L'inventore di sogni [PDF]

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Zitiervorschau

Ian McEwan

L’inventore di sogni

Traduzione di Susanna Basso

Titolo originale The Daydreamer © 1994 Ian McEwan © 2002 e 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

In nova fert animus mutatas dicere formas corpora. L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. Ovidio, Metamorfosi

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Due parole su Peter

Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi dicevano che era un bambino difficile. Lui però non capiva in che senso. Non si sentiva per niente difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte contro il muro del giardino, non si rovesciava in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue, e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna quando giocava con la spada, anche se ogni tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto, tranne, s’intende il pesce, le uova, il formaggio e tutte le verdure eccetto le patate. Non era più rumoroso, più sporco o più stupido degli altri bambini. Aveva un nome facile da dire e da scrivere e una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare. Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella non più di quanto lei tormentasse lui. Nessun poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo. Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto di farlo internare in un manicomio. Gli pareva, tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile. Che cosa c’era in lui di così complicato? Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo che Peter finalmente capì. La gente lo considerava difficile perché se ne stava sempre zitto. E a quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre naturalmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per lo più gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo in qualche posto, che so, nella sua stanza, oppure al parco. Gli piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri. Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomeriggio d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?» gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto dicendo: «A niente. Davvero!» I grandi sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur esserci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire che cosa. Dirgli di smettere non potevano, non sapendo che cosa stesse facendo. Magari stava pensando di dare fuoco alla scuola, o di dare sua sorella in pasto a 3

un alligatore, o di scappare di casa a bordo di una mongolfiera, ma loro non vedevano altro che un ragazzino tutto preso a contemplare il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che, se qualcuno lo chiamava, neppure rispondeva. Quanto a stare per conto suo, be’, neanche quello ai grandi andava giù. A mala pena sopportano che lo faccia uno di loro. Se ti unisci alla compagnia, la gente sa che cosa ti passa per la mente. Perché è la stessa cosa che sta passando per la mente degli altri. Se non vuoi fare il guastafeste, devi unirti alla compagnia. Ma Peter non la pensava così. Non aveva niente in contrario a stare con gli altri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi, secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo stesso, e se ne fosse dedicato un po’ di più a stare da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere, allora il mondo sarebbe stato un posto migliore, magari anche senza le guerre. A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel banco, mentre la sua mente partiva per lunghi viaggi, ma anche a casa gli era capitato di avere delle noie per quei sogni a occhi aperti. Un Natale il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando le decorazioni in soggiorno. Detestava fare quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore. Quella volta, doveva attaccare dei nastri in alto in un angolo. Be’, proprio in quell’angolo c’era una poltrona e seduto su quella poltrona a fare niente di speciale, c’era Peter. - Non ti muovere, - disse Mr Fortune. - Adesso salgo sulla poltrona per arrivare al muro. - Va bene, - disse Peter. - Fa’ pure. Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona, e Peter salire in groppa ai suoi pensieri. A vederlo si sarebbe detto che non faceva nulla, ma in realtà era occupatissimo. Si stava inventando un modo emozionante di scendere dalle montagne con un attaccapanni e una corda ben tesa tra due pini. Continuò a pensarci mentre suo padre stava ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare a sbattere negli alberi che tenevano la corda? Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un pacchetto nuovo di biscotti al cioccolato. Non era bello continuare a ignorarli. Peter non fece in tempo ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo frastuono. 4

E si voltò proprio mentre suo padre cadeva a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro. Poi Mr Fortune riapparve, per prima la testa di nuovo. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini. Dall’altra parte della stanza, la mamma si teneva stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere a ridere. - Oh, scusa papà, - disse Peter. - Mi ero dimenticato che eri li. Poco dopo il suo decimo compleanno, a Peter venne affidato il delicato incarico di accompagnare a scuola la sorellina Kate, di sette anni. Peter e Kate frequentavano la stessa scuola. Ci voleva un quarto d’ora per raggiungerla a piedi e pochi minuti, con l’autobus. Di solito ci andavano a piedi con il papà che poi proseguiva per il suo ufficio. Adesso però i bambini erano abbastanza grandi da poter andare da soli in autobus, e la responsabilità dell’impresa ricadeva su Peter. Non erano che due fermate lungo la stessa via, ma a sentire quanto la facevano lunga la mamma e il papà, si sarebbe detto che Peter stava portando Kate al Polo Nord. La sera prima ricevette istruzioni. Al risveglio gli toccò risentirsele tutte. Poi gliene fecero un dettagliato promemoria durante la colazione. E quando i bambini erano ormai sulla porta, la mamma, Viola Fortune, ripassò un’ultima volta le varie fasi dell’operazione. Sono tutti convinti che io sia stupido, pensò Peter. Magari è vero. Non doveva lasciare mai la manina di Kate. Dovevano prendere posto a sedere al piano di sotto dell’autobus; Kate dalla parte del finestrino. Guai se si lasciavano convincere a chiacchierare con degli svitati o dei malintenzionati. Peter avrebbe detto bene al controllore dove doveva farli scendere, senza dimenticare di chiedere per piacere. E non doveva staccare gli occhi dalla strada. Peter ripeté tutto quanto a sua madre, e si avviò alla fermata con sua sorella. Si tennero per mano lungo tutto il tragitto. Per la verità, non gli dispiaceva l’incarico, perché sua sorella gli stava simpatica. Sperava solo che nessuno dei suoi compagni lo vedesse in giro mano nella mano con una bambina. Ecco l’autobus. Salirono e presero posto al piano di sotto. Si sentivano ridicoli a tenersi per mano anche stando seduti e poi c’erano degli altri bambini della scuola intorno, perciò si lasciarono liberi. Peter era piuttosto fiero di sé. Avrebbe potuto badare a sua sorella dovunque. Kate poteva contare su di lui. Supponiamo ad esempio che si ritrovassero da soli su un valico d’alta montagna, di fronte a un 5

branco di lupi affamati, lui avrebbe saputo esattamente come comportarsi. Facendo ben attenzione di non compiere alcun movimento improvviso, avrebbe indietreggiato con Kate fino ad avere le spalle al sicuro contro una parete rocciosa. In quel modo, i lupi non avrebbero potuto circondarli. Ed ecco giunto il momento di tirar fuori di tasca due cose importantissime che per fortuna si era ricordato di prendere: il coltello da caccia e la scatola di fiammiferi. Estrae il coltello dal fodero e lo appoggia a terra fra l’erba, pronto all’uso nel caso i lupi decidessero di attaccare. Si stanno avvicinando, in effetti. Sono così affamati che ululano e perdono bava dalle fauci. Kate intanto singhiozza, ma non è certo adesso che può consolarla. Sa bene di doversi concentrare sul piano d’azione. Proprio ai suoi piedi vede qualche ramoscello e delle foglie morte. Senza perdere un minuto, Peter ne fa un bel mucchietto. I lupi continuano ad avvicinarsi. Non può permettersi di sbagliare mossa. E’ rimasto soltanto un fiammifero dentro la scatola. Si sente già il fiato dei lupi addosso: un odore tremendo di carne marcia. Peter si piega, mette le mani a coppa e accende il fiammifero. Una folata di vento fa vacillare la fiamma, ma lui l’ha avvicinata al mucchio di rami e foglie che a una a una prendono fuoco, fino a trasformarsi in un discreto falò. Peter non smette di alimentarlo con altre foglie e rametti e legni anche più grossi. Kate sta incominciando a capire e lo aiuta. I lupi indietreggiano. Gli animali selvatici hanno terrore del fuoco. Le fiamme guizzano sempre più in alto trasportando il fumo proprio dentro le fauci bavose dei lupi. Adesso Peter afferra il coltello da caccia e... Ridicolo! Erano fantasticherie come questa che potevano fargli scordare la fermata se non stava attento. L’autobus si era fermato. I bambini della scuola stavano già incominciando a scendere. Peter scattò in piedi e fece giusto in tempo a saltare a terra, che già l’autobus era ripartito. Fu solo una buona ventina di metri dopo che si rese conto di aver dimenticato qualcosa. La cartella, magari. Macché! Era sua sorella! L’aveva salvata dai lupi, ma se l’era scordata seduta sul pullman. Per un momento rimase paralizzato. Osservò l’autobus allontanarsi lungo la via. - Torna indietro, sussurrò. Ti prego. Uno dei bambini della scuola gli si avvicinò e battendogli sulla schiena disse: Ehi, che ti prende? Hai visto un fantasma per caso? La voce di Peter sembrò arrivare da molto lontano. Oh, niente, niente. Ho dimenticato una cosa 6

sull’autobus -. E poi si mise a correre. L’autobus era già trecento metri oltre e stava incominciando a rallentare per la fermata successiva. Peter accelerò la corsa. Correva tanto veloce che se avesse aperto le braccia, probabilmente si sarebbe alzato in volo. Allora avrebbe potuto sfiorare la cima degli alberi e... Ma no! Non poteva davvero permettersi altri sogni a occhi aperti adesso. Doveva solo recuperare sua sorella. Magari la poverina stava già strillando in preda al terrore. Alcuni passeggeri erano scesi, e l’autobus stava già ripartendo. Peter era più vicino questa volta. Il veicolo arrancava dietro a un camion. Se solo fosse riuscito a correre, senza badare al terribile dolore alle gambe e alla fitta al petto, l’avrebbe raggiunto. Quando arrivò alla fermata, l’autobus era a una cinquantina di metri appena da lui. «Più in fretta, più in fretta», si ripeté. Un bambino che stava sotto la tettoia della fermata, vedendolo passare gli gridò: - Peter, ehi, Peter! Peter non ebbe neppure la forza di voltare la testa. Ansimando, continuò a correre. - Peter! Fermati. Sono io, Kate! Mettendosi una mano sul petto, Peter crollò a terra sull’erba, ai piedi di sua sorella. - Attento! Non vedi che c’è una cacca di cane? - disse lei tranquilla, osservando il fratello che cercava di riprendere fiato. - Dai, su. E meglio che torniamo, se no faremo tardi. E dammi la mano, se non vuoi cacciarti in qualche altro guaio. Così arrivarono a scuola insieme, e molto signorilmente Kate promise di non fare parola di quanto era accaduto quando tornavano a casa. In cambio dello stipendio settimanale di Peter, s’intende. A scuola, il problema dei sognatori a occhi aperti, e di poche parole per giunta, è che gli insegnanti, specie quelli che non vi conoscono bene, tendono a considerarvi un po’ stupidi. O se non proprio stupidi, come minimo, tonti. Non c’è nessuno che riesca a vedere le cose fantastiche che vi passano per la testa. Se un insegnante vedeva Peter assorto a scrutare fuori dalla finestra, o bloccato davanti a un foglio bianco, pensava che si stesse annoiando o che non sapesse la risposta al quesito. Ma la verità era ben diversa. Una mattina, per esempio, i bambini della classe di Peter dovevano fare un compito di aritmetica. Si trattava di sommare dei numeri molto grandi, e avevano a disposizione venti minuti per farlo. Peter si era appena messo al lavoro sulla 7

prima addizione, che prevedeva la somma di tre milioni cinquecentomila duecento novantacinque a un’altra cifra della stessa lunghezza, quando gli capitò di pensare al numero più lungo del mondo. Giusto la settimana prima aveva letto da qualche parte di un numero che aveva un nome bellissimo: googol. Un googol era dieci elevato alla centesima potenza. Perciò doveva avere un centinaio di zeri alla fine. E ce n’era un altro ancora più sensazionale, una meraviglia assoluta: il googolplex. Che era dieci moltiplicato dieci per un googol di volte. Che numero! Peter lasciò vagare la mente tra quella sconfinata distesa di zeri, che creavano nello spazio una scia di bolle. Suo padre gli aveva detto che secondo i calcoli degli astronomi, il numero totale di atomi contenuti nei milioni di stelle visibili dai loro telescopi giganti, era una cifra pari a dieci seguito da novantotto zeri. Quindi tutti gli atomi del mondo non bastavano neppure a fare un googol. E un googol era una cosuccia del tutto insignificante, paragonata a un googolplex. Se aveste chiesto al droghiere un googol di caramelle mou ricoperte di cioccolato, non si sarebbero trovati in tutto l’universo neppure abbastanza atomi per fabbricarle. Peter appoggiò la testa alla mano e diede in un sospiro. In quel preciso momento la maestra batté le mani. Erano passati i venti minuti. E Peter aveva appena scritto la prima cifra della prima addizione. Tutti gli altri bambini avevano finito. La maestra aveva osservato Peter fissare il suo foglio senza scrivere niente e sospirando ogni tanto. Poco dopo questo episodio, Peter venne inserito in un gruppo di bambini che avevano enormi difficoltà a sommare anche cifre piccole come quattro e sei. Non gli ci volle molto ad annoiarsi e a trovare anche più impossibile fare attenzione. Gli insegnanti incominciavano a pensare che fosse troppo scarso di aritmetica anche per quel gruppo speciale di recupero. Che dovevano fare con lui? Naturalmente, i genitori di Peter e sua sorella, sapevano bene che lui non era stupido, né pigro né indolente e alcuni insegnanti della scuola finirono col rendersi conto del fatto che nella sua testa succedevano migliaia di cose interessantissime. Dal canto suo anche Peter, crescendo, imparò che, siccome la gente non riesce a vedere che cosa ti sta passando nel cervello, la cosa migliore per farsi capire, è dirglielo. E così incominciò a scrivere alcune delle avventure che gli capitavano mentre guardava dalla finestra o se ne stava sdraiato a fissare il cielo. Da grande diventò un inventore e scrittore di storie e visse una vita felice. 8

In questo libro, troverete qualcuna delle imprese accadute dentro la testa di Peter, trascritte con fedeltà assoluta all’originale.

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Le Bambole

Fin da quando riusciva a ricordare, Peter aveva diviso con Kate la camera da letto. Per lo più la cosa non gli dava fastidio. Anzi, certe notti risvegliandosi da un incubo, era stato persino contento di avere qualcuno nella stanza, anche se si trattava solo di una sorellina di sette anni che di sicuro non sarebbe stata di grande aiuto contro quelle creature coperte di sangue e di bava che gli davano la caccia nei sogni. Al suo risveglio, i mostri andavano a nascondersi dietro le tende, oppure si infilavano nell’armadio. Grazie alla presenza di Kate, comunque, era un tantino più facile uscire dal letto e sfrecciare di corsa fino alla camera di mamma e papà. Altre volte invece gli dispiaceva eccome di dover dividere la stanza. E lo stesso valeva per Kate. Ad esempio quando per pomeriggi interi non facevano altro che darsi sui nervi. Si incominciava con un dispetto che diventava un bisticcio che diventava una rissa, a suon di pugni, graffi, tirate di capelli eccetera. Dal momento che Peter aveva tre anni di più, era sempre convinto di avere la meglio in queste lotte all’ultimo sangue. E in un certo senso era così. Poteva sempre contare sul fatto di riuscire a far piangere Kate per prima. Ma si poteva chiamarle vere e proprie vittorie? Kate era capace di trattenere il fiato fino a farsi venire la faccia rossa come una prugna matura. E a quel punto, le bastava precipitarsi di sotto dalla mamma per farle vedere «che cosa le aveva fatto Peter». O magari si sdraiava sul pavimento e si faceva uscire di gola quel suono strozzato, così Peter pensava che sarebbe morta di li a un minuto. E allora toccava a lui correre sotto a chiamare la mamma. Poi Kate poteva strillare. Una volta, nel corso di una di quelle burrasche di urli, stava passando una macchina fuori e un signore si era fermato e aveva guardato con aria preoccupata verso la finestra della loro stanza. In quel momento per caso Peter era affacciato. Il tale aveva attraversato il giardino e si era messo a bussare alla porta, sicuro che stesse succedendo qualcosa di terribile. Infatti. Peter aveva preso una cosa a sua sorella e lei la rivoleva indietro. Subito! 10

In simili occasioni, era sempre Peter a finire nei guai, mentre Kate se la cavava alla grande. O almeno così la vedeva Peter. Se si arrabbiava con sua sorella, doveva pensarci bene, prima di picchiarla. Spesso per evitare la guerra, tracciavano una linea immaginaria che dalla porta attraversava la stanza. Di là stava Kate, e di qua Peter. Da questa parte, la scrivania di Peter con le matite e i colori, il suo animale di pezza, la giraffa col collo storto, il piccolo chimico, la scatola dei componenti elettrici e quella degli stampini che non venivano mai bene come quelli disegnati sul coperchio, e la cassetta di latta che conteneva tutti i suoi segreti e che Kate cercava sempre di aprire. Dall’altra parte, la scrivania di Kate, il suo telescopio, il microscopio e le calamite che invece erano dentro la scatola proprio come le si vedeva sul coperchio, e per tutto il resto della sua metà camera, c’erano le bambole. Stavano sedute sul davanzale della finestra con le gambe ciondoloni, in bilico sulla cassettiera e pigiate contro gli specchi, sedute dentro la carrozzella, stipate come operai pendolari sulla metropolitana. Le preferite erano quelle più vicine al suo letto. Ce n’erano di tutti i colori, dal nero più nero e lucido come vernice da scarpe, al bianco più smorto, ma per lo più erano di un bel rosa acceso. Certe erano nude. Altre indossavano una sola cosa, un calzino, una maglietta, o una cuffia. Alcune erano tutte agghindate in sontuosi vestiti da ballo con fasce, tuniche in pizzo e strascichi carichi di nastrini. Erano una diversa dall’altra, ma una cosa in comune l’avevano: quello sguardo fisso, arrabbiato, da pazze. In teoria avrebbero dovuto essere dei neonati, ma gli occhi le tradivano. I neonati non guardano in quel modo nessuno. Passando accanto alle bambole, Peter si sentiva scrutato e, uscendo dalla stanza, sospettava sempre che si mettessero a parlare di lui, tutte e sessanta. Eppure, non gli avevano mai fatto niente di male e in fondo ce n’era soltanto una che proprio non gli piaceva. La Cattiva. Persino a Kate non piaceva. Le metteva paura, talmente tanta che non aveva il coraggio di buttarla, caso mai quella fosse tornata nel cuore della notte a vendicarsi. La Cattiva chiunque l’avrebbe riconosciuta al primo sguardo. Era di un rosa mai visto su un essere umano. Molto tempo fa la gamba sinistra e il braccio destro erano stati strappati dai buchi del corpo. E sul cranio crivellato di buchi le cresceva un ciuffo spesso di capelli neri. Chi l’aveva fabbricata doveva aver avuto intenzione di farle un bel 11

sorriso dolce, ma qualcosa era di sicuro andato storto nello stampo, perché la Cattiva tirava su un labbro in una specie di smorfia e pareva sempre pensare alle cose più brutte del mondo. Di tutte le bambole, solo la Cattiva non era né maschio né femmina. Era la Cattiva e basta. Addosso non aveva vestiti e se ne stava seduta nell’angolo più lontano dal letto di Kate, in cima a uno scaffale dei libri dal quale dominava tutte le altre. Qualche volta Kate la prendeva in braccio e cercava di ammansirla con delle paroline bisbigliate, ma dopo un minuto rabbrividiva e la rimetteva al suo posto. La linea invisibile funzionava benissimo, finché si ricordavano che c’era. Dovevano chiedere permesso per passare dall’altra parte. A Kate era proibito curiosare nella cassetta di Peter, e Peter non poteva toccare il microscopio senza chiedere. Tutto andò bene finché un piovoso pomeriggio di domenica non scoppiò una lite delle peggiori su dove esattamente si trovasse la linea immaginaria. Peter era sicuro che fosse più lontana rispetto al suo letto. Quella volta Kate non ebbe bisogno di diventare viola, né di far finta di morire, o di strillare. Le bastò dare un bel colpo sul naso a Peter con la Cattiva. L’afferrò per la sua unica gamba cicciona e gliela scaraventò sulla faccia. Perciò, toccò a Peter correre al piano di sotto piangendo. Il naso non gli faceva poi tanto male, ma sanguinava e non voleva perdersi un’occasione del genere. Mentre si precipitava di sotto, si passò il dorso della mano su tutta la faccia e arrivato in cucina, si gettò a terra di fronte a sua madre gemendo e ululando e contorcendosi tutto. Kate sarebbe finita in un bel guaio davvero, era certo. Fu quella lite a convincere i genitori di Peter e Kate che fosse venuto il momento di separare le stanze dei bambini. Poco dopo il decimo compleanno di Peter, suo padre svuotò quella che in genere veniva definita la camera degli scatoloni, che per la verità non ne conteneva neanche uno, ma solo vecchie cornici vuote e poltrone sfondate. Peter aiutò sua madre a imbiancare la stanza. Ci misero le tendine e sistemarono un enorme letto di ferro con i pomelli in ottone. Kate era così contenta che diede una mano a trasportare le cose di Peter sul pianerottolo. Basta con le risse. E non avrebbe neppure più dovuto stare a sentire gli orrendi sibili e gorgoglii che suo fratello faceva durante la notte. Peter dal 12

canto suo non riusciva a smettere di cantare. Adesso aveva un posto dove poteva rifugiarsi e, si insomma, vivere. Quella sera decise di coricarsi mezz’ora prima per godersi il piacere della sua stanza, delle sue cose, senza doversi preoccupare di nessuna linea immaginaria nel mezzo del pavimento. Si sdraiò nella semioscurità, pensando che in fondo non tutto il male viene per nuocere, e per sino quel mostro odioso della Cattiva aveva prodotto qualcosa di buono. E così i mesi passavano, e Peter e Kate si abituarono all’idea di avere camere separate e non ci pensarono più granché. I giorni importanti arrivavano e finivano: il compleanno di Peter, la sera dei fuochi d’artificio, Natale, il compleanno di Kate, e infine la Pasqua. Accadde due giorni dopo la consueta caccia all’uovo di Pasqua. Peter era sul letto in camera sua, pronto a mangiarsi l’ultimo uovo rimasto. Era il più grande e il più pesante ed era per quello che Peter se lo era lasciato per ultimo. Lo sfogliò della carta azzurra e argentata. Aveva quasi le dimensioni di un pallone da rugby. Peter se lo tenne tra le mani, per osservarlo bene. Poi lo avvicinò e premette contro il guscio con i due pollici. Quanto gli piaceva quel profumo di cacao denso e burroso che si sprigionava dalle buie pareti concave. Si portò l’uovo alle narici e respirò profondamente. Poi si mise a mangiare. Fuori pioveva. C’era ancora una settimana di vacanze. Kate era andata a giocare da una sua amica. Non c’era altro da fare che mangiare. Venti minuti più tardi, dell’uovo restava soltanto la carta. Peter si alzò, ondeggiando lievemente. Aveva la nausea e si sentiva annoiato, combinazione perfetta per un pomeriggio di pioggia. Che strano, avere una stanza tutta sua, non gli procurava più nessuna emozione. «Sono stufo di mangiare cioccolato, - sospirò dirigendosi verso la porta, - e sono stufo della mia stanza». Si fermò sul pianerottolo delle scale, domandandosi se avrebbe vomitato o no. Ma anziché raggiungere il gabinetto, si diresse alla stanza di Kate ed entrò. Ci era tornato già centinaia di volte, naturalmente, ma non da solo. Quando arrivò in mezzo alla stanza, gli sembrò come sempre che le bambole lo stessero osservando. Si sentiva strano, e anche le cose erano diverse dal solito. La stanza era diventata più grande, e per la prima volta si rese conto che il pavimento andava in discesa. Le bambole erano più numerose che mai, con quei loro occhi di vetro, e mentre procedeva scendendo verso il vecchio letto, gli parve di udire un 13

rumore, come un fruscio. Pensò anche di aver visto qualcosa muoversi, ma quando si voltò, tutto era di nuovo immobile. Sedette sul letto e riandò coi pensieri ai giorni in cui ancora dormiva li. Era piccolo a quei tempi. Aveva solo nove anni. Che cosa poteva saperne? Se solo il Peter di dieci anni avesse potuto tornare indietro e raccontare a quel bamboccio inesperto come stavano davvero le cose. A dieci anni, si che si incomincia ad avere un quadro preciso della situazione, a capire come gira il mondo... a guardare tutto un po’ dall’alto... Peter era così impegnato a cercare di ricordarsi quell’altro Peter più piccolo e ignorante che era stato sei mesi prima, che non si accorse neppure della sagoma che si stava dirigendo verso di lui attraversando il tappeto. Quando la notò, diede in un grido di sorpresa e si precipitò sul letto, tirando su i piedi da terra. Con passo malfermo ma deciso, avanzava verso di lui la Cattiva. Si era presa un pennello dalla scrivania di Kate e lo stava usando come stampella. Zoppicava in mezzo alla stanza ansimando tutta arrabbiata e borbottando parole tremende che nemmeno una bambola cattiva dovrebbe mai adoperare. Si fermò accanto alla gamba del letto a riprendere fiato. Peter notò con sorpresa che era tutta sudata sulla fronte e sul labbro superiore. La Cattiva appoggiò il pennello al letto e si passò sul viso l’unico braccio di cui disponeva. Poi, rivolgendo a Peter una rapida occhiata e tirando un respiro profondo, la Cattiva afferrò la stampella e iniziò la scalata del letto. Arrampicarsi fino a tre volte la propria altezza, e con un solo braccio e una gamba è un’impresa che richiede forza e pazienza. La Cattiva aveva ben poco dell’una e dell’altra. Il suo corpicino rosa fremette per la fatica e lo sforzo quando, arrivata a metà della salita, andò cercando un appoggio per il pennello. Ansimava sempre più forte, faceva pena. A poco a poco la testa, più sudata che mai, arrivò all’altezza di Peter. Non gli ci sarebbe voluto niente ad allungare una mano e tirare la bambola sul letto. E con la stessa facilità avrebbe potuto scaraventarla per terra. Ma non fece nulla. Era troppo interessante. Voleva vedere che cosa sarebbe successo. Mentre la Cattiva guadagnava pochi centimetri alla volta esclamando: - Accidentaccio della malora! - oppure, - Dannazione, por- caccio diavolo! - e ancora, - Budino marcio che sei! - Peter si rese conto che tutte le bambole della stanza erano girate verso di lui. Occhi azzurrissimi più spalancati 14

che mai, ed ecco un bisbiglio sommesso, come di acqua sui sassi, e un suono che si raccolse in un mormorio e infine un fiume di emozione si riversò su quelle cinque dozzine di spettatrici. - Lo sta per fare! - Peter sentì dire da una di loro. E un’altra rispose: - Adesso ne vedremo delle belle! E un’altra ancora, di rimando: - Quello che è giusto, è giusto! - e almeno altre venti bambole si unirono al coro con dei: Sì! - E giusto! -Ben detto! La Cattiva intanto aveva appoggiato il braccio sul letto e poteva lasciare andare la gruccia. Adesso si aggrappava alla coperta, cercando di procedere tirandosi avanti. E mentre quella avanzava, sull’altro lato della stanza si levò un grido sonoro e all’improvviso le bambole, tutte le bambole, presero a muoversi verso il letto. Dai davanzali delle finestre e dalle specchiere, dal letto di Kate e dalla carrozzina, avanzavano saltellando e cadendo e rimettendosi in piedi sopra il tappeto. Quelle con gli abiti lunghi squittivano, inciampandosi dentro gli strascichi, mentre quelle nude, o con soltanto un calzino addosso, si spostavano con agghiacciante agilità. Avanti, ancora avanti, un’ondata di rosa, di bianco e nero e marrone, e su tutti i broncetti di gomma, un unico grido: - Quello che è giusto, è giusto! - E in ognuno di quegli occhioni vitrei c’era la rabbia che Peter aveva sempre sospettato si nascondesse nel celeste chiaro dei loro sguardi. La Cattiva ce l’aveva fatta a raggiungere il letto e se ne stava in piedi esausta ma fiera, rivolgendo cenni del braccio alla piccola folla radunata di sotto. Le bambole si accalcavano manifestando entusiastica approvazione e levando le corte braccia paffute alla loro eroina. - Quello che è giusto è giusto! - tornarono a scandire in coro. Peter si era spostato nell’angolo più lontano del letto. Aveva le spalle al muro e si stringeva le ginocchia al petto. Questa si che era una cosa straordinaria. Da un momento all’altro comunque, la mamma avrebbe sentito il chiasso e sarebbe salita per dire di fare silenzio. La Cattiva aveva bisogno di riprendere fiato, perciò aveva smesso di urlare. Poi sollevò in aria il pennello-gruccia e all’improvviso lo schiamazzo si interruppe. Rivolgendo un cenno d’intesa alle sostenitrici, la bambola zoppa saltellò di un paio di passi in direzione di Peter e disse: - Ti sei sistemato che è una meraviglia, vero? - Il tono di voce era molto cortese, ma dalla folla si levarono delle risatine e 15

Peter sapeva che si trattava di una provocazione. - Non credo di capire, - disse. La Cattiva si rivolse alla folla e, lanciandosi in una discreta imitazione di Peter, disse: - Non crede di capire, lui! - Poi, a Peter: - Voglio dire, che stai benone nella tua nuova stanza, suppongo. - Ah, in quel senso, - disse Peter. - Sì certo, è fantastica. Alcune delle bambole sul tappeto raccolsero l’ultima parola e si misero a ripeterla: - Fantastica... fantastica... fantastica... - fino a trasformarla in una scempiaggine assoluta che Peter avrebbe tanto desiderato non aver detto. La Cattiva aspettava paziente. Quando la calma fu ristabilita, chiese: - Ti piace, eh, avere una camera tutta tua? . - Certo. - Ti piace, eh, che sia proprio tutta tua? -. - Si, te l’ho appena detto. Mi piace, - disse Peter. La Cattiva si avvicinò a Peter con un altro saltello. Lui aveva la sensazione che stesse per arrivare al punto. Alzò la voce. - E avevi mai pensato che forse anche a qualcun altro avrebbe fatto piacere avere quella stanza? - Fammi ridere, - disse Peter. - Mamma e papà dormono insieme. Perciò restiamo soltanto io e Kate... Le sue parole annegarono in un boato di disapprovazione. La Cattiva riuscì a tenersi in equilibrio sull’unica gamba, mentre sollevava la gruccia per chiedere il silenzio. - Già, solo voi due, eh? Peter scoppiò a ridere. Non sapeva che dire. La Cattiva si avvicinò ancora. Allungando la mano, Peter avrebbe potuto toccarla. Era pronto a scommettere che l’odore che le usciva di bocca era di cioccolato. - Non ti pare, - disse la bambola, - che sia venuto il momento di lasciare il posto a qualcun altro in quella stanza? - Ma per piacere, - disse Peter, - voi siete solo delle bambole... Era la cosa peggiore che potesse dire per far infuriare la Cattiva. - Tu hai visto come siamo costrette a vivere, - strillò. - Siamo in sessanta schiacciate in un angolo della stanza. Ci sei passato accanto migliaia di volte, senza rivolgere neanche un pensiero a come stavamo. A te che importa se siamo accatastate una sull’altra come i mattoni in un muro? Tanto tu non lo vedi quello 16

che ti sta sotto gli occhi. Guardaci! Niente aria, non un po’ di intimità, per molte di noi, neanche un letto. Adesso quella stanza tocca a noi. Quel che è giusto, è giusto! Un altro fragore si levò dalla folla per essere ancora una volta scandito come uno slogan: - Quel che è giusto è giusto! Quel che è giusto è giusto! - E senza smettere di pronunciarlo, le bambole incominciarono a sciamare sul letto, salendosi sulle spalle per riuscire ad arrampicarsi. Nel giro di un minuto, l’intera ciurma stava ansimante di fronte a Peter, e la Cattiva, che si era ritirata in fondo al letto, agitava la gruccia dalle retrovie della folla al grido di: - Adesso! Sessanta paia di mani paffute afferrarono la gamba sinistra di Peter. - Oh-issa! - esclamò la Cattiva. - Oh-issa! - rispose la folla. E a quel punto accadde una cosa strana. La gamba di Peter si sfilò. Semplicemente si staccò dal corpo. Guardando dove l’aveva sempre vista, non trovò il sangue che si aspettava, ma una piccola molla che spuntava dai pantaloni strappati. Che buffo, pensò. Chi l’avrebbe mai detto... Ma non ebbe molto tempo da dedicare alle riflessioni, perché adesso le bambole gli avevano agguantato il braccio destro e, tra un oh-issa e l’altro, tiravano. Anche il braccio partì, ed ecco uscire dalla spalla una molla come la prima. - Ehi! - strillò Peter. - Ridatemi indietro quella roba! Ma non c’era niente da fare. Braccio e gamba venivano passati sulle teste della folla, fino a raggiungere la Cattiva. Che prese la gamba e se la infilò. Le stava giustissima. Poi fu la volta del braccio. Sembrava l’avessero fatto per lei, tanto era perfetto. Strano, pensò Peter. Era certo che le sarebbero stati grandi. Non aveva ancora terminato il pensiero, che di nuovo le bambole gli erano addosso, gli si arrampicavano su per il corpo, tirando capelli, strappando vestiti. - Basta! - gridò. - Mi fate male! Le bambole risero, continuando a cavargli capelli a manciate. Gliene lasciarono soltanto un ciuffo ritto in mezzo alla testa. La Cattiva lanciò a Peter la sua stampella e saltellò avanti e indietro per mettere alla prova la sua nuova gamba. - È il mio turno nella stanza, esclamò. - E quanto a lui, può andarsene là sopra. - E con quello che Peter continuava a 17

considerare il suo braccio, gli indicò lo scaffale dei libri. La Cattiva balzò leggera sul pavimento, mentre la folla si accalcava intorno a Peter che fu sollevato e accompagnato alla sua nuova sistemazione. E così sarebbe senz’altro finita. Se non che in quel momento, Kate entrò nella stanza. Dunque, dovete sforzarvi di immaginare la scena dal suo punto di vista. Era appena tornata dopo un pomeriggio passato a giocare con un’amica; entra nella sua camera e chi ti trova? Suo fratello sdraiato sul letto che gioca con le sue bambole, tutte le bambole, che le sposta e fa anche le voci. L’unica esclusa era la Cattiva, che se ne stava in un angolo sul tappeto. Kate avrebbe potuto arrabbiarsi. Dopo tutto, era contrario alle regole. Peter era entrato nella sua stanza senza chiedere il permesso, e aveva preso tutte le bambole dai loro posti molto speciali. Ma Kate scoppiò a ridere alla vista di suo fratello sommerso da sessanta bambole. Peter si tirò su in tutta fretta, vedendo Kate. Era arrossito. - Oh... ehm... scusa, - farfugliò, e cercò di svignarsela. - Aspetta un minuto, - disse Kate. - Che ne diresti di rimettere tutto a posto. Ciascuna di loro ha un posto preciso, sai? E’ così, mentre Kate dava indicazioni, Peter rimetteva le bambole in ordine, contro lo specchio, sulla cassettiera, sui davanzali, sul letto, nella carrozzina. Gli parve che ci volesse un’eternità a fare tutto. L’ultima fu la Cattiva. Mentre la riappoggiava in cima allo scaffale dei libri, fu certo di averla sentita dire: - Un giorno o l’altro mio caro, quella stanza sarà mia. - Oh, porcaccio diavolo! Schifoso budino marcio! le sussurrò Peter. - Che cosa hai detto? - chiese sorpresa Kate. Ma suo fratello era già uscito dalla stanza.

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Il Gatto

Svegliandosi al mattino, Peter non apriva mai gli occhi prima di aver risposto a due semplici domande. Uno: chi ero, già? Ah, si, Peter, un bambino di dieci anni e mezzo. Due, sempre con gli occhi chiusi: che giorno è oggi? E la risposta gli piombava addosso, realtà palpabile e ferma come una montagna. Martedì. Un altro giorno di scuola. Allora si tirava le coperte sulla testa e andava a rannicchiarsi tutto dentro il suo tepore facendosi inghiottire da quel buio amico. Riusciva quasi a far finta di non esistere, ma sapeva che gli sarebbe toccato saltar fuori, prima o poi. Era proprio martedì, per tutto il mondo. La terra stessa, cigolando nello spazio freddo, girando e roteando intorno al sole, aveva portato tutti quanti a martedì e non c’era niente che né Peter né i suoi genitori e neppure il governo potessero fare per cambiare la situazione. Doveva alzarsi, se non voleva perdere l’autobus e fare tardi, e finire nei guai. Che cattiveria però dover trascinare fuori da quel nido il suo corpo caldo e assonnato e mettersi a cercare nel buio i vestiti, già sapendo che tra meno di un’ora si sarebbe ritrovato a tremare alla fermata. Alla televisione, il signore del tempo aveva detto che da quindici anni ormai non c’era più stato un inverno tanto freddo. Freddo, e noioso, per giunta. Niente neve, niente brina, neppure uno straccio di pozza gelata per farci le scivolate Era solo freddo e grigio, con un ventaccio arrabbiato che si infilava nella stanza di Peter da una fessura della finestra. Certe volte gli sembrava di non aver fatto altro nella vita che svegliarsi, alzarsi e andare a scuola, e che sarebbe stato così per sempre. Il fatto poi che anche gli altri, grandi compresi, dovessero tirarsi giù dal letto nelle scure mattine d’inverno, non gli procurava il minimo sollievo. Ma la terra continuava a girare, girare, lunedì, martedì, mercoledì, e la gente continuava ad alzarsi. La cucina era una specie di stazione intermedia tra il letto e il gran mondo di fuori. L’aria era densa di fumo del pane tostato, vapore che usciva dalla valvola del bollitore, e profumo di pancetta. In teoria, a colazione la famiglia avrebbe dovuto trovarsi riunita, ma accadeva di rado che si sedessero tutti e quattro insieme. Mamma e papà uscivano per andare a lavorare, e c’era sempre qualcuno 19

che correva intorno alla tavola in preda al panico, alla ricerca di un foglio perduto, un’agenda, o magari una scarpa; così bisognava arrangiarsi a prendere quel che c’era nei tegami e trovarsi un posto per mangiare. Faceva caldo in cucina, quasi come nel letto, ma non c’era la stessa pace. L’atmosfera era carica di accuse nervose travestite da domande. - Chi ha dato da mangiare al gatto? - A che ora pensi di essere a casa? - Hai finito i compiti? - Chi ha preso la mia valigetta? Col passare dei minuti crescevano il trambusto e la tensione. In famiglia vigeva una regola: prima che tutti uscissero, la cucina doveva essere in ordine. Capitava perciò di dover acchiappare alla svelta una fetta di pancetta, se non la si voleva veder finire direttamente nella ciotola del gatto mentre la padella affondava sfrigolando dentro l’acqua dei piatti. I quattro membri della famiglia andavano e venivano di corsa urtandosi con scodelle sporche, e scatole di cereali. E c’era sempre qualcuno che brontolava: - Farò tardi. Sono di nuovo in ritardo. Con questa fa tre volte in una settimana. C’era però anche un quinto membro della famiglia, il quale non aveva mai furia e ignorava tutto quel finimondo. Se ne stava sdraiato sulla mensola sopra il calorifero, con gli occhi socchiusi, dando appena in qualche sbadiglio di quando in quando. Erano sbadigli enormi, offensivi. La bocca si spalancava rivelando una bella lingua rosa e quando finalmente tornava a chiudersi, il corpo intero, dal baffo alla punta della coda, era percorso da un fremito pigro: William, il gatto, si preparava a vivere un’altra giornata. Quando Peter afferrava la cartella e si dava ancora un’occhiata intorno prima di uscire di casa di corsa, era sempre William l’ultima cosa che vedeva. Teneva la testa appoggiata a una zampa, mentre quell’altra ciondolava molle dal bordo della mensola, e si godeva l’aria calda che saliva. Una volta liberatosi di quei ridicoli esseri umani, il gatto avrebbe potuto sonnecchiare in pace per qualche ora. L’immagine del micio sonnolento non mancava di torturare Peter ogni volta che, uscendo di casa, riceveva il benvenuto di una raffica gelida di tramontana. Caso mai vi facesse strano pensare a un gatto come a un vero membro della famiglia, dovete sa pere che William aveva più anni di Peter e di Kate messi 20

insieme. Aveva conosciuto la loro mamma da piccolo, quando lei ancora studiava. L’aveva seguita per tutto il corso universitario e, cinque anni dopo, era stato presente al ricevimento di nozze. Quando Viola Fortune aspettava il primo bambino e certe volte si riposava a letto di pomeriggio, il Gatto William si acciambellava intorno a quella gran gobba rotonda dove dentro c’era Peter. E dopo la nascita tanto di Peter quanto di Kate, era scomparso di casa per giorni e giorni. Nessuno sapeva dove andasse, né perché. Era stato un testimone muto di tutte le gioie e i dolori della famiglia. Aveva osservato i poppanti crescere fino a muovere i primi passi e a cercare di trascinarlo per le orecchie, e aveva visto quegli stessi bimbetti farsi scolari. Conosceva i loro genitori dai tempi in cui erano una coppia di svitati che vivevano in un monolocale. Adesso erano un po’ meno svitati e avevano una casa con tre stanze da letto. Del resto, anche il Gatto William si era fatto più tranquillo. Aveva smesso di portare in casa topi e uccellini da deporre ai piedi di ingrati essere umani. Da poco dopo il suo quattordicesimo compleanno non lottava più nell’orgogliosa difesa del suo territorio. Peter giudicava intollerabile che il giovane bellimbusto della casa vicina stesse prendendo possesso del giardino, senza che William potesse reagire. Certe volte lo sfrontato arrivava al punto di entrare in cucina passando dalla ribaltina della porta di servizio, e andava a mangiare la pappa di William, mentre il vecchio gatto restava a guardare impotente. E dire che fino a pochi anni prima, nessun gatto dotato di un minimo di buon senso, avrebbe mai osato posare una zampa al di là del muretto. Chissà quanto soffriva William di non esser più forte come un tempo. Rinunciò alla compagnia di altri gatti, per starsene seduto in casa, solo con i suoi pensieri e i suoi ricordi. Ma, a dispetto dei diciassette anni, si manteneva lucido e pulito. Era quasi tutto nero, fatta eccezione per le ghette e lo sparato bianchissimi, come la punta della coda. Certe volte veniva a vedere dove eri seduto e, dopo un attimo di riflessione, ti saltava in grembo e restava così sulle quattro zampe ben distese, a guardarti fisso dentro gli occhi, senza mai battere ciglio. Poi magari fletteva la testa, pur continuando a sostenere lo sguardo, e se ne usciva in un unico miagolio, e allora si poteva esser certi che avesse detto qualcosa di saggio e importante, qualcosa che tu non avresti capito.

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Nei pomeriggi d’inverno, di ritorno da scuola, non c’era cosa che Peter amasse di più che sfilarsi con un calcio le scarpe e sdraiarsi davanti al fuoco del tinello accanto al Gatto William. Gli piaceva mettersi giù all’altezza di William e poi andargli vicino vicino con la faccia a guardare la sua, quella faccia straordinaria diversa e bellissima, con ciuffi di pelo nero che si aprivano a raggio intorno al musetto, e i baffi bianchi leggermente piegati all’in giù, e i peli del sopracciglio sparati dritti come antenne della televisione, e gli occhi verde chiaro con quelle fessure strette come porte socchiuse su un mondo nel quale Peter non sarebbe mai potuto entrare. Appena gli si avvicinava, incominciava il ronzio soddisfatto delle sue fusa, talmente basso e potente da far vibrare anche il pavimento. E Peter sapeva di essere gradito. Fu proprio in uno di quei pomeriggi, e proprie di martedì, guarda caso, le quattro appena e fuori già quasi buio, le tende tirate e la luce accesa, che Peter si accomodò sul tappeto vicino a William, davanti a un bel fuoco le cui fiamme si arricciavano intorno a un grosso ciocco di legno d’olmo. Giù dal camino veniva il gemito del vento gelato che intanto spazzava i tetti. Per non sentir freddo, Peter aveva sfidato Kate a chi faceva prima dalla fermata dell’autobus fino a casa. Adesso era al caldo ¡ e al sicuro con il suo vecchio amico il quale, disteso sulla schiena con le zampe anteriori ciondoloni, faceva finta di essere più giovane dei suoi anni. Voleva farsi accarezzare la gola. Mentre Peter gli passava le dita tra il pelo con dolcezza, il mormorio delle fusa si faceva più forte, finché ogni ossicino del vecchio gatto sembrò mettersi in movimento. Poi, William allungò una zampa verso le dita di Peter, come a tirargliele un po’ più su. E Peter si lasciò guidare. - Vuoi che ti accarezzi il mento, eh? - sussurrò. Ma non era così. Il gatto voleva essere toccato esattamente all’attaccatura del collo. Peter sentì qualcosa di duro. Qualcosa che si spostava di qua e di là. Doveva essergli rimasto impigliato tra i peli. Peter si rizzò appoggiandosi a un gomito, per controllare meglio. Si aprì con le dita un varco. Da principio pensò si trattasse di un piccolo oggetto prezioso, una targhetta d’argento. Ma non c’era la catenina, e a furia di tastare e scrutare, si rese conto che non era affatto metallico, ma di osso pulito, un piccolo ovale schiacciato nel mezzo e, cosa ben più incredibile, si accorse che era attaccato alla pelle di William. Poteva afferrarlo comodamente tra pollice e indice. Strinse un

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poco la presa e diede un leggero strattone. Le fusa di William si fecero anche più convinte. Peter tirò di nuovo e questa volta sentì qualcosa cedere. Osservando tra la pelliccia e spartendola un po’ con le dita, vide che aveva aperto un breve taglio nella pelle del gatto. Era come se stesse tirando l’estremità di una cerniera lampo. Tirò ancora e questa volta lo squarcio buio si fece lungo almeno due pollici. Le fusa di William provenivano proprio di là. Forse, pensò Peter, gli vedrò battere il cuore. La zampa gli stava di nuovo spingendo le dita. Il Gatto William voleva che continuasse. E lui obbedì. Aprì la cerniera del gatto dalla gola alla coda. Peter avrebbe voluto anche guardare dentro, ma non gli piaceva far la figura del ficcanaso. Era lì lì per chiamare Kate che venisse a vedere, quando ci fu un movimento, come un rimescolio dentro il gatto e dal buco uscì un tenue bagliore rosato che si andò facendo più vivo. Poi d’improvviso, dal Gatto William sgusciò... be’ sì insomma, una cosa, una creatura. Solo che Peter non era sicuro di poterla davvero toccare perché gli sembrava fatta solo di luce. E benché non avesse né baffi né coda, non facesse le fusa, non si vedesse pelo, né zampe, sembrava dire con tutta se stessa una cosa soltanto: «gatto». Era come l’essenza di quella parola, il cuore dell’idea. Era un viluppo rosa violaceo di luce pacata, sinuosa, ricurva e stava uscendo dal corpo del gatto. - Tu devi essere lo spirito di William, - disse Peter. - Oppure sei un fantasma? La luce non emise alcun suono, ma era chiaro che aveva capito. Anche senza pronunciare parole vere e proprie, sembrava dire che era entrambi le cose, e anche molto di più. Quando fu totalmente fuori dal gatto, il quale continuava a starsene sdraiato sul tappeto davanti al fuoco, lo spirito si librò nell’aria e andò a posarsi fluttuando sulla spalla di Peter. Non gli metteva nessuna paura. Si sentiva quella luce sulla guancia. Poi lo spirito volteggiò dietro la sua testa e non poté più vederlo. Lo sentiva però sfiorargli il collo e un leggero brivido gli corse giù per la schiena. Lo spirito del gatto afferrò qualcosa che doveva sporgere dalla sua spina dorsale e lo tirò giù, fino in fondo, e Peter sentì l’aria fresca della stanza solleticargli il tepore interno. Era una sensazione stranissima, quella di uscire dal proprio corpo, come se niente fosse, per poi lasciarlo sdraiato per terra, come quando ci si sfila una 23

camicia. Peter vedeva il suo stesso bagliore, che era viola e bianchissimo. I due spiriti volteggiarono un poco nell’aria l’uno di fronte all’altro. E fu proprio allora che Peter seppe che cosa desiderava fare, che cosa anzi doveva fare. Fluttuò sopra il corpo del Gatto William e rimase sospeso a mezz’aria. Il corpo era aperto come una porta, e appariva così invitante, così accogliente. Peter discese ed entrò. Che bella cosa, vestire i panni di un gatto. Non era affatto molliccio, come credeva che fossero tutti i corpi visti da dentro. Era caldo e asciutto. Si sdraiò sulla schiena e infilò le braccia dentro le zampe anteriori di William. Poi sistemò le gambe in quelle posteriori. La testa entrò come un guanto in quella del gatto. Lanciò un’ultima occhiata al proprio corpo, appena in tempo per vederci sparire dentro lo spirito del Gatto William. Aiutandosi con le zampe, non gli fu difficile richiudere la cerniera. Si tirò su e azzardò qualche passo. Com’era piacevole camminare su quelle quattro zampette morbide e bianche. Si vedeva i baffi spuntare dai lati della faccia e si sentiva la coda arricciolarsi da dietro. Aveva il passo leggero e la pelliccia gli dava la sensazione di estrema comodità di un vecchio maglione di lana. Man mano che il piacere di essere gatto cresceva, Peter si sentiva gonfiare il cuore e il solletichìo profondo che gli nasceva in gola divenne così forte da produrre un rumore decisamente udibile. Peter stava facendo le fusa. Era proprio un Gatto Peter e laggiù, ecco il Bambino William. Il bambino si alzò stiracchiandosi. Poi, senza dire una parola al gatto che gli stava ai piedi, uscì di corsa dalla stanza. - Mamma, - Peter sentì il suo corpo di prima chiamare dalla cucina. - Ho fame. Che cosa si mangia per cena? Quella sera Peter si ritrovò troppo inquieto, agitato, troppo gatto, per dormire. Intorno alle dieci, sgusciò fuori di casa passando dalla ribaltina. L’aria gelida della notte non riusciva a penetrare il pelo fitto della sua pelliccia. Zampettò silenzioso fino al muro di cinta del giardino. Sembrava altissimo, ma con un semplice balzo aggraziato ne guadagnò la cima, dalla quale poteva dominare il suo territorio. Che meraviglia, poter scrutare negli angoli bui, percepire ogni vibrazione dell’aria notturna a fior di baffi, e poi, rendersi invisibile quando, verso mezzanotte, una volpe arrivò in giardino per andare a rovistare tra i bidoni della spazzatura. Sentiva nei dintorni la presenza di altri gatti, alcuni del posto, altri 24

venuti da chissà dove, a zonzo per i loro vagabondaggi serali. Dopo la volpe, era stata la volta di un giovane soriano che aveva tentato di intrufolarsi in giardino. Vedendo quel giovanotto squittire per lo spavento e darsela a gambe, dentro di sé si era concesso un accenno di fusa compiaciute. Poco dopo, nel corso di un giro di ronda sul muro alto che sovrastava la serra, si ritrovò muso a muso con un altro gatto, ben più pericoloso questa volta. Era nero nero, il che spiega come mai Peter non l’avesse visto prima. Si trattava del gattone della porta accanto, un tipo gagliardo, quasi due volte lui, con un gran collo e lunghe zampe robuste. Senza nemmeno pensarci, Peter inarcò la schiena e scompigliò il pelo per sembrare più grosso. - Ehi, micio-micio, - sibilò, - stai camminando sul mio muretto. Il gatto nero era molto sorpreso. Sorrise. - Vorrai dire che era il tuo muro, Nonnetto. Sentiamo un po’, che intenderesti fare? - Ti conviene girare alla larga, prima che ti faccia finire da basso -. Peter non poteva credere alla forza che si sentiva dentro. Il gatto nero sorrise di nuovo, con freddezza. - Senti Nonnetto. Non è più il tuo muro da un pezzo. E io ci passo finché mi pare. Ora levati da mezzo se no ti apro in due. Peter non si mosse. - Fa’ un altro passo, lurida pulce ammaestrata, e ti lego i baffi intorno al collo. Il gatto nero diede in un lungo lamento sprezzante. Ma non si mosse dal punto in cui era. Tutto intorno, dal buio, arrivavano i gatti del vicinato a vedere che succedeva. Peter li sentiva parlare. - Una zuffa? - Una zuffa! - Il vecchio deve essere impazzito! - Ha diciassette anni come minimo. Il gatto nero inarcò la possente spina dorsale ed emise un altro terribile crescente mugolio. Peter si sforzò di mantenere un tono di voce pacato, ma le sue parole uscirono in un susseguirsi di sibili minacciosi: - Sssenti bello, non sssi passsssa di qui sssenza il mio permesssso, chiaro?

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Il gatto nero socchiuse gli occhi. I muscoli del collo grasso gli si contrassero in una risata che era anche un grido di guerra. Sul muretto di fronte, un miagolio sommesso e carico di tensione si diffuse tra un pubblico sempre più numeroso. - Il vecchio Bill è uscito di senno. - Si è scelto il gatto sbagliato per fare a botte. - Ascoltami bene, vecchia pecora sdentata, stava dicendo il gatto nero in un sibilo assai più convincente di quello di Peter. - Io sono il numero uno da queste parti. Siamo d’accordo? E il gatto nero fece l’atto di rivolgersi alla folla che replicò con un mormorio di assenso. Peter considerò che il pubblico non sembrava poi troppo entusiasta. - Se vuoi un consiglio, - proseguì il gatto nero, - fatti da parte. Sempre che tu non voglia andarti a raccogliere le budella per tutto il prato. Peter sapeva che ormai si era spinto troppo in là per fare marcia indietro. Estrasse gli artigli per assicurarsi una buona presa sul muro. - Ehi, brutto sorcio pieno di boria! Questo è il mio muro, senti? E tu non sei altro che la merda molle di un cane con il cimurro. Il gatto nero restò a bocca aperta. Dalla folla si levò qualche risatina. Peter era sempre stato un tipo tanto educato! Che bellezza finalmente sputare fuori tutti quegli insulti. - Preparati a diventare mangime per uccellini. - ammonì il gatto nero, facendo un passo avanti, Peter tirò un respiro profondo. Doveva vincere per rendere giustizia al vecchio William. Non aveva ancora finito di formulare questo pensiero, che già la zampa del gatto nero si levò a colpirgli la faccia. Ora Peter sarà anche stato nel corpo di un gatto vecchio, ma ragionava con la testa di un ragazzino. Perciò schivò il colpo e sentì la zampa e le unghie feroci fischiargli appena sopra le orecchie, E fece in tempo a cogliere il gatto nero in equilibrio precario sulle tre zampe. Si lanciò immediatamente all’attacco e spinse il gattone con le zampe anteriori. Questa non era una mossa consueta nei combattimenti fra gatti e il campione fu colto alla sprovvista. Diede in un miagolio di sorpresa e, scivolando sulle zampe posteriori, cadde dal muro finendo a testa prima nel tetto della serra sottostante. L’aria gelida e buia fu attraversata dal fracasso e dal tintinnio musicale dei vetri infranti, seguito dal baccano più sordo dei vasi di coccio in 26

frantumi. Poi si fece silenzio. Un pubblico di gatti ammutoliti sbirciava oltre il muretto. Si udì un tramestio, e poco dopo un lamento. Infine, appena visibile nell’oscurità, ecco la sagoma del gatto nero che attraversava il prato zoppicando. Lo sentirono imprecare. - Non vale. Le unghie e i denti, d’accordo. Ma (dare spintoni a quel modo. Non vale e basta. - La prossima volta, - gli gridò dietro Peter, impari a chiedere prima il permesso. Il gatto nero non replicò, ma quella sua ritirata sbilenca lasciava intendere che avesse afferrato il concetto. Il mattino dopo, Peter se ne stava sdraiato sul calorifero con il capo appoggiato a una zampa e l’altra ciondoloni nell’aria calda che saliva. Intorno a lui era tutto un andirivieni frenetico. Kate non riusciva a trovare la cartella. Il porridge era bruciato. Il signor Fortune era di cattivo umore, perché il caffè si era rovesciato sul gas e lui aveva bisogno di berne almeno tre tazze, per poter incominciare la giornata. La cucina era un disastro e su quel disastro aleggiava il fumo dei cereali bruciati. E manco a dirlo era tardi, tardi, tardi! Peter si arrotolò la coda intorno alle zampe di dietro e cercò di contenere il ronzio delle fusa. Nell’angolo opposto della stanza, c’era il suo corpo di sempre con dentro lo spirito del Gatto William, e quel corpo doveva andare a scuola. Il Bambino William sembrava indeciso. Aveva già indosso il cappotto, era pronto per partire, ma aveva trovato una scarpa sola. L’altra non c’era stato verso di scovarla. - Mamma, - continuava a frignare, dov’è la mia scarpa? - Ma la signora Fortune era nell’ingresso, impegnata a discutere con qualcuno al telefono. Il Gatto Peter socchiuse gli occhi. Dopo quella vittoria, si sentiva stanchissimo. Tra non molto tutta la famiglia sarebbe stata fuori, e la casa sarebbe piombata nel silenzio. Una volta che il calorifero si fosse raffreddato, sarebbe salito a cercarsi il letto più comodo. E in memoria dei vecchi tempi, avrebbe scelto proprio il suo. La giornata trascorse esattamente come aveva sperato. Tra un sonnellino, una lappata di latte un altro sonnellino, qualche boccone di cibo per gatti in scatola, che a onor del vero non era poi co si atroce come l’odore lasciava supporre: una specie di pasticcio di carne tritata, ma senza il purè di contorno. E poi ancora 27

dormire. In men che non si dica, il cielo fuori si andò caricando di ombre e i bambini tornarono a casa da scuola. Il Bambino William aveva l’aria esausta di chi è reduce da una mattinata in classe e da qualche rissa in cortile. Gattobambino e Bambino-gatto si sdraiarono insieme davanti al fuoco del soggiorno. Che stranezza, pensò il Gatto Peter, essere accarezzati da una mano che solo il giorno prima era stata sua. Si chiese se il Bambino William si trovasse bene nella sua nuova vita fatta di autobus e di scuola, e del piacere di una sorella e una mamma e un papà. Ma la faccia del bimbo non gli comunicava un bel niente. Era così spelacchiata, rosa e senza baffi, con quegli occhi rotondi dai quali era impossibile cavare qualunque cosa. Più tardi quella sera, Peter raggiunse Kate in camera sua. Come sempre, stava parlando con le sue bambole alle quali spiegava un po’ di geografia. Dalle loro espressioni imperturbabili, si capiva benissimo che non nutrivano alcun interesse specifico per i fiumi più lunghi del mondo. Peter le saltò in grembo e lei si mise ad accarezzarlo distrattamente, senza smettere di parlare. Se solo avesse saputo che quello che aveva in braccio era suo fratello. Peter si accomodò e incominciò a fare le fusa. Kate si era messa a citare tutte le capitali che riusciva a ricordare. Una noia deliziosa, proprio quel che ci voleva per risprofondare nel sonno. Aveva già gli occhi chiusi, quando la porta si spalancò e comparve il Bambino William. - Ehi Peter, - disse Kate, - non hai nemmeno bussato. Ma il suo fratello-gatto non le diede retta. Attraversò la stanza, afferrò il suo gatto-fratello e se lo portò via di corsa. A Peter non piaceva essere portato a spasso a quel modo. Non era dignitoso per un gatto della sua età. Cercò di divincolarsi, ma il Bambino William non fece altro che stringere di più la presa precipitandosi giù dalle scale. - Shh, - disse. - Non abbiamo tanto tempo. William portò il gatto in soggiorno e lo mise giù. - Sta’ fermo, - sussurrò il bambino. - Fa’ come ti dico. Mettiti sulla schiena. Il Gatto Peter non ebbe molta scelta, perché il bambino lo stava tenendo fermo con una mano, mentre con l’altra gli rovistava tra il pelo. Trovò quel pezzetto di osso liscio e lo tirò giù. Peter sentì l’aria fresca entrargli in corpo. Usci dal gatto. Il Bambino intanto si stava cercando la cerniera sulla schiena e, quando l’ebbe trovata, l’apri. Ecco il bagliore rosa-violaceo del gatto scivolare fuori dal corpo del ragazzino e Per un momento i due spiriti, quello del gatto e quello del bambino si 28

ritrovarono uno di fronte all’altro, sospesi a mezz’aria sopra il tappeto. Là sotto, giacevano immobili i rispettivi corpi, in attesa, come due taxi pronti a partire appena fosse salito il cliente. Nella stanza aleggiava una certa tristezza. Sebbene lo spirito del gatto non dicesse niente Peter sentì che il messaggio era, «Devo tornare! Mi aspetta un’altra avventura. Grazie per avermi permesso di fare il Bambino. Ho imparato tantissime cose che mi serviranno in futuro. Ma soprattutto, grazie per aver combattuto la mia ultima battaglia». Peter era sul punto di dire qualcosa, ma lo spirito del gatto stava già rientrando nel suo vecchio corpo. «C’è pochissimo tempo», pareva dicesse, mentre la luce rosa e violetta si avviluppava nella pelliccia del gatto. Peter fluttuò verso il proprio corpo e vi si infilò dall’estremità superiore della spina dorsale. Da principio si sentì un po’ strano. Quel corpo non gli stava più bene addosso. Quando si alzò si sentì barcollare sulle gambe. Era come cercare di camminare con un paio di galosce quattro numeri più grandi del giusto. Forse il suo corpo era un tantino cresciuto dall’ultima volta che ci era stato dentro. Meglio sdraiarsi ancora un minuto. Mentre si metteva giù, il Gatto William si girò per andarsene lento e impettito senza degnarlo di un solo sguardo. Sdraiato a terra, nel tentativo di riadattarsi al suo corpo di sempre, Peter notò qualcosa di strano. Il fuoco avvolgeva ancora di fiamme lo stesso ciocco di legno d’olmo. Lanciò un’occhiata verso la finestra. Si stava facendo buio. Non era sera, doveva essere ancora tardo pomeriggio. Dal giornale appoggiato vicino alla sedia, constatò che era sempre martedì. Ed ecco un’altra stranezza. Sua sorella Kate stava entrando di corsa in soggiorno, piangendo. E dietro di lei, c’erano anche mamma e papà, con l’aria triste. - Oh, Peter, - esclamò sua sorella. - E successa una cosa terribile. - Il Gatto William, - spiegò sua madre. - Purtroppo è... - Oh William! - I singhiozzi di Kate soverchiarono le parole della mamma. - È entrato in cucina, - disse suo padre. - È salito sulla sua mensola preferita, quella sul calorifero, ha chiuso gli occhi, ed è... morto. - Non ha sentito niente, - disse Viola Fortune in tono rassicurante.

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Kate continuava a piangere. Peter si rese conto che i suoi genitori lo fissavano con apprensione, in attesa di constatare come avrebbe reagito alla notizia. Di tutta la famiglia, era sempre stato lui il più affezionato al gatto. - Aveva già diciassette anni, - disse Thomas Fortune. - E’ vissuto abbastanza. - E bene, - disse Viola Fortune. Peter si alzò lentamente. Quelle due gambe non gli parevano un buon sostegno. - Sì, - disse alla fine. - Ormai era pronto per altre avventure. La mattina dopo seppellirono William in fondo al giardino. Peter costruì una croce con due bastoni, e Kate fece una corona di ramoscelli e di alloro. Trascurando il fatto che sarebbero arrivati tutti in ritardo chi in ufficio e chi a scuola, l’intera famiglia si raccolse intorno alla tomba. I bambini vi deposero simbolicamente le ultime manciate di terra. E fu proprio allora che dal tumulo si levò, per andare a librarsi nell’aria, una sfera luminosa di luce rosa e violetta. - Guardate, - disse Peter, indicandola con il dito. - Che c’è? - Lì. Proprio lì davanti. - Peter, di che stai parlando? - Il solito sogno a occhi aperti. La luce volteggiò più in alto, fino a raggiungere il livello della testa di Peter. Non disse nulla, ovviamente. Sarebbe stato impossibile. Ma Peter la sentì lo stesso. - Addio, Peter, - diceva, impallidendo dinanzi ai suoi occhi. - Addio, e grazie, sai, grazie.

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La Pomata Svanilina

Nella grande cucina disordinata c’era un cassetto. O meglio, ce n’erano tanti, ovviamente, ma se qualcuno diceva: «La corda è nel cassetto in cucina», tutti quanti capivano. Magari poi succedeva di non trovarcela dentro, la corda. Quello sarebbe stato il suo posto, insieme a quello di un’altra dozzina di cose utilissime che non si trovavano mai: cacciaviti, forbici, nastro adesivo, puntine da disegno, matite. Cose del genere si cercavano prima di tutto nel cassetto, e poi dovunque. Il reale contenuto del cassetto era in effetti difficile da determinare: oggetti non sistemabili in base a una logica, cosucce inutili, ma che nessuno aveva cuore di gettare via, aggeggi che un giorno, chissà, si sarebbe anche potuto aggiustare. E perciò, pile non ancora del tutto scariche, dadi senza la vite, il manico di una teiera preziosa, un lucchetto senza la chiave, oppure uno a combinazione il cui numero segreto era ormai un vero segreto per tutti, biglie del tipo più scadente, spiccioli di valute straniere, una torcia elettrica senza lampadina, il guanto superstite di quel vecchio paio che la Nonna aveva fatto a maglia con tanto amore poco prima di morire, il tappo di una borsa dell’acqua calda, un pezzo di fossile. Grazie a un curioso fenomeno di perversa magia, a riempire il cassetto degli utensili, finiva ogni oggetto palesemente inutile. A che cosa sarebbe mai servita la singola tessera di un rompicapo? E d’altra parte, chi se la sentiva di cestinarla? Di quando in quando, il cassetto subiva una ripulita. Viola Fortune ne rovesciava l’intero contenuto tintinnante dentro la spazzatura, e tornava a metterci corda, nastro adesivo, forbici... Poi, a poco a poco, questi oggetti preziosi si ammutinavano per protesta contro il ciarpame che era tornato a insinuarvisi. Certe volte, nei momenti di noia, Peter apriva il cassetto nella speranza che le cose potessero suggerirgli un’idea o un gioco. Non succedeva mai. Non c’era nulla che funzionasse, niente di collegabile. Magari, se per un milione di anni un milione di scimmie avesse continuato a rovesciare il cassetto, alla fine dal suo contenuto avrebbe potuto saltar fuori una radio. Ma di sicuro non ci sarebbe stato verso di farla funzionare, e nessuno l’avrebbe mai più gettata via. Altre volte invece, come in questo pomeriggio di sabato, troppo caldo e noioso, andava tutto 31

storto davvero. Peter aveva voglia di costruire qualcosa, di inventare, ma non riusciva a trovare niente di utile al caso, e il resto della famiglia non gli era del minimo aiuto. Quelli pensavano solo a starsene stravaccati nell’erba, fingendo di dormire. Peter li detestava. Quel cassetto sembrava rappresentare tutto ciò che non andava nella sua famiglia. Che disastro! Sfido io che pensare riusciva difficile. Come stupirsi che si rifugiasse sempre nei sogni a occhi aperti! Se avesse avuto una casa tutta sua, corde e cacciaviti sarebbero stati sempre al loro posto. E se fosse stato da solo, anche i suoi pensieri avrebbero finito per riordinarsi. Come si poteva pretendere che mettesse a punto le grandi invenzioni che avrebbero cambiato il mondo, quando i suoi genitori e sua sorella gli creavano intorno simili montagne di caos? Quel sabato in particolare, Peter si era messo a raspare in fondo al cassetto. Era a caccia di un gancio, ma sapeva di avere ben poche speranze. La mano gli si chiuse intorno a una piccola molla sporca di grasso che era appartenuta a un paio di forbici da giardinaggio. La lasciò andare. Poi incontrò bustine di sementi, troppo vecchie per essere piantate e non abbastanza per finire in pattumiera. Che razza di famiglia, pensò Peter ficcando la mano proprio in fondo al cassetto. Perché non possiamo essere anche noi come gli altri, con le pile dove servono, i giocattoli che funzionano, i puzzle e i mazzi di carte completi e il tutto rimesso a posto dopo l’uso? La mano incontrò qualcosa di freddo e liscio. Estrasse un vasetto di vetro blu scuro con il coperchio nero. Sull’etichetta di carta era scritto, «Pomata Svanilina». Scrutò a lungo quelle parole, cercando di coglierne il significato. Il barattolo conteneva una densa pomata candida e liscia in superficie. Non era mai stata usata. Peter ci affondò dentro la punta dell’indice. La sostanza era fredda, non certo il freddo duro e pungente del ghiaccio, ma quello pastoso e morbido di una crema. Estrasse il dito e trasalì per la sorpresa. La punta dell’indice era scomparsa. Completamente svanita. Riavvitò il tappo e si precipitò in camera sua. Appoggiò il vasetto sulla mensola, si fece largo tra vestiti e giocattoli così da potersi sedere sul pavimento appoggiando la schiena al letto. Aveva bisogno di riflettere. Per prima cosa, esaminò il suo indice. Era quasi corto come il pollice. Toccò là dove avrebbe dovuto trovarsi la punta del dito. Non c’era niente. La punta non era diventata semplicemente invisibile. Era proprio sparita. 32

Dopo una mezz’oretta di silenziose meditazioni, Peter si avvicinò alla finestra che si affacciava sul giardino posteriore. Il prato appariva come una versione all’aperto del cassetto in cucina. Ecco i suoi genitori, che sonnecchiavano a pancia in giù sulle coperte, distesi ad abbrustolirsi al sole. In mezzo a loro, c’era anche Kate, la quale probabilmente riteneva che prendere il sole fosse un’esperienza da grandi. E intorno al terzetto, si trovavano le macerie del loro sabato

pomeriggio

sprecato:

tazze

da

tè,

la

teiera,

giornali,

tramezzini

sbocconcellati, bucce d’arancia, vasetti vuoti di yogurt. Peter rivolse alla sua famiglia uno sguardo carico di risentimento. Con gente del genere, non c’era niente da fare, ma non si poteva neppure buttarli via. Forse, però... Tirò un lungo respiro, si infilò in tasca il vasetto di vetro blu e scese di sotto. Peter si inginocchiò accanto a sua madre, che emise un mormorio assonnato. Non hai paura di scottarti, Mamma? - chiese Peter cortese. - Vuoi che ti spalmi un po’ di crema sulla schiena? Viola Fortune bofonchiò qualcosa che poteva sembrare un sì. Peter estrasse il barattolo. Non era facile svitare il tappo con quella punta di dito in meno. Si infilò il guanto spaiato che aveva preso passando in cucina. La schiena bianca di sua madre luccicava al sole. Era tutto pronto. Nella testa di Peter non c’erano dubbi riguardo al profondo affetto che nutriva per la madre, del quale sapeva di essere ricambiato. Era stata lei a insegnargli come si fanno le caramelle mou, oltre che a leggere e scrivere. Una volta era saltata da un aereo con il paracadute, e quando lui stava male, era sempre lei a restare a casa a curarlo. Era anche l’unica madre di sua conoscenza capace di reggersi sulla testa senza l’aiuto di nessuno. Ma ormai aveva preso la sua decisione, e la mamma doveva sparire. Si riempì la mano guantata di un bel fiocco di crema fredda. Il guanto non scomparve. A quanto pare, la magia funzionava solo sui tessuti vivi. Fece cadere il grumo di crema nel bel mezzo della schiena di sua madre. - Oh, - sospirò lei, poco convinta, - ma è gelata -. Peter si mise a spalmare la crema in modo uniforme, e sua madre incominciò a sparire. Ci fu un momento sgradevole, quando sull’erba restavano ancora la testa e le gambe, ma senza più niente in mezzo. Peter si affrettò a sfregare altra pomata sulla testa e giù fino alle caviglie. 33

Svanita. L’erba sulla quale era stata sdraiata era ancora pesta, ma a poco a poco si risollevò. Peter trasferì il vasetto azzurro accanto a suo padre. - Mi pare che ti stia scottando, Papà. - disse Peter. - Ti va se ti passo un po’ di crema? - No, - rispose il padre, senza aprire gli occhi. Ma Peter ne aveva già pronta un bel po’ e si mise subito a spalmargliela sulle spalle. Dovete sapere che in tutto il mondo non c’era persona che Peter amasse più di suo padre, esclusa sua madre, s’intende. Ed era anche chiaro come il sole che suo padre amava lui. Thomas Fortune continuava tenere in garage una motocicletta 500 di cilindrata (un altro di quegli articoli che non si potevano buttare via), e ogni tanto portava Peter a fare un giro. Gli aveva insegnato a fischiare, ad allacciarsi le scarpe in quel modo speciale e a mettere l’avversario al tappeto. Ma Peter aveva preso la sua decisione, e papà doveva sparire. Questa volta gli ci volle meno di un minuto per passare la crema dai piedi alla testa, e alla fine di Thomas Fortune, restavano sull’erba soltanto gli occhiali da vista. Rimaneva soltanto Kate. Era sdraiata tutta contenta, a faccia in giù, in mezzo ai suoi genitori scomparsi. Peter diede un’occhiata dentro il barattolo blu. Ce n’era appena quanto bastava per una persona piccola. Si sarebbe sentito uno scemo a dire che voleva bene a sua sorella. Le sorelle ci sono e basta, che uno lo voglia o no. Ma con lei era bello giocare, quando aveva la luna dritta, e aveva una faccia che metteva voglia di parlarle insieme, e magari, sotto sotto, le voleva bene davvero, e anche lei a lui. Comunque, aveva deciso e doveva sparire. Sapeva che chiedere a Kate se voleva farsi spalmare la crema, sarebbe stato un errore. Avrebbe immediatamente sospettato l’inganno. Far fesso un bambino non è facile come con un grande. Peter passò il dito sul fondo del barattolo, ed era quasi pronto a lasciar cadere il fiocco di pomata su sua sorella, quando lei apri gli occhi e notò la mano guantata di lui. - Che cosa fai? - squittì. Si tirò su di scatto, urtando il braccio di Peter e facendosi finire in testa la crema che doveva servire per la sua schiena. Adesso era in piedi, e si tirava i capelli frignando: - Mamma, Papà, Peter mi butta le schifezze addosso! - Oh no! - esclamò Peter. La testa di Kate stava sparendo, e così pure le mani. Ora scorrazzava per il giardino come un pollo decapitato, agitando i moncherini 34

delle braccia. Se avesse ancora avuto la bocca, di sicuro la si sarebbe sentita urlare. È terribile, pensava Peter, mettendosi a correre per prenderla. - Kate, ascoltami! Devi fermarti . Ma lei era senza orecchie. Continuava a correre in cerchi sempre più ampi, finché non andò a sbattere nel muro di cinta e non si ritrovò tra le braccia di Peter. Che famiglia, pensò, spalmando quel che restava della crema su sua sorella. E che sollievo, quando finalmente anche lei fu svanita e nel giardino tornò la pace assoluta. Prima di tutto voleva dare una rassettata in giro. Raccolse i rifiuti sul prato e buttò via: tazze teiera e tutto, così si risparmiava di fare i piatti. D’ora in avanti la regola base di casa doveva essere la praticità. Si portò in camera un grosso sacco di plastica e lo riempi di oggetti vari. Tutto quel che incontrava fuori di posto veniva considerato immondizia: vestiti lasciati per terra, giocattoli sul letto, scarpe in giro. Fece una ricognizione completa della casa raccogliendo tutte le cose sparse che facevano disordine. Il problema della stanza di Kate e di quella dei suoi genitori, lo risolse semplicemente chiudendo le porte. Denudò il salotto dei soprammobili, dei cuscini, di fotografie in cornice e di libri. In cucina, eliminò i piatti dalle scansie, i ricettari e tutti quei disgustosi barattoli di sottaceti. Verso la fine del pomeriggio, a lavori ultimati, accanto alle pattumiere aveva schierato ben undici sacchi di spazzatura varia. Si preparò un po’ di cena: un tramezzino di burro e zucchero. Poi, scaraventò piatto e coltello nell’immondizia. Infine vagò per casa, contemplando le stanze deserte. Ora si che riusciva a pensare, ora si che poteva dedicarsi all’invenzione delle sue invenzioni; gli bastava solo trovare un foglio di carta e una matita. Il guaio è che le matite dovevano far parte del genere di oggetti sparsi finiti in uno degli undici sacchi. Pazienza. Prima di affrontare il lavoro serio, poteva concedersi qualche minuto davanti alla televisione. In casa Fortune non era del tutto proibito guardare la Tv, ma nemmeno granché tollerato. La razione diurna concessa ammontava a un’ora. A detta dei Fortune adulti, più di così, spappolava il cervello. Non che avessero mai offerto alcun dato clinico in difesa della teoria. Erano le sei di sera quando Peter sedette in poltrona con il suo litro di limonata, un chilo di caramelle mou e la torta margherita. Quella sera si guardò la razione di un’intera settimana. Era da poco passata l’una, quando si mise in piedi come poteva e vacillando verso l’ingresso buio, gridò: - Mamma! Credo di aver voglia di 35

vomitare -. Si mise sul lavandino, in attesa del peggio. Niente da fare. Quello che accadde fu ancora peggio del peggio. Dal piano di sopra gli giunse un suono non facile a definirsi. Come una specie di squittio, uno svolazzamento seguito da passi gommosi, tipo quelli di una creatura viscida che attraversi in punta di piedi una grossa pozzanghera di gelatina verdastra. La nausea di Peter scomparve per lasciare il posto al terrore. Si fermò in fondo alle scale. Accese la luce e sbirciò in alto. - Papà, - azzardò. Papà? - Nessuna risposta. Inutile cercare di sistemarsi di sotto a dormire. Non c’erano coperte, e i cuscini, li aveva buttati tutti via. Si incamminò su per le scale. Ogni gradino scricchiolava al suo passaggio. Il cuore gli batteva forte dentro le orecchie. Gli parve di aver sentito quel suono un’altra volta, ma non ne era sicuro. Si fermò e trattenne il fiato. Niente: soltanto il sibilo del silenzio e il suo cuore impazzito. Guadagnò altri tre scalini. Se soltanto Kate fosse stata in camera sua a parlare con le bambole. Gli mancavano quattro gradini al pianerottolo. Se davvero c’era un mostro che si trascinava avanti e indietro nella pozza di gelatina, allora doveva essersi fermato ad aspettarlo. La porta della sua stanza da letto era sei passi più in là. Contò fino a tre e scattò. Si sbatté la porta alle spalle, la chiuse a chiave e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo, in attesa. Era al sicuro. La stanza gli parve spoglia e piena di trabocchetti. Si infilò nel letto con scarpe e vestiti, pronto a saltar fuori, qualora il mostro avesse fatto irruzione. Quella notte, Peter non chiuse occhio, non fece che correre. Correva a perdifiato nei sogni lungo corridoi pieni di echi; attraversò un deserto roccioso infestato di scorpioni; si addentrò in labirinti di ghiaccio; scivolò in un tunnel rosa dalle pareti spugnose grondanti acqua. Fu a quel punto che si rese conto di non essere inseguito dal mostro. Era lui che stava invece per saltargli alla gola. Si svegliò di soprassalto e si mise a sedere sul letto. Fuori era chiaro. Forse era mattina tardi, o forse primo pomeriggio. La giornata dava l’impressione di essersi già un po’ consumata. Peter aprì la porta della stanza e cacciò fuori la testa. Silenzio. Nessuno. Tirò le tende. Il sole inondò la camera ridandogli coraggio. Fuori gli uccellini cinguettavano, si sentiva il rumore del traffico e il ronzio di un tagliaerba. Con il buio, sarebbe tornato anche il mostro. Quel che ci voleva, pensò, era una trappola. Se fosse riuscito a riflettere e a inventare la sua invenzione, allora avrebbe potuto sistemare il mostro una volta per tutte. Dunque 36

vediamo, gli servivano una ventina di puntine da disegno, una torcia elettrica, qualcosa di pesante per tenere ferma l’estremità di una corda attaccata a un bastone... Queste riflessioni lo portarono al piano di sotto, in cucina. Aprì il cassetto. Stava facendo da parte una confezione di sostegni per candeline da torta accese in occasione dell’ultimo compleanno, quando lo sguardo gli cadde sul suo dito indice. C’era tutto! Gli era ricresciuto. L’effetto della pomata era svanito. Stava incominciando a considerare le possibili conseguenze del fenomeno, quando si sentì una mano sulla spalla. Il mostro? Macché, era Kate, in carne e ossa e tutta intera. Peter si mise a farfugliare: - Grazie a Dio sei qui. Mi serve il tuo aiuto. Sto costruendo una trappola. Sai, c’è in giro un... Kate lo stava tirando per la mano. - Sono secoli che ti chiamiamo dal giardino. E tu eri qui imbambolato davanti al cassetto. Vieni a vedere che cosa stiamo facendo. Papà ha tirato fuori la vecchia macchina tagliaerba. Vogliamo trasformarla in un hovercraft. - Un hovercraft! Peter si lasciò condurre fuori. C’erano tazze, bucce d’arancia, giornali e mamma e papà, tutt’altro che spariti. - Avanti, - disse sua madre. - Vieni ad aiutarci. Thomas Fortune aveva in mano una chiave inglese. - Forse riusciamo a farlo funzionare, - disse, - se ci aiuti. Correndo in giardino dai suoi genitori, Peter si chiese che giorno poteva essere. Ancora sabato? Decise di non domandare.

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Il Prepotente

C’era un prepotente nella classe di Peter; si chiamava Barry Tamerlane. Non aveva l’aria da prepotente. Non era di quelli sempre tutti sporchi; non aveva una faccia brutta, e neppure lo sguardo da far paura o le croste sopra le dita, e non girava armato. Non era poi tanto grosso. Ma nemmeno di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano, come spesso succede ai prepotenti, e neanche lo viziavano. Aveva genitori gentili ma fermi, che non sospettavano nulla. La voce non ce l’aveva né acuta né rauca; gli occhi, non particolarmente piccoli e cattivi, e non era neppure troppo cretino. Anzi, a guardarlo era bello morbido e tondo, pur senza essere grasso; portava gli occhiali e, sulla sua faccia soffice e rosa luccicava l’argento dell’apparecchio dei denti. Spesso metteva su un’aria triste e innocente che a certi grandi piaceva e che gli tornava comoda quando doveva togliersi dai guai. Come si spiega allora che Barry Tamerlane riuscisse tanto bene a fare il prepotente? Peter aveva dedicato a questa domanda un bel po’ di pensieri. Ed era giunto alla conclusione che il successo di Barry avesse due spiegazioni. La prima era che Barry sembrava capace di ridurre al minimo i tempi tra il volere una cosa e l’ottenerla. Supponiamo ad esempio che gli andasse a genio il giocattolo che aveva un bambino in cortile: lui non faceva altro che strapparglielo di mano. Oppure se in classe gli serviva una matita, si voltava e «prendeva in prestito» quella di un compagno. Se c’era da fare una coda, lui si metteva per primo. Se ce l’aveva con qualcuno, glielo diceva in faccia e poi lo picchiava senza pietà. La seconda ragione del successo di Tamerlane era che di lui avevano tutti paura. Non si sapeva bene perché. Bastava sentirlo nominare per provare una specie di pugno gelato alla bocca dello stomaco. Uno aveva paura, perché ce l’avevano gli altri. Barry metteva paura, perché aveva la reputazione di uno che mette paura. Vedendolo arrivare, la gente se ne stava alla larga, e se chiedeva caramelle o un giocattolo, se le vedeva subito consegnare. Facevano tutti così, perciò sembrava logico non fare in modo diverso. 38

Barry Tamerlane era potente in tutta la scuola. Nessuno poteva impedirgli di prendersi quel che voleva. Neanche lui stesso. Era una forza cieca. A volte Peter pensava che fosse come un robot programmato per fare tutto quel che doveva. Che strano che non gli importasse di essere senza amici, o di essere odiato ed evitato da tutti. Naturalmente, Peter si teneva lontano da quel prepotente, ma provava per lui un interesse speciale. Barry Tamerlane era un mistero. Quando compì undici anni, Barry invitò a casa una dozzina di compagni. Peter cercò di salvarsi, ma i suoi genitori furono irremovibili. Dal canto loro trovavano simpatici la mamma e il papà di Barry e perciò, in base a una logica adulta, Peter doveva trovare simpatico il figlio. Il festeggiato tutto sorridente accolse i bambini sulla porta di casa. - Salve Peter! Grazie! Ehi, Mamma, guarda che cosa mi ha regalato il mio amico Peter! Quel pomeriggio, Barry fu cortese con tutti i suoi ospiti. Partecipava alle gare, senza pretendere di vincere sempre, soltanto perché era il suo compleanno. Rideva con i genitori e versava da bere, e aiutò addirittura a rimettere in ordine e a lavare i piatti. A un certo momento della festa, Peter sbirciò nella stanza di Barry. C’erano libri dappertutto, una pista da trenino montata sul pavimento, un vecchio orso di pezza sul letto appoggiato al cuscino, una scatola del piccolo chimico, un gioco elettronico: una stanza identica in tutto e per tutto alla sua. Alla fine del pomeriggio, Barry salutò Peter con una pacca sul braccio e gli disse: - A domani Peter. Allora Barry Tamerlane ha una doppia vita, pensava Peter tornando a casa. Ogni mattina in un determinato punto del tragitto tra casa e scuola, il bambino si trasforma in un mostro, e la sera, il mostro ritorna bambino. Questi pensieri portarono Peter a fantasticare su pozioni e incantesimi che trasformano le persone; poi però, nelle settimane che seguirono la festa di compleanno, si scordò tutto quanto. È già un mistero che riusciamo a vivere circondati da tanti misteri, e in fondo l’universo è pieno di enigmi ben più straordinari di quello di Barry Tamerlane. Uno di questi enigmi aveva ingombrato la mente di Peter piuttosto spesso negli ultimi tempi. Camminando nel corridoio della scuola diretto alla biblioteca, aveva incrociato due ragazze delle classi alte. 39

Una delle due stava dicendo all’amica: - Ma come fai a sapere che adesso non stai sognando? Magari stai solo sognando di parlare con me. - Be’, - disse l’amica, - basta che mi dia un pizzico: se mi fa male, mi sveglio. - Ma prova a pensare, - disse la prima, - se stessi solo sognando di pizzicarti, e anche di aver sentito male. Potrebbe essere tutto un sogno e tu non lo sapresti mai... Svoltarono l’angolo e sparirono. Peter rimase a riflettere. Quell’idea era venuta in mente anche a lui, ma non era mai riuscito a formularla con altrettanta chiarezza. Si guardò intorno. Lui con il libro della biblioteca in mano, il corridoio grande pieno di luce, le aule che si aprivano a destra e sinistra, i bambini che uscivano: forse non c’era niente di vero. Forse erano solo il frutto dei suoi pensieri. Sul muro proprio accanto a lui c’era un estintore. Allungò una mano e lo toccò. Il metallo rosso era freddo al tatto. Era solido, reale. Come avrebbe potuto non esserci? E del resto, nei sogni le cose andavano esattamente così: tutto sembrava vero. Era solo svegliandosi che uno si rendeva conto di avere sognato. Come poteva essere sicuro di non averlo sognato quell’estintore, con la vernice rossa e la sensazione di freddo? Passavano i giorni e Peter pensava sempre di più a questo problema. Un pomeriggio si trovava in giardino e improvvisamente si rese conto che se il mondo che vedeva lo stava semplicemente sognando, allora era lui a determinare tutto quel che c’era dentro e che capitava. In alto un aereo aveva iniziato la fase di atterraggio. Il sole ne accese le ali di un luccichio d’argento. Tutta quella gente che adesso stava tirando su il sedile e mettendo da parte i giornali, non poteva avere idea di essere solo sognata da un ragazzino laggiù sulla terra. Allora, se un aereo precipitava era colpa sua? Che pensiero orribile! Comunque, se così fosse stato, tutti gli incidenti aerei non sarebbero stati veri, no? Sarebbero stati solo dei sogni. Ciononostante, Peter fissò l’aereo sulla sua testa e desiderò con tutte le forze che arrivasse sano e salvo in aeroporto. E così fu. Un paio di sere dopo, la mamma di Peter entrò in camera sua per augurargli la buona notte. Proprio nell’attimo in cui le labbra sfioravano la sua guancia, Peter ebbe un altro di quei pensieri. Se questo era un sogno, che ne sarebbe stato di sua madre al risveglio? Ce ne sarebbe stata un’altra, più o meno uguale, ma vera? Oppure una completamente diversa? O magari nessuna? Mrs Fortune 40

rimase piuttosto sconcertata, quando suo figlio le gettò le braccia intorno al collo e non voleva più lasciarla andar via. Coll’andar dei giorni, a furia di rigirarsi in testa quel pensiero, Peter finì per convincersi che la sua vita fosse probabilmente soltanto un sogno. C’era qualcosa di simile a un sogno nel modo in cui i bambini al mattino si riversavano tutti a scuola, e nel modo in cui la voce della maestra fluttuava nell’aria dell’aula, e nel fruscio che faceva la sua gonna, quando si dirigeva verso la lavagna. Ed era decisamente da sogno, il modo in cui la maestra gli si parava di fronte all’improvviso per chiedergli: - Peter? Peter? Mi ascolti? Stavi fantasticando di nuovo? Lui si sforzò di dirle la verità. - Credo di aver sognato che stavo fantasticando. L’intera classe scoppiò a ridere. Meno male che Mrs Burnett aveva un debole per lui. Gli passò una mano tra i capelli e disse: - Sta’ attento – Poi si avviò al fondo dell’aula. Fu dunque così che quel giorno durante la ricreazione, Peter si ritrovò da solo ai margini del cortile. Guardando, chiunque avrebbe visto un bambino vicino al muro che fissava lo sguardo nel vuoto, senza fare niente. In realtà, Peter pensava molto intensamente. Era stato sul punto di addentare la mela, quand’ecco un’altra delle sue idee brillanti. Un’illuminazione. Se la vita era un sogno, allora la morte doveva essere il momento in cui ci si sveglia. Era talmente semplice che non poteva non essere così. Uno moriva, il sogno era finito, e ci si svegliava. Ecco perché la gente parlava di paradiso. Era come svegliarsi. Peter sorrise. Stava quasi per concedersi la ricompensa di un morso di mela, quando sollevò lo sguardo e si ritrovò gli occhi puntati sulla faccia rosa e tondetta di Barry Tamerlane, il prepotente della scuola. Sorrideva, ma non aveva l’aria contenta. Sorrideva, perché voleva qualcosa. Aveva attraversato il cortile in diagonale, senza badare agli altri che giocavano a pallone, a campana e a saltare la corda. Tese molto semplicemente la mano e disse: - Voglio quella mela – Poi tornò a sorridere. Un raggio di sole illuminò l’argento del suo apparecchio. Dovete sapere che Peter non era un codardo. Una volta era sceso zoppicando da una montagna del Galles con una caviglia slogata, senza un solo lamento. E un’altra volta, si era gettato nel mare in 41

burrasca tutto vestito, per andare a salvare il cane di una signora dalle onde. Ma non aveva coraggio per le risse. Era più forte di lui. Era un ragazzino abbastanza robusto per la sua età, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a vincere facendo la lotta, perché non ce l’avrebbe fatta a colpire un altro sul serio. Quando in cortile scoppiava una rissa, e tutti i bambini si facevano intorno a vedere, a Peter veniva la nausea e gli tremavano le ginocchia. - Avanti, - disse Barry Tamerlane in tono ragionevole. - Passami quella mela, se non vuoi che ti disfi la faccia. Peter sentì il gelo salirgli dai piedi e diffondersi in tutto il corpo. La mela era gialla striata di rosso. La buccia era un po’ vizza, perché se l’era portata a scuola una settimana prima ed era rimasta nel banco tutto quel tempo, emanando un profumo dolce di legno. Valeva la pena di farsi disfare la faccia per così poco? Certamente no. E d’altra parte, era giusto cederla, solo perché un prepotente la voleva? Rivolse lo sguardo su Barry Tamerlane. Si era fatto un po’ più vicino. La sua faccia rotonda, da rosa era diventata rossa. Le lenti gli ingrandivano gli occhi. Una bollicina di saliva brillava sospesa tra il ferretto e uno dei denti davanti. Non era più grosso, e di sicuro, nemmeno più forte di Peter. - Dai Peter! Fagli vedere! - disse qualcuno inutilmente. Barry Tamerlane si voltò lanciando un’occhiata cattiva, e il ragazzino si rintanò in fondo alla folla. - Dai Barry! Tocca a te! - dicevano altre voci. A Barry Tamerlane non piaceva essere contrastato. Si stava preparando a menare le mani. Voltandosi di profilo, stava già tirando all’indietro un pugno. Teneva le ginocchia leggermente piegate e ondeggiava di qua e di là. Sembrava sapere il fatto suo. Altri bambini si radunavano in cerchio. Peter sentì l’annuncio diffondersi in tutto il cortile: - Si picchiano! Si picchiano! - Arrivava gente da tutte le direzioni. Peter si sentiva il cuore battere forte dentro le orecchie. L’ultima volta che si era trovato in una situazione del genere, lui era un gatto che poteva contare sui trucchi di un essere umano, questa volta non era così facile. Cercando di prendere tempo, si passò la mela da una mano all’altra e disse: - La vuoi davvero questa mela?

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- Hai sentito benissimo, - replicò Tamerlane con voce monotona. - Quella mela è mia. Peter osservò il bambino che si stava preparando a colpirlo e gli venne in mente la festa di compleanno di tre settimane prima, quando Barry era stato così affettuoso e cordiale. E adesso, eccolo li a fare tutte le smorfie possibili per sembrare cattivo. Che cosa gli faceva credere che quando era a scuola aveva il diritto di fare e di prendersi tutto ciò che voleva? Peter osò distogliere un attimo lo sguardo dall’avversario e vide il cerchio di facce spaventate che gli si accalcavano intorno. Gli occhi spalancati, le bocche appese. Tamerlane il terribile stava per mettere a terra un bambino e nessuno poteva farci granché. Che cosa rendeva tanto potente il roseo, il paffuto Barry? E all’improvviso, dal nulla, Peter trovò la risposta. Ma è ovvio, pensò. Siamo noi. Siamo noi che lo abbiamo sognato come il prepotente della scuola. Non è più forte di nessuno di noi. Tutta la sua forza e il potere, ce la siamo sognata noi. Noi abbiamo fatto di lui quel che è. Quando va a casa e nessuno gli crede se fa il prepotente, allora torna se stesso. Barry tornò a parlare. - È la tua ultima occasione. Dammi quella mela o preparati a fare un volo che ti porterà diretto dentro la settimana che viene. Per tutta risposta, Peter si portò la mela alla bocca e ne staccò un gran morso. - Vuoi sapere una cosa? - gli disse lentamente, senza smettere di masticare. - Io non ti credo. Anzi, se proprio vuoi saperlo, non credo nemmeno che tu esista. La folla trattenne il fiato, qualcuno azzardò una risatina. Peter sembrava talmente sicuro di sé. Magari era vero. Persino Barry aggrottò le ciglia e smise di ondeggiare. - Che cosa hai detto? La paura di Peter era scomparsa del tutto. Se ne stava in piedi di fronte a Barry e gli rivolgeva un sorriso, come se avesse pietà del suo non esistere. Dopo settimane di elucubrazioni intorno alla natura di sogno della vita, Peter aveva deciso che nel caso del prepotente Barry le cose stavano sicuramente così, e che perciò, se anche l’avesse colpito in faccia con tutta la forza che aveva, non gli avrebbe fatto più male di quanto poteva fargliene un’ombra. Barry si era ripreso e si preparava a combattere. Peter staccò un altro morso di mela. Mise la faccia vicina a quella di Barry e lo squadrò come se avesse di fronte una vignetta buffa disegnata sul muro. 43

- Tu non sei altro che un grasso budino rosa... coi denti di ferro. Ci fu uno scroscio di risa tra la folla che si diffuse, differenziandosi in risolini, sghignazzi e grida. I bambini si davano di gomito, battendosi sulle ginocchia. Fingevano, naturalmente. Ciascuno voleva dimostrare agli altri che gli era passata la paura. Frammenti di quell’insulto rimbalzarono di bocca in bocca: Budino rosa... denti di ferro... un budino coi denti! - Peter sapeva di aver detto una crudeltà. Ma che importanza poteva avere? Tanto Barry non era vero. Adesso appariva di un bel rosa acceso, più di qualunque budino mai visto. Chissà come odiava essere li. Peter incalzò, prima che l’altro recuperasse la rabbia. - Sono stato a casa tua. Ti ricordi? Per il tuo compleanno. Tu sei un bambino normale, tranquillo. Ti ho anche visto aiutare tua mamma a lavare i piatti... - Aaaaaaah, - fece eco la folla accompagnando l’esclamazione con una nota di caloroso disprezzo. - Non è vero, - vomitò Barry. Aveva gli occhi lucidi. - E poi ho guardato in camera tua e ho visto l’orsacchiotto ben rincalzato sotto le coperte. - Aaaaaaah, - gridò la folla, procedendo dalla sorpresa al più sincero sberleffo. Uuuuuuuuh! Piccolino... pisciasotto... dorme soltanto con l’orsacchiotto... aaaaah. Va da sé che non c’era uno solo tra i presenti che non nascondesse una segreta passione per qualche vecchio animale di pezza malconcio e che non se lo coccolasse tutte le notti. Ma che soddisfazione, scoprire che il prepotente non era da meno. E’ probabile che Barry Tamerlane avesse ancora in mente l’idea di picchiare Peter. Con il crescere delle grida di scherno, la sua mano si sollevò in un pugno poco convinto. E proprio a quel punto accadde una cosa terribile. Barry si mise a piangere. Inutile far finta di niente. Le lacrime gli correvano ai lati del naso senza che lui riuscisse a controllarle. Sussultava con tutto il corpo e di tanto in tanto tirava su un po’ d’aria per respirare. Ma la folla non ebbe pietà. - Oh poverino, vuole la mamma... - No, l’orsacchiotto... - Uuuuuuuh. Che vergogna... 44

Ormai il pianto era tanto dirotto che Barry non ebbe neppure la forza di allontanarsi. Rimase li, in mezzo al cerchio degli altri bambini, a piangersi e a smoccolarsi dentro le mani. Erano tutti e tutto contro di lui. Nessuno gli credeva più. La bolla del sogno era scoppiata facendo svanire anche il prepotente di prima. A poco a poco risa e battute si spensero in un silenzio imbarazzato che contagiò la folla. I bambini incominciarono ad allontanarsi per tornare a giocare. Una maestra attraversò di corsa il cortile, cinse col braccio le spalle del ragazzino rimasto solo e lo portò via, dicendo: - Povero caro! Qualcuno ti ha fatto un dispetto? Per il resto di quella mattina in classe, Barry rimase muto. Si ingobbì sul quaderno senza più alzare gli occhi per non incontrare lo sguardo degli altri. Sembrava che stesse cercando di farsi più piccolo, di sparire magari. Peter, al contrario, si sentiva pieno di sé. Rientrò dal cortile e prese posto nel banco, proprio dietro a Barry, facendo finta di ignorare le strizzatine d’occhi e i sorrisi riconoscenti che lo circondavano. Aveva messo al tappeto quel prepotente senza bisogno di alzare un dito, e quasi tutta la scuola lo aveva visto. Era diventato un eroe, un conquistatore, superman. Non c’era impresa impossibile per la sua intelligenza superiore e per la sua astuzia. Ma col passare delle ore, incominciò a sentirsi vagamente diverso. Le parole che aveva detto si misero a ossessionarlo. Le aveva dette davvero? Non poté non notare la sagoma ricurva di Barry Tamerlane davanti a lui. Peter si chinò e gli batté sulla schiena con il righello. Ma Barry scosse la testa e non rispose... Peter trasalì al ricordo di quel che aveva detto. Si sforzò di far mente locale su tutte le atrocità commesse da Barry. Cercò di concentrarsi sulla sua vittoria, ma non provava più alcuna soddisfazione. Si era preso gioco di Barry solo perché era grasso e portava l’apparecchio e aveva un orsacchiotto e aiutava sua mamma a lavare i piatti. Certo, aveva voluto difendersi e dare una buona lezione a Barry, ma aveva finito col trasformarlo in un oggetto di scherno per tutta la scuola. Le sue parole gli avevano fatto molto più male di qualsiasi pugno sul naso. Lo avevano umiliato. E adesso il prepotente chi era?

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Uscendo per l’intervallo del pranzo, Peter appoggiò un biglietto sul banco di Barry. C’era scritto, «Ti va di giocare a pallone? PS. Ce l’ho anch’io un orsacchiotto e devo sempre aiutare mia madre a lavare i piatti. Peter». Barry era terrorizzato al pensiero di dover affrontare gli altri nell’intervallo, perciò accettò volentieri. I due ragazzini organizzarono una partita e vollero a tutti i costi essere messi nella stessa squadra. Si aiutarono a segnare, e uscirono dal campo tenendosi sottobraccio. Non aveva più senso continuare a prendere in giro Barry. Lui e Peter divennero amici, non proprio del cuore, ma amici, comunque. Barry appese in camera sua il biglietto che Peter gli aveva scritto, e del prepotente, come succede con i brutti sogni, ci si scordò presto.

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Il Ladro

La gente del quartiere non faceva che parlarne. Mesi prima il ladro aveva svaligiato una casa in fondo alla strada. Era entrato chissà come passando per una finestra posteriore, in pieno sole, a metà pomeriggio, quando nessuno era in casa. E se l’era svignata con coltelli e forchette e un quadro. Adesso stava risalendo la via alternando i due lati di villa in villa. Che coraggio! si diceva in giro. Lo prenderanno di sicuro. Ieri sera è toccato al numero otto, la prossima settimana sarà la volta del nove. E invece no, quello aspettava tre settimane, o magari anche quattro, e poi saltava direttamente all’undici. Poi tornava subito il giorno dopo e svaligiava il numero dodici. Rubava televisori, videoregistratori, computer, soprammobili, gioielli. Sapeva far saltare le serrature, arrampicarsi sulle grondaie, disinserire impianti antifurto, sfilare i fermi dalle finestre, ammansire cagnacci rabbiosi, e filarsela con il bottino in pieno giorno senza farsi notare. Era un mago, un maestro del furto. Invisibile, silenzioso, leggero. Non lasciava orme in giardino, né impronte digitali sulle maniglie delle porte. La polizia era sconcertata. Due agenti in borghese vennero a pattugliare la via a bordo di una automobile. Lo sapevano tutti. I due uomini se ne stavano seduti a fare parole incrociate e a mangiare panini, finché la centrale non li richiamava per qualche lavoro più urgente. Mezz’ora dopo, il rapinatore colpiva di nuovo, portando via questa volta una scatola di saponette costose e un bastone da passeggio con il pomo in argento dall’appartamento di Mrs Goodgame, quella vecchia piena di soldi e coi denti gialli all’in fuori che abitava da sola. Il bastone era del suo bisnonno, un missionario famoso per la sua ferocia. Lo usava per picchiare i bambini africani che non studiavano il catechismo. - Aveva un enorme valore affettivo! - si lamentò Mrs Goodgame quando passò a casa di Peter per raccontare la disgrazia a sua madre. - Aveva fatto il giro del mondo tre volte, nel secolo scorso. E le mie saponette, ci tenevo tanto! -

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Sono proprio contento che si sia preso quel bastone puzzolente, - disse Peter a Kate dopo che Mrs Goodgame fu andata via. - Spero solo che il ladro lo faccia a pezzi. Kate annuiva convinta. - Avrebbe dovuto prenderle anche i denti! - Il fatto è che Mrs Goodgame, a dispetto del nome che faceva ben sperare, non era amata dai bambini della via. Era infatti uno di quei rari infelici adulti profondamente irritati dal fatto che i bambini esistono. Se giocavano fuori, lei si metteva a starnazzare dalla finestra di «andarsene da davanti a casa sua». Era persuasa che tutte le cartacce portate dal vento nel suo giardino, fossero state gettate apposta da qualche bambino dispettoso. Se una palla o un giocattolo, finiva sul suo prato, lei si precipitava fuori e li confiscava. Era sempre di cattivo umore, e a peggiorare le cose c’era il fatto che i bambini la prendevano in giro. Farla arrabbiare era uno spasso per tutti. I genitori di Peter dicevano che era un po’ suonata e meritava compassione. Loro si sforzavano sempre di trattarla con gentilezza. Ai bambini però riusciva difficile commuoversi per una vecchia dalle zanne gialle che non faceva altro che rincorrerli nella via. Ecco perché Peter non fu poi tanto dispiaciuto quando sparirono le saponette e il bastone di Mrs Goodgame. Incominciava anzi a nutrire un certo rispetto per quel ladro. Decise di dargli un soprannome: Sam Saponetta. Ci voleva un bel fegato a prendere di mira tutta una strada e a lavorarsela casa dopo casa, in ordine numerico. Sembrava non chiedesse altro che di essere incastrato! Passarono i mesi, fu ripulito qualche altro alloggio. I numeri quindici, diciannove, ventidue, ventisette. Non c’era alcun dubbio ormai. Sam Saponetta si avvicinava al trentotto, casa di Peter. Questi dal canto suo trascorreva ore e ore con carta e matita a tirar giù calcoli. Per quanto era in grado di determinare, il ladro non seguiva uno schema nella scelta dei numeri, ma se fosse venuto anche da loro, ci si doveva aspettare che lo facesse nel giro di un paio di settimane. Poteva anche darsi che casa loro fosse tra quelle risparmiate. In quel caso, Peter sapeva che sarebbe rimasto deluso. Senza farne parola con nessuno, aveva deciso che a prendere Sam Saponetta doveva essere lui. Il fine settimana che precedette la presunta visita di Sam Saponetta, Thomas e Viola Fortune organizzarono dei preparativi. Thomas Fortune assicurò le finestre 48

trapanando lunghe viti dentro gli infissi. Irrobustì le serrature alla porta d’ingresso e a quella di servizio e mise un lucchetto al cancello sul lato della casa. Cercò di installare un rudimentale antifurto, ma si pestò un dito con il martello mentre passava il filo elettrico sul muro, il che lo mise di pessimo umore. Anche perché l’antifurto non funzionava. Non c’era tempo di farne installare uno vero che, in ogni caso, non sarebbe di certo bastato a fermare Sam Saponetta. Viola Fortune si portò in casa i suoi attrezzi da giardinaggio. Girava di stanza in stanza raccattando quadri, suppellettili, lampade e libri rari che poi chiudeva a chiave dentro gli armadi in soffitta. Peter e Kate nascosero tutti i giocattoli preferiti sotto i rispettivi letti. A vederli, si sarebbe detto che aspettassero l’arrivo di un uragano, una tromba d’aria, un tifone in grado di strappare via tutto quello che avevano. In realtà si trattava soltanto di un vecchio ladruncolo dotato di un certo talento. Sarebbe stato più intelligente di Peter però? Il bambino incominciò a preparare la propria offensiva. Il suo primo problema era questo: per prendere il ladro, bisognava essere in casa al momento del furto, il che implicava non andare a scuola. Poteva fingersi ammalato, ma doveva essere molto cauto. E dosare il malessere alla perfezione. Bastava esagerare anche di poco per rischiare di ritrovarsi uno dei genitori a casa per occuparsi di lui. A quel punto Sam Saponetta avrebbe capito che c’era gente in casa e si sarebbe spostato più in là. D’altra parte, se non fosse riuscito a sembrare abbastanza malconcio, lo avrebbero spedito a scuola con una giustificazione che lo esonerava dalle attività sportive. Doveva calcolare il giusto, in modo da poter rimanere in casa da solo. La buona Mrs Farrar della casa accanto, sarebbe venuta a vedere come stava più o meno ogni ora. Di pomeriggio, quando tornava da scuola, si chiudeva a chiave in camera sua e faceva le prove di invalidità. Dal momento che voleva apparire pallido, pensò di spolverarsi la faccia di farina. Quello che vide nello specchio pareva un cadavere tornato tra i vivi. Masticò semi di peperoncino per farsi salire la febbre. La cosa funzionava anche troppo bene: bocca e gola gli andarono in fiamme e la temperatura salì alle stelle. In quel modo lo avrebbero portato d’urgenza in ospedale. Forse una caviglia slogata faceva più al caso suo. Provò a zoppicare su e giù per i pochi metri della sua camera. Dava più l’impressione di un bambino che stia per trasformarsi in un granchio. 49

Stava ancora mettendo a punto la sua malattia tre giorni dopo, quando sua madre gli diede la notizia. I signori Baden Baden che stavano al numero trentaquattro, avevano subito un furto. Proprio due mesi prima avevano speso una fortuna per farsi installare l’ultimo ritrovato in fatto di antifurti, di quelli con i segnalatori rossi e blu, il sensore acustico e la sirena. Sam Saponetta pareva essere passato attraverso i muri di casa loro per portarsi via una racchetta da tennis del sedicesimo secolo con tanto di teca di vetro, e uno sgabello da pianoforte tutto tarlato sul quale si diceva si fosse seduto Mozart per due minuti, all’età di cinque anni. - Non è incredibile? - commentò Viola Fortune. - È strabiliante, - ammise Peter. Ma appena sua madre si allontanò, sferrò in aria un pugno per dare sfogo all’emozione. Sam Saponetta stava arrivando. Peter non aveva alcuna ragione di credere che casa sua, il trentotto, sarebbe stata la prossima. Se ne era convinto solo perché desiderava che succedesse, e tanto bastava. Del resto non poteva neppure sapere con esattezza quando sarebbe stato il prossimo furto. Ma si era fatto l’idea che Sam Saponetta avrebbe colpito ancora nel giro di quattro o cinque giorni. Ora, mentre faceva preparativi riguardo alla malattia, Peter si andava anche chiedendo come avrebbe fatto a incastrare il ladro. Fantasticò ogni genere di soluzione, dai trabocchetti, a una rete calata dal soffitto, un lingotto d’oro coperto di un collante micidiale, dei cavi elettrici collegati alle maniglie delle porte, la pistola giocattolo, le freccette avvelenate, il lazo, un sistema di carrucole, corde, martelli, molle, lampade alogene e cani feroci, schermi a raggi infrarossi, sistemi laser, corde da pianoforte e il forcone da giardino. Ma Peter non era un incompetente. Sapeva benissimo che ciascuna di quelle idee poteva funzionare, ma si rendeva anche conto che un bambino di undici anni quasi sicuramente non sarebbe stato in grado di servirsene. Quel sabato rimase a letto a pensare. E si ritrovò a fissare la vecchia tana del topolino nello zoccolo di legno accanto al suo letto. I topi non c’erano più da un pezzo, e il foro pareva allungarsi anche nel muro, per scendere fin sotto le assi del pavimento. Poi osservò la mensola sulla quale conservava quanto di più prezioso possedeva e all’improvviso ebbe la soluzione del caso. Comunque, doveva trattarsi di una cosa semplice. Da una parte c’era la tana di un topolino, e dall’altra il suo 50

regalo del compleanno precedente che pareva guardarlo e ripetergli: «Usami, usami». Sedette alla scrivania, prese un foglio di carta e con mano tremante scrisse una breve lettera, forse la più importante della sua vita. Poi la sigillò in una busta sulla quale annotò qualche parola, e infine scese a posarla sul tavolino dove la mamma teneva tutte le bollette di casa. La sistemò in modo che non si vedesse subito, ma si potesse trovare senza difficoltà. In stampatello sopra la busta era scritto: da leggersi in caso di morte improvvisa. Viola

Fortune

andava

piuttosto

orgogliosa

della

propria

capacità

di

comprendere i figli. Ne conosceva gli umori, le debolezze, le ansie e tutto il resto assai meglio degli stessi interessati. Ad esempio, sapeva quando Peter e Kate erano stanchi, ben prima che lo sapessero loro. E sapeva quando avevano la luna storta, anche se a loro pareva il contrario. Quella domenica sera, non mancò di notare che Peter ci aveva messo un po’ più del solito a scendere a cena, che aveva mangiato tutto, ma facendo uno sforzo che, se a tutti gli altri era passato inosservato, a lei non era sfuggito davvero. Inoltre, quando gli aveva chiesto se ne volesse ancora, aveva fatto fatica a trattenere una smorfia di sincero disgusto. Va detto peraltro che quella sera c’era bistecca con patatine fritte annegate nella rubra. - Peter, tesoro, sei sicuro di star bene? - Sto benissimo, - disse lui, con un sospiro e passandosi la mano sulla faccia. - Credo che faresti bene a coricarti un po’ presto, stasera, - disse Viola. - Io non credo invece, - disse Peter, ma sua madre non mancò di notare che aveva pronunciato quelle parole senza l’enfasi consueta. E alla richiesta di mettersi in pigiama dopo cena, Peter si limitò a opporre una resistenza simbolica. Quando Viola andò a sbirciare in camera sua venti minuti più tardi, lo trovò già addormentato. A me non la racconta, pensò allontanandosi in punta di piedi. Lo sapevo che non stava bene. Peter restò sveglio nel letto fino a mezzanotte a far progetti. La mattina successiva sua madre trovò conferma alle proprie previsioni: il ragazzo era pallido e svogliato. Gli misurò la temperatura. Niente di serio, ma andare a scuola era fuori questione, per quanto lui insistesse di sentirsi bene. Poteva comunque

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leggere e guardare la Tv, perciò si presero i soliti accordi con Mrs Farrar. E Peter fu sistemato sul divano in soggiorno. - Non va neppure male che la casa sembri occupata, - disse suo padre quando andò a salutarlo. - Tieni il volume della televisione ben alto. Se non altro terrai lontano il ladro. Uscirono tutti. Peter spense il televisore e si acquattò sotto la coperta, in ascolto di quegli scricchiolii e quei sussurri di una casa che si prepari ad accogliere il silenzio. Non si aspettava ancora l’irruzione, non certo alle nove e mezza del mattino. Era certissimo che i ladri non si alzassero di buon’ora. Con ogni probabilità Sam Saponetta si buttava giù dal letto a mezzogiorno e consumava una stanca colazione, preparando il colpo successivo tra una tazza e l’altra di caffè nero, e leggendo i giornali per informarsi sull’eventuale arresto di qualche vecchio amico. Come previsto, la mattinata trascorse tranquilla. Mrs Farrar fece un salto a trovarlo e gli portò qualche biscotto fatto in casa. Peter guardò la Tv, lesse, controllò l’equipaggiamento e vagò per casa spegnendo un paio di luci e tirando le tende del soggiorno in modo da non poter essere visto dall’esterno. La casa appariva deserta dalla strada. Incominciava a sentirsi inquieto. Consumò il pranzo che la mamma gli aveva lasciato pronto, anche se non aveva fame. Non ne poteva più di televisione e di libri, ma soprattutto, non ne poteva più di aspettare. Si aggirò per le stanze. Diede qualche sbirciatina dalle finestre. La via era deserta, manco un ladro a pagarlo. Forse era stato tutto uno stupido errore. Forse avrebbe fatto meglio ad andare a scuola con i suoi amici. Avendo cura di portarsi appresso il materiale anti-ladro, Peter andò di sopra, in camera sua. Da quella finestra godeva di una buona visuale della strada in entrambe le direzioni. Nessuno, niente, nemmeno uno straccio di macchina di passaggio. Si sdraiò sul letto sospirando deluso. Dar la caccia ai ladri doveva essere un’attività emozionante, e questa invece era la giornata più vuota e cretina che mai gli fosse accaduto di vivere. Recitare la parte del malato e oziare tutta la mattina gli avevano messo addosso una stanchezza... Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare alla deriva. Non si trattò esattamente di sonno, piuttosto di un vago dormiveglia. Sapeva bene di essere sdraiato sul letto, e sentiva i rumori esterni provenire dalla finestra aperta. Dapprima uno 52

scalpiccio, che da lontano pareva avvicinarsi. Poi un suono secco, uno strusciare di metallo sulla pietra, anche questo sempre più distinto, prima di cessare del tutto. Peter era abbastanza sveglio da sapere che avrebbe proprio dovuto sforzarsi di aprire gli occhi. Doveva alzarsi e andare a chiudere la finestra. Ma stava tanto bene dov’era. Al posto del corpo gli pareva di avere un pallone morbido e pesante, pieno d’acqua. Faceva fatica persino a muovere le palpebre. Ecco un altro rumore che arrivava da fuori, esattamente da sotto la sua finestra, un lieve tonfo ritmico e sommesso, come di passi, ma dei passi lenti di qualcuno che stia salendo una scala. E un ansimare affannoso e irritato che si faceva più forte, sempre più forte... Peter tornò in sé e aprì gli occhi. Il suo campo visivo fu totalmente occupato dalla finestra aperta. Scorse l’estremità di una scala a pioli metallica appoggiata al davanzale, e una mano vecchia e rugosa, seguita dalla sua compagna, che si aggrappavano alla sponda interna. Peter sparì tra i cuscini. Era troppo terrorizzato per ricordare i suoi grandi progetti. Tutto quello che gli riuscì di fare fu tenere gli occhi sgranati. La cornice della finestra inquadrò una testa e un paio di spalle. La faccia era coperta da una sciarpa a quadri e da un berrettone nero. La sagoma restò immobile per un momento, scrutando dentro la stanza senza vedere Peter. Poi incominciò a scavalcare la finestra dando in grugniti e imprecando a bassa voce finché non fu tutta dentro e diede un’occhiata generale alla camera, ancora senza notare Peter il quale del resto se ne stava talmente fermo da poter senz’altro sembrare una figura stampata sul copriletto. Il ladro si cacciò in tasca una mano, estrasse un paio di guanti neri e se li infilò in tutta fretta. Poi si tolse la sciarpa e sollevò il berretto. Ma non era un uomo. Peter non credeva ai propri occhi. Si lasciò sfuggire un grido di stupore. Il ladro si rivolse a lui senza mostrare sorpresa. - Mrs Goodgame! - esclamò Peter con un filo di voce. Quella gli restituì un bel sorriso giallognolo, inarcando le sopracciglia. - Già. Ti avevo visto mentre salivo. Mi chiedevo quanto ci avresti messo a riconoscermi. - Ma non le avevano svaligiato la casa la settimana scorsa? Lei lo guardò, commiserando tanta ingenuità. - Ha fatto finta, così nessuno avrebbe sospettato di lei...

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La donna annui compiaciuta. Come ladra, sembrava molto più allegra. - Bene, hai intenzione di lasciarmi fare il mio lavoro e di tenere la bocca chiusa, o credi che sarò costretta a ucciderti? Mentre gli rivolgeva questa domanda di capitale importanza, già si aggirava nella camera guardandosi intorno. - Non c’è davvero granché da queste parti. Ma quello, lo prendo, comunque. E afferrò da una mensola un modellino in scala della Torre Eiffel che Peter si era comprato a Parigi durante una gita scolastica. L’oggetto sparì nella sua tasca. Fu a questo punto che Peter ricordò il piano. Prese la macchina fotografica dal tavolino da notte e chiamò Mrs Goodgame con voce pacata. Mentre lei si voltava interrompendo l’esame dei suoi giocattoli, il flash le scattò proprio in faccia. Una, due, tre volte. E subito Peter riavvolse la pellicola. - Ehi, marmocchio, dammi subito quella macchina. Subito, ho detto - Su quelle ultime parole, la sua voce si levò in un falsetto stridulo. Protese una mano tremante di rabbia. Peter sfilò la pellicola. Mentre le consegnava la macchina fotografica, si piegò sul bordo del letto e fece rotolare il rullino nella tana del topo. - Si può sapere che stavi facendo, ragazzo? La macchina è vuota. - Esatto, - disse Peter. - E adesso le foto sono laggiù. Non riuscirà mai a prenderle. In un gran scricchiolio di ginocchia, Mrs Goodgame si chinò a guardare. Poi si rizzò trafelata e di pessimo umore. - Uffa! - esclamò distratta, hai ragione. A quanto pare dovrò proprio ucciderti - E a queste parole estrasse una pistola e la puntò alla testa di Peter. Lui si ritirò contro il muro. - Preferirei non morire, - disse. - Ma se proprio insiste, c’è una cosa che deve sapere prima. Mi pare giusto dirglielo. Mrs Goodgame sfoderò il solito sorriso giallo e antipatico. - Sbrigati, allora. Peter parlò molto in fretta. - Da qualche parte in questa casa c’è una busta con su scritto: da leggersi in caso di morte improvvisa; dentro c’è scritto che nella tana del topo si trovano le fotografie del ladro che è poi l’assassino. Avranno bisogno di un palanchino e un martello da fabbro, ma sono certo che si daranno la pena di farlo.

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Ci volle un minuto buono prima che Mrs Goodgame incamerasse tutte queste informazioni, e per tutto il tempo non abbassò la pistola dalla tempia di Peter. Alla fine lo fece, pur senza ritirare l’arma del tutto. - Molto ingegnoso, - replicò brusca. - Ma il piano fa acqua da tutte le parti. Se ti sparo, troveranno le foto e mi prenderanno. Ma se non ti sparo, tu consegnerai le fotografie alla polizia e mi prenderanno ugualmente. Perciò, tanto vale che ti tolga di mezzo e mi diverta un po’ anch’io. Sarà il tuo castigo per avermi reso la vita tanto difficile. Uno scatto sonoro annunciò che aveva tolto la sicura e la pistola tornò ad alzarsi all’altezza della testa di Peter. Il ragazzo si liberò a fatica dalle coperte cercando di tenere le mani in alto. Non era facile. Non aveva proprio voglia di farsi sparare. Mancavano poche settimane al suo compleanno e sperava tanto nella bicicletta nuova. - Aspetti, Mrs Goodgame, - farfugliò. - Avevo pensato anche a questo. Se lei mi promette che smetterà di rubare, e che restituirà le cose che ha preso, io cercherò di tirare fuori il rullino e lo consegnerò a lei. Le do la mia parola. La donna socchiuse gli occhi considerando il da farsi. - Uhmm. Non sarà facile, sai, restituire tutta quella roba. - Potrebbe ad esempio girare di notte e lasciarla davanti alle porte. Mrs Goodgame ritirò la pistola. E Peter abbassò le braccia. - Sai cosa? - disse lei suadente. - È che speravo di arrivare al fondo della via. Non si potrebbe magari... - Mi dispiace, - disse Peter. - La faccenda deve finire adesso. È la mia ultima offerta. Se non le sta bene, allora proceda pure, mi spari. Lei si voltò e parve esitare. Per un momento di angoscia, Peter pensò che avrebbe fatto esattamente così. Invece, tirò fuori la sciarpa e se la avvolse intorno alla bocca, prima di abbassarsi il berretto. Si diresse alla finestra e uscì. - Sai, mi sono divertita come una matta in questi ultimi mesi. Adesso mi toccherà ricominciare a prendermela coi bambini. - È vero, - replicò Peter gentile. - Per quello non la possono arrestare. Gli rivolse un ultimo sorriso giallognolo, e poi sparì. Peter sentì lo scricchiolio dei suoi passi sui pioli e il rumore metallico della scala staccata dal muro. Sedette

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sul bordo del letto con la testa tra le mani e sospirò. Ecco che cosa voleva dire cavarsela per un pelo. Stava ancora seduto in questa posizione, quando udì dei passi pesanti su per la scala. La porta si spalancò e suo padre si avventò accanto a Peter prendendogli una mano. - Grazie a Dio stai bene, - disse Thomas Fortune trafelato. - Sì, - replicò Peter. - È stato proprio... - Tu eri qui che dormivi tranquillo, - diceva suo padre. - Meno male. Non hai sentito niente. Si è portato via il televisore, la coperta e tutte le saponette del bagno. Ha fatto un foro nel vetro di una finestra e poi ha sfilato le viti... Mentre il padre continuava a raccontare, Peter fissava la tana del topo. Nel corso dei giorni che seguirono, gli capitò di trascorrere ore sdraiato sulla pancia a perlustrare il buco con un attaccapanni di fil di ferro aperto in tutta la sua lunghezza. Ogni volta che incontrava Mrs Goodgame in strada, lei fingeva di non conoscerlo. Non mantenne affatto la parola: la refurtiva non fu restituita e nel frattempo i furti procedevano di casa in casa lungo tutta la via. L’avrebbero messa in prigione, se soltanto fosse riuscito a trovare quelle fotografie, per questo non si dava per vinto e armeggiava con il fil di ferro. Ma il rullino non saltò mai più fuori, come del resto la sua torre Eiffel.

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Il Piccolo

Era un pomeriggio di primavera con la cucina piena di sole, quello in cui Peter e Kate vennero a sapere che la zia Laura sarebbe venuta a vivere per un poco da loro con il piccolo Kenneth. La notizia non fu accompagnata da alcuna spiegazione, ma dallo sguardo solenne di mamma e papà era chiaro che la zia doveva avere qualche problema. - Laura e il piccolo si sistemeranno nella tua stanza, Kate, - disse la mamma. Tu dovrai trasferirti da Peter. Kate annui con aria compresa. - Ti sta bene, Peter? - chiese suo padre. Peter scrollò le spalle. A quanto pare non aveva scelta. E così la faccenda era sistemata. In realtà, Peter non vedeva l’ora che Laura arrivasse. Era la più piccola dei numerosi fratelli e sorelle di sua madre e a lui era sempre piaciuta. Amava il pericolo e faceva ridere. Una volta l’aveva vista in un luna park fuori città lanciarsi da una gru alta più di cinquanta metri attaccata solo a una corda elastica. Si era scaraventata giù dal cielo e un attimo prima di spiaccicarsi sul prato, l’elastico l’aveva sparata di nuovo in aria con un lungo grido di terrore euforico. Kate traslocò nella stanza di Peter, portandosi l’ultimo gioco, una scatola da prestigiatore con tanto di bacchetta magica e libro di incantesimi. Non mancò inoltre di farsi seguire da un ridotto manipolo di una trentina di bambole. Il giorno stesso la casa fu invasa da una montagna di equipaggiamento da neonato: culla, seggiolone, box, carrozzella, passeggino, girello, una seggiolina a dondolo e quattro grandi borse piene di vestiti e giocattoli. Peter si insospettì. Come faceva una persona piccola ad avere bisogno di tutto quell’armamentario? Kate invece non stava più nella pelle dalla gioia. Non l’aveva mai vista così, nemmeno la sera di Natale. I bambini ebbero il permesso di rimanere alzati fino a tardi per dare il benvenuto agli ospiti. Il piccolo arrivò addormentato e lo sistemarono subito sul divano. Kate gli si inginocchiò accanto come se fosse in chiesa e, tra un sospiro e 57

l’altro, non gli tolse più gli occhi di dosso. Laura sedette al lato opposto della stanza e si accese una sigaretta con mani tremanti. A Peter bastò uno sguardo per capire che non era in vena di avventure né di risate. Sembrava che avesse soltanto voglia di fumare. Ai commenti e alle domande gentili della mamma, replicava a monosillabi, voltando il capo bruscamente di qua e di là per soffiare via il fumo senza dare fastidio ai presenti. Per alcuni giorni, Laura si fece vedere ben poco, ma il piccolo Kenneth fu molto presente. Peter si meravigliò che una persona così piccina potesse occupare tanto spazio. Nell’ingresso c’erano carrozzella e passeggino, in soggiorno, tutti ammassati, il box, la sdraietta, il girello e un mucchio di giocattoli, mentre in cucina, il seggiolone bloccava l’accesso allo sportello dell’armadietto che conteneva i biscotti. Per non parlare di Kenneth, che era dappertutto. Era uno di quei bambini talmente veloci quando gattonano, da non aver niente da guadagnare imparando a camminare. Si spostava sulla moquette a velocità inquietante, come un carroarmato. Apparteneva alla categoria dei bambini sbudinfi, di quelli con il mascellone quadrato che sostiene la faccia umidiccia di un rosa eccessivo, con occhi vispi e decisi e un paio di narici che si allargavano quanto quelle di un lottatore sumo se non otteneva subito ciò che voleva. Kenneth era un rapace. Il suo caldo pugnetto bagnato si avventava su qualunque oggetto non troppo lontano e sollevabile, che subito veniva trasferito alla bocca. Era un vizio sconcertante. Cercò di mangiarsi il pilota dell’aereo che Peter stava montando. E dello stesso aereo masticò anche le ali. Si divorò i quaderni di Peter. Smangiucchiò le matite, il righello e i libri. Poi gattonò fino alla stanza da letto e cercò di rosicchiare anche la macchina fotografica che Peter aveva ricevuto per il suo compleanno. - Questo qui è pazzo! - strillò Peter asciugando la macchina fotografica mentre sua madre portava via Kenneth. - Se solo riuscisse, si mangerebbe anche tutti noi. - E’ solo una fase, - disse Kate saggia. - Ci siamo passati tutti - Anche quel tono pacato da so-tutto-io che sua sorella aveva assunto dall’arrivo di Kenneth incominciava a dargli sui nervi. Lo aveva preso dalla mamma. In realtà era chiaro come il sole che quel bambino era un disastro. Il momento peggiore era quello dei 58

pasti. Kenneth aveva il dono di trasformare il cibo in una orrenda poltiglia. Se lo strizzava tra le dita fino a farlo gocciolare come colla che poi gli scendeva giù per le braccia, o gli imbrattava la faccia, i vestiti e tutto il seggiolone. A Peter la sola vista di quello spettacolo faceva girare lo stomaco. Si era ridotto a mangiare a occhi chiusi. Per di più la conversazione era impossibile, perché il piccolo strillava da spolmonarsi a ogni intervallo tra una cucchiaiata e l’altra. Kenneth aveva preso possesso della casa. Non c’era più un solo angolo al riparo da urla, odori, risate da iena ridens e manine fulminee. Svuotava armadietti e scaffali, strappava riviste, faceva cadere lampade e rovesciava intere bottiglie di latte. E sembrava che nessuno ci facesse caso. Anzi, tutti quanti da sua madre alla zia, da sua sorella a suo padre, davano in gridolini estatici a ogni rinnovarsi della catastrofe. Le cose raggiunsero il massimo un tardo pomeriggio, dopo la scuola. Era estate fatta, ma continuava a piovere e a fare freddo. Kate se ne stava sdraiata sul letto a leggere. Peter era inginocchiato sul pavimento. A scuola c’era un’ondata di entusiasmo per le partite di biglie e lui andava fortissimo. Il giorno prima aveva vinto a un altro bambino la biglia più bella che avesse mai visto, una Gemma Verde. Era quasi la più piccola e pareva brillare di luce propria. In quel momento la stava usando: la faceva rotolare sulla moquette verso la biglia arancione che gli serviva sempre da bersaglio negli allenamenti. La Gemma Verde aveva appena lasciato la sua mano, quand’ecco il testone pelato di Kenneth fare capolino dietro la porta. La biglia rotolò verso di lui che subito le mosse incontro con fare ingordo. - Kenneth, no! - gridò Peter. Ma era troppo tardi. Il piccolo agguantò la biglia e se la fece sparire in bocca. Peter si precipitò carponi verso di lui, deciso a spalancargli le ganasce. Poi si fermò. Ciò che era accaduto gli apparve in tutta la sua orrenda chiarezza. Il piccolo sedeva perfettamente immobile. Per un attimo gli si sgranarono gli occhi e un’espressione di sorpreso fastidio gli attraversò la faccia. Poi strizzò le palpebre una, due volte e infine rivolse a Peter un bel sorriso. - Oh, no! - esclamò Peter con un fil di voce. L’ha ingoiata. - Che cosa? - domandò Kate senza alzare gli occhi dal suo libro di incantesimi. - La mia Gemma Verde, la biglia che ho vinto ieri. Kate mise su il solito tono calmo del genere so-tutto-io. - Ah, quella. Non mi sembra preoccupante. È piccola piccola e liscia. Non credo che possa fargli male. 59

Peter rivolse un’occhiata di fuoco al piccolo Kenneth che intanto si contemplava tranquillo una mano. - Me ne infischio di lui. Io voglio la mia biglia. - Nessun problema, - disse Kate, - uscirà dall’altra parte. Peter rabbrividì. - Grazie tante. Kate richiuse il libro. Si chinò a fare il solletico al piccolo. Lui rise e si diresse verso il suo letto. Sai che cosa penso? - chiese lei. Peter non rispose. Tanto glielo avrebbe detto lo stesso. - Penso che sei geloso di Kenneth. Certe volte era davvero odiosa. - Quanto sei cretina! - disse Peter. - E’ la cosa più cretina che abbia mai sentito. Come farei a essere geloso di quel coso? - E di nuovo fulminò il piccolo, che gli restituì uno sguardo carico di sincero interesse, dondolando l’immenso testone. - Non è un coso, - disse Kate. - È una persona. E comunque è chiaro perché: le attenzioni vanno tutte a lui anziché a te. Peter la guardò con sospetto. - Questa non te la sei inventata tu. Chi te l’ha detto? La sorella scrollò le spalle. - In ogni caso è vero. Non sei più il maschio più giovane della famiglia. È per questo che lo tratti così male. - Ah, perché sarei io a trattare male lui? Ma se si è appena mangiato la mia biglia. Quel bambino è svitato. E una peste. Un mostro! Kate arrossì furibonda. Si alzò e prese il piccolo in braccio. - È un tesoro, invece. E mostro sarai tu. Ti ci vorrebbe una bella lezione - Afferrò il suo libro degli incantesimi e lasciò la stanza di corsa. Il piccolo la seguì gattonando. Mezz’ora dopo, Peter andò a dare un’occhiata di sotto. Kate se ne stava sprofondata in poltrona con il libro aperto in grembo. Kenneth era per terra, temporaneamente tranquillo e tutto preso da una vecchia rivista che stava divorando con metodo. Peter sedette nell’angolo opposto della stanza. Voleva continuare a discutere, per scoprire la provenienza delle ridicole idee di Kate. Ma non sapeva bene da che parte incominciare. Sua sorella era concentratissima nella lettura e giocherellava con la bacchetta magica. Kenneth si rese conto della presenza di Peter e andò verso di lui. Usando la sua gamba come sostegno, si rizzò vacillando tra le ginocchia del ragazzino. 60

Peter fissò sua sorella oltre il capo del piccolo. Lei continuò a leggere. Ce l’aveva ancora con lui. Meno male che quel libro di magia era solo per finta. Tornò a guardare Kenneth. Il piccolo lo scrutava dritto negli occhi, come se gli cercasse qualcosa dentro la testa, un ricordo, la chiave perduta che dava accesso a un’altra vita. - Gaaaaa, - disse Kenneth tranquillo. - Gaaaaa, - ripeté Kate dal lato opposto del soggiorno. Stava puntando la bacchetta magica su Peter. - Gaaaaa, gaaaaa, - ripeté Kenneth. - Gaaaaa, gaaaaa, - gli fece eco Kate disegnando un cerchio nell’aria. La stanza si illuminò e si capovolse, ingigantendosi, fino ad assumere le proporzioni enormi di un salone da palazzo. Peter si ritrovò in piedi; ondeggiava sforzandosi di conservare l’equilibrio. Si aggrappò a una colonna. Che strano, era calda, viva. Era una gamba, una gamba grandissima. Peter sollevò il testone ciondolante e cercò di dirigere il proprio sguardo disubbidiente al proprietario della gamba. Intravide una faccia, che subito sparì dal suo campo visivo. Mosse ancora la grossa testa e tornò a vederla, una versione gigantesca di se stesso vestito da scuola lo stava fissando senza nascondere un profondo disgusto. Confuso, Peter abbassò gli occhi per vedere come era vestito: una tutina ridicola tutta piena di orsacchiotti e macchiata davanti di succo d’arancia e di cioccolata. Tremendo, tremendo! Aveva fatto cambio di corpo con Kenneth. Al colmo della sorpresa, Peter lasciò andare la gamba e si ritrovò seduto per terra. - Oplà, - sentì una voce suadente dire al suo posto. Era terribile, ingiusto, spaventoso. Era sul punto di piangere, ma non ricordava bene che cosa lo avesse sconvolto. La concentrazione andava e veniva, galleggiando da un oggetto all’altro. - Qualcuno mi aiuti! - gridò. - Qualcuno faccia qualcosa! - Ma dalla sua bocca usci soltanto una serie di suoni incomprensibili. La lingua si rifiutava di andare dove serviva, e avrebbe giurato di avere in bocca soltanto un dente. Le lacrime gli scendevano su tutta la faccia, e proprio mentre stava per prendere fiato, riempirsi i polmoni e scaricare tutto il dolore che aveva in corpo, 61

una morsa potente lo afferrò sotto le ascelle e lo lanciò a una ventina di metri da terra. La bocca gli si spalancò, la sorpresa lo fece sbavare. Fissava lo sguardo sulla faccia della zia Laura che era diventata scoscesa e grande come una scogliera. Sembrava uno di quei presidenti degli Stati Uniti, scolpiti dentro la montagna. La sua voce, melodiosa e modulata come un’orchestra sinfonica, gli tuonava sulla testa. - Sono le cinque. Ora di pappa, bagnetto e nanna! -. Zia Laura, mettimi giù. Sono io. Sono Peter. Ma dalla sua bocca usci soltanto qualcosa come: - Aaa, Aguuuu amama. - Ma certo, - disse lei con tono incoraggiante. - Pappa, bagnetto e nanna. Hai sentito? - disse poi a qualcuno lontano. - Cerca di parlare. Peter incominciò ad agitarsi scalciando. - Mettimi giù! - Ma adesso si senti trasportare in volo per la stanza a velocità spaventosa. Di certo si sarebbe andato a schiantare contro lo stipite della porta. - Iiiiiiik, - squittì. Cambiarono direzione appena in tempo, e lui si ritrovò in cucina, installato dentro il seggiolone. Il sole del pomeriggio in mezzo agli alberi del giardino disegnava sul muro figure cangianti di tale bellezza che Peter scordò tutto il resto. Le indicò, esclamando: - Aaak! La zia Laura canticchiava a bassa voce tra sé e sé e intanto gli legava un bavaglino al collo. Be’, se non altro adesso non correva più il rischio di volare a terra. E sarebbe anche riuscito a informarla del fatto che era vittima di un crudele incantesimo. Perciò, con voce pacatissima disse: - Aagh, gaaah iiin -. E avrebbe detto anche molto di più se non si fosse ritrovato

la bocca

improvvisamente invasa da una cucchiaiata di uovo à la coque. Sapore, odore, colore, consistenza e schiocco sonoramente appiccicoso gli invasero i sensi e annebbiarono i pensieri. L’essenza stessa dell’uovo gli esplose in bocca, sparandogli su fino al cervello uno zampillo di piacere bianco e giallo. Ne derivò un sussulto del corpo e lo sforzo di indicare la scodella che Laura teneva fra le mani. Doveva assolutamente averne ancora. - Aaak, - esclamò a bocca piena, spruzzandosi tuorlo d’uovo sul braccio. Aaaak, aaaak! - Certo, - disse suadente la zia. - Lo so che ti piace.

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Finché non ebbe finito, Peter non poté pensare ad altro. Poi, prima ancora che gli tornasse in mente l’oggetto della questione, fu nuovamente da un biberon di succo d’arancia che frizzava, pizzicava e faceva glu glu. Infine fu la volta della banana schiacciata. Era talmente buona che Peter si sentiva fiero di averne anche tra i capelli e sulle mani e in faccia e sul tovagliolo. Dopodiché lasciò ciondolare la testa sul lato del seggiolone. Era così sazio da essere sfinito. Ma sapeva di dover parlare. Questa volta la prese con calma, spingendo la punta della lingua contro la parete del suo unico dente. - Zia Laura, - disse cauto, - in effetti io non sono il tuo bambino, sono Peter. È tutta colpa di Kate... - Sì, sì, - concordò la zia Laura. - Aguuu, aguuuu, ma certo. Guarda un po’ come ti sei ridotto. Uovo e banana dalla testa ai piedi. Qui ci vuole proprio un bagnetto. E Peter già volava su per le scale tra le braccia della zia. Sul pianerottolo incrociarono Kate. - Weeeh, - le gridò lui. - Weeeh, weeeh! - Cicici, cococo! - rispose lei, tenendo alta la bacchetta magica. Qualche minuto dopo Peter si trovava seduto in una vasca da bagno quasi grande come una piscina, circondato da piccole onde tiepide. Sapeva bene di dover fare un discorso a sua zia, ma per il momento era più interessato a prendere a schiaffi la superficie dell’acqua. Che meraviglia quegli spruzzi complicati e diversi che si dividevano in goccioline per aria e poi ricadevano a tuffo disegnando cerchi che stropicciavano l’acqua. Che spasso. - Ehi, che bellezza! - si sentì urlare. - Iiii ink aaak! - Era tanto eccitato che irrigidì di scatto gambe e braccia e si rovesciò sulla schiena. La zia Laura gli prese dolcemente la testa nella coppa di una mano. Lo spavento lo riportò in sé, e Peter ricordò di voler far sapere alla zia chi fosse davvero. - Awaba... - incominciò, ma all’improvviso il suo corpo fu lanciato fuori dall’acqua, come un missile sparato da un sottomarino, per poi atterrare su un asciugamano bianco sconfinato come il giardino dietro la casa. Fu quindi asciugato, imborotalcato, avvolto in un pannolino, abbottonato dentro una tuta da notte e trasferito in camera da letto, dentro la culla di

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Kenneth. La zia Laura gli cantò una canzone dondolante e curiosa che parlava di una paperella che andava intorno a una certa fontanella. - Ancora! - le gridò. - Unga! E lei gliela cantò ancora. Poi gli diede un bacio, sistemò la spondina della culla e piano piano uscì dalla stanza. Peter avrebbe avuto una gran paura se la canzone non gli avesse trasmesso tutta quella pace e quel sonno. Il sole del tardo pomeriggio giocava sulle tende tirate che svolazzavano misteriosamente. Gli uccellini si esibivano in trilli impossibili. Li ascoltò con attenzione. Che cosa poteva fare? E se la zia Laura fosse tornata a casa portandolo con sé? Cercò di mettersi seduto a pensare, ma era troppo stanco per sollevare il testone dal materasso. Sentì la porta che si apriva e dei passi nella stanza. Tra le sbarre comparve la faccia di Kate. Ghignava compiaciuta. - Kate, - sibilò Peter. - Fammi uscire di qui. Va’ subito a prendere la bacchetta. Lei scuoteva il capo. - Così impari. - Devo fare il compito, - supplicò lui. - Te lo sta facendo Kenneth. - Puoi capire. Ti prego Kate. Ti regalo tutte le mie biglie. Tutto quello che vuoi. Lei gli sorrise. - Sei tanto più carino così. Infilò le mani tra le sbarre e gli fece il solletico sulla pancia. Peter si sforzava invano di non ridere. - Notte, notte, cicciobello, - gli sussurrò prima di andarsene. Il mattino dopo, stordito da un sonno che gli parve essere durato sei mesi, Peter fu portato in cucina. Il suo sguardo annebbiato si rivolse ai membri della famiglia dall’alto del seggiolone. Tra gesti affettuosi e voci flautate, lo salutarono con un allegro, - Buongiorno, Kenneth. - Waak, - gracidò lui. - Waak ook. Io non sono Kenneth. Io sono Peter. La risposta parve soddisfare tutti quanti. Fu a quel punto che notò il ragazzino seduto dalla parte opposta del tavolo. Era Kenneth travestito da Peter nel corpo e negli abiti. E lo fissava con un’espressione talmente carica d’odio e disgusto da produrre leggere vibrazioni scure nell’aria. Poi distolse lo sguardo. Mise il piatto da parte, si alzò e usci dalla stanza. Peter si sentì crollare addosso il gelo pesante del rifiuto. E subito scoppiò a piangere. 64

- Oh, ma che cosa c’è, che cosa succede, tesoro? - domandò subito più di uno tra i presenti. - A lui non piaccio, - cercò di dire Peter tra i singhiozzi. - E così sto tanto male. Aaa waba lama waa! Gli asciugarono le lacrime; Kenneth e Kate si avviarono a scuola; mamma e papà di corsa al lavoro, e mezz’ora dopo, fresco e pulito in una tutina da giorno, Peter si ritrovò seduto sulla moquette del soggiorno, imprigionato dentro al box, mentre zia Laura era impegnata al piano di sopra. Ora finalmente poteva progettare la fuga. In casa, da qualche parte doveva esserci la bacchetta magica di Kate. Se solo fosse riuscito a farsela roteare sulla testa... Aggrappandosi con le manine grasse alle sbarre del box, riuscì a mettersi in piedi. La recinzione lo sovrastava di qualche centimetro. Non c’erano appoggi per i piedi e lui era troppo debole per tentare di scavalcare. Sedette. Qualcuno doveva tirarlo fuori di li. Bisognava convincere la zia Laura a scendere. Era sul punto di urlarle qualcosa, quando la sua attenzione fu attratta da un bel cubetto giallo che aveva vicino al piede. Giallo, giallo, giallo, gridava il cubetto. Era vivo, vibrava, brillava. Sentì il bisogno di prenderlo. Si sporse in avanti, lo strinse fra le dita, ma non riusciva lo stesso a sentirlo, o comunque non abbastanza. Lo sollevò portandoselo alla bocca e con tutta la sensibilità di labbra, gengive e dente ne esplorò il sapore legnoso, gialloso e cubettoso, finché non fu soddisfatto. Poi vide un martello di plastica rossa, ma così rossa che si sentiva in faccia il caldo emanato dal colore intenso. E con bocca, lingua e saliva lo percorse tutto d’angolo in piega, di bordo in curva. Fu così che lo trovò sua zia Laura dieci minuti più tardi, tutto contento e preso a ciucciare la zampa di un canguro giocattolo. La giornata trascorse in un susseguirsi di giochi, pasti e un sonnellino pomeridiano. Di quando in quando, Peter ricordava che avrebbe dovuto mettersi in cerca della bacchetta, ma subito i suoi pensieri finivano nella trappola di sapori forti e talmente buoni da mettergli voglia di annegarci dentro, oppure in quella di canzoncine bizzarre che bisognava ascoltare con grande attenzione: c’erano gatte che andavano al mulino, civette innamorate, topolini e anelli in 65

fondo al pozzo. O ancora, gli capitava di vedere un’altra cosa e di non resistere alla tentazione di sentirsela in bocca. Dopo il sonnellino, la zia Laura lo portò di sotto e lo sistemò per terra, questa volta però fuori dal recinto. Tonificato dal riposo, Peter decise di riprovarci. La bacchetta era probabilmente in cucina. Stava gattonando verso la porta, quando alla sua sinistra notò un paio di piedi dentro un paio di scarpe note: le sue. Risalì con lo sguardo fino alla faccia del ragazzino seduto in poltrona. Che lo guardò minaccioso. Questa volta Peter controllò la paura. Sapeva di avere un solo modo per risolvere la questione. Si insinuò tra le gambe, si rizzò in piedi e, ancora ansante per lo sforzo, si rivolse direttamente a Kenneth. - Senti un po’. La devi finire di guardarmi in quel modo. Non c’è ragione di detestarmi tanto. Io sono bravo. Te lo assicuro... Non aveva neppure finito di pronunciare queste parole, che già la stanza si mise a ruotare scintillando e rimpicciolendo. D’un tratto, Peter si ritrovò seduto in poltrona, con il piccolo Kenneth in piedi tra le ginocchia impegnato nello sforzo di dirgli qualcosa. Peter prese il bambino e se lo mise sulle ginocchia. Con ogni cautela, Kenneth allungò la manina e andò a schiacciargli la punta del naso. - Peeet! - esclamò forte Peter. La mano del piccolo si ritrasse di scatto, la faccia fu attraversata da un breve spavento che girò in sorriso e infine in una risata contenta. Se Peter avesse pronunciato la battuta più furba, più buffa o più scema del mondo non sarebbe mai riuscito a far ridere nessuno con tanto gusto. Da sopra la testa del piccolo, Peter rivolse uno sguardo a sua sorella seduta dall’altra parte della stanza. - In realtà, non credo che sia un mostro. Anzi, devo dire che mi piace abbastanza. Kate tacque. Non gli credeva. - Voglio dire, - proseguì Peter, - che mi pare proprio simpatico. - Hummm, - assentì Kate. E depose la bacchetta. - Se sei proprio convinto, allora scommetto che verrai ai giardini con me con il passeggino -. Era una sfida impossibile e lei lo sapeva. - Certo! - replicò Peter, lasciandola di stucco. Senza mettere giù il piccolo, si alzò dalla poltrona. - Andiamo. Chissà quante cose belle avrà da guardare.

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Si era alzata anche Kate. - Peter, che ti succede? - Ma suo fratello non la sentiva. Aveva in braccio il piccolo Kenneth e, portandolo nell’ingresso, si mise a cantare a gola spiegata: - C’era una paperella, che andava alla fontanella...

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I Grandi

Tutti gli anni ad agosto, la famiglia Fortune affittava una casetta di pescatori in Cornovaglia. Chiunque abbia visto quel posto, deve riconoscere che si tratta di una specie di paradiso. La porta della casa dava su un giardino incolto. Più in là correva un ruscello, poco più di un fossato, ma l’ideale per costruirci dighe di sabbia. Poco oltre, dietro un boschetto, restava tra l’erba un binario morto, sul quale un tempo passavano i carrelli di una miniera di stagno. A mezzo miglio di li si trovava una galleria chiusa alla quale i bambini non dovevano avvicinarsi. Sul retro della casa si stendevano pochi metri quadrati di prato che si allargava direttamente su un’ampia baia a ferro di cavallo con spiagge di sabbia gialla e fine. Su un’estremità della baia, c’erano delle grotte buie e profonde quanto basta a metter paura. Con la bassa marea si riempivano di pozze tra gli scogli. E nel parcheggio dietro la baia, dal tardo mattino fino al tramonto, stazionava il furgone dei gelati. Lungo la costa si raggruppava una mezza dozzina di case: i Fortune conoscevano tutte le altre famiglie che venivano in agosto e avevano stretto amicizie. Una piccola frotta di bambini di un’età compresa tra i due e i quattordici anni aveva dato corpo a un gruppo alquanto disordinato di ragazzini che giocavano insieme ed erano noti, almeno a loro stessi, col nome di Banda del Mare. Il momento più bello in assoluto veniva la sera, quando il sole affondava dentro l’Atlantico e le varie famiglie si radunavano nel giardino di una delle case per la solita grigliata. Dopo mangiato, i grandi erano troppo piacevolmente impegnati a bere e a raccontarsi storie infinite, per aver voglia di mettere a letto i bambini, ed era allora che la Banda del Mare poteva svignarsela nella tiepida calma del crepuscolo, e tornare indisturbata nei posti preferiti dei giochi fatti di giorno. Con la differenza che a quell’ora in più ci sarebbe stato il mistero del buio e delle ombre paurose, e la sabbia fredda sotto i piedi nudi, e la gioia impagabile di corse sfrenate che si aveva l’impressione di rubare a qualcuno. Era da un pezzo passata l’ora di andare a dormire, e i bambini sapevano che, prima o poi, gli adulti avrebbero smesso di chiacchierare e l’aria fresca della notte si sarebbe riempita 68

dei loro nomi, Charlie! Harriet! Toby! Kate! Peter! Ogni tanto, quando la voce dei grandi non bastava a raggiungere i figli in fondo alla spiaggia, mandavano avanti Gwendoline. Era la sorella grande di tre dei ragazzi della Banda del Mare. Dato che casa sua era troppo piccola, Gwendoline dormiva dai Fortune. Occupava la camera da letto accanto a quella di Peter. Sembrava sempre così triste, così persa nei suoi pensieri. Era già grande, correva voce che avesse addirittura ventitré anni, e se ne stava tutto il giorno seduta coi grandi, ma non si univa mai alle loro chiacchiere. Era studentessa di medicina e si preparava per un esame importante. Peter pensava a lei spesso, senza capire bene il perché. Aveva occhi verdissimi e capelli così rossi che sembravano arancioni. Qualche volta si metteva a fissare Peter come un gufo, ma la parola non gliela rivolgeva quasi mai. Quando la mandavano a chiamare i bambini, avanzava sulla spiaggia con aria svogliata, a piedi scalzi e con quei suoi pantaloncini sfrangiati, e guardava in su, solo quando li aveva raggiunti. La sua voce era calma, triste come una musica. «Avanti, bambini. A letto! » Poi, senza aspettare le loro proteste, e senza insistere, tornava indietro trascinando i piedi nella sabbia. Sarà stata triste perché era grande e non le piaceva esserlo? Non era facile dirlo. Fu lì in Cornovaglia nell’estate dei suoi dodici anni che Peter incominciò a notare quanto fossero diversi il mondo dei grandi e quello dei bambini. Non sarebbe stato esatto dire che i genitori non si divertivano mai. Anche loro facevano il bagno, ma non rimanevano in acqua per più di venti minuti. Anche loro facevano qualche partita di palla a volo, ma della durata di mezz’ora al massimo. Certe volte li si poteva persino convincere a giocare a nascondino, o a guardie e ladri, o a costruire un enorme castello di sabbia, ma si trattava sempre di occasioni speciali. La verità era che tutti i grandi, alla minima opportunità, preferivano sprofondare in una delle tre tipiche attività da spiaggia: stare seduti a cianciare, leggere libri e giornali, o dormicchiare. Se decidevano di fare un po’ di movimento, ammesso che lo si voglia così definire, era solo per dedicarsi a passeggiate interminabili quanto noiose, le quali si riducevano a pretesti per continuare a parlare. Sulla spiaggia, guardavano spesso l’ora e, ben prima che qualcuno avesse fame, si mettevano a dire che forse era meglio incominciare a pensare al pranzo o alla cena.

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Si inventavano anche delle commissioni da fare: dal meccanico della zona, dal carrozziere in paese, o nei negozi della città più vicina per fare la spesa. Poi tornavano lamentandosi del traffico vacanziero, dimenticando completamente di esserne parte. Questi grandi irrequieti facevano continue visite alla cabina del telefono in fondo al vicolo, e da li chiamavano parenti, colleghi d’ufficio, o figli già grandi. Peter aveva notato che quasi tutti i grandi non erano in grado di incominciare sereni una nuova giornata se prima non erano andati in macchina a comperare il giornale, quello giusto, s’intende. Altri non sarebbero sopravvissuti senza le sigarette. Altri ancora, senza una birra. Altri, senza un caffè. Certi poi, non riuscivano a leggere il giornale senza fumare una sigaretta e bere un caffè. Questi adulti non facevano altro che schioccare le dita e scuotere il capo perché qualcuno era appena arrivato dalla città dimenticando qualcosa: mancava sempre una cosa all’appello, e ci si riprometteva regolarmente di rimediare l’indomani: ancora una sedia a sdraio, lo shampoo, uno spicchio d’aglio, gli occhiali da sole, qualche molletta per stendere, quasi che la vacanza non potesse riuscire, non potesse anzi neppure incominciare, finché tutti questi inutili arnesi non fossero stati raccolti. Gwendoline però era diversa. Lei se ne stava seduta tutto il santo giorno, con il suo libro, e leggeva. Frattanto, Peter e i suoi amici neanche sapevano che giorno e che ora fosse. Scorrazzavano per

la

spiaggia,

rincorrendosi, nascondendosi, ingaggiando

battaglie e invasioni tra navi pirate e alieni di altri pianeti. Con la sabbia costruivano dighe, canali, fortini e zoo acquatici che poi riempivano di granchi e paguri. Peter e gli altri bambini più grandi inventavano storie tremende che spacciavano per vere per far paura ai più piccoli. Mostri marini che uscivano strisciando dal mare e coi tentacoli acciuffavano i bimbi per le caviglie per poi trascinarli in fondo agli abissi. O quella del pazzo dai capelli d’alghe che abitava dentro la grotta e trasformava i bambini in aragoste. Peter ci metteva tanto impegno nell’inventare queste storie che finiva col ritrovarsi restio a entrare da solo dentro la grotta, e quando nuotava, gli capitava di rabbrividire se un ciuffo di alghe per caso gli accarezzava una gamba. Qualche volta la Banda del Mare faceva incursioni nell’entroterra, nel prato dove si stavano costruendo un accampamento. Oppure si avventuravano lungo il vecchio binario morto fino alla galleria proibita. Tra le assi che la sbarravano c’era 70

un’ampia fessura e i bambini si sfidavano a passarci dentro per poi ritrovarsi dall’altra parte, nel buio totale. Di dentro si udiva l’eco sinistro e agghiacciante di una goccia d’acqua che andava a piovere in una pozzanghera. C’erano anche dei trapestii che avevano pensato di attribuire alla presenza di topi, e si sentiva una corrente d’aria umida e greve che secondo una delle bambine grandi doveva essere l’alito di una strega. Non che gli altri le avessero creduto, naturalmente, ma nessuno comunque si era mai spinto dentro la galleria per più di pochi passi. Questi giorni d’estate incominciavano presto e finivano tardi. Certe volte, andando a dormire, Peter si sforzava di ricordare come fosse incominciata la giornata. Sembrava che gli avvenimenti del mattino si fossero verificati settimane prima. Gli era anche capitato di addormentarsi, senza essere riuscito a farsi tornare alla mente il principio del giorno. Una sera dopo cena Peter litigò con uno degli altri bambini che si chiamava Henry. A scatenare la lite era stato un pezzo di cioccolata, ma ben presto la cosa si trasformò in uno sfogo di insulti reciproci. Per chissà quale ragione tutti i bambini, fatta eccezione ovviamente per Kate, si schierarono dalla parte di Henry. Allora Peter gettò la cioccolata per terra in mezzo alla sabbia e se ne andò tutto solo. Kate entrò in casa a prendere un cerotto per un taglio che si era fatta su un piede. E il resto del gruppo si allontanò sulla spiaggia. Peter si voltò a guardarli andare via. Li sentiva ridere. Forse stavano parlando di lui. Mentre il gruppo si allontanava nella luce del crepuscolo, i contorni dei singoli individui si andarono perdendo in una sorta di macchia che si muoveva e allungava in lontananza. Con ogni probabilità, si erano già scordati di lui e avevano inventato un altro gioco. Peter rimase così, con le spalle rivolte al mare. Un’improvvisa folata di vento freddo lo fece rabbrividire. Diede un’occhiata verso le case. Riusciva appena a distinguere il mormorio basso della conversazione dei grandi, il suono di un tappo di sughero tirato dalla bottiglia, la musica di una risata femminile, forse della sua mamma. Quella sera di agosto, restando lì in mezzo ai due gruppi, con il mare che gli lambiva appena i piedi nudi, Peter all’improvviso afferrò qualcosa di molto ovvio e terribile: un giorno o l’altro, avrebbe lasciato il gruppo che scorrazzava sfrenato lungo la spiaggia, per unirsi a quello di chi restava seduto a parlare. Era difficile crederci, ma sapeva che sarebbe andata proprio così. Allora si sarebbe 71

interessato a cose diverse, come lavoro, denaro, tasse, interessi bancari, chiavi e caffè, e sarebbe rimasto a parlare, per ore e ore, seduto. Questi pensieri gli pesavano sul cuore quella sera quando decise di andare a dormire. Non si poteva certo definirli pensieri felici. Chi avrebbe potuto rallegrarsi alla prospettiva di una vita trascorsa stando seduti a parlare? O facendo commissioni e andando a lavorare? Senza giocare mai, senza mai divertirsi sul serio? Un giorno o l’altro, sarebbe stato una persona del tutto diversa. Data la lentezza del fenomeno, non se ne sarebbe neppure accorto, e una volta successo, quel Peter giocoso e allegro di undici anni sarebbe stato talmente lontano, talmente strano e incomprensibile, quanto apparivano adesso gli adulti a lui. E con questa malinconia, se ne andò scivolando nel sonno. Il mattino dopo Peter Fortune si svegliò da sogni agitati, per ritrovarsi trasformato in un gigante, un grande. Cercò di muovere braccia e gambe, ma erano pesantissime a quell’ora del giorno, non c’era verso di cavarne qualcosa. Perciò rimase immobile ad ascoltare il canto degli uccellini fuori della finestra e a guardarsi un po’ intorno. La stanza era quasi identica, anche se dava l’impressione di essersi rimpicciolita parecchio. Peter aveva la bocca asciutta, la testa pesante e si sentiva confuso. Quando chiudeva gli occhi, il dolore cresceva. Si rese conto di aver bevuto troppo vino la sera prima. E forse aveva anche esagerato col cibo, se doveva dar retta al gonfiore di stomaco. E poi, troppe chiacchiere: aveva per sino male alla gola. Emise un lamento e si rigirò sulla schiena. Compiendo uno sforzo infinito, riuscì a sollevare un braccio, quanto bastava per avvicinare la mano alla faccia e sfregarsi gli occhi. La pelle lungo il contorno della mandibola raspava al tatto come carta-vetro. Prima di fare qualsiasi altra cosa, avrebbe dovuto alzarsi e farsi la barba. E non c’era molto tempo da perdere, perché aveva un mucchio di faccende da sbrigare, commissioni, lavoretti in sospeso. Ma prima di recuperare un po’ di energia, lo sconcertò la vista della sua mano. Era coperta di fitti pelacci neri e ricciuti! Rimase a fissare quella roba grassa con dita rotonde come salsicce e scoppiò a ridere. C’erano peli anche sulle dita! Più la guardava, soprattutto stringendola a pugno, e più gli pareva uno spazzolino del gabinetto. Si tirò su e sedette sul bordo del letto. Era nudo; il corpo, rigido, ossuto e peloso dappertutto, con muscoli mai visti prima su braccia e gambe. Quando 72

finalmente si alzò, per poco non andò a sbattere con la testa contro una delle travi basse della sua stanza nel sottotetto. - Roba da mat... incominciò a dire, ma la sua stessa voce lo meravigliò. Sembrava un incrocio tra un tagliaerba e una sirena antinebbia. Devo assolutamente lavarmi i denti e fare dei gargarismi, pensò. Mentre si dirigeva al lavabo, sentì le assi del pavimento scricchiolare sotto il suo peso. Le giunture delle ginocchia gli si erano fatte più spesse e legnose. Dinanzi al lavabo, dovette chinarsi per esaminare la propria faccia allo specchio. Con quella maschera di stoppie nere, gli sembrò che a restituirgli lo sguardo fosse il muso di uno scimmione. Quando si trattò di farsi la barba, scoprì di sapere esattamente come doveva fare. Aveva osservato suo padre così tante volte. Al termine dell’operazione, la faccia era tornata ad assomigliare un poco di più alla sua vera. Anzi, era persino meglio, meno paffuta di quella dei suoi undici anni, con la mascella volitiva e lo sguardo deciso. Niente male, pensò. Indossò gli abiti che trovò ammucchiati sopra una sedia, e scese al piano di sotto. Pensa che facce faranno, si diceva, quando vedranno che sono invecchiato di dieci anni e cresciuto di una spanna nel giro di una notte. Ma dei tre adulti seduti scomposti intorno al tavolo della colazione, soltanto Gwendoline lo degnò di uno sguardo balenando il verde brillante degli occhi dalla sua parte, per poi distoglierlo subito. Mamma e papà si limitarono ad accoglierlo con un ‘Giorno, senza interrompere la lettura dei giornali. Peter aveva una sensazione strana a livello di stomaco. Si versò del caffè, prese il giornale che stava sopra il suo piatto e ne scorse la prima pagina. Uno sciopero, uno scandalo su certe forniture di armi, e un meeting dei capi di stato di parecchi paesi importanti. Scoprì di conoscere i nomi di tutti i presidenti e dei primi ministri, di ricordarne le storie e persino le rispettive ambizioni politiche. Lo stomaco gli dava fastidio. Sorseggiò il caffè. Aveva un sapore terribile, come se avessero preso del cartone bruciato e lo avessero messo a bollire nella vasca da bagno. Comunque, continuò a bere, perché non voleva che qualcuno potesse pensare che in realtà aveva solo undici anni. Peter finì la fetta di pane tostato e si alzò. Dalla finestra vedeva la Banda del Mare correre sulla battigia in direzione della grotta. Quanta energia sprecata sin dal primo mattino! -. 73

Vado a telefonare in ufficio, - annunciò solennemente ai presenti, - poi faccio una passeggiata -. Si poteva immaginare qualcosa di più noiosamente da grandi di una passeggiata? Il padre assentì grugnendo. Sua madre disse: - Va bene, - e Gwendoline fissò gli occhi nel piatto. Nell’ingresso, compose il numero del suo assistente di laboratorio a Londra. Ogni inventore dispone almeno di un assistente. - Come procede la macchina anti-gravitazionale? - chiese Peter. - Ha ricevuto i miei ultimi disegni? -. Si, grazie a quei disegni mi è tutto chiaro, disse l’assistente. - Abbiamo apportato i cambiamenti da lei suggeriti e abbiamo proceduto ad accendere la macchina per cinque secondi. Come previsto, tutti gli oggetti della stanza si sono messi a galleggiare nell’aria. Prima di ritentare, dovremo inchiodare tavoli e sedie al pavimento. - Non voglio che ritentiate prima del mio ritorno dalle vacanze, - disse Peter. Voglio esserci. Verrò giù in macchina durante il weekend. Quando ebbe finito di parlare al telefono, usci in giardino e si fermò presso il ruscello. Era una giornata bellissima. Scorrendo sotto le assi di legno, l’acqua produceva un suono gradevole e Peter si sentì soddisfatto della sua recente invenzione. Ma per qualche motivo non aveva voglia di allontanarsi da casa. Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò. In piedi sulla porta, Gwendoline lo stava guardando. Peter registrò un’altra fitta allo stomaco. Una sensazione di freddo, un vuoto. Gli tremavano un po’ le ginocchia. Gwendoline appoggiò il braccio sul bordo di una vecchissima botte per l’acqua che stava davanti alla porta di casa. Il sole del mattino, tra le foglie dei meli, ricamava giochi di luce sulle sue spalle e i capelli. In ventun anni di vita, Peter non aveva mai visto niente di così, come dire, perfetto, luminoso, desiderabile, stupendo... non c’erano parole sufficienti a descrivere quel che vedeva. Gli occhi verdi di lei erano fissi nei suoi. - Fai una passeggiata, ho sentito, - disse lei piano. Peter non era sicuro che sarebbe riuscito a parlare. Si schiarì la voce. - Sì. Ti va di venire? Attraversarono il giardino e raggiunsero il sentiero di terra battuta dove un tempo correva il binario della ferrovia. Non parlarono di nulla in particolare: delle vacanze, del tempo, di qualche fatto di cronaca, qualsiasi cosa, pur di evitare 74

argomenti personali. La mano di lei fresca e liscia finì tra le sue, nel corso della passeggiata. Peter pensò seriamente che questa volta avrebbe potuto alzarsi in volo fino a sfiorare le cime degli alberi. Aveva sentito raccontare di come ragazzi e ragazze, uomini e donne si innamorano e non capiscono più niente, ma aveva anche sempre pensato che la gente la fa un po’ troppo lunga sull’argomento. Dopo tutto, quanto possono ragionevolmente piacersi due persone? Anche nei film, quei pezzi ai quali ci si doveva sempre rassegnare, quando i protagonisti rubano minuti preziosi per diventare melensi e guardarsi negli occhi e baciarsi, a lui erano sempre sembrati uno spreco di tempo ridicolo, buono soltanto a tenere in sospeso la storia per un’eternità. E adesso, eccolo qui, a sentirsi sciogliere solo al contatto della mano di Gwendoline, ad avere voglia di urlare di gioia. Raggiunsero la galleria e, senza mai smettere di parlare, si infilarono nel passaggio tra le assi, dentro l’oscurità fredda e fumosa. Procedendo si tenevano stretti, e ridacchiavano quando coi piedi finivano in una pozzanghera. La galleria non era molto lunga. Si vedeva già l’uscita, piena di luce rosa come una stella. A metà percorso si fermarono. Erano vicinissimi. Su braccia e visi restava ancora il calore del sole. Si strinsero ancor più vicino e, tra lo sgocciolio dell’acqua nelle pozzanghere e il trapestio di animali spaventati, si diedero un bacio. Peter seppe immediatamente che in tutti gli anni della sua infanzia felice, e persino nei momenti più belli, come quando giocava con la Banda del Mare nelle sere d’estate, non aveva mai fatto una cosa più incantevole, più emozionante e straordinaria di quel bacio scambiato con Gwendoline nella galleria del treno. Proseguendo in direzione della luce, lei gli raccontò che un giorno sarebbe diventata dottore e scienziato e avrebbe lavorato alla ricerca di nuove cure per malattie mortali. Uscirono strizzando gli occhi nel sole e si trovarono un posto sotto gli alberi insieme a certi fiori azzurri sorretti da steli esilissimi. Si sdraiarono, chiusero gli occhi, vicini sull’erba alta, circondati dal ronzio degli insetti. Lui le raccontò delle sue invenzioni, della macchina antigravitazionale. Di lì a poco avrebbero potuto andarsene insieme, montare sulla sua spider verde a due posti e percorrere le stradine della Cornovaglia e del Devon fino a Londra. Lungo il tragitto, si sarebbero fermati in un ristorante per concedersi una mousse al cioccolato, un gelato e litri di limonata. A mezzanotte avrebbero raggiunto

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l’edificio. Poi, una corsa in ascensore, e Peter avrebbe aperto la porta del laboratorio per mostrarle la macchina con i suoi tasti e le belle lucine accese. Un colpo di interruttore, ed eccoli galleggiare leggeri a mezz’aria insieme a tavoli e sedie... Doveva essersi assopito nell’erba, mentre le raccontava tutto questo. La spider, pensò col cervello annebbiato dal sonno, mousse di cioccolato, mezzanotte, restare alzato quanto mi pare, e Gwendoline... Fu a questo punto che si rese conto di avere lo sguardo puntato al soffitto di camera sua e non al cielo. Si alzò dal letto e raggiunse la finestra che si affacciava sulla spiaggia. In lontananza, riusciva a vedere la Banda del Mare. C’era bassa marea. Le pozze tra gli scogli restavano in attesa dell’acqua. Si infilò un paio di calzoncini e una maglietta e scese di corsa. Era tardi, gli altri avevano già fatto colazione da un pezzo. Tracannò un bicchiere di succo d’arancia, afferrò un panino e si precipitò fuori, oltre il giardino minuscolo, sulla spiaggia. La sabbia gli scottava già i piedi. Mamma, papà e i loro amici si erano sistemati coi libri tra sedie a sdraio e ombrelloni. La mamma lo salutò con la mano. - Ti sei fatto una bella dormita. Dovevi averne bisogno. I suoi amici lo avevano visto e gli stavano gridando: - Peter, Peter, corri, vieni a vedere! Peter si mise a correre tutto contento verso di loro, e doveva essere già a metà strada, quando si volse a guardare i grandi ancora una volta. Riparati dalla tela colorata degli ombrelloni, si chinavano per parlarsi più da vicino. Adesso li considerava in un modo diverso però. Sapevano cose belle che stavano appena incominciando ad affiorare anche in lui, come sagome nella foschia. C’erano altre avventure nella vita, dopo tutto. Come sempre, Gwendoline sedeva da parte con i suoi libri e le carte, intenta a studiare per l’esame. Lo vide e sollevò una mano. Si stava solo aggiustando gli occhiali sul naso, o lo salutava? Chi poteva dirlo? Peter si voltò a guardare il mare. Luccicava, fino laggiù, all’orizzonte. Gli si dispiegava dinanzi, sconosciuto e immenso. Una dopo l’altra le onde si srotolavano e spruzzavano sopra la sabbia, e a Peter sembrarono l’immagine di tutte le idee e le fantasticherie della sua vita.

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Sentì di nuovo chiamare il suo nome. Kate, sua sorella, ballava saltando sulla spiaggia bagnata. Abbiamo trovato un tesoro, Peter! - Alle sue spalle, Harriet si reggeva su una gamba sola, con le mani sui fianchi, e disegnava ampi cerchi di sabbia con la punta del piede. Toby e Charlie e i più piccoli facevano turni a suon di spintoni per saltare da uno scoglio dentro una pozza di acqua salmastra. E oltre tutto questo umano fermento, l’oceano si gonfiava e si ripiegava, perché a nulla e nessuno è dato di restare fermo, non agli uomini, non all’acqua e neppure al tempo. - Un tesoro! - esclamò ancora Kate. - Eccomi, - gridò Peter. - Arrivo -. E si lanciò di corsa verso la battigia. Si sentiva agile e leggerissimo sulla sabbia. «Sto per prendere il volo», pensò. Chissà se stava sognando, o se volava davvero.

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INDICE

Due parole su Peter ............................................................................................. 3 Le Bambole ........................................................................................................ 10 Il Gatto .............................................................................................................. 19 La Pomata Svanilina .......................................................................................... 31 Il Prepotente ...................................................................................................... 38 Il Ladro .............................................................................................................. 47 Il Piccolo ............................................................................................................ 57 I Grandi ............................................................................................................. 68

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