineffabilità sfugge alle definizioni che lo vorrebbero dire o autistico o dereistico o irrealistico o paleologico. Non è per intiero nell'attitudine surrealistica caratterizzata da reificazione insufficiente, e neppure nell'attitudine subrealista caratterizzata da eccesso di reificazione (secondo le definizioni di Gabel). Non è tutto nella derealizzazione sensoriale, nell'alterazione dei rapporti fra l'uomo e il mondo, né in quella derealizzazione come devalorizzazione per cui l'universo non è reale che saturo di valore.3 Non è del tutto nella crisi esistenziale predelirante che faceva dire alla malinconica : "Si è completamente privi di essere... tuttavia si è esseri umani"... Che cosa è allora? Con la sua inesprimibilità ci porta forse, senza che ce ne accorgiamo, nelle brac-
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eia della mistica? Certo, esso è il retaggio ineffabile della ragione narcisistica, quel particolare senso del mistero emergente dal pensiero immaturo e che forse non si maturerà, non guarirà mai, anche se la scienza di fatto deve fare di tutto per guarirlo e per sostituirsi man mano, con le sue avveniristiche meraviglie, ai ferrivecchi della coscienza soggettiva o della soggettiva scienza della coscienza.
TERZA PARTE
RAPPORTO GERARCHICO E RAPPORTO PARITETICO
CAPITOLO PRIMO
IL BIVIO DELLE POETICHE. LA PSICODOTTRINA
"Ci sono arrivato tardi. L'ho vissuto come conclusione, stazione di testa. Ora è troppo recente per indovinare verso dove ripartirò. Si trasforma e mi pare estremo: coincide con il giro di boa della metà della vita, il passo fra la salita e la discesa. "A chi chiede che cosa è, non lo so. So che non è tutto quanto le persone sono smaniose di proiettarvi; come la realtà, l'irrealtà può essere tutto. Invece il sentimento d'irrealtà è cosa precisa, ma il suo essere impedisce di conoscerlo. È ineffabile mentre è; quando non è più, è ir ricordabile. L'ombra di esso, si ricorda, o l'ombra dell'ombra. "Mentre è, non produce immagini. Non ne possiedo una, una sua foto o una foto fatta da lui, né una immagine astratta o un'immagine figurativa. È una immagine cieca, un puro pensiero senza visuale, un episodio del sentimento-pensiero che accade dentro un tubo buio. È lo slogamento di una giuntura nascosta. Di colpo sento che mi sono slogato la giuntura fra la realtà e un altro ente. Quale ente può esserci oltre alla realtà? L'irrealtà, forzatamente. Si accavallano due ossa del pensiero. "La mia descrizione del sentimento d'irrealtà è
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monotona. La sua fenomenologia sfugge penosamente. Forse non ha fenomenologia. "Sta all'incrocio fra io e mondo, io e sé, io e tu, coscienza, percezione e conoscenza, dove si incontrano tutte le filosofie del mondo. Ma accerchiato teoreticamente, il sentimento in questione fa un guizzo e scappa, mostra la faccia ammalata. Ecco, fa, sono il ben noto sentimento di irrealtà, abito dentro la depersonalizzazione, lo trovate nei manuali, nelle angosce e nei manicomi. Qualunque persona, basta che sia molto stanca, comincia a provarlo. "Allora non me la sento più di confondere fra una percezione dell'essenza e un sintomo; non sono mai stato d'atcordo che la verità abiti nei dintorni della pazzia. D'altronde, se è un sintomo, i miei sforzi per identificarlo e descriverlo non sono allora che i goffi tentativi del paziente profano quando si lamenta col medico, di fornirgli un esatto materiale per la diagnosi, quasi un'autodiagnosi. Che il medico non considera che come un altro sintomo. La diagnosi la fa' lui, per definizione. La mia autodiagnosi è la mia malattia, la 'passione inutile' che ho di mettermi al suo posto, di credere e di cercare lui, per poi volere sostituirlo, facendo il medico di me stesso. Mentre so che il medico di noi stessi è sempre un Altro. "Né desidero che tutto l'imbroglio del sentimento in questione si riduca al problema di comunicarlo (a un problema di alterità). Ma se cosi fosse, essendo realtà e irrealtà due concetti ineffabili e tautologici, tengo per me il sentimento in questione, spiacevole o prezioso che sia, mia essenza di me o calcolo nella vescica della psiche, e sto zitto." Questo brano è riportato dal libro "Una autobiografia culturale" di Vittorio Lucioli.1
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Fra gli scrittori contemporanei Lucioli è quello che ha studiato di più le fonti "psicodottrinarie" della propria poetica, come se gli fosse impossibile non agganciare i suoi pensieri artistici ai più privati dei suoi pensieri con un determinismo anche pesante, di cui non si preoccupa tanto. Come al solito, chi si è abituato per fortissima disposizione al mistero, alla difficoltà di spiegare meccanicisticamente il formarsi di una personalità e alla irriducibilità di essa ed è pronto fin eccessivamente a riconoscere la misteriosità ontologica: proprio lui è disposto, ormai al di là di ogni sospetto, a scandalizzare con proposte naturalistiche, a tentare catene come ferree, ed evidenti, congetture causali. A parità di mistero, dice, occupiamo il vuoto degli enigmi con ipotesi che paiono vere: meglio che navigare con assenza di peso deterministico in un'aria molto alta ma insipida. È il caso di Lucioli, meccanicista per eccesso d'ontologia ed esistenzialismo, meccanicista sfrenato. Lucioli ripercorre culturalmente il proprio passato, scrive un libro della memoria culturale piuttosto che di quella sentimentale. Studia le fonti della propria poetica. Grossi dirigenti dell'azienda letteraria italiana hanno avvertito che diffidano delle poetiche, non vogliono progettisti, uffici studi, sintomo di sterilità, poca voglia di lavorare e fantasia zero. Questa obiezione anticulturalistica ("gli artisti discutono quando non creano, se creano stanno zitti") è una poetica delle non poetiche che porta diritto all'artista primariamente ingenuo, buono e ignorante. Scrive addirittura Lucioli: "Se l'arte si spaventa della cultura, della scienza e della filosofia, è una paura dolorosa ma salutare. I rapporti fra linguag-
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gio artistico e altri linguaggi sono sempre meno semplici. I rapporti fra denotazione e connotazione si sono intrigati. Un terremoto scuote i muri divisori fra l'arte e la logica, l'arte e le macchine. Eliot è senza dubbio un poeta e Fermi uno scienziato, ma la natura dell'arte desidera essere ripensata rispetto ad altre forme di scoperta e di informazione ed è fuori tempo l'oleografia di una intelligenza artisticamente arida e di una poeticità intellettualmente deficiente. " Il problema delle poetiche non è quello di essere sintomo di fecondità o di sterilità artistiche. È invece che le generalizzazioni su come uno indica o vuole che l'arte sia, cioè le poetiche, assomigliano molto alle razionalizzazioni. Delle quali ho parlato. Le poetiche corrono il rischio di non significare che razionalizzazioni del proprio modo d'essere (artisti) e delle proprie intenzioni d'esprimersi, con un valore intersoggettivo dubbio. La poetica ha in comune quasi tutte le sue vicende con la razionalizzazione, è sconcertante, è in bilico fra buona e malafede, consapevolezza e inconsapevolezza. Anzi è una delle razionalizzazioni più tipiche, esponendosi quanto mai a non essere razionalità ma "un ragionamento affettivo esprimente lo stato del soggetto e nulla più", ossia un pensiero estetico egocentrico. "Chi elegge una poetica" dice Lucioli "a preferenza d'altre, specie se è 'poeta', è sempre sull'orlo di raccontare i suoi casi in modo falsamente logico, oppure logico ma non razionale. Io stesso, se difendo una poetica e ne attacco un'altra, mi espongo al pericolo. Perciò sono sempre colpito dallo scrittore di natura poco raziocinante, con cultura in prevalenza letteraria e questa solo se simpatetica con il proprio interesse espressivo polemico, che tutto tran-
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quillo e oggettivo celebra la fantasia sopra ogni altra dote. Che altro potrebbe celebrare? E irride le velleità da maestro e faro di idee di un altro scrittore, il quale sterile in quel periodo, teorizza il suo tempo di magra, giustificandolo con lo stato arretrato della letteratura rispetto alla cultura, con la necessità per lo scrittore di parlare solo quando l'espressione letteraria sarà sintonizzata al generale progresso della coscienza scientifica del mondo... Il secondo scrittore che altro potrebbe celebrare se non la sua crisi di scrittore? "Insomma, che cosa pretendo? Che un monaco faccia l'elogio del libertinaggio e un libertino della continenza? " Lucioli pretende una relativizzazione della poetica, rapportata all'egocentrismo del suo enunciatore; un controllo della poetica narcisistica con la matura poesia, per misurare se la poetica non sia bugiarda, non razionalizzi una volontà d'arte dell'artista, la quale non corrisponde al vero modo d'essere, o non essere, artista di lui; se non sia che il camuffamento di incidenti privati. L'arte è inoltre il momento della verità conscia e inconscia. Mai come nell'arte avvengono scarti fra progetto e prodotto, e le intenzioni sono richiamate a quella realtà unica che è l'autenticità e l'efficienza operativa dell'artista. L'ufficio studi dove si elaborano le poetiche a priori, mai tagli i ponti con il controllo, cioè con la critica. Nei periodi in cui l'estetica è più vitale della critica, è indispensabile reclamare che fino a quando l'arte non sia morta del tutto, non sia stata tutta assorbita dall'estetica, deve avere la critica al fianco. La critica corrisponde a quanto in psicologia è l'esame di realtà, aggancia la razionalizzazione alla ragio-
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ne. Individua il luogo dove l'inconscio dell'artista ha creato il contrario di quello che la sua razionalizzazione voleva. Se la critica è in decadenza perché, come oggi, il feto di un'opera nuova sembra più interessante del corpo ben formato di un'opera vecchia, occorre costringersi alla critica per gli stessi motivi per cui è necessaria una critica dell'intenzione attraverso il comportamento e inevitabile una ricerca di valori dopo il grado zero del valore. L'opera d'arte rimane una delle poche realtà certe che discriminano, ad esempio, fra nevrosi sterile e nevrosi creatrice. Ancora Lucidi : "La ricetta di un'arte ignorante è assurda. Dostoevskij ignorava Freud piuttosto diversamente dà come può ignorarlo un artista d'oggi. Dire che la psicologia, la psicoanalisi fa male all'arte — tanto è vero che era più poeta Dostoevskij con la sua intuizione precorritrice e 'umana' di uno scrittore odierno con i suoi strumenti tecnici e scientifici — è una tesi che imporrebbe all'artista postfreudiano di tapparsi gli occhi e le orecchie per non lasciarsi dissefccare dalle scienze dell'uomo. Le quali finirebbero per simbolizzare l'elezione di materiali e punti di vista impoetici a priori, cui si contrappongono felicemente materiali e punti di vista poetici a priori (ispirazione, misteri del cuore umano, ecc.)." Lucioli accenna a un altro parere opposto, secondo cui la psicoanalisi ha monopolizzato le scoperte psicologiche che un tempo faceva la letteratura; secondo cui la letteratura privata del suo compito vero di pioniera della psicologia, è rimasta retrograda, ornamentale, consolatoria: disoccupata. Lo scrittore serio allora tacerebbe. Morte dell'arte. È da pensare con Lucioli che una simile poetica della sterilità sia oggi più creativa delle poetiche della creatività pura o fantastica. La morte dell'arte è una
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strettoia estrema in cui l'arte deve cacciarsi senza cautelarsi a priori con l'idea umanistica d'essere immortale e intramontabile. Per l'arte è bene fare gli esercizi senza la rete sotto. Deve guardare in faccia la scienza. Lucidi è d'accordo: "Occorre che l'arte affronti le esattezze della scienza, di contro alle vaghezze della poeticità. O muore o ne trarrà vantaggi. "Ho sempre in mente un esempio. Riguarda proprio la psicoanalisi, che da molti è considerata la peronospora dell'arte; riguarda uno scambio fra psicoanalisi e arte, fra arte e psicoanalisi. Anche la filosofia vi è coinvolta. "L'esempio è il transfert. Il transfert è una relazione tecnico-scientifica fra due uomini, di una drammaticità nuovissima. Quanto più la letteratura lo seguisse nei suoi aspetti tecnici e terapeutici, invece che genericamente e umanisticamente interumani, tanto più sarebbe drammatica, originale, restando letteratura, Una nuova commedia o tragedia può nascere dal transfert, dai suoi silenzi, dai suoi accavallamenti e dalla sua paradossalità tecnica. Naturalmente la letteratura, o il teatro, rappresenterebbero per forza un transfert, che in sé è scientifico o generalizzato, nel loro modo personalistico ed esistenziale. Lo potrebbero fare senza liquefarne la sostanza tecnica. Conseguendo un altro risultato ancora: restituire alla psicoanalisi empirica il fondamento intersoggettivo e irriducibile all'empiria, che sarebbe di pertinenza della filosofia e che alla psicoanalisi mancherebbe. " Se pure deve morire, l'agonia dell'arte si presenta lunga e con imprevedibili sussulti di vitalità. Non mancano casi di scrittori che taciturni nella polemica sulle poetiche e sull'arte — ma non avvolti affatto dentro il polemico e sprezzante silenzio estetico dei
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raccontatori di storie — trovano all'improvviso un suono artistico cosi originale da travolgere buona parte di questi discorsi sull'arte. Dei quali basta che rimangano due argomenti: l'egocentrismo estetico delle poetiche, e per l'arte una coscienza di morte, la liberazione dalla retorica della propria eternità. L'arte vive nella misura in cui corre fino all'estremo l'azzardo di decadere a opera della ragione, della storia e di tutte le concorrenze possibili. Di essere inglobata dalla filosofia, o magari di inglobarla. DÌ essere penetrata dalla scienza o di penetrarla. Il sentimento d'irrealtà è banco di prova, sia scientifico e tecnico che estetico, della rappresentazione artistica; di un'arte che camminando si sia trasferita dalla scoperta della realtà alla scoperta del rapporto con la realtà e con se stessa e quindi che, nel ragionamento, arrischia la propria morte: tappa riflessiva (irrealistica) succeduta a una tappa estroflessa (neorealistica,, realistica). La pop-art ha avuto molta eco proprio perché ha eccitato il nervo divisorio fra arte e non arte e fra realtà e irrealtà e ha dichiarato una nuova poetica della realtà: invero, isola frammenti scelti della realtà, dentro una cornice inventata dal sentimento irrealistico. È simile a una poetica della irrealtà quotidiana. Il muro di gabinetto di Dine è brutto e già kitsch: comunque, è realistico in quanto allucinatorio. L'ossessione del quotidiano sbalza l'oggetto a rimanere figurativamente tale, anzi tale e quale, né astratto né deformato, ma fuoriuscito dallo sfondo della percezione realistica con una ironia che è allucinazione. Nella allucinazione non vedo alterato l'oggetto, lo scorgo esattamente come
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è, ma dove e quando non c'è. È un caso di sentimento d'irrealtà quotidiana fatto progredire sino a un delirio artificiale, per insofferenza ai condizionamenti ossessivi del quotidiano contemporaneo, pletorico, denso di macchinismi, oggetti, segnali. Scoprendo in loro una bellezza e validità, e isolandoli, si valorizzano e insieme si irrealizzano. (Si sa che certe operazioni di attenzione ossessiva a un oggetto, a un vocabolo lo irrealizzano: è uno dei primi gradini, quasi sperimentali, del sentimento d'irrealtà). A parte l'avventura americana della pop-art, il sentimento d'irrealtà si presta bene, se non capitalmente, a fare da soggetto-oggetto nella discussione su come potrà (o dovrà? una poetica è una norma o un oroscopo?) essere un'arte. È da considerare come tema scottante di progettazione nella stanza di un ufficio studi della letteratura. Moravia ha un buon ufficio studi, fra i vari scrittori italiani. Abbiamo una sua pagina semplicistica che serve come sintesi di poetiche a priori con poetiche a posteriori, e come spunto sui modi della rappresentazione (e magari, aggiungiamo, della non rappresentazione, fino a un sacrificio di questa nella scienza o nella disgregazione linguistica). In essa Moravia dice che gli scrittori per oggettivare la alienazione, ossia la crisi del rapporto con la realtà, seguono principalmente due vie, quella del realismo e quella dello sperimentalismo. Il primo è una rappresentazione oggettiva e in certo modo scientifica dei fenomeni dell'alienazione in tutti i suoi aspetti psicologici e sociali: è quello che Lukacs chiama realismo critico. Tramite il critico-realismo lo scrittore cerca di trovare le cause dell'alienazione e la rappresenta, liberandosi cosi dall'alienazione, di-
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salienandosi. Quanto allo sperimentalismo, dice Moravia, anch'esso è un modo di reagire alla alienazione come crisi del rapporto con la realtà. "Lo sperimentalismo si studia di inventare nuove tecniche del linguaggio allo scopo di raggiungere quel rapporto fresco e autentico con la realtà che le vecchie tecniche ormai esaurite non possono pili assicurare. Ma tanto il realismo critico come lo sperimentalismo partono dalla stessa necessità: il carattere oscuro, misterioso, indecifrabile, assurdo della realtà..."2 È utile usare questo di Moravia come bivio schematico da cui si biforcano due poetiche. In tale uso alienazione è, sostituibile con sentimento d'irrealtà. Ricordando che sentimento d'irrealtà non è l'alienazione generica: è più sottile, più preciso e più ambiguo; soprattutto porta con sé, come si è visto tante volte, per definizione una crisi linguistica. Oscilla tra ineffabilità, nuovo linguaggio, vecchia metafora, statico delirio. Propende a uscire di per sé dal dilemma di Moravia. Ma ora rimettiamocelo dentro.
Moravia lascia dove comincia il bello. Se realismo critico e sperimentalismo vanno considerati alla pari. Se tra loro c'è guerra e coesistenza pacifica. Se Moravia apprezza l'uno o l'altro e perché. Appellandosi a Lukàcs per definire la via critico-realistica, Moravia espone lo sperimentalismo a divenire automaticamente quella che Lukàcs chiama la decadenza antirealistica, e a passare cosi in sottordine: mentre Moravia pareva voler essere imparziale. Non è opportuno sfuggire a un giudizio di valore sulle due vie e soprattutto al perché uno scrittore infila la prima via e un altro la seconda.
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È la questione di che cosa sta dietro una poetica. È possibile ritenere non essenziale tale questione. Oppure dire, con Lukàcs, che occorre comprendere la necessità sociale di un dato stile. O cercare alla poetica una motivazione psicologica. Qui "psicologico" vuol riferirsi sia a un carattere che a una caratteriologia, sia a una psicologia individuale che a una dottrina psicologica connessa con questa psicologia individuale, cioè a quella che chiamo una psicodottrina. Si cercherà di fare la terza cosa. Anticipando che una ricerca sulla psicodottrina mai come in questo caso dell'arte, fa a meno di àncore sociali, storiche, generazionali. Mai tanto un destino individuale nuota dentro una società, un gruppo, una classe anagrafica, una scuola, ed è importante perché è simbolico di destini analoghi e contemporanei. L'"Autobiografia culturale" di Vittorio Lucioli batte sulla psicodottrina e perciò è utile.
CAPITOLO SECONDO
LUCIOLI DAL FASCISMO ALL'IRREALISMO
Lucioli parla sempre di sé, ma alterna la prima alla terza persona. Serve sentire fin da principio la sua autobiografia culturale. Alcune parti sembrano digressioni, invece rinforzano il nucleo: trasmissioni fra poetica e psicodottrina. "L'educazione intellettuale di Vittorio Lucioli iniziò nel 1939, sulla porta della guerra, quando aveva sedici anni, e di colpo. "Una mattina durante le vacanze estive d'agosto in montagna, si spostò dalla camera al terrazzino con un tavolino e scrisse all'aria aperta una prosa poetica, di stile dannunziano, sui Monti Pallidi (Dolomiti). "Prima prosa assoluta della sua vita, illeggibile. Iniziò dunque malissimo. "Aveva letto sino ad allora, fuori della scuola, oltre a tre libri ameni per l'adolescenza ('La tigre della Malesia', 'Senza famiglia' e una biografia su certi parenti di Napoleone), soltanto 'I giganti innamorati! di Salvator Gotta, sulla linea già latente estetico-alpestre, e la 'Vita di Cola di Rienzo' di
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D'Annunzio, consigliatagli dal gesuita suo professore d'italiano, fascista. "Anche il giovane Lucioli era fascista. Come sarebbe venuto fuori più tardi, lo era per un tipo di rapporto magico (nevrotico) con il padre, con 'Colui che risolve tutto' (cioè il Duce). "La letteratura per quanto dannunziana rappresentò il momento negativo della sua ambivalenza verso il Padre: verso Colui che non ha ripiegamenti, letterature e malinconie (non ha sentimenti d'irrealtà, si direbbe oggi) ed è tutto nella prassi, di cui ha il gusto, la mania. "Svolgo subito un'osservazione. Perché Lucioli e molti della sua generazione devono continuamente e tuttora fare i conti con il fascismo dell'adolescenza loro e giovinezza, se non altro come ingresso nella vita — da cui per estrusione fu spremuto l'antifascismo — e non con il cattolicesimo? Perché come antiche figure paterne tocca loro di rielaborare più Benito Mussolini che il Padre Eterno? "Oggi se rivede le origini della propria educazione spirituale, Lucioli rilegge gli 'Scritti e Discorsi' di Mussolini, per i quali si appassionò di più che per il Vangelo di Cristo. E si che Lucioli fece le scuole dai gesuiti. Dai gesuiti — è un fatto — imparò il fascismo e il dannunzianesimo, poco cattolicesimo, nessun cristianesimo. "Dopo le prime crisette mistico-puberali, Lucioli cominciò a infiammarsi per la guerra d'Abissinia e il Duce, a 12 anni. Il misticismo fu prontamente rimpiazzato dal patriottismo imperialistico. La cosa non può essere vista bene. Conseguenza ultima, e questa di per sé non malvagia: appena Lucioli e molti suoi coetanei si affacciarono alla cultura, si affacciarono a una cultura che da allora senza alternative fu laica.
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Lo si deve alla scarsità di dimensione evangelica dei gesuiti e alla debolezza della cultura cattolica italiana. Quella forte che parla dalle misteriose e potenti colonne dell" Osservatore romano', si esprime cosi, l'I 1/11/1964: 'Chi esamina la narrativa italiana degli ultimi anni, non solo rimane stupito della varietà, qualità e numero delle opere, ma soprattutto si trova di fronte a scuole, orientamenti, tendenze che non è facile inquadrare in uno schema. Psicologismo, verismo, intimismo, autobiografismo, surrealismo, sperimentalismo? Ad un esame attento non c'è intimista che non diventi impassibilmente oggettivo, verista che non abbia a tratti i suoi aspetti surrealisti, spiritualista che sia esente da realismo. Ogni autore appare preoccupato di crearsi una propria tecnica tradizionale, espressionista, autobiografica, solipsistica, cinematografica, corale, non perché creda nella crociana irriducibilità a scuole dell'opera d'arte, ma perché generalmente infarcito di freudismo, esistenzialismo, positivismo (sic). '"A guardar bene, però, c'è sempre sotto un pizzico di snobismo. A parecchi insomma, come all'ineffabile Niso Ragù del Papini, accade di 'civettare con gli esistenzialisti, bazzicare gli astrattisti, aggiungere una presina di problematicismo, ricorrere alla psicoanalisi sempre servizievole e bene accetta' (cfr. Le pazzie del poeta, Vallecchi, Firenze, pp. 65-66).' Strano: manca il marxismo. "Né Papini né i recensori di curia dell"Osservatore romano' sono riusciti a trattenere dallo 'snobismo' gli intellettuali italiani: i più scristianizzati del mondo, almeno fino alla rinascita evangelica di Papa Giovanni. "Perciò Lucioli ha sempre avuto relativamente poco a che fare con il Cristo, se non il Cristo del
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dolore nell'angoscia, accomunato alla Madonna; e con Dio, se non il Padre cui raccomandarsi quando tutti gli uomini paiono non servire più. ('Mio Dio, aiutami'). "Questo Dio che sorge alto sul male è un Dio presto dimenticato, appena ringraziato alle prime nebbie del bene. Lucioli ha sempre stentato a riconoscere nel buio lucente della visione interiore senza immagini, nullificante e totalizzante, del cosiddetto sentimento di irrealtà, l'allucinazione del divino. "Tornando alla vicenda terrena di Lucioli, nello scontro contro la vita esterna e sua interiore egli subì da adolescente uno sfondamento con orlo arricciato, debordante: un surplus che non trovava collocamento nell'esistenza e neppure in quella attività che è l'angoscia, ma richiedeva una collocazione in più, espressiva. L'in-piu fu lo spunto della vocazione diciamo letteraria. Perché fu letteraria e non plastica, per esempio? Perché fu letteraria in quanto culturale e intellettuale, più che artistica. "Fin da piccolo Lucioli aveva sofferto d'ansia e di malinconie rapide, improvvise che stentava a giustificarsi, passando davanti a un giardinetto triste e magro fra due case, o suonando il campanello di casa sua per rientrare, nel momento stesso in cui appoggiava il dito sul vecchio, lungo, tremolante pulsante bianco. "Erano soffi neri, pause cupe e sprofondanti, dovevano essere i primordi del sentimento d'irrealtà che un bambino poteva vivere soltanto come crisalidi di depressione. Se il sentimento d'irrealtà fu percepito allora per la prima volta, pure se mascherato da un vuoto di tristezza: da allora, come tale, il sentimento in questione si immerse e non è riaffiorato che intorno alla metà della vita come conclusione
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di un ciclo; dovette starsene sempre schiacciato sotto l'angoscia; forse si travesti da alcune costanti di quello che Lucioli, ben educato nell'idealismo nonostante il fascismo, o a causa di esso, continuava a chiamare il 'pensiero': costanti quali il senso del mistero o senso oceanico. O sentimento del margine, ossia del margine di una irriducibilità al razionale che restava fuori dalla coperta per quanto ampia di ogni ragionamento e che gli permetteva di essere tanto più irrazionale quanto più era logico. Quanto più si inoltrava nel razionale, tanto più della problematica — tendenzialmente antinómica — di ogni questione, un lembo percepito più che pensato, un lembo intuente una incertezza eterna, rimaneva, come dicono i burocrati, emarginato. "Su questo lembo, è importante affermare, lo esiliava la sua predisposizione alla filosofia metodica, non la sua poeticità. Eppure l'educazione intellettuale di Vittorio Lucioli si annunciò chiaramente come una vocazione letteraria. Morbosa. Dovette essere tanto più morbosa quanto più pareva tutta in ordine, seria, scrupolosa e improvvisa. Non fu il fiore sbocciante da una geniale precocità d'immaginazione, da un amore infantile per le letture, le favole, le fantasticherie. Fu una pallida crisalide, dipinta con colori imitati, liberantesi a fatica dal bozzolo degli studi ginnasiali, da una chiusa ostinazione a sgobbare e, l'ho ripetuto, di colpo. "Fino a quindici anni inoltrati Lucioli non fu che uno scolaro modello, ansioso. Mentre giocava ripeteva brani a memoria. Poi non fantasticò, si angosciò. Ebbe subito fortissime difficoltà nel ballo, nell'ambientarsi in un gruppo di adolescenti mondani che lo canzonavano perché era studioso e noioso. I balletti snobistici (questi, snobistici sul serio) del '35-'42
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gli rivelarono un diaframma con l'altro sesso e con la buona società, una inferiorità di tipo traumatico, da dover poi reprimere o superare o ipercompensare per la intera vita. " I l nesso fra un tipo intellettuale d'intelligenza colta, o addirittura tutte le intelligenze, e ciò che da un cinquantennio si chiama nevrosi, non è stato abbastanza studiato. Non è chiaro se l'intelligenza produce nevrosi o la nevrosi intelligenza: sarebbe una scoperta importante per frugare nell'origine dell'intelligenza, della coscienza, del sentimento d'irrealtà. Gli stessi psicologi sono vaghi o arresi di fronte a un dilemma'inutile. Non intendono avallare il connubio genio-sregolatezza e trovandosi ogni ora davanti a masse di ansia sterile, codificare l'humus dell'angoscia come il più fertile per l'intelligenza, la creatività, ecc. Non se la sentono però di sostenere che l'intelligenza è libera da connubi con la nevrosi, perché l'esame superficiale dei cosiddetti intellettuali di tutto il mondo dimostra per il 9 5 % il contrario. "Come è anche vero che ci sono moltissimi nevrotici cretini o cretini nevrotici. "(Non è nemmeno sviscerata la differenza fra nevrosi sterile e nevrosi creatrice. Ecco le questioni che fanno disperare di cucire un nesso tra i modi della coscienza e i modi caratteriali, e che fanno indulgere a una coscienza quale essere che si fonda solo). "Sullo slancio dello scritto alpestre Lucioli continuò per mesi a scrivere ornato, confuso, sonoramente vuoto, dannunziano, verboso. Che faceva? Si sfuggiva. Metteva la maniera sopra la realtà. Faceva il contrario di quel che ha fatto Moravia con "Gli indifferenti". Quando sui vent'anni arrivò al realismo, ci arrivò appoggiandosi sul realismo magico,
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psicologico, perfido degli altri (Alvaro, Piovene, Moravia nell'ordine). "Lucidi era psicologicamente vigliacco. La sua si manifestava come nevrosi di debolezza, aggressività rientrata, autoferimento, evasione non fantasticata, ma roditrice. Imitava per inesperienza di sé (se non astratta) e per identificazione con gli altri; soffrendo come capita a chi si vuole mettere nella vita di un altro: vive la impossibilità di una operazione simile, ritorna a un se stesso insufficiente, paralizzato dal fantasma di vivere la vita di un altro. "Realista, non capiva la realtà. "Però rimaneva un realista. Mai fu un lirico. Era un razionalista. Non scrisse poesie, non si interessò all'ermetismo, al novecentismo letterario. Si appoggiava ai narratori italiani dopo il '30. " I l contenutismo e la filosofia non linguistica, che allora studiava, lo spinsero anche per la discesa dell'alinguismo, nel non porsi il problema della lingua, assenza che durerà a lungo fino all'altro ieri. Non andava alla scoperta della propria lingua nei tessuti linguistici collettivi perché non riusciva, nonostante orge di introspezione, a definirsi originalmente e si sperdeva nell'angoscia generica, algolagnica. "Man mano scriveva e non credeva nella letteratura. Divenne sempre più eteronomo rispetto alla letteratura, del cui vero problema, insieme all'assumersi una responsabilità verso la propria lingua, si rese conto appena vent'anni dopo. "Allora non riusciva a tagliare il cordone ombelicale. Il suo fascismo protratto fu un cordone ombelicale, un edipismo incrociato (la Madre era il Padre). Rimase un imitatore e un fascista fino al limite della ragionevolezza, della storia.
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"Al liceo ebbe un professore antifascista, ne bevve il crocianesimo e ne respinse l'antifascismo. Lavorò alla tesi di laurea sulle Operette Amatorie di L. B. Alberti, nel 1944, con un assistente che la mattina parlava con lui del cursus, nel pomeriggio preparava la dinamite per Via Rasella. Lucioli abitava vicino a Via Rasella. Quando la dinamite scoppiò non intese nulla. Tremò di più quando ammazzarono, un po' dopo, a Firenze, il suo maestro Giovanni Gentile, colui che aveva aiutato Mussolini a scrivere il mostro a due teste, 'La dottrina del fascismo', la quale dice: 'Come ogni salda concezione politica, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro... E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come deve essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l'idea più potente perché più morale* più coerente, più vera, che nel popolo sì attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno." "Lucioli rimaneva impermeabile, anzi arroccato per rinculo, al mito edipico dello Stato Etico e dell'Uno, dei pochi fascisti rimasti, veri 'rivoluzionari' di contro alla vergognosa massa quietistica, demopluto-anglomaniaca. Ma era un ragazzo serio, non un buffone. Inseguiva contemporaneamente l'altro mito della specializzazione, dove si annidava il germe della filosofia e della scienza (nonostante l'antico diaframma con la matematica: più una eredità di cultura, credo, che un personale rifiuto). Siccome però aveva ormai un carattere problematicissimo, vo-
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leva specializzarsi a ogni costo, ma non sapeva in che. "Nel '45 fini la guerra, Lucioli fini prestissimo l'università, senza aver fatto né la guerra né la Resistenza né il repubblichino. Aveva un destino di solitario. Ugualmente quattro diavoli lo incalzarono all'ingresso nella vita: la letteratura, il lavoro, gli studi non letterari, la vita affettiva. Questi quattro cavalieri della sua apocalissi d'ora in avanti si alterneranno con pungoli, fuochi e mazze alle sue spalle sempre meno giovani: ogni volta uno prendendo il sopravvento sugli altri tre, sembrando sgominare i compagni, sempre invece cozzandosi fra loro e dandosi il cambio con cavalli freschi. (Per tale motivo l'esistenza di Lucioli non è mai stata tranquilla, anzi, si potrebbe dire, è stata un inferno). "Proprio nel medesimo 1945, di colpo scoppiarono nella nazione e nella sua anima la democrazia e il rovesciamento della prassi. Egli amareggiatissimo si rivoltò contro il testone bugiardo del Duce e diede inizio a un travagliatissimo taglio del cordone ombelicale. Esistenza e ideologia si scatenarono a vicenda, ora divaricandosi e spaccandolo in due, ora saldandosi e fulminandolo con la fiamma ossidrica. Nel 1945 sbucò alla responsabilità con la psicoanalisi e la politica. Fu la seconda e non ultima nascita, un parto difficoltosissimo per cercare di entrare nella vita, questa volta con i piedi e non con la testa. Ma dove poggiare i piedi? "Parecchi giovani simili a Lucio li saltarono un po' svelti dall'umanesimo generico della Università a un radicalismo scientifico-psicologico, riduttivo, senza passare per l'esistenzialismo; e dal fascismo all'antifascismo storico-materialista senza passare per la democrazia formale. Non ne ebbero il tempo.
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"Nel 1945 trovare un impiego era un'azione da pionieri e votare una scelta da guerrieri. Il 1945 fu tutta una rivoluzione, un ansioso spacco di contenuti. " Il balzo nell'antifascismo marxista avvenne perché, ridicolizzato dai fatti l'accecamento proiettivo sul Duce, se ne ingenerò una tale delusione contro quel Padre, scoperto sciocco e impotente, che il meccanismo proiettivo si ribaltò in odio e rancore eterni. "Il marxismo si giovò soprattutto della smania di scoperta sociale di questi accecati dal fascismo i quali, contemporaneamente ciechi non più ciechi verso se stessi, si gettavano con furia parallela alla scoperta dei determinismi individuali. Nella metodologia Freud e la lotta all'angoscia rinforzavano Marx e la lotta alla ingiustizia, e viceversa. "Schiantato il coperchio e prosciugato il risucchio senza fondo della guerra, occorreva costruire subito un ambiente giusto e un'anima libera, fini chiarissimi. Il finalismo assiomatico, non problematico, partorì in fretta la ricerca dei mezzi per raggiungere i fini rimuovendo gli ostacoli e i ritardi. Il finalismo riecheggiò in un causalismo operativo e tutta la generazione di Lucioli fu bollata a fuoco dal marchio gerarchico del perché. "Se fossero stati metafisici avrebbero cercato di strizzare dal mondo il perché del mondo e del fuori-del-mondo. Ma lo spazio per distaccarsi dal mondo, per il recul néantisant e per vedere il mondo come una palla galleggiante nell'universo, non c'era. Nessun sentimento d'irrealtà: solo incollamento assoluto alla realtà sociale e storica e alla realtà interiore. "La generazione di Lucioli priva del tutto di intuizione, contemplazione, percezione, arroccata nel
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pensiero pratico-critico, prima tenuta accosto, schiacciata alla terra dal gesuitismo fascista e antievangelico, poi stretta nei determinismi riduttivi, intramondani, dalla necessità di sapere il perché della miseria sociale e dell'angoscia individuale: imboccò la via della prassi privata e pubblica nell'imbuto del causalismo. Il senso dell'esserci era una scienza che sapesse mutare e schiantare la prassi; capace di distinguere i perché veri dai perché falsi; un'attività previlegiata, perché sguardo più acuto e più lungo, pensante, che scorge dietro i camuffamenti da cui la generazione era stata sconciamente tradita col pretesto del paternalismo, del protezionismo, dell'eroismo, del moralismo: tutta la più falsa pseudoscienza della vita cui dovevano ribellarsi con urgenza semplicemente per sopravvivere. "Non l'ombra di un lusso. Il causalismo, prevaricando sull'indeterminismo, entrava in azione subito facendo leva su meccanismi che davano affidamento di funzionare per trasformare. Se il realismo è la dottrina che distingue il soggetto dall'oggetto, si era realisti poiché si aveva un soggetto che doveva essere trasformato e occorreva spazio fra i due per far leva con la leva della trasformazione. "Bisognava sradicarla le male piante. Guai a non saper fare il collegamento fra la pianta e la radice." Siamo a vent'anni dopo l'esplosione deterministica, riduttiva e finalistica. Saltiamo la storia intellettuale di Lucidi in questi vent'anni; è stata lo svolgimento delle premesse del Quarantacinque e alla fine, al termine degli anni cinquanta e all'inizio dei sessanta, una nuova esplosione: è saltata per aria la dinamite che Lucioli continuava a portarsi addos-
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so, facendo volare i marmi e gli stracci. Questa dinamite, pressata da una pesantissima coltre razionale e rimozionale, venne innescata da un pus che non fu tutto spurgato e asciugato nel '45-'5Q e che si risvegliò. Se la crisi del Quarantacinque aveva aspetti collettivi e storici che ponevano in sottordine quelli psicologici e individuali, per la crisi del Cinquantanove fu il contrario. Questa volta Lucidi è stato costretto a una lunga terapia freudiana, cioè una psicoanalisi, mentre fuori impazzava il boom ed egli stesso aveva raggiunto alcuni successi. Questo "esaurimento nervoso" culminante di Lucioli, dovuto alla dinamite ingigantita dalle stratificazioni che la pressavano, può anche interpretarsi come (secondo la frase di un giovane scrittore d'avanguardia) "esaurimento storico" e coincidere con l'annacquamento del determinismo economico ad opera del neocapitalismo; ma certo si manifestò quale un'infezione psichica riguardante schiettamente l'anima privata di Lucioli, e lui cosi l'ha vissuta. Non bisogna , insistere troppo con la Storia quando si tratta di storie. Dopo una grave crisi interna alla suddetta analisi, diciamo all'inizio della terza fase di essa, Lucioli cominciò a provare sentimento d'irrealtà. Prima con stupore e grande paura, fastidio, poi abituandosi man mano ad analizzarlo. Esso fu interpretato dall'analista come una "estrema difesa", l'ultimo arroccamento difensivo contro l'accettazione della realtà, da parte di chi si vedeva erodere dall'analista tutto il proprio Sistema (di vita). L'analisi fu per Lucioli una lotta di Sistemi; il suo, narcisistico, la cui casistica affettiva qui tralasciamo, e che gli pareva l'unico giusto e possibile, ma lo faceva stare in-
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sopportabilmente male, e il sistema nuovo, non narcisistico, prospettato dall'analista, che a Lucidi pareva per sé assurdo, ma che era l'unica alternativa concreta. Naturalmente tutto il dramma fu che Lucioli condannasse con convinzione emotiva il vecchio Sistema. Lo ha fatto? In parte, si, l'ha fatto, dice lo stesso Lucioli. Il sentimento d'irrealtà di Lucioli fu, appunto, una difesa dalla realtà e sostituì altri sintomi, per prima l'angoscia, nel senso che Lucioli provava sentimento d'irrealtà quando non provava angoscia. L'angoscia glielo faceva passare, attaccandolo alla realtà senza lo scollamento da essa in cui il sentimento d'irrealtà si infiltra e forma una prima pellicola di distanza con la realtà. Fu un sentimento d'irrealtà in regola coi manuali, di natura esclusivamente auto e allopsichica, di forma lieve, senza dubbio patologico ma suscettibile di imparentamenti filosofici. Niente di nuovo. Inoltre Lucioli non sembra molto edotto sulle origini narcisistiche di esso, perciò in questa direzione porta contributi scarsi. È bene quindi passare al capitolo della "Autobiografia culturale" dove Lucioli considera il suo freudismo, la sua relazione con l'analista e la relazione di questa relazione con la metodologia della rappresentazione artistica. È il tema del collegamento fra poetica e psicodottrina.
CAPITOLO TERZO
LA LOTTA ANALITICA
"Perché, nonostante tutto, rimango cosi tenacemente realista, diciamo pure critico-realista? La risposta più ovvia e imprecisa è: essendo un razionalista, credo nella ragione. La risposta più vera è: perché ho bisogno di credere nella guarigione. Mi sono abituato ad agganciare la guarigione a una tecnica, a una scienza il più possibile meccanicistica e al di qua del principio d'indeterminazione. "Quanto più il mio segreto animo è filosofico, tanto più esigo empiria ed empiria dogmatica. Non mi importa niente che si tratti di un pragmatismo anche soltanto convenzionale. Basta che sia efficace, abbia successo. Chi ha vissuto profondamente l'autoporsi della filosofia è sicuro di non cadere mai nel meccanicismo e punta tutte le carte sul meccanicismo perché ne rimanga quel tanto che serva a una guarigione positiva, positivistica. Sulla guarigione non mi permetto né problematicismo assoluto né mistero né indeterminismo. Me lo permetto soltanto se. Se voglio morire. Cioè suicidarmi. "Con la morte ho preso discreta confidenza. Rimane sempre un salto di qualità, certo e non immaginabile. Evidentemente quando ci si avvicina alla
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morte (non subitanea), la prospettiva mentale cambia: interviene il gran miracolo che deve essere l'agonia a rendere la morte immaginabile e tattile, nonostante che le sue proposte siano sempre oscure. Tutte le mie speranze sono concentrate sull'agonia, faccio totale affidamento su di essa perché la morte non compaia dietro l'angolo e non me la trovi di colpo in faccia. Se è grado a grado e passivamente, ci si adatta a tutto. "Ma se non guarisco, non è che muoio. È che mi suicido. Nel suicidio l'agonia è una scelta completamente attiva e provoca, mi pare, un tipo di sofferenza da cui non ho scelta se ritrarmi o no. Scelgo assiomaticamente di ritrarmi per la paura massima, imbattibile, totale, delle ore che accompagnano responsabilmente al suicidio, del minuto che viene immediatamente prima, del conto alla rovescia che l'uomo scandisce a se stesso, divenuto l'orologio di se stesso e l'unico orologio al mondo per lui: tutti gli altri orologi scomparsi. Questa paura è monolitica o variegata, grossa o sottile... — chi lo sa; di sicuro è enorme e fa scegliere la vita. "Questo processo bene non lo conosce nessuno, tranne il suicida che, se è morto, non racconta, e se non c'è riuscito o non ha voluto riuscire, viene di nuovo impaniato nella vischiosità della vita attaccaticcia, che lo rende, temo, bugiardo, deformato nella memoria. I sopravvissuti al suicidio non sono quei sacri depositari della verità, che dovrebbero; e cosi coloro che col pensiero e certi gesti ci sono arrivati a un centimetro, poi deviando. Ci interesserebbe proprio quel centimetro. "In questo buio, mi è familiare la tesi psicoanalitica che ogni suicidio venga fatto contro qualcuno. L'appoggio di qualcuno nell'estrema solitudine aiuta
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lo scarico della violenza e lo fa assomigliare a un omicidio dove l'aggressività, non dovendo lottare con l'istinto di conservazione, esplode meglio. "Ma nessuno al mondo mi sa indicare col dito il punto in cui ci si trasferisce dall'idea del suicidio al suicidio. "Desidero in ogni modo, non problematicamente, osteggiare il processo di sofferenza che scavalca la sofferenza necessaria per giungere alla morte scelta: questo intendo per desiderio di guarigione non problematico, non trascendente, positivistico. "Scelgo la guarigione e per guarire sono ormai condizionato a scegliere, a credere di scegliere, un campo di riferimento scientifico, razionalistico, tecnico, che lotta contro l'indeterminazione o per lo meno contro la mosca cieca dell'inconscio: è il freudismo. Perché sono un freudiano (strano miscuglio di paziente e docente del freudismo)? Oltre la scelta della malattia, non esiste in psicologia anche la scelta della terapia? Il freudismo intende spiegare anche la scelta di se stesso. Analizzerà il mio arrivo alla psicoanalisi nel lontano 1940, tramite un amico. Quale amico? Perché le sue parole mi impressionarono? La psicoanalisi rincorre il suo a priori. Certo non rincorre, con il rigorosamente fondato, il senso dell'essere e del non essere; ma essendo per l'essere, empiricamente, la guarigione, e il non essere il suicidio — mi va bene che la psicoanalisi rincorra come a priori la guarigione. L'analisi, in psicoanalisi, comincia con questo a priori operativo: l'accordo che medico e paziente fanno di scegliere la guarigione anche se il concetto di guarigione non è fondato ed è cosi difficilmente verificabile. Si sceglie la guarigione anche prima e senza sapere che cosa sia. Questo accordo, in ultima analisi, non
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è discutibile anche se il paziente è tale perché non vuole guarire e spesso taglia la corda. Una parte di lui, la parte asciutta, intende guarire, se l'analisi continua: è il presupposto della ragione analitica, in psicoanalisi, come ragione operativa su cui l'analista comincia ad agire sull'analizzato afferrandolo per il lembo asciutto. "Tale ragione analitica nasce da una ragione non dialettica, bensì analitica: la non mediabilità del male (sofferenza nevrotica) con il bene (non sofferenza nevrotica). " I l freudismo rincorre inoltre il suo a priori nel senso che in .analisi tutto è in analisi, compresa l'analisi. L'analisi soddisfa perciò il mio bisogno di a priori; la sua ragione analitica e scientifica è una ragione a suo modo filosofica. Inglobando se stessa, l'analisi 'simula' la vita, anche se è vita in vitro, nel laboratorio che è la stanza dell'analista, intanto che la vera vita fuori corre col rombo della città, che sale alla finestra malinconica dell'analista. "Uno psicologo malato dopo due anni di trattamento decise che il rapporto analitico andava sciolto e sostituito con un rapporto umano, alla pari, fra lui e il suo analista. Disse al medico che dovevano darsi del tu. Secondo la tecnica, il medico tacque. Allora il paziente-psicologo propose al medico-psicologo di mettere un magnetofono nella stanza affinché le ultime sedute diventassero un libero dibattito fra due uomini liberi e psicologi, che ad uso della scienza agivano in pubblico lo psicodramma dello scioglimento del transfert e del controtransfert. Secondo la tecnica, il medico tacque. L'altro portò il magnetofono: poiché tutto è analisi. Quasi nulla è
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proibito in analisi, tranne le deroghe alla metodologia-regolamento che il paziente accetta dall'inizio e che sono la gabbia formale dell'analisi (andarci, non pretendere l'analista a casa, pagare, ecc.). Altrimenti tutto è analisi: andare o stare assenti; crederci, non crederci, essere metafisici, essere empirici, sbeffeggiare la terapia o mitizzarla, amare l'analista, odiarlo, dimenticare da lui l'ombrello, voler fare la pipi, portare un magnetofono. "Tutto è analisi finché dura l'analisi: analisi e non analisi. Il medico può interpretare tutto, ogni cosa è un materiale da interpretare, a cominciare dalle autointerpretazioni del paziente. O, tecnicamente, l'analista tace. "(Oppure questo è il modo in cui io vivo l'analisi, modo che l'analisi considera materiale da interpretare). "Sono affascinato da questo silenzio dell'analista neutrale, io che non reggo il silenzio. Se fosse vero che la psicoanalisi toglie il pane di bocca alla letteratura e al teatro, restituisce loro almeno il tema drammatico del rapporto analitico, un tesoretto la cui perla nera è la tragedia analitica del silenzio, il rimbalzare del paziente contro il muro fermo del medico, o il silenzio stesso del paziente. Dicono che intere sedute si svolgono nel silenzio completo dei due. A me non è capitato mai perché non reggo il silenzio, parlo e parlo, per riempire il vuoto, o domando per ottenere che l'altro risponda, parli. Ma l'analista tace. O parla quando vuole lui. E interpreta, non parla. Ed è imprevedibile e mi accorgo che affina questa imprevedibilità, al punto che io presso di lui mi senta alla roulette. Con me l'imprevedibilità è l'arma da usare, da non consumare. " I l paziente-psicologo voleva studiare lo sciogli-
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mento del transfert e trasformare il rapporto analitico in collaborazione scientifica, per magari un giorno pubblicare le bobine. "Per due sedute il medico tacque, gli lasciò portare il magnetofono, che registrava frusciando le sole tirate del suo padrone preoccupato di provocare il medico e il pubblico sulla catarsi del dramma. Infine il medico interpretò tutto il traffico scientifico del paziente come un semplice momento dell'evoluzione nevrotica che bellamente continuava. Non so che cosa sia accaduto dopo. "Come termina il rapporto analitico? Con il vero scioglimento del transfert. Esso accade quando il paziente non considera più l'analista una delle persone più importanti della sua vita: gli toglie la propria carica emotiva e la dirige altrove. L'analista aiuta il paziente a far ciò. Il finale è tautologico: il paziente guarisce quando sta bene. Il transfert ha servito allo scopo, occorre liquidarlo. E si liquida sottraendogli l'emotività. Ripeto che può darsi che questa mia interpretazione dello scioglimento del transfert non sia che una razionalizzazione della mia maniera di viverlo, suscettibile di venir interpretata ancora dall'analista. "L'analisi allora è perpetua? Può darsi che io la voglia permanente. "Scrivendo di essa mi ci reincastro e continuo a farla. Invece l'ho finita. Finita e non interrotta. E dopo? Sono stato molto bene e molto male. Posso sia considerarmi guarito che volermi suicidare domani. O vivacchiare. O sentirmi maturato o rappezzato o rassegnato. È affar mio. È segreto. Per questo non dirò molte cose utili all'interessante quadro
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di 'come si sente uno che ha fatto l'analisi' e 'come vede questo problema della guarigione'. "Se la mia vita sia una irriducibile dialettica vita, o un modo di continuare a vivere l'analisi, chissà. L'analisi finisce soltanto quando non ci si pensa più. Finché la penso, il mio pensiero può sempre venir interpretato... Da chi? " E se diventassi analista io? Molti pazienti attraversano questa fase. Conquisterei il diritto di interpretare il mio analista, la interpretazione di lui che interpreta me che interpreto lui. "Il mio desiderio più forte è opposto: rifuggo dalle smanie di quel paziente-psicologo di salire su un rapporto paritetico con l'analista, su una carrozza che ci porti via insieme. Quando mi raccontarono la storia del magnetofono (l'umana esigenza che i due diventassero amici) eravamo per strada, guardai l'orlo inerte e squallido del marciapiede, in un ristagno d'angoscia per quella amicizia che ricordava tante amicizie inutili della mia gioventù, dove l'uno si lamentava con l'altro e le consolazioni erano più viziose dei dolori. "Fremo d'orrore all'idea di abbassare, corrodere, abbattere il medico. Perfino se il medico sostiene che 10 lo voglio trascinare nella merda: che voglio non guarire, non cambiare, farlo fuori e vincere io, col mio Sistema. Sarà il volere del mio inconscio... Non 11 mio. Coscientemente io esigo che egli si mantenga su un piedistallo. Potrei eroderlo: basta che gli osservi la cravatta, la camicia, pensi se porta la maglietta sotto la camicia (preconscio desiderio omosessuale?), che immagini il suo controtransfert, che ascolti di là il rumore di sua moglie che chiacchiera con la cameriera, gli strilli del bambino, una voce che deve essere la suocera. Ho qualche occasione di prenderlo
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in castagna, anche se la sua guardia è ermetica. Se mi insinuo in una fessura del suo carattere (un carattere ce l'ha anche lui), poi da dentro scavo e scopro un suo gesto un attimo prima che lo faccia. Se lo prevedo, vinco (cioè perdo). Lo sa. Con me (e con gli altri?) l'arma che usa è sorprendermi, debellare la mia fantasia ossessiva pseudo-pre-veggente. Il mio male è temere a tal punto l'incertezza, da doverla sempre sostituire con la certezza di una previsione negativa: quindi, menagramo, mi porto disgrazia e mi mangio la coda. Smetto di mangiarmela o trasformo il pasto in virtù mia suprema d'autoconsapevolezza suprema? "L'analista, come di regola, tace. Il fatto non gli interessa. Non gli interessa sotto questo aspetto. Sposto il tiro: gli spiego che voglio evitare la vittoria del mio Sistema, vittoria di Pirro. "Credevo che tacesse. Non tace, interpreta: lo voglio ficcare nella merda. Mio scopo che oscuramente temo: perciò appena schiudo il portello di una sua ipotetica debolezza, che terribilmente mi attrae, lo richiudo precipitosamente. Non voglio veder niente col mio occhio lunghissimo e inutile! Ora capisco perché l'anziano professore cui chiesi consiglio, il capo degli psicologi, lo psicologo saggio, mi ha mandato da questo suo allievo che è una roccia, un baffuto, fa il buffone in dialetto per sfottermi, è un Maciste della psiche, uno contro cui mi rompessi le corna; il professore sapeva quanto fossi subdolo, distruttivo, con tutta l'intelligenza a servizio del male. "Se lo corrodo e lo umanizzo, a chi giova? La coda di lui che mangio, è la mia coda, mi mangio tutto. Se lo tiro giù al livello del mio testa-coda non è più capace di guarirmi, di fare che io dia voce al
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silenzio mio, gloria artistica e filosofica significazione al pasto della coda. Debbo conservarlo intatto, costringerlo a rimanere intatto, per sempre, superiore, distanziato, crudele, neutrale, niente controtransfert, reciprocità zero. Comprometterlo di un millimetro dentro il mio male significa poggiare nella melma il fulcro della leva che egli usa per scollarmi dal buio. Lui deve avere 'ragione'. Eppure non desidero che coinvolgerlo; perché, dice, l'unico modo che ho di allentare la mia angoscia è farla venire a un altro (o a un'altra). "Tiene duro. L'analisi è tecnicamente dura e lui ci mette in più il suo carattere duro. Vado li coi terribili problemi della coscienza (voglio dire del conscio, non della coscienza morale che non ho spazio per avere), lui li trascura e si occupa d'altro, cioè dell'inconscio. Se gli vado a dire che mi hanno appiccato il fuoco alla giacca, lui 'lavora' su tutte le giacche che ho indossato dalla nascita e ignora le fiamme di questa. "Egli 'ha sempre ragione', perché lui sta bene e io sto male. Inutile parlare di reciprocità. E voglio che mi aiuti nella realtà-realtà, che c'entra la realtà interiore che non conosco? Intanto, qui e ora, dove affogo, chi mi dà un consiglio? Appena esco dal laboratorio, affronto la strada, le automobili, i carnefici, i passaggi zebrati, solo. "Se mi desse un consiglio mi deluderebbe. Se mi accompagnasse sarebbe la fine. Se si occupasse dell'inconscio attuale, mi accorgerei che non è capace di spengerlo. Egli è forte nel passato, nullo nel presente. Lo invoco che si metta nei miei panni. Le pochissime volte che credevo ci si avvicinasse, no! l'ho tenuto lontano io. Mi ritraggo per non rischiare di neutralizzarlo. Non si avvicini da guardarmi negli
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occhi. Se ci guardiamo negli occhi, addio. Perciò mi siede dietro. Se vuole, mi guardi negli occhi, ma solo per ipnotizzarmi come si faceva prima nella psicoanalisi. "Il guardarsi negli occhi post-freudiano è la tragedia tediosa di due che sprofondano insieme nelle sabbie mobili. Egli non compia alcun gesto umano, per cui io senta il mio male come esistenza anziché come morbo. Metta le mani nella mia coscienza come fosse uno stomaco. Operi. Esigo il suo positivismo, naturalismo, meccanicismo, fiscalismo. Nel va e vieni dell'intersoggettivo mi rovino. Vi capirò meglio l'essere 'dell'essenza: ma che cosa m'importa comprendere l'essere dell'essenza o dell'esserci, se sviluppo la non essenza e il non-esserci fino al saltare-dalla-finestra ? "Intendo conoscere i perché della mia angoscia. Niente altro; non intendo affogare in un lago misterioso e pittoresco; voglio le sue cause, lontane dalle mie, collegate ad esse da una metropolitana, opposte alle mie (l'unica cosa in cui riesco a prevederlo è il suo rovesciaihento in bianco di ciò che io considero nero. Amo? No, odio. Odio? No, amo. Mio padre? No, mia madre. La psicoanalisi cade nello scatto degli opposti, del ribaltamento). Non credo all'inconscio ed esigo l'inconscio: visto che le mie cause sono cosi causanti e mi schiacciano, spero che egli conoscendo cause a monte delle mie, remote ma ormai affidate solo a me, le sradichi riportandomi indietro: l'analisi è l'arretrare, il ripercorrere. L'inconscio è il mio dubbio, la mia speranza, la mia rovina e il mio alibi. "Voglio che l'analista mi sia superiore e con mani sovrastanti lavori a monte di me. So che debbo fare tutto io ma spero che, dal monte, faccia tutto lui.
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Interpreti pure che continuo ad avere bisogno di un padre come quando necessitavo di un duce, che sono ancora fascista, richiedendo un rapporto gerarchico. Non capisco perché quello psicologo-paziente volesse spianare il piedistallo dell'Onnipotente. Se la leva di forza della psicoanalisi è il transfert, aspetti con calma prima di sgonfiarla, c'è sempre tempo. "La leva non deve poggiare sulla piattezza — è una legge meccanica — sull'uguale livello di due persone uguali, bensì fulcrarsi sullo spigolo del gradino fra il medico alto che sa e il paziente basso che ignora. Solo nel dramma della disparità con l'analista superiore e neutro, campo perpetuo di riferimento razionale e dogmatico, anche se convenzionale, diverso da me e in lotta, lui che ha la "ragione", contro la mia razionalizzazione, contro il torto irrazionalistico, problematico, distruttivo del mio dolore e del mio inconscio: li io vedo l'efficacia curativa. Ogni identificazione, ogni venire dell'analista verso, con, incontro a me, mi toglie speranza di guarire. Mi sembra che disinneschi la terapia (che castri il Padre?). "Quando la terapia sarà terminata potremo ritrovarci uguali; quando di essere uguali o no, non mi importerà più, allora saremo uguali. "Ma la mia analisi è terminata. "Chi l'ha deciso: io o lui? Quando termina felicemente un'analisi? Quando si sta bene. E io come sto? "'Perché mi fa questa domanda?' egli risponde. '"Perché voglio sapere se mi considera guarito o no.' '"Lei che ne dice?'
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"'Non lo so.' "'Eh. Se non lo sa lei.' '"Dopo l'analisi, ho avuto una ricaduta gravissima. Adesso sto meglio. Ma per quanto? Non mi sento sicuro. Non mi sono messo in salvo. Forse potrei cominciare l'analisi oggi.' Il m JLace. "Io: 'Forse potrei cominciare l'analisi oggi.' litri Tace. "Io: 'Lei non ha nessun parere in proposito?' il m 1 ace. "Io: 'Io non lo so, non posso saperlo.' "Interpreta: 'Non vuole saperlo.' "'Perché non voglio saperlo?' '"Perché mi fa questa domanda?' "Taccio io. Silenzio. Non resisto. Parlo: '"Non ho nessuna sicurezza.' "Credevo che tacesse. Invece interpreta subito: '"Non vuole accettare di star meglio.' "'Non mi piace soffrire.' '"Le piàce moltissimo.' "Ricominciamo? penso e lo dico. Risponde: '"Lei che ne dice?' Non me l'aspettavo. Rispondo: '"Non lo so.' "'Lei sa tutto benissimo. Ma teme il rischio di guarire. E quindi guarisce con riserva. In tutto quello che fa, in tutto quello che lei è, c'è la riserva.' '"Sarà vero, ma perché?' il n - f 1 ace. "Io: 'Perché, perché?' '"Le fa comodo non ricordare.' "Cercherò di ricordare; ma mi sembra che l'ultima, definitiva parola egli non l'abbia detta. Inse-
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guo ancora il colpo di scena e pavento che l'analisi finisca, come dice lui, a coda di sorcio. Attendo la rivelazione catartica, la causa unica della Riserva, conosciuta la quale, mi illumino. "Non è andata cosi. L'imprevedibilità consiste nell'essere imprevedibile, cioè nel rimanere imprevedibile anche se la si prevede. "Mi ha accolto alla pari. Gli ho comunicato che ormai, anche a un anno dalla fine dell'analisi, per via di quella ricaduta, se gli telefono per gli auguri di Natale sento dentro la cornetta che li interpreta. Si è schermito normalmente. Ho aggiunto: 'Lei mi interpreterà sempre.' '"Non è detto.' Ho detto: '"Lei conosce le leggi del mio inconscio meglio di me.' "Mi ha guardato normalmente, come un interlocutore normale ed ha osservato normalmente: '"Lei mi fa una attribuzione di onnipotenza. E sottostima la sua potenza. Adesso le leggi dell'inconscio le conosce anche lei.' "Piccolo colpo di scena. Una investitura. Mi mette pari a lui. Mi dimetteva per sempre? Mi sono sentito congedato. "Ma rifletto: il suo investirmi della conoscenza dell'inconscio è ancora una interpretazione. Conoscere le leggi scientifiche dell'inconscio mi servirà sempre, per sempre? E se ancora non le conoscessi abbastanza, emotivamente; ma solo mentalmente? "Comunque il dirmi che non ho più bisogno di farmi interpretare da lui è ancora una interpretazione. È proprio l'ultima, la finale?"
CAPITOLO QUARTO
IL FASCINO C A B A L I S T I C O
Quello di Lucidi è un brano di freudismo vissuto. Deformato, utilizzato. È chiaro che il transfert non vi è risolto e che un transfert di realtà vi è ancora in culla: sia perché la nascita e il primo sviluppo di questo secondo tipo di transfert sono obiettivamente delicatissimi, sia perché Lucioli accettando ogni situazione con riserva, rimanda sempre alla situazione contraria. Il suo è un pensiero ambivalente. Ma la connessione con quello che Lucioli chiama il suo realismo è patente. Il freudismo nasce da un terreno realistico e a sua volta porta in un terreno realistico. È causalistico, illuministico, gerarchico, contenutistico. Abbiamo ripetuto spesso che risponde (magari tacendo) al perché? perché? perché? che sale dall'angoscia, la quale è sempre causalistica per chi se ne voglia liberare: e se uno invece ci vuole autofondare una filosofia, non dev'essere tanto forte. Il freudismo abbandona dolorosamente le cause conscie, passa alle inconscie, che vengono continuamente reinterpretate, approfondite, collegate a concause, dialettizzate dall'elaborazione della dottrina e dalle ne-
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cessità della terapia. Questa deve rompere la cristallizzazione causalistica del paziente; il paziente ama e attende, come certi registri americani, una psicoanalisi del colpo di scena. La drammaticità è lentamente sgretolata dall'analista a favore di una empiria deludente, quotidiana, non magica, problematica e direi probabilistica. Von Mises anni fa scriveva che la psicoanalisi mette in rapporto certi sintomi con i resti latenti di precedenti esperienze e che quasi tutte le obiezioni elevate contro di essa sono di natura extralogica. Il suo parere è ancora interessante, in attesa dell'approfondimento dei problemi epistemologici della psicoanalisl, e del rapporto neopositivismo-fenomenologia e di quello psicoanalisi-fenomenologia. Continuava Von Mises; "Invece sembra giustificato accennare che al complesso delle osservazioni finora compiute in questo campo (psicoanalitico) corrisponde piuttosto la supposizione di un nesso statistico, che non di un nesso strettamente casuale.'" Il nessò statistico rende bene l'idea di una scienza dell'uomo che considera l'uomo come un oggetto, un fatto, perché ciò è necessario, ma lascia margine all'irriducibilità e all'incertezza, ed è pronta a reintrodurre il mistero quando il paziente smania di prosciugarlo: smania per evitare le responsabilità di fronte al passato (responsabilità di riviverlo) e di fronte al futuro (responsabilità di sceglierlo). Il mistero e l'azzardo fanno parte della terapia. La psicoanalisi cerca poi di ridurre il margine dell'incertezza, è chiaro. Che altro potrebbe fare una scienza terapeutica, desiderare il buio fitto o folgorazioni inutili? Lucidi nel quinto capitolo racconta l'incontro con un giovane scrittore anticausalista (fenomenolo-
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go? strutturalista?) all'inizio degli anni sessanta: i due discutono di rappresentare lo svolgimento di una festa nel buio di un locale notturno, come la vede uno che ci arriva quando è già inoltrata. Tipico degli anni sessanta che la festa sia la manifestazione collettiva simbolica, mentre nel passaggio dagli anni quaranta ai cinquanta era in Italia lo sciopero. L'aveva già previsto Lucioli nel '58 con un saggio intitolato "Dallo sciopero all'orgia". "Per me" racconta Lucioli "il problema poetico — ciò che mi ispira — è il tentativo di Francesco, il sopravveniente, che non è affatto onnisciente, di sbrogliare la matassa del locale notturno, rintracciarvi i fili umani portanti, le diramazioni secondarie di quella sera. Sono curioso e inquisitorio, mi piace il caos perché voglio capirlo, renderlo logico e ordinato mi ispira. Poeticizzo il pensiero razionalistico, impoetico. Invece il mio collega, più giovane di dieci anni, poeticizza — me ne avvedo dai gesti che fa parlandomi, vaghi, onnicomprensivi, — poeticizza la percezione. Il suo problema poetico è di riprodurre il caos del locale; tanto più si sentirà bravo, quanto più lo avrà rappresentato quale esso è — poiché non c'è nulla da capire dietro — e avrà restituito al lettore l'apparenza di esso ('Che è la sua vera essenza' conclude il giovane collega), usando un linguaggio o una struttura che egli ha il compito di togliere dallà naftalina per uno sconvolgimento riproducente la casualità degli avvenimenti, senza riferirli ad un principio ordinatore qualsiasi. "Il bello è che io non difendo con la logica il mio poetico amore alla logica ma lo do come una passione. Il giovane collega, l'illogico, mi dimostra invece logicamente la sua poetica della illogicità." Vi sarebbe da studiare bene che cosa conduce
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Lucioli a ritenere privilegiato lo strumento del pensiero e il più giovane lo strumento della percezione. Intanto, la psicoanalisi ha una tendenza causalistica simile a quella di Lucioli nel buio della festa; Lucioli assicura che non è necessario che lo scrittore causalista punti la sua prosa sulla ricerca di causa-effetto in modo esplicito: basta che lo ispiri un certo fascino causalistico anche come impossibilità misteriosa di conoscere le cause, e che irresistibilmente sia portato a mettere qualche ordine nel disordine. La psicoanalisi è come Lucioli. Il freudismo è razionalistico. Come è moralistico. Alcune belle anime considerano ancora la psicoanalisi l'orgia dell'irrazionale e della baldoria sessuale prescritta con ricetta medica. Con la teoria della maturità quale continuità, concentrazione economica dell'investimento libidico, la psicoanalisi dà una secca risposta monogamica. Ed è razionalistica, perché sia l'istintuale primario sia la razionalizzazione secondaria hanno un continuo campo di riferimento, la "ragione" dello psicoanalista. Perciò non convince che lo stile monologante e di palo in frasca di certi scrittori, puntualmente venga detto psicoanalitico. Fa il verso a un tono dell'analisi, l'associazione libera, ma l'analisi è più tragica: l'associazione libera è sempre minacciata dall'autocoscienza razionalizzatrice e difensiva del paziente, di rado è libera, spesso è programmata e sempre è calamitata, come le maree dalla luna, dall'intervento interpretativo dell'analista ordinatore per eccellenza (anche se può darsi che lo stesso analista si abbandoni al flusso delle idee e "associ" mentre interpreta le associazioni del paziente. Sarà
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sempre una associazione gerarchizzata rispetto all'associazione del paziente). Il freudismo è gerarchico, poiché è gerarchica la relazione fra medico e paziente. Faccio tutti i ricami che voglio, giro e rigiro il transfert, ma finché dura l'analisi non è facile sostenere che esso è un rapporto paritetico. La questione si vedrà più avanti. Qui basta ribadire che il medico ha sempre "ragione" se non altro perché sta (o dovrebbe stare) bene. Il medico poi è un professionista che analizza cinque, otto pazienti al giorno. Il paziente di solito ha commercio con un analista per volta. È una circostanza pettegola: ma che discrimina centralmente fra natura del transfert e natura del controtransfert. L'intenzionalità affettiva del paziente verso il medico è monogamica, quella del medico verso i pazienti forzosamente poligamica: l'intenzionalità affettiva che agisce nel rapporto è quindi molto diversa. Il freudismo è contenutistico. Bada più ai contenuti dell'angoscia che alle sue forme, rovesciando l'atteggiamento psichiatrico vecchio e nuovo. Batte la strada dei contenuti dell'angoscia invece che delle sue modalità o forme. Accetta che il male si instauri come alterazione del modo di vivere certi fatti normali, comuni a tutti (è una verità che ogni nevrotico reagisce abnormemente a stimoli che altri digeriscono con calma, e che la nevrosi viene da qui); ma per risalire a questa alterazione, scende prima lungo tutto il percorso della scelta causante dei contenuti fatta dal paziente e lavora su di essi in maniera primaria e individualizzata rispetto alla classificazione formale e strutturale. Il contenutismo riporta al causalismo, attraverso il perché di un contenuto.
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Queste facce della psicoanalisi, fisionomie legate strutturalmente fra loro, possono essere irrigidite; o ammorbidite in aperture verso tutto quanto non è causalistico, gerarchico, contenutistico, ecc. Da parte anti o acausalista, paritetica, precategoriale, formalistica ecc. c'è, anche, una fisionomia più o meno aperta verso la psicoanalisi, la quale sembra sopravvivere alla sconfitta della propria teoresi. C'è un terreno largo di incontri e di scontri tra filosofie e psicoanalisi; molto più tesa, per esempio, è la corda fra junghismo e freudismo, dove con attrito settario due precise terapie si contrastano, mentre le filosófie per ora non hanno partorito terapie precise da opporre e in fondo lasciano che la psicoanalisi si faccia i suoi casi, se li sa fare e le epistemologie si limitano a controllarne i requisiti di adeguatezza, i'criteri di validità. Lucidi è uno strano caso di difesa, ad uso personale, della ortodossia freudiana. È indicativo e per le infiltrazioni filosofiche antifreudiane e per il gesto passionale d'arrestarle come un pericolo. Generalmente è il paziente che sentendosi stretto nella gabbia freudiana, un poco per difesa e scappatoia, un poco per giusta reazione a possibili eccessi settari, aspira al revisionismo e volentieri deborda verso morbidezze religiose, spiritualistiche, astrologiche, essenzialistiche (o sociologiche). Con Lucioli abbiamo un paziente più realista del re. È un dato della sua psicopatologia, che però tocca una generalità, essendo probabile spia di un bisogno provato da chi disperatamente conta sulla validità operativa della psicoanalisi e contemporaneamente alla ambiguità del nostro tempo è sensibile. Perché è cosi sensibile e ritiene ovvi i valori morbidi, difende gli anti valori duri, in cui sente un
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appiglio che regga sopra la marea filosofica, il senso oceanico, il relazionale e quel rigorosamente percepito che spesso è attiguo al favoloso e al terapeuticamente inerte. Il sentimento d'irrealtà sarà dispostissimo a vederlo ascendere alla più rarefatta speculazione culturale chi lo prova con moderazione e chi raramente fruisce di godimenti ambiziosi, intellettuali: colui al quale viene rivalutato fra le mani senza fatica; egli si sente dire che le sue strane sensazioni di... segnano addirittura la scorciatoia che arrampica all'essenza dell'essere. D'un tratto senza spesa aggiuntiva, si sente una sensitiva: ho visto più d'uno gettarsi sul sentimento d'irrealtà, senza sapere bene che cosa fosse, come su un veloce abbordabile riscatto dalla ovvietà e realtà quotidiana. Chi sente sentimento di irrealtà con spavento, come anche il gradino franante sulla monotonia mortale, il vento che porta via dalla vita, non vuol saperne di passeggiate nel nulla, incurabili perché esistenziali. Vuole contro esse la terapia efficace, l'analisi, che tenga a bada, che possibilmente stronchi l'incipiente terrore.
Nella cultura, appare che anche lo strutturalismo non avrebbe tante difficoltà a sistemare la psicoanalisi modernamente, in qualcosa di strutturalistico. Lagache definendo l'interpretazione come una ristrutturazione, suggerisce che l'interpretazione, unico modo di intervento veramente analitico, invita l'analizzato a un "rimaneggiamento strutturale" del materiale e a cogliere in modo diverso le relazioni di ciò che è nato nel "campo psicoanalitico."2 Usa quindi in psicoanalisi la nozione di campo, d'altra provenienza psicologica; e dice che la teoria
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strutturale si presta alla descrizione di ciò che accade nel campo psicoanalitico, cioè delle relazioni intersoggettive fra analista e analizzato, in particolare nel transfert. Egli tocca proprio il transfert, che insieme al concetto di inconscio è il trofeo più conteso dagli indirizzi culturali. Assimila facilmente, troppo, il transfert alla struttura: "In ogni momento della terapia lo psicoanalista può domandarsi quale ruolo gli fa giocare l'analizzato e, correlativamente, quale ruolo gioca l'analizzato. Dal punto di vista strutturale, la riduzione di queste identificazioni tende asintomaticamente verso una relazione diretta da soggetto a soggetto." Questa intersoggettività è discutibile. Binswanger non inasprisce la lacerazione fra ricerca di una intelligibilità come essenza, e come genesi. Scrive di non volersi mettere sul piano dello "intuizionismo assoluto" di Husserl, nonostante creda fortemente nella fenomenologia come scienza e come filosofia. Cita delle opinioni di Hans Kunz che sviluppano ,i rapporti interni fra essenza e genesi, poi di Paul Ricoeur, per il quale "non c'è opposizione fra una psicologia genetica attaccata alla storia delle strutture e una fenomenologia descrittiva attaccata al senso delle strutture umane. Osserva Gabel (quando parla del proprio libro "La fausse conscience") che uno studio puramente strutturalista come il suo può servire da prolegomeno a una investigazione causale ulteriore. Allora la psicoanalisi non viene negata, anzi viene serbata per dopo, per emettere un qualche verdetto finale, cui lo strutturalismo partecipa con le sue indagini indispensabili alla decisione, ma non decisionali: indagini di staff contrapposte alla operatività della line ?
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Gabel parla chiaro di causalismo, neppure sposta la causa verso la fenomenologica motivazione e verso la marxistica dialettica, quasi ritenendo più utile usare un freudismo ancorato al naturalismo che un freudismo revisionato. Ricordo le sue righe precise: "Inoltre occorre segnalare a questo proposito che l'analisi strutturalista presuppone un orientamento marxista e insieme fenomenologico, mentre lo studio 'causalista' rivendica di appoggiarsi soprattutto sopra una cultura psicoanalitica. "4
CAPITOLO QUINTO
IDENTIFICARSI, TENTATIVO PAZZESCO
Non è tutto un idillio e un fiorire di mediazioni e coesistenze. A parte la tensione frazionistica tra freudiani e junghiani, acerba ancora e che coinvolge due famiglie apparentate ma con diverse mentalità e destinate al litigio, anche tra filosofie e psicoanalisi c'è guerra. Soprattutto sul modo di concepire il rapporto fra medico e paziente si dicono le cose più chiare (e anche le più oscure); i colori di cui si dipinge questo rapporto sono altrettante bandiere generali. Gli psicoanalisti sono assai ben disposti, sono impegnati in una profonda rivalutazione del controtransfert ed entrati nel mezzo della questione della reciprocità: della reciprocità e di una intenzionalità affettiva con cui il medico percepisce il malato, il malato il medico, in maniera precategoriale e preinterpretativa. Ma tutti gli squilibri che rendono non paritetica la relazione, non incidono anche sull'interpercezione e sulla intenzionalità affettiva reciproca? Due psichiatri (Callieri e D'Agostino) non intendono lasciarsi impressionare dal movimento per l'attenzione della psicoanalisi al controtransfèrt. Già il titolo del loro studio annuncia la vertenza: "Antro-
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pologia esistenziale e psicoanalisi di fronte al sentimento di colpa."1 Già si sente arrivare l'accusa; è l'accusa che in psicoanalisi lo psicoterapeuta ha un ruolo impersonale, servendo unicamente da catalizzatore di sentimenti e d'esperienze che devono risorgere dal passato per la soluzione dei conflitti. Al contrario, in analisi esistenziale lo psicoterapeuta interviene come persona, stabilisce un dialogo, un incontro interumano che supera largamente i concetti di transfert e controtransfert, affinché il paziente faccia le sue scelte esistenziali ecc. Secondo i due psichiatri anche gli psicoanalisti sentono la necessità di alimentare di nuove aperture il concetto di transfert e citano la Favez-Boutonier per la quale l'essenziale dell'esperienza è la relazione con l'altro e per la quale il soggetto non afferra se stesso come soggetto, se non nella coscienza che prende dell'altro...; e citano Hora per il quale la libertà di scelta e la responsabilità di decisione possono condurre il paziente a riscoprire la religione nel suo significato di mistero dell'essere. Citando Hora riportano la frase di una sua paziente: "When you look at me, I feel like an automobile engine in need of repair.'" La frase amaramente meccanicistica dovrebbe esprimere la degradazione della paziente che il medico guarda come congegno, res, e l'assurdità di un simile atteggiamento da parte di un uomo che vuol aiutare un uomo. Però il medico è il medico e il medico è anche un meccanico, altrimenti diviene un sacerdote: se io vado in officina per far sprizzare dal rapporto a due con il capogarage un'esperienza esistenziale o trascendentale, non è meglio che vada in chiesa? O che mi sposi? Ecco una giusta domanda: perché la moglie non serve allo scopo esistenzial-terapeutico?
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Perché l'esistenza dell'uomo è anche un motore a scoppio. Viene insomma conclamata l'esigenza di un rapporto paritetico medico-paziente, contro quello gerarchico. Lo scontro è più drammatico quando insidia la cittadella della psicoanalisi, l'inconscio. Il rapporto medico-paziente può sfuggire alle critiche, in quanto esigenza tecnica, ma l'inconscio non è risparmiato da nessuno, tocca l'uomo nel cuore del suo cuore. Ognuno giustamente vuol dire la sua, uomo della strada o filosofo, sull'inconscio. Sarebbe possibile redigere una topografia del pensiero contemporaneo servendosi delle reazioni al concetto di inconscio: corretto, negato, reinterpretato, accettato, revisionato. In un libro divulgativo3 anche lo psichiatra Van den Berg dice la sua; non sono idee troppo nuove e profonde ma interessano, perché di uno psichiatra il quale vuol attaccare esplicitamente transfert e inconscio sul piano terapeutico. Van den Berg ritiene che la cura venga danneggiata da residuati prefenomenologici come inconscio, transfert e altri, anche se egli non dà una prova sufficiente del danno. Prima, egli divulga proposizioni della fenomenologia, come: "Viviamo continuamente la soluzione dei problemi che alla riflessione appaiono cosi disperatamente insolubili... La fenomenologia è anzitutto un metodico adattarsi, atteggiarsi a misura delle cose."4 (Ricordo un critico della nostra avanguardia: "Forse i nostri scrittori non hanno inteso che non era tanto importante parlare a tu per tu con la realtà,
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quanto procurarsi Vatteggiamento della realtà, che sono due cose ben diverse"),5 Van den Berg ribadisce che il fenomenologo vuole osservare l'uomo normalmente perché questo modo di osservare porta con sé la soluzione dei problemi. Scrive che il fenomenologo non crede nella osservazione teorica, "oggettiva", "attenta" e ancora meno crede ai giudizi troppo facili, come quelli che attribuiscono i fenomeni psicologici a proiezione, conversione, transfert e sublimazione. Il fenomenologo è convinto che "questi e simili giudizi misurano la chiarezza 'preriflessiva' con una teoria, facile si, ma non perciò corretta, anzi di regola alquanto superficiale. Ma Van den Berg non spiega quali cambiamenti nella tecnica terapeutica, nella concreta azione del transfert, siano portati dal nuovo approccio. Non si riescono ad ottenere esempi di un rapporto che fondato su una reciproca evidenza preriflessiva farebbe progredire medico e paziente verso una relazione sempre più opposta a quella da cui la psicoanalisi prese le mòsse, cioè l'ipnosi. Nell'ipnosi davvero il medico trattava il paziente come cosa e cosa tentava di ridurlo. Ma ora ben svegli sono medico e paziente, e in psicoanalisi e in fenomenologia. (Paci: "La soggettivazione è lotta continua contro la feticizzazione e l'occultamento: è tendere al risveglio, al vivere desti, al portare in primo piano ciò che è sullo sfondo assopito").7 La soggettivazione desta è l'analisi? Le assomiglia molto. Ma è prevista nella soggettivazione la mediazione di un altro, non Altro (autrui), ma terapeuta specifico? Nell'analisi è prevista. Nella terapia fenomenologica anche: perciò richiediamo la conseguenza tee-
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nìca di una nuova impostazione filosofico-scientifica della mediazione analitica. È possibile che una impostazione filosofico-scientifica nuova conviva con una vecchia tecnica? Quale relazione ha la tecnica con la scienza e in particolare la tecnica con la scienza da cui scende, e la tecnica con la sua scienza? Si dà veramente, e come, una tecnica efficace che discende da una scienza sbagliata? Non si possono sottovalutare i problemi che la tecnica empirica suscita sulla prima fondazione filosofico-scientifica: e questa non può rimanere sorda alle esperienze che salgono dalla tecnica. Riesce difficile concepire una tecnica separata dal destino della scienza che dovrebbe essere la sua; oppure una tecnica senza scienza, o una scienza senza tecnica. Dunque è verosimile chiedersi quali varianti tecniche la concezione di un inconscio-aggettivo introduce nella concezione di un inconscio-sostantivo: è Van den Berg che li chiama cosi. Perché per spiegare il comportamento dei pazienti è necessario ricorrere all'ipotesi dell'inconscio? egli si domanda. Si risponde che è esatto dire che non abbiamo la minima coscienza di gran parte delle cose che accadono; e che certo non si può avere nulla in contrario ad applicare l'aggettivo "inconscio" a tutto ciò di cui non abbiamo coscienza. Dunque, prosegue, molto è inconscio. "Ma nulla ci autorizza a credere nell'esistenza di un 'inconscio' (sostantivo) come una seconda realtà, al di là dei fantasmi della vita sana o nevrotica. Vi è una sola realtà: quella della vita cosi come è vissuta. L'inconscio... è una pura supposizione, frutto di una prematura rinuncia all'analisi psicologica della esistenza.'" Ma chi ha le idee tanto chiare sull'inconscio? Ci sarebbe sufficiente conoscere le modificazioni tecni-
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che e fondamentali che il passaggio da sostantivo ad aggettivo, da Inconscio a inconscio, arreca. O non ce ne sono, perché non c'è tecnica? Se non c'è tecnica, non c'è quel tanto di codificato per cui si possa parlare di terapia, piuttosto che di amore, amicizia, comprensione, aiuto ed altro. Eppure Van den Berg si considera medico e non amante amico aiutante ed altro. Quando un neofita comincia a chiedersi come Plo-Tu incida tecnicamente sul transfert e se un rapporto paritetico non avvii per esempio processi di identificazione e controidentificazione dannosi, si affaccia in lui il sospetto che psicoanalisi e psichiatria fenomenologica in genere si siano spartiti il territorio, la prima operando nelle nevrosi e la seconda nelle psicosi. Il sospetto è giustificato dalla considerazione semplice che è molto più facile imbattersi in studi psicoanalitici delle nevrosi e fenomenologici delle psicosi, che viceversa. Il transfert nascerebbe dall'incontro peculiare analista-nevrotico, dalle caratteristiche di tale terapia (seduta a orario, volontaria, nello studio del medico, ecc.); mentre l'aspirazione all'osservazione fenomenologica nascerebbe necessariamente dallo studio di un fenomeno particolare come il delirio e dalla eventuale sua terapia. La separazione, però, fra mentale e nervoso non è mai netta in sé e non esistono dichiarazioni esplicite, impegnative per il futuro, sulla separazione programmatica fra le due terapie; anzi, una terapia delle nevrosi vorrà tentare di espandersi al campo delle psicosi e viceversa, come accade. In più, quando Sartre, per esempio, parla di una psicoanalisi esistenziale che ritiene possibile, non pare che voglia limitarla
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a una categoria di malati piuttosto che ad un'altra. Gli sta a cuore renderla possibile all'uomo in genere, come una psicologia che non si arresta al postulato di uno psicologo ma che ci soddisfi interamente. ("Quel che noi esigiamo — e che non si tenta mai di darci — è dunque un vero irriducibile, cioè una irriducibilità la cui irriducibilità sia evidente per noi, che non si presenti come il postulato di uno psicologo e il risultato del suo rifiuto o della sua incapacità di andare più lontano, ma la cui constatazione si accompagni in noi ad un sentimento di soddisfazione. E questa esigenza non ci viene da quell'inseguimento incessante della causa, da quel regredire all'infinito che spesso è stato descritto come costitutivo della ricerca razionale e che, di conseguenza, lungi dall'essere specifico dell'inchiesta psicologica, si ritroverebbe in tutte le discipline e in tutti i problemi. Non è la ricerca infantile dei perché che non farebbe nascere nessuna vera interrogazione, ma è, al contrario, una esigenza fondata su una comprensione preontologica della realtà umana e sul rifiuto connesso di considerare l'uomo come analizzabile e come riducibile a dei dati primi, a dei desideri (o 'tendenze') determinati, sopportati dal soggetto come delle proprietà da un oggetto").' In verità, l'essenziale sull'argomento delle trasformazioni tecniche che la psicoanalisi esistenziale apporterebbe alla terapia, è un altro. Cioè che gli psichiatri sostengono per ora che la psicoanalisi esistenziale, o l'antropoanalisi e simili, non sono una terapia e non hanno nessuna fretta di diventarlo. La cosa per dei medici è strana, come curano nel frattempo i loro malati? Eppure per Cargnello "l'antropoanalisi" (l'espressione italiana da lui proposta per Daseinsanalyse) "è soprattutto un indirizzo scien-
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tifico di indagine psicopatologica. Non si correla per il momento ad una corrispondente metodologia psicoterapeutica. "10 Il confronto tra due rapporti interpersonali, se uno è terapeutico, l'altro aterapeutico, è un confronto fra una quercia e un mammifero. Manca in uno dei due quello sforzo tipico, tecnico, che significa far cambiare al paziente il suo modo d'essere, aiutarlo a divenire diverso senza essere aiutato. Cade cosi il sospetto dell'identificazione, sospetto che si ha verso un rapporto insieme terapeutico e paritetico. Quando si tratta di ,una analisi come "conoscenza puramente illuminativa" (Binswanger), è spianata la via alla "visione dell'antropofenomenologo" che deve essere "neutrale e fredda, una lunga contemplazione e penetrazione. della fenomenicità dei fenomeni" (Cargnello).11 La visione antropofenomenologica somiglia in qualche modo alla neutralità dell'analista freudiano! Ma l'una senza sporcarsi le mani con i mali del paziente, e l'altra sporcandosele molto. Tutte e due comunque sono capaci di sfuggire al pericolo della identificazione, se si riesce ad attuare la loro disinteressata neutralità. Il pericolo riaffiora nella stessa psicoanalisi e in una antropoanalisi proiettata verso la terapia: sempre, qualora un rapporto da gerarchico voglia diventare paritetico. Jung dà un esempio quasi ridicolo; considerando il fenomeno del controtransfert fa osservare che durante la terapia di un malato, di uno schizofrenico in particolare, il medico si trova "in analisi" assieme al malato e corre il rischio di guarirlo e di ammalarsi al suo posto. Filippo Di Forti, dopo aver citato questo stupore di Jung "per la situazione limite", annota che non c'è la proposta di
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un rimedio in Jung e che "a questo punto deve essere il fenomenologo a far notare che non ci sono durante l'analisi 'un medico' e 'un paziente', posizioni feticizzate, e che si tratta quindi di fare un'analisi fenomenologica delle operazioni del soggetto. La fenomenologia deve proporre alla psicologia clinica una fondazione trascendentale..."12 Evidentemente nella cura delle psicosi il rapporto medico-paziente si drammatizza e forse non a caso Jung ha portato l'esempio di uno schizofrenico. Però non sembra che Di Forti citi Jung per dimostrare i pericoli di una cura delle psicosi rispetto a una cura delle nevrosi. Pare che gli stia a cuore sostenere che appena una psicologia clinica del profondo esce da un solido e ottuso rapporto soggetto-oggetto, e si affaccia l'inevitabile controtransfert, essa cade dall'altra parte (dell'asino), la malattia si travasa, il medico diventa matto e il matto diventa sano e forse medico. Questa ridicolaggine tragica sarebbe la controprova di una partenza sbagliata, ossia la feticizzazione del ruolo del medico e del ruolo del paziente. Non è perspicuo come sfugga alla identificazione emotiva la nuova distribuzione, non feticistica, dei ruoli. Si dirà che un rapporto feticisticamente gerarchico è più identificatorio di un rapporto fenomenologicamente paritetico. Astrattamente può essere vero. Ma allora rimane misterioso quali abiti si infili nella pratica terapeutica tale rapporto defeticizzato, dal momento che la pratica terapeutica, tecnica, non c'è. La difesa più valida alla accusa di agnosticismo terapeutico l'ha pronunciata Cargnello. Egli ha detto che il disinteresse scientifico è il più utile, alla lunga, per la nascita delle applicazioni tecniche, e che per anni la matematica è andata avanti "disinte-
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ressatamente e astrattamente" finché ne è venuta fuori la bomba atomica. Non resta che attendere, perciò, che la visione antropofenomenologica, neutrale e fredda, lunga penetrazione e contemplazione della fenomenicità dei fenomeni, affronti le burrasche della terapia e partorisca una terapia. Si troverà davanti, credo, sempre la stessa questione: quale sorte ha il rapporto interumano quando esce dal comprendere ed entra nel mutare. Certo per mutare bisogna comprendere, ma può accadere di comprendere senza mutare. Chi non conosce quella che chiamo identificazione? È legata appunto al problema psicologico del comprendere i propri simili. Va dalla sua accezione psicoanalitica, carica di emotività e di sottostrati inconsci dove più che il problema del comprendere risalta quello della formazione dell'Io, del Super-Io, e del transfert; alla accezione banale del "mettersi nei panni di",, dell'immedesimarsi. Ora l'immedesimarsi è, come sanno tutti, bivalente allo scopo del comprendere; risulta indispensabile al capire; cancella la distanza che per capire è necessaria. In più è dannoso al giudicare, al mutare, al vivere. Contro di esso alza un grido (sia pure con un tono letterario di second'ordine) Arthur Miller, il grido di uno che ha vissuto con una aspirante al suicidio e che chissà quante volte se n'è dovuto strappare via: "Ma quel che disturba è questo tentativo pazzesco di essere tutti, di avere paura con tutti, di soffrire con tutti. Da una parte e dall'altra e dall'altra e dall'altra. L'identificazione porta a una specie di paralisi, alla rovina, alla morte.
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"È più sano chi sceglie, chi ama, chi odia, con salute, una volta per tutte. Dio (se c'è Dio) è Dio perché ha fatto la sua scelta per sempre, ha un amore infinito e una vendetta infinita e se sei contro, sei fuori, sei diverso e per te non c'è alcuna comprensione possibile."" È semplice: Miller vuole mettere argine alla carica distruttiva e autodistruttiva del capire, all'erosione della identificazione che si annida nel capire. Anche Fromm nel libro "The Art of Loving" è perplesso sul rapporto intersoggettivo e teme che il soggetto vi perda sé medesimo per annullarsi nell'altro. Teoricamente la fenomenologia è molto agguerrita nello sbaragliare questo timore: poiché "l'intersoggettività è proprio l'autentica presa di coscienza di sé del soggetto nel solipsismo..., la scoperta che l'altro è soggetto quanto lo sono io, che la stessa tipicità è alla base di entrambi e che tutti e due siamo, oltre che tipicità, individualità. Questo... è il contenuto della IV e V delle 'Meditazioni Cartesiane', discorso che è, e deve essere, radice e fondamento di qualsiasi posizione antropologica, perché, se dimenticato, cade l'intenzionalità che deve reggere quella intersoggettività che si vuole instaurare."" Dunque è sventato il rischio dell'identificazione distruttiva, di quell'eccesso di comprensione che conduce alla stasi o allo scambio assurdo del medico in malato e del malato in medico (con una staffetta all'infinito per cui il nuovo malato infetta un nuovo medico, fino... fino a chi? Chi è il Sommo Medico che non si lascia contagiare dal malato?). Ma nelle viscere emotive, nella intenzionalità emotiva anche inconscia, l'intersoggettività si contorce e complica. La psicoanalisi può dichiarare aggior-
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nandosi che con il controtransfert il medico intenziona il paziente, cosi come con il transfert il paziente intenziona il medico: ma non può non chiedersi, credo, quale emotivamente sia il limite fra intenzionalità e identificazione. Quanto a me, l'identificazione la odio, fin da bambino. La odio ed è la mia tentazione più viscida. Se mi identifico con te, come ho l'istinto di fare, tu mi avveleni. Non capisci che la tua vita entra e si scioglie nella mia, paralizzandola. Se la mia vita entra nella tua, ci si scioglie e ci si perde fino al punto di non esserci, in sé, più; fino al momento in cui tu, per il solo fatto di' riprendere la tua, scacci e uccidi la mia. È meglio che ci dichiariamo guerra subito e che si rimanga distanti. Basta con l'angoscia di quando cessa l'evasione consolatoria dell'identificarsi — consolazione viziosa — e comincia il tempo crudo in cui ognuno si fa i fatti suoi. Perché io sono il prillo ad essere convinto che ognuno si fa e si deve fare i suoi casi, ma ne pavento il momento durissimo, che morde. L'identificazione infatti è molle e non ha denti: è una crema, una bocca di sole gengive. Non mi identifico con te perché ti amo, mi identifico perché credo di capirti, e perché cosi mi sfuggo, e io mi voglio sfuggire. Allora pretenderei di condividere la tua esistenza, di starti appiccicato seguendoti nella tua camera, mettermi la tua camicia, uscire stasera con te e domattina svegliarmi nella solitudine con te. Ma forse non mi capisci: credi che io voglia vivere sempre con te come una pianta debole appoggiata a un palo. Io non voglio vivere con te. Voglio essere te. L'angoscia deriva dalla impossi-
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bilità di tale operazione e dal taglio che la realtà trancia fra noi due, basta che durante la nostra conversazione in salotto tu vada a rispondere al telefono. Perciò teniamoci a bada. Non cominciamo a capirci subito; è facile, è scivoloso. Se tu fossi una donna e ti amassi, non sarei in queste angustie identificatone. E se tu sei una donna, ti amo perché sei diversa e non mi identifico affatto con te, né con la tua pelle né con i tuoi pensieri. Ti desidero perché non mi identifico. Il buono della terapia analitica sono i patti chiari circa l'identificazione, il controllo che tiene su di essa. Il rapporto è duro e mai un attimo illude di poter essere senza denti. Ognuno è dalla sua parte e si fa i suoi fatti. Il terapeuta si occupa di me perché lo pago, io mi identifico con lui perché è tecnicamente previsto. Il terapeuta mi ha allenato al puntò che dopo un'ora di analisi mi ritrovo solo e quasi non me ne accorgo: ma è naturale, mi dico, che mi ritrovi solo; l'analisi è fatta proprio per incidere sulla mia solitudine. Trancia nettamente una vita da tutte le altre, taglia gli ultimi fili del cordone ombelicale e di tutti gli altri cordoni successi. Mi costruisce per tollerare realisticamente il solipsismo. È crudele, separatoria, pulita: non annacqua l'aggressività nella identificazione dolciastra. A priori sa il diverso, il nemico, l'autonomo. La sua amarezza ora è infinitamente più appetibile del miele appiccicoso identificatorio. Non basterà più certo una gita in automobile con te perché io mi insinui nella tua vita e la tua vita mi si diffonda nel sangue come un veleno, mentre guidi l'automobile. Il solipsismo non è disumano, è la mia forza e la mia umanità.
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Cargnello non ignora i pericoli della immedesimazione applicata alla psicopatologia, specialmente alle psicosi. Per lui veramente, più che di pericoli, si tratta di limiti. Sono i limiti della Einfühling, di cui il comprendere antropologico (che è al di là della antinomia di Jaspers fra erklären e verstehen e che si può ritrovare in Husserl come passaggio, ascensione dalla causalità e dalla condizionalità alla motivazione) non può fare a meno per procurarsi il materiale euristico della sua interpretazione. Ma "nel momento che gli è proprio, esso parte e si svolge in un atteggiamento di fredda neutralità, di contemplazione e di penetrazione del come-è-nel-mondo l'alter o l'alius preso in esame."" Siamo di nuovo a ridosso, superata l'entropatia, YEinfühling, del che cosa divenga la fredda neutralità nella eventuale terapia. Qualsiasi rapporto "terapeutico" è in qualche modo gerarchico, non tanto illuministicamente (ragione dell'uno contro irragione dell'altro), ma per la situazione cruda, mordace, obiettiva, irrimediabile, dove uno è più forte dell'altro.
CAPITOLO SESTO
7000 COLLOQUI. IL MEDICO-PAZIENTE O PAZIENTE-MEDICO
" Signori, come voi, intervisto per la selezione del personale fino ai più alti livelli. In dieci anni ho fatto 7000 colloqui. Ci sale intorno la grande curiosità, dovuta a gente che di mestiere comprende gli altri (e li valuta). Qualcuno ritiene noi intervistatori maghi, qualcuno prevaricatori; chi si specializza nel giudizio e nella analisi dell'uomo sull'uomo, da una parte è considerato per definizione persona acuta e intelligente, dall'altra uno dei mostri del neocapitalismo industriale. Non manca chi marchia d'immoralità questo giudizio parascientifico a scopi aziendali, relativo: sia ottenuto con il colloquio o intervista, sia con i test (detti dal profano aggressivo 'giochetti'). "Ma, signori, gli umanisti che ci fustigano e disprezzano, magari incuriositi, come i più subdoli e illegali servi del neocapitalismo più subdolo, quello psicologico, una volta messi loro (per caso!) a capo di una azienda nella necessità di assumere personale nuovo, rifuggendo da un sistema razionalizzato di sceglierlo, lo scelgono nei seguenti tre modi: primo, dalla prima impressione che è quella giusta; secondo,
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dalle informazioni dei carabinieri; terzo, dalle informazioni del parroco. "E chiunque di noi quando rimane senza cameriera e la moglie impazzisce, lo fa impazzire nel gorgo della crisi domestica, che fa davanti a quegli abumani specimen che sono le cameriere quando vengono a presentarsi dai più depressi angoli del mondo? Ci parla. Per cercare di capirle. "Anche noi, coi nostri candidati parliamo. Le uniche leggi tecnocratiche del nostro colloquio sono: far parlare e non parlare noi; rimanere in un tempo fissato sui 45 minuti che per esperienza è la durata ottimale. Se dura molto meno, il colloquio rischia di somigliare al mito della prima impressione che è quella giusta; se molto di più, all'esistenziale desiderio di ogni intervistatore di vivere con il candidato una vita, per arrivare a conoscerlo come se stesso (per quanto, fior di uomini muoiano senza conoscere se stessi). In mezzo ci sono i nostri 45 minuti. "Che eccitano i dilettanti di psicologia, le signore cinguettanti affinché in salotto diciamo loro seduta stante come sono. E scandalizzano gli umanistoidi di destra e di sinistra, i patiti dell'umanesimo per i quali conoscere l'irripetibilità di un uomo da parte di un uomo è impossibile e, qualora sia possibile, è indecente e fraudolento come di nascosto con finte chiudersi assieme a lui nel gabinetto." Esordisce cosi un intervento di Lucioli a un congresso di dirigenti degli Uffici del Personale. Egli lo riporta nella "Autobiografia" perché il colloquio di assunzione è un'altra faccia del rapporto intersoggettivo e discute temi analoghi a quelli di transfert e degli altri modi in cui l'Io-Tu si dispone. Ma come Lucioli lo scrittore è finito a un congresso simile? Si dovrebbe raccontare l'evoluzione
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che lo ha calato come una specie di psicologo — uno psicologo non professionale — nel seno dell'industria, spintovi prima dall'alta marea della sociologia marxista, infine dalla simpatia di un industriale geniale. (Del resto, uno psicologo ha detto che l'intervistatore di tipo artistico, nonostante la tendenza a essere nevrotico e la controindicazione a usare nevrotici come intervistatori, ha più doti intuitivo-interpretative di altri). Si dovrebbe rifare la storia delle origini involontarie di quel che chiamano "Letteratura e industria". È più interessante riferire le impressioni di Lucioli circa il periodo in cui fu un analizzato e in certo senso un analizzatore. Molti pomeriggi alla settimana correva dallo studio dello psicoanalista dove aveva tenuto il ruolo di paziente, all'ufficio dove immediatamente assumeva il ruolo di intervistatore e in certo senso di medico. L'unico tempo e spazio che aveva per cambiarsi l'abito e l'animo era il breve tragitto nel centro della città ingorgata; guidava meccanicamente e assisteva al cambio della guardia nel proprio cervello. Gradualmente si svuotava dell'analisi, una parte della quale, la più gradevole e d'appoggio^ evapora rapidamente e non c'è verso di trattenerla: è la parte dello sfogo e di ciò che, fra le interpretazioni dell'analista, è stato utilizzato come consolazione: crudelmente con una breve lotta la realtà la fa saltare via, la stacca dal cervello dopo averne sciolta la colla; è una slogatura simile a quella del sentimento d'irrealtà, ma qui fra due realtà, una migliore sconfitta da una peggiore. Gradualmente Lucioli si riempiva di realtà grigia, secca, l'ufficio, l'orario e le interviste. Seduto dietro la scrivania, pareva a Lucioli di
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operare nell'anima dell'altro, seduto davanti alla scrivania, gli stessi frugamenti esplorativi che dieci minuti prima la sua anima aveva subito seduta davanti a un'altra scrivania, per opera di uno seduto dietro. "Pareva", perché nell'intervista è diffìcile programmarsi, usare una tecnica sola e sapere bene che cosa accade. (Tuttavia occorre programmarsi e usare una tecnica). Invece si rendeva bene conto dei motivi profondi che l'avevano portato sia a sottoporsi all'analisi sia a radicarsi nella professione di analista-assuntore: riudiva nell'orecchio la voce sbeffeggiatoria dell'analista (anche, l'analista ha un carattere e lui lo aveva ironico: era la sua difesa?) che lo avvertiva della smodata propensione a fare due parti in commedia per non scegliere mai, per neutralizzare l'analista mettendosi al suo posto e gettarlo possibilmente nella merda. L'identificazione con l'analista, normale momento del transfert, in Lucidi si alzava fino a un pimpinnacolo paradossale, al vertice cosmico dove si diventa analisti di se stessi, medici e pazienti nell'identico istante: pimpinnacolo capace di infilzare un sentimento d'irrealtà. Ma Lucioli non ne emetteva ancora, era tutto angoscia appiccicata alla realtà e non beneficiava di alcun rinculo nullificante. Il paziente-medico (di se stesso) è il protagonista del dramma dell'autocoscienza, dell'insufficienza di questa; infatti dalla psicoanalisi in poi, il soggetto, pur nella materia privatissima del controllare se stesso e del farsi indipendente, si affida a un altro da cui dipende per divenire indipendente, si affida a un altro perché l'altro gli insegni a non affidarsi a un altro: ecco la sostanza del transfert.
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Ugualmente, il medico-paziente è il personaggio èentrale dell'epoca, l'Amleto d'oggi, il protagonista di un romanzo ontologico che forse qualcuno sta già scrivendo, in cui non si discutano le strutture del romanzo in sé ma si discutano di riflesso alla discussione sulle strutture di un uomo, appunto il medicopaziente, colui che sta fra la possibilità e l'impossibilità di dire l'ultima parola su se medesimo, cioè di mettere in crisi le proprie strutture contraddicendole tecnicamente e nel profondo. Lucidi seduto dietro la scrivania del suo ufficio si identificava a raffiche, in una mimesi interiore, con il suo analista; dieci minuti dopo l'analisi, analizzava lui per guadagnare i soldi per farsi analizzare. Immagine di una circolarità infinita o di una infinita bilancia. Intanto Lucioli, analizzando, sentiva nel cervello la voce sfottente dell'analista che analizzandolo lo canzonava di volerlo gettare nella merda e di aver scelto la professione di intervistatore per una oscura trama seminconscia. In questa c'era tutta la sua umiltà di ascoltatore nato e cresciuto, di passivo sensibile ricettacolo delle esistenze altrui, di uomo vile che si ripara ascoltando sempre e domandando sempre; e tutta la sua superbia di giudicatore nato e cresciuto, superintelligente, possessore di chiavi psicologiche uniche, supercomprenditore. Il quale aveva una facciata calmissima, saggia, quasi indolente; gli dicevano i profani: "Ma che tipo tranquillo è lei." Ed egli era li pronto a buttarsi per terra al primo venticello d'angoscia. La supercomprensione fornendogli una personalità scrupolosa, essendo rifornita da essa, lo aveva tutto bucherellato e sfarinato dietro la tetra, dignitosa facciata di inibito: con un solo soffio ben dato dalla bocca mortifera dell'angoscia, lui perdeva
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l'appiglio e precipitava in un imbuto. Inutile, dannosa la sua ipercomprensione; falsissima potenza che autorizzava gli altri a crederlo potente, perciò a ferirlo con disinvoltura (proprio lui, il moribondo). Lo ferivano pensando che la supercomprensione gli cicatrizzava ogni frustrazione: invece capire è peggio. E mentre Lucioli analizzava, forse l'analista, padre crudele, pensava: si sappia chi è costui che giudica e manda dietro la sua scrivania, sappiatelo voi che andate a sedervi un po' tremebondi (non tanto ormai, perché c'è il boom e la piena occupazione — ma se viene la crisi sarete di nuovo tremebondi), un po' tremebondi davanti alla sua scrivania per essere assunti. Dieci minuti prima questo signor assuntore tremava a scatti, balzellava per l'angoscia chiedendo aiuto indiscriminato al mondo, a me, a Dio, alla portiera. Eccolo li il falso medico e perciò il falso paziente. Analizza gli altri per sfuggire sé, ma non si sfugge veramente, se appena lasciato solo, va al gabinetto a vomitare angoscia. Eccolo il super-ragionevole, mite, lucido, a volte dolce, a volte tagliente, ma sempre tutto in ordine di fronte al mondo: eccolo, da solo, posseduto dai demoni come una zitella meridionale tarantolata. È molto meno pazzo di un pazzo, molto più nevrotico di un nevrotico, molto più savio di un sano e non è savio per niente; ma che è? butto a mare la psicoanalisi e dico semplicemente: è un isterico! Rimbalzando su questa alternativa di ruoli, qualcuno potrebbe dire: ognuno di noi ha un rapporto gerarchico in cui comanda, e un altro in cui obbedisce. Dunque il + del primo rapporto si elide con il — del secondo. Mediamente il rapporto universale
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è paritetico. In una società civile, il rapporto è paritetico, secondo una medianità statistica. Non voglio negare una società civile dove il rapporto paritetico sia istituzionalizzato, con tutto l'animo vi anelo. Ma non sappiamo che cosa farcene della medianità statistica, la quale è simile a uno spirito puro, a un bilancio totale, dove i conti sono pareggiati metafisicamente per tutti e per nessuno. Realizzata l'utopia sociologica, distrutte le gerarchie del mondo, resta da calare nel mondo l'utopia psicologica che distrugga le gerarchie psichiche. Qui viene il bello. "Signori!" continua la faccia tecnocratica di Lucioli ai dirigenti. "Non ci chiudiamo al gabinetto con nessuno. La nostra intervista, semplicissima ed empirica, non ha misteri né trappole. Che cosa fanno i signori che assumono loro senza affidarsi a uno specialista — guai! come ammettere di essere incapaci di capire che qualcuno sia più capace di loro? — cosa fanno, signori, questi signori? Parlano e parlano, parlano sempre loro. Se l'intervistato non è un cretino, alla fine è lui che conosce il futuro padrone. Il futuro padrone narcisisticamente gonfio del suo sproloquio, della rappresentazione importante di sé che si è dato, il candidato nemmeno lo ha visto. Il padrone è cieco. E già ha scelto la mansione adatta per quel candidato muto-, le aspirazioni che deve avere, l'invio a destino, lo stipendio, il destino. Tutto, per la immane fiducia nello strapotere della propria intuizione. "Con la parola intuizione abbiamo toccato la ferita aperta del nostro mestiere. "Perché noi diciamo di non usare, nell'intervista, l'intuizione. Ma l'intelligenza. E di cercarvi soprattutto l'intelligenza. Questo primato dell'intelligenza
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viene da una dottrina di cui si può essere più o meno consapevoli. È la dottrina del fattore G, che indica la famosa 'intelligenza generale'. G interviene in qualsiasi forma d'attività umana, prima di ogni altro fattore: è ubiquo, sparso, saltellante, onnipresente, un po' ineffabile. Va ricercato dunque prima di tutto. "Noi che cerchiamo prima di tutto la materia prima dell'intelligenza, sicuri che essa non si trovi e non si misuri che con l'intelligenza, siamo degli intelligentisti. Anche il temperamento, la motivazione caratteriale del nostro intervistato, lo frughiamo con la nostra sonda fortemente intellettualizzata. Non chiedendoci tanto che cosa sia l'intelligenza e invece glorificandola, consapevoli o no siamo divenuti dei 'filosofi' sostenitori della conoscenza, ai danni di ciò che viene modernamente detto Cogito preriflessivo. La nostra coscienza di intervistatori è la nostra conoscenza; il nostro intervistatore è perché conosce più di altri. Saremmo in pieno caduti nel cosiddetto errore razionalistico e credendo di essere aziendalmente d'avanguardia (piuttosto che l'intelligenza, sempre fatta di punte alte, non si cerca in altre aziende la mediocrità efficientistica?), diventati filosoficamente vecchiotti, snobbando uno dei cardini della filosofia contemporanea: l'intuizione, parola che per noi intelligentisti rappresenta uno dei pericoli maggiori, assomiglia a intuito istrionesco, fiuto gratuito, presunzione, lume di naso. "Sotto sotto l'intuizione l'abbiamo sempre corteggiata. In realtà la nostra intelligenza non è psicometrica, ma appunto intuitiva. I nessi nell'uomo ci appaiono fulminei, aerei, immisurabili, artistici. Eppure battiamo sull'intelligenza. Perché? Perché, ripeto, abbiamo accumulato profonde riserve verso l'intuizione in genere e verso quella intuizione, non vaga
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e tutt'altro che screditata, che aleggia come la luce di un sole su almeno un emisfero del mondo filosofico contemporaneo. Essa è la filosoficamente fondata. " Chi apre uno dei pochi studi italiani sui fondamenti psicologici del colloquio' legge che Allport nel '37 riconduce la dottrina della intuizione alla scuola della Verstehendepsychologie di Dilthey e Spranger e che sostiene vigorosamente il principio che la intuizione è 'un autentico e indispensabile mezzo di conoscenza, per quanto non è, e non deve essere, separato e opposto alla attività mentale di natura critica e inferenziale'2. E cosi nell'antica e vessata questione del comprendere gli altri, la dottrina della intuizione prende il sopravvento su altre teorie come quella della inferenza (vale a dire, gli uomini giungono alla rispettiva conoscenza ragionando per analogia o redintegrazione) e quella della dottrina comportamentistica. Ciò perché 'il processo intrinseco al fatto della intuizione è stato messo in luce di recente, quando i progressi della psicologia secondo la scuola gestaltista hanno permesso di inserirlo in una nuova concezione dinamica che si è rivelata feconda di risultati: la concezione della percezione fenomenologica degli altri". Qui, in pieno alto mare fenomenologico, avrò la soddisfazione di leggere più avanti che 'si struttura nel colloquio una tipica situazione di 'campo' nella quale un soggetto percepisce se stesso e l'altro soggetto che a sua volta lo percepisce, e insieme ciascun soggetto ha la percezione dell'altro e del fatto che si percepisce.'4 "Ma certo! Non è questa la teorizzazione vera, lampante, dell'empiria che ogni giorno si srotola al di qua e al di là del nostro tavolino? Non aleggia forse il campo psichico sopra la nostra scrivania? "Ma ecco l'agguato: 'Si dice... che in una situa-
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zione di interazione reciproca, ognuno dei membri si identifica nell'altro e tutti e due si trovano unificati in una reciprocità rispettiva che fonda un nuovo modo di esistere e di conoscere." Meraviglioso! Eppure da questa insinuante, molle, spesso dolce, identificazione — che spesso è il miele e il senso del nostro lavoro — voi sapete che mettiamo in guardia i nostri intervistatori. Se il nostro giovane allievo esce emozionato o sdegnato dal colloquio, c'è da temere appunto che egli si sia identificato con un uomo simile a lui o che abbia percepito un uomo opposto a lui. "È l'errore della simpatia e della antipatia, l'errore che acceca. Il famoso effetto d'alone, la prima tagliola per l'intervistatore novellino, quello che distorce tutta la prospettiva del giudizio, non è il frutto dell'identificazione — o della repulsione — verso un solo tratto della personalità del candidato a danno degli altri tratti? "L'identificazione emotiva distorce, sforza dal di dentro l'identificazione fenomenologica. È proiezione, è aggressività, è predilezione, è affettività (meccanicistica). "L'intervista d'assunzione non è carica di conscia o inconscia affettività? Ognuno di noi ha mille ricordi di come un colloquio di 45 minuti con uno sconosciuto è denso di attrazioni, idiosincrasie, violenze, vendette, pietà, pietà, rimorsi. E proprio per il suo carattere di conversazione semplice, effimera, che, pure, decide di un destino. "Siamo come una prostituta che con ogni uomo impegni tutta se stessa, per fare altrettanto col successivo. In certe giornate di lavoro a cottimo, anche noi dobbiamo dare il nostro cottimo, sette, dodici, quindici colloqui al giorno, con un via vai dal salot-
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tino d'attesa alla stanza dell'ufficio dove è la scrivania del campo psichico, e ogni volta un 'contatto interpersonale' quasi intimo, stretto, ogni volta esclusivo e subito dopo tradito con un tête-à-tête (Io-Tu, Toi e Moi) altrettanto esclusivo: molti di voi ricordano che ci siamo sentiti femmine da conio e ci siamo chiamati cosi, o similmente. "Faccio una parentesi, non di intervistatore. Di scrittore. Giacché come scrittore voi mi avete accettato, io mescolo, dentro di me, l'occhio aziendale e l'occhio letterario. Mi auguro che, in questa azienda almeno, non sia una colpa. Dice lo studio sul colloquio: 'La psicologia fenomenologica di origine gestaltista ha superato questo punto morto {la incapacità di capire gli altri se considerati oggetti, quindi la svalutazione del colloquio) nella considerazione ai rapporti interumani; l'attenzione degli studiosi di questo indirizzo si è rivolta infatti non tanto alla classificazione di determinati contenuti, quanto alla possibilità di esprimere questi contenuti nel loro modo formale di esistere — modo che non si potrà forse esattamente classificare, ma che si deve tuttavia riconoscere come una genuina esperienza di carattere soggettivo e che si può descrivere secondo le norme di un nuovo linguaggio "Ogni volta, leggendo questi testi, il parallelismo con le teorie estetiche della nostra avanguardia colpisce. " Il parallelismo non è segreto e non l'ho scoperto io. Ma vorrei enucleare un punto: il contributo che lo studio della relazione con l'Altro dà allo studio del modo in cui l'artista crea: rapporti sia pure di laboratorio, come ne produce il colloquio o il transfert, aiutano straordinariamente a definire il rapporto fra l'artista e le sue materie, ovvero la sua poetica. Die-
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tro a ogni poesia c'è una poetica e dietro a ogni poetica una visione del mondo consapevole o inconsapevole, un a priori comune? Di quale natura è l'a priori che sottende tutto? "Ritorno al nostro puro, concreto, feroce, aziendalismo, dove il costo comanda, dove la conoscenza non è che riduzione del costo, efficienza, e mi domando: serve ai nostri intervistatori nella pratica quotidiana essere avvertiti dei fondamenti teorici e psicologici del colloquio e, in particolare, di questa intuizione interpersonale che sembra conglobare anche l'intelligenza razionale piuttosto che farle da ancella? | "Può servire. Come arricchimento culturale. Non serve. L'intervistatore è cosi teso a registrare nella testa le risposte, formulare le nuove domande, congegnare uria organizzazione cerebrale, un comportamento interiore invisibile, spesso fuori sincrono con il comportamento visibile — che mentre si sdoppia non avverte percezione reciproca, ma di un soggetto, lui, che cerca di manovrare un oggetto, l'intervistato. Serve. Toglie al colloquio il sentore di occasionalità e artificio, lo trasforma in episodio esemplare che attraverso la reciprocità affonda nel cuore dell'esistenza. Non serve. L'intervistatore cerca i contenuti dell'intervista, essi gli sfuggono, essi sono discriminanti e parlanti, essi eccitano e precedono i modi formali determinandoli. Serve. Perché guida oltre l'accidentalità del curriculum, ad afferrare le invarianti, il modo di una vita intera. Non serve. Comunque lo si rivolti, il rapporto nel colloquio di selezione è di tipo gerarchico e non paritetico. " È senz'altro di tipo sociologicamente gerarchico quando il mercato del lavoro è pesante, e io scelgo; assai meno quando la disoccupazione scompare, e io
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scelgo, ma anche, come azienda, sono scelto: ci si avvicina ad una reciprocità sociologica che corrisponde alla reciprocità psicologica in cui l'intuizione è regina. "Eppure l'intervistatore è un despota. Egli fa le domande, egli è dietro il tavolino, egli è il protagonista di una situazione drammatica, di un braccio di ferro. Egli è obiettivamente gerarchico, nella pietà come nella stizza o nella noia. Il suo compito è capire, ma capire per valutare subito. Immediatamente, fulmineamente (non esagero), le sue percezioni si organizzano criticamente in giudizi e in necessaria razionalità: l'abilità di un intervistatore è in questo strozzato, soffocato, lasciare il minor spazio possibile fra intuizione interpercettiva e valutazione operativa. È l'operatività che è gerarchica. Si dica pure che il vissuto è paritetico, mentre il pensato è gerarchico. Ma il nostro vissuto è un pensato. "Perciò è interpretativo, e il nostro interpretare di intervistatori è un conoscere che fa riferimento a un sistema che non può non tendere alla razionalità, alla trasmissibilità e alla misura. Il nostro colloquio è un brodo di coscienza come conoscenza, ad altissima concentrazione; un sistema di conoscere come giudicare: che non solo sostituisce ore, giornate di frequentazione, ma le supera perché nel colloquio c'è una intenzionalità ma programmata, una sistematicità che tende alla scienza anche se non ci arriva mai. "Il nostro intervistatore coglie l'essenza, ma studia contemporaneamente le cause, per operare svelto, decidere. Rifugge da un 'disinteressato' capire. Anche perché deve essere modesto: sa che il suo capire-giudicare è relativo all'azienda e non assoluto rispetto al mondo, è tutto 'interessato'.
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"Mi chiedo ora: quanto di razionalisticamente e psicometricamente interpretativo l'intervistatore può iniettare in un colloquio, che pure sarà questa reciprocità globalistico-intuitiva e non sarà psicometria in senso stretto. (E potrei chiedermi che rapporti vi sono tra gestalt e interpretazione psicoanalitica). I nostri intervistatori desiderano conoscere un lume, un riflettore, una quantità, un riferimento diagnostico, prognostico. Altrimenti la fondazione psico-filosofica li irrita. Non facciamoli arrivare a dire che la pratica vale più della grammatica, a essere nemici di ogni psicologia non contenutistica! Esgi odiano uno psicologo che svolazzi fuori dalla situazione psicologica! E dalla situazione sociale. Quando parlavo a loro dell'intuizione hanno alzato la loro bandiera su cui sta scritto: 'L'intervista non è determinata unicamente da fattori psicologici di pura relazione interpersonale, ma anche dalle situazioni psicosociali in cui essa si svolge.'7 "L'int;érvista oppure ogni Io-Tu di questo basso mondo? L'intervista di selezione, che si attira gli sdegni degli umanistoidi e i loro squilli di tromba contro il moloch industriale, non è questa efferata eccezione. Ma facciamo pure il caso che non si voglia, come non vogliamo, un mondo strutturato a somiglianza della macchina inevitabilmente e intrinsecamente gerarchica dell'industria; pure, in questo mondo più civile i modi in cui l'uomo per la strada capirà l'uomo, saranno più aggressivi che interpercettivi. L'aggressività è difficile da liquidare, perché è difficile da eliminare la frustrazione. "Quanto all'oggi, la nostra intervista incalza ad un sistema di riferimento razionale qualcosa che ogni giorno viene ugualmente, bestialmente fatta tramite lumi di naso, carabinieri, raccomandazioni e portieri.
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È di certo una forzatura del razionale, della Causa sul Caso e sul Caos e magari anche sulla Struttura. Siamo allora illuministi incalliti, ottimisti, neocapitalisti, residuato assolutistico in mezzo a una cultura più umana e tutta aperta verso l'ambiguità? Il nostro Ordine contro il Disordine è una anacronistica e odiosa bandiera? No, siamo dei disordinisti. Ma in ufficio ci dobbiamo pure andare."
QUARTA PARTE
IL MALE
CAPITOLO PRIMO
IL DECOLLO
Fin qui è semplice che nella ipotetica rappresentazione artistica del sentimento d'irrealtà un rapporto gerarchico sollecita un critico-realismo, e un rapporto paritetico uno sperimentalismo. Non so per quanto tempo critico-realismo e sperimentalismo rimarranno emblematici. Il rapporto gerarchico è destinato a continui movimenti, a seconda di come si allontani e si avvicini il male (lo vedremo) e di come si elaborino le difese da esso. Ma è chiaro che una scienza sempre più relativistica lo scuote e che una fantascienza immessa nel critico-realismo lo fa spostare e lo proietta verso un'arte ancora misteriosa, priva intanto di memoria. Basta l'esempio di come risponde alla domanda: "La possibile presenza o assenza di vita negli altri mondi è per noi un fatto di grande importanza?'" La risposta discrimina fra l'amore per una scienza terrena, pessimistica, accanitamente geocentrica e una scienza semi-occultistica, ottimistica, evoluzionistica e cosmica. Che cosa importa a me, qui ed ora, della Luna e di Marte? La risposta incide anche sulla invenzione di una poetica. Senza nemmeno uscire da questo mondo, l'inevitabile incontro fra neopositivismo e fenomenologia,
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cioè fra soggettivismo e "verità" scientifica, porterà a un rimescolamento di visioni del mondo da cui rapporto gerarchico e rapporto paritetico vengano scossi e sottoposti a metamorfosi. Molto dipende da che cosa farà il male messo a confronto con tutti questi spencolamenti sul futuro, lui che vive in un presente paralizzato, ha orrore del futuro e si ciba dei terrori del passato. Quando a una persona in preda al male verrà data una di queste notizie: "scoppierà presto la bomba atomica", "domani potrai fare un viaggio per la galassia", sarà fondamentale osservare le sue reazioni. La prima notizia non dovrà essere data mai: come è assiomatica la lotta al male, cosi è assiomatica la lotta alla guerra. Resta la seconda. Il direttore di "Planète" scrive: "Freud a montré que notre conscience faisait barrage à certains messages de l'inconscient. Mais il se peut aussi que notre conscience fasse• barrage à des messages en provenance de l'ave» nir. Ora, l'essenza del male è la spazializzazione e l'anchilosi del futuro, perciò il male per definizione è insensibile al futuro e sordo all'avvenirismo. Esiste un avvenire — o un avvenirismo — cosi sconvolgente e rivoluzionario da sbloccare l'embolo nel flusso del tempo, l'embolo che il male ha coagulato? L'avvenirismo significa un salto qualitativo scientifico nel senso umano del futuro o è l'ennesima evasione consolatoria e distruzione ipocrita del presente vero? Il sentimento d'irrealtà verrà rimpiazzato dai viaggi interplanetari? Il rinculo nullificante vero è quello di Gagarin che riempie l'irrealtà con la realtà extraplanetaria? Non mi sono affatto dimenticato di F. Facciamo conto che egli venisse incastrato
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in una capsula, stesse qualche giorno senza peso e al ritorno mi dicesse la sorte di "quel senso". Tutto può accadere, anche che F., appena tornato dallo spazio, riposatosi un poco, se ne torni in ufficio e tranquillamente riprovi il suo "sentimento di" davanti alle cassette postali nell'androne, senza sapere se il futuro è scienza, rivoluzione, utopia, delirio o WUE. Fino a ieri sera, il sentimento d'irrealtà era quel tema che rimane suscettibile di una rappresentazione critico-realistica, ma che di per sé, costitutivamente (contenutisticamente...) richiede una letteratura del significante piuttosto che una letteratura del significato. Roland Barthes ha teorizzato la letteratura in genere come letteratura del significante, le cui definizioni si addicono a una letteratura del sentimento d'irrealtà: "Si è ricondotti allo status fatalmente irrealista della letteratura, la quale non può 'evocare' il reale che attraverso il linguaggio... non può che connotare il reale più che denotarlo... condannata a significare senza sosta se medesima quando non vorrebbe che significare il mondo... Scuote ciò che esiste senza mai preformare ciò che non esiste ancora..." E infine: "Nessuno ha mai trasgredito la natura insieme significante e delusiva di quel linguaggio intransitivo che si chiama letteratura.'" Se la letteratura e il sentimento d'irrealtà scuotono ciò che esiste e non preformano mai ciò che non esiste, sono condannati a non giovarsi del futuro. Il sentimento d'irrealtà, statico, sordo al passato che esso nullifica, senza occhi per l'avvenire che non esiste; non storico, non prospettivistico, fulminato nel presente: starebbe bene in quel vuoto del senso,
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che seguendo Barthes è la mancanza di una solidificazione semantica dell'opera e che si trasforma in non-senso, cioè (essendo impossibile annientare il senso) in senso dell'assurdo. Ma il senso d'irrealtà non è semplicemente senso dell'assurdo. È molto più "realistico" perché ha un preciso riferimento psicopatologico e perché non è vissuto come assurdo, ossia paradossalità tragica e divertente, falsità logica, ma come estrema logicità e ragionevolezza. È qui dove un realismo critico, di marca scientifica quanto si voglia aggiornata, lo riafferra. È superfluo che io faccia altre ipotesi astratte sul modo di rappresentare il sentimento d'irrealtà. Debbo entrare nel cervello di uno scrittore che ha questioni simili da sbrogliare; c'è un punto della "Autobiografia" di Lucioli che debutta con la frase: "È possibile rappresentare realisticamente l'irrealtà? Ovvero occorre un irrealismo?" "Ma con una corda io tiro" prosegue Lucioli "l'irrealtà come un aquilone. L'irrealtà è un aquilone svolazzante. Tira da tutte le parti Entra nello spazio di cielo in cui viene definita l'assurdo, in un altro dove viene definita una deformazione percettiva della realtà, in un altro delirio, o protesta, o morte, o vuoto. Può ricadere ai piedi di un filosofo, autorizzato sempre a chiedermi: quale è la realtà dell'irrealtà? Oppure mi si invola in spazi corposi ma inediti, che rappresentano la realtà del futuro, dove l'evoluzione ha esaltato l'uomo: qui l'irrealtà viene messa in braccio, invece che all'irrealismo, al 'realismo fantastico'. "Perciò io tiro a me la corda, che è il sentimento di. Immagino l'irrealtà qui e ora. In forza del sentimento di, è legittimo ancora che io progetti una rappresentazione realistica del sentimento d'irrealtà,
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dove esso sarà inseguito e braccato criticamente e storicamente, rappresentato senza essere 'atteggiato' mai: ossia circondato e delimitato dall'esterno, come un mare dal disegno della terra intorno ad esso. Gli orli della terra sono i suoi confini ed esso è un mare inesprimibile accerchiato, non rappresentato. "Ma Pinesprimibilità mi ricorda che il sentimento d'irrealtà richiede un linguaggio speciale, sperimentale. Sono uno scrittore, il linguaggio potrei anche inventarlo. Non ce l'ho sulla punta della lingua? "No. Ho sempre avuta poca dimestichezza con la lingua; e i linguaggi, la koinè, i dialetti, i pastiches; è sempre stato il mio complesso d'inferiorità di scrittore. Non sono inventivo nella lingua, non mi accadono miracoli sotto la penna, non mi nasce un linguaggio spontaneo, inatteso, quasi indipendente da un me che sta a guardare. "Troppi anni di alinguismo. Nessuna disinvoltura verso la lingua. Quale lingua? Quella che ho in bocca. E quale è la lingua che ho in bocca? Mi è stata inconscia per lustri e anche adesso che una nuova cultura me l'ha portata alla coscienza, la osseryo e storicizzo mentalmente, però non la domino né sono capace di definirla o di uscirne fuori con ribellione. Il mio sforzo linguistico consapevole (io lo chiamavo stilistico) è stato quello non di inventare una lingua ma di usare una lingua, già inventata largamente, in modo creativo (cioè originale) con una creazione all'interno di essa che quanto più la forzava, tanto più la rispettava. Quasi che il merito fosse soltanto nel raggiungere novità e originalità adoperando i mezzi espressivi dati, comuni e banali. Perfino la nevrosi, che conosco bene e che notoriamente ha un filo di collegamento diretto con
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la lingua, mi ha favorito tutt'al più di una predisposizione ai giochi di parole e ad alcuni virtuosismi stilistici, i quali magari, per rimanere troppo aderenti a certe capziosità ossessive, appaiono stucchevoli e tortuosi. " In questi ultimi tempi si è molto sentito parlare di lingua e linguaggio, di nuova e vecchia linguistica e sono convinto che la presa di coscienza della lingua, dei suoi determinismi, della distinzione fra lingua e parola, sia importante come la coscienza di una realtà storica, di una realtà affettiva. Ma la creatività uno non se la può dare. E se uno non ha fortuna con la lingua, da che cosa dipende questo suo alinguismo? L'alinguismo è forse un 'a priori', una essenza o modalità senza genesi? "Eppure proprio l'alinguismo dovrebbe essere un aspetto della personalità determinato da un determinismo; cosi come il linguismo. Deve essere stata la ragione sociale, impastata con quella regionale e poi con quella familiare e poi con il carattere, con il tipo di nevrosi, con il tipo di cervello, a determinare in qualcuno la timidezza linguistica, la rispettosità verso la lingua media, la difficoltà di manipolarla genialmente, reinventarla avventurosamente. Quanto a me, per adesso, qualunque cosa mi sia accaduta, nel fondo vi ho ritrovato un linguaggio pulito, logico, convenzionalmente comunicabile. "L'alinguismo deve essere una delle forme del borghesismo. Io ho sostenuto con l'analista una grande battaglia sul borghesismo. "Con uno dei tipici e apparentemente meccanici rovesciamenti della psicoanalisi, egli sosteneva che mentre avevo orrore della vita borghese, io ero profondamente un borghese. Lo ero tanto più quanto più ne avevo orrore; poiché questa vita borghese,
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non accettandola e fuggendone con orribile angoscia, si ingigantiva e mi imprigionava di più. Se avessi voluto avrei potuto liberarmene solo il giorno in cui accettandola l'avrei vissuta con angoscia minore... E io combattevo contro il mio destino di borghese. "Questo destino in me è potente, vittorioso su altri destini. Posso dire, se mi fa piacere, che mi permetto d'essere borghese in molte apparenze giacché so di non esserlo nella profonda sostanza. Posso dirlo. Il mio destino rimane borghese, le molteplici rivoluzioni non l'hanno distrutto, ho soltanto consumato ammassi di energia per fuggirlo, sterilmente. E che cosa fa restare borghesi? La paura. Quale paura? La paura di un male peggiore. "L'alinguismo è paura (del male). "Vi è un'altra soluzione. Non agire sulla lingua, ma sull'impianto o sistema dell'opera, in un passaggio del Gusto, come dicono Arbasino e le sue Maiuscole, dagli Informali alla Struttura.3 Sono favorito dall'impazzate odierno dello strutturalismo. Anche Barthes segnala il passaggio. Secondo lui i Nuovi 'non si preoccupano di distruggere le costrizioni primarie del sistema verbale.' La loro ricerca porta 'sui sensi del sistema letterario, non su quelli del sistema linguistico.' Meno male. "Barthes dà una spiegazione tecnica del passaggio dicendo che la generazione precedente con il surrealismo e i suoi epigoni ha provocato una certa crisi della denotazione e aggredito le norme elementari del sistema. Poi, egli dice, questa crisi vissuta come espansione del linguaggio è stata superata o abbandonata. 'La generazione attuale si interessa soprattutto alla comunicazione seconda che il linguaggio letterario investe: ciò che è problematico oggi, non è la denotazione, è la connotazione.'4
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"Il passaggio dalla denotazione alla connotazione si continua a vedere anche in Italia, dove però la crisi della denotazione non ha lasciato tutto il campo alla crisi della connotazione, per la eterna questione della lingua che ci affligge. Per ora le maggiori novità si sono avute nella denotazione, nella scrittura. "Ma poniamo che dalla scrittura — lasciandola magari com'è — io passi alla struttura, alla comunicazione seconda. "Mi immagino di affrontare il sentimento di irrealtà con una mimesi del sistema, anziché una mimesi della lingua: trasportare il sentimento di irrealtà nella prosa, atteggiandomi ad esso, mimandolo e non indicandolo, dandone il significante strutturale e non il significato. Ecco nuove intersecazioni di piani, nuovi nessi, una rivoluzione percettiva degli strati della realtà, la realtà vista dall'arretramento nullificante. " Sarei capace di non indicare a dito, assumere intransitivamente, io che sono sempre stato cosi transitivo e indicativo? "Altre domande premono. Accettata la situazione intransitiva, la terrei internamente o la proietterei all'esterno? Ossia: darei le forme in cui il sentimento d'irrealtà si snoda e si sloga in partenza dal soggetto, o le forme oggettuali da lui in arrivo alterate, sconvolte, accostate per significante, senza significato? Un racconto di Balestrini mi pare un esempio del secondo modo. Comincia: 'Teneva la giacca sul braccio e sembrava sempre sul punto di mettersi a correre. C. usci attraversò la strada spari dietro l'angolo della casa. Rimase li a lungo a guardare l'acqua facendo attenzione a non scivolare sulla viscida scaletta di ferro. Poi si asciugò la fronte descrivendo dei cerchi con l'asciugamano. I capelli rossi e lisci le
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scendevano sulle spalle. Quando uscirono aveva smesso di piovere. Egli immerse una mano nell'acqua gelata là dove i suoi occhi avevano scorto una macchia rossa sul letto di sabbia. Immerse il viso impolverato sull'acqua e bevve. Benché nuove masse di acqua salgano continuamente intorno alla nave e quantunque la nave non occupi sempre la stessa posizione rispetto alle parti del fiume in quanto queste si muovono costantemente tuttavia rispetto al fiume nel suo insieme la nave finché è ancorata giace nello stesso luogo. Nasce sotto il Passo di Novena e descrive nel tratto superiore un grande arco con la convessità a N. Poi a E. Percorre la Val Bedtetto (km. 17 c.) fino ad Airolo quindi la Val Leventina (km. 35 c.) fino a Biasca e la cosiddetta Riviera.'5 "Ma questo è irrealismo o parodia? "È una trascrizione probabile di sentimento d'irrealtà in arrivo o un collage? Bisogna stabilire se una pop-letteratura riesce in una allucinazione sincera, di altro mondo, di non-realtà; oppure se fa il verso a questo mondo, con ironia, riproducendone pezzi staccati e incollandoli secondo un Disordine abbastanza innocuo. Perché la parodia, per il sentimento d'irrealtà, non serve. Il sentimento d'irrealtà è serio, cupo, sinistro. Non scherza. Sia il sentimento di irrealtà di tipo ontologico o anche preontologico, sia quello percettivo, quando mai sorridono, sogghignano, ammiccano. "Ma è la mimesi che mi intriga, cui ritorno. Non è un dogma che essa conduca a fondo nel cuore dell'intelligibile più di un inquadramento indicativo e transitivo. La mimesi è anche una maniera di prendere sotto gamba l'oggetto facendogli il verso, quindi svalorizzandolo, mettendolo nudo senza il vestitino attorno, senza il rapporto con il contorno. Ba-
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sta assistere alle civetterie che alcuni nichilisti fanno con il caos, dicendo di preferirlo alla causa. Essi trattano il nulla, il caos (e tratterebbero l'irrealtà) come se si mettessero intorno al collo per bellezza un serpe disinnescato dal veleno. Io ho paura del caos perché ne conosco il veleno e sono abituato a prenderlo con le pinze (con gli schemi razionali), non con le mani, come loro che ci si divertono. "L'avanguardia dice di esibirsi in forma eteronoma nei confronti della percezione immediata del mondo, dice che si rifiuta di prendere per buono il mondo della percezione, opponendosi alla letteratura tradizionale che rimane sempre un tipo di letteratura mimètica, passiva, che non delucida il linguaggio come ricerca, enigma/ " I nostri sospetti verso la mimesi per ora differiscono. L'irrealtà dell'avanguardia snobba la realtà, non la rimpiange affatto. Il sentimento d'irrealtà ha invece nostalgia della percezione immediata, del ritorno alla realtà, qualunque essa sia. Perché delucida, ma purè sfonda e contorce la percezione immediata in un buco e un groviglio tragico, nero. "Come una macchina da presa muovo il sentimento di irrealtà per avere un nuovo, più acuto e bizzarro 'sguardo'? O creo una struttura analoga alla sua che lo rappresenti per procura (cioè per struttura)? Lo mimo? Con quale mimesi? O lo stringo criticorealisticamente sfruttando al massimo le risorse del mio linguaggio e sistema tradizionale? "Un aereo termina di portarsi lentamente sulla pista di decollo; si ferma come se riflettesse; di colpo manda i motori al massimo. Vibra tutto, fischia. Fa cosi uno scrittore che stia ragionando di una cosa
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e sempre più si avvicina alla cosa. Rolla, prende lo slancio, decolla. Volerà come saprà volare ma ha staccato e in quell'attimo apre lo stacco fra una poetica spinta all'estremo della sua potenza (che vibra tutta) e la poesia. "Se, stracarico di carburante, non decollassi affatto? Sono un pesante aereo che cammina sulla terra. Sono una immaginazione che si esaurisce e si appaga nel prefigurarsi ogni teorica possibilità del prodotto e non lo produce. Il prodotto è il progetto. "Almeno l'avanguardia sarà fiera di me. Eseguisco l'ipotesi che l'immaginazione sia più romanzesca nell'inventare i modi del romanzo, che la trama. "Qui non si parla (per carità) di romanzo del romanzo, di '8 e mezzo' della letteratura, di romanzo saggio, di romanzo delle strutture del romanzo e della loro corrispondenza con le strutture dell'uomo, di esplosione del romanzo. Ma di filosofia e scienza. Se questo prolegomeno autosufficiente del romanzo è, come deve essere, una forma di coscienza e di conoscenza, io risalgo a monte e studio le forme della conoscenza e della percezione, la psicologia e sociologia della conoscenza. "La narrazione, i casi umani, i personaggi, lo psicologismo, lo sguardo, svaniscono all'orizzonte e per di più si sgonfiano d'ogni attrattiva per me. Dall'arte mi sposto indietro alla filosofia dell'arte, dalla filosofia dell'arte alla filosofia. Non vedo perché romanzare (magari naturalisticamente) la crisi delle strutture naturalistiche del romanzo. Estremizzo. Da un romanzo ontologico risalgo all'ontologia. "È finita con la narrativa? Se cosi fosse non ci si dovrà rattristare. Il mio prossimo libro sarà un trattato di logica o una metafisica, o un rapporto fra la
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scienza e la coscienza. O forse è l'arte che non è ormai che metafisica." Messo alle strette da se stesso, Lucioli a una scelta fra le poetiche ha preferito una ritirata strategica e dare un esempio vivente di morte dell'arte o di totale trasformazione di essa. Ecco lo schema concettuale che potrà adesso percorrere. Siamo interessati a indagare dietro le poetiche e a scrutare nel marchingegno che porta a preferirne una. Dietro una poetica sta una cultura o visione del mondo. Dietro una visione del mondo sta una psicologia, nel senso di una scienza del carattere e di un carattere, cioè nel senso di una psicodottrina. Risalendo all'indietro della psicodottrina, ci si imbatte nel modo d'essere originale di ogni uomo o costituzione o materia prima, che il curriculum vitae dalla nascita, anzi dal concepimento, modella. La costituzione e il curriculum sono per la gran parte influenzati da qualcosa che preesiste a loro. Ma c'è in ogni uomo un mistero originario, o a priori, o autoporsi, il cui problema è la filosofia o una scienza delle scienze o una metafisica o un metalinguaggio. La scelta di tale filosofia o scienza delle scienze è influenzata a sua volta dalla psicodottrina. Questa specie di pan-psicologismo non può sfuggire al confronto con un pan-economicismo, anche se non ne viene assorbito e se non è escluso che alla fine lo assorbirà. È uno schema che mira di continuo al "che cosa c'è dietro", è genetico. Si oppone ad esso uno schema volto verso le essenze, le strutture, il sincronico. Ma sempre resta la possibilità di chiedersi un perché del causalismo e un perché dell'acausalismo: il che significa un riferimento o inglobamento al primo schema.
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Come è possibile una vittoria del secondo schema sul primo; quando il primo, stanco di sé, rinuncia a sé. Allora: o i due schemi si oppongono. (O si dialettizzano; ma la dialettica è sempre spencolata sull'antinomia). Se si oppongono, che cosa porta alla scelta di uno invece che di un altro, di un rapporto gerarchico invece di un rapporto paritetico, con le loro rispettive poetiche? O contempliamo i due schemi, dando per inesistente la questione della priorità dell'uno rispetto all'altro. Ossia: ci chiediamo il perché di un rapporto gerarchico o di un rapporto paritetico, assumendo, verso questa ricerca, un rapporto gerarchico? Oppure li accettiamo tutti e due e per quello che sono, senza frugarvi dietro, assumendo per questa osservazione un rapporto paritetico?
CAPITOLO SECONDO
IL FETO FILOSOFICO
La tragicommedia, la spirale di uno che, partito da una semplice riflessione (in questo caso sulla propria poetica, ma avviene di partire dal cielo alto come da stazioncine derisorie della terra) cade in preda, essendo un asistematico, alle forze logiche e sistematiche, è raccontata da Lucidi. Il quale d'altra parte non intende inoltrarsi in una filosofia distaccata dal suo (di Lucidi) modo d'essere. Né lo potrebbe. Cosi la "filosofia" di Lucioli è la cinghia di trasmissione fra il modo psichico d'essere e il modo di conoscere. È quanto volevamo dimostrare con la teoria della psicodottrina. < Lucioli diviene negli ultimissimi anni un campione del pensiero ambivalente, di cui abbiamo già descritto l'itinerario teorico, come dialettica e antinomia sottese dall'ambivalenza. La Riserva è Ambivalenza, l'Ambivalenza è Riserva; ambedue partoriscono la Ragione ambivalente, che può anche essere detta Ragione narcisistica. Infatti l'equidistanza del narcisismo, del nec tecum nec sine te vivere possum, che Bouvet ha teorizzato come una delle forme non genitalizzate, pre-edipiche della relazione d'oggetto, è una ambivalenza con la conseguente perdita o distruzione dell'oggetto. Ragione ambivalente e sen-
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timento d'irrealtà si trovano cosi collegati tramite il narcisismo che li sottende tutti e due; il pensiero narcisistico produce sia l'ambivalenza che il sentimento d'irrealtà: poiché questo è ambivalenza, o bisogno di equidistanza, o meglio Riserva, nei confronti della realtà, che esso difende dalla irrealtà reificata e insieme mette in crisi favorendone la distruzione. Lucioli è, ad un certo momento, perspicuo esempio di sviluppo del pensiero immaturo o narcisistico o ambivalente o equidistante, e di inserimento in tale sviluppo del sentimento d'irrealtà. "Ma l'istinto ora è guarito" continua Lucioli nella 'Autobiografia culturale' dopo aver descritto il suo dramma della scelta. "Ho fatto la mia scelta. Sono maturo? Scelgo sempre, con poca angoscia (quanto minore è l'angoscia, tanto maggiore è la scelta). "Il dramma della scelta mi è rimasto nell'alto gradino della filosofia, come una spumosa cresta d'onda che il mare abbandona in una nicchia di roccia. La scelta maturata in basso non è ancora risalita per andarsi a riprendere quell'onda. Dove la mia evidenza è ancora la necessità di scegliere e l'impossibilità di farlo, aiutata dal comfort, dagli indugi dilettanteschi che sono permessi a uno scrittore quando fa il filosofo (vedi più avanti). Egli è un dilettante che muove, poniamo, dal soggettivismo. E perché? Quel soggetto che è lui è stato determinato dal mondo, che quindi viene prima di lui. Muoverà allora dal mondo? E perché? Chi decide che il mondo viene prima di lui, è lui, che quindi viene prima del mondo. Non gli resta che muovere da un rapporto io-mondo che preceda sia l'io sia il mondo. Muovendo da un rapporto, cioè dalla composizione di un'antinomia, gli sembrerà di calmarsi, giacché è
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autorizzato a tenere i piedi in due staffe. Ma allora lui, relazionista nato, si trasformerà in antirelazionista e scoprirà di nuovo l'opposizione fra io e mondo, nonostante tutta la filosofia e la scienza contemporanea. "O scoprirà che, ragionando sul problema del cominciamento, ha trascurato il vero cominciamento: il mezzo, lo strumento del ragionare e dell'intuire: il linguaggio. Il linguaggio è il cominciamento vero. Ma come si ragiona sul linguaggio? Con il linguaggio. Che linguaggio è quello che sovrasta il linguaggio? "Sono capitato sul metalinguaggio. Esso è metafisico. Sono metafisico? Si, lo sono. No, non lo sono. "Balzello da un cominciamento all'altro perché la legge monotona del mio cominciamento è di sciogliersi appena si è affermato: è il mio a priori. "Cosi anche balzello da un cominciamento all'altro di questo libro qui che sto scrivendo. L'ho iniziato in un certo modo, ma potevo cominciarlo, dal dramma del cominciamento o dal sentimento d'irrealtà o... Per il fatto stesso, comunque, che lo sto scrivendo, vuol dire che l'ho iniziato da qualche parte. Che cosa mi ha spinto a iniziare? Una scelta narrativa, evidentemente, più che una scelta filosofica; un 'attacco'. Esistono in arte gli 'attacchi': sono scelte poetiche, sicure, armoniche, certezze stilistiche che riempiono il vuoto o l'oscillazione tremenda delle partenze razionali. Differenziano lo scrittore dal filosofo e giustificano quel motto che, scelta e scritta la prima frase, è stato scelto e scritto tutto il libro. "Come filosofo avrei voluto cominciare dal sentimento d'irrealtà, inizio insolito, più intuitivo di altri, per poi risalire a tentoni verso il dramma della
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scelta, scoprendo man mano i nessi fra scelta e irrealtà. O avrei voluto cominciare dal dramma della scelta, che subito agguanta il lettore, perché è dramma assai diffuso: è un inizio più sistematico, tradizionale, un vero inizio dall'inizio, ma anche troppo tradizionale. Oppure cominciare dal dramma della scelta fra i due inizi suddetti, scelta che io voglio fare e sono incapace di fare; cominciando cosi dal dramma più vero, quello del cominciamento. Lasciando un largo spazio bianco per far intendere che quella era una delle possibilità del cominciamento, qualora non mi fossi deciso se cominciare dall'irrealtà o dalla scelta. Al principio della pagina avrei mostrato me stesso che per coerenza rischiavo il nulla. Se sono veramente incerto su come incominciare, è semplice, non comincio. "Infatti il non scrivere è una delle possibilità dello scrivere. Ed è falso, idealizzante, scrivere del non scrivere. Il modo migliore di scrivere del non scrivere è non scrivere. Non voglio ingannare il lettore raccontandogli il dramma del cominciamento e del non scrivere, scrivendo a tutto spiano. Mi metterei sul piano evasivo e consolatorio di colui che racconta storie atroci idealizzandole romanticamente; di tutti coloro che contribuiscono ad una letteratura staccata dalla vita, che imita la vita ma rendendo dolce, per il fatto stesso d'essere scritto, l'amaro della vita. Quante volte uscendo da un film straziante ci accorgiamo che quello strazio è eroico, tonico, esaltante mentre la vita che ritroviamo subito sul marciapiede non è straziante affatto, ma atroce nel suo tran tran. La catarsi del libro in quanto libro, del film in quanto film, a me non piace. Basta con racconti di morte e di nulla, senza la morte e senza il nulla. Per essere onesto io devo mettere nel libro la
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sua possibilità di non-libro. È troppo facile raccontare il dramma della scelta del cominciamento, quando uno lo ha già scelto come cominciamento. Occorre dare il dramma della scelta, ossia dare il bianco. Attenzione: questo è un bianco logico, non un bianco lirico, come quello di certi poeti, la pagina bianca, ecc.
"Perché non do tutto il bianco, tutto bianco? Perché non posso 'atteggiarmi' interamente al bianco, essere bianco. "Perché non posso atteggiarmi interamente al bianco? Perché per uno scrittore il bianco è il male. E dal male si rifugge non problematicamente, si cerca di dominarlo, e giudicarlo, conglobarlo dall'alto di un rapporto gerarchico. Cosi il bianco è incorniciato, sottomesso dal nero. La mia incoerenza è la mia fuga, che non posso discutere, dal male: la scelta qualsiasi che faccio per fuggirlo. "Vale in filosofia la legge comportamentistica dello status quo? Nel comportamento lo status quo è irrefutabile, la scelta passiva che ne faccio non può essere dimenticata nell'illusione mentale di trovarmi altrove da dove sono. Anche filosoficamente io scelgo lo status quo. Ma lo scelgo, ci sono dentro, eppure non lo conosco. Si dirà, comunque, che c'è. Chi lo dirà? Qualcuno che sia in grado di estrarre da me la mia filosofia inconsapevole, il mio inconscio filosofico. Ecco: non sono un filosofo. Sono il materiale per un filosofo. Che filosofo io sia, non lo so. Lo sa un altro. Oppure quell'altro che sarò io quando mi sarò filosoficamente capito.
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"Per ora mi sforzo continuamente di essere un filosofo e/o uno scienziato. Senza diventarlo mai. Amo sia il rigore sia la verifica, ma ambedue emotivamente, cioè senza rigore e senza verifica; senza continuità e tenacia. Ne odoro il tenero embrione e non ho la calma intellettuale, la fredda decisione paziente di seguirne il duro scheletro adulto, la concrezione sistematica che protegge verifica e rigore come il guscio protegge le tartarughe. Per questo parto dal sentimento d'irrealtà o dalla scelta, che sono eternamente teneri. "Per ora sono il feto di un filosofo che si aggira fra i giganteschi corpi, per lui fantomatici, di adulti sviluppatissimi, fra epistemologie o sistemi che dopo la morte dell'ideologia non vogliono essere più sistemi, ma, rispetto a lui, lo sono. Il feto rimbalza da un adulto all'altro secondo la legge della riserva che significa accettare con riserva uno: per poi tradirlo, con riserva, con un altro; da tradire, con riserva, con un altro. Il feto è fantasioso filosoficamente, i sistemi li fiuta da molto lontano e li scova tutti; è vivacissimo. Non è superficiale. È capace di interiorizzare l'aura che sta intorno ai pensieri degli adulti. La sua testa è grande quasi come la testa di un filosofo; sono le gambette un po' corte, instabili, come quelle di un uccellino. "Non è il caso di parlare d'eclettismo. L'eclettismo ha qualcosa di lieve e di ornamentale e una mancanza di tragedia che lo porta attorno con esuberanza nel giro delle voliere che contengono le metafisiche o le analisi come pavoni. L'eclettico è un turista, un collezionista, uno spiritoso elencatore. Il feto non è un eclettico, ma un dongiovanni ideologico appassionato e drammatico. Il pensiero dongiovannistico ama tutte le idee, i sistemi e i gruppi recintati
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di idee, con foga. Le ama tutte, ma una per una, come ne amasse una sola. Troppo facile sentenziare che le ama tutte perché non ne ama nessuna, non sa amare e quindi dà sempre ragione all'ultima che ha parlato. No, al centro del suo harem di idee, egli si eccita quando riesce ad accostare due idee e ad amarne la relazione. Si rapporta sempre a un rapporto. Egli è per eccellenza l'interdisciplinare, il savio — o il pazzo — del nesso perpetuo. La sua relazionalità cresce e costruisce fino a un tetto dove comincia a distruggere: a furia di essere accostate le idee si liquefano. Qui egli disfa anche la relazionalità e la rapporta a una non relazionalità, rischiando il silenzio. "Intanto parla. Parla come scrittore o come filosofo? "La separazione fra un filosofo e uno scrittore non sta nel fatto che il primo analizza un cominciamento rigorosamente fondato ,e il secondo un panorama. O meglio, sta nelle conseguenze di ciò. Il filosofo deve avere sempre ragione e prevenire, prevedere tutte le obiezioni fattegli dal Sé e dall'Altro. Mentre per lo scrittore scrivere è — almeno fino ad oggi — farsi 'silenziosi come un morto'. Lo dice Barthes in Tel Quel, n 16, 1964: 'Scrivere è offrire agli altri di chiudere loro la tua propria parola, tendere loro senza dir niente questo rovescio muto delle nostre parole, sul quale lo scrittore non può mai finire di testimoniare, perché le sue parole hanno un bell'andare, rimane sempre in lui un silenzio.' "Anche respingendo che l'arte tenda al bello e la filosofia al vero, e volendo un'arte vera e una filosofia bella, una diversità fra i loro discorsi rimane. Questa: l'arte è più indifesa di fronte alla distruzione della autoconsapevolezza, e la filosofia è più
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agguerrita, in quanto è autoconsapevolezza ; il filosofo deve tentare l'ultima replica a se stesso. "Da qui deriva il mio amore sviscerato per la filosofia, poiché io sono una brace perenne di autoconsapevolezza infernale; amore che supera l'amore per l'arte, dove la consapevolezza è suicida e quindi deve legarsi le mani per non rovinare tutto. La filosofia sembra sublimare l'autoconsapevolezza più folle, riscattarla. Prima di morire al fuoco di essa, divorata da essa che si autodivora, la filosofia se ne illumina e lancia un ultimo bersaglio molto simile alla verità o ad una verità verosimile. Perciò ora cauto ora vorticoso il feto si aggira tra le filosofie, va di qua e di là, facendo una spola dannata, disdegna l'arte e le sue facili certezze mute. "A meno di non scoprire d'un tratto che tutta la filosofia non è che arte, che Hegel era un grande romanziere e che l'autocoscienza e il ragionamento non sono la morte dell'arte ma gli unici modi odierni di essa. In questo caso soltanto la scienza si contrapporrebbe all'arte. Ma quale scienza? "Non sono mai riuscito a credere nella autonomia della letteratura, della funzione estetica e delle sue tecniche intrinseche. Troppo a lungo ho voluto scrivere senza fare lo scrittore. Sono ambivalentissimo verso la letteratura. Forse vorrei giungere ad essa senza volerlo. Anzi, mirando altrove."
CAPITOLO TERZO
L'io E L'IO DAL 1940 A OGGI
Nel 1940 a Roma il feto di Lucioli parti filosoficamente. Non è arrivato di colpo al dramma della scelta dentro il tunnel nero del monomaniaco e non si trova oggi come un ossesso al punto di ieri. L'antinomia, e la conseguente smania di relazionalità, è stata la sua costante ma non llia buttato fuori dal mondo — visto che non si è suicidato. Ha camminato sempre in discreta culturale compagnia, anzi — dice Lucioli nella "Autobiografia culturale" — Lucioli sostiene che la sua vera passione è l'epoca. Nel 1940 Lucioli scopri all'improvviso che ogni oggetto passa per il soggetto, il quale lo precede, lo filtra, lo modella e tutto sommato lo crea. Riteneva che anche volendo da questa legge non si può uscire: qualunque cosa è posta fuori del soggetto, vi è posta dal soggetto. Più che una legge era un destino. Il soggetto si sforzava di pensare un qualche oggetto che permanesse autonomamente da lui: per esempio il tavolino quando egli non lo pensava. Impossibile. (Assurdo). D'altra parte era anche assurdo che il tavolino, senza il pensiero del soggetto, sparisse. Il tavolino, si, non c'era prima che lo pensasse e non c'era più quando aveva smesso di pensarlo: ma dove veniva sistemato l'altro pensiero,
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la certezza che il tavolino c'era anche quando non lo pensava? Lucidi giovanissimo si dibatté fra l'idea che il tavolino c'era anche quando non lo pensava e l'idea che, quando non lo pensava, non c'era. A quel tempo Lucioli ignorava dove abitassero la percezione, il cogito pre-riflessivo, il tempo ecc. Nella sua filosofia (sua per modo di dire) il tempo non esisteva affatto (e tutta la storia era storia contemporanea); il tempo esisteva soltanto nella sua vita, infatti il tempo c'è solo dove c'è l'esistenza e l'esistenza solo dove c'è il tempo. Per lui la filosofia era tutta fuori del tempo e la vita tutta dentro il tempo. La filosofia aveva il vantaggio di essere più vera e più lògica; la vita era ingannevole e oscura ma aveva il vantaggio o il difetto schiacciante di ostinatamente durare. Il soggetto adolescente non si raccapezzava, conteso tra una filosofia brevissima, anzi istantanea, e una vita lunghissima, eterna (allora non pensava nemmeno alla morte), vissuta nell'equivoco che il tavolino ci fosse anche quando non lo pensava.' Ubbidire alla verità dell'istante o alla cocciutaggine dell'errore? Abituandosi alla pre-potenza fatale del soggetto e in fondo, tra il tavolino e il pensiero, scegliendo il pensiero, Lucioli affinava quest'ultimo, lo lucidava, finché si trovò in mano un puro pensiero pesante, un atto puro. Egli era un attualista, e la vita continuava ad andarsene malamente per conto suo: sempre meno atto, sempre più fatto e sempre meno pura. Nell'inverno tra il 1943 e il 1944, fra la carestia e sotto le bombe crollata la Nazione, per non parlare dèlio sbriciolio dello Stato Etico, crollato tutto, il soggetto pensante si sente nell'occhio di un ciclone di scetticismo. Si attacca subito alla maniglia non sradicabile che di tutto si poteva dubitare
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tranne che del dubbio. Vi resta attaccato pochissimo. Dall'astratto del dubbio certo scende nel concreto dell'antinomia, come ambivalenza invece che come scetticismo, è la sua vocazione; non crede nella certezza del dubbio, ma nel problematicismo assoluto dell'esistenza. Quanto alla scienza, sa a mala pena che esiste. La filosofia fugge in alto come un vapore caldo, in basso la vita antinómica, come ricerca, la sostituisce invadendo l'area depressa, vuota. Dove va a finire il soggetto? Da nessuna parte perché scompare. Non scompare per merito di Pantaleo Carabellese. Il soggetto aveva frequentato brevemente l'oggettivismo di Pantaleo Carabellese, è vero; ma più che un'epoca, fu la curiosità di vedere che cosa succedesse dalle parti degli infedeli. Incredibile, l'oggetto si poneva, lui, come essere. E come faceva? Abbagnano ha detto che la filosofia di Carabellese "è il capovolgimento simmetrico dell'idealismo attualistico di Gentile."1 Il soggetto di allora non lo sapeva cosi chiaro, ma aveva subodorato. Purtroppo in qualcosa Carabellese non capovolgeva Gentile, andava per il verso di lui; quando scrive: "... queste parole che io scrivevo nell'immediato dopoguerra e poco prima che un Uomo, certo non filosofo, risolvesse la crisi politica italiana e cominciasse ad additare al mondo una nuova via di concreta politica.'" Il soggetto sparisce. Due scienze della vita difficile, poco attente all'ontologia (dov'è e che cosa è l'essere), lo scalzano riducendolo una esilissima striscia, una riserva per gli indiani; o anche, lo ibernano: non lo uccidono, è pur sempre immortale. Il freudismo e il marxismo, approfittando della bancarotta esistenziale del soggetto e di quella economica dell'oggetto, li sostituiscono e li trasformano
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in enti più precisi: Io e proletariato. Spostano il cominciamento dal soggetto ai determinismi che lo determinano: quindi, nel mondo della vita, lo precedono. II soggetto in teoria può dire che questi determinismi ci sono perché li pensa lui. Però non lo dice. Quando l'Io constata tutti i giorni di essere debolissimo maneggiato dall'Es e dal Super Io e condizionato dai modi della produzione, non è interessato al privilegio della coscienza soggettiva. La quale, se non la si pensa, non c'è. Il salario e l'angoscia non moderata sono il soggetto creativo perché determinante. È sbagliato dedurre che il soggetto rinuncia del tutto al suo a priori, e si vende al ricatto della vita difficile. Il soggetto smette di fondare l'esistenza sull'a priori come una ragazza accantona l'amore eterno avuto nell'adolescenza per il cugino, e sposa un uomo che la faccia entrare veramente nella vita mentre il cugino si rivela disappetente e alquanto impotente. Il soggetto si nasconde a se stesso. Non agisce più come autocoscienza ma come coscienza dell'inconscio, cioè disseppellimento di sé con l'aiuto di un altro, il terapeuta; e come coscienza di classe, cioè affiancamento al proletariato con l'aiuto di un altro, il partito. Sia il terapeuta che il partito capiscono la storia mutandola: nel Quarantacinque si è avuto il diapason della comprensione come mutazione. Il soggetto-Io cerca di irrobustirsi praticamente con l'aiuto dei freudiani; fatto ciò accantona il soggettivismo e l'individualismo, senza però mai sbeffeggiare quest'ultimo: avrà sempre rispetto per l'unico individualismo onorato, quello psicologico. Ma lo accantona. Né ha ancora capito bene se il tavolino ci sia quando non lo pensa, o non ci sia.
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Ugualmente parte per l'unica missione degna, unico vero impulso di coscienza come conoscenza: la scoperta della realtà (sociale) per meglio mutarla, la verifica del materialismo storico nella sua sede prediletta: la fabbrica. All'Io non importa sapere se la realtà c'è o non c'è, non ha sentimenti d'irrealtà, ha angosce legate alle difficoltà della realtà. Il Mondo è la Fabbrica, la quale preesiste all'Io; al soggetto, all'atto puro, all'antinomia, alla ricerca, all'arte, all'amore, alla coscienza e alla conoscenza. Esserci vuol dire essere-nella-fabbrica. Il mondo come fabbrica ha scavalcato l'io. Anzi l'Io è la Fabbrica di cui noi siamo gli oggetti. Il vecchio e piccolo io, rinforzato ogni tanto da gratificazioni, amori, medicine, conforti privati che lo tengono in piedi, apparentemente sistemato circa l'individualità e dimentico totalmente della coscienza di sé, non bada che a prendere coscienza della classe, cosi come la classe deve prendere coscienza di sé. Coscienza che è conoscenza. Il vecchio pensiero pensante non pensa se stesso come pensiero pensato, ma pensa la conoscenza dei rapporti di produzione e tale conoscenza è la speculazione filosofica massima, perché la prassi fa da ontologia e gnoseologia. È cosi che un soggetto di origine borghese idealistica metafisica e problematica diviene un capo di squadre che vanno a esplorare l'infinita problematica dell'oggetto sociale, i determinismi economici e le maniere per romperli. Egli non si rende più conto d'essere innanzitutto problematico e antinomico, perché la problematica è ancora più nelle cose sociali che in lui e l'altalena antinómica ha un salto che la sferza verso la dialettica: la rivoluzione. (A proposito di questa: un forte residuo di soggettivismo nel vecchio-nuovo io c'è, ed è diffidatissimo, borghese e
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radicale: quale istinto più a studiare, elaborare, narrare, che a mutare; quale paura del sangue). L'io è falsamente forte, falsamente estroverso. Si è sepolto e soffocato sotto la coltre del dramma economico e tecnologico, ma spesso ci proietta le proprie contraddizioni e antinomie (la rivoluzione intanto è stata rimandata) e ne è diviso da una sbarra del carattere (è un io egocentrico, fortemente solitario) prima ancora che di classe. Qualcuno avrebbe potuto farsi bello denunciando che l'io cercava a spese della classe, nella coscienza e nella conoscenza di classe, un modo per sfuggirsi e rinviarsi. L'accanimento onesto che metteva nell'insinuarsi nella prassi e nella lotta di classe — soffrendola sinceramente — poteva essere il trasferimento di un accanimento, accantonato, verso di sé. Insomma l'io serviva alla classe, o la classe all'io? L'io respinge sia l'accusa sia l'interpretazione riduttiva, perché vuole salvo il valore ideologico del suo impegno, non è un neurocomunista e non ammette che l'impegno venga strizzato a nevrosi camuffata: c'è una punta di diamante sulla cima dell'impegno che è irriducibile, quando l'impegno è storicamente giusto. Però percepisce che è vero che si sfugge e che non vuole pensare a sé. Si rinvia. Si rinvia. Per anni il suo male sotto la crosta manda un filo di pus, glielo dice l'ansia, il biancore che spesso lo stordisce, il nero di seppia dove affoga spesso. Aspetta, rinvia. Il biancore è l'attesa e il nero l'angoscia. Fa tutte le cose come fosse l'ultima volta che le fa. Il domani deve sempre essere migliore dell'oggi, un riscatto. Crede sempre nella classe, ci sta attaccato, non parla d'altro, ma quanto a sé si comprime, come uno che si schiaccia sotto le mani la parte malata. Non si sfoga mai.
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Infatti il vulcano dell'Es salta all'improvviso un'estate a cavallo degli anni cinquanta e sessanta mentre il proletariato si arrende nelle mani del neocapitalismo. L'io viene scoperchiato facilmente dall'Es che erutta lave, fumi, cenere. Si deve provvedere affinché l'io non vada in mille pezzi. La vita privata, il tempo, la quotidianità, la malefica coppia dei due inseparabili, l'ansia e la depressione inseparabili come il fango e la polvere, e l'affettività che si infischia della conoscenza di classe e della realtà — tutti insieme urlano, isterici, precipitosi, guidati da un'ansia cui un minuto sembra un mese. Vogliono occupare tutto e mettere nel primo cominci amento pratico la loro propria prassi. Un pezzetto dell'io emerge fuori del diluvio e smania per salvarsi con pillole, sostegni, terapie specifiche assolutamente individualistiche. Io, Io grida. È succube ideologicamente di queste terapie, vuole essere dogmatico; il malato di cancro sottilizza sulla composizione e la filosofia della cellula? La crisi con la realtà (realtà tout court) è vissuta come una ossessione e una fantasticheria che subisca l'Io e il Mondo. Dibattendosi l'Io è cosi impegnato a non farsi inghiottire dal proprio individuale naufragio, che qualsiasi idea generale, approdo collettivo lo esaspera. L'Io di Lucioli è sempre stato allergico a pasticciare il pubblico col privato, avvertendo fin troppo Io spacco tra il pubblico e il privato; non intende cercare calmanti nelle accuse alla civiltà moderna (perciò, quando la accusava veramente dalle file di un partito rivoluzionario, non intendeva passare da neurorivoluzionario). Preferisce ritirarsi nell'orto; è un animale che quando è ferito si nasconde per non mostrare il male indegno di cui si vergogna. L'io sta completamente sciolto, liquefatto come
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una medusa, un pus, nelle antinomie dell'esistenza senza poterle teorizzare; per la seconda volta la vita si fa viva assolutamente: vita privata, solitudine e confronto con l'alternativa assoluta, la morte. Quando sta scegliendo tra la vita e la morte il soggetto pensa al rapporto gnoseologico con l'oggetto? Interesserebbe fare una statistica dei pensieri dei soggetti durante le agonie, per ricavarne se in agonia esiste filosofia. Persino colui che è sempre vissuto per la morte, che cosa pensa addosso alla morte? Persino Cristo chiese al Padre di risparmiargli qualcosa. (Aggiunse: "Non come voglio io, ma come vuoi tu" e questo è rivoluzionario, perché l'uomo vuole sempre che il calice gli sia risparmiato come vuole lui: il Padre è onnipotente, perciò agisca, ma lui si crede più onnipotente ancora, perciò gli ubbidisca. Il soggetto vuole essere aiutato come un debole e nello stesso tempo ubbidito come un forte). Lucioli viene alle mani con una lista spaventevole di dilemmi nudi che per eliminatoria si concentrano nel dilemma finale, e cosi egli impara a salire tramite la dialettica fino alla dialettica tra vita e morte, che è per forza antinomia. La scala dialettico-antinomica perviene allo snodo tra la vita e la morte per mezzo della tentazione del suicidio. I venti contrari impazzano e si risucchiano il suo cervello. Ogni tanto cade il vento e Lucioli sprofonda: non gli serve nemmeno la calma del vento. Viene una sorta di guarigione, una pianura con un lungo accantonamento dell'antinomia, simile (da fuori) a una soluzione o a una distruzione delle basi istintuali dell'antinomia. Dall'Es rispunta l'Io e il soggetto si sporge dall'Io riprendendo i rapporti con l'oggetto, chiamandolo Altro e Tu, e chiamando l'oggettività intersoggettività. Nella pianura si imbatte
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sul sentimento d'irrealtà. Arriva un'ondata di nuova cultura prima fenomenologica e poi scientifica, la prassi rivoluzionaria si affievolisce, la scoperta socioeconomica ormai è stata fatta: l'Io-soggetto si rimette a pensarsi, anzi a percepirsi. Comincia ad amoreggiare con le scienze. Si riallaccia alla propria gioventù rimasta in sospeso quando fu sacrificata al proletariato (le gioventù tardive non sono mai buone; ma viene fatto un ripescamento di studi sulla fisica, del tempo della adolescenza); il soggetto riaffronta la questione del tavolino, se c'è o non c'è, e anche del tavolino spiritico; e studia il secondo principio della termodinamica; l'avanguardia lo mette nelle mani della teoria dell'informazione. Questa volta il mondo della vita, l'esistenza, il tempo, il corpo non gli scappano più. D'altronde ritrova filosofie che hanno le stesse intenzioni e scienze che generalizzano la vita ma non ne fanno polpette. Trova un pallone filosofico contemporaneo ben ancorato allo spazio e al tempo. E lui, Lucioli, non lo beccano più con l'atto puro. Lo chiamerà, semmai, sentimento d'irrealtà, e da un'altra parte si sforza di farsi un abito logicomatematico. Pianissimo, circospetto, timidissimo il feto filosofico scende dalle periferie in centro, si rifà vivo con le filosofie e le epistemologie e comincia a camminare su e giù con le corte gambe antinomiche, che reggono una testa quasi di filosofo. Trova la sua gioia nel costume interdisciplinare dell'epoca e partecipa alla morte delle ideologie, per quanto l'ideologia della morte delle ideologie rimanga sempre viva ed egli sia un malcelato metafisico. Sfoga nell'accostamento fra le discipline a-ideologiche la sua smania relazionale (la follia dei nessi). Come un capostazione in vacanza cui regalino un'intera stazione, egli aggancia
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e sgancia, sposta le locomotive, forma convogli, fischia, alza la paletta, manovra gli scambi. Gli sembra che i treni partano ormai per due direzioni essenziali: la direzione per la quale "possiamo partire solo dall'uomo e da noi stessi, non perché vogliamo fare cosi, ma perché non possiamo che fare cosi (Paci)"3; e la direzione della verità scientifica "oggettiva" nella quale rovesciarsi con un comportamentismo senza residui di coscienza e con una teoria della conoscenza che non sia gnoseologia ma epistemologia. Sa già naturalmente le obiezioni alla prima e alla seconda e i rapporti fra le due direzioni, come la prima sia dichiarata liquidata e la seconda non riesca ad abolire i màrgini metafisici, specie quando è scienza dell'uomo. Questo è un asse direzionale della sua stazione. Un altro asse ha, nella sua fantasia, ad un estremo la città della contemplazione e ad un estremo la città della mutazione. I due assi sono posti in croce greca e schematizzano la bussola dei venti contemporanei, che ha naturalmente tutti i suoi assi intermedi. Egli sta in equilibrio instabile sull'ago della bussola, la vede agire, fermarsi, rabbrividire, ripartire. Egli è come un capitano di lungo corso in attesa di imbarco. Come un parassita, perché non sa inventare visioni del mondo, solo montarci a bordo. Perciò da un momento all'altro, gli si chiederà di incamminarsi modestamente a piedi verso una direzione inventata da altri, di scendere dalla punta dell'ago della bussola e, come tutti, monovalente, marciare passo passo incontro a un unico vento cardinale.
CAPITOLO QUARTO
IL MALE FINALMENTE
Mutazione e contemplazione: questo asse di Lucidi serve, perché facciamo l'ipotesi che al fondo di un rapporto gerarchico vi sia la necessità-desiderio di mutazione; al fondo di un rapporto paritetico il desiderio-necessità di contemplazione. (I vocaboli mutazione e contemplazione vanno ora intesi in senso largo, con molti sinonimi e varianti di significato). Pariamo subito l'obiezione che anche il rapporto paritetico vuole e può mutare; o che addirittura serve a mutare più del rapporto gerarchico, perché più nuovo e più vero. Certo, esso è in brillante sviluppo e non lo consideriamo affatto ozioso, indolente. Ma la nostra ipotesi è che al fondo del rapporto gerarchico vi sia l'urgenza della mutazione. Prima di tutto, perché la mutazione? La reclama un fatale istinto dell'uomo al cambiare, come se vivere fosse cambiare. Questo cambiare non ci interessa. Un altro mutare è quello aggressivo, la rivoluzione permanente, la protesta, l'autoaffermazione; il mutare che per inerzia dura quando i motivi che lo imponevano non lo impongono più: è l'esasperazione della ragione dialettica. Ci interessa relativamente.
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Il mutare che ci importa è aizzato da uno stimolo specifico e oscilla da una massima a una minima urgenza, proporzionali alla forza e alla vicinanza dello stimolo specifico. Lo stimolo è il male. È il male di chi dice "Ahi, che male"; non è il male, figlio o padre di un'etica. Al contrario: il continuo accantonamento di un'etica deriva dalla presenza o dallo spettro di un tipo non etico di male. Il quale si veste anche da alibi e proprio da alibi morale, quando si cerca in questo tipo di male, magari tenendone artificiosamente in vita le ultime code, la scappatoia alle note e sgradevoli responsabilità del bene. Ogni psicologia del profondo conosce i grandi vantaggi secondari che il malato ruba al male. Un esempio sociologico (per analogia) di attaccamento ai beni del male lo dà la politica, nel vizio dell'opposizione permanente: la quale teme la responsabilità logorante del governo, la rinvia all'infinito, preferendo lo scacco e tutti i suoi piaceri, al potere. È l'opposizione, il cui scopo pare lo sradicamento del male sociale, ma che finisce per vivere di questo male e,per alimentarlo. Il male mette spesso la maschera di alibi. Fa comodo. Il male è il più sicuro dei rifugi ed è il tipo di fuga che ha più eventualità di venire rispettata, onorata. Per uno accerchiato dalla vita, la risorsa del male è un sollievo aggressivo. Ma noi qui discorriamo di un male già distaccato dal proprio essere alibi e che sia stato riconosciuto come male i cui beni sono senz'altro inferiori a quelli del bene, da parte di uno il quale ha preso coscienza che, in ultima analisi, difendersi con il male non conviene. E ciò accade. Si trova nell'uomo sempre una zona superstite desiderosa sinceramente di bene. Per essa, il male fa del male agli altri, ma più ancora a se stes-
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si, e quindi viene ritenuto con certezza un "malefregatura". Male non etico, non religioso. Il malato desidera guarirne o può esserne talmente ammalato da non desiderarlo: allora è un Altro colui che desidera guarirlo, sempre vi sarà al mondo qualcuno spinto a guarirlo, a farlo scomparire, perché è una minaccia per tutti. Assume l'aria di un male esistenziale, invece non lo è. Meglio, lo è e non lo è, perché somiglia alla disperazione esistenzialistica ma l'uomo lo vive come storico, quindi esige di guarirne. Malattia dello spirito, è una malattia dello spirito come fosse una malattia del corpo ed è una malattia del corpo come fosse una malattia dello spirito. È in certo senso oggettivabile, isolabile scientificamente ed estirpabile; la sua gravità è accresciuta dall'essere estirpabile perché essere estirpabile significa che se non lo si estirpa, si aggiunge al male il male del dolore terribile che non sia stato estirpato, dal momento che si poteva. Nonostante questo, uno dei peggiori mali del male è la lotta contro il male. Lotta necessaria, fatale, "libera". Ma la lotta contro il male è già il male. E l'aquiescenza al male è il male. Fuggirlo e deciderlo è il male: e io lo decido e lo fuggo. È monotono e si presenta con meccanismi monotoni da situazioni sempre varie. Ha una maschera fissa e mille sfumature diverse. Non è prevedibile, neppure da chi lo conosce bene: pur essendo sempre uguale, ogni volta sembra nuovo e cosi scompagina le difese dell'esperto, che crede ogni volta di trovarsi di fronte a una combinazione tutta nuova. Sorge da un episodio qualunque, aneddotico, della vita e subito si gonfia come una enorme nuvola dietro cui il sole più che scomparire, muore. È fatale,
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ma non ci si rassegna ad esso, perché non istilla alcun sentimento di rassegnazione. Stretto fra il contingente e l'eterno, fra l'uomo e Dio, somiglia poi a una colica. E oscillando fra l'esistenza e l'organo, si giova dell'esistenza e si giova dell'organo: quando si affievolisce il suo senso esistenziale, si butta sul senso organico e quando il senso organico svanisce si mette a succhiare l'esistenziale. Si nutre d'essere una disperazione diffusa e un colpo localizzato: approfitta a turno o contemporaneamente della propria natura di nera paralisi e di squarcio rosso. Sostiene con la stessa sicumera di essere l'effetto di una causa buia e l'effetto di un motivo lampante, avendo pronta sia la faccia della disgrazia scagliata dal destino esterno, sia della disgrazia che uno continua a procurarsi seguendo la logica coatta della propria vita. La lotta contro il male devo farla da solo o aiutato? Aiutato a farla da solo. Cosi ho tutti gli svantaggi dell'aiuto e della solitudine. Essendo Un male a metà non rimane mai a corto di sostanza; è contraddittorio e la contraddizione lo rafforza, perché c'è sempre uno degli opposti che lo alimenta. Mai che la contraddizione lo indebolisca. Ripeto, l'uomo ignora se ne è responsabile o no, e uno dei più laceranti dolori di questo male è l'incertezza fra il sentirsene vittima e responsabile oppure vittima e innocente; ebbene, l'uomo lo prova di più, questo male, quando vede che non sa a quale fonte attribuirlo: Dio o la sorte, il meccanismo o la libertà, l'esistenza o l'inconscio o l'inferno. O il gratuito. In continuazione la causa e l'effetto si scambiano i ruoli. Sembra nato da una causa, e poi si vede che quella causa l'ha causata lui.
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L'uomo è incerto ma il male non lo è, e l'uomo non è incerto del male, il quale dichiarandosi attraverso il dolore ha scelto il più indiscutibile dei sintomi e la presenza più indiscutibile. Tale dolore non è semplicemente l'angoscia. L'angoscia è pur sempre possibilità, questo male è angoscia più qualcosa: una stasi, una certezza assiomatica. Se l'angoscia crede di scegliere, il male non sceglie più avendo già scelto se stesso come unica e statica certezza (cioè come depressione totale). Il male è inequivocabile nella sua forma, e nei suoi contenuti è solo e soltanto male. Si fa percepire, vivere, pensare univocamente. Chi è pronto a dubitare di tutto, non dubita di esso. Prendiamo un uomo nel dramma della scelta accompagnato dalla impossibilità di scegliere. Lo immaginiamo angosciosamente e regolarmente colto dalla follia del dubbio che lo trascina a dubitare di qualsiasi evidenza, compresa quella del dubbio. E, ovviamente, dubita di se stesso, può dubitare di se stesso; basta che si rapporti bruscamente a se stesso, che subito si disorienta e in ciò che non dovrebbe essere suscettibile di disorientamento: il fatto d'essere vivo. Una vertigine appanna l'immobilità evidente del dato (l'ergo sum), vela di polvere lo specchio dove uno istintivamente percepisce se stesso: del resto è uno dei modi legittimi di provare sentimento d'irrealtà. L'uomo come Lucidi si domanda a ragione: penso o non penso, sono o non sono? Senza che questo dubbio sia una prova di certezza del dubbio e questa certezza una prova di pensiero e questo pensiero una prova d'esistenza. Eppure il medesimo uomo non è capace di ingannare se stesso e nessuno chiedendosi: soffro o non soffro? Per l'evidenza del male non esistono occhiali affumicati, bende. Il male non è
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problematico, anche se tipicamente partprito da una problematica. Nessuna sottigliezza mentale riesce a vivisezionarlo come un corpo estraneo, a spengerlo intellettualizzandolo con anestetici culturali. Ogni coscienza, intellettuale o sensitiva, del male, ne aumenta l'essere, la vicinanza col nulla non lo diminuisce di un'unghia; la coscienza del male non è una distanza da esso, è la sua moltiplicazione all'infinito. Che il soggetto subisca il male o lo scelga, che poi lo viva o lo pensi, lo veda in trasparenza od opaco — il risultato è sempre che il male aumenta. Il male è aumento. La sua legge interna è che ogni palliativo, ipocrisia, mosca cieca, razionalizzazione egocentrica o sociocentrica, ogni rimedio abitualmente efficace contro le pulsioni e ogni ritirata strategica e nullificante davanti agli istinti che da essa vengono sfuocati —. anziché indebolirlo lo rafforza. Non si lascia sviare da nulla e tutto l'aizza, la stasi, la frenesia. Distrazione, problematizzazione, ambiguità, diventano presenza, certezza e univocità. Se dentro è variegato, poroso, elastico, infine è monolitico. Altri mali conducono a uno stordimento che stordisce il male; altri ancora sono fatti cosi che quasi se ne desidera l'aumento, l'accelerazione fino a una massima acuità da cui ci si può aspettare uno stancarsi e uno svariare del male. Questo ha per unica autoregolazione una crescita a spirale senza fine. Tuttavia (si insiste) è vissuto come circoscritto, guaribile, consolabile. Ma tranne la consolazione che 10 guarirebbe — che uno immagina che lo guarirebbe, perché chi lo sa — ogni altra consolazione fa peggio. È come un pugno su un cranio già sfondato. Il malato si guarda intorno e si confronta con una figura sana di sé, che c'era, che forse ritornerà: 11 confronto aizza il male. Lo stesso, per il confronto
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con il proprio simile che non ha questo male, e con il proprio simile che ce l'ha. Questo male è di tutti, può afferrare tutti, ma ciascuno ne percepisce la irripetibilità e la solitudine. È un male dell'umanità che ciascuno vive come propria miseria esclusiva e qualcosa che condanna lui solo; la vicinanza a un altro male simile non reca nessun conforto. Anzi inferocisce e insieme tedia. Due disperazioni — cioè mali — vicine, si sommano sempre e non si elidono mai. Non parliamo di consolazione: due malati di questo male se si sfogano insieme, si esaltano brevemente e poi ricadono più in fondo, più marci e più isolati. Questo male sembra che debba occupare un solo uomo per volta. Però non lo distacca nella solitudine completa: lo apparta quel tanto da umiliarlo. Debbo ripetere continuamente che non è una disperazione totale. Ma condizionata. Il condizionamento è un limite e un muro; cosicché il male ha dove rimbalzare di continuo, una parete contro cui riprendere forza e contenuti. Lo si vede bene quando il sonno lo interrompe; al risveglio per esempio, il male sta per un attimo disorientato, quasi è svanito. Subito trova l'appoggio veristico su cui rizzarsi e da cui rimbalzare cominciando a moltiplicarsi per eseguire la propria legge. Dunque il muro, la non cosmicità, è importante per lo sviluppo fisiologico di questo male. Confronto un grande lago col mare. Nel lago in tempesta l'uomo è preso da onde secche, corte, contraddittorie, mulinanti, arricciate, cupe, infide, meschine. La tempesta del mare è assai più maestosa e univoca, meno camuffata di normalità e come il mare si stende tutta verso una direzione infinita, con l'immagine di un traguardo dove si sgonfi da sola sopra il mare che prosegue. Il male è appunto la tempesta in
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un lago molto grande, ma per forza circondato da bordi chiusi: la tempesta nel lago si giova sia della grandezza sia della chiusura, come il male. In cui sono a convegno torture grandi e degne come quelle della passione e della morte, e meschine, rachitiche come quelle del sotterfugio, dell'invidia, della vergogna, della bugiola. È un male forte come un grande rispettato dolore, un lutto, una sofferenza shakespeariana; piccolo-borghese come un dolore gretto, isterico e derisorio. Un'apocalissi con spunto da tran tran. È grande come un male grandioso, molto più grande perché è anche ridicolo, e ci si scherza sopra. Nessuno lo ammira, nessuno ci si specchia, nessuno se ne vanta. Non esiste un posto al mondo per nascondersi a soffrirlo dignitosamente e a se stessi non lo si nasconde né stando bocconi o supini o camminando o seduti. Non demorde né con la immobilità né con l'agitazione. Scuote se stesso indifferentemente e pullula col suo ritmo a spirale, regolare, sia che l'uomo corra, sia che si guardi le scarpe. Prendendolo come un malé del corpo, l'uomo si mette a letto; ma poiché è anche un male dello spirito, sdraiato sta peggio. Si rialza, perché non è un male del corpo. Si rimette a letto perché non è un male dello spirito. Si rialza. Si rimette a letto, e via di seguito. Benché si disprezzi, è esibizionistico. Questa contraddizione ci pare la più spiccante. È il fondo della vergogna; ma spesso si espone, indecente, mal ridotto, come fosse una Miss. Dice che nessuno può venirgli in soccorso. E chiede il soccorso di Dio, di un uomo, di una portinaia, di tutti. Non ha il pregio d'essere malattia né quello di essere metafisica. Antinomico, non si media. Non si rapporta che a se stesso. La sua dialettica è interna a lui e serve a farlo crescere di sintesi in sintesi sempre più alto. Ma se la tesi è il bene,
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questa tesi non arriva fino alla sua antitesi di male: bene e male hanno le braccia troppo corte per abbracciarsi e superarsi in altro. Insomma non c'è sintesi. Lo controprova il fatto che lo può esprimere chi non lo soffre più, ma allora lo dimentica; chi lo soffre, mentre lo soffre, non può esprimerlo. Quindi gli manca quella sintesi espressiva che di per sé è un bene; non permette rapporti fra parola e mutismo, fra parola e mutismo c'è un salto della qualità: il mutismo lo spreca, la parola lo perde di vista. Quando c'è, ha orrore della inutile parola; quando non c'è, la parola non ha più contenuti. Non è però ineffabile come il sentimento d'irrealtà: è sterile ed è un silenzio irrecuperabile. È il negativo che non entra in circolo col positivo, è il positivo che non recupera il negativo; è frustrazione, impotenza, vigliaccheria. Soffia sul fuoco della passione e poi lo annaffia. Per evitarsi si succhia tutte le medicine immaginabili e tutte le medicine, anche buone, lo avvelenano ancora di più. Definirlo negativamente all'infinito a che serve? Il soggetto, suo oggetto, lo definisce negativamente in silenzio, fuggendolo. L'assioma è che il soggetto ha sempre la possibilità di vivere questa disperazione insieme trascendentale e di fatto e che non vuole viverla. A tutti i costi si tira indietro. La definizione del male è il fatto che viene assiomaticamente rifiutato: è definito in quanto è fuggito e solo la fuga da esso lo definisce veramente. Nessuno lo cerca mai per definirlo. Che cosa è questo male? È ciò verso cui l'uomo non ha dubbi. È l'evidenza urgente, la verificabilità assoluta. Esso è il cominciamento, perché non importa se la sua natura sia o no problematica. L'atteggiamento
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pragmatico verso di esso non è problematico. È dogmatico. Ma non interessa al soggetto di consegnare questo male dalle mani della psicologia e della psicosociologia in quelle della teoretica e della dogmatica (Kierkegaard), allo scopo di "porlo" e di fondarlo rigorosamente. La sua guarigione non consiste nella sua fondazione, ma nella sua scomparsa e la sua terapia viene molto prima della sua metafisica. Esso non si guarda alle spalle per controllare il proprio cominciamento: si verifica da se stesso e per l'uomo che lo soffre ogni altro cominciamento è compreso nell'area del male. Quando c'è, è il dato assoluto. Quando non c'è, è lo spavento, la possibilità, assoluti. È la certezza e la possibilità. Nessuno lo augura a nessuno, ma nessuno ne è indenne a priori, giacché colpisce l'uomo sia come motore a scoppio sia come vita. A differenza del cancro o dell'infarto che toccano alcuni e gli altri li minacciano da lontano, questo male punta sulla patologia, ma anche sull'essere normale. Questo non è un gioco di parole: significa che questo male è di pochi e di tutti. E che i pochi sfortunati chiedono per se stessi, e legittimamente per tutti, una scienza empirica che prometta di infilarci la leva sotto e di farlo saltare; senza essere troppo spaventati dal meccanicismo e dal naturalismo. (Facciamo il caso di un uomo che lo viva, come succede, anche quale smarrimento cosmico: appena vede la luce grettamente, ottocentescamente naturalistica del bene, ci si getta, la sceglie, altro non vuole sentire). È peggiore della morte. Rende infernale il suicidio perché sfibra la corda dell'istinto di conservazione senza tagliarla. Non è il non-essere; è l'essere in un certo modo cioè lo stare-male. Non ci sono dubbi nella scelta fra questo male
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e il bene, né si sottilizza sull'essenza del bene. Questo male viene prima del dramma della scelta ( o comunque lo segue, ma liquidandolo ), dell'angoscia e della libertà; sempre, quando l'uomo non è libero di scegliere questo male, è obbligato a priori a evitarlo e a non riconoscerne alcuna "positività". Qualcuno, fraintendendo ancora, può considerarlo l'esperienza privilegiata dell'uomo e addirittura ciò che lo divide dalla bestia. Ci sono di questi spiritualisti cocciuti, per i quali non tutto il male viene per nuocere e che si accaniscono a considerare ogni male una porta stretta, sublime, verso la verità. Ma prima del loro spiritualismo, c'è il gesto poco spiritualistico dell'uomo che allontana da sé questo male come assoluta negatività e che, se essere uomo significa riposare spiritualmente sulle virtù di questo male, di essere uomo non gli importa assolutamente affatto. Chi è cosi pazzo da credere che tutti lo provino o lo debbano provare? Tuttavia, siccome colpisce ciò che è individuale e ciò che è comune a tutti, è innegabile una sua potenzialità indiscriminata. Esso dovrebbe trovare il massimo ostacolo a dilagare, nella maturità come non male. Ma l'umanità non è mai completamente matura e non esce mai del tutto dal narcisismo, ottimo fra i canali attraverso cui il male sta in agguato dell'umanità. Come è innegabile che, potenzialmente collettivo e sociale, non è vissuto e sofferto che individualmente, poiché è in gran parte il narcisismo a soffiare sul suo fuoco. Esplode nell'individuo perché la sua miccia e il suo fumo sono la solitudine debole, subita, il solipsismo non forte e cosciente, ma coatto. Non può essere condiviso. Per quanto sociale ne sia l'ambiente, la sua peculiarità è di essere causato e vissuto, in quanto specifico male che abbiamo descritto,
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dall'individuo e dall'individuo solo. Per questo male l'individualismo è legittimo (forse soltanto per esso ) e legittime, non reazionarie sono le scienze per la mutazione dell'individuo. Chi ora in conclusione dicesse che questo male è gratuito e che non ha cause adeguate, precise, gli rispondiamo che questo male è di molto superiore alla somma di tutti i suoi eventuali addendi. Inutile perciò enumerarli, anche se esso poi non è che la somma dei suoi addendi.
CAPITOLO QUINTO
IL FINALE
La certa evidenza del male provoca l'esigenza urgente del mutare per evitare il male; la possibilità del male crea l'allarme e la preparazione di strumenti (non importa se siano convenzionali) atti a mutare, ad evitare. La ricerca del bene — che ne deriva — non è un edonismo o un moralismo ma una sopravvivenza; ed è la prima decisione da prendere. Debbo decidere se voglio vivere o no: alla mia ambivalenza primaria è stata data questa possibilità di una scelta primaria, rifatta in continuazione. È importante stabilire perché dopo essere nato scelgo di vivere e mi genero, una seconda volta, n volte, da me: è l'a priori, la fuga pragmatica dal male. La mia visione del mondo deriva dal motivo per cui ho scelto di vivere, e tale scelta non è affatto scontata. Deve essere fondata. E fonda una teoria primaria di valori pragmatici anche quando tutti i valori sono stati rasi a zero. E segna la differenza fra idea del suicidio e suicidio, idea dell'omicidio e omicidio, idea della guerra e guerra, minaccia dell'atomica e atomica. Il male spinge all'idea tenendo lontani dal fatto e riportando all'idea. Fa oscillare tra un male minore e un male maggiore ed egli si ciba
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cosi del maggiore e del minore, senza che vi sia incompatibilità fra i due mali. Solo contro il morto non ha più poteri e solo un cadavere si beffa di lui, di cui è più potente. Anche il pacifismo deve essere fondato, e non genericamente umanitaristico. A chi non esclude la eventualità di una guerra atomica, debbo poter rispondere con una ideologia primaria, e che non sappia di vaghezze morali, come salvare l'uomo, salvezza dell'umanità, ecc. Gli rispondo unicamente che c'è differenza fra idea del suicidio e suicidio. Tale differenza non è altro che il gesto meccanico che scosta il male: di una meccanica misteriosa, ma certa, tendente alla mistica, rotta soltanto dal mistero dell'ultimo gesto, che si esclude dal campo dell'intelligibile e dell'intuibile. L'unico dubbio legittimo circa il suicidio e contro il pacifismo è l'ipotesi del suicidio universale. Il suicidio collettivo sembra neutralizzare il veleno del male ed è notoriamente una trovata di chi sta in preda al male. Insieme forse al doppio suicidio ( suicidio con la persona amata) il suicidio collettivo si presenta come una buona alternativa: ottiene i risultati del suicidio, nello stesso tempo il farlo in compagnia sembra diminuire il male che occorre per giungere al suicidio, poiché ne eliminerebbe un ingrediente negativo fondamentale, la solitudine. Il suicidio collettivo o anche il doppio suicidio parrebbero addirittura dialettici rispetto alla vita eliminando (cosi fatti in compagnia, che è una specie di garanzia della sopravvivenza) la crudele antinomia vita-morte. Abbiamo trovato la soluzione all'antinomia? Ma c'è il dubbio che anche il suicidio universale si sbricioli in tanti suicidi particolari, dove il male
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fa in tempo ad irrompere con canali separati, persona per persona. E chi garantisce che nel doppio suicidio ( con la persona amata) all'ultimo momento io non mi trovi solo e che mentre lei già rantola io non voglia sopravvivere? Non esiste una macchina che assicuri l'assoluta contemporaneità di due suicidi. Basta uno scarto minimo: posso immediatamente tradire colei con la quale ho voluto morire, sbirciare la sua morte, acchiappare il telefono, gridare aiuto per me. Oppure morire io prima, stravolto dal dubbio che il telefono lo acchiapperà lei. La ricerca, la precedenza non discutibile del mutamento a scopo anti-male chiama a sé il rapporto gerarchico come il più idoneo al mutamento urgente, all'urgenza del pronto soccorso e dell'intervento a caldo. Il narcisismo, che è una delle migliori introduzioni al male, chiama il rapporto gerarchico. Un rapporto gerarchico regola gli sconvolgimenti: la dittatura di un terapeuta (come si può avere quella di un proletariato ). C'è da augurarsi che terapeuta e proletariato sappiano al momento giusto sciogliere il nodo del transfert che hanno annodato. Non desideriamo culti della personalità. Qui giustamente il rapporto paritetico rilancia se stesso: non nega affatto la necessità della mutazione; è il vero rapporto nuovo, maturo, democratico — dice — capace di capire e di capire veramente per mutare; è l'unica garanzia contro il culto della personalità e le piramidi umane; il suo "disinteresse" è alla lunga più efficace del praticismo gerarchico. Può darsi. Voglio solo sostenere alcune ragioni del rapporto gerarchico, che non lo danno per scon-
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fitto senza rimedio dal nobile e olimpico rapporto paritetico. Sono, più o meno, le ragioni per le quali la psicoanalisi non è stata travolta nell'invecchiamento e nella sconfitta del naturalismo, meccanicismo, ecc. Al punto che lo stesso Merleau-Ponty diffidava delle deviazioni idealistiche della psicoanalisi, quelle, per esempio, di Lacan. Lacan, secondo André Green, ha cercato di estirpare da Freud quanto disturba i suoi lettori impegnati in un rigore concettuale, l'eredità del meccanicismo ottocentesco. Ci è riuscito e Freud oggi è considerato dai filosofi francesi. Ma tale conquista ha forse una contropartita, si chiede lo stesso Green. Poiché il pensiero psicoanalitico freudiano "profondamente impregnato di meccanicismo ottocentesco, ripugna per ciò che tale meccanicismo comporta di inaccettabile oggi e desueto. Ma sbarazzato di tale meccanicismo, si squilibra e non cammina più dritto"1. Se dunque Merleau-Ponty diffidava dell'idealismo in psicoanalisi, vuol dire che temeva di svuotarla. Freud il .naturalista non viene svuotato dalla cultura contemporanea perché rappresenta un'urgenza della mutazione al cospetto del male. La volontà di lasciare in piedi la psicoanalisi ha origine nel dubbio che possa sempre servire nella lotta indiscutibile contro il male certo. La cultura non è del tutto sicura di aver debellato o superato il male: non esclude di potercisi trovare faccia a faccia pariteticamente; allora chiamerà il rapporto gerarchico e Freud che, se si presenterà con i ferri di meccanico, di un chirurgo, pazienza. Freud è l'emergenza; una emergenza solubile, disciolta nel tran tran; la quale di colpo può ricoagulare. Una cultura del rapporto paritetico sente il pericolo dell'embolo, come sapesse questo:
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dietro il rapporto gerarchico vi è un bisógno di mutare e dietro il rapporto paritetico ("non dimentichiamo che i batteri ci vedono dall'altra parte del microscopio")' c'è un uomo che non è incalzato dall'urgenza del male. Perché uno è incalzato e uno no? Quale mente, quale macchina sovrintende a questa ingiustizia? Deve pur funzionare una scienza addetta allo studio di questa ingiustizia, a interrogare perché un uomo sia indemoniato e un altro disteso. C'è una cultura indemoniata e un'altra distesa, una generazione indemoniata e un'altra distesa. Dietro la prima si agita per eccellenza una psicologia della mutazione e dietro la seconda una psicologia della osservazione: senza nessuna necessità che la prima sia progressista e la seconda reazionaria, o viceversa. L'altra, fresca marea di una cultura che coinvolge l'osservante nell'osservato, sostiene il rapporto paritetico e lo mette privilegiato al centro dell'orizzonte. Il rapporto gerarchico può venirne oscurato, affogato. Esso qui possiede una botta segreta, ma preferisce non usarla. È la seguente. Collocati nel cominciamento il male, il paziente e la terapia, il mondo diventa potenzialmente una clinica. Uno potenzialmente analizza l'altro, all'infinito; fino a uscire dal mondo e a postulare una meta-analisi, un Dio Analista, non analizzato, un Dio della Auto-analisi. Perciò la psicoanalisi sta attenta a non tracimare dal letto terapeutico ed empirico, a non allagare l'ideologia e la cultura. L'empiria, lo strozzamento della meta-analisi nella culla, servono a preservare la terapia dal giro vizioso.
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Una psicoanalisi tirata fuori dal cassetto tecnico e usata come grimaldello di interpretazione psicoculturale si trova in mano un'arma segreta dirompente capace di penetrare nella cantina di ogni dottrina e di far crollare la dottrina sullo schianto delle sue fondamenta. La lotta è impari fra chi possiede il grimaldello e chi no; il grimaldello è il maneggiamento dell'inconscio al di là della sede tecnica. L'analista, non più dottore e invece ideologo e interpretatore del mondo, avrà sempre la meglio sull'avversario interpretando che se l'avversario grida: bianco!, in realtà nell'inconscio grida: nero! Oltre a candidarsi come psicologia del mutamento, la psicoanalisi si coprirebbe della virtù di smascherare ad esempio coloro che affermano il mutamento ma nel loro profondo, da loro sconosciuto, lo negano. Il grimaldello privilegiato si fa un incontrollabile processo alle intenzioni senza possibilità di verifica. Nella sede tecnica la verifica avviene lungo la terapia e lungo il transfert: nella sede culturale occorrerebbe un tribunale che giudicasse come un giudizio universale, al di sopra delle interpretazioni e al di sotto dell'inconscio. Mancando il tribunale, l'ideologo dell'inconscio sarebbe in grado di infilare la stoccata imparabile al termine di qualsiasi duello. Vittoria troppo facile e pericolosa. Uscito in campo aperto l'inconscio tira botte segrete invincibili. Ma si scopre teoreticamente. Viene perciò richiamato nel suo alveo terapeutico, dove può essere dimostrato. Il suo terreno è quello del male. Non è colpa sua se l'inconscio rappresenta (sul piano del rigore) il punto critico di ogni psicologia dell'inconscio, presa tra Scilla come verificabilità e Cariddi come irriducibilità. È colpa della natura ambigua
287
del male, cui però si contrappone una difesa dal male che nella volontà dell'uomo non è ambigua. Il rapporto paritetico conduce a un'arte che rischia la distanza dalla mutazione operativa. Ma il mutamento operativo riguarda mai l'arte? Vi è nell'arte un mutamento che non sia di se stessa? Se anche l'arte servisse, indirettamente, a mutare, come serve meglio: se nomina semanticamente la prassi del mutamento o se si atteggia nelle forme del vecchio oggetto da mutare trascinandole alla loro estrema contraddittorietà (il vecchio è sempre contraddittorio) sino a farle scoppiare, e a lasciare il posto libero per un ordine nuovo eventuale? Sono alcuni interrogativi della polemica sull'arte. Ad esempio, nell'alienazione sempre più le "cose", ossessive, atone, fenomeniche, si sostituiscono agli uomini, come nell'"Eclisse" di Antonioni. Questo sostituirsi è un effetto senz'altro negativo, cioè subito e alienante, della irrealtà moderna, senza riscatto? Oppure è la miglior forma aggiornata di realismo come protesta ideologica implicita, protesta che non condanna indicativamente quel mondo cosificato, ma lo condanna atteggiandosi a esso? Dalla risposta a questi interrogativi si elaborano nuovi e più articolati concetti di impegno. Per la depersonalizzazione, o il sentimento d'irrealtà che vi sta dentro viene giudicato intrinsecamente inesprimibile perché è al di sotto del livello del linguaggio; oppure i discorsi dei depersonalizzati ricordano il romanziere immaginato da Eco, e in genere dagli sperimentalisti, il romanziere costretto a collegare gli elementi del linguaggio secondo un ordine logico che è quello della narrativa tradiziona-
288
le: e per dare l'esempio di una situazione di disordine (o di relativismo o di ambiguità, la situazione di oggi) ci comunica invece un'impressione d'ordine "ottocentesco" o di assoluto. È il romanziere che crede d'essere nuovo, e al contrario è vecchio. Occorre un nuovo ordine-disordine (quello che una depersonalizzata chiama ordine cosmico?), che non rimetta anacronisticamente un ordine convenzionale nel disordine, ma riproduca il disordine quale esso fenomenicamente è e che si atteggi nei modi del disordine, poiché solo cosi atteggiandosi può descriverlo e giudicarlo. Per l'estetica sperimentalistica bisogna attraversare tutta la palude, e non in barca, alienarsi ad essa totalmente. La tesi è un poco contraddittoria. Eco se ne accorge e precisa che si tratta di una alienazione totale relativa, per il fatto stesso che una rappresentazione artistica del disordine è sempre in qualche modo ordinata. Ma è consigliabile al romanziere e alla depersonalizzata l'attraversamento della palude senza barca e senza bussola, cioè senza un sistema di riferimento che non si imbrogli giù nel fango? Se la discesa agli inferi è reale e non un riscaldarsi davanti alla porta dell'inferno senza entrarci, se l'immersione, atteggiandosi alla disperazione, è disperata, incombe la minaccia che il nuovo ordine della paziente sia il delirio e quello del romanziere il silenzio. Accettiamo il delirio e il silenzio? Il rapporto gerarchico sostiene che ha compreso le intenzioni del rapporto paritetico; che però non sottoscrive il bagno totale; che la mimesi del male, da chi conosce il male, sarà sempre fatta con un piede sull'orlo asciutto di riferimento, poiché la mimesi che sprofonda tutta col male, anche attraverso
289
una rinnovata percezione di esso, è una mimesi ipocrita. Il rapporto paritetico accusa il gerarchico d'essere gerarchico e infatti la peggiore accusa da fare ad esso è questa: di essere un retaggio del male, giustificato dalla sua "non ambiguità". Quando Eco scrive che l'opera d'arte si propone come una struttura aperta che riproduce l'ambiguità del nostro esser e-nel-mondo, quale almeno ce lo descrive la scienza, la filosofia, la psicologia, la sociologia, ha ragione; infatti anche la natura del male è ambigua. Ma non è ambiguo il nostro gesto di allontanarlo da noi, non ostante tutto l'indeterminismo del mondo (contemporaneo). Perché quel gesto fosse veramente ambiguo, dovremmo poter vivere liberamente l'ambiguità che viene ultima nella scala ascendente delle ambiguità, essere disponibili per una ambiguità totale. E invece c'è nell'uomo un pozzo, monovalente. La contemplazione è ambigua? Vorrebbe mirare a un destino molto alto, superiore al rapporto paritetico da cui proviene, al rapporto gerarchico, e alla contesa fra i due. Ed essere l'oggettivazione autentica. Viene glorificata. E ingiuriata. È detta l'unica religione del nostro tempo, uno stato di grazia poetico al di là del paritetico e del gerarchico, un punto d'arrivo (mistico?) eternamente provvisorio ma l'unico degno. È detta anche la schiavitù moderna. Secondo Lukàcs la sottomissione dell'uomo alle leggi di un sistema meccanico si accresce per il fatto che quanto più la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo di lavoro aumentano, tanto più l'attività del lavoratore perde il suo carattere di attività e diviene un
290
atteggiamento contemplativo.5 Dalla fabbrica l'atteggiamento contemplativo negativo infetta tutta la vita contemporanea. ( Il traffico, per esempio. È il nostro protagonista; da anni viviamo di automobili e di cartelli stradali; il risorgimento del dopoguerra e la rinascenza del boom sono stati automobilistici. Alle scuole pubbliche sono state preferite le scuole guida. Camminiamo fra la segnaletica come un cacciatore fra gli alberi, le colline e i filari. Che cosa fare con un paesaggio simile? Un divieto di sosta è migliore o peggiore di un fiore? Lo giudichiamo, lo subiamo, lo irrealizziamo, lo contempliamo? ). Gli atteggiamenti verso la contemplazione, e quindi versò l'oggettivazione, possono riassumere gli atteggiamenti teorici del mondo di oggi, che viene dalla coscienza e si spencola sulla scienza. Per noi la contemplazione vera e ultima potrebbe anche essere il sentimento d'irrealtà. Ma esso è ambiguo. Infatti lo rappresentiamo rapportandoci a esso secondo quel che appare nel fondo di esso, tra le labbra di una ferita che mette a nudo il viscere della realtà1. Se nel viscere della realtà c'è il male, non contempliamo, operiamo d'urgenza. Afferro il bisturi dell'interpretazione subito, curo e richiudo, suturando con il filo della ovvietà quotidiana, filo benedetto, trama dell'ovvio calore dell'esserci. È verosimile che non ci sia il male? Avrei allora un sentimento d'irrealtà senza scadenze apocalittiche, riscattato dai propri orrori, e dal dramma dell'equidistanza, capace di forare lo schermo opaco e ottuso dell'ovvio; somigliante all'epoche fenomenologica, come la terapia analitica ha somiglianze con l'esercizio fenomenologico. Ciò che li separa è la presenza urgente ed evidente del male. Questa presenza affida l'analisi della psiche all'Altro come terapeuta,
291
mentre l'interiorizzazione filosofica è soggettivizzazione senza inconscio e senza transfert. Il male costringe alla discesa agli inferi con il Padre che accompagna. Accanto all'epoche non c'è il Padre. Cosi sarebbe per un sentimento d'irrealtà paradossalmente ottimistico, magari anche misurabile come comportamento, non più frutto segreto del pensiero ambivalente, ma una sorta di fastigio del pensiero Sicuro e Maturo, che si permette una ferita nel tessuto della realtà, perché è un tessuto che si rimargina vivacemente, dialetticamente. Non va mai in cancrena. Allora si, il sentimento d'irrealtà renderebbe possibile la trasformazione del padre in amico, della Ragione narcisistica in Ragione genitalizzata, e la "liberazione dal mondano". "Strano. Ho cominciato a provare e poi ho provato fortemente sentimento d'irrealtà negli stessi anni della mia fase mondana. Strana coincidenza. "Questa mondanità (da salotto), che tanti sfottono, mi serve per stare legato agli altri. Anzi la mondanità e lo snobismo si sono insinuati al posto della solidarietà e dell'amore, e sono la mia unica alterità. Credo che il sentimento d'irrealtà, che mi fa soffrire, sia il modo in cui pago l'alterità mondana, la quale per me oggi è un valore, ma un valore troppo vicino alla vergogna. Oscillo fra il mondano e l'irrealtà. La rivoluzione l'ho perduta." Tale nota di Lucioli, nelle ultime pagine della "Autobiografia culturale", è enigmatica ma nemmeno tanto. Egli teme, in sostanza, il sentimento di irrealtà. Vuol dire che ancora teme il male e l'onnipotenza della sua possibilità. Forse si aspetta il male da un momento all'altro e lo fugge, arretra, ha paura: que-
292
sta sospensione ritmante è la culla del suo sentimento d'irrealtà. Egli è fermo, in attesa (di nuovo l'attesa!) di fianco al male, non al di là. Situazione permanente provvisoria. Dalla quale si è disposti ad ogni mezzo per giungere a un sentimento d'irrealtà guarito: l'amore, la mescalina, l'ai di là. Il fantasma di una maturità. E devo temere anche io che scrivo, ancora, il male, terribilmente, se tutto questo libro non è forse che una lunga razionalizzazione narcisistica e ambivalente del mio male, del mio sentimento d'irrealtà attiguo ad esso, una mano messa avanti per pararlo, con la speranza di esorcizzarlo e disinnescarlo. L'ho avvertito nel corso stesso del libro: una ideologia, un ragionamento, una visione del mondo, una poetica, possono non essere una razionalità, tendervi disperatamente, ma rimanere una semplice razionalizzazione egocentrica. È strano allora se un libro è esso stesso, in sé, la dimostrazione della propria tesi? 1964-65
BIBLIOGRAFIA
PRIMA PARTE
Capitolo
terzo (da p. 33 a p. 44)
1
N. PERROTTI, La depersonalizzazione, in "Rivista di psicoanalisi", gennaio-aprile 1960, Editrice Universitaria, p. 14. 2 M . BOUVET, Dépersonnalisation et relations d'objet, P.U.F., 1960, pp. 31 e 64. 3 J. GABEL, La fausse conscience, Éditions de minuit, 1962, p. 149. 4
A . TOMASI DI PALMA, La spersonalizzazione,
in "Rivi-
sta di psicoanalisi", gennaio-aprile 1960, Editrice Universitaria, p. 10. 5
A . T O M A S I DI P A L M A , op.
4
Citato da Perrotti, op. cit., p. 12.
7
N.
PERROTTI, op.
cit.,
p.
cit.,
p. 9.
30.
8
M. A. SECHEHAYE, Diario di una schizofrenica, trice Universitaria, 1957, p. 3 e sgg.
Edi-
Capitolo quarto (da p. 45 a p. 60) 1
M.
BOUVET,
op.
cit.,
2
J. P. SARTRE, L'être p. 54. 3
J . P . SARTRE, op.
cit.,
p.
12.
et le néant, Gallimard, 1943, p.
85.
294 4
U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in "Menabò" n° 5, 1962, p. 199. 5 J. HYPPOLITE, Saggi su Marx e Hegel, Bompiani, 1963, p. 95. 6
J. GABEL, op. cit.,
7
N.
PERROTTI, op.
cit.,
p.
12.
8
N.
PERROTTI, op.
cit.,
p.
13.
p. 16, nota 1.
' E. DE MARTINO, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in "Nuovi Argomenti", n" 69-71, 1965.
Capitolo
quinto (da p. 61 a p. 72)
1
A. MORAVIA, L'uomo come fine, Bompiani, 1964, pp. 377-382. 2 G. W . F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1963, pp. 182-193 del vol. II e citato da Eco, op. cit. 3 D . LAGACHE, Structure en psychologie, in Sens et usages du terme structure, Mouton and Co., 1962, p. 82, trad. it. Bompiani, 1965. 4 G. C. ZAPPAROLI, Rivista di psicoanalisi, maggio-agosto 1960, Editrice Universitaria, p. 166. 5
M . BOUVET, op. cit.,
Capitolo 1
pp. 2 0 - 2 1 .
sesto (da p. 73 a p. 85)
L. BINSWANGER, Le cas Suzanne Urban, Desclée de Brouwer, 1957, p. 21. 2 J. H . VAN DEN BERG, fenomenologia e psichiatria, Bompiani, 1961, p. 21. 3 G. GUGLIELMI, Dieci domande su neocapitalismo e letteratura, in "Nuovi Argomenti", n° 67-68, 1963, p. 54. * A. GUGLIELMI, Prospettive della narrativa italiana, in "Almanacco Letterario Bompiani", 1964, p. 148. 5 P. CARUSO, Intervista a C. Lévi-Strauss, in "Aut-Aut", n° 77, 1963, p. 32.
295 SECONDA PARTE
Capitolo primo (da p. 89 a p. 99) 1
Citato da L. DE MARIA, Quanto c'è di realismo Robbe-Grillet, in "Il filo rosso", giugno 1963, p. 45. 2
F. ALEXANDER e H . STAUB, Il delinquente
giudici, Giuffré, 1948. 3 M. MERLEAU-PONTY, Le visible mard, 1964, p. 323. 4
J . G A B E L , op.
5
U. Eco, op. cit., p. 203.
cit.,
p.
e i
et l'invisible,
in suoi
Galli-
150.
Capitolo terzo (da p. I l i a p. 121) 1
2
J . G A B E L , op.
Capitolo 1
84.
cit.,
p. 38.
quinto (da p. 129 a p. 143)
J . G A B E L , op.
Capitolo !
p.
quarto (da p. 123 a p. 128)
N . PERROTTI, op.
Capitolo 1
cit.,
Idem.
cit.,
p.
171.
sesto (da p. 145 a p. 152)
B. CALLIERI e N . D'AGOSTINO, Antropologia
esisten-
ziale e psicoanalisi di fronte al sentimento di colpa, in "Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria", a. XXIII, fase. 1, 1962, Milano, p. 13. 2 Idem. 3
J . G A B E L , op.
cit.,
p.
220.
296 TERZA PARTE
Capitolo primo (da p. 155 a p. 165) 1
V. LUCIOLI, Una autobiografia Ciaia, 1964, p. 202 e sgg. \A.
Capitolo 1
MORAVIA, op.
p.
Ed. Della
380.
secondo (da p. 167 a p. 179)
Voce Fascismo,
Capitolo
cit.,
culturale,
Enciclopedia Treccani.
quarto, (da p. 195 a p. 203)
1
R. VON MISES, Manuale di critica scientifica e filosofica, Longanesi, 1950, p. 359. 2
D . LAGAQIE, op.
3
L. BINSWANGER, op. cit., p. 9 5 , nota 2 .
4
cit.,
p.
85.
J. GABEL, Fausse conscience et schizophrenie, Aut", n° 77, 1963, p. 90.
Capitolo
quinto (da p. 205 a p. 218)
1
B . CALLIERI e N . D'AGOSTINO, op.
1
B . CALLIERI e N . D'AGOSTINO, op.
3
V A N DEN BERG, op.
4
V A N DEN BERG, op.
cit.,
p.
p.
15.
82.
A. GUGLIELMI, Avanguardia trinelli, 1964, p. 10. V A N DEN BERG, op.
cit. cit.,
cit.
5
E
in "Aut-
cit.,
p.
e sperimentalismo,
Fel-
83.
7
E. PACI, La psicologia fenomenologica e il problema della relazione tra inconscio e mondo esterno, in "Aut-Aut", n° 6 4 , 1 9 6 1 , p. 3 2 5 . 8
V A N DEN BERG, op.
9
J . P . SARTRE, op.
10
cit.,
cit., p.
p.
108.
647.
D. CARGNELLO, Antropoanalisi,
a. X V I I , fase. ILI, 1 9 6 1 , p. 3 9 7 .
in "Neuropsichiatria",
297 " D . CARGNELLO, Aspetti costitutivi e momenti costituenti del mondo maniacale, in "Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria", a. XXIV, fase. V-VI, 1963, p. 448. 12 F. DI FORTI, Valsa coscienza e schizofrenia, in "AutAut", n° 74, 1963, p. 93. 13 F. COLOMBO, Dopo la caduta, in "L'Espresso", 1° novembre 1964. 14 I. BONA, Due proposte di Fromm per superare il solipsismo: linguaggio e amore, in "Aut-Aut", n° 77, 1963, p. 87. 15 D. CARGNELLO, Dal naturalismo psicoanalitico alla fenomenologia antropologica della Daseinsanalyse, in "Arch. Fil. " (volume Filosofia dell'alienazione e analisi esistenziale), 1961, p. 32.
Capitolo
sesto (da p. 219 a p. 233)
1
L. ANCONA, I fondamenti psicologici del colloquio e la sua utilizzazione in psicologia, in "Contributi dell'Istituto di psicologia", ed. "Vita e pensiero", serie XXI, vol. LXIV, 1958. 2
L . ANCONA, op.
cit.,
p.
77.
3
L . ANCONA, op.
cit.,
p.
78.
4
L . ANCONA, op.
cit.,
p.
81.
5
L . ANCONA, op.
cit.,
p.
79.
6
L . ANCONA, op.
cit.,
p.
79.
7
C. NAHOUM, L'entretien
psychologique,
P.U.F., 1963,
p. 1.
QUARTA PARTE
Capitolo primo (da p. 237 a p. 249) 1
Cfr. N. WIENER, Introduzione ghieri, 1953, p. 39. 2 R. BARTHES, Essais critiques, sgg-
alla cibernetica,
Borin-
Seuil, 1964, pp. 264 e
298 J
A. ARBASINO, Bouvard e Bovary, in "Il tylondo", 27 ottobre 1964, p. 12. 4
R . BARTHES, op.
cit.,
p.
274.
5
N. BALESTRINE Primo piano, in "Grammatica", n° 1, 1964. ' Il gruppo '63 a Palermo, in "Marcatré", n° 1, 1963, p. 5.
Capitolo
terzo (da p. 259 a p. 268)
1
Citato in E. PACI, La filosofia contemporanea, Garzanti, 1957, p. 75. 2 P. CARABELLESE, Che cosa è la filosofia?, Signorelli, 1942, p. 109. 3 E. PACI, Sull'orizzonte di verità della scienza, in "AutAut", n° 85, 1965, p. 16.
Capitolo quinta (da p. 281 a p. 292) 1
A. GREEN, DM comportement à la chair: itinéraire de Merleau-Ponty, in "Critique", n° 211, 1964, pp. 1044-45. 2 J. S. LEC, Pensieri proibiti, Bompiani, 1964. 3
Citato da L. D E MARIA, op. cit., p. 3 9 .
I N D I C E
Introduzione di Giovanni Raboni
p.
VII
L'IRREALTÀ QUOTIDIANA PRIMA PARTE
IL SENTIMENTO D'IRREALTÀ La svolta a "U" Un fulmine lento Renée e gli altri Fuori del salotto Nec tecum nec sine te L'operaio pazzo
9 21 33 45 61 73
SECONDA PARTE
LA PSICOANALISI E L'UTOPIA PSICOLOGIA L'ambivalenza euforica e disforica Il tempo ammalato Una foresta di egocentrici e l'utopia psicologia Le due infelicità Tahiti e la realtà Lo scrupolo e lo sgabello
89 101 111 123 129 145
TERZA PARTE
RAPPORTO GERARCHICO E RAPPORTO PARITETICO Il bivio delle poetiche. La psicodottrina Lucidi dal fascismo all'irrealismo La lotta analitica Il fascino causalistico Identificarsi, tentativo pazzesco 7000 colloqui. Il medico-paziente o paziente-medico
p. 155 167 181 195 205 219"
QUARTA PARTE
IL MALE Il decollo Il feto filosofico L'io e l'Io dal 1940 a oggi Il male finalmente Il finale Bibliografia
237 251 259 269 281 293-
Finito di stampare nel mese di febbraio 2004 per conto della Ugo Guanda S.p.A. dalle Nuove Grafiche Artabano Gravellona Toce (VB) Printed in Italy