Le malattie rare del sistema immunitario: Una guida per i pazienti 978-88-470-5393-9, 978-88-470-5394-6 [PDF]

Condizione cronica, aumentata mortalit� e disabilit� gravi sono i principali problemi socio-sanitari che accomunano le m

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Italian Pages XII, 196 pagg. [194] Year 2013

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Front Matter....Pages I-XI
Front Matter....Pages 1-1
Le Attivit� Del Centro Nazionale Malattie Rare (Istituto Superiore Di Sanit� )....Pages 3-6
Le Regioni E Le Malattie Rare....Pages 7-8
Rispondono Le Istituzioni....Pages 9-25
Rispondono I Medici....Pages 27-35
Diagnosi, Sintomi E Terapia....Pages 37-52
Front Matter....Pages 53-53
Sindrome Da Anticorpi Antifosfolipidi....Pages 55-61
Malattia Indifferenziata Del Tessuto Connettivo....Pages 63-68
Sclerosi Sistemica....Pages 69-81
Granulomatosi Con Poliangioite (Di Wegener)....Pages 83-92
Granulomatosi Eosinofila Con Poliangioite (Sindrome Di Churg-Strauss)....Pages 93-99
Arterite Di Takayasu....Pages 101-106
Sindrome Di Behçet....Pages 107-115
Uveiti Autoimmuni....Pages 117-126
Amiloidosi....Pages 127-131
Malattie Autoinfiammatorie....Pages 133-140
Miopatie Infiammatorie....Pages 141-147
Immunodeficienze Primitive....Pages 149-167
Pandas....Pages 169-172
Angioedema Ereditario....Pages 173-175
Dermatosi Bollose Autoimmuni....Pages 177-192
Back Matter....Pages 193-196
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Le malattie rare del sistema immunitario: Una guida per i pazienti
 978-88-470-5393-9, 978-88-470-5394-6 [PDF]

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Le malattie rare del sistema immunitario Una guida per i pazienti

a cura di Lorenzo Emmi

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Le malattie rare del sistema immunitario

Le malattie rare del sistema immunitario Una guida per i pazienti

a cura di Lorenzo Emmi

a cura di Lorenzo Emmi SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Firenze

ISBN 978-88-470-5393-9 ISBN 978-88-470-5394-6 (eBook) DOI 10.1007/978-88-470-5394-6 © Springer-Verlag Italia 2013 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore e la sua riproduzione anche parziale è ammessa esclusivamente nei limiti della stessa. Tutti i diritti, in particolare i diritti di traduzione, ristampa, riutilizzo di illustrazioni, recitazione, trasmissione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o altri supporti, inclusione in database o software, adattamento elettronico, o con altri mezzi oggi conosciuti o sviluppati in futuro, rimangono riservati. Sono esclusi brevi stralci utilizzati a fini didattici e materiale fornito ad uso esclusivo dell’acquirente dell’opera per utilizzazione su computer. I permessi di riproduzione devono essere autorizzati da Springer e possono essere richiesti attraverso RightsLink (Copyright Clearance Center). La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dalla legge, mentre quelle per finalità di carattere professionale, economico o commerciale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Le informazioni contenute nel libro sono da ritenersi veritiere ed esatte al momento della pubblicazione; tuttavia, gli autori, i curatori e l’editore declinano ogni responsabilità legale per qualsiasi involontario errore od omissione. L’editore non può quindi fornire alcuna garanzia circa i contenuti dell’opera. Layout copertina: Ikona S.r.l., Milano Impaginazione: Ikona S.r.l., Milano Stampa: Arti Grafiche Nidasio S.r.l., Assago (MI)

Springer-Verlag Italia S.r.l., Via Decembrio 28, I-20137 Milano Springer fa parte di Springer Science+Business Media (www.springer.com)

A mia moglie Laura e a tutte le persone che come lei hanno deciso di lottare Lorenzo

PREFAZIONE

Perché un libro sulle malattie rare? E poi, su quale malattia rara? Sono davvero importanti? Sono sempre gravi? Sono tutte genetiche? Queste e altre le domande che credo possano porsi tanti pazienti e medici che entrano a contatto con questo grande e apparentemente sterminato universo. Intanto, per cercare di fare un po’ d’ordine, si definisce rara una patologia quando la sua incidenza è di 1 ogni 2.000 abitanti, ma nonostante questa bassa incidenza i pazienti affetti non sono “rari”, perché tante sono le patologia rare (più di 6.000 quelle riconosciute ad oggi). In questo libro sono stati chiamati alcuni esperti italiani per rispondere alle domande formulate dai pazienti e dalle Associazioni nazionali su alcune delle principali malattie rare immunologiche. Ma tutte le patologie rare sono immunologiche? La risposta è certamente no, ma è vero anche che moltissime malattie del sistema immunitario sono considerate rare; basti pensare alle immunodeficienze, alle vasculiti sistemiche, alle malattie autoinfiammatorie o a buona parte delle malattie del connettivo. Un’altra domanda cruciale è quali sono i problemi principali che presentano i pazienti con malattie rare del sistema immunitario? Il primo e forse più importante, ad oggi, è il ritardo diagnostico. Spesso, infatti, passano mesi o addirittura anni prima che i singoli e apparentemente slegati elementi clinici si compongano a formare una diagnosi (e, quindi, una terapia e un followup) corretta e definitiva. In questo libro, semplice strumento che si vuole affiancare all’enorme lavoro svolto dalle singole Associazioni dei pazienti, insieme a quello del Centro Nazionale Malattie Rare e delle Regioni e, non ultimo, delle società scientifiche, si è cercato di rispondere anche ad altre domande; grande rilievo è

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stato dato al problema della suscettibilità genetica delle malattie rare del sistema immunitario. Si può affermare che solo alcune delle patologie trattate sono geneticamente determinate in senso stretto, ma per tutte esiste una sorta di suscettibilità legata a un generico substrato genetico. Grande enfasi anche alle prospettive terapeutiche e ai segni e sintomi di “allarme” che devono attivare il medico. Quest’ultimo ha, infatti, il grande compito perlomeno di “sospettare” la malattia, così da inviare presso centri di esperienza per quella determinata patologia. Ciò richiede il rafforzamento della rete già esistente tra Associazioni, medicina generale e centri specialistici, con l’istituzione di percorsi precostituiti nei quali il paziente venga condotto lungo l’iter diagnostico e terapeutico, informandolo in maniera adeguata su ciò che significa essere affetto da una patologia “rara”. Anche i centri specialistici stessi dovranno forse in qualche maniera adeguarsi alla nuova realtà di una medicina ridisegnata sul paziente, avvalendosi non solo di specialisti di branca, ma addirittura di patologia. Questa è solo una guida. Per medici e pazienti. Le malattie rare sono sicuramente tante, ma ogni individuo è sempre e solo legato alla propria storia personale. Lorenzo Emmi

INDICE

Alcune informazioni sulle malattie rare 1

Le attività del Centro Nazionale Malattie Rare (Istituto Superiore di Sanità)............................................... Domenica Taruscio

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Le Regioni e le malattie rare ............................................... Cecilia Berni

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Rispondono le istituzioni...................................................... Domenica Taruscio

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Rispondono i medici ............................................................. 27 Danilo Squatrito, Enrico Beccastrini

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Diagnosi, sintomi e terapia .................................................. 37 Lorenzo Emmi, Mario Milco D’Elios

Patologie specifiche: domande su... 6

Sindrome da anticorpi antifosfolipidi ................................ 55 domanda Stefania Di Masso, rispondono Domenico Prisco e Caterina Cenci

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Malattia indifferenziata del tessuto connettivo................. 63 domanda Renato Giannelli, rispondono Elena Silvestri e Simona Brancati

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Sclerosi sistemica .................................................................. 69 domanda Carla Garbagnati Crosti, risponde Raffaella Scorza

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Granulomatosi con poliangioite (di Wegener) .................. 83 domanda Andrea Fusi, rispondono Stefano Bombardieri, Chiara Baldini e Francesco Ferro

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Granulomatosi eosinofila con poliangioite (Sindrome di Churg-Strauss).............................................. 93 domanda Simonetta Ciarapica, risponde Lorenzo Emmi

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Arterite di Takayasu............................................................. 101 domanda Mario Galarducci, risponde Maria Grazia Sabbadini

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Sindrome di Behçet............................................................... 107 domanda Alessandra Del Bianco, rispondono Giacomo Emmi e Tommaso Barnini

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Uveiti autoimmuni................................................................ 117 domanda Alessandra Del Bianco, rispondono Ugo Menchini e Lorenzo Vannozzi

14

Amiloidosi .............................................................................. 127 domanda Rosa Maria Turano, rispondono Giampaolo Merlini e Paolo Milani

INDICE

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Malattie autoinfiammatorie ................................................ 133 domanda Paolo Calveri, rispondono Mauro Galeazzi e Luca Cantarini (sull’adulto), Marco Gattorno (sul bambino)

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Miopatie infiammatorie ....................................................... 141 domanda Caterina Campanelli, rispondono Giuseppe Patuzzo, Elisa Tinazzi e Claudio Lunardi

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Immunodeficienze primitive ............................................... 149 domanda Alberto Barberis, rispondono Chiara Azzari, Clementina Canessa, Francesca Lippi (sul bambino) e Marco De Carli (sull’adulto)

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PANDAS................................................................................. 169 domanda Giuliana Galardini, rispondono Rosanna Carelli e Stefano Pallanti

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Angioedema ereditario......................................................... 173 domanda Pietro Mantovano, rispondono Marco Cicardi e Andrea Zanichelli

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Dermatosi bollose autoimmuni ........................................... 177 domanda Sara Schifano, rispondono Paolo Fabbri e Marzia Caproni

Indirizzi e contatti utili.......................................................................... 193

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ALCUNE INFORMAZIONI SULLE MALATTIE RARE

CAPITOLO 1 LE ATTIVITÀ DEL CENTRO NAZIONALE MALATTIE RARE (ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ) Domenica Taruscio

Il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) svolge attività di ricerca, sorveglianza, consulenza e documentazione finalizzate alla prevenzione, diagnosi, trattamento, valutazione e controllo nel campo delle malattie rare e farmaci orfani (Gazzetta Ufficiale n°157 del 07.07.2008). Fra i suoi numerosi compiti, grande importanza riveste il coordinamento di alcuni registri: il Registro Nazionale Malattie Rare (RNMR), il Registro Nazionale Farmaci Orfani e i Registri Regionali delle Malformazioni Congenite. Il Registro Nazionale Malattie Rare, istituito con il Decreto Ministeriale n. 279 del 18 maggio 2001 (art. 3), ha il duplice scopo di supportare la programmazione nazionale e regionale degli interventi sanitari e svolgere attività di sorveglianza delle malattie rare. Successivamente gli obiettivi del RNMR sono stati integrati dagli Accordi Stato-Regioni 2002 e 2007, con i quali si è definito anche il flusso epidemiologico dei dati: il presidio, accreditato dalla Regione come struttura della Rete Nazionale Malattie Rare, invia i dati al Registro Regionale/Interregionale; questo, a sua volta, fa confluire le informazioni raccolte al RNMR, secondo un set di dati condiviso a livello nazionale. Il RNMR costituisce lo strumento principale di sorveglianza delle malattie rare (MR) su scala nazionale e fornisce un importante supporto per la defi-

D. Taruscio () Direzione Centro Nazionale Malattie Rare Istituto Superiore di Sanità, Roma [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_1, © Springer-Verlag Italia 2013

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nizione e l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). A questo scopo, esso svolge anche le seguenti attività: a) stimare la prevalenza e l’incidenza delle diverse MR; b) caratterizzarne la distribuzione sul territorio nazionale; c) stimare la migrazione sanitaria dei pazienti; d) stimare il ritardo diagnostico. Dopo il 2001, tutte le Regioni hanno istituito Registri Regionali/Interregionali con tempi e modalità diversi. I primi hanno iniziato la loro attività fin dal 2002, gli ultimi sono stati implementati nel corso del 2010. I Registri differiscono fra loro per l’organizzazione, la tipologia delle informazioni raccolte e processate e le finalità ad essi attribuite dalle amministrazioni regionali/provinciali. Questo sistema di sorveglianza, animato da tutti i nodi delle Rete Nazionale Malattie Rare, è unico nel suo genere nel panorama europeo e internazionale. I dati raccolti dal RNMR sono periodicamente analizzati ed elaborati da un’équipe multidisciplinare dell’Istituto Superiore di Sanità, che provvede alla pubblicazione di rapporti annuali. Il Registro Nazionale Farmaci Orfani raccoglie e archivia dati sulla diagnosi e sul follow-up dei pazienti trattati con i farmaci orfani, autorizzati a livello centralizzato dall’Agenzia Europea di Valutazione dei Medicinali (EMA) e rimborsati dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN). Il Registro, inoltre, predispone le schede di rilevazione per ogni patologia rara e relativi farmaci, raccoglie, verifica e analizza i dati inviati dai Centri regionali autorizzati all’erogazione dei farmaci. I Registri delle Malformazioni Congenite (RMC) sono strutture epidemiologiche operative da anni in molte regioni italiane (Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Nord Est, Sicilia, Toscana e – in modo parziale – Piemonte e Calabria). Al fine di ottimizzare il lavoro e migliorare l’utilizzo del patrimonio di dati, informazioni e conoscenze, i responsabili dei RMC hanno ritenuto importante realizzare un punto di riferimento nazionale dotato di caratteristiche organizzative e tecnico-scientifiche. Ciò ha portato, nel 2008, alla costituzione di un Coordinamento nazionale dei Registri delle MC con base al CNMR, costituito dai responsabili di ciascun Registro, da esperti del CNMR, del Ministero della Salute e dell’ISTAT. Il CNMR è anche coordinatore del Network Italiano Promozione Acido Fo-

CAPITOLO 1 LE ATTIVITÀ DEL CENTRO NAZIONALE MALATTIE RARE (ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ)

lico, il cui principale obiettivo è ridurre il rischio di insorgenza di difetti congeniti nel nascituro (quali, ad esempio, la spina bifida), mediante una corretta assunzione di acido folico da parte della donna che programma la gravidanza; e del progetto nazionale “Screening neonatale esteso: proposta di un modello operativo nazionale per ridurre le disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari nelle diverse regioni”, finanziato dal Ministero della Salute. Svolge, inoltre, attività di ricerca scientifica sperimentale su diverse malattie rare, con particolare attenzione all’identificazione di marcatori molecolari, utili per la loro diagnosi e prognosi; attività di controllo esterno di qualità dei test genetici eseguiti nei laboratori del territorio nazionale, al fine di assicurare la validità, l’accuratezza, la precisione, la riproducibilità dei test genetici a scopo diagnostico; attività di formazione, che mirano alla progettazione e sperimentazione di modelli di intervento formativo nell’ambito delle malattie rare. A tal scopo, è attivo anche un Laboratorio di medicina narrativa, che si occupa di ricerca, documentazione, formazione e informazione. In collaborazione con il Sistema Nazionale per le Linee Guida dell’ISS, con altri enti di ricerca, con operatori sanitari e sociali attivi sul territorio e con le Associazioni dei pazienti, il CNMR elabora linee guida per la gestione clinica di pazienti con malattie rare e promuove la diffusione di metodi per la loro elaborazione. Dal 2008 il Centro gestisce il Telefono Verde Malattie Rare (TVMR, 800 89 69 49) dell’Istituto Superiore di Sanità, efficace strumento di orientamento e informazione. Al TVMR lavora un’équipe multidisciplinare che, mediante un ascolto attivo e personalizzato, accoglie le richieste e fornisce informazioni sulle malattie rare in merito alla tutela legislativa e sociale e alle esenzioni ad esse relative, orientando la persona verso i presidi della Rete Nazionale Malattie Rare e le Associazioni dei pazienti. La Rete Nazionale è costituita da presidi, ovvero centri di diagnosi e cura o presidi ospedalieri, individuati e accreditati dalle Regioni attraverso atti normativi (es. delibera di Giunta Regionale) per la formulazione della diagnosi di malattia rara e per l’erogazione delle relative cure in regime di esenzione. La Rete, costituita nel 2001, è stata successivamente ampliata dall’Accordo StatoRegioni del 2007, con cui si è sancito il riconoscimento di Centri di coordi-

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namento regionali/interregionali e di presidi assistenziali sovraregionali per patologie a bassa prevalenza, poi individuati con il Decreto Ministeriale del 15 aprile del 2008. Altri importanti nodi della Rete sono naturalmente il Ministero della Salute, le Regioni e il CNMR. A livello internazionale, il CNMR collabora con molti partner: Commissione europea e altri soggetti istituzionali (es. Ministeri della Salute dei vari Paesi), numerosi istituti ed enti di ricerca pubblici (es. l’Office for Rare Diseases dell’NIH negli Stati Uniti, fin dal 1998), Università, Associazioni e Federazioni di pazienti europee (EURORDIS), americane (NORD), argentine (GEISER), canadesi, australiane, ecc. Inoltre, coordina importanti progetti europei, fra i quali EUROPLAN (www.europlanproject.eu), EPIRARE (www.epirare.eu), RARE-Bestpractices; è partner di BURQOL-RD (www.burqol-rd.com), E-RARE (www.erare.eu); EUROCAT (www.eurocat-network.eu), RD-CONNECT (www.rd-connect.eu) e Advance-HTA (www.europeanbraincouncil.org/projects/advancedHTA.asp). Maggiori informazioni sulle attività del CNMR sono disponibili sul sito www.iss.it/cnmr.

CAPITOLO 2 LE REGIONI E LE MALATTIE RARE Cecilia Berni

Il già citato DM 279/2001 ha istituito la “Rete nazionale per la prevenzione, la sorveglianza, la diagnosi e la terapia delle malattie rare al fine di assicurare specifiche forme di tutela ai soggetti affetti da malattie rare”. Secondo il decreto, la Rete deve essere costituita da “presidi accreditati, appositamente individuati dalle Regioni tra quelli in possesso di documentata esperienza in attività diagnostica o terapeutica specifica per le malattie o per i gruppi di malattie rare”. Ogni Regione, all’interno della propria sfera di competenza, è stata chiamata a organizzare la propria rete di presidi e, in alcuni casi, sono state istituite reti interregionali. L’importanza di queste reti e del loro coordinamento è stata ribadita dall’Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome del 10 maggio 2007 che, inoltre, ha sottolineato: • l’opportunità di favorire, laddove compatibile con l’assetto organizzativo regionale, il riconoscimento di Centri di coordinamento regionali e/o interregionali; • la necessità di attivazione di Registri regionali (o interregionali) delle MR – in collegamento con il Registro nazionale – anche al fine di acquisire informazioni utili al riconoscimento di Presidi della rete, di garantire

C. Berni () Sviluppo Assistenza Materno-Infantile e Malattie Rare e Genetiche Direzione Generale Diritti di Cittadinanza e Coesione Sociale Settore Ospedale e Governo Clinico, Regione Toscana [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_2, © Springer-Verlag Italia 2013

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C. Berni

l’operatività delle reti e incrementare le conoscenze sulle MR e, quindi, come supporto del governo e della programmazione a livello locale e della gestione dei servizi e dell’assistenza dei pazienti. Le Regioni hanno quindi disciplinato le modalità di cura e presa in carico per le patologie rare, sia nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza sia, in alcuni casi, con livelli aggiuntivi regionali. Al di là delle differenze organizzative regionali, la natura stessa delle malattie rare impone uno sforzo di coordinamento interregionale perché, stante la rarità delle patologie, i presidi accreditati con documentata esperienza non sono così diffusi come per altri ambiti specialistici. Il tavolo tecnico interregionale dedicato alle Malattie Rare, istituito presso la Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome è diventato negli ultimi anni uno strumento di condivisione e di utile supporto alla programmazione di interventi in materia di malattie rare.

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CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI Domenica Taruscio

Quando una malattia è rara? Ad oggi, non esiste una definizione di malattia rara uniforme a livello mondiale. La maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, fra cui l’Italia, considera rara una patologia che ha una prevalenza non superiore a 5 su 10.000 persone nell’insieme della popolazione comunitaria. Le malattie rare sono un ampio ed eterogeneo gruppo di patologie definite dalla bassa prevalenza nella popolazione, caratterizzate da gravità clinica, coinvolgimento multisistemico e onerosità della partecipazione al costo delle spese per le prestazioni sanitarie. I problemi socio-sanitari che accomunano tali malattie sono connessi a cronicità, aumentata mortalità ed effetti gravemente disabilitanti. La bassa frequenza delle singole patologie, spesso poco conosciute dai medici, comporta difficoltà nell’iter diagnostico e scarsa disponibilità di trattamenti risolutivi; inoltre, è importante considerare la complessità della gestione clinica e il forte impatto emotivo sui pazienti e sull’intero nucleo familiare. A tale problema, il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ha fornito sin dal 2001 una risposta integrata, in linea con le indicazioni europee, basata sulla realizzazione della rete nazionale clinico-epidemiologica dedicata alle malattie rare, con l’attiva partecipazione delle Regioni e dell’Istituto Superiore di Sanità.

D. Taruscio () Direzione Centro Nazionale Malattie Rare Istituto Superiore di Sanità, Roma [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_3, © Springer-Verlag Italia 2013

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Quante sono le malattie rare? Le malattie rare ad oggi conosciute sono circa 7–8.000, di cui l’80% su base genetica, il restante 20% riconosce una base multifattoriale, cui concorrono numerosi fattori ambientali (tra cui, ad esempio, i fattori alimentari). A livello nazionale, poi, per venire incontro alle necessità sanitarie dei cittadini, il DM 279/2001 (Regolamento di istituzione della Rete Nazionale malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni sanitarie correlate) ha individuato 284 malattie e 47 gruppi di patologie rare (Allegato 1) per le quali è riconosciuto il diritto all’esenzione dalla partecipazione al costo per le correlate prestazioni di assistenza sanitaria (art. 4). L’attuale elenco non è esaustivo di tutte le MR, tuttavia l’uso attento dei gruppi di malattie permette di includere un numero di patologie decisamente superiore al numero di codici di esenzione (circa 3.000 patologie). In ogni caso, è prevista la possibilità di aggiornare periodicamente questa lista.

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Cosa sono i farmaci orfani? Si definisce “orfano” quel medicinale destinato alla diagnosi, profilassi o terapia di malattie che si manifestano con rarità tale da non consentire che i costi sostenuti per ricerca, sviluppo e commercializzazione siano adeguatamente compensati dalle probabili vendite. Ciò comporta che le Aziende Farmaceutiche siano poco disponibili a investimenti in ricerca e sviluppo in condizioni di mercato che risultano poco favorevoli. Per questi motivi, nel 2000 il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hanno varato una normativa (Regolamento CE 141/2000 del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa) per incentivare lo sviluppo e la commercializzazione di questi prodotti e stabilirne i criteri di designazione. Pertanto, i criteri per definire un medicinale “orfano” sono: • che il prodotto sia destinato alla diagnosi, alla profilassi o alla terapia di un’affezione che comporta una minaccia per la vita o la debilitazione cronica e che colpisce non più di cinque individui su diecimila nella Comunità; oppure

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

• che il prodotto sia destinato alla diagnosi, alla profilassi o alla terapia di una affezione che comporta una minaccia per la vita, di un’affezione seriamente debilitante, o di un’affezione grave e cronica, e che è poco probabile che, in mancanza di incentivi, la commercializzazione di tale medicinale all’interno della Comunità sia tanto redditizia da giustificarne l’investimento necessario. L’impegno economico per la commercializzazione dei farmaci orfani è importante e rischioso, per questo motivo si rendono necessarie azioni di incoraggiamento e leggi specifiche. In questi anni, rispondendo a esigenze etiche e pratiche, istituzioni europee e nazionali si sono prodigate nello stimolare la ricerca e lo sviluppo in questo settore. È importante ricordare, però, che non tutti i farmaci utilizzati nella cura delle malattie rare sono “orfani”. In ogni caso, la loro prescrizione e dispensazione, in casi selezionati, è regolata da procedure specifiche.

Quanto costano le malattie rare? 11

Negli ultimi anni a livello europeo, a livello nazionale e persino regionale, si stanno portando avanti numerose esperienze di ricerca sui costi relativi alle malattie rare. Finanziato dalla Comunità Europea, ad esempio, è il progetto Burqol-RD – Social economic burden and health-related quality of life in patients with rare diseases. Questo progetto triennale, di cui il CNMR è partner, è iniziato nel 2010; l’obiettivo è creare un modello per quantificare i costi socioeconomici e di qualità della vita correlata alla salute, non solo dei pazienti con malattie rare, ma anche dei caregiver “volontari” e degli operatori sanitari in diversi paesi europei. Lo scopo è quello programmare strategie sanitarie sempre più efficaci e mirate. Fra le iniziative a livello nazionale è utile citare le più recenti, ad esempio la ricerca “Costi sociali e bisogni assistenziali” (2011), promossa dall’Istituto affari sociali (IAS, ora ISFOL), dalla Federazione delle Associazioni di pazienti e familiari colpiti da malattie rare (UNIAMO), Orphanet, Farmindustria e Istituto Besta, che ha permesso di “scattare una fotografia” delle problematiche socioeconomiche che affliggono i malati rari e le loro famiglie. L’in-

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dagine ha rilevato che oltre il 50% dei pazienti ha ricevuto una diagnosi dopo più di 1 anno dall’insorgere dei sintomi e che il 18% ha dovuto attendere anche 10 anni. Ciò, naturalmente, non fa che peggiorare la situazione economica e l’investimento sociale e di tempo delle famiglie, a discapito di una dignitosa qualità della vita. Il rapporto suggerisce addirittura che 1 famiglia su 3 del campione intervistato si colloca alle soglie della fascia di povertà, mentre 1 famiglia su 4 spende mediamente più di 500 euro al mese per l’assistenza e cifre molto superiori a 500 euro per spese di trasferta. Aggiornati a ottobre 2012 i risultati di Diaspro Rosso, un altro progetto di respiro nazionale sul tema (di cui il CNMR era partner). Si tratta di una ricerca co-finanziata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e da Pfizer, che ha l’intento di capire – tramite interviste dirette a pazienti e familiari – quali siano ad oggi le maggiori difficoltà che devono affrontare le persone affette da malattie rare e l’intero nucleo familiare. Secondo il rapporto conclusivo, le famiglie che hanno al loro interno un malato raro spendono mediamente per le cure e l’assistenza intorno ai 3.350 euro al mese, che però possono raddoppiare nei casi più gravi, fino dunque a sfiorare i 7.000 euro al mese, una cifra enorme per famiglie che spesso si ritrovano ad essere monoreddito. Quando si parla di costi e disagi, tuttavia, non ci si può limitare solo all’aspetto economico, se pure molto rilevante, ma alla qualità della vita nel senso più ampio del termine: all’aumentare della gravità della malattia, oltre alla frequente perdita di capacità lavorativa o, addirittura, dell’uscita di un componente dal mercato del lavoro, aumenta l’isolamento sociale e la fragilità dell’intera famiglia.

Quali malattie rare non sono state ancora riconosciute in Italia e perché? Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha il compito di assicurare, in tutti i settori dell’assistenza, compreso quello delle malattie rare, “standard” quantitativi e qualitativi dei servizi e delle prestazioni e adeguate modalità di erogazione. Questi “standard” sono parte integrante dei “Livelli Essenziali di Assistenza” (LEA) che il SSN garantisce ai propri assistiti, in relazione alle condizioni cliniche individuali e per tutte le patologie. Il provvedimento che

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

tuttora definisce i LEA nell’ambito delle MR è il DPCM 29 novembre 2001, che richiama e conferma il DM 18 maggio 2001 “Regolamento di istituzione delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera b) del decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124”. Al DM 279/2001 è accluso l’elenco (Allegato 1) delle MR per le quali è prevista l’esenzione a livello nazionale che, come accennato, individua 284 malattie e 47 gruppi, per un totale di circa 3.000 patologie. La stima delle malattie rare conosciute ad oggi si aggira attorno alle 7–8.000. Ciò rende evidente che il DM 279/2001 non presenta un elenco esaustivo, ma prevede la possibilità di un periodico aggiornamento. Tuttavia, la procedura per l’aggiornamento dei LEA, in cui il suddetto elenco è inserito, non permette un processo immediato, bensì implica un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’Economia e Finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Già nel 2008 era stata avanzata una proposta di aggiornamento dei LEA, con l’introduzione di 109 nuove patologie rare nell’elenco nazionale, ma allora non fu possibile procedere e il DPCM del 21 marzo 2008 non entrò mai in vigore. Successivamente nel 2012, il Ministro Renato Balduzzi ha presentato una nuova proposta di aggiornamento, ancora in attesa del via libera del Ministero dell’Economia, dei pareri non vincolanti delle commissioni Sanità, della Camera e del Senato e il sì della conferenza Stato-Regioni. In ogni caso, tramite specifici atti normativi, le Regioni hanno l’opportunità di ampliare l’elenco delle patologie rare con codice di esenzione (All. 1 del DM 279/2001), creando nuove liste. Tali provvedimenti sono validi solo all’interno del territorio regionale e solo per i residenti. Naturalmente questa strada non è facilmente percorribile, poiché le Regioni sono tenute al rispetto dei limiti di bilancio economico-finanziario.

Esistono registri per le malattie rare in Italia? Il registro di patologia è una struttura epidemiologica complessa, che realizza la registrazione continua ed esaustiva dei casi di patologia/e, selezionati in una data regione geografica.

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È uno strumento che permette di promuovere studi tesi a migliorare le conoscenze su una specifica patologia e sull’insieme di patologie. L’attività di registrazione è fondamentale per la sorveglianza epidemiologica di una patologia; i dati di morbosità, infatti, possono essere molto utili per la programmazione e realizzazione d’interventi di sanità pubblica, per orientare l’attività di ricerca, per migliorare le attività di formazione degli operatori sanitari. Nel contesto delle MR, il registro diventa uno strumento ancora più rilevante, poiché queste patologie presentano delle caratteristiche specifiche: evidenziano una conoscenza limitata della storia naturale; la rarità del fenomeno limita la realizzazione di studi di ricerca clinica ed epidemiologica; comportano problematiche assistenziali connesse agli aspetti preventivi, diagnostici, terapeutici; implicano un impegno notevole di risorse umane, tecnologiche e finanziarie; possiedono scarsi trattamenti farmacologici e, quindi, necessitano dello sviluppo di nuove terapie. In questo contesto, è evidente il ruolo fondamentale giocato dai registri, che forniscono un’ampia base dati per intraprendere studi descrittivi sulla popolazione; studi eziologici; studi valutativi di interventi/servizi di sanità pubblica e studi per la ricerca e lo sviluppo di farmaci. A livello nazionale il tema è stato affrontato nel 2001, con l’istituzione del Registro Nazionale Malattie Rare (RNMR) all’Istituto Superiore di Sanità (art. 3 del DM 279/2001). Gli obiettivi del RNMR, stabiliti dal medesimo decreto sono stati successivamente implementati dagli Accordi Stato-Regioni 2002 e 2007. In particolare: • obiettivi generali: – consentire la programmazione nazionale e regionale degli interventi sanitari; – svolgere attività di sorveglianza per le malattie rare; • obiettivi specifici: – rilevare il numero di casi di malattie rare sul territorio nazionale; – rilevare i tempi di latenza tra esordio della sintomatologia ed effettuazione della diagnosi; – rilevare la migrazione sanitaria dei pazienti; – promuovere il confronto tra operatori sanitari per la definizione di criteri diagnostici.

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

A seguito del DM 279/2001, e nel corso di vari anni, anche le Regioni hanno istituito registri regionali o interregionali. Essi offrono un panorama molto eterogeneo; infatti, si differenziano per organizzazione, tipologia delle informazioni raccolte e, a volte, anche per finalità; a livello più generale, comunque, tutti alimentano il flusso verso il RNMR. Infine, la firma di Accordi tra Amministrazioni regionali/provinciali ha portato alla realizzazione di due Registri Interregionali: nel primo confluiscono i dati raccolti dalle regioni Piemonte e Valle d’Aosta; il secondo quelli del Veneto, Province Autonome di Trento e Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Puglia e Campania. I Registri Regionali/Interregionali, dopo un processo di validazione, inviano il flusso epidemiologico dei dati al RNMR, situato presso il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’ISS. Per migliorare il lavoro e la raccolta dati, nel 2007 il CNMR ha messo a punto un nuovo software, uno strumento che può essere utilizzato sia dai singoli presidi/centri abilitati alla diagnosi e al trattamento dei pazienti con malattia rara sia dai responsabili dei Centri di Coordinamento Regionale che coordinano le attività e fanno da tramite tra il CNMR e i presidi/centri. Il software è sviluppato su piattaforma web, di semplice utilizzo, realizzato rispettando gli standard di sicurezza e di riservatezza per il trattamento dei dati sensibili. Il CNMR mette a disposizione il software gratuitamente sia alle Regioni che non hanno ancora attivato un proprio Registro Regionale, sia a quelle che ne sono già in possesso. Come già precedentemente accennato, inoltre, in Italia esiste una rete epidemiologica di sorveglianza dedicata alle Malformazioni Congenite (MC), costituita da registri (RMC) interregionali, regionali e sub regionali. Le MC includono una grande varietà di patologie, molte delle quali rare. Per alcune, la diagnosi e la registrazione sono molto difficoltose, tanto da rendere spesso impraticabili studi epidemiologici su larga scala. Per questo si è resa sempre più urgente la necessità di coordinare le ricerche, mettendo insieme dati da più fonti. Nel 2008, dunque, è nato un Coordinamento nazionale dei RMC; ne fanno parte i responsabili di ciascun Registro, esperti del CNMR, dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) e del Ministero della salute. Esso rappresenta, pertanto, un punto di riferimento nazionale sia organizzativo sia metodologico per i Registri già attivi e per quelli in corso di attivazione e sviluppo.

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I RMC, inoltre, partecipano, ormai da molti anni, ai due più importanti sistemi internazionali di sorveglianza, ICBDSR ed EUROCAT, facendo dell’Italia uno dei Paesi più presenti e attivi nel settore. Esistono poi altri tipi di registri, come ad esempio quelli gestiti da associazioni di pazienti, che sono solitamente dedicati a singole patologie o gruppi di patologie, e con altre finalità. Per citarne qualcuno: • il registro sulle persone affette da beta-sarcoglicanopatia raccoglie informazioni allo scopo di elaborare informazioni statistiche e avere un elenco di pazienti per eventuali progetti di ricerca scientifica specifici. In questo caso, la gestione è a cura dell’associazione di patologia; • altro esempio è il registro dei pazienti con malattie neuromuscolari. Esso raccoglie dati anagrafici, genetici e clinici di pazienti affetti da malattie neuromuscolari e si pone fini epidemiologici e di ricerca. Nasce dall’alleanza tra alcune Associazioni di pazienti e la Fondazione Telethon che, insieme, hanno costituito l’Associazione del Registro Italiano dei pazienti con Malattie Neuromuscolari. La raccolta dei dati avviene su database distinti per patologia che al momento riguardano i pazienti affetti da Distrofia Muscolare di Duchenne (DMD) o Becker (BMD), da Atrofia Muscolare Spinale (SMA) e da malattia di Charcot Marie Tooth (CMT). In preparazione la scheda di raccolta dati per la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

Quali sono i diritti dei malati rari? L’assistito riconosciuto esente ha diritto alle prestazioni di assistenza sanitaria, prescritte con le modalità previste dalla normativa vigente, incluse nei livelli essenziali di assistenza, efficaci e appropriate per il trattamento e il monitoraggio della malattia e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti (DM 279/2001, art. 6, comma 1). I presidi della Rete assicurano l’erogazione in regime di esenzione anche delle indagini genetiche sui familiari dell’assistito, qualora siano necessarie ai fini della diagnosi di malattia rara di origine ereditaria (DM 279/2001, art. 5, comma 2).

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

Gli assistiti esenti dalla partecipazione al costo ai sensi del presente regolamento e ai sensi del DM 329/1999, sono altresì esentati dalla partecipazione al costo delle prestazioni necessarie per l’inclusione nelle liste di attesa per trapianto (DM 279/2001, art. 6 comma 2). Se l’assistito deve eseguire una visita per un evento indipendente dalla malattia rara o dalle sue complicanze, dovrà pagare la quota di partecipazione secondo le disposizioni vigenti. Naturalmente il malato raro, così come ogni cittadino in base alle particolari circostanze individuali, può far richiesta di handicap e invalidità civile. In particolare, sono previste alcune agevolazioni accedendo agli articoli della Legge 104 del 1992. Si tratta di una legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con handicap. Prevede agevolazioni lavorative per la persona con handicap, permessi lavorativi per i suoi familiari, agevolazioni per i genitori secondo il DL 124/1998 “Ridefinizione del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e del regime delle esenzioni, a norma dell’articolo 59, comma 50, della legge 27 dicembre 1997, n. 449”. Per esercitare i diritti che spettano alla persona disabile è necessario ottenere il riconoscimento della condizione invalidante. Il riconoscimento di invalidità civile presuppone una minorazione, cioè un’infermità, che può essere fisica, psichica o sensoriale, che provoca un danno funzionale, cioè la limitazione o la perdita di effettuare un’attività nel modo o nei limiti considerati normali. A seconda della percentuale di invalidità si ha diritto ad alcuni benefici: • fino a 33%: non invalido; • da 34%: ausili e protesi previsti dal nomenclatore nazionale. La concessione di ausili e protesi è subordinata alla diagnosi indicata nella certificazione di invalidità; • da 46%: collocamento mirato; • da 51%: congedo straordinario per cure, se previsto dal CCNL; • da 67%: esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria (esclusa la quota fissa). Tessera regionale di libera circolazione, con tariffa agevolata, con limite ISEE pari o inferiore a euro 16.000; • da 75%: assegno mensile, concesso alle persone di età compresa tra 18 e 65 anni prive di impiego, nel rispetto dei limiti di reddito per usufruirne.

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È incompatibile con altri redditi pensionistici. Per chi supera i 65 anni d’età è previsto l’assegno sociale dell’INPS; • 100%: fornitura gratuita ausili e protesi previsti dal nomenclatore nazionale. Collocamento obbligatorio se presente capacità lavorativa residua. Esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria (esclusa la quota fissa). Tessera di libera circolazione gratuita. Pensione di inabilità per le persone di età compresa tra 18 e 65 anni, nei rispetti dei limiti reddituali; • 100% più indennità di accompagnamento: si intende la persona incapace di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita.

Come posso avere l’esenzione per malattia rara? 18

L’assistito, cui sia stata accertata da un centro di diagnosi e cura della Rete nazionale una malattia rara inclusa nell’Allegato 1 del DM 279/2001, può chiedere il riconoscimento del diritto all’esenzione all’Azienda Unità Sanitaria Locale (AUSL) di competenza territoriale, allegando la certificazione rilasciata dal presidio stesso (DM 279/2001, art. 5, comma 4). Il cittadino riconosciuto esente ha diritto alle prestazioni di assistenza sanitaria, prescritte con le modalità previste dalla normativa vigente, incluse nei livelli essenziali di assistenza (LEA), efficaci e appropriate per il trattamento e il monitoraggio della malattia e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti (DM 279/2001, art. 6, comma 1). Per le malattie rare non è riportato un elenco dettagliato delle prestazioni esenti, in quanto si tratta di malattie che possono manifestarsi con quadri clinici molto diversi tra loro e, quindi, richiedere prestazioni sanitarie differenti. Il medico specialista del Centro di diagnosi e cura dovrà scegliere, tra le prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza (LEA), quelle necessarie e più appropriate alla specifica situazione clinica, indicandole nel piano terapeutico per malattia rara del paziente. È inoltre prevista l’erogazione in regime di esenzione delle indagini gene-

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

tiche sui familiari dell’assistito, qualora siano necessarie ai fini della diagnosi di malattia rara di origine ereditaria, utilizzando sulla prescrizione il codice R99 (ex art. 5 comma 2 del DM 279/2001).

Esistono una o più associazioni sulle malattie rare? In Italia, esistono numerose associazioni e alcune federazioni che si occupano di una o più patologie rare. Il panorama associativo, tuttavia, è assai variegato, poiché le varie organizzazioni possono presentare strutture e dimensioni diverse, alcune hanno pochissimi soci, altre alcune centinaia e sono supportate da un comitato scientifico di specialisti e ricercatori esperti. Tutte, però, nascono per esigenza e volontà di pazienti e familiari, che fanno del confronto e del sostegno reciproco un’arma vincente. Esse svolgono un ruolo fondamentale, quindi, nel “dar voce” ai loro bisogni, non più come “singoli” ma parte integrante di un insieme. Pertanto, prospettandosi come un importante punto di riferimento, le associazioni potenziano e sviluppano un sistema di comunicazione e informazione, con particolare attenzione alla diffusione delle conoscenze scientifiche e dei diritti esigibili. Allo scopo di facilitare i contatti, aumentare la visibilità e “amplificare la loro voce”, il CNMR ha realizzato (e continua ad aggiornare periodicamente) una banca dati delle Associazioni di pazienti e/o familiari. L’elenco, fornito di recapiti e sedi operative, è consultabile on-line sul sito www.iss.it/cnmr (sezione Associazioni) e riporta circa 315 associazioni italiane e 80 straniere. Esistono naturalmente anche altre banche dati quali ad esempio quelle di Orphanet (portale europeo delle malattie rare), di Telethon, e dei siti della sanità regionale. Ciò nonostante, poiché per alcune malattie – soprattutto per le rarissime – non esiste sempre una associazione dedicata, il CNMR ha istituito un servizio “Cerca contatti”, rivolto a persone con malattia rara che desiderano condividere la propria esperienza con quanti affrontano la stessa situazione.

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C’è interesse o meno a investire sulle malattie rare e sui farmaci orfani?

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Come già accennato, le malattie rare sono fra le 6.000 e le 8.000, molte delle quali comportano costi assistenziali molto elevati. Per circa 3.000 (Allegato 1 del DM 279/2001) sono previste esenzioni dal costo del ticket nei limiti dei LEA, per le altre il peso economico è per lo più a carico del nucleo familiare; ciò rende comprensibili le costanti pressioni di pazienti e associazioni per arrivare a un “riconoscimento”. Inoltre, la spesa aggiuntiva per fronteggiare la malattia, in termini di aiuto umano, psicologico e assistenziale, unitamente alla carenza di benefici sociali e possibilità di rimborso, causa un generale impoverimento della famiglia e aumenta drammaticamente le differenze di accessibilità alle cure per i pazienti affetti da malattie rare. Il problema delle malattie rare è molto complesso e per molte di esse, proprio per la loro stessa natura (la maggior parte sono genetiche), non ci sono cure risolutive ma solo terapie sintomatiche che possono contrastare almeno parzialmente i sintomi. La presa in carico delle malattie rare si basa non solo sui medicinali (farmaci orfani e altri), ma anche in gran parte su trapianti, terapie cellulari, interventi chirurgici, riabilitazione, terapie psicologiche, psicomotricità, robotica e protesi. I farmaci orfani normalmente non offrono un margine proficuo, per questo spesso le industrie farmaceutiche non sono interessate a sviluppare e commercializzare prodotti destinati al trattamento di un così esiguo numero di pazienti. D’altro canto, però, è vero che negli ultimi anni in Italia alcune piccole e medie case farmaceutiche stanno conducendo sperimentazioni su diverse molecole. L’impegno economico per la commercializzazione di questi farmaci è importante e rischioso e deve quindi essere incoraggiato da leggi specifiche. Negli anni, le istituzioni europee e nazionali, rispondendo anche a un’esigenza etica, hanno proseguito il loro impegno proprio in questo senso, promuovendo la commercializzazione ma soprattutto stimolando la ricerca e lo sviluppo nel settore dei farmaci orfani.

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

In ogni Regione sono riconosciute come rare le stesse patologie? Il DM 279/2001 individua 284 malattie e 47 gruppi di malattie rare (Allegato 1) per le quali è riconosciuto il diritto all’esenzione dalla partecipazione al costo per le correlate prestazioni di assistenza sanitaria (art. 4). Questi codici di esenzione sono in vigore su tutto il territorio nazionale; tuttavia, l’autonomia regionale, sebbene non sia possibile modificare quanto decretato dai LEA, consente di effettuare alcune precisazioni o ampliare i livelli essenziali di assistenza a vantaggio dei propri residenti. Ci sono alcune regioni, pertanto, che tramite atti di Giunta regionale hanno provveduto a stilare elenchi extra DM 279/2001; ne sono un esempio la Toscana, il Piemonte e la Valle d’Aosta, e così via (i codici di esenzione da essi identificati, tuttavia, hanno valore esclusivamente nel territorio regionale); altre regioni, come la Lombardia, hanno aperto (“esploso”) i gruppi di patologie presenti nell’Allegato 1 del DM 279/2001. Questa decentralizzazione comporta un’inevitabile disparità nell’accesso ai servizi. 21

Il Ministero della Salute o le Regioni hanno un programma o un progetto sulle malattie rare? Il Ministero della Salute, anche sull’onda delle Raccomandazioni del Consiglio Europeo, sta lavorando sul Piano nazionale dedicato alle malattie rare. Un primo draft è stato sottoposto a consultazione pubblica fino al 4 febbraio 2013. Il documento ufficiale dovrebbe esser completato entro il 2013. Come precedentemente evidenziato, la proposta di aggiornamento dei LEA, con l’introduzione di 109 nuove patologie rare nell’elenco nazionale, nel 2008 non andò a buon fine. Successivamente il Ministro Balduzzi ha riaperto il dibattito, presentando il DL 58/2012, in cui si prevedeva una ridefinizione dei LEA e l’aggiornamento degli elenchi delle malattie rare e croniche. Per quanto riguarda i progetti in ambito regionale, invece, è opportuno consultare direttamente gli Assessorati alla Sanità delle singole regioni, o i Centri di coordinamento sulle malattie rare, ove presenti.

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Qual è la malattia più rara tra le malattie rare? Non è possibile definire la più rara fra le rare. Esiste una ampia variabilità di frequenza, anche in relazione all’area geografica. All’interno della definizione comune di “malattie a bassa prevalenza” si trovano malattie per le quali sono noti i dati epidemiologici, come ad esempio la distrofia muscolare di Duchenne (prevalenza di circa 1/3.000 neonati maschi), la sclerosi tuberosa (prevalenza di circa 1/10.000), la sindrome di Sturge-Weber (1:50.000), l’epidermolisi bollosa (prevalenza 8/1.000.000), malattie che hanno una prevalenza sconosciuta e per la loro rarità vengono dette sporadiche (es. sindromi miasteniche congenite) e, infine, malattie per le quali sono noti il numero dei soggetti affetti descritti nella letteratura scientifica (es. l’incontinentia pigmenti, circa 700 affetti, e la cutis tricolor, circa 15 soggetti riportati nella letteratura internazionale).

Le malattie rare nel mondo: a che punto siamo? 22

La “Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea dell’8 giugno 2009 su un’azione nel settore delle malattie rare” sottolinea in maniera efficace le priorità in questo settore; in particolare, l’importanza di: a) stabilire lo stato attuale delle conoscenze; b) individuare le esigenze e le priorità per la ricerca di base, clinica, traslazionale e sociale; c) promuovere approcci cooperativi interdisciplinari a livello nazionale e comunitario. Nell’ambito delle malattie rare è dunque importante un impegno a livello nazionale e comunitario per lo sviluppo di strumenti diagnostici e di terapie innovative; servono strategie per la ricerca epidemiologica su tali patologie, al fine di poter accrescere il numero di pazienti per ogni studio. Numerosi sono i progetti di respiro internazionale che si stanno occupando di malattie rare, da EUROPLAN (www.europlanproject.eu) che intende supportare i vari paesi nella realizzazione dei piani sanitari nazionali, a EPIRARE (www.epirare.eu), che mira allo sviluppo di una piattaforma europea per la raccolta di dati epidemiologici di pazienti con malattie rare, ecc. Una buona panoramica sulla situazione in Europa è fornita dall’annuale rap-

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

porto della European Union Committee of Experts on Rare Diseases (EUCERD), scaricabile dal sito www.eucerd.eu. Il Comitato EUCERD, attivo dal 2009, ha fra i suoi obiettivi principali quello di assistere la Commissione Europea nel monitoraggio, valutazione e diffusione dei risultati delle misure adottate a livello comunitario e nazionale nell’ambito delle malattie rare, contribuisce alla realizzazione delle azioni comunitarie nel settore, fornisce pareri, raccomandazioni o relazioni alla Commissione e la assiste nell’elaborazione di linee guida e altra documentazione. I cinque report 2012 identificano tutti gli strumenti legislativi adottati a livello europeo fino alla fine del 2011, dedicando un’ampia sezione alla descrizione dell’eterogeneità tra le diverse politiche e strategie nazionali. Ad oggi, infatti, solo alcuni Stati membri hanno già elaborato e adottato un piano nazionale o una strategia per le malattie rare. Infine, in ambito internazionale va assolutamente segnalato IRDIRC, il Consorzio internazionale per la ricerca sulle malattie rare che vuole favorire il lavoro di squadra di ricercatori e investitori al fine di raggiungere due obiettivi principali: fornire 200 nuove terapie per le malattie rare e mezzi per diagnosticare le malattie più rare entro il 2020.

Esistono Ospedali o Centri dedicati alle malattie rare in Italia? Il DM 279/2001 prevede la realizzazione di una rete clinico-epidemiologica costituita da presidi accreditati, appositamente individuati dalle Regioni per la prevenzione, la sorveglianza, la diagnosi e il trattamento delle malattie rare. Inoltre, indica che nell’ambito di tali presidi siano individuati centri interregionali, con Decreto del Ministero della Sanità, su proposta della Regione interessata, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano. Attualmente, tutte le Regioni hanno identificato presidi per singole malattie o gruppi di queste. I Presidi, prevalentemente strutture ospedaliere del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), sono espressamente individuati dalle Regioni attraverso

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propri atti normativi (es. delibera di Giunta Regionale), e indicati come strutture di riferimento della Rete nazionale delle MR. Tali centri, specifici per le malattie o i gruppi di MR incluse nell’Allegato 1 al DM 279/2001, sono abilitati a rilasciare la certificazione ai fini dell’esenzione e a erogare prestazioni finalizzate alle attività di prevenzione, sorveglianza, diagnosi e terapia. I criteri elencati nel DM 279/2001 per l’identificazione dei presidi sono: • documentata esperienza in attività diagnostica o terapeutica specifica per le malattie o per i gruppi di MR; • idonea dotazione di strutture di supporto e di servizi complementari, ivi inclusi, per le malattie che lo richiedono, servizi per l’emergenza e per la diagnosi biochimica e genetico-molecolare. I Centri interregionali di riferimento, invece, assicurano, ciascuno per il bacino territoriale di competenza, lo svolgimento di diverse funzioni, tra cui: • lo scambio delle informazioni e della documentazione sulle malattie rare con gli altri Centri interregionali e con gli organismi internazionali competenti; • il coordinamento dei presidi della Rete, al fine di garantire la tempestiva diagnosi e l’appropriata terapia, qualora esistente, anche mediante l’adozione di specifici protocolli concordati; • la consulenza e il supporto ai medici del SSN in ordine alle malattie rare e alla disponibilità dei farmaci appropriati per il loro trattamento; • la collaborazione alle attività formative degli operatori sanitari e del volontariato e alle iniziative preventive; • l’informazione ai cittadini e alle Associazioni dei pazienti e dei loro familiari in ordine alle malattie rare e alla disponibilità dei farmaci. Per garantire l’attuazione del Decreto e assicurare l’operatività dei Presidi nei percorsi diagnostico-terapeutici – secondo principi di equità, efficacia ed efficienza – è stato istituito il Gruppo tecnico interregionale permanente delle malattie rare. A questo Gruppo sono attribuiti compiti di coordinamento, collegamento e individuazione di strumenti operativi utili per l’operatività della rete dei presidi, per la diffusione di percorsi diagnosticoterapeutici e per la sorveglianza epidemiologica.

CAPITOLO 3 RISPONDONO LE ISTITUZIONI

In particolare, le azioni del Gruppo mirano a: • armonizzare le scelte attuate in ciascuna area del paese, nel rispetto dell’autonomia organizzativa di ogni Amministrazione regionale/provinciale; • rendere gradualmente più omogenea la procedura di accreditamento dei presidi e il loro funzionamento. I presidi accreditati, infatti, oltre alla presa in carico dei pazienti, svolgono anche attività di sorveglianza e sono tenuti a inviare i dati dei pazienti ai Registri Regionali/Interregionali.

Come posso trovare i centri di diagnosi e cura identificati per la mia patologia? È possibile avere informazioni sui centri di diagnosi e cura: • consultando il sito del CNMR (www.iss.it/cnmr), nella sezione dedicata alla “Rete nazionale malattie rare”. Il sito offre l’opportunità di consultare la normativa regionale visitando la sezione “Le malattie rare regione per regione”; effettuare una ricerca geografica regione per regione e sull’intero territorio nazionale tramite la mappa dell’Italia; effettuare una ricerca avanzata nel database dei Centri di diagnosi e cura; • contattando il Telefono Verde Malattie Rare (TVMR, 800 89 69 49) dell’Istituto Superiore di Sanità; • visitando i siti regionali dedicati alle malattie rare.

Quale specialista si occupa di malattie rare immunologiche? Lo specialista di riferimento dipende dall’età di esordio della patologia; nelle forme di carattere sistemico gli specialisti di riferimento sono l’immunologo (pediatra o per adulti), il reumatologo e l’internista. Nell’eventualità di un coinvolgimento di altri organi o apparati, la competenza è dello specialista del caso. Va fortemente incoraggiata la presa in carico multidisciplinare e coordinata nello spazio (diverse strutture sanitarie coinvolte) e nel tempo (follow-up clinico) al fine di assicurare appropriatezza degli interventi erogati ma, soprattutto, la miglior qualità di vita possibile al paziente e al suo nucleo familiare.

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CAPITOLO 4 RISPONDONO I MEDICI Danilo Squatrito, Enrico Beccastrini

Cosa deve sapere sulle malattie rare il mio medico di medicina generale? Il Medico di Medicina Generale (MMG) riveste un ruolo fondamentale nel Sistema Sanitario Nazionale, rappresentando il primo referente per il paziente che si presenta con un problema clinico. Se da un lato, nella maggior parte dei casi, tali problematiche risultano di facile e rapida risoluzione da parte del MMG stesso, dall’altro altre condizioni cliniche possono presentarsi di difficile interpretazione e inquadramento diagnostico. Non si può pretendere che il MMG riconosca facilmente e ponga lui stesso diagnosi di malattie spesso complesse e, per giunta, poco frequenti come sono le malattie rare che, proprio per la loro bassa prevalenza, egli incontrerà poche volte nella vita lavorativa e che pongono problemi di inquadramento clinico anche ai centri di riferimento specialistici. Al nostro medico dobbiamo però chiedere di sospettare la presenza di una malattia rara in base al riconoscimento di certe situazioni o “pattern clinici” D. Squatrito () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi e Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Firenze [email protected] E. Beccastrini () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_4, © Springer-Verlag Italia 2013

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suggestivi o potenzialmente sospetti di malattia rara immunologica. Per ottenere questo obiettivo sono, però, necessarie alcune premesse o passaggi, direttamente interconnessi tra loro. Il primo punto, fondamentale, prevede la formazione del medico di medicina generale, istituendo seminari mirati al riconoscimento dei principali segni o sintomi suggestivi o anche solo sospetti della presenza di una malattia rara di competenza immunologica. A tale proposito è da sottolineare come l’offerta formativa proposta ai MMG tratti generalmente e comprensibilmente argomenti di più comune riscontro nell’ambulatorio come, ad esempio, diabete, scompenso o bronchite cronica, tralasciando di contro approfondimenti riguardanti le malattie rare, il cui interesse viene quasi esclusivamente delegato agli ambienti specialistici. In secondo luogo, l’istituzione di corsi di aggiornamento sulle malattie rare dedicati alla medicina generale avrebbe lo scopo di creare e definire percorsi diagnostici preferenziali con i centri specialistici di riferimento per le malattie rare operanti in un determinato territorio, rafforzando la stretta collaborazione già esistente tra diversi operatori sanitari e favorendo una diagnosi precoce di malattia rara immunologica con la finalità di ridurre il ritardo diagnostico tipico di queste patologie.

Le malattie rare sono insegnate nel corso di laurea in Medicina e Chirurgia? Purtroppo la formazione del medico relativa alle malattie rare e, tra queste, anche quelle di interesse immunologico, è nella maggior parte dei casi carente già durante il corso di laurea in medicina. Ciò è dovuto sia alla bassa incidenza delle singole patologie – spesso considerate solo di interesse ultraspecialistico e quindi non indispensabili per la formazione universitaria – sia all’eterogeneità delle patologie considerate “rare” che spaziano dalla pediatria alla neurologia, dall’immunologia alla reumatologia, rendendo assai difficile il coordinamento dell’insegnamento in un’unica materia all’interno del corso di laurea. Per tale motivo gli studenti di medicina, alla fine del corso di laurea, non sono sensibilizzati a sufficienza o non conoscono affatto il problema delle malattie rare così come dovrebbe essere considerato nella

CAPITOLO 4 RISPONDONO I MEDICI

sua globalità (difficile inquadramento clinico, ritardo diagnostico e spesso assenza di terapie ben definite). Un obiettivo percorribile per colmare questa lacuna potrebbe perciò essere quello di formare i giovani medici mediante corsi post-laurea mirati a migliorare l’approccio clinico alle malattie rare, in particolare quelle immunologiche, insegnando una metodologia che permetta di riconoscere i sintomi più importanti per poi fare afferire precocemente i pazienti ai centri regionali di riferimento. Negli ultimi anni l’attenzione verso le malattie rare è sicuramente molto cresciuta, sia a livello di organi regionali che nazionali. Ciò fa ben presagire, nell’immediato futuro, che questo si possa ripercuotere anche all’interno degli atenei e, in particolare, dei programmi di studio del corso di laurea in medicina e chirurgia.

I software di uso comune tra i MMG sono aggiornati sulle malattie rare? I software utilizzati comunemente dal MMG negli ultimi anni hanno sicuramente agevolato e velocizzato il lavoro del medico, migliorando la gestione delle cartelle cliniche e l’organizzazione degli ambulatori. La creazione della cartella clinica elettronica ha così permesso di raggiungere un rapido inquadramento del paziente ogni volta che si presenti in ambulatorio, poiché in essa sono conservate informazioni fondamentali e complete riguardanti le patologie pregresse o in atto, gli esami strumentali eseguiti, la terapia prescritta nel tempo e le esenzioni per patologia rilasciate al paziente. Tuttavia, esistono al momento diversi software in dotazione ai MMG, ognuno dei quali presenta caratteristiche diverse per quanto riguarda la facilità e l’immediatezza all’uso, con pregi e difetti diversi da prodotto a prodotto, che a volte rendono difficile uniformare la gestione dei pazienti tra i vari medici che utilizzano software diversi. Per quanto riguarda, in particolare, la gestione dei pazienti affetti da malattie rare, al momento dell’immissione della diagnosi all’interno della cartella clinica elettronica da parte del medico, viene quasi sempre automaticamente segnalato dal software il fatto che il paziente ha diritto a un codice di esen-

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zione alla partecipazione della spesa sanitaria. Ogni malattia rara ha infatti un codice identificativo specifico, che viene rilasciato dai centri di riferimento individuati e abilitati dalla regione e che, di solito, hanno in carico il paziente. Una volta rilasciato, il codice di esenzione dovrà essere attivato presso gli uffici competenti della ASL territoriale di riferimento per il paziente e, infine, consegnato al MMG che lo registrerà nella cartella elettronica. Bisogna sottolineare, però, che il software resta d’ausilio solo come “cartella clinica elettronica” del paziente e non per porre diagnosi. Il computer, infatti, non è in grado, almeno per ora, di interpretare l’insieme di sintomi o segni clinico-laboratoristici inusuali o di difficile interpretazione e potenzialmente suggestivi di malattia rara. Il computer, infatti, non può sostituire l’intuito e l’intelligenza del medico, che dovrà sempre mettere insieme tutti i pezzi di un puzzle a volte davvero complicato da risolvere.

Tutte le malattie immunologiche sono rare? 30

Non tutte le patologie autoimmuni, pur essendo poco frequenti, sono classificate e riconosciute come “rare”. Più precisamente, tra le 583 patologie individuate come rare dal DM 279/2001 su base nazionale sono state inserite le seguenti patologie di competenza immunologica: • immunodeficienze primarie (tra cui l’immunodeficienza comune variabile); • sindrome di Behçet; • porpora di Schönlein-Henoch; • crioglobulinemia; • sindrome di Cogan; • arterite di Horton, Arterite di Takayasu, Panarterite nodosa; • poliangite microscopica; • granulomatosi con poliangioite (Granulomatosi di Wegener); • granulomatosi eosinofila con poliangioite (sindrome di Churg-Strauss); • sindrome di Goodpasture; • fibrosi retro-peritoneale; • polimiosite e dermatomiosite;

CAPITOLO 4 RISPONDONO I MEDICI

• connettivite mista e connettivite indifferenziata; • fascite eosinofila; • policondrite; • pemfigo e pemfigoide. Nel 2009, la Regione Toscana ha ulteriormente ampliato la lista delle malattie rare con decreto 5771/2009, integrando l’elenco nazionale con ulteriori 86 patologie. Tra queste, segnaliamo le seguenti entità di interesse immunologico: sindrome da anticorpi antifosfolipidi primitiva, febbri periodiche familiari e sindrome TRAPS, sindrome di Schnitzler, neutropenia ciclica, linfedema primario cronico, malattie interstiziali polmonari primitive, sclerosi sistemica, sindrome da anticorpi anti-sintetasi, miosite da corpi inclusi, la neutropenia cronica grave. Restano però ancora al di fuori all’elenco nazionale e regionale (con poche eccezioni) patologie molto complesse e a volte invalidanti per il paziente, come le uveiti croniche autoimmuni, la sarcoidosi, la trombocitopenia autoimmune idiopatica o il lupus eritematoso sistemico. 31

Le malattie rare immunologiche colpiscono solamente i bambini? Sono tutte genetiche? A differenza delle malattie genetiche, che sono legate ad alterazioni del genotipo trasmesse su base ereditaria, le malattie immunologiche risultano per la maggior parte basate su una complessa predisposizione genetica che non è di per sé sufficiente a generare la malattia. È necessario, infatti, l’intervento di ulteriori fattori scatenanti, spesso rappresentati da agenti infettivi come virus o batteri che inducono il dispiegarsi di una complessa risposta immunologica. Pertanto, fatta eccezione per alcune gravi forme di immunodeficienza, le patologie rare immunologiche non sono malattie genetiche in senso stretto. Conseguentemente, esse non si manifestano necessariamente nel bambino e non sono quasi mai congenite ma acquisite, ovvero legate a un evento che avviene dopo la nascita. Le malattie autoimmuni, in particolare, ovvero le forme legate a un’attività patologica del sistema immunitario contro l’organismo stesso, come le malattie del connettivo o le vasculiti, si

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manifestano più frequentemente nell’età giovane-adulta, a eccezione della malattia di Kawasaki che esordisce in età pediatrica. Il paziente affetto da malattia immunologica non deve preoccuparsi di trasmettere una malattia ereditaria ai propri figli. Tuttavia, sono stati descritti in letteratura scientifica rari casi di aggregazione familiare, ovvero famiglie che presentano nel loro ambito un elevato numero di casi di malattia immunologica. Inoltre, la predisposizione genetica sopra descritta, seppure insufficiente da sola a generare la malattia, potrà essere presente anche nei parenti prossimi del malato. Pertanto, ferma restando la non ereditarietà delle malattie immunologiche, il paziente deve essere correttamente informato sulla necessità di prestare attenzione a eventuali sintomi suggestivi di malattia autoimmune nei propri parenti di primo grado. Solo nel caso in cui tali sintomi dovessero presentarsi, sarà necessario procedere a ulteriori accertamenti di laboratorio o strumentali. Ad oggi, la diagnostica di routine delle malattie rare immunologiche si avvale di indagini genetiche solo in alcuni specifici quadri patologici. Infatti, in base a quanto sopra ricordato, tali indagini non permettono di individuare un’alterazione genetica necessaria e sufficiente per porre diagnosi di malattia. Tuttavia, l’individuazione di specifici caratteri genetici è di grande utilità dal punto di vista diagnostico qualora si associ alla presenza di elementi clinici, di laboratorio e strumentali compatibili. La presenza del gene HLA B51, ad esempio, è ritenuta condizione predisponente per lo sviluppo della Sindrome di Behçet. La distribuzione di tale gene sembra rispecchiare, almeno in parte, le aree geografiche di maggior prevalenza della malattia che, dal Mediterraneo si estende alla Turchia e poi fino al Giappone, seguendo l’itinerario dell’antica Via della Seta. Da tale osservazione deriva il nome di “Malattia della Via della Seta”, sinonimo di Malattia di Behçet. Nonostante il limitato uso diagnostico attuale, tuttavia, l’individuazione dei geni predisponenti allo sviluppo delle malattie rare immunologiche da parte della ricerca scientifica è in continua espansione. Negli ultimi anni, inoltre, è emerso un ruolo fondamentale non solo delle alterazioni dei geni, ma anche di quei complessi meccanismi detti epigenetici che, in assenza di alterazioni strutturali del genotipo, sono in grado di modu-

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larne l’espressione e la funzione biologica. Nonostante i costi elevati, pertanto, è verosimile che l’individuazione di fattori genetici predisponenti sia destinata ad acquisire nel prossimo futuro un’importanza crescente anche dal punto di vista diagnostico. All’orizzonte si staglia la possibilità di una terapia genica che sia in grado di modificare “a monte” i processi patogenetici che inducono la malattia.

Le malattie rare immunologiche sono curabili? Le malattie rare immunologiche, con poche eccezioni, sono cronico-recidivanti. L’andamento clinico caratteristico della malattia espone il paziente a fasi di riacutizzazione, seguite da periodi di quiescenza. Non esiste, pertanto, una cura che sia in grado di indurre una guarigione completa. Non sono infrequenti, tuttavia, i casi in cui a un esordio acuto segue un periodo di progressivo benessere, fino a una remissione completa della malattia. Oltre alla storia naturale della malattia, è fondamentale ricordare che sono ad oggi disponibili trattamenti di grande efficacia che, nell’arco degli ultimi decenni, hanno abbattuto i livelli di mortalità delle malattie immunologhe, fino a ridurli a percentuali estremamente ridotte. Inoltre, i pazienti devono essere consapevoli che le attuali conoscenze scientifiche offrono un numero consistente di terapie in grado, nella maggioranza dei casi, di permettere una qualità di vita paragonabile a quella di un soggetto sano. A partire dagli anni Cinquanta, l’impiego del cortisone ha cambiato la storia naturale delle malattie immunologiche. Nel corso dei decenni, ad esso si sono aggiunti, in considerazione dei ben noti effetti collaterali, i farmaci cosiddetti “risparmiatori di cortisone”. Tali farmaci immunosoppressori, come l’azatioprina, la ciclosporina, o il micofenolato mofetile, sono utilizzati con grande beneficio da molti pazienti affetti da malattie immunologiche. Anch’essi, come noto, presentano effetti collaterali che, seppur di rara evenienza, devono essere costantemente valutati dal medico, mediante opportuni controlli. Alcuni dei farmaci immunosoppressori utilizzati per il trattamento delle malattie immunologiche, come la ciclofosfamide o il me-

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thotrexate (impiegati anche in campo oncologico come chemioterapici o nella terapia dei trapianti) vengono somministrati a dosaggi inferiori che espongono il paziente a un rischio nettamente minore di effetti collaterali. Negli ultimi anni, inoltre, la ricerca farmaceutica ha messo a punto farmaci prodotti mediante procedimenti altamente tecnologici e rivolti contro specifiche molecole. Tali farmaci, detti “biologici”, sono in grado di individuare i propri bersagli molecolari in modo più preciso rispetto ai farmaci immunosoppressori tradizionali. Per quanto fino ad oggi noto, a parte il rischio di reazioni avverse o da ipersensibilità, peraltro possibili anche con qualsiasi altro farmaco, i biologici presentano un profilo di sicurezza molto favorevole. Visti i buoni risultati, nonostante i costi elevati, tali farmaci sono ad oggi utilizzati in molte patologie rare immunologiche. Inoltre, sono attualmente in corso a livello mondiale un gran numero di sperimentazioni cliniche riguardanti biologici high-tech. È speranza diffusa che essi possano apportare grandi benefici in ogni campo della medicina, oltre ad attirare l’attenzione della ricerca farmaceutica sul mondo delle malattie rare. 34

Esistono sintomi specifici delle malattie rare immunologiche? Le malattie rare immunologiche sono, nella maggioranza dei casi, patologie sistemiche. Come tali, esse possono presentare sintomi molto diversi a carico di ogni organo e apparato. È opportuno ricordare che un coinvolgimento doloroso articolare o muscolare è assai frequente e che il sistema muscolo-scheletrico rappresenta, assieme a cute e mucose, la sede di esordio più comune della maggioranza delle malattie immunologiche. Il sistema vascolare, invece, rappresenta l’organo bersaglio delle vasculiti sistemiche. Tale interessamento si manifesta con sintomi molto diversi e complessi, che spaziano da alterazioni neurologiche all’interessamento renale e polmonare. Molto frequenti sono anche i sintomi cosiddetti “costituzionali”, spesso legati all’intensa attività infiammatoria a cui è sottoposto l’organismo, come la debolezza, la diminuzione dell’appetito, la perdita di peso e la febbre. Per quanto non debbano essere sottovalutati, di per sé tali sintomi non sono tuttavia specifici di una malattia

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autoimmune. Sintomi costituzionali e interessamenti d’organo, quali quelli sopra ricordati, divengono particolarmente suggestivi di malattia immunologica qualora tendano alla cronicizzazione o, in alternativa, a recidivare. Frequente è anche il riscontro occasionale di alterazioni degli esami del sangue, spesso eseguiti su consiglio del medico di medicina generale, nel sospetto di malattia immunologica. In tal senso, la presenza di autoanticorpi o un aumento consistente degli indici di flogosi possono essere suggestivi di malattia immunologica. Anche alterazioni dell’emocromo, della funzionalità renale e muscolare o di altri organi possono essere compatibili con tali patologie e vanno interpretati in base al quadro clinico nel suo insieme. In sintesi, è consigliabile non trascurare alcun sintomo, in particolare quando siano presenti anche un’importante componente infiammatoria e la tendenza a un andamento cronico-ricorrente. In tal caso, è opportuno rivolgersi al proprio medico di medicina generale che, se necessario, indirizzerà il paziente presso un centro specializzato.

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CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA Lorenzo Emmi, Mario Milco D’Elios

Cos’è e cosa fa il sistema immunitario Il sistema immunitario (SI) è una struttura molto complessa deputata a difenderci dai vari patogeni con cui quotidianamente entriamo in contatto; senza di esso, la specie umana non si sarebbe potuta evolvere, in quanto saremmo stati preda di qualsiasi infezione virale, batterica o parassitaria; il SI è molto articolato, sia in quanto ha una struttura particolarmente complessa, sia perché distribuito capillarmente in tutto il nostro organismo. Potremmo affermare che esso è come un esercito costituito da tanti soldati specializzati che pattugliano in maniera continua e straordinariamente efficiente il nostro corpo, soprattutto laddove è più necessario, come a livello delle mucose o della cute. La capacità difensiva del SI è affidata a un’immunità innata e a un’immunità acquisita o adattativa. L’immunità innata è la prima linea di difesa contro le infezioni ed è costituita dall’integrità di cute e mucose, da sostanze antimicrobiche prodotte dagli L. Emmi () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Firenze [email protected] · [email protected] M.M. D’Elios () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center and Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi e Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Firenze [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_5, © Springer-Verlag Italia 2013

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stessi epiteli, da cellule (macrofagi, neutrofili, cellule natural killer) e proteine solubili (complemento, citochine, collettine, pentrassine, ficoline) in grado di riconoscere ed eliminare i patogeni, di amplificare la risposta immunitaria e di favorire lo sviluppo di un’immunità specifica. Quando un patogeno oltrepassa la barriera epiteliale viene quindi prontamente fronteggiato da un sistema innato e aspecifico ma, allo stesso tempo, estremamente efficiente dove in prima linea ritroviamo i macrofagi e i neutrofili che hanno la capacità, una volta attivati, di fagocitare (internalizzare) il microrganismo e, attraverso la produzione di varie sostanze (specie reattive dell’ossigeno, enzimi litici), di eliminarlo. Contemporaneamente, anche altre sostanze si mettono in funzione, come il sistema del complemento, costituito da proteine che, “avvolgendo” il patogeno, ne favoriscono la fagocitosi ma che sono in grado anche di provocarne direttamente la morte e altre molecole effettrici, come la proteina C di fase acuta (PCR), la siero amiloide P (SAP), la lectina che lega il mannosio (MBL), anch’esse capaci di legare le strutture microbiche e facilitarne l’eliminazione. Tutto ciò viene diretto e coordinato da particolari sostanze chiamate citochine (fattore di necrosi tumorale alfa, interleuchina 1, interleuchina 6) che, come dei “messaggeri”, reclutano, attivano e dirigono i vari protagonisti dell’immunità innata nel sito d’infiammazione. L’immunità innata, però, oltre a rappresentare la prima linea di difesa nei confronti dei patogeni, ha anche il compito di stimolare e influenzare una risposta specifica verso quel determinato microrganismo. I protagonisti di questa immunità specifica o adattativa sono un particolare tipo di globuli bianchi, i linfociti T e B, gli anticorpi e le cellule presentanti l’antigene. Questo tipo di risposta è possibile in quanto abbiamo dentro di noi cellule e anticorpi già “precostituiti” specifici per una enorme quantità di patogeni. È come se mille persone entrassero in una sartoria e trovassero mille vestiti già pronti e non rimanesse altro che scegliere quello giusto. Cerchiamo ora di comprendere meglio come funzionano queste cellule. I linfociti prendono origine dal midollo osseo e vengono poi esportati alla periferia, ovvero nel torrente circolatorio. I linfociti T, una volta usciti dal midollo osseo, raggiungono il timo, dove acquisiscono tutta una serie di caratteristiche tali da renderli pronti a difenderci con vari meccanismi da patogeni intracellulari e ad aiutare le cellule B/pla-

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

smacellule a produrre anticorpi, prevalentemente a livello dei linfonodi. I linfociti T, però, vedono e riconoscono le proteine estranee solo se presentate da cellule professioniste (cellule presentanti l’antigene, APC). Nell’ambito dei linfociti T si distinguono cellule T CD4+, aventi funzioni di aiuto (helper) nei confronti delle cellule B e cellule T CD8+, con funzione citotossica. I linfociti T amplificano straordinariamente il loro numero, producono numerose citochine e reclutano se stessi nelle sedi di danno, generando ulteriore infiammazione. Si deve ricordare che l’infiammazione, inizialmente, ha una funzione positiva e di difesa, ovvero quella di circoscrivere l’infezione; tuttavia, la sua persistenza nel tempo rappresenta la base biologica delle cosiddette malattie infiammatorie croniche e delle malattie autoimmuni. Le cellule B, uscite dal midollo osseo, anch’esse raggiungono i linfonodi e qui assolvono almeno due compiti fondamentali: quello di presentare le sostanze estranee al nostro organismo ai linfociti T, attivandoli, e quello di produrre proteine a carattere difensivo, note come anticorpi o immunoglobuline. Infatti, quando queste cellule incontrano un microrganismo, ovvero una piccolissima parte di questo (antigene), si trasformano in plasmacellule e queste ultime cominciano a produrre anticorpi. Questi ci difendono mediante vari meccanismi e, in particolare, sia attraverso la neutralizzazione di prodotti “tossici” di origine batterica, noti come tossine, sia avvolgendo i patogeni e rendendoli più appetibili per le cellule fagocitarie. La produzione di anticorpi viene facilitata anche dal fatto che parti similari dello stesso microrganismo vengono contemporaneamente riconosciute da un particolare tipo di linfociti T, detti helper che, attraverso messaggi molecolari, aiutano i linfociti B a produrre i suddetti anticorpi. Nel caso in cui un patogeno, ad esempio un virus, ma anche alcuni batteri entrino nelle nostre cellule, l’unica difesa è rappresentata dall’uccisione delle cellule infettate. A questo punto, entrano in azione i linfociti T CD8+ e cellule definite natural killer (NK), capaci di uccidere le cellule infettate ma anche cellule diverse da quelle normali, come quelle neoplastiche. L’aspetto peculiare del sistema immunitario è che, anche in condizioni fisiologiche, una piccola parte dei linfociti T e B è in grado di riconoscere e quindi potenzialmente di attaccare alcuni costituenti del nostro organismo (self); in questo caso, si parla di cellule B e T autoreattive. Tali cellule, in

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condizioni normali, sono poco rappresentate e comunque controllate da meccanismi immunologici complessi; tuttavia, in particolari condizioni, il numero di questi linfociti autoreattivi può notevolmente espandersi sia per un danno a carico dei meccanismi di selezione che si verificano al livello timico per rottura della cosiddetta “tolleranza centrale”, sia per alterazione della “tolleranza periferica” quando le cellule T autoreattive non vengono ben controllate alla periferia. In questo caso, se la situazione è sostenuta anche da una particolare suscettibilità genetica, e in presenza di fattori esterni stimolanti, si genera una vera e propria malattia autoimmune. Questo tipo di patologia si realizza per fortuna raramente, in quanto nel midollo osseo (per le cellule B) e nel timo (per le cellule T) avviene un meccanismo di selezione che determina la morte di tutte le cellule T e B spiccatamente autoreattive; pertanto, le cellule che riescono a sfuggire a questi meccanismi di controllo sono poche e questo spiegherebbe, almeno in parte, la relativa rarità delle malattie autoimmuni. Tradizionalmente, si distinguono malattie autoimmuni organo-specifiche in cui la risposta sia T che B è rivolta verso un singolo organo e malattie autoimmuni sistemiche o non-organo specifiche. L’esempio più tipico delle prime è rappresentato dalla tiroidite autoimmune o tiroidite di Hashimoto. È bene ricordare che, talvolta, queste malattie danno quadri complessi in cui più organi vengono “attaccati”; un’associazione frequente è quella con la gastrite autoimmune ma, in alcuni casi, più ghiandole endocrine vengono interessate dal processo infiammatorio e allora si parla di Sindromi plurighiandolari autoimmuni. La seconda possibilità è che si verifichi una malattia autoimmune sistemica in cui il SI “attacca” numerosi organi e apparati. L’esempio più classico è rappresentato dal Lupus eritematoso sistemico (LES) nel quale possono essere coinvolti le articolazioni, la cute, il cuore, i foglietti che avvolgono il cuore, i polmoni e l’intestino (sierose), il sistema nervoso centrale (SNC), l’apparato emopoietico e, in particolare, il rene. Quando si parla di malattie autoimmuni (MA) si deve definire bene alcuni elementi che spesso sono “generatori di confusione”: • le MA non sono ereditarie, ovvero non vengono trasmesse con un meccanismo mendeliano, secondo il quale un gene alterato provoca una de-

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

terminata malattia. Tuttavia, perché esse si sviluppino occorre un particolare “background genetico” (questo tra l’altro è vero per tante patologie multifattoriali), ovvero modificazioni a carico di più geni dislocati su più cromosomi che danno luogo alla cosiddetta “suscettibilità genetica”. Su tale suscettibilità, il sopraggiungere di fattori scatenanti e, soprattutto, di alterazioni a carico dei meccanismi che presiedono alla tolleranza centrale e periferica generano tutti insieme l’autoimmunizzazione e, quindi, la comparsa di malattia autoimmune. • Lo stress, inteso come evento acuto o come evento cronico di modesta entità, attraverso meccanismi complessi che vedono l’interazione tra sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario può essere considerato un fattore favorente, ma non una causa. • Gli autoanticorpi in molti casi di malattia autoimmune, ad esempio nelle connettiviti, non sono in grado di provocare la malattia e, quindi, sono utili soltanto dal punto di vista diagnostico. Anche le variazioni del titolo hanno scarsa importanza, per cui gli autoanticorpi non hanno in genere neppure un significato prognostico. Fanno eccezione gli anticorpi antiDNA, le cui variazioni del titolo frequentemente correlano con l’attività di malattia e con un possibile impegno renale. Tali anticorpi sono anche provvisti di significato patogenetico in quanto, formando dei complessi con i rispettivi antigeni self, sono responsabili almeno in parte del danno a livello renale. Rappresentano un’altra eccezione gli anticorpi antiSSA/Ro e anti-SSB/La che sono in parte responsabili del possibile danno a livello delle vie di conduzione cardiache nel feto di pazienti positive per tali anticorpi (Lupus neonatale). Anche gli anticorpi anti-cardiolipina (aCL) e il Lupus Anticoagulant (LAC) sono direttamente responsabili, sebbene con meccanismi complessi, degli eventi trombotici in corso di Sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS). Tuttavia, nelle connettiviti e nella gran parte delle vasculiti sistemiche il meccanismo del danno è più complesso e prevede l’azione congiunta di vari tipi cellulari e di numerose citochine e chemochine. • In alcune malattie autoimmuni l’anticorpo ha invece un’attività patogenetica diretta. Questo è vero nella malattia di Basedow (ipertiroidismo su base autoimmune), nella Miastenia Gravis (malattia neuro-muscolare

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su base autoimmune), nella Sindrome di Lambert-Eaton (patologia neuro-muscolare immunomediata) e nelle citopenie autoimmuni (riduzioni delle cellule del sangue come globuli rossi, globuli bianchi e piastrine provocate da meccanismi autoimmuni). • Esistono numerosi casi clinici di positività auto-anticorpale senza malattia. Queste persone hanno grandi difficoltà a comprendere la loro condizione e ciò li turba talvolta forse più che avere una vera malattia. È opportuno, in questi casi, spiegare che lo sviluppo di una MA prevede meccanismi multi-step e che nel loro caso la macchina dell’autoimmunità si è messa in moto, ma si è fermata prima di provocare un danno (come per un automobile frenare prima di cadere in un precipizio). Ovviamente, in questi casi occorre attuare un attento follow-up, perché non si può escludere nel tempo lo sviluppo di una malattia autoimmune conclamata.

Quali sono gli indizi di malattia rara del sistema immunitario? 42

Le malattie rare del sistema immunitario sono un gruppo di patologie molto complesse ma che, sostanzialmente, appartengono ai capitoli delle connettiviti e, soprattutto, delle vasculiti sistemiche. Pertanto, teoricamente dovrebbero essere ricordati tutti gli indizi di ciascuna di queste malattie; ciò risulterebbe farraginoso e non in linea con lo “spirito” della presente guida. In realtà, l’approccio alle malattie rare è soprattutto metodologico e consiste nel cercare di mettere insieme elementi che altrimenti sembrerebbero non legati tra loro e, quindi, non facilmente interpretabili. Indizi del tutto aspecifici come la febbricola e l’astenia, ad esempio, se contestualizzati in una giovane donna con dolori articolari, possono essere anch’essi sintomi suggestivi di una malattia autoimmune sistemica (MAS). Un sintomo molto comune ma complesso è rappresentato proprio dalle artralgie (dolori articolari) e dalle artriti (dolore, calore, rossore e tumefazione) delle piccole e grandi articolazioni. Possono presentarsi in modo isolato o accompagnare altri sintomi, possono interessare una singola articolazione (mono-articolari) o più articolazioni (poli-articolari) in modo simmetrico o asimmetrico, con carattere migrante o aggiuntivo, e possono essere spia di

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

molteplici quadri clinici. Le artralgie/artriti, infatti, sono presenti in tutte le connettiviti, anche quelle rare come la sclerosi sistemica (ScS), la malattia indifferenziata del tessuto connettivo (UCTD), la malattia mista del tessuto connettivo (MCTD) e, più raramente, nelle vasculiti sistemiche, ma lo sono anche nella Sindrome di Behçet (SB), nella Sindrome crioglobulinemica, nella sindrome di Schönlein Henoch e nella policondrite. Le mialgie (dolori muscolari) spesso accompagnano le artralgie in corso di numerose connettiviti ma, quando assumono peculiari caratteristiche, possono sottendere particolari quadri patologici come la polimiosite e la dermatomiosite. In questi casi, il dolore muscolare si accompagna a un’importante astenia dei muscoli prossimali e generalmente interessa prima gli arti inferiori e poi quelli superiori e, successivamente, può coinvolgere qualsiasi parte della muscolatura scheletrica, correlandosi a un aumento degli enzimi muscolari come la creatinfosfochinasi (CPK) e l’aldolasi. Un dolore muscolare, invece, presente al cingolo scapolare e pelvico in una donna di età superiore ai 60 anni, con indici di flogosi elevati, deve far subito pensare a una polimialgia reumatica. Anche la presenza di dita omogeneamente edematose (dita a salsicciotto), associate a una certa impotenza funzionale, devono insospettire il medico di medicina generale (MMG), in quanto potrebbero essere il primo segno di ScS o di MCTD. Ovviamente, nel corso di ScS nel tempo s’instaura un progressivo indurimento della cute, la presenza di teleangectasie e la riduzione della rima buccale. Un indizio molto comune di MAS è rappresentato dal fenomeno di Raynaud. Di fronte a tale sintomo, il MMG deve allertarsi e stabilire se si tratti di una forma primitiva o secondaria. L’approccio corretto è rappresentato da un’anamnesi accurata volta a escludere una connettivite sistemica, nonché l’esecuzione di capillaroscopia e la ricerca di anticorpi antinucleari (ANA) e anticorpi diretti contro antigeni nucleari estraibili (anti-ENA). Qualora tutto ciò risulti negativo è prudente rivalutare il paziente a un anno e, se si tratta di una giovane donna, il follow-up deve durare per almeno 5/10 anni. Se la capillaroscopia e/o gli ANA e anti-ENA risultano positivi, il MMG dovrebbe inviare il paziente allo specialista con il sospetto di MAS. È infatti noto che il fenomeno di Raynaud può essere il primo sintomo di

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LES, di crioglobulinemia, di UCTD, di MCTD ma, soprattutto, di ScS. Tutte queste malattie, tranne il LES, sono considerate malattie rare del sistema immunitario. Ma la malattia che deve essere prontamente diagnosticata al fine di poter trattare precocemente le sue possibili gravi complicanze è senz’altro la ScS. Altri indizi di malattia immunologica rara possono essere rappresentati da storia di aborti ripetuti non altrimenti spiegabili, eventi trombotici sia arteriosi che venosi in assenza di fattori di rischio o in sedi atipiche o in età giovanile. In questi casi, s’impone la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi come gli anticorpi anti-cardiolipina (aCL), il Lupus Anticoagulant (LAC) e gli anticorpi anti-beta2 glicoproteina1 (anti-beta2GPI) nel sospetto di una Sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS). Può capitare che il medico si trovi di fronte a un paziente che riferisce da molto tempo rinite con formazione di croste, successivamente arrossamento e dolore localizzato a un occhio e riduzione dell’udito. Questa triade, ma anche la sola rinite crostosa, ancor più se associata a microematuria o proteinuria (globuli rossi e proteine nelle urine) deve mettere in allarme il MMG e orientare verso una Granulomatosi con poliangioite (GPA), più nota come Granulomatosi di Wegener, e inviare il paziente allo specialista immunologo o reumatologo. Ma anche il riscontro alla radiografia del torace d’infiltrati polmonari che tendono alla cavitazione deve far sospettare tale patologia; invece, la presenza d’infiltrati fugaci, ovvero addensamenti polmonari che non rispondono alla terapia antibiotica, bensì a quella con cortisonici in paziente asmatico, associati a spiccata ipereosinofilia, deve far sospettare una Granulomatosi eosinofila con poliangioite (EGPA), nota anche come Sindrome di Churg-Strauss. È bene ricordare che anche il solo aumento spiccato degli eosinofili circolanti in un paziente con asma bronchiale e rinite associate ad anosmia può essere una spia di EGPA. Nel sospetto di tali vasculiti sarebbe preferibile che il medico di famiglia facesse eseguire la ricerca degli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA) prima di inviare il paziente allo specialista. Tuttavia, vanno fatte due considerazioni: la prima, far eseguire sempre gli autoanticorpi in centri qualificati (per evitare inutili e costose ripetizioni); la seconda, la negatività degli ANCA non deve indurre a escludere la malattia.

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

Tra le cause di emoftoe e dispnea a rapida insorgenza deve essere considerata la micropoliarterite e la Sindrome di Goodpasture, rispettivamente marcate dal riscontro nel siero di ANCA con specificità anti-mieloperossidasi (anti-MPO) la prima e anticorpi anti-membrana basale (anti-MBG) la seconda. Un’altra possibilità paradigmatica è che il paziente riferisca da tempo una storia di aftosi orale recidivante. In questo caso, occorre procedere a un’anamnesi mirata e ipotizzare diverse patologie tra cui il Morbo di Crohn, la celiachia, ma soprattutto la Sindrome di Behçet (SB). È ovvio che non devono essere inviati allo specialista tutti i pazienti che riferiscono sporadici episodi di aftosi orale isolata, ma se compaiono aftosi bipolare (afte orali e genitali) o eritema nodoso o pseudo-follicolite oppure problemi visivi, il paziente deve essere immediatamente inviato presso un centro di alta specializzazione nel sospetto di SB. IL MMG può anche trovarsi di fronte a quadri complessi, sfumati, che talvolta portano alla diagnosi di sindrome depressiva. Alcune pazienti possono lamentare cefalea, senso di confusione mentale, disturbi visivi atipici e transitori, astenia, facile affaticabilità, pesantezza di un arto. L’esame obiettivo della paziente può evidenziare riduzione o assenza di polsi, soffio olosistolico alla base del cuore che s’irradia verso il collo e le ascelle. Il sospetto in questi casi dovrebbe essere quello di Sindrome di Takayasu. Un altro sintomo cardine è rappresentato dalla cefalea in sede temporale, ma talvolta anche nucale e/o da affaticabilità che insorge durante la masticazione (claudicatio masticatoria). Questo sintomo, associato ad aumento degli indici di flogosi, dovrebbe suggerire al MMG la diagnosi di arterite di Horton. Altri sintomi suggestivi di malattia rara immunologica sono arrossamento e gonfiore dei padiglioni auricolari, associato o meno a dolore al dorso del naso e/o a occhio rosso. Questa triade è suggestiva di policondrite ricorrente. Anche una porpora agli arti inferiori, soprattutto se palpabile, può essere il primo sintomo sia di una Sindrome di Schönlein Henoch ma anche di una Sindrome crioglobulinemica. Il MMG può, per esempio, essere contattato in prima battuta per un’improvvisa riduzione di udito (ipoacusia) associata a vertigine e/o a occhio rosso.

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L. Emmi, M.M. D’Elios

Tale associazione di sintomi è abbastanza tipica della Sindrome di Cogan, una condizione che richiede un approccio integrato audiologico/immunologico e una terapia tempestiva.

Quali sono gli esami da richiedere nel sospetto di malattia rara immunologica?

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Come abbiamo già detto, il sospetto di malattia rara immunologica è essenzialmente clinico e, pertanto, un’anamnesi mirata volta alla ricerca di segni o sintomi cardine di malattia immunologica rappresenta l’elemento fondamentale al fine diagnostico. Tuttavia, la determinazione di alcuni esami di routine e, più specificatamente, di ordine immunologico rappresenta un valido ausilio, talvolta addirittura determinante. Quando si parla di tali malattie, l’aumento degli indici di flogosi è subito menzionato. Bisogna sottolineare che questo è spesso presente in tali pazienti, ma nella maggior parte dei casi non è patognomonico delle malattie rare immunologiche; tuttavia, un incremento consensuale della velocità di eritrosedimentazione (VES), della proteina C reattiva (PCR) e del fibrinogeno è tipico della polimialgia reumatica, complicata o meno da arterite di Horton. L’aumento della VES può aiutare a individuare le fasi di attività di un’arterite di Takayasu e, nei casi dubbi che vengono all’osservazione in età superiore ai 60 anni, anche a distinguere, insieme ad altri parametri, tale vasculite dall’aterosclerosi polidistrettuale. Ovviamente, alterazioni della conta dei globuli rossi, globuli bianchi e piastrine sono importanti, ma non molto caratteristiche, a eccezione dell’aumento degli eosinofili circolanti, talvolta a valori di 10.000–30.000 in valore assoluto nella EGPA, e una leucocitosi neutrofila (ovvero un aumento dei globuli bianchi in toto, con netta prevalenza dei granulociti neutrofili) nella panarterite nodosa (PAN). Un aumento degli enzimi muscolari come la creatinfosfochinasi (CPK), la latticodeidrogenasi (LDH) e l’aldolasi si ritrova, invece, in corso di miosite. Un esame molto semplice è rappresentato dal protidogramma e dal dosaggio delle immunoglobuline (IgG-IgA-IgM). Una lieve ipergammaglobulinemia (aumento dei livelli di anticorpi) è tipica di tutte le malattie

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

autoimmuni, ma soprattutto della Sindrome di Sjögren (SS). Un altro esame che viene spesso richiesto anche dal MMG è la determinazione del fattore reumatoide (FR). La positività di questo esame fa subito ipotizzare la diagnosi di artrite reumatoide (AR). Occorre precisare che il FR è aspecifico e assume significato solo se è presente la classica sintomatologia articolare. In assenza di artrite, il FR può trovarsi nella SS (in cui la sintomatologia dolorosa è più sfumata rispetto a quella dell’AR), in corso di malattie infettive, ma soprattutto in corso di crioglobulinemia. In quest’ultima è invariabilmente associato a riduzione molto significativa della componente del complemento C4. Come sappiamo, le malattie autoimmuni sono marcate dalla presenza di auto-anticorpi, ossia di anticorpi prodotti da cellule B autoreattive che, avendo perso la “tolleranza verso il self ”, riconoscono come bersaglio elementi del nostro organismo. I più rappresentativi in corso di malattia immunologica sono gli anticorpi anti-nucleari (ANA) rivolti verso specificità antigeniche presenti nel nucleo della cellula; altri sono gli anticorpi diretti contro gli antigeni nucleari estraibili (anti-ENA), quelli diretti contro il DNA nativo (anti-dsDNA), quelli rivolti verso il citoplasma dei granulociti neutrofili (ANCA) e gli anticorpi diretti contro i fosfolipidi di membrana (aPL). Gli ANA sono presenti sia nelle forme rare come la ScS, la UCTD e la MCTD, le miositi e la sindrome da anticorpi anti-sintetasi, come nelle forme più frequenti quali il LES e la SS. Nella ScS, gli ANA sono presenti a titolo significativo (>1:160) e gli antiENA sono specifici per antigeni anti-centromero o anti-topoisomerasi I (noti anche come SCL-70). L’UCTD è anch’essa caratterizzata da ANA a titolo significativo e da specificità anti-ENA variabili. Nella MCTD ritroviamo, invece, anticorpi antiU1RNP isolati e a titolo elevato. Anticorpi con specificità più rare, definiti anti-sintetasi, marcano le miositi e, in particolare, la sindrome da anticorpi anti-sintetasi. La presenza degli ANA nel siero di un determinato soggetto non significa automaticamente avere una malattia autoimmune, in quanto è ben noto che essi, soprattutto a basso titolo, in soggetti di sesso femminile e di età superiore

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ai 50–60 anni possono essere un reperto del tutto aspecifico. Un po’ diverso il caso di positività degli ANA a titolo significativo in una giovane donna, anche se asintomatica. In questo caso, la paziente deve essere attentamente sorvegliata clinicamente e con esami di laboratorio. L’elemento distintivo è, tuttavia, la presenza o l’assenza di sintomi. In termini generali, si può affermare che la positività degli ANA senza alcun segno o sintomo di connettivite merita soltanto una stretta sorveglianza. Al contrario, la positività degli ANA associata a sintomatologia suggestiva di malattia autoimmune permette di confermare la diagnosi. Dev’essere anche ricordato che è molto difficile che il paziente abbia una malattia autoimmune senza che siano o siano stati presenti ANA a titolo significativo. Si definiscono significativi ANA a titolo uguale o superiore a 1:160, mentre ANA uguali a 1:160 sono definiti borderline, e inferiori a 1:160 si considerano non significativi. Pertanto, titoli borderline o inferiori a 1:160 non accompagnati da clinica significativa non devono allarmare il MMG e, conseguentemente, il paziente. Molto importante è anche la valutazione delle specificità nell’ambito del complesso degli antigeni nucleari estraibili ENA, che indirizzano lo specialista verso precise entità cliniche. Infatti, le vere connettiviti sono in parte marcate da varie specificità anticorpali rivolte verso antigeni del complesso ENA. In casi particolari, caratterizzati sul piano clinico da eventi trombotici sia arteriosi che venosi recidivanti o con sedi atipiche e/o in giovane età, o caratterizzati da storia ostetrica di ripetuti aborti, si impone la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi come gli anticorpi anti-cardiolipina (aCL), il Lupus Anticoagulant (LAC) e gli anticorpi anti-beta2-glicoproteina1 (antibeta2GPI). Un’altra famiglia di autoanticorpi è rappresentata dagli ANCA. Tali specificità marcano le cosiddette vasculiti ANCA-associate rappresentate dalla granulomatosi con poliangioite (GPA), dalla poliangioite microscopica (MP) e dalla granulomatosi eosinofila con poliangioite (EGPA). In sintesi, la diagnostica delle malattie rare immunologiche è prevalentemente costituita dalla determinazione degli autoanticorpi, ANA, anti-ENA, antiDNA, aCL, anti-beta2GPI, LAC, ANCA. Nel caso di alcune patologie, vengono attualmente eseguiti pannelli dedicati, quale il pannello ScS, il pannello miositi, il pannello malattie autoimmuni del fegato (cirrosi biliare primitiva, epatite cronica autoimmune, colangite sclerosante, sindrome overlap).

CAPITOLO 5 DIAGNOSI, SINTOMI E TERAPIA

Deve essere ribadito che: • gli autoanticorpi devono essere eseguiti in centri di grande esperienza e che si attengono a standard internazionali; • devono essere indicati il titolo, il pattern e la specificità; • titoli di ANA 1:160 sono significativi; • le variazioni del titolo degli ANA hanno scarso significato, in quanto non correlano con l’attività di malattia, solo l’incremento del titolo degli antidsDNA deve allarmare il curante, che eventualmente invierà il paziente dallo specialista; • non è necessario ripetere gli autoanticorpi a ogni controllo, in quanto essi hanno significato diagnostico e non prognostico; • in tutti i casi, la positività degli autoanticorpi acquista significato clinico solo in presenza di segni e sintomi suggestivi di malattia. Per quanto riguarda gli esami strumentali, quelli di primo livello sono rappresentati dalla radiografia del torace, l’ecocardiogramma e l’ecografia addominale. Tutti gli altri esami, tomografia computerizzata (TC), risonanza magnetica (RM), tomografia a emissione di positroni (PET), elettromiografia (EMG/ENG), capillaroscopia e biopsie devono essere eseguite solo dopo valutazione specialistica in centri esperti per evitare inutili e costose ripetizioni.

Quali sono le attuali possibili terapie e quali gli sviluppi futuri? La terapia delle malattie rare del sistema immunitario si basa su farmaci antiinfiammatori/immunosoppressori e, più recentemente, su farmaci cosiddetti biologici. La terapia tradizionale è anche definita farmacologica e trova il suo cardine da oltre 50 anni nei cortisonici. Essi sono dotati di potente attività antiinfiammatoria e, qualora utilizzati a dosaggi elevati, anche di attività immunosoppressiva. Tali farmaci trovano indicazione nella fase acuta di qualsiasi malattia rara del sistema immunitario con l’eccezione dell’APS e, per quanto riguarda la ScS, soltanto in alcune localizzazioni (soprattutto nell’impegno polmonare). Nelle vasculiti sistemiche, quali la GPA, la MP e la EGPA, essi possono essere utilizzati anche sotto forma di pulse-therapy, ovvero a dosi

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molto alte per via venosa seguite da corticosteroidi per via orale, secondo una lenta riduzione ricercando la dose minima efficace. Parlando di cortisonici, devono essere chiariti alcuni punti: a) il cortisone è dotato di grande attività anti-infiammatoria e solo a dosaggi elevati ha anche attività immunosoppressiva; b) i cortisonici non modificano il titolo degli auto-anticorpi se non a dosaggi molto elevati e, quindi, il prelievo degli ANA, anti-ENA e anti-DNA può essere tranquillamente eseguito anche in corso di terapia cortisonica; c) deve essere ricercata la dose minima efficace, ovvero la più piccola dose in grado di controllare i sintomi e, se ciò non è possibile, deve essere introdotto un secondo farmaco (ad esempio il methotrexate, il micofenolato mofetile, la ciclosporina); d) la dose di steroidi universalmente accettata da tempo come relativamente sicura anche per lunghi periodi è inferiore a 7,5 mg/die di prednisone; e) devono essere da subito, per quanto possibile, evitati gli effetti collaterali degli steroidi, ad esempio con supplementazione di vitamina D per la prevenzione dell’osteoporosi; f) nel caso di stretta necessità, i cortisonici devono essere eseguiti anche in presenza di controindicazioni, ma in ambiente protetto e controbilanciando gli effetti collaterali. Qualora i cortisonici da soli non siano sufficienti a controllare la malattia o la terapia sia troppo prolungata, o in presenza di controindicazioni o effetti collaterali, ma soprattutto nei casi in cui sappiamo che tale farmaco non è sufficiente a controllare l’infiammazione, dobbiamo ricorrere alla terapia immunosoppressiva. I farmaci immunosoppressori/immunomodulanti sono rappresentati dalla idrossiclorochina, efficace nel controllo del dolore articolare e dotata anche di un certo effetto antiaggregante. Ad esempio, nel caso di UCTD con presenza di aPL, l’idrossiclorochina è il farmaco di prima scelta. Più efficace nel controllo dell’artrite è il methotrexate, farmaco ben tollerato, ma potenzialmente dannoso per il feto (teratogeno) e di questo devono essere informate le pazienti in età fertile che lo assumono. Nel caso di vasculite a localizzazione polmonare o renale la ciclofosfamide, anch’essa somministrata in bolo o per os, rimane il farmaco cardine, anche se studi recenti hanno dimostrato la pari efficacia o, comunque, la non inferiorità del micofenolato. Ciò è stato dimostrato nella nefrite lupica classe III/IV, ma sembra valido anche nelle vasculiti sistemiche. Nella GPA, tuttavia, il farmaco di

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prima scelta rimane la ciclofosfamide o, più recentemente, il rituximab (anticorpo anti CD-20). La terapia della SB è molto articolata e prevede secondo le raccomandazioni della European League Against Rheumatism (EULAR) l’utilizzo di azatioprina ma, nei casi non responsivi a localizzazione oculare o cerebrale grave, anche i farmaci biologici quali gli anticorpi anti-fattore di necrosi tumorale (anti-TNF), l’anticorpo anti recettore dell’interleuchina 6 (anti-IL-6R) e l’anticorpo anti-interleuchina 1 (anti-IL-1). Per farmaci cosiddetti biologici s’intende un gruppo piuttosto ampio di molecole ottenute mediante la tecnica del DNA ricombinante, rivolte verso bersagli molecolari implicati a vario titolo nella patogenesi delle malattie autoimmuni sistemiche. Tra i farmaci biologici di più comune impiego sono da ricordare: a) quelli rivolti verso una molecola dell’infiammazione (nota come TNF alfa), che rappresentano i capostipiti di queste terapie, di cui attualmente sono a disposizione 5 differenti tipi con caratteristiche farmacologiche peculiari; b) anticorpi anti-CD20, molecola presente sui linfociti B; c) anti-IL-6R; d) CTLA4-Fc(IgG1); ed e) anti-IL-1/IL-1R. Questi farmaci trovano un impiego cosiddetto in-label, ovvero secondo le indicazioni riportate in scheda tecnica, in un determinato numero di patologie piuttosto ristretto, tra le quali l’artrite reumatoide, le malattie infiammatorie croniche intestinali, l’artrite psoriasica, alcune patologie autoinfiammatorie. Ben più ampio appare però il loro ruolo quando utilizzate off-label (ovvero secondo modalità diverse da quelle presenti nella scheda tecnica e nel foglietto illustrativo che accompagna i farmaci autorizzati dal Ministero della Salute). Per considerare adeguata una terapia off-label bisogna che questa risponda ad almeno quattro caratteristiche principali: 1) razionale fisiopatologico convincente, ovvero che il farmaco interagisca con uno o più meccanismi verosimilmente implicati nella genesi della malattia; 2) che il suo utilizzo si renda necessario per la non responsività e/o controindicazioni nei confronti delle strategie terapeutiche di comune utilizzo; 3) che presenti un buon rapporto rischio/beneficio; 4) che il suo utilizzo sia supportato da precedenti indicazioni o segnalazioni in letteratura. L’anticorpo anti-CD20 ha dimostrato una certa efficacia in alcune patologie apparentemente anche molto diverse tra loro, come le vasculiti ANCA-associate, la SS, il coinvolgimento renale in corso di Lupus, la ScS, alcune

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miositi idiopatiche, ecc. Molto recentemente è stato approvato il primo farmaco biologico per la cura del LES, il Belimumab, anticorpo monoclonale diretto contro Blyss, fattore di sopravvivenza dei linfociti B. L’inibitore del recettore al quale si lega l’interleuchina 6, una proteina dell’infiammazione, sembra poter avere un ruolo nelle vasculiti sistemiche, nella malattia di Still dell’adulto, in alcune forme di uveite refrattarie e nella SB. Il CTLA4, invece, è un recettore presente su i linfociti T, in grado di inibire questo tipo di globuli bianchi; l’anticorpo monoclonale diretto verso questa molecola proteica sta trovando segnalazioni incoraggianti in alcune forme di uveite associate ad artrite idiopatica giovanile. I farmaci anti IL-1, infine, sono stati utilizzati fuori scheda tecnica nella malattia di Still dell’adulto, nella gotta, nelle malattie auto-infiammatorie, e nella SB con una certa efficacia. Inoltre, nuove classi di farmaci si stanno affacciando nel campo delle malattie autoimmuni che, pur essendosi arricchito negli ultimi anni d’importanti strumenti, ha ancora bisogno di compiere nuovi passi per rispondere in maniera sempre più efficiente alle mille sfaccettature di patologie così complesse. Questo ha creato nella comunità scientifica un estremo interesse e, attualmente, numerosi farmaci sono in fase di studio. Esempio sono gli inibitori delle tirosin-chinasi, ossia farmaci inibitori di enzimi intracellulari (chinasi) che hanno un ruolo chiave nell’attivare la trasduzione di segnali intracellulari critici per la crescita, la differenziazione e la morte delle cellule. Questi sono farmaci ormai affermati in ambito oncologico ma che, proprio per la loro capacità di andare a bloccare particolari funzioni delle cellule del sistema immunitario, sono attualmente studiati in ambito immunologico. Esempi sono l’imatinib mesilato nella ScS, il tofacitinib nell’AR o gli inibitori della syk chinasi come il fostamatinib sempre nell’AR, ma anche altre molecole in patologie come le malattie infiammatorie intestinali, la psoriasi e le malattie allergiche.

Per approfondire Abbas AK, Lichtman AH, Pillai S (2010) Immunologia cellulare e molecolare. Elsevier, Milano Romagnani S, Emmi L, Almerigogna F (2000) Malattie del sistema immunitario. McGraw-Hill, Milano Rose NL, MacKay IR (2006) The autoimmune diseases. Elsevier, St. Louis

PATOLOGIE SPECIFICHE: DOMANDE SU…

CAPITOLO 6 SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI domanda Stefania Di Masso rispondono Domenico Prisco e Caterina Cenci

Quando si deve sospettare una Sindrome da anticorpi antifosfolipidi e in che modo si inserisce nel quadro di altre condizioni autoimmuni? Al sospetto di Sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) si può arrivare in diversi modi ma, considerando i criteri clinici che la definiscono, abbiamo due gruppi principali di situazioni: i pazienti con trombosi arteriosa o venosa da causa non determinata e le pazienti con patologia ostetrica come poliabortività precoce o morte intrauterina in una fase più avanzata della gravidanza. Nella popolazione generale, la patologia trombotica arteriosa, in particolare quella coronarica e cerebrale, è assai più frequente di quella venosa ma è proprio quest’ultima quella in cui è più probabile il riscontro della sindrome. Come regola generale, più giovane è il paziente e meno sono presenti i fattori di rischio per patologia, più importante è ricercare gli anticorpi antifosfolipidi (aPL). Per fare due casi estremi, un paziente ultraottantenne, iperteso, D. Prisco () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Firenze [email protected] C. Cenci () SOD Patologia Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze S. Di Masso () Associazione Italiana Sindrome Anticorpi Antifosfolipidi Firenze [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_6, © Springer-Verlag Italia 2013

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dislipidemico e fumatore che va incontro a ictus ischemico non deve essere indagato per la presenza di aPL, mentre in una ragazza di 20 anni che ha una trombosi venosa profonda senza fattori scatenanti o che assume pillola anticoncezionale, fra gli altri esami vanno ricercati tali anticorpi. Per quanto riguarda il versante ostetrico, le patologie che definiscono la sindrome sono ben precise ma spesso, oggi, gli aPL sono ricercati tempestivamente, ad esempio dopo un primo aborto precoce e, se positivi, pongono poi un problema di definizione diagnostica. Tradizionalmente, si distinguono forme primitive e forme secondarie della sindrome. Le prime sono quelle in cui il paziente non ha i segni e i sintomi di una malattia autoimmune sistemica (quale il Lupus Eritematoso Sistemico – LES – l’artrite reumatoide, la sclerodermia, la sindrome di Sjögren, la connettivite mista, le vasculiti, ecc.) e le secondarie, quelle in cui una di tali malattie è già stata diagnosticata. Da un punto di vista diagnostico va precisato che, in assenza dei criteri clinici di patologia trombotica e/o ostetrica, non è possibile fare diagnosi di sindrome in pazienti con connettivopatia solo in base al rilievo nel loro sangue di aPL. Certamente, sono pazienti da seguire con attenzione e in cui eseguire misure di profilassi sia della patologia trombotica che di quella ostetrica in senso lato; diverso è il caso, ad esempio, della paziente con LES, poliabortiva e con presenza di aPL, che è a tutti gli effetti da diagnosticare come APS secondaria. Insomma, l’APS, definita secondo i criteri internazionali, è una malattia rara che colpisce ragionevolmente poche decine di migliaia di pazienti in Italia, ma i pazienti con patologia di confine o che, pur non avendo i criteri diagnostici clinici, vanno seguiti nel tempo e potrebbero divenire pazienti con sindrome, sono molto più numerosi. E anche i pazienti che hanno patologie che rientrano nei criteri clinici della sindrome e che devono essere sottoposti a una valutazione di laboratorio per verificare se hanno gli aPL sono assai più numerosi di quelli in cui il sospetto diagnostico verrà confermato. La differenza pratica fra questi due gruppi è che chi ha una clinica compatibile ma non ha i criteri di laboratorio per APS seguirà altri percorsi diagnostici, mentre chi ha gli anticorpi e non ha la clinica dovrà essere comunque tenuto sotto controllo nel tempo.

CAPITOLO 6 SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI

Cosa sono e come agiscono gli anticorpi antifosfolipidi? Innanzitutto, va detto che stiamo parlando di autoanticorpi e dunque di proteine, dette immunoglobuline, prodotte da un particolare tipo di globuli bianchi, noti come linfociti B nel loro stadio maturativo terminale di plasmacellule; queste proteine, diversamente dagli altri anticorpi, sono rivolte non contro agenti esterni potenzialmente nemici da cui difendere l’organismo, ma contro componenti dell’organismo stesso. Pertanto, le condizioni in cui essi sono presenti si inseriscono nel gruppo di patologie che chiamiamo autoimmunitarie e che potremmo definire una sorta di autolesionismo. Pensiamo alle ben più frequenti patologie autoimmunitarie della tiroide che, peraltro, colpiscono un solo organo, mentre i fosfolipidi sono presenti diffusamente nell’organismo. Gli aPL sono autoanticorpi diretti contro i fosfolipidi e alcune proteine ad essi legate. I fosfolipidi sono grassi (e dunque parenti dei ben più famosi colesterolo e trigliceridi) che circolano nel sangue, ma che sono importanti soprattutto in quanto componenti delle membrane cellulari e dei tessuti. Anche se sono noti differenti aPL, le linee guida internazionali considerano solo tre entità, che corrispondono ai tre esami di laboratorio che vengono normalmente eseguiti: gli anticorpi anticardiolipina (aCL, rivolti contro la cardiolipina), gli anticorpi antibeta2-glicoproteina I (anti-beta2GPI, che non è un fosfolipide, ma una proteina ad essi legata) e il Lupus Anticoagulant (LAC, che è una attività degli aPL che disturba la coagulazione del sangue indotta in provetta dai fosfolipidi che vengono aggiunti per attivare la coagulazione in certi test di laboratorio come il tempo di tromboplastina parziale attivato, APTT). Altri aPL, come gli anticorpi rivolti contro singoli fosfolipidi quali la fosfatidilcolina, la fosfatidiletanolamina, la fosfatidilserina e il fosfatidilinositolo, nonché quelli antiprotrombina e altri, non trovano al momento posto nella diagnostica clinica della sindrome, ma sono solo oggetto di studio. Dunque, gli aPL sono una famiglia piuttosto eterogenea di autoanticorpi che vengono misurati con test diversi, gli uni rivolti all’identificazione e misurazione dei livelli di un certo anticorpo (aCL e antibeta2-GPI), l’altro (LAC) volto alla identificazione della loro attività interferente con la coagulazione in provetta.

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È innegabile che il nome Lupus Anticoagulant è stato ed è fonte di grande apprensione e confusione per i pazienti (e anche per qualche medico inesperto). Questo avviene, da un lato, perché la parola “lupus” fa credere ad alcuni che ci sia una diagnosi di LES mentre si tratta di un nome storico che, semplicemente, dice che tale fenomeno di laboratorio è stato identificato per la prima volta in alcuni pazienti con LES. Va ricordato che solo una piccola quota di pazienti con sindrome ha o avrà una diagnosi di LES. Ma l’altro punto di confusione sta nella parola “anticoagulant”, che fa pensare a un’azione proemorragica. Per chiarire il concetto, si dice che l’azione del LAC e, più in generale, degli aPL è anticoagulante in vitro e procoagulante e protrombotica in vivo, proprio per chiarire la discrepanza. La fisiopatologia delle manifestazioni ostetriche non è invece completamente chiarita. Se in certi casi il danno è mediato da fenomeni trombotici a livello placentare, l’abortività precoce è da attribuire ad altre interferenze degli aPL come, ad esempio, quella con l’impianto della placenta in utero. Gli aPL facilitano la trombosi perché, attraverso meccanismi complessi, attivano le cellule endoteliali che rivestono i vasi, modificando le loro caratteristiche da antitrombotiche a protrombotiche. A volte, il primo riscontro della presenza di aPL (cui quasi mai, peraltro, corrisponde una sindrome) avviene in occasione di test coagulativi fatti prima di un intervento chirurgico o di una manovra invasiva. In alcuni pazienti, l’APTT (raramente il tempo di protrombina-PT) è allungato e, dunque, il chirurgo teme che il paziente possa avere emorragie durante l’intervento programmato. In realtà, la stragrande maggioranza di questi pazienti non ha mai avuto un’emorragia e lo studio dell’emostasi mostra la presenza di un LAC. Il paziente e il chirurgo vengono rassicurati circa il rischio emorragico, viene anzi sottolineata la necessità di un’adeguata profilassi delle trombosi venose perioperatorie e, a distanza dell’intervento, andrà meglio valutata la persistenza degli anticorpi e dovrà esser creato un percorso adeguato per il paziente. Gli aPL possono essere rilevati transitoriamente, ad esempio, in corso di infezioni. Esistono poi aPL indotti da certi trattamenti farmacologici. Non sempre il meccanismo della loro formazione è chiaro. Esiste poi un capitolo di cui tutti i medici dovrebbero essere a conoscenza

CAPITOLO 6 SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI

almeno da un punto di vista culturale e cioè quello della possibile associazione fra aPL e neoplasie. Questo è particolarmente vero in pazienti anziani e per positività isolate degli aCL. Nei casi di “vera” APS, la positività dei diversi aPL è relativamente stabile nel tempo; in genere oscillazioni e, in particolare, negativizzazioni degli aPL ci devono porre il dubbio circa l’accuratezza della loro determinazione. È buona norma utilizzare laboratori affidabili e, possibilmente, lo stesso laboratorio seguendo i pazienti nel tempo. Se consideriamo l’elevato grado di inappropriatezza nell’esecuzione di test di laboratorio (oggi i test vengono talvolta fatti a tappeto o magari su sollecitazione del paziente che ha consultato internet o ha parlato con qualche amico), un gran numero di pazienti si troverà con una positività (magari sfumata e transitoria) di questi test e sarà fondamentale la loro interpretazione, meglio se con l’ausilio di uno specialista. Tra i test diagnostici attualmente usati ne esistono alcuni più predittivi di altri? In base a tali test, è possibile individuare dei sottotipi clinici di APS? Le linee guida internazionali innanzitutto stabiliscono che gli unici test idonei a fare diagnosi di APS sono la presenza nel siero di aCL e di antibeta2GPI a un livello superiore al 99° percentile della popolazione di controllo e la presenza del LAC. È sufficiente l’alterazione di uno dei tre test, ma tale alterazione deve essere confermata dopo non meno di 12 settimane. Tutti gli altri test non hanno valore, come non ha valore un titolo basso di aCL e antibeta2-GPI o la mancata conferma a distanza. Poiché la diagnosi di APS ha implicazioni terapeutiche anche rilevanti come, ad esempio, la prescrizione di terapia anticoagulante orale per tutta la vita in caso di storia di trombosi, è necessario che i criteri di cui sopra siano seguiti. Certamente, fra gli addetti ai lavori, in specie fra quelli di formazione internistico-ematologica, vi è la percezione che i pazienti con positività persistente di tutti e tre i test siano ben diversi da quelli con la positività di uno solo o di due test. La triplice positività sembrerebbe associata a un rischio trombotico assai maggiore, che meriterebbe particolare considerazione anche

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in prevenzione primaria quando questi pazienti non rientrano nella definizione di APS. Inutile sottolineare l’assoluta necessità di anticoagulazione a vita in quei pazienti che hanno avuto già una trombosi. Questa visione su una differenza dei pazienti con triplice positività non trova, al momento, la condivisione in ambienti di formazione immuno-reumatologica, per cui non si sa se e quando questo concetto sarà considerato nelle linee guida. Recentemente, anche la presenza di anticorpi contro una parte della beta2GPI e, precisamente, rivolta verso il cosiddetto domain 1, viene considerata un criterio per identificare i pazienti a maggior rischio trombotico, anche se i dati al riguardo sono ancora limitati. Va comunque precisato che questo test non fa parte ancora della routine di laboratorio ed è stato solo oggetto di studi in laboratori di ricerca. Se si eccettua quanto sopra discusso, l’associazione dei diversi anticorpi con diversi sottotipi clinici è oggetto solo di speculazioni o di visioni non condivise. Ma, parlando di sottotipi clinici, va ricordato che, secondo le linee guida, solo la trombosi e la patologia ostetrica definiscono l’APS. Molte altre manifestazioni (cutanee, neurologiche, ematologiche, ecc.) si possono trovare in alcuni dei pazienti con APS ma non sono diagnostiche per APS. L’APS è una malattia ereditaria? Può essere utile eseguire test sui propri parenti stretti? Esiste una qualche predisposizione ad ammalarsi di malattia autoimmunitaria, come dimostrato da studi familiari, anche se il dubbio è che anche l’ambiente possa giocare un ruolo interferente con quello della genetica. Ma questo è un concetto generale e non possiamo considerare l’APS una malattia ereditaria. Dunque, non ha senso sottoporre a ricerca degli aPL i familiari dei pazienti con APS in assenza di richiami clinici. L’APS è una malattia curabile? Esistono terapie o comportamenti che ne prevengano le complicanze? L’APS non è una malattia guaribile, ma certamente è una malattia curabile.

CAPITOLO 6 SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI

Fanno eccezione le rare forme di APS catastrofica che non rispondono spesso ad alcun trattamento. Nelle forme con storia di trombosi, la terapia è quella anticoagulante orale cronica (mantenendo un INR fra 2 e 3) nelle trombosi venose profonde e nell’embolia polmonare, mentre per le trombosi arteriose la scelta fra anticoagulanti e antiaggreganti piastrinici va modulata in rapporto alla sede e alle caratteristiche del paziente. Esistono pazienti in cui la malattia è talmente aggressiva che si ha recidiva trombotica nonostante una profilassi ben condotta. Certamente, poiché la trombosi è una malattia multifattoriale, bisogna agire su tutti i fattori di rischio sia con mezzi farmacologici che con la modificazione dello stile di vita. Per le forme con storia di patologia ostetrica, la profilassi farmacologica è essenzialmente concentrata sulla gravidanza e sul puerperio e si avvale dell’associazione di aspirina a basse dosi (che viene sospesa alla 32ª settimana per la sua possibile interferenza con la chiusura del dotto di Botallo) con eparina a basso peso molecolare a dosi profilattiche (questa da proseguire anche nel puerperio fino alla 6ª settimana dal parto). Ma anche queste pazienti devono fare una profilassi in condizioni a rischio trombotico e assumere comportamenti corretti in termini di stili di vita sani. Con le attuali terapie, il tasso di gravidanze a termine in donne con APS è elevato (oltre il 70%). La gestione della terapia anticoagulante orale pone particolari problemi nei pazienti con APS, perché spesso si tratta di soggetti giovani con una lunga aspettativa di vita, che devono convivere con periodici prelievi ematici per esami di laboratorio, aggiustamenti terapeutici e attenzioni particolari nell’uso di farmaci e nel regime dietetico. È per questo motivo che c’è molta attesa per i nuovi anticoagulanti orali che potranno essere assunti a dose fissa senza la necessità del monitoraggio dell’INR e del relativo aggiustamento terapeutico.

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CAPITOLO 7 MALATTIA INDIFFERENZIATA DEL TESSUTO CONNETTIVO domanda Renato Giannelli rispondono Elena Silvestri e Simona Brancati

È una diagnosi certa quella di malattia indeterminata del tessuto connettivo? I disordini del sistema immunitario rappresentano un gruppo estremamente complesso di patologie che si differenziano tra loro per molteplici aspetti in cui è molto difficile districarsi. Per quanto concerne le connettiviti, sono stati elaborati dei criteri classificativi (clinici e sierologici) dapprima allo scopo di uniformare le casistiche provenienti da varie fonti di ricerca (da qui il termine “classificativi”) ma che, in seguito, hanno trovato una validità anche nella pratica clinica a scopo diagnostico; quindi, per fare diagnosi di una determinata connettivite, devono essere soddisfatti un numero minimo di tali criteri e ciò può avvenire al momento della prima diagnosi (“tempo zero”) o successivamente, con l’andare del tempo e l’evolversi della malattia. Criteri che, comunque, hanno sempre bisogno di essere interpretati e con-

E. Silvestri () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Firenze [email protected] S. Brancati () SOD Patologia Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze R. Giannelli () ATMaR Onlus - Associazione Toscana Malati Reumatici [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_7, © Springer-Verlag Italia 2013

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testualizzati e che, molto spesso, non sono in grado di rispondere alle molteplici sfaccettature con cui queste patologie possono manifestarsi ed evolvere nel tempo; spesso, infatti, alcuni pazienti, sulla base di questi criteri, pur presentando quadri suggestivi di connettivite, non possono essere inquadrati in maniera precisa in una di queste patologie. Sotto il termine Undifferentiated Connective Tissue Disease (UCTD) si è voluto raggruppare tutte quelle condizioni caratterizzate da segni, sintomi e alterazioni di laboratorio suggestive di una malattia autoimmune sistemica, ma che, nel loro insieme, non soddisfano i criteri classificativi per una connettivite definita (CTD) come il Lupus Eritematoso Sistemico (LES), la Sclerosi Sistemica (ScS) o la Sindrome di Sjögren (SS). Tale condizione può rappresentare un quadro del tutto transitorio e autolimitantesi, una forma incompleta o iniziale di connettivite definita (in cui sfocerà negli anni successivi) o una forma stabile di malattia che va a identificare un’entità clinica a sé stante, la cosiddetta UCTD stabile. L’elemento temporale, nel discriminare le varie forme, è estremamente importante. Nella maggior parte dei casi, l’evoluzione in una forma di connettivite definita avviene, infatti, nei primi cinque anni, tant’è che è stato proposto di utilizzare il termine di early UCTD per tutte quelle condizioni che hanno una durata di malattia inferiore ai tre anni, in modo da riconoscere il più correttamente possibile i vari sottogruppi di pazienti e restringere al termine UCTD solo quelle condizioni cliniche stabili in cui si viene a individuare un vero e proprio pattern di malattia caratteristico, ossia che mantenga un profilo “indifferenziato”. Nei pazienti con UCTD stabile si ha un quadro clinico-laboratoristico caratterizzato principalmente da artriti/artralgie, fenomeno di Raynaud, xerostomia e xeroftalmia, fotosensibilità, anemia e leucopenia; raro è, invece, il coinvolgimento degli organi principali (rene, polmone, SNC). Per quanto concerne il pattern anticorpale, accanto alla positività degli anticorpi antinucleari (ANA) possono essere presenti anticorpi rivolti verso i cosiddetti antigeni nucleari estraibili (ENA) e, in particolare, gli antiSSA/Ro e gli anti RNP; molto raramente sono invece presenti anticorpi specifici per determinate connettiviti come quelli anti-centromero, anti-DNA nativo o anti-Sm. Solitamente, il profilo anticorpale d’esordio tende a rimanere stabile nel tempo.

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Tutto ciò è riassunto nei criteri classificativi preliminari proposti nel 1999, criteri che si basano proprio sul limite temporale e la positività anticorpale: 1) presenza di segni e sintomi suggestivi di malattia autoimmune sistemica, ma che non soddisfano i criteri di CTD; 2) presenza di ANA in almeno due determinazioni; 3) durata di malattia superiore ai tre anni. Questa, ad oggi, è la definizione di UCTD più accreditata. Il dibattito è ancora molto aperto e si è alla ricerca di quei marcatori di malattia specifici che possano portare a un precoce riconoscimento dei soggetti affetti da tale patologia, differenziandoli precocemente dai quadri iniziali di una CTD definita, da forme incomplete di CTD definite, dalle sindromi da overlap (OS) e da quelle miste (MCTD). Quindi, anche se il termine “indifferenziata” può sembrare vago e approssimativo, in realtà, in questo ambito, va a descrivere un’entità clinica ben definita che richiede una sua diagnosi, una sua terapia e un suo follow-up. Come si può curare una malattia apparentemente “non ben definita”? L’UCTD è una malattia considerata “non ben definita” in quanto i segni e i sintomi che la caratterizzano non soddisfano i criteri diagnostici per una malattia del connettivo definita, ma rappresenta un problema reale e un quadro patologico importante, complesso, che ha bisogno di cure adeguate. In linea generale, i pazienti con UCTD sono trattati con corticosteroidi (CCS) a basso dosaggio e/o farmaci anti-malarici (in particolare idrossiclorochina), più raramente con farmaci immunosoppressori; approccio terapeutico che rispecchia il profilo clinico caratteristico di questa malattia che raramente si presenta con manifestazioni d’organo severe (interstiziopatia, artrite erosiva, danno renale) e che, quindi, raramente ha necessità di terapie aggressive con alti dosaggi di CCS e farmaci immunosoppressori o biologici, a cui comunque si può ricorrere nei casi in cui si rendano necessari. Si sa in quale percentuale la connettivite indeterminata evolve in una connettivite definita? L’evoluzione verso una connettivite definita avviene in circa il 20–40% dei pazienti che presentano un esordio “indifferenziato” e ciò solitamente av-

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viene nei primi cinque anni di malattia, mentre circa il 60% dei pazienti mantiene un profilo indifferenziato; più rara è invece la remissione. La differenziazione più classica è quella verso il LES, ma possibili evoluzioni sono anche quelle verso la SS e la ScS, ma anche verso la MCTD, l’OS, la poli/dermatomiosite (PM/DM) e l’artrite reumatoide (AR). Nei primi anni di malattia, sarà quindi importante effettuare uno stretto follow-up di questi pazienti con profilo indifferenziato, andando a verificare l’eventuale comparsa di manifestazioni cliniche o di laboratorio che possano rimettere in discussione la diagnosi sulla base dei criteri classificativi attuali. Questo non deve essere un elemento destabilizzante per il paziente ma, al contrario, deve essere considerato un normale e consolidato iter diagnostico atto a individuare in modo precoce ed efficiente la patologia di cui è affetto. Quello che preme sottolineare è che il cardine della gestione di questi pazienti deve essere quello di un corretto approccio clinico-terapeutico e di follow-up; la ricerca del “nome e cognome” della malattia rappresenta un altro elemento importante, estremamente complesso e che, come abbiamo visto, può richiedere del tempo, ma che assolutamente non deve rallentare la gestione da parte del medico di questi pazienti. Si può sapere prima in quale forma evolverà? L’evoluzione dell’UCTD verso una CTD definita rappresenta un argomento estremamente interessante e ampiamente dibattuto, incentrato sulla ricerca di quei fattori predittivi di evoluzione della malattia indifferenziata verso una connettivite definita. L’evoluzione verso il LES è quella più frequente e quella in cui sono state identificate alcune variabili sierologiche e cliniche che possono verosimilmente predire tale passaggio. Mentre esistono dati molto contrastanti per quanto concerne l’aspetto predittivo delle manifestazioni cliniche, come la presenza di fotosensibilità, di lupus discoide o di sierositi, esiste invece un maggiore accordo nell’assegnare un significato predittivo al pattern auto-anticorpale. La presenza di anticorpi anti-dsDNA, anti-Sm e antifosfolipidi e, in particolare, anti-cardiolipina (aCL), così come la positività contemporanea di più specificità anticorpali, sembrano essere fattori che possono condizio-

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nare l’evoluzione verso il LES. Inoltre, in alcuni studi, andando a valutare gli anticorpi anti-SSA/Ro che sono presenti nei soggetti con UCTD in una percentuale che varia dall’8 al 30%, è stato visto che la presenza di anticorpi anti-Ro rivolti contro la sub-unità di 60Kd correlerebbe con una possibile evoluzione verso il LES, la presenza di anticorpi diretti verso entrambe le sub-unità Ro 52 e 60 Kd favorirebbe la progressione verso una SS, mentre la singola positività verso il 52 Kd, invece, non determinerebbe alcuna evoluzione. È vero che è meno grave delle altre connettiviti? Anche con la connettivite indeterminata non ci si può esporre al sole? L’UCTD stabile è nella maggior parte dei casi una patologia con una buona prognosi, caratterizzata da un profilo clinico e laboratoristico di lieve-moderata entità, a decorso benigno, in cui il coinvolgimento degli organi principali è raro e solitamente tardivo; tra questi il polmone, con un quadro di tipo interstiziale, è quello più frequente ed è legato a una prognosi più sfavorevole. È una malattia che, come abbiamo visto precedentemente, necessita soprattutto di una terapia sintomatica che, se ben impostata, può portare spesso a un completo controllo della sintomatologia con una qualità di vita di questi pazienti del tutto sovrapponibile a quella dei soggetti sani. Ovviamente, accanto alla terapia farmacologica, sarà importante seguire anche delle norme comportamentali, tra cui di primaria importanza è quella di cercare di evitare l’esposizione ai raggi ultravioletti, soprattutto in quei casi di coinvolgimento cutaneo della malattia (fotosensibilità, rash malare), che potrebbe portare a una riattivazione della malattia stessa, o comunque di cercare di esporsi ai raggi solari con estrema prudenza e utilizzando buone creme protettive. Inoltre, proprio per la mancanza di esposizione al sole, questi pazienti sono soggetti più facilmente a problemi di osteoporosi; sarà quindi necessario impostare un’adeguata terapia suppletiva con vitamina D, non solo per il suo ruolo fondamentale nel metabolismo del calcio ma, com’è emerso dai più recenti studi, anche per la sua azione immunomodulante, tale da poter ridurre il rischio di progressione della connettivite indifferenziata verso una connettivite definita.

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Per approfondire Mosca M, Tani C, Carli L, Bombardieri S (2012) Undifferentiated CTD: a wide spectrum of autoimmune diseases. Best Pract Res Clin Rheumatol 26(1):73–77 Mosca M, Tani C, Neri C et al (2008) Analysis of the evolution to defined connective tissue diseases of patients with early unidifferentiated connective tissue diseases (UCTD). Reumatismo 60(1):35–40 Zold E, Szodoray P, Gaal J (2008) Vitamin D deficiency in undifferentiated connective tissue disease. Arthritis Res Ther 10(5):R12

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CAPITOLO 8 SCLEROSI SISTEMICA domanda Carla Garbagnati Crosti risponde Raffaella Scorza

La Sclerosi Sistemica oggi, malattia che si può e si deve curare: che importanza ha la diagnosi precoce? Pur essendo un malattia rara, la Sclerosi Sistemica (ScS), chiamata più comunemente sclerodermia, può avere un notevole impatto sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza di chi ne è affetto. Pertanto, una delle strategie fondamentali è quella di identificarne precocemente i sintomi, in modo da ottenere una diagnosi precoce, fornire il trattamento migliore e mettere in atto strategie volte a rallentarne la progressione. Il sintomo cardine, che deve sempre allertare il medico quando presente, è la comparsa del Fenomeno di Raynaud (FR), ovvero di un fenomeno di chiusura temporanea dei vasi definito in termini medici come “vasospasmo”, che interessa principalmente le dita delle mani ma, nei casi più gravi, anche le estremità degli arti inferiori o del volto, in particolare naso o orecchie. Nel classico FR vengono descritte le tre fasi a “bandiera francese”: una prima di vero e proprio vasospasmo (fase bianca), una seconda di cianosi o stasi del sangue alle estremità (fase blu) e, infine, una terza di vasodilatazione

R. Scorza () Dipartimento di Fisiopatologia Medico-chirurgica e dei Trapianti Università degli Studi di Milano [email protected] C. Garbagnati Crosti () GILS Onlus - Gruppo Italiano Lotta alla Sclerodermia [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_8, © Springer-Verlag Italia 2013

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post-ischemica (fase rossa). È da sottolineare che non tutte e tre le fasi possono essere presenti nello stesso soggetto durante gli attacchi e di qui l’importanza di effettuare un’accurata diagnostica differenziale con altri disturbi delle estremità collegati all’esposizione al freddo (ad esempio, acrocianosi ed eritema pernio o “geloni”, molto comune nella popolazione). La sintomatologia del FR viene scatenata tipicamente dal freddo e, nei casi più gravi, può comparire anche dopo minimi abbassamenti di temperatura o dopo semplice contatto con acqua anche tiepida. Il problema principale del medico che si ritrovi ad affrontare la diagnostica del FR è la discreta frequenza del disturbo nella popolazione generale. Si calcola, infatti, che circa l’1–5% dei soggetti sani, con percentuale variabile in relazione alla latitudine e, quindi, alla temperatura del clima, sia affetto da un FR “primitivo”, ovvero non collegato alla presenza o a un successivo sviluppo di una malattia autoimmune. In definitiva, il 95% dei casi di FR risulta essere primitivo, mentre solo una percentuale inferiore al 5% è, in ultima analisi, spia di una patologia autoimmune. Questo va tenuto ben presente quando si affronta il problema con il paziente in termini di prognosi e durante la prescrizione di eventuali indagini diagnostiche. La raccolta dell’anamnesi ha quindi importanza fondamentale per l’approccio iniziale al FR, in quanto nella forma primitiva l’esordio è molto precoce, spesso in adolescenza, e sono interessate più frequentemente le giovani donne, che hanno spesso anche una storia familiare materna positiva per lo stesso problema. In questi casi, il FR interessa principalmente le mani e ha, di solito, un andamento benigno non causando, tranne in casi eccezionali, sintomatologia dolorosa durante gli attacchi e, soprattutto, non determinando lo sviluppo di ulcere digitali, che invece sono tipiche e molto suggestive della malattia sclerodermica. Di contro, il FR definito in termini medici come “secondario” poiché associato alla sclerosi sistemica, di solito ha un andamento molto più aggressivo dal punto di vista clinico, con interessamento bilaterale delle mani e importante sintomatologia dolorosa durante gli attacchi che, nei casi più gravi, possono determinare lo sviluppo di ulcere digitali o vere e proprie autoamputazioni delle falangi distali delle dita. Un ulteriore indizio, in questo caso, è la comparsa del fenomeno in età adulta o l’interessamento di soggetti di

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sesso maschile, che sono raramente interessati dalla forma primitiva. La forma secondaria precede di anni e, alcune volte, anche di decenni la comparsa delle altre manifestazioni cliniche tipiche della malattia sclerodermica, come l’ispessimento della cute delle estremità e del tronco, la comparsa di tumefazione diffusa delle dita definita anche puffy hands, l’interessamento dell’esofago con comparsa di difficoltà alla deglutizione, le alterazioni cardiopolmonari rappresentate principalmente dalla fibrosi e dall’ipertensione polmonare che provocano difficoltà respiratoria e, infine, le alterazioni facciali tipiche (teleangectasie e assottigliamento delle labbra e del naso) suggestive, tuttavia, delle fasi più avanzate di ScS. Fondamentali per la diagnosi differenziale tra forma primitiva (o isolata) e secondaria (associata a ScS o ad altre malattie del connettivo) sono due indagini: dosaggio degli autoanticorpi (ANA e anti-ENA) e capillaroscopia. Il dosaggio degli autoanticorpi, in particolare, ci permette di evidenziare una positività degli anticorpi anti-nucleo o ANA (suggestivi della presenza di un gruppo di patologie autoimmuni definite in senso lato come “connettiviti”) e di anticorpi diretti verso gli antigeni nucleari estraibili o ENA e, in particolare, anti-topoisomerasi I (o Scl-70) e anti-centromero, suggestivi di FR secondario a ScS. L’altra indagine fondamentale è l’esame capillaroscopico, in cui viene studiata al microscopio la morfologia delle anse capillari presenti a livello del letto ungueale. A differenza del FR primitivo, in cui il vasospasmo causato dal freddo è di natura “funzionale” e non sono evidenti alterazioni della normale morfologia dei capillari, nella ScS si evidenzia un’alterazione strutturale dei capillari stessi, che può essere seguita e studiata nelle sue varie fasi. È possibile caratterizzare l’attività di malattia in base all’aspetto morfologico dei capillari descrivendo così una fase precoce di malattia con lesioni iniziali caratterizzate soprattutto da megacapillari (early), una fase attiva da un punto di vista del danno vascolare con microemorragie (active) e, infine, una fase avanzata in cui i capillari stessi tendono a diradarsi o scomparire del tutto (late). È fondamentale, infine, che i pazienti eseguano l’esame in centri affidabili con esperienza nella metodica o che applichino una terminologia appropriata nella refertazione e che ripetano eventualmente l’esame sempre presso lo stesso centro, possibilmente con lo stesso

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operatore per evitare problemi di riproducibilità e affidabilità dell’esame capillaroscopico. In presenza di FR con un quadro clinico sospetto per ScS o per patologia del connettivo, è opportuno richiedere entrambi gli esami (autoanticorpi e capillaroscopia), inviando successivamente il paziente a uno specialista esperto. Come abbiamo detto, red flags a questo proposito sono la tumefazioni delle dita o puffy hands, la comparsa di ulcere digitali, la presenza di forte dolore durante gli attacchi e, soprattutto, la comparsa del fenomeno in età adulta. Di contro, in caso di negatività di entrambi, il soggetto affetto da FR può essere rassicurato poiché si tratta verosimilmente di una forma primitiva e, in tali casi, la possibilità che si possa trattare di un quadro sclerodermico è davvero bassa. Casi comunque molto sospetti vanno seguiti nel tempo e gli esami possono essere ripetuti a distanza di qualche anno anche in caso di negatività. È da sottolineare che, a differenza delle alterazioni capillaroscopiche che compaiono quando la malattia comincia a manifestarsi anche con sintomi diversi dal semplice FR, la presenza degli autoanticorpi può precedere anche di molti anni lo sviluppo di una ScS conclamata. La determinazione degli autoanticorpi su larga scala negli ultimi anni e, in particolare, per lo studio del FR, ha portato al riscontro sempre più frequente di positività degli anticorpi anti-centromero o degli anti-topoisomerasi in assenza, tuttavia, delle altre manifestazioni cliniche tipiche della ScS. In questi casi, soprattutto quando il FR è associato a puffy hands e a iniziali alterazioni capillaroscopiche, si parla di very early scleroderma. Se un intervento medico più o meno aggressivo in questa fase molto precoce di malattia possa diminuire il rischio di sviluppo di ScS conclamata, è ancora da chiarire e tuttora in fase di studio clinico. Che cosa è la Sclerosi Sistemica e quali i suoi principali coinvolgimenti d’organo? La ScS è una malattia autoimmune del tessuto connettivo a carattere sistemico. Sul piano istologico, la ScS si caratterizza per un danno a carico del

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rivestimento dei piccoli vasi (endotelio), per un processo infiammatorio perivascolare e per un’attivazione di particolari cellule, note come fibroblasti, capaci di produrre collagene, proteina costituente del tessuto connettivo. La sua esagerata produzione è responsabile della caratteristica clinica più saliente, ovvero l’indurimento della cute e degli organi interni con conseguente perdita di elasticità e disfunzione d’organo. La malattia si esprime clinicamente con tre fondamentali modalità: a) danno a carico dei vasi che si traduce nella comparsa del FR; tale fenomeno si verifica anche negli organi interni ed è alla lunga responsabile di un danno da riperfusione; b) indurimento cutaneo che può assumere una diversa distribuzione e che è responsabile della classificazione della ScS: diffusa (quando coinvolta la cute del corpo intero) o limitata (quando l’interessamento cutaneo si estende solo al terzo distale degli arti superiori e inferiori e al volto, che assume un aspetto del tutto caratteristico con riduzione della rima buccale, dello spessore delle labbra e di teleangectasie); c) interessamento di organi interni: polmoni, cuore, reni ed esofago principalmente. L’interessamento polmonare è certamente il più importante e si esprime con due modalità distinte: la prima caratterizzata da un processo infiammatorio che esita in fibrosi, cui consegue la perdita della capacità elastica. Questo tipo di interessamento è più tipico della variante diffusa. Oltre a indagini strumentali, molto importanti risultano le prove di funzionalità respiratoria, assai utili nel monitorare la funzionalità polmonare nel tempo. La seconda modalità è rappresentata da un’infiammazione dei piccoli vasi che portano il sangue al polmone dalle sezioni destre del cuore; l’infiammazione dei vasi porta a un restringimento del lume, generando così una maggiore pressione al loro interno con ripercussione sul cuore stesso. Tale coinvolgimento compare prevalentemente nella variante limitata e si presenta tardivamente nella storia naturale della malattia. Tuttavia, dal momento della comparsa dell’ipertensione arteriosa polmonare (Pulmonary Arterial Hypertension, PAH) la prognosi diventa peggiore e assimilabile a quella della ScS diffusa. La diagnosi, in questo caso, si avvale di un’ecografia cardiaca e si conferma con l’esecuzione di cateterismo, manovra invasiva ma, ad oggi, se condotta da mani esperte, non particolarmente traumatica per il paziente.

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L’interessamento cardiaco è anch’esso molto importante e può essere legato alla malattia, secondario alla PAH o a ipertensione arteriosa correlata frequentemente a danno renale. Possono essere presenti anche aritmie più o meno pericolose e modesti versamenti pericardici. L’interessamento iniziale del miocardio e, in particolare, delle sezioni destre, si evidenzia bene con risonanza magnetica cardiaca che, tuttavia, deve essere eseguita da esperti nel settore. Il coinvolgimento renale si esprime essenzialmente con la cosiddetta crisi sclerodermica che consiste nella comparsa di ipertensione arteriosa non facilmente dominabile e rapida perdita della funzione renale; gli ACE-inibitori a dosi generose riescono a controllare generalmente tale complicanza. L’interessamento esofageo è molto frequente e, in alcuni pazienti, di difficile gestione clinica; nelle prime fasi si svela soltanto con la manometria esofagea e, successivamente, anche con una radiografia dell’esofago con mezzo di contrasto per bocca, che mostra le classiche alterazioni. Dirimente, in alcuni casi, l’esecuzione di esofago-gastro-duodenoscopia. Disturbi della motilità possono essere presenti anche a livello del colon fino a quadri di pseudo-occlusione; in questi casi, occorre mettere in atto tutte le norme utilizzate in soggetti con stipsi e ricorrere anche a procinetici di ultima generazione. Un farmaco che ha mostrato una certa utilità è l’eritromicina. Localizzazioni minori sono caratterizzate da fasciti a carico della pianta dei piedi e da sindromi neurologiche da intrappolamento. La terapia topica delle ulcere sclerodermiche con calcinosi, un problema di difficile risoluzione? Le ulcere cutanee rappresentano una manifestazione clinica particolarmente significativa per i pazienti affetti da ScS. Le alterazioni del letto vascolare, che spesso hanno nel FR la loro prima manifestazione clinica, rappresentano la base patogenetica della maggior parte delle ulcere e, pertanto, il trattamento delle ulcere cutanee del paziente sclerodermico si basa principalmente sull’uso di terapie che hanno come obiettivo il miglioramento della perfusione del letto capillare. Nella cute dei pazienti affetti da ScS, tramite meccanismi complessi, alle

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alterazioni vascolari possono associarsi anche modificazioni propriamente cutanee, con iniziali aspetti infiammatori e con un’abnorme deposizione di collagene e proteine della matrice extracellulare che tende a indurre un quadro di sclerosi. Pertanto, nella lenta evoluzione della malattia, la cute tende a presentare un’accentuata consistenza e a presentarsi lucida, iperpigmentata e difficilmente sollevabile in pliche. A tali alterazioni cutanee si associa frequentemente una ridotta presenza di tessuto adiposo sottocutaneo. In una certa percentuale di pazienti, inoltre, nell’evoluzione delle manifestazioni cutanee può presentarsi un fenomeno noto come calcinosis cutis o calcinosi cutanea. Tale fenomeno consiste nel deposito a livello sottocutaneo di cristalli di idrossiapatite di calcio che avviene più frequentemente a livello delle mani e dei piedi, ma che può interessare anche altre sedi para-articolari o il tessuto sottocutaneo in generale. Tali depositi possono progressivamente ulcerare la cute sovrastante, provocando la fuoriuscita di materiale biancastro e una sintomatologia dolorosa particolarmente intensa. La terapia topica della calcinosi cutanea e delle relative ulcerazioni è particolarmente impegnativa e deve essere condotta in ambiente specialistico. All’ulcera cutanea semplice tendono a sovrapporsi con una certa frequenza processi infettivi. La cura di tali infezioni è indispensabile per un trattamento veramente efficace delle ulcere. L’esame clinico da parte di personale esperto è di solito sufficiente per individuare la presenza di un processo infettivo in atto, ma è generalmente indicata l’esecuzione di un tampone della lesione con relativo esame colturale, per poter individuare il microrganismo responsabile dell’infezione e scegliere una terapia antibiotica mirata. Di fondamentale importanza è anche l’esecuzione di una corretta toilette dell’ulcera. A tale proposito, in linea generale, è indicato l’utilizzo di idrocolloide, bendaggi occlusivi e altri presidi medici il cui uso deve essere deciso in base alla fase specifica di evoluzione della lesione. Traumi o microtraumi a livello delle zone lesionate possono favorire il perdurare delle lesioni. Il trattamento medico della calcinosi cutanea non è ad oggi ben codificato e, pertanto, non si basa su linee guida internazionali ma su studi condotti su un ridotto numero di pazienti o su singoli casi clinici. L’obiettivo principale della terapia medica non è tanto la risoluzione definitiva della calcinosi, quanto il controllo della sintomatologia ad essa correlata. I farmaci cosiddetti

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calcio-antagonisti e, in particolare, il diltiazem sembrano in grado di indurre una regressione almeno parziale delle lesioni cutanee, verosimilmente attraverso la loro azione sul letto vascolare circostante le lesioni, con una riduzione del danno e del ciclo di calcificazione tissutale. Anche la colchicina e il probenecid, farmaci tradizionalmente utilizzati nella gotta, ma anche in altre patologie infiammatorie/autoimmuni, sono stati utilizzati in alcuni singoli casi di calcinosi cutanea, con risultati contrastanti. L’infusione di immunoglobuline umane per via endovenosa sembra aver dato risultati incoraggianti in un caso di sclerosi sistemica con variante cutanea limitata, sebbene tale terapia immunomodulante si sia rivelata di dubbia efficacia in forme di calcinosi associate ad altra malattia autoimmune. Anche i bifosfonati, normalmente utilizzati nella terapia dell’osteoporosi in virtù della loro capacità di inibire il turnover del calcio, sono stati usati per il trattamento della calcinosi cutanea con risposte solo parziali. Numerosi altri farmaci, come il warfarin, la minociclina o l’idrossido di alluminio, sono stati impiegati per la cura della calcinosi cutanea in singoli pazienti o in studi clinici di ridotte dimensioni. Nel complesso, i dati ad oggi presenti in letteratura, rivelano che non esiste alcuna terapia medica di sicura efficacia per il trattamento di questa complicanza. Tuttavia, un notevole numero di farmaci sembrano presentare buone potenzialità e dovranno essere valutati approfonditamente in studi clinici di più ampie proporzioni. Un ostacolo non indifferente è rappresentato, come evidente, dal ristretto numero di casi e dalle modeste conoscenze attualmente disponibili riguardo ai complessi meccanismi patogenetici della calcinosi cutanea. Nel caso di forme resistenti al trattamento medico, può essere indicato anche un approccio di tipo chirurgico con rimozione del tessuto necrotico e delle aree di calcinosi. Secondo alcuni studi clinici, l’approccio chirurgico sarebbe da preferire in prima istanza in alcune specifiche forme localizzate. Oltre all’approccio chirurgico tradizionale, sono state applicate tecniche di curettage laser e di litotrissia extracorporea a onde d’urto con risultati promettenti. In un singolo caso di calcinosi cutanea in corso di sclerodermia localizzata, è stato riportato un netto miglioramento dopo iniezione intralesionale di corticosteroidi. In una percentuale di casi non indifferenti, le ulcere cutanee tendono a ri-

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solversi, pur rimanendo presente la sottostante calcinosi. Il trattamento delle ulcere cutanee non può prescindere, ovviamente, dal trattamento sistemico della malattia. Tuttavia, secondo alcuni studi, l’estensione e la gravità della calcinosi cutanea non sono correlate con l’attività di malattia in generale. In altre parole, un paziente che presenta una calcinosi cutanea severa non è necessariamente affetto da una ScS grave o in fase attiva. La depressione e i deficit cognitivi del paziente sclerodermico sono problemi da non sottovalutare e da affrontare? I disturbi del tono dell’umore sono spesso presenti nei pazienti con ScS. Si stima che il 36–65% dei pazienti affetti da tale patologia soffra di ansia o presenti sintomi depressivi; percentuale molto elevata se paragonata con quelle di altre patologie croniche come il diabete mellito, la broncopneumopatia cronica ostruttiva o l’artrite reumatoide. Una spiegazione di ciò, sicuramente, la possiamo ritrovare nel grande impatto che la ScS ha sul fisico dei pazienti affetti da questa malattia e che si può ripercuotere sia sugli aspetti funzionali che su quelli relazionali della persona, favorendo così un progressivo deterioramento della qualità della vita e l’insorgenza di problematiche psicologiche. La ScS è una malattia che può portare a una vera e propria disabilità fisica e psichica e che può determinare una grande difficoltà a integrarsi nell’ambiente familiare, lavorativo e sociale. È, infatti, la gravità della malattia, intesa come la percezione che il singolo individuo ha della propria malattia, piuttosto che il reale coinvolgimento d’organo (anche se spesso le due cose vanno di pari passo), la determinante maggiore nel favorire l’insorgenza di questi disturbi dell’umore. Nei pazienti sclerodermici sarebbe quindi opportuno affiancare alla valutazione prettamente clinica della malattia, anche una valutazione psicologica per identificare i soggetti a rischio e poter così attuare un adeguato supporto psico-fisico e sociale. Il confronto, la condivisione, il sostegno dovrebbero essere parte integrante della terapia di questa patologia che, se affrontata sia dal punto di vista medico che psicologico in modo adeguato, potrà essere vissuta dal paziente in maniera più serena. Infine, aspetto raro ma da dover comunque indagare in caso di disturbi del tono dell’umore, cognitivi o comportamentali nei pazienti con ScS, è il coin-

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volgimento del sistema nervoso centrale (SNC) in corso di malattia. L’interessamento neurologico in corso di ScS non è comune e solitamente coinvolge il sistema nervoso periferico (SNP); sono però riportati casi di coinvolgimento cerebrale che hanno determinato manifestazioni psichiatriche e problemi cognitivi. Valutare la natura organica di un disturbo psichiatrico rappresenta ancora una sfida per il futuro, anche se nuove tecniche di neuroimaging, contestualizzate nell’ambito di una più ampia valutazione clinica e laboratoristica, sono risultate importanti per evidenziare una causa organica di un disturbo psichiatrico. Anche da ciò emerge la complessità di questa malattia e la necessità di doverla affrontare in ogni suo aspetto, da quello scientifico a quello umano; solo approcciando la malattia in modo multidisciplinare si potrà rispondere in maniera completa alle problematiche dei pazienti con ScS, comprese quelle della sfera neuropsicologica. La Sclerosi Sistemica può guarire? Quali le promettenti novità terapeutiche in un futuro non lontano? 78

La terapia della ScS ha compiuto negli ultimi anni un importante salto in avanti, garantendo ai pazienti che ne sono affetti traguardi in passato difficilmente immaginabili. La ScS rimane, tuttavia, ancora oggi una delle patologie del sistema immunitario con le complicanze d’organo più severe e di difficile gestione, capaci di compromettere l’andamento della malattia sia in termini di morbilità che di mortalità. La sopravvivenza totale riportata nelle maggiori casistiche è del 90% circa a 5 anni dalla diagnosi ed elementi in grado di condizionare la prognosi sono rappresentati dalla variante di malattia (diffusa peggiore della limitata), dal genere (maschile peggiore di quello femminile) e dal tipo di danno d’organo. Tra le maggiori cause di mortalità legate alla patologia ritroviamo quelle secondarie, principalmente, all’interessamento cardiopolmonare; il coinvolgimento del circolo arterioso polmonare, ad esempio (in particolare nella sua variante detta limitata), è in grado di determinare PAH, che rappresenta un interessamento temibile, con tassi di sopravvivenza in alcune casistiche di poco superiori al 50% a tre anni dalla diagnosi, talvolta anche se ben trattata.

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Un altro interessamento d’organo particolarmente temibile è rappresentato da quello renale, che può variare da alterazioni sub-cliniche (che possono interessare fino al 50% dei pazienti), fino alla cosiddetta crisi renale sclerodermica (CRS) e all’insufficienza renale terminale. La CRS sembra essere correlata alla presenza di un particolare tipo di auto-anticorpi (anti-RNA polimerasi III), sembra essere precipitata dalla terapia con alte dosi di corticosteroidi sistemici e risponde solitamente, invece, a dosi generose di ACE-inibitori [3]. Le terapie a disposizione, ad oggi, per combattere la ScS riflettono in buona sostanza le conoscenze sulla patogenesi del danno di malattia e possono essere suddivise sostanzialmente in 3 categorie principali: a) farmaci vasoattivi; b) farmaci immunomodulanti classici/nuove molecole bersaglio; e c) anti-fibrotici: a) Farmaci vasoattivi: tra i farmaci con attività vascolare troviamo i calcio antagonisti; in particolare, quelli diidropiridinici sono in grado di ridurre la frequenza e la gravità degli episodi di FR e sono da considerare, per questo, farmaci di prima linea. Anche gli analoghi della prostaciclina, soprattutto se somministrati per via endovenosa, hanno una buona efficacia sia nel ridurre il FR, sia nella guarigione delle ulcere; minore, invece, il loro impatto sulla PAH. Altre classiche opzioni terapeutiche per il FR sono gli alfa-litici e la nitroglicerina. Tra le molecole più recenti attive sui vasi sono da ricordare gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (sildenafil, tadalafil e vardenafil), efficaci sul FR, mentre l’antagonista non selettivo del recettore dell’endotelina (bosentan) è in grado di ridurre la comparsa di nuove ulcere, ma non permette la guarigione di quelle già esistenti. Nettamente migliorata la prognosi della PAH grazie all’utilizzo degli inibitori selettivi e non selettivi dell’endotelina-1 e degli inibitori della fosfodiesterasi 5. Una diagnosi sempre più precoce, con un conseguente intervento terapeutico più tempestivo consentono sia una maggiore sopravvivenza che una migliore qualità di vita. b) Farmaci immunomodulanti/nuove molecole bersaglio: tra i farmaci ad attività immunosoppressiva, il methotrexate è indicato nella forme con interessamento articolare o muscolare miositico e, secondo le indicazioni EULAR, nelle forme cutanee diffuse nelle fasi precoci. La ciclofosfamide

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si è dimostrata efficace nel trattamento a breve/medio termine nell’interessamento interstiziale del polmone; anche il micofenolato ha mostrato benefici in questa localizzazione d’organo, così come nel miglioramento della sintomatologia cutanea. Anche gli inibitori della calcineurina (ciclosporina e tacrolimus) sono stati utilizzati nelle manifestazioni cutanee di malattia. L’utilizzo dei cosiddetti farmaci biologici ha mostrato ad oggi luci e ombre nel contrastare la malattia; non esistono al momento solidi studi clinici controllati per valutare l’efficacia dell’anticorpo monoclonale anti-CD20 o meno ancora di quello rivolto contro il recettore dell’IL-6, ma una qualche efficacia è stata dimostrata per il primo, mentre gli elevati livelli di IL-6 a livello sierico e cutaneo di pazienti con ScS fanno ben sperare per il secondo. Gli anti-TNF alfa possono avere un ruolo nel migliorare l’artrite nei pazienti con sclerodermia, mentre il loro ruolo nel migliorare gli scores cutanei rimane dubbio. c) Farmaci anti-fibrotici: la D-penicillamina a bassi dosaggi sembra migliorare l’interessamento cutaneo, con effetti collaterali accettabili; l’utilizzo di alte dosi del farmaco sembrerebbe in un recente studio retrospettivo determinare, oltre che un miglioramento a livello cutaneo, anche a livello cardio-polmonare e renale a scapito, però, di maggiori effetti collaterali. La fototerapia, negli stadi inziali del processo fibrotico, sembra avere una qualche efficacia clinica. Molte sono a diverso titolo le altre molecole ad attività anti-fibrotica, ma nessuna ha dimostrato ad oggi una sicura efficacia. In particolare, gli anti-PDGF potrebbero in futuro dimostrarsi molecole interessanti per la loro attività su diversi fattori di trascrizione. Il trapianto di cellule staminali autologhe rappresenta, infine, un approccio differente alla malattia, andando a interferire non con il meccanismo del singolo danno d’organo, ma agendo a livello più ampio; i risultati sembrano incoraggianti, al momento soprattutto in pazienti selezionati, per quanto riguarda sia l’interessamento cutaneo che per la stabilizzazione dell’impegno d’organo.

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CAPITOLO 9 GRANULOMATOSI CON POLIANGIOITE (DI WEGENER) domanda Andrea Fusi rispondono Stefano Bombardieri, Chiara Baldini e Francesco Ferro

Qual è la definizione della Granulomatosi di Wegener? La Granulomatosi con poliangioite (GPA, ex Granulomatosi di Wegener) è una vasculite sistemica a eziologia sconosciuta e a patogenesi autoimmune che interessa prevalentemente i vasi di piccolo e medio calibro e la cui lesione anatomopatologica peculiare è rappresentata dal granuloma (classificazione di Chapel Hill Consensus Conference, CHCC, 1992) [1, 2]. Anche se i meccanismi eziopatogenetici sono tuttora poco conosciuti, un ruolo fondamentale è svolto da particolari autoanticorpi diretti contro i costituenti citoplasmatici dei neutrofili e, in particolare, contro la proteinasi-3 (cANCA o ANCA-PR3) che, in soggetti geneticamente predisposti e a seguito di insulti ambientali (virus, batteri, farmaci, tossine), sono in grado di causare, promuovere e sostenere il danno immunomediato [3–6]. È una malattia rara, con una prevalenza di circa 3 casi su 100.000 abitanti in Europa e Nord America e di circa 16 su 100.000 nel paese a più alta prevalenza, la Svezia; molti studi hanno dimostrato una stretta correlazione tra

S. Bombardieri () • C. Baldini () • F. Ferro () Unità Operativa Reumatologia, Università di Pisa [email protected] [email protected] [email protected] A. Fusi () AMA - Associazione Malattie Autoimmuni [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_9, © Springer-Verlag Italia 2013

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tale malattia e l’incidenza di infezioni sostenute da particolari batteri particolarmente comuni ad alcune latitudini. Interessa la popolazione maschile e femminile con uguale frequenza (lieve prevalenza femminile) con esordio compreso tra la quarta e la quinta decade di vita, anche se può presentarsi in qualsiasi età (15% in età pre-puberale) [7–9]. In un paziente con rinite persistente esistono altri sintomi associati che possono far sospettare la granulomatosi di Wegener?

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L’interessamento delle vie aeree superiori è probabilmente una delle manifestazioni più comuni e più precoci della GPA. L’impegno otorinolaringoiatrico ha infatti una prevalenza che varia dal 72 al 99% e in oltre il 50% dei casi il coinvolgimento delle prime vie respiratorie rappresenta la prima manifestazione clinica della vasculite [10–12]. I pazienti possono riferire inizialmente sintomi aspecifici quali rinite persistente e secchezza della mucosa nasale, epistassi recidivanti, rinorrea purulenta, iposmia, dolore; all’esame clinico è comune il riscontro di crostosità nasali tenaci e dolorose, ulcere della mucosa nasale fino a perforazione del setto; segno classico di malattia è l’erosione delle cartilagini nasale per il quadro di condrite cronica con la deformità classica del naso a sella [12]. Reperto molto tipico, sebbene più raro, è rappresentato dalla stenosi subglottica dovuta all’accrescimento circonferenziale della mucosa laringo-tracheale distale al piano glottico che causa dispnea progressiva con stridore laringeo e modificazione/riduzione del timbro della voce; la diagnosi è bioptica e richiede lo studio fibrobroncoscopico e istologico della lesione [10– 12]. Le manifestazioni a carico del sistema oto-vestibolare sono presenti invece nel 24–50% dei casi con lesioni a carico dell’orecchio medio, soprattutto otiti medie acute e croniche per la presenza di tessuto granulomatoso che interessa la mucosa delle tube di Eustachio, il nasofaringe, la mastoide e l’orecchio medio. I sintomi sono caratterizzati da dolore auricolare con secrezione purulenta a cui possono associarsi perdita più o meno rapida dell’udito (anche per interessamento vasculitico del sistema cocleare) e paralisi del nervo facciale (anche bilaterale) [10–12]. Seppure così frequente, l’impegno delle prime vie aeree raramente rimane

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un sintomo isolato di malattia nella GPA. Al pari di quanto si verifica nelle altre vasculiti sistemiche, fin dall’esordio i pazienti possono, infatti, presentare febbre, calo ponderale, malessere, astenia, manifestazioni articolari e sviluppare precocemente manifestazioni, prognosticamente più severe, polmonari e renali [12]. L’interessamento polmonare è estremamente pleomorfo e la sintomatologia è spesso simile a quella di infezioni polmonari croniche atipiche [13–17]. La vasculite renale dà luogo, invece, a una glomerulonefrite segmentale necrotizzante pauci-immune, talora con caratteristiche proliferative, che si presenta nella maggior parte dei casi come sindrome nefritica; micro/macroematuria, ipertensione arteriosa, riduzione della funzione renale e proteinuria di entità variabile ne rappresentano le manifestazioni cliniche classiche. L’evoluzione verso l’insufficienza renale rappresenta ancora oggi una delle complicanze più temibili in termini di morbilità e mortalità legate alla GPA [3, 4]. Altri organi potenzialmente interessati sono la cute (porpora palpabile, ulcere e noduli sottocutanei), il sistema nervoso per interessamento dei vasa nervorum (mononeuriti multiple, neuropatia periferica, meningite asettica) e l’occhio. L’interessamento dell’occhio e/o delle strutture orbitarie è relativamente frequente nella GPA e nel circa 20% dei casi si presenta all’esordio della malattia. Le manifestazioni oftalmiche dell’infiammazione sono molto variabili; tra le forme più frequenti ricordiamo la sclerite (a volte necrotizzante) accompagnata o meno da cheratopatia, l’episclerite, le congiuntiviti e le ulcere corneali, le ostruzioni del dotto nasolacrimale e, tra le forme più temibili, sicuramente l’interessamento vascolare con vasculite retinica (dell’arteria retinica, meno frequentemente delle vene retiniche) e la neurite ottica che possono condurre all’irreversibile e a volte improvvisa perdita del visus. Non rara la proptosi del bulbo oculare per formazione di tessuto granulomatoso retrobulbare [3, 4, 10–16]. Il coinvolgimento polmonare è sempre presente? E come si manifesta? L’interessamento polmonare è presente in oltre il 90% dei pazienti con GPA. Al pari di quanto avviene nelle altre vasculiti ANCA correlate, l’impegno polmonare è quindi estremamente comune e addirittura, in alcune forme

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“fruste a espressione incompleta”, il polmone può rimanere l’unico organo colpito dalla malattia nel 9% dei casi [13, 14]. Le manifestazioni anatomopatologiche e cliniche dell’impegno polmonare in corso di GPA sono molto variabili e spaziano da quadri di interstiziopatia subclinica a quadri di alveolite polmonare con emottisi fulminante per vasculite emorragica massiva (7–45%) [15, 16]. Il quadro polmonare più tipico della GPA, tuttavia, è quello caratterizzato dalla presenza di lesioni nodulari multiple o singole che tendono alla progressiva cavitazione. Il riscontro radiografico di addensamenti polmonari spesso escavati, recidivanti e non responsivi alle terapie antibiotiche è considerato, infatti, la manifestazione più tipica di GPA e fa sì che la malattia entri in diagnosi differenziale con numerose malattie infettive a espressione polmonare e, soprattutto di fronte a lesioni isolate, con le neoplasie polmonari. Clinicamente, il quadro che contraddistingue l’impegno polmonare in corso di GPA può essere estremamente eterogeneo: spesso è dominato da tosse produttiva, cronica, talvolta con espettorato striato di sangue associata a dolore toracico e dispnea [14]. Oltre al quadro degli addensamenti nodulari, in corso di GPA, non è comunque raro anche il riscontro di un quadro di interstiziopatia polmonare diffusa (in particolare alle basi) associato a ipertensione polmonare con immagini radiologiche TAC a “vetro smerigliato” in particolare alle basi, bronchiectasie e distorsioni della struttura architettonica dell’albero bronchiale; tutto ciò espone a sovrainfezioni batteriche che spesso ostacolano e deviano il percorso diagnostico-terapeutico, se al quadro radiografico si associano inoltre linfoadenopatie ilari e mediastiniche [14]. Esistono marcatori specifici di malattia? Nella GPA, come nella maggior parte delle altre vasculiti, biomarcatori clinici e sierologici specifici per la malattia sono purtroppo ancora da identificare. Ciò rende l’iter diagnostico estremamente complesso e può ritardare l’adozione delle strategie terapeutiche più efficaci per il controllo della malattia [15, 16]. Il marker sierologico della GPA è comunque tradizionalmente rappresentato dagli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA) che hanno un

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pattern citoplasmatico (c-ANCA) all’immunofluorescenza indiretta su neutrofili fissati in etanolo e presentano specificità anti-proteinasi 3 alle metodiche immunoenzimatiche (ANCA-PR3). Gli ANCA sono positivi nel 90% dei pazienti con malattia attiva. La specificità del test è del 98%, anche se l’identificazione di falsi positivi è in aumento (TBC, altre infezioni, neoplasie) [5, 6, 17–19]. La positività dei c-ANCA nei soggetti con GPA scende al 50% nei pazienti in remissione clinica [5, 17]. Analogamente, quando la malattia è confinata al tratto respiratorio, senza segni sistemici di vasculite, la sensibilità degli ANCA è del 67%. Infine, esiste una piccola percentuale di soggetti (~5%), che mostra positività dei p-ANCA o ANCAMPO, pattern autoanticorpale perinucleare con specificità per la mieloperossidasi neutrofila [15–17]. Gli ANCA sembrano avere non solo un valore diagnostico ma anche eziopatogenetico, tanto da essere divenuti recentemente bersaglio delle nuove terapie biologiche [17]. Gli anticorpi anticitoplasma dei neutrofili sono ritenuti in grado di indurre e perpetuare il danno tissutale sia direttamente, sia stimolando la degranulazione e l’attività infiammatoria dei neutrofili. È meno chiaro quali siano i meccanismi che portano alla produzione degli ANCA. In soggetti geneticamente predisposti, l’infezione da parte di batteri (es. cocchi Gram positivi) a carico delle vie aeree è ritenuta il trigger necessario, ma non sufficiente, a innescare il meccanismo disimmune alla base della produzione autoanticorpale; sembrano, tuttavia, essere i linfociti T i responsabili della reazione autoimmune di ipersensibilità e dell’induzione del danno tissutale progressivo e cronicizzante con un meccanismo Th1-mediato [5, 17]. Nonostante la presenza comune degli ANCA nei pazienti con GPA, la diagnosi di malattia ad oggi non può prescindere dalla dimostrazione istologica di vasculite granulomatosa necrotizzante in campioni bioptici appropriati ottenuti da pazienti che presentano sintomi e/o segni di interessamento del tratto aereo superiore e inferiore associati alla presenza di glomerulonefrite [15, 16]. Campioni di parenchima polmonare, preferibilmente ottenuti mediante biopsia chirurgica, offrono le maggiori possibilità diagnostiche dal momento che rivelano la presenza di vasculite granulomatosa in un’elevata percentuale di casi. Biopsie ottenute dal tratto respiratorio superiore mostrano infiammazione granulomatosa con necrosi ma possono non evidenziare la pre-

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senza di vasculite. Il reperto di vasculite granulomatosa e/o necrotizzante dei vasi di piccolo e medio calibro rappresenta quindi il biomarcatore istologico di malattia [17]. Gli ANCA non rientrano neppure nei criteri classificativi della GPA. I criteri a tutt’oggi utilizzati sono quelli dell’American College of Rheumatology (ACR) che comprendono 3 criteri clinici e uno anatomopatologico [1]: • flogosi nasale e orale: sviluppo di ulcere del cavo orale, dolorose o non dolorose o secrezione nasale purulenta e sanguinolenta; • alterazioni radiologiche polmonari: presenza di noduli, infiltrati fissi o lesioni cavitarie; • alterazioni del sedimento urinario: microematuria (> 5 emazie per campo a forte ingrandimento) o cilindri ematici; • alterazioni bioptiche di tipo granulomatoso: flogosi granulomatosa nelle pareti di un’arteria/arteriola o in sede perivascolare o extravascolare. La presenza di 2 o più criteri suggerisce la presenza di Granulomatosi di Wegener (sensibilità 88,2% e specificità 92%). In conclusione, nella sua presentazione tipica, il complesso sintomatologico della GPA ne rende abbastanza semplice la differenziazione dalle altre malattie; al contrario, se tutti gli aspetti tipici non sono presenti fin dall’esordio, è necessario differenziarla dalle altre vasculiti, dalla sindrome di Goodpasture, da neoplasie delle vie aeree, da malattie granulomatose infettive e non. È quindi auspicabile che l’identificazione di nuovi biomarcatori di malattia possa implementare l’algoritmo diagnostico della stessa. Sono stati compiuti progressi negli ultimi anni nella terapia della granulomatosi di Wegener? La terapia della GPA e delle altre vasculiti ANCA correlate ha subito nel corso dei decenni profondi cambiamenti con ripercussioni importanti sulla mortalità e la morbilità dei pazienti [3, 12, 15, 16]. Tali conquiste terapeutiche sono state prima il frutto dell’introduzione nell’armamentario terapeutico del cortisone e della ciclofosfamide e più recentemente, invece, dell’utilizzo dei nuovi farmaci immunosoppressori biotecnologici, in parti-

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colare gli agenti anti-TNF e anti-CD20 che hanno fornito risultati particolarmente incoraggianti [18–22]. Nel 1936, quando Friedrich Wegener caratterizzò la GPA, il tasso di sopravvivenza a 1 anno non superava il 10% degli affetti, mentre oggi il 70–90% dei pazienti ha un’aspettativa di vita superiore a 5 anni [21]. Le terapie si distinguono sostanzialmente sulla base della fase di malattia in terapia di induzione e terapia di mantenimento; la prima mira a interrompere (o meglio rallentare) i processi infiammatori su base autoimmunitaria che sostengono la malattia, la seconda a mantenere tale fase di relativo benessere e controllo della malattia nel tempo. A queste due importanti fasi terapeutiche bisogna aggiungere la terapia delle riacutizzazioni e delle forme refrattarie alla terapia convenzionale [18–22]. Pressoché la totalità degli autori sono concordi nel considerare i capisaldi della terapia di induzione della GPA il cortisone ad alte dosi e la ciclofosfamide per os o in somministrazione pulsatile [21]. Farmaci immunosoppressori “tradizionalmente” considerati come meno tossici quali il methotrexate o l’azatioprina vengono riservati all’induzione delle forme meno severe di malattia o al mantenimento della remissione [21]. Gli sforzi internazionali dei trials condotti negli ultimi anni hanno mirato a identificare nuovi farmaci efficaci quanto il cortisone e la ciclofosfamide, ma gravati da minore tossicità. Il risultato più importante emerso dai trials più recenti è quello relativo al ruolo del Rituximab nell’induzione della remissione della GPA. Il Rituximab (farmaco biologico anti-CD20) ha dimostrato efficacia pari alla ciclofosfamide nel controllo della attività di malattia ma apparentemente una minore tossicità (specie a livello gonadico) rispetto alla ciclofosfamide. Solo trials futuri tuttavia potranno meglio “personalizzare” la terapia della malattia, adattando l’utilizzo del singolo farmaco al singolo paziente [18–22]. È vero che recentemente è stato cambiato il nome a questa malattia? Perché? La comunità scientifica internazionale ha recentemente modificato il termine “Granulomatosi di Wegener” in Granulomatosi con Poliangioite (GPA) [23].

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Le motivazioni che hanno portato a questo cambiamento della nomenclatura sono molteplici. Il termine “Granulomatosi di Wegener” fu introdotto nel 1954 e fu proposto in onore del Dottor Friedrich Wegener, uno dei primi medici che descrissero la patologia. Anche se non fu Wegener il vero “scopritore” di questa malattia, il suo contributo fu essenziale per altri medici che successivamente riuscirono a definirne l’eziologia e le caratteristiche fisiopatologiche. La comunità scientifica si è chiesta negli ultimi decenni se fosse giusto assicurare l’immortalità a medici e clinici seguaci dell’eugenismo e della segregazione razziale che, nella Germania di Hitler, misero le loro competenze al servizio dell’Olocausto o che, ancora, utilizzarono il “materiale umano” dei campi di sterminio per le loro disumane sperimentazioni. È il caso Friedrich Wegener, appunto, direttore dell’Istituto di Patologia di Lodz, che sarebbe stato implicato nella selezione e nella deportazione degli ebrei del ghetto verso le camere a gas oltre che descrivere la vasculite granulomatosa che da lui prese il nome. La necessità di evitare gli eponimi non è stato l’unico input che ha portato a modificare la nomenclatura delle vasculiti [23]. Le nuove acquisizioni patogenetiche hanno infatti enfatizzato la necessità di utilizzare anche nella nomenclatura internazionale termini che permettessero di descrivere in modo globale i diversi volti di questa patologia, dall’aspetto più vasculitico a quello granulomatoso. Il risultato degli sforzi internazionali si è concretizzato recentemente nell’elaborazione del termine Granulomatosi con Poliangioite (GPA) [23].

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CAPITOLO 10 GRANULOMATOSI EOSINOFILA CON POLIANGIOITE (SINDROME DI CHURG-STRAUSS) domanda Simonetta Ciarapica risponde Lorenzo Emmi

Tutti i pazienti con asma bronchiale possono sviluppare Sindrome di Churg-Strauss? L’asma bronchiale (AB) è una malattia ostruttiva delle vie aeree relativamente frequente, mentre la Granulomatosi eosinofila con poliangioite (Eosinophilic Granulomatosis with Polyangiitis, EGPA), più nota come Sindrome di Churg-Strauss, rientra tra le malattie rare; infatti, solo una percentuale molto bassa di pazienti con AB svilupperà nel tempo una EGPA; tuttavia, l’asma è presente nel 98–100% dei pazienti con EGPA. Dal punto di vista epidemiologico, si stima un numero di nuovi casi di EGPA pari a 0,11–2,66/1 milione di abitanti per anno con una prevalenza pari a 10–15/1 milione di abitanti [1, 2]. Colpisce indistintamente uomini e donne, anche se alcuni studi hanno evidenziato una maggiore incidenza nel genere maschile, manifestandosi a qualsiasi età, con un picco tra i 38 e i 54 anni [3]. L’EGPA è una patologia infiammatoria sistemica caratterizzata dalla presenza di AB, aumento consistente degli eosinofili circolanti (un particolare

L. Emmi () SOD Patologia Medica, Centro di Riferimento Regionale Malattie Autoimmuni Sistemiche Behçet Center e Lupus Clinic, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze [email protected] · [email protected] S. Ciarapica () AMA - Associazione Malattie Autoimmuni [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_10, © Springer-Verlag Italia 2013

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tipo di globuli bianchi), ma anche da rinosinusite cronica e infiltrati polmonari fugaci, interessamento del sistema nervoso periferico, della cute, del cuore, dei reni e del tratto gastroenterico. Ovviamente, in uno stesso paziente raramente sono presenti in maniera contemporanea tutte le manifestazioni suddette. Dal punto di vista istologico la sindrome è caratterizzata da una vasculite, ovvero un processo infiammatorio a carico dei vasi di piccolo calibro (arteriole e venule) costituito da un infiltrato ricco di eosinofili e da granulomi extravascolari. La EGPA è dovuta a una profonda disregolazione del sistema immunitario, caratterizzata da un alterato rapporto tra linfociti T (un altro tipo di globuli bianchi) ed eosinofili. Questi ultimi risultano pertanto aumentati di numero, attivati e soprattutto in grado di raggiungere gli organi bersaglio e provocare il danno mediante la liberazione di proteine citotossiche. Tradizionalmente e in maniera un po’ accademica, nell’ambito della EGPA sono state distinte tre fasi anatomo-cliniche che, peraltro, frequentemente si sovrappongono. La prima fase è caratterizzata dalla comparsa di AB, spesso a insorgenza in età adulta e a decorso severo con scarsa risposta alla terapia tradizionale compresi i cortisonici per via sistemica. È caratteristica inoltre un’ipereosinofilia più spiccata di quanto non si ritrovi nell’AB non complicato. È anche presente rinite (frequentemente allergica) e/o rinosinusite con o senza poliposi nasale. Questa fase può durare mesi o anni. Nella seconda fase, l’AB frequentemente va incontro a un graduale miglioramento clinico, mentre inizia il coinvolgimento dei vari organi e apparati dovuto a una massiva infiltrazione eosinofila e, in questa fase, il valore degli eosinofili circolanti può ulteriormente aumentare. Le manifestazioni cliniche sono caratterizzate da infiltrati polmonari fugaci frequentemente scambiati per polmoniti e trattati per molto tempo senza successo con antibiotici, da interessamento cardiaco sotto forma di versamento pericardico o interessamento del miocardio, da coinvolgimento cutaneo, del tratto gastroenterico e renale. La terza fase, quella propriamente vasculitica, è prevalentemente caratterizzata dall’interessamento, oltre che dei suddetti organi, del sistema nervoso periferico (SNP), il cui coinvolgimento può presentarsi con uno spettro di gravità che varia da forme di mo-

CAPITOLO 10 GRANULOMATOSI EOSINOFILA CON POLIANGIOITE (SINDROME DI CHURG-STRAUSS)

noneurite fino alla tetraparesi, ovvero l’incapacità di muovere tutti e quattro gli arti. A conferma della parziale rigidità di questo schematismo, talvolta l’interessamento del SNP può risultare particolarmente precoce. Nonostante suddetta divisione in fasi non rispecchi completamente la realtà anatomo-clinica, essa tuttavia conserva una sua validità in quanto introduce il concetto di spettro di malattia, di forme incomplete e di Sindrome “preChurg-Strauss”, ovvero una condizione che non risponde ai criteri classificativi internazionali, ma che deve essere sorvegliata attentamente per la sua maggiore possibilità evolutiva nella forma conclamata. Infatti in questi pazienti, oltre a uno stretto follow-up, è importante evitare l’uso di farmaci che potrebbero “slatentizzare” la sindrome come, ad esempio, gli anti-leucotrieni, oltre agli inibitori della ciclossigenasi quali aspirina e farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) in genere. In conclusione, tutti i pazienti con AB potrebbero teoricamente sviluppare una EGPA; tuttavia, ciò si verifica solo in una percentuale molto bassa. Inoltre, non vi sono al momento predittori clinici e biologici sicuri di evoluzione. Rimane comunque vero che pazienti con asma refrattario alle terapie tradizionali, steroido-dipendenti, con grave rinosinusite e anosmia, con valori costantemente elevati di eosinofili circolanti, sono da controllare ancora più attentamente per possibile evoluzione verso una forma di EGPA. Come capire se la malattia è controllata e qual è il ruolo della conta degli eosinofili circolanti? Come in altre malattie del sistema immunitario, occorre distinguere tra gravità e attività di malattia che non sempre peraltro coincidono. Per rispondere al primo quesito si dovrebbe far riferimento al cosiddetto Five Factor Score (FFS), scala di valutazione ampiamente utilizzata come score prognostico della EGPA. Questa si basa su: a) coinvolgimento del tratto gastroenterico; b) interessamento cardiaco; c) coinvolgimento del sistema nervoso centrale; d) valore di creatinina al di sopra di 140 μmol/l; d) valore di proteine urinarie superiore a 1000 mg/24h. Più difficile capire se la malattia è in fase attiva o di remissione. Certamente un’attenta valutazione clinica rimane sempre l’elemento fondamentale; tut-

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tavia, si avverte la necessità di disporre di marcatori umorali di attività. Questi potrebbero essere rappresentati dalla conta degli eosinofili circolanti, dai valori della eosinophil cationic protein, proteina cationica eosinofila, e dal titolo degli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA). Allo stato attuale delle conoscenze solo l’aumento della conta degli eosinofili può essere considerato un fattore predittivo, anche se non costante, di attività di malattia. La diagnosi prevede sempre l’esecuzione di una biopsia e questa è importante per stadiare la malattia?

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La diagnosi di EGPA si base su differenti criteri internazionali, la maggior parte dei quali ampiamente riconosciuti come, ad esempio: • asma bronchiale; • ipereosinofilia >10%; • mononeuropatia o polineuropatia; • infiltrati polmonari fugaci osservati alla radiografia del torace; • storia di rinosinusite; • reperto istopatologico di vasculite con infiltrato eosinofilo e di granulomi extravascolari. La presenza di quattro o più di tali criteri consente di pervenire alla diagnosi di EGPA con una sensibilità dell’85% e una specificità del 97%. Pertanto, l’esecuzione della biopsia non è strettamente necessaria al fine di formulare la diagnosi, soprattutto nei casi clinicamente conclamati, mentre potrebbe diventare determinante nei casi dubbi. Si pone sempre, comunque, il problema di quale organo o apparato sottoporre a biopsia: mentre questa può essere eseguita facilmente a livello cutaneo, lo è con maggiore difficoltà a livello del sistema nervoso periferico (biopsia del nervo surale), del rene o del tratto gastroenterico. I principali pattern istopatologici che si possono ritrovare sono rappresentati dalla vasculite necrotizzante (fibrinoide), dai granulomi epitelioidi (sia a livello della parete del vaso che in sede extravascolare) e da un infiltrato ricco in eosinofili. Bisogna però tener conto che tali quadri istologici sono suggestivi di EGPA, ma non possono essere ritenuti patognomonici di tale patologia. In conclusione, quindi, la scelta di ese-

CAPITOLO 10 GRANULOMATOSI EOSINOFILA CON POLIANGIOITE (SINDROME DI CHURG-STRAUSS)

guire la biopsia dipende da caso a caso e dall’esperienza del clinico; tuttavia, non è da considerarsi uno step diagnostico strettamente necessario e non ha alcun ruolo nello stadiare la malattia. L’infiammazione del sistema nervoso periferico è sempre presente e questo interessamento può essere considerato un fattore prognostico sfavorevole? L’infiammazione del sistema nervoso periferico si può presentare sotto forma di mononeurite (infiammazione di un solo nervo), di mononeurite multipla (infiammazione di più nervi interessati, ma con una distribuzione casuale con conseguente asimmetria) e di polineuropatia (infiammazione di più nervi con distribuzione non casuale, ad esempio localizzazione simmetrica dei nervi degli arti inferiori). Tale coinvolgimento si verifica nel 40– 75% dei casi e, secondo la nostra esperienza (in accordo con i dati in letteratura), rappresenta una delle localizzazioni più importanti. L’esordio è frequentemente molto repentino, preceduto da un brusco innalzamento degli eosinofili circolanti e coinvolge sia la componente motoria che quella sensitiva; mentre la prima si risolve solitamente abbastanza bene in breve tempo, la sintomatologia parestesica permane per periodi più lunghi. Mentre la localizzazione del sistema nervoso periferico non rappresenta un elemento prognostico sfavorevole, il coinvolgimento del sistema nervoso centrale fa parte di uno dei cinque punti del FFS utilizzati per valutare la prognosi e correla con andamenti clinici severi. Esiste una terapia valida per tutte le localizzazioni di malattia? Come nelle altre vasculiti, anche nella EGPA, i corticosteroidi rappresentano i farmaci di riferimento, soprattutto nelle prime fasi di ogni manifestazione clinica della malattia; tuttavia, sia in base al punteggio FFS, che al tipo di coinvolgimento d’organo o apparato possono essere utilizzati numerosi altri farmaci. Nelle forme a localizzazione cardiaca, gastrointestinale, renale e neurologica la ciclofosfamide in boli mensili rappresenta il farmaco di prima scelta, unitamente alla terapia steroidea per via endovenosa ad alte dosi. In

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caso di interessamento del sistema nervoso periferico, si sono dimostrate molto efficaci le immunoglobuline umane per via venosa a dosi immunomodulanti per 3–5 giorni consecutivi, da ripetere ogni 30–40 giorni. Al fine di ridurre il più possibile la dose cumulativa di ciclofosfamide può essere utilizzato il methotrexate, l’azatioprina, il micofenolato mofetile e la ciclosporina. Recentemente nelle vasculiti ANCA associate, ovvero la EGPA, la Granulomatosi con poliangioite (GPA) e la micropoliarterite (MPA), è stato dimostrato che Rituximab, anticorpo monoclonale rivolto verso le cellule B (un particolare tipo di globuli bianchi deputato alla produzione di anticorpi), non ha minore efficacia rispetto alla ciclofosfamide e, inoltre, presenta un profilo di sicurezza maggiore. Tuttavia, l’esperienza è stata condotta soprattutto nella GPA e nella MPA, piuttosto che nella EGPA. Recentemente nell’ambito della EGPA sono state distinte due forme: 1) quella ANCA associata, caratterizzata dalla presenza di anticorpi anti-mieloperossidasi (MPO), presente in più di un terzo dei pazienti con prevalente localizzazione renale, cutanea (porpora), polmonare (emorragia alveolare) e a carico del sistema nervoso periferico; 2) la seconda, ANCA negativa, caratterizzata principalmente da interessamento cardiaco e polmonare. In quest’ultima forma prevale l’infiltrazione eosinofila, piuttosto che lesioni di natura vasculitica. Ciò potrebbe suggerire una terapia differenziata con Rituximab nella EGPA-ANCA associata e, invece, ciclosporina o Mepolizumab, anticorpo monoclonale anti-interleuchina 5 nelle forme ANCA negative. È tuttavia da precisare che tale anticorpo non è al momento utilizzabile per la terapia della EGPA, mentre trova impiego nella Sindrome ipereosinofila. Accanto alla terapia sistemica, per un miglior controllo della sintomatologia delle alte vie aeree (rinosinusite e soprattutto poliposi nasale), può essere utile associare una terapia topica a base di corticosteroidi; questa, infatti, è in grado di controllare la crescita dei polipi stessi, di ridurre la congestione nasale e la rinorrea, migliorando così la pervietà nasale. La terapia chirurgica della poliposi nasale, essendo legata a un alto rischio di recidiva, andrebbe invece evitata o limitata a quei casi di ostruzione severa o di fallimento della terapia medica. In ultimo, in questi pazienti bisogna anche considerare le

CAPITOLO 10 GRANULOMATOSI EOSINOFILA CON POLIANGIOITE (SINDROME DI CHURG-STRAUSS)

frequenti sovrainfezioni batteriche che possono coesistere sia a livello del rino-faringe, dove spesso tendono a cronicizzare, sia a livello polmonare e che spesso possono essere causa di riattivazione della malattia stessa. In questo caso sarà opportuno associare una terapia antimicrobica specifica.

Bibliografia 1. Pagnoux C, Wolter NE (2012) Vasculitis of the upper airways. Swiss Med Wkly 142:w13541 2. Baldini C, Talarico R, Della Rossa A, Bombardieri S (2010) Clinical manifestations and treatment of Churg-Strauss syndrome. Rheum Dis Clin North Am 36:527–543 3. Abril A (2011) Churg-strauss syndrome: an update. Curr Rheumatol Rep 13(6):489–495

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CAPITOLO 11 ARTERITE DI TAKAYASU domanda Mario Galarducci risponde Maria Grazia Sabbadini

È vero che l’arterite di Takayasu è una malattia delle giovani donne orientali? Come si presenta? Mikito Takayasu, da cui la malattia ha preso il nome, era effettivamente un medico giapponese, oftalmologo, che nel 1906 descrisse il caso di una paziente di 21 anni con alterazioni della vascolarizzazione retinica, secondarie a una ipoperfusione arteriosa cronica. L’arterite di Takayasu colpisce soprattutto le donne in età giovanile (20–40 anni) con un rapporto donne/uomini di 9:1 ed è più frequente nell’Asia orientale (Giappone, Corea, Cina, India, Tailandia). In occidente si calcola un’incidenza di 2– 3 casi per milione di abitanti all’anno, mentre in Giappone è almeno cinque volte maggiore; uno studio autoptico avrebbe documentato una prevalenza fino a 1 su 3.000 casi! In realtà, la malattia è poco conosciuta ed è perciò possibile che la sua reale incidenza sia sottostimata in molte regioni. A documentazione, però, che già all’esordio storico della sua identificazione l’arterite di Takayasu non era limitata alle regioni dell’estremo oriente, va ricordato che nel 1761, in Italia, Giovanni Battista

M.G. Sabbadini () Medicina Interna Università Vita-Salute San Raffaele, Milano [email protected] M. Galarducci () AMA – Associazione Malattie Autoimmuni [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_11, © Springer-Verlag Italia 2013

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Morgagni, il famoso anatomico considerato il padre della moderna clinica medica, descriveva il caso di una donna di 40 anni “senza polsi” (non palpabili le pulsazioni a livello dei polsi radiali) che al riscontro autoptico presentava segni di coinvolgimento arteritico di tutta l’aorta toracica e delle arterie succlavie. L’arterite di Takayasu è una malattia infiammatoria cronica, rara, a eziologia sconosciuta che coinvolge primariamente le arterie di grosso calibro, come l’aorta e i suoi rami principali, determinando un ispessimento della parete dei vasi con restringimento e occlusione del lume o, più raramente, formazione di aneurismi. Il coinvolgimento frequente delle arterie succlavie spiega la diseguaglianza dei valori della pressione arteriosa misurata alle due braccia e la denominazione di “malattia senza polsi”. L’aorta può essere coinvolta in tutto il suo decorso con lunghi tratti stenotici mentre, a livello del bulbo e dell’arco, è frequente che l’infiammazione della parete porti a una dilatazione aneurismatica con conseguente insufficienza della valvola cardiaca. Più raramente può venire occlusa l’origine delle arterie coronarie con segni clinici di angina. La stenosi delle carotidi e delle arterie vertebrali (che originano dalle succlavie) può determinare disturbi della vista e episodi di ischemia cerebrale. Il coinvolgimento delle arterie renali determina la comparsa di ipertensione reno-vascolare, mentre quello delle arterie intestinali produce angina abdominis e malassorbimento. In circa un quinto dei pazienti viene coinvolto anche il distretto polmonare. Sulla base dei rilievi dell’arteriografia è stata proposta una classificazione dei diversi quadri di distribuzione delle lesioni vascolari, che prevede cinque classi diverse in relazione ai distretti coinvolti [1]. Fortunatamente, il processo di occlusione non si realizza acutamente ma in modo progressivo e in molti distretti lascia il tempo alla formazione di circoli collaterali che possono preservare almeno in parte la perfusione dei tessuti a valle. È frequente, ad esempio, che pazienti con occlusione anatomica grave delle succlavie non lamentino che blandi disturbi funzionali alle braccia, che vengono irrorate da arterie collaterali. Al contrario, l’occlusione di altre arterie, come nel caso dell’arteria renale, non può venire compensata e determina la comparsa rapida di ipertensione arteriosa.

CAPITOLO 11 ARTERITE DI TAKAYASU

Esistono esami specifici per capire se la malattia è spenta? Il quadro di presentazione della malattia è legato a due tipi di fenomeni: lo stato di infiammazione sistemica che si esprime con artralgie, febbre, astenia, malessere, calo di peso (fase “pre-pulseless”) e i sintomi dovuti all’ipoperfusione di vari distretti secondaria alla stenosi vascolare (fase “pulseless”). Il primo quadro può essere molto blando e del tutto aspecifico; la malattia viene infatti spesso diagnosticata solo alla comparsa dei segni vascolari. In quasi l’80% dei pazienti la malattia ha un andamento relapsing-remitting: più del 90% dei pazienti guadagna la remissione con la terapia steroidea, spesso integrata da un farmaco immunosoppressore. La maggior parte dei pazienti però va incontro a riaccensioni periodiche anche sotto terapia immunosoppressiva [2]. La riaccensione o la nuova comparsa di lesioni vascolari può avvenire senza un’alterazione contemporanea degli indici di infiammazione, come VES o PCR. La normalità degli indici di flogosi, perciò, non ha un valore assoluto per definire lo stato di quiescenza ed è pertanto necessario il monitoraggio periodico con tecniche di imaging di tutti i distretti vascolari. Questo può essere fatto con l’ecografia, una metodica non invasiva che non espone a radiazioni, ma che non è applicabile in alcuni distretti arteriosi (come l’aorta toracica, ad esempio) ed è strettamente operatore-dipendente. Più frequentemente viene impiegata la risonanza magnetica nucleare (angio-RMN), che permette di valutare le alterazioni sia del lume che della parete vascolare e ha praticamente soppiantato l’angiografia come metodica di monitoraggio. Tecniche di imaging di recente introduzione, come la 18F-fluorodeoxyglucose (FDG)-positron emission tomography (PET), in grado di documentare direttamente lo stato di infiammazione delle pareti vascolari, è di sicura utilità per l’identificazione precoce delle lesioni. Non è però ancora stato validato il ruolo di questa metodica per il monitoraggio dell’attività della malattia [3]. Se l’arterite di Takayasu è diagnosticata dopo i 50 anni è sempre facile distinguerla dall’aterosclerosi? Sicuramente no, soprattutto perché, anche se la malattia nella maggioranza

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assoluta dei casi esordisce prima dei 40 anni, la diagnosi può venire posta anche con molto ritardo. Un criterio potrebbe essere la presenza o meno dei segni infiammatori sistemici, assenti in corso di aterosclerosi, frequentemente (ma non sempre!) positivi invece nella malattia di Takayasu. Altro elemento differenziale può essere la localizzazione delle lesioni, molto frequenti a livello delle arterie succlavie nella Takayasu e molto meno nell’aterosclerosi, o ancora l’aspetto morfologico delle lesioni stesse: l’arterite di Takayasu, infatti, determina un ispessimento occlusivo su tutta la circonferenza vascolare, spesso per lunghi tratti, e non il solo ispessimento di una sezione di parete, come avviene comunemente per le placche aterosclerotiche. La PET può aiutare a distinguere i due quadri: bisogna però ricordare che anche le placche aterosclerotiche possono essere dotate di attività infiammatoria e “captare” in PET. In pratica, perciò: l’età di esordio, la distribuzione e l’aspetto delle lesioni vascolari, la presenza o assenza di elevazione degli indici di infiammazione costituiscono nel loro insieme i criteri per la diagnosi differenziale. 104

Qual è la differenza tra l’arterite di Takayasu e l’arterite gigantocellulare estesa o altre forme di aortite? Sia l’arterite di Takayasu che l’arterite gigantocellulare (GCA) sono classificate come vasculiti dei grossi vasi ma, mentre la prima è una malattia tipica delle donne (F/M = 9/1) ed esordisce in genere in età giovanile, la GCA è una malattia dell’anziano, con una prevalenza femminile molto meno spiccata. Entrambe le malattie possono determinare un coinvolgimento aortico: la GCA, infatti, non è solo una vasculite delle arterie craniali (carotidi e vertebrali) e coinvolge l’aorta e le sue branche principali nel 20–30% dei pazienti. Dal punto di vista istologico, le due patologie sono praticamente indistinguibili. Il criterio differenziale più ovvio resta, perciò, quello epidemiologico: l’età di esordio è usata anche dai criteri classificativi dell’American College of Rheumatology, che prevedono un’età inferiore ai 40 anni per l’arterite di Takayasu e superiore ai 50 per la GCA. Resta il problema delle persone di età compresa tra i 40 e i 50. Uno studio recente ha cercato di identificare dei pattern differenziali di distribuzione delle lesioni vascolari

CAPITOLO 11 ARTERITE DI TAKAYASU

nelle due malattie e di correlarli eventualmente con l’età d’esordio, ma non ha trovato delle differenze sicuramente significative. Lo studio conclude che le due forme possano rappresentare lo spettro di manifestazioni diverse di un’unica malattia [4]. La terapia dell’arterite di Takayasu è solo medica o c’è spazio anche per la chirurgia vascolare? La terapia medica dell’arterite di Takayasu si avvale soprattutto dell’impiego del cortisone e di immunosoppressori quali methotrexate, azatioprina, ciclosporina, micofenolato mofetile, e ciclofosfamide. Recentemente sono stati utilizzati anche farmaci biologici, in particolare gli inibitori di TNFalfa (come infliximab o adalimumab) o di interleuchina 6 (tocilizumab) con risultati molto incoraggianti. Come accennato, anche se il 90% dei pazienti riesce a raggiungere una prima remissione con l’impiego del cortisone, la maggior parte recidiva alla riduzione/sospensione e richiede l’aggiunta di un immunosoppressore. Anche sotto un regime combinato, però, molti pazienti sviluppano nuove lesioni vascolari. Questo spiega perché frequentemente si rendono necessari interventi vascolari, più frequentemente di angioplastica con eventuale impianto di stent, a volte di veri bypass o di ricostruzione chirurgica. Anche queste procedure, purtroppo, non sempre risolvono in modo definitivo il problema. Nella malattia di Takayasu, infatti, la restenosi su angioplastica è più frequente che in altre patologie vascolari, verosimilmente in relazione alla natura infiammatoria della malattia. In una casistica americana di pazienti seguiti per un periodo medio di più di 3 anni (da 4 mesi a 10 anni) il 70% ha richiesto almeno un intervento di rivascolarizzazione e nel 78% dei casi i vasi rivascolarizzati sono andati incontro a restenosi e hanno richiesto una o più nuove angioplastiche [2]. La restenosi si realizza più facilmente se l’angioplastica viene eseguita in fase di attività della malattia e perciò si consiglia, in genere, di eseguire la procedura dopo avere ottenuto una remissione.

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Bibliografia 1. Hata A, Noda M, Moriwaki R, Numano F (1996) Angiographic finding of Takayasu arteritis: new classification. Int J Cardiol 54(suppl):S155–S163 2. Maksimowicz-McKinnon K, Clark TM, Hoffman GS (2007) Limitations of therapy and guarded prognosis in an American cohort of Takayasu arteritis patients. Arthritis Rheum 56:1000–1009 3. Lee K-H, Cho A, Choi Y-J et al (2012) The role of 18F-Fluorodeoxyglucose-Positron Emission Tomography in the assessment of disease activity in patients with Takayasu arteritis. Arthritis Rheum 64:866–875 4. Grayson PC, Maksimowicz-McKinnon K, Clark TM et al (2012) Distribution of arterial lesion in Takayasu’s arteritis and giant cell arteritis. Ann Rheum Dis 71:1329–1334

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CAPITOLO 12 SINDROME DI BEHÇET domanda Alessandra Del Bianco rispondono Giacomo Emmi e Tommaso Barnini

Se un paziente presenta aftosi della mucosa orale bisogna sempre pensare alla Sindrome di Behçet? A un medico che abbia una qualche esperienza con la Sindrome di Behçet (SB), un paziente che racconti di fenomeni ulcerativi della mucosa orale accende sempre un pensiero particolare. Come noto, infatti, la SB rappresenta un’entità clinica complessa, che presenta alcune caratteristiche cliniche più frequenti, divenuti criteri, tra i quali l’aftosi orale. Le afte, o ulcere, nella SB dovrebbero presentarsi con una frequenza di almeno tre volte l’anno; le casistiche dicono che in più del 95% dei pazienti con SB sono presenti ma, d’altro canto, anche dal 10 al 50% dei soggetti sani le sperimentano almeno una volta nella vita.

G. Emmi () Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Firenze [email protected] · [email protected] T. Barnini () Medico in formazione specifica in Medicina Generale Regione Toscana Empoli (FI) [email protected] A. Del Bianco () Simba onlus - Associazione italiana sindrome e malattia di Behçet Pontedera (PI) [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_12, © Springer-Verlag Italia 2013

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Sostanzialmente, le ulcere orali in questa malattia sono di 3 tipi: • afte minori, le più frequenti in assoluto (dall’85 al 99%) sono lesioni con un diametro inferiore ai 10 mm, solitamente dolenti o molto dolenti, che durano una decina di giorni; • afte maggiori, molto meno frequenti ma, soprattutto se localizzate nella regione posteriore della cavità orale, piuttosto caratteristiche di SB; • afte cosiddette erpetiformi, rare. Più tipi di afta possono coesistere nello stesso individuo, precedendo a volte la diagnosi anche di alcuni anni; le lesioni orali possono comparire sostanzialmente ovunque, ma sono più frequenti sulle guance, sulla lingua e sul palato molle. Sembra che non vi sia una particolare correlazione tra genere (maschio vs femmina), né tantomeno con la gravità di malattia; traumatismi orali, a volte anche di modesta entità, possono facilitarne l’insorgenza. La presenza di aftosi orale ricorrente riconosce però, oltre alla SB, numerose condizioni patologiche, quali le malattie infiammatorie croniche intestinali, le malattie autoinfiammatorie, il Lupus eritematoso sistemico, la celiachia, la sensibilizzazione al nichel solfato e alcuni deficit vitaminici. Vi sono poi cause infettive, per lo più di natura virale. La presenza di afte orali, quindi, deve far pensare alla malattia di Behçet quando siano presenti le seguenti caratteristiche: • particolare frequenza o localizzazione tipica; • associazione anche non concomitante con aftosi genitale (in tal caso si parla di aftosi bipolare) o della mucosa nasale; • associazione con altri sintomi o segni, in particolare altre manifestazioni muco-cutanee (come la pseudo-follicolite o l’eritema nodoso), oculari, articolari e/o eventi trombotici. Come già accennato, un’ulteriore caratteristica di questa patologia è la presenza di aftosi genitale, anche non contemporanea con quella orale, che viene a delineare, come detto, un quadro denominato aftosi bipolare. Queste lesioni possono comparire con maggiore frequenza a livello dello scroto e del prepuzio nell’uomo e a livello vulvare e vaginale nella donna e nella regione perianale in entrambi i sessi. Altra sede, anche se atipica, di localizzazione delle afte può essere, come detto, la mucosa nasale.

CAPITOLO 12 SINDROME DI BEHÇET

L’interessamento oculare è sempre presente e come è attualmente la prognosi? Sicuramente l’interessamento oculare è una delle manifestazioni più importanti per la potenziale severità, rientrando infatti tra i criteri diagnostici della SB; non si può affermare che in tutti i pazienti con SB siano presenti segni o sintomi di interessamento oculare, ma la sua frequenza complessiva si aggira intorno al 50%, risultando fino al 70% se si considerano pazienti maschi di giovane età. D’altro canto è vero che, a seconda delle diverse casistiche, dal 2 al 30% circa dei pazienti con uveite ricevono prima o poi la diagnosi di SB. L’interessamento oculare in corso di malattia è piuttosto caratteristico: si tratta, infatti, di una uveite non granulomatosa, più spesso inizialmente monolaterale ma che, con il tempo, interessa entrambi gli occhi. Possono essere interessati sia il segmento anteriore che posteriore (accompagnandosi spesso, in quest’ultimo caso, anche a un’infiammazione dei vasi retinici), ma più frequentemente entrambi. La sintomatologia è varia e differente in base alla localizzazione del distretto oculare interessato dall’infiammazione: solitamente dolore, arrossamento e calo del visus sono tra i più frequenti nelle forme anteriori. Dal momento però che all’assenza di sintomi non necessariamente corrisponde assenza di infiammazione, pazienti con SB devono essere tenuti sotto stretto controllo oculistico per evitare danni permanenti. Anche la prognosi dipende in larga misura dalla sede colpita dal processo flogistico, laddove l’interessamento del polo posteriore rappresenta un’importante causa di morbilità. Solitamente, infatti, l’interessamento del segmento anteriore (uveite anteriore), ha una prognosi migliore, dal momento che viene controllata nella maggior parte dei casi con una terapia topica e più difficilmente porta a sequele permanenti. Dall’altra parte, come accennato in precedenza, la cosiddetta uveite posteriore o la panuveite richiedono quasi sempre una terapia sistemica e possono portare a un’importante e permanente perdita della capacità visiva se interessano il disco ottico e la retina. Negli ultimi anni la prognosi della SB e dell’impegno oculare, in particolare, sono migliorati sensibilmente; questo è potuto accadere grazie alla maggiore attenzione ed esperienza di centri dedicati specificamente a tali patologie, che permettono diagnosi precoci e più accurate e alle

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terapie odierne, che si avvalgono di numerosi farmaci immunosoppressori e immunomodulanti e che sono spesso in grado di controllare la patologia. Ci sembra importante rimarcare ancora una volta il concetto che i pazienti con SB devono eseguire periodici controlli presso oculisti esperti nel settore perché, se è vero che il principale determinante della prognosi visiva è considerato il numero di attacchi che un paziente sperimenta in un anno, la loro prevenzione, o quantomeno il loro trattamento in fasi precoci e ancora asintomatiche, rappresenta la strategia “terapeutica” più idonea. Perché la Sindrome di Behçet ha una strana distribuzione geografica? È vero che la presenza di HLA-B51 è diagnostica?

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La sindrome di Behçet è una patologia assolutamente unica per molte caratteristiche. Così come non è facile classificarla all’interno delle note definizioni di malattia (malattia autoimmune, vasculite, malattia autoinfiammatoria, ecc.), è sicuramente peculiare la sua specifica distribuzione nel mondo, cosa che la rende praticamente unica. La SB, infatti, è prevalente in quella linea immaginaria che collega l’Occidente con l’Oriente, un tempo nota come via della seta e che si estende dalla Turchia, passando dall’Iran per giungere fino in Giappone. In queste aree del mondo la malattia è tutt’altro che rara, basti pensare come nel paese della Mezzaluna la sua prevalenza arriva in alcune aree a un caso ogni 250 abitanti; la sua gravità peraltro è solitamente maggiore in queste aree piuttosto che in quelle a bassa incidenza come gli Stati Uniti. A una differente distribuzione geografica si associano, inoltre, differenti interessamenti d’organo: ad esempio, la frequenza di sintomatologia gastrointestinale come diarrea, dolore e tensione addominale è molto maggiore nell’estremo Oriente e, in particolare, in Giappone, se confrontato alla Turchia, dove invece il fenomeno della patergia (che consiste sostanzialmente in un’esagerata risposta cutanea a uno stimolo irritativo come, ad esempio, un prelievo venoso) risulta maggiore rispetto ai paesi del Nord Europa. Come molte malattie complesse e multisistemiche, anche la SB non sfugge al presupposto che vi siano fattori ambientali e genetici che favoriscono lo sviluppo e, probabilmente, il carattere del disordine. I dati a favore di un

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particolare contesto ambientale sono supportati, ad esempio, dall’evidenza che pazienti di una certa etnia trapiantati in regioni a bassa prevalenza di malattia sviluppano con minore frequenza la patologia stessa; interessante a questo proposito l’esempio delle isole Hawaii, dove vive una maggioranza che discende dagli immigrati asiatici giunti nelle isole all’inizio del XX secolo, specialmente giapponesi, in cui non risulterebbero pazienti affetti dalla malattia. L’HLA-B51 rappresenta, ad oggi, il fattore genetico di suscettibilità più forte per SB nella maggior parte dei gruppi etnici studiati; questo non significa che la SB sia una malattia genetica in senso stretto (ovvero un genitore con la malattia non trasmette in linea diretta il disordine, anche se sono stati descritti casi di aggregazione familiare). La sua positività non significa, peraltro, automaticamente che sia presente la patologia; nella “via della seta” una percentuale che si aggira tra il 60 e l’80% dei pazienti con SB è HLA-B51 positiva, a fronte di una presenza nella popolazione generale del 25% circa (percentuali molto inferiori si riscontrano invece in regioni a prevalenza di malattia inferiore). Neppure il legame patogenetico, ovvero l’eventuale capacità dell’HLA-B51 di indurre o favorire la nascita del disordine, è noto e ad oggi non esistono dati abbastanza convincenti per poterlo definire un marcatore diagnostico o prognostico di malattia. Molte persone riferiscono sintomi che non sono presenti tra i criteri: sono problemi differenti o potrebbero rientrare nella Sindrome? Negli oltre 75 anni che ci separano dalla prima descrizione della sindrome di Behçet da parte del medico turco che gli ha dato il nome, sono stati proposti oltre 15 possibili criteri diagnostico-classificativi; questo enorme tentativo di “rinchiudere” la malattia entro confini più precisi si scontra, però, con l’eterogeneità dei sintomi che la SB presenta. I criteri formulati nel 1990 dal gruppo di studio internazionale (International Study Group for Behçet’s disease, ISGB) sono quelli ad oggi più comunemente utilizzati. Due dei limiti maggiori di questi criteri sono, da una parte, la loro scarsa capacità di identificare i pazienti nella fase precoce di malattia; dall’altra essi non prendono in considerazione quei segni e sintomi che potrebbero essere definiti,

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in analogia a quanto avviene per la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, sintomi non criteri. Nel 2006 un gruppo di esperti provenienti da 27 paesi nel mondo ha sviluppato nuovi criteri (validati molto recentemente), aggiungendo a quelli già presenti (aftosi orale, aftosi genitale, interessamento cutaneo e oculare e positività del test di patergia) anche l’interessamento vascolare e neurologico; questo sembra aver permesso un miglioramento nella sensibilità, mantenendo un’adeguata specificità diagnostica senza, tuttavia, intaccare sostanzialmente il sottobosco sintomatologico della sindrome. Nella malattia si deve distinguere tra interessamenti poco frequenti (quello renale e polmonare parenchimale), da quelli frequenti ma non utilizzati come criteri di malattia (per esempio, gastrointestinale o audio-vestibolare). L’interessamento del sistema nervoso centrale non rientra tra i criteri diagnostici del 1990, ma rappresenta una delle localizzazioni più temibili di malattia. Solitamente tale coinvolgimento può presentarsi almeno in due modi: 1) febbre, rigidità del collo e cefalea (meningo-encefalite); o 2) cefalea e vomito con o senza nausea (ipertensione endocranica per trombosi dei seni venosi). La cefalea è un sintomo frequentemente riscontrato e può essere spia di interessamento cerebrale parenchimale, oppure per impegno dei seni venosi cerebrali; nei diversi studi, l’emicrania risulta ad oggi la forma più frequente di cefalea. Sempre maggiore appare la presenza di sintomi compatibili con un coinvolgimento del sistema audio-vestibolare in pazienti con SB: la perdita di udito (ipoacusia), solitamente graduale nel tempo e di moderata entità, è stata stimata in alcuni sudi in percentuali piuttosto elevate e sembra poter talora correlare con la positività dell’HLA-B51. Anche la sensazione di vertigini, verosimilmente secondarie a disfunzione del sistema vestibolare, è spesso riferita dai pazienti con SB. L’interessamento intestinale può presentarsi con diarrea, dolore e tensione addominale ed eventualmente con presenza di sangue nelle feci. Tale coinvolgimento appare particolarmente difficile da inquadrare per il medico, soprattutto perché tali sintomi possono presentarsi anche in assenza di evidenti lesioni ad esami endoscopici; inoltre, a volte la diagnosi differenziale con forme infiammatorie intestinali (malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa)

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associate a manifestazioni extra-intestinali (artrite e uveite soprattutto), appare spesso ardua da un punto di vista clinico. Temibile in questa localizzazione la possibilità, anche se piuttosto infrequente, di perforazioni e/o sanguinamenti anche importanti. Dell’interessamento vascolare si discuterà meglio più avanti; ricordiamo soltanto che particolare attenzione meritano i processi trombotici a carico dei seni venosi e la presenza di aneurismi, soprattutto a livello dei vasi arteriosi polmonari, che possono rappresentare importanti cause di morbilità e/o mortalità. I problemi renali, a differenza di altre patologie del sistema immunitario, non sembrano avere un’elevata frequenza e severità, mentre più note sono le manifestazioni urologiche di malattia, tra cui, in particolare, episodi di epididimite e/o orchite. La Sindrome di Behçet si cura solo con il cortisone? No, ma come in molte altre patologie del sistema immunitario, anche la SB vede nell’utilizzo del cortisone una delle principali opzioni terapeutiche. Per prima cosa, bisogna ricordare che alcuni pazienti con Behçet presentano una storia clinica caratterizzata da frequenti riaccensioni di malattia, che impongono strategie terapeutiche spesso anche aggressive, mentre altri non necessitano (talora anche per lunghi periodi) di terapia, neppure di quella steroidea. Questa può ovviamente essere utilizzata, dove necessario, sia per os come terapia di mantenimento a breve-medio termine, che nella sua formulazione per via endovena per “spegnere” le riacutizzazioni di malattia. Ad oggi, vi sono molte possibilità terapeutiche per la cura del Behçet. Semplificando, esistono sostanzialmente tre grandi categorie di farmaci: 1. anti-infiammatori in senso lato (corticosteroidi per uso topico e sistemico, talidomide e colchicina); 2. farmaci immunosoppressori e/o immunomodulanti (azatioprina, methotrexate, ciclofosfamide, ciclosporina e interferone alfa-2); 3. farmaci biologici (anti-TNF alfa principalmente, ma anche anti-CD20, anti-IL6R, anti IL1R). La terapia varia sostanzialmente in base a: 1) gravità e attività di malattia; e

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2) localizzazione d’organo della sindrome. Qui di seguito riportiamo in forma alquanto semplificata alcuni possibili approcci terapeutici in base ai principali distretti corporei interessati. Trattamenti delle lesioni muco-cutanee La colchicina è utilizzata solitamente per le ulcere, in particolare a livello genitale, e una manifestazione cutanea nota come eritema nodoso, mentre l’azatioprina, e più recentemente gli anti-TNF alfa, si riserva alle manifestazioni muco-cutanee resistenti. Anche la talidomide, verosimilmente attraverso un meccanismo di blocco del TNF-alfa, esercita una buona azione terapeutica in questo interessamento, in particolare per quanto riguarda le ulcere orali e genitali. La terapia locale può essere schematizzata essenzialmente come segue: • aftosi orale: sciacqui con collutori antisettici, gel a base di lidocaina e/o cortisonici, e/o sucralfato; • aftosi genitale: creme a base di steroidi, antisettici locali; • papulo-pustolosi: azitromicina. 114

Trattamenti dell’interessamento oculare L’infiammazione del segmento anteriore solitamente risponde in maniera soddisfacente alla terapia locale con cortisone e farmaci midriatici. La terapia sistemica dell’interessamento oculare dipende dalla localizzazione: l’uveite posteriore prevede sostanzialmente l’utilizzo di immunosoppressori e/o immunomodulanti (corticosteroidi associati ad azatioprina e/o ciclosporina o anti-TNF alfa). In alternativa, può essere utilizzato l’interferone alfa, associato o meno alla terapia steroidea. Trattamenti dell’interessamento neurologico La terapia dell’interessamento del sistema nervoso centrale (SNC) nella malattia è forse una delle più complesse e meno univoche. Nella pratica clinica, sicuramente utile risulta l’utilizzo della terapia con cortisone per ridurre l’infiammazione; anche in questo caso si associano spesso altri farmaci immunosoppressori per il trattamento a medio e lungo termine, come l’azatioprina, la ciclofosfamide e l’interferone alfa. Di una certa utilità si è

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dimostrato inoltre il methotrexate, così come gli antagonisti del TNF alfa. Da sottolineare, invece, che anche secondo la European League Against Rheumatism (EULAR) non è consigliabile l’utilizzo della ciclosporina in questa localizzazione, per la dubbia neurotossicità nei pazienti con SB. Trattamenti dell’interessamento vascolare Nella SB particolare attenzione merita la valutazione del coinvolgimento vascolare di malattia che, come noto, può interessare sia il versante venoso (trombosi venose) che arterioso (stenosi e/o occlusioni e aneurismi), manifestandosi, in alcune casistiche, anche nel 30–40% dei pazienti, rappresentando forse la causa più frequente di mortalità e configurando un’entità clinica definita da alcuni come angio-Behçet. Caratteristica della malattia è la rarità degli eventi embolici, fenomeno ascrivibile, almeno in parte, alla stretta aderenza del trombo alla parete; interessante, a questo proposito, l’evidenza della scarsa efficacia della terapia convenzionale con anticoagulanti orali e, al contrario, della buona risposta alle terapie immunosoppressive come, ad esempio, la ciclofosfamide (come farmaco d’attacco) e l’azatioprina (come farmaco di mantenimento) e gli anti TNF-alfa. Trattamenti dell’interessamento articolare L’interessamento articolare nella malattia di Behçet ha solitamente un andamento “benigno”, rispetto alle forme di artropatia/artrite tipiche di altre patologie del sistema immunitario; il farmaco maggiormente utilizzato è la colchicina, ma possono essere anche somministrati con successo nelle forme recidive il methotrexate e/o l’azatioprina.

Per approfondire Davatchi F (2012) Diagnosis/classification criteria for Behcet’s disease. Patholog Res Int 2012:607921 Larson T, Nussenblatt RB, Sen HN (2011) Emerging drugs for uveitis. Expert Opin Emerg Drugs 16(2):309–322 Stone JH (2009) A clinician’s pearls and myths in rheumatology. Springer, New York Yazici Y, Yazici H (2010) Behçet’s syndrome. Springer, New York

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CAPITOLO 13 UVEITI AUTOIMMUNI domanda Alessandra Del Bianco rispondono Ugo Menchini e Lorenzo Vannozzi

Cosa si intende per uveite? Per uveite si intende, in senso generico, un processo infiammatorio riguardante l’uvea, ovvero una specifica componente dei tessuti oculari, posta tra la sclera e la retina, prevalentemente costituita da tessuto vascolare. Essa comprende varie parti anatomiche, tra loro in continuo, che sono l’iride, il corpo ciliare, la pars plana e la coroide. A seconda dell’area interessata dall’infiammazione, secondo l’International Uveitis Study Group (IUSG), le uveiti possono essere distinte in forme anteriori, intermedie o posteriori; si parla invece di panuveite quando il bulbo oculare presenta segni di infiammazione diffusi. Le uveiti anteriori (che raggruppano tutte quelle forme di infiammazione dei tessuti uveali anteriori, un tempo dette iriti, iridocicliti o cicliti anteriori) sono le uveiti più frequenti, rappresentando circa il 50–60% dei casi che afferiscono ai centri di riferimento terziari; frequentemente risultano associate a malattie infiammatorie autoimmuni sistemiche o, tra le cause infettive, a infezioni da virus erpetici. Le uveiti intermedie (cioè U. Menchini () • L. Vannozzi () SOD Oculistica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi Firenze [email protected] [email protected] A. Del Bianco () Simba onlus - Associazione italiana sindrome e malattia di Behçet Pontedera (PI) [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_13, © Springer-Verlag Italia 2013

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quelle forme a prevalente infiammazione vitreale, come le cicliti posteriori, le parsplaniti e le ialiti) sono le forme di uveite meno frequenti in tutti gli studi epidemiologici, rappresentando l’8–22% dei casi; tra questi, circa il 10% risultano associati a sclerosi multipla e oltre l’80%, nonostante accurate indagini diagnostiche, non approdano a una diagnosi eziologica precisa e vengono indicate come idiopatiche. Le uveiti posteriori (coroiditi, corioretiniti, retiniti, neuroretiniti) rappresentano la seconda forma più comune di uveite, rappresentando nel mondo il 15–30% dei casi. Le panuveiti risultano più frequenti in Sud America, Asia e Africa, rispetto all’Europa. In Italia rappresentano il 13–20% dei casi. Da un punto di vista clinico, le uveiti possono essere suddivise in forme granulomatose o non granulomatose, a seconda che all’esame oculistico presentino o meno accumuli di materiale infiammatorio di forma granulare a livello della camera anteriore del bulbo oculare. Tale distinzione contribuisce a indirizzare il sospetto diagnostico, gli esami strumentali o di laboratorio verso alcune patologie (spesso autoimmuni per le forme non granulomatose, spesso invece infettive per le granulomatose). Le uveiti possono presentarsi con un esordio improvviso e seguire un decorso acuto di durata limitata (se 3 mesi), e seguire un decorso cronico e recidivante. Un’altra forma di infiammazione oculare, che si può presentare associata o meno a uveite, è la sclerite. In questo caso, l’infiammazione colpisce la sclera, la tonaca fibrosa esterna del bulbo oculare, che appare pertanto con un’area di arrossamento localizzato nodulare o diffuso, dolente, scarsamente responsiva alle terapie solitamente utilizzate nella prima ipotesi di una comune congiuntivite. Anche la sclerite, come l’uveite, può essere segno di una patologia autoimmune sistemica a volte ancora subclinica. Cosa può causare una uveite? Rispondere a questa domanda è una delle sfide più complicate nella professione di un oculista che si occupi della diagnosi e del trattamento delle uveiti. Proprio intorno a questa domanda ruota, infatti, la loro terapia: cosa sta provocando l’infiammazione oculare che affligge il paziente? La risposta in-

CAPITOLO 13 UVEITI AUTOIMMUNI

fiammatoria oculare si può presentare con quadri spesso simili pur in corso di patologie molto differenti, e ciò richiede al clinico una corretta analisi e classificazione dei dati provenienti sia dalla visita oculistica completa che da esami diagnostici oculari e sistemici. La diagnosi di uveite è formulata più frequentemente rispetto al passato, in parte grazie a una più chiara classificazione di cui può disporre il clinico ma, soprattutto, per il netto miglioramento delle metodiche diagnostiche, permettendo di arrivare a una diagnosi in una discreta percentuale di casi. L’IUSG ha formulato, nel 2008, la classificazione clinica delle uveiti che attualmente viene utilizzata nella pratica clinica; secondo tale classificazione le uveiti vengono divise in: • infettive (batteriche, virali, fungine, parassitarie, altro); • non infettive (associate a malattia sistemica nota, non associate a malattia sistemica); • sindromi masquerade (neoplastiche, non neoplastiche). Di primaria importanza risulta escludere le possibili forme infettive (comuni quella da herpes simplex, zoster e citomegalovirus, o altre infezioni come toxoplasmosi, tubercolosi, sifilide, candida) che potrebbero avvalersi di una terapia specifica e per le quali, viceversa, una terapia immunomodulatoria risulterebbe controindicata. Guidati da segni e sintomi sistemici e dalla consulenza di un collega specialista in immunologia o reumatologia, spesso l’uveite in atto può venir associata a una malattia autoimmune sistemica già nota o, talvolta, può rappresentare il primo sintomo di una malattia sistemica sub-clinica. In alcuni casi l’oculista si trova, invece, a fronteggiare un’uveite di diagnosi incerta e con una scarsissima risposta alle terapie instaurate; alcuni di questi casi sono, in realtà, le cosiddette sindromi masquerade, ovvero altre patologie che simulano o provocano secondariamente un’uveite che, quindi, non ricevendo la terapia più idonea al caso, appare intrattabile. Tali forme possono essere riconducibili a malattie neoplastiche (tumori intraoculari, come il retinoblastoma nei bambini e il melanoma o il linfoma intraoculare negli adulti, o ripetizioni metastatiche di tumori primitivi in altre sedi, come seno, reni, polmoni) o non neoplastiche (corpi estranei intraoculari ritenuti, distacco retinico, ecc.). Malattie diverse possono dunque presentare modalità di coinvolgimento

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oculare variabili. Per fare un esempio, la Malattia di Behçet, una vasculite primaria sistemica che può interessare vasi arteriosi e venosi di ogni calibro, e che presenta interessamento oculare fino nel 60% dei casi, può manifestarsi sia con un’uveite posteriore con vasculite retinica, che con un’uveite anteriore non granulomatosa. Dalla varietà dei possibili eventi patogenetici che possono esistere alla base di un’uveite si intuisce, dunque, l’importanza che riveste il formulare una corretta diagnosi per poi procedere al trattamento medico più idoneo al singolo caso. Utile, infine, ricordare come l’eziologia delle uveiti sia cambiata nel tempo, come testimoniato dall’avvento dell’HIV prima e dalla recrudescenza di altre patologie infettive influenzate dai recenti flussi migratori, come tubercolosi e sifilide. Quali sono i principali sintomi di un’uveite e quali esami solitamente occorre fare? 120

Segni e sintomi variano molto a seconda del tipo di uveite in atto, della sua aggressività e della diversa sede di coinvolgimento oculare. Parlando di infiammazioni coinvolgenti la parte anteriore del bulbo oculare, il paziente può, ad esempio, riscontrare in corso di sclerite anteriore sintomi modesti come arrossamento oculare localizzato, con eventuale gonfiore e aspetto rilevato dei tessuti, dolenzia, lieve fastidio alla luce (fotofobia) e lacrimazione; in corso invece di un’uveite anteriore conclamata, con marcata infiammazione intraoculare, i sintomi si fanno più severi, con marcato arrossamento della congiuntiva, dolore, fotofobia, iperlacrimazione e calo della vista. I sintomi possono comunque aiutare a differenziare forme ed esordi diversi di uveiti anteriori che, a volte, presentano caratteri distintivi. Vale la pena ricordare come, diversamente dal quadro appena descritto, l’uveite anteriore in corso di artrite idiopatica giovanile si manifesti nel bambino con scarsi sintomi e un occhio bianco, apparentemente non infiammato; da ciò l’indicazione a sottoporre questi piccoli pazienti a controlli oculistici periodici programmati, inizialmente ogni 3 mesi, anche in assenza di alcun sospetto di uveite.

CAPITOLO 13 UVEITI AUTOIMMUNI

Diversa può apparire invece la presentazione di un’uveite intermedia o posteriore. Essendo infatti i distretti oculari interessati non evidenti a un esame esterno, l’occhio può apparire in quiete, non infiammato, senza iperlacrimazione o fotofobia. I pazienti, in questi casi, possono lamentare la visione di ombre mobili ad aspetto filiforme o granulare nel campo visivo (le cosiddette “mosche volanti”, o miodesopsie), materiale infiammatorio fluttuante all’interno del vitreo, che provoca un effetto di ombra sulla retina se colpito dai raggi luminosi. Tale annebbiamento può progredire più o meno rapidamente e diventare invalidante, provocando un calo visivo. A questo impedimento visivo può associarsi in alcuni casi quello dovuto a fenomeni infiammatori a carico della retina (vasculiti, retiniti, coroiditi) o del nervo ottico (papilliti, neuriti) che provocano aree di non visione più o meno ampie e profonde (scotomi) che, se coinvolgenti la regione maculare (sede della visione centrale), possono far perdere ogni capacità di visione distinta al paziente. In corso di panuveite, essendo coinvolti tutti i settori del bulbo oculare, il paziente potrà presentare sia i segni dell’infiammazione esterna, caratterizzati dal rossore e dal dolore, che quelli dell’infiammazione interna, caratterizzati da visione offuscata e ridotta. Qualunque sintomo il paziente riscontri, il primo passo per pervenire a una diagnosi e impostare un corretto percorso terapeutico è quello di sottoporsi a una visita oculistica completa; la comune visita oculistica potrà poi venir integrata con indagini diagnostiche strumentali oculari, come l’angiografia retinica con fluoresceina o verde di indocianina e la tomografia oculare computerizzata (Ocular Coherence Tomography, OCT) o con prelievi di umor acqueo o vitreo per eseguire esami di laboratorio. In base al quadro che si presenterà all’oculista, l’uveite potrà essere caratterizzata clinicamente, in modo da consigliare gli eventuali esami diagnostici generali più utili. Ad esempio, in caso di una modesta uveite anteriore non granulomatosa alla prima presentazione, che appare facilmente trattabile con la sola terapia oculare, in un paziente che non offre all’anamnesi sintomi che meritino approfondimenti può non essere utile intraprendere una serie di indagini diagnostiche strumentali o di laboratorio complicate e costose per il paziente. Ben diversamente, in caso di recidiva o di un quadro con presentazione più

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grave, occorre cercare di identificare una possibile causa sottostante dell’uveite, prima di definirla altrimenti idiopatica. Tali esami, quindi, potranno variare molto, a seconda del sospetto diagnostico formulato dallo specialista e potranno riguardare, come detto, sia accertamenti ematici che strumentali. Da questa rapida trattazione, si capisce come la diagnostica da affrontare in corso di uveite possa essere vasta, a volte confondente, e dispendiosa in termini di energie e denaro. Scopo del clinico, dunque, quello di formulare una ipotesi diagnostica e di decidere per il singolo caso le indagini più indicate. Esistono solo terapie locali o anche sistemiche per le uveiti autoimmuni?

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Le uveiti rappresentano una condizione rara, oscillando nelle varie casistiche tra 38 e 714 casi ogni 100.000 abitanti; proprio la relativa rarità di questo genere di patologie e la sua varia eziologia hanno impedito, negli anni, di sviluppare dei protocolli di terapia standardizzati a cui il clinico possa affidarsi. Nel tempo, tuttavia, esperti di ogni paese hanno contribuito a incrementare la letteratura scientifica disponibile sull’argomento e a presentare casistiche sottoposte a schemi terapeutici sempre più accurati e definiti. Gli oculisti che operano oggi nei maggiori centri di riferimento per il trattamento delle uveiti hanno a disposizione numerose armi terapeutiche tra cui scegliere per ogni singolo caso. La terapia topica oculare tramite l’instillazione di colliri appare spesso sufficiente per il trattamento delle forme più lievi di uveite anteriore: solitamente, l’instillazione di colliri al cortisone a scopo antinfiammatorio e di colliri dilatatori delle pupilla (midriatici) a scopo sia antinfiammatorio e antalgico che per prevenire la formazione di aderenze cicatriziali patologiche dell’iride con le strutture adiacenti, riesce in tempi più o meno lunghi a spegnere l’uveite in atto. A rinforzo di tali terapie in collirio, possono poi essere utilizzate iniezioni di steroidi a rapido o lento rilascio, sia per infiltrazione sottocongiuntivale che peribulbare o retrobulbare; queste ultime risultano particolarmente utili, soprattutto in corso di uveiti intermedie o posteriori, casi in cui è necessario far giungere la terapia più profondamente all’interno della cavità orbitaria. È da poco iniziata la commercializzazione anche di dispositivi a lento rilascio di steroidi per utilizzo intravitreale, che sembrano

CAPITOLO 13 UVEITI AUTOIMMUNI

mostrare promettenti risultati, analizzando i dati finora disponibili nella letteratura scientifica del settore. In corso di uveiti anteriori particolarmente aggressive e recidivanti, o intermedie, posteriori o panuveiti, se la terapia locale topica e iniettiva non riesce da sola a dominare il processo infiammatorio e, a maggior ragione, in corso di malattia coinvolgente entrambi gli occhi, diviene necessario l’utilizzo di terapia antinfiammatoria sistemica. Per prima cosa, si deve stabilire quando un’uveite meriti una terapia antiinfiammatoria per via sistemica: a. in caso di recidiva nonostante terapia steroidea locale o dipendenza o resistenza alla terapia locale; b. quando il quadro infiammatorio oculare non risulti controllato con la sola terapia steroidea o il quadro tenda alla cronicizzazione; c. in caso di uveite secondaria a malattia autoimmune sistemica; d. in base alla localizzazione del processo infiammatorio, ad esempio in caso di interessamento del polo posteriore di entità moderata-severa. La terapia sistemica di prima linea è costituita, solitamente, dall’utilizzo di corticosteroidi per via orale o pulsata (ovvero a boli) per via endovenosa, seguita poi dalla terapia per bocca. Questa strategia è solitamente utilizzata per le forme di uveite anteriore particolarmente resistenti o associate a malattia sistemica (ad esempio, la sindrome di Behçet) oppure nelle forme intermedie o posteriori. I farmaci immunosoppressori/immunomodulanti devono essere affiancati alla terapia steroidea o sostituirla come risparmiatori di corticosteroidi quando il dosaggio di questi ultimi risulti troppo elevato o quando risulti controindicato l’utilizzo del cortisone per la comparsa di effetti collaterali o ancora quando quest’ultimo non sia sufficiente da solo a controllare la patologia. L’utilizzo dei farmaci immunosoppressori tradizionali o dei cosiddetti farmaci biologici varia, inoltre, in base a: 1) la localizzazione del processo infiammatorio; e 2) l’associazione con malattie infiammatorie sistemiche: 1. solitamente un’uveite anteriore con più di 3 recidive in un anno e/o che non risponda a terapia steroidea locale o per via sistemica può meritare una terapia sistemica con farmaci immunosoppressori tradizionali, tra i

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quali in particolare methotrexate o ciclosporina. Nelle uveiti del tratto posteriore o nelle cosiddette panuveiti hanno mostrato efficacia clinica numerosi farmaci tra i quali i già menzionati methotrexate e ciclosporina, ma anche l’azatioprina, il micofenolato e la ciclofosfamide; 2. numerose sono poi le patologie sistemiche non infettive che possono presentare un processo infiammatorio a carico dell’uvea. Tra le principali ricordiamo la Sindrome di Behçet, la Vogt-Koyanagi-Harada, la granulomatosi di Wegener, la sarcoidosi, le spondiloartropatie, le malattie infiammatorie croniche intestinali, il Lupus eritematoso sistemico, la sclerosi multipla e le malattie autoinfiammatorie. Anche in questo caso, la terapia sistemica con steroidi e farmaci immunosoppressori tradizionali risulta di prima scelta. Negli ultimi anni, l’avvento dei farmaci biologici ha migliorato, in alcuni casi in maniera davvero significativa, la prognosi delle uveiti. Gli anti-TNF alfa, in particolare, si sono dimostrati efficaci nelle forme di uveite posteriore o panuveite autoimmune e nelle uveiti associate a patologie sistemiche autoimmuni, così come anche l’inteferone-alfa. Ad oggi esistono, infine, segnalazioni in letteratura di pazienti trattati con successo con altri farmaci biologici, in grado di bloccare altri segnali molecolari importanti nella genesi della malattia, tra cui ricordiamo l’anti-CD25, l’anti-CD20, l’anti-IL6R, il costrutto CTLA4-Fc(IgG1) e gli anti-IL1. Esiste una correlazione tra il sistema HLA e le uveiti? Per sistema HLA (Human Leukocyte Antigen, antigene leucocitario umano, conosciuto anche come complesso maggiore di istocompatibilità, MHC), si definisce l’insieme di molecole di natura proteica espresse normalmente sulle cellule umane e codificate da un gruppo di geni localizzati sul cromosoma 6; ne esistono sostanzialmente di 3 tipi, l’MHC di classe I, II e III. Nella patologia umana rivestono particolare importanza i primi due e, per le uveiti, in particolare quello di classe I. Tali molecole sono essenziali nel riconoscimento e nella regolazione delle risposte immunitarie, perché rappresentano le strutture deputate alla presentazione degli antigeni (ovvero parti di proteine sia estranee che appartenenti al nostro organismo) alle cel-

CAPITOLO 13 UVEITI AUTOIMMUNI

lule del nostro sistema immunitario. Entrano in gioco nella reazione di rigetto dei trapianti e, con meccanismi ancora in larga parte da chiarire, anche nello sviluppo di patologie a base immunologica, in particolare di quelle cosiddette autoimmuni. Numerose sono le correlazioni tra sistema HLA e uveiti: • HLA-B51 e sindrome di Behçet: la sindrome di Behçet (SB) è una malattia infiammatoria multisistemica a eziologia sconosciuta che, come noto, è caratterizzata da un importante impegno oculare. La SB ha un’eziopatogenesi sicuramente multifattoriale e l’HLA-B5/B51 è stato riconosciuto come il più forte fattore di suscettibilità genetica scoperto finora per la malattia. Non vi è alcuna prova, al momento, che sostenga l’utilizzo nella pratica clinica della determinazione dell’HLA-B51 come marker diagnostico o prognostico per la SB o per le sue diverse localizzazioni, oculare compresa. La sua determinazione risulta comunque importante, dal momento che circa il 60% dei pazienti con SB è HLA-B51 positiva (ricordando comunque che tale dato è vero anche per il 20% circa della popolazione sana); • HLA-B27 e uveite anteriore acuta: la forma più comune di uveite nei paesi occidentali è l’uveite anteriore acuta (UAA), comunemente associata all’HLA-B27, con notevoli ricadute cliniche e prognostiche; infatti, l’UAA HLA-B27 correlata può essere associata con la sola infiammazione oculare o con una forma sistemica. In quest’ultimo caso, le malattie sistemiche comprendono la spondilite anchilosante, la sindrome di Reiter (triade congiuntivite/uveite, artrite e uretrite), le malattie infiammatorie intestinali, l’artrite psoriasica e la spondiloartropatia indifferenziata; come già ricordato, particolare attenzione meritano le forme giovanili, per la mancanza spesso di sintomatologia tipica (in particolare dolore e/o rossore). L’UAA HLA-B27 correlata ha caratteristiche cliniche peculiari, come una maggiore frequenza nel sesso maschile, un esordio solitamente unilaterale acuto, un aspetto non-granulomatoso e frequenti recidive, mentre le forme HLA-B27 negative hanno un’incidenza sovrapponibile tra maschi e femmine e impegno oculare bilaterale. In generale, l’UAA ha una prognosi migliore rispetto ad altre forme di uveite; tuttavia, quella HLA-B27 positiva è associata a maggiore uso di steroidi

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A. Del Bianco, U. Menchini et al.

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e terapia immunosoppressiva e complicanze oculari più frequenti rispetto alle forme HLA-B27 negative; • HLA-A29 e corioretinite di Birdshot: la coroidopatia di Birdshot (a pallini da caccia) è un’uveite bilaterale a localizzazione preferenzialmente intermedia e posteriore, ad andamento cronico ed eziopatogenesi ignota; colpisce prevalentemente soggetti con un’età compresa tra 50 e 70 anni, e le donne più degli uomini. Esiste una forte correlazione con l’antigene HLA-A29, con una positività per questo MHC di classe I che oscilla tra l’80 e il 95% dei pazienti. I sintomi più tipici sono rappresentati da corpi mobili vitreali e diminuzione dell’acuità visiva; l’edema maculare cistoide rappresenta una causa comune di riduzione dell’acuità visiva. I corticosteroidi perioculari o per via sistemica spesso migliorano l’acuità visiva, sebbene siano comuni le recidive e la resistenza a tali terapie; • HLA-DR4 e Vogt-Koyanagi-Harada: per sindrome di Vogt-KoyanagiHarada, detta anche uveoencefalite, s’intende una rara patologia sistemica caratterizzata da panuveite associata ad alterazioni cutanee e neurologiche. Le donne sono generalmente più colpite rispetto agli uomini, solitamente intorno ai 30–40 anni; colpisce più facilmente soggetti molto pigmentati ed è particolarmente frequente nella popolazione asiatica, negli indiani asiatici e negli indiani americani. L’eziologia della sindrome di Vogt-Koyanagi-Harada non è chiara, anche se l’associazione con gli antigeni HLA di classe II, specialmente HLA-DR4 (ma anche HLA-DR53 e HLA-DQ4), suggerisce una disregolazione del sistema immunitario. I sintomi neurologici tendono a manifestarsi precocemente e includono tinnito, ipoacusia, vertigini, cefalea e rigidità nucale. Le alterazioni cutanee a insorgenza solitamente più tardiva, comprendono vitiligine, poliosi (incanutimento delle ciglia) e alopecia. Le alterazioni oculari comprendono uveite anteriore, vitreite, edema del nervo ottico e coroidite, di solito associate a distacco essudativo della retina soprastante. Esistono infine anche alcune correlazioni note tra uveiti infettive e antigeni del complesso HLA come, ad esempio, tra l’istoplasmosi oculare e l’antigene HLA-B7.

CAPITOLO 14 AMILOIDOSI domanda Rosa Maria Turano rispondono Giampaolo Merlini e Paolo Milani

Quanti tipi di amiloidosi esistono e quali sono le cause? Le amiloidosi sono malattie da alterata conformazione proteica, in cui diversi tipi di proteine solubili si aggregano a formare fibrille insolubili, le quali si depositano in tessuti bersaglio causando un danno d’organo funzionale e strutturale [1]. Si conoscono circa 30 tipi di amiloidosi, ciascuno causato da una diversa proteina che forma le fibrille [2]. Per convenzione, il tipo di amiloidosi è indicato da un acronimo nel quale la prima lettera è sempre una A, che indica amiloidosi, seguita dall’abbreviazione della proteina, ad esempio light chain nell’amiloidosi causata da catene leggere immunoglobuliniche monoclonali (AL). Inoltre, i depositi di amiloide possono essere limitati a uno specifico organo, come ad esempio il sistema nervoso centrale nel caso della malattia di Alzheimer, o in uno specifico sito anatomico, quale il distretto laringeo, e in tal caso si parla di amiloidosi localizzate. I depositi delle amiloidosi siste-

G. Merlini () • P. Milani () Centro per lo Studio e la Cura delle Amiloidosi Sistemiche Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Pavia [email protected] [email protected] R.M. Turano () AAMI - Associazione Amiloidosi Italiana Rovereto (TN) [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_14, © Springer-Verlag Italia 2013

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R.M. Turano, G. Merlini et al.

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miche possono coinvolgere tutti gli organi e tessuti. Le amiloidosi possono essere ereditarie o acquisite, queste ultime associate, ad esempio, alle gammapatie monoclonali, alle malattie infiammatorie croniche, alla dialisi cronica. Le proteine che formano fibrille amiloidi hanno un’elevata propensione ad aggregare. Alcune di esse esprimono tale capacità nel corso dell’invecchiamento, come nel caso della transtiretina in corso di amiloidosi cardiaca senile. In alcuni casi, tali proteine si depositano quando la loro concentrazione nel sangue persiste elevata per lunghi periodi di tempo, come nel caso della proteina di fase acuta siero amiloide A (SAA), in corso di malattie infiammatorie croniche. In altri casi, sono presenti specifiche mutazioni del DNA che portano alla produzione di proteine con capacità di formare depositi di amiloide in specifici tessuti bersaglio (come nel caso del fibrinogeno mutato che danneggia quasi esclusivamente il rene). Infine, la forma più frequente di amiloidosi nel nostro paese è causata dalla deposizione nei tessuti di catene leggere immunoglobuliniche che durante il processo di maturazione della risposta immunitaria acquisiscono mutazioni pro-aggreganti. È il caso dell’amiloidosi AL, dove una cellula B, trasformata in clone a livello midollare, sintetizza catene leggere libere monoclonali che possono raggiungere livelli sufficienti a formare amiloide [1, 3]. L’amiloidosi è facile da diagnosticare? Quali sono i sintomi? Sono oggi disponibili terapie efficaci per la maggior parte delle amiloidosi sistemiche. È quindi essenziale intervenire prima che la malattia abbia causato danni irreversibili agli organi vitali. La diagnosi precoce è la chiave di volta della terapia. La principale difficoltà è rappresentata dal porre il sospetto diagnostico. Le amiloidosi sistemiche possono danneggiare pressoché tutti gli organi (ad eccezione del sistema nervoso centrale) e presentano manifestazioni cliniche molto eterogenee, che si possono confondere con comuni patologie dell’anziano. Ad esempio, la localizzazione più severa è quella cardiaca, e può simulare altre cardiopatie delle persone adulte. Trattandosi di una malattia rara, difficilmente il medico curante pensa all’amiloidosi.

CAPITOLO 14 AMILOIDOSI

I principali sintomi della malattia dipendono dagli organi che sono interessati dall’accumulo dell’amiloide e dal tipo di amiloidosi. I principali sono la comparsa di astenia marcata, inappetenza, sensibile calo di peso corporeo, alterazione del gusto, diarrea alternata a stipsi, impotenza e alterazione della sensibilità a mani e piedi. La comparsa di edemi agli arti inferiori e di “fiato corto” anche nello svolgimento delle comuni attività sono espressione del danno renale e cardiaco. Alcuni segni si presentano più raramente, in circa il 15% dei pazienti, ma sono caratteristici dell’amiloidosi e possono essere un utile elemento per sospettare la malattia, quali l’aumento delle dimensioni della lingua, la comparsa di macchie colore rosso porpora sulla pelle del volto (in particolare intorno agli occhi) e del collo. Mentre dal punto di vista laboratoristico e strumentale si dovrebbe considerare la diagnosi di amiloidosi in caso di alterazione della funzione del rene (aumento della creatinina e/o perdita di proteine con le urine) o in presenza di ispessimento delle pareti del cuore identificato all’ecocardiografia, in assenza di storia d’ipertensione arteriosa e associato a un elettrocardiogramma normale o con bassi voltaggi. I criteri per la diagnosi di amiloidosi sono stati riassunti in linee guida proposte dalla Società Internazionale per l’Amiloidosi [4]. La diagnosi di amiloidosi richiede l’identificazione istologica dei depositi di amiloide, tramite una specifica colorazione, su un campione di tessuto. Questo è possibile tramite l’agoaspirato di grasso periombelicale, procedura semplice e innocua che può essere effettuata in regime ambulatoriale. La sensibilità di questo esame, cioè la probabilità di individuare depositi di amiloide in una persona affetta dalla malattia, è attorno all’80% nelle amiloidosi sistemiche, se la procedura è effettuata da un operatore esperto. Qualora l’agoaspirato di grasso periombelicale non porti alla diagnosi, ma persista il sospetto di amiloidosi, si può ricorrere alla biopsia di una ghiandola salivare minore labiale. Anche questa procedura è semplice e poco dolorosa. In una minoranza di casi selezionati, si deve eseguire la biopsia degli organi che si ritiene possano essere interessati dall’amiloidosi. Dopo aver accertato la presenza dei depositi di amiloide, è necessario individuare il tipo di amiloidosi in causa, cioè riconoscere la proteina che li ha formati. Questo passaggio è indispensabile per la cura, poiché la terapia è radicalmente diversa per ogni tipo di amiloidosi.

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R.M. Turano, G. Merlini et al.

È una patologia curabile? Oggi abbiamo a disposizione trattamenti efficaci per la maggior parte delle forme di amiloidosi sistemica. Allo stato attuale, l’obiettivo della terapia è la rimozione del precursore amiloidogenico circolante o la sua riduzione per quanto possibile. Naturalmente, i metodi per ottenere questo risultato sono diversi nei vari tipi di amiloidosi e dipendono dalla diversa proteina in causa. Inibendo la sintesi della proteina fino a eliminarne o ridurne la presenza in circolo, è possibile stabilizzare il danno funzionale degli organi interessati e, potenzialmente, indurne il miglioramento fino al completo e persistente recupero. La possibilità, nelle fasi iniziali della malattia, di ripristinare la normale funzione degli organi coinvolti dall’amiloidosi sottolinea l’importanza della diagnosi precoce. Infine, è molto importante anche la terapia di supporto, che sostiene la funzione degli organi interessati, durante il tempo necessario alla terapia specifica per agire sulla causa della malattia.

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In Italia è possibile trovare una buona assistenza per la diagnosi e la cura dell’amiloidosi? In Italia, la cura dei pazienti affetti da amiloidosi sistemica è possibile grazie al Gruppo di Studio per l’Amiloidosi, che è una rete di 62 istituzioni di assistenza e di ricerca diffuse su tutto il territorio nazionale che è consultabile su internet (www.amiloidosi.it). L’attività del Gruppo è regolata da un comune protocollo diagnostico e terapeutico, che è discusso e aggiornato nel corso di riunioni annuali dei medici partecipanti. La disponibilità di una rete collaborativa nazionale è importante per diffondere la conoscenza della patologia e per fare avanzare la ricerca. Inoltre, la copertura quasi completa del territorio nazionale migliora la qualità di vita dei pazienti, rendendo facilmente accessibili centri di assistenza qualificati. Sono presenti, inoltre, la Società Italiana per l’Amiloidosi e l’Associazione Amiloidosi Italiana (AAMI), che si prefiggono di favorire la diffusione della conoscenza della malattia e di prestare assistenza e ausilio alle persone affette da amiloidosi e ai loro familiari.

CAPITOLO 14 AMILOIDOSI

Qual è il decorso della malattia e cosa può aspettarsi il paziente? Il decorso della malattia varia in modo sostanziale a seconda del tipo di amiloidosi e degli organi coinvolti dalla malattia. Nelle forme localizzate è sufficiente, nella maggioranza dei casi, solo un corretto follow-up o l’asportazione del deposito quando possibile. Mentre il decorso delle forme sistemiche varia a seconda degli organi coinvolti, in particolare dalla presenza o meno di interessamento cardiaco. Oggi sono a disposizione esami di laboratorio (troponine e NT-proBNP), utili a identificare i pazienti ad alto rischio, cioè affetti da una severa disfunzione cardiaca. Anche a questo sottogruppo di pazienti, possiamo oggi offrire l’approccio terapeutico più opportuno. Come detto in precedenza, infatti, per molte forme di amiloidosi abbiamo a disposizione strategie terapeutiche efficaci. Inoltre, presso il nostro centro sono attive numerose sperimentazioni cliniche per valutare l’efficacia e la sicurezza di nuovi farmaci e nuovi approcci terapeutici. Una volta ottenuta la remissione della malattia, i pazienti ritornano ad avere una buona qualità della vita e proseguono uno specifico programma di controlli.

Bibliografia 1. Merlini G, Bellotti V (2003) Molecular mechanisms of amyloidosis. N Engl J Med 349:583–596 2. Sipe JD, Benson MD, Buxbaum JN et al (2012) Amyloid fibril protein nomenclature: 2012 recommendations from the Nomenclature Committee of the International Society of Amyloidosis. Amyloid 19(4):167–170 3. Merlini G, Stone MJ (2006) Dangerous small B-cell clones. Blood 108:2520–2530 4. Gertz MA, Comenzo R, Falk RH et al (2005) Definition of organ involvement and treatment response in immunoglobulin light chain amyloidosis (AL): a consensus opinion from the 10th International Symposium on Amyloid and Amyloidosis, Tours, France, 18-22 April 2004. Am J Hematol 79(4):319–328

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CAPITOLO 15 MALATTIE AUTOINFIAMMATORIE domanda Paolo Calveri rispondono Mauro Galeazzi e Luca Cantarini (sull’adulto), Marco Gattorno (sul bambino)

L’adulto Un paziente con febbri periodiche in terapia può svolgere una vita normale o ci sono delle limitazioni? Un paziente con febbri periodiche (FP) può e deve svolgere le normali attività della vita quotidiana. Le maggiori limitazioni possono essere causate dalla presenza di episodi febbrili ricorrenti e dalla sintomatologia ad essi associata che, in assenza di terapia specifica, può obiettivamente portare a delle limitazioni. Per tali ragioni, il problema deve essere affrontato e vinto grazie all’aiuto di personale medico e presso centri specializzati per la cura di queste patologie poiché, trattandosi di malattie rare e di recente inquadramento, non sempre sono accuratamente riconosciute, diagnosticate e trattate. M. Galeazzi () • L. Cantarini () Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze Università degli Studi di Siena [email protected] M. Gattorno () Unità Operativa Pediatria 2, IAS Malattie Autoinfiammatorie Istituto G. Gaslini, Genova [email protected] P. Calveri () AIFP - Associazione Italiana Febbri Periodiche [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_15, © Springer-Verlag Italia 2013

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P. Calveri, M. Gattorno et al.

Sembra che in alcune febbri periodiche, a differenza di altre malattie, oltre alle normali leggi della genetica ci siano altre variabili da considerare; se così fosse, qual è la “reale” probabilità che un paziente con febbri periodiche di origine genetica trasmetta la malattia ai propri figli?

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Come per altre malattie genetiche, anche per le FP ereditarie la probabilità che un figlio erediti la/e mutazione/i di un genitore o di entrambi i genitori, è legata alle modalità di trasmissione delle diverse malattie che, a seconda dei casi, possono essere a carattere dominante o recessivo. Nel programmare una gravidanza, potrebbe essere utile ricorrere a una consulenza genetica. Tuttavia, la “reale” probabilità di trasmettere i sintomi (e non solo la mutazione) non è attribuibile con matematica certezza. Infatti, in alcuni casi le FP ereditarie possono essere causate da mutazioni definite “a bassa penetranza”, che non sempre inducono manifestazioni cliniche e che, pertanto, possono essere riscontrate occasionalmente anche in soggetti clinicamente sani. Alla base di questo, entrano in gioco fattori ad oggi sconosciuti, ma con buona probabilità a carattere ambientale, genetico ed epigenetico. Una paziente con febbre periodica può avere una normale gravidanza o la sua gestazione necessita di maggiori e/o diversi controlli? Ad oggi, i dati disponibili in letteratura sulle gravidanze in pazienti affette da febbri periodiche ereditarie sono pochi e sicuramente da confermare mediante studi collaborativi che consentano di disporre di ampie casistiche. Secondo la nostra personale esperienza è comunque auspicabile portare a termine la gestazione effettuando controlli regolari sia presso lo specialista ginecologo di riferimento, sia presso l’esperto di malattie autoinfiammatorie che ha in cura la paziente, allo scopo di garantire un approccio multidisciplinare alla gravidanza a tutela della stessa e della gestante. I pochi dati disponibili in letteratura riguardano principalmente pazienti affette da febbre mediterranea familiare, e suggeriscono di non interrompere il trattamento con colchicina durante la gravidanza, allo scopo di prevenire una riattivazione di malattia e il conseguente rischio di andare incontro a un aborto. A

CAPITOLO 15 MALATTIE AUTOINFIAMMATORIE

supporto, gli studi condotti fino ad oggi non hanno evidenziato una particolare teratogenicità del farmaco. I pazienti in terapia per una febbre periodica corrono il rischio di essere colpiti in modo diverso rispetto alla popolazione sana da malattie autoimmuni o infettive? Eventualmente ci sono gli strumenti per riconoscere se i sintomi sono segno di una nuova patologia e non della stessa febbre periodica? Le malattie autoinfiammatorie, al contrario delle malattie autoimmuni, sono determinate da un’alterazione dell’immunità innata, tipicamente in assenza di linfociti T antigene specifici autoreattivi e di produzione di autoanticorpi. Per tale motivo, in assenza di dati di letteratura che ne indichino il contrario, è ragionevole ritenere che i pazienti con FP ereditarie non presentino un aumentato rischio di insorgenza di malattie autoimmuni rispetto alla popolazione sana. In caso di comparsa di “nuovi” sintomi o nel caso la sintomatologia tenda a modificarsi nel corso del tempo, è buona regola rivolgersi al medico di propria fiducia per una corretta valutazione e per l’esecuzione di eventuali approfondimenti. Studi recenti hanno ipotizzato che pazienti affetti da alcune delle malattie autoinfiammatorie note presentino una maggiore predisposizione a contrarre malattie infettive, ma ad oggi è necessaria la conferma di tali ipotesi preliminari. In merito a questo, va inoltre sottolineato che un eventuale aumento del rischio infettivo può essere correlabile anche alle terapie immunosoppressive. In questo caso, regolari controlli presso lo specialista di propria fiducia consentiranno di effettuare tali terapie con la maggiore sicurezza possibile. Quali rischi ci sono che la terapia per una febbre periodica, dopo un certo periodo di somministrazione, diminuisca in parte la propria efficacia o che la esaurisca totalmente? Così come accade in altre patologie, una perdita di efficacia può nel corso del tempo verificarsi. Tale evento può, nella maggior parte dei casi, essere legato alla formazione di anticorpi da parte dell’organismo diretti contro il

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P. Calveri, M. Gattorno et al.

farmaco stesso o anche, semplicemente, a una riduzione individuale della risposta al trattamento. Fortunatamente, le alternative terapeutiche non mancano, anche se si avvalgono dell’utilizzo off-label di quasi tutti gli agenti disponibili, e sono rappresentate prevalentemente dai farmaci biologici che hanno un meccanismo di azione diretto contro le principali molecole dell’infiammazione.

Il bambino Cosa sono le malattie autoinfiammatorie? Se un bambino ha una febbre periodica (FP) di origine genetica, è necessario, o consigliabile, sottoporre allo stesso test genetico tutti i familiari di primo grado?

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Per malattie autoinfiammatorie si intende un gruppo eterogeneo di disordini, caratterizzati da una mutazione genetica in grado di alterare la prima linea di difesa del nostro organismo, l’immunità innata. Questa alterazione determina un quadro infiammatorio continuo o sub-continuo dovuto al rilascio di alcune molecole dell’infiammmazione (TNF-alfa e IL-1 in particolare) che varia in base alla mutazione genetica ma caratterizzato, nella maggior parte dei casi, da un esordio nei primi mesi/anni di vita con febbre, interessamento articolare, cutaneo e sierositico. Visto il ritardo diagnostico a cui vanno incontro queste patologie, non risulta così infrequente presso i centri specialistici una loro diagnosi anche in età giovanile o adulta. Queste patologie, a differenza di quanto avviene nelle più note malattie autoimmuni sistemiche, non sembrano presentare alterazioni dell’immunità acquisita e non mostrano pertanto linfociti autoreattivi e/o auto-anticorpi. Anche se non possono essere definite malattie autoinfiammatorie per l’assenza di mutazioni monogeniche note, esistono entità nosologiche che presentano alcuni caratteri assimilabili a tali patologie; tra queste rientrano la Sindrome denominata Periodic Fever, Aphthous stomatitis, Pharyngitis, Adenitis (PFAPA), il morbo di Still dell’Adulto, la sindrome di Schnitzler e la pericardite acuta ricorrente idiopatica (IRAP). In caso di diagnosi di febbre periodica, devono essere sicuramente sottoposte a test genetico tutte le persone della famiglia che presentino sintomi

CAPITOLO 15 MALATTIE AUTOINFIAMMATORIE

o complicanze (per esempio, un’insufficienza renale causata da amiloidosi) compatibili con la malattia in questione. È in genere buona norma non effettuare il test genetico ai familiari che non presentano sintomi. Esistono, tuttavia, delle eccezioni a questa regola. Ci sono, infatti, delle situazioni in cui si può richiedere a parenti di primo grado (generalmente ai genitori) di sottoporsi al test genetico anche se sani. La causa più comune di tale richiesta è quella di accertarsi che i genitori siano entrambi eterozigoti (cioè portatori di una singola mutazione su un cromosoma) quando il paziente è portatore di due mutazioni differenti dello stesso gene, una situazione definita come eterozigosi composta. Questo avviene per le malattie a trasmissione autosomico-recessiva, come la Febbre Familiare Mediterranea (FMF) e la sindrome da Iper IgD. Bisogna, infatti, verificare che il paziente abbia effettivamente ereditato una mutazione dal padre e una dalla madre e che, quindi, presenti una singola mutazione per cromosoma (si parla di mutazioni in trans), come generalmente richiesto per la conferma genetica di una malattia autosomica recessiva. Può infatti succedere che le due mutazioni possano essere state ereditate da un solo genitore, perché in realtà presenti su un singolo cromosoma (in questo caso si dice che le mutazioni sono in cis). Questo può avvenire specialmente per mutazioni che non danneggiano del tutto la struttura della proteina e che si possono spesso trovare anche in soggetti sani. Si parla, in questo caso, di mutazioni a bassa penetranza e il genitore portatore delle due mutazioni dev’essere considerato a tutti gli effetti un eterozigote, così come il paziente stesso. Come si può capire, tale dato è molto importante per comprendere il reale peso delle mutazioni riscontrante. Per lo stesso motivo, l’analisi genetica dei genitori sani (ed eventualmente dei fratelli) può essere richiesta anche nel caso si riscontrasse in un paziente una singola mutazione a bassa penetranza in malattie a trasmissione autosomica dominante, come le sindromi CAPS, la TRAPS o la sindrome PAPA. In queste malattie, la presenza di una sola mutazione su un singolo cromosoma è generalmente sufficiente per la trasmissione della malattia. Come nel caso precedente, l’analisi dei familiari apparentemente sani può permettere al medico di interpretare il reale impatto della mutazione riscontrata.

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P. Calveri, M. Gattorno et al.

Un bambino in terapia per una FP può vivere una normale vita di studio, gioco e sport, come i bambini sani o deve, a seconda della propria patologia, seguire delle particolari raccomandazioni o altro?

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Generalmente, i bambini affetti da sindromi autoinfiammatorie riescono a vivere una vita assolutamente normale proprio grazie alla somministrazione continua dei farmaci disponibili, come la colchicina per la FMF e i farmaci inibitori di interleuchina 1 (anakinra o canakinumab) per la cosiddetta Cryopyrin Associated Periodic Syndrome (CAPS). Grazie a queste terapie, i pazienti possono svolgere le normali attività quotidiane, inclusi il gioco e l’attività sportiva, anche a livello agonistico. I farmaci sono generalmente ben tollerati e non espongono a particolari effetti indesiderati, tranne possibili disturbi gastrointestinali per la colchicina o reazioni nei siti di iniezione per l’anakinra. La colchicina non deve essere assunta in associazione con un certo numero di farmaci (ad esempio, gli antibiotici della classe dei macrolidi) che ne influenzano l’assorbimento e ne aumentano i livelli nel sangue. I bambini in trattamento con inibitori di interleuchina 1 possono avere difficoltà a rispondere adeguatamente a importanti infezioni batteriche per cui, in caso di malattia, devono velocemente essere controllati dal pediatra curante per verificare l’eventuale indicazione alla somministrazione di terapia antibiotica di copertura. Ovviamente, come per ogni terapia assunta in modo cronico, sono necessari periodici controlli degli esami del sangue per valutare la normalità dei vari parametri (globuli bianchi e rossi, livello di emoglobina, funzionalità del fegato e del rene). Raggiunta l’età adulta, un bambino con FP potrà avere dei figli in modo naturale ed è possibile che questi non abbiano la stessa malattia? A parte i casi in cui la malattia è talmente grave da compromettere un normale sviluppo mentale e fisico, come la forma più severa di sindrome CINCA, tutte le febbri periodiche non sono generalmente correlate a una limitazione nella procreazione. Da quanto già riferito in precedenza, la probabilità di avere figli malati o portatori dipende dalla modalità di trasmissione della malattia stessa. Un malato portatore di un gene associato

CAPITOLO 15 MALATTIE AUTOINFIAMMATORIE

a una malattia trasmessa con carattere autosomico dominante ha il 50% di possibilità di trasmettere la sua malattia al figlio, indipendentemente dal sesso del genitore affetto e del figlio stesso. Per quanto riguarda le malattie autosomiche recessive, un malato portatore di due mutazioni in omozigosi (ovvero la stessa mutazione su due cromosomi diversi) o in eterozigosi composta (due mutazioni diverse su due cromosomi diversi) hanno il 100% di possibilità di trasmettere una delle due mutazioni ai figli che, pertanto, risulteranno solamente eterozigoti. Nelle malattie a ereditarietà autosomica recessiva pura, come è la sindrome da Iper IgD, la condizione di eterozigosi non è generalmente associata alla presenza di malattia. Lo stesso non è invece sempre valido per la FMF. Si sa, infatti, che una percentuale abbastanza elevata di pazienti con FMF (circa il 30%) è in realtà portatore di una sola mutazione del gene MEFV. Ci si trova, in questo caso, di fronte a pazienti che presentano la malattia nella sua espressione completa, pur essendo in realtà solo eterozigoti. Il motivo di tale fenomeno non è al momento ancora del tutto chiaro. Si pensa che altri geni, diversi dal gene MEFV, influenzino la presenza o meno dei sintomi nei soggetti eterozigoti. Come è intuibile, in questo caso non è possibile prevedere con certezza la probabilità di essere malato per un figlio di un paziente FMF eterozigote. Tale percentuale dipende verosimilmente dall’insieme di geni “protettivi” e “non-protettivi” che il figlio erediterà da entrambi i genitori. Dal momento che tali geni, al momento, non sono ancora noti non è possibile fornire una previsione certa. Quali sono le informazioni che i genitori devono portare sempre con sé, soprattutto se sono in viaggio o all’estero? È sicuramente buona norma avere con sé una dichiarazione in italiano e inglese che attesti le caratteristiche della malattia di cui è affetto il bambino. In questa certificazione dovranno essere schematicamente illustrati i sintomi principali della malattia, la terapia da effettuare all’occorrenza (ad esempio, il cortisone nella sindrome da Iper IgD), le terapie assunte cronicamente con i possibili effetti collaterali e la lista delle possibili interazioni con altri farmaci.

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P. Calveri, M. Gattorno et al.

Ci possono essere bambini ai quali (seppure presentando sintomi di una o più FP), non si riesca a fare una diagnosi esatta perché i dati disponibili non rispondono ai classici criteri di diagnosi clinica e/o genetica? In questi casi, che trattamento si fa per evitare i gravi sintomi e il rischio di complicanza dell’amiloidosi tipo AA?

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Purtroppo, una percentuale piuttosto elevata (fino al 30%) di bambini con sintomi clinici del tutto compatibili con una sindrome autoinfiammatoria non possono essere inquadrati correttamente in una malattia nota. Talvolta, come visto sopra, può mancare la conferma genetica di una malattia, come nel caso della presenza di mutazioni a bassa penetranza o di una singola mutazione per malattie autosomico recessive. In altri casi, non sono soddisfatti i criteri diagnostici previsti per la malattia. I criteri diagnostici sono un insieme di sintomi clinici indicati generalmente da esperti della malattia in questione che, se presenti in un determinato numero, permettono di definire la diagnosi indipendentemente dal risultato del test genetico. Questo vale per le febbri periodiche in cui non esiste una mutazione genetica nota, come la sindrome PFAPA, o per malattie come la FMF che, per la loro frequenza in determinate popolazioni e per l’alto costo del test genetico, possono non prevedere il ricorso all’analisi molecolare come elemento diagnostico fondamentale. In ogni caso, un paziente con una chiara storia clinica di febbre periodica o sindrome autoinfiammatoria deve essere monitorato con le stesse modalità dei pazienti che hanno ottenuto una diagnosi definitiva. Molto spesso, questi pazienti vengono trattati con gli stessi farmaci utilizzati nelle forme note (cortisone all’occorrenza, colchicina o inibitori di interleuchina 1), al fine di migliorarne la qualità di vita e impedirne le eventuali complicanze a lungo termine, come l’amiloidosi nelle febbri periodiche o la sordità sensoriale nei pazienti con sindrome simil-CAPS geneticamente negativi. La scelta del farmaco più indicato deve essere ovviamente effettuata caso per caso dal medico che ha in cura il paziente sulla base delle caratteristiche della malattia.

CAPITOLO 16 MIOPATIE INFIAMMATORIE domanda Caterina Campanelli rispondono Giuseppe Patuzzo, Elisa Tinazzi e Claudio Lunardi

Cosa sono le miopatie infiammatorie? Le miopatie infiammatorie, note anche come miositi, rappresentano un gruppo di malattie infiammatorie croniche a eziologia sconosciuta, che coinvolgono la muscolatura striata. Le miositi si caratterizzano, dal punto di vista clinico, per la presenza di debolezza e facile esauribilità muscolare e, dal punto di vista istologico, per un infiltrato infiammatorio a livello del tessuto muscolare. In relazione alle caratteristiche dell’infiltrato e del quadro clinico si possono distinguere: la polimiosite, la dermatomiosite e la miosite da corpi inclusi. Queste, oltre a coinvolgere la muscolatura, possono interessare anche la cute e il polmone e, in misura minore, altri organi e apparati e, pertanto, sono da considerarsi come malattie sistemiche. Accanto a queste forme, ve ne sono altre più rare, come la miopatia idiopatica del bambino, la sindrome da anticorpi anti-sintetasi, e la miosite necrotizzante. Da ricordare, infine, che alcune miopatie infiammatorie hanno un’origine genetica, da mutazione di geni che codificano per proteine presenti nella cellula muscolare. G. Patuzzo () • E. Tinazzi () • C. Lunardi () Dipartimento di Medicina, Università di Verona Unità Operativa Malattie Autoimmuni, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Verona [email protected] [email protected] [email protected] C. Campanelli () AIM rare Onlus - Associazione Italiana Miopatie Rare [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_16, © Springer-Verlag Italia 2013

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C. Campanelli, G. Patuzzo et al.

Le miopatie sono malattie rare? Gli studi d’incidenza e prevalenza riportano dati spesso contrastanti tra loro. I criteri diagnostici proposti da Bohan e Beter sono stati introdotti a partire dal 1975, quando la miosite a corpi inclusi non era ancora stata riconosciuta come entità nosologica a sé stante [1]. Inoltre, proprio perché sono malattie rare e, dunque, ancora poco note, è possibile che alcuni pazienti sfuggano alla diagnosi. Si stima che la polimiosite e la dermatomiosite abbiano insieme un’incidenza variabile da 1 a 12 nuovi casi l’anno per milione di abitanti. La loro prevalenza è intorno ai 5–10 casi per 100.000 abitanti. Prediligono il sesso femminile, e hanno due picchi d’incidenza: uno tra i 35 e i 44 anni e l’altro tra i 56 e 64 anni [1, 2]. Le forme a insorgenza giovanile sono ancor più rare: tra queste prevale la dermatomiosite con un rapporto dematomiosite/polimiosite pari a 17:1. La miopatia idiopatica del bambino ha poi un’incidenza che varia da 2 a 4 casi l’anno per milione di abitanti [3]. 142

Che fare quando il sistema immunitario sbaglia? L’eziopatogenesi della malattia presenta ancora molti aspetti oscuri. Le cellule del sistema immunitario, deputate alla difesa dell’organismo, attaccano per errore l’organismo stesso di cui fanno parte (self), in particolare i piccoli vasi presenti nel muscolo, per quanto riguarda la dermatomiosite, e le fibre muscolari per quanto riguarda la polimiosite. Vi sono poi autoanticorpi, cioè anticorpi diretti contro strutture del nostro organismo. Alcuni di questi, come gli anti-Jo-1 si ritrovano nel 20–25% dei pazienti affetti da polimiosite o dermatomiosite e i loro livelli correlano con l’attività di malattia e si associano a specifici aspetti clinici. Non è noto che cosa porti il sistema immunitario ad attaccare l’organismo di cui fa parte. L’ipotesi più accreditata è che all’origine vi sia una predisposizione genetica associata a fattori ambientali quali infezioni virali, sostanze tossiche o l’esposizione ad alcuni farmaci [1, 2].

CAPITOLO 16 MIOPATIE INFIAMMATORIE

Quali sono i sintomi delle miopatie infiammatorie, oltre alla debolezza muscolare? Il sintomo più caratteristico e frequente all’esordio è rappresentato dalla debolezza o dalla facile esauribilità muscolare che coinvolgono inizialmente la muscolatura prossimale degli arti. La debolezza muscolare è solitamente simmetrica e progressiva e comporta una crescente difficoltà al paziente nell’eseguire le quotidiane attività, come l’alzarsi dalla sedia, salire le scale, pettinare i capelli. I movimenti di tipo fine sono in genere risparmiati, almeno in un primo periodo, fatta eccezione per la miopatia da corpi inclusi, che può esordire con un coinvolgimento della muscolatura distale degli arti. Alla debolezza possono accompagnarsi dolori muscolari diffusi. Nella polimiosite, con il progredire della malattia possono essere coinvolti anche i muscoli che presiedono alla respirazione e alla deglutizione, con conseguente fame d’aria nel primo caso e difficoltà alla deglutizione nel secondo. Accanto alla sintomatologia muscolare possono comparire anche stanchezza generale, febbricola, cefalea, artralgie, calo ponderale. Più caratteristiche della dermatomiosite sono le manifestazioni cutanee. Tra queste sono da ricordare le papule di Gottron, placche o papule rosso-violacee, leggermente rilevate, presenti in corrispondenza delle nocche delle dita, dei gomiti, delle ginocchia, dei malleoli. Un’altra manifestazione cutanea relativamente frequente è il rash eliotropo, colorazione bruno-violacea delle palpebre superiori accompagnato talvolta da edema. Simile al precedente è il segno dello scialle, il cui nome deriva dal fatto che si manifesta colpendo fronte, collo, spalle, parte superiore del tronco e viso. Se la stessa manifestazione interessa la porzione anteriore del collo e supero-laterale del torace si parlerà di V sign. Entrambe le lesioni possono essere fotosensibili. Vi può essere una forma rarissima di dermatomiosite senza miopatia, nella quale sono presenti solo le tipiche manifestazioni cutanee. Nella dermatomiosite, in particolare nelle forme a esordio giovanile, possono comparire noduli sottocutanei formati da depositi di calcio, di color bianco-giallastro, di consistenza lignea, estremamente dolorosi, in corrispondenza delle prominenze ossee o nelle zone sottoposte a ripetuto traumatismo. Tanto nella polimiosite quanto nella

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C. Campanelli, G. Patuzzo et al.

dermatomiosite vi può essere un interessamento del polmone. Il fenomeno di Raynaud è presente soprattutto se la miosite si associa a una connettivite. Assai raro, ma temibile, è il coinvolgimento cardiaco, che si esprime con cardiopalmo, difetti di conduzione, aritmie e compromissione della funzione cardiaca. Quali sono l’evoluzione e l’associazione della miopatia con altre malattie?

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In molti pazienti, la miosite è diagnosticata solo diversi mesi dopo l’esordio della sintomatologia. La debolezza muscolare inizia in modo subdolo e, in assenza di adeguata terapia, progredisce lentamente e inesorabilmente. Rare sono le forme a insorgenza acuta. La possibile associazione con una neoplasia riguarda soprattutto la dermatomiosite. Il rischio di sviluppare un tumore è maggiore se la malattia esordisce dopo i 50 anni. Il sospetto di neoplasia deve sempre essere indagato quando ci si trovi di fronte a una malattia resistente alla terapia, a rash cutaneo esteso, atipico o associato a importante prurito. Le miositi possono, inoltre, associarsi ad altre malattie autoimmuni, come la sclerosi sistemica, il lupus eritematoso sistemico e la connettivite mista. Come conciliare miopatie e gravidanza? Per quanto riguarda la gravidanza, questa deve essere attentamente pianificata. È sconsigliato intraprendere una gravidanza quando la malattia è attiva: in questo caso, la paziente deve essere attentamente monitorata e la gravidanza è considerata ad alto rischio. Ottimi risultati possono essere conseguiti quando la gravidanza è intrapresa in fase di remissione di malattia [2]. Cos’è la sindrome da autoanticorpi anti-sintetasi? Si caratterizza per la presenza di anticorpi anti-sintetasi associati a un esordio acuto di polimiosite/dermatomiosite, interstiziopatia polmonare, febbre, poliartrite non erosiva, fenomeno di Raynaud. Tra gli autoanticorpi, quello

CAPITOLO 16 MIOPATIE INFIAMMATORIE

di più frequente riscontro è l’anti-Jo-1. Oltre a questo, sono noti altri anticorpi anti-sintetasi, che si ritrovano in non più del 10% dei pazienti con miosite; i più noti sono: l’anti-PL7, -PL-12, -OJ, -LJ e -KS. Non tutti questi autoanticorpi sono presenti contemporaneamente: alcuni, come l’anti-EJ si associano più facilmente alle manifestazioni cutanee della dermatomiosite, altri, come l’anti-PL-7, -PL-12 e -KS si ritrovano in presenza di artrite o fibrosi polmonare. L’interstiziopatia polmonare è presente in più della metà dei pazienti con sindrome da autoanticorpi anti-sintetasi. Un’altra tipica caratteristica è la “mano da meccanico” caratterizzata da dita con cute ipercheratosica e fissurata sul versante laterale [2, 4]. Come si formula una diagnosi di miopatia? La diagnosi si basa sulla presenza delle tipiche manifestazioni cliniche e di rilievi laboratoristici, strumentali e bioptici. Tra gli esami di laboratorio, caratteristico è l’aumento delle CPK, un enzima derivante dalle cellule muscolari. Nelle fasi di attività di malattia, le CPK possono essere notevolmente aumentate, per poi ridursi fino a normalizzarsi nelle fasi di remissione. Per questo il loro monitoraggio è utile per valutare l’attività di malattia. Accanto alle CPK, anche altri enzimi come LDH, ALT, AST sono di solito elevati. Nelle fasi di attività di malattia possono risultare elevati anche i segni di infiammazione come VES e PCR. Per quanto riguarda l’autoimmunità, gli ANA (anticorpi anti-nucleo) possono essere positivi nel 50–80% dei casi, e presentano pattern “punteggiato”. Tra gli anti-ENA (antigeni nucleari estraibili) vanno ricordati gli anti-PM-Scl, gli anti-RNP e gli anti-Ro/SSA che risultano positivi soprattutto nelle forme di miosite associate ad altre malattie autoimmuni, in particolare la sclerosi sistemica o la sindrome di Sjögren. Tra gli autoanticorpi specifici per la miosite vanno ricordati gli autoanticorpi anti-sintetasi, gli anti-SRP, che si associano a una forma di malattia più grave; gli anti-Mi2 si ritrovano nella dermatomiosite a esordio giovanile [2, 4]. Tra le indagini strumentali un ruolo importante è svolto dall’elettromiografia, tecnica in grado di evidenziare alterazioni tipiche. Utile può essere anche la risonanza magnetica, che permette di evidenziare alterazioni mu-

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C. Campanelli, G. Patuzzo et al.

scolari. La TC ad alta risoluzione è utile per valutare il coinvolgimento polmonare. La biopsia muscolare è fondamentale ai fini diagnostici ed è l’unica indagine che permette di porre diagnosi di miosite da corpi inclusi. Il quadro istopatologico della dermatomiosite è diverso rispetto a quello della polimiosite. Nel primo caso, l’infiltrato infiammatorio è rappresentato da linfociti T CD4+, linfociti B, macrofagi e cellule dendritiche che si dispongono attorno ai piccoli vasi che irrorano il muscolo e tra i fasci di fibre muscolari; nel secondo caso le cellule infiammatorie sono rappresentate da linfociti T CD8+, da cellule dendritiche e macrofagi, che si localizzano tra le cellule muscolari. Nella miosite da corpi inclusi il quadro istologico è simile a quello che si osserva nella polimiosite, ma all’interno dei nuclei delle cellule muscolari sono visibili le tipiche granulazioni eosinofile [4, 5]. In cosa consiste la terapia farmacologica?

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L’obiettivo della terapia è quello di ridurre la stanchezza e la facile esauribilità muscolare e di normalizzare i segni di infiammazione e gli enzimi muscolari. La terapia cortisonica è il trattamento di scelta. La posologia iniziale utilizzata varia in funzione della gravità della malattia. Solitamente s’inizia con dosi medio-alte di prednisone (0,5–1 mg/kg) per almeno 4 settimane o, comunque, fino a ottenere la normalizzazione delle CPK e il miglioramento clinico. La dose del cortisone è poi ridotta lentamente, fino ad arrivare alla dose di mantenimento (ad esempio, 5 mg al dì). In caso di esacerbazione della malattia, la posologia dello steroide può essere aumentata. Nelle forme più gravi, con interessamento polmonare e/o cardiaco, lo steroide può essere somministrato per via endovenosa a elevato dosaggio. Nei pazienti che non rispondono alla sola terapia steroidea o a scopo di ridurre il cortisone, è possibile iniziare un farmaco immunosoppressore come il methotrexate o l’azatioprina. La ciclosporina può altresì rivelarsi utile, così come il micofenolato mofetile. La ciclofosfamide, immunosoppressore con maggiori effetti collaterali, è in genere riservata al trattamento dell’interstiziopatia polmonare. Le immunoglobuline per via endovenosa ad alte dosi sono utili in alcuni casi di polimiosite e dermatomiosite. Promettente, soprattutto nei casi che

CAPITOLO 16 MIOPATIE INFIAMMATORIE

non rispondono alla consueta terapia di fondo, sembra essere l’uso di farmaci biotecnologici come il rituximab, anticorpo contro i linfociti B. Un discorso a parte merita la miopatia da corpi inclusi che, il più delle volte, presenta una scarsa risposta alla terapia. Anche in questo caso può essere utile la terapia steroidea, in associazione a methotrexate, perlomeno in quei casi in cui la malattia non è troppo avanzata [2, 4, 5]. Qual è l’utilità della terapia fisica? Recenti studi dimostrano come l’attività fisica aerobica possa essere utile come coadiuvante nel trattamento della polimiosite e della dermatomiosite. L’attività fisica, eseguita nelle fasi di remissione della malattia, ha il principale scopo di migliorare la forza muscolare. A tal riguardo, possono essere utili esercizi che prevedano una contrazione isotonica e isometrica della muscolatura o esercizi passivi per mantenere l’escursione articolare ed evitare contratture, specie nei giovani [6]. 147

Bibliografia 1. Mammen AL (2011) Autoimmune myopathies: autoantibodies, phenotypes and pathogenesis. Nat Rev Neurology 7:347–354 2. Zong M, Lundberg IE (2011) Pathogenesis, classification and treatment of inflammatory myopathies. Nat Rev Rheumatology 7:297–306 3. Huber AM (2012) Idiopathic inflammatory myopathies in childhood: current concepts. Pediatr Clin N Am 59:365–380 4. Dalakas MC (2012) Phathogenesis and therapies of immune-mediated myopathies. Autoimmunity Rev 11:203–206 5. Marie I, Mouthon L (2011) Therapy of polymyositis and dermatomyositis. Autoimmunity Rev 11:6–13 6. Alexanderson H (2012) Exercise in inflammatory myopathies, including inclusion body myositis. Curr Rheumatol Rep 14:244–251

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE domanda Alberto Barberis rispondono Chiara Azzari, Clementina Canessa, Francesca Lippi (sul bambino) e Marco De Carli (sull’adulto)

Il bambino Cosa e quante sono le immunodeficienze? Le immunodeficienze sono un gruppo estremamente eterogeneo. Ad oggi conosciamo circa 130 differenti malattie, determinate da alterazioni nello sviluppo e/o funzione del sistema immunitario (SI). Quando una o più componenti del SI mancano o sono difettive si sviluppa una condizione di immunodeficienza la cui gravità è proporzionale all’entità del difetto. Per quanto detto, i difetti che colpiscono la produzione degli anticorpi si manifestano con gravi infezioni da microbi extracellulari e, in particolare, da quelli cosiddetti piogeni (ovvero, che provocano formazione di pus) come lo pneumococco, il meningococco, lo stafilococco e molti altri ancora. Di solito, le persone colpite da questi difetti sono capaci di difendersi bene da microrganismi quali virus o funghi. Al contrario, i difetti che colpiscono il sistema C. Azzari () · C. Canessa · F. Lippi Ospedale Meyer, Firenze M. De Carli () SOC Medicina 2 Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia, Udine e-mail: [email protected] A. Barberis () AIP – Associazione Immunodeficienze Primitive [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_17, © Springer-Verlag Italia 2013

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A. Barberis, C. Azzari et al.

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dei linfociti T si manifestano, di solito, con gravi infezioni da microrganismi intracellulari come i virus e i funghi. Non si deve, però, semplificare troppo perché solitamente le due componenti principali del SI collaborano per la buona riuscita della risposta alle infezioni: infatti, i linfociti T aiutano i linfociti B nella produzione degli anticorpi e, di conseguenza, le persone con alterazioni cellulari T hanno difetti anche a carico della produzione degli anticorpi stessi e ciò li rende suscettibili non soltanto alle infezioni virali e fungine ma anche alle infezioni da patogeni extracellulari. Inoltre, essendo il SI coinvolto non solo nella difesa dagli agenti infettivi, ma anche contro la crescita di cellule neoplastiche, molti pazienti con diverse forme di immunodeficienze sono più suscettibili ai tumori. Infine, nel caso il difetto immunologico comporti una mancata regolazione della risposta immunitaria stessa (e, in particolare, vengano persi i meccanismi di tolleranza verso il self), si possono sviluppare manifestazioni autoimmuni. Eccetto il deficit assoluto di IgA, tutte le altre forme di immunodeficienza sono rare, con un’incidenza media di 1:10.000 nati vivi. La maggior parte esordisce in età pediatrica e il 40% entro il primo anno di vita. È probabile, però, che l’incidenza della immunodeficienze primitive possa essere sottostimata; infatti, quando tale malattia si manifesta precocemente con un’infezione grave che porta a morte il bambino, tale malattia non sempre viene ricercata e talvolta può essere sospettata, senza però riuscire ad arrivare a una diagnosi definitiva (Tabella 17.1). Tabella 17.1 Classificazione dei difetti dei linfociti T e B (WHO, 1997, modificata), frequenza relativa ed ereditarietà Immunodeficienze umorali Agammaglobulinemia XR (Bruton) Immunodeficienza comune variabile (CVID) Ipogammaglobulinemia XR con deficit di GH Deficit selettivo di IgA Deficit di sottoclassi IgG Deficit anticorpale in normogammaglobulinemia Delezione dei geni per le catene pesanti Ipogammaglobulinemia transitoria del lattante Deficit di catene leggere K

Frequenza 1:100.000 Frequente Rara 1:500 Frequente Rara Molto rara Frequente Rara

Ereditarietà XR XR AR/?

(continua)

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

Tabella 17.1 (continua) Immunodeficienze umorali Immunodeficienza con Iper 1gM (HICM Deficit di ADA Deficit di NP Digenesia reticolare SCID con assenza di linfociti T e B SCID con B linfociti Sindrome di Omenn Deficit di CD7 Deficit di trasduzione del segnale Deficit di molecole HLA classe II Deficit di espressione del CD3 Difetti dei fagociti Sindrome di Shwachman Sindrome di Kostman Neutropenia ciclica Mielocatessi Neutropenia benigna LAD tipo 1,2 Chediak Higashi Deficit granuli specifici Malattia granulomatosa cronica Deficit di mieloperossidasi Deficit di G6PD Deficit di recettore per l’IFN-y Immunodeficienze associate a sindromi Atassia-telangectasia Sindrome di Di George Sindrome di Wiskott Aldrich Sindrome con Iper IgE Candidiasi mucocutanea cronica AR, autosomico-recessiva; XR, X recessiva

Frequenza Rara Frequente Rara Rara Frequente Molto frequente Rara Rara Rara Rara Rara Frequenza Rara Rara Rara Rara Frequente Rara Rara Molto rara 1:100.000 1:250.000 1:2.000 – 4.000 Molto rara Rara Frequenza 1:100.000 1:20.000 1:70.000 4:1.000.000 Rara Rara

Ereditarietà XR/AR AR AR AR AR AR (25% dei casi) XR (75% dei casi) AR AR AR AR AR Ereditarietà AR AR

AR AR AR AR XR AR

Ereditarietà AR

XR

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A. Barberis, C. Azzari et al.

Ci sono dei campanelli d’allarme che ci devono far venire il sospetto di essere affetti da una immunodeficienza?

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Tutte le forme di immunodeficienza si caratterizzano per un’aumentata suscettibilità a infezioni, che sono frequenti, spesso gravi, a decorso prolungato e colpiscono caratteristicamente varie sedi. Sono frequenti anche diarrea cronica, manifestazioni cutanee, mughetto persistente, lenta guarigione delle ferite. La suscettibilità selettiva a patogeni diversi dipende dalla natura del difetto immunitario. Sono stati definiti 10 segni che, se presenti, devono far sospettare un’immunodeficienza, richiedendo quindi particolare attenzione e approfondimenti (Fig. 16.1). Come tutte le malattie croniche, i pazienti possono presentare scarso accrescimento staturo-ponderale, determinato dalla malattia di base, ma anche conseguente alle infezioni ripetute. I pazienti, tuttavia, possono presentare anche sintomi di altre malattie associate, talvolta così evidenti e importanti da “mascherare” quelli della sottostante immunodeficienza. Le malattie più frequentemente associate sono quelle autoimmuni o reumatiche, le malattie che colpiscono l’intestino o il sangue. La diagnosi di immunodeficienza si fa sempre nell’infanzia o si può scoprire di esserne affetti anche in età adulta o prima di nascere? In passato si riteneva che tali malattie fossero estremamente rare e gravi, tanto da manifestarsi molto precocemente e interessare solo lattanti o bambini nei primi anni di vita, ma è ormai ben noto che possono presentarsi anche con sintomi modesti e, quindi, in età successive, nel bambino più grande, nell’adolescente o addirittura nell’adulto. Diagnosticarle precocemente è di estrema importanza, in quanto tutte le immunodeficienze possono essere curate e molte possono guarire: quanto più presto vengono iniziate le cure, tanto maggiore è la probabilità di evitare che le infezioni o, talvolta, le malattie autoimmuni possano causare danni irreparabili di organi come il polmone o il tratto gastrointestinale. Inoltre, la diagnosi precisa delle immunodeficienze primitive consente di avviare precocemente lo studio del

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

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Fig. 17.1 I principali sintomi delle immunodeficienze. L’elenco di questi sintomi è stato elaborato dal Medical Advisory Board della Jeffrey Modell Foundation. Un consulto con un esperto di immunodeficienze primitive è fortemente consigliato. Copyright Jeffrey Modell Foundation, riprodotto con autorizzazione

A. Barberis, C. Azzari et al.

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difetto genetico, consentendo così alla famiglia la possibilità di pianificare le future gravidanze. Oggi è possibile fare diagnosi anche in epoca fetale: infatti, se si conosce il difetto del gene che causa la malattia, lo si va a cercare direttamente nel DNA delle cellule del nascituro. Per la diagnosi prenatale vengono utilizzati i villi coriali che possono essere prelevati tra la prima e la 10ª settimana di gestazione. Se invece il difetto non è noto, è necessario valutarne indirettamente la possibile esistenza attraverso la misurazione dei suoi prodotti. Anche questo esame può essere applicato alla diagnosi prenatale ed è solitamente effettuato a partire dal secondo trimestre di gravidanza (amniocentesi alla quindicesima settimana, esame del sangue fetale mediante funicolocentesi alla ventesima settimana). In tutto il mondo si sta studiando per poter mettere a punto un buon metodo di screening delle immunodeficienze, in modo che si possa fare diagnosi alla nascita e intervenire il prima possibile per le cure necessarie. Per il momento, nel programma di screening mediante tecniche di tandem massa della Regione Toscana, insieme alle circa 50 malattie del metabolismo ricercate sul sangue raccolto nello spot neonatale in terza giornata di vita, è stata aggiunta l’immunodeficienza severa combinata da deficit di adenosina-deaminasi (una grave immunodeficienza con difetto dei linfociti T). I primi risultati sono molto promettenti e la ricerca prosegue per poter allargare tale screening ad altre immunodeficienze. Le immunodeficienze si possono sospettare dagli esami del sangue che vengono solitamente effettuati di routine? Di fronte a un paziente con infezioni ricorrenti o con i sintomi di una malattia che fanno pensare a un difetto del SI, già dalla valutazione di esami molto semplici come emocromo o proteine totali e protidogramma si può capire se è utile effettuare ulteriori approfondimenti in tal senso. L’emocromo (esame emocromocitometrico) è cruciale: un basso numero di linfociti (meno di 1.000/mm3) fa porre il sospetto di un’immunodeficienza combinata grave; un numero basso di granulociti (meno di 1.500/mm3) fa sospettare una neutropenia o la sindrome di Chediak-Higashi o di Shwa-

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

chman, mentre un elevato numero di globuli bianchi (fino a 50.000– 70.000/mm3) suggerisce un deficit di adesione leucocitaria (LAD); infine, la piastrinopenia con piastrine piccole è segno di sindrome di Wiskott-Aldrich. Altrettanto importante è la determinazione dei livelli di immunoglobuline. Queste possono indirettamente essere valutate mediante la frazione gamma del protidogramma. Se risulterà al di sotto del valore di normalità sarà utile effettuare il dosaggio delle immunoglobuline specifiche: quando basse o assenti (attenzione che la concentrazione delle immunoglobuline venga confrontata con i valori normali per l’età!), si procede agli accertamenti di “secondo livello” per discriminare tra le diverse forme di ipogammaglobulinemia. Si contano allora le cellule B: nella agammaglobulinemia X-recessiva sono assenti, mentre nelle altre ipogammaglobulinemie i linfociti B sono presenti in numero normale. Nel sospetto di un difetto delle cellule T, si contano i linfociti T circolanti e le loro principali sottopopolazioni (CD3, CD4, CD8): se alterati, è necessario approfondire gli accertamenti presso un ospedale di terzo livello. Pertanto, nel sospetto clinico di immunodeficienza, l’emocromo, il dosaggio delle immunoglobuline e la conta delle sottopopolazioni linfocitarie sono i cosiddetti esami “di primo livello” sulla base dei cui risultati può essere presa la decisione di procedere ad esami più complessi di analisi cellulare, molecolare o genetica, detti “di secondo livello”. Quali vaccini sono indicati nei pazienti immunodepressi? L’incidenza e la gravità di alcune malattie prevenibili con i vaccini è più alta in soggetti immunodepressi e, pertanto, alcuni vaccini sono particolarmente raccomandati in questi pazienti. In soggetti con immunodeficienza sono, in genere, raccomandati il vaccino anti-influenzale inattivato (da eseguire annualmente) e i vaccini contro germi con capsula polisaccaridica (vaccino coniugato contro meningococco, pneumococco e Haemophilus influenzae tipo b). I familiari e altri contatti stretti di pazienti immunocompromessi dovrebbero ricevere tutte le vaccinazioni previste in base all’età, compresa l’anti-influenzale, annualmente. I virus

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A. Barberis, C. Azzari et al.

del vaccino del morbillo, della parotite e della rosolia non si trasmettono ai contatti, pertanto dopo vaccinazione dei familiari non si devono attuare particolari precauzioni per il paziente immunodepresso. Tutti i vaccini inattivati possono essere somministrati con sicurezza alle persone con difetti del SI, con modalità e calendario standard. Pazienti con la maggior parte delle immunodeficienze non devono invece ricevere vaccinazione con vaccini vivi-attenuati (MPR, varicella, BCG, febbre gialla, rotavirus). Nel dubbio, comunque, è utile rivolgersi a un centro specializzato.

L’adulto È vero che le immunodeficienze primitive sono patologie che possono essere diagnosticate con semplici esami di laboratorio?

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Le immunodeficienze primitive comprendono oltre 130 diverse malattie geneticamente determinate, caratterizzate da difetti congeniti della differenziazione e/o della funzione del sistema immunitario. Sebbene le suddette malattie siano causate da alterazioni funzionali di un singolo gene o di una coppia di geni, solo una parte delle diverse forme cliniche di immunodeficienze primitive esordisce in età neonatale o in età pediatrica. Circa il 50% dei pazienti con immunodeficienza primitiva sono in realtà soggetti adulti. Tali forme di immunodeficienza primitiva hanno, nella maggior parte dei casi, un esordio tardivo o vengono diagnosticate in età adulta a distanza di molti anni dal loro esordio clinico. È evidente, pertanto, che negli adulti con immunodeficienza primitiva il dato laboratoristico saliente è rappresentato dal difetto quantitativo di anticorpi. La carenza o assenza di anticorpi può essere già evidente in esami eseguiti di routine come, ad esempio, l’elettroforesi delle proteine sieriche, esame che consente di separare in un campo elettrico le diverse proteine presenti nel sangue. Nella frazione dell’elettroforesi che viene denominata gamma tende a raccogliersi la maggior parte degli anticorpi o immunoglobuline che prendono, pertanto, anche il nome di gammaglobuline. Anticorpi, immunoglobuline e gammaglobuline sono tutti sinonimi che fanno riferimento a caratteristiche diverse di queste particolari proteine con funzioni

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

difensive presenti nel sangue e nei liquidi biologici. La riduzione o l’assenza della frazione gamma all’elettroforesi sta pertanto a indicare una riduzione o un’assenza di anticorpi nel sangue. L’elettroforesi è un esame che, anche se diffuso ed eseguito con notevole frequenza, nella maggior parte dei casi non viene sufficientemente valutato, analizzato e interpretato dal clinico che ne richiede l’esecuzione. Può quindi succedere – e non raramente – che pazienti con difetti quantitativi di anticorpi arrivino a una diagnosi di immunodeficienza a distanza di molti anni dall’esordio dei sintomi, nonostante l’esecuzione di numerosi tracciati elettroforetici che erano già in grado di suggerire la presenza del difetto immunitario. Oltre all’elettroforesi, vi è un altro semplice esame eseguibile virtualmente da tutti i laboratori diagnostici. Si tratta della determinazione dei livelli sierici quantitativi delle principali classi anticorpali o immunoglobuliniche (Ig) che sono le IgG, IgA e IgM. Con tali termini vengono identificate immunoglobuline con caratteristiche immunochimiche e funzionali diverse. IgG, IgM e IgA possono essere variamente ridotte, assenti e/o aumentate e, quindi, suggerire o essere diagnostiche per la presenza di alcune delle malattie che oggi sono classificate nel gruppo delle immunodeficienze con deficit prevalentemente anticorpali. Qualora si osservi una riduzione significativa di almeno 2 classi immunoglobuliniche, si parla di immunodeficienza comune variabile (IDCV). Vi sono poi altre forme di immunodeficienze da difetti anticorpali dell’adulto: si tratta dei difetti di sottoclassi IgG che possono essere documentati eseguendo la determinazione dei livelli sierici delle sottoclassi IgG, un esame semplice, ma specialistico, che viene effettuato su specifica richiesta del clinico che sospetta la presenza di un’immunodeficienza con deficit anticorpale. È questo il motivo per cui la sua esecuzione è disponibile in poche strutture laboratoristiche. Nella fase diagnostica sono anche compresi altri esami che servono a definire meglio il difetto, a confermare la presenza della malattia e a ricercare la presenza di patologie associate e di complicanze. La maggior parte di questi esami sono di facile accesso al paziente e sono disponibili nella maggior parte delle strutture cliniche, ma l’interpretazione, talvolta, richiede che gli specialisti abbiano la competenza specifica per inquadrare i reperti ri-

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scontrati nel contesto delle diverse possibili complicanze o patologie con le quali si manifesta l’immunodeficienza dell’adulto. Può anche accadere che patologie associate o complicanze possano essere rilevate nel corso di esami programmati per altre indicazioni cliniche. La diminuzione delle immunoglobuline si associa frequentemente a un corteo clinico caratterizzato da una maggiore facilità a contrarre infezioni, sia delle alte e basse vie aeree che del tratto gastrointestinale. Per quanto concerne, infine, la ricerca dei difetti genetici responsabili dell’immunodeficienza, questi vengono oggi eseguiti solo in pochissimi laboratori specializzati che sono dei centri di riferimento per i clinici che si occupano specificamente di immunodeficienze primitive. Possiamo, pertanto, riassumere come segue: • vi sono esami molto semplici e la cui esecuzione è possibile presso tutti i laboratori di analisi e che consentono di individuare la presenza dei deficit anticorpali; • vi sono altri esami di laboratorio che identificano alcune forme cliniche di immunodeficienza primitiva che possono essere eseguiti presso un numero limitato di strutture laboratoristiche; • la maggior parte degli accertamenti che servono a definire la presenza di malattie associate o di complicanze possono essere eseguiti presso quasi tutte le strutture ospedaliere ma, frequentemente, l’interpretazione richiede competenze specifiche e specialistiche. In alcuni casi il rilievo di patologie o complicanze delle immunodeficienze primitive può essere riscontrato nel corso di esami eseguiti per altra indicazione. In questo caso deve essere lo specialista che li esegue, o il clinico che li interpreta, che può trovarsi a sospettare la presenza di un possibile deficit immunologico; • una volta accertata la patologia, gli eventuali studi genetici successivi sono di pertinenza di pochi laboratori di riferimento. È vero che sono malattie incurabili? Come è già stato accennato, le immunodeficienze primitive sono, in realtà, un gruppo di diverse malattie causate da alterazioni di numerosi possibili

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

geni che si traducono in difetti a carico di componenti e funzioni del sistema immunitario. Molte di queste malattie possono essere curate e addirittura risolte dalle terapie attualmente disponibili. Le forme di immunodeficienza grave combinata, ad esempio, possono oggi essere sottoposte a trapianto di midollo con esiti impensabili solo alcuni anni fa. Il trapianto da donatore istocompatibile, infatti, garantisce la sopravvivenza a malattie che una volta erano mortali nell’arco di pochi mesi dalla nascita in pressoché tutti i pazienti. Le indicazioni al trapianto di midollo si stanno progressivamente estendendo anche ad altre forme di immunodeficienza primitiva. Oggi, quindi, molte forme di immunodeficienza primitiva che compaiono in età neonatale possono essere affrontate con successo con il trapianto di midollo. Le immunodeficienze da difetti anticorpali sono meritevoli di un discorso a parte. Tanto quelle a esordio nell’età adulta, quanto quelle che si manifestano già nell’età pediatrica possono essere oggi trattate mediante infusione di immunoglobuline per via endovenosa o per via sottocutanea. Questa terapia, detta sostitutiva, si è dimostrata in grado di ridurre la frequenza e la gravità degli episodi infettivi, riportando il paziente a una prospettiva di vita del tutto sovrapponibile a quella dei soggetti normali. Il rischio di contrarre infezioni è stato drasticamente abbattuto, al punto tale che in questi soggetti la probabilità di complicanze infettive gravi è spesso sovrapponibile a quello della popolazione immunocompetente. Va però tenuto presente che, se le infezioni hanno già causato danni a carico di mucose e organi, la terapia sostitutiva non riesce a prevenire l’evoluzione di alcune di queste complicanze. L’esempio più evidente si ha nel caso delle bronchiectasie, una complicanza che risulta essere piuttosto frequente nei pazienti affetti da immunodeficienza da difetti anticorpali. Se si sono già instaurate tali caratteristiche lesioni a carico dei bronchi, le immunoglobuline somministrate per via endovenosa o sottocutanea non riescono a prevenire la loro progressiva estensione di numero e di dimensioni. Le bronchiectasie, causando il ristagno di muco, possono a loro volta favorire episodi infettivi bronchiali. In questi casi trova indicazione la fisiokinesiterapia respiratoria, che consente al paziente di drenare le secrezioni riducendo il rischio di sovrinfezioni batteriche. Un’altra complicanza particolare, caratteristica dell’IDCV, è l’enteropatia. Con tale termine viene identificato un particolare quadro anatomo-clinico caratterizzato sul

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piano sintomatologico dalla presenza di diarrea, dolori addominali e malassorbimento. Le lesioni della mucosa che sottendono alle manifestazioni cliniche dell’enteropatia sono rappresentate da un aumento del numero dei linfociti intraepitaliali e da alterazioni del trofismo dei villi intestinali, che può arrivare fino alla loro completa atrofia. Si tratta di alterazioni istologiche sovrapponibili a quelle che si osservano nella malattia celiaca ma, a differenza di quest’ultima, le lesioni sono scarsamente responsive alla dieta senza glutine. L’enteropatia non risponde nemmeno alla terapia sostitutiva ed è, anzi, responsabile di un’aumentata perdita di immunoglobuline per via intestinale, con conseguente riduzione dei livelli ematici protettivi e necessità di impiegare maggiori dosaggi di immunoglobuline. Va infine ricordato che le immunodeficienze possono favorire la comparsa di altre patologie come malattie autoimmuni e neoplasie. In questo caso, l’efficacia della terapia e la prognosi dipendono dalla malattia che viene riscontrata. Per quanto concerne il difetto selettivo di IgA, questo è presente in 1 individuo ogni 400–700 nati e rappresenta la forma più frequente di immunodeficienza; in questi casi, la terapia sostitutiva non trova indicazione in quanto: a) le IgA sono presenti solo in tracce nei preparati immunoglobulinici; b) qualora fossero presenti andrebbero a normalizzare i livelli sierici, ma non le IgA secretorie, ovvero quelle immunoglobuline che costituiscono una specie di “vernice” protettiva su tutte le mucose; c) nei soggetti con deficit assoluti di IgA sono possibili reazioni anche gravi in corso di terapia sostitutiva. Pertanto, la terapia sostitutiva può trovare indicazione solo nei pazienti con difetto relativo di IgA associato a deficit di IgG. In questi casi, si può eventualmente determinare in centri specializzati la presenza di anticorpi anti-IgA prima di procedere all’infusione di immunoglobuline. Che cosa devo fare per avere una vita normale? A cosa devo rinunciare? I pazienti con immunodeficienza primitiva, se sottoposti con successo al trapianto o se eseguono regolarmente le terapie, hanno una vita pressoché normale o comparabile a quella dei soggetti sani. Va, tuttavia, rilevato che i

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pazienti che eseguono la terapia sostitutiva per via endovenosa sono costretti ogni 3–4 settimane a recarsi presso la struttura ospedaliera di riferimento per eseguire le infusioni di gammaglobuline. Questo può comportare perdita di giornate lavorative o scolastiche, nonché disagi e costi per il trasferimento per e dall’ospedale. Oggi, però, sono disponibili delle nuove formulazioni di immunoglobuline per via sottocutanea che non richiedono la somministrazione in ambiente ospedaliero. Dopo essere stato addestrato in ospedale a eseguire correttamente le infusioni per via sottocutanea, il soggetto prosegue la terapia autosomministrandosi le immunoglobuline presso la propria abitazione con una frequenza di 1–2 infusioni a settimana. Con tale tipologia di somministrazione il paziente viene messo in condizione di poter scegliere l’ora e il momento per lui più comodi per eseguire l’infusione e, in questo modo, può praticamente eliminare eventuali interferenze sull’attività lavorativa o extra-lavorativa. I pazienti che effettuano infusioni di immunoglobuline per via sottocutanea sono comunque soggetti a follow-up clinici nonché, al pari dei pazienti che effettuano la terapia per via endovenosa, a periodici esami ematochimici e strumentali di controllo. Sia i pazienti che effettuano la terapia sostitutiva per via endovenosa che quelli che la effettuano per via sottocutanea, nella maggior parte delle giornate svolgono una vita pressoché normale. Il soggetto che esegue una terapia sostituiva, infatti, può svolgere un’attività lavorativa o sportiva al pari della popolazione sana. Fanno ovviamente eccezione quei soggetti in cui sono insorte complicanze o altre patologie che interferiscono con lo stato di salute o che sono causa di limitazioni funzionali. Sebbene la terapia sostitutiva abbia drasticamente ridotto il rischio di sviluppare infezioni, il paziente dovrebbe, comunque, adottare delle precauzioni per ridurre il rischio di contrarle. Una precauzione raccomandata, ad esempio, è quella dietetica, che ha lo scopo di ridurre il rischio di insorgenza di infezioni a carico dell’apparato gastroenterico. La diarrea in corso di gastroenteriti ed enteriti può causare perdita di proteine a livello intestinale e abbassare i livelli di immunoglobuline circolanti, riducendo il grado di protezione conferito dalla terapia sostitutiva. Il paziente con immunodeficienza dovrebbe assicurarsi di consumare cibi ben cotti, di evitare di assumere carne, pesce e uova non cotte, nonché dovrebbe lavare bene la verdura che intende mangiare

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cruda e lavare e sbucciare la frutta. Si tratta di semplici norme di utilità per la popolazione generale, ma che dovrebbero essere adottate in maniera più stringente dai pazienti con immunodeficienza. Queste norme, all’apparenza non significativamente influenti sulla qualità della vita, possono però risultare per alcuni soggetti limitanti da un punto di vista psicologico ed essere considerate disturbanti per la vita di relazione. Un altro esempio di precauzioni normalmente suggerite riguarda l’esecuzione di interventi o procedure diagnostiche invasive. Queste dovrebbero essere programmate preferenzialmente nei giorni immediatamente seguenti l’infusione di immunoglobuline e possono talvolta necessitare di una profilassi antibiotica. Un’ulteriore limitazione che potrebbe avvertire il soggetto in terapia sostitutiva riguarda l’eventuale trasferimento per lunghi periodi all’estero. I soggiorni di parecchi mesi all’estero, infatti, possono essere un problema per il paziente che esegue la terapia sostitutiva per via endovenosa. Il paziente, in questo caso, deve riferirsi a una struttura ospedaliera in loco per garantirsi le periodiche infusioni. Questa limitazione non sussiste, invece, per il paziente che utilizza la terapia per via sottocutanea, in quanto egli può trasportare i flaconi di terapia che sono sufficienti per il suo fabbisogno anche per alcuni mesi. Va infine ricordato che la paziente in terapia sostitutiva non presenta controindicazioni per eventuali gravidanze. In caso di gravidanza, è però buona norma aumentare la quantità di immunoglobuline che vengono infuse, in quanto parte di queste passa al feto e conferisce protezione al nascituro nei primi mesi di vita. I neonati, infatti, seppur immunocompetenti, alla nascita sono difesi dalle immunoglobuline trasmesse passivamente dalla madre e occorrono alcuni mesi prima che essi riescano a produrre anticorpi in quantità sufficiente da risultare protettivi. In definitiva, è possibile affermare che i soggetti con immunodeficienza con deficit prevalentemente anticorpali attualmente non presentano significative limitazioni nelle loro attività e hanno una soddisfacente qualità della vita. Questo è particolarmente vero per il soggetto che esegue con regolarità la terapia e i necessari controlli clinici. Dovrebbero anche essere seguite delle norme comportamentali utili a ridurre il rischio infettivologico che, però, non sono sempre ben accettate dai pazienti.

CAPITOLO 17 IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE

I miei figli saranno anche loro ammalati? Le immunodeficienze primitive sono malattie determinate su base genetica. Ad oggi, sono stati caratterizzati un gran numero di geni le cui mutazioni sono coinvolte nelle genesi delle diverse forme cliniche di immunodeficienza. I geni che possono trasmettere la malattia possono essere molti e molto diversi tra loro e possono essere ereditati con differenti modalità di trasmissione. Nell’uomo vi sono 23 coppie di cromosomi: una coppia è costituita dai cosiddetti cromosomi sessuali, mentre altre 22 coppie di cromosomi sono non sessuali e identificate con il termine di autosomi. Il sesso maschile viene determinato dalla presenza contemporanea di un cromosoma X e uno Y, mentre il sesso femminile viene determinato dalla contemporanea presenza di due cromosomi X. In pratica, il soggetto maschio possiede un solo cromosoma X, mentre il soggetto femmina possiede una coppia di cromosomi X. Ne deriva che, se un gene difettivo o mutato si trova nel cromosoma X, nel maschio può completamente esprimersi in quanto singolarmente presente, mentre nella femmina la sua espressione può essere compensata dal gene normale (non mutato) presente sull’altro cromosoma X. È per questo motivo che alcune malattie geneticamente determinate si manifestano pressoché esclusivamente nel sesso maschile. La femmina che eredita il gene difettivo non esprime la malattia, ma trasporta il gene che può poi esprimersi in malattia nel figlio maschio che eredita il cromosoma X contenente il gene mutato. La donna, in questo caso, viene detta portatrice sana e i figli maschi hanno il 50% di probabilità di essere affetti dalla malattia, mentre le figlie femmine hanno il 50% di probabilità di divenire, a loro volta, portatrici sane. Va tuttavia rilevato che, se il figlio nasce sano, non trasmetterà più la malattia. Vi sono poi altri geni mutati che possono essere presenti negli autosomi. I geni, in questo caso, possono avere un carattere dominante, cioè sono in grado di esprimere il difetto anche in presenza di una controparte genica sana sull’altro cromosoma omologo, oppure possono possedere un carattere recessivo. Nel caso del gene recessivo trasportato dall’autosoma, la malattia può presentarsi solo se nel soggetto sono contemporaneamente presenti una coppia di geni omologhi mutati. Se, invece, è presente un

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solo gene mutato, la malattia non si rende evidente e l’individuo viene definito anche in questo caso portatore sano. Queste malattie vengono pertanto ereditate con una modalità definita autosomica recessiva, mentre le malattie che vengono ereditate con modalità dominante sono definite autosomiche dominanti. Si evince che nelle forme autosomiche dominanti la malattia ha il 50% di probabilità di trasmettersi da un genitore a un figlio mentre, nel caso delle autosomiche recessive, i figli di un soggetto malato e di uno sano ereditano solo lo stato di portatore sano. Nelle immunodeficienze primitive, la maggior parte delle forme a esordio nell’età neonatale e pediatrica sono incompatibili con la sopravvivenza e con il raggiungimento dell’età riproduttiva. Fanno eccezione alcune caratteristiche immunodeficienze primitive, come l’angioedema ereditario o altre più rare immunodeficienze che hanno ereditarietà autosomica dominante. In queste forme, la malattia in genere non causa suscettibilità a infezioni gravi, per cui il difetto è compatibile con sopravvivenze anche lunghe e può quindi essere trasmesso alla prole. Nella maggior parte delle immunodeficienze primitive, le modalità di ereditarietà sono rappresentate dalla autosomica recessiva o da quella legata al cromosoma X, per cui i soggetti malati, se raggiungono l’età adulta, possono trasmettere il gene ai propri figli e conferire lo stato di portatore sano, ma non trasmettere la malattia. Nelle forme che più frequentemente si esprimono clinicamente nell’età adulta (IDCV, deficit selettivo di IgA e deficit isolati di sottoclassi IgG), non sono stati ancora identificati dei geni che conferiscono suscettibilità alla malattia, né sono state identificate delle chiare modalità di ereditarietà. Vi sono delle evidenze che suggeriscono che queste forme di immunodeficienza possano essere più frequenti nei gruppi familiari in cui è presente un soggetto malato. Si può tuttavia affermare che, in genere, i pazienti con IDCV, con deficit selettivo di IgA e con deficit isolati di sottoclassi IgG non trasmettono la malattia ai figli. Quali prospettive ci sono nel campo della ricerca? La ricerca nel campo delle immunodeficienze primitive ha conseguito, negli anni, dei significativi successi. Innanzitutto la ricerca identifica e de-

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scrive un numero continuamente crescente di nuovi deficit del sistema immunitario. Questo ha permesso, da un lato, di diagnosticare più precocemente queste malattie, dall’altro ha potuto estendere l’indicazione al trapianto di midollo a forme cliniche prima mortali. La ricerca nell’ambito di queste patologie rare ha una notevole rilevanza non solo per i pazienti che ne sono affetti, ma anche per la popolazione generale. Le immunodeficienze, infatti, sono degli importanti modelli di malattia, il cui studio consente di acquisire conoscenze approfondite sulle diverse funzioni del sistema immunitario e su come il sistema difensivo del nostro organismo è in grado di rispondere agli agenti infettivi, di controllare e regolare la sua attivazione, di non rispondere ai costituenti propri dell’organismo, di eliminare le cellule cancerose. I difetti congeniti che stanno alla base delle immunodeficienze primitive si traducono sostanzialmente in tre principali problematiche cliniche: 1. aumentata predisposizione a infezioni a diversa eziologia (batteri, virus, funghi, protozoi); 2. suscettibilità a sviluppare fenomeni autoimmuni e malattie autoimmuni; 3. significativo incremento del rischio di tumori. L’individuazione dei geni mutati e dei conseguenti difetti cellulari o molecolari che stanno alla base delle singole forme di immunodeficienza ha pertanto consentito di comprendere, definire e confermare i meccanismi che il sistema immunitario utilizza nella risposta agli agenti infettivi e ai tumori, nonché di documentare come avviene la fine regolazione della risposta immunitaria. L’identificazione dei geni mutati che causano le singole forme di immunodeficienza ha aperto nuove prospettive nel campo della terapia genica, che consiste nel correggere la malattia geneticamente determinata inserendo o “aggiustando” il gene alterato. Si tratta di una terapia che è stata prospettata per quei pazienti con immunodeficienza primitiva per i quali non sono reperibili donatori compatibili per il trapianto di midollo. La terapia genica consiste nell’isolare le cellule staminali ematopoietiche del paziente, nelle quali è poi inserito mediante un vettore virale un gene funzionalmente attivo. Sono già stati effettuati alcuni trial clinici di terapia genica in alcuni pazienti con particolari forme di immunodeficienza primitiva. In tali pa-

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zienti, integrando nel genoma un gene funzionante, sono state ripristinate le normali funzioni del sistema immunitario. In alcuni di questi soggetti, tuttavia, a distanza di tempo è stata osservata la comparsa di leucemie dovute all’integrazione del vettore virale all’interno di loci oncogeni, ovvero di geni che codificano per una proteina potenzialmente coinvolta nei meccanismi di sviluppo dei tumori. È stato possibile dimostrare che all’integrazione in tali loci consegue disregolazione e aumentata espressione dell’oncogene. Sono attualmente in corso delle ricerche che stanno sviluppando vettori di integrazione genica più sicuri o delle modalità di inserzione che mirano non a integrare un altro gene, ma a riparare il gene alterato responsabile della malattia. La ricerca ha anche portato a un significativo miglioramento delle terapie tradizionali quali, ad esempio, le terapie sostitutive. Abbiamo già in precedenza accennato che, attualmente, la terapia sostitutiva per via sottocutanea ha consentito di ridurre l’impatto della malattia e della terapia sullo stile e sulla qualità di vita del soggetto affetto da immunodeficienza primitiva con deficit prevalentemente anticorpali. La ricerca ha, nel tempo, anche provveduto a migliorare la qualità dei preparati di immunoglobuline che vengono oggi somministrati, riducendo il rischio di effetti collaterali durante la loro somministrazione e garantendo l’immissione in commercio di preparati standardizzati. La ricerca farmacologica ha infine ottenuto delle formulazioni sempre più concentrate, riducendo tempi e volumi di infusione. I progressi che la ricerca ha compiuto in questi anni non si limitano solo all’ambito della genetica, dell’immunologia generale e della farmacologia, ma si sono anche estesi al campo clinico. Un importante successo italiano è stata la creazione della rete italiana per le immunodeficienze primitive (IPINET). IPINET ha consentito di raggruppare un considerevole numero di centri che si occupano di pazienti con immunodeficienze, in modo da poter disporre di casistiche significative di soggetti affetti dalle diverse forme di immunodeficienza primitiva. La messa in comune di casistiche e di esperienze, unitamente alla collaborazione tra i diversi centri e specialisti, ha portato a elaborare dei protocolli diagnostici e terapeutici per le diverse malattie. Questi protocolli sono in continuo aggiornamento, rendendo negli anni sempre più efficace la terapia delle diverse forme di immunodeficienza,

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indipendentemente dal livello di specializzazione della struttura che segue il paziente. La collaborazione tra i diversi centri IPINET ha anche contribuito a generare una messe di dati relativamente alla storia naturale, alla risposta alla terapia e alla prognosi della malattia, nonché di individuare dei regimi terapeutici più efficaci e sicuri. La creazione di una rete di professionisti che si occupano, a vario titolo, di immunodeficienze primitive ha infine consentito anche ai centri di ricerca di disporre di materiale biologico idoneo e in quantità sufficiente per approfondire gli studi molecolari e cellulari sul sistema immunitario umano. È stato così possibile identificare nuove mutazioni geniche responsabili delle diverse forme di immunodeficienze primitive ed eseguire studi su modelli umani di malattia idonei a definire i fini meccanismi che regolano la risposta immunitaria e le molecole difettive che la possono alterare. La ricerca nel campo delle immunodeficienze primitive ha quindi già notevolmente contribuito all’avanzamento delle conoscenze scientifiche e cliniche nell’ambito dell’immunologia generale e dell’immunopatologia in particolare. Molto è stato fatto, ma molto è atteso, anche grazie alle reti nazionali e alle reti internazionali che le associazioni dei pazienti e le associazioni scientifiche sono impegnate a realizzare.

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CAPITOLO 18 PANDAS domanda Giuliana Galardini rispondono Rosanna Carelli e Stefano Pallanti

PANDAS e PITAND: si tratta di patologie misconosciute, ma emergenti. Qual è la differenza tra le due condizioni e come si manifestano clinicamente? Il termine Pediatric Infection Triggered Autoimmune Neuropsychiatric Disorders (PITAND) è un termine generico per indicare l’associazione tra agenti infettivi (batteri e virus) e insorgenza acuta o esacerbazione di disturbi neuropsichiatrici. La denominazione Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorders associated with Streptococcal infections (PANDAS) sottolinea, invece, la correlazione tra uno specifico agente infettivo, lo Streptococco beta-emolitico di Gruppo A, e disturbi psichiatrici. Le manifestazioni cliniche sono strettamente psichiatriche: disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), ansia, disturbi del sonno, disturbi motori, tic, iperattività, agitazione psicomotoria, irritabilità, labilità emotiva, depressione, disturbi del comportamento, disturbi dell’attenzione e della concentrazione, disturbi

R. Carelli () Clinica psichiatrica, Università degli Studi di Firenze [email protected] S. Pallanti () Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Area del Farmaco e Salute del Bambino Università degli Studi di Firenze G. Galardini () PANDAS Italia [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_18, © Springer-Verlag Italia 2013

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dell’apprendimento (scrittura, lettura, calcolo) con significativa regressione nella traiettoria di sviluppo, disturbi della coscienza, disturbi cognitivi, disturbi psicotici, disturbi del comportamento alimentare. Né PITAND né PANDAS sono manifestazioni o sequele di malattia reumatica e, come alcuni studi hanno riportato, osservazioni peraltro confermate dai nostri dati, anche l’artrite reattiva post-streptococcica è estremamente meno frequente rispetto alla Corea di Sydenham. Sebbene il disturbo sia stato descritto per la prima volta dalla Swedo nel 1998 in 50 bambini, esso può insorgere anche in età adulta come documentato dai casi riportati in letteratura. Ci sono delle caratteristiche cliniche che permettono di distinguere la PANDAS da un DOC o da un disturbo da tic e dalla corea?

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Soggetti con PANDAS hanno generalmente un’insorgenza più acuta della sintomatologia, una remissione definitiva, una remissione dei sintomi in corso di terapia antibiotica ed evidenza di laboratorio di infezione da Streptococco; al contrario, il DOC e il disturbo da tic hanno tendenzialmente un decorso più cronico, sebbene vi sia anche un DOC episodico e un disturbo da tic transitorio. Nella PANDAS, tuttavia, l’esordio non sempre è acuto; il decorso non sempre è episodico ma, probabilmente, varia con l’età del soggetto, la durata della malattia e il pattern di comorbidità. Poche informazioni abbiamo circa l’evoluzione del disturbo. Inoltre, da un punto di vista clinico, i tic sono movimenti improvvisi, rapidi, ricorrenti, aritmici, stereotipati e più frequenti nel sesso maschile; i movimenti coreiformi sono movimenti a tipo di danza, casuali, irregolari, non ripetitivi, più invalidanti e più frequenti nel sesso femminile. Ai fini diagnostici, non sempre il tampone faringeo risulta positivo per lo Streptococco o il titolo antistreptolisinico è elevato. Come nel caso di altre malattie autoimmuni (encefaliti, tiroiditi), non sempre è possibile dimostrare la presenza dell’agente infettivo. Pertanto, si ipotizza che il danno non sia dovuto al microbo in sé, ma all’anomala risposta immunitaria del soggetto scatenata dall’agente infettivo.

CAPITOLO 18 PANDAS

Quali sono le cause di riacutizzazione del disturbo? Quali i fondamentali meccanismi patogenetici ipotizzati per la PANDAS? Le infezioni batteriche e virali possono contribuire all’esacerbazione del disturbo, così come la fatica, l’ansia e lo stress che, attraverso la produzione di neuropeptidi da parte del cervello, l’intervento degli organi endocrini e del sistema nervoso periferico, agiscono direttamente sul sistema immunitario. La patogenesi autoimmunitaria di tale disturbo è stata ipotizzata sulla base della presenza di anticorpi anti-neuronali nel siero e nel liquor di tali pazienti e sulla buona risposta al trattamento con immunoglobuline e trasfusioni di plasma. Tuttavia, questa è solo un’ipotesi: ancora non conosciamo con certezza l’antigene self che innescherebbe la reazione autoimmunitaria, così come rimangono da determinare il ruolo degli anticorpi anti-neuronali e da documentare una possibile correlazione con l’espressione di particolari alleli MHC. La Sindrome di Tourette può essere considerata la naturale prosecuzione della PANDAS ed essere, dunque, inclusa fra le malattie autoimmuni? Ci sono patologie autoimmuni in cui i disturbi psichiatrici sono più frequenti? La Sindrome di Gilles de la Tourette è un disturbo del neurosviluppo considerato sia dal DSM che dalla World Health Organization come una condizione unitaria. Studi recenti hanno invece dimostrato che potrebbero esserci più fenotipi a eziologia diversa e fattori infettivi e immunitari potrebbero essere coinvolti in alcuni casi. Ulteriori studi, tuttavia, sono necessari per documentare una relazione tra un determinato fenotipo e una determinata eziologia. Disturbi psichiatrici (depressione, psicosi, deficit cognitivi) sono frequentemente presenti nelle malattie autoimmuni del connettivo (LES, artrite reumatoide) e, talvolta, possono precedere le manifestazioni d’organo tipiche di tali patologie. Anche nelle tiroiditi, nel diabete, nella sclerosi multipla, nella psoriasi è ormai ben documentata la presenza di

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G. Galardini, R. Carelli et al.

patologie psichiatriche. Disturbi del movimento sono associati con varie patologie autoimmuni quali LES, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, Sindrome di Sjögren, celiachia, encefaliti autoimmuni, sindromi paraneoplastiche. Quali sono gli obiettivi del trattamento e le terapie più efficaci?

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Il trattamento deve essere principalmente orientato a prevenire future infezioni e a curare i sintomi. Riteniamo che la terapia delle infezioni possa essere associata con una minore gravità della malattia, anche se attualmente non ci sono raccomandazioni circa la durata della profilassi secondaria. Riteniamo, pertanto, che la decisione di quanto tempo tenere un soggetto in profilassi continua debba essere individualizzata, basata sull’età, sulla valutazione medica e sulle conseguenze verosimili delle ricadute. I pazienti che sospendono la profilassi devono essere istruiti a ritornare immediatamente dal medico qualora compaiano sintomi di infezione streptococcica. Nei casi che non rispondono ai trattamenti standard potrebbe esserci l’indicazione per l’utilizzo delle immunoglobuline. Sebbene il trattamento con immunoglobuline sia un trattamento potenzialmente promettente in casi attentamente selezionati, attualmente non può essere ancora considerato un trattamento di routine in quanto gli studi controllati che ne documentano l’efficacia sono estremamente pochi, il numero di pazienti arruolati è basso e la selezione dei pazienti è poco rigorosa.

CAPITOLO 19 ANGIOEDEMA EREDITARIO domanda Pietro Mantovano rispondono Marco Cicardi e Andrea Zanichelli

Che cos’è l’angioedema ereditario? L’angioedema ereditario è una malattia rara, dovuta a un deficit dell’inibitore della C1-esterasi (C1-inibitore, C1-INH), caratterizzata da episodi ricorrenti di gonfiori, non accompagnati da orticaria o prurito, della durata di 2–5 giorni. La malattia si può manifestare con edemi cutanei alle labbra, al volto, agli arti, alle mani, ai genitali, con episodi dolorosi addominali associati a vomito e/o diarrea secondari a subocclusione intestinale dovuta a edema della mucosa del tratto gastroenterico e con edemi della lingua, del palato molle, dell’ugola, dell’orofaringe e della laringe. Gli edemi possono essere invalidanti quando interessano i distretti cutanei e l’addome, disfiguranti in caso di edema del volto e potenzialmente letali per insufficienza respiratoria acuta in caso di edema della glottide. Si stima una prevalenza della malattia attorno a 1:50.000 nella popolazione

M. Cicardi () Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche Ospedale “Luigi Sacco”, Milano [email protected] A. Zanichelli () [email protected] P. Mantovano () AAEE Onlus - Associazione volontaria per la lotta, lo studio e la terapia dell’angioedema ereditario [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_19, © Springer-Verlag Italia 2013

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generale senza differenze razziali. In Italia, i pazienti diagnosticati presso i centri di riferimento sono circa 800. Come avviene la trasmissione della malattia? L’angioedema ereditario è una malattia genetica, dovuta a una mutazione nel gene per il C1-INH. Viene trasmessa da genitore affetto alla prole. Ogni figlio ha il 50% di possibilità di ereditare la malattia dal genitore affetto. Se un figlio non eredita il difetto genetico, la malattia si arresta. Più raramente, in circa un quarto dei casi, nella storia familiare dei pazienti non ci sono parenti affetti da angioedema. In questi casi, siamo in presenza di una nuova mutazione genetica che potrà poi essere trasmessa alla prole. Quali sono i principali problemi a cui va incontro chi è affetto da angioedema ereditario?

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Le manifestazioni di angioedema compaiono generalmente intorno alla seconda decade di vita. La frequenza delle manifestazioni è imprevedibile. Quindi, in qualunque momento della vita un paziente affetto da angioedema può andare incontro a un episodio di edema. Alcune situazioni come gli stress emotivi, i traumi, le infezioni, i cambiamenti ormonali nelle donne (es. ciclo mestruale, gravidanza) possono favorire lo scatenarsi di un attacco di angioedema. Gli interventi odontoiatrici possono determinare lo scatenamento di un edema della mucosa buccale e della glottide. Spesso, però, non è possibile riconoscere una chiara causa scatenante degli attacchi. Le manifestazioni di angioedema ereditario sono simili a quelle di altre forme di angioedema e, quindi, succede spesso che questa malattia rara venga confusa con un angioedema allergico e che i pazienti vengano curati in modo non corretto. A volte, in caso di episodi di dolore addominale non correttamente diagnosticati come angioedemi, i pazienti vengono sottoposti a interventi chirurgici addominali (quali appendicectomia o resezioni di parti di intestino) non necessari. Il ritardo nella diagnosi, terapie inappropriate, imprevedibilità delle mani-

CAPITOLO 19 ANGIOEDEMA EREDITARIO

festazioni possono essere fattori invalidanti per la vita sociale e lavorativa dei pazienti e influire negativamente sulla qualità della vita. Come si cura l’angioedema ereditario? Dal momento che l’angioedema ereditario non è una malattia allergica, i trattamenti solitamente utilizzati per curare gli angioedemi allergici (adrenalina, cortisonici e antistaminici) non sono efficaci ma sono necessari trattamenti specifici. Il trattamento è finalizzato a prevenire la mortalità e a ridurre la durata dell’inabilità correlata alla presenza dei sintomi. Esistono trattamenti da utilizzare in caso di angioedema, che sono l’infusione endovenosa del concentrato della proteina carente, il C1-inibitore derivato plasmatico, ottenuto da sangue di donatori, o del C1-inibitore ricombinante, ottenuto da animali transgenici, la somministrazione sottocutanea di icatibant. Esistono poi dei farmaci da utilizzare per prevenire gli attacchi, gli androgeno-derivati, per i pazienti che manifestano attacchi frequenti. Tali farmaci, però, hanno importanti effetti collaterali. In casi selezionati è possibile anche eseguire una terapia profilattica con infusioni bisettimanali di C1-inibitore derivato plasmatico. Quanto può essere grave l’angioedema ereditario? L’evenienza clinica più grave dell’angioedema ereditario è l’edema laringeo. Questa localizzazione è presente in più della metà dei pazienti ed è causa di morte per soffocamento nel 25–30% dei pazienti non trattati in modo appropriato. A differenza degli edemi allergici, l’angioedema laringeo ha una progressione lenta, nell’arco di alcune ore. Tuttavia, il passaggio dai sintomi di edema laringeo quali sensazione di corpo estraneo in gola e mancanza di aria fino all’insufficienza respiratoria acuta può essere difficilmente prevedibile ed estremamente repentina. Per cui, i pazienti che vanno incontro a un episodio di edema laringeo devo essere trattati prima possibile con i farmaci specifici per gli attacchi acuti e rimanere in osservazione in ospedale fino alla regressione dei sintomi.

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CAPITOLO 20 DERMATOSI BOLLOSE AUTOIMMUNI domanda Sara Schifano rispondono Paolo Fabbri e Marzia Caproni

Cosa sono le dermatosi bollose e quali distretti dell’organismo vengono tipicamente colpiti? Le dermatosi bollose sono un vasto capitolo della patologia infiammatoria cutanea che comprende numerose entità di comune riscontro clinico, determinate da agenti infettivi (batteri, virus), da agenti fisici (termici, meccanici, radiazioni UV), da agenti chimici e un gruppo di malattie molto più rare e gravi che riconoscono una patogenesi autoimmune. È di questo ultimo gruppo di patologie che preciseremo le più salienti caratteristiche cliniche, le più comuni sedi di localizzazione e l’eziopatogenesi. Le dermatosi bollose autoimmuni (DBA) comprendono le DBA del gruppo del pemfigo, le DBA del gruppo dei pemfigoidi e la dermatite erpetiforme. DBA del gruppo del pemfigo Con l’espressione dermatosi bollose del gruppo del pemfigo (DBGP) si P. Fabbri () Clinica Dermatologica I Università di Firenze [email protected] M. Caproni () Unità Operativa Dermatologia I ASL Firenze S. Schifano () ANPPI - Associazione Nazionale Pemfigo Pemfigoide Italy [email protected] L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6_20, © Springer-Verlag Italia 2013

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identificano numerose patologie infiammatorie cutanee, a evoluzione cronica e a prognosi grave, caratterizzate dalla formazione di bolle intra-epidermiche, acantolitiche (dovute, cioè, a un distacco tra cheratinociti contigui), a patogenesi autoimmunologica, determinate cioè dall’attività di specifici autoanticorpi, rivolti contro autoantigeni desmosomiali dell’epidermide e di alcune mucose, denominati desmogleine (DSG). Le forme cliniche più comuni di questo gruppo sono rappresentate dal pemfigo volgare cronico (PVC) e dal pemfigo foliaceo (PF). Il PVC è una malattia rara, ed è da considerare la variante più comune e più grave. In Italia, la sua incidenza è calcolata in circa 1 caso ogni milione di soggetti/anno. Non esistono differenze di genere e l’età media di insorgenza varia tra i 40 e i 60 anni. Nella maggior parte dei casi, il PVC inizia a livello delle mucose (80% dei casi), dove può rimanere localizzato per mesi prima di interessare la cute. Le mucose più frequentemente colpite sono quelle della cavità orale (compreso il bordo roseo delle labbra) seguite, in ordine di frequenza, da quelle nasali, faringee, laringee, genitali e rettali. Ancora più raramente sono interessati la congiuntiva e l’esofago. L’aspetto tipico della lesione della mucosa è un’erosione superficiale, a limiti netti, circondata da un piccolo lembo epiteliale, residuo del tetto della bolla primitiva. La mucosa circostante, in genere, non è eritematosa. La lesione risulta intensamente dolente. Quando la malattia si localizza a livello della cute è possibile rilevare bolle flaccide di piccole dimensioni, a contenuto sieroso limpido, che insorgono caratteristicamente su cute non infiammata. La rottura del tetto provoca un’erosione che riepitelizza con grande difficoltà e tende a estendersi perifericamente. Le bolle, inizialmente circoscritte ad alcune aree cutanee, tendono poi a estendersi a gran parte dell’ambito cutaneo per la comparsa di nuove lesioni. Le sedi più frequentemente colpite sono l’estremità cefalica, le ascelle, l’inguine e le pieghe sottomammarie. Tuttavia, ogni superficie del corpo può essere interessata. L’evoluzione della malattia è cronico-recidivante con poussées subentranti, molto ravvicinate nel tempo e progressivamente più gravi. Nelle fasi iniziali, la sintomatologia è modesta e rappresentata da bruciore e prurito. Con il passare delle settimane e dei mesi, se non si interviene adeguatamente, le condizioni del pa-

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ziente tendono inesorabilmente ad aggravarsi; vaste superfici cutanee abrase, circondate da un alone flogistico, si coprono di croste e limitano i movimenti, mentre le lesioni delle mucose ostacolano l’ingestione dei cibi e la stessa fonazione. Nelle fasi successive sopravviene un decadimento delle condizioni generali con febbre, diarrea, vomito, squilibrio elettrolitico e proteico, cachessia. Attualmente, nonostante le terapie immunosoppressive, la prognosi del PVC rimane grave, con un’incidenza di mortalità che si aggira intorno al 10–15% (di solito per sepsi da S. aureus). Sono da considerare fattori che denotano una cattiva prognosi l’età, la varietà clinica (il pemfigo eritematoso, vegetante ed erpetiforme hanno una prognosi più benigna), l’estensione cutanea delle bolle, il ritardo nella diagnosi e la necessità di dover impiegare nelle fasi iniziali dosi molto elevate di steroidi per controllare la malattia. Il PF è una rara varietà di pemfigo caratterizzata da lesioni cutanee rappresentate da piccole bolle superficiali, flaccide, di breve durata, su fondo lievemente eritematoso o su cute indenne, che per rottura danno luogo a erosioni, le quali si ricoprono di croste sierose o squamo-croste. Le localizzazioni iniziali sono il volto, il cuoio capelluto e il terzo superiore del tronco. Per la comparsa di nuove bolle, la malattia tende a interessare superfici cutanee sempre più vaste, fino a coinvolgere l’intera superficie cutanea. L’impegno delle mucose in questa varietà di pemfigo è di regola assente. Come in tutte le malattie autoimmuni, una predisposizione genetica è ritenuta condizione favorente, mentre numerosi fattori ambientali acquisiti rappresentano la condizione scatenante. Una predisposizione genetica alle DBGP è dimostrata soprattutto dalla forte associazione tra PVC e PF con alcuni aplotipi HLA (Human Leukocyte Antigen, antigene leucocitario umano, conosciuto anche come complesso maggiore di istocompatibilità o MHC) che condizionano una maggiore facilità a produrre auto-anticorpi e linfociti contro antigeni della cute. Tra i fattori ambientali scatenanti si ricordano alcuni pesticidi (pentaclorofenolo), farmaci (come penicillamina, captopril, cefadroxil, rifampicina, levodopa, ACE-inibitori, calcio-antagonisti, antinfiammatori non steroidei), agenti infettivi, alimenti vegetali (famiglia delle alliacee), radiazioni (UVA, UVB, raggi X, raggi infrarossi), ustioni da calore e chimiche.

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Negli alimenti vegetali, oltre ai tioli, presenti nei vegetali della famiglia delle alliacee, sono considerati possibili agenti scatenanti anche: i fenoli presenti in molti alimenti tropicali, gli isotiocianati presenti nei vegetali della famiglia delle Cruciferae, come cavoli, broccoli, mostarda, le ficocianine, proteine contenenti un pigmento bluastro, presenti in alcuni tipi di alghe (Spirulina platensis) che vengono utilizzate come integratori alimentari. Recentemente, è stato attribuito un significativo ruolo scatenante ai tannini presenti, ad esempio, nel vino rosso, ciliegie, fragole e frutti tropicali. Le DBGP possono essere considerate un modello di malattie autoimmuni organo-specifiche determinate dall’attività di autoanticorpi e di linfociti T autoreattivi, rivolti principalmente contro le DSG localizzate a livello delle strutture di adesione tra cheratinociti contigui (desmosomi). In tutti i pazienti con DBGP possono essere documentati autoanticorpi (IgG1, IgG4) rivolti principalmente contro la desmogleine 3 (DSG3) nel PVC e contro la desmogleina 1 (DSG1) nel PF. Le desmogleine sono una famiglia di molecole adesive calcio-dipendenti, presenti nel desmosoma, che condizionano l’integrità dei tessuti epiteliali. I meccanismi molecolari attraverso i quali gli autoanticorpi del pemfigo possono essere dimostrati nel sangue (con la metodica dell’IF indiretta o con una metodica più recente definita ELISA, che permette di dosare quantitativamente e di riconoscere se questi anticorpi sono rivolti contro la DSG 1 o la DSG 3) e nel tessuto (IF indiretta) sono molto complessi e chiariti solo di recente. Molto sinteticamente, gli anticorpi modificano l’adesività delle desmogleine, creando le condizioni per un facilitato distacco intraepidermico. DB del gruppo dei pemfigoidi Queste malattie sono principalmente rappresentate dal pemfigoide bolloso e dal pemfigoide delle mucose. Si distinguono dalle DB del gruppo del pemfigo perché la sede della formazione della bolla non è intra-epidermica come nelle DB del gruppo del pemfigo ma alla giunzione tra epidermide e derma (GDE). Il pemfigoide bolloso (PB) è una dermatosi bollosa che colpisce prevalen-

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temente soggetti anziani, presenta un decorso cronico recidivante e una prognosi relativamente benigna. Il PB viene attualmente considerato come una dermatosi autoimmune, dovuta ad autoanticorpi rivolti contro specifici antigeni della lamina lucida (e cioè antigeni glicoproteici presenti nella regione di confine tra epidermide e derma), mentre il ruolo di linfociti T autoreattivi appare secondario e tardivo (amplificazione della flogosi). Il PB è la patologia più frequente del gruppo dei pemfigoidi e si ritiene che la sua incidenza vari da 6,1 a 40 nuovi casi per milione di soggetti/anno. Il PB colpisce soggetti di età superiore a 60 anni, senza predilezione di sesso o di razza. È stato dimostrato, inoltre, che il rischio di sviluppare PB aumenta notevolmente con l’età (specialmente al di sopra dei 60 anni): nei soggetti ultranovantenni il rischio di sviluppare PB aumenta di 300 volte nei confronti dei sessantenni. Il PB si caratterizza per la comparsa graduale di bolle di varie dimensioni, in genere piuttosto larghe e tese e dai contorni regolari, che insorgono su cute arrossata e il contenuto della bolla è limpido, di colore giallo o nerastro per la presenza di sangue. La rottura del tetto della bolla dà luogo a erosioni superficiali dai margini netti, che si coprono di croste bruno-nerastre. Le erosioni non tendono ad allargarsi perifericamente, come succede per il pemfigo, ma vanno incontro a una progressiva riepitelizzazione, con completa guarigione senza cicatrice o atrofia. Esiti pigmentari bruno-nerastri della durata di mesi sono spesso evidenti. Le lesioni bollose appaiono spesso raggruppate e la loro distribuzione è nella maggior parte dei casi generalizzata all’intero ambito cutaneo. Di solito insorgono all’addome (quadranti inferiori), alla radice e alla superficie estensoria degli arti. Il volto e il cuoio capelluto sono abitualmente risparmiati. La sintomatologia soggettiva è costituita da prurito, che può presentare vari gradi di intensità. Spesso il prurito precede la comparsa delle bolle. Il decorso del PB è cronico-recidivante, con lunghe remissioni cliniche anche spontanee e periodi di ripresa della malattia meno gravi dell’episodio iniziale. Anche la prognosi, nonostante l’età dei pazienti, è nel complesso favorevole.

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La mortalità si attesta intorno al 10–30% dei casi in valutazioni a lungo termine (3 anni). Sono considerati fattori che indicano un decorso sfavorevole le precarie condizioni generali preesistenti, il sesso femminile, l’età superiore a 75 anni e l’uso di un elevato dosaggio di corticosteroidi sistemici, necessario per controllare la malattia, specialmente nel primo anno. Come già rilevato, il PB viene considerato una malattia autoimmune, determinata dalla combinazione di fattori genetici predisponenti e ambientali scatenanti. I fattori genetici, che predispongono allo sviluppo di una reazione autoimmune nei confronti di specifici auto-antigeni della GDE, sono correlati ad alcuni aplotipi del sistema HLA (-DR7). I fattori ambientali scatenanti sono rappresentati da radiazioni ionizzanti (in particolare, i raggi UVA), raggi Roentgen, ustioni, fattori traumatici o irritativi esterni, farmaci topici (fluorouracile) o sistemici (spironolattone, furosemide, amoxicillina, ampicillina, ciprofloxacina, D-penicillina, FANS e alcuni farmaci neurolettici). Una recente ricerca epidemiologica prospettica ha documentato che l’uso di neurolettici e di antagonisti dell’aldosterone è da considerare significativamente associato alla malattia. La più importante caratteristica immunologica del PB è la presenza in circolo di autoanticorpi IgG rivolti contro due specifici autoantigeni: l’antigene PB1, con peso molecolare di 230 kDa, localizzato all’interno dell’emidesmosoma (BPAg1), e l’antigene PB2 (attualmente definito collagene XVII) con peso molecolare 180 kDa, che presenta una posizione trans-membranaria (BPAg2). Soprattutto gli autoanticorpi anti-BPAg2 sono forniti di attività patogena, in quanto in grado di indurre in modelli animali lesioni bollose del tutto sovrapponibili a quelle del PB. Questi autoanticorpi possono essere dimostrati sia nel sangue (IF indiretta e con la tecnica ELISA), sia nella cute. Le lesioni cutanee si realizzano in seguito alla fissazione degli autoanticorpi IgG1 anti-BPAg2 al loro specifico antigene e alla successiva attivazione del complemento, determinando la liberazione di fattori che inducono l’infiammazione cutanea e la formazione di bolle. Come già rilevato, anche i linfociti T intervengono nell’induzione della lesione cutanea. Il pemfigoide delle mucose (PM) è una rara dermatosi bollosa cronica che

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interessa principalmente le mucose. Attualmente è considerata non una singola entità morbosa ma, piuttosto, un gruppo immunologicamente eterogeneo di dermatosi bollose che si localizzano al di sotto degli epiteli che rivestono le mucose. Le lesioni del PM presentano una spiccata tendenza alla recidiva nelle sedi iniziali di comparsa ed evolvono nella maggioranza dei casi con un caratteristico esito cicatriziale. I reperti immunopatologici e istopatologici fanno ritenere che il PM sia una delle dermatosi correlate sul piano eziopatogenetico al PB e sottolineano, in particolare, il ruolo patogenetico sia di specifici autoanticorpi che di linfociti T capaci di produrre sostanze capaci di stimolare i fibroblasti a produrre fibre collagene e, quindi, una cicatrice. Il PM presenta una frequenza di circa 1 nuovo caso su 1 milione di soggetti/anno, è più frequente nel sesso femminile e interessa abitualmente pazienti di età compresa tra i 60 anni e gli 80 anni; non ci sono predilezioni razziali o geografiche. L’esordio della malattia è generalmente insidioso, con un’iniziale lesione infiammatoria localizzata a livello di una sola mucosa. Questa prima fase, a lenta progressione e a localizzazione circoscritta, è seguita da una seconda fase in cui l’evoluzione è più rapida e la localizzazione più estesa. Nella varietà a esclusivo interessamento delle mucose, le mucose principalmente coinvolte sono quella orale (100%) e congiuntivale (60–90%). Più raramente è interessata la mucosa faringea (43%), nasale (38%), laringea (30%), genitale (20–30%). Ancora più raro è l’interessamento del retto (11%) e dell’esofago (7%). A livello della mucosa orale, è particolarmente frequente l’interessamento delle gengive (64%), della mucosa geniena (58%), del palato (26%), della mucosa della lingua (15%), della mucosa labiale (7%). Le manifestazioni cliniche del PM orale sono caratterizzate da una fase di iniziale arrossamento e gonfiore, seguita poi dalla formazione di una o, più raramente, poche bolle tese, di piccole dimensioni, che si rompono rapidamente lasciando un’abrasione superficiale a lenta risoluzione. Le lesioni erosive evolvono verso la guarigione spontanea, che si accompagna talora a lieve atrofia e a dolore urente, che aumenta dopo il pasto. In casi molto rari è stata dimostrata un’evoluzione sclero-atrofica.

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L’interessamento congiuntivale, prima unilaterale poi bilaterale, si esprime abitualmente con una congiuntivite cronica, che può successivamente evolvere con la formazione di vescicole e/o bolle tese. L’evoluzione delle lesioni erosive congiuntivali è verso un esito cicatriziale che può determinare la formazione di striature fibrotiche sottoepiteliali, una progressiva riduzione dei fornici congiuntivali per la formazione di adesioni stabili tra la congiuntiva bulbare e palpebrale. Le conseguenze della retrazione palpebrale possono essere particolarmente gravi per una compromissione della cornea che può portare a cecità. La sintomatologia soggettiva è caratterizzata da bruciore, dolore, secchezza, fotofobia. L’interessamento delle altre mucose è più raro, ma può determinare gravi complicanze correlate all’evoluzione cicatriziale delle lesioni erosive: stenosi laringea, esofagea e uretrale. L’interessamento cutaneo è abitualmente circoscritto ad alcune specifiche aree quali il volto, il cuoio capelluto, il collo; più raro l’interessamento dei genitali, dell’ombelico, delle spalle, delle estremità. Sulla cute, le lesioni del PM sono rappresentate da piccole bolle tese, a contenuto sieroso su cute arrossata e gonfia. Gli elementi bollosi sono abitualmente unici o poco numerosi, in questo caso con tendenza al raggruppamento. Le lesioni cutanee evolvono in genere verso l’erosione e, quindi, la cicatrice; sono accompagnate da prurito o da sensazione di dolore. Come già rilevato per il PB, anche il PM è da considerare una dermatosi autoimmune, determinata dalla combinazione di fattori genetici predisponenti e di fattori ambientali scatenanti. Studi genetici hanno unanimemente dimostrato una significativa associazione con uno specifico aplotipo (HLA-DQ7). Tra i fattori scatenanti ricordiamo i farmaci (indometacina, practololo, clonidina, D-penicillina), azioni microtraumatiche o pregressi fenomeni infiammatori aspecifici. Si determina, così, una risposta autoimmune sia di tipo auto-anticorpale che mediata da linfociti T. La più importante caratteristica immunologica del PM è la dimostrazione di autoanticorpi circolanti e fissati in vivo nelle specifiche sedi di localizzazione della malattia. Gli autoanticorpi nel PM possono essere sia di tipo IgG4 che di tipo IgA, principalmente rivolti contro numerosi antigeni della giunzione dermo-epidermica.

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Nell’induzione delle lesioni cutaneo-mucose del PM intervengono vari meccanismi cooperanti. In una prima fase sarebbe prevalente l’azione diretta degli auto-anticorpi che, interagendo sui loro specifici antigeni, sarebbero in grado di determinare una modificazione funzionale di queste molecole adesive, con successivo distacco tra la mucosa e il tessuto sottostante. In una seconda fase, sarebbero invece determinanti i macrofagi e i linfociti T autoreattivi capaci, attraverso la liberazione di specifici fattori, di amplificare e di auto-mantenere il danno immunologico e, soprattutto, di attivare i fibroblasti con conseguente aumentata deposizione di collagene e di altre proteine con conseguente esito cicatriziale. La dermatite erpetiforme (DE) è una dermatite infiammatoria morfologicamente caratterizzata dalla contemporanea formazione di eritema, pomfi, vescicole, bolle, papule intensamente pruriginose, che presenta un decorso cronico-recidivante e un evocativo quadro istopatologico e immunopatologico. La DE viene attualmente considerata una dermatite a patogenesi autoimmunologica, correlata a un’infiammazione intestinale sensibile al glutine (celiachia). Le lesioni cutanee sono determinate sia dal deposito di autoanticorpi IgA, dimostrabile alla sommità delle papille dermiche, rivolti contro particolari enzimi (transglutaminasi epidermiche) sia dall’attività di linfociti T. La DE presenta una distribuzione geografica e razziale molto particolare, con prevalenza nei soggetti caucasici del Nord Europa di 10–39 casi/100.000 e incidenza variabile tra 0,4 e 2,6 nuovi casi/100.000 soggetti/anno. L’affezione è invece particolarmente rara nei soggetti di colore e negli asiatici. La DE abitualmente inizia nella maggior parte dei casi in età infantile o, comunque, nei primi decenni di vita. L’età media di inizio è stata calcolata nei 30–40 anni. Un’aumentata prevalenza femminile (F:M = 2:1) è stata confermata solo nei casi infantili, particolarmente frequenti nei paesi del Mediterraneo; negli adulti è invece dimostrabile una lieve prevalenza maschile. La dermatosi, in genere, inizia con una sensazione di prurito o di bruciore in alcune circoscritte aree cutanee, cui segue la comparsa di lesioni eritematose, papulose e pomfoidi che mostrano una caratteristica disposizione

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ad anello o ad arco di cerchio. Solo più tardi possono comparire piccole cavità a contenuto limpido (vescicole), con tendenza al raggruppamento e, più raramente, piccole bolle. Le localizzazioni preferenziali sono le spalle, la nuca, la regione sacrale e glutea (gluteal butterfly), la superficie estensoria degli arti e specialmente i gomiti (90% dei pazienti). Come già rilevato, la DE è una malattia a patogenesi immunologica geneticamente determinata, eziologicamente correlata a un antigene alimentare: il glutine. Nei pazienti con DE i due aplotipi DQ2 e DQ8 (correlati con suscettibilità alla comparsa della malattia celiaca) sono presenti nella quasi totalità dei casi, tanto che la loro assenza può consentire di escludere sia la DE che la MC (test genetico di esclusione nell’iter diagnostico della malattia). La più convincente dimostrazione che il glutine rappresenti il fattore eziologicamente decisivo nella DE è il rilievo che una rigida dieta senza glutine può, anche se dopo molti mesi, risolvere le manifestazioni cutanee, oltre che le alterazioni intestinali. Le manifestazioni intestinali della DE presenti nella totalità dei pazienti sono quelle tipiche della celiachia, anche se di grado molto modesto, e senza sintomi nell’80–90% dei casi. Le alterazioni del tratto gastroenterico indotte dal glutine sono anche in grado di determinare una risposta immune della mucosa, che non si limiterebbe a questo antigene, ma si estenderebbe soprattutto alle transglutaminasi tissutali e, particolarmente, nella DE alle transglutaminasi epidermiche (eTG). Infatti, uno dei reperti immunopatologici sierici più significativi della DE è il ritrovamento in quasi tutti i pazienti di anticorpi IgA rivolti contro le eTG, con un titolo correlato all’entità del danno intestinale. Pertanto, la ricerca di queste attività anticorpali appare determinante per la diagnosi, insieme al risultato dell’IF diretta su cute sana perilesionale, che dimostra un deposito granulare di IgA alla giunzione dermo-epidermica o alla sommità delle papille dermiche. Questi depositi di IgA rilevabili all’IF diretta sono autoanticorpi rivolti contro le transglutaminasi epidermiche e sono capaci di determinare le lesioni della malattia attraverso la liberazione di sostanze ad attività pro-infiammatoria. È inoltre determinante l’attività di linfociti T capaci di incrementare il processo infiammatorio.

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Quali sono i metodi diagnostici utilizzati per l’individuazione di queste patologie? Le DBA necessitano di una diagnosi precoce e di un pronto trattamento, in quanto la prognosi risulta progressivamente peggiore quanto maggiore è il ritardo nell’inizio della terapia. Inoltre, una mancata diffusione delle linee guida terapeutiche rende più difficile il trattamento, che richiede un monitoraggio multidisciplinare di difficile coordinamento. La diagnosi di pemfigo necessita della presenza dei seguenti criteri: 1) clinici: presenza sulla cute e/o sulle mucose di bolle flaccide, erosioni, croste, talvolta distacco della cute dopo sfregamento (segno di Nikolsky); 2) citologici: presenza di cellule acantolitiche nel test di Tzanck; 3) istopatologici: presenza di acantolisi a livello soprabasale nel PVC o dello strato granuloso nel PF; 4) immunopatologici tissutali e sierici, come l’immunofluorescenza diretta (IFD): presenza nell’epidermide di depositi intercellulari di IgG e di frazioni del complemento (soprattutto C3) e dell’immunofluorescenza indiretta (IFI), autoanticorpi circolanti rivolti contro la sostanza intercellulare degli epiteli pavimentosi stratificati, e dell’enzyme-linked immunosorbent assay (ELISA) per la dimostrazione di anticorpi anti-desmogleine 1 e 3. La diagnosi di pemfigoide bolloso e di pemfigoide delle mucose, sospettati sulla base dei reperti clinico-morfologici e dei risultati dell’esame istologico, che documentano l’assenza di fenomeni acantolitici e la presenza di una bolla subepidermica, viene attualmente posta in base ai risultati delle ricerche immunologiche come: l’immunofluorescenza (IF) diretta (deposito lineare di Ig e C3 lungo la giunzione dermo-epidermica, GDE); l’IF indiretta (autoanticorpi circolanti IgG che si fissano alla GDE con morfologia lineare); il test ELISA per valutare la presenza di autoanticorpi circolanti rivolti verso gli antigeni del PB (BPAg1, 230 kD; BPAg2, 180 kD). Una particolare metodica immunologica, la Salt Split Skin (il substrato è incubato per 24–48 ore con una soluzione 1M di NaCl), consente, a seconda della sede di fissazione degli anticorpi, di confermare o escludere la diagnosi di pemfigoide bolloso. La diagnosi di dermatite erpetiforme, sospettata sulla base dei reperti clinici cutanei e/o intestinali (l’enteropatia correlata è abitualmente asintomatica

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nell’adulto ma nel bambino può accompagnarsi a dolori addominali, diarrea cronica, diminuita crescita ponderale e staturale, anemia sideropenica), si avvale dell’esame istopatologico cutaneo che mostra un distacco dermoepidermico associato a microascessi di granulociti neutrofili all’apice delle papille dermiche e dei risultati immunopatologici. L’immunofluorescenza diretta che dimostra depositi granulari di IgA a livello della GDE in cute sana perilesionale, rappresenta il gold standard per la diagnosi di DE. Anche la presenza nel siero di anticorpi (IgA) anti-transglutaminasi tissutale (antitTG2) e di anticorpi anti-endomisio (EmA), dimostrabili all’IF indiretta su un substrato rappresentato dall’esofago di scimmia e da utilizzare in casi dubbi, può essere di aiuto nella diagnosi. Infine, il test ELISA per la ricerca di anticorpi anti-peptidi deamidati della gliadina (DGP-AGA) è utile, in particolare, per la diagnosi precoce della MC nel bambino di età inferiore a 2 anni, in cui gli anti-tTG possono risultare negativi. Di recente, nella diagnostica della DE è stata introdotta anche la ricerca nel siero di anticorpi antitransglutaminasi epidermica (TG3 oTGe). Questo test risulta più specifico e più sensibile. 188

Quali sono le terapie attualmente in uso e in quale direzione si stanno muovendo la ricerca e la sperimentazione clinica? Le terapie attualmente in uso sono rappresentate dai corticosteroidi sistemici (CCS) e da altri agenti immunosoppressori (come l’azatioprina, il micofenolato mofetile e il methotrexate), che vengono utilizzati in associazione per ridurre gli effetti collaterali dei CCS stessi. Nelle forme resistenti di pemfigo e di pemfigoide delle mucose sono state impiegate anche le immunoglobuline endovena ad alte dosi e l’anticorpo monoclonale rituximab, rivolto contro l’antigene CD20. Da non trascurare le terapie topiche rappresentate da steroidi topici e antisettici. L’obiettivo del trattamento è quello di indurre e mantenere la remissione clinica, cioè la soppressione della formazione di nuove bolle e la guarigione delle erosioni. Nel pemfigo si utilizzano diversi schemi di trattamento. I corticosteroidi sono un caposaldo della terapia sistemica e continuano ad essere il trattamento di prima scelta. In Italia, il più utilizzato è il prednisone

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per os alla dose di 1 mg/kg/die in somministrazione continua. In alternativa, può essere utilizzata la terapia pulsata ad alte dosi. Una volta ottenuta la remissione, si inizia la riduzione progressiva dei CCS fino ad arrivare a un dosaggio di mantenimento, possibilmente a giorni alterni. Per ridurre gli effetti collaterali, si utilizzano altri immunosoppressori in associazione. L’azatioprina, un antagonista delle purine, è uno degli immunosoppressori più utilizzati. Solitamente, l’effetto terapeutico si ottiene in 6–10 settimane. Altri immunosoppressori impiegati sono il micofenolato mofetile, il methotrexate e la ciclofosfamide. Sono state impiegate anche le immunoglobuline endovena ad alte dosi. Rituximab è un anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene CD20 espresso solo sulle cellule B mature e pre-B (con conseguente blocco della produzione di autoanticorpi). Viene utilizzato per uso non registrato in scheda tecnica (off-label) in caso di malattia resistente alle altre terapie sistemiche1. Sono attualmente allo studio nuovi anticorpi monoclonali anti-CD20. In quest’ultimo anno, sono in corso 24 protocolli terapeutici registrati, al fine di comparare l’efficacia degli anti-CD20 versus i CCS tradizionali, oppure anti-CD20 versus terapia pulsata con desametasone. Altri protocolli stanno valutando l’efficacia della ciclofosfamide e delle immunoglobuline e.v. in associazione, altri ancora in corso di arruolamento impiegano gli inibitori della calcineurina per via sistemica (sirolimus) o il diaminodifenilsulfone (dapsone) come adiuvante per risparmiare l’utilizzo dei CCS. Per quanto riguarda il pemfigoide bolloso nelle forme localizzate o di modesta entità, i corticosteroidi topici di elevata potenza, da applicare più volte al dì, possono essere sufficienti. Nelle forme più estese e più gravi devono essere utilizzati per l’induzione della remissione clinica i CCS. Nella terapia di mantenimento si riduce gradualmente la dose iniziale di CCS, associando eventualmente altri agenti immunosoppressori (come l’azatioprina, il micofenolato mofetile, il methotrexate). Utile risulta anche l’associazione di

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Su richiesta dell’Associazione Pazienti ANPPI (Associazione Nazionale Pemfigo/Pemfigoide Italy), il Rituximab è stato inserito con determina AIFA (n. B 02633 del 7 maggio 2012) tra i farmaci erogabili a carico del SSN in modalità off-label ai sensi della legge 648/96, per i casi di pemfigo grave e refrattario ai comuni trattamenti immunosoppressivi.

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tetracicline (o eritromicina) con nicotinamide in caso di controindicazioni all’uso di CCS. Sono in corso anche per le patologie del gruppo del PB numerosi trials clinici (18) alcuni dei quali sono rivolti alla valutazione dell’efficacia di omalizumab (anticorpo anti-IgE), oppure degli inibitori delle proteinchinasi (p38MAPK), del rituximab (soprattutto nel pemfigoide delle mucose) e della leflunomide. Nella dermatite erpetiforme, la dieta priva di glutine rappresenta la terapia di elezione. In attesa che la dieta porti a risoluzione le manifestazioni cutanee, può essere utilizzata una terapia topica con corticosteroidi a elevata potenza, insieme ad antistaminici per via sistemica. Il dapsone (DDS) in questa fase può risultare di grande utilità, in quanto è in grado di sopprimere rapidamente le manifestazioni cutanee.

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Spesso nei pazienti la patologia bollosa si manifesta in presenza di ulteriori patologie che rendono il quadro clinico ancora più complesso; questa situazione viene ulteriormente aggravata dagli effetti collaterali degli stessi immunosoppressori utilizzati per contenere la sintomatologia bollosa. Quali sono le linee guida che i medici di base, i dermatologi o gli altri specialisti coinvolti dovrebbero seguire per il coordinamento di quadri tipicamente così complessi? Il fatto che la gran parte delle dermatosi bollose autoimmuni sia del gruppo del pemfigo che dei pemfigoidi interessano soggetti anziani pone naturalmente il problema delle co-morbilità e delle terapie che devono essere prescritte per il loro controllo. Si tratta, in generale, di associazioni di più farmaci che presentano abitualmente due tipi di problemi: le possibili reazioni avverse e la capacità (limitata ad alcune classi che abbiamo precisato nella parte introduttiva) di essere degli induttori di malattia (agenti scatenanti). A questo tipo di problemi, ben noti ai medici di medicina generale che hanno in cura pazienti anziani, si aggiungono le problematiche relative alla necessità di intraprendere terapie immunosoppressive, spesso a dosaggi elevati che devono proseguire a lungo (anni nel corso delle DB del gruppo del pemfigo, molti mesi nel corso dei pemfigoidi).

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Le terapie immunosoppressive tradizionali (corticosteroidi, azatioprina, micofenolato mofetile) sono fornite di effetti collaterali importanti che devono essere conosciuti e attentamente monitorizzati, in quanto capaci di complicare la gestione del paziente e, come abbiamo già rilevato, sono anche responsabili dell’aumentato rischio di mortalità per queste patologie. Per ciascuno dei farmaci immunosoppressivi, in rapporto alle dosi e ai tempi di somministrazione, sono stati precisati da tempo gli effetti collaterali che devono essere attentamente controllati con accertamenti ematologici, strumentali (ECG, MOC) e, soprattutto, attraverso una stretta collaborazione tra specialista e medico curante, che appare indispensabile. Le problematiche relative alla gestione di ogni singolo paziente rendono del tutto aleatorie la stesura e l’applicazione di linee guida (che pure sono state fornite a livello internazionale). Infine riteniamo opportuno sottolineare: • la necessità di ricorrere a trattamenti innovativi e capaci, alla lunga, di eliminare molte problematiche legate ai trattamenti immunosoppressivi tradizionali nel corso delle DB del pemfigo (rituximab e Ig endovena). L’impiego del rituximab sulla base delle linee guida europee dovrebbe essere consigliato, in prima istanza, ai pazienti con la rara forma di pemfigo paraneoplastico e ai pazienti con pemfigo volgare cronico o pemfigo foliaceo che non hanno risposto ai trattamenti con corticosteroidi ai dosaggi abituali o con gravi controindicazioni al loro impiego; • l’opportunità di valutare trattamenti alternativi ai corticosteroidi nel caso del pemfigoide bolloso (tetracicline + nicotinammide + corticosteroidi topici potenti) e nel caso del pemfigoide delle mucose (consigliato l’uso di diaminofenilsulfone); • infine, nei pazienti con DE l’unica terapia che dobbiamo consigliare è una rigorosa dieta senza glutine da continuare per tutta la vita. Quali sono in Italia e all’estero i centri di eccellenza per questa famiglia di patologie, dove gli ammalati possono essere seguiti e curati anche, laddove è appropriato, con terapie sperimentali? Tracciare una mappa dei centri di eccellenza per il trattamento di queste pa-

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tologie in Italia è molto difficile perché manca una dettagliata analisi sul territorio volta a valutare: • l’esistenza di un attrezzato laboratorio di immunopatologia cutanea che consenta la diagnosi certa di queste patologie; • l’esistenza di specialisti con una esperienza pluriennale nel trattamento di queste patologie. In generale, le cliniche dermatologiche universitarie possono fornire prestazioni qualificate per ciascuna di queste patologie, come pure numerosi primariati ospedalieri. Crediamo che sarebbe auspicabile (e le associazioni dei malati potrebbero contribuire attivamente): • un censimento dei centri con requisiti adeguati, che dovrebbero essere certificati a livello regionale; • un programma operativo, così come è stato effettuato nella regione Toscana, che prevede un unico centro di coordinamento per la diagnosi immunologica per le varietà più rare e per i casi più difficili, e la possibilità di trattamento e di monitoraggio nei centri universitari e ospedalieri del territorio abilitati.

INDIRIZZI E CONTATTI UTILI

AAEE Onlus - Associazione volontaria per la lotta, lo studio e la terapia dell’angioedema ereditario Tel. 0141 299274 www.angioedemaereditario.org [email protected] AAMI - Associazione Amiloidosi Italiana Via S. Francesco 12, 38068 Rovereto (TN) Tel. 346 7344101 (dal lunedì al venerdì, dalle 18 alle 19) [email protected] AIFP - Associazione Italiana Febbri Periodiche Tel. 041 6392467 - Fax 178 2725891 Contatto Presidenza: 346 4108 713 – Contatto Segreteria: 346 4108 714 www.febbriperiodiche.it [email protected] · [email protected] visita su Facebook la pagina del Gruppo AIFP (Nome profilo: AIFP-Associazione Italiana “Febbri Periodiche”) AIM Rare Onlus – Associazione Italiana contro le Miopatie Rare Piazza Baldinucci 8/r, 50129 Firenze Tel. 055 486838 - Fax 055 4625985 www.aimrare.org [email protected]

L. Emmi (a cura di), Le malattie rare del sistema immunitario, DOI: 10.1007/978-88-470-5394-6, © Springer-Verlag Italia 2013

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AIP - Associazione Immunodeficienze Primitive Onlus www.aip-it.org Gruppo locale di pazienti Milano [email protected] Centro clinico di riferimento Fondazione IRCCS Ca’ Granda-Ospedale Maggiore Policlinico, Università degli Studi di Milano Pediatrico: Clinica Pediatrica II Adulti: Dipartimento Medicina Interna – UO Medicina Interna 1-A Gruppo locale di pazienti Padova [email protected] Centro clinico di riferimento Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Immunologia Clinica, Padova 194

Gruppo locale di pazienti Roma [email protected] Centro clinico di riferimento Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma Gruppo di pazienti AIP toscano [email protected] Centro clinico di riferimento Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi, SOD Immunoallergologia Gruppo di pazienti AIP Udine [email protected] Centro clinico di riferimento Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia, Dipartimento di Medicina Interna, SOC Medicina 2

INDIRIZZI E CONTATTI UTILI

Sezione Campania Sede legale Università Federico II di Napoli Facoltà di Medicina II, Policlinico – Cattedra di Immunologia Clinica ed Allergologia Via Pansini, 5 – Edificio 2, Napoli Tel. 081 7462261 [email protected] Sezione Piemonte e Valle d’Aosta Sede legale Ospedale Regina Margherita Piazza Polonia 94, Torino [email protected] AMA - Associazione Malattie Autoimmuni Mario Rossi Via Aretina 155, 50136 Firenze Tel. 389 9080021 www.associazionemalattieautoimmuni.it [email protected] ANMAR - Associazione Nazionale Malati Reumatici Via Nicola Zabaglia 19, 00153 Roma www.anmar-italia.it [email protected] ANPPI - Associazione Nazionale Pemfigo/Pemfigoide Italy Via Monti di Creta 104, 00167 Roma Tel. 339 3021918 www.pemfigo.it https://twitter.com/pemfigo (Nome profilo: PEMFIGO) https://www.facebook.com/pemfigoitalia.anppi (Nome profilo: PEMFIGO ITALIA ANPPI) Associazione Italiana Sindrome Anticorpi Antifosfolipidi www.antifosfolipidi.org [email protected]

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ATMaR Onlus - Associazione Toscana Malati Reumatici Sede Legale: c/o Ospedale Le Scotte Via Bracci 11, 53100 Siena Tel. 334 8042748 (rif. Renato Giannelli) www.atmartoscana.it [email protected] GILS Onlus - Gruppo Italiano per la Lotta alla Sclerodermia Tel. 02 55199506 - Fax 02 54100351 numero verde 800080266 www.sclerodermia.net [email protected]

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PANDAS Italia Tel. 0574 071051 Tel. 377 9936632 www.pandasitalia.it [email protected] SIMBA - Associazione Italiana Sindrome e Malattia di Behçet Tel. 329 4265508 www.behcet.it [email protected]

Finito di stampare nel mese di giugno 2013