L'immediato e la sua negazione [PDF]

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Zitiervorschau

Govanni Romano Bacchin dell'Università di Perugia

L'IMMEDIATO

ELA SUA NEGAZIONE

Cen*o Studi "E.-Fermi" Editoriale , Perugia

INTRODUZIONE 1. Il discorso teoretico è rigoroso, e non semplicemente coerente, se la sua intentio non presuppone I'oggetto a se stessa e si attua togliendo quei presupposti che, appunto posti prima di ogni giustificazione, sono posti senza giustificazione, ingiustificatamente. Rigoroso è quel discorso che si attua giustificando se stesso nel mentre

si compie giustificando il proprio

oggetto: non due giustificazioni ma una sola, della cosa e del discorso teoretico su di essa. Giustificare non è semplicemente < porre >, ma provare f impossibilità che non sia ciò che si pone, nei limiti entro i quali si pone. Va richiamato a proposito il discorso hegeliano del paragrafo primo della Enciclopedia delle scienze fitosofiche: " la filosofia non ha il vantaggio del quale godono le altre scienze, di poter presupporre i suoi oggetti come immediatamente dati dalla rappresentazione e come già arnmesso nel punto di partenza e nel procedere successivo il metodo del suo conoscere ,n 1. Ma va anche chiarito il senso in cui quel < poter presupporre r, è .. vutntaggio >, vantaggio infatti è solo rispetto alle scienze, le quali non sarebbero tali se non presupponessero iI loro oggetto, disponendosi su di esso, da esso condizionate; rispetto alla filosofia, invece, sarebbe uno e il passo hegeliano potrebbe venire riscritto così: .la filosofia non ha lo svantaggio del quale sofro'

no le altre scienze di dover presupporre... o, dove lo svantaggio sarebbe precisarnente nel suo doversi commisurare a qualcosa di esterno e nel dover subire quindi I'azione di esso. Che il discorso filosofico (teoretico rigoroso) non ammette presupposti significa che alla filosofia non è possibile premettere una < introduzione > o una " prefazione ' che pretenda di segnare il passaggio ad essa a partire da un punto ad essa estraneo: il passaggio sarebbe già attuato nella necessità di stabilire (filosoficamente) il punto da cui sia dato partire e quindi il momento della sua effettiva attuazione (: dell'operazione procedurale che lo compie) sarebbe superfluo; o il passaggio resterebbe sempre interdetto dalla estraneità del punto di partenza e quindi la sua attuazione sarebbe impossibile.

Proprio l'impossibilità del passaggio introduttivo al filosofare segna (- vale come) la necessità di togliere i presupposti ed anche stabilisce il modo in cui è possibile attuare questo toglimento senza cadere nella banale presupposizione di dover partire da nulla, di dover ricominciare assolutamenfe sempre di nuovo. fmporta ribadire infatti che il presupposto è in qualche modo richiesto dal suo stesso toglimento ed è questo tipo di necessità che costituisce, come meglio vedremo, il vero problema del punto di partenza del filosofare, o problema del < cominciamento >. Il quale problema rapporta l'immediatezza del presupposto (il presupposto non sarebbe tale se non fosse immediato e l'immediato è solo presupposto) con la mediazione inerente al suo venire saputo tale, nel senso in cui la filosofia dentro se stessa < ... presenterà quella unilaterale immediatezzà come mediata > 2. Ma dove il rapporto tra immediato e mediazione venisse pensato a sua volta come immediato, il fatto che la filosofia non ammette presupposti irnporterebbe che Xa sua trattazio-

ne debba corlinciare direttamente ed irnrnediatarnente; ed avrebbe ragione, in fondo, K. Fischer a sostenere che Ia fiiosofia comincia < con un atto di volontà del pensiero )) 3 e la fiiosofia decadrebbe nelìa o comoda, immeóaalezza dell'intuire. Non si può dimenticare che Hegel chiarna appunto < ccmoda opinione > ia dottrina del sapere immediato come sapere per intuito 4, accennando polemicamente all'intuizionisrno di Fr. H. .Iacobi per il quale la fede era sapere autentico perché immediato e la filosofra razianalistica era ateisrno ". Lo Hegel infatti pensa tra filosofia corne < Ia considerazione pensante degli oggetti > u o o, pensiero riflesso > o al quale lo spirito perviene attraverso le rappresentazioni s ..lavorando sopra queste >. Mera rappresentazione e non concetto sarebbe l'irnrnediatezza fatta " precedere , al fitrosofare ? e che effettivamente precede il filosofare, ma salo ,, nell'ordine del ternpo >. Questa ultima espressione hegeliana (" nell'ordine del tempo ") è da prendere in attento esame, perché in essa giace e si nasconde tutta I'ambiguità e della nozione di presupposto (ciò che si fa " precedere ") e della nozione di tempo, il quale è esso stesso non Ltn presupposto ina la forma stessa del presupporre, così che l'insignificanza teoretica del presupposto non potrà non valere come insignificanza tearetica del tempo. L'esame di quella espressione ci impegnerà nel piendere direttamente in considerazione la nozicne del divenire; ciò che ora importa rilevare è che in Hegel l'affermazione radicale della necessità che il pensiero non abbia presupposti pcssq attraversa I'affermazione non meno radicale della necessità che il pensiero pervenga ad attuarsi come tale (concetto), liberandosi criticamente (la critica non per nulla è passata da Kant a Fichte corne afferrnazione di " libertà o) da quei presupposti; ne segue comunque che l'operazicne logica di chi assume

9

(:

interpreta) la necessità di togliere ogni presupposto come presupposta anch'essa (Kierkegaard) è del tutto indebita e rivela un fraintendimento del pensiero hegeliano ed anzi, a mio awiso, dell'intero filosofare t. Essa infatti assume (= si rappresenta) il rapporto tra immediatezza e mediazione come immediato e quindi come presupposto e non riesce ad elevarsi al pensiero rigo. roso che è concetto ed in cui la stessa conoscenza della rappresentazione appartiene al concetto, è < concetto ". Ma è anche vero che se il toglimento del presupposto non si attuasse passando a.ttÍaverso le rappresentazioní presupposte, si cadrebbe inevitabilrnente nella immediatezza o .. comodità " dell'intuÍto o, equivalentemente, nella assohtizzazione del pensiero. L'interpretazione dunque che qui vorrei proporre del testo hegeliano al quale mi sono riferito sopra tende a liberare il testo stesso dalla conversione del filosofare in assoluto sapere, conversione che appartiene del resto, come ampiamente e bene è stato dimostratoe, ad un momento surrettizio della speculazione hegeliana, quello che accetta lo spinozismo senza una mediazione autentica del suo significato. Lo Hegel stesso, infatti, sembra fornirci lo strumento teoretico per evitare ciò che egli non evitò, ossia l'assolutuzazione monistica del \ogos, allorché afferma che " la filosofia può ben presupporre, anzi deve, una certa conoscenza dei suoi oggetti, come anche un interessamento per essi: non fosse altro per questo, che la co-

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scienza, nell'ordine del tempo, se ne forma prìma rap' presentazione che concetti r 10. Quel u precedere r è continuamente richiesto perché la filosofia non si conver' ta in assoluto sapere (conversione che renderebbe impensabile lo stesso assoluto, perché un assoluto che abbisognasse di venire instaurato sarebbe un assoluto perennemente insufficiente epperò relativo a ciò che gli manca per essere assoluto); e la filosofia non si converte

assoluto sapere, proprio perché tale < conversione * dovrebbe essere essa stessa assoluta, contraddicendo la necessita che vi sia I'alterità tra ciò che si converte e ciò ìn cuí esso si converte, alterità irriducibile e che l'assolutizzazione pretesa non toglie ma riproduce in se stessa. Da un canto dunque la filosofia non può accet-

in

tare presupposti, dall'altro la stessa negazione dei presupposti fa essere come da essa richiesti quei presup. posti dei quali è negazione: se accettasse presupposti, sarebbe da essi condizionata ed in essi si risolverebbe, prolungamento acritico del presupporre; se, negando i presupposti, si affermasse come assoluta, cesserebbe di essere negazione (mediazione) e diverrebbe a sua volta immediata, cadendo a sua volta in quel presupporre di cui si diceva toglimento. Perché la filosofia sia autenticamente critica e sia totale (universale) giustificazione, bisogna che essa sia giustificazione di se stessa (che non venga da altro giustificata), bisogna cioè che essa si attui giustificandosi nel proprio atto; ma poiché essa è giustificazione totale, bisogna che essa, giustificando se stessa, sia se stessa come giustificazione e quindi, come tale implichi l'altro da sé come ciò di cui essa si professa giustifrcazione, l'altro da essa e dunque la propria non-assolutezza. I1 passo hegeliano sopra riportato afferma dunque la duplice necessita, che la filosofia nulla presupponga, che la filosofia presupponga una certa notizia dei suoi oggetti, ché lo < spirito pensante ) progredisce operando su rappresentazioni, le quali precedono i concetti. < Ma rigorosamente Severino tt la fi"losofi.a non - dice E. presuppone nemmeno la "nottz,iau -agli oggetti: tale presupposizione equivarrebbe alla posizione di un piano semantico che, estraneo all'autosignificazione, sarebbe lo stesso piano della insignifr.canza>. Ma la stessa affermazione < la filosofia non presuppone > deve avere un senso ed ha senso solo se si presuppone in qualche

LT

modo ciò che la filosofia non presuppone, per cui mi sembra piir esatto dire che il < presupposto > è da negare ma che, appunto perché lo si deve negare, esso è " insopprimibile >, che sopprimerio sarebbe togliere la sua necessità di venire negato (togliere la negazione è ancora negare e la negazione è innegabile) 12. Non si può sopprimere il presupposto, proprio perché lo si deve negare; e se esso come presupposto non vale (se, cioè, lo si nega come valore) deve tuttavia yaîere coÍne ambito della sua negazione (deve avere almeno questo significato, la sua negatività). L'arnbito entro cui la negazione ha senso (è possibile, signifi.cabile) è quello che mantiene appunto la negazione in atto ed irnpedisce la duplice operazione, parimenti contraddittoria, quella che assolutizza la negazione facendone una < negatività assoluta " e quella che nega la negazione, sopprimendo ciò che deve venire negato e quindi togliendo alla negazione la sua intrinseca possibilità. La filosofia è teoreticamente rigorosa se toglie valore a ciò che pretende di condizionarla ed a ciò che la afferma come incondizionata, come < assoluta>; la sua attualità (lo attuarsi negando) è negazione della sua pretesa assolutezza.

t2

2. Una volta affermato il carattere teoretico rigoroso del filosofare, ci si irnbatte in quella che Hegel chiama la .. incomprensibilità > 13 della filosofia ed anche la sua essenziale oscurità, ché la filosofia < pone al po sto di rappresentazioni, pensieri, categorie e, più precisamentè, concetti 1rc. Ora, questo tra le aitre, o che succeda ad altra forma, rna è il valore (verità,) delle forrne (sentirnenti, rappresentazioni) nelle quali il contenuto dapprima si. mostra come ( contenuto >, come distinto, cioè, daltra forrna stessa, valore per il quale è possibile dire con Hegel che n le forme sono da distinguere dal pensiero come forma >r 16, come la stessa validità del loro essere forme. Proprio per questa impossibilità che il pensiero sia una îorma tra le altte o dopo le altre, si può dire che esso è il loro stesso essere (: valere) come < forme t distinte dai loro contenuti. E proprio perché il contenuto è il medesimo in queste forme diverse le une dalle altre, il pensiero, anziché essere una della filosofia non è solo la < difrcoltà " che ( nasce da una incapacità che in sé è soltanto manca&za di abitudine, di pensare astratta' mente 20, cioè di tener fermi innanzi allo spirito pensieri puri e muoversi in essi r, diftcoltà che potrebbe venire eliminata, in fondo, con I'esercizio, ma è I'intrinseca impossibilità di fare a meno di quel linguaggio (coscienza comune o ordinaria), in cui si operano distinzioni e separazioni che la cosa stessa non sopporta, la u cosa stessa > che in tanto si mostra in quanto toglie la frttizia contrapposizione del conoscere e del

suo oggetto come è per

il

problema critico, nel senso

anche kantiano della parola.

Nella Fenomenologia dello Spirito, infatti, il cuore della presentazione che Hegel fa della filosofia è nella < proposizione speculativa > "1 alla quale corrisponde, come si sa, il < giudizio infinito >r 2', precisamente nel senso che la proposizione distingue ciò che il suo contenuto nega come distinto. E' questo il continuo riferirsi dialettico della filosofia alla < coscienza comune nel senso in cui, come toglimento dei presupposti, essa non può non riferirsi a ciò che essa toglie, il quale è appunto o insopprimibile u dal toglimento stesso. )>

3.

Il

radicale dell'errore e per

il

quale può dirsi

. er-

ronea > ogni posizione non rigorosa è la sostituzione che il senso comune (la .. comune coscienza >) continuamente opera (" mescolando " secondo l'espressione hegeliana) 23 di rappresentazioni a pensieri, o lo assumere la rappresentazione al posto del concetto, assumere cioè il concetto senza riconoscerlo.

Non si tratta veramente di un collocare un termine al posto di altro termine, ché il concetto (pensiero) non si colloca in linea con altro da sé (ciò che sarebbe richiesto perché si abbia sostituzione), ma di un assurnere il concetto stesso senza riconoscere la sua peculiare differenza da ciò che concetto non è. L'errore non è qualcosa, ma il travisamento della assunzione di qualcosa, la cosa in quanto non riconosciuta. Non che questo discorso giustifichi l'errore, anzi esso dichiara che l'errore è la sua stessa impossibilità" di venire giustificato e di giustificarsi, L'errore è la impossibilità di se stesso; questo discorso, piuttosto, afferma il limite della giustificatezza,limite che è il pre" supposto ) non ancora saputo tale, non ancora superato come pretesa di valere come condizionante. Dell'errore si ha infatti paura; rna, a rigore, Ia paura stessa dell'er-

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rore è errore. Va spiegata questa espressione che può apparire almeno paradossale. Non si dice che si possa impunemente errare o che I'errore non sia mai possibile, rna che l'errore di cui si ar/esse paura dovrebbe contraddittoriamente consistere in una sua concretezza, dovrebbe . essere > e valere in una sua verità. La paura è piuttosto fatta sorgere dal rischio stesso di errare che è inerente a quello che sembrava un ( vantaggio > e che è proprio delle scienze e della < coscienza comune > delia quale le scienze sono la longa manus: lo essere condiziotati dall'oggetto come altro dal pensiero di esso. I-'errore è possibile dove il pensiero non sia la cosa stessa, dove, cioè, tra pensiero e cosa si situi (si collochi) la rappresentazione, la metafora o parola, la contraffazione linguistica del logos. In questo senso, la possibilità di errare è lo scotto che le scienze e la coscienza comune pagano per il " vantaggio " di avere oggetti che le condizionino e di distinguere se stesse dagli oggetti che esse investono corì < metodi > tentati e da verificare (l'errore sorge dove procedere è tentativo). Il vuoto di verità che è I'errore non è ciò che suscita lo horror (lrcrror vacui), ché non è possibile avere paura di ciò che non è, ma è l'horror stesso a creare il vuoto, è desso anzila radice stessa del vuoto, il vuoto essendo radicalmente la separazione tra cosa e pensiero di essa, la separatezza imposta dall'intelletto. A questo punto si rende indispensabile una duplice indagine: 1. I'approfondimento del rapporto tra rappresentazione e concetto, visto che il rapporto non può consistere in una reciproca alterità (il < concetto ) o pensiero non si colloca accanto né dopo la rappresentaztone), né può togliersi in una qualche riscoperta identità (la rappresentazione è la stessa ratio della possibilità di errare, il pensiero è la consapevolezza inerrante di questa possibilità); 2. il chiarimento della natura rigo. rosamente teoretica (ciò che Hegel intende per , donde il problema della adeguatezza della iagione, rappresentazione < nala >%. Per cui la

L7

turale >, giusta la espressione hegeliana della Fenomenologia 25, che colloca la < critica ,, in una pretesa neutralità teoretica o filosofica e non si awede della contraddizione tra critica e neutrahta, ché la stessa connotazione della critica come neutrale e previa all'effettivo sapere è saputa e motivata, se motivazione di essa non si può non cercare, nel sapere rispetto al quale Ia si pretende ancora indetenninata. E' evidente a guesto proposito il nesso tra la impossibilità di accettare presupposti (il discorso teoretico rigoroso) e la impossibilità di mettere in questione la fiducia nella ragione, di discutere la ragione (il filosofare) senza già attuare quel processo che si intende discutere (come iI Protrettico aristotelico mostra dialetticamente) 26. La logica è dunque metafisica, poiché l'essere se non è logos è nulla e il îogos separato dall'essere è separato da se stesso, nulla. In questa laùisalizza12ione del processo filosofico si stabilisce la differenza teoretica tra la riflessione kantiana e la fenomenologia hegeliana, ché Kant si chiede quale sia il logos dei fenomeni, ma alla sua domanda sottende Ia separazione pregiudiziale tra fenomeni come dati e la strutturazione del loro essere dati proveniente dal soggetto a cui (per il quale) essi sono (si presentano, appunto ., fenomenicamente >), così che il logos te sta sospeso all'inizio della ricerca e sospeso resta anche durante la ricerca e nel suo esito, in una ( separazione, che sottende al dualismo kantiano tra fenomeno e cosa

in

sé.

Superata la separazione non ha più senso cercare logos dei fenomeni, perché i fenomeni sono fenomeni del logos, la sua . fenomenologia ", ed è questo il senso della Femomenologia dello Spirito in cui il mani-

il

18

festarsi non è alla coscienza, ma la coscienza stessa fa esperienza di sé nei fenomeni 2?. In questa luce è possi-

bile stabilire la differenza tîa riflessione nel senso kantiano e riflessione o coscienza nel senso hegeliano (differenza tra ii < pensare > della Critica e la criticità del concetto hegeliano) perché in Kant la rifiessione è sul già dato (esperienza nel senso comune della parola), laddove per Hegel essa è il mostrarsi dell'essente nella filosofia stessa, e il logos (l'Assoluto) si mostra nella filosofi.a, filosofia è anzi questo suo mostrarsi a se stesso, questa storicità del suo rivelarsi logos a se stesso. I-a filosofia si chiarisce hegelianamente in identificazione processualmente attuantesi in cui I'alterità o estraneità è tolta o superata, perché la cosa pensata non è al di 1à del pensiero, non è fuori di esso, non essendovi un ., fuori >) se non per il pensiero, in esso 28. La cosa dunque non < è >, ma ( appare > estranea al pensiero, ché se fosse verarnente estranea sarebbe estranea all'essere, divisa dal proprio , non essente. Il senso in cui Hegel parla dunque di sapere assoluto è quello del sapere che sa se stesso, del sapere che è tale corne se stesso, e solo come se stesso è sa-

pere (ia sua assolutezza è ia sua incondizionaterza rispetto all'< altro >, il non essere condizionate dafk altro >, ché l'altro è tolto da esso nel suo essere saputo). Così il sapere assoluto è tale manifestandosi nel mio sapere, ma iI rnio sapere si annulla come mio nei confronti della validità sua che non è relativa al suo < appartenere a me >, ma è assolilta, ossia indipendente d-all'essere mia. Solo questa è la eliminazione della trascendenza di un principio che non si risolva nel sapere stesso: la presa di coscienza di sé come assoluto, laddove si è potuto interpretare questa negazione del trascendere nel senso duale con la immanenza del principio o riduzione monistica del sapere e dell'assoluto. Il punto è delicato e difficile e per esso dovremo indugiare piuttosto a lungo, si tratta, infatti, di mostrare come ii pensiero hegeiiano valga contro Flegel, precisa-

îo

mente non importando quella assolutizzazione o immanentizzazione monistica in cui Hegel lo chiude. La rcahA effettìva non è la separazione inerente alla trascendenza del t principío *, ma la necessità del princípìo è trascetr dente solo in quanto non identica a ciò che lo richìede. L'essere infatti come vero (Wìrklìchkedt) è riflessione in se stesso o mediazione, che è 1'< autoeguaglianza ", la sua < mov€ntesi eguaglianza > 4, per la quale il nero A diventa A: A. Ma la mediazione di sé si chiarisce, come s'è visto a proposito della giustificazione, nello essere ( sé come mediazione, mediazione quindi non as' soluta. La forma del filosofare è la necessítàú, perché filosofare è mostrare la impossibilità che non sia ciò che in essa si afferma. Questa necessità però non può venire trovata come ( immediata r) e come ( presupposta >, ché una necessità presupposta sarebbe una necessità che non riesce a mostrarsi < necessaria >. Contraddittoria è appunto l'espressione .. necessità presupposta " perché il necessario si afferma solo negando la propria nonnecessita, si afferma togliendo il suo opposto, il quale toglimento è necessario comunque, pena la negazione (toglimento) necessaria della necessità (è impossibile dire il necessario senza usare della negazione). Ma per affermare tutta la portata teoretica dell'affermazione hegeliana intorno alla necessità come ., forma l del filosofare bisogna riandare a quello che nel paragrafo

7 della Encic\opedia Hegel chiama il " principio delI'esperienza " e del quale egli dà formulazione anche nel-

la sua Storia deîla Filosofiasa, prtncipio in cui si toglie intenzionalmente la possibilità (presupposta) che la filcsofi.a o pensiero speculativo valga come mera ( forrna > del vero al vero imposta dall'esterno( formalismo):

Per accettare e tener per vero un contenuto l'uomo '. Qui si afferma l'esperienza nella sua radicatrità (totalità), per la quale della


come potrebbe apparire, la fuga nell'immediato è o!tremodo ambigua e contrastata, perché il rifiuto è una forma immatura (teoreticamente non saputa) della negazione. Dove tale rifiuto sapesse la propria ragione troverebbe appunto quella autentica < ragione o che vieta all'intelletto di valere come l'unica forma dei vero e si. negherebbe come rifiuto, coniraddicendosl. consapevolmente ed affermandosi come dialettica. Quella pr,r,ooloyíc, che sembra una awersione per la ragione, si rivelerebbe intima contraddizione della ragione con se stessa, contraddizione che va tenuta ferma perché si mostri la u ragione > stessa come pensiero che sí solleva nel o puro elemento di se stesso > 34, sopra la coscienza immediata ed intellettuale: elevarsi necessario al necessario 35 mediante la negazione deli'immediato (come mediazione, appunto). Ancora alla necessità come < forma > del fiIosofare va riportata la critica hegeliana aila < fi.losofia critica , kantiana. Ché non è possibile indagare, prirna di procedere, sulla facoltà di conoscere, indagare per vedere se conoscere si possa: indagare il conoscere è già conoscere e quella indagine è anch'essa una contrafiazione delI'autentica critica (dialettica) consistente nella giustificazione di quello che può dirsi il bisogno filosofico 3u " ' come il bisogno più alto e che si oppone al mero " intellettuale " (al Verstiindig). In quale senso bisogna giustificare il pensiero filosofi.co se questo è necessità? In quale senso insomma della necessità si deve dare dimostrazione necessaria? Da una parte la domanda intorno al senso in cui il pensiero filosofico è necessario appare impossibile ché non è possibile collocarsi in una prelirninare neutralità con-ie era accaduto a Kant, e poi al Reinhold per iI quale I'inizio del filosofare era un filosofare ipotetico e problematico per presupposizioni prelirninari; e si veda, a proposito, il paragrafo 10 deltra

Enciclopedía, nonché l'intera Scietrca della I'ogica; perché la necessità non può essere ipotizzata come non-ne" cessità onde passare a dimostrarla; d'altra parte, essa non sarebbe veramente necessità (non sarebbe veramente pensata come tale) se non fosse giustificato il suo essere necessità, e quindi dimostrata, mediata. Così si vede che la giustificazione della necessita del fllosofare ha luogo solo dentro il filosofare, ché giustificare (mediare) è filosofare; la giustificazione stessa di sé è appunto la filosofia che giustifica se stessa come bisogno di giusti-

ficare (che venga giustificato tutto ciò che nell'esperienza si da). I1 < principio d'esperiewa> oÍa si rigonzza proprio in quel < dentro > che appariva nella sua formulazione: 1o essere dentro la stessa esperienza per poter dire la sua necessità significa che la giustificazione della necessità è la necessità stessa della giustificazione, la necessità della filosofia. 5. La determinazione di un < compito > importa che dell'assunzione iniziale delle attivita umane nel loro < complesso ', la necessità di stabilire il nesso tra ciascuna attività e lo o scopo > previsto di essa, nella unità dell'esperienza, esperienza che può dirsi la presenza stessa dell'umano. Lo scopo è da consideraîe consaputo nel momento in cui per esso si prevede la funzionalità dello strumento, nonché la proporzione tra attività ed esito di essa: 1o scopo è dunque I'esito stesso in quanto previsto o la stessa prevedibilità di un'azione nel suo sorgere come < orientata > dalla sua determinatezza. E' questo da chiarire, ché parlare di un compito della filosofia nello stesso senso in cui si affidano " compiti > da attuare alle altre attività dell'uomo entro la supposta complessità delie < esperienze > signifi.cherebbe togliere alla filosofia il suo essere filosofia, imponendole un limite che essa

si rawisi all'interno

23

24

non sopF)rta, e quindi che essa supera (= non ricono sce come limite), ché non sarebbe fiIosofia se si collo' casse in funzione di qualcosa che ne segni il r compito r come raggiungimento da tentare di esso. La filosofia è d,a consíderarsí la rtalídítà orígínaria della relazíone strutturante la realtà nel suo essere (o ttalere come\ esperienTa: la filosofia è tutta nella struttura ortginaia ed essa sottende quindí alle altre attittitA k qualì, altre tra loro, non sono veramente < altre, da essa.Il compito che aUa filosofia si affidasse sarebbe compito non fllosofico, ché esso indicherebbe pur sempre un < dover essere r da essa separato, e quindi da essa mai raggiungibile (dove andrebbe quel < dover essi chiede infatti Hegel 87, se si realizzasse?). sere ', Una volta chiarito che alla filosofia non si possono affidare compiti r nello stesso senso in cui compiti si " afrdano alle altre attività dell'uomo, il senso del frloso fare è determinato come c il senso r che si cerca di qualsiasi attività consaputa nel suo porsi e, quindi, nella ragione del suo essere tale. Non si dice che la filoso fia sia < conferimento di senso r a ciò che da essa attende la ragione del suo < porsi D, ma che la filosofia è, comunque, la richiesta stessa o necessita di c avere t senso e, quindi, la ricerca di questo (= il ricercare come relazionarsi di qualsiasi attività alla propria ragione). Filosofia, può dirsi, a questo livello, la consapevolezza della necessita che vi sia il senso del ricercare in cui, nella loro varieta e complessita, si articolano le < esperienze r, consapevolezza che vieta di ridurre a questo ( ricercare r iI senso da esse cercato e che vieta di < dare " ad esse un senso che contraddica il * ricercare > in cui esse ontologicamente od originariamente si attuano. Avere colto I'originarietà della ricerca in cui si attuano le esperienze significa avere colto la necessità che ricerca ed esperienza coincidano e che la consapevolezza dello esperire sia o si attui nella consapevolezza di che

importi per se stesso il

ricercare r. Ed è qui che ricerca tra le altre, né come ricerca suîle altre ricerche, ma cG

cosa

e

si pone I'intero discorso fiIosofico, non come

me presenza. (struttura) del ricercare i:x esse, presenza che è e presente D neUa stessa ricerca che si tentasse di essa e che non può essere quindi il risultato di un procedisrento logico inteso a raggiuugerla. E si può dire così che la c ricerca filosofrca ' non si attua come un < andare verso r una meta più di quanto non consista nel consapere la presenza stessa di questa meta nello andare ad essa, presenza che segna di questo * andare > il senso o il verso ed è, quindi, già tutta nel sorgere od orientarsi del movimento. Il modo d'essere di questa presenza coincide appunto con il < proble matizzare,' proprio della filosofia che è e si mantiene solo in quanto non cede alla tentazione di sottoporre se stessa alla problematizzazionet, ciò che si cerca non può essere la possibilità > o intelligibilità del ricercare, ma " della ricerca si sa solo se si { esaspera r la ricerca e nel senso letterale e preciso del c portarla al limite D, e sapendo che cosa importi iI concetto di limite inerente alla ricerca ed in quale senso di lirnils si possa parlare dove si noti che Io stesso limite, una volta posto, deve venire tuttavia giustificato (e quindi almeno in questo senso

( cercato

D).

Solo se il concetto di limite si chiarisce in ordine aI suo venire saputo è possibile che del ricercare si abbia piena consapevolezza e, quindi, si riveli il senso del filosofare. Ma la questione di che cosa sia filosofia o del senso del filosofare ha a sua volta senso solo se è filosofando che si domanda alla filosofia di avere un senso, di modo che il senso del filosofare è il filosofare sul suo senso: il senso della filosofia essendo la necessita che essa sia, il filosofare si risolve nel senso di se stesso, nel < conceptus sui >, autoconcetto. Si chiarisce, in tal modo, che la circolarità della que

25

26

stione della < natura > della filosofia è data dal carattere filosofico di tale questione, che nega senso alla questione, se essa non fa di se stessa la consapevolezza di sé; ne segue che la è qui la puntualità o indivisibilità deila filosofia e che l'autentico problema filosofi.co è la stessa autenticita de1 filosofare o la filoso fia è autentica solo come ( problema >, che è la filoso fia non come problema che si abbia di essa, ma come problema che essa < è r, a se stessa, continuamente convertentesi in < problema " dell'alffo da sè. Ciò che si dice problematicità pura è la puntualità in cui I'unico " " modo di essere a se stessa < problema " da parte della filosofia è I'essere se stessa solo come ( problema D. Non v'è dunque un probiema < interno > o soggettivo ed un problema < esterno > ed oggettivo della filosofia, perché essa non ha oggetto e non ( è >, quindi, soggetto, ed è questo che si dice, a rigore, dicendo che essa è atto in cui e per cui si oggettivizza, problematizzandosi, ciò che < è >, come sua domanda di essere 1)eramente. Ché, se si desse una : può dirsi ciò che I'atto, ponendosi, supera superan{o la pretesa di essere posto una volta per tutte, definitivamente, conclusivamente. Ma qui si inserisce il discorso da fare sulla differenza tra storicità che è problematicità e il tempo che è " situazione ". tempo 38 lo Heidegger dà l'esposizione < ontologico-esistenziale > del proble-

6.

Al paragrafo 72 di

Essere

e

ma della storia, proponendo I'interpretazione temporale della .

fl tempo, appunto come figura del presupporre, è contraddittorio, cosl come è contraddittoria la presupposizione (presupposta a se stessa, all'infinito, mai veramente ( posta r) e consiste nella propria inconsistenza, che è lo antenot'tzzare I'antecedente all'antecedente e il prima r in cui si vuol vedere il tempo (prima-dopo) " non condiziona la presupposizione, ma ne risulta condizionato, chè, se esso ( precedesse n la presupposizione, precederebbe se stesso, ed anche come ( precedente > esso è tutto c presupposto >, è tutto nello essere pnesup posto, è tutto nel nonessere-posto. Così gli < eventi r che vengono incontro nel tempo (r natura r) come c intratemporali D non accreditano il tempo come loro radice ontologica, chè la < intratemporatta r è tutt'uno con la temporatta, lo intratemporale non è I'c evento -nel-tempo r, ma il tempo nell'evento, interno a se stesso, il dissolversi dell'evento ne1 tempo che 1o fa u essere ) come non-essente.

L'affermazione radicale che qui mi sembra da fare è dunque questa: non iî tempo è îI luogo ontologìco del problema della storìcifa (Hsrnnccen) ma è íl probletna " " stes.so come problematìcità o processuafitA ín atto ad essere e storía > (M. GsNrrLa); e lo storicizzarsi non è il

28

temporaluzarsi dell'intemporale, o

il

risolversi del dive-

niente nel tempo del suo apparire, ma è la storicita stessa dell'essere radicalmente < essenti

r

)

a valere come

nel proprio c divenire r. Al paragrafo 73 di Essere e teÌnpo, lo Heidegger dice della ( comprensione volgare della storia r che è lo stesso storicizzarsi dell'Esserci, donde il problema: < che coI'essere c esperienti

sa è originariamente storico >. Bisogna chiarire che cosa è da intendersi per < comprensione >. La comprensione è lo autoprogettarsi sulle possibilita concrete dello essere-nel-mondo, esistere come questa possibilita, ed ap punto il diverso concetto del n mondo o e della u possibilità ' svela la diversita di prospettiva ontologica in Heidegger e in Dilthey. La derivazione da Dilthey del paragrafo 72 di Essere e tempo è esplicitamente dichiarata da Heidegger; ma se per il Dilthey la storicità (l'uomo come essere storico) è successività, per Heidegger la storicita è lo essere dell'Esserci,' dove per il primo la storicità è I'orizzonte dell'uomo e quindi il ( mondo r dell'uomo, in cui l'uomo si inserisce ed < esiste > per una sua inclusione relativistica nella storia donde il suo condizionamento storico, per il secondo, una volta accolto il motivo della storicità condizionante, la storia è radicalizzata nella stessa < temporalità >. Da un canto, dunque, il relativismo storicistico di Dilthey cade fuori della mia indagine (indugiare su Dilthey significherebbe cedere ad una fenomcnologin), dall'altro, iI pensiero di Heidegger, nella sua radicalizzazione della storia nella temporalità, è precisamente I'opposto della mia conclusione, che è chiaramente hegeliana, che il tempo è non l'essere dell'esistente, ma l'esistente svuotato del proprio essere. Questo mio discorso significa da un canto la perdita di ogni interesse teoretico per I'assunzione detrla nq. zione di tempo secondo la linea agostiniana operante anche in Leibniz ao ed in Kant, in cui la considerazione è descrittiva e fenomenologica (e tale da involvere me-

2E

tafisiche inficiate da < fenomenologie >), dall'altro significa il ritrovamento della negazione del tempo quale affermazione autentica del < divenire > e, quindi, la considerazione non piir < fisicale > del tempo (quella che viene accreditata da qualsiasi fenomenologia del tempo), ma " metafisica ' di esso, ossia del tempo nella sua intima < inconsistenza u, nel suo essere il proprio dissolversi.

30

7. Nella Logica di Jena (1802-03) lo Hegel coglie il concetto del tempo nella semplicità del suo essere assoluta negazione, come ( limite del presente >, che esclude da sè ogni molteplicità; così che 1o < ora ' è la sua stessa negazione, lo < immediato l> contrario di se stesso; e l'astratta differenziazione dell'ora è coinvolta nella contradclizione. Nelle lezioni del 1805-06, lo Hegel afferma che u il tempo è I'essere esistente che immediatamente non è u e . il non essere esistente che immediatamente è r. Il tempo è dunque l'esistenza della contraddizione che si toglie e si supera, il Dasein del costante superarsi, chè i suoi momenti sono mere astrazioni nelle quali opera la negazione di sè, la e svela la inintelligibilità del suo concetto che è poi la non concettualiz-zabilità del tempo. Appunto solo lo Hegel perviene a sapere la pura negatività in cui si muove la coscienza comune del tempo anche nella sua esasperazione che è il criticismo a2. Non mi pare, pertanto, che si possa dire che I'analisi del tempo, istituita da Hegel nei corsi del 1802-03, 05, 0ó,

sia l'esposizione della vita dello spirito come struttura temporale, chè l'originalità dello Hegel in essi è piuttosto il rilevamento della contraddizione vivente nel tempo (vivente come tempo), e, quindi, la non verita del tempo, Ìa sua < irrazionalità >. La potenza del tempo è solo infatti la sua impotenza e ciò che mantiene al tempo un valore è solo ciò che mantiene valore allo < intelletto D e fa di questo la esaustione totale della totalità (o, equivalentemente, la totalizzazione dell'assoluto ). L'indugio, dunque, sul tempo come tempo è per se stesso eludente la vera ricerca che è attraverso il tempo, attraverso la negatività del tempo, che ponendosi, si nega da solo (si contraddice). Attraverso il tempo, diciamo, ossia negando la positività pretesa di esso e recuperando la dialettica del divenire dalla rappresentazione astratta, dialettica del divenire che è, a rigore, il carattere dialettico del divenire come tale, Così, la definizione hegeliana del tempo è < iI divenire intuito >, ossia il divenire in quanto rappresentato, il divenire stesso della rappresentazione (il suo venire meno, il suo non consistere come concetto). " Il tempo è I'essere che, mentre è, non è, e mentre non è, è; il divenire intuito (Das angeschaute Werden).

Il

"

che significa che il tempo non è un divenire < esteriore > perché esso non conserva ciò che sorpassa, ma che, appunto perché sorpassa se stesso senza conservarsi, esso non è divenire neanche come ( esteriore > e che la < esteriorità " in cui si ha < rappresentazione, è la negazione stessa del divenire ed è u tempo >. La differenza tra divenire e tempo è appunto che il tempo è tutto nel suo togliersi e non si conserva come tolto, il divenire invece è il conservare superando e superare conservando a3. L'esteriorità del tempo (esteriorità ad esso essenziale e che esso mantiene anche se trasferito all'interno dell'io o del soggetto, come forma dell'intuizione) è appunto la ragione della fatuità delle

3t

culture nelle guali si ha la c esteriorizzazione dello spirito a se stesso p{ la a estraneazione di se stesso che ha il suo esserci nel mondo della cultura r, fatuita che c ha bisogno della fatuita di tutte le cose per dare a se stessa,

derivandola da loro, la coscienza del Sè ra5 e il suo senso è o la inversione di tutti i concetti e di tutte le realta; lo inganno di se medesimo e degli altri, {8. Ma qui si annida il c cattivo >, in questa singolarità radicata nella frnitezza < passeggiera e temporale ", la quale Don c è r, essendo unilaterahnente e, quindi come tutta esterio rità{? e si può veramente dire, con buona pace di Kier-

kegaard e dei suoi italici divulgatori, che < il cattivo di sè come singolo r 18. Il tempo, come finitezza unilaterale è dunque l'oastrarre che insieme è ,, n" vale come lo astrarre dal divenire concreto, non come la" condizione concreta (anche come a priorí) del divenire esperito (Kant). E quando lo Hegel afferma che < le dimensioni del tempo sono il presente, il futuro e il passato, sono il divenire come tale dell'este riorita r 50 rlon afferma un divenire dell'esteriore (la rap presentazione), ma un suo finire > che è il trapasso nel " nulla, lo essere tutto nel nulla di questo trapasso, così che c il passato e il futuro del tempo, in quanto sono nella natura, sono lo spazio; perché questo è il tempo negato: e così lo spazio superato è dapprima il punto, e, per sè sviluppato, il tempo ,' sr. Si incontrano così puntualmente nel pensiero di Hegel le affermazioni prospettabili del nesso tra storiografia naturalistica e confusione tra < storicità > e < temporalità ,r, così che il mio discorso si chiarisce come hegeliano nella misura in cui è chiaro in Hegel il carattere meramente astratto e, quindi, matematico, del tempo, così che voler salvare il tempo come < durata u indivisibile dalla matematizzazione (Bergson e suoi epigoni) è un compito inattuabile, il tempo essendo, giusta lo stesso etirno delia parola 52 < divisione >. consiste nell'aver cura

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8. Il Cassirer nella sua indagine su1 tempo, come < forrna simbolica o t" rileva come al tempo, forrna onnicomprensiva dell'esperienza, laoÍt sia essenziale lo spazio, ii quale, invece, sarebbe essenziale aI linguaggio, ossia al .< dire > il tempo, linguaggio per se stesso mitico in cui

il

< di > oggettivante irnporta pur sempre un'alterità spaziale (spazializzante). Dunque, egli intende distinguere il < tempo > come effettiva dwrata, o " verità > del concreto, dal tempo inteso come estrinseca misura (e si riflette in questa sua posizione la ormai classica critica bergsoniana della temporalità > e I'afiermazione della " s+1. Ma in Cassirer v'è .. durata ", irriducibile al tempo tuttavia ancora I'ambiguità tra il < tempo > e la funzione gnoseologico-linguistica del < dire il tempo rr, in cui lo spazio entrerebbe alterando la a indivisibilità origina' ria del tempo: egli, insomma, rnantiene al tempo una duplice accezione, distinguendo da esso Io ., spazio r. Se non che, il tempo non può, a rigore, venire rappresentato se non spazialmente ed anzi questa spazialità rileva che il tempo è per se stesso concettualmente nullo, inintelligibile, come inintelligibile è a rigore lo spazio. Ed è quanto ci accingiamo a vedere. Poiché il tempo è tutto nella rappresentazione di ciò che accade, lo accadimento nel tempo si risolve nella figura del " prima D e del < dopo ,' i quali, non appena si pongono, si reahzzano anche come < indietro > e .. avanti ,t, e si dice, infatti, che il futuro ci sta davanti e il passato ci sta dietro e, comunque, il tempo è visto sempre nella sua progressività in funzione del futuro e del passato che sono irreversibili appunto perché disponentisi in .. progressione > spaziale I'uno accanto alt'altto. In tanto è possibile univocizzare lo < accadere >, in modo che si dica un < accadimento > dopo l'altro e si stabilisca la " continuità D di questi accadimenti cercandone la < storia >, in quanto si ponga una tale .< unità > che permanga neL succedersi di quei momenti nei quali si

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vede < accadere ) gualcosa. Precisamente è da vedere cosa significhi questa unità in cui si situano quei momenti, e che non si moltiplica né si divide ma resta sempre la stessa appunto perché in essa quei momenti si situino e si situi il rapporto tra ciascuno di essi e l'accadimento connessovi. Il tempo si ha così come tale da dividere gli accadimenti tra loro in ( contemporanei >, ( precedepfi >, < Successivi >, almeno come disposti in modo che si dia un senso alle espressioni correnti ( serie del tempo >, < ordine del tempo >, < insieme del tempo >. Tutte immagini nelle quali il tempo è per se stesso .< spazio > orientato almeno per un verso (spazio in movimento). Ciò che appare determinante qui è appunto lo < stare > (o situarsi spaziale) in cui solo si possono fissare i < momenti > funo in funzione dell'altro, sia pure come orientati l'uno prima dell'altro. Diciamo intanto che il tempo è necessariamente assoluto, nel senso che esso non può non venire posto come ( qualcosa > in cui accadono gli " eventi >, in cui i momenti si succedono 55, anche se tale misura è la relatività di essa agli accadimenti, la relatività che fa essere un evento accanto all'altro se non altro perché sussista la possibilità di far coesistere l'accadimento in simultaneità con altro accadimento (se questa simultaneita venisse meno, non vi sarebbe cronologia).

Ju:

9. Il tempo è tale che in esso ci si trova situati nel momento in cui ci si trova esperienti (sapendosi c io " nella successività delle " esperienze "). Questo trovarsi situati in esso significa che non è possibile pretendere di " dire > il tempo come estraneo al nostro stesso dire, e non è possibile che sussista una differenza effettiva tra il tempo che < è > e il tempo che < si dice >, tra il tempo e la posizione che 1o esprime linguisticamente (anche il ., dire > il tempo, infatti, appartiene al tempo e nel tempo

solo è possibile dire e ciò che è nei tempo e ciò che si

" ritiene ) non riducibile ad esso). In questo senso, il tempo è < intrascendibile > (anche dire li, eterno > è dire nel tempo ciò che non n è > ternporale); ma questa intrascendibilità del tempo non irn-

porta per se stessa la assolutezza del tempo, intesa come esclusione dello .< intemporale ), ma solo la < assolutezza > del tempo intesa come la sua ( coestensività ) con l'esperienza. Questa differenza tra le due signi-ficazioni della assolutezza del tempo va dunque giustifi.cata e mantenuta. Dire che il della rappresentazione successiva non è spiegare il tempo, ma riprodurre nella espressione ( tempo-come-schema " il problema che il tempo poneva semplicemente come < tempo Il " poi, in cui si vede la posizione di ciò che non ". è accanto ad altro e che difierenzia il < tempo > dallo " spazio u (lo spazio è tutto " insieme )' e non ha bisogno di un dopo) non è ciò che spiega il tempo, ma ciò che, incentrando in sè il ternpo, esprime lo acme del suo problema 56. Per poter dire, infatti, che x viene dopo y bisogna che lo y sia saputo senza ciò che lo . segue >, così che lo x, saputo per se stesso, non ( segue D ma semplicemente si pone: si sa che x segue y solo se si mantengono in qualche modo nel medesimo tempo x ed y. La chiarificazione della nozione di u tempo > incentrata nel u poi n si ha mediante una precisazione tra quello che si potrebbe husserlianamente dire il ( tempo fenomenologico > e quello che potrebbe dirsi il tem" po cosmico Alla base di questa differenza, infatti, sus". siste la distinzione tra la .. successione delle rappresentazioni o e la < rappresentazione della successione ,r: quest'ultima non risulta dalla prima, chè della successione non si dà successione. Possiamo convenire di chiamare tempo fenornenologico la < rappresentazione della successione " e di chiamare tempo cosmico la < successione delle rappresentazioni u, perché il * cosmo > co-

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me ambito di queste successioni non può venire saputo come tale se non rnediante quella ( rappresentazione " delle successioni che non < deriva ' da ciò che essa condiziona. E' da vedere, a proposito, il testo husserliano, al quale rirnando 57; rna il testo husserliano non mi pare integri il testo kantiano, chè, anzi, il significato di esso mi pare che sia proprio quello kantiamo deltra .. inesperibilità " del tempo, il quale non < è > un concetto empirico (derivante dall'esperienza), non è un .. fenomeno > tra i fenomeni, non è, propriamente, una rappresentazione tra le altre, perché non può mai essere o valere come oggetto di percezione. Esso tuttavia < appartiene > all'espertenza come sua costituzione, costitutivo dell'< oggetto >, chè non v'è oggetto che non sia < situato >, che non sia un del tempo stesso in cui è dato, che non venga prima o dopo altro oggetto. Si potrebbe dire kantianamente che il tempo non è oggetto ma è la stessa < esperienza > dell'oggetto. Per Kant infatti ciò che si dice dell'esperienza si deve dire del suo oggetto; il quale non è < trovato > dall'esperienza, ma è strutturato dall'esperienza, tutt'uno con essa. Ed in questo senso I'esperienza stessa è temporalità. A rigore però si sarebbe potuto evitare di parlare di < rappresentazione ' del tempo, chè appunto esso è del rappresentare (struttura dello esperire come rappresentare). Sembra invece che Kant si sia fermato a metà strada ed abbia si scoperto la inconsistenza noumenica del tempo, ma che lo abbia empiricizzato, a suo modo, trasferendo il tempo assoluto newtoniano alf interno del < soggetto >, come sua struttura ed anche come pura e a-priori. Il tempo al quale Kant si riferisce è tutto intero il tempo della coscienza cornune r, l'ambito intenzionaie " delle circosta\ze e degli u accadimenti Ciò che sembra ". mancare in effetti alla sua indagine ó8 è precisamente il concetto di < istante u in cui il tempo incentra la sua

peculiarità, corîe era stato visto da Platone nel Parmenide.

Ciò che importa a Kant è piuttosto la genesi 5e del concetto di tempo (il segno di questo problema è la ind.erivabilità del ternpo da ciò che si situa in esso, la negazione del suo essere esperibile). Poiché il .. tempo u è inderivabile, e poiché esso non può non essere costitutivo deil'oggetto esperito (la < sensibilità >), si passa ad affermare la sua apriorità, che è trasferimento di esso dalla rudimentale posizione della cosa .< fuori di me, nelia sua posizione .. in me >, trasferirnento che mantiene la nozione di tempo come la coscienza comune lo congetturava, con la variante, ad esso estrinseca, del suo essere nel soggetto. La domanda " donde il tempo? " si pone come originario contesto logico dell'afiermazione kantiana delia soggettività del tempo, la quale ha la struttura della determinazione del o iuogo ideale > del tempo: egii non si clornanda che cosa " è > il tempo, ma .. dove " esso si trovi, il suo < luogo >; il concetto che Kant ha del tenpo è presupposto dunque alla sua ricerca, che riguarda la origine del ternpo e che riproduce surrettiziamente il tenpo nella questione della sua < origine '. Ma allorché iL concetto di tempo si affaccia problernaticamente, la soluzione del problema che Kant propone è anccra il problema mantenuto allo stato di insolubilità, corne è nelI'espressione kantiana dell'arte segreta e nascosta in seno alla " natura u (il vago e mitico concetto baconiano del!.o .l.

scherna ").

Una riprova delia rnancanza di penetrazione ciel concetto di ternpo nella sua naÈuía efîettiva (e non nel problema della sua origine) si ha nella mancanza delia chiarificazicne del rapporto fta simultaneità e successit:ità. Infatti, dove si parla di ( sirnultaneità " è neccssario che si pongano plrì termini (aimeno due), tia lcrc spazialrnente divisi e che < accadano > nel

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medesimo tempo; e senza questa spaziafita inerente a[lo < accadere > di più di uno non vi sarebbe " simul.-

taneità, (l'uno non è simultaneo a nulla), così come la posizione della spazialità per il situarsi di più di uno, simultaneamente in " luoghi diversi >, suppone il ( cangiamento >, ossia il passaggio ideale di un situato ad altra < situazione >, restando ciò che esso è, chè, se non vi fosse questa possibilità di cangiamento, ciascuna < cosa > si identificherebbe con il proprio luogo, con il proprio ubí spaziale e non vi sarebbe rappresentazione dello spazio, e neanche si potrebbe dire che la cosa è spazialmente situata; ma il cambiare di luogo restando ciò che si è significa che < prima > si è in un < luogo r e < dopo n in altro, signifi.ca, insomma, involvere la nozione di tempo. Con che resta già affermato che tempo e spazio sono reciprocamente la spazializzazione del tempo e la temporalizzaziome dello spazio, ne1 senso che non si

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dà l'uno senza l'altro. Se la coscienza comune immagina il tempo come ciò che cambia continuamente, l'affermazione di Kant è sostanzialmente che qualcosa cambia essendo nel tempo. Ma la rigorizzazíone di questa affermazione è, piuttosto, che il tempo è lo stesso cambiare, la struttura del cambia.mento in quanto ( rappresentata >. E si profila qui la famosa definizione hegeliana del tempo, di cui si è detto. La connessione tra spazio e tempo è dunque tale che il tempo non è la originaria posizione di qualcosa indipendente dallo spazio, così che si possa attribuire allo spazio la responsabilita deila alterazione del tempo nella rappresentazione di esso (come il Cassirer sembra supporre), ma il tempo è per se stesso ( spazio >, la spazializzantesi rappresentazione del d ivenire. Dove infatti il senso comune congettura il tempo c+' me un presupposto dell'esperienza, di natura .. reale r, ossia ccme ciò in cui il singolo si situa per essere in

condizione di venire ( esperito r, la coscienza filosofica scopre che il tempo non è an presupposto dell'esperienza, ma che esso è la stessa struttura del " presupporre >, come un rispetto al porsi della cosa stessa: non il tempo si presuppone, ma pre-supporre è temporalizzare, come è chiaramente in Hegel. Ne segue che l'operazione kantiana di dire il tempo come soggettivo ed a-priori non è propriamente filosofica, perché essa mantiene il tempo come un presupposto, che sia a-priori rispetto all'esperienza di cui è presupposto, il presupposto essendo spostato così dall'esperienza alle sue condizioni soggettive e trascendentali. L'operazione kantiana infatti è ancora di natura u fenomenologica )D e questo spiega perché Kant possa parlare di u rappresentazione > vuota e perché egli possa ritenere appunto di rappresentarsi " il tempo nella sua stessa " funzione costitutiva dell'esperito, come ciò che condizie na l'esperito nel suo situarsi ( oggettivo,n e fenomenico. Ciò che manca effettivamente all'operazione kantiana è la consapevolezza che il pre-supporre iI tempo (fuori o dentro dell'< io ") è ancora tempo, e cosl il tempo presulF porrebbe se stesso. Ltdentità strutturale tra il tempo di Kant ed il tempo di Newton significa che il movimento logico che fa del tempo kantiano un a-priori è tale da assumere tutto in-

il

" di Newton così da farne un nella realta se non come sua forma o funzione, ma che non è, per questo, meno , meno .. qualcosa >. L'enti.ficazione del tempo, che è di natura mitica, ed in prosecuzione logica con la concezione < mitologica >' del tempo come destino, è responsabile precisamente della configurazione del tempo come ( necessitante,n I'esperienza ed a-priori rispetto ad essa fino a che non si sappia la sua non (realtàn: è una riproduzione ad altro livello della " realtà D presunta del tempo. tero

tempo

< assoluto

< qualcosa > che non è

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E' da chiedersi ora perché si sia potuto < immagirrare )) o congetturare il tempo corne un < ente " che abbia Ia medesirna realtà di ciò che si ritiene situato in esso, realtà .. fenomenica >, almeno come condizionante il fenomeno, o strutturante costitutivamente I'oggetto. Se si tiene conto del fatto che iI tempo indica un < passare > e che questo < passare n si rappresenta mediante

(mediatarnente) i terurini come un ( muovere Ca... a... o si vede anche che quel passare che è proprio del tempo non è un ( muovere da... > rrla un , in cui si dissolvono i termini stessi (passare non da un termine ad altro, ma passare che è dissolvei:e i termini i quali si passa). Di qui la necessità cli esaminare il concetto di " passaggio >. 10. Lo in-stans in cui si incentra il tempo è tale che esso non sta in altro se non in questo essere sernpre in altro e, perciò mai < in se stesso >, sempre in altro, e

quindi alterantesi continuamente per cui esso mai è

se

stesso.

Il succedere in cui si " vcde " il tempo è taÌ.e che ciascuno dei termini < succedenti > si dispone su di una

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linea orientata con un di percorrenza; ma è proprio questa linea e questo verso, senza dei quali non sarebbe possibile . descrivere n la successione, che compLicano il rapporto tra il momento del < passare e il ' passare attraverso i mornenti. Infatti, la linea che .. congiunge, ciascun mornento ad altro momento deve poter essere indipenCente dai rnomenti perché, se fossero i rnomenti a farla essere, dovrebbe darsi sempre un'altra linea secondo cui i momenti < procedono > ordinandosi in successione, riproducendo la necessità che la linea sia da essi indipendente. Conveniamo di denominare < pi,rnti > i singotri momenti della successione, per la loro * indivisibiiità >; si ha, quindi che il passare che dà il ( succeclere > è un passare

da un punto ad altro o un passare attraverso un punto ad altro punto. Se il < passÍrre da " implica Ia immobiiità dei punti dai quali si passa, il < passare attraverso > implica la divisibilità del punto e, quindi, la sua negazione (non, si badi, il suo superamento in altro punto, ma il dissolversi del punto, il suo non essere punto). Ora, sia la immobilità, sia la divisibilità sono esclusioni

della successione, perché la immobilità rende ininteiligibile il passare, affidando ad esso tra ratio dei suoi stessi ternini (come produttiva dei suoi termini, come < spontaneità >, < creazione r), la divisibilità è la perdita dei singoli momenti l'uno nell'altro, il loro non . Il passare, comunque, non può venire detto senza che si presuppongano i mornenti nella .. enumerazione ' di essi, così che se fosse in guesto passare (e la storia fosse temporalità) la successione sarebbe del tutto superflua, quale < ripercorrimento " di se stessa, posteriore a se stessa perché < posteriore ', a quella linea ideale su cui si dispongano i suoi momenti, nella loro successività 60. I-a storia sarebbe un processo di storicizzazione dello " astorico ), quale combinazione di due presenze, la presenza dei ( momenti > e la presenza del < movimento > e questa combinazione sarebbe il {( passare >. Dire che dal punto A si passa al punto B significa che al punto A viene sostituito il punto B: sostituire significa riprodurre la .. figura di A nella figura di B, " perché B non sostituirebbe A se non fosse < uguale > ad A. Ora, l'eguaglianza tra A e B se da un canto rende possibile la sostituzione (eguaglianza è operativamente sostituzione), dall'altro rende irnpossibile il movimento, perché l'unico rnovirnento che essa consente è quello della " reiterazione " dell'identico (l'eguaglianza è rapporto identico di piìl termini ad un ierrnine unico), in cui si ha la rnera numerazione per la cuale ogni numero è l'. uno > che resta tale anche preso più volte, cosicché in essa non v'è movirnento 61.

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Il movimento che appare nella sostituzione è appunto quello che è importato dal porre B al posto di A; ma se si riflette sul fatto che A viene tolto dal porsi di B e che B si pone al posto di A solo perché A non resta al suo posto, si vede che la nel suo stesso darsi), così che se ii < darsi ,, per se stesso importasse la divisione dello < un poco per volta n, l'intero non potrebbe darsi affatto: darsi non completamente è, in questo senso, completamente non darsi, non darsi affatto. Si suppone, infatti, una impossibile dualità tra il < darsi " e ciò che si dà (lo < intero "). Ciò che divide l'intero è, piuttosto, ciò che lo fa entrare, come , in un tlrtto costruito e, quindi ftttizio: 1o intero non sarebbe infatti < intero > se fosse parte, e quel tutto che comprende l'intero come sua parte sarebbe desso l'intero e sarebbe ( parte di se stesso ". Il carattere di costruttività del , comprendente l'intero e la sua assunzione, è tale che l'intero è già perso nel momento in cui lo si assume (l'intero non può venire assunto ,r, nello stesso senso in cui, si diceva, I'intero non può < darsi >). La divisione dell'intero, dunque, è piuttosto la moltiplicazione frttrz.ia dell'intero reiterato all'infinito, ia reiterazione indefinita dell'intero, mai veramente < intero > o già intero all'inizio, da sempre. L'intero sarebbe sempre il medesimo e, quindi, superflua sarebbe la sua riproposizione, la rnoltiplicazione della sua assunzione: la moltiplicazione è la stessa divisione il cui risultato è semplicemente l'intero come che < produce o figure cliverse dall'identico, proiettando se stessa

sulf intero, componendosi con esso; problema dunque fittizio della conoscenza separata pregiudizialmente dal conosciuto e la < storia > sarebbe il successivo ren.dere

successivo lo < astorico >, il non-storicizzabile. E' questo il senso in cui posso dire che il iimite della f enomenologia stortca è Ia successione: coscienza, coscienza di sè, ragione; successione che accrediterebbe

un'interpretazlone analitica delTa Fenomenologin d.ello Spirito hegeliana, analitica perché dovuta alla scomposizione 'risolutiva' nei < momenti > e quindi temporale, e presupponente se stessa all'infinito. Ma appunto quesia interpretazione suppone che la coscienza faccia esperienza di sé nei fenomeni, ritrovandosi dopo essersi perduta, dopo essersi alienata e che essa sia prima una coscienza che non sa di essere coscienza e che pcssí a sapersi divenendo se stessa. Questa interpretazione della Fenomenologi.a. hegeliana, per la quale essa varrebbe come la < temporalizzazione > dello spirito assoluto (e la storia sarebbe u cronologia >), potrebbe trovare una qualche giustificazione netrla incauta identificazione hegeliana tra .r logico > e .. cronologico )r, tra cominciamento ed < inizio " (per la quale lo Hegel poté far coincidere il cominciamento filosofico con le prime filosofie, le pifr " indeterminate > e, quindi, le più , a se stessa come < tempo D e nella contraddizione di sé. Se il tempo fosse intelligibile, la coscienza (o intelligibilità) sarebbe inintelligibile, non sarebbe.

4.5

I Nulla vi può essere di ovvio' in filosofia, perché di owio vi fosse esso limiterebbe la fi"losofia, arrestando il suo totale ricercare e la fi"losofia non sarebbe ciò che è, totale ricerca o puro problema'. Anche questa caratteristica della fllosofia è del resto tutt'altro che owia e deve venire dimostrata; essenziale atrzi alla filosofia è dimostrare che essa non può non essere ricerca totale, D'altro canto, che essa sia totale ricercare nella esasperazione (: riconduzione al limite) di qualsiasi ricerca parti colare non può valere come un risultato' di una dimostrazione che muova da premesse, perché le premesse almeno non potrebbero essere filosofiche e la filosofia, risultando da altro, sarebbe sempre. altra ,' da se stessa nel suo risultare e non risulterebbe mai; ché se quelle premesse fossero filosofiche, sarebbero poste dalla filosofia, poste dal loro risultato, non se qualcosa

sarebbero premesse o. Poiché nulla vi è di owio, tutto ciò che si presenta come owio è nulla; e la sua owietà è tutta (- solo) nel suo presentarsi. Non basta quindi che qualcosa si presenti perché essa sia vera5. Perché qualcosa veramente sia bisogna che risulti non vera Ia sua negazione, bisogna poter negar:e la possibi-

4n .iI

lità di negare quella cosa. Affermare il vero, infatti, non si può se non si afferma verarnente, e veramente non si afierma se l'affermazione non è tutt'uno con la cosa affermata, essendo tuttîno con la non-verità della negazione di essa, essendo cioè negazione dell'opposto. Fino a che non si pervenga

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a negare questo opposto, questo opposto è sempre possibile, sempre presente, così che quaiunque cosa si dica viene continuamente tolta dalla persistente possibilità di venire tolta. La vera affer:nazione è dunque la negazione di questa possibilità, la quale si converte nella sua stessa impossibilità (: si contraddice); questa conversione che svela il non vero afierma veramente ", è, anzi,la verità della cosa affermata, la quale, così, afferma se stessa. Non si può dunque affermare (sapere, quindi, cercare) il non-vero, perché il non-vero non < è r ed affermare il non-vero sarebbe non-affermare. Ma anche, ed è qui il paradosso, non si può affermare il vero se questa afferrnazione si mantiene originariarnente distinta dal vero di cui è affermazione, perché se I'affermazione fosse originariamente distinta, potrebbe anche non essere vera, il che, si è visto, è impossibile; dunque, affermare il vero significa piuttosto afiermare veramente, dove il vero non è cosa che viene affermata, ma cosa che afferma se stessa, se stessa in questa a$ermazione, che è I'attualità del suo essere (l'essere, il vero, è atto). Che nulla vi sia di owio importa che si debba * domandare tutto o'. Dunque il pensiero che intende la concretezza della cosa si attua con la scepsi, la quale radicalizza le affermazioni nella loro necessita di essere ( vere ,, di essere, semplicernente,

così che non è vera affermazione quelia che dica il vero senza saperlo tale, senza sapere mediatamente, senza sapere insomma che cosa significhi {< vero >. La scepsi dunque si attua all'interno del .. presentarsi > della cosa come vera e consiste nei modo in cui veramente si afferma la cosa nella sua verità. Nel suo astrattamente preso (questo tutto non sarebbe mai dato, e dovrebbe venire < dato > previamente all'atto della scepsi, e la scepsi non sorgerebbe mai, mancandole il termine su cui attuarsi); rna

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si applica a ciascuna cosa nella sua verità pre-tesa; si applica nel senso che si attua nel porsi stesso di una qualsiasi affermazione, la quale pretende di valere nel momento stesso in cui si pone. In questo senso, la scepsi integrale involve in se stessa l'esclusione che la negazione ad essa inerente sia necessaria ed assoluta, perché una scepsi assoluta escluderebbe tutto, ma varrebbe a sua volta come immediata datità di questa esclusione. Lo scetticismo integrale dunque è la negazione dello scetticismo assoluto, perché la negazione non può essere assoluta e la sua necessità consiste appunto nella sua impossibilità di venire negata e di venire afferrnata come necessaria. Così, se non si è scettici non si pensa, ma se verarnente si pensa non si è più scettici.

II

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Sapere l'immediato non è sapere I'irnmediatezza dell'immediato, perché sapere l'immediato (fenomenologia) è un sapere immediato, immediato anche come sapere e quindi ancora non-sapere (< sostanza >, nel linguaggio hegeliano). Il sapere dell'immediato non sarebbe tale se non fosse a sua volta .. immediato >, perché la immediatezza non è della < cosa stessa )>, ma del suo presentarsi: la immediatezza non è detrla cosa, la quale non può essere se non f identità semplice di sé con se stessa, ma del modo in cui di essa si dice, anche del modo in cui si dice di essa che < è u ed anche si può dire che l'immedia-

tezza è tutt'uno con quel preteso sapere che non sa I'immediatezza della propria pretesa. Sapere l'immediatezza è negare quella negazione del sapere o della rnediazione che consiste nel sapere stesso che di fatto ogni < immediato o è, nel suo contrapporsi al pensiero, come ( estraneo , ad esso: l'immediato si pretende tale in quanto si pretende ( estraneo ,' al pensiero che è mediazione. Sapere f immediatezza è sapere mediato, ma nel senso che il sapere è mediazione o non è sapere e nel senso che sapere irnmediatamente è immediatamente non-sapere.

iII E' dunque veramente posto ciò che non è immediatamente dato, chè l'immediatezza è della sua " datità n, la quale fissa la cosa in una ( esteriorità > e importa nel suo essere < data > tutte le aporie tipiche del naturalismo'. E' veramente posto ciò che include nella sua posizione la giustificazione o mediazione della sua validità, perché solo così esso è se stesso, integralmente. Il valore di un qualche discorso è infatti, inizialmente almeno,la sua pretesa di valere, perché anche nel caso in cui si pretenda di ipotizzare un discorso del tutto privo di valore, non si può non commisurare questo discorso a quel ., valore,' rappresentato dalla pretesa assenza di valore. L'ambito del discorso è dunque, in ogni caso, il rapporto tra il suo porsi e ii valore per il quale esso integralmente si pone.

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Ne segue che la determinazione è tutt'uno con la validita, così che veramente.. è' (= veramente è determinato) quel discorso che non solo mostra (pretende) una validita presentandosi, ma prova la legittimità di questa sua pretesa, pretesa implicita del resto nel suo stesso presentarsi. Infatti, fino a che il discorso non si attua negando l'altro discorso che si pone accanto ad esso quale possibilità di negarlo, ogni sua posizione è in-determinata e, quindi, per I'equivalenza tra indeterminato e nulla, è nullo. Ne segue anche che la concretezza di ciò che si pone è la sua determinatezza,la quale è la integralità di ciò che si pone e della negazione da esso attuata della possibilità opposta, così che è ., concreto ', solo ciò che i innegabile: concretezza dunque è innegabi lità. E ciò che può venire negato è quindi già negato da questa possibilità, non veramente è posto, è posto solo astrattamente; poiché la negazione che trova, attuandosi, la innegabilità della cosa è pensiero, la concretezza della cosa è , ma è la pensabilità " '' che è I'attualità del pensiero, iL togos.

nel pericolo di non essere

VI

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L'originalità di Hegel appare in tutta la sua forza nella eliminazione delie problematiche spurie dalla filosofia, eliminazione che consegue al pensiero hegeliano, anche se di fatto non sempre da Hegel è fatta conseguire. Si elirninano le problematiche derivanti dal non avere ancora chiara consapevolezza che pensiero e cosa pensata sono la stessa cosa (la ). L'originalità di Hegel è, in questi termini,la ri-

trovata originarietà della filosofia, la raggiunta identità tra pensiero ed essere. L'identificazione, che si esprime nella identita úa logica e metafisica, o tra \ogos dell'essere ed essere dellogos, è di natura processuale; e questo è da ribadire, chè, una volta attuata, essa decadrebbe, se non fosse tutt'uno con il processo, alla negazione di se stessa, opponendosi come < dato " al pensiero che la trova. L'identità tra pensiero ed essere è nel non di- i stinguersi dell'essere dal pensiero e, quindi, nel non i rapportarsi delluno all'altro; se essere e pensiero si; distinguessero, il pensiero, infatti, potrebbe essere anche pensiero di ciò che non è, e nel pensiero vi po-, trebbe essere il non-essere e il non-essere sarebbe, sarebbe pensabile, insieme sarebbe e non sarebbe. Il carattere processuale dell'identità tra pensiero ed esi&é, donde'il termine più appropriato di u identificazione >, si riconosce mediante la negazione cbe la cosa pensata sia al di là del pensiero, che il pensiero cerchi la cosa, la quale dunque, non è come si presenta al pensiero, se al pensiero essa si presenta come < al di là >), come cercata per uno sfozo che il pensiero compia per uscire da se stesso od anche, ed è lo stesso, per trovare in se stesso la cosa pensata, ma come ( cosa >, a prescindere dal suo essere pensata. Lo " al di là ,,, con il suo correlativo " al di guà >, indica una spazializzazione quasi limitazione che il pensiero, rimanendo al di qua del suo limite, trovasse o subisse. Il pensiero non trova nulla che lo limiti, ché limite comunque sarebbe da pensare e dunque apparterrebbe a quel pensiero di cui lo si pensi e dunque tutt'uno con il pensiero, il quale, se è limite, è limite a se stesso.

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Una coscienza dne mÍrntenga la distinzione e quindi il rapporto tra pensiero ed essere alirnenta la possibilità che il rapporto non sia quel rapporto che

1",

,

{i.,).:



dovrebbe essere ed importa quindi costantemente ]a differenza tra e >, tra f,atto e ragione. Ma I'originalità del pensiero di Hegel sembra compromessa dalla identità della identificazione hegeliana con la formulazione parmenidea dello aùsó in cui pensare e essere, voétv e eîvocs sono una cosa sola, sono ). L'originalità di Hegel nei confronti di Parmenide è invece proprio nel riconoscimento che il rilevare o riconoscere l'identità è incluso nella stessa identità rilevata o riconosciuta; il processo del riconoscimento non cade insomma fuori dell'identità rilevata o riconosciuta, non cade .fuori dell'identificazione; e l'identità tra essere e pensare è tutt'uno con questa identificazione. La quale identificazione è il riconoscimento dell'identità, nel senso che l'identità non è presupposta, non è < data >, p€r un pensiero che dopo la riconosca, ma " identità D è 1o attuarsi stesso come identificazione nel suo processuale riconoscersi identità. Ed il processo è nel toglimento del presupposto al pensiero, è nella coscienza della u negazione >, negazione già operante in Parmenide, ché solo essa dà senso compiuto allo ocùsó parmenideo ", ma in l{egel chiaramente identificata con il pensÍre stesso per il quale I'essere e il pensiero NON sono se NON uno che è nulla se non è la negazione del NON essere uno. Se l'identità tra essere e pensare non fosse il processo stesso della identificazione, quale identificarsi dei due termini I'uno con l'altro, come toglimento

dell'altro, neL riconoscersi dell'uno nell'altro e, quindi, nei togliersi di ciascuno di essi come , j. terrnini resterebbero due, nonostante l'intenzione contraria, perché f identità tra pensiero ed essere sarebbe anche senza essere riconosciuta, sarebbe indipendentemente dal suo essere pensata e, quindi, per il pensìero, potrebbe anche non essere. Ne segue ancora che l'identità sarebbe presupposta ai pensiero e si avrebbe la contraddizione inerente alla seguente situazione: da un canto i'identità affern'lerebbe che pensiero ed essere sono uno, dall'altro, poiché f identità sarebbe presupposta al pensiero, o il pensiero presupporrebbe se stesso e non sarebbe mai pensiero, o l'identità non sarebbe mai identità non essendo mai quel pensiero che sa I'identità tra > a sua volta, quale ( cosa >, come nulla; e far essere questo nulla come è appunto tenere fermo il morto, creare l'astratto. L'originalità di Hegel, dunque, è proprio da vedere nella consapevolezza di questa identità, che non v'è identità tra pensiero ed essere se non come pensiero che sa la sua identità con I'essere, che sapere l'identità tra essere e pensare è appunto il sé " " del pensare e dell'essere, che l'identificazione, insomina, consiste nll'autoriconoscersi dell'identità dell'essere e del pensare. Ché se l'identificazione, anziché

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tutta in questo ( autoriconoscimento o, fosse semplicemente < riconosciuta o dal pensiero, quale < oggetto >, di esso, l'atto del riconoscere questa identità sarebbe estraneo all'identità riconosciuta e negherebbe anzi l'identità proprio nel mentre la riconoscesse; resterebbe la dua[ta per affermare che la dualità non è; l'atto del riconoscere sarebbe dunque un'operazione di natura soggettiva e, perciò, psicologicamente analizzabile e descivibile, sulla cosa presupposta, nel senso di una fenomenologia ernessere

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pìrica. Quella attività, costituente ma anche presupponente una fenomenologia empirica, è appunto una riflessione soggettiva ed oggettivante, estranea all'essere, nel senso in cui oggettivare I'essere è anche estranearlo dall'atto onde I'oggettivazione awiene e, dunque, I'essere oggettivato equivale al pensiero estraneato, alterante se stesso, contraddicentesi in se stesso, non se stesso. Che pensare ed essere sono uno non può voler dire che l'essere viene pensato come uno con il pensiero, ma appunto in qualche modo viene ., pensato >, ma che viene pensata neil'essere (: nel pensiero) questa loro identità, la quale in tanto è pensata in quanto è dessa semplicemente la processualità del suo essere tutta e solo pensiero. Un pensiero dunque che avesse per oggetto la cosa, un pensiero per il quale l'essere diventasse oggetto, presupponendo la negazione dell'identità nell'oggettir.'azione dell'essere operata dal pensiero, altererebbe se stesso, alterando l'identità onde esso si costituisce (" è o) pensiero. Dunque la radice della diffetenza tra logica e metafisica, tra pensare ed essere, la

radice quindi del problema conoscitivo essenzializzabiLe nel rapporto tra pensare ed essere come di due termini, è nella pretesa che il pensiero possa pensare I'essere, oggettivandolo. Questa oggettivazione è già per se stessa alterazione del pensare, per la quale esso, non essendo se stesso, neanche può sapersi nel suo essere pensare, nel suo sapersi essente. La conseguenza più importante dell'affermazione hegeliana è dunque che l'essere non può venire pensato, che esso non si può pensare così come non può yenire pensato l'atto del pensare. Ne segue che anche f identità tra pensare ed essere non può venire pensata, poiché essa < è > identità ( identicamente tale) proprío per l'atto del pensare ed in esso, dove 1o u è u riproduce la medesima identità e vieta, in questo riprodursi infinito delf identità, di pretenderne un trascendimento. L'identità hegeliana dunque si può esprimere anche così: il pensiero è essere pensando, I'essere è pensiero essendo; così che qualsiasi alterità supposta tra essere e pensare sarebbe la supposizione di un pensiero che non pensa e di un essere che non è. Alla luce della hegeliana consapevolezza filosofica, che è, si è visto, questa identità nonché la natura processuale della medesima, è abbastanza agevole rilevare quanto spuria sia la problematica che mette capo alla cosa in sé.

VII La quale < cosa in sé o è I'importo piìr trogico, nel senso formaie della u coerenza > con un dato assun-

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I

ó0

to, della riflessione come attività estraneante dall'essere che ha la pretesa di oggettivare l'essere. Il senso che può assurnere la , perché la fede nella cosa in sé > sarebbe fede nell'irrazionale, e sarebbe anzi la fede a produrre il suo oggetto, fede sarebbe altra parola per dire f irrazionale, non, come si pretenderebbe, solpassamento della ragione, attingimento della a prescindere dal limite imposto dalla ragione alla o cosa >. E, d'altro canto, un non-sapere che sia come tale saputo non è assoluto nonsapere, ma è problema in cui si attua la negazione che sia sapere assoluto, affermazione di questa stessa negazione, che è coscienza di non essere l'assoluto. I-a contraddizione di una fede nella ( cosa in sé e " di un non-sapere assoluto restituisce la negazione corne attualità del pensare, restituisce il pensare alla negatorietà del suo atto, alla attualità non limitabile del suo essere ., pensando ,.

IX

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Ma qui si cela il pericolo, il pericolo sempre in agguato, di pervenire alla assolutizzazione, contraddittorio già come pervenire che implica una nonassolutezza inerente al suo movimento, in cui il pensiero, non subendo limitazioni, si affermi come assolu-

to sapere, almeno nel toglimento della difierenza tra pensare ecl essere; perché da un canto, si è visto, la < cosa in sé > è contraddittoria, dall'altro, il fantasma della , comunque indotto o dedotto, comunque inferito mediante procedimenti logici, è immediato, almeno nella sua fissità di termine ,' da " cui si parta o a cui, muovendo, si pervenga. Il passaggio a sapere l'immediatezza dell'immediato non è mai < dato > a sua volta nel darsi dei termini in questione, ché, se lo fosse, sarebbe a sua volta immediato, riducendosi ad uno dei termini del passaggio, negandosi come passaggio. Né, d'altro canto, esso è inferito da altro tenrrine, ché, anche nel suo essere inferito, esso sarebbe immediato, almeno come immediato è ciò che si fissa nel suo essere termine di cui qualcosa si dica, che si connoti di determinazioni, sarebbe comunque immediato perché < dato ,' al termine del procedimento della inferenza. Dato è, come si è visto, già immediato, datità è immediatezza. Dunque il passaggio dall'immediato alla mediazione o esso stesso è la mediazione che opera nell'immediato o non è pensabile, o addirittura decadendo ad immediatezza esso stesso, si nega come passaggio. E dunque, non vi sono f immediato e la sua mediazione, non vi sono I'immediato che si dia e dopo la negazione che all'immediato sopraggiunga, dal pensiero proveniente, ed investa la cosa data e la sopprima o la inveri, ma la mediazione è dessa presente nella presenza stessa dell'immediato, e la presenza dunque non è immediata.

XII La presenza non è immediata, perché essa non

., è o come cosa che si presenti, o come dato, ma il suo essere è semplicemente l'essere, il quale non può non essere. ILnon poter non essere dell'essere è detto

rnediante la negazione, dunque non è immediatamente detto. L'essere della presenza è appunto l'essere corne presenza, l'impossibilità che I'essere non sia, che sia assente. Con ciò risulta ancora più chiaro che la negazione media la stessa possibilità di dire la preset't"a, e, quindi, che ia presenza della negazione non è il presentarsi di qualcosa, ma è di questo presentarsi Ia possibilità stessa, la stessa intima condizione. La negazione, interna alio stesso presentarsi, è interna all'immediato e si attua nell'immediato e si mantiene in esso come negazione e mantiene I'immediato anche nel suo venire negato. Il modo di attuarsi della negazione all'interno dell'immediato e di mantenere l'imrnediato appunto come ciò che essa nega è il modo d'essere del u passaggio o alla mediazione che sopra dicevamo. La prirna considerazione da fare, a proposito di passaggio dall'immediato alla sua negazione, è dunque questa, che il passaggio stesso è la mediazione; e, duaque, è nella mediazione e per essa che I'immediato è dato, che esso è immediato nel suo essere dato. Il passaggio è, dunque, il nesso tra I'immediato e la negazione ad esso inerente, nesso diaiettico perché è tutto nella negazione e nella negatività di ciò che la negazione effettivarnente nega. La negazio-

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ne del negativo è negazione positiva, è la stessa positività del negare, che è il negarsi del negativo, il togliersi delf immediato, togliersi che consiste nei suo stesso non riuscire a consistere, nella sua insuficierua a se stesso. Dunque la problematica dell'immediato o I'imrnediato come problema importa un duplice sviluppo secondo una duplice direzione: lo sviluppo inerente alla posizione sostantivale di ciò che si dà in una sua fissità separata (sostanzialità) e lo sviluppo inerente al divenire inteso come insufficienza di ciò che si dà a se stesso, insufficienza a se stesso, rneglio, di ciò che si dà. Ne segue che la probiernatica delf immediato e della sua negazione si complica in termini di sostanza e di divenire.

XIII

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La sostanzialità, nel senso che a tale parola dà lo I{egel, è la sostantivazione come procedimento inerente al presupporre corne un pretendere che sia precedentemente, previarnente, posto ciò di cui si dice e che di esso si possa dire, appunto perché ( presupposto > a questo suo venire detto. Sostantivare equi.vale, sotto questo aspetto, a fissare in una sua chiusa consistenza ciò che si presenta nel discorso quale termine di esso; la stessa espressione .. terrnine , rivetra quel procedi.mento che pretende di rnuovere da cosa prernessa e di pervenire a cosa risultante, procedirnento che a slla volta non può in tal

modo non venire sostantivato come un termine medio tra estremi. Ciascuno degli elementi che entrano in gioco, fissato nella sua consistenza presunta, è sostanzializzato, è perché ter:rnina e dunque arresta come per un confine o limite immobile il movimento ed il movimento stesso, arrestato appunto da quei termini, è in se stesso a sua volta tenaine, è a sua volta u terminato " dai suoi estremi. La sostantivazione, per la quale si dice la sostanzialità, è operante nella presunta immobilità dei termini, immobilità che rappresenta di essi il loro essere ciò che sono, ma appunto lo rappresenta e, quindi, indica quello senza di cui non si vede come essi possano veramente < essere rr, od ., esserci n. La sostantivazione, dunque, è debitrice di sé alla confusione iniziale tra e < stare >, confusione che rappresenta l'essere come termine di cui si possa dire come a sua volta essente, come rappresentabile tra altri termini, poiché rappresentare è possibile solo se ciò che viene rappresentato consiste in una sua fissità, semplicemente .< consiste " in se stesso, è u in se stesso ,', è dunque immediato nel suo venire rappresent ato. La rappresentazione suppone dunque ciò che essa stessa pone: suppone quella fissità o sostanzialità che essa importa. La sostanzialità è dunque la immediatezza del sapere stesso od anche il sapere come immediato, come una immota sostanzialità che sia a sua volta in sé, che sia lo stare in sé del sapere come gualcosa di già concluso nel proprio essere. Anche il sapere, una volta rappresentato, è sostanza, appartiene alla sostanzialità, rappresenta quel tipo di sostanza che ha la funzione di rappresentare le < sostanze >, quel-

7t

< cosa > che è il pensiero e che riproduce in se stessa la medesima fissità di quella < cosa u di cui esso è pensiero, mantenendo in se stesso ciò che operando trova fuori di sé, mantenendosi in se stessa

la

tale funzione del trovare solo restando fuori della cosa pensata, dunque, a sua volta, pensando questo " fuori o. La sostanzialità del sapere (: pensare) è dunque tale da dirsi " ridotta " e ridotta a , ma il suo essere pensato, dividendo così l'indivisibile, I'essere dal pensiero, ripartendo i due termini I'uno fuori dell'altro, alterando quindi ciascuno di essi rispetto all'altro. Ciò che carattertzza la sostanzialità è dunque l'inerzia che è propria di ciò che viene detto immediatamente e che è immediato appunto come immoto ed immobile termine di intuizione; intuizione questa che dowebbe valere come appagamento nella sicura certezza (certo:sicuro) di una esigenza, la quale si afferma come " fede o in cui il modo di essere è lo " aderire " pienamente alla cosa intuita, aderire che vale per una compattezza dell'essere, per la compatta identità o massiccia continuità tra Io intuire e la cosa intuita, con la cosa che consiste in se stessa ed è quindi inerte nello stesso senso in cui si presume compatta, o indivisibile o immobile. La immediatezza di questa " fede > è dunque tutt'uno, compattamente, con la compattezza dell'essere che si presuma corne , non è possibile avere < concetti >, chè lo stesso avere concetti sarebbe . Il < questo n, dunque, nella sua universale posi-

di sé, di sé che ., è '' nel sapere se stesso ( come questo rr, quaLe determinatezza del. suo porsi, è pensiero, è lo stesso pensare che lo pone ed insierne lo toglie, che lo pone ora come tolto, lo pone < veraments ", togLiendo la possibilità che esso venga tolto. Veità, infatti, è pensiero, pensiero che

zione

della cosa è la totalità, che è insomrna l'universalità del suo essere tra determinazioni, come loro univocinazione, proprio perché la loro deterrninatezza è di essere determinazione di quella o cosa >, e NoN di altra. Esse non differenziano un indifferenziato, né sono indifferenziate per il fatto che si riferiscono all'indifierenziato, ma sono esse il differenziarsi all'interno dell'unità, sono di volta in volta la irnplicazione di questa " unità ", della . La ( cosa " è dunque la stessa, nel suo attuarsi come , ancora quella, poiché è dessa lo implicarsi di essa da parte delle sue determinazioni, né che le determinazioni implichino la cosa di cui sono determinazioni, quali termini altri e dunque inevitabilrnente alteranti, ma la cosa è lo implicarsi delie determinazioni, le quali sono il differenziarsi della " cosa > nella sua unità di cosa, unità con se stessa. Ne segue che la cosa non può

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venire pensata come la determinazione fondamentale (- da qualificare tale, difierenziandola da altre determinazioni); essa è il determinarsi non ulteriormente determinabile (di qui la sua parvente indifferenza) che .. è " tutte le determinazioni, nessuna esclusa, così che superfluo sarebbe procedere alla loro enumerazione, chè nessuna di esse apporta una situazione nuova rispetto alle altre. La < cosa D come I'uno è la presenza della relazione che fa ciascuna determinazione, che fa di essa quella individua determinazione, che la fa concretamente, innegabilmente ponendola. La cosa è la concretezza de\le sue detenrrinazioni, quale presenza del rimando all'unità che ad esse sottende; ma nel senso più concreto del loro essere se stesse per essa ed in essa. Questo è appunto il determinarsi, la attuale, attuantesi, determinatezza di ciascuna di esse. Poiehé la cosa è dunque concreta solo se è pensata, pretendere di afferrrrare concretamente sulla base di una < percezione o dalla quale siasi escluso il pensiero è cadere nella contraddizione i Ia " cosa > nella sua concretezza non può venire percepita e percepirla è tutt'uno con il perderla, con il ridurla a cosa , della quale non si sappìa però la par\Ìen7a, lo essere solo opinione, solo doxa nel suo ùoxeîv allo esperiente. Dire che la cosa può venire pensata ha senso solo però se essa stessa è > pensiero (essere è pensare), "

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perché essa è se stessa nella sua autoeguagliaÍua, essendo tale da ritrovare se stessa identicamente ín ciascuna delle sue determinazioni, in ciascun individuo che sia il suo essere presentandosi, determi-

nazione che " è > questa e che nel suo essere < questa ) è anche determinazione della cosa, quale senso in cui essa viene assunta, senso del suo essere ( = valere) come ( questa > e NoN altra.

XVIII Si pensa dunque negando. Il pensiero è negazione, ma essere e pensare sono lo stesso, dunque la negazione < è >. Se la negazione è, nasce la questione del suo fondarnento, nasce la questione (ma è veramente per termini " che stiano, l'essere e il pensare. Alla base della questione, infatti, ancora sta la confusione tra ( essere > e < stare ", quella che è motivo della sostantivazione, la sostantivazione che sostanzialízza la cosa, facendo di essa un individuo u senza I'univer" salità attuale del suo essere, che è il suo essere tutta e solo pensiero, atto del pensare. Forse ad Flegel non è sfuggito che della negazione non si può ( cercare > fondamento, e non è possibile, sia perché la stessa ricerca del fondamento è, in quanto ricerca, ancora negazione, sia perché il

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fondamento della negazione sarebbe determinabile solo come la negatività di ciò che non è e che, essendo negatività, è nel suo non essere. Cercare il fondamento della negazione significa fare della negazione il negativo, significa sostantivare la negazione come se stessa in questo suo >.

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piuttosto neli'identificarsi, l'identità tra essere e pensare si attua nella negazione della nonidentità, negazione che è la conti.nua necessità di togliere l'attribuzione di necessità alla negazione, la continua necessità di esciudere che I'esperienza (problema, processo) in cui si attua la negazione sia l'assoluto. La negazione è nel processuale essere identità dell'essere e del pensare, l'identità deila logi ca con la metafisica; poiché la logica è essenziairnente il processo della negazione, la metafisica è la negazione come processo, è tutt'uno con la negazìone di una logica assoluta, la negazione stessa di Hegel, quella che Hegel compie di se stesso.

essendo

XIX Per questo, dunque, non si può parlare di logica assoluta, non si puo chiudere la metafisica che è lcgica nella assolutezza di una teologia immanentistica. Ma in questo senso neanche si può parlare di problema metafisico o di problema della metafisica nel senso in cui di essi ha parlato Kant se non si. perviene a sapere da un canto il carattere metafisico del problema come tale (la problernaticità pura), dall'altro il carattere problematico o processuale della metafisica, intesa come affermazione di ciò che non può non essere. Così la metafrsica da un canto si impone nel processo problernatico dell'esperienza, da un altro essa si impone

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come aproblernatica condizione della possibilità del problema e, quindi, dell'esperienza. Importa dunque a questo punto chiarire il rapporio tra < problema metafisico ,, s problema della " metafisica >. Parlando di " problema della metafisica,' si intende parlare non del problema che la metafisica considera suo, problema da cui nasce la teoria o dottrina che caratterizza una qualche metafisica rispetto ad altre < metafisiche ,', quale effettiva sotruzione di un problema che sia da qualificarsi .. metafisico ', e si distingua per questo da altri problemi, ma si intende parlare della metafisica stessa, della metafisica come metafisica onde saperne, per dire con espressione sintetica, l'importanza ed i limiti. I1 u problema della metafisica o, dunque, è ancora la metafisica in quanto essa viene messa in questione, in quanto problematizzata. E qui, inizialmente almeno, è bene insistere sulla differenza, differenza senza di cui veramente o significativamente non si può parlare di metafisica, non potendo ancora saperne o consaperne il senso. Sapere verarnente che cosa sia metaftsica è possibile solo se, chiedendosi che cosa essa sia, si mette in questione la metafisica onde sapere che cosa essa non sia, per un atto critico che toglie, mediante la negazione, alla metafisica quanto ad essa si attribuisce di fatto, senza una sufficiente giustificazione, senza un atto che compia l'autenticazione delle pretese che caratterizzano la metafisica nel suo stesso porsi. Sarà da vedere se mai il < problerna della metafisica " e il " problema metafisico > possano venire considerati come un problema unico, corne il pro-

blema stesso di cui si struttura la metafisica, così che vera metafisica non si avrebbe se non si avesse all'interno di essa la possibilità di saperne criticamente i limiti, cioè il ., valore,', la verità. Per ora basta afiermare che il problema della metafisica è la metafisica stessa in quanto messa in questione, è dunque non solo la questione intorno alla metafisica preliminarmente assunta come essa di fatto si presenta (nelle sue tipiche pretese), ma è anche la stessa metafisica nella consapevolezza che di essa veramente si abbia. A questo punto, proprio in vi sta di quella giustificazione che caratterina, comunque, l'atto critico, vanno enucleate quelle condizioni intrinseche a tale atto che rendono possibile il problema stesso della metafisica. Le quali condizioni, rendendo possibile il problema, consentono che la metafisica venga rapportata come termine ad altrO termine inizialmente estraneo alla metafisica, chè se i due termini fossero in effetti un unico termine, non si awebbe la possibilità di questionare la metafisica, perché un termine unico è necessariamente fuori questione, ponendosi sernplicernente, identificandosi semplicemente con la sua stessa posizione. Ora, problematizzare è possibiie solo se si dà fuori problema il terrnine in base al quale o in rapporto al quale si problematizza, così che la metafisica si può mettere in questione solo se è aproblematico quel termine rispetto al quale essa si questiona. Dunque tale termine, essendo aproblematico, potrebbe dirsi qui < metafisico ed anzi esso rappre" senta quella metafisica originaria che fonda lo stesso problerna della metafisica, incentrando in se stesso

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quella metafisica stessa che esso discute, almeno in quanto la discussione è essenziale alla consapevolezza e, quindi, alla metafisica che sa se stessa discutendosi in base a quella metafisica che ne è il termine di riferimento. E' questa situazione teoretica che rivela, insierne, che la metafisica può venire rnessa in questione e, quindi, intenzionalmente .. fondata ,, solo se la problematizzazione di essa è resa possibile dalla metafisica originaria, la cui originarietà è appunto detta per questa sua funzione che prerequisisce il termine nella sua posizione rispetto alla questione, e la metafisica è dunque già fondata nella necessità che sia di natura metafisica il termine che la fonda; la metafisica originaria, condizionando il problema stesso della metafisica, non può venirne condizionata; che la questione della possibilità della metafisica è inglobata quindi dalla stessa metafisica che si mette in questione od essa neanche è possibile come questione.

xx

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Si parla dunque appropriatamente di conversione del problema della metafisica in problema metafisico. Di fatto la conversione non awiene a partire dal problema metafisico, ossia semplicemente dalla metafisica come suo porsi, come sua fattuale presenza e storica. Di fatto la metafisica si presenta come soluzione del problema, non come problema da risolvere e tanto meno come problema essa stes-

sa, ma di fatto ia metafisica stessa non eccede, nel suo presentarsi, il mero fatto e non si colloca oltre quella fattualità che domanda di venire giustificata ed alla cui giustificazione non basta ii sernplice .( porsi ,> o presentarsi. Froprio in questi termini è da vedersi l'operazione kantiana per la quale il problema metafisico nella sua autentica posizione passa attraverso (: è rnediato) ia posizione del problema della metafisica; corne tale è autenticanaente posta solo se autentico è quel problerna di cui essa si prospetta soluzione. I-e vie dunque per le quali awiene la conversione dei due problemi in un problema unico sono la via che porta a sapere o ad avere consapevolezza della metafisica, la quale non può venire autenticamente saputa se non in quanto è saputo ciò che essa non è e quindi mediante la negazione di ciò che essa non deve essere, negazione che si fonda su quella rnetafisica originaria che la rende possibile e che rende irnpossibile una negazione della metaîtsica simpliciter; la via che consiste nell'autenticare la metafisica, in base all'autenticità del suo problema, così che almeno come intenzionale soluzione del problema la metafisica si giustifica nella sua validità, solo che si giustifichi nella sua autenticità quel problema che essa intende porre e risolvere. In entrarnbe le vie la conversione dei due problemi è già avvenuta nel momento in cui si stabiliva la necessità di autenticarela metafisica, chè l'autenticazione non può prescindere, in entrambi i casi, dall'autenticità del problema che ne sta alla base; così che Kant converte il problema metafisico in problema della metafisica, rna con l'intenzione inattuaie

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mantenere distinti i due problemi, facendo del problema della metafisica I'impostazione preliminare del problema metafisico, preliminare nel senso che esso dovrebbe precedere, quale esame critico, al livello trascendentale, quel problema che costituisce la metafisica come . Se questa è la pretesa di Kant, tale pretesa però si rivela fallace non appena ci si chieda in base a che cosa si possa discutere il problema metafisico e chiedersi a quali condizioni esso sarebbe valido e valida sarebbe una metafisica che ne risolvesse il problema. La conversione operata da Kant è dunque tale che in realtà è il problema metafisico a convertirsi in problema della metafisica, non appena ci si chieda se autentico sia il problema che si qualifica tale. E se Kant non si awede che il suo problema è anche ed ancora quella stessa metafisica di cui esso è problema, ciò è dovuto al fatto che Kant suppone la possibilità, per altro non fondata, di porsi al li vello in cui la conoscenza possa esercitare la sua critica e si possa disporre quindi di una * critica > che faccia della ragione il proprio oggetto. La quale supposizione ignora che la .. critica della ragione " è in realtà I'originaria eríticità della ragione, che se la ragione non è critica non è ragione; e, del resto, criticità della ragione significa anche < problematicità > in cui la ragione non è statica posizione ma processuale negazione, la negazione in cui appunto si attua il toglimento inerente alla critica nella sua funzione. Ciò che a Kant sembra sfuggito, dunque, è precisamente questo, che la rnetafisica è la stessa critìcità della ragione, così che la critica da lui istituita è gia la metafisica che egli pretende di istituire me-

di

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la critica, dopo la critica. Infatti, dopo

la possibile, così metafisica sarebbe nessuna critica come impossibile è quella " metafisica " che prende la < fisica " e la porta oltre se stessa, che con I'espe fienza pretende di uscire dall'esperienza.

diante

XXI

Il

porsi della metafisica, una volta che si sappia iI suo essere e valere come la metafisica ( = criticità, problematicità) originaria della " ragione '', è piuttosto il suo < imporsi >r, Ia sua innegabilità. L'imporsi innegabile della metafisica, in cui si risolve la stessa domanda intorno alla sua possibilità (Kant), fa del problema metafisico non la sua soppressione, ma la sua autentica posizione, perché la necessità della metafisica è tutt'uno con la necessità che essa sia problematica e che il problema come tale abbia carattere ( - valore) metafisico e sia, perciò, ., problematicità pura )>. Questo è forse il punto più delicato. Qui si rivelano le strette parentele ma anche le irrimediabili divergenze, le invalicabili distanze. Perché la scoperta dell'imporsi necessario della metafisica potrebbe, rna erroneamente, venire interpretata come la dissoluzione finale del suo essere " problema ,, e, quindi, processo; così che scoprire che non un problema di corne noi poniamo la metafisica si dà, ma che si dà anche in tale problema l'imporsi innegabile di essa, non significa accedere ad una dirnensione ., sa-

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r< saporitiva " dello per il ad essa, nel senso che, a rigore, la metafisica consiste tutta nella fondazione di se stessa, che è il suo essere se stessa come ( fondazione ,. Con ciò è giusto escludere la metafisica dal novero delle ., scienze " e delle conoscenze; è giusto essere neopositivisti; ma la ratio stessa della u inverificabilità " della metafisica è il livello stesso del suo carattere non-ipotetico, il livello non si è metafisici, ma se si è consapevoli delle ragioni di tale neopositivismo si è già e veramente .

XXIII

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Si può denominare questa critica consapevolezza che in quanto < critica o è gla " metafisica u, radicaIismo teoretico, quel radicalismo che importa la necessità di investire criticamente anche le pressupposizioni al discorso critico. Appunto ciò che alla " critica " kantiana manca se Kant accetta semplice-

rflente, a titolo di " presupposizioni evidenti 'r, i caratteri essenziali dell'ambito in cui si muove il suo procedimento critico, I'intenzionale u fondazione u delia metafisica che vorrà, in futuro, presentarsi come < scienza >. Quella presupposizione può venire del resto riportata agevolmente alla stessa pretesa di un conoscere ( immediato o, alla presunta intuitività del da" to >, in cui appare anche, nella intenzionale negazione del processo, I'affermazione di una , ed anzi, anche per sapere, come l'intuizionismo pretende, che la cosa è inizialmente < data > bisogna attuare un processo, il quale è il ripercorre i mo rnenti del " darsi u di essa. Dunque, paradossalmente, la conoscenza del carattere di istantaneita ed immediata datità della conoscenza non sarebbe una conoscenza ìstantanea ed immediata e nega, quindi, di valere come l'affermazione di quella presunta immediatezza. La stessa affermazione della " intuizione immediata del reale o suppone la differenza tra conoscenza e realtà, differenza che I'intuizione non può dare appunto perché non sarebbe intuizione se non fosse immediata

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e l'immediatezza è identità, massiccia compatta unità tra intuizione e cosa intuita. Non è possibile sapere di conoscere (: veramen-

te affermare) se non mediante la negazione della identità tra conoscere e reaità conosciuta, negazione della identità intesa però come immediatezza, come .. dato o, il dato della loro originaria unità. Ritorna importante dunque, a questo proposito, il nostro rilievo del carattere processuale delia identità tra pensare ed essere, processo di identificazione ,r, " che è, si diceva, I'originalità di llegel. Così, chi si accorge, intelligentemente, della insignificanza delle conoscenze separate e separanti dalla cosa conosciuta e si appella alla originaria unità dello stato .. edenico o deve attuare però questo suo ricorso scoprendo anche che appr-lnto perché u unità quello stato non " è uno < stato > ma un ( processo "; e la sua paura di Hegel non è più motivata. Hegel non è, come egli teme, e come di fatto si è potuto pensare per colpa di un hegelismo inintelligente, accreditato del resto dallo Hegel meno Hegel, colui che assolutizzò l'umana conoscenza, ma colui che passò ad assolutizzare, per una non adempiuta attuazione della sua intenzione, la conoscenza. I-'intendimento hegeliano infatti è il toglimento critico dei presupposti al pensare. E questo intendimento importava anche che si riducesse a presupposto quella ( assolutizzazione o, quella chiusura monistica che dei presupposti in fondo è il peggiore, perché il fondamentale, quello della sostanzialità ", " nella figura delia assolutezza o.

"

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xxlv Caratteristica del radicalismo teoretico è dunque la " libertà " propria de1 " vero ', che è il porsi della cosa nella sua autenticità, della < cosa stessa )); e in tanto esso si afferma in quanto non pretende di imporsi dal di fuori o sulla cosa, in quanto cioè esso non intende valere come è " il suo (< essere > che si rileva mediante la negazione delle signifrcanze ulterìori, dei riferime:rti estrinse ci, dello . La negazione è essenziale almeno come innegabile. Anche chi presuma di collocarsi in una zona di neutralità teoretica, zona di indifferenza rispetto alle determinazioni, si pone, suo malgrado, nella .. negazione ,r, sì che essa non è più quella neutralità che si pretendeva non appena si sappia che cosa consente di porsi in essa, di u farla essere ,r. E' vero

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che la nesftalizzazione, come Husserl ci ha ricordato, non è negazione delle determinazioni, ma solo la loro < sospensione >, ma è anche vero che sospendere significa considerare qualcosa come NoN-essente, e che, all'interno di taie considerazione, di volta in volta, la negazione appare e si muove.

XXV

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Caratteristica del " radicalismo teoretico , è dunque la libertà > propria del u vero >, che non è sa" puto se non come ii porsi della cosa, la quale .. è r' nel suo porsi se nel suo porsi essa si .. impone ,, si impone e non da altro viene posta, non da altro imposta. Il momento dunque in cui appare la " critica > come rilievo del valore è per così dire il * luogo deila uegazione nel quale si radicalizza la teo" resi pura. Così la teoresi è pura nel suo stesso divenire teoresi mediante la negazione di quella immediata presentazione della cosa nell'oggetto che il senso cornune, la comune coscienza, ritiene l'unica possibile. Il problema gnoseologico, che è la conoscenza che non sa di essere conoscenza, conoscenza senza atto e senza contenuto perché tutta nel pretendersi rapporto da determinare tra quello e questo, è precisanaente guesta neutralità in cui ci si pone per attuare Ie dimostrazioni quali passaggi da cose .. note > a cose che si suppone non lo siano. Ma la validità del problema gnoseologico, ed una qualche va-

lore esso non può non esibire se non altro come attestazione di una deficienze teoretica, è nel suo significare l'eccedenza che il < pensare ha sull'essere ' come presenza (- essere) della negazione, la quale in tanto .< è >> in quanto all'essere non appartiene e che nega innanzitutto proprio la pretesa che essa appartenga all'essere, che si fondi sulla negatività nella positività, nell'essere. Come ( negazione > essa tuttavia " è n ed è, quindi, positiva. Di qui il sorgere delle problematiche spurie, inviluppate alla problematicità pura, chè la teoresi sarebbe già elusa (o complicata da atteggiamenti tecnici ed intellettualistici) se si pretendesse che anche la negazione, essendo, sia < oggetto o ( cosa ,', per un porsi che sia di essa e NoN di altro da essa. Ma I'altro daila negazione, il suo non-questo, è altro per la negazione, è ancora il questo di cui è altro e altro veramente non può essere: negare la negazione è riproporla. Porre la negazione come qual" cosa> è intenzionalmente negarla. Proprio qui si annida il pericolo di eludere la teoresi pura, pretendendo che anche la negazione sia un < conosciuto >, venga positivizzata. Il segno della positivizzazione della negazione si ha nello interpretare to eteron come l'altro che si ponga tra cosa e cosa, anziché lo essere reciprocamente e valere dal suo stesso uso. Di qui la falsa alterna- 101

tiva tra , vengono confusi con la fondazione stessa, vengono identificati nelia confusione ateoretica tra presupposto e fondamento; essi, infatti, sono pragmaticamente >, importanti il n disporre > che è qui, ora, prima, dopo, sopra, sotto, avanti, indietro, a destra, a sinistra. E non v'è .. ordine > che di essi non faccia uso, che di essi non si strutturi; restano lo spazio ed il tempo quali " residui > non analizzati, residui che valgono accompagnando il disporsi delle cose se non altro come il loro non vanificarsi reciproco delle une nelle altre, nel non confondersi di < questo > con il non < questo >. L'immagine, o rappresentazione, dell'identità deila cosa con se stessa, per la quale identità l'essere del o questo > è dialetticamente il suo non-essere questo, appunto la posizione ', che residua co" stantemente l'alterità e colloca in sé la cosa come .. altra > sempre da altra u. La posizione di qual" siasi termine si presenta infatti inevitabilmente come un ., collocarsi ,' di esso; di qui I'ordine, ché I'essere , stesso in cui essi consistono; cosi che il togliere la rilevanza teoretica dei presupposto significa anche togliere la

rilevanza teoretica che si pretende dello spazio e del tempo, con la conseguenza che il processo onde si attua la teoresi l>, o negazione in atto, non è .< pro" gresso per il quale si vada da un primo ad un ul" timo, da un termine ad altro termine, passando. Così non può essere che la radicale teoresi importi un sowertimento delli, ordine > onde si costituiscono i in questo mondo, né in pro di esso né contro di esso.

xxwl

rc4

Ma l'esperienza, una volta che si sappia che il saperla è essere . esperienza > integralmente, si presenta mostrando le singole determinazioni I'una accanto all'altra, anche nello essere ciascuna in relazione all'altra, nel rapportarsi in atto, per cui l'una non è esperibile se non per altra e l'uno e l'altro sono l'uno e non-uno. Le determinazioni si presentano come non sono se si presentano fisse nella loro indi" vidualità r', che è posizione in opposizione, e quindi < separate >. Ma il punto importante è qui: che separate esse si presentano e la separatezza invece è reciproca, così che essa come separatezza si toglie nella sua reciprocità. Nella rigida separatezza delle determinazioni vi sarebbe la rigida posizione della frnitizze, sicché esse sarebbero di volta in volta < reaii > in quanto finite, finite in quanto < essenti > nel loro limite che è la loro < diversita ". Ma il " finito è tale solo negandosi come finito, " perché in tanto esso è < finito > in quanto si oppone a ciò che lo rende finito in questa sua opposizione: si attua negandosi, si nega attuandosi, cosÌ che la contrapposizione di finito a finito non ( è >, ma si pone, nel mentre si toglie.

Qui è l'autentico problema dell'esperienza nella sua radicalità e, quindi, nella sua totalità. Le costruzioni sistematiche, o u rnetafisiche " nel senso co. mune della parola, prendono infatti le mosse, lo sappiano o no, da questa originaria problematica del finito, così che la intenzionale validità di un sistema è appunto nella soluzione che esso intende prospettare di tale problematica. Ma le .. metafisiche rr, lo sappiano o no, cominciano non dal finito immediatamente dato, ma dal finito saputo come finito. Metafisica nel senso autentico della parola è coscienza del muovere dalla finitezza in quanto saputa tale, in quanto problema che il finito pone, ponendosi. Sapere lafrnitezza del finito

(equivalente al sapere la immediatezza dell'immediato) non è semplicemente sapere ilfinito, non è un immediato saputo immediatamente, che è, si è visto, immediatamente non-sapere. Sapere la frnitezza è sapere la negazione inerente alla finitezza, negazione che nega se stessa, risolvendo, e si vedrà come, la finitezza in contraddizione; rnetafisica è sapere che la radice di questa contraddizione non è il < finito (esperienza), ma la sua con" siderazione innmediata, l'immediatezza in cui lo si pretende, la quale fa inevitabilmente di esso un negativo, come tale che la negazione ad esso inerente, sia fissata come qualcosa di intermedio (: di collocato) tra finiti; ia considerazione comune, quella che pretende l'immediatezza del finito, prende ia negazione a sua volta come un finito (e ne fa il negativo in cui la negazione si sostanzializza), ma anche, contraddittoriamente, infinitizza la negazione. Dialettica diadica, che poi non è dialettica, potrebbe dirsi quella che

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analiticamente si pone in modo che i finiti vengano assunti come già costituiti, come se quell'atomo che è il finito fosse il limite di inteiligibilità da considedarsi come ciò da cui si parte per < costruire >', essendo ciò a cui si arriva scomponendo l'esperienza nei suoi elernenti (analizzando, appunto). Ciò che a questa dialettica manca è appunto il sapere che dialettica non è, ma che è solo la moltiplicazione del problema che il finito come finito pone e lascia insoluto. Vera diaiettica è quella che sa il finito come finito, che sa di essere la costituzione interna del finito come finito, mediante la negazione che .. è ,, in esso: esso è un < questo >, infatti, perché è un nonquesto.

XXVIII

106

La fondazione teoretica, dunque, e tlon v'è altra fondazione oltre quella teoretica, dell'esperienza non è un ., punto che si collochi o si trovi situato in es" sa, né può valere la stessa esperienza nella sr.la ., totalità " di termini presenti e ritrevati come pensabili ad attuare la fondazione, ché proprio esso è, corne totalità di se stessa, il bisogno di fondaziome; e, quindi, la necessità che vi sia fondazione della metafisica è necessità che si articoli un rapporto tra termini dei quali uno sia tale da venire superato dalI'altro perché al cli qua di esso corne orizzonte del trascendimento. La compresenza costatata dei due termini è quel-

la stessa necessità di passare da un termine aii'al-

tro, che è poi i'impossibilità che 1'o oitre o o ciò che si dice il < trascendente >, sia a sua volta vincolato da questa necessità. Se Io fosse, la sua trascendenza sarebbe già tolta ed anche toita sarebbe I'autoncmia del termine rispetto al quale esso si dice " al di là ", ., oltre u. L'assunzione di un termine che si presurna totalmente presente nella propria consistenza, saputo conre ciò che è I'esperienza in relazione a ciò che non è esperienza, non importa che si dia un'assunzione di tipo analitico, divisorio, dicotimico, diairetico, dei temtini, proprio perché il dire .. due u è qui lo univoeízzare l'ulteriorità, quale identificazione della lo' ro empirica distìnzione. Ne segue che la fondazione dei termini è piuttosto la mantenuta loro dualità senza che se ne possa dare l'assunzione univoca che sia la presenza di entrambi sul medesimo piano come < oggetti o al medesimo titolo e, quindi, come tali da esigere una identica tematizzazione, La metafisica non si arresta al di qua della sua tematizzazione univoca, quasi trattenuta dalla " volontà " di salvare il trascendente (un trascendente che abbisogna di venire ., salvato > sarebbe un ben povero trascendente!), ma dalla sua stessa gettata, che è tale da contraddire ogni movimento che tenti di superare L'orizzonte del movimento (superare è muoversi). Così l'ulteriorvzazione che presenta a sé da parte dell'esperienza Ia necessità dello " oltre " appartiene cornpletamente a quel processo di deterininazione progressiva che non è I'esperienza come tatre, ma la .. serie

,

delle singole esperienze. lVfa appunio

il nes-

îAT

so che sottende a queste esperienze è mantenuto in atto da quella che " è " l'esperienza come tale. La fondazione teoretica è cosÌ la stessa teoresi ed è insistendo su di essa, e nella sua purità restando, che ci si può aprire all?ssoluto, negando quella implicita chiusura al di qua di esso che è la pretesa di essere senza di esso. Tale fondazione teoretica è fondazione solo perché la non si riduce alla mera presa di coscienza o mera presenzialità che è il presentarsi " " della cosa, nel suo essere < data ,r, ma di questo ., darsi " è la connotazione più rigorosa che ne < vede >, appunto theorei,la necessità e ne limita il valore come condizionata. Un discorso metafisico che pretenda di risolvere il " problema " della stessa esperienza mediante il ricorso in extremis alla creaziorre >, facendone un teo" rema (BoNTADTNT) per il quale si annullerebbe l'essere nella finitezza contraddittoria del suo divenire (cominciare ad essere e finire di essere) non farebbe che ricorrere a ciò che si postula. Lo essere del contraddittorio verrebbe salvato solo in quanto, visto a parte Dei, contraddittorio non sarebbe e così l'assolutezza sarebbe equivoca anche in questo suo recupero. Nulla vieterebbe di pensare che la stessa affermazione dell'assoluto sia, in quanto mia afrermazione, ancora contraddittoria come quel finito che è visto da me come contraddittorio. E il ricorso a Dio, operato dal finito, sarebbe a sua volta contraddit-

torio. 108

xxx I1 recupero della u trascendenza )> passa dunque attraverso (: è mediato) la negazione di essa, ma solo dove la negazione non si prospetti come estrinseca rispetto alla " realtà " da cui si muove e sia piuttosto dessa questa " realtà D o questa < espe. rienza >: se la negazione della trascendenza fosse una mera ipotesi ci si mantenebbe al livello della " possibilità " (ipotizzata) e la trascendenza dowebbe presumersi come solo ipotuzabile, lasciando essere I'ipotesi opposta, ché ipotesi non v'è senza antitesi. La trascendenza dovrebbe poter coesistere con il suo opposto, con la sua * negazione r, almeno nell'iniziale assunzione conoscitiva, quella che si prende come inizio del procedimento dimostrativo. L'ipotesi della trascendenza dunque metterebbe la trascendenza tra parentesi e questa parentesi dowebbe valere come incontraddittoria. Il trascendente, pensato come passibile di questa u sospensione rr, lascia alia sua negazione la possibilità di afiermarsi. Con ciò la situazione conoscitiva del dirnostrare sarebbe ., indifferente all'esito della dimostrazione, il quale " potrebbe essere equivalentemente afiermazione e negazione, lo è o e il < non è " Lanegazione della trascendenza dunque deve ap parire già al rnomento del suo tentativo come e non ia si può porre come pensabile per poi pervenire a pensarla come impensabile, perché questa negazione non sarebbe se non la riproposizione indefinita dell'ipotesi, sarebbe f ipotesi sempre riproposta e sernpre mantenuta tale. T.a negazio- 109 >>.

ne non sarebbe negazione delf ipotesi, ma, piuttosto, negazione con:e ipotesi, negazione mai ( vera > perché mai tale da verificarsi nella sua incontraddittorieià, quell'incontraddittorietà che consiste nel togliere I'opposto. Dall'ipotesi bisogna essere già fuori per poter negare che essa valga o per dare ad essa un vaiore che la ponga come , liberandola dall'incombere del suo opposto, della sua antitesi. La negazione dell'ipotesi non può insomma essere ipotetica. L'ipotesi deve potersi togliere da sola, non appena la si pensi, non appena la si formuli come contraddittoria o non la si potrà mai togliere, ipotetico diventa anche il suo toglimento, ché essa avrebbe Iaforza di ipotizzare qualsiasi operazione su di essa e potrebbe .< resistere ,, quindi, alla negazione che di essa si tenti. Teniare la negazione equivale infatti a dire che essa è solo ipotetica. Negare la trascendenza è funzione essenziale al suo recupero; e non perché la si voglia recuperare > per un saperla perduta (già la si " avrebbe nella necessità di < recuperarla e di recupe" rarla non si awebbe bisogno), ma il recupero si profr.la necessario perché identico con la negazione, la quaie è dessa la < restituzione u di ciò di cui è negazilone.

Negare la trascendenza non significa recuperarla dall'esterno, significa " dire , il modo in cui la trascendenza si ., afferma n, dove l'affermarsi non è il suo venire trovata o constatata, ma è il suo venire negata corne negabile, la sua innegabilità.

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XXX

La restituzione non è dunque di cosa < perduta ,, che venga ritrovata in un movimento di ripristino che riporti ad una posizione originaria, ma è restituzione di cosa che, cornunque, non può andare perduta, onde frttizio è dire che essa non è più presente (presente tuttavia sarebbe perché si sappia che non lo è) e la consapevolezza di questa sua presenza che prescinde dal suo venire o riconosciuta > è una cosa sola con il tentativo di negarla. La negazione della trascendenza, dunque, appartiene al concetto stesso di ., trascendenza >), come negazione, così come la negazione dell'assoluto appartiene al concetto di assoluto, in quanto il concetto è propriamente del non-assoluto e del non-immanente, perché mantiene il nesso tra opposti onde porsi come incontraddittoriamente vero, come . La verità della trascendenza è la sua irriducibilità a qualsiasi concetto ed è quindi presenza della trascendenza come negazione di poter .< concettualizzare >> (: esperire) ciò che è trascendente : il riferirnento a ciò che viene trasceso è essenziale al suo .. trascendere (trascendere non può se stesso), ma " appunto come trascendente, esso esclude il riferi rnento o, rneglio, la necessità del riferimento, che sarebbe la negazione di un effettivo trascendere. Con ciò non si toglie al concetto il suo valore ontologico, che è il suo essere la .. presenza > dell.a cosa dr cui esso è concetto, rna si nega che il concetto possa valere come formulazione che ecceda la problematicità nella quale e per la quale lo si ri-

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leva, quasi come un essere del concetto che sia a sè stante rispetto al problema che 1o domanda. Ma se la problematicità non è solo la radicale domanda del concetto ma il u luogo > stesso in cui il concetto si da, il riferirsi ad esso è tutt'uno con l'attuarsi della problematicità, la quale non tollera movimenti che pretendano di eluderla o di superarla come momento di un passaggio > da attuare. " E' essenziale al dire la trascendenza la negazione, dunque, non perché essa sia tutta o in parte (parte e tutto sono già espressioni non pertinenti) nella negazione del suo opposto (in questo caso l'opposto le sarebbe essenziale e non sarebbe pir) trascendenza), ma nel senso che la negazione.< è > la stessa possibilità che si dica ciò che non è > dicibile aI " livello in cui si " è' per dire, livello che è l'esperienza: la negazione è l'atto dello esperire come andare oltre, come negare, perciò, lo essere al di qua dell'oltre. Se dall'esperienza si togliesse la negazione, si sopprimerebbe l'esperienza, ma ancora esperendo, ché togliere è negare, e negare è esperire.

xxxr

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L'essere dell'esperire è dunque il u tendere ,', il quale si attua nella negazione della suficienza in cui si pone la cosa nel suo " darsi )>, come < data " (sostantivata). Così come assoluto il senso comune, almeno implicitamente, pensa il fatto e " fatto > esso qualifica ciò che esperisce. Il senso comune si rap-

presenta il fatto nella figura della conclusività > e " non sa che così esso nega l'esperienza alla quale intende affidarsi, nega l'esperienza negando il " tendere che immane ad essa. E nega il tendere anche ' facendo di esso un .. passare ' da un dato ad altro dato, da un fatto ad altro f.atto, nel loro disporsi in serie (: secondo un ordine, che ne dice i termini). La negazione del tendere vuol valere come affermazione del < fatto >), ma, in realtà, si afierma come negazione dell'esperienza. Nega l'assoluto, dunque, non chi afferma il tendere (chi si mantiene all'interno dell'esperire), ma chi afierma il " fatto D come cosa in sé conclusa ed eludente il < farsi che la pone e la attua e, quin' di, come < assoluto rr: si nega I'assoluto assolutiz" zanda. Si riduce la cosa a < fatto ) perché si congettura, almeno implicitamente, la cosa come sufficien" te > a se stessa, dicendo la sua conclusività, la sua .. consistenza ,r, nel senso che si attribuisce ad essa una qualche < sostanzialità ", almeno nel discorso intorno ad essa; così è da dire che la posizione di qualcosa che sia come uno < stare > è negazione potenziale di Dio. La radicale negazione di Dio viene non dalla intenzione di negarlo, la quale è inefficace, ma dalla moltiplicazione degli assoluti > che usurpano I'as" soluto, dall'afferraazione di qualcosa che sia in sé consistente, anche, ed è questo da sottolineare, dove si parli di un gli uni accanto agli altri.

XXXII

1.14

Ma l'approfondimento della questione si ha nel chiarire il passaggio dallo " implicito , allo " esplicito >, passaggio che opera nell'esperienza stessa con la formulazione del (( concetto ". Quando si dice però che qualcosa è implicitamente presente si intende dire in effetti che esso è implicitamente saputo, non si intende dire che esso sia implicitamente rispetto a ciò che invece delia medesima cosa è esplicito. E' da chiarire ancora: lo implicito non può equivalere al u potenzials rr, facendo valere per entrambe le nozioni I'attuazìone come " farsi " della cosa in questione o di un aspetto della medesima cosa; della quale si dovrebbe pensare lo " implicito > come .. implicato >, come " involuto " nella sua o complessità >. Della quale cosa si dowebbe pensatre lo.. implicito > come non attuale e, quindi,la esplicitazione come processo sarebbe in effetti il < farsi > della cosa che si esplicita. Ma esplicitare non si può se non ciò che è già interamente ciò che , poiché non si può pensare una implicítezza che sussista a metà: è intero necessariamente ciò di cui si dice che è solo irnplicitamente saputo. Con questo si chiarisce che lo implicito e la sua esplicitazione appartengono ad una sfera non coin-

cidente o, meglio, non identica con la ., cosa stessa ), perché appunto la cosa anche implicitamente saputa non può non essere interamente compresente alla cosa che esplicitamente si sappia. La sfera deila esplicitazione è quella dello " svolgersi >, tale che si sa che qualcosa è solo implicito (implicitamente saputo) solo avendo già attuata (in questo senso svolta) la esplicitazione, anche se di essa non è ancora data sistemazione o formulazione: posso dire che a è implicito in ab solo se già so che dire ab è anche dire a direttamente senza abbisognare di dire ab; ma nella proposizione che dice l'esistenza dí a e nella proposizione che dice I'esistenza di ab, a è parimenti presente, presente tutto intero. In altre parole, l'afferrnazione che qualcosa è implicito in tanto è possibile in quanto si sa esplicitamente che esso è tutto (: è interamente) e si ha già compiuto almeno questa esplicitazione. trn questo senso, sapere di dover esplicitare è avere già esplicitato. Ed è da ribadire questo punto, perché i limiti che lo fanno essere (: che fanno essere la cosa nell'attività esplicitante) non sono inyentati per un loro venire constatati in un'esperienza a cui corrisponderebbe la loro < owietà ,, la loro presunta imrnediatezza,ma il trovarli nella ricerca è nell'averli superati nelia stessa negazione di poterli superare: il lirnite è saputo come limite superandolo e sapendo la sua insuperabilità. ta dialettica del iirnite n è " la dialettica del suo rinvenimento. E' dunque essenziale al limite, saputo come limìte, la contraddizione del < superare " ciò che non può venire superato e che è saputo nella sua insuperabilità rnediante il tentativo di superarlo, nel su-

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peramento tentato, contraddizione in atto che rileva come limiti non i < dati > (che sarebbero irnmediati nella loro datità) ma l'esperienza nella sua e a < filosofia ", fonda inf.atti,la loro .. unità ", ma dialetticamente perché evita il tradizionale contrasto tra fede e ragione (contrasto che nasconde il progetto di una integrazione tra i due atteggiamenti dell'uomo in ordine al .. vero o, il credere e il cercare). Il conflitto fede-ragione equivale teoreticamente all'integrazione, ed è conflitto di due dogmatismi, fede essendo ancora il possesso preteso da parte della ragione. La filosofia come crisis toglie alla fede la pretesa di valere come ctesis, ma poiché taie pretesa si affermerebbe, al limite, corne negazione della fede, restituisce la fede a se stessa come non negabile necessità di credere, negando la pretesa appunto di non dover credere (o di non poter credere), pretesa che è poi assolutizzazione di ciò che si possiede o negazione del possesso precario nel quale ci si trova esperienti. Fede e filosofia sono tra loro unità dialettica, dunque, perché entrambe sono negazioni della pretesa di negare il limite (: assolutizzare), e sono I'innegabile necessità di attuarsi negando e sono entrambe, quindi, I'affermazione del nostro limite che è una cosa sola con la necessità di continuare a negare, di attuare se stessi negando. Ma quando si parla di " unità " dialettica tra fede e filosofia si intende un inglobamento reciproco per il quale l'intero intenzionato nella forma del possesso preteso e del possesso critico, si afferma solo negativamente. Fede e filosofia si progettano quali intenzioni di pervenire al' I'intero, intenzione a\\'atto, per un possesso sicuro e

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stabile, per un totale soddisfacimento dell'umano, onde dare alL'uorno la .. salvezza ,r. L'unità sarebbe data dunque dall'intenzione delI'intero, il suo carattere dialettico invece risulterebbe qui dalla reciproca negazione, richiesta perché la filosofia possa esercitarsi come crisis e la fede da parte sua possa valere o pretendersi. come possesso.

xxxv

na

Dove il senso comune ritiene di essere e di valere come esperienza del concreto e ritiene concreta ogni " realtà > che esso consideri < determinata > nella sua particolarita, h consapevolez:za o coscienza critica svela che non è concreto ciò che la comune esperienza da per tale. La consapevolezza critica è critica appunto in questo rilevare I'insufficienza del particolare a se stesso, non del particolare all'universale, ché l'universale è richiesto, come si sa, perché il particolare sia concretamente tale. Concreto, infatti, non è se non il , che è il " tutto di sé )), come pienamente presente a se stesso, pienezza della sua stessa preserrza, esserci di tutti i suoi elementi come sue determinazioni. La consapevolezza del particolare come particolare non è consapevolezza dell'universale, ma consapevolezza che è essa stessa l'universale. Poiché gli elementi che ., entrano > a determinare la cosa non sono mai tutti (non sono mai dati nel loro < insie-

me ,r), la loro totaiità sarebbe un risultato e risulterebbe come fatta di parti, le quali lasciano corne parti fuori di se stesse il tutto e 1o lasciano corne tale che la loro somma è ancora.. insieme >' e mai coincide con il tutto di cui esse si presumono " parti ,,. I-'universale non è la totalità che lascia fuori di sé le parti, anche se queste non sono tali perché lasciano fuori di se stesse la totalità: le parti non entrano in combinazione tra di loro se non per la presenza della totaiità che le tiene unite, integrandole. Tale integrazione prlò venire pensata solo mediante la totalità che ne rappresenta lo .. integrale ". Foiché la .. scienza > quale strutturazione teorica dell'esperienza si formula solo mediante il nesso tra .. parti > e < sistema > in cui le parti entrano e si combinano, il valore della scienza, misurato nella sua i.ncontraddittorietà, dipende tutto dal valore che si attribuisce al concetto di ', concetto dell'integrazione per la quale la 'parte' non è il tutto e rimanda alla presenza del < tutto " di cui è parte. Se risultasse, come ritengo che risulti, la contraddittorietà della nozione di " parte >> (pseudoconcetto) nel suo riferirsi indefinito all'indefinito, come è per ia indefinitività dell'analisi, la scienza nelle sue pretese rivelerebbe tutta la sua contraddittorietà.

XXXVI Se la totalita è l'essere (il tutto di ciò che è), la coscienza come '. Cercare è intendere e 1o intendere è andare oltre, oltre il quale non si va. Per cui il movimento che fa della coscienza ciò da cui si muove verso l'altro da essa è movimento che coincide tutto con il mantenersi nella coscienza. Questo muoversi e restare, muoversi e mantenersi va ora preso in attento esame. La coscienza che escludesse ì1 movimento non sarebbe coscienza, perché 1o stesso escludere il movimento è ancora quel movimento che si pretende di escludere. Il fatto che la coscienza sia intrascendibile, che da essa non si esca, importa anche che la stessa ipotetica esclusione del movimento appartenga per così dire alla coscienza, interno ad essa, come anzi coincidente con essa. Non si può dunque pensare la coscienza come < immobile ", perché 1o stesso dire la sua immobilità è tenere fermo (adfirmare) la negazione del movimento e suppone, quindi, che si intervenga, appunto ci si muova, per operare sulla coscienza nel senso indicato dalla immobilità. Se non è possibile escludere iI movimento, la coscienza non è I'atomo inerte che è implicitamente detto pensandola come (< stato >> dell'essere, essere come < stasi n e quindi la coscienza in tanto è tale in quanto essa < è rnovimento. Ma tale movimento, "

coincidendo con la stessa coscienza, non vale come passaggio da essa. Così il muoversi della coscienza risulta intelligibile solo se la coscienza non viene come termine, come < cosa >, euindi, che abbia sue determinazioni, di cui si dica il movimento o I'immobilita. Dire che la indivisibilità della coscienza è una determinazione della coscienza significa appunto dividere la coscienza dalla sua determinazione, la quale in tal caso sarebbe, contraddicendosi, f indivisibilità. Dunque se la coscienza è indivisibile, semplice presenza, semplicità dell'essere presente, semplicità dello integrale, semplicità del totale, essa ( è " la sua stessa indivisibilità, è f indivisibile stesso. Proprio qui si può assistere alla genesi delle teoresi spurie nei confronti dell'essere, quelle teoresi che fanno dell'essere la massima astrazione, perché, una volta chiarito, come è giusto fare, che l'essere non è una determinazione, è facile cadere nella tentazione di negare all'essere la determinatezza e dirlo quindi " indeterminato > o residuo di quella progressiva (o regressiva) astrazione della quale esso sarebbe il risultato.

X}LXVII A questo punto il discorso si sdoppia: da un canto esso riguarda I'essere come non-dicibile; dall'altro esso riguarda il modo in cui il u dire > questa indicìbilità dell'essere è la " coscienza ,,. Il sapersi della coscienza è il suo essere , presenza che è l'essere. Poiché I'autocoscienza non è qualcosa di diverso dalla coscienza, ma si pone rispetto ad essa come non-altro che ha la sua esplicitazione terrninologica in essa, la coscienza che sappia se stessa, che sia veramente coscienza, è autocoscienza. E si dice per dine il suo stesso essere presenza, nel senso che essa non può attuare quella sovrapposizione di sé a se stessa in cui si avrebbe I'oggettivazione per ia quale essa sarebbe aitra dalla coscierua, altra da sé. Ora, il .< riconoscersi è essenziale alla coscien" za, almeno in quanto è dessa il riconoscersi stesso in cui è presente ciò di cui si dice la presenza, I'essere. I-o .< avere rr, dunque, come funzione presupponente ia alterita"avuta, non può venire detto della coscienza, precisamente perché la coscienza esclude lo essere altro. Lo < avere > impone invece la differenza tra ciò che .. è u e ciò che rispetto ad esso può non essere: parlare di < trasformazione > o di elaborazione del reale da parte del soggetto è sempre un dividere e un mantenere intenzionalmente il diviso come diviso. Il rapporto tra indivisibile, tra ciò che, se non f;osse ., uno > non sarebbe, e la divisione che si tenti di esso onde saperne f indivisibilità, non si pone tra due termini e, quindi, non è un rapporto. Per valere come rapporto bisogna che i due termini siano gia due, cioè tra loro divisi. In tal caso l'indivisibile verrebbe meno, vemebbe meno uno dei due termini. E da capo non vi sarebbe rapporto. Dunque tale rap porto deve essere interno alla coscienza, ma anche deve coincidere con essa: per la coscienza non v'è

che la coscienza, proprio perché il " mondo > che essa trovasse come da essa separato nella reciprocità inerente a tale separatezza non sarebbe più separato. Lo essere separato del " mondo " è piuttosto 1o essere < mondo > della separatezza, ché la separazione è dessa la radice del mondo, radice che non appartiene alla serie delle " cose D che appaiono in esso.

Lo estranearsi della coscienza da se stessa è dunque il .. mondo >. Questo suo * farsi D non è dunque se non la coscienza come < estranea u da se stessa: per quanto essa si estranei è se stessa, per quanto sia se stessa essa abbisogna di venire rappresentata come < estranea >. L'estraneazione si attua nell'atto stesso che viene estraneato nella rappresentazione; la quale estraneazione consiste tutta nella pretesa di < stare di contro alla coscienza, presupponendo una " passività della coscienza, un. essere passivo dell'atto, un suo non essere atto.

)fiXVIII Alla base dell'estraneazione v'è dunque una composizione, la quale assume insieme termini che insieme non stanno (equivalentemente < stanno n solo se 1o insierne è ( costruito "). La radice della estraneazione, poiché lo essere estraneo non è origìnario, è la pretesa di oggettivare l'essere, pretesa di ridurre la presenza a cosa-che-si-presenti. Di qui ora la ne cessità di parlare della impossibilità di dire I'essere. E' impossibile stabilire un rapporto con l'essere, n25

perché I'essere non può venire intenzionato come .. diverso dallo stesso intenzionare. L'oggetto che ne " conseguisse sarebbe tale da respingere come ad esso non identico I'atto per il quale lo sì pensasse. Ma il suo venire considerato sembra inevitabile anche nel suo dirlo non considerabiie, anche per negarne I'oggettivabilità. Il rapportarsi è essenziale all'intenzie. nare, anche dove si chiarisca che l'intenzionare è indiretto (lo essere " indiretto o è anche lo essere diretto secondo altro movimento). Non basta cioè che si dica che l'intenzionamento dell'essere è indiretto, laddove ogni altro tipo di intenzionamento è diretto rispetto alla cosa intenzionata, perché, anche indiretto, lo intenzionamento sarebbe un rapportarsi, mantenendo comunque Ia cosa intenzionata in una " alterità " che la distanzia dall'atto e all'atto non si riduce. Le ontologie hanno questo di peculiare, che fanno dell'essere un riferibile all'atto, altre da esso, così che le ontologie, proprio nella loro intenziclne di .., dare, l'essere, sono dell'essere l'alterazione fondamentale, I'occultamento del suo senso, la perdita del senso del suo essere ( presenza >. Le ontologie sono la vera negazione dell'essere, proprio nella loro intenzione di possederlo, di concettualizzarlo, sìa pure dicendo che il concetto di essere è .. trascendentale > rispetto a tutti gli altri concetti od enti che vengano da esso inclusi o in base ad esso vengano formulati.

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XXXIX Poiché la coscienza, come coscienza dell'intero si risolve nell'intero di cui è coscienza, la necessità del risolvere è Ia mera intenzionalità che connette coscienza ed essere e fa della coscienza una ( totale apertura > s€ è totale nel suo essere la ., presenza > di ciò che essa .. è ,r. La coscienza è necessarìamente coscienza dell'intero, perché se qualcosa è presente (: è) è presente nella sua verità, nel suo < intero >. Ne segue che I'intero come tale è l'intero di ciascuna cosa presente ed è presente nella stessa presenza di ciascun intero. Ne segue che l'intero come tale è I'intero di ciascuna cosa. Ma è possibile dire che I'intero come tale è presente? La sua presenza è necessariamente presenza deila cosa nelia sua singolarità, cosicché della presenza dell'intero non v'è bisogno di parlare, come se si trattasse di una presenza a sua volta, di una ripetuta presenza rispetto alla presenza come tale. Ma sorge qui la domanda di come sia possibile che si sappia la presenza deii'intero come intero, se esso come tale non si presenta, se esso non è un singolo che si presenti. Ciò che qui va subito chiarito è che lo intero corne intero non può valere come lo .. insierne " degli interi, come 1o n insieme o che non può essere la compresenza degli interi tra loro connessi, quasi insierne di tutte le sue parti, che siano tali per un moltiplicarsi dell'una per X'altra o dello aggiungere I'una all'altra, ché, logicamente, lo insieme sarebbe ancora una parte che si moitiplica indefinitivamente per se stessa.

1,27

XL

Altra salvezza non può venire oltre la salvezza che viene dal vero. Il vero " infatti ci fa liberi, il " vero infatti attua la liberazione autentica da noi stessi, da ciò che, nella nostra illusione di consistere tra il consistere delle cose, fa inautentìco l'esistere. E del resto il bisogno di liberazione, in cui si risolve la domanda della salvezza, è coscienza di essere non autenticamente se stessi, coscienza auten-

tica di una inautenticità.

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Non si va dunque all'autentico essere rapportandosi ad esso a partire dall'inautentico nostro esistere, ché ogni movimento che lo inautentico esistere facesse verso l'essere sarebbe ancora inautentico, sarebbe non altro che la ripetizione della sua inautenticità. E' per l'autentico sapersi non autentico che si sa I'inautenticità del non-sapersi, inautenticita di quanto, non essendo pensiero, non è ( vero '. Ma appunto perché il u vero " è pensiero, concreto non può essere ciò che non è pensabìle, concreto non può essere ciò che aI pensiero appare contraddittorio, che, pensato, svela la propria nullità. Dove il senso comune ritiene di essere e di valere come esperienza del concreto, esperienza concreta, la consapevolezza di che cosa significhi " concreto > non appartiene al senso comune, ma alla filosofia, la quale, pensando concretamente il concetto di concretezza.r è > la stessa concretezza del concetto. Poiché pensare non si può che l'essere non sia, limitare non si può l'essere se non pensandolo e superando la lirnitazione nella iliimitabilità

appunto del pensiero; il quaie però .. è " la stessa non limitabilità dell'essere. Poiché l'essere non è limitabile, I'essere non può cominciare ad essere e non può finire di essere. Comincerebbe da se stesso e non comincerebbe perché sarebbe già tutto in ciò da cui comi.nciasse, o comincerebbe dal non-essere e non comincerebbe o sarebbe limitato dal non-essere, limitato da nuila, non limitato, contraddittoriamente. Se finisse furirebbe nel nulla, non finirebbe, perché il nulla in cui esso finisse sarebbe il nulla stesso di questo finire. Cominciare e finire sono dunque contraddittori, sono in efietti I'oblio dell'essere, il nascondersi deil'essere in un pensiero che non è pensiero, che non >. Ma qui ancora si cela una tentazione, quella di dire che se non I'essere comincia e finisce, comincia e finisce nell'essere lo < essente n, l'.. ente r', ciò-cheè. Se non che, dire che non l'essere comincia e finisce ma che comincia e finisce l'essente significa semplicemente dire che l'essente comincia da1l'altro da sé, il quale come altro si mantiene perché da esso l'essente possa cominciare e fino a che è altro è anche il non-essere di ciò che da esso comincia e ciò che da esso comincia prima non era e nel suo divenire cesserà di essere. Ma così è anche evidente che ancora è dell'essere che sì direbbero il cominciare ed il finire. Dire che un < essente > prima non era appare come un dire che v'era un prirna in cui l'essente non era, che questo {< prima " era ed è quel prima in cui l'essente è il nulla di se stesso, non .. è ,r. Ia tal rnodo però dovrebbe anche risultare che il tempo conìe il " pirna o ed il " dopo u è essenziale ai

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divenire, nell'essei'e dell'essente. Itr tempo dowebbe avere una rilevanza metafisica. E qui si cela l'equivoco, quello per iI quale il tempo viene pensato come essenziale al divenire, così che il divenire si direbbe per un .< prima ' che era e per un .. dopo o che sarà. Ma poiché il tempo sarebbe in tal modo esso stesso il divenire, il tempo stesso dowebbe ";enire pensato per un prima ed un dopo, all'inflnito (ed è la rutio deltr'istanza kantiana della a priorità. del tempo). Che se il tempo non fosse a sua volta inglobato nel dìvenire e non divenisse, 1o si dowebbe pensare come un ( presupposto ', al divenire, ma presupporre è porre prima, ed è il presupporre, come già si è visto, ad essere quel prirna, così che temporalità e presupposizione sono tutt'uno. Togliere i presupposti significa quindi togliere al tempo la sua pretesa (presupposta) rilevanza teoretíca. Del divenire dunque bisogna poter dire senza che il tempo si equivochi con esso, senza che nel dire il divenire appaiano le espressioni devianti del. 1o ., era > e del .< sarà n, del prima n e del .. dopo ,n, " del passato e del futuro. Operazione difficile come è diÍficile liberarsi dal senso comune, dalle presupposizioni che lo sostengono ed alimentano, liberazione filosofica che è appunto il pensiero e dunque il vero. Vano sarebbe pervenire alla consapevolezza di dover togliere i presupposti, se dopo ci si perde davanti a quel presupposto di base (di base al presupporre) che è il tempo e lo si involve nel divenire e si fa della metafisica, conseguentemente, sapendolo o no, una . Se divenire è cominciare ad essere e finire di essere, se divenire significa avere in sé un tempo in

cui non sia ciò che è, divenire è impossibile, è solo astrattamente pensato, è non-veramente pensabile, è nulla. Dunque, o il divenire non è corninciare e finire o il divenire è nullc.

XLI Ma se nulla non può essere il divenire dì questa negazione dei divenire, se nulla non può essere il divenire di questo pensiero che scopre la contraddizione del cominciare e del finire, negare non si può ii divenire senza contraddirsi. Così, il pensiero che non può pensare il divenire neanche può pensare ia propria negazione del divenire, ché penserebbe la negazione di se stesso, non penserebbe o penserebbe ancora all'infinito la sua stessa irnpensabilità, sarebbe desso a pensare, divenendo, la sua stessa impensabilità. Non è possibile, dunque, arrestare il pensiero alla negazione del divenire, anche se il pensiero pensa appunto l'essere solo negando il divenire, passando attraverso questa negazione. Chi si arresta a questa negazione quindi non può pensare l'essere o non è l'essere ciò che egli pensa. La quale negazione del divenire ha però ragìone porsi di fino a che il divenire venga pensato corne l'essere-che-non-è e il non-essere-cheè, solo fino a che si pensa l'essere come qualcosa che si differenzia dal nulla, fino a che si pretende di pensare L'essere corne irnmediatamente dato, e quindi, come non ha pitr la f.orza dell'altra,

ad essa logicamente equivalente: " poiché il niente non appare, I'essere non appare >. L'apparire, infatti, è degli .. essenti " che in tanto appaiono in quanto nessuno di essi è (si identifica con I'essere come essere) quell'essere che sono tr.rtti gli altri. E il loro apparire è tutt'uno con ia loro reciproea negazione: l'essere in effetti appare solo nel senso che gli enti appaiono nelia negazione. Ed allorché si conclude, come Severino, che la " verità dell'essere è appunto I'affermazione dell'imrnutabilità dell'essere " è anche da rilevare che in quanto aftermazione l'immrttabilità dell'essere diviene (ed, infatti, affermare è possibile solo nella possibilità che non si afierrni, nella possibilità che si neghi, nella problernaticità).

XLII Se I'essere, per venire pensato (come oggetto di pensiero, come < dato o) ha bisogno che si pensi iI non-essere, poiché pensare non si può ìI non-essere, neanche l'essere può venire pensato, così come pensare non si può ii pensare (che è processualmente I'essere, I'originalità di Hegel, si diceva), e il pensare, una voita pensato, implicherebbe il suo opposto, il non-pensabile ed il non pensabile (che è " " il non-essere) gli farebbe da elemento costìtutivo, cla interna determinazione: la determinatezza de\l'essere sarebbe il niente. La illimitabilità dell'essere (e del pensare) .. è ,'

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il non-essere dell'impensabile. L'altro da essi sarebbe il non essere e il nonpensabile. Ma se è vero che non si può pensare l'essere senza contrapporlo al non-essere e se il nonessere è appunto la contraddizione di questo contrapporsi, vano è dire che è essere ogni non-niente, che è proprio dell'essere negare quel niente che si pone come sua negazione; ché, in tal caso, essendovi il niente perché lo si neghi, veramente non lo si potrebbe negare e veramente l'essere non sarebbe: se il niente è essenziale all'essere, l'essere in quanto tale sarebbe non-niente, poiché il niente non è, sarebbe essenziale all'essere di non essere. L'essere < è >r non-niente perché è, non viceversa; e di esso però si dice che < è u in quanto si nega di poter affermare il niente. L'autentica affermazione dell'essere è la negazione del niente, ma non come attività che u assuma " (presupponga) il niente per attuarsi come sua negazione, bensì come il dissolversi dialettico del niente nel suo venire pensato. la impossibilità del nulla,

XLIII

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La ragione per cui si dice che il divenire non è pensabile, non < è r,, è appunto che nulla sarebbe ciò che cominciasse ad essere e cessasse di essere; la quale ragione vale appunto anche per quelia negazione del divenire la quale od è,' indiveniente, " facendosi con ciò assc!.uta nella sua immanente negatività, dunque assclutizzando il niente, o contrad-

dice se stessa affermandosi in quel cominciare ad essere che è il porsi di se stessa, il NEGARSI EFFETTIVO DEL NULLA. La negazione del divenire, dunque, poggia su questo: che il divenire, se fosse, sarebbe l'essere o I'apparire del nulla. Ma dunque la negazione del divenire si risolve nella negazione del nulla, nell'afiermazione che ìl nulla non .. è r' e che si dice appunto ., nulla > ciò che non è. La quale negazione del nulla però deve diveníre, perché se non divenisse si aweb be da sempre (: necessariamente) questa negazione nell'assolutezza indiveniente del negare. Che è il negativo stesso della sua assolutezza e l'assolutezza del negativo è il nulla. Se la negazione del nulla non divenisse, se essa fosse da sempre (: assoluta) e non cominciasse ad essere, da sempre vi sarebbe il nulla (: ìl nulla ne cessariamente sarebbe), da sempre il nulla, essendo, negherebbe la negazione che da sempre si pone accanto ad esso (accanto perché non riuscirebbe a supprimere ciò di cui fosse negazione) e da sempre vi sarebbero l'essere ed il non-essere, dunque la contraddizione, che, necessaria, non sarebbe contraddizione. Cominciare ad essere contraddice dunque l'essere e quindi il pensare (pensare è qui sapere l'incontradditorietà dell'essere, stesso, 1o ., essere sempre di nuovo r', il non essere rnai < finita >. Appunto la problematicità, I'esperi.enza. I1 suo cominciare è il pervenire a sa- 135

pere che si deve negare il cominciare dell'essere ed il suo finire. Così, ciò che sernbrava accreditare, nel non cominciare e nel non finire, f immutabilità, accredita invece inaspettatamente la problernaticità, il " divenire ". Il " cominciare ,, è il negare i presupposti empirici che hanno fatto dell'essere ciò che comincia e che finisce, presupposti che sono, nel loro fondo, la pretesa comune di pensare I'essere, facendone r:rr " pensato >; pretesa che, cercando l'essere, trova il non-essere, non trova nulla (infatti quell'essere sarebbe l'astratto), che affonda le radici nel nihilismo, che è la radice di quel nihilismo che essa non sa riconoscere e che anzi costituisce insieme il suo prodotto ed il suo scandalo. L'essere dunque non comincia e non finisce, ma comincia e flnisce la sua negazione, nel senso che essa ( comincia sempre di nuovo " e quindi non finisce. Dunque la radicale negazione del cominciare e del finire dell'essere va fatta e chi si scandalizza di essa la î.a a modo suo, contraddicendosi. Ma essa come negazione non basta a se stessa, ad essa non ci si può arrestare, essa non si assolutizza, ché se bastasse a se stessa, se fosse parola definitiva, se fosse, con espressione di Parmenide, " il sentiero del giorno u, assoluto e tuttavia perduto e da recuperare nella sua assolutezza, sarebbe I'assolutezza del negativo, il nulla, si convertirebbe nel .< sentiero della notte >, e sarebbe iI < sentiero ctrel giorno ,, a produrre da solo la sua notte. 136

XLIV Ma poiché si deve negare il cominciare dell'essere, poiché deve attuarsi questa negazione, non si può non andare fino in fondo, non si può fermare questa negazione al di qua dell'apparire, non si può lasciare che l'apparire alrtreno cominci e finisca, ché l'apparire è essere od è nulla. L'apparire, infatti, come apparire dell'essere comincerebbe ad essere tell'essere, chè se cominciasse nel non-essere porterebbe il non-essere nell'essere, o l'essere nel nonessere, nulla dovendo essere l'apparire della cosa quando essa non appare, nulla dell'apparire che riproduce in fondo immutata la pretesa che l'essere possa avere un tempo in cui esso non sia. Vi sarebbe, infatti, almeno un tempo in cui la cosa non appare, in cui l'apparire non ( è r', un tempo in cui l'essere che è l'apparire non < è r, un tempo ancora in cui lo essere semplicemente non " è >. Ché se l'apparire avesse il valore di qualcosa che non ., è nulla esso direbbe apparendo e nean'', che il proprio nulla, ché il nulla, se sapesse se stesso, non sarebbe il nulla che è. Chi sa la nullita del nulla è nell'essere, è essere. Dunque diremo che tutto ciò che comincia ad essere nel senso che prima non apparìva e dopo appare, che prima non era e dopo non sarà, è nulla. Diremo, coerentemente, che tutto ciò che comincia ad essere e ad apparire è nulla e che in questa sua radicale nullità esso però non coinvolge la coscienza luminosa della sua nullità, che nella contraddizione non è coinvolta la coscienza incontraddittoria 137

della contraddizione. E guesto è il , l'.. essere > che appunto non è ciilche-incontraddittoriamenteè, ma è la stessa incontraddittorieta della negazione che l'essere possa venire pensato, l'incontraddittorietà in cui si scopre che l'essere, pensato come . Perciò la problematica del c divenire ', non può venire considerata risolta con le espressioni in uso < processo teleologico >,

, .. tensione verso la pienezza >, ( ricerca della pienezza d'essero >, che giustifica ap punto l'esperienza. Così si capisce perché

Le facili filosofie eludono

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il

problema, perché pongono ambiguamente una come tra fatto e ragione, tra esperienza come ciò che si constata e la razionalità che giustifica appunto I'esperletua.

Se I'assenza fi cìò che deve essere presente è tale per la presenza di cíò che non deve essere presente, che non deve essere, si pone il problema della ratio dell'assenza, in modo ehe essa sia intelligibile senza convertirsi in presenza, a sua volta, in essere. Se si pretende che ciò che .. deve essere > abbia in se stesso La ratio dell'assenza o se tale ratio fosse intrìnseca a ciò che u deve essere ", si dovrebbe poter dire che il dover essere è per se stesso ne" " gativo, che esso è in se stesso la propria negazione, quale sua autodistruzione, o che efiettivamente la cosa, priva di ciò che le è essenziale, possa sussistere separata da se stessa, rispetto a se stessa. Il concetto di " steresi " è dunque tutt'uno con quello ad esso apparentemente relativo di .. dover essere > ed è inintelligibile perché tutto < astratto > (la cui intelligibilità sarebbe solo astrattamente tale) e va chiarita I'opposizione inerente al concetto di steresi, la quale opposizione mantiene separati tra loro i termini che si presentano ciascuno come i'equivalente dell'altro (la privazione è I'equivalente del dover essere). Se dico, infatti, che A è tale che ad esso manca x e che x è tale che A senza di esso non è A, in effetti, lo x, essendo di A costitutivo ed essenziale, non si tiene separato da A, ma è lo stesso A in quanto separato da se stesso (e guesta separatezza ha per norne x). Dunque tra A ed x non si pone una relazione tale che si possa pensare A senza x, ma quello A che potesse venire pensato senza x non sarebbe A o sarebbe A come la negazione di se stesso, negatio sai, nulla.

I4L

La correlazione che le facili filosofie deontologiche afferrnarlo corne ad esse fondamentale è in efietti lk opposizione ,, all'interno di ciò che si dice < diveniente )>, soggetto del divenire, ciò che, divenendo, tende ad essere. Opposizione impossibile tra I'essente e se stesso, tra l'essere e se stesso, senza neanche poter come opposizione.

XLVI

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La problematica del divenire è già elusa, dunque, dove il divenire venga assunto come evidente, come ( dato > d'esperienza, perché se l'esperienza stessa è divenire, non è possibile, al limite, avere esperienza del divenire piùr di quanto si abbia esperienza della stessa esperienza, piir di quanto l'esperienza non possa oggettivare se stessa, alienandosi. L'esperienza che si abbia dell'esperienza sarebbe, al limite, lo esperire la divenienza dello stesso esperire, ma poiché non v'è esperienza che non divenga (la stessa forma di dogmatizzazione da parte delle dottrine si afferma e diviene, afiermandosi), è da dire che se si potesse avere esperienza del divenire, si avrebbe del divenire ciò che rìsulta, il < fatto ', nella forma derivata dal " dato D, ma come qualcosa che, in quanto divenire, è gia concluso: si avrebbe un concetto del divenire non convertibile nel divenire (attuafita, processualità) proprio del concetto. Il rilievo di questa considerazione è abbastanza

irnportante perché, a proposito di u storia >', è da dire che se, nella * ricerca del senso della storia ", sl presumesse un concetto estraneato rispetto alla storia, si presumerebbe un concetto che non è concetto. Chi ritiene di dover contrapporre, denominandolo a priori, il concetto alla storia (F. LoL,rrenor), l'incongruenza dei due termini come del divenire e dell'indiveniente, manca di rilevare che i due termini in tanto si pongono in quanto è ., concetto >> guesto loro porsi, così che la pensabilità loro è grà il concetto e quindi la loro efiettiva conctetezza.

La facile

tentazione

di

dare I'appellatìvo di

il consistere " di cosa documentabile (il < fatto "), si profila come imporsi fittizio della temporalità, per l'equivoco in reale o al mondo perché esso sarebbe

cui cade Ia rappresentazione naturale (coscienza co. mune) tra storicità e temporalità, ché, non appena si parla di storia (= di divenire) anche si ritiene di includere un discorso sul tempo o come presupposto al divenire o come modo d'essere di ciò che diviene, che sia il diveniente come ancora lontano da se stesso. Un modo di esprimersi può essere anche questo: la cosa corre nel tempo per trovarsi tutta intera. E qui, una volta consaputo che il tempo è infinito, si sa che il suo correre è vano; che, se il tempo fosse finito, vi sarebbe una conclusività inerente al tempo come tale, a prescindere dalla cosa, la quale potrebbe subire una fine senza che questa coincida con il suo fine, settza che essa sia interamente se stessa.

L'aporia della storia che


sono necessariamente finite); se il tempo è per se stesso finito, è finito a prescindere dalla cosa e quindi la cosa può non raggiungere se stessa. In entrambi i casi, il tempo è nulla per la storia della cosa e la corsa della cosa nel tempo è vana.

Ma, consapevoli o no, coloro che rimproverano al concetto di non essere storico, fanno della storia una temporalità che pro-gredisca nel succedersi dei fatti e fanno conseguentemente del concetto la definitività imposta dall'esterno da parte del pensiero: ciò che viene meno è sempre il processo, l'attualità, il vero divenire.

XLVII

144

L'afrernazione che qui va fatta e che condiziona I'intero senso del discorso svolto è che non v'è divenire se non nella negazione. E la negazione è negazione solo negando, attu.andosi nel suo negare e non v'è negazione oltre questo atto. Ossia il negare non domanda di " fondarsi > sul negativo più di quanto il negativo non domandi di venire giustificato (giu.stificarlo sarebbe negare la negazione, perché il negativo è I'assolutezza del nulia). Ora, negare non si può l'essere (che si afferma come innegabile ed è la stessa innegabilità dell'af-

fermarsi) e negare non si può il non-essere (non si nega ciò che non è). A questo punto la negazione appare come ciò che non può ( apparire >, come ciò che deve venire soppresso, perché pensarla è contraddirsi, perché essa è contraddittoria. I1 che significa semplicemente che essa non può venire ( pensata >, non significa e non può significare altro; sopprimere la negazione infatti sarebbe negare; v'è un solo modo di sopprimere la negazione: riprodurla. Essa dunque è innegabile, se qualcosa è innegabile è proprio la negazione. Dunque se qualcosa è da rivedere, una volta trovato che la negazione non appartiene all'essere e non appartiene al non€ssere, è precisamente il modo in cui si dice l'essere e si dice il non-essere. Appunto, rimanendo nella innegabilità della negazione, vano sarebbe dire l'essere se non si dicesse anche che esso non può non essere e che il nulla è per se stesso questa imFossibilità positivizzata. Il nulla non essendo, l'essere è; dell'essere si dice che è perché si dice del nulla che non è, ma l'essere non è perché non < è il nulla, chè questo .. perché ,' " fisserebbe ii nulla come ' dell'essere. Lo apparire deil'essente è l'essere. E' da chiedersi, però, ancora come possa valere la negazione se, anche non pensata come se non I'indivisibile attualità che non si afierma se non in quanto non può venire aff.ermata e non può venire negata. Il suo affermarsi è togliere questa duplice pretesa. L'atto si svela nella duplice impossibilìtà appunto di subire, come ciò che subisce un'azione estranea ad esso, affermazione o negazione, consiste dunque nella contraddizione, la quale è saputa incontraddittoriamente, superata quindi nel suo stesso sapersi contraddizione. Non che la contraddizione sappia se stessa, ma neanche che la contraddizione possa veramente venire saputa (essa contraddirebbe anche quel sapere che

la

t46

sapesse).

E' precisamente nell'impossibilità di sapere la contraddizione e nell'impossibilità che la contraddizione sappia se stessa lo scandalo. Lo scandalo è dunque proprio la contraddizione. Ma lo scandalo è mantenuto fino a che non si sappia il modo in cui la contraddizione è nel suo stesso togliersi. Chi pretende di doverla togliere e fa di guesto, pensando o vivendo, il proprio programma non sa che non la to' glierà mai, proprio perché è contraddittorio volerla togliere, è creare la contraddizione onde appunto presupporla all'atto conoscitivo. Non è che .. prima ' si assuma la contraddizione dopo e la si tolga, rna porre la contraddizione è anche toglierla perché essa piuttosto si nega da sola, .. è > questo togliersi, contraddittorio anche

come togliersi, -oerché per togiiersi bisogna esser:e e per essere bisogna almeno non togliersi. I-a contraddi.zione non sarebbe contraddizione se potesse venire < superata ,, da aîtro da essa e porsi " prirna del suo superamento: contraddizione essa non " è se non è contraddittorio anche il suo porsi. Così il filosofare si articola ( - si struttura) secondo le indicazioni intrinseche all'atto del negare: l'inerenza delîa negazione aIIa ricerca, l'impossibiIità di assalutizzare Ia ricerca, perché assolutizzare la ricerca equivarrebbe a negare la negazione (se non è negazione di altro è negazione di sé ed è contraddittoria), Ia illímitabilità detl'essere come sua incontraddittorietà (equivalentemente : la indefiniti.vità della contraddizione). E le direzioni si mostrano come impossibilità dí " dire " la negazione come un negativo che sussista in se stesso e di negare che negare si possa e si risolvono quindi neî rileyare Ia contraddizione, tr-'attuarsi del ricercare ha senso riducendo a contraddizione la pretesa di eludere la ricerca, mostrando che eludere la ricerca è solo una e quindi non {< è o, è contraddittorio, togliendo ad essa ciò che le vieta insieme di farsi assoluta e di ridursi a nulla. E' cosÌ che si rivela la struttura dialettica del socratico < sapere di non sapere > in cui essenzialmente si articola il .. ricercare ,r. fl " sapere di non sapere > è dialettico perché il degli uni fuort degli altrí. Paradossalmente proprio Ia figura della integrazione a cwi si arresta íl senso comune e che la fitosofia rigorosamente rifiuta risohte I'unità. ne|l'astratta " unicità >, che perde iî reale come ad essa estraneo, ad essa che yi si impone dal di fuori, appunto perché a.ccetta un ,, fuori > origínario che Ia conduca. L'unicità autentíca non accredita la ríduzione dei molti, ma presenta in sé îa necessità che li fa uale intanto nan4omune), ma essa è carattere deîla filosofia e non come elemento del filosofare che stia quale piano su cui ci si collochi per fiIosofare; purità è l'attuarsi stesso della filosofia, ?ron un piano dato su cui ci si ponga, se mai è l'impossibilità di un piano che si qualifichi filosofico senza convertirsi tutto nel filosofare in atto, posizione incondizionata che non subisce passivamente operazioni che essa non annulli come fittizie. Una fitosofia che si pretenda queîîe assunzioni della fiîosofia che ne fanno una sapientia che annulla le pretese > mA che, annulîortdole, pretende di sostituiile, collocandosi al loro posto e quindi, mantenendo intatta, anzi ,< integra > La Loro funzíone: la filosofia non può essere tacitazione dei problemi urnani quali impedimenti da rimuovere ande accedere alla sapienza, perché essi come problemi che potessero venire tacitati sarebbero sul ntedesimo piano della loro ,, negagione > che ne è Ia tacitazione più radicale e quindi più vera. Non tacitati essi verrebbero, ma sostituiti e questa sostituzione ripradurrebbe di

153

lolta in lolta tutta la problematicità che si pretendeva di avere superato.

1.54

4. E' da dire, pertanto, che la filosofia, quale esercizio umano, si uiene a trovare (viene troyata) nei confrontí delîe altre attivitù, come appartenente alîa îoro serie, Ia quale include le attività nel rapporto, comune a tutte, tra mezzo e fine, tra strurnento e scopo; tapporto in cui e per cui si instaura la loro ,, proporlione ". Dí qui il suo strutturarsi come porsi delîo strumento prima, per un fine che venga dopo, il suo pre'vedere iI fine come di lA. da ttenire rispetto al momento che lo intenziona. Ma Ia filosofia come attiltità fa uso di ciò che le consente di affermarsi come ftosofia tra altre attività; ed essa come non può non negare ciò che la fa altra > a suA yolta; per dire " con Hege| o l,a fiîosofia farebbe uso di un tai modo di indagine mentre essa stessa Io dìchiarerebbe incapace di coglíere la verítà "'. La dialettica del negare ciò che consente di affermare è qui negazione dell'alterità tra filosofia ed aîtra attività umana; ma ogni altra attittità vi resta altra, se non aîtro perché si neghi î'identità di essa con Ia filosofia. Dicendo che la filosofia non è su| medesimo pinno delle altre attività umnne si dice che essa propriamente non è altra (I'alterità suppone un " " identico, una omogeneità dei termini che vi compaiono), ma dicendo che essa nan è propriamente ,, altra > anche si díce che essa è altra come nonidentica con esse e con la loro reciproca alterítà, La fiIosofia, sapendosi ricerca o struttura del ricercare, immane aîle altre ricerche, le quaîi attre

sono tra di loro, reciprocatnente. I-'alterità. tra fiIosofia e altre attività umane rientrerebbe altrimenti appunto in quella " alterità ,, che la fitosofia deve po. ter-f ondare, cÍté, se la fiîosofia f osse altra nel loro medesimo senso, anch'esso da altro dovrebbe venire fondata e si prolungherebbe all'infinito Ia serie di ciò che abbisogna di penire fondato, Se questa dialettica restd. na.scosta, nascosto resta anche l'intero filosofare, il suo senso; e r)clno diviene anche parlare di " purità,, del filosofare: se infatti significa qualcosa, significa la negazione di ciò che si , empirica. AI Limite la soggettività da esse valorizzata si radicanellapreoccupazione del " síngolo >, preoccupazione che dei presupposti da togliere filosofando è il più tenace e resistente perché, anche togtiendo iI " mondo ,r, appare I'io almeno come taîe che nell'attivilA, del togîimento emerga e si affermi. In questi termini, Ia speculazíone che ritenga di doversi't'are * meditazione >> manel senso lcierkegaardiano e diaristico è il segno più evidente deIla miseria in cui si perde il filosofo preoccupato di se stesso e della sorte deî sLto , tutto inteso a satyarsi perché tutto rîdotto a cagliere la rninaccie 155

deî non-essere di sé, come insignificanza di fronte all'Aî.tro che lo sovrasti o lo fondi. IL < peccato ,, che sta all'origine dell'artgoscia è proprio deîIa coscienza infelice che rtuoîe restare infelice perché si connota taîe ed accetta questa connotaziane come essenziaî.e e vi si arcesta, senza peraltro rilettare ehe di tale essa sct avendola superato, avendola negata in quella coscienza che è iî vero ,r, Il peccato originale sul " quale Kierkegaard indugia è proprio Ia preoceupazione che muove Kierkegaard a^d indugiarvi; il peccato è nelîa domanda che Kierkegaard ritiene di dover porre al pensiero di Hegel della sorte di questo < sircgoîo Ed è importante qui rilevare che Ia radice della decadenza della filosofia all'astratta ed impersona[e banalità del ,, comune r, è paradossalmente Ia preoccupalione del singoîo che di questo K comune > sembra, ma solo sembra, l'av,versario più irriducibile; Kierkegaard si crea un HegeL per poter'l.o combattere e paradossatrnente, îa radice del, ,, comune, è preeisamente il singolo che guarda se stesso, ma smarrisce iI pensiero che consente di guardarsi e di vedersi e smarrisce quindi, a rigore, il senso in cui egli è singalo, Qui è I'equivoco che mai avremo abbastanza dissolto, equivaco in uno con l'ídentificazione dell'unità a sistema, donde il rifiuto dell'tmità per rifiutare iî sistema; rifiuto in cui si compie quello immiserimento delta filosofia che è la fito" sofia dell' esistenza Non appena insorga in filosofia Ia preoccupazione dell'io nella domanda del suo posto nella ,, realtà r, insorge tutto î.o spirito deprímente del>>.

>>.

15ó

l'uomo cotnune che è a ragione l'unica possibile negazíone della fiîosofia, l'obIio in cai la si abbia. Insorge nuoyamente il presupposto ridotto al punto opctco ed impenetrabile che è íI ,, singolo ,, ma insorge con tutta îa misería dal\a quale il fiIosofare è liberazione in atto, riemerge come il. segno della schiauitù che è ímpotenza di fiIosofare o incapacità di mantenersí nelta < fatíca deî concetto ". La profonditA speculatitta che potrà esibire I'immergersi nelîn u dialettíca qualitatirta u sarà allora i! miraggio che apporta I'introversione, la quale non è approfondímento ma, al. più, estensione alf interno dell'io, ancora. estensione che disperde l'io, anziché fuori di sé, in se stesso, ma lo disperde. Non per nulla in Kierkegaard la critica al pensiero hegeliano diventa dileggio allorché ne ll concetto dell'angoscia egli rimprovera al < sistema,, che ,, ha strabiliato i[ mondo col pensiero che la filosofi.a debba cominciare senza presupposti, di non aye{e scrupolo di servírsi delle categorie del passaggio, della negazione, della mediazione, che sono i principi di moto deî sistema >>2. Appunto questo rimpravero è in realtà fraintendimento e dileggio, perché proporre di tali categorie un'indagine sarebbe ricadere nei presupposti: il toglimento dei preswpposti non è un presupposto e taLí categorie appunto sono l'attuarsí di quel toglimento non il porsi di altra presupposizione. La negazione, è negazione in atto e porsí di essa domanda sarebbe riprodurla nella sua innegabilità di negazione, non sarebbe togliere iI presupposto che si pretende ad essa ìnerente, come iî danese rìtiene. Nessun presupposto verrebbe tolto

t57

se della negazione che attua iî toglimetúo dei preswppostí si desse discussiome e, quindi, al límite, negaziome. Fresupporre non significa, come Kierîcegaard ritiene, ,, far uso di una cosa che non si spiega mai rre, nna pretemdere di non dover 't'ondare ciò che ha invece bisogno di veníre fondato. Appunto bisognoso di yenire 't'ondato è nott Ia negazione in cui ne| toglimento di pretesi fondamenti si pone La-fondazione autentica quale pÍocesso, ma quel singolo che si dà. ed è perciò, comunque lo sí atteggi, um ,, dato > e, qwindi, un presupposto. Il presupposto, dunque, nan è Ia negazione nel pensiera di Hegel, ma nel pensiero di Kierkegaard presLtpposto è Io stesso Kierkegaard in una part)ente p r of ondit à. s p ecutat iv a.

158

6. Ciò che a Kierkegaard sarebbe da ricordare è appunto che il senso in cui egîi stesso sa se stesso come singolo è quel pensiero che egli vede come funzione, ma che è atto nel suo essere universalità deila negazione; con parole hegelíane, il " medio infinito ,r. Iî. ,, medio infinito " hegeliotto è la negaTione che Io immediato presenta nel suo essere dato, che esso presenta come tolto e conservato nella coscienza, conserttato nello stesso toglinzento d.ella sua immediatezza saputa tale. Da una parte, dunque, îa coscienza che sa dî. essere ogni realtà è mondo ,r, da'Lî'altra iI mondo sa" puto con4e la coscienza che sa. se stessa è la presenza corne presenzcl a sé, come < presenza. pura >. Non che ta coscienza faccia esperienza di se stessa corne di qualcosa di estraneo, ma l'esperienza stessa è îa coscienza estraneante ed insieme consapevoî.e

di questa estraneazione, cosicché l'estraneazione è posta e toîta, ma come tolta è conserv&ta. II movimento dialettíco si chiarisce, quindi, conrc dialetticità del mortimento, per cui solo dialetticamente esso è tale. Iúa la dia'Letticità inerente aî mouimento risolve in se stessa iI movimento corme negazione, non semplicentente come . La coscienzo non è ambito in cui si pone e si attua íl movimento, ma è dessa iî movimento. Di questo movímento bisogna dare approfondimento perché in esso si radica Ia fiIosofia stessA, nel suo essere concetto di se stessa e non concetto che si abbia di essa. Per questo mwimento infatti la filosofia non è ùtna K dottrina >. 7. La filosofia, lungi da essere ,, dottrina " è il rifiuto critico di qualsiasi dottrina. Una dottrina infatti che pretenda di non essere definitíva è una dottrina che non ha nulla da dire, non è quelîo ,, insegnamento >> aI quale ci sí affida come a certezza. Poiché all'essere dottrina è essenziale al)ere una certezza nel porre Io cosa da o sapere >, è ad essa essenziale l'atto fiduciale dí chi rti si abbandona, credendo in essa. Irrazionale essendo questo accettare fiducioso, rt'è nella dottrina un momento di ,, irrazionalità rr, in cui si ha arresto, nofl giustificato, del movimemto che è processo, Atto, filosofia. L'arresto ha per figura Ia definitività, îa quale non ha posto se non in quanto viene imposta da!-

159

l'esterno (da fuoú), riproducendo quel fuor: che ad essa contraddice. Se Ia definiti,ttìtù. è propria della dottrína, e se la definitil,ità è un arresto, e se questo ,

t60

NOTE ALLA INTR.ODUZIONE 1 G.W.F. Hncel, Enciclapedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. B. Croce, Bari, 1923 S 1. 2 Hucet, Scienze della logica, trad. Moni, Barl, I, 29. 3 K. Frscnsn, Logik u. Metaphysik, 47 - La volontà come autodeterminazione dello spirito è < I'atto con cui lo spirito si scioglie dall'obbietto > e < l'atto del volere in generale è la più alta soluzione dell'autocoscienza ) per Io Schelling.

(cîr. Sdmmtl. W., I,

395).

a HnGu, Enciclopedia ecc., cit., S 45 e S 50. 5 Cfr. JacoBr, Ueber d.ie Lehre des Spinoza, trad.

pra, Bari.

it.

Ca-

6 HecEL, Enciclopedia ecc., cit., S 2. ? Per la sinonimia di immediato >

e < gratuito > in " Hecrr vedi Fenomenologia deîlo Spirito, tr. Dr \lrcnr, Firenze 79642,

I,

66.

s Si veda I'affermazione di Kierkegaard a proposito, in Il cancetto dell'angoscia, tr. Fabro, Firenze, 1966. e F. CHrEREctrtw., L'ínfluenza dello spinozismo nella formazione della filosofia hegeliana, Padova, 19ó1. 10 ltrncnr, Enciclopedia ecc., cit., $ t. 11 E. SrwlNo, La struttura originaria, Brescia, L958, 129" 12 G.R.. BaccnrN, I fondamenti della filosofia del linguaggio Assisi, 1964, 44, nota. 13 IIEcEL, Enciclopedia ecc., cit., S 3, $ 5; FenomenologitL cit., Frefaz., [ó3]. 14 HEGEL, Encíclopedia ecc., cit., $ 3. 15 Hecrr, Enciclapedia ecc., cit. $ 3. 16 EIEGEL, Enciclopedia ecc., cit., ivi. 17 HEGEI-, Varîes. ttber d, Aestetik, T, 135,

1ó1

18 HEGEI,

I enens

tenens, Realphilosophle, Hoffmeister, II. M et aphy sík und N atur phil.os o phie,

er Io gik

Si veda l'interpretazione dei rapporti tra religione e filosofia nell'Idealismo posthegeliano. 20 Qui la parola ( astratto è presa da Hegel secondo un " significato diverso da quello suo usuale e vale u pensiero r, >. " riflessione 1e

20' HEcEL, Enciclopedia ecc., cit,, $ 3, 21

Hecer, Fenomenologia deîlo Spirito, Pref. [ó3]. Hucn, Fenomenoîogia detlo Spirito, cit., tl17l. 23 ltrecnr, Enciclopedia ecc., cit., E 3. 22

24 HEGEL,

Fenomenologia, cit., pref. [3J.

26 HncEL, Fenomenologia ecc., 26

AnrsrorrrB, Protrepticos,

in Top.,

cit., introduz,,

tr.2

(Ross),

111.

in fur"x. Apnnou.,

149, 9-17 èràtepov aútó ùér€avte6 oixs6íou 'rQ àr\póTa

't

eîd'

Xó\ev à,vatpî1oo1tev tò'uldperov.

Per la valot'rzzazione teoretica deL Protreptico aristotelico, rimando al mio lavoro L'ariginario come implesso esperienza-discorso, Rorna, L963, e aI recente lavoro di E. Brrrr, E sort azione alla filo s ofia (Pro tr et tico), P adova, 1967 . 2? HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, Introd, cit,, il71. 2E IIEGEL, Fenomenoîogia detlo Spirito, cit., [14]. 2e HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, crt. 30 ltrEGEL, Enciclopedia ecc., cit,, p 9, 31 HEGEL, Gescltichte d. Philos. 2,1II,244-5. 32 HEGEL, Encicîopedèa ecc., cit,, g tL 33 HEGEI{

done (89 sge).

Enciclapedia ecc., cit.,

34 HEGEL, 35 HEGEL,

S 11; PleroNe, Fe-

Enciclopedia ecc., cit., E, 12. Enciclopedia ecc., cit., $S 1 e 36 HEGEL, Enciclopedia ecc., cit.,5 71. 3? HEGEL,

9.

Lezioni sulla fiIosofia detla Storia, trad.

logero-Fatta, Firenze,

Ca-

19ó3.

M. HrrDnccER, Seir? und zeit, tr. P. Chiodi, Milano. M. IIETDEGGER, op. eit., g, 72. a0 La figura del * compenetrarsi >, di origine agostiniana (il tempo come ), è tipica della monade leibni38

3e

162

ziana (donde

il

tempo monadologico), quale tensione inter-

na, figura che suppone il neutralizzarsi dei iimiti, come presenza del molteplice nell'uno e presenza dell'uno nel molte. piice. Se l'" atomo > è nelia sua figura ii " diviso da altro '

ed ulteriormente non divisibile, esso è tutto nella < esclusione di altro > ed è quindi tutto contraddittorio, avendo bisogno dell'altro e vaniflcandosi in questo bisogno; la c monade > è, quindi, il tertativo di eludere la contraddittorietà dell'atomo, come presenza totale. L'espressione leibniziana è inCicativa di questo sforzo: l'io è " fons et fund-us idearum praescripta lege nasciturarLtm >>, in cui il concetto di " fon?amento trova la sua espressione dinamica nella scaturigint, nel " foniale ". La modema psicologia, come è stato rilevato dal Cassirer (Filosofia delle 'ionne simboliche, tr. it., Firenze,

1966,252 sgg.) continua I'analisi in questa direzione, secondo concetto leibnizianc di " tendenz4 o, in polernica con ie

il

afferrnazioni di un meccanicismo che è staticità. a1 Si vedano i gS 80, 81, 82 della Enciclopedin hegeliana. 42 fl tempo delle scienze (tempo cosmico) è ancora il " " tempo quotidiano e non è misu;:a del tempo, corne pretenCe di essere, ma è il tempo come misura. fn esso si ha la positivizzazione del ncgativo, perché si attribuisce consistenza alla negatività che rimane insaputa come negatività. E' questa positivizzazione che consente di dire >: < x accadCe nel tempo ", . y è un fatto ,, ,, z è passato La cronometria ". è dunque dessa il tempo, quale positivizzazione quantitativa del negativo, e, quindi, tuita matematica. Si veda Hscer-, Propedeutica filosofica, paragrafi 99 e 100: lo spazio ed il tempo sono definiti nella astratta continuità del loro essere fuori-di-sè, illimitati. Si veda anche Hncrl, Enciclopedia ecc., cit., paragrafi,254,258, 259. I-e astrazioni che sono lo spazio e il ternpo sono, come astrazloni, di natura spaziale, perché asiratte e separate, fissando staticamente e parîendo (divldendo) il concreto. Non è che le astrazioni abbisognino dcllo spazio e del tempo come forme a priori o schemi delia esperienza, inderivabili da essa, ma spazio e tempo sono la stessa , la decomposizione; diremo quindi che l'astrattezza dell'astratto è precisarnente il suo essere situato qui, ora, nello spazio e nel tempo, chè spazio e tempo sono la astraftezza dell'astratto (capovolgendo il senso comune per il quale qualcosa è determinato e concreto solo se è situato qui, ora, nello spazio e nel tempo). rs Si sa che lo aufheben (superare dialetticamente, ncgare conservando) acquista quèstó significato preciso e

tecni-

163

co in }tregel solo dopo 1l 1807; flientre prirna di questa data esso significa " sopprimere, sublirnare rreda la tradu". Si Parìgi, zione francese di ]7remières Pubîieations, L952 di Mancsl, Me'ny e rivista da JeaN Hveeorrre; cfr. IIEcm, Scritti cli fiLosofia del diritto, trad. A. Negri, Padova, !959, 6, nota del traduttore. 44 trIEGEL, Fenarnenalogia ecc., cit., 45 HEGEL, Fenometiologia ecc., cit., 46 Hpcer, Fenomenoíogia ecc., cit., 47 HEGEL, Fenomenologia ecc., 4E

cit.,

II,

73.

II,77.

Il, II,

76. 73.

ll[ecet, Fenomenalogia, cit., fi..

4e HEGEL, 50 FIEGE-,

Fenontemoîogia ecc., cit., 75.

Enciclapedia, ecc., cit., S 259.

51 IIEGEL, Enciclopedia, ecc., 52 e cade nella prova. A titolo di indicazione di questa ternatica invio il lettore alla lettura di PraroÀw, Iimeo, 97c,38d e AnrsroraLu, Phys., IV, 11, 219b, 2 sgg. se Questo riprodurre il problema nella sua tentata soluzlone è stato rilevato da Kaur nella dissertazione De mundi sensibilis atclue inteiligibilis 't'orma et principiis, S 14, prina che nella Critica. s7 IIussERL, Idee I,5 81. 58 E. KeNr, Critica d.R.p., trad. it. Bari, 1963. Estetica trascendentale, $ 4. L'esposizione metafisica del concetto di tempo distingue il tempo dalla sua empiricità. Il procedimento kantiano è, come è noto, il seguente: l) non è possibile sopprimere il tempo; 2) è irnpossibile togliere il tempo da tutti i fenomeni; 3) dunque il tempo è dato a priori

rispetto ad essi. Nell'esposizione trascendentale del con. cetto di tempo, il concetto di ( cangiamento " si ha soio mediante la rappresentazione del tempo. 5e Si veda Guvau, La genèse de l'idée du ternps, L902, Il Rosmini da parte sua non andò oitre questo problema (Psicologia, 1848, II, p. 189 sgg.), come non andò oltre il Galluppi (Lezioni di Lagica e luletef.sica, 1854, IiI, IE68-97r. @ E' da rilevare che la < storia ideale eterna ', calca questa figura in cui il rnovimento è un o ripercorrere >; tailto più paradossale questa situazione quanto impiicante quel matematismo di cui vuole essere profondo rifiuto. I-o .. scorrere in tempo >> sopra la . storia ideale eterna > da parre della " storia di tutte le nazioni " implica un comporsi tra < tempo >> ed .. eterno > cli cui non può darsi giustificazione (Si veda Vrco, Scienza Nuol)a eec., a cura di Nicolini, Ba-

ri,

1931, 66). 61

A rigore, infatti, non v'è storia deile matematiche che

non sia storia del loro < apprendirnento > estrinseco e soggettivo (valga, a proposito, il passo della Fenontercologia hege-

liana di Pref., 145]). 62 Questo ritrovamento della presenza > attuale come " < atto > a cui è estraneo il . passare > è importante perché toglie l'equivoco della coscienza come ciò a cui si presenta l'oggetto od anche, agostinianarnente, come i.l protendersi nell'aspettativa o nel ricordo. Si veda l'uso agostiniano della

parola (praesens>: (praesens de preteritís, praesens de praesentibus, praesens de futuris (AcosrrNo, Con'f ., XI 26j. Fuori della sua posizione !n .. "rnomenti ", il tempo non è < tempo >, così che la posizione f;sicale del tempo è quella stessa che lo vede spaziale e matematico e ciò che si pretende essere il tempo < prina > della sua divisione intrinseca è piuttosto, come meglio si vedrà, il < divenire " di cui il ternpo è u rappresentazione >, perché il tempo non ha nulla di proprio rispetto a ciò che tempo è (funge da) " rappresentazione empirica Così la metafisica del tempo si risolve ". in metafisica del divenire, che < in esso > si vede accadere; si veda J. Vorxnr, Phencmenologie unC Metaphysik der Zeit, Míinchen, 1925.

165

}ùGTE AL TESTO

r Ovvio, nel senso letterale della parola è ciò che si trova o che si incontra o ehe . viene incontro u o che si trova per via, con facilità, subito, senza bisogrlo di venire cercato. E' la pretesa di tutte le fenomenologie e di tutti gli intuizicnismi. Se questa proposizione fosse . owia, non sarebbe vera. 2 Problernaiicità pura )> come essa è stata recuperata " dal pensiero classico da M. Gel.trri.E e come rigorosarnente è stata enucleata e teorizzata nel complesso di lavori teo-

retici e storici di E. BEnli, F. CnrBnBcrrrN, G.R. BaccnrN, lavori dai quali non posso prescindere in qr.lesto mio discorso. 3 G.R. Baccurx,

Su î'autetttico me! filosafare,

Roina,

1963, 7.

a Se una dimostrazione si finalizzasse ali'evidenza dei suoi risultati, come accade, per esempio, nella ricerca cartesiana, essa non sarebbe veramente tale se non vedesse anche la necessità di dire la < verità > di questa evidenza. E' 'd11 'qprg ogrp t96I erqúarrp pu ereduels Ip olluld