Le grandi opere filosofiche e teologiche. Testo originale a fronte 8845273393, 9788845273391 [PDF]

Nel 2013 ricorre il bicentenario della nascita di Sören Kierkegaard, uno dei più grandi pensatori dell'età moderna

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Le grandi opere filosofiche e teologiche. Testo originale a fronte
 8845273393, 9788845273391 [PDF]

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SØREN

KIERKEGAARD LE GRANDI OPERE FILOSOFICHE E TEOLOGICHE Traduzione di Cornelio Fabro Prefazione di Giovanni Reale

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Testi originali a fronte

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore

GIOVANNI REALE

SØREN KIERKEGAARD LE GRANDI OPERE FILOSOFICHE E TEOLOGICHE

AUT-AUT – TIMORE E TREMORE – IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA – BRICIOLE DI FILOSOFIA – POSTILLA CONCLUSIVA NON SCIENTIFICA ALLE «BRICIOLE DI FILOSOFIA» – LA MALATTIA MORTALE – ESERCIZIO DEL CRISTIANESIMO – VANGELO DELLE SOFFERENZE – PER L’ESAME DI SE STESSI – L’IMMUTABILITÀ DI DIO

Testi originali a fronte

A cura di Cornelio Fabro Prefazione di Giovanni Reale Aggiornamento bibliograf ico e indici di Vincenzo Cicero

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-75921-9 © 2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Proprietà Intellettuale: Provincia Italiana S. Cuore degli Stimmatini Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero Prima edizione digitale 2013 da Prima edizione Il Pensiero Occidentale ottobre 2013

PREFAZIONE di

Giovanni Reale

«Perché ci si possa veramente fidare di un uomo, si esige la sua parola. Anche Dio ci ha dato la sua Parola: Cristo». Diario, n. 3573 ed. Fabro «Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia e di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità… proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa». Diario, n. 3607 ed. Fabro

I motivi per cui a due secoli dalla nascita Kierkegaard è più che mai attuale 1. Alcune notazioni preliminari Søren Kierkegaard è nato il 5 maggio 1813. Quest’anno cade quindi il bicentenario della nascita, che celebriamo con una nuova edizione della imponente raccolta delle opere del filosofo, le più significative e le più cospicue, tradotte e curate da Cornelio Fabro in maniera esemplare. Tale raccolta era stata edita per la prima volta dalla Sansoni nel 1972 in volume unico. Successivamente è stata riedita in tre volumi dall’editrice Piemme nel 1995. In questa edizione Bompiani viene ripresa l’edizione Sansoni, perché è l’ultima curata dallo stesso autore. In questa prefazione metteremo in evidenza alcuni punti a complemento di quanto Cornelio Fabro dice nella sua Introduzione. Kierkegaard è da sempre uno degli autori da noi più amati, e da molto tempo usiamo i suoi scritti (in particolare il suo Diario, in cui il suo pensiero si rivela completamente) come testi di meditazione. Abbiamo incominciato a leggerli già al liceo, nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso, sia pure condizionati dai pregiudizi ermeneutici diffusi dalla Kierkegaard-Renaissance, dai quali ci siamo liberati solo a poco a poco. L’aggiornamento bibliografico, gli indici e la reimpostazione grafica dell’opera sono stati curati da Vincenzo Cicero. Abbiamo inoltre ritenuto utile riprodurre il testo originale nella edizione critica seguita dal traduttore, anche se la lingua danese è assai poco conosciuta. Tuttavia, per festeggiare Kierkegaard nel bicentenario della sua nascita, riteniamo che una edizione bilingue delle sue grandi opere sia quanto di meglio si possa fare, tanto più per il fatto che risulta essere un unicum a livello mondiale. Kierkegaard è stato un «estraneo» allo spirito dell’Ottocento e del Novecento, che, come scrive Fabro, «pullula di lassismo morale e di mediocrità speculativa, mentre si compiace di facili etichette cambiando a ogni stagione» (infra, p. 26). E questo che Fabro diceva per i due secoli precedenti vale ancor più per il Duemila, in cui la crisi morale e spirituale dell’uomo ha raggiunto livelli di guardia. L’«estraneità» di Kierkegaard al nostro tempo potrebbe far pensare alla sua «inattualità». E invece il suo pensiero è di una «attualità» straordinaria, proprio per il suo dirompente contrasto con le comuni convinzioni di oggi. Infatti, il contrario richiama dialetticamente il proprio contrario, soprattutto quando i

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mali spirituali sono giunti al limite, come oggi. Queste pagine di Kierkegaard contengono, infatti, un antidoto veramente efficace e una terapia assai forte contro la crisi dell’uomo odierno. 2. Cornelio Fabro, il più grande traduttore e interprete di Kierkegaard Fabro è stato uno dei più grandi storici della filosofia del secolo scorso in Italia. Noi lo abbiamo conosciuto, oltre che mediante i suoi scritti, anche di persona, avendolo seguito (come uno dei suoi assistenti) nell’anno in cui ha insegnato nell’Università Cattolica di Milano (1957), e abbiamo sperimentato direttamente il modo in cui metteva in atto il metodo storico-ermeneutico che sta alla base dell’imponente suo lavoro su Kierkegaard. In particolare va rilevato che la traduzione di Kierkegaard, non meno dell’interpretazione, è assai difficile, in quanto, come dice Fabro, la sua lingua è «fra le più complesse e disarmanti, anche per i lettori danesi, a causa della gamma degli incisi, delle innovazioni stilistiche e sintattiche, delle allusioni sacre e profane di cui il testo è tutto irto: uno stile che non ha l’eguale poiché sa passare nella stessa opera, anzi nello stesso contesto, dall’impeto spumeggiante all’espressione trattatistica più controllata, dalle divagazioni e immagini più vaporose ed evanescenti di rapimento estetico alle formule rapide e severe della verità che non muta» (pp. 24 s.). Fabro, con il suo lavoro, costante e paziente, è riuscito a rendere in italiano, in modo pressoché perfetto nelle sue varie sfaccettature, questo stile così complesso, e le sue traduzioni si impongono come classiche. La sua Introduzione è una vera e propria monografia, pressoché completa da tutti i punti di vista. Dopo un prologo in cui tratta dell’enigma di Kierkegaard, presentato come un «Giano bifronte», come lui stesso si definiva, le cui facce si moltiplicavano a loro volta in varie maniere. E l’enigma è reso particolarmente complesso dal gioco drammaturgico della pubblicazione di varie opere sotto diversi pseudonimi. Fabro presenta la vita del filosofo come la «fedeltà a una idea». Descrive quindi la produzione letteraria nel suo complesso, nei suoi vari momenti e nelle sue articolazioni. Successivamente tratta del pensiero di Kierkegaard come una ripresa del «realismo cristiano», in antitesi rispetto all’idealismo, soprattutto quello hegeliano. Di particolare importanza è il capitolo dedicato alla ermeneutica kierkegaardiana nelle sue linee fondamentali. La monografia si conclude con un epilogo dedicato al destino e alla missione di Kierkegaard.

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3. Il modo in cui Fabro ha liberato Kierkegaard dai presupposti ermeneutici della Kierkegaard-Renaissance Uno dei maggiori meriti della monografia di Fabro è di aver liberato il nostro filosofo dalle interpretazioni ateistiche. Lo studioso scrive che sopra l’ideale purissimo espresso dal pensiero di Kierkegaard «non sono passati soltanto i carri armati del neokantismo, del positivismo e dell’idealismo i quali hanno tagliato alla radice la libertà che autentica la dignità della persona, ma ora scorrazzano dovunque il marxismo, la fenomenologia, lo strutturalismo e perfino – a scorno e sacrilegio – il cosiddetto esistenzialismo ateo che hanno fatto la terra bruciata dello spirito suonando i tamburi – come nel Riccardo III di Shakespeare – della scienza, della sociologia, della psicanalisi, delle filosofie analitiche… ossia di tutte quelle bagatelle che Kierkegaard aveva già diffidate come foriere di confusione e di tenebre nel mondo dello spirito» (p. 27). In particolare, Fabro fa vedere in vari modi come la Kierkegaard-Renaissance abbia tradito il pensiero del filosofo «insabbiando il suo grido di battaglia per i diritti della trascendenza e del messaggio cristiano come rinuncia al mondo e conformità col modello…» (p. 45). I vari seguaci della Kierkegaard-Renaissance hanno proceduto in senso contrario a quello che Heidegger aveva compreso, ma non messo in atto nei confronti del filosofo. Egli affermava, infatti (in Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003), che solamente l’uomo religioso è in grado di comprendere i contenuti dell’esperienza religiosa, altrimenti gli manca l’oggetto stesso di riferimento, e scriveva quanto segue: «Difficoltà: soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, poiché altrimenti non disporrebbe di alcun dato genuino. È vero, però questo fatto determina forse qualche svantaggio dal punto di vista metodico-sistematico?». E con una frase icastica assai forte concludeva: «Esso significa soltanto: giù le mani (Hände weg!) per colui che non si “sente” nel giusto terreno. Ciò vale ovunque». La dimensione del religioso costituisce l’asse portante del pensiero kierkegaardiano in tutte le sue fasi, sia in quella «estetica», sia in quella «etica» (filosofica), sia nell’ultima accentuatamente «religiosa». È Kierkegaard stesso che lo afferma in modo inequivocabile: «In verità come scrittore io sono e sono stato uno scrittore religioso; tutta la mia attività letteraria si rapporta al cristianesimo» (cfr. pp. 21 e 57). Pertanto, al vertice del pensiero del nostro filosofo si pone non l’intelligenza, ma la fede, e chi non entra in questa dimensione non comprende il suo messaggio se non in maniera più che dimezzata, come vedremo. Un pensiero espresso nel Diario è veramente emblematico: «Si è detto spesso che se Cristo ritornasse sulla terra, sarebbe di nuovo crocifisso. Questo non è del tutto vero. Il mondo ha cambiato: vive ora nell’“intelligenza”. Perciò Cristo sarebbe deriso, trattato da pazzo, ma come un pazzo di cui ci si prende beffe» (n. 2171 ed. Fabro).

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4. La «rivoluzione copernicana» messa in atto da Kierkegaard che ha posto al centro del suo pensiero la soggettività intesa come «Singolo» È ben noto come la filosofia moderna abbia posto al centro del suo interesse non l’«oggetto» ma il «soggetto». Cartesio ha aperto questa strada con il suo «cogito, ergo sum». Con l’«Io penso» Kant ha promosso gli sviluppi successivi della filosofia idealistica nei suoi vari aspetti. Fichte ha posto l’Io come base della filosofia in modo sistematico. Schelling ha composto un’opera dal titolo emblematico Dell’Io come principio della filosofia. Hegel, poi, ha portato l’idealismo alle sue conseguenze estreme, e la metafisica del Soggetto ha giocato un ruolo essenziale nella storia della cultura occidentale. Ebbene, Kierkegaard è stato il più accanito avversario di questa filosofia. Per lui il «Soggetto» deve essere, sì, il centro della filosofia, ma in senso opposto a quello che ha nella metafisica idealistica. Il Soggetto non è quello creato dall’astrazione concettuale, bensì quello reale dell’esperienza esistenziale, ossia è la persona individuale, il «Singolo». Kierkegaard scrive: «… per farla finita con la falsa soggettività, si deve andare a fondo fino al “Singolo” – davanti a Dio». E soggiunge: «È verissimo che la Soggettività isolata, come l’intende il tempo, è anche il male; […] Essa deve essere salvata con la Soggettività, cioè con Dio, che è la Soggettività che costringe infinitamente» (Diario, n. 2775 ed. Fabro). Dunque, il «Soggetto» di cui parla Kierkegaard è l’individuo reale, appunto il «singolo», che vale più della «specie» e del «genere» cui appartiene: «In ogni genere animale la specie è la cosa più alta, è l’idealità; l’individuo è sempre la cosa che di continuo sorge e scompare, realtà precaria; la specie è la cosa più alta, la copia è la realtà inferiore. — Solo nel genere umano la situazione – a causa del Cristianesimo – è che l’individuo è più alto del genere. — Ma essere individuo a questo modo richiede (s’intende!) immenso sforzo; perciò tutte le astuzie dell’uomo sono volte a capovolgere la situazione così che il genere diventi più alto dell’individuo, affinché l’individuo si riduca a semplice copia…» (Diario, n. 4159 ed. Fabro). Il soggetto come «Singolo» di cui parla Kierkegaard sta non solo al di sopra della specie e del genere, ma anche al di sopra della folla e del pubblico: «… il dovere cristiano è volgersi contro la Folla, perché il Cristianesimo esige che ogni uomo si debba riformare, e specialmente che sia abbattuta la più empia delle categorie acristiane: la Folla, il Pubblico» (Diario, n. 1603 ed. Fabro); «Ciò che ha confuso tutto, e prima di ogni altra cosa la cristianità intera e l’intero Cristianesimo, è sempre il fare dei contemporanei, dell’umanità, ecc., l’istanza in rapporto alla verità. Tutto s’aggira invece intorno al Singolo. Questa categoria è il punto col quale e attraverso il quale Dio può venire in contatto con l’umanità. Togli questo punto, e Dio è detronizzato» (Diario, n. 2194 ed. Fabro).

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Quello del «Singolo» come lo intende Kierkegaard è, nell’ambito della filosofia occidentale, un concetto veramente rivoluzionario, dal quale è partito il movimento dell’esistenzialismo. Kierkegaard aveva ben compreso che si trattava della sua maggiore scoperta, al punto da affermare addirittura di desiderare come epitaffio per la sua tomba «Quel Singolo», in questo bellissimo passo: «“Il Singolo” è la categoria attraverso la quale devono passare – dal punto di vista religioso – il tempo, la storia, l’umanità. […] Il mio compito […] è quello di umile servitore che cerca, se possibile, di aiutare le folle ad attraversare questo passo del “Singolo”, attraverso il quale però, si badi bene, nessuno in eterno penetra senza diventare “il Singolo”. Eppure se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che “Quel Singolo” – anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito. Con questa categoria “il Singolo”, quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema, ed ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia importanza storica. […] “Il Singolo”: con questa categoria sta e cade la causa del Cristianesimo, dopo che lo sviluppo del mondo ha raggiunto il grado attuale di riflessione. Senza questa categoria, il Panteismo ha vinto assolutamente…» (Diario, n. 1616 ed. Fabro). La verità è la Soggettività, e la Soggettività nel senso del Singolo è la realtà (cfr. infra, pp. 1229 ss.). L’esistenzialismo è nato, come sopra dicevamo, proprio da questa categoria, ma l’ha sviluppata in direzione opposta, in senso ateistico, e quindi perdendo il senso e la portata della scoperta di Kierkegaard, il quale dice espressamente: «Il Nuovo Testamento consiste nell’esigenza: “Arrischia come Singolo di metterti in rapporto con Dio”. Noi uomini invece diciamo: “Uniamoci per rendere culto a Dio: quanti più siamo, tanto più siamo felici, sinceri, e accetti a Dio!”. — Oh, stolti, furfanti: perché siete insieme l’una e l’altra cosa? — Per il Cristianesimo infatti si tratta di mettersi come Singolo in rapporto con Dio: sì, è un bel rischio per cui ci vuole il coraggio della disperazione, e uno sforzo ch’è il più grande di tutti. […] Nel Cristianesimo Dio si è messo in rapporto con gli uomini secondo la più grande misura possibile: col Singolo è stato possibile il rapportarsi a Dio. — Proprio in questa enorme concessione sta poi a sua volta la autoaffermazione di Dio: io voglio mettermi in rapporto solo con il Singolo. — Mettersi in rapporto con il Singolo, con ogni Singolo! Questo è quell’enorme “più” che ha il Cristianesimo su tutto il paganesimo e il giudaismo, dove Dio permette al Singolo di rapportarsi a Lui unicamente attraverso un astratto» (n. 3996 ed. Fabro). Ma Kierkegaard si spinge ancora oltre: Dio, che è l’eterno, non si è fatto uomo nel tempo come uomo in astratto e in senso ideale, ma si è fatto uomo proprio come Singolo: «… l’edificante della sfera del paradosso corrisponde alla determinazione di Dio nel tempo come uomo singolo» (infra, p. 1545), ossia facendosi uguale all’uomo addirittura nella povera figura di “servo”»: «La realtà storica è che Dio, l’eterno, è venuto ad essere in un determinato momento del tempo come un uomo singolo» (p. 1573).

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Strettamente connessi a questa idea di base dell’uomo come Singolo sono i concetti di «possibilità», di «angoscia» (presentati nella celebre opera Il concetto dell’angoscia) e di «disperazione» (discusso nello scritto La malattia mortale, uno dei suoi capolavori). La possibilità è la categoria più pesante dell’esistenza, perché in essa si attua la libertà e tutto ciò che questa comporta. E l’angoscia è «la realtà della libertà come la possibilità per la possibilità» (p. 411). L’angoscia è quel sentimento che prova l’uomo, il quale, nel rapportarsi a se stesso, non riesce a possedersi e ad appagarsi, e di conseguenza cade in disperazione. E la disperazione è «un morire continuo senza morire». Dalla malattia mortale si guarisce solo con la fede, di cui parleremo. 5. L’avversione radicale di Kierkegaard alla filosofia di Hegel Sul rapporto di Kierkegaard con Hegel si è detto molto, ma non sempre si è raggiunto il punto chiave, e cioè che Kierkegaard affronta Hegel colpendolo al cuore, e quindi trascura di esaminare le varie articolazioni e figure teoretiche del sistema; ma proprio colpendone il cuore, ne determina immediatamente la morte. Col suo «sistema», Hegel ha voluto spiegare tutto, e di conseguenza non ha capito la natura del Singolo e l’esistenza reale: «una cosa è sfuggita a Hegel: cos’è vivere» (Diario, n. 1249 ed. Fabro). Con la sua «scalata» al cielo «a forza di sillogismi» (Diario, n. 395 ed. Fabro), non ha compreso la verità di Dio e ha snaturato nell’astrazione e nella speculazione il Cristianesimo: «Il lato pericoloso nell’opera di Hegel è che egli ha snaturato il Cristianesimo, mettendolo così d’accordo con la sua filosofia» (Diario, n. 3568 ed. Fabro). Si possono ben comprendere, di conseguenza, anche gli insulti che Kierkegaard gli rivolge, in quanto non ammette che, essendo un uomo tanto intelligente e tanto colto, Hegel commettesse errori tanto gravi, gabellandoli come verità. Il giudizio più tagliente lo ha dato soprattutto sulla Logica: «Se Hegel, una volta scritta la sua Logica, l’avesse definita – nella sua prefazione – come un semplice esperimento di pensiero e avesse anche confessato d’aver in molti punti eluso i problemi, sarebbe stato senza dubbio il più grande pensatore di tutti i tempi. Com’è ora, è semplicemente comico» (Diario, n. 1041 ed. Fabro). Va però riconosciuto che Kierkegaard deve moltissimo a Hegel, come espressione paradigmatica della posizione antitetica alla propria, e l’elenchos dialettico lo ha aiutato a auto-comprendersi e auto-definirsi. Kierkegaard si è comportato con Hegel proprio come Nietzsche con Socrate, con cui ha polemizzato, e anche con violenza, per tutta la vita, ma proprio per il bisogno di auto-comprendersi. In un frammento del 1895 Nietzsche scriveva infatti: «Socrate – lo confesso – mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui».

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6. Il giudizio di Kierkegaard su Socrate Fabro ritiene che il filosofo antico che ha maggiormente influito su Kierkegaard sia stato Aristotele. Ma su questo punto non concordiamo con lui, in quanto i molti concetti desunti da Aristotele non toccano il centro della sua filosofia se non parzialmente. Crediamo invece che in qualche modo abbia ragione Heidegger, il quale diceva che, mentre si può affermare che il Nietzsche metafisico sia vicino ad Aristotele, «Essenzialmente lontano da Aristotele resta invece Kierkegaard, anche se lo nomina spesso. Infatti Kierkegaard non è un pensatore, ma uno scrittore di cose religiose, e, certo, non uno qualsiasi, ma l’unico a misura del destino del suo tempo. In ciò risiede la sua grandezza…» (Holzwege, trad. Cicero, ed. Bompiani, p. 295). Kierkegaard considera infatti non Aristotele ma Socrate il più grande dei pensatori greci, perché vede in lui un anticipo dell’interesse per il Singolo, con la sua dottrina del «conosci te stesso», per la sua maieutica e per molti altri aspetti, che il lettore interessato troverà documentati nel nostro Socrate (Rizzoli 2000; BUR 2001, 20135). Kierkegaard nel suo Diario (n. 2195 ed. Fabro) scrive addirittura: «Socrate è l’unico “martire” in senso eminente, l’uomo più grande». Perciò non esita ad affermare quanto segue: «Fuori della cristianità non c’è che Socrate. Tu, o natura nobile e semplice, tu eri veramente un riformatore» (n. 3913 ed. Fabro). E precisa: «I filosofi hanno molti pensieri i quali tutti valgono fino a un certo punto. Socrate ne ha uno solo, ma assoluto» (infra, p. 601, in nota). 7. La fede e i suoi rapporti con la ragione Per comprendere a fondo il motivo per il quale solo se si entra nella dimensione della fede si può intendere Kierkegaard, dobbiamo riprendere il problema ermeneutico formulato da Heidegger nel passo sopra riportato, mostrando la sua veridicità mediante due esempi, che spesso richiamiamo. Chi è cieco non solo non può parlare della luce e dei colori in alcun modo, ma non può neppure intendere ciò che uno gli potrebbe dire su tali cose, in quanto non disporrebbe di alcun dato genuino da cui partire per intendere ciò che gli viene detto. Chi è sordo non può capire che cosa sia il suono e tutto ciò che vi è connesso, né potrebbe comprendere ciò che qualcuno gli volesse dire sui suoni e sulla musica, in quanto non disporrebbe di alcun dato genuino per intendere ciò che gli viene detto. Kierkegaard stesso chiarisce la questione con una splendida metafora: «L’ingegnoso pagano ha detto: “Datemi un punto fuori, e io muoverò la terra”; il nobile spirito ha detto “Datemi un grande pensiero”: oh, la prima non è possibile, e la seconda non serve del tutto. C’è una cosa soltanto che può aiutare,

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ma essa non la si può avere da un altro: credi, e tu muoverai le montagne!» (p. 2229). L’«ingegnoso pagano» è Archimede, il «nobile spirito» è Herder. Quanto Kierkegaard dice in riferimento a Herder, è sostanzialmente vero: un «grande pensiero» serve poco. Quanto dice in riferimento ad Archimede va completato, proprio sulla base delle sue conclusioni: un punto d’appoggio per sollevare il mondo non c’è nell’universo fisico; questo punto sta «fuori» del fisico, e consiste proprio nella «fede». E ripete questo più volte, sempre con riferimento ad Archimede, specialmente nel Diario, come per esempio nel passo che segue: «Questo punto di Archimede da cui si potrà sollevare il mondo intero […] non può essere che fuori del mondo, sciolto dai legami del tempo e dello spazio» (n. 49, ed. Fabro). E proprio mettendo la fede al centro del suo interesse di uomo e del suo pensiero, Kierkegaard capovolge la struttura del sistema di Hegel, che concepisce il dispiegamento dello Spirito assoluto in base alla triade «arte», «religione» e «filosofia», nella quale la filosofia viene intesa come un «superamento» e «inveramento» della fede, e quindi viene presentata come nettamente superiore a essa. Per Kierkegaard è vero esattamente l’opposto. Anzi la fede è, per lui, ancor più che un «superamento» e un «inveramento» della scienza in senso hegeliano: la fede implica una rinuncia alla scienza e alla ragione, con l’accettazione del mistero di Dio eterno che entra e diviene nel tempo un uomo, un «Singolo»: «Dio, l’eterno, è venuto ad essere in un determinato momento del tempo come un uomo singolo» (infra, p. 1573). E, per la ragione, proprio questo è un «paradosso», un «assurdo», uno «scandalo». La fede consiste nel «rinunziare alla propria ragione e al proprio pensiero e mantenere la propria anima nell’assurdo» (p. 1541). Kierkegaard dice, inoltre, che il Cristianesimo non è una dottrina, ma un «impegno esistenziale», e lo ripete più volte, come per esempio in questo passo: «Il cristianesimo non è dunque una dottrina, ma esprime una contraddizione di esistenza ed è una comunicazione dell’esistenza. Se il cristianesimo fosse una dottrina, non potrebbe eo ipso costituire l’antitesi della speculazione, ma sarebbe un momento dentro di essa. Il cristianesimo riguarda l’esistenza, l’esistere; ma l’esistenza, l’esistere, sono precisamente l’antitesi della speculazione» (p. 1283). L’impegno esistenziale della fede «non vuole neppure essere una volta sola il paradosso per il credente e poi, a poco a poco, sottomano, renderglielo comprensibile; perché il martirio della fede (crocifiggere la propria ragione), non è il martirio di un momento, ma il martirio appunto della durata continua» (p. 1543). Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un fideismo, addirittura estremo. Ma la posizione di Kierkegaard è diversa: egli sostiene la tesi secondo cui il cristiano, nel momento in cui crede contro la ragione, «usa anche qui la ragione», e la usa proprio per porre l’attenzione «al fatto che egli crede contro la ragione». E precisa: «Perciò egli non può credere nessuna assurdità contro

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l’intelligenza, ciò che forse qualcuno potrebbe temere, perché la ragione vedrà precisamente da parte a parte ch’è un non senso e gli impedirà di credervi: ma egli usa l’intelligenza tanto meglio in quanto attraverso essa egli diventa attento all’incomprensibile e allora si rapporta a questo credendo contro la ragione» (p. 1557). Dunque, è ragionevole credere per fede a ciò che la ragione non è in grado di spiegare. E il fatto che Cristo sia Dio che si incarna in un uomo singolo e si abbassa come servo, la ragione non solo non lo può spiegare, ma quando tenta di spiegarlo speculativamente gli fa perdere il suo vero senso. Due bellissimi passi del Diario riassumono punti-chiave del pensiero di Kierkegaard sulla fede. Il primo passo, per esprimere la grande fiducia che merita la fede, dice in modo icastico e con sommo vigore che Dio ha comunicato la sua Parola all’uomo con Cristo: «Perché ci si possa veramente fidare di un uomo, si esige la sua parola. Anche Dio ci ha dato la sua Parola: Cristo» (Diario, n. 3573 ed. Fabro). Il secondo esprime la difficoltà di percorrere la via della fede, in quanto essa è cosparsa da segnavia che indicano la direzione opposta: «Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia e di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità… proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa» (Diario, n. 3607 ed. Fabro). 8. L’assurdità per la ragione dell’«abbassamento» di Dio in Cristo Sull’«abbassamento» (la kénosis) di Dio in Cristo, Kierkegaard ha insistito molto: se Cristo fosse sceso nella gloria e avesse assunto la figura di un potente, tutti sarebbero accorsi da Lui; ma questo sarebbe stato paganesimo, ben lontano dal senso del Cristianesimo, come dice nei passi che seguono. «Chi è l’invitante? Gesù Cristo. Quale Gesù Cristo? Il Cristo che siede nella gloria alla destra del Padre? No. Dal trono di gloria egli non ha pronunciato parola alcuna. Dunque, quelle parole d’invito Cristo le ha pronunciate nel suo abbassamento, nella sua condizione di abbassamento» (infra, p. 1867). E ancora: «Fu Cristo stesso che volle essere l’umiliato e il povero; l’abbassamento (cioè il fatto di essere un uomo povero, benché fosse Dio) è dunque qualcosa ch’egli stesso ha combinato, qualcosa ch’egli intende mantenere, è un modo dialettico che nessuno deve avere la temerità di sciogliere e d’altra parte nessuno può sciogliere prima che lui stesso non l’abbia sciolto ritornando nella gloria [...]. È stato lo stesso Cristo a voler essere nell’abbassamento, è proprio questo ciò che egli volle far valere» (p. 1881). Uno dei connotati dell’«abbassamento» è anche quello di non aver voluto adornarsi di quella apparenza di bellezza fisica, tanto cara agli uomini terrestri: non ha voluto attirare gli sguardi degli uomini in questo modo (cfr. pp. 869 s.).

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Due altre riflessioni di Kierkegaard si prestano in modo particolare a concludere su questo punto: «L’Invitante è quindi Gesù Cristo, l’umiliato, ed è stato lui a pronunciare quelle parole d’invito. Non le pronuncia seduto in gloria. Se la situazione fosse questa, il cristianesimo sarebbe paganesimo e Cristo sarebbe preso invano; quindi non è neppure vero che sia così. Ma se fosse vero che è stato colui che siede in gloria a pronunciare quelle parole: “Venite qui”, è del tutto comprensibile che gli uomini corressero a buttarsi nelle braccia della gloria; sì, che corressero a frotte! Ma coloro che corrono a quel modo, sono gli stolti che pretendono di sapere chi è Cristo. Questo non lo sa nessuno. Per credere in lui, bisogna cominciare con l’abbassamento» (pp. 1885 s.). E poco dopo precisa: «“Venite a me, venite tutti voi che siete affaticati e oppressi, oh, venite qui: ecco ch’egli vi invita, apre le sue braccia!”. Oh, quando a lanciare quelle parole è un bell’uomo, vestito di seta e con voce gradevole e sonora, così che l’eco armoniosa si diffonde sotto la maestà delle volte, un uomo in seta che ognuno considera un onore e un vanto di poter ascoltare; quando a proferirle è un re con un mantello di porpora e velluto, che ha per sfondo l’albero di Natale da cui pendono i magnifici doni ch’egli sta per distribuire: allora, non è vero che quelle parole hanno un senso? Però, qualunque sia la tua opinione al riguardo, una cosa almeno è certa: tutto ciò non è cristianesimo, questo è esattamente il contrario e non potrebbe essere più contrario di così. Perciò non dimenticare chi è l’Invitante» (pp. 1887 s.). Infine, in un passo magistrale precisa: «Egli non può tradire se stesso; Egli non ha la possibilità, come quel nobile re, di mostrare in un baleno ch’egli è il re, ciò che però non è una perfezione nel re (l’avere questa possibilità), ma mostra solo la sua impotenza e l’impotenza della sua risoluzione, cioè ch’egli non riesce effettivamente a diventare quel che vorrebbe» (p. 665). E questo spiega perfettamente per quale ragione Cristo, crocifisso, all’insulto che gli veniva rivolto: «Se è il re d’Israele discenda dalla croce e crederemo in lui» (Matteo, 27,42), non rispose. Se fosse sceso dalla croce, avrebbe commesso non un atto di potenza ma di impotenza, in quanto non sarebbe stato quello che voleva invece essere. 9. Cristo per ogni credente è un «contemporaneo» Kierkegaard presenta poi un concetto di grande profondità metafisica e teologica: «La vita di Cristo sulla terra non è un passato […]. La sua vita sulla terra possiede la contemporaneità eterna» (p. 1927). Precisamente: il vero contemporaneo di Cristo «è soltanto il credente e ogni credente» (p. 685), in qualsiasi tempo. In altri termini, il contemporaneo di Cristo è colui che guarda Cristo non con gli occhi del mondo ma con gli occhi della fede: «Oh, felice davvero un simile contemporaneo!» (ivi). Questo significa che la vita di Cristo sulla terra non è un evento passato, ma è un evento sempre presente, almeno fino a quando ci

KIERKEGAARD PIÙ CHE MAI ATTUALE

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saranno fedeli sulla terra. Cristo diverrebbe un fatto remotissimo, solo nel caso che non ci fossero fedeli sulla terra. Kierkegaard scrive: «Ma fin quando esiste un credente, bisogna ch’egli, per essere divenuto tale, sia stato e, come credente, sia contemporaneo della sua presenza come i primi contemporanei; questa contemporaneità è la condizione della fede, o più esattamente la definizione della fede. Signore Gesù Cristo, fa’ che a questo modo possiamo diventare tuoi contemporanei così da vederti nella tua vera figura e nell’ambiente dove realmente camminavi sulla terra e non nella forma di un ricordo, vuoto e insignificante, frutto di una esaltazione spensierata o sommersa nelle chiacchiere della storia; poiché non è questo l’aspetto dell’abbassamento in cui ti vede il credente, né è impossibile che sia quello della gloria in cui nessuno ancora ti ha visto» (p. 1845). 10. Interpretazione del concetto di amore cristiano al più alto grado Sull’amore Kierkegaard ha espresso concetti assai profondi, nell’ottica dell’«agape», ossia dell’«amore donativo». Ha spiegato che l’amore è tanto più grande quanto più piccolo è l’oggetto amato, e che, quindi, l’amore ha un rapporto inversamente proporzionale alla grandezza e all’eccellenza dell’oggetto. Si tratta di un radicale e totale capovolgimento del concetto greco di amore come eros, che è «amore acquisitivo», e che è tanto più grande quanto è più grande l’oggetto amato. L’amore, dice Kierkegaard, «è trionfante quando rende uguali nell’amore gli ineguali» (p. 625), come Dio ama gli uomini nel suo «abbassamento» in Cristo: «Se l’unità non si potesse realizzare con un’elevazione, si dovrebbe cercare di farla con l’abbassamento […]. Per poter realizzare l’unità con l’uomo, bisogna che diventi uguale all’uomo. Così egli apparirà uguale al più povero. Ma il più povero non è forse colui che deve servire gli altri? Quindi Dio si mostrerà “in figura di servo”» (p. 631). Due altri passi di Kierkegaard esprimono in modo perfetto il messaggio cristiano, che è il più dirompente di tutti i tempi. Nel primo passo Kierkegaard dice: Cristo «come non trovò mai uno tanto misero che gli impedisse di entrarvi con gioia, mai un uomo tanto insignificante da non voler collocare la sua dimora nel suo cuore, così non ha neanche mai rinnegato la sua autorità divina. Egli viene a noi in povertà per non angustiarci con la sua magnificenza; ma nello stesso tempo viene in magnificenza celeste come Colui “nel cui Nome ogni ginocchio deve piegarsi così in Cielo come in terra” [...] Quando ti sentirai impotente e sfinito, [...] nell’ora opportuna sentirai la certezza celeste» (Diario, n. 549 ed. Fabro). Nel secondo passo ribadisce: «Il sillogismo è questo. L’amore (cioè il vero amore, non l’amor proprio che ama soltanto ciò ch’è egregio, eccellente, ecc., quindi in fondo non ama che se stesso) sta in rapporto inverso alla grandezza e all’eccellenza dell’oggetto. Se quindi io sono proprio una nullità, se nella mia

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miseria mi sento il più miserabile di tutti i miserabili: bene, è certo allora, eternamente certo, che Dio mi ama. Cristo dice: “Neppure un passero cade a terra, senza la volontà del Padre” (Matteo, 10,29). Oh, io faccio un’offerta più umile ancora: davanti a Dio io sono meno di un passero: tanto è più certo allora che Dio mi ama, tanto più saldamente si chiude il sillogismo. — Sì, lo Zar delle Russie, di lui si potrebbe forse pensare che Dio lo potrebbe trascurare: Dio ha tante altre cose da ascoltare! e lo Zar delle Russie è una cosa tanto grande. Ma un passero... no, no..., perché Dio è amore, e l’amore si rapporta inversamente alla grandezza e all’eccellenza dell’oggetto. — Quando ti senti abbandonato nel mondo, sofferente, quando nessuno si prende cura di te, tu concludi: “Ecco che Dio non si prende cura di me”. Vergògnati, stolto e calunniatore che sei! tu che parli così di Dio. No, proprio chi è più abbandonato sulla terra, egli è più amato da Dio. E se non fosse assolutamente il più abbandonato, se avesse ancora una piccola consolazione, anzi se anche questa gli venisse tolta: nello stesso momento diventerebbe più certo ancora che Dio lo ama» (Diario, n. 3491 ed. Fabro). Questi testi di Kierkegaard, come sopra dicevamo, sono «attuali», perché contengono verità eterne, le quali, proprio perché eterne, valgono per tutti i tempi. Ha dunque perfettamente ragione Fabro nel dire: «Oggi nella vita dello spirito, la sua voce esige di diventare sempre più presente in tanto brusio di bagatelle, nell’incombere minaccioso di catastrofi senza pari: la speranza ch’essa accende, in questo zenit di fuoco e di disperazione del nostro tempo, può diventare una certezza che l’uomo si può ancora salvare» (infra, p. 102).

INTRODUZIONE di

Cornelio Fabro

«... io sono e sono stato uno scrittore religioso,… tutta la mia attività si rapporta al Cristianesimo, al problema del “diventare cristiano”». Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore, in Opere, ed. Piemme 1995, pp. 21 s. «... tutta la mia attività letteraria si rapporta al Cristianesimo, al problema di diventare cristiano...». Kierkegaard, S.V., XIII, p. 551

Vita, opere e pensiero di Søren Kierkegaard e storia dei suoi influssi Prologo: l’enigma di Kierkegaard La mia disgrazia, ovvero ciò che rende la mia vita così ardua, è il fatto che la mia tensione è di un tono più alta di quella degli altri uomini; e dove sono io, ciò che intraprendo non ha niente a che fare con la cosa singola, ma sempre con un principio e una idea (Diario 1849, X1 A 476 = 1876).

Chiunque si risolve ad avvicinare direttamente i testi originali della produzione kierkegaardiana avverte subito che si tratta qui di un’attività letteraria di un tipo singolare che non trova riscontro in nessuna letteratura. Si tratta di un giro di pensiero che elude gli schemi di qualsiasi scuola filosofica o teologica: è un’impressione di sgomento come di fronte a una montagna irta e impervia senza sentieri o nel turbinare di una tempesta dove sembra venga a mancare ogni punto di riferimento. Questa è spesso la prima impressione al primo contatto diretto con il Kierkegaard reale. E non è detto che dopo anni (e magari più di trent’anni!) di assidua frequenza quell’impressione sia mutata, piuttosto si è intensificata e approfondita trascinando il malcapitato, che ha osato sfidare quel labirinto di fuoco, nei gorghi di una dialettica di cui appena ora s’intravede il cominciamento. Poiché, come diremo subito, qui non si tratta né di un semplice giro di pensiero che si svolge come un Tutto (Spinoza, Hegel), né di un’intuizione che si dilata da se stessa in sistema (Fichte, Schelling) e neppure di una vita che si fa riflessione di pensiero (Pascal) o di un pensiero che scandaglia gli abissi della vita (Agostino): il problema allora, per quanto possa riuscire arduo e complesso, rimarrebbe sempre un compito accessibile all’acribia critica di uno studio perseverante e oggettivo. C’è, certamente, anche in Kierkegaard, la complessità dell’opera del genio che molte interpretazioni – anche fra le più note e correnti, specialmente fra 1 I testi del Diario vengono citati in seguito soltanto col numero progressivo (indicato fra parentesi) della seconda edizione della traduzione italiana (2 voll., Brescia 1962).

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INTRODUZIONE DI CORNELIO FABRO

noi e in genere dovunque non si accede direttamente al testo originale – non hanno ancora potuto o voluto decifrare. Ma anche per chi osa accedere direttamente al testo originale e vuole renderlo nella propria lingua e cultura cercando, com’è ovvio, una propria interpretazione, l’impresa non è facile. La prima difficoltà viene dalla lingua di Kierkegaard ch’è fra le più complesse e disarmanti, anche per i lettori danesi2, a causa della gamma degli incisi, delle innovazioni stilistiche e sintattiche, delle allusioni sacre e profane di cui il testo è tutto irto: uno stile che non ha l’eguale poiché sa passare nella stessa opera, anzi nello stesso contesto, dall’impeto spumeggiante all’esposizione trattatistica più controllata, dalle divagazioni e immagini più vaporose ed evanescenti di rapimento estetico alle formule rapide e severe della verità che non muta. Di qui l’intreccio di proposizioni coordinate e subordinate che plasma le parole con la dialettica del pensiero e veste l’ardito volo con le audacie di un periodare che esalta la fantasia ma che spesso trascina il lettore in un labirinto e gli mozza il fiato travolgendo anche l’attenzione più impegnata3. Ma questi sono ancora problemi di natura esteriore, cioè si tratta di difficoltà di semplice lettura e non ancora d’interpretazione e di afferramento sostanziale nel giro vivo dell’opera stessa. Una seconda – e più interiore – difficoltà di lettura (una difficoltà finora troppo trascurata!) è la triplicità dei piani o orizzonti in cui si presenta la produzione di Kierkegaard: l’arco degli Scritti pseudonimi, che sono i più 2 Cfr. Diario, tr. it., Brescia 19622, t. I, pp. 81 s. Su questa difficoltà che presenta la traduzione dei testi kierkegaardiani e sulla necessità di una conoscenza diretta dell’ambiente danese, si è espresso con termini molto drastici anche un recente critico danese: «Non si creda pertanto che sia senz’altro possibile tradurre Søren Kierkegaard in una lingua straniera. Se si ha realmente familiarità con lui o col suo ambiente e sfondo storico, si fa spontaneamente la scoperta che il suo stile possiede quelle fini modulazioni e variazioni che sono tipicamente danesi e che noi anche qui urtiamo in qualche particolare humour danese che non si può riprodurre in altre lingue senza falsarlo. Una singola parola può nascondere tanti significati e variazioni e risvegliare associazioni così numerose o offrire tante allusioni che si mostra impossibile (als unmöglich) tradurre immutato il testo in altra lingua» (S. HOLM, Grundtvig und Kierkegaard, CopenaghenTübingen 1956, p. 13). 3 Per questo è stato giustamente osservato che per addentrarsi nel pensiero di Kierkegaard non basta conoscere le sue opinioni, ma bisogna anche studiare la forma letteraria con la quale egli riveste i suoi pensieri. Si può vedere allora che in ognuno dei suoi scritti egli sa scegliere la forma letteraria più consona e adatta all’idea dominante dello scritto stesso con un’arte somma nel mostrare la dialettica fra forma e contenuto (cfr. F.J. BILLESKOV JANSEN, Studier i Søren Kierkegaards litteraere Kunst, Copenaghen 1951). A p. 10 l’autore parla di «categorie stilistiche» di cui indica alcuni esempi: in Aut-Aut per esempio il «caos letterario» dell’esteta della parte prima (p. 27), la «lirica del paradosso» (p. 31), il «cosmo letterario» dell’etica della parte seconda (p. 38). Importante e divertente è l’analisi del complicato («mostruoso!») titolo e sottotitolo della Postilla conclusiva non scientifica e delle Briciole: «Composizione mimico-patetico-dialettica. Saggio esistenziale» (pp. 51 ss.) e dello stile popolare dei Discorsi edificanti (pp. 64 ss.). Si collegano a questo studio le acute osservazioni sul carattere di Kierkegaard, come uomo e come scrittore, del saggio di V. CHRISTENSEN, Kierkegaards-Dramaet, Copenaghen 1967, pp. 43 ss., 63 ss.

PROLOGO

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noti, gli Scritti edificanti noti a pochi in piccola parte e anzi a pochissimi nella completa espansione del suo genio, e infine la selva delle «Carte» del Diario di cui dal 1970 è stata ultimata la pubblicazione. Ma quasi non bastasse tutto questo, bisogna riconoscere che dentro ciascuna di queste immense produzioni le difficoltà crescono quando si passa da pseudonimo a pseudonimo e perfino nel passaggio delle parti di una stessa opera: per esempio, fra le «Carte» di A e di B di Aut-Aut, fra le diverse sezioni degli Stadi o i complessi capitoli del Concetto dell’angoscia, fra le prospettive delle due opere di Johannes Climacus o anche fra le parti e sezioni della Postilla conclusiva, fra l’estrema tensione di salvezza nelle due opere di Anti-Climacus... Gli stessi Discorsi edificanti, che si propongono di offrire la «comunicazione diretta», si sprofondano d’improvviso nei recessi più inaccessibili dello spirito in una tensione di allucinante dialettica e contemplazione del sacro che consola e punge a un tempo. La chiave o cifra sicura dell’interpretazione cercata, dovrebbe – a detta dello stesso Kierkegaard – essere trovata nelle «Carte» del Diario ch’egli tenne con gelosa cura per sé: in realtà esse sono la guida indispensabile per poter avvicinare il ribollire incessante del suo spirito mai pago di ciò che vedeva attorno a sé e sempre tormentato da quanto provava in sé in una tensione che saliva, invece di diminuire, a ogni tappa. È vero che l’esegesi kierkegaardiana più recente ha fatto giustamente delle «Carte» del Diario la fonte primaria e il riferimento diretto come all’espressione originaria dei suoi pensieri e al segreto nascondiglio dei suoi sentimenti ove egli «provava» la tensione della libertà nella dialettica della vita, mettendo a nudo la sua anima, a differenza degli Scritti pseudonimi 4. Manca però ancora uno studio completo e comparato della loro struttura, soprattutto a partire dal 1849 quando – chiuso il rapido ciclo degli Pseudonimi – Kierkegaard affida soltanto alle «Carte» le riflessioni e le reazioni a un mondo che sente diventargli sempre più estraneo e quando vede sempre più allontanarsi il progetto e la speranza di tutta la vita, quello di attirare Mynster al rinnovamento di una cristianità stagnante e ingolfata nella mondanità. Pertanto le stesse difficoltà oggettive di una lettura, se non adeguata almeno attendibile di quest’opera gigantesca, sfidano i lettori più attenti e le volontà più forti le quali, forse proprio per questo impeto di voler centrare il bersaglio, spesso sconfinano ai lati e lo scavalcano finendo nello spazio vuoto. La realtà è che per capire Kierkegaard l’unico criterio è Kierkegaard stesso, cioè l’abbandonarsi docile al ritmo del suo discorrere, l’accogliere attento del suo donarsi dentro agli accorgimenti di un’abilità letteraria sopraffina e di una radicalità problematica sconcertante: cioè lo stare in ascolto del 4 È la via seguita da quella che ci piace chiamare la seconda Kierkegaard-Renaissance (cfr. infra, pp. 86 ss.) che riporta il pensiero di Kierkegaard non all’una o all’altra filosofia ma a se stesso: spec. C. Jørgensen, N. Thulstrup, V. Christensen e i collaboratori della collana «S. Kierkegaard populaere Skriften», Copenaghen 1949 ss., di cui diremo più sotto (abbr.: SKS).

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tumultuare del suo animo capace di passare in pochi istanti dai turbamenti sconvolgenti della catastrofe alla sorpresa d’illuminazioni e consolazioni paradisiache. Egli non è soltanto un «Giano bifronte» (457), come amava definirsi, ma ognuna delle fronti o lati del suo spirito è capace di riflettersi e sdoppiarsi, ancora e poi di nuovo ancora... in un movimento di vertigine che dava a lui stesso alle volte l’impressione di essere librato sull’abisso e di sprofondare nel vuoto. Gli stessi spiriti sommi a lui più congeniali in questa dialettica infinita – si possono indicare, e sono stati indicati, Dante, Pascal, Shakespeare e più vicino a noi Dostoevskij... – presentano, sia pure in modi diversi, qualche saldo punto di riferimento (per esempio, un fermo concetto di Dio o dell’uomo...) per il loro scavo in profondità dell’uomo eterno: questo punto di Kierkegaard non c’è o almeno esso non è subito evidente e non diventa senz’altro visibile ma dev’essere conquistato. Si vuole dire – con una formula paradossale – che la chiave ermeneutica dell’interpretazione oggettiva della produzione kierkegaardiana è soggettiva, ossia ch’essa dipende da una decisione radicale da parte del lettore di mettersi in sintonia con la sua scelta, di viverla sulla sua scia per proprio conto con tutto il rischio portandosi al largo, come dice Kierkegaard stesso, dove l’acqua ha la profondità di 70.000 piedi: tale è anche il significato del principio dell’esistenza enunziato da Johannes Climacus che «la soggettività è la verità»5. Un’espressione senz’altro paradossale in colui ch’è stato il massimo oppositore di Hegel6 nell’Ottocento, la quale – come fa lo stesso Kierkegaard – può essere capovolta nel senso che siffatta soggettività è l’unica verità che salva poiché essa significa la decisione ultima della libertà, ch’è l’appropriazione, da parte del singolo, della fede come l’unico «punto di Archimede» (2192, 3055). Infatti è soltanto mediante la fede che l’uomo può fare resistenza al flusso inarrestabile del tempo e della storia per rapportarsi direttamente all’assoluto e all’eterno. Estraneo al suo tempo, Kierkegaard rimane ancor più estraneo al nostro che pullula di lassismo morale e di mediocrità speculativa, mentre si compiace di facili etichette cambiando a ogni stagione: tutto il chiasso che si è fatto attorno a lui, specialmente in quest’ultimo cinquantennio da quando la Kierkegaard-Renaissance tedesca con Barth, Jaspers e Heidegger l’ha buttato sul mercato mondiale delle idee piegandolo allo storicismo moderno, non ha fatto che offuscare quell’Idea per la quale egli ha lottato e si è sacrificato: 5

Postilla conclusiva non scientifica, P. II, Sez. II, c. 2, pp. 360 ss. Per il confronto con Hegel ne ha dato ora un’ampia rassegna critica N. THULSTRUP, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel, Stuttgart 1969. Fino al 1933 manca un esame esauriente del rapporto in questione: F. Petersen, autocontraddizioni e mancanza totale di comprensione – p. 22; G. Brandes, trascura completamente il problema – p. 25; H. Høffding, comune base della dottrina della conoscenza di Kierkegaard e di quella di Hegel – p. 31; T. Bohlin, omette il problema essenziale della differenza fra la filosofia (idealistica) e il cristianesimo – pp. 78 s.; F. Hirsch, malgrado le precise analisi particolari, ignora il problema principale del confronto – p. 132. 6

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l’onestà (Redelighed) della ricerca, l’aspirazione all’assoluto (det Ubetingede) come compito e scopo unico dell’esistenza dell’uomo, l’accettazione dell’Uomo-Dio come modello (Forbillede) unico del cristiano7. Su questo ideale purissimo non sono passati soltanto i carri armati del neokantismo, del positivismo e dell’idealismo, i quali hanno tagliato alla radice la libertà che autentica la dignità della persona, ma ora scorrazzano dovunque il marxismo, la fenomenologia, lo strutturalismo e perfino – a scorno e sacrilegio – il cosiddetto esistenzialismo ateo che hanno fatto la terra bruciata dello spirito suonando i tamburi – come nel Riccardo III di Shakespeare – della scienza, della sociologia, della psicanalisi, delle filosofie analitiche... ossia di tutte quelle bagatelle che Kierkegaard aveva già diffidate come foriere di confusione e di tenebre nel mondo dello spirito.

Una vita di fedeltà all’idea Ecco, l’importante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più (Diario 1837, II A 58 = 174).

Un curriculum vitae di Kierkegaard, nel senso di un qualche intreccio di eventi esteriori o d’impegni particolari di vita pubblica o accademica, è completamente insignificante: nulla si trova nella sua vita che abbia qualche rilievo o possa aver dato nell’occhio nell’agitarsi comune a ogni epoca, e l’Ottocento è stata un’epoca fra le più agitate, e più frequente nelle capitali ove convengono i moti d’ogni genere e ceto di una nazione intera. La Danimarca era ed è restata un «piccolo paese» (lille Land: 1966) e Copenaghen allora era una cittaduzza (lille Kjöb: 1172): non pochi spiriti di un livello immensamente inferiore al suo ebbero risonanza notevole – egli solo, si può dire, visse appartato in un mondo senza finestre ove circolavano soltanto gli echi e le istanze del suo spirito. È vero ch’egli tentò, lo confessa egli stesso, di fare qualche sortita verso lo «umano generale» e d’inserirsi nella vita sociale: per esempio, prima col fidanzamento con Regina, e poi con il progetto sia di un posto d’insegnamento nel seminario, sia di diventare pastore di campagna: ma tutto andò in fumo. E non poteva essere diversamente: egli attribuiva questo suo fallimento 7 È il nucleo effettivo dell’opposizione di Kierkegaard a Hegel e al pensiero moderno (cfr. N. THULSTRUP, op. cit., pp. 145 ss.; a pp. 154 ss. l’autore critica specialmente le posizioni di J. Wahl, K. Löwith, W. Anz).

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completo sul fronte della vita e delle ambizioni ovvie, e quasi inevitabili di ogni uomo, alla sua malinconia e in ultima analisi al suo «pungolo nella carne». E in verità se mai fu nell’epoca moderna un tipo di vita tutta predeterminata per uno scopo totale, questa è la vita di Søren Kierkegaard. Ed egli stesso, che confessa spesso con candore di amare tanto gli uomini e specialmente l’«uomo comune» (den menige Mand)8, se ne accorgeva a ogni tentativo di evasione e ne soffriva intimamente: ma insieme vi scorgeva anche il piano della Provvidenza per la sua missione eccezionale. Perciò poteva scrivere: «Solo quando mi metto a scrivere io mi sento bene. Dimentico allora tutti i dispiaceri della vita, tutte le sofferenze; mi trovo col mio pensiero, mi sento felice. Basta ch’io smetta per un paio di giorni e subito mi sento male, pieno d’incomodi e di acciacchi, con la testa pesante e oppressa. Un simile impulso così ricco, inesauribile, mantenuto di giorno in giorno per cinque o sei anni e che fluisce così abbondante: un tale impeto non può non essere una vocazione divina. Se questo, se tutta questa ricchezza di pensieri che ancora fremono nell’anima mia, dovesse venire repressa, sarebbe per me un tormento e un martirio e non sarei più capace di nulla». E, dopo un fiero lamento «di essere stato dato in pasto alla vigliacca invidia degli aristocratici e allo scherno della plebaglia», confessa: «Non ho scelto da me la carriera dello scrittore: al contrario essa è la conseguenza di tutta la mia individualità e della mia aspirazione più profonda». Confessa ancora che la sua posizione nella vita è di non aver nessuna posizione: «mi tocca navigare in mare aperto e vivere a discrezione, abbandonandomi completamente nelle mani di Dio» – a differenza degli altri «che hanno impieghi fissi, non si sforzano mai fino all’estremo delle forze, vivono tranquilli con moglie e bambini». E conclude – e la sua dichiarazione è ormai per noi un bilancio anticipato della sua vita e il segreto del suo «cruccio gioioso»: «Credo che a me spetti di fare a meno di tutto questo. Perché non dovrebbe essere permesso di fare ciò che si legge a ogni passo del Nuovo Testamento? Disgraziatamente gli uomini non conoscono quel che comporta il cristianesimo: perciò io non riscuoto simpatie, non sono capito affatto» (1051). Tale il punto centrale della sua biografia interiore come scrittore ch’egli riprenderà e approfondirà sia nel Bilancio come nel Punto di vista della mia attività di scrittore del 1848-49. Solo chi avesse la forza d’animo e la possibilità di lavoro da seguire i cenni biografici rapidi e scarsi ma efficaci sparsi nel Diario e potesse raccogliere le infinite modulazioni del suo spirito sugli eventi della vita letteraria, politica, religiosa del suo tempo e fosse infine in grado di seguirlo fin nelle introspezioni spesso allucinanti ma sempre illuminanti 8 Cfr. JØRGEN BUKDAHL, Søren Kierkegaard og den menige Mand, SKS IX-X, Copenaghen 1961, spec. pp. 65 ss. («Den vise og den enfoldige» = il sapiente e il semplice) e p. 74 per la lotta col «Corsaro», scaturita come una difesa dell’uomo comune contro le sobillazioni della stampa.

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del suo spirito così da cogliere la sua continuità profonda fra le oscillazioni e anche le mutazioni più previste (per esempio il rapporto a Mynster!) – costui sarebbe in grado di darci una biografia che avanzerebbe le stesse Confessioni di s. Agostino e le Pensées di Pascal. Ma costui non poteva essere che Kierkegaard stesso e tale biografia trascendentale è l’intera sua opera, nelle sue fasi molteplici e nelle diverse parti, dov’egli continua a vivere per noi. Il curriculum esteriore della sua vita si può esaurire in poche righe. Søren Aabye Kierkegaard nasce il 5 maggio 1813 nella casa paterna a Copenaghen al Mercato Nuovo (Nytorv), nr. 2 ora 27, ultimo di sette figli e il 3 giugno riceve il battesimo nella chiesa dello Spirito Santo. Nel giro di pochi anni la casa è spopolata dalla morte che risparmia il vecchio padre, il gracile Søren e il fratello Pietro che morirà per ultimo, vescovo dimissionario di Aalborg, il 24 febbraio 1888 a 82 anni compiuti9. Il 20 aprile 1828 riceve la Confermazione nella chiesa parrocchiale di Nostra Signora dal primo cappellano J.P. Mynster. Due anni dopo nel 1830 s’iscrive all’università per conseguire il grado di Magister Artium, un cammino che gli costerà un decennio di crisi e alternative di ogni genere, compresa la delusione del vecchio padre che moriva (nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1838) senza vederlo arrivato alla meta accademica: la madre scomparve il 31 luglio 1834 e il 13 marzo era morto Poul Martin Moeller, suo professore all’università e amico del cuore. Nel maggio del 1837, fra l’8 e il 16, avviene il primo incontro con Regina Olsen presso i Rördam a Frederiksberg e il Diario comincia a segnare le impressioni tumultuose del suo animo solo il 2 febbraio 183910, il fidanzamento avviene il 10 settembre 1840 e poco meno di un anno dopo (l’11 agosto 1841) rimanda a Regina l’anello e l’11 ottobre 1841 rompe definitivamente il fidanzamento. Nel 1840 dal 19 luglio al 6 agosto, per riprendersi da una forma di esaurimento, fa un secondo viaggio nello Jutland11, la landa desolata da cui era venuto suo padre. Le note del Diario12 portano l’eco di tale stato d’animo, come questa: «È un martirio tremendo la totale impotenza spirituale di cui attualmente soffro, proprio perché esso è congiunto a una nostalgia divorante, a un bruciante ardore di spirito e tuttavia così vago e informe che non so neppure io che cosa mi manchi» (538). Riceve soprattutto una profonda impressione Cfr. C. WELTZER, Peter og Søren Kierkegaard, Copenaghen 1936, Bd. II, p. 363. Kierkegaard si allenò per tempo all’attività letteraria ancora durante il periodo degli studi. Quand’era presidente della lega degli studenti tenne un sensazionale discorso attaccando soprattutto le idee liberali e in particolare la loro «donchisciottesca opposizione al governo». Questi testi, esclusi dalle edizioni dei Samlede Vaerker e dei Papirer, sono stati raccolti da ULF KJAER-HANSEN, Søren Kierkegaard Pressepolemik, Copenaghen 1955, spec. pp. 33-78. 11 Il primo Kierkegaard lo aveva compiuto nel 1835 (cfr. Diario, nr. 45). 12 Una nuova edizione del testo con eccellente commento storico e geografico a questo, ch’è stato il viaggio più lungo di Kierkegaard in Danimarca, si deve ad ARTHUR DAHL, Søren Kierkegaards Jyllandsrejse, Copenaghen 1948. L’edizione è arricchita di tipiche illustrazioni. 9

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della schietta religiosità e semplicità della gente (cfr. per esempio l’incontro col vecchio di Hald: 543; e l’addio col sagrestano di Saeding: 549). Importanti riflessioni teologiche, che preparano le opere future, maturano nel viaggio: per esempio l’incongruenza della concezione semi-pelagiana che «si perde nella singolarità dei singoli fenomeni» e non attinge l’essenza del problema della grazia (519), l’originalità della vita spirituale ch’è portata dal cristianesimo (520) soprattutto in quanto la fede interrompe il cerchio dell’immediatezza – infatti la certezza cristiana non procede dal dubbio, come il pensiero moderno, ma «è un atto obiettivo perché la coscienza di Dio è appunto immanente nella coscienza del peccato. Inoltre la coscienza del perdono dei peccati è connessa a un avvenimento esteriore, a tutta la manifestazione di Cristo, che non è esteriore nel senso di una cosa che ci sia esteriore perché non ci riguarda, ma esteriore in quanto è un fatto storico» (530). Nell’avvicinarsi a Saeding, luogo natale del padre, prova una profonda commozione la quale trascorre dal ricordo del passato verso i compiti del futuro: «Io non posso ricordarmi che in mio padre ci sia stato qualche cambiamento13, e ora sto per rivedere quei luoghi dove egli povero pastorello guidava il gregge, i luoghi che quando me li descriveva mi svegliavano sempre tanta nostalgia. Se dovessi ora ammalarmi e mi toccasse esser sepolto nel cimitero di Saeding? Pensiero strano! Il suo ultimo desiderio è stato da me soddisfatto, ma si limiterà poi a questo tutto il compito della mia vita? Oh Dio! L’obbligo da parte mia di accontentarlo sarebbe in verità poca cosa in confronto di quanto gli debbo. Poiché è da lui che ho imparato cos’è l’amore di un padre, da cui poi mi son fatto l’idea dell’amore paterno di Dio, la sola cosa incrollabile nella vita, il vero punto di Archimede» (545). La vista della landa desolata, mentre rievoca nello sfondo la figura paterna, gli suggerisce profondi pensieri: «La landa sembra fatta apposta per sviluppare caratteri vigorosi. Qui tutto è a nudo, niente è celato allo sguardo di Dio, la folla delle distrazioni non vi abita punto, né vi sono quegli angoli e cantucci dove la coscienza trova da nascondersi e la serietà così spesso s’affatica invano per racimolare i pensieri dispersi. Qui bisogna che la coscienza si racchiuda netta e stretta in se stessa. “Dove mi nasconderò io alla tua vista?” (Ps. 138,7), si può dire con verità su queste lande» (548). La visita si conclude con una trasfigurazione mistica dei fenomeni naturali: «C’è tuttavia un certo equilibrio nel mondo. A uno Dio dà le gioie, a un altro le lagrime e ogni tanto gli consente di riposarsi nel suo amplesso. Anche il divino non si riflette con incanto più bello che nell’occhio umido di lagrime, come molto più bello è anzi l’arcobaleno del cielo azzurro chiaro» (551). Poche impressioni come questo viaggio distensivo, che lo mise 13 La vita di Kierkegaard è colma del ricordo del padre: «A questo riguardo io posso dire che la mia infanzia è stata felice, poiché essa mi ha arricchito con l’impressione etica. Lasciatemela rievocare ancora un momento: essa mi ricorda mio padre, e questo è il ricordo più caro ch’io abbia» (Aut-Aut, P. II; S.V., II, 289).

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a contatto del genius loci della sua famiglia e delle vicende di suo padre, influirono così profondamente sullo sviluppo del suo spirito. Il 29 settembre 1841 difende finalmente la tesi magistrale: «Il concetto d’ironia, con costante riferimento a Socrate»14 e ottiene il grado di Magister Artium. Il 25 ottobre parte per Berlino ove, dal 15 novembre al 4 febbraio 1842, assiste al corso di Schelling all’università, sul principio con grande entusiasmo ma poi annoiandosi «terribilmente» al punto da non andarci più, come risulta dalle lettere agli amici Boesen e Spang e specialmente al fratello Pietro (cfr. Diario, nr. 666 a); scrive la prima parte di Aut-Aut (la seconda era già pronta). Nel maggio 1843 ritorna a Berlino dove attende a scrivere Gjentagelsen («La ripresa»). Gli editori del Journal segnalano in questi anni due fatti: il suo accostarsi alla Comunione a volte col padre e col fratello Pietro e a volte da solo e le sue frequenti passeggiate in vettura (ben 40 nel 1844), all’aperta campagna, che occupavano l’intera giornata: queste passeggiate, necessario svago per l’attività vulcanica da cui era preso il suo spirito, continuarono con frequenza anche negli anni seguenti. I medesimi editori – e ne fa fede anche il Diario – attestano la sua fedeltà all’ascolto delle prediche di Mynster. Il 1846 è contrassegnato dalla lotta col «Corsaro», iniziata dal rifiuto mandato il 25 dicembre 1845 a P.L. Moeller di collaborare alla rivista «Gaea» da lui diretta; il 2 gennaio il «Corsaro» inizia gli attacchi contro Kierkegaard, con caricature, che continuano fino a quando il 2 ottobre il direttore Goldschmidt abbandona la redazione e il 7 parte per un viaggio in Germania e in Italia: P.L. Moeller, espulso per indegnità morale dalla Danimarca, aveva già dovuto partire prima per l’esilio a Parigi. Il 12 giugno Kierkegaard acquista e studia le ultime quattro opere del pastore A.P. Adler le quali provocano «Il grande libro su Adler» (den store Bog om Adler) la cui prima redazione l’occuperà fino a tutto il 1847. Nel 1847 approfondisce lo studio di Aristotele e fa ripetutamente visita al re Cristiano VIII. Il biennio 1848-50 è un periodo di particolare impegno d’interiorizzazione nel quale attende soprattutto alla redazione dei due capolavori di Anti-Climacus (La malattia mortale, L’esercizio del cristianesimo) con intense riflessioni per determinare il concetto di «contemporaneità» mediante il rapporto fra Cristo come «modello» e Cristo come «salvatore» (1727-29, 1782). Nel 1848 pubblica per la signora Heiberg l’articolo: La crisi e una crisi nella vita di un’attrice e porta a compimento il Punto di vista della mia attività di 14 Primo relatore della tesi di Kierkegaard fu F.C. Sibbern, allora decano della facoltà di filosofia. Controrelatore della tesi fu il professore di filologia classica F.C. Petersen (1786-1859) che consegnò il suo votum il 4 luglio 1841 (cfr. SVEND A. NIELSEN, Kierkegaard og Regensen, Copenaghen 1965, p. 22). Kierkegaard conservò un grato ricordo del suo censore e sappiamo da due brevi biglietti del Petersen che Kierkegaard gli inviò in omaggio gli Atti dell’amore (1847) e il discorso: Il sommo sacerdote – Il pubblicano – La peccatrice (cfr. N. THULSTRUP, Breve og Aktstykker vedrørende S. Kierkegaard, Copenaghen 1954, t. I, pp. 181 e 253 con le note di t. II, pp. 79 e 104).

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scrittore. Nel 1849 decide di pubblicare dal «Ciclo delle dissertazioni eticoreligiose» la III e la VI, precisamente: È mai permesso a un uomo di lasciarsi uccidere per la verità? e Sulla differenza fra un genio e un apostolo; alla fine di luglio (il 30) esce la Malattia mortale ed escono nel frattempo anche vari Discorsi edificanti; il 22 ottobre 1850 esce anche l’Esercizio del cristianesimo col quale Kierkegaard chiude la sua attività di pseudonimo mentre continua la serie dei Discorsi edificanti. Dal 1849 fino al 1855 il Journal si dilata a dismisura in riflessioni sempre più intense che hanno come fuochi d’ellisse il suo rapporto al cristianesimo e il rapporto fra cristianità e cristianesimo: malgrado la correttezza esteriore, i rapporti con Mynster si vanno incrinando sempre più, soprattutto a seguito di un’espressione sfuggita al vecchio vescovo (nel saggio: Ulteriore contributo alle discussioni sulla situazione della Chiesa in Danimarca) che accostava Kierkegaard all’ebreo Goldschmidt! Gli anni 1852-53 passano nella riflessione senza eventi di rilievo. L’evento che doveva scatenare l’epilogo della sua vita è la morte di Mynster avvenuta il 30 gennaio 1854: il suo successore, il teologo hegeliano H. Martensen, nella commemorazione del defunto l’aveva chiamato un «testimonio della verità» (Sandhedsvidne), una vera guida, uno di «quei veri testimoni della verità la cui fede non è soltanto a parole ma in opere e verità» e che appartiene a «quella santa schiera di testimoni della verità che si continua lungo i tempi dagli apostoli fino a noi». Kierkegaard nel primo articolo di protesta contro l’elogio di Martensen a Mynster, chiedeva nel titolo: Era il vescovo Mynster un testimonio della verità, uno di quei veri testimoni: è mai vero questo? L’articolo scritto nel febbraio 1854, subito dopo la morte di Mynster e l’elogio di Martensen, fu pubblicato in «Faedrelandet» soltanto il 18 dicembre. – 1. In esso Kierkegaard esamina anzitutto la predicazione di Mynster e trova ch’essa «attenua, tace, trascura uno dei punti decisivi dell’esigenza cristiana, cioè il precetto di mortificarsi, della rinunzia volontaria, di odiare se stessi e di soffrire per la verità». – 2. Inoltre la predicazione di Mynster non è stata «in carattere», perché tutto il suo cristianesimo si è limitato alla interiorità segreta delle «ore silenziose» (stille Timer). – 3. Non può essere celebrato come «testimonio della verità chi ha avuto la vita in godimento, al sicuro dalle sofferenze, dalla lotta dell’interiorità, dal timore e tremore, dagli scrupoli, dalle angustie di anima e dalle pene di spirito». Mentre «un vero testimonio della verità è un uomo che in povertà, in umiltà e abbassamento, è misconosciuto, odiato, aborrito, disprezzato, schernito: che ha la persecuzione per suo pane quotidiano, trattato come un rifiuto (Udskud)! È stata forse così la vita del vescovo Mynster?»15. Martensen replica sul «Berlingske Tiden» e Kierkegaard contrattacca su «Faedrelandet»: scendono in campo, a dar man forte ai due protagonisti, anche alcuni gregari (per Kierkegaard, 15

L’articolo è riprodotto in S.V., XIV, pp. 11 ss. Cfr. Diario, tr. it., t. II, p. 806.

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ma a sua insaputa, R. Nielsen; per Martensen il pastore ex grundtvigiano J. Paludan-Müller). Alla fine di marzo 1855 si affievolisce la polemica diretta sui giornali, ma Kierkegaard continua su «Faedrelandet» l’attacco alla cristianità stabilita; il 15 maggio pubblica l’articolo: Circa il contegno di sciocco sussiego tenuto nei miei riguardi e la concezione del cristianesimo ch’io ho chiarita e il 26 maggio torna ad attaccare direttamente Martensen con l’articolo: Il silenzio del vescovo Martensen è cristianamente inescusabile, ridicolo, sciocco e spregevole sotto molti aspetti. Ormai la valanga è inarrestabile: il 16 giugno esce presso l’editore Reitzel l’opuscolo-articolo Il giudizio di Cristo sul cristianesimo ufficiale in forma di commento a Mt., 23, 29 ss., e Lc., 11, 47 s.: «Guai a voi, scribi e farisei!» – e in agosto il discorso di raccolta meditazione sull’Assoluto dal titolo: L’immutabilità di Dio. Il 24 maggio inizia presso l’editore Reitzel la pubblicazione di una rivista in proprio dal titolo: «Oejeblikket» («Il momento»), nove fascicoli che si succederanno a distanza di qualche settimana l’uno dall’altro fino al 3 settembre – il fascicolo 10, già compiuto, è stato trovato sul suo tavolo dopo la morte. Ma la situazione precipita: l’intima sofferenza e l’estrema tensione dell’estreme forze hanno presto ragione del fragile organismo. Il 25 settembre scrive l’ultimo testo del Diario: «La destinazione di questa vita secondo il cristianesimo» ch’è quella «di essere portati al più alto grado di noia della vita» di fronte alla quale alcuni non possono rassegnarsi, si ribellano contro Dio mentre altri, con l’assistenza della divina Grazia, tengono fermo ch’è per amore che Dio lo fa – solo questi sono maturi per l’eternità! A Dio infatti piacciono gli angeli. E ciò che gli piace ancora più della stessa lode degli angeli, è un uomo che nell’ultimo scorcio della vita (quando Dio fa l’impressione di essere tutta crudeltà e quasi con la crudeltà più sopraffina fa di tutto per togliergli ogni brama di vivere!) tuttavia continua a credere che Dio è amore e ch’è per amore che Dio lo fa. Un uomo simile diventa un angelo... Pieno di riconoscenza, egli riferisce tutto a Dio, e prega Iddio che le cose restino come sono: ch’è Dio che fa tutto. Perché egli non crede a se stesso, ma soltanto a Dio» (3322). Con questo testo Kierkegaard conclude la sua testimonianza di scrittore cristiano: l’ultima la darà all’amico Boesen sul letto di morte. Una settimana dopo, il 2 ottobre, Kierkegaard è raccolto privo di sensi sulla via e ricoverato al Frederiks-Hospital, dove è amorosamente curato dall’infermiera in capo signorina Fibiger e riceve le visite dell’amico d’infanzia Emil Boesen. La «cartella clinica», che ci è stata conservata16 fa pensare a una forma grave di esaurimento nervoso. Si legge infatti che il paziente «non sa portare nessuna ragione determinata per questa sua presente infermità», ma c’è anche la notizia di una crisi che può portare qualche luce: «Circa 14 16 È stata pubblicata per la prima volta nel testo integrale da N. THULSTRUP, Breve og Aktstykker vedrørende S. Kierkegaard, ed. cit., t. I, pp. 21-4 (citiamo dalla nostra traduzione: Diario, t. II, p. 789).

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giorni fa sedette su di un canapè e mentre si appoggiava su di esso, scivolò sul pavimento e si rialzò con pena. Camminò poi ancora per qualche tempo; ma quando il giorno dopo volle vestirsi, cadde di nuovo. Non ci fu vertigine, convulsione o perdita di coscienza, ma soltanto una sensazione di astenia. Non potè rialzarsi, le gambe gli vennero meno per qualche tempo, ma poi riuscì ad alzarsi. Per alcuni giorni andò così» (p. 21). Quanto al paziente, «egli considera mortale la sua malattia. La sua morte è necessaria per la causa per la quale egli ha impegnato tutta la forza del suo spirito, per la quale egli ha unicamente operato e alla quale pensa di essere l’unico adatto; per questo l’acuto pensiero con un corpo così fragile. Se egli sopravviverà, continuerà la sua lotta religiosa, ma essa lo sposserebbe; invece con la sua morte essa manterrà la sua forza e, com’egli pensa, avrà la sua vittoria». Quanto ai medici, Boesen riporta il giudizio drastico del paziente: «I medici non capiscono la mia malattia: si tratta di cosa psichica, ed essi vogliono trattarla con i rimedi soliti». Sul decorso della malattia nella seconda metà di ottobre abbiamo il resoconto17 attento e commosso dell’amico d’infanzia, il pastore Emil Boesen che fu l’unico ammesso alla sua presenza. Anche nella tribolazione della malattia, ch’egli non volle contrastare, si mantenne in carattere: rifiutò la visita del fratello Pietro perché passato ai grundtvigiani e di Gjoedvad (redattore di «Faedrelandet») poiché «in privato mi appoggiava, ma in pubblico mi sconfessava». Confermò con veemenza la condanna di Mynster: «Tu non hai nessuna idea della pianta velenosa ch’è stato Mynster. Non puoi fartene un’idea: è immenso il danno causato dal suo virus malefico. Era un colosso: occorrevano grandi forze per abbatterlo, e colui che avesse dovuto farlo, doveva scontarla. I cacciatori che vanno a caccia del cinghiale, portano con sé un cane scelto; essi sanno benissimo come la cosa finirà. Il cinghiale sarà abbattuto, ma il cane che l’ha scovato ci rimetterà la vita. Son contento di morire, così son certo d’aver assolto il mio compito. Le parole di un defunto spesso sono ascoltate meglio di quelle di un vivo». Rifiutò di ricevere la Comunione dal pastore, perché funzionario governativo: preferiva averla da un laico. Rifiutò anche con indignazione l’omaggio che il pastore Fenger gli aveva fatto della predica di congedo, ribadendo la sua condanna per l’ordine stabilito. Boesen attesta anche che fin da principio fu convinto ch’era ormai la fine secondo il disegno di Dio: «Come va?» – «Male: è la morte. Prega per me perché venga presto e bene. Mi sento depresso... Io ho avuto il mio “pungolo nella carne” come Paolo. Così non ho potuto condurre la vita degli altri uomini; perciò ho concluso che il mio compito era straordinario; ho cercato ora di adempierlo nel miglior modo che mi fu possibile; io ero un gioco per la Provvidenza la quale mi ha spinto al largo e dovetti prestarmi al suo piano. Così passarono alcuni anni e poi... patatrac! Poi, ecco che la Provvidenza 17 Fu pubblicato in Søren Kierkegaard Efterladte Papirer, t. IX [1854-55], Copenaghen 1881, pp. 593-9 (trad. it., Diario, t. II, pp. 783-8).

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stende la sua mano e mi prende nell’arca: è sempre questo il destino e l’esistenza degli uomini straordinari». E aggiunse un pensiero di comprensione per Regina. La nota gentile era rappresentata dai fiori della signorina Fibiger ch’egli gradiva molto e voleva rimanessero sciolti e collocati sopra l’armadio, non messi in vaso: poiché «il destino dei fiori è di fiorire, olezzare e morire». La sua riconoscenza per l’infermiera era profonda, come tutti i suoi sentimenti: «Che fiori magnifici! Ella supera se stessa con nuove invenzioni!» – «Durante la notte ella è l’infermiera capo dell’ospedale, durante il giorno attende a me». E l’infermiera pronta a lui: «e quel ch’è più ella piange per lui!». Non temeva la morte e l’attese avvicinarsi con l’animo gagliardo dei suoi sentimenti umani e cristiani più profondi. Ecco un documento di valore eccezionale che l’amico raccoglie dalla visita del 18 ottobre giovedì: «Era molto debole. La testa gli giaceva sul petto e le mani tremavano. Si appisolò, ma la tosse lo risvegliò. Spesso s’addormentava durante il giorno, specialmente dopo i pasti. “Ora ho mangiato, tutto è pronto per riceverti e lo faccio a braccia aperte”. Domandai se riusciva a raccogliere i suoi pensieri o se le idee gli si confondevano in testa. Per lo più la mente l’aveva libera, ma la notte spesso si sentiva un po’ stordito. Gli chiesi anche se riusciva a pregare in pace: “Sì, lo posso!”. – Chiesi se avesse qualche dichiarazione speciale da fare: “No: salutami tutti gli uomini. Io li ho molto amati e di’ loro che la mia vita è stata una grande sofferenza, sconosciuta agli altri e incomprensibile. Tutto aveva l’apparenza di orgoglio e vanità, ma non era vero. Io non sono affatto migliore degli altri, come sempre ho detto. Avevo il mio pungolo nella carne: fu per questo che non mi sposai, né presi un impiego, benché fossi laureato in teologia, ne avessi il diritto ufficiale e buoni appoggi così da poter ottenere tutto quel che volevo. Invece divenni l’eccezione. I giorni passarono nel lavoro e nella tensione e alla sera della vita fui messo in disparte: ecco in cosa consiste essere l’eccezione”. Quando gli domandai se poteva pregare in pace: “Sì, lo posso e domando anzitutto il perdono dei peccati, che tutto mi sia perdonato. Poi chiedo a Dio che mi scampi dalla disperazione nell’ora della morte. Spesso mi viene in mente il versetto che dice: ‘Sia bene accetta a Dio la mia morte’. Chiedo ancora ciò ch’io tanto desidero, di poter sapere un po’ a tempo quando la morte sarà imminente”. Era un giorno bellissimo. Gli disse: “Quando ti metti a parlare così, hai un aspetto tanto fresco come se dovessi alzarti per uscire a passeggio”. – “Sì, c’è soltanto l’impedimento che ormai non posso più camminare. Tuttavia c’è un altro modo d’essere trasportato, cioè esser sollevato in aria: ho la sensazione di diventare un angelo, di mettere ali e anche (come certamente succederà!) di posarmi su d’una nuvola cantando: Alleluia, alleluia, alleluia! Tutto il resto è male”». Passò gli ultimi giorni nella solitudine completa della sua idea e della sua fede. Da una lettera del nipote di Kierkegaard, H. Lund, al Boesen, sappiamo che il povero infermo stette tre giorni in stato comatoso e che morì la domenica 11 novembre alle ore 9. Fu sepolto la domenica seguente, 18 novembre. Il Lund, che in quell’occasione si

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mostrò degno del grande zio, così comunica al Boesen la notizia del trapasso: «Finalmente Dio nella sua infinita grazia e misericordia lo trasse a sé, nella sua eterna pace e felicità, alla quale egli per tutta la vita aveva aspirato dalle pene e molestie del mondo, di cui la sua vita era stata tutta ricolma. – Ora egli non è più. Voi avete perduto l’amico della vostra giovinezza, ma io ho perduto il mio unico e migliore amico, un consigliere provetto e sempre fedele, una guida sperimentata e sempre sicura. Piangiamo, ma non lo compiangiamo»18. Kierkegaard ebbe funerali trionfali nella Frue Kirke, che superarono quelli di Thorvaldsen e di Ohlenschläger, con la partecipazione di tutti i ceti della città: così in morte, a sua gloria, Kierkegaard fu circondato da un plebiscito spirituale che l’animosità e l’incomprensione avevano represso per tanti anni. Sulla porta della chiesa parlò alla folla, addensatasi nella piazza antistante, il fratello Pietro in tono conciliativo. Al cimitero le cose procedettero meno lisce perché il pastore Tryde, officiante e avversario di Kierkegaard, si permise qualche gesto e alcune espressioni di disapprovazione circa l’opera di Kierkegaard. Allora si alzò il nipote, H. Lund, che ribatté con particolare vivacità condannando apertamente la congiura del silenzio della chiesa ufficiale19. Ebbene quest’itinerario eccezionale è incomprensibile senza il sottofondo autobiografico il quale, come in una filigrana trascendentale, sigilla il senso e il procedere delle tappe del suo rapporto a Dio. Tale rapporto emerge dal rapporto ch’egli ebbe alle persone che gli furono più care: il padre, Regina e il vescovo Mynster. Un triplice rapporto che si articola in ogni momento per fili misteriosi e in complicazioni paradossali e, anche se lo stesso Diario non riesce sempre a dipanare, esso ha tuttavia una sua logica ferma e coerente la quale si chiarifica col procedere degli eventi, anche se non giunge – e come lo poteva? – a piena chiarezza. A) Anzitutto il rapporto al padre. Kierkegaard, vivendo accanto al vecchio genitore, ne assorbiva le preoccupazioni intime avvertendone i più riposti sussulti. A lui sembrò, da vaghi ma insistenti accenni che sfuggivano al padre, che per sua colpa, ovvero per un gran fallo da lui commesso, gravasse sulla famiglia intera una divina maledizione che la condannava a scomparire dalla faccia della terra. I frequenti lutti familiari ne erano per lui la ripetuta conferma. Oltre i celebri testi del Diario sul «gran terremoto»20, l’opera che CARL KOCH, Søren Kierkegaard og Emil Boesen, Copenaghen 1901, p. 42. Per il riferimento critico dei testi ora riportati, mi permetto di rimandare alla trad. it. del Diario (t. II, pp. 790 s.). Kierkegaard è stato sepolto nella tomba di famiglia che si trova nel cimitero della «Assistenza», incluso ormai nella città di Copenaghen. Tutto è ancora conservato come un secolo fa e sulla lapide si legge anche la strofetta di Brorson che Kierkegaard dispose vi fosse incisa: «Un poco ancora / e vinto io avrò. / La lotta tutta / sarà svanita. / Così riposar potrò / in una sala di fiori / e in un colloquio eterno / bearmi col mio Gesù». 20 Cfr. Diario 1837-39, II A 805; tr. it., nr. 505. Sono da tener presenti anche i testi sulla «disperazione silenziosa» (Diario 1844, spec. nrr. 788 ss.). 18 19

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scava più a fondo questa dimensione enigmatica della psiche kierkegaardiana è il grande saggio autobiografico degli Stadi sulla via della vita, specialmente negli episodi dei Due lebbrosi e del Sogno di Salomone. Il lebbroso Simone impreca alla sua esistenza d’isolamento e di disgustosa sofferenza: ha trovato un unguento che fa scomparire i segni esterni della lebbra ma che lascia alla malattia la piena virulenza dell’infezione così che «basta un alito per comunicare la lebbra agli altri e farne apparire i terribili segni sul loro corpo». Questa sarà la vendetta del lebbroso cacciato dalla durezza del cuore umano a passare la miseranda vita al bando della società, vicino alle tombe. Il giovane Salomone era stato educato dal profeta Nathan e cresceva con la più alta idea del suo padre David, re saggio, potente e pio e intimo confidente di Dio. Un giorno lo portano a far visita al padre: durante la notte lo svegliano profondi sospiri e alti gemiti che vengono dalla stanza vicina, dove dorme David. Preso dallo spavento che qualcuno attenti alla vita del padre, s’accosta alla stanza e vede David steso in terra che sussulta in gemiti di disperazione. Tornato al suo riposo Salomone vide in sogno che David non è benedetto ma maledetto da Dio e che la regale dignità è per lui il segno dell’ira di Dio e del suo castigo. Salomone portò con sé tutta la vita quest’impressione e divenne saggio e potente, mai però un eroe o un uomo di preghiera. Nella sua impressione si era annidato un dubbio sul significato stesso metafisico della Provvidenza: non v’è dubbio che in Kierkegaard la situazione corrisponde al dubbio protestante della remissione dei peccati e quindi rimanda all’ambiguità insanabile del problema della giustificazione della teologia della Riforma. La dimensione teologica qui s’impone in modo inevitabile. Ma la trasfigurazione più pregnante è quella adombrata nel racconto biblico del patriarca Abramo che deve sacrificare il «figlio della promessa» Isacco; Abramo deve sacrificare il figlio per obbedire a Dio e quindi in ossequio alla sua religiosità, nel conflitto totale dell’esistenza: «colui che riuscirà a spiegare quell’enigma, avrà spiegato anche la mia vita» (699). Il conflitto consiste nell’imporre la cosa più dura (il «sacrificio» ch’esige il cristianesimo) sotto l’aspetto della cosa meno dura (la religione e la beatitudine eterna). La formula di tale conflitto, ch’esprime l’essenza della fede cristiana, è «timore e tremore» (2606, 2614, 2649, 2795)21. Ma è sempre il Diario la pista più sicura per cogliere la trama dialettica di questo rapporto ch’è come un rifluire di anima, nel ricordo essenziale, come un pegno di vita nella rinunzia alla vita. Ecco un testo sintomatico che ha per sfondo la gazzarra del «Corsaro»: «Mio padre era un vegliardo: io l’ho sempre conosciuto così. L’infelicità fondamentale della mia vita, cioè che io, benché bambino, fossi scambiato per un vecchio, la si vedeva anche dal mio modo di 21 Nella sua piena maturità spirituale, Kierkegaard ha interpretato con arte suprema il suo rapporto al padre e al fratello in un’elaborazione poetica della parabola evangelica del «figlio prodigo» (2094).

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vestire. Ricordo molto bene quanto mi rendesse triste, quand’ero bambino, dover portare anch’io quei pantaloni corti. Ricordo anche i continui frizzi di mio cognato Cristiano. Poi divenni studente: ma non fui mai giovane, mai ebbi quell’impressione giovanile della vita di aver davanti a sé una vita lunga, perché per me letteralmente non vi è mai stato davanti più di mezz’anno (e questo appena appena!), che stimola il desiderio e la cura dell’aspetto esteriore. Io mi consolai in un altro modo. Il mio spirito si sviluppava enormemente e non pensavo a cose simili. Ma come succedeva in tutto, che io mi attenevo in generale a ciò ch’era stata l’abitudine a casa di mio padre, di pranzare, di cenare alla tal ora ecc.: così avvenne anche col mio vestire. Rimase essenzialmente immutato, sicché in verità posso dire che in fondo si offende il mio povero padre, quando si attacca il mio modo di vestire. Nella mia malinconica tristezza e nell’ironia esuberante io compresi la mia natura in quella sofferenza, di essere stato un vecchio quando avevo appena otto anni e di non essere mai stato giovane: fornito di doti spirituali eminenti, mi ergevo ironicamente al di sopra di tutto ciò che si riferiva al lato animale della vita. Ma che per questo sarei stato attaccato dalla stampa e che migliaia di persone ne avrebbero preso motivo per attaccare il mio carattere, questo poi non l’avrei mai pensato!» (1777). Egli confessa perciò che fu per quest’educazione «troppo ideale» e «troppo severa» che non ebbe mai «la gioia di essere bambino» e di essere stato «infelice fin dalla nascita per essere stato educato in un cristianesimo troppo rigido». Il padre, trasferendo nel figlio la propria malinconia, gli si era rivelato sotto l’incubo di una «disperazione silenziosa» (788): così che il figlio è tormentato dalla doppia impressione della vita pia e austera del padre e del «retroscena» di cui il figlio – a causa di alcune parole sfuggite al padre – intravede l’orrore senza aver il coraggio di andare più a fondo (821). Ma quel ch’era un vago presentimento di sofferenza nell’infanzia, divenne l’orientamento di tutta la vita quando nella prima gioventù «accadde» il «gran terremoto, il terribile sconquasso che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione infallibile di tutti i fenomeni», cioè il sospetto che su suo padre gravasse la maledizione di Dio e per castigo divino la famiglia (la «famiglia enigmatica»: 733) dovesse scomparire per sempre (505). L’impressione del padre è già consegnata nel testo scritto l’11 agosto 1838 a tre giorni dalla sua morte: «Mio padre è morto nella notte di mercoledì (8 agosto) alle due di notte. Avevo desiderato tanto che potesse vivere qualche anno ancora. Io considero la sua morte come l’ultimo sacrificio che nel suo amore egli ha fatto per me; poiché con la morte non mi ha lasciato, anzi è “morto per me”, affinché si possa fare di me, se è possibile, ancora qualcosa22. Di tutto quel 22 In questa occasione della morte del padre di Kierkegaard il Brøchner riporta nei suoi Ricordi una frase del vecchio al figlio dissipato: «In fondo sarà per te una fortuna se io morrò, poiché allora forse tu potrai diventare ancora qualche cosa. Fin quando sarà vivo, non lo diventerai» (H. BRØCHNER, Erindringer om Søren Kierkegaard, Copenaghen 1953, p. 23).

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ch’io ho ereditato da lui, il suo ricordo, la sua immagine trasfigurata, non dalle funzioni della fantasia (poiché non v’è bisogno) ma dai molti tratti che ora comincio a rilevare, è per me ciò che ho di più prezioso e che terrò nascosto più di qualsiasi altra cosa al mondo» (262). Il rapporto al padre è stato la molla della sua vita. Egli infatti si considerava reus voti e per questo – com’egli dichiara, nel 1844 – sostenne l’esame di teologia, che il vecchio aveva tanto desiderato, scrisse la tesi sull’Ironia e portò rapidamente a termine Aut-Aut (694). B) Simile benché in altra direzione, è l’atmosfera del suo rapporto a Regina, la fidanzata ch’egli lasciò dopo poco più di un anno di fidanzamento nell’ottobre del 1841. Lo afferma Kierkegaard spesso nel gran Rapporto retrospettivo scritto al tempo di Anti-Climacus: «A lei e al mio povero padre sarà dedicato il complesso dei miei scritti: ai miei due maestri, la nobile saggezza di un vegliardo e l’amabile imprudenza di una donna»23. È indubbio che Kierkegaard nutriva per lei un vero affetto che continuò a serbarle, forse ancor più intenso e ideale, dopo la rottura. In questo punto il Diario è documento della più sottile psicologia di una coscienza che non riusciva a porre alcun rapporto direttamente nella realtà, ma li trasferiva anzitutto nella trascendenza. Regina non era per lui, perché «Dio doveva avere la precedenza» ed egli non poteva concedersi alcun rapporto finito al finito. Si può dire che tutta la produzione estetica svolge il «tema di Regina», specialmente la Ripresa ma anche Timore e tremore (cfr. l’episodio di Agnese e il Tritone dove il Tritone, lungi dal portare a termine i suoi piani, è conquiso e salvato dall’ingenuo candore di Agnese). Per Regina inoltre – e ciò appartiene alla «dialettica doppia» propria di Kierkegaard – egli scrisse quasi tutta la sua vistosa produzione di Discorsi edificanti, dedicati precisamente a «Quel lettore»: sappiamo da sicura fonte che Regina li leggeva con vivo interesse e che mai diminuì la sua stima per il grande scrittore. Le stravaganze estetiche della prima parte di Aut-Aut (specialmente Il giornale del seduttore) hanno messo in questo punto molti interpreti su di una falsa pista: eppure il «rapporto a Regina» è stato forse il dramma più profondo e delicato di Kierkegaard e che ha determinato – assieme al «rapporto al padre» – il suo rapporto a Dio. Resta sempre aperto il problema della rottura del fidanzamento e nessuna delle spiegazioni finora avanzate soddisfa completamente: probabilmente perché ognuna di esse passa a lato di quel segreto ch’egli ha sempre tenuto gelosamente per sé e che ha portato con sé nella tomba24. A ferro ancor cal23 Diario, 24 agosto 1849, X5 A 149, 25 (2805). In apertura di testo Kierkegaard ricorda la supplica fattagli da Regina di tenerla con sé «anche se avesse dovuto starsene chiusa in un piccolo armadio». Per questo egli fece costruire un armadio di palissandro... senza divisioni. E confida: «In esso si conservano con cura tutte le cose che ricordano lei, e che potrebbero essere per me un ricordo di lei. Di tutte le opere furono sempre stampate due uniche copie in carta velina, una per lei e una per me» (l. c.). 24 Cfr. C. FABRO, Perché Kierkegaard lasciò Regina, in «Dialoghi», 6 (novembre-dicembre 1966).

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do, a poca distanza dalla rottura, Kierkegaard confessa: «Se avessi avuto la fede sarei rimasto con Regina: ora l’ho compreso» (715). Ma i sentimenti e le riflessioni s’intrecciano e s’accavallano come i marosi di un mare in tempesta: alle espressioni di tenerezza e di rammarico, succedono rettifiche veementi di giustificazione che rasentano lo sdegno. Così di lì a poco le rimprovera a bruciapelo una buona dose d’orgoglio, una scarsa religiosità e una spiccata presunzione: «Io mi sono fidato di lei, ho creduto a tutta questa grandezza di carattere che a lei garbava farmi credere; io poi devo regolare le mie azioni in conseguenza – e alla fine sarà ella che probabilmente avrà la peggio. Si vede da ciò quale disgrazia sia per una ragazza non avere avuto una educazione religiosa» (731). Anch’egli però non è un modello di coerenza poiché dopo aver predisposto ogni cosa per eccitare lo sdegno del pubblico e farsi passare per «canaglia» (Skurk) così da renderle meno doloroso il distacco e più facile il ritorno al primo fidanzato Schlegel – appena poi la cosa si realizza, ecco che si adombra e affibbia a Regina tutta la gamma di sentimenti poco generosi che probabilmente non erano e non sarebbero mai passati per la mente della povera ragazza: «Ella (con il matrimonio) si sarà riconciliata col suo destino; mi perdonerà gentilmente; crederà nella sua mentalità di capire che, per quanto fossi fornito di doti straordinarie, l’infedele sono io, ed ella è l’amante fedele. In tutto quel che m’è capitato negli ultimi anni ella vedrà, a seconda del suo umore, una specie di punizione per me, qualche volta capirà che fu un bene per lei il non avermi seguito in alto mare. E così tutto sarà raddolcito. Io resterò un ricordo evanescente che alla fine la visita di rado: e anche allora con una sfumatura di malinconia, perché le fa piacere di non giudicarmi e perché le fa piacere ch’io non mi sposi» (1686). Ma poi prende piede, sottile e insinuante, il progetto – strano, ma non troppo – di riavvicinarsi a lei, d’istituire con lei un tipo di legame spirituale: a questo fine scrive una lettera al marito Schlegel e cerca, ma invano, d’incontrarsi col padre di Regina, il Consigliere di Stato (1547), il quale però rifiuta sdegnato ogni abboccamento mentre Schlegel gli rimanda chiusa la lettera. Ma il suo animo, come per un ritorno di fiamma, si accende dell’antico sentimento ch’egli però sa nascondere con estremo riserbo. Scrive infatti a quell’epoca nel 1849: «Per quel che riguarda “Lei”, sono sempre, anzi se fosse possibile in modo ancora più ardente, son pronto e disposto a fare tutto ciò che la potrebbe incoraggiare e rallegrare. Ma temo sempre la sua passionalità. Io sono la garanzia del suo matrimonio. Se venisse a sapere quel che penso di lei, forse d’improvviso si disgusterebbe del suo matrimonio; ahimè, io non la conosco che troppo bene! Una delle due: o ella è essenzialmente sempre la stessa, e allora la cosa sarebbe estremamente pericolosa: o si è tanto cambiata che non le importerebbe nulla se cercassi di riavvicinarla» (1914). E in tutto questo turbinare di sentimenti contrastanti che lo spingono fino a desiderare il «suo perdono», egli accenna vagamente al motivo vero della rottura: «C’è un punto di cui non posso parlare e di cui tu mi devi perdo-

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nare». E aggiunge con slancio sincero: «E poi del resto direi la verità, e qui intendo che un certo grado di comprensione forse le potrebbe far piacere. Potrei in verità dirle che l’amavo, ch’era l’unica creatura che amavo sempre più, che l’amavo anche quando l’abbandonai e che non amerò più nessun’altra. Poi dovrei pregarla, riguardo a un certo punto, di credermi. Se ella avrà per questo abbastanza femminilità, la spiegazione sarà press’a poco definitiva» (1948). C’è un testo esplicito del 12 settembre 1852, a dodici anni dal fidanzamento, mentre «Lei» si trovava al solito posto per incontrarlo però questa volta senza effetto. Il testo colloca tutta la situazione all’interno del rapporto a Dio, come faranno tutti i testi della maturità: «Proprio per questo mi fece profonda impressione il fatto che anche oggi tutto andò liscio: ciò mi ha rinnovato l’intima convinzione ch’ella non ha tuttavia la prima priorità nella mia vita. È certo, e quanto volentieri non vorrei dirlo, che umanamente parlando ella ha e deve avere l’unica e prima priorità della mia vita; ma in senso assoluto è Dio che ha la prima priorità. Il mio fidanzamento con “Lei” e la sua rottura dipendono in fondo dal mio rapporto a Dio; formano, se così posso dire, divinamente il mio fidanzamento con Dio» (2743). È per questo allora ch’egli considera il fidanzamento con Regina e la sua rottura come il suo «esame di filosofia» (3205)! Ma occorrerebbe raccogliere tutti i testi del Diario che toccano l’affare di Regina e disporli non solo nell’ordine cronologico, ma secondo il battagliare vivo degli affetti: Kierkegaard rileggendo ha strappato purtroppo spesso – come osservano gli editori – non pochi fogli, ma quel che c’è rimasto è già sufficiente per seguire quasi di tappa in tappa uno dei drammi più profondi, tutto percorso d’impeti sdegnosi e di mal repressa tenerezza, dello spirito umano. Il rapporto a Regina è veramente al centro fra il rapporto al padre e il rapporto a Mynster: la rottura può dirsi a un tempo l’effetto della sua malinconia congenita, alla quale egli continuamente si richiama, e insieme la condizione e la causa per realizzare, in una proporzione che forse non ha riscontri per la sua qualità nel mondo moderno, la sua attività di scrittore. Questo bilancio enigmatico si raccoglie, secondo un testo del 1854, attorno all’enigma fondamentale del pungolo della carne25 con il presentimento di nuove sofferenze: «Una volta la mia situazione era questa. Ciò che mi gravava sulle spalle era quel tormento ch’io posso chiamare il mio pungolo nella carne; tristezza, affanno dell’anima quanto a mio padre: affanno nel cuore quanto alla ragazza amata e a tutto ciò che vi si riferiva. Così pensavo che in un confronto degli uomini in generale, potevo dire di avere addosso un fardello piuttosto pesante. Frattanto trovai tanta gioia spirituale nella mia attività, che anche quel peso che consiste nel dolore del proprio peccato non 25 Sul letto di morte confesserà all’amico Boesen ch’è stato questo pungolo l’ostacolo principale per il matrimonio con Regina, ch’egli si era illuso di debellare appunto col fidanzamento (cfr. Diario, tr. it., t. II, p. 783).

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mi faceva tuttavia chiamare la vita che menavo, una sofferenza» (3064). Il bilancio definitivo è nettamente a favore di Regina, come al principio, e Kierkegaard stesso riconosce che forse era stata proprio Regina a veder giusto quando scrive nella conclusione dell’ultimo «Bilancio» nel 1849: «Era perciò una sua frase enigmatica – una frase ch’ella non comprese, ma la capii tanto meglio io – quando una volta, nella sua pena, mi disse: «Dopo tutto, tu non puoi sapere se forse non sarebbe un bene anche per te che mi fosse concesso di rimanerti vicina». Ecco, questo è timore e tremore!» (2805). Ma il ricupero del rapporto a Regina investe l’intera sua produzione pseudonima ed edificante come proiezione e trasfigurazione del suo rapporto a Dio26. C) Terzo, e conclusivo sotto ogni aspetto, il rapporto a Mynster. Esso costituisce il «momento dell’azione» ovvero il rapporto alla realtà e finitezza nella forma del’«ordine stabilito» rappresentato dal capo della Chiesa danese. Come rapporto e momento intermediario che capovolse la situazione, si deve considerare l’episodio del «Corsaro», il giornale umoristico diretto dall’ebreo Goldschmidt, ma che aveva la sua anima nera nell’esteta amorale P.L. Moeller. Kierkegaard con la pubblicazione delle opere estetiche aveva toccato il vertice della celebrità: ed ecco il «Corsaro», quasi per un anno intero, a metterlo in berlina con articoli e caricature e goffaggini di discutibile gusto, ma non prive di una genialità gazzettiera che facevano colpo sul pubblico. È vero che Kierkegaard riuscì in pochi mesi a sbaragliare il «Corsaro» che cessò le pubblicazioni, dopo neanche un anno di vita; ma quel sontuoso episodio di villania letteraria gli fece scoprire le categorie fondamentali dell’esistenza inautentica (pubblico, massa, popolo... e per riflesso negativo – come si dirà – anche l’ordine stabilito come Stato e Chiesa). Anche il rapporto a Mynster è fatto, come i due precedenti, di attrazione e repulsione. Ma, mentre con il padre e con Regina la separazione della morte e della rottura del fidanzamento opera la superiore conciliazione con la catarsi dell’ideale e dell’elemento eterno dell’amore, con Mynster avviene il processo inverso: è il sospetto crescente, che poi diventa certezza, del tradimento dell’ideale da parte del vecchio vescovo opportunista che scatena la crisi. I suoi sentimenti verso colui ch’era stato il pastore di suo padre erano sinceri: ne ammira le prediche («Io sono stato educato con le prediche di Mynster»: 1286) e nel Libro su Adler gli fa il panegirico come modello di chi è in autorità. Ma già a questo tempo la crisi è in pieno sviluppo e per due motivi e fatti fondamentali: il mancato intervento di Mynster in sua difesa nella canea del «Corsaro» (3114) e l’ambigua sua politica religiosa fatta di 26 L’intimo sentimento e significato ideale, ch’esprime anche il suo compimento esistenziale, è nell’espressione conservataci dal confidente di Regina, R. Meyer, ch’è stato anche l’editore delle «Carte» del fidanzamento: «Vedi, Regina, nell’eternità non ci si sposa più: là Schlegel e io saremo felici di stare con te!» (R. MEYER, Kierkegaardske Papirer, Forlovelsen, Copenaghen 1904, p. VII).

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compromessi (1828, 3045). Ed ecco il primo fattaccio: nel 1851 Mynster, nella relazione sulla situazione religiosa della Danimarca27, si lascia sfuggire un’espressione di benevolenza per Goldschmidt l’ebreo del «Corsaro» e osa perfino metterlo alla pari con lui – la «spia della cristianità» – che aveva con assoluto disinteresse impegnato tutto per smascherare l’equivoco anticristiano della generazione contemporanea. È un fatto ch’egli voleva mettere tutta la sua opera a suo servizio (2809). Ma la tempesta si profila presto: Mynster, che in gioventù aveva avversato Hegel e gli hegeliani e che in una effusione di cordialità aveva dichiarato Kierkegaard suo «complemento» (2811), eccolo poi arruolarsi con la cricca di Heiberg e Martensen. E Kierkegaard, che aveva preso a spada tratta le difese del vescovo nel «caso Adler», ora costella il Diario di attacchi alla condotta ambigua e al governo fatto di compromessi del vescovo: già per tempo si accorge che «le sue prediche non sono sempre religiose» (695), non afferra bene la «remissione dei peccati» (942), erra nel criticare l’ascesi medievale (850, 1811) e nel respingere l’imitazione di Cristo, nell’idolatrare l’ordine stabilito (1050), è vanitoso e accomodante (2301), sofista e bugiardo (2935), ma soprattutto è una canaglia come Hegel e Goethe (3045) per aver falsificato il cristianesimo (2924) riconciliandolo col mondo. A un certo momento, dopo l’Esercizio del cristianesimo che segna il momento di aperta rottura, il Diario s’incendia nella protesta fino a prospettare nel 1852 una «possibile collisione» in un testo ch’è un bilancio drammatico della situazione (2668) e va letto per intero. Il dramma riguarda l’interpretazione del cristianesimo che per Kierkegaard è stato il compito di tutta la sua vita. Esso è prospettato qui nei suoi principali momenti di tensione: a) La divergenza radicale nell’interpretazione del cristianesimo: a Kierkegaard però sarebbe bastato che Mynster avesse fatto «una piccola concessione» ovvero l’ammissione che il suo cristianesimo era un ribasso rispetto a quello del Nuovo Testamento. La richiesta è esplicita nel primo testo del 10 marzo 1854 di commento alla morte di Mynster e costituisce il limite di rottura del rapporto: «Ora è morto. Magari si fosse riusciti a persuaderlo di finire la vita con la confessione che il cristianesimo ch’egli ha rappresentato non era cristianesimo, ma una mitigazione. Magari l’avesse detto lui che ha portato un’intera generazione! La possibilità di questa confessione doveva perciò tenersi aperta fino all’ultimo; sì, fino all’estremo, nell’eventualità 27 Si tratta del rapporto: Yderligere Bidrag til Forhandlingerne om de Kirkelige Forhold i Danmark, 1851 (rist. in: J.P. MYNSTER, Blandede Skrivter, Copenaghen 1853, Bd. II, pp. 23 ss.). Nella conclusione Mynster nomina Kierkegaard con la perifrasi: «uno dei nostri scrittori più dotati» (en af vore talentfuldeste Forfattere) e cita dall’articolo: Un’espressione del Dr. Kudelbach che mi riguarda, pubblicato in «Faedrelandet» (n. 26), dove Kierkegaard rivendica la sua tesi capitale sulla fede e sull’autentica riforma cristiana (l. c., pp. 60 s. Cfr. l’art. di Kierkegaard in: S. Kierkegaard’s Bladartikler, udgivne af R. Nielsen, Copenaghen 1857, p. 50; S.V., XIII, 474). Kierkegaard rintuzzò subito la mossa del vescovo (cfr. Papirer 1851, X4 A 195, p. 107).

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ch’egli l’avesse voluta fare sul letto di morte. Perciò non doveva mai essere attaccato, e per questo dovetti sopportare tutto, anche quando egli faceva delle cose disperate come l’apologia di Goldschmidt; perché nessuno poteva sapere se ciò forse non avrebbe potuto in qualche modo colpirlo e spingerlo a fare quella confessione. Ora ch’è morto, senza aver fatto quella confessione, tutto è cambiato: non rimane che il fatto ch’egli con la sua predicazione ha inchiodato il cristianesimo in un’illusione»28. Infatti, chiarisce Kierkegaard in un altro testo: «Ciò per cui Mynster fin da principio, e spesso in modi assai volgari, ha lottato contro di me, è di mantenere che la “mia” interpretazione (la mynsteriana!) è serietà e saggezza: quella kierkegaardiana è una stramba, notevole forse, ma una stramba esagerazione» (2668). b) L’offesa – ch’è la rivelazione della falsificazione del cristianesimo operata da Mynster – è di averlo accostato a Goldschmidt come persona che poteva riuscire utile per la posizione del cristianesimo di fronte ai nuovi movimenti politici e sociali: «Quella riga su Goldschmidt gli fu fatale: – 1) Essa apre uno spiraglio doloroso sul lato peggiore di Mynster. – 2) Essa mi mette appunto in mano il fatto contro Mynster che mi occorrerebbe se dovessi attaccarlo. Che tutta la sua opera sia pressoché mondanità, io lo vedo da molto tempo; e perciò ho tagliato a metà in modo ch’io presi solo le sue Prediche. Ma questo fatto tradisce tutto. E la cosa è andata qui, come sempre, che io prima offro il pretesto a uno di darmi il fatto di cui ho bisogno. – 3) Essa mostra che Mynster nel campo dell’idea si considera impotente. Ma egli ha agito con passione» (2668). c) Tuttavia non intende attentare alla posizione di Mynster mentre è in vita e gli si dichiara devoto «con una passione d’ipocondriaco». Però c’è d’altra parte l’esigenza dell’Idea (del cristianesimo) che lo spinge «ad alzare ancora di più il prezzo dell’ideale e la concezione del cristianesimo». Kierkegaard tuttavia mantenne rigorosamente la consegna limitandosi a condurre la sua battaglia nel Diario e ruppe la consegna del silenzio solo quando Martensen nell’elogio funebre di Mynster osò proclamarlo un «testimonio della verità (Sandhedsvidne), una vera guida, la cui fede non è soltanto a parole ma in opere e verità». Mynster era morto il 30 gennaio 1854 e Kierkegaard attese quasi un anno intero prima di passare all’attacco che coinvolse non solo il vescovo scomparso ma l’intera cristianità stabilita da lui rappresentata29 rea di aver tradito la causa del cristianesimo riconciliandolo col mondo. Riassumendo: la lotta di Kierkegaard si distende pertanto su due fronti, l’immanentismo moderno (in particolare l’idealismo posthegeliano) e la cri28 Diario 1854, X1 A 1; tr. it., nr. 2809. La prospettiva completa della situazione si trova nel testo di lucida e pacata franchezza che sembra scritto poco prima della morte del vescovo, dal titolo: Il mio rapporto al vescovo Mynster in un cenno il più breve possibile, riportato nel vol. XX dei Papirer, apparso nel 1940 (XI3 B 15; tr. it., nr. 2811, t. II, pp. 426-30). 29 Cfr. il prospetto degli articoli in appendice alla traduzione italiana del Diario, t. II, pp. 805-10.

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stianità stabilita. In realtà si tratta di un fronte unico, quello del tradimento dello spirito da ambe le parti: l’idealismo, per avere ridotto il cristianesimo a una figura storica dello spirito umano riconciliandolo col mondo; la cristianità stabilita («specialmente il protestantesimo, specialmente in Danimarca»), per aver sanzionato tale riconciliazione. È sul filo del rapporto a Mynster, all’interno della collisione che si acuisce sempre più, che si può seguire e interpretare il significato della sua produzione letteraria, quello che AntiClimacus indica «per il risveglio e l’interiorizzazione» e più precisamente «di reintrodurre il cristianesimo nella cristianità». Così Kierkegaard ha inteso con slancio e dedizione incondizionata la sua missione, pagando di persona l’incomprensione e l’ostilità dei contemporanei: la Kierkegaard-Renaissance, insabbiando il suo grido di battaglia per i diritti della trascendenza e del messaggio cristiano come rinuncia al mondo e conformità col modello, ha rinnovato quel tradimento30 – un tradimento che la cultura continua a rinnovare contro la sua opera per strapparle l’aculeo che l’ha colpita a morte.

Lo scrittore: il complesso della produzione letteraria Non riesco a farmi capire da nessuno. Certamente si può capire quel ch’io dico: ma quando si tratta di metterlo in pratica, ecco nascere l’incomprensione. Nessuno è come me, a ogni secondo, messo alle strette da una forza superiore, che inflessibilmente lo costringe a seguire fin nei minimi particolari quel che ha capito (Diario 1849-50, X2 A 339 = 2101).

Forse in nessun altro scrittore – come precursori vengono in mente i nomi di Agostino e Pascal... – i temi fondamentali della biografia personale sostanziano il contenuto e lo sviluppo della produzione letteraria come in Kierkegaard. Per comodità di presentazione, crediamo opportuno dividere questa produzione tenendo conto – sulla scorta delle indicazioni dello stesso Kierkegaard nel Punto di vista della mia attività di scrittore – del «metodo» seguito che viene distinto in «comunicazione indiretta» e «comunicazione diretta» ossia fra le opere firmate con pseudonimi e quelle segnate col proprio nome31. La 30 In quest’opera di mistificazione del messaggio di Kierkegaard anche la cultura italiana, salvo rare eccezioni, non è rimasta indietro e alle volte anzi supera (come vedremo) la stessa Kierkegaard-Renaissance atea e sinistra quanto a sciatteria e ottusità. 31 «Per questa via Kierkegaard può col suo metodo raggiungere l’uomo in tutte le sue vie e aberrazioni ed egli può parlare a tutti gli uomini senza riguardo al loro stadio spirituale. In questo consiste l’arte (maieutica) di salvezza, com’egli anche chiama con la terminologia di Socrate

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produzione letteraria di Kierkegaard si può pertanto raccogliere in tre gruppi: A) Le opere pseudonime: sono le più conosciute e hanno formato la sua reputazione. Esse si dividono in due gruppi: quelle del tutto pseudonime: Aut-Aut (1843) di Victor Eremita, Timore e tremore (1843) di Johannes de Silentio, La ripresa (1843) di Constantin Constantius, Il concetto dell’angoscia (1844) di Vigilius Haufniensis, Le prefazioni (1844) di Nicolaus Notabene, Stadi sul cammino della vita (1845) di: a) Hilarius Bogbinder e b) Frater Taciturnus, e altri secondari; – e quelle che hanno per autore lo pseudonimo e per editore lo stesso Kierkegaard, come per le Briciole e la Postilla di Johannes Climacus e La malattia mortale e L’esercizio del cristianesimo di AntiClimacus. B) Le opere segnate e pubblicate col suo nome. Il gruppo è rappresentato soprattutto dalle copiose collezioni dei Discorsi edificanti che accompagnano tutta la produzione pseudonima dall’inizio alla fine, con notevoli fenomeni d’interferenze di dottrina e di forma che ancora non sono stati abbastanza studiati. I gruppi più importanti sono: 1843, 1849, 1851-52. C) Le «Carte» (Papier), di cui la parte più interessante è data dal Journal o Diario: le «Carte» A, gruppo lasciato naturalmente inedito. Come ampiezza esse costituiscono approssimativamente la metà delle «Carte», l’altra metà è data in gran parte dalle «Carte» B le quali, presenti quasi in tutti i volumi, in alcuni diventano predominanti (III, IV, V, VI, X5) e altri li occupano per intero (VII2, VIII2, X6, XI3). Le «Carte» C comprendono invece appunti presi da letture, corsi universitari e ricerche personali32. Ora bisogna tener presente che il gruppo A) costituisce – assieme ad alcuni articoli polemici di giornali – quella che Kierkegaard chiama la «comunicazione indiretta»; mentre i gruppi B) e C) formano la «comunicazione diretta». Appartengono pure alla comunicazione diretta un’aggiunta della Postilla e tre saggi critico-espositivi: Il punto di vista della mia attività di scrittore (1848), Per un esame di se stessi, raccomandato ai contemporanei (1851), l’arte della sua comunicazione» (G. MALANTSCHUK, Indførelse i Søren Kierkegaards Forfatterskab, Copenaghen 1953, p. 76). 32 Di queste «Carte» C (dal 1831 al 1838-39) sono stati pubblicati due volumi integrativi: S. Kierkegaards Papirer, Anden forögede Udgave ved Niels Thulstrup, Bde XII-XIII, Copenaghen 1969-70. Alle «Carte» del Journal deve attingere chiunque intende orientarsi sullo sviluppo del pensiero di Kierkegaard. Accanto alle «Carte» bisogna anche, secondo Thulstrup, considerare la biblioteca personale di Kierkegaard la quale – se non era l’unico – era però il principale fondo a cui egli attingeva: «Mir scheint es einleuchtend, dass es, wenn man Kierkegaard verstehen will, oft fruchtbarer sein muss, seinen Voraussetzungen nachzuforschen, d.h. kurz gesagt: seine eigene Bibliothek durchzugehen, bevor man die noch grössere Büchersammlung in Angriff nimmt, die nach und nach über ihn geschrieben worden ist» (N. THULSTRUP, Die historische Methode in der Kierkegaard-Forschung, in Symposion Kierkegaardianum, Copenaghen 1955, p. 296). Il catalogo per la vendita all’asta dei libri di Kierkegaard (1856) è stato edito dallo stesso Thulstrup, Copenaghen 1957. Ha studiato e pubblicato gli atti di vendita H.P. ROHDE, Auktionsprotokol over Søren Kierkegaards Bibliotek, Copenaghen 1967.

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Giudica da te stesso (1851-52): il primo e terzo sono stati pubblicati postumi dal fratello Pietro. Da aggiungere inoltre un saggio giovanile di critica ad Andersen, la tesi magistrale sull’Ironia e i dieci fascicoli del «Momento». I vari pseudonimi – scelti ad hoc – esprimono possibilità varie di esistenza, in una sfera di idealità pura estetica, etica, religiosa. Non danno quindi mai direttamente il pensiero e la vita reale del vero autore Kierkegaard, benché svolgano anche pensieri realmente suoi e siano sostanziati da fatti espressi o sottintesi della sua vita personale. Rispetto agli pseudonimi, egli dice spesso di comportarsi da semplice «lettore». Cioè, le possibilità di esistenza ivi esposte idealizzano e isolano l’uno e l’altro aspetto di quella vita che tumultuava e lottava in lui per cercare una «evasione»: o per tirarlo in basso o per portarlo in alto, così che dovunque in quei libri egli viene a trovarsi sempre «fuori di sé». La pseudonimia è quindi un gioco che però Kierkegaard ha fatto e ha preso molto sul serio e sul quale spesso gli interpreti sono passati o senz’accorgersi affatto o con troppa leggerezza. La maggior parte degli interpreti divide l’attività pseudonima in tre fasi: estetica, filosofica e religiosa; Kierkegaard rivendica invece espressamente di essere stato fin da principio, a cominciare da Aut-Aut, uno «scrittore religioso» (jeg er og var en religioes Forfatter)33. Si può dire perciò che le linee principali del pensiero di Kierkegaard emergono dallo stesso sviluppo e succedersi delle opere degli scritti pseudonimi i quali possono essere raggruppati in tre sezioni: A) Il ciclo di Regina, B) L’intermezzo filosofico, C) Il ciclo della cristianità. Alla prima serie appartengono le opere cosiddette «estetiche», benché il lato estetico non abbia che una funzione maieutica e dialettica di contrasto, per intensificare l’etica e richiamare la religiosità. Ciò è evidente nelle due parti di Aut-Aut: esse svolgono idealmente due personalità, l’una (A) estetica, l’altra (B) etica ma che finisce con un tema religioso: il discorso finale sul tema che «l’uomo ha sempre torto davanti a Dio». Il significato è evidente, la reazione all’idealismo perché insufficiente a far luce sui problemi dell’esistenza, una volta che esso con Hegel afferma: das Aeussere ist das Innere e che nega quindi l’interiorità personale, come si legge nella vivace «Prefazione» dell’editore Victor Eremita. Le due parti prospettano la prima alternativa della sua esistenza: «esteta o marito?» – e mentre la seconda, nelle perorazioni dell’Assessore Guglielmo, evidentemente è un’eco fedele delle discussioni col padre e una giustificazione del fidanzamento con Regina, la prima – ch’è stata scritta dopo – descrive l’idealità precedente (estetica) ed è intesa a dare la spinta per «staccare» Regina. Costei che in Aut-Aut era stata lasciata nell’ombra ed era presente come la «donna» in generale, domina invece col suo «caso» nei due saggi (ambedue del 1843) Timore e tremore e La ripresa. Nel primo Johannes de Silentio prospetta la possibilità della «so33

Synspunktet for min Forfatter-Virksomhed, S.V., XIII, 559; ed. Malantschuk, p. 60.

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spensione dell’etica» di fronte all’esigenza religiosa: quel Dio che ha ordinato ad Abramo di sacrificare Isacco, ha imposto a lui la rinunzia di Regina. Alla coppia biblica fa riscontro la mitologia di Agnese e il Tritone che celebra il trionfo dell’innocenza inconscia. La ripresa di Costantin Constantius, che celebra la costanza della fede di Giobbe, riguarda invece il futuro, cioè la possibilità di riavere Regina su di un altro piano certamente diverso, ma ancora nel tempo: Kierkegaard è un metafisico e non può persuadersi che all’amore possa venir meno l’oggetto. Il tema di Regina sarebbe già esaurito ma esso è ripreso daccapo, approfondito secondo le sue dimensioni reali-ideali nella grande opera autobiografica degli Stadi sulla via della vita del 1845. Si apre col celebre simposio: «In vino veritas», nel quale i cinque interlocutori (Victor Eremita, Constantin Constantius, Giovanni il Seduttore, il Modista e il Giovane) divagano con disquisizioni alate sull’essenza e la bellezza della donna nell’astrazione del sesso. Saggio mirabile per forma, frutto di aspre fatiche di lima e che – al dire di Brandes – può reggere il confronto col Convito platonico. Seguono le Osservazioni sul valore etico del matrimonio, ove si descrive la donna nella sua vita di «dedizione», come sposa e madre. Tutto questo non è che il prologo del grande Diario di Quidam: Reo – Non reo, che adombra lo stadio religioso e i motivi profondi del suo rapporto sia al padre come a Regina34, dove l’aderenza alla realtà storica è portata fino all’inserzione del biglietto inviato a Regina per la rottura del fidanzamento. L’intermezzo filosofico ovvero strettamente speculativo è rappresentato da tre opere, la cui importanza è stata ben avvertita. Il concetto dell’angoscia (1844) di Vigilius Haufniensis è forse l’opera a cui Kierkegaard più deve la sua fama, buona o cattiva a seconda degli umori. Eppure essa non tratta che di un aspetto, certo essenziale, dell’interiorità finita (l’essenza e le forme del peccato), ma lo tratta per di più nel suo momento di negatività e in veste sempre di uno pseudonimo, che poi non è neppure «cristiano». Anche la terminologia teologica vi è incerta e difettosa, ciò che la Malattia mortale e i Diari più maturi poi correggeranno almeno in parte. Non è cristiano neppure Johannes Climacus, signatario delle due opere più strettamente teoretiche, le Briciole di filosofia (1844) e la monumentale Postilla conclusiva (1846) alle dette Briciole. Vi si prospetta il problema della verità in quanto esso deve decidere la sorte dell’esistenza: «Può mai una de34 Cfr., su questo problema, C. SAGGAU, Skyldig – ikke skyldig?, Et par Kapitler af Michael og Søren Kierkegaards Ungdomsliv, SKS VII, Copenaghen 1958. La tesi dell’autore è che il rapporto a Regina di Kierkegaard dipende completamente dal suo rapporto al padre, il quale gli avrebbe inculcato la tesi che la sessualità, anche nel matrimonio, è intrinsecamente peccato (cfr. p. 86): di qui la rottura del fidanzamento. Ma la situazione, a nostro avviso, è più complessa e dialettica e vi giocano fattori molteplici, come tutto in Kierkegaard: però l’aspirazione che determina la decisione ultima è unica.

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cisione nel tempo avere una portata per l’eternità?» – quindi il rapporto fra passato e futuro per la «venuta di Dio nel tempo» nell’incontro dell’eternità col presente, e fra maestro e discepolo. Kierkegaard lo chiama il «problema di Lessing». Nelle due opere prendono rilievo sullo sfondo della schietta umanità di Socrate la realtà dell’Uomo-Dio contro la burbanzosa vacuità dei moderni, e il pathos religioso della fede nel Dio vero della rivelazione contro lo psittacismo della «mediazione» hegeliana. La tesi centrale della Postilla è che «la verità è la soggettività e la soggettività è la verità» (P. II, Sez. 2) ossia che la salvezza dipende dalla decisione della libertà, grazie alla quale il momento patetico ha il sopravvento – contro la tesi di Hegel – sul momento dialettico. Kierkegaard considerava la Postilla come l’opera sua principale (l’antagonista della Logica di Hegel); di essa si sentiva completamente soddisfatto, malgrado l’insuccesso librario. Il ciclo della cristianità è rappresentato dallo pseudonimo Anti-Climacus, che parla in nome del «cristiano straordinario» autentico. La Malattia mortale (1848) riprende l’analisi del peccato nel suo indurimento (disperazione, demoniaco) che è appunto la malattia che porta alla morte dell’anima, ma da cui l’uomo si può salvare con la fede. È questa senza dubbio l’analisi esistenziale del peccato più profonda – che resta tuttora insuperata – in tutta la letteratura cristiana moderna: nella prima parte si mostra che la malattia mortale è il peccato nella sua reduplicazione cioè come disperazione (Fortvivlelse), di cui si scandagliano l’universalità e le forme sotto le varie determinazioni della coscienza; nella seconda parte la disperazione è indicata nel peccato (Synden) che assume la forma dello scandalo (Forargelse) la cui forma più alta è il rifiuto di riconoscere Cristo come Uomo-Dio e l’abbandono del cristianesimo. L’esercizio del cristianesimo (1850) traccia la via maestra di questa fede nella «imitazione» e «contemporaneità» del fedele con Cristo. Questo secondo scritto di Anti-Climacus – ch’è l’ultimo pubblicato pseudonimo da Kierkegaard – approfondisce e conclude quindi la dialettica della salvezza. Esso si divide in tre parti ineguali e diverse ma collegate dalla tensione stessa della coscienza in cerca della propria salvezza: la prima tratta dell’«arresto» (Standsningen) che la ragione prova di fronte al paradosso dell’Uomo-Dio; la seconda dello «scandalo» (Forargelse) che causò e causa la parola e la vita di Cristo; la terza presenta una serie di sviluppi edificanti sul tema: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Jo., 12, 32). Il nucleo teologico esistenziale è ancora lo «scandalo» che Cristo suscita sui contemporanei e su ogni uomo che rifiuta la fede con il supremo aut-aut: o credere o scandalizzarsi. Il nucleo della terza sezione è l’opposizione fra l’ammiratore e l’imitatore di Cristo, fra la Chiesa trionfante (mondana) e la Chiesa militante (sofferente). Un atto d’accusa al protestantesimo ufficiale della Chiesa di Stato e specialmente al cristianesimo del vescovo Mynster, accomodante e garbato. L’ultimo attacco, lanciato contro la cristianità stabilita sui roventi fascicoli del «Momento» nel 1855, è la continuazione logica della polemica segreta ma già

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radicale nella sfera dell’ideale contenuta nell’Esercizio. Il compimento eroico di un patto di fedeltà assoluto verso l’assoluto. La parte meno esplorata degli scritti di Kierkegaard è certamente la parte del Diario dell’ultima maturità, ossia quello che segue ad Anti-Climacus, a partire cioè dal 1850. In esso si riflettono e ritornano le idee fondamentali svolte dagli pseudonimi e dagli scritti edificanti, ma filtrate attraverso nuove riflessioni e letture. Sarebbe facile mostrare come alcuni problemi fra i più caratteristici come quelli dei rapporti per esempio fra ragione e fede, fra autorità e libertà, fra singolo e società... ricevono sviluppi nuovi e perfino in contrasto con quelli precedenti e questo è evidente senz’altro per l’ulteriore determinazione del concetto di «autorità» (Myndighed), dopo il deterioramento dei rapporti con Mynster. Contemporaneamente nelle «Carte» B di quegli ultimi anni possiamo seguire la preparazione di nuove edizioni delle opere, lo sviluppo di vecchie e nuove polemiche (è importante per esempio quella sui rapporti fra ragione e fede con Theophilus Nicolaus...)35, progetti di nuovi scritti. Anche la recente KierkegaardRenaissance danese attinge a queste «Carte» con parsimonia e in modo occasionale: l’anima profonda di Kierkegaard e le ultime sue aspirazioni sono affidate a esse le quali raggiungono, soprattutto nell’ultimo biennio 1854-55, la decisione di un messaggio di chi già è congedato e attende la chiamata per l’eternità36. Tutto questo zampillare di analisi e prospettive resta nell’ambito della «comunicazione indiretta» nella quale l’autore sta come in disparte e fa operare gli Pseudonimi, i quali muovono le idealità in tutte le loro arabesche complicazioni dialettiche per provocare il lettore, ogni «Singolo», alla presa di posizione ovvero riflessione sulle tappe o stadi dell’esistenza. Lo stadio culminante, a differenza di Hegel, è per Kierkegaard quello religioso e a questo appartiene propriamente il discorso edificante con la comunicazione diretta in senso proprio: essa eguaglia quasi per mole e certamente per profondità la produzione pseudonima. Questa è l’idea-guida ch’è presentata nel Punto 35 La polemica risale al 1849-50 e si trova nel vol. X6 B 68-82, pp. 72-87. Indichiamo, a titolo documentario, gli altri argomenti principali dell’importante volume: Preparazione delle due edizioni di Per l’esame di se stessi e Giudicate voi stessi del 1851-52 (pp. 5 ss.), della seconda edizione degli Atti dell’amore del 1852 e dei Discorsi cristiani (pp. 37 ss.), della predica L’immutabilità di Dio del 18 maggio 1851 (pp. 41 s.). Questa sezione si chiude con i testi delle ultime due tormentate elaborazioni del Libro su Adler che Kierkegaard tenne nel cassetto (pp. 45 ss.). Seguono alla polemica contro Theophilus Nicolaus, le polemiche ancor più energiche contro R. Nielsen, quondam discipulus, e poi ritornato nel gregge della destra hegeliana (pp. 91 ss.), contro H. Martensen (pp. 129 ss.) e contro l’allievo di costui, il «pastore di campagna» Gude (pp. 197 ss.). Segue infine l’importante polemica contro Mynster del 1851-53 (pp. 255 ss.) che fiancheggia i testi delle «Carte» A e prepara la polemica finale del 1855. 36 Cfr. al riguardo l’ultimo testo del Diario del 25 settembre 1855, dal titolo significativo: «Lo scopo di questa vita dal punto di vista cristiano è di essere portati al più alto grado di noia della vita» (3322), di cui abbiamo riportato sopra il contenuto.

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di vista della mia attività di scrittore del 1848 (S.V., XIII, 547), pubblicato dal fratello Pietro nel 1859. In seguito Kierkegaard vi aggiunse alcune note e postille nel 1849 e 1855, riguardanti specialmente il problema del «Singolo». Kierkegaard riprende l’esame del suo itinerario nel saggio Sulla mia attività di scrittore del 1851-52 (S.V., XIII, 523)37. In Sulla mia attività di scrittore Kierkegaard ci dà la dichiarazione programmatica: «Il movimento che la produzione letteraria descrive è: dal “poeta” – dalla sfera estetica –, dal “filosofo” – dalla sfera speculativa – verso l’indicazione della determinazione più interiore della realtà cristiana: DALLO pseudonimo Aut-Aut ATTRAVERSO la Postilla conclusiva, che porta il mio nome come editore, FINO ai due Discorsi per la Comunione del venerdì (1849) questo movimento è percorso ossia descritto uno tenore, tutto d’un fiato, è religioso dal principio alla fine come ognuno che può vedere, se vuol vedere, deve anche vedere»38. Tre tappe quindi che possono essere dette: la prima estetica, la seconda filosofica, la terza religiosa. Ma questo riguarda – si badi bene – il metodo e non il contenuto: poiché anche le produzioni estetiche del ciclo di Regina svolgono temi filosofici e religiosi, come si è visto (per esempio, Abramo, Giacobbe...); tutto Johannes; infine Anti-Climacus, ch’è eminentemente religioso, si nutre di una forte problematica filosofica e teologica e contiene (specialmente l’Esercizio del cristianesimo) pagine di altissima poesia ed elevazione religiosa. Quel ch’è certo, comunque, è che da una parte la religiosità è sempre presente e costituisce la caratteristica specifica della sua produzione: «La categoria della mia attività di scrittore è di rendere attenti alla realtà cristiana e io sono soltanto una certa specie di poeta e pensatore»39. Veniamo a sapere che questa conversione letteraria radicale avviene in seguito ai fatti del «Corsaro»: gli schemi del giornalaccio gli fecero comprendere che «la verità deve sempre soffrire in questo mondo»: come si verificò in Cristo. Un testo del tempo di Anti-Climacus ci dà la conferma nella commozione del ricordo: «Fin da tenero bambino, mi fu raccontato nel modo più solenne che la folla sputava su Cristo (Mt. 27, 30) ed Egli era la verità [marg.: che SI sputava su di lui]; che la FOLLA (“quelli che passavano”: Mt. 27,39; Mc. 15,29) sputò addosso a lui e bestemmiava contro di lui. Quest’impressione l’ho conservata profondamente nel mio cuore; perché anche se vi sono stati momenti, periodi interi, in cui l’abbia quasi dimenticata, ci sono poi ritornato sempre come al mio primo pensiero. Per meglio nasconderlo, l’ho anche celato sotto l’aspetto esteriore più opposto; l’ho celato nel più profondo dell’anima mia, perché temevo mi scivolasse via troppo presto, che me lo togliessero con frode e diventasse come un colpo a salve. Questo 37 Per la traduzione italiana di questi due testi (Punto di vista e Sulla mia attività) si rimanda alle Opere kierkegaardiane nell’ed. Piemme 1995, rispettivamente pp. 19-114 e 3-18. [Ndr.] 38 Opere, 1995, p. 6. 39 Papirer 1851, X6 B 145, p. 216.

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pensiero [...] è la mia vita. So di essere sulla strada giusta; ne ho l’assoluta certezza. Le chiacchiere della “folla”, il suo sghignazzare, la sua bestialità ne sono l’ambiente e i segni. Che meraviglia quindi se il mio pensiero non è senza una certa solennità ed è, come me, così tranquillo; perché la via è giusta, io sono sulla strada giusta, benché mi resti ancora molto»40. Quest’impressione costituisce il «sigillo segreto» della sua interiorità e la molla del suo impeto di testimonianza. Essa richiama e s’integra con la «esperienza del Crocifisso» che il piccolo Søren provò in una delle sue passeggiate col padre, davanti alla vetrina di un rigattiere, di cui l’Esercizio del cristianesimo ci offre la commossa descrizione: «Prendi un bambino che non sia stato guastato dalle chiacchiere e da quell’insegnamento a filastrocca che Cristo è stato crocifisso... Prendi codesto bambino, presentagli dei ritratti di uomini celebri: un uomo a cavallo col cappello a tre punte, Alessandro, Napoleone e simili, e mescola queste immagini con quella del Crocifisso. Il bambino domanderà come per le altre: “Questo chi è?”. Di’ allora: “Era l’uomo più amoroso che mai sia esistito”. Il bambino domanderà: “Ma allora chi l’uccise e perché?”. Oh, se anche quando sarà diventato vecchio, avesse l’uomo conservato qualcosa della sua infanzia! Che commozione non proverebbe quando, passando davanti a un rigattiere che tiene in vetrina delle figurine di Norimberga, vedesse questa frammischiata alle altre!»41. Così egli arrivò a scoprire nel paradosso di Cristo come Uomo-Dio il nucleo distintivo del cristianesimo e il fondamento per l’edificazione e la predicazione cristiana42. Ma a partire dalla sua «crisi ecclesiale» ossia dalla mistificazione della Chiesa stabilita, che si presenta come Chiesa trionfante (nel mondo) e non più militante (contro il mondo) come l’ha voluta Cristo qui in terra, l’edificante è visto sempre più nella persona e nell’opera salvifica di Cristo mediante la sua passione e morte di croce – come negli antichi scritti edificanti. La dialettica ora, in quest’ultima piega della sua produzione edita e inedita, non si espande più nella dialettica letteraria fra pseudonimi e Discorsi edificanti ma si concentra ovunque nella dialettica reale dell’idea cristiana allo scopo di «costringere il singolo alla scelta» ossia di decidersi pro o contra il cristianesimo. Ora si accentua sempre più la rivendicazione dell’esistenzialità costitutiva del cristianesimo: la parola d’ordine è che «il cristianesimo non è una dottrina, ma una comunicazione di esistenza»43 – per questo il compito 40

Diario 1949, X1 A 272; tr. it., nr. 1793, t. I, p. 843. Diario 1848-49, IX A 395; tr. it., nr. 1616, t. I, p. 755. 42 Cfr. H. METZGER, Kriterien christlicher Predigt nach Sören Kierkegaard, Gottinga 1964, p. 41

78. 43 Cfr. il testo capitale: Diario 1848-49, IX A 207; tr. it., nr. 1524, t. I, pp. 712 s. Anche per Kierkegaard il cristianesimo ha certamente una dottrina, quella comunicatagli dalla divina rivelazione (la «lettera dal cielo»): esso ha infatti la dottrina più alta e consolante, quella dell’incarnazione del Verbo e della salvezza dell’uomo con l’imitazione di Cristo e la Grazia. Ma Kierkegaard precisa che il cristianesimo non si riduce a una dottrina, come il platonismo, l’ari-

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essenziale della comunicazione (del discorso edificante, della predica) non è quello di presentare una dottrina ma soprattutto di stimolare una decisione – cioè di provocare appunto un risveglio per la decisione della fede. Il nuovo compito, ch’è poi quello antico dei testimoni della fede, non consiste più nella presentazione della dialettica dei concetti (cristiani) ma nell’accentuare la dialettica della decisione: «Vuoi tu credere, sì o no?» – «Vuoi credere o preferisci scandalizzarti?» – «Vuoi farti un’opinione su Cristo, sì o no?» – «Vuoi accettare la divinità di Cristo o preferisci scandalizzarti?». Tali infatti sono gli interrogativi che Anti-Climacus pone al lettore (specialmente nella Malattia mortale e nell’Esercizio del cristianesimo). Essi esprimono anche il compito dell’ultimo ciclo di scritti edificanti. La caratteristica formale poi della produzione edificante di Kierkegaard è che si tratta di «discorsi» e non di «prediche», poiché queste esigono l’autorità ch’è propria del pastore e del testimone della verità: egli perciò si ritiene senz’autorità. Leggiamo infatti in un’aggiunta a Sulla mia attività di scrittore del 1851: «Senz’autorità rendere attento alla realtà religiosa, alla realtà cristiana, è la categoria per tutta la mia produzione letteraria considerata come un tutto. Che io sia SENZA AUTORITÀ, l’ho fin dal primo momento dichiarato e ripetuto stereotipatamente; considero me stesso come un lettore dei (miei) libri, non come l’autore»44. Il Diario spiega: «Il significato dell’intera produzione letteraria è rendere attenti al cristianesimo. Non si tratta di prestare attenzione a me, eppure è alla personalità che si deve prestare attenzione ossia all’importanza della personalità come decisiva per la realtà cristiana»45. Anche i diari dal 1849 in poi sono costellati dalle dichiarazioni: «io sono senz’autorità», benché insieme venga maturando la lotta contro Mynster e la cristianità stabilita. È qui allora, nella produzione edificante, che va cercata la genesi e la fonte originaria della sua tematica profonda, l’aspirazione ultima della sua attività letteraria. Il complesso della produzione edificante non si limita ai Discorsi edificanti ma comprende, secondo la dichiarazione dello stesso Kierkegaard, tutto Anti-Climacus e già prima lo stesso Libro su Adler 46. Questa produziostotelismo, l’hegelismo..., poiché nel cristianesimo l’uomo per salvarsi deve «esistere nella dottrina» ch’è offerta dalla fede cristiana ossia conformarsi a Cristo «modello» con l’imitazione (cfr. Diario 1854, X1 A 384; tr. it., nr. 3026, t. II, pp. 566 s.). A questo riguardo un critico recente fra i più accorti osserva: «In questi sette Discorsi Kierkegaard espone un lato del cristianesimo che raramente s’incontra nella Chiesa luterana, l’imitazione» (G. MALANTSCHUK, Indførelse i Søren Kierkegaards Forfatterskab, Copenaghen 1953, p. 54). 44 Opere, 1995, pp. 11-12. 45 Papirer 1849, X2 A 174, pp. 139 s. 46 Kierkegaard stesso l’afferma nell’aggiunta a un progetto di «Prefazione» del novembre 1847: «Così io mi separo da questo libro; esso è – ciò che sorprenderà molto – uno scritto edificante – per coloro che lo comprendono» (Papirer VIII2 B 20, p. 73. Più sotto osserva: «ciò che apparirà strano a molti», B 27, p. 88).

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ne assume così un’ampiezza pari almeno a quella degli Pseudonimi di cui, appunto con Anti-Climacus, raggiunge e assorbe la tematica per chiarire il rapporto della verità cristiana alla vita. Possiamo dividere la produzione edificante in modo approssimativo, poiché Kierkegaard non ci ha dato alcuna indicazione al riguardo, in tre gruppi principali: A) Il primo gruppo, che abbraccia il biennio 1843-45, comprende una serie di brevi collezioni di discorsi sparsi che hanno lo scopo d’integrare gli Pseudonimi estetici e di bilanciarne l’effetto. Nel «discorso» che costituisce l’Ultimatum di Aut-Aut («L’edificazione che c’è nel pensiero che rispetto a Dio abbiamo sempre torto»), Kierkegaard conclude il grande affresco estetico-etico con il principio che caratterizza non solo la produzione edificante ma l’intera sua attività di scrittore: «Soltanto la verità che edifica, è verità per te». E nella Postilla commenta: «Questo è un predicato essenziale rispetto alla verità come interiorità, mediante il quale la sua determinazione decisiva come edificante per te, cioè per il soggetto, è la sua differenza essenziale da ogni sapere oggettivo, in quanto la soggettività stessa diventa il carattere distintivo della verità»47. E di lì a poco precisa: «La determinazione della verità come interiorità, cioè il fatto ch’essa è edificante, dev’essere compreso anche in una maniera più precisa, prima ch’essa sia verità religiosa e tanto più religiosa cristiana. Per ogni edificazione vale il principio che prima di tutto e soprattutto essa produce lo spavento necessario adeguato, perché altrimenti l’edificazione è una fantasticheria»48. Si può dire allora, ed è una delle osservazioni più profonde, che l’edificante realizza il cammino stesso dell’interiorità, in direzione opposta all’interessante dell’estetica, all’esibizione etica dell’eroe tragico (Agamennone, Jefte...) o alla profondità della speculazione. Qui valgono i modelli religiosi come obbedienza all’assoluto fra i quali emergono Abramo, Giobbe... e soprattutto Maria che Kierkegaard addita spesso come il modello più alto dopo Cristo «perché Maria conservava le parole come un tesoro nel bel recinto di un buon cuore»49. B) Il secondo gruppo occupa il biennio 1847-48 ossia l’intervallo fra Johannes Climacus e Anti-Climacus e abbraccia le tre maggiori collezioni di discorsi di cui diamo la disposizione con i titoli: 1. Opbyggelige Taler iforskjellig Aand («Discorsi edificanti di spirito vario», S.V., VIII, 125-488). Parte I: Un discorso di occasione di S.K., dedicato al singolo. – In occasione di una confessione. – Tema: «la purità del cuore è volere una cosa sola», in tre discorsi. – Assai noti per l’incanto poetico sono i 47

Postilla conclusiva, P. II, Sez. II, c. 2: «Appendice», in questo volume p. 1095. Ibid., p. 1103. 49 Ibid., p. 1105. Un elogio mirabile di Maria c’è già in Timore e tremore (Probl. I, S.V., III, 128 s.; in questo volume p. 271). Per altri testi, vedi la nostra Antologia kierkegaardiana, SEI, Torino 1952, pp. 260 ss. 48

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discorsi della Parte II sui gigli del campo e gli uccelli dell’aria. – La Parte III abbraccia il Vangelo delle sofferenze, eco degli scherni del «Corsaro», ch’è il punto di arrivo delle riflessioni sull’essenza del cristianesimo. 2. Kjerlighedens Gjerninger («Gli atti dell’amore», S.V., IX per intero). Parte I. – 1. La vita intima dell’amore e la sua riconoscibilità dai frutti; 2. a) Tu «devi» amare, b) Tu devi amare il «prossimo», e) «Tu» devi amare il prossimo; 3. a) Rom. 13, 10: l’amore è la pienezza della legge, b) l’amore è affare di coscienza; 4. Il nostro dovere di amare gli uomini che vediamo (I Jo., 4, 10); 5. Il nostro dovere di rimanere in debito gli uni gli altri nell’amore. – Parte II – 1. L’amore edifica, I Cor. 8, 1; 2. L’amore crede tutto – e non è mai ingannato, I Cor. 13, 7; 3. L’amore spera tutto – e non è mai confuso, I Cor. ibid.; 4. L’amore non cerca le cose sue, I Cor. 13, 5; 5. L’amore copre la moltitudine dei peccati, I Pt. 4, 8; 6. L’amore persevera, I Cor. 13, 8; 7. La misericordia è un atto di amore, anche se non può dar nulla e se non può far niente; 8. La vittoria del perdono nell’amore, che vince il Vinto; 9. L’atto di amore di ricordare un defunto; 10. L’atto di amore di lodare l’amore. – Conclusione. È il capolavoro edificante di Kierkegaard e uno dei documenti più alti della spiritualità di tutti i tempi in un intreccio di commozione religiosa, di dialettica e poesia. 3. Christelige Taler («Discorsi cristiani», S.V., X, 7-362). Consta di tre parti. – I. Le preoccupazioni di un pagano: di povertà, abbondanza, avvilimento, elevatezza, empietà, autotortura, irresolutezza, instabilità, sconforto. – II. Voci di giubilo nella lotta delle sofferenze: 1. La gioia nel fatto che si soffre una volta sola; 2. ...che l’afflizione non distrugge ma aumenta la speranza; 3. ...che quanto tu più diventi povero, tanto più ricchi puoi fare gli altri; 4. ...che quanto tu più diventi debole tanto più forte Dio diventa in te; 5. ...che ciò che tu perdi nel tempo, lo guadagni nell’eternità; 6. ...che quando io «guadagno tutto», allora io non perdo nulla affatto; 7. ...che l’insuccesso è un successo (Modgang er Medgang). – III. Pensieri che feriscono alle spalle – per edificazione: 1. Custodisci il tuo piede quando tu vai alla casa di Dio, Eccl., 12, 1; 2. Ecco noi abbiamo abbandonato tutte le cose e ti abbiamo seguito: cosa noi avremo? Mt. 19, 28 – e cosa avremo noi?; 3. Tutte le cose devono servirci in bene se noi amiamo Dio, Rom. 8, 7; 4. Ci aspetta la risurrezione dei morti, dei giusti e degli ingiusti; 5. Noi siamo ora più vicini alla salvezza di quando eravamo credenti, Rom. 13, 11; 6. È una beatitudine il soffrire scherni – per una buona causa; 7. Egli è creduto nel mondo (I Tim. 3, 16). – IV. Discorsi per la comunione del venerdì; 7. Discorsi su Lc. 22, 15; Mt. 11, 28; Jo., 19, 27; I Cor., 11, 23; II Tim. 2, 12; I Jo., 3, 20; Lc., 24, 51. È certamente, questa, la sezione meno nota ma che mostra forse più di ogni altra il carattere positivo ed elevante della religiosità kierkegaardiana. Basti pensare al titolo, ch’è un’eco dell’ideale ascetico-mistico di tutta la tradizione cristiana, della Parte II: «Voci in giubilo nella lotta delle sofferenze» – ch’è una continuazione delle ultime battute del Vangelo delle sofferenze.

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C) L’ultima produzione edificante ha il suo nucleo teologico, come si è detto, nei due saggi di Anti-Climacus ai quali rimandiamo il lettore. In apertura ai due capolavori Kierkegaard ha inserito nel 1849 – quasi come respiro poetico – una deliziosa rielaborazione di un tema che lo attraeva particolarmente: Lilien paa Marken og Fuglen under Himlen («Il giglio del campo e l’uccello dell’aria», S.V., XI, 7-57). Il tema è preso da Mt. 6, 24-34: 1. Guardate gli uccelli dell’aria, osservate i gigli del campo; 2. Nessuno può servire a due padroni; 3. Guardate gli uccelli dell’aria: essi non seminano né mietono, né raccolgono nei granai... – Fra i due saggi teologici inserisce, ancora nel 1849, tre brevi discorsi di argomento biblico: Ypperstepraesten – Tolderen – Synderinden («Il sommo sacerdote» – «Il pubblicano» – «La peccatrice»). Tre discorsi per la comunione del venerdì (S.V., XI, 275-311). Hanno per tema: I. Hebr., 4, 15; II. Lc., 18, 13; III. Lc., 7, 47. – Al tempo dell’Esercizio del cristianesimo, quasi come meditazione sulla redenzione, Kierkegaard pubblicò il discorso: La peccatrice – un commento intenso a Lc., 7, 37 ss. Nell’ultimo biennio produttivo, che va dal 1851 al 1852, Kierkegaard scrive ancora tre raccolte di discorsi: 1. To Taler ved Altargangen om Fredagen («Due discorsi per la Comunione di venerdì», S.V., XII, 309-36). Temi: 1. Lc., 7, 47; 2. II Pt., 4, 7. – 2. Til Selvproevelse Samtiden anbefalet («Per l’esame di sé, raccomandato ai contemporanei», S.V., XII, 337-426). 1. Cosa si esige per una vera benedizione di considerarsi nello specchio della parola (V domenica dopo Pasqua); 2. Cristo è la via (Festa dell’Ascensione); 3. È lo Spirito che vivifica (I Festa della Pentecoste). – 3. Doemmer selv! («Giudicate voi stessi!», II Serie, S.V., XII, 429-560). Composto nel 1851-52 fu pubblicato dal fratello Pietro nel 1876: I. Pt., 4, 7; II. Mt., 6, 24; «Morale», Aggiunta del marzo 1855. Chiude la serie dei discorsi edificanti il mirabile discorso Guds Uforanderlighed («L’immutabilità di Dio», S.V., XIV, 287-306). Dedicato al padre, fu scritto il 5 e recitato il 18 maggio 1851, ma pubblicato nell’agosto 1855. Kierkegaard fin dalla Postilla50 ammonisce che «l’edificante è predicato essenziale di ogni religiosità»: diversamente però nelle religiosità A e B. Nella A l’edificante sorge all’interno del soggetto come momento negativo ch’è avvertimento della totalità della colpa quale ostacolo per attuare il rapporto a Dio. Nella religiosità B, che si affaccia per la prima volta con il suo carattere distintivo nella Postilla, l’edificante è viceversa qualcosa che sta fuori dell’individuo, non nella esteriorità della natura come per l’esteta, non nella semplice sfera dell’immanenza della religiosità A dove Dio è tutto e l’edificazione consiste precisamente nel fatto che Dio si trova nell’individuo, ma nell’esteriorità effettiva della realtà storica della salvezza: Dio nel tempo. L’edificante della religiosità B si trova appunto nella sfera del paradosso e corrisponde alla determinazione di «Dio nel tempo» (Gud i Tiden) come uomo singolo 50

Cfr. P. II, Sez. II, c. 4, sez. 2: «Congiunzione fra A e B» in questo volume, a pp. 1545 ss.

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(= Gesù Cristo): infatti quand’è così l’individuo si rapporta a qualcosa fuori di sé. L’edificazione qui è che il cristiano, il discepolo, diventa una nuova creatura che non deve mescolarsi al mondo o cercare maestri umani. Si tratta allora di afferrare la differenza qualitativa infinita non solo fra il creatore e la creatura (religiosità A), ma soprattutto di edificarsi nel pensiero dell’abisso del peccato e della misericordia della redenzione. È ovvio che quest’edificazione nasce soltanto nella sfera della fede (Tro) dentro la quale si colloca il nuovo piano esistenziale del peccato che si rapporta alla redenzione come processo storico nel tempo. Queste in compendio le linee generali della produzione edificante di Kierkegaard, senza la quale ogni interpretazione sconfina alla periferia e manca il segno. È Kierkegaard stesso che interviene per togliere ogni ambiguità su questo punto (che la Kierkegaard-Renaissance ha invece tradito in pieno) soprattutto nel Punto di vista della mia attività di scrittore. Nell’introduzione» egli fa la dichiarazione perentoria: «In verità come scrittore io sono e sono stato uno scrittore religioso; tutta la mia attività letteraria si rapporta al cristianesimo, al problema del diventare cristiano (at blive Christen), con la mira polemica diretta e indiretta contro l’enorme illusione ch’è la cristianità ovvero in un paese siffatto dove tutti sono cristiani»51. La tesi è sviluppata in due sezioni d’ineguale ampiezza, come spesso avviene in Kierkegaard (cfr. spec. la Postilla) che trattano poi effettivamente la stessa tesi ora enunciata (cfr. Sez. I B; e la Sez. II riprende la tesi nel titolo: «L’intera attività letteraria comprende, e sotto questo punto di vista, che l’autore è uno scrittore religioso»). Il Capitolo I svolge prima la polemica contro l’illusione enorme della cristianità (§§ 1-3), poi tocca l’obbligo di «prestare attenzione» (§ 4) e infine mette in guardia dall’interpretare in chiave estetica la produzione estetica (§ 5). Il Capitolo II espone il diverso rapporto della sua vita personale alla produzione estetica e alla produzione religiosa. Infine il capitolo III illustra la funzione della «Provvidenza» (Styrelsen) nella sua attività letteraria52. L’espansione più varia e più direttamente vissuta e compiuta dell’edificante rimane ancora il Diario il quale precede, accompagna e compie anche la produzione edificante. È nella selva variopinta e fremente delle sue annotazioni – costellate di elevazioni su testi biblici, di preghiere e d’invocazioni – che noi possiamo seguire, con passo sicuro, l’avanzare del suo spirito e avvicinare per barlumi illuminanti il geloso segreto delle sue sofferenze che si placano nella gioia della vittoria della fede.

51 Synspunktet for mini Forfatter-Virksomhed, «Indledning», S.V., XIII, 551; ed. Malantschuk, p. 53. 52 Sono riportate in «Appendice» due importanti note sul «singolo» ch’è il protagonista dello stadio religioso (S.V., XIII, 633 ss.; ed. Malantschuk, pp. 120 ss.).

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Il pensatore: per la ripresa del realismo cristiano Il mio compito è talmente nuovo che nei 1800 anni di storia della cristianità non c’è nessuno da cui possa imparare come devo comportarmi. Poiché tutti gli uomini straordinari esistiti finora hanno agito per diffondere il cristianesimo. Il mio compito tende invece ad arrestare una diffusione menzognera, e anche a far sì che il cristianesimo si scuota di dosso una massa di gente che son cristiani soltanto di nome (Diario 1854, XI1 A 136 = 2886).

Chiunque abbia un po’ di familiarità con gli scritti di Kierkegaard e soprattutto con gli Pseudonimi – e non solo con la Postilla, dove la somiglianza di stile e la suggestione dei problemi hegeliani s’intravede a ogni pagina – può attestare che se c’è un centro polemico nell’opera di Kierkegaard, questo è anzitutto Hegel e il «sistema» hegeliano. Ma anche il problema del rapporto Kierkegaard-Hegel è stato dalla Kierkegaard-Renaissance abbondantemente frainteso: qualcuno, di fronte alla demolizione dell’hegelismo da parte di Kierkegaard, ha contestato ch’egli avesse una conoscenza sufficiente e di prima mano del pensiero hegeliano; qualche altro invece ha sostenuto che, malgrado tutta la sua polemica, Kierkegaard è rimasto sulla scia di Hegel assimilando e accettando la sostanza della sua dialettica. Bisogna subito dichiarare che, per il fondo del discorso e per i problemi di fondo che Kierkegaard voleva portare a termine, l’una e l’altra interpretazione sono state dimostrate completamente infondate53. È in una direzione completamente opposta che il problema va affrontato, come del resto compresero anche gli hegeliani danesi contemporanei Heiberg e Martensen e lo stesso Mynster quando la chiamava suo «complemento». Non v’è dubbio che l’orientamento del pensiero di Kierkegaard è decisamente realista nel senso di un continuo riferimento al realismo e di un pari continuo appello alla trascendenza a tutti i livelli della coscienza: sia della coscienza dell’uomo comune, sia per i fondamenti dell’etica e della religione, naturale e rivelata. Vediamolo nei punti essenziali. A) La professione di realismo. Diciamo subito che la piattaforma filosofica del pensiero di Kierkegaard, soprattutto nella lettura dei primi diari, è com53 L’ha ampiamente dimostrato N. THULSTRUP, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel. Forschungsgeschichte, Stuttgart 1969, spec. pp. 9 s., 42 ss., 151 ss. (cfr. per esempio la critica a J. Wahl, p. 155, per la superficialità dell’esposizione e per aver ripetuto senza alcun senso critico le affermazioni di Reuter e Bohlin sulla dottrina del paradosso). L’autore ha anche, e con ragione, nettamente respinto ogni tentativo di avvicinare Kierkegaard a Kant (cfr. la critica in questo senso a Høffding, p. 51; Himmelstrup, p. 88; U. Johansen, pp. 198 s.).

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posita e varia: le sue letture sembrano spaziare con libertà ma anche con un preciso indirizzo e programma, soprattutto per il pensiero antico, mentre la drastica opposizione al cogito moderno, presente fin da principio, si fa luce però solo poco per volta. Ma a partire dal 1843 con Victor Eremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius e soprattutto nel 1844 e 1845..., sono i greci che attirano il suo spirito per precisare il concetto di realtà – e specialmente Aristotele54 – ed è al cristianesimo soprattutto ch’egli chiede la risposta definitiva sugli interrogativi ultimi dell’esistenza, non però a un cristianesimo qualsiasi, filtrato nelle ideologie filosofiche e teologiche della cristianità stabilita, ma a quello originario del Nuovo Testamento. Quest’aspetto della ricerca sembra decisivo e conclusivo per poter alla fine valutare il significato e la portata reale del confronto fra Hegel e Kierkegaard nei suoi elementi strutturali più operanti. È l’orientamento di fondo pertanto quello che ora deve soprattutto interessare, sul quale invece la Kierkegaard-Renaissance ha troppo spesso sorvolato e continua a sorvolare, malgrado le esplicite dichiarazioni dello stesso Kierkegaard a questo riguardo. Ma ci s’intenda bene fin da principio: è chiaro che Kierkegaard non è e non vuole essere un aristotelico di scuola, ma di spirito, ossia egli cerca e ha trovato in Aristotele l’ispirazione e il fondamento di quel realismo etico-metafisico che il cogito moderno, e in particolare Hegel con la radicalizzazione del cogito55, avevano demolito. Per «realismo etico-metafisico» intendiamo – in contrasto con l’immanentismo moderno – la schietta apertura anzitutto della coscienza dell’uomo all’essere e la priorità costitutiva quindi dell’essere sul conoscere così che l’attuarsi e il manifestarsi nella natura e nella storia sono il fondamento e il riferimento necessario per l’attuarsi della coscienza: ma l’uomo come spirito deve poi volgersi al primo principio, ch’è l’assoluto, in un rapporto di libertà come persona a persona che fa la sua scelta decisiva e che non può «svanire» come un momento nel Tutto del divenire anonimo della storia del genere. Kierkegaard aveva letto e studiato con impegno, come mostrano le citazioni e allusioni delle sue opere, anche Platone dal quale aveva preso soprattutto la suggestione dell’Idea, intesa come contenuto e norma e pienezza di principio interiore immutabile dell’attività spirituale, alla quale deve corrispondere la fedeltà incrollabile da parte dell’uomo nel suo impegno esistenziale verso l’assoluto. E nella familiarità con l’opera di Platone56, Kierkegaard aveva co54 Nella biblioteca di Kierkegaard figurano varie edizioni e traduzioni delle opere di Aristotele (cfr. N. THULSTRUP, S. Kierkegaards Bibliotek, Copenaghen 1957, nrr. 1056-97, pp. 70 ss.). 55 Cfr. HEGEL, Enc. der philos. Wiss., § 64, dove Hegel mostra la superiorità del cogito cartesiano sul principio del Glaube di Jacobi. N. Thulstrup ha messo in rilievo l’influsso decisivo del realismo aristotelico sulla maturazione del cristianesimo kierkegaardiano (cfr. spec. Kierkegaard Forhold til Hegel, Copenaghen 1967, pp. 241 ss.). 56 Kierkegaard studiò direttamente Platone sembra con la collaborazione di J.S. Levin, filologo e letterato, per qualche tempo suo segretario.

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nosciuto la personalità di Socrate che resterà il suo paradigma per lo stadio etico-religioso nella sfera del puro umano e che gli servirà, nella Postilla, per tracciare i limiti fra la religione naturale (A) e quella rivelata (B) soprattutto al tempo del maggior fervore polemico antihegeliano che culmina nell’opera di Johannes Climacus57. La conoscenza diretta di Aristotele gli permette una rivendicazione di valore assoluto e immutabile dei primi principi (contraddizione, identità, terzo escluso...) e della realtà assoluta di Dio e dei valori morali ai quali l’uomo deve aspirare con passione infinita. Quel che più l’ha colpito in Aristotele – e dove egli avverte il progresso del Filosofo su Platone e la sua superiorità rispetto a Hegel – è l’affermazione della priorità reale che compete al movimento e quindi la concezione dinamica della realtà intesa come un attuarsi per «passaggi», per crisi e salti, sia nella natura come e soprattutto nello spirito. Kierkegaard, com’è noto, si vantava di essere stato educato «alla scuola dei greci» e anche la sua prosa inconfondibile lo fa pensare, con le sue espressioni turgide di sfumature e i periodi zeppi di proposizioni dipendenti. Nell’articolarsi fremente del suo pensiero, soprattutto quando vuol mettere a punto il «problema specifico della verità del cristianesimo», a partire dalle Briciole contro la mistificazione hegeliana, è la filosofia di Aristotele che viene in prima linea. La chiave pertanto dell’opposizione di Kierkegaard a Hegel ha il nome d’interiorità etico-religiosa, ch’è il sinonimo di «esistenza» e di realtà nella vita dello spirito: l’interiorità, di cui si parla, passa attraverso l’etica e si compie nella coscienza religiosa la quale trova la sua ultima concretezza nell’impegno e nella scelta del cristianesimo. Quest’itinerario cresce in Kierkegaard certamente dall’interno, sotto la spinta della sua prima rigida formazione religiosa; ma sono appunto i «casi della vita» – quali il rapporto al padre e a Regina, la polemica col «Corsaro», la rottura prima segreta e poi aperta con Mynster... – a dare i giri di vite e a trasformare l’elegante esteta e fervido moralista in una «spia» della cristianità. La chiave dell’interiorità kierkegaardiana, a differenza di quella pascaliana58, è nella consapevolezza non soltanto del vuoto e dello smarrimento dell’uomo nel cosmo ma anche nell’avvertenza tutta moderna dell’insidia dell’io e del fascino della soggettività immediata. Kierkegaard quindi combat57 Kierkegaard arriva a sostenere che la ignoranza socratica «era una specie di analogia della fede» con la riserva, s’intende, che «l’ignoranza socratica è come uno scherzo elegante al confronto della serietà dell’assurdo e l’interiorità socratica dell’esistenza è come la noncuranza greca in confronto dello sforzo della fede» (Postilla, P. II, Sez. II, c. 4 e c. 2 in questo volume, a pp. 1533 e 1033). 58 Sui rapporti fra Pascal e Kierkegaard c’è una vasta letteratura: cfr. H. HØFFDING, Pascal og Kierkegaard, in «Religiøse Tanketyper», Copenaghen 1927, pp. 70 ss.; DENZIL G.M. PATRICK, Pascal and Kierkegaard. A Study in the strategy of evangelism, 2 voll., London and Redhill 1947 (spec. vol. II); J.M. LLOYD THOMAS, Pascal and Kierkegaard, in «The Hibbert Journal», XLVII, 1948, pp. 40 ss.

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te tanto la soggettività pura del romanticismo di Jacobi e di Schleiermacher59, non meno dell’oggettività pura di Hegel: la sua soggettività è alla seconda potenza, quella della scelta assoluta dell’assoluto, la quale poi diventa – se così piace – la soggettività (o dialettica) alla terza potenza in quanto ognuno non può ignorare Cristo e deve pronunciarsi sull’Uomo-Dio. Nella Postilla 60 il problema ha ormai il suo assetto fondamentale. Si badi bene: Kierkegaard non nega affatto la verità oggettiva (di una struttura ontologica delle cose in sé), né rispetto al mondo e neppure rispetto a Dio: essa è, si potrebbe dire, il terminus a quo della verità esistenziale o anche il quod ch’è l’oggetto del suo «rischio», mentre la soggettività è il quomodo dell’impegno stesso nel rischio della scelta. È da questo che trae anzitutto ragione la sua critica a Hegel61. Nella forma di Kierkegaard, la verità oggettiva si ha quando «si riflette “sul fatto” che la verità, il vero, è ciò a cui ci si rapporta»; la verità soggettiva invece fa un passo indietro (o avanti!) ossia si ha quando «si riflette soggettivamente “sul rapporto” dell’individuo» e più precisamente sul «come» del rapporto62. La verità esistenziale è questo «come» soggettivo dell’impegno della libertà del singolo: «esistere» perciò è il «come» del rapportarsi del singolo alla verità e ciò forma la qualità dell’esistere, dell’essere spirito, è il «come del come» ovvero il rapportarsi del rapporto stesso secondo la definizione dell’io che dà la Malattia mortale63. Quindi la prima proposizione della filosofia esistenziale: la soggettività, l’interiorità è la verità – la quale, secondo Kierkegaard, risale a Socrate – costituisce il punto più alto del paganesimo. Ma questa soggettività è in Socrate allo stato astratto iniziale, poiché egli non disponeva dell’oggetto che porta l’interiorità alla tensione del paradosso infinito ch’è la realtà dell’Uomo-Dio. Per questo Hegel critica la concezione socratica del daimovnion interiore a ciascun uomo così che «ogni uomo può decidere da sé secondo la sua intenzione», come «la mancanza dell’universale (Mangel des Allgemeinen) che consiste nell’indeterminatezza di questo, una mancanza ch’è sostituita in modo deficiente, in una singola maniera, poiché il decidersi di Socrate dall’interno ha avuto la forma propria di un impulso incosciente». Si tratta, per Hegel, che il «genio di Socrate, non è lo stesso Socrate, non la sua opinione e persuasione, ma un oracolo ch’è però insieme nulla di esteriore, bensì un che di soggettivo, è il suo oracolo. Esso ha avuto 59 «Non nego che Jacobi mi abbia molto spesso entusiasmato, anche se vedo benissimo che la sua abilità dialettica non è proporzionata al suo entusiasmo» (Postilla, P. II, Sez. II, c. 2: in questo volume, a p. 1091). 60 Postilla, P. II, Sez. 2, spec. cc. 2-3 in questo volume a pp. 1003 ss. 61 Per un confronto più analitico dei rapporti fra Kierkegaard e Hegel, cfr. il saggio di C. FABRO, Kierkegaard critico di Hegel, nel vol. Incidenza di Hegel, a cura di F. Tessitore, Napoli 1970, pp. 497-563. 62 «Oggettivamente si accentua il CIÒ (Hvad) che si dice; soggettivamente il COME (Hvorledes) si dice» (Postilla, P. II, Sez. II, c. 2, in questo volume a p. 1021). 63 Cfr. Malattia mortale, A, S.V., XII, 143; in questo volume, a p 1665.

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la forma di un sapere ch’è insieme legato a un’incoscienza: un sapere che può aversi del resto anche sotto altre condizioni come una situazione magnetica» come nei moribondi, in certe malattie, nell’epilessia64. Perciò Hegel approva i giudici di Socrate, poiché l’individuo si autentica solo nell’unità con l’universale ch’è lo Stato. B) La trascendenza della verità cristiana. Il momento polemico costitutivo dell’immensa opera di Kierkegaard è senza dubbio la contestazione dell’immanenza atea del pensiero moderno e soprattutto del «sistema» hegeliano ch’è sempre presentato, a cominciare da Aut-Aut, come monismo idealistico che porta alla dissoluzione nell’universale umano (Zeitgeist) impersonale l’io come singolo e persona concreta «davanti a Dio» (for Gud). Questa contestazione che Kierkegaard fa al pensiero moderno, e in particolare alla dialettica hegeliana, ha i seguenti punti nevralgici: il «cominciamento senza presupposti» (Voraussetzungslösigkeit) del cogito, la pretesa di raggiungere il reale a partire dal pensiero astratto o «essere vuoto» (leeres Sein), infine e specialmente nella realtà come un «salto» (Sprung)65 del tutto arbitrario dall’astratto al concreto. In questo Kierkegaard si trovava d’accordo con Feuerbach mostrando che l’unico sbocco coerente della dialettica hegeliana era la finitezza dell’essere: «Il segreto della teologia è l’antropologia, ma la teologia è il segreto della filosofia speculativa»66. In particolare vengono presi di mira da Kierkegaard i seguenti capisaldi dell’hegelismo: a) L’identità di interno ed esterno. Per Hegel essa esprime il principio stesso dell’appartenenza inseparabile che i contrari hanno nel «concetto» grazie alla quale è possibile la dialettica, cioè il movimento, il progresso... Per Kierkegaard invece, fin dalla prefazione ad Aut-Aut, questo principio annienta alla radice ogni possibilità di vita spirituale67 e, secondo la Postilla, esso riduce l’uomo, fin nel suo intimo, a puro oggetto e a puro spettacolo e distrugge perciò l’etica poiché l’etica vive del segreto della coscienza del singolo68. La HEGEL, Geschichte der Philosophie, ed. Michelet, Berlin 1841, Bd. II, pp. 77 s., 91. Cfr. HEGEL, Enc. der philos. Wiss., § 50. 66 L. Feuerbach, Vorläufige Thesen zur Reform der Philosophie, S.W., II, 222. 67 Kierkegaard attacca a questo riguardo anche Goethe, come tipico «rappresentante della moderna mancanza di carattere» (Diario 1852, X4 A 582 = 2694. Cfr. l’eccellente saggio di C. Roos, Kierkegaard og Goethe, Copenaghen 1961, pp. 158 ss.). 68 Secondo Lindström lo stadio etico è uno dei punti più difficili del pensiero di Kierkegaard e perciò anche del suo rapporto a Hegel. Poiché Kierkegaard afferma un dualismo fra la volontà di Dio e quella dell’uomo, un dualismo che non può essere superato da parte dell’uomo, è già evidente che nella sua concezione dell’etica egli non è un filosofo idealista. Hegel infatti trova l’etica in ogni «moralità» (Sittlichkeit) ch’è oggettivata nell’universale, nella famiglia, nella società civile e soprattutto nello Stato ch’è lo stadio più alto della moralità e la sostanza assoluta della medesima. Perciò compito del singolo è di togliere la sua proprietà di uomo singolo per entrare nell’universale e per questo Hegel considera il singolo come una forma del «male» (Böse), mentre l’etica in quanto esprime il «generale» (das Allgemeine) è il divino, così che Dio 64 65

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fede di Abramo, come si legge in Timore e tremore, è la confutazione flagrante di siffatta commensurabilità hegeliana fra l’esterno e l’interno. È vero perciò esattamente l’opposto: «quanto minore è l’esteriorità tanto maggiore sarà l’interiorità»69. La Postilla quindi capovolge la posizione hegeliana: «La vera interiorità non esige assolutamente nessun segno esteriore» (VII, 403; infra, p. 1333) e la «vera religiosità è riconoscibile, come l’onnipresenza di Dio, dall’invisibilità» (VII, 482; infra, p. 1421). Nel Libro su Adler questa contestazione sul piano morale ha la formula incisiva: «maggiore è l’impulso a una decisione strepitosa nell’esterno, e minore è la sicurezza interiore»70. Di qui la contestazione di Kierkegaard all’altro caposaldo hegeliano del passaggio dalla quantità alla qualità ch’è il punto cruciale, poiché è «una superstizione quando nella logica si crede che, con l’aumentare le determinazioni quantitative, venga fuori una qualità nuova: è una reticenza inammissibile quella per la quale, pur non tacendo che ciò non avviene proprio così, se ne nascondono poi le conseguenze per tutta la immanenza logica, inserendo questo processo nel movimento logico, come fa lo Hegel. La nuova qualità nasce col primo momento, col salto, con la subitaneità dell’enigmatico»71 ossia con la prima decisione della libertà in Adamo per il genere e in ogni singolo per la sua soggettività. b) L’identità di soggetto-oggetto, d’immediato-mediato. Per Hegel tale unità è il risultato stesso della dialettica che arriva al «pensiero oggettivo». Per Kierkegaard la soggettività esistente è «separazione» (Adskillelse) insuperabile: l’errore di Hegel è di aver compreso l’esistenza in funzione dell’essenza e, sul piano etico-religioso, di aver posto sullo stesso piano l’immediatezza e l’innocenza, come fossero perfettamente identiche; mentre se il concetto d’immediatezza appartiene alla logica, quello d’innocenza invece è di competenza dell’etica: «Ora è un andare contro l’etica, il dire che l’innocenza... può essere negata soltanto mediante la colpa»72. Perciò Kierkegaard subito precisa che l’innocenza non è, come l’immediato, qualche cosa che dev’essere tolto... mediante la «mediatezza» (Middelbarhed), ma mediante una trascendenza (IV, 341, infra, p. 403). E come Adamo all’inizio del genere umano perse l’innocenza mediante la colpa, così la perde ogni uomo all’inizio della propria storia. si riduce – come scrive Kierkegaard in Timore e tremore – a «un punto invisibile ed evanescente, a un pensiero impotente, la sua forza è solo nell’etica che riempie l’esistenza» (infra, p. 275). Perciò per Hegel non c’è dovere assoluto verso Dio, mentre Kierkegaard afferma che c’è un dovere assoluto verso Dio, un dovere che non si spiega né può essere motivato a partire dal «generale» (cfr. V. Lindström, Stadiernas Teologi, Lund-Copenaghen 1943, pp. 221 s.; cfr. anche N. Thulstrup, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel, ed. cit., pp. 163 s.). 69 Jo mindre Udvorsethed, ja mere Inderlighed, S. V., VII, 370; in questo volume, a p. 1287. Cfr. anche un testo del Diario: XI2 A 51 = 3136. 70 Papirer 1846-47, VII2 B 235, p. 186. 71 II concetto dell’angoscia, c. 1; in questo volume, a pp. 391 s. 72 II concetto dell’angoscia, c. 1, § 3; in questo volume, a p. 401.

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c) Infine l’identità di essere e pensiero, di essere e non-essere col celebre principio: «Ciò ch’è reale è razionale e ciò ch’è razionale è reale»73 da cui deriva la negazione del principio di contraddizione. La Postilla si richiama, per confutare questo caposaldo hegeliano, all’argomento ad absurdum di Aristotele secondo il quale la negazione del principio di contraddizione è fondata sul medesimo, perché «il principio contrario non dev’essere tolto perché è vero» (VII, 411), e alle critiche che sia Trendelenburg come Mynster74 hanno fatto alla concezione hegeliana su questo punto: se svanisce la contraddizione, cessa anche la passione dell’interiorità e il «paradosso» in cui consiste il cristianesimo, perché cessa l’aut-aut in cui consiste la serietà della vita. Si può arrivare all’identità, come vuole Hegel, soltanto facendo astrazione dall’esistenza: ma poiché l’etica considera ogni esistente come sua proprietà, essa gli interdice assolutamente d’incominciare con codesta astrazione. In fondo quindi la contestazione kierkegaardiana contro la dialettica hegeliana stringe per anelli e nodi sempre più concentrici i quali segnano l’avanzare della sua attività letteraria e costituiscono con impegno crescente l’obiettivo degli Pseudonimi, i quali perciò non costituiscono un ghiribizzo letterario, ma vogliono caratterizzare le tappe della determinazione e insieme della conquista della soggettività radicale della fede come verità che salva75, spinta fino alla testimonianza del martirio. Perciò Kierkegaard dichiara che la tesi: «la soggettività, l’interiorità, è la verità» costituisce nella sua intensità massima il cristianesimo: «Che si possa esistere con interiorità anche fuori del cristianesimo, lo ha dimostrato fra l’altro a sufficienza la civiltà greca; ma ai nostri giorni sembra che si sia arrivati al punto che, mentre noi tutti siamo cristiani e sappiamo a menadito il cristianesimo, è ormai una rarità trovare un uomo che abbia tanta interiorità esistenziale quanto un filosofo pagano... Si diventa oggettivi, si vuol considerare oggettivamente che Dio è stato crocifisso, mentre, quando questo accadde, neppure il tempio potè rimanere oggettivo, perché il velo si squarciò; neppure i morti poterono rimanere oggettivi, perché uscirono dai loro sepolcri (Mt 27, 51 ss.)»76. 73 HEGEL, Philosophie des Rechts, «Vorrede», ed. Hoffmeister, Hamburg 1955, p. 14. A essa Hegel rimanda nell’«Introduzione» alla Enc. d. philos. Wiss., § VI; ed. Nicolin-Pöggeler, Hamburg 1959, p. 38. 74 J.P. MYNSTER, Logiske Bemaerkinger om Identitet (1826), in «Blandede Skrivter», ed. cit., Bd. I, p. 251 (lo studio prende di mira specialmente Schelling e termina col richiamo ad Aristotele, pp. 270 ss.). 75 Cfr. Diario, tr. it., «Introduzione», t. I, pp. 60 s. 76 Postilla, P. II, Sez. II, c. 2, S.V., VII, 265; in questo volume, a p. 1133. La soggettività di cui Kierkegaard si fa forte contro l’oggettività hegeliana non è di natura gnoseologica, ma etica e indica l’impegno assoluto della libertà del singolo verso l’assoluto. Nel campo gnoseologico Kierkegaard è oggettivo («formato alla scuola dei greci») e Hegel soggettivo, nel campo esistenziale Hegel è oggettivo (storia universale, diritto dello Stato...), Kierkegaard è soggettivo (singolo e felicità eterna, storia e giudizio di Dio...).

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Il significato del principio kierkegaardiano: «La soggettività è la verità» – che ha messo fuori strada tanti lettori e critici frettolosi con la valanga della Kierkegaard-Renaissance – sta agli antipodi del soggettivismo gnoseologico del pensiero moderno. Esso si fonda sul dualismo realistico della distinzione di mondo e io, di uomo e Dio, d’intelletto e volontà, di filosofia e religione, di religione naturale (teismo) e religione rivelata (il cristianesimo). È perciò un soggettivismo come consapevolezza dell’attuarsi (scelta) della libertà della persona rispetto all’istanza che il cristianesimo pone all’uomo naturale nella vita del tempo rispetto a un evento del tempo (l’incarnazione): un soggettivismo quindi alla seconda potenza che opera sul presupposto della realtà oggettiva del mondo e della storia, della dignità della persona ai vari livelli77. È la soggettività come impegno supremo della libertà. Compito degli Pseudonimi è infatti muovere e caratterizzare delle personalità (l’esteta, l’ironista, l’etico, l’umorista, il religioso...), contro il procedere astratto della speculazione: «Questa forma guadagnò del tutto la mia approvazione, e io credetti nello stesso tempo di scoprirvi che gli autori pseudonimi avevano avuto sempre di mira quel che significa esistere e mantenevano quindi una polemica indiretta contro la speculazione»78. Ma la Postilla procede spesso in modo diretto e conclusivo. Infatti la soggettività reale – di cui si parla nella determinazione della verità esistenziale – non è quella conoscente, poiché col sapere l’uomo si trova nel medio della possibilità, ma è «la soggettività etica esistente»79. Ma bisogna anche precisare che la critica all’oggettività hegeliana è cresciuta e si è precisata appunto con l’istanza cristiana che si fa avanti, contro la posizione di Lessing, con Johannes Climacus. C) La dialettica del paradosso80. Chiarito il significato ontologico-metafisico della soggettività kierkegaardiana, è già tracciata la via che introduce alla dia77 Perciò la posizione di Kierkegaard è stata esattamente indicata come «il soggettivismo che si fonda sull’oggettivo» e l’oggettivo è – come afferma Johannes Climacus e sviluppa Anti-Climacus – «il fatto che Dio è entrato nel tempo» (cfr. E. SCHMIDT PETERSEN, Midt i Kierkegaard Tid, ed. cit., p. 13). In questo senso un testo posteriore del Diario spiega: «In tutti quei soliti discorsi “che Johannes Climacus sia soltanto la soggettività ecc.”, si è però trascurato completamente, oltre tutta la sua restante concretezza, come in una delle ultime sezioni egli mostri che lo strano è che c’è un “come” che ha la proprietà che se esso è puntualmente dato, è dato anche il “ciò” è che questo è il “come” della fede. Qui però l’interiorità si mostra al suo culmine, ch’è quello di essere a sua volta la oggettività. E questo è uno sviluppo del principio della soggettività la quale, per quanto io sappia, non era stata finora a questo modo esaurita o attuata» (2080). 78 Postilla, l. c., S.V., VII, 250; in questo volume, a p. 1111. 79 Postilla, l. c., c. 3, §1, S.V., VII, 304; in questo volume, a p. 1187. 80 Kierkegaard ha chiarito la sua concezione del paradosso durante la lettura della Teodicea di Leibniz, fin dal 1842-43: «Ciò ch’io ho cercato di esprimere dicendo che il cristianesimo consiste nel paradosso, la filosofia nella mediazione, Leibniz dice distinguendo fra ciò ch’è sopra la ragione e contro la ragione. La fede è sopra la ragione» (Papirer IV C 29, p. 385). Si tratta certamente del nucleo teoretico delle Briciole, come risulta da un testo contemporaneo che porta il titolo: Il paradosso assoluto, e si collega al concetto precedente: «Poiché la filosofia è la mediazione, allora

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lettica del paradosso la quale indica il superamento effettivo del panlogismo hegeliano. La soggettività è infatti la libertà del suo atto di scelta mediante il quale il singolo si pone e costituisce come soggetto spirituale. Per l’immanentismo in generale e in particolare – come si è visto – per l’idealismo di Hegel, legato alla gnosi del concetto assoluto, agire è pensare e viceversa; per Kierkegaard no, il pensiero è oggettivante e perciò indifferente, mentre la volontà è soggettivante e perciò qualificante. Per Hegel il sapere è il valore assoluto e la filosofia è il sapere che supera (weitergeht = «va oltre» – come spesso ricorda Kierkegaard) la fede; per Kierkegaard solo la fede, appunto perché con essa l’uomo si rapporta a «Dio nel tempo» (l’Uomo-Dio) eleva l’uomo sopra il tempo81. Di qui gli attributi opposti del sapere speculativo (hegeliano) e della fede cristiana (kierkegaardiana): l’atto di fede implica infatti una rottura recisa con la razionalità della mediazione negatrice dell’immediato ed esige il passaggio, ch’è più propriamente un «salto» (Springet), a una sfera ch’è agli antipodi del «salto» della mediazione poiché è assolutamente incommensurabile con la ragione naturale. Con maggior precisione di Hegel, Kierkegaard pone il problema della fede sul piano rigorosamente metafisico in quanto concentra il problema sull’«oggetto proprio» della fede prendendo l’avvio dal celebre «problema di Lessing» ch’esprime il nodo gordiano della fede cristiana. Infatti Lessing si domandava, ed è citato nei Philosophiske Smuler («Briciole di filosofia») e ripreso nella Postilla: «Si può dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna? E come un tal punto di partenza può interessare di più che dal punto di vista della storia? Si può mai fondare una beatitudine eterna su di un sapere storico?»82. Lessing esprimeva così gli scrupoli o meglio lo scandalo della ragione illuministica dinanzi alla rivelazione cristiana. Ma per Kierkegaard solo il cristianesimo ha dato, nel corso della storia dell’umanità, una risposta a questa domanda e solo il vero cristiano la può dare nello svolgersi della storia singola di ogni uomo. Il cristianesimo insegna proprio che l’eterno è apparso nel tempo, che Dio s’è fatto uomo nel Cristo; insegna che la redenzione di Cristo ha meritato all’uomo la salvezza eterna; insegna parimenti che l’uomo essa non si può concludere prima che non abbia preso in considerazione l’ultimo paradosso. – Questo paradosso è l’Uomo-Dio e si dovrà svolgere puramente a partire dall’idea e ancora con continuo riguardo all’apparizione [storica] di Cristo per vedere se questa è sufficientemente paradossale, se l’esistenza umana di Cristo, ch’egli non è l’uomo singolo in senso profondo, fino a che punto la sua esistenza terrena non cade sotto la sfera metafisica o estetica» (Papirer IV C 84, p. 404). 81 Il nucleo teoretico della superiorità della religione (cristiana) sull’arte e sulla filosofia è espressa già in alcuni appunti tra il 1842 e 1843: «In fondo la conclusione di ogni dottrina pagana, quindi della filosofia pura (in contrasto a quella che si è mescolata col cristianesimo), è che il sapere (la sapienza) è virtù. Questo principio fu posto già da Socrate, poi da tutti i socratici. – La dottrina cristiana è l’opposto: la virtù è sapere. Di qui l’espressione “fare la verità” (Jo., 3, 21; Eph., 4, 15)» (Papirer IV C 86, pp. 404 ss.). 82 LESSING, Ueber den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, Bd. 10, p. 36.

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può salvarsi per la fede nel Cristo e così nel tempo egli può attingere l’eternità. Ecco la risposta al problema di Lessing. L’atto di fede è un «salto» che solo la fede può fare, grazie alla «scelta» della libertà e al lume della grazia83. Polemizzando, in un testo posteriore alla Postilla, con la teoria di Kant del «male radicale», come esempio tipico della posizione illuministica, che rifiuta il mistero del peccato, Kierkegaard scrive: «Tutto in fondo si muove attorno a questo. Finora si è sempre parlato così: “Il dire che non si può capire questa o quella cosa non soddisfa la scienza che vuol capire”. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza “umana” non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o – in modo ancora più preciso – qualcosa di cui essa con chiarezza può “capire che non può capire”, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire. La conoscenza umana si dà in generale tanto da fare per capire e capire; ma se vuole sforzarsi di capire se stessa, deve semplicemente stabilire il paradosso. Il paradosso non è una concessione, ma una “categoria”: una determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente, conoscente, e la verità eterna» (1076). L’oggetto della fede «urta» contro il principio d’immanenza ossia contro la ragione che pretende di spiegare ed esaurire tutto e nulla ammette sopra di sé: per essa, che «non vuole credere», l’oggetto della fede è un «assurdo» (è il termine preferito negli scritti estetici: cfr. Timore e tremore83. Per il credente invece che ammette la divina trascendenza e perciò è convinto che «a Dio tutto è possibile», e quindi si muove a credere, esso è un «paradosso» (è il termine preferito da Johannes Climacus). Il concetto di paradosso unisce in sé due categorie opposte85, il paradosso nella verità cristiana dipende sempre dal fatto che questa è quel che è «davanti» a Dio. Qui intervengono una misura e un criterio di misura sovrumani, per rapporto ai quali un solo rapporto è possibile: «quello della fede» mediante la grazia (Diario 2720). Parimenti – ed è questo il paradosso essenziale che si trova alla base di tutti gli altri – Dio stesso, eterno e immutabile, mediante l’incarnazione del Verbo «cambia» per così dire ed entra nel tempo, ha un inizio nel tempo, è apparso sotto «for83 Per uno sviluppo delle seguenti riflessioni, rimandiamo al nostro vol.: Dall’essere all’esistente, Brescia 19652, pp. 127 ss. 84 L’oggetto della fede è detto perciò assurdo in senso esistenziale, non gnoseologico, come Kierkegaard ha esposto fuori di ogni equivoco nella polemica con M. Eirikson che aveva attaccato la posizione di Timore e tremore (cfr. Papirer 1850, X6 B 68-82, pp. 72-88. Vedi la nostra trad. nel vol.: Dall’essere all’esistente, pp. 164 ss.). 85 Kierkegaard parla un po’ dappertutto del paradosso del peccato, ma particolarmente nei due saggi che, dialetticamente parlando, si corrispondono: Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale. E proprio nel Diario del 1850 il problema è studiato da un punto di vista teologico: Kierkegaard prende come punto di partenza della discussione l’opera di JULIUS MÜLLER, Die christliche Lehre von der Sünde, 2 voll., Gotha 1842 (cfr. 2148, 2171, 2173, 2176 ecc.).

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ma» d’un uomo, anzi sotto la forma di uno schiavo e, più ancora, è venuto a soffrire per gli uomini86. Può esservi infrazione più aperta ai principi della ragione di quando si afferma che l’eterno è nel tempo, che l’immutabile nasce e muore, che Dio espia per il peccato dell’uomo? – Si consideri il paradosso della «remissione dei peccati». Il peccato, una volta ch’è commesso, acquista un posto definitivo come fatto storico e deve restare sempre ciò che è stato e ciò che era quando è stato commesso... Ora, con la «remissione dei peccati», ecco che il peccato è «cancellato»: l’onnipotenza della misericordia divina lo annulla nella storia87. Eguale paradosso (quasi in senso inverso) nel caso del peccato originale: «Il dogma che il “peccato originale” costituisce “colpa”, è il vero paradosso. Il paradosso lo si vede meglio nel modo seguente. Esso risulta da una sintesi di categorie qualitativamente eterogenee. “Ereditare” è una categoria naturale, “colpa” una categoria etico-spirituale. Come si può ora pensare, dice la ragione, che sia possibile metterli insieme, dire che si eredita ciò che nel suo concetto è impossibile di poter ereditare? Lo si deve credere. Il paradosso nella verità cristiana dipende sempre dal fatto che essa è la verità come lo è per Dio. Qui si usano una misura e un criterio sovrumani, e rispetto a questo una sola situazione è possibile: quella della fede» (2175). Questa è in realtà la legge o il criterio (negativo) di tutte le verità cristiane: fermare la ragione, spezzare la catena logica delle sue conseguenze e, in un certo senso, condurla alla disperazione. Affermando la presenza e la posizione simultanea delle categorie opposte (e d’una opposizione essenziale) nella scala ontologica, la fede in un certo senso mette la ragione in un imbarazzo più grande che non l’affermazione simultanea meramente logica e perciò astratta dell’essere e del non-essere. Il non-essere, infatti, come tale non esiste, è un puro elemento logico del discorso, non una realtà o un «oggetto» del pensiero. Ecco perché, anche nella dialettica hegeliana, il «nonessere» non costituisce che un punto astratto di scambio logico con l’essere (vuoto) e perciò di superamento, un semplice «momento di passaggio». Il paradosso della fede, invece, costituisce la realtà stessa della tensione della fede e l’oggetto specifico dell’atto di fede. Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a credere, e non per un’evidenza logica; s’egli non fosse convinto dell’assoluta trascendenza dell’oggetto della fede e della rottura che questo comporta rispetto alla sfera della ragione, egli non crederebbe, ma si metterebbe alla ricerca di qualche evidenza nella sfera della ragione o almeno di qualche probabilità, verosimi86 Cfr. Postilla, VII, 588 ss. (infra, pp. 1599 ss.), dove Kierkegaard attacca il «cristianesimo infantile». Egli considera anche come paradossi essenziali la grazia, la maternità divina della vergine Maria, l’amore dei nemici, lo stesso «principio delle opere». 87 «La fede nella remissione dei peccati è la crisi decisiva per diventare spirito»: è il tema di un testo del 1848 (Diario 1409. Cfr. l’identico contesto di 1402 e 1403: la «remissione dei peccati» come parola d’ordine del messaggio cristiano nel mondo).

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glianza ecc. Perciò si può dire che si crede proprio perché quest’oggetto si manifesta come paradosso, come assurdo, contrario alla ragione... e Kierkegaard nelle Briciole come nella Postilla utilizza anche qualche volta questa formula: «credere a motivo dell’assurdo»88. Non v’è dubbio pertanto che, malgrado qualche violenza di formule, Kierkegaard è andato a collocarsi in quell’equidistanza fra razionalismo e fideismo della linea tomistica, come risulta anche da un testo contemporaneo alla citata polemica nel quale il rapporto della ragione alla fede ottiene ampia soddisfazione – una posizione che è senz’altro, a nostro avviso, più aderente alla linea tomistica rigorosa che non all’irrazionalismo nominalistico-luterano89. Kierkegaard ha trovato una sua formula per esprimere il paradosso gnoseologico della fede: «Comprendere che non si può (né si deve) comprendere» (1823). Essa vuole caratterizzare l’appartenenza rigorosa del problema della fede al movimento naturale della ragione come convinzione fondata – cioè «comprendere» – e insieme la sua trascendenza come accettazione libera – cioè «comprendere che non si può comprendere» – dell’incomprensibilità dell’oggetto (verità) rivelato. In questo senso vale il principio dialettico: «La fede – le “ragioni”». Perciò «come principio bisogna dire: la fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere. Così anche per un assoluto non si possono dar ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni» (2613). In questa dialettica della fede si esprime, nell’ultimo compimento, la critica e il superamento che Kierkegaard ha fatto dell’immanentismo moderno. Esso mostra come tutti gli Pseudonimi – senza dire dei mirabili scritti edificanti e dell’incomparabile Diario – si elevano gradualmente a mettere a fuoco il problema della fede come il trascendentale salvifico della libertà razionale mossa dalla grazia. Questa dialettica infatti da una parte salva la divina trascendenza poiché la 88 Formula suggerita da Tertulliano (De carne Christi), ripresa dalla Theodicea di Leibniz il quale la cita nel Discours de la conformité de la foi avec la raison: «Mortuus est Dei Filius, credibile est, quia ineptum est; et sepultus revixit, certum est quia impossibile». A questo testo Leibniz fa seguire un testo di Lutero (poco cristiano e anche... poco kierkegaardiano!): «Si placet sibi Deus indignos coronans, non debet displicere immeritos damnans» (Essai de théodicée, § 50; ed. Gerhardt VI, p. 68). 89 II testo sintomatico su questo punto ha per titolo esattamente: Speculazione–Fede. Il testo indica nella scia di Johannes Climacus e di Anti-Climacus i compiti decisivi della ragione sia come preparazione all’atto di fede, sia come difesa dell’oggetto di fede. Ecco: «La speculazione può esporre i problemi della fede, conoscere che ogni singolo problema è per la fede – segnato e composto in modo che esista per la fede – e poi prospettare la decisione: «Vuoi tu ora credere, sì o no?». Inoltre la speculazione può controllare la fede, cioè sorvegliare su quel che si crede in un dato momento o è il contenuto della fede, per vigilare onde a furia di chiacchiere non s’insinuino nella fede determinazioni che non sono oggetto di fede ma invece per esempio di speculazione. Tutto questo comporta un lavoro molto lungo. La speculazione è il veggente, però soltanto nel senso che essa dice: «La cosa sta qui», per il resto è cieca. Dopo viene la fede che crede: essa è il veggente (riguardo all’oggetto della fede)» (Diario 1849-50, X2 A 432; tr. it., nr. 2151, t. II, p. 37).

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verità che salva, quella dei misteri rivelati, resta sempre nascosta e «non si può comprendere»; dall’altra parte tali misteri sono offerti alla ragione naturale di ogni uomo in cerca di salvezza. È la fede cristiana allora la quale, come Kierkegaard ha mostrato – e l’ha riconosciuto espressamente Hegel90 – che ogni uomo è intrinsecamente libero perché affine a Dio, non concede a nessuno vantaggi per speciali doti naturali o vigore d’ingegno – come invece pretende Hegel che risolve la fede nella ragione – ma tutti eguaglia nella miseria della vita e nella necessità della redenzione e perciò esige da tutti e da ciascuno, allo stesso modo, l’obbedienza della fede. D) L’autenticazione del cristianesimo. Alla negazione della trascendenza e spiritualità della persona umana come singolo, ch’è soggetto libero e responsabile «davanti a Dio», fa seguito nel sistema hegeliano la mistificazione radicale della verità del cristianesimo come religione storico-rivelata. Secondo Kierkegaard infatti nell’hegelismo la negazione del paradosso della fede e della trascendenza equivale alla negazione radicale dell’ordinamento soprannaturale della grazia e della vita eterna. Di qui l’affermazione hegeliana della «perfettibilità del cristianesimo» ossia della storicità della morale e dei dogmi del cristianesimo: Kierkegaard rigetta tale tesi, che ha trasformato il cristianesimo in mondanità, come una «bestemmia»91. Per Hegel infatti il mistero cristiano della Trinità non è che il paradigma immaginario dei tre momenti della dialettica, e il mistero dell’incarnazione è ridotto alla «coscienza», dell’unità del divino e dell’umano realizzatasi in modo esemplare in Cristo e realizzatasi nell’umanità intera come compito infinito della storia universale. Di qui l’altro errore che Kierkegaard rimprovera a Hegel, quello di abbassare la fede (Tro) e subordinarla rispetto alla ragione in quanto egli afferma che «la fede è l’immediato» che va superato (aufgehoben) cioè negato: ma per Kierkegaard «la fede nel senso più eminente si rapporta all’Uomo-Dio» (Esercizio del cristianesimo, Nr. II, § 6) ossia al paradosso essenziale. Di qui deriva che l’unico vero rapporto dell’uomo con l’Uomo-Dio non è mediante i «diciotto secoli di storia» del cristianesimo ma con la «contemporaneità» (Samtidighed) mediante l’imitazione del modello (Forbillige) ch’è Cristo. Nell’ultima parte della sua vita, cioè dopo la pubblicazione dell’Esercizio del cristianesimo e la rottura con Mynster, Kierkegaard comprese che la sua missione era di adoperarsi con l’estremo delle forze per «reintrodurre il cristianesimo nella cristianità». Come a partire da Aut-Aut alla Postilla di Johannes Climacus il compito è stato soprattutto di denunziare il carattere anticristiano della cultura moderna e di abbattere dalle fondamenta il bastione hegeliano, così soprattutto a partire da Anti-Climacus prende chiarezza 90 Cfr. HEGEL, Enc. d. philos. Wiss., § 482. Vedi a riguardo C. FABRO, Orizzontalità e verticalità della libertà, in «Angelicum», XLVIII, 1971, 3-4, pp. 302 ss. 91 Cfr. Libro su Adler, c. III, § 1; VII2 B 235, pp. 113 ss.

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e consistenza la denunzia della mistificazione della cristianità stabilita (bestaeende Christenhed) che ha tradito il cristianesimo del Nuovo Testamento. Nella cristianità stabilità («specialmente nel protestantesimo, specialmente in Danimarca!») si è dimenticato cosa comporta l’essere cristiani: si è dimenticato che la fede esige il «salto» supremo ossia l’accettazione del paradosso essenziale ch’è l’Uomo-Dio, è la tesi conclusiva della Malattia mortale; si è dimenticato che la fede nell’Uomo-Dio è superamento dello scandalo e accettazione della croce ch’è perciò l’imitazione del modello e che quaggiù la Chiesa è militante (stridende) e non trionfante come pretende la cristianità stabilita, è la tesi dell’Esercizio del cristianesimo. È la tappa decisiva del viaggio di Kierkegaard in cerca dell’amore essenziale e, una volta imboccata questa strada della contestazione dell’ingabbiamento di comodo che gli uomini pensavano di aver fatto del mistero della salvezza, egli non tornerà più indietro ma andrà fino in fondo. E il generoso impeto, come sappiamo, lo porterà ancor giovane alla morte. La tesi di Kierkegaard è che il «cristianesimo nella cristianità non esiste più» ossia che la cristianità stabilita ha abolito il cristianesimo del Nuovo Testamento. Il Diario diventa su questo punto sempre più incalzante e alle volte addita in Lutero il primo responsabile. Infatti Lutero non è a posto col Vangelo (2973), cambiò le carte in tavola e ribassò sull’autentica esigenza cristiana. Perciò la dottrina di Lutero non è la dottrina di Cristo: egli distingue la legge e il Vangelo, ch’è tutta dolcezza... e così il cristianesimo diventa tutto ottimismo e la vita cristiana si riduce a un’allegra scampagnata. E nei riguardi dello stesso Nuovo Testamento Lutero esalta in modo unilaterale l’apostolo (s. Paolo = il momento della Grazia!) per farla da padrone e abbassare il Vangelo (il momento del modello e dell’imitazione) alla misura e debolezza umana. Allora «quando non trova la dottrina dell’apostolo nel Vangelo, Lutero conclude: ergo, questo non è Vangelo! [...mentre, secondo Kierkegaard si dovrebbe dire, caso mai, il contrario]. E questa piega errata, presa qui da Lutero, è stata poi continuata dal protestantesimo, dove Lutero è stato eretto ad assoluto» (3102). A questo modo il cristianesimo, che il protestantesimo ha allegramente – col ricorso troppo spiccio al principio della Grazia – privato del pungolo dell’imitazione adattandolo alla furfanteria umana, è stato riportato al giudaismo, anzi al paganesimo, e la cristianità attuale è diventata la mistificazione, la piega sbagliata, un puro malinteso..., la negazione del cristianesimo, il peccato contro lo Spirito Santo. La responsabilità perciò del crollo del cristianesimo nell’età moderna è, secondo Kierkegaard, soprattutto del protestantesimo, per aver scaricato tutto il compito della salvezza sul comodo cuscino della fede-grazia, abolendo il celibato, l’ascesi, il martirio, il chiostro... Nel campo dottrinale la devastazione e la demolizione è stata compiuta dalla teologia speculativa col fare del cristianesimo una «dottrina oggettiva». Perciò Kierkegaard proclama, contro Lutero e in rottura con l’essenza stessa del principio protestante che «il principio degli atti [l’imi-

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tazione] è più semplice – ossia più autentico – che il principio della fede» (3253)92. Kierkegaard attaccò perciò Lutero per aver espunto dal canone biblico l’Epistola di s. Giacomo come «lettera di paglia» perché essa contrasta il principio luterano della sola fides in quanto l’apostolo afferma che «la fede senza le opere è morta» (2383). Non v’è dubbio che il nucleo dell’opposizione di Kierkegaard a Hegel non è tanto in qualche tesi o particolare punto di divergenza ma nell’opposizione all’interno del movimento stesso del pensiero in quanto Kierkegaard al di sopra della scienza hegeliana pone la fede cristiana, al di sopra del genere come un Tutto il singolo davanti a Dio, al di sopra della continuità della dialettica il salto della libertà, al di sopra della evidenza e trasparenza del concetto il paradosso e lo scandalo della divina rivelazione. Lo «scandalo» (Forargelse) è pertanto il momento cruciale nella prova della fede93, il punto di resistenza e perciò il segno della trascendenza della verità cristiana di fronte alla ragione, l’unico vero pericolo mortale del cristiano. Nel suo significato speculativo lo scandalo indica il soccombere della ragione nel suo ergersi contro la fede, ovvero, ricorrendo ex adverso alla preparazione dell’atto di fede, è il rifiuto a «comprendere di non comprendere» perché si vuole soltanto comprendere. In questo senso lo scandalo è la rottura con l’immediatezza: col sentimento, con la fantasia, soprattutto con la ragione... ed è perciò il segno distintivo della realtà cristiana (1728). Esso è la negazione della riconoscibilità diretta (2127) secondo la coerenza dei principi della ragione e la possibilità dello scandalo costituisce il passaggio delle forche caudine per diventare cristiano, per appropriarsi la realtà cristiana mediante la fede. Infatti per la ragione naturale ogni verità cristiana «esorbita» dai principi della ragione e colpisce come un paradosso94, questo è come il momento neutrale di attesa. Se la ragione formale decide di stare sulle sue, il paradosso appare come «assurdo» e l’uomo si rifiuta di credere e di fronte all’assurdo colui che non crede si scandalizza e abbandona il cristianesimo. Per Kier92 E. Hirsch attacca con molta risolutezza e sicurezza Kierkegaard per questa fiera critica al Riformatore: «Hier wirkt er im Vergleich mit Luther naiv, undialektisch wie ein Kind: ich sehe es so, und so ist es» (Kierkegaard-Studien, Gütersloh 1933, Bd. I, p. 365 nota). Ma gli ribatte seccamente G. Malantschuk: «Tutta questa questione non può essere trattata in modo completo in una nota, perché essa ha molti aspetti» (S. KIERKEGAARD, Om min Forfatter-Virksomled..., Copenaghen 1963, «Commentario», p. 141). 93 Al tempo di Anti-Climacus il Diario fa capire che la dialettica dello scandalo è stata una novità nello sviluppo del pensiero di Kierkegaard: «Tutta questa concezione della “possibilità dello scandalo” è qualcosa che mi piacque escogitare a un certo momento e a cui prima non avevo mai pensato, qualcosa ch’è del tutto estraneo al mio essere, che si oppone a ciò che appunto devo chiamare la pointe della mia posizione di servitore rispetto al cristianesimo» (Diario 1848-49, IX, A 179 = 1512). 94 Sulla tematica fondamentale, vedi ora spec: H. SCHROER, Die Denkform der Paradoxalität als theologisches Problem, Göttingen 1960, p. 88. Cfr. però al riguardo le osservazioni critiche di N. THULSTRUP, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel, ed. cit., p. 173.

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kegaard l’origine dello scandalo teologico – come possiamo qui chiamarlo – nasce dal fatto che l’uomo non si pone come «singolo davanti a Dio» e perciò non accetta la «misura» (Maalet) di Dio: per questo la definizione del peccato contiene in sé la possibilità dello scandalo e opera una trasformazione radicale di tutti i concetti etici dando loro una nuova direzione. Poiché il cristianesimo esige che l’uomo si ponga, cioè esista, come singolo davanti a Dio, egli deve indirizzare ogni suo atto a Dio. Si tratta allora di passare nella fondazione della verità che salva (l’esistenza) dal rapporto formale astratto al rapporto personale concreto con Dio come padre: l’uomo può entrare nell’eternità. Si tratta ancora e soprattutto di ammettere che Dio stesso nel cristianesimo si è messo in rapporto diretto e personale con l’uomo: Dio entra (bliver til) nel tempo. Ecco un testo mirabile di Anti-Climacus: «Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente ecc.; che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re, quest’uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali con questo e quell’altro, ecco che quest’uomo esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato: insomma, quest’uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio! Inoltre, per amore di quest’uomo Dio sofferente prega e quasi supplica l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto! In verità, se c’è qualcosa da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si scandalizzerà. Ma perché si scandalizzerà? Perché questo per lui è troppo difficile, perché non può capirlo, non può trovare la sua disinvoltura di fronte a ciò; e perciò lo deve eliminare, annientare, prenderlo per una sciocchezza, per un controsenso perché è come se dovesse soffocarlo»95. Lo scandalo è così il fallimento della ragione che urta contro il mistero cristiano poiché la ragione si rifiuta ad accogliere il criterio superiore, ch’è la verità e bontà di Dio e decide di stare sulle sue. La teologia dello scandalo è approfondita nel secondo scritto di Anti-Climacus attorno al suo oggetto proprio e al suo atto proprio ch’è l’Uomo-Dio e la fede nell’Uomo-Dio. Sappiamo che per Kierkegaard i binomi peccato– scandalo, fede–salvezza sono i poli antitetici della libertà secondo il cristianesimo: l’oggetto di scandalo è l’ostacolo, la possibilità dello scandalo è la prova, la fede è la decisione che salva: la salvezza non è nel cogito, ma nel volo del credo96. È questa la prova decisiva: «La possibilità dello scandalo è una 95 La malattia mortale, P. II, A, c. 1: «Aggiunta», pp. 1769 s.. Perciò Kierkegaard conclude: «È perfettamente giusto che la possibilità dello scandalo sia implicita nella definizione cristiana del peccato. Questa è: (essere) “davanti a Dio”. Un pagano o l’uomo naturale è assolutamente pronto ad ammettere ch’esiste il peccato: ma questo “davanti a Dio”, per cui in verità il peccato diventa peccato, è per lui qualcosa di troppo» (p. 1773). 96 «Solo un uomo di volontà può diventare cristiano, perché solo un uomo di volontà ha una

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specie di bivio ovvero è ciò che pone davanti a un bivio. Da questa possibilità si partono due vie, l’una porta allo scandalo e l’altra alla fede, ma non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo97. Seguiamo nei punti fondamentali l’autopsia di Anti-Climacus nell’Esercizio del cristianesimo98. 1. L’oggetto. «Lo scandalo si rapporta essenzialmente alla sintesi di Dio e uomo, ossia all’Uomo-Dio [in Cristo]. La speculazione ha naturalmente creduto di poter “comprendere” l’Uomo-Dio: chiaro, perché la speculazione toglie all’Uomo-Dio le determinazioni di temporalità, di contemporaneità, di realtà» (pp. 1941 s.). E Kierkegaard spiega che qui s’impone l’urto fra il cristianesimo e il paganesimo, fra il cristianesimo e il pensiero moderno: «la situazione consiste nell’Uomo-Dio, la situazione è [credere] che l’uomo singolo che ti sta accanto è l’Uomo-Dio. Uomo-Dio non è l’unità di Dio e dell’uomo; una simile terminologia è una profonda illusione ottica. UomoDio è unità di Dio e di un uomo singolo. Che il genere umano sia o debba essere affine a Dio, è vecchio paganesimo; ma che un uomo singolo sia Dio, è cristianesimo, e questo singolo uomo è l’Uomo-Dio. Né in cielo, né in terra, né all’inferno, né nelle aberrazioni del pensiero più fantastico c’è, umanamente parlando, la possibilità di una composizione più pazzesca» (p. 1943). 2. Forme. Kierkegaard ne distingue tre fondamentali, una impropria e comune a tutte le situazioni umane nel conflitto esistenziale e le altre due proprie dell’Uomo-Dio nella sua eccezionale situazione. a) La possibilità dello scandalo che non si riferisce a Cristo come Cristo (all’Uomo-Dio), ma a lui come semplice uomo in conflitto con l’ordine stabilito (Bestaaende). È lo scandalo che Cristo provocò sui farisei e sugli scribi presenvolontà che può essere infranta. Ma è cristiano solo quell’uomo di volontà la cui volontà è infranta dall’assoluto ovvero da Dio. Più la volontà naturale è forte, e più profonda sarà la frattura e migliore il cristiano. È ciò che si indica con un’espressione caratteristica: “la ubbidienza nuova”. Il cristiano è un uomo di volontà che ha trovato una volontà nuova. Un cristiano è un uomo di volontà che non vuole più la sua volontà, ma con la passione della volontà, infranta – radicalmente mutata – vuole la volontà di un altro» (3319). Questo volo, come si è già visto non è un volo a vuoto e un salto nel vuoto, nel punto assurdo, ma presuppone anche per Kierkegaard un momento razionale di preparazione alla fede (cfr. Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard, nel vol. Dall’essere all’esistente, pp. 127 ss.). 97 Esercizio del cristianesimo, Nr. II; in questo volume, a p. 1939. Durante la sua prima elaborazione questa parte è chiamata lo «scritto sullo scandalo» (Skrift om Forargelse: Papirer 1848, IX A 212, p. 110). 98 Kierkegaard appoggia questa sua analisi teoretica della natura e delle forme dello scandalo sull’analisi di precisi testi del Vangelo dove è Cristo stesso che si presenta come causa di scandalo. Johannes Climacus aveva osservato che la «possibilità dello scandalo» è la caratteristica della religiosità B: essa non è possibile nella religiosità A la quale si muove, come in Socrate, all’interno dell’immanenza (cfr. Postilla, P. II, c. 4, Sez. II, § 3, «Aggiunta a B»; in questo volume, a pp. 1577 ss.). La differenza fra l’io davanti a Dio e l’io davanti a Cristo è esposta mirabilmente nella Malattia mortale (P II, A, c. 1, pp. 1761 ss.; B, p. 1801).

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tandosi come un maestro d’interiorità contro l’esteriorità e non ancora come l’Uomo-Dio (pp. 1941 ss.). È lo scandalo che provoca nel proprio ambiente ogni «testimonio della verità» (Sandheds-Vidne), ovvero ogni singolo che si richiama direttamente a Dio senza passare attraverso l’ordine stabilito: costui vien tacciato di presuntuoso, di superuomo, provoca scandalo. Questa prima forma di scandalo non è perciò esclusiva di Cristo e inoltre è secondaria e transitoria perché destinata a scomparire con la sua morte: essa esisteva solo per i contemporanei riguardo a lui come uomo singolo. Invece la possibilità dello scandalo rispetto a Cristo in quanto Uomo-Dio sussisterà sino alla fine dei secoli. Qui abbiamo due forme, una in direzione dell’elevazione e l’altra in direzione dell’abbassamento. b) La possibilità essenziale dello scandalo nel senso dell’elevatezza, che un uomo singolo parla o agisce come se fosse Dio, dice di essere Dio; quindi in direzione della determinazione: Dio, nella sintesi Dio-Uomo (pp. 1959 ss.). E Kierkegaard spiega: la contraddizione, in cui risiede la possibilità dello scandalo, è di essere un uomo singolo, uno di umile condizione, e poi di agire in direzione di essere Dio. Nella forma dell’elevatezza lo scandalo si produce a questo modo: quando l’uomo si mette davanti a Cristo nella situazione della contemporaneità – cioè di Cristo che si comporta come Dio (opera miracoli e rimette i peccati...) – egli si trova davanti a un rebus tremendo, cioè egli è posto fra il fatto inesplicabile (che per il credente è il miracolo) e un uomo particolare che ha un aspetto simile agli altri: ed ecco ch’è egli stesso a fare il miracolo! Ed è egli stesso che afferma direttamente di essere di una condizione completamente diversa da quella dell’uomo: egli si presenta come Dio, egli, un uomo semplice. Per questo il sommo sacerdote, scandalizzato, grida davanti al sinedrio: «Ha bestemmiato! Voi avete udito la bestemmia!» (Mt. 26, 65). Qui pertanto la possibilità dello scandalo è nella collisione, per così dire, dall’alto in basso ovvero dell’eccesso di grandezza nell’esponente rispetto al modesto limite umano della base. La formula di questo scandalo potrebbe essere: se è uomo, non può essere Dio. È lo scandalo soprattutto dei nemici di Cristo. c) La possibilità essenziale dello scandalo in direzione dell’umiliazione, che colui il quale pretende di essere Dio appare come un essere umano umile, povero, sofferente, e infine impotente (pp. 1971 ss.). Questa volta, spiega Kierkegaard, ci si scandalizza non per il fatto che Cristo è Dio, ma che Dio sia quest’uomo che finisce per essere processato, vilipeso, condannato e messo a morte «come un malfattore». È lo scandalo «in direzione dell’umiliazione»: è lo scandalo soprattutto dei nazaretani dopo il discorso di Gesù nella sinagoga del suo paese: (Mt. 13, 55-57) e degli apostoli durante la passione ai quali Gesù stesso predice: «Voi tutti questa notte vi scandalizzerete in me» (Mt. 26, 31), Pietro compreso malgrado le sue ardenti proteste. E Kierkegaard commenta: «I discepoli che avevano creduto alla sua divinità e superato in questa direzione la possibilità dello scandalo diventando credenti, sono

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bloccati dall’umiliazione nella possibilità dello scandalo cioè al vedere che l’Uomo-Dio soffre come se egli fosse soltanto un uomo. La possibilità dello scandalo, baluardo o arma di difesa della fede, è talmente ambigua (come si è detto nella prima sezione) che ogni ragione umana è obbligata in qualche maniera a fermarsi, deve inciampare per decidere se deve: o scandalizzarsi o credere» (p. 1975; corsivo nostro)99. Non è questo il luogo di approfondire ulteriormente questa singolare tematica kierkegaardiana della possibilità dello scandalo la quale esprime l’aspetto più profondo della sua analisi esistenziale dell’atto di fede: essa si annunzia in Timore e tremore nel conflitto di Abramo con Dio, è presentata nelle due opere di Johannes Climacus – nelle Briciole come il conflitto dell’Uomo-Dio in contrasto con Socrate e ripresa nella Postilla in contrasto con la mediazione speculativa – approfondita come si è detto, più particolarmente con Anti-Climacus. Ciò ch’è originale e profondo in quest’analisi – e avvicina la posizione di Kierkegaard più alle posizioni della patristica e della mistica che non alle trattazioni sistematiche della scolastica cattolica e protestante – è l’accentuazione della persona di Cristo nella sua realtà vissuta di Uomo-Dio nella quale emerge e si battaglia l’apparente, e per questo anche reale e decisivo, contrasto di Dio e uomo così da porre il dilemma: egli è troppo alto per essere uomo, egli è troppo basso (un semplice uomo!) per essere Dio! Ci si può scandalizzare, e non credere per animosità e inimicizia, per veemenza di malanimo: è lo «scandalo di forza», di quanti hanno scelto il finito e non vogliono ostacoli (conquistatori, pensatori, edonisti...). Ci si può scandalizzare e non credere per smarrimento e confusione, per sprofondamento nella malinconia: è lo scandalo di debolezza, non solo quello degli apostoli e dei discepoli durante la passione ma anche di tutti coloro che rispetto a Cristo e al cristianesimo non vanno aldilà dell’ammirazione e della semplice simpatia. Un’ultima osservazione: c’è anche in questa categoria dello scandalo il destino delle altre categorie kierkegaardiane. Kierkegaard vede ed esprime con singolare acume l’essenza della categoria esistenziale, la sua istanza e i suoi compiti all’interno della forza dirompente per lo spirito della categoria stessa: sia lo scandalo, come la contemporaneità, il salto, la scelta, il singolo... Egli sa sconfiggere e inchiodare al palo tutte le pretese della ragion ragionante che rifiuta il messaggio cristiano di salvezza come fanno Lessing e l’illuminismo di tutti i tempi dissolvendo l’esistenza nell’essenza. Questo sta saldo e bisogna cimentarsi con lui, non semplicemente ignorarlo o travisarlo come si è fatto quasi sempre finora. Kierkegaard certamente 99 In un’ampia «Appendice» (pp. 1975-97) Kierkegaard approfondisce il significato di questa forma di scandalo ch’è la più dolorosa perché esprime la rottura da parte di chi era pur ben disposto ma non aveva ancora avvertito il salto qualitativo della fede.

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non risolve nulla in concreto, questo non tocca a lui. Cioè questo tocca a ciascuno, come singolo davanti a Dio. Egli ha fatto per suo conto la sua scelta: la sua opera ne è il documento.

Linee fondamentali di ermeneutica kierkegaardiana In un inno si parla di quel ricco che ha radunato un tesoro a prezzo di gran fatiche e «non si sa chi lo erediterà». Così anch’io lascerò dopo di me un capitale intellettuale non piccolo: ahimè, io so nello stesso tempo chi avrà la mia eredità; lui, quella figura che mi è così immensamente antipatica, proprio lui che fin qui ha ereditato e inoltre erediterà tutto il meglio di me: il docente, il professore (Diario 1852, X4 A 628 = 2713).

La storia dell’ermeneutica kierkegaardiana, in questo primo secolo dalla sua morte, è fra le più sconcertanti per i contrasti di fondo che dividono i vari interpreti: eppure Kierkegaard stesso aveva tracciato una precisa linea ermeneutica sul significato reale della sua opera prima nello Sguardo su uno sforzo contemporaneo nella letteratura danese inserito nella Postilla del 1846 e soprattutto nel gruppo di scritti Sulla mia attività di scrittore del 1851 e II punto di vista della mia attività di scrittore del 1848 (pubblicato dal fratello Pietro nel 1859)100. L’ufficialità culturale danese dominata in gran parte da Hegel, nell’ambiente universitario, e da Grundtvig nell’ala più attiva dei pastori, come si era mostrata ostile in vita così dopo la morte, esaurite le scaramucce sul «testimone della verità», fece tutto il possibile per stendere su Kierkegaard una densa coltre di silenzio. La recente «filosofia dell’esistenza» o esistenzialismo, che ha dominato la prima metà del nostro secolo, ha tradito il suo messaggio in senso inverso, capovolgendone il senso e lo scopo, ossia riportandolo e piegandolo alle cose vecchie ch’egli voleva confutare e aveva confutate. Fra la metafisica dell’immanenza di Hegel che chiude il singolo nel Tutto e la teologia della salvezza di Kierkegaard che riporta il singolo nell’alternativa teologica della libertà per Cristo o contro Cristo (cfr. La malattia mortale, P. II, cap. III, B), l’esistenzialismo ha optato per l’ontologia dell’esistenza: tra lo storicismo teologizzante di Hegel e la Provvidenza cristiana di Kierkegaard, l’esistenzialismo contem100 II tormento e l’agitazione che gli causò questo scritto, lasciato inedito, sono ampiamente riferiti nel Diario (cfr. spec. X1 A 78-9 = 1710-1).

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poraneo prospetta lo storicismo radicale dell’esistente umano che si attesta nella scelta di essere se stesso. A questo modo l’esistenzialismo si atteggia a erede unico legittimo del pensiero moderno nella rivendicazione della verità dell’essere per l’uomo, come libertà di essere. I vari indirizzi esistenziali divergono pertanto da Kierkegaard nel rifiuto del fondamento metafisicoteologico dell’esistenza e differiscono fra loro nella forma di «dissolvere» la libertà nella dialettica del finito, ossia ciascuno interpreta diversamente la negatività dell’essere ch’è attribuita alla dialettica dell’esistenza. Infatti: a) Sartre ha optato per Cartesio con l’instaurazione del dualismo cartesiano di materia e spirito... mediante la riduzione dell’essere al suo apparire101 nei due blocchi impenetrabili della coscienza pour-soi e del mondo come en-soi. Ma Sartre riconosce che «Kierkegaard insiste sur la transcendance de Dieu» e che «Kierkegaard fut le premier peut-être à marquer, contre Hegel et grâce à lui, l’incommensurabilité du réel et du savoir»102. b) Heidegger ha optato per Kant–Hölderlin–Hegel–Nietzsche, accentuando la negatività dell’esperienza della coscienza mediante l’«esperienza fondamentale del nulla» (Grunderfahrung des Nichts) considerando il cristianesimo come «platonismo per il popolo», ed esaltando il «sacro» cosmico di Hölderlin. Heidegger apprezza Kierkegaard solo come autore dei Discorsi edificanti 103, che però non prende in considerazione. c) Jaspers ha optato per Kant–Hegel–Nietzsche–Max Weber, considerando la posizione di trascendenza metafisica e teologica di Kierkegaard, come un atteggiamento patologico, assolutista e schizofrenico104. Di qui la conclusione, certamente coerente ma indicativa della deformazione che Jaspers d’accordo con l’esistenzialismo ha fatto del messaggio di Kierkegaard: «Ciò che realmente Kierkegaard è stato, ciò che ha voluto dire, nessuno, credo, lo sa»105. d) Karl Barth ha optato per la Riforma. Mentre nell’importante prefazione alla seconda edizione del suo Römerbrief (1922) egli dichiarava: «Se io ho un “sistema”, esso consiste in questo che io ho tenuto sempre davanti agli occhi ciò che Kierkegaard ha chiamato la “infinita differenza qualitativa fra tempo ed eternità” nel suo significato positivo e negativo»106, nella sua monumentale Kirchliche Dogmatik abbandona espressamente la linea di Kierkegaard sulle questioni fondamentali (ragione e fede, concezione atanasiana dell’UomoDio, imitazione di Cristo) e nella Geschichte der protestantische Theologie Cfr. SARTRE, L’être et le néant, Paris 1943, p. 11. SARTRE, Critique de la raison dialectique, Paris 1960, pp. 19 s. E anche Sartre non sa leggere Kierkegaard che nel contesto di Marx, Jaspers e Heidegger (cfr.: L’éxistentialisme est un humanisme, Paris 1946, pp. 29 ss. Vedi anche Situation, Paris 1947, t. I, pp. 168 ss.). 103 Cfr. HEIDEGGER, Sein und Zeit, § 45; Halle s.d., p. 235 nota: cfr. § 66, p. 336 nota. 104 Cfr. JASPERS, Phychologie der Weltanschauungen, IV Aufl., Berlin 1954, pp. 400 ss. 105 K. JASPERS, Chi è Kierkegaard?, in «Ethica», VIII, 1969, p. 81. Vedi ora la risposta C. FABRO, La missione di Kierkegaard, in «Ethica», VIII, 1969, pp. 161 ss. 106 K. BARTH, Römerbrief, Zürich 1940, p. XIII. 101 102

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im 19. Jahrhundert (Zürich 1947), mentre accoglie razionalisti e atei come Lessing, Herder, Feuerbach, Strauss..., omette Kierkegaard. Quanto a un influsso di Kierkegaard su Miguel de Unamuno si deve rilevare che il saggista spagnolo afferma di aver accostato Kierkegaard tramite Ibsen. La critica poi ha precisato che dalla cronologia degli scritti di Unamuno e dal confronto attento delle intuizioni fondamentali dei due autori «risulta che nessun influsso decisivo ha esercitato Kierkegaard su Unamuno e che solo in modo superficiale e formale si possono confondere i temi essenziali dei due pensatori»107. Per tempo è stata vista – già da liberi pensatori come G. Brandes (1867) e H. Høffding (1892), A.B. Drachmann (1911) – e poi spesso ripetuta, la simpatia di Kierkegaard per il cattolicesimo ch’è attestata abbondantemente dal Diario108. Un confronto diretto fra la tematica profonda di Kierkegaard e le posizioni del realismo metafisico e del soprannaturalismo cristiano può risultare senza dubbio estremamente stimolante e fruttuoso in questo tempo di aperture e riflessioni post-conciliari per accostare, senza rifiuti aprioristici o superficiali concordismi, le verità fondamentali del cristianesimo e le istanze autentiche dell’uomo moderno. Non Feuerbach né Marx o Nietzsche, chiusi nella finitezza dell’essere umano terrestre, ma è Kierkegaard che costituisce il momento di rottura con l’immanentismo moderno per la difesa del realismo greco-cristiano. Il primo che ha rotto il silenzio della cultura danese su Kierkegaard è stato il grande critico Georg Brandes il quale nel 1877 scrisse il primo saggio complessivo sul personaggio e sull’opera di Kierkegaard109: per la prima volta, a mia conoscenza, qui si fa ricorso – sia pur in modo ancora sommario – alle «Carte postume» di Kierkegaard che H.P. Barfod veniva pubblicando con la collaborazione del teologo tedesco Gottsched. Secondo Brandes l’episodio chiave per l’interpretazione di Kierkegaard è la faccenda del «Corsaro» ed è giudicata quasi irrilevante la produzione edificante: egli riconosce però che Gli atti dell’amore sono come «l’organo nel grande concerto delle sue opere». In questo contesto egli anche giudica l’Esercizio del cristianesimo «uno dei suoi scritti più eccellenti ch’è in generale un’opera notevole per acume e amore per la verità»110. Sulla finalità del suo saggio su Kierkegaard, scrivendo 107 Vedi la documentazione nell’articolo di E MEYER, Kierkegaard et Unamuno, in «Revue de littérature comparée», XXIX, 1955, pp. 478-92. Accenna al vasto e profondo influsso di Kierkegaard sulla letteratura moderna, non solo su Ibsen, Strindberg, ma anche su Franz Kafka (Tagebücher) e Thomas Mann (Doctor Faustus), Graham Greene..., il saggio di E. Schmid: Petersen, Midt i Kierkegaard Tid, En Orientering, Copenaghen 1950, pp. 15 ss. 108 Cfr. Diario, tr. it., «Indice», s.v. «Cattolicesimo», t. II, pp. 894 ss. Cfr. anche C. FABRO, Kierkegaard e il cattolicesimo, in «Divus Thomas», LIX, 1956, 1, pp. 67 ss. H. Roos, Søren Kierkegaard og Katolicismen, Copenaghen 1952. 109 G. BRANDES, S. Kierkegaard, in «Kierkegaard und andere skandinavische Persönlichkeiten», Ges. Schr. III, tr. ted., Dresden 1924. 110 G. BRANDES, op. cit., pp. 413 s.

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a Nietzsche ch’era ormai sull’orlo della follia, egli dichiara di non aver dato una «idea sufficiente del suo genio» e che «questo libro è una specie di libello (Streitschrift) scritto per impedire il suo influsso»111. Una dichiarazione emblematica, che può servire da motto a gran parte della letteratura kierkegaardiana soprattutto della Kierkegaard-Renaissance tedesca. Nel frattempo aveva tentato di mettere un po’ di ordine e d’indicare l’unica via giusta il teologo tedesco A. Bärthold, amico di Barfod e Gottsched editori dei Papirer, con una serie di saggi e sondaggi: 1. S. Kierkegaard, Ein Verfasser-Existenz eigner Art, Halberstadt 1873; 2. Noten zu S. Kierkegaards Lebengeschichte, Halle 1876; 3. Lessing und die objektive Wahrheit aus S. Kierkegaards Schriften zusammengestellt, Halle 1877; 4. Die Bedeutung der aesthetischen Schriften S. Kierkegaards, mit Bezug auf G. Brandes: «S. Kierkegaard, ein literarisches Characterbild», Halle 1879 (l’autore dice di aver rettificato in questo eccellente saggio, diretto contro le semplificazioni del metodo positivista del Brandes, alcune imprecisioni dei suoi precedenti studi avendo potuto attingere ampiamente alle «Carte» che venivano allora edite dal Barfod: pp. 4 ss. Vedi a p. 17 l’importante dichiarazione del teologo Tobias Beck sulla difesa della «persona» da parte di Kierkegaard); 5. Zur theologischen Bedeutung S. Kierkegaards, Halle 1880 (cfr. p. 9: il distacco di Kierkegaard dal pietismo e p. 27 la critica al «male radicale» di Kant); 6. S. Kierkegaards Persönlichkeit in ihrer Verwirklichung der Ideale, Gütersloh 1886 (vedi p. 76 la dichiarazione: «Egli sperimentò le categorie cristiane con tale originalità come se le avesse scoperte di nuovo»). Contemporaneo del saggio del Brandes è la prolissa esposizione di Fred Petersen: Dr. S. Kierkegaards Christendoms Forkyndelse («La predicazione del cristianesimo del Dr. S. Kierkegaard»), Christiania 1877, che non ha avuto alcun influsso sul continente. Più stringata e pertinente è l’esposizione di P.A. Rosenberg, Søren Kierkegaard. Hans Liv, hans Personlighed og hans Forfatterskab, Copenaghen 1898 (si nota qualche raro richiamo alle «Carte»: pp. 30, 32, 164...). Ma il vero caposcuola e il primo responsabile della deformazione teoretica dell’opera di Kierkegaard, è stato certamente H. Høffding, noto come brillante filosofo a sfondo kantiano-positivista e geniale storico della filosofia. Il suo saggio su Kierkegaard (Søren Kierkegaard som Filosof, I ed., Copenaghen 1892; II ed. 1919; tr. ted. Stuttgart 1902) è rimasto la fonte principale di orientamento dell’aberrazione degli studi kierkegaardiani anzitutto nella vicina Germania – che è stata (e rimane!) la seconda patria spirituale di Kierkegaard – e mediante la Germania negli altri paesi. Altri studi di Høffding su Kierkegaard: Danske Filosofer, Copenaghen 1919, nr. 14, pp. 147-74 (a p. 170 l’Høffding mostra l’accordo di Kierkegaard con Newman nel denunziare 111 La lettera è dell’11 gennaio 1888: cfr. F. Nietzsches Briefwechsel, II Aufl., Leipzig 1905, pp. 282 ss.

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una maggiore deviazione dal cristianesimo nel protestantesimo che non nel cattolicesimo). Høffding confessa di essersi avvicinato a Kierkegaard fin da giovane studente, ma poi di aver cambiato rotta completamente. In quel primo contatto giovanile il cristianesimo di Kierkegaard l’aveva buttato «in una lotta e crisi di natura sia pratico-personale come anche teoretica». Riprendendo invece nel 1890 lo studio di Kierkegaard – dopo vaste ricerche nel campo della storia della filosofia, della psicologia e dell’etica – egli era giunto a una concezione della vita la quale, in antitesi a Kierkegaard, procedeva in senso continuo: dai greci, al cristianesimo, al pensiero moderno (cfr. S. Kierkegaard som Filosof, II ed., pp. 3 s.). È il «punto di vista dell’umanesimo» (Humanismens Standpunkt) come unità e continuità, agli antipodi di quello di Kierkegaard per il quale il cristianesimo è eterogeneità e frattura col mondo. Possiamo anche rilevare, in omaggio alla fama dei due scrittori, che tanto Brandes quanto Høffding furono i primi a interpretare in senso cattolicizzante – già rilevato da qualche contemporaneo – la lotta portata da Kierkegaard contro la cristianità stabilita del protestantesimo112, un’insinuazione anche questa – come aveva fatto prima Brandes – per «impedire» l’influsso di Kierkegaard? Høffding dedicò a Kierkegaard anche alcuni saggi comparativi: Kierkegaard og Nietzsche, nel volume Mindre Arbeider, Copenaghen 1913, pp. 189-95: «Il lato comune di Kierkegaard e Nietzsche è... l’affermazione dell’aspetto più intimo e originario nell’uomo» (p. 190); Pascal og Kierkegaard, nel volume Religiøse Tanketyper, Copenaghen 1927, pp. 70-97 (si mette in rilievo la lotta di entrambi contro la «cristianità stabilita»); Sibbern og Kierkegaard, ibid. pp. 98-111 (li considera, assieme al pensatore svedese E.G. Geijer, come autori della rottura con il romanticismo. L’accostamento dei tre pensatori ricorre anche nel volume: Ledende Tanker i det Nittende Aarhundrede, Copenaghen 1920, p. 137). Notevole è anche l’esposizione che l’Høffding fa di Kierkegaard nella sua Storia della filosofia (tr. it. di P. Martinetti, Torino 1926, ora Sansoni, Firenze 1970, II, pp. 387-91). Il secondo periodo dell’ermeneutica kierkegaardiana può essere collocato fra l’inizio del Novecento e la fine della seconda guerra mondiale (1945): esso è caratterizzato da una serie di studi di notevole impegno, sia in Scandinavia come in Germania, che hanno la tendenza di organizzare il pensiero di Kierkegaard in sistema o almeno in forma compiuta. Il fondamento restano gli scritti pseudonimi, ma si attinge anche ai Discorsi edificanti e alle «Carte»; anche perché l’edizione completa (la seconda) dei Papirer si prolunga fino al 112 «Det Angreb Kierkegaard rettede mod den bestaaende Kirke og Kristenhed, førtes ud fra et lignende Standpunkt som det, hvorfra John Henry Newman nogle Aar tidliger [1836-43] havde angrebet den engelske Kirke, og fra hvilket han førtes over til den katolske Kirke» (H. HØFFDING, Danske Filosofer, Copenaghen 1909, p. 170. Mi permetto di rimandare, a questo riguardo, al mio vol.: Dall’essere all’esistente, ed. cit., pp. 280 s.).

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1948 e quella di tutte le «Carte» B e C fino al 1970, le varie interpretazioni divergono secondo il diverso indirizzo degli autori rispettivi. Indichiamo alcuni fra i lavori più notevoli. Apre la serie T. Bohlin con gli studi Søren Kierkegaards etiska Åskadning («La concezione etica di Kierkegaard»), Stockholm 1918: l’autore si collega al citato volume di Fr. Petersen, fa perno sulla dottrina degli stadi e mette in evidenza la dottrina del singolo (spec. pp. 231 ss.). Seguì presto l’opera maggiore, Søren Kierkegaard dogmatiska Åskadning («La concezione dogmatica di S. Kierkegaard»), Stockholm 1925 (tr. ted. Gütersloh 1927, di pp. 592): è un’esposizione per problemi che ha come suoi poli il problema del peccato e del peccato originale nella prima parte (cc. 1-3) e il problema della fede e del paradosso cristologico nella seconda parte (cc. 4-5). L’opera si conclude con la considerazione del problema di Dio e del rapporto cristiano a Dio (c. 6), della concezione della rivelazione e della storia in Hegel e Kierkegaard (c. 7) e infine del rapporto della concezione del peccato e della fede in Lutero e Kierkegaard. A questo riguardo Bohlin riconosce l’importanza dell’influsso su Kierkegaard della dottrina atanasiana delle due nature in Cristo (p. 523). Secondo Bohlin la concezione di Kierkegaard soffre di un dualismo, ossia di un doppio orientamento: uno religioso irrazionalistico della sua concezione edificante da una parte e uno intellettualistico dall’altra nella polemica antihegeliana (p. 452: l’autore sembra difendere Hegel contro Kierkegaard). Al Bohlin si deve anche il volume Kierkegaards Tro och andra Kierkegaard-studier («La fede di Kierkegaard e altri studi kierkegaardiani»), Stockholm 1944, ove polemizza specialmente contro Chr. Schrempf, E. Hirsch e V. Lindström; e il saggio di volgarizzazione Søren Kierkegaard. Mannen och verket («S. Kierkegaard. L’uomo e l’opera»), Stockholm 1939 (tr. fr. di P.H. Tisseau, Bazoges-en-Pareds 1941). Maggiore influsso sul kierkegaardismo continentale ha avuto E. Geismar con l’opus maius, dal titolo: Søren Kierkegaard, Hans Livsudvikling og Forfattervirksomhed («S. Kierkegaard. Sviluppo della sua vita e attività letteraria»), Copenaghen 1926-28 (tr. ted. Göttingen 1929, di pp. 672). È diviso in sei parti: 1. Educazione per la vocazione; 2. Poeta degli stadi; 3. Filosofia della vita; 4. Martire e poeta; 5. Solo la verità che umilia, edifica; 6. L’agitatore della Chiesa. Nell’opera hanno particolare rilievo la critica a Hegel (pp. 253 ss.) e la polemica con Mynster (pp. 445 ss., 555 ss.). Al Geismar si devono antologie di testi, opuscoli, articoli, conferenze ch’egli ha pubblicato e tenuto in Europa e negli Stati Uniti sull’opera e sul pensiero di Kierkegaard. Dal punto di vista polemico va segnalato il suo articolo Wie urteilte Kierkegaard über Luther?, in «Jahrbuch der Lutherischen Gesellschaft», x, 1928, pp. 1-28: lo studio è fondato soprattutto sui Papirer e conclude, fra l’altro, che Kierkegaard, specialmente nell’ultima polemica contro la cristianità stabilita, «si avvicina al principio cattolico della necessità delle opere» contro Lutero (p. 25). In Germania quasi contemporaneamente lo studio di Kierkegaard prendeva altrettanta consistenza e proporzione. La linea teologica s’inizia con la

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citata dichiarazione di K. Barth nella «Prefazione» alla seconda edizione di Der Römerbrief (1921): «Se io ho un sistema, esso consiste in questo che io ho tenuto fermo davanti agli occhi, nel suo significato positivo e negativo ciò che Kierkegaard ha chiamato “l’infinita differenza qualitativa” di tempo ed eternità. “Dio in cielo e tu sulla terra”» (riprodotta nella settima edizione, Zollikon-Zürich 1940, p. XIII). Chi conosce un po’ il Diario e i Discorsi edificanti non può assolutamente trovarsi d’accordo con quest’interpretazione ispirata a un rigido agnosticismo calvinista: eppure essa, per sballata che sembri, ha contribuito non poco alla fama di Barth che ha fatto e fa tuttora il giro di non pochi circoli cattolici. Eppure, di lì a non molto lo stesso Barth se ne accorse e ben presto nella Kirchliche Dogmatik abbandonò ogni riferimento a Kierkegaard perché giudicato troppo cattolico! (Cfr. C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Roma 1967, pp. 383 ss.). È sintomatico che nella sua sintesi storica, Die protestantische Theologie in 19. Jahrhundert. Ihre Vorgeschichte und ihre Geschichte (Zurich 1947), nella quale trovano posto – fra gli altri – Rousseau, Lessing, Kant e perfino l’ateo Feuerbach, sia assente Kierkegaard! Ormai la presenza di Kierkegaard nella teologia tedesca, specialmente protestante, è insieme scomoda e indispensabile: particolarmente vivo è il suo influsso nell’antagonista di K. Barth, il prof. E. Brunner (cfr. Der Mensch im Widerspruch, IV Aufl., Zurich 1941, passim e spec. pp. 554 ss.) e in generale per lo sviluppo del «rapporto io-tu» (K. Heim, Fr. Gogarten, H.E. Weber). Una sintesi originale e articolata dei temi teologici di Kierkegaard è quella di W. Ruttenbeck, Sören Kierkegaard, Der christliche Denker und sein Werk, Berlin-Frankfurt/Oder 1929. Una guida fondamentale allo studio di Kierkegaard è stata quella allestita dal teologo di tendenza schleiermachiana E. Hirsch, Kierkegaard-Studien, 2 voll., di pp. 961 (Gütersloh 1933). L’analisi della vita e dello sviluppo della dottrina è fatta con una conoscenza delle «Carte» finora inusitata anche presso gli autori danesi: l’autore ha in particolare il merito di studiare, sotto la spinta di Geismar, il preciso rapporto fra i vari gruppi di opere e per la prima volta indaga il formarsi delle singole opere con lo studio degli abbozzi che Kierkegaard ha lasciati nelle «Carte» B (cfr. p.es. Bd. II, pp. 839 ss.). Nella sua monumentale Geschichte der evangelischen Theologie (Gütersloh 1954) l’Hirsch dedica un ampio capitolo a Kierkegaard (c. 33, Bd. V, pp. 433-91): l’esposizione, secondo il metodo dell’opera, è fatta currenti calamo – senza citazioni e riferimenti critici di nessun genere – e presenta la tesi del tutto inverosimile dell’affinità e dipendenza di Kierkegaard da Schleiermacher (cfr. pp. 453 s.). All’Hirsch e ai collaboratori si deve la nuova traduzione tedesca del corpus kierkegaardianum presso Diederichs (Köln 1957 ss. Cfr. C. Fabro, Un nuovo Kierkegaard tedesco, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1962, pp. 120 ss.). La prima traduzione tedesca complessiva è dovuta a Chr. Schrempf (12 voll., ed. Diederichs, Jena 1909-12): questa versione ha tenuto per alcuni decenni, fuori e dentro la Germania, l’autorità dell’originale,

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e ciò ha influito in modo decisivo sull’interpretazione di Kierkegaard, purtroppo spesso in senso negativo. Il progredire degli studi kierkegaardiani e la necessità di risalire all’originale ha potuto chiarire i difetti e le omissioni «intenzionali» della versione Schrempf, che fanno pensare a una deplorevole manomissione (cfr. le prove palmari nell’articolo di W. Rest, Die kontroverstheologische Relevanz Søren Kierkegaards, in «Catholica», 1951, pp. 87 ss.). Al medesimo Schrempt si deve un’ampia monografia in due parti: Kierkegaard, 2 voll., Stuttgart 1927-35: essa ha il merito di aver colto chiaramente l’esigenza di Kierkegaard per un ritorno al cristianesimo originario, che lo Schrempf per conto suo respinge risolutamente. L’analisi più approfondita della dimensione religiosa nella sua centralità nella produzione kierkegaardiana è dovuta a M. Thust, Sören Kierkegaard. Der Dichter des Religiösen. Grundlagen eines Systems der Subjektivität, München 1931. L’autore, malgrado alcune ingenuità «barbare» – come quella (siamo all’epoca del primo sorgere del razzismo hitleriano) che Dante, nonostante la sua patria (Heim) italiana «seiner ganzen Erscheinung nach vorwiegend der nordischen Rasse angehört» (p. 435)! – contiene osservazioni pertinenti e alle volte stimolanti. La tesi che il gioco complesso degli Pseudonimi si svolge come un ideales Marionettentheater (pp. 24 s.) può essere suggestiva come anche il frequente accostamento di Kierkegaard a Dante (spec. per La malattia mortale: p. 437). La Kierkegaard-Forschung francese si è affermata soprattutto con le imponenti Etudes Kierkegaardiennes (prima edizione, Paris 1938) di J. Wahl, il quale sa manipolare abilmente le traduzioni e gli studi tedeschi e danesi tradotti in tedesco (Geismar, Bohlin, Hirsch, Monrad...) e subisce spesso l’influsso negativo della triade dialettica e immanentistica di Barth–Jaspers–Heidegger (agli ultimi due sono dedicate le tre vaste appendici: pp. 455 ss., 477 ss., 510 ss.)113. Seguono come Annexes alcuni estratti del Diario tradotti dal tedesco, a integrazione dei singoli capitoli. L’autore attinge, non sappiamo perché, a due traduzioni diverse: per i primi diari (1832-39) a quella dell’Ulrich (Berlin 1930) e per i diari della maturità a quella più nota di Th. Haecker (Innsbruck 1923) che abbraccia, com’è noto, l’intera vita di Kierkegaard: perciò l’uso del Diario da parte di Wahl è spesso frammentario e aleatorio ed esige nel lettore molta cautela, anche perché la sua opera ha condizionato gran parte della scadente letteratura kierkegaardiana dell’area latina. Più plausibile per l’inqua113 L’accordo di fondo, affermato dal Wahl, sullo stadio etico tra Hegel e Kierkegaard e su altri punti fondamentali ha incontrato un severo giudizio di superficialità e mancanza di senso critico: «Ma questa stessa afferma [che sul romanticismo la concezione di Kierkegaard e Hegel fosse la medesima] e attesta una conoscenza così superficiale, anzi direttamente di rifiuto del pensiero di Kierkegaard ch’è completamente da confutare. Altrettanto si dica delle sue osservazioni sulla dialettica di Kierkegaard, sulla soggettività, sul paradosso, dove le affermazioni di Reuter e Bohlin sul significato negativo per la formazione della dottrina del paradosso sono ripetute in modo completamente acritico» (N. THULSTRUP, Kierkegaard Verhältnis zu Hegel, ed. cit., p. 155).

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dramento complessivo dei problemi e l’esposizione dei momenti cruciali del pensiero di Kierkegaard, anche se non attinge ai testi originali e quasi ignora il Diario, è l’ampio volume di P. Mesnard, Le vrai visage de Kierkegaard (Paris 1948) ancora poco conosciuto. Scarsa invece ci sembra la penetrazione del personaggio e del suo pensiero negli scritti di facile vena che gli ha dedicato R. Jolivet: Introduction à Kierkegaard (Paris 1946; seconda edizione, come Aux sources de l’existentialisme chrétien, Paris 1958, tr. it., Roma 1960) e Les doctrines existentialistes de Kierkegaard à J.-P. Sartre (Paris 1950). A cavallo fra il secondo e terzo periodo dell’ermeneutica kierkegaardiana è il teologo tedesco H. Diem ch’è oggi il decano degli studi kierkegaardiani in Germania. A lui si devono: Philosophie und Christentum bei Sören Kierkegaard, München 1929 (l’autore attinge direttamente all’edizione danese dei S. Vaerker e dei Papirer); Die Existenzdialektik bei S. Kierkegaard, ZollikonZürich 1950 (la sezione più importante è C, da p. 154 alla fine, dedicata alla critica di Kierkegaard a Lutero, dove l’autore cerca di salvare il Riformatore); Sören Kierkegaard Spion im Dienste Gottes, Frankfurt a.M. 1957: è un compendio dei temi fondamentali della dialettica teologica di Kierkegaard che conclude con la critica alla cristianità stabilita e sottolinea la delusione di Kierkegaard per Mynster (p. 105). In questo frattempo la tematica kierkegaardiana comincia a interessare anche il pensiero cattolico tedesco al quale si devono alcuni importanti saggi, fondati per lo più sulle tradizioni tedesche correnti: E. Przywara, Das Geheimnis Kierkegaards, München-Berlin 1929 (interessante l’accostamento della tematica di Regina con la venerazione di Kierkegaard per Maria Vergine: pp. 116 ss.)114, A. Dempf, Kierkegaard Folgen, Leipzig 1925 (considera Hegel e Kierkegaard, benché opposti, ugualmente distanti dalla concezione cristiana della realtà e vede la soluzione valida della loro tensione nella posizione di s. Tommaso: pp. 173 ss.). L’autore è ritornato a Kierkegaard nello studio Kierkegaard hört Schelling, nel volume Weltordnung und Heilsgeschichte, Einsiedeln 1958, pp. 53-77). Il principe dei kierkegaardiani cattolici tedeschi è però Th. Haecker sia per la chiarezza delle sue traduzioni kierkegaardiane, sia per i brillanti saggi introduttivi tra i quali si distinguono Sören Kierkegaard und die Philosophie der Innerlichkeit, 114 In un saggio posteriore, dedicato al confronto fra Kierkegaard e Newman, Przywara fa un acuto e pertinente parallelo fra questi due sommi spiriti che l’Ottocento non è stato in grado di comprendere: ciò che Kierkegaard ha operato all’interno del protestantesimo per strappare la coscienza cristiana al principio d’immanenza in cui l’avevano chiusa Hegel e Schleiermacher – e in cui resta chiusa la teologia dialettica (Barth, Tillich, Bultmann) – con la dottrina dell’imitazione liquidando la Riforma, l’ha operato in forma più radicale Newman con il suo passaggio alla Chiesa cattolica mediante il «ripristino del cattolicesimo integrale» (die Wiederherstellung des voll Katholischen). Così Kierkegaard, liquidando il protestantesimo, ha mostrato l’attualità del pensiero cattolico che Newman ha attuato superando in anticipo le istanze in ritardo dell’immanenza modernista (E. PRZYWARA, Kierkegaard-Newman, nel vol.: Newman-Studien, Erste Folge, Nürnberg-Bamberg-Passau 1948, pp. 77 ss.).

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München 1913, e specialmente quello dedicato al concetto di verità: Der Begriff der Wahrheit bei Sören Kierkegaard, Innsburck 1932, rist. in Opuscula, München 1949, pp. 53-223 e nel volume Essays, München 1958, pp. 381-431 – ove per la prima volta è chiaro il principio della Postilla che «la soggettività è la verità». Sempre penetranti sono le ampie «Postille» che l’Haecker aggiunse alle sue traduzioni dei testi kierkegaardiani (ora raccolte nel volume Satire und Polemik, München 1961, pp. 36 ss.). Ha subito profondamente l’influsso di Kierkegaard il teologo (prima protestante e poi cattolico) E. Peterson che fu in polemica con A. Harnack e collega di K. Barth all’università di Bonn. Nel saggio Existentialismus und Protestantische Theologie del 1947, ora nel volume Marginalien zur Theologie (München 1956), il Peterson rilevava che il problema dell’esistenza posto da Kierkegaard si svuotava se veniva separato dalla teologia nel senso classico, com’era accaduto a opera di Barth e Heidegger (pp. 13 s.). Ha contribuito notevolmente a diffondere il pensiero di Kierkegaard nel pubblico, con la chiarezza dell’esposizione e la finezza dell’osservazione, R. Guardini che si è spesso ispirato al grande danese nella sua analisi dell’esperienza religiosa (cfr. spec. il saggio Der Ausgangspunkt der Denkbewegung Sören Kierkegaard, in «Hochland», XXIV, 1927, pp. 12-33). In questa linea di valorizzazione positiva di Kierkegaard all’interno del pensiero cattolico si muove anche W. Rest con la tesi: Indirekte Mitteilung als hildendes Verfahren dargestellt am Leben und Welt Sören Kierkegaard, Emsdeden-Münster 1937 (importante il confronto di Kierkegaard con Pascal: pp. 95 ss.). Ma questi vigorosi stimoli in terra tedesca di un rinnovamento del pensiero cattolico dall’interno delle istanze kierkegaardiane furono in questi primi decenni del dopoguerra soffocati dall’invadenza dell’ontologia antimetafisica o pensiero orizzontale o antropologia trascendentale (che dir si voglia!), ispirata direttamente e soprattutto a Heidegger115, a cui soggiace ora gran parte del pensiero cattolico tedesco il cui rappresentante più chiassoso e anche più seguito sembra K. Rahner (cfr. C. Fabro, K. Rahner e l’ermeneutica tomistica, Piacenza 1971). Il terzo periodo dell’ermeneutica kierkegaardiana e la svolta che reputo decisiva per raggiungere il Kierkegaard reale – ch’era stato finora compresso 115 È significativa, a questo proposito, una linea speculativa continua (anche se variabile!), che si viene prospettando nel pensiero cattolico tedesco contemporaneo, la quale procede dall’Uno di Plotino al to; ei\nai di Proclo-Ps. Dionigi, allo esse partecipatum (ma mistificato nella existentia di Suárez) di s. Tommaso, allo esse maximum del Cusano, al leeres Sein di Hegel... per concludersi col Sein des Seienden di Heidegger in modo – si badi bene! – da fare oggi il punto di partenza con il Sein heideggeriano (cfr. K. Kremer, Die neuplatonische Seinsphilosophie und ihre Wirkung auf Thomas von Aquin, Leiden 1966, pp. 164 ss., 187 e spec. 241). Il Kremer, come gli altri scolastici heideggeriani (Lotz, Rahner, Metz, Coreth, Brugger...), non tiene in conto che il Sein heideggeriano deriva direttamente, come afferma lo stesso Heidegger, dalla linea Kant-HegelHusserl (cfr. C. FABRO, Tomismo e pensiero moderno, Roma 1969, pp. 435 ss.).

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da preoccupazioni di sistema o di confessione religiosa – comincia con questo secondo dopoguerra ed è attualmente in pieno svolgimento. La palma di questa felice realtà, che già sta operando nel profondo delle coscienze, appartiene alla Scandinavia e soprattutto alla Danimarca. La caratteristica di questo movimento è la penetrazione dall’interno della problematica metafisico-religiosa dell’opera di Kierkegaard sul fondamento della costellazione completa dei suoi scritti ma con la guida continua dei Papirer e alla luce della produzione edificante. Il metodo è rigorosamente esistenziale, ossia fondato nell’avvertenza della penetrazione e appartenenza intrinseca e costitutiva della vita, dei suoi casi e delle sue crisi, nel senso e nello sviluppo della sua riflessione, onde trae fondamento e conferma il principio di Johannes Climacus che «la verità è la soggettività e la soggettività è la verità» (P. II, Sez. II): esso porta all’attuazione dell’io come spirito in quanto esso è «un rapporto che si rapporta a se stesso» o piuttosto è «il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso» così che il singolo ossia l’io «mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto». È la tesi di Anti-Climacus, la quale esprime il vertice della riflessione e della passione della libertà e la definizione esistenziale della fede: cioè «l’uomo essendo se stesso e volendo essere se stesso, si fonda trasparente in Dio» (La malattia mortale, P. II, Cap. I; infra, p. 1765). Secondo questo nuovo corso dell’ermeneutica kierkegaardiana si tratta qui, con Kierkegaard, di una posizione assolutamente nuova di pensiero religioso ch’è rivoluzionaria rispetto a tutte le forme di gnosi finora apparse in quanto è al di là o, se piace, al di qua di ogni opposizione astratta e dialettica d’intellettualismo e volontarismo, di razionalismo e storicismo, di protestantesimo e cattolicesimo116: ossia che la fede si attua come adesione di tutta la persona a Dio, adesione ch’è – ancora secondo Anti-Climacus – anzitutto e soprattutto imitazione del Cristo. I capisaldi di quest’orientamento distaccano Kierkegaard sia dalla destra come dalla sinistra hegeliana117, ambedue implicate nella impasse dello sto116 Sulle difficoltà intrinseche dell’ermeneutica kierkegaardiana e sul metodo da seguire per superarle (convergendo soprattutto sui due pseudonimi di Johannes Climacus e Anti-Climacus) sono fondamentali le osservazioni di G. MALANTSCHUK, Dialektik og Eksistens hos Søren Kierkegaard, Copenaghen 1968, pp. 19 ss. 117 È l’errore di prospettiva soprattutto di K. Löwith, nell’opera maggiore, Von Kant zu Nietzsche (II Aufl., Stuttgart 1950), per cui l’autore include Kierkegaard – a seguito di H. Heine, A. Ruge, M. Hess, M. Stirner, B. Bauer, L. Feuerbach, K. Marx – nella sua antologia: Die Hegelsche Linke (Stuttgart 1962, pp. 269 ss.). La ragione, invero poco convincente, di quest’accostamento sembra la seguente: «Dass Marx die allgemeinen und äusseren Existenzverhältnisse der Masse vor eine Entscheidung stellt und Kierkegaard das innerliche Existenzverhältnis des Einzelnen zu sich selbst, dass Marx ohne Gott und Kierkegaard vor ihm denkt, solche und andere offenkundige Unterschiede haben zur gemeinsamen Voraussetzung ihren entschiedenen Zerfall mit der bestehenden bürgerlich-christlichen Welt» (K. LÖWITH, Gesammelte Abhandlungen, Stuttgart 1960, pp. 115 s.).

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ricismo hegeliano, per i seguenti punti o principi: 1. L’affermazione di trascendenza metafisica: l’uomo si trova nel mondo come creatura di Dio ch’è l’assoluto in sé e per sé, trascendente rispetto al mondo e all’uomo ma non indifferente, anzi preoccupato delle sue creature: è l’istanza realistica contro il cogito moderno. – 2. L’affermazione di trascendenza religiosa ossia di sacralità del rapporto dell’uomo (come «singolo davanti a Dio») alla natura e alla società, ch’è un rapporto storico reale: da una parte Dio che si rivela all’uomo nel Vecchio Testamento e che entra nel tempo nel Nuovo Testamento e dall’altra parte prima Abramo, padre della fede, e poi ogni cristiano devono essere disposti a sacrificare tutto per la fedeltà a Dio. È l’istanza teologica della rivelazione soprannaturale contro l’orizzontalità del principio d’immanenza. – 3. L’affermazione di trascendenza cristiana ossia il superamento degli ideali finiti e d’impegno incondizionato per la salvezza in Cristo ch’è tutta grazia (Naade) da parte di Dio e che dev’essere tutta imitazione (Efterfölgelse) da parte dell’uomo: è l’istanza a un tempo dogmatica ed esistenziale contro le astuzie della ragione storica e i sotterfugi dell’egoismo individuale. La trascendenza come riconciliazione e abnegazione nel senso biblico rigoroso dei «testimoni della fede». La presentazione o interpretazione di questi punti può essere fatta in vari modi, ma essi sono fondamentali e senza di essi l’opera di Kierkegaard sfuma nell’uno o nell’altro «sistema» ch’egli ha in precedenza escluso. Il fautore più risoluto e preparato di quest’indirizzo è senza dubbio Niels Thulstrup; animatore della «Søren Kierkegaard Selskabet», fin dal 1949 iniziò la pubblicazione a collaborazione internazionale del periodico: «Meddelelser fra Søren Kierkegaard Selskabet», che nel 1955 prese il titolo di «Kierkegaardiana» (finora sono usciti sette volumi), in cui si pubblicano articoli specializzati, note critiche, recensioni e cronache di carattere kierkegaardiano. Il contributo finora più notevole del Thulstrup è sul piano dello studio storico-critico delle fonti, con le vaste introduzioni, le edizioni dei principali testi kierkegaardiani118 e specialmente con la prima edizione integrale delle lettere e dei documenti di Kierkegaard (Breve og Aktstykker vedrørende S. Kierkegaard, 2 voll., Copenaghen 1953-54) e soprattutto l’ampia monografia Kierkegaard Forhold til Hegel og til den spekulative Idealisme indtil 1846 (Copenaghen 1967) alla quale segue il saggio critico già citato, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel. Forschungsgeschichte (Stuttgart 1969), indispensabile per orientarsi sul problema centrale della dialettica della fede e nella selva selvaggia della biografia kierkegaardiana: a questi 118 Cioè precisamente: Philosophiske Smuler, Copenaghen 1955; Frygt og Baeven, Copenaghen 1961; Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, 2 Bde, Copenaghen 1962. Il Thulstrup ha curato anche i commenti alla trad. ted. a cura di W. Rest (Köln-Olten) delle seguenti opere: Esercizio del cristianesimo, Due brevi dissertazioni di H.H., Il libro su Adler (1951), La malattia mortale, Timore e tremore, La ripresa, Il concetto dell’angoscia (1956), Briciole di filosofia e Postilla (1956).

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scritti rimandiamo per integrare e continuare queste nostre indicazioni e riflessioni. Una lacuna notevole, anche se fuori delle preoccupazioni del Thulstrup, è l’esclusione pressoché totale della vasta letteratura cattolica su Kierkegaard (a eccezione del The Mind of Kierkegaard di J. Collins, Londra 1954)119. Va segnalata soprattutto l’opera di traduttore e d’interprete del teologo americano W. Lowrie, al quale si deve la traduzione in lingua inglese di buona parte della produzione pseudonima kierkegaardiana e degli scritti contro la cristianità stabilita: Lowrie aveva pubblicato nel 1938 la monografia Kierkegaard (Oxford U.P.) ch’è ancora classica nel mondo anglosassone. Merita invece piena solidarietà l’esposizione e la critica che il Thulstrup fa della tesi di W. Anz (Kierkegaard und der deutsche Idealismus, Tübingen 1956) secondo il quale Kierkegaard condivide, con Goethe e Hegel, il cogito cartesiano, ossia la tesi dell’autonomia assoluta del soggetto e quindi il suo principio di soggettività non è che «ein radikalisierte Cartesianismus» (pp. 188 e 192), ma non si vede bene – se non si riporta la posizione di Kierkegaard al realismo greco-cristiano – come si possa rivendicare la validità della contestazione radicale di Kierkegaard al principio moderno dell’immanenza. Però non si capisce – e qui è l’indizio dell’oscillazione metafisica – come si possa affermare che sfuggono al soggettivismo gnoseologico cartesiano sia Hegel come Heidegger (pp. 193 s.) affermando, in modo assai discutibile e contraddetto espressamente dallo stesso Hegel (nella Geschichte der Philosophie), ch’egli «trotz Kant – eine altere philosophische Tradition aufnimmt, deren Grundproblematik ontologisch und nicht erkenntnistheoretisch ist» (p. 194): un’affermazione che, pur se l’identità hegeliana di logica e metafisica dà per provata, è piuttosto contraddetta dallo sviluppo stesso del pensiero moderno. Valide esposizioni d’insieme restano: Jo. Hohlenberg, Søren Kierkegaard (Copenaghen 1940: importante per i rapporti con gli eventi e i personaggi del tempo); Anna Paulsen, Sören Kierkegaard. Denker unserer Existenz (Hamburg 1955: qui invece si cerca la concatenazione delle opere nell’intensificarsi dei problemi). La «biografia dottrinale» più completa è quella di C. Jørgensen: Søren Kierkegaard. En biografi, 5 voll. (Copenaghen 1964) di carattere critico storico. Allo studio della struttura letteraria dei testi kierkegaardiani ha dato un importante contributo F.J. Billeskov Jansen: Studier i Søren Kierkegaards litteraere Kunst, Copenaghen 1951 (l’opera esamina gli Pseudonimi, i Discorsi edificanti e Oejeblikket); l’autore ha scritto importanti pagine sull’opera

119 L’autore cita tuttavia di sfuggita alcuni autori cattolici particolarmente impegnati nello studio di Kierkegaard (Theodor Haecker, Erich Przywara, Alois Dempf, Walter Rest, Cornelio Fabro, H. Roos, James Collins: p. 14).

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letteraria di Kierkegaard nella sua opera maggiore (Danmarks Digterkunst. Tredie Bog: Romantik og Romantisme, Copenaghen 1964, spec. a pp. 301 ss. l’analisi di Enten-Eller e degli Stadier). Il Billeskov Jansen ha curato anche un’eccellente selezione degli scritti di Kierkegaard in quattro volumi con importanti introduzioni e note illustrative alle quali mi sono permesso di attingere in questo lavoro (S. Kierkegaard, Vaerker i Udvalg, Copenaghen 1950. Il Bd. II, p. 369, contiene anche un estratto della Tesi sull’ironia e il Bd. IV le note critiche). Hanno affrontato più direttamente i problemi dottrinali nel nuovo clima di ricerca e con preoccupazioni diverse una vera équipe di studiosi scandinavi: V. Lindstrøm, Stadiernas Teologi. En Kierkegaard-Studie (Lund-Copenaghen 1943) e Efterføljelsens Teologi hos Søren Kierkegaard (Stockholm 1956); Jo. Slök, Die Anthropologie Kierkegaards (Copenaghen 1954); P. Lönning, Samtidighedens Situation. En studie i Søren Kierkegaards kristendomsforståelse (Oslo 1954: è la monografia più completa sul problema centrale e più arduo, per l’interpretazione dell’opera di Kierkegaard: la contemporaneità); L. Bejerholm, Meddelelsens Dialektik. Studier i Søren Kierkegaards teorier om språk, kommunikation och pseudonymitet (Copenaghen 1962). Una più decisa presa di posizione sulla positività della dialettica kierkegaardiana è quella dello studioso ucraino G. Malantschuk con i volumi Dialektic og Existens hos Søren Kierkegaard (Copenaghen 1968) e Frihedens Problem i Kierkegaards Begrebet Angest (Copenaghen 1971): il compito della prima monografia è di mostrare la «continuità» della tematica religiosa, con un progresso crescente d’interiorità e impegno esistenziale, da Enten-Eller fino all’Esercizio del cristianesimo che si continua nell’esasperazione degli ultimi diari, mentre la seconda è uno studio in profondità delle implicazioni fra peccato e libertà. Una rassegna dei punti cruciali dell’ermeneutica kierkegaardiana è la collana dei «Populaere Skrifter» curata dalla «Søren Kierkegaard Selskabet», in brevi saggi che si rivelano uno strumento indispensabile per consolidare la piega definitiva che ormai devono avere gli studi kierkegaardiani. Diamo l’elenco nell’ordine di pubblicazione: I.F.J. Billeskov Jansen, Hvordan skal vi studere Søren Kierkegaard? II. N.H. Søe, Subjektiviteten er Sandheden (pubblicati insieme: Copenaghen 1949); III. H. Roos, Søren Kierkegaard og Katolicismen (Copenaghen 1952); IV. G. Malantschuk, Indførelse i Søren Kierkegaard Forfatterskab (Copenaghen 1953); V. Villads Christensen, Søren Kierkegaard Vej til Kristendommen (Copenaghen 1955); VI. MalantschukSøe, Søren Kierkegaards Kamp mod Kierken (Copenaghen 1956); VII. Carl Saggau, Skyldig – ikke skyldig? (Copenaghen 1958)120. VIII. Villads Chri120 L’autore difende la tesi, assai discutibile, che la causa della rottura del fidanzamento di Kierkegaard con Regina sia stata soprattutto – come già si è accennato – la concezione che Kierkegaard aveva della sessualità come peccato anche nel matrimonio. Ma una siffatta concezione può valere, a giudicare dal Diario, solo per gli ultimi anni; prima della lotta aperta contro la

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stensen, Søren Kierkegaards Motiver til Kierkekampen (Copenaghen 1959); IX-X. Jørgen Bukdahl, Søren Kierkegaard og den menige Mand (Copenaghen 1961); XI. Søren Holm, Graeciteten (Copenaghen 1964); XII. E. Skjoldager, Søren Kierkegaards syn paa samvittigheden (Copenaghen 1967); XIII. Marie Mikulova Thulstrup, Kierkegaard og Pietismen (ibid.); XIV. E. Skjoldager, At vaelge sig selv i an-svar (Copenaghen 1969); XV. Marie Mikulova Thulstrup, Kierkegaard, Platons skuen og kristendommen (Copenaghen 1970). Quasi tutti sono presenti in questa «Introduzione». Infine segnaliamo l’ottima analisi dell’intreccio biografico-dottrinale di un veterano di studi kierkegaardiani: V. Christiansen, Søren Kierkegaard. Det Centrale i hans Livssyn (Copenaghen 1963). Fra gli oppositori dichiarati al pensiero di Kierkegaard, si possono ricordare: S. Holm, S. Kierkegaards Historie-filosofi (Copenaghen 1951); K. L. Lögstrup, Kierkegaards und Heideggers Existenzanalyse und ihr Verhältnis zu ihr Verkündigung (Berlin 1950: Kierkegaard non ha risolto il problema del rapporto fra pensiero ed esistenza); Id., Opgör med Kierkegaard (Copenaghen 1968: è un confronto di Kierkegaard con Hegel e l’esistenzialismo contemporaneo, specialmente di Jaspers e Sartre). L’attacco forse più polemico portato all’interno del pensiero kierkegaardiano è quello di K. Hansen, Søren Kierkegaard. Ideens Digter (Copenaghen 1954. La tesi è che Kierkegaard ha ripreso e portato all’estreme conseguenze dell’assurdo l’ideale della spiritualità medievale. Cfr. p. 12. Le esposizioni che l’autore fa del pensiero di Kierkegaard rasentano spesso la caricatura, ma l’opera è molto utile per la chiarezza della sua esposizione della netta antitesi fra l’esigenza del pensiero moderno e quella del realismo cristiano difesa da Kierkegaard); Id., Revolutionaer Samvittighed (Copenaghen 1965: l’autore qui concentra la sua critica sulla concezione... disumana che Kierkegaard si è fatto del cristianesimo. Cfr. il consenso al riguardo di K.L. Løgstrup, Kunst og Etik, Copenaghen 1966, spec. pp. 157 ss.; Id., Opgör med Kierkegaard, ed. cit., pp. 56 ss.). Concludiamo con l’indicazione di alcuni recenti studi tedeschi di maggiore impegno: M. Theunissen, Der Begriff Ernst bei Søren Kierkegaard, Freiburg i. Br. 1958; H. Fischer, Subjektivität und Sünde. Kierkegaards Begriff der Sünde mit ständiger Rüchsicht auf Schleiermachers Lehre von der Sünde, Itzehol 1963; G. Schüepp, Das Paradox des Glaubens. Kierkegaards Anstösse für christliche Verkündigung, München 1964; K. Schäfer, Hermeneutische Ontologie in den Climacus Schriften Sören Kierkegaards, München 1968; J.L. Blass, Die Krise der Freiheit im Denken Sören Kierkegaards, Ratingen bei Düsseldorf 1968; Fr. C. Fischer, Existenz und Innerlichkeit. Eine Einführung in die Gedankenwelt Sören Kierkegaards, München 1969; J. cristianità stabilita, Kierkegaard approva e apprezza il matrimonio come attuazione dello stadio etico. È la tesi, non solo dell’entusiasta Assessore Guglielmo in Aut-Aut e dello «Aegtesmand» (lo sposato) degli Stadi, ma dei testi espliciti del Diario almeno fino all’epoca di Anti-Climacus.

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Brechtken, Kierkegaard-Newman. Wahrheit und Existenzmitteilung, Meisenheim am Glan 1970. Le dolenti note degli studi kierkegaardiani vengono dal provincialismo laicoclericale della cultura italiana121. Pressoché ignorato dalla corrente marxistica, troppo affaccendata nei propri revisionismi ideologici, Kierkegaard ha interessato appena alla tangente il primo esistenzialismo italiano di N. Abbagnano ed E. Paci, come la Kierkegaard-Renaissance tedesca da cui direttamente deriva. La tematica di Kierkegaard infatti è del tutto assente nella prima presentazione della problematica esistenziale sia in Abbagnano (La struttura dell’esistenza, Torino 1939) come in Paci (Principi di una filosofia dell’essere, Modena 1939). Eppure già A. Carlini, in pieno fervore idealistico, aveva portato l’attenzione sull’opera di rottura operata da Kierkegaard (detto da Carlini: «apologeta intransigente del suo cristianesimo») rispetto all’immanentismo idealistico, a differenza di Heidegger che vi rimaneva chiuso: «E come il Kierkegaard tenta un’interpretazione nuova del dogma, così lo Heidegger tenta un’interpretazione nuova del problema dell’essere portando al centro l’atto di quell’essere ch’è insieme coscienza della propria esistenza» (A. Carlini, Il mito del realismo, 1936, p. 58. Segue nelle pp. 59-67 la traduzione di un frammento del Concetto dell’angoscia sullo «istante»). Maggiore attenzione dedicò l’Abbagnano a Kierkegaard nella Storia della filosofia (Torino 1950, t. III, c. VIII) inserendolo (non si sa perché) nella sezione della filosofia del romanticismo. Fra le sviste o deformazioni più vistose dell’Abbagnano, che mostrano il suo capovolgimento radicale dell’asse metafisico-teologico del pensiero kierkegaardiano, sono le seguenti: 1. L’interpretazione dell’esistenza come possibilità, confondendola con il Dasein negativo di Hegel e Heidegger122; 2. La soppressione dell’istanza 121 Ha raccolto, in ordine molto sparso, i vari spunti kierkegaardiani nell’esistenzialismo nostrano A. Santucci nel saggio Esistenzialismo e filosofia italiana (Bologna 1959): il Santucci ha omesso completamente un confronto diretto con l’opera di Kierkegaard. Il primo studio italiano su Kierkegaard, ricalcato completamente sulla Kierkegaard-Renaissance tedesca, è di F. Lombardi (Kierkegaard, Firenze 1936), il quale affianca e assimila l’opera e il pensiero di Kierkegaard nientemeno che a Feuerbach! La prima apparizione in pubblico dell’esistenzialismo nella cultura italiana è stata un’inchiesta – L’esistenzialismo in Italia – della rivista «Primato» (diretta da G. Bottai e G. Vecchietti) in piena guerra tra il gennaio e il marzo 1943, nrr. 1-6. Intervennero, oltre Abbagnano e Paci, A. Carlini, U. Spirito, F. Olgiati, A. Guzzo, P. Carabellese, C. Pellizzi, G. Della Volpe, C. Luporini e G. Gentile. Si tratta di prese di posizione da cui esula ogni confronto diretto con Kierkegaard ch’è spesso accostato a Nietzsche, Hegel, Kant e perfino (!) a Marx (C. Luporini) come «due dialettiche complementari» (n. 5, p. 84, col. 3). Abbagnano, sia nella presentazione introduttiva (n. 1, pp. 2 s.) come nella conclusione (n. 6, pp. 103 s.), neppure nomina Kierkegaard e dopo un quarto di secolo nell’articolo Existentialismus della Enciclopedia herderiana «Sowjetsystem und demokratische Gesellschaft» (Freiburg, i. Br. 1968, Bd. II, coll. 374 e 381) lo nomina solo di passaggio e nella bibliografia lo esclude perfino dalle fonti (col. 386). 122 A quanti hanno seguito pedantescamente la Kierkegaard-Renaissance tedesca (e fra noi specialmente Abbagnano) che ha riportato la struttura dell’esistenza kierkegaardiana alla pos-

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centrale della libertà del singolo in quanto nel «rapporto istantaneo tra l’uomo e Dio, l’iniziativa è tutta divina» (p. 191); 3. L’identificazione di angoscia e fede, cioè del male con il suo rimedio: «La fede è appunto la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio» (p. 184). Nient’affatto123; per Kierkegaard la fede dà all’uomo precisamente il superamento dell’angoscia con l’appoggio assoluto dell’Assoluto. Mentre infatti nel Concetto dell’angoscia Vigilius Haufniensis sembra attribuire all’angoscia una funzione positiva verso la fede («Coll’aiuto della fede l’angoscia educa l’individuo a riposare nella Provvidenza», op. cit., cap. V: in Opere, vol. I, p. 473), Kierkegaard nella Malattia mortale e nei diari della maturità presenta l’angoscia come inciampo alla fede ed è la fede stessa che mette in fuga l’angoscia: «Togli all’uomo tutta quest’angoscia per la salvezza dell’anima sua; è dessa che gli impedisce ogni attività. La Grazia la toglie: tu sei salvo per la Grazia e dalla Grazia per mezzo della fede (2736). La fede e perciò la «possibilità salvante e positiva» e non negativa o negativizzante. Più attenta e simpatica – anche se anch’essa sommaria – è la lettura fatta a questo tempo da Felice Battaglia, sulla versione tedesca dello Schrempf, il quale avverte – anche se non approfondisce – l’originalità della dialettica kierkegaardiana dell’esistenza (Il problema morale nell’esistenzialismo, Bologna 1949, pp. 28 ss. L’autore tiene presenti, oltre al Lombardi, specialmente le posizioni di J. Wahl e di L. Pareyson nella tesi giovanile: La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, Napoli 1940). Marginale e del tutto estrinseca è la menzione che di Kierkegaard fa L. Stefanini il quale lo accumuna in un identico giudizio e destino con l’esistenzialismo ateo tedesco e francese ch’egli qualifica con ragione di nichilismo (Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Padova 1952, pp. 22 ss. Cfr. le attente osservazioni sull’estetica di Kierkegaard nella «Appendice»: pp. 354 ss.). Anche Paci, passando alla lettura diretta dei testi sibilità, dissolvendola nell’immanenza e nel finito, Kierkegaard stesso contrappone il principio che si diventa spirito soltanto mediante la scelta (il «salto») assoluta dell’Assoluto. Anche in questo Kierkegaard è profondamente aristotelico: «Restando nella possibilità non si può diventare spirito» (1844). È la tesi del realismo metafisico – ch’è insieme etico religioso – di Johannes Climacus: «Comprendere è risolvere la realtà in possibilità: ma allora è impossibile comprenderla, perché comprenderla è trasformarla in possibilità, quindi non mantenerla come realtà. Rispetto alla realtà, il comprendere è un regresso, è un passo indietro, non un progresso. Non però nel senso che la “realtà” sia senza concetto: il concetto che si trova quando la si comprende, risolvendola in possibilità, è anche nella realtà. Ma nella realtà vi è un di più, cioè il fatto che esso concetto è realtà. Il passaggio dalla possibilità alla realtà è un progresso (eccetto per quel che riguarda il male): quello dalla realtà alla possibilità un regresso. Ma questa sciagurata filosofia moderna ha fatto entrare la “realtà” nella logica; e poi, per distrazione, si dimentica che la “realtà” nella logica non è che «realtà pensata», cioè possibilità» (2156). Per Aristotele, com’è noto, l’atto è superiore (provteron) alla potenza (Metaph., IX, 8, 1049 b 5). 123 Ha contestato ora questa riflessione immanentistica, soprattutto da parte di Abbagnano, del concetto kierkegaardiano di «possibilità» anche M. Gigante nel saggio critico: Religiosità di Kierkegaard, Napoli 1972, pp. 159 ss.

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kierkegaardiani, riconosceva un Kierkegaard nascosto più valido del Kierkegaard apparente, anche se confessava – e in ciò riconosceva implicitamente il criterio deformante della sua interpretazione e con ciò indicava la vera radice di tutto il dilagare delle deformazioni kierkegaardiane – ch’egli ha fatto una «lettura di Kierkegaard in base a prospettive filosofiche che sono diverse da quelle di Kierkegaard in quanto sono derivate da Husserl» (Relazioni e significati. II. Kierkegaard e Thomas Mann, Milano 1965, p. 235. Già nel 1953 il Paci aveva individuato il valore positivo che hanno in Kierkegaard il momento della libertà e il suo rapporto al cristianesimo: L’esistenzialismo, Torino 1953, pp. 97 ss.). Nello stesso anno poi, scambiando Johannes de Silentio, lo pseudonimo di Timore e tremore, per Kierkegaard stesso, concludeva nientemeno che «la fede gli [= a Kierkegaard!] è totalmente estranea anche se la descrive» (Kierkegaard e la dialettica della fede, nel volume Kierkegaard e Nietzsche, Milano-Roma 1953, p. 42). Sembra che l’esistenzialismo italiano non sia andato più in là, cioè non oltre il tentativo fenomenologico succube della piega mondana e atea impressa all’analisi dell’esistenza da parte dell’esistenzialismo tedesco (Jaspers, Heidegger) e francese (Sartre, Camus. Il limite fenomenologico di riferimenti kierkegaardiani è documentato anche nel saggio di R. Cantoni, La coscienza inquieta, Milano 1948). Il baratro della mistificazione kierkegaardiana in Italia sembra appartenere però allo spiritualismo cristiano di M.F. Sciacca, per il fatto che, chiuso nell’ontologismo immanentistico, la sua critica rivela una trascuratezza pressocché sprezzante della comprensione del testo di Kierkegaard. Essa è evidente fin dalla sua traduzione del Concetto dell’angoscia (Milano 1941) sulla quale avanzai subito le più gravi riserve sia sui criteri seguiti come sul tipo inaccettabile di traduzione124. Il testo, confrontato sull’edizione originale, risulta abbreviato di una metà all’incirca con la soppressione totale delle note che in quest’opera sono spesso ampie e importanti. Sono omesse anche tutte le parti polemiche contro Hegel da cui l’opera trae il suo stimolo. Va rilevato anche un grave svarione, proprio nell’«Introduzione», dove si legge: «Ma quel che diviene...», mentre l’originale ha: «Men det Blivende...» che significa esattamente l’opposto cioè: «Ma quel che rimane...»! E il contesto non lascia dubbi, infatti il testo continua: «det, hvoraf Synden bestanding vorder» (S.V., IV, 326) cioè: «quell’elemento permanente dal quale nasce [lett.: diviene] continuamente il peccato» (in questo I volume, a p. 323)125. E il preciso e ovvio significato è chiarito del resto dal periodo che apre il capoverso: Cfr. C. FABRO, Introduzione all’esistenzialismo, Milano 1943, p. 187. Anche la nuova trad. tedesca di E. Hirsch: «Jedoch das Bleidende, das, daraus die Sünde fort und fort wird» (S. Kierkegaard, Ges. Werke, XI-XII, Düsseldorf 1958, p. 19). Eppure già la trad. francese di K. Ferlov e J.J. Gateau (Paris 1935), da cui probabilmente deriva la versione Sciacca, era chiara: «Mais cet element stable d’où naît constamment le peché» (p. 33). 124 125

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«L’oggetto della psicologia dev’essere qualcosa di quiescente che permane mediante una quiete di movimento, non qualcosa di instabile che continuamente o produce se stesso o viene soppresso» (ibid.). Non sorprende allora la mistificazione di Kierkegaard che Sciacca ha portato a termine nel volume La filosofia oggi (Milano 1963) la quale supera, per il disprezzo dei principi e la manipolazione dei testi126, le stesse deformazioni che ha riservato a Kierkegaard la storiografia marxistica127. Il giudizio più benevolo sull’accanimento antikierkegaardiano di Sciacca è di supporre ch’egli non abbia letto né la comunicazione indiretta delle opere né (e tanto meno!) la comunicazione diretta dei Discorsi edificanti e del grande Diario di Kierkegaard. Sembra ch’egli si sia fermato alla modesta distillazione della Kierkegaard-Renaissance tedesca ch’è il Kierkegaard di F. Lombardi del 1936, recensito puntualmente da Sciacca nella rivista «Logos» dell’Aliotta nel 1937 (rist. nel volume Il pensiero moderno, Brescia 1949, pp. 139-44), dove non manca qualche riconoscimento positivo (il principio d’interiorità, la critica all’idealismo). È strano poi l’accanimento attuale dell’agostiniano Sciacca, quando nel Diario lo stesso Kierkegaard considera Agostino come lo scrittore cristiano che gli è più congeniale e si richiama proprio ad Agostino per difendere contro Lutero la libertà e per fondare la dottrina della fede sul principio dell’autorità (Diario, cfr. nrr. 2554, 3046, 3262...). Strano questo rifiuto di Sciacca – che nella Filosofia oggi è aperta mistificazione – quando la stessa cultura laica riconosce a Kierkegaard di aver posto l’alternativa decisiva della coscienza contemporanea: «Alla base della crisi novecentesca l’esistenzialismo pone la rottura del rapporto vitale tra l’essere e l’esistere: cioè tra la verità e l’apparenza, tra la trascendenza e l’immanenza, tra l’uomo e Dio... L’uomo perciò è costretto a vivere in una selva di valore indefiniti, ambigui, privo di armi per distinguere il bene dal male, il giusto dell’ingiusto. È una situazione disperata, da cui non è possibile uscire coi soli mezzi razionali: di qui le due antitetiche soluzioni dell’esistenzialismo: o la fede religiosa di Kierkegaard o la disperazione di Heidegger e di Sartre. E di qui, ancora, le due diverse facce di questa filosofia: la cristiana e l’atea»128. Pro126 Questo tradimento spirituale prima che filosofico di uno dei massimi scrittori spirituali dell’Ottocento, domina anche la sezione dedicata a Kierkegaard da P.P. Ottonello, nella Grande antologia filosofica, diretta da Sciacca (Milano 1971, t. XVIII, pp. 1169-204), sulla quale conto di riferire con maggior respiro in altra sede, assieme alla posizione del suo maestro. 127 Cfr. l’esposizione della Geschichte der Philosophie, a cura della Accademia delle Scienze dell’URSS, tr. ted., Berlin 1961, Bd. III, pp. 501 s.: la perla di questa critica, raccolta e diffusa poi anche da Sciacca, è l’accusa di «soggettivismo borghese!». La Geschichte... sovietica era stata preceduta dall’articolo di D.J. ZASLAVSKIJ, Oratoria greve e sacre schiocchezze, tr. danese in «Perspektiv», IV, Copenaghen 1956, pp. 16-27. 128 L. ROGNONI-E. PACI, L’espressionismo – L’esistenzialismo, «Prefazione», Torino 1953, pp. 6 s. Più avanti lo stesso Paci afferma: «In verità Kierkegaard stesso, nelle sue opere meno conosciute, ci lascia indovinare che in fondo la disperazione e l’angoscia sono soltanto dimensioni

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prio come i primi apologeti e i grandi alessandrini: (Clemente negli Stromata, Origene nel Contra Celsum) di fronte al paganesimo, Atanasio e Agostino di fronte alle eresie trinitarie e cristologiche, Campanella di fronte alle deviazioni della Riforma (Atheismus Triumphatus), Pascal di fronte ai philosophes libertins e al razionalismo cartesiano (Pensées), Newman di fronte alla frantumazione delle chiese protestanti (Apologia pro vita sua)129. Kierkegaard aveva previsto e stigmatizzato con un testo di fuoco l’opera di calcolata mistificazione della sua opera, una mistificazione che ha superato però e continua a superare ogni limite di ragionevole sopportazione. E il testo valga come un invito di resipiscenza e di ammenda per troppi che ancora osano calpestare senza pudore l’aiuola fragrante dei suoi pensieri: L’esistenza più ingrata è e rimane quella di uno scrittore che scrive per scrittori. Gli scrittori si possono dividere in due classi: quelli che scrivono per i lettori e quelli che scrivono per gli scrittori. Questi ultimi il pubblico non li può capire, li tiene per pazzi e quasi li schernisce. Frattanto gli scrittori della seconda categoria saccheggiano i loro scritti, fan furore con quella merce saccheggiata e manomessa e di solito diventano i peggiori nemici degli scrittori della prima categoria; perché è di grande importanza per loro che nessuno riesca a sapere come veramente stanno le cose (1104)130.

Dopo un secolo di incertezze e tradimenti, la nuova Kierkegaard-Renaissance danese ha finalmente imbroccato la via giusta. È forse questo il più lieto auspicio nell’incombente catastrofe di tutti i valori, per un ritorno alla dignità e al senso autentico dell’uomo. Queste indicazioni, una miniguida, sono, per usare un’espressione dello stesso Kierkegaard, soltanto un «cenno» (Vink) e non pretendono di offrire un’interpretazione in sé definitiva e compiuta: il senso ultimo di ogni interpretazione dipende dall’immedesimarsi del lettore con l’idea.

negative dell’esistenza umana e che la vera vita dell’uomo è la serenità conquistata per mezzo della fede» (p. 90). E più esplicitamente: «La libertà è dunque per Kierkegaard l’unico vero bene dell’esistenza: anche se l’uomo non ha la forza di volere il bene deve riconoscere che è libero di volerlo e che perciò è responsabile del male. Soltanto la libertà fonda la vera responsabilità... Kierkegaard descrive vari piani e varie possibilità dell’esistenza umana, ne denuncia l’ambiguità, ma ci indica nello stesso tempo la via della liberazione. Per lui questa liberazione non poteva essere che la fede. Ciò che può liberarci è soltanto la fede e la volontà della salvezza» (p. 98). 129 Posso ricordare che fu lo stesso Sciacca a chiedermi un’Antologia kierkegaardiana per la sua collana di testi dei «Classici della filosofia» (SEI, Torino 1952). 130 Un testo di poco precedente colpisce direttamente i recensori, ma si attaglia anche agli interpreti mistificanti: «Quando il contadino viene al mercato con le sue mercanzie ben pulite e acconciate, com’è orrendo vedere che i primi ad accorrere non sono i compratori che tratterebbero i generi con ogni riguardo, ma dei lazzaroni che strappano e sciupano ogni cosa. Così succede anche tra scrittori e lettori: i primi che si buttano addosso ai libri sono mascalzoni di recensori» (1064).

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Per questo egli deve prima di tutto calarsi nel personaggio e nel vivo del suo drama personae, per poi impegnarsi all’arduo lavoro di percorrere almeno i suoi scritti principali (pseudonimi ed edificanti) con la guida e l’integrazione del grande Diario. Allora vedrà che anche per Kierkegaard, come per i poeti universali, l’enigma affascinante è l’uomo nel mondo che si pone di fronte alla vita e alla morte, come per i filosofi essenziali è la dialettica della ragione che deve dirimere fra l’essere e il nulla, come per i profeti escatologici è l’annuncio dell’attesa finale per la salvezza in Dio, come per gli apostoli è la comunicazione della certezza della redenzione nell’Uomo-Dio. Ma Kierkegaard ha anche mostrato che queste diverse vie dell’aspirazione infinita non divergono ma convergono nel rischio della «scelta» (Valg). Primo fra i profeti dell’Ottocento, egli ha previsto la graduale disintegrazione dell’idea di uomo in massa, folla, partiti... come processo inevitabile della perdita dell’elemento metafisico e sacrale in cui gli uomini si possono unire. Primo ancora fra i sociologi religiosi, Kierkegaard ha predetto il livellamento delle aspirazioni umane a opera della scienza e della tecnica le quali potranno sconfiggere, forse definitivamente, ogni aspirazione di verità e libertà per l’uomo del futuro.

Epilogo: destino e missione di Kierkegaard L’«arresto» è la prima cosa che incombe sulla cristianità. Come quando al sorgere del sole al mattino si dileguano tutti i fantasmi della notte e l’esercito delle streghe e tutta quella moltitudine fantastica: così gli ideali penetreranno della loro luce questa non meno fantastica chiacchiera di milioni e milioni di cristiani, codesto brulicame di cristiani che si urtano gli uni gli altri – e dove tutti siamo cristiani. Gli ideali li folgoreranno: ed ecco, tutto è scomparso e non c’è più un cristiano! (Diario 1853-55, XI2 A 294 = 3249).

Senza dubbio Kierkegaard è e resta un «Giano bifronte»: nel suo spirito convivono contrasti a tutti i livelli, come forse mai in nessuna coscienza di scrittore e di mistico. Di qui tutto il gioco complessivo della comunicazione diretta e indiretta, gli arabeschi affascinanti degli Pseudonimi, lo scintillio poetico e le subitanee commozioni dei Discorsi edificanti, i monologhi del Diario a tutti i livelli della coscienza: dall’avvertenza gioiosa o dolente dei

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piccoli casi quotidiani, alle riflessioni sui problemi supremi della vita e del pensiero e sulle crisi della vita politica e religiosa di un’Europa fremente di rivoluzione che non poteva lasciare indenne il «piccolo paese» di Danimarca. Per questo con Kierkegaard non bisogna mai puntare in una sola direzione: quella di esteta, di moralista, di speculativo o di religioso... e neppure di conservatore, e lo era certamente malgrado le apparenze contrarie, come neppure di progressista, e lo era al livello più alto dello spirito. Il termine più ovvio che viene in mente è che Kierkegaard era per costituzione – e lo divenne soprattutto per riflessione – uno spirito dialettico ossia una coscienza che sapeva muoversi soltanto mediante la tensione dei contrari. I suoi contrari sono però agli antipodi di quelli delle coppie della logica hegeliana: non sono astratti, ma concreti e soprattutto (cioè appunto per questo) essi non sono da superare ma da conservare, non sono anzi mai superati ma intensificano in un crescendo spasimante la propria tensione. Per questo i suoi scritti si leggono più facilmente e si comprendono meglio quando si tengano presenti i classici della letteratura edificante ai quali egli attingeva in continuità come rifugio e alimento del suo spirito131. E qui si avverte una situazione strana nella produzione kierkegaardiana, di cui si accorgerà in parte lo stesso lettore dei testi raccolti nel presente volume: cioè, mentre negli Pseudonimi la dialettica della fede procede con ampio respiro e non resta senza compiacenze di abilità stilistica e speculativa e mentre nei Discorsi edificanti l’elevazione della fede – specialmente nei momenti più felici (penso alle due serie di discorsi sui «gigli del campo e gli uccelli dell’aria» agli Atti dell’amore, al Vangelo delle sofferenze) – si snoda come un canto di liberazione gioiosa, il Diario è un mare continuamente agitato dove alle tempeste succedono le schiarite per subito sommuoversi e commuoversi in un dialogo con sé e con Dio che si pone e ripropone continuamente, senza mai chiudersi in formule fisse o irreversibili. È il Diario che attesta subito, fin dalla prima giovinezza, la prevalenza dei suoi interessi religiosi132 e il primo piano che occupano i problemi teologici: già i primi testi del 1834 girano tutti attorno ai problemi della fede, della grazia, del peccato e della predestinazione, dell’opera redentrice di Cristo e si può dire che tutto il Diario non è che un itinerario di tutte le potenze dell’anima per aprirsi a Dio e con Dio. Per questo non sarà raccomandato mai abbastanza la necessità di tuffarsi, anzi di isolarsi, nella sua lettura per 131 Vanno ricordati soprattutto il De imitatione Christi, la Theologia deutsch, Taulero, s. Alfonso de’ Liguori, G. Teersteegen, Jo. Arndt, G. Arnold... che figurano nella sua biblioteca e sono citati nel Diario (cfr. tr. it., t. II: «Indice dei nomi»). Fra i padri della Chiesa Kierkegaard sentì profondamente l’affinità con s. Agostino, ma negli ultimi anni, soprattutto con la guida di Fr. Böhringer, prese contatto anche con gli altri padri greci e latini (Die Kirche Christi und ihre Zeugen oder die Kirchegeschichte in Biographien, Zürich 1842 ss. Kierkegaard ne possedeva sette volumi. Cfr. S. Kierkegaards Bibliotek, nrr. 133-7). 132 Per questo lasciò scritto: «Se dopo la mia morte si volesse pubblicare il mio Diario, si potrebbe mettere questo titolo: “Libro del giudice”» (1779).

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riuscire a cogliere le istanze, i nessi, le risonanze dei tormenti del suo spirito... che sono il tessuto vivo e autentico di quanto egli espone con opulenza e arte consumata negli Pseudonimi e negli scritti edificanti. A questo riguardo si deve riconoscere che la Kierkegaard-Forschung forse è ancora appena agli inizi nello scavo di esplorazione. Intanto, quel che importa è di accorgersi almeno del problema: esso consiste nel dichiarare e riconoscere che gli scritti pseudonimi e la produzione edificante non procedono paralleli e neppure sono fatti per integrarsi direttamente, ma convergono e s’illuminano nel Diario – non solo perché questo li precede, li prepara e accompagna e infine riprende da solo il cammino nell’ultimo quinquennio fino alla morte, ma soprattutto perché in esso, come mai altrove, la vita si fa idea e l’idea diventa vita senza che l’una mai s’identifichi con l’altra: «Se fossi stato soltanto un poeta, sarei caduto nell’imbroglio di trasformare senz’altro il cristianesimo in poesia, senz’accorgermi che ciò non è permesso e che si deve impegnare se stessi a esprimere con la propria esistenza l’ideale (ciò che ora non è possibile), o la propria aspirazione. Se fossi stato un poeta, probabilmente ci sarei passato sopra e avrei scambiato me stesso per l’ideale e così sarei diventato un esaltato. Cos’è allora che mi ha aiutato, oltre il fatto (e ciò è l’essenziale) di essere stato aiutato dalla Provvidenza? La mia natura dialettica» (2123). E lo spiega di lì a poco, mentre è tutto impegnato con Anti-Climacus, mediante uno sguardo retrospettivo su tutta la sua attività letteraria ch’egli interpreta espressamente come sua «educazione personale nel cristianesimo». Il testo, col quale concludiamo quest’elementare introduzione, è un documento di eccezionale franchezza che offre in trasparenza la filigrana teologica della sua vita. Egli esordisce osservando che «nel Punto di vista della mia attività di scrittore ho spiegato che il mio compito è di servire la causa del cristianesimo, arrivare a una esposizione di cos’è il cristianesimo; ma che la Provvidenza (perché la situazione non s’invertisse così che fosse il cristianesimo ad aver bisogno di me invece di essere io ad avere bisogno del cristianesimo) nello stesso tempo mi ha aiutato a farmi capire ch’ero io ad avere bisogno del cristianesimo». Per lui si trattava di una cosa molto semplice: «Con tutto l’ossequio religioso e con rispetto assoluto verso il cristianesimo, io mi ero consacrato a chiarire cos’è il cristianesimo – spinto da un bisogno personale e nello stesso tempo capivo ch’era ciò di cui il tempo aveva bisogno». Bisogna allora riconoscere, checché abbia voluto dire Mynster con la frase del «filo torto dopo», che i primi diari dal 1834 al 1839 sono tutti su questa linea, ossia quella della ricerca del punto di Archimede dell’anima in balìa dei flutti della vita, dove l’unica posta in gioco è il cristianesimo. E questo fin da principio: «La cosa fin da principio era stata disposta secondo quella misura e col rischio che qualora risultasse ch’io non avessi potuto assumere il cristianesimo, avrei dovuto fronteggiare questa evenienza. Vale a dire: il cristianesimo non doveva essere accomodato al mio gusto, ma assolutamente e senza riguardi si doveva vedere cos’è in sé il cristianesimo».

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A questo punto egli passa a svelare l’elemento o momento più delicato del suo spirito, la disposizione più segreta della sua fierezza malinconica. Si chiede infatti: «Ma se poi il cristianesimo si fosse mostrato a me in modo ch’io stesso non avessi potuto accettarlo?». E risponde senz’esitazione nel modo più sorprendente: «Ebbene, allora forse (per rispetto verso il cristianesimo e nella persuasione di servirlo) l’avrei confessato pubblicamente, ma per il resto avrei continuato a occuparmi del cristianesimo e a tenermi in relazione con esso. La mia intenzione non era, se le cose fossero andate a quel modo, di lasciar cadere in dimenticanza quell’affare: no, il cristianesimo e il divenir cristiano è stato il compito della mia vita, perché con pietà profonda io capivo che anche la vita più lunga non era di troppo per quel compito»133. Ma egli aveva fatto la sua scelta in modo irrevocabile per il cristianesimo, fin dall’infanzia e dall’adolescenza, una scelta che le crisi giovanili avevano messo alla prova ma mai sconfessata: se non sbandierò ai quattro venti di essere cristiano, è stato «unicamente per una preoccupazione d’idealità» ch’è insieme un sentimento di pudore per non scoprirsi nell’amore di ciò che deve guarire la ferita più profonda e consolare dell’affanno più segreto. Per questo egli confessa di essere stato messo a scuola, a una scuola del tutto speciale, da parte della Provvidenza soprattutto dandogli «una situazione acconcia per avere un’impressione esatta del cristianesimo». È la scuola della sofferenza, cioè i tre momenti o tappe del calvario della sua vita: «1) Tutte le mie sofferenze interiori originarie; 2) Il mio rapporto a “Lei”; 3) Ciò che ho sofferto per la persecuzione della plebaglia e per l’ingratitudine umana» – cioè il pungolo nella carne, la rottura del fidanzamento, gli schemi del «Corsaro» e l’indifferenza che divenne tradimento del cristianesimo da parte di Mynster. E ora la conclusione del testo, logica e insieme sorprendente: «In verità, senza di questo, mi sarebbe francamente mancato il lato del cristianesimo. Realizzare un atto generoso per amore degli altri, vederlo ricompensare a quel modo, sperimentare di esser tacciato per egoista proprio perché ero disinteressato; vedere tutto questo egoismo, in cui in fondo risiede la forza vitale della società; dichiararmi egoista, proprio nel momento in cui ero assolutamente preso dalla simpatia: sì, era una cosa da far proprio impazzire. Per fortuna io ho avuto una buona concezione cristiana fin da bambino. Ciò mi fu d’aiuto. Ma in verità ho anche imparato il cristianesimo fin dal fondo»134.

133 Kierkegaard illustra questo suo atteggiamento fondamentale con la situazione dell’esame di teologia: «Io presi questa risoluzione per obbligo di pietà verso il mio povero padre. Ora sarebbe stato possibile che a un certo tempo, benché avessi studiato con impegno, io reputassi per ipocondria di non potermi ancora presentare all’esame – ma allora che sarebbe successo? Niente: io avrei continuato a studiare, per l’esame di teologia, anche se non avessi mai dato l’esame. Parola d’onore che non sarebbe successa che quest’unica cosa: avrei continuato a studiare per l’esame di teologia» (l. c.). 134 Diario 1849-50, X2 A 399; tr. it., nr. 2133, t. II, pp. 24 ss.

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Il nucleo teoretico della contestazione di Kierkegaard è già chiaramente proposto nella conclusione del Cap. V delle Briciole: esso consiste nell’enucleazione del carattere assolutamente originale che compete al cristianesimo sia rispetto alla mitologia ch’è opera di fantasia, sia rispetto alla filosofia ch’è opera di puro pensiero, sia rispetto alla storia ch’è opera di memoria. La tesi di Kierkegaard pertanto è che «il cristianesimo è l’unico fenomeno storico, il quale, malgrado la sua realtà storica, anzi precisamente grazie alla sua realtà storica, ha voluto essere per l’individuo il punto di partenza della sua certezza eterna, ha voluto interessarlo ben altrimenti che dal punto di vista puramente storico, ha voluto fondare la sua felicità eterna nel suo rapporto a qualcosa di storico»135. Qui si afferma nel modo più esplicito la differenza assoluta fra la posizione di Socrate e in generale di qualsiasi posizione a livello naturale della verità (mitologia, storica, filosofica...) e la posizione del cristianesimo. È ciò che Kierkegaard indica come un «andare al di là della posizione socratica». Qui non si fa distinzione fra Socrate e Hegel, poiché si tratta semplicemente della distinzione fra il piano della ragione naturale e della divina rivelazione. Kierkegaard infatti nella «Morale», che conclude le Briciole, determina con rigore gli elementi di questo nuovo ordine dentro il quale si pone e presenta all’uomo la verità che salva. Essi sono: «...un organo nuovo: la fede; e un nuovo presupposto: la coscienza del peccato; e una nuova decisione: il “momento”; e un nuovo maestro: Dio nel tempo»136. Come i padri della Chiesa hanno espresso la testimonianza della coscienza cristiana di fronte alla gnosi greca, così Kierkegaard esprime la testimonianza della coscienza cristiana di fronte alla gnosi moderna: la coscienza del peccato e il «momento» saranno oggetto di indagine propria nel Concetto dell’angoscia e più propriamente nella Malattia mortale; l’organo della fede e Dio nel tempo nella grande Postilla e soprattutto nei due saggi di Anti-Climacus. Il Diario, specialmente quello della maturità, non fa che richiamare questo nodo essenziale della sua opera che intende fare il punto sulla confusione radicale del pensiero moderno. Se tale è la prospettiva di quest’opera dai mille raggi e di un solo centro, il Cristo quale Uomo-Dio; se questo è il senso del suo enigma dalle mille domande e di una sola risposta, il salto della fede nella verità che salva – bisogna allora riconoscere che Kierkegaard è stato e rimane il testimonio e lo scrittore del paradosso essenziale: il più arcaico e il più stimolante, il più lontano e il più vicino all’uomo moderno. Inviso alle cricche della penna e della cultura della sua terra, egli continuerà a essere messo al bando dai miscredenti e attivisti arrabbiati delle nuove sociologie del benessere come anche dai flaccidi teologi, cattolici e protestanti, del cristianesimo dimissionario della

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Briciole di filosofia, Cap. V, § 2; S.V., IV, 301; in questo volume, a p. 741. Briciole di filosofia, l. c., S.V., IV, 302; in questo volume, a p. 743.

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INTRODUZIONE DI CORNELIO FABRO

secolarizzazione e della morte di Dio. La realtà è che Kierkegaard ha inferto al Moloch delle ideologie della finezza una ferita mortale. Artista sopraffino della penna, scrittore per scrittori e poeta per vocazione, Kierkegaard contesta la presunzione dell’estetica ch’è fine a se stessa ed evasione dall’impegno dell’uomo per l’Assoluto. Pensatore classico, adusato alla ricerca e allo scandaglio del profondo contro tutti i virtuosismi della dialettica, Kierkegaard contesta il tradimento e le rapine della filosofia moderna dell’immanenza ai danni della speranza cristiana di vincere la disperazione del peccato e il pungolo della morte. Cristiano saldamente ancorato al messaggio del Nuovo Testamento come al pozzo dell’acqua viva, al punto di Archimede, all’unica cura radicale... – Kierkegaard contesta alla cristianità stabilita le gherminelle delle sue false prospettive di benessere terreno che l’hanno riconciliata col mondo. Il destino di Kierkegaard come scrittore sembrava già segnato, per un oblio senza riscatto, dai suoi contemporanei invidiosi del suo genio e riottosi alle sue rampogne. Il suo messaggio cristiano è stato per lo più frainteso e mistificato, in questo primo secolo del suo affacciarsi alla ribalta della irrequieta coscienza europea. Ora questa greve nube di vapori si va dissipando e il richiamo del suo messaggio comincia la sua missione nel mondo. Oggi nella vita dello spirito, la sua voce esige di diventare sempre più presente in tanto brusio di bagattelle, nell’incombere minaccioso di catastrofi senza pari: la speranza ch’essa accende, in questo zenit di fuoco e di disperazione del nostro tempo, può diventare una certezza che l’uomo si può ancora salvare. La storiografia hegeliana e marxistica ha ormai chiarito e risolto i problemi fondamentali che Hegel e Marx hanno posto all’uomo moderno mettendo a fuoco la crisi decisiva prodotta dal loro pensiero. Invece la storiografia kierkegaardiana si è smarrita fin dall’inizio, il pensiero del più grande polemista dei nostri tempi attende ancora il riconoscimento del «punto critico» del suo messaggio. La prima parola in merito non può essere che quella da lui lasciata nei suoi scritti, nel giro arduo e trascinante della sua dialettica che ha precorso di un secolo l’incertezza dell’abisso e la speranza di salvezza in cui vacilla il nostro tempo. Quindi, tutta la mia attività letteraria gira attorno al «diventare cristiano nella cristianità» e l’espressione della parte che la Provvidenza ha avuto in quest’attività è che l’autore è lui stesso che viene educato a questo modo, però avendone la coscienza fin da principio»137. Io ero così profondamente dotato che capii fin da principio che per me sarebbe stato impossibile ottenere il medio tranquillo e sicuro in cui i più degli uomini conducono la loro vita: io dovevo o lanciarmi nella disperazione e nella 137 II punto di vista della mia attività di scrittore, c. 3: «La parte della Provvidenza nella mia attività di scrittore» (S.V., XIII, 616; ed. Malantschuk, p. 106).

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sensualità, oppure scegliere assolutamente la realtà religiosa come l’unica cosa – o il mondo secondo una misura che sarebbe stata tremenda, o il chiostro. Che quest’ultimo fosse ciò ch’io volevo e dovevo scegliere fu deciso fin da principio... Io ero già religiosamente nel chiostro, un pensiero ch’è nascosto nello pseudonimo: Victor Eremita138. No, io mi attengo al cristianesimo il quale – appunto perché ci fa veramente soffrire (mentre gli altri in fondo si sottraggono alla sofferenza e si limitano a far sfoggio di parole, ciò che può benissimo arrecare godimento) – dice le cose come sono: è soffrire – ma è insieme una beatitudine! Qui non si tratta soltanto delle sofferenze per il bene, ma di quelle sofferenze necessarie perché un uomo possa essere strumento di Dio. Questa allora è la beatitudine: mentre la sofferenza duole, il sofferente osa sapere con Dio che ciò è necessario perché Dio possa servirsi meglio di lui. Questa allora è la beatitudine che, mentre il mondo dei fenomeni testimonia contro di lui con insuccessi, avversità e opposizioni, il sofferente osa sapere con Dio che ciò dipende dal fatto ch’egli si rapporta a lui139.

138 II punto di vista della mia attività di scrittore, I Sez. B (S.V., XIII, 561; ed. Malantschuk, pp. 61 s.). 139 Diario 1852, X4 A 488; tr. it., nr. 2658, t. II, p. 292.

NOTA EDITORIALE Gli scritti kierkegaardiani che formano questo volume erano già stati tradotti dal curatore direttamente dall’originale danese nel seguente ordine cronologico: 1. Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, nella coll. «Classici di Filosofia», diretta da U. Spirito (Sansoni, Firenze 1953, pp. XXX-370). – 2. Briciole di filosofia e Postilla conclusiva non scientifica, nella coll. di «Filosofi moderni», diretta da L. Pareyson (Zanichelli, Bologna 1962, 2 voll., pp. 381 e 455). – 3. Vangelo delle sofferenze, nella coll. «In spirito e verità», II serie, n. 14, diretta da G. Morra (Esperienze, Fossano 1971, pp. 245). – 4. L’Esercizio del cristianesimo, nella coll. «Cultura», nr. XLI (Studium, Roma 1971, pp. 408). Sono stati tradotti per il presente volume i seguenti scritti di cui diamo in parentesi la collocazione nei Samlede Vaerker (II ed., Copenaghen 1920-36): 1. Da Aut-Aut: dalle «Carte di A» (Parte prima): a) Diapsalmata, Ad seipsum: S.V., I, 1-31. – b) II riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un tentativo di una aspirazione frammentaria, letto davanti ai Sumparanekrwvmenoi: S. V., I, 131-63. – 2. Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes de Silentio: S.V., III, 63-187. La nostra trad. è stata condotta sull’ed. critica di N. Thulstrup, Gyldendals Ugleböger, Copenaghen 1961. – 3. Per l’esame di se stesso, raccomandato ai contemporanei di S. Kierkegaard: S.V., XIII, 337-426. – 4. L’immutabilità di Dio. Un discorso di S. Kierkegaard: S.V., XIV, 287-306. Le indicazioni dei testi biblici, interne al testo, sono del traduttore.

Parte prima

IL CICLO ESTETICO-ETICO Victor Eremita e Johannes de Silentio

AUT-AUT TIMORE E TREMORE

Il momento estetico della produzione kierkegaardiana o «ciclo di Regina» abbraccia il primo gruppo di Pseudonimi del 1843 con il quale il vero autore voleva soddisfare il gusto dell’epoca, solleticando la brama dello «interessante»1. Essi, anche se si dicono «non cristiani», operano decisamente – come ha dichiarato espressamente Kierkegaard – in direzione della realtà religiosa e cristiana e iniziano con il grande esteta e moralista Victor Eremita di Aut-Aut del 1843 e continuano con gli esteti religiosi che sono Johannes de Silentio di Timore e tremore e Constantin Constantius di La ripresa – le due opere gemelle del rapporto al padre e a Regina – per concludersi con Hilarius Bogbinder degli Stadi sul cammino della vita del 1845. Un vero torrente di pensiero e di poesia. La nostra scelta inizia con il testo completo dei Diapsalmata di Aut-Aut, una serie scintillante di aforismi e riflessioni geniali e paradossali che annunziano in forma sparsa la tematica di dispersione e di approfondimento dell’esistenza a cui portava la sua malinconia. Segue – ancora dalla prima parte di Aut-Aut – il saggio Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno: un tentativo di un’aspirazione frammentaria, ch’è forse il pezzo più profondo dell’intera opera e certamente una delle analisi più geniali dell’intimo dissidio che pervade con ritmo opposto la tragedia greca (Agamennone, Antigone) e il tragico moderno (Amleto, Roberto il Diavolo, Högne...). È riportato invece per intero il capolavoro di questo primo ciclo ch’è Timore e tremore nel quale la vaga tematica moralista dell’assessore Guglielmo della seconda parte di Aut-Aut viene trasfigurata e superata mediante il salto della fede di Abramo, ch’è la confutazione patente della pretesa della filosofia hegeliana di assorbire la libertà del Singolo nelle regole etiche generali. Nella discussione del dramma di Abramo emergono ormai i momenti fondamentali della dialettica della fede che occuperà quasi esclusivamente l’attività di tutti gli Pseudonimi seguenti, non cristiani o cristiani che siano. La stesura di Frygt og Baeven (Timore e tremore) si continua idealmente con Jo. Climacus e AntiClimacus e dà effettivamente la chiave e il senso profondo della malinconia creativa di Kierkeegard nei suoi elementi fondamentali: la rassegnazione infinita alla perdita del finito, l’urto dell’assurdo (paradosso) e dello scandalo per 1 Cfr. a questo riguardo: W. REHM, Kierkegaard und der Verführer, München 1949, c. VI, «Die Kategorie des Interessanten», pp. 118 ss. Il celebre e noto Diario del seduttore, ch’è il saggio più piccante di siffatto interessante estetico, ha un posto e uno scopo del tutto marginali nella struttura di Aut-Aut: esso è stato scritto unicamente per «respingere» Regina, come afferma il Gran Rapporto del 1849 (2804, nr. 19).

il comando divino (l’oggetto della fede) e infine la seconda immediatezza (con l’atto della fede). Le sezioni in cui si divide l’opera sono abilmente calcolate per l’effetto finale: L’impressione, con cui il mirabile scritto inizia, è una breve perifrasi del testo biblico della «prova» di Abramo; L’elogio di Abramo costituisce la messa a punto del «problema» di Abramo, del significato sconvolgente che ha la sua prova per la ragione naturale. Ma è nei tre Problemata che il problema viene centrato, cioè quella che Kierkegaard chiama la dialettica dei «movimenti della fede» (del suo «movimento doppio») in opposizione alla dialettica hegeliana che voleva assoggettare la fede alla ragione. La tesi di Johannes de Silentio è invece che «la fede comincia appunto là dove il pensiero finisce» (p. 255). Kierkegaard nel Diario considera questo saggio fra le sue cose migliori: «Dopo la mia morte si vedrà che basterà Timore e tremore per rendere immortale un nome di scrittore. Sarà letto e anche tradotto all’estero, e s’inorridirà quasi per il tremendo «pathos» che contiene. Ma quando esso è stato scritto, quando colui che era creduto l’autore se ne andava sotto l’incognito del bighellone e aveva l’aria di petulante, di motteggiatore e leggero: nessuno potè capirne la profonda serietà. Oh, gli stolti! Eppure mai un libro fu così serio! Proprio questa era l’autentica espressione dell’orrore. Se l’autore avesse avuto un’aria seria, l’orrore sarebbe stato minore. La reduplicazione è il massimo dell’orrore» (1964). L’importanza sempre attuale della tesi del libro è nel confronto – con il quale si continua e conclude la problematica di Aut-Aut – di Abramo con l’eroe tragico della sfera estetico-etica (Agamennone, Jefte, Bruto): il cavaliere della rassegnazione infinita ch’è Abramo, il cavaliere e l’eroe della fede. È stato omesso, per tirannia di spazio, il saggio Gjentagelse (La ripresa) di Constante Constantius – lo scritto gemello di Timore e tremore – il quale guarda il futuro ossia la possibilità di riavere Regina su di un altro piano, certamente diverso, ma sempre nel tempo poiché la fede spera anche per questo mondo.

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