L'Ebreo non ebreo e altri saggi [1] [PDF]

Raccolta di saggi, discorsi e interventi del giornalista Isaac Deutscher (1907 - 1967) curata dalla figlia.

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Italian Pages 185 [97] Year 1969

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Table of contents :
3 Isaac Deutscher 1907-1967
13 L'educazione di un fanciullo ebreo
37 I L'Ebreo non ebreo
55 II Chi è ebreo?
75 III La rivoluzione russa e il problema ebraico
99 IV Residui di una stirpe
107 V Il clima spirituale di Israele
135 VI Il decimo anniversario di Israele
143 VII La guerra arabo-israeliana, giugno 1967
171 VIII Marc Chagall e Yimmaginazione ebraica
183 IX La tragedia ebraica e lo storico
185 Nota del curatore
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L'Ebreo non ebreo e altri saggi [1] [PDF]

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a cura di Tamara Deutscher Traduzione di Francesco Franconerl

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T Sfi' òoflíu À" vs b ›. Ciascun membro riceve inoltre del denaro per le piccole spese personali. Il livello di vita di un kibbuz dipende quindi dall'entità del fondo comune, cioè dai beni accumulati negli anni, dalla produttività corrente, e dai guadagni ottenuti dall'organizzazione di vendita che smercia all'estero il surplus dei prodotti. Il principio comunista è stato ardimentosamente esteso all'educazione dei bambini, i quali vengono educati nel kibbuz, ma vivono in alloggi a loro riservati, trascorrendo con i loro genitori una parte del tempo libero. Ho notato che i membri del kibbuz sono così abituati ad accudire in comune ai bambini, che nel più naturale e spontaneo dei

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modi si rivolgono a tutti i piccoli della comunità come ai propri figli. In un certo senso, il kibbuz è una via di mezzo tra un campo scoutistico e un monastero benedettino, allietato però dall'assenza di disciplina coercitiva, nonché dalla spontaneità e dalla tenacia dei rapporti umani. I kibbuznikim, cioè i membri del kibbuz, hanno ogni motivo per essere orgogliosi del loro livello morale, e ne sono consapevoli. Vi diranno che durante la guerra, l”inviato diplomatico sovietico in Israele visitò con i suoi collaboratori vari kibbuzim, per paragonarli alle aziende agricole collettive dell'Unione Sovietica. Comprensibilmente, il confronto fu sfavorevole ai kolkoz sovietici, affidati com'erano ai tardi, indolenti, timorosi mušik, mentre il kibbuz era stato creato grazie allo spirito di sacrificio e al coraggio di idealisti sia intellettuali sia operai. In un kibbuz, dopo aver ispezionato un moderno lattificio, la scuola, la biblioteca comune (formata dai libri appartenuti alle biblioteche private di ben nove professori universitari tedeschi), il centro teatrale, e via dicendo, l'inviato sovietico chiese di vedere la prigione. « Non abbiamo una prigione, qui ›› gli fu risposto. « Impossibile! ›› esclamò il diplomatico « e come fate con i criminali e i trasgressori delle leggi? ›› I membri del kibbuz cercarono allora di spiegargli che sino a quel momento non si erano mai trovati di fronte a reati talmente gravi da richiedere la punizione del carcere; ed è logico che fosse così: i membri erano selezionati scrupolosamente, dovendo essere tutti uomini e donne con un altissimo senso di moralità socialista; gli scontenti erano liberi di andarsene in qualsiasi momento; nei casi più estremi, il kibbuz poteva allontanare i membri inadatti. Quel particolare kibbuz era controllato dal partito pro-stalinista Mapam, ma ciò nonostante, il diplomatico russo si rifiutò di credere a quel che gli dicevano: « Ma insomma ›› pro-

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testò « non mi verrete a dire che una comunità di varie centinaia di persone può fare a meno di una prigione! ››. Il russo non nascose la sua incredulità, e si disse anzi divertito di vedere che una volta tanto erano gli ebrei a mostrare a un russo il loro villaggio Potemkin. Comunque, sono solo intorno alle settantamila le persone che vivono nei kibbuzim, vale a dire il cinque per cento circa dell”intera popolazione d'Israele. Essi sono i Padri Pellegrini del nuovo stato. Il peso che hanno sul resto del paese eccede di molto il loro numero. Nelle città si può incontrare molta gente che ha fatto parte di un kibbuz, e che si sente tuttora legata a quegli ideali; e sono molti gli abitanti della città ansiosi di mandare i loro figli alle scuole dei kibbuzim, celebri ormai per i loro sistemi educativi ultramoderni. Al tempo del mandato britannico, il kibbuz influiva sulla vita palestinese assai più di adesso. Allora la popolazione era molto minore, non esisteva alcun apparato ebraico governativo, militare, di polizia e giuridico; pertanto il kibbuz, con la sua solida organizzazione e con il suo elevato senso morale e di disciplina, formava una sorta di statoombra ebraico. Molti degli attuali impiegati e funzionari statali provengono dai kibbuzim, e rimangono di solito membri della loro comunità rurale. Taluni cercano di conciliare la loro attività pubblica con il lavoro nei kibbuzim; ciò è reso possibile date le piccole dimensioni del paese e il carattere alquanto tribale della società israeliana. In un kibbuz, per esempio, scopersi che l'addetto al trattore era stato ambasciatore di Israele a Praga e a Budapest. In un altro kibbuz, mi indicarono un uomo alto, robusto e scalzo sembrava parente del Davide michelangiolesco - il quale, sotto un tramonto stupendo stava guidando il suo gregge attraverso i campi; mi dissero che durante la « guerra di

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emancipazione ›› del 1948 era stato uno dei capi dell'esercito ebraico. Il kibbuz rimane tuttora la centrale di energia di Israele, ma da qualche tempo e in crisi, essendo rimasto come sopraffatto dal nuovo stato nazionale, e travolto dall'influsso dei nuovi immigrati. I pionieri del sionismo condividono la malinconica sorte di tanti altri precursori: restano cioe sconfitti dal loro stesso trionfo. Dal 1948 a oggi la popolazione d'Israele è pressoché raddoppiata. I nuovi arrivati appaiono molto diversi dagli idealisti delle prime migrazioni; sono i rottami dei campi di concentramento, i relitti dell'ebraismo europeo, le masse di ebrei orientali che fuggono di fronte all”odio e alle vendette degli arabi. Per molti di questi nuovi immigrati, gli ideali dei Padri Pellegrini sionisti sono esoterici, incomprensibili. Un negozietto di chincaglierie, o una minuscola rivendita di tabacchi, appare ad essi mille volte più desiderabile e dignitosa delle meraviglie collettive del kibbuz: più desiderabile persino del suo più elevato livello di vita. Decine di migliaia di questi nuovi immigrati vivevano ancora di sussidi nei campi di transito; alcuni si rifiutavano addirittura di trasferirsi nei nuovi appartamenti che il governo ha costruito appositamente per loro: preferiscono continuare a vivere di sussidi nelle vecchie baracche, piuttosto che pagare l'aflitto delle moderne abitazioni. Altri finiscono con il ritornare in Tunisia o in Marocco. L'economia israeliana nel migliore dei casi riesce ad assorbire solo lentamente, a fatica, questi immigrati. Invano i kibbuzim li invitano ad associarsi ad essi. « Noi siamo gente di città; non vogliamo diventare contadini! ›› replicano gli ex sarti di Bucarest e gli ex venditori ambulanti di Vilna. « Vogliamo guadagnare soldi che siano nostri, fare dei

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risparmi. Crediamo nel possesso dei nostri beni, e i vostri fondi comuni non fanno per noi ›› rispondono altri. Oppure dicono: « Non vogliamo mangiare in sale da pranzo comuni per il resto della nostra vita, e vivere separati dai nostri bambini ››. « Impiegateci come lavoratori, come salariati ›› chiedono certuni ai kibbuzim. « Però pagateci in denaro, e non chiedeteci di diventare membri della vostra comune. ›› Per coloro che credono nel kibbuz, queste parole sono peggio di un insulto, e creano - o comunque portano alla luce _ un nuovo dilemma morale. Al kibbuz si chiede di diventare un « datore di lavoro capitalista ››; ed è quanto meno singolare che a chiederlo siano i futuri dipendenti. Assumere mano d'opera equivarrebbe, per il kibbuz, all°abbandono e al tradimento del suo principio fondamentale: la pensa così anche la maggioranza dei membri dei kibbuzim aderenti al socialismo moderno del Mapai. Ma il governo alla cui testa sono proprio i capi del partito Mapai, ansioso di sistemare i nuovi immigrati, sollecita il kibbuz a rinunciare al suo « purismo ideologico ››, e ad assumere la mano d'opera che rimane inerte nei campi di transito. Voci a favore di una simile soluzione si elevano anche all'interno dei kibbuzim stessi. L”economia delle comuni agricole si è sviluppata moltissimo in questi anni, senza che vi sia stato un riscontro nell'aumento numerico dei membri: per sostenere l'espansione e prevenire ogni ristagno, è necessario dunque ricorrere all”aiuto di esterni. La questione morale che viene attualmente dibattuta è: « Assumere o non assumere? ››, Nella fortezza della proprietà comunitaria si sono del resto già verificate alcune brecce: in molti kibbuzim è possibile incontrare gruppi di salariati; e i teorici sono adesso al lavoro per elaborare nuove formule che limitino queste assunzioni di mano d'opera stipendiata; e tutti i kibbuzim, « da Dan a Bat Beersheba ››, fanno giura-

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mento solenne di non lasciarsi mai conquistare dal capitalismo, per quanto possente possa essere l'alluvione capitalista fuori dalle loro mura. Può quindi essere che in Israele si stia ripetendo la storia dei falansteri. Tutti gli esperimenti commerciali del socialismo utopistico o fallirono o si trasformarono in imprese capitaliste efficienti. Questo può anche essere il destino che spetterà al kibbuz, a meno che uno sconvolgimento sociale nel Medio Oriente non muti tutto l°ambiente in cui esso opera. Attualmente il kibbuz lotta tenacemente per non perder terreno, ed è aiutato in ciò dalla sua importanza in campo nazionale. Ancor oggi, esso è il maggior bastione difensivo del paese. Si assunse il peso della guerra d”indipendenza, combattendone le battaglie sia in avanguardia che nella retroguardia. La struttura stessa della sua organizzazione ne fa una colonia militare e una milizia ideali. In ogni kibbuz il visitatore è condotto a vedere il cimitero, e gli vengono mostrate le tombe dei morti, dei loro fratelli uccisi in battaglia dagli arabi; gli si mostrano anche i monumenti ai caduti, opera di scultori locali, talora famosi in tutto il mondo. Se per caso si arriva in un kibbuz dopo il crepuscolo, la sentinella che, mitra imbracciato, ordina l'alt è assai spesso una ragazza sui diciotto anni. Gran parte dei kibbuzim sono vicini alle frontiere, ed è su essi che il governo israeliano fa poggiare, militarmente e moralmente, tutti i suoi piani difensivi. I bastioni del socialismo utopistico di Israele sono irti di fucili mitragliatori.

Le prospettive culturali di Israele appaiono fortemente influenzate dai mutamenti che si verificano nella composizione del popolo. Al tempo del mandato britannico, la stra-

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grande maggioranza degli ebrei palestinesi era di origine europea. Adesso gli europei sono in minoranza. Più del cinquanta per cento della gente d'Israele, infatti, è formata da immigrati giunti dai paesi africani e asiatici. Ebrei provenienti dal Nord Africa francese, dalle abitudini per metà francesi e per metà arabi, garruli e turbolenti, siedono con le famiglie davanti alle casupole e ai negozietti rilevati dagli arabi locali. I capi famiglia chiacchierano di affari, e dibattono i pro e i contro di un ritorno in Marocco o in Tunisia; intanto i loro figli leggono e discutono la più recente edizione parigina delle « Nouvelles Littéraires ››. Ci sono poi gli ebrei iraniani coi loro neri copricapo di pelle d'agnello; e quelli iracheni, e turchi: taluni occidentalizzati, altri del tutto orientali. E ancora gli ebrei Bukhara, con eteree barbe bibliche, che il sabato indossano lunghe vesti di seta bianca; e infine quelli yemeniti, coi loro occhi neri, lucenti, il viso incorniciato dai lunghi boccoli tradizionali. Le loro ragazze affollano i mercati all”aperto, cercando lavoro come domestiche. Si racconta che quando gli aerei di linea inglesi portarono in Israele quarantacinquemila ebrei yemeniti, uomini, donne e bambini salirono a bordo tutti allegri pur non avendo mai visto un aereo: erano convinti che fossero le « ali dell'aquila bianca ›› su cui, secondo l'antica profezia, erano destinati a far ritorno alla Terra Santa, allorché sarebbe venuto il Messia. Ma, all'atterraggio, si spaventarono da morire non appena li si invitò a salire sugli autobus che dall'aeroporto dovevano condurli ai campi di transito: la profezia non accennava affatto a veicoli del genere. Gli ebrei qui non sono più, come lo furono per anni, una goccia d'Europa caduta sul suolo asiatico: anche il Levante e il deserto arabo hanno dato il loro contributo a Israele. Ma che influsso avrà, questo incontro tra Oriente e Occidente, sull”atteggiamento culturale del paese? A Gerusa-

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lemme e a Tel Aviv si ode ripetere ogni sorta di teorie e di pronostici. Taluni additano l'elevato ritmo di natalità degli orientali, e prevedono che Israele finirà con l'orientalizzarsi. Altri predicono una « sintesi ›› e quindi una nuova cultura israeliana. Io dico che gli ebrei orientali finiranno con l'essere assorbiti da quelli occidentali. Questi ultimi, infatti, rappresentano la civiltà più sviluppata, ed e questa che di solito condiziona le forme inferiori. Ciò sta già avvenendo grazie alle scuole e all'esercito, entrambi di decisiva importanza nell'unificazione culturale, linguistica e di costumi in Israele. Nel frattempo, però, un certo antagonismo tra gli ebrei orientali e quelli occidentali affiora qua e là. L'ebreo occidentale detiene tutte le più importanti cariche nell'amministrazione dello statc›, nell'esercito, in campo scolastico, nell'industria, nel commercio e nella finanza. L'ebreo orientale, conseguentemente, si sente un cittadino di seconda categoria, vittima di discriminazioni e dell”arroganza europea; in certi casi giunge persino a denunciare limitazioni impostegli per il colore della pelle. Lagnanze per tanto tempo espresse dall”ebreo contro il gentile, ora qui vengono formulate dall”ebreo contro l'ebreo. Alcuni israeliani « orientali ›› asseriscono che la loro condizione sociale è inferiore a quella avuta nei paesi di provenienza. Per esempio, nell'Africa settentrionale francese, il mercante ebreo si trovava pressappoco a metà strada tra il colon e l'arabo sottosviluppato: occupava cioè un posto di mezzo nella scala sociale. In Israele, invece, si ritrova in fondo: vis-à-vis dell'ebreo europeo e in una posizione analoga a quella in cui l”arabo nordafricano viene a trovarsi vis-à-vis del colono francese. L”ebreo europeo è consapevole della gelosia e del risentimento degli orientali, e talora ne ha timore. A volte esprime persino dubbi sulla loro lealtà: z I « Chissà, in caso di guai potrebbero addirittura mettersi

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con gli arabi. Tanto, non è che ci sia molta differenza tra loro e gli arabi. ›› Probabilmente questa è solo una di quelle affermazioni che si dicono così, senza esserne veramente convinti: però indica uno stato di tensione che effettivamente esiste. Alcuni pensano che un giorno l'animosità degli ebrei orientali potrebbe essere fomentata e sfruttata, per esempio dai Revisionisti - un partito potenzialmente fascista - la cui forza al momento è comunque trascurabile. Certo è che tutti i partiti e i loro capi si muovono con un occhio verso la metà orientale della popolazione, cercando di soppesarne la sensibilità e di influenzarne la coscienza. Quando gli alti ufficiali governativi affermano che verso gli arabi occorre usare il pugno di ferro perché altrimenti gli orientali considererebbero ogni altra politica una manifestazione di debolezza, con quel termine « orientali ›› non pensano solo agli arabi, ma anche agli orientali israeliani. Gli atti di rappresaglia, compreso quello feroce di Kibiya, furono calcolati tanto per intimidire gli arabi, quanto per tenere alto il morale degli israeliani di origine orientale. La maggioranza degli ebrei orientali è ortodossa, dal punto di vista religioso, e talora si mette al seguito dei fanatici rabbini esteuropei, Fu il caso delle violente dimostrazioni contro l'introduzione del servizio militare ausiliario per le donne. Però l'ortodossia degli ebrei africani e asiatici e ispirata più dal conservatorismo sociale, che dalla bigotteria religiosa; ed è comunque più tenue e tollerante che non quella degli ebrei dell'Est europeo. I rabbini polacchi, russi e lituani, i taumaturghi e i loro adepti sono tra i religiosi più pazzamente fanatici del mondo; e i loro covi di Mea Shaarim _ il quartiere delle Cento Porte - si presentano come un vero e proprio cimelio del medioevo ebraico. Nonostante il suo nome, allusivo di romantiche antichità orientali, il quartiere delle Cento Porte risale al secolo scor-

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so. Fu in quel quartiere di Gerusalemme che vecchi e pii ebrei andarono a stabilirsi appena giunsero in Palestina per coronare il loro sogno di morire nella Terra Promessa. In qualsiasi ora della giornata, gli squallidi sovraffollati edifici stretti l'uno contro l'altro risuonano di litanie e di letture talmudiche. A Mea Shaarim vi sono tante sinagoghe, scuole talmudiche e negozi di articoli liturgici quante sono le abitazioni. Quelli che vi vivono - barbe lunghe, occhi scuri, volti soffusi di pallore - si vestono con lunghi pastrani neri anche nel caldo più opprimente, e così pure i ragazzini, tanto fortunati da poter studiare i grandi commentatori del Talrnud a un tiro di schioppo dal Monte Sion. Qui la terribile massima della Mishnà è più che mai attuale, quella secondo cui per un ebreo è peccato gravissimo dire: