L'io diviso. Studio di psichiatria esistenziale
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Zitiervorschau

R. D. Laing

L'io diviso Studio di psichiatria esistenziale Prefazione di Mario Rossi Monti

Piccola Biblioteca Einaudi

Piccola Biblioteca Einaudi Psicologia. Psicoanalisi. Psichiatria

Scritto all'età di ventotto anni, Lio diviso, originariamente concepito come il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale che non avrebbe in realtà avuto seguito, rimane, oltre che la più nota, l'opera più originale, profonda ed equilibrata di Ronald Laing. L'analisi della lacerazione interiore che caratterizza l'io diviso dello schizofrenico si colloca a buon diritto tra le pagine esemplari della tradizione fenomenologico-esistenziale in psichiatria, facendo dell'/o diviso, al di là del contesto storico e politico in cui è nato e si è diffuso, un vero e proprio classico del pensiero psichiatrico. Nella sua opera d'esordio, infatti, il giovane psichiatra scozzese riesce a dire qualcosa di accessibile e comprensibile sull'incomprensibilità schizofrenica, portando il mondo della psicosi a contatto con emozioni e stati mentali nei quali è possibile riconoscersi. Tramite il ricorso a un linguaggio vicino all'esperienza, le pagine di Laing non lasciano nella mente del lettore la rappresentazione di un mondo inerte, congelato dalla follia, ma piuttosto quella di un mondo in evoluzione nel quale la psicosi schizofrenica rappresenta una possibile, ma non necessaria, evoluzione del rapporto che un individuo ontologicamente insicuro è riuscito a stabilire con se stesso. « A distanza di oltre 40 anni dalla sua pubblicazione, - sottolinea Mario Rossi Monti nella sua prefazione, - Lio diviso continua a essere un libro che non scivola via, che non passa inosservato, che non si può studiare senza esserne profondamente toccati: uno di quei libri la cui lettura, senza voler dare troppa enfasi a questa frase, cambia davvero la vita, nel senso che dopo che lo si è letto non si è più gli stessi di prima. Ciò che abitualmente viene relegato nella alienità, al di là del «rassicurante» muro della incomprensibilità, si rivela invece straordinariamente vicino; i confini tra normalità e psicosi si mostrano in tutta la loro labilità, facendo intravedere le potenzialità psicotiche insite in ogni esistenza umana». Sommario: Prefazione di Mario Rossi Monti. Prefazione dell'autore all'edizione originale. - Prefazione dell'autore all'edizione Pelikan. - Parte prima: i. Le basi fenomenoiogico-esistenziali di scienza delle persone, il. Le basi fenomenologico-esistenziali per la conoscenza della psicosi, ili. insicurezza ontologica. - Parte seconda: iv. Lio corporeo e l'io incorporeo, v. Lio interiore nella condizione schizoide, vi. Il sistema del falso io. vii. «La coscienza di sé», vili. Il caso di Peter. - Parte terza : ix. Sviluppi psicotici, x. Lio e il falso io dello schizofrenico. xi .Lo spirito del giardino delle erbacce. - Bibliografia. Di Ronald D. Laing (1927-1989), una delle figure più innovative e controverse del pensiero psichiatrico, Einaudi ha pubblicato: Normalità e follia nella famiglia (con A. Esterson), La politica delia famiglia, Nodi, I fatti della vita, Mi ami?, Conversando con i miei bambini. In copertina: Elaborazione grafica di George F. Kaplan. ISBN 978-88-06-20604-

€ 21,00

9 7 8 8 8 0 6 1206048

Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie

520

Psicologia. Psicoanalisi. Psichiatria

Titolo originale

The Divided

Self

© 1959 Tavistock Publications Limited, London © 1 9 6 9 , 1 9 9 1 , 2 0 0 1 e 2010 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di David Mezzacapa La Casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti relativi alla traduzione dell'opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito. www.einaudi.it ISBN 978-88-06-20604-8

R. D. Laing L'io diviso Studio di psichiatria esistenziale

Prefazione di Mario Rossi Monti

Piccola Biblioteca Einaudi Psicologia. Psicoanalisi. Psichiatria

Indice

p. vii

Prefazione di Mario Rossi M o n t i

xxv

Prefazione dell'autore all'edizione

originale

xxvii

Prefazione dell'autore all'edizione

Pelikan

L ' i o diviso Parte prima 5

i. Le basi fenomenologico-esistenziali di una scienza delle persone

17

il. Le basi fenomenologico-esistenziali per la conoscenza della psicosi

31

in. L'insicurezza ontologica Parte seconda

59 iv. L'io corporeo e l'io incorporeo 74

v. L'io interiore nella condizione schizoide

92 vi. Il sistema del falso io 106 vii. «La coscienza di sé» 122 vili. Il caso di Peter Parte terza 141 165

ix. Sviluppi psicotici x. L'io e il falso io dello schizofrenico

184 xi. Lo spirito del giardino delle erbacce. (Un caso di schizofrenia cronica) 215

Bibliografia

Prefazione di Mario Rossi Monti

i . L'io diviso è un libro scritto da un giovane psichiatra scozzese che ha riscosso fin dall'inizio un notevole successo1. Tanto che a distanza di oltre 40 anni continua a essere ripubblicato. Quali sono gli elementi che ne hanno determinato il successo ? In che misura questo libro, avulso dal contesto in cui fu scritto, può ancora dire qualche cosa a un lettore che non sia parte di quel contesto o che addirittura non sappia niente del contesto in cui è nato? L'io diviso non fu la prima opera di Laing a essere tradotta in italiano. Nel marzo del 1968 infatti, in piena contestazione, era stato pubblicato da Feltrinelli La politica dell'esperienza (Laing, 1967). Sulla copertina si leggeva: «Esiste per caso qualcosa come un uomo normale ? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi e le camicie di forza che la società vi impone! » A L'io diviso, pubblicato da Einaudi per la prima volta nel 1969, si arrivò sull'onda del successo de La politica dell' esperienza, un libro nel quale Laing aveva assunto posizioni radicali, fortemente critiche nei confronti del sistema sociale e degli «uomini a una dimensione» che lo abitano. Il Laing de La politica dell'esperienza è insomma il Laing dell'antipsichiatria, quello che - a torto o a ragione - fu considerato il papa dell'antipsichiatria. Negli scritti successivi a L'io diviso Laing aveva sviluppato la tesi che l'apparente incongruità dell'individuo psicotico potesse diventare intelligibile solo nel contesto allargato della vita familiare. Ma 1 Per una approfondita ricostruzione di quel contesto, della formazione e di alcuni aspetti della vita di Ronald Laing si rimanda alla Prefazione di Stefano Mistura (2000) alla nuova edizione di Conversando con i miei bambini, nell'ambito di una riproposizione al pubblico italiano di gran parte delle opere di Laing per iniziativa dell'editore Einaudi.

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allo stesso modo, la apparente irrazionalità della famiglia poteva a sua volta trovare la sua razionalità solo nella irrazionalità della società. Attraverso una serie di passaggi da contesti a meta-contesti, a meta-meta-contesti Laing era arrivato al contesto di tutti i possibili contesti: il Sistema Mondiale Totale. Un contesto limite, per definizione folle e irrazionale, dal momento che la stessa impossibilità di ricondurlo all'interno di un altro contesto lo rende inintelligibile. In questo slittamento verso un ampliamento progressivo dei contesti, la irrazionalità del Tutto rappresenta per Laing la spiegazione auto-legittimantesi della razionalità dei singoli contesti (Rossi Monti, 1978; 1980). L'unica possibile risposta nelle pagine de La politica dell'esperienza e di altre opere di Laing - è la fuga nel misticismo, nell'irrazionale e nella poesia, nel tentativo di riconquistare se stessi alla vera sanità: «voglio che mi assaggiate e mi annusiate, voglio essere palpabile, entrarvi nel sangue, essere una prurigine nel vostro cervello e nei vostri intestini che non possiate né grattarvi né lenire, che vi consumi e vi devasti e vi faccia impazzire» (Laing, 1967). Che cosa resta oggi di tutto questo ? Vuole dire ancora qualcosa oggi "antipsichiatria" ? Che cosa dice questa parola agli studenti di psichiatria o di psicologia che si avvicinano a L'io diviso? Se si dovessero tracciare le linee prevalenti della psichiatria di questi anni non verrebbe certo da pensare a Laing o alla cosiddetta antipsichiatria. L'orizzonte è completamente mutato. Una vigorosa e pervasiva impostazione biologica si è espansa in psichiatria, anche con derive di carattere biologistico e spesso con eccessivi trionfalismi (Di Paola, 2000). D'altro canto, una attenzione alla dimensione sociale della sofferenza mentale e della sua cura si è tradotta in una migliore organizzazione dei servizi. Patrizia Guarnieri (1998) nel formulare una articolata proposta di lavoro relativa alla storia della psichiatria anti-istituzionale italiana ha scritto che - a differenza di quanto è accaduto nella storia della macchina burocratica del manicomio - la psichiatria anti-istituzionale non ha lasciato molto materiale di studio a disposizione

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degli storici. Le poche cose che restano documentate hanno più a che vedere con la propaganda che non con la trattatistica scientifica: si tratta in genere di «immagini stereotipate della cosiddetta antipsichiatria; immagini persino caricaturali che possono suscitare fastidio o disinteresse». E proprio cosi. L'antipsichiatria, nella migliore delle ipotesi, è rimasta a rappresentare la caricatura di una stagione trascorsa; un fenomeno estremo, ormai lontano negli anni, isolato nella sua paradossalità, che suona quasi incomprensibile. L'idea di un ribaltamento della logica della psichiatria è rimasta molto legata al nome di Ronald Laing, nonostante egli abbia spesso provato a scrollarsi di dosso questa immagine2. Già nel 1976 Giovanni Jervis, aveva precisato che «l'antipsichiatria è soprattutto un nome che i consumatori di cultura e la moda hanno attribuito di volta in volta a correnti diverse della psichiatria e a singoli psichiatri, sulla base di un interessante libro di David Cooper, Psichiatria e antipsichiatria». Un conto è l'uso che «i consumatori di cultura e la moda» hanno fatto del termine antipsichiatria; un altro conto è la reale collocazione della cosiddetta antipsichiatria nel panorama della psichiatria contemporanea. L'equivoco era dipeso dal fatto che le teorie di Laing dalla fine degli anni '50 in poi avevano ripreso e articolato una serie di posizioni le cui radici appartengono alla tradizione della psicopatologia fenomenologica europea e agli studi sui disturbi della comunicazione nella schizofrenia (a partire dal celebre articolo di Bateson, Jackson, Haley e Weakland [1956] sul doppio legame). Si deve parlare dunque di antipsichiatria o piuttosto dello sviluppo «con assoluta coerenza, [di] tendenze intrinseche della psichiatria occidentale?» (Jervis, 1976). In questo senso psichiatria e antipsi1 In due interviste a Ronald Laing si legge a questo proposito: «Io, qualunque cosa mi abbiano fatto dire, non mi sono mai identificato né con le posizioni della psichiatria tradizionale né con quelle dell'antipsichiatria. Certo, mi sento più vicino a queste ultime» (Laing, 1973); «Antipsichiatra? Non sono un antipsichiatra e spesso non capisco cosa si intenda per antipsichiatra. Sono uno psichiatra. E come molti medici nella storia della medicina prima di me sono contrario ad alcune pratiche di uso comune nel mio campo» (Laing,

1977)-

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chiatria - scriveva ancora Jervis - anziché contrapporsi sfumano l'una nell'altra. Pur tenendo conto di questa continuità, resta il fatto che i diversi contributi di Ronald Laing si collocano lungo questo continuum in differenti posizioni: a seconda della maggiore o minore affinità con le tradizioni di ricerca vigenti in psichiatria. L'io diviso, nonostante la critica serrata a certi assetti della psichiatria clinica, si colloca per esempio a pieno titolo nell'alveo della grande tradizione del pensiero psicopatologico e quindi all'interno di un ambito culturale specifico della psichiatria. Non si può dire lo stesso per altri contributi. L'attenzione privilegiata all'ascolto, alla valorizzazione di ogni espressione del paziente, alle esperienze interne, ai vissuti prima che ai comportamenti sono elementi fondanti questa tradizione di ricerca il cui atto di nascita è rappresentato dalla pubblicazione della Psicopatologia Generale di Karl Jaspers (1913). Del resto, come ha recentemente ricordato Stefano Mistura (2000), nei primi anni '50 Laing intrattenne un rapporto epistolare con Karl Jaspers e progettò di recarsi a Basilea per approfondire le sue conoscenze in ambito psicopatologico e fenomenologico. Quali aspetti del pensiero dello Jaspers psicopatologo avevano suscitato tanto interesse in Laing ? E difficile saperlo ma certo le pagine de L'io diviso sono pervase dalla ricerca di un metodo di avvicinamento al mondo della psicosi e soprattutto alla persona dello psicotico che richiama da vicino la Psicopatologia Generale jaspersiana. In questo progetto la diagnosi e la nosografia adottate dalla psichiatria clinica sono state spesso più di ostacolo che di aiuto: in questo senso, scriveva Jaspers, la diagnosi deve rappresentare una delle ultime preoccupazioni dello psicopatologo. Viceversa l'attenzione deve essere centrata sui particolari modi che assume l'esperienza, indagando la relazione che la persona intrattiene con se stesso e con il mondo: oggetto della psicopatologia è «l'accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono» (Jaspers, 1913), mantenendo tuttavia la precisa consapevolezza che il limite

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della psicopatologia risiede nel fatto che in ogni essere umano si nasconde qualcosa di inconoscibile e quindi non è possibile risolvere né esaurire il singolo individuo in una conoscenza totale. Il metodo fenomenologico per Jaspers costituisce lo strumento privilegiato di indagine per lo studio delle esperienze soggettive, per l'indagine degli aspetti formali delle esperienze interne (i modi in cui le esperienze si dànno alla coscienza), lasciando alla psichiatria clinica la semplice catalogazione per contenuti dei sintomi psichiatrici: compito della fenomenologia in psicopatologia - scrive ancora Jaspers (1913) è quello di «rendere presenti ed evidenti di per sé gli stati d'animo che i malati sperimentano realmente, osservarli nei loro rapporti di affinità, delimitarli e distinguerli il più nettamente possibile e dar loro denominazioni precise» con lo scopo di ricercare regole e concetti generali che possano essere applicati nello studio dei singoli casi5. Nella prefazione all'edizione originale de L'io diviso Laing scriveva di riconoscersi nella psichiatria fenomenologico-esistenziale e di considerare questo libro «il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale»; con alcune importanti divergenze rispetto all'opera di Jaspers, Heidegger, Binswanger «è verso la tradizione del pensiero esistenziale nel suo complesso che riconosco il mio debito principale». Nonostante queste premesse L'io diviso rimarrà il primo e unico contributo di questa serie. 2. Pochi anni dopo, in occasione di una nuova prefazione a una successiva edizione del volume, Laing (1964a) scrive: «Quando ho scritto questo libro avevo ventotto anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici». Sono passati solo cinque anni dalla prima edizione; qualche anno in più dall'epoca in cui Laing aveva raccolto il materiale clinico pre5 Per una introduzione alla psicopatologia fenomenologica e alle sue varie declinazioni si rimanda a Civita (1999) e a Di Ceglie (2001).

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sentato nel libro. Ma in pochi anni Laing è profondamente cambiato: considera ciò che ha scritto ne L'io diviso come una serie di riflessioni ingenue e parziali di un giovane psichiatra che si era avvicinato con curiosità e vivace spirito conoscitivo al mondo delle psicosi. Nel 196412 scrive: «Oggi mi accorgo di essere in parte caduto nella trappola che volevo evitare». Le sue pagine sono intrise di delusione, ma anche di rabbia: rabbia verso una società che reprime ogni forma di trascendenza; delusione per una psichiatria che non si è messa dalla parte della trascendenza ma che anzi si è troppo spesso ridotta a «tecnica di lavaggio del cervello»: «ecco perché voglio ripetere che il nostro stato "normale" e "ben adattato" non è, molto spesso, che una rinuncia all'estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità». In queste poche righe è condensato tutto il potenziale evolutivo che lo condurrà a La politica dell' esperienza (1967), nella quale convergono tre modelli della follia: un modello psicoanalitico, un modello cospirativo e un modello psichedelico (Siegler, Osmond, Mann, 1969). Laing ha ruotato di molti gradi il suo atteggiamento verso la sofferenza mentale4. Nel 1964^ pubblica anche una recensione alla edizione inglese della Psicopatologia Generale di Karl Jaspers: il contributo di Jaspers come psicopatologo - scrive - è ancora meno soddisfacente di quello di Jaspers filosofo. Il valore della Psicopatologia Generale sarebbe soltanto storico per l'effetto salutare svolto dalla prima edizione sul filisteismo e la falsità della psichiatria dell'epoca: una sollecitazione alla prudenza nella adesione a teorie totali dell'uoiitio mascherate da scienza; una messa in guardia rispetto al rischio di trasformare ipotesi in fatti e teorie in ideologie. Un altro merito sto4 Nonostante Laing menzioni esplicitamente il suo debito verso la tradizione fenomenologico-esistenziale, è altrettanto evidente il suo debito verso la tradizione psicoanalitica. L'io diviso pullula di riferimenti psicoanalitici; alla psicoanalisi freudiana ma anche a concetti, come quello di falso Sé, che Winnicott andava elaborando in quegli stessi anni. In linea con la tradizione fenomenologico-esistenziale viene valutata criticamente la componente oggettivante che sarebbe insita nella teoria psicoanalitica. Resta tuttavia intatto il debito verso la psicoanalisi: al termine della prefazione della edizione originale Laing ringrazia vari colleghi; molti psicoanalisti e, tra questi, Winnicott.

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rico della Psicopatologia Generale sarebbe stato l'avere valorizzato l'esperienza soggettiva, istituendo, nella psichiatria dell'epoca, la dimensione dell'ascolto del vissuto. Ma, al di là di questi meriti generici, la critica è portata direttamente al cuore della psicopatologia jaspersiana: al contributo che Jaspers ha dato alla conoscenza del delirio. Il delirio non va visto semplicemente come un sintomo ma come il prodotto finale, la cristallizzazione di un sottile, pervasivo cambiamento nella esperienza globale che la persona ha di se stesso e del mondo. Il problema che Jaspers si pone è rappresentato dalla domanda: sviluppo di personalità o processo ? Ma affrontando il problema in questo modo - scrive Laing -Jaspers ha perso una grande occasione. Il filosofo ha tradito l'artista e il poeta e ciò risulta particolarmente evidente nelle patografie di Van Gogh, Hölderlin e Strindberg. Jaspers ha perso l'opportunità di mostrare il senso della follia in un mondo che è diventato sempre più folle. Ma forse, a pensarci bene, Jaspers non ha nemmeno tradito. Perché per tradire uno deve avere prima capito qualcosa di ciò che tradisce. Mentre invece - prosegue Laing - il ricorso all'idea di un processo biologico ignoto che fa irruzione nella vita psichica stravolgendone la continuità indica che Jaspers non ha capito la dialettica della vita della persona; ancora prima che si verifichi la intrusione, che si suppone aliena e senza significato, del processo5. Proprio perché ha smarrito la via della comprensione, Jaspers deve inventarsi la nozione di processo, dato che l'esperienza della persona ha perso a questo punto ogni significato. «Io ho dedicato 5 Se da un Iato Laing riconosce a Jaspers il grande merito di avere faticosamente creato uno spazio di attenzione in psichiatria per l'esperienza soggettiva, dall'altro lo critica per essersi arrestato di fronte alla nozione di processo, contrapponendola a quella di sviluppo. Mentre l'idea di sviluppo stabilisce un nesso di continuità tra la personalità del soggetto e le sue espressioni psicopatologiche, l'idea di processo rappresenta il prototipo della discontinuità e fa riferimento ad una trasformazione della vita psichica in senso psicotico che si verifica in maniera incomprensibile, scompaginando un precedente assetto, introducendo una incomprensibile rottura nella continuità della vita psichica. In questo senso la nozione di processo nell'ambito delle psicosi è strettamente collegata con l'idea che la psicopatologia delle psicosi sia il frutto della irruzione di una alterazione organica sconosciuta.

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un libro - conclude Laing - a dimostrare che la strada dalla apparente sanità alla apparente follia potrebbe essere compresa molto al di là del punto in cui Jaspers dice di fermarsi». La accezione in cui Laing aveva inteso pochi anni prima la incomprensibilità jaspersiana è completamente mutata. La percezione della incomprensibilità, da indicatore di un passaggio, di uno slittamento di modello di mente è diventata una dichiarazione di inaccessibilità e di rinuncia ad ogni progetto di comprensione. La linea del comprendere si è trasformata in un confine netto, in una semplice dicotomia e non costituisce più uno «spazio da praticare». Come ha scritto Arnaldo Ballerini (2001 a) «la articolazione fra questi due criteri è in psicopatologia assai più complessa di una semplice dicotomia. Essi sono in definitiva strumenti mentali dello psichiatra, e se non vogliamo perdere il contatto con la concretezza del delirante, il comprensibile e l'incomprensibile debbono esser posti più su un piano dimensionale che categoriale». Lo spazio di lavoro che Laing aveva praticato con profitto ne L'io diviso si è richiuso. La psicopatologia jaspersiana, nei confronti della quale il Laing de L'io diviso riconosceva il suo debito, è diventata ora il simbolo di un tradimento. Ma è la sua concezione della incomprensibilità jaspersiana che è radicalmente mutata. Ne L'io diviso il rilievo, della incomprensibilità formale jaspersiana si traduceva nel rilievo di un rapporto disgiuntivo particolare nel contatto con lo psicotico: un difetto di convergenza che suscita la sensazione di un urto sul quale è possibile basare una sorta di test per stabilire la differenza tra salute mentale e psicosi. Ma questo rilievo non significava affatto ribaltare una sensazione di disgiunzione in impotenza di fronte ad uno sconosciuto processo biologico. Significava piuttosto, sulla scia di una tradizione psicopatologica che si rifà in primo luogo ad Ernst Kretschmer (1918) ed alla sua analisi dei deliri di rapporto sensitivi, partire da questa sensazione di urto per elaborare un nuovo percorso conoscitivo. L'incomprensibilità jaspersiana non si poneva quindi come dicotomia ma come spazio di rifles-

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sione a partire dal quale elaborare nuove strade e nuove strategie, anche tra loro coesistenti. La nozione di processo non sta quindi al posto di un tentativo di spostare un po' più in là i limiti della incomprensibilità, ma convive piuttosto con esso. Pochi anni dopo questo spazio articolato di riflessione è collassato; si è ridotto ad una secca alternativa. Nella misura in cui si fa riferimento ad un processo, si è smarrita una volta per tutte la via della comprensione. Lo sforzo di espansione dei confini della comprensibilità psicologica individuale inaugurato da L'io diviso si è esaurito; ha lasciato il posto ad un tentativo di rendere socialmente intelligibile la follia. La comprensibilità psicologica si è trasformata in una presunta comprensibilità sociale della follia. Ma questo allargamento di ottica e questa carica di rivolta, se hanno svolto un ruolo propulsivo importante nel sovvertimento di un modello di assistenza che aveva fatto il suo tempo, hanno fatto perdere di vista la capacità di sintonizzazione sottile nei confronti delle vicende umane del singolo individuo incastrato nel suo percorso verso la psicosi.

3. Leggere (o ri-leggere) oggi L'io diviso vuol dire mantenere una visione binoculare che tiene conto di un duplice contesto di riferimento: (i) un contesto storicopolitico-istituzionale nel quale il libro è nato e si è diffuso; (ii) un contesto emozionale-conoscitivo, legato alla esplorazione degli elementi di continuità tra mondo della schizoidia e psicosi. L'io diviso riporta inevitabilmente al clima degli anni in cui è apparso. Ma mentre altri libri di Laing come La politica dell'esperienza sono davvero indissolubilmente ancorati ad una certa atmosfera storico-politica tanto da presentarsi come riesumazioni di tesi che sono state poi fortemente criticate, revisionate o messe in ombra, L'io divìso mantiene una freschezza che lo rende autonomo da quel clima. La sua lettura non ci confronta con un reperto archeologico; non consiste nel recupero di una reliquia dell'antipsichiatria; non ci raggiunge con un linguaggio stantio, che suona

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fastidioso o procede per slogan. Non può essere risucchiato nel gorgo dell'antipsichiatria e della sua caricatura. Se appartiene ad uno specifico contesto storicopolitico, L'io diviso appartiene anche ad un altrettanto specifico contesto emozionale-conoscitivo. Nel rileggerlo per l'ennesima volta io stesso mi sono trovato a pensare che il piacere e l'entusiasmo che ri-provavo nella lettura di molte pagine fossero fortemente condizionate dal legame che quelle pagine intrattenevano con una determinata fase della riflessione psichiatrica oltre che con una particolare epoca della vita. Ma non è cosi. 0 almeno non è solo cosi. Ne ho avuto conferma proponendo L'io diviso come lettura integrativa nel programma di Psicopatologia Generale in un corso di laurea in psicologia. Sono stato fortemente colpito dal cogliere nei volti e nelle parole della grande maggioranza degli studenti (oltre 200 persone) lo stesso entusiasmo e lo stesso turbamento che la sua lettura aveva suscitato e continuava a suscitare in me. L'io diviso, a distanza di oltre 40 anni dalla sua pubblicazione, continua ad essere un libro che non scivola via, che non passa inosservato, che non si può studiare senza esserne profondamente toccati: uno di quei libri la cui lettura, senza voler dare troppa enfasi a questa frase, cambia davvero la vita, nel senso che dopo che lo si è letto non si è più gli stessi di prima. Ciò che abitualmente viene relegato nella alienità, al di là del "rassicurante" muro della incomprensibilità, si rivela invece straordinariamente vicino; 1 confini tra normalità e psicosi si mostrano in tutta la loro labilità, facendo intravedere le potenzialità psicotiche insite in ogni esistenza umana. Questo mi ha definitivamente convinto che L'io diviso è un libro importante; non un classico della antipsichiatria ma un vero e proprio classico della psichiatria. «Che cosa la ha spinta a scrivere L'io diviso?», chiedeva David Cohen a Ronald Laing in un'intervista del 1976: il punto di partenza è stato rappresentato dall'idea che «se ci accostiamo alle persone con una disposizione che chiamerei "non comprensiva" non dobbiamo poi meravigliarci della nostra effettiva incapacità di capire».

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Nella prefazione alla edizione originale Laing scriveva che gli scopi fondamentali di questo primo studio di psicologia e psichiatria fenomenologico-esistenziale erano costituiti da: (i) rendere comprensibile la pazzia e comprensibili i processi che ad essa conducono; (ii) descrivere alcune forme di follia con il linguaggio di tutti i giorni e in termini esistenziali. Ma questi scopi non riguardavano genericamente la pazzia quanto «un modo particolare di impazzire» e cioè la possibilità di mostrare come esista «una transizione comprensibile da un modo schizoide (ma sano) a un modo psicotico di essere nel mondo». Pochi anni dopo Laing guarda criticamente questa sua prima opera e sembra gettarsela dietro le spalle come un compito troppo facile. Il problema vero sarebbe rappresentato dalla famiglia, il contesto sociale allargato, il meta-contesto, il Sistema Mondiale Totale. Viene naturale chiedersi se Laing non abbia sqttovalutato il compito che si era prefisso ne L'io diviso. E davvero possibile rendere comprensibile una psicosi ? Oppure ogni sforzo di comprensione si gioca nel rapporto dialettico tra comprensibilità e incomprensibilità dell'esperienza ? Dato che, come lo stesso Laing (1959) ammette, «il centro dell'esperienza schizofrenica è destinato a rimanerci incomprensibile». Questo non ci esime tuttavia dal ricercare percorsi di senso, anche parziali, che si sottraggano alla funzione del sintomo come frattura della relazione, come ostacolo e barriera alla conoscenza ed al rapporto. «Il delirio diviene uno stendardo piantato su un bastione» ha scritto Paul-Claude Racamier. E la funzione di un approccio terapeutico - precisa Marcel Sassolas (1997) - consiste nelPevitare che il sintomo sigilli di per se stesso questo isolamento e mantenga invece una funzione di tramite con la realtà che lo ha determinato. Per questo il funzionamento del gruppo curante e delle stesse istituzioni psichiatriche deve promuovere un passaggio che vada al di là del sintomo come prodotto insensato per trovare in esso un messaggio dotato di un senso, qualcosa che «alimenta la relazione invece di bloccarla, facilitando la comunicazione» non solo tra la persona e la realtà esterna, ma anche tra la per-

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sona ed il proprio mondo interno. Per questo ogni operatore psichiatrico deve svolgere una funzione di cerniera tra queste due realtà, tra la realtà esterna e quella psichica, costituendosi come vera e propria «spina irritativa psichica» per il paziente (Sassolas, 1997). Del resto questo progetto costituisce l'asse portante del concetto di psicopatologia progressiva elaborato da Gaetano Benedetti secondo il quale la tradizionale lettura in termini deficitario-regressivi della psicopatologia psicotica rappresenta perlopiù un ostacolo ad ogni progetto terapeutico. E necessario invece ribaltare il concetto di regressione e deficit per procedere su un doppio binario lungo il quale la psicopatologia in atto nel paziente si serve pur sempre di forme psicotiche ma al contempo esprime delle intenzioni antipsicotiche (Benedetti, 1992). I sintomi tradizionalmente descritti nelle psicosi non vanno letti solo in chiave di minus ma anche come canali di comunicazione nei quali si articolano «intenzionalità psicosintetiche, riparative, comunicative» (Benedetti, 1991). In questo senso anche la più classica e la più drammatica delle esperienze psicotiche, un'esperienza di influenzamento del pensiero, può essere considerata sotto un profilo diverso e complementare a quello tradizionale di sintomo di una malattia; può essere vista come un tentativo di trasformazione, come ricerca di un diverso assetto, anche se malfermo e patologico, nei rapporti con il proprio mondo interno e la realtà (Rossi Monti, 2001). In questo contesto si colloca anche la difficoltà che Laing dichiara nel primo capitolo de L'io diviso: «Mi riesce difficile individuare con certezza i "segni" e i "sintomi" della psicosi durante i colloqui che conduco personalmente». Scoprire un intento comunicativo nel sintomo, tenere conto del nucleo di verità che si esprime in ogni delirio significa vedere il sintomo come qualcosa intorno a cui si è agglutinato ciò che la clinica chiama sintomo di malattia, ma ricordare che dietro quel granello c'è una storia, un percorso la cui ricostruzione può, almeno in parte, rendere ragione di quel sintomo (Pazzagli, Rossi Monti, 1999). Insicurezza ontologica, Io cor-

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poreo e Io incorporeo, sistema del falso Io, coscienza di sé dell'individuo schizoide sono tutti punti chiave di un percorso che descrive alcuni dei possibili modi di passaggio alla psicosi: molte delle parole e delle azioni incomprensibili di un paziente schizofrenico diventano intelligibili se si tiene presente che nel suo essere è rimasta operante la stessa frattura di fondo dello stato schizoide. In questo modo Laing riesce in un compito arduo: dire qualcosa di accessibile e di comprensibile sulla incomprensibilità schizofrenica. Porta il mondo della psicosi a contatto con emozioni e stati mentali nei quali è possibile riconoscersi. E lo fa attingendo ad un linguaggio vicino all'esperienza. Per questo insieme di motivi, oltre che per la ricchezza delle esemplificazioni cliniche, le sue pagine arrivano a destinazione e non lasciano nella mente del lettore la rappresentazione di un mondo statico, inerte, congelato dalla follia, ma piuttosto quella di un mondo in evoluzione nel quale la psicosi schizofrenica rappresenta una possibile, ma non necessaria, evoluzione del rapporto che un individuo ontologicamente insicuro è riuscito a stabilire con se stesso. Quella crisi che Wolfgang Blankenburg (i 971) ha descritto come perdita del senso comune e dell'evidenza naturale rappresenta senza alcun dubbio un punto chiave di questa e di altre possibili, meno patologiche, evoluzioni. Su questi percorsi la psicopatologia ha continuato ad interrogarsi, a proporre analisi qualitative e anche modelli di investigazione empirica (Stanghellini, 2000; Ballerini, 2001 b). Resta il rammarico che tra gli scritti di Ronald Laing L'io diviso, presentato come «il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale», sia rimasto senza seguito.

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XXIII

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Prefazione dell'autore all'edizione originale

Questo è il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale, in cui ci si propone di pubblicare contributi originali di vari autori. Scopo fondamentale di questo primo studio, che riguarda individui schizoidi e schizofrenici, è di rendere comprensibile la pazzia, e comprensibili i processi che ad essa conducono. Se questo scopo sia stato raggiunto giudicheranno i lettori: vorrei soltanto che il libro non venisse giudicato dai punti di vista che in esso non vengono affrontati. Per esempio in questo libro non si vuole proporre una teoria generale della schizofrenia, né si intende esplorarne gli aspetti costituzionali ed organici; né si cerca di descrivere i rapporti del terapeuta (in questo caso, io) con i pazienti o i metodi da lui usati. Un altro scopo del libro è di descrivere alcune forme di follia col linguaggio di tutti i giorni, e in termini esistenziali-. e in ciò ritengo che il libro sia il primo del genere. Molti lettori troveranno che, nei primi capitoli, certi termini sono usati in modo insolito. A questi usi si è fatto ricorso soltanto quando era necessario, e mai sbadatamente. Per evitare equivoci accennerò brevemente a un'altra cosa che il libro non si propone. Il lettore versato nella letteratura esistenziale e fenomenologica vedrà subito che in questo studio non viene applicato direttamente nessun sistema filosofico esistenziale preciso: per esempio si noteranno alcune importanti divergenze rispetto all'opera di Kierkegaard, di Jaspers, di Heidegger, di Sartre, di Binswanger e di Tillich. Discutere tali divergenze sarebbe stato fuori luogo, perché mi avrebbe allontanato troppo dal mio compito im-

XXVI PREFAZIONE DELL'AUTORE ALL'EDIZIONE ORIGINALE

mediato. Tuttavia, è verso la tradizione del pensiero esistenziale nel suo complesso che riconosco il mio debito principale. Voglio anche esprimere qui la mia gratitudine verso i pazienti di cui si parlerà in queste pagine, e verso le loro famiglie. Tutte le persone di cui anche brevemente si parla qui mi hanno dato il loro consenso personale. Sono stati cambiati i nomi, i luoghi e tutti quei dettagli che avrebbero potuto rendere possibile l'identificazione, ma il lettore può star sicuro che non gli viene mai presentato'tan personaggio fittizio. Ringrazio il dottor Angus MacNiven e il professor T. Ferguson Rodger per avermi facilitato il lavoro clinico che è servito come base per questo studio, e per i loro incoraggiamenti. Il suddetto lavoro clinico venne completato prima del 1956, anno in cui entrai come assistente alla Clinica Tavistock: qui il dottor J. D. Sutherland mi permise generosamente di servirmi della segreteria per la preparazione del manoscritto, che era terminato nel 1957. Da allora esso è stato letto da molte persone, più di quante possa elencarne qui per ringraziarle dei loro incoraggiamenti e delle loro critiche costruttive. Tuttavia vorrei ricordare particolarmente il dottor Karl Abenheimer, la signora Marion Milner, il professor T. Ferguson Rodger, il professor J. Romano, il dottor Charles Rycroft, il dottor J. Schorstein, il dottor Sutherland, e il dottor D. W. Winnicott per le loro utili osservazioni.

Prefazione dell'autore all'edizione Pelikan

Non si può dire tutto in una volta sola. Quando ho scritto questo libro avevo ventotto anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici. Ciò comportava già per me la necessità di capire il loro contesto sociale, e particolarmente la distribuzione del potere nella loro famiglia: anche cosi, e anche limitatamente al mio tentativo di rappresentare un certo tipo di esistenza schizoide, oggi mi accorgo di essere in parte caduto nella trappola che volevo evitare. In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi. Freud ha detto che la nostra è una civiltà repressiva, in cui le esigenze che spingono all'adattamento e al conformismo e quelle delle nostre energie istintuali, esplicitamente sessuali, sono in conflitto fra loro. Freud riteneva che non vi fosse soluzione per questo antagonismo, ed era convinto che, al giorno d'oggi, non vi potesse essere più alcuna possibilità di amore semplice e naturale fra gli esseri umani. La nostra civiltà non reprime soltanto gli «istinti» o la sessualità, ma anche ogni forma di trascendenza. Fra uomini a una dimensione1 non c'è da meravigliarsi se qualcuno, avendo esperienze insistenti di altre dimensioni e non potendo né rinnegarle né dimenticarle completamente, è disposto a correre il rischio di farsi distruggere dagli altri o di tradire ciò che conosce. Nel contesto della follia che attualmente ci circonda, e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri si1 Cfr. Herbert Marcuse, One-dimensional Man, Beacon Press, 1964 [trad. it. L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967].

XXVIII PREFAZIONE DELL'AUTORE ALL'EDIZIONE PELIKAN

stemi di riferimento sono destinati a restare ambigui ed equivoci. Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono macchine può essere un grande scienziato; ma uno che dice di essere lui stesso una macchina è, nel gergo psichiatrico, «spersonalizzato». Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore può ottenere stima e rispetto; ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di cancro perde i diritti civili. Una ricoverata, una ragazzina di diciassette anni, mi disse una volta di essere in preda al terrore perché aveva dentro di sé la bomba atomica. Questo è un delirio: ma gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell'arma finale sono di gran lunga più pericolosi e più estraniati dalla «realtà» di molti ai quali è stata applicata l'etichetta di «psicotico». La psichiatria può mettersi dalla parte della trascendenza, della libertà vera, del genuino sviluppo umano: alcuni psichiatri sono già di fatto da questa parte. Ma è estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediante torture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adattata. Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucotomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio. Ecco perché voglio ripetere che il nostro stato «normale» e «ben adattato» non è, molto spesso, che una rinuncia all'estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà. Ma per ora basta. Questa è l'opera di un uomo giovane e vecchio al tempo stesso: oggi sono più vecchio, ma sono anche più giovane. Londra, settembre 1964.

'io divìso

A mia madre e a mio padre Je donne une œuvre subjective ici, œuvre cependant qui tend de toutes ses forces vers l'objectivité. E. MINKOWSKI

Parte prima

Capitolo primo Le basi fenomenologico-esistenziali di una scienza delle persone

Si designa col termine «schizoide» un individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l'ambiente, e nei rapporti con se stesso. Da una parte questo individuo non è capace di sentirsi insieme con gli altri, né di partecipare al mondo che lo circonda, ma, al contrario, si sente disperatamente solo e isolato; dall'altra non si sente una persona completa e unitaria, bensì si sente «diviso» in vari modi: per esempio vive se stesso come una mente e un corpo uniti fra loro da legami incerti, oppure come due o più persone distinte. In questo libro si tenterà di descrivere e comprendere alcune persone schizoidi e schizofreniche da un punto di vista fenomenologico-esistenziale. Prima però è necessario mettere a confronto questo punto di vista e quello della psichiatria clinica e della psicopatologia ufficiali. La fenomenologia esistenziale si propone di precisare la natura dell'esperienza che si ha del proprio ambiente e di se stessi. Non si tratta tanto di descrivere i diversi oggetti particolari di questa esperienza, quanto di porre tutte le varie esperienze singole entro il contesto di un globale «essere-nel-mondo». Le cose dette e fatte da uno schizofrenico sono destinate a restare, essenzialmente, assurde e inspiegabili se non si comprende il loro contesto esistenziale. Come tenterò di mostrare descrivendo un modo particolare di impazzire esiste una transizione comprensibile da un modo schizoide (ma sano) a un modo psicotico di essere nel mondo. Naturalmente, pur conservando i termini «schizoide» e «schizofrenico» per indicare rispettivamente lo stato sano e lo stato psicotico, non li userò nel loro significato clinico consueto, bensì in senso fenomenologico ed esistenziale.

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PARTE PRIMA

In clinica il campo di osservazione è ristretto, e riguarda solo alcuni dei possibili modi di essere schizoide, o di diventare schizofrenico partendo da uno stato schizoide. Nelle pagine che seguono si intende invece dimostrare, attraverso un resoconto delle esperienze vissute da alcuni individui, che i metodi della psichiatria clinica e della psicopatologia, al loro stato attuale, sono inadeguati per comprendere tali esperienze, e che il metodo fenomenologicoesistenziale si rende necessario per metterne in luce tutto il significato umano. In tutto il libro si punterà il più direttamente possibile sui pazienti, riducendo al minimo ogni accenno alle questioni anamnestiche e teorico-pratiche che si presentano in psichiatria e in psicoanalisi. La forma particolare di tragedia umana che ci troveremo davanti non è mai stata presentata con sufficiente chiarezza: per questa ragione si è ritenuto che l'aspetto puramente descrittivo del compito dovesse avere la precedenza su ogni altra considerazione. Il presente capitolo si limita dunque a formulare il più brevemente possibile gli orientamenti fondamentali del volume, al fine di evitare disastrosi equivoci, ed è rivolto a due categorie di lettori: da una parte a quegli psichiatri che, pur avendo grande familiarità col «caso» clinico, non siano avvezzi a vederlo in quanto persona, come faremo qui; dall'altra si rivolge a coloro che conoscono persone di questo tipo, o che hanno verso di esse un atteggiamento di simpatia umana, ma che non le hanno incontrate in situazione clinica. Inevitabilmente il capitolo lascerà in qualche modo insoddisfatte entrambe le categorie.

Una difficoltà di fondo si incontra già all'inizio: come può uno psichiatra considerare direttamente il paziente per descriverlo, se il vocabolario psichiatrico a sua disposizione serve solo per tenerlo a distanza? Come si può mostrare il significato umano generale posseduto dallo stato del paziente, se le parole che si debbono usare sono state inventate apposta per isolare e circoscrivere in una entità clinica particolare il senso della vita del paziente? L'insoddisfazione nei riguardi della terminologia psichiatrica

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II

e psicoanalitica è comune, anche fra coloro che debbono farne uso; ed è diffusa opinione che i termini della psichiatria e della psicoanalisi servano solo ad esprimere incompiutamente le cose che invece si vogliono «significare realmente». Ma non è che una forma di autoinganno presumere di poter dire una cosa e pensarne un'altra. Converrà quindi cominciare prendendo in considerazione alcuni dei termini di uso corrente. Per dirla con Wittgenstein, il pensiero è il linguaggio; e un vocabolario tecnico non è altro che un linguaggio entro un linguaggio. Un esame di questo vocabolario tecnico sarà dunque un tentativo di accostarsi a quella realtà che le parole possono scoprire ma anche nascondere. L'obiezione più seria che si può fare al vocabolario tecnico attualmente usato per descrivere i pazienti psichiatrici è che esso consiste di parole il cui effetto è di dividere l'uomo, in modo analogo alle fratture esistenziali che qui vogliamo descrivere. Ma di queste fratture esistenziali non si può dare un resoconto adeguato se non si parte dal concetto di un tutto unitàrio, e nessun concetto simile esiste, né potrebbe essere espresso, entro il sistema linguistico in uso in psichiatria o in psicoanalisi. I termini del vocabolario tecnico corrente, infatti, hanno l'una o l'altra di queste proprietà: o si riferiscono ad un uomo in isolamento rispetto agli altri e al mondo (cioè ad una entità la cui qualità essenziale non è quella di essere in rapporto con gli altri e col mondo), o si riferiscono ad aspetti falsamente elevati a sostanza di questa entità isolata. Termini come mente e corpo, psiche e soma, psicologico e fisiologico; o come personalità, l'io, l'organismo, sono delle astrazioni. Invece del legame originale di Io e Tu, si prende un singolo uomo isolato, e si concettualizzano i suoi vari aspetti: l'Io, il Super-Io, l'Es. L'Altro diviene un oggetto, interno od esterno, oppure interno ed esterno assieme. Com'è possibile parlare veramente di un rapporto fra me e te servendosi del concetto di interazione fra un apparato mentale e un altro? E anzi, come si può spiegare cosa significa nascondere qualcosa a se stessi, o ingannare se stessi, parlando di barriere interposte fra le varie parti di un apparato mentale? Questa difficoltà non

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PARTE PRIMA

si presenta solo nella metapsicologia freudiana classica, ma in ogni teoria che parta dall'uomo, o da una sua parte, astraendolo dal suo rapporto con gli altri nel suo mondo personale. Sappiamo tutti per esperienza diretta che possiamo essere noi stessi soltanto nel nostro mondo personale e attraverso di esso, e che in un certo senso il «nostro» mondo perirà con noi, anche se «il» mondo continuerà ad esistere senza di noi. E soltanto il pensiero esistenziale ha tentato di esprimere l'esperienza originale che si ha di se stessi in rapporto agli altri, nel proprio mondo personale, con un termine che rifletta adeguatamente questa globalità: nel linguaggio esistenziale la cosa concreta è l'esistenza di un uomo, il suo essere-nel-mondo. A meno che non si parta dal concetto di uomo in relazione ad altri uomini, e fin dal principio «in» un mondo; a meno che non si avverta che l'uomo non esiste senza il «suo» mondo, né questo può esistere senza di lui, si è destinati a iniziare lo studio delle persone schizoidi e schizofreniche con una frattura, verbale e concettuale, corrispondente a quella che esiste nella globalità dell'essere-nel-mondo dello schizoide. Di più: il compito secondario di ricostruire, verbalmente e concettualmente, i vari pezzi e frammenti corrisponderà agli sforzi disperati dello schizofrenico per ricomporre il suo io e il suo mondo disintegrati. In breve, si avrà fra le mani un burattino già rotto in partenza, che nessuna parola composta - psicofisico, psicosomatico, biopsicologico, psicopatologico, psicosociale - può più servire a rimettere insieme. Stando cosi le cose potrà essere molto importante, per comprendere l'esperienza schizoide, vedere quale sia l'origine di questa teoria schizoide. Tenteremo di farlo usando un metodo fenomenologico. L'essere di un uomo (il termine verrà usato d'ora in poi per indicare semplicemente tutto quello che un uomo è) può essere visto da angoli diversi, e l'uno o l'altro aspetto può essere preso come oggetto di studio. In particolare l'uomo può essere visto come una persona o come una cosa. Ma anche la stessa cosa, se osservata da punti di

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vista diversi, può dare origine a due descrizioni completamente diverse, che a loro volta daranno origine a due teorie completamente diverse: queste due teorie poi potranno portare ad altrettanto diversi modi di agire. È il modo iniziale di vedere una cosa che determina tutte le nostre azioni successive nei suoi confronti. Si consideri la ben nota figura ambigua:

In questa figura ciò che sta sulla carta può essere visto come un vaso, oppure come due profili umani di fronte. Sulla carta non vi sono due cose diverse, ma una sola: eppure, a seconda di come essa ci colpisce, possiamo scorgervi due oggetti diversi. La relazione delle varie parti con il tutto è molto diversa per i due oggetti. Infatti, se dovessimo descrivere uno dei profili visti, descriveremmo, dall'alto al basso, una fronte, un naso, due labbra, un mento, un collo. Avremmo cosi descritto la stessa linea che, se vista in altro modo, potrebbe essere un lato del vaso: ma non avremmo descritto il lato di un vaso, bensì il profilo di un volto. Se ora tu siedi davanti a me, io posso vederti come un'altra persona come me; ma, senza che tu cambi o faccia niente di nuovo, posso anche vederti come un sistema fisico-chimico complesso, forse dotato di certe caratteristiche individuali ma nondimeno sempre tale. Visto in questo modo tu non sei più una persona, ma un organismo. Nel linguaggio della fenomenologia esistenziale l'altro - visto alternativamente come persona o come organismo - è l'oggetto di atti intenzionali diversi. Non vi è dualismo, nel senso della coesistenza di due essenze o so-

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PARTE PRIMA

stanze diverse nell'oggetto (psiche e soma): vi sono due diverse Gestalt di esperienza, persona e organismo. Ma il rapporto che si stabilisce con un organismo è diverso dal rapporto che si ha con una persona. La descrizione dell'altro come organismo è diversa dalla descrizione dell'altro come persona, allo stesso modo che la descrizione del profilo di un vaso è diversa da quella del profilo di un volto. Analogamente una teoria dell'altro come organismo è tutt'altra cosa che una teoria dell'altro come persona. La scienza della persona è lo studio degli esseri umani che parte da un rapporto con l'altro come persona, e che spiega l'altro sempre considerandolo come persona. Per esempio, se si ascolta un'altra persona che sta parlando si possono fare due cose: a) si può studiare l'attività verbale in termini di processi nervosi e del funzionamento dell'apparato vocale; b) si può cercare di capire cosa sta dicendo la persona. Nel secondo caso una spiegazione dell'attività verbale, in termini del nesso generale di quelle modificazioni organiche che si devono necessariamente avere come condizione indispensabile dell'attività stessa, non contribuisce in alcun modo alla comprensione delle cose dette; e viceversa la comprensione delle cose dette non serve per conoscere i processi metabolici nelle cellule nervose dell'individuo che parla. Insomma la comprensione delle cose che l'individuo sta dicendo non può sostituire la spiegazione dei suoi principali processi organici, e viceversa. E ancora una volta, come sempre, non è questione di dualismo di spirito e corpo. Le due spiegazioni (in questo caso l'una personale, l'altra organica, sia del linguaggio, sia di qualunque altra attività umana osservabile) sono la conseguenza di due atti intenzionali iniziali, ciascuno dei quali va in una propria direzione e conduce a risultati suoi propri. Il particolare punto di vista, o atto intenzionale, viene scelto entro il contesto generale di quello che «si cerca» nell'altro: visto come organismo, o visto come persona, un uomo espone all'osservazione di colui che indaga aspetti differenti della sua realtà umana. Entrambi sono legittimi da un punto di vista metodologico, ma bisogna stare molto attenti a non Confonderli.

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L'altro come persona è visto come responsabile, capace di fare delle scelte, in una parola è visto come un agente autonomo. Visto come organismo, tutto quello che in esso avviene può concettualizzarsi a qualsiasi livello di complessità: atomico, molecolare, cellulare, sistemico, organico. Mentre l'attività personale è vista in termini dell'esperienza di quella persona, e delle sue intenzioni, l'attività organica può essere vista solo come la contrazione o la decontrazione di certi muscoli, ecc.: in luogo di interessarsi ad una successione di esperienze, ci si interessa ad una successione di processi. Quindi in un uomo visto come organismo non c'è posto per desideri, timori, speranze o disperazioni in quanto tali. Il fine ultimo delle nostre spiegazioni non riguarda le sue intenzioni nei confronti del suo mondo, ma i quanti di energia in un sistema di energia. Visto come organismo, l'uomo non può essere altro che un complesso di cose, di entità neutre (its): i processi che in ultima analisi lo costituiscono sono processi di cose. Si ha comunemente l'impressione che si potrebbe in qualche modo comprendere meglio una persona, se si potesse tradurre la comprensione personale che si ha di lui nei termini impersonali di una successione, o sistema, di processi di cose o di entità neutre. Anche in assenza di giustificazioni teoriche, c'è sempre una certa tendenza a tradurre l'esperienza personale che si ha dell'altro come persona in una descrizione spersonalizzata. Ciò avviene, in una certa misura, sia usando nella nostra «spiegazione» analogie meccanicistiche, sia usando analogie biologiche. È necessario tener presente che qui non si fa obiezione all'uso delle analogie meccanicistiche o biologiche in quanto tali, e neppure all'atto intenzionale di considerare l'uomo come un meccanismo complesso o come un animale. La nostra tesi è semplicemente che una teoria dell'uomo come persona sia destinata a fallire se si ricade in una descrizione dell'uomo come meccanismo, o come sistema organico di processi di cose; e viceversa. (Cfr. Brierley, 1951)Sembra incredibile che, mentre generalmente le scienze fisiche e biologiche, cioè le scienze dei processi di cose, siano prevalse sulla tendenza a personalizzare il mondo

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PARTE PRIMA

delle cose, o a leggere delle intenzioni umane nel mondo animale, un'autentica scienza delle persone non sia quasi ancora riuscita a nascere a causa della inveterata tendenza a spersonalizzare o reificare le persone. Nelle pagine che seguono ci occuperemo specificatamente di individui che si sentono automi, macchine, parti di meccanismi, persino animali. Queste persone vengono, giustamente, considerate pazze. E perché mai allora non si considera ugualmente pazzesca una teoria che cerca di trasformare delle persone in automi o animali? L'esperienza che si ha di se stessi e degli altri come persone è primaria; essa si valida da sé; la sua esistenza è precedente a tutti i problemi di ordine scientifico o filosofico sulla sua origine o sulle sue possibili spiegazioni. In realtà è molto difficile spiegare il persistere, in tutto il nostro pensiero, di tracce dell'«analogia biologica», come l'ha chiamata MacMurray: «Ci si aspetterebbe - scrive MacMurray ( 1957) - che alla nascita di una psicologia scientifica corrisponda una transizione da una concezione organica ad una concezione personale... dell'unità». In altri termini, ci si aspetterebbe di poter pensare, oltre che sentire, l'uomo individuale, né come una cosa né come un organismo, ma come una persona, e di poter disporre di un modo adatto per esprimere questa forma specificamente personale di unità. Invece non è cosi, e perciò il difficilissimo compito che affronteremo nelle pagine seguenti sarà quello di tentare di spiegare una forma strettamente personale di disintegrazione e spersonalizzazione, in quest'epoca, in cui appartiene ancora all'avvenire la conquista di quella «forma logica attraverso la quale sia possibile concepire in modo coerente l'unità personale» (iìrid.). Naturalmente esistono, in psicopatologia, numerose descrizioni di spersonalizzazione e di rottura della personalità. Ma nessuna teoria psicopatologica ha saputo finora eliminare completamente quelle deformazioni della persona che le sue stesse premesse rendono inevitabili, anche laddove si cerca di negare queste premesse. Infatti una psicopatologia che meriti il suo nome deve necessariamente presupporre una «psiche» (un apparato mentale, o struttura endopsichica); e deve presupporre che l'obiettivazio-

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ne, con o senza la reificazione imposta dal pensare in termini di una «cosa» o di un sistema fittizio, costituisca un corrispondente concettuale adeguato dell'altro come persona in interazione con altre persone. Deve inoltre presupporre che il suo modello concettuale abbia un modo di funzionamento analogo al funzionamento di un organismo in stato di salute, e un modo di funzionamento analogo al funzionamento di un organismo in stato di malattia. Tuttavia, per quanto pregni di analogie parziali possano essere tali confronti, la psicopatologia, per la natura stessa del suo atteggiamento di fondo, si preclude la possibilità di comprendere la disorganizzazione di un paziente come fallimento del tentativo di raggiungere una forma di unità specificamente personale. È un po' come voler ottenere del ghiaccio facendo bollire l'acqua. La stessa esistenza della psicopatologia perpetua quel dualismo che quasi tutti gli psicopatologi vorrebbero evitare perché palesemente falso. Ma esso non può essere evitato entro il sistema di riferimento della psicopatologia, tranne ricadendo in un monismo che riduce un termine all'altro, e che è semplicemente un giro ulteriore in una spirale di falsità. Si può sostenere che non è possibile essere scientifici senza conservare la propria «obiettività». Una scienza genuina dell'esistenza personale deve cercare di essere il meno tendenziosa possibile. Ma la fisica e le altre scienze delle cose devono accordare alla scienza delle persone il diritto di evitare la tendenziosità in modi che non tradiscano la natura del suo campo di studio. Se si ritiene che per evitare di essere tendenziosi occorre essere ^oggettivi» nel senso di spersonalizzare la persona che costituisce 1'«oggetto» dello studio, e se si cede alla tentazione di fare cosi, si ha l'illusione di essere scientifici. Un procedimento di spersonalizzazione, in una teoria che vuol essere una teoria di persone, è falsa proprio come la spersonalizzazione che lo schizoide opera sugli altri, e in ultima analisi non è meno di questa un atto intenzionale. Pur essendo condotta in nome della scienza, una simile reificazione produce falsa «conoscenza»; è una fallacia, altrettanto patetica quanto la falsa personalizzazione degli oggetti inanimati. Purtroppo parole come «personale» e «soggettivo» so-

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PARTE PRIMA

no tanto abusate da non aver più il potere di descrivere l'atto genuino di vedere l'altro come persona (se intendiamo indicare questo, dobbiamo infatti tornare a usare il termine «oggettivo»), mentre invece implicano immediatamente l'idea che i propri sentimenti e atteggiamenti vengano confusi con quelli dell'altra persona osservata, in modo da deformarne la percezione. Ed è molto forte il contrasto fra parole ben considerate, come «oggettivo» o «scientifico», e parole mal considerate, come «soggettivo», «intuitivo», e, peggiore di tutte, «mistico». E interessante, per esempio, che davanti alla parola «soggettivo» si incontri spesso l'avverbio «puramente», mentre non si può quasi immaginare di parlare di qualche cosa che sia «puramente» oggettiva. Il maggiore psicopatologo è stato Freud: come un eroe mitologico, egli è disceso agli «inferi», e si è trovato di fronte a terrori agghiaccianti; ma portava con sé la sua teoria, come una testa di Medusa, e con essa li ha trasformati in pietra. Noi, suoi seguaci, abbiamo il vantaggio della conoscenza che egli riportò indietro con sé e ci consegnò. Freud sopravvisse. Tocca a noi vedere se riusciamo a sopravvivere senza far ricorso ad una teoria che è, in qualche misura, uno strumento di difesa.

Il rapporto col paziente, come persona o come cosa. Nella fenomenologia esistenziale l'esistenza in questione può essere la propria o quella dell'altro. Se l'altro è un paziente, la fenomenologia esistenziale diventa un tentativo di ricostruzione del suo modo di essere se stesso nel suo mondo: anche se, nel rapporto terapeutico, il centro di osservazione può essere il suo modo di essere con me. I pazienti si presentano allo psichiatra accusando disturbi che vanno dalla difficoltà più particolare («Sono tentato di gettarmi da un aeroplano») alla più generale («Veramente non so perché sono venuto: ma forse ho qualcosa che non va»). Ma al di là di quanto circoscritto o diffuso sia il disturbo inizialmente accusato, si sa che in realtà il paziente porta nella situazione terapeutica, in-

LE BASI DI UNA SCIENZA DELLE PERSONE

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tenzionalmente o no, la sua esistenza, tutto quanto il suo essere-nel-mondo. Si sa anche che ogni aspetto del suo essere ha un qualche rapporto con tutti gli altri, anche se poi possa risultare tutt'altro che chiaro in che modo i vari aspetti si articolano. Il compito della fenomenologia esistenziale consiste appunto nell'articolare il «mondo» dell'altro e il suo modo di esservi. Fin dall'inizio può darsi che la mia idea dell'ampiezza, o del raggio di estensione dell'essere di un uomo non coincida con la sua, e anzi nemmeno con quella di altri psichiatri. Per esempio io personalmente considero un qualsiasi individuo particolare come finito, cioè come uno che ha avuto un principio e che avrà una fine: è nato, e morirà; nel frattempo ha un corpo, che lo àncora a questo tempo ed a questo luogo. Io ritengo queste proposizioni applicabili a tutti e a ciascuno; ma non mi propongo di verificarle di nuovo tutte le volte che incontro un'altra persona, che anzi esse non si possono dimostrare né vere né false. Ma una volta ho avuto un paziente la cui idea dell'orizzonte del suo essere si estendeva al di là della nascita e della morte: «di fatto», e non semplicemente con «l'immaginazione», egli dichiarava di non essere realmente legato a un tempo ed a un luogo. Non lo consideravo psicotico, né avrei potuto dimostrare, se lo avessi voluto, che era nel falso. Tuttavia è di grande importanza pratica il riuscire a vedere che l'idea, o l'esperienza, che un uomo può avere nei confronti del suo essere, può essere molto diversa dalla propria. In questi casi è necessario potersi orientare come persona nello schema dell'altro, anziché limitarsi a vedere l'altro come un oggetto nel proprio mondo, cioè entro il proprio sistema totale di riferimento. E si deve poter effettuare questo nuovo orientamento senza giudicare anticipatamente dove sta il torto o la ragione. La capacità di fare tutto questo è il primo ed assoluto requisito per poter lavorare con gli psicotici. Vi è un altro aspetto dell'essere dell'uomo che è cruciale per la psicoterapia più che per altre forme di trattamento. Si tratta del fatto che ciascuno di noi è al tempo stesso separato dai suoi simili ed in rapporto con essi. Questi stati di separazione e di legame sono postulati reciprocamen-

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te necessari: infatti il rapporto personale può esistere solo tra esseri che siano separati ma non isolati. Non siamo isolati, e tuttavia non siamo delle parti dello stesso corpo fisico. Si ha qui il paradosso — potenzialmente tragico che il nostro rapporto con gli altri è un aspetto essenziale del nostro essere, tanto quanto lo è la nostra separazione, mentre una qualsiasi persona particolare non è una parte necessaria del nostro essere. La psicoterapia è un'attività in cui viene usato a fini terapeutici un aspetto dell'essere del paziente: il suo rapporto con gli altri. Il terapeuta agisce sulla base del principio che, poiché questo rapporto è potenzialmente presente in ognuno, può non essere una perdita di tempo star seduto per delle ore accanto a un catatonico, che dà tutti i segni di non riconoscere la sua esistenza.

Capitolo secondo Le basi fenomenologico-esistenziali per la conoscenza della psicosi

Il gergo psichiatrico attualmente in uso presenta un'altra caratteristica. La psicosi è, in questo linguaggio, un mancato aggiustamento biologico o sociale, un disadattamento particolarmente grave, una perdita di contatto con la realtà, un difetto di autocritica. Come ha detto Van den Berg (195^), si tratta di un vero e proprio «vocabolario di denigrazione». Non già una denigrazione di tipo moralistico: almeno non in un senso ottocentesco, che anzi questo linguaggio è in un certo modo il risultato di uno sforzo fatto per evitare i concetti di libertà, di scelta, di responsabilità. Esso implica piuttosto un certo modo standard di essere umani: un modo con il quale lo psicotico non può competere. E sta di fatto che io non mi sento di respingere tutte le implicazioni contenute in questo «vocabolario di denigrazione», ma credo, al contrario, che bisognerebbe rendere ancora più espliciti, nel nostro pensiero, i giudizi che facciamo quando definiamo psicotico qualcuno. Quando dichiaro che un certo paziente è malato di mente, che può essere pericoloso a sé e agli altri, e che ha bisogno di ricovero in ospedale psichiatrico, non intendo equivocare sulle cose che scrivo. Al tempo stesso, però, sono anche cosciente del fatto che a mio avviso vi sono in giro altre persone, considerate sane, la cui mente è altrettanto gravemente ammalata; che possono essere altrettanto pericolose - o anche di più - a sé e agli altri, e che invece la società non considera psicotici da rinchiudere in manicomio. E sono anche cosciente del fatto che, se mi mandano un uomo avvertendomi che sta delirando, quest'uomo può, nel suo delirio, dirmi la verità, e ciò non in maniera vaga o metaforica, ma letteralmente, perché la mente ammalata dello schizofrenico può permettergli di

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vedere delle cose che non possono entrare nella mente intatta, ma non aperta, di molte persone sane. Ezechiele, a giudizio di Jaspers, era uno schizofrenico, A questo punto devo confessare una certa difficoltà personale di cui soffro come psichiatra, e che sta alla base di molte delle cose dette in questo libro. Si tratta del fatto che, tranne nel caso degli schizofrenici cronici, mi riesce difficile individuare con certezza i «segni e sintomi» della psicosi durante i colloqui che conduco personalmente. Ho pensato per un certo periodo che la cosa fosse dovuta a un mio difetto di acume nell'individuare la presenza dell'allucinazione, del delirio ecc. Se infatti confrontavo l'esperienza che avevo io degli psicotici con le descrizioni che si trovano nei libri di testo, non riconoscevo il modo di comportarsi dei miei malati nei pazienti descritti dagli autori, e pensavo che forse avevano ragione gli autori. Poi pensai che forse erano loro che avevano torto; ma questa opinione è altrettanto arbitraria. Per stare ai fatti, il problema si può formulare nel modo seguente. Le descrizioni dei libri di testo riguardano l'attività di una persona, in un campo di attività in cui è presente, anche lo psichiatra. Allora l'attività del paziente è, in qualche misura, una funzione dell'attività dello psichiatra che si trova nel campo. Il paziente psichiatrico tipico è una funzione dello psichiatra tipico, e dell'ospedale psichiatrico tipico. Il basso continuo (per usare un'immagine musicale) che accompagna tutte le grandi pagine di Bleuler sugli schizofrenici è. contenuto in questa sua osservazione: che, tutto sommato, i pazienti gli risultavano più estranei degli uccelli del suo giardino. Bleuler, come sappiamo, si accostava al paziente allo stesso modo che un clinico medico si accosta ad un caso clinico: con rispetto, cortesia, considerazione, e curiosità scientifica. Ma il paziente è un malato, in senso medico, e bisogna arrivare a una diagnosi della sua condizione osservando i segni della malattia. È talmente evidente, per tanti psichiatri, che un simile atteggiamento è corretto, che a molti di essi potrà riuscire difficile capire dove voglio arrivare. È vero che oggi esistono molte scuole in cui si pensa diversamente, ma nel nostro paese il pensiero

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dominante è ancora questo; ed è certamente il modo di pensare accettato dal pubblico laico (sto sempre parlando di pazienti psicotici: quelli, come immediatamente pensa la maggior parte della gente, diversi da noi). Ed è l'atteggiamento al quale restano ancora attaccati, in pratica, gli psichiatri, anche se a parole molti di essi accettano l'idea di incompatibilità di punti di vista, di opinioni e valori, di modi di fare. Ci sarà anche del buono in questo atteggiamento, anche perché dà tanta sicurezza; ma proprio per questo si deve esaminare attentamente la possibilità che, come atteggiamento clinico, come atteggiamento professionale, esso possa lasciare a desiderare, o anche, in certe circostanze, essere completamente sbagliato. La difficoltà non consiste semplicemente nel notare i sentimenti del paziente, cosi come si rivelano attraverso la sua attività. Qualunque buon clinico medico sa che se il paziente è ansioso la sua pressione sanguigna può essere più elevata del solito, il polso più rapido ecc. Ma il punto è che quando si ausculta «il cuore», o anche quando si esamina l'intero paziente in quanto organismo, si trascura di osservare la natura dei propri sentimenti personali verso di lui, come se, comunque, questi fossero irrilevanti e non degni di nota. Si conserva, insomma, un atteggiamento e un modo di fare professionali più o meno indifferenti.

Che questo atteggiamento clinico-psichiatrico classico sia rimasto fondamentalmente lo stesso dai tempi di Kraepelin si può controllare confrontando il passo seguente con qualunque libro di testo inglese recente (per esempio Mayer-Gross, Slater e Roth). Si tratta di una dimostrazione in aula fatta da Kraepelin (1905), su un paziente con segni di eccitamento catatonico. Il paziente che oggi vi mostro ha dovuto essere portato quasi di peso, perché cammina a gambe larghe appoggiandosi sull'esterno del piede. Entrando getta in aria le ciabatte, si mette a cantare a voce altissima, e poi grida due volte, in inglese: «Padre mio! Padre mio vero! » Ha diciotto anni, frequentava l'Oberrealschule (scuola media supe-

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riore a indirizzo moderno), è alto e di forte costituzione, ma di colorito pallido, con rossori frequenti. Il paziente siede a occhi chiusi e non presta attenzione all'ambiente che lo circonda. Non guarda l'interlocutore, ma risponde dapprima a voce bassa, poi gradualmente gridando sempre più forte. Quando gli si chiede dove si trova dice: «Vuole sapere anche questo? Glielo dico io chi è misurato e viene misurato e dev'essere misurato. So tutto, glielo potrei dire, ma non voglio». Quando gli si chiede come si chiama, grida: «Come ti chiami? Che cosa chiude? Chiude gli occhi. Che cosa sente? Non capisce. Come? Chi? Dove? Quando? Che significa? Quando gli dico di guardarmi non mi guarda giusto. Eilà tu, guarda su! Cosa c'è? Che succede? Attento! Non sta attento. Ehi ehi dico, che c'è? Perché non mi rispondi? Ti rimetti a fare lo sfacciato? Non fare lo sfacciato! Ora vengo! Ora ti faccio vedere io! Tu non farmi da ruffiano. Non sei neanche intelligente. Sei uno sfacciato, fai schifo, uno sfacciato cosi, uno schifo cosi non l'ho mai visto. Ah ora ricomincia. Non capisci niente, niente! Niente capisce questo. Se ora stai attento non sta attento, non starà attento. Ora ti rimetti a fare lo sfacciato? Ancora più sfacciato? Come stanno attenti, stanno tutti attenti! » e cosi di seguito. Alla fine il paziente non emette che suoni inarticolati di collera. Kraepelin osserva poi, fra altre cose, la «inaccessibilità» del paziente: Nonostante sia fuor di dubbio che il paziente comprenda tutte le domande che gli sono rivolte, egli non ci ha fornito una sola informazione utile. I suoi discorsi sono... soltanto una serie di frasi sconnesse, che non hanno alcun rapporto con la situazione generale (1905; il corsivo è mio). Che il paziente mostri i «segni» dell'eccitamento catatonico è indiscutibile. Ma la costruzione che eleviamo sulla base di questo tipo di attività dipende dal rapporto che avremo stabilito col paziente; e dobbiamo a Kraepelin e alla sua vivida descrizione se, cinquant'anni dopo, il paziente è vivo davanti a noi in questa pagina. Ma che cosa sta facendo? Sicuramente un dialogo: un dialogo fra la sua versione, parodistica, di Kraepelin, e il suo io in rivolta. «Vuole sapere anche questo? Glielo dico io chi è misurato e viene misurato e dev'essere misurato. So tutto,

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glielo potrei dire, ma non voglio». Questo è un discorso abbastanza chiaro: presumibilmente il paziente è molto ostile verso questa forma di interrogatorio, che si svolge in un'aula piena di studenti, e non vede che rapporto possa avere con le cose che lo turbano profondamente. Ma queste cose non costituirebbero «informazioni utili» per Kraepelin, tranne che come nuovi «segni» di una «malattia». Kraepelin gli chiede come si chiama. Il paziente scoppia in una collera esasperata, e dice quello che crede essere l'atteggiamento implicito nel modo di fare di Kraepelin: «Come ti chiami? Che cosa chiude? Chiude gli occhi... Perché non mi rispondi? Ti rimetti a fare lo sfacciato?... Tu non farmi da ruffiano [qui crede che Kraepelin lo voglia prostituire all'intera classe di studenti]... Uno sfacciato cosi, uno schifo cosi non l'ho mai visto...» Sembra chiaro che l'attività di questo paziente può essere vista almeno in due modi, analogamente al profilo e al vaso della figura ambigua. Si possono osservare nel suo comportamento i «segni» di una «malattia»; e si può considerare il suo comportamento come l'espressione della sua esistenza. La costruzione fenomenologico-esistenziale è un'inferenza sul modo con cui l'altro sente e agisce. Come è sentito Kraepelin dal paziente? Questo ragazzo pare tormentato e disperato. Che cosa «vuole» parlando e agendo in questo modo? Protesta perché lo misurano e lo visitano. Protesta perché vorrebbe, invece, che lo ascoltassero.

L'interpretazione come funzione del rapporto col paziente. Lo psichiatra clinico, nel suo desiderio di essere «scientifico» e «oggettivo», può proporsi di limitarsi a considerare l'attività «oggettivamente» osservabile del paziente che gli sta di fronte. La risposta più semplice è che ciò è impossibile. Vedere «segni» di «malattia» non significa vedere in modo neutro. Né è imparzialità vedere un sorriso come una contrazione dello sfintere orale (MerleauPonty, 1942). Non possiamo far altro che vedere una per-

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sona in un modo o nell'altro, fondando le nostre costruzioni o interpretazioni sulla «sua» attività non appena entriamo in rapporto con lei. Questo accade anche nel caso negativo in cui ci si sente bloccati o imbarazzati dalla mancanza di reciprocità da parte del paziente, e si ha l'impressione che davanti a noi non ci sta nessuno. Con questo siamo molto vicini al centro del problema. Le difficoltà che ci si presentano sono simili, se non più grandi, a quelle incontrate da chi volesse tradurre dei geroglifici (questa analogia piaceva a Freud). La teoria dell'interpretazione o decifrazione dei geroglifici e di altri antichi testi è stata sviluppata ed esposta da Dilthey nel secolo scorso, cosa che non è avvenuta per la teoria della interpretazione di quei geroglifici che sono gli atti e le parole psicotiche. Un confronto del nostro problema con quello dello storico, cosi com'è visto da Dilthey, può contribuire a chiarire la nostra posizione: in entrambi i casi si tratta essenzialmente di un problema di interpretazione \ I documenti antichi possono essere sottoposti ad una analisi formale, analizzati cioè secondo la loro struttura, stile, tratti linguistici, caratteristiche sintattiche peculiari, ecc. La psichiatria clinica tenta di fare un'analisi formale di questo tipo sul linguaggio e sull'attività del paziente. Questo formalismo, storico o clinico, presenta ovviamente gravi limiti. Al di là dell'analisi formale si può far luce su un testo attraverso una conoscenza delle condizioni storico-sociali da cui proviene. Analogamente, si sente di solito il bisogno di estendere il più possibile l'analisi, formale e statica, dei segni clinici isolati, fino a comprendere il posto che essi occupano nella storia del paziente e le cause dinamiche della loro insorgenza. Ma l'informazione storica in sé, sia su antichi autori che su pazienti, può aiutarci a comprendere questi solo nel caso che noi desideriamo comprendere le loro modalità di essere-nel-mondo. Perciò, quando Dilthey «caratterizza il rapporto fra l'autore 1 La (onte utilizzata per le citazioni da Dilthey è il saggio di Bultmann, The Problem of Hermeneutics, in Bultmann, 193J.

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e il decifratore come il fattore che condiziona la possibilità di intelligenza del testo, egli in realtà individua il presupposto di ogni interpretazione che abbia alla base la comprensione» (Bultmann, 1955). «Noi spieghiamo - scrive Dilthey - mediante processi puramente intellettuali, ma comprendiamo mediante tutte le forze della mente unite nella comprensione. Nell'atto di comprendere partiamo dalle connessioni dell'insieme dato e vivente, per rendere comprensibile, in termini di questo, il passato». La nostra visione dell'altro dipende appunto dalla nostra disposizione a mobilitare tutte le forze in noi stessi per l'atto della comprensione. Occorre anche orientarsi verso questa persona in modo da lasciare aperta la possibilità di comprenderla. L'arte di comprendere gli aspetti osservabili in quanto espressione del modo di essere-nelmondo di questo individuo consiste nel mettere i suoi atti in relazione al suo modo di vivere la situazione in cui si trova con noi. Analogamente, è in termini del suo presente che dobbiamo comprendere il suo passato, e non soltanto viceversa. Anche questo risulta vero nei casi negativi, in cui può sembrare dal suo comportamento che il paziente neghi del tutto l'esistenza della situazione: come quando, per esempio, ci sentiamo trattati come se non esistessimo, o come se esistessimo solo come riflesso dei suoi desideri o delle sue ansietà. Certo qui non si può attribuire ad una simile attività un significato rigidamente predeterminato. Facendolo, e considerando gli atti del paziente come «segni» di una «malattia», gli imponiamo le nostre categorie mentali, in modo analogo a quello che forse attribuiamo a lui; lo stesso accadrebbe se immaginassimo di poter spiegare il suo presente come il risultato meccanico di un passato immutabile. Se atteggiamenti di questo genere vengono adottati nei confronti di un paziente, non è più possibile capire le cose che forse egli cerca di comunicarci. Per riprendere l'esempio di una persona che parla e una che ascolta, mettiamo che io ti sieda di fronte e ti parli, e che tu possa: 1 ) cercare di scoprire e valutare eventuali anormalità del mio linguaggio; 2) cercare di spiegare quello che sto dicendo

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sulla base del metabolismo dell'ossigeno nel mio cervello; 3) cercare di scoprire perché dico certe cose in un certo momento, sulla base della mia storia passata e del mio ambiente socio-economico. Nessuna delle risposte che eventualmente potrai dare a queste domande sarà capace, in sé, di farti capire in maniera semplice che cosa voglio ottenere. È possibilissimo avere una conoscenza completa di tutto ciò che è noto sull'incidenza ereditaria o familiare delle psicosi maniaco-depressive o della schizofrenia; imparare a riconoscere facilmente le deformazioni schizoidi e i difetti schizofrenici dell'Io, oltre a tutti i vari disturbi del pensiero, della memoria, della percezione ecc.; insomma sapere pressapoco tutto quello che si può sapere sulla psicopatologia della schizofrenia, cioè sulla schizofrenia come malattia, senza per questo essere in grado di capire un solo schizofrenico. Quei dati di conoscenza, infatti, sono in realtà tutti modi di non capirlo. Guardare e ascoltare un paziente e vedere in lui i «segni» della schizofrenia come «malattia», e guardarlo e ascoltarlo semplicemente come essere umano, sono due cose radicalmente diverse, esattamente come quando, nella figura ambigua, si vede prima il vaso e poi i due profili. Naturalmente, come osserva Dilthey, l'interprete di un testo ha il diritto di presumere che, nonostante il tempo intercorso e nonostante l'ampia divergenza del suo modo di vedere rispetto al modo di vedere dell'antico autore, il suo contesto generale di esperienza non sia completamente diverso da quello dell'originale. In fin dei conti egli, come l'autore originale, esiste nel mondo, come oggetto permanente nel tempo e nello spazio, insieme con altri simili a lui. Ma questo presupposto non è valido nei confronti dello psicotico. Da questo punto di vista può essere più difficile capire uno psicotico, che sta qui con noi adesso, che non capire l'autore di un geroglifico, morto migliaia di anni fa. E tuttavia la distinzione non è essenziale. Dopotutto lo psicotico - come diceva Harry Stack Sullivan - è soprattutto «semplicemente umano». Le due personalità del medico e dello psicotico, non diversamente da quelle dell'interprete e dell'autore del testo, non sono

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contrastanti, come due fatti opposti che non possono né incontrarsi né confrontarsi. Però, come l'interprete, il terapeuta deve possedere una plasticità sufficiente per potersi trasporre in un altro modo, un modo strano e che forse gli è completamente alieno, di vedere il mondo. In questo atto di trasposizione il terapeuta attinge alle sue proprie potenzialità psicotiche, senza per questo rinunziare alla sua salute mentale. Solo cosi può arrivare a cogliere la posizione esistenziale del paziente. Spero che sia chiaro che non sto parlando di un processo puramente intellettuale. Invece di cogliere si potrebbe benissimo dire amare; solo che non c'è parola più abusata di questa. La capacità necessaria (ma non sufficiente) è quella di sapere come il paziente senta se stesso e il mondo, ivi compreso il terapeuta: se non si può capire questo non si è certo nella migliore condizione per poter cominciare ad «amarlo» in modo utile. Ci è stato comandato di amare il nostro prossimo, ma non si può amare disinteressatamente un qualunque prossimo particolare senza sapere chi è: si può solo amare la sua astratta umanità. Cosi non si può amare un conglomerato di «segni di schizofrenia». Nessuno ha la schizofrenia, nel senso che intendiamo quando diciamo che uno ha il raffreddore. Il paziente non ha la schizofrenia: è schizofrenico. Bisogna conoscerlo senza distruggerlo, e lui stesso deve scoprire per conto suo che ciò è possibile. Per questa ragione i sentimenti di amore e di odio del terapeuta sono ugualmente ed estremamente importanti, perché quello che lo schizofrenico rappresenta per noi contribuisce potentemente a determinare quello che noi siamo per lui, e con ciò i suoi atti. Mentre invece i «segni», quelli riportati sui libri di testo, variano anche di molto da un ospedale all'altro; alcuni psichiatri osservano alcuni segni più di altri; si direbbe che, a seconda degli ospedali, i segni schizofrenici vengano rilevati in funzione delle cure infermieristiche Ritengo perciò che sia assolutamente vera, anche se difficile da accettare, la seguente proposizione di Frieda 1 La letteratura a sostegno di questo punto di vista è oggi abbondante. Cfr. per esempio In the Meritai Hospital, serie di articoli apparsi in «The Lancet», 1955-56.

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Fromm-Reichmann: «...ormai gli psichiatri possono ritenere per certo che, almeno teoricamente, è possibile stabilire un rapporto medico-paziente col paziente schizofrenico. Nei casi in cui ciò appaia impossibile, il motivo risiede nelle difficoltà personali del medico e non già nella psicopatologia del paziente» (1952). Naturalmente, come accade col ragazzo catatonico di Kraepelin, il paziente reagisce al terapeuta solo in parte secondo ciò che questo ritiene di essere; per il resto risponde in termini delle sue fantasie su ciò che il terapeuta è. E il terapeuta cerca appunto di far vedere al paziente che nel suo modo di agire è implicita questa sua particolare percezione fantastica: della quale con grandissima probabilità egli non si rende conto interamente, cioè la vive inconsciamente, ma che nondimeno rappresenta un necessario postulato se si vuol cominciare a capire questo modo di agire. Quando due persone sane stanno insieme, ci si aspetta che A riconosca B, più 0 meno, per la persona che B ritiene di essere, e viceversa. Vale a dire che da parte mia mi aspetto che la definizione che io do di me stesso coincida, almeno pressapoco, con quella che ne dà l'altra persona; naturalmente assumendo che io non stia facendo l'ipocrita, o dicendo delle bugie, o fingendo di essere un altro Tuttavia, anche entro il contesto della salute mentale di entrambi c'è un margine abbastanza largo di errori, conflitti, false percezioni: in breve, c'è margine per una certa discrepanza fra la persona che si è ai propri occhi (l'essere per se stessi) e la persona che si è agli occhi dell'altro (l'essere per l'altro); e reciprocamente, fra la persona che lui è per me e quella che invece è per se stesso; e infine, fra la persona che lui ritiene essere la sua immagine di se stesso, l'immagine degli atteggiamenti e intenzioni che ritiene di avere verso se stesso, e l'immagine, gli atteggiamenti e le intenzioni che in realtà ha verso se stesso, e viceversa. Insomma, quando due persone sane di mente si incontrano si ha una certa percezione reciproca dell'identità per1 C'è una storiella su un paziente sottoposto alla prova del riflesso psicogalvanico. Gli viene chiesto di dire se è Napoleone e risponde di no. Il galvanómetro registra una bugia.

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sonale di ciascuno, percezione nella quale sono contenuti due elementi fondamentali: a) io riconosco l'altro come la persona che egli stesso ritiene di essere; b) l'altro riconosce me come la persona che io stesso ritengo di essere. Ciascuno dei due possiede un senso autonomo della propria identità e una sua propria definizione di sé; e l'uno si aspetta dall'altro che questi sia capace di riconoscerlo, cioè io sono abituato ad aspettarmi che la persona che tu ritieni che io sia, e l'identità che io attribuisco a me stesso, grosso modo coincidano. Diciamo grosso modo, perché sono ovviamente possibili divergenze anche notevoli. Ma se, anche dopo i normali tentativi per ridurle, restano delle divergenze profonde, allora non resta che concludere che uno dei due non è sano di mente. Io non ho difficoltà a considerare psicotica un'altra persona, se questa, per esempio: - dice di essere Napoleone, mentre io dico che non lo è; - dice che io sono Napoleone, mentre io dico di non esserlo; - crede che io voglia sedurlo, mentre io credo di non avergli mai dato motivi reali perché lui supponga che tale sia la mia intenzione; - crede che io abbia paura che lui voglia assassinarmi, mentre io non ho questa paura né ho fatto nulla per giustificare la sua supposizione. E suggerisco il criterio seguente: la salute mentale, o la psicosi, si misura col grado di convergenza 0 divergenza esistente fra due persone, una delle quali sia, per comune consenso, sana di mente. II test per stabilire se un paziente sia psicotico è un difetto di convergenza, un'incongruenza, un urto fra lui e me. «Psicotico» è il nome che riserviamo all'altra persona che sta con noi in un rapporto disgiuntivo particolare. È

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solo per questa disgiunzione interpersonale che cominciamo a chiedere un'analisi delle urine e a cercare anomalie nel suo elettroencefalogramma. Ma a questo punto converrà esaminare un po' più da vicino la natura di questa barriera, o disgiunzione, fra il sano e lo psicotico. Se, per esempio, un uomo afferma di essere irreale, sempre che non stia mentendo, o scherzando, o equivocando in maniera sottile con le parole, non c'è dubbio che verrà considerato delirante. Ma cosa significa, esistenzialmente, il suo delirio? Egli non scherza, né finge: anzi insiste che ha continuato per anni a fingere di essere una persona reale, e dice che ora non può più continuare l'inganno. La sua vita intera è stata una lotta fra il desiderio di svelarsi e il desiderio di nascondersi. Tutti noi abbiamo, in comune con lui, questo stesso problema, e tutti siamo arrivati a una soluzione più o meno soddisfacente. Abbiamo i nostri segreti, e il desiderio di confessarli. Possiamo anche ricordare come, nell'infanzia, gli adulti sapessero vederci dentro come se fossimo trasparenti; ma in seguito, quale grande conquista per noi quando, tutti tremanti, dicemmo la prima bugia, scoprendo al tempo stesso di essere, sotto certi aspetti, irrimediabilmente soli, e apprendendo che entro i confini di questo territorio deserto potevano esservi solo le nostre impronte. Alcuni di noi però non si realizzano mai - non diventano mai «reali» - in questa forma. Questo genuino essere soli con se stessi costituirà per la maggior parte di noi la base per poter avere con gli altri rapporti genuini: ma quello che chiamiamo «schizoide» si sente al tempo stesso più esposto, più vulnerabile di noi, e più isolato. Ecco perché uno schizofrenico può dire di essere fatto di vetro, e tanto trasparente e fragile che un'occhiata basta a penetrarlo e mandarlo in frantumi. Possiamo crederlo: egli si sente precisamente cosi. Allora dobbiamo pensare che l'uomo irreale abbia imparato cosi bene a nascondersi proprio in conseguenza di questa estrema vulnerabilità. Egli ha imparato a piangere quando era allegro e a sorridere quando era triste. Ha accolto le lodi con malumore, i rimproveri con allegria.

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«Niente di quello che voi vedete sono io», egli dice dentro di sé. Ma (in realtà) egli può essere qualcuno soltanto in quello che vediamo noi: e se quello che vediamo noi, le sue azioni, non sono il suo vero io, allora egli è irreale davvero; è qualcosa di ambiguo e del tutto simbolico, una persona puramente virtuale, potenziale, immaginaria, un uomo mitico, in realtà un niente. E se poi per una volta smette di fingere di essere quello che non è, e viene fuori come la persona che è diventato, ne esce un Cristo, uno spettro, non un uomo: esistere senza un corpo si paga col non essere. Cosi, nella sua vita, la sua condizione esistenziale è diventata vera: ciò che è vero esistenzialmente diventa vero in realtà. Non c'è dubbio che la maggior parte delle persone giudicano realmente vero soltanto ciò che ha a che fare col linguaggio e col mondo naturale. Un uomo dice di essere morto quando invece è vivo, e la sua «verità» è quella di essere morto; ma egli la esprime nell'unico modo, forse, che il senso comune (cioè comunitario) gli permette. Quello che intende dire è che è realmente e letteralmente morto, non già in modo simbolico o «in un certo senso» o «per modo di dire»: ma il prezzo che si paga per questa trasformazione di valore della verità comunitaria è la pazzia, giacché l'unica morte reale che gli altri riconoscono è quella biologica. Lo schizofrenico è un uomo senza speranza. Non ho mai conosciuto uno schizofrenico che potesse dire di essere amato come uomo: da Dio padre, dalla madre di Dio, da un altro uomo. Lui stesso è Dio, o il diavolo, o sta all'inferno estraniato da Dio. Quando qualcuno dice in tutta serietà di essere irreale o di essere morto, egli esprime in termini radicali la nuda verità della sua esistenza come da lui stesso è sentita: cioè la follia. E a noi che cosa resta da fare? Il centro dell'esperienza schizofrenica è destinato a rimanerci incomprensibile, fin tanto che noi siamo sani di mente e lui no. Ma di una cosa certamente lo schizofrenico non ha bisogno né desiderio: del nostro sforzo di raggiungerlo e comprenderlo restando però nel nostro mondo, e giudicandolo col criterio delle

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nostre categorie, alla cui altezza egli non potrà mai essere. Dobbiamo invece tenere continuamente presente il suo essere distinto, separato, diverso; la sua solitudine e la sua disperazione 1 La schizofrenia non si può comprendere se non si comprende la disperazione. Cfr. specialmente Kierkegaard, 19.53; Binswanger, 1958.

Capitolo terzo L'insicurezza ontologica

A questo punto possiamo definire con maggior precisione la natura della nostra ricerca clinica. Un uomo può avere il senso della sua presenza nel mondo come persona reale, viva, intera e, in senso temporale, continua. Come tale vive nel mondo e ne fa parte, e incontra gli altri; e sia questi che quello vengono vissuti come altrettanto reali, vivi, interi e continui. Questa persona, fondamentalmente sicura in senso ontologico ', è in grado di affrontare la vita e le sue difficoltà di ordine sociale, etico, spirituale e biologico, armata di questo suo senso, solido e centrale, della realtà e della identità di se stessa e degli altri. Ed è spesso difficile, per una persona con un tale senso della sua identità personale, col senso della permanenza e della interezza di sé e delle cose, col senso della stabilità e della sostanzialità dei processi naturali; è spesso difficile per una persona cosi trasporsi nel mondo di un individuo, nella cui esperienza manchi invece completamente ogni certezza al di là del dubbio, ogni certezza di per sé evidente. Il nostro studio riguarda le cose che succedono quando vi è un'assenza o un difetto delle certezze derivanti da una condizione esistenziale che ora possiamo chiamare sicurezza ontologica primaria, e quando al loro posto vi sono ansietà e pericoli che, come qui suggerisco, provengono soltanto da una insicurezza ontologica primaria; riguarda infine i tentativi, conseguenti a questa condizione, di affrontare quelle ansietà e quei pericoli. Il critico letterario Lionel Trilling ( 1 9 5 5 ) ha descritto con grande chiarezza lo stesso contrasto fra una condizio1 II termine non è da intendere qui nel suo senso filosofico, come per esempio si trova usato in Heidegger, Sartre o Tillich, ma nel suo significato empirico, cioè come avverbio o aggettivo della parola «essere».

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ne esistenziale di sicurezza ontologica di fondo e una condizione di insicurezza ontologica. L'autore confronta il mondo di Shakespeare e Keats da una parte, e quello di Kafka dall'altra: ... per Keats la consapevolezza del male esiste accanto a un senso fortissimo di identità personale, e per questo motivo è meno immediatamente apparente; ad alcuni lettori contemporanei potrà sembrare, per lo stesso motivo, anche meno intensa. Allo stesso modo può apparire a un lettore contemporaneo che, se confrontiamo Shakespeare a Kafka trascurando le differenze di statura, e considerando entrambi come interpreti della sofferenza e della alienazione cosmica dell'uomo, sia quella di Kafka l'esposizione più intensa e completa. E in realtà può anche darsi che si tratti di una valutazione giusta, proprio perché in Kafka il senso del male non è contraddetto dal senso dell'identità personale. Il mondo di Shakespeare, non meno di quello di Kafka, è quella prigione con cui Pascal definisce il mondo, dalla quale ogni giorno i condannati vengono condotti a morire; non meno di Kafka, Shakespeare ci costringe a vedere la crudele irrazionalità della condizione umana, la vita come un racconto detto da un idiota, gli dèi puerili che ci torturano non per punizione ma per divertirsi; non meno di Kafka, Shakespeare si sente rivoltare al fetore della prigione, che nulla è in lui più caratteristico delle sue immagini di disgusto. Ma nella cella di Shakespeare, in quale miglior compagnia ci si trova! I capitani e i re, gli amanti e i buffoni di Shakespeare sono vivi e completi fino all'ora della morte. Ma in Kafka qualcosa di terribile è stato fatto ai condannati già molto tempo prima che la sentenza venga eseguita, anzi molto tempo prima che si istituisca il maligno processo. E sappiamo tutti di che si tratta. Essi sono stati spogliati di tutto quello che si addice all'uomo, tranne la sua astratta umanità, che però, come i loro scheletri, non gli si addice mai del tutto. Sono senza parenti, senza casa, senza moglie o figli, senza impegno o appetito; sono a loro estranei il potere, la bellezza, l'amore, l'ingegno, il coraggio, la lealtà, la fama; e il senso di orgoglio che si prova nel possedere queste cose. Cosi che possiamo dire che la conoscenza del male esiste in Kafka senza la conoscenza, con essa contrastante, dell'io nella sua saldezza e validità; mentre in Shakespeare la conoscenza del male esiste accanto a questo contrasto, espresso il più fortemente possibile.

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Cioè, dice Trilling, i personaggi di Shakespeare mostrano chiaramente di sentirsi reali e vivi e completi, per quanto possano essere tormentati da dubbi o combattuti; al contrario di quanto avviene in Kafka, dove viceversa si ha uno sforzo di comunicare cosa significa essere vivi senza averne la certezza: caratteristica che sembra essere presente nell'opera di numerosi scrittori e artisti del nostro tempo. La vita, senza sentirsi vivi. Per esempio, con Samuel Beckett si entra in un mondo in cui nessun senso contrastante dell'io «nella sua saldezza e validità» viene a mitigare la disperazione, il terrore e lo squallore dell'esistenza. Cosí i due vagabondi che aspettano Godot sono condannati a vivere: Troviamo sempre qualche cosa, eh, Didi, che ci dà l'impressione di esistere? VLADIMIRO (con impazienza) . Si, si, siamo dei maghi. Ma pensiamo a quello che dobbiamo fare, prima di scordarcene. ESTRAGONE

In pittura è Francis Bacon, fra altri, che sembra trattare problemi simili. In generale è evidente che gli argomenti che qui verranno trattati da un punto di vista clinico non rappresentano che un piccolo campione di qualcosa, in cui la natura umana è profondamente implicata; e che il nostro contributo alla sua comprensione può solo essere parziale. Ma cominciamo dal principio. La nascita biologica è un atto definitivo, col quale l'organismo infantile viene scagliato nel mondo. Eccolo: è un nuovo nato, una nuova entità biologica, già fatta a modo suo, viva e reale: almeno dal nostro punto di vista. Ma dal suo? In circostanze normali, la venuta al mondo di un nuovo organismo vivente coincide con l'inizio di rapidi processi, in virtù dei quali entro un tempo sorprendentemente breve il bambino si sente vivo e reale, ed ha il senso di essere un'entità, continua nel tempo e provvista di un posto nello spazio. Insomma alla nascita fisica, all'ingresso biologico nella vita fa seguito la nascita esistenziale, il diventare vivo e reale. Di solito questa sequenza risulta naturale, e fornisce la certezza dalla quale dipenderanno

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tutte le altre certezze: cioè non sono i soli adulti a vedere i bambini come entità biologiche reali, ma i bambini stessi si sentono persone intere, vive e reali, e similmente sentono vivi e reali gli altri esseri umani. Sono questi i dati in sé validi dell'esperienza. In breve, l'individuo può avere esperienza di se stesso come di una cosa viva, reale, intera; differenziata dal resto del mondo, in circostanze ordinarie, tanto chiaramente da non mettere mai in dubbio la propria identità e la propria autonomia; un'autonomia continua nel tempo; dotata di coerenza interna, di sostanzialità, di genuinità e di valore; spazialmente identica al proprio corpo; e, di solito, come qualcosa che ha avuto inizio con la nascita, o approssimativamente con essa, e che si estinguerà con la morte. Tutto questo rappresenta il solido nucleo della sicurezza ontologica. Ma può accadere diversamente. Anche in circostanze di vita ordinarie, un individuo può sentirsi più irreale che reale; letteralmente più morto che vivo; differenziato in modo incerto e precario dal resto del mondo, cosi che la sua identità e la sua autonomia sono sempre in questione. Può mancargli la sensazione della continuità temporale; può fargli difetto il senso della propria coerenza o coesione personale. Si può sentire come impalpabile, e incapace di ritenere genuina, buona e di valore la stoffa di cui è fatto. Può sentire il suo io parzialmente disgiunto dal suo corpo. È naturalmente inevitabile che un individuo le cui esperienze di se stesso siano di quest'ordine non possa vivere in un mondo «sicuro», più di quanto può sentirsi sicuro in se stesso. L'intera fisionomia del suo mondo sarà per lui corrispondentemente diversa da quella dell'individuo il cui senso di se stesso si è fermamente stabilito in tutta la sua saldezza e validità, e il rapporto con le altre persone gli apparirà in un significato e con funzioni radicalmente diverse. Anticiperemo quello che segue dicendo che, nell'individuo il cui essere è sicuro in questo senso di esperienza primaria, il rapporto con gli altri appare potenzialmente buono e piacevole; laddove, invece, la persona ontologicamente insicura si preoccupa di difendere se stessa,

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piuttosto che di procurarsi piacere, e le circostanze più ordinarie della vita bastano a minacciare la sua bassa soglia di sicurezza Se è stata raggiunta una condizione di sicurezza ontologica primaria, le normali circostanze della vita non presentano una minaccia continua per la propria esistenza. Ma se questa base per vivere non è stata raggiunta, tutte le circostanze comuni della vita quotidiana costituiscono un pericolo continuo e mortale. Solo rendendosi conto di ciò è possibile cominciare a capire come possano svilupparsi certe psicosi. Se l'individuo non è in grado di accettare come cose naturali la realtà, l'autonomia, l'identità, l'essere vivo suo e degli altri, deve continuamente inventare dei modi per cercare di essere reale, di mantenersi vivo o di mantenere vivi gli altri, di conservare la sua identità; deve lavorare continuamente per impedire (come egli stesso dirà) a se stesso di perdersi. Tutti gli eventi che per la maggior parte di noi sono cose di tutti giorni, che non si notano o si notano appena perché non hanno nessun significato speciale, diventano invece per lui profondamente significativi, almeno nella misura in cui contribuiscono al sostegno del suo essere, o per contro lo minacciano col pericolo di non essere. Cosi questo individuo, per il quale i vari elementi che compongono il mondo stanno assumendo, o hanno già assunto, una gerarchia di importanza e di significato diversa da quella della persona ordinaria, comincia, come si dice, a «vivere in un mondo suo proprio», o già vi vive da tempo. Ma non corrisponde a verità dire, senza aggiungere altro, che questa persona «sta perdendo il contatto» con la realtà e che si ritira in se stessa. Gli eventi esterni non lo colpiscono più allo stesso modo degli altri individui: ma non per questo lo colpiscono di meno, anzi spesso lo colpiscono di più, il che non può certo significare che la persona stia diventando «indifferente» o 1 Questo modo di vedere è molto vicino a quello di H . S. Sullivan, di Hill, di F. Fromm-Reichmann e specialmente di Arieti. Anche la posizione di Federn, sebbene formulata in termini assai diversi, sembra molto affine a questa.

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che si ritiri in se stessa. Più semplicemente, il mondo della sua esperienza personale è diverso e incomunicabile. Ma prima di esplorare questo processo sarà utile descrivere separatamente tre forme di ansietà di cui soffre la persona ontologicamente insicura, dando a ciascuna di esse un nome convenzionale: risucchio, implosione, pietrificazione. i . Risucchio. Nel corso di una seduta psicanalitica di gruppo nacque una discussione fra due pazienti. Improvvisamente uno dei due troncò la discussione dicendo: «Cosi non posso continuare. Lei discute per il piacere di avere la meglio su di me. A lei non può succedere niente, al massimo può perdere la discussione. Ma io combatto per la mia esistenza». Questo paziente era un uomo giovane, che io definirei sano di mente, ma, come egli stesso diceva, la sua attività nella discussione (e in tutto il resto) non aveva lo scopo di dargli soddisfazione, bensì quello di difendere la sua esistenza. Anche qui si potrebbe sostenere che se questa persona si immaginava davvero che aver la peggio in una discussione avrebbe messo in pericolo la sua vita, allora doveva aver perso completamente il «contatto con la realtà», ed era virtualmente uno psicotico. Ma questo equivale semplicemente a porsi la questione, senza poi fare più nulla per capire il paziente. Invece è importante rendersi conto che, se si sottoponesse questo paziente al tipo di intervista psichiatrica consigliata in tanti libri di testo, nel giro di pochi minuti il suo comportamento e il suo linguaggio rivelerebbero chiari «segni» psicotici; ma che è facilissimo provocare tali «segni» in una persona la cui soglia-base di sicurezza è talmente bassa che praticamente qualunque tipo di rapporto con un altro, per quanto superficiale o per quanto apparentemente inoffensivo, può minacciare di sopraffarlo. Per poter avere un rapporto da essere umano con un'altra persona è necessario possedere un senso solido della propria autonomia e della propria identità: se non è cosi, ogni rapporto minaccia l'individuo di perdita dell'identità. Una forma particolare di questa perdita può chiamarsi

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«risucchio». L'individuo teme ogni rapporto in quanto tale, con chiunque e persino con se stesso, perché l'incertezza che prova, il senso di instabilità che ha nei confronti della sua autonomia, gli fa continuamente temere di perderla nel rapporto. Ma il risucchio non è semplicemente temuto come qualcosa che può accadere volente o nolente, malgrado tutti gli sforzi che si possono fare per evitarlo. L'individuo si sente invece come uno che continuamente, con la più strenua, costante, disperata attività, deve lottare per non lasciarsi annegare. Il risucchio è vissuto come il rischio costante di essere compreso (e quindi preso, afferrato), o di essere amato, o semplicemente di essere visto. Per altre ragioni si può anche temere di essere odiati, ma questo appare spesso meno terribile dell'essere inghiottiti o risucchiati, e perciò annientati (come in effetti si teme) dall'amore. La manovra principale cui si ricorre per conservare l'identità quando si vive nel timore del risucchio consiste nell'isolarsi. Cosi, in luogo dei due poli di un'esistenza fondata sull'autonomia individuale: la separazione dagli altri e il rapporto con gli altri, si ha un'antitesi: la completa perdita dell'essere, attraverso un assorbimento nell'altra persona (cioè il risucchio), o la completa solitudine (l'isolamento). Non c'è nessun'aìtra possibilità di rapporto dialettico, come accade fra due persone col terreno sicuro sotto i piedi, e perciò dotate del coraggio di «perdersi» l'una nell'altra: con quella sicurezza di sé che sola può permettere un'autentica fusione reciproca. Se un uomo odia se stesso può desiderare di perdersi nell'altro: in questo caso, farsi annientare dall'altro costituisce una fuga da se stesso. Nell'esempio presente si ha il continuo timore di questa possibilità. Come si vedrà più avanti, la stessa cosa che in un certo momento è temutissima e disperatamente evitata può trasformarsi in una cosa desiderata con tutte le forze. Questa forma di ansia spiega una forma particolare di «reazione terapeutica negativa» che si verifica in terapia in seguito ad una interpretazione apparentemente corretta. Infatti essere capiti significa essere risucchiati, circondati, inghiottiti, annegati, mangiati, soffocati dall'abbrac-

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ciò della presunta comprensione dell'altra persona. È penoso e fa sentire soli essere sempre incompresi, ma da questo punto di vista, nell'isolamento si ha almeno un minimo di sicurezza. L'amore dell'altro è perciò più temuto del suo odio, o meglio, l'amore è sentito come una forma di odio. Con l'essere amati ci si trova in un obbligo non desiderato. In terapia, con una persona di questo tipo, l'ultima cosa da fare è di fingere più «amore» o «interessamento» di quanto si prova in realtà. Quanto più i motivi personali - necessariamente molto complessi - del terapeuta per cercare di aiutare una persona di questo tipo convergono verso una genuina preoccupazione a «lasciarlo in pace», anziché verso il suo soffocamento di fatto, o verso una semplice indifferenza, tanto maggiori saranno le speranze di riuscita. Oltre a quelle già accennate, vengono usate molte altre immagini per descrivere forme analoghe di minaccia della propria identità, tutte strettamente connesse con la paura del risucchio. Per citarne alcune: essere sepolti, essere presi e sprofondati nelle sabbie mobili; molto spesso ricorre l'immagine del fuoco. Il fuoco può essere l'incerto bagliore della vita interiore dell'individuo stesso, oppure una potenza ignota e distruttiva, che lo devasta. Alcuni psicotici in fase acuta dicono di essere seduti sul fuoco e che il loro corpo sta bruciando. Un paziente descrive se stesso come una cosa fredda e secca, ma ha terrore di qualunque cosa che sia calda o bagnata: teme di essere inghiottito dall'acqua o dal fuoco, e in entrambi i casi annientato. 2. Implosione (Implosion). Questo è il termine più forte che ho saputo escogitare per indicare una forma estrema di urto, come l'ha chiamato Winnicott, della realtà. Ma questa parola non dà l'idea piena del terrore di sentire il mondo come qualcosa che da un momento all'altro può sfondarci, e cancellare qualunque traccia della nostra identità come un gas che irrompe in un vuoto. L'individuo si sente appunto «vuoto». Ma questo vuoto è lui stesso: sebbene, in altri modi, desideri che il vuoto venga riempito, egli teme la possibilità che ciò avvenga, perché si è andato convincendo di non essere null'altro che questo vuo-

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to spaventoso. Allora ogni «contatto» con la realtà viene sentito, in sé, come una terribile minaccia, perché questa, cosi com'è vissuta da lui, è necessariamente implosiva, e quindi, come i rapporti con gli altri minacciavano di inghiottire, anch'essa è di per sé un pericolo per quel po' di identità che l'individuo può ancora supporre di possedere. La realtà come tale, minacciando di inghiottire o di implodere, è il persecutore. E si badi che solo pochi gradi di temperatura separano tutti noi dallo stesso ordine di esperienza. Un po' di febbre, ed ecco che il mondo può cominciare ad assumere un aspetto minaccioso e persecutorio. 3. Pietrificazione e spersonalizzazione. Nell'uso del termine «pietrificazione» si possono assumere le varie accezioni di questa parola, e cioè: a) una forma particolare di terrore o incubo, nel quale si è trasformati in pietra; b) il timore che ciò accada, cioè il timore di diventare o essere trasformati, da persona viva, in una cosa morta: una pietra, un robot, un automa, una cosa senza soggettività e senza autonomia personale; c) l'atto magico con il quale qualcuno può tentare di trasformare qualcun altro in pietra; e, per estensione, l'atto con cui uno nega o cancella l'autonomia dell'altro, ignora i suoi sentimenti, lo considera un oggetto, uccide la vita che è in lui. In questo senso sarebbe forse meglio parlare di spersonalizzazione o di reificazione: si è trattati non come una persona o un libero agente, ma come una cosa. La spersonalizzazione dell'altro è di uso universale: si ricorre ad essa quando l'altro sta diventando troppo noioso o reca disturbo. Si cessa di rispondere ai suoi sentimenti, non se ne tiene più conto, lo si tratta come se non ne avesse. Ma le persone che ci interessano qui hanno la tendenza sia a sentire se stesse più o meno spersonalizzate, sia a spersonalizzare gli altri, perché temono costantemente di venire spersonalizzati da questi. E l'atto di trasformarle in una cosa equivale realmente, per esse, a pietrifi-

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carie, perché quando le si tratta come una cosa la loro soggettività si ritira, come il sangue dal viso di uno che impallidisce. Fondamentalmente queste persone hanno bisogno di ricevere costantemente dagli altri una conferma della loro esistenza. Come si è già accennato, nella vita di ogni giorno si ricorre molto spesso a una parziale spersonalizzazione degli altri, e questa pratica viene considerata normale anche se non molto desiderabile. Molti rapporti si fondano su questa tendenza a non trattare l'altro secondo la consapevolezza che si ha di lui come persona, ma piuttosto come se fosse un robot in forma umana, che esegue la sua parte in una grande macchina, nella quale anche noi obbediamo alla nostra. Di solito si accarezza la speranza, che può essere una realtà e non un'illusione, che vi sia una zona sia pur limitata della nostra vita, immune da questo processo di disumanizzazione. Ma è proprio in questa zona che si avverte il rischio più grande, e la persona ontologicamente insicura lo sente fortissimo. Il rischio consiste in questo: se si sente l'altro come un libero agente, si è esposti alla possibilità di sentire se stessi come un oggetto della sua esperienza, e quindi di sentirsi prosciugare la propria soggettività. Si è minacciati dal pericolo di diventare un semplice oggetto del mondo dell'altro, senza più vita propria, senza più un essere proprio. Sotto l'effetto di questa ansia l'atto stesso di sentire l'altro come persona viene vissuto come un atto potenzialmente suicida. Questa esperienza viene brillantemente descritta da Sartre nella terza parte di L'essere e il nulla. Teoricamente la cosa è chiara. Ci si può sentire vivificati dall'altro, rinforzati nel proprio essere, ma si può anche sentirsi soffocati e impoveriti da lui. Una persona può essere giunta a concludere in anticipo che tutti i possibili rapporti con un altro avranno il secondo tipo di effetto. Allora chiunque può rappresentare un pericolo per il proprio «io» (cioè per la propria capacità di agire in maniera autonoma), non per quello che può fare o non fare specificamente, ma in ragione della sua stessa esistenza.

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Alcune delle cose dette trovano un esempio pratico nella vita di James, un chimico ventottenne. La sua difficoltà era di non poter diventare una «persona», non aveva un suo «io». «Sono soltanto una risposta agli altri: non ho una mia identità». (Avremo occasione più avanti, ai capp. 5 e 6, di descrivere in dettaglio la sensazione di non essere il vero io di se stesso e di vivere un falso io). Aveva l'impressione di diventare sempre più «una persona fantastica»; e di non avere peso o sostanza. «Non sono altro che un sughero che galleggia nel mare». Per quest'uomo era un tormento il non aver potuto diventare una persona, e di questo fallimento egli incolpava sua madre. «Per lei io ero soltanto un oggetto da mostrare: non ha mai riconosciuto la mia identità». E come contrasto all'incertezza riguardo a se stesso, e alla sua autodenigrazione, era sempre sul punto di venir sopraffatto, schiacciato, dalla forza della realtà posseduta dagli altri. In contrasto al suo poco peso, alla sua incertezza, alla sua scarsa sostanza, gli altri gli apparivano solidi, decisivi, assai significativi, sostanziali, e come costruiti su una scala più grande della sua. Ma al tempo stesso, in pratica, non si lasciava sopraffare facilmente. Per conservare una certa sicurezza aveva due tecniche. La prima consisteva in una grande docilità esteriore nei confronti degli altri (cfr. cap. 7). La seconda era una testa di Medusa, privata e segreta, con la quale pietrificava gli altri a volontà. Le due tecniche, nell'insieme, gli garantivano il mantenimento della propria soggettività, che egli non si trovava mai a dover tradire o smentire apertamente, perché non doveva mai esprimerla in modo diretto o immediato. Il segreto gli forniva la sicurezza. Le due manovre lo salvavano dal pericolo di essere annientato o spersonalizzato. Col suo comportamento esterno, infatti, che consisteva nel fingere di non essere altro che un sughero, egli neutralizzava il pericolo cui era costantemente esposto, quello di diventare un oggetto posseduto da qualcun altro. (Dopotutto, cosa può esservi di più sicuro, nel mare, di un sughero?) Ma al tempo stesso, col suo potere magico di trasformare, ai suoi propri occhi, l'altra persona in un og-

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getto, egli, in segreto, disarmava totalmente il nemico, e distruggendolo come persona (sempre ai propri occhi) lo privava del potere di schiacciarlo; togliendogli la vita personale, ossia riuscendo a vederlo non come un essere umano, ma come un semplice meccanismo, annegato, imploso nel suo stesso vuoto, trasformato in un semplice guscio, finalmente non lo temeva più. Questo paziente era sposato con una giovane donna molto vivace, di grande spirito, dotata di una forte personalità e di un'intelligenza molto autonoma. Il suo rapporto con lei era paradossale, perché in un certo senso egli era completamente solo e isolato, mentre in un altro le stava accanto quasi come un parassita. Uno dei suoi sogni, per esempio, consisteva nell'essere un'ostrica attaccata al corpo di sua moglie. Appunto in quanto poteva fare un sogno simile, egli aveva tanto più bisogno di tenerla in suo potere, sforzandosi di vederla come un meccanismo. Era infatti capace di descrivere l'allegria, la collera, le tristezze della moglie con una precisione «clinica», e addirittura la chiamava «il coso», abitudine che produceva un effetto bizzarro. «Allora il coso si è messo a ridere». La chiamava cosi appunto perché in ogni suo atto era una reazione prevedibile e determinata. Per esempio le raccontava una storiella banale, e quando lei (il coso) si metteva a ridere, ciò indicava la sua (del coso) natura da robot, completamente «condizionata». (Questo paziente vedeva la propria moglie in modo molto simile a certe teorie psichiatriche che spiegano tutte le azioni umane). In principio mi sorprendeva, e mi rallegrava, la sua apparente capacità di dissentire, di confutare le cose che dicevo anziché essere sempre d'accordo con me. Mi pareva che ciò indicasse da parte sua una autonomia mentale maggiore di quanto egli stesso riteneva di possedere, e anche un certo coraggio nel manifestarla. Ma ben presto risultò chiaramente che questa apparente autonomia nei miei riguardi era solo l'effetto della sua manovra segreta. Egli non mi considerava come un essere umano, una persona viva con il suo io, ma come una specie di macchina elaboratrice nella quale egli introduceva dei dati, e che, dopo una

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rapida elaborazione di essi, gli restituiva una interpretazione verbale. Grazie a questo modo segreto di vedermi come una cosa, egli riusciva a sembrare una persona. Ma un rapporto da persona a persona, vissuto come tale, questo non lo poteva sopportare. Persone di questo genere fanno comunemente dei sogni, in cui trova espressione l'una o l'altra forma dei terrori suddetti. Non si tratta di varianti della paura di essere mangiati, che ricorre nei sogni delle persone ontologicamente sicure. Essere mangiati non significa necessariamente perdere la psopria identità. Giona era sempre se stesso anche nel ventre della balena. Ben pochi dei nostri incubi arrivano a provocare l'ansia per la perdita dell'identità, di solito perché la maggior parte di noi, anche in sogno, continua a trovarsi di fronte agli stessi pericoli che si possono incontrare come persone, che potranno anche essere aggredite o mutilate, ma il cui nucleo esistenziale di fondo resta al sicuro. Nel classico incubo ci si sveglia in preda al terrore, ma questo terrore non è il timore di perdere il proprio io. Per esempio, un paziente sogna che un enorme maiale gli sta seduto sul petto e sta per soffocarlo, e si sveglia spaventato. Ma una minaccia di soffocamento è meglio del pericolo di dissoluzione di tutto il proprio essere. A volte si ha, nei sogni dei pazienti, un metodo di difesa che consiste nel trasformare in una cosa non se stessi, ma l'immagine materna, o l'immagine del seno. Un paziente faceva un sogno ricorrente in cui in un angolo della stanza si formava un piccolo triangolo nero, che diventava sempre più grande e sembrava volesse inghiottirlo; a questo punto il paziente si svegliava in preda al terrore. Si trattava di un giovane psicotico, che ha abitato per diversi mesi in casa mia, e che perciò conoscevo piuttosto bene; c'era una sola situazione, per quello che io potevo giudicare, in cui egli si sentiva libero di «lasciarsi andare» senza provare la paura di non potersi più riprendere, ed era quando ascoltava della musica jazz. Il fatto che anche nei sogni l'immagine del seno debba

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essere spersonalizzata è una misura del pericolo potenziale che questa immagine rappresenta per l'io, presumibilmente a causa delle spaventose personalizzazioni che ne sono state fatte in origine, e del successivo fallimento di un normale processo di spersonalizzazione. Medard Boss ( 1 9 5 7 ) cita diversi esempi di sogni che preannunciano una psicosi. In uno di essi la paziente è inghiottita dal fuoco: Una donna di meno di trent'anni, in perfetta salute, sognò di essere in fiamme. Tutt'intorno a lei, che era il fuoco, si stava formando una crosta di lava che diventava sempre più grande. Un po' dall'esterno e un po' dall'interno del suo stesso corpo poteva vedere come il fuoco venisse lentamente soffocato da questa crosta. Ad un tratto si trovava tutta all'esterno del fuoco, e freneticamente lo colpiva con un bastone, per rompere la crosta e far entrare un po' d'aria. Ma presto si stancò, e lentamente il fuoco (cioè lei stessa) si spense. Quattro giorni dopo questo sogno la donna entrò in un episodio schizofrenico acuto. Nei dettagli del sogno aveva previsto esattamente il decorso della sua psicosi. Prima si irrigidì, come se realmente fosse chiusa in una crosta. Dopo sei settimane cominciò a difendersi con tutte le sue forze contro l'estinzione del fuoco della sua vita, ma alla fine si spense del tutto, spiritualmente e mentalmente. Ormai da alcuni anni è simile a un cratere spento. In un altro esempio si ha la pietrificazione di altre persone, che preannunzia quella della stessa paziente: ... una ragazza di venticinque anni sognò che aveva preparato il pranzo per la sua famiglia di cinque persone. Dopo averlo portato in tavola chiamò i genitori, il fratello e le sorelle perché venissero a mangiare, ma nessuno rispose: le ritornò solo la sua voce come un'eco da una caverna profonda. Questo improvviso vuoto della casa le fece paura. Corse di sopra per cercare la famiglia. Nella prima stanza trovò le sue due sorelle sedute sui letti: ma nonostante i richiami impazienti, esse rimasero sedute rigidamente, in una posizione innaturale, senza risponderle, e quando si avvicinò per scuoterle si accorse che erano statue di marmo. Piena di orrore, la ragazza corse allora nella stanza della madre, ma anche questa era diventata pietra, e sedeva inerte in una poltrona guardando fissa nel vuoto. La paziente fugge allora nella stanza del padre e lo trova in piedi in mezzo alla

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stanza. Disperata gli corre incontro e, cercando protezione, gli getta le braccia attorno al collo; ma anche lui è di pietra, e nell'abbraccio diventa sabbia. La paziente si sveglia paralizzata dal terrore, e per diversi minuti non riesce a muoversi. Lo stesso orribile sogno si ripete poi altre quattro volte in pochi giorni. A quest'epoca la paziente era, in apparenza, il ritratto della salute fisica e mentale, tanto che i genitori la chiamavano il sole della famiglia. A dieci giorni di distanza dall'ultima ripetizione del sogno la ragazza entrò in una forma acuta di schizofrenia con gravi sintomi catatonici, cadendo in uno stato molto somigliante alla pietrificazione effettiva della sua famiglia, che aveva sognato. Nella sua vita di veglia era adesso condannata a un tipo di comportamento uguale a quello che, in sogno, aveva osservato in altre persone. La legge generale sembra essere questa: a un certo punto, ci si getta incontro agli stessi pericoli che più si temono, come per prevenirli. Cosi rinunziare alla propria autonomia diventa il mezzo di salvaguardarla in segreto, e fare il morto diventa il mezzo di conservare la vita (cfr. Oberndorf, 1950). Trasformarsi in pietra diventa un modo per non essere fatto pietra da qualcun altro. «Sii duro! » ammoniva Nietzsche. Ma in un certo senso (che lo stesso Nietzsche, credo, non considerava) l'essere duro come pietra, e come essa morto, scongiura il rischio di essere trasformato in una cosa morta da un'altra persona. Comprendere totalmente se stessi (inghiottire se stessi) è una difesa contro il pericolo di essere risucchiati nel gorgo della comprensione di un'altra persona. Consumarsi nell'amore di se stessi previene la possibilità di essere consumati da un altro. Sembra anche che il metodo preferito per aggredire l'altro si basi sullo stesso principio di attacco che si ritiene implicito nel tentativo di rapporto da parte dell'altro. Cosi l'uomo che ha paura che la sua individualità venga sommersa, sfondata o congelata, tenterà spesso di sommergere, travolgere o distruggere l'individualità dell'altra persona. Questo processo implica un circolo vizioso: più si tenta di conservare la propria autonomia e identità annullando la specifica individualità dell'altro, più si sente la necessità di continuare a farlo, perché ad ogni negazione

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dell'entità ontologica dell'altro la sicurezza della propria diminuisce un po', la minaccia che l'altro costituisce per l'io si fa più forte, e quindi si deve negarla ancor più disperatamente. In questa forma di lesione della propria autonomia si hanno due fallimenti: l'incapacità di mantenere il senso di sé come persona quando si è con un altro, e l'incapacità di mantenere questo senso quando si è soli, il fallimento del senso del proprio essere quando non si è in presenza di altre persone, l'incapacità di essere se stessi da soli. Com'era solito dire James, il paziente già presentato: «Sono gli altri che mi forniscono la mia esistenza». Questo sembra in diretta contraddizione col suo timore che gli altri gliela togliessero, ma per quanto contraddittorio o assurdo possa sembrare, entrambi gli atteggiamenti esistevano in lui, e di fatto sono caratteristici di questo tipo di persona. La capacità di sentirsi autonomo significa che si è riusciti a rendersi conto di sé come persona separata da tutti gli altri. Per quanto profondamente io sia legato, nella gioia o nel dolore, a un'altra persona, questa non è me, né io sono lei. Per quanto ci si possa sentire soli o tristi, si può continuare a esistere anche da soli. Il fatto che l'altra persona, nella sua realtà, non sia me, sussiste accanto all'altro fatto, ugualmente reale, che il mio attaccamento per lei fa parte di me, cosi che se muore o parte l'attaccamento persiste anche senza di lei. Ma io non posso morire la morte di un altro in sua vece, né lui può morire la mia. Anzi, come nota Sartre a proposito di questo pensiero di Heidegger, lui non può amare in vece mia, o prendere le mie decisioni, e ugualmente io non posso fare queste cose per lui. In breve, lui non può essere me e io non posso essere lui. Ma se l'individuo non si sente autonomo, allora egli non può sentire in modo normale né la sua separazione né la sua relazióne con l'altro. La mancanza del senso di autonomia implica che egli senta il proprio essere avvolto nell'altro, o viceversa, in modo da trasgredire la realtà della struttura dei rapporti umani. Significa che in luogo di un senso di rapporto e di attaccamento nei confronti dell'altro, fondato su di una genuina reciprocità, si ha la sensa-

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zione di essere in uno stato di dipendenza ontologica, cioè che si dipende dall'altro per esistere, e che il totale distacco, il completo isolamento è la sola alternativa ad un attaccamento da ostrica, o da vampiro, in cui il sangue e la vita dell'altro sono necessari per la propria sopravvivenza, ma al tempo stesso la mettono in pericolo. Perciò, anziché la separazione e il rapporto, i due poli sono il completo isolamento e la completa fusione dell'identità. L'individuo è in perpetua oscillazione fra questi estremi, entrambi ugualmente impossibili, e si trova, alla fine, a vivere non diversamente da quei giocattoli meccanici provvisti di un tropismo positivo che li spinge verso uno stimolo, fino a raggiungere un dato punto; al che un tropismo negativo, che hanno dentro, li dirige in senso opposto finché di nuovo il tropismo positivo non abbia ripreso il sopravvento, e cosi all'infinito. Gli altri erano, diceva James, indispensabili alla sua esistenza. Un altro paziente, vittima dello stesso dilemma di fondo, si comportava nel modo seguente. Per mesi interi restava isolato dal mondo, vivendo solitario chiuso in una stanza, nutrendosi a malapena, fantasticando; ma cosi facendo, a un certo punto cominciava a sentirsi morire dentro, diventava sempre più vuoto, e osservava «un impoverimento progressivo del mio modo di vivere». In questo esistere per proprio conto era implicita una grande quantità di orgoglio e di autostima; tuttavia, all'aggravarsi del suo stato di spersonalizzazione, finalmente riemergeva alla vita sociale e vi faceva una breve incursione, per avere «una piccola dose, non eccessiva» del suo prossimo. Era come l'alcolizzato che, dopo un periodo di astinenza, improvvisamente corre ad ubriacarsi; solo che nel suo caso l'assuefazione, della quale aveva vergogna e paura proprio come un alcolizzato o un tossicomane pentito, riguardava i suoi simili. Dopo un po' cominciava a sentirsi in pericolo e a temere di essere preso nella trappola dell'ambiente in cui era entrato, e si ritirava di nuovo nel suo isolamento, in una confusione di paure, sospetti, disperazione e vergogna. Alcuni dei punti precedenti trovano un'illustrazione nei due casi che seguono.

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PARTE PRIMA

Caso i .

L ' a n s i a del s e n t i r s i s o l i .

Il disturbo accusato dalla signora R. era un timore di stare per la strada (agorafobia). Ad un esame più attento risultò che l'ansietà nasceva quando cominciava a sentirsi da sola, per strada o in qualunque altro luogo. Era capace di cavarsela per conto suo, ma solo se non si sentiva completamente sola. La sua storia, in breve, era la seguente. Era figlia unica. Non era stata trascurata, né c'era stata ostilità visibile nella famiglia. Tuttavia era sua impressione che i genitori fossero sempre troppo occupati l'uno dell'altro per accorgersi di lei. Crescendo, desiderava di poter riempire questo vuoto nella sua vita, ma non era mai riuscita ad essere autosufficiente, né a sentirsi partecipe completamente del suo mondo personale, il suo desiderio più forte era sempre quello di poter essere importante per qualcun altro. Doveva sempre esserci qualcun altro. Voleva essere amata e ammirata, ma in mancanza di ciò, essere odiata era da preferirsi di molto all'essere ignorata. Insomma questa paziente voleva essere importante per qualcuno, e per qualunque motivo, come reazione al triste ricordo che aveva di sé come bambina che non contava realmente agli occhi dei genitori, i quali non provavano per lei né amore né odio, né orgoglio né vergogna. In conseguenza, per quanto si guardasse nello specchio non era mai riuscita a convincersi di essere qualcuno-, né era mai riuscita a non provare paura tutte le volte che si trovava sola. Comunque crebbe, diventò molto piacente, e a diciassette anni sposò il primo uomo che se ne accorse veramente. I suoi genitori, in un modo che a lei sembrava caratteristico, non si erano mai accorti, fino all'annuncio del fidanzamento, che la loro figlia fosse mai stata turbata per qualche cosa. Ora, al calore delle attenzioni del marito, si sentiva trionfante e fiduciosa. Ma il marito era un ufficiale dell'esercito e poco dopo venne trasferito all'estero; la ragazza non poté seguirlo. A questa separazione segui uno stato di panico grave.

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È da notare che la reazione all'assenza del marito non fu una depressione o uno stato di tristezza, con nostalgia o dolore per la sua lontananza. Fu il panico, perché (vorrei suggerire) in lei si era dissolto qualcosa la cui esistenza era dovuta alla presenza del marito e alle sue attenzioni continue, come un fiore che avvizzisce mancando la pioggia. Tuttavia arrivò un aiuto, sotto forma di una malattia improvvisa della madre. La paziente ricevette un appello urgente di aiuto da parte di suo padre, che le chiedeva di venire a casa per curarla. Durante tutto l'anno della malattia della madre la paziente, per usare le sue stesse parole, non era mai stata tanto se stessa. Era diventata il centro della casa. Non vi fu più traccia di panico fino a quando, alla morte della madre, cominciò a preoccuparla l'idea di lasciare quel luogo, dove finalmente contava tanto, per raggiungere il marito. L'esperienza dell'anno trascorso le faceva sentire, per la prima volta, di essere finalmente la figlia dei suoi genitori, e al confronto essere la moglie di suo marito le pareva superfluo. È ancora da notare l'assenza di dolore per la morte della madre. Fu in questo periodo che cominciò a considerare la possibilità di restare sola al mondo. Sua madre era morta; poi sarebbe stata la volta di suo padre, e forse di suo marito; «dopo questo, più nulla». Quest'idea non la deprimeva: la spaventava. Raggiunse il marito all'estero, e per alcuni anni condusse una vita gaia. Ma le attenzioni di lui diminuirono, e allora incominciò a sentirsi inquieta e insoddisfatta; il matrimonio fini in una separazione, e la paziente tornò a Londra a vivere col padre. Mentre viveva con lui diventò l'amante e la modella di uno scultore, e viveva cosi da diversi anni quando, a ventotto anni di età, venne da me. Ecco come si esprimeva parlando di come si trovava per la strada: «Per la strada la gente va e viene pensando ai propri affari. Non si incontra mai qualcuno che ti riconosca, oppure è solo un cenno col capo, o al massimo un minuto di conversazione. Nessuno sa chi sei. Tutti sono preoccupati solo di se stessi; nessuno si cura di te». Qui citava casi di persone che si sentono male per la strada fra l'indifferenza di tutti: « A nessuno importa un bel niente».

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Era in questo atteggiamento mentale che si veniva formando l'ansietà. Questa era causata dal trovarsi per la strada da sola, o meglio dal sentirsi lasciata a se stessa. Se usciva con qualcuno o se incontrava qualcuno che la conoscesse veramente, non provava nessuna ansietà. Nell'appartamento del padre era spesso sola, ma allora era diverso. Li non si sentiva mai veramente lasciata a se stessa. Si preparava da mangiare, faceva i letti, lavava i piatti, e faceva in modo che queste occupazioni durassero il più a lungo possibile. Il pomeriggio era più noioso, ma neppure questo le pesava molto, perché «tutto è cosi familiare»: c'era la poltrona del padre, le sue pipe, al muro un ritratto della madre, che la guardava, ed era come se tutti questi oggetti familiari illuminassero la casa con la presenza delle persone che li possedevano o che li avevano usati per tutta la vita. Cosi, sebbene da sola, a casa poteva sempre, con mezzi magici, stare con qualcuno. Ma nel rumore e nel movimento anonimo della strada si rompeva l'incantesimo. Applicando grossolanamente a questa paziente la teoria psicoanalitica classica dell'isteria, o quella che si crede essere tale, si potrebbe descriverla come una persona con un attaccamento libidico inconscio per il padre, e di conseguenza con senso di colpa inconscio e con un bisogno, o timore altrettanto inconscio, di punizione. La sua incapacità di stabilire relazioni affettive durevoli con persone diverse dal padre parrebbe confortare questa ipotesi, e cosi la sua decisione di vivergli accanto pensando a lui per quasi tutta la giornata prendendo per cosi dire il posto di sua madre. La devozione verso la madre durante la malattia potrebbe essere, in parte, la conseguenza del senso di colpa provato per l'inconscia ambivalenza nei suoi confronti; e l'ansia alla sua morte non sarebbe altro che ansia per l'avverarsi di un desiderio inconscio. E cosi di seguito '. Ma la questione di fondo, il problema centrale della vita di questa paziente non consiste nell'essere scoperta 1 Un importante contributo di ordine psicoanalitico allo studio della sintomatologia apparentemente «isterica» si trova in Segai, 1954.

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nel suo «inconscio», perché è già li scoperto e visibile, sia per lei che per noi (sebbene non si debba credere che non vi siano molte cose che la paziente ignora su se stessa). Il punto centrale di tutta la sua vita è la sua mancanza di autonomia ontologica. Se le manca la presenza fisica di una persona nota, o se non riesce a evocare con l'immaginazione questa presenza, le sfugge il senso della sua identità. A questo venir meno del suo essere è dovuto il panico: per esistere, ha bisogno di qualcuno che creda nella sua esistenza. Come appare necessario che il suo amante debba essere uno scultore, e lei la sua modella! E come appare inevitabile, data questa premessa fondamentale della sua esistenza, che l'ansietà sopraggiunga non appena questa sua esistenza non sia riconosciuta da nessuno. Per lei esse est percipi, essere vista, cioè, non semplicemente come una passante anonima o come una conoscente casuale. Anzi era proprio questo modo di essere percepita a pietrificarla, perché essere vista come una persona anonima, come una senza importanza, o come una cosa, equivaleva a non essere nessuno in particolare. Ella non era che ciò che gli altri vedevano, e se a un dato momento non c'era nessuno, doveva mettersi a inventare qualcuno - di volta in volta padre, madre, marito, amante - per il quale potesse sentire di contare qualcosa, per il quale potesse essere una persona; e si immaginava di essere in sua presenza. Se questa persona, da cui dipendeva il suo essere, moriva o se ne andava, il sentimento provato non era il dolore, ma il terrore e il panico. Non è possibile trasporre nell'«inconscio» il problema centrale di questa paziente. Se si scoprisse in lei, per esempio, la fantasia inconscia di essere una prostituta, ciò non spiegherebbe l'ansietà provata nel passeggiare, né la preoccupazione per le altre passanti che si sentono male e che nessuno aiuta a rialzarsi. Al contrario, la fantasia inconscia si deve spiegare e comprendere sulla base della questione di fondo riguardante il suo essere se stessa. Il suo timore di trovarsi da sola non è una «difesa» contro fantasie incestuose o di masturbazione. In realtà la paziente aveva fantasie di incesto; ma queste erano una difesa contro la paura di essere sola, cosi come era una difesa tutta la

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sua «fissazione» all'idea di essere una figlia: tutti mezzi usati per vincere l'ansietà di trovarsi con se stessa. Le fantasie inconscie di questa paziente avrebbero un significato totalmente diverso se la sua condizione esistenziale di fondo le avesse permesso di avere dentro di sé un punto di partenza, dal quale procedere alla ricerca della soddisfazione. Ma cosi come stavano le cose, la sua vita sessuale e le sue fantasie costituivano uno sforzo, non già per ottenere la soddisfazione, ma anzitutto per cercare la sicurezza ontologica. Nell'amore trovava un'illusione di questa sicurezza, e sulla base dell'illusione la soddisfazione era possibile. Sarebbe un errore grave definire narcisistica questa paziente, in una corretta accezione del termine, perché ella non era capace di innamorarsi del suo riflesso. Cosi sarebbe un errore riportare il suo problema a questioni di fasi di sviluppo psicosessuale, orale, anale e genitale, perché per lei la sessualità era come un appiglio al quale aggrapparsi. Non era frigida, poteva trovare soddisfazione fisica nell'orgasmo, se in quel momento si sentiva sicura nel senso ontologico primario. Nel rapporto con l'uomo che l'amava (ed ella possedeva la capacità di credere di essere amata da un altro) trovava forse i suoi momenti migliori. Ma erano di breve durata. Non sapeva restare sola, né lasciare che il suo amante stesse da solo quando era con lei. Il bisogno di essere notata potrebbe indurre ad applicare alla paziente un altro cliché, quello dell'esibizionismo. Ma ancora una volta, il termine è valido solo se inteso in senso esistenziale, e in questo senso troviamo - e riprenderemo l'argomento - che la paziente si mostrava si, ma non si dava: si esibiva nell'atto stesso con cui si inibiva. Perciò era e si sentiva sempre sola, per quanto, in superficie, la sua difficoltà non fosse di trovarsi insieme con gli altri, che anzi il problema era meno evidente quando riusciva a stare a lungo in compagnia degli altri. Ma è chiaro che il suo modo di comprendere l'esistenza autonoma degli altri era altrettanto tenue e imperfetto quanto la sua capacità di credere nella sua propria autonomia. Infatti gli altri cessavano di esistere non appena non erano in sua presenza. E l'orgasmo era un mezzo per possedere se stes-

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sa tenendo fra le braccia l'uomo che la possedeva: ma non poteva essere se stessa da sola, e quindi non poteva essere se stessa comunque. Caso 2. Uno dei più curiosi fenomeni nel campo della personalità, noto e osservato da secoli pur non avendo mai ricevuto una spiegazione soddisfacente, si ha quando a un individuo pare di essere il veicolo di una personalità non sua. Appare cioè che sia la personalità di un altro a «possederlo», e a trovare espressione attraverso le sue parole ed i suoi atti, mentre la sua propria sembra temporaneamente perduta o assente. Il fenomeno si verifica con maggiore o minore gravità, ma si tratta sempre dello stesso processo fondamentale, che può andare dalla semplice, banale constatazione che il tale «ha preso da suo padre», o che nella tal altra «salta fuori il caratterino di sua madre», fino all'estremo turbamento della persona che si trova a dover assumere le caratteristiche di una personalità magari odiata, o che è completamente estranea alla sua. Il fenomeno, quando si presenta non desiderato e con caratteristiche di coazione, è uno dei più importanti fattori nel determinare delle rotture del senso della propria identità. Il timore del suo verificarsi è uno dei fattori del timore di annientamento e di implosione. L'individuo può trovarsi a temere di provare simpatia per qualcuno, perché teme di essere costretto a diventare come lui. Come tenterò di mostrare più avanti, questo è uno dei motivi dell'isolamento schizofrenico. Il caso che segue illustra fino a che punto, nel risucchio di una subidentità estranea, possa modificarsi l'io e la personalità di un individuo: tanto profondamente da rendere possibile la perdita della propria identità. La signora D. era una donna di quarant'anni, che inizialmente lamentava una paura vaga, ma intensa. Diceva di aver paura di tutto, «anche dell'aria», di provare continuamente un senso di insoddisfazione, di avere inspiegabili accessi di collera contro il marito, e soprattutto di «mancare del senso di responsabilità». Poi disse che il suo timore era «come se qualcuno cercasse di salire dentro di

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me, e di uscire fuori». Aveva anche paura di essere come sua madre, che odiava. Ciò che chiamava «irresponsabilità» era una sensazione di perplessità e di confusione, che attribuiva al fatto di non essere mai riuscita a far niente che facesse piacere ai suoi genitori. Faceva una cosa e le dicevano che era male, allora ne faceva un'altra e le dicevano ancora che era male: non riusciva mai a sapere «cosa volessero da me». Rimproverava i genitori soprattutto per questo, per non averle mai dato modo di scoprire chi fosse, o che cosa dovesse diventare. Non poteva essere né cattiva né buona in modo stabile e «responsabile», perché i suoi genitori erano, almeno cosi le sembrava, completamente imprevedibili e instabili nelle loro espressioni di amore e di odio, di approvazione e di rimprovero. Retrospettivamente concludeva che dovevano odiarla, ma a quel tempo, ora diceva, era troppo confusa e ansiosa e preoccupata di indovinare cosa si volesse da lei per riuscire nonché ad amarli, anche ad odiarli. Ora diceva di cercare solo il «benessere», e si aspettava da me una parola che le indicasse la strada da seguire; e perciò le riusciva insopportabile il mio atteggiamento non-direttivo, che le appariva come una chiara ripetizione dell'atteggiamento di suo padre: «Non fare domande e non ti diranno bugie». Ebbe un breve periodo di pensiero coatto, durante il quale si trovava costretta a porsi domande di questo genere: «A cosa serve questo?» oppure «Perché c'è quest'altro?» e a darsi da sola la risposta. Interpretava il fenomeno come un tentativo di cercare il benessere nei suoi stessi pensieri, visto che non poteva ottenerlo da nessuno. Poi ebbe un periodo di grave depressione, e cominciò a lamentarsi dei suoi sentimenti dicendo che erano infantili. Parlava a lungo del fatto che compiangeva tanto se stessa. Ma a me sembrava che in realtà non compiangesse il suo vero io. Era molto più simile a una madre che si lamenta di un bambino difficile. E infatti pareva proprio che fosse sua madre a «venir fuori» da lei rimproverandola di essere troppo infantile, e non soltanto con questi rimproveri che faceva a se stessa, ma anche in altri modi: per esempio, proprio come sua madre, faceva continue scena-

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te al marito e al figlio; come sua madre, odiava tutti; e come sua madre, piangeva sempre Cosi la vita era per lei un tormento perché non poteva mai essere se stessa ma invece era costretta ad essere sempre sua madre. Ma sapeva che quando si sentiva sola, smarrita, impaurita e confusa, allora era più se stessa; e sapeva anche che era in gioco la sua complicità quando andava in collera, faceva scene, piangeva e si lamentava, perché non appena si metteva in quello stato (cioè non appena diventava sua madre) non sentiva più la paura (pagando ciò, beninteso, col non essere più se stessa). Tuttavia la manovra la opprimeva, e quando la tempesta era passata le restava addosso un senso di futilità (per non essere stata se stessa), e sentiva odio per la persona che era stata (la madre), e per la propria doppiezza. Divenuta consapevole di questo modo sbagliato di vincere l'ansietà cui si trovava esposta quando era se stessa, la paziente dovette ora decidere se i tentativi di evitare l'ansietà evitando di essere se stessa non fossero una cura peggiore della malattia. Le frustrazioni provate con me, che mi attirarono un odio violento, non si potevano spiegare come frustrazione delle pulsioni libidiche o aggressive del transfert, ma costituivano piuttosto una frustrazione esistenziale, originata dal fatto che io, negandole il «benessere» che voleva da me, le imponevo invece di decidere per conto suo quale persona volesse diventare. La sua impressione che le fosse stato negato un diritto alla nascita, e che i suoi genitori non avessero assolto la loro responsabilità, che era di fornirle una definizione di sé di cui potesse valersi come punto di partenza della sua vita; questa impressione veniva intensificata dal mio rifiuto di darle il «benessere». Ma solo in questo modo era possibile creare la situazione in cui la paziente potesse assumersi questa responsabilità. In questo senso, perciò, il problema psicoterapeutico che si poneva era di fare appello, per usare un'espressione di Jaspers, alla libertà del paziente. Buona parte dell'abilità del terapeuta consiste nel fare ciò efficacemente. 1 O meglio, non come sua madre, ma come l'idea che si era fatta di sua madre. Io non ho conosciuto la madre della paziente, e non posso giudicare le sue fantasie su questa persona.

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Capitolo quarto L'io corporeo e l'io incorporeo

Nelle pagine precedenti sono stati descritti alcuni tipi di ansietà, che costituiscono altrettanti aspetti di una insicurezza ontologica di fondo. Si tratta cioè di ansietà che hanno luogo solo in questa particolare condizione esistenziale, e ne sono una funzione; e che non possono formarsi, almeno con la stessa forza e durata, quando una persona è sicura del suo essere, perché in questo caso non si presentano le occasioni adatte. Ma anche dove tale sicurezza di fondo è assente, la vita deve continuare. E la domanda alla quale bisogna cercare di dare una risposta in questa situazione è la seguente: che tipo di rapporto riesce a stabilire con se stesso un individuo ontologicamente insicuro? Si cercherà ora di mostrare come alcune di queste persone sembrino mancare di quel senso di fondamentale unità che noi tutti sappiamo conservare anche durante i più intensi conflitti che possano scatenarsi dentro di noi, e come invece giungano a sentirsi divise o sdoppiate in anime (minà) e corpo. Di solito, è con 1'«anima» che si identificano più facilmente. Il resto di questo libro si occuperà principalmente di alcune delle conseguenze che derivano da questo modo fondamentale di organizzazione interna del proprio essere. La dissociazione in sé verrà considerata un tentativo di far fronte alla propria insicurezza di fondo. In alcuni casi essa può effettivamente costituire un mezzo per rendere sopportabile l'insicurezza, o addirittura un tentativo abbastanza efficace di superarla; ma è anche un modo di perpetuare le stesse ansietà contro le quali serve, in una certa misura, da difesa, e può inoltre fornire una posizione di partenza per una linea di sviluppo che termina nella psicosi. Quest'ultima possibilità è sempre presente se l'in-

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dividuo incomincia a identificarsi troppo esclusivamente con quella parte di sé che sente incorporea. Nel presente capitolo verranno contrapposti, schematicamente e in termini molto generali, l'io corporeo e l'io incorporeo-, poi, nei capitoli successivi, lasciando da parte tutte le possibilità implicite in questa condizione ma che non conducono un individuo dallo psichiatra, ne verranno esaminate in dettaglio quelle conseguenze che portano invece a gravi rotture dell'essere, e che quindi possono determinare uno stato psicotico. L'io corporeo e l'io incorporeo. Tutti, anche la più incorporea delle persone, vivono se stessi come qualcosa di inestricabilmente legato al proprio corpo. In circostanze normali ci si sente vivi, reali e sostanziali nella stessa misura in cui si sente vivo, reale e sostanziale il proprio corpo. La maggior parte di noi sente di aver avuto inizio insieme col proprio corpo e sente che con esso perirà. Questo è un modo di sentirsi che possiamo chiamare corporeo. Ma non è necessariamente l'unico modo. Non considerando qui quelle persone «normali» che, in certi momenti di stress, possono sentirsi parzialmente dissociate dal proprio corpo, esistono individui la cui vita non trascorre nel modo suddetto di sentire il proprio corpo, ma che ne sono, e ne sono sempre stati, in qualche misura staccati. Di un individuo come questo si potrebbe dire che non si è mai veramente incarnato, ed egli stesso può parlare di sé come di uno più o meno incorporeo. Ne consegue una differenza fondamentale di posizione nella vita. Se i due modi - corporeo e incorporeo - potessero mai essere completi in sé, avremmo quasi due modi diversi di essere umani. Generalmente si considera il primo normale e sano, il secondo anormale e patologico. Nel nostro studio trascureremo completamente questo giudizio. Se da certi punti di vista si può considerare la corporeità come il modo di essere più desiderabile, da altri è possibile pensare che l'individuo deve cercare di liberarsi

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dal proprio corpo, per raggiungere uno stato di spiritualità disincarnata La verità è che qui abbiamo due diverse condizioni esistenziali fondamentali. Questa differenza non impedisce il sorgere, sia nell'una che nell'altra, di tutte le questioni di fondo: il bene e il male, la vita e la morte, l'identità, il reale e l'irreale; il fatto è che i contesti radicalmente diversi in cui esse si pongono determinano il modo fondamentale in cui verranno vissute. Perciò le due possibilità vanno esaminate partendo dal modo in cui l'individuo vive la sua relazione con le altre persone e col mondo, a seconda che si approssimi all'uno o all'altro dei due estremi possibili. La persona corporea possiede il senso di essere fatta di carne, di sangue e di ossa, e di essere biologicamente viva e reale e sostanziale; essendo completamente «dentro» il suo corpo, avrà anche il senso della sua continuità nel tempo. Si sentirà soggetta a tutti i pericoli cui va soggetto il suo corpo: lesioni, mutilazioni, malattie, decadimento e morte; e sarà suscettibile ai desideri, ai piaceri e alle frustrazioni del corpo. In tal modo l'individuo parte dall'esperienza del proprio corpo, ed è su questa base che diventa una persona come le altre. Naturalmente, sebbene il suo essere non sia dissociato in due parti (se stesso come spirito e se stesso come corpo) questo individuo può trovarsi in molti modi diviso contro se stesso, e in un certo senso la sua condizione è più precaria di quella di un individuo diviso dal proprio corpo, giacché gli manca quel senso di immunità dal male fisico di cui talvolta quest'ultimo sente di godere. Per esempio, un paziente, che era stato ricoverato a due riprese per due lunghi episodi schizofrenici, una volta mi raccontò le reazioni che aveva avuto, in un periodo in cui 1 In Primitive Cbristianity (1956) di Bultmann si trova un ottimo esempio di scissione fra l'anima (l'io reale) e il corpo secondo l'ideale degli gnostici. La redenzione veniva concepita come una frattura totale, o scioglimento, fra anima e corpo. L'autore cita questo testo gnostico: «[il corpo è] la scura prigione, la morte vivente, il cadavere provvisto di sensi, la bara che tu porti attorno con te, si la tomba che tu ti rechi appresso, il compagno ruffiano che ti odia neJJ'amarti e nell'odiarti ti invidia...» (pagina 169). Per una rassegna degli studi sulla dissociazione fra spirito e corpo da un punto di vista psicopatologico, cfr. Scott, 1949 e Winnicott, 194}, 1949-

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stava bene, contro due uomini che l'avevano aggredito. Camminava di notte in un vicolo quando i due gli si fecero incontro, e lo colpirono con un manganello. Il colpo non era ben diretto e lo stordì solo per un momento; subito si riprese e, senza badare al dolore, passò al contrattacco; dopo una breve lotta gli aggressori fuggirono. L'interesse sta nel modo con cui il paziente ha vissuto il fatto. La prima reazione fu di sorpresa; poi, mentre era ancora un po' stordito, pensò che l'aggressione era stupida e inutile. Non aveva denaro con sé; i due non potevano prendergli niente. «Potevano solo picchiarmi, ma in realtà non potevano farmi niente». Voleva dire che nessun danno fatto al suo corpo avrebbe potuto fargli male realmente. In un certo senso, naturalmente, un atteggiamento simile può rappresentare il massimo della saggezza, come quando, per esempio, Socrate sostiene che nessun male può essere fatto all'uomo buono. Ma in questo caso il paziente era dissociato dal proprio corpo, e si trovava in condizioni di sentire molto meno paura della persona comune, perché non aveva niente da perdere che gli appartenesse veramente. D'altra parte, però, la sua vita era piena di ansie che la persona comune non conosce. Dal canto suo questa, completamente immersa com'è nei desideri, nei bisogni e nelle azioni del proprio corpo, è soggetta al senso di colpa e all'ansietà attinenti a tali bisogni, azioni e desideri; alle frustrazioni e ai piaceri del corpo; per lei esso non è un rifugio contro possibili autocondanne schiaccianti, né abitarlo è una garanzia contro la disperazione, o contro il senso della propria inutilità. Bisogna andare oltre al proprio corpo per sapere chi si è veramente; e di esso, del proprio corpo, si può avvertire il decadimento, la malattia, lo sfacelo. In breve l'io corporeo non è una fortezza inviolabile che difenda contro il deterioramento prodotto dai dubbi e dalle incertezze ontologiche: in se stesso non può garantire l'immunità dalla psicosi. E reciprocamente, una dissociazione nel modo di sentire il proprio essere, una divisione in una parte corporea e una incorporea, non è un indizio di psicosi latente, più di quanto una corporeità totale sia garanzia di salute mentale. Tuttavia, per quanto non si possa affatto dire che un

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individuo che abbia una genuina base nel proprio corpo sia necessariamente una persona per ogni verso unitaria, si può dire che possiede almeno un punto di partenza in direzione di tale integrità. Questo punto di partenza è condizione preliminare per tutta una serie di possibilità diverse da quelle che si aprono alla persona che vive se stessa in un dualismo rispetto al proprio corpo. L'io incorporeo. Come abbiamo visto, questa è la condizione in cui l'individuo sente il suo io più o meno diviso o staccato dal proprio corpo. Il corpo è vissuto, più che come il nucleo stesso dell'essere, come un oggetto fra i tanti altri oggetti del mondo. Invece di essere il centro del vero io, il corpo è vissuto come il centro di un falso io, che l'io «vero», l'io «interiore», incorporeo e distaccato, può vedere, secondo i casi, con tenerezza, con curiosità, con odio. Tale scissione dell'io dal corpo priva l'io incorporeo della possibilità di partecipare direttamente a qualunque aspetto della vita di questo mondo, che è mediata esclusivamente dalle percezioni, dalle sensazioni e dai movimenti del corpo (espressioni, gesti, parole, azioni ecc.). L'io incorporeo, semplice osservatore di tutto quello che il corpo fa, non si impegna direttamente in nulla. Le sue funzioni sono l'osservazione, il controllo e la critica di ciò che il corpo fa e sente; e quelle operazioni che di solito si definiscono puramente «mentali». L'io incorporeo diviene iperconscio; tenta di dare un corpo e una collocazione alle sue stesse immagini. I rapporti che stabilisce con se stesso e con il corpo possono farsi estremamente complicati. Ora, mentre sono stati compiuti moltissimi studi sulla psicopatologia della persona corporea, è stato scritto relativamente assai poco sulla persona il cui essere ha subito una radicale scissione di questo tipo. Sono stati studiati stati temporanei di dissociazione fra l'io e il corpo, ma tali dissociazioni sono considerate di solito nate da una condizione originale di corporeità, in cui l'io, inizialmente

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corporeo, si dissocia temporaneamente in seguito a stress, per tornare alle condizioni originali quando la crisi è passata. Un caso limite: David. Del caso di David verrà dato un semplice resoconto con scarsissimi commenti, affinché il lettore si renda chiaramente conto che queste persone e questi problemi esistono nella realtà e non sono un'invenzione dell'autore. Il caso può anche servire come base per la discussione più generale che seguirà. Quando lo conobbi David aveva diciotto anni. Era figlio unico; sua madre era morta quando il ragazzo aveva dieci anni, e da allora questi era vissuto col padre. Dalle scuole medie era passato all'università, dove studiava filosofia. Il padre non capiva perché mai il ragazzo andasse dallo psichiatra, perché secondo lui non ce n'era nessun bisogno. Gli insegnanti invece erano preoccupati: il ragazzo sembrava allucinato e si comportava in modo bizzarro. Per esempio si presentava alle lezioni avvolto in un mantello e con un bastone da passeggio; i suoi modi poi erano estremamente manierati, e il suo linguaggio si componeva in gran parte di citazioni. Il padre aveva ben poco da riferire. Il ragazzo era sempre stato normalissimo, e a suo modo di vedere le attuali eccentricità erano soltanto una fase passeggera dovuta all'adolescenza. Era sempre stato un ottimo figlio, né aveva mai fatto niente di cui lamentarsi. Da sua madre, che gli era stata molto attaccata, era inseparabile, e quando questa era morta si era comportato «con grande coraggio» aiutando il padre in ogni maniera possibile: accudiva alla casa, faceva le spese, preparava da mangiare. Dalla madre «aveva preso moltissimo», fino al punto di manifestare lo stesso talento che aveva lei per il ricamo, la tappezzeria e l'arredamento. Il padre parlava di tutto ciò con grande ammirazione. Quanto al ragazzo stesso, era un personaggio di aspetto incredibile: una specie di Kierkegaard adolescente inter-

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pretato da Danny Kaye. I capelli erano troppo lunghi, il colletto troppo largo, i pantaloni troppo corti, le scarpe troppo grandi; e sopra tutto questo, un mantello da teatro di seconda mano e una canna da passeggio. Non era soltanto eccentrico: la mia impressione era che giocasse a fare l'eccentrico. L'effetto di insieme era manierato e voluto. Ma per quali ragioni poteva volere un effetto simile? Risultò che in realtà, come attore, aveva anche molta pratica, perché aveva sempre interpretato una parte o un'altra, almeno dal tempo della morte della madre. Prima di allora, disse: «Ero soltanto quello che voleva lei». Della sua morte disse: «Mi sembra di ricordare che ne fui piuttosto contento. Forse ho anche sentito del dolore, o forse mi piace pensare che l'ho sentito». Fino alla morte della madre, dunque, era stato semplicemente quello che lei voleva; ma dopo la sua morte non gli era stato più facile essere se stesso, ed era cresciuto nella assoluta convinzione che ciò che egli chiamava il suo «io» e la sua «personalità» fossero in realtà due cose del tutto distinte. Non aveva mai seriamente immaginato un'altra possibilità, e dava ugualmente per scontato che tutti quanti fossero fatti allo stesso modo. La sua idea della natura umana in generale, fondata sull'esperienza che aveva di se stesso, era che tutti fossero attori. È importante comprendere che questa era una convinzione radicata, che governava tutta la sua vita. Era questa idea che gli aveva reso facile di essere tutto ciò che sua madre voleva: grazie ad essa, infatti, tutte le sue azioni appartenevano semplicemente al ruolo che ricopriva in quel momento, e se qualcuno avesse detto che appartenevano al suo io, avrebbe risposto che appartenevano si ad un io, ma ad un «io falso», un io che agiva non secondo la sua volontà, ma secondo quella di sua madre. Il suo io non si rivelava mai direttamente. Sembrava che, uscendo dall'infanzia, egli avesse portato con sé da una parte questo suo io, e dall'altra «ciò che sua madre voleva che fosse», cioè la sua «personalità»; e che, partendo da questa situazione, si fosse poi proposto come 1

Questo paziente poteva far pensare a Tertian, il protagonista del brillante racconto di Lionel Trilling 0 / This Time, of Thot Place.

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compito, e come ideale da raggiungere, di rendere il più completa possibile la frattura fra il suo io (noto solo a se stesso) e quello che vedevano gli altri. Lo spingeva in questo senso anche il fatto che, contro se stesso, si era sempre sentito timido, imbarazzato, vulnerabile; ma rappresentando continuamente una parte era in grado di vincere, in una certa misura, queste sensazioni: infatti lo rassicurava il pensiero che, qualunque cosa stesse facendo, non era lui a farla. Usava cosi quella forma di difesa cui abbiamo già accennato: nel tentativo stesso di mitigare l'ansietà, aggravava le condizioni che la provocano. Il punto essenziale che teneva sempre presente era che stava rappresentando una parte. Di solito, nella sua testa, interpretava la parte di qualcun altro, ma qualche volta anche quella di se stesso (cioèdel suo vero io): in questi casi, naturalmente, non era semplicemente e spontaneamente se stesso, ma recitava se stesso. Il suo ideale era di non rivelarsi mai a nessuno. Di conseguenza, attuava le mistificazioni più tortuose, sebbene il suo ideale verso se stesso fosse di essere il più completamente sincero e onesto possibile. Tutta quanta l'organizzazione del suo essere posava su questa separazione, e la cosa straordinaria è che un tale stato di cose fosse andato avanti per anni senza che la sua «personalità», cioè il suo modo di agire con gli altri, fosse mai sembrata insolita. Il suo aspetto esteriore non poteva rivelare il fatto che la sua «personalità» non era la sua vera espressione di sé, bensì tutta una serie di ruoli impersonati. Il ruolo che aveva impersonato per anni durante la scuola media era, secondo la sua stessa descrizione, quello di un ragazzo precoce, di ingegno acuto, ma piuttosto tagliente e freddo di carattere. Poi, sempre secondo il suo racconto, verso i quindici anni si era reso conto che questa parte gli procurava troppe antipatie, perché «quello aveva una lingua troppo tagliente». Allora aveva deciso di modificare il personaggio e renderlo meno sgradevole, «con buoni risultati». Ma i suoi sforzi per conservare questo tipo di organizzazione si urtavano contro due ostacoli. Il primo non lo

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preoccupava seriamente: era il pericolo di essere spontaneo. Come attore egli tendeva al distacco completo dalla parte, sentendosi cosi padrone della situazione, capace di dominare coscientemente ogni atto e ogni espressione, e in grado di calcolare esattamente il loro effetto. Essere spontaneo significava solo essere stupido, mettersi a disposizione degli altri. Il secondo ostacolo era più grave, anche perché non era stato previsto. Esso costituiva un problema che ora cominciava a mandare per aria tutto il suo sistema di vita, ed era essenzialmente tutto quello che il paziente aveva da dirmi quando venne da me. Per tutta l'infanzia gli era sempre piaciuto di rappresentare delle parti davanti allo specchio. Lo faceva anche adesso, ma di recente si era accorto di lasciarsi assorbire troppo dalla parte, cioè di essere spontaneo, e temeva che questo fosse la sua rovina. I ruoli che impersonava davanti allo specchio erano sempre ruoli femminili: si vestiva con le cose di sua madre, che erano state conservate, e recitava, per esempio, le parti femminili delle tragedie classiche. Ma a un certo punto si era accorto di non potersi più fermare: si sorprendeva a camminare, senza volerlo, come una donna; a vedere e pensare come potrebbe farlo una donna. Questa era la situazione attuale, e questo spiegava il suo abbigliamento bizzarro. Perché, come diceva, aveva constatato che soltanto vestendosi e agendo come faceva poteva arrestare il comportamento donnesco, che minacciava di inghiottire non soltanto le sue azioni ma anche il suo «vero» io, privandolo di quel controllo, di quel dominio di sé al quale teneva tanto. Perché poi dovesse entrare proprio in questi panni, che odiava e che sapeva ridicoli, non riusciva a capire: ma questo ruolo «schizofrenico» era l'unico rifugio a lui noto contro il pericolo di venire completamente risucchiato dalla donna che era dentro di lui, e che sempre pareva volesse uscire.

Tale è il tipo di persona che verrà studiata nelle pagine che seguono. È evidente che non è possibile capire questa persona, di cui David è un esempio tipico, senza studiare

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nei dettagli questo tipo di organizzazione schizoide. Nel caso di David si dovrebbe descrivere minutamente la natura del suo «vero» io, in che rapporti esso fosse con la sua «personalità», fino a che punto fosse per lui importante sentirsi «imbarazzato» e «vulnerabile», che significato avessero le parti che impersonava deliberatamente, e in che modo una «personalità» estranea potesse invadere la «sua», apparentemente per via autonoma e fuori dal suo controllo, fino a mettere addirittura in pericolo l'esistenza del suo «vero» io. La dissociazione fondamentale si ha fra quello che David chiamava il suo «vero» io e quella che chiamava la sua «personalità». La stessa dicotomia si incontra ripetutamente in questi pazienti: essi sentono il loro io, che chiamano a seconda dei casi «interiore», «vero», «reale», «proprio», separato da tutta la loro attività osservabile, quella che David chiamava la sua «personalità». Può essere conveniente chiamare questa «personalità» l'«io falso», o il «sistema dell'io falso», per sottolineare il fatto che la «personalità», il falso io, la maschera, la «facciata», la persona che l'individuo indossa può consistere in un amalgama di diversi io parziali, nessuno dei quali ha raggiunto uno sviluppo sufficiente per possedere una sua propria, totale «personalità». Spesso, infatti, quando si arriva a conoscere bene una persona di questo tipo si comprende come la sua attività visibile sia composta, in realtà, di ruoli impersonati affatto deliberatamente e di molti altri comportamenti a carattere coatto: siamo, evidentemente, in presenza non di un unico io falso, ma di numerosi frammenti, solo in parte elaborati, di ciò che potrebbe costituire una personalità, se uno di essi potesse dominare gli altri. È quindi opportuno chiamare il totale di questi elementi il sistema dell'io falso, o un sistema di falsi io. L'io, nella organizzazione schizoide, è di solito più o meno incorporeo, viene cioè vissuto come un'entità mentale, e si trova in quella condizione che Kierkegaard ha chiamato «chiusura». L'individuo non vi ve'le sue azioni come altrettante espressioni di sé: esse, cioè tutto ciò che David chiamava la sua «personalità», e che io ho suggerì-

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to di chiamare il sistema del falso io, sono dissociate, e parzialmente autonome. Di queste azioni l'io non si sente partecipe, ma anzi esse sembrano sempre più false e futili; mentre l'io, chiuso in sé, considera «vero» solo se stesso. Cosi l'individuo avverte sia un senso di futilità che una mancanza di spontaneità, ma poiché coltiva questa, non fa che aggravare quello. Egli dice di non essere reale, di essere fuori della realtà, di non essere vivo, e in senso esistenziale ha ragione. L'io è estremamente conscio di sé, e osserva con acuto senso critico il falso io. Invece è caratteristico dell'organizzazione del falso io, ed anche un suo modo tipico di essere incompleto, possedere un'autoconsapevolezza molto imperfetta. Ma l'io può sentirsi in pericolo di essere invaso dal sistema del falso io, o da una sua parte (cfr. il timore di David nei confronti delle parti femminili). Invariabilmente, l'individuo in queste condizioni si sente terribilmente imbarazzato e «consapevole» (cfr. cap. 7), nel senso di un'acuta sensazione di essere osservato dagli altri. Inoltre, tutte queste alterazioni nei rapporti fra i diversi aspetti della personalità si riflettono in maniera costante sui rapporti interpersonali, che sono sempre complicati e differenti da persona a persona. I rapporti con se stesso divengono rapporti pseudointerpersonali: l'io tratta i falsi io come se fossero altrettante persone diverse, e li spersonalizza. David, per esempio, riferendosi a una delle parti che rappresentava, e che provocava antipatie, diceva: «Quello aveva una lingua troppo tagliente». Dalla sua reclusione l'io osserva tutte le falsità dette e fatte, e detesta chi le dice e fa come se questi fosse un altro. Si può scorgere in tutto ciò un tentativo di crearsi internamente un mondo di rapporti con persone e cose, senza bisogno di ricorrere al mondo esterno di persone e cose. L'individuo si costruisce un microcosmo interiore; ma si tratta solo di un mondo autistico, privato, intraindividuale, che naturalmente non può sostituire l'unico mondo che esiste realmente, quello che si divide con gli altri. Se un progetto simile potesse riuscire, allora non insorgerebbero le psicosi.

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Si potrebbe anche dire che l'individuo schizoide aspira ad essere onnipotente, tentando di realizzare all'interno di se stesso, senza ricorrere al normale rapporto produttivo con gli altri, dei tipi di rapporto che richiederebbero comunque la loro presenza, e l'uscita nel mondo esterno. Vorrebbe essere lui stesso tutto e tutti. I vantaggi di questo progetto irreale e impossibile sarebbero: sicurezza per il vero io, isolamento dagli altri e quindi libertà, autosufficienza, controllo. Gli svantaggi che a questo punto ne derivano sono: l'intrinseca impossibilità del progetto, il suo carattere di miraggio, e la disperazione continua che ne consegue; un senso altrettanto continuo e insistente di futilità, ugualmente inevitabile perché l'io, nascosto e recluso com'è, e rifiutando di partecipare (tranne che, come nel caso di David, comparendo sulla scena come un altro personaggio) alle attività semiautonome dei falsi io, ha una vita esclusivamente «mentale». Inoltre, essendo isolato, l'io non è suscettibile di arricchimento per via di esperienze esterne, e di conseguenza l'intero mondo interiore si impoverisce sempre più, finché l'individuo può arrivare a sentirsi del tutto vuoto. Sicché la sensazione di potere tutto e di possedere tutto coesiste accanto a una sensazione di impotenza e di vuoto. L'individuo che un momento fa ha sentito «esterna» la vita che si svolgeva là fuori, e ha preteso di disprezzarla perché misera e banale in confronto alla ricchezza che ha dentro, ora invece può sentirsi morto interiormente, e desiderare di rientrare nella vita e di sentire la vita scorrere di nuovo dentro di lui. L'aspetto cruciale da comprendere in un individuo schizoide di questo tipo è la natura dell'ansia cui va soggetto. Ad alcune forme di ansia si è già accennato più sopra: risucchio, implosione e quel timore di perdere l'autonomia e la libertà interna, di diventare una cosa, un meccanismo, un oggetto, una pietra, che abbiamo appunto chiamato pietrificazione. Ma resta da studiare in che modo queste ansietà vengano potenziate quando la struttura schizoide si è già ben formata. Quando l'io abbandona, per cosi dire, il corpo e la sua

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attività, ritirandosi nella sua attività mentale, vive se stesso come un'entità localizzata in qualche parte del corpo, e, come abbiamo già suggerito, il ritiro è in parte un tentativo di difendersi, giacché qualunque tipo di relazione con gli altri viene sentito come una minaccia per la propria identità, mentre, cosi nascosto e isolato, l'io si sente sicuro. Naturalmente l'isolamento continua anche quando non c'è nessun'altra persona presente. Ma la manovra non riesce. Nessuno, più dell'individuo schizoide, si sente vulnerabile ed esposto allo sguardo di un'altra persona. Se non prova un acuto imbarazzo, una «consapevolezza» di essere guardato dagli altri, vuol dire soltanto che ha temporaneamente evitato il manifestarsi dell'ansia, e ciò con due possibili modi: o ha trasformato in un oggetto l'altra persona, spersonalizzando quindi i suoi sentimenti nei suoi confronti, o ha assunto un'aria indifferente. I due metodi - spersonalizzazione dell'altra persona e atteggiamento di indifferenza - sono in stretto rapporto fra loro, ma non sono del tutto identici. Un uomo che sia stato spersonalizzato può ancora essere usato, manipolato, sfruttato: come abbiamo visto nel cap. 1 , infatti, una cosa, a differenza di una persona, ha come caratteristica essenziale solo un'assenza di soggettività, per cui non può avere intenzioni di rimando. Ma se si assume nei suoi confronti un atteggiamento di completa indifferenza, essa, persona o cosa che sia, viene trattata casualmente, senza attenzione, come se non avesse importanza alcuna: in ultima analisi, come se non esistesse. Una persona privata della sua soggettività può ancora essere importante; una cosa può sempre avere un peso anche grande. Ma l'indifferenza nega, sia alle persone che alle cose, qualunque significato. Ricordiamoci che uno dei mezzi usati da Perseo per uccidere i nemici consisteva nel pietrificarli: li trasformava in pietra servendosi degli occhi della Medusa. La pietrificazione è un modo di uccidere. Naturalmente, sentire che un'altra persona ci tratta o ci considera come se fossimo una cosa non è, in sé, causa di terrore, se si è abbastanza sicuri della propria esistenza: essere un oggetto agli occhi di qualcuno non rappresenta, per la persona «normale», un pericolo spaven-

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toso. Ma per l'individuo schizoide ogni paio di occhi di un suo simile significa una testa di Medusa, dotata del potere effettivo di uccidere o spegnere quel po' di vita che è in lui. Egli cerca perciò di prevenire la sua pietrificazione pietrificando gli altri, e gli pare, cosi facendo, di poter raggiungere una certa sicurezza. In generale, lo schizoide non si preoccupa eccessivamente di erigere difese contro il pericolo di perdere una parte del suo corpo. Tutti i suoi sforzi sono diretti, piuttosto, a difendere il suo io. Ma, come abbiamo già accennato, si tratta di una soluzione assai precaria, che lo lascia in balia di un continuo timore di dissoluzione: il timore di cadere in quello stato che William Blake ha chiamato «una non-entità caotica». La sua autonomia è soggetta al pericolo del risucchio; egli deve guardarsi dal rischio di perdere la propria soggettività, e addirittura il senso di essere vivo. Vuoto come si sente, la realtà vivente degli altri, piena e sostanziale, gli preme addosso da tutte le parti, sempre sul punto di implodere in lui e distruggerlo completamente, come un gas che scoppia nel vuoto o come una piena che spezza una diga e riempie un bacino. Cosi lo schizoide ha terrore di un rapporto dialettico vivo e reale con gente viva e reale, e si rifugia in rapporti con esseri spersonalizzati, con fantasmi delle sue stesse fantasie, con riflessi delle sue stesse immagini; o forse con oggetti, o forse con animali. Proponiamo quindi di interpretare lo stato schizoide qui descritto come un tentativo di difendere e proteggere un essere la cui struttura è incerta e precaria. Più avanti mostreremo come la prima strutturazione dell'essere nei suoi elementi fondamentali si verifichi nella prima infanzia. In circostanze normali ciò avviene in modo da dare all'intera struttura e ai suoi elementi di base (per esempio la continuità nel tempo, la distinzione fra l'io e il non-io, la distinzione fra la fantasia e la realtà) una definitiva stabilità, che non necessita più di essere rimessa in discussione; con ciò quindi viene lasciato un margine considerevole di plasticità alla formazione di ciò che chiamiamo il «carattere» di una persona. Al contrario, nella struttura caratteriale dello schizoide troviamo un'insicurezza delle

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fondamenta, e in compenso una rigidità della sovrastruttura. Se non si può difendere l'intero essere, si arretrano le linee difensive, fino a ritirarsi in una cittadella centrale. L'individuo che si trova in queste condizioni è pronto ad abbandonare tutte le posizioni, tranne il proprio «io». Ma qui si ha un tragico paradosso, perché più si difende in questo modo l'io, più lo si distrugge. La dissoluzione finale dell'io nella condizione schizofrenica si compie non tanto ad opera degli attacchi del nemico esterno, reale o immaginario, quanto per mezzo delle devastazioni che le stesse manovre interne di difesa hanno provocato.

Capitolo quinto L'io interiore nella condizione schizoide

D i f r o n t e alle s o f f e r e n z e del mond o tu p u o i tirarti indietro, si, q u e s t o è qualcosa che sei libero di f a r e e che si accorda con la tua n a t u r a , m a precisamente q u e s t o tirarsi indietro è l'unica s o f f e r e n z a che f o r s e potresti evitare. FRANZ KAFKA

Nella condizione schizoide qui descritta si ha una scissione permanente fra l'io e il corpo. Quello che l'individuo considera il suo vero io è da lui sentito come qualcosa di più o meno incorporeo; le esperienze corporee, dal canto loro, sono sentite come qualcosa che fa parte del sistema del falso io. Dobbiamo ora esaminare più da vicino i due elementi della dissociazione, e i rapporti in cui essi stanno fra loro. Prenderemo anzitutto in considerazione l'io incorporeo, o mentale. Come è noto, anche nelle persone normali si hanno stati temporanei di dissociazione dell'io dal corpo. Si può dire in generale trattarsi di una risposta che si rende disponibile a quasi tutti coloro che si trovano circondati da un pericolo senza una via d'uscita fisica. Per esempio i prigionieri dei campi di concentramento cercavano attivamente di provare questa sensazione, perché il campo non offriva nessuna via di uscita, sia nello spazio che nel tempo. Non c'era altro modo di uscirne che con una fuga psichica, «dentro» se stessi e «fuori» dal proprio corpo. A una dissociazione di questo tipo si accompagnano di solito dei pensieri caratteristici, come per esempio: «Mi sembra un sogno», «Non è reale», «Non posso credere che sia vero», oppure «Sembrava che nulla potesse più toccarmi», «Non riesco a concepirlo», «Questo non sta accadendo a me»: tutti sentimenti di estraniazione e di de-realizzazione. Il corpo può continuare a svolgere, esternamente,

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un'attività normale, ma dall'interno si ha l'impressione che vada per conto suo, automaticamente. Tuttavia, nonostante la qualità di sogno o di irrealtà che assume l'esperienza, e nonostante la natura automatica che acquista l'attività, l'io nel frattempo non è certo addormentato, ma al contrario sta eccessivamente all'erta, e pensa e osserva con lucidità eccezionale. L'estraniamento temporaneo dell'io dal corpo può trovare una rappresentazione nei sogni. Una giovane donna di diciannove anni, che stava per sposarsi, e che per varie ragioni temeva il matrimonio, ebbe questo sogno: si trovava sul sedile posteriore di un'automobile che viaggiava senza che nessuno la guidasse. La ragazza non aveva tratti schizoidi particolari, ma reagiva ad una situazione particolare con una difesa schizoide. Un'altra persona fece un sogno poco prima di iniziare la psicoterapia. Si trovava sul predellino di un autobus; l'autobus correva senza conducente. Fece appena in tempo a saltare a terra che l'autobus si rovesciò sfasciandosi. Dopo quattro mesi di terapia il paziente fece quest'altro sogno, che si è tentati di considerare un segno di cambiamento in senso favorevole. «Sto correndo dietro un autobus; ad un tratto mi trovo sul predellino, ma al tempo stesso continuo a correre. Sempre correndo cerco di salire del tutto sull'autobus, ma non ci riesco, e mi sento spaventato». Si potrebbero dare moltissimi altri esempi di questa comune esperienza di dissociazione temporanea. A volte essa è provocata intenzionalmente; più spesso si verifica senza il controllo del soggetto. Ma per i pazienti di cui ci occupiamo non si tratta semplicemente di una frattura temporanea, in reazione a una situazione specifica di grande pericolo, e reversibile non appena il pericolo sia passato. Si tratta, al contrario, di un orientamento base verso tutta la vita, e, se lo si ricostruisce risalendo lungo la biografia del paziente, si trova di solito che fin dai primi mesi dell'infanzia la frattura era già in atto. L'individuo «normale» entra in una condizione schizoide nel tentativo di sfuggire, se non fisicamente, almeno mentalmente ad una situazione il cui carattere di pericolosità per il suo essere

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può essere visto chiaramente da tutti, e che non offre nessuna via di uscita reale: egli diventa allora una specie di osservatore, che mentalmente assiste - distaccato e impassibile - a ciò che il suo corpo sta facendo o che ad esso viene fatto. Se questo è vero per la persona «normale», dev'essere per lo meno possibile supporre che un individuo, il cui modo permanente di essere-nel-mondo è caratterizzato da una dissociazione simile, viva continuamente in un mondo che per lui, sebbene non per noi, minaccia da ogni parte il suo essere senza offrirgli nessuna via di scampo. E per queste persone è precisamente cosi. Per esse il mondo è una prigione senza sbarre, un campo di concentramento senza filo spinato. Il paranoico è perseguitato da persone definite: qualcuno è contro di lui; si sta complottando per portargli via il cervello; nel muro della sua camera da letto è nascosta una macchina i cui raggi gli mandano il cervello in poltiglia, o che lo attraversano mentre dorme. Invece la persona che stiamo descrivendo si sente, in questa fase, perseguitata dalla realtà medesima. Il mondo cosi com'è, gli altri cosi come sono: questo è il pericolo. L'io allora, per trascendere il mondo e quindi essere al sicuro, cerca di diventare incorporeo. Ma cosi facendo si viene a formare un io che si sente al di fuori di ogni esperienza e di ogni attività. Esso diventa un vuoto: tutto è là fuori, nulla è qui dentro. Per di più la paura costante di tutto non viene mitigata, ma potenziata dal bisogno di tenere il mondo a distanza. E tuttavia l'io può, al tempo stesso, desiderare più di ogni altra cosa la partecipazione alla vita del mondo; ma questo grande desiderio viene sentito come la peggiore debolezza, e un eventuale cedimento a questa tentazione è temuto più di tutto il resto, perché l'individuo teme che il suo guscio vuoto venga schiacciato dalla partecipazione, o teme il risucchio, o teme comunque la perdita dell'identità, la quale ormai equivale alla conservazione della trascendenza dell'io, nonostante si tratti di una trascendenza nel vuoto. Un tale distacco dell'io significa che esso non si rivela mai direttamente nelle espressioni o nelle azioni dell'individuo, e che esso non prova mai nulla in modo spontaneo

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o immediato. In ogni rapporto con gli altri c'è sempre una fase intermedia: ogni transazione diretta e immediata fra l'individuo e gli altri, fra l'individuo e il mondo, anche nei suoi aspetti fondamentali, come la percezione e l'azione, diventa falsa, futile, senza significato. La situazione, nelle due opposte forme, si può rappresentare schematicamente con le due figure seguenti. Figura x. Percezione: reale

Figura 2.

Percezione: irreale

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Altri

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Azione: futile

Da una parte si ha una situazione in cui gli oggetti percepiti dall'io vengono vissuti come oggetti reali. I pensieri e i sentimenti dei quali l'io è l'agente sono vivi ed evidenti

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nel loro significato; le azioni nelle quali l'io si impegna sono sentite e genuine. Dall'altra parte si ha una situazione in cui l'individuo ha delegato tutte le transazioni che si svolgono fra sé e gli altri ad un sistema che, pur essendo dentro di sé, non è « lui », e in cui perciò il mondo viene vissuto come un mondo irreale, e in cui tutto ciò che appartiene a quel sistema appare falso, futile, senza significato. Chiunque va soggetto, in una certa misura e in certi momenti, a stati d'animo in cui tutto sembra inutile, futile, senza scopo e significato: la differenza è che per lo schizoide questi stati d'animo sono particolarmente insistenti. Essi hanno origine dal fatto che non è l'io, ma un falso io, ad azionare e controllare le porte della percezione e le leve del comportamento. L'irrealtà delle percezioni, e la falsità e la mancanza di significato di tutta l'attività, sono le conseguenze inevitabili del fatto che sia l'una che le altre sono controllate da un io falso, da un sistema parzialmente dissociato dall'io «vero», il quale perciò viene escluso da ogni partecipazione diretta ai rapporti dell'individuo con le altre persone e col mondo. Cosi si ha un'impressione di uno pseudodualismo dell'essere: invece di andare incontro al mondo con un io integro, l'individuo rinnega una parte del suo essere, con ciò rinnegando anche ogni attaccamento immediato alle cose e le persone del mondo. Tutto ciò si può rappresentare schematicamente cosi: In luogo di si ha

(io/corpo)—altri . , .. io = (corpo-altri)

In tal modo l'io è escluso da ogni relazione diretta con le cose e con le persone reali. In conseguenza di ciò, con i pazienti che si trovano in questa condizione si assiste a una lotta per conservare il senso della propria realtà, vitalità e identità. Il circolo della fig. i è benigno, nel senso che la realtà del mondo e la realtà dell'io vengono potenziate a vicenda dal rapporto diretto che esiste fra l'io e gli altri. Invece nella fig. 2 si ha un circolo vizioso: tutti gli elementi del diagramma vengono vissuti sempre più irrea-

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li e sempre più morti. L'amore è impossibile, e la paura prende il suo posto. L'effetto ultimo è la sensazione generale che tutto si sia fermato. Nulla si muove, nulla è vivente, ogni cosa è morta, compreso l'io, al quale il suo stesso distacco impedisce ogni piena esperienza di realtà vivente. È impossibile ogni rapporto creativo con l'altro, ogni rapporto cioè in cui, come nel circolo benigno, vi sia un reciproco arricchimento; in luogo di questo tipo di rapporto si ha una interazione, che può sembrare procedere bene e senza scosse per un po', ma nella quale in realtà non c'è vita (rapporto sterile). Invece di un rapporto io-tu si ha quasi un rapporto da cosa a cosa: un processo morto. L'io interiore cerca di sopravvivere ricorrendo a certe compensazioni apparenti. Per esempio si accarezzano certi ideali. Uno di questi, molto evidente in David ai tempi della scuola, consiste in una grande onestà interiore: mentre tutti gli scambi che si hanno con gli altri possono essere macchiati dalla finzione, dagli equivoci, dall'ipocrisia, l'individuo cerca di avere con se stesso dei rapporti scrupolosamente sinceri, franchi e onesti. Agli altri si può nascondere tutto, ma a se stesso non si deve nascondere nulla. Cosi facendo l'io mira a divenire «un rapporto che collega sé a sé» 1 ad esclusione di tutto il resto, e qui abbiamo il germe della dissociazione secondaria che si opera entro l'io. L'essere dell'individuo si è scisso in un io «vero» e in uno «falso», che, come già accennato, perdono entrambi la loro realtà; ma a loro volta essi si suddividono in sistemi minori, e cosi nei rapporti dell'io con se stesso viene a svilupparsi un secondo dualismo, in cui l'io interiore stabilisce con se stesso una relazione di tipo sado-masochistico. Quando ciò accade, l'io interiore, nato come abbiamo visto anzitutto dal bisogno di trovare un sia pur precario senso di identità, comincia a perdere anche quel poco che ne aveva (per un esempio clinico si veda in particolare il caso di Rosa, p. 1 7 1 ). L'interazione in luogo del rapporto con l'altro ha come conseguenza che l'individuo si trova a vivere in un mondo 1 Frase di Kierkegaard in Sygdommen til dòdeti qui però usata con una connotazione completamente diversa da quella originale.

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terrificante, in cui la paura non è mai alleviata dall'amore. L'individuo ha paura del mondo perché teme che ogni suo contatto sia totale e implosivo; teme di essere penetrato, risucchiato, fatto a pezzi. Quindi non si lascia mai andare, non lascia mai che una parte di sé esca liberamente fuori in nessuna circostanza, perché teme di consumarsi, di essere sciupato o svuotato, di farsi portar via dal risucchio. L'isolamento dell'io è perciò un corollario del bisogno di controllare la situazione. Si preferisce rubare anziché ricevere in dono; si preferisce dar via una cosa anziché farsela rubare, perché questa è l'impressione che si ha. In altre parole si deve sempre poter controllare chi o che cosa viene, chi o che cosa va. Questo sistema di difesa viene elaborato, come abbiamo suggerito, per compensare il difetto primario di sicurezza ontologica: un individuo sicuro del suo essere non ha bisogno di adottare misure di questo genere. Ma lo sforzo necessario per tenere fuori pericolo l'io trascendente, e per mantenerlo al comando delle esperienze dirette e dell'azione, provoca conseguenze impreviste, che possono annullare i vantaggi apparenti. Tutto (in un certo senso) è possibile in una situazione in cui l'io, nel suo isolamento e nel suo distacco, non si impegna mai in un rapporto creativo con gli altri, e si preoccupa solo delle immagini o figurazioni della fantasia, del pensiero, della memoria: immagini che non possono essere né osservate direttamente dagli altri, né ad essi comunicate o espresse. Qualunque sia il fallimento o il successo che si prospetta al sistema del falso io, l'io può restarsene libero e disimpegnato; nella sua fantasia può essere chiunque e dovunque, può fare tutto e avere tutto. È onnipotente e completamente libero: ma solo nella fantasia. Non appena si impegna in un qualsiasi progetto reale, soffre umiliazioni e agonie, non necessariamente causate dall'insuccesso, ma semplicemente perché è costretto ad assoggettarsi alle necessità della situazione. Dunque è onnipotente e libero solo nella fantasia; che anzi, più indùlge in questa libertà e onnipotenza fantastica, più diventa debole, inerme e impacciato nella realtà. L'illusione di onnipotenza e di libertà può mantenersi solo entro il cerchio magico e rinchiuso della fantasia. E affinché l'illusione non

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venga distrutta da una intrusione anche minima del reale, è necessario tenere fantasia e realtà ben separate fra loro. Questa separazione è descritta assai bene da Sartre nelYlmaginaire (1940): ... possiamo riconoscere in noi due io distinti: l'io immaginario, con le sue tendenze e i suoi desideri, e l'io reale. Esistono sadici e masochisti immaginari: persone dall'immaginazione violenta. Ad ogni momento, il nostro io immaginario si frantuma e svanisce al contatto con la realtà, cedendo il posto all'io reale. Perché, per la loro stessa natura, il reale e l'immaginario non possono coesistere. Si tratta di due tipi diversi di oggetti: sentimenti e azioni completamente irriducibili le une alle altre. Potremmo quindi pensare di dover classificare gli individui in due grandi categorie, a seconda della loro preferenza per una vita immaginaria o per una vita reale. Ma dobbiamo comprendere che cosa significhi una preferenza per l'immaginario. Non si tratta affatto di preferire un tipo di oggetti a un altro. Per esempio non si deve credere che lo schizofrenico, e in generale il sognatore morboso, cerchi di sostituire al contenuto reale della sua vita un altro contenuto irreale più attraente e brillante, e cerchi di dimenticare il carattere irreale delle sue immagini reagendo ad esse come se fossero oggetti reali effettivamente presenti. Preferire l'immaginario non è solo preferire alla mediocrità esistente una bellezza, una ricchezza, uno splendore immaginario nonostante la loro natura irreale, ma è anche adottare un modo «immaginario» di sentire e di agire proprio in quanto questo modo è immaginario. Non si tratta solo di scegliere questa o quella immagine, ma di scegliere lo stato immaginario con tutto quello che ne consegue; non si tratta solo di una fuga dal contenuto del reale (povertà, amore deluso, fallimenti delle proprie imprese ecc.), ma dalla forma, dal carattere di presenza del reale, dal tipo di risposte che esso esige da noi, dall'adattamento delle nostre azioni all'oggetto, dall'inesauribilità della percezione, dalla sua indipendenza, dal modo stesso che hanno di svilupparsi i nostri sentimenti. Questa dissociazione fra realtà e fantasia è essenziale nel concetto di autismo di Minkowski. Ma se una persona non agisce nella realtà, ma solo nella fantasia, diviene essa stessa irreale. Il «mondo» effettivo

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di questa persona si immiserisce e si dissecca; la «realtà» del mondo fisico e delle altre persone cessa di essere usata come palestra per l'esercizio creativo dell'immaginazione, e perciò perde sempre più il suo stesso significato. La fantasia, non essendo né immersa in qualche misura nella realtà, né ricevendo iniezioni di «realtà» che possano arricchirla, si svuota e si volatizza sempre più. E l'io, la cui relazione con la realtà è già tenue, perde sempre più il suo carattere reale e ne acquista uno sempre più fantastico, occupato com'è sempre di più in rapporti fantastici con i suoi fantasmi (immagini). Tutto è possibile nella fantasia, quando il circuito fra realtà e fantasia è interrotto. Per esempio la distruttività, quando viene esercitata nella fantasia, non è accompagnata dal desiderio di riparazioni compensatone, giacché la colpa, che spinge a riparare e fare ammenda, ha perduto di urgenza; perciò può scatenarsi senza controlli finché il mondo e l'io, nella fantasia, non si riducano in cenere. Nella condizione schizofrenica il mondo è fatto di rovine, e l'io, almeno in apparenza, è morto; né esiste frenesia di attività che sembri capace di riportare la vita. E cosi si ottiene un effetto opposto a quello desiderato. Rospi reali invadono i giardini immaginari '; per le strade reali camminano fantasmi. E in quest'altro modo ancora, l'identità dell'io si trova in pericolo. Non è del tutto esatto dire che l'io è in rapporto solo a se stesso. È necessario definire questa affermazione in un senso, e ampliarla in un altro. La limitazione l'abbiamo già fatta chiarendo che si sta parlando di un rapporto diretto e immediato: è questo rapporto diretto e immediato che diviene impossibile, con l'altro ed anche con quegli aspetti del proprio essere che sono esterni al santuario dell'io. Per esempio, un paziente che esternamente conduceva una vita relativamente «normale», ma che soffriva di una dissociazione interiore di questo tipo, si rivolse allo psichiatra perché, a suo dire, non riusciva ad avere rapporti con la moglie, ma solo con l'immagine che si era fatta di 1

Marianne Moore, Collected

Poems.

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lei. Il suo corpo, cioè, aveva rapporti fisici con il corpo di lei; ma durante ogni rapporto il suo io mentale poteva solo osservare ciò che il suo corpo stava facendo, e immaginare di avere un rapporto con sua moglie come se questa fosse un oggetto della sua immaginazione. La colpa che provava per questo costituiva il suo motivo di rivolgersi allo psichiatra Questo è un esempio di ciò che intendo nel dire che fantasia e realtà vengono tenute distinte. L'io rifugge da una relazione diretta con le persone reali, e invece entra in rapporto con se stesso e con gli oggetti che esso stesso postula: cioè può entrare in un rapporto di immediatezza con un oggetto che sia un oggetto della sua immaginazione 0 della sua memoria, mai con una persona reale. Naturalmente non sempre la cosa è evidente: talvolta nemmeno al soggetto stesso, tanto meno a tutti gli altri. La moglie del suddetto paziente era del tutto ignara del fatto che lui non avesse mai avuto un rapporto diretto con lei: l'immagine che egli se ne era fatto, e con la quale aveva i rapporti, coincideva abbastanza con la realtà perché nessuno, tranne lui stesso, si accorgesse della differenza. Una componente di questa specie di sotterfugio è che l'io prova un senso di libertà che teme di perdere abbandonandosi al reale: e ciò si applica sia alla percezione che all'azione. Il paziente, per quanto solo si sentisse nei momenti di maggiore intimità fisica, si sentiva però al sicuro, e la sua mente restava libera, anche se questa libertà diventava poi una cosa alla quale si sentiva condannato. Un problema simile nasce nei confronti dell'azione. Dal punto di vista di un'altra persona le azioni dell'individuo possono apparire chiare e impegnate, ma poi si trova che questi sta solo facendo i gesti corrispondenti a quelle azioni, senza avere in realtà la sensazione di compierle. Cosi, mentre per esempio Kinsey avrebbe potuto registrare che il paziente aveva avuto per dieci anni da due a quattro rapporti per settimana, egli sapeva che, «in realtà», non ne aveva avuto mai nemmeno uno. Il passaggio da questo 1 Le osservazioni sulla colpa provata da Peter, caso descritto al cap. 8, sono pertinenti a proposito di questa forma di colpa schizoide, che ritengo non sia stata ancora sufficientemente compresa.

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PARTE SECONDA

tipo di dichiarazione alla dichiarazione del milionario psicotico che dice di non avere, «in realtà», neanche un soldo, è sostanziale ma impercettibile. Come vedremo nel capitolo io, la differenza sembra consistere in una perdita del senso della realtà - quella del tipo del rapporto Kinsey - cosi totale, che l'individuo parla della sua verità esistenziale con lo stesso tono di oggettività che noi usiamo parlando di fatti che possono essere validati consensualmente da chiunque. Per esempio il nostro paziente sarebbe stato psicotico se, invece di affermare di non aver mai avuto rapporti «reali» con sua moglie, avesse insistito nel dire che la donna con la quale egli aveva rapporti non era in realtà sua moglie. Anche questo sarebbe stato verissimo, in un certo senso e cioè esistenzialmente: infatti in senso esistenziale la sua moglie «reale» era l'oggetto della sua immaginazione (un fantasma, un'immagine.), e non l'essere umano che si trovava a letto con lui. L'io incorporeo dello schizoide non può essere realmente sposato a nessuno: esiste in perpetuo isolamento. E tuttavia, naturalmente, questo isolamento, questo disimpegno interiore non va esente da una certa misura di autoinganno. C'è qualcosa di definitivo in un atto, e questo tipo di persona lo guarda perciò con sospetto. L'azione esaurisce la possibilità, sclerotizza la libertà: se non si può evitarla del tutto, ogni atto deve almeno conservare una natura equivoca, che consenta all'«io» di sfuggire alla trappola. Hegel dice questo a proposito dell'atto: L'atto è qualcosa di semplice, di determinato e di universale, e dev'essere compreso come un tutto astratto e distinto: è un assassinio, un furto, un atto di beneficenza o di coraggio, e tutto ciò che esso è può essere detto. È cosi e cosi, e il suo essere non è un semplice simbolo, è il fatto stesso. È questo, e l'essere umano individuale è ciò che è l'atto. Per il semplice fatto che l'atto è, l'individuo è per gli altri ciò che è in realtà, e con una certa natura generale, e cessa di essere solo qualcosa che si «intende» o si «presume» essere in un certo modo. Senza dubbio egli non sta li dov'è come una forma della mente: ma quando viene posto in questione il suo essere in quanto tale, e il suo duplice

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essere, forma corporea e atti, viene visto contrapponendo l'una agli altri, ciascuno dei due pretendendo il diritto di rappresentare la sua vera realtà, gli atti da soli sono da ritenere il suo essere genuino, non già la sua figura o forma, che può esprimere invece ciò che egli «intende» con i suoi atti, o ciò che un altro potrebbe «congetturare» che egli possa fare. Allo stesso modo, d'altra parte, quando la sua attività viene contrapposta alle sue possibilità, capacità o intenzioni interiori, la prima da sola va considerata come la sua vera realtà, anche nel caso che egli si inganni in proposito e, dopo essersi volto dall'azione a se stesso, intenda essere, nel suo «mondo interiore», qualcosa di diverso da ciò che è stato nell'atto. Non c'è dubbio che l'individualità, che si affida all'elemento oggettivo, corre il rischio di venire alterata e stravolta quando si traduce in azione. Ma ciò che definisce la natura dell'atto è appunto questo: se esso sia cioè una cosa reale che sta insieme, o se invece esso sia soltanto un'attività pretesa o «supposta», che in se stessa è nulla e vuota e passeggera. L'oggettivazione non altera il fatto in sé, essa mostra soltanto ciò che è l'atto, cioè mostra se l'atto esiste o se invece esso è un nulla ( 1807). Si comprende facilmente perché l'azione, cosi caratterizzata da Hegel, sia tanto aborrita dallo schizoide. L'atto è «semplice, determinato, universale...» ma l'io dello schizoide vuole essere complesso, indeterminato e unico; l'atto è ciò che ne «può essere detto», ma lo schizoide non deve mai essere ciò che si può dire di lui, e deve rimanere sempre inafferrabile, elusivo, trascendente. L'atto è «cosi e cosi... è questo, e l'essere umano individuale è ciò che è l'atto», ma lo schizoide a nessun costo dev'essere ciò che sono le sue azioni, perché se lo fosse sarebbe inerme e alla mercè del primo venuto. «Per il semplice fatto che l'atto è, l'individuo è per gli altri ciò che è in realtà», ma precisamente questo lo schizoide teme che possa accadere, e questo cerca di evitare usando un falso io, in modo da non essere mai lo stesso di ciò che in realtà è con gli altri. Il suo «io», «lui», consiste in possibilità senza fine, in capacità e intenzioni senza limite. Cosi l'atto è sempre il prodotto di un falso io, e non è mai la sua vera realtà. Egli vuole restare eternamente disimpegnato di fronte all'«elemento oggettivo»: perciò l'azione è sempre (o per lo

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PARTE SECONDA

meno egli crede cosi) un'attività pretesa, supposta, che lo lascia libero di coltivare attivamente la negazione «interiore» di tutto quello che fa, di dichiarare tutto quello che fa «nullo e vuoto», affinché nel mondo della realtà, nell'«elemento oggettivo», nulla di «lui» esista, nessuna impronta dell'io permanga. Cosi l'io si ritira dall'«elemento oggettivo» per quanto riguarda sia la percezione che l'azione: non vi può essere azione spontanea, cosi come non vi può essere percezione spontanea, e come nell'azione si sfugge all'impegno, cosi la percezione viene vissuta come un atto di impegno, che mette a repentaglio la libertà di poter essere nulla. Finché non si consegna all'elemento oggettivo l'io è libero di sognare e immaginare qualunque cosa. Privo di riferimenti all'elemento oggettivo, per conto suo può essere tutto, possiede libertà, potere, creatività illimitata. Ma la libertà e il potere sono esercitati nel vuoto, e la creatività è solo una capacità di produrre fantasmi. Perciò l'onestà interiore, la libertà, l'onnipotenza e la creatività, che l'io «interiore» accarezza come suoi ideali, vengono cancellate dalla simultanea presenza di un senso tormentato di duplicità, di mancanza di ogni libertà reale, di totale impotenza e sterilità. La cosa che qui ci interessa è, naturalmente, di seguire il passaggio dalla condizione schizoide alla psicosi, e non di descrivere le possibilità inerenti a tale condizione di svilupparsi diversamente; ma è necessario tener presente che il deterioramento e la disintegrazione costituiscono solo uno dei risultati possibili di una organizzazione iniziale di tipo schizoide. E chiaro che, partendo da essa, è possibile conquistare e vivere pienamente versioni autentiche di libertà, di potere e di creatività. Molti scrittori e artisti schizoidi, relativamente isolati dagli altri, riescono a stabilire un rapporto creativo con le cose del mondo, che pervengono allora a dare un corpo alle figure della loro fantasia. Ma della loro storia non possiamo occuparci. Per tutto lo studio presente l'attenzione è rivolta ad una sola linea di sviluppo, e le generalizzazioni che a mano a mano vengono formulate intendono applicarsi solo a questa zona estremamente limitata.

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Per riprendere il nostro discorso: sebbene l'io sia in un atteggiamento di libertà e di potenza, il suo rifiuto di consegnarsi all'elemento oggettivo lo rende impotente: nella «realtà» esso non è libero. Inoltre, pur nel suo santuario e nel suo distacco, esso è costantemente soggetto alla minaccia (che sente come tale) di una realtà implosiva o risucchiarne, e pur essendo preoccupato soprattutto di se stesso e dei suoi propri oggetti, tuttavia è acutissimamente consapevole di sé come oggetto visto dagli altri. Perciò le difficoltà paradossali dello schizoide vengono aggravate dalla natura speciale del sistema schizoide di difese che abbiamo descritto. Tutti noi, forse, abbiamo sempre la possibilità di scegliere fra una posizione di distacco e il tentativo di partecipare alla vita. Ma la difesa schizoide nei confronti della realtà presenta il grave svantaggio di tendere a perpetuare, e potenziare, la qualità di minaccia che la realtà originariamente possiede. La partecipazione dell'io alla vita è sempre possibile; ma solo a costo di ansietà molto intensa. Kafka lo sapeva assai bene quando diceva di poter partecipare alla vita solo attraverso la sua ansia, e per questo motivo, di non potersene privare. Per lo schizoide una partecipazione diretta alla vita equivale, nella sua esperienza, al rischio costante di essere dalla vita stessa distrutto, perché l'isolamento dell'io, come abbiamo detto, costituisce un tentativo di preservare se stesso, dovuto all'assenza di sicurezza della propria integrità e della propria autonomia. Perciò l'io dello schizoide dev'essere compreso come il tentativo di conquistare una sicurezza secondaria nei confronti dei pericoli primari cui, nella sua insicurezza ontologica d'origine, si trova esposto. Un aspetto particolare, di questa insicurezza ontologica d'origine, che finora non abbiamo riferito specificatamente all'io, è la precarietà del senso soggettivo di essere vivi, e il fatto che questo è reso ancor più incerto e instabile dagli altri. Questo problema verrà preso in esame nel capitolo 7. In assenza di uno spontaneo rapporto col mondo che sia naturale, creativo, ed esente da ansia, l'«io interiore» elabora allora un senso generale di immiserimento interio-

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re, che si esprime dicendo che la propria vita interiore è vuota, morta, fredda, arida, impotente, desolata, inutile. Un paziente, per esempio, lamentava un impoverimento della sua vita fantastica ed emotiva, e spiegava che secondo lui ciò era una conseguenza della sua decisione di isolarsi dalla realtà. Il risultato era, secondo le sue parole, che non riceveva più dalla realtà il materiale necessario per arricchire la sua immaginazione. Un altro paziente aveva momenti in cui si sentiva scoppiare di potenza, e altri momenti in cui aveva l'impressione di non avere più niente dentro, di essere senza vita. Ma anche nei momenti «maniacali» la sensazione che aveva di sé era di essere un contenitore, pieno di aria ad una pressione enorme, anzi di non essere altro che aria calda; ed era a questo pensiero che sopraggiungeva il senso di sgonfiamento. Lo schizoide parla spesso di sé in questi termini, cosi che, da un punto di vista fenomenologico, è giustificato parlare di «vuoto» come di una sensazione dell'io. Se il paziente contrappone al suo senso di vuoto, inutilità, freddo, aridità e desolazione la ricchezza, il calore, il senso di bellezza e di comunione che egli può pur sempre ritenere esistere altrove (convinzione che anzi spesso raggiunge proporzioni immaginarie e fantastiche, priva com'è delle correzioni portate dall'esperienza diretta), allora sorgono una quantità di emozioni contrastanti: da un disperato e straziante desiderio di ciò che tutti, tranne lui, posseggono, a un odio e un'invidia frenetica per tutto questo, alla voglia di distruggere tutte le cose buone, belle e fresche del mondo. Questi sentimenti possono, a loro volta, essere sopraffatti da atteggiamenti contrastanti di sdegno, disprezzo, disgusto o indifferenza. Ma questo senso di vuoto e di miseria interiore, questo senso di mancanza di sostanza e di valore, si può trasformare, se è più forte del senso illusorio di potere, in una spinta potente verso i «contatti» con la realtà. L'anima, o l'io, arida e desolata, nel suo desiderio di trovare la freschezza e la fertilità non si limita a cercare un rapporto fra esseri separati, ma anela ad essere completamente immersa e confusa nell'altro. James (cfr. più avanti, pp. 165 sg.), raccontava che una

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sera d'estate, camminando solo nel parco e osservando le coppie di innamorati, senti all'improvviso di essere diventato tutt'uno col mondo intero: cielo e alberi, erba e fiori, amanti abbracciati. In preda al panico, tornò a casa di corsa e si immerse nei suoi libri, dicendo a se stesso che non aveva il diritto di provare questa esperienza, ma terrorizzato, in realtà, dal pericolo di perdita dell'identità contenuta in questa fusione e confusione del suo io col mondo. Non conosceva nessuna via di mezzo fra un isolamento radicale, in cui era completamente assorto in se stesso, e questo totale assorbimento del suo essere in tutto ciò che esisteva. Temeva di essere assorbito nella natura, inghiottito da essa con perdita irrimediabile del suo io; ma ciò che temeva di più lo desiderava anche più fortemente. Come scrisse Gerard Manley Hopkins, la bellezza mortale è pericolosa. Se gli individui simili a James sapessero seguire il suo consiglio, di andarle incontro, e poi lasciarla, tutto sarebbe più facile: ma è proprio questo che essi non sono capaci di fare. La ricchezza che è là fuori è desiderata per il suo contrasto col vuoto che è qui dentro, ma una partecipazione senza la perdita dell'essere è vista come impossibile, ed inoltre non basterebbe; cosi l'individuo resta attaccato al suo isolamento ed al suo stato di separazione senza rapporti spontanei e diretti, perché cosi facendo difende la sua identità. Egli desidera una comunione completa; ma questo stesso desiderio lo spaventa, perché l'unione vorrebbe dire la fine dell'io. Egli non vuole un rapporto di reciproco arricchimento, uno scambio di dare e avere fra due esseri «congeniali». Non sa concepire un rapporto dialettico Può accadere però che l'esperienza di perdere il proprio io individuale e isolato sia, in certe situazioni ben circoscritte, tollerata senza provocare troppa ansietà. Per esempio è possibile annullarsi ascoltando musica, o durante 1 Platone afferma che l'amicizia può esistere soltanto fra esseri «congeniali». Ma nel Lysia la discussione sulla possibilità dell'amicizia si incaglia sul seguente dilemma: se due esseri non sono «manchevoli» in nulla, perché dovrebbero volere qualcosa dall'altro? È su questo problema centrale (sono autosufHciente oppure «manco» di qualcosa?) che la vita dello schizoide può naufragare.

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esperienze di natura quasi mistica, in cui l'io sente di essere confuso con un non-io che può, ma non necessariamente, chiamarsi «Dio». Tuttavia il desiderio di sfuggire al tedio della compagnia di se stessi incontra, generalmente, due ostacoli insormontabili: l'ansia e la colpa provocate dal desiderio medesimo. È già stata menzionata più volte l'ansia che accompagna la perdita dell'identità per risucchio. C'è un modo, naturalmente, di ottenere ciò che si vuole da qualcuno, mantenendo il controllo del processo di acquisizione, ed è il furto. Le fantasie schizoidi consistenti nel rubare e nell'essere derubati si fondano su questo dilemma. Se si ruba ciò che si vuole, si mantiene il controllo della situazione, cosa che non accade quando la cosa viene data. Ma ogni intenzione viene immediatamente attribuita anche agli altri. Il desiderio di rubare alimenta le paure di essere derubati. La fantasia che tutto ciò che si possiede lo si è rubato è accompagnata dalla sua controparte: tutto ciò che hanno gli altri è stato rubato a noi (cfr. il caso di Rosa, cap. 9), e che tutto ciò che ancora si possiede verrà, alla fine, portato via; e non soltanto ciò che si possiede, ma anche ciò che si è, il proprio io. Di qui la comune osservazione dello schizofrenico di essere stato derubato dell'io, e le sue difese contro questo costante pericolo. Il suggello finale alla prigione che l'io si è costruita viene messo dalla colpa. Nello schizoide la colpa possiede la stessa qualità paradossale che troviamo nel suo senso di potenza e impotenza, nella sua libertà e nella sua schiavitù, nel suo poter essere chiunque nella fantasia e nessuno in realtà. Le origini della colpa sono diverse, e si trovano entro l'essere dell'individuo. Ma anzitutto, in un essere diviso in diversi «io», è necessario sapere qual è l'io che si sente colpevole, e qual è l'oggetto della colpa. In altre parole: in uno schizoide non vi è, né potrebbe esservi, un senso di colpa unitario e non contradditorio. Sulla base di principi generali si potrebbe supporre che un dato senso di colpa abbia origine nel falso io, mentre un altro nasce nell'io interiore; ma se chiamiamo «falsa colpa» ogni senso di colpa che il sistema del falso io può essere capace di avere, dovremo stare attenti ed evitare di considerare l'io

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interiore come punto di origine di una colpa «vera» o genuina. Qui si vuole semplicemente preparare il terreno per una più ampia discussione di questo problema, che tratteremo più avanti utilizzando materiale clinico. Se c'è qualcosa di cui lo schizoide può essere convinto, è proprio della sua natura distruttiva. Egli è incapace di credere di poter riempire il suo vuoto senza annientare tutto ciò che esiste; e considera il suo amore, e quello degli altri, altrettanto distruttivo dell'odio. Essere amato costituisce una minaccia per il suo io, ma il suo amore è altrettanto pericoloso per gli altri. Il suo isolamento non è provocato soltanto dal bisogno di difendersi, ma nasce anche da una preoccupazione per gli altri. Una paziente schizofrenica non voleva che nessuno la toccasse, non per timore che le facessero del male, ma perché c'era pericolo che restassero fulminati. E questa è semplicemente una espressione psicotica di ciò che lo schizoide prova ogni giorno. Egli dice: «Non è giusto che io ami qualcuno: non è giusto per lui». Allora egli, «nella sua mente», distrugge l'immagine della persona o della cosa alla quale si sta affezionando, per salvarla da una distruzione reale. Se poi non c'è niente da desiderare, niente da invidiare, allora forse non c'è niente da amare, e quindi nulla che possa venire annientato; e come ultima risorsa egli procede a uccidere il suo «io», il che non è facile come tagliarsi la gola, e discende allora in un vortice di non-essere per evitare di essere, ma anche per salvare l'essere da sé.

Capitolo sesto Il sistema del falso io 1

L'«io interiore» fantastica ed osserva: osserva i processi della percezione e dell'azione. L'esperienza non tocca direttamente questo io, o almeno questa è l'intenzione, e gli atti dell'individuo non ne sono espressione. I rapporti diretti col mondo rientrano nella provincia del sistema del falso io: esamineremo ora le caratteristiche di questo sistema. Occorre comprendere che la descrizione che si darà qui del sistema del falso io vuole riferirsi specificamente al problema di quel modo particolare di essere-nel-mondo che abbiamo chiamato schizoide. Ogni uomo ha il problema personale di essere fedele o no, entro certi limiti, alla sua vera natura. Per fare un esempio preso dalla clinica: la persona isterica, o quella in stato ipomaniacale, hanno ciascuna il proprio modo di non essere se stessi. Invece il sistema del falso io che verrà qui descritto esiste come complemento di un io «interiore», che è occupato a conservare la sua identità e la sua libertà mediante la trascendenza, mediante l'essere incorporeo, e che pertanto non può mai essere afferrato, fermato, o posseduto. È sua finalità essere un puro soggetto, senza nessuna esistenza og1 II falso io è un modo di non essete se stessi. Citiamo qui di seguito alcuni dei più importanti studi di tradizione esistenzialista, rilevanti per la comprensione del falso io come modo di vita non autentica: Kierkegaard, Sygdommen til doden (1849); Heidegger, Sein und Zeit (1957'); Sartre, L'être et le néant, discussione sulla «malafede»; Binswanger, Drei Formen missgliìckten Daseins (1952) e II caso di Ellen West (1958); R . Kuhn, La Phénoménologie de masque (19.57). Gli studi più rilevanti di tradizione psicoanalitica sono i seguenti: Deutsch, Some Vorms of Emotional Disturbances and Their Relationsbip to Schizophrenia (1942); Fairbairn, Psychoanalytic Studies of the Personality (1952); Guntrip, A Study of Fairbairn's Theory of Schizoid Reactions (1952); Winnicott, Collected Papers (1958); Wolberg, The «Borderline» Patient (195a); Wolf, in Schizophrenia in Psychoanalytic Office Practice (1957, pp. 135-39).

IL S I S T E M A DEL FALSO IO

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gettiva. Perciò tranne in certi eventuali momenti di sicurezza, l'individuo cerca di considerare tutto l'insieme della sua esistenza oggettiva come espressione di un io falso. Naturalmente, come è già stato accennato, e come si vedrà meglio più avanti, se un uomo non ha due dimensioni, se non possiede una identità a due dimensioni, stabilita da una congiunzione fra «identità per gli altri» e «identità per se stesso»; se non esiste tanto oggettivamente quanto soggettivamente, ma possiede invece solo una identità soggettiva, solo «identità per sé», allora quest'uomo non può essere reale. È assai raro incontrare un uomo «senza maschera»: si può anche dubitare che un tale uomo possa esistere. Tutti portiamo, in qualche misura, una maschera; sono molte le situazioni nelle quali non vogliamo entrare completamente. Nella vita «comune» sembra quasi impossibile che succeda altrimenti. Ma il falso io dello schizoide differisce per molti versi dalla maschera indossata dalla persona «normale», e anche dalla falsa facciata caratteristica dell'isterico. A evitare confusioni sarà utile esaminare brevemente queste differenze. Nella persona «normale» può aversi un buon numero di azioni che si svolgono in modo virtualmente meccanico. Le zone di comportamento meccanico, però, non coprono necessariamente ogni aspetto dell'attività, né impediscono in modo assoluto l'emergenza di espressioni spontanee; d'altra parte non sono cosi completamente estranee all'individuo da indurlo a tentare attivamente di ripudiarle, come se fossero corpi ostili alloggiati nel suo organismo. Inoltre esse non assumono caratteristiche proprie, autonome e costrittive, tali che l'individuo possa sentirle vive per conto proprio, e a lui dannose, anziché sentire che è lui che le sta vivendo. La questione, comunque, non si pone con tale penosa intensità da spingere l'individuo a combattere e distruggere questa realtà estranea, che esiste dentro di sé come se avesse un'esistenza separata e quasi personale. Tutte queste caratteristiche, invece, che sono assenti nella persona «normale», sono vivacemente presenti nel sistema del falso io schizoide.

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Anche l'isterico, dal canto suo, dissocia se stesso da gran parte delle sue azioni, ma in un suo modo caratteristico. La descrizione migliore di questa tecnica di evasione si trova, secondo me, nel capitolo sulla «malafede» nell'Etre et le néant di Sartre, in cui si ha un brillante resoconto fenomenologico dei vari modi di fingere con se stessi di non essere «in» ciò che si sta facendo: forma di evasione da una piena partecipazione personale alle proprie azioni, che per il carattere isterico assume l'importanza di un modo di vivere. Naturalmente il concetto sartriano di «malafede» va poi molto al di là di questo aspetto particolare. L'isterico, dunque, cerca la gratificazione attraverso le sue azioni, ma di queste nega l'importanza: le sue azioni gli procurano «vantaggi», cioè gratificazioni degli impulsi aggressivi o libidici verso altre persone, ma di questi impulsi egli non può confessare a se stesso il significato. Di qui la sua belle indifférence, il suo distacco disinvolto dalle implicazioni contenute in ciò che dice o fa. Non è difficile vedere quanto sia diverso questo stato di cose dalla frattura nell'essere dello schizoide: in lui il falso io non serve da veicolo per le soddisfazioni o le gratificazioni dell'io. Al contrario, quest'ultimo può restare affamato e insoddisfatto in senso primordiale, mentre il falso io può essere, da un punto di vista genitale, ben adattato, senza che però le sue azioni gratifichino in alcun modo l'«io interiore». L'isterico finge, o pretende di credere, che certe sue attività altamente gratificanti siano appunto tutta una finzione, o che non significhino nulla, o che non abbiano implicazioni particolari; oppure finge di fare una certa cosa solo perché vi è costretto. E per tutto il tempo, segretamente, i suoi desideri vengono soddisfatti proprio attraverso queste attività. Invece il falso io dello schizoide si piega in maniera coatta alla volontà degli altri; è solo parzialmente autonomo e sfugge al suo controllo; è vissuto come qualcosa di estraneo; l'irrealtà, la mancanza di significato e di scopo che colorano tutte le sue percezioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti e i suoi atti, e il suo senso generale di morte, non sono semplicemente il prodot-

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to di difese secondarie, ma conseguenze dirette della struttura dinamica di fondo dell'individuo. Un paziente, per esempio, raccontava che a scuola gli piaceva molto la matematica mentre disprezzava la letteratura. Una volta la classe, dopo avere assistito a una rappresentazione della Twelfth Night di Shakespeare, dovette svolgere un tema sull'argomento. Il paziente, al quale la commedia non era piaciuta affatto, scrisse un tema molto elogiativo, immaginando che questa fosse la cosa che la scuola si aspettava da lui, e assoggettandosi a questa volontà. Il tema vinse un premio. «Ma non c'era una sola parola in tutto il tema che esprimesse quello che sentivo io: tutto quanto era come credevo che bisognasse sentire». Questa almeno era la cosa che il paziente pensava allora: più tardi confessò a se stesso che in realtà la commedia gli era piaciuta, e che le cose che aveva scritto nel tema le aveva sentite. Ma non aveva osato ammettere questa possibilità, perché ciò Io avrebbe fatto cadere in un grave conflitto con tutti i valori che gli erano stati inculcati, e avrebbero sconvolto l'idea che aveva di se stesso. Questo è un episodio nevrotico, non schizoide: il paziente continuava, in altri modi, a fare ciò che segretamente desiderava, convinto però di fare solo ciò che volevano gli altri, e in tal modo riusciva a portare a compimento i suoi desideri, anche se li per li aveva difficoltà ad ammetterlo. Perciò il nevrotico può simulare un sistema del falso io superficialmente somigliante a quello dello schizoide, ma guardando meglio è facile scoprire che, in realtà, le circostanze sono tutte molto diverse. Spesso l'isterico comincia col far finta di non essere presente nei suoi atti, mentre invece con essi egli realizza se stesso. Se, in una situazione di colpa troppo intensa, questa verità minaccia di presentargli chiaramente, allora la sua attività si inibisce, e si ha, per esempio, una «paralisi isterica», che impedisce l'esecuzione degli atti gratificanti e colpevoli. Esempi molto chiari di falsi io schizoidi possono invece vedersi nei casi di James (cfr. p. 160), di David (cfr. p. 80), e di Peter (cfr. cap. 8). Il sistema del falso io è sempre molto complesso e con-

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PARTE SECONDA

tiene invariabilmente molte contraddizioni. In questo capitolo si tenterà di formulare alcune delle sue caratteristiche generali, e per fare ciò è necessario costruire gradualmente il quadro, considerando una alla volta le varie componenti. Si ricorderà che James diceva di non essere una persona nel vero senso della parola. Col suo comportamento si era lasciato diventare una «cosa» che serviva agli altri. Sua madre, cosi almeno credeva, non aveva mai riconosciuto la sua esistenza. Si potrà obiettare che si può sempre riconoscere l'esistenza di un'altra persona se questa ci viene addosso, ma è chiaro che non era questo che il paziente pensava: egli pensava che la madre non avesse mai riconosciuto la sua libertà, il suo diritto a una vita soggettiva sua propria, da cui le sue azioni potessero emergere come espressione del suo essere autonomo e pieno. Invece egli era per lei soltanto uno strumento: «Ero semplicemente un simbolo della sua realtà». In realtà la soggettività del paziente si era sviluppata verso l'interno, mai osando di assumere un'espressione oggettiva qualsiasi. Nel suo caso l'estraniamento non era totale, giacché il suo «vero» io si poteva esprimere, chiaramente e con forza, attraverso le parole. James lo sapeva quando diceva: «Posso solo produrre dei suoni». Non c'era quasi nient'altro che «egli» facesse, perché tutti i suoi rimanenti atti erano governati, non dalla sua, ma da una volontà estranea che si era venuta formando all'interno del suo essere, e che era il riflesso della volontà di sua madre, della sua realtà estranea, ora operante da un posto di comando entro il suo essere. L'altro, naturalmente, deve sempre in prima istanza essere la madre, cioè la nutrice. Inoltre, gli atti di questo falso io non sono necessariamente imitazioni o copie dell'altro, sebbene possano essere personificazioni o caricature di altre personalità. Ma la componente che per il momento desidero isolare è la docilità iniziale verso le intenzioni o le aspettative dell'altra persona, vere o presunte che siano. Di solito questa docilità porta ad essere eccessivamente «buoni», a non fare mai altro che quello che viene detto di fare, a non combinare mai nessun «guaio», a non affermare e svelare mai la propria volontà, tanto più se questa,

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eventualmente, è contraria a quella altrui. Ma tutto ciò non viene fatto per un desiderio positivo di fare le cose che a detta degli altri sono buone: si tratta invece di un conformismo negativo nei confronti di norme non proprie, suggerito dal timore di ciò che potrebbe accadere se si fosse per una volta se stessi. Questa obbedienza è dunque, in parte, un tradire le proprie vere possibilità; ma è anche una tecnica per tenerle nascoste e al sicuro. Esse però rischiano di non tradursi mai nella realtà, poiché sono concentrate interamente in un io interiore, per il quale tutto è possibile nell'immaginazione, ma nulla è possibile di fatto. Abbiamo detto che il falso io si forma nella sottomissione alle intenzioni o aspettative degli altri, vere o immaginarie. Questo però non significa necessariamente che il falso io sia sempre assurdamente buono: esso può essere anche assurdamente cattivo. L'elemento essenziale della componente di sottomissione presente nel falso io è bene espresso nella frase di James: «Sono soltanto una risposta a quello che gli altri dicono che io sono». Si agisce secondo definizioni altrui di ciò che si è, invece di tradurre nell'azione la propria definizione di ciò che si è o di ciò che si vorrebbe essere; si diventa ciò che l'altra persona vuole o si aspetta che si diventi, e intanto si è «se stessi» solo nell'immaginazione, o nei giochi, o di fronte a uno specchio. In conformità dunque con ciò che si percepisce, o si immagina, essere la cosa che si è agli occhi dell'altro, il falso jo diventa quella cosa. Può trattarsi di un finto mascalzone; può trattarsi di un finto santo. Ma non tutto l'essere dello schizoide si conforma e si assoggetta in questo modo: la frattura di fondo del suo essere segue la separazione che esiste fra la sua docilità esteriore e il suo rifiuto interiore di questa docilità. Anche Iago fingeva di essere qualcosa che non era: nelYOthello il problema di «sembrare una cosa ed esserne un'altra», viene esplicitamente preso in considerazione. Ma né in quest'opera, né altrove in Shakespeare, viene trattato il dilemma fra apparire ed essere, cosi com'è vis-

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suto dal tipo di persona che ci interessa. I personaggi di Shakespeare «appaiono» in un certo modo per poter raggiungere i propri scopi. Lo schizoide invece «appare» perché ha paura: teme di non apparire come uno che persegue quegli scopi che si immagina che gli altri abbiano deciso per lui. I suoi scopi personali li persegue solo in senso negativo, e cioè nella misura in cui la sua sottomissione esteriore costituisce un tentativo di salvarlo da una estinzione totale. È vero però che può «rifarsi» attaccando la sua stessa docilità (cfr. p. 116). L'attività osservabile che è espressione del falso io è spesso perfettamente normale. Quello che si vede è allora il bambino modello, il marito ideale, l'impiegato solerte. Ma di solito la facciata diventa sempre più convenzionale: uno stereotipo, nel quale si sviluppano caratteristiche bizzarre. Anche qui potremo seguire solo una per volta le varie ramificazioni. Uno degli aspetti più evidenti della docilità del falso io è la paura che ad essa si accompagna. Per quale altro motivo se non per paura, infatti, uno dovrebbe agire non secondo le sue intenzioni ma secondo quelle di un altro? Anche l'odio è necessariamente presente: che cos'altro, infatti, è un più adeguato oggetto dell'odio, se non ciò che mette in pericolo il proprio io? Ma l'ansia alla quale l'io è soggetto preclude la possibilità che il suo odio si riveli direttamente: tranne, come vedremo più avanti, nella psicosi. Anzi ciò che si chiama psicosi non è altro, talvolta, che una brusca rimozione del velo del falso io, che era servito finora a conservare una normalità esteriore della condotta, anche se forse già da tempo questa non rifletteva più in alcun modo le condizioni reali del vero io nascosto. Escono allora dall'io torrenti di accuse di persecuzione contro le stesse persone verso le quali il falso io è stato per anni tanto docile e conciliante. Cosi il paziente dichiarerà che queste persone (la madre, il padre, il marito, la moglie) hanno tentato di ucciderlo, oppure che qualcuno ha cercato di portargli via l'anima o la mente, o che una data persona è un tiranno, un torturatore, un assassino, un mostro che uccide i bambini. Ai nostri fini è molto più importante comprendere

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in che senso questi «deliri» sono veri, che considerarli semplicemente assurdi. Tuttavia questo odio ha un altro modo di rivelarsi, del tutto compatibile, almeno fino a un certo punto, con la salute mentale. C'è una tendenza del falso io ad assumere sempre più le stesse caratteristiche della persona o delle persone verso le quali è diretta la propria docilità. Questa adozione delle caratteristiche dell'altro può arrivare fino a un vero e proprio impersonare l'altro; e l'odio per tale interpretazione si fa evidente quando essa comincia a trasformarsi in una caricatura. La rappresentazione dell'altro e la soggezione alla sua volontà sono due cose diverse: la prima infatti può andare direttamente contro tale volontà. La rappresentazione può avvenire deliberatamente, come in alcune delle parti recitate da David, ma può anche avere, come in altre dello stesso paziente, un carattere di costrizione. Può anche darsi che l'individuo non si renda conto di quanto i suoi atti rappresentino quelli di un altro. Può trattarsi di una condizione relativamente permanente e costante, oppure transitoria e momentanea. Infine, la personalità rappresentata può essere più una figura della fantasia che una persona reale, cosi come la soggezione può riguardare più una figura della fantasia che una figura reale. Si tratta comunque di una forma di identificazione, con la quale una parte dell'individuo si riveste dell'identità di un'altra persona. Diciamo una parte, giacché l'attore non è necessariamente impegnato nella sua totalità. Di solito si tratta di una identificazione sub-totale, che si limita ad assumere le caratteristiche di comportamento di un'altra persona: i gesti, le espressioni, i modi peculiari, e in generale l'aspetto e le azioni. Può darsi che tutto questo sia solo una componente di un processo molto più completo di identificazione con l'altro, tuttavia una delle sue funzioni sembra essere proprio quella di impedire una identificazione totale, e quindi una più grave perdita della propria identità. Tornando a David, le sue azioni appaiono, fin dalla prima infanzia, dettate da una soggezione, da un conformarsi quasi totale ai desideri e alle aspettative reali dei

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suoi genitori: egli era un bambino modello, di quelli che non danno mai un dispiacere. Io ho imparato a considerare un brutto segno queste descrizioni dell'attività della prima infanzia, dove i genitori non avvertono assolutamente nulla che non vada bene, e anzi ne parlano con orgoglio evidente. Subito dopo la morte della madre, David, che aveva allora dieci anni, cominciò a mostrare segni di una larga identificazione con lei: indossava i suoi abiti davanti allo specchio, e accudiva alla casa e al padre proprio come aveva fatto lei, arrivando fino a rammendare i calzini, cucire e fare la maglia, ricamare, curarsi della tappezzeria. Ma sebbene la cosa risulti evidentissima ad un osservatore esterno, né al paziente, né a suo padre apparve mai chiaro fino a che punto egli fosse diventato sua madre. È anche evidente che, cosi facendo, il ragazzo obbediva a un desiderio di suo padre, che però non era mai stato espresso dichiaratamente, e della cui esistenza il padre stesso era del tutto ignaro. Il falso io del ragazzo era già un sistema molto complesso al compimento del quattordicesimo anno. Il paziente non si rendeva conto della sua identificazione con la madre, ma era intensamente consapevole di avere una tendenza coatta a comportarsi in maniera donnesca, e una difficoltà a levarsi di dosso la parte di Lady Macbeth. Appunto per impedirsi dal cadere in questa o quella impersonazione femminile, si era messo deliberatamente a coltivare altri personaggi. Ma nonostante i suoi sforzi per impersonare uno studente normale e simpatico a tutti (che equivale al semplice ideale del falso io obbediente), il suo falso io era diventato un intero sistema di personaggi, alcuni socialmente accettabili e altri no, alcuni involontari e altri elaborati volutamente. Ma soprattutto si manifestava con insistenza una difficoltà a sostenere uno qualunque di questi personaggi senza che si intromettesse qualche elemento disturbatore. E in generale: in una apparenza iniziale di perfetta normalità e adattamento si insinua un elemento bizzarro, un eccesso involontario, una piega insolita, che trasforma il quadro in una caricatura e crea negli altri una

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certa inquietudine, una specie di disagio e anche di ostilità. James, per esempio, «prendeva» da suo padre per certi aspetti, e in particolare per una delle sue caratteristiche più irritanti, che consisteva in un certo modo che aveva a tavola, di chiedere a tutti se avevano mangiato abbastanza e di insistere perché si servissero ancora, continuando anche dopo che avevano detto chiaramente di no. Anche James si premurava sempre di chiedere cortesemente la stessa cosa agli ospiti. In un primo tempo la cosa poteva sembrare solo una gentilezza, ma poi le sue sollecitazioni diventarono involontarie e cominciarono a spingersi oltre ogni limite di decenza, fino a renderlo completamente insopportabile e a provocare l'imbarazzo generale. Il paziente aveva preso quelli che avvertiva come elementi aggressivi nella condotta del padre e li esponeva esagerandoli, mettendoli in ridicolo e provocando il risentimento. Insomma generava negli altri gli stessi sentimenti che, senza poterglieli esprimere direttamente, provava verso suo padre, producendo involontariamente una caricatura che finiva per essere una satira vera e propria. Gran parte degli elementi eccentrici e bizzarri nel comportamento dello schizoide hanno una base di questo genere. L'individuo comincia con un conformismo totale, con una umilissima soggezione, e finisce per esprimere, servendosi dello stesso mezzo, la sua negazione e la sua ostilità. Vi sono poi le forme più estreme di questa sottomissione del sistema del falso io alla volontà altrui: l'obbedienza automatica, l'ecoprassia, l'ecolalia, la flessibilità cerea del catatonico. Qui l'obbedienza, l'imitazione, la copia sono portate a tali eccessi che la grottesca parodia che ne deriva diventa una malcelata accusa al medico esaminatore e delle sue manipolazioni. L'ebefrenico usa spesso versi e scimmiottamenti delle persone che odia e teme, come uniche e preferite armi di attacco contro le stesse, e come gioco privato. Attraverso l'interpretazione di diversi ruoli vengono dunque alla luce, provocando ridicolo, disprezzo e ostilità, gli aspetti più odiati della persona che è oggetto dell'i-

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dentificazione. L'identificazione di David con sua madie si era trasformata nella rappresentazione, involontaria, di una regina malvagia. L'io «interiore» e segreto odia le caratteristiche del falso io, e le teme, perché l'assunzione di una identità estranea viene sempre vissuta come un pericolo per la propria. L'io teme di essere inghiottito dalla marea deli'identificazione. Si direbbe che, in una certa misura, il sistema del falso io si comporti analogamente al sistema reticolo-endoteliale, che ferma ed incapsula gli eventuali corpi estranei pericolosi che si siano introdotti nel corpo, impedendo cosi una loro invasione generale. Ma questa funzione difensiva si risolve in un fallimento. L'io interiore non è molto più attendibile dell'io esteriore. L'io segreto di David risultò essere una specie di autorità di polizia, che manipolava il suo falso io in modo assai simile a quel burattino che David sentiva di essere stato per sua madre: in altri termini, l'ombra di sua madre aveva ricoperto, oltre che l'io esteriore, anche l'io interiore. Un caso che illustra molto bene questo stesso problema è quello di un'altra paziente, una ragazza di vent'anni che lamentava una eccessiva «consapevolezza» e preoccupazione per la propria bruttezza. La paziente usava una cipria bianca e un rossetto molto vivace, ottenendo, se non un effetto di bruttezza, per lo meno una strana e spiacevole espressione, fra il clown e la maschera, che certamente non migliorava i suoi lineamenti. Nelle sue intenzioni questo trucco pesante avrebbe dovuto nascondere la bruttezza del viso. Ma ad un esame attento risultava chiaro che l'atteggiamento di questa paziente verso il suo viso conteneva, nel suo nucleo essenziale, il problema principale della sua vita: i rapporti con sua madre. La paziente aveva l'abitudine di scrutarsi a lungo il viso nello specchio. Un giorno le venne il pensiero di avere un aspetto odioso. Già da anni le si andava formando la convinzione di avere la stessa faccia di sua madre. Ora la parola che le era venuta in mente le sembrava piena di significati ambigui: odiava il viso che vedeva nello specchio, e che era quello di sua madre, e poteva anche vedere tutto l'odio che quel viso dallo specchio rimandava

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contro di lei; e guardandosi si identificava con la madre. Era cioè sua madre in atto di osservare l'odio che era nel viso di sua figlia: con gli occhi della madre vedeva il suo odio per lei venir fuori dal viso dello specchio, ma al tempo stesso osservava, con odio, l'odio che sua madre provava per lei. I rapporti di questa paziente con la madre erano caratterizzati da un atteggiamento iperprotettivo da parte di questa, e da una grande dipendenza e docilità da parte sua. Nella realtà la paziente non avrebbe sopportato l'idea di poter odiare sua madre, né avrebbe potuto riconoscere la possibilità dell'odio di sua madre per lei: tutto ciò che non poteva trovare un modo diretto di esprimersi o un riconoscimento aperto si era condensato in questo sintomo visibile, che consisteva essenzialmente nel vedere «odiosa» (cioè piena di odio) la propria faccia. La paziente la odiava perché somigliava tanto a quella della madre, ed aveva paura di ciò che vedeva: ricoprendosi il viso di trucco otteneva il doppio scopo di tener nascosto il suo odio e di aggredire, figuratamente, il viso di sua madre. Un analogo principio governava tutto il resto della sua vita: gli accattivamenti, la docilità normale dell'infanzia non erano soltanto diventati una acquiescenza passiva di fronte ad ogni desiderio di sua madre, ma un annichilimento completo, che alla fine l'aveva trasformata in una parodia di ciò che la madre avrebbe potuto desiderare consciamente per sua figlia. Cosi l'obbedienza era diventata un'arma di attacco, e veniva esibita perché tutti potessero vedere questo travestimento del suo vero io: al tempo stesso una grottesca caricatura di sua madre, e uno scherno, una «brutta» copia della sua obbedienza. Qui l'odio per l'altra persona si localizza nei suoi lineamenti fisici, che sono stati ripresi nei propri, e al tempo stesso l'assunzione, temporanea o prolungata, dalla personalità dell'altra persona costituisce un modo di non essere se stessi che offre una certa sicurezza. Sotto la copertura della personalità dell'altro ci si può finalmente comportare con efficienza, con disinvoltura, con «responsabilità», per usare l'espressione della signora D.: e l'individuo può preferire di pagare il prezzo di quel senso insi-

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stente di futilità, che necessariamente si accompagna col non essere se stessi, piuttosto che rischiare di trovarsi direttamente di fronte al terrore e alla confusione che inevitabilmente segnerebbero l'inizio del processo di essere se stessi. Il sistema del falso io tende ad essere sempre più morto: per alcuni è come se avendo affidato la propria vita ad un robot, questo si sia reso apparentemente indispensabile. Oltre ad esibire una sua «personalità» più o meno permanente, il sistema del falso io può, come si è già accennato, cadere preda di innumerevoli identificazioni transitorie su scala più piccola. L'individuo si trova repentinamente ad avere acquisito una particolarità, un gesto, un modo di dire, un'inflessione di voce che appartiene a qualcun altro. Si tratta spesso di un manierismo verso il quale, coscientemente, egli nutre particolare antipatia. L'acquisizione passeggera di qualche piccola componente del modo di fare altrui non è un problema esclusivo dello schizoide: ma sulla base del sistema del falso io tende a verificarsi con particolare insistenza. Si può dire che tutto il comportamento di certi schizofrenici non è altro che un mosaico di tante peculiarità di proprietà di altre persone, reso tanto più strano dall'incongruenza dell'insieme. L'esempio che segue è fornito da una persona del tutto «normale». Una studentessa di nome Macallum nutriva sentimenti fortemente ambivalenti verso un professore che si chiamava Adams. Un giorno la ragazza si accorse con orrore che, firmando un documento, aveva scritto «Macadams». Commento della ragazza: «Il mio disgusto era tale che mi sarei tagliata la mano». Si direbbe che questi frammenti altrui restino conficcati nel comportamento dell'individuo come delle schegge di una granata. Mentre i rapporti col mondo esterno si svolgono apparentemente indisturbati, l'individuo non fa che estrarre da sé queste schegge, di cui, soggettivamente, non sa spiegarsi l'origine, e che anzi lo riempiono spesso, come nel caso della studentessa, di disgusto e di orrore, suggerendogli pensieri di ostilità e di aggressività («Mi sarei tagliata la mano»). Ma naturalmente è contro di sé

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che l'impulso distruttivo è realmente diretto: il piccolo frammento o particella di attività «introiettato» non può essere aggredito senza far violenza all'essere del soggetto. (Jean, la paziente dello specchio, distruggeva i suoi stessi lineamenti attaccando, nel suo, il viso di sua madre). Se tutta l'attività dell'individuo finisce con l'essere, in modo coatto, alienata dall'io segreto, fino a diventare solo un insieme involontario di scimmiottamenti, impersonazioni, caricature e frammenti estranei e passeggeri di attività, il soggetto può allora cercare di strappar via da sé tutto il suo comportamento. Questo è il caso del catatonico. È come se si cercasse di curare un'infezione generale della pelle strappandosela tutta. Poiché questo è impossibile, lo schizofrenico si mette allora a togliersi a brani e pezzetti la pelle della sua attività.

Capitolo settimo «La coscienza di sé»

Il termine «coscienza di sé», abbraccia due aspetti: l'essere consapevoli di se stessi e l'essere consapevoli di sé come oggetto dell'osservazione di un'altra persona. I due aspetti sono strettamente legati fra loro. Nello schizoide assumono entrambi una forma acuta, ed entrambi si presentano in modo coatto. L o schizoide è assai spesso tormentato da questa consapevolezza involontaria per tutto ciò che si svolge entro di lui, e da questo senso, ugualmente involontario, che il suo corpo sia un oggetto che si trova nel mondo percettivo degli altri: il senso di essere continuamente visto, o almeno di essere potenzialmente sempre visibile. La sensazione può riguardare principalmente il proprio corpo, ma può anche essere associata all'idea della penetrabilità, e della vulnerabilità, del proprio io mentale, e allora l'individuo ha l'impressione che la propria «mente» o «anima» possa essere vista facilmente, come se fosse trasparente. Di solito il paziente parla di questa sensazione di trasparenza in termini metaforici, ma nelle psicosi lo sguardo scrutatore dell'altro può essere vissuto come una penetrazione reale nell'io «interiore». Negli adolescenti questa sensazione acuta e intensa è praticamente universale, e si accompagna ai ben noti fenomeni di timidezza, rossori, imbarazzi. È facile invocare una forma o l'altra di «senso di colpa» per spiegare l'origine di tutto questo. Ma il dire, per esempio, che l'individuo è eccessivamente consapevole di sé «perché» si sente segretamente colpevole di qualche cosa (per esempio di masturbazione), non ci porta molto lontano. Quasi tutti gli adolescenti si masturbano, e non di rado vivono nel timore che la loro attività segreta traspaia in qualche

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modo dal viso. Ma perché, se la «colpa» è la chiave del fenomeno, essa ha proprio queste conseguenze e non altre? V i sono molti modi di sentirsi colpevoli, oltre a un senso acuto di se stesso come oggetto imbarazzato e ridicolo agli occhi degli altri. La «colpa» in quanto tale non ci aiuta a comprendere il fenomeno. Molte persone schiacciate da un profondo senso di colpa non si sentono affatto eccessivamente consapevoli di sé. Inoltre è possibile, per esempio, dire una bugia e sentirsi colpevoli nel dirla, ma senza affatto temete che la bugia possa esser letta in viso, e nemmeno che il proprio naso possa allungarsi. Perciò per il bambino è una importante conquista raggiungere la certezza che gli adulti non hanno modo di sapere ciò che egli sta facendo, se non lo vedono, e possono solo fare congetture sui suoi pensieri, se non è lui a parlarne; che le azioni che nessuno ha visto e i pensieri tenuti nascosti sono assolutamente inaccessibili agli altri, a meno che non sia lui stesso a tradirsi. Il bambino che non sa tenere un segreto o che è incapace di dire una bugia a causa di timori magici primitivi non ha stabilito in pieno la sua identità e la sua autonomia. Senza dubbio vi sono molte circostanze in cui esistono buone ragioni per non dire bugie, ma l'incapacità di dirle non è la migliore di queste ragioni. La persona consapevole di sé ha l'impressione di essere oggetto dell'altrui interesse più di quanto lo sia in realtà. Se, camminando per la strada, si trova di fronte un gruppo di persone, deve farsi forza per riuscire a oltrepassarlo, e preferisce traversare la strada. Entrare in un ristorante e sedersi a un tavolo è un'impresa terribile. Se va a ballare, prima di entrare nella pista deve attendere che altre coppie l'abbiano preceduto, e cosi via. È curioso che le persone che soffrono di ansia intensa quando devono presentarsi a un pubblico non siano, in generale, «coscienti di sé», mentre coloro che di solito lo sono in grado estremo possano invece perdere ogni preoccupazione morbosa del genere proprio quando si trovano di fronte a un pubblico: situazione, si direbbe a prima vista, che dovrebbe risultare la più difficile da superare. Altri elementi del fenomeno che stiamo esaminando

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potrebbero sembrare di nuovo attribuibili al senso di colpa. L'individuo si aspetta sempre che gli altri lo guardino con occhi critici e severi; teme di apparire uno sciocco o un esibizionista o un vanesio. Quando un paziente descrive queste fantasie è facile supporre appunto che vi sia in lui un desiderio, segreto e inconfessato, di mostrarsi, di essere il centro dell'attenzione, di essere superiore a tutti, di fare apparire gli altri degli sciocchi al suo confronto; e che questo desiderio, carico.di colpa e di ansia, non possa essere vissuto come tale. Perciò le situazioni che suscitano fantasie di soddisfazione di questo desiderio perdono ogni connotato piacevole. Si tratterebbe insomma di un esibizionista camuffato, il cui corpo rappresenta inconsciamente il membro: ogni qual volta il suo corpo è in bella mostra, la colpa nevrotica associata a questo canale potenziale di soddisfazione lo espone a una forma di ansietà e di castrazione, la cui apparenza fenomenologica è la «coscienza di sé». Ma una spiegazione di questo tipo elude, io credo, il problema principale dell'individuo la cui posizione esistenziale di fondo è l'insicurezza ontologica, e la cui natura schizoide è in parte una diretta espressione di tale insicurezza (e un'occasione per essa) e in parte un tentativo di superarla, ovvero un tentativo di difendersi dai pericoli che sono conseguenza del proprio difettoso senso di identità personale. La «coscienza di sé», nella persona ontologicamente insicura, compie una duplice funzione: i . È un modo di raggiungere la certezza che si esiste, e che gli altri esistono. Kafka dimostra ciò chiaramente nel suo racconto Dialogo col devoto. Il devoto parte da una posizione esistenziale di insicurezza ontologica: egli dichiara: «Non c'è mai stata una volta che io mi sia sentito convinto, dall'interno di me stesso, di essere vivo». Il bisogno di conquistare la convinzione di essere vivo e della realtà delle cose è perciò il problema di fondo della sua vita; e il suo modo di cercare di raggiungere questa convinzione consiste nel sentirsi un oggetto nel mondo reale, ma, visto che il suo mondo è irreale, egli deve essere un oggetto nel mondo di qualcun altro, perché agli occhi degli altri

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gli oggetti sembrano essere reali, e addirittura sereni e belli. Almeno «... dev'essere cosi, perché spesso sento la gente parlarne come se lo fossero». Di qui la sua confessione: «... non arrabbiarti se ti dico che lo scopo della mia vita è di fare in modo che la gente mi guardi» (il corsivo è mio). Un altro fattore è la discontinuità dell'io temporale. Quando vi è incertezza dell'identità nel tempo si tende a ricorrere, per identificarsi, a mezzi spaziali, e forse questo aiuta a spiegare perché sia spesso tanto importante essere visti. Ma a volte si può ricorrere più volentieri alla consapevolezza di sé nel tempo. Questo è particolarmente vero quando il tempo viene vissuto come una successione di momenti: allora la perdita di un segmento della serie temporale di momenti, dovuta a disattenzione per il proprio io temporale, può apparire come una catastrofe. Dooley (1941) fornisce vari esempi da cui appare che questa consapevolezza di sé temporale ha origine da una «lotta contro la paura dell'obliterazione» e da un tentativo di salvare la propria integrità «dal pericolo di essere inghiottiti, schiacciati, e di perdere... l'identità»; Una delle sue pazienti dice: «L'altra sera, allo Spettacolo sul Ghiaccio, mi sono come smarrita. Ero tanto assorta a'guardare che mi ero dimenticata che ora fosse, e non sapevo più chi ero e dove stavo. Quando mi sono resa conto che ero stata per un bel po' senza pensare a me, mi sono spaventata a morte, e ho avuto la sensazione di irrealtà. Non mi devo mai dimenticare di me stessa, neanche per un minuto. Guardo l'orologio e mi tengo occupata, altrimenti non so più chi sono». 2. In un mondo pieno di pericoli, essere un oggetto potenzialmente visibile equivale ad essere costantemente esposto al pericolo. Perciò la consapevolezza di sé può portare all'apprensione di essere potenzialmente esposti a rischi di ogni genere per il semplice fatto di essere visibili. La difesa più ovvia contro questo pericolo è di rendersi invisibile in qualche modo. Nel caso pratico la questione è quindi sempre e necessariamente complessa. Il devoto di Kafka ha come scopo della sua vita di fare in modo che gli altri Io guardino, per alleviare la sua condizione di spersonalizzazione, di de-rea-

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lizzazione, di morte interiore. Ha bisogno che gli altri lo vedano come una persona reale e viva, perché non è mai riuscito a convincersi di essere tale dall'interno di se stesso. Ciò implica comunque una certa fiducia nella qualità benevola della percezione dell'altra persona, fiducia che non è sempre presente. Non appena l'individuo prende coscienza di qualche cosa, questa cosa si fa irreale, anche se poi egli può dire: «Mi sembra sempre che si tratti di cose che prima erano reali, ma che ora svaniscono». Non sorprenderà constatare in una persona di questo genere una certa sfiducia riguardo alla consapevolezza che gli altri possono avere di lui. Non deve forse apparirgli naturale, dopo tutto, che essi abbiano di lui la stessa «coscienza fuggevole» che egli ha di loro? E come trovare nella loro coscienza, anziché nella propria, la convinzione di essere vivo? Che anzi, spessissimo, la situazione si rovescia del tutto, e l'individuo ha l'impressione che il rischio maggiore sia proprio essere oggetto della coscienza altrui. Il mito di Perseo e della testa di Medusa, il «malocchio», tutti i deliri riguardanti il raggio della morte e simili sono, io credo, riconducibili a un timore di questo genere. Infatti, da un punto di vista biologico, lo stesso fatto di essere visibili espone gli animali al rischio di essere aggrediti dai nemici; e nessun animale è senza nemici. Perciò essere visibili è un rischio biologico fondamentale, mentre essere invisibili è una difesa biologica altrettanto fondamentale. Tutti noi ricorriamo a qualche genere di mimetizzazione. Si veda la seguente descrizione scritta, fornita da una paziente che aveva trovato un modo magico di mimetizzarsi, per vincere l'ansia, all'età di dodici anni. Avevo circa dodici anni, e per raggiungere il negozio di mio padre dovevo attraversare un grande parco. La lunga camminata mi faceva un po' paura, specie quando cominciava a far buio, e per passare il tempo inventai un gioco. Lei sa che da bambini si contano le pietre o si salta da una pietra all'altra evitando le fessure: il mio gioco era una cosa di questo genere. Mi venne in mente che, se avessi guardato a lungo e intensamente il paesaggio, mi sarei confusa con esso fino a sparire, cioè il posto sarebbe rimasto vuoto

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e io non ci sarei pili stata: come quando ci si porta a non saper più chi si è né dove ci si trova. Insomma si arriva a confondersi completamente con l'ambiente. Allora viene anche un po' di spavento, perché si comincia a sentirsi cosi anche quando non si vuole. Io andavo avanti e sentivo che mi ero confusa con il paesaggio, allora mi spaventavo e mi chiamavo per nome tante volte, come per farmi tornare. Qui abbiamo forse un equivalente biologico di molte ansietà che riguardano il sentirsi in vista, o fuori dell'ordinario, o spiccare e attrarre l'attenzione, nel qual caso si ricorre spesso, come difesa, al tentativo di confondersi con il paesaggio umano, in modo che risulti difficile vedere in che cosa si differisce dagli altri. Oberndorf ( 1950), per esempio, ha suggerito che la spersonalizzazione sia una difesa analoga a quella che consiste nel nascondersi; lo vedremo meglio studiando il caso di Peter (cap. 8). Essere come tutti, essere qualcun altro che se stessi, assumere una parte, vivere in incognito, essere anonimi, non essere nessuno (e, in modo psicotico, pretendere di non avere un corpo): tutte queste sono difese presenti in certi stati schizoidi e schizofrenici. La paziente che abbiamo citato aveva paura quando si confondeva col paesaggio, e allora «mi chiamavo per nome tante volte, come per farmi tornare». A questo punto si pone una questione importante. Credo sia lecito supporre che una forma di ansietà come questa possa avere origine soltanto da un fondo ontologico malsicuro. Non si può perdere facilmente il senso della propria identità, se esso è solido e stabile; per lo meno non cosi facilmente come questa ragazzina poteva fare nel suo gioco. È perciò probabile che fosse proprio questa insicurezza ontologica a provocare inizialmente e almeno in parte l'ansia, e che poi questa debolezza iniziale venisse usata come via d'uscita. Lo stesso principio si è già visto in atto nei casi di James, di David, della signora D . e di altri. Nell'atto di confondersi col paesaggio la paziente perdeva la propria autonoma identità, anzi perdeva il suo io, ed era proprio questo che si sentiva in pericolo trovandosi da sola in un luogo deserto quando faceva buio. L'espressione più generale di questo principio si ha

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quando, allorché il pericolo è la perdita dell'essere, la difesa consiste nel cadere in uno stato di non-essere, ma sempre con la riserva intima che si tratti solo di un gioco o di una finzione. Come scrive Tillich (1952): «La nevrosi è un modo di evitare di non essere evitando di essere». Purtroppo però l'individuo può scoprire che proprio il suo fingere era in realtà una finzione, e accorgersi di essere caduto, in un modo molto più reale di quanto avesse voluto, proprio in quello stato di non-essere che temeva di più: allora si trova privo del senso della sua identità, della sua autonomia, della sua realtà, della sua vita, col pericolo di non riuscire più, solo col chiamarsi per nome, a riprendere possesso del mondo. Anzi proprio cosi facendo la nostra ragazzina si era perduta: quando la paziente scrisse il racconto della sua vita, dal quale è tolto il brano citato, era in uno stato di grave spersonalizzazione già da molti anni. Su questa logica tutto è paradossale. Abbiamo già visto nel capitolo 5 come l'io tema e desideri contemporaneamente una vita reale. L'io teme che diventando vivo e reale aumenti il rischio di annientamento. Una componente di questo paradosso è la «coscienza di sé». La nostra ragazzina si confondeva col paesaggio; cosi uno che si confonda troppo facilmente con altre persone (e abbiamo già visto nel capitolo precedente come ciò possa avvenire), e che tema di perdere con ciò la propria identità, usa la coscienza che ha del suo io come un mezzo per rimanere distaccato e indipendente. Si è giunti cioè a servirsi della consapevolezza di sé per rendere meno precaria la propria sicurezza ontologica. Questa importanza della coscienza, in particolare della coscienza di se stessi, può prendere opposte direzioni: per esempio l'isterico sembra contento solo quando può dimenticare e «reprimere» certi aspetti del suo essere, mentre è caratteristico dello schizoide cercare di rendere più intensa e più estesa che può la coscienza di se stesso. E tuttavia è stato osservato che lo scrutinio al quale lo schizoide sottopone se stesso è carico di ostilità. Egli (e ciò si applica ancor più allo schizofrenico) non si pasce certo nel calore affettuoso dell'autostima. Lo scrutinio di sé

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viene spesso considerato come una forma di narcisismo, ma ciò è errato: né lo schizoide né lo schizofrenico sono narcisisti in questo senso. Una paziente schizofrenica (cfr. p. 229) diceva di sentirsi arsa dai raggi brucianti di un sole nero. Lo schizoide vive continuamente sotto un sole nero: l'occhio malevolo e scrutatore di se stesso. I raggi brucianti della sua coscienza uccidono in lui la spontaneità e la freschezza, distruggono tutta la gioia, inaridiscono tutto; e tuttavia egli è morbosamente, ma in modo profondamente non narcisistico, preoccupato di questa osservazione continua di tutti i suoi processi mentali e corporei. Per usare il linguaggio di Federn, egli usa la mortido per un investimento libidico del suo io-come-oggetto. Qualcosa di simile, ma in termini diversi, è stato osservato, più sopra, quando si è detto che lo schizoide spersonalizza il suo rapporto con se stesso. Vale a dire, egli trasforma, ispezionandola, la vivace spontaneità del suo essere in una cosa morta e senza vita: fa questo anche agli altri, e teme che gli altri lo facciano a lui (pietrificazione). Possiamo ora suggerire che, mentre lo schizoide teme di non essere morto e senza vita, poiché, come si è detto, teme la vita reale, cosi, al tempo stesso, teme di non essere continuamente cosciente di se stesso. La coscienza di sé è pur sempre una garanzia, una certezza che l'esistenza continua, anche se forse questa esistenza dev'essere una «morte nella vita». Il prendere coscienza di un oggetto fa diminuire il suo pericolo potenziale. La coscienza diventa perciò una specie di radar, uno strumento di esplorazione, e l'oggetto può essere controllato. Come un raggio della morte, la coscienza ha due proprietà principali: il potere di pietrificare (trasformare se stessi o gli altri in pietre o cose), e il potere di penetrare. Cosi, se è in questi termini che lo sguardo altrui viene sentito, si ha una paura e un risentimento costanti di essere trasformati in una cosa di qualcun altro, di essere penetrati da qualcun altro, e di essere in potere e sotto il controllo di qualcun altro. La libertà consiste allora nell'essere inaccessibili. Oppure l'individuo può tentare di evitare questi pericoli trasformando in pietra l'altra persona. Purtroppo pe-

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rò, giacché non si può essere visti da una pietra, egli diventa, se è riuscito a far si che gli altri non siano più che delle cose ai suoi occhi, l'unico rimasto che possa vedete se stesso. E ora il processo prende la direzione opposta, e culmina in un desiderio di liberarsi da una consapevolezza di sé divenuta intollerabile e mortale: al punto che è un sollievo l'idea di essere una cosa passiva, penetrata e controllata dagli altri. Non vi è posizione intermedia fra questi due estremi: l'individuo non ha altra alternativa che passare dall'uno all'altro. La preoccupazione di essere visto, o semplicemente di essere visibile, ci suggerisce la presenza di fantasie che riguardano il non essere visto, l'essere invisibile; ma se, come abbiamo visto, l'essere visibile può rappresentare contemporaneamente una persecuzione e una rassicurazione, allora anche essere invisibile avrà significati analogamente ambigui. La persona «cosciente di sé» si trova in un dilemma. Ha bisogno di essere vista e riconosciuta, per poter conservare il senso della sua identità e della sua realtà; e al tempo stesso gli altri rappresentano un pericolo, proprio per tale realtà e identità. Allora cerca di risolvere il dilemma ricorrendo a manovre incredibilmente sottili, che impegnano l'io segreto e i già descritti sistemi di comportamento del falso io. James, per esempio, ha l'impressione che siano gli altri a dargli l'esistenza, in se stesso si sente vuoto e inesistente: «Non posso sentirmi reale se non c'è alcun altro...» E purtuttavia non può sentirsi a suo agio quando sta con un altro, ma anzi si sente in pericolo proprio come quando è solo con se stesso. Perciò è costretto a cercare compagnia, ma non si lascia mai andare ad essere se stesso in presenza di altri. Cosi, non essendo mai in realtà insieme con gli altri, evita l'ansia sociale. Non dice mai del tutto il suo pensiero; non pensa mai esattamente quello che dice. Rappresenta delle parti che non corrispondono mai del tutto a se stesso. Per esempio ride sempre agli scherzi che non ritiene divertenti, mentre prende un'aria annoiata quando si diverte; fa amicizia con le persone che non gli piacciono, mentre si comporta con freddezza con quelle che gli sono realmente

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simpatiche. Cosi nessuno lo conosce o lo capisce veramente. Riesce ad essere se stesso, a sentirsi sicuro, soltanto nell'isolamento, ma allora prova un senso di vuoto e di irrealtà; con gli altri fa un gioco molto elaborato, fatto di equivoci e di finzioni, e sente corrispondentemente falso e futile il suo io sociale. La cosa che desidera di più è di poter avere un momento di verità, di «riconoscimento», ma tutte le volte che se ne presenta l'occasione, tutte le volte che, per caso e involontariamente, «si lascia andare», si ritrova pieno di confusione e di panico. Più tiene nascosto il suo vero io, presentando agli altri una facciata fittizia, più questa falsa presentazione di sé assume il carattere di una costrizione. Appare narcisista ed esibizionista in grado estremo. In realtà si odia, ma nel suo terrore di rivelarsi agli altri esibisce solo aspetti di sé che egli considera orpelli falsi ed estranei: si veste in modo ricercato, parla a voce alta e con insistenza. Attira costantemente su di sé l'attenzione, ma al tempo stesso distrae costantemente l'attenzione dal suo io. Tutta la sua attività è di tipo coatto; tutti i suoi pensieri riguardano la questione di essere visto. Ciò che desidera è di essere conosciuto, ma questa è anche la cosa più temuta. Qui l'io è diventato un'entità trascendente e invisibile, nota solo a se stesso. Il corpo in azione non lo esprime più. Non più realizzato dall'attività corporea, l'io è distinto e dissociato da essa. Il significato implicito nelle azioni della signora R. era il seguente: «Io sono soltanto ciò che gli altri mi considerano». James invece gioca sulla possibilità contraria: «Io non sono ciò che tutti possono vedere». Il suo esibizionismo apparente è quindi un modo di evitare che gli altri scoprano ciò che egli si sente di essere veramente. L'adulto non può adottare stabilmente, come difesa contro gli altri, né l'essere visto né l'essere invisibile, perché ognuno di questi mezzi contiene dei pericoli oltre che rappresentare una forma particolare di sicurezza. Si può valutare la complessità del problema considerando quanto siano complicate persino le più semplici situazioni della prima infanzia. Giocare a essere invisibili o essere visti è una comunis-

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sima attività infantile. Il gioco ha molte varianti: può essere fatto da soli, di fronte a* uno specchio, o con partecipazione degli adulti. In una nota alla sua famosa descrizione del gioco col rocchetto e lo spago Freud dà un'altra versione del gioco stesso. Varrà la pena di ricordare l'intero passo, anche se è la nota che qui ci interessa particolarmente. Era un bambino il cui sviluppo intellettuale non poteva certo dirsi precoce. A un anno e mezzo sapeva dire solo poche parole comprensibili, anche se adoperava vari suoni che, per coloro che lo circondavano, possedevano un significato intelligibile. Comunque i suoi rapporti coi genitori e con l'unica domestica erano buoni, e tutti riconoscevano che era «un bravo bambino». Non disturbava i genitori di notte, obbediva coscienziosamente ai vari ordini di non toccare certe cose o di non andare in certe stanze, e soprattutto non piangeva mai se la madre lo lasciava solo per qualche ora. Tuttavia era molto attaccato alla madre, che non solo lo aveva allattato, ma aveva sempre badato a lui senza aiuti esterni. Questo bravo bambino aveva però, occasionalmente, la brutta abitudine di prendere tutti i piccoli oggetti che gli capitavano sottomano e di gettarli lontano, in un angolo, sotto il letto, ecc., cosi che aveva spesso un gran da fare per trovare i suoi giocattoli e raccoglierli. Durante questa attività il bambino emetteva un forte e prolungato «o-o-o-o», accompagnato da un'espressione di interesse e soddisfazione. La madre e l'autore di questa descrizione erano d'accordo nel pensare che questo suono non fosse una semplice esclamazione, ma rappresentasse invece la parola tedesca fort (andato). Alla fine mi resi conto che si trattava di un gioco, e che l'unico uso che il bambino sapeva fare dei suoi giocattoli era di giocare al fort con essi. Un giorno feci un'osservazione che confermò questa opinione. Il bambino aveva un rocchetto di legno, al quale era legato un pezzo di spago, ma non aveva pensato al modo più ovvio di giocare con questo oggetto, cioè trascinarlo sul pavimento e fare il treno. Invece il gioco era questo: teneva il rocchetto per lo spago, e con grande abilità lo lanciava dentro la culla; alla sparizione del rocchetto nella culla si aveva la solita esclamazione «o-o-o-o». Allora lo faceva uscire tirando lo spago, e salutava la sua ricomparsa con un lieto «da!» (eccolo!) Questo era il gioco completo: scomparsa e ritorno del rocchetto. Quello che si notava era generalmente solo la prima

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parte, che il bambino ripeteva senza stancarsi come gioco a sé, ma non c'è dubbio che il piacere più grande fosse associato alla seconda parte. A questa descrizione Freud aggiunge una nota importante. Ulteriori osservazioni confermarono pienamente questa interpretazione. Un giorno la madre era stata assente per diverse ore, e al suo ritorno fu salutata da questa espressione, sulle prime incomprensibile: «Bimbo o-o-o-o!» Ma poi risultò che durante il lungo periodo di solitudine il bambino aveva trovato un sistema per far sparire se stesso: aveva infatti scoperto il suo riflesso in un grande specchio, che però non arrivava fino al pavimento, cosi che, accucciandosi per terra, poteva far «sparire» la sua immagine. (Il corsivo è mio). Cosi questo bambino gioca a far sparire non solo la mamma ma anche se stesso. L'ipotesi di Freud è che entrambi i giochi debbano essere interpretati come tentativi di dominare l'ansia per una situazione pericolosa, ripetendola molte volte per gioco. Se è cosi, la paura di essere invisibile e di sparire è strettamente associata alla paura della sparizione della madre. Sembra che, in una certa fase dello sviluppo, la perdita della madre equivalga per l'individuo a una minaccia di perdita del suo io. Ma la madre non è semplicemente una cosa, che il bambino può vedere, bensì una persona, che a sua volta può vedere il bambino: suggeriamo perciò, come necessaria componente nello sviluppo dell'io, l'esperienza di se stesso come persona sotto l'occhio amoroso della madre. Il bambino vive quasi continuamente sotto gli occhi degli adulti. Ma l'essere visto è soltanto uno fra innumerevoli modi di ricevere la loro attenzione: ci sono le cure personali, le attenzioni particolari, il bagno, le carezze; viene cullato e tenuto in braccio; il suo corpo è manipolato come non accadrà mai più in seguito. Alcune mamme sanno riconoscere i processi «mentali» del bambino, e rispondere ad essi adeguatamente, ma non fanno altrettanto per la sua realtà corporea concreta, oppure viceversa. Forse è un difetto di risposta di questo genere da

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parte della madre nei confronti dell'uno o dell'altro aspetto dell'essere infantile, che può avere più tardi conseguenze importanti. Continuando l'analisi del gioco del rocchetto e del suo significato si può, con Freud, presumere che il bambino riuscisse a far sparire se stesso non vedendo più il suo riflesso nello specchio. Se non poteva vedersi voleva dire che era «andato»: il bambino assumeva cioè, con l'aiuto dello specchio, un presupposto schizoide, in virtù del quale esistevano due «lui», uno là e l'altro qui. Insomma, superando o tentando di superare la perdita (o assenza) dell'altra persona reale, ai cui occhi egli vive, si muove ed ha il suo essere, il bambino diviene un'altra persona ai suoi stessi occhi, e può osservarsi dallo specchio. Tuttavia, sebbene la «persona» che egli può vedere nello specchio non sia né il suo io, né un'altra persona, ma solo un riflesso di se stesso, quando non può più vedere riflessa nello specchio quest'altra immagine di sé egli stesso sparisce, forse allo stesso modo con cui sparisce quando sente di non essere più sotto lo sguardo attento della madre, o semplicemente in sua presenza. Ora non importa che il pericolo rappresentato dall'altra persona provenga dal fatto particolare che questa possa andarsene, o morire, o non restituire l'affetto che si prova per lei, oppure dal fatto che essa rappresenti un pericolo diretto di implosione o di penetrazione: in ogni caso, analogamente al nostro bambino, anche lo schizoide usa una specie di specchio: facendo uno specchio di se stesso trasforma il suo io, che è già quasi una dualità dotata però di una unità generale, in un io duplice, e cioè in una dualità vera. Dei due «io» del bambino, quello vero, quello esterno allo specchio, è anche quello, come si può immaginare, che più facilmente si identifica con la madre, e Videntificazione dell'io con la immagine fantastica della persona dalla quale esso è visto può contribuire in maniera decisiva alle caratteristiche che verranno assunte dall'io osservatore. Come si è già detto accade spesso che l'io osservatore inaridisca e uccida tutto ciò che entra nel suo campo di osservazione; in tal caso l'individuo possiede dentro di sé un'arma di sterminio. Forse il bambino è caduto in potere

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di questa presenza estranea e distruttiva, di questo osservatore maligno che ha preso il posto dell'io osservatore: il bambino fuori dallo specchio. In questo caso il bambino conserva la consapevolezza di sé, come oggetto agli occhi di un'altra persona, osservandosi come questa lo osserva: le presta i suoi occhi per poter continuare ad essere visto, e cosi diviene un oggetto ai suoi stessi occhi. Ma quella parte di sé che lo guarda ha assunto le stesse caratteristiche persecutorie che egli ormai attribuisce alla persona reale esterna a lui. Il gioco dello specchio può avere strane varianti. La malattia di un paziente si manifestò per la prima volta un giorno che, guardandosi nello specchio, vide nel suo riflesso un altro «lui». Questo «lui» doveva diventare, quando la psicosi paranoide si fu stabilizzata, il suo persecutore: era l'istigatore di un complotto che aveva lo scopo di uccidere il paziente, e questi aveva deciso di «farlo fuori con una pallottola» (di far fuori «lui», cioè il suo io alienato). Ma anche il bambino del gioco, ponendosi nella posizione della persona che lo vedeva (cioè sua madre), in un certo senso, e magicamente, uccideva se stesso, o l'immagine di se stesso nello specchio. Studiando la schizofrenia avremo occasione di ritornare su questo punto. La scomparsa e la riapparizione di se stesso doveva avere un significato analogo a quello dell'altro gioco, che consisteva nel far sparire e poi riapparire, simbolicamente, la mamma. Comunque il gioco prende questo significato soltanto assumendo che la situazione sia pericolosa per il bambino, non solo perché non può vedere la mamma ma anche perché non si sente visto da lei. In questa fase esse = percipi non solo per quanto riguarda gli altri, ma anche per quanto riguarda l'io. Una delle mie figlie faceva un gioco simile a due anni e mezzo. A l suo comando «Non vedermi!» dovevo coprirmi gli occhi con le mani; poi, al comando «Vedimi! » dovevo togliere di colpo le mani dal viso ed esprimere sorpresa e piacere nel vederla. Dovevo anche guardarla e far finta di non vederla. Anche altri bambini mi hanno fatto fare giochi di questo genere. Non si tratta di non

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farsi vedere mentre fanno qualcosa che non va bene: il punto della questione sembra consistere interamente nell'esperienza temporanea di non essere visto. Non si tratta nemmeno del fatto che il bambino non vede me. Si può ancora notare come il gioco non comporti nessuna separazione fisica di fatto: né l'adulto né il bambino devono nascondersi o sparire veramente. Si tratta di una versione magica del giocare a nascondersi. Il bambino che piange quando la mamma scompare dalla stanza si sente minacciato della scomparsa del suo essere, perché anche per lui esse = percipì. Solo in presenza della madre può pienamente vivere, muoversi ed avere il suo essere. Perché i bambini vogliono la luce accesa di notte, o vogliono che i genitori stiano accanto a loro finché non sono addormentati? Forse una ragione di questi desideri è che il bambino ha paura se non può più vedersi, oppure se non si sente più visto da qualcuno; se non può più udire gli altri, o essere udito da essi. Da un punto di vista fenomenologico il sonno consiste nella perdita della coscienza del proprio essere e del mondo: in se stessa la perdita può spaventare, cosi il bambino ha bisogno di sentirsi visto o udito da un'altra persona mentre, nel processo di addormentarsi, sta perdendo la coscienza del suo essere. Nel sonno si spegne quella luce interiore che illumina il proprio essere: lasciando la luce accesa non si ottiene solo la certezza che, se ci si sveglia, non si proveranno i terrori del buio, ma anche la sicurezza magica di essere guardati e custoditi durante il sonno da presenze benigne (genitori, fate, angeli). Anche peggiore, forse, della presenza di cose maligne è il terrore che nel buio non vi sia niente e nessuno. Non essere consci di sé può quindi equivalere a non essere. Lo schizoide, restando sempre consapevole di se stesso, vuole assicurarsi di esistere; ma è perseguitato dalla sua stessa autocoscienza e lucidità. Il bisogno di essere percepito non è, naturalmente, solo una questione visiva, ma si estende a quello più generale di ricevere una conferma della propria presenza, un riconoscimento della propria esistenza totale e, insomma, al bisogno di essere amati. Cosi le persone che non sanno mantenere dall'interno il senso della propria identità, o

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che, come il devoto di Kafka, non hanno l'intima convinzione di essere vive, possono sentirsi vive e reali soltanto se sono sentite tali da un altro: come la signora R., che si sentiva minacciata di spersonalizzazione se non poteva essere, o immaginarsi, riconosciuta da qualcuno che la conoscesse abbastanza perché il riconoscimento fosse significativo. Il suo bisogno di essere vista si fondava su un'equazione: «Io sono la persona che gli altri conoscono e riconoscono». Aveva bisogno della rassicurazione tangibile costituita dalla presenza di un'altra persona che la conoscesse: in tale presenza le sue incertezze trovavano provvisoriamente sollievo.

Capitolo ottavo II caso di Peter

Non amo il termine «psicologico». Lo psicologico non esiste. Diciamo piuttosto che si può migliorare la biografía della persona. JEAN-PAUL SARTRE

Il caso che segue è un esempio vivente delle questioni trattate nei due ultimi capitoli. Peter era un uomo di venticinque anni, grande e grosso, il ritratto della salute. Venne da me perché sentiva un cattivo odore emanare costantemente dal suo corpo. Lui lo sentiva chiaramente, ma non era sicuro che lo sentissero anche gli altri. Gli pareva che provenisse specialmente: dalla parte inferiore del corpo e dalla zona dei genitali. All'aria aperta era come un odore di bruciato; di solito però era un odore di acido, di rancido, di vecchio, che egli paragonava all'aria chiusa fumósa e sporca della sala d'aspetto di una stazione, o all'odore che viene dagli «stanzini» scrostati di certe case popolari nelle quali era cresciuto. Non riusciva a liberarsi da questo odore nemmeno facendo diversi bagni al giorno. Un fratello del padre del paziente mi forni i seguenti particolari sulla sua vita. I genitori non erano persone soddisfatte, ma si consolavano stando molto vicini; erano sposati già da dieci anni quando il paziente era nato, ed erano inseparabili. Il bambino, figlio unico, non aveva cambiato la loro vita. Aveva dormito nella stanza dei genitori fino al termine della scuola. I genitori non erano mai stati apertamente ostili nei suoi confronti, sembra che lo tenessero continuamente vicino, però lo trattavano come se non ci fosse. La madre (è sempre lo zio del paziente che parla) non poteva dargli un affetto che ella stessa non aveva mai ricevuto. Il bambino venne allattato artificialmente e crebbe benissimo, ma senza carezze e senza mai giocare con

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la mamma. Era un bambino che piangeva in continuazione, sebbene non fosse mai respinto apertamente, né trascurato in alcun modo dalla madre, perché era sempre stato nutrito e vestito bene. Tutta l'infanzia e l'adolescenza passarono senza nulla di notevole, ma sempre, si sarebbe detto, senza che la madre si fosse mai accorta di lui. Era una donna graziosa, curata nel vestire, e le piaceva farsi ammirare; ciò faceva piacere al padre, che le regalava dei vestiti tutte le volte che poteva ed era molto contento di farsi vedere insieme con la sua bella moglie. L o zio riteneva che nel padre, che a modo suo voleva molto bene al ragazzo, ci fosse qualcosa che gli impediva di manifestare il suo affetto. Era brusco, sempre pronto a notare nel figlio un difetto o una mancanza, e qualche volta lo picchiava senza motivo, oppure lo mortificava dicendogli «Buono a niente! » «Pastafrolla! » e simili. Secondo lo zio tutto questo era strano, ed era un peccato, perché quando il ragazzo aveva dei successi scolastici, e più tardi quando si trovò un posto in un ufficio, il che socialmente rappresentava un grande passo avanti per la famiglia, il padre si sentiva orgogliosissimo del figlio. D'altra parte era stato per lui un «colpo terribile» quando, più tardi, era apparso chiaro che il ragazzo non aveva nessuna ambizione. Era sempre stato un bambino solitario e molto buono. Quando aveva nove anni una bambina della sua stessa età, vicina di casa, perdette la vista ed entrambi i genitori in un bombardamento. Per diversi anni il ragazzo dedicò gran parte del suo tempo a questa bambina: con pazienza e gentilezza inesauribili le insegnò a orientarsi nel quartiere, la accompagnava, stava sempre con lei a parlare. Più tardi la ragazza recuperò parzialmente la vista, e disse allo zio che doveva tutto a quel ragazzetto di nove anni, che era stato l'unica persona ad aver cura di lei quando era cieca, senza amici e senza nessuno che potesse o volesse prendere il posto dei suoi genitori uccisi. Lo zio prese a interessarsi del ragazzo durante gli ultimi anni di scuola, e fu lui che lo aiutò e lo spinse a entrare in uno studio di avvocato. Dopo qualche mese il ragazzo non aveva più interesse per questo ufficio e lo lasciò, ma di

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nuovo per mezzo dello zio trovò lavoro in un ufficio di spedizioni, dove rimase fino al servizio militare. Nell'esercito si occupò, per sua scelta, dei cani da pattuglia; dopo due anni di servizio militare passati senza incidenti fu congedato, e fu allora che «spezzò il cuore di suo padre», perché scelse, letteralmente, una «vita da cani»: infatti trovò un lavoro da guardiano di scuderia in un cinodromo. Tuttavia dopo un anno lasciò anche questo posto, e dopo cinque mesi passati facendo vari mestieri umili, e sette mesi senza far nulla, andò dal medico perché sentiva il cattivo odore. Naturalmente l'odore era immaginario, sicché il medico lo rinviò allo psichiatra. A me il paziente fece il racconto seguente. La sua opinione era che né il padre né la madre avessero desiderato la sua nascita, e che anzi non lo avessero mai perdonato di essere venuto al mondo. Riteneva anche che la madre ce l'avesse con lui perché, nascendo, egli le aveva fatto del male e le aveva rovinato la linea: e sosteneva che durante l'infanzia glielo aveva spesso rinfacciato. Il padre invece, secondo il suo parere, ce l'aveva con lui per il semplice fatto che esisteva: «Non mi ha mai riconosciuto un posto nel mondo...» Ma pensava anche che, probabilmente, il padre lo odiasse perché il male che aveva fatto alla madre nascendo l'aveva resa contraria ai rapporti sessuali. Cosi gli pareva di essere entrato nel mondo come un ladro o come un criminale. Tutto ciò ricorda quanto detto dallo zio a proposito dell'interesse esclusivo che i genitori avevano l'uno per l'altro, e col fatto che trattavano il bambino come se non ci fosse. La relazione fra il sentirsi ignorato e la coscienza di sé risulta chiaramente dal seguente brano di conversazione, registrato durante il nostro secondo colloquio. ... sono sempre stato, da che mi ricordo, come conscio di me stesso: una specie di consapevolezza, come uno che sa di dare nell'occhio. io Dare nell'occhio? PETER Ma si, dare nell'occhio, o semplicemente stare li in mezzo... e allora uno se ne accorge. io Stare li in mezzo? PETER

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O meglio star li, esserci, insomma. Mio padre diceva che ero sempre stato una pizza fin dal giorno che sono nato. 10 Una pizza? PETER Già, e mi chiamava anche «Buono a niente», «Michelaccio», e «Pastafrolla», io E cosi lei si sentiva colpevole di stare li. PETER Si, forse, ma veramente non so... forse soltanto di stare al mondo. PETER

Mi disse anche che non era un bambino solitario, sebbene stesse a lungo per conto suo: «Essere solo non è la stessa cosa di essere solitario». Aveva un ricordo, probabilmente «schermato» a partire dai quattro o cinque anni, di sua madre che lo sorprendeva a giocare col pene e gli diceva che cosi non gli sarebbe cresciuto. A sette o otto anni ebbe alcuni episodi di natura sessuale con una ragazzina della sua stessa età, ma non cominciò a masturbarsi fino all'età di circa quattordici anni. Tutto ciò aveva per lui una grande importanza, e aveva contribuito a intensificare il suo senso di coscienza di sé. Gli unici ricordi lontani che mi riferì all'inizio del rapporto riguardavano questi episodi sessuali, che mi narrava senza calore o emozione. Dovettero passare molti mesi prima che accennasse casualmente a Jean, la ragazzina cieca. A l tempo della scuola media la sua idea di se stesso cominciò a prendere una forma definita. Per quanto è possibile ricostruire queste sensazioni, sembra che cominciasse allora a formarglisi l'idea di essere sempre messo da tutti in una posizione falsa. Si sentiva come in dovere, verso gli insegnanti e i genitori, di essere qualcuno e di diventare qualcosa, ma al tempo stesso sentiva che questo era impossibile, e d'altra parte ingiusto. Si sentiva costretto a spendere tutto il suo tempo e tutta la sua energia per dare soddisfazione al padre, alla madre, allo zio, agli insegnanti. Ma dentro di sé era convinto di non valere niente, di non essere nessuno, e che tutti i suoi sforzi per essere qualcuno erano un inganno e una finzione. L'insegnante, per esempio, esigeva da lui un «linguaggio corretto» e un «abbigliamento serio»: ma tutto questo ser-

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viva solo a renderlo ciò che non era. Cosi lui, il masturbatore segreto, doveva leggere la bibbia in classe ai compagni e veniva additato a modello, ma quando gli altri notavano quant'era bravo a leggere la bibbia, egli dentro di sé rideva sardonicamente. «Questo dimostrava soltanto che ero un bravo attore». Ma neppure lui sapeva che cosa volesse, oltre al sentire di non essere la persona che fingeva di essere. Insieme all'idea di non valere un bel niente c'era anche l'impressione di essere speciale, forse uno mandato da Dio con una missione, ma esattamente chi o che cosa non lo sapeva. Nel frattempo provava un risentimento profondo contro tutti coloro che si sforzavano, cosi gli pareva, di trasformarlo in una specie di santo, ma «più o meno soltanto per potersene vantare». Cosi fu senza gioia che accettò il lavoro da impiegato. Odiava tutti sempre più, e in particolare le donne; se ne rendeva conto, ma non si era accorto che in realtà aveva paura degli altri. Infatti, perché temerli, quando «essi non potevano impedirmi di pensare quello che volevo»? Ciò, naturalmente, implicava da parte «loro» un certo potere nel costringerlo a fare ciò che «loro» volevano, ma fintantoché, esteriormente, obbediva ai loro desideri, riusciva a evitare l'ansia: quell'ansia che, dobbiamo supporre, lo spingeva a conformarsi al volere degli altri senza mai rivelarsi a nessuno. Fu col secondo lavoro che l'ansia cominciò a farsi sentire. A quell'epoca il suo problema di fondo era ormai ben definito: o essere sincero o essere un ipocrita; o essere genuino, o rappresentare una parte. Dentro di sé sapeva di essere un ipocrita, un bugiardo, un falso: la vera questione era di sapere quanto tempo ancora poteva durare a ingannare la gente prima di essere scoperto. A scuola aveva creduto di poterla sempre far franca, ma ora che analizzava sempre più quelli che considerava i suoi veri sentimenti, e sempre più faceva e pensava cose che dovevano essere tenute segrete e nascoste, si trovava sempre più spesso a scrutare il viso degli altri, per scoprirvi ciò che immaginava che essi pensassero o sapessero di lui. In ufficio le cose che egli considerava i suoi «veri sentimenti» erano delle fantasie sessuali, in gran parte sadi-

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che, riguardanti le colleghe: in particolare una di esse, che gli pareva di aspetto molto rispettabile ma che probabilmente (cosi immaginava) era invece un'ipocrita come lui. Usava masturbarsi nella toilette dell'ufficio evocando queste fantasie, e una volta, proprio come era accaduto tanto tempo prima con sua madre, uscendo dalla toilette si trovò faccia a faccia con la donna che aveva appena violentato nella sua fantasia, e che lo guardava fisso negli occhi come se, penetrando nel suo io segreto, vi leggesse tutto ciò che egli le aveva fatto. Allora fu preso dal panico. Da quel momento non fu più certo di poter nascondere i suoi atti e i suoi pensieri, e in particolare non poté più essere sicuro che il suo viso non lo avrebbe mai tradito. A l tempo stesso cominciò ad aver paura che si sentisse l'odore dello sperma. Era in questo stato quando andò sotto le armi. Tuttavia terminò il servizio militare senza mai mostrare segni esteriori di sofferenza. Anzi sembra che in quel periodo avesse un aspetto esteriore del tutto normale, e forse anche relativamente immune dall'ansia; ed è molto interessante e importante il fatto che egli sentiva di aver conquistato tutto questo, nel senso che la sua apparente normalità era conseguenza di una deliberata e calcolata intensificazione della frattura fra il suo io interiore, e «vero», e quello esterno e «falso». Tutto ciò trovava espressione in un sogno che fece in questo periodo. Egli stava in un'automobile, che andava molto veloce, e saltava giù, facendosi male ma non gravemente; l'automobile continuava la corsa e poi si sfasciava contro un albero. Il paziente aveva insomma portato alla sua logica ma disastrosa conclusione il gioco che aveva fatto per tanto tempo. Aveva deciso di venirne fuori il più completamente possibile, si era dissociato sia da se stesso che dagli altri. L'effetto immediato era una diminuzione dell'ansia e un aspetto normale. Ma c'era dell'altro. Si era fatto più forte il suo senso di inutilità, di futilità, di mancanza di uno scopo, ed anche la sua convinzione di non essere, in realtà, nessuno, e continuare a fingere ormai gli pareva inutile. Diceva tutto ciò a se stesso in questi termini: «Io non sono nessuno, perciò non faccio

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niente». Egli ora era occupato non soltanto a dissociare se stesso dal suo falso io, ma a distruggere ogni possibilità di diventare qualcosa. Una volta mi disse: «Traevo una certa amara soddisfazione dall'idea che sarei diventato ancor meno di quanto io stesso pensavo di essere, o di quanto avevano pensato loro...» Per tutto questo tempo aveva pensato di trovarsi, per ripetere le sue stesse parole (che fra parentesi sono anche le parole di Heidegger), «sul confine dell'essere»: con un solo piede dalla parte della vita, e senza nemmeno avere diritto a tanto. Sentiva di non essere vivo veramente, e comunque di non avere alcun valore, né di avere il diritto di fingere di essere vivo. Si immaginava al di fuori di tutto; e tuttavia, per un certo tempo, aveva nutrito ancora un filo di speranza. Forse il segreto lo avevano le donne. Se avesse potuto, in qualche modo, essere amato da una donna, forse sarebbe stato capace di vincere quel senso di indegnità. Ma questa possibilità era bloccata dalla sua convinzione che una donna che potesse avere a che fare con lui doveva essere vuota come lui; e che tutto ciò che poteva ricavare dalle donne, sia prendendo che ricevendo, doveva essere senza valore, come la stoffa di cui egli stesso era fatto. Reciprocamente, nessuna donna che non fosse inutile come lui avrebbe mai potuto avere a che fare con lui, soprattutto sessualmente. I suoi rapporti sessuali reali con le donne erano sempre soltanto occasionali, e con questi egli non riusciva mai a sfondare la sua «chiusura». Con l'unica ragazza che considerava «pura» aveva mantenuto per qualche anno una relazione vaga e platonica, senza mai riuscire a trasformare questo rapporto in qualche cosa di più. Forse si sarebbe trovato d'accordo, con Kierkegaard, se l'avesse letto, che se avesse avuto fede, avrebbe sposato la sua Regina. È da chiedersi come mai a questo paziente sia occorso tanto tempo per raccontarmi questa amicizia, che senza dubbio era stata una delle cose più significative della sua vita, e con tutta probabilità quella che gli aveva impedito di diventare chiaramente schizofrenico nell'adolescenza. Ma era caratteristico di Peter, e in generale di questo tipo di persona, che fossero proprio le cose di questo ge-

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nere ad essere tenute più gelosamente nascoste, mentre invece si poteva parlare senza difficoltà di episodi sessuali infantili, di masturbazione e di fantasie sadiche adulte. Discussione. Per quanto ho potuto appurare, Peter non si era mai sentito a suo agio nel mondo, e nemmeno nel suo corpo. Si sentiva goffo e strano; sentiva di dare nell'occhio. Si ricordi la descrizione fatta dallo zio del narcisismo della madre, la quale non giocava mai col bambino. Neppure la sua presenza fisica nel mondo era stata riconosciuta: «Lo trattavano come se non ci fosse». Da parte sua non si sentiva soltanto goffo e ingombrante, ma addirittura colpevole di stare al mondo. La madre aveva occhi solo per se stessa, mentre per il figlio era cieca, cosi che questi, in effetti, non era visto. Non è un semplice caso che il ragazzo fosse un cosi buon compagno, anzi quasi una «madre», per la ragazzina cieca che non poteva vederlo. Questa amicizia aveva molti aspetti, ma il più importante era che Peter si sentiva al sicuro con una che non poteva vederlo, ma che lui poteva vedere. Inoltre la ragazzina aveva un bisogno disperato di lui: egli le aveva dato i suoi occhi, e infine poteva permettersi il lusso di provare della pietà per lei, cosa che non poteva fare con sua madre. La ragazzina cieca, i cani da pattuglia e i cani del cinodromo erano gli unici esseri viventi verso i quali egli riusciva a manifestare un affetto spontaneo, essendone ricambiato. Con tutti gli altri cominciò subito ad adoperare un falso io, basato sulla accettazione dei loro desideri e delle loro ambizioni, ma a lungo andare prese a odiare sempre più sia loro che se stesso. Riducendosi sempre più, nelle sue sensazioni, la zona del suo «vero» io, questo diventava sempre più vulnerabile; e Peter aveva sempre più paura che gli altri potessero, penetrando attraverso la sua finta personalità, arrivare al santuario segreto delle sue fantasie e dei suoi pensieri nascosti. Riusciva a usare in continuazione, conservando un aspetto esteriore normale, due tecniche che egli chiamava

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rispettivamente «stacco» e «separazione». Per «stacco» intendeva un aumento della distanza esistenziale che c'era fra il suo io e il mondo; per «separazione» intendeva invece l'interruzione di ogni rapporto che potesse esserci fra il suo «vero» io e l'io falso che egli ripudiava. Essenzialmente le due manovre consistevano nell'evitare di venire scoperto, ed avevano numerose varianti. Per esempio, a casa o in compagnia di gente conosciuta, se si sentiva goffo e imbarazzato assumeva un ruolo qualunque dietro al quale potesse nascondersi bene. Allora poteva «separare» il suo io dai suoi atti, e quindi funzionare liscio e senza ansietà. Tuttavia, per varie ragioni, nemmeno questa era una soluzione soddisfacente delle sue difficoltà. Infatti, se per un lungo periodo di tempo gli capitava di non poter mai mettere il suo io nei suoi atti, sentiva con crescente intensità la falsità della sua vita, e insieme un senso opprimente di noia e la voglia di non fare più nulla. Inoltre la manovra non era una difesa sicura, perché ogni tanto veniva colto di sorpresa, e allora sentiva lo sguardo o la frase dell'interlocutore penetrargli fino in fondo. Il senso del pericolo che provava sotto lo sguardo degli altri si era fatto più insistente, ed era meno facile dissiparlo con la manovra di occultamento del suo io: a volte aveva l'impressione, e faceva fatica a liberarsene, che gli altri potessero vedere la verità attraverso le sue finzioni. Io credo che la sua preoccupazione di dare nell'occhio, di essere visto, fosse un tentativo per rifarsi di quel sentimento profondo di non essere nessuno, cioè di non avere neanche un corpo. C'era una difficoltà di base nell'esperienza che egli aveva di se stesso come essere corporeo, e da questa nasceva la sua preoccupazione per ciò che il suo corpo rappresentava per gli altri: com'era visto, udito, odorato e toccato dagli altri. Per quanto dolorosa fosse per lui, la «coscienza di sé» doveva nascere inevitabilmente, perché le sue stesse esperienze corporee erano talmente separate dal suo io, che egli aveva bisogno di preoccuparsi di sé come oggetto percepito dagli altri, per assicurarsi in questo modo tortuoso di avere un'esistenza tangibile.

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E cosi il suo delirio circa l'odore che emanava dal suo corpo si radicava sempre più. Aveva trovato, tuttavia un altro modo di adattarsi alle sue ansie particolari, che aveva vantaggi e inconvenienti esattamente contrari. Gli pareva di poter essere se stesso con gli altri, a condizione che essi non sapessero nulla sul conto suo. Naturalmente non era facile realizzare questa condizione. Bisognava andare in altre regioni, in posti dove fosse un forestiero; andare da un luogo all'altro, non rimanere mai abbastanza a lungo da essere conosciuto, cambiar nome ogni volta. In queste condizioni riusciva a essere quasi felice; almeno per un po'. Era «libero», e poteva essere «spontaneo»; poteva persino avere rapporti sessuali con le ragazze; non era «cosciente di sé», non aveva «idee di riferimento». Ciò perché non era più necessaria alcuna separazione dell'io dal corpo. Se riusciva ad essere veramente in incognito, poteva essere una persona con un corpo. Ma non appena lo conoscevano doveva tornare allo stato incorporeo. Le fantasie di anonimità, di incognito, di essere un viaggiatore in terra straniera, che Peter metteva in pratica, sono comuni nelle persone che hanno idee di riferimento, le quali pensano che se potessero andarsene dalla loro città, lasciare i compagni di lavoro, ricominciare tutto da capo, allora tutto si aggiusterebbe. Di fatto alcune di queste persone cambiano continuamente il lavoro o la residenza. Per un po' la manovra difensiva è efficace, ma solo finché dura l'anonimato e siccome è molto difficile non essere «scoperti», queste persone possono diventare sospettose e guardinghe, come spie in territorio nemico che gli altri tentano di smascherare Peter, per esempio, anche in una città ignota esitava persino ad entrare in un negozio di barbiere. Tale esitazione non era affatto espressione di un'ansia da castrazione, almeno nel senso usuale del termine: si trattava piuttosto di un disagio all'idea di dover rispondere a eventuali domande personali del barbiere, anche le più inno1 Non intendo dite che tutte le idee di riferimento debbano essere interpretate in questo modo.

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centi, come per esempio «A lei piace il football?» oppure «Che ne dice di quel tale che ha vinto sessanta milioni?» Nella poltrona del barbiere si sentiva prigioniero: per lui era una situazione da incubo, in cui, nell'atto di tagliargli i capelli, lo spogliavano del suo anonimato obbligandolo a impegnarsi, a prendere, sia pure per un momento, una forma definita. «Al contrario di tante persone, che dicono subito da dove vengono, che lavoro fanno, che persone conoscono, io cerco come posso di non far sapere né di dove sono, né cosa faccio, né chi conosco...» Analogamente era incapace di servirsi sempre presso la stessa biblioteca pubblica e di avere una sola tessera, intestata a suo nome: prendeva invece i libri in prestito da varie biblioteche sparse per tutta la città, e di ciascuna aveva una tessera con nome e indirizzo falsi. Non appena gli pareva che la bibliotecaria Io «riconoscesse», smetteva di andare in quella biblioteca. Una manovra difensiva come questa era difficile da sostenere, e davvero richiedeva, per riuscire, lo stesso sforzo, la stessa abilità e le stesse cautele che si richiedono a una spia in territorio nemico. Ma finché era possibile sentirsi né «scoperto» né «riconosciuto», il metodo serviva a liberarsi dal bisogno costante di operare «stacchi» e «separazioni». Però bisognava stare sempre e ansiosamente all'erta, perché il pericolo era continuo. Tuttavia la situazione di Peter in questo periodo, sebbene difficile, non era ancora del tutto disperata. Naturalmente ciò che la rendeva critica era il modo con cui il suo sistema di difesa schizoide, che costituiva per intero il suo modus vivendi, la somma dei suoi tentativi per trovare un modo possibile di vivere nel mondo, stava diventando un progetto intenzionale di autodistruzione. Quando ciò accadde, la sua già precaria salute mentale passò il punto critico e si trasformò in psicosi.

La colpa, vera e falsa. Dobbiamo ora prendere in più attenta considerazione i sentimenti di colpa di Peter e le loro conseguenze. Si ri-

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corderà che il paziente, oltre a sentirsi goffo e ingombrante, si sentiva colpevole solo per il fatto di trovarsi al mondo. A questo livello la sua colpa non era associata a nulla che egli avesse fatto o pensato: egli sentiva semplicemente di non avere alcun diritto a occupare lo spazio. Ma non solo: aveva anche la profonda convinzione che la stoffa di cui era fatto fosse marcia. Erano espressione di questa convinzione certe sue fantasie di rapporti anali che producevano bambini fatti di feci. I dettagli di queste fantasie non ci interessano qui, se non in quanto sono connessi con la percezione che il paziente aveva di se stesso come qualcosa fatta di immondizia e di escrementi. Se suo padre lo aveva chiamato «pezzo di pastafrolla», lui era arrivato molto più in là; e nella sua convinzione di essere solo un pezzo immondo di escremento, si sentiva colpevole di sembrare qualcosa di valore agli occhi degli altri. L'abitudine di masturbarsi non lo lasciava certo indifferente. Ma la vera essenza del suo senso di colpa era altrove, come mi sembra provato dal fatto curioso che quando smise di masturbarsi il sentimento di indegnità si fece più acuto-, quando poi si mise sul serio a non fare e a non essere più nulla, l'odore diventò intollerabile. Egli stesso doveva dire di questo odore: «Era più o meno come la considerazione che avevo di me stesso: in realtà era un'espressione dell'antipatia che provavo per me stesso». E l'odore era talmente cattivo alle sue narici che non lo poteva sopportare. C'erano in Peter due fonti diametralmente opposte di colpa. Una era costruttiva, l'altra distruttiva: una lo spingeva alla vita, l'altra alla morte. I sentimenti provocati da ciascuna erano diversi ma ugualmente dolorosi. Se faceva delle cose che fossero espressioni di autoaffermazione, atti di una persona degna, viva e reale, allora una voce gli diceva «Questa è una finzione: sei un ipocrita, non vali niente». Se allora continuava senza ascoltare questa falsa voce della coscienza, riusciva a non sentirsi del tutto inutile, irreale o morto, e anche l'odore non era tanto cattivo. D'altra parte, quando cercava risolutamente di non essere niente sentiva ugualmente di essere finto e ipocrita, provava ugualmente l'ansietà, e si sentiva ugualmente consa-

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pevole del suo corpo come oggetto delle percezioni altrui. Ma il peggiore effetto dei suoi sforzi per non essere niente era il senso di morte che si posava su tutta la sua esistenza, e che permeava tutte le sue esperienze, da quella dell'io «separato» a quella del suo corpo, alla sua percezione del mondo «staccato». Tutto cominciava a fermarsi: il mondo perdeva anche quel po' di realtà che aveva prima, e gli riusciva difficile immaginare di avere un'esistenza agli occhi degli altri. Cosa peggiore di tutte, cominciava a sentirsi «morto». Dalle descrizioni che poi fece di questa sensazione risulta che essa comportava la perdita del senso della realtà e della vita del corpo. Ma il nucleo essenziale era l'assenza dell'esperienza del suo corpo come un oggetto reale agli occhi degli altri. Era come se ormai esistesse soltanto per se stesso (il che era insopportabile), e avesse cessato di sentire che aveva un'esistenza anche per gli altri. È probabile che in tutto ciò egli fosse alle prese con un difetto primario di quella esperienza bidimensionale di se stesso, di cui era stato privato dal trattamento (o piuttosto dalla mancanza di trattamento) dei genitori. La sua preoccupazione coatta, e tanto spiacevole, di poter essere toccato, odorato, ecc. dagli altri era un tentativo estremo di ricostruire quella dimensione del corpo vivente che consiste nell'essere percepito dagli altri: solo che doveva andarla a pescare in questo strano modo artificiale, distorto e coatto. Era una dimensione dell'esperienza che non si era stabilita in senso primario, nella situazione infantile originale. Ora la lacuna poteva essere colmata, non già da uno sviluppo tardivo del senso di essere amato e rispettato come persona, ma dalla sensazione che praticamente tutto l'amore non fosse che persecuzione sotto mentite spoglie: il suo scopo era quello di trasformarlo in un oggetto di proprietà di altri, in una bella piuma nel cappello dell'insegnante, come diceva. Sebbene le difficoltà sofferte a scuola e nel lavoro fossero già abbastanza gravi e sebbene già al tempo della scuola gli si fosse formata la convinzione di essere un simulatore e un ipocrita, e in ufficio a questa convinzione si aggiungesse il panico, fu soprattutto quando egli cominciò a col-

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tivare deliberatamente le sue dissociazioni che il suo stato cominciò ad evolversi in modo veramente infausto. Diceva di tentare di «staccarsi» da tutto, e questo è vero; e a questi tentativi aggiungeva quel suo sistema di «separazione» col quale cercava di tagliare tutti i legami esistenti fra i vari aspetti della sua personalità. In particolare cercava di non essere mai «nelle» sue azioni o espressioni: di non essere ciò che stava facendo. Si può vedere come cosi facendo egli giocasse sulla posizione di transizione fra sé e il mondo delle azioni ed espressioni corporee; ciò che in definitiva voleva dire era: «Tutto ciò di me stesso che può essere un oggetto agli occhi degli altri, quello non sono io». È chiaro che il corpo occupa una posizione di ambigua transizione fra me e il mondo. Da una parte esso è il nucleo centrale del mio mondo; dall'altra è un oggetto nel mondo degli altri. Peter cercava di separarsi da tutte quelle parti di se stesso che potevano essere percepite dagli altri, e oltre ai suoi sforzi per ripudiare l'intera costellazione di atti, atteggiamenti, ambizioni ecc. che si erano sviluppati in lui nel processo di adattamento al mondo, e che egli cercava ora di «staccare» dal suo io interiore, si era accinto all'opera di ridurre tutto il suo essere a un non essere: si era dedicato il più sistematicamente possibile al compito di diventare un niente. Nella sua convinzione di non essere niente e nessuno, una specie di terribile onestà lo spingeva irresistibilmente a trasformare questa sensazione in una realtà. Egli sentiva che, se non era nessuno, allora doveva diventare un nessuno. L'anonimato non era che un modo magico di tradurre la sua convinzione in realtà. Quando abbandonò il lavoro si mise in giro di qua e di là senza stare mai fermo in un posto. Non apparteneva a niente, andava non importa dove, non aveva né passato né futuro, né amici né possedimenti. Non essendo niente, sconosciuto a tutti, non conoscendo nessuno, aveva creato condizioni che gli rendevano più facile credere di non essere veramente nessuno. Il peccato di Onan consisteva nel disperdere, versando a terra il suo seme, la sua produttività e la sua creatività. La colpa di Peter, secondo quanto egli stesso doveva dire

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in seguito, non consisteva semplicemente nella masturbazione e nelle fantasie sadiche, ma nel fatto di non avere il coraggio di fare con gli altri le cose che andava immaginando nella sua fantasia; quando poi cercava, con un certo successo, di frenare, se non di reprimere del tutto, le sue fantasie, si sentiva colpevole, oltre che di averle, del fatto stesso di reprimerle. Nell'intraprendere il compito di diventare un niente si sentiva colpevole, non soltanto perché sentiva di non avere nessun diritto di fare tutte le cose che le persone normali possono fare, ma soprattutto perché non si sentiva il coraggio di farle andando contro la voce della coscienza, che gli proibiva di comportarsi come tutti gli altri. La sua colpa consisteva appunto nell'accettazione volontaria del sentimento di non avere diritto alla vita, e nella decisione di negarsi ogni accesso alle occasioni di vita. Insomma Peter si sentiva colpevole non tanto per i suoi desideri, tendenze e impulsi in se stessi, quanto per non avere il coraggio di diventare una persona reale, facendo cose reali con persone reali. Il suo senso di colpa non riguardava semplicemente i suoi desideri, ma anche e soprattutto il fatto che essi restavano tali, o venivano soddisfatti solo nella fantasia. Da questo stesso fatto aveva origine anche il senso di inutilità che lo tormentava. La masturbazione era, per eccellenza, l'attività con la quale egli metteva, al posto di un rapporto creativo con una persona vera, un rapporto sterile con i fantasmi della sua immaginazione: e in luogo della colpa che forse avrebbe potuto provare in conseguenza del desiderio reale per una persona reale, gli restava la colpa di avere dei desideri che erano solo delle fantasie. Dice Heidegger che la colpa è un richiamo, che l'Essere manda a se stesso in silenzio. La vera colpa di Peter, quella che si potrebbe chiamare autentica, consisteva nell'aver capitolato davanti alla sua colpa falsa, quella non autentica, e nell'aver fatto di non essere se stesso lo scopo della sua vita. C'era però anche, in questo paziente, quella divisione dell'io interiore cui si è accennato più sopra. Fin dall'infanzia egli era stato tormentato dall'idea di non essere nes-

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suno, e ora si era messo con ostinazione a creare le condizioni che avrebbero confermato quella idea. Ma al tempo stesso gli pareva anche di essere un uomo speciale, uno mandato da Dio sulla terra con una missione o uno scopo speciale. E poiché era spaventato da un senso di vuoto, che si accompagnava a questo presentimento di missione e di potenza, cercava di sbarazzarsene come di un pensiero assurdo, come di un'idea pazzesca che non si deve ascoltare; ma per ascoltare quell'altra voce il prezzo da pagare era molto duro. Aveva cercato di annullarsi rifiutando di vivere con il suo corpo, ed ora questo era morto. Cosi, quando decise di smettere la finzione, il suo corpo gli si ripresentò, e questa volta era qualcosa di alieno e mandava un brutto odore stantio, perché era una cosa non vissuta. Se ne era separato tagliandolo via da sé come in una tortura medievale, e ora entrambe le parti mutilate erano colpite da una specie di cancrena esistenziale. Più tardi lo stesso Peter riusciva a sintetizzare tutto nella seguente osservazione: «Io sono stato come morto, per cosi dire. Mi ero tagliato via da tutti e mi ero chiuso in me stesso. Ora posso capire che cosi facendo si muore, perché per vivere bisogna stare nel mondo con gli altri. Se non si fa questo, qualcosa muore dentro di noi. Che strano! Non riesco a capire come accada, ma è proprio cosi. È molto strano».

Capitolo nono Sviluppi psicotici

T u t t o va in pezzi, il centro non tiene, l'anarchia pura si scatena sul mondo. W. B. YEATS

Abbiamo già visto, specialmente nei casi di David e di Peter, alcune manifestazioni di natura schizoide che si avvicinano pericolosamente a uno stato decisamente psicotico. In questo capitolo verranno esaminati alcuni dei possibili modi di passaggio nella psicosi. È inutile ricordare che siamo in una zona nella quale non è sempre possibile fare distinzioni nette fra salute mentale e pazzia, o fra uno schizoide sano di mente e uno schizofrenico. Può succedere che la psicosi abbia un inizio improvviso e drammatico, e manifestazioni tanto chiare da non lasciare alcuna possibilità di dubbio sulla diagnosi; ma in moltissimi altri casi, può succedere che in luogo di un cambiamento qualitativo repentino ed evidente, si abbia piuttosto un passaggio graduale, che può durare degli anni senza che vi sia un momento preciso in cui appaia chiaramente che il punto critico è stato varcato. Per capire la natura di questo passaggio nei casi in cui il punto di partenza sia costituito da quella forma particolare di stato esistenziale che abbiamo descritto nelle pagine precedenti, è necessario considerare quali sono le possibilità psicotiche presenti in quel particolare contesto. Abbiamo già visto come l'io dello schizoide, allo scopo di sviluppare e conservare la propria identità e la propria autonomia, e allo scopo di mettersi al sicuro da un mondo che continuamente lo minaccia, si sia tagliato fuori da ogni rapporto diretto con gli altri, cercando di diventare l'oggetto di se stesso e anzi l'unico oggetto che abbia rapporti diretti con se stesso. Le sue due funzioni principali diventano cosi la fantasia e l'osservazione. Ma nella misura in cui questa manovra riesce, si ha co-

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me una delle necessarie conseguenze una difficoltà dell'io a conservare il cosiddetto sentìment du réel, per il semplice motivo che con la realtà esso non è «in contatto», né mai la «incontra» veramente. Si ha, per citare Minkowski (1953), una perdita di «contatto vitale» col mondo; in sua vece, come abbiamo visto, i rapporti con gli altri e col mondo vengono delegati al sistema del falso io, le cui percezioni e azioni, i cui sentimenti e pensieri, posseggono un minore «coefficiente» di realtà. In queste condizioni l'individuo può apparire relativamente normale, ma l'apparenza esteriore viene mantenuta con mezzi che, progressivamente, sono sempre più anomali e disperati. L'io si impegna, con la fantasia, nel mondo privato delle cose «mentali», cioè dei suoi stessi oggetti, e osserva il falso io, che è impegnato, da solo, a vivere nel mondo di tutti. Giacché le comunicazioni dirette con gli altri, in questo mondo di tutti, sono affidate al falso io, è soltanto attraverso di esso che l'io può comunicare col mondo esterno. Quindi, ciò che in origine doveva essere un custode, una barriera per proteggere l'io da pericolosi assalti esterni, può diventare una prigione dalle cui mura non è più possibile uscire. Cosi le manovre difensive nei riguardi del mondo falliscono, senza nemmeno adempiere alle loro funzioni primarie: impedire gli assalti dall'esterno (implosione) e tenere in vita l'io evitandogli di essere preso e manomesso come un oggetto da un'altra persona. Riemerge l'ansia, più acuta che mai; il senso di irrealtà delle percezioni e di falsità degli scopi del sistema del falso io si estende, e diventa un senso di morte, di cui sembra impregnato tutto il mondo reale, il proprio corpo, tutto ciò che esiste, e che penetra fino al «vero» io. Ogni cosa sembra annullarsi. L'io interiore è ormai completamente irreale e «fantastico», diviso e morto, e non riesce più a conservare quel minimo senso della propria identità, sia pur precaria, che aveva all'inizio; tutto è aggravato dalle stesse manovre di difesa usate per conservare l'identità, per esempio i tentativi per non farsi riconoscere. Questi tentativi sono pericolosi perché, dato che l'identità si conquista e si conserva solo su due dimensioni, essa esige che si venga riconosciu-

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ti dagli altri oltre che semplicemente da se stessi. Un'altra difesa pericolosa consiste nel coltivare deliberatamente tino stato di «morte vivente» per sfuggire alle sofferenze della vita. Le attività di isolamento dell'io e i tentativi compiuti per la sua ricostituzione si combinano, contribuendo ad avvicinarlo al confine con la psicosi. In un certo senso lo schizoide tenta disperatamente di essere se stesso, e di ricostituire e conservare il suo io, ma gli riesce estremamente difficile separare il desiderio di essere dal desiderio di non essere, perché gran parte di quello che fa è, per sua natura, inestricabilmente ambiguo. Si può forse dire con certezza di Peter che egli cercava in tutti i modi di distruggersi, oppure che cercava di salvarsi? Non possiamo rispondere se pensiamo ai due termini del dilemma come a due elementi che si escludono a vicenda. Le difese di Peter contro la vita erano in larga misura la creazione di una specie di morte entro la vita, che, almeno per un po' di tempo, pareva capace di fornirgli una certa immunità dall'ansia. Come l'opossum egli, per sopravvivere, doveva fingere di essere morto. Peter poteva essere se stesso sia in incognito, cioè quando nessuno lo riconosceva, sia facendosi riconoscere dagli altri se però non rappresentava se stesso. Ma l'equivoco non poteva durare, perché il senso di identità esige che esistano altri da cui si possa essere riconosciuti, e che il loro riconoscimento si congiunga col proprio autoriconoscimento. Non è possibile conservare la propria salute mentale se si cerca di essere separati da tutti gli altri, e addirittura separati da una parte di se stessi. Un simile modo di vivere presuppone la capacità di conservare la propria realtà personale per mezzo di una identità fondamentalmente autistica. Presuppone in sostanza che sia possibile essere umani senza bisogno di un rapporto dialettico con gli altri. Sembrerebbe che lo scopo di una manovra simile sia unicamente la difesa di una identità «intima» dalla distruzione che si immagina possa venire dall'esterno, difesa consistente nell'eliminare tutte le possibilità di accesso diretto dall'esterno. Ma se l'io non viene definito dagli altri, non si impegna nei confronti dell'e-

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lemento «oggettivo», non viene vissuto in un rapporto dialettico con gli altri, non può conservare neppure quel po' di precaria identità o quel po' di vita che possedeva forse all'inizio. Le modifiche alle quali è soggetto l'io «interiore» sono già state in parte descritte. Possono essere cosi riassunte: x. L'io interiore diventa «fantasmatizzato» o «volatizzato», e perde ogni senso stabile di identità 2. Diventa irreale. 3. Si impoverisce e si svuota; è una cosa morta; è diviso. 4. Si carica sempre più di odio, di paura e di invidia. Si tratta di quattro aspetti di un unico processo, osservati da punti di vista diversi. In James il processo è arrivato al limite della salute mentale, e forse l'ha superato: questo giovane di ventott'anni aveva, come spesso succede, coltivato deliberatamente la frattura fra quello che egli considerava il suo «vero io» e il sistema del falso io. Nella sua mente non c'era quasi pensiero, o azione, o modo di vedere le cose, che non fosse falso e irreale. Vedere, pensare, sentire, agire, tutto era meccanico e irreale, perché si trattava solo del modo con cui «loro» vedevano, pensavano, sentivano e agivano. Se al mattino, quando andava a prendere il treno, incontrava qualcuno, si adeguava a lui e parlava e scherzava sulle cose di cui tutti parlano normalmente. « Se mentre apro lo sportello del treno c'è qualcuno vicino a me, e io lò faccio passare avanti, non è perché voglio fargli una gentilezza: è soltanto un modo di comportarmi più che posso allo stesso modo di tutti gli altri». Ma i suoi sforzi per apparire come tutti erano accompagnati da un tale risentimento contro gli altri, e da un tale disprezzo per sé, che il suo comportamento risultava un bizzarro prodotto del conflitto fra il bisogno di nascondere i suoi «veri» sentimenti e il bisogno di rivelarli. Cercava di affermare la sua identità sbandierando idee molto eccentriche: era pacifista e vegetariano; si interessava di teosofia, di astrologia, di occultismo, di spiritualismo. E sembra che il fattore singolo più importante per la

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sua salute mentale sia stato proprio il fatto di poter spartire con altri per lo meno le sue idee bizzarre: infatti, se non altro in questa zona ristretta era in grado qualche volta di essere con coloro coi quali aveva in comune delle idee e delle esperienze. Nella nostra cultura occidentale c'è il pericolo che idee ed esperienze del genere possano isolare un uomo dai suoi simili; e se al tempo stesso esse non lo portano a entrare in qualche piccolo gruppo con opinioni uguali alle sue, il suo isolamento rischia di diventare una forma di alienazione psicotica. In James, per esempio, lo «schema corporeo» era qualcosa che si estendeva al di là della nascita e della morte, e che non rispettava i limiti normali di tempo e spazio; inoltre egli aveva varie esperienze mistiche, nelle quali si sentiva in unione con l'Assoluto e con la Sola Realtà. Le leggi dalle quali egli sapeva «segretamente» che il mondo era governato erano leggi magiche: sebbene fosse un chimico di professione, egli in realtà non credeva nelle leggi della scienza, bensì nell'alchimia, nella magia nera e bianca, nell'astrologia. Il suo «io», che solo parzialmente si realizzava (diventava reale) nei rapporti con coloro che condividevano le sue idee, era sempre più preso dal mondo della magia e sempre più ne diventava parte esso stesso. Gli oggetti della fantasia o della immaginazione obbediscono a leggi magiche, e stanno fra loro in relazioni magiche, non reali: cosi, quando l'io partecipa sempre più profondamente a relazioni fantastiche e sempre meno a relazioni reali, è destinato a perdere di realtà propria, e a divenire, come gli oggetti con cui sta in relazione, un fantasma. Una delle conseguenze di ciò è che tutto diventa possibile per un «io» come questo, perché nulla è ormai definito, a differenza persino dei nostri desideri i quali debbono essere presto o tardi, dalla realtà, definiti in base alle necessità contingenti e limitate. In queste condizioni l'«io» può essere chiunque e dovunque e in ogni tempo: era quello che stava accadendo a James. Nella sua immaginazione si formava e cresceva sempre più la convinzione di possedere fantastici poteri (poteri occulti, magici, mistici), caratteristicamente vaghi e mal definiti, ma tali da suggerirgli di non essere semplicemente quel dato James, nato in quel dato tempo da quei certi genito-

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ri, ma bensì un individuo speciale portatore di una missione straordinaria: forse una reincarnazione del Budda, forse di Cristo. Il «vero» io, insomma, non più ancorato al corpo mortale, diventa fantastico, si volatizza in un fantasma mutevole a seconda dell'immaginazione del momento. A l tempo stesso, isolato com'è a causa delle manovre di difesa contro i pericoli esterni, sentiti come minaccia della propria identità, esso perde anche quella precaria identità che poteva avere. Inoltre l'isolamento dalla realtà ha come conseguenza un impoverimento: il suo potere si fonda sull'impotenza, la sua libertà si esercita nel vuoto, la sua attività è senza vita. L'io si ritrova inaridito e morto. Nei suoi sogni James si sentiva, ancor più che nella veglia, l'abitante solitario di una terra desolata. Per esempio: 1. Mi trovavo in un villaggio. A un certo punto capivo che era un villaggio abbandonato, in rovina e senza vita... 2. ...Mi trovavo in mezzo a un paesaggio desolato e secco, nudo e senza vita. C'era appena un po' d'erba; i miei piedi erano nel fango... 3. ... Stavo in un luogo deserto, di roccia e sabbia. Ero fuggito da qualcosa; ora avrei voluto tornare indietro, ma non sapevo da che parte andare... La tragica ironia di tutto questo è che, alla fine, l'ansia non viene evitata, ma anzi diviene più tormentosa, perché tutte le esperienze, sia nella veglia che nei sogni, sono permeate di un senso di nulla e di morte. L'io può essere «reale» soltanto in relazione a persone e cose reali. Ma teme di essere inghiottito, risucchiato da tali relazioni. Allora il vero io entra in gioco solo con gli oggetti della fantasia, mentre tutte le transazioni col mondo vengono dirette da un falso io; in conseguenza, tutti gli elementi dell'esperienza subiscono vari e profondi cambiamenti fenomenologici. Riassumendo: l'io, essendo trascendente, vuoto, onnipotente, e a modo suo, libero, perviene a uno stato in cui può essere chiunque nella fantasia, ma non è nessuno nella realtà.

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Le relazioni primarie di un io come questo riguardano gli oggetti delle sue stesse fantasie: questa è la ragione per cui alla fine esso si volatizza. Nel suo timore di affrontare con impegno l'elemento oggettivo esso lotta disperatamente per conservare la sua identità, ma non essendo più ancorato ai fatti, alla realtà contingente e definita, corre il rischio di perdere proprio ciò che soprattutto cercava di salvaguardare. Perdendo la dimensione contingente della realtà perde l'identità, e perdendo la realtà perde la possibilità di esercitare un'effettiva libertà di scelta nel mondo. Diviene morto nell'atto stesso di sfuggire al rischio di essere ucciso. E ora l'individuo non può più sentire il mondo come lo sentono gli altri, anche se forse si ricorda com'è per essi, se non per lui. Ma il senso immediato della realtà del mondo non può essere sostenuto dal sistema del falso io. Inoltre questo non può mai verificare la realtà: infatti la verifica della realtà richiede una facoltà critica {mini) propria, che possa scegliere fra varie alternative quella migliore, ma è proprio la mancanza di questa facoltà critica propria che rende falso il falso io. Quando poi le esperienze del mondo esterno filtrano fino all'io interiore, questo non sa più né sentire né esprimere i suoi desideri in maniere socialmente accettabili. L'accettabilità sociale, infatti, non è ormai altro che un piccolo trucco, una tecnica: il suo vero modo di vedere le cose, il significato che esse hanno per lui, i sentimenti e la loro espressione, sono già probabilmente, a questo punto, strani e insoliti, se non proprio bizzarri e stravaganti. L'io è sempre più incapsulato nel suo stesso sistema: l'adattamento alle esperienze quotidiane è compito del falso io. Infatti, almeno in apparenza, il sistema del falso io è plastico, sa come comportarsi con persone nuove, si adatta ai cambiamenti dell'ambiente, mentre l'io, invece, non segue questi cambiamenti. Gli oggetti delle sue relazioni fantastiche restano fondamentalmente immutabili, pur potendo modificarsi, ad esempio nel senso di una maggiore idealizzazione o dell'acquisto di ulteriori caratteristiche persecutorie: non c'è mai però neppure l'intenzione di controllare, verificare o correggere queste immagini fantastiche confrontandole con la realtà. Anzi non c'è mai nem-

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meno la possibilità di farlo: ormai l'io non fa più nessuno sforzo per agire sulla realtà e modificarla. Parallelamente ai cambiamenti subiti dall'io e dalle sue immagini hanno luogo dei cambiamenti anche nel sistema del falso io. Si ricorderà qual era la posizione di partenza, che fu rappresentata schematicamente cosi: io =Ì (corpo-altri) Il corpo costituisce il livello al quale opera il sistema del falso io, che però viene concepito dall'individuo come qualcosa che si materializza e si estende al di là dell'attività esclusivamente corporea, e che consiste in larga misura in tutti quegli aspetti dell'essere che l'io interiore ha ripudiato perché non li considera espressione di sé. Cosi, come accadeva a James, mentre l'io si ritira in relazioni sempre più fantastiche, dedicandosi esclusivamente all'osservazione «distaccata» delle transazioni che il falso io conduce con gli altri, il sistema del falso io scava e affonda sempre più profondamente dentro l'essere dell'individuo, finché, nel pensiero di questi, tutto ormai figura come api partenente ad esso sistema. Alla fine James non riusciva più a percepire alcun oggetto con la vista, con l'udito, e specialmente col tatto né a fare alcunché senza provare l'impressione che «non si trattava di lui». Abbiamo già dato alcuni esempi di ciò, ma essi si potrebbero moltiplicare all'infinito, perché tutte le sue azioni a casa, al lavoro, con gli amici, venivano vissute da lui allo stesso modo. Possiamo invece riassumere nello schema seguente le conseguenze di un tale modo di essere sulla natura del sistema del falso io. 1. Il sistema del falso io si estende sempre più. 2. Diventa sempre più autonomo. 3. Viene «disturbato» da frammenti di attività involontaria. 4. Tutto ciò che gli appartiene si fa sempre più irreale, falso, morto, meccanico. 1 Le relazioni fra le dissociazioni dell'essere e le varie modalità sensoriali sono ancora quasi interamente da comprendere.

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La dissociazione dell'io dal corpo, in combinazione con gli stretti legami esistenti fra il corpo e gli altri, può produrre allora il passaggio a uno stato psicotico, in cui il corpo non viene concepito soltanto come lo strumento che serve alle transazioni con gli altri, ma come qualcosa che si trova in loro possesso. La posizione dell'individuo è cioè la seguente: egli non solo ritiene che tutte le sue percezioni siano false dato che vede tutte le cose attraverso gli occhi degli altri, ma contemporaneamente si sente continuamente sballottato e giocato dagli altri, perché sono essi che vedono il mondo attraverso gli occhi suoi. James era quasi arrivato a questo punto. Egli già sentiva che i pensieri presenti nel suo «cervello» (si esprimeva sempre cosi) non erano in realtà i suoi pensieri. Gran parte della sua attività intellettuale consisteva in tentativi di entrare in possesso dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti o almeno di tenerli sotto controllo. Per esempio: alla sera la moglie gli portava una tazza di latte, al che, senza pensare, sorrideva e diceva: «Tante grazie». Ma immediatamente si sentiva tutto rivoltare contro se stesso. Sua moglie aveva compiuto un semplice gesto meccanico, ed egli aveva reagito obbedendo alle stesse leggi di «meccanica sociale». Ma lui il latte lo desiderava veramente? E davvero aveva avuto voglia di fare un sorriso e dire «Tante grazie»? No! Eppure l'aveva fatto Una situazione come quella di James è assai critica. L'individuo è diventato, in larga misura, irreale e morto: la realtà e la vita non possono più essere direttamente sentite o vissute, sebbene non sia ancora perduto del tutto il senso della loro possibilità: infatti gli altri posseggono questa realtà e questa vita, la realtà e la vita forse esistono nella Natura (e più concretamente, entro il corpo di Madre Natura), o possono essere afferrate in certi tipi di esperienza, e possono essere conquistate con la disciplina e il controllo intellettuale. Ma l'io è carico di odio nella sua invidia per la vita ricca, vivida, abbondante, che sembra essere dovunque; ed è, come abbiamo ripetuto, arido e vuoto. L o si potrebbe chiamare un io «orale», in quanto appunto è vuoto e, pur temendolo sopra ogni altra cosa, desidera di essere riempito; ma a ciò si op-

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pone la sua insaziabilità: esso è incapace di incorporare qualsiasi cosa, come un pozzo senza fondo che non può essere riempito, come una spugna secca che non può essere più imbevuta. La colpa, che potrebbe farsi sentire se fosse possibile inghiottire e distruggere il mondo, in tal modo non nasce: l'io cerca si di distruggere il mondo riducendolo a polvere e cenere, ma senza assimilarlo: il suo odio annienta l'oggetto ma non lo digerisce. Cosi per quanto desolato sia l'io e per quanto senta invidia per la bontà e per la realtà della vita che immagina presente negli altri, deve distruggerla anziché riceverla. Allora si pone il problema di ottenere un po' di vita e un po' di realtà in qualche modo che non abbia come conseguenza l'annientamento dell'io. Ma ormai sia la distruzione della realtà, sia la sua furtiva acquisizione sono in larga misura soltanto operazioni magiche. I procedimenti di acquisizione magica della realtà comprendono: x. Toccare. 2. Copiare, imitare. 3. Forme magiche di furto. L'individuo può anche trovare un po' di sicurezza se riesce a evocare in se stesso un'impressione immediata della realtà presente negli altri (queste manovre trovano esempi nel caso di Rosa, p. 171). Un altro modo per provare sentimenti reali può consistere nel sottoporsi a un dolore o a un terrore intenso. Per esempio, una schizofrenica aveva l'abitudine di schiacciarsi sul dorso della mano la sigaretta accesa, di premersi fortemente le dita contro gli occhi, di strapparsi delle ciocche di capelli ecc., e spiegava che faceva queste cose allo scopo di provare qualcosa di «reale». È essenziale rendersi conto che questa donna non cercava soddisfazioni masochistiche, e va notato che non era in stato di anestesia. Le sue sensazioni erano del tutto normali: sentiva tutto, tranne d'essere viva e reale. Minkowski riferisce che una delle sue pazienti, per ragioni simili, si appiccò fuoco ai vestiti. Lo schizoide può cercare di fare cose eccitanti, andare a caccia del brivido, mettersi in pericoli estremi, tutto allo scopo, come disse una volta un paziente,

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di «cercare un po' di vita nello spavento». Hòlderlin 1 ha scritto: «Oh tu, figlia dell'etere, mostrati a me dai giardini di tuo padre, e se non puoi promettermi felicità mortale, allora spaventami, oh spaventa il mio cuore in altro modo». E tuttavia neanche questi tentativi riescono in qualche cosa. Una volta James mi disse, ripetendo quasi esattamente le parole del devoto di Kafka: «La realtà se ne fugge da me. Tutto ciò che tocco, tutto ciò che penso, coloro che incontro, tutto diventa irreale non appena mi avvicino...» Nella perdita progressiva della presenza reale degli altri, e in quella conseguente del senso di essere insieme, del senso del «noi», le donne vanno soggette ad essere ancor più distaccate e distruttive degli uomini. L'ultima speranza di sfondare e raggiungere quello che Binswanger (1942) chiama un modo duale di essere nel mondo può risiedere in un attaccamento omosessuale; oppure l'ultimo legame affettivo con gli altri può essere cercato in un bambino o in un animale. Boss (1949) descrive il ruolo attribuito a una forma di amore omosessuale da un uomo il cui io, e il cui mondo, si andavano sempre più rimpicciolendo nel suo isolamento: Questo essere umano, di cui persino il cuoio capelluto, persino il muscolo cardiaco si contraggono, è sempre meno capace di uscire da se stesso per ampliare e approfondire la pienezza esistenziale dell'unione fra maschio e femmina. Non sa più raggiungere la felicità celestiale, la passione illuminante che una volta significavano per lui l'amore per la cugina. Il primo passo nel processo di inaridimento della sua esistenza fu che la donna perdette, ai suoi occhi, la sua trasparenza, diventando un polo remoto, estraneo, completamente diverso dell'esistenza; diventando un pallido miraggio prima, poi un cibo indigeribile, infine uscendo del tutto dal suo schema del mondo. E quando la schizofrenia arrivò a spogliarlo della sua virilità, quando la maggior parte dei suoi sentimenti virili si furono estinti, improvvisamente, e per la prima volta nella sua vita, si senti spinto verso certe forme di amore omosessuale. Egli ha descritto con grande immediatezza in che modo riuscì, in questo amo1

«Alla Speranza» cit. da Binswanger (1978), p. 311.

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re omosessuale, a provare ancora, almeno in parte, la pienezza dell'esistenza. Non aveva bisogno di fare sforzi per raggiungere questa pienezza a metà, non c'era pericolo di «perdersi» nell'illimitato in questa nuova situazione di profondità ben definita: al contrario, l'amore omosessuale poteva riempire la sua esistenza e fare di lui un uomo completo. Boss aggiunge, con ragione: Questo caso dà un nuovo significato alla importante affermazione di Freud secondo la quale in tutti i paranoici possono osservarsi regolarmente delle tendenze omosessuali. Freud credeva che questa omosessualità fosse la causa delle idee di persecuzione. Noi vediamo piuttosto in entrambi i fenomeni - le tendenze omosessuali e le idee persecutorie - null'altro che due forme parallele di espressione della medesima tendenza schizofrenica a ritirarsi e distruggere l'esistenza umana, cioè due diversi tentativi di riconquistare le parti perdute della propria personalità. L'individuo vive in un mondo nel quale, come in un mito di Mida trasformato in incubo, tutto ciò che si tocca diventa morto. A questo stadio gli si aprono, forse, soltanto due possibilità: 1. Egli può decidere di «essere se stesso» nonostante tutto; 2. Può tentare di uccidere il suo io. Entrambi i progetti portano alla psicosi. Vediamoli separatamente. L'individuo in cui il sistema del falso io è rimasto intatto e non è stato devastato dagli attacchi che provengono dall'io, o dall'accumulo di frammenti sporadici di attività involontaria ed estranea, può presentare un aspetto di completa normalità, e tuttavia, dietro questa facciata di salute, il processo psicotico può avanzare segretamente e in silenzio. Questo adattamento apparentemente normale alla vita di ogni giorno comincia ad essere visto dal «vero» io come una finzione sempre più ridicola e vergognosa. Di pari passo l'io, coltivando le sue relazioni fantastiche, si è volatizzato sempre più, libero com'è dalle contingenze

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e dalle necessità che gli si presenterebbero se fosse invece un oggetto fra altri oggetti nel mondo, in cui si troverebbe legato a un punto nel tempo e nello spazio, soggetto alla vita e alla morte, prigioniero della sua carne e delle sue ossa. Se ora l'io, volatizzato nella fantasia, prova il desiderio di uscire dalla sua reclusione, di porre fine alla finzione, di essere onesto e rivelarsi senza equivoci, si può assistere al manifestarsi di una psicosi acuta. Una persona come questa, sana esteriormente, va sempre più perdendo la salute interiore. Casi di questo genere possono presentare a un esame superficiale un problema quasi insolubile, giacché se si osserva la storia «oggettiva» non si trova nessun fattore scatenante, né alcuna chiara indicazione retrospettiva dell'imminenza di un evento cosi repentino. Ma la psicosi diventa comprensibile quando, e soltanto allora, si riesca a raccogliere dallo stesso paziente la storia del suo io, anziché la solita anamnesi psichiatrica che di solito si raccoglie in questi casi, e cioè la storia del sistema del falso io. Diamo qui di seguito due esempi molto comuni di inizio di una psicosi «a ciel sereno», di un tipo che riuscirà familiare a tutti gli psichiatri, questi casi sono qui visti dall'esterno: essi sono destinati quindi a rimanere del tutto inspiegabili. Un giovane di ventidue anni, considerato dai genitori e dagli amici come una persona del tutto normale, trovandosi al mare in vacanza usci al largo con una barca. Qualche ora dopo fu trovato mentre andava alla deriva, molto lontano da terra. Oppose resistenza alle operazioni di salvataggio dicendo che aveva perso Dio e che in mezzo all'oceano l'avrebbe trovato. L'episodio segnò l'inizio di una psicosi manifesta, che rese necessaria un'ospedalizzazione di molti mesi. Un uomo sulla cinquantina, che non aveva mai avuto nessun disturbo «nervoso», almeno per quanto ne sapeva sua moglie, e che fino a quel momento era sembrato sempre il solito, in un caldo pomeriggio d'estate andò con la moglie e i bambini a fare un picnic sulla riva del fiume. Dopo mangiato si svesti completamente, sebbene fosse alla vista di altri gitanti, ed entrò nell'acqua. Que-

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sto sarebbe stato forse solo un atto un po' insolito, ma quando fu nell'acqua fino alla vita cominciò a gettarsi acqua sulla testa, e rifiutando di uscire disse che si battezzava per i suoi peccati, che consistevano nel non aver mai amato né la moglie né i figli, e che non sarebbe uscito dal fiume finché non si fosse purificato. Dovette essere trascinato via dalla polizia e ricoverato in ospedale psichiatrico. In entrambi questi casi, come in quelli descritti negli altri capitoli, la salute mentale - cioè una normalità apparente, sia nell'aspetto esteriore che nell'attività verbale e motoria osservabile - veniva mantenuta dal sistema del falso io, mentre l'«io» era sempre più occupato, non in un mondo suo, ma nel mondo cosi come esso veniva visto. Sono certissimo che un gran numero di «guarigioni» di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l'altro, ha deciso di ricominciare a far finta di essere sano. Non è raro che un paziente spersonalizzato, schizofrenico o no, parli di avere ucciso il suo io, oppure di averlo perduto o di esserne stato derubato. In queste occasioni si parla solitamente di delirio. Se si tratta di deliri, essi contengono però una verità esistenziale: e vanno interpretati come dichiarazioni letteralmente vere nello schema di riferimento dell'individuo che le pronunzia. L o schizofrenico che dice di essersi suicidato sa probabilmente benissimo che, di fatto, non si è tagliato la gola, né si è buttato dal quinto piano, e si aspetta che ciò sia chiaro anche per il suo interlocutore: altrimenti lo considera uno sciocco. Anzi molte dichiarazioni di questo genere possono venire intese espressamente come atti di spregio per certe persone, che il paziente ritiene degli idioti, o in generale per l'intero gregge degli sciocchi. Per un paziente come questo l'idea di uccidere il suo io tagliandosi la gola non avrebbe senso, giacché probabilmente le relazioni fra il suo io e la sua gola sono per lui talmente vaghe e remote che ciò che accade all'una non può avere nessuna conseguenza sull'altro. Il suo io, virtualmente,

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è incorporeo: probabilmente viene concepito come qualcosa di immortale, fatto di una sostanza incorporea e più o meno imperitura. Forse egli lo chiama «anima», o «sostanza vitale», oppure gli dà qualche nome privato e speciale; e crede però che gli possa essere rubato. Questa è una delle idee di fondo nella famosa psicosi del caso, Schreber di Freud. Possiamo forse avvicinarci a comprendere questo diffìcile materiale psicotico confrontando il timore di perdere l'io con un tipo più familiare di ansia, l'ansia nevrotica che sta dietro alla paura dell'impotenza. Nei casi di impotenza si trova a volte la seguente fantasia latente. L'individuo teme di perdere le funzioni genitali; allora le conserva (cioè evita la castrazione) simulando di essere castrato. Combatte la paura della castrazione fingendo, di fronte a se stesso, di essere castrato, e comportandosi come se lo fosse. Il meccanismo di difesa dello psicotico è fondato sullo stesso principio, ma viene usato rispetto all'io anziché alle funzioni sessuali. È la forma estrema di difesa, quella più paradossale e assurda, oltre la quale non c'è più nessuna magia possibile. E per quanto ho potuto vedere è anche, in tutte le forme psicotiche, la difesa di fondo. In forma generale si può formulare cosi: la negazione dell'essere, come strumento per la conservazione dell'essere. Lo schizofrenico crede di aver ucciso il suo io, e ciò allo scopo di evitare di essere ucciso: è morto per poter restare vivo. Numerosi fattori possono convergere e spingere l'individuo a liberarsi del suo io in una maniera o nell'altra. Ormai anche gli sforzi da esso compiuti per separarsi dal corpo e non identificarsi con esso, e con i suoi pensieri, sentimenti, azioni e percezioni, hanno fallito lo scopo di liberarsi dall'ansia; l'io è privo dei vantaggi che sperava ottenere col suo distacco, e soggetto in pieno all'ansia che aveva voluto evitare. I due casi seguenti mostrano le sofferenze di un individuo che si trovi in questa situazione. Quando venne da me, Rosa aveva venti tre anni. Mi disse che aveva paura di diventare pazza, ma lo era di già. Disse che le tornavano alla mente dei ricordi orribili, e

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che nonostante tutti gli sforzi non riusciva a dimenticarli. Ma ora aveva trovato la soluzione: cercava di dimenticare questi ricordi dimenticando se stessa. Per far ciò guardava continuamente le altre persone, e cosi non pensava a sé. Sulle prime era quasi un sollievo sentirsi andare sempre più giù senza combattere, ma c'era qualcosa in lei che si ribellava. Continuava a fare delle cose nonostante si sentisse depressa, ma questo richiedeva sforzi sempre maggiori, e alla fine le sembrava che ogni pensiero e ogni movimento richiedesse un atto di volontà. Ma poi le era sembrato di non aver più nessuna forza di volontà, come se l'avesse adoperata tutta; inoltre aveva paura di fare le cose da sola, di assumersi la responsabilità di ciò che faceva. A l tempo stesso aveva la sensazione che la sua vita non fosse più sua. «Il mio essere è nelle mani di tutti, tranne che nelle mie». Non aveva una vita propria, si lasciava esistere: non aveva uno scopo, una direzione, una spinta sua propria. Credeva di essere «andata giù del tutto», negli ultimi tempi, e voleva uscirne ora, prima che fosse troppo tardi; tuttavia aveva l'impressione che le cose fossero già andate troppo avanti e credeva di «non potercela più fare» ancora per molto, perché «se ne stava andando via». Se fosse riuscita a provare simpatia per la gente tutto sarebbe andato meglio. Qualche giorno dopo si esprimeva cosi: I pensieri continuano, ormai sto passando dall'altra parte. Il mio vero io è giù in fondo: prima ce l'avevo qui nella gola, ma ora è sceso giù. Mi sto perdendo: è sempre più in fondo. Vorrei dire tante cose ma ho paura. Ho la testa piena di pensieri, di paure, di gelosie, di odio. Ma la testa non li può tenere, tutti questi pensieri. Io sto qui, dietro la fronte: voglio dire la mia coscienza. E i pensieri mi spaccano la testa! Questo è schizofrenia, non è vero? Ma non so se ho veramente questi pensieri. Forse me li sono preparati l'altra volta per farmi curare. Se solo potessi amare ancora, invece di odiare. Mi piacerebbe tanto amare la gente, eppure la voglio odiare. E cosi mi sto uccidendo. Continuò a parlare in questo modo ancora per settimane: l'impressione che si stava uccidendo si trasformò nella convinzione di essersi già uccisa. Quasi continuamente

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ripeteva di essersi uccisa; a volte diceva di essersi smarrita. Nelle poche occasioni in cui non si sentiva né morta né smarrita si sentiva «strana» o «estranea», e niente aveva più la solita realtà. Sentiva, soffrendone molto, di aver perduto la capacità di esperienze reali, sia cose esterne che pensieri suoi; era consapevole, con uguale intensità e sofferenza, del fatto che gli altri possedevano questa capacità, e descriveva le varie manovre cui ricorreva intenzionalmente o no per cercare di «riconquistare la realtà». Per esempio, se qualcuno le diceva una cosa che le sembrava «reale», diceva a se stessa: «Ora la penso anch'io», e continuava a ripetersi quella parola o frase nella speranza che un po' della sua realtà le restasse addosso. Sentiva che i medici erano reali, e allora cercava di tenere di continuo in mente i loro nomi. Cercava di far effetto sugli altri dicendo cose che sperava li mettessero in imbarazzo: trovava facile far questo perché si sentiva completamente staccata dai loro sentimenti. E se, guardando l'interlocutore, scorgeva segni di imbarazzo, diceva a se stessa che doveva essere reale, perché poteva produrre un effetto reale su una persona reale. Non appena le veniva in mente qualcuno, diceva a se stessa che quel qualcuno era lei. E siccome credeva che se una persona poteva piacerle, lei sarebbe stata come quella persona, seguiva la gente imitando il loro modo di camminare, copiandone il linguaggio e i gesti. Aveva un modo, spesso irritante, di essere sempre assolutamente d'accordo con quanto le veniva detto. Ma nonostante tutto ciò continuava a ripetere che se ne stava andando sempre più lontano dal suo vero io. Avrebbe voluto « raggiungere » gli altri o farsi raggiungere da essi, ma era sempre più difficile. Aumentando la disperazione si sentiva meno spaventata, pur continuando a sentirsi in uno stato di timore costante, e le pareva di non capire più niente; vedeva che la gente faceva delle cose ma non se ne sapeva fare una ragione, e restava li «imbambolata». Era convinta che tutti fossero più intelligenti di lei, tutti facevano cose intelligenti senza che lei potesse capire lo scopo e il significato delle loro azioni più semplici. E non aveva un futuro: il tempo si era fermato, non era possibile pensare all'avvenire, tutti i ricordi erano come cose solide e

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dense che si agitavano nella sua testa. Era chiaro che stava perdendo il senso della differenziazione fra gli eventi passati, presenti e futuri: il tempo «vissuto», nel senso usato da Minkowski. Era un fatto molto significativo che più sentiva di non poter raggiungere gli altri né essere raggiunta da essi, più si sentiva chiusa in un mondo suo («Loro non possono entrare e io non posso uscire») e più questo suo mondo privato e chiuso era invaso da paure psicotiche di pericoli esterni, vale a dire diventava, in un certo senso, «pubblico». Diventò sospettosa e cominciò a chiudere a chiave il suo cassetto, perché aveva l'idea che ci fosse qualcuno che le rubava le sue cose. Controllava spesso la borsetta e le tasche per assicurarsi di non essere stata derubata. Il paradosso di essere più isolati e al tempo stesso più vulnerabili trova una chiara espressione in questa paziente, che diceva da una parte di uccidere se stessa, e dall'altra temeva di poter essere «derubata» del suo io. Ella aveva soltanto i pensieri degli altri, e sapeva pensare soltanto cose dette da altri. Ora parlava di essere due persone. «Ci sono due me». «Lei è me, e io sono lei tutto il tempo». Sentiva una voce che le diceva di uccidere sua madre, e sapeva che questa voce apparteneva ad «uno dei miei me». «Da qui in su e indicava le tempie - è tutto cotone. Non ho pensieri miei, sono tutta confusa, me, me, me tutto il tempo, io e me, e quando dico " i o " so che c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa che mi sta succedendo, ma non so cosa». Cosi, nonostante la paura di smarrirsi, tutti i suoi sforzi per «riconquistare la realtà» consistevano nel non essere se stessa, e i tentativi di fuggire dal suo io o di ucciderlo continuavano ad essere la sua difesa di fondo, e si andavano intensificando. L'individuo è spinto ad «uccidersi» non soltanto dall'ansia, ma dal suo senso di colpa, che in questi casi è particolarmente crudele e non lascia spazio di manovra. Abbiamo già visto come Peter fosse spinto dalla colpa a non essere niente e nessuno. In Rosa abbiamo un altro esempio: la paziente seguiva un corso molto simile, ma questo fu per fortuna arrestato (sarebbe più esatto dire

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che ella lo arrestò) prima di arrivare a uno stato psicotico dal quale sarebbe stato difficile tornare indietro. Maria, una ragazza di vent'anni, aveva frequentato l'università per un anno senza superare nessun esame. Arrivava sempre diversi giorni prima o diversi giorni dopo la data fissata per l'esame; oppure, quando per caso arrivava e trovava l'esame ancora in corso, non si decideva a rispondere alle domande. Al secondo anno smise anche di frequentare le lezioni e non fece più nulla. Risultò straordinariamente difficile trovare anche un solo fatto concreto nella vita di questa paziente, che mi era stata mandata da un altro medico. Mi ero accordato con lei per vederla due volte alla settimana, ma era impossibile dire quando sarebbe arrivata. Dire che non era puntuale non significa niente. L'orario della visita era un punto nel tempo che non serviva molto a orientarla. Si presentava al sabato mattina per il colloquio del giovedì pomeriggio, oppure telefonava alle cinque per dirmi che si era svegliata allora e cosi non poteva fare in tempo perché la visita era alle quattro, ma che se volevo sarebbe arrivata dopo un'ora circa. Una volta mancò a cinque appuntamenti consecutivi senza avvertire, arrivò puntualmente al sesto e senza dare spiegazioni continuò dal punto dove eravamo rimasti l'ultima volta. Era un tipo evanescente, pallida e sottile, con lunghi capelli sempre spettinati. Vestiva in maniera strana, quasi trascurata. Su se stessa era straordinariamente elusiva e reticente: per quanto fui in grado di sapere, nessuna delle numerose persone con le quali aveva qualche contatto seppe mai come vivesse. Abitava fuori città, ma da quando andava all'università si era presa una stanza, che però cambiava continuamente. I genitori non sapevano mai dove stava: ogni tanto telefonava e li andava a trovare, come se fosse una conoscente. Era figlia unica. Camminava svelta e silenziosa, come in punta di piedi; il linguaggio era piano e distinto, ma senza forza, lontano e remoto, e senza nessuna animazione. Preferiva non parlare di sé, ma piuttosto di politica o di economia. Mi trattava con indifferenza apparente, non nascondendo che mi considerava tale e quale come una delle sue tante conoscenze casuali, che o-

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gni tanto andava a trovare per scambiare due chiacchiere. Tuttavia una volta mi disse che io ero una persona piacevole, ma che la mia natura era malvagia e poco pulita. Non mostrava mai nessun desiderio o aspettativa di ricavare qualche cosa da me, e non fu mai completamente chiaro cosa pensasse di trarre dal nostro rapporto. Si sentiva cosi indifferente che una volta mi disse che non riusciva a capire come mai facesse tanta strada per venire a trovarmi. Si poteva pensare che le prospettive di questo caso fossero molto brutte: il quadro che presentava era chiaramente un quadro clinico di dementici praecox, o schizofrenia simplex. Un giorno, tuttavia, arrivò puntuale e completamente trasformata. Per la prima volta da quando la conoscevo era vestita con una certa cura, e non aveva quello strano aspetto, quei modi imbarazzanti che sono tanto caratteristici in questo tipo di persona, ma tanto difficili da definire. C'era questa volta, senza dubbio, della vita nei suoi movimenti e nella sua espressione. Cominciò la seduta dicendo che aveva capito di essersi tagliata fuori da qualunque relazione reale con gli altri, che era spaventata all'idea di aver vissuto in quel modo, ma che anche indipendentemente da ciò capiva che non era il modo giusto di vivere. Era chiaro che era successo qualcosa di decisivo. Secondo lei - e non vedo ragione di dubitarne - il cambiamento era dovuto a un film, che era andata a vedere e rivedere tutti i giorni per una settimana intera. Si trattava di un film italiano intitolato La strada. È la storia di un uomo e una ragazza. L'uomo è un artista girovago, che viaggia da un posto all'altro eseguendo il suo numero, consistente nello spezzare una catena espandendo il torace. Ha comperato la ragazza ai suoi genitori e la usa come aiutante. Forte, crudele, sporco, vizioso, tratta la ragazza orribilmente: la violenta, la picchia, l'abbandona seguendo il capriccio del momento. Sembra privo di coscienza o di rimorsi, non le concede il minimo riconoscimento come persona, non manifesta il minimo segno di gratitudine quando lei cerca di fargli piacere o di essergli fedele, e le dice chiaramente che non c'è niente in ciò che lei fa per lui che chiunque altra non saprebbe fare meglio. La ragazza, da quando è stata

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consegnata a quest'uomo, sente che la sua vita non serve a nulla. Sebbene non ci sia amarezza nella sua tristezza e desolazione, si sente disperata e senza scopo. Fa amicizia con un acrobata da circo e si lamenta con lui, ma quando il funambolo le propone di andare con lui rifiuta, dicendo che se facesse questo l'uomo non avrebbe più nessuno che 10 sopporti. Allora il funambolo raccatta un sasso e dice che non può credere che la ragazza sia assolutamente inutile, perché deve certo valere almeno quanto quel sasso, e 11 sasso, se non altro, esiste. Inoltre osserva che qualche utilità deve averla anche se non sa quale, perché sa di essere l'unica persona che l'uomo non respinge da sé. Gran parte del fascino del film viene da questa ragazza, che è completamente incapace di finzione o di inganno, e che mostra in tutte le sue azioni, semplicemente e immediatamente, tutti i suoi sentimenti. Quando l'uomo uccide il funambolo sotto i suoi occhi, e sfugge alla giustizia anziché confessare il delitto, la ragazza si chiude in un mutismo interrotto solo da una specie di lamento: «Il matto sta male, il matto sta male! » Non fa più niente e non mangia niente, e quando è chiaro che non migliora, l'uomo l'abbandona di nascosto mentre dorme al freddo sul ciglio di una strada, lasciandola al suo destino. La paziente si era identificata con la ragazza, al tempo stesso ponendosi in contrasto con lei. Il girovago, con la sua crudeltà, la sua indifferenza e la sua brutalità, dava corpo alle sue fantasie su suo padre, e in una certa misura su di me. Ma ciò che l'aveva colpita di più era che, per quanto disperata e infelice, la ragazza non rifiutava di vivere anche se la sua vita era orrenda, non accettava di distruggere se stessa. Né cercava di deformare la sua semplicità. Non era particolarmente religiosa, anzi, come Maria, sembrava priva di fede in un essere divino, ma, sebbene la sua fede non avesse un nome preciso, il suo modo di vivere appariva come una affermazione, e non come una negazione della vita. Maria vedeva tutto questo, inorridita al contrasto con la sua maniera di vivere: sentiva infatti di essersi proibita l'accesso alla freschezza e alla pietà della creazione. Persino la povera ragazza del film sapeva ridere dei buffoni da circo, provare un brivido al numero

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del funambolo, trovare conforto in una canzone, e valere almeno quanto un sasso. Da un punto di vista psichiatrico «oggettivo» si sarebbe potuto dire che si era in presenza di un arresto nel processo di deterioramento schizofrenico, probabilmente su basi organiche. Ma da un punto di vista esistenziale si poteva dire che la paziente aveva rinunziato ai tentativi di uccidersi. Ora vedeva come la sua vita fosse diventata un tentativo sistematico di distruggere la propria identità, per diventare nessuno, evitando tutto quanto potesse specificamente definirla come una persona distinta occupata in certe attività. Aveva tentato di agire in modo che i suoi atti non avessero mai conseguenze reali, cosi da renderli del tutto irreali. In luogo di usare l'azione, come tutti facciamo normalmente, per raggiungere scopi reali e divenire cosi sempre meglio definiti dai nostri atti come persone specifiche, la paziente aveva tentato di ridursi fino al punto dell'evanescenza, non facendo mai niente di specifico, non essendo mai (o cercando di non essere mai) in un posto particolare in un momento particolare, né facendo mai una cosa data con una data persona. A d ogni momento, come chiunque, si trovava in un posto definito, ma evitava le conseguenze di ciò mantenendo sempre un'aria astratta, come se si trovasse in qualche altro posto. Agiva, ma agiva come se fosse possibile «non mettere mai se stessa» nelle sue azioni. Lo sforzo costante di dissociare se stessa dalle sue azioni era presente in tutto ciò che faceva: il lavoro di scuola, le amicizie che formava, tutti i gesti e le espressioni. Con questi mezzi cercava di diventare nessuno. La sua posizione era quindi molto simile a quella di Peter. Entrambi i pazienti si sentivano sempre più convinti che il tentativo di essere qualcuno fosse soltanto una finzione, e che l'unica via onesta da intraprendere era di diventare nessuno, perché questa era la cosa che essi «realmente» sentivano di essere. Il quadro osservabile di questo processo di autodistruzione non era nient'altro che il processo demenziale della schizofrenia simplex. Allo stadio ora descritto, i pazienti del tipo di Peter e Maria non provano sentimenti di colpa rispetto a pensieri o azioni specifiche che possono avere o non avere con-

SVILUPPI PSICOTICI

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templato o commesso. Se colpa esiste, essa è coperta da un senso molto più generico di cattiveria o indegnità, che porta a sentire di non aver più alcun diritto alla vita. L'individuo si sente colpevole perché osa vivere, e doppiamente colpevole di non esistere, o di essere troppo timoroso di esistere, e di tentare di uccidersi, esistenzialmente se non fisicamente. La sua colpa è il fattore immediato nell'impedirgli di partecipare attivamente alla vita e nel mantenere l'io nell'isolamento, anzi nel farlo sempre più ritirare in se stesso: dopo di che la colpa viene ad essere associata a quella stessa manovra di cui in origine era stata la causa. James, per esempio, una volta fece il sogno seguente: «Due atomi stavano viaggiando in direzioni parallele, poi invertirono direzione e si fermarono uno accanto all'altro». Questo sogno era descritto con gesti delle mani. Il paziente si era svegliato di colpo, terrorizzato e con orribili presentimenti. La sua interpretazione del sogno era che i due atomi rappresentavano se stesso: invece di continuare il loro corso naturale si erano rivoltati su se stessi, e cosi facendo «avevano violato l'ordine naturale delle cose». Associazioni successive rivelarono che James si sentiva profondamente colpevole delle relazioni che aveva con se stesso, che oltre ad essere «volte ali'indietro» erano: 1. Una forma di onanismo, nel senso di una dispersione dei poteri'di creatività e di produttività. 2. Una fuga da veri rapporti eterosessuali, stabilendo un rapporto fra due parti del suo essere, una delle quali era maschile e l'altra femminile. 3. Una fuga dai rapporti con altri uomini, stabilendo dentro di sé un rapporto esclusivo e omosessuale con se stesso. Ciò serve a illuminare l'altro difficile problema, cioè che in queste circostanze la relazione dell'io con se stesso è una relazione colpevole, giacché, come abbiamo già detto, esso forma o cerca di formare dentro di sé un tipo di rapporto che, «nell'ordine naturale delle cose», può esistere soltanto fra due persone, e non può essere vissuto esclusivamente dall'io.

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La dissociazione dell'io (i due «me» di Rosa, i due atomi di James) costituisce la base di una forma di allucinazione. Generalmente uno dei frammenti dell'io sembra conservare il senso della parola «io». L'altro io potrebbe allora chiamarsi «lei». Ma questo «lei» è pur sempre «me». Rosa diceva: «Lei è me, e io sono lei tutto il tempo». Uno schizofrenico una volta mi disse: «Lei è un io che cerca un me». (L'io degli stati schizofrenici cronici sembra frammentarsi in diversi fuochi, ciascuno con un certo senso dell'«io», e ciascuno con un certo modo di sentire gli altri frammenti come parziali non-me). Un «pensiero» che appartiene all'altro io tende ad avere una certa qualità di percezione, giacché è ricevuto dall'io che non lo sente né come un prodotto della sua immaginazione, né come qualcosa che gli appartiene. Tutto ciò significa che l'altro io è la base per uno stato allucinatorie. Un'allucinazione è una percezione «come se», che riguarda un frammento dell'«altro» io disintegrato, da parte di un residuo senso dell'«io» (fuoco di se stesso): questo si vede chiaramente soprattutto in pazienti manifestamente psicotici. Inoltre la relazione io-io fornisce la situazione adatta perché si abbiano lotte violente fra i contrastanti fantasmi interiori con una certa concretezza fantastica (cfr. il capitolo seguente). Sono queste lotte fra i suoi fantasmi interiori che spingono l'individuo a dire che l'hanno assassinato, oppure che «egli» ha assassinato il suo «io». Ma alla fine, nonostante tutto, e anche parlando la lingua della schizofrenia, è possibile tagliarsi la gola, ma è di fatto impossibile assassinare un fantasma interiore, cioè l'«io». Un fantasma non si può uccidere. Ciò che invece può accadere è che il posto e le funzioni di quel fantasma interiore che è l'«io» vengono prese quasi completamente da archetipi che controllano e dominano tutti gli aspetti dell'essere. Il lavoro terapeutico consiste allora nel cercare di prendere contatto con l'«io» originale dell'individuo, che dobbiamo continuare a credere esista ancora, se non come realtà almeno come possibilità, e che può essere curato e riportato a una certa vita. Ma questo è un argomento che si potrà riprendere e spiegare solo dopo aver studiato più diffusamente i processi e i fenomeni psicotici.

Capitolo decimo L'io e il falso io dello schizofrenico

Tenteremo ora di consolidare il nostro discorso avvalendoci di brani scelti da una descrizione di un disturbo schizofrenico, fornita da una paziente americana in fase di remissione. Il caso è riferito da due autori americani, Hayward e Taylor (1956), uno dei quali aveva la paziente in terapia. Joan è una donna bianca di ventisei anni. Il disturbo apparve per la prima volta all'inizio del 1947, quando la paziente aveva diciassette anni. Nei due anni seguenti fu ricoverata in quattro cliniche private, dove fu sottoposta a psicoterapia oltre che ad un totale di 34 elettrochoc e 60 choc insulinici, di cui 50 terminarono in coma. Alla fine, «non migliorata o migliorata pochissimo», e ritenuta un caso senza speranza, fu inviata ad uno degli autori (Hayward). All'inizio del trattamento ad opera di questo autore, Joan era indifferente, isolata e sospettosa. Erano attivamente presenti allucinazioni visive e uditive. Rifiutava di partecipare alle attività degli altri pazienti, ed entrava spesso in uno stato di stupore, durante il quale era difficile provocare una qualunque risposta. Se si tentava di spiegarle la necessità di una terapia manifestava una resistenza passiva, o con espressioni di collera chiedeva che la si lasciasse tranquilla. Si ebbero tre tentativi di suicidio, compiuti ferendosi con frammenti di vetro o ingerendo sonniferi. A volte diventava aggressiva e violenta e occorreva isolarla nel reparto agitati. Ho deciso di riferirmi a questo caso per varie ragioni. Il racconto fatto dalla paziente fornisce una conferma impressionante delle opinioni riportate in questo libro, conferma rafforzata dal fatto che il libro era già stato scritto quando venne pubblicato il materiale americano. Gli autori americani usano la terminologia psicoanalitica classica, Io, Super-io, Es: ciò secondo me limita inutilmente

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la comprensione del materiale, mentre la descrizione fatta dalla paziente sembra dettata dal suo modo personale di vedere se stessa, e non certo imposta o suggerita dagli autori. Presentando il caso di questa paziente americana si evita la possibilità, che esisterebbe presentando il caso di uno dei miei pazienti, che le mie teorie vengano ripetute senza saperlo dal paziente stesso. Infine, la paziente ci dà un resoconto chiaro, intelligente e nel linguaggio di tutti i giorni. Spero che ciò dimostri che, guardando la condotta dello psicotico dal suo stesso punto di vista, gran parte di essa può essere compresa. Prima di proseguire, però, vorrei riassumere brevemente le cose dette fin qui. La scissione dell'io dal corpo è molto dolorosa da sopportare, e il paziente desidera disperatamente che qualcuno lo aiuti a sanarla; essa, però, viene utilizzata, al tempo stesso, come mezzo principale di difesa. È proprio questo fatto che definisce il dilemma nella sua essenza. L'io desidera restare congiunto al corpo, ma teme in continuazione di alloggiarvi, perché crede che cosi facendo sarebbe sottoposto ad aggressioni e pericoli di ogni genere senza poter fuggire. Ma anche ponendosi al di fuori del corpo scopre di non poter conservare i vantaggi in cui sperava. Ripetiamo ciò che accade allora. 1. L'orientamento generale dell'io è orale e primitivo: esso è preso dal dilemma di salvare la sua vita senza «assorbire» nulla, perché ciò lo terrorizza, e divie-* ne perciò arido e desolato. 2. L'io si carica di odio per tutto ciò che sta «là fuori». L'unico modo di distruggere e non distruggere ciò che è «là fuori» può sembrare quello di distruggere se stesso. 3. Il tentativo di uccidere l'io può essere intrapreso deliberatamente. Esso è in parte una manovra difensiva («Se sono morto non mi si può più uccidere»), in parte un tentativo di obbedire al crudele senso di colpa che opprime l'individuo (non si ha nessun diritto di vivere).

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4. L'io «interiore» si divide a sua volta, perdendo la sua integrità e la sua identità. 5. Esso perde sia la sua propria realtà, sia ogni accesso diretto alla realtà che esiste fuori di lui. 6. Il rifugio dell'io diventa una prigione; quello che doveva essere un paradiso diventa un inferno. Perde persino la tranquillità di una cella solitaria, diventa una camera di tortura. L'io interiore è infatti perseguitato dai frammenti concretizzati di se stesso, o dai suoi stessi fantasmi, divenuti incontrollabili. Buona parte delle incomprensibili parole e azioni di uno schizofrenico diventa intelligibile se si tiene presente che nel suo essere è rimasta la stessa frattura di fondo che si aveva nello stato schizoide. L'essere dell'individuo è spaccato in due: un io incorporeo da una parte, e dall'altra un corpo che l'io osserva; a volte considerandolo semplicemente come uno dei tanti oggetti del mondo. Il corpo nella sua totalità, e numerosi processi «mentali», sono staccati dall'io, che può continuare ad operare nel suo ristretto santuario con la fantasia e l'osservazione, oppure cessare di funzionare completamente (cioè essere morto, assassinato, rubato). Naturalmente questo è solo uno schema, ed ha tutti i difetti di una semplificazione preliminare. Abbiamo già accennato ad alcuni dei modi in cui la frattura suddetta può causare il crollo di ogni sana esperienza, diventando con ciò il nucleo centrale di una psicosi. In molti schizofrenici la frattura io-corpo resta fondamentalmente la stessa. Tuttavia, quando il «centro» non tiene più, né l'esperienza dell'io né quella corporea possono conservare l'identità, l'integrità, la coesione e la vitalità, l'individuo cade in uno stato le cui ultime conseguenze abbiamo tentato di descrivere con la espressione «non-entità caotica» '. Nella sua forma finale questa com1 La miglior descrizione (letteraria) che io conosca di questa condizione è quella che si trova nei libri profetici di William Blake. Nella letteratura greca sull'Inferno, e anche in Dante, le ombre, o spiriti, sebbene estraniati dalla vita, conservano tuttavia un'intima coesione. Ma in Blake non è cosi. I personaggi dei suoi libri vanno soggetti a interne dissociazioni. L'opera

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pietà disintegrazione è uno stato ipotetico, privo di equivalenti verbali; ma possiamo sentirci giustificati nel postulare l'esistenza di questa condizione ipotetica, che nella sua forma più estrema forse non è più compatibile con la vita. L'ebefrenico-catatonico cronico, completamente franato, è presumibilmente la persona nella quale il processo ha già raggiunto il grado estremo delle possibilità biologiche. Uno dei più grossi ostacoli per la conoscenza di uno schizofrenico è la sua totale incomprensibilità: la bizzarria, la stranezza, l'oscurità di tutto quello che percepiamo di lui. Vi sono molte ragioni perché sia cosi. Anche quando il paziente cerca di descriverci nel modo più chiaro e diretto la natura delle sue ansietà e delle sue esperienze, strutturate come esse sono in maniera radicalmente diversa dalle nostre, non fa meraviglia che il contenuto del linguaggio sia difficile da seguire. Inoltre gli elementi formali del linguaggio sono essi stessi ordinati in modi insoliti: queste peculiarità formali sembrano, almeno in una certa misura, un riflesso del diverso ordinamento dell'esperienza, che si divide dove noi ci aspetteremmo coesione, e che mette assieme in confusione apparente degli elementi che noi terremmo distinti. Ma queste difficoltà, di per sé irriducibili, vengono immancabilmente complicate - almeno nei primi incontri col paziente - da un suo uso deliberato dell'oscurità e della complessità, come cortina fumogena dietro alla quale nascondersi. Ciò crea, ironicamente, una situazione in cui a volte lo schizofrenico fa apposta ad essere psicotico, o ne recita la parte. Gli schizofrenici ricorrono spessissimo alle finzioni e agli equivoci, per motivi che variano da caso a caso ma che comunque servono sempre a più di uno scopo per volta. Lo scopo più ovvio è che in tal modo si preserva la segretezza intima dell'io dalle intrusioni, e quindi dal pericolo del risucchio o dell'implosione. L'io, come mi disse una volta un paziente, si sente schiacciare e fare a pezzi anche da una conversazione ordinaria. Nonostante di Blake richiederebbe uno studio profondo, non per comprendere la psicopatologia dell'autore, ma per apprendere da lui le cose che egli è riuscito a sapere cosi intimamente pur restando sano di mente.

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il suo desiderio di essere amato nel suo «io reale», lo schizofrenico è terrorizzato dall'amore: ogni forma di comprensione mette in pericolo tutto quanto il suo sistema difensivo. La sua condotta esteriore è un sistema difensivo analogo a un corridoio sotterraneo provvisto di innumerevoli aperture, ciascuna delle quali potrebbe, si immagina, condurre alla cittadella, ma che invece non portano in nessun posto. Lo schizofrenico non è disposto a rivelarsi all'ispezione casuale del primo passante. L'io si sente sicuro solo se non è conosciuto: è al sicuro dalle osservazioni penetranti, è al sicuro dal pericolo di essere soffocato dall'amore, è al sicuro dalle distruzioni dell'odio. Se lo schizofrenico resta in incognito, allora il suo corpo può essere manipolato, battuto, carezzato, curato: ma «lui», l'osservatore, resta inviolabile. L'io, al tempo stesso, vuole essere compreso, spera anzi di trovare una persona che possa accettare interamente il suo essere, lasciandolo libero di essere com'è. Ma occorre procedere con grande cautela e circospezione, e non tentare, come dice Binswanger, di «arrivare troppo presto».

Ma ecco cosa dice Joan: «Noi schizofrenici diciamo e facciamo un mucchio di cose senza importanza, e poi mescoliamo ad esse le cose che contano, per vedere se il dottore si preoccupa veramente di vederle e di capirle». Uno schizofrenico mi descrisse una volta una variante di questa tecnica di mischiare cose importanti a un «mucchio di cose senza importanza», dandomi il seguente esempio. Durante il primo colloquio con lo psichiatra si trovò a provare per lui un intenso disprezzo. Ma, pur volendo con tutte le sue forze esprimere questo disprezzo, aveva paura che se lo avesse rivelato gli avrebbero fatto una leucotomia. D'altronde il colloquio stesso gli appariva sempre più come una finzione e come una cosa estremamente sciocca, visto che egli presentava soltanto una facciata finta, e che lo psichiatra sembrava prendere molto sul serio questa falsità. Sempre più, durante il colloquio, gli sembrava che lo psichiatra fosse uno sciocco. A un cer-

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to punto questi gli chiese se udisse delle voci. La domanda gli sembrò molto stupida, giacché egli poteva sentire benissimo la voce dello psichiatra. Rispose quindi di si, e a un'altra domanda disse che la voce era di uomo. La domanda successiva fu: «E cosa dice questa voce?» Risposta: «Tu sei uno sciocco». Facendo la parte del pazzo il paziente era cosi riuscito a dire impunemente ciò che pensava del medico. Gran parte della schizofrenia è fatta molto semplicemente di sciocchezze, di parole in libertà, di ostruzionismo verbale prolungato il cui scopo è di disorientare le persone pericolose, e di annoiare tutte le altre. Spesso lo schizofrenico prende in giro se stesso e il medico: gioca ad essere pazzo perché vuole ad ogni costo evitare di essere ritenuto responsabile di una sola idea coerente, di una sola intenzione ragionevole. Joan ci fornisce altri esempi. I pazienti ridono e sono manierati quando il medico dice che può aiutarli e loro sanno benissimo che invece non vuole o non può. Per una ragazza essere manierata può essere un atteggiamento di seduzione, ma è anche un modo di distrarre il medico da tutte le sue funzioni pelviche. I pazienti cercano sempre di distrarlo e portarlo fuori strada: cercano di fargli piacere ma anche di confonderlo, in modo che non possa mai arrivare alle cose importanti. Ma quando si trova qualcuno che può veramente aiutare allora non lo si deve distrarre, e ci si può comportare normalmente. Io posso sempre capire non solo se un medico vuole aiutarmi, ma anche se è in grado di farlo. Questa è una chiara conferma del detto di Jung, che uno schizofrenico cessa di essere tale quando incontra qualcuno dal quale si sente compreso. Quando ciò accade, la maggior parte delle bizzarrie che vengono considerate i «segni» della «malattia» miracolosamente scompaiono. Incontrare lei mi ha fatto sentire come un viaggiatore che si era perduto in un paese dove nessuno parla la sua lingua e non sa dove andare. Egli si sente smarrito, solo e senza aiuto. Ma ecco che improvvisamente incontra un tale che sa parlare la sua lingua. Anche se questo straniero non co-

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nosce nemmeno lui la strada ci si sente subito meglio, perché si può parlargli e fargli capire quanto si stia male. Se non si è soli non ci si sente più senza aiuto. Toma un po' di vita, un po' di voglia di continuare a combattere. Essere pazzi è come uno di quegli incubi in cui si cerca di chiamare aiuto ma non viene fuori la voce. Oppure la voce esce, ma non c'è nessuno che senta o capisca. E non ci si può svegliare da questo incubo se non c'è qualcuno che sente e che aiuta a svegliarsi. II fattore principale nella reintegrazione del paziente, nel rimettere assieme i pezzi, è l'amore del terapeuta: un amore che riconosca il paziente nella totalità del suo essere e che lo accetti senza riserve. Qui siamo però soltanto sulla soglia del rapporto. Il paziente resta psicotico perché le fratture persistono, anche se i «segni» esteriori più evidenti sembrano scomparsi. Abbiamo già osservato che l'io ha perduto il contatto con la realtà, e non può più sentirsi né reale né vivo. Joan ci dà esempi del modo con cui lo schizofrenico cerca di trovare qualche assicurazione di essere reale nella consapevolezza di essere visto, e quindi sapere almeno di esserci. Egli infatti non può trarre questa convinzione dal suo intimo. I pazienti tirano calci, gridano, sono violenti, quando non sono sicuri che il dottore riesca a vederli. È spaventoso rendersi conto che il dottore non riesce a vedere come siamo veramente, che non può capire cosa proviamo, e che resta sempre fermo nelle stesse idee. Io cominciavo a credere di essere invisibile, oppure a credere di non esserci affatto. E facevo confusione per vedere se il dottore avrebbe reagito a me, e non alle sue idee. Per tutto il suo scritto questa paziente mette ripetutamente in contrasto il suo io reale con un altro io, docile e obbediente, che era falso. La frattura fra il suo «io reale» e il corpo viene descritta con grande evidenza nel seguente passo: Se lei mi avesse portato a letto avrebbe rovinato tutto, perché mi avrebbe convinto che si interessava solo a trarre del piacere dal mio corpo animale senza curarsi veramente di quella parte che era una persona. Avrebbe voluto dire

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che mi usava come donna, mentre io in realtà non ero una donna, ma avevo un gran bisogno di aiuto per diventarlo. Avrebbe voluto dire che lei vedeva soltanto il mio corpo, senza capire che invece io ero ancora una ragazzina piccola. Allora il vero me se ne sarebbe stato sul soffitto a guardare lei mentre faceva delle cose col mio corpo, e mi sarebbe sembrato che si accontentasse di far morire il mio vero me. Quando lei dà da mangiare a una ragazza le fa sentire che non soltanto il suo corpo, ma anche il suo io è desiderato, e questo l'aiuta a stare insieme. Ma quando se la porta a letto le fa sentire che il suo corpo è separato e morto. Si può far l'amore con una morta, ma non si può darle da mangiare. Il suo «io reale» doveva essere il punto di partenza per lo sviluppo di una condizione di genuina integrità. Ma esso non era facilmente accessibile. Anzitutto per i pericoli da cui si sentiva minacciato: I colloqui erano le uniche volte che mi sentivo di poter essere tranquillamente me stessa, lasciare che tutti i miei sentimenti venissero fuori e osservarli, senza paura che lei si arrabbiasse e mi mandasse via. Avevo bisogno che lei fosse come ima grande roccia, che avrei potuto continuare a spingere senza paura di farla rotolare via da me. Con lei potevo anche fare tranquillamente la sgualdrina. Con tutti gli altri cercavo di cambiare me stessa per non dispiacergli. ma anche perché si sentiva cosi carico di odio e di potenziale distruzione, che se qualcosa entrava in esso non avrebbe potuto sopravvivere: Anzitutto c'è l'odio. Il paziente odia il medico che riapre la piaga, e odia se stesso perché si lascia toccare ancora pur essendo certo che sentirà dell'altro dolore. Soprattutto vorrebbe essere morto, e nascosto in un luogo dove nessuno possa toccarlo e riportarlo indietro. II dottore deve aver pazienza e star dietro al paziente finché questo odia. Se si odia non si sente dolore, come quando si ama, e si può continuare a star vivi e non freddi e morti: la gente significa di nuovo qualcosa. Il medico deve star dietro al paziente finché questo odia: questo è l'unico modo di cominciare. Ma non deve mai far si che il paziente si senta in colpa perché odia. Il medico deve sentirsi sicuro di avere il diritto di entrare nella malat-

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tia, come una mamma che sa di avere il diritto di entrare nella stanza del bambino qualunque cosa ne pensi il bambino. Il medico deve sapere che sta facendo una cosa giusta. Il paziente ha una paura terribile dei suoi problemi, perché questi l'hanno distrutto: allora si sente terribilmente in colpa che il dottore se ne immischi. Il paziente è convinto che anche il dottore finirà in pezzi. Quindi non è giusto che il dottore chieda permesso per entrare. Deve entrare di forza: allora il paziente non deve sentirsi in colpa, e anzi può credere di aver fatto del suo meglio per proteggere il dottore. Questo deve dire il dottore con il suo modo di fare: «Io entro e non mi importa cosa pensi tu». In un altro brano si legge: Il problema degli schizofrenici è che essi non hanno fiducia in nessuno. Non vogliono rischiare. Il medico di solito deve entrare con la violenza, senza curarsi delle proteste del paziente. È bello essere battuti o ammazzati, perché nessuno lo fa mai, a meno che non abbia un vero interesse, a meno che non sia molto arrabbiato. Se una persona ammazza lo fa perché in realtà vuole che l'altro non se ne stia li morto, ma risusciti. L'amore è impossibile all'inizio, perché trasforma in un bambino piccolo e impotente, e il paziente non può sentirsi tranquillo in questo stato finché non sia assolutamente sicuro che il dottore conosce i suoi bisogni ed è in grado di provvedere. Cosi il timore di ricevere qualcosa o qualcuno si estende sia al male che al bene. Il male distrugge l'io, e l'io distrugge il bene. L'io è perciò al tempo stesso vuoto e affamato, e si orienta tutto fra il desiderio di nutrirsi, distruggere il nutrimento o essere distrutto da esso. Alcuni passano tutta la vita col vomito a fior di labbra. Si sente la loro terribile fame, ma essi ti sfidano a nutrirli. È un inferno vedere che ti si offre un seno con amore, e sapere che se appena ti avvicini lo odierai come odiavi quello di tua madre. Ti fa sentire una colpa da inferno, perché per poter amare devi prima poter sentire l'odio. Il medico deve dimostrare di sentire l'odio, ma di capirlo e di non esserne offeso. È terribile se il medico si sente offeso dal vomito.

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È un inferno desiderare tanto il latte e odiare tanto il seno al tempo stesso, e sentire tanta colpa per questo. Di conseguenza lo schizofrenico deve fare tre cose in una volta: cerca di arrivare al seno ma cerca anche di morire, mentre un'altra parte cerca di non morire. Torneremo più avanti alle questioni contenute in quest'ultima frase. Per il momento dobbiamo seguire l'io nel suo sforzo di evitare che un oggetto lo penetri, e per evitare quindi che l'io o l'oggetto vengano distrutti. L'io cerca di essere al di fuori di tutto: tutto ciò che è, è «là fuori», «qui dentro» non c'è niente. Ma cosi si arriva a un punto in cui tutto ciò che il paziente è viene vissuto come «non-me». Egli rifiuta tutto ciò che è, come lo specchio di una realtà estranea. Questo rifiuto totale del suo essere lo rende (cioè rende il suo «vero» io) come un punto che svanisce nel nulla: «egli» non può essere né reale, né sostanziale, non può avere né una identità né una personalità vera. Tutto ciò che egli è, allora, rientra per definizione nel raggio del sistema del falso io. La cosa può andare al di là degli atti e delle parole, ed estendersi ai pensieri, alle idee, persino ai ricordi e alle fantasie. Il sistema del falso io è il terreno in cui nascono i timori paranoidi. Esso, che si è allargato fino a comprendere ogni cosa, e che è rinnegato dall'io come lo specchio di una realtà estranea (un oggetto, un robot, una cosa meccanica e morta!), è considerato come una presenza o persona estranea, che tiene l'individuo in suo potere. L'«io» ha rifiutato di partecipare, e il sistema del falso io diviene territorio occupato dal nemico, e si sa controllato e dominato da un agente estraneo, ostile e distruttivo. Quanto all'io, esso esiste nel vuoto: ma questo vuoto viene circondato ed incapsulato, anche se dapprima in maniera apparentemente protettiva e relativamente benigna. Mi sentivo come se stessi chiusa in una bottiglia. Sentivo che tutto quanto era fuori e non poteva toccarmi. Ma poi la cosa diventa un incubo. Le pareti della bottiglia diventano una prigione che esclude l'io da tutto, mentre allo stesso tempo l'io è perseguitato come non mai, e

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proprio all'interno della sua prigione. Il risultato finale è almeno altrettanto terribile quanto la condizione dalla quale ci si voleva difendere. E Joan scrive: Non v'è gentilezza, né calore, né dolcezza in questa fonda caverna. Le mie mani son passate sui fianchi di pietra della caverna e in ogni crepaccio c'è solo il buio profondo. A volte non c'è quasi aria. Allora provo a respirare aria pura ma quello che respiro è soltanto l'aria della caverna. Non c'è apertura, non c'è uscita, Sono in una prigione. Ma non sono sola, Tanta folla si accalca addosso a me. Un sottile raggio di luce penetra nella caverna da una fessura nella roccia. Ma è buio È umido e l'aria è viziata. Tutti qui sono cosi grandi, enormi, Quando parlano si sente l'eco E le loro ombre, quando si muovono, li inseguono sui muri della caverna. Io non so come sono, né so com'è questa gente. Mi vengono addosso ogni tanto perché non stanno attenti. Io penso. Spero. Sono tutti cosi pesanti. Si sta sempre più stretti e soffocati Ho paura. Ma se esco di qui sarà tremendo Ce ne saranno altri là fuori Mi schiacceranno Saranno certo più pesanti di questi. Ma questi mi verranno addosso (Non stanno attenti) cosi spesso, che di me non resterà molto farò parte dei muri della caverna. Allora sarò un'eco e un'ombra come tutti gli altri di qui diventati echi, diventati ombre. Non m'è rimasta molta forza.

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Ho paura. Non c'è nulla per me fuori di qui. Tutti sono cosi grossi e mi ricacceranno in questa caverna. Di fuori non mi vogliono Non mi vogliono qui. Non importa. I muri di pietra sono cosi ruvidi e duri. Presto sarò come loro, dura e anche Immobile. Cosi dura. *** Mi vengono addosso e mi fanno male ma non fanno apposta solo non stanno attenti, Io penso, spero. Sarebbe interessante sapere come sono Ma non posso mai entrare nel fascio di luce che penetra nella caverna, perché mi sbarrano il passo, non stanno attenti: io penso, io spero. Ma potrebbe essere orribile vedere come sono. Potrei vedere che sono come gli altri di qui dentro. No, non sono cosi Io spero. * * *

Raschiate la caverna! Raschiate tutti i crudeli spigoli Che mi scorticano e tagliano. Fate entrare luce Pulitela! Fate uscire gli echi e le ombre Soffocate il mormorio della gente! Fatela saltare con la dinamite! *** No, non voglio: non ancora. Aspettate che mi tiri su Dal mio angolo. Ecco ora cammino ti vengo addosso anche a te, anche a te, anche a te! Lo senti il calcagno che ti pesta? Ti ho fatto male?

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Ah! Ora ti vengo addosso! Piangi? Benissimo. La bottiglia è diventata una caverna, i cui crudeli spigoli la tagliano e la scorticano, popolata da echi e da ombre persecutorie che lei stessa a sua volta perseguita. Ma ha ancora paura di abbandonare la caverna pur coi suoi orrori, perché soltanto in essa sente di poter conservare una certa minima identità. Ecco! Non c'è più! La caverna è scomparsa. Ma quando? Non posso più trovarmi: Dove sono? Perduta. So soltanto che ho freddo più freddo di quando ero nella caverna Tanto freddo. E loro, mi son passati addosso come se non ci fossi perché non stanno attenti, credo. Spero. Si, voglio la caverna Li so dove sono Posso strisciare nel buio sentire i muri E loro sanno che sono li e mi camminano addosso perché non stanno attenti, credo. Spero. Ma qui fuori Dove sono? Forse, in ultima analisi, non è mai esatto dire che l'«io» si è completamente perduto o è andato completamente distrutto, neppure quello dell'ebefrenico più «franato», per usare lo spaventoso termine creato da H. S. Sullivan. C'è pur sempre un «io» che non sa trovare un «me». Un «io» che non ha cessato di esistere, anche se è senza sostanza, senza corpo, senza nessun carattere di realtà, senza identità e senza un «me» che l'accompagni. Può sembrare una contraddizione in termini dire che l'«io» è privo di identità, ma la cosa è possibile. O lo schizofrenico non sa chi o che cosa è, o è diventato qualcosa o qualcuno

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diverso da se stesso. Ma sia come sia, senza quest'ultimo brandello qualunque terapia dell'«io» sarebbe impossibile. Non sembra che vi siano motivi sufficienti per ritenere che non ci sia più nemmeno quest'ultimo brandello in un paziente che comunque può ancora parlare, o almeno eseguire qualche movimento coordinato. Nel caso di Joan possiamo anche vedere che ciò che la paziente soprattutto desiderava salvare era proprio la sua identità. E tuttavia ella sentiva di non potere, o di non dovere, o di non voler osare di essere se stessa in quanto persona corporea. C'era un'intima connessione fra tutti i suoi problemi: quello cosi caratteristico di volersi sempre sentire in colpa, il fatto di non poter essere integrata, la natura del suo falso io, la sua malcerta capacità di differenziarsi dagli altri. Tutti dovrebbero poter tornare indietro con la memoria ed essere certi di aver avuto una mamma che amava tutto di loro, anche la pipi, anche la cacca. Chiunque dovrebbe poter essere sicuro che la mamma gli voleva bene giusto perché era lui, e non per quello che avrebbe potuto fare. Altrimenti non ci si sente in diritto di esistere, si sente che non si sarebbe mai dovuti nascere. Non importa cosa succede poi a questa persona, non importa se soffre, può sempre guardare indietro e sentire che può essere amato. Può amare se stesso: non può più rompersi. Ma se non può ritornare su queste cose, allora può rompersi. Ci si può rompere soltanto se si è già a pezzi. Finché il mio io bambino non è stato amato, io ero a pezzi. Amandomi come si ama un bambino lei mi ha aggiustato. In un altro passo Joan scrive: Le ho chiesto tante volte di picchiarmi perché ero sicura che il mio sedere non le piaceva, ma che se poteva picchiarlo almeno l'avrebbe accettato in qualche maniera. Allora anch'io potevo accettarlo e farlo diventare parte di me stessa. Non avrei più dovuto cercare di tagliarmelo. L'essere pazza le conferiva una certa dignità, che non era del tutto inaccettabile: Per me era terribilmente difficile smettere di essere schizofrenica. Sapevo che non volevo essere una Smith [il suo

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cognome], perché in questo caso non sarei stata che la nipote del vecchio Prof. Smith. Ma non ero sicura di potermi sentire la sua bambina: non ero sicura di me stessa. L'unica cosa che sapevo di sicuro era di essere «catatonica, paranoide e schizofrenica», perché l'avevo visto scritto nella mia cartella. Questo almeno aveva una sostanza, mi dava un'identità e una personalità. [E cosa fu che la fece cambiare?] Fu quando fui sicura che lei mi avrebbe permesso di sentirmi la sua bambina, e che mi avrebbe voluto bene come a una figlia. Se lei poteva amare il me reale, allora lo potevo anch'io. Potevo lasciarmi essere me stessa e non avevo più bisogno di nessuna etichetta. Recentemente ho fatto una visita in clinica, e c'è stato un momento in cui avrei potuto perdermi nelle sensazioni del passato. Avrei potuto continuare a vivere in pace là dentro. Il mondo di fuori sarebbe continuato, ma io avevo un mondo intero dentro di me, che nessuno poteva toccare o disturbare. Per un momento ho sentito un enorme desiderio di tornare. Era cosi quieto e tranquillo. Ma poi ho pensato che potevo trovare amore e benessere nel mondo reale, e ho cominciato a odiare la clinica. Odiavo le quattro mura e la sensazione di esserci chiusa dentro. Odiavo il ricordo di non essere stata mai realmente soddisfatta delle mie fantasie. Era stata incapace, con le sue sole risorse, di conquistare il diritto di essere se stessa e di essere autonoma. Era stata incapace di conquistare e conservare una reale autonomia perché, nei confronti dei suoi genitori, era stata sempre solo docile e obbediente. I dottori tentavano soltanto di fare di me una «brava ragazza», e di sistemare le cose fra me e i miei genitori. Cercavano di farci andare d'accordo. Ma questa era un'impresa disperata. Non riuscivano a capire che mi ci volevano dei nuovi genitori, una nuova vita. Nessun dottore mi prendeva sul serio, nessuno capiva che stavo male e che avevo bisogno di cambiare tutto. Nessuno vedeva che se fossi tornata in famiglia sarei stata inghiottita un'altra volta e mi sarei perduta. Sarebbe stato come una fotografia di famiglia, un gruppo di gente fotografato di lontano: si vede tanta gente ma non si distinguono le facce. Mi sarei perduta nel gruppo. Ma l'unico modo di cui disponeva per svincolarsi era una vuota trascendenza, una fuga in un mondo di fan-

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tasmi. Anche quando ebbe cominciato a essere se stessa poteva esserlo soltanto riflettendo completamente la realtà del medico. Tuttavia questo poteva farlo, perché tale realtà (i desideri del medico nei suoi confronti), la realtà di un'altra persona, non le era estranea, ma si accordava con un suo desiderio autentico: quello di essere se stessa. Esistevo soltanto perché lei voleva che esistessi, e potevo essere soltanto quello che lei voleva vedere. Mi sentivo reale soltanto per le reazioni che potevo far nascere in lei. Se le avessi dato un graffio e lei non se ne fosse accorto, sarei morta. Potevo essere buona soltanto se lei vedeva in me della bontà. Potevo vedere delle cose buone in me soltanto se guardavo me stessa attraverso i suoi occhi. Altrimenti vedevo soltanto una brutta ragazzetta affamata e maleducata che disturbava tutti e che era odiata da tutti, e mi odiavo. Avevo tanta vergogna per la fame che sentivo che avrei voluto strapparmi lo stomaco. A questo punto non aveva ancora un'autonomia vera. Qui si vede chiaramente come il senso di colpa schizofrenico sia di ostacolo all'essere se stessi. Il semplice atto di conquistare la propria autonomia e indipendenza è per lo schizofrenico un'appropriazione indebita, un gesto da Prometeo. Ricordiamoci anzi che la punizione di Prometeo fu di essere incatenato a una roccia mentre un'aquila gli divorava le viscere («Avrei voluto strapparmi lo stomaco»). Di più, esiste una versione di questo mito secondo la quale Prometeo perde parzialmente la propria identità separata, perché si confonde con la roccia alla quale è legato. Senza voler tentare un'interpretazione approfondita, si potrebbe tuttavia considerare l'aquila e la roccia come due aspetti della madre: quella madre alla quale si è incatenati («il seno di granito della disperazione») e quella dalla quale si è divorati. L'aquila che divora, e le viscere che si rinnovano continuamente, formano, insieme, una specie di inversione da incubo del normale ciclo nutritivo. Per lo schizofrenico amare qualcuno equivale ad essere come lui-, ma essere come qualcuno equivale a perdere

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l'identità. È per questo che odiare ed essere odiati appaiono sentimenti meno pericolosi, per la perdita dell'identità, che amare ed essere amati. Abbiamo affermato che la dissociazione di fondo nella personalità schizofrenica è una frattura che divide l'io dal corpo: io/( corpo-mondo ) Questa scissione spacca in due l'essere dell'individuo, in modo che il senso dell'io si fa incorporeo, mentre il corpo diviene il centro di un sistema del falso io. La totalità dell'esperienza si è cosi differenziata, a causa di una linea di frattura che divide l'io dal corpo. Se questa è la frattura primaria, oppure se essa coesiste con la successiva frattura verticale io / corpo / mondo, il corpo viene a occupare una posizione particolarmente ambigua. Possiamo considerare come segmenti fondamentali della esperienza i due seguenti: Qui



che, normalmente, si differenziano ulteriormente in Dentro (Me)

Fuori (Non-me)

La divisione schizoide provoca disturbi del senso normale dell'io rendendo incorporea la sensazione «io». Cosi si è gettato il seme di una persistente fusione o confusione nel punto d'incontro fra qui e là, fra il dentro e il fuori, giacché il corpo non viene sentito con sicurezza come «me» in contrasto al «non-me». Invece, quando il corpo può essere differenziato dal resto, si possono cominciare a risolvere in maniera normale tutti i problemi che riguardano i rapporti fra persone distinte. L'io allora non ha il disperato bisogno di chiudersi nella sua trascendenza difensiva; la persona può essere come qualcun altro senza tuttavia essere quello; i sentimenti possono essere partecipati senza tuttavia fondersi o confondersi con quelli dell'altra persona. Ma questa partecipazione può avqre inizio soltanto da una chiara distinzio-

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ne fra «qui, me» e «là, non-me». Per lo schizofrenico che si trova in questa fase è importantissimo sperimentare direttamente i casi particolari e le finezze che possono verificarsi al punto di contatto fra il dentro e il fuori, e tutto quello che può succedere quando si vuole esprimere e rivelare ciò che appartiene veramente all'io reale. È in virtù di questa sperimentazione che l'io assume la sua genuina corporeità. La prima volta che mi sono messa a piangere lei ha fatto un grave errore: mi ha asciugato gli occhi con un fazzoletto. Non aveva capito che volevo sentirmi le lacrime sulla faccia, cosi almeno avrei avuto la sensazione di qualcosa di esterno. Se solo mi avesse leccato la faccia con la lingua! Allora avrebbe partecipato di questa sensazione. Joan parla molte volte di sentirsi morta o di desiderare di essere morta, e dice: «Il paziente vuole davvero essere morto, nascosto in un luogo dove nulla può più toccarlo e riportarlo indietro». Abbiamo già detto che questo desiderio di essere morti e di non essere è probabilmente il più pericoloso di tutti. Nello schizofrenico due motivazioni principali si fondono in un'unica forza che opera nel senso di provocare la «morte vivente»: anzitutto la colpa primaria, che consiste nel sentire di non aver diritto alla vita, e di avere quindi, al massimo, diritto a una vita morta, e in secondo luogo un atteggiamento di difesa che è, forse, l'atteggiamento estremo che può essere adottato. Non si teme più di essere schiacciati, inghiottiti, sopraffatti dalla realtà e dalla vita che pulsa nelle altre persone o nelle proprie emozioni, perché si è già morti: i morti non possono più morire né uccidere. Le ansie che si accompagnavano al vecchio senso fantastico di onnipotenza non ci sono più, perché ora si vive in una condizione di fantastica impotenza. Joan, che non poteva essere altro da ciò che volevano i suoi genitori, i quali però volevano un maschio, non poteva fare che una cosa: essere nulla. Avevo bisogno di essere controllata, e di sapere che cosa si voleva da me. Cosi sarei stata sicura che qualcuno mi voleva. Per i miei non potevo essere un maschio, e loro non

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hanno mai detto chiaramente cos'altro volevano da me, tranne che fossi un maschio. Perciò volevo morire e diventai catatonica. Nel brano seguente viene detto succintamente tutto quello che c'è da dire: Quando ero catatonica cercavo di essere morta, grigia, immobile. Pensavo che alla mamma questo sarebbe piaciuto. Mi avrebbe portato in braccio come se fossi stata una bambola. Mi sentivo come dentro una bottiglia. Sentivo che tutto era fuori e nulla poteva toccarmi. Per non morire dovevo morire. So che questo sembrerà pazzesco, ma una volta un ragazzo mi fece molto male e io volevo buttarmi sotto un treno. Invece diventai un po' catatonica, cosi non sentivo più niente. (Immagino che bisogna morire emotivamente per non farsi uccidere dalle proprie emozioni). È vero: credo che piuttosto di far male a qualcuno mi ucciderei. Naturalmente il materiale che abbiamo presentato può essere letto in molti altri modi. Qui si è messo deliberatamente l'accento soprattutto sulla natura dell'esperienza particolare di Joan nei confronti del suo «vero» e del suo «falso» io. Spero che questa forma di lettura non abbia imposto indebite deformazioni della testimonianza della paziente, né abbia spinto a sopprimere eventuali aspetti importuni. Si tratta di un caso clinico che richiede un lavoro minimo di ricostruzione: la stessa paziente ci fornisce una descrizione molto chiara della fenomenologia della sua psicosi, con un linguaggio semplice e diretto. Quando invece si ha a che fare con un paziente attivamente psicotico si deve correre il rischio di tradurre nel proprio il linguaggio del paziente, se non si vuole che il resoconto risulti esso stesso scritto nella lingua della schizofrenia. Questo è il problema che verrà affrontato nelle pagine seguenti.

Capitolo undicesimo L o spirito del giardino delle erbacce (Un caso di schizofrenia cronica)

... perché la Verità è al di sopra di ogni commiserazione. MAKSIM GOR'KIJ

A l tempo in cui la conobbi, Giulia era ricoverata da nove anni (ora ne aveva ventisei) in ospedale psichiatrico. In questi nove anni era diventata una tipica schizofrenica cronica: isolata e inaccessibile. Aveva allucinazioni e stereotipie, era manierata, faceva atti bizzarri e incomprensibili; era quasi sempre silente, e quando parlava usava un linguaggio schizofrenico estremamente deteriorato. A l ricovero la diagnosi era stata di ebefrenia, era stato fatto un ciclo di insulina senza alcun miglioramento, e da allora non era stato più tentato nessun tipo di terapia. Non c'è dubbio che, se lasciata a se stessa, sarebbe ben presto «franata» del tutto anche fisicamente; ma oltre all'assistenza infermieristica c'era la madre, che quasi quotidianamente si prendeva cura del suo aspetto esteriore. All'età di diciassette anni i genitori l'avevano portata da uno psichiatra perché faceva e diceva varie cose strane e preoccupanti. A l colloquio con lo psichiatra, come risulta dalle note di quest'ultimo, non si potè osservare nulla di particolarmente insolito nella condotta non verbale della paziente, ma le cose da lei dette furono sufficienti a fare una diagnosi di schizofrenia. Rileggendo questa scheda clinica, redatta in linguaggio psichiatrico, si trova: spersonalizzazione; de-realizzazione; autismo; delirio di annientamento; delirio di persecuzione e di onnipotenza; idee di riferimento; fantasie di fine del mondo; allucinazioni uditive; impoverimento della vita affettiva. La paziente diceva di non essere una persona reale e di stare facendo tentativi per diventarlo. La sua vita non era felice; voleva trovare la felicità. Si sentiva irreale, e

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fra lei e gli altri c'era una barriera invisibile. Era vuota e non valeva nulla. Aveva paura di diventare distruttiva e cominciava a pensare che era meglio non toccare mai niente per non fare danni. Sulla madre aveva molte cose da dire. La madre la soffocava, non la lasciava vivere, non l'aveva mai voluta. Queste accuse apparivano assurde, giacché la madre la spingeva a fare amicizie, ad andare alle feste, a vestirsi bene ecc. Ma la dichiarazione realmente psicotica era che «una bambina era stata assassinata». Sui particolari la paziente era molto imprecisa, ma comunque diceva di aver sentito la notizia dalla voce di suo fratello (la paziente non aveva fratelli). Però non era sicura, avrebbe anche potuto essere la sua stessa voce. La bambina portava un vestito suo quando era stata uccisa: avrebbe anche potuto, forse, essere lei stessa. La paziente non era certa se la bambina fosse stata assassinata da lei stessa, o da sua madre, e proponeva di parlarne alla polizia. Molte di queste cose che Giulia diceva a diciassette anni ci sono già familiari. Possiamo cosi scorgere una verità esistenziale nel suo dichiarare di non essere una persona, di essere irreale; e possiamo comprendere cosa intendesse dire quando diceva di volerlo diventare, e anche perché mai si sentisse al tempo stesso tanto vuota e tanto aggressiva. Ma da questo punto in avanti le sue comunicazioni prendono, per cosi dire, un andamento parabolico. Si ha l'impressione che le accuse contro la madre siano in relazione al suo fallimento come persona, ma, almeno a un primo giudizio, sembrano veramente un po' esagerate e campate in aria. Quando poi dice che «una bambina è stata assassinata» il buon senso di chiunque si rifiuta di seguire oltre la paziente, ed è necessario lasciarla in un mondo che non ha più niente in comune col nostro. Volendo tuttavia esaminare la natura di questa psicosi, che sembra avere inizio intorno ai diciassette anni, si dovrebbe cominciare con uno sguardo agli anni precedenti.

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Storia clinica di una schizofrenica. È sempre difficile ottenere un resoconto adeguato dei primi anni di vita di uno schizofrenico: si può anzi dire che l'anamnesi di un paziente schizofrenico costituisca una laboriosa ricerca originale. D'altronde non si insisterà mai abbastanza sul fatto che un'anamnesi di ordinaria amministrazione, o anche un'anamnesi a orientamento dinamico, come si dice, raccolta nel corso di diversi colloqui, può fornire solo pochissime delle informazioni essenziali ad una analisi esistenziale. Nel caso in esame io ho avuto un colloquio alla settimana, per diversi mesi, con la madre, e in più diversi colloqui rispettivamente col padre, con l'unica sorella (di tre anni più vecchia), e con la zia (sorella del padre): ma qualunque sia il volume dei fatti raccolti, il pericolo di una loro tendenziosità è inevitabile. Searles (1958), per esempio, sottolinea, io credo con grande ragione, l'esistenza di sentimenti positivi fra lo schizofrenico e sua madre, ed è singolare che questo dato non sia quasi mai stato osservato. Perciò non ho molte illusioni che il presente studio vada immune da errori. Il padre, la madre, la sorella e la zia costituivano l'effettivo mondo personale in cui la paziente era cresciuta. La vita che il paziente ha condotto nel suo microcosmo interpersonale è il nucleo di ogni storia clinica, che perciò è sempre deliberatamente limitata. I fattori socio-economici presenti nella comunità più vasta, di cui la famiglia del paziente è parte integrata, non sono direttamente rilevanti per le questioni che ci interessano. Non si vuol dire che questi fattori non influenzino profondamente la vita della famiglia e quindi del paziente, ma, come fa il citologo quando, in quanto citologo, mette da parte la sua conoscenza dell'anatomia macroscopica descrivendo fenomeni a livello cellulare, pur essendo in possesso di tale conoscenza, cosi noi mettiamo in secondo piano le più vaste questioni sociologiche perché di non diretta o immediata rilevanza per comprendere come si diventa psicotici. Insomma io credo che la storia clinica che verrà presentata qui potrebbe essere quella di una ragazza della classe ope-

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raia di Zurigo, di una signorina della borghesia di Dublino, della figlia di un miliardario del Texas, perché nelle relazioni interpersonali di individui di posizione sociale cosi diversa esistono possibilità umane molto simili. Teniamo presente che si sta parlando della civiltà occidentale nel ventesimo secolo, e che forse le cose non si presenterebbero proprio negli stessi termini in altri tempi o altri luoghi. Non so quali siano le caratteristiche essenziali della nostra civiltà che dànno origine a queste diverse possibilità; come clinici però non dobbiamo dimenticare che ciò che accade al di là dei nostri limitati orizzonti può influenzare profondamente i modelli dei microcosmi interpersonali che dobbiamo esplorare con gli strumenti della clinica. Questa breve digressione era, io credo, necessaria, perché ho l'impressione che la psichiatria clinica occidentale tenda verso qualcosa che un mio amico schizofrenico chiamava «gaucherie sociale», mentre per esempio si direbbe che la psichiatria sovietica soffra, se mai, di gaucherie nella sfera dei rapporti interpersonali. Mentre credo che una storia clinica debba concentrarsi su questa sfera, credo anche che ciò vada fatto senza escludere la rilevanza di principio di altri fattori, che si possono temporaneamente trascurare per comodità. Tornando a Giulia, sebbene ciascuna delle persone interpellate avesse il suo punto di vista personale sulla paziente, tutti erano d'accordo nel distinguere tre fasi principali nella sua vita: 1. La paziente è una bambina buona, normale, sana. Da questa fase si passa gradualmente nella successiva. 2. La paziente è cattiva-, dice e fa cose che dispiacciono molto, e che nell'insieme vengono attribuite a cattiveria o capricciosità. 3. A un certo punto non si può più parlare di cattiveria; la paziente ha superato ogni limite, ed è da considerare completamente pazza. Quando si rendono conto che la figlia è pazza, i genitori si fanno una colpa di non essersene accorti prima. La madre mi disse:

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Cominciavo a odiarla per le cose terribili che mi diceva, ma vedevo che non era colpa sua... era cosi buona! E poi cominciò a dire certe cose... se lo avessimo saputo! Facevamo male a pensare che fosse responsabile delle cose che diceva? Io però lo sapevo che non faceva apposta a dirmi quelle cose. Sono quasi contenta che sia una malattia. Però è colpa mia: ah se non avessi aspettato tanto per portarla dal dottore! Cosa si intenda precisamente con le parole «buona», «cattiva» e «pazza» non sappiamo. Però sappiamo molte cose. Intanto, e naturalmente per quello che si ricordano i genitori, Giulia all'inizio si comportava come meglio non si potrebbe. Era «buona», sana e normale. Poi il suo comportamento cambiò: ora agiva in un modo che tutte le persone significative attorno a lei giudicavano unanimemente «cattivo»; finché, poco dopo, era «pazza». Tutto questo non ci dice che cosa facesse la bambina per apparire buona, cattiva o pazza agli occhi dei genitori, ma ci dà l'importante informazione che all'inizio le sue azioni si conformavano in pieno a un modello che i suoi genitori ritenevano buono e lodevole. Poi, per un certo tempo, fu «cattiva», cioè venne fuori proprio con quelle cose che i genitori soprattutto non volevano vedere e che anzi non credevano potessero esistere in lei. Non possiamo sapere come sia successo, ma che fosse capace di dire e fare cose simili era un fatto quasi incredibile per i suoi genitori: essi non avrebbero mai potuto prevederlo. Prima cercarono di non dare importanza alla cosa, poi cercarono di reprimerla con la violenza. E fu un gran sollievo non sentirla più dire che la mamma non la lasciava vivere, e dire invece che la mamma aveva ammazzato una bambina. Ora si poteva perdonare tutto. «La povera Giulia era ammalata. Non era responsabile. Come ha potuto pensare per un momento che quelle cose le dicesse apposta? Ho sempre fatto del mio meglio per essere una brava madre». Avremo occasione di ricordare quest'ultima frase. È molto comune trovare le tre fasi suddette nella evoluzione dell'idea di psicosi nella mente dei familiari. Buono-cattivo-pazzo. Scoprire in che modo i familiari del paziente hanno giudicato la sua condotta è importante quan-

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to la storia della condotta stessa. Cercherò di dimostrare questo più avanti, ma intanto vorrei osservare una cosa importante a proposito del racconto che mi fecero i genitori della paziente. Essi non cercavano di nascondermi nulla né di sviarmi: entrambi desideravano collaborare, e non mi nascosero mai deliberatamente nessun dato di fatto. La cosa interessante era un certo modo di non dare importanza ai fatti, o meglio un certo modo di non dare importanza o addirittura negare certe implicazioni ovviamente possibili dei fatti stessi. Ma la cosa migliore da fare è di presentare una breve biografia della paziente, raggruppando per ora gli eventi secondo gli stessi criteri dei genitori. Per far questo userò principalmente le parole della madre. Fase I.

Bambina buona e normale.

Giulia non fu mai una bambina difficile e fu svezzata senza difficoltà. La madre non dovette più occuparsi di lei dal giorno in cui le tolse completamente i pannolini: aveva allora quindici mesi. La bambina non dava mai fastidio e faceva sempre come le dicevano. Queste sono le dichiarazioni generali della madre, che confermano il giudizio di bambina «buona». Ma questa è proprio la descrizione di una bambina che in un certo senso non è mai riuscita a essere viva: una bambina veramente viva è esigente, dà fastidio e certo non fa sempre quello che le dicono. Può anche darsi che la bambina non fosse proprio «perfetta» come la madre voleva farmi credere, ma è questo il punto: l'ideale della perfezione nella testa della signora era questo tipo di «bontà». Forse la bambina non corrispondeva perfettamente a questo ideale, e nell'affermare che invece era proprio perfetta la madre è spinta da un timore che io possa farle colpa di qualcosa? Ma l'essenziale è che evidentemente la signora considera espressione di perfetta bontà, salute e normalità proprio quelle cose che io considero espressione di morte interiore in una bambina. Perciò, se non vogliamo pensare alla paziente separatamente dalla sua famiglia, ma invece all'intero sistema di rapporti fa-

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miliari di cui Giulia faceva parte, il punto importante non è che sua madre, suo padre, sua zia, tutti descrivano una bambina che, esistenzialmente, è morta, bensì che nessuno di questi adulti conosca la differenza fra la vita e la morte in senso esistenziale. A l contrario: una bambina esistenzialmente morta riceve da loro le massime lodi. Consideriamo separatamente le varie affermazioni della madre. i . Giulia non fu mai una bambina difficile. Non piangeva mai forte quando aveva fame. Non succhiava mai con vigore. Non terminava mai la bottiglia. Era sempre delicata e flebile, e non ingrassava rapidamente. «Non chiedeva mai niente, ma sentivo che non era mai completamente soddisfatta». Qui abbiamo la descrizione di una bambina nella quale la fame orale, la ghiottoneria non ha mai trovato vera espressione. Invece di sane e vigorose espressioni istintive di pianto vitale, di eccitazione, di energia nel succhiare e vuotare la bottiglia, seguite dalla sazietà, dalla contentezza e dal sonno, abbiamo una bambina che si lamenta flebilmente, sembra che abbia fame ma succhia senza forza e tuttavia non è soddisfatta. Viene voglia di poter ricostruire queste prime esperienze dal punto di vista della paziente. Ma qui dobbiamo limitarci ai fatti osservabili cosi come sono ricordati dalla madre dopo più di vent'anni, e su questi solamente erigere la nostra costruzione. Come si è già notato (e credo che questo sia un punto importante in un discorso sui fattori eziologici) uno degli aspetti più importanti del racconto non è semplicemente il fatto di ottenere il quadro di una bambina che, sebbene fisicamente sia viva, esistenzialmente non lo è del tutto, ma piuttosto che la madre capisca cosi poco la situazione da rivivere con gioia, col ricordo, proprio gli aspetti più morti della sua attività. La madre non si allarma se la bambina non piange, non chiede, non svuota la bottiglia, né si accorge che ciò è un grave difetto degli impulsi istintivi orali di fondo, anzi prende tutto come un segno di «bontà».

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La signora ha insistito molto sul fatto che Giulia non fosse mai «esigente». Ciò non significa che lei stessa non fosse una donna generosa, anzi a Giulia «aveva dato la sua vita», per ripetere le sue parole. Come vedremo, la sorella di Giulia era stata invece esigente e ingorda, e sua madre non aveva mai avuto grandi speranze per lei: «La lasciavo andare per la sua strada». Ed era appunto il fatto che Giulia fin dalla nascita non era mai stata esigente che aveva spinto la madre a darle sempre tanto. Perciò fu tremendo per lei quando Giulia, appena adolescente, invece di manifestare un po' di gratitudine per quanto era stato fatto per lei cominciò ad accusarla di non averla mai lasciata vivere. Cosi, quantunque sia possibile che la bambina, a causa di qualche fattore genetico, sia nata con un organismo poco aperto ai bisogni istintuali e alla loro gratificazione, per dirla in maniera molto generica, a questo si aggiungeva il fatto che gli adulti intorno a lei consideravano questa caratteristica come un segno di bontà, e davano la loro approvazione all'assenza di attività autonoma. Un fallimento quasi totale del bambino nell'ottenimento delle sue soddisfazioni istintuali, in combinazione con la totale incapacità della madre di capire questo fatto, è uno dei temi ricorrenti nei primissimi rapporti dello schizofrenico bambino con la madre. Ulteriori ricerche diranno fino a che punto questa combinazione è specifica. 2. Giulia fu svezzata senza difficoltà. È nell'atto della nutrizione che il bambino è attivamente vivo con un'altra persona per la prima volta. All'epoca dello svezzamento ci si può attendere che nel bambino normale si sia sviluppato un certo senso di sé come essere distinto, «per conto suo», e un certo senso della permanenza della madre come prototipo dell'altra persona. Sulla base di queste conquiste lo svezzamento avviene senza troppe difficoltà. È in questa fase che il bambino fa i «giochi di svezzamento»: per esempio fa cadere un giocattolo e se lo fa restituire, lo fa cadere ancora, e cosi via interminabilmente. Il gioco sembra consistere nel fatto che un oggetto sparisce e ritorna, sparisce e ritorna: di fatto, è il problema centrale dello svezzamento. Inoltre il gioco di solito va fatto a mo-

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do suo, e l'adulto trova naturale la sua complicità nel mantenere l'impressione che sia il bambino a dirigerlo. Nel caso citato da Freud il fanciullo teneva stretta la corda quando gettava via il rocchetto, in contrasto col fatto di non poter tenere la madre sotto un simile controllo, attaccandosi ai lacci del suo grembiule. Ora, se come abbiamo supposto, Giulia nei primi mesi di vita non riusciva a conquistare quell'autonomia che è il primo requisito per poter andare per conto proprio con una mente propria, allora non deve sorprendere che lo svezzamento sia avvenuto senza difficoltà, ma si fa fatica a chiamarlo svezzamento, perché non si può rinunziare a una cosa che non si è mai avuta. A rigore non si può dire che nel caso di Giulia ci sia stato uno svezzamento vero e proprio. Tutto andò talmente liscio in questo periodo che la madre si ricorda solo di pochissimi episodi. Tuttavia ricorda di aver fatto il gioco del «gettare via» con la bambina, in questo modo. La sorella più grande aveva giocato a suo tempo nel modo consueto, il che aveva esasperato la signora. «Ma con Giulia feci in modo che questo non avvenisse». Non appena la bambina seppe trascinarsi, il gioco fu questo: «Ero io che gettavo via il giocattolo e lei me lo riportava». Non è necessario fare commenti sulle conseguenze di questa inversione dei ruoli per lo sviluppo del senso di autonomia di Giulia. Aveva camminato precocemente (appena passato l'anno), e strillava se non riusciva a traversare la stanza abbastanza presto per raggiungere la madre. Bisognò spostare i mobili, perché Giulia «aveva molta paura delle sedie che incontrava sul percorso». La madre interpretava questo fatto come un segno del grande affetto che la bambina aveva per lei. Un altro segno era che, fino a tre o quattro anni, «quasi impazziva» se la madre si allontanava per un momento. Questo sembra confermare la nostra idea che in realtà Giulia non sia mai stata svezzata, nel senso che non aveva mai raggiunto lo stadio nel quale avrebbe potuto aversi uno svezzamento anche non strettamente fisico. Non avendo mai stabilito la sua autonomia su basi solide, non poteva sperimentare liberamente le situazioni di assenza e pre-

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senza degli altri, e quindi non poteva imparare a stare sola per conto suo, né giungere alla scoperta che la presenza fisica dell'adulto non era necessaria alla sua esistenza, per quanto potessero essere frustrati i suoi bisogni e i suoi desideri. Se un individuo ha bisogno di un'altra persona per poter essere se stesso c'è da supporre che egli non sia riuscito a raggiungere un'autonomia piena, cioè che affronti la vita da una posizione ontologica fondamentalmente insicura. Giulia non poteva essere se stessa né in presenza né in assenza di sua madre: per quel che la madre si ricorda essa non è mai stata fuori portata di voce da Giulia fin quasi a tre anni. 3. Giulia è stata sempre pulita a partire dai quindici mesi, età in cui le furono tolti i pannolini. Si può notare a questo punto che non è raro constatare negli schizofrenici uno sviluppo precoce del controllo sfinterico. Non sono stati fatti confronti con aliri gruppi, ma è certo che assai spesso i genitori di questi pazienti raccontano di essere stati molto orgogliosi per la precocità dei loro bambini nello strisciare, nel camminare, nel controllo delle funzioni intestinali e della vescica, nel linguaggio, nello smettere di piangere. Ma si deve considerare la connessione fra ciò che il genitore è orgoglioso di raccontare e ciò che il bambino ha fatto, e chiedersi quanta parte dell'attività del bambino sia espressione della sua volontà. La questione non è di sapere se un bambino è buono o cattivo, ma se nel bambino si sia sviluppato il senso di essere lui stesso l'origine delle sue azioni, o se invece senta che esse non nascono dal suo intimo ma dalla madre: e ciò anche se in apparenza è lui l'agente dei suoi atti (cfr. la persona in ipnosi che ha ricevuto l'ordine di far fìnta di essere autonoma). Può accadere che tutte le facoltà fisiche si siano sviluppate, e che quindi il corpo faccia tutto ciò che ci si aspetta da lui, senza però che si sia affatto stabilita un'attività autonoma genuina, e che si abbia quindi un'attività che obbedisce quasi totalmente a direttive esterne. Nel caso di Giulia sembra che le sue azioni siano state formate dalla madre, e che lei non fosse mai veramente presente in esse. Era questo forse quello che voleva dire 8

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quando diceva di non essere mai diventata una persona, e quando, nelle sue reiterazioni da cronica, ripeteva di essere una «campana suonata». In una parola, la bambina era soltanto quello che le dicevano di fare. 4. Giulia faceva sempre quello che le dicevano. Come abbiamo già osservato a proposito delle bugie, esistono buoni motivi per essere obbedienti, ma essere incapaci di essere disobbedienti è un'altra questione. Nel racconto della madre non è possibile scorgere finora nessun riconoscimento da parte della signora di altre possibilità per Giulia, che non fossero di diventare, per dirlo con le parole di Giulia stessa, una «campana suonata». A questa campana suonata la madre aveva dato «tutta la sua vita», ma negava ostinatamente, ancora dopo venticinque anni, la possibilità che questa ragazzina buona, obbediente, pulita, che le voleva tanto bene che quasi impazziva se era separata da lei da una sedia, fosse diventata una pietra, una «cosa», troppo piena di terrore per poter diventare una persona. 5. Giulia non dava mai fastidio. È chiaro che dopo i primissimi mesi di vita la paziente era priva di qualsiasi autonomia personale. Per quanto si può giudicare dai ricordi della madre non aveva mai nemmeno preso abitudini sue; i bisogni e le gratificazioni istintuali non avevano mai trovato espressione attraverso i canali dell'attività corporea. Non si era mai nemmeno avuta una soddisfazione reale, nata da un vero desiderio per il seno reale. La madre considerava anche le conseguenze di ciò con la stessa approvazione che dava alle sue prime manifestazioni. «Non chiedeva mai un altro pezzo di torta. Bastava dire "Basta, Giulia", che subito obbediva». Abbiamo già descritto come possa accadere che l'odio trovi espressione proprio nella docilità del sistema del falso io. Sua madre lodava l'obbedienza, ma Giulia cominciava a portare la sua obbedienza a un punto tale che diventava una cosa insopportabile. Per esempio una volta, verso i dieci anni, ebbe un periodo in cui bisognava dirle tutto quello che sarebbe accaduto nel corso della giornata

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e tutto quello che doveva fare. Ogni mattina si doveva fare questo programma, e se la madre rifiutava di compiere il rito, si metteva a piagnucolare: per farla smettere non c'era altro modo, secondo la madre, che dargliele di santa ragione. Quando fu più grande cominciò a non spendere mai il danaro che le davano. Anche se le chiedevano cosa avrebbe voluto, o se la spingevano a comprarsi un vestito o a uscire con le amiche come le altre ragazze, non esprimeva mai un desiderio: doveva essere la madre a comprarle i vestiti, e quanto alle amicizie non c'era mai un'iniziativa da parte sua. Non prendeva mai nessuna decisione. Oltre al piagnucolio suddetto c'erano alcuni altri vizi e capricci. Dai cinque ai sette anni ci fu un periodo in cui si mangiava le unghie. Fin dall'inizio del linguaggio ogni tanto rovesciava tutte le parole. A otto anni cominciò improvvisamente a mangiare troppo, e dopo qualche mese tornò al suo solito modo svogliato di mangiare. La madre però non dava importanza a questi episodi e li considerava passeggeri. Tuttavia essi sono come delle improvvise aperture su un mondo interiore di aggressività e di violenza, con un accesso breve e disperato di ingordigia manifesta che però ben presto scomparve. Fase I I .

La fase « c a t t i v a » .

A partire dai quindici anni la sua condotta cambiò, e da buona bambina che era diventò «cattiva». In questo stesso periodo era cominciato a cambiare anche l'atteggiamento della madre nei suoi confronti. Mentre prima essa aveva ritenuto giusto che Giulia stesse sempre con lei, ora cominciava a spingerla a uscire, fare amicizie, andare al cinema e alle feste, avere degli amici. Ma la paziente si rifiutava ostinatamente di fare qualunque di queste cose. Stava seduta In casa senza far niente oppure andava in giro per le strade, senza mai dire alla madre quando sarebbe tornata. Teneva la sua stanza in estremo disordine. Giocava ancora con una bambola, ma ora la madre pensava che fosse ormai troppo grande per farlo. Avremo occasione di riparlare di questa bambola. Le sue scenate contro la madre erano continue, e sempre sullo stesso tema: la accusava di

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non averla desiderata, di non lasciare che diventasse una persona, di non lasciarla mai neanche respirare, di averla soffocata; il tutto bestemmiando e dicendo parolacce. Ma con gli altri, quando voleva, sapeva essere carina. Finora abbiamo preso in considerazione soltanto il rapporto di Giulia con sua madre. Prima di procedere dobbiamo dire una parola a proposito di tutta la costellazione familiare. In anni recenti è stato introdotto il concetto di madre «schizofrenogena». Fortunatamente una certa aria di «caccia alle streghe» che all'inizio si era formata attorno a questo concetto si sta già dissipando. Il concetto può essere elaborato in vari modi piuttosto diversi fra loro, ma noi lo possiamo formulare in questi termini. Può esservi un modo di essere madre che impedisce, anziché facilitare e rafforzare, le tendenze innate (determinate cioè geneticamente) verso il normale sviluppo delle fasi primarie della sicurezza ontologica che il bambino può avere. Non solo la madre, ma tutta la costellazione familiare può ostacolare anziché favorire la capacità del bambino di partecipare realmente al mondo col suo io, insieme con gli altri. Si ritiene attualmente che la schizofrenia sia uno dei risultati possibili allorché l'individuo incontra qualche grave difficoltà ad essere una persona intera insieme con gli altri, e a sentire nel modo comune (cioè nello stesso modo della comunità) l'esperienza di essere nel mondo con gli altri. Il mondo del bambino, come quello dell'adulto, è «un'unità del dato e del costruito» (Hegel), un'unità fra ciò che gli arriva mediato dai genitori - specialmente dalla madre - e ciò che poi egli ne fa. La madre e il padre semplificano grandemente il mondo del bambino; poi, quando si sviluppa la sua capacità di capire, di dare una forma al caos, di afferrare distinzioni e connessioni di crescente complessità, allora, come dice Buber, il bambino è condotto dentro un «mondo possibile». Ma che accade se gli schemi materni, o familiari, non si accordano con le cose nelle quali il bambino deve vivere e respirare? Accade che il bambino deve costruirsi da solo la sua visione del mondo e con quella deve riuscire a vive-

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re, come riuscì a fare William Blake, e come riuscì a dire (ma non a fare) Rimbaud; altrimenti diventa pazzo. È coi primissimi legami affettivi che si sviluppa nel bambino l'iniziale capacità di vivere da sé; è attraverso questi legami che il mondo, mediato dalla madre, comincia ad arrivargli. Il mondo che gli è dato può allora essere tale che egli riesce a viverci, ma è anche possibile, invece, che ciò che gli viene dato esuli dalle sue possibilità, non sia adatto a lui in quel momento. Poi, nonostante l'importanza del primo anno di vita, la natura dell'ambiente in cui il bambino si trova a trascorrere l'infanzia, la fanciullezza e l'adolescenza può ancora avere conseguenze importanti in un senso o nell'altro. È in queste fasi successive che il padre e gli altri adulti significativi possono avere un ruolo decisivo nella sua vita, sia in una relazione diretta con lui, sia indirettamente attraverso la madre. Tutte queste considerazioni suggeriscono che è più corretto pensare a famiglie schizofrenogene, e non esclusivamente a madri schizofrenogene. Se non altro cosi facendo si verranno a incoraggiare gli studi sulla dinamica della costellazione familiare nel suo insieme, in luogo degli studi sulle madri, o sui padri, o sui fratelli, condotti senza sufficienti riferimenti a quella dinamica La sorella di Giulia, maggiore di tre anni, era una donna sposata, piuttosto forte e aggressiva ma non priva di grazia e femminilità. A dire della madre era stata una bambina «difficile» fin dalla nascita: era esigente e dava sempre fastidio, Srdirebbe insomma che sia stata una bambina piuttosto normale, che però la madre non ha mai approvato molto. Le due sorelle andavano abbastanza d'accordo. La sorella di Giulia considerava la madre una persona autoritaria, finché non le veniva opposta resistenza. Ma aggiungeva: «ha sempre fatto tutto per Giulia, è sempre stata Giulia la favorita». È chiaro che questa sorella aveva già da un pezzo conquistato una condizione del tutto autonoma. Se si osservava attentamente la sua personalità si potevano scorgere in lei molti tratti nevrotici, ma non pareva esservi dubbio che, almeno, ella aveva raggiunto 1

Cfr. fra l'altro Laing e Esterson (1964).

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quello stato ontologico primario che Giulia non aveva mai posseduto. Da bambina aveva amiche della sua età, e quindi un po' troppo grandi per Giulia: anche per questo Giulia non le era mai stata molto vicina. Nel mondo di fantasmi di Giulia c'era tuttavia una sorella grande, che era una delle poche figure in predominanza buone che lo popolavano: una «Sorella di Grazia». Il padre aveva un ruolo più chiaramente significativo. Agli occhi della madre era «un porco»; agli occhi di lui la madre era una donna fredda e scostante. I due si parlavano solo quando era assolutamente necessario. Il marito trovava le sue soddisfazioni sessuali altrove. Tuttavia, sebbene avessero tante accuse da muoversi a vicenda, in queste non ho mai sentito parlare di maltrattamenti verso Giulia. Il padre comunque non aveva molto da dirmi, perché, come mi disse, si era «emotivamente isolato» dalla famiglia ancor prima che Giulia nascesse. La sorella della paziente mi raccontò due incidenti che devono essere stati entrambi di grande importanza per Giulia. La madre non mi aveva raccontato il primo perché probabilmente non lo conosceva, e non si era sentita di raccontarmi il secondo. Vedremo più avanti il secondo incidente; il primo si ebbe quando Giulia aveva quattordici o quindici anni. Sebbene il padre fosse molto lontano da lei, anzi quasi inaccessibile, sembrava che Giulia gli volesse bene. Ogni tanto facevano una passeggiata assieme. Una volta Giulia tornò in lacrime da una di queste passeggiate. Alla madre non volle raccontare cosa fosse accaduto. La madre mi accennò questo, per dirmi che era sicura che era successo qualcosa di brutto fra Giulia e il padre ma che lei non aveva mai saputo cosa fosse. Dopo questo episodio Giulia non volle avere più a che fare con suo padre. Ecco quello che confidò alla sorella: il padre l'aveva portata con sé in una cabina telefonica, e cosi lei aveva sentito una conversazione «schifosa» fra lui e la sua amante. La madre non esitava a parlar male del marito con le figlie, e cercava di portarle dalla sua parte elencando innumerevoli colpe di lui. Ma la sorella era neutrale, mentre Giulia, apparentemente non accettava un'aperta compii-

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cita con la madre; dopo l'incidente del telefono aveva troncato ogni rapporto col padre, ma non aveva passato l'informazione per non dare altra farina al mulino. Il padre invece, come mi aveva detto, si era isolato dalla famiglia, e non parlava male della moglie con le due ragazze perché non aveva bisogno della loro alleanza. Sebbene la considerasse inutile come moglie, diceva: «A essere giusti era una buona madre, questo lo devo riconoscere». La sorella maggiore vedeva difetti e colpe da ambo le parti, ma cercava di essere moderata nei giudizi e di non prendere partito per nessuno dei due; dovendo farlo prendeva le parti della madre contro il padre, e anche contro Giulia. Non c'è da stupirsi di quest'ultima presa di posizione. Le accuse mosse da Giulia contro sua madre erano, dal punto di vista dei fatti e del buon senso, assurde e fantastiche dalla prima all'ultima, e devono essere sembrate fin dall'inizio delle cose da pazzi. Gridare e strepitare di essere soffocata, di non essere lasciata vivere ed essere una persona, doveva apparire come una cosa senza senso a questa famiglia di ordinario buon senso. Giulia diceva che la madre non l'aveva mai voluta, ed era la beniamina: tutto quello che la madre aveva fatto l'aveva fatto per lei, le aveva dato tutto. Giulia diceva che la madre la soffocava, e la madre voleva che crescesse. Diceva che la madre non voleva che diventasse una persona, e la madre la spingeva a fare amicizie, a frequentare le feste ecc. È notevole il fatto che, nonostante la rottura completa dei rapporti fra marito e moglie, fosse rimasta fra loro un'alleanza. Entrambi infatti accettavano il falso io della paziente come quello buono, mentre rifiutavano come cattivo ogni altro aspetto di lei. Ma nella fase della ragazza «cattiva» bisogna aggiungere un'altra osservazione forse ancora più importante. Non solo questi genitori respingevano come cattive tutte le parti di Giulia che non fossero l'ombra obbediente e senza vita che ai loro occhi passava per una persona vera: rifiutavano assolutamente di prendere a cuore i rimproveri che Giulia muoveva contro di loro. In questo periodo Giulia e sua madre erano scatenate una contro l'altra. Nella sua psicosi, Giulia chiamava sua madre «la Signora Sarti». Cosa significa questo? Signifi-

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ca «Sono fatta su misura dalla sarta». «Sono matta su misura della sarta». «Sono fatta, nutrita, vestita e fatta su misura dalla sarta». Queste sono parole psicotiche, non perché non possano essere «vere», ma perché sono enigmatiche: spesso è impossibile capirle se il paziente stesso non ci aiuta a decifrarle. Ma anche considerandole psicotiche, le frasi suddette contengono un giudizio molto acuto, e forniscono in poche parole la sintesi di tutti i rimproveri che Giulia faceva alla madre fra i quindici e i sedici anni. Quel gridare e strepitare era la sua «cattiveria». Ma quello che io credo sia stato il fattore schizofrenogeno più potente in questo periodo non era semplicemente costituito dagli attacchi di Giulia contro sua madre, e nemmeno dai contrattacchi di quest'ultima, ma dalla completa assenza, nel suo mondo, di qualcuno che potesse o volesse vedere un fondo di verità, anzi un significato qualunque, giusto o sbagliato che fosse, nelle sue parole. Per vari motivi né suo padre né sua sorella riuscivano a vedere una qualunque validità negli argomenti di Giulia. Come il paziente della seduta di gruppo (p. 52), Giulia non combatteva per avere la meglio nella discussione, ma per difendere la sua esistenza: in un certo senso, anzi, non cercava semplicemente di difendere la sua esistenza, ma di costruirsela. Da tutto ciò appare che ancora a quindici o sedici anni Giulia non poteva aver sviluppato quella che si potrebbe chiamare l'intelligenza del senso comune. Il senso comune della famiglia non la riconosceva. Sua madre doveva avere assolutamente ragione. Quando lei diceva che Giulia era cattiva, Giulia si sentiva assassinata, perché quelle parole della madre erano la negazione del suo punto di vista autonomo. La madre era invece disposta ad accettare quell'altro io docile e obbediente, ad amare anzi quell'ombra falsa e darle tutto. Cercava persino di dare ordini a quell'ombra, come se fosse una persona. Ma non aveva mai riconosciuto la presenza reale e allarmante di una figlia con le sue possibilità e caratteristiche personali. La verità esistenziale del delirio di Giulia era che queste possibilità venivano soffocate, strangolate, uccise. Per esistere, per poter respirare, bisognava che sua madre ammettesse di essersi sbagliata, che in un certo senso almeno quello che sua figlia

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diceva era giusto e aveva un significato. Oppure si potrebbe dire che bisognava che le si lasciasse proiettare sulla madre un po' del suo io cattivo, e prendere dalla madre un po' di bontà, anziché farsela dare continuamente. Ma dal punto di vista dell'intera famiglia Giulia cercava di dimostrare che il nero era bianco. La realtà non cedeva. Giulia cominciò a tradurre le verità esistenziali in fatti fisici: cominciò a delirare. Se all'inizio aveva accusato sua madre di non averla mai lasciata vivere, in senso esistenziale, ora parlava e agiva come se sua madre avesse veramente ucciso, nel senso del codice penale, una vera bambina; ed era un sollievo per la famiglia poter finalmente avere compassione di lei, senza doversi più vendicare condannandola. Curiosamente, solo il padre continuava a trattarla come una persona responsabile, senza mai ammettere che fosse pazza: per lui era soltanto perfida. Lui non si lasciava prendere in giro: era tutto dispetto e ingratitudine. Quello che noi chiameremmo negativismo catatonico per lui era solo cocciutaggine; i sintomi ebefrenici erano stupide malvagità. Era l'unico della famiglia a non aver compassione di lei: nelle poche occasioni che era venuto a trovarla si sapeva che l'aveva presa per un braccio, scossa e pizzicata dicendole di «smetterla una buona volta». Fase I I I .

Pazza.

L'accusa principale di Giulia contro sua madre era che questa cercava di ucciderla. A diciassette anni si ebbe un incidente che probabilmente fu la causa immediata del passaggio dalla cattiveria alla pazzia. Si tratta del secondo episodio raccontatomi dalla sorella. Fino all'età di diciassette anni Giulia giocava con la bambola. Era una bambola che aveva fin dall'infanzia: Giulia le faceva i vestiti, glieli metteva, faceva altri giochi che nessuno aveva visto, chiusa nella sua camera. Era come un rifugio segreto nella sua vita. La bambola si chiamava Giulia. La madre insisteva sempre più energicamente perché la smettesse, grande com'era. Un giorno la bambola spari. Non si seppe mai se fosse stata Giulia a buttarla

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via o se fosse stata la madre. Giulia accusava la madre; questa negava e diceva che Giulia doveva averla persa. Poco tempo dopo Giulia udì una voce, che le diceva che una bambina vestita come lei era stata ridotta in poltiglia a forza di colpi da sua madre. Giulia progettava di andare alla polizia per denunciare il delitto. La mia opinione è che possa essere stata sia Giulia che sua madre a buttar via la bambola, perché è molto probabile che, a questo stadio, la «madre» di Giulia fosse già un archetipo più distruttivo della sua madre reale. Quando Giulia diceva che sua «madre» aveva ucciso la bambola è possibilissimo che intendesse che «lei», cioè la sua madre «interiore», l'aveva fatto. Comunque sia, il fatto era una vera catastrofe, perché Giulia evidentemente si identificava con la bambola. Nei suoi giochi con essa, la bambola era lei, e lei sua madre. Perciò è possibile che, nel gioco, ella diventasse sempre più la cattiva madre che alla fine uccideva la bambola. Vedremo più oltre che nella psicosi la «cattiva» madre agiva e parlava attraverso di lei molto spesso. Se la bambola fosse stata eliminata dalla madre vera, e se questa l'avesse confessato, allora forse l'evento sarebbe stato meno disastroso, perché quei pochi frammenti di salute mentale che restavano a Giulia in questa fase dipendevano dalla possibilità di attribuire un po' di cattiveria alla madre. L'impossibilità di fare ciò in modo sano fu uno dei fattori che contribuirono alla psicosi.

Lo spettro del giardino delle erbacce. ... a un certo punto una macchina che sia stata montata sommariamente può trovare le sue connessioni divise in unità parziali, ciascuna con un maggiore o minore grado di indipendenza. NORBERT W I E N E R ,

Human

Human Use of

Beings.

Le osservazioni che seguono si possono applicare sia a Giulia che ad altri schizofrenici cronici del tipo ebefrenico-catatonico. Non sono invece applicabili alle altre forme

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di psicosi cronica, anche dove è evidente una qualche dissociazione; in particolare alle psicosi paranoidee, dove si ha una certa integrazione della personalità, comunque molto maggiore di quella riscontrabile in Giulia e nei pazienti del suo tipo. L'essere di Giulia era ridotto in frammenti, tanto che per descrivere il suo stato bisognerebbe parlare di una morte vivente in condizioni di non-entità caotica. Nel caso di Giulia il caos e la mancanza di identità non erano totali. Ma quando si stava con lei si provava distintamente quella impressione indefinibile descritta dai clinici tedeschi, che viene chiamato «praecox Gefiihl» 1 e che consiste nello stare in presenza di un altro essere umano e tuttavia sentirsi come se non ci fosse nessuno. Anche se si poteva pensare che le cose dette fossero l'espressione di qualcuno, quel frammento di un io che stava dietro le parole non era Giulia. Ci potrà magari essere qualcuno che ci sta parlando: ma quando si ascolta uno schizofrenico è molto difficile sapere chi è che parla, ed altrettanto difficile sapere a chi si rivolge. Ascoltando Giulia era spesso come se si facesse psicoterapia di gruppo con una sola paziente. Cosi mi trovavo di fronte a un parlottio, a una confusione di atteggiamenti, espressioni, impulsi dei più disparati. Le intonazioni, i gesti, i manierismi della paziente cambiavano di carattere da un momento all'altro. Dopo un po' si poteva cominciare a riconoscere pezzi di discorso, o frammenti di attività, che emergevano in momenti diversi ma che sembravano uniti fra loro da qualche somiglianza di intonazione, o di vocabolario, o di sintassi; o da preoccupazioni espressive; o che sembravano collegati, nel caso dell'attività non verbale, da certi gesti stereotipati o da certi manierismi. Sem1 Dal termine «dementia praecox», che è stato usato per denotare una forma di schizofrenia e che si presenta in soggetti giovani, e che si pensava dovesse concludersi in una psicosi cronica. La «sensazione praecox» dev'essere, mi sembra, simile alla reazione del pubblico di fronte alla psicosi di Ofelia. Più tardi Ofelia è senza alcun dubbio schizofrenica, in senso clinico. Nella sua pazzia, non c'è nessuno là fuori. Ella non è una persona: attraverso i suoi atti o le sue parole non si esprime in nessun modo un'integrità personale. Da questo nulla escono frasi incomprensibili. È già morta. Dove prima era una persona, ora c'è il vuoto.

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brava insomma di trovarsi in presenza di vari frammenti, o elementi incompleti, di diverse «personalità» tutte operanti nello stesso momento. Anche 1'«insalata di parole» della paziente sembrava il risultato di una gara fra molti sistemi parziali e quasi autonomi, che lottassero per esprimersi tutti insieme attraverso una sola bocca. Questa impressione veniva rafforzata, ma senza nessun miglioramento in chiarezza, dal fatto che Giulia sembrava parlare di se stessa in prima, seconda e terza persona. Occorre conoscere intimamente il paziente per poter dire qualcosa sul significato di questo modo di parlare (questo vale anche per tutti gli altri aspetti dell'attività dello schizofrenico). Janet distingue le dissociazioni in molari e molecolari. La personalità isterica presenta una dissociazione molare; la schizofrenia consiste in una dissociazione molecolare. Ma nel caso di Giulia entrambe le forme sembravano presenti. L'unità generale del suo essere si era divisa in diverse «unità parziali» o «sistemi parziali» («complessi» quasi autonomi, «oggetti interiori»), ciascuno dei quali possedeva la sua piccola e stereotipata «personalità»: questa era la dissociazione molare. Ma in più ogni sua sequenza di attività si spezzettava in frammenti più minuti, e questa era la dissociazione molecolare. Per esempio si frantumavano anche le parole singole. Non sorprende quindi che in un caso come questo si parli di «inaccessibilità» e di «impressione schizofrenica» {praecox Gefühl). Non era difficile avere con Giulia uno scambio verbale, sia pure sui generis-, solo che, trovandosi di fronte non ad una unità generale, ma piuttosto ad una costellazione di sistemi parziali quasi autonomi, era difficilissimo avere la sensazione di parlare con «lei». Tuttavia l'analogia meccanica è sbagliata, perché nemmeno questo stato di non-entità quasi caotica era del tutto irreversibile e fisso nella sua disintegrazione. Era meraviglioso vedere Giulia, a volte, ricomporsi e manifestare in modo commovente una certa intelligenza del suo stato. Ma questi momenti di integrazione la terrorizzavano, per vari motivi: uno era che in questi momenti doveva sopportare un'ansia molto acuta; un altro era che il successivo, inevitabile

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processo di disintegrazione era ricordato e temuto come un'esperienza terribile, in confronto della quale il suo solito stato di non integrazione, di irrealtà e di morte le appariva come un rifugio. La vita di Giulia come schizofrenica cronica era quindi caratterizzata da un'assenza di unità e da una divisione in parti, complessi, sistemi parziali, «oggetti interiori». Ciascuno di questi sistemi parziali possedeva caratteristiche riconoscibili e distinte. Sulla base di questi criteri molti elementi della sua attività risultano comprensibili. Il fatto che il suo essere non fosse montato sommariamente, ma già diviso in varie unità o sistemi parziali, ci permette di capire perché non potessero essere presenti in lei quelle funzioni che presuppongono un'unità personale completa, o quasi completa. L'unità personale è un prerequisito per la coscienza riflessa, cioè per la capacità di essere consapevoli del proprio io che però agisce con poca consapevolezza di sé, o con una semplice coscienza primaria non riflessa. In Giulia ciascun sistema parziale poteva essere consapevole di certi oggetti, ma poteva non esserlo dei processi che si verificavano in un altro sistema da esso separato. Per esempio, quando parlava con me, se era un dato sistema che stava «parlando», mancava dentro di lei quella unità generale con la quale «lei», come persona unica, avrebbe potuto essere cosciente delle cose che quel sistema stava dicendo. Come la coscienza riflessa era assente, cosi la memoria, per la quale la coscienza riflessa pare un requisito essenziale, era molto frammentaria. Tutta la sua vita pareva contemporanea. L'assenza di una esperienza totale nel suo essere significava assenza di un'esperienza unificata su cui fondare una chiara idea dei «confini» del suo essere. Un certo tracciato generale, tuttavia, non era del tutto assente. Cosi il termine usato da Federn, «frontiera dell'Io», risulta insoddisfacente: occorre un altro termine per quel totale di cui l'Io è una parte. Per Giulia si sarebbe detto che ciascun sistema avesse confini propri: vale a dire che alla coscienza che caratterizzava un dato sistema, un altro sistema sarebbe apparso al di fuori. Entro un'unità generale un aspetto diverso dell'essere, se sufficientemente

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«diatonico» nei confronti di tutto il resto, avrebbe creato conflitti dolorosi. Ma in Giulia conflitti di questo genere non potevano formarsi. Solo dal di fuori si poteva vedere che diversi sistemi, in conflitto fra loro, erano attivi contemporaneamente. Ognuno dei sistemi parziali possedeva entro di sé il suo centro, o fuoco, di coscienza; aveva i suoi propri limitati schemi di memoria e i suoi propri modi di strutturazione delle percezioni; i suoi propri impulsi o componenti di impulsi quasi autonomi; la sua particolare tendenza a conservare l'autonomia; le sue particolari difficoltà nel conservarla. Giulia si riferiva a questi diversi aspetti chiamandoli «lui», «lei» oppure «tu». Cioè, invece di avere una coscienza riflessa dei vari aspetti di se stessa, percepiva le operazioni di ogni sistema parziale come se non appartenesse a «lei», ma al mondo esterno. Ecco perché era allucinata. Insieme con la tendenza a percepire aspetti del suo essere come dei non-lei, si aveva un'incapacità di discriminare fra ciò che «oggettivamente» era lei o non-lei. Questo è semplicemente l'altro aspetto della mancanza di una frontiera ontologica generale. Per esempio la paziente poteva credere che le gocce di pioggia che le cadevano sul viso fossero le sue lacrime. William Blake, nella descrizione degli stati di divisione dell'essere che si trova nei suoi libri profetici, descrive una certa tendenza a divenire ciò che si percepisce. In Giulia ogni percezione poteva comportare il suo confondersi con l'oggetto percepito. Passava molto tempo esercitandosi su questa difficoltà: «Questa è pioggia: io potrei essere pioggia». «Quella sedia... quel muro. Io sarei quel muro? È brutto per una ragazza essere un muro». Ogni percezione minacciava questa confusione, e analogamente la minacciava ogni impressione di essere percepita dagli altri. Questo significa che la paziente viveva in un mondo di persecuzione costante, e che sentiva se stessa fare agli altri ciò che temeva accadesse a lei. Quasi ogni atto percettivo comportava una confusione dell'io col non-io. Il terreno era preparato dal fatto che, dato che importanti aspetti della sua persona erano parzialmente al di fuori del suo «io», era facile confondere questi aspet-

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ti dissociati del suo essere con altre persone: per esempio confondere la sua «coscienza» con sua madre e viceversa. Amare era, quindi, molto pericoloso. Amare = somigliare = essere la stessa cosa. Se lei mi ama mi assomiglia, è me. Cosi Giulia cominciò a dire di essere mia sorella, mia moglie, la Signora Sposa. Io ero la vita; perciò lei era la Signora Sposavita. Adottò i miei manierismi. Aveva l'Albero della Vita dentro di sé. Era l'Albero della Vita. Ovvero: Giulia pensa i pensieri a, b, c. 10 esprimo pensieri analoghi ax, b\ cl. Dunque io ho rubato i suoi pensieri. Un'espressione completamente psicotica di questo consisteva nell'accusarmi di avere nella mia testa il suo cervello. Reciprocamente, quando mi copiava o mi imitava si aspettava una punizione da me, perché aveva fatto qualcosa di mio che sentiva di avere rubato. Naturalmente il grado di confusione variava da un momento all'altro. Il rubare, per esempio, presuppone un certo confine fra l'io e il non-io. Daremo ora altri esempi per illustrare ed elaborare le cose dette. 11 caso più semplice della dissociazione dell'essere di Giulia in due «unità» parziali si aveva quando dava un ordine a se stessa e si accingeva ad eseguirlo. Faceva questo continuamente: parlando fra sé, ad alta voce o sotto allucinazione. Per esempio diceva «Siediti, alzati», e si sedeva o si alzava; oppure una voce allucinatoria, la voce di un sistema parziale, dava il comando, e «lei», l'agente di un altro sistema parziale, lo eseguiva. Un altro esempio semplice e frequente si aveva quando «lei» diceva qualcosa che «lei» accoglieva con una risata di scherno (differenza fra pensiero e affetti). Si supponga che la dichiarazione provenga dal sistema A e la risata dal sistema B. Il sistema A mi diceva: «Ella è una Regina Reale», e il sistema B scoppiava in una risata. Spesso si aveva una specie di «inceppamento». A diceva una cosa abbastanza coerente, ma si inceppava, e al-

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lora si metteva a parlare B. Ma A interrompeva dicendo: «Lei (B) mi ha rubato la lingua». Questi diversi sistemi parziali si potevano identificare, almeno approssimativamente, e se si conosceva bene la paziente, perché il ruolo di ciascuno entro il «gruppo» di cui facevano parte (si è tentati di dire il gruppo interpersonale di cui facevano parte) era sempre abbastanza simile a se stesso. Per esempio c'era il tipo prepotente che dava sempre ordini perentori. Era sempre questa voce perentoria che si lamentava continuamente con me di «questa bambina»: «Questa è una bambina perfida. Con questa bambina si perde tempo. Questa bambina è una puttanella da quattro soldi. Non combinerai mai niente con questa bambina...» La seconda persona dell'ultima frase poteva riferirsi direttamente a me ma anche ad uno dei sistemi, oppure potevo essere io che rappresentavo il sistema. Era evidente che questa figura di prepotente era quasi sempre al comando. Non aveva una buona opinione di Giulia; non credeva che sarebbe migliorata, né credeva ne valesse la pena. Non stava né dalla sua parte né dalla mia. Sarebbe appropriato definire questo sistema parziale quasi autonomo una «madre cattiva interiorizzata». Fondamentalmente era un persecutore, di sesso femminile, che concentrava in sé tutte le cose più cattive che Giulia attribuiva a sua madre. Due altri sistemi parziali potevano identificarsi facilmente. Uno copriva il ruolo di avvocato difensore di Giulia, e di protettore o di respingente contro le persecuzioni. Chiamava spesso Giulia la sua sorellina. Fenomenologicamente, quindi, possiamo chiamare questo sistema la «sorella buona». L'altro sistema parziale era una ragazzina buona, arrendevole, conciliante. Questa ragazzina pareva una derivazione di un sistema che, qualche anno prima, era probabilmente molto simile a quel sistema del falso io che abbiamo trovato attivo negli schizoidi. Quando questo sistema parlava, diceva per esempio: «Io sono buona. Vado regolarmente al gabinetto». C'erano anche derivazioni da un possibile antico io

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«interiore», che però ormai si era completamente volatilizzato ed era solo una possibilità. Infine, come ho osservato più sopra, si avevano brevi periodi di precaria salute mentale, durante i quali Giulia parlava con tono spaventato, appena udibile, molto commovente perché in questi momenti sembrava, come non mai in altri, parlasse veramente in prima persona. Consideriamo ora questi sistemi mentre operano contemporaneamente. Gli esempi che do sono scelti fra le espressioni più coerenti della paziente. Sono nata sotto un sole nero. Non sono nata, mi hanno schiacciata fuori. Non è una cosa che si passa come niente. Non sono stata allattata, sono stata soffocata. Non era mia madre. Io sono schizzinosa sulle madri. Basta. Basta. Mi uccide. Mi sta tagliando la lingua. Sono marcia, schifosa. Cattiva. Tempo perso... Alla luce delle cose dette prima si può dare la seguente interpretazione di ciò che accade in questo brano. La paziente comincia a parlarmi in prima persona per lanciare le solite accuse contro sua madre, in maniera particolarmente lucida e chiara. Il «sole nero» (sol niger) è un simbolo della madre distruttiva, ed è in Giulia un'immagine ricorrente. Le prime sei frasi appaiono sane. Ma improvvisamente la paziente è assalita da qualcuno, presumibilmente da questa cattiva madre, e irrompe in una crisi iiitrapersonale: «Basta, basta! » Rivolgendosi ancora a me esclama: «Mi uccide». Segue un'autodenigrazione difensiva, formulata con le stesse parole usate dalla cattiva madre nel condannarla: «Sono marcia, schifosa. Cattiva. Tempo perso...» Le accuse contro sua madre aprivano sempre la strada a queste reazioni catastrofiche. In un'altra occasione fece le solite accuse contro la madre, e la cattiva madre l'interruppe con le solite accuse contro «quella bambina»: «Quella bambina è cattiva, quella bambina è perfida. Quella bambina è tempo perso». Allora io interloquii dicendo: «Giulia ha paura di venire uccisa da se stessa dicendo queste cose». La scenata si interruppe e «lei» disse piano: «Si, è la mia coscienza che mi uccide. Ho avuto

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paura di mia madre tutta la vita e ce l'avrò sempre. Lei crede che io possa vivere?» Questo discorso relativamente coerente mette in evidenza la continua con-fusione della sua «coscienza» e della sua madre reale. La sua cattiva coscienza era una cattiva madre che la perseguitava. Come già accennato, un elemento schizofrenogeno della vita di Giulia è stato probabilmente di non essere riuscita a fare accettare realmente alla sua madre reale il suo bisogno di proiettare in lei una parte della sua cattiva coscienza: insomma di non essere riuscita a farle veramente ammettere che nelle accuse di Giulia c'era un po' di vero, il che le avrebbe permesso di vedere qualche imperfezione in sua madre, sollevandola almeno in parte dalle persecuzioni interne della sua «coscienza». Questa bambina non vuole venire qui, lo capisci? È la mia sorellina. Questa bambina non sa niente di cose che non deve sapere. È la «sorella grande» che parla, spiegandomi che Giulia è innocente e ignorante, e quindi senza colpe e irresponsabile. Il sistema della «sorella grande», in contrasto col sistema della «sorellina» innocente ed ignorante, è una «persona» di grande esperienza e responsabilità, paternalistica ma gentile e protettiva. Non difende Giulia come una sorella che sta crescendo, parla sempre «per» la sorellina: vuole mantenere lo status quo. La testa di questa bambina è partita. La testa di questa bambina è chiusa. Tu cerchi di aprire la testa di questa bambina. Non ti perdonerò mai. Questa bambina è morta e non è morta. Le implicazioni dell'ultima frase sono che, restando in un certo senso morta, la paziente può non esserlo in un altro senso, ma se si assume la responsabilità di essere veramente viva, allora può essere veramente uccisa. Tuttavia questa «sorella» poteva anche parlare cosi: Devi volere questa bambina. Devi darle il benvenuto... devi aver cura di questa ragazzina. Io sono una brava ragazzina. Lei è la mia sorellina. La devi accompagnare al gabi-

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netto, È la mia sorellina. Non sa niente di queste cose. Non è una bambina impossibile. Questa sorella grande aveva esperienza, maturità, responsabilità, buon senso, il tutto in contrasto con l'innocenza, l'ignoranza, l'irresponsabilità e la stranezza della sorellina. Anche qui si vede come la schizofrenia di Giulia consista nella mancanza di integrazione generale e non semplicemente nell'assenza di un luogo «sano» in lei. Questa particolare componente del suo essere poteva parlare in modo ragionevole, sano ed equilibrato, ma non era Giulia che parlava: la sua salute era stata come tagliata e incapsulata. La sua vera salute mentale dipendeva non dal poter parlare in modo sano nella persona di una « sorella grande», ma dalla conquista di una integrazione generale di tutto l'essere. La schizofrenia appare dal fatto che la paziente si riferisce a se stessa come ad una terza persona, ed anche dalla improvvisa intrusione della sorellina mentre la sorella grande sta parlando («Io sono una brava ragazzina»). Quando mi presentava parole o azioni come sue proprie appariva un «io» completamente psicotico. La maggior parte dei discorsi veramente condensati e crittografici sembrava appartenere ai residui del sistema dell'io: decifrati; essi rivelavano che questo sistema era probabilmente una derivazione di quell'io interiore e fantastico che abbiamo trovato negli schizoidi. Abbiamo già tentato di spiegare come accade che l'esperienza di questo io comporti estremi paradossi, come il senso fantastico di potenza/impotenza. Le caratteristiche fenomenologiche dell'esperienza di questo io sembravano, in Giulia, obbedire agli stessi principi. Tuttavia bisognava essere preparati a parafrasare la sua schizofrenia e tradurla in linguaggio sano prima di tentare un costrutto fenomenologico di questa esperienza dell'«io». Devo ripetere che nell'usare il termine in questo contesto non voglio dire che si trattasse del suo «vero» io. Ma il sistema sembrava costituire un punto di raccolta, intorno al quale si poteva cominciare a formare una certa integrazione. Quando poi scattava la disintegrazione, diventava il «centro che

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non tiene». Insomma sembrava un punto di riferimento per tutte le tendenze, centripete o centrifughe. Appariva come il nucleo veramente pazzo del suo essere: quell'aspetto centrale di lei che, cosi sembrava, doveva conservarsi caotico e morto perché lei non fosse uccisa. Tenteremo ora di caratterizzare la natura di questo «io», con dichiarazioni fatte non soltanto direttamente da esso ma anche originate da altri sistemi. Queste dichiarazioni non sono molte, almeno quelle fatte dall'«io» in persona. Durante gli anni di ospedale molte di esse si erano probabilmente confuse e ridotte a messaggi telegrafici continuamente ripetuti, che contenevano una gran quantità di significati. Come abbiamo visto più sopra Giulia diceva di avere dentro di sé l'Albero della Vita. Le mele di questo albero erano i suoi seni. Aveva dieci capezzoli (le dita). Aveva anche «tutte le ossa di una brigata della fanteria leggera scozzese». Aveva tutto quello che le veniva in mente: tutto ciò che voleva l'aveva e non l'aveva, immediatamente, e allo stesso tempo. La realtà non gettava la sua ombra, né la sua luce, su nessun desiderio o timore. Ogni desiderio trovava istantanea soddisfazione; ogni timore poteva altrettanto istantaneamente essere cacciato. Cosi Giulia poteva essere chiunque, dovunque, sempre. «Io sono Rita Hay worth. Io sono Joan Blondell. Io sono una Regina Reale. Il mio nome di Regina è Giulianna». «Essa è autosufficiente», mi disse una volta. «Essa è padrona di sé». Ma questa padronanza di sé era un'arma a doppio taglio. Il suo io non aveva né libertà, né autonomia, né potere nel mondo reale. Giacché ella poteva essere la prima persona che le veniva in mente, non era nessuno. «Io sono mille. Sono un'indinvidia. Sono una non una». «Una nonuna» voleva dire «nessuna singola persona», ma spesso diventava «nonnina», e questo aveva molti significati. Uno di essi era in contrasto con l'essere una sposa. Di solito mi considerava suo fratello, e chiamava se stessa la mia sposa, oppure la sposa della «bella velia vela vita», ossia della bella e vera vita. Naturalmente, visto che a volte io e la vita eravamo per lei la stessa cosa, si sentiva spaventata dalla Vita, o da me. La Vita (io) la riduceva in poi-

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tiglia, le bruciava il cuore con un ferro rovente, le tagliava le gambe, le mani, la lingua, i seni. La vita era concepita nei termini più violenti e distruttivi che si possano immaginare. Non si trattava di una qualità mia o di qualcosa che io avevo (per esempio il ferro rovente è un simbolo fallico). Si trattava di quello che io ero. Io ero la vita. Pur avendo dentro di sé l'Albero della Vita, sentiva generalmente di essere la Distruggitrice della Vita. Era perciò comprensibile che temesse di essere distrutta dalla vita. Di solito rappresentava la Vita con simboli maschili o fallici, ma ciò che sembrava desiderare non era di essere un maschio, bensì di possedere un vasto armamentario di tutti gli strumenti sessuali dei due sessi: tutte le ossa del reggimento, i dieci capezzoli, ecc. È nata sotto u n sole nero. È il sole d ' o c c i d e n t e .

L'antica e sinistra immagine del sole nero le venne indipendentemente da qualunque lettura. Giulia aveva smesso di andare a scuola a quattordici anni, aveva letto pochissimo e non era particolarmente intelligente. È estremamente improbabile che si sia imbattuta in un accenno a questa immagine. Ma non discuteremo l'origine del simbolo, e ci limiteremo a considerare il linguaggio di Giulia come espressione del modo in cui sentiva di essere nel mondo. Aveva sempre insistito che la madre non la voleva, e che invece di partorirla normalmente l'aveva schiacciata o scacciata fuori in qualche modo mostruoso. Sua madre aveva «voluto e non voluto» un figlio maschio. Giulia era un «sole d'occidente», cioè un sole accidentale, cioè un solo accidentale: l'unico figlio maschio nato per accidente, che la madre, in un momento d'odio, aveva trasformato in femmina. I raggi del sole nero la bruciavano e la scorticavano. Sotto il sole nero Giulia era come una cosa morta: I o s o n o la steppa. L e i è u n a città in r o v i n a .

Le uniche cose viventi della steppa erano le bestie feroci; i topi infestavano la città in rovina. La sua esistenza

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PARTE TERZA

era dipinta con immagini di totale, arida desolazione. Questa morte esistenziale, questa «morte vivente» era il suo modo prevalente di essere nel mondo. Lei è lo spirito del giardino delle erbacce. In questa morte non c'era speranza, né futuro, né alcuna possibilità. Tutto era già accaduto. Non c'era piacere, né alcuna possibile soddisfazione, perché il mondo era vuoto e morto come lei. La brocca è rotta, il pozzo è secco. Era completamente inutile; non valeva niente. Non poteva credere che in qualche posto ci fosse una possibilità di amore. È una delle tante ragazze che sono al mondo. Tutti dicono di volerla e non la vogliono. Io ora faccio una vita da puttanella da quattro soldi. Ma come ella stessa ci ha detto più sopra, dava qualche valore a se stessa, anche se solo in maniera fantastica. C'era una convinzione (che per quanto psicotica era pur sempre una forma di fede in qualcosa di valore che stava dentro di lei) che, nascosto o sepolto in lei, e finora non scoperto né da lei né da nessuno, ci fosse un qualcosa di grande valore. Se si poteva andare nel profondo della buia terra si poteva scoprire «l'oro lucente», se si poteva mandare giù la sonda si poteva trovare «la perla sul fondo del mare».

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