L'Impero Romano [1]
 978-8842023777 [PDF]

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Zitiervorschau

Santo Mazzarino

UImp romano i

OD Editori Laterza

Biblioteca Universale Laterza 108

Santo Mazzarino

I:Impero romano volume primo

o

Editori Lak=

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice sommario

Avvertenza

VIII

INTRODUZIONE Opere generali sulla storia dell'impero

3

1. Dal Godefroy alla storiografia illuministica, p. 3. 2. L'alternanza di « problema della decadenza » e « interpretazione positiva » nella storiografia dell'Ottocento e nell'indagine moderna. Da Burckhardte Mommsen a Seeck, Rostovzev, Piganiol, p. 6. - 3. Considerazioni ulteriori: storia culturale e storia sociale, p. 23.

Parte prima

SAECULUM AUGUSTUM I. Dopo Cesare

35

4. Premesse, p. 35. - 5. « Èlite », popolo, legioni, p. 37. - 6. L'&va-rx del 17 marzo e le ulteriori vicende del 44 a.C., p. 40. - 7. Dalla guerra di Modena al trattato di Bologna, p. 45.

TI. Dalla « potestas » triumvirale alla « potestas » eccezionale di Ottaviano 8. Bellum Philippense e Bellum Perusinum, p. 49. - 9. La lotta tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo, p. 54. - 10. Dalla spedizione partica di Antonio alla battaglia d'Azio, p. 58. - 11. L'annessione dell'Egitto. La « potestas » eccezionale di Ottaviano nel periodo 29-28 a.C., p. 65.

49

Indice sommario

vi

III. La fine della « potestas » eccezionale e lo stato dell'« auctoritas »

72

12. Le sedute del 13 e 16 gennaio 27 a.C. e la fondazione del principato, p. 72. - 13. La politica estera di Augusto, p. 79. - 14. L'ordinamento militare e sociale, p. 84.

Bibliografia e problemi

96

Parte seconda

L'EPOCA GIULIO-CLAUDIA IL «LUXUS » SENATORIO E LA RIVOLUZIONE BORGHESE

133

Il principato di Tiberio 15. La periodizzazione dell'epoca augustea e tiberiana, p. 133. - 16. La politica di Tiberio sino al 31, p. 135. - 17. Dopo la caduta di Seiano, p. 146. - 18. Il problema della monarchia di Tiberio e la tavola di Heba, p. 149.

Il. La rivoluzione spirituale: ipiixui ed

ot'octi

154

19. La grande antitesi: gli « evangelii di Augusto » [OGIS 458, 401 e l'evangelio di Gesù. La Palestina all'epoca di Gesù. Il lo,gion « Rendete a Cesare », p. 154. - 20. L'epoca dell'apostolo Paolo. Paolo e la « doppia cittadinanza ». Caligola (37-41) e Claudio (41-54), p. 168. - 21. « Tyche » e « pronoia ». Il giudaismo, Paolo e il pensiero di Filone. Conversione senza circoncisione, p. 181. - 22. L'Anticristo (Anti keimenos), Caligola e Paolo. L'Anticristo e Nerone, p. 189. - 23. La comunità cristiana di Roma e l'apostolo Paolo. « Omnis potestas a Deo ». Claudio e Nerone contro il cristianesimo, p. 195.

III. La rivoluzione borghese e la riduzione del « denarius »

211

24. Caratteristiche sociali dell'epoca di Paolo, p. 211. - 25. La politica estera di Nerone e la fine del suo impero, p. 226. - 26. Il « longus et unus annus », p.232.

Bibliografia e problemi

239

VII

Indice sommario

Parte terza I FLAVII E GLI ANTONINI: L'ETTAIA COME IDEALE UMANISTICO I. I Flavii e gli Antonini

281

27. Vespasiano (69-79). I problemi economici e il « metus totius Italiae », p. 281. - 28. L'« aeternitas » di Roma, p. 285. - 29. Berenice, p. 286. - 30. Domiziano (81-96), p. 288. - 31. 11 problema finanziario e la politica di Nerva (96-98), p. 292. - 32. Traiano (98-117), p. 295. - 33. Il problema giudaico e cristiano, da Nerva (96-98) a Traiano (98-117) ad Adriano (117138) ed Antonino Pio (138-161), p. 302. - 34. L'impero

« umanistico» di Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180), p. 316. - 35. L'impero romano e lo stato partico nell'epoca di Vologese iii. Le lotte di Marco Aurelio: Quadi e Marcomanni, p. 334. - 36. L'evoluzione economica e sociale dal i secolo d.C. all'impero umanistico. La cittadinanza. I liberti. La schiavitù, p. 344. - 37. Il proletariato italiano e il servizio militare, p. 347. - 38. Arruolamento volontario e « lingua degli Italiani ». Evoluzione linguistica del i-n secolo. L'« Itala », p. 350. 39. La disciplina delle legioni; la maggiore libertà dei pretoriani e degli « auxilia »; i diplomi militari, p. 354. - 40. Latifondisti, coloni e schiavi dinanzi al problema dell'arruolamento. Le classi dirigenti e l'amministrazione dell'impero, p. 360. - 41. La, città di Roma e l'ideologia imperiale, p. 369.

Bibliografia e problemi

375

Avvertenza

Esaurito da tempo, e sempre richiesto da più parti, questo libro viene riprodotto per concessione dell'Autore senza alcuna modificazione rispetto all'edizione del 1962L'Autore ringrazia i suoi allievi M. A. Cavallaro, A. Fraschetti, A. Giardina per la diligente correzione delle bozze. marzo 1973

INTRODUZIONE

FI

OPERE GENERALI SULLA STORIA DELL'IMPERO *

1.

Dal Gode froy alla storiografia illuministica.

La ricerca sull'impero romano è stata una scienza di gran lunga più precoce che, non quella sulla repubblica romana: ciò si spiega facilmente, se si guarda da una parte al carattere delle fonti sull'impero romano, dall'altra, in genere, alla formazione della cultura moderna. Sulla repubblica romana, per ciò che riguarda l'epoca arcaica, le principali fonti a noi pervenute (per esempio Diodoro, Dionisio, Livio) sono molto tarde rispetto all'epoca di cui si vuole ricostruire la storia; in quel campo, dunque, una ricerca scientifica era impossibile, se prima non si chiariva (il che fu tentato solo con Perizonio) il carattere della narrazione leggendaria e (con Vico e Leibniz) del « concetto poetico » proprio delle epoche in cui gli uomini pensano « con animo perturbato e commosso » prima di raggiungere una vera e propria fase di riflessione « con mente pura »; una tale esigenza non poteva esprimersi compiutamente se non con i presupposti filologici elaborati dal primo romanticismo, k. e soprattutto da Niebuhr, attraverso la sua indagine suil'annalistica confluita in Livio. Viceversa, per l'epoca imperiale già la tradizione manoscritta ha conservato, per ciò che riguarda il tardo impero, splendide fonti giuridiche * Ho cercato di dare una « storia delle stotie » e delle opere generali sull'impero, anziché il semplice elenco, perché riesca sin da principio evidente la problematica fondamentale della ricerca. Appunto per ciò, le pregiudiziali formulate in questa introduzione saranno più chiare nel prosieguo del libro e nell'epilogo.

4

Introduzione

contemporanee. Negli anni 1620-1652 J. Godefroy, riallacciandosi alla grande tradizione romanistica (che dalla dottrina si era già evoluta sin ad esprimere notevoli esigenze di ricerca storica) poté scrivere un mirabile commentario al Codex Theodosianus: questo commentario (da consultare nella edizione del Ritter, 1736 sgg.) resta ancor oggi una vera e propria storia amministrativa del tardo impero romano', e pertanto (essendo il tardo impero come una « chiave » per intendere l'evoluzione dell'impero nel suo complesso) la più compiuta introduzione alla storia stessa dell'impero. D'altra parte, la moderna cultura europea, come quella che sorge dalla grande rivoluzione umanistica e poi dalla polemica cattolico-protestante sull'interpretazione della tradizione evangelica, ben presto fu richiamata allo studio della storia imperiale in quanto tale: su un piano di ricerca filologica 2 e antiquario-archeologica dalla tradizione che si ripeteva dall'umanesimo; su un piano di interpretazione storica dal neostoicismo e dalla polemica sulla tradizione delle chiese. Questa ultima poneva il problema della storia imperiale come problema del trasformarsi di un mondo pagano in una società imperiale cri1 Appunto per questo J. Godefroy, che generalmente viene dimenticato dagli storici della storiografia moderna, deve considerarsi - per ciò che riguarda l'indagine sull'impero romano - il massimo storico del Seicento, e forse di tutti i tempi: egli ha raggiunto dall'interno la più completa conoscenza scientifica dell'ordinamento imperiale ed ecclesiastico. - Va anche rilevato che l'antiquaria secentesca ebbe un lontano precorrimento dell'esigenza (che poi sarà chiara nell'avanzato Ottocento, col Mommsen: in/ra, § 2) di studiare la costruzione politica imperiale nella sua positività, attraverso la ricerca sulla vita romana nelle province; basta pensare alla raccolta di epigrafi curata dal GRUTERO (1603 1 ) e ai lavori di SPON (1673; 1678; 1683). - Un altro insigne erudito, SPANHEIM, discendente da BuDÉ, va ricordato a un tempo per i suoi interessi numismatici (1664) e per la sua insistenza sulla produzione - centrale nel basso impero - di Giuliano l'Apostata (1660; 1690). 2 Si ricordino la famosa indagine del Valli sulla donazione di Costantino; e pel tardo, e ormai ben diverso, umanesimo, il Tacito e il Seneca di Giusto Lipsio.

Opere generali sulla storia dell'impero

5

stiana: le due grandi opere - rispettivamente del tardo Seicento e del tardo Settecento - la Histoire des empereurs di Tiliemont (1690 sgg.) e la History o/ th'e Decline and Fali 0/ the Roman Empire (1782 sgg.) di Gibbon riflettono questa problematica, la quale dunque già con Gibbon si configurava come la problematica del « decline and fail » dell'impero romano. Due punti di vista opposti erano nelle opere del Tillemont (il quale rifletteva il travaglio della precedente ricerca sulla storia ecclesiastica: in/ra, xiii) e del Gibbon: alla mentalità giansenistica ed erudita dello storico francese, il punto essenziale appariva la necessità di stabilire una liaison tra la storia ecclesia • stica e la storia imperiale, com'essa era sentita da « un cristiano che scrive per cristiani »; alla mentalità illuministica • di Gibbon il punto essenziale era quel tramonto della cultura antica, che realmente caratterizza e definisce il processo della storia romana imperiale (di qui le famose poste riori discussioni sull'opera; delle quali è tipico esempio, in Italia, la critica del nostro Spedalieri). Inoltre va notato che l'illuminismo aveva già sentito il « problema della decadenza » come problema del « mutamento delle massime e del governo imperiale » in un breve, famoso scritto del Montesquieu (Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, del 1734): uno

scritto che, accanto ad alcune evidenti ingenuità illuministiche, imposta molto intelligentemente il problema, che ancor oggi è centrale nella storia dell'impero: in che senso la pars occidentale cade, ment l'Oriente sopravvive? (Montesquieu, nel suo celebre capi(olo 19, lo risolveva osservando che « il passaggio dell'Asia era meglio difeso » e che l'Occidente « non aveva forze marittime, trovandosi queste tutte in Oriente: in Egitto, in Fenicia, in lonia, in Grecia, soli paesi in cui era allora commercio ».) Lo 1

3 Da consultare, oggi, nell'edizione di BURY (1897 - 1900).

6

Introduzione

stesso pensiero illuministico, man mano che discopriva l'insufficienza delle dottrine mercantilistiche dell'economia, poneva altresì le basi per la storia sociale dell'impero romano: David Hume, il grande amico di Adam Smith (lo Smith giustamente lo ebbe a definire « by far the most illustrious philosopher and historian of the present age »), ha dato, nel breve ma luminoso lavoro sulla Populousness of Ancient Nations la prima grande ricerca sulla storia sociale e demografica dell'antichità, con particolare riferimento all'impero romano. E nel 1787 il frammentario ma capitale Leitfaden di F. A. Wolf additava nella perdita della Simplicitàt poetica un tipico aspetto della crisi imperiale. 2. L'alternanza di « problema della decadenza » e « interpretazione positiva » nella storiografia dell'Ottocento e nell'indagine moderna. Da Burckhardt e Mommsen a Seeck, Rostovzev, Piganiol. Già il Sei e il Settecento avevano dunque rivelato i tre momenti fondamentali allo studio dell'impero romano: ricerca sull'evoluzione politico-culturale-religiosa, per cui quell'impero si trasformò nell'impero cristiano (Tillemont; Gibbon), e infine cadde nella sua pars occidentale, ma tuttavia rimase (e con Giustiniano parve ricostruirsi ad unità d'Oriente e Occidente) nella sua pars orientale (Montesquieu; Gibbon); esegesi storica del materiale giuridico (soprattutto Godefroy; e già la scoperta cinquecentesca del problema interpolazionistico); indagine sulla storia so ciale-demografica dell'impero romano (Hume). Una tale imponente eredita solo in parte poteva esser svolta dal primo romanticismo. Questo segnò infatti un effettivo progresso soprattutto per aver posto, con la scoperta droyseniana della storia ellenistica (1833-1836), il presupposto necessario all'intellezione della storia imperiale romana (in quanto essa s'inquadri nella storia dell'ultima cultura elle

Opere generali sulla storia dell'impero

4

7

nistica) e per aver dato in tal modo un avvio alla comprensione per esempio delle origini cristiane e dei rapporti fra giudaismo e impero romano (alcuni di questi presupposti furono già svolti dalla storiografia romantica, e confluirono poi - nel 1852 - nell'opera di Burckhardt [in/ra, p. 13]; altri furono svolti più tardi, in/ra, xiii). Quanto al resto', la storia dell'impero romano fu allora interpretata dal punto di vista della Dekadenzidee, dunque dal punto di vista di Gibbon, atteggiato con un tono più appassionatamente ricostruttivo: così, per esempio, dal Niebuhr, che per altro non riuscì a conquistare i presupposti per condurre sino all'impero la sua Rdmische Geschichte; inoltre, il Niebuhr pose le basi per un nuovo studio delle fonti tarde (per esempio, con l'ideazione del Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae); e soprattutto ebbe il merito di proporre la revisione di alcuni particolari ma importanti problemi, come per esempio l'interpretazione della Historia Alexandri di Curzio Rufo e del romanzo di Petronio, opere di cui egli proponeva una postdatazione al iii secolo, spostando così, seppur a torto (infra, § 24 e X; xiii), la « visuale » di molta parte della storia culturale romana. Ad ogni modo, queste erano suggestioni ad una intellezione più profonda della problematica inerente alla storia imperiale romana; altre suggestioni potevano venire dal confuso < simbolismo » creuzeriano, nelle sue applicazioni al simbolismo funerario com'esso fu inteso nella Griibersymbolik (1859) di un tardo romantico, il Bachofen: l'irrazionalismo proto-romantico può (in questo caso e in molti altri analoghi) rivelarsi fecondo, qualora la Grabersymbolik si applichi (come si è fatto scien tificamente anche in tempi recentissimi: in/ra, xxiii) allo Per le grandi trattazioni storiche ottocentesche (per es.

CHAMPAGNY; MERIVALE; e soprattutto DURUY) e per il volumetto di ZELLER, Les empereurs romains, cfr. quanto diremo in/ra,

pp. 20 sgg.

Introduzione

8

studio della religiosità romana di epoca imperiale, religiosità largamente penetrata di esperienze orientali. Per altro, un notevolissimo contributo del primo romanticismo alla ricerca sull'impero romano deve vedersi nell'impulso che quell'indagine riceveva dall'opera del Thierry, come anche dalla rinnovata attenzione (poi culminante nell'opera fondamentale dello Zeuss) sulle popolazioni germaniche. Va inoltre ricordata (« last but not least ») la revisione della storia sociale antica operata dalle indagini della « scuola storica dell'economia » (la cui insistenza sul fenomeno dell'economia domestica nel mondo antico può essere utile alla intellezione del tardo impero, oltre e più che dell'antichità in genere, cui quegli studiosi la applicavano): questa ricerca raggiunse, nella scuola di Rodbertus, una importante fase di scoperta, in quanto riuscì a individuare il principio fondamentale della capitatio-iugatio dioclezianea, la quale si fonda precisamente sulla identità di caput e iugum (ed in astratto di forza umana di lavoro e imponibile). Infine l'erudizione del Bicking riusciva a dare (1839 sgg.) un mirabile commentario alla Notitia dignitatum, commentario che ancor oggi, pur dopo l'edizione critica del Seeck (1876), resta - né più né meno che il già rtcordato commentario gotofrediano al Codex Theodosianus - un necessario strumento di lavoro ' . Quando la storia dell'impero romano si propose come tema complessivo all'indagine di Mommsen, la vera e propria fase romantica era superata in uno storicismo di tinta positivistica, la cui connessione all'esperienza romanParticolarmente RoscilEa, la cui opera principale è del 1843. Nel campo della « storiografia letteraria » va ricordato il Grundriss di BERNHARDY (1830), di spiriti wo1fiani importantissima, in esso, l'indicazione dell'epoca di Commodo (non di Adriano!) come momento iniziale della nuova fase culturale dell'impero. Tale periodizzazione è oggi confermata dallo studio dell'arte figurativa imperiale (cfr. in/ra, App. in) e della storia imperiale in genere (cfr. la Parte quarta di questo libro). 6

Opere generali sulla storia dell'impero

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tica è, tuttavia, innegabile (come del resto è innegabile l'origine romantica di molta parte delle esigenze stonografiche contemporanee). Questa fase « positiva » dell'indagine sull'impero romano è soprattutto rappresentata dal quinto volume (1885) della Ròmische Geschichte mommseniana: il volume sulle province da Cesare a Diocleziano. Va subito notato un punto importante: Mommsen non scrisse il quarto volume, che doveva essere la vera e propria storia della politica imperiale nel suo sviluppo. La verità è che l'impostazione gibboniana di una storia dell'impero come storia del « decline and fail » dell'impero, appariva al Mommsen insufficiente a raggiungere una definizione storicizzante e autonoma del positivo significato della storia imperiale. Questa impostazione gibboniana coglie senza dubbio l'aspetto più vero e appassionante della storia imperiale: la storia dell'impero pagano che si fa cristiano, e che poi, come tale, si può seguire nelle partes Orientis (pur dopo la perdita di Egitto e Siria nel VII secolo) fino al 1453. Ma ilpositivismo mommseniano a buon diritto sottolineava un'altra esigenza: quella d'intendere il significato profondo della romanizzazione, di studiarla in funzione di se medesima (a intender meglio la differenza, si noti che Gibbon cominciava con Traiano, finiva col 1453; mentre Mommsen cominciava con Cesare ed Augusto, finiva con Diocleziano). Il terzo volume della Ròmische Geschichte è del 1856; il quinto volume è, invece, come dicemmo, del 1885. Trent'anni fra l'opera sull'ultima repubblica, fino a Cesare, e quella sul principato nelle province. La spiegazione di tutto ciò è agevole: per scrivere la storia dell'impero nella sua positività concreta, bisognava appunto raccogliere un materiale che la illustrasse nei suoi aspetti più concreti; bisognava rinnovare su solide basi la scienza numismatica e la scienza epigrafica. Per la prima c'era la Doctrina nummorum veterum di Eckhel, del 1792 sgg.; anch'essa un'opera dell'erudizione

Introduzione

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antiquaria tardo-illuministica; ma una fondazione della scienza numismatica, al di là dell'antiquariato, doveva importare una storia della monetazione romana vera e propria; e questa fu data solo dal Mommsen stesso, nella Geschichte des ròmischen Mitnzwesens, del 1860: opera ancor oggi fondamentale. Per l'epigrafia, la vecchia erudizione tardo-umanistica aveva dato, nella suggestione dell'insegnamento scaligeriano, l'opera di Grutero; ma ora, a distanza di più di due secoli e mezzo, bisognava fare qualcosa di più moderno, che fosse veramente degno di una scienza che nella fatica del Borghesi ? aveva raggiunto un culmine, ancora oggi paradigmatico, di precisione scientif ica (Mommsen considerava Borghesi come il maestro per eccellenza in questo campo: si ricordi la sua famosa visita all'epigrafista italiano, nel 1845); bisognava redigere il Corpus inscriptionum Latinarum, un'impresa che il grande romanista (ed altresì ispiratore della già ricordata scuola storica dell'economia) Savigny aveva concepito, che Mommsen pensò di attuare, appunto, d'intorno al 1845, e che si realizzò splendidamente dal 1863 in poi, fino ad oggi. Anche lo Staatsrecht del Mommsen medesimo (1871-1875) era un presupposto per intendere la storia dell'impero, che nel suo aspetto costituzionale presenta problemi gravissimi, quali l'illuminismo, con la sua generica interpretazione delle forme monarchiche, non poteva concepire. Senza numismatica e soprattutto senza quel grandioso « archivio di pietra » che è il materiale epigrafico, non si dà storia della romanizzazione, dunque non si dà storia dell'impero romano: sicché il quinto volume della Ròmische Geschichte mommseniana deve considerarsi la compiuta intellezione di questo nuovo aspetto della storia imperiale; e perciò l'anno 1885, in cui esso apparvè, segna un'epoca nella storia di questa storiografia, né più né meno che il 7 Sempre viva e attuale: i-x (1862 sgg.).

BORGHESI,

Oetivres compi., ed. CvQ,

Opere generali sulla storia dell'impero

11

penultimo decennio del XVIII secolo, in cui fu concepito il Decline and Fali di Gibbon. Bisogna poi osservare che, con la scoperta mommseniana della « storia delle province » in quanto « storia della romanizzazione », non era cancellata (come a torto si ritenne e talora si ritiene ancor oggi) l'esigenza di una « storia dell'impero » nella sua evoluzione amministrativa ed economica e culturale unitaria; Mommsen scrisse il quinto volume della sua Geschichte, ma avrebbe voluto scrivere anche il quarto; ed è evidente che, se pur quel gigante non riuscì a raggiungere una unitàfra bistoire des empereurs e storia delle province, tuttavia la ricerca unitaria sulla storia dell'impero resta una esigenza insopprimibile. Insopprimibile, diciamo, anche se la pressoché contemporanea Geschichte der r6mischen Kaiserzeit, i (1 e 2) - ii di Schiller (1883-1887) - opera ancor

oggi da consultare - in nessun modo reggeva il paragone con il quinto volume della Ròmische Geschichte mommseniana. Le posteriori opere generali (alcune cronologicamente limitate) sull'impero romano si muovono, più o meno, fra questi due poli, di « storia degli imperatori » e « storia dell'impero nelle province », dando la prevalenza or all'uno or all'altro momento: di queste opere generali, scritte dopo Mommsen fino ad oggi, alcune saranno ricordate più innanzi in questa introduzione (per es. FERRABINO; MASHKIN; PIGANI0L ecc.; gli Arcana imperii del DE FRANcIscI); qui si ricordano subito le seguenti: COLUMBA, L'imp. rom. dal 44 a.C. al 395 d.C.

(della Storia d'Italia vallardiana); STUART JONES, The Roman Empire (dal 29 d.C. al 76 d.C.) (1908); BURY, A History o/the Roman Empire from its Found. to Death o/ M. Aurelius (1913; DOMASZEWSKI, Gesch. d. rm. Kaiserz. i-ii

(1921-1923); BLOCH,

L'emp. rom. l2vol. et décadence (1922); DESSAU, Gesch. d. ròm. Kaiserzeit (1924 sgg.; fino ai Flavii); Homo, L'emp. rom. (1925); NILssoN, Imperial Rome (trad. ingi., 1925); CAvAIGNAC, La paix romaine (1928); ALBERTINI, L'emp. rom. (1929); STEVENSON, The Roman Empire (1930); PARIBENI, L'Italia

Introduzione

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imperiale. Da Ottaviano a Teodosio (1938) ; SOLARI, L'impero romano I-IV e Rinnovamento dell'impero romano I- II (1940 sgg.; il Rinnovamento, che è relativo al basso impero da Giuliano a Giustiniano, sotto il titolo di Crisi, già dal 1933 sgg.).

Il periodo da Ottaviano ad Adriano è trattato in

SALMON,

A History o f the Roman World from 30 B.C. to A.D. 138 (19522 ). Nella « Einleitung » di GERCKE-NORDEN la storia imperiale è trattata dal KORNEMANN (ora in VOGT-KORNEMANN, Storia romana, trad. it. a cura di PUGLIESE CARRATELLI; cfr. dello stesso KORNEMANN, Rum. Gesch II). PASSERINI, Linee JEBELEV, Drevnij Rim II, (1923) . di storia imp. (1949) . SERGEEV, Ocerki po istorii dr. R. II (1938). La Kaiserz. di TREVER, PÒHLMANN, nello PFLUGK-HARTTUNG, pp . 507 -631 . A History of Ancient Civilis. II (1939). Fondamentali i voll. x, xI, xii della « Cambridge Ancient History », un'opera in cui la grande pluralità degli autori non nuoce alla unitaria e modernissima visione dell'insieme (ed. by ADCOCK, BAYNES, BURY, CHARLESWORTH). Di quest 'ultimo studioso, il CHARLESWORTH, va segnalato The Roman Empire .

(1951). Nella « Bibliothèque de synthèse historique » l'impero romano (nel senso del v volume mommseniano), l'economia, il diritto , le istituzioni ,la religione , Gesù e la Chiesa, la fine del mondo antico, Bisanzio sono stati curati rispettivamente da CHAPOT, TOUTAIN, DECLAREUIL, HOMO, GRENIER, GUIGNEBERT, LOT , BRÉHIER, in volumi di primissimo ordine; recen-

tissimo è il volume sull'urbanesimo a Roma, del HoMo. Nella Pro pylàenweltgeschichte, II le parti che c'interessano hanno una trattazione eccellente, di HOHL e VON SODEN (1931) . Nella

« Histoire generale » del GLOTZ due tomi sono dedicati alla storia " imperiale: il primo, Le Haut-Empire, del HoMo; il secondo, in due volumi, di BESNIER (dai Severi al 325) e di PIGANIOL (L'empire chrétien, fino a Teodosio). Della « Storia di Roma », a cura dell'Istituto di Studi Romani, sono relativi all'impero, fra quelli finora apparsi, i volumi v, VII, VIII: PARI BENI (L'età di Cesare e di Augusto), CALDERINI (I Severi. La crisi dell'impero nel terzo secolo) PARIBENI (Da Diocleziano 'alla caduta dell'impero d'Occidente); nei voll . XVIII, XXIII xxiv-xxv (sulla religione, la lingua, la letteratura; rispettivamente di TURCHI, DEVOTO, ROSTAGNI-AMATUCCI) è anche ,

.~

Opere generali sulla storia dell'impero

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studiata l'epoca augustea imperiale. Per il resto vanno ricordate le storie del basso impero e di Bisanzio (le due -grandi, il SEECK e lo STEIN, su cui torneremo or ora; il BAYNES, The Byz. Emp. [1926]; il VAsILIEv, Hist. o/ the Byz. Emp. [1952 21; l'OsTRoGoRsKY nel « Handbuch » di MOLLER-OTTO; e via dicendo). In queste opere (s'intende, soprattutto nelle più significative tra quelle dedicate alla storia politico-civile) è dunque una problematica che, più o meno, si eredita (e in diversissima misura si riflette dai diversi autori) o dal Gibbon o dal Momm sen, o dall'uno e dall'altro variamente conciliati. Ma nelle più recenti e vive - e tali sono, per esempio, il breve Byz. Emp. di BAYNES, o l'eminente Emp. chrét. del PIGANIOL, o il volume xii della « Cambridge Ancient History » - c'è qualcosa di più: c'è la problematica della decadenza romana, intesa in modo da rinnovare notevolmente il vecchio problema illuministico impostato dal Gibbon. Il problema della decadenza era il più indicato per proporre una interpretazione della storia romana che, pur inverando » l'esigenza mommseniana, tuttavia si mostrasse più complessa di quella del Mommsen. Abbiamo già ricordato la pubblicazione, nel 1852 (dunque, più che un trentennio prima del quinto volume mommseniano), di una mirabile opera del Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen, la quale è in verità una Kulturgeschichte - o una storia politica vista kulturgeschichtlich - del trapasso dal principato all'impero cristiano. Tale problematica il Burckhardt ereditava direttamente da Gibbon; ma vale la pena di ripetere che essa si configurava in maniera del tutto nuova per lo storico di Basilea, a cui una profonda esigenza umanistica aveva fatto intendere la unità della fenomenologia storica in rapporto alla Kulturgeschichte; sicché il suo tormentato pessimismo 8 assimilava tuttavia, per questa parte, il meglio dell'esigenza storicistica romantica. Comunque, nell'opera di Burckhardt il 8 SEEL, Jacob Burckhardt und die europàis be Krise (1948).

14

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Introduzione

problema della decadenza era posto, soprattutto, nei termini di una evoluzione culturale fino alla « demonizzazione del paganesimo ». Circa vent'anni dopo 9 , il primo tomo delle I nstitutions politiques de l'ancienne France di Fustel De Coulanges (pubblicato nel 18 7 5) partiva dallo studio della storia imperiale per insistere sulla continuità della cultura romana nel medioevo barbarico: la forte personalità del Coulanges ha lì impostato un problema ancor oggi vivo (gli aspetti della continuità sono stati sottoli, neati, più recentemente, dal Dopsch e da H. Pirenne; in f ra, LXXIV), ma nello stesso tempo chiariva la necessità di studiare a fondo, con un metodo scaltrito dai nuovi accorgimenti filologici e dalla ricerca epigrafica, la storia del tramonto del mondo antico. Così, la fine del secolo xix vide l'inizio di un'opera di Otto Seeck, l'editore della Notitia dignitatum (supra, p. 8); l'opera, che perveniva a un'interpretazione positivistica della decadenza romana, fu la mirabile Geschichte des Untergangs der antíken Welt (i-vi, 1895-1920). La storia dell'impero tornava ad essere ancora la storia del « decline and fall » dell'impero. Questo era stato per Gibbon, innanzi tutto, il problema del rapporto fra cristianesimo e stato romano: basta pensare, per esempio, al cap. xviii della History. Anche per Burckhardt il problema era il medesimo; ma la sua risposta più smaliziata che quella dell'illuminista Gibbon; l'opera di Burckhardt presuppone un approfondimento di scritti anch'essi a loro modo kulturgeschichtlicb (per esempio di nonostante il suo tono d'insiTzschirner), ed esprime esperienze storicistiche in cerstenza sulla Dekadenzidee to modo analoghe a quelle che fanno capo a Hegel, che impegnano l'opera di Droysen e infine di Ranke 1° ; così quello che a Gibbon appariva il problema del « perché » l'impero 9 Per l'importante Histoire des Rosnains di DURUY cfr. in f ra, p. 20. lo Del RANKE si vedano, soprattutto, il Iii e il iv volume (1883) della W el tgeschichte.

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romano cade, a Burckhardt appare piuttosto il problema del « come » l'impero si trasformi, e tra Marco Aurelio e Costantino si verifichi il passaggio dallo stato romano pagano (nella cui interpretazione Burckhardt era anche illuminato da proposizioni romantiche, per esempio del primo Bachofen) allo stato cristiano. La formula di Burckhardt era stata la « demonizzazione del paganesimo ». La formula di Seeck, a distanza di circa un mezzo secolo da Burckhardt, è tutt'altra; com'è tutt'altra la sua formazione spirituale. La vecchia fenomenologia idealistica dello spirito, e lo storicismo di Ranke, e la Kulturgeschichte di Burckhardt parevano in certo modo spazzati via dalla certezza positivistica del dato storico: senza saperlo, forse, e certo senza volerlo, il positivismo seeckiano tornò alla impostazione illuministica. La formula di Seeck guardava alla decadenza romana in quanto tale; in quella decadenza, non c'era luce, o c'era pochissima luce; per Seeck « ultimo epigono dell'epoca illuministica » ", il tramonto del mondo antico ha la sua origine nella « Ausrottung der Besten », nella « eliminazione dei migliori »; nella sua concezione, gli uomini di questo mondo scardinato dalle fondamenta erano biologicamente condannati a svolgere uno stile peggiore di vita. Così il « basso impero » appariva veramente come basso impero, in un senso non solo cronologico, sì anche morfologico; e l'opera dello storico illustrava la fenomenologia di tale decadenza. Questa Geschichte des Untergangs seeckiana, che narrava la storia del basso impero, ' Essii, « Blz.-neugr. Jahrbb. », 1926,' p. 218; « illuminismo », s'intende, filtrato attraverso l'esperienza positivistica; « apertamente razzistica », secondo KUDRJAVTSEY, « Vestnik drevnej istorii », 1953, p. 38; cfr. in/ra, § 103; LXXIV). - Va rilevato che, con tutt'altro presupposto da quelli seeckiani, la scienza italiana dava, nel 1899, Il tramonto della schiavitù del CICCOTTI: la problematica sociologica della schiavitù moderna (soprattutto CAIRNES) e la grande Histoire de l'esclavage dans l'antiquité del \VALLON (1879 2 ) avevano reso attuale la questione della caduta del mondo antico n quanto società schiavistica.

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dava dunque uno dei due volti della storia imperiale romana; l'altro volto era quello « mommseniano »: ché il quinto volume mommseniano, in quanto guardava al principato, era stato non la considerazione della decadenza, ma la rievocazione della diffusione della cultura romana nelle province. Per studiare il processo nella sua manifestazione continua, fu necessario considerare di nuovo il problema della crisi; considerano con maggiore comprensione e più umana. Intanto la discussa opera del Ferrero Grandezza e decadenza di Roma aveva cercato di disegnare già la storia del principato augusteo come emergente dalla lotta di classe nel periodo delle guerre civili (cfr. in/ra, iii), e una no~ tevole Storia romana di Hartmann e Kromayer (trad. it. 1928 3) aveva tratto - nella parte redatta dal Hartmann - le conseguenze degli importanti studi di questo storico intorno alla configurazione sociale dell'impero (del 1913 è il breve ma mirabile saggio del Hartmann, Kapitel vom antiken und mittelalterlichen Staate). Intanto, la prima guerra mondiale aprì nella nostra storia contemporanea una vera e propria epoca di radicale crisi (come sembra, non meno radicale - e forse più violenta - di quella che sconvolse la cultura antica); e dunque un problema di decadenza si presenta a noi in termini assai più complessi che non alla felice epoca dell'illuminismo gibboniano o del positivismo in cui Seeck ebbe a formarsi. Si sono avute così due opere di eccezionale importanza: Ernst Stein, Geschichte des spiitr6mischen Reiches, i (1928), ii (post., ed. Palanque, 1949) e Michail Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano (trad. it., 1933; l'originale, Social and Economic History o/ the Roman Empire, è del 1926). L'opera di Ernst Stein è veramente una grande visione unitaria della storia tardo-imperiale: Ernst Stein non ha trascurato nulla che giovasse a dare una visione di questa vicenda nel suo complesso; è l'opera di un grande studioso che ha superato così il pericolo dell'atomizzazione

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della storia imperiale come anche il pericolo di un astratto illuminismo; lontano idealmente da Burckhardt, egli tuttavia ha saputo rinnovare (se anche su un piano e con un orizzonte meno speculativo e più limitato) l'esigenza burckhardtiana di raggiungere una visione unitaria dell'impero nelle sue manifestazioni politiche e religiose e culturali. L'opera di Rostovzev era più rivoluzionaria; e forse per-ciò ha avuto uneco maggiore fra gli studiosi: essa guardava soprattutto al principato, connettendosi in molti punti al quinto volume mommseniano, ma arricchendone la problematica non soltanto con una magistrale completa (fino al 1925; al 1932, nella trad. it.) utilizzazione del materiale archeologico, sì anche con una particolare sensibilità, del tutto estranea al Mommsen, al problema della crisi imperiale; la. storia imperiale era interpretata dal Rostovzev come storia della lotta di classe fra contadinisoldati e borghesia cittadina, lotta di classe che si annuncia in certo modo nel 69 d.C.- e che culmina nell'anarchia militare del iii secolo, sicché il basso impero sarebbe l'epoca del « dispotismo di stato » originato dalla rivoluzione contadina e caratterizzato dalla tendenza verso l'economia naturale. La conclusione del Rostovzev poneva un problema quanto mai moderno e attuale; il suo libro si chiudeva con la domanda se ogni civiltà non sia destinata a decadere non appena comincia a penetrare nelle masse. Porre questa domanda significava studiare la storia dell'impero romano come storia della società imperiale. Il compito della storiografia nuova era ormai chiaro: operare una sintesi fra le esigenze di Rostovzev e quelle di Burckhardt; evitare l'atomizzazione della storia dell'impero nella storia delle province, che pareva l'ideale a chi guardasse, unilateralmente, al quinto volume mommsenia no; configurare la storia dell'impero nel suo processo evolutivo unitario, anche sul piano sociologico. E la deca denza? Il problema viene affrontato, naturalmente, nelle

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migliori sintesi di storia romana, repubblicana e imperiale, in genere: soprattutto nella mirabile Histoire de Rome del Piganiol (19391; 1949): « il est très important de comprendre comment l'empire fut fondé... - comment, au sein de cet empire, se son déroulés les conflits entre le peuple conquérant et les peuples vaincus, jusqu'au jour où s'évanouit le souvenir des oppositions raciales (cuncti gens una surnus, dit Claudien), - comment se sont poursuivis, parallèlement aux conflits ethniques, les conflits entre les aristocraties et les masses - comment enfin l'empire suc comba, quand la Méditerranée cessa d'étre l'axe principal du commerce du monde ». Per altro il Piganiol, nel citato L'empire chrétien (1947) della Histoire générale di Glotz, ha concluso dando una interpretazione assolutamente positiva del tardo impero, e dunque assumendo che « la civilistion romaine a été assassinée » dai barbari; una formulazione la quale, come ha poi chiarito lo stesso Piganiol 12, va però intesa, o comunque attenuata, nel senso che la storia dell'impero romano conduce al trasferimento della via dei commerci verso l'Europa centrale e ad uno sforzo di progresso sociale, mentre d'altra parte « cet affaiblissement momentané de l'empire n'échappait pas aux peuples étrangers qui attirait nécessairement l'énorme amoncellement des capitaux que la conquéte romaine avait réalisé dans les contrées méditerranennes ». Una spiegazio ne, dunque, a un tempo economico-sociale (nel senso del Rostovzev, ma con sviluppi diversi e spesso opposti) e geopolitica (un aspetto su cui, anche da tutt'altro punto di vista e in senso del tutto diverso, aveva attirato l'attenzione il medievalista Pirenne). In altri termini: questo recente tentativo, sintetico di una Histoire de Rome per l'epoca imperiale pone ancora l'accento sulla fenomenologia economica-sociale-geopolitica, mentre d'altra parte si 12 PIGANI0L, « Grundiagen und Sinn der europàischen Geschichte», 1951, p. 14.

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rileva, proprio in funzione di questa fenomenologia, la grande importanza della pressione barbarica. E sull'aspetto economico-sociale insistono altre moderne opere di sintesi: così - nonostante le differenze, talora profonde - le parti relative all'impero nella Istorija Rima del Kovalev (1948), nella Istorija drevnego Rima del Mashkin (1947), nella recentissima Istorija drevnego mira di D'jakov e Nikolsk (1952); ed alcuni punti della Geschichte des griechisch-ròmischen Altertums (1948) di Kahrstedt e della Kulturgeschicbte der ròmischen Kaiserzeit (1944) di questo stesso autore; mentre viceversa lo sguardo si allarga al mondo extra-romano nel secondo volume della Ròmische Geschichte di Kornemann (1939), e ancor meglio nella più matura Weltgeschichte des Mittelmeerraumes (ed. Bengtson, ii, 1949) di questo stesso autore. Il guaio è che altri studiosi (Altheim) propongono la formula (già espressa dal Ranke, ma a tutt'altro proposito) della « prevalenza della politica estera »: quasi che la storia dell'organismo sociale, che è lo stato, non sia appunto la storia dell'evoluzione di esso organismo, e del suo travaglio interno spirituale e sociale! Un correttivo è rappresentato, a questo proposito, dalla scuola del compianto Wilhelm Weber, il cui problema principale consiste nella definizione dei valori ideali per cui l'impero romano si avviò a divenire impero cristiano: un illustre rappresentante di questa scuola è oggi lo Straub, del quale si attende con grande interesse la trattazione dell'impero nella Geschichte der Ju-brenden Vòlker; dello stesso Straub abbiamo un'opera Vom Herrscherideal in der Spàtantike, che è oggi, insieme con alcune ricerche sociologiche (specialmente di M. Weber), augustee (per esempio di Gagé; Seston), tardoimperiali (per esempio di Ensslin) 13, quanto di meglio ab-

13 Una più precisa indicazione e discussione di questi lavori, e di altri analoghi, sarà data nel corso di questo libro.

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bia dato la storiografia contemporanea sull'evoluzione dell'idea « charismatica » nel nostro periodo. Qual è la differenza capitale fra la storiografia ottocentesca sull'impero e la storiografia contemporanea? Tolti i due grandissimi ed opposti esponenti della storiografia il « pessimista » (tardo romantico) Burckottocentesca , per il resto si può hardt e il « positivista » Mommsen dire che quella storiografia fu spesso l'espressione di un romanticismo di prima maniera, con tendenza politica assai spesso conservatrice. Questa storiografia ottocentesca, oggi in buona parte dimenticata, è insomma la storiografia di uomini come il conte di Champagny, con la sua opera (Les Césars, -iv, 1841 [ 1853 2 ] ; Rome et la Judée, 1858; Les Antonins, 1-I1I, 1863; Les Césars du III e siècle, -I11,

1870), di tendenza spiccatamente confessionale, vicina per esempio a Chateaubriand; oppure di uomini come il Merivale, la cui History (i-vii, 1850 -1862) era, in fondo, una interpretazione tory della storia imperiale (con l'interessante tesi che la decadenza « dates before the fall of the Republic »), salvo a riconoscere nella vittoria del cristianesimo « la conquista di Roma da parte dei suoi sudditi ». (Un posto a parte nella storiografia ottocentesca sull'impero merita l'importantissima opera di Duruy, nella sua seconda redazione, Histoire des Romains, ITi, 3 - vii, 18801885; Duruy non è un conservatore; è anzi uno spirito altamente liberale; egli vede nell'impero « un progresso dell'umanità »; ma la sua opera è accentrata intorno a quelli che gli appaiono « i due mali » dell'impero, « isolement municipal, centralisation excessive » 14 .) Ad ogni modo, la storiografia ottocentesca sull'impero è, per lo più, una storiografia conservatrice. La storiografia di oggi è altra cosa. Non già che gli storici di oggi siano pericolosi dinamitardi. 14 Si può anche ricordare J. S. ZELLER, Les empereurs romains (1863; 1876 4 ), tutto orientato verso il gusto del portrait senza preoccupazioni critiche.

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Ma è chiaro che per essi l'impero romano, lungi dall'essere la roccaforte della conservazione, è piuttosto l'immagine della disgregazione di un mondo, la -storia della classicità che si disfa e muore: il fatto sociologico più rilevante nella storia della nostra cultura. Anzi, lo storico di oggi può porsi nuovi problemi. Egli ha raggiunto un'esperienza « neoumanistica » la quale, come riesce per esempio a riconoscere motivi tardo-repubblicani (ciceroniani) nella grande tradizione del principato (per esempio in Livio: P. Zancan), così può intendere storia culturale e storia sociale nella loro unità (come nell'importante Nuova storia del Ferrabino; cfr. in f ra, § 3). Inoltre, lo storico di oggi ha dietro a sé, a tacer d'altro, un'esperienza di dottrine economiche, opposte talora negli sviluppi teorici o politici per esempio da una parte Keynes, dall'altra Hayek, dall'altra ancora la speculazione materialistica ecc. ecc. , ma comunque attente all'interpretazione dei grandi fatti sociali. Oggi noi sappiamo cosa significhi, per esempio, la « morte della moneta » (quando « l'acquirente non può più scegliere », Hayek), e sappiamo che il crollo dell'impero romano in Occidente è abbastanza vicino a fenomeni di questo genere: Infine, lo storico di oggi si trova dinanzi a fenomeni che involgono, nel loro complesso, tutta la storia del mondo antico, implicando quella esigenza di « synthèse historique » su cui insiste particolarmente la scuola di Lucien Febvre. Poco a poco, le barriere fra le varie scienze « morali » si avviano a cadere. Le nuove esigenze dello studioso di storia imperiale si connettono con i più stretti rapporti fra ricerca storica da una parte, speculazione sociologica e filosofica dall'altra. Basti considerare, a questo riguardo, le dottrine filosofiche e sociologiche oggi più vive: per es. l'esistenzialismo di JASPERS; la scuola di Max WEBER; il materialismo storico; la dottrina delle « social and cultural dynamics » (in rapporto alle « fluttuazioni storiche ») di SOROKIN; lo « spenglerismo agostiniano » di ToYNBEE; la scuola (per eccellenza - « anti-

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Toynbee ») del già ricordato FEBVRE; ecc. Esse si muovono tutte intorno alla necessità di « contemporaneizzare » la storia antica, conciliando il dramma delle varie culture (al centro delle quali è, per l'Europa, la grande crisi della cultura romana) con la loro continuità nella nostra cultura. L'esistenzialismo di JASPERS ha tentato questa conciliazione sulla base dell'« epoca assiale » (vi-ii sec. a.C.), rispetto alla quale l'impero romano sarebbe « Stabilisierung » della stessa cultura assiale nella sua crisi. JASPERS ha ricevuto molte suggestioni dall'insegnamento sociologico di Max WEBER, di gran lunga il più illustre fra gli allievi di MOMMSEN; e senza dubbio, il problema della caratterizzazione della crisi dell'impero romano è centrale nel pensiero di M. WEBER (anche se noi non accoglieremo la sua dottrina sull'aspetto naturale dell'economia burocratica: cfr. per es. in/ra, 55 87-88). - Il materialismo storico ebbe un certo influsso su M. WEBER, come per es. ha rilevato JASPERS nella sua famosa commemorazione dell'amico scomparso; ma è evidente che M. WEBER (di cui è caratteristico, talora, un capovolgimento del punto di vista materialistico) deve considerarsi a sé. Viceversa, il materialismo storico in quanto tale ebbe a suo tempo un insigne rappresentante nel già ricordato HARTMANN (a cui può aggiungersi, pure già ricordato, il CIccoTTI); oggi, tra i motivi più affinati di materialismo storico, può indicarsi l'interesse rivolto alla caratterizzazione economica delle province orientali in rapporto al resto dell'impero (per es. ultimamente SHTAERMAN, « Vestnik drevnej istorii », 1951, n. 2, 84; KUDRJATSEV, ibid., 1953, n. 2, 37) e ai rapporti fra colonato e schiavitù; diversamente, per es., dal vecchio HARTMANN, le più recenti tendenze materialistiche accentuano lo iato fra mondo antico e medioevo. - D'altra parte, il sociologo S0R0KIN (a cui è particolarmente vicina la bella sintesi storica di ALBRIGHT, Von der Steinzeit z. Christentum, trad. ted. 1949; su Sorokin, ultimamente ALBRIGHT, OP. cit., spec. pp. 92-99), nel suo tentativo di definire le « fluctuations of mentality » della cultura europea con un preciso « quantitative appraisal », ha visto nella storia dell'impero romano l'avvio ad un maximum di « mentalità idealistica ». Su TOYNBEE, in/ra, § 3; cfr. la polemica di BERR e FEBVRE contro di lui.

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3. Considerazioni ulteriori: storia culturale e storia sociale.

Una tale problematica, nonostante le divergenti e spesso opposte conclusioni, è ormai così matura che se ne possono trarre le somme, e proporre un'impostazione complessiva. Anche nei limiti di un « trattato », è necessario tentare questa summa. Innanzi tutto, è chiaro che ormai il vecchio disprezzo dei mommseniani ad oltranza per la « storia degli imperatori » non ha più ragion d'essere: la storia dei vari regni (quando, naturalmente, non si studi come una 'curiosità biografica od erudita) è la storia dello stato imperiale nella sua centralità, e dunque nella sua unità funzionale; la politica dei vari regni ha un senso in quanto essa riflette il vario atteggiarsi e la complessa vicenda dei rapporti fra gli ordines e lo stato imperiale. D'altra parte, le indagini relative alla storia dell'arte durante l'impero hanno rivelato, da Wickhoff e Riegi in poi (la Wiener Genesis di Wickhoff è del 1895, la Spàtròmische Kunstindustrie di Riegl del 1901), la peculiare auto nomia dell'arte romana, e l'avviarsi di essa (come diceva Riegl, con una formula forse discutibile, ma per lo meno indicativa) verso la conquista tardo-romana, soprattutto da Costantino in poi, di una espressività « ottica » l' . Così si è raggiunta l'intellezione più profonda dell'autonomia dell'arte romana attraverso lo studio della tardo-romana; e quel concetto si è rivelato quanto mai fecondo per la storia dell'arte antica in genere, fino agli sviluppi recentissimi (per esempio in Bianchi Bandinelli, o in Bettini, o nella Rdmische Kunst di Herbert Koch, e via dicendo): ed inoltre si è inteso assai meglio in seguito alle nuove scoperte 15

Nello stesso senso, ma dal punto di vista della storia della cultura e filosofia e letteratura greca, da ultimo DIANO, Forma ed evento (1952): dove l'« evento » ellenistico prefigura, se pur a distanza di secoli, l'espressività « ottica » tardo-romana. Cfr. in/ra, App. iii.

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(per esempio delle pitture della Sinagoga di Doura Europos, o dei mosaici di Piazza Armerina). Infine: la storia della società d'epoca imperiale (una società che ci è stata rivelata dalle vecchie e nuove 16 scoperte archeologiche), culmina poi, nella sua pagina più significativa e drammatica, nella storia del passaggio dall'impero pagano al cristiano. Il grande rivoluzionario è Costantino. Come si può chiaramente mostrare (cfr. le nostre osservazioni in/ra, Parte quinta), la sua rivoluzione economica spezzò in due la storia dell'impero romano: prima di lui la storia del denarius, moneta della piccola borghesia ma anche moneta del principato; con lui e dopo di lui la storia del solidus, moneta degli honestiores cui la af/licta paupertas invano si oppone. Nello stesso tempo, Costantino è l'autore della grande rivoluzione religiosa che porta la pace alle chiese. Arte e religione da una parte, storia economico-sociale dall'altra, presentano un perfetto parallelismo. Chi voglia intenderlo, dovrà insistere - tanto più oggi, dopo Keynes e Hayek (supra, § 2) - sul fenomeno della storia sociale in quanto essa si riveli nella storia della moneta; anche così si potrà guadagnare un punto fermo e metodicamente preciso (si osservi che nella mirabile, citata opera del Rostovzev, la storia della moneta è, viceversa, appena sfiorata). Ancor una volta: come ai princìpi di questa scienza, che si volge allo studio del mondo antico nella sua epoca imperiale romana, così ancor oggi la « chiave » dell'interpretazione va cercata nel tardo-impero: in quel tardo-impero da cui cominciava, con Godefroy, la grande storiografia moderna relativa all'impero romano. Ormai è chiaro: Burckhardt aveva ragione, quando intitolava quella sua interpretazione storica dell'autunno del paganesimo, or sono 100 anni, Die Zeit Constantins des Grossen. Ma 16 Per es. Roma (specialmente i fori imperiali), Ostia, Pompei Treviri, Thamugadi, Leptis Magna, Sabratha, Cariiunto, Sardi, Efeso, Antiochia, Baalbeck, Palmira, Doura Europos, ecc.

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la sua interpretazione appare, oggi, in certo modo incompleta: quella vicenda di storia romana ha la sua fondamentale caratteristica non solo nella rivoluzione politico-religiosa di Costantino (che era l'obietto della narrazione di Burckhardt), sì anche nella sua grande rivoluzione economico-sociale, e nella definitiva vittoria del solidus aureus sul denarius. Da questo punto di vista, il contrasto metodico tra una particolare accentuazione della politica interna (Rostovzev) e un maggiore rilievo della politica estera (Altheim) non ha ragion d'essere. Un mondo cade solo se è malato. Ma d'altra parte il malato mondo romano ha dato figure luminose, da Marco Aurelio a Diocleziano a Costantino a Giuliano ad Agostino. Ciò si spiega perché quella crisi rimonta a tutta la grande crisi dell'epoca ellenistica e s'inquadra in essa con aspetti e forme nuove: più o meno come hanno intuito ultimamente, ma con diverso orientamento, lo storico Aymard o il sociologo Toynbee Questo grandioso stato bilingue, questo impero romano di cultura ellenistico-romana ha rivelato, nella « cristallizzazione » tardo-imperiale delle sue forme, i vari riposti motivi della sua complessa vitalità. Per altre storie imperiali comprese in manuali o testi generali relativi a tutta la storia romana, si rimanda a GIANNELLI, in GIANNELLI-MAZZARINO, Tratt. d. st. rom., i, 1965; di esse vanno segnalate - oltre quelle già ricordate sopra (fonda mentale la Histoire de Rome di PIGANI0L, su cui cfr. quanto dicemmo a p. 18; e § 103) -, soprattutto la Storia di Roma di T. FRANK (li; trad. it., 1932); il Mondo romano del PARETI (1933;, divulgativo, ma opportunamente atto a disegnare unità di storia culturale e storia politica); la Italia romana (1934) 17 Per il dibattito su Toynbee, possono essere significativi (in senso radicalmente critico il primo, favorevole il secondo): HAMPL, « Hist. Ztschr. », 1952, p. 449; V0GT, « Saeculum », 1951, p. 557. Utile discussione e letteratura su Toynbee in STADTMÙLLEk, « Sae culum », 1950, p. 165.

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e la Nuova storia di Roma, iii (1948) del FERRABINO (con interpretazione della storia imperiale come storia della libertà borghese) e per ultimo, di grande rilievo, gli Arcana imperii del DE FRANcIscI, 111-1V (1947); molta fortuna ha avuto CARY, A History o/ Rome (1935). Delle storie generali dell'antichità, si ricordino quella del RosTovzEv; la bella sintesi Das Altertum (19492) del TAEGER; fino a Tiberio arriva ora la Histoire générale del CAVAIGNAC (1946); la sintesi di PARIImperia (1949); J. PIRENNE, Les grands courants de l'hist. univ., i ( 1944); ed il i volume del recente FREYER, Weltg. Europas (1948), dove l'accento « europeo » batte sulla problematica di una Europa cristiana; ROBINSON, Ancient History (1951). Naturalmente, le storie di singole ma grandi

BENI,

unità territoriali nell'epoca romana, sono molto importanti per la storia dell'impero in genere: pensiamo soprattutto alle tre più notevoli, la Histoire de la Gaule del JULLIAN, l'Arte e civiltà nella Sicilia antica del PACE, e la recente Roman Rule in Asia Minor, i-ii del MAGIE; cfr. letteratura in/ra, LXVIII e passim. - Nello spirito delle più profonde esigenze umanistiche sono concepite le brevi ma fondamentali considerazioni di BERVE, Gestaltende Kriif te d. Antike (1949), spec. pp. 161, 169, 184. - Per la storia del cristianesimo diamo la letteratura in/ra, xiii. - Per la storia generale della religione romana, rimandiamo a GIANNELLI, in GIANNELLI-MAZZARINO, Tratt. d. st . rom., i, cit.; soprattutto si ricordino il WISSOWA, il TURCHI, lo ALTHEIM (ci sono anche buone trattazioni popolari, per es. la recente di ROSE, [19491); cfr. anche LATTE, Die Religion d. R mer u. der Synkretismus der Kaiserzeit (1927);

altra letteratura in/ra, XXIII. - Per la storia dell'arte, oltre gli autori citati (WICKHOFF; RIEGL; BETTINI, Pitt. Paleocr. [1940]; BIANCHI BANDINELLI, Storicità dell'arte classica [1943]; H. KOCH, Rm. Kunst [19492]) si ricordino, per es., WIRTH, Ròmische Wandmalerei (1934); le indagini sulle catacombe, per es. dello STYGER, Die ròm. Katakomben (1933); (cfr. in/ra App. iii); WEST, Ròm. Portratplastik, i-ii (1933); SCHLUNK, Kunst d. Spàtant. im Mittelmeerraum (1939); SCHWEITZER, Die spiitant. Grundl. d. mittelalt. Kunst (1949;

una conferenza di ampio respiro);

RODENWALDT,

per es. nel

postumo Die Leistung Roms f. die europ. Kunst, « Forsch. u.

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Fortschr. » 1947, p. 33; per il resto, si rinvia alle opere di storia dell'arte antica e ai manuali specializzati, per es. del ROBERTSON (1929) per l'architettura, della STR0NG (1923-25) e dell'ARIAs (1943) per la scultura, ecc. Per la storia della cultura, per es. KLINGNER, Ròm. Geisteswelt (1943); C. KOCH, « Gymn. », 1952 (cfr. anche in/ra, v); le storie dell'educazione, ultima (1948) quella del MARROU; HARTKE, Ròm. Kinderkaiser (1950); nuova letteratura fino al 1950 in BÙCHNER-HOFMANN, Lateinische Liter. u. Sprache (1951). E per la storia della cultura in senso più lato BIRT, Das Kulturleben d. Griechen u. Rmer (1928); e il monumentale FRIEDLÀNDER-WISSOWA, Darstell. aus der Sitteng. Roms, 1-1V (1921-23 10 ). Interessante la storia del libro in epoca imperiale, soprattutto la vittoria del codice sul volumen: dell'enorme letteratura, oltre al vecchio BIRT, si ricordino la Storia della tradiz. del PASQUALI e Books and Readers del KENYON: cfr. in/ra, App. ii. - Anche per via numismatica si può illuminare la storia della cultura: cfr. per es. le monete di anniversarii, illustrate da GRANT, Roman Anniversary Issues (1950). Per la storia economica, si ricordino (oltre il fondamentale ROSTOVZEV e il TOUTAIN, già citati): « An Econ. Survey of Anc. Rome » curato dal FRANK (I-v, 1933-1940; autori BROUGHTON, COLLINGWOOD, FRANK, GRENIER, HAYWOOD, JOHNSON, LARSEN); la parte relativa all'impero in HEICHELHEIM, Wirtschaftsgesch. d. Altertums, i-n (1938); GIESECKE, Ant. Geldw. (1938), p. 161; Italia numismatica (1934; solo fino a Nerone); PERSSON, Staat u. Manu/aktur im rm. Reich (1923: per il tardo impero). Io ho tentato un'interpretazione della storia sociale-economica, soprattutto per il basso impero, in Aspetti sociali del IV secolo (1951). Cfr. altra letteratura, in/ra, passim. - Per la numismatica, la vecchia Doctrina nummorum veterum dello ECKHEL; C0HEN, Description historique des monnaies /rappées sous l'emp. rom.2 I-VIlI (1880 sgg.); soprattutto il MATTI NGLY-SYDENHAM, The Roman Imperial Coinage, 1-111, IV, 1-3, v, 1-2, ix (1923 sgg.); l'opera Roman Coins from the Earliest Times to the Fall o/the Western Empire del MATTINGLY stesso; il VETTER (da Dio cleziano a Romolo); BERNHART, Handb. z. Miinzk. d. ròm. Kaiserz., i-ii (1926); PRIDIK, Rimskie monet'i (1908). Ancora indispensabile il Ròm. Miinzw. del MOMMSEN; cfr. anche

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Introduzione

WILLERS, Gesch. d. ròm. Kup/erpr. (1909; fino a Claudio); BAHRFELDT, Die rcim. Goldmiinzepr. (per Augusto) i (1923); SUTHERLAND, Coins in Roman Imperial Policy (1951) ecc. P, necessario seguire i cataloghi e le pubblicazioni edite dai raccoglitori, per es. dal nostro SANTAMARIA, ecc. Per le greche, fino al 270 d.C., la Historia Nummorum del HEAD e, sempre i cataloghi del British Museum; le Kleinas. Miinzen d. ròm. Kaiserzeit del BoscH; le Alexandr. Miinzen del VOGT; ecc. ' 11 Un aspetto rilevante della storia sociale del principato, il carattere dell'ordine equestre, in A. STEIN, Ròm. Ritterstand (1927). Opere imperniate intorno a un problema fondamentale, come per es. SHERWIN WHITE, The Roman Citizenship (1939), con la sua interpretazione più storicistica ed evolutiva del concetto di cittadinanza, possono considerarsi storie generali della romanizzazione. Esse saranno citate volta a volta (per es., per la storia militare in/ra, xxvi) nel corso di questo libro. Allo stesso modo, dei veri e propri aperus di storia imperiale sono le mirabili opere di CARCOPINO e di PA0LI sulla vita in Roma. Per le istituzioni e il diritto, oltre al già citato Homo, si ricordino i molti testi e manuali di storia del diritto romano o di diritto o istituzioni di diritto romano, per es. ARANGIO Rurz; BIONDI; BONFANTE; CHvosTov; CuQ; Di MARZO; GIRARD; GROSSO; GuARIN0; IGLESIAS; jòRs-KUNKEL-WENGER; KARLOWA; KASER; LoNGo; M0NIER; PERETERSKIJ; PEROZZI; P0KR0vSKIJ; SIBER; SOHM-MITTEIS-WENGER; Voci; WEISS; il Dir. di fam. del VOLTERRA; il Textbook of WILLEMS; Roman Law from Augustus to Diocletian (19502) del TAUBEN18 Il catalogo generale di Coins of the Roman Emp. in the Br. Mus. è opera di MATTINGLY (i-v, 1922-1950). - BOSCH, Tiirkiyenin antik dev. meski2katina dair bibliyogra/ya (1949). - De-

gl stati vassalli è particolarmente importante, dal punto di vistai numismatico, il bosporano: cfr. ora ZOGRAF, Anticn'ie monet'i (1951), e per esempio KAR'ISHKovSKIJ, « Vestnik drevnej istorii », 1953, n. 1 (rec. a ZOGRAF); n. 3, p. 179 (con attribuzione a Kotys i della serie con figurazione del Capitolium); e già i lavori di ORESHNIKOV (per es. in « Izv. Ross. Ak. ist. mat. kult. », 1921), di BERT'E DELAGARD (per es. in « Num. sb.», 1911) ecc.; cfr. anche in/ra, vi. - Per l'iconografia imperiale, cfr. la sempre importante Réimische Ikonographie, u, del BERNOULLI; i vari lavori di DELBRÙK, di L'OltANGE, di WEGNER, di GROSS ecc.

Opere generali sulla storia dell'impero

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SCHLAG; ecc.; importanti (specie per il loro richiamo ad una nuova meno astratta concezione del diritto, per la trattazione dell'auctoritas, ecc.) i Principi dello SCHULZ (trad. it. 1949). Da tener presenti, anche, le indagini sulla giurisprudenza romana, per es. la recente History dello SCHULZ (1946); e il problema, agitato da STROUX, dei rapporti fra giurisprudenza e retorica. - Raccolte di testi per es. nei FIRA(ntiqui) di BRUNS-GRADENWITZ, o nei FIRA(ntejustiniani) di RlccoBoNoBAVIERA-ARANGIO Ruiz. Un libro originale è Ernst MEYER,

Ròmischer Staat u. Staatsgedanke (1938). Cronologia: BICKERMANN, Chronologze (nella « Einleitung » [III, 5] di GERCKE-NORDEN) (1933); il vecchio GOYAU, Chronol. de l'emp. rom. (1898); il LIEBENAM, Fasti consulares imperii Romani v. 30 v. Chr. bis 565 n. Chr. (1909); e ora DEGRASSI, I 'fasti consolari dell'impero romano (1952). Cfr. la voce Consules, del VAGLIERI, nel Diz. Epigr.; HARRER-SUSKIN, « Amer. Journ. Arch. », 1939, p. 278. - Uno strumento necessario all'indagine è, pei principato, la Prosopographia imperii Romani: del DESSAU in prima edizione, di GROAG-A. STEIN (fino alla G) in seconda edizione (gli altri scritti prosopografici speciali saranno citati volta a volta 19 ). Per il basso impero esistono solo tentativi geograficamente o cronologicamente limitati, come per es. quelli del SUNDWALL, di GR0AG e miei; un «surrogato » di PIR sono, per esso, i Regesten del SEECK 20 Per l'epigrafia rimandiamo alle introduzioni; classico il Cours del CAGNAT; un'eccellente appendice di orientamento bibliografico dà ora il DEGRASSI nella recente introduzione di CALABI, L'uso storiografico delle iscrizioni latine (1953); un breve quadro « des connaissances actuelles» è dato ora da R. BLOCH, L'épigraphie latine (1952). Lo studioso, che voglia intendere la storia imperiale, potrà rivolgersi, in primo luogo, alla raccolta del DESSAU, Inscriptiones Latinae Selectae (ILS) voli. 1-111 19 Di questi, il LAMBRECHTS e il BARBIERI hanno particolare rilievo (in/ra, xxvii). 20 Sono in preparazione due prosopografie (una civile, una ecclesiastica) per il basso impero. Le voci prosopografiche di basso impero della RE, le quali normalmente possono considerarsi un « surrogato » della PIR, sono ora affidate, per lo più, ad uno specialista, ENSSLIN.

Introduzione

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(1892-1916); ma s'intende ch'egli dovrà familiarizzarsi presto col CIL e con le raccolte speciali: Inscriptiones Italiae; CAGNAT-MERLIN-CHATELAIN (Tripol. Tun. Maroc.); MERLIN jun.); CHATELAIN (Maroc.); GSELL (Alg.); ESPÉRANDIEU (Gaule, Narb.); HOFFILLER-SARIA (Jugosi.); SESTIERI (Alb.); HAUG-SIXT (Wiirttemberg); THYLANDER (port d'Ostie); D'ORs, Epigrafia jur fdica de la Esp. Rom. (1953). Naturalmente l'epigrafia greca pertinente al periodo imperiale è necessaria né più né meno che l'epigrafia romana; anche qui, lo studioso potrà rivolgersi, in primo luogo, alle IGR del CAGNAT ed altresì alle OGIS, 1-II, e alla SIG 3 li-in (iv indd.) del DITTENBERGER; ma s'intende che egli dovrà familiarizzarsi col vecchio CIG e con le IG e con le raccolte speciali (per es. le pontiche greche e latine del LATISCHEV; le Inscr. Cret. della GUARDUCCI; i DAAI dell'OLIvERIo; per l'Asia Minore i MAMA, i TAM, le Inschr. u. Denkm. aus Bithynien del DÒRNER, gli scritti e le raccolte di epigrafisti come BURESCH, KEIL e VON PREMERSTEIN, RAMSAY, ROBERT, OLIVER, il vii di Sardis [BUCKLERROBINsON], le Forschungen in Ephesos, ecc.; per la Siria il JALABERT-MONTERDE, 1-111; per Olimpia il DITTEMBERGERPURGOLD), ecc.; si seguiranno i supplementi annuali e le riviste principali, per es. AÉ, SEG, « Epigr. » « Hellenica », RÉG ecc. Per l'epigrafia cristiana, innanzi tutto le Inscriptiones Latinae Christianae veteres di E. DIEHL; le Inscript.Christ. urbis Romae; il Recueil per l'Asia Minore del GRÉGOIRE; il Corpus d. griech. chrisilichen Inschr. v. Hellas i, 1 (ed. BEES, 1941); CREAGHAN-RAUBITSCHEK, Early Christian Epitaphs from Athens (1947). - Vanno tenuti presenti i testi semitici, egizii, sasanidi, ecc. - Per la letteratura sui papiri rinviamo alle introduzioni alla papirologia; per es. CALDERINI, COLLOMP, D'OR S, GRADENWITZ, PEREMAN S -VERGOTE,PREI S ENDANZ, SCHUBART. Rassegne papirologiche: per es. « Papyri u. Altertumsw. » (1934), ed. W. OTTO-L. WENGER; «Doxa», 1948, 97; 193 (ARANGI0 Rum); ecc. - Per la moderna storia della storiografia relativa all'impero romano, cfr. le storie della storiografia o dell'antiquaria; per es. di CROCE, di FUETER, di VON BELOw, di WEGNER, ecc.; per i rapporti di Kaisergeschichte e Kirchengeschichte, che già risalgono alla problematica della storiografia eusebiana o di tipo eusebiano, cfr. W. WEBER, Rtim. Kaiser,

Opere generali sulla storia dell'impero

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geschichte u. Kirchengeschichte (1929), in cui l'autore insisteva sulla necessità che il « Profanhistoriker » sia anche « Kirchenhistoriker », insomma che lo storico dell'impero sia anche (e soprattutto) storico del cristianesimo; M0MIGLIAN0, « Riv. stor. it. », 1936 3 il, 23. Per la problematica generale, ANTONI, Dallo storicismo alla sociologia (1940). Sul Gibbon, un'eccellente monografia del GIARRIzz0 (1953), e già MEINECKE nella « Festgabe Tònnies », 1936. Si tratta di un campo di studi sinora assai poco esplorato, basti dire che il nome del GODEFROY non figura normalmente nelle storie, della storiografia e della scienza antiquaria. Recenti scritti di storia della storiografia: Geist u. Gesch. di VON SRBIK, I-Il (1951); FORBES, The Liberal Anglican Idea of History (1952); BERNARDINI RIGHI, Il conc. di filol. e di cult. class. nel pens. mod. (19532 ) ; WEGNER, Altertumskunde (1951); ALPATOV, Politiceskie idei frants. burj. istoriogr. XIX b. (1949); PALAZZINI FINETTI, Storia della ric. delle interpol. (1953); cfr. anche GIARRIzzO, « Lo Spettatore italiano», 1952, p. 485; OESTREICH, « Hist. Ztschr. », 1953, p. 18. - Opere generali sulla cultura romana: ultimamente la « Guida allo studio della civiltà romana antica » diretta ora dall'ARNALDI (I, 1952); il Dopo Costantino (1927) dello stesso ARNALDI è un'eccellente introduzione al rapporto principato-basso impero, su cui qui insistiamo. - Rassegne di storia (epigr.) romana (o particolarmente imperiale) nelle principali riviste: per es. di PIGANIOL nella « Rev. hist. »; di WICKERT, di ENSSLIN, di MILTNER (german.) nella « Klio »; di ARANGIO Ruiz e di G. I. LUZZATTO nei « St. doc. hist. et juris »; di VITuccI nella « Doxa », 1948; ecc. Per le fonti sulla storia imperiale, oltre alle introduzioni alla storia antica (il. vecchio WACHSMUTH; e ora BENGTSON 2; - BRECCIA; MANNI), si consultino il fondamentale PETER, Die geschichtliche Literatur iiber die ròm. Kaiserzeit, I-Il (1897); la Einleitung ti. Quellenkunde del ROSENBERG (1921); la bella sintesi di NIESE-HOHL, Grundriss d. rdm. Gesch. nebst Quellenkunde (1923), pp.Z76-282; 380-385.

Parte prima SAECULUM AUGUSTUM

Capitolo primo

DOPO CESARE

4. Premesse.

In senso proprio, l'espressione saeculum Augustum non indica soltanto il periodo, più che cinquantennale, in cui Ottaviano prima emerse, in circostanze eccezionali e con poteri corrispondentemente eccezionali, nell'effettivo governo della repubblica, e poi - dal gennaio 27 a.C. sempre più chiaramente poté fondare in maniera ufficiale quell'o ptimus status di cui desiderava esser considerato l'auctor. Piuttosto, l'espressione saeculum Augustum fu da taluno proposta, subito dopo la morte di Augusto, per indicare tutta l'epoca che fu segnata dalla sua personalità 1 a cominciar dal suo giorno natale - 23 settembre 63 a.C. - fino al suo giorno di morte - 19 agosto 14 d.C. -; come a dire, in ultima analisi, l'epoca cesariana e quella propriamente augustea; e nella proposta di identificare Con la vita di un uomo tutta l'epoca per cui quella vita s'era protratta, si rispecchiò mirabilmente il significato che il mondo romano amava dare alla sua rivoluzione. Veramente, ai Romani di questo tempo la vita di Ottaviano fatto Augusto (questo titolo egli ebbe il 16 gennaio 27 a.C.) apparve come una realtà religiosa nella quale poteva dunque riassumersi il significato di un'epoca. In ciò si esprimeva la trepida gratitudine dei contemporanei al,

Suet., Aug. 100, 3.

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Saeculum Augustum

l'uomo che aveva superato le guerre civili facendosi aucto del novus status; Cesare, che a noi moderni si presenta come il rivoluzionario creatore di un nuovo mondo sociale e politico, appariva ad essi ancor legato all'epoca delle guerre civili e ai conflitti dei partiti. Appunto auctor novi status - secondo la sua stessa terminologia - si considerava Augusto, e di qui aveva particolare rilievo e significato la sua auctoritas; e con questa la fondazione dello stato su nuove basi, e la salvezza dalle guerre civili. Un motivo ellenistico orientale, il motivo del « salvatore » aòrrzp (o addirittura, alla maniera iranica, del saosjant), si configurava come romana aspirazione ad un novus status, come romana esaltazione dello auctor novi status; alla stanchezza degli uomini si offriva il ao.-c-p nelle apparenze del restauratore. La storia dell'opera di Ottaviano - dal 43 a.C. al 28 a.C., prima; dal 27 a.C. in cui è nominato Augustus, al 14 d.C., poi - va dunque intesa come la storia delle vie per cui Ottaviano fece sboccare la rivoluzione in uno status monarchico, dando ad esso un aspetto formale per eccellenza charismatico (Augustus): il fenomeno è tanto più notevole, se si pensa alla tradizionale ripugnanza dei Romani nel riconoscere, alla maniera elle nistica o persino all'antica (già arcaica) maniera ellenica, la possibilità anche lontana che un uomo - sia pur un eccezionale uomo politico o sinanco un mitico eroe - potesse essere cZo 2 Si compirono in questo periodo importantissime tappe nell'evoluzione della società romana: la rivoluzione si placò nella formazione di un'attiva borghesia, nerbo del principato; anche la vita privata del cittadino rientrò nella nuova concezione dello itato, sì che in certo modo si limitassero le forme quiritarie del diritto privato, 2 Si pensi che l'omerico eto, detto di uomini, può tradursi da Andronico solo con adprimus; inconcepibile sarebbe stata una traduzione, per es., con divus, o simili. Cfr. soprattutto la problematica proposta da C. KOCH negli scritti citati e discussi in/ra, v.

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Dopo Cesare

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e per esempio il matrimonio si intendesse, sin dagli ultimi anni dell'impero augusteo, in funzione statale oltre che familiare; si fondò stabilmente il modo di estrazione e di reclutamento della nuova classe dirigente; si ordinò su criterii definitivi il nuovo esercito romano; nonostante un notevole aumento di prezzi (e corrispondente diminuzione del tasso di interesse), si fondò su basi definitive il sistema monetario centrale dell'impero, accanto alle varie monetazioni autonome ad esso coordinate; si fissò l'ordinamento tributario. Fu tutta una costruzione politico-costituzionale, la quale ebbe vita per tre secoli,, i primi tre secoli dell'impero, e solo in epoca costantiniana, dopo le guerre civili del iii secolo d.C., ebbe una sua radicale trasformazione. L'uomo che compì questa sì grandiosa costruzione politico-costituzionale era il figlio (adottivo) di Cesare, si muoveva nel segno e nel solco di Cesare, ma con una fredda tenacia, che Cesare non aveva. Per una strana inversione, molti moderni sono indotti a vedere in Ottaviano il « ciceroniano », nel suo collega e avversario Antonio il rivo luzionario per vocazione; ma in verità il soldato Antonio è ancora uomo dell'epoca delle guerre civili - mentre il politico Ottaviano è, viceversa, l'astuto ed audace affossatore di quell'epoca. 5. « Élite », popolo, legioni.

L'uccisione di Cesare non risolveva i problemi dello stato romano e della rivoluzione. Al contrario, li riproponeva con maggiore gravità. Quella uccisione era un ideale da tragedia (tyrannoktonia) passato dalle scuole degli stoici e dei retori nella curia di Pompeo. Ma essa avrebbe avut significato e peso politico solo in rapporto all'effettiva o rispondenza della élite che aveva espresso i « tirannicidi » alle varie ed ormai consolidate componenti della lotta politica nello stato romano. Or quale era la consistenza etica, e la coerenza morale di quella élite? Accanto ai senatori

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di antica familiare tradizione, e che più direttamente erano responsabili della congiura contro Cesare, stavano nella Curia i nuovi senatori cesariani; ucciso il dittatore, restavano gli interessi che il dittatore aveva saputo costituire, così attorno al vecchio come attorno al nuovo ceppo della classe senatoriale; e di quei costituitì interessi, non era facile sminuire la solidità. Moltissimi esponenti di questa classe dirigente erano stranamente caratterizzati da una incertezza di ideali politici, che poteva anche diventare opportunismo; vale a dire, « obbedienza alle circostanze », necessitati parere, che certamente poteva ben formularsi con ogni varietà di formule stoiche od epicuree. Un autorevole studioso dell'epistolario di Cicerone (Carcopino) ha di recente riscontrato nel grande arpinate tutti i « difetti di un uomo di stato », soprattutto mancanza di ardenti convinzioni e di fermezza e coraggio; ma bisogna pur riconoscete che tali caratteristiche, se anche vogliano attri buirsi a Cicerone, tuttavia possono meglio definire, per una parte notevolissima, l'attitudine della classe dirigente in questo critico periodo dello stato romano. Proprio la formula, che necessitati parere sem per sapientis est habitum,

la quale si trova in una lettera ciceroniana del 46 a.C., può far da etichetta per la gran parte della classe dirigente romana; ed anzi Cicerone, per il suo stesso dottrinarismo, appare - come mostrerà il seguito della narrazione - un intellettuale idealista, capace di uscir fuori dai limiti di quella generica etichetta. Né poteva aver efficacia il richiamo ad un minore luxus, e ad una maggiore osservanza delle tradizioni aristocratiche romane, come, in questo critico anno 44 a.C., nel periodo di scoramento che seguì l'effettivo insuccesso della uccisione di Cesare, Cicerone lo delineava nel De o/ficus (un'opera che pu considerarsi il manuale destinato alla classe dirigente romana); nonostante il De o/ficus, nonostante l'apparato ideologico della libertas, la classe dirigente romana era sostanzialmente Ca-

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ratterizzata da quei due fondamentali motivi: luxus e necessitati parere (la stessa vita cittadina, che Cicerone, nel De o/ficus, voleva caratterizzata da un'urbanistica meno « estetica » e più produttiva, sempre più si orientava verso quel fasto e quel luxus e quella « estetica », in cui il greco Strabone vedrà poi il segno dell'urbanistica greca in contrapposto alla tradizionale romana). D'altra parte, la proletarizzazione di gran parte fra i cittadini romani, e la crisi economica che era un portato delle guerre civili, avevano finito per contrapporre in maniera sempre più evidente da una parte l'ordine senatorio e i più ricchi cavalieri - vale a dire quelle classi, dalla cui concordia ordinum Cicerone si attendeva una restaurazione sicura della repubblica e dall'altra la plebe romana, e italiana in genere; particolarmente la plebe urbana di Roma, la cui « pubblica opinione » aveva un notevole peso nella lotta politica (e nella quale i collegia avevano rappresentato il principale punto d'appoggio per Cesare), si muoveva, volta a volta, sotto l'impulso di sollecitazioni demagogiche, che avevano sì l'apparenza di ideologie più o meno precisate, ma in realtà si polarizzavano attorno a delle personalità più ricche o fortunate od illustri nell'ambito della classe dirigente. In queste condizioni l'esercito, del quale le guerre civili avevano rivelato la decisiva importanza, si configurava come una forza che poteva far pendere la bilancia del successo da quella parte verso cui la promessa di ricompense o il prestigio di un uomo più facilmente lo faceva rivolgere; si configurava, insomma, come la risultante di forze che attendevano sistemazione e compenso dai singoli capitani che l'assoldavano; sì che proprio da questa vicenda, nella quale il passaggio delle legioni dall'uno all'altro dei warlords (Syme) era un fenomeno tutt'altro che infrequente, si caratterizzava il conflitto delle varie fazioni, al di là delle formule ideologiche che l'una o l'altra tendeva a rappresentare. Le componenti sociologiche erano, tuttavia,

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chiare: la rivoluzione, un portato dei proletarii- soldati e della plebe romana; la conservazione illuminata e progressi va, della borghesia equestre e della piccola borghesia italiana (cfr. in/ra, App. i, n. 10); la conservazione repubblica na, della classe dirigente senatoria. Già la stessa sera del 15 marzo Antonio poteva constatare con gioia l'eccitazione delle classi rivoluzionarie - milites e plebs - contro i congiurati: ce lo fa sapere uno degli stessi congiurati, Decimo Bruto (Cic., Ad fam. xi, 1). 6. L'&ivirrx del 17 marzo e le ulteriori vicende del 44 a.C.

L'euforia dei congiurati dopo la morte di Cesare durò meno di un giorno: D. Bruto, alla mattina del 16 marzo, si prospettava la necessità, o la possibilità, di una fuga dall'Italia (cedendum ex Italia arbitror). Non già che i capi cesariani chiedessero subito la ultio del grande ucciso. Anzi, Antonio - console del 44 a.C. insieme con Cesare, ed ora rimasto unico console - mostrava di saper bene dominare i suoi nervi. A Dolabella, Cesare aveva assegnato il consolato per quel periodo del 44 a.C. che sarebbe seguito alla sua partenza per la spedizione partica; ora, Dolabella temeva che la designazione cesariana fosse annullata e perciò si sbracciava a dichiarare - egli sincero e convinto cesariano - la sua solidarietà coi congiurati. Un'applicazione conseguente del programma dei congiurati fu sostenuta da taluno, nella riunione del senato il 17 marzo: per esempio, fu sostenuta da un senatore di antico ceppo - di un ramo separato dei Claudii - Tiberio Claudio Nerone; ma era chiaro che uomini come Dolabella non avrebbero mai potuto avallare l'abolizione degli atti di Cesare, e che anzi tutto il senato doveva esser solidale nella conferma di quegli atti, in cui per esempio si trovava l'assegnazione della Gallia Citeriore al congiurato D. Bruto, per il 44 a.C. Senza dire che i veterani e la

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plebe, fedeli all'ucciso, ammonivano, col loro atteggiamento ostile, a non deliberar nulla di decisamente anticesariano. In queste condizioni, la seduta senatoriale del 17 marzo si concluse con una soluzione moderata. I due uomini più eminenti che la condussero, il console Antonio e il grande oratore Cicerone, potevano dirsi, alla sua fine, entrambi contenti; difensori rispettivamente dell'idea ce sariana e della congiura anticesariana, essi trovarono (e il suggerimento fu di Cicerone) soluzione ai contrasti nella formula, di origine greca, della &va'r: fossero validi gli atti di Cesare, anche quelli reperibili fra le carte di lui, che Antonio avrebbe cura di pubblicare; si vietasse ogni accusa, e si concedesse appunto « amnistia », per l'uccisione di Cesare. L'applicazione di questo concetto greco dell' &r1a'tx aveva grande importanza (per esempio essa sarà pur evidente più tardi, a distanza di poco meno che tre secoli, quando il senato, in piena costituzione del « principato », dovrà affrontare nel 238 - in nome di una restaurazione che potrebbe dirsi « quasi repubblicana » - le resistenze e i tumulti urbani di Roma: cfr. in/ra, § 62). Ma ancor maggiore importanza aveva, nella seduta del 17 marzo 44 a.C., il riconoscimento della validità degli atti cesariani: anche di quelli che Antonio avrebbe trovato fra le carte lasciate dallo spento dittatore. Il console Antonio aveva salvato la pace e 1'&via-tx si sanzionava privatamente nei banchetti che egli e Lepido offrirono a Cassio e Bruto. Il 18 marzo lo stesso Antonio aprì il testamento di Cesare. Fu un nuovo colpo contro i congiurati, ma anche in Antonio quel testamento poté destare apprensioni. Cesare lasciava un legato di 300 sesterzii a testa alla plebe urbana (150 000 gratificati? 300 000?) e questo era un elemento atto ad eccitare la memore ammirazione della plebe per il dittatore scomparso. Ma in quel testamento era anche il nome dell'uomo prediletto da Cesare: Gaio Ottavio, pro-

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nipote di Cesare per parte femminile, designato figlio adottivo di Cesare, e suo erede per tre quarti (dell'altro quarto erano eredi due cesariani, Pinario e Pedio). Or di fronte all'adozione di Gaio Ottavio, scompariva ogni altro vantaggio di Antonio, quale poteva derivargli dalla sua riconosciuta posizione di uomo eminente fra i cesariani e dal notorio suo avvicinamento a Cesare negli ultimi tempi (nel testamento, tanto Antonio quanto il congiurato Decimo Bruto figuravano come secondi eredi; anche questo, un tipico aspetto di quella contraddittoria situazione che recentemente è stata definita « una delle due fonti della tragedia di Cesare » 3) Il testamento, insomma, poneva nell'ombra il nuovo aspirante alla successione politica di Cesare, il console Antonio, mentre dava risalto al figlio adottivo, que sto Gaio Ottavio, giovinetto non ancora diciannovenne, di origine equestre, oriundo da Velletri. L'ultima decade del marzo 44 a.C. si svolse sotto il segno dell'esaltazione ple beia per il grande morto, Cesare parens patriae; non il discorso di Antonio pei funerali di Cesare (20 mar. 44 a.C.), ma quell'esaltazione religiosa fu all'origine delle sedizioni popolari, che nell'aprile trovarono il loro capo in un sedicente nipote di Mario (fu innalzata un'ara sul luogo in cui Cesare era stato cremato); sinché alla fine il console Antonio punì aspramente quel movimento mezzo anarchico. Ma le vere preoccupazioni di Antonio non erano da quella parte. L'esaltazione popolare per Cesare era ragione di spavento, naturalmente, a Bruto e Cassio, che difatti fuggirono da Roma, e a Cicerone, che si recò a villeggiare a Pozzuoli; ad Antonio, viceversa, era assai più grave e seria preoccupazione l'annunciato arrivo di quell'altro, che non era né un « antoniano », né un amico dei congiurati, ma solo' e soprattutto il figlio adottivo di Cesare: Gaio Ottavio, l'uomo che Cesare avrebbe voluto suo magister equitum nella spedizione partica. ALFÒLDI,

Studien iiber Caesars Monarchie (1953);

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Cesare non aveva scelto male. Il giovinetto Ottavio era, a 18 anni, un politico consumato. Alla notizia del cesaricidio, avrebbe potuto tentare la ultio del padre adottivo, alla testa dell'esercito macedone. Ma le decisioni affrettate non erano nel suo stile. Nato nel 63 a.C., nell'anno della congiura di Catilina, quel giovinetto apparteneva ad una generazione che talun moderno, quasi e contrario, potrebbe chiamare la « generazione. felice », quella in cui si imparavano in un anno le cose che altre generazioni possono apprendere in dieci. Queste generazioni di precocis simi possono dar sorprese che sarebbero inconcepibili in tempi normali; sorprese tanto più facili a realizzare, quando l'interessato è addirittura il figlio di Giulio Cesare dittatore; né, in questi casi, l'ambizione sfrenata di un Antonio può fermare l'attesa impaziente ma prudente di un Ottavio. Antonio pensò allora che era necessario far denari, guadagnarsi soldati; di tra le carte di Cesare trovò (o, piuttosto, finse di trovare) decisioni che gli permisero di distribuire favori, ricevendone alti compensi; e col denaro procedette ad arruolamenti di veterani di Cesare. D'altra parte, non aveva alcuna intenzione di dar a Gaio Ottavio quei tre quarti dell'immensa eredità cesariana. Sperava, con certo suo abile « giuocare » (Cicerone lo chiamava appunto aleator), di tener buoni i conservatori, di addormire gli amici dei congiurati fuggiaschi, sì da garantirsi, con le truppe dei vecchi soldati cesariani, il controllo della situazione; incitato a ciò, del resto, dalla moglie Fulvia (già sposa dei due più eminenti fra i demagoghi: Clodio e Curione), e dal fratello Lucio Antonio, il quale si metteva in vista con una ennesima legge agraria. Ma le difficoltà di Antonio erano proprio in questa complessità della situazione; per cui da una parte bisognava tener a bada i conservatori, dall'altra metter nell'ombra quell'importuno intruso gipvinetto, Gaio Ottavio; tanto più che dietro questo ultimo stava Gaio Marcello (il quale ne

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aveva sposato la sorella). La forza dei conservatori era nell'esercito di Decimo Bruto, che teneva la Cisalpina, « acropoli » del senato (Appiano); il cervello del loro « partito » era in Cicerone, cui l'aleator Antonio appariva sempre più infido e pericoloso; quando i comizii tributi votarono (1 o 2 giu. 44 a.C.) una lex de permutatione provinciarum, per

mezzo della quale Antonio riceveva, per il 43-39, le Gallie Cisalpina e Comata (in luogo della Macedonia che gli sarebbe spettata), il piano ch'egli si proponeva fu evidente: la lex tribunicia de permutatione provinciarum era un'imitazione della lex Vatinia del 59 a.C. per Cesare. Tuttavia, Antonio voleva salvare la pace: verso l'agosto (o fine luglio) Creta e Cirenaica furono assegnate, come province pretorie per l'anno 43 a.C., a Bruto e Cassio. Ma questi risibili compromessi non facevano che inasprire il dissidio. Due legioni di Macedonia, che Marco Antonio aveva richiamato nell'Italia, si ribellarono a lui e passarono sotto le insegne di Gaio Ottavio; il nuovo arrivato, il figlio di Cesare, preparava, privato consilio et privata impensa, il suo esercito; l'i novembre 44 a.C. fece intendere che quel l'esercito poteva mettersi a disposizione dei conservatori. Mentre Cicerone pronunciava contro Antonio la terza e la quarta Filippica (20 dic.), Antonio era già partito da Roma (notte 28/29 nov.) per strappare la Cisalpina a Decimo Bruto. Cicerone otteneva che il senato dichiarasse nulla la lex de permutatione provinciarum (de provinciis): una

deliberazione senatoria si opponeva ad una deliberazione popolare. Decimo Bruto dichiarava che egli terrebbe la Cisalpina in senatus populique Romani potestate. I conservatori cercavano di tirar dalla loro parte il figlio di Cn. Pompeo: S. Pompeo, praefectus classis et orae maritimae.

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Cap. I. 7.

Dopo Cesare

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Dalla guerra di Modena al trattato di Bologna.

La guerra di Modena fu il capolavoro politico di Cicerone: e fu anche la fallita prova di un'ideologia di libertas repubblicana affidata al figlio ed erede del dittatore. Decimo Bruto era assediato a Modena da Antonio, che cer cava invano di ribellare le legioni contro di lui; ma ad Antonio si opponevano le forze legali dello stato, rappresentare dai due consoli del 43 a.C., Irzio e Pansa, e da Ottaviano con imperio propretorio. Le battaglie di Forum Gallorum e poi di Mutina (21 apr. 43 a.C.) liberarono Decimo Bruto dall'assedio. Antonio si ritirò: era questa, per Cicerone, « la vittoria del populus Romanus ». Ma nei combattimenti Irzio era morto, Pansa mortalmente ferito; Decimo Bruto, liberato dall'assedio, non era riuscito ad attaccare Antonio, che aveva condotto mirabilmente, a marce forzate, la sua ritirata. Ben a ragione Cicerone si dichiarò insoddisfatto della condotta della guerra; le forze della libertas avevano saputo vincere, ma non sapevano sfruttare la vittoria. Ad un tratto si verificò il fatto nuovo, anzi una complicazione di fatti nuovi: Ottaviano chiedeva il consolato, e si guastava coi conservatori, naturalmente riluttanti a « bruciare » la legalità in un modo così inatteso; intanto Lepido, il vecchio cesariano, che aveva imp. proc. per la Gallia Narbonese e per la Spagna Citeriore, dopo una lunga alternativa si era riconciliato con Antonio, giustificandosi col dire (ed era, in sostanza, vero) che le sue truppe non avevano voglia né animo di urtarsi con le forze di Antonio. Con un colpo di stato, Ottaviano si fece nominare (in. 19 ag. 43 a.C.) console, e suo collega nel consolato fu l'altro erede di Cesare, Quinto Pedio; da Quinto Pedio fu proposta una legge con cui si condannavano alla interdictio aqua et igni i cesaricidi; 1' &iva'dx del 17 marzo 44 a.C. era cancellata con un colpo di spugna. Automaticamente, tutta la costruzione politica di Cicerone caeva; e all'ultimo tenace difensore della libertas antica d

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non restava che constatare (come poco prima aveva scritto a Marco Bruto, dopo averlo invano esortato a intervenire con le sue truppe in Italia) quanto fosse stato repentino il voltafaccia di quell'Ottaviano « per il quale, mentre era giovinetto e pressoché fanciullo, la repubblica aveva accolto la garanzia » di lui stesso, Cicerone. Tuttavia, il) quella lettera a Marco Bruto, ancora Cicerone mostrava di sperare: diceva che, in ultima analisi, la sua fiducia nel diciannovenne figlio di Cesare non era stata gran temerità: in fondo, nel garantire per la lealtà di Ottavio alla res publica, egli, Cicerone, aveva obbligato « più lui, per il quale diedi garanzia, anziché m stesso ». Ancor una volta, non voleva confessare, quest'uomo d studio e di antica devozione agli ideali, che quell'errore aveva potuto esser fatale. Vero è che l'essersi appoggiati al figlio di Cesare, per combattere contro i cesariani, era un po' nella natura delle cose, ma era anche un segno della irrimediabilità" della crisi, della difficoltà di offrire uno stabile e sicuro praesidium alla crisi dello stato (labenti et inclinatae paene rei publicae); e Cicerone lo sperimentò presto, ché nell'agosto seguì la riconciliazione fra Antonio e Gaio Ottavio, di lì a due mesi la stipulazione, vicino a Bologna, di un trattato fra Antonio, Lepido ed Ottavio. Il trattato privato ebbe sanzione costituzionale subito dopo, mediante un plebiscito (lex Titia de III viris rei publicae constituen dae consulari potestate creandis); i tre ricevevano poteri triumvirali per un quinquennio, sicché la lex Titia (27 nov. 43 a.C.) scadeva al 31 dicembre 38 a.C. Si ebbe così il « secondo triumvirato »: furono divise le province (ad Antonio la Gallia Comata e la Cisalpina;a Lepido, la Narbonese e le due Spagne; a Ottavio, l'Africa, la Numidia, le isole); il consolato deposto da Ottavio per il triumvirato era assunto dall'« antoniano » fervente Ventidio Basso; confermato il consolato dell'autore della lex Pedia contro 1'v-, Q. Pedio. Ed ora, ultimo co

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Dopo Cesare

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ronamento della lex Pedia e del trattato di Bologna, seguirono le proscrizioni: la classe dirigente dello stato falciata, con la condanna di forse 300 senatori e 2000 cavalieri dei ricchissimi; con le confische dei loro beni, i triumviri avevano nuovo denaro per la guerra che si annunciava da combattere, l'ultima e decisiva, contro i cesaricidi nei Balcani. La vittima più illustre di quelle proscrizioni fu Cicerone, il quale così pagava « quella divina, ma per lui rovinosa, seconda Filippica » (Giovenale), ed insomma scontava con la morte tutta la sua aspra e appassionata lotta in difesa della res publica e della libertas. Egli può essere considerato vittima della sua illusione, che il figlio di Cesare fosse una creatura dei suoi consilia: illusione tragica - e sia pur generosa e nobile. Mai come in questo caso un giudizio sull'uomo appare possibile, solo se lo si inquadri in tutta l'età sua. Taluni giudizi negativi su Cicerone, come quelli pronunziati dal Mommsen, od anche - come già si accennava - dal Carcopino, possono valere soltanto se riferiti alla generale impossibilità di difendere in questo periodo e in queste condizioni, la vecchia classe dirigente romana, ormai troppo diversa dall'antica nelle diverse condizioni dello stato; e quanto al resto, alla personalità di Cicerone non può contestarsi volontà decisa di difendere una veneranda tradizione. Le sue con« , traddizioni vanno spiegate e intese in questo senso: prima fra tutte .e fondamentale, quella per cui egli, che pur nel De o/ficus richiamava alla tradizione romana per la quale l'uomo di stato è innanzi tutto guerriero prima che politico, tuttavia nell'intimità (e specialmente ora nella vecchiaia) si dichiarava pronto a difendere la repubblica col suo pensiero, più che col suo braccio: egli creava così quell'immagine dell'uomo di studi che diventa uomo politico (e non viceversa) la quale - in taluni casi con un maggior equilibrio di pensiero e di azione - sarà proseguita, nell'impero, da uomini politici di prim'ordine, come

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per esempio l'imperatore Claudio. L'il maggio 44 a.C., egli aveva scritto all'amico Attico la frase (che comunemente gli si rimprovera) « è preferibile ogni cosa piuttosto che i castra »; e tuttavia ora, compiutasi la guerra mutinense da lui soprattutto voluta, e compiutasi - nonostante la vitj toria di Modena - con suo danno, veramente seppe morire; e preso dal « tedio della fuga e della vita », il 7 di. cembre del 43 a.C. si lasciò uccidere dagli uomini di Antonio.

Capitolo secondo DALLA «POTESTAS» TRIUMVIRALE ALLA «POTESTAS» ECCEZIONALE DI OTTAVIANO

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Bellum Philippense e Bellum Perusinum.

Il 43 a.C. si chiudeva, il 42 a.C. si apriva tra il terrore e il sangue. Nei Balcani e in Oriente i cesaricidi avevano conseguito grandi successi. Già verso la fine del 44 a.C. Bruto si era impadronito della Macedonia, Cassio della Siria: entrambi con assoluto disprezzo di ogni forma legale (eo iure - diceva Cicerone - ut omnia quae rei pubiicae sai utaria essent legitima et iusta haberentur). Nel febbraio 43 a.C. Bruto aveva ricevuto dal senato l'in. carico ufficiale di difendere Illirico, Macedonia, Grecia. A fine aprile 43 a.C. Cassio era stato nominato ufficialmente governatore di Siria, con un imperio eccezionale, da cui dovevano dipendere gli altri governatori asiatici. Così il dominio dei cesaricidi ifi Oriente era stato legalizzato, ai tempi della guerra di Modena; e già nel marzo 43 a.C. Bruto aveva fatto prigioniero il propretore di Macedonia G. Antonio. Verso il luglio 42 a.C. Cassio si sbarazzava del proconsole' di Siria Dolabella. La guerra mortale fra i Che Dolabella dovesse governare la Siria come proconsole, si sapeva già ai primi tempi del suo consolato, nell'aprile 44 a.C. La provincia, dunque, gli era stata assegnata da Cesare: ordinando, in vista della spedizione partica, le magistrature in pluris annos (anche i consoli del 42 a.C.), Cesare avrà pur ordinato le promagi strature più importanti ai fini di quella spedizione - e nessuna era così rilevante come il proconsolato di Siria (diversamente STERN-

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cesariani e cesaricidi fu decisa a Filippi, nella Macedonia orientale. Qui nell'ottobre 42 a.C. Antoniò e Ottaviano si scontrarono con Cassio e Bruto. In una prima battaglia Ottaviano fu sconfitto da Bruto e per poco non fu fatto prigioniero, ma Cassio, sconfitto da Antonio, si uccise; nella seconda battaglia, anche Bruto ebbe la peggio, e si uccise. Antonio era il vero vincitore di Filippi. Ma egli non seppe, o non volle, esautorare il suo compagno d'armi (ciò che viceversa Ottaviano, il rivoluzionario senza scrupoli, farà con Lepido nel settembre 36 a.C.). Ottaviano restava per Antonio, in quel momento di suprema gioia per la ultio del grande capo ucciso, il figlio del dio Cesare. Tuttavia, Antonio conservava una posizione preminente. In Occidente, egli ebbe le Gallie e la parte orientale dell'Africa; Ottaviano, le Spagne, la parte occidentale dell'Africa, le isole di Sicilia (già occupata da Sesto Pompeo sin dall'autunno 43 a.C.) Sardegna, Corsica (che Sesto avrebbe occupate in seguito); nella divisione delle province, Lepido era messo da parte, sotto l'accusa di aver sostenuto Sesto Pompeo. In Oriente, Antonio era signore assoluto, in quanto questa parte dell'impero si considerava non pacata. Una diffusa opinione - il « cliché » a noi tramandato di Antonio - fa di lui un ellenistico amatore dell'Oriente, e così spiega la sistemazione delle province dopo Filippi; come tutti i « clichés », anche questo contiene, almeno in parte, un errore. Antonio sapeva bene che l'anima dell'impero era l'Italia, tanto vero che il 29 novembre 44 a.C. aveva preso l'iniziativa della guerra modenese, per il dominio della Gallia Cisalpina, « acropoli » dell'Italia. Antonio era soprattutto un imitatore di Cesare: egli sognava la grande guerra partica, che il cesaricidio KOPF, « Hermes », 1912, p. 355). Cassio, attaccando Dolabella, implicitamente rifiutava le conclusioni della seduta senatoria del 17 mar. 44 a.C., la quale considerava validi gli atti di Cesare.

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aveva stroncato sul nascere, e credeva che la sua posizione eminente sarebbe stata garantita dal suo compito di pacator orbis (per ciò l'Oriente era considerato « non pacato »), compito che il poeta Virgilio - seguace dell'antoniano Asinio Pollione - gli ha ancora assegnato (cfr. in/ra, App. i, n. 10) nella iv ecloga, scritta nel 40 a..C. Del resto, egli aveva in Italia, appunto, il suo fido amico Asinio Pollione, il quale controllava la Cisalpina, ormai considerata parte d'Italia e non più provincia; ed aveva in Italia i suoi veterani. La distribuzione delle terre d'Italia ai veterani, che non si limitò soltanto a deduzioni coloniarie, era un compito difficile e ingrato, affidato a Ottaviano. Questi veterani - 170 000 uomini, poi circa 210 000 - divenuti così dei bravi contadini accasati, sono una piccola percentuale dei civium kapita di tutto l'impero (cittadini romani maschi adulti), i quali, se nel 69 a.C. assommavano ancora a 910 000 kapita (ma forse con l'inclusione di pupilli pupillae et viduae?), viceversa in questo periodo erano aumentati di molto, in seguito alla estensione della civitas e alla creazione di colonie e municipii ad opera di Cesare: sicché nel 14 d.C. i civium kapita dell'impero (maschi adulti; esclusi pupilli pupillae et viduae) sembrano assommare a 4 100 900 2; e nel periodo della guerra filippense avran 2 È il numero dato dai Fasti Ostienses (1.1. xiii, 1, cur. DEGRASSI, p. 185). Generalmente (quando non si pensa, il che sareb-

be assurdo, ad un errore dei FO), si suole interpretare questo numero come quello dei soli cives Romani residenti in Italia; in questo caso, i 4 937 000 di Res gestae, 8 sarebbero i cives Romani di tutto l'impero (cfr. FUHRMANN, « Arch. Anz. », 1941, pp. 473-474). Il mio calcolo deriva da una diversa interpretazione della divergenza tra FO e RG. In realtà, noi non abbiamo alcun elemento il quale ci autorizzi a ritenere che nei censimenti augustei si facesse distinzione tra civium kapita d'Italia e civium kapita residenti nelle province: per antica tradizione, i civium kapita erano censiti unitariamente, nei tempi più antichi facendo confluire tutti i civium kapita a Roma (Vell., n, 7), e in seguito - definitivamente ad opera di Cesare (cfr. K0RNEMANN, trad. it. in « Bibl. Stor.

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no potuto assommare, diciamo, a ± 3 000 000/3 200 000 kapita, vale a dire (sempre considerando l'approssimativita di questi calcoli) a circa 18-15 volte i veterani accasati in Italia. E tuttavia: quei 170 000/210 000 veterani cui la pertica dell'agrimensore dava in Italia un compenso per la vendetta del divo Cesare, erano, in mezzo ai ± 3 000 000/3 200 000 di civium kapita dell'impero (± 2 000 000 in Italia?), il presidio italiano della rivoluzione vittoriosa. I lamenti della borghesia espropriata dei Virgilii, dei Properzii, dei Tibulli - erano talora conditi di riverenza per il giovine Cesare, il quale - mediocre soldato, ma spietato politico - aveva fatto mozzare la testa al cadavere di Bruto, e mandarla a Roma, ammoniEcon. », Iv, pp. 506-507) - surrogando i magistrati locali al censore urbano. Io non riesco a vedere come la formula dei Fasti Ostienses, secondo cui nel 14 d.C. c(ensa) s(unt) c(ivium) R(omanorum) k(apitum) (quadragies semel centum milia) DCCCC possa non comprendere, putacaso, i romani patres familias di Urso • Turris Libisonis o Taormina o Siracusa o Arelate o Forum lulii • Salona o Filippi ecc.: un calcolo che escluda questi patres familias non sarebbe affatto un calcolo di civium Romanorum kapita, non avrebbe insomma alcun senso giuridico. Per spiegare la differenza tra il numero dato in FO e il numero dato in RG, è dunque necessario rifarsi al concetto romano di censimento. Cosa è, dal punto di vista giuridico, un census romano? É il census di tutti i patres familias (soggetti a servizio militare) con i loro figli maschi adulti (&v f3-tt) ugualmente soggetti a servizio militare (infatti, un pater familias che ha un figlio maschio adulto è duicensus); quando il pater familias è morto, i pupilli pupillae viduae vengono censiti a parte (ai fini della tassazione: ultimam. GABBA, « Ath. », 1949, p. 187) in un elenco di orbi et orbae (ossia pupilli pupillae et viduae). Le nostre fonti in alcuni casi preferiscono dare il numero inclusivo dei p.p. et v., in altri danno il numero esclusivo. Livio, in due casi, ha precisato che egli dà la somma senza contare orbi et orbae (pupilli pupillae et viduae): praeter orbos orbasque (iii, 3,9 per il 465 a.C.), praeter pupilios pupillas et viduas (epit. 59, per il 131 - 130 a.C.). Evidentemente, in altri casi i censi a noi pervenuti attraverso Livio danno somme delle quali non sappiamo se comprendano o no i pupilli pupillae et viduae. Se si pensa al tradizionalismo giuridico dei Romani (cioè al senso della storia romana), si intenderà bene che l'uso di censire a parte i pupili pupillae et viduae dovette anche conservarsi nei censimenti di Augu-

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mento a quelle borghesie cittadine che dopo le idi di Marzo non avevano esitato (per esempio a Pozzuoli o a Teano Si dicino) ad esaltare il cesaricidio. Ma la iniziale ferocia di Ottaviano si ammorbidì poco a poco. Con un provvedimento di tipo cesariano, che avrebbe suscitato le proteste dell'ucciso Cicerone , il nuovo Cesare ordinò ai proprieta rii di condonare i fitti delle case fino a 500 sesterzii in Italia, 2000 a Roma (che era praticamente lo stesso, essendo i fitti in Roma di gran lunga più cari che in Italia): così proletariato italiano, e borghesia proletarizzata dalle espropriazioni, avrebbero potuto salvare qualcosa dei loro risparmi falciati. Egli sapeva unire la « ferocia » dell'uomo di azione all'accorgimento dell'« evergete ». sto: da una parte si censivano i civium kapita teoricamente soggetti a servizio legionario (in/ra, xxvi), dall'altra i pupilli pupillae et viduae. Per questa ragione, io vedo nei 4 100 900 dei FO i patres familias cittadini romani di tutto l'impero con i loro figli maschi adulti (tutti teoricamente soggetti alla leva legionaria); nei 4 937 000 delle RG i suddetti patres familias e filii maschi adulti più la somma dei pupilli pupillae et viduae, sempre di tutto l'impero. In altri termini, i pupilli pupillae et viduae assommavano, nel 14 d.C., a 836 100 kapita. Quanti erano, allora, tutti i cittadini romani dell'impero alla morte di Augusto? Molti di più di quello che pensava il BELOCH, preoccupato com'era di tagliuzzare e ridurre a tutti i costi la popolazione del mondo antico. Infatti ai 4 937 000 delle RG noi dobbiamo aggiungere le mogli ed i filii minorenni dei paires /amilias e dei fui adulti accasati: sicché, in tutto l'impero, si arriverà - so bene, con grande scandalo dei belochiani e dei «ribasisti » in genere - a una somma di cittadini romani (di tutte le età e di tutti i sessi) non lontana dai dieci milioni. - Se queste considerazioni sono nel vero, ne dedurremo che i numeri di c. k. dati da Augusto nelle RG comprendono sempre i pupilli pupillae et viduae; infatti Augusto, nel riferire le somme di c. k. per il 28 a.C. (4 063 000 kapita) e per l'8 a.C. (4 203 000), non può aver seguito un criterio diverso da quello ch'egli preferì per il 14 d.C.: vale a dire preferì sempre indicare (diversamente dai FO) i civium kapzta compresi i pupilli pupillae et viduae anziché i civium kapita praeter p.p. et v. Viceversa, non possiamo decidere con certezza se i 5 984 072 dati da Tac. (Ann., xi, 25) per il lustrum di Claudio siano calcolati con l'inclusione di p.p. et v.: è preferibile pensare che Tacito abbia dato il numero inclusivo. Si ricordi il famoso habitent gratis in alieno.

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L'accorto politico non si arrischiava ad attaccare (come sarebbe stato suo compito) Sesto Pompeo: questo signore del mare, un Demetrio Poliorcete delle guerre civili, gli aveva fatto conoscere la potenza della sua flotta, in una battaglia a Scilleo, già prima di Filippi. Ottaviano pensava piuttosto a consolidare la sua posizione in Italia. Si riconciliò con Lepido. Il prestigio di M. Antonio se ne andava? Il fratello del vincitore di Filippi, L. Antonio, era console nel 41 a.C.; ottenne che le deduzioni di legionarii antoniani fossero affidate ad antoniani; tentò un accordo fra la borghesia degli espropriati italiani e gli antoniani di stretta osservanza. Fulvia, la moglie di M. Antonio, fu l'anima di questo accordo. Contro Ottaviano, uomo della rivoluzione, il console L. Antonio proponeva il ritorno alla normalità, la fine della potestà triumvirale. Umbria e Campania e Roma erano con lui. Ma M. Antonio assunse un atteggiamento incerto. La guerra tra Lucio e Ottaviano (detta di Perugia », città che si schierò con Lucio) fu vinta da Ottaviano nel marzo del 40 a.C.: Lucio, chiuso in Perugia, non resistette all'assedio; la città fu saccheggiata; spietata la vendetta di Ottaviano, anche se Lucio Antonio fu risparmiato. 9. La lotta tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo.

Fulvia fuggì in Grecia, per attendere il marito ad Atene. Ma molti dei capi che avevan condotto la sollevazione contro Ottaviano, o che comunque eran coinvolti nella responsabilità del bellum Perusinum, si recarono da Sesto Pompeo. Era il conseguente svolgimento di una situa2ione solo in apparenza paradossale: gli « antoniani » più accesi, come or ora avevano tentato di sollevare la borghesia conservatrice italiana pur di fermare l'ascesa di Ottaviano, così da ultimo passavano a quel capitano che, pel nome glorioso del padre, sembrava (e sia pur a torto) l'erede della tradizione conservatrice pompeiana. Così,

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presso Sesto Pompeo si rifugiò la madre di Antonio, si rifugiò Tiberio Claudio Nerone. Tutto, ora, dipendeva dall'atteggiamento di M. Antonio. Dopo Filippi, egli si era dedicato alla sistemazione dell'Oriente: e la sua città preferita era Tarso (già* amica a Dolabella, e perciò punita da Cassio; perciò anche, ora, particolarmente cara ad Antonio): al fedele cesariano la città di Dolabella aveva espresso il suo giubilo per la vittoria di Filippi attraverso un epos del suo più distinto cittadino, Boethos (secondo taluni, la cittadinanza romana dell'apostolo Paolo deriverebbe dalle donazioni di cittadinanza fatte da Antonio a cittadini tarsii: ma cfr. le nostre osservazioni in/ra, § 20). Era possibile un'alleanza del cesariano Antonio con il figlio di Pompeo, contro il figlio di Cesare? Ottaviano corse ai ripari: sposò Scribonia, sorella del suocero di Sesto Pompeo (l'anno precedente, 41 a.C., in seguito al conflitto con Fulvia, aveva ripudiato la circa tredicenne Claudia, figlia di Clodio e Fulvia). Delle guerre civili si era stanchi; e i soldati del figlio di Cesare non amavano combattere contro i soldati dell'amico di Cesare. Ma soprattutto: Antonio, pacator orbis, aveva perduto terreno in Italia (nell'autunno 41 a.C., a Tarso, si era incontrato con Cleopatra, ed allora Boethos aveva offerto il suo epos per la vittoria di Filippi; la hierogamia in Tarso fra i due amanti divinizzati - v&o z6vuao l'uno, Aphrodite l'altra - aveva reso possibile, nell'inverno 41/40 e nel compiacente ambiente di Alessandria, un nuovo « stile » ellenistico della vita di Anto nio). Proprio per questo, l'antico luogotenente di Cesare si alleò con S. Pompeo e con il cesaricida Domizio. Ma a Brindisi non gli riuscì di sbarcare, n il blocco della città gli valse un successo migliore. Come era già accaduto a suo fratello nel bellum Perusinum, la lotta contro Otta viano gli era possibile solo mediante l'accordo con i conservatori; un tale accordo bastava a fargli perdere le sim-

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patie degli unici soldati su cui avrebbe potuto contare, vale a dire dei cesariani più intransigenti; è naturale. che questi, tra il figlio di Cesare e il cesariano alleato dei conservatori, finissero con l'optare (sia pure con esitazioni o deviazioni) per il figlio di Cesare. Tra Ottaviano e Antonio si interposero Cocceio Nerva, Mecenate, Asinio Poilione. Ne venne, in quello stesso 40 a.C. (ottobre), il trattato di Brindisi, in cui si definì la sfera di controllo dei due triumviri, chiarendosi che l'Oriente (Macedonia, Grecia, Bitinia, Asia, Siria, Creta e Cirene) toccava ad Antonio, l'Occidente (comprese, naturalmente, le province, prima antoniane, di Gallia Narbonese e della Comata) ad Ottaviano; l'Africa a Lepido. Era Antonio il più ricco, era Ottaviano il più forte; anche se - a bilanciare la forza dei due - si stabiliva che l'uno e l'altro indifferentemente potessero far leve in Italia. Intanto Fulvia era morta, e la prudente Ottavia, sorella di Ottaviano, sposava Antonio; il caso e la politica familiare sembravano concordare con questa pacificazione tra i due rivali. Il poeta Virgilio, con la sua famosa quarta ecloga, avea creduto di indicare in questo anno 40 a.C., in cui era console Asinio Pollione l'anno della palingenesi e rigenerazione del mondo ormai governato da Apollo (iam regnat Apollo); e con aderenza alle mistiche tendenze dei tempo suo, avea indicato il regno della palingenesi nella nascita di un puer nato da un pacator orbis (cioè da Antonio e Cleopatra: cfr. in/ra, App. i, n. 10). L'anno seguente, 39 a.C., col trattato di Miseno, si riconobbe dai triumviri la posizione di Sesto Pompeo, e il controllo di questi sulle isole: la pace pareva generale e sicura. Era, viceversa, un equilibrio instabile. Impossibile un sincero accordo tra il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo. Il 19 gennaio 38 a.C. Ottaviano passò a nuove nozze, abbandonando Scribonia, che pur gli aveva dato una figlia (Giulia), e che, per essere sorella del suocero di Sesto I!

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Pompeo, era un po' l'immagine della tentata pacificazione fra i due ereditari nemici. In compenso, il nuovo matrimonio di Ottaviano sembrò avvicinarlo più direttamente ai conservatori, ché la sua nuova moglie era Livia Drusilla, figlia di un antico avversario dei cesariani, e già sposa di quel Tiberio Claudio Nerone, il quale si era rifugiato presso Sesto Pompeo dopo la guerra di Perugia; l'assenso di Tiberio Claudio Nerone al divorzio e alle immediate nozze di Livia con Ottaviano era suggello dell'avvicinamento tra Ottaviano e il senato (precedentemente Livia aveva avuto da Tiberio Claudio Nerone due figli: Tiberio - il futuro imperatore - e Druso, il quale, secondo una dif fusa - e certo infondata - diceria, sarebbe nato quando già Livia era in casa di Ottaviano). Così l'ostilità con Sesto Pompeo continuò a caratterizzare la storia di questo anno 38 a.C.: finché si ridusse ad una lotta all'ultimo sangue per il controllo della Sici lia, la quale era saldamente tenuta da Sesto, mentre Corsica, Sardegna e tre legioni erano state consegnate ad Ottaviano dall'ammiraglio di Sesto. La lotta per la Sicilia ebbe varia vicenda: e Ottaviano poté sostenersi soltanto perché, attraverso l'intromissione della sorella Ottavia, riuscì a confermare, nel 37 a.C., l'accordo con Antonio, il quale gli lasciava ben centoventi navi al comando di Statilio Tauro (trattato di Taranto); i due cognati rinnovavano il triumvirato per un altro quinquennio (37 a.C.33 a.C.). Ora, con la flotta fornita da Antonio (con base a Taranto), e con quella sua, sapientemente organizzata da M. Vipsanio Agrippa (con base al Portus Iulius), Otta viano poté migliorare le sorti navali della guerra contro Sesto. La quale si concluse a fine agosto (o 3 settembre?) 36 a.C. A Nauloco la flotta di Sesto fu distrutta, ed egli a stento sfuggì con poche navi; destinato a cercare salvezza nel vano tentativo di controllare i Dardanelli, e poi addirittura nel tradimento (egli mise la sua opera al servizio

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dei Parti); morì presto (estate 35 a.C.), -lì in Oriente, ad opera di Antonio: impetu strenuus, manu promptus [ ... ]/ide patri dissimillimus ". Lepido, sin allora sopportato dagli altri due triumviri, fu abbandonato dai suoi soldati che passarono a Ottaviano; perdette la potestà triumvirale; rimase pontefice massimo. Aveva contribuito alla vittoria su Sesto, e con questa azione poteva dirsi finito il suo nuovissimo ruolo politico, che era giovato a formare prima - nel lontano novembre 43 a.C. - un piedistallo per il trattato di Bologna, così come a Nauloco, in quello scorcio dell'estate 36 a.C., aveva fondato ancor più stabilmente il predominio di Ottaviano, potitus rerum omnium (cfr. § 11, n. 5) dopo l'eliminazione del figlio di Pompeo. 10. Dalla spedizione partica di Antonio alla battaglia d'Azio.

Il figlio di Pompeo era eliminato; del tutto annullato il ruolo di Lepido. Restavano i due grandi cesariani: il vecchio soldato M. Antonio e il « figlio di Cesare » G. Ottavio W. Caesar, per i suoi partigiani; Octavius, pei nemici). Le vicende della classe dirigente romana variamente si combinavano con la situazione geopolitica del mondo romano, ormai diviso, dal « confine di Skodra », fra l'Oriente di M. Antonio e l'Occidente di Ottaviano. In Così lo ha caratterizzato lo storico Velleio; cfr. il recentissimo RE xxx, 2245-2250. Va sottolineata l'importanza del suo stato marinaro, dominato da liberti. Il richiamo a Demetrio Poliorcete non è mio; esso era già sentito dallo stesso S. Pompeo; così - piuttosto che con una imitazione di Ottaviano (MILTNER, c. 2249) - io spiego ch'egli si chiamasse « figlio di Nettuno »; cfr. DuRIs, FGHist 76 F 13, p. 142, 3. Nel suo prenome Imp. vedrei un motivo polemico: non Cesare e i suoi discendenti hanno diritto a quel prenome (Dio, XLIII, 44, 3; Suet., 76, 1), piuttosto la discendenza di Pompeo. I seguaci di Ottaviano hanno risposto per es. con la moneta COHEN, Vips., 4. La sua originale costruzione politica ha fornito suggestioni a Ottaviano, più che non n abbia ricevute. MILTNER,

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questo giuoco ebbe un ruolo importantissimo l'ostilità dei Parti all'impero: ché gli sconfitti delle guerre civili si volgevano all'amicizia coi Parti, ed a questi offrivano i loro servigi, secondo una linea politica che potrebbe farsi risalire alla diplomazia di Sertorio il quale nell'alleanza col nemico di Roma (allora, Mitridate) aveva cercato sostegno alla sua lotta politica. Un uomo di importanza apparentemente secondaria, Q. Labieno (figlio del legato di Cesare), divenuto ora accanito anticesariano e avversario della res publica romana, era riuscito a condurre una spedizione partica contro la provincia romana; ciò significava, nel vicino Oriente, lo stabilimento di un equilibrio sfavorevole a Roma; e difatti, la vittoria di Labieno aveva avuto, tra le altre conseguenze, l'affermazione, in Giudea, del legittimo successore di Aristobulo (Antigono, figlio superstite di Aristobulo) al posto dello zio Ircano presso il quale era onnipotente il figlio dell'idumeo Antipatro (il famoso Erode, il futuro Erode il Grande). Il compito di Antonio era dunque chiaramente fissato: egli avrebbe dovuto rintuzzare l'offensiva dei Parti e prendere a sua volta l'iniziativa militare contro questi minacciosi vecchi nemici dell'impero; quando P. Ventidio Basso, nel 39 a.C., ebbe vinto Labieno, e così riassicurata la pace romana all'Asia e alla Siria, Antonio poté registrare un grande successo in questo senso. Il successo fu confermato dalla seconda vittoria di Ventidio Basso, nel 38 a.C., sull'esercito partico. Il trionfo di Ventidio Basso coronò quelle vittorie; era la prima volta che un generale romano trionfasse sui Parti, e l'eco ne rimase (eum primum omnium de Part bis triumphasse). Ottaviano e Antonio erano veramente d'accordo in queste cose: l'interesse della res publica era un

punto d'intesa comune; e l'intesa trovò una sua espressione nella ostilità, in Giudea, contro Antigono, al quale fu sostituito l'« uomo di menzogna » ( infra, App. ii), quell'Erode figlio di Antipatro, che era comune amico di Otta-

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viano e di Antonio stesso. Restava da realizzare la seconda parte del programma di Antonio: l'iniziativa romana nella guerra di offesa contro i Parti. Qui l'ostilità potenziale dei due triumviri tornava, in ogni modo. È indiscutibile che, se veramente Antonio la avesse compiuto l'antico grande sogno di Cesare , certamente la posizione di Ottavittoria sui Parti viano avrebbe subìto una forte scossa. Le tappe della incerta pace fra i due erano state segnate dalla faticosa comprensione di un comune interesse: dal novembre 43 a.C. (secondo triumvirato) all'autunno 40 a.C. (trattato di Brindisi, dopo la guerra di Perugia) al 39 a.C. (trattato fra i due e Sesto Pompeo); il trattato di Taranto, nel bel mezzo del conflitto tra Ottaviano e Sesto Pompeo, fu l'ultima di quelle tappe faticose, e caratterizzò l'anno 37 a.C. Autrice di esso, e quasi simbolo della pace, fu in sostanza, Ottavia; ma la sacra unione con Cleopatra, e l'à4t - os ~iíog che Antonio con essa aveva condotto nel 41/40 ( e che ora, dopo Taranto, si apprestava a riprendere), face vano pensare che questo amore d'oriente dovesse oscurare, nell'animo di Antonio, sinanco gratitudine e rispetto ad Ottavia. Ad ogni modo: nel 36 a.C. Antonio tentò l'impresa partica; ma Ottaviano, o per preconcetta ostilità o per diffidenza, o per l'una e l'altra cosa, non gli mandò i 20 000 uomini che nel trattato di Taranto si era impegnato a fornirgli. Fu il principio della rottura definitiva. Cominciò una sorda lotta, sempre più aspra, senza esclusione di colpi. La posizione di Antonio fu aggravata dal f allimento della sua impresa partica; nell'ottobre 36 a.C. egli se ne tornava sconfitto; unico conforto e rimedio sul piano politico come sul piano sentimentale poté sembrargli, ormai, la sempre più stretta amicizia e unione con la regina d'Egitto. Cominciarono allora le discussioni e polemiche sulle cause dell'insuccesso di Antonio: lo attribuivano gli antoniani al tradimento del re d'Armenia,

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lo attribuivano gli occidentali all'impaziente suo amore per Cleopatra (il punto di vista antoniano è a noi pervenuto attraverso Plutarco, il quale rimonta a uno scritto dell'ufficiale antoniano G. Dellio; i motivi della propaganda di Ottaviano si possono ricostruire soprattutto attraverso lo storico Velleio). Nel 34 a.C. Antonio accennò a ritentar l'impresa partica: conquistò l'Armenia, che fu dichiarata suo dominio, e dell'Atropatene fece uno stato vassallo. Un nuovo sistema di equilibrio fu così concepito da Antonio, un sistema fondato sulla tradizionale collaborazione romano-egizia; egli celebrò il trionfo in Alessandria, e attraverso un inatteso nuovo sistema di « donazioni », fece di Cleopatra e Cesarione (figlio della regina e di Cesare) i basileis di Egitto-Cipro e alcune regioni siriache; di Alessandro Helios il basileus di Armenia (e di Atropatene, in quanto genero del re; anche di Partia, quando questa fosse conquistata); di Tolomeo e Cleopatra Selene (altri figli della regina e di Antonio stesso) i re, rispettivamente, di Fenicia-Cilicia e di Cirenaica. Un punto importante era il posto fatto ad Alessandro Helios in questa costruzione: il puer della iv ed. (in/ra, App. i, n. 10) avrebbe retto l'Oriente non mai conquistato, e ora (com'era prevedibile) « pacato » da Antonio (pacatumque reget patriis virtutibus orbem, aveva detto Virgilio nel 40 a.C.). Così si sarebbe risolto il massimo problema internazionale dello stato romano, vale a dire il problema partico. Ma con le altre donazioni Antonio voleva costituire un nuovo equilibrio di potenze, che fondasse l'Oriente ellenistico sulla collaborazione romano-egiziana. Egli espri meva, da questo punto di vista, una vecchia tradizione romana: la ripugnanza alle conquiste dirette nelle grandi zone ellenistiche orientali; anche in questo caso, Antonio non è quel gran rivoluzionario che da molti si pensa. Ma proprio questo nuovo sistema di stati ellenistici (sia pure di ispirazione romana e affidati a una dinastia egizio-romana)

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prestava il fianco alle critiche di molti: di tutti coloro che vedevano l'avvenire dell'ímpero nel proseguimento della provincializzazione di Siria, Cirenaica, ecc. piuttosto che nella costruzione di stati ellenistici devoti a Roma ma gravitanti verso il nuovo grande regno d'Egitto. Le imprese di Ottaviano in Illirico nel periodo 35-33 a.C., accanto al loro carattere più evidente di penetrazione e sistemazione della Pannonia (e di eliminazione della pirateria dalmatica), avevano un sottinteso significato di ammonimento al collega, il cui territorio proprio lì, nell'Illirico, confinava col territorio di Ottaviano. Man mano che la conquista di Armenia e la creazione di un sistema di stati vassalli nel vicino Oriente rendeva forte la posizione di Antonio, era necessario per Ottaviano lavorare ancor più accortamente presso l'opinione pubblica italiana, sminuendo i successi riportati da Antonio nel 34 a.C. Così, con un'azione di propaganda volta a mettere in cattiva luce il collega fattosi « amante di Cleopatra », Ottaviano poté credere di aver oscurato, se pure in parte, la popolarità di Antonio negli ambienti plebei e militari d'Italia e l'autorità del partito antoniano nel senato. Era una « guerra fredda » (come oggi si ama dire) tanto difficile quanto spietata. Ottaviano avrà pur pensato che quell'ímpresa partica di Antonio, la quale nel 36 a.C. era fallita a causa della defezione armena e del legame fra Atropatene e Partia, ora viceversa potrebbe esser ritentata da Antonio con probabilità di successo, essendosi migliorate le posizioni di Antonio in seguito alla rottura fra Partia e Atropatene, ed al trionfo di Antonio sul re di Armenia. Era facilmente prevedibile che Antonio, reduce da una eventuale impresa fortunata in Partia, appoggiato dal nuovo sistema di alleanze e di stati creati nel vicino Oriente, avrebbe oscurato per sempre, quasi nuovo Alessandro e nuovo Cesare, la posizione di Ottaviano, ed avrebbe instaurato una sua politica personale. D'altra parte, a questi timori di Ottaviano corrispondeva l'apprensio-

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ne di Antonio: questi, se non otteneva il riconoscimento della politica da lui inaugurata nel 34 a.C. in seguito ai successi in Atropatene e in Armenia (se, insomma,-si smentiva ufficialmente tutta la sua politica orientale), doveva cercare di ottenere con la forza quel riconoscimento; non solo la sua posizione personale, ma la stessa grande campagna partica, che sempre si proponeva come mèta suprema, venivano compromesse dall'ostilità di Ottavia no. D'altra parte, Antonio stesso sapeva bene che una guerra civile era di esito incerto, e che, soprattutto, essa avrebbe reso impossibile - per il persistere della minaccia partica - proprio il mantenimento dello statu quo in Oriente, come si configurava dopo la sua campagna armena del 34 a.C. A questo pericolo cercò di porre rimedio- , nel 33 a.C., confermando l'alleanza con l'Atropatene in un incontro con quel re (la cui figliola, si ricordi, era fidanzata di Alessandro Helios); e poi si volse a fronteggiare Ottaviano; il conflitto fra i due rivali romani prese il sopravvento sulle esigenze dell'impresa partica. Solo con un atto di forza, che equivaleva ad un colpo di stato, Ottaviano conservò, nel 32 a.C., poteri eccezionali (cfr. § 11, n. 5); i due consoli e circa trecento senatori fuggirono (marzo-aprile 32 a.C.). Ma nel campo di Antonio sorsero subito contrasti. I senatori fuggiti presso di lui mal soffrivano la presenza di Cleopatra e la sua autorità presso Antonio; tuttavia Cleopatra ebbe sempre modo di prevalere, e questa prevalenza del « partito egiziano » sul « partito romano » trovò espressione in una decisione grave: Antonio ripudiò Ottavia. Ottaviano rispondeva con la sua intelligente azione propagandistica. Già dal 34 a.C. aveva preparato, come vedemmo, la sua propaganda. Ora la compì con un colpo magistrale: la lettura del testamento di Antonio, in cui questi confermava il sistema di stati orientali ottenuto con le donazioni del 34 a.C., in favore di Cleopatra e Cesarione, Alessandro Helios, Tolomeo, Cleopatra

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Selene. Ancor una volta solo un'accorta propaganda su qu.esta « orientalizzazione » di Antonio poteva far dimenticare agli italiani che Ottaviano aveva ostacolato la campagna partica, e che la legalità era dalla parte di Antonio, il cui sistema ellenistico di stati romani poteva ben giustificarsi in funzione della guerra partica, vale a dire del compito in cui Antonio vedeva la parte più viva del patrimonio spirituale lasciato da Cesare. Con questa somma di accorgimenti propagandistici e di opportuni atti di forza, Ottaviano potè crearsi una base solida per la guerra civile: ma la formula su cui fondava questa base non fu il potere triumvirale costituente (scaduto il 31 dic. 33 a.C.), sì invece il consensus di fatto (in/ra, § 11, n. 5) e la tnbunicia potestà, dei quali godeva dal nov. 36 a.C. Egli dichiarò la guerra a Cleopatra e ricevette la coniuratio dell'Italia e delle province occidentali (Gallie, Spagne, Africa, Sicilia, Sardegna), in verba sua. Circa settecento senatori erano rimasti con Ottaviano, circa trecento erano fuggiti da Antonio; i supremi magistrati, cioè i consoli, erano stati favorevoli ad Antonio. Ma la coniuratio Italiae, vale a dire un giuramento di fedeltà che confermasse Ottaviano capo dell'esercito, voleva mostrare che i circa settecento senatori rimasti a militare sub signis di Ottaviano esprimevano il « paese reale » meglio che i trecento circa, fuggiti a militare sub signis di Antonio. L'intensa opera propagandistica svolta da Agrippa e Mecenate riuscì a ottenere che quella coniuratio fosse « spontanea » (un punto su cui Ottaviano insisterà poi nelle Res gestae). Del resto, una tale propaganda era proprio agevolata dalle ultime azioni di Antonio medesimo: non aveva Antonio compromesso il suo prestigio presso molti antoniani con l'affrettata risoluzione di ripudiare Ottavia, mostrando di pre ferire l'egiziana alla uxor romana? La guerra era dichiarata a Cleopatra: Ottaviano non poteva considerarla una guerra civile, giacché egli ripeteva

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il consensus universorum - formula giustificativa dei suoi poteri eccezionali - dall'aver « posto fine alle guerre civili », cioè dalla vittoria in Sicilia nel settembre 36 a.C. Come alleato di Cleopatra, Antonio diveniva, dal punto di vista degli organi statali di parte ottaviana, bostis publicus dello stato romano. Il 2 settembre 31 a.C., ad Azio, le agili navi di Ottaviano vincevano le turrite di Antonio. Anche nello svolgimento della battaglia, in cui fu decisiva la fuga della nave di Cleopatra verso il sud, si era riflesso l'ibridismo del sistema politico romano-egizio concepito da Antonio: ché proprio con la sua fuga verso il sud Cleopatra mostrava di preferire la difesa del nuovo stato egiziano, da lei restaurato e ingrandito per mezzo delle donaioni, ad una tenace solidarietà con Antonio, nella difesa dei comuni interessi. Ed insomma: Antonio, il sognatore di un'impresa partica ispirata alle tradizioni di Alessandro e Cesare, avrebbe dovuto constatare che quelle alleanze ellenistiche su cui aveva fondato la sua politica (e sinanco la sua vita sentimentale) non reggevano alla prova del fuoco di una grande guerra. Ma egli era ormai un uomo finito: di una tale lezione non poté più trarre le conseguenze. Il sogno del vecchio cesariano finì con una vicenda da romanzo d'appendice, sullo sfondo di Alessandria dove i due si erano rifugiati: Antonio si trafisse, alla falsa notizia della morte di Cleopatra; quando Ottaviano ebbe conquistata Alessandria, Cleopatra, dopo inutili tentativi di trattare con lui, si uccise facendosi mordere, com'è tradizione, da un aspide. z

11.

L'annessione dell'Egitto. La « potestas » eccezionale di Ottaviano nel periodo 29-28 a.C.

Tutta un'antica tradizione romana di politica estera la tradizione dell'alleanza romana con l'Egitto - aveva così termine; tutte le contraddizioni e le difficoltà della politica di Antonio erano la riduzione all'assurdo di una

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politica che volesse continuare quella tradizione. L'unificazione mediterranea sotto Roma non poteva compirsi, se l'ultimo e il più saldo fra gli stati ellenistici fosse rimasto egualmente autonomo e potente. Così Ottaviano, nell'annettere l'Egitto all'impero romano (Aegypto in potestatem populi Romani redacto, negli obelischi del Circo Massimo e di Campo Marzio, dedicati al dio Sole [10/9 a.C.]; Aegyptum imperio populi Romani adieci, nelle Res gestae), non fece che trarre le conseguenze da una situazione politica realisticamente intesa. Per questa parte, egli è di gran lunga più rivoluzionario che Antonio, il quale ancora concepiva la politica estera romana in funzione di un sistema ellenistico di alleanze. D'altra parte, se la vittoria di Ottaviano era un avvenimento capitale nella storia del Mediterraneo antico, questa stessa vittoria, essendo riportata su uno stato di antiche tradizioni come era quello tolemaico, sollevava problemi nuovi, soprattutto dal punto di vista costituzionale. Del resto, non aveva dovuto lo stesso Tolemeo i tener presenti le tradizioni egizie, e venir a patti con esse? Ora Ottaviano trovava, in questo paese di primissima importanza nella storia mondiale, due culture: la egizia e la ellenistica; fuse in alcun caso, in altri semplicemente giustapposte; qui, diversamente che altrove, bisognava concepire un ordinamento provinciale che tenesse conto di quella tradizione e consentisse la stabilità della conquista. Non bastava stanziare tre legioni in Egitto (va sottolineata la particolare importanza difensiva assunta da Nicopoli) per dare una fisionomia costituzionale romana alla nuova provincia; dal punto di vista costituzionale bisognava concedere agli Egizi - agli Alessandrini, come ai metropoliti, come alla massa di tradizione antichissima egizia - un qualcosa che li compensasse della perdita del loro monarca-dio, di questo « dio vivente » che la vittoria di Ottaviano toglieva all'Egitto, spostando lontano dal paese la presenza del

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signore. Non si poteva dare all'Egitto un magistrato alla maniera delle altre province. Ed ancora: troppo il mondo romano aveva sofferto di guerre civili, le quali consistevano, in fondo, nella rivalità fra supremi magistrati senatorii: un nuovo senatore posto a governare la provincia dove avevano regnato i Tolomei sarebbe stato continua minaccia di guerra civile. E perciò, come poi farà (in/ra, § 14) per il comando delle coorti pretorie, anche questo comando dell'Egitto Ottaviano ha affidato a un cavaliere. Così, in quanto era stato « aggiunto all'imperio del popolo romano », l'Egitto riceveva un'amministrazione direttamente ordinata dallo imperator che lo aveva « aggiunto » a quell'imperio: ed Ottaviano lo affidava ad un funzionario di rango equestre, cii una lex data commetteva il governo dell'Egitto. Tale funzionario era il prae/ectus Alexandreae et Aegypti; anzi ai senatori era vietato non soltanto il governo, ma sinanco l'accesso all'Egitto romano. D'altra parte, la stessa prassi tardo-repubblicana, con la eventuale nomina di prae/ecti da parte dei proconsoli, poteva in certo modo costituir un precedente, su cui si fondò Ottaviano nella nomina del prae/ectus per l'Egitto (è notissimo, per esempio, il caso di Bruto che nel 50 a.C. aveva insistito presso Cicerone perché nominasse prefetto un uomo d'affari a lui caro). Il nuovo Egitto dei Romani aveva un volto caratteri stico: un tipico segno della sua tipica condizione di proincia era nella sminuita autorità della casta sacerdotale (in/ra, § 83); la sua tassazione fu anche orientata, in buona parte, verso il mantenimento della plebe di Roma; la sua vita economica si fondò sulla moneta divisionale egiziana, ed ebbe una storia tutta sua, fino a Diocleziano; l'ordinamento tributario in genere e la concessione della cittadi nanza (in/ra, § 91) ebbero particolari caratteristiche. Gli abitanti della vera unica città, Alessandria, possono aver sperato di più dalla conquista romana (nello stesso 30 a.C. v

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gli Alessandrini hanno chiesto ad Ottaviano una P ou í X

autonoma, motivando la richiesta con l'esigenza di limitare l'ammissione, fra gli efebi, di individui tenuti al pagamento della Àocoypocpoc « testatico »; Ottaviano non ha ceduto alla richiesta); ma la particolare posizione di Alessandria e degli Alessandrini rispetto al paese fu certo un compenso alla mancata realizzazione di quelle speranze. In ogni modo, l'istituzione del praefectus Alexandreae et Aegypti è un fatto notevole nella vicenda di questi anni. Ottaviano ha sperimentato allora - nella pienezza del suo potere fondato soprattutto sul consensus universorum (cfr. n. 5) - la necessità di un'organizzazione nuova con carattere di stabilità in una zona dell'impero in cui l'ager publicus, derivato dalla « terra regia » dei Tolomei, era notevolmente più esteso che nelle altre province. La vittoria di Azio e la conquista dell'Egitto segnavano un'epoca nuova. I contemporanei sentivano questa novità; era la fine della grande tragedia, il sorgere della pace in un mondo finora devastato da quegli interna mala che negli ultimi tempi avevano fatto persino disperare dei destini della città, e ad uomini come Sallustio ed Orazio avevano fatto sognare addirittura un rifugio fantastico nelle favolose isole Fortunate. Quando Ottaviano celebrò il trionfo (agosto 29 a.C.), l'opinione pubblica celebrava nella sua vittoria l'èra nuova della pace; egli era, di fatto, Jl signore dello stato romano. *Orazio aveva tratto (30 a.C.) il Cècubo dalle celle avite. ciò che (diceva' « sarebbe stato delitto prima, mentre una regina orientale apprestava folli ruine al Campidoglio e morte all'impero »; ora scriveva C. i, 2 (Elmore). La certezza della stabilità politica e sociale era ormai un fatto acquisito alla pubblica opinione; la « missione » romana del regere populos una realtà ideale senza incrinature; d'allora in poi, Antonio sarebbe apparso colui che « vendette il Lazio ai popoli e rapì i camr Quiriti e per prezzo fece e disfece le leggi » (sono

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di un altro poeta augusteo, Vario: versi che piacquero a Virgilio). La vittoria di Ottaviano era dunque la vittoria della città e dell'Italia, la garanzia che mai l'imperiQ romano avrebbe potuto cercare altrove il suo equilibrio e il suo centro. La borghesia vecchia, quella stessa degli espropriati, come la nuova dei soldati fatti proprietari, celebravano il successo; lo riconosceva la nobilitas. In questa situazione eccezionale Ottaviano deteneva la cosa pubblica: si poteva dire che egli era, dal novembre del 36 a.C., potitus rerum omnium. Ma con quale fondamento giuridico? Egli stesso cercava di spiegarsi la sua posizione costituzionale; ma anche a lui una spiegazione strettamente giuridica dovette apparire, in tutto il periodo che va dal 32 a.C. al 28 a.C., per molti aspetti difficile. Non proprio che in quel periodo egli escludesse una giustificazione al suo potere assoluto; più facilmente rifletteremo il vero, se diremo che Ottaviano si considerava detentore di una potestas eccezionale. Quando più tardi egli dovrà definire la sua posizione in quel periodo, dirà semplicemente che essa si fondava sul consensus universorum . Si richiamerà, cioè, al concetto di consensus, un Noi moderni discutiamo da tempo sulla giustificazione costituzionale dei poteri di Ottaviano, nel periodo 32-28 a.C.: alcuni studiosi ritengono che in quel periodo Ottaviano continuasse ad avere potestà triumvirale (sia pur effettiva, non titolare: così BERVE, nell'importante art. di « Hermes », 1936, p. 250), altri che egli fondasse il suo potere sulla coniuratio Italiae del 32 a.C. (la quale, in tal caso, si identificherebbe col consensus universorum: così STAEDLER, « Ztschr. Sav. St. », RA, 1942, p. 107). Confesso che nessuna di queste soluzioni mi sembra probabile. Per risolvere il problema, bisogna precisarlo, evitando di imporre schemi nostri alla realtà politico-costituzionale di quell'epoca rivoluzionaria. Or l'unica precisazione legittima del problema è la seguente: come giustificava egli stesso, Ottaviano, i suoi poteri del periodo 32-28 a.C.? Al che si può precisamente rispondere: Ottaviano - per lo meno, Ottaviano Augusto - riteneva che il suo potere triumvirale ebbe termine il 31 dic. 33 a.C. (« fui triumviro per dieci anni di seguito »: RG, 6) e d'altra parte dichiarava che « dopo aver estinto le guerre civili » si era « impadronito del potere attraverso il consensus universorum »

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concetto persino ciceroniano, ma in ogni modo insuscettibile di fondare stabilmente il potere giustificando il fatto preciso del potiri rerum omnium. Solo un fatto religioso e costituzionale a un tempo poteva fondare il principato: un fatto che unificasse i presupposti sacerdotali della posi(RG, 34). Ora, il consensus universorum non può coincidere con la coniuratio Italiae, perché in questo caso non si spiegherebbe come

Ottaviano giustificasse il suo potere pel periodo intercorso fra l'i gen. 32 a.C. e la coniuratio Italiae dello stesso 32 a.C.; e per la stessa ragione non può collocarsi ancora più in basso, per esempio nel 29 a.C. (dopo il trionfo su Cleopatra). Dunque, dovremo intendere più semplicemente che Ottaviano riteneva di aver avuto la potestà triumvirale fino al 31 dic. 33 a.C.; e di aver avuto, dall'i gen. del 32 a.C. in poi, un potere fondato soltanto su quel consensus universorum che già aveva sin dal nov. 36 a.C., « dopo che » (postquarn) « aveva posto fine alle guerre civili ». « Dopo che aveva posto fine alle guerre civili » significa « dopo il settembre 36 a.C. »: che per esempio Pollione desse questa interpretazione, è evidente da App., b.c., v, 128 (viceversa, già la generazione di Velleio intendeva anche la guerra aziaca come guerra civile; cfr. FITZLERSEECK, RE, x ) 2, c. 326). Dunque, Ottaviano, al quale i problemi costituzionali giuridici si presentavano in maniera più concreta e meno schematica che a noi moderni, quando voleva giustificare il suo potiri rerum omnium dall'i gen. 32 a.C. in poi, fino al 28 a.C., ricorreva al consensus universorum (cioè ad un fatto extra-costituzionale), di cui si considerava circondato sin dagli ultimi tempi del 36 a.C. Ripeto: noi non possiamo concederci di essere più giuristi di Ottaviano, in questo campo; non possiamo prestargli per es. un potere triumvirale « effettivo » a cui egli non avrebbe mai pensato. E proprio qui è il fatto sorprendente e a prima vista incredibile: le nostre giustificazioni costituzionali sarebbero piaciute ad Antonio, il quale difatti nel 32 a.C. e 31 a.C. si continuava a considerare triumviro; ma non interessavano puntq Ottaviano. Per quanto ciò possa sembrare assurdo (e ben so quanti si meraviglieranno di questa affermazione), Ottaviano è molto più rivoluzionario di Antonio; e il precedente racconto (55 8-11) può giustificare una tale interpretazione. S'intende che nella mia interpretazione postqùan bella civilia extinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium va inteso con postquam in senso pregnante: « poiché », e di.nque, in fondo, « sùbito dopo che » « in quanto che »; era quel consensus universorum che, sùbito dopo la « fine delle guerre civili », cioè dopo il settembre 36 a.C., aveva dato

ad Ottaviano, nel novembre di quell'anno 36 a.C., la perpetua tnbunicia potestà (come ci assicura la tradizione liviana, confluita in Orosio). Che se dunque vogliamo dare preciso contenuto giuridico

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zione di Ottaviano (tutti accentrati, sin dal 42-40 a.C., intorno all'augurato, come ha dimostrato lo storico francese Gagé) con le nuove esigenze costituzionali. Già nel 29 a.C. Ottaviano si era messo per questa via, celebrando l'augurium sai utis. Ma la soluzione definitiva poteva cercarsi solo nel raggiungimento di un titolo che desse al charisma religioso un contenuto costituzionale: il titolo sarebbe stato Augustus, e il suo contenuto costituzionale l'auctoritas.

alla formula per consensum universorum poi itus rerum omnium, dovremo pensare alla tribunicia potestà perpetua decretata ad Ottaviano per senatoconsulto (cfr. BIONDI-ARANGI0 Ruiz, in Acta divi Augusti i, p. 228) nel novembre 36 a.C. Nel 27 a.C. Augusto passò dal consensus universorum all'auctoritas: fu l'ultima evoluzione di un processo in cui si riconosce l'orma del grande rivoluzionario. Cioè: egli riteneva di aver avuto, nel novembre 36 a.C., la res publica dal consensus universorum; la restituiva nel gennaio 27 a.C., per riaverla attraverso l'auctoritas; un processo - questo del restituire ciò che si è avuto con la rivoluzione, riottenendolo con la legalità - che sarà sempre chiaro nel principato, per es. ancora nel « manifesto costituzionale » di Filostrato ii (in/ra, § 46, n. 4) in età severiana. - Altra letteratura e discussione in/ra, v; cfr. § 12, n. 1; si aggiunga la letteratura nell'importante studio di DE VISSCHER, Nouv. ét. dr. rom. (1949; scr. 1938), p. 3 (alla cui dottrina, analoga a quella poi formulata da STAEDLER nel 1942, si possono muovere le medesime obiezioni che abbiamo rivolto alla dottrina di STAEDLER).

Capitolo terzo LA FINE DELLA «POTESTAS» ECCEZIONALE E LO STATO DELL'« AUCTORITAS»

12.

Le sedute del 13 e 16 gennaio 27 a.C. e la fondazione del principato.

La soluzione venne ai primi del 27 a.C. Nella seduta del 13 gennaio di quell'anno Ottaviano dichiarò di restituire la res publica all'arbitrium senatus populique Romani. In compenso egli ebbe, tra l'altro, il riconoscimento delle sue virtus, clementia, iustitia, pietas; ma il punto essenziale, fu la sistemazione costituzionale della sua posizione di monarca. Questa posizione veniva garantita attraverso la insistenza sul concetto di auctoritas: restituita la res publicà al senato e al popolo romano, il nuovo Cesare, oltre ad essere console, avrebbe ricevuto, delle normali magistrature repubblicane, la potestas sostanziale, ma con più di auctoritas che non avessero gli altri magistrati. Nella stessa seduta del 13 gennaio il senato gli affidò l'imperium proconsulare decennale per le province « imperiali », vale a dire per quelle non pacatae, in cui era necessario un comando essenzialmente militare'. Nella seduta del Tuttavia l'Africa, provincia senatoria, ebbe anch'essa forze legionarie (legio III Augusta). - La Gallia Cisalpina già da tempo aveva finito di essere- provincia: in linea di diritto, da dopo Filippi (42 a.C.), in linea di fatto da dopo Perugia (40 a.C.; cfr. in/ra, App. i, n. 10. -. Quòque di RG, 34, 3 indica (cfr. in/ra, v) più di una potestà magistratuale (altrimenti troveremmo in magistratu, non già quòque in magistratu) già nel 27 a.C., subito dopo il

Cap. III.

Lo stato dell'« auctoritas »

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16 gennaio egli ebbe, su proposta di Munazio Planco, il titolo di Augustus, vale a dire il titolo medesimo dell'augurium augustum con cui fu fondata Roma (inclita condita Roma est); egli era dunque, in certo senso, un nuovo Romolo, in quanto assumeva per sé il titolo medesimo dell'augurio romuleo. Comunemente, il titolo era inteso nel senso passivo di « venerato », con forte coloritura religiosa (cf3or6). L'importanza della nuova sistemazione giuridica si fece più evidente, com'è naturale, nel corso degli anni. Augusto era console; ed aveva imperium proconsulare decennale per Spagna Tarraconese, Gallia, Siria, Egitto. Degli altri consoli e dei proconsoli aveva la potestas (e in base a questa essi potevano anche dirsi suoi « colleghi nella magistratura »), ma con più di auctoritas. Proprio qui era il fondamento del suo potere. Anche questo di auctoritas, un concetto ciceroniano; ma volto a significazione decisamente monarchica. Nel 23 a.C., egli depose - come sem13 e il 16 gennaio (post id tempus, con valore di successione temporale immediata: « [sùbito] dopo la traslatio della res publica all'arbitrium senatus populique Romani »): dunque, già dopo il 13 gennaio, Ottaviano era detentore di almeno due potestà magistratuali. Poiché la transiatio implicava la sua rinunzia alla tribunicia potestà perpetua corrispondente al consensus universorum di cui aveva goduto dal novembre 36 al 13 gennaio 27 a.C. (cfr. supra, § 11, n. 5), così ne deduco che le almeno due potestà magistratuali di Ottaviano dopo il 13 gennaio erano in realtà due, e cioè cos. e imp. proc. Ciò va detto contro SIBER, che nega l'imp. proc. del 27 a.C. per sostituirlo con un impero « senza nome» (contro SIBER cfr. anche SYME, «Journ. Rom. St. », 1947, spec. pp. 151-152); e va detto contro GRANT, secondo cui l'auctoritas si sostituisce all'vnperium (laddove in realtà, l'auctorztas potenzia la potestas magistratuale contenuta nell'imp. proc.). Cfr. in/ra, v. Nel 23 a.C., riprendendo la potestà tribunicia perpetua deposta nel gennaio 27 a.C., Augusto aggiunge una nuova magistratura: dal luglio 23 a.C. quòque in magistratu significa imp. proc. e trib. pot. (e cos. nei soli anni 5 a.C. e 2 a.C.), non più cos. e imp. proc. S'intende che queste considerazioni cadrebbero, se si rifiutasse la nostra interpretazione del potere eccezionale di Ottaviano nel periodo nov. 36 a.C.-dic. 28 a.C., data supra, § 11, n. 5.

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Parte I.

Saeculum Augustum

bra, il 26 giugno - il consolato; abbandonò i compromessi esagerati; prese l'imperium proconsulare anche nelle province senatorie; riprese - ma come cosa del tutto nuova - la tribunicia potestà perpetua deposta il 13 gennaio del 27 a.C. (§ 11, n. 5). La forma magistratuale era tribunicia potestas; quella medesima che (§ 11, n. 5) aveva avuto nel 36 a.C.; ma ora, nel nuovo status fondato sul chiarimento costituzionale del 27 a.C., essa s'inquadrava stabilmente. Non tribuno della plebe, egli aveva tutta la potestas dei tribuni; ma una potestas ben diversa da quella del normale tribuno. Come i normali tribuni, egli, in grazia della potestas di tribuno, poteva far votare plebisciti con vigore di legge, convocare il senato, usare il diritto di veto; ma la sua auctoritas faceva di questa potestas una realtà costituzionale nuova, la realtà nuova che gli uomini del suo tempo, gli « Augustei », cercavano, a salvaguardia dall'oscura tragica vicenda delle guerre civili. Ancor una volta: non proconsole e non tribuno, Augusto aveva la p0testas immanente in quelle magistrature repubblicane, ma potenziata attraverso la sua auctoritas. La forma repubblicana era conservata, la attualità monarchica era assicurata. S'intende, per altro, che di questa attualità monarchica il fondamento costituzionale, all'interno, era sostanzialmente nella tribunicia potestas; a ragione, dunque, egli (come poi i suoi successori fino a Vitellio) calcolava gli anni del suo impero dal giorno in cui la tribunicia potestas gli era stata ufficialmente conferita (dopo Vespasiano si è calcolato sempre sulla base della tribunicia potestas, ma a partire dall'assunzione al trono; dopo Traiano sempre sulla base della tribunicia potestas, ma a partire dalla data in cui entrano in carica i normali tribuni; dai Severi fino a Graziano sempre sulla medesima base, ma con diversità pel punto di partenza). Era questa, difatti, la più significativa potestas del nuovo monarca: e ciò spiega la sua persi stenza attraverso tutto il principato, nonostante le accen-

Cap. III.

Lo stato dell'x auctoritas »

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nate divergenze nel punto di partenza del calcolo cronologico; potremo persino dire che il principato è l'epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico, e pertanto affiancata all'imperium militare. Anche in questo caso Augusto ha posto delle basi stabili e definitive; i suoi contemporanei hanno inteso benissimo quel che significava il consolidamento monarchico del 23 a.C. È molto probabile ' che già nella fondamentale seduta del 13 gennaio 27 a.C. Augusto abbia formulato il suo ideale supremo con le famose parole it4 mihi sai vam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius rei Iructum percipere quem peto ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem mansura in vesti gio suo fundamenta rei pubiicae quae iecero. Certo, fu

questo il senso profondo, il motivo dominante della sua vita: non solo in pubbliche manifestazioni rha nella intimità di famiglia egli ha sempre insistito su quell'ideale; e l'optimus status, di cui voleva essere auctor, fu saldo e stabile per tre secoli, fu il principato. In una lettera a Gaio Cesare suo futurus successor (in/ra, App. i), egli ritornerà su quel concetto che in ita mihi saivam aveva formulato solennemente: deos autem oro, ut mibi qualecumque superest temporis id saivis nobis traducere liceat in statu rei publicae felicissimo & pyoco&mw u7v xOu 3toca zX o ~tkv