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Italian Pages 126
BIBLIOTHECA SARDA N. 77
Gaston Vuillier
LE ISOLE DIMENTICATE LA SARDEGNA IMPRESSIONI DI VIAGGIO prefazione di Antonio Romagnino traduzione di Marco Maulu
In copertina: Gaston Vuillier, Il suonatore di launeddas (1891)
INDICE
7 Prefazione 27 Nota bio-bibliografica 33 Nota del traduttore
163 Capitolo III La Barbagia – Danze a Belvì – Il ritmo sardo – Aritzo e le canefore – Le grassazioni – Scalata del Gennargentu
35 Avvertenze redazionali Titolo originale: Les îles oubliées: les Baléares, la Corse et la Sardaigne, impressions de voyage, Paris, Hachette, 1893.
207 Capitolo IV LE ISOLE DIMENTICATE LA SARDEGNA IMPRESSIONI DI VIAGGIO 39 Al lettore
Vuillier, Gaston Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio / Gaston Vuillier ; prefazione di Antonio Romagnino ; traduzione di Marco Maulu. - Nuoro : Ilisso, c2002. 241 p. : ill. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 77) I Romagnino, Antonio II Maulu, Marco 914.5904843
Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro
43 Capitolo I Tempesta in mare – Porto Torres e la basilica di San Gavino – Sassari, l’incantevole – Sennori, Sorso, Osilo, costumi primitivi – Una vendetta sarda
105 Capitolo II
© Copyright 2002 by ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 88-87825-40-8
La città spagnola d’Alghero – Tempio ed i monti del Limbara – Attraverso la Sardegna – I nuraghi – Cagliari – Il castello di Ugolino
Desulo – Le poesie sarde – San Mauro – La nascita, il matrimonio e la morte – Tonara – Il Flumendosa – Il re di Tavolara – Le febbri sarde
240 Indice delle incisioni
ALLA “SCOPERTA” DELLA SARDEGNA1
La “scoperta” della Sardegna dura poco più di un secolo, dagli ultimi decenni del Settecento alla fine dell’Ottocento. E si conclude proprio con Gaston Vuillier ed il suo Les îles oubliées: Les Baléares, la Corse et la Sardaigne, come suggerito autorevolmente da Alberto Boscolo nella prefazione a I viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, Cagliari, 1973.2 Dopo, i viaggi usciranno dallo schema dell’informazione, seppure illeggiadrita talvolta da interpretazioni sentimentali e colorazioni poetiche, ed ispireranno opere più decisamente letterarie, come Sea and Sardinia di David Herbert Lawrence, 1921 e Sardegna come un’infanzia di Elio Vittorini, 1936. E prima, invece, sembrano quasi esclusivamente 1. Il titolo si riannoda a quello di “Alla scoperta della Sardegna. Collezione di viaggi” dato da Raimondo Carta Raspi ad una sua collana editoriale, che ha compreso nel 1930 anche Le isole dimenticate. La Sardegna di Gastone Vuillier, traduzione e prefazione di R. Carta Raspi, Cagliari, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, in cui si legge in apertura della prefazione: «Dopo l’edizione dei quattro volumi del Viaggio in Sardegna del Della Marmora, la maggiore, migliore e veramente completa opera che sia stata scritta sulla Sardegna, la Fondazione il Nuraghe inizia con questo libro una serie di pubblicazioni dal titolo: “Alla scoperta della Sardegna. Collezione di viaggi”, e un’altra collezione parallela: “La Sardegna scoperta”. Nel primo gruppo saranno ristampate le migliori pubblicazioni di viaggi scritte nel passato; nel secondo saranno compresi i volumi… che si scriveranno sulla Sardegna d’oggi». 2. Fernando Pilia nella prefazione alla sua bella traduzione di La Sardaigne (Cagliari, ed. 3T, 1977) è il primo a riconoscere il valore dell’opera del Vuillier: «In questa non esigua schiera di scopritori dell’isola, il posto che spetta a Gaston Vuillier è di tutto rispetto, perché è stato uno dei più efficaci e simpatici divulgatori della conoscenza della Sardegna, non solo con le sue descrizioni precise, documentate, condotte con intelligenza e gusto moderno, ma anche grazie al valore delle sue illustrazioni grafiche, alcune vere fotografie, ritoccate a penna dallo stesso autore, altre, ancora più suggestive, disegni originali del Vuillier che era dignitoso pittore ed esperto incisore, abbastanza affermato negli ambienti difficili e sofisticati della capitale francese».
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Prefazione
rompere un lungo silenzio e far conoscere quanto inspiegabilmente era rimasto fuori dal viaggio, che aveva assunto una centrale funzione educativa. Istituzionalizzato dall’aristocrazia e dalla borghesia europea, in particolare il viaggio in Italia, il Grand Tour, dal Seicento al Settecento, ignora completamente la Sardegna. Muoveva generalmente da Genova, ed aveva come tappe ferme, le città più ricche di opere d’arte e di monumenti: Firenze, Roma, Venezia. Anche lo stesso Sud e, in particolare Napoli, costituiva una correzione rara agli itinerari irrigiditi. La introduce una personalità di spicco, come Wolfango Goethe, che ne scrive in Viaggio in Italia, 1816-17. E, peraltro, quando il Grand Tour vive le sue ultime stagioni e il Sud entra in quell’istituzione ricreativa ed istruttiva (per primo lo fa l’inglese George Berkeley nel 1713), la Sardegna rimane ancora fuori. A rompere quell’intollerabile oblìo, come sarà sentito da Gaston Vuillier, è casualmente il tedesco Joseph Fuos, che soggiornando nell’isola come capitano del reggimento di fanteria Von Ziethen, scrive nel 1773 La Sardegna nel 1773-1776 descritta da un contemporaneo che, a testimoniare quanto quella sua iniziativa fosse stata priva di echi immediati, fu tradotta e pubblicata solo nel 1899 da Pasquale Gastaldi Millelire. Nel clima di curiosità e di interesse, che proprio l’opera del Vuillier aveva contribuito a creare, qualche anno prima. Il libro del tedesco, invece, ha quel carattere informativo, che avranno anche le opere di Alberto Della Marmora (1789-1863). Questi, vivendo in Francia (vi era stato chiamato per dare la sua consulenza di giurista nella commissione incaricata di redigere il Codice marittimo e commerciale), aveva pubblicato l’Essai sur l’histoire géographique, politique et naturelle du Royaume de Sardaigne, poi ristampato col titolo Histoire géographique, politique et naturelle de Sardaigne.3 E i più importanti Voyage
en Sardaigne del 1826 e Itinéraire de l’île de Sardaigne del 1860, che pure scritte in francese forniranno notizie anche ai viaggiatori creativi, come Antoine Claude Pasquin Valery,4 Emanuel Domenech5 e Gaston Vuillier, ma solo di quel tanto che non intervenga ad inaridire la vena lirica. E, però, anche altri scrittori francesi, seppure letterariamente meno importanti, come Edouard Delessert autore di Six semaines dans l’île de Sardaigne (1856), Auguste Bouillier di L’île de Sardaigne, description, statisque, moeurs, état social (1866) e Le dialecte et les chants populaires de la Sardaigne (1865), Roissard Eugène De Bellet di La Sardaigne à vol d’oiseau en 1882 (1884). Rispetto ai quali, il viaggio di Vuillier fu incoraggiato ed agevolato da un mutamento profondo, che aveva conosciuto l’isola. Dieci anni prima che Vuillier si staccasse dalla Corsica, nel luglio del 1881 il nord e il sud dell’isola sono finalmente collegati fra loro e con Terranova, verso la patria comune. Anche i primi tronchi delle ferrovie complementari, che assicureranno la comunicazione con le aree interne della Sardegna, sono ultimati. È significativo che la rilevanza dell’esplorazione del Vuillier non sfuggisse ad un giornale locale, come L’Unione Sarda che, nel suo terzo anno di vita, nei nn. 83 e 84 del 7 e 8 aprile 1891 pubblicò larghi brani tradotti dall’opera appena apparsa nella rivista Le Tour du Monde. Rivolgendosi al lettore Vuillier dice di aver visitato insieme Maiorca e Minorca delle Baleari, la Corsica, la Sardegna,
3. Su queste opere minori di Alberto Della Marmora severo è il giudizio Natale Sanna: «L’opera invero di valore assai modesto, dimostra il suo amore per la patria lontana». Cfr. Il cammino dei sardi, vol. III, 1986, p. 496.
4. Valery era stato il primo tra i francesi a correggere il Grand Tour, che si fermava a Napoli e che, fra il Settecento e l’Ottocento, aveva conosciuto la correzione di inglesi e francesi. Era accaduto che proprio l’opera di Alberto Della Marmora scritta in francese contribuisse a far entrare la Sardegna nella cultura di Francia. 5. Su l’autore di Bergers et bandits: «Viaggiando prevalentemente nell’interno della Sardegna – ozioso, a suo dire, occuparsi degli abitanti delle città non così diversi da quelli di tutte le altre città del mondo – ci ha lasciato un resoconto inedito, senz’altro originale» (notizia di Stefania Pineider dal vol. II di Viaggiatori di Sardegna, 3 voll., Cagliari, Demos Editore, 1997, p. 9).
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Prefazione
e di averle negli occhi, come nella mente, confuse. Anche se sapeva che avevano conosciuto sovrani e popoli talvolta identici e, per il rapporto speciale con la Francia, la Corsica gli era più nota delle altre due, era, però, la Sardegna, contemplata a distanza di spazio e di tempo, a rimanere più profondamente sconosciuta. È vero che le visita nell’ordine: prima le Baleari, poi la Corsica e, infine, la Sardegna. Ma è quest’ultima, proprio perché fasciata da un impenetrabile mistero («Ma ignoravo tutto, assolutamente tutto della povera Sardegna abbandonata, perduta in un’oscurità profonda»), a far covare in lui una curiosità più struggente. E solo la Sardegna poteva premiarlo così doviziosamente: «La Sardegna fu una visione abbacinante; in questa terra sconosciuta dagli Italiani medesimi, dove i costumi d’altri tempi hanno conservato la loro originale bellezza, conobbi da vicino, familiarmente, il farsetto di velluto, ed il medioevo trascorse ogni giorno al mio fianco, come se il mondo non avesse ruotato per quattro o cinque secoli». Lo attraeva il carattere dei Sardi e pur, senza gli approfondimenti psicologici, che hanno caratterizzato la letteratura del Novecento, il racconto si colorisce spesso di battute, che si rivelano definizioni generali del modo di sentire e di pensare più diffuso fra noi. Visita a lungo, a Cagliari, la Basilica di Bonaria, e nell’antica chiesa lo attira la «navicella miracolosa in avorio, portata un tempo da una pellegrina sconosciuta». Viene a sapere che la avvolge una devozione ferma che nasce dall’attribuzione ad essa di un potere forte e, subito, scatta un’ironia leggera eppure capace di essere assunta, come una delle nostre stravaganze più diffuse. «Si assicura» egli scrive «e cosa non si assicura in Sardegna! che questa barca possa ruotare la prua in direzione del vento che spira nel golfo».6
Triste e tristezza sono le parole usate più largamente da Vuillier in questo suo libro. E in contraddizione con tutto quello, natura e uomo, che pure appare lieto e sorridente. Il pittore abbandona spesso la sua passione coloristica e con una di quelle due parole rabbuia sia la creatura umana che il cielo e la bellezza naturale. C’è come dar voce e consenso alla dimenticanza che ha colpito questa terra e da cui il libro è stato scritto per liberarla. L’oblìo della Sardegna ha la sua spiegazione in una notte che rabbuia tutto. Perfino i ruderi dei monumenti non sono portatori di un passato meritevole di essere evocato e celebrato e si riducono a cimiteri, da cui l’occhio fugge via. Legge sempre la malaria, sui volti emaciati, anche quando lo hanno conquistato i costumi di due sposi. Ma chi più precisamente aveva dimenticato la Sardegna e, quindi, provocato la decadenza dell’isola, che in ogni ora del suo viaggio cadeva sotto gli occhi di Vuillier? Forse la stessa Italia, cui pure i Sardi avevano dato un forte contributo per raggiungere, dopo secoli, l’Unità? Questa, quando quell’intellettuale francese mette i piedi in Sardegna,
6. Il Santuario e la Basilica di Nostra Signora di Bonaria, costruiti dagli Aragonesi fra il 1324 e il 1336 ed ampliati nel 1895, sono dedicati alla protettrice dei marinai. Quello su cui ironizza Vuillier è uno dei tanti simboli
della devozione degli uomini di mare, come ne scrive l’illustre archeologo Giovanni Spano (1803-1878), che pure nel 1871 aveva scoperto che di 2400 proverbi sardi da lui raccolti appena tre riguardavano uomini e vita di mare: «Appena entrati vedrete pendere sulla vostra testa un’infinità di voti attaccati di sotto alla tribuna del coro, barche di ogni qualità, pezzi di gomene, armi, remi, catene, ceppi ed altri segni per indicare le grazie ricevute» (Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari, 1861, p. 309). Lo stesso Spano, invece, disapprova che vicino alla sacrestia si conservassero in mummia i corpi di alcuni membri della famiglia Pichinotti dei conti di Villasor, (come non era piaciuto ad Antoine Claude Pasquin Valery, pure in visita alla Basilica, come aveva raccontato in Voyages en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne, Versailles, 1837): «Al Valery cagionò questa vista orrore profondo, e fa voti affinché in vece d’un’indecente pubblicità, si dia asilo a quegli scheletri nelle tenebre della tomba. Questi cadaveri furono disseppelliti da altro sito, e quivi collocati per ordine della Marchesa di Villa Sorres, in forza del giuspatronato che vi aveva. Nel giorno dei morti, si faceva, e si fa tuttora, una messa solenne, la di cui limosina si corrispondeva al podataro di quel feudo» (G. Spano, Guida cit. p. 317).
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Prefazione
aveva esattamente trent’anni di vita. Certo i mali più vistosi che egli denuncia, la sanità guastata dalla malaria e il costume insidiato dal banditismo, sono di tale gravità e di tale ampiezza nella loro diffusione, da imputarne fondatamente la mancata lotta per contenerli e annullarli solo al difettoso esercizio dei poteri dello Stato nazionale. Eppure proprio quel viaggio, con la sua possibilità concreta di portarlo a termine, contro i pericoli che lo potrebbero far saltare, è il frutto più vistoso dell’incidenza dello Stato nella vita sociale ed economica dell’Isola. Questa muta, proprio per la facilità di percorrerla che è sopraggiunta, seppure dopo tante lotte. Gaston Vuillier si trasferisce col treno dall’uno all’altro capo dell’isola, anche impiegando quei mezzi tradizionali, le carrozze, i cavalli, che gli sono messi a disposizione dagli amici. Ma questi non sarebbero bastati a coprire le distese delle sue montagne e delle sue pianure ed a penetrare nelle sue più profonde località, se proprio in quella stagione una grande battaglia non avesse raggiunto il suo fine. Quando Vuillier sbarca in Sardegna erano passati tanti anni da quando, nel luglio del 1861, era stata approvata la convenzione con una società italo-inglese, che faceva capo al finanziere Gaetano Semenza, per la costruzione della rete ferroviaria in Sardegna. Dopo qualche anno iniziano i lavori, che continuarono fra conflitti sindacali e insurrezioni popolari fino a dieci anni dopo, quando finalmente il 1 maggio 1871 fu inaugurato il primo tronco delle Ferrovie Reali, Cagliari-Villasor, cui rapidamente seguirono i tronchi Decimo-Iglesias, San Gavino-Oristano. Il tour del viaggiatore francese non conosce i tagli e le fatiche che avevano resi difficili i viaggi per un secolo. Vuillier aveva un vivo senso del paesaggio. E, come se la Sardegna fosse nella sua mente soprattutto natura, l’occhio gli si accende subito, appena lasciata la costa della Corsica. Prima è il cielo, con una luna che sembra illanguidire e con le nuvole che si fanno sempre più cupe. C’era stata una voce che l’aveva incuriosito, quella del comandante della
nave, che aveva smentito i viaggiatori, che alla partenza avevano creduto che la bonaccia delle acque si sarebbe conservata per tutto lo stretto fra le due isole. E via via la curiosità si era fatta attesa spasmodica del capovolgimento. La tolda è abbandonata dai viaggiatori, quando egli rimane solo a contemplare, aggrappato alla rampa della cabina che gli era stata assegnata, il mare in burrasca. Quel mare gli raffigura incancellabile la Sardegna, «come una sòrta di paese maledetto, esalante febbri temibili, popolata da uomini dal brutto aspetto». C’è una continuità fra la Corsica appena lasciata e la Sardegna che si sta per toccare. Le nereggianti montagne della Corsica e la rocciosa isola dell’Asinara si fronteggiavano, ma anche sembravano tutt’uno. E quello di melanconia che pare ispirare la nudità della natura è confermato dalla prima visita all’abitato: Porto Torres è agli occhi del francese un accumulo di povere case basse, di fanciulli sparuti. Il porto non ha nulla dell’animazione di una stazione marittima, ferme le acque, ma anche l’attività: «Somiglia ad uno stagno». Solo il passato sembra vivacizzare il desolato presente. Anche se i monumenti, dal Palazzo del re barbaro costruito dai Romani alla Basilica di S. Gavino, fanno fatica a bilanciare l’orrore di una «smorta regione, misera e tremante di febbre sotto il cielo agitato». Ed ancora il passato gli verrà in soccorso quando, appena sbarcato, visiterà le rovine dell’antica Turris Lyburnis. L’ammirazione non si esaurisce sui ruderi di statue e di colonne, ma trapassa ai primi sardi che cadono sotto i suoi occhi: «I cavalieri sardi che passavano, carichi di portamento, il capotu sulla testa, il profilo severo sul cielo, i capelli fluttuanti di un nero d’ebano, la barba selvaggia». Ma senza che si interrompa un’inquietudine che lo accompagnerà, senza tregua per tutto il viaggio. A procurargliela è la vista delle acque morte, che sono sempre i fiumi: «Ah! Più tardi non le ritrovai che con terrore queste acque dei fiumi sardi, queste distillatrici di veleni che srotolano lentamente le loro ondulazioni da vipere…».
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Prefazione
La scoperta della Sardegna è anche la scoperta delle sue città: piccole città, come Cagliari e Sassari, che a lungo si mantengono sui trentamila abitanti, che sono superati da Cagliari che tocca i cinquantunmila abitanti nel censimento del 1901, appena qualche anno dopo del viaggio del Vuillier. Il viaggiatore le visita con particolare attenzione, le sue passeggiate cagliaritane obbediscono a quella visione d’insieme che fa di Cagliari un vasto anfiteatro o un bastione di dieci colli che, percorso partendo da uno qualsiasi dei tre quartieri di Villanova, Stampace e Marina, porta alla sua vetta che è il Castello. Allora questo rione si tramuta in una specola preziosa che rivela la vocazione marinara della città: «Dominavo la città bassa, il porto, la banchina, le barche, le navi, e, oltre, l’immenso golfo. Velieri e vapori andavano e venivano nei suoi flutti d’azzurro, questi salpati verso Palermo o Siracusa o Napoli, quelli rientranti a Cagliari da uno qualsiasi dei grandi porti d’Italia». Anche se aveva dichiarato che le città non lo interessavano, perché le riteneva uguali fra loro e non diverse da tutte le altre del mondo, pure Sassari l’aveva incantato. Sebbene, poco più avanti, a conquistarlo sia Sennori, il primo dei villaggi sardi che visita. Quasi gli era accaduto di trovare seppure vaga una qualche loro rassomiglianza con i borghetti di Francia. Ma aveva finito per prevalere l’enorme sproporzione fra la ricchezza delle vesti specie delle donne e la povertà delle case. Tutto quello che in una popolazione, in cui dominava l’indigenza, poteva essere risparmiato e speso veniva impiegato per i variopinti e superbi costumi. Di cui sono esaltati i colori, ma anche i più minuti e preziosi ornamenti. Un costume che celebra la femminilità, ma che nelle vedove e nelle più giovani non intacca il pudore. E ne viene tanto ammaliato che in quei colori, l’azzurro, il bianco, il rosso, sottolinea la loro parentela con la bandiera di Francia. Si tratta della prima esperienza della Sardegna più segreta e però non gli accadrà più che di un luogo visitato
rimanga tanto di dentro entusiasta, da rinnovare la visita il giorno dopo. Sempre le donne attirano la sua attenzione e la bellezza che vi coglie insistentemente è un termine di paragone con la natura che, quando si turba, è temperata, nei suoi colori tenebrosi, dal fascino insistente che ad essa oppone la bellezza femminile, che non conosce oscuramenti. Ma quelle visite ai villaggi più vicini a Sassari lo rimandano alla Corsica appena lasciata. Da una delle cime dei monti, che circondano Osilo, quella «terra francese», come egli la chiama con non nascosto orgoglio, lo fa silenziosamente entusiasmare ancora una volta della bellezza di quella regione e dell’originalità della sua bellezza. Sono la bellezza femminile e il paesaggio naturale i due valori anche della Sardegna che Vuillier insistentemente riprende. Solo il tema truce della vendetta, che dilaniava le famiglie, è ombra ritornante, che oscura le luci della terra che il francese visita sempre più entusiasta. Anzi fra il paese appena visitato e la Sardegna, riesce doloroso che la sola parentela che si stabilisca sia proprio questa comune vocazione alla vendetta. «Come in Corsica, il bandito è pianto invece d’essere odiato, addirittura lo si circonda di un certo rispetto, lo si ama, si vanta il suo coraggio». La vendetta procede per gradi e per ammonimenti: si tagliano le orecchie e la coda del cavallo dell’odiata famiglia nemica, con ascia o coltello si tagliano i garretti dei buoi, infine – ed è l’ultima minaccia – si depongono tre palle sotto una delle finestre della casa odiata. Dopo, si comincia ad uccidere, accompagnando ogni omicidio con riti diversi, dal giuramento e farsi crescere oscure barbe ad imbrattarsi il volto del sangue della vittima. È riconosciuto esplicitamente che non c’è differenza fra il bandito sardo e quello corso, ugualmente lo si rimpiange invece di odiarlo. Giovanni Tolu, che fu il più celebre bandito della Sardegna dell’Ottocento, strappa a Vuillier un giudizio coraggioso, pronunciato senza veli o
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Prefazione
riserve, che coinvolge altri che operarono alla macchia e beneficiarono la loro gente: «Alcuni, come Giovanni Tolu, hanno reso gran servigi al paese. Tolu purgò tutta una regione dai malfattori, a suo rischio e pericolo, fra continue minacce. Egli si recò anche nella Nurra, dove gli abitanti erano in arme; estinse gli odi, riconciliò le famiglie e liberò il paese dai briganti che lo infestavano; spesso, protesse i derubati dai derubatori e grazie a lui più di un buon paesano vide far ritorno alla stalla o alla scuderia le bestie delle quali i miscredenti l’avevano “alleggerito”». E, come se non bastasse questa sorta di “glorificazione” aggiunge: «Si raccontava che Tolu avesse ucciso alcuni carabinieri, ma in situazione di legittima difesa, ed il popolo tutto gli dava ragione». Che sono, peraltro, giudizi lontani da quelli pronunciati da Emanuel Domenech in Bergers et bandits (Paris, 1867), che è un’opera ricca di stravaganze: «È capitato diverse volte che durante questa cerimonia dell’Attito, cioè della lamentazione, uno dei parenti del morto sia corso dietro l’assassino, l’abbia ucciso con un colpo di pugnale o con una fucilata, gli abbia strappato il cuore o l’abbia decapitato e poi abbia portato al morto il trofeo sanguinante, dicendogli: ‘Vedi, gioiscine; non sei stato tu solo a conoscere la morte’». Oppure: «Uno di questi forsennati spinse la vendetta più in là di quanto non fece Achille per Ettore: egli trascinò la vittima per i piedi fino alla propria casa e gli inchiodò gli arti alla porta». È, comunque, lontana da Vuillier la convinzione che la vendetta sarda annulli ogni altra virtù dei Sardi e, invece, ha un posto notevole nella sua opera la lode della gentilezza diffusa nell’isola di Sardegna. La cortesia dei Sardi è un tema toccato tante volte, che fa tutt’uno con l’ospitalità, a cui è dedicato un intero capitolo del Viaggio in Sardegna di Valery. L’uno e l’altro non ne fanno qualcosa di chiuso in un ceto, ma sempre come innata e al di sopra dell’educazione ricevuta. Vive nelle
case della nobiltà, ma anche in quelle dei borghesi e del popolo. Non si segnala in un luogo piuttosto che in un altro, e trapassa dai villaggi alle città e viceversa. Vuillier, quando il viaggio e il suo racconto volgono alla fine ha un’intuizione felice, al termine di una serata trascorsa festosamente: riallaccia la gentilezza dei Sardi alla poesia. E scrive parole, che sembrano abbracciare tutte le esperienze compiute: «Raccolgo i miei ricordi… Ieri sera c’è stata gran festa presso questo bravo Sardo che ci ha così gentilmente ospitati; costui non è un paesano, né un borghese, né un letterato; ma ha spigliatezza, ed il suo spirito è largamente aperto su tutto. D’altronde, non c’è montanaro sardo che non ami la poesia». E la Sardegna non è, neppure, la terra de is bruscias o delle streghe, de is mazinas o dei sortilegi a cui, peraltro, si dà largo posto nel libro. L’idea del libro è nata in Vuillier dagli occhi. La parentela, che è stabilita fra le tre isole del Mediterraneo, nell’animo dello scrittore, deriva dalla vista che gli si offre sul mare, nei viaggi dalla Francia all’Africa e viceversa. Una vista nebulosa che già si arricchisce del sogno e della trasfigurazione sentimentale. Spostandosi da Algeri o Orano e ritornando in Francia, non vede molto delle Baleari, della Sardegna e della Corsica, ma quel tanto che gli ispira la sua operazione, non solo culturale, ma etica: di strappare dall’oblìo terre che per la loro ricchezza naturale e umana meritano di essere conosciute. In fondo gli importano meno i fondali storici diversi dei Romani, degli Arabi, degli Aragonesi, che questi luoghi hanno sulle loro vicende più lontane. E lo interessa di più quello che parla più direttamente al suo spirito. C’è una confessione nelle parole che spiegano al lettore l’origine della sua impresa: «Un giorno la mia vita s’incupì». È allora che si fa più prepotente in lui il richiamo di quelle isole. E, però, senza che sia completamente cancellato quello stato d’animo melanconico che domina in quella stagione della sua vita.
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Prefazione
Ci sarà il sole e il cielo luminoso in quelle terre, ma anche turbine di vento, ombre senza fine, solitudini disperate. Lo scoglio di Formentera, nelle Baleari, è un fantasma che balza improvviso dinanzi alla prua della nave; la Corsica è coperta di neve «fra i pallori di un etere diafano»; la Sardegna è una «monotona e sciatta ondulazione di lidi». E, però, è proprio quel paesaggio che sembra offrirgli solo un cenno, mentre lo scorre rapidamente dalla nave rivolta ad altri lidi, a impegnarlo per l’imminente avvenire. Nelle tre tappe che dura il viaggio alle isole dimenticate, è quella centrale, nella Corsica, ad influenzare sia il racconto della visita alle Baleari sia quello conclusivo dedicato alla Sardegna. Sapeva da francese che molti banditi erano corsi e che anzi proprio quelli sardi potevano considerarsi come loro discendenti. Ed anche francesi sono le memorie letterarie che l’accompagnano. La novella intitolata Colomba, pubblicata da Prosper Mérimée (18031870) nel 1840 l’aveva profondamente turbato. Era già una delle storie che gli saranno raccontate in Corsica e in Sardegna: di una faida familiare che Vuillier ritroverà, pur con originali mutamenti, sulla bocca dei Sardi. E, sempre, alternati ai ritratti e alle vicende umane, i pittoreschi paesaggi. Anche nelle pagine che precedono il racconto della visita della Sardegna, c’è l’alternarsi del presente e del passato. I massicci montuosi delle Baleari e quelli sardi del cuore dell’isola, le meraviglie artistiche e monumentali di Palma e i nuraghi e le antiche chiese della Sardegna. Con un passato, quando conclude il viaggio nell’isola tirrenica, che ha varcato i secoli e sembra essere presente, senza conoscere mutamenti. C’è una cupezza diffusa, che non spegne, peraltro, improvvisi lampi e bagliori di luce. Le ombre sembrano prevalere e le nuvole sembrano tardare ad abbandonare il cielo allo splendore del sole. Ma sarebbe un errore vedere adombrata in questa oscurità, che sembra fasciare ogni
cosa, la tristezza ancora degli uomini. In realtà Vuillier ha disegnato l’autenticità della gente di Sardegna, un’austerità gelosa ma non irrigidita. E, invece, disposta ad aprirsi al riso, alla gentilezza, alla fraterna, cordiale amicizia, all’amabile confidenza.7 D’altronde l’oscurità, lo si sottolinea ogni volta che essa cade sotto l’occhio del viaggiatore, è rotta sempre dal soccorso di una luce. Come quella, umile, delle candele di cui si muniscono ogni volta i visitatori dei foschi nuraghi. E quando questa correzione della luce o del colore sembra non verificarsi o sfuggire, è l’autore che attenua l’oscurità di un vulcano spento, sulla strada di Bonorva, avvertendo accanto al nero, il verdastro o il sanguigno, e i «muri di cinta in pietra, di un color verde-pallido singolarissimo», che fa saltare l’immagine tragica, che sembrava nell’immediato prevalere. Egli non è mai un osservatore distratto che seppellisca ogni cosa nella prima impressione. È questa raffinata sensibilità dell’autore a fare del libro, che pure contiene tre viaggi e tre comunità diverse, un’unità compatta. I tre popoli, che levano il grido di dolore, non tanto di un’oppressione quanto di un’emarginazione ingiusta, conoscono, al di sopra delle distanze e delle vicende storiche diverse che potrebbero nettamente separarli, di frequente un’identità di costumi, di credenze, di rapporti con la natura, che ne fanno come una sola composta comunità, anelante alla liberazione da una relegazione ingiusta. Intanto nella sventura c’è per tutti il conforto della fede, il rito religioso ha una commistione profonda con la vita quotidiana. Quando lo scrittore sta
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7. La cortesia accende l’amicizia. Gli ospiti guidano il viaggiatore nei suoi interessi, nelle sue curiosità. Sono nel libro altrettanti personaggi, sulla cui bocca sono messi racconti che toccano i temi più rilevanti, come il banditismo, la vita religiosa: il francese George Chapelle emigrato in Sardegna, i corsi Padre Fondacci e il signor Mariani, i sardi Gaetano Mariotti, rettore dell’Università di Sassari, Proto Secchi, il signor Catta, il signor Muzi.
Prefazione
per lasciare Majorca, l’ultima immagine che lo saluta è quella di un popolo orante: «L’immensa nave nell’oscurità, dei Majorchini vagamente intravisti, inginocchiati sulle mattonelle sgranano il loro rosario, interrompendosi solo per agitare silenziosamente il loro ventaglio, qualcuno è anche lì a pregare con fervore. Poi i canti cessano, i ceri si spengono a poco a poco e i canonici se ne vanno silenziosi, sparendo a uno a uno, nell’ombra degli alti pilastri». A Sassari, nella Cattedrale attrae il visitatore un antico arazzo che raffigura la morte nella forma di un terribile scheletro incarnato, che non diffonde orrore d’intorno ma un culto austero e senza timori: «Quando le preghiere lugubri furono terminate, il prete che le aveva salmodiate fece il giro del fantastico quadro, aspergendolo d’acqua benedetta, mentre un altro incensava. Poi i ceri si spensero, i candelieri sparirono, l’arazzo fu ripiegato, ed i curati andarono via. Nella navata, immersa nell’ombra e nel silenzio, non rimasero che alcune donne inginocchiate sui lastroni, il rosario fra le dita, mentre vapori d’incenso s’alzavano lentamente verso la volta, e le mura della chiesa risuonavano come di un’ultima eco del canto sepolcrale». Anche una natura, che parla quasi un identico linguaggio, li accomuna: montagne, boschi, cieli, mare, uccelli formano come un continente a sé stante. Ancora nelle Baleari: «In questa bella e tiepida giornata invernale, l’aria è imbevuta di effluvi marini e di profumi d’erbe aromatiche. Il sole indora le cime dei lecci e dei pini, le alte eriche dondolano dolcemente i loro steli tutti fioriti, gli uccelli cantano nei fitti boschi, una foschia dorata attraversa lentamente il cielo blu, carezzando le cime delle montagne. Il mare sonnecchia silenzioso sotto l’azzurro e sfuma in lontananza la sua linea vaporosa, nell’abbacinante immensità». Quando, sostando nel nord della Sardegna, decide di visitare il monastero di San Pietro di Silki, quel paesaggio di mare e di boschi sembra ritornare: «Le grosse
nubi nere, scacciate dal vento di sud-ovest, avevano cessato di correre sbigottite nel cielo della Sardegna. Procedevamo per la strada dinanzi al bell’orizzonte del mare lontano che s’inerpicava sui poggi, precipitando nei valloni ove fremevano dolcemente le alte palme, dove si dondolavano i pennacchi ondeggianti delle canne, dove brillavano i frutti d’oro dell’arancio. Bella natura e superbi cieli». Anche le donne hanno un’affine raffigurazione nelle tre parti dell’opera del Vuillier. La bellezza fisica, coperta ed insieme evidenziata dagli sfolgoranti costumi, è un tema ricorrente nel racconto di quanto offrono agli occhi le tre tappe del viaggio, così lontane fra loro, eppure così vicine. Nelle Baleari, sfilano queste donne che sanno di essere belle: «Le donne con i loro occhi neri, sopracciglia spesse e il colorito dorato, giustificano la loro reputazione di bellezza. I lineamenti del viso sono regolari e il tratto distintivo è la calma della fisionomia. Quanto al loro abbigliamento, è incantevole una sottana, un corto grembiule, un corsetto nero con le maniche al gomito, su cui si ripiega un lembo della camicia trattenuta da bottoni di chincaglieria di vetro dai colori vivaci. L’acconciatura è costituita dal rebosillo, sorta di soggolo monacale, che lascia vedere interamente il collo, un po’ di petto e il profilo delle spalle, così che l’insieme è molto grazioso». E quelle donne delle Baleari sembrano anticipare le donne sarde e in particolare quelle d’Aritzo: «Se volete godervi un bello spettacolo vogliate assistere alla sortita della gran messa d’Aritzo. Vedrete le donne in costume di color porpora, orientale e medievale, in una volta, di una ricchezza sorprendente, avanzare tutte scintillanti di broccato. Esse discendono la scalinata, con in mano rosari di madreperla e d’argento e reliquiari cesellati, vestite di nero, passano con un’aria attristata. C’è da credere che la corte di qualche principe delle Mille e una notte abiti questo villaggio “favoloso”».
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Vuillier ha certamente letto nelle isole dimenticate quelle bellezze della natura che facevano più iniqua la loro emarginazione, ma anche con interesse ha descritto il rabbuiarsi dei cieli. E, però, anche più continua è la presenza di venti furibondi. Come se fossero sentiti al modo dei popoli più antichi, che vi leggevano la potenza di Dio. Vivificano, castigano, ammaestrano, trasmettono le comunicazioni di una potenza divina, che vanno dalla dolcezza al più tempestoso corruccio. Le Baleari tra un’isola e l’altra conoscono la loro potenza, i loro ululati: «Da Almedia a Mahon c’è ancora una traversata di sette o otto ore. I venti dal nord e da ovest soffiano e urlano nel canale formato dalle due isole, sollevando onde travolgenti. Spesso è un affrettare al riparo, non potendo tenere il mare. Da queste parti le trombe marine si formano frequentemente. Io stesso ho visto, dalle alture della costa nord di Majorca, un mese circa dopo quella traversata, il cielo abbassarsi e allungare le sue nuvole fino al mare in immense ombre nere. Lo spettacolo è imponente, e io capisco che un vascello potrebbe scomparire come un grano di polvere attraverso questa potente meteora». Il passaggio dalla Corsica alla Sardegna è ancora più drammatico: c’è l’inganno di una partenza avvolta dalla bonaccia e poi lo scoppio improvviso della bufera. «Così procediamo per qualche tempo verso l’orizzonte nero, poi il vento s’alza, sibila nella notte, e le creste delle onde passano con un’abbacinante rapidità da ciascun lato della nave. L’ondosità aumenta… Quando doppiamo il Capo di Muro, i lampi fendono le nubi, il fulmine brontola, il vento urla, il battello emette dei suoni strani, il mare è come impazzito… Gli ultimi chiarori del faro dei Sanguinari sono spariti, il capo è svanito nell’oscurità del cielo. Io ascolto la musica infernale dell’uragano, i suoi clamori, i suoi brontolii, il sordo ansito della macchina, gli scricchiolii dello scafo; vedo la fantastica cavalcata delle onde dalle creste
biancheggianti, le nuvole fluttuanti come grandi teli di crespo strappati». Quelle che si visitano sono terre che nei secoli hanno conosciuto dominazioni degli stessi popoli. Le Baleari e la Sardegna hanno conosciuto il dominio degli Spagnoli e degli Arabi e le impronte che questi popoli hanno lasciato sono vistose anche nella vita più comune, come in su fastigiu o corteggiamento. Una pagina è dedicata alle serenadas di Minorca, dove si legge: «A sera, queste strade pittoresche, avvolte da un’ombra diafana, sono impregnate di grande poesia. Nelle notti di luna io andavo, a caso, attratto dalla voce lontana di una chitarra, e coglievo a sorpresa una serenata sotto qualche balcone. Spesso un giovanotto, appoggiato contro un muro, sussurrava un antico canto d’amore pizzicando dolcemente le corde, fino a che sul balcone bagnato non appariva la donna. Stavo bene attento a non turbare questa scena, che spiavo da un angolo oscuro». Un motivo che senza mutamenti ritorna nelle strade di Cagliari: «A Cagliari e nei villaggi vicini i giovanotti fanno la corte alle ragazze, che li ascoltano dalla finestra o dal balcone, persino per strada. In occasione di un matrimonio, i parenti dei promessi, gli invitati, la stessa fidanzata, si vestono di rosso, nei quartieri poveri. Ho visto passare uno di questi strani cortei nel quartiere di Villanova, che ha conservato un po’ l’impronta spagnola e dove la sera, nelle strade, si possono ascoltare accordi di serenate sotto la finestra delle dulcinee». Quanto, invece, Vuillier ha scritto della Corsica e dei suoi rapporti con l’Italia, risente del suo chauvinisme. L’isola passata sotto il dominio francese è vista come a sé stante: «Una notte profonda sulle origini della Corsica, e non si sa esattamente quali furono gli uomini che il flusso impetuoso delle migrazioni preistoriche trascinò, come relitti, fino a certe coste del Mediterraneo. Si è preteso, dall’altra parte delle Alpi, che i Corsi siano di origine italiana. Una certa analogia nella lingua lo farebbe pensare, è vero,
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ma quando si considera la caratteristica dei volti e si penetra nei costumi, ci si accorge subito che questa tesi non poggia su alcun fondamento. Non c’è niente in comune fra Corsica e Italia, c’è piuttosto una profonda antipatia fra le due razze». Invece corrono fra i Corsi e la Sardegna rassomiglianze di costumi e di usanze, anche se poi, la vera parentela che l’autore riconosce è quella tra la malavita e i banditi, costituenti una piaga, che nell’opera del Vuillier ha la stessa rilevanza della intemperie, diffusa in Sardegna dalle distese senza fine delle acque stagnanti. I monumenti non sono mai accarezzati, staccandoli dal paesaggio. I nuraghi, che sorgono nelle vicinanze di Macomer, non sono solo dirupi, ma anche «altipiani deserti, piane desolate». E quando il paesaggio è quello del Gennargentu, «il gigante della Sardegna», coronato quasi sempre da nubi, un particolare, «la sua fronte calva spesso argentata dalla neve», finisce per restituirlo alla bellezza. Così accade anche del vento, in particolare del maestrale: «I venti fischiano in ogni stagione, urlano e singhiozzano». E perfino la storia si connette al paesaggio e viceversa: «L’autunno, lo vedo, sferza questo triste suolo con piogge glaciali. Da queste colline assisto ora a corse scapigliate della bruma. È proprio il cupo paesaggio che conveniva a lunghe lotte, dopo la disfatta in cui soccombette la libertà dei Sardi». E, però, anche accade che neppure il sole riesca sempre a vincere la sua lotta con le cupe tenebre. Ad Abbasanta, a fronte di una «graziosa chiesa che ci sorride gaiamente in mezzo a tutta questa desolazione», la cupezza non sembra aver tregue: «Qui la Sardegna ha sempre un aspetto funebre, che la si attraversi sotto i raggi del sole o in una giornata grigia, o con la luna, o sotto le stelle. Si crederebbe che il suolo sia bruciato; esso è come striato di tonalità violacee, livide, nere e violente; non alberi, ma orizzonti cupi, uccelli inquieti e funebri, colline aride, lave rossastre».
Il vento muta anche i personaggi. Quel domenicano che è la sua guida preziosa attraverso le vie di Cagliari diventa pittoresco in una delle giornate ventose che conosce questa città: «L’indomani, di primo mattino, ritrovai il reverendo padre. Una tormenta era passata sopra la città, un vento violento soffiava ancora, scuoteva la sottana bianca del domenicano, ed il suo mantello bruno, ch’egli tentava di trattenere, fluttuava a grandi pieghe attorno al suo viso: tale e quale a Virgilio, in un capolavoro del nostro grande Delacroix». L’immagine comparativa è un ritorno del pittore, che si divideva fra la letteratura e l’arte. Quel quadro, La barca di Dante, l’aveva visto al Louvre, dove è ancora conservato, raffigurante su un battello che avanza sulle acque dell’Ade, fra il tumulto dei corpi dei dannati e la furia del vento infernale. Dante ha coperto il capo di un rosso cappuccio medievale ed alza un braccio quasi a contenere quella rabbiosa collera, mentre Virgilio al suo fianco ha il volto austero chiuso nello scialle che lo ricopre tutto, con sul capo una corona d’alloro. Ma la citazione di Eugène Delacroix ha una particolare importanza: quel pittore compatriota era per Vuillier quell’inclinazione emotiva e sentimentale che attraversa la stagione romantica e, soprattutto, era il pittore che trapassa dal colore forte al colore debole in una funzione complementare accrescitiva. Come sono i paesaggi di Vuillier fissati in Sardegna: ora tenebrosi ora luminosi, e come è la psicologia sua e dei suoi personaggi, che trapassano dalla cupezza della melanconia allo splendore di tratti gioiosi e sfolgoranti. Forse a Gaston Vuillier si adatta il verso di Eugenio Montale: «Sentire con triste meraviglia». È vero che triste e tristezza sono parole insistenti dello scrittore-pittore francese e la cupezza sembra dominare i cieli, i monti, le pianure spesso desolate e ammorbate dalle acque stagnanti. Ma è anche proprio più consolante che, su un mondo desolato e ingiustamente dimenticato, lampeggino, come
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luminose stelle, il sorriso e la letizia, l’amicizia e la gentilezza. È allora, e non raramente, che si passa dalla melanconia allo stupore della gioia. E sembra recuperarsi il verso montaliano, che precede, in Meriggiare, quello citato: «E andando nel sole che abbaglia». Sì, la lieta meraviglia si accende, proprio, ad ogni apparizione della cortesia dei Sardi: «Sotto questo grigio mezza-tinta, senza forme precise, si crederebbe di osservare un quadro di Corot cancellato per metà. Numerosi uomini tornano dal lavoro, gli utensili sulle spalle, carichi talvolta di fagotti: ‘Bona sera’, dicono passando. Ah! Che brave persone!». Antonio Romagnino
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
«Un giorno accadde che la mia vita s’incupì, e, fuggendo verso la pace luminosa, partii verso le Isole dimenticate». Vuillier e la sua Sardaigne entrano a far parte della letteratura di viaggi, spesso trascurata per via degli argomenti e della destinazione delle opere inscritte all’interno di tale genere, così da aver impedito per troppo tempo di formulare una tassonomia realmente e concettualmente approfondita di questa specie per sua natura curiosa. Quando lo scrittore ed artista francese prese il mare da Barcellona, nell’ottobre 1888, a bordo del Cataluña, diretto alla volta delle Baleari, giungendo un anno più tardi nell’amata Corsica, per approdare infine a Porto Torres, sul Conte Bacciocchi, in una cupa mattina d’ottobre nel 1890, qual era – compenso d’inviato a parte – la molla scatenante che lo spingeva a visitare terre sconosciute, selvagge, avvelenate, oubliées? Dove Gaston Vuillier voleva approdare, e perché desiderava fuggire «verso la pace luminosa»? Se T. Todorov avesse letto la Sardaigne, ne avrebbe quasi certamente collocato l’autore – nella sua disamina sui viaggiatori presente in Nous et les autres 1 comprensiva di dieci categorie – all’interno del tipo impressionista, in quanto, conformemente al suddetto modello, anche Vuillier appare, certamente, un turista evoluto in grado di non riportare a casa propria delle banalità, ma «schizzi, dipinti e scritti». Tuttavia, costui risulta egocentrico, ossia poco incline a farsi permeare totalmente dall’esperienza dell’estraneità, come si nota chiaramente dai continui rimandi e rimpianti del suolo francese. 1. Le citazioni estrapolate dal testo dell’etnologo francese, sono tratte dall’op. cit., edita in lingua italiana col titolo Noi e gli altri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 403-404.
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Nota bio-bibliografica
La citazione iniziale, tratta dalla dedica al lettore redatta per l’edizione più tarda, fornisce un indizio fondamentale per poter ascrivere il nostro autore alla categoria todoroviana di cui sopra: alla domanda «perché parte?» che lo studioso si pone relativamente all’impressionista, egli risponde che questo tipo di viaggiatore «non riesce più a sentire la vita a casa propria e l’ambiente straniero gli permette di ritrovarne il gusto» – così come Vuillier, nella dedica, afferma di aver fatto. Inoltre, a partire dallo scarso coinvolgimento nelle reali vicende sarde, spesso sottolineato in nota all’opera – eccezion fatta per la grassazione – si può citare il tratto comune a questo tipo di turista, sempre secondo la tassonomia delineata dal grande studioso francese: «Ciò che li interessa veramente sono le impressioni che quei paesi o quegli esseri lasciano in essi, non i paesi in quanto tali». Da tutto ciò emerge un carattere meglio delineato sia dell’autore reale, sia di chi scrive in funzione di una pubblicazione e forse risulta spiegata meglio la configurazione di questo variegato ed ingenuo medioevo sardo, dove le annotazioni di colore e di costume surclassano, per numero, quelle quasi mai approfondite sulle esperienze umane che egli, stupito dal non aver incontrato unicamente uomini primitivi, ha potuto realizzare nella nostra terra. Questo insieme di cose sfocia in uno stile variato, umoristico e, talvolta, “furbesco”, in cui la pittoricità di soggetti e situazioni prende il volo, a scapito della riflessione su questi ultimi, ma non bisogna dimenticare che lo stile rispecchia quello di tante cronache di viaggio dell’epoca, e che «il genere letterario è … anche sintomo di una cultura e dello status sociale che lo produce e accoglie e diffonde»,2 quindi anche Les îles oubliées dev’essere letto e giudicato all’interno di un sistema di valori che tenga conto di variabili
molteplici, fra le quali la situazione storica e socio-culturale della Francia di fine ’800, rapportata ad una realtà, quella sarda nello specifico, assolutamente estranea alla prima con, in più, l’istanza del destinatario di quest’opera, la quale, come molte altre che fanno parte del genere citato sopra, aveva allora (ed in misura inferiore oggi), un lettore-tipo assai definito sia nelle sue competenze che nelle esigenze di lettura, le quali non richiedevano, da parte dell’autore, un particolare impegno sociale od approfondimenti che potessero turbare la serenità ed i valori del pubblico ricevente. Andando a scoprire la biografia e gli acta dello scrittore ed artista francese, si palesa dell’incertezza sulla persona storica di Gaston Vuillier, a partire dalla data di nascita (Ginclé, 12 luglio 1846 oppure Perpignan, 9 ottobre 1847, ma si arriva secondo alcune fonti fino al 1844, † Gimel, 4 febbraio 1915). Egli, noto paesaggista e bozzettista, trascorse l’infanzia e la giovinezza nei Pirenei, presso il dipartimento di Audois. In questo periodo della sua vita Vuillier resterà segnato dai selvaggi e maestosi scenari pirenaici, che ritorneranno così di frequente nelle sue opere e pensieri. Il “viaggio” che intraprese verso les îles oubliées mediterranee lo portò nelle Baleari, Corsica, Sardegna, Malta, Africa del Nord (Libia) e Sicilia, dal 1888 circa fino al 1896, pubblicando tutti i suoi lavori per la Hachette di Parigi.3 Tali relazioni di viaggio e le innumerevoli illustrazioni realizzate lo resero assai noto in Francia, e non solo. Egli difatti collaborò assiduamente con la rivista di viaggio Le Tour du Monde, nouveau journal des voyages, fondata da E. Charton, presso la libreria Hachette, che dal 1860 al 1914 raccolse le relazioni di viaggio dei grandi esploratori
2. Cfr. Maria Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1997, p. 154.
3. Tutti i titoli francesi menzionati si riferiscono alle pubblicazioni di Vuillier per la Hachette et C.; pertanto, onde evitare inutili ridondanze, la casa editrice di queste ultime non verrà da qui in avanti specificata, mentre si troverà segnalato, ovviamente, l’anno d’edizione delle stesse.
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Nota bio-bibliografica
(Livingstone, Stanley, Scott, Amundsen, ecc.) illustrate dai maggiori artisti dell’epoca in tale campo. Il primo reportage di viaggio pubblicato come estratto da Le Tour du Monde è del 1860, recante il titolo Andorre, mentre l’opera En Limousin, sorcellerie, croiances et coutumes populaires (1893) racconta di un suo successivo itinéraire nel Limosino, portato a termine nel 1860, sempre per la famosa rivista di Parigi. Nel 1896 comparve La Sicile. Impressions du présent et du passé, corredata da 255 incisioni, edita in lingua italiana da Treves, Milano, nel 1897, col titolo La Sicilia. Impressioni del presente e del passato, dove l’interesse dello scrittore si appunta particolarmente sulla mafia e sulle inchieste del Pitrè, così come, in Sardegna, egli si era occupato a lungo della grassazione e del banditismo in genere. Sono stati pubblicati, ancora sul soggiorno siciliano di G. Vuillier, ben quattro volumi: Visioni di Monreale, a cura di Rosario la Duca e Agrigento, a cura di G. Servello e L. Sciascia, editi dal G. E. d’Agostino di Palermo, in tiratura limitata, mentre è uscito nel 1989, per l’editrice Pungitopo di Messina, il volume intitolato Escursione alle Eolie. L’ultimo interessantissimo lavoro dedicato al periodo siciliano dell’artista francese, intitolato I viaggiatori e la Mafia. F. Elliot, G. Vuillier, R. Bazin, edito da Edi. bi. si. (Palermo) lo ritrae assieme ad altri scrittori che hanno analizzato questo fenomeno criminoso in varie epoche, con gli “occhi dello straniero”. Altra opera che fornisce ottime indicazioni sulla vita e gli interessi molteplici dell’autore francese è La Dance (1898) tradotta in lingua italiana dal Corriere della Sera e data alle stampe l’anno successivo col titolo di Danza, la quale costituisce una cronistoria di tale arte e della coreografia dall’antico Egitto, passando per la Grecia, fino ai grandi teatri e balli moderni. Quest’ultima opera, assai diffusa ed apprezzata fra i cultori del genere, si trova anche in lingua inglese col titolo A history of dancing from the earliest age to our own times. From the French of Gaston Vuillier, with a sketch of
dancing in England, by Joseh Grego, Boston, Milton House, 1972. Degna di nota è anche la sua traduzione francese del poema catalano Atlantide (1887) tanto più se si ricorda il riferimento alla conoscenza di questa lingua da parte dell’autore nell’incipit del capitolo II di la Sardaigne, dedicato ad Alghero (isola linguistica catalana), ove egli racconta d’aver comunicato in tale idioma con gli abitanti indigeni. Risulta evidente che l’attitudine di comparatista e viaggiatore, come anche di etnologo appassionato, fu presente in ogni pubblicazione del Vuillier. Dal ’92 egli si stabilì presso il paesino di Gimel-les-Cascades, a nord di Tulle, innamoratosi della natura incontaminata di questo territorio, al punto da sollecitare e far nascere, nel 1912, un parco paesaggistico all’interno della stessa regione, a tutt’oggi noto e funzionante come Parc Vuillier. Assai apprezzate furono le sue illustrazioni della Carmen di Prosper Mérimée, come proficue risultarono le collaborazioni a vario titolo con alcuni giornali e riviste quali Le Monde Illustré, Le Tour du Monde, Le Magasin pittoresque, L’Art, Le Musée des Familles. Relativamente al viaggio che lo portò in Sardegna, la prima pubblicazione, edita dalla rivista parigina Le Tour du Monde, uscì in cinque fascicoli a partire dal 19 settembre del 1891, col titolo La Sardaigne, par M. G. Vuillier. Dopo due anni, nel ’93, fu dato alle stampe il libro Les îles oubliées, les Baléares, la Corse et la Sardaigne, impressions de voyage. Quest’ultimo, non più in fascicoli ma in quattro capitoli, consta di numerose modifiche riguardanti testo ed immagini pubblicati due anni prima. Tracce scritte del viaggio in Sardegna di Vuillier e della sua opera appaiono nel quotidiano L’Unione Sarda, all’interno dei numeri 83-84 del 7-8 aprile 1891, in termini assai elogiativi. Raimondo Carta Raspi, in Gastone Vuillier, Le isole dimenticate. La Sardegna, Cagliari, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, 1930, all’interno della raccolta Collezioni di
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NOTA DEL TRADUTTORE
viaggi – Alla scoperta della Sardegna, traduce l’edizione del ’93. Il reportage realizzato per il settimanale Le Tour du Monde, suddiviso in quattro fascicoli e risalente al ’91 ha costituito, invece, il testo base per F. Pilia, Impressioni di un viaggio in Sardegna, Cagliari, ed. 3T, 1977, e, La Sardegna secondo Gaston Vuillier, traduzione a cura di C. Aresu e S. Pineider, vol. II, Cagliari, Demos, stampato nel 1997. Si trova poi, nel volume di Alberto Boscolo, I viaggiatori dell’800 in Sardegna, Cagliari, Editrice Sarda Fossataro, 1973, oltre a qualche scarna notizia biografica sul nostro, una traduzione parziale di 33 pagine tratta da Les îles oubliées a cura di F. Alziator, intitolata Città e Paesi. Ancora, a cura di N. Valle, “Gaston Vuillier, Un francese in Sardegna”, in Nuovi saggi (letteratura, musica, arte, attualità), Cagliari, Il Convegno, 1990, pp. 23-27, nonché una miscellanea a cura di G. Buccellato e G. Guadalupi, Vanità sarda, Eleganze sacre e profane, testi di A. Lamarmora, G. Vuillier, G. Deledda, F. M. Ricci Editore. Indicativa di una buona diffusione di Le isole dimenticate è una traduzione in lingua inglese di quest’opera, avvenuta già tre anni dopo l’uscita della stessa nel 1893: The forgotten isles: impressions of travel in the Balearic Isles, Corsica and Sardinia, trad. F. Breton, London, Hutchinson, 1896. In definitiva, si è qui cercato di far conoscere a chi legge non solo la persona storica che il nostro autore rappresenta, ma anche l’uomo che, da straniero, si è scontrato con una realtà, quella sarda, che lo ha fatto gioire, soffrire per la malattia, stupire per le contraddizioni – spesso apparsegli incomprensibili – di una terra che talvolta lo ha sbigottito, e, forse, lo ha cambiato poco, ma che ha costituito al tempo stesso la parte più dura del suo percorso, sia esso fisico o interiore, di viator e di uomo. M. M.
La storia testuale dell’opera di Gaston Vuillier, Les îles oubliées, la Sardaigne, è interessante in quanto essa risulta evidentemente duplice. È ben vero, difatti, che esistono due edizioni, fra loro assai differenti, le quali hanno condizionato, conseguentemente, sia la presente traduzione dell’opera, sia le precedenti – tre in tutto – relativamente alla scelta dell’edizione con la quale confrontarsi e, quindi, da pubblicare. Scelta invero ardua, resa difficile proprio dalla difformità assoluta fra pubblicazioni avvenute a distanza di due anni l’una dall’altra: la prima fu redatta in forma di fascicoli nel 1891, come inviato della rivista Le Tour du Monde; la seconda, vera e propria opera integrale, ebbe invece un disegno ed una concezione unitari che, in formato fascicolare, per forza di cose discontinuo, non potevano sussistere. La scelta dell’edizione da tradurre è stata in precedenza ripartita in questo modo: Raimondo Carta Raspi, in Gastone Vuillier, Le isole dimenticate. La Sardegna, sceglie (colpevolmente (?) almeno secondo il parere di F. Pilia) l’edizione del 1893, la più tarda quindi. I curatori delle altre due traduzioni integrali, recenziori rispetto alla prima, hanno optato per l’edizione uscita per il periodico Le Tour du Monde. Il presente lavoro, invece, riguarda l’edizione del 1893, per una serie di motivi come quello, fondamentale, di prestare attenzione in primis ad una versione dell’opera che possa rispecchiare maggiormente le intenzioni ed i desideri ultimi dell’autore; si è tenuto conto anche del fattore cronologico: una profonda revisione è stata operata sul testo e sulle immagini dall’autore successivamente alla prima pubblicazione.
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Circa i criteri seguiti nel corso della presente traduzione, si è partiti dalla collazione fra le due stampe, annotandone scrupolosamente le differenze (davvero sostanziali) e, se possibile, basandosi su queste ultime per la scelta fra sinonimi che, spesso, s’impone al traduttore nella lingua d’arrivo, ricavando utilissime indicazioni dai testi francesi, relativamente alle sfumature più rispettose del senso espresso dall’originale. Accade di frequente, in la Sardaigne, che l’autore lavori sul proprio lessico, a volte semplificando, talvolta elevando il tono, e che tutto ciò possa esser colto solo attraverso il confronto fra le varianti presenti nei due testi di riferimento. Qualora l’autore sia passato da una lezione “facile” ad una più ricercata, ma avente all’incirca lo stesso significato nel passaggio fra le due lingue, ciò ha consentito di poter individuare, nel novero delle possibilità semantiche della lingua d’arrivo, il vocabolo che potesse, pur in traduzione, render conto di tale processo di trasformazione posto in opera da Vuillier. Eccone un esempio tratto dalla p. 193 della presente traduzione: «Questi paesi sono appollaiati nel Nuorese, sull’altopiano granitico di Buddusò, non lungi dalle sorgenti del fiume Tirso». Appollaiati è traduzione letterale di perchés, tuttavia essa è parsa opportuna alla luce della variante situés tràdita dall’edizione del ’91, che indica chiaramente la volontà precisa dell’autore, durante la revisione dell’opera, di non utilizzare un’espressione scontata come quest’ultima, sostituendola invece con un vocabolo maggiormente evocativo ed umanizzante, che possa dar meglio conto dell’ubicazione, talvolta assurda, di alcuni paesi sardi sorti fra le montagne ed “abbarbicati” sulla roccia come rapaci.
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AVVERTENZE REDAZIONALI
In quest’edizione sono state apportate alcune modifiche rispetto al testo originale del 1893. In particolare: Si è intervenuti su date e numerali in genere, in quanto, ad esempio, le annotazioni cronologiche (20 novembre, ecc.) si trovano in entrambe le edizioni, talvolta in numero, talvolta in lettere, sicché esse sono state normalizzate come a testo. Per i numerali in genere, ci si è valsi dell’uso dell’originale. I corsivi dell’autore, per la maggior parte riportanti, in lingua italiana o sarda, toponimi, intere frasi, oggettistica tipica (talleris per taglieri), tecnicismi vari (intemperia per malaria), nomi d’alberghi, locande e odonomastica in genere, spesso con la traduzione in francese a fianco fra parentesi, sono stati interamente preservati; tuttavia, ove si siano riscontrate imprecisioni o veri e propri errori – e ciò per tutte le lezioni dubbie – si è provveduto ad integrare una prima volta con correzioni poste fra parentesi quadre (p. es. “launedda[s]”), utilizzando successivamente la grafia corretta. I corsivi del traduttore – fatti salvi i vocaboli francesi come kermesse, buffet, menù ecc. e quelli spagnoli (lazo, pampas ecc.) dell’originale, che fanno ormai parte del patrimonio lessicale italiano – se non sono stati segnalati per trascuratezza o altro nell’originale, ma si è ritenuto necessario evidenziarli, sono stati collocati fra doppie virgolette alte (“paralimpos”, “museum”, “launeddas”, “barrancos”, “sierras”, “gurbi”, ecc.). In generale, le poesie, i versi isolati, i richiami ad altri autori (cfr. p. es. Dante, nota 49), sono stati verificati sia bibliograficamente, sia formalmente; si è fornita, ove necessario e/o possibile, la versione corretta di tali citazioni; tuttavia, non vi sono stati interventi diretti sul testo tràdito 35
dall’originale, se non per errori formali riguardanti scempie/geminate o maiuscole/minuscole, oppure ove la svista abbia dato luogo ad evidente caduta di rima, in quanto si è voluta fornire al lettore la versione di poesie o vocaboli dialettali derivata dall’ascolto diretto, pur se spesso distorto, da parte dell’autore francese. Qualora vi sia stata la possibilità, si è congetturato circa le cause di errori ed imprecisioni di cui sopra, soprattutto basandosi sulla collazione fra le due edizioni dell’opera e le relative varianti, sia di fronte ad incongruenze morfologico-grammaticali, sia d’interpretazione del significato di alcuni passi citati dallo stesso scrittore (cfr. p. es. nota 55). Si ricorda che i rimandi bibliografici espliciti all’edizione qui tradotta non comprendono, ovviamente, il titolo per esteso della stessa, in quanto essa contiene le opere sulla Corsica e le Baleari, non prese in considerazione in questa sede. Pertanto, il titolo della presente traduzione è Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio, cui si riferiscono i suddetti rimandi. Relativamente alle illustrazioni realizzate dall’autore si deve premettere il fatto che, come vi sono differenze sostanziali nel testo di ciascuna edizione, esse sussistono anche graficamente: alcune di esse, nell’ed. ’93, sono state ritoccate a mano negli sfondi dallo stesso Vuillier e risultano qualitativamente diverse rispetto all’ed. ’91. Sempre nella seconda pubblicazione, alcuni gruppi di personaggi sono stati smembrati in due parti e, infine, si trovano nella stampa più tarda cinque gravures che non sono invece presenti in quella precedente. Il criterio di scelta ha portato a riprodurre le immagini che, nel confronto fra le edizioni, siano apparse di miglior qualità, nonché, ovviamente, a dar conto delle illustrazioni presenti unicamente nell’ed. ’93. Le note al testo sono ad opera del traduttore, a parte quelle contrassegnate dalla sigla [N.d.A.], dell’autore appunto. 36
LE ISOLE DIMENTICATE LA SARDEGNA IMPRESSIONI DI VIAGGIO
AL LETTORE
Quando le combinazioni della terribile annata m’ebbero sballottato in Algeria, m’occorse frequentemente d’attraversare il Mediterraneo, dall’Africa in Francia o dalla Francia in Africa. Sovente, all’indomani della partenza da Marsiglia, da Algeri o da Oran, intravedevo all’orizzonte il vaporoso schizzo dell’isola di Maiorca. Una notte, in una cupa tempesta, lo scoglio di Formentera s’aderse tutto d’un colpo, come un fantasma, dinanzi la prua della nave, e questa fu quasi la nostra ultima ora. Poi intravedevo Minorca ed i suoi capi infaticabilmente sferzati dai venti, battuti dai flutti; o distinguevo le cime nevose della Corsica, fra i pallori di un etere diafano; o seguivo con lo sguardo la lunga, la monotona e sciatta ondulazione dei lidi della Sardegna. E da allora, queste isole misteriose, lontane, vaghe, intraviste come un fluttuante miraggio, non lasciaron più il mio fantasticare. Perduto così in un sogno senza fondo e senza forma, non sapevo di queste isole vagamente apparse, che ciò che si legge a scuola. Non avevo dimenticato che le armate romane reclutavano frondisti alle Baleari, che gli Arabi, conquistatori di quest’arcipelago, vi avevano recato il segreto, da lungo tempo perduto, di maioliche rare con riflessi d’oro, d’azzurro e di fuoco. Non ignoravo neppure che a Majorca regnarono dei re e che gli Aragonesi, assai cristiani, avevano strappato dalle mani musulmane queste isole tra Francia, Spagna, Africa ed Italia. Essendo la Corsica francese, conoscevo meglio la sua natura, la sua bellezza, la sua selvatichezza, ero pieno di 39
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Al lettore
racconti di vendette, di storie di banditi e la Colomba di Prosper Mérimée1 mi aveva profondamente commosso. Ma ignoravo tutto, assolutamente tutto della povera Sardegna abbandonata, perduta in un’oscurità profonda. Un giorno accadde che la mia vita s’incupì, e, fuggendo verso la pace luminosa, partii per le Isole dimenticate. Fu un incanto. Palma mi rivelò meraviglie d’arte, monumenti superbi, sensazioni indimenticate. Gli splendori delle “sierras” e dei “barrancos”,2 l’urbanità, la semplicità dei Majorchini mi affascinarono, ed errai come in un sogno per quest’isola accarezzata dal clima più dolce. Minorca è meno bella, ma essa ha conservato la forte impronta degli Aragonesi e dei Catalani. Ibiza e Formentera sonnecchiano, addormentate da 500 anni; la loro sonnolenza è cullata da salmodie gutturali che sono un’eredità dei Mori; esse non si destano che per l’amore e per i colpi di coltello. In Corsica, attraverso le foreste monumentali, udii i lamenti degli antenati, fremetti con la morte, corsi nella landa in mezzo ai banditi, e, nelle solitudini ove s’arrampicano le nuvole, mi sedetti all’umile focolare dei pastori àuguri, poeti delle cime, che recitano il Tasso o l’Ariosto, accompagnandosi con strumenti che i pastori e i rapsodi suonavano fin dai tempi più antichi. La Sardegna fu una visione abbacinante; in questa terra sconosciuta agli Italiani medesimi, dove i costumi d’altri tempi hanno conservato la loro originale bellezza, conobbi da vicino, familiarmente, il farsetto di velluto, ed il
medioevo trascorse ogni giorno al mio fianco, come se il mondo non avesse ruotato per quattro o cinque secoli. Avevo l’inestimabile onore d’esser caro al signor Émile Templier. Grazie a quest’uomo così fermo, così giusto e buono che nessuno, fra coloro che hanno vissuto nella sua intimità, dimenticherà mai, ho potuto raccontare, appena di ritorno, le mie impressioni sulle Baleari, la Corsica e la Sardegna. In ricordo dell’amicizia che mi manifestò il signor Émile Templier, e del profondo attaccamento che mi legava a lui, è alla sua memoria che dedico le mie Isole dimenticate. Gaston Vuillier
Parigi, agosto 1892
1. 1803-1870, scrittore francese assai influente presso la corte di Napoleone III, autore di varie e note opere di narrativa e drammaturgia (fra le quali si trova il romanzo Colomba, apparso nel 1840) che segnano il passaggio fra romanticismo d’impronta teutonica e realismo francese. 2. «Massicci montuosi e burroni».
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CAPITOLO I Tempesta in mare – Porto Torres e la basilica di San Gavino – Sassari, l’incantevole – Sennori, Sorso, Osilo, costumi primitivi – Una vendetta sarda
Ottobre 1890. – Ajaccio dorme. Mezzanotte è appena suonata in tutti i campanili; il vaporetto Conte Bacciochi, ruota lentamente sul proprio asse, prende la direzione di Porto Torres, rotta a sud, verso la Sardegna. Il giorno prima, le coste della Corsica velate da oscure nubi, erano battute dal mare infuriato; il golfo sembrava sconvolto. Il mattino stesso, i flutti, presi da un accesso di furore, avevano bruscamente invaso le banchine. Dopo questa violenta convulsione, il mare si era messo a sonnecchiare, ed io l’avevo contemplato a lungo mentre tremolava dolcemente, nel momento in cui il sole tramontava, aggraziato, mormoreggiante, e accarezzato da stormi di gabbiani folli, tutto lungo le spiagge vermiglie. Adesso, furtivo, illanguidito, pieno di sussurri, di sospiri, e come di baci confusi, esso riflette e culla sul suo seno i chiarori sparsi della città, i pallori degli edifici, i bagliori tremolanti delle stelle del firmamento. Io sono nel novero di quei passeggeri che, sul ponte della nave, sognano silenziosi davanti a questo mare incantevole che sboccia, in qualche modo, nella sua misteriosa bellezza. Il Conte Bacciochi se ne va in un’atmosfera inebriante, su flutti che si direbbero elettrizzati, simile a quelle navi leggendarie che, guidate dalle antiche costellazioni, hanno navigato su mari ideali, verso i lidi sconosciuti che esploratori favolosi hanno visto fiorire davanti ai loro occhi meravigliati. «Che bella notte, che superba traversata!» grida tutto ad un tratto una voce forte, che ci risveglia dalle nostre fantasticherie. 43
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«Vi risponderò fra non molto, tra un’ora, quando doppieremo il Capo di Muro» replica ironicamente il comandante, che monta rapidamente sul casseretto, avvolto da pellicce. «Il comandante è spiritoso» dissi io al signor Mariani, un amico della Corsica del quale avevo riconosciuto la voce. «No, il comandante non scherza mai; è un vecchio lupo di mare; eccolo che si sistema per la notte al suo posto, e guardate come scuote la testa nell’osservare il cielo. Eh! eh! Guai a noi! Del resto, voltatevi, vi prego!». Io seguii il suo sguardo… La luna aveva appena innalzato il suo disco deforme3 ed un grande occhio sanguinante dardeggiava attraverso nuvole smorte. Le nubi salivano sopra l’orizzonte come una spessa fumata che si fosse innalzata da qualche vulcano sottomarino, e correvano poi squarciate, nello spazio, con una velocità prodigiosa. «Addio ai dolci sogni, alla speranza di una notte pura» mi dissi; le luci d’Ajaccio si velano di già, il faro dei Sanguinari impallidisce, il cielo diviene più scuro, ed ecco il ponte deserto. Così procediamo per qualche tempo verso l’orizzonte nero, poi il vento s’alza, sibila nella notte, e le creste delle onde passano con un’abbacinante rapidità da ciascun lato della nave. L’ondosità aumenta… Quando doppiamo il Capo di Muro, i lampi fendono le nubi, il fulmine brontola, il vento urla, il battello emette dei suoni strani, il mare è come impazzito… Ah! comandante, avete indovinato! I passeggeri hanno abbandonato il ponte da molto tempo. Io rimango solo, tenuto con due mani alla balaustra dell’entrata delle cabine, gli occhi rivolti all’indietro. Gli ultimi chiarori del faro dei Sanguinari sono spariti, il capo è 3. Difforme, in francese, ha qui senso di «superficie irregolare».
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1. Un’antica torre d’Aragona
svanito nell’oscurità del cielo. Io ascolto la musica infernale dell’uragano, i suoi clamori, i suoi brontolii, il sordo ansito della macchina, gli scricchiolii dello scafo; vedo la fantastica cavalcata delle onde dalle creste biancheggianti, le nuvole fluttuanti come grandi teli di crespo strappati 45
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mentre, là in alto, in mezzo all’alberatura confusa, la scura sagoma del comandante s’erge smisuratamente ingrandita dal bagliore dei lampi, come una visione tra le folgori. Nell’orrore e nello spavento di questa notte, fra le rauche imprecazioni delle arie e dei flutti, sopra questo ponte deserto, penso all’isola latina ove mi accingo ad approdare, dopo una tempesta quasi tragica. Essa è sconosciuta all’Europa, poco nota nella stessa Italia. Si direbbe che i viaggiatori l’abbiano sempre evitata! Attraversando il Mediterraneo, la si è potuta, talvolta, scorgere nel distendere le linee infinite delle sue tristi coste e le ondulazioni severe dei suoi monti. La Sardegna mi ossessionava, allora, come una sòrta di paese maledetto, esalante febbri temibili, popolata da uomini dal brutto aspetto. Le reminiscenze classiche mi rammentavano le parole poco rassicuranti di Cicerone al fratello: Cura, mi frater, ut valeas et quamquam est hiems, tamen Sardiniam istam esse cogites.4 E questo verso di un poeta: Sed tristis caelo ac multa vitiata palude.5 Avevo letto nella brillante opera del mio amico Onésime Reclus,6 La Terre à vol d’oiseau, che i Romani avevano fatto di quest’isola una Cayenna per i loro deportati, ben sapendo che la fossa vi era scavata in anticipo: «Tu troverai la Sardegna nella stessa Tivoli!» scriveva il poeta, che vale a dire: «Qualunque cosa faccia, tu morrai!…». Dopo questa notte di tempesta, un chiarore d’alba tremò timidamente all’orizzonte, il freddo cielo si colorò lentamente di rosa pallido e sagome di montagne si dipinsero 4. Cfr. M. T. Cicerone, Epistulae ad Quintum fratem, lib. 2, lett. III, opera e passo cit. in G. Cossu, Descrizione geografica della Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2000, p. 279. 5. Cfr. Silio Italico, Punica, lib. XII, v. 70, op. cit. in E. Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano, vol. II, Nuoro, Ilisso, 2000, p. 283, n. 581. 6. 1837-1936, geografo francese che nel 1886 pubblicò l’opera di cui sopra per la Hachette di Parigi, corredata di numerose illustrazioni.
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2. Sardi di Porto Torres
davanti a noi. Questa era la Sardegna, che i Pelasgi avevano designato col nome greco d’Ichnusa, a causa della sua forma di sandalo. Verso destra correva la lunga striscia rocciosa che forma l’isola dell’Asinara, mentre alle spalle, i monti Corsi annegavano nei vapori lontani le loro cime nevose. Porto Torres!… Il primo villaggio sardo è sotto i nostri occhi, triste e povero, con basse case, dove si vedono errare bambini smunti; il suo porto somiglia ad uno stagno. Grandi memorie abitano, tuttavia, le sue strade silenziose, e planano sui monumenti in rovina delle diverse razze che la riempirono della loro fama.7 Gli Spagnoli, in epoche gloriose, v’impiantarono alcune torri merlate, che non hanno cessato di specchiarsi fieramente nelle acque del porto. 7. Nel testo si legge bruit = letteralmente «rumore», «scalpore», «notizia», ma anche, in francese antico, «fama», derivando dal lat. pop. *brugere. Interessante è notare che l’ed. ’91 presenta grandeur, più scontato rispetto a bruit.
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Il Palazzo del re barbaro, antico tempio della Fortuna, costruito dai romani, mostra le sue mura crollate attraverso le pale dei fichi d’India. La basilica di San Gavino, anteriore all’anno 1000, restaurata nel 1210 da un signore del Logudoro, corona un monticello. Oltre le case, dietro questi monumenti d’epoche trascorse, terreni dalle linee ampie e severe ondeggiano fino all’orizzonte. E, durante le manovre d’attracco, osservo emozionato questo lido, il cielo tormentato, queste rovine e tutta questa contrada pallida, miserabile e tremante di febbre. Il vento dell’ovest soffia con fragore, i flutti giunti dal largo rimestano la rada priva di riparo; ai piedi delle fiere torri d’Aragona, delle bilancelle dipinte con colori vivaci si scontrano gemendo. «La Sardegna vi fa paura o pietà» mi disse il signor Mariani, battendomi amichevolmente sulla spalla. «Capisco che voi, dopo una simile notte, e dinanzi a Porto Torres, siate rattristato; ma non abbiate timore: vi predìco piacevoli sorprese». E, prendendomi per il braccio, mi trascinò nel salone, dove mi offrì il desinare. Là incontrai il signor Morati, vice console di Francia a Sassari, e nostro nuovo console a Cagliari, che raggiungeva la sua sede. Il pasto, fra compatrioti, fu gaio come si può credere e, ben presto, sentii le mie prevenzioni ed apprensioni dissiparsi, e sotto un sole chiaro sbarco e… voilà, son cittadino di Porto Torres. Porto Torres, che sembra risvegliarsi un poco dal lungo sonno che l’addormentò alla fine del medioevo fu, sotto il nome di Turris Libyssonis, una grande città, capitale romana del nord della Sardegna. Le statue mutilate, le divinità di marmo ritrovate nel fango della palude, i mosaici preziosi, le colonne, i capitelli, le armi, le medaglie dalle rare effigi che il vomere dell’aratro ed il piccone o la zappa urtano di frequente, comprovano il suo antico splendore, e le rovine sparse di palazzi ed acquedotti ed il magnifico ponte che attraversa l’antico flumen Turritanum, la proclamano tale. 48
3. Il ponte romano di Porto Torres
Il vice-console di Sassari mi seguì nel mio pellegrinaggio attraverso queste rovine di una grandezza passata, in mezzo all’erba e alle pietre, nelle strade scassate dalla tempesta della notte, lungo le vestigia di una strada romana. Mi fermavo ad ogni passo per ammirare i cavalieri sardi che passavano, carichi di portamento, il capotu 8 [cappottu] sulla testa, il profilo severo sul cielo, i capelli fluttuanti di un nero d’ebano, la barba selvaggia. Il console, che stava a contatto tutti i giorni coi cavalieri, o con pedoni simili a questi, non si prendeva la pena di osservarli, ed il mio entusiasmo lo sorprendeva particolarmente. Il ponte romano attraversa l’imboccatura del fiume; i suoi pilastri formati da blocchi di porfido sprofondano 8. Il capotu è un mantello corto col cappuccio [N.d.A.].
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nelle acque morte. La falda d’acqua sonnecchia fra le alte erbe, senza un fremito, senza un mormorio, riflettendo come uno specchio immobile e nero gli archetti ed i pilastri del ponte romano. Ah! Più tardi non le ritrovai che con terrore queste acque dei fiumi sardi, queste distillatrici di veleni che srotolano lentamente le loro ondulazioni da vipere… E già, fin dal primo sguardo sui loro flutti dormienti, avevo bevuto la febbre ch’essi esalavano invisibilmente. La basilica di San Gavino, al giorno d’oggi semplice chiesa parrocchiale di paese, era alla fine del quindicesimo secolo un potente arcivescovado. Davanti alle sue muraglie, già dall’ottavo secolo, dei re, dei prelati circondati dai magnati di Torres, avevano celebrato in diverse riprese una grande vittoria riportata sui Saraceni. Durante le fastose cerimonie le spoglie e le armature degli infedeli erano ammucchiate sui gradini esterni dinanzi al portale. All’interno, le tre navate pisane sono separate da file di colonne in marmo, granito e porfido di stili differenti. Questi pilastri, la maggior parte dei quali proviene dalle rovine del tempio della fortuna, reggono le travi del soffitto, che sono in legno di ginepro. Una di queste, sembra, è sempre più o meno umida, ed il popolo se ne meraviglia, come di un perpetuo miracolo. La cripta ospita le ossa di tre martiri: San Proto, San Giannario [Gianuario] e, infine, San Gavino. Quest’ultimo è il santo più venerato del nord della Sardegna. Al di fuori della relativa animazione occasionata dall’arrivo dei vaporetti, vi sono giorni in cui la triste Porto Torres si anima d’improvviso e s’addobba a festa. Gli abitanti degli spogli fianchi del Limbara, nell’aspra Gallura, le genti di molti e molti villaggi aggruppati su di un ruscello fangoso, gli uomini dei misteriosi nuraghi, le genti vicine ai vulcani estinti, insomma, tutto il Logudoro vi giunge in cavalcate eclatanti, dai costumi superbi. Ecco allora, in mezzo alle rovine, davanti all’immenso golfo d’azzurro, sotto il 50
4. Portale di San Gavino
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Capitolo I
cielo trasparente, come un’improvvisa fioritura d’inaudita ricchezza. Queste assemblee hanno luogo all’indomani della Pentecoste, giorno della festa di San Gavino. Molti dei pellegrini accorrono col solo scopo di fare, in ginocchio, il giro di ciascuna colonna, baciandole devotamente, e di prosternarsi davanti alla statua equestre del santo. San Gavino, ci racconta la leggenda, sollevò una di queste colonne dal fondo del mare, poi la mise dritta sull’arcione della propria sella e la portò dentro la basilica. Terminati i festeggiamenti, al momento di lasciare Porto Torres, i pellegrini prendono le loro donne in groppa e si lanciano in mare. Dopo che i flutti hanno raggiunto il petto dei loro cavalli, essi fanno ritorno a spron battuto per riguadagnare le proprie dimore, sovente assai lontane. Le acque del golfo operano in quel giorno dei miracoli, santificate ch’esse furono, un tempo, dalla virtù dei martiri che vi precipitò. I cavalieri sono convinti che questo bagno metta i propri cavalli al riparo dalle malattie. La città di Sassari ha un diritto di proprietà sulla santa basilica, ma, sotto pena di decadimento del suo privilegio, la municipalità deve recarsi tutti gli anni a Porto Torres, il giorno della festa di San Gavino, e mangiarvi assieme una… coscia di vitello! Si vedono dunque arrivare, allora, i membri della municipalità, in grande abito di gala, preceduti dai mazzieri. Il corteo avanza gravemente, il canonico vicario lo riceve e presenta al sindaco le chiavi della chiesa sopra un vassoio. Questi le prende dalla sua mano, per fare atto di proprietà, e restituendole subito al canonico, lo prega di aver cura del bene affidato alla sua custodia dalla città di Sassari. Strana basilica, che da tempi assai antichi sostiene la fede delle genti del Logudoro, risveglia un misticismo raro, al riparo dalle superstizioni bizzarre, e vede perpetuarsi mortificazioni crudeli! I pellegrini venuti da Sassari vi si recavano ancor di recente e, nel mistero delle spesse mura, nella cupa notte della cripta, si flagellavano fino ad imbrattare col sangue le sante pareti, cantando lugubremente il Miserere…
Mentre andavo calcando le rovine dei palazzi, pensieroso davanti alle vestigia di una grandezza svanita, l’ora di lasciare la triste Porto Torres era già suonata. La durata del tragitto fino a Sassari non è che di tre quarti d’ora in ferrovia, e la compagnia d’amici in mezzo alla quale mi trovavo la faceva sembrare ancor più breve. Del resto, il paesaggio non è certo bello. Si attraversa una vasta solitudine incolta, dove s’inclina qualche nuraghe diroccato, dove crollano alcuni archi di un acquedotto romano. Di tanto in tanto, un pastore profila la sua sagoma, e greggi di capre nere brucano cespugli di spine su un suolo arido e deserto. Nessun albero, grande o piccolo, per allietare gli occhi con il suo verde ed animare la solitudine con la sua ombra mobile. Di contro la via, passa un sardo a cavallo, triste e fiero, gli occhi verso le nubi erranti. Egli porta la propria donna in groppa; una bisaccia pende da ciascun lato del cavallo. Nei pressi di Sassari si mostrano l’opunzia ed il fico, poi le alture si coprono di foreste, si vedono campi coltivati, si presentisce la città, e la città appare. La sera giunge di buon’ora in questa stagione; il vento è cessato, fumi bluastri s’innalzano dai tetti delle case e salgono dritti verso il cielo, qualche raggio del sole al tramonto arrossa la sommità degli edifici, ed una mezzaluna si posa, come un pallido diadema, sulla fronte della città. Dopo l’arrivo, il signor Mariani ci trascina nella sua dimora, e terminiamo gaiamente questa giornata con un pasto in cui si mescolano i vini della Francia ed i vini della Sardegna. Riconosco che, se i nostri sono celebri per la loro finezza ed il loro aroma, il vino sardo è profumato e ardente. Città miserabili, cupe, abbandonate, un popolo selvatico, ecco ciò che, nelle mie fantasticherie di Francia, m’aspettavo della selvaggia Sardegna. Fui gradevolmente smentito dall’aspetto di Sassari.
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Capitolo I
Sassari, l’incantevole, sòrta di seconda capitale della Sardegna, è una città gradevole e civile, con un’ubicazione graziosissima. Assisa, tutta bianca, sul clivo di una collina circondata da vaste foreste fruscianti che ondeggiano al carezzar delle brezze, essa s’inclina verso il mare, e si direbbe che contempli l’immensità. Ma non sono solamente il suo aspetto ed il suo cielo ad incantare; l’urbanità dei suoi abitanti è proverbiale, le sue campagne sono verdeggianti, le colline piacevoli, le sue foreste profonde. Gli abitanti di Sassari si distinguono per le usanze e per il linguaggio. Così essi dicono, con una sfumatura di disprezzo, parlando degli altri abitanti della Sardegna: «Questi sono Sardi», vale a dire barbari. Essi sono esclusivamente Sassaresi. Ciò che vi è di strano in questa città, di pittoresco, a fianco delle grandi strade, dei palazzi pubblici, dei negozi lussuosi, è la matassa delle sue viuzze strette, vero dedalo rischiarato da una livida luce. Ivi, cavalieri incappucciati di nero, il pugno sull’anca, la pipa fra i denti, il fucile di traverso alla sella e la donna in groppa, passano spavaldamente, ed il lastricato risuona degli zoccoli dei loro cavalli. È spesso necessario rifugiarsi entro le porte per dar loro passaggio. In questi vicoli, i negozi sono bassi, scuri, le dimore tristi. Attraverso la porta aperta s’intravedono, nell’oscurità e nel mistero ch’esse custodiscono anche in pieno giorno, le luci dei lumi da notte agonizzanti dinanzi a pallide madonne. Si vede, s’intravedono degli uomini, delle donne, che passano vaghi come ombre, in questi oscuri corridoi. Certe facciate contrastano in maniera singolare con l’interno tenebroso della dimora. Spesso uno stendardo rosso vi fluttua, riportando in lettere nere la parola: vino. Gli uomini del popolo si fermano e bevono, le donne vi s’approvvigionano. La maggior parte delle volte le derrate o gli oggetti che si commerciano all’interno sono rappresentati
da campioni sospesi all’architrave della porta: dalle cordicelle oscillano un pezzo di carbone, un pomodoro, una candela, dei fichi secchi, maccheroni, dei pani, patate, flaconi d’olio e di vino, qualche volta entrambi, insieme nella medesima bottiglia. Sulla stessa soglia e all’interno vi sono mucchi di magnifiche mele lucide dal bel verde tenue, che si chiamano melappio. Fra le sale basse ve ne sono di colme, ed il loro soave odore vi segue lontano nella strada. Questa città, davvero interessante, è un cozzo d’antitesi. Con i suoi edifici, i suoi palazzi, le sue istituzioni, i suoi negozi, essa è tutto ciò che si definisce moderno, mentre una gran parte dei Sassaresi conserva i costumi degli avi, l’aspetto un po’ selvatico d’una volta. Davanti ai negozi lussuosi, fieri cenci vanno e vengono sulle schiene di fieri mendicanti. Il cencio è qui un ornamento, pressoché una civetteria. Ho visto un bambino di Sassari che avrebbe potuto ammantarsi fra le pieghe del mantello assente di cui parla Théophile Gautier nel suo viaggio in Spagna. Ciò che pure colpisce in questa città, sono l’attività ed il lavoro. La folla vi brulica, è gaia, ciascuno bada lestamente ai propri affari. I caffè (essi sono rari) appaiono assai poco frequentati, anche dagli ufficiali. All’indomani del mio arrivo, quando, venuta la sera, il cielo senza raggi faceva impallidire la terra di quel blu crepuscolare particolare che bagna anzi notte le bianche città dei paesi meridionali, me ne andai a vagabondare per la città. Fra i viottoli dei quartieri poveri v’era, in quel momento, come un formicolio di scintille. Fasci di fuochi artificiali illuminavano ogni porta, il vento ne trasportava lontano le faville che fluttuavano, ondeggiavano o picchiavano dritto a mo’ di stelle filanti. Erano le massaie che accendevano il carbone dei loro fornelli, all’aria aperta, per preparare il pasto della sera. Le si vedeva, in sagome scure, chinarsi verso i bracieri e soffiare con tutte le loro forze, rosse per gli sforzi e per i riflessi del fuoco, che
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sventolavano anche con specie di stuoini di forma rotonda. Altre avevano lasciato al vento il compito di attizzare la fiamma. Poi, a poco a poco, i fornelli rientrarono, e le strade ridiventarono oscure. Questo spettacolo si rinnova ogni sera, per la ragione che le case non hanno camini. Le chiese sono numerose a Sassari e, in generale, ben poco interessanti. La cattedrale, forse sovraccarica di ornamenti nella facciata, è di una grande ricchezza d’aspetto, e questa profusione di sculture su una pietra d’un bel colore dorato, produce effetti magici ai raggi del sole. Certi giorni, sotto i fuochi del tramonto, ho veduto le alte cornici fiammeggiare come metallo ardente. Quando vi penetrai, una sera, uno spettacolo singolare colpì i miei occhi. L’immensa navata s’avvolgeva d’ombre e di mistero. Davanti al coro, un antico arazzo era steso sui lastroni; lo sfondo era nero, il disegno giallo. La morte vi si trovava rappresentata sotto forma di un terribile scheletro incoronato, assiso su un trono, che regge con una mano uno scettro, con l’altra una falce, mentre ai suoi piedi giacevano, alla rinfusa, una tiara, una mitra, una pastorale di vescovo, un elmo dai larghi pennacchi, dei libri semi-aperti, infine un uccello. Dei ceri accesi su candelieri giganteschi bruciavano ai quattro angoli di questa strana immagine. Su uno dei lati stava un prete con un incensiere in una mano, l’altra posata sul cuore. Di fronte a lui, sul lato opposto dell’arazzo funebre, un officiante in piedi, assai vecchio, gli occhiali sul naso, teneva una croce d’argento, la cui asta s’appoggiava sui lastroni. Fra i due, e su un terzo lato, altri tre preti, in piviale nero gallonato di giallo; quello di mezzo, un breviario in mano, salmodiava preghiere mortuarie. A lungo li ascoltai davanti allo spaventoso scheletro che sembrava animarsi, attraverso l’incenso, nella mezza luce di quest’ora oscurata. Quando le preghiere lugubri furono terminate, il prete che le aveva salmodiate fece il giro del fantastico quadro, 56
5. Cattedrale di Sassari
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aspergendolo d’acqua benedetta, mentre un altro incensava. Poi i ceri si spensero, i candelieri sparirono, l’arazzo fu ripiegato, ed i curati andarono via. Nella navata, immersa nell’ombra e nel silenzio, non rimasero che alcune donne inginocchiate sui lastroni, il rosario fra le dita, mentre vapori d’incenso s’alzavano lentamente verso la volta, e le mura della chiesa risuonavano come di un’ultima eco del canto sepolcrale. Lasciai questo luogo. La luce esterna mi abbagliò nonostante l’ora tarda. Qualche angolo del cielo, di un blu pallido, brillava ancora attraverso gli squarci delle nuvole, ed un raggio cremisi bordava le alte cornici della cattedrale. Era l’ora in cui gli zappatori 9 (coltivatori giornalieri) rientravano in città. Li si vedeva arrivare dalle strade, isolati o in gruppi, gli uni a cavallo, gli altri a piedi, portando una bisaccia e tenendo ciascuno al guinzaglio il piccolo cane incaricato, nei campi, della guardia delle provviste. Essi partono al mattino, quando splende già il sole, per rientrare agli ultimi raggi. Quest’usanza, che dapprincipio sorprende, si esplica facilmente col desiderio, ben naturale da parte di questi lavoranti dei campi, di evitare i miasmi palustri, così pericolosi in Sardegna, che esalano soprattutto prima del levare e dopo il tramonto del sole. Se gli zappatori ci guadagnano, i proprietari vi perdono, poiché gli uomini della zappa,10 si guardano bene dal rimediare con un lavoro assiduo alle ore di lavoro spese per recarsi dalla città in campagna, poi, dalla campagna alla città. Avviene, anzi, tutto il contrario: essi s’ingegnano a prolungare la giornata con una serie di pasti leggeri e, in definitiva, zappano il meno possibile.
6. Zappatori
9. Testuale, come in generale nel brano che li riguarda, così per il termine «zappa» ed i suoi derivati non verbali. 10. Testuale, cui segue la traduzione in francese c’est a dire de la bêche («vale a dire della zappa»), non riportata a testo in quanto pleonastica.
Gli zappatori formano una corporazione potente, con la quale si deve fare i conti a Sassari, dove, da più d’un secolo, esiste una Borsa del lavoro. Essi si riuniscono in determinati luoghi, nelle piazze pubbliche, generalmente all’ingresso della città, come i giornalieri del tempo di Gesù Cristo, così come testimoniano alcune parabole, e là, muniti della loro bisaccia e con la zappa in spalla, essi attendono, riuniti in gruppi ed all’impiedi, che li si voglia ben ingaggiare. L’accordo, d’abitudine, si fa per una settimana, e gli zappatori esigono in anticipo il pagamento integrale delle giornate per le quali essi sono trattenuti, condizione che risale al 1848.
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LA SARDEGNA
Capitolo I
Gli zappatori fanno parte delle antiche corporazioni conosciute sotto il nome di gremii, le quali sussistono a Sassari dal medioevo, e, a questo titolo, essi sono rappresentati nelle processioni, principalmente in quella dei candellieri [candelieri], la più popolare di tutte. Per presenziare a questa cerimonia, che si perpetua a seguito di un voto fatto durante la peste che devastò la città nel 1582, i rappresentanti delle corporazioni indossano i costumi più bizzarri: sfoggiano l’abito alla francese, il cappello di Don Basile, il tricorno, la spada d’acciaio, i pantaloni corti, il berretto rosso ed altri ricordi della dominazione aragonese. In questa processione la Vergine è portata morta, adagiata sopra un letto; ciascuna corporazione è munita d’enormi candelieri ornati di nastri multicolori. Il corpo municipale onora della sua presenza la pia cerimonia. In tutta la Sardegna, gli abitanti delle città si dedicano alle feste con una foga straordinaria. Così, nel periodo di carnevale, a Sassari, tutta la popolazione se ne va mascherata nelle piazze pubbliche, per ascoltare la musica e per danzare. Il lunedì grasso, giovani fanciulle vestite in costume percorrono la città con cestini pieni di mazzetti di violette, che esse distribuiscono. Notiamo che, nel periodo di carnevale, tutta la gente è inguantata, dal più ricco e nobile al più povero. Alcuni si truccano perfettamente. Ve ne sono taluni che scimmiottano il prefetto per ingannarsene, si direbbe il suo viso, questa è la sua andatura, questi i suoi abiti o, piuttosto, dei vestiti simili ai suoi: donde qui pro quo senza fine. E da ridere! Il martedì grasso, si porta in giro per la città una maschera gigantesca, che viene bruciata la sera sulla piazza Castello, la piazza principale di Sassari, al suono della musica, alla luce delle lanterne veneziane. I Sardi, nel frattempo, ballano il douro-douro [duru-duru] nazionale, l’aristocrazia valzer e polke. Tutta la popolazione delira, si può allora dire che nessuno sfugga alla follia.
Gli ultimi tre giorni, si getta nelle strade una tale quantità di coriandoli che la municipalità deve, volente o nolente, chiamare degli spazzini per ripulire la città. Ma, ed ecco il miracolo di questo carnevale, mai grida, arrabbiature, dispute. In tutto il mio soggiorno in Sardegna non mi è capitato una sola volta di incontrare un ubriaco. Le cerimonie religiose, al di fuori della processione di cui ho parlato, sono molto curiose a Sassari. Esse hanno conservato un carattere selvaggio, che devono probabilmente alle tradizioni spagnole. Sarebbe interessante trovarvisi il giovedì e venerdì santo. Vi sono, in quei giorni, delle processioni lugubri nelle quali il Cristo deposto viene trasportato su un drappo bianco da penitenti che seguono uomini vestiti da ebrei, con maschere di cartone. Uno trasporta la scala della passione, un altro i chiodi, ecc. Altri recano un drappo con la testa decapitata del Cristo. Viene poi la Vergine, in lacrime, vestita a lutto, un fazzoletto in mano, il cuore trafitto da sette spade. Durante la settimana santa il santo sepolcro, nelle chiese, è adornato di un’infinità di vasi, dentro i quali è stato fatto germogliare del grano. Questo grano, seminato cinque giorni prima, è considerato, se germoglia senza ritardo, un felice presagio per i raccolti a venire. Nel 1848 le processioni furono interdette; il colera del 1855, che fece numerose vittime a Sassari, fu guardato come un castigo inflitto alla città per il suo abbandono di queste pie usanze; così esse non tardarono granché ad essere ristabilite. Von Maltzan11 riporta che un canonico di nome de Sca12 vo, s’era attirato le maledizioni di tutte le corporazioni e confraternite (e Dio sa se esse sono numerose a Sassari) per aver ordinato la chiusura delle chiese dopo il tramonto
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11. Cfr. H. von Maltzan, Viaggio nell’isola di Sardegna, 1869. 12. Ed. ’91: de Slavo.
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del sole. I fedeli brontolavano, le processioni notturne, con l’illuminazione di fiaccole e fuochi d’artificio, erano per queste brave persone uno svago al quale esse tenevano appassionatamente, più che a qualsiasi altro. Tuttavia, vi erano eccellenti ragioni per interdire le processioni notturne. Più d’una volta esse erano state cagione di scandalo, più d’una volta anche cagione di battaglia, poiché le confraternite si detestavano fra loro: in particolare, quella dei sarti era, di padre in figlio, in contrasto con quella dei ciabattini. Una sera, in occasione della festa di San Crispino, i ciabattini s’incamminarono in pomposo apparato verso la cappella del loro patrono. I sarti erano già dentro la chiesa, devotamente inginocchiati davanti a Sant’Antonio, rappresentato col suo maiale. Questo medesimo porco era dipinto sulla grande bandiera di seta bianca della confraternita, deposta per l’occasione in un angolo della chiesa. Mentre i sarti mormoravano le litanie, un giovane calzolaio, avvicinandosi alla suddetta bandiera, trovò divertente disegnare due enormi corna sulla testa dell’animale. Dopo le litanie, lo stendardo fu dispiegato per esser benedetto davanti alla statua di Sant’Antonio, e, alla luce dei ceri, la spaventevole profanazione colpì tutti gli sguardi. Subito la confraternita dei sarti si precipitò sulla confraternita dei ciabattini; fu un parapiglia indescrivibile dal quale si levarono maledizioni, vociferazioni, grida di dolore,13 poiché s’erano messi in partita i coltelli e gli stiletti. Tuttavia, vi furono più feriti che morti, più baccano che dolore, ma lo scandalo fu tale che si proscrissero queste riunioni notturne. Von Maltzan racconta un episodio assai divertente. «Una delle più grandi feste religiose di Sassari è quella
7. La Fontana di Rosello a Sassari
13. Simpaticamente allegro ed ironico questo climax ascendente di “grida”, che s’inserisce all’interno di uno stile che l’autore, in consimili facezie ed argomentazioni, mette spesso in mostra.
che si celebra il giorno di San Gavino, le cui reliquie son conservate nella cripta della basilica di Porto Torres, mentre la sua statua decora la cattedrale. Questa statua, alta circa tre piedi, è d’argento massiccio. Nel 1793 le truppe francesi sbarcarono sulla costa settentrionale della Sardegna. Gli abitanti, spaventati, corsero in processione a Sassari, per invocare San Gavino. Essi gli esposero la loro situazione, innalzarono le loro lamentele, lo pregarono di salvarli da questi nemici. E, al fine di coinvolgere ancor più il santo nei loro interessi, fecero lui notare che egli medesimo avrebbe patito dall’invasione. ‘Oh! San Gavino!’ dicevano a costui, ‘bada che, ancor più per te che per noi stessi, è necessario che i nemici non conquistino la nostra patria. Ricorda, o santo, che tu sei di un metallo prezioso e che presto, questi francesi saccheggiatori di chiese, avranno fatto della tua sacra persona un doppio moggio di moneta
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spicciola. Rifletti, o Gavino, tu che sei d’argento, sul fatto che stai per essere cambiato in innumerevoli pesos de cincu’ (moneta sarda da cinque soldi)». Von Maltzan aggiunge: «Sia che il santo abbia creduto d’esser convertito in moneta, sia che un motivo qualunque avesse allontanato i francesi, la conquista s’arrestò, cosa che fu attribuita all’influenza del beato». Come passavano in fretta le giornate a Sassari! Eppure, ogni mattina, nubi giunte dall’ovest, avanzando in un caos mostruoso, oscuravano il cielo e procedevano, tutte nere, sulla Sardegna. Quante volte l’ho contemplato con occhio inquieto, interrogativo, questo cielo di Sassari, così dolce, così luminoso d’ordinario! Ero malauguratamente arrivato in pieno inverno, e le piogge minacciavano di prolungarsi per un mese ancora. Ciononostante, rubavo qualche buon momento al vento, all’ondata, alla raffica. Al minimo raggio di sole ero fuori. Questo paese, coperto come di dolore, diveniva allora subito splendente. Qualche volta la schiarita durava intere ore, poi tutto ripiombava nell’oscuro, l’acqua scorreva dal cielo e si precipitava per le strade in pendenza. Durante intere notti udii questo ruscellamento monotono e, per lunghe notti, anche il vento non cessò di gemere. Alla minima tregua correvo alla fontana del Rosello. È un monumento in marmo, di dubbio gusto, con quattro statue agli angoli, rappresentanti le stagioni. Delle maschere vomitano l’acqua in abbondanza. Quest’edificio è decorato con l’arme della città di Sassari, dello scudo d’Aragona, e da una raffigurazione di fiume. Esso è sormontato da una statua equestre di San Gavino in costume da guerriero. Su una delle facce del monumento si può leggere l’iscrizione tradizionale: Feliciter regnante potentissimo Hispaniarum et Sardini rege Philippo III, ecc. 64
8. Un giovane asinaio
Io ero costantemente assorto nelle scene divertenti che recitavano davanti a questa fontana i portatori d’acqua ed i loro minuscoli asini. Questi ultimi sono proprio gli animali più piccoli, i più meschini che si possa vedere. Essi se ne vanno con le orecchie basse, la pelle a brandelli, cercando sull’aspra salita che mena alla città qualche resto 65
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di legume da ghermire mentre passano. Povere bestie! Caricate di tre bariletti, il loro padrone seduto dietro, come se non sostenessero abbastanza peso dal proprio carico, trascinano la loro sventura per le strade, dal mattino alla sera. Lui, l’uomo, il padrone, armato di un bastone, troneggia su questa miseria, il naso al vento, l’occhio fiero. E la bestia gronda d’acqua, e forse di sudore. Quando l’asinaio ha caricato sull’asino i primi tre bariletti, egli sostiene quest’ultimo a mezzo d’un piccolo bastone forcuto fitto nella terra. Siccome il suddetto barile cadrebbe al minimo movimento dell’animale, l’asinaio ha escogitato di piegare la zampa anteriore della povera bestia, e di tenerla sospesa con una corda fissata al basto. La miseria non era proprio abbastanza per lo sfortunato asino, non erano sufficienti le ingiurie, lo si mette in ridicolo, gli si dà della Filomela! Spero che la sua intelligenza, oscurata dai maltrattamenti, non arrivi a comprendere quest’odiosa ironia. Le grida dei portatori, il va e vieni degli animali, le donne e le ragazze della città che attingono l’acqua, tutto concorreva a fare di questo posto un luogo di rara distrazione. Del resto, malgrado il cattivo tempo, le distrazioni e soprattutto le passeggiate interessanti, non mi mancavano a Sassari. Il signor Mariani, che avevo avuto la buona fortuna di conoscere, era per me una guida preziosa e, allo stesso tempo, il più piacevole degli amici. Siccome costui è molto conosciuto in Sardegna, ché lo si onora di una grande stima e di una considerazione tutta particolare, per ogni dove mi era riservata la miglior accoglienza in sua compagnia, o dietro una sua semplice raccomandazione, quando egli non mi poteva seguire. Attorno Sassari, alcuni antichi monasteri mostrano le loro mura traballanti. Là, nel silenzio e nella fredda pace delle alte sale vivono, nell’oblio, creature benedette la cui intera esistenza è una devozione sublime.
Il signor Mariani mi fa visitare uno di questi antichi conventi, occupato una volta dai cappuccini e che le sorelle di San Vincenzo de’ Paoli14 hanno convertito in rifugio per gli infanti abbandonati. La povertà, quasi la miseria trasuda dai vecchi muri, e fluttua nella luce crepuscolare dei corridoi. Nel giardino, qualche raro fiore innalza i suoi brillanti petali; i loro colori sembrano ben più vivi in questo cupo monastero, vicino a mura severe, sotto un cielo rattristato, in questo giardino che l’autunno incupisce. Ma i bambini che queste sante donne hanno raccolto menano un’esistenza di lavoro, i più piccoli si divertono, come richiede la loro età; quelli che sono un po’ cresciuti, tessono a profitto del convento. Più tardi, quando, divenuti giovanetti, lasciano il raccoglimento laborioso di questa dimora, ciò che gli si è dato quanto ad istruzione elementare e ciò che hanno appreso di un buon mestiere, permette loro di vivere senza tender la mano. Si trovano le religiose di San Vincenzo de’ Paoli a capo di moltissimi istituti importanti, ad Alghero, Ozieri, Oristano, Iglesias e Cagliari. Alcune sono Francesi, ma tutte hanno fatto il loro noviziato nella casa madre di Parigi. È grazie a loro che la lingua francese è più conosciuta in Sardegna che in molte altre contrade d’Italia; è grazie a loro che il nostro paese sta simpatico ai Sardi di tutte le classi. Nella stessa città di Sassari, 25 di queste religiose dirigono un istituto d’educazione ove s’insegna il francese. 14. Il testo francese presenta S. Vincent de Paul, reso nelle traduzioni precedenti con «de Paoli» e «di Paola». Sebbene la traduzione corretta di Paul sia «Paolo», il santo è noto, nell’uso del nostro paese, come «S. Vincenzo de’ Paoli», parroco francese fondatore, durante la guerra dei Trent’anni, della Confraternita (femminile) della Carità, per l’assistenza ai poveri infermi, nonché dell’Ordine dei Lazzaristi e, infine, di quello delle Figlie della Carità. Fu canonizzato nel 1737.
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Capitolo I
Approfittiamo di una bella serata per fare un’affascinante passeggiata al monastero di San Pietro di Silki, perduto fra i boschi d’olivi. Esso è occupato dai Francescani e dalle sorelle di San Vincenzo de’ Paoli, che dirigono un asilo di anziani. La superiora, dal dolce e grazioso viso, ci fa gli onori del suo istituto. È una vera gioia per lei conversare con noi in francese e parlarci di Parigi, città in cui ha abitato, della quale ha serbato il ricordo più caro. Così la seguiamo, conversando attraverso le sale, commossi dalle cure, dalla dedizione che si prodigano ai vecchi. Il giardino del convento è magnifico; qualcuno dei poveri anziani dell’asilo gli consacra le ultime forze. Visitiamo in seguito i Francescani. Mi ricorderò per sempre dell’immensa sacrestia ove il superiore ci ricevette, dei quadri vagamente illuminati in cui le vergini dei primitivi fluttuavano come visioni, dei religiosi vestiti col saio, dal grave aspetto, che ascoltavano, le mani giunte sulle ginocchia, gli occhi verso la luce che impallidiva e calava dall’alta finestra. Per uscire dal monastero, attraversammo la chiesa umida e scura, ed udivo i nostri passi risuonare sulle lastre delle tombe, mentre i religiosi ci osservavano, simili, in questa navata quasi notturna, ad ombre evanescenti. Giungeva il crepuscolo, la strada biancheggiava vagamente attraverso gli alberi, noi andavamo incerti, ed io conservo di questi ultimi istanti nella mezza luce della chiesa dei Francescani un tenero ricordo, ma sfumato, vago e lontano come un sogno. Gli altri edifici di Sassari non mi hanno lasciato quest’affascinante incertezza. La Prefettura è vasta, gli appartamenti sontuosi, la sala delle sedute dei consiglieri generali opulenta, ma la decorazione è detestabile ed il mobilio pretenzioso e falso. Qualche quadro vale uno sguardo. Nel Municipio, che è l’antico palazzo del duca di Vallombrosa, trovai una collezione di dipinti interessante. L’Università, della quale il rettore Gaetano Mariotti mi fece gli onori, è molto importante. Essa è provvista di cattedre
di teologia, di giurisprudenza, di medicina, ecc. La sua biblioteca contiene 37.000 volumi, e vi si avvia un museo d’antichità. Una domenica mattina il signor Mariani venne a bussare alla mia porta. «Andiamo a Sennori?» mi disse gaiamente. «Cos’è dunque Sennori? una montagna, una foresta, una città, un villaggio, un luogo malfamato? Del resto, che m’importa, vi seguo». Egli apre le imposte, un sole accecante illumina la camera. Le grosse nubi nere, scacciate dal vento di sud-ovest, avevano cessato di correre sbigottite nel cielo della Sardegna. Due minuti ed eravamo in calesse, il signor Mariani, il signor Proto Secchi, amabile sassarese, ed io; un buon vecchio cocchiere teneva le redini. Il sole bagnava i campi ed i grandi boschi. Dopo il mio arrivo in questo paese non l’avevo visto che in apparizioni accecanti sul suolo scintillante di biancore delle piazze di Sassari. Subito esso riempiva i cuori ed incantava i nostri sguardi. Procedevamo per la strada dinanzi al bell’orizzonte del mare lontano che s’inerpicava sui poggi, precipitando nei valloni ove fremevano dolcemente le alte palme, dove si dondolavano i pennacchi ondeggianti delle canne, dove brillavano i frutti d’oro dell’arancio. Bella natura e superbi cieli. Quale festa, dopo tante giornate cupe! Si attraversarono per lungo tempo boschi d’olivi dal dolce fogliame, e a momenti, dalle foglie ancora bagnate, le goccioline cadevano in tiepide lacrime d’argento. Nei valloni rigati da colture, bianche casette si rannicchiavano fra alberi frondosi, i muschi umidi adornavano di velluto i vecchi muri. Salimmo lentamente attraverso quest’incantevole strada, raggiungemmo il fianco di una collina più elevata, e assai in lontananza, come un dolce miraggio, scintillava fra i vapori, d’improvviso, la Corsica. Le sue cime nevose salivano alte nel cielo; si sarebbe detto che navigassero nell’azzurro
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con le bianche nuvole, mentre le coste scomparivano in una rete di garza. E noi cercavamo di riconoscere le cime. «Vedete il Monte d’Oro?». «No, è l’Incudine con il suo crinale acuto, e a fianco il Monte Renoso che spiega la sua possente groppa»; a dire il vero non sappiamo bene, in questa bruma, chi avesse ragione e chi torto: ma, dopo che il sole ebbe dissipato un po’ i vapori, potemmo dare con certezza dei nomi a più d’una di queste belle montagne ora coperte d’un mantello ghiacciato. A questa distanza, l’isola meravigliosa sembrava un gioiello d’opale e madreperla iridata, fluttuante in un azzurro ideale. E mentre ammiravamo questo spettacolo, un suono di campana attraversò lentamente l’aria. «È la messa di Sennori», disse il signor Proto Secchi. Alla curva della strada, e assai vicino a noi, Sennori sonnecchia nella piega della montagna. È un ammasso di case molto pittoresche, che un campanile domina. La base delle dimore s’immerge nella verzura, che discende in folte increspature fino al fondo del vallone. Lasciamo la vettura all’entrata del villaggio e seguiamo le strade solitarie, dalla ripida pendenza, che menano alla chiesa; tutto il villaggio è a messa. Alcuni uomini, a piccoli gruppi, sostano davanti al portale; la maggior parte sono vestiti dell’antico costume, ed il loro aspetto è caratteristico. Davanti a noi essi si spostano cortesemente. La chiesa è piena; il prete officia; alcune donne, in gran numero, vestite con costumi di velluto, sono inginocchiate al suolo, bella e graziosa fiorita sui lastroni della vecchia navata scalcinata! Le vedove uscirono per prime, ammantate nelle loro grandi gonne pieghettate e riportate sulla testa. Nella nerezza15 del loro costume rigido e ampio, i loro fini visi quasi 15. Si è preservata la radice noir di noirceur, che ben si attaglia, in tal contesto, sia al colore di una parte dell’abbigliamento, sia ad un’impressione di cupezza, quasi d’angoscia determinata dal colore dominante cui si fa riferimento in questo passo.
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9. Uscita dalla messa a Sennori
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scomparivano e si velavano di pallore. Dietro queste belle vedove dallo sguardo triste e dolce, dalle vesti scure, giovani donne e ragazze discendevano i gradini della larga scalinata di pietra che dà accesso alla piattaforma sulla quale s’innalza la chiesa. Incedevano, graziose, sorridenti, un po’ sorprese alla vista di stranieri. Il colore delle loro vesti, fatte di bianco, di rosso e di blu, i loro corsaletti d’oro, le collane ed i bottoni cesellati di cui erano agghindate, la fine tela che copriva la loro testa, che ricordava le cornette delle sorelle di carità, l’espressione casta del loro viso mentre avanzavano coi seni appena coperti d’una camicia leggera, donavano loro un carattere singolare: esse erano belle, di una bellezza pura e conturbante allo stesso tempo. Questo flutto di colori brillanti e di giovani volti scomparve troppo presto, come un’affascinante evocazione di un tempo che non è più. Il signor Proto Secchi ci portò dai suoi parenti di Sennori, ove la migliore accoglienza fu il nostro premio. Sono assai semplici, assai modesti, questi interni dei villaggi sardi. A Sennori si trova la casa delle nostre frazioni di Francia, con una grande stanza al pianterreno o al primo piano che funge da cucina e da sala di lavoro, con la scuderia vicinissima. Ciò che mi ha colpito là, come negli altri villaggi della Sardegna che ho visitato in seguito, è l’enorme sproporzione fra la ricchezza dei vestiti e la povertà dell’abitazione. La cura della propria toilette preoccupa molto le giovani. Subito dopo la prima comunione, eccole che ricamano il loro costume di nozze, infinitamente più lussuoso ancora di quello che indossano la domenica. È un lavoro di parecchi anni. Se una di esse muore, la si seppellisce con questo costume preparato per un giorno di felicità. A Sennori, il costume è composto di una veste corta di velluto cremisi, le cui maniche aperte in stile medievale lasciano passare la camicia vaporosa. Questa manica, ornata di gemme incastonate nei ricami, termina al polso con una fila di bottoni in 72
10. Acconciatura delle donne di Sennori
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filigrana d’argento o d’oro, dei quali solamente alcuni sono abbottonati. Sotto la veste si distingue, a tratti, il corsaletto, ugualmente ricamato in oro, stringato di rosso sul davanti, la cui forma ricorda con molta precisione quella delle castellane d’altri tempi. La gonna è fatta di un grosso panno nero tessuto nel paese e pieghettato dalle donne stesse. Nella parte inferiore di questa gonna corre una larga banda di seta bianca ricamata di fiorellini dai vivaci colori. Il grembiule è di seta blu ricamata, attraversato da una frangia nera. Infine, indossano una sòrta di soggolo di tela fine che ricorderebbe certe acconciature del tempo di Carlo VI. In giorni ordinari la veste di velluto è rimpiazzata da una veste bruna le cui maniche a spacchi sono formate da due larghe strisce, una rossa e l’altra blu. Ciò che mi ha assai sorpreso, è che in numerosissime zone indossano i nostri tre colori, il blu, il bianco, il rosso.16 Sovente, durante la settimana, esse velano il loro volto con un fazzoletto scuro che nasconde la parte inferiore della figura. È questo un ricordo dei Mori? Essi non sono quasi mai apparsi a Sennori. Questa costumanza ha probabilmente lo scopo di proteggere la respirazione contro l’assorbimento dei miasmi paludosi. Abitualmente le donne sono a piedi nudi, ma quando si calzano, lo fanno con piccole scarpe eleganti. Questa giornata trascorse troppo in fretta, e quando riprendemmo il cammino per Sassari, i raggi del sole calante incendiavano i vetri delle case. Avevo visto Sennori la domenica e mi dicevo: che fanno dunque queste belle principesse durante la settimana? Approfittai di una bella giornata, e della cortesia dei miei amici, per ritornarvi. Rividi le strade tortuose, le antiche 16. Ovviamente, il riferimento ai colori francesi in un simile contesto, non fa che confermare la figura di un Vuillier viaggiatore impressionista, che non sa cioè staccarsi del tutto dalla propria realtà d’appartenenza, per immergersi completamente in quella nella quale si trova al momento, fatto che gl’impedisce la comprensione obiettiva di molti aspetti della Sardegna.
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11. Il costume della festa
12. Lavoro di cestaia
13. Sulla soglia
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dimore, la povera chiesa. E nelle strade passavano le principesse, la maggior parte a piedi nudi, ma sempre vestite con colori brillanti. Alcune, con dei giunchi, intrecciavano grandi ceste piatte, in piedi, al sole, sul limitare della porta. È un’occupazione usuale per le donne del paese. Altre lavorano da sole in qualche stanza imbiancata con la calce, rischiarata dalla luce misteriosa di una finestra provvista di grata. Così, talvolta, riunite all’interno di una vasta sala, in gruppi numerosi, con i bambini semi-nudi che si trascinavano per terra, esse intrecciavano i giunchi assieme. Non erano più là le severe fanciulle, le fiere principesse. No, ma ardenti lavoratrici, un gaio sorriso alle labbra, chiacchierando con vivacità e salmodiando talvolta qualche antica melopea. Sentii recitare da una di loro la poesia seguente: Cunvertidas sunt in iras Sas amorosas fiamas Isconzas si sunt sas paghes. Non ti miro, no mi miras, Non ti bramo, non mi bramas, Su chi ti fatto mi faghes Non t’aggrado neimi piaghes Tind’ifadas mind’ifado, No m’agradas, né t’aggrado Ambos hamus cumbinadu.17 17. Si riporta qui, a beneficio del lettore, la versione di questa deghina torrada presente nell’opera di Giovanni Spano, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di S. Tola, vol. IV, Nuoro, Ilisso, 1999, p. 30, precisando che nella strofa data a testo, così come essa viene trascritta dall’autore, gli emendamenti apportati sono leggeri, avendo tenuto conto del fatto che questi versi provengono dalla tradizione orale, privi d’autore certo e soggetti, pertanto, a variazioni di recitazione e d’“orecchio”: «Cunvertidas sunt in iras / sas amorosas fiamas, / isconzas si sunt sas paghes. / Non ti miro ne mi miras, / non ti bramo ne mi bramas, / su chi ti fatto mi faghes, / non t’aggrado ne mi piaghes / ti nd’infadas mind’infado, / non m’aggradas
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In collera si son mutate Le sue amorose fiamme, ecc. A Sennori trovai dappertutto la migliore accoglienza: ero l’oggetto delle più graziose attenzioni. Per questo, nulla di stupefacente, poiché i sardi sono assai ospitali. Ecco uno dei loro proverbi: Sa domo est minore, su coro est manu [mannu] (La casa è piccola, il cuore è grande). Il dottor Gillebert d’Hercourt racconta il seguente episodio: «Un ingegnere straniero, affaticato da una lunga corsa a cavallo attraverso boschi e montagne e spinto dalla fame, si fermò davanti alla prima casa che incontrò, e chiese di comperare del pane. ‘Noi non vendiamo pane’, gli fu risposto. Più in là rivolse una domanda simile agli abitanti di un’altra dimora, gli fu data uguale risposta. Questa identità di linguaggio gli diede da riflettere: ‘Ma, se non vendete pane’ disse lui ‘ne regalate forse? Ho fame’. Subito, e con la più viva sollecitudine, gli si diede di che soddisfare ampiamente il suo appetito». Scorsi all’interno di una casa, una graziosa figliola, e la pregai di posare per il suo ritratto. Lei dapprincipio si rifiutò ostinatamente, malgrado il desiderio di sua madre. Poi improvvisamente, un po’ imbronciata, incrociò le braccia e mi disse, mettendosi davanti alla porta: «Ecco, fate il mio ritratto, giacché ciò vi fa tanto piacere». Quando terminai, essa non ebbe neppure la curiosità di guardare il mio schizzo; rientrò in casa, dopo avermi salutato. La seguii in fretta con una moneta per ripagarla della sua pena, ma lei arrossì ed alzò le spalle, senza neppure degnarsi di rifiutare il mio dono. ne t’aggrado / ambos hamus cumbinadu». Da notare l’errore di traduzione «le sue amorose…», ingenerato dalla confusione fra sas come articolo in sardo-logudorese (ital. «le») e ses in francese, forma di possess. plur. femm. = ital. «sue», appunto.
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Giù del villaggio, in un vallone ove mormorava dolcemente un ruscelletto nascosto sotto le erbe e le foglie, errai in mezzo ai giardini d’arancio. I frutti diventavano maturi, ed erano una festa per i miei occhi, questi fitti cespugli dal verde intenso, smaltati d’innumerevoli piccole sfere d’oro. Due sardi che v’incontrai mi guidarono con estrema cortesia. «Perché, dunque, queste corna appese ai rami?» dissi io ad uno di questi. «È per preservare gli alberi dai malefizi che li renderebbero sterili, che vi appendiamo, come vedete, corna di montone». Poi le ombre s’allungarono lentamente, i fuochi che risplendevano nei boschetti come migliaia di gemme si estinsero progressivamente, il mistero avvolse la valle. E ben presto, l’alta chiesa di Sennori conservò, da sola, un raggio tremolante che sembrava sospeso alla volta dei cieli, sopra l’oscuro villaggio, come una lampada di santuario. Il raggio svanì in seguito nei pallori del crepuscolo, e giunse la notte. Solamente allora ripresi il sentiero che mena a Sennori: là ritrovai i miei amabili compagni che mi attendevano sonnecchiando dentro la vettura. Attraverso la strada monotona, nel silenzio dell’ora notturna, davanti al mare lontano che rifletteva i chiarori di una luna morente, una voce interiore mi mormorò dei frammenti della poesia sarda che avevo sentito: Convertidas sunt in iras Sas amorosas fiamas… Ahi lasso! dicevo io, rispondendo nel mio pensiero a questa voce, niente quaggiù cambia? Ai sorrisi d’oggi, forse, domani seguiranno le lacrime. Guardate, mentre il sole indora il frascato, le nubi si accumulano e il tuono s’appresta a brontolare. A quest’ora, nel rintracciare tali ricordi, sento nel cuore un crudele stringimento. 80
14. La ragazzetta del ritratto
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Capitolo I
Il mio pensiero ritorna a quel giorno di novembre in cui, facendo ritorno da Sennori, trovai sulla tavola dell’albergo una lettera che il signor Émile Templier mi aveva indirizzato in Corsica, e che mi aveva seguito fino in Sardegna. Questa è l’ultima che ho ricevuto da lui! Il Tour du Monde ha recato il lutto di quest’uomo d’intelligenza, così profondamente benevolo e buono. Noi che l’abbiamo conosciuto bene, amato moltissimo, non ne tradiremo mai la sua memoria.18 Mentre viviamo, o crediamo di vivere, di dolore in dolore, affaticati, preoccupati, sovente tristi fino alla morte, la luce inonda piane e monti, le foreste mormorano alle brezze, le nubi navigano nel cielo blu, il mare culla armoniosamente i suoi flutti, e la natura tutta celebra i suoi eterni amori. Gli ultimi giorni d’ottobre sono trascorsi, novembre è arrivato. Novembre, freddo e nero nel nord della Francia, ma cupo e fantastico in Sardegna, con piogge torrenziali, colpi di vento improvvisi, alternati con l’aria calma ed il sole primaverile. Approfittiamo della bella giornata che spunta, e lasciamo la città di Sassari. Tuttavia vi torneremo, e ritroveremo per buona sorte questo eccellente albergo Azuni, dove padrone e servitori non hanno cessato di colmare di premure ed attenzioni ogni viaggiatore che passi e che essi non rivedranno probabilmente mai più. Coloro che mi leggono rammentino il nome di questa casa di leale ospitalità. Ci dirigiamo oggi verso Sorso, la distanza non è grande; dopo parecchio cattivo tempo, vedremo le cose rinascere alle carezze del sole. Si direbbe che la natura ha acquisito una freschezza nuova, l’azzurro del cielo è di una trasparenza insolita, nubi leggere e dolci come l’ovatta fluttuano con lentezza. Laggiù, vapori tremolanti velano un po’ 18. Qui termina il primo fascicolo dell’edizione ’91, per il Tour du Monde.
gli sfondi, e dappertutto soavi profumi esalano dalla terra, dagli arbusti, dalle più umili piante. Il tuono aveva brontolato durante la notte, e nel cielo nero i fulmini non avevano cessato di squarciare la nuvolaglia. Che gioia questo giovane sole del mattino che brilla, un po’ pallido, sulle cose, come sorriso su un volto ancora bagnato di pianto. Davanti ai nostri occhi, accompagnando la strada e tutte scintillanti di perle di rugiada, si dondolano delle magnifiche euforbie. Vediamo spiegarsi grandi cardi variopinti, drizzarsi opunzie dai frutti di porpora, arrampicarsi more selvatiche smaltate, in questa stagione, di foglie di carminio e d’oro. I dintorni di Sassari sono incantevoli, con i loro valloni ombreggiati d’aranceti. Case di campagna, bianche o rosa, sorgono in mezzo a folti alberi un po’ ingialliti. È proprio là il Logudoro (vale a dire paese d’oro), nome con il quale si designa la regione settentrionale della Sardegna. Il villaggio di Sorso è vicino a Sennori, e non lo si crederebbe abitato dalla medesima razza. Qui le donne sono vestite di bianco o di rosa, e sovente il loro viso è velato come quello delle africane; le si vede passare, e quasi scivolare nelle strade senza rumore, simili ad ombre diafane, strane sotto questa veste senza ornamenti, senza ricchezze, ma che le abbellisce perché le nobilita. Gli uomini del popolo hanno sovente un aspetto selvatico. Il loro tipo offre una rassomiglianza sorprendente con certi montanari corsi. «Che ci trovate di strano?» mi diceva il signor Catta, uomo importante, presso il quale il signor Mariani mi aveva condotto. «La costa nord della Sardegna è stata a lungo il rifugio dei corsi. Molti vi si stabilirono, un tempo; certi villaggi della Gallura sono oggi popolati dai discendenti dei banditi giunti dall’isola montagnosa che ammiriamo di là dalle bocche di Bonifacio».
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Due vecchi stavano seduti davanti ad una casa, su una panca di pietra, incappucciati, scuri, spiccanti, in nero, sul biancore del muro. Era questa un’autentica evocazione di “Zurbaran”.19 Passavamo, e il loro aspetto mi colpì. Afferrando il braccio del signor Catta, gli dissi: «Vedete quei due uomini?». «Sì, ebbene?». «Quelli sono, sicuramente, dei briganti, ed io sarei lieto di farne uno schizzo». «Questi briganti saranno felici di farvi piacere» mi rispose lui sorridente. «Andate ad attendermi a casa, nel giardino, ve li sto per mandare». Osservai con la coda dell’occhio il signore Catta 20 discorrere con costoro, e sperai favorevolmente per la sua richiesta, perché i loro visi si rasserenavano. Qualche istante dopo avevo, in effetti, i due scuri vecchi di fronte a me, su di un banco di pietra, davanti ad un muro bianco, così come li avevo visti, passando. Erano la miglior gente del mondo, non avendo in comune con i malfattori che l’aspetto, ma, per Dio! non avrei certo voluto incontrarli di notte al limitare di un bosco. Il signor Catta si fece in quattro per essere cortese con noi. L’accoglienza che ricevemmo, tanto nella sua casa,21 che
15. Due vecchi a Sorso
presso molti notabili del paese, mi permise di giudicare della cordialità, della grandezza dell’ospitalità sarda. Egli ci presentò a sua moglie, cosa che non rientra fra le usanze del paese. La mancanza di presentazione non è senza inconvenienti per uno straniero che può, a volte, confondere la padrona di casa con le serve. Ma la signora Catta era troppo distinta perché questa confusione fosse possibile. Conversavamo in catalano, avendo il dialetto di Sorso grandissima affinità con questa lingua. Il signor Catta è consigliere generale. Egli combatte con tutte le sue forze la politica che separa l’Italia dalla Francia. Del resto, tutta la parte settentrionale della Sardegna
19. Francisco de Zurbaràn (1598-1664), pittore, fu rappresentante del siglo de oro dell’arte spagnola, passando da cicli devozionali dall’estremo realismo a nature morte cariche di simbolismi, caratteristiche alle quali, probabilmente, si riferisce qui il Vuillier. 20. Qui probabilmente il corsivo unito all’uso dell’italiano, invece dell’usuale forma abbreviata M. Catta, va a sottolineare una suspence o, comunque, un momento topico in cui l’amico Catta, appunto, tratta, almeno nell’intenzione dell’autore, con due pericolosi bandits. 21. Risultano ormai evidenti – visto l’elevato numero di termini “stranieri” che Vuillier riporta tali e quali nell’originale, spesso senza traduzione o corsivo – un gusto ed uno stile “esotizzante-realistico”, in quanto egli tenta di riprodurre, anche se non in presenza di reale necessità, un lessico italiano che, probabilmente, risponde al desiderio di far trasparire, di tanto in tanto, la discussione od i dialoghi in maniera similare a come
egli stesso li ricordava, ossia in francese, forse infarciti d’italianismi, soprattutto da parte dei suoi ospiti. Pare, invece, assai scarso il risultato estetico sulla sua prosa, la quale poco ricava da questa varietas lessicale, appunto esotizzante.
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ci è assai affezionata, e più d’una volta ho sentito esprimere a questo proposito dei pareri che sorprenderebbero assai a Roma.22 Sorso fu preso, nel 1527, dalle truppe francesi, comandate da Benzo Orsini. Il solo ricordo che rimane di questa spedizione è il nome di Strada dei Francesi, serbato da un sentiero che si dirige verso il mare. È probabile che gli assalitori avessero seguito questo tragitto. La fontana che Sorso deve agli Spagnoli s’innalza in un bassofondo, tutta bianca, circondata da un fitto fogliame. Un viale dalla ripida pendenza, ombreggiato da un doppio filare d’alberi e concluso da gradini fatti di larghi lastroni, vi dà accesso. Le donne, velate di bianco, di blu pallido o di rosa, con l’anfora o il bariletto sulla testa, seguivano quest’ombrosa via dove, talvolta, filtrando dei raggi attraverso le foglie, le cospargevano d’oro. Quando esse si fermavano, si sarebbero dette delle stratue di marmo, tanto il loro vestire semplice, dalle grandi pieghe fluttuanti, attribuiva loro un carattere classico. In fondo al viale, nella parte opposta alla fontana, la cattedrale, con la sua abside a cupole, s’innalza attraverso un boschetto come un’alta moschea. Sopra il villaggio, completamente in rovina, cupo e pressoché funereo, si trova il maniero della famiglia dei Mores,23 duchi d’Asinara, oggi di Vallombrosa, il cui nome è risuonato a Parigi di recente, in occasione di un processo politico. Questo castello fu devastato dai contadini sardi nel 1793. Di fronte, in una stradina in pendenza, davanti alla porta di una casa, se ne stava una giovane donna, acconciata con una sòrta di turbante, la veste carica d’ornamenti. Simili, avevo visto delle ebree nella casbah d’Algeri.
La graziosa creatura, minata dalla febbre, s’era adornata a sua insaputa di un costume in perfetta armonia con i tratti africani del suo viso. Sorso è vittima, anch’essa,24 delle febbri della Sardegna, qui ancora aggravate dallo Stagno di Platamona, situato verso la spiaggia. Ahi lasso! Queste non colpiscono solamente uomini e donne; esse raggiungono ugualmente l’infanzia, ed è una pena vedere dei poveri bambini, pallidi e gementi, fra le braccia della loro madre. Il sole, velato nel pomeriggio, appare di nuovo. I suoi raggi arancione incendiano dei muri e, da lontano, si direbbe un metallo in fusione. Noi passeggiamo sulla strada. Nei boschi misteriosi dal fogliame delicato e tremolante ch’essa attraversa, alcune donne raccolgono le olive. Sotto questo grigio mezza-tinta, senza forme precise, si crederebbe di osservare un quadro di Corot25 cancellato per metà. Numerosi uomini tornano dal lavoro, gli utensili sulle spalle, carichi talvolta di fagotti: «Bona sera», dicono passando. Ah! Che brave persone! Ora il sole allunga le ombre, borda le figure con una frangia luminosa; la carreggiata della strada serpeggia in strisce abbaglianti, i boschi lontani sfumano nella bruma. L’astro sparisce lentamente, dietro una linea orizzontale di nuvole; solo qualche fiocco d’oro naviga più in alto nel cielo luminoso. Poi, lentamente, il crepuscolo arriva e la prima stella s’accende, mentre la vecchia vettura viaggia pesantemente verso Sassari, nella strada ancora fangosa per le ultime piogge. Il faro di Porto Torres lampeggia nello spazio. Ci si addormenta per metà, si sogna, e, quando gli
22. Omessa da Carta Raspi quest’ultima affermazione. 23. Carta Raspi traduce «duchi dell’Asinara», Demos e Pilia: «famiglia di Mores». Tenuto conto dell’articolo partitivo plurale des in francese, si è optato per «dei Mores».
24. «Essa» perché Vuillier si riferisce, qui, al paese al femminile: elle [cité] aussi. 25. Jean Baptiste Camille Corot (1796-1875), pittore francese esponente del paesaggismo romantico e precursore dell’impressionismo, nella sua tensione verso l’immediatezza e verso una rappresentazione pittorica “veridica”. Trascorse, per motivi di ricerca e studio, alcuni anni in Italia.
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occhi si socchiudono, alcune luci, simili a stelle cadute, segnalano da lungi Sassari. 5 novembre. – Il sole che spunta è venuto a bussare alla sponda della mia finestra, dei piccioni tubano e si posano gioiosi sui tetti delle case di fronte all’albergo Azuni. Il vento non soffia più; tutto nel cielo è di felice presagio: l’occidente, da cui salivano, nei giorni scorsi, grandi nuvole minacciose, è di un blu pallido, delicato e trasparente. È una bella giornata per visitare Osilo, uno dei borghi più importanti della Sardegna, la cui popolazione supera le 5000 anime. Situato su di un’alta montagna, è al riparo dalle febbri paludose, ma, tuttavia, il sole lo brucia, la pioggia lo sferza, il temporale vi si strazia ed il fulmine lo minaccia. «Caro signor Mariani, venite con me ad Osilo, non è così?». «Con piacere», mi risponde. Ed egli chiama subito il vecchio cocchiere che sosta nella piazza. Ben tosto, eccoci risalire le colline entro la foresta d’olivi che circonda Sassari come una pallida cintura. Gli uccelletti, rivedendo il sole dopo tante tempeste, sembrano credere all’arrivo della primavera; essi pigolano e svolazzano da ogni parte, s’inseguono fin vicino a noi, e a tratti vedo qualche griva ghiottona, dal volo furtivo, che razzia fra gli uliveti. Sulla strada si fanno dei begli incontri. Ecco un prete a cavallo, il breviario in mano, il fucile di traverso sull’arcione della sella, la perpetua in groppa; poi, un nugolo di cupi cavalieri col cappuccio nero passano e spariscono subito in un turbine di polvere; poi, due fidanzati dondolanti al dolce passo della medesima cavalcatura, sul bordo della strada, sfiorati dai rami degli alberi, camminano amorosamente. Avanzano chiacchierando sottovoce. Lei, circondando col braccio il suo amico, come per reggersi meglio in sella, scoprendo in quest’atteggiamento il corsaletto d’oro, 88
16. Un quartiere d’Osilo
rialzando graziosamente la testa, per essere più vicina al suo orecchio. Lui si piega un po’, si volta per metà, poggia il suo viso sulla propria spalla e sorride, mentre la buona bestia che li trasporta trotta a caso, con aria svogliata, brucando qualche ciuffo d’erba aggrappato al muro, fiutando il suolo, scuotendo la sua criniera, fermandosi nel mistero delle foglie, come per mettere al riparo gli innamorati per un istante. Ed il sole s’infiamma maggiormente nel cielo più blu, i suoi raggi dardeggiano in sfavillii accecanti sulla strada bianca e scintillano attraverso le foglie lustre degli olivi. I fiori sollevano timidamente le loro corolle umide nelle scarpate, le margheritine s’illuminano una dopo l’altra, smaltando i fini veli di vapore che bagnano la terra. … Le dolci visioni d’amore sono svanite con i boschi ombrosi; abbiamo appena lasciato il terreno calcareo e 89
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siamo arrivati sopra un altopiano vulcanico. Solo un grande pino solitario s’erge in un paesaggio spoglio. Di fronte a noi, sulla cima di una montagna dominata dalle cupe torri di un castello in rovina, Osilo scintilla al sole. La montagna è aspra, brulla; dei borri ricoprono i suoi fianchi di solchi d’azzurro oltremare. Ora discendiamo; la strada capricciosa serpeggia a zigzag fra i pascoli. Grandi greggi pascolano in silenzio. L’orizzonte è bordato da colline merlate di rocce simili a fortezze, dei valloni si nascondono per metà, boschi ingialliti s’increspano al vento, addormentati fino al rinnovar d’aprile. Accanto alla strada discende un arido burrone, bordato da pareti rocciose in cui s’aprono fessure spalancate; queste sono grotte ove vissero famiglie di primitivi. Rasentiamo una casa isolata, una cantoniera, nella quale i passanti si rinfrescano, e che contiene una scuderia ed una sala in cui i viaggiatori, sorpresi dal cattivo tempo, possono trascorrere la notte, sdraiati sulla terra battuta. Malgrado la povertà, nonostante la miseria della loro sistemazione, questi rifugi sono spesso preziosi, e nessuna delle grandi strade della Sardegna ne è completamente sprovvista. Lasciamo ben presto il fondo della valle e scaliamo il monte di Osilo. Per fare da diversivo alla monotonia della strada, il signor Mariani tira fuori le provviste di cui si è munito, da uomo previdente, e mangiamo. L’aria diventa fresca, ci avviciniamo alla cima, e vedo gruppi di lavandaie, che sembran tutte fiorite. È veramente uno spettacolo radioso vedere queste belle ragazze ridenti, in gruppi sparsi sul fianco di questo monte, sotto gli arbusti, nei ruscelli, o in pieno sole, raggianti di luce sotto il cielo blu, davanti al mare infinito. I corsaletti d’oro scintillano, le gonne rosse sono abbaglianti; sotto il soggolo bianco che copre le loro teste, i visi hanno una freschezza e una luminosità sorprendenti. E queste scene brillanti hanno per teatro un pendio vulcanico 90
17. Le lavandaie d’Osilo
dall’aspetto cupo, dalle linee severe. Ogni piega in cui si nasconde un ruscelletto, da cui filtra un po’ d’acqua, accuratamente raccolta in bacini, ha la sua ghirlanda di lavandaie. Dopo settimane di pioggia, che le ha trattenute in casa, esse approfittano del ritorno del sole e, tutte, per lavare, chiacchierare e ridere. Lasciamo la vettura all’ingresso del villaggio, e ci perdiamo in un dedalo di stradine. Mentre cerchiamo la direzione del castello, alcuni uomini si separano da un gruppo e offrono gentilmente di guidarci a queste rovine, da dove potremo contemplare il paesaggio intorno, poiché questo nido d’aquila è a circa 700 metri d’altitudine. Sull’estrema cima della montagna s’innalzano due torri screpolate, fatte di blocchi di basalto nero, tigrato da licheni color arancio. I muri di cinta sono crollanti, il vento sibila fra le pietre disgiunte; da ogni parte… l’infinito. Il colpo d’occhio è superbo. 91
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Capitolo I
Attraverso lo spazio azzurrino rivedo ancora la Corsica, così bella. Da tutte le alte cime della Sardegna, anche dalle più lontane, verso sud, essa appare coronata da sfavillanti diademi. Dall’altura su cui mi trovo, in piedi contro le mura del torrione di un antico maniero, con le ondulazioni di un suolo arido e nero sotto i miei occhi, i miei sguardi la contemplano con amore. Laggiù, le falesie di Bonifacio palpitano sulla riva, ed i monti sublimi s’innalzano in un cielo puro con le loro nebbie, le loro rocce, e quelle macchie che son foreste. Con l’occhio perduto in quest’apparizione luminosa di una terra francese, ho rivissuto per qualche attimo i miei giorni in Corsica, e mi sono silenziosamente entusiasmato una volta di più per la bellezza del suo paesaggio e l’originalità della sua razza. Quando, poi, i miei sguardi si sono abbassati sulla Sardegna, sulla regione dell’Anglona distesa ai miei piedi, regione aspra, intrisa d’una tristezza infinita, sulla Gallura selvaggia e lontana, ho percepito ancor più lo splendore della nostra isola.26 26. Vuillier, che di certo non pone in buona luce i paesaggi desolati e selvaggi della nostra terra, si dimostra un po’ esotista nel confronto fra Sardegna e Corsica, patriotticamente definita «la nostra isola». Da non trascurarsi è anche il fatto che l’autore, sin qui, predilige al gusto per il selvaggio quello della civiltà, spendendo, infatti, parole d’elogio per Sassari la charmante e misurando la civiltà sarda col metro dell’urbanitas, pur avendo, specie in relazione alla Barbagia, parole d’elogio per una “rustica vita” che, tuttavia, non lo coinvolge minimamente, se non a livello esteriore. Tutto ciò porta a considerare Vuillier come un autore peculiare fra i viaggiatori dell’epoca e non solo, in quanto l’atteggiamento più diffuso, specie in periodo romantico e post-romantico era quello di ricerca del selvaggio, del ferino, del primordiale, mentre il Nostro, al contrario, pare, finora, allontanarsene quasi con nostalgia per ciò che ha lasciato in patria. È interessante notare che l’autore associa, in seguito, i paesaggi incontaminati della Sardegna alla natura ingenua e primitiva degli abitanti, ed è allora che la sua immaginazione lo spinge verso un “medioevo ottocentesco” che gli fa esprimere parole d’elogio per questa terra, altrimenti è raro che egli se ne entusiasmi con indubbia sincerità.
Il signor Mariani è rientrato al villaggio. I due sardi si sono accovacciati a terra. Il sole al suo declino accende raggi di fuoco sul loro rude sembiante; il vento, che soffia di continuo su queste montagne, rizza loro la barba incolta e gli districa i ciuffi dei capelli. Osilo, i cui rumori salgono fino a noi con una nitidezza singolare, si appiattisce su una falda della montagna: non si vedono che tetti di tegola spezzati dagli scuri solchi delle strade. Lo spettacolo che ho sotto gli occhi è fatto per avvincere a lungo. L’orizzonte del mare scompare nell’immensità, un tratto uniforme marca le ondulazioni della costa della Sardegna, nuda e senza falesie, la triste Nurra drizza da lungi i suoi picchi scarnificati, i monti del Limbara elevano le loro cime aspre, villaggi sparsi biancheggiano vagamente, Sassari dorme rannicchiata nelle foreste dalle quali salgono fumate bluastre. Due torri, stranamente nere, mi riparano dal vento, dallo spazio, ed ho vicino a me uomini dall’aspetto e dal portamento selvaggio. Quale visione sotto un cielo freddo, con questa Corsica dalle nebbie insanguinate dai raggi di porpora del tramonto! Mi volgo di nuovo emozionato verso le mie guide. Il più anziano mi dice: «Questo maniero che ci domina, di cui vedete la torre arsa dal sole, bruciata dal fulmine, scrostata dai venti che soffiano e fischiano su questa montagna, appartenne ai Malaspina. Esso, più tardi, fu di proprietà d’Alfonso d’Aragona e dei Doria. Dopo aver sostenuto parecchi assedi, dopo aver visto lotte spietate, esso fu infine sconfitto e lo si obliò mentre, pietra su pietra, le sue orgogliose mura cadevano nell’abisso. All’inizio del secolo, essendo in guerra aperta le famiglie Serra e Fadda, di Osilo, una di queste si rifugiò qui e sostenne un lungo assedio, nel quale le stesse donne combatterono di punta e di taglio, esempio terribile di queste
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vendette, durante le quali si è sparso per lungo tempo il sangue della Sardegna. Questo furore s’è rappacificato, ma non si è ancora calmato per sempre. Quando una famiglia entra in vendetta, essa comincia col tagliare le orecchie o la coda, sovente entrambe, ad uno o più cavalli della famiglia nemica. Questo è il primo avvertimento, la prima ingiuria, crudelmente patita, essendo il cavallo l’animale amato dai Sardi. Come secondo avvertimento, un colpo di coltello e d’ascia che taglia i garretti ai buoi. Ultimo avvertimento, si depongono tre palle su una delle finestre della casa. La guerra è allora dichiarata. Ciascuna uccisione di non importa chi da parte di non importa chi, conduce a drammi spaventevoli, persino superando, in violenza, in orrore, le più tragiche fra le tragedie còrse. In certi villaggi sardi i parenti s’imbrattano il volto col sangue del cadavere, scambiando terribili giuramenti. Essi stanno là, attorno alla vittima, il fucile in mano, il pugnale alla cintura, giurando di non lavare più il loro viso, di lasciarsi la barba incolta, di indossare i medesimi abiti e la stessa biancheria fino al giorno in cui avranno appagato la loro vendetta. Come in Corsica, il bandito (banditto) è pianto invece d’essere odiato, addirittura lo si circonda di un certo rispetto, lo si ama, si vanta il suo coraggio. Alcuni, come Giovanni Tolu, hanno reso grandi servizi al paese. Tolu purgò tutta una regione dai malfattori, a suo rischio e pericolo, fra continue minacce. Egli si recò anche nella Nurra, dove gli abitanti erano in arme; estinse gli odi, riconciliò le famiglie e liberò il paese dai briganti che lo infestavano; spesso, protesse i derubati dai derubatori e grazie a lui più di un buon paesano vide far ritorno alla stalla o alla scuderia le bestie delle quali i miscredenti l’avevano “alleggerito”. Si raccontava che Tolu avesse ucciso alcuni carabinieri, ma in situazione di legittima difesa, ed il popolo tutto gli dava ragione.
Un caso singolare è quello di una donna di Nuoro, divenuta banditta dopo aver commesso un omicidio e che vagò per interi anni nella macchia e nelle foreste. Una vendetta famosa fu quella di Giovanni Cano, originario d’Ozieri, di cui noi, da qui, vediamo le montagne – ed il dito della guida, puntato verso oriente, mi mostrava delle cime lontane. Giovanni compiva i suoi studi presso l’università di Sassari, quando il padre morì. La madre aveva lasciato questo mondo nel dare alla luce sua sorella Adelita, la quale non aveva ormai altro appoggio che il fratello. Giovanni, lasciando l’università, si ritirò con lei ad Ozieri. Si occupava degli affari relativi al suo patrimonio, quando certe allusioni sulla natura delle relazioni fra la sorella ed uno dei suoi amici, di nome Luigi, giovane medico lombardo, lo inquietarono. Checché egli attribuisse questi “rumori” alla malevolenza, Giovanni si aprì al suo amico: ‘Te ne prego’, gli disse, ‘allontanati: non nuocere alla reputazione di Adelita’. Luigi partì, ma ritornò da Adelita ogni volta che Giovanni si allontanava da Ozieri. Una sera, Giovanni giunge all’improvviso e sorprende il seduttore, cui lascia salva la vita se egli sparirà27 dal paese per sempre; ed egli stesso lascia Ozieri per stabilirsi ad Oschiri, presso suo nonno. Poi, un giorno partì per Sassari dopo aver incaricato il suo pastore Antonio di ben vegliare sulla sorella e, più che questo, di sorvegliarla, e di spiare il giovane medico. Era in convalescenza da una grave malattia, quando Antonio lo avvertì delle numerose visite di Luigi. Egli partì a cavallo, nonostante la debolezza estrema, e giunse di notte ad Oschiri.
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27. Si è preferito preservare il futuro dell’originale e rendere con «se» l’ipotetica della realtà che l’autore vuole esprimere, sembrando questa scelta conforme all’intenzione sia di quest’ultimo, sia del personaggio Giovanni, così deciso e risoluto nel dare l’avvertimento a Luigi.
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Capitolo I
Antonio era in strada. Il giovane studente ed il pastore attesero il giorno. Alle prime luci dell’alba, Luigi uscì dalla casa. Giovanni si lanciò su di lui, ma non volendolo uccidere, lo prese per il colletto e lo trascinò sul bordo d’un precipizio. ‘Ci batteremo ad armi pari’ disse ‘ed uno di noi due cadrà nell’abisso; Antonio ci farà da testimone in questo duello senza pietà’. Non aveva egli ancora concluso, che Luigi faceva fuoco e fuggiva; allora due colpi risuonarono, Luigi cadeva morto: la pistola di Giovanni, colui che egli, Luigi, aveva mancato, ed il fucile di Antonio, non lo avevano fallito.28 La povera Adelita, che aveva assistito da lontano a questa sparatoria, si gettò singhiozzante sul cadavere del Lombardo. Il paese si svegliava, alcuni carabinieri che passavano a cavallo, sentendo quei colpi d’arma da fuoco, accorrono. Alla vista del cadavere essi mettono sotto tiro i due uomini e, in nome del re, intimano loro di arrendersi. Per tutta risposta, Antonio tira su uno dei due e lo ferisce. Il secondo carabiniere fa fuoco sul pastore e lo stende morto stecchito. Ma Giovanni, pronto come il lampo, ha già vendicato Antonio: il carabiniere, colpito da una palla, cade senza vita sulla groppa del suo cavallo e la bestia, folle di terrore, scappa col suo lugubre fardello. Adelita, coperta del sangue di Luigi, è svenuta. Giovanni la prende fra le sue braccia, la riporta a casa, monta a cavallo e fugge… Eccolo bandito; triste e miserabile erra nel più folto delle foreste del Limbara. Un giorno la nostalgia lo coglie, vuole rivedere il paese, informarsi sulla sorella, ch’egli ama malgrado tutto. Si avvicina ad Oschiri.
È il crepuscolo. Un vecchio, che lui non conosce, segue la strada. Egli parla a costui di Giovanni. Il vecchio sospira: ‘Vedete’ gli dice ‘la sua casa è laggiù; non vi vedrete alcuna luce, perché non l’abita più nessuno. Giovanni è un grande e nobile cuore, eppure eccolo condannato a morte dai giudici di Sassari, e la sua povera sorella è morta di tristezza nei giorni scorsi’.29 Dopo aver parlato, il vecchio riprende lentamente la strada del villaggio. Giovanni, disperato per questa notizia, risale sul cavallo, si lancia come un folle per campi e pianure e va a precipitarsi da un abisso. Alcuni pastori hanno affermato di averlo visto passare come un fantasma, tutto pallido e con i capelli al vento, gli speroni nel ventre di un cavallo spaventato. Per un destino miracoloso, la sola bestia si sfracella. Egli giace esanime sul fondo di un precipizio. Il bandito Gian Domenico Porqueddu, condotto ivi dal caso, tampona il suo sangue, lo rianima, lo trasporta dentro una grotta selvaggia e lo cura con ostinazione. Gian30 è bandito da venticinque anni, si affeziona al suo malato, di cui conosce la sventura: del resto è il compagno, l’amico fuor di legge con cui vagabondano, sempre inseguiti, nella Gallura, l’Anglona ed il Monte Acuto.31 Qualche volta, in Sardegna come in Corsica, il clero, le autorità civili o militari, riuscirono a concludere un trattato
28. La frase è di difficile resa, pertanto per darne conto in maniera rispettosa, ci si è attenuti all’originale nel modo più scrupoloso possibile, cercando di preservare il gioco di nomi, pronomi e punteggiatura che rendono il periodo efficace ed affascinante in francese, evitando quindi eccessive semplificazioni.
29. L’ed. ’91 descrive in questo modo Adelita: «sa pauvre soeur devenue mère (diventata madre) est morte». Probabilmente quest’importante tratto della vicenda è stato espunto nell’ed. ’93 in quanto non si parla, nel prosieguo del racconto, di quale sorte sia toccata alla creatura, dando così adito ad un’incongruenza piuttosto evidente! 30. L’autore probabilmente ignora di non poter omettere la seconda parte del nome composto in questione («Gian Domenico»), ma in questo caso s’è data a testo tale forma “innocentemente” errata, esemplata, verosimilmente, sul francese Jean. 31. Il passo non è presente in questa forma nell’edizione del ’91, nella quale risulta profondamente rielaborato.
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di pace fra due famiglie da lungo tempo divise: senza questo, le vendette durerebbero sino alla fine del mondo. Giovanni profittò d’una di queste paci benefiche. Già affaticato dalla dura vita di bandito nella solitudine dei boschi, dalla fame, dalle intemperie e dal perpetuo chivive, egli prese parte alla pace di Tempio, ottenuta per mezzo del vescovo Varesini, e, munito del salvacondotto che ricevette allora ciascun uomo della “boscaglia”, andando a testimoniare, un bel giorno lo si poté vedere alla stessa tavola del carabiniere ferito da Antonio in quell’improvvisa battaglia in cui egli, Giovanni, aveva ucciso il suo uomo. Alla vista dell’uccisore del suo camerata, il carabiniere si sentì l’odio nel cuore; egli giurò di vendicare il suo amico, e, a tal punto perseguitò il fratello di Adelita, che il bandito dovette fuggire al riparo dei monti del Limbara. Un giorno in cui Giovanni se ne andava a Macomer per vendervi la sua caccia, il carabiniere, che lo spiava, sparò su di lui e lo mancò; Giovanni non lo mancò di certo. Dopo questa nuova uccisione la vita fu per lui ancor più dura e miserabile. Lavorò nelle miniere del Sulcis, divenne contadino, pastore, senza trovar mai requie. Sempre inquieto, dacché era inseguito di continuo, da vicino o da lontano, egli attraversò l’isola e giunse nella Nurra, con una raccomandazione per la famiglia Marras, che abitava la proprietà di la Poneda. Un giorno, appena veniva sera, si fermò, pressoché morto per la fatica, sul bordo di una fontana, nello stesso istante in cui una ragazza meravigliosamente bella vi andava a riempir la sua brocca. Buona e dolce tanto quanto superbamente graziosa, ella parlò con gentilezza e dolcezza al bandito, ed ecco, costei era proprio la figlia del signore Marras, del padrone di la Poneda; essa condusse Giovanni presso suo padre. E già Giovanni l’amava con tutto il trasporto della sua fiera e selvaggia natura. 98
18. Tessitura dell’orbace ad Osilo
Macché! La deliziosa Mimmia era fidanzata, ed il matrimonio si avvicinava. Giovanni, pazzo di dolore, scappò e, ricominciando a sanguinare ai piedi, sulla via dolorosa, egli vagò di qua, di là, non più attaccato alla vita da radice alcuna. Sfidava la sorte a colpirlo ancora, e la sorte lo colpì più crudelmente quando, mentre il colera decimava la Sardegna, Mimmia morì in poche ore, in tutto lo splendore della sua giovinezza e della sua bellezza. Questa fu la fine. Giovanni tornò ad Oschiri, per pregare e piangere tutte le sere sulla tomba della sorella. È là che i carabinieri lo catturarono, una sera, coperto dal fango del cimitero, il viso inondato di lacrime, i piedi straziati dai rovi del sentiero. Non fece resistenza, ne aveva abbastanza di vivere. Condannato all’estremo supplizio, morì con serenità». 99
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LA SARDEGNA
La vecchia guida si è alzata. Mentre lo ascoltiamo è sopraggiunta la notte. Riprendiamo dietro di lui il pericoloso sentiero, penetriamo nei cupi viottoli d’Osilo e, qualche istante dopo, siamo in albergo, se si può dare tal nome ad una miserabile catapecchia. Ci attende un triste desinare, in questo pessimo alloggio. Ma, l’indomani, ci si sveglia gioiosi e si gira ancora per il villaggio. Dappertutto nelle strade risuona il rumore dei telai primitivi. Ogni casa ha il proprio. Osilo è rinomata per la sua stoffa, chiamata orbace, che è tessuta dalle donne. Dalle porte socchiuse esse apparivano abbaglianti, sotto il sole che colpiva la porpora delle loro vesti, oppure brillava con lampi furtivi, sui bottoni d’argento o d’oro delle loro maniche. Davanti alle porte, al sole, le matrone filavano o dividevano la lana. Altre preparavano la tintura dentro grandi calderoni di rame, pieni di robbia raccolta nei dintorni. Gli uomini erano sia nei campi, sia nel bosco. I vecchi si scaldavano al sole lungo le casupole. Da tempi antichi, l’esistenza della gente d’Osilo non è granché cambiata. Essa continua a nutrirsi della carne e del latte delle sue capre e delle pecore, il cui pelo e la cui lana son tessuti dalle donne. Essa coltiva il grano, lo riduce in farina con l’antica macina, secondo le necessità. Essa ricava il vino dalle uve dei suoi vigneti, l’olio dai propri oliveti. Nessuna industria, nessun commercio, alcuna ambizione. Ma, anche, quale vita calma fra gli uomini, quale serenità nel viso di queste donne, che vivono secondo il dettame della natura!32 32. La sintassi ed il lessico francese, sono assai ripetitivi in questo passo (ciò solo in minima parte traspare in traduzione), ben accordandosi con la tranquilla monotonia della vita di paese, assimilata al trascorrere del tempo ed ai cicli naturali e ripercuotendosi, con delicatezza, su tutta la descrizione di una “rustica vita” che risulta essere uno dei momenti più riusciti dell’opera.
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19. Una giovane donna d’Osilo
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Capitolo I
Dicono a sé stesse che ad ogni giorno basta la sua pena; tutte ai loro umili lavori, niente le appassiona quanto i propri bambini che corrono semi-nudi e rosei, nei sentieri pieni di luce. Poi, dopo una lunga vecchiaia, s’addormentano, e le si seppellisce vestite d’un costume magnifico, in una fossa scavata sul pendio del monte d’Osilo. Le belle e caste creature, la cui vita pacifica trascorre su questa sommità, custodiscono nei loro grandi occhi come un riflesso limpido degli orizzonti infiniti del mare e degli spazi che si distendono da ogni parte. Nel contemplarle pensavo alle donne delle nostre città, all’esistenza falsa ed angusta alla quale la civilizzazione a oltranza le ha condannate. Mi dicevo: qual più bello spettacolo potrebbero sognare le donne di Osilo? Dalle loro finestre aperte non hanno, sotto gli occhi, i più meravigliosi e cangianti scenari? Vedono passare le tempeste nelle Bocche di Bonifacio, nascere le nubi ed ammonticchiarsi sulle cime della Corsica. Esse dominano, in qualche modo, sulle coste e, dall’alba al crepuscolo, la natura rinnova davanti a loro i suoi incantesimi. Quando le vedevo tutte vestite di porpora e d’oro, il profilo assorto, gli sguardi nell’azzurro, credevo di vedere le figure leggendarie del medioevo, le castellane sognanti agli accordi lontani di un trovatore che passa.33
Lasciai il villaggio nell’ora incerta in cui il crepuscolo viene divorato poco a poco dalla notte. Vidi le luci dei focolari illuminare le dimore, udii l’orologio della chiesa rintoccare l’“angelus”. La vettura procedette ben più velocemente. Guardai una volta ancora questo bel villaggio, abitato da una popolazione dolce e graziosa che, terminata la giornata, ultimato il lavoro, cominciava ad addormentarsi, sotto la volta meravigliosa del cielo.
33. Questo bell’episodio descrittivo che inizia con: «Le belle e caste creature» è presente unicamente nell’ed. ’93, e, connesso com’è alla dimensione del ricordo, del rêve, risulta una riflessione seriore, che riassume il desiderio di una vita tranquilla, quale quella delle donne di Osilo, i colori ed i paesaggi di una terra in cui è possibile la magia di un medioevo fantastico (lo stesso incipit, «Le belle e caste creature», non sfigurerebbe in una lirica trobadorica o petrarchesca), in cui la natura e l’uomo non sono ancora in conflitto, ma riescono ad integrarsi, proprio perché il popolo non contrasta ciò che lo circonda e lo nutre, ma, al contrario, risulta ad esso profondamente legato: anzi, la gente di Osilo appare agli occhi dell’autore come facente parte del paesaggio, non solo a livello d’esistenza pura e di sussistenza, ma anche nell’insieme estetico dei colori e
dell’esteriorità, diventando così soggetto di un unico dipinto, in cui Natura è predominante-non domina nei confronti dei propri figli, che la rispettano e «gardent dans leurs grands yeux comme un reflex limpide des horizons infini de la mer et des espaces qui s’étalent de toutes parts»: «custodiscono nei loro grandi occhi come un riflesso limpido degli orizzonti infiniti del mare e degli spazi che si distendono da ogni parte».
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CAPITOLO II La città spagnola d’Alghero – Tempio ed i monti del Limbara – Attraverso la Sardegna – I nuraghi Cagliari – Il castello di Ugolino
5 novembre. – Ci apprestiamo ora a visitare una città spagnola, catalana piuttosto; le isole del Mediterraneo riservano di queste sorprese. In Corsica avevo trovato una città genovese ed un villaggio greco, alle Baleari avevo percorso Ibiza, popolata da Arabi, ma da nessuna parte, come ad Alghero, la personalità di un popolo vi si è conservata, malgrado i secoli ed in un’altra patria. La locomotiva corre in un vallone, alcuni nuraghi vestiti d’arbusti mostrano i loro fianchi in rovina. Poi la regione diventa sterile: dappertutto, attraverso il pietrame, il corbezzolo stentato od il lentisco tremano al vento, ovunque, anche ciuffi di palme nane. Simili a specchi, pozze d’acqua stagnante riflettono il cielo nuvoloso. Sulla sinistra, un triste villaggio ha raggruppato le sue miserie sopra un monticello ossuto: è Olmedo. Una religiosa, tutta rosea sotto il velo bianco, lo osserva con terrore. Vi è lì, mi riferisce, gente assai cattiva, che ha assassinato il proprio curato, e che si scanna vicendevolmente a colpi di coltello. Due carabinieri scendono alla stazione: «Vedete» mi dice ella «c’è ancora qualche uccisione; la forza pubblica e la giustizia conoscono assai bene la strada d’Olmedo». Nei dintorni di Alghero ritrovo già la Spagna: casupole pittoresche, con un palmizio che innalza il suo pennacchio al di sopra dei muri bianchi, capanne di canna, norie, verande, fichi, campi, giardini. Ma il paese è assai povero. La miseria, grande in tutta la Sardegna, è ancor più terribile qui che altrove. L’aspetto di Alghero è affascinante. L’imperatore Carlo V aveva esclamato, alla vista di questa piccola città fortificata: 105
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«Bonita, per ma 34 fé, y bien asestada! » (Graziosa, in fede mia, e ben sistemata!). Ho attraversato Alghero, ho visto il suo piccolo porto, la cattedrale edificata dai Doria, il teatro costruito con il denaro dei canonici di cui formicola la città. Li si vede, si dice, assistere alle rappresentazioni della Traviata compunti, il libretto in mano. Mi sono soffermato davanti alla casa ove abitò Carlo V. In seguito al soggiorno di questo grande monarca, la finestra alla quale si era affacciato fu murata, affinché non fosse profanata da altro mortale, e la casa godette lungo i secoli del diritto d’asilo. Davvero non mi trovo più in Sardegna, ho la piena illusione della Catalogna: stessi visi, stesse strade e case, stesso accento, stesso idioma. Vedo delle manolas con il tirabaci provocante, i capelli di un nero corvino con riflessi blu, l’occhio carico di scintille, con un garofano rosso appuntato al corpetto; e, pure, vecchie sdentate, autentici tipi della vecchia irritante. Passano alcuni uomini, d’aspetto un po’ altezzoso, la mano sull’anca come per tenere un pomolo di spadone. Mi rivolgo a questa gente nella loro lingua, il catalano; e tutti mi comprendono ed io capisco tutti. I bambini mi circondano e mi scortano dappertutto. Essi sono cenciosi, turbolenti ed insolenti così come in Catalogna. Alcuni sgranocchiano con bei denti la radice od il bulbo della palma nana, di cui sembrano fare una vera ghiottoneria. Queste radici, chiamate margaillons, sono considerate alimenti ad Alghero e a Sorso. Avevo visto venderne al mercato di Sassari, senza prestarvi grande attenzione. Il bulbo della palma nana raggiunge in queste regioni una grossezza sconosciuta persino in Africa. Si afferma che i Mori
20. La città d’Alghero
l’usassero come alimento e che, da essi in poi, se ne faccia comunemente uso. Al fine di sbarazzarmi dei bambini che m’importunano faccio il giro della città dal camminamento di ronda, e vado ad isolarmi sulla costa rocciosa. Là, dalla riva, quest’antica città chiusa da bastioni mostra, sopra le sue mura, delle punte35 gotiche, campanili, cupole, i bastioni di una cittadella, e cime di case bianche. Un giorno morente colora vagamente il cielo, l’aria è calma, la terra assopita; soli, ad intervalli regolari, risuonano i flutti, mugghiano, s’infrangono in schiuma sulla frastagliatura degli scogli. Questa città spagnola, che si profila in una luce pallida di tramonto, il volo lento di qualche uccello di mare, la poesia dell’ora incerta, le armonie dei flutti, tutto dà le
34. Ed. ’91: «per mi fé»; «para mi fe», in spagnolo corrente, tuttavia è parso qui opportuno riportare la citazione nella forma desiderata dall’autore.
35. L’ed. ’91 presenta la lezione, scontata, clochers = «orologi-campanili»; l’ed. ’93: rochers, che non pare si possa ricondurre a grafia errata per clochers, pertanto, valutato il significato di questo termine («roccia», ma anche «rocca», «piramide>guglia», «punta», ed in franc. ant. persino «castello») s’è data a testo la variante «punte».
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Capitolo II
ali alla mia immaginazione. E dolcemente il mio spirito torna a Barcellona, alle Baleari incantatrici, e sorprendo in sogno i sorrisi di amici ormai vecchi, stupiti e contenti di rivedermi. Poi Alghero s’oscura poco a poco, non ne distinguo più che la massa confusa: una striscia rossa attraversa il cielo, i campanili dalle punte aguzze divengono minacciosi, fumi violacei s’alzano dalla città, come aliti ardenti; attraverso i suoni del mare sembrano crescere voci lamentose. Nella forma delle sagome, nei singhiozzi della risacca, non vi potrebbe essere come un triste ricordo ed un’eco sorda delle lotte passate, e questa nube insanguinata, che si libra su Alghero, non è essa medesima il riflesso del bagliore funebre che ha attraversato l’oscuro crepuscolo della sua storia? Chi può dire se le cose non hanno, così, alle volte, il loro linguaggio, e se la natura, questa grande, quest’eterna impassibile, non conservi come un’impressione degli atti che l’hanno fatta inorridire? Il re don Pietro II, il Cerimonioso, assedia la città occupata dai Genovesi. Dopo una resistenza eroica, gli assedianti se ne impadroniscono e passano a fil di spada tutti gli Algheresi, senza risparmiare né donne né bambini piccoli. Sarebbe, questo, il richiamo disperato di quelle vittime, che io sento mescolarsi ai rugli del mare?… I Genovesi son morti, non uno è sopravvissuto a quell’orrenda carneficina, Alghero è deserta. Ma alcuni vascelli trasportano una colonia di Catalani che riedificano la città dalle sue rovine, fanno vibrare la chitarra e danzano il gioioso fandango sulla terra in cui son sepolti così tanti cadaveri italiani! Poi, il chiarore sanguigno che aleggiava sul cielo d’Alghero si spegne, giunge la notte e, continuamente, il sordo rumore delle onde risale dal mare agitato. Ed io ritorno lentamente in città.
La colonia aragonese di Alghero non cessò di combattere l’indipendenza della Sardegna. Un tempo, durante la festa della città, si celebrava il ricordo della vittoria riportata sui Sardi, quando questi erano comandati da un luogotenente del visconte di Narbona. Si concludevano i festeggiamenti col dare fuoco ad un manichino di paglia vestito da soldato sardo e cantando strofe ingiuriose nei confronti dei Sassaresi e dei nemici. Quest’usanza si perpetuò; per lungo tempo gli abitanti di Sassari furono in guerra aperta con quelli di Alghero, e non si oserebbe affermare che tutto l’odio si sia ancora spento. Lasciai Alghero senza visitare la famosa grotta di Nettuno, che s’apre sul mare, sotto un’alta scogliera distante dalla città. È necessaria una congiuntura eccezionale per penetrarvi e molti visitatori hanno in vano tentato di entrarvi. L’entrata è assai bassa, pressoché al livello dei flutti, e se il mare ingrossa mentre la si percorre, l’uscita è perigliosa, a volte persino impossibile o mortale. Visitarla bene, è tutta una questione: ci si riunisce, ci si conta, ci si quota, si portano provviste, candele in gran numero; un battello piatto viene messo in acqua in un lago della caverna. Si dice che queste grotte siano sempre belle, nonostante le stupide degradazioni ch’esse hanno subito. Pare che un vecchio comandante di fregata sarda abbatté a colpi di cannone le colonne naturali che facevano figura nella grande sala d’entrata, per adornare con esse la sua villa nei dintorni di Nizza. Un capitano della marina reale inglese imitò questo genere d’impresa cui, come si sa, i figli d’Albione sono assai adusi.
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7 novembre. – Come trascorrono in fretta le giornate! In questa stagione il sole sorge tardi, si libera a gran fatica dalle nubi e, dopo aver mostrato per qualche ora il suo disco pallido, con brevi intervalli d’un fuggitivo bagliore, sprofonda dietro una spessa cortina di bruma.
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Questa sera, nel momento in cui ci avvicinavamo alla città, che si scorgeva biancheggiante nel folto delle foreste, con le sue case, i suoi piccoli campanili elevati, ed il decoro sorprendente del villaggio d’Osilo, sonnecchiante sulla lontana cima, con due torri feudali di fronte, ho rivolto il mio sguardo ad ovest. All’orizzonte spuntavano nuvole livide simili alle nubi sinistre che s’ammassano nel cielo, prima dei fulmini e dei tuoni di un temporale estivo. Il tramonto, colorato come da riflessi di focolari morenti, bordava di festoni di fuoco i loro contorni. Al di fuori di questa visione sanguigna, l’immenso cielo era di un grigio sbiadito, che faceva freddo all’anima. Quella stessa mattina ho lasciato Sassari in compagnia del signor Muzi, un Corso di buono stampo, originario di Zonza, che i suoi affari richiamano talvolta in Sardegna. Non si può uscire dalla città senza traversare grandi boschi d’olivi che ricoprono, assieme, un buon mezzo milione d’ettari. Io sono, come sempre, affascinato dal mistero e dalla diversità del loro aspetto, perché, seguendo la qualità del terreno, la direzione o l’inclinazione dei pendii, gli alberi assumono una forma differente, si restringono o s’allargano, sono esili o frondosi. Sovente si vedono alcune donne raccoglier le olive, ed i costumi dai vivi colori gatteggiano o scintillano come gioielli in questa luce crepuscolare dei boschi, in mezzo a questo verde sì tenero, alla lanugine che in qualche modo tremola da ogni parte, fra i rami e persino sul suolo, ove non spicca che il color oro delle chiazze di muschio, ove non si delinea che il disegno di qualche tronco contorto. D’improvviso, bruscamente, dopo i boschi misteriosi, arriviamo all’apertura di una profonda gola, e vasti orizzonti si dispiegano sotto i nostri occhi abbacinati. È la scala di Giocca, scala a chiocciola, in sardo. La strada discende capricciosamente attraverso degli alberi fino al fondo della gola, e risale sulla falesia opposta, per scomparire in un tornante. 110
21. Il vallone d’Ossi
Si raccontano molte storie sui banditi, sui taglia-garretti, i nemici dei carabinieri che vagarono qui per lungo tempo. Un bandito di Osilo ne fece sovente il teatro delle sue imprese, uomo di eccellente reputazione in paese, e di perfetta onorabilità, assicurano i Sardi, ma che aveva deliberatamente pugnalato un prete che aveva compromesso la sua donna. Raccontare nel dettaglio come costui, condannato alle galere e trasportato a Genova, evase e fece ritorno in Sardegna, sarebbe dieci volte troppo lungo. Il suo ritorno si manifestò subito nel paese di Osilo, con la morte di almeno venti persone: egli non aveva voluto risparmiare nessuno dei testimoni che avevano deposto contro di lui. La sua reputazione crebbe di pari passo col terrore che ispirava. I paesani gli facevano da spie per paura, ed in vent’anni egli sfidò tutte le ricerche della giustizia. Lo s’incontrava a Sassari, nelle strade, in chiesa, persino a teatro. L’amore, che distrusse Troia, fu la rovina di questo 111
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bandito di primo cartello, il quale morì con le armi in mano, dopo aver venduto a caro prezzo la propria vita. Giù, in fondo alla scala di Giocca, l’acqua di un piccolo torrente schiuma attraverso le ruote di un mulino, e va ad addormentarsi un po’ più in basso, sotto l’ombra dei salici piangenti. Sarebbe piacevole riposarsi nella frescura e nella calma di questi angoli perduti, ma l’eucalipto inquieta subito il passante; la presenza di quest’albero mostra che la febbre s’aggira fra i graziosi meandri di queste rive. Dal principio dell’estate agli ultimi giorni d’autunno, non vi si soggiornerebbe senza un immediato castigo. C’inerpichiamo su una collina. Il nostro sguardo si perde ora in un caos di rocce, in mezzo ai burroni tormentati, o si leva verso le cime che bordano alte pareti di pietre. Sui ripidi pendii si sporgono degli enormi blocchi franati, che si crede di veder staccarsi incessantemente, per rotolare fino al fondo dei precipizi. Poi, l’aspetto del paesaggio cambia, penetriamo in un vallone affascinante, che i raggi del sole al suo declino colorano: giù in basso, l’elegante campanile di Ossi svetta con leggerezza verso il cielo. Attraversiamo questo grande villaggio. Come ad Osilo, le donne, vestite con superbi costumi, tessono del panno con telai primitivi. Questa veste, come quella di Tissi, può essere annoverata fra le più belle tra quelle che abbelliscono le donne della Sardegna. Saliamo, saliamo sempre, raggiungiamo l’altopiano su cui poggiano le scogliere, contempliamo lo spazio, la Nurra severa; sulla destra i boschi ricoprono di velluto i pendii, Sassari biancheggia attraverso la foresta d’olivi, dei valloni digradano lentamente fino al mare. L’alto campanile di Tissi s’innalza davanti a noi. Sorpassiamo Tissi, poi Usini. Non abbiamo più tempo per attardarci, bisogna raggiungere il paese avanti notte, poiché la strada è pessima e la terra sta per sprigionare febbri perniciose. 112
22. Costumi delle donne d’Ossi e Tissi
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Una mattina, all’alba, che si leva assai pallida in un cielo basso e brumoso, lascio Sassari. Le erbe son bagnate, il suolo zuppo. La Sardegna mi sembra livida. La strada segue una vallata; ritrovo la scala di Giocca ed il ruscello ingrossato, le cui acque, assai dense, scivolano e non fanno rumore. Poi troviamo delle salite su terreni vulcanici, chiese costruite con la lava che, tutte nere, contemplano cupi villaggi. Ora, montagne lontane profilano le loro gravi sagome, distese s’aprono all’infinito: è il paese dalle grandi linee, dai vasti orizzonti tristi. Nella monotona piana, senz’alberi, senza piante, senza colture, passano man mano greggi sorvegliate da pastori vestiti con l’antica mastrucca. Ci fermiamo davanti ad un villaggio, dominato dal cratere di un vulcano estinto: dinanzi sta Ploaghe, patria dell’illustre archeologo e patriota sardo Canonico Spano, che il mio amico pittore A. Regnier ebbe la buona sorte di conoscere, nelle sue escursioni attraverso la Sardegna. Il costume delle contadine è di grande ricchezza. La sua originalità consiste nel copricapo, che si compone di un quadrato di lana blu decorato dietro con una grande croce gialla. Lascio il treno alla stazione di Chilivani, la cui fermata fu, qualche tempo dopo, teatro di un grave attentato notturno, come se ne verificano più che di solito in Sardegna.36 Devo aspettare un’ora il treno per Tempio, ho dunque il tempo di attendere pazientemente in una sòrta di buffet, l’unico di tutta la linea. Il menù è poco assortito: è l’eterna minestra e l’arrosto di vitello. Riprendo il treno, rivedo Ozieri, e penso per un istante alla tragica storia che mi ha raccontato il vecchio nel maniero d’Osilo. 36. Carta Raspi omette il passo relativo all’attentato, traducendo: «Lascio il treno alla stazione di Chilivani. Devo attendere un’ora il treno per Tempio».
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23. Contadina di Ploaghe
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Poi paesi, ed ancora paesi di poco interesse. Quando arrivo a Tempio, si fa già buio. Questa città è la più popolata di tutta la Gallura. Le case sono strane. Costruite con blocchi regolari di granito cementati dall’argilla, generalmente alte, esse avrebbero l’aspetto sinistro di fortezze, senza gli enormi balconi di legno che vi si trovano sospesi a ciascun piano. Questi balconi proiettano sulle strade ombre capricciose. È su di essi, piuttosto che nelle camere, che le donne lavorano e ciangottano durante il giorno. Le larghe lastre sonore di cui la città è pavimentata risuonano sotto gli zoccoli dei cavalli. Gli uomini passano vestiti di nero, incappucciati; solo la vista di qualche giovane serva, con l’anfora sulla testa, dissipa il sentimento di malinconia da cui ci si sente colti a Tempio, malgrado la bellezza di un cielo pressoché costantemente limpido. Non lungi da questa città si eleva la catena granitica dei monti del Limbara, la cui più alta cima, il Giugantinu, raggiunge i 1800 metri sopra il livello del mare. Questa massa rocciosa ha una grande caratteristica; la parte che guarda verso Tempio, essendo faccia a nord, non riceve il sole che al tramonto: per questo il clima è relativamente freddo. La città stessa, situata a 600 metri circa d’altitudine, gode di un’aria salubre, fresca, vivificante. I dintorni sono disseminati di capanne di pastori (stazzi), una sòrta di “gurbi” africani, dai muri costruiti grossolanamente con pietre a secco nella parte inferiore, mentre la parte superiore della capanna è fatta di rami e foglie intrecciati. Qualche centinaio di famiglie raggruppate in una specie di federazione naturale che si chiama cussorgie [cussorgia] vive là, di una vita pastorale, e si dedica alle arti dei latticini, ai formaggi di capra e di pecora. Questi pastori passano per cacciatori assai abili. Risorta l’aurora, getto un ultimo sguardo sul grandioso Limbara, e riparto. Vedo da lontano la basilica di Ardara, che risale all’anno 1000, vicino ad un misero villaggio che 116
24. I monti del Limbara visti da Tempio
fu, un tempo, la capitale del Logudoro, e residenza dei giudici di Torres. Di ritorno a Chilivani, un treno mi trasporta verso la regione meridionale della Sardegna, attraverso mammelloni pietrosi e solcati da fossi. Passiamo per Torralba, villaggio di una tristezza infinita, costruito con pietre vulcaniche nere o rossastre nel paese dei nuraghi, monumenti misteriosi, costruzioni ciclopiche, tipiche della Sardegna, che sono ancora un enigma per gli studiosi. «Il loro interno si compone di una, di due, e talvolta di tre camere sovrapposte; l’ultimo caso è assai raro», dice il dottor Gillebert d’Hercourt. «La camera inferiore è la più alta, e naturalmente la più larga; essa misura ordinariamente» secondo La Marmora «5 metri di diametro e 7 metri d’altezza; la sua forma è pressappoco conica. 117
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Nella loro parte superiore, i nuraghi terminano con una terrazza. Si penetra al loro interno attraverso un’apertura praticata nella parte inferiore del monumento, e sì poco alta che, per superarla, bisogna sdraiarsi pancia a terra. Un corridoio a spirale, praticato nello spessore del muro, e avente il suo ingresso nell’angusto andito che va dalla porta esterna alla camera inferiore conduce, attraverso una pendenza assai ripida – od una scala – alla camera superiore; esso terminava con la terrazza che, in generale, oggi è distrutta. In ogni camera vi sono due o tre nicchie che possono ospitare un uomo seduto. Dalla porta d’ingresso, che si chiudeva all’interno con l’aiuto di un grosso masso, nell’andito che fa seguito a questa porta, vi è una cavità a forma di garitta, nella quale poteva rannicchiarsi l’uomo preposto, senza dubbio, alla difesa del monumento. Il suo interno è oscuro, ed i visitatori sono obbligati a munirsi di candele. I nuraghi non erano sempre isolati; in molte zone formavano un gruppo di tre o cinque di essi, riuniti in una doppia o tripla cinta di mura. Accanto, si trovano, sovente, rovine di tombe dette “dei giganti”. Ma, costruiti in gruppo od isolati, questi monumenti erano sistemati in vista gli uni degli altri, seguendo delle linee strategiche, cosa che permetteva di stabilire delle comunicazioni fra loro, per mezzo di segnali. Pare che, per la loro costruzione, si ricercassero in special modo i punti elevati, piuttosto che i terreni coltivati, dacché essi sono edificati, per la maggior parte, su suoli rocciosi, lontano dalle terre adatte alla coltura. Intorno all’altopiano della Giara se ne contano una ventina, andando quindi a costituire una sòrta di cinta fortificata. Son state espresse opinioni più o meno diverse sulla loro costruzione. Ma non ci si accorda sull’origine dei nuraghi. Diodoro Siculo l’attribuiva a Dedalo, chiamato da Iolao in Sardegna; altri l’hanno attribuita a Norace, capo degli Iberi. 118
25. Nuraghe di Torralba
Petit-Radel la riconduce ai Tirreni dell’età eroica, e Antonio di Tharros agli Egizi; per l’abate Arri, la costruzione dei nuraghi è dovuta ai Cananei ed ai Frigi, e ne fissa l’epoca ai tempi di Giosuè. Quanto alla destinazione di questi edifici, il disaccordo degli autori è altrettanto grande». Non è ancora scomparso il bel nuraghe di Torralba, che un altro si mostra, e ben presto non li contiamo più. Alcuni fra questi sono adoperati come dimore; si vedono davanti all’ingresso visi feroci, come si conviene ad un simile alloggio. Ai piedi di un nuraghe, attraverso ammassi di blocchi di lava che sembrano rosi, scorre un piccolo torrente, in fiotti schiumanti d’un biancore di neve, su di un letto nero, poi fugge fra le sinuosità della piana. 119
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LA SARDEGNA
Capitolo II
Verso Bonorva la strada ferrata aggira la parete di un vulcano spento. Qua nero, là verdastro, altrove sanguigno, questo terreno è d’aspetto selvaggio, si direbbe tragico; si contemplano, con sorpresa, muri di cinta in pietra, di un color verde-pallido singolarissimo. Poi riprende il pietrame, una vallata sfumata da colture passa speditamente; c’è sempre, sotto un cielo basso, l’immensa tavola di pietra ed i resti vulcanici, ove tremano alcune querce stentate, magre, contorte, dinanzi a stagni immobili o pantani che riflettono tristemente le nuvole. Qualche vacca dal mantello vellutato passa qua e là, si allunga una sagoma di montagne lontane, qualche ruscello scivola, senza rumore, fra sponde aride, senz’alberi, senza cespugli, senza fiori. All’estremità di quest’altopiano che i sardi coltivano, bene o male, fra i blocchi di roccia, Macomer guarda dall’alto dei suoi basalti; si vede il declivio delle colline, la pianura senza confini e, da lungi, il Gennargentu, cima bianca di neve nell’immensità della terra e del cielo. Macomer, antico borgo fatto di frantumi di lava, s’è rannicchiata su una terra talmente aspra e rude, che gli alberi non osano aggrapparvisi. Intorno all’ammasso delle sue basse dimore non si ha sotto gli occhi che nuraghi in rovina, tombe di giganti, altopiani deserti, piane desolate, dalle quali svettano l’arido monte Santo Padre ed il tetro Lussurghi. In fondo alla pianura delimitata da contrafforti elevati, il gigante della Sardegna, il Gennargentu, alza maestosamente la sua fronte calva spesso argentata dalla neve, e quasi sempre coronata da nubi. I venti fischiano in ogni stagione, urlano e singhiozzano intorno a Macomer, che il maestrale maledetto esaspera per settimane e settimane ancora. Poi, quando quest’uragano si placa, arriva il sole, che arde i basalti; dopo di che, dal surriscaldamento delle paludi, degli stagni, dei fiumi, nasce una pericolosa febbre.
L’autunno, lo vedo, sferza questo triste suolo con piogge glaciali. Da queste colline assisto ora a corse scapigliate della bruma. È proprio il cupo paesaggio che conveniva a lunghe lotte, dopo la disfatta in cui soccombette la libertà dei Sardi. «Il nostro clima non è malsano», dice la gente di qui; «ma a condizione di evitare le infreddature». Tuttavia, numerosi fra i Macomeresi muoiono di polmonite o di febbri reumatiche, aventi una duplice causa: prima, il passaggio improvviso dal caldo al freddo, poi l’avvelenamento miasmatico. Fuggiamo dunque quest’altopiano, al quale delle pozzanghere senza nome, simili a grandi occhi lampeggianti, conferiscono un aspetto sinistro, ove qualche opunzia rachitica tremola al vento, ove freme l’esile asfodelo. Seguiamo queste strade scavate nella lava, sotto questo eterno cielo smorto, fra queste lande pietrose.37 Dappertutto nuraghi crollati e villaggi schiacciati contro il suolo, con la cupola di una chiesa che domina le loro mura. Verso il picco di Lussurghi, circondato d’un’aureola biondeggiante, come se un’alba inattesa si fosse levata sulla tristezza di questa giornata, lunghe scie rigano il cielo: il fatto è che piove, lontano, dinanzi o dietro di noi. Ad Abbasanta, il sughero mostra le piaghe dei suoi tronchi rossi e contorti. Una graziosa chiesa ci sorride gaiamente in mezzo a tutta questa desolazione, essa contempla vasti orizzonti e monti blu. Alcuni uomini si scambiano i saluti alla stazione, si baciano sulla bocca prima di lasciarsi, singolare usanza fra i Sardi. Dopo una sosta di qualche minuto il treno riparte. Si mostrano dei nuraghi: uno è di lava nera incrostata di licheni arancione, l’altro è crollato; nugoli di corvi volano silenziosamente intorno.
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37. La ripetizione del pron. dimostrat. cet-ces messa in opera per ben tre volte, fa pensare ad uno stratagemma stilistico intenzionale, pertanto s’è voluto rispettare la suddetta iteratio, effettivamente, almeno in italiano, un po’ ridondante, ma evocativa della ripetitività e monotonia del paesaggio.
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Qui la Sardegna ha sempre un aspetto funebre, che la si attraversi sotto i raggi del sole o in una giornata grigia, o con la luna, o sotto le stelle. Si crederebbe che il suolo sia bruciato; esso è come striato di tonalità violacee, livide, nere e violente; non alberi, ma orizzonti cupi, uccelli inquieti e funebri, colline aride, lave rossastre. Laggiù, dietro i basalti, dietro le rocce, le colline, vi è nondimeno, al riparo dai venti, un’oasi stupefacente, Milis, i cui aranceti contano, si dice, più di cinquecentomila alberi, fra i quali se ne trovano sette volte centenari. In primavera la brezza vi profuma, gli uccelli cantano, vi mormora la sorgente, i piedi dei viaggiatori vi calpestano la “neve odorante” del poeta. Andremo noi in questo giardino d’Esperidi? Avremo la buona sorte, una volta di ritorno, di riposarci, col favore di un cielo migliore, sotto queste meravigliose ombre… Davanti ai nostri occhi, in questo momento, si distende sulla sinistra una cupa piana, di una tristezza infinita. Al termine di questa pianura, biancheggiano vicino al mare le case d’Oristano. Una figura femminile domina la storia di questa città, la quale fu degna di considerazione. La celebrità di Eleonora d’Arborea non si regge solamente sul suo valor militare e sul patriottismo, «e se» come dice Valery «il suo nome è stato tramandato alla posterità, è perché ella riuniva diverse glorie della sovranità, dacché pose fine ad una rivoluzione, fu legislatrice e vincitrice sugli Aragonesi. Il vasto codice della principessa d’Arborea, capolavoro di ragione, di saggezza, offre un’attitudine deliziosa che mette in rilievo la donna, e che una donna sola ha potuto trovare. Un’ammenda di venticinque lire è inflitta a colui il quale attribuirà all’uomo maritato il ridicolo titolo utilizzato da Molière e La Fontaine, allora usuale persino a corte, e che l’uso ha proscritto; ma – lo si crederà? – se dinanzi alla giustizia il colpevole non prova il fatto, l’ammenda non è che di quindici lire: l’onore delle dame è così protetto
dall’interesse, e la menzogna diventa più innocente della verità. Le camere francesi hanno ben mostrato dello spirito, ma è quello un emendamento più ingegnoso, più fine, più delicato dello statuto sardo del secolo XIV? La civilizzazione si è potuta perfezionare, l’intelligenza umana non s’è certo ampliata».38 Oggi le vecchie mura e la roccaforte di Oristano cadono in rovina, e la sua popolazione non ammonta a più di 7000 persone. Paludi funeste circondano la città da ogni lato; esse ne fanno un ospedale di febbricitanti. Un medico di Cagliari mi assicura che non conosce precedente di uno straniero non sardo che abbia vissuto per qualche tempo ad Oristano senza morire. Nei sobborghi, ove si distendono strade lunghe e monotone dalle basse case, del color della terra, povere d’aspetto, costruite con mattoni d’argilla seccati al sole, i vasai (congiolarius) esercitano la loro industria.39 Oristano approvvigiona la Sardegna intera delle sue anfore, che hanno conservato le belle forme antiche, sia greche, sia romane. Il colore è talvolta superbo, una vernice speciale conferisce loro una patina rara. Mi è capitato, tanto questa vernice inganna, di crederle di bronzo o di rame brunito. Ad una certa distanza da Oristano vi sono le rovine dell’antica città di Tharros, i cui abitanti avevano dedicato un culto alle divinità egiziane.
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38. Voyages en Corse et en Sardaigne [N.d.A.]. Cfr. Valery, Viaggio in Sardegna, traduzione e cura di M. G. Longhi, Nuoro, Ilisso, 1996, pp. 104105. Il periodo posto fra virgolette è tratto interamente dall’opera di Valery, senza alcuna rielaborazione da parte del Vuillier. 39. La traduzione di industrie francese è stata qui risolta col latinismo un po’ demodé, ma efficace, «industria», che ha nella sua radice l’operosità, l’attività, lo zelo, che in quest’uso del termine da parte di Vuillier si mette in luce, e che non risulta “ortodosso” neanche in francese. «Industriosità» sarebbe la variante possibile, ma scontata, tuttavia esulante dall’aspetto pratico che «industria» possiede nel proprio ricco carico semantico.
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L’origine di questa città, le sue sorti, son rimaste misteriose, ad eccezione della sua rovina. Un solo storico, Antonio di Tharros, prigioniero in Palestina, ci parla di essa. «O grande dolore! Tharros! o mia povera patria! Tu sei la terza città che ha patito più distruzioni. O città, la più bella e ricca, fondata dalla famosa Tharra, donna d’Inova che regnò su quei popoli fenici ed egizi…», ecc. I Saraceni distrussero Tharros verso l’anno 1000. Recenti scavi vi hanno fatto scoprire degli ipogei ove sono stati ritrovati dei vasi, una ridda di oggetti svariati, e duemila scarabei – in gran parte egiziani – montati in oro. Questi lavori hanno messo tutto il paese in rivoluzione, ed il terreno è stato messo sottosopra in tutto il circondario dagli abitanti. «Si può dire», ha scritto La Marmora, «che ogni casa di contadino era diventata una specie di “museum” d’antichità, a causa della quantità di oggetti che si vedevano esposti nelle loro umili dimore, urne, vasi di vetro e di terracotta, lampade sepolcrali, piatti, figure, idoli, amuleti, scarabei, armi, ecc.».40 Ad Oristano la temperatura è più mite che altrove; siamo nel mezzogiorno della Sardegna, in un paese d’ulivi, di palme e di cactus; non più lava, non più rocce nere forate come spugne. Verso Cagliari, in Campidano, verso Iglesias, una nube nera sbarra ancora il cielo. Il sole brilla un istante sui monti color oro, e d’improvviso scoppia il temporale, ma non dura a lungo. Ci si ferma a Sanluri, che dorme all’ombra di una chiesa a cupole e di una fortezza massiccia in cui fu firmato, nel 1345, un trattato di pace fra gli Aragonesi ed i giudici d’Arborea. È a Sanluri che la principessa Eleonora
batté gli Spagnoli, è a Sanluri che, nel 1409, il re don Martino di Sicilia, della casata d’Aragona, sconfisse in una sanguinosa battaglia il visconte di Narbona, che era nipote di Eleonora, e Doria, che ne era stato il marito. Gli annali del patriottismo sardo celebrano una singolare Giuditta: la bella di Sanluri, che giurò la morte del re don Martino. Siccome questa strana eroina aveva orrore del sangue, è con le frecce di Cupido ch’ella provò a liberare il paese e vi riuscì. Don Martino morì fra le sue braccia, d’amore e di sfinimento. Nei dintorni scintillava uno stagno, ora prosciugato. Un tempo, il procuratore del fisco ingiunse per amore o per forza ai contadini dei vicini villaggi, di andare a calpestare ciascuno a turno, con gli zoccoli dei buoi e dei cavalli, la crosta di sale che l’evaporazione lasciava alla fine dell’estate, ogni anno, sulla melma indurita: così si distruggeva man mano che si riformava lo strato di sale da cui questa povera gente avrebbe potuto trar profitto a detrimento del monopolio. Con l’approssimarsi della notte, dopo lunghe soste in diverse fermate, alcune luci indicano Cagliari. Siamo subito alla stazione. All’uscita i portabagagli, questi malaugurati facchini,41 si precipitano sui nostri bagagli e ci dobbiamo difendere con mani e piedi da questi urlatori. Infine scelgo, nel numero, quello che mi pareva il più calmo fra tutti,
40. Itinéraire de l’île de Sardaigne [N.d.A.]. Cfr. A. Della Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, traduzione e cura di M. G. Longhi, vol. II, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 188.
41. Testuale. Nell’originale si trova, poco dopo, all’interno dello stesso periodo, la parola faquin posta fra virgolette, probabilmente perché il termine, in francese, non fa parte del linguaggio comune (si predilige porteur e similia) e quello di Vuillier è un semplice calco operato sull’italiano «facchino». Notevole è che nell’ed. ’91, o si evita quest’uso (p. es. l’individu invece di faquin) oppure si trova scritto facchini, con il termine in corsivo, mentre nell’edizione successiva la parola suddetta si trova ripetuta innumerevoli volte, onde denotare un uso parodistico o leggermente spregiativo del termine italiano, associato a questi personaggi fuori dal comune, almeno relativamente all’esperienza dell’autore.
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42. Le virgolette sono state utilizzate onde evidenziare come quest’espressione costituisca un modo di dire chiaramente ironico. 43. Nell’ed. ’91: Karales.
campanili, i suoi alti quartieri assisi sulla pietra vulcanica, ne fanno una città degna d’esser visitata; essa somiglia lontanamente ad una città d’Oriente. Si può paragonarla ad un uccello gigantesco che spicca il volo verso la Tunisia. Paludi immense la circondano, ed il Golfo degli Angeli culla i suoi giorni radiosi e le belle notti col mormorio armonioso dei suoi flutti. L’origine di Cagliari risale ad un’epoca favolosa. I Cartaginesi l’ingrandirono, i Romani l’occuparono per lungo tempo, essa subì l’invasione dei Vandali, cadde in potere dei Goti, fu messa a fuoco e sangue dai Saraceni. Pisani, Genovesi, Aragonesi, Spagnoli, v’importarono in successione le proprie arti e costumi. L’impronta di questi popoli differenti si ritrova, allorché si percorre la città, non solo negli edifici, ma persino nelle credenze, nelle cerimonie di culto, ed in alcune particolarità del vestiario dei giorni di festa. Via Barcellona, stretta, e sulla quale strapiombano un numero infinito di pesanti balconi di ferro artisticamente lavorati, ha conservato sopra ogni cosa l’aspetto spagnolo. Da tempi immemorabili le strade di Cagliari sono attraversate, per l’altezza di diversi piani, da quantità di corde tese da un balcone all’altro, e su queste corde sta la biancheria stesa ad asciugare. Spettacolo singolare questa moltitudine di panni bianchi che fluttuano al vento; a prima vista, si crederebbe che la città sia in festa. Avevo una raccomandazione da parte del rev. P. Fondacci, superiore del convento dei Domenicani. Una sera, un po’ sul tardi, m’inerpico sulle strade montuose ed arrivo al monastero. Il portale aperto dà accesso ad una galleria del chiostro. Questa galleria deserta, debolmente illuminata, è circondata da alte inferriate di ferro battuto, attraverso le quali rilucono vagamente gli ornamenti delle cappelle laterali. In fondo al chiostro, persino sotto gli archetti, un grande quadro mi blocca.
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e gl’indico il ristorante della Scala di ferro, che mi hanno raccomandato come il migliore della città. Qui niente omnibus, niente carrozze o persino semplici carriole. Il facchino prende il suo fazzoletto a quadretti, lo arrotola a mo’ di corda, attacca ad una delle estremità la mia valigia e all’altra gli ombrelli e gli oggetti minuti, mette questo doppio pacco di traverso sulla spalla, carica il baule sull’altra, e se ne va nella notte piovosa. Altri facchini lo seguono e, col pretesto di aiutarlo, lo alleggeriscono poco a poco della valigia, del baule, e finalmente non gli lasciano che un parasole. Ci arrampichiamo su stradine ripide che non finiscono mai, poi, dopo aver superato un portico, saliamo infine gli stretti gradini della Scala di ferro. Ahi lasso! Tutte le camere sono occupate. Riprendiamo la nostra corsa notturna e discendiamo fino all’albergo dei Quattro Mori, dove ho la fortuna di trovare asilo in un’alta e vasta sala. Discuto a lungo con i facchini: questi signori vogliono 15 franchi, né più né meno. Dopo urla, gesti, addirittura mezze minacce, mi libero di quest’orda con cento soldi, ben ripromettendomi, per l’avvenire, di contrattare in anticipo la somma con questi “monsignori facchini”.42 Per sfortuna, non è solamente con i facchini che bisogna discutere innanzi tutto il prezzo, in Sardegna: così è con gli albergatori, i mulattieri, vetture e tutta la folla di sfruttatori di stranieri, turba che non ha, del resto, niente in comune con i veri Sardi. Cagliari, antica Caralis,43 è edificata ad anfiteatro, sul pendio di una collina isolata; le strade dai balconi di ferro battuto, che essa prende dagli Spagnoli, le sue case a cupola, le sue antiche torri, i suoi vecchi bastioni, i suoi
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Esso rappresenta un cavaliere morto, bardato di ferro, le mani giunte sul petto. Dominando sul suo sonno eterno, il proprio albero genealogico allunga lontano i suoi rami; vi vedo monaci, vescovi, prelati, feroci guerrieri, filosofi pensierosi, suore mistiche, giovani donne tutte pallide e trasparenti. In questo chiostro antico, sotto un chiarore vacillante proveniente da non so dove, le figure sembrano vivere per metà, mentre preghiere mormorate, fruscii lontani di lame di spada paiono passare, col soffio del vento, nelle gallerie deserte. Il lucore incerto accende un lampo su uno spadone, illumina uno sguardo, brilla su un reliquiario, ed io avverto come un brivido, davanti a questo quadro, cui la brezza notturna mi pare faccia palpitare dolcemente i volti ed instilli una parvenza di vita in queste figure d’altri tempi. Penetro nella chiesa, il cui portale è spalancato. La navata è immersa nelle tenebre. Solamente qualche lume di cero tremola e si spegne. L’aria, un po’ greve, è ancora impregnata di un vago odore d’incenso. Odo preghiere sussurrate piano da dolci voci, nell’ombra. Un uomo si trova vicino all’altare; mi rivolgo a lui, e mentre costui va ad avvertire il superiore, mi si fa attendere nella sacrestia, alta e vasta sala, dai rivestimenti in legno intarsiati, dove si contorcono le volute d’immense cornici d’oro antico. La luce di una lampada da santuario, sospesa alla volta, arresta la lucentezza fino allo spessore della semi-oscurità, bagnata di silenzio e d’unzione. Le forme vagamente intraviste nelle scene che rappresentano i quadri acquistano in questo luogo mistico una singolare grandezza. Ben presto un religioso vestito d’una tonaca bianca e fluttuante s’avanza attraverso l’ombra: è il reverendo padre. Egli mi prende le mani, le tiene a lungo fra le sue, e parliamo a lungo a voce bassa, nell’alta sala, dove la lampada religiosa diffonde pallidi raggi. 128
26. La porta dell’Elefante
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Quando lasciai il convento dei Domenicani, le strade del quartiere di Villanova in cui esso è situato eran deserte; attraversavano la notte i soli ronzii lontani di alcune chitarre. L’indomani, di primo mattino, ritrovai il reverendo padre. Una tormenta era passata sopra la città, un vento violento soffiava ancora, scuoteva la sottana bianca del domenicano, ed il suo mantello bruno, ch’egli tentava di trattenere, fluttuava a grandi pieghe attorno al suo viso: tale e quale a Virgilio, in un capolavoro del nostro grande Delacroix.44 Andiamo per le strade, visitando un po’ la città, penetrando nell’antica urbe pisana dalle alte abitazioni, dalla lunga filza di strade strette, ed usciamo da una delle porte di cinta che s’apre sulla torre dell’Elefante. Due torri quadrate dominano quest’alto quartiere di Cagliari; la loro costruzione risale all’anno 1300, superbamente, mirabilmente conservate; le si vede più belle che mai e, dorate dal tempo, innalzarsi nell’aria, sopra la città bianca. La torre che avevo sotto gli occhi deve senza dubbio il proprio nome all’elefante in pietra scolpito su un aggetto dell’edificio. Il portale s’apriva spalancato e nero. A lungo la torre funse da prigione per i condannati a morte. Mentre osservavo questo monumento grandioso di un’altra epoca, dei Sardi, non di Cagliari, spuntarono d’improvviso dall’ombra, il sole colpì i loro volti possenti e le loro vesti dai farsetti di velluto, e mi credetti, per un istante, in pieno medioevo. Ma questa visione fugace svanì, e giungemmo ben presto all’antico monumento che cercavamo, l’anfiteatro romano.
27. L’anfiteatro romano
44. Eugène Delacroix (1798-1863), pittore francese, predilesse temi letterari, storici ed esotici. La sua opera, assai realistica e fortemente espressiva, fu un manifesto della pittura romantica. Il dipinto al quale Vuillier si riferisce è intitolato La barca di Dante (1822), assai evocativo, in effetti, della scena che egli descrive.
Esso occupa il centro di un gran burrone, e conteneva, si afferma, fino a 20.000 spettatori. Di fatto, le sue dimensioni sono enormi. I vomitori ed i gradini sono stati scavati nella pietra, questi ultimi fino alla sommità della collina, l’anfiteatro è stato completato con muratura, dalla parte della piana, a partire dal punto in cui le scarpate opposte del burrone cominciano ad allontanarsi l’una dall’altra. Al livello dell’arena si trova l’entrata dei sotterranei, dove si vedono ancora gli anelli per legarvi gli animali feroci. Un’immensa cisterna nelle vicinanze, risalente alla medesima epoca, fa pensare che vi fossero rappresentate delle naumachie.
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Ritrovai il reverendo padre, la sera, nell’alta sacrestia del convento, nell’ora in cui l’avevo incontrato la prima volta. Nella calma del momento, nel silenzio del luogo, conversiamo a lungo. Egli è Corso, conosce a fondo i costumi, le credenze, le leggende, le superstizioni della sua isola natia. Secondo lui i Sardi sono superstiziosi tanto quanto i Corsi, ed a suo dire alcuni praticano ogni tipo di sortilegio. Taluni esercitano la stregoneria, con il solo scopo di abusare dell’innocenza, della credulità della povera gente. Lasciamo parlare il reverendo padre: «Ho conosciuto due uomini che avevano dato centinaia di franchi ad una pretesa strega, e commesso mille stravaganze a seguito dei suoi consigli, in vista d’ottenere la riuscita di un qualsivoglia affare. La predetta strega aveva dato loro degli amuleti, che essi dovevano portare costantemente addosso; quella raccomandò loro, soprattutto, di non aprirli, sotto pena di vedere spezzarsi l’incantesimo e sopraggiungere grandi mali. Ho avuto questi amuleti in mio possesso, ed ho avuto la curiosità di vedere, e cos’ho avuto sotto gli occhi?45 Qualche filo d’erba e dei pezzetti di palma. Non è raro che si chieda, persino a noi, preti e monaci, uno scritticellu [scrittixeddu], vale a dire un foglio sul quale sono scritte parole misteriose, oppure un’immagine che porti fortuna. Ecco un fatto che denota fino a qual punto i Sardi credano alle pratiche cabalistiche: un uomo, che ho assai ben conosciuto, passava per grande indovino, era rinomato soprattutto per la facoltà che gli si attribuiva d’indicare esattamente i punti in cui sono nascoste delle somme di denaro. Un giorno tre individui vennero a consultarlo, pretendendo di conoscere un campo che conteneva un 45. Iterazione di «ho avuto» (j’ai eu), che determina uno stile incalzante ed aggressivo, strumentale ad uno scopo ironico-polemico.
tesoro, ma essi ignoravano il punto esatto del nascondiglio. Il nostro indovino esigeva una somma molto forte, ed il pagamento in anticipo. Ci si mette in strada, si arriva. Il nostro mago, con l’aiuto della sua bacchetta, descrive delle curve cabalistiche, mormora vocaboli bizzarri, s’immerge in meditazioni profonde; ha l’aria del più gran filosofo del mondo. ‘Sì’, diss’egli infine con voce grave, ‘il tesoro è là, ma non si può ancora impadronirsene’. ‘Perché?’ chiesero gli uomini. Lo stregone scosse tristemente la testa. Essi insistettero. ‘Va bene, dato che ci tenete tanto a saperlo, sappiate che il tesoro non si può spostare se uno di voi tre, non importa quale, non muore prima dell’angelus’. Dopodiché i tre Sardi pensarono a salvarsi, e corrono ancora». Il reverendo padre scordò di dirmi se l’indovino avesse reso il denaro. «I Sardi credono fermamente ai sogni. Un giorno, un’anziana donna di un villaggio dei dintorni chiese di me. Andai a vederla. Mi raccontò che suo marito aveva fatto un sogno, e che in questo sogno aveva visto un tesoro in un campo. Al suo risveglio, costui ne aveva messo a parte la moglie, ed entrambi erano persuasi che il cielo, finalmente, mandava loro la fortuna. L’uomo, senza perder tempo, parte per il luogo designato, vede il tesoro, lo tocca con le mani. È un lingotto d’oro massiccio, assai pesante, ben conficcato, ed occorre una zappa. Rientrato a casa sua, raggiante di gioia, egli torna nel campo, munito dell’attrezzo necessario. Ahi lasso! Niente più lingotto, più niente, persino il luogo, che egli non riesce più a trovare. Subito la povera donna giunge a Cagliari, per chiedermi un oggetto qualunque che abbia la virtù di fargli ritrovare il punto, poiché è proprio lì questo tesoro, non una, ma dieci volte: suo marito lo aveva visto e toccato. Ella non capiva che l’uomo, entrato del tutto dentro il suo sogno, aveva agito sotto l’impulso di un’allucinazione.
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Come disingannarla, povera creatura che la miseria divorava e che era sicura, ben certa, che le sarebbe stata donata la ricchezza? Perché a Cagliari la gente del popolo, e soprattutto i campagnoli, hanno una fiducia totale nei preti, ancor più nei frati, ch’essi credono capaci, per il fatto della sola loro volontà, di portare, o di sottrarre, la ricchezza o la fortuna. Essi sono talmente poveri che la loro costante preoccupazione è di scoprire tesori. D’altra parte, sono dominati da innumerevoli superstizioni, credono alla jettatura, alle streghe, ai presagi. Sovente, dopo la messa, le madri portano ai preti i bambini cui spuntano i denti e li pregano di toccar loro le gengive per calmare il dolore. Se soffrono di mal di testa, essi chiedono ai preti di imporre loro le mani e di dir vangeli. Se il dolore non si placa, se la prendono coi santi: – Sono sordi o non mi ascoltano, eppure ho ben recitato delle novene!».46 L’indomani, risaliamo al quartiere del castello e visitiamo la cattedrale, la quale è sotto il patronato di Santa Cecilia. Questo monumento fu costruito dagli Spagnoli in epoca di decadenza, in luogo di una chiesa che avevano edificato i Pisani e che minacciava rovina. Due porte laterali ancora in piedi e a posto, testimoniano la bellezza del primo edificio. In una di queste sono stati incastrati frammenti della costruzione più antica, ed il suo architrave è formato da un sarcofago romano. La facciata della chiesa, tutta in marmo, di grande ricchezza, è di un’architettura pesante. Il marmo rosso di Sicilia è stato prodigato eccessivamente all’interno. Ornato da un gran bassorilievo, da un crocifisso superbo e da quattro candelieri d’argento cesellato, l’altare maggiore è d’incomparabile bellezza. Il tabernacolo d’argento massiccio, alto 3 metri, è ugualmente assai 46. Si tenga presente il forte interesse dimostrato dall’autore nei confronti della magia ed i suoi rituali, nell’opera En Limousin, sorcellerie, croiances et coutumes populaires, Parigi, Tour du Monde, 1893.
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28. La cattedrale
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prezioso, non in ragione del metallo nobile che lo compone, ma per la sua rara perfezione artistica. Il santuario sotterraneo, tutto in marmo, comprende tre cappelle. In una d’esse, dedicata a San Lucifero, molto riverito in Sardegna, s’eleva la tomba della moglie del re di Francia Luigi XVIII, morta a Londra nel 1810. I suoi resti furono trasportati nell’isola, ed il fratello, Carlo Felice, re di Piemonte e Sardegna, restaurò più tardi questo mausoleo. È lui, senza dubbio, che fece scolpire in marmo il genio piangente che lo sormonta. Quale differenza fra questa sepoltura e quelle che contemplai, quello stesso giorno, al campo santo, ove m’aveva condotto il domenicano! Qui i monumenti funerari sono di rara ricchezza. Bianche statue simboliche appaiono attraverso i cipressi neri e gli enormi mazzi di fiori, le corone, portate in occasione della recente festa dei morti, hanno conservato parte della loro freschezza. Non c’e niente di funebre in quest’asilo. Si può finanche credere che il culto eccessivo con cui si onorano i defunti ha per causa veritiera la passione per il lusso e l’orgoglio dello sfoggio. Le statue sono manierate: tale, per esempio, questa giovane donna, vestita con la ricercatezza più estrema, che si lancia, le mani giunte, incontro ad un morto rimpianto, raffigurato da un busto. Le iscrizioni funerarie, di stile ampolloso, sono incise con lettere d’oro, od in rosso, su cartelli di marmo bianco. E tutto questo profana la pace delle tombe. Non si ha il cuore stretto, in mezzo a tutta quest’orpellatura, in codesto luogo superficiale, per il pensiero dell’ora delle ultime separazioni. Il più umile, il più solitario dei cimiteri di paese s’addice maggiormente agli amari pensieri del brusco distacco, dell’eterna separazione, e per dirla con una parola: alla morte. Lascio Cagliari, una mattina, per andare a visitare il castello d’Acquafredda. È ancora notte, costeggiamo alcuni stagni assopiti, che lasciamo subito, ai chiarori dell’alba. 136
29. Portale pisano
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LA SARDEGNA
Capitolo II
A Decimomannu, salgo sul treno per Iglesias, ed il sole colpisce con bagliori rosa le mura in rovina del castello d’Acquafredda, quando discendo dal vagone nel villaggio di Siliqua, situato in una nuda piana, disseminata qua e là di carrubi dall’oscuro fogliame. Nulla di saliente lo impone all’attenzione del viaggiatore. Gli abitanti di Siliqua possiedono in indiviso un vasto frutteto, nel quale ciascuna famiglia ha il godimento di un certo numero di alberi da frutto, e rispetta religiosamente la parte assegnata agli altri. Questa comunanza non dà luogo né a discussioni né a dispute, e questa gente pacifica ha realizzato semplicemente, senza frasi, le teorie che hanno fatto, altrove, scorrere fiumi d’inchiostro e, sovente, fiotti di sangue. Ciò avviene, perché non li agita alcuna bassa ambizione, ed essi non sognano di vivere in pigrizia alle dipendenze degli altri; ciò che vogliono, è poca cosa ed è tutto: essi reclamano il proprio diritto, rispettano quello degli altri, e si augurano il lavoro e la pace. In mezzo alla pianura, sopra una rocca isolata di porfido, di circa 300 metri d’altezza, la cui base è bagnata dalle acque morte del Sixerro [Sixerri], crollano le mura dell’antico maniero. La salita è ardua, persino pericolosa a tratti, ma la vista sul Campidano è magnifica. Nella cupa solitudine di quest’arida sommità, rivedevo l’immagine affamata dello sfortunato Ugolino, che possedette questa roccaforte e tutta la vallata che si stendeva ai miei piedi; rileggevo lì le pagine dell’Inferno di Dante, nel punto in cui, rodendo la nuca del suo carnefice – l’arcivescovo Ruggieri – Ugolino pulisce le sue labbra con i capelli di tale testa, e dice al funebre visitatore: «Tu vuoi ch’io rinnovelli un dolore disperato, il cui solo ricordo m’opprime il cuore ancor prima che ne parli».47
Rivedevo la segreta, sentivo questo grido di uno dei bambini: «Padre mio, che non m’aiuti?» Quivi mori.48 E per tre giorni, con voce lamentevole, lo sfortunato padre chiamò i suoi figli poi che fu morti.49 Se le pagine immortali di Dante fanno tremare alla semplice lettura, si rabbrividisce ancor più quando si ha il privilegio di leggerle nelle rovine medesime del castello di uno dei tristi attori del suo dramma, su di una cima brulla, solitaria, in cui solo cose morte ricordano ciò che ha vissuto. E qualche volta parrebbe che la natura voglia accrescere la nostra emozione, o il nostro dolore, lasciando un abito da festa per un abito da lutto. Quel mattino il sole risplendeva sul Campidano, gli edifici lontani di Cagliari scintillavano, verso il Gennargentu i monti s’immergevano nei vapori leggeri del più trasparente azzurro. Adesso nuvole livide corrono nel cielo; il vento, che si è alzato, sibila e geme fra le rovine, la pianura oscurata è di un’infinita tristezza. Non so quale angoscia, quale miseria passino dentro l’anima mia… Riprendo il cammino attraverso le pietre rotolanti, e lascio le rovine di questo maniero devastato da una sì drammatica storia in cui Vanni Gubetta, presunto complice dell’arcivescovo, fu squartato; le sue membra furono gettate dall’alto delle rocce e lasciate in pasto agli uccelli rapaci.
47. Cfr. Dante, Div. Comm., Inf., XXXIII, vv. 4-6: «Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor che ’l cor mi preme / già pur pensando, pria ch’io ne favelli».
48. Inf., XXXIII, vv. 69-70: «‘Padre mio, ché non m’aiuti?’ Quivi morì». 49. Inf., XXXIII, v. 74: «E due dì li chiamai, poi che fur morti». Vuillier scrive: Et pendant trois jours, mentre Dante: «e due dì». Evidente la dimestichezza relativa, forse a causa di citazioni mnemoniche, nei confronti del testo dantesco, viste alcune (peraltro lievi) imprecisioni, che si è preferito riportare comunque a testo, per dar meglio conto della conoscenza di Dante da parte dell’autore.
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Capitolo II
È a Domusnovas, borgo che vedo alla mia sinistra, che La Marmora ebbe un lugubre incontro: «Al momento di entrare a Domusnovas», egli dice, «spinsi il mio cavallo verso uno steccato, pensando che questo fosse realmente la porta d’ingresso del villaggio, quando, giunto sotto l’architrave, che toccavo col cappello, sentii sul mio viso qualcosa di sconosciuto, che avviluppò, in qualche modo, tutta la mia figura; immediatamente mi voltai sollevando gli occhi, e quale non fu il mio stupore nel veder conficcata su questa trave una testa umana, la cui lunga ed abbondante capigliatura di donna cascava e s’agitava in balia dei venti. Era precisamente questa capigliatura che era venuta a sbattere contro la mia faccia. In quel momento, un lampo venne a proiettare una viva luce su quest’orrida testa, che si trovava ad un mezzo piede di distanza dalla mia; così potei distinguere, per un mezzo secondo, quelle gote disfatte e cadenti, quegli occhi incavati e quella bocca aperta, che mi facevano un’orribile smorfia. Tutto ciò fu questione di un istante, di un vero e proprio baleno, dopo il quale tutto divenne di nuovo confuso. Diedi allora un buon colpo di sperone al mio cavallo per fuggire un simile spettacolo ed un tale contatto, mentre il fedele compagno che mi seguiva non s’accorse di niente, passando come me sotto questa forca caudina di novella specie. Avevo dunque scambiato per uno steccato uno strumento di morte che si piantava ordinariamente nelle entrate più frequentate dei villaggi. La testa che era stata inchiodata sull’architrave della forca, era realmente quella di una donna giustiziata, pressappoco, un mese innanzi quest’avventura, e, secondo un’usanza ora abbandonata, quella testa era stata tagliata e inchiodata in tal modo per far da spettacolo per i passanti».50 Dopo le terribili visioni dell’inferno di Dante, ch’erano state evocate nel mio spirito dalle rovine del maniero 50. A. Della Marmora, Itinerario cit., vol. I, pp. 307-308.
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d’Ugolino e l’avventura lugubre di La Marmora, ritrovavo51 dolci sensazioni nel luminoso Campidano. Il vento aveva scacciato le nubi che offuscavano il cielo, ed il sole brillava nuovamente. Io andavo, lungo la strada, osservando i villaggi che scintillavano su pendii lontani, ascoltando il canto degli uccelli nel folto fogliame dei carrubi, la melopea grave di qualche lavoratore, allorché una musica graziosa mi fece ruotare la testa. Un quadro superbo stava davanti ai miei occhi. Sopra un grande carro trainato da due bufali52 dalle corna smisurate, dal mantello color del fuoco, stavano delle donne dagli abiti ricamati in oro ed uomini in farsetto di velluto, il cappello frigio sulla testa, ed i padroni alla rinfusa con i loro servi. Una delle donne suonava il tamburello, accompagnando un suonatore di “launedda[s]”: vale a dire di flauto a tre canne, le tibiae impares degli antichi. Il carro si fermò; ad eccezione dei musicisti, i bei viaggiatori discesero lestamente e si misero a danzare sulla strada un girotondo particolare, assai grazioso. Come appresi più tardi, questa era la danza sarda chiamata ballo tondo. I ballerini vanno in cadenza, il tempo è rigoroso e, mi è stato detto, assai difficile da apprendere. Dopo qualche momento di questo divertimento, le gioiose coppie rimontarono sul carro. I bufali ripartirono lentamente, il rumore delle ruote andò affievolendosi, i tocchi del tamburello divennero più sordi e, ben presto, non udivo che le note acute del flauto. Più tardi, e già lungi da noi, il carro si fermò di nuovo, distinguemmo vagamente una danza, poi questa graziosa scena sparì del tutto. 51. L’imperfetto retrouvais rende l’idea del fatto che l’autore, lentamente, ritrova la serenità nel paesaggio luminoso, rasserenandosi poco a poco, così come il paesaggio intorno, qui spazzato dal «vento che aveva scacciato le nubi che offuscavano il cielo». 52. Pare difficile la presenza di bufali in Sardegna, pertanto è appropriata l’osservazione di Pilia a tal proposito: «Il Vuillier confonde i buoi dalle corna lunghe con i bufali», in F. Pilia, Impressioni di un viaggio in Sardegna, Cagliari, ed. 3T, 1977, p. 151.
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Non è così che Leopold Robert aveva contemplato il ritorno dei missionari nella campagna di Roma? In luogo della tela magistrale ma un po’ fredda che egli ha dipinto, avevo visto, veduto dai miei occhi, la realtà vivente e calda in piena luce, in tutta la sua bellezza, in tutto il suo colore.53 In Campidano si possono sovente incontrare carri simili, sui quali prendono posto alcuni abitanti della città, mentre si recano a qualche festa o che ne fanno ritorno. Il carro è provvisto di materassi, di casse di provviste, d’utensili da cucina. I viaggiatori dormono sotto le stelle, nelle dolci notti di primavera o d’estate, e preparano i loro pasti all’aria aperta. C’è tutta la famiglia al completo, fino ai bambini ed ai servitori. Si trascorrono così delle giornate cantando, danzando, recitando versi, riposandosi all’ombra degli alberi. Come sono semplici, graziosi e puri, questi divertimenti dei Sardi! Io tornai a Siliqua, mentre il sole, calando all’orizzonte, spariva dietro i monti del Sulcis, ed era giunta la notte, quando entrai in città. Cagliari annovera numerosi conventi ed un certo numero di monasteri. Queste case conventuali, ora pressoché deserte, o persino totalmente abbandonate, hanno avuto i loro giorni di grandezza, i loro secoli di prosperità. L’imperatore Carlo V aveva conferito il titolo di convento reale a questo monastero di San Domenico, dove mi recavo a far visita al rev. P. Fondacci, e l’aveva dotato di numerosi privilegi. Tre religiosi l’hanno lasciato, per occupare seggi arcivescovili. 53. Vuillier si riferisce all’opera intitolata La Halte des moissonneurs dans les marais Pontins, del 1830. L. Robert (1794-1835) fu un pittore ed incisore noto ai suoi contemporanei per la sensibilità e l’efficace resa dei sentimenti nelle proprie opere. Egli sostò anche a Roma, ove dipinse, oltre all’opera summenzionata, anche figure di briganti e contadini romani, guadagnandosi così il nomignolo di “pittore dei briganti”. Morì suicida per amore (non corrisposto) della principessa Carlotta Bonaparte, figlia di Giuseppe, e fu presto dimenticato dalla critica.
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30. Ritorno dalla festa in Campidano
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Attualmente, la chiesa dei Domenicani è una delle più frequentate della città. Vi si conservano le reliquie di San Biagio, ed il 3 febbraio vi si celebra la sua festa, una delle più popolari di Cagliari. Nel corso di ventiquattrore la folla s’accalca attorno alle reliquie per baciarle. A fianco del prete vi sono dei cesti riempiti di bistoquellus [pistocheddus], sòrta di piccoli biscotti rotondi della grandezza di una nocciola, una piccola manciata dei quali si dà ai fedeli, mentre costoro versano la loro offerta. Questi biscotti benedetti sono portati devotamente nelle case che essi dovrebbero preservare da ogni disgrazia. È pure in questa chiesa che si celebra, con più solennità che altrove, la novena di Natale, che i sardi chiamano la novena della speranza. Durante questi nove giorni non v’è solamente sermone e saluto solenne tutte le sere, ma anche una grande messa, seguita da un saluto al mattino, un’ora prima che faccia giorno. I Cagliaritani, che durante tutto l’anno, e finanche d’estate, s’alzano assai tardi, si guardano bene dal mancare a questa messa. Prima dell’alba la chiesa è piena, ed il popolo minuto sta gomito a gomito con la ricca borghesia e la fiera nobiltà. Alla vigilia di Natale, la chiesa, la sacrestia, perfino il chiostro, sono invasi fin dalle dieci di sera dalla folla, che attende con impazienza la messa di mezzanotte. Un diacono sale sul pulpito e canta la genealogia di Nostro Signore, di San Matteo. Un suddiacono, gli accoliti, i turiferari ed i porta-croce l’accompagnano, e si collocano di fronte a lui al di sopra del pulpito. A mezzanotte si celebra la messa. Nel momento in cui il prete intona il Gloria in excelsis, un velario che nascondeva il presepio viene tirato via, ed appare il Bambino, adagiato sulla paglia, sopra l’altare, fra la Santa Vergine e San Giuseppe. Nello stesso momento un angelo, guidato con un filo, discende dalla volta della chiesa, dalla parte opposta dell’altare maggiore, e si ferma sopra il presepio. Egli reca in mano un’orifiamma, sulla quale si legge: «L’Angelo ai pastori di Betlemme, Gloria in excelsis Deo».
In questo momento si produce fra coloro che assistono una sòrta d’onda involontaria, si sentono esclamazioni e persino grida di gioia. Il rev. P. Fondacci mi diceva a tal proposito: «Non si saprebbero comprendere nei vostri paesi del nord, a Parigi per esempio, codeste dimostrazioni di fede che si vedono nella nostra Sardegna, dove la Spagna ha lasciato molte delle sue usanze religiose. Da noi, come in Spagna ed in altri paesi meridionali, si va pazzi per le cerimonie rumorose, per le grida e le acclamazioni, per i colori vivaci, per i paramenti sgargianti, per i canti sonori, ed anche per i sermoni roboanti a “grande orchestra”», aggiunse egli sorridente. Nel quartiere di Villanova, dove si trova il convento dei Domenicani, la povera gente, e Dio sa se ve n’è, dona cinque centesimi per settimana a delle società di cui fa parte. Alla fine dell’anno, ognuna di queste ha finito per raccogliere una somma più o meno importante, che serve a finanziare delle feste dove, fra soci, ci si diverte assai. Affiliarsi a più associazioni di tale genere significa procurarsi numerose occasioni per festeggiare, e questa brava gente non vi manca di certo, buoni figlioli come sono, ed un nonnulla li distrae. Le dame di Castello, cioè dell’antica città pisana, fanno anch’esse la loro festa nella chiesa dei Domenicani, festa della buona sorte e della buona morte. Bisogna essere nobili per entrare in questa società, la quale appartiene a tutta l’alta aristocrazia. Ci si stupirà di questo patronato di Nostra Signora della buona sorte e della buona morte, ma ve ne sono di più strani ancora. Vi sono le feste di Nostra Signora degli abbandonati; di Nostra Signora de sa defensa, ecc. Tutte queste feste furono introdotte dagli Spagnoli. Ancora di recente, nella chiesa dei Domenicani, si cantavano in spagnolo i Goccius, laudi di Nostra Signora delle Grazie, di San Vincenzo Février, di Santa Maria Maddalena, ecc., e fino ad inizio secolo, a Cagliari, erano scritti in questa lingua gli atti di battesimo.
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Le società o confraternite sono innumerevoli; la più celebre e la più antica di tutte, la confraternita del Rosario, risale al 1334, epoca della fondazione del convento dei Domenicani. Questa confraternita possiederebbe, si dice, la bandiera sotto la quale combatterono, nel 1571, a bordo della nave ammiraglia Don Giovanni d’Austria, i quattrocento soldati sardi che presero parte alla battaglia di Lepanto. Alcuni storici raccontano persino che furono i Sardi ad uccidere il generale turco Ali-Pacha, e così contribuirono potentemente alla sconfitta degli infedeli. Le chiese di Cagliari sono in numero di cinquanta circa, senza contare gli oratori ed una quantità di cappelle. Molte fra queste chiese meritano d’esser visitate, quella di San Francesco, per esempio, il cui esterno è un bell’esempio di gotico, e quella di Sant’Efisio, il cui stile è assai ordinario, ma che ha l’onore di conservare, incastrata nella sua facciata, qualche palla ed altri proiettili lanciati dai Francesi nel 1793. L’insuccesso di questa spedizione fu attribuito dalla gente del popolo all’intervento del santo, e la venerazione di cui è oggetto, dopo la grande peste che afflisse la Sardegna nel 1656, s’accrebbe da allora considerevolmente. In compagnia del reverendo padre domenicano visitai una specie di cava situata sotto la chiesa, e che si pretende esser stata la prigione in cui fu rinchiuso, un tempo, Sant’Efisio. Ne risalimmo, coperti di polvere e di ragnatele, senza avervi visto niente di curioso. La Marmora fa notare che i muri di questo cantuccio son rivestiti, su ogni lato, da cemento romano e frammenti di quel vasellame rotto che s’impiegava per le riserve idrauliche, fatto che non lascia dubbio alcuno sulla sua antica destinazione di cisterna. Dopo la famosa peste, si porta ogni anno la statua di Sant’Efisio, in gran pompa, al capo di Pula, dove gli è stata consacrata una cappella. Questa statua, dipinta con colori vivaci, lo rappresenta rivestito di una corazza ed acconciato 146
31. Il carro di Sant’Efisio
con un elmo ornato con piume di struzzo. Un mantello copre le sue spalle. Una delle mani si posa sul cuore, l’altra regge la palma del martirio. Secondo la tradizione, è presso il capo di Pula che egli fu decapitato, per ordine di Diocleziano, di cui era generale. Il 1 maggio d’ogni anno, si colloca la statua in una specie di piccola cassa vetrata, adorna di banderuole, si posa il tutto su un carro blu e oro, aggiogato da buoi neri, curati ed ingrassati tutto un anno per la circostanza. Le loro corna sono ornate da arance, da ciuffi di lana dai colori vivaci, da specchi, collari e sonagli. Al loro collo pende un grosso campanaccio. La processione di Sant’Efisio viene celebrata con una pompa straordinaria. Vi si accorre da tutte le città e dai borghi dei villaggi del territorio di Cagliari, e perfino da tutti i luoghi della Sardegna; in breve, è un concorso straordinario. 147
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Il corteo è stupefacente. Esso è seguito dai membri della confraternita del santo, montati su cavalli magnificamente ingualdrappati, le cui criniere e la coda intrecciate sono ornate con nastri dai colori più vivi. Devoti, recitando preghiere ad alta voce, attorniano il carro che porta la statua. Gli ecclesiastici seguono le ferventi, dopo le quali vengono dei suonatori di “launeddas”, che si sfiatano sui loro strumenti. Di seguito, viene il corteo degli uomini, che indossano le vesti caratteristiche del loro villaggio, e tutte della più grande originalità, pure d’una rara bellezza. Le donne chiudono il corteo. Le une hanno fatto voto di percorrere la strada a piedi nudi, le altre portano ceri e recitano le litanie. A questa processione prendono parte più di ventimila persone: è davvero una delle più sorprendenti di tutta Italia. Un tempo la si celebrava con più magnificenza ancora: il viceré la seguiva non meno di tutte le autorità militari e religiose. Si racconta che gli abitanti di Pula, ove Sant’Efisio fu decapitato, ebbero il dispiacere di vedere la città di Cagliari impadronirsi delle reliquie, ma che più tardi, a forza di perseverare, essi ottennero il fortunato privilegio di rientrare in possesso dei resti del santo per tre giorni l’anno. È dopo quest’accordo che la famosa processione fu istituita. Ma, per lungo tempo, si vegliò notte e dì sulle reliquie durante il loro viaggio da Pula a Cagliari, e reciprocamente: la gente di Cagliari sospettava fortemente quella di Pula di volersele riprendere, sostituendole con uno scheletro qualsiasi. Sant’Efisio non è il solo santo della Sardegna che sia stato condannato ad una passeggiata annuale. Nel medioevo, le reliquie di Sant’Antioco si trovavano nel paese del Sulcis che porta il suo nome. Ma, poiché l’ubicazione di questo paese in riva al mare lo esponeva alle incursioni dei pirati, si mise il santo al riparo presso Iglesias. Per lungo tempo le reliquie furono portate in processione, tutti gli anni, a Sant’Antioco, da dove, dopo un giorno, esse riprendevano la strada per Iglesias. 148
32. Donna di Quartu
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Ma i Saraceni, un giorno, saccheggiarono questa città, e gli abitanti, spaventati, abbandonarono il loro santo agli scherani di Maometto. Più tardi, quando delle pie persone si misero alla ricerca della cassa, non la trovarono più; perciò (si dice) esse raccattarono delle ossa qualunque da un ammasso di scheletri e le trasportarono trionfalmente a Sant’Antioco, ove le si venera altrettanto che se esse fossero davvero le reliquie del sant’uomo. Le curiosità religiose non mancano a Cagliari. Fra gli altri luoghi consacrati dalla tradizione, gli stranieri si recano a visitare, all’interno della chiesa di Sant’Agostino – assai venerato dai fedeli – un angolo dietro l’altare, ove il corpo dell’arcivescovo d’Ippona dimorò per due secoli dopo che fu trasportato dall’Africa ad opera di San Fulgenzio. Gli Arabi, quando discesero in Sardegna, fecero man bassa della reliquia, poi la vendettero per dei bei denari a Liutprando, re dei Longobardi, che intendeva preparargli un asilo nella città di Pavia. Non volendosi separare dal santo vescovo, i Sardi piombarono a mano armata sul convoglio e sui Musulmani ed i Longobardi che l’accompagnavano. I Sardi, sconfitti, non riuscirono che a strappare le vesti di Sant’Agostino, che hanno poi conservato religiosamente, e, infine, le reliquie partirono tranquillamente per il nord. L’eminente, il tanto amabile senatore della Loira, il signor Brossard, che mi aveva procurato, in Corsica, la preziosa ospitalità di Ghisoni, mi aveva munito di lettere di raccomandazione per alcuni Francesi che abitavano in Sardegna. I sigg. fratelli Chapelle, di Cagliari, ai quali egli mi aveva indirizzato, mi riservarono un’accoglienza fraterna. Che cuori eccellenti! Che mani cordiali! Il signor Georges Chapelle, gran cacciatore, minato dalla febbre, contro la quale lotta con enormi dosi di chinino, con marce forzate all’inseguimento del muflone, del cervo e del cinghiale, non potrebbe più, del resto, riadattarsi alla vita un po’ angusta del nostro paese. Per quindici
giorni di seguito egli parte laggiù, il fucile in spalla, attraverso la solitudine, seguito dai suoi bei cani, dormendo sul nudo suolo, vivendo alla ventura, intrepido cacciatore amato dai Sardi, che ammirano i suoi modi da guerriero. Non v’è villaggio della Barbagia, dell’Ogliastra, delle regioni pressoché inaccessibili, in cui il suo nome non sia familiare a tutti. Quanto amano la Francia, come son fieri di essa, questi bravi Francesi, costretti dal corso della loro vita ad una sòrta di lontano esilio. Una simpatia reciproca ci attrasse a prima vista l’uno verso l’altro, ed a partire da questo momento vivemmo assieme quasi tutto il tempo che trascorsi ancora a Cagliari. Il superiore dei Domenicani mi aveva fatto visitare i monumenti. Il signor Chapelle divenne la mia guida attraverso i quartieri poveri ed il mio protettore durante le escursioni in montagna. Grazie a lui, e profittando della sua conoscenza profonda delle cose della Sardegna, notai dei dettagli che mi sarebbero sfuggiti. Egli mi fece ammirare i panorami magnifici che si scoprono dal quartiere alto; con lui visitai il Municipio, il palazzo del re, il museo, che è di grandissimo interesse per un archeologo. Errammo interi pomeriggi nel sobborgo di Sant’Avendrace, dove si trova la Grotta della Vipera, resto curioso dell’epoca fenicia. In questi sobborghi si può abbracciare con un sol colpo d’occhio, passando, tutta la vita domestica, poiché le case si compongono abitualmente di una sola stanza, ricevendo l’aria e la luce dalla porta. Fui colpito dalla straordinaria lindura di questi alloggi. In queste stanze, che servono ad un tempo da camera da letto, da cucina e da stanza da lavoro, potei vedere più volte l’antico mulino, ancora in uso in Sardegna, messo in movimento da un piccolo asino, che gira valorosamente per delle ore intere, gli occhi bendati e la museruola sul muso, perché molto ingordo, e quando ci si dimentica di mettergliela, non si priva di ghermire, con un colpo di lingua, una manciata di farina.
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33. Una sposa di Quartu
34. Novelli sposi a Pirri
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Un autore ricorda, a tal proposito, che Pittaco di Mitilene faceva ruotare, in guisa di passatempo, il mulino della sua casa, e che trovava quest’occupazione assai favorevole al raccoglimento: allora gli asini sardi dovrebbero esser grandi filosofi, perché fanno girare la macina fino a diciassette ore su ventiquattro! Una domenica, di pomeriggio, andammo a visitare Quartu, il paese più grande della regione. Esso è separato dalla città dallo stagno di Molentargiu[s], che bisogna costeggiare per sei chilometri. Della borgata, lastricata in alcune strade, a causa dell’orribile fango dell’inverno, non c’è niente da dire, ma i costumi delle donne sono davvero superbi. Si danzava nella piazza pubblica, ed io fui meravigliato della ricchezza ed originalità dei loro ornamenti, i colori più vivi scintillavano fra i broccati ed i pizzi; i gioielli più rari ricoprivano i loro petti. Ebbimo la fortuna di incontrare uno sposalizio che passava al suono delle “launeddas”, e di ammirare il costume abbagliante della sposa. Continuando la nostra passeggiata, attraversammo altri villaggi: Quartuccio [Quartucciu], dove si danzava ugualmente; Selargius, circondata da giardini; Pauli-Pirri, ed infine Pirri, la nostra ultima stazione prima di rientrare a Cagliari, da cui non distiamo più di due chilometri. Il signor Chapelle sapeva che si celebrava a Pirri un matrimonio importante, ed aveva voluto tenermi in serbo la sorpresa. Il costume dello sposo era della più grande originalità, e quello della sposa rammentava quelli che avevo veduto a Quartu. Non smettevo di pensare, vedendo la meraviglia di codesti costumi, alla febbre che decima questi poveri contadini. Tutta la regione è ammorbata dagli stagni, ed io vedevo, sotto i più pomposi fronzoli, visi prostrati, molto pallidi, che recavano le stimmate della malaria. Dovevo ancora visitare il monastero di Bonaria, vicinissimo a Cagliari; vi fui accompagnato dal rev. P. Fondacci. 154
35. Un uomo d’Iglesias
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Questo convento ed il castello adiacente furono costruiti, nell’anno 1323, dal re Alfonso d’Aragona, che lo donò ai Mercedari, monaci che godevano del doppio privilegio di portare, appeso al proprio collo, in una scatoletta d’argento, lo scudo aragonese, e di assistere alle cerimonie con la spada al fianco. Oggi il castello è in rovina; solo l’antica chiesa del monastero è ancora in piedi. Alla volta della navata è sospesa una navicella miracolosa in avorio, portata un tempo da una pellegrina sconosciuta. Si assicura, e cosa mai non si assicura in Sardegna! che questa barca possa ruotare la prua in direzione del vento che spira sul golfo. Al ritorno da questa visita a Bonaria, incontriamo, all’entrata della città, un uomo vestito di un costume singolare, totalmente differente da quelli che avevo veduto fino allora in Sardegna: era un abitante d’Iglesias, ove il carattere spagnolo sembra essersi conservato nei costumi, come nei visi. Dietro le montagne del Sulcis, dov’è situata la città d’Iglesias, ha luogo, nel mese di maggio, la famosa mattanza dei tonni, alla quale non potei assistere, ma di cui trovai una fotografia a Cagliari. I tonni, spinti in uno spazio chiuso che si chiama la “camera della morte”, assaliti da ogni parte con degli arpioni, agitano il mare con una violenza inaudita: esso diventa tutto rosso del sangue fuoriuscito dalle loro ferite. Una volta si prendevano, in questo modo, fino a trentamila tonni l’anno, la maggior parte dei quali pesava mille o milleduecento libbre. Oggi se ne pescano infinitamente meno.54
36. Pesca al tonno: la camera della morte
Cagliari m’interessava sempre più, trascorrevo delle giornate a girare per le strade, osservando sempre qualche scena inaspettata, qualche nuovo aspetto degli uomini o delle cose. I quartieri della città non rassomigliano fra loro, si direbbero tanti centri abitati, aventi ciascuno il proprio carattere, la propria distinta popolazione. Quello della Marina, con le
54. Termina in questo punto il secondo fascicolo dell’edizione del 1891. Rimarchevole il taglio, avvenuto nell’edizione seriore, di un ampio stralcio dedicato ai mendicanti, agli storpi che popolano la città, rendendola cours des Miracles («corte dei miracoli»). Probabilmente questo racconto è stato omesso proprio a causa di tale tematica, fra l’altro non trattata con un taglio sociale ma quasi unicamente aneddotico, come appare caratteristico in uno scrittore più portato per la descrizione pura che non
ad un’analisi od una riflessione approfondita sui fenomeni inerenti alle società con cui egli viene a contatto (come già detto a proposito dei viaggiatori impressionisti), a parte qualche breve accenno di commiserazione o pena nei confronti degli strati di popolazione più indigenti, senza tuttavia addentrarsi mai nella ricerca delle cause di tale povertà o disagio, notando anzi la discrepanza fra ricchi costumi e povere abitazioni, colori e gioielli sgargianti, ma volti smunti e abbattuti per le febbri malariche. A volte, in definitiva, si ha quasi l’impressione che la popolazione resti semplicemente uno sfondo per un quadro che Vuillier dipinge badando più all’esteriorità, ai paesaggi che contornano l’esistenza dei Sardi di allora, che non a questi ultimi.
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37. Una panattara
38. Un rigattiere
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39. Il porto di Cagliari
sue case basse dai tetti a terrazza, non ha attinenza alcuna con Stampace, quartiere commerciale, e Villanova, che reca l’impronta spagnola, si distingue da Sant’Avendrace. In non importa quale di questi quartieri, di questi sobborghi, si trovano in massa le tradizioni del passato, dei costumi, delle usanze d’un tempo. Le panattare, nome col quale si designavano una volta le fornaie, e che si dà oggi alle donne del popolo in generale, nei giorni di festa si vestono di rosso. Un grande mantello di seta gallonata di broccato copre la loro testa e le spalle, la gonna è di trina bianca, il collo è adorno di collane ed il petto di gioielli. I rigattieri o gente del popolo, in generale venditori di legumi, i pescatori, i carrettieri, portano un singolare abbigliamento, composto di un corpetto scarlatto, ornato con grandi bottoni alle maniche, della fustanella, di ghette di lana o di cuoio, e d’un berretto dritto ugualmente scarlatto. I pescatori hanno pantaloni rossi un po’ attillati, e la loro vita è cinta da una sciarpa multicolore. Sovente risalivo strade e stradine in pendenza, fino alla piccola piazza situata alle porte del quartiere alto. 160
All’ombra dei pini marittimi e delle piante di pepe passavo là intere ore, ammirando il panorama che si stendeva sotto i miei occhi. Dominavo la città bassa, il porto, la banchina, le barche, le navi, e, oltre, l’immenso golfo. Velieri e vapori andavano e venivano nei suoi flutti d’azzurro, questi salpati verso Palermo o Siracusa o Napoli, quelli rientranti a Cagliari da uno qualsiasi dei grandi porti d’Italia. Da questa piazza assistevo talvolta a tramonti magnifici. Il Monte Santo e la catena d’Iglesias si bagnavano in un velo di vapore violaceo dove sfumavano le piane, il cielo dorato risplendeva, qualche chiarore ardente colpiva una cima, e scivolava sopra il Campidano come strisce di metallo in fusione. I grandi stagni riflettevano la luce accecante. Poi, a poco a poco, tutto si spegneva, un colore grigio ricadeva sul mare, gli strati d’acqua s’addormentavano nell’ombra, solamente il cielo conservava un vago riflesso delle glorie del sole al tramonto.
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CAPITOLO III La Barbagia – Danze a Belvì – Il ritmo sardo – Aritzo e le canefore – Le grassazioni – Scalata del Gennargentu
Abbiamo ormai attraversato una gran parte dell’isola di Sardegna, abbiamo veduto diversi lidi, fiumi dall’acqua sonnecchiante, valloni perduti, cime coronate da villaggi, manieri in rovina, altopiani deserti, monumenti enigmatici, città dai costumi originali, pianure le cui esalazioni son mortali; abbiamo incontrato Spagnoli, Corsi, Italiani nelle città, ed a Sorso e ad Osilo dei Sardi buoni e dolci, che menano vita pastorale. La capitale della Sardegna, ove gli Aragonesi hanno lasciato un’impronta così forte che gli Italiani non hanno potuto ancora cancellarla dopo secoli, ci ha trattenuto a lungo con i suoi costumi, le sue credenze, la sua fede appassionata, la sua credulità, le sue superstizioni. Ma la vera Sardegna, quella che conserva dall’aurora nebulosa della sua storia in poi il carattere, le usanze, i costumi, non l’abbiamo ancora incontrata sulla nostra strada. In Sardegna, così come alle Baleari ed in Corsica, bisogna addentrarsi lontano, nella montagna, per ritrovarla, ma, pure, quante sorprese per colui che vi s’avventura. Né potrebbe essere altrimenti. Senza dubbio queste isole latine hanno conosciuto le invasioni, le immigrazioni, le conquiste a mano armata, le influenze pacifiche; più che tutto questo, esse furono, da prima degli albori della storia, un ritrovo di popoli dei dintorni del mare interno. Ma non accade che sul lido marittimo, nella bassa delle vallate e nelle pianure, che gli elementi stranieri abbiano incessantemente rinnovato il Sardo primitivo; la montagna non ha ricevuto, di questa lunga tempesta, che qualche spruzzo, e ciò che i montanari furono nel più lontano dei primevi, lo sono ancora al giorno d’oggi, sotto i nostri occhi. 163
LE
ISOLE DIMENTICATE.
LA SARDEGNA
Capitolo III
Nel massiccio granitico dalle robuste groppe, ricoperte a tratti da foreste, che s’innalza al centro stesso della Sardegna, in un paese di pastura, di altopiani erbosi, di profonde gole dove si precipitano torrenti impetuosi, vive una razza poco conosciuta, forte e severa, che ha conservate pressappoco intatte, attraverso le epoche, le proprie usanze ed abiti. È quella degli Iliesi e dei Barbaricini. La regione che essa abita porta, fin dall’antichità, il nome di Barbagia, vale a dire, paese dei barbari. Dopo la rovina di Troia alcuni Troiani, ci dice la tradizione, vagarono a lungo pei mari e s’incagliarono in Sardegna, dove occuparono, col nome d’Iliesi, una parte della Barbagia. Quando Genserico, re dei Vandali, che aveva saccheggiato l’Africa, invase la Sardegna, ove fece scorrere il sangue a fiumi, egli portò con sé (ciò si dice) un’orda di Numidi, e fece loro dono della regione del Gennargentu; era proprio là, il paese che occorreva a questi selvaggi. I monti inaccessibili, le profonde gole, i passi, le foreste, si confanno ai banditi. Per lungo tempo, i figli di questi Numidi portarono il terrore e la desolazione in Sardegna. Se il Vandalo Genserico aveva voluto scatenare un flagello, egli era riuscito nel suo desiderio. Quest’orda arsa al sole d’Africa, poi abbandonata ai morsi d’un rude e freddo clima, in un paese povero, abbandonato, conservò devotamente le tradizioni del suo culto ed i costumi clamorosi del suo paese natale, così come rimase fedele agli ardori ed alle violenze della sua razza. In preda a tutte le tristezze di una regione triste dove le nuvole salgono pesantemente, costretti nella miseria di un suolo roccioso, essi rimasero briganti. La loro esistenza fu una lotta senza fine, poiché i Sardi, dapprima terrorizzati, in seguito si armarono per combatterli. Infine, dopo numerose vicissitudini, fiaccati con le armi, confinati nelle folte foreste del Gennargentu, essi divennero
pastori e s’avvezzarono a chiedere alla terra la vita che le rapine non potevano più dare loro. L’imperatore Giustiniano aveva acquartierato delle truppe ai piedi della montagna, per tenere a bada i Barbaricini. Nell’anno 594, la pace fu infine conclusa fra questi ed il resto dei Sardi; essi consentirono a rinunciare alla loro idolatria ed a ricevere il battesimo, ma non di meno perseverarono nelle loro usanze pagane: per lungo tempo ancora consultarono gli aruspici e praticarono i sortilegi. Le donne di Barbagia avevano la reputazione d’esser poco caste. Nella Divina Commedia, Dante ha detto, parlando di costoro:
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Che la Barbagia de Sardinia assai Nelle femine sue è più pudica Che la Barbagia dov’io lasciai. Eppure, tale testo ha lasciato un dubbio ad alcuni commentatori: essi hanno preteso che Dante, confrontando le donne di Firenze, che amavano L’andar mostrando colle poppe il petto,55 a quelle della Barbagia, avesse voluto affermare che queste ultime eran meno spudorate. 55. Purg. XXIII, vv. 94-96: «Ché la Barbagia di Sardigna assai / Ne le femmine sue più è pudica / che la Barbagia dov’io la lasciai» e v. 101: «L’andar mostrando con le poppe il petto». A parte qualche piccola imprecisione nel riportare il testo dantesco (ma cfr. nota 49), è opportuno rilevare come l’interpretazione di questo “confronto femminile” che attualmente pare essere la più sensata, sia in realtà quella di un utilizzo etimologico, da parte di Dante, del termine Barbagia