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Italian Pages 135 Year 2009
ERIC FRATTINI
LE SPIE DEL PAPA DAL CINQUECENTO A OGGI VENTI VITE DI ASSASSINI E SICOFANTI AL SERVIZIO DI DIO
Un inchiesta di Eric Frattini Titolo originale: Los espías del papa Il nostro indirizzo Internet è: www.ponteallegrazie.it Traduzione: Simona Noce Fotocomposizione: Emiliano Mallamaci Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore S.p.A. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2008 Eric Frattini Alonso © 2009 Adriano Salani Editore S.p.A. - Milano isbn: 978-88-6220-047-9
INDICE Introduzione Nota dell'autore 1. Davide Rizzio.Una spia alla corte di Scozia 2. Lamberto Macchi.Il braccio esecutore di Roma 3. Roberto Ridolfi. Il cospiratore fiorentino 4. Nicholas Sanders. Dottor calunnia 5. Giulio Guarnieri. La spia fantasma 6. Paluzzo Paluzzi. L'apostolo dell'Ordine nero 7. Annibale Albani. Nel nome di Iscariota 8. Tebaldo Fieschi. L'esperto «cavallo di troia» 9. Louis Siffrein Joseph de Salamon. Le orecchie di Pio VI. 10. Bartolomeo Pacca, Il cardinale nero 11. Francesco Capaccini. Il creatore di chiavi 12. Antonino Saverio De Luca. l'orchestratore di spie 13. Umberto Benigni. Il fondatore del «Sacro terrore» 14. Michel Joseph d'Herbigny. Il capo del Russicum 15. Günther Hessner. Una spia nel Reich 16. Robert Georg Leiber. Il segretario segreto di Pio XII 17. Krunoslav Draganovic. La «primula rossa» dei nazisti 18. Edouard Gagnon. Monsignor «Nessun dorma» 19. Carlo Jacobini. Il collegamento con il Mossad 20. Luigi Poggi. La spia di Giovanni Paolo II
Ringraziamenti
INTRODUZIONE Eric Frattini.Nato a Lima nel 1963, è professore universitario, giornalista e scrittore eclettico, appassionato di storia e di politica. Corrispondente dal Medio Oriente, analista politico e sceneggiatore televisivo, ha abitato per diversi anni in Polinesia, Paraguay, Libano, Cipro e Israele. Ha anche diretto numerosi documentari per le principali emittenti televisive spagnole, con le quali collabora assiduamente. E' autore di una ventina di libri, tradotti in tutto il mondo, tra i quali: Osama bin Laden, la espada de Alà (2001); Mafia S.A. 100 Años de Cosa Nostra (2002); Irak, el Estado incierto (2003); Secretos Vaticanos (2003); La Santa Alianza, cinco siglos de espionaje vaticano (2004), pubblicato in Italia col titolo L'Entità (2008); ONU, historia de la corrupción (2005); Kidon, los verdugos del Mossad (2006); La Conjura, Matar a Lorenzo de Medici (2006); CIA, joyas de familia (2008). Attualmente, vive e lavora in Spagna. Ha scavato in archivi e biblioteche sparsi per il mondo, ha scovato studiosi e profondi conoscitori delle vicende vaticane, raccogliendo le tracce lasciate in ogni angolo del pianeta da venti uomini, venti paladini della Chiesa cattolica, venti spie dei papi. Eric Frattini, con il rigore documentario che lo contraddistingue e la sua consueta passione, ci restituisce in queste pagine i nomi e i cognomi, i volti, le personalità, le imprese dei protagonisti dello spionaggio pontificio, che hanno reso passibile l'esistenza stessa dell'Entità, il servizio segreto vaticano definito da Simon Wiesenthal «l'organizzazione meglio informata e più potente del mondo». Uomini senza paura, pronti a tutto, anche a morire, soldati nell'ombra agli ordini del papa: da Davide Rizzio, nella Scozia di Maria Stuarda, a Luigi Poggi, nell'Europa dell'Est «infestata» dal comunismo, per ben cinque secoli questa «avanguardia della fede» ha ubbidito ciecamente all'autorità dei pontefici, diffamando, cospirando, vendicando, avvelenando, ammazzando,in nome di Dio. In cinquecento vorticosi anni, le differenze fra queste venti grandi star ci raccontano l'evoluzione dell'intelligence dell'Entità. Come e in che cosa è cambiata? Come e in che cosa è rimasta fedele a se stessa? E a che cosa è ancora disposta, oggi, per raggiungere i suoi scopi?
Nota dell'autore Nel mio precedente libro L'Entità, ho raccontato la lunga storia dei servizi segreti vaticani, spiegando come fosse impossibile comprenderla senza aver prima raccontato la storia dei papi, e come la storia dei papi non avrebbe potuto essere a sua volta compresa senza aver prima raccontato la storia della Chiesa cattolica. In questo mio nuovo lavoro, vorrei aggiungere che non ritengo possibile comprendere la storia dello spionaggio pontificio senza aver prima raccontato la vita e le vicende delle spie che ne fecero parte. Nell'enciclica Ecclesiam Suam, Paolo VI scriveva: «Senza il Papa, la Chiesa cattolica non sarebbe più tale». E io aggiungo che senza la storia delle sue spie, «l'Entità» non sarebbe così cattolica e forse oggi non sarebbe altro che uno dei tanti servizi d'intelligence. Il libro che avete in mano, Le spie del papa, racconta la storia di quei personaggi, di quelle spie, per lo più sconosciute, che ebbero un ruolo decisivo nella difesa degli interessi di Roma, del papa, del cattolicesimo e del Vaticano in qualsiasi angolo del mondo. Questo libro racconta la vita e le vicissitudini di venti uomini, agenti e responsabili dello spionaggio papale, che dal 1566, con Davide Rizzio, al 2004, con Luigi Poggi, costituirono la cosiddetta «avanguardia della fede», i soldati nell'ombra sempre agli ordini del Sommo Pontefice di Roma. Nessuno di loro aveva ricevuto una formazione specifica in materia di spionaggio, ma tutti ebbero un'occasione migliore rispetto alle spie dei paesi nemici per riuscire a portare a termine le operazioni ordinate da Roma. Gli agenti dell'Entità spiarono e operarono sempre in difesa della fede cattolica e dei suoi interessi, protetti dal papa e dalla croce. Le vicende di questi uomini non solo aiutano a capire meglio il ruolo avuto dai pontefici nella storia d'Europa, ma anche a conoscere i sacrifici fatti da molte di queste spie per portare la parola di Dio nei luoghi più remoti della Terra, anche a rischio della propria vita; in luoghi come l'Inghilterra protestante, la Francia rivoluzionaria, l'Italia risorgimentale, la Germania nazista e la Russia comunista. Le spie del papa constata un fatto: nella variegata umanità del pellegrinaggio cattolico, si distinsero monaci santi di prim'ordine, uomini di grande misericordia e, allo stesso tempo, come sempre nelle cose terrene, si produssero crepe imperscrutabili, cancrene politiche, fallacie nell'infallibilità del pontefice. Ci fu di tutto un po'. Come qualsiasi altro Stato, il Vaticano poteva e doveva contare su un servizio d'intelligence che vegliasse sulla propria integrità. Oltre che sui prefetti della fede, la curia romana poteva fare affidamento su dei semplici militanti senza uniforme ma muniti dell'indiscusso potere di
stanare i pericoli, scoprire i complotti, identificare gli obiettivi nemici e riconoscere le cospirazioni. Nelle Spie del papa scopriamo che i nemici della Chiesa si acquattavano, camuffandosi o meno, in un settore del liberalismo laico di tendenza atea e guardavano alla religiosità con sospetto, come se fosse un costume dell'antichità, addirittura della preistoria. D'altra parte, la suprema voce ecclesiastica di Roma, il Sommo Pontefice, guardò con ostilità ai principi della Rivoluzione francese del 1789 e, ancor di più, a quelli della Rivoluzione bolscevica del 1917. Le guardie segrete del Vaticano si trovarono di fronte un intero vivaio di nemici della fede: eretici protestanti, imperatori egolatri, agenti comunisti, ecclesiastici modernisti, nazisti e bolscevichi. L'Entità disponeva di un esercito di eroici e motivati combattenti nell'avanguardia dell'oscurità, di agenti pronti ad affrontare senza titubanze tutti questi avversari. In uno dei suoi libri, uno storico specializzato in religione comparata faceva un'amara considerazione: «E' in qualche modo giustificabile che, nella storia dell'umanità, le religioni abbiano provocato più morti e dolore di qualsiasi altro potere?» Mi piacerebbe evidenziare solo un dato: nei quattro anni e sette mesi del pontificato di Giovanni XXIII, le spie dell'Entità furono costrette a rimanere completamente inattive. Il «papa buono» preferiva la politica e la diplomazia allo spionaggio, a differenza dei suoi successori Paolo VI e Giovanni Paolo II. Le spie del papa costituisce una testimonianza delle lotte intestine tra i fedeli della Chiesa, ossia le sue spie, e i nemici di turno. Quando a Gerusalemme, in occasione di una manifestazione presso il Museo dell'Olocausto, incontrai Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali nazisti fuggiti dopo la Seconda guerra mondiale, volli chiedergli quali fossero secondo lui i migliori servizi segreti del mondo. Pensavo che mi avrebbe risposto: «il Mossad»; ma, con mia grande sorpresa, disse: «L'organizzazione meglio informata e più potente del mondo è il servizio d'intelligence dello Stato vaticano». Analizzando la vita di questi venti agenti dell'Entità, credo che avesse ragione. Nelle Spie del papa il lettore potrà scoprire nomi e cognomi di alcune delle spie dei sacri servizi segreti papali, che divennero pedine sulla scacchiera della Storia e, nella maggior parte dei casi, contribuirono a cambiarla. Questi uomini presero parte alle cospirazioni per rovesciare Elisabetta I d'Inghilterra, divennero un abile braccio esecutore, finanziarono operazioni coperte contro il protestantesimo, morirono di fame in Irlanda, spiarono nella Francia del cardinale Richelieu, ordinarono la creazione di unità segrete di assassini, diedero vita a vere e proprie reti di spionaggio nella
Francia rivoluzionaria, lottarono nell'ombra contro l'imperatore Napoleone, crearono i primi codici segreti e le chiavi per rendere sicure le comunicazioni papali, si batterono contro gli ideali garibaldini, gettarono le fondamenta del primo servizio di controspionaggio, condussero e portarono a termine le prime operazioni coperte nella Russia bolscevica, penetrarono nella Germania di Hitler e vi scoprirono le prime uccisioni di malati psichici nelle cliniche del Terzo Reich, dopo la Seconda guerra mondiale aiutarono a fuggire dei criminali di guerra nazisti, combatterono la corruzione nelle viscere del Vaticano, stabilirono i primi legami per la cooperazione con altri servizi segreti come la CIA e il Mossad, progettarono insieme alla CIA e all'MI5 l'offensiva segreta di maggior rilievo nell'Europa comunista. Tutto questo fu possibile grazie a spie quali Davide Rizzio, Lamberto Macchi, Roberto Ridolfi, Nicholas Sanders, Giulio Guarnieri, Paluzzo Paluzzi, Annibale Albani, Tebaldo Fieschi, Louis Siffrein Joseph de Salamon, Bartolomeo Pacca, Francesco Capaccini, Antonino Saverio De Luca, Umberto Benigni, Michel Joseph d'Herbigny, Günther Hessner, Robert Georg Leiber, Krunoslav Draganovic, Edouard Gagnon, Carlo Jacobini e Luigi Poggi. Venti spie che rappresentano solo una parte dei tanti uomini che tra il XVI e il XX secolo operarono protetti dall'oscuro manto dell'Entità. Queste sono le loro storie.
LE SPIE DEL PAPA La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile [...]. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti. Pietro 11,12-15
Capitolo primo: Davide Rizzio Una spia alla corte di Scozia Il 7 gennaio 1566, il cardinale Michele Ghislieri, un ombroso domenicano, il quale era stato a capo dell'onnipotente Sant'Uffizio, fu eletto pontefice con il nome di Pio V. La sua elezione rappresentava la vittoria di quanti desideravano un pontefice austero e caritatevole ma allo stesso tempo capace di lottare e agire con estrema determinazione contro la Riforma protestante; un capo della Chiesa che impugnasse con la stessa forza la croce e la spada. Il nuovo papa si apprestava a far uso della sua grande esperienza al comando dell'Inquisizione per creare un servizio di spionaggio efficace, inflessibile e che obbedisse ciecamente agli ordini supremi del Sommo Pontefice: la Santa Alleanza. Il nome fu scelto personalmente dal papa, in onore dell'alleanza segreta tra Roma e la regina di Scozia, la cattolica Maria Stuarda. Il primo provvedimento assunto da Pio V fu quello di affidare la direzione dell'Entità/1 al cardinale Marcantonio Maffei. Nato il 29 novembre 1521 in una nobile famiglia di Bergamo, Marcantonio, come suo fratello Bernardino, aveva scelto la carriera religiosa. Esperto in diritto canonico, era stato nominato da Pio V nunzio in Polonia, luogo dal quale informava segretamente riguardo ai movimenti anticlericali, guadagnandosi la fiducia del pontefice. Costretto a tornare alla corte papale, fu dapprima nominato vicario generale di Roma e poi posto al comando del neonato servizio di spionaggio e della lotta contro il protestantesimo, impersonato dalla regina Elisabetta I d'Inghilterra. I rapporti redatti dagli agenti del pontefice venivano inviati ai potenti monarchi difensori del cattolicesimo e del potere papale contro il protestantesimo, che si estendeva ormai a macchia d'olio. Il principale compito delle spie papali consisteva nell'offrire i propri servigi a Maria Stuarda per tentare di restaurare il cattolicesimo in Scozia (che era stata dichiarata presbiteriana nel 1560), e da lì combattere contro il protestantesimo inglese. Pio V, il cardinale Maffei e il servizio di spionaggio sapevano che il loro principale nemico era la regina Elisabetta. Erano passati trentatré anni dalla rottura tra Enrico VIII e
la Chiesa cattolica, rottura avvenuta quando, il 25 gennaio 1533, nonostante l'opposizione del papa, il re d'Inghilterra aveva sposato la sua amante Anna Bolena e, il 25 maggio dello stesso anno, aveva annullato il matrimonio con Caterina d'Aragona. Alla fine del breve regno di Edoardo VI, legittimo successore di Enrico VIII, si presentò al papa Giulio in una nuova opportunità per riportare la Chiesa d'Inghilterra all'ovile di Roma. Era infatti noto a tutti il cattolicesimo ortodosso osservato da Maria Tudor, figlia di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, chiamata a occupare il trono d'Inghilterra. Quindici giorni dopo il suo ingresso a Londra, la nuova regina proibì che le esequie del re Edoardo VI, suo fratello, venissero celebrate nell'abbazia di Westminister con rito protestante. Il cambiamento religioso che avrebbe colpito tutto il paese era ormai sotto gli occhi di tutti. Dal momento della sua ascesa al trono, Maria si mostrò determinata a restaurare con qualsiasi mezzo il cattolicesimo, con l'appoggio del papa Paolo IV; ma per riuscirci avrebbe dovuto, come prima cosa, tagliare le teste di quanti avevano difeso la Riforma. Molti vescovi protestanti furono mandati al rogo con l'accusa di eresia, e tra questi Thomas Cranmer, l'ex arcivescovo di Canterbury che aveva annullato il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona e consumato la rottura definitiva con il potere papale di Roma. In questo periodo, Elisabetta Tudor, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena e sorella della regina, si era adattata alla religione imperante, arrivando persino ad andare a messa con Maria, per evitare qualsiasi pretesto che autorizzasse la regina a condannarla a morte o a ordinarne l'assassinio. Il 17 novembre 1558, la morte della sovrana mise fine a cinque anni di regno molto duri, in cui guerre, esecuzioni, rivolte interne, colpi di Stato e conflitti religiosi misero a ferro e fuoco il paese. La stessa notte in cui Maria morì, Elisabetta fu proclamata regina d'Inghilterra. Gran parte della popolazione accolse con giubilo l'arrivo della nuova sovrana, in parte per il cattivo ricordo lasciato da Maria Tudor, ribattezzata dal popolo Bloody Mary: Maria la Sanguinaria. Il 15 gennaio 1559, Elisabetta I fu incoronata regina d'Inghilterra e, l'8 maggio, inaugurò la sessione del Parlamento chiedendo l'approvazione delle leggi che avrebbero ristabilito il protestantesimo in tutto il paese e nei suoi domini. Papa Paolo IV sapeva bene che l'unica possibilità per mantenere un baluardo cattolico nella protestante Inghilterra era quella di sostenere la regina di Scozia, Maria Stuarda. Il 29 luglio 1565, Maria sposò a Edimburgo il cattolico Henry Darnley. Il re consorte di Scozia era un uomo biondo, alto e forte, che piaceva alle donne ma possedeva una scarsa cultura.
Darnley, inoltre, era un burattino nelle mani di Sir Francis Walsingham, capo delle spie di Elisabetta, e dei nobili scozzesi. Alla fine del 1565, Maria Stuarda iniziò una relazione con un torinese dalla pelle scura, Davide Rizzio, che faceva parte del seguito dell'ambasciatore di Savoia, il marchese di Moretta. Rizzio aveva trentadue anni, e occhi grandi e verdi che attirarono l'attenzione della regina. L'italiano padroneggiava l'arte della musica e della poesia, ma era anche un sacerdote e una delle spie più attive della neonata Entità, al comando del cardinale Marcantonio Maffei. Rizzio, nato a Torino nel 1533, era figlio di un umile insegnante di musica. Insieme a suo fratello Giuseppe, aveva deciso di sfuggire alla povertà intraprendendo la carriera ecclesiastica. Grazie alla mediazione di un lontano parente, riuscì a entrare al servizio di Paolo Iv fautore del nepotismo. A quanto pare, Rizzio stette molto vicino al papa, realizzando per lui operazioni speciali in Francia, in Germania e anche in Inghilterra. Sembra che, quando Maria Stuarda si accorse di lui, stesse compiendo una di queste missioni, come infiltrato nel seguito dell'ambasciatore di Savoia. Prima che il marchese di Moretta lasciasse Edimburgo, la regina gli chiese di cederle Davide Rizzio per il proprio diletto. In poco tempo, la spia del papa divenne «aiutante di camera» della regina, con uno stipendio annuale di settantacinque sterline e, grazie al suo ruolo, con accesso ai documenti più segreti e riservati di Maria Stuarda. Sebbene godesse del favore della regina, la spia sedette per qualche tempo al tavolo dei domestici. L'occasione per migliorare la sua posizione si presentò quando la regina scacciò il proprio segretario personale. Raulet, fino ad allora l'uomo di fiducia di Maria Stuarda, fu licenziato quando la regina scoprì che questi ignorava deliberatamente le lamentele presentate dai nobili scozzesi riguardo ai tentativi di corruzione daparte degli inglesi. Qualcuno dello spionaggio papale aveva opportunamente consegnato alla regina un dettagliato rapporto sulle relazioni di Raulet con le spie di Sir Francis Walsingham, il capo dello spionaggio di Elisabetta. In realtà, non era chiaro quali fossero le relazioni tra Raulet e Walsingham, ma grazie a quel misterioso dossier la strada che avrebbe condotto Rizzio alla regina era stata spianata. L'ufficio di Raulet fu occupato dal torinese, che dedicò anima e corpo a servire la regina, mentre, da fedele difensore della Controriforma, informava costantemente Pio V e il cardinale Maffei di qualsiasi movimento inglese e scozzese. Pian piano, la spia dell'Entità conquistò sempre maggiore potere, e Darnley divenne consapevole che, se avesse voluto sbarazzarsi di Rizzio, avrebbe prima dovuto consultarsi con Walsingham, il quale, a sua volta, ne avrebbe parlato con Elisabetta.
Solo così sarebbe stato al sicuro nel caso in cui il piano per assassinare l'agente di Pio V fosse stato scoperto da sua moglie, la regina Maria. Davide e suo fratello Giuseppe, che lo aveva accompagnato nel viaggio in Scozia, erano entrati a far parte del gruppo di spie dell'Entità scozzese, e la loro prima missione, per ordine del papa, fu quella di raccogliere informazioni su John Knox, un discepolo di Calvino che Pio V riteneva un potenziale ostacolo per il ritorno della Scozia sotto il manto protettore della Chiesa di Roma. I fratelli Rizzio si fecero in pochissimo tempo troppi nemici e l'Entità diede ordine ai due di aumentare le misure di sicurezza, perché lo spionaggio papale non intendeva perdere degli agenti così preziosi. Pio V sapeva bene che non sarebbe mai riuscito a infiltrare due nuovi agenti alla corte scozzese capaci di raggiungere la stessa posizione privilegiata conquistata dai fratelli Rizzio. Tra i principali nemici protestanti di Davide e Giuseppe Rizzio c'erano due importanti consiglieri di Maria: James Stewart, signore di Moray e fratellastro della sovrana, e William Maitland. Randolph, l'ambasciatore inglese presso la corte di Edimburgo,era una delle migliori spie di Walsingham, ma sapeva di non poter arrivare così vicino alla regina come Rizzio. Ben presto, le spie dell'Entità scoprirono, grazie a un traditore, che Elisabetta I d'Inghilterra aveva corrotto il cancelliere Stewart e diversi Lord per promuovere un'insurrezione protestante in Scozia contro Maria. La relazione sempre più stretta tra Maria Stuarda e il suo segretario cominciò a infastidire molti dei potenti che circondavano la regina di Scozia. Il matrimonio con Henry Darnley andava di male in peggio. La loro luna di miele era durata solamente qualche giorno. La regina lo aveva accusato di essere incompatibile con lei. Darnley, da parte sua, non solo si sentiva rifiutato dalla moglie come coniuge, ma anche come re. Il marito di Maria Stuarda era deluso perché non era stato proclamato sovrano di Scozia con pieni diritti, ma re consorte, a titolo onorifico. Le spie spagnole informarono il proprio sovrano della situazione in cui si trovavano la regina e Davide Rizzio, e Filippo II inviò una lettera all'ambasciatore Guzmàn de Silva, comunicandogli che «doveva fare sapere alla regina di Scozia che era necessario agire con moderazione [verso Rizzio] ed evitare tutto ciò che potesse irritare la regina d'Inghilterra». Il testo della lettera arrivò nelle mani di Elisabetta I grazie a un infiltrato nella casa dell'ambasciatore spagnolo. Una notte, Rizzio disse a Maria di avere saputo che gli inglesi avevano finanziato i ribelli scozzesi, che si erano sollevati contro la regina l'anno prima. L'ambasciatore inglese Randolph, da parte sua, ignorava che Davide Rizzio e suo fratello avessero scoperto, agli inizi di febbraio del 1566, che la fuga in Inghilterra dei ribelli
scozzesi fosse stata finanziata attraverso di lui. Con il rapporto redatto da Rizzio in mano, il 20 febbraio 1566, la regina Maria espulse l'ambasciatore inglese. Il primo marzo 1566, l'ambasciatore Randolph abbandonò la Scozia insieme al suo seguito, lasciando quasi pronto il colpo contro le spie di Pio V: Davide e Giuseppe Rizzio. Tra i suoi complici più fidati figurava anche il marito della regina, Henry Darnley. Durante il viaggio di ritorno a Londra, l'ambasciatore Randolph si fermò a Bestwick in attesa di nuovi ordini, e da lì inviò una lettera a Elisabetta I: «[...] gravi avvenimenti si preparano in Scozia. Lord Darnley [marito di Maria Stuarda] è infuriato con la regina, poiché ella gli nega il diritto alla reggenza e lui è a conoscenza di un certo suo comportamento [la relazione con Davide Rizzio], impossibile da tollerare. [Darnley] ha deciso di disfarsi di colui che è causa di questo scandalo [l'agente dell'Entità]. L'operazione dovrà essere portata a compimento prima della sessione del Parlamento».Davide Rizzio mise al corrente Roma delle voci che circolavano su di lui e sulla regina, ma il papa gli ordinò di rimanere in Scozia e di muoversi con cautela. Rizzio, in quanto segretario personale della regina, era giunto a non mostrare a Darnley neanche i documenti ufficiali e poteva apporre personalmente Yiron stamp, la firma reale, senza consultarlo. Darnley non veniva più convocato neanche per le sessioni speciali del Consiglio di Stato, non gli era permesso l'uso degli stemmi reali di Scozia ed era stato degradato a semplice principe consorte senza diritto di opinione. Grazie alla sua abilità nel dare piacere a Maria Stuarda, l'agente dell'Entità poteva ostentare modi principeschi ed esercitare con arroganza le più alte funzioni dello Stato. Le voci sulla relazione tra la regina e la spia del papa si facevano sempre più insistenti. I nobili, molti dei quali protestanti, sapevano che Rizzio era solo una piccola pedina di Pio V per trasformare la Scozia in una nazione cattolica, all'interno del grande piano della Controriforma portato avanti da Roma. Il pontefice aveva ordinato al capo dello spionaggio, il cardinale Marcantonio Maffei, e ai suoi agenti in Scozia di proteggere Maria Stuarda da tutto ciò che potesse mettere in pericolo il compiersi di un passo così importante per il cattolicesimo. I nobili scozzesi, pur avendo capito che il collegamento tra Maria e Roma era Davide Rizzio e sebbene odiassero la spia italiana, non intendevano scontrarsi apertamente con la regina Maria, conoscendo la durezza con cui aveva represso l'ultima rivolta. I nobili sapevano che esisteva solo e soltanto un uomo dotato di potere sufficiente a colpire la spia del papa: Lord Henry Darnley. Se avessero ottenuto il suo appoggio,
l'assassinio di Rizzio si sarebbe trasformato, da semplice omicidio per gelosia, in un'azione patriottica per la difesa della fede protestante. Contro le spie di Pio V, i cospiratori si servirono di un pretesto banale quale la gelosia di Darnley nei confronti di Rizzio. Ma ciò che non sapevano che questi, su ordine del papa, aveva impedito a Maria Stuarda di concedere a Darnley il diritto alla reggenza. Pio V voleva evitare a tutti i costi che, nel caso fosse successo qualcosa alla regina, Darnley, in qualità di reggente, potesse opporsi al ritorno del cattolicesimo in Scozia. In realtà, Darnley non sopportava che sua moglie non gli permettesse di toccarla, mentre lasciava che la spia dell'Entità trascorresse lunghe serate chiuso con lei nella stanza da letto reale.Darnley desiderava la morte della spia del papa per semplice gelosia verso l'uomo che gli aveva strappato l'intimità coniugale e il sigillo reale. Il pomeriggio del 9 marzo 1566, nel castello di Holyrood, Davide Rizzio ricevette un serio avvertimento da una delle sue spie, ma non gli diede troppa importanza. Sapeva che, se avesse trascorso tutto il giorno accanto alla regina, sarebbe stato al sicuro. Nessuno avrebbe osato sollevare un'arma o un dito contro di lui in presenza della sovrana. Ad ogni modo, decise di avvertire suo fratello Giuseppe perché si tenesse pronto a fuggire nel caso in cui qualcuno li avesse attaccati. Gli ordinò anche di raccogliere tutti i rapporti segreti del papa e di bruciarli, affinché non finissero nelle mani sbagliate. Molti di quei rapporti contenevano indicazioni di Pio V e del cardinale Marcantonio Maffei su come le spie dovessero agire contro gli interessi dell'Inghilterra in Scozia. Il pomeriggio trascorse tranquillo. Maria Stuarda leggeva nella sua stanza da letto al quarto piano della torre, mentre, intorno al tavolo situato al centro dell'appartamento, sedevano diversi nobili, la sorellastra della regina e, di fronte a lei, il segretario Rizzio. Da una porta che si trovava in fondo alla stanza, dietro una tenda, entrò Darnley, che si sedette accanto alla moglie. Improvvisamente la porta, che non era stata chiusa con il chiavistello, si aprì e Lord Patrick Ruthven irruppe nella stanza con la spada sguainata. La regina si alzò di scatto e rimproverò al nobile di essersi presentato al suo cospetto con un'arma in pugno. Ruthven rispose di non avere niente contro di lei e che la sua irruzione riguardava solo la spia italiana. Rizzio si alzò in piedi, ma era disarmato. Aveva solamente una piccola daga appesa alla cintura. L'agente del papa sapeva di non avere scampo. Solo la regina avrebbe potuto proteggerlo. Nel frattempo, si erano uniti a Ruthven altri nobili congiurati armati di spade. Rizzio cercò di fuggire, ma fu trattenuto per un braccio. Maria Stuarda si sforzava di parlare con i ribelli, ma questi non sentivano ragioni. Sapevano che non era più possibile
tornare indietro e che in gioco c'era la loro testa. I cospiratori: Lord Patrick Ruthven, Andrew Ker di Fawdonside, George Douglas, Patrick Bellenden e Henry Yair, un ex sacerdote, gridavano alla regina che Rizzio era una spia del papa e che per questo doveva morire. Ruthven afferrò per le braccia la spia, che aveva appena scagliato la sua daga contro il volto di uno degli aggressori, e un altro congiurato lo legò con una corda. Mentre veniva trascinato via, Rizzio si aggrappò al vestito della regina. Maria continuò a lottare fino a quando Andrew Ker, signore di Fawdonside, le puntò contro una pistola. Un colpo di mano di Ruthven all'ultimo momento fece sì che il proiettile passasse sopra la testa della sovrana e si conficcasse nella parete. La regina svenne, mentre Rizzio fu trascinato per le scale. Una volta fuori dall'appartamento reale, i congiurati si lanciarono sulla spia dell'Entità. Ruthven scagliò la prima stoccata, che penetrò nel costato sinistro. Il secondo colpo, sferrato da Fawdonside, attraversò la mano destra, con la quale la spia cercava di coprirsi il volto, e si piantò nel collo. Sanguinante, Rizzio cercò pesantemente di sollevarsi, ma, mentre era ancora in ginocchio, una terza stoccata, forse dell'ex sacerdote Henry Yair, gli tagliò di netto la giugulare. Un grido soffocato dal sangue cercò di uscire dalla bocca della spia, quando Ruthven gli assestò una secca stoccata che gli trapassò il cuore. Davide Rizzio, una delle più importanti spie del papa, era morto. Maria Stuarda non smetteva di gridare contro i congiurati e anche contro quel traditore del suo sposo, ripetendo loro più volte che con quell'atto avevano firmato la propria condanna a morte. La sua vendetta sarebbe stata terribile.Le grida e il rumore delle spade avevano attirato l'attenzione di James Bothwell, comandante del corpo di guardia della regina, e del suo vice, Hundey. Quando i due riuscirono a entrare nella stanza, Henry Darnley li tranquillizzò, dicendo che avevano solamente ucciso una spia di Pio V. Le false prove presentate contro Davide Rizzio dimostravano che questi aveva cercato di facilitare lo sbarco di truppe spagnole lungo la costa scozzese. In un colpo solo, Maria Stuarda era stata privata della corona e il filo diretto tra la regina e il papa, tra la Scozia e Roma, era stato interrotto. Poco tempo dopo, Maria Stuarda perdonò pubblicamente Lord Henry Darnley, recuperando la corona e la libertà, e permise a Stewart di Moray di tornare a Edimburgo. Ma né Pio V né l'Entità erano disposti a permettere l'assassinio di uno dei propri uomini. Il pontefice diede l'ordine ai suoi agenti in Scozia e a Londra di scoprire chi fossero i cospiratori
che avevano diretto l'omicidio dell'agente Davide Rizzio. La spia dell'Entità era stata sepolta in un luogo segreto e la regina fu costretta a firmare un documento in cui dichiarava di perdonare i congiurati. Era il momento di pianificare la vendetta. Giuseppe Rizzio, che era riuscito a rifugiarsi a Parigi, fece sapere al cardinale Maffei che Henry Darnley era il sospettato numero uno. Se qualcuno doveva pagare per l'assassinio di suo fratello, questi era il marito della regina. Durante una riunione segreta a Roma, il papa ordinò la creazione di un'unità speciale composta da gesuiti, i soldati di Dio, per compiere la terribile vendetta. Nessuno dei congiurati poteva ritenersi al riparo dalla longa manus del pontefice. In seguito, la regina Maria ordinò che il corpo di Davide Rizzio fosse traslato nel Pantheon dei re di Scozia. Anni dopo, il cadavere venne riesumato e trasferito nel cimitero di Cannongate Kirkyard, a Edimburgo, dove si trova ancora oggi.
Capitolo secondo:Lamberto Macchi Il braccio esecutore di Roma L'ordine dei gesuiti, o Compagnia di Gesù, fu fondato nel 1540, dopo il riconoscimento di Paolo III, confermato nella bolla di approvazione Regimini militantis ecclesiae. La Compagnia di Gesù nacque per operare come una forza d'azione rapida, un esercito di soldati disposti a morire per la fede e per il papa, rendendo onore alle quattro parole latine che costituivano il suo motto: Ad majorem Dei gloriam) Nei seminari di tutta Europa, la Compagnia formava sacerdoti destinati a muoversi in prima linea sul fronte della Controriforma, a sradicare la dottrina eretica per poi seminare di nuovo la vera fede. Pio V era fermamente convinto che i gesuiti sarebbero diventati gli autentici soldati e le vere spie della Controriforma. Nel 1641, William Crashaw, famoso religioso, poeta e intellettuale protestante, scriveva nella sua opera The Bespotted Jesuite: «Come è risaputo, i gesuiti, i figli migliori e prediletti del Papa, infastidiscono il mondo da meno di centoventi anni, ma i servizi prestati al loro signore e padrone, il Papa, quanti uomini li intuiscono, quanti uomini accorti ne sono a conoscenza e quante nazioni della cristianità hanno dovuto rammaricarsene, molto o poco». Crashaw affermava anche: «La Compagnia si è preoccupata di scegliere gli ingegni più acuti del mondo e addestrarli in modo tale che al papa non manchino mai gli strumenti per uccidere i re». Ignazio di Loyola aveva fondato la Compagnia partendo da quattro princìpi
fondamentali. Il primo consisteva nel diffondere la visione del mondo dei gesuiti, che non si rinchiudevano in monasteri bui e abbazie, aspettando che i credenti si avvicinassero, ma abbandonavano i chiostri per vivere da cattolici tra la gente. A tale proposito, un protestante disse: «Quello che più mi infastidisce di questi mascalzoni di Loyola è che hanno abbandonato l'ombra della vecchia negligenza e dell'ozio in cui incanutiscono gli altri frati per dedicarsi ad affari di altro genere. Ciò permetterà ai gesuiti di infiltrarsi come la peste nelle società oneste e timorate per infetidirle con il loro odore ripugnante». Il secondo principio era l'essere costantemente pronti a rispondere alle chiamate del papa, sempre e in ogni luogo. Per questa ragione, i gesuiti furono denominati «uomini del papa». Il terzo, importantissimo per Ignazio di Loyola, era il poter disporre di uomini polivalenti. Il papa e il fondatore dell'ordine avevano bisogno di intellettuali, teologi, filosofi, artisti, matematici, chimici, biologi e diplomatici; ma anche di agenti segreti, abili spadaccini, artiglieri e messaggeri speciali. Il quarto consisteva nell'essere «soldati del papa». I gesuiti dovevano prepararsi a essere non solo uomini di fede, ma anche soldati di Dio. I gesuiti venivano impiccati o avvelenati in Europa, sventrati o annegati in Africa, flagellati fino alla morte in Terra Santa, crocifissi o decapitati in Asia, lasciati morire di fame in America meridionale. Fu proprio questo spirito d'avventura al servizio di Dio a convincere il giovane Lamberto Macchi a unirsi all'esercito gesuita.Nato nel 1532, ed educato come si addiceva al figlio di un nobile e ricco commerciante veronese, Lamberto Macchi aveva imparato l'arte della spada mentre studiava filosofia, l'uso dell'esplosivo mentre studiava teologia, l'arte di uccidere con il veleno mentre studiava latino. Macchi, spinto più dal desiderio d'avventura che dalla chiamata di Dio, decise di «arruolarsi» nella Compagnia di Gesù. A soli quattordici anni indossò l'abito dell'ordine religioso fondato da Ignazio di Loyola. Prima a Roma e poi in Francia, il giovane Lamberto non solo diventò un erudito teologo, ma anche uno dei gesuiti più abili con la spada. Con il passare degli anni, la sua destrezza divenne famosa in tutta Europa. Si raccontava che, un giorno, Macchi, di passaggio in una taverna a Gand, avesse sentito tre soldati di fanteria insultare Dio e il papa, tra una caraffa di vino e l'altra. Alla fine, padre Macchi si era alzato e, dopo essersi presentato come membro della Compagnia di Gesù, aveva chiesto ai tre uomini di inginocchiarsi e chiedere perdono a Dio e al pontefice per le offese proferite. I soldati, invece di fare quanto ordinato dal gesuita, avevano sguainato le spade. Anche Lamberto Macchi aveva quindi impugnato la spada e la daga di misericordia e si era messo in
guardia. Pochi minuti dopo, la lite si concludeva con due soldati morti, mentre il terzo, ferito in modo grave, chiedeva in ginocchio perdono per le offese pronunciate contro Dio e il papa. Ovviamente le notizie delle imprese di Macchi arrivarono fino a Roma e alle orecchie del cardinale Marcantonio Maffei, il capo del neonato servizio di spionaggio papale. Maffei ordinò a padre Macchi di presentarsi davanti a Pio V per assumere l'incarico diuna nuova missione.Quando il sacerdote si trovò a cospetto del pontefice, questi gli ordinò di raggiungere la corte di Scozia per cercare di scoprire chi fossero gli assassini di Davide Rizzio. Pio V, ex capo dell'Inquisizione, non poteva permettere che l'omicidio di uno dei suoi agenti, compiuto per mano di eretici protestanti, non fosse vendicato. Era il momento di dimostrare la suprema autorità del pontefice. Ottenuta la lista degli assassini della spia papale, e accompagnato da altri due gesuiti e da Giuseppe Rizzio (il fratello di Davide), Lamberto Macchi sapeva chi avrebbe dovuto colpire. I suoi obiettivi erano Lord Darnley, marito della regina, e James Stewart di Moray, responsabili di aver pianificato l'omicidio; Lord Patrick Ruthven, il nobile che aveva afferrato Rizzio per le braccia; Andrew Ker di Fawdonside, che aveva puntato la pistola e sparato contro la regina; i nobili George Douglas e Patrick Bellenden, che avevano preso parte all'assalto; infine, Henry Yair, l'ex sacerdote che aveva troncato la giugulare a Rizzio. I sette uomini, da parte loro, sapevano che non sarebbero mai stati perdonati dalla regina e che i nobili non avrebbero mosso un dito per aiutarli, consapevoli che il figlio portato in grembo da Maria sarebbe diventato il sovrano di un regno protestante formato da Scozia e Inghilterra. Per la spia dell'Entità, mettere fine alla vita di sette protestanti traditori rappresentava una questione religiosa e non personale. L'ordine, inoltre, veniva direttamente dal papa e, per un gesuita, un ordine del pontefice era sacro. Macchi portava con sé il cosiddetto «rapporto rosso», un documento che lo autorizzava a compiere tutte le azioni necessarie per difendere la fede. L'origine del nome del documento risaliva all'epoca in cui il papa era generale dell'Inquisizione a Roma. Il rapporto rosso era costituito da una piccola pergamena arrotolata e stretta da un nastro rosso con lo stemma del Sant'Uffizio. Al suo interno, gli agenti del cardinale Michele Ghislieri scrivevano tutte le informazioni utili per accusare, spesso senza alcuna prova, un cittadino di Roma di aver violato le norme della Chiesa, e che potevano essere prese in esame da un tribunale dell'Inquisizione. Il rapporto rosso veniva depositato in forma anonima in un'apposita cassetta di bronzo che si trovava nella sede romana del Sant'Uffizio. Le piccole pergamene
venivano consegnate ogni giorno a Michele Ghislieri per essere esaminate e archiviate. Il contatto di padre Macchi alla corte di Scozia era il conte Bothwell, capo della scorta di Maria, che ora svolgeva le funzioni di consigliere speciale e agiva come una specie di reggente. Alcuni nobili scozzesi cominciarono a lamentarsi, perché Bothwell era molto più arrogante dell'italiano Rizzio. A differenza di questi però, Bothwell sapeva bene chi fossero i suoi potenziali nemici. Uno era il marito della regina, mentre James Stewart di Moray era diventato suo alleato, e quindi aperto nemico di Darnley. Alla fine di settembre, Lord Darnley, vistosi negare la condizione di re, pensò di lasciare la Scozia, ma non aveva ancora deciso se cercare protezione presso Elisabetta I in Inghilterra o Caterina de' Medici in Francia. Nel frattempo, l'agente dell'Entità Lamberto Macchi e i suoi tre accompagnatori alloggiavano in una casa di Edimburgo protetti dagli uomini di Bothwell, in attesa di poter agire e sferrare il primo colpo contro gli assassini di Rizzio. Poco prima della fine del 1566, Maria Stuarda, su consiglio di Moray e Bothwell, firmò l'amnistia per i congiurati che avevano assassinato Rizzio. Darnley sapeva di essere la prima preda dei vendicatori, per cui decise di fuggire e di rifugiarsi nel castello di suo padre, il conte di Lennox, a Glasgow. Gli assassini dell'Entità sapevano bene che ai morti non piace riposare da soli nelle profondità della terra: esigono sempre che chi li ha spinti laggiù li raggiunga. Il compito di Bothwell era quello di mettere i cospiratori alla portata degli inviati del papa, che avrebbero poi pensato a giustiziarli. Il 22 gennaio 1567, Henry Darnley si ammalò gravemente di sifilide. Maria Stuarda andò da lui, ancora convalescente, per convincerlo a tornare a Edimburgo, sotto scorta personale, perché Darnley sapeva che in qualsiasi momento avrebbe potuto essere attaccato dai seguaci di Bothwell, dagli inviati del papa o dagli ex congiurati che erano tornati in Scozia dopo aver ricevuto il perdono della regina. Bothwell, il principale informatore della spia inviata da Pio V, aveva fatto in modo che la regina obbligasse Darnley a vivere, fin dal suo ritorno a Edimburgo, in una residenza lontana da qualsiasi centro urbano, nella zona di Kirk O'Field. Ogni protesta di Lord Darnley era risultata vana. I vendicatori dell'Entità decisero di eliminare per primo il marito della regina e il luogo scelto per l'attacco fu proprio la casa di Darnley, raggiungibile attraverso un sentiero stretto e buio conosciuto come «il sentiero dei banditi». Un nome che attirò l'attenzione di padre Macchi. Il momento scelto per la prima delle vendette fu la notte tra domenica 9 e lunedì 10 febbraio 1567. Quella domenica, la regina Maria Stuarda offrì un banchetto per il matrimonio tra due dei suoi più fedeli servitori. Ovviamente, Lord Darnley e il suo
seguito di fiducia parteciparono alla festa, lasciando la residenza di Kirk O'Field priva di sorveglianza e permettendo agli uomini di Macchi di avere tempo sufficiente per preparare l'attacco. Dopo le undici, Henry Darnley, ancora debole per la malattia, si ritirò e rientrò alla fredda dimora di Kirk O'Field. Gli esecutori dell'Entità, aiutati da Bothwell, avevano collocato una potente carica di polvere da sparo tra i pilastri che sostenevano la struttura della casa che ospitava Lord Darnley. Poche ore prima che avvenisse l'esplosione, i tre misteriosi assassini arrivati da Roma penetrarono nell'abitazione di Kirk O'Field. Al piano superiore si trovava la camera da letto principale. Quando Lamberto Macchi, Giuseppe Rizzio e un terzo agente dello spionaggio papale entrarono nella stanza, notarono due letti: in uno dormiva serenamente Darnley; nell'altro, un po' discosto da quello del re, si trovava un giovane domestico, sempre a disposizione del sovrano. Macchi si avvicinò silenziosamente al letto del re di Scozia. Con gesto abile cinse il collo del monarca senza corona con una sottile corda incerata. Qualche secondo dopo, il primo dei cospiratori coinvolti nell'omicidio dell'agente dell'Entità era morto. Giuseppe Rizzio, uccise il servo alla stessa maniera. Era importante non lasciare nessuna traccia del proprio passaggio. Il sistema di nodi impiegato per uccidere Darnley e il suo servo era lo stesso utilizzato dai membri della setta degli assassini/6 nelle montagne di Alburz, a nordest di Teheran e di Qazvin. I quattro uomini dell'Entità si allontanarono da Edimburgo a cavallo, dopo aver acceso la miccia. La deflagrazione non fece neanche voltare loro la testa. La prima parte della vendetta era stata compiuta. Il Sommo Pontefice e il cardinale Marcantonio Maffei ne furono immediatamente informati. Intorno alle due del mattino, si udì una violenta esplosione equivalente a quella di venticinque cannonate sparate contemporaneamente. L'onda espansiva fu avvertita anche attraverso le spesse mura della residenza della regina. Maria Stuarda fu informata che la casa in cui alloggiava Lord Darnley era saltata in aria.Scortata da una guardia armata, Maria si pose alla testa del gruppo diretto a tutta velocità verso il luogo in cui, fino a poche ore prima, si ergeva una grande casa signorile e dove ormai restava solo un gran cratere. I corpi dei servi di Henry Darnley, ridotti a brandelli, comparvero a centinaia di metri di distanza dal luogo dell'esplosione. Il cadavere del re fu ritrovato, insieme a quello del domestico che dormiva nella sua stanza, in un ruscello che scorreva a pochi metri dalla casa, tra i resti contorti del suo letto. Il 15 maggio 1567, ancora in lutto, Maria Stuarda sposò Bothwell, che tutti ritenevano il responsabile morale dell'assassinio di Lord Henry Darnley. Il 6 giugno, un gruppo di Lord
insorse contro la possibilità che Bothwell venisse incoronato re di Scozia. Nove giorni dopo, Bothwell fuggì e Maria Stuarda fu imprigionata. Il 9 giugno 1567, Macchi e i suoi uomini intercettarono il secondo obiettivo: Lord Patrick Ruthven, che aveva diretto l'attacco contro Davide Rizzio, e lo seguirono fino a una casa nei pressi di Oxford, dove alloggiava protetto dagli agenti di Sir Francis Walsingham. Gli uomini dell'Entità osservarono che ogni sera Ruthven era solito uscire senza scorta per andare in una taverna nelle vicinanze, dove trascorreva gran parte della notte circondato da donne. Il pomeriggio del 13 giugno, Lord Ruthven conobbe un forestiero, con cui si mise a conversare e a bere. Il viaggiatore raccontò di essere un soldato che aveva combattuto con i protestanti contro i soldati spagnoli nelle Fiandre e, a poco a poco, conquistò la fiducia di Ruthven. A un certo punto, lo straniero versò nel bicchiere di Ruthven una strana polvere rossiccia. Lamberto Macchi si congedò cortesemente da Lord Ruthven e riprese il suo cammino. Alcune ore dopo, il nobile scozzese cominciò ad avere nausea e vertigini. Quella stessa notte, tra forti sudori, Lord Patrick Ruthven morì misteriosamente. Qualcuno lo aveva avvelenato. L'inviato da Roma estrasse dalla propria borsa il rapporto rosso e cancellò il secondo nome della lista. La ricerca degli altri congiurati era l'unica preoccupazione di Lamberto Macchi e dei suoi uomini. Nel bagaglio, Macchi continuava a conservare il documento papale avvolto nel velluto rosso, in cui era scritta la loro missione e l'elenco dei cospiratori che, in nome della fede, dovevano essere liquidati. La pergamena, che serviva anche a proteggerli, doveva essere distrutta una volta compiuta la vendetta oppure restituita al papa se la missione non fosse stata portata a termine. Le successive vittime del religioso dell'Entità sarebbero state Lord Andrew Ker di Fawdonside, George Douglas e Patrick Bellenden. Dopo Ruthven, fu il turno del terzo della lista, Lord Fawdonside. Lamberto Macchi e i suoi tre accompagnatori non dovettero cercare a lungo. Il 4 aprile 1568, Fawdonside, colui che ebbe il coraggio di puntare la propria arma contro la regina, si trovava in una casa non molto grande alla periferia di Lochleven, dove aspettava, tranquillamente, la morte. Da diversi giorni, Fawdonside sapeva di essere sorvegliato da un gruppo di persone, probabilmente agenti del papa. Quando Lamberto Macchi entrò nella casa del traditore con la spada in mano, lo trovò disteso sul pavimento, completamente ubriaco e sporco di vomito. Non oppose resistenza. Due degli agenti di Pio V lo sollevarono, lo portarono fuori e lo condussero sotto un albero non lontano, dove fu impiccato. Il nobile scozzese muoveva ancora le gambe, sospeso alla corda, mentre i quattro cavalieri dell'Entità si
allontanavano in cerca della quarta vittima. Il nome di Fawdonside fu cancellato dal rapporto rosso con il sangue.7 Tra giugno e novembre del 1568, caddero anche George Douglas e Patrick Bellenden, due dei nobili che trascinarono Rizzio per le scale e lo uccisero a pugnalate. Douglas fu trovato dagli agenti di Macchi nel castello di Tantallon, vicino a Whitekirk, a est di Edimburgo. Il gesuita Macchi, accompagnato da Giuseppe Rizzio, riuscì a penetrare nell'edificio, mentre il nobile si era rifugiato nella torre nord. Lamberto Macchi fu il primo a entrare nel cortile con la spada in mano. Dopo una breve colluttazione, Douglas, che aveva colpito con una pugnalata nei testicoli Davide Rizzio un attimo prima che morisse, sapeva che era arrivato il momento di rendere l'anima a Dio. Il giorno dopo, due pastori notarono che dalla parte più alta della torre pendeva un corpo senza vita. Al nobile George Douglas era stata messa una corda al collo e poi era stato lanciato nel vuoto. Sulla sua fronte, qualcuno aveva disegnato una croce con il sangue. Patrick Bellenden, il sesto della lista e una delle spie più attive di Francis Walsingham in Scozia, fu raggiunto nel porto di Berwick, mentre si preparava a raggiungere l'Inghilterra a bordo di un peschereccio, per rifugiarsi presso la regina Elisabetta. La notte dell'8 novembre 1568, il cadavere di Bellenden fu ritrovato in una strada secondaria. Qualcuno gli aveva inchiodato le mani e i piedi a un tronco e gli aveva disegnato una croce sulla fronte con il sangue. Henry Yair, l'ex sacerdote cattolico che tagliò la giugulare a Davide Rizzio mentre era in ginocchio, fu trovato da Macchi e dai suoi uomini in una chiesa di Hawick, dove si era rifugiato fin dal giorno successivo all'assassinio della spia di Pio V, temendo la vendetta della regina Maria. Attraverso un'ampia rete di spie e informatori, padre Macchi aveva scoperto il nascondiglio di Yair. Il 9 gennaio 1569, Lamberto Macchi, Giuseppe Rizzio e altri due agenti del papa circondarono la chiesetta. Quando entrarono, il gesuita scorse la figura di Yair, che pregava inginocchiato di fronte all'altare maggiore. Macchi, in un latino impeccabile, richiamò l'attenzione dell'ex religioso, che cominciò a chiedere perdono per le proprie azioni. Ma Giuseppe Rizzio si fece avanti e con un pugnale lo colpì allo stomaco e al cuore. Pochi secondi dopo, Yair morì dissanguato sul freddo pavimento della chiesa di Hawick. Il giorno dopo, il corpo dell'ex sacerdote fu trovato su una lapide del vicino cimitero, con una croce disegnata sulla fronte. Quasi un anno dopo, l'11 gennaio 1570, il settimo e ultimo uomo della lista fu intercettato nei pressi di Roslin. James Stewart, signore di Moray, ex consigliere della regina Maria di Scozia e una delle menti
dell'assassinio di Davide Rizzio, abbandonò la sicurezza del proprio rifugio, credendo di essere diventato una personalità troppo importante per subire la vendetta della regina o del papa. Ma Pio V, a Roma, non la pensava allo stesso modo. Quella stessa notte, durante una rissa, Moray restò vittima di una decisa stoccata che gli trapassò il collo. Diversi testimoni dichiararono di aver visto Moray, dopo aver lottato, in ginocchio in un vicolo buio di fronte a uno sconosciuto, con la spada in mano. Lamberto Macchi intinse l'indice nel sangue che fuoriusciva dalla gola di Moray e cancellò il suo nome dal documento papale. La vendetta per l'uccisione di Davide Rizzio era stata compiuta. Il gesuita Lamberto Macchi estrasse il rapporto rosso fregiato con lo stemma pontificio, che gli era stato consegnato a Roma quattro anni prima, e lo distrusse, seguendo le istruzioni del potente cardinale Maffei. Il 25 febbraio 1570, Pio V rendeva pubblica la bolla Regnans in Excelsis, con cui decretava la scomunica dell'eretica Elisabetta I d'Inghilterra. Questa sentenza pontificia, nell'Europa del XVI secolo, rappresentava una misura estremamente grave che colpiva più il popolo che la sovrana. La prima conseguenza della bolla sarebbe stata il martirio di migliaia di cattolici inglesi e la fine di qualsiasi possibilità di avvicinamento tra Londra e Roma. A breve e medio termine, la vittima principale della scomunica non sarebbe stata Elisabetta I d'Inghilterra, ma il cattolicesimo. Ma Pio V, il monaco inquisitore, creatore dei servizi segreti pontifici, non era disposto a fare un passo indietro. Anzi, avrebbe difeso la fede a qualsiasi costo, anche servendosi degli assassini dell'Entità. Dopo la morte dell'ultimo uomo coinvolto nell'assassinio di Davide Rizzio, Lamberto Macchi ricevette da Roma l'ordine di rimanere in Inghilterra come spia dell'Entità. Poco tempo dopo, il «braccio esecutore di Roma» avrebbe partecipato attivamente alla «cospirazione Ridolfi» contro Elisabetta I d'Inghilterra, insieme a un altro importante agente dello spionaggio papale, il fiorentino Roberto Ridolfi. Lamberto Macchi rimase in Inghilterra fino alla fine del 1580 o agli inizi del 1581, per poi sparire completamente pochi mesi dopo. Esistono due ipotesi su quale sia stata la sorte di una delle migliori spie del papa. Una di queste sostiene che padre Lamberto Macchi, dopo essere tornato a Roma per continuare gli studi di teologia sotto la protezione di Gregorio XIII, non riuscendo ad adattarsi alla tranquilla vita contemplativa, si sia arruolato nei reggimenti di fanteria per servire nella missio castrensis,come religioso incaricato dell'assistenza spirituale ai soldati. In alcune cronache, si racconta che il gesuita Lamberto Macchi sia morto nel 1585, all'età di cinquantatré anni, vittima delle febbri durante l'assedio e la presa di
Anversa, uno degli episodi più brillanti della fanteria guidata da Alessandro Farnese nelle Fiandre. Secondo questa versione, il gesuita Macchi si unì alle truppe del duca di Parma quando iniziò l'assedio della città. Con la fanteria, Macchi partecipò alle battaglie di Dunkerque, Ypres, Bruxelles e Alost. Nell'ultima battaglia di Niewpoort, fu ferito, probabilmente mentre marciava accanto a un pezzo d'artiglieria. Per quattro giorni il gesuita rimase disteso su una branda sudicia, mentre le ferite andavano in cancrena. Le forti febbri causate dalle infezioni lo uccisero. Una seconda ipotesi sulla morte di Lamberto Macchi sostiene che la spia gesuita sia morta nelle missioni in Giappone, assassinato dagli uomini dello shogun Hideyoshi, nell'anno del Signore 1587, a cinquantacinque anni. Intorno al 1569, diversi signori influenti, per ridurre il potere delle sette buddiste, decisero di dare rifugio e protezione ai cristiani arrivati dalla lontana Roma. A poco a poco, però, nel pieno splendore dello shogunato di Oda Nobunaga, il Giappone cominciò a guardare con diffidenza quei missionari che si prendevano libertà sempre maggiori. La grande influenza dei gesuiti, insieme alle dicerie messe in giro dagli olandesi e dagli inglesi che desideravano mettere fine all'egemonia commerciale dei portoghesi cristiani in Asia, portò alla firma di un editto in cui si stabiliva che «il cristianesimo era una religione corrotta e straniera, che rappresentava un pericolo per la purezza e la moralità dei giapponesi». Nel 1587, il nuovo shogun, Toyotomi Hideyoshi,ordinò l'espulsione dei gesuiti, dopo aver raso al suolo oltre centoventi chiese. Alcuni assicurarono che Lamberto Macchi fosse stato sottoposto alla terribile tortura dell'ana-tsurusbt, che consisteva nel sospendere la vittima su una fossa piena di escrementi umani dopo averle praticato diversi tagli su tutto il corpo, facendola morire lentamente dissanguata. Secondo questa versione, Macchi, la gloriosa spia del papa,sarebbe stato colpevole di essersi rifiutato davanti a un gruppo di samurai di calpestare un crocifisso, segno in Giappone che un condannato rinnegava la propria fede. Da quel momento, per tre secoli, il paese asiatico voltò le spalle al mondo. Qualunque sia la verità sulla morte di Lamberto Macchi, una delle migliori spie di Pio V e Gregorio XIII, entrambe le storie contribuirono a creare una vera leggenda intorno alla personalità di questo gesuita erudito, esperto spadaccino, avventuriero e maestro di spie.
Capitolo terzo:Roberto Ridolfi Il cospiratore fiorentino Nel 1571, Pio V aveva bisogno di qualcuno che dirigesse una cospirazione contro l'eretica Elisabetta I e scelse Roberto Ridolfi. Da diversi anni questo banchiere di Firenze e agente dell'Entità, nato il 18 novembre 1531, brigava presso le corti di Scozia e d'Inghilterra. Ridolfi era un uomo tarchiato e calvo, amante dei piaceri, brillante nella conversazione, colto e dotato di importanti contatti su entrambe le sponde della Manica. Il piano escogitato da Roberto Ridolfi e approvato da Pio V prevedeva l'organizzazione di una rivolta contro Elisabetta nelle zone interne dell'Inghilterra, a cui sarebbe seguito lo sbarco di truppe spagnole in diversi punti della costa. I ribelli sarebbero poi confluiti a Londra per liberare Maria Stuarda, con l'aiuto di uomini a lei fedeli e degli agenti dell'Entità, per poi metterla sul trono d'Inghilterra al posto dell'eretica Tudor. Per coordinare questa complessa operazione c'era bisogno di una persona capace di tenere sotto controllo tutti i fronti e che non avesse paura di morire nel caso in cui la congiura fosse stata scoperta. Nel maggio del 1568, Filippo II aveva richiamato in patria l'ambasciatore in Inghilterra Guzmàn de Silva e nominato suo successore Guerau de Spes, un nobile castigliano, fervente difensore della fede cattolica, amante delle cospirazioni e degli intrighi, amico della spia del papa Roberto Ridolfi e favorevole all'idea di rovesciare l'eretica Elisabetta I. In uno dei suoi primi rapporti al re, l'ambasciatore aveva scritto: «Sono sicuro che si avvicina il momento in cui questo regno tornerà alla vera fede, considerato che la regina è a corto di denaro e lo scontento è grande in tutto il regno». Uno degli informatori dell'ambasciatore spagnolo era anche tra i più stretti collaboratori di Maria Stuarda: il vescovo di Ross, un uomo con la passione per gli intrighi, che da circa due anni era diventato un'inesauribile fonte di informazioni per l'Entità di Roma. Dall'altra parte, alla cattolica sovrana scozzese non restava che guardare alla Spagna come unico alleato per poter uscire dalla situazione in cui si trovava. Roberto Ridolfi era propenso a esercitare una politica più aggressiva nei confronti di Elisabetta e lo aveva fatto sapere all'ambasciatore spagnolo Guerau de Spes. Prima di essere coinvolto in una simile impresa, Filippo II volle consultare i suoi
uomini di fiducia. Il duca d'Alba diede al re dei suggerimenti per un'eventuale campagna militare in Inghilterra, aggiungendo, però, che sarebbe stato meglio evitarla, poiché avrebbe sicuramente spinto Elisabetta a intervenire nei Paesi Bassi. Ridolfi, che si era trasferito a Londra per seguire da vicino gli avvenimenti, scriveva a Pio v: «Sua Maestà Filippo di Spagna nutre grandi dubbi sull'eventualità di condurre una campagna contro l'eretica [Elisabetta] per mettere al suo posto la cattolica [Maria Stuarda]. Secondo lui sarebbe più facile ordinare una grande battaglia contro i turchi che contro Elisabetta. Bisogna fare pressioni, Sua Santità, sul re, e io, da qui, le farò sull'ambasciatore [Guerau de Spes]». Filippo II sapeva che quella era l'occasione giusta per muovere contro l'Inghilterra, ma non il momento migliore. La Spagna infatti non aveva ancora sedato la ribellione dei moriscos a Granada e stava ancora negoziando la creazione della Lega Santa per contrastarei turchi, che nel Mediterraneo avevano già assediato Cipro. I duchi di Norfolk, di Westmoreland, di Arundel e di Northumberland avevano tutto l'interesse, ognuno per ragioni differenti, a porre fine al regno di Elisabetta. La spia dell'Entità Ridolfi informò il responsabile dello spionaggio papale, il cardinale Marcantonio Maffei: «Norfolk è il più determinato dei quattro ad agire con ogni mezzo per eliminare la sovrana inglese. E' stato da poco scarcerato dalla Torre di Londra, dove era rinchiuso per la sua partecipazione alla ribellione di qualche anno fa [1569]. Il punto è sapere fino a che punto è interessato a partecipare all'impresa». Pio V ordinò allora alla spia fiorentina di fare il possibile per avvicinarlo. Norfolk era ancora sotto stretta sorveglianza, ma Ridolfi e l'ambasciatore spagnolo ritenevano che fosse l'uomo più adatto per dirigere la grande cospirazione. Norfolk credeva possibile che la regina di Scozia ottenesse la corona d'Inghilterra. Se poi le potenze cattoliche e Pio V avessero appoggiato il suo matrimonio con Maria, avrebbe costretto la sovrana a imporre la religione cattolica in tutto il paese. Il primo contatto della spia del papa con il duca di Norfolk ci fu alla fine di novembre o agli inizi di dicembre del 1570. Il fiorentino esigeva dal duca il suo fermo impegno affinché, una volta che l'operazione fosse riuscita e fosse stato celebrato il suo matrimonio con Maria Stuarda, questa, da regina d'Inghilterra, imponesse a tutti i cittadini del regno la religione cattolica. Prima di dare la propria benedizione a tutta l'operazione, Pio V pretese che Norfolk firmasse un accordo scritto. Norfolk doveva fare da intermediario per inviare denaro ai sostenitori di Maria Stuarda ancora asserragliati nel castello di Dumbarton. Di fatto, la spia fiorentina muoveva i partecipanti a quella che fu chiamata la «cospirazione
Ridolfi» del 1571 come pedine di una grande e pericolosa partita a scacchi. Inviava contemporaneamente lettere al duca d'Alba, a Filippo II, al vescovo di Ross, a Pio V e al cardinale Maffei, giurando a ciascuno di loro lealtà e fedeltà. Successivamente Ridolfi si recò in segreto nei Paesi Bassi, in Italia e in Spagna, accompagnato da diversi agenti dell'Entità, tra cui il sacerdote gesuita Lamberto Macchi, l'uomo che aveva giustiziato i congiurati della spia Davide Rizzio. L'operazione diretta e pianificata da Ridolfi prevedeva lo sbarco di un numero di uomini compreso tra i seimila e i diecimila, provenienti dai Paesi Bassi, in gran parte appartenenti alle truppe del duca d'Alba. L'ambasciatore Guerau de Spes considerava l'operazione un capolavoro di strategia militare, ma il duca d'Alba, molto più esperto in materia, e quindi più cauto, era scettico e non nutriva alcuna fiducia nei confronti di Ridolfi. Ridolfi, da parte sua, in una lettera al papa criticava il duca d'Alba, che si dimostrava eccessivamente cauto rispetto alla campagna contro gli inglesi. «Forse il duca [d'Alba] desidera dare più tempo agli eretici [Elisabetta I] affinché possano prepararsi ad affrontare quanto si avvicina. Forse bisognerebbe avvertire il re [Filippo II] degli ostacoli e degli impedimenti posti dal duca [d'Alba]» scriveva Ridolfi in una lettera indirizzata al cardinale Maffei. Alla fine, Filippo II decise di fidarsi dei rapporti degli agenti dell'Entità e andare avanti con il piano. Nel maggio del 1571, Elisabetta I ricevette un primo avviso dal granduca di Toscana, di religione protestante, che informò Londra di una «possibile» cospirazione organizzata da un famoso agente fiorentino dell'Entità di nome Roberto Ridolfi. A quanto pare, il granduca era riuscito a infiltrare una talpa tra gli uomini di fiducia del cardinale Maffei. Poco tempo dopo, gli agenti inglesi scoprirono uno scrigno d'argento contenente seicento sterline. Il denaro era stato inviato dal duca di Norfolk a Maria Stuarda. L'11 aprile, fu arrestato nel porto di Dover Charles Baillie, un agente libero dell'Entità, che faceva da messaggero tra Ridolfi e i congiurati. Baillie aveva con sé diverse lettere cifrate. Sottoposto a tortura, fece i nomi di tutti i partecipanti alla cospirazione Ridolfi e rivelò il ruolo avuto da Pio V, da Filippo II e dal duca d'Alba. La condanna a morte di Charles Baillie fu commutata in ergastolo. Nel 1582, fu infine rimesso in libertà ed esiliato, con la minaccia di essere giustiziato all'istante se avesse rimesso piede in Inghilterra. Baillie morì nel 1625, nel suo rifugio francese. Il secondo a essere intercettato fu James Kermailler, un commerciante
di Londra che faceva da messaggero tra Roberto Ridolfi e i cattolici scozzesi e inglesi. Una notte, le spie di Elisabetta entrarono in casa dell'agente di Ridolfi e cercarono di catturarlo vivo per interrogarlo. Mentre si preparavano all'assalto, Kermailler decise di bruciare tutti i documenti compromettenti che nascondeva in un'intercapedine del pavimento. Non aveva molto tempo, sentiva gli uomini della regina che salivano le scale. Decise allora di dare fuoco a tutta la casa, spargendo l'alcol delle lampade. Ma le fiamme si estesero rapidamente raggiunsero un barile di polvere da sparo che Kermailler aveva in casa. In pochi minuti, l'edificio saltò in aria, insieme alla spia e agli aggressori che si trovavano all'interno. Nel frattempo, in Scozia, dopo la caduta del castello di Dumbarton occupato dai cattolici, furono sequestrati altri documenti compromettenti che incastravano i cospiratori. Ulteriori lettere e rapporti furono requisiti a un messaggero del duca d'Alba dalla regina di Navarra, Giovanna d'Albret, inviati immediatamente a Londra. Nell'agosto del 1571, lo spionaggio inglese conosceva i nomi di tutti i partecipanti e il ruolo di ognuno nella cospirazione contro Elisabetta. Il cerchio intorno ai congiurati si stringeva. La scoperta della cospirazione Ridolfi aggravò la posizione di Maria Stuarda. A chiudere definitivamente il cerchio intorno ai cospiratori fu John Hawkins. Il pirata aveva fatto credere a Roberto Ridolfi di essere disposto a combattere al fianco di Filippo II e Maria Stuarda, al comando di una flotta cattolica inglese. Ma, in realtà, Hawkins lavorava per lo spionaggio inglese agli ordini di William Cedi, primo consigliere della regina. Elisabetta I d'Inghilterra lesse il rapporto di John Hawkins: «Sono stato incaricato di unire la mia flotta a quella del duca d'Alba e a un'altra che il duca di Medina prepara in Spagna. Insieme dobbiamo invadere l'Inghilterra e rimettere sul trono la regina di Scozia. Con l'aiuto di Dio, questi traditori cadranno nella loro stessa trappola. Firmato: John Hawkins, servitore fedele di Sua Maestà la Regina Elisabetta, alla quale Dio conceda lunga vita. 4 settembre 1571». Il 7 settembre, fu arrestato il duca di Norfolk; il 9, il vescovo di Ross, e il giorno successivo Maria Stuarda venne rinchiusa nel castello di Sheffield. Gli eserciti inglesi furono messi in stato d'allerta, i porti chiusi e fu ordinato alla popolazione di non uscire di casa dopo le sette di sera. La paura dello spagnolo si estese lungo tutta la costa inglese. Gli interrogatori furono condotti dal commissario Thomas Wilson, un integralista protestante. Rinchiuso nella Torre di Londra, Norfolk negava qualsiasi implicazione nella cospirazione Ridolfi. La regina in persona aveva proibito a Wilson di torturare Norfolk, per cui
gli interrogatori si concentrarono sul vescovo di Ross.5 Questi confessò che la regina di Scozia aveva avvelenato il suo primo marito, Francesco II di Francia, permesso l'assassinio del secondo, Lord Henry Darnley, sposato l'istigatore al regicidio, Lord Bothwell, e tentato di sposare un traditore, il duca di Norfolk. Nel dicembre del 1571, Elisabetta ordinò l'espulsione dell'ambasciatore Guerau de Spes, per il ruolo giocato a favore della Spagna nella cospirazione Ridolfi, e Filippo II adottò le stesse misure nei confronti dell'ambasciatore inglese a Madrid. La tensione tra i due potenti sovrani aumentò quando Elisabetta I iniziò a sostenere i ribelli nei Paesi Bassi contro le truppe del re spagnolo, mentre Filippo II appoggiava i cattolici scozzesi e irlandesi contro la regina protestante. Lamberto Macchi, che si trovava ancora a Londra, scriveva allora al papa: «Elisabetta ha solo due opzioni: rimanere neutrale o intervenire apertamente in una guerra contro la Spagna sul continente. Sa che è un rischio troppo grosso. Se il duca d'Alba riesce a recuperare il controllo delle città ribelli, gli eserciti non si fermeranno lì e continueranno la loro avanzata verso Londra, con il beneplacito del re Filippo. Elisabetta non può esporsi a un tale pericolo. Non ha nemmeno interesse a mettere fine al potere spagnolo dall'altro lato della Manica e permettere che Guglielmo d'Orange diventi il suo potente vicino». Gli interessi della corona spagnola a Londra rimasero in mano a un segretario senza poteri diplomatici, Antonio de Guaras. Alla fine del 1572, Guaras fu assoldato dallo spionaggio pontificio affinché informasse dei movimenti di Elisabetta, in attesa che l'Entità riuscisse a infiltrare nuovi agenti a corte. Dopo la cospirazione Ridolfi, i servizi segreti inglesi avevano catturato e giustiziato una decina di agenti del papa.6 Intanto, il duca di Norfolk, il duca di Arundel, il conte di Southampton, Lord Cobham e Lord Lumley erano ancora rinchiusi nella Torre di Londra, in attesa del processo. Il 16 gennaio 1572, la Camera dei Lord condannò Norfolk al patibolo. Il primo giugno, Elisabetta ratificò la sentenza e il giorno dopo Norfolk fu scortato fino al cortile principale della Torre e decapitato. La spia Roberto Ridolfi riuscì ad abbandonare l'Inghilterra. Ancora qualche ora e il fiorentino sarebbe stato arrestato dagli agenti inglesi. Sembra che fosse stato proprio il duca di Norfolk a fare il nome della spia del papa durante gli interrogatori. Dalla Francia, sempre sotto la protezione della sua rete di spie, Ridolfi riuscì a raggiungere sano e salvo Roma, dove informò di persona il Sommo Pontefice dell'accaduto. Erano trascorse solo due settimane da quando il cardinale Ugo
Boncompagni, con il fondamentale appoggio di Filippo II, era stato eletto papa nel conclave celebrato dopo la morte dell'intrigante Pio V, avvenuta il primo maggio 1572. Boncompagni scelse il nome di Gregorio XIII. Il nuovo papa abbandonò la linea seguita dai suoi predecessori in materia religiosa e politica, ma scelse la continuità rispetto allo spionaggio. Con l'aiuto dei gesuiti, il pontefice organizzò la prima forza d'assalto dell'Entità. Era composta da un gruppo scelto di uomini della Compagnia fedele all'autorità del papa, il cui sacro e unico obiettivo era assassinare la regina d'Inghilterra a capo della Chiesa protestante. Roberto Ridolfi tornò a Firenze, dove continuò a lavorare come banchiere, finanziando le operazioni dell'Entità. Secondo alcune fonti, Ridolfi sarebbe stato assassinato da agenti inglesi nel settembre del 1600 per aver partecipato alla cospirazione del 1571, mentre altre sostengono che sia morto di febbre nel 1601. La verità è che la spia fece ritorno alla sua Firenze natia, dove si stabilì definitivamente, ponendo fine alle proprie avventure con l'Entità. Nel 1610, fu eletto senatore. Il 18 febbraio 1612, all'età di ottantuno anni, morì nel suo letto, circondato dalla famiglia. Papa Paolo V, quando ricevette la notizia del decesso, dichiarò: «E' morto un difensore della fede. Un uomo che fece quanto umanamente possibile per riportare l'Inghilterra sulla strada della vera religione. Riposi in pace».
Capitolo quarto: Nicholas Sanders Dottor calunnia. La morte di Ignazio di Loyola, avvenuta il 31 luglio 1556, aveva lasciato la Compagnia di Gesù priva di una guida capace di decidere le sorti dei suoi quasi cinquemila membri sparsi per il mondo. Nel 1581, l'elezione a generale della Compagnia del trentasettenne Claudio Acquaviva segnò l'inizio della cosiddetta «epoca d'oro» dei gesuiti. Dopo Ignazio di Loyola, il napoletano Acquaviva fu probabilmente la guida più qualificata della Compagnia e dovette affrontare enormi ostacoli dentro e fuori dall'ordine. Sul fronte esterno, Acquaviva vide l'espulsione della Compagnia dalla Francia e da Venezia; ebbe gravi divergenze politiche, religiose e teologiche con il re di Spagna, con Sisto V e con i teologi domenicani. Anche su quello interno non ebbe vita facile, quando la Compagnia si trasformò in teatro di scontro tra spagnoli e italiani e si arrivò a convocare due congregazioni generali
ordinarie. Nel 1593, la quinta congregazione appoggiò fermamente Acquaviva contro le fazioni degli oppositori, e la sesta, nel 1608, riportò l'unità all'interno dell'ordine.1 Il cardinale Ugo Boncompagni, figlio di un commerciante di Bologna, studiò diritto nell'università della sua città natale, e dopo la laurea si trasferì a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica. Protetto di Paolo IV, nel gennaio del 1556 fu nominato membro della commissione incaricata della riforma della Chiesa. Nel periodo in cui fu cardinale, Boncompagni divenne un grande «intercettatore» di informazioni e un ottimo analista. Visitò la Francia, Madrid e Bruxelles e realizzò interessanti studi sulle condizioni politiche, strategiche e militari. Il cardinale Boncompagni sarebbe stato indubbiamente una buona spia se, il 13 maggio 1597, il conclave convocato dopo la morte di Pio V non lo avesse eletto papa con il nome di Gregorio XIII.2 Era evidente che il napoletano Acquaviva e il bolognese Gregorio XIII avrebbero costituito una delle migliori alleanze di tutta la storia della Chiesa cattolica. Da tempo i gesuiti avevano capito l'importanza strategica, dal punto di vista militare, della cattolica Irlanda per riconquistare la protestante Inghilterra. Una delle prime missioni affidate da Gregorio XIII al generale della Compagnia di Gesù prevedeva l'invio in Irlanda di gesuiti in veste di agenti segreti. Padre Salmerón e padre Brouet furono i primi ad arrivare nell'isola e a raggiungere il Munster (Ulster). Ma la sorveglianza dei protestanti rese impossibile la missione loro affidata da Claudio Acquaviva.3 Sotto il regno di Maria Tudor, i gesuiti erano riusciti a penetrare in Irlanda e a creare una rete di religiosi che si estendeva per tutto il paese. Uno dei primi ad arrivare era stato padre David Wolfe. Il 20 gennaio 1561, l'allora generale della Compagnia Diego Lainez aveva ordinato al gesuita David Wolfe di ritornare in Irlanda con gli ampi poteri che che Pio IV gli aveva concesso. Durante la sua missione, Wolfe riuscì a ottenere dei candidati alla direzione di alcune sedi religiose, a mantenere aperto un collegio e a reclutare novizi per la Compagnia. Pochi anni dopo, gli fu ordinato di tornare a Roma, lasciando il controllo dei gesuiti nelle mani di padre Richard Fleming, insegnante presso il collegio di Clermont e rettore dell'università di Pont-à-Mousson. Nel 1590, Fleming fu impiccato e squartato. Sarà padre Nicholas Sanders il successore di Heming al comando delle operazioni di spionaggio vaticano in Irlanda. Il pontefice era convinto che l'appoggio di James Fitzmaurice, nipote del conte di Desmond, avrebbe potuto favorire la causa cattolica nelle isole britanniche. L'idea dell'Entità era quella di preparare una spedizione militare nel Munster, dove
Fitzmaurice avrebbe potuto organizzare una rivolta contro Elisabetta d'Inghilterra. I gesuiti, agenti dell'Entità, misero a capo della missione Thomas Stukeley, un vecchio pirata noto allo spionaggio inglese, che affermava di essere figlio illegittimo di Enrico VIII. Stukeley era diventato un accanito difensore del cattolicesimo e aveva trovato protezione presso la corte di Madrid. Prima di partire per l'Irlanda, si arruolò in una crociata contro gli infedeli del Marocco e, il 4 agosto 1578, morì nella battaglia di Ksar el Kébir, per cui l'Entità fu costretta a trovare un nuovo leader per la rivolta irlandese.4 Fitzmaurice riprese così il comando dell'impresa. Gregorio XIII era disposto a finanziare e benedire l'operazione in Irlanda a condizione che un membro dello spionaggio pontificio affiancasse Fitzmaurice nella spedizione militare. L'incarico fu affidato al sacerdote Nicholas Sanders.5 Nato nel 1530 a Charlwood, nel Surrey, Sanders frequentò la scuola di Winchester e il New College di Oxford, dove, nel 1551, terminò gli studi con il massimo dei voti. Sanders era cresciuto in una famiglia di ferme convinzioni cattoliche. Suo padre William, sheriffati Surrey, lo obbligava a leggere la Bibbia tutte le mattine prima di colazione e tutte le sere dopo cena. Il capofamiglia affermava che una vita vissuta all'interno della Chiesa fosse la via migliore per ottenere il perdono di Dio. Un messaggio, questo, che aveva portato le due sorelle di Sanders a prendere il velo e rinchiudersi nel convento delle Suore di Sion. La spia del papa stabilì i primi contatti con la curia romana nel 1557,quando,durante un ricevimento,conobbe il potente Reginald Pole. Questo prelato inglese, cardinale e ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury prima dell'ascesa al trono della protestante Elisabetta, divenne protettore e guida spirituale di Sanders.6 Il cardinale Pole era diventato un simbolo della lotta contro il protestantesimo inglese. Enrico VIII gli aveva offerto l'arcivescovato di York o la diocesi di Winchester in cambio del suo sostegno nella controversia per il divorzio da Caterina d'Aragona, ma Pole rifiutò di appoggiare il monarca. Nel 1532, fu condannato all'esilio e andò in Francia e, successivamente, in Italia. Sanders ammirava il coraggio del cardinale Pole, un uomo che aveva ottenuto tutto nella Chiesa d'Inghilterra, per poi perdere tutto, difendendo la propria fede. Reginald Pole era stato nominato cardinale da Paolo III, nel 1536, e sei anni dopo era stato uno dei tre legati pontifici designati a partecipare al Concilio di Trento. Nel 1549, dopo la morte di Paolo III, Pole non fu eletto pontefice per un voto. Nonostante tutto, nell'Europa della seconda metà del XVI secolo, era ancora un uomo potente.A Roma, Sanders divenne un esperto degli oscuri
ingranaggi della macchina papale, tanto che, nel 1568, fece da collegamento tra il cardinale Giovanni Gerolamo Morone, suo protettore dopo la morte di Pole, e l'Entità. Il primo incarico di spionaggio gli fu assegnato alla fine del 1569, quando il cardinale Stanislao Osio, legato papale in Polonia e principe-arcivescovo di Warmia, lo scelse per creare e dirigere una rete di spionaggio che aveva il compito di combattere l'eresia in Polonia, Lituania e Prussia. L'esperienza acquisita sul campo in Polonia gli fece guadagnare importanti appoggi, tanto che fu convocato a Roma da Pio V. Su ordine pontificio, nel 1570, Nicholas Sanders fu destinato a Lovanio, dove si era stabilito il quartier generale dei cattolici inglesi in esilio. Sanders sarebbe stato il collegamento per lo scambio di informazioni tra gli esiliati e Roma. I rifugiati cattolici divennero la principale fonte di documentazione per l'opera di Nicholas Sanders De visibili monarchia ecclesiae, in cui per la prima volta furono denunciate le sofferenze dei cattolici inglesi e irlandesi nell'Inghilterra protestante. Dopo la pubblicazione, Nicholas Sanders divenne un obiettivo delle spie di Elisabetta. Per tutta risposta, gli inglesi diedero vita a una grande campagna contro la spia del papa, distribuendo in tutta l'Inghilterra e in Irlanda diverse pasquinate in cui si accusava Sanders di essere «un maestro della calunnia e della diffamazione» agli ordini del pontefice di Roma, Pio V. In questi libelli, con un gioco di parole, gli inglesi chiamavano Sanders Dr. Slander («calunnia», «diffamazione»). Questo soprannome accompagnò la spia fino alla morte. La cosa certa è che Nicholas Sanders era diventato uno dei maggiori e più abili divulgatori della bolla di scomunica contro la sovrana inglese. In realtà, la persecuzione religiosa in Irlanda era già iniziata durante il regno di Enrico VIII, quando il Parlamento aveva stabilito che la supremazia ecclesiastica apparteneva al re, aveva abolito la giurisdizione papale e soppresso le istituzioni religiose cattoliche. La legge contro il papa entrò in vigore il primo novembre 1537. Dopo poco più di un anno, il vescovo di Derry aveva scritto a Paolo III denunciando che in Irlanda gli uomini del re, che non riconoscevano l'autorità del papa, incendiavano conventi, distruggevano chiese, violentavano donne cattoliche e giustiziavano cattolici che non avevano commesso nessun delitto. Il vescovo denunciava inoltre l'uccisione dei sacerdoti che pregavano per il papa o che si rifiutavano di cancellarne il nome dal messale, e la tortura dei predicatori che non ripudiavano l'autorità di Roma. L'annichilimento del cattolicesimo in Irlanda fu tale da cancellare anche il ricordo dei morti. La spiegazione più plausibile è che siano
state registrate solo alcune vittime, considerato che non era prudente né possibile conservare o trasmettere documenti che implicassero il governo di Enrico VIII nelle stragi dei cattolici irlandesi. La maggior parte delle atrocità commesse dai protestanti ai danni dei cattolici furono trascritte sulla base delle testimonianze dei rifugiati e degli esiliati raccolte in un registro a Lovanio. In questa città, Nicholas Sanders diventò uno specialista del «problema irlandese»e scoprì quale era stata la sorte dei membri della commissione inviata dal pontefice in Irlanda per avere notizie di prima mano sui delitti compiuti dai protestanti. Dopo l'entrata in vigore della legge, Theobald Burke, padre provinciale dell'ordine, era stato inviato a Dublino insieme ad altri otto dottori e teologi, per difendere la supremazia papale in tutto il territorio irlandese. Stando ai racconti, tutti furono arrestati e incarcerati. A Theobald Burke fu strappato il cuore mentre era ancora vivo; Phillip, lo scriba, fu castrato, messo in un bacile pieno di olio bollente e sale fino a quando la carne non si staccò dalle ossa e, infine, decapitato. Gli altri membri della commissione pontificia furono impiccati e decapitati. Ma i massacri non finirono lì. Anche il vescovo di Limerick, Cornelius, fu decapitato, all'interno della sede episcopale. Il vescovo di Cormac fu lapidato a Galway. I padri Maurice e Thomas furono impiccati lungo la strada per Dublino. Padre Steven fu pugnalato vicino a Wexford. I frati Peter e Geofrey da Limerick furono decapitati. Padre John Macabrigus morì annegato. A Dublino, l'ex padre superiore Raymon fu trascinato, legato alla coda di un cavallo in corsa, fino a quando non morì. Tadeg O'Brien di Thormond fu fatto a pezzi alla presenza del viceré, presso il ponte di Bombriste. I frati di Adere furono squartati, pugnalati e impiccati. Venti monaci di Galway furono bruciati all'interno del monastero o, come sostiene un altro racconto, sei furono messi nel forno e gli altri gettati in mare legati a pesanti massi. I quaranta padri trinitari di Drogheda furono impiccati e gettati in un fosso. A Limerick, i corpi di oltre cinquanta frati furono dilaniati nel coro della chiesa, e i loro resti legati a dei pesi e gettati nel fiume Shannon. A Cork e Kilmallock, più di novanta religiosi, tra i quali William Burke, John O'Hogan, Michael, Richard e Daniel Giollabridge, furono uccisi con la spada e il loro corpo fatto a pezzi. Alla fine del 1578, dopo un breve soggiorno in Spagna sotto la protezione di Filippo II, Nicholas Sanders fu improvvisamente richiamato a Roma da Gregorio XIII. Il pontefice lo mise al comando delle operazioni che lo spionaggio papale doveva realizzare in Irlanda.
Il 27 giugno 1579, James Fitzmaurice e Nicholas Sanders salparono dal porto di Ferrol, a bordo di una nave battente bandiera vaticana diretta in Irlanda. La truppa e l'equipaggio erano composti da seicento uomini, in maggioranza italiani e spagnoli. Il 17 luglio, sbarcarono nella baia di Dingle, nel sudovest dell'Irlanda, dove si accamparono in attesa dei rinforzi dalla Spagna. Fitzmaurice, Sanders e i soldati prepararono la difesa in una costruzione poco sicura, conosciuta come il Forte dell'oro. Dopo il primo assalto inglese, si registrarono già diverse perdite. James Fitzmaurice fu ucciso da una fucilata, obbligando Sanders e un ufficiale spagnolo a prendere il comando della truppa, ormai decimata, fino all'arrivo del conte di Desmond, rientrato in Irlanda dopo aver scontato una condanna nella Torre di Londra. In poche settimane, tutto il Munster era in rivolta contro gli inglesi. Nel frattempo, Nicholas Sanders, che era riuscito a beffare l'assedio inglese, girava tutte le chiese dell'isola con il testo della bolla che scomunicava Elisabetta I, esortando gli irlandesi a sollevarsi contro la regina eretica. I protestanti si erano rifugiati a Dublino e a Cork. Il conte di Ormond, al comando delle truppe irlandesi fedeli all'Inghilterra, scriveva allora a Francis Walsingham: «L'unico simile per falsità e crudeltà a questi ribelli è Satana. Se Sua Maestà non fa uso della spada senza pietà, perderà la spada e il regno». Poco prima che arrivassero in Irlanda le truppe ausiliarie dalla Spagna, inviate da Filippo II nel settembre del 1580, giunsero dall'Inghilterra delle truppe di fanteria e una grossa flotta, incaricate di mettere fine all'insurrezione. A novembre, il forte occupato dall'esercito cattolico era ormai assediato per terra e per mare e Lord Arthur Grey di Wilton, capo delle forze inglesi, aveva l'ordine della regina Elisabetta di costringere i ribelli ad arrendersi, e quindi di annientarli. Il 10 novembre 1580, le truppe inglesi e irlandesi fedeli a Elisabetta entrarono nel forte e giustiziarono quanti si trovavano al suo interno. Solo trenta ufficiali furono fatti ritornare in patria dietro pagamento di un riscatto. Dopo aver lasciato il Forte dell'oro, nell'ottobre del 1580, e fino alla sua morte, avvenuta nel settembre del 1581, Nicholas Sanders ebbe da Gregorio XIII la missione di raccogliere e documentare in segreto gli omicidi di religiosi cattolici commessi dalle truppe inglesi protestanti in Irlanda. Tra marzo del 1580 e settembre del 1581, Sanders riuscì a documentare oltre mezzo centinaio di casi con nomi e cognomi delle vittime. Il 16 marzo 1580, fu assassinato a Cork padre Edmund Mac Donnel!. Il 28 marzo, il sacerdote Daniel O'Neilan fu legato con una corda e scaraventato in un fosso con un peso attaccato ai piedi, dopodiché fu assicurato a una ruota da mulino e squartato. Il 6 aprile,
i padri Daniel Hanrichan, Maurice O'Scanlan e Phillip O'Shee furono frustati e assassinati davanti all'altare maggiore della chiesa del monastero di Lislachtin, nel Kerry. L'11 novembre, Lawrence O'Moore, il signore Oliver Plunkett e l'inglese William Walsh furono impiccati nel Kerry, dopo la resa di Dunanoir. Il 2 dicembre, dei soldati inglesi penetrarono nel monastero cistercense di Graiguenamanagh e assassinarono il priore e ventidue frati. Nel 1581, la spia dell'Entità riuscì a documentare l'esecuzione del giudice Nicholas Nugent, di David Sutton, John Sutton, Thomas Eustace, John Eustace, William Wogan, Robert Sherlock, John Clinch, Thomas Netterville, Walter Lakin e Robert Fitzgerald, signore di Pale, per aver partecipato alla ribellione cattolica capeggiata da Lord Baltinglass. Ottenne anche delle testimonianze sull'assassinio, avvenuto il 5 luglio, dei pescatori del Wexford Robert Mayler, Edward Cheevers, John O'Lahy e Patrick Canavan, accusati di aver aiutato numerose persone, tra cui diversi sacerdoti gesuiti, ad abbandonare l'Irlanda. I quattro marinai rimasero appesi fino a quando non morirono, poi i loro corpi furono trascinati e squartati. Patrick Hayes, armatore di Wexford, fu condannato all'ergastolo per essere stato a capo della rete che organizzò la fuga di molti vescovi e gesuiti irlandesi. L'ultimo caso documentato nel rapporto segreto di Nicholas Sanders, inviato a Roma a Gregorio XIV, fu quello del monaco cistercense Nicholas Fritzgerald. Sembra che Fritzgerald avesse offerto rifugio alla spia del papa in una casa di Dublino. Quando lo scoprirono, il monaco venne trascinato fuori dalla casa, impiccato a un albero e squartato. Nicholas Sanders era riuscito a fuggire all'ultimo momento, attraverso la brughiera che circondava la città. Da quel momento, il gesuita sparì. Nicholas Sanders, scappato dal Forte dell'oro, continuò la propria missione clandestina come agente dell'Entità nell'interno dell'Irlanda, fino alla fine del 1581, anno in cui, a cinquantun anni, morì, vittima del freddo e della fame, sempre perseguitato dalle spie di Elisabetta d'Inghilterra. I cattolici irlandesi considerano Nicholas Sanders un martire della fede, e in alcune chiese della Repubblica irlandese ancora oggi, una volta l'anno, nel giorno della sua morte, si celebra una cerimonia commemorativa. La sua opera De origine ac progressu schismatis Anglicani, un eccellente studio sulla Chiesa cattolica nell'Inghilterra di Elisabetta I, fu completata da Edward Rishton e stampata a Colonia nel 1585, con la benedizione di Sisto V.
Negli anni Settanta del XX secolo, c'è stata una nuova polemica sulla controversa figura di Nicholas Sanders, quando Paolo VI ha deciso di non includerlo nell'elenco dei quaranta martiri d'Inghilterra e del Galles assassinati dai protestanti tra il 1535 e il 1679, canonizzati il 25 ottobre 1970.
Capitolo quinto:Giulio Guarnieri La spia fantasma L'elezione di Maffeo Barberini, proclamato Sommo Pontefice con il nome di Urbano VIII, rappresentò, sotto ogni aspetto, l'inizio di una delle tappe più buie dello spionaggio pontificio. Il pontificato di Urbano VIII si contraddistinse per due elementi: il nepotismo e la passione del papa per gli intrighi, al servizio della quale fu messa anche l'Entità. In tutta Europa, lo spionaggio pontificio cominciava ormai a essere definito «la longa manus del papa». Il nuovo pontefice affidò la direzione dell'Entità al suo amico cardinale Lorenzo Magalotti. Fino al 1628, Magalotti conciliò l'incarico di segretario di Stato con quello di responsabile dei servizi segreti papali. Nato a Firenze nel 1584, figlio di un potente senatore, Lorenzo Magalotti era legato a Urbano VIII da vincoli familiari. Sua sorella Costanza aveva sposato Carlo Barberini, fratello del pontefice. Dopo aver compiuto gli studi di diritto presso le università di Perugia e Pisa, nel 1608, si trasferì a Roma, dove cominciò a lavorare per la curia, nei cui tribunali si fece un nome. Nel 1612, fu nominato vicelegato a Bologna e, nel 1618, a Viterbo. Nel 1620, divenne governatore di Ascoli; nel 1621, commissario generale dello Stato pontificio; nel 1623, segretario di Stato e responsabile dei servizi segreti papali. Il 7 ottobre 1624, fu nominato cardinale della Chiesa. Il nuovo responsabile dell'Entità dovette affrontare un genio degli intrighi, uno dei più grandi cospiratori del XVII secolo: il cardinale Armand Jean du Plessis di Richelieu, uno degli uomini più potenti di Francia. Nato in una famiglia nobile ma priva di mezzi, il giovane Richelieu fu spinto a intraprendere la carriera ecclesiastica. Dopo l'assassinio di Enrico IV, durante la reggenza di Maria de' Medici, il cardinale Richelieu visse il suo momento di gloria. Ma quando Luigi XIII raggiunse la maggiore età e cominciò a governare, ruppe i legami con tutti i favoriti della regina e Richelieu fu costretto all'esilio. Nel 1624, grazie a diverse cospirazioni, il cardinale Richelieu ritornò
alla corte del re, dove fece carriera fino a diventare primo ministro di Francia. Per Richelieu, il potere assoluto della corona non costituiva un fine in sé, e il re, nella sua opinione, era il primo servitore dello Stato. Il cardinale si opponeva alla tradizionale politica estera europea, guidata esclusivamente da dispute confessionali e religiose, e prediligeva una politica mossa dalla ragion di Stato, ritenendo che gli interessi religiosi e quelli dello Stato fossero nella maggior parte dei casi contrapposti. La migliore espressione della teoria di Richelieu fu la posizione della Francia contro la Spagna di Filippo IV d'Asburgo, appoggiata in parte anche da Urbano VIII. François Le Clerc du Tremblay,o pére Joseph, ex agente dell'Entità e, secondo alcuni, membro dell'organizzazione segreta Circolo Octagonus, divenne il confidente del primo ministro, informandolo di tutto quanto accadeva fuori dal palazzo reale. Padre Joseph du Tremblay era nato a Parigi nel novembre del 1577. Nel 1604, fu ordinato sacerdote e, nel 1616, si recò a Roma, dove ebbe contatti con alcuni domenicani membri dell'Entità, che gli insegnarono le tecniche dello spionaggio. Nell'aprile del 1624, ritornato in Francia, entrò a far parte della cerchia più ristretta e vicina al cardinale Richelieu. Molti affermano che a partire da quello stesso anno, o forse dal 1625, Joseph du Tremblay divenne il ministro degli Esteri «ufficioso» di Francia, nonché l'acerrimo nemico degli agenti dell'Entità.Una delle più importanti cospirazioni organizzate dallo spionaggio papale nella Francia di Richelieu fu la cosiddetta «unione della nobiltà», con la quale il cardinale Magalotti voleva impedire la persecuzione di quella parte della nobiltà cattolica che si opponeva all'alleanza tra la Francia e le nazioni protestanti, un tempo nemiche, nella lotta contro la cattolica Spagna. Il capo delle spie di Urbano VIII affidò la missione a Giulio Guarnieri, un giovane sacerdote domenicano di Siena. Nato da padre italiano e madre francese, Guarnieri ricevette l'incarico di creare una rete nell'intera Francia per proteggere tutti i nobili cattolici che si opponevano a Richelieu e alla sua politica antispagnola. Guarnieri era figlio di un commerciante di vini che, per affari, era solito girare tutta la Francia. Grazie al suo lavoro, il giovane Giulio era entrato in contatto con le personalità più importanti di Francia. Inoltre, si prestava occasionalmente a fare da messaggero tra i politici francesi e quelli mantovani, contrari agli interessi della Spagna. Guarnieri ebbe carta bianca per le sue operazioni in Francia e per poter mantenere stretti contatti con la nobiltà cattolica francese, sempre più perseguitata, per la quale la spia rappresentava l'unico collegamento con Roma e il pontefice. Padre
du Tremblay doveva trovare la spia del papa che si muoveva indisturbata per il paese e permetteva che i nobili francesi e Urbano VIII si scambiassero messaggi. Un pomeriggio, il capo delle spie di Richelieu ricevette un rapporto in cui si comunicava che l'agente papale si sarebbe incontrato con due informatori in una pensione vicino Nemours, a sud di Parigi. Du Tremblay inviò tre sicari per uccidere l'agente dell'Entità. I tre uomini arrivarono alla pensione e chiesero una camera. Il giorno dopo, la donna di servizio bussò alla porta della loro stanza, ma non ottenne risposta. Allarmata, chiamò il proprietario, che entrò nella stanza e trovò i corpi senza vita dei tre sicari inviati da padre Joseph du Tremblay per uccidere Giulio Guarnieri. Qualcuno li aveva sgozzati mentre dormivano serenamente. La notizia dell'assassinio arrivò a Parigi il giorno successivo. Informato dell'accaduto, il primo ministro Richelieu ordinò al servizio di spionaggio di trovare, ad ogni costo, la spia del papa responsabile del triplice omicidio. Non avendo nessuna informazione sul senese Guarnieri, padre du Tremblay ribattezzò l'agente dell'Entità «la spia fantasma». Dopo aver ucciso i tre sicari inviati da du Tremblay, Guarnieri chiese di poter lasciare la Francia per qualche tempo. La spia credeva che gli agenti di Richelieu si stessero avvicinando a lui, e per questo pensava di dover abbandonare il paese. Il cardinale Magalotti ne informò il pontefice, il quale autorizzò il domenicano a lasciare il territorio francese fino a nuovo ordine. Per Guarnieri era evidente che qualcuno vicino a Magalotti aveva informato du Tremblay dei propri movimenti. Il principale sospettato era un sacerdote che lavorava agli ordini del cardinale Laudivio Zacchia, prefetto della domus di Sua Santità e del Palazzo Apostolico. Zacchia riceveva da Parigi numerosi rapporti qualificati, inviati da Guarnieri, «la spia fantasma», al suo responsabile, il cardinale Magalotti. Una sera, dopo essere uscito dal Palazzo Apostolico, il sacerdote aiutante di Zacchia fu accoltellato e ucciso in un buio vicolo. Il giorno successivo, il corpo fu ritrovato appeso giù da un ponte. Guarnieri comunicò a Lorenzo Magalotti che probabilmente il cardinale Zacchia inviava i rapporti dello spionaggio papale all'ufficio di padre Joseph du Tremblay. Il 30 agosto 1637, il cardinale Laudivio Zacchia ebbe uno strano collasso e morì sul colpo. Le voci in circolazione sostenevano che probabilmente il prefetto della domus era stato raggiunto dalla «longa manus del papa», l'Entità. Per più di otto anni, le spie di Richelieu dirette da Joseph du Tremblay cercarono la spia del
cardinale Magalotti senza successo. Arrivarono anche a pensare che l'agente dell'Entità fosse in realtà un'invenzione di Magalotti per destabilizzare la politica francese. Ma si sbagliavano. L'agente tornò a farsi vivo, e da protagonista, durante il conflitto tra cattolici e protestanti che dal 1618 insanguinava l'Europa. La Germania era il campo di battaglia della Guerra dei trent'anni, in cui fu coinvolta anche la Svezia, con i suoi potenti eserciti guidati dal re Gustavo Adolfo.5 Mosso dall'odio per gli Asburgo, il cardinale Richelieu si alleò con gli svedesi, finanziando l'impresa militare fino a quando non riuscirono a sconfiggere le truppe imperiali. La spia Giulio Guarnieri comunicò a Roma che le truppe svedesi si dirigevano verso La Rochelle, ma le forze imperiali non furono avvisate in tempo dallo spionaggio pontificio. Forse qualcuno degli uomini più vicini a Urbano VIII decise di non passare l'informazione. La cittadella degli ugonotti in Francia cadde nel 1628, permettendo al cardinale Richelieu di dedicarsi alla politica estera e alla guerra in Europa. Sfortunatamente per la causa protestante e per la Svezia, Gustavo Adolfo morì nella battaglia di Lützen, nel 1632. L'atteggiamento di Urbano VIII durante questi tragici avvenimenti non fu mai del tutto chiaro. Le sue simpatie per la Francia, alleata dei protestanti, e per il cardinale Richelieu gli furono rimproverate dal legato imperiale a Roma, il cardinale Pàzmàny. Qualche anno dopo, si scoprì che il frate domenicano Giulio Guarnieri e, probabilmente, anche il suo capo, il cardinale Magalotti, lavoravano per Pàzmàny, che a sua volta, contravvenendo agli ordini di Urbano VIII informava la Spagna e gli imperiali dei movimenti delle truppe protestanti. Per la Germania la guerra fu una vera catastrofe, non solo perché durò trent'anni, ma anche perché, come tutte le guerre religiose, fu di una crudeltà e una violenza senza pari. Per sminuire il prestigio della casa d'Austria e per accrescere quello di Luigi XIII, il cardinale Richelieu disdegnò i principi religiosi, tenendo costantemente la Francia sotto la minaccia di una guerra. Il rimorso provocato da questa contraddizione tra il conflitto religioso e i compromessi della politica torturava la coscienza di François du Tremblay, conosciuto anche come pére Joseph.Il cardinale Lorenzo Magalotti morì il 19 settembre 1637, in seguito a una strana malattia. Padre Joseph du Tremblay, capo delle spie francesi, morì nel 1638 per un colpo apoplettico. Il 4 dicembre 1642, moriva anche Armand Jean du Plessis di Richelieu. Il suo posto fu occupato dal cardinale Giulio Mazzarino, di origine italiana. Mazzarino sarebbe diventato il nuovo nemico di Guarnieri. Nato il 4 luglio 1602, a Pescina, in Abruzzo, Mazzarino studiò presso le università di Alcalà e Salamanca. Dopo aver trascorso diversi anni nel servizio diplomatico
papale, il 5 dicembre 1642, il cardinale Mazzarino fu nominato primo ministro di Francia. Alla morte di Luigi XIII, l'abile religioso governò la Francia durante la reggenza di Anna d'Austria e fino al raggiungimento della maggiore età di Luigi XIV. La situazione politica interna del paese degenerò progressivamente, tanto che la nobiltà, in maggioranza cattolica, cominciò a tramare contro il potere sempre più assolutista dello Stato. Gli intrighi furono appoggiati e, si dice, finanziati dall'Entità, su raccomandazione del capo ombra, Olimpia Maidalchini, che si era fatta carico di guidare lo spionaggio papale dopo la morte di Urbano VIII e l'elezione a pontefice di suo cognato, il cardinale Giovanni Battista Pamphili, salito al trono di Pietro a settantatré anni, con il nome di Innocenzo X. Per contrastare le operazioni dell'Entità, Mazzarino nominò Hugues de Lionne segretario di Stato per gli Affari esteri e responsabile dello spionaggio. La prima missione affidata a de Lionne fu quella di cercare, trovare e liquidare le spie papali che operavano sul suolo francese, e soprattutto il loro capo, Giulio Guarnieri. Negli anni successivi, la spia fantasma, entrata già nella leggenda, si dedicò anima e corpo ad aiutare i nobili cattolici francesi che cospiravano per uccidere il cardinale Mazzarino. Guarnieri scoprì che poteva attaccare Mazzarino in due modi: o attraverso i nobili che, dopo la morte di Richelieu, avevano visto ancora una volta diminuire il proprio potere e la propria influenza all'interno dello Stato, o attraverso le classi più svantaggiate, colpite economicamente dalle alte tasse necessarie a finanziare la guerra contro gli Asburgo di Spagna e Vienna. La spia papale organizzò un attentato contro Mazzarino il giorno in cui il cardinale stava per incontrare gli ufficiali dell'amministrazione, sempre più scontenti di fronte agli ampi poteri concessi agli intendenti e ai commissari reali per la riscossione delle tasse. Una mattina, due uomini vestiti umilmente si avvicinarono al cardinale Giulio Mazzarino mentre scendeva dalla carrozza, per pugnalarlo. Le guardie di scorta del primo ministro francese impedirono ai due assassini di portare a termine la missione. I due uomini furono arrestati e rinchiusi nella prigione centrale di Parigi. Torturati, in un primo momento dichiararono che con quel gesto avrebbero voluto vendicare i poveri, vessati dagli intendenti del cardinale Mazzarino e oppressi dalle tasse. Dopo un 'altra sessione di tortura, uno dei sicari disse che entrambi venivano dalla Borgogna, e confessò a Hugues de Lionne che uno strano individuo, che credevano fosse un religioso, li aveva convinti ad attentare alla vita del cardinale e primo ministro francese. Il secondo sicario aggiunse che l'uomo aveva loro pagato il
viaggio dalla Borgogna a Parigi. De Lionne era sicuro che quel religioso e la spia fantasma fossero la stessa persona: il domenicano Giulio Guarnieri. Dopo l'attentato, la spia dell'Entità sparì dalla Francia e di lui non si seppe più niente. Giulio Guarnieri, domenicano e spia dell'Entità, sarebbe morto a Roma, forse nel 1646, vittima delle febbri, in seguito a un peggioramento delle sue condizioni di salute, già non eccellenti quando lavorava come spia in Francia. Negli ultimi anni di vita, Guarnieri sarebbe stato aiutante e segretario personale del cardinale Stefano Durazzo, tesoriere generale della Camera apostolica. Altre fonti indicano che l'ex spia sia stata assassinata da qualcuno appositamente inviato da Parigi. Ma anche questo, come ogni cosa nella vita della spia fantasma, è ormai leggenda.
Capitolo sesto:Paluzzo Paluzzi L'apostolo dell'Ordine nero Nato a Roma l'8 giugno 1623, Paluzzo Paluzzi acquisì il secondo cognome Altieri quando fu adottato dal cardinale Emilio Bonaventura Altieri, nel 1670, lo stesso giorno in cui il cardinale fu proclamato papa con il nome di Clemente X. Dottore in legge presso l'università di Perugia, Paluzzo Paluzzi fu nominato membro della camera apostolica da Urbano VIII e uditore generale della stessa istituzione sotto il pontificato di Alessandro VII. Durante il Concistoro celebrato il 14 gennaio 1664, Paluzzi fu elevato cardinale da Alessandro VII e, due anni dopo, precisamente il 15 marzo 1666, ricevette il titolo cardinalizio dei Santi XII Apostoli. Il potere di Paluzzi era tale che i politici e i governanti dell'epoca lo ribattezzarono «l'apostolo Paluzzi Altieri», alludendo al cognome del papa. In pochi mesi, il cardinale non solo diventò l'ombra del pontefice, ma assunse anche il controllo dello spionaggio papale e degli affari di Stato, che diresse con pugno di ferro. Si pensa che sia stato Paluzzi a far rinascere l'Ordine nero, la temibile organizzazione formata da undici monaci, creata da Olimpia Maidalchini e sciolta da Clemente IX. Paluzzi se ne servì come servizio di controspionaggio più che come unità di assassini al servizio della Chiesa.La verità è che, nei poco più di sei anni in cui Clemente X occupò il trono di Pietro, Paluzzi concentrò nelle proprie mani uno dei più vasti poteri nella storia della curia romana. Fu lui a decidere della vita e della morte di decine di persone che rinnegavano l'autorità del papa, la Chiesa e la fede cattolica. Sua eminenza il cardinale
Paluzzi Altieri degli Albertoni aveva il controllo dello spionaggio e del controspionaggio, due potenti armi di cui, senza dubbio, non avrebbe esitato a servirsi. Sapeva come farlo. Durante il pontificato di Clemente X, le relazioni tra la Chiesa e la Francia furono sempre molto tese, soprattutto a causa del disprezzo con cui Luigi XIV trattava tutto ciò che riguardava Roma. La crisi più grave tra il re e il papa scoppiò il 21 maggio 1670, quando, durante un'udienza, l'ambasciatore francese d'Estrées, accusò Paluzzo Paluzzi di opporre il veto alla nomina di cardinali francesi o notoriamente filofrancesi. Paluzzi respinse l'accusa e rimproverò all'ambasciatore di avere le stesse posizioni antipapiste del suo sovrano. Clemente X decise allora di alzarsi dal trono, dando per terminata l'udienza, ma in quel momento il francese afferrò per le braccia il pontefice e lo costrinse a sedersi di nuovo. Quel gesto rappresentò per Clemente X un ulteriore affronto. La notte del 26 maggio, cinque giorni dopo l'incidente, il segretario della legazione di Luigi XIV a Roma fu trovato morto. A quanto pare, quella sera il giovane diplomatico si era recato in un'osteria di Trastevere, dove aveva cenato in compagnia di due forestieri, due studenti fiorentini venuti a Roma per indossare l'abito talare. Il francese lasciò la taverna, ma mentre camminava, l'affanno gli rese quasi impossibile respirare. Si fermò e si sedette a riposare. Si accasciò al suolo e non si alzò più. Un'inchiesta condotta dai francesi dimostrò che il giovane segretario era stato avvelenato con qualche strana sostanza. I due giovani fiorentini erano in realtà uomini al servizio del cardinale Paluzzi. Il giorno successivo, il 27 maggio 1670, il pontefice nominò sei nuovi cardinali, nessuno dei quali francese, provocando la rottura delle relazioni tra la Francia e Roma, tra Luigi XIV e Clemente X. Il papa morì il 22 luglio 1676, non senza aver prima beatificato Pio V, il grande protagonista della Riforma cattolica e il fondatore, centodieci anni prima, dell'Entità. Il 21 settembre, i cardinali riuniti in conclave elessero Odescalchi, che scelse il nome di Innocenzo XI. Nei suoi tredici anni di pontificato, il nuovo papa ritenne opportuno servirsi dell'Entità, considerandola un male inevitabile. Innocenzo XI confermò il cardinale Paluzzi alla guida dei servizi di informazione papali, che sarebbero stati controllati dalla segreteria di Stato diretta dal cardinale Alderano Cibo. Al centro della politica di Innocenzo XI ci furono le sempre conflittuali relazioni con la Francia e il Re Sole. Nel 1673, Luigi XIV aveva esteso il diritto di regalia a tutte le diocesi di Francia. Si trattava del diritto, esercitato dalla corona francese fin dal Medioevo su alcune diocesi, di amministrarne i beni, percepire le
rendite (regalia temporale) e nominarne i beneficiari senza l'obbligo di cura delle anime (regalia spirituale). Per evitare ulteriori ingerenze negli affari della Chiesa, il papa inviò al Re Sole tre missive, nel 1678, nel 1679 e nel 1680, in cui esigeva la sua rinuncia all'estensione del diritto di regalia. Nel 1680, Luigi XIV convocò un'assemblea del clero francese, durante la quale tutti, tranne due vescovi, ribadirono la propria fedeltà e la propria lealtà alla corona e si dichiararono fermi oppositori del pontefice. Nel 1681, il re convocò una nuova assemblea in cui riconosceva le regalie come un diritto sovrano e, il 19 marzo 1682, approvò i «quattro articoli» contenuti nella dichiarazione scritta dal vescovo Jacques Bénigne Bossuet, in cui si sosteneva la totale indipendenza del re di Francia nelle questioni temporali, la supremazia del Concilio di Costanza sul papa, la subordinazione dell'infallibilità del pontefice al consenso dell'episcopato e l'inviolabilità degli antichi costumi della Chiesa gallicana. Per chiudere definitivamente la questione, il re ordinò che i «quattro articoli» venissero insegnati in tutte le scuole del paese. Innocenzo XI manifestò il proprio disappunto per la posizione dei vescovi francesi a favore del re e negò l'istituzione canonica a tutti coloro che avevano partecipato agli incontri con Luigi XIV. Si scatenò ben presto una guerra di spie tra la Francia e lo Stato pontificio, che culminò con il caso della cosiddetta «rete Scipion». L'Entità aveva scoperto che tre agenti segreti francesi si erano infiltrati nella segreteria di Stato, dove erano addetti all'archiviazione delle pratiche. Gli agenti del papa scoprirono che i tre religiosi copiavano e inviavano all'ambasciata francese di Roma, attraverso un articolato sistema di messaggeri, documenti classificati come «materiale sensibile». Il capo della rete si faceva chiamare Scipion. Il segretario di Stato Cibo ordinò a Paluzzi di scompaginare la rete di spie, autorizzandolo a servirsi di qualunque mezzo. Il capo dell'Entità decise allora di ricorrere ai monaci dell'Ordine nero. Il 19 maggio 1687, fu arrestato il primo membro della rete Scipion, uno scriptor. Gli uomini dell'Entità avevano scoperto che il numero di copie redatte dal frate non coincideva con il numero di quelle distribuite ai rappresentanti della curia. Condotto nella sede dello spionaggio papale, il frate fu interrogato e, sotto tortura, svelò i nomi degli altri due membri che facevano parte della rete Scipion e lavoravano a Roma per conto di Luigi XIV. Due giorni dopo, il cadavere torturato del frate fu trovato appeso a un ponte sul Tevere. Qualcuno gli aveva messo in bocca un pezzetto di stoffa nera con due strisce rosse incrociate. La temibile mano della Chiesa aveva raggiunto un nemico, ma altre due spie della rete erano ancora libere. Il 23 maggio, un sacerdote, il secondo infiltrato nella segreteria di Stato, sfuggì
all'arresto, raggiunse Palazzo Farnese, sede dell'ambasciata di Francia, e chiese asilo. Allora Cibo, in applicazione del decreto papale che sanciva l'abolizione del diritto d'asilo nelle ambasciate di Roma, emanato quello stesso anno da Innocenzo XI, ordinò a sei monaci dell'Ordine nero di entrare a volto coperto nella legazione di Luigi XIV, e di prelevare il sacerdote con la forza. Il religioso fu interrogato, e si scoprì che dietro il nome in codice Scipion si nascondeva un monaco che tempo prima aveva fatto parte dell'Entità e che era stato reclutato successivamente dallo spionaggio di Luigi XIV. Il 26 maggio 1687, otto membri dell'Ordine nero cercarono di catturare Scipion facendo irruzione nella pensione in cui alloggiava. La spia francese si difese, ma il combattimento durò poco, vista la superiorità numerica degli aggressori. Scipion cercò allora di fuggire attraverso una finestra, ma scivolò, cadendo a pochi metri da una carrozza nera con lo stemma pontificio in cui si trovavano i cardinali Paluzzi e Cibo. La spia fu raggiunta da imo degli ufficiali dell'Ordine nero che gli infilò la spada nel collo. Poco dopo, un'altra stoccata squarciò il cuore in due. Anche il cadavere di Scipion e quello del sacerdote portato via dall'ambasciata francese furono appesi a un ponte sul Tevere, per ricordare a quanti avessero messo in dubbio il potere del papa che l'Entità e l'Ordine nero erano gli strumenti dell'implacabile mano vendicatrice di Dio. Innocenzo XI morì il 12 agosto 1689. Gli succedette il cardinale Pietro Ottoboni, Alessandro VIII, che governò solo dieci mesi e cedette alle pressioni del dispotico Luigi XIV. Alla morte di Alessandro VIII, avvenuta il primo febbraio 1691, fu convocato il conclave per eleggere l'ultimo papa del secolo che volgeva ormai al termine. Di tutti i conclavi del XVII secolo, quello del 1691 fu il più lungo. Durò cinque mesi, dal 12 febbraio al 12 luglio. L'arrivo del caldo a Roma fece sì che, il 12 luglio 1691, i cardinali trovassero finalmente un accordo sul candidato, Antonio Pignatelli, che fu eletto papa con il nome di Innocenzo XII. Il nuovo pontefice era stato inquisitore a Malta, dove aveva avuto strette relazioni con il potente cardinale Paluzzo Paluzzi. Attraverso gli agenti dell'Entità, Innocenzo XII continuò la sua crociata contro gli eretici, facendo del servizio di spionaggio papale il braccio esecutore della fede. Una delle sue vittime fu Charles Blount. Blount professava il deismo, una dottrina che riuscì a penetrare nello Stato pontificio grazie ai predicatori che si spostavano alla ricerca di nuovi adepti. Molti di loro furono arrestati dall'Entità, consegnati all'Inquisizione e torturati. Per impedire la diffusione del deismo, Innocenzo XII ordinò a Paluzzi di eliminare
Blount, uno dei più accaniti sostenitori di tale eresia. Paluzzi, che aveva ormai settantanni, decise di inviare in Inghilterra tre monaci dell'Ordine nero. Una mattina del 1693, il cadavere di Charles Blount fu trovato sul pavimento della sua abitazione. Le autorità sostennero che probabilmente l'uomo si fosse suicidato per amore, sparandosi un colpo al cuore. Con quella spiegazione, il caso venne chiuso e i monaci di Paluzzi tornarono a Roma. Gli ultimi anni del pontificato di Innocenzo XII e del cardinale Paluzzi alla guida dello spionaggio pontificio furono dedicati al problema della successione spagnola. Nel 1696, Giuseppe Ferdinando, di soli quattro anni, fu eletto successore di Carlo II, per intermediazione di Marianna d'Austria e del papa. In seguito alla stipula del Trattato di spartizione dell'Aia, che divideva i possedimenti spagnoli tra Giuseppe Ferdinando, l'arciduca Carlo d'Austria e il Delfino di Francia, Filippo d'Angiò, Carlo II nominò il piccolo Giuseppe Ferdinando erede universale, senza riconoscergli la possibilità di rinunciare a nessuno dei suoi possedimenti.9 Il cardinale Paluzzi consigliò allora al papa di proteggere il bambino, se era suo desiderio che un giorno questi regnasse in Spagna. Il capo delle spie del pontefice sapeva che, prima o poi, Luigi XIV avrebbe cercato di agire contro l'erede a beneficio di suo nipote, Filippo d'Angiò, Il 6 febbraio 1699, il piccolo Giuseppe Ferdinando morì, dopo una breve malattia. In diverse corti europee si insinuò che il giovane erede di Carlo II fosse stato avvelenato su istruzioni di Versailles. Paluzzi, però, non poté vedere avverati i propri timori, perché, il 29 giugno 1698, all'età di settantacinque anni, morì a Ravenna, città di cui era stato nominato arcivescovo emerito. Secondo la leggenda, il capo dello spionaggio, che molti studiosi hanno definito «l'apostolo di Sua Santità», fu avvelenato per mano di agenti francesi, durante un banchetto. Sembra che il cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni avesse ingerito una grande quantità di veleno mangiando un agnello condito con fave di elleboro nero, una pianta altamente tossica.10 In realtà, si tratta di una delle tante leggende che avvolgono la vita e la morte di una delle migliori e più grandi spie dei servizi segreti papali. Non esistendo prove documentali né bibliografiche su questa vicenda, il «presunto» omicidio del cardinale Paluzzo Paluzzi, capo dell'Entità dal 1670 al 1698, per avvelenamento da elleboro nero o «rosa di Natale», ad opera di agenti di Luigi XIV, deve considerarsi un'ulteriore leggenda. La salma di Paluzzi fu esposta nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, a Roma, e sepolta alcuni giorni dopo nella cappella di San Giovanni Battista, che lui stesso aveva fatto
costruire in quella chiesa. Il 22 luglio 1700, moriva, in strane circostanze, il cardinale segretario di Stato Alderano Cibo, uno dei più potenti protettori di Paluzzi e difensore delle operazioni dell'Entità in Europa. Le cause della sua morte, come quelle del decesso del cardinale Paluzzi, continuano a essere un ulteriore mistero nella oscura e lunga storia del servizio di spionaggio papale.
Capitolo settimo:Annibale Albani Nel nome di Iscariota Il 23 novembre 1700, il cardinale Giovanni Francesco Albani fu proclamato papa con il nome di Clemente XI. Per lungo tempo, Clemente XI non comprese la necessità di avere un servizio d'informazione efficiente, cosa che gli avrebbe permesso di conoscere in anticipo gli avvenimenti che da lì a poco avrebbero devastato l'Europa. I pontefici suoi predecessori avevano usato l'Entità come una pedina importante sulla scacchiera della politica europea, ma il nuovo papa ancora non sapeva come la spie al suo servizio avrebbero potuto aiutarlo a prendere le decisioni migliori per il bene della Chiesa. Anche il nuovo segretario di Stato,il cardinale Fabrizio Paolucci,un uomo abile ed esperto in politica, non vedeva l'utilità dell'Entità per gli affari esteri. Su consiglio del cardinale Paolucci, Clemente XI nominò suo nipote Annibale Albani,esperto in diplomazia, responsabile facente funzioni dell'Entità. Nato il 15 agosto 1682, Annibale Albani apparteneva a una nobile famiglia di Urbino, gli Albani, discendenti da rifugiati albanesi arrivati in Italia a metà del XV secolo. Con il passare del tempo, quella degli Albani era diventata una delle famiglie più nobili della curia romana. A diciotto anni, entrò nel Seminario romano, dove rimase fino al 1706, anno in cui fu nominato ciambellano privato di Sua Santità e protonotario apostolico. L'8 agosto 1707, divenne presidente della Camera apostolica. Albani aveva ricevuto dal segretario di Stato Paolucci l'espresso ordine di mettere in moto il meccanismo dello spionaggio papale e di fornire informazioni politiche rilevanti alla Segreteria di Stato. In quegli anni, la politica europea fu marcata dal problema della successione spagnola. L'8 maggio 1701, Filippo d'Angiò, come disposto dal testamento di Carlo II, fu incoronato re a Madrid, con il nome di Filippo V. Ma l'imperatore Leopoldo I mise in discussione la validità del testamento e dichiarò che il proprio figlio, l'arciduca Carlo, possedeva gli stessi diritti successori di Filippo V. Clemente XI si offrì di fare da mediatore per evitare lo
scatenarsi di una guerra tra l'Impero e la Francia. Gli agenti dell'Entità comunicarono che le due fazioni erano alla ricerca di alleati per essere pronte in caso di guerra. Negli stati italiani, Filippo V cercava di allearsi con il duca di Mantova e con il duca di Parma, mentre l'arciduca Carlo sperava nel sostegno del duca di Modena. Clemente XI inviò allora una lettera in cui raccomandava ai tre nobili di mantenere una neutralità «assoluta», poiché se una delle alleanze fosse riuscita, la guerra sarebbe potuta arrivare alle porte dello Stato pontificio. Ma un consigliere del duca di Modena, il veneziano Vicenzo Lascari, suggerì di unire gli eserciti del ducato a quelli dell'imperatore d'Austria, in difesa del diritto dell'arciduca Carlo alla corona spagnola. Così facendo, il suo signore avrebbe potuto ottenere importanti privilegi territoriali. Per il cardinale Paolucci e per lo Stato pontificio le interferenze del veneziano erano troppo pericolose e l'uomo divenne un obiettivo da eliminare. Gli agenti di Annibale Albani entrarono in azione, e la notte dell'11 gennaio 1702 uccisero il fedele consigliere del duca di Modena. Il giorno dopo, appresa la notizia dell'omicidio di Lascari, il duca inviò una lettera al cardinale Paolucci in cui annunciava la sua decisione di mantenersi neutrale nella Guerra di successione. Nel 1701, Luigi XIV, in nome di suo nipote il re di Spagna, aveva occupato militarmente i possedimenti spagnoli in Italia: il ducato di Milano, i regni di Napoli e Sicilia e la Sardegna. La guerra sembrava ormai inevitabile, quando un potente esercito dell'imperatore d'Austria, al comando del generale principe Eugenio di Savoia, entrò in territorio italiano. Alla fine di aprile del 1702, gli agenti del cardinale Annibale Albani destinati in Catalogna informarono Roma che Filippo V stava preparando una flotta da guerra per raggiungere Napoli, dove alcuni mesi prima l'Entità aveva scoperto una cospirazione per assassinare il viceré.La «cospirazione dei nobili», nome con cui fu conosciuta all'epoca, era stata organizzata da un gruppo di aristocratici, in maggioranza napoletani, e prevedeva un'insurrezione contro la Spagna e Filippo V a favore dell'arciduca Carlo, con la speranza che questi concedesse loro l'indipendenza del regno. Il pontefice ordinò al capo delle sue spie di passare l'informazione agli spagnoli. Clemente XI preferiva avere vicino ai propri territori una colonia spagnola piuttosto che una repubblica napoletana indipendente. Pochi giorni prima dell'attentato, il capo dei ribelli fu arrestato dagli agenti spagnoli, informati dagli uomini dell'Entità. In soli tre giorni, diciannove persone coinvolte nella cospirazione furono
arrestate, e molte di loro morirono sulla forca.Il 15 maggio 1702, l'Inghilterra, le Province Unite e l'Austria dichiararono guerra alla Francia, dando inizio alla Guerra di successione spagnola. Da quel momento, Annibale Albani e le sue spie lavorarono a beneficio esclusivo della Santa Sede, che si mantenne sempre in bilico sul pericoloso filo della neutralità. Un atteggiamento che non fu privo di conseguenze. Infatti, la neutralità del papa provocò, anni dopo, la rottura delle relazioni tra Madrid e Roma. L'Entità riuscì a reclutare il marchese di Louville, tutore di Filippo V, che divenne la migliore spia del papa alla corte di Spagna. Diversi storici hanno affermato che il marchese fosse un agente doppiogiochista che lavorava per i servizi segreti di Luigi XIV e per l'Entità di Clemente XI. Si è discusso molto sull'argomento, poiché le lettere firmate dal marchese trovate negli archivi vaticani e dirette al segretario di Stato Paolucci e al cardinale Annibale Albani smettono di sembrare innocenti missive per diventare importanti e precisi rapporti sui movimenti di Filippo V e della sua corte. Louville informò Annibale Albani di un grave incidente accaduto a corte: il tradimento di Juan Tomàs Enriquez de Cabrerà, ammiraglio di Castiglia, duca di Rioseco e conte di Melgar. L'ammiraglio aveva celato per lungo tempo il proprio scontento per gli intrighi orditi dai cortigiani e dai nobili francesi di Filippo V a danno dei nobili spagnoli, che avevano servito con lealtà Carlo II e la casa d'Austria. Forse per allontanare da Madrid lui e le sue lamentele, Juan Tomàs Enriquez de Cabrerà fu nominato ambasciatore in Francia, e così lasciò la Spagna con un seguito di trecento persone e centocinquanta carrozze. Nel settembre del 1702, il grande ammiraglio ordinò alla carovana di deviare e dirigersi verso il Portogallo, dove si esiliò, mettendosi al servizio dell'arciduca Carlo. Nella fuga, lo accompagnò il suo braccio destro, Diego Hurtado de Mendoza, conte della Corzana ed ex viceré di Catalogna. In una dura lettera a Clemente XI, Filippo V «accusava» diplomaticamente il cardinale Paolucci, il cardinale Albani e l'Entità di aver organizzato la diserzione di Enriquez de Cabrerà e di Hurtado de Mendoza. Documenti dell'epoca indicano che l'itinerario della fuga in Portogallo potrebbe essere stato disegnato da alcuni agenti dello spionaggio papale a Lisbona e a Madrid, pur non direttamente implicati nella diserzione dei due nobili, e che il cardinale Paolucci e il capo dell'Entità Albani ne fossero a conoscenza. La guerra si stava allargando e anche il Portogallo si era imito alla causa dell'arciduca Carlo d'Asburgo, alleandosi con l'Inghilterra. Nel settembre del 1703, raggiunta la maggiore età, il secondo figlio dell'imperatore Leopoldo fu
incoronato re di Spagna a Vienna con il nome di Carlo m. Il 7 marzo dell'anno successivo, Carlo entrò in Portogallo accompagnato da una flotta inglese, al comando dell'ammiraglio Sir George Rooke, e da trecento soldati tedeschi, quattromila inglesi e duemila olandesi. Per attutire le conseguenze politiche della diserzione di Enriquez de Cabrerà e di Hurtado de Mendoza e quelle del presunto aiuto offerto dall'Entità durante la fuga, Clemente XI ordinò al cardinale Albani di trasmettere a Madrid i rapporti, ricevuti da Londra dall'agente Tebaldo Fieschi, sulla spedizione che scortava l'arciduca Carlo. Ricevute le informazioni, Filippo V attraversò la frontiera e dichiarò guerra al Portogallo. Il conflitto durò fino al 1711, quando l'imperatore Giuseppe I, fratello dell'arciduca Carlo, morì improvvisamente. Carlo allora rinunciò al trono di Spagna e accettò il titolo di imperatore del Sacro romano impero. Il 15 agosto, Annibale Albani, responsabile dello spionaggio papale, per ordine del pontefice fu nominato rappresentante della Santa Sede nella dieta di Francoforte, in occasione dell'elezione del nuovo imperatore. Nel settembre del 1711, l'arciduca fu incoronato a Francoforte con il nome di Carlo VI. Nei successivi dieci anni, il cardinale Albani guidò le sorti dello spionaggio pontificio con maggiore o minore fortuna, fino al 19 marzo 1721, giorno in cui Clemente XI morì. Ventuno giorni dopo, il 31 marzo, i membri del sacro collegio cardinalizio si chiusero in conclave per eleggere il nuovo successore di Pietro. L'8 maggio 1721, il cardinale Michelangelo Conti fu eletto papa con il nome di Innocenzo XIII. Durante i tre anni del suo pontificato, l'attività dell'Entità fu quasi inesistente, anche perché il pontefice non nominò mai un nuovo responsabile. La stessa cosa accadde sotto il pontificato successivo, quello di Benedetto XIII*. Dopo la morte di Innocenzo XIII, avvenuta il 7 marzo 1724, il conclave si riunì ancora una volta. Il 29 maggio 1724, i cardinali elessero Pier Francesco Orsini, con il nome di Benedetto XIII. Il nuovo papa chiamò a far parte della sua corte Niccolò Paolo Andrea Coscia, suo coadiutore a Benevento. Niccolò Coscia divenne segretario particolare del papa e approfittò della stretta relazione con il Sommo Pontefice per esercitare un potere corrotto senza pari. Si impossessò indebitamente di enormi somme di denaro, mettendo a rischio le finanze del Vaticano; si servì della sua vicinanza al papa per trarne vantaggi personali; cercò di manipolare le relazioni estere dello Stato pontificio a proprio beneficio; e, soprattutto, utilizzò le risorse dell'Entità per favorire re e principi d'Europa attraverso la politica ecclesiastica. Coscia, nominato cardinale l'11 giugno 1725 per volere di Benedetto XIII, cercò di ottenere il controllo dell'Entità, di avere accesso ai documenti segreti
e di penetrare nella Segreteria di Stato. Una parte del collegio cardinalizio, capeggiata dal cardinale Paolucci, suggerì a Benedetto XIII di controllare le attività del suo «favorito». Il papa disse allora al cardinale Paolucci di non intromettersi negli affari del cardinale Coscia. Paolucci obbedì, ma chiese in segreto ad Albani di far sorvegliare il prelato corrotto da agenti dell'Entità. Con il passare del tempo la situazione diventò tesa. Un rapporto segreto dell'Entità informava che il cardinale Niccolò Coscia riceveva denaro da diversi monarchi europei, ma Albani sapeva che prima di lanciare un'accusa formale contro il favorito del papa, aveva bisogno di prove inconfutabili del coinvolgimento di Coscia nei casi di corruzione. Albani ordinò allora l'operazione «Iscariota», così denominata in onore dell'apostolo che tradì Gesù. L'operazione consisteva nell'introdurre all'interno della segreteria diretta da Coscia dei «cavalli di troia», ovvero alcuni agenti dell'Entità infiltrati. Al frate domenicano Enrico Fasano, un agente dell'Entità, fu affidato il compito di raccogliere informazioni sull'esercito personale e clandestino che il cardinale pagava con denaro della Santa Sede. Un pomeriggio, il cadavere del sacerdote Enrico Fasano fu trovato nei pressi di un ponte sul Tevere. Il sacerdote era stato torturato e alcune parti del corpo gli erano state amputate. La seconda vittima del segretario del papa fu il sacerdote Lorenzo Valdo, un francescano che lavorava da tempo nella segreteria pontificia. Valdo era stato un agente dello spionaggio di minore rilievo, ma il posto che occupava, così vicino a Coscia, lo rendeva prezioso e ne faceva un «cavallo di troia» perfetto. La sera del 9 giugno 1726, Valdo cadde vittima di un agguato. Con il pretesto di consegnare un'importante lettera del papa, fu mandato in una casa dove ad attenderlo c'erano tre uomini di Coscia. Valdo fu ucciso e il cadavere del religioso fu poi gettato nelle fredde acque del Tevere. Il 12 giugno 1726, tre giorni dopo l'assassinio di Lorenzo Valdo, moriva misteriosamente, nel suo ufficio del Quirinale, Fabrizio Paolucci, lasciando il suo amico e cardinale Annibale Albani da solo ad affrontare le cospirazioni del potente Niccolò Coscia. Nel 1727, fu scoperto dall'Entità uno dei misfatti del favorito del papa: la manipolazione delle relazioni tra la Chiesa e Vittorio Amedeo? di Savoia, re di Sardegna, che ebbe come conseguenza la firma di un concordato poco vantaggioso per lo Stato pontificio. In cambio del favore ricevuto, Vittorio Amedeo di Savoia aveva donato al cardinale corrotto numerosi terreni in Piemonte.Coscia provocò anche conflitti con la comunità ebraica di Roma. Alcuni scagnozzi del cardinale Coscia si aggiravano per le strade della città dicendo che, se un cattolico fosse riuscito a convertire un eretico, si sarebbe guadagnato il paradiso. Da allora,
molti bambini ebrei furono portati via dalle proprie case e battezzati nelle fontane? con l'acqua piovana. Si suppone che Benedetto non fosse a conoscenza di questi fatti. Agli inizi del 1730, la salute del papa, ottantaduenne, peggiorò. La febbre lo costrinse a letto e il 21 febbraio 1730, il pontefice morì. Il conclave che si riunì alla sua morte durò cinque lunghi mesi, dal 6 marzo al 12 luglio, giorno in cui il cardinale Lorenzo Corsini fu finalmente eletto papa con il nome di Clemente XII. Il 19 novembre, indossò la tiara papale a San Giovanni in Laterano. Per prima cosa, il 24 luglio 1730, Clemente XII chiese al cardinale Albani le dimissioni da responsabile dello spionaggio pontificio, rimproverandogli che, dalla sua posizione al comando dell'Entità, non aveva saputo difendere gli interessi della Chiesa. Il papa qualificò anche come inefficace l'operazione Iscariota, in cui avevano perso la vita due agenti, il domenicano Enrico Fasano e il francescano Lorenzo Valdo. Subito dopo la morte di Benedetto, Coscia e i suoi uomini avevano cercato di abbandonare Roma, ma la Guardia svizzera aveva proibito al cardinale Coscia di uscire dalla città, dovendo partecipare al conclave convocato per eleggere il nuovo pontefice. La prima misura di Clemente XII contro Coscia fu la creazione di quattro tribunali ecclesiastici indipendenti, incaricati di giudicare il cardinale e il suo operato. Per non essere arrestato, una notte, il religioso fuggì e si rifugiò a Napoli, ma fu costretto a ritornare nello Stato pontificio dopo aver ricevuto una dura lettera scritta personalmente dal papa. Insieme a Niccolò Coscia, furono processati anche suo fratello Filippo, vescovo di Targa, e il cardinale Francesco Fini. Sembra che Fini, impiegato presso la Segreteria di Stato, «uomo di fiducia» del defunto cardinale Fabrizio Paolucci e corriere «segreto» tra Paolucci e Albani, fosse la persona incaricata di rivelare a Coscia le mosse degli agenti dell'Entità. Il processo contro Coscia e i suoi complici si concluse il 22 maggio 1733 e la condanna, ratificata il 25 maggio dal Sommo Pontefice, fu approvata all'unanimità dei cardinali che formavano il tribunale. Tutti i beni di Coscia furono confiscati e destinati ai poveri. Il cardinale corrotto avrebbe poi dovuto pagare alle casse della Chiesa e di Roma la somma di centomila scudi d'oro a titolo di risarcimento. Lo si condannò quindi anche alla perdita di tutti gli onori e le cariche ecclesiastiche, nonché del diritto di voto nel conclave. Infine, avrebbe dovuto scontare dieci anni di prigione a Castel Sant'Angelo. Il fratello di Coscia, Filippo, fu condannato a pagare ventimila scudi d'oro come risarcimento, e anche lui alla perdita
degli onori e le cariche, e a scontare due anni di reclusione nella fortezza romana. Il traditore, il cardinale Francesco Fini, fu condannato a pagare cinquantamila scudi d'oro come risarcimento, alla perdita di tutti gli onori e le cariche ecclesiastiche, e a scontare cinque anni di carcere. Scontata la pena, Clemente XII affrancò Niccolò Coscia dalla censura e gli restituì il diritto di voto nel conclave. Reintegrato nella dignità cardinalizia, Coscia si ritirò a Napoli, dove il 14 settembre 1755 morì, in totale solitudine. Dopo la destituzione, il 24 luglio 1730, il cardinale Albani fu nominato da Clemente XII vescovo della Sabina, dove rimase quasi fino alla morte, avvenuta il 21 ottobre 1751, all'età di settantanove anni. Annibale Albani portò con sé i segreti di cui era venuto a conoscenza nei quasi trent'anni trascorsi al comando dell'Entità. Partecipò al conclave del 1740, in cui fu eletto Benedetto XIV e, il 9 settembre 1743, fu nominato vicedecano del sacro collegio cardinalizio. Dopo la sua morte, la salma rimase nella basilica dei Santi XII Apostoli fino a quando Benedetto XIV ordinò che fosse esumata e traslata nella cappella di San Clemente martire, nella basilica vaticana.
Capitolo ottavo:Tebaldo Fieschi L'esperto «cavallo di troia» Il termine «cavallo di troia» è ancora oggi usato dallo spionaggio papale per definire quegli agenti dell'Entità che riescono a penetrare in organizzazioni o paesi che attentano agli interessi dello Stato vaticano o del papa. I primi erano stati utilizzati dal cardinale Albani nel 1726, durante l'operazione Iscariota contro il cardinale Niccolò Coscia. Ma nella storia dello spionaggio pontificio il migliore fu una spia senese, Tebaldo Fieschi. Nel febbraio del 1702, un agente dell'Entità a Londra comunicò ad Albani che gli inglesi stavano preparando un'imponente operazione navale contro la Spagna, probabilmente a Cadice o a Vigo. L'Entità informò allora il papa dell'incidente accaduto a Vigo: una flotta di navi inglesi e olandesi aveva abbordato a sorpresa una flotta spagnola che trasportava un prezioso carico d'argento, proveniente dalle Americhe. I tesori erano stati saccheggiati e le navi affondate. Ma chi era la spia di Clemente XI che diede l'allarme? Si trattava di Tebaldo Fieschi, un giovane di soli diciotto anni, commerciante di seta, elegante, bello, colto e
ricco, nato a Siena nel 1684, che era stato reclutato dallo spionaggio papale diretto dal cardinale Paluzzo Paluzzi. Si diceva anche che Fieschi fosse diventato uno dei confidenti più intimi del re d'Inghilterra, ma si trattava solo di voci. Tra i clienti più importanti del commerciante di seta c'erano i più nobili e i più ricchi membri della corte di Guglielmo d'Orange, ma soprattutto le loro mogli: la principale fonte di informazioni della spia dell'Entità. Una di queste «clienti» era la moglie dell'ammiraglio Sir George Rooke, che divenne anche l'amante di Fieschi. La relazione con Lady Rooke permise a Fieschi di avere accesso agli importanti documenti custoditi in casa dell'ammiraglio. Dopo un'appassionata notte d'amore, infatti, Fieschi entrò in possesso delle carte in cui erano descritti i piani inglesi per l'assedio di Cadice. La spia informò subito il cardinale Paolucci, segretario di Stato di Clemente XI, ma, inspiegabilmente, Roma non avvisò Madrid dell'attacco, forse perché avrebbe implicato la fine della neutralità tanto difesa dal papa. A luglio, una flotta anglo-olandese comandata da Sir George Rooke assediò Cadice; tuttavia, la resistenza opposta dalla città costrinse le truppe di Rooke a ritirarsi dopo un mese. Poco tempo dopo, giunse la notizia che una grande flotta spagnola carica di argento, scortata da galeoni francesi al comando dell'ammiraglio Chateaurenaud, sarebbe presto attraccata al porto di Vigo. Immediatamente, una flotta inglese agli ordini dell'ammiraglio Sir Cloudesley Shoveil fu mandata a far parte dell'avanguardia d'attacco, seguita dalle navi di Sir George Rooke. Tebaldo Fieschi comunicò allora all'Entità che era salpata una grande flotta al comando di Rooke, il cui obiettivo era raggiungere la «flotta d'argento» lungo la rotta e impossessarsi del prezioso carico. Fieschi, però, ignorava la posizione in cui si trovavano le navi inglesi. Anche questa volta, il senese aveva ottenuto le informazioni durante uno dei suoi incontri amorosi con Lady Elizabeth Rooke. L'ammiraglio Rooke non scoprì mai come Roma fosse riuscita ad avere una copia dei piani di attacco. Ricevuto dal cardinale segretario di Stato Paolucci il rapporto di Fieschi, Clemente XI ordinò di passare l'informazione a Madrid, attraverso gli agenti dell'Entità che si trovavano presso la corte di Filippo V. Le spie del papa consegnarono il rapporto di Fieschi al cardinale Luis Manuel Fernàndez de Portocarrero, primo ministro di Filippo V. Il potente cardinale Portocarrero (1635-1709) aveva convinto Carlo in a nominare Filippo d'Angiò erede alla corona, dopo la morte del principale candidato, il piccolo Giuseppe Ferdinando di Baviera. Portocarrero assunse la reggenza insieme alla regina vedova, Maria Anna del PalatinatoNeoburg. Nel 1701, il duca d'Angiò fu proclamato re con il nome di Filippo V, e nominò
Portocarrero primo ministro. Il 23 settembre 1702, ebbe luogo la prima battaglia tra la flotta franco-spagnola e le navi inglesi, durante la quale molti galeoni della «flotta d'argento» colarono a picco con il proprio carico. Altre imbarcazioni, invece, furono assaltate dai marinai al comando di Rooke quando si trovavano già attraccate nel porto. La flotta francese di scorta fu annichilita. In totale furono incendiati e affondati tre galeoni e tredici navi, mentre sei galeoni furono sequestrati e incorporati alla flotta inglese. Tuttavia, quando gli inglesi entrarono nelle stive, non trovarono un solo grammo d'argento, ma solo cacao, spezie e pelli. Sembra che gli spagnoli, una volta ricevuta l'informazione dall'Entità, avessero sbarcato in gran segreto tutto il carico d'argento per trasferirlo in un luogo sicuro, l'alcàzar di Segovia. Nel 1703, il cardinale Annibale Albani, responsabile dello spionaggio papale, inviò Tebaldo Fieschi in Spagna, con la stessa copertura che aveva in Inghilterra, ovvero sotto le spoglie di un colto e ricco commerciante di seta. Il bel senese sapeva come conquistare unadonna e sfruttare le sue relazioni a beneficio della Santa Sede e presto entrò nelle grazie della principessa Orsini, una delle più fedeli consigliere della regina Maria Luisa. Dalla sua posizione privilegiata, Tebaldo Fieschi entrò in contatto con Jean Orry, l'inviato di Luigi XIV di Francia, che aveva il compito di riformare i malridotti eserciti spagnoli. Da quel momento, arrivarono a Roma preziosi e precisi rapporti, ricchi di informazioni militari.Il 15 gennaio 1709, in seguito alla pressione militare degli austriaci nell'Italia settentrionale, Clemente XI riconobbe l'arciduca Carlo come re cattolico e, successivamente, inviò un nunzio a Barcellona, dove Carlo aveva stabilito la propria corte. Da quel momento, in Spagna ci furono due re e due nunzi, uno in Castiglia e uno in Catalogna. La reazione di Filippo V non si fece aspettare: richiamò l'ambasciatore a Roma, espulse il nunzio da Madrid e, il 22 aprile, decretò la rottura delle relazioni con il papa, un'interruzione che durò fino al 1717.La Guerra di successione era a un punto morto, senza vincitori né vinti. La fame, conseguenza di un clima inclemente, stava mettendo in ginocchio la Francia e la Spagna, mentre i soldati, che non ricevevano la paga da inviare alle famiglie per comprare da mangiare, cominciavano a disertare. Luigi XIV fu costretto a ritirare le sue truppe dalla Spagna e questo fu il primo passo per il raggiungimento della pace. Nell'aprile del 1711, moriva l'imperatore Giuseppe d'Austria. Non avendo eredi, gli successe il fratello, l'arciduca Carlo. La spia Tebaldo Fieschi informò Roma che, il 27 settembre 1711, l'arciduca Carlo, oramai diventato imperatore del Sacro romano impero, aveva lasciato Barcellona. In
ottobre, gli inglesi iniziarono le negoziazioni di pace con la Francia, nonostante le proteste di alcuni generali di Filippo V, che preferivano parlare di resa e non di pace. Tra questi vi era il famoso duca di Vendôme, Luigi Giuseppe di Borbone. Nel gennaio del 1712, erano state avviate a Utrecht le trattative di pace tra la Francia e le potenze marittime, suscitando le proteste di Vendôme, il quale riteneva che le negoziazioni non dovessero svolgersi tra pari, ma tra vincitori e vinti. Luigi XIV e Filippo V sapevano che, se avessero seguito quella linea, la guerra si sarebbe protratta per almeno altri cinque anni, con costi maggiori per le già vuote casse della corona, e un alto prezzo in vite umane. Fieschi comunicò allora al suo capo a Roma, il cardinale Albani, che Vendôme premeva affinché la pace non arrivasse mai, costringendo l'Europa a una guerra lunga e duratura. «Roma non riuscirà a riavvicinarsi alla Spagna se il conflitto continua, e Vendôme sta diventando un grosso ostacolo» scrisse Tebaldo Fieschi al potente capo dell'Entità. Il 10 giugno, Luigi Giuseppe di Borbone, duca di Vendôme, moriva misteriosamente a Vinaroz, vittima di un colpo apoplettico durante un pranzo.Sembra che per tutto il giorno il duca di Vendôme avesse conversato fittamente con un messaggero inviato dalla corte di Madrid, un colto italiano che aveva vissuto in Francia per diversi anni. Il corriere aveva fatto i nomi di numerosi amici e contatti del duca Luigi Giuseppe di Borbone. Per ore, i due mangiarono e bevvero alla salute di Filippo V di Spagna, per poi lasciarsi, perché il messaggero doveva rientrare a Madrid il prima possibile. Dopo essersi congedato dall'elegante e colto italiano, il duca di Vendôme sedette al tavolo dei suoi generali. I testimoni affermarono che il maresciallo era di ottimo umore e godeva di buona salute. Qualche minuto dopo aver assaggiato carne che gli era stata servita, il duca si alzò da tavola a causa dei forti dolori al ventre. Cominciò a vomitare, poi svenne e fu trasportato nella sua tenda. Dopo una breve agonia, morì. Qualcuno disse che forse era stato avvelenato da quel misterioso italiano. Tebaldo Fieschi aveva eseguito i precisi ordini del cardinale Annibale Albani. L'11 aprile 1713, fu firmata la pace di Utrecht. La Catalogna rimase in guerra contro Filippo V fino al 12 settembre 1714, giorno della resa di Barcellona. Quel pomeriggio, Tebaldo Fieschi inviò un rapporto segreto a Roma: «Un esercito franco-spagnolo formato da trentacinquemila soldati di fanteria e cinquemila di cavalleria si è battuto contro sedicimila soldati e cittadini. Berwick, al comando degli eserciti di Filippo V, ha messo a ferro e fuoco la città». Terminata la guerra e riconosciuto Filippo V re di Spagna, Roma aveva bisogno di riavvicinarsi alla corte
di Madrid. Clemente XI convocò il suo segretario di Stato Paolucci e il responsabile dell'Entità, Annibale Albani. Entrambi raccomandarono al pontefice di servirsi di Elisabetta Farnese, la seconda moglie del sovrano. Sembra che la spia Tebaldo Fieschi, fornitore di sete preziose, a un certo punto avesse lasciato intendere a Elisabetta Farnese che Madrid aveva bisogno di riconciliarsi con Roma. Disse Fieschi alla regina: «Clemente XI potrebbe dare prestigio politico e religioso al riconoscimento di Filippo V come re della Spagna cattolica». L'ormai trentacinquenne Tebaldo Fieschi riuscì a far parte del ristretto circolo di italiani di cui si era circondata la regina, permettendo all'Entità di occupare una posizione privilegiata. Luigi XIV morì il primo settembre 1715, dopo sessantacinque anni di regno. Sei anni dopo, il 19 marzo del 1721, morì papa Clemente XI. In Spagna, in seguito all'abdicazione di Filippo V in favore del figlio Luigi, il 9 febbraio 1724, il principe delle Asturie fu proclamato re di Spagna, all'età di diciassette anni. Il breve regno di Luigi fu contraddistinto dalla condotta indecorosa della sua giovanissima moglie, Luisa Elisabetta d'Orléans, di soli quattordici anni. Il marchese di Santa Cruz scrisse a José de Grimaldo: «[...] Molte volte la regina viene vista con due italiani in atteggiamenti indecorosi». Uno dei due uomini era un commerciante di seta senese di quarant'anni, di nome Tebaldo Fieschi, la spia dell'Entità. Attraverso la regina Luisa Elisabetta, Fieschi otteneva informazioni sul manipolatore José de Grimaldo; in cambio, la spia iniziava la giovane regina all'arte del piacere, un sistema che gli aveva fruttato ottimi risultati nella sua lunga carriera, prima in Inghilterra e poi in Spagna. Come sempre, la spia si serviva delle donne per avere ciò che più desiderava: preziose informazioni da inviare al suo potente capo a Roma, il cardinale Annibale Albani. Stanco della condotta della moglie, Luigi fece rinchiudere Luisa Elisabetta nell'alcàzar per sette giorni. Quando la regina fu rimessa in libertà, Tebaldo Fieschi fu espulso dalla Spagna e ritornò a Roma. Nel 1730, anno in cui Albani fu destituito per volere di Clemente XII, Fieschi sparì misteriosamente. Alcuni storici affermano che la spia senese si sia ritirata a Firenze, dove morì, vittima delle febbri, nel 1732, all'età di quarantotto anni. Altre fonti sostengono che Fieschi sia morto durante una rissa tra ubriachi, in un buio vicolo di Firenze, nel 1740, a cinquantasei anni. Vero o falso che sia, sta di fatto che, ancora oggi, a distanza di tre secoli, sia la sua vita che la sua morte sono segnate più dalla leggenda che dalla realtà. Tebaldo Fieschi divenne uno dei migliori cavalli di troia di tutta la storia dell'Entità. Durante i
ventotto anni in cui operò come spia agli ordini di Clemente XI, Innocenzo XIII, Benedetto XIII e Clemente XII, tra il 1702 e il 1730, mai nessuno scoprì la sua vera identità.
Capitolo nono:Louis Siffrein Joseph de Salamon Le orecchie di Pio VI. Il 15 febbraio 1775, Giovanni Angelo Braschi fu eletto papa con il nome di Pio VI, in onore di Pio V, inquisitore e fondatore dell'Entità. Nei primi anni, la politica di Pio VI fu finalizzata a riallacciare relazioni con quegli Stati cattolici che non si erano mostrati troppo amichevoli con i papi che lo avevano preceduto. Ma l'ultimo periodo del lungo pontificato fu il più duro e doloroso, in coincidenza con la Rivoluzione francese e le sue conseguenze sulla Chiesa cattolica. Il 18 luglio 1790, Pio VI nominò responsabile dell'Entità il cardinale Giovanni Battista Caprara. Caprara era nato il 29 maggio 1733, a Bologna, in una nobile famiglia: il padre era il conte Francesco Montecuccoli e la madre la contessa Maria Vittoria Caprara. Dopo un breve periodo trascorso nel seminario della città natale, nel 1755 si laureò in diritto canonico presso l'università La Sapienza di Roma. Due anni dopo, fu nominato vicelegato a Ravenna e relatore della Santa Chiesa nella Sacra Consulta. Dopo il suo ingresso nella Segreteria di Stato, nel 1766, monsignor Caprara fu nominato da Clemente XIII assistente al trono pontificio. Negli anni che seguirono, lasciò Roma per ricoprire la carica di nunzio a Colonia, poi in Svizzera, Austria, Ungheria e Boemia. Fu in questo periodo che Giovanni Battista Caprara realizzò diverse operazioni di spionaggio per la Santa Sede, prevalentemente presso la corte dell'imperatore Giuseppe II. Nel Concistoro del 18 giugno 1792, come ricompensa per i servizi resi alla Chiesa, al papa e all'Entità, gli fu concesso il cappello cardinalizio. Il compito del nuovo responsabile dello spionaggio papale era riuscire a infiltrare il maggior numero possibile di agenti in Francia, un paese sempre più in agitazione a causa della rivoluzione. All'inizio della rivoluzione, Pio VI si mantenne neutrale, nonostante le avvertenze del cardinale Giovanni Battista Caprara, i cui agenti cominciavano a individuare in Francia movimenti anticlericali. Il 12 luglio 1790, l'Assemblea costituente promulgò la Costituzione civile del clero e l'obbligo per tutti i religiosi di giurare fedeltà alla nuova legge. Il 10 marzo 1791, Pio VI emise il breve Quod aliquantum, in cui condannava
quanto decretato dall'Assemblea in materia religiosa. Il 31 maggio 1791, in risposta al breve papale, il governo francese espulse il nunzio apostolico, monsignor Antonio Dugnani, decretando la rottura definitiva delle relazioni tra Parigi e Roma. Le persecuzioni contro i religiosi e l'esecuzione sulla ghigliottina di Luigi XVI allargarono l'abisso tra i due governi. Il Sommo Pontefice ordinò a Dugnani, prima che rientrasse a Roma, di nominare «nunzio nell'ombra» Louis Siffrein Joseph, abate de Salamon, per dirigere una rete di spie nella Parigi rivoluzionaria. Giovanni Battista Caprara aveva conosciuto il giovane Louis Siffrein Joseph nel settembre del 1779, quando era nunzio in Svizzera. In quell'occasione, aveva avuto modo di parlare a lungo con il curioso monaco, che faceva interessanti analisi politiche, riflettendo su cosa sarebbe potuto accadere in Francia se il re non avesse ceduto parte del suo potere a un'assemblea nazionale. Quasi quindici anni dopo, allo scoppio della Rivoluzione francese, Caprara, che si era già trasferito a Roma, si ricordò di quelle analisi. Louis Siffrein Joseph, che tutti conoscevano come l'abate de Salamon, era nato il 22 ottobre 1759, a Carpentras, in Francia. Terminati gli studi di legge e teologia ad Avignone, era stato nominato auditore della Sacra rota. Dopo aver fatto chiamare a Roma l'abate de Salamon, il cardinale Caprara gli affidò il pericoloso compito di organizzare in tutto il territorio francese una rete di spionaggio che fosse la più ampia possibile. I suoi agenti avrebbero dovuto essere soprattutto religiosi e sostenitori devoti del papa di Roma, disposti a morire in difesa della fede in un paese sempre più anticattolico e con leggi sempre più anticlericali, Con questa nuova missione, Louis Siffrein Joseph de Salamon fu inviato al Parlamento di Parigi, dove fu coinvolto nel famoso «affare della collana» della regina Maria Antonietta. Si può affermare che l'abate de Salamon fu uno dei maggiori responsabili della rottura tra il popolo e Luigi XVI. Salamon aveva ricevuto dal papa l'ordine di convincere il re a usare il diritto di veto per opporsi alle nuove riforme religiose proposte dall'Assemblea. Gli agenti dell'Entità avevano informato l'abate de Salamon che era prevista l'approvazione di diverse riforme, tra cui quella del clero francese, che aboliva l'obbligo di obbedienza al pontefice di Roma. Le spie di Pio VI chiesero al re di porre il veto alla legge, servendosi del suo diritto costituzionale, cosa che Luigi XVI fece. Una delle prime missioni dell'abate de Salamon fu convincere il re a fuggire e a rifugiarsi presso le sue truppe stanziate nel nord del paese, per poi riconquistare la corona e tutti i suoi diritti. Il cardinale Caprara sapeva che per la Chiesa quella sarebbe stata l'unica opportunità per non perdere tutto in Francia. Se Luigi XVI avesse
trionfato e riconquistato la corona, la Chiesa avrebbe riacquistato i propri diritti. Le spie della rete, guidate dall'abate de Salamon e dai realisti, riuscirono a depistare le spie rivoluzionarie e mettere la famiglia reale su una carrozza diretta alla frontiera. Ma poco dopo, precisamente il 21 luglio 1791, la diligenza fu fermata e il re fu costretto a rientrare a Parigi. Nell'agosto del 1792, l'assalto alle Tuileries diede inizio al «regime del Terrore». La ghigliottina fu eretta il 22 agosto e, il 21 gennaio 1793, giorno dell'esecuzione di Luigi XVI, venne collocata definitivamente in place de la Revolution. Dopo l'occupazione di Avignone e del contado Venassino da parte dell'esercito rivoluzionario francese, in risposta alle proteste di Pio VI, era ormai evidente che la diplomazia e la politica dovevano cedere il passo alle spie dell'Entità. Da circa un anno, l'abate de Salamon aveva creato una delle più efficaci reti di informazione e fuga dell'intera Francia. L'Assemblea nazionale aveva deciso di confiscare tutte le proprietà della nobiltà e della Chiesa, di abolire gli ordini monastici e di istituire una specie di clero civile affiliato al nuovo regime. Sebbene non avesse un nunzio su cui fare affidamento presso il governo rivoluzionario, de Salamon si trasformò negli occhi e nelle orecchie di Pio VI.Dalla propria umile dimora, l'abate informava costantemente l'Entità a Roma delle voci sulle nuove misure adottate dal governo rivoluzionario francese contro il clero, organizzava fughe di nobili e religiosi verso paesi in cui sarebbero stati al sicuro, celebrava messe clandestine nelle cantine e negli scantinati abbandonati.Ma l'abate de Salamon fu anche coinvolto in una complessa missione, conosciuta come operazione «Erede». Questa storia fa parte della leggenda dell'Entità in Francia, poiché non esistono documenti degni di fede su quanto accaduto. Il 3 agosto 1793, il piccolo Carlo Luigi Capeto, o Luigi XVII, di sette anni, fu separato dalla madre, la regina Maria Antonietta, decapitata poche settimane dopo, il 16 settembre. Il bambino fu rinchiuso in una angusta e lugubre cella, protetto da due guardiani, il cittadino calzolaio Simon e sua moglie. Gli agenti del papa all'interno della prigione informarono l'abate de Salamon che il piccolo era arrivato il 13 agosto del 1792 e che la sorveglianza era piuttosto scarsa. Louis Siffrein Joseph de Salamon si adoperò per salvare il bambino.Sulla vicenda di Luigi XVII si diffusero due versioni. La prima affermava che il piccolo Luigi fosse morto in prigione all'età di dieci anni, l'8 giugno 1793. La seconda, la cui fonte erano probabilmente spie della rete dell'abate de Salamon, sosteneva che il bambino fosse stato avvelenato. La verità è che Luigi XVII morì per la permanenza forzata e prolungata, in condizioni
insalubri, in una cella priva anche dello spazio sufficiente per muoversi. Già nel mese di maggio, un medico aveva riscontrato nel bambino un serio deperimento fisico e mentale. Nel pomeriggio dell'8 giugno, Luigi XVII o, per alcuni, il cittadino Carlo Luigi Capeto, morì. Il giorno dopo, il cadavere fu sepolto nel cimitero di Sainte Marguerite. Per alcuni giorni, due soldati rimasero di guardia per evitare che qualcuno si impossessasse dei resti dell'ultimo re di Francia. Si diceva che il bambino morto in realtà non fosse Luigi XVII ma un sosia, e che il vero re si trovasse sano e salvo presso la corte di Carlo IV di Spagna, dove era arrivato grazie a un'operazione dell'Entità, diretta dall'abate de Salamon.Queste voci, però, sono state smentite dalle lettere, ritrovate presso l'archivio nazionale francese, in cui Carlo IV chiedeva alle autorità rivoluzionarie la consegna dei due figli di Luigi XVI e Maria Antonietta. Nel 1801, si diffuse una terza versione, più romantica, riportata nell'opera scritta alla fine del XIX secolo dal visconte di Richemont e intitolata Correspondance Secrète de l'Abbé de Salamon. A quanto pare, un membro della rete dell'abate de Salamon di nome Emile Fronzac aveva portato via da Parigi il Delfino nascosto in un cavallo di legno, lasciando nella cella un bambino dell'orfanotrofio di Parigi. Per poter attraversare il palazzo e i giardini, l'agente dell'Entità aveva corrotto delle persone con denaro fornito dall'abate de Salamon. La carrozza in cui i due fuggiaschi viaggiavano, venne fermata da un gruppo di gendarmi rivoluzionari. Prima di arrendersi, la spia papale fu soccorsa da un gruppo di soldati vandeani, che uccisero i rivoluzionari e accolsero il loro legittimo re, Luigi XVII di Francia.Secondo il visconte di Richemont, che raccolse le avventure dell'abate de Salamon, dopo la morte dei rivoluzionari, Émile Fronzac riuscì a imbarcare Luigi XVII su una nave diretta in America, che, però, venne intercettata da una fregata francese. Scopertane la vera identità, il bambino fu rimandato a Parigi, dove morì nella sua cella, l'8 giugno 1795. Il tentativo di fuga di Luigi XVI e della sua famiglia, con l'aiuto degli agenti di Pio VI, e i discorsi del Consiglio rivoluzionario, che equiparavano i religiosi ai nobili, provocarono, nel settembre del 1792, un'esplosione di violenza. In due giorni furono assassinati più di duecento sacerdoti. Migliaia di religiosi furono obbligati a fuggire, e quelli che decisero di rimanere in Francia furono costretti a vivere in clandestinità. Dei religiosi e delle spie papali che rimasero in Francia, l'abate de Salamon fu uno dei più importanti. Senza fermarsi, notte e giorno, percorreva le strade, le piazze, i mercati e le taverne
di Parigi raccogliendo informazioni da inviare a Roma. All'abate si addiceva perfettamente il nome con cui era conosciuto presso la Santa Sede: «orecchie di Pio», con una chiara allusione a papa Pio VI. L'abate de Salamon aveva numerosi contatti con vescovi e sacerdoti di provincia,e raccoglieva ogni giornale, pamphlet o volantino che potesse aggiungere maggiori dettagli ai rapporti che inviava da Parigi. Per diversi anni, i suoi resoconti furono ricevuti dal capo dell'Entità, il cardinale Giovanni Battista Caprara, dai segretari di Stato di Pio VI, il cardinale Ignazio Gaetano Boncompagni (1785-1789), il cardinale Francesco Saverio de Zelada (1789-1796), il cardinale Ignazio Busca (1796-1797), il cardinale Giuseppe Maria Doria (1797-1799) e dal cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VE dal 1800 al 1806. Ma nell'agosto del 1792 la situazione cambiò. Louis Siffrein Joseph de Salamon aveva stabilito un contatto con un uomo che diceva di essere un sacerdote perseguitato dai rivoluzionari. Il presunto sacerdote organizzò un incontro con l'abate in una taverna di Marsiglia per passargli importanti informazioni sulle condizioni disumane in cui versavano alcuni religiosi arrestati e incarcerati. Durante l'incontro, il sacerdote chiese all'abile abate se conoscesse il nome del capo della rete spionistica di Pio VI in Francia. Era evidente che il sacerdote non aveva capito di essergli seduto di fronte. Quando uscirono dalla taverna, i gendarmi arrestarono l'abate de Salamon, che fu portato nella prigione centrale di Parigi. L'abate fu condannato a sei anni di carcere per attività controrivoluzionaria. Tuttavia, il suo ingresso in prigione gli salvò la vita. All'inizio di settembre del 1792, si scatenò un'ondata di violenza contro qualsiasi religioso, uomo o donna che fosse, sul suolo di Francia. La Santa Sede ricevette rapporti che riferivano di sacerdoti squartati a Parigi, monache violentate e uccise a pugnalate a Valence, frati arsi vivi a Digione. Nei primi giorni di settembre, oltre 1300 religiosi cattolici furono assassinati. Altri, rinchiusi nelle sinistre prigioni dell'abbazia di Saint Germain, di La Force, Le Chàtelet, dell'ex monastero des Carmes, di Saint Fermin e di Salpètrière, furono fatti uscire dalle celle e assassinati nei corridoi e nei cortili, senza processo. Nel momento in cui iniziarono i massacri, l'abate de Salamon veniva trasferito dal carcere centrale di Marsiglia a quello di Salpètrière. Quando arrivò a Parigi, il massacro si era ormai concluso. La spia del papa scrisse allora al cardinale segretario di Stato Francesco Saverio de Zelada:1Rinchiusi e sorvegliati nella chiesa dei carmelitani, i martiri benedicevano Dio con voce unanime, si
facevano coraggio a vicenda per la prossima battaglia, erano tutti un'anima e un cuore solo. Un sacerdote di San Sulpice leggeva a voce alta gli Atti dei primi martiri cristiani; un brivido di entusiasmo correva lungo quelle serrate falangi di vittime. Il momento cruciale si avvicinava. Danton, che per una crudele ironia si chiamava ministro della Giustizia, non si accontentava della condanna alla deportazione decretata dall'Assemblea contro i sacerdoti arrestati. Voleva una punizione risolutiva e più radicale: ottenne che la Comune di Parigi cambiasse il primo decreto con la pena di morte. Uno dei suoi sbirri più feroci, Maillard, ricevette da Danton istruzioni precise e dettagliate per dare il colpo, come diceva il ministro, in maniera efficace e decisa, prendendo le dovute precauzioni per evitare le grida dei giustiziati ed eliminare ogni traccia di sangue. In un'altra lettera, datata 1792 e destinata sempre al segretario di Stato di Pio VI, la spia dell'Entità scriveva: Danton aveva troppa fretta di sbarazzarsi di quel mucchio di prigionieri, la cui morte poteva provocare una sommossa popolare; inoltre, la minaccia dell'esercito prussiano che si avvicinava a Parigi lo costringeva a essere pronto a lasciare in fretta la capitale. All'alba di domenica 2 settembre, le voci allarmanti si fecero più insistenti; bisognava consumare il crimine prima possibile: ogni minuto di ritardo poteva essere un passo verso la morte. Maillard, a capo di un gruppo di banditi, entrò nel convento dei carmelitani, pronto a compiere l'orrenda carneficina. I confessori di Cristo furono portati via dalla chiesa con la forza e condotti nel vicino giardino. Con incredibile serenità e ferventi atti di fede, obbedirono ai loro carnefici che li minacciavano con mazze di ferro e grida selvagge. I sacerdoti si inginocchiarono, pronti a offrire le loro vite senza opporre resistenza; si diedero l'ultima assoluzione l'uno con l'altro e il massacro cominciò con la furia di un uragano. In quel momento di confusione alcuni prigionieri riuscirono a saltare oltre le mura del giardino e scappare per le strade vicine. Altri si rifugiarono nella chiesa. I criminali, posseduti da cieco furore, iniziarono a colpire con le loro armi tutti quanti, senza distinzione: alcuni morivano sul momento, altri rimanevano palpitanti in una pozza di sangue; gli assassini volevano finire presto il loro lavoro e le vittime erano più di cento. In pochi istanti, i cadaveri ricoprirono i viali e le aiuole del giardino, il pavimento della cappella, i banchi, la sacrestia. Per il feroce Maillard tutto si svolgeva troppo lentamente. Vittime e carnefici entrarono nella chiesa, dove si costituì un tribunale farsesco, davanti al quale passarono a due a due i pochi detenuti sopravvissuti. «Qual è la tua professione?» chiedeva il giudice. E i rei rispondevano, invariabilmente: «Sono cattolico, apostolico, romano». Un
gruppo di uomini armati, che circondava il tribunale, si incaricava di zittire i coraggiosi confessori della fede. In pochi minuti, centotredici martiri furono brutalmente assassinati. Morivano sorridenti, tranquilli, felici. Il commissario Violet, responsabile, secondo la spia Louis Siffrein Joseph de Salamon, di dirigere le esecuzioni, esclamò sorpreso: «Non comprendo il comportamento di questi sacerdoti; vanno incontro alla morte come se andassero a una festa nuziale». I cadaveri furono spogliati senza alcun rispetto del loro abito e delle croci, nel mezzo di un'orgia furiosa: «Un ballo macabro, guidato dal vino e scatenato dall'odore del sangue caldo e dai rantoli di coloro che ancora agonizzavano, diede un epilogo d'orrore al dramma che si era appena consumato» raccontò la spia al segretario di Stato Francesco Saverio de Zelada. Anni dopo, si seppe che più di duemila sacerdoti furono obbligati a sposarsi durante la Rivoluzione francese, per nascondere la propria condizione di religiosi, mentre, a partire dal 1794, durante il cosiddetto «regime del Terrore», furono in 1750 a farlo. L'alternativa era la forca o la ghigliottina. Otto vescovi furono ghigliottinati e nell'Orange furono giustiziati sessantasette religiosi in un solo giorno. Con il passare degli anni, la vita e la morte di Louis Siffrein Joseph, abate de Salamon e maestro di spie, si trasformarono in leggenda. Sulla fine dei suoi giorni esistono cinque versioni diverse: di quattro non è stato possibile dimostrare la veridicità, mentre una quinta sembra essere la più plausibile. La prima sostiene che, dopo essere stato rimesso in libertà, nel dicembre del 1798, scontati sei anni e tre mesi di reclusione, il religioso abbia ripreso a lavorare nello spionaggio papale, ricostruendo la rete che era rimasta inoperosa dalla sua cattura. La seconda versione afferma che, quando uscì dal carcere, nel 1798, l'abate de Salamon versasse in pessime condizioni di salute. La spia si trasferì a Biel, vicino a Berna, dove passò i suoi ultimi anni conducendo, fino al giorno della morte, una vita monacale, completamente diversa da quella che aveva vissuto quando era al servizio dello spionaggio pontificio. La terza ipotesi racconta che l'abate de Salamon, dopo essere stato rimesso in libertà, sia stato richiamato da Pio VII a dirigere i servizi segreti della Santa Sede, vista la grande esperienza acquisita. Secondo questa versione, che non è stato possibile comprovare, il religioso guidò l'Entità solo due anni, dal 1798 al 1800, anche se esistono alcune lettere della spia, inviate dalla Francia alla Santa Sede datate 1829. La quarta sostiene che l'abate de Salamon sia stato incarcerato una seconda volta nel 1796 e poi rimesso in libertà nel giugno del 1797. Il 16 giugno 1797, scrisse un nuovo rapporto da Parigi diretto al cardinale
Giuseppe Maria Doria, segretario di Stato di Pio VI. Ma la quinta versione è quella che più si avvicina alla realtà. Dopo l'approvazione, nel 1801, del concordato tra la Francia e la Santa Sede, che comportò la restaurazione del cattolicesimo nel paese, il cardinale Giovanni Battista Caprara, ex responsabile dello spionaggio pontificio, fu nominato rappresentante del papa presso la corte dell'imperatore Napoleone. Appena arrivato a Parigi, il cardinale Caprara nominò Louis Siffrein Joseph de Salamon amministratore generale della diocesi di Normandia. Il 7 agosto 1807, fu ordinato vescovo da Pio VII, per i preziosi servizi resi alla Chiesa, e ricevette la responsabilità del vescovado di Orthosias, in Caria. L'abate de Salamon visse tranquillamente in Francia sotto la protezione del cardinale Caprara, che morì il 21 giugno 1810 e fu sepolto a Parigi nel Panthéon. Il 6 marzo 1820, Pio VII nominò l'ex spia vescovo di Saint-Flour, dove rimase fino al giorno della morte, avvenuta I'll giugno 1829, all'età di settantanni. Nel suo testamento, redatto esattamente un anno prima, Louis Siffrein Joseph lasciava tutti i beni al Grand Séminaire di Saint-Flour, nella persona del suo superiore. Lasciava anche ai poveri la somma di ottomila franchi, di cui una parte avrebbe dovuto essere investita per l'educazione scolastica dei bambini provenienti da famiglie indigenti. Altri duemila franchi avrebbero dovuto essere distribuiti ai poveri di Saint-Flour, sotto forma di beni e alimenti, mentre mille sarebbero spettati all'ospizio dei poveri, per l'acquisto di medicine. Le vicende dell'abate de Salamon, spia agli ordini del servizio d'intelligence papale nella Francia rivoluzionaria, rimasero segrete fino al 1890, quando, sessantanni dopo la sua morte, l'abate Bridier scoprì a Roma le sue memorie e le pubblicò nel volume intitolato Mémoires inédits de l'internonce à Paris pendant la Revolution 1790-1801. Nel 1911, le memorie del vescovo e spia Louis Siffrein Joseph de Salamon furono tradotte in inglese da Frances Jackson, nel libro A Papal Envoy During the Terror. Anche una parte della sua corrispondenza e dei rapporti all'Entità furono raccolti dal visconte de Richemont in Correspondance secrète de l'Abbé de Salamon e dallo scrittore Charles Ledré nella sua documentata opera L'Abbé de Salamon, correspondant et agent du Saint-siège pendant la Revolution. Questi volumi sono magnifici trattati sulla vita di una delle più grandi e famose spie papali di tutta la storia. Il corpo di monsignor Louis Siffrein Joseph de Salamon fu sepolto nella cripta della cattedrale di Saint-Flour. Tutte le lettere e i rapporti da
lui scritti e inviati a Roma sono attualmente conservati nell'Archivio segreto vaticano, alla voce «Francia 582».
Capitolo decimo:Bartolomeo Pacca Il cardinale nero Nel 1801, il cardinale Giovanni Battista Caprara divenne rappresentante del papa presso la corte dell'imperatore Napoleone e il comando dello spionaggio papale fu affidato all'intelligente cardinale Bartolomeo Pacca. Nato a Benevento il 27 dicembre 1756, il giovane Bartolomeo Pacca scoprì presto la propria vocazione. I genitori, Orazio, marchese di Matrice, e Clementina Malaspina, lo mandarono a studiare presso i gesuiti di Napoli. Bartolomeo terminò la sua formazione a Roma nel Collegio Clementino e nella prestigiosa Accademia dei nobili ecclesiastici. Nel 1785, Pio VI lo designò camerlengo di Sua Santità e, un anno dopo, il 24 aprile 1786, lo nominò nunzio a Colonia. In quegli anni Pacca si fece molti nemici e la fama di rigido osservante delle norme della Chiesa. Il suo primo contatto con lo spionaggio papale avvenne nel 1790, quando fu inviato in missione segreta alla dieta di Francoforte, per salvaguardare gli interessi della Santa Sede e impedire l'adozione di un nuovo concordato che favorisse i protestanti di Colonia. Quando i francesi invasero le province del Reno, a Bartolomeo Pacca fu ordinato di abbandonare Colonia. Come ricompensa per i preziosi servizi resi in segreto, il 21 marzo 1794 fu nominato nunzio a Lisbona. Mentre si trovava in Portogallo, il nuovo pontefice Pio VII concesse a Pacca la porpora cardinalizia nel Concistoro del 23 febbraio 1801 e il 29 luglio dello stesso anno gli impose il berretto cardinalizio. Da allora, il cardinale Pacca rimase al fianco del Santo Padre sia come responsabile del servizio di spionaggio, sia come amico e consigliere nei difficili momenti che entrambi avrebbero attraversato. Le relazioni tra Parigi e Roma erano sempre più tese ma, nel novembre del 1806, si ruppero definitivamente, quando Pio VII si rifiutò di obbedire all'ordine di Napoleone di espellere da Roma tutti i cittadini stranieri e di partecipare o appoggiare l'embargo contro l'Inghilterra. Tra la Francia e la Santa Sede era ormai guerra aperta. Napoleone occupò Ancona e il Lazio e, il 2 febbraio 1808, l'imperatore ordinò al generale Miollis di entrare a Roma. Il corpo d'armata circondò il palazzo del
Quirinale e puntò i cannoni contro le stanze papali. Pio VII era ormai prigioniero nel suo palazzo, e il controllo dello Stato pontificio passò all'amministrazione francese.Per evitare qualsiasi attrito che potesse provocare l'occupante francese, l'Entità venne sciolta su ordine del cardinale Pacca, e le sue operazioni proibite in tutto lo Stato pontificio, occupato dai soldati di Napoleone. Il 16 giugno, a causa delle pressioni di Napoleone, Pio VII destituì il cardinale Consalvi e i prosegretari Casona, Doria e Gabrielli. Quest'ultimo fu addirittura raggiunto nelle sue stanze, arrestato e obbligato a lasciare i territori papali. Due giorni dopo, il 18 giugno 1808, il cardinale Pacca fu nominato prosegretario di Stato. Considerata la sua posizione di vicesegretario e di responsabile dell'Entità, Pacca sapeva di dover mantenere la calma per non provocare l'ira di Napoleone. Il cardinale fu costretto a fingere di non vedere gli eccessi dei soldati francesi a Roma, che violentavano donne, simulavano esecuzioni tra i cittadini e saccheggiavano case. Ma presto ci fu un nuovo scontro tra il cardinale Pacca e il comandante in capo delle truppe francesi a Roma, il generale Miollis. Nell'agosto del 1808, Pacca ricevette un editto del militare francese che proibiva ai cittadini della Santa Sede di arruolarsi nella Guardia civica e in ogni altro corpo d'armata sotto il comando straniero. Venne comunicato al cardinale Pacca che la pena, per chi violava il divieto, sarebbe stata la morte o l'espulsione dai territori pontifici. Miollis convocò il prosegretario e minacciò di espellerlo se l'editto non fosse stato rispettato. Il cardinale Pacca, molto più avveduto, rispose che l'unica persona sulla Terra con l'autorità per dare quell'ordine era Pio VII. Miollis lo lasciò andare, pronunciando un'enigmatica frase, amo' di saluto: «Vedremo, caro cardinale». Due giorni dopo, il generale Radet, capo delle forze francesi nella Città eterna, si presentò in Quirinale, al comando di un reggimento di corazzieri. Pio VII si rifiutò di riceverlo, accusandolo di violare gli accordi che proibivano l'ingresso di soldati nelle stanze papali. Radet ordinò allora al Sommo Pontefice di consegnargli l'anello del Pescatore perché fosse spedito in Francia. L'anello del Pescatore, che portava incisa l'immagine di san Pietro su una barca, intento a lanciare la rete in mare, veniva consegnato al pontefice il giorno dell'elezione, doveva essere custodito sempre alla stessa maniera, ed era impossibile sostituirlo con gli altri anelli episcopali del pontefice. Il papa non lo portava abitualmente al dito, ma lo usava per sigillare e autorizzare i brevi pontifici. Il generale Radet, a nome del generale Miollis, esigeva la consegna dell'anello del Pescatore, ma il papa si rifiutò. Allora Radet minacciò di arrestare e deportare in Francia diverse personalità illustri della Santa Sede, tra le quali il capo dello
spionaggio e prosegretario di Stato Pacca, se l'anello non gli fosse stato consegnato entro poche ore. Alla fine, il papa cedette, e diede l'anello al generale Miollis affinché lo inviasse a Napoleone. Curiosamente, il papa non volle farne realizzare uno nuovo, ma decise di aggiungere a uno dei suoi anelli l'iscrizione Pro Annulo Piscatoris, Pius Papa VII. Il cosiddetto «conflitto dell'anello» tra la Francia e la Santa Sede terminò nel 1814, quando Luigi XVIII consegnò l'anello al cardinale Pacca affinché lo restituisse al papa. Il 10 giugno 1809, Napoleone dichiarò Roma città aperta e privò Pio VII di ogni potere. Il Sommo Pontefice emanò allora una bolla, in cui minacciava di scomunica chiunque agisse con violenza contro la Santa Sede e i suoi rappresentanti. Per tutta risposta, Napoleone ordinò al generale Radet di prendere d'assalto il Quirinale e fare prigioniero il papa. La notte tra il 5 e il 6 luglio, Radet entrò nel palazzo papale con la forza, e il pontefice fu fatto prigioniero e portato via da Roma. Solo il cardinale Pacca venne autorizzato ad accompagnare il Santo Padre. Gli agenti dell'Entità ricevettero l'ordine di trasferire a Venezia tutti i documenti del papa e dello spionaggio, e quando le truppe francesi entrarono negli archivi vaticani li trovarono vuoti. Quando Pio VII e la sua scorta arrivarono a Savona, ultima tappa del viaggio, erano trascorsi quarantadue giorni dall'arresto al Quirinale. Il cardinale Pacca fu arrestato a Grenoble, il 6 agosto 1809, portato nella prigione-fortezza di Fenestrelle e rinchiuso in una buia cella in condizioni disumane. A quanto pare, il generale Miollis in persona aveva ordinato l'arresto di Pacca, accusato di essere il responsabile della sparizione degli archivi papali. Durante i quattro anni di prigionia, Bartolomeo Pacca scrisse parte delle sue memorie: Giace la fortezza di Fenestrelle sopra un'Alpe di quelle che formano una catena di montagne, che separa il Piemonte dal Delfinato. Il villaggio di Fenestrelle, che è alle falde di quell'Alpe, appartiene alla Valle del Prato gelato, ch'è una di quelle valli, che in vigor di un trattato dell'anno 1713 [trattato di Utrecht] furono staccate dal Delfinato e cedute alla real Casa di Savoia. Sono queste notissime nella geografia, per essere l'unica parte d'Italia dove si tollera la religione protestante con pubblico culto, e vi abitano più migliaia di eretici denominati Barbetti, dalla barba che portavano una volta i loro Predicatori.6 Finestrelle, un paese di ottocento anime, era segnato sulle mappe solo perché vi si trovava la formidabile fortezza usata dai francesi come luogo di deportazione dei «pericolosi» nemici dello Stato
e di Napoleone. In quell'edificio, languivano, esposti al duro inverno, intellettuali e giornalisti, spie e cardinali, con una caratteristica in comune: essere nemici dell'imperatore. Il cardinale Bartolomeo Pacca scriveva nel suo diario: Penose ivi riescono le notti d'inverno per la loro lunghezza, durando in qualche tempo per sedici ore foltissime tenebre: ed il tristo silenzio che regna in quella vasta solitudine non è interrotto che da fischi de' venti impetuosi, o talvolta dallo scroscio spaventevole cagionato dalla caduta di grandi massi di neve detti avalenches. Le sole aquile annidate tra i macigni, che sono nella sommità de' monti, signoreggiano in quell'aria. Il capo dello spionaggio papale descrive efficacemente la prigione: Ora tornando a parlare della fortezza, è questa divisa in due forti, che sono uniti per mezzo di una scala coperta di più migliaia di gradini. Sulla cima della montagna v'è il forte detto delle Valli, e più in basso verso il villaggio, il forte s. Carlo, dove stanno i detenuti, e la guarnigione. La fortezza di Fenestrelle fu fatta fabbricare dal re Carlo Emanuele avo del re presente per chiudere da quella parte del Piemonte alle armate francesi l'ingresso in Italia. La natura e l'arte han contribuito a renderla fortissima, e direi anzi inespugnabile. [...] Il governo francese [...] aveva decretato di demolirla, come si fece della Brunetta, e di altre fortezze del Piemonte, e già si erano cominciati i preparativi per la demolizione; ma sulle rappresentanze di un generale francese ne fu sospesa l'esecuzione, e venne quella fortezza destinata qualche tempo dopo per una delle tante prigioni di Stato di quel liberale, e tollerante governo. La camera dove passai quasi tutto quel tempo era a pian terreno; la volta si vedeva fessa e crepata in più luoghi per le scosse di terremoto dell'anno innanzi; le mura nere ed affumicate rassomigliavano a quelle delle cucine e delle botteghe de' fabbri, e dal pavimento fino a quell'altezza ove suol terminare il fregio di pittura detto zoccolo erano imbrattate e sporche di ributtanti avanzi di quelle cose fetide e stomachevoli, che monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo c'insegna che anche il solo nominarle disdice. Nell'ultima pagina, prima della firma, il cardinale scriveva: In questo forte, orribile sede della vendetta, in ceppi col delitto spesso innocenza è stretta.
Il 9 giugno 1812, Pio VII fu trasferito da Savona a Fontainebleau. Nei rapporti degli agenti francesi al comando di Joseph Fouché, si diceva che un gruppo di frati appartenenti a una società denominata Ordine nero, diretta da un'alta carica della curia chiamata «il cardinale nero», stava cercando di liberare e mettere in salvo il Sommo Pontefice. Per il capo delle spie di Napoleone, questo «cardinale nero» non poteva essere altri che Bartolomeo Pacca, rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle. Per non correre rischi, il comandante Lagorse costrinse il pontefice a vestirsi di nero, a tingere le sue scarpe bianche e a viaggiare di notte, affinché nessuno potesse riconoscerlo. La notte del 30 gennaio 1813 la porta della cella del prigioniero Pacca si aprì. Quattro soldati francesi scortarono il cardinale con le torce fino al cortile centrale e lo fecero salire su una carrozza diretta a Fontainebleau. Alcuni giorni dopo, Bartolomeo Pacca si presentò al cospetto di Pio VII. Il papa aveva obbligato Napoleone a liberare il suo prosegretario e capo dello spionaggio, dopo la firma di un concordato tra la Francia e lo Stato pontificio. Mentre firmava i documenti, l'imperatore fu costretto a non ascoltare il consiglio di Fouché di non liberare il prigioniero da Fenestrelle, ma affermò: «Pacca è mio nemico». Il cardinale Pacca, insieme ad altri dieci membri della curia rimessi in libertà, consigliò al papa di ritrattare il concordato e rifiutare qualsiasi negoziazione fino a quando non gli fosse stato permesso di ritornare a Roma in assoluta libertà. Nel gennaio del 1814, quando il papa fu trasferito a Savona, Pacca fu deportato a Uzès, dove rimase fino al 22 aprile, giorno in cui poté ricongiungersi a Pio VII. L'andamento della guerra e la sconfitta delle truppe napoleoniche su diversi fronti provocarono l'assedio della Francia e la liberazione del papa, che, il 24 maggio 1814, dopo cinque anni, poté fare ritorno a Roma insieme a Bartolomeo Pacca. Quello stesso anno, il cardinale Pacca fu nominato camerlengo e cercò di ripristinare l'ordine religioso. Il 6 aprile del 1814, a Fontainebleau, nel palazzo in cui era stato rinchiuso Pio VII, Napoleone Bonaparte aveva firmato la rinuncia al potere, mentre a Parigi era stato già costituito un governo provvisorio presieduto da Talleyrand, ex uomo di fiducia di Napoleone, che era stato incaricato di mantenere l'ordine fino all'arrivo del re Luigi XVIII di Borbone. Le potenze vincitrici convocarono il Congresso di Vienna per ristabilire le frontiere europee stravolte da Napoleone. Durante l'incontro, svoltosi tra il primo ottobre 1814 e il 9 giugno 1815, venne restaurato l'assolutismo in quegli stati in cui i monarchi erano stati detronizzati. Tra gli illustri partecipanti al Congresso vi erano
Klemens von Metternich, che presiedeva la conferenza, Charles Maurice de Talleyrand, rappresentante di Luigi XVIII, lo zar Alessandro I, Francesco I d'Asburgo, Federico Guglielmo di Prussia, Lord Casdereagh, il duca di Wellington e i rappresentanti di Spagna, Portogallo, Svezia e dello Stato pontificio. In assenza del cardinale Ercole Consalvi, Pio VII mandò in Austria il cardinale Pacca a difendere gli interessi papali. Successivamente, Consalvi criticherà apertamente il discorso di Pacca a Vienna, accusandolo di essere stato troppo severo con i sostenitori di Napoleone. Nel documento finale del Congresso, il cardinale fece aggiungere una nota che puntualizzava: «Dobbiamo restare uniti e vigilare sui liberali, i repubblicani e gli atei». Un'azione del cardinale Pacca mise in seria difficoltà il papa e suscitò il disappunto del prestigioso e abile diplomatico Ercole Consalvi. Quando le truppe di Gioacchino Murat, re di Napoli e genero di Napoleone, ricevettero l'ordine di attraversare lo Stato pontificio per andare incontro agli austriaci, Pacca suggerì al papa di rifugiarsi a Genova, sostenendo che probabilmente Murat intendesse annettere lo Stato pontificio al regno di Napoli. Dopo la partenza del pontefice, Pacca instaurò a Roma un governo provvisorio sotto il proprio comando. Pacca ordinò immediatamente l'arresto del cardinale Jean-Siffrein Maury, con l'accusa di dirigere la rete di spie di Murat a Roma. Il processo contro Maury continuò anche dopo il ritorno del papa a Roma, ma con l'arrivo del cardinale Ercole Consalvi fu interrotto e archiviato. Nel frattempo, il potente cardinale Pacca ebbe seri problemi a causa di un nipote, monsignor Tiberio Pacca. Nato il 31 agosto 1786 a Benevento, Tiberio studiò come suo zio presso il Collegio Clementino. A Roma, dove fu inviato insieme ai fratelli Orazio e Paolo, ebbe la protezione del cardinale Pacca. La prima missione di Tiberio per il papa fu quella di consegnare a suo zio, allora nunzio a Lisbona, la comunicazione della nomina a cardinale. Negli anni che seguirono, Tiberio Pacca fu segretario personale e corriere speciale dello zio, che era diventato prosegretario di Stato. Insieme a Bartolomeo Pacca, fu rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle, dalla quale uscì il 4 agosto 1811. Qualche anno dopo, il capo dell'Entità venne a sapere che suo nipote Tiberio aveva avuto una relazione con una giovane, dalla quale era nato un figlio illegittimo, e decise di custodire la notizia come «segreto di famiglia». Il 21 aprile 1814, Tiberio Pacca fu nominato protonotario apostolico e, il 28 settembre dello stesso anno, divenne presidente della Camera apostolica.
L'abile Tiberio si servì di quell'incarico come trampolino di lancio verso le più alte e potenti cariche della curia. Il 22 luglio 1816, fu nominato, con l'appoggio dello zio, progovernatore di Roma; il 23 ottobre, divenne direttore generale della polizia pontificia e, il 24 aprile 1817, governatore di Roma e vicecamerlengo della Santa Chiesa cattolica. Due mesi dopo, il cardinale Bartolomeo Pacca ricevette i primi rapporti in cui si sosteneva che suo nipote aveva ricevuto del denaro dagli austriaci. Pacca ordinò allora all'Entità di aprire un'indagine i cui risultati sarebbero stati riferiti esclusivamente a lui. Né Pio VII né il segretario di Stato Consalvi avrebbero mai dovuto leggere il rapporto conclusivo. Per tre anni, monsignor Tiberio Pacca fu sorvegliato dall'Entità, ma una fuga di notizie della polizia papale lo mise in allerta. Il nipote di Bartolomeo Pacca era sempre più indebitato, a causa della sua passione per le donne giovani e il gioco, cosa che lo portò dapprima a sottrarre piccole somme ai fondi della polizia papale, e infine a rubare delle quantità di denaro difficili da occultare. Il 7 aprile 1820, monsignor Tiberio Pacca fuggì da Roma, rifugiandosi in un primo momento in Svizzera e, poco dopo, in Francia. Da principio, il cardinale Pacca ordinò al nipote di presentarsi davanti al papa, ma Tiberio si rifiutò. Poi il capo dell'Entità ordinò ai suoi agenti di fare il possibile per localizzare i fondi rubati dal nipote, senza però ottenere risultati soddisfacenti. Il cardinale Consalvi ordinò quindi alla polizia papale di arrestare il proprio ex direttore nel caso in cui avesse messo piede di nuovo nello Stato pontificio. Il «cardinale nero» Pacca riteneva che la manovra di Consalvi fosse solo una vendetta personale contro di lui. Il caso «Tiberio Pacca» fu archiviato e i fondi rubati restituiti alla polizia pontificia dalle casse papali, in seguito alla morte di Pio VII, avvenuta il 20 agosto 1823. Il cardinale Bartolomeo Pacca, in quanto camerlengo, diede inizio al conclave per l'elezione del successore di Pio VII. Il braccio di ferro si svolse tra il candidato degli «zelanti» e quello dei «politicanti», le uniche due fazioni che si contendevano la guida della Santa Sede. Gli zelanti, o «gelosi», conservatori, erano capeggiati dal responsabile dell'Entità e dal cardinale Agostino Rivarola, mentre i politicanti, più progressisti, erano guidati dal cardinale Consalvi, acerrimo nemico di Pacca. Annibale Della Genga non era tra i candidati ma, il 28 settembre 1823, fu eletto pontefice con il nome di Leone XII. Il nuovo papa nominò segretario di Stato il cardinale Giulio Maria Della Somaglia, vicino agli «zelanti» e quindi protetto del cardinale Pacca, che fu confermato come responsabile dei servizi segreti. Nell'ottobre del 1828, quando festeggiò i primi cinque anni di pontificato, Leone XII decise di concedere a monsignor Tiberio Pacca il permesso di ritornare
nello Stato pontificio. Era ovvio che si trattava di una manovra di Bartolomeo Pacca. Ma l'improvvisa morte del papa impedì la ratifica del documento e Tiberio Pacca fu costretto a rimanere a Milano. Nel 1835, si ebbero nuovamente notizie dell'ex direttore generale della polizia papale, quando fu nominato intendente generale del Ministero dell'interno del Regno di Sardegna. Ma a causa di altre sue oscure manovre fu costretto ancora una volta a rifugiarsi a Napoli, dove morì nella più assoluta miseria il 29 giugno 1837, vittima del colera.10 Le enormi somme che si presumevano rubate da monsignor Tiberio Pacca non furono mai ritrovate, anche se nei palazzi papali alcuni sparsero la voce che quel denaro potesse essere stato utilizzato dal «cardinale nero» per finanziare il proprio privato «esercito di spie-ombra». Ma, ormai, per il cardinale Pacca si aprivano nuovi fronti. Nel periodo postnapoleonico, i nuovi nemici dello spionaggio papale furono i banditi e i membri delle società segrete massoniche, come i carbonari. Questi avevano organizzato una sommossa in Romagna e Leone XII aveva inviato il cardinale Agostino Rivarola, uno «zelante», braccio esecutore degli ordini del cardinale Pacca, a fare da mediatore. Ma il papa non sapeva che Rivarola avesse ricevuto da Pacca, con il consenso del cardinale segretario di Stato Della Somaglia, istruzioni molto chiare su come soffocare la rivolta. I carbonari e gli appartenenti alle altre società segrete, erano ricercati ufficialmente da organizzazioni controllate della Santa Sede, come l'Entità, e, ufficiosamente, da piccoli gruppi clandestini composti da religiosi, che organizzavano azioni segrete punitive. Tra questi vi erano l'Ordine nero e il Circolo Octagonus, oltre ad altre organizzazioni come gli Abiti neri, la Società dei tredici e i Seguaci di Jehù. I due carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, che nel corso di uno scontro a fuoco avevano ucciso un agente dello spionaggio pontificio, furono arrestati il 20 novembre 1825; il 21, furono trasferiti a Roma; il 22, processati per ribellione e, il 23, decapitati su ordine di Leone XII, con l'accusa di oltraggio al pontefice. Il cardinale Rivarola, aiutato dall'Entità e dai Sanfedisti, intraprese una vera e propria «guerra sporca», durante la quale tutte le persone sospettate di appartenere o appoggiare la Carboneria venivano sequestrate, interrogate, torturate e, nella maggior parte dei casi, giustiziate in maniera sommaria. Quando Leone XII venne a
conoscenza delle operazioni clandestine condotte dall'Entità con il beneplacito del segretario di Stato, rimosse dall'incarico Giulio Della Somaglia, mentre il potente Pacca rimase al proprio posto.13 Il nuovo segretario di Stato, il cardinale Tommaso Bernetti tenne sotto stretto controllo lo spionaggio papale, le sue operazioni, il suo capo e la sua condotta durante la guerra contro la Carboneria. Nel febbraio del 1828, il carbonaro Luigi Zanoli intercettò un emissario papale che portava istruzioni segrete di Bartolomeo Pacca. Zanoli lo seguì, lo uccise e si impossessò delle lettere con il sigillo dell'Entità. Gli uomini di Pacca trovarono Zanoli, che si era rifugiato in una capanna, in Romagna, con altro carbonaro, Angelo Ortolani. Questi, durante l'assalto al rifugio, uccise un soldato della guardia pontificia. I due carbonari furono arrestati, processati e giustiziati il 13 maggio 1828. La legge del taglione, «occhio per occhio, dente per dente», che ispirava il potente cardinale Bartolomeo Pacca, veniva sempre applicata dagli uomini dell'Entità. Per vendetta, i capi carbonari decisero di eliminare il cardinale Agostino Rivarola, l'inviato papale in Romagna. Gaetano Montanari, fratello di Leonida, e Gaetano Rambelli vennero scelti per compiere l'omicidio. Ma due giorni prima dell'attentato, il sarto, che doveva portare ai carbonari gli abiti da indossare per avvicinarsi indisturbati al cardinale Rivarola, si sbagliò e consegnò i vestiti a due sacerdoti, uno dei quali era un collaboratore della polizia pontificia. Il giorno dopo, i due carbonari furono arrestati e, successivamente, giustiziati. Il 10 febbraio 1829, Leone XII morì e il 31 marzo dello stesso anno fu eletto al soglio pontificio il cardinale Francesco Saverio Castiglione che scelse il nome di Pio VIII. Il nuovo pontefice mantenne al comando dello spionaggio papale il potente cardinale Bartolomeo Pacca, che aveva ormai settantaquattro anni. Il pontificato di Pio VIII fu breve, ma caratterizzato da avvenimenti che cambiarono l'assetto dell'Europa. Le rivoluzioni che si scatenarono nell'estate del 1830, e che raggiunsero anche lo Stato pontificio, misero fine all'ordine imposto dalla Restaurazione. In Francia, dove da sei anni regnava Carlo X, fratello del ghigliottinato Luigi XVI, i rivoluzionari attaccarono la sede arcivescovile, il noviziato dei gesuiti, la casa delle missioni e la nunziatura. In diverse città della Francia, furono prese d'assalto chiese, conventi e monasteri. Pio VIII ruppe il vincolo della Chiesa con la monarchia di Carlo X, riconoscendo come re Luigi Filippo d'Orléans, e ordinò a tutti i vescovi e al clero francese di sottomettersi al nuovo monarca. Il 30 novembre 1829, Pio VIII morì e si riunì il nuovo conclave, che, dopo cinquanta giorni e un centinaio di votazioni, elesse il cardinale Alberto Cappellari. Il 2
febbraio 1831, il cardinale Cappellari ricevette i simboli papali dalle mani del capo dell'Entità, Bartolomeo Pacca, e scelse il nome di Gregorio XVI. Il giorno dopo l'incoronazione di Gregorio xvi, a Modena, esplose una rivolta. A Bologna, invece, fu arrestato il legato pontificio, si formò un governo rivoluzionario e fu proclamata la repubblica. Gli eserciti rivoluzionari continuarono la loro irrefrenabile avanzata, prendendo il controllo dell'ottanta per cento dello Stato pontificio. Gli eserciti papali furono incapaci di fermare i ribelli. Su consiglio di Tommaso Bernetti e di Bartolomeo Pacca, Gregorio XVI chiese all'Austria di intervenire per soffocare la ribellione, provocando un'immediata protesta della Francia. Per più di due mesi, i territori papali furono scossi da continui tumulti e lanci di bombe, organizzati da gruppi rivoluzionari. Soffocata la rivolta, Inghilterra, Francia, Prussia e Russia convocarono una conferenza a Roma e obbligarono Gregorio XVI a introdurre delle riforme per calmare gli animi dei ribelli. Una vittoria dei rivoluzionari nello Stato pontificio avrebbe potuto innescare una reazione a catena nelle altre nazioni europee. Nel gennaio del 1836, Gregorio XVI destituì il segretario di Stato cardinale Bernetti e il cardinale Pacca.14 Il cardinale Bartolomeo Pacca, alla guida dell'Entità per trentacinque anni, che era stato al servizio di Pio VII, Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI, morì il 19 aprile 1844, all'età di ottantasette anni. La sua salma fu esposta nella chiesa di Santa Maria in Portico, dove fu sepolta. Gregorio XVI, che celebrò il rito funebre in onore del defunto cardinale, disse: «Qui giace un servitore della Chiesa che in molte occasioni dovette lottare tra i suoi obblighi verso Dio e quelli verso lo Stato pontificio. Non sempre fu facile prendere una decisione piuttosto che un'altra. Riposi in pace».
Capitolo undicesimo:Francesco Capaccini Il creatore di chiavi Monsignor Francesco Capaccini fu senza dubbio uno dei migliori crittografi e dei più grandi creatori di codici di tutti i tempi, non solo del Vaticano, ma di tutta Europa. Molte delle chiavi da lui elaborate due secoli fa vengono utilizzate ancora oggi dalla Santa Sede, nei messaggi diplomatici. Nato a Roma il 14 agosto 1784, Capaccini ricevette un'educazione ecclesiastica nel Collegio romano e, successivamente, presso il Seminario romano. Il 19 settembre 1807, a
ventitré anni, fu ordinato sacerdote. Otto anni dopo, fu destinato alla Segreteria di Stato come minutante, e divenne uno dei più stretti collaboratori del cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi. In quegli anni, Capaccini lesse qualsiasi libro che avesse come argomento l'astronomia o il funzionamento dei codici cifrati nei messaggi segreti. Lesse e rilesse il Carteggio kircheriano, ossia la raccolta di lettere ricevute dall'eclettico gesuita del XVII secolo Athanasius Kircher, conservata gelosamente negli archivi della Pontificia Università Gregoriana di Roma; i manoscritti degli astronomi Johannes Kepler, Robert Boyle e Isaac Newton; gli studi sui geroglifici egiziani Hieroglyphica, siue de sacris-aegyptiorum aliarumque gentium literis commentarii, pubblicati nel 1556 da Giovan Pierio Valeriano Bolzani; il De Symbolica Aegyptiorum sapientia, scritto dal sacerdote Nicolas Caussin nel 1631; il famoso Thesaurus di Horwart von Hohenburg. I suoi studi si interruppero nel 1828, quando Leone XII lo nominò internunzio in Olanda, grazie all'esperienza acquisita durante le negoziazioni per il concordato nei Paesi Bassi, firmato l'anno prima, a cui aveva partecipato attivamente. Capaccini si trovava ancora in Olanda quando, il 10 febbraio 1829, il pontefice morì e fu eletto suo successore Pio VIII. Durante il periodo trascorso in Olanda come nunzio, Capaccini creò un'ampia rete di informatori, che venivano dai quartieri più umili così come dai saloni della corte. Capaccini riceveva numerosi rapporti riservati anche da membri degli Stati generali, il parlamento olandese. Inoltre, grazie a un consigliere di Stato assiduo frequentatore della nunziatura, Capaccini sapeva tutto della famiglia reale, ricevendo rapporti sull'omosessualità, le infedeltà e altre faccende dei membri del casato d'Orange, che poi finivano a Roma, sulla scrivania del cardinale Pacca e negli archivi dell'Entità. In diverse occasioni, Pio VIII aveva richiamato Pacca sui metodi utilizzati dal nunzio, ma per il capo dell'Entità qualsiasi mezzo poteva essere lecito se il fine era la difesa degli interessi della Chiesa, di Roma, del papa e dello Stato pontificio. Un giorno, Francesco Capaccini comunicò di avere una informazione «segretissima» su alcuni movimenti rivoluzionari che si stavano organizzando nello Stato pontificio.In realtà, Capaccini era riuscito a leggere un rapporto dell'ambasciatore olandese presso la Santa Sede,
in occasione di una visita al Ministero degli affari esteri. Mentre aspettava di essere ricevuto, in un momento in cui il segretario si era assentato, l'agente dell'Entità aveva scoperto, in un mucchio di fascicoli, una cartella con su scritto: «Santa Sede: confidenziale e segretissimo». Il rapporto, redatto nell'estate 1829, parlava di un complotto organizzato a Spa. I cospiratori progettavano di viaggiare separatamente fino al porto di Livorno. Da lì sarebbero poi entrati come pellegrini nello Stato pontificio e avrebbero distribuito materiale rivoluzionario. L'informazione fu consegnata al segretario di Stato, cardinale Giuseppe Albani, e al cardinale Pacca. Gli agenti dell'Entità riuscirono a entrare in contatto con il gruppo rivoluzionario e, tra ottobre e dicembre del 1829, i soldati dello Stato pontificio arrestarono circa quattordici uomini appartenenti all'organizzazione rivoluzionaria. I capi furono condannati a morte e impiccati. Subito dopo questi fatti, Pio VIII comprese quanto fosse necessario avere una rete di spionaggio attiva, capace di informare la Santa Sede di eventuali movimenti rivoluzionari. Monsignor Saverio De Luca, nunzio a Monaco e a Vienna, insieme a monsignor Capaccini, sosteneva che ci fosse bisogno di un corpo diplomatico che raccogliesse informazioni segrete.4 Ma il vero problema era dato dal fatto che, all'inizio del XIX secolo, la Santa Sede aveva relazioni diplomatiche con pochi Stati, la maggior parte dei quali nell'Europa occidentale. Nel 1840, solo undici nazioni ospitavano un rappresentante papale. Su undici nunzi, due erano in America meridionale: in Colombia e in Brasile; due in Olanda e in Svizzera, paesi, questi, con una popolazione prevalentemente protestante; e tre erano molto vicini allo Stato pontificio: nel Regno delle Due Sicilie, nel Granducato di Toscana e nel Regno di Sardegna. Un'altra fonte di informazioni che non veniva sfruttata dal Vaticano era il corpo consolare. La rete consolare pontificia non era molto estesa, poiché le rappresentanze erano presenti solo nei porti e nei centri commerciali della penisola italiana, del sud della Francia e della Spagna, e i loro impiegati erano più bravi a rilasciare visti, certificati di salute e documenti notarili che a raccogliere preziose informazioni di intelligence. I rapporti speciali, ricevuti dalla Santa Sede da inviati, nunzi e consoli, erano una mera raccolta di notizie senza importanza, apparse nei giornali locali, nelle pubblicazioni e in libri «sovversivi». Ma un nuovo problema, destinato a suscitare grandi controversie, si presentò a Roma: la sicurezza delle comunicazioni tra le nunziature e il Vaticano. Monsignor Francesco Capaccini ebbe un ruolo decisivo nella ricerca di una soluzione alla questione. Dalla prima metà
del XIX secolo, tutti i governi europei, inclusa la Santa Sede, esercitavano un rigido controllo sulla posta in entrata e in uscita dal proprio paese. Tutti gli uffici postali erano sorvegliati, in modo da poter intercettare materiale sovversivo o attività criminose. Il segretario di Stato pontificio sapeva che il contenuto dei messaggi che inviava o riceveva dal nunzio a Parigi non erano al sicuro da occhi indiscreti. Nel 1801, per esempio, durante le negoziazioni per il concordato, tutte le lettere tra il cardinale Consalvi e il suo ambasciatore furono intercettate e aperte dalle autorità francesi. Anche durante le guerre napoleoniche, l'intercettazione di messaggi diretti al papa rappresentava una priorità dell'intelligence dell'imperatore, diretta da Joseph Fouché. Nella seconda metà del XIX secolo, i nunzi destinati a Parigi inviavano ancora i dispacci diplomatici in Vaticano insieme alla posta ordinaria. Molte volte, i messaggi si smarrivano misteriosamente. Il cardinale Bartolomeo Pacca sospettava che i messaggi della nunziatura venissero aperti e ricopiati dallo spionaggio francese. Anche durante il Congresso di Vienna, gli austriaci controllarono la corrispondenza tra il cardinale Consalvi e Roma. Nel 1822, a Verona, città controllata da Vienna, durante una riunione tra importanti uomini politici italiani e austriaci, si parlò, tra le altre cose, di stabilire un accordo formale sulla corrispondenza. Il cardinale Consalvi rivelò ai membri della delegazione italiana che tutti i propri comunicati diretti a Pio VII venivano aperti e letti dall'intelligence austriaca. Nel 1860, Antonino Saverio De Luca, nunzio a Vienna, protestò formalmente perché l'intera corrispondenza consegnata agli uffici postali austriaci veniva controllata, così come i telegrammi della Segreteria di Stato indirizzati alla nunziatura. Nell'estate del 1860, a causa della mancanza di sicurezza delle comunicazioni e dei dispacci diplomatici, De Luca chiese al segretario di Stato di poter utilizzare un messaggero della nunziatura per consegnare a mano due lettere confidenziali su dei fatti avvenuti in Belgio. Era evidente quanto fosse necessario trovare un sistema di comunicazione più sicuro tra le sedi diplomatiche e Roma, considerato anche che il sistema di messaggeri era per la Segreteria di Stato costoso e, soprattutto, lento. I paesi più impegnati nell'intercettazione delle comunicazioni papali erano Francia e Austria, ma anche in Spagna e in Piemonte la posta della Santa Sede veniva sistematicamente controllata dalla polizia e dallo spionaggio. Monsignor Francesco Capaccini avvertì il segretario di Stato perché assumesse le dovute precauzioni quando inviava messaggi alla nunziatura nei Paesi Bassi, perché tutta la posta che arrivava da Roma veniva intercettata e
letta. Nel 1829, Capaccini iniziò a lavorare, quasi per gioco, per creare un sistema che potesse impedire a chiunque non fosse il mittente o il destinatario di un messaggio di comprenderne il contenuto. L'astuto vescovo fu convocato a Roma dal segretario di Stato, il cardinale Tommaso Bernetti. Durante l'incontro con Bernetti e il pontefice, Capaccini cercò di spiegare, in maniera semplice, come aveva codificato il messaggio, inviato dalla sua nunziatura, che gli olandesi non erano riusciti a decifrare. Utilizzando i due termini più comuni in crittografia, cifratura e codice, Capaccini proteggeva il contenuto del messaggio da occhi indiscreti. Il nunzio aveva semplicemente sostituito le lettere del messaggio con numeri e simboli. «La cifratura cambia le parti che compongono le parole, mentre il codice funge da linguaggio segreto, per cui ogni parola nel messaggio originale deve averne una equivalente nel linguaggio del codice utilizzato» spiegò Capaccini al papa e al segretario di Stato. Il problema principale di un codice è che, affinché funzioni, sia chi invia il messaggio sia chi lo riceve deve essere in possesso dello stesso libro dei codici. Spiegava Capaccini: «E' una specie di dizionario delle chiavi, in cui accanto a ogni parola nel linguaggio del testo non cifrato c'è l'equivalente nel linguaggio in codice. Perché Sua Santità capisca, alla parola "Dio" si dà il numero 1; alla parola 'ti' il numero 20; alla parola 'saluta' il numero 31; e alla parola 'Maria' il numero 48. Per cifrare il messaggio 'Dio ti saluta, Maria", gli inviati papali dovranno scrivere solo 1-20-31-48, e così per tutte le parole e i messaggi». Monsignor Francesco Capaccini disse a Gregorio XVI e al cardinale Bernetti che questo semplice sistema doveva essere usato per i messaggi speciali, mentre per quelli ordinari si poteva utilizzare il sistema «dell'alfabeto traslato» o per chiavi di sostituzione. L'alfabeto traslato, utilizzato da Giulio Cesare per comunicare con i suoi generali, fu documentato dallo storico latino Svetonio. Il sistema era conosciuto come «cifratura di Cesare». Il trattato scritto da Svetonio, che si trovava nella Biblioteca vaticana, era stato studiato minuziosamente da Capaccini. Spiegava Capaccini a Gregorio XVI e a Bernetti: «Per cifrare un messaggio, si sostituisce ogni lettera dell'alfabeto chiaro, usato per il messaggio originale, con la lettera di un alfabeto spostato di un numero di posti concordato in precedenza. Sebbene sembri complicato, si tratta di un sistema molto semplice. La riga superiore, in minuscolo, corrisponde all'alfabeto chiaro usato nel
messaggio originale. La riga inferiore, in maiuscolo, rappresenta l'alfabeto cifrante, a partire dal quale si decodificherà il messaggio».Per fare un esempio, monsignor Francesco Capaccini utilizzò la frase «Dio ti saluta, Maria». Per cifrarla, l'alfabeto della riga inferiore doveva essere spostato di un certo numero di posti rispetto a quello della riga superiore. In questo modo era possibile cambiare la chiave ogni giorno. abcdefghi lmnopqrs tuvz abcdefghi lmnopqrstuvz L'alfabeto della riga inferiore veniva spostato, per esempio, di cinque posti: abcdefghi lmnopqrs tuvz fghi lmnopqrstuvzabcde Il messaggio «Dio ti saluta, Maria» diventava allora «Ipt bp afqcbf, Rfzpf». Per decifrare il messaggio, il destinatario avrebbe dovuto semplicemente compiere il processo inverso, conoscendo il numero di lettere traslate, che era la chiave per questo tipo di cifratura. Se il messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate, per decifrarlo, il crittoanalista dei servizi di sicurezza nemici avrebbe dovuto provare i venti spostamenti possibili. Per questo motivo, era necessario che la chiave fosse cambiata ogni giorno e utilizzata solo per messaggi il cui contenuto fosse poco importante. Per la gioia di monsignor Francesco Capaccini, quell'innocente gioco, nel 1831, gli valse la nomina da parte di Gregorio XVI a sostituto della Segreteria di Stato e segretario del Dipartimento crittografico. Dal giorno in cui entrò nel suo ufficio nel Palazzo Apostolico, Capaccini ebbe tra le sue mani tutti i libri e i manoscritti specializzati in crittografia e crittoanalisi, e cominciò ad applicare i sistemi di cifratura utilizzati dal Medioevo al XIX secolo. Monsignor Capaccini trascorreva ore intere chiuso nel suo ufficio, esaminando libri, prendendo appunti e annotazioni, fino a quando non fosse riuscito a decifrare le chiavi utilizzate nel passato. Sapeva che i messaggi inviati dalla Santa Sede non erano al sicuro dagli altri crittoanalisti esperti e soprattutto da quelli che conoscevano bene l'uso delle analisi delle frequenze. Francesco Capaccini, per mesi, studiò come rompere le chiavi che lui stesso creava. Una di queste analisi delle frequenze era costituita da un tipo di cifratura che un secolo dopo fu conosciuta come «omofonica». Capaccini scoprì l'origine di questo sistema in un manoscritto redatto nel 1401, nel ducato di
Mantova, e conservato nella Biblioteca vaticana. Partendo da questo manoscritto, monsignor Francesco Capaccini definì il sistema di cifratura che ancora oggi è usato dalla Santa Sede. Capaccini studiò a fondo l'opera di Matteo Argenti, che aveva imparato il mestiere di crittografo da suo zio, il famoso Giovanni Battista Argenti. All'inizio del XVII secolo, il giovane Matteo aveva scritto un prezioso manuale di crittografia. A quell'epoca, Argenti si preoccupava, così come Capaccini nel XIX secolo, per la fragilità delle cifre omofoniche e della creazione di sistemi per rendere sicure le chiavi.9 Capaccini introdusse caratteri nulli nell'alfabeto cifrato. I caratteri nulli erano simboli semplici che, pur utilizzati nella codifica del messaggio, non avevano però una lettera corrispondente nell'alfabeto chiaro né un significato. L'esperto Simon Singh, nel suo libro Codici & segreti, spiega il sistema sviluppato da monsignor Capaccini: Si poteva sostituire ogni lettera dell'alfabeto chiaro con un numero compreso tra l'1 e il 99, lasciando 73 numeri senza significato. Questi potevano essere disposti casualmente nel testo cifrato, con frequenza variabile. I caratteri nulli non erano un problema per il destinatario, che sapeva come riconoscerli, ma lo erano per chi intercettava il messaggio, perché i suoi crittoanalisti lo avrebbero decifrato basandosi sull'analisi delle frequenze. Capaccini spiegò il meccanismo in maniera semplice a Gregorio XVI. Partendo dalle due righe dell'alfabeto, l'unica cosa da fare per rendere difficile la decodifica era introdurre nell'alfabeto della seconda riga un codice o una parola chiave segreta nota solo al mittente e al destinatario del messaggio. Usando la parola «Dio», l'alfabeto cifrato inizierebbe a decodificarsi dall'ultima lettera della parola chiave, la «o» e senza utilizzare le lettere che precedono la prima lettera della parola chiave, la «d». abcdefghi jklmnopqrstuvwxyzabc ABCDEFGHDIOIjklmnopqrstuvwxyz Un altro problema sottoposto al Dipartimento crittografico diretto da monsignor Capaccini fu quello dei corrieri diplomatici. Da anni, i nunzi si servivano dei corrieri postali dei paesi in cui si trovavano, per cui quasi tutte le lettere ricevute o inviate a Roma venivano aperte, copiate e trasmesse ai governi interessati. Capaccini ideò allora un sistema di corrieri segreti che venivano utilizzati solo per la consegna di messaggi molto importanti. Tra questi messaggeri, i più famosi furono Horatius van der Vrecken nei Paesi Bassi e Pierre Perault e Bertrand Duvoin in Francia.
Una sera d'estate, qualcuno bussò alla porta della residenza del nunzio a Parigi. L'uomo non volle identificarsi, ma chiese di parlare con l'ambasciatore pontificio. Quando il diplomatico arrivò, lo strano personaggio allungò la mano e gli consegnò una busta chiusa. Il nunzio guardò il sigillo di ceralacca, su cui era impressa la tiara pontificia sopra due chiavi incrociate, tra le quali si trovavano due colombe su un calice. Senza dubbio, si trattava di un messaggio di Gregorio XVI. Quando il nunzio alzò gli occhi per ringraziare, il misterioso uomo che gli aveva consegnato la lettera era sparito. Fu l'ultima volta che vide quel volto. Da allora, tra i diplomatici pontifici e le polizie segrete di tutta Europa nacquero diverse leggende sui «messaggeri di Dio». Alcuni bambini dalla fervida fantasia, stimolata da racconti e leggende, affermavano che i messaggeri di Capaccini erano esseri immortali protetti da Dio. Niente di più lontano dalla realtà. I «messaggeri di Dio» erano persone normali, credenti devoti, avvocati, giornalisti e semplici commercianti di stoffe, che credevano nell'infallibilità del Sommo Pontefice e nel potere del papa in Terra e nella Chiesa cattolica. Un famoso «messaggero di Dio» agli ordini di monsignor Capaccini fu il francese Bertrand Duvoin di Lione. Nel breve periodo in cui il nunzio fu richiamato a Roma, Duvoin divenne l'unica fonte di informazioni su quanto accadeva a Parigi. L'agente papale preparava un rapporto con materiale ordinato, lo codificava e lo metteva in una busta senza l'indirizzo né il nome del destinatario. La busta veniva affidata a un altro messaggero, un certo Perault, che aveva l'incarico di consegnarlo personalmente al segretario di Stato. In questo modo, la busta arrivava a Roma senza che le informazioni fossero intercettate e scoperte. Un altro sistema sicuro per l'invio di messaggi in codice tra le nunziature e Roma passava attraverso le banche. Anche questo sistema era stato creato e utilizzato da monsignor Capaccini, all'epoca in cui era nunzio nei Paesi Bassi. Per prima cosa, come misura di sicurezza, Capaccini inviava a diversi destinatari a Roma una dozzina di messaggi, sempre con la stessa chiave, che venivano poi consegnati al segretario di Stato. I messaggi erano scritti con chiavi numeriche e inviati attraverso l'ente finanziario italofrancese Goupy-Busoni. Il segretario di Stato doveva semplicemente chiedere il messaggio codificato alla sede della banca a Roma e decifrarlo. In realtà, monsignor Francesco Capaccini fu il primo responsabile del Dipartimento crittografico del Vaticano e, in quanto tale, il primo a preoccuparsi per la sicurezza delle comunicazioni nello Stato pontificio. Capaccini ricoprì l'incarico di segretario del Dipartimento crittografico fino all'11 luglio 1836, anche se fino al
giorno della sua morte fece parte dei consiglieri papali per la sicurezza delle comunicazioni. Dopo un breve periodo come direttore dell'osservatorio astronomico di Napoli, Capaccini fu nominato da Gregorio XVI membro del gruppo di negoziatori per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con il Portogallo. Monsignor Capaccini in realtà aveva il compito di cifrare tutti i messaggi destinati alla segreteria di Stato a Roma, che informavano dei progressi o dei passi indietro delle negoziazioni, evitando così che i servizi segreti di Lisbona potessero intercettarli. Nel 1844, Francesco Capaccini fu nominato uditore generale della Camera apostolica, un incarico che metteva fine al suo compito al servizio del papa. Il 22 luglio 1844, fu elevato al rango di cardinale in pectore da Gregorio XVI, per i preziosi servizi prestati alla Santa Chiesa cattolica e alla sicurezza delle sue comunicazioni. Questo brillante agente del servizio di spionaggio pontificio morì un anno dopo, il 15 giugno 1845, all'età di sessantanni, vittima di un infarto, senza poter ricevere il cappello cardinalizio e il titolo. Il cadavere del cardinale Capaccini fu trovato ricoperto dai documenti di crittografia e crittoanalisi che stava studiando.
Capitolo dodicesimo:Antonino Saverio De Luca L'orchestratore di spie Alla fine del 1860, lo Stato pontificio aveva perso i due terzi del proprio territorio.Le proteste e la minaccia di scomunica contenute nell'enciclica Nullis certe verbis, emanata il 19 gennaio dello stesso anno, si erano rivelate inutili. In quei difficili anni, uno dei più importanti agenti dell'Entità fu monsignor Antonino Saverio De Luca. Nato a Bronte, in Sicilia, il 28 ottobre 1805, monsignor De Luca era l'ultimo di dieci fratelli. A causa delle cattive condizioni economiche in cui versava la famiglia, il giovane Antonino fu mandato a studiare, sotto la tutela della Chiesa, al Real Collegio Capizzi di Bronte e poi al seminario arcivescovile di Monreale, dove si dedicò allo studio delle lingue, in particolare dell'inglese, del francese e del tedesco. A Palermo, imparò il greco e il latino. Il 23 novembre 1839, all'età di trentaquattro anni, fu proclamato, con il massimo dei voti, dottore in filosofia e teologia presso l'università di Lovanio. Antonino Saverio De Luca fu chiamato a Roma nel 1829, dieci anni prima della laurea, grazie
alla sua conoscenza delle lingue. Dopo aver diretto per diversi mesi la rivista di teologia Annali delle Scienze Religiose, che aveva anche contribuito a fondare, fu nominato segretario del cardinale Thomas Weld, con il quale lavorò fino al 1836. Si pensa che, nel 1841, monsignor De Luca sia stato reclutato dal servizio di spionaggio papale per mezzo del cardinale Lambruschini, che gli insegnò a codificare i messaggi, a distinguere le informazioni importanti da quelle inutili e ad analizzare con rapidità le reazioni politiche suscitate da un avvenimento di cui fosse stato testimone. Prima di allora, Antonino Saverio De Luca era stato consultore dell'Indice e di Propaganda Fide, censore dell'Accademia della religione cattolica, rettore del Collegio irlandese di Roma e camerlengo personale soprannumerario di Gregorio XVI. Il primo giugno 1846, Gregorio XVI morì e, due settimane dopo, il cardinale Giovanni Maria dei Conti Mastai Ferretti fu eletto nuovo pontefice con il nome di Pio IX. Nei primi mesi della sua formazione come spia, monsignor Antonino Saverio De Luca trascorse lunghe ore con il cardinale Luigi Lambruschini, parlando di politica e filosofia, di astronomia e teologia. La loro relazione era così stretta che, all'interno della curia, lo stesso De Luca cominciò a essere chiamato «la spia di Pio IX». Il 24 dicembre 1853, monsignor De Luca fu inviato in Baviera come nunzio papale e, tre anni dopo, a Vienna. In quegli anni, la capitale austriaca era un posto di grande importanza per la diplomazia pontificia, per cui il breve apprendistato a Monaco fu fondamentale. Sebbene come nunzio e spia fosse risultato molto utile all'interno spionaggio papale, la carriera di De Luca subì un arresto in seguito alla morte, avvenuta il 12 aprile 1854, del cardinale Lambruschini, capo dell'Entità per diciotto anni e suo protettore. Il primo importante successo di monsignor De Luca come spia fu a Monaco, alcuni mesi prima della morte di Lambruschini. Lo spionaggio austriaco comunicò a De Luca che un gruppo di rivoluzionari aveva intenzione di uccidere tre sacerdoti agenti dell'Entità. Sembra che uno di questi agenti avesse denunciato alla polizia di Pio IX diversi rivoluzionari e garibaldini.3 Agli inizi di gennaio del 1854, Gustavo Paolo Rambelli, Gustavo Marloni e Ignazio Manzini fecero irruzione in una taverna nei pressi di Pistoia, dove si trovavano riunite le tre spie del papa, e le uccisero. Prima dell'arrivo
del picchetto della guardia pontificia e delle pattuglie della polizia papale, i tre uomini fuggirono a piedi per le strette strade che circondavano l'edificio. Il pontefice ordinò allora al cardinale Lambruschini di trovare i tre assassini, perché fossero condotti davanti alla giustizia di Roma. Una settimana dopo, durante una battuta nei dintorni di Pistoia, Rambelli, Marloni e Manzini furono arrestati. Condannati a morte, furono poi giustiziati il 24 gennaio 1854. Grazie agli importanti successi diplomatici e spionistici conseguiti a Monaco, il papa nominò monsignor De Luca nunzio a Vienna, il 16 giugno 1856. Durante il suo soggiorno in Austria, De Luca divenne un ottimo reclutatore di nuovi uomini e un perfetto organizzatore di reti e cellule di spionaggio. Cominciò anche a studiare e progettare quella che, alcuni anni dopo, sarebbe diventata la struttura organizzativa dell'Entità. De Luca disponeva di due importanti spie che riferivano direttamente a lui: l'avvocato Wilhelm Stieber a Vienna, e il delegato ad Ancona, monsignor Tancredi Bella. Monsignor Bella controllava tra i dieci e i dodici agenti, ognuno dei quali operava in piena libertà nel reclutare i propri informatori. Stieber, da parte sua, aveva tra i quindici e i venti informatori. A Vienna, l'Entità poteva contare su una rete di spionaggio perfettamente strutturata, costituita da un numero di agenti liberi compreso tra venticinque e trentadue, molti dei quali lavoravano per denaro, alcuni per interessi materiali e pochi mossi dalla fede. Tutte le informazioni ottenute dai membri della rete di spionaggio finivano nelle mani di monsignor De Luca, il quale, dopo averle analizzate, redigeva un rapporto settimanale che finiva sulla scrivania del cardinale Giacomo Antonelli, a Roma. Con l'aiuto di Stieber e della sua ampia rete di spionaggio, monsignor De Luca divenne per la Santa Sede una fonte inesauribile di informazioni, messaggi e analisi politiche. Nato in Sassonia il 3 maggio 1818, Stieber crebbe in una famiglia luterana, in cui il potere di Roma e i suoi rappresentanti non erano visti di buon occhio. Poiché suo padre era un funzionario, la famiglia si trasferì a Berlino, dove Stieber terminò gli studi di diritto. Durante l'università, divenne un confidente della polizia e, successivamente, entrò ufficialmente a far parte dei servizi segreti prussiani. Tra il 1845 e il 1850, quando era già avvocato, Stieber passava allo spionaggio informazioni su rivoluzionari e su intellettuali suoi clienti.Stieber entrò in contatto con l'Entità l'11 agosto 1848, quando avvicinò il segretario del nunzio a Berlino, monsignor Carlo Luigi Morichini. La spia disse di voler stabilire un contatto con lo spionaggio pontificio, perché gli era capitata tra le mani un'importante informazione. L'Entità a Roma comunicò a monsignor Morichini che
Stieber doveva essere messo alla prova, facendo passare la sua informazione attraverso un filtro di sicurezza. Durante l'incontro, la spia comunicò al nunzio papale che un infiltrato dello spionaggio prussiano in un gruppo rivoluzionario aveva saputo che erano in atto i preparativi per un attentato contro un'importante personalità di Roma, forse il papa. Morichini informò subito il cardinale Lambruschini, responsabile dei servizi segreti pontifici, e il cardinale Giovanni Soglia Ceroni, segretario di Stato. Era necessario agire rapidamente per scoprire, prima di tutto, chi fosse l'obiettivo del gruppo rivoluzionario. Furono inviati degli agenti dell'Entità a Berlino per raccogliere maggiori informazioni, ma questi non riuscirono a scoprire niente di nuovo. Tre mesi dopo l'incontro tra Morichini e Stieber, si scoprì che l'obiettivo dei rivoluzionari era Pellegrino Rossi, primo ministro dello Stato pontificio, noto per le sue idee liberali sul ruolo del pontefice nell'Italia unita. Infatti, il 15 novembre 1848, due mesi dopo la sua nomina a primo ministro, Pellegrino Rossi fu ucciso mentre si dirigeva in carrozza al Palazzo della cancelleria, per illustrare il proprio programma di riforme all'assemblea legislativa. Le indagini per l'omicidio furono condotte dagli agenti dell'Entità, ma il cardinale Lambruschini, senza alcuna spiegazione, ordinò che il caso, ancora irrisolto, fosse chiuso. Le indagini si fermarono e i documenti furono depositati nell'Archivio segreto vaticano, protette da segreto pontificio. Tra i cittadini circolò la voce che dietro l'omicidio ci fosse l'Ordine nero o il Circolo Octagonus, manovrati nell'ombra dal cardinale Lambruschini, uno «zelante» che non tollerava la presenza di un solo movimento libertario all'interno della Chiesa e dello Stato pontificio. La cosa certa è che le società segrete considerarono l'omicidio di Rossi come il segnale per dare fuoco alle polveri della rivoluzione, che portò all'esilio di Pio IX e all'instaurazione della Repubblica romana. In Italia, uno degli agenti più abili e fecondi agli ordini di monsignor Antonino Saverio De Luca fu Tancredi Bella. Quando era delegato papale a Rieti, Bella aveva scoperto la cospirazione di un gruppo chiamato «Fedeltà e Mistero», che realizzava azioni di sabotaggio contro gli austriaci e contro le autorità papali. Grazie alle informazioni di Bella, fu possibile smembrarla.6 Nel 1859, Tancredi Bella, delegato ad Ancona, scoprì che dalla seconda metà di aprile di quell'anno stavano confluendo in Piemonte numerosi volontari provenienti da tutta Italia, per arruolarsi nel corpo dei Cacciatori delle Alpi agli ordini di Giuseppe Garibaldi, col compito di affrontare gli austriaci. Scoprì anche che i funzionari della polizia pontificia ricevevano
minacce dai patrioti italiani in esilio e che la Francia stava spiegando un gran numero di truppe alla frontiera con il Piemonte. Tra marzo e agosto del 1860, gli agenti di monsignor Bella comunicarono che Garibaldi, nonostante il suo cattivo stato di salute, si era messo al comando di un contingente di cinquemila uomini diretto in Sicilia. Nel marzo del 1861, Vittorio Emanuele II si autoproclamò re d'Italia e cominciarono le negoziazioni con lo Stato pontificio, che si protrassero fino al 1864, quando Vittorio Emanuele si impegnò a rispettare il territorio sul quale si ergeva la basilica di San Pietro e il patrimonio esistente al suo interno. La qualità delle informazioni ottenute dalle spie di Tancredi Bella era eccellente, grazie anche alla struttura della sua rete, ideata da monsignor Antonino Saverio De Luca, che per ragioni di sicurezza restava fuori dal controllo dell'Entità e della Segreteria di Stato. In questo modo era in grado di operare con maggiore autonomia, agilità e sicurezza, riducendo il rischio di infiltrazioni. Attraverso i propri confidenti, l'Entità era riuscita a penetrare in importanti settori politici e diplomatici. Per esempio, uno degli agenti più attivi della cosiddetta «rete De Luca» fu un domestico al servizio di Odo Russell, diplomatico britannico a Roma e agente dei servizi segreti inglesi, tra il 1858 e il 1870. Grazie alla spia papale infiltrata in casa di Russell, il segretario di Stato veniva informato degli incontri tra il diplomatico e personalità di rilievo quali aristocratici, diplomatici, giornalisti e banchieri. Anche il corriere diplomatico, utilizzando un sistema ideato da monsignor De Luca, divenne una ricca fonte d'informazioni per le spie del papa. Il rappresentante statunitense a Roma presentò una nota di protesta ufficiale, perché i messaggi tra le legazioni di Roma e quella di Parigi venivano letti dalle spie del papa, così come tutta la posta che riceveva da Washington. Il 16 marzo 1863, monsignor Antonino Saverio De Luca fu nominato cardinale da Pio IX «per gli speciali e laboriosi servizi diplomatici a Monaco e a Vienna, per la dottrina del nunzio De Luca, per la sua fede nel destino del Papato e per i suoi servizi speciali alla Chiesa e al Sommo Pontefice». Il 28 dicembre 1864, il cardinale De Luca fu richiamato a Roma. Il papa gli affidò il compito di ridisegnare la struttura dell'organo di spionaggio della Santa Sede, quella delle sue operazioni, e della ricezione e analisi delle informazioni raccolte dalle spie papali all'estero. Fino a quel momento, questa funzione era stata svolta esclusivamente della Segreteria di Stato. A quanto pare, il papa era molto irritato perché, nel 1861, le sue spie non erano entrate
in azione quando il servizio telegrafico papale aveva intercettato delle comunicazioni cifrate tra il rappresentante del Regno di Sardegna a Roma e il suo ministro degli Esteri, il conte Camillo Benso di Cavour. Il cardinale Antonino Saverio De Luca lavorò alla struttura dell'Entità fino al 19 luglio del 1870, quando scoppiò la guerra franco-prussiana. L'imperatore Napoleone III fu costretto a ritirare le proprie truppe da Roma e Vittorio Emanuele ne approfittò, annunciando la ferma intenzione di occupare la Città eterna «pel mantenimento dell'ordine». Pio IX rispose allora: «Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond'Ella ha bisogno». Il 20 settembre 1870, l'esercito piemontese, guidato dal generale Cadorna, entrava a Roma attraverso Porta Pia. La presa di Roma fu l'ultimo passo dell'unificazione definitiva dell'Italia. La legge delle guarentigie del 13 maggio 1871 riconosceva l'inviolabilità della persona del pontefice, ma Pio IX la respinse, poiché accettarla avrebbe presupposto riconoscere l'annessione di Roma e di quel poco che rimaneva dello Stato pontificio. In risposta al rifiuto del papa, Vittorio Emanuele II si stabilì nel palazzo del Quirinale, sede storica dei pontefici, e dichiarò: «Siamo a Roma e ci resteremo». Il 6 novembre 1876, morì, all'età di sessantanni, il potente cardinale Giacomo Antonelli, che aveva diretto l'Entità per ventidue anni. Il 9 gennaio 1878 morì Vittorio Emanuele II e, quattro settimane dopo, Pio IX.11 Nei primi mesi del pontificato di Leone XIII, il cardinale Antonino Saverio De Luca ricoprì diversi incarichi ecclesiastici, come consulente per alcuni organismi della curia quali il dipartimento crittografico, l'Entità e la Sacra Congregazione degli Studi. Morì il 28 dicembre 1883, all'età di settantotto anni, nel proprio appartamento sito nel Palazzo della cancelleria. Il cardinale Antonino Saverio De Luca, «l'orchestratore di spie», fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo, vicino alla tomba di Pellegrino Rossi. Con la sua morte, si chiuse una delle tappe più gloriose dello spionaggio del papa. Antonino Saverio De Luca lasciò in eredità un'organizzazione di intelligence
perfettamente strutturata e pronta ad affrontare il nuovo e tragico secolo che si avvicinava.
Capitolo tredicesimo:Umberto Benigni Il fondatore del “Sacro terrore”. Alla morte di Leone XIII, fu eletto pontefice il cardinale Giuseppe Melchiorre Sarto, che scelse il nome di Pio X. Il nuovo papa, sostenitore delle posizioni antimoderniste di Pio IX, nominò segretario di Stato il cardinale Rafael Merry del Val. Uno dei più stretti e fedeli collaboratori di Merry del Val era un sacerdote di nome Umberto Benigni, che divenne una delle migliori spie del papa, nonché responsabile e fondatore del controspionaggio vaticano. Benigni, nato a Perugia nel 1862, dotato di una modesta reputazione come giornalista e polemista, si era trasferito a Roma nel 1895. Nel 1901, ebbe un posto come docente di storia della Chiesa presso il Seminario romano e iniziò a scrivere come opinionista sul giornale ultraconservatore La Voce della Verità. Difensore del potere temporale del papa e ostile a qualsiasi riforma politica e teologica, Benigni divenne il protetto del potente Merry del Val e di Gaetano De Lai, l'influente prefetto della Congregazione concistoriale, il Dipartimento vaticano incaricato della nomina dei vescovi. Benigni fu minutante presso la congregazione Propagande fide e, nel 1906, a quarantaquattro anni, senza la benché minima esperienza in diplomazia, fu nominato sottosegretario di Stato agli Affari straordinari. Benigni aveva il compito di fare da assistente a monsignor Pietro Gasparri, segretario degli Affari straordinari ed ex direttore del Seminario Vaticano. A un certo momento, stranamente, Pietro Gasparri fu incaricato di rivedere e pubblicare il nuovo codice di diritto canonico e dovette lasciare parte degli affari diplomatici nelle mani del suo vice, Umberto Benigni. Nel 1909, Merry del Val, fortemente ostile nei confronti delle innovazioni in campo politico e teologico, incaricò in segreto monsignor Benigni di creare una potente e ampia rete di spie, con il compito di individuare i sostenitori del modernismo all'interno del Vaticano e dei dipartimenti della Chiesa. In poco tempo furono denunciati quasi trecento religiosi, non solo in
Italia, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Germania. Successivamente, il segretario di Stato autorizzò il suo sottoposto a organizzare una specie di unità di controspionaggio destinata a operare solo all'interno del Vaticano e delle organizzazioni della Chiesa. Le operazioni spionistiche all'esterno della Santa Sede avrebbero continuato a essere gestite dall'Entità. La nuova organizzazione di controspionaggio fu chiamata Sodalitium Pianum ( «associazione di Pio») e fu conosciuta dentro le mura vaticane come sp. Per prima cosa, Sodalitium Pianum avrebbe dovuto creare un programma di propaganda che attaccasse le argomentazioni dei modernisti, con il fine di dominare un futuro dibattito pubblico sia all'interno della Chiesa che nella società. Compito dell'sp era anche quello di compiere operazioni clandestine per reclutare nuovi agenti in Europa e in America del Nord e del Sud. Il capo del controspionaggio era riuscito a fare una vertiginosa carriera nella curia romana, passando in breve tempo da un impiego di giornalista e redattore in quotidiani cattolici umbri e liguri a un incarico di fiducia, grazie all'aiuto del cardinale Merry del Val. Consapevole del potere dell'informazione, il capo dell'SP diresse, di propria iniziativa, una specie di ufficio stampa ufficioso della Segreteria di Stato, e per anni scelse, o meglio «indicò» ai corrispondenti dal Vaticano la linea da seguire nei loro articoli. Benigni definiva «nemici» i giornalisti di quotidiani e agenzie di stampa di ideologia liberale e «amici» i mezzi di comunicazione di tendenza conservatrice. Per esempio, ogni anno il cardinale segretario di Stato organizzava un'udienza con Pio X seguita da un incontro a cui assistevano solo i giornalisti «amici», presenti nell'elenco preparato da Benigni. Un altro passo importante dell'SP fu la creazione di una propria pubblicazione, Corrispondenza romana, il cui direttore era un fantoccio agli ordini di Benigni. Attraverso la rivista, venivano attaccati il modernismo e le politiche liberali, mentre si difendevano le prerogative papali e l'infallibilità del Sommo Pontefice. Quando dalla Francia e dall'Italia cominciarono ad arrivare le prime critiche per le affermazioni contenute in Corrispondenza romana, Pio X rispose che il giornale non era un organo ufficiale del Vaticano, e che, pertanto, non poteva interferire «legalmente» nella sua linea editoriale. In realtà, il papa stesso aveva autorizzato il segretario di Stato Merry del Val a finanziare la rivista con fondi della Chiesa. In risposta agli attacchi di Parigi e Londra, monsignor Umberto Benigni scrisse un articolo in cui esponeva tesi integraliste e la propria opinione di conservatore sugli avvenimenti politici e religiosi mondiali. L'articolo non solo fu
pubblicato su Corrispondenza romana, ma venne anche distribuito, attraverso gli agenti dell'SP, a diversi giornalisti stranieri, molti dei quali lo pubblicarono, integralmente o in parte, con la propria firma. Le tesi di Benigni furono lette da milioni di persone in Argentina, Spagna, Austria, Belgio e Stati Uniti.L'arrivo di monsignor Umberto Benigni ai vertici dei servizi segreti provocò una frenata nelle operazioni dell'Entità per due motivi: primo, perché in molte occasioni gli uomini di Benigni interferivano con le operazioni realizzate dagli agenti dello spionaggio; secondo, perché, da due anni, molti dei responsabili dell'Entità erano stati allontanati dalle proprie mansioni dopo le denunce degli agenti dell'SP, che li accusavano di essere difensori del modernismo. La verità è che il controspionaggio pontificio divenne il principale nemico dello spionaggio papale. Gli agenti di Sodalitium Pianum si scontravano con le spie dell'Entità per accaparrarsi le fonti di informazioni, per avere più potere o semplicemente per avere il controllo del materiale di intelligence che arrivava alla Santa Sede, Il sogno di monsignor Benigni era quello di unire il servizio di spionaggio dell'Entità a quello di controspionaggio di Sodalitium Pianum, sotto un unico e potente comando: il proprio. In realtà, l'organizzazione clandestina SP non aveva un nome ufficiale, né una sede e veniva finanziata con fondi segreti che arrivavano direttamente a monsignor Benigni attraverso il segretario di Stato Merry del Val. Benigni utilizzò all'interno del Vaticano le stesse tecniche adottate dalle agenzie di controspionaggio di altre potenze. Spionaggio, intercettazione della corrispondenza e pedinamenti erano alcuni dei compiti a cui provvedevano gli agenti del controspionaggio papale. Palazzi episcopali, congregazioni, dicasteri, commissioni pontificie, sacrestie, aule, seminari, nunziature: tutto era controllato da agenti dell'SP. Ogni giorno arrivavano a Roma centinaia di denunce anonime contro superiori o colleghi sospettati di aderire al modernismo e, a volte, tra i denunciati figuravano anche persone che lavoravano per Un'importante operazione di Sodalitium Pianum contro i movimenti modernisti ebbe luogo nel luglio del 1904, quando Pio x decise di lanciare una campagna antimodernista nelle scuole cattoliche. Per il pontefice era impensabile che i sostenitori del modernismo potessero inculcare le loro «spaventose» idee a bambini e adolescenti nelle aule scolastiche. Merry del Val ordinò allora a Benigni di preparare un «semplice piano d'attacco» contro i settori laici che dirigevano le scuole cattoliche e appoggiavano il modernismo. In pochi giorni, il cardinale Merry del Val ebbe sulla sua scrivania un ampio rapporto firmato da monsignor Umberto Benigni, in cui era indicata la dura linea
d'azione che l'SP e l'Entità avrebbero seguito per estirpare alla radice qualsiasi idea modernista nelle scuole. In una pagina del rapporto, Benigni segnalava due obiettivi molto chiari da colpire: lo spirito di indipendenza della mentalità progressista dei cattolici laici e lo sviluppo dei movimenti cristiano-democratici.6 In Italia si era già affermata l'Opera dei congressi, un'organizzazione composta da circoli, associazioni, sindacati e società di mutuo soccorso coordinata da laici, che in poco tempo era diventata un importante strumento per la penetrazione dei cattolici in settori tradizionalmente politici, proprio quando il papato aveva proibito ai cattolici la partecipazione a qualsiasi attività politica. Il 28 luglio 1904, senza l'autorizzazione di Pio X, il cardinale Merry del Val, ricevuti i rapporti dagli agenti di monsignor Benigni, inviò una lettera in cui ordinava lo scioglimento dell'Opera dei congressi e trasferiva il controllo di tutte le sue attività ai vescovi delle diocesi. Il potente segretario di Stato, al contrario di Benigni, credeva che con questa misura la Santa Sede avrebbe controllato le organizzazioni laiche, allontanandole dal modernismo. In un rapporto segreto presentato personalmente al cardinale Merry del Val, Benigni consigliava di affidare i compiti svolti dall'Opera dei congressi a un'organizzazione vaticana formata da gruppi e associazioni di estrema destra, l'Azione cattolica. Un'altra famosa operazione dell'SP si svolse in Francia contro l'organizzazione segreta chiamata Sillon (solco), fondata da Marc Sagnier nel 1898, che riuniva importanti settori in difesa del movimento cristiano-democratico. Quando fu creato, il Sillon era un gruppo laico fuori dal controllo dei vescovi, cosa che non piaceva a Pio x né al cardinale Merry del Val e, di conseguenza, nemmeno a monsignor Umberto Benigni. Nel 1908, dieci arcivescovi e ventisei vescovi proibirono ai loro chierici di unirsi al movimento, sotto minaccia di scomunica, mentre il Sommo Pontefice dava il colpo di grazia all'organizzazione riproponendo quanto fatto con l'Opera dei congressi in Italia: ordinò che le sue attività passassero sotto il controllo dei vescovi delle diocesi e che fossero realizzate dal movimento di destra Action française, appoggiato dal Vaticano. Ma, nonostante le pressioni del Vaticano e di Sodalitium Pianum, il Sillon fu più restio a scomparire dell'associazione italiana. Monsignor Benigni ribadì al cardinale Merry del Val che l'unica maniera di fermare il male modernista sarebbe stata una condanna esplicita e pubblica da parte di Pio X. Ma il pontefice si oppose, sostenendo che quanti aderivano al modernismo fossero «un danno, più che dannosi». Allo stesso tempo,
però, ordinò agli agenti dell'SP di sequestrare qualsiasi libro, rivista o giornale pubblicato dal Sillon, affinché fosse distrutto dal Sant'Uffizio. «Quanti più mezzi per la sua diffusione distruggiamo, più difficile sarà penetrare nella società» disse monsignor Benigni. A dir la verità, una condanna pubblica ed esplicita del pontefice sarebbe stata più vantaggiosa per i membri del Sillon, perché avrebbe potuto suscitare una certa solidarietà e, di conseguenza, avvicinare alla loro causa più persone. Nel novembre del 1909, iniziò una delle più oscure operazioni compiute dagli agenti dell'SP. Alcuni informatori dissero a Benigni di aver scoperto a Roma un gruppo di religiosi modernisti, diretta dalla Svizzera da Antonio De Stefano, un ex sacerdote che viveva a Ginevra. Il capo dell'SP ordinò al giovane sacerdote Gustavo Verdesi di infiltrarsi nell'organizzazione di De Stefano. Verdesi, vicino alle idee moderniste, comunicò a Benigni che la rete era stata smembrata. Ma Benigni non ne era convinto, per cui decise di mandare a Ginevra padre Pietro Perciballi, un vecchio compagno di studi di De Stefano.8 Perciballi andò a Ginevra e si mise in contatto con Antonio De Stefano, con il pretesto di rivederlo. Nel suo primo rapporto a Benigni, padre Perciballi scrisse che De Stefano aveva intenzione di pubblicare una rivista intitolata Revue Moderniste Internationale e che lo aveva invitato a trasferirsi a casa sua. Durante le lunghe assenze di De Stefano, padre Perciballi fotografò i titoli dei volumi della biblioteca dell'ex sacerdote ed esaminò tutti i documenti del suo studio, incluse le lettere di Ernesto Buonaiuti, i cui libri erano stati dichiarati eretici dal Sant'Uffizio. Quando Perciballi tornò a Roma, si presentò a Benigni con le copie della corrispondenza privata di De Stefano. Gli archivi dell'SP si arricchirono di preziosi rapporti su vescovi riformisti, insegnanti di seminario liberali, intellettuali e giornalisti sospetti, chierici vicini alla massoneria. Tra i denunciati figuravano anche importanti personalità della curia, come l'arcivescovo di Parigi, Léon-Adolphe Amette, o quello di Milano, Andrea Carlo Ferrari. Identica sorte toccò ai rettori delle università cattoliche di Lovanio, Parigi e Tolosa. Altri due cardinali indagati da Umberto Benigni furono Giacomo Della Chiesa e Pietro Gasparri, che anni dopo divennero due delle personalità più potenti della Santa Sede. Della Chiesa fu «punito» per la sua vicinanza ai modernisti e immediatamente mandato a Bologna come arcivescovo. La ragione del trasferimento stava nel desiderio del cardinale Merry del Val di tenere lontano Della Chiesa dalla curia romana e dalla Città eterna. Pietro Gasparri fu indagato da
Benigni, senza che Merry del Val o Pio X ne avessero dato ordine. Ciò nonostante, il 3 settembre 1914, dopo la morte di Pio X, il cardinale Giacomo Della Chiesa sarà eletto pontefice con il nome di Benedetto XV, e nominerà segretario di Stato il cardinale Pietro Gasparri. Presto Sodalitium Pianum, sostenuto dal papa in persona, dal cardinale Rafael Merry del Val e dal cardinale Gaetano De Lai, cominciò a essere conosciuto nella curia romana come il «Sacro terrore». Grazie alla complicità e al consenso di Pio X, monsignor Umberto Benigni si ritrovò tra le mani un potere eccezionale, per il quale i suoi nemici e le sue vittime lo definivano «il genio diabolico del papa». Ma, con grande sorpresa di tutti, il 7 marzo 1911, il quotidiano L'Osservatore Romano pubblicò la notizia che Umberto Benigni era stato sollevato dall'incarico di sottosegretario della Congregazione degli affari straordinari della Segreteria di Stato e sostituito da un giovane funzionario dal brillante avvenire in Vaticano, Eugenio Pacelli. Più come consolazione che per riconoscenza, Pio X nominò monsignor Umberto Benigni protonotario apostolico, concedendogli di rimanere al comando del controspionaggio. Ufficialmente, monsignor Benigni chiese di abbandonare l'incarico presso la Segreteria di Stato per dedicare più tempo ai servizi segreti pontifici. In quel periodo Benigni sognava ancora di unire lo spionaggio e il controspionaggio sotto il proprio comando. Monsignor Benigni, protetto ora dal cardinale De Lai, continuò ad avere accesso ai documenti della Segreteria di Stato e a servirsi del suo personale, chiese un salario di settemila lire annue e l'aumento dei fondi per finanziare le attività di intelligence. Presto sorsero altri problemi per Umberto Benigni. Un ex sacerdote cattolico diventato metodista dichiarò al giornalista Guglielmo Quadrotta di essere stato segretario personale di monsignor Umberto Benigni e un agente dell'SP, ammettendo di essersi infiltrato nei circoli italiani sospettati di avere tendenze moderniste. Un altro scandalo fu rivelato da un gruppo di liberali belgi e tedeschi che avevano iniziato un'indagine segreta sulle attività di Sodalitium Pianum ed erano riusciti a infiltrare nell'SP il frate domenicano Foris Prims. Prims, scandalizzato dai metodi utilizzati dal controspionaggio papale, e convinto che monsignor Umberto Benigni operasse senza protezione, decise di andare a Roma e chiedere udienza al papa per raccontargli ogni cosa. Rafael Merry del Val frustrò tutti i suoi tentativi di incontrare Pio X, salvando così Benigni. Nel 1912, il cardinale segretario di
Stato tagliò i fondi al giornale Corrispondenza romana e, poco tempo dopo, ne ordinò la chiusura. Era evidente che la stella di Umberto Benigni stava perdendo luminosità. Solo se Pio X avesse riconosciuto pubblicamente l'esistenza di Sodalitium Pianum, avrebbe dotato l'organizzazione e il suo fondatore di un inestimabile potere. Ma Pio X preferì non esporsi. Quei cambiamenti così rapidi erano un'anticipazione del nuovo corso che avrebbe intrapreso la politica papale dopo la morte di Pio X e l'elezione di Benedetto XV. Il nuovo papa, infatti, destituì il potente cardinale Rafael Merry del Val dall'incarico di segretario di Stato e lo nominò responsabile dell'abbazia di Subiaco. Insieme a Merry del Val, caddero in disgrazia anche i suoi amici. Ma il colpo più duro contro i fanatici antimodernisti arrivò quando il Sommo Pontefice diede ordine di destituire monsignor Umberto Benigni dall'incarico di capo di Sodalitium Pianum, perché fosse destinato all'Accademia dei nobili ecclesiastici, a insegnare stile diplomatico. Il cambio politico divenne evidente quando Benedetto XV promulgò l'enciclica Ad beatissimi Apostolorum, con la quale sanciva la fine dei cosiddetti «integralisti», termine che naturalmente non comparve nel documento. L'SP continuò a prosperare anche durante la guerra e fino al 1919, quando furono pubblicati alcuni documenti provenienti dai suoi archivi trovati dai servizi segreti tedeschi. Quando monsignor Benigni abbandonò il Vaticano, dopo l'elezione a pontefice del cardinale Della Chiesa, uno degli «epurati» di Sodalitium Pianum, lasciò dietro di sé servizi segreti in rovina, operazioni dell'Entità quasi inesistenti, amicizie rotte e sospetti tra i membri della curia romana per le reciproche denunce. Sfortunatamente, l'idea di Benigni di un servizio di spionaggio papale efficace era spropositata e rimase solo un sogno. All'inizio degli anni Venti, monsignor Benigni viveva in totale clandestinità, cosa che lo portò a soffrire di una paranoia morbosa. Cercava di mantenere i contatti con la sua rete di informatori, con i circoli papali, a molti dei quali non aveva più accesso, e con i vecchi alleati che ancora non gli avevano voltato le spalle. Era convinto che la sua corrispondenza venisse intercettata e aperta. Incontrava personalmente gli informatori e faceva in modo che i suoi viaggi rimanessero segreti, anche se, in realtà, nella Santa Sede nessuno era ormai interessato ai suoi incontri clandestini. Si sa che Umberto Benigni fu poi reclutato da Arturo Bocchini, capo dei servizi di sicurezza del regime fascista, come agente dell'Organizzazione di vigilanza e repressione antifascista (ovra), la polizia segreta di Benito Mussolini. Monsignor Benigni e Arturo Bocchini avevano già collaborato in occasione di alcune missioni segrete in Vaticano. Sulla
fine di monsignor Umberto Benigni esistono due versioni. Secondo la prima, la più credibile, l'ex capo di Sodalitium Pianum morì d'infarto nel 1934, all'età di settantadue anni. Per la seconda, riportata dallo scrittore e ricercatore Paul Williams nel libro The Vatican Exposed. Money, Murder and the Mafia e basata sul contenuto dei diari del cardinale Eugène Tisserant, monsignor Umberto Benigni potrebbe aver fatto parte della cospirazione che mise fine alla vita di Pio XI, il 10 febbraio 1939. Nel giugno del 1938, Pio XI affidò a tre gesuiti, un americano, un tedesco e un francese, l'incarico di preparare un'enciclica per denunciare il razzismo e l'antisemitismo. Alla fine dell'anno, il testo fu consegnato in Vaticano, ma l'enciclica Humani generis unitas non fu mai promulgata, a causa dell'improvvisa morte del pontefice e dell'arrivo sul trono di Pietro di Pio XII, un papa molto più «permissivo» nei confronti del regime nazista in Germania e di quello fascista in Italia. Lo storico e scrittore, citando i diari di Tisserant, spiega che agli inizi di febbraio, quando la salute del pontefice iniziò a declinare, qualcuno ordinò che i quattro medici che curavano da anni Pio XI fossero sostituiti dal dottor Francesco Petacci e da due suore infermiere. La notte tra l'8 e il 9 febbraio del 1939, la salute del papa peggiorò, ma nel pomeriggio del 9, quasi per miracolo, Pio XI si riprese e chiese a Tisserant e ad altri cardinali di prepararsi per la pubblicazione dell'enciclica. Il Santo Padre aveva previsto di promulgarla l'il febbraio, durante un'udienza con i vescovi italiani.16 Il 10 febbraio 1939, fu comunicato ufficialmente che il pontefice era deceduto alle cinque e mezzo del mattino. Ma alle sei e diciannove minuti dello stesso giorno, il cardinale Tisserant chiese di vedere il papa e il dottor Petacci glielo impedì, dicendogli che la salute di Pio XI era peggiorata. Alcuni giorni dopo, Tisserant scrisse nel suo diario che, quando il dottore gli aveva detto che le condizioni del pontefice erano peggiorate, in realtà questi era già morto da quarantanove minuti. Nessuno era stato testimone del decesso e l'unica persona che ebbe accesso alla stanza del papa fu il suo medico, il dottor Petacci. Quello stesso giorno, secondo Tisserant, il dottor Petacci e il cardinale Eugenio Pacelli ordinarono che il cadavere fosse imbalsamato, violando così la sacra tradizione. Nessun papa era mai stato imbalsamato, a maggior ragione essendo morto nel cuore della notte. Sempre nei suoi diari, il cardinale Tisserant annotò che il corpo di Pio XI era «contorto» e che mostrava «segni e graffi strani» e
scrisse: «Ils l'ont assassiné» (lo hanno ucciso). Chi lo assassinò? Per Tisserant era chiaro che i principali sospettati fossero il cardinale Eugenio Pacelli e il dottor Francesco Petacci, soprattutto quando scoprì che il medico era il padre di Claretta Petacci, l'amante di Mussolini. Il cardinale Eugène Tisserant credeva che nella cospirazione fosse coinvolto anche il segretario di Eugenio Pacelli, monsignor Umberto Benigni, informatore dell'OVRA, che durante la Seconda guerra mondiale passò diversi rapporti della Santa Sede alla Gestapo a Roma. In base a questa stessa ipotesi, Umberto Benigni sarebbe morto d'infarto alla fine del 1945, a ottantatré anni. Tutti i documenti relativi al passaggio di monsignor Benigni attraverso i vari dipartimenti vaticani furono classificati come «segretissimi» e depositati nell'Archivio segreto vaticano, nella sezione «Fondi relativi agli archivi di famiglie e di singoli personaggi». I documenti relativi a «Benigni, Umberto» sono conservati tra l'Archivio Beni e il Fondo Benincasa e non sono stati ancora declassificati.Dopo la morte del cardinale Tisserant, avvenuta il 21 febbraio 1972, nel rispetto delle sue volontà, tutte le carte e i documenti personali furono imballati e depositati nella camera di sicurezza di una banca in Svizzera. Sembra che il cardinale Eugène Tisserant avesse confidato ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori di non volere che le sue carte venissero depositate nell'Archivio segreto vaticano e custodite sotto segreto pontificio. «Molti di quei documenti potrebbero rappresentare per il Vaticano un'autentica bomba a orologeria» disse Tisserant, e forse monsignor Umberto Benigni potrebbe essere uno degli inneschi. Un epitaffio per Benigni, che ben descrive la sua personalità, potrebbe essere la frase che pronunciò a proposito di chi criticava il suo operato: «La storia è un continuo e disperato conato di vomito e per questa umanità non ci vuole altro che l'Inquisizione».
Capitolo quattordicesimo:Michel Joseph d'Herbigny Il capo del Russicum. La Rivoluzione d'ottobre del 1917 e la conquista del potere dei bolscevichi guidati da Vladimir Lenin imposero alla Chiesa un nuovo nemico: il comunismo ateo. Il 23 gennaio 1918, il Consiglio dei commissari del popolo annunciò le misure del nuovo governo in materia religiosa. Fu proibita la gestione degli istituti scolastici alle
organizzazioni religiose, negato l'appoggio statale alla Chiesa e vietato l'insegnamento della religione cattolica ai bambini non solo nelle scuole, ma anche nelle case. Furono inoltre proibite le donazioni dei fedeli nelle chiese e sospesi i diritti civili di tutti i cittadini cattolici. Scriveva Lenin: «La confisca di tutti gli oggetti di valore, soprattutto di quelli che appartengono ai monasteri e alle chiese più ricche, si dovrà realizzare con implacabile risolutezza e nel più breve tempo possibile. Quanto maggiore è il numero di rappresentanti del clero reazionario e della borghesia reazionaria che a questo proposito si riuscirà a fucilare, tanto meglio sarà».Per rispondere alle misure antireligiose, l'allora papa Benedetto XV aveva convocato Michel Joseph d'Herbigny, membro dell'Entità ed esperto in affari russi, e lo aveva incaricato di creare una rete clandestina che si estendesse per tutta l'Unione Sovietica. Ufficialmente, il Sommo Pontefice avrebbe «ignorato» l'esistenza della rete e sarebbe intervenuto solo qualora fosse stato necessario il suo appoggio per la nomina di qualche carica religiosa, come accadde nel 1926 con Eugène Neveu.3 D'Herbigny, nato a Lille, in Francia, l'8 maggio 1880, entrò nella congregazione gesuita a diciassette anni, e a trenta fu ordinato sacerdote. Durante gli studi a Parigi, si interessò alla cultura e alla storia russa. Era un erudito, ma anche un uomo d'azione. Mentre scriveva opere sulla filosofia russa in cirillico, partecipava alle missioni dell'Entità per portare il cattolicesimo negli angoli più remoti dell'Unione Sovietica. La reputazione di Michel d'Herbigny giunse fino in Vaticano, che lo convocò a Roma. Nel 1922, era già direttore del neonato Istituto pontificio per gli studi orientali e consulente esperto della Congregazione per le Chiese Orientali, il dipartimento papale responsabile degli affari ecclesiastici in Russia e in tutti i paesi slavi. L'11 febbraio 1926, all'età di quarantacinque anni, Michel d'Herbigny fu nominato vescovo.4 La verità è che fino all'arrivo di d'Herbigny all'Entità, il Vaticano aveva poche informazioni su quanto accadeva in Unione Sovietica, poiché non aveva a Mosca né un nunzio papale né un delegato apostolico. Solo il gesuita Edmund Walsh, capo della missione pontificia di soccorso alla Russia, inviava in Vaticano, attraverso l'ambasciata tedesca a Mosca, qualche rapporto contenente anche informazioni sui movimenti dell'Armata rossa. Nella primavera del 1923, tre prelati cattolici e dodici sacerdoti furono arrestati dalla polizia segreta con l'accusa di
attività controrivoluzionaria e antisovietica. Due di loro, l'arcivescovo Jan Cieplak e il suo vicario generale, Konstanty Budkiewicz, agente dell'Entità, furono condannati, rispettivamente, all'ergastolo e ai lavori forzati. La pena di Cieplak fu poi ridotta a dieci anni, mentre Budkiewicz fu giustiziato. Chiese, seminari e scuole vennero chiuse e i sacerdoti arrestati, giustiziati e condannati all'esilio. Nel 1924, alla morte di Lenin, l'anziano arcivescovo di Tiraspol Zerr era l'unico vescovo cattolico vivo e in libertà in Unione Sovietica. Alla fine del 1925, con grande sorpresa, Michel d'Herbigny fu invitato in Russia dalla Chiesa ortodossa, ovviamente con il consenso del governo sovietico. A Mosca, d'Herbigny incontrò diplomatici occidentali, prelati della Chiesa ortodossa e Anatoli Lunarcharski, uno dei più influenti membri del regime sovietico. Quando monsignor d'Herbigny ritornò a Roma, portava con sé un numero incalcolabile di preziose informazioni di prima mano, ormai difficili da ottenere perché sempre meno sacerdoti volevano recarsi in Russia per farsi carico, clandestinamente, delle parrocchie sparse per tutto il paese. In diversi seminari, infatti, era giunta voce che i sacerdoti venivano arrestati dall''Obyeddinenoye Gosudarstvennoye Politicheskoye Upravleniye (OGPU), la polizia politica del regime comunista, e molti giovani sacerdoti si rifiutarono di andare in Russia. Mentre le relazioni tra Mosca e il Vaticano procedevano faticosamente, Pio XI decise di concedere ai vescovi russi un'autorizzazione speciale per ordinare sacerdoti, battezzare, celebrare matrimoni e dare l'estrema unzione. Così facendo, il papa sperava di far fronte al collasso delle strutture ecclesiastiche. L'11 febbraio 1926, Pio XI convocò d'Herbigny nel proprio appartamento privato per affidargli una missione segreta in Unione Sovietica. Il gesuita francese avrebbe dovuto costituire una gerarchia cattolica clandestina in Russia, e il primo passo sarebbe stato consacrare padre Eugène Neveu vescovo. Padre Eugène Neveu arrivò in Russia, nel 1907, per dirigere una comunità franco-belga a Makejevka, e svolse il suo incarico fino al 1917. Da quel momento non si ebbero più sue notizie fino al 1922, quando l'Entità ricevette a Roma un breve messaggio da un angolo sperduto dell'Unione Sovietica.5 Eugène Neveu era una persona molto coraggiosa, moralmente ineccepibile, un agente perfetto dell'Entità, che avrebbe svolto egregiamente la sua missione in Unione Sovietica. Un giorno di fine marzo, Michel d'Herbigny si recò a Parigi per chiedere all'ambasciata sovietica il visto per viaggiare a
Mosca. Nel frattempo, il Ministero degli affari esteri francese aveva già ordinato alla propria ambasciata a Mosca di rintracciare Eugène Neveu e di portarlo nella capitale sovietica, dove sarebbe rimasto in attesa di nuovi ordini.6 Il primo aprile 1926, d'Herbigny poté parlare per la prima volta con Neveu. La mattina del 21 aprile 1926, d'Herbigny uscì dall'hotel Mosca e raggiunse la chiesa di S. Luigi dei Francesi, dove lo aspettava Eugène Neveu. Michel d'Herbigny spiegò che era stato inviato da Pio XI a Mosca, con la missione di organizzare una gerarchia cattolica clandestina e un'amministrazione apostolica che si preoccupasse di rimpiazzare i vescovi e i sacerdoti esiliati o incarcerati dalle autorità comuniste. Il vescovo arrivato da Roma nominò Neveu «primo vescovo cattolico segreto» dell'Unione Sovietica, lesse il documento di nomina e mise al dito di Neveu l'anello simbolo dell'autorità episcopale, che gli dava il potere di ordinare sacerdoti e consacrare vescovi. Neveu non avrebbe mai dimenticato la frase che Michel Joseph d'Herbigny gli sussurrò all'orecchio: «Ricorda che ora sei un successore degli apostoli». Prima di lasciare la chiesa, d'Herbigny diede istruzioni al nuovo vescovo per rintracciare padre Alexander Frison e padre Boleslas Sloskans, perché anche loro sarebbero stati consacrati vescovi in segreto. Neveu, Frison e Sloskans sarebbero diventati i capi dell'ampia rete della divisione russa dell'Entità, il Russicum, conosciuta come «I clandestini». Quando Michel Joseph d'Herbigny rientrò in albergo e trovò l'ordine di presentarsi alla polizia per essere interrogato sulla sua missione in Russia, capì, per la prima volta, che all'interno dell'organizzazione c'era una talpa. Preferì non parlarne con nessuno, poiché avrebbe potuto scatenare il panico tra i membri dell'organizzazione. In compagnia di Neveu, d'Herbigny andò a Karlov, Odessa, Kiev e Leningrado, incontrò sacerdoti e seminaristi e nominò vescovi padre Boleslas Sloskans e padre Alexander Frison. Il 10 maggio, quattro giorni prima del suo rientro a Roma, monsignor Michel d'Herbigny tornò di nuovo nella chiesa di S. Luigi dei Francesi per consacrare Sloskans e Frison, come aveva ordinato Pio XI. Alla fine di agosto, l'inviato del pontefice viaggiò a Leningrado, dove consacrò vescovo padre Antoni Malecki, da poco rimesso in libertà dopo aver scontato una pena di cinque anni ai lavori forzati per «crimini contro la Rivoluzione». In verità, d'Herbigny era un principiante in missioni clandestine e i suoi movimenti nella Russia bolscevica non passarono inosservati sotto gli occhi dell'esperta polizia segreta. In pochi giorni, l'OGPU aveva già identificato tutti i membri della rete
dei «clandestini», coordinati dalla chiesa di S. Luigi dei Francesi. D'Herbigny, Neveu, Sloskans e Frison non furono infastiditi, ma gli uomini di Feliks Édmundovic Dzerzinskij, il capo dell'OGPU, arrestarono i membri meno importanti della rete di spie papali. Molti sacerdoti furono catturati e mandati nei campi speciali e nei gulag a scontare dure condanne ai lavori forzati. Gli agenti dell'OGPU controllavano ogni spostamento di d'Herbigny, fino a quando non ebbero prove sufficienti contro la rete dei «clandestini». Il 28 agosto, d'Herbigny andò al commissariato di polizia per chiedere una proroga del visto, che sarebbe scaduto il 4 settembre, e un permesso per entrare in Ucraina. Le autorità estesero la validità del visto fino al 12 settembre, ma tre giorni dopo, quattro agenti dell'OGPU si presentarono al suo albergo e gli comunicarono che era stata dichiarata persona «non gradita». Gli consegnarono il passaporto e lo scortarono in treno fino alla frontiera con la Finlandia, da dove fece ritorno in Vaticano per fare rapporto a Pio XI. A Mosca, intanto, Neveu aspettava d'Herbigny. Poiché non arrivava, decise di andare alla chiesa di S. Luigi dei Francesi e officiare la messa del mattino. Improvvisamente, nel mezzo della cerimonia, un uomo in abiti da lavoro si avvicinò al vescovo e gli consegnò un pacco con del denaro e dei vestiti e gli disse: «Da parte di monsignor d'Herbigny. Che da questo momento Dio la protegga nella sua opera». Subito dopo, l'uomo lasciò la chiesa. Neveu capì che da quel momento lui e la sua rete di «clandestini» sarebbero stati soli, con la protezione di Dio ma senza quella del papa e dell'Entità. Le autorità sovietiche smantellarono sistematicamente la gerarchia cattolica clandestina in Russia e la politica imposta dal nuovo leader, Josif Stalin, portò a un aumento delle persecuzioni. Il 15 settembre 1926, il Consiglio dei ministri adottò una risoluzione che proibiva agli stranieri di professare qualsiasi credo religioso. Monsignor Sloskans, che aveva reso pubblica la sua posizione all'interno della Chiesa cattolica, fu arrestato con l'accusa di spionaggio e condannato ai lavori forzati. Nel febbraio del 1929, i vescovi Malecki e Frison furono arrestati, mentre, per ordine di Stalin, tutte le chiese cattoliche venivano fatte saltare in aria con la dinamite.12 Nel 1937, l'Entità informò Pio XI che il vescovo Alexander Frison era stato giustiziato con un colpo alla nuca nella sua cella del campo di lavoro. Quando morì, pesava solo quaranta chili. Tra fine del 1926 e gli inizi del 1927, l'unico collegamento dell'Entità e del papa con l'Unione Sovietica fu il vescovo Eugène Neveu, dal
quale, ogni due settimane, Michel d'Herbigny riceveva rapporti sempre più scoraggianti. Ma dal 1936, l'Entità non poté più contare su di lui. Infatti, il vescovo aveva lasciato l'Unione Sovietica per sottoporsi a delle cure mediche in Francia e in seguito non era più riuscito a ottenere il visto per rientrare a Mosca. Il 15 agosto 1929, Pio XI ordinò la creazione a Roma di un'unità speciale chiamata Russicum, diretta dal vescovo Michel d'Herbigny. Scriveva il prestigioso vaticanista Nino Lo Bello, nel 1982: «I signori che studiano in questa strana istituzione accademica sanno che potrebbero essere inviati all'estero per realizzare pericolose operazioni. In grandi auditori le reclute apprendono tutto il possibile sull'Unione Sovietica, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania e la Bulgaria. Chi partecipa non solo impara la lingua e i dialetti dei paesi in cui si specializza, ma studia anche in maniera intensiva la storia, l'economia e i problemi politici. Il Vaticano è poco interessato alle informazioni militari e presta poca attenzione a questo aspetto. Questa è una caratteristica che si potrebbe comparare a qualsiasi altra agenzia di intelligence, come la CIA o il KGB». Il vescovo d'Herbigny decise di mantenere attiva la Commissione per la Russia, in modo da farne un istituto in cui i futuri membri del Russicum potessero essere addestrati. Il programma di studi della Commissione prevedeva non solo l'apprendimento della lingua russa, ma anche la conoscenza della storia, della cultura e della gastronomia. I futuri agenti leggevano i quotidiani sovietici e poi commentavano le notizie in piccoli gruppi in cui era consentito parlare solo russo.14 Nell'ultima fase della preparazione, due membri dell'esercito polacco insegnavano alle «reclute» le tecniche di paracadutismo, per poter essere lanciati dagli aerei in diversi punti dell'Unione Sovietica. Il 16 dicembre del 1929, all'età di cinquantaquattro anni, Eugenio Pacelli indossò la porpora cardinalizia e, il 7 febbraio 1930, ricoprì a pieni poteri la carica di segretario di Stato. Negli anni Trenta, gli uomini di Stalin cominciarono a infiltrarsi nella curia romana e uno degli agenti dell'OGPU più attivi in Vaticano fu Alexander Deubner, una persona molto vicina a Michel d'Herbigny. Deubner era nato a San Pietroburgo l'11 ottobre 1899, e aveva studiato in un collegio cattolico in Belgio. Nel 1921, Deubner fu inviato in un seminario in Turchia per prepararsi come missionario e, dopo cinque anni di studio, grazie all'aiuto dell'arcivescovo Andreas Sheptyckyi, divenne parroco della congregazione degli espatriati russi a Nizza. Lì, si convertì al credo ortodosso, ma alla fine del 1928, decise di rinunciare alla sua apostasia e riabbracciare il cattolicesimo. Ancora una volta,
l'arcivescovo Sheptyckyi intervenne in aiuto del suo protetto e Deubner entrò in contatto con Michel d'Herbigny, che gli offrì un posto di assistente presso il Russicum. Nell'estate del 1932, il Russicum gli affidò una delicata missione in Polonia, che rappresentò l'inizio della fine di Deubner e il primo passo per la caduta in disgrazia dell'arcivescovo Michel Joseph d'Herbigny. Durante il suo viaggio in Polonia, Alexander Deubner attirò l'attenzione dei servizi segreti, interessati non solo alle sue relazioni con d'Herbigny, ma anche ai suoi contatti con Mosca. Uno zio di Deubner era amico di Clara Zetkin, una famosa attivista comunista tedesca. Quando l'agente del Russicum passò da Berlino, incontrò Clara Zetkin, che lo presentò a diversi suoi contatti, molti dei quali erano diplomatici dell'ambasciata sovietica a Berlino, agenti dell'OGPU. Alla fine del 1932, Deubner fu espulso dalla Polonia con l'accusa di spionaggio e tornò a Roma, dove era esploso un vero e proprio scandalo. Infatti, si era sparsa la voce che dei documenti segreti molto delicati sulle operazioni del Russicum in Europa orientale fossero stati rubati dalla scrivania del pontefice. La stampa, come previsto, soffiò sul fuoco. Il nome di Deubner apparve sui giornali con titoli a quattro colonne.Monsignor d'Herbigny fu interrogato, ma non fu in grado di fornire spiegazioni sulle infiltrazioni nel Russicum. L'SP, il controspionaggio vaticano, chiese la comparizione di Alexander Deubner, ma il religioso era svanito nel nulla e la sua fuga disperata fu interpretata da molti come un'ammissione di colpevolezza. Alexander Deubner era scappato a Berlino, dove confessò al nunzio padre Eduard Gehrmann, di aver avuto una relazione con la comunista Clara Zetkin. Gehrmann seppe, successivamente, che in occasione di quegli incontri Deubner le aveva consegnato materiale molto delicato del Russicum e dell'Entità e che lei, a sua volta, lo aveva passato ai responsabili dello spionaggio sovietico in Germania. Nel febbraio del 1933, dopo l'incendio del Reichstag, sede del Parlamento tedesco, Adolf Hitler approfittò dell'occasione per lanciare un brutale attacco contro il Partito comunista tedesco. Padre Deubner, ricercato da membri del Partito nazista per la sua relazione con la militante comunista Clara Zetkin, fu costretto ad abbandonare Berlino, ma venne arrestato dalla polizia di frontiera tedesca mentre cercava di oltrepassare il confine con l'Austria. Alla fine di maggio, dopo due mesi trascorsi in prigione, Deubner fu rilasciato e si recò a Belgrado, dove chiese aiuto al vescovo Franz Grivec, esperto di affari russi. Grivec consigliò a Deubner di ritornare a Roma e spiegare l'accaduto a Pio XI, al cardinale segretario di Stato Pacelli e al responsabile del Russicum, monsignor Michel d'Herbigny. Alexander Deubner pensava di poter contare sulla
protezione del suo ex capo, ma non sapeva che d'Herbigny era stato allontanato dal Vaticano per ordine di Pio XI. Infatti, quando Deubner arrivò a Roma, nel luglio del 1933, monsignor Michel d'Herbigny si trovava in un monastero lontano dalla città. Oramai molti membri della curia si opponevano alle attività del Russicum, e tra questi Vladimir Ledochowski, il padre generale dei gesuiti. Alla fine di novembre del 1933, due agenti del controspionaggio e il padre generale Ledochowski fecero visita a d'Herbigny e gli consegnarono un messaggio in cui Pio XI gli chiedeva di presentare le dimissioni da tutte le cariche da lui ricoperte all'interno della curia. Seguendo quanto imponevano le rigide norme dell'ordine gesuita, i cui membri erano chiamati anche «soldati di Dio», sulla cieca obbedienza al Sommo pontefice, l'ex capo del Russicum firmò il documento senza protestare. Monsignor Michel Joseph d'Herbigny morì il 24 dicembre 1957, all'età di settantasette anni. Durante gli anni che trascorse in isolamento, in una casa dei gesuiti, gli fu proibito di scrivere o parlare in pubblico delle attività segrete del Russicum, Padre Alexander Deubner morì in un campo di prigionia in Unione Sovietica, dove era ritornato, nel 1934, con l'aspettativa di essere decorato da Stalin. La nota ufficiale inviata al Vaticano spiegava che «padre Alexander Deubner era stato assassinato da banditi che avevano assaltato il campo di lavoro per derubare e uccidere i prigionieri». La Segreteria di Stato non chiese ulteriori spiegazioni e lo scomodo «affare Deubner» venne chiuso e archiviato nei sotterranei dell'Archivio segreto vaticano.Le informazioni sugli agenti preparati dal Russicum per essere infiltrati in territorio sovietico furono confermate nel 1999, con l'apertura degli archivi del KGB, otto anni dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica.
Capitolo quindicesimo: Günther Hessner Una spia nel Reich L'ascesa dei nazisti al potere provocò una forte reazione tra i ranghi della gerarchia cattolica tedesca. Il 20 luglio 1933, fu firmato il concordato tra Berlino e il Vaticano, che includeva un punto, aggiunto,
come scoprì in seguito l'Entità, dal nunzio Eugenio Pacelli, in cui si disponeva che i religiosi non potessero appartenere a organizzazioni politiche o partiti. Il 14 marzo 1937, Pio XI condannò il nazismo e i suoi dirigenti attraverso la polemica enciclica Mit Brennender Sorge. Agli inizi del 1939, la violenza nazista cominciò a oltrepassare le frontiere della Germania e Pio XI preparò allora un nuovo testo intitolato Nella luce, in cui il papa dichiarava l'incompatibilità tra l'ideologia fascista e la dottrina di Gesù. Il documento sarebbe stato letto in occasione del decimo anniversario della firma dei Patti lateranensi, se il pontefice non fosse deceduto alla vigilia delle celebrazioni. Il documento fu reso pubblico solo nel 1958, quando sul trono di Pietro sedette Giovanni XXIII. Nel frattempo, dalla Germania giungevano notizie preoccupanti. Dagli agenti dell'Entità distaccati presso la nunziatura di Berlino, cominciarono ad arrivare a Roma rapporti su un'istituzione del Reich che si occupava di «purificare» la razza ariana. Lo spionaggio papale mandò a Berlino due agenti esperti, i sacerdoti Günther Hessner e Leon Brendt, per svolgere delle indagini. Hessner e Brendt riuscirono a infiltrarsi nel misterioso Rasse-Heirat Institut (Istituto per l'unione della razza): Hessner vi entrò come maggiordomo e Brendt come cuoco. Günther Hessner era nato in Baviera, in una famiglia fedele al kaiser Guglielmo II. Suo padre, un funzionario del Ministero delle finanze, aveva combattuto a Verdun, era stato ferito durante la sanguinosa battaglia della Marna e da allora aveva i polmoni rovinati, a causa dei gas usati al fronte. Il padre di Günther Hessner, che votò per il Partito nazionalsocialista di Hitler, era solito dire: «[Hitler] rappresenta la nuova Germania che rinasce dalle sue ceneri. Restituirà alla Germania l'orgoglio che ci hanno strappato le nazioni alleate dopo la guerra». Padre Brendt, invece, proveniva da una famiglia mista. Suo padre era scrittore ed editorialista in diverse riviste liberali tedesche e sua madre era una scrittrice e poetessa francese di una certa fama. Brendt era cresciuto in una famiglia di ideologia liberale e quindi contraria a Hitler, mentre Hessner proveniva da un contesto conservatore e nazionalista, di seguaci del «Reich millenario». Due fratelli di padre Hessner, Gerhard e Ulrich, erano nella Wermacht e morirono sul campo pochi anni dopo. Gerhard perse la vita nella terribile battaglia di Stalingrado, mentre Ulrich, che apparteneva a una divisione Panzer, cadde nel 1944, durante l'offensiva nei boschi delle Ardenne.
Günther, che era il maggiore dei fratelli, legò il proprio destino a quello della Chiesa cattolica, entrando nel seminario di Berlino. Durante i suoi studi nella capitale tedesca, vide come le orde naziste delle SS e delle SA si impadronirono gradualmente delle strade con la violenza, fino a diventare inarrestabili. Immediatamente prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale, Hessner fu chiamato a Roma al servizio della Segreteria di Stato, su raccomandazione di monsignor Clemens August von Galen, vescovo di Münster, diventato un personaggio molto discusso per il suo contributo alla stesura della famosa enciclica di Pio XI Mit Brennender Sorge. Nei primi mesi trascorsi a Roma, Gunther Hessner ricoprì diversi incarichi come ausiliare della Segreteria di Stato, agli ordini del cardinale Eugenio Pacelli. Ma, nel marzo del 1936, fu inviato in missione speciale a Berlino, sotto la copertura diplomatica di addetto della nunziatura apostolica. La cosa interessante è che padre Hessner non informava la nunziatura, ma monsignor von Galen. Il suo collega Leon Brendt, invece, agiva sotto la copertura di segretario di monsignor von Galen a Munster. Il primo rapporto sul Rasse-Heirat Institut/4 arrivò a Roma nel 1937. Brendt e Hessner spiegavano dettagliatamente che alcune donne, classificate come «ariane», avevano rapporti sessuali con famosi membri del Partito nazista, delle unità delle SS e delle SA. Le donne venivano assistite e sorvegliate come cavie da un membro «ariano» delle SS, anche durante l'atto sessuale. Scrivevano i due religiosi: «Le giovani, di età compresa tra i sedici e i ventidue anni, ricevono la migliore assistenza: alimentazione, ore di sonno, medici, farmaci. Tutto viene tenuto sotto controllo. Ogni lunedì arrivano a bordo di vetture del partito giovani atletici, biondi, alti, con gli occhi azzurri e di razza ariana. Riposano per due giorni, durante i quali vengono sottoposti a ogni tipo di esame medico per scoprire se soffrono di qualche malattia ereditaria. Se così fosse, sarebbero scartati. Quelli accettati vengono mandati in un'ala speciale del Rasse-Heirat Institut, dove si trovano stanze particolari, arredate unicamente con un letto e una sedia. Tutto è di colore bianco. 'L'eletto' si spoglia con l'aiuto di un'infermiera del partito. Anche una delle giovani ariane prescelte viene spogliata. I due giovani copulano sotto lo sguardo vigile di una infermiera del partito. Un altro rapporto degli agenti Brendt e Hessner spiegava che alcune di
queste donne avevano accettato di essere inseminate artificialmente. Il Vaticano reagì immediatamente e inviò, attraverso la sua nunziatura, numerose note di protesta alla cancelleria, evitando, però, di nominare esplicitamente il Rasse-Heirat Institut, per non mettere in pericolo i suoi agenti infiltrati. Da Roma, venne ordinato a Hessner di lasciare il Rasse-Heirat Institut e di ritornare alla sicurezza della nunziatura. Se fosse stato scoperto dalla Gestapo, si sarebbe scatenato un conflitto diplomatico tra Berlino e il Vaticano. Ma quando arrivò un nuovo rapporto di padre Günther Hessner, ancora una volta l'allarme si diffuse nelle stanze vaticane. L'Entità aveva scoperto che in diverse cliniche e ospedali controllati dai nazisti si stavano realizzando sterilizzazioni e omicidi di minorati psichici, in applicazione delle leggi razziali approvate dal Partito nazista. Nella sua comunicazione al Vaticano, padre Günther Hessner sosteneva che nel castello di Hartheim le SS stessero realizzando in segreto degli esperimenti con disabili mentali. Il castello, situato tra Alkoven e Passau, vicino a Linz, divenne il centro di addestramento delle SS che in seguito fecero funzionare le camere a gas dei campi di concentramento di Auschwitz, Treblinka e Mauthausen. Hartheim (aspra dimora) era il nome di un vecchio castello non distante da Mauthausen. I tecnici che vi lavoravano a volte venivano inviati al campo di sterminio, per fare riparazioni nelle camere a gas in cui si fosse verificato qualche guasto. Una cameriera del Rasse-Heirat Institut spiegò a padre Hessner che Hartheim era entrato in funzione nel 1937, e che la prima eutanasia era stata praticata nell'ottobre del 1938. I primi «sacrificati», tedeschi affetti da qualche deficienza psichica, erano stati sottoposti a quella che i nazisti chiamavano Gnadentod, (morte misericordiosa). Per ordine di Hitler, si riunirono in Brandeburgo il Reichleiter, Philip Bouhler, ministro della Salute del Reich, Victor Brack, Werner Blankenburg, il dottor Leonard Conti e il dottor Karl Brand, medico personale del Führer. Hitler ordinò ai cinque uomini di pianificare la Vernichtung Lebensunwerten Lebens. Il concetto espresso da questa frase è difficile da spiegare in una lingua diversa dal tedesco, ma una traduzione più o meno corretta sarebbe «distruzione di vite indegne di essere vissute». Il progetto fu dichiarato «segretissimo» e la direzione affidata alla stessa cancelleria del Reich. Adolf Hitler in persona designò il suo luogotenente Rudolf Hess alla guida dell'operazione «T4», così denominata perché la decisione su chi doveva vivere o morire sarebbe spettata a un consiglio di medici che si riuniva in un'elegante casa al numero 4 di Tiergartenstrasse. Dopo la diserzione di Hess, che volò in
Gran Bretagna, il Führer nominò suo successore alla direzione della «T4» Martin Bormann. Bormann nominò direttore dell'operazione il dottor Werner Heyde, un prestigioso docente di psichiatria dell'università di Würzburg.Nel suo rapporto al Vaticano, padre Hessner raccontò quanto riferito dalla cameriera del Rasse-Heirat Institut: «La fase iniziale del programma Vernichtung Lebensunwerten Lebens prevede l'esecuzione dell'eutanasia su determinati gruppi di persone, in maggioranza tedeschi, giudicati dal Partito nazista unnütze Esser [bocche inutili]. In questo gruppo rientravano i malati di mente, i malati incurabili e le persone molto anziane». Padre Günther Hessner diceva la verità sul programma di eutanasia condotto dai nazisti alla fine degli anni Trenta. La teoria sostenuta dai gerarchi nazisti era che questa parte della popolazione consumava molto e non produceva niente: eliminarla implicava non solo eliminare un peso per la società, ma anche portare sollievo ai malati. La maggior parte dei pazienti a cui fu applicato il programma Vernichtung Lebensunwerten Lebens era formata da cristiani tedeschi e austriaci che occupavano troppi letti negli ospedali, nelle case di cura e negli ospizi. Tra questi pazienti non vi erano ebrei, poiché «l'eutanasia» era una forma d'esecuzione quasi etica, ed era pertanto riservata solo ai membri della loro razza e condizione. Gli ebrei tedeschi e austriaci venivano già mandati nei campi di sterminio. Una volta che i medici della «T4» stabilivano che il paziente dovesse morire, il dottor Heyde confermava la loro decisione. Veniva poi fatto un elenco e inviato agli istituti in cui i pazienti erano internati e si procedeva all'eutanasia. Nella maggior parte dei casi, i medici della «T4» non visitavano il malato, ma si limitavano a tracciare una croce nera sulla sua cartella clinica per indicare che doveva morire. Un'unità di trasporto delle SS raccoglieva negli ospedali e negli istituti di cura i pazienti che dovevano essere eliminati: uomini, donne e bambini, e li trasferiva in quattro «cliniche speciali». A Hadamar, nel distretto rurale di Limburg; a Sonnestein, in Sassonia; nel castello di Grafeneck, non lontano da Monaco, e nel castello di Hartheim, vicino a Linz. Lì, nelle buie cantine, i medici delle SS praticavano l'iniezione mortale. Pochi mesi dopo aver quasi svuotato gli ospedali, gli ospizi e le case di cura dalle «bocche inutili», Hitler, su raccomandazione di Bormann e Heyde, decise di estendere il programma segreto ai tedeschi e agli austriaci rinchiusi nei campi di lavoro, che per la maggior parte
erano prigionieri politici. Con il passare degli anni, si aggiunsero all'elenco delle «bocche inutili» anche i soldati feriti gravemente in combattimento. L'operazione fu denominata «14 f 13» e diretta dal vice di Heyde, il dottor Paul Nitsche.All'inizio del 1939, Padre Hessner andò ad Alkoven, a venti chilometri da Linz. La sua missione era quella di raccogliere informazioni su quanto accadeva a Harteim. Scrisse nel suo rapporto: «Il castello è un edificio imponente e minaccioso. Costruito nel XVI secolo, è composto da quattro torri e diversi ordini di finestre. Un maggiordomo del castello mi ha rivelato che dalla ringhiera protetta da soldati delle SS si passa a un grande cortile decorato con colonne. Gli abitanti di Alkoven mi hanno detto che lì si trova una specie di clinica, ma sono sorpresi perché non vedono mai nessun paziente». Monsignor Von Galen aveva chiesto all'agente Hessner di raccogliere più informazioni possibili su Hartheim, ma senza esporsi troppo. Per padre Hessner fu facile, perché era tedesco e i suoi fratelli, Gerhard e Ulrich, erano membri dell'esercito nazista. Senza indossare il collare, padre Günther Hessner riuscì a stabilire un contatto in una taverna con un tale Bruno Bruckner, che gli confessò di essere il fotografo di Hartheim. Bruckner, Obersturmführer delle SS, non solo aveva il compito di documentare quanto accadeva all'interno di Hartheim, ma anche di inviare a Berlino tutto l'oro che i «pazienti» indossavano quando entravano nella clinica dove sarebbero morti. Bruckner disse a padre Hessner di essere stato reclutato all'inizio del 1939, e di aver dovuto firmare una dichiarazione in cui si impegnava a non parlare con nessuno del suo lavoro, neanche con la sua famiglia. A dirigere il castello di Hartheim era il capitano delle SS Christian Wirth, che pochi anni dopo fu comandante dei campi di concentramento di Belzec, Sobibor e Treblinka. Bruckner raccontò a Hessner che, quando aveva accennato a lasciare il posto, Wirth aveva minacciato di spedirlo a Mauthausen. Hessner chiese allora a Bruckner, che si ubriacava con Schnapps, se poteva fargli avere qualcuna delle foto che aveva realizzato, ma questi rispose che Wirth gli impediva di tenere delle copie. Tutto il materiale era «segretissimo». Quando padre Hessner domandò a Bruckner se qualche particolare avesse richiamato la sua attenzione, l'ss rispose: «Sì, c'è una cosa che non sono riuscito a capire. Ogni giorno nelle cantine venivano rinchiusi tra i trenta e i trentacinque pazienti, ma il capitano Wirth mandava quasi ottanta impiegati ad assistere all'eutanasia. Perché servivano ottanta persone per uccidere trenta pazienti che non riuscivano neanche a reggersi in
piedi?». In seguito alle scoperte fatte, padre Günther Hessner inviò un ampio rapporto a tre dei gerarchi cattolici più attivi contro il regime nazista: monsignor Clement August von Galen, il cardinale Konrad von Preysing e l'arcivescovo di Monaco, monsignor Michael von Faulhaber. Von Galen trasmise al Vaticano il rapporto di padre Hessner, che provocò una protesta ufficiale ed energica della Santa Sede nei confronti del Führer e del suo ministro degli Affari di culto Hanns Kerrl. Kerrl, per tutta risposta, lesse un messaggio che suonò come un avvertimento sulla sorte della Chiesa cattolica nella Germania del «Reich millenario»: «Il partito poggia sul principio del cristianesimo positivo che è il nazionalsocialismo. Il nazionalsocialismo nasce dalla volontà di Dio, che si rivela nel sangue tedesco. Dire che il cristianesimo consista nella fede in Cristo, il figlio di Dio, mi fa ridere. Il vero cristiano è rappresentato dal partito e il popolo tedesco è chiamato dal Führer a praticare un cristianesimo vero e reale. Il Führer è il protagonista di una nuova rivelazione». La reazione di Hitler non si fece aspettare. Nelle settimane che seguirono, le SS e la Gestapo arrestarono più di mille cattolici, tra cui giornalisti, sacerdoti, seminaristi, suore e capi di associazioni giovanili. All'inizio del 1938, trecentoquattro di loro furono deportati nel campo di concentramento di Dachau.13 In Italia nel frattempo, Pio XI si ritirò nella residenza di Castel Gandolfo per non ricevere il Führer, in visita a Roma. «Tristi cose avvengono, molto tristi cose, e da lontano e da vicino. E' tra le tristi cose questa: che non si trova troppo fuor di posto e fuor di tempo l'inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l'insegna di un'altra croce [la svastica] che non è la croce di Cristo» scrisse il Sommo Pontefice. Dal 1941, monsignor Clement August von Galen, grazie anche alle preziose informazioni fornite dalla spia del papa padre Günther Hessner, denunciò l'eutanasia praticata sui malati mentali. Per il suo coraggio e la sua forte opposizione al regime nazista, il vescovo era conosciuto nella sua parrocchia come «il leone di Münster». Il 13 luglio 1941 nella chiesa di San Lamberto, e il 20 luglio 1941 in quella di Nostra Signora di Uberwasser, monsignor von Galen pronunciò due omelie contro il regime di Hitler. Durante un incontro con il ministro per la Propaganda, Joseph Goebbels, il religioso osò rivendicare il diritto alla vita e l'inviolabilità della libertà dei cittadini infermi, e disapprovò l'assassinio di malati di mente in istituzioni controllate dal Reich. Il
sermone del 3 agosto 1943, pronunciato nella chiesa di San Lamberto a Münster, ebbe una grande risonanza in tutto il Reich. Monsignor von Galen disse a proposito del programma di eutanasia: «Si tratta di esseri umani, di nostri simili, di nostri fratelli e sorelle. Povera gente, è malata e per me improduttiva ma ha per questo perso il diritto alla vita? Hai tu, ho io il diritto di vivere solo se fingo di essere produttivo o se sono riconosciuto come tale dagli altri? Se si stabilisce o si garantisce il principio che è lecito assassinare gli uomini 'improduttivi, allora disfatevi di noi quando saremo vecchi e deboli per gli acciacchi dell'età! [...] Allora nessuno sarà più sicuro della propria vita. Una commissione qualsiasi ['T4'] può aggiungere i nostri nomi alla lista degli 'improduttivi', in base al giudizio di chi la costituisce, e forse considereranno il soggetto 'non degno di vivere' perché oramai non ha valore».Si dice che, quando l'omelia di monsignor von Galen fu resa pubblica, Hitler avesse ordinato l'arresto e la condanna a morte del vescovo, ma che Goebbels lo abbia dissuaso, sostenendo che avrebbe messo le nazioni cattoliche dell'Asse contro la Germania. E' stato calcolato che il numero di vittime dei programmi «T4» e «14 f 13», in posti come il castello di Hartheim, sia arrivato a 250 mila, e che si sia trattato in maggioranza di cattolici tedeschi e austriaci. Fu possibile ottenere queste informazioni dopo la Seconda guerra mondiale grazie al sacrificio e allo sforzo di uomini come padre Günther Hessner. Nel castello di Hartheim, però, non si praticava solo l'eutanasia, come scoprì la spia papale. La verità, la terribile verità, è che Hartheim era una scuola in cui si apprendeva l'omicidio di massa, dove diversi leader delle SS si prepararono assassinando duecentomila pazienti. Alla fine dell'addestramento, quanto appreso nel castello di Hartheim veniva applicato nei campi di sterminio, dove furono eliminate milioni di persone. Christian Wirth fu comandante di Belzec, Sobibor e Treblinka, Franz Stangl di Treblinka e Gustav Wagner di Sobibor. Tutti e tre furono «alunni» di Hartheim. Il castello non fu altro che il laboratorio in cui si sperimentarono tecniche che sarebbero state utilizzate da lì a poco. Padre Günther Hessner lo aveva già scoperto. Padre Hessner, che in Vaticano era conosciuto come la «spia di monsignore», sempre agli ordini di monsignor Clement August von Galen, lavorò per lo spionaggio papale in diverse parti della Germania, informando il Vaticano sull'Olocausto. Nel 1941, fu arrestato dalla Gestapo e internato nel campo di concentramento di Mauthausen, dove, in data sconosciuta, fu impiccato, essendo stato scoperto dai sorveglianti
intento a dare l'estrema unzione a un anziano ebreo polacco malato di tifo. Padre Günther Hessner aveva chiesto di essere trasferito nelle baracche dei malati di tifo per occuparsi di loro. Quando fu impiccato, la spia era già infetta e gli rimaneva poco da vivere. Anche padre Leon Brendt fu arrestato dalla Gestapo, nell'aprile del 1940, quando la polizia segreta scoprì che aiutava gli ebrei a fuggire in Svizzera attraverso una rete clandestina organizzata di sua iniziativa, senza l'autorizzazione della Santa Sede né dello spionaggio papale. Padre Brendt fu impiccato nel campo di concentramento di Dachau alla fine di giugno del 1943. Stando ad alcuni rapporti, Brendt mise in piedi la rete clandestina con l'appoggio di monsignor von Galen. Come Hessner e Brendt, nei campi di concentramento furono assassinati altri religiosi, come Dominile Jerzejewski, sacerdote di Wloclawek, che fu giustiziato a Dachau il 29 agosto 1942 dopo essersi rifiutato di rinnegare il sacerdozio in cambio della libertà. O come il prete austriaco Franz Dionys Reinisch, che non volle giurare fedeltà al Führer e dichiarò dal pulpito: «Come cristiano austriaco non posso giurare fedeltà a un uomo come Hitler. E' doveroso protestare di fronte a tale abuso di potere». Reinisch fu giustiziato in Brandeburgo, il 21 agosto 1942. O come padre Stanislaw Gljakowskij, arrestato dalla Gestapo durante un congresso di insegnanti perché, dopo l'inno nazista, si era alzato e si era fatto il segno della croce per protesta. Dopo l'arresto, non si seppe più niente di lui. E la stessa sorte toccò a centinaia di cattolici.15 Monsignor Clement August von Galen fu elevato cardinale da Pio XII, il 18 febbraio 1946, e morì per una peritonite un mese dopo, all'età di sessantotto anni. Il 9 ottobre 2005, fu proclamato santo da Benedetto XVI, e il giorno a lui dedicato è il 22 marzo. Poco prima di morire, il santo pronunciò le parole che il famoso cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal avrebbe ripetuto anni dopo: «Non esiste peccato più grande dell'oblio».
Capitolo sedicesimo:Robert Georg Leiber Il segretario segreto di Pio XII. Nel 1939, Wilhelm Canaris, responsabile dell'Abwehr, lo spionaggio militare del Terzo Reich, affidò a Josef Müller, un avvocato di Monaco, cattolico e fervente antinazista, il compito di entrare in contatto con Pio XII attraverso l'Entità. Per non destare sospetti, lo nominò capo della sezione dell'Abwehr a Roma.Prima di partire per la Città eterna, Müller incontrò l'agente dell'Entità Nicola Storzi, «il messaggero», per parlargli della missione che Canaris gli aveva affidato. La spia del
papa preparò il terreno all'agente tedesco, che aveva già collaborato con l'Entità altre volte, inviando al segretario di Stato Luigi Maglione un messaggio, in cui erano contenute informazioni su Josef Müller e sull'operazione Amtliche vatikanische (Fonti vaticane). Müller e i suoi due assistenti nell'Abwehr, il colonnello Hans Oster e il maggiore Hans Dohnanyi, appartenevano al circolo di Kreisau, un gruppo costituito da importanti antinazisti e guidato dal generale in pensione Ludwig Beck. Arrivato a Roma, Müller si riunì con monsignor Ludwig Kaas, ex leader del Zentrum in esilio, e con monsignor Johannes Schönhöffer, ai quali disse di dover incontrare in privato il pontefice, per consegnargli un importante comunicato, scritto da prestigiose personalità tedesche. Kaas spiegò all'agente dell'Abwehr che prima avrebbe dovuto incontrare un gesuita tedesco, Robert Leiber, una specie di aiutante di Pio XII che si occupava degli «affari speciali». Molti esponenti della curia assicuravano che il gesuita fosse il responsabile dell'Entità. La verità è che padre Robert Georg Leiber, nato in Baviera nel 1887, non solo conosceva i principali segreti del papato, ma era anche l'uomo di fiducia del pontefice dal 1917, quando l'allora cardinale Pacelli era nunzio in Baviera. Da allora, Leiber non si era più separato da Pio XII, al quale rimase vicino fino al giorno della sua morte, avvenuta il 9 ottobre 1958. Leiber era la persona che scriveva i discorsi del papa, ma anche una specie di segretario segreto. Esistono pochissime immagini di Robert Leiber, poiché era molto attento a non farsi vedere in pubblico, neanche vicino al pontefice. Nella sua biografia, Pasqualina Lehnert, la potente suora che fu la governante di Pacelli per decenni, chiamata «la papessa», descrive Leiber come «un uomo piccolo e tranquillo, triste e malinconico, che sospirava sempre, ma anche un instancabile lavoratore, che era in totale sintonia con il nunzio [Pacelli] riguardo ai problemi della Chiesa». Era evidente che la spia Robert Leiber non piaceva a suor Pasqualina, né lei piaceva al gesuita tedesco. Si dice anche che, dopo la morte di Pio XII, Leiber suggerì al cardinale Eugène Tisserant di espellere la suora dal Vaticano.Mùller riuscì a incontrare Leiber e, durante il colloquio, il militare tedesco rivelò all'assistente del papa che un gruppo composto da importanti personalità tedesche contrarie alla politica bellicista di Adolf Hitler stava preparando un colpo di Stato in Germania, e desiderava che Pio XII verificasse la disponibilità di Londra a negoziare la fine della guerra, una volta che si fosse prodotto
il cambio di regime. Leiber sapeva che la Resistenza antinazista era disorganizzata e non avrebbe mai potuto rovesciare Hitler e il Reich. In realtà, i cospiratori tedeschi volevano evitare che Londra e Parigi approfittassero del colpo di Stato per realizzare operazioni militari contro la Germania. Nella primavera del 1940, Leiber comunicò a Müller che Pio XII aveva deciso di riceverlo nei suoi appartamenti privati. Durante il colloquio, al quale assistette anche l'ambasciatore britannico presso la Santa Sede Sir D'Arcy Osborne, il tedesco spiegò al papa come era stata organizzata l'operazione Amtliche vatikanische. D'Arcy Osborne informò il Foreign Office, ma il governo britannico si mostrò scettico sulla credibilità e sulle motivazioni dei cospiratori. Per dimostrare la buona fede dei cospiratori, Josef Müller, nel suo successivo viaggio a Roma, informò Pio XII che, a breve, Hitler avrebbe invaso l'Olanda e il Belgio per poi sferrare un'offensiva contro la Francia. Il papa ordinò pertanto di mettere in allerta le nunziature di Bruxelles e dell'Aia, nonché i governi delle due nazioni. Tra il 2 e il 4 maggio 1940, Robert Leiber informò segretamente l'ambasciatore belga presso la Santa Sede Adrien Nieuwenhuys, il quale inviò un telegramma urgente a Bruxelles. Ma sia il governo belga che quello olandese sottovalutarono gli avvertimenti ricevuti, commettendo un grave errore. Il 10 maggio, infatti, le prime unità tedesche Panzer attraversarono la frontiera dell'Olanda e del Belgio. Ma il telegramma cifrato sull'imminente offensiva della Wermacht sul fronte occidentale, inviato dall'ambasciatore belga, era stato intercettato dal Forschungsamt: uno dei servizi per la decodifica dei segnali del Terzo Reich. Il messaggio decifrato finì sulla scrivania del Führer, che ordinò all'Abwehr di condurre una scrupolosa indagine per scoprire chi fossero i traditori. Nell'estate del 1940, l'intelligence tedesca iniziò le indagini per individuare il collaboratore dello spionaggio vaticano. Astutamente, Wilhelm Canaris mise Josef Müller a capo delle investigazioni ordinate da Hitler. La spia tedesca tornò a Roma e disse a padre Leiber che avrebbero dovuto architettare una storia convincente per spiegare come l'ambasciatore Nieuwenhuys avesse saputo dell'invasione tedesca. Leiber e Mùller si misero all'opera. L'idea delle due spie era quella di ricostruire una vera e propria operazione di disinformazione, partendo dalla fine, questa volta. Leiber suggerì di far credere che la notizia fosse trapelata da qualcuno non meglio identificato, vicino al ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano, che era stato informato dell'operazione militare della Wehrmacht dal suo omologo tedesco Joachim
von Ribbentrop. L'informazione sarebbe poi stata trasmessa al gesuita belga padre Monnens, che a sua volta l'avrebbe passata all'ambasciatore Adrien Nieuwenhuys. Robert Leiber sapeva che né Nieuwenhuys né padre Monnens avrebbero potuto essere raggiunti dai servizi di sicurezza del Reich: Nieuwenhuys, infatti, godeva dell'immunità diplomatica, mentre padre Monnens si trovava in una missione sperduta dell'Africa centrale. Mùller e Leiber erano convinti che quella ricostruzione avrebbe tranquillizzato i capi nazisti. Ma si sbagliavano. A Berlino, infatti, il tenente colonnello dell'Abwehr Joachim Rohleder non rimase molto convinto della veridicità della storia. Riteneva piuttosto improbabile che un diplomatico italiano avesse passato un'informazione riguardante l'offensiva militare tedesca a un missionario belga. Rohleder studiò a fondo il telegramma di Nieuwenhuys. L'ambasciatore belga menzionava una fonte tedesca partita da Berlino il 29 aprile 1940, arrivata a Roma il primo maggio e rimasta nella capitale italiana fino al giorno 3 dello stesso mese. Esaminando l'elenco di tutti i cittadini tedeschi che avevano lasciato il paese in quella data, l'ufficiale dell'Abwehr vi scoprì il nome di Josef Mùller, arrivato in Italia il 29 aprile e ritornato in Germania il 4 maggio. Ma dal rapporto del collaboratore di padre Leiber, consegnato alla postazione dell'Abwehr di Monaco a cui Muller era assegnato, risultava che la meta del viaggio fosse Venezia e, grazie a degli agenti dell'Entità che lavoravano presso la polizia di frontiera italiana, il suo passaporto riportava il visto d'ingresso per la città lagunare. Rohleder era convinto che la chiave del mistero fossero i contatti tra Josef Muller e lo spionaggio pontificio, ma non era in grado di dimostrarlo. Tuttavia alla fine del 1941, attraverso Siegfried Ascher, un infiltrato dello spionaggio tedesco nella Santa Sede, Rohleder riuscì a scoprire quale fosse, a grandi linee, la missione di Josef Muller in Vaticano e l'implicazione di Pio XII. nella vicenda relativa all'avvertimento inviato ai governi belga e olandese durante la primavera del 1940. Il rapporto finale di Siegfried Ascher era irrefutabile, così Rohleder lo comunicò a Canaris. Il capo dell'Abwehr, complice di Muller, cercò di sminuire l'importanza del documento, affermando che senza prove più concrete sarebbe stato impossibile arrestare uno degli agenti più esperti in affari vaticani. Wilhelm Canaris riuscì a fare in modo che il rapporto dal titolo Muller, Josef sparisse, nascosto nel punto più inaccessibile degli archivi dell'intelligence militare del Reich. Ma le relazioni tra Robert Leiber e la Resistenza antinazista non finirono lì. Alcuni anni dopo la fine
della Seconda guerra mondiale, si scoprì che, tra il 1942 e il 1943, il Vaticano aveva ricevuto informazioni dirette sull'attentato contro Hitler. Padre Leiber continuava ad avere contatti con Josef Muller, «il legame tra l'Abwehr e il Vaticano». Un rapporto dell'Office of Strategie Service (OSS), i servizi segreti statunitensi, datato 20 agosto 1944 e basato su una conversazione tra l'agente e analista tedesco H. Stuart Hughes, nipote di un candidato repubblicano alla presidenza americana, e padre Robert Georg Leiber, sostiene che il segretario di Pio XII avesse stretti legami con il circolo di Kreisau. I principali contatti di Leiber erano il generale Hans Oster, capo della Resistenza nel controspionaggio militare, Hans von Dohnanyi e il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer.Claus von Stauffenberg aveva ricevuto un incarico nello Stato maggiore e per questo poté avvicinarsi a Hitler. Il 20 luglio 1944, riuscì a collocare nella cosiddetta «tana del lupo» una valigia contenente una potente bomba a orologeria, sistemandola sotto il tavolo di una sala in cui si sarebbe tenuta una riunione con Hitler. Con la scusa di dover fare una telefonata, von Stauffenberg uscì dal bunker. Aveva intenzione di dirigersi verso Bendlerstrasse, per poi, una volta confermata la morte di Hitler, affidare il comando del Reich agli alti ufficiali desiderosi di raggiungere un accordo di pace con gli Alleati. Purtroppo, la valigia con la bomba fu spostata pochi secondi prima che esplodesse, e il risultato dello scoppio non fu quello previsto. L'ordigno uccise sul colpo quattro delle ventiquattro persone che si trovavano all'interno della «tana del lupo», ma Hitler scampò alla morte. Poche ore dopo, von Stauffenberg e gli altri congiurati furono arrestati, sottoposti a un processo sommario e giustiziati quella stessa notte. Claus von Stauffenberg aveva trentasei anni. Dopo che la Gestapo ebbe arrestato i cospiratori, tra i quali anche Mùller, Hans Bernard Gisevius, capo dell'Abwehr in Svizzera, divenne il collegamento tra i gruppi antinazisti e Leiber, con il quale si incontrava due volte a settimana. E' noto che Gisevius si trovava tra i congiurati presenti nell'edificio di Bendlerstrasse, dove von Stauffenberg e gli altri furono fucilati. Inoltre, non è un mistero che von Stauffenberg, cattolico praticante, fosse amico di diversi membri del circolo di Kreisau, oltre che di influenti gesuiti, tra cui padre Leiber, e di numerosi prelati tedeschi. H. Stuart Hughes, lo storico che quando era ancora una spia dell'oss informò delle relazioni tra i cospiratori antinazisti e il Vaticano, afferma nelle sue memorie: «E' logico chiedersi, arrivati a questo punto, se alcuni di questi prelati vicini
al papa [Robert Leiber] incoraggiarono con i loro consigli o con la loro tacita approvazione l'attentato contro il dittatore; attentato che alcuni congiurati consideravano, utilizzando categorie concettuali proprie della morale cattolica, come un tirannicidio in piena regola». Grazie al diario di Helmut von Moltke, fondatore del circolo di Kreisau, si è saputo che alcuni importanti vescovi appoggiarono la Resistenza contro i nazisti e contro Hitler. Nel diario si fanno i nomi di due dei prelati più ostili al nazismo: Konrad von Preysing, vescovo di Berlino, e Clemens August von Galen, vescovo di Münster. A questi bisogna aggiungere il vescovo di Fulda, Johannes Dietz, presidente della Conferenza episcopale, e il cardinale di Monaco, Michael von Faulhaber. Il vescovo von Preysing, amico personale di Robert Leiber, era anche nell'elenco dei partecipanti alle riunioni del circolo di Kreisau che si tenevano a Berlino. Helmut von Moltke era entrato in contatto con il vescovo nel settembre del 1941, e da quel momento gli incontri erano diventati sempre più frequenti. «Il pomeriggio di ieri trascorso con Preysing è stato molto soddisfacente. Mi è sembrato che anche lui fosse soddisfatto. [...] Mi ha subito invitato a tornare, cosa che farò a intervalli di tre settimane. In uno di questi incontri ho potuto parlare con padre R. Leiber, un uomo molto vicino al papa». Nel gennaio del 1943, Helmut von Moltke, che si trovava a Monaco di passaggio, si riunì con i suoi amici gesuiti Robert Leiber, Augustinus Rösch, Lothar König e Alfred Delp, con l'avvocato Josef Müller e con il cardinale von Faulhaber. Von Moltke mise al corrente i sei uomini del piano che si stava preparando. Il cardinale Michael von Faulhaber offrì a von Moltke il proprio «appoggio incondizionato» alla stipula di un concordato tra il Vaticano e il nuovo Stato tedesco, che si sarebbe instaurato dopo il colpo di Stato contro Hitler.10 Dopo il fallimento dell'attentato a Hitler, il disastro del colpo di Stato, l'arresto e l'esecuzione di tutti i responsabili della cospirazione, ci fu un aumento delle operazioni della Gestapo e delle SS in Vaticano. Heinrich Himmler, ministro dell'Interno del Reich dal 1943, sapeva, grazie ai suoi servizi segreti, che i congiurati avevano incontrato in diverse occasioni alte cariche della curia, ma non gli fu mai possibile dimostrarlo. Nel frattempo, Josef Mùller, grazie alla protezione del colonnello Hans Oster e del maggiore Hans Dohnanyi, entrambi membri della rete antihitleriana, fu nominato responsabile della sezione dell'Abwehr in Vaticano. Nel febbraio del 1944, Hitler firmò il decreto che subordinava tutti i membri e le operazioni dell'Abwehr al Reichssicherheishauptamt (RSHA), l'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich. L'ammiraglio Canaris fu destinato al Dipartimento per l'economia di guerra In seguito
alle indagini della Gestapo sugli strani contatti tra i civili e il personale dell'Abwehr, il colonnello Hans Oster e il maggiore Hans Dohnanyi, due dei più importanti cervelli della Resistenza antinazista, furono arrestati e giustiziati con un colpo alla nuca. Sia Oster che Dohnanyi, nonostante le torture a cui furono sottoposti, si rifiutarono di parlare dei propri contatti con il Vaticano, con il gesuita Robert Leiber e con l'Entità. Anche Josef Mùller fu arrestato e torturato. L'agente respinse le accuse, negò qualsiasi implicazione nei complotti antinazisti del Vaticano e fu uno dei pochi membri dell'Abwehr che sfuggì alla morte. Fu tenuto prigioniero nel campo di concentramento di Flossenbùrg e venne liberato dagli Alleati. Dopo la fine della guerra, sostenne la necessità di creare un partito cristiano formato da cattolici e protestanti. Insieme ad Adam Stegerwald fondò l'Unione cristiano sociale (CSU), e fu presidente del partito e ministro della Giustizia in Baviera. Muller morì il 12 settembre 1979, a Monaco, all'età di ottantuno anni, dopo una vita dedicata alla politica e alla difesa della libertà nella Repubblica federale tedesca. Dopo la fine del conflitto, padre Robert Leiber continuò il suo lavoro di segretario «segreto» Pio XII, offrendo al papa consigli di politica estera e scrivendo i suoi discorsi. Dopo la morte del pontefice, avvenuta nel 1958, padre Leiber, che viveva presso la Pontificia università gregoriana, a cinque chilometri dal Vaticano, raccontò con amarezza che, ogni volta che Pio XII lo chiamava, doveva accorrere immediatamente, lasciando in sospeso quello che stava facendo. Sebbene soffrisse d'asma e fosse allergico al polline, non gli fu mai offerto il veicolo ufficiale per raggiungere il Vaticano, per cui era costretto a prendere il tram. Leiber si lamentò anche del fatto che Pio XII lo costringesse a rimanere sveglio fino a notte fonda, poiché scriveva i propri discorsi di notte e pretendeva che il gesuita glieli battesse subito a macchina, per poterli poi consegnare il giorno dopo alla Segreteria di Stato. Alle sette del mattino, Leiber era costretto a presentarsi di nuovo al cospetto del pontefice per ripassare l'agenda del giorno e i discorsi scritti la notte precedente.11 Nelle sue memorie, padre Leiber scrisse che Pio XII non lo aveva mai ringraziato per il pericoloso lavoro svolto durante la Seconda guerra mondiale. Padre Robert Georg Leiber, gesuita, docente, storico, spia e segretario di Pio XII per quarant'anni, morì nel 1967, nella sua Baviera natia, all'età di ottant'anni. Leiber portò con sé nella tomba i più oscuri segreti del discusso pontificato di Pio XII e le operazioni coperte
ordinate dal pontefice durante la guerra. Non rivelò mai di essere stato al corrente dell'attentato contro Hitler del 20 luglio 1944. Fino alla morte del gesuita, le spie Josef Mùller e Robert Leiber continuarono a frequentarsi da amici, incontrandosi diverse volte all'anno per parlare dei vecchi tempi e della Seconda guerra mondiale.
Capitolo diciassettesimo:Krunoslav Draganovic La «primula rossa» dei nazisti Dopo la Seconda guerra mondiale, il collegio romano di San Girolamo degli Illirici, diretto da padre Krunoslav Draganovic, diventò un rifugio sicuro per i nazisti e gli ustascia croati ricercati dalle autorità alleate. Nato a Bréko, in Bosnia, nel 1903, Draganovic arrivò a Roma alla fine del 1943, e dopo la Seconda guerra mondiale divenne una figura chiave nella gestione del cosiddetto «corridoio vaticano», una delle vie di fuga attraverso la quale raggiunsero l'America del Sud diversi criminali di guerra nazisti, tra i quali Josef Mengele; Klaus Barbie, «il macellaio di Lione»; Erich Priebke, il capitano delle SS; Hans Fischbòck, il generale delle SS; Herbert Cukurs, «il boia di Riga»; Frank Stangl, il comandante del campo di concentramento di Treblinka; Adolf Eichmann, uno dei massimi responsabili della «soluzione finale». In realtà, il primo piano di fuga per i gerarchi nazisti fu progettato il 10 agosto 1944, quando la Germania si vedeva ormai sconfitta e gli alleati preparavano l'assalto per la liberazione di Parigi. In uno dei saloni dell'elegante hotel Maison Rouge di Strasburgo, si riunirono con il segretario del Führer Martin Borman cinque importanti imprenditori, che anni prima avevano finanziato l'ascesa al potere di Hitler e del Partito nazionalsocialista: Fritz Thyssen, fondatore dell'omonima azienda; Georg von Schnitzler, presidente della IG-Farben; Gustav Krupp, magnate dell'industria d'armamenti; Kurt von Schroeder, banchiere e finanziere; Emil Kildorf, magnate del carbone. Quel 10 agosto, fu creata l'organizzazione Odessa (Organisation der ehemaligen ss-Angehörigen, «organizzazione di ex membri delle SS»), e i cinque milionari nazisti decisero di depositare in una banca svizzera una grossa somma in dollari per finanziare le operazioni di Odessa dopo la fine della guerra. La cosa interessante è che gran parte di questi fondi era stata ricavata con il lavoro svolto
dai prigionieri dei campi di sterminio, nelle aziende di proprietà degli imprenditori, e con l'oro dei denti estratti agli ebrei prima del loro ingresso nelle camere a gas. Una volta raccolto, il prezioso metallo era stato poi inviato alla Reichbank e trasformato in lingotti. La maggior parte di quell'oro, depositato nelle banche svizzere, fu utilizzato per coniare monete della Confederazione elvetica. Alcuni storici sostengono che non esistano prove sufficienti per affermare che il Vaticano e Pio XII fossero al corrente delle operazioni dell'organizzazione Odessa, anche se indizi importanti dimostrerebbero che alcuni esponenti di rilievo della curia relazionati con lo spionaggio papale fossero coinvolti nelle fughe attraverso il «corridoio vaticano». Per esempio, Alois Hudal, rettore del Collegio teutonico di Santa Maria dell'Anima, che nel 1934 aveva abbracciato pubblicamente il nazionalismo tedesco, proclamando che «desiderava essere servo e araldo della causa tedesca», fornì a Franz Stangl, Adolf Eichmann e Klaus Barbie una nuova identità, documenti falsi e un rifugio a Roma.Monsignor Karl Bayer, incaricato di assistere i gerarchi nazisti rifugiati nella chiesa del Collegio di Santa Maria dell'Anima, intervistato dalla scrittrice Gitta Sereny a proposito del suo libro In quelle tenebre, ricordò come lui e Hudal avessero aiutato i nazisti con l'appoggio del Vaticano: «Il papa [Pio XII] forniva effettivamente denaro a tale scopo; a volte con il contagocce, ma comunque arrivava». Il Vaticano e altre istituzioni, come San Girolamo, ricevevano, in cambio dell'aiuto prestato, importanti finanziamenti, costituiti prevalentemente dal denaro ricavato con le estorsioni compiute ai danni di ricchi ebrei, costretti a pagare per non essere deportati nei campi di sterminio, e trasferito attraverso banche svizzere su diversi conti in Argentina.Odessa creò tre vie di fuga. La prima, «Ragno», passava per la Spagna, lungo la linea San Sebastian/Bilbao-Madrid/Tangeri-Buenos Aires e fu utilizzata da Josef Mengele, Hans Fischbòck e Reinhard Spitzy.La seconda, «Libertà», fu creata dall'intelligence militare americana per offrire assistenza ai criminali di guerra delle SS ucraini, lituani ed estoni, dei quali si sarebbe servita successivamente durante la Guerra fredda. Attraverso questa via fuggirono Ivan Demanjuk, alias Ivan il Terribile; «il macellaio di Treblinka»; Tscherim Soobzokov, membro degli squadroni d'esecuzione delle SS in Romania; Herbert Cukurs, «il boia di Riga» Infine, la via dei conventi o «corridoio vaticano», creata dal Vaticano, il cui itinerario era Roma (Collegio teutonico di Santa Maria dell'Anima, (convento di S. Girolamo)-Napoli-Genova-Buenos Aires. Adolf Heichmann e Ante Pavelic utilizzarono questa via per fuggire. Al
comando della cosiddetta operazione Aujiemveg (strada esterna) per la fuga attraverso il Vaticano, fu messo il giovane capitano delle SS Carlos Fuldner. Fuldner incontrò a Roma padre Krunoslav Draganovic, il direttore di San Girolamo, che gli assicurò non solo che la «sua» organizzazione era pronta a dare assistenza e rifugio ai gerarchi nazisti che avessero deciso di fuggire in America meridionale, ma che avrebbero potuto contare sulla protezione e sull'appoggio del Vaticano attraverso l'Entità, con l'approvazione di Pio XII e del responsabile dello spionaggio padre Robert Leiber. Dopo la guerra, la Pontificia Commissione di Assistenza (PCA), l'organismo vaticano che rilasciava i documenti d'identità ai rifugiati, ebbe il compito di procurare documenti falsi a numerosi nazisti in fuga, e quello di falsificare i timbri delle organizzazioni internazionali per l'aiuto ai rifugiati. Sembra che esistano dei documenti in grado di dimostrare che Draganovic non fosse il principale responsabile della cosiddetta «operazione convento» o «corridoio vaticano», come si è sempre creduto. Un rapporto dei servizi segreti americani sembrerebbe indicare che il cervello dell'operazione fosse in realtà il cardinale Eugène Tisserant, noto per il suo anticomunismo. Tisserant, come molti altri prelati, era convinto che l'Unione Sovietica avrebbe intrapreso una guerra contro l'Occidente per avere un maggior controllo sull'Europa, e che solo gli ex nazisti avrebbero potuto fermare l'avanzata comunista. Alcuni alti rappresentanti della curia decisero di proteggere i criminali di guerra nazisti perché, in un futuro non troppo lontano, sarebbero serviti ai paesi alleati per combattere e fermare l'avanzata del «terrore comunista», come lo definiva Pio XII. Il cardinale Giovanni Battista Montini si preoccupò allora di esprimere all'ambasciatore argentino in Italia l'interesse del papa a che l'emigrazione «non solo italiana» in Argentina fosse regolata nel migliore dei modi. Il pontefice era disposto a far sì che «i tecnici della Santa Sede [i suoi servizi segreti] si mettessero in contatto con i tecnici argentini [l'organizzazione Odessa] per preparare un piano d'azione». A fare da collegamento tra i nazisti e il Vaticano, ossia tra Fuldner e padre Draganovic, erano, per i tedeschi, Reinhard Kops, ex agente del controspionaggio nazista e «aiutante speciale» del vescovo filonazista Alois Hudal, e, per l'Entità, Gino Monti di Valsassina. Un altro famoso caso di fuga attraverso il «corridoio vaticano» in cui fu coinvolto Krunoslav Draganovic fu quello di Carl Peter Jensen, alias Carl Vaernet, il «Mengele danese». Negli anni Trenta, Vaernet affermò di aver sviluppato una terapia basata su quella che lui definiva «inversione
della polarità ormonale», per «guarire» gli omosessuali. Entrato a far parte del servizio medico delle SS fondato da Josef Mengele, dal gennaio del 1944, sperimentò sui prigionieri omosessuali rinchiusi a Buchenwald una «ghiandola sessuale maschile artificiale», costituita da un semplice tubo metallico, che, impiantata nell'inguine, rilasciava testosterone. Dei quindici prigionieri, solo due sopravvissero, mentre gli altri morirono a causa delle infezioni.Alla fine della guerra, il medico fu arrestato in Danimarca, ma il cardinale Eugène Tisserant in persona ordinò a Draganovic di «liberare» Vaernet, uno scienziato tanto «efficiente», attraverso San Girolamo. Un altro caso fu quello di Bernhard Heilig, accusato di aver ordinato l'esecuzione dei suoi soldati per atteggiamento «disfattista». Heilig fuggì da una prigione alleata nel 1950, rifugiandosi al numero 28 di via Gregoriana, presso la sede romana della Croce rossa internazionale. La sua richiesta d'aiuto portava la firma dell'agente e sacerdote Krunoslav Draganovic e di monsignor Karl Bayer. La richiesta di Heilig fu avallata anche dal tedesco Bruno Wùstenberg, aiutante di fiducia del segretario di Stato del Vaticano facente funzione, il cardinale Montini. Sebbene non esistano prove inconfutabili che il «corridoio vaticano» e l'operazione Convento fossero state organizzate o pianificate come un'unica azione da parte dello spionaggio della Santa Sede, su ordine di Pio XII o del suo segretario Robert Leiber, l'apertura degli archivi della Croce rossa internazionale ha messo fine alle polemiche sull'aiuto offerto dal Vaticano ai criminali di guerra nazisti. Esistono prove della collaborazione di alcuni rappresentanti della curia romana nelle numerose operazioni di fuga di criminali di guerra: i cardinali Montini, Tisserant e Caggiano progettarono gli itinerari e negoziarono con i paesi di destinazione le condizioni del loro aiuto; i vescovi Hudal, Siri e Barreré procurarono documenti falsi e nuove identità; diversi sacerdoti, tra cui Draganovic, Heinmann, Dòmòter, Bucko e Petranovic, firmarono le richieste per il rilascio di passaporti della Croce rossa. Anni dopo, i nomi falsi e i recapiti di Eichmann, Mengele, Kops e Priebke divennero merce di scambio, quando i servizi segreti del Vaticano iniziarono a cooperare con «l'amico israeliano», il Mossad.13 Con la morte di Pio XII, avvenuta il 9 ottobre 1958, la situazione cambiò drasticamente e Krunoslav Draganovic fu espulso dalla parrocchia di San Girolamo senza riguardi, per «espresso ordine della Segreteria di Stato vaticana», diretta dal cardinale Pietro Fumasoni Biondi. Tra il 1952 e il 1962, durante gli anni più tesi della Guerra fredda, padre
Draganovic lavorò come spia per i servizi segreti militari degli Stati Uniti contro il regime iugoslavo. Nel 1967, Draganovic decise di tornare in Iugoslavia, dove sembra che il sacerdote sia stato sequestrato da agenti dello spionaggio iugoslavo. Misteriosamente, Draganovic ricomparve a Sarajevo, il 15 novembre del 1967. Durante la conferenza stampa, l'ex agente del Vaticano elogiò la «democratizzazione e l'umanizzazione della vita resa possibile dal regime di Tito in Iugoslavia». In quella stessa occasione, negò di aver fatto parte del «corridoio vaticano» o di essere stato sequestrato dalla UDBA, la polizia segreta iugoslava. Con l'autorizzazione e sotto la protezione del cardinale Eugène Tisserant, Draganovic, che i servizi di controspionaggio americani conoscevano come «la primula rossa» dei nazisti, lavorò al registro generale della Chiesa cattolica romana in Iugoslavia, fino alla sua morte. Krunoslav Draganovic morì nel luglio del 1983, nella più assoluta miseria, senza aver mai rivelato le relazioni tra i criminali di guerra nazisti e i servizi segreti della Santa Sede, nonché i misteri legati all'operazione Convento e al «corridoio vaticano».
Capitolo diciottesimo:Edouard Gagnon Monsignor «Nessun dorma» Edouard Gagnon nacque il 15 gennaio 1918, a Port Daniel, in Canada, in una famiglia numerosa, composta da tredici figli. Nel 1940, si laureò in teologia presso il Grand Séminaire di Montreal, e in diritto canonico presso l'università Laval del Quebec, La sua dissertazione La censura dei libri colpì profondamente la Santa Sede. Anastase Forget, vescovo di Saint-Jean-de-Québec, gli propose di andare a Roma per unirsi al corpo diplomatico attraverso la Segreteria di Stato, ma Gagnon preferì rimanere in Canada, lontano dal «rumore mondano» di Roma, e dedicarsi all'insegnamento. Dal 1945 al 1954, fu docente di morale e di diritto canonico al Grand Séminaire di Montreal e all'istituto Pie XI, e uditore del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Montreal. Negli anni successivi, Édouard Gagnon ricoprì diverse cariche ecclesiastiche nella provincia canadese di Manitoba e a Manizales, in Colombia. Dal 1964 al 1965, su richiesta dei vescovi canadesi, fu inviato a Roma per partecipare alla terza e alla quarta sessione del Concilio vaticano II.
Le sue dissertazioni colpirono Giovanni XXIII, che gli chiese di rimanere in Vaticano. Ma monsignor Gagnon preferì ritornare in Canada. Il 21 giugno 1963, il cardinale Giovanni Battista Montini fu eletto papa con il nome di Paolo VI. Monsignor Édouard Gagnon fu richiamato a Romacon un'ordinanza del pontefice e, nel settembre del 1966, fu nominato segretario della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali. MaGagnon, che simpatizzava poco per gli intrighi della curia, chiese al papa di essere inviato in Giappone come padre provinciale della Compagnia dei sacerdoti di San Supplizio. Il 19 febbraio 1969, Paolo VI nominò monsignor Edouard Gagnon vescovo di Saint Paul, ad Alberta, e negli anni seguenti gli furono assegnati diversi incarichi. Il 3 maggio 1972, si dimise da pronunzio apostolico in Canada e ritornò a Roma, dove fu rettore del Collegio canadese. Per quasi due anni, fu primovicepresidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Ma Paolo VI aveva in serbo per lui una missione che, col passare del tempo, si sarebbe rivelata una vera e propria «bomba a orologeria». All'inizio di gennaio del 1974, il pontefice convocò i responsabili dell'Entità e di Sodalitium Pianum nella sua sala da pranzo privata e chiese loro di far partire l'operazione «Nessun dorma». L'operazione era finalizzata a scoprire le inadempienze e i casi di corruzione nei vari dipartimenti, congregazioni, commissioni e dicasteri. Sebbene la (direzione delle indagini facesse capo all'Entità, la stesura del rapporto finale fu affidata all'arcivescovo Edouard Gagnon e a monsignor Istvàn Mester, che lavorava agli ordini del cardinale americano John Joseph Wright, responsabile della Congregazione per il Clero. Tra i casi riportati nel rapporto Nessun dorma, figurava quello relativo a un'alta carica della curia romana, arrestata al confine con la Svizzera. La svalutazione della lira aveva penalizzato gli italiani. Le persone più potenti cercavano di trasferire in Svizzera tutti i propri risparmi, stipati in valige e sacchi. Molti furono scoperti alla frontiera e arrestati. I mezzi di comunicazione davano continuamente notizia di attori, politici, cantanti, sportivi e presentatori televisivi che erano stati colti in flagrante. Un vescovo, che voleva mettere al sicuro oltralpe i propri lauti risparmi, si fece accompagnare da un capitano della Guardia di finanza per oltrepassare senza problemi il confine. Arrivati a Ponte Chiasso, un agente doganale chiese al conducente di aprire il portabagagli per una perquisizione. Il vescovo mostrò allora il passaporto vaticano, appellandosi all'immunità diplomatica. L'agente si allontanò per consultarsi con i suoi superiori e capire come dovesse procedere. Poi ritornò e, serio in volto, spiegò al conducente che il
suo comandante gli aveva ordinato di ispezionare il veicolo. Quando aprì il bagagliaio, il doganiere trovò una valigia piena di lire, dollari e franchi svizzeri. In commissariato, il vescovo spiegò che si trattava di un trasferimento ordinato dallo Stato vaticano e che i fondi avrebbero dovuto essere depositati sui conti svizzeri della Santa Sede. Sia il vescovo, sia il finanziere furono trattenuti fino a quando le autorità italiane riuscirono a contattare il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Benelli. Il caso rischiò di trasformarsi in un serio conflitto diplomatico tra l'Italia e il Vaticano, quando la Santa Sede annunciò che non aveva niente a che vedere con «quell'invio di denaro». Ma monsignor Benelli capì che una carica così alta della curia non avrebbe potuto trascorrere un'altra notte in carcere, per cui negoziò con il Ministero degli affari esteri italiano, con quello degli interni, con la Polizia, con la Guardia di finanza e con la Dogana. Alla fine, il vescovo e la sua valigia furono consegnati a un inviato della Segreteria di Stato. Un altro caso scoperto dall'Entità fu quello di due vescovi, un americano e un italiano, che lavoravano nella Segreteria di Stato e che decisero di vivere insieme in un appartamento, con una perpetua. L'americano iniziò a consumare droghe leggere e poi passò alla cocaina. In diverse occasioni, il religioso fu visto nelle zone di spaccio alla periferia di Roma o disteso sul pavimento della stazione. Un giorno, una rivista pubblicò le lettere d'amore inviate dal prelato americano a una giovane italiana, anche lei consumatrice di droghe. Il vescovo italiano riuscì a evitare che l'americano venisse espulso dalla Chiesa e dal Vaticano, ma entrambi furono inviati all'estero come nunzi apostolici. L'Entità scoprì anche che il rettore della Pontificia Università Lateranense aveva prenotato una stanza in un albergo di Roma. Arrivò di sera, e dalla vicina stazione prese un taxi che lo lasciò all'ingresso dell'hotel. Il giorno dopo, prenotò un tavolo per pranzare con una coppia, apparentemente marito e moglie. L'Entità aveva piazzato dei microfoni e riuscì ad ascoltare la conversazione. Il colloquio, lungi dall'essere informale, verteva sulla fine del pontificato di Paolo VI, sulla sua malattia, sulle voci che circolavano in Vaticano, sugli eventuali successori: il cardinale Sebastiano Baggio, il cardinale Ugo Poletti e il cardinale Jean Villot, conosciuto nei corridoi vaticani con il soprannome di «vicepapa». Due settimane dopo, il quotidiano Il
Tempo pubblicò un lungo articolo sui possibili successori «dell'infermo Paolo VI».Un altro scandalo, molto più scabroso, scoperto dagli agenti dell'operazione Nessun dorma, aveva come protagonista un importante rappresentante della curia e le sue avventure amorose. Durante una ronda notturna, una pattuglia della polizia notò una lussuosa automobile parcheggiata nei pressi del Colosseo. Uno degli agenti si avvicinò con una torcia e scoprì i due occupanti della vettura completamente nudi. Gli agenti chiesero ai due uomini i documenti per redigere il verbale. Il rapido intervento della Segreteria di Stato vaticana impedì che il giorno dopo il nome del religioso fosse pubblicato a grandi titoli sui quotidiani. Gli agenti dell'Entità scoprirono anche un articolato sistema di corruzione basato sullo scambio di regali. Per esempio, fu riportato il caso di un religioso americano di settantadue anni, il quale, per ottenere una promozione in Vaticano, era solito fare costosi regali ai membri del collegio cardinalizio, offrire pranzi e cene nei ristoranti più cari della Città eterna e regalare orologi d'oro. E, in un'occasione, pare avesse addirittura donato un pavone a un importante funzionario della Segreteria di Stato. Alla fine, il religioso fu nominato vescovo, e alla sua morte si scoprì che aveva sperperato enormi somme di denaro della diocesi e che aveva ipotecato diversi immobili di proprietà della Chiesa. Monsignor Edouard Gagnon e monsignor Istvàn Mester raccolsero tutte le informazioni in un grosso volume, che divenne un insieme di prove contro la corruzione dilagante nei dipartimenti, nei dicasteri, nelle università, nelle congregazioni e nelle commissioni pontificie. Tutto, ogni informazione, denuncia e sospetto fu incluso nel rapporto Nessun dorma. Gli «affari sporchi» scoperti dagli agenti dell'intelligence papale venivano trasmessi a Gagnon e Mester in due rapporti. Il primo, lungo una pagina, era una scheda in cui veniva indicato il dipartimento, il soggetto, il fatto indagato e se fosse stato denunciato da una o più persone del dipartimento. Il secondo, più consistente, era una raccolta di prove a sostegno delle accuse, conservate in un fascicolo. Una volta che il caso era chiuso, passava al vaglio di monsignor Gagnon e di monsignor Mester. I due avevano il compito di studiarlo e analizzarlo, per poi inserirlo nel rapporto finale o scartarlo, se le prove fossero state insufficienti. Gli agenti dei servizi segreti papali interrogarono tutti i funzionari dei dipartimenti vaticani, raccogliendo centinaia di denunce per
irregolarità e reati di corruzione, commessi da funzionari, vescovi e cardinali. Ci vollero tre mesi affinché monsignor Gagnon potesse riordinare tutto il materiale ricevuto dall'intelligence. Centinaia di casi, perfettamente documentati, vennero raccolti in dossier. Il cardinale segretario di Stato Jean Villot ordinò che gli uffici utilizzati da Gagnon e Mester fossero sorvegliati ventiquattro ore su ventiquattro dalle guardie svizzere. Senza dubbio, il potente Villot voleva evitare che si divulgasse qualche informazione senza che lui ne fosse al corrente. Un pomeriggio, Villot convocò Gagnon e Mester e disse loro che quanto contenuto nel rapporto Nessun dorma doveva essere rivelato solo a lui o a Paolo VI; in caso contrario, sarebbero stati scomunicati. Il canadese e l'ungherese presero la comunicazione di Villot come un preciso ordine del pontefice. Il voluminoso rapporto, che metteva allo scoperto le attività segrete della curia, era protetto giorno e notte da agenti dell'Entità, dell'SP e della Guardia svizzera. Ma potenti forze occulte erano determinate a impedire che il dossier arrivasse nelle mani di Paolo VI. Terminata la stesura del rapporto finale, intitolato Nessun dorma, monsignor Gagnon chiese, attraverso la Segreteria di Stato, di essere ricevuto dal pontefice. Villot invitò Gagnon a consegnargli il rapporto prima di rimetterlo al papa, ma sembra che il canadese si sia rifiutato, sostenendo di voler esporre personalmente a Paolo VI quanto scoperto. Il cardinale Villot assecondò la richiesta di Gagnon, e gli disse che entro pochi giorni sarebbe stato convocato dal pontefice. Trascorsero diverse settimane e Gagnon non ebbe nessuna risposta alla sua richiesta d'udienza. Poi, la Segreteria di Stato comunicò che il dossier, per la delicatezza del materiale contenuto, doveva essere affidato alla custodia del cardinale John Joseph Wright, fino a quando non fosse arrivato il momento di presentarlo a Paolo VI. Non vi è dubbio che Gagnon sapesse che il cardinale Wright era un uomo molto vicino a Villot e che l'ordine di consegnare il dossier era un modo per evitare che il papa potesse studiarlo. Villot disse a Gagnon che un'ordinanza del pontefice lo obbligava ad affidare il rapporto a Wright. Il pomeriggio del 30 maggio 1974, monsignor Gagnon affidò personalmente al cardinale Wright il voluminoso e illuminante rapporto sulla corruzione nello Stato vaticano. Il dossier fu depositato in una delle stanze della Congregatio pro Clericis, all'interno di un baule con serrature di ferro. Ma, la mattina di lunedì 2 giugno 1974, monsignor Mester scoprì che il rapporto, frutto di mesi di indagini dei servizi segreti papali,
era stato rubato. Nessuna porta dell'appartamento era stata forzata, mentre le serrature del baule erano state letteralmente strappate. Il cardinale Wright era l'unico a possedere la chiave che potesse aprirlo. Gli autori del furto avevano avuto a disposizione l'intera giornata di sabato 31 maggio e quella di domenica primo giugno, per agire. Monsignor Edouard Gagnon disse alla Segreteria di Stato di essere disposto a stendere in una settimana un nuovo rapporto, più ridotto, affinché Paolo VI potesse leggerlo, ma, misteriosamente, gli fu imposto di consegnare tutti i suoi appunti e di sospendere ogni iniziativa fino a nuovo ordine. Il cardinale Villot affidò le indagini sul furto a un uomo a lui molto vicino, Camillo Cibin, ispettore del Corpo di vigilanza della Città del Vaticano, alle dipendenze del governatorato. Il soprintendente Cibin chiese che ruolo avrebbe avuto l'Entità, ma la Segreteria di Stato gli ordinò di consegnare i risultati delle investigazioni direttamente nelle mani del cardinale Villot, senza intermediari.Qualche tempo dopo, quattordici membri della curia che avevano informato gli agenti dell'Entità di alcuni casi di corruzione furono espulsi dal Vaticano, mentre altri cinque furono mandati in missione in Africa. Monsignor Gagnon redasse di propria iniziativa un nuovo rapporto, dopodiché chiese di essere ricevuto da Paolo VI. La sua richiesta fu nuovamente respinta, per cui Gagnon consegnò il fascicolo, con la preghiera che fosse recapitato al pontefice. Ovviamente, questo non arrivò mai a destinazione: qualcuno della Segreteria disse al papa che era ormai impossibile trovare il rapporto Nessun dorma. Si dice che la cospirazione sia stata opera del cardinale Jean Villot. Altre fonti sostengono che, già in quel rapporto del 1974, fosse stato messo in evidenza il ruolo giocato dal monsignore americano Marcinkus, amico del cardinale John Joseph Wright, nel caso della banca vaticana (IOR) e dal banchiere Michele Sindona, un affare che negli anni successivi diede filo da torcere al Vaticano. Sembra che monsignor Gagnon avesse riportato che, il 26 aprile 1973, due agenti dell'FBl avevano fatto visita a Marcinkus per interrogarlo sulle relazioni tra il Vaticano di Paolo VI e Sindona, che aveva rapporti con importanti famiglie del crimine organizzato italiano negli Stati Uniti. Alla fine, monsignor Édouard Gagnon chiese di poter lasciare la Santa Sede per ritornare nel suo paese, il Canada, in attesa di raggiungere l'età della pensione. Negli anni successivi, Gagnon fu nominato vicepresidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia e, nel 1983, ne divenne copresidente. Durante la IV assemblea ordinaria del Sinodo mondiale dei vescovi, nel 1983,
Giovanni Paolo II chiese a monsignor Gagnon di rimanere in Vaticano. Nel Concistoro del 25 maggio 1985, fu nominato cardinale e lo stesso giorno ricevette il berretto. Nel gennaio del 1998, perse il diritto a partecipare al conclave, avendo compiuto ottant'anni. Nel marzo del 2001, abbandonò l'incarico di presidente del Pontificio Consiglio per il Congresso Eucaristico Mondiale e ritornò nella sua terra natia, dove trascorse il resto dei suoi giorni. Sono passati ben trentaquattro anni da quando l'operazione Nessun dorma fu lanciata, ma da allora nessun papa ha mai più chiesto all'Entità e a Sodalitium Pianum di realizzare un'altra indagine simile.
Capitolo diciannovesimo: Carlo Jacobini Il collegamento con il Mossad. Alla fine del 1972, la guerra condotta da Israele contro il gruppo terrorista palestinese Settembre nero, responsabile della morte di undici atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco, si estese fino al Vaticano. L'operazione Gerusalemme dell'Entità e l'operazione diamante del Mossad furono due esempi di collaborazione che dimostrarono come, durante il pontificato di Paolo VI, tra le due agenzie di spionaggio intercorressero buoni rapporti. Nel novembre del 1972, la Segreteria di Stato del Vaticano comunicò al governo israeliano che Paolo VI era disposto a ricevere il primo ministro Golda Meir in udienza privata, in tempi brevi. L'Entità comunicò al Mossad la data stabilita per l'incontro: il 15 gennaio 1973. La sicurezza e la sorveglianza dell'incontro sarebbero state affidate ai servizi segreti papali e a quelli israeliani. Gli agenti di collegamento sarebbero stati Mark Hessner del Mossad e padre Carlo Jacobini dell'Entità.Carlo Jacobini apparteneva alla «classe nobile» dei funzionari che si muovevano come pesci nell'acqua nei lunghi corridoi della Santa Sede. Nato il 22 aprile 1931, a Genzano, vicino Roma, Jacobini sapeva, grazie a una secolare tradizione familiare, come fare carriera nella curia e come funzionassero i perfetti ingranaggi del Vaticano. Infatti, la spia era il discendente di tre importanti membri del collegio cardinalizio: il cardinale Angelo Jacobini, assessore della Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione durante il pontificato di Pio IX; il cardinale Domenico Maria Jacobini, camerlengo del Sacro Collegio Cardinalizio, segretario della congregazione Propaganda Fide e assistente al trono papale sotto il pontificato di Leone XIII; e il
cardinale Luigi Jacobini, protonotario apostolico e segretario di Stato di Leone XIII. Terminati gli studi di teologia presso il seminario di Roma, il giovane Jacobini si specializzò in lingue straniere e in relazioni tra la Santa Sede e le Chiese orientali. Parlava correntemente greco, inglese, spagnolo, tedesco, francese e latino. Grazie a questa sua abilità, la Segreteria di Stato lo inviò presso la nunziatura di Washington, sotto la protezione del cardinale Luigi Raimondi. Vi rimase due anni, durante i quali ebbe strette relazioni con agenti dell'FBl e con la CIA, in particolare con Richard Helms, direttore dell'agenzia di spionaggio americana, conosciuto durante un ricevimento presso la nunziatura apostolica. Rientrato a Roma, Jacobini fu destinato all'Entità, con il compito di creare contatti tra lo spionaggio papale e i servizi segreti di altri paesi. Per questa ragione, gli fu affidato il comando del gruppo operativo predisposto dal Vaticano per l'incontro tra Golda Meir e Paolo VI. In un primo momento, il suo lavoro consistette nel coordinare le operazioni di sicurezza tra la Segreteria di Stato e il Mossad e tra il Vaticano e la Polizia italiana. Il Vaticano assegnò padre Angelo Casoni, un giovane sacerdote dell'SP esperto in controspionaggio, al gruppo incaricato della sicurezza dell'incontro tra il primo ministro e il papa. Poco prima dell'udienza, Sodalitium Pianum informò Jacobini che la notizia del viaggio di Golda Meir a Roma era trapelata, probabilmente attraverso un funzionario della Segreteria di Stato. Fu Casoni a scoprire che le informazioni della visita di Golda Meir in Vaticano potevano essere arrivate a un palestinese di nome Abu Yusuf. Infatti, Yusuf aveva inviato un messaggio ad Ali Hassan Salamek capo dell'organizzazione terrorista palestinese Settembre nero e cervello dell'operazione contro gli atleti israeliani a Monaco.AH Hassan Salamek, aHas Abu Hassan, aHas «il principe rosso», era un uomo spietato. Nel quartier generale dell'Istituto, nome con cui è conosciuta l'intelligence israeliana, era noto che Ali Hassan Salamek fosse a conoscenza del viaggio di Golda Meir a Roma, e che quindi fosse necessario prepararsi a ricevere il colpo. Carlo Jacobini riteneva possibile anche un attentato in territorio vaticano. Gli uomini di Settembre nero erano ben addestrati, ben finanziati e motivati, ed erano anche famosi per la loro estrema violenza: alle proprie spalle, lasciavano sempre qualche morto. Nelle prime ore del mattino del 14 gennaio, quando mancava solo un giorno all'incontro tra Paolo VI e Golda Meir, un sayarp comunicò di aver ascoltato una conversazione tra due persone con accento arabo in cui un uomo assicurava un altro che a breve
avrebbe ricevuto un carico di candele. Zvi Zarnir, il memunehb del Mossad, era sicuro che le candele di cui parlava il suo contatto fossero missili. Settembre nero, infatti, era in possesso di missili di fabbricazione russa, che, in occasione dell'attentato, sarebbero stati trasferiti da un porto della Iugoslavia, dove erano custoditi, a Bari. Dalla Puglia, sarebbero stati poi trasportati in camion fino a Roma. Allo stesso tempo, un agente del controspionaggio vaticano comunicò ad Angelo Casoni di aver avuto notizia da un suo informatore di un'operazione di guerriglieri palestinesi a Ostia o Bari. Zvi Zamir e padre Jacobini lavoravano gomito a gomito per trovare una risposta a tre domande fondamentali: come, dove e quando sarebbe avvenuto l'attacco. Il giorno dell'incontro, il 15 gennaio, il Mossad, l'Entità e la Divisione investigazioni generali e operazioni speciali (DIGOS) erano in stato di massima allerta. Zamir e Jacobini sapevano che l'unico posto in cui sarebbe stato possibile realizzare un attacco con dei missili erano i dintorni dell'aeroporto Leonardo Da Vinci, durante la fase di atterraggio o di decollo dell'aereo su cui viaggiava Golda Meir. Il primo allarme scattò a poche ore dall'arrivo del primo ministro israeliano. Un agente di Sodalitium Pianum comunicò a padre Angelo Casoni di aver visto uno strano furgoncino FIAT verde vicino a una delle piste di atterraggio. Zamir e Hessner raggiunsero il veicolo e, armi in mano, chiesero al conducente di scendere e mostrare i documenti, mentre Carlo Jacobini, a distanza di sicurezza, non li perdeva di vista. Improvvisamente, lo sportello posteriore del furgone si aprì e partì una raffica di colpi. Gli agenti del Mossad risposero al fuoco e ferirono gravemente due terroristi, mentre l'uomo che si trovava alla guida fuggì a piedi. Gli israeliani lo inseguirono e riuscirono a bloccarlo. Quando già iniziava a distinguersi la sagoma dell'aereo, gli agenti videro un furgoncino bianco il cui tetto era stato modificato. Infatti, osservando attentamente, si potevano distinguere dei tubi orientati verso l'alto. Zamir e Jacobini erano sicuri che si trattasse di lanciamissili. Hessner riuscì a ribaltare il furgoncino bianco, investendolo di lato. I due uomini di Settembre nero, intrappolati all'interno, furono arrestati dalla DIGOS. Alla fine, Golda Meir incontrò Paolo VI, il quale, pur sapendo che non era il momento migliore per stabilire relazioni diplomatiche, si impegnò a prendere in considerazione l'ipotesi, e a lavorarci nei cinque anni successivi. Da
quel giorno, le relazioni tra il Mossad e l'Entità furono molto strette, anche durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Negli anni successivi, padre Carlo Jacobini e padre Angelo Casoni continuarono a fare da collegamento tra i servizi segreti vaticani e quelli israeliani, anche dopo che Jacobini ebbe lasciato l'Entità. I terroristi arrestati dalle autorità italiane furono trasferiti in Libia. I sospetti dell'SP su chi fosse stato l'informatore della Segreteria di Stato del Vaticano a passare le notizie del viaggio segreto di Golda Meir ai terroristi di Settembre nero ricaddero su padre Idi Ayad, un agente dell'Entità che operava come collegamento ufficioso tra Paolo VI e i vertici dell'OLP. Per il mondo, l'operazione Gerusalemme che salvò la vita di Golda Meir non era mai esistita, ma il Mossad non avrebbe mai dimenticato che, grazie all'Entità e a Carlo Jacobini, il primo ministro d'Israele era ancora vivo. Tre anni dopo, l'11 aprile del 1976, il Mossad ricambiò il favore all'Entità, quando gli israeliani scoprirono un complotto organizzato per uccidere Paolo VI. Una mattina di fine marzo, Isaac Hofi, il nuovo mcmunch del Mossad, chiamò Carlo Jacobini e gli disse che aveva bisogno di incontrarlo al più presto. Si diedero appuntamento per quello stesso pomeriggio in un hotel di Roma. Il capo delle spie israeliane informò Jacobini che una delle postazioni del Mossad aveva intercettato il piano di un gruppo terrorista per sequestrare o assassinare Paolo VI. Hofi disse che i suoi katsas erano sicuri che l'attacco sarebbe stato diretto da Carlos «lo sciacallo». Sentendo quel nome, a Jacobini si gelò il sangue. Il 21 dicembre 1975, Carlos Ramirez detto «lo sciacallo» aveva sequestrato i delegati dell'OPEC riuniti a Vienna. Era un uomo pericoloso, che difficilmente sbagliava un colpo, e che lasciava sempre una scia di sangue dietro di sé. I servizi segreti occidentali credevano che Carlos stesse preparando nuove azioni: l'attacco a una centrale nucleare nella Repubblica federale tedesca, l'assassinio dello scià Reza Pahlavi e del re Hussein di Giordania durante un viaggio in Svizzera, il sequestro di un gruppo di politici egiziani, l'omicidio del generale Pinochet e degli ambasciatori di sei paesi occidentali a Santiago del Cile. Inoltre, ritenevano che il terrorista fosse in possesso anche di bombe all'idrogeno, bombe atomiche e chimiche, e di un'infinità di altre cose in grado di aiutare «lo sciacallo» a fare quello che gli riusciva meglio: incutere paura. In realtà, l'informazione veniva da una sezione dalla CIA, alla quale l'addetto dell'Ufficio politico dell'ambasciata americana a Teheran, John D. Stempel, aveva comunicato che il KGB aveva intercettato un piano
per sequestrare o assassinare Paolo VI: sembrava che nell'operazione potessero essere coinvolti membri della banda terrorista tedesca Baader-Meinhof. Hofi disse a padre Jacobini che l'Entità avrebbe potuto disporre dell'aiuto del Mossad per mandare all'aria il piano. Finita la riunione, il sacerdote prese un taxi e tornò in Vaticano, informando immediatamente padre Angelo Casoni e il cardinale Villot di quanto riferito dal memuneh del Mossad. L'idea di Carlos era quella di compiere un assalto a sorpresa, entrando ad armi spiegate nella basilica di San Pietro mentre il pontefice celebrava la messa, oppure di colpire Paolo VI mentre si affacciava al balcone, durante il saluto domenicale ai fedeli. L'Entità, in collaborazione con il Mossad, si mise al lavoro per scongiurare il pericolo in arrivo, ma, poco dopo, Jacobini ricevette un'altra comunicazione del Mossad, con la quale informava che Wilfred Bòse e Gabriele Kròcher-Tiedemann erano stati localizzati in Bahrein e Carlos Ramirez in Yemen. I terroristi avevano deciso di cambiare obiettivo. Qualche tempo dopo, infatti, dirottarono il volo dell'Air France 139, partito da Tel Aviv e diretto a Parigi, verso l'aeroporto di Entebbe, in Uganda. Il 4 luglio 1976, il velivolo fu preso d'assalto da un commando israeliano e da membri del Kidon appartenenti al Mossad, che con un'operazione-lampo liberarono tutti i passeggeri in ostaggio. Negli anni successivi, padre Carlo Jacobini continuò a essere il collegamento tra la Santa Sede e i servizi di intelligence stranieri, rafforzando le relazioni con la CIA e con i suoi agenti della postazione di Roma. Fu opera di Jacobini anche l'avvicinamento tra la Santa Sede e l'OLP di Yasser Arafat. E' noto che insieme a padre Idi Ayad, di origine palestinese, Carlo Jacobini organizzò un'importante riunione tra il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e il responsabile delle relazioni estere dell'OLP. Jacobini fu anche artefice dell'avvicinamento tra William Casey, direttore della CIA durante l'amministrazione Reagan, Giovanni Paolo II e il cardinale Luigi Poggi, responsabile delle spie del papa. Negli anni successivi, padre Jacobini fece da negoziatore del Vaticano in diverse occasioni. Per esempio, formò una parte, come consulente speciale, della prima commissione bilaterale costituita dalla Santa Sede e da Israele per negoziare le condizioni legali e fiscali relative ai beni della Chiesa in Terra Santa. Nel gennaio del 1996, padre Jacobini chiese a Giovanni Paolo II un permesso speciale per ritirarsi dai suoi importanti «compiti» e ritornare nella sua città natale, così da rimettersi da una grave malattia. Non esistono informazioni precise sulla morte del religioso e spia Carlo Jacobini, ma si pensa che sia avvenuta tra il 1998 e il 1999, a causa di un cancro,
all'età di sessantasette anni.
Capitolo ventesimo Luigi Poggi La spia di Giovanni Paolo II Il 16 ottobre 1978, il cardinale polacco Karol Wojtyla fu eletto papa con il nome di Giovanni Paolo II. Era accaduto qualcosa di incredibile: sul trono di Pietro sedeva un papa che veniva da un paese dell'Europa dell'Est, da una nazione al di là della cortina di ferro. Giovanni Paolo II chiamò a dirigere l'Entità e Sodalitium Pianum monsignor Luigi Poggi, delegato apostolico in Polonia dal 1975. Luigi Poggi, nato il 25 novembre 1917, a Piacenza, studiò presso la prestigiosa Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma e, nel 1945, entrò nella Segreteria di Stato, dove lavorò per diversi dipartimenti e si specializzò nei paesi dell'Europa dell'Est e nelle relazioni tra la Chiesa e Mosca. Il 14 aprile 1960, Giovanni XXIII nominò Poggi prelato d'onore di Sua Santità, con l'incarico di consigliere personale riguardo un eventuale avvicinamento del Vaticano all'Unione Sovietica guidata da Nikita Krusciov. Alcune fonti affermano che fu Poggi a suggerire a Giovanni XXIII di ricevere in udienza privata Rada, la figlia di Krusciov, e suo marito, Alexei Adjubei, direttore del giornale Ihvestia. Quell'incontro contribuì alla distensione tra Krusciov e il presidente degli Stati Uniti John F Kennedy, dopo la «crisi dei missili». Successivamente, Paolo VI nominò Poggi arcivescovo titolare di Forontoniana per i servizi resi alla Chiesa, e questi fu consacrato il 9 maggio 1965. Negli anni successivi, Poggi occupò diverse cariche nella Segreteria di Stato: pronunzio in Camerun, Gabon, nella Repubblica centrafricana e nunzio in Perù. Ma Paolo VI e il suo segretario di Stato Jean Villot avevano in serbo per Luigi Poggi un'altra missione. Il primo agosto 1973, fu nominato nunzio con incarichi speciali per le relazioni con la Polonia, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, la Romania e la Bulgaria. Grazie alle ottime relazioni di monsignor Poggi con il governo di Varsavia, il 7 febbraio 1975, il pontefice lo propose come capo della delegazione vaticana per i contatti permanenti con la Polonia. Questo incarico lo obbligò ad avere stretti rapporti con un promettente cardinale polacco nel pieno della sua carriera: Karol Wojtyla. Con l'elezione di Giovanni Paolo II, monsignor Poggi fu chiamato a dirigere i servizi segreti vaticani, nel quadro di una nuova e ben precisa «geopolitica della fede». Giovanni Paolo II aveva ben chiaro che il principale
cavallo di battaglia del suo pontificato sarebbe stato il tentativo di mettere fine al comunismo ateo che si abbatteva sull'Europa dell'Est, e specialmente sulla sua Polonia. Erano tempi nuovi e, per affrontarli, uno dei pontificati più politicizzati della storia della Chiesa cattolica romana aveva bisogno di servizi segreti efficienti. Dalla fine del 1980, i contatti tra gli USA e il Vaticano sulla situazione in Polonia erano gestiti da Zbigniew Brzezinski, consigliere dell'Agenzia per la sicurezza nazionale del presidente Carter, e dal cardinale slovacco Josef Tomko, capo dell'Ufficio dottrina ed ex responsabile del controspionaggio vaticano. Mentre Tomko e Brzezinski in qualche modo pianificavano la strategia politica di Washington e del Vaticano in Europa orientale, monsignor Luigi Poggi progettava e sviluppava, con l'autorizzazione di Giovanni Paolo II, le nuove missioni dello spionaggio. Un esempio fu l'operazione «Libro aperto», che consisteva nel diffondere libri anticomunisti nei paesi dell'Est e in alcune zone dell'URSS come l'Ucraina e i paesi baltici. L'operazione fu coordinata dalla CIA e dall'Entità, attraverso religiosi che operavano in quelle zone. Nel 1980, il sindacato polacco Solidarnosc diede vita a una serie di scioperi che misero in allerta il governo di Varsavia e quello di Mosca. Solidarnosc, infatti, rappresentava per l'Unione Sovietica una minaccia seria e senza precedenti, una «infezione che stava attaccando il monolitico blocco comunista e che, se fosse riuscita a infettare i paesi baltici, avrebbe potuto smembrare l'Unione Sovietica» come scrisse in un rapporto Zbigniew Brzezinski.Ronald Reagan diede inizio al proprio mandato di presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1981, ma contatti tra Washington e il Vaticano erano stati stabiliti già alcune settimane prima. Quando l'amministrazione Reagan si mise in moto, il Vaticano aveva due nuovi interlocutori sulla questione polacca: Richard Alien, consigliere per la sicurezza nazionale, e William Casey. I contatti tra l'Entità e il Vaticano consentivano informazioni di grande valore per la formulazione di un'analisi strategica. Zbigniew Brzezinski continuò a essere il collegamento speciale tra la Casa Bianca e l'Entità. Reagan, proprio come Giovanni Paolo II, credeva che il marxismo, il leninismo e il comunismo fossero manifestazioni del male e che bisognasse estirparli. Il contributo degli Stati Uniti alla causa polacca sarebbe arrivato sotto forma di aiuti economici. Casey si chiedeva da dove sarebbero stati presi i soldi, ma il problema era già stato risolto nel cuore del Vaticano da monsignor Poggi. Jan Nowak, presidente del Polish American Congress, divenne il collegamento per le nuove operazioni congiunte della CIA e dell'Entità in Polonia. La sua funzione era quella di garantire che il flusso di informazioni tra
Varsavia e il Vaticano e, attraverso Poggi e Casey, tra il Vaticano e Washington, fosse costante. Nowak si sarebbe occupato anche della raccolta fondi e dell'invio di denaro in Polonia.In cambio delle informazioni sulla Polonia, l'Entità riceveva dalla CIA i rapporti sulle intercettazioni delle conversazioni telefoniche tra sacerdoti e vescovi del Nicaragua e del Salvador, che aderivano alla teologia della liberazione e partecipavano attivamente all'opposizione contro le forze sostenute, sia militarmente che economicamente, dagli Stati Uniti. Inoltre, i sacerdoti vicini alle classi dirigenti dei paesi dell'America centrale, fedeli al papa e all'Entità, ricevevano in segreto denaro dagli americani. In realtà, non esiste nessun documento che dimostri che Giovanni Paolo II o un'alta carica del Vaticano abbia approvato questi pagamenti, ma ci sono degli indizi che fanno pensare che Luigi Poggi dovesse esserne al corrente. Negli anni Ottanta, l'attività dei servizi segreti guidati da Poggi fu rilevante anche in Italia. Alla fine di aprile del 1981, gli uomini di Poggi furono impegnati nel recupero dei negativi di alcune fotografie compromettenti, che ritraevano papa Wojtyla mentre usciva, completamente nudo, dalla piscina di Castelgandolfo. Monsignor Poggi intendeva entrare in possesso dei negativi in primo luogo per evitare la pubblicazione delle foto e lo scandalo che ne sarebbe seguito, ma anche per sapere come i fotografi fossero riusciti a puntare gli obiettivi delle proprie macchine fotografiche senza essere intercettati. Non vi era il minimo dubbio, infatti, che dei semplici fotografi erano riusciti a beffarsi delle misure di sicurezza che circondavano il papa. In poco tempo, i negativi furono recuperati e tutto il materiale venne distrutto.5 Sodalitium Pianum scoprì che nella vicenda delle fotografie era coinvolto anche un agente dello spionaggio papale, il sacerdote Lorenzo Zorza, esperto in sistemi di sicurezza. Zorza era stato anche implicato nel fallimento del Banco Ambrosiano e indagato per le sue presunte relazioni con gruppi mafiosi coinvolti nel traffico di droga e di opere d'arte. Ma la missione più difficile affidata a Poggi da Giovanni Paolo II fu quella di scoprire chi si nascondesse dietro l'attentato subito dal pontefice il 13 maggio 1981.6 Negli anni che seguirono, monsignor Poggi visse al servizio del papa, giorno e notte, con orari di lavoro estenuanti. Il 9 aprile 1992, Giovanni Paolo II accettò le dimissioni di Luigi Poggi da responsabile dello spionaggio pontificio, che aveva diretto per quattordici anni, e lo nominò archivista dell'Archivio segreto vaticano e bibliotecario della Santa Chiesa di Roma. Finalmente, il 26 novembre 1994, Poggi fu elevato cardinale per i «particolari servizi alla Chiesa». Il cardinale Poggi lasciò l'incarico di archivista e
bibliotecario il 7 marzo 1998. Attualmente, a novant'anni, l'uomo che conosce e protegge il maggior numero di segreti sulla lotta contro il comunismo, condotta negli anni Ottanta da Giovanni Paolo II e dal Vaticano, trascorre una vita tranquilla, nella sua Piacenza natia.
Ringraziamenti Alle fonti che mi hanno fornito un aiuto inestimabile e i cui nomi ho preferito che non comparissero in questo libro. Alle fonti che mi hanno fornito un aiuto inestimabile e che mi hanno chiesto di non essere citate. A Giuliana Bullard e Susan Cooper del National Archives and Record Administration (NARA), per avermi permesso l'accesso ai documenti The Nazi War Crimes and Japanese Imperial Government Records Interagency Working Group (iWG). Ai membri della Comisión para el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina (CEANA), del Ministerio de Relaciones Exteriores, del Comercio Internacional y Culto. A padre Piaras Jackson SJ del Jesuit Communication Centre di Dublino, per la pazienza con cui ha accolto la mia richiesta di informazioni su Nicholas Sanders. A Siobhàn O'Donovan della National Library of Ireland, per aver seguito per me le tracce della spia Nicholas Sanders. A Ugo Carandino della Casa San Pio x di Roma, per le informazioni su Umberto Benigni. Ad Alison Weir, per la poderosa documentazione su Maria Stuarda, il suo regno e la sua epoca e per l'approfondita conoscenza della figura di Davide Rizzio. A David M. Cheney, per avermi permesso di esaminare i suoi magnifici e ben documentati archivi storici sulla gerarchia cattolica e la curia romana, senza i quali mi sarebbe stato molto difficile scrivere questo libro. A Salvador Miranda della Florida Interantional University Library, un vero esperto di storia del Sacro Collegio Cardinalizio. Anche senza la sua documentazione sarebbe stato difficile scrivere questo libro. All'ufficio stampa della cdu, Unione cristiano democratica tedesca, per le informazioni su Josef Muller. All'Institute of Documentation in Israel for the Investigation of Nazi War Crimes di Haifa, per avermi fornito tutta la documentazione relativa alle relazioni tra il Vaticano e la Germania nazista, le informazioni sul ruolo della gerarchia vaticana nella fuga di criminali di guerra nazisti, nonché i fascicoli originali relativi agli alti gerarchi nazisti che ebbero contatti con Pio XII, durante l'occupazione in Italia. A Vincenzo Ostuni, mio stimato editor e, prima di tutto, mio caro amico, per aver creduto in questa storia e in me. Grazie a lui e al suo coraggio oggi è possibile leggere in Italia i miei libri. A Simona Noce, che riesce «magicamente» a trasformare in italiano le mie parole. Grazie. Infine, un ringraziamento particolare a tutte quelle persone e organizzazioni che hanno cercato in tutti i modi di ostacolare il mio lavoro, per impedire che questo libro arrivasse a essere ciò che è. La loro ostinazione ha intensificato la mia curiosità e quindi le mie ricerche. A ciascuno, il mio più umile e sincero ringraziamento. Una parte di questo libro appartiene a tutti loro. Finito di stampare nel mese di settembre 2009 per conto di Adriano Salani Editore S.p dal Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche - Printed in Italy