La sinfonia del cervello
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ELKHONON GOLDBERG

LA SINFONIA

DEL CERVELLO

Traduzione di Isabella C. Blum e Francesco Zago

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PONTE ALLE GRAZIE

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Titolo originale:

The Neiv Executive Brain. Pronta! Lobes in a Complex World

consulenza scientifica Dottor Armando Gavazzi

Questo libro rappresenta la nuova edizione - contenente tre capitoli completamente nuovi e l'integrazione, l'aggiornamento e la revisione degli altri - del precedente The Executive Brain. Pronta! Lobes and Civilized Man, pubblicato in Italia da UTET nel 2004 con il titolo Uanima del cervello

Comune di Roma

SIST. BIBL. C. CULTURALI

BIB.LIOTECA "S. ONOFRI"

INV. N° ..0.l..26)5f,............. .

Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore S.p.A. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

© 2009 by Elkhonon Goldberg © 2010 Adriano Salani Editore S.p.A. - Milano ISBN

978-88-6220-1.28-5

Al mio mentore e amico Aleksandr Lurija

Prefazione

Oggi viviamo in un mondo sempre più complesso e stupefacente, fatto di cambiamenti rapidissimi e problemi nuovi. Senza considerare l'annosa e ben nota questione del riscaidamento globale, la preoccupazione che assilla molti di noi riguarda le difficoltà dell'attuale crisi economi~a. Perché una catastrofe finanziaria dovrebbe avere una qualche rilevanza diretta per la ricerca neurologica? È interessante notare come perfino il presidente americano Obama abbia suggerito che potrebbero essere in gioco alcuni fattori psicologici - in particolare, avidità e imprudenza. Se da una parte i meccanismi cerebrali alla base di tratti umani così caratteristici sono sempre stati motivo d'interesse, dall'altra non c'è dubbio che mai come oggi sono al centro della nostra attenzione. Probabilmente noi:i ci sorprende il fatto che il libro di Elkhonon Goldberg non si proponga di risolvere la recessione globale, né tantomeno spiegare in che modo un certo atteggiamento mentale possa avervi contribuito. Piuttosto, il viaggio in cui l'autore vuole condurvi propone un punto di vista inedito su uno dei più grandi misteri irrisolti del cervello, un mistero che non affascinerà soltanto gli «addetti ai lavori», ma chiunque intenda comprendere la mente umana, soprattutto oggi. Nelle pagine che seguono scoprirete alcuni segreti dei lobi frontali. Queste ampie aree cerebr~i, che occupano quasi un terzo dello strato esterno del cervello umano - quasi il doppio rispetto al primate più vicino all'uomo, lo scimpanzé - costituiscono un vero e proprio enigma. Da molto tempo sappiamo che, in presenza di un danno cerebrale, il paziente sembra non subire conseguenze, almeno per quanto riguarda le funzioni motorie e sensoriali fondamentali: l'esempio più famoso di lesione al lobo frontale risale all'Ottocento, quando per un'esplosione ac7

LA SINFONIA DEL CERVELLO

cidentale una barra di ferro di oltre un metro di lunghezza attraversò le tempie di un operaio, Phineas Gage. Come divenne chiaro nei mesi successivi, il problema causato da tale lesione non era affatto ovvio: si trattava infatti di un sottile campiamento nella personalità per cui, ad esempio, il soggetto si dimostrava assai meno attento alle circostanze e alle conseguenze delle proprie azioni. Ma dal momento che la sindrome «ipofrontale» è, appunto, uno spettro complesso di comportamenti, per molti ricercatori i lobi frontali sono divenuti un modo con cui spiegare e una zona dove localizzare pressoché qualsiasi funzione complessa: qualunque cosa si chieda di fare a un paziente o al soggetto di un esperimento, immancabilmente i lobi frontali «si attivano», come mostrano gli studi di neuroimaging. Goldberg affronta in maniera articolata il tema del fascino esercitato dalle tecniche di neuroimaging e la fuorviante, quanto malriposta superficialità con cui quei dati vengono interpretati. Malgrado possa essere comodo pensare al cervello in termini modulari, ossia individuando un centro per ogni funzione sofisticata, un simile punto di vista è anacronistico quanto la vecchia frenologia ottocentesca; In questo libro scoprirete un approccio del tutto nuovo al problema dei lobi frontali. È utile innanzitutto notare come il cervello umano non solo abbia conosciuto una notevole espansione nel corso della sua evoluzione, ma anche come tale evoluzione si rifletta nello sviluppo individuale, dato che i lobi frontali non-raggiungono la piena maturazione prima dei vent'anni d'età. Se occupano una parte così importante del nostro cervello, ma al tempo stesso svolgono una funzione relativarriente irrilevante nella prima infanzia, a cosa servono? Elkhonon mostra come le aree cerebrali siano strettamente interconhesse fra loro, e quindi non debbano essere considerate come «mini-cervelli» indipendenti. In realtà, i lobi frontali sono maggiormente connessi a tutte le aree cerebrali di qualunque altra regione: ecco perché quest'area così complessa è al tempo stesso più sensibile e vulnerabile in una vasta gamma di disturbi cerebrali, dalle forme neurologiche a condizioni più sottili come laschizofrenia e il disturbo da deficit d'attenzione e iperattività (ADHD). Uno studio recente mostra perfino una correlazione fra lattività dei lobi frontali e l'indice di massa corporea! Sapendo che chi ha subito lesioni frontali è particolarmente avventato nei test per il gioco d'azzardo patologico, e che anche i soggetti obesi · mostrano scarsa cautela nelle medesime prove, rimane tuttavia difficile immaginare quale potrebbe essere l'elemento comune in grado di stabi8

PREFAZIONE

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lire un nesso fra schizofrenia infantile, gioco d'azzardo patologico e overeating. A mio avviso, si tratta di una grave compromissione dell'area frontale, che emerge quando viene meno il controllo sulla pressione sensoriale che il mondo esterno esercita sull'equilibrio fra esperienze passate e ricordi. · Tuttavia, anziché sostenere una teoria così peculiare come quella cui ho appena accennato, Elkhonon propone un testo ricco e autorevole che permetterà al lettore di sviluppare una propria opinione, intraprendendo un vero e proprio percorso intellettuale reso ancor più piacevole da aneddoti e racconti di vita personale e non semplicemente assimilando una serie di nozioni disparate. Spesso noi ricercatori veniamo visti come individui noiosi e solitari: perciò è davvero confortante assistere ai trionfi personali, alle discussioni, ai problemi e ai riconoscimenti che rendono vitale non solo l'impresa sçientifica, ma anche gli scienziati stessi. Torniamo al mondo solo apparentemente distante della politica e dell'economia: Elkhonon conclude tracciando un interessante parallelo fra lo sviluppo delle nazioni e l'evoluzione del cervello. L'autore mostra come i lobi prefrontali, a tutti gli effetti il culmine della creazione, siano tuttavia intrinsecamente deboli se non in relazione con molte altre aree cerebrali a cui sono connessi e a cui a loro volta offrono coesione. Il lettore potrà accettare o meno le stimolanti analogie con l'Unione Europea: se da una parte simili paragoni, per quanto validi, possono benissimo rimanere argomenti di conversazione a cena, dall'altra ritengo che il lavoro di Elkhonon contribuisca in modo profondo e diretto alla comprensione del mondo. L'autore ci permette di chiarire questioni fondamentali come la coscienza e la responsabilità individuali, aspetti che non ·dovrebbero interessare solo i neuroscienziati ma chiunque nutra la speranza di rendere il mondo del XXI secolo un mondo migliore.

Susan Green/t'eld Oxford, aprile 2009

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Introduzione

Il mio libro precedente, la sinfonia del cervello, ha vissuto due vite parallele in dodici lingue diverse: come libro destinato al pubblico interessato al cervello, e come libro di testo per studiosi, medici e neuroscienziati cognitivi. La sinfonia del cervello tiene conto di alcune mie riflessioni più recenti e delle ultime scoperte nel campo delle neuroscienze cognitive. Durante la stesura di questo libro ho cercato di mantenere un equilibrio fra rigore scientifico e divulgazione, in modo che potesse risultare interessante al lettore esperto e, al tempo stesso, sufficientemente accessibile e piacevole per il lettore generico. Spero che anche La sinfonia del cervello possa godere di due vite parallele. Attualmente la ricerca neurologica è uno dei campi scientifici più vitali e dagli sviluppi più rapidi. Negli ultimi otto anni ha registrato numerosissimi progressi; in queste pagine cercherò. di esporne alcuni. Inoltre, sono.stati pubblicati molti libri sul cervello rivolti al grande pubblico: il cervello, la ricerca neurologica, patologie neurologiche come l' ADHD e il morbo di Alzheimer, trattamenti fra cui varie forme di potenziamento cognitivo e terapie farmacologiche innovative sono diventati argomenti di grande richiamo. Oggi molti lettori preparati condividono il fantastico viaggio intrapreso dalle neuroscienze. Il messaggio che rivolgo loro è: buona lettura! Spero che il mio libro vi permetterà di seguire questo percorso. Il messaggio che rivolgo ai miei colleghi medici e scienziati è più sfumato, e preferisco svelarlo solo dopo la lettura del libro. Perciò, prima leggetelo. Mi auguro che lo troverete stimolante: non saltate all'Epilogo prima di aver letto tutto il resto. Alcuni capitoli hanno un taglio meno tecnico e sono di interesse più 11

LA SINFONIA DEL CERVELLO

generale; dovrebbero esser graditi al lettore non specialista, come a q9ello esperto. Altri, pur essendo un poco più tecnici, sono ciò nondimeno accessibili anche al lettore generito. Trattano ampi temi delle neuroscienze cognitive, interessanti sia per gli scienziati e i medici, sia per il lettore non specialista desideroso di capire il funzionamento del ~ervel­ lo e della mente. Il libro non è un tentativo di offrire una descrizione dei lobi frontali ampia e sistematica - da manuale. È invece un'esposizione molto personale sia della mia interpretazione di diversi temi fondamentali nel campo delle neuroscienze cognitive, sia del contesto autobiografico che mi ha portato a scriverne. E~plorerò quell'unica parte del cervello che fa di un individuo ciò che è, definisce la sua identità e ne racchiude pulsioni, ambizioni, personalità ed essenza: i lobi frontali. Quando sono danneggiate altre regioni del cervello, la patologia neurologica può dar luogo alla perdita del linguaggio,. della memoria, della percezione o del movimento. Di solito, però, l'~ssenza dell'individuo, il nucleo della sua personalità, rimane intatto. Tutto questo non vale più quando la malattia aggredisce' i lobi frontali. In questo caso, la perdita non è più costituita da un attributo della mente. Ciò che va perduto, qui, è la mente, il nucleo, il sé. Di tutte le strutture cerebrali, i lobi frontali sono quella più ,tipicamente umana, . e hanno un ruolo essenziale nel successo o nel fallimento di qualsiasi impresa. L' «errore di Cartesio» - prendendo a prestito l'elegante espressione di Damasio1 - consistette proprio nel credere che la mente avesse una vita sua, indipendente dal corpo. Oggi qualunque persona dotata di cultura non ctede più nel dualismo cartesiano fra corpo e mente; tuttavia, ci siamo liberati delle vestigia delle nostre antiche .concezioni erronee solo per gradi. Attualmente ben poche persone istruite - non importa quanto digiune di neurobiologia - dubitano del fatto che facoltà come il linguaggio, il movimento, la percezione e la memoria risiedano tutte, in un modo o nell'altro, nel cervello. D'altra parte, sono ancora in molti a considerare l'ambizione, l'impulso, la capacità di previsione, l'intuizione - ossia gli attributi che definiscono la personalità e l'essenza dell'individuo - come attributi che diremmo «extracranici», quasi si· trattasse di qualità degli abiti che indossiamo, e non della nostra biologia. Queste elusive qualità umane sono anch'esse controllate dal cervello, in modo particolare dai lobi frontali.· Sebbene sia al centro della ricerca delle neuroscienze, la corteccia prefrontale è ancora in larga misura sconosciuta ai non scien'ziati. 12

INTRODUZIONE

I lobi frontali svolgono le funzioni più avanzate e compiesse di tutto il cervello, le cosiddette funzioni esecutive. A loro sono legate l'intenzionalità, la determinazione e l'attività decisionale complessa, e raggiungono uno sviluppo significativo solo negli esseri umani; forse sono proprio loro a renderci umani. Tutta l'evoluzione umana è stata denominata «era dei lobi frontali». Il mio maestro Aleksandr Lurija ne parlava chiamandoli l' «organo della civiltà». Questo libro tratta delle numerose funzioni svolte dai lobi frontali nella cognitività. E parla di leadership. I lobi frontali sono per il cerveUo quello che il direttore è per l'orchestra, il generale per un esercito, il supremo dirigente per un'azienda. Coordinano e guidano le altre strutture neurali consentendone l'azione concertata. Nel cervello, i lobi frontali rappresentano il posto di comando. Esamineremo come il ruolo della leadership si sia ev~luto in diversi aspetti della società umana - e nel cervello. Si parla poi di motivazione, impulso e lungimiranza. Queste qualità, e la chiara visione dei propri obiettivi sono elementi fondamentali per conseguire il successo in qualsiasi attività. Scopriremo come tutti questi requisiti del successo siano controllati dai lobi frontali, e come perfino lesioni minime che interessino queste strutture producono apatia, inerzia e indifferenza. . Parleremo anche della consapevolezza di sé e degli altri. La capacità di realizzare i propri obiettivi dipende 'dall'abilità di valutare in modo critico tanto le proprie azioni quanfo quelle altrui, un'abilità che risiede nei lobi frontali. Una lesione frontale produce una debilitante cecità di giudizio. Questo libro parla di talento e successo. Noi riconosciamo facilmente talenti come quello letterario, musicale e sportivo. In una società complessa come la nostra, però, ecco emergete in primo piano un dono diverso, quello per la leadership. Di tutte le forme di talento, la capacità di comandare e di imporre ad altri esseri umani la propria guida è la più misteriosa e oscura. Nella storia dell'uomo, il talento per la leadership ha avuto un enorme impatto tanto sul successo personale di chi ne era dotato, quanto sui destini altrui. Qui metteremo in luce l'esistenza di un'intima relazione fra leadership e lobi frontali. Naturalmente è vero anche l'opposto - e cioè che una funzione frontale insufficiente si rivela particolarmente devastante per l'individuo. Pertanto, tratteremo anche del fallimento. Questo libro parla di creatività. Intelligenza e creatività sono inseparabili, ciò nondimeno non sono la stessa cosa; Tutti noi abbiamo cono13

LA SINFONIA DEL CERVELLO

sciuto persone brillanti, intelligenti, riflessive - e aride. La creatività esige la capacità di abbracciare il nuovo. Esamineremo il ruolo critico dei lobi frontali nell'affrontare la novità. Parleremo di uomini e donne - maschi e femmine. Solo ora i neuroscienziati stanno comincia~do a studiare ciò che la gente comune ha sempre dato per scontato, e cioè chç uomini e donne sono diversi: affrontano le cose diversamente, hanno stili cognitivi diversi. Esamineremo come queste differenz~ negli stili cognitivi riflettano le differenze di genere presenti nei lobi frontali. Parleremo della società e della storia. Tutti i sistemi complessi hanno degli aspetti in comune, e quando apprendiamo informazioni su uno di essi, impariamo qualcosa su tutti. Esamineremo le analogie esistenti fra l'evoluzione del cervello e lo' sviluppo di strutture sociali complesse, traendone insegnamenti sulla nostra società. E parleremo anche di maturità e di responsabilità sociali. I lobi frontali ci distinguono come esseri sociali. Il fattp che la maturazione biologica dei lobi frontali abbia luogo all'età in cui praticamente tutte le cui- , ture evolute hanno fissato l'inizio della vita adulta è qualcosa di più di una mera coincidenza. D'altra parte, uno scarso sviluppo dei lobi frontali, o una lesione che li abbia danneggiati, possono produrre un comportamento privo di vincoli sociali e di senso di responsabilità. Discuteremo come la disfunzione dei lobi frontali possa contribuire al comportamento criminale. Questo libro parla di sviluppo cognitivo e di apprendimento. I lobi frontali sono essenziali per la motivazione e lattenzione, e affinché qualsiasi processo di apprendimento vada a buon fine. Oggi siamo sempre più consapevoli di alcuni disturbi, insidiosi quanto eh,Isivi, che possono colpire sia i bambini che gli adulti: il disturbo da deficit di attenzione (Attention Deficit Disorder, ADD), il disturbo da ddicit di attenzione e iperattività (Attention Deficit I Hyperactivity Disorder, ADHD). 2 Descriveremo come essi siano causati da una leggera disfunzione dei lobi frontali e delle vie che connettono queste strutture ad altre parti del cervello. Questo libro parla dell'invecchiamento. Col passare degli anni, ci preoccupiamo sempre di più della nostra prontezza mentale. Mentre aumenta l'interesse generale per il declino cognitivo, tutti parlano di perdita della memoria, ignorando quella delle funzioni esecutive. Spiegheremo come i lobi frontali siano vulnerabili nel morbo di Alzheimer e in altre forme di demenza. I lobi frontali sono eccezionalmente fragili e sensibili alle patologie 14

INTRODUZIONE

neurologiche e psichiatriche. Studi recenti hanno dimostrato che al centro di disturbi devastanti come la schizofrenia e le conseguenze dei traumi cranici c'è là disfunzione frontale. I lobi frontali sono implicati anche nella sindrome di Tourette e nel disturbo ossessivo-compulsivo. Questo libro parla di come potenzfare le funzioni cognitive e proteggere la mente dal declino. Solo ora le neuroscienze stanno cominciando ad affrontàre questi temi. Passeremo in rassegna alcune delle idee e de· gli approcci più recenti in merito. Soprattutto, però, questo libro parla del cer;ello, lorgano misterioso che è parte di noi, che fa di noi ciò che siamo, che ci dona le nostre preziose facoltà e ci schiaccia sotto il peso dei nostri punti deboli: il microcosmo, l'ultima frontiera. Scrivendo queste pagine, non ho fatto alcun tentativo di essere obiettivamente esauriente e sistematico. Era invece mia intenzione presentare un punto di vista decisamente personale, originale e a tratti provocatorio su un certo numero di argomenti della neuropsicologia e delle neuroscienze cognitive. Sebbene abbiano già trovato spazio nelle riviste scientifiche, molti di tali concetti non sono necessariamente rappresentativi dell'opinione più diffusa fra gli studiosi impegnati in questò campo e rimangono invece posizioni mie personali, decisamente di parte e controverse. Infine, questo libro parla di persone: i miei pazienti, i miei amici e i miei maestri, che in vari modi e su entrambi i versanti della cortina di ferro hanno contribuito a dar forma ai miei interessi e alla mia carriera, mettendomi così in condizione di scriverlo. Lo dedico ad Aleksandr Romanovic Lurija, il grande neuropsicologo, che con la sua eredità ha plasmato e ispirato, più di chiunque altro, questo campo di studi. Come dissi di lui altrove, Lurijà è stato, in diverse occasioni, «il mio maestro, il mio mentore, il mio amico e il mio tiranno». 3 Il nostro rapporto è stato intimo e coniplesso. Nel capitolo 1 darò una descrizione molto personale di uno dei massimi psicologi del nostro tempo e del contesto straordinariamente difficile in cui operò. Un mio amico osservò sinteticamente e molto a proposito: «Il cervello è fantastico!» Oggi, in mezzo a tutte le mode -intellettuali, semi-intellettuali e pseudointellettuali - l'interesse della gente per il cervello regna supremo. Viene condiviso da un pubblico costituito da persone di larghe vedute, spinte da un'autentica curiosità per quella che è stata definita l' «ultima frontiera della scienza»; dai genitori, che desiderano il successo dei propri figli e temono la prospettiva del loro fallimento; e dagli insaziabili figli del baby boom, decisi a restare per sempre ben saldi ai posti 15

LA SINFONIA DEL èERVELLO

di comando, ma che si avvicinano all'età in cui un declino mentale invalidante diventa una probabilità statistica. Per soddi~fare questo interesse senza precedenti sono state scritte decine di libri di divulgazione: sulla memoria, il linguaggio, l'attenzione, l' e:mozione, gli emisferi cerebrali e gli argomenti correlati. Incredibilmente, però, questo genere di pubblicazioni ha completamente ignorato una parte del cervello: i lobi frontali. Questo libro 'è stato scritto per colmare questa lacuna. Il pubblico evoluto si sta liberando della beata illusione cartesiana di un corpo fragile compensato da una mente «per sempre». Ora che viviamo più a lungo, siamo più istruiti e ci facciamo str.ada col cervello più che con i muscoli, siamo sempre più interessati a conoscere la nostra mente e turbati al pensiero di perderla. Il preoccupato interesse della nostra società egocentrica nei confronti della malattia ha creato un complesso groviglio di fatti reali, nevrosi e sensi di colpa dai toni apocalittici. Mai troppo distante dal centro della nostra coscienza collettiva, questa preoccupazione di solito si concentra . su un'unica malattia che abbraccia tutte le nostre paure, assumendo così, come diceva Susan Sontag,4 il ruolo di una metafora. Dapprima è stato il cancro, poi la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Nel momento in cui la forza d'urto e la novità della metafora du jour si logorano e la familiarità genera un (magico) senso di sicurezza, ecco sorgere un nuovo centro di attenzione. Negli anni Novanta (dichiarati «decennio del cervello» dal National lnstitute· of Health) la demenza assunse giustamente questo ruolo. Poiché con l'età la demenza colpisce una percentuale significativa della popolazione, tale interesse è fondamentalmente razionaie ma, come la maggior parte delle mode; ha assunto sfumature nevrotiche. Come si con.viene a un movimento, anche la preoccupazione per la demenza ha acquisito la propria metafora - una metafora nella metafora, per così dire. Il suo nome è «memoria». Nella società dell'informazione, dominata dai figli del baby boom che ormai invecchiano, la possibilità di prevenire il declino e di potenziare il benessere nella sfera cognitiva suscita un sempre maggiore interesse. Proliferano le cliniche e gli integratori per il potenziamento della memoria. Le riviste sono piene di servizi sulla memoria. «Memoria» è diventato il nome in codice per riferirsi alla tendenza emergente della fitness mentale e alla preoccupazione di perdere le proprie facoltà intellettuali arrendendosi alla demenza. D'altra parte, la cognizione è costituita di molti elementi e la memoria non è che uno di essi, uno dei molti aspetti della mente essenziali per 16

INTRODUZIONE

la nostra esistenza. Il suo declino è solo uno dei molti modi in cui possiamo perdere la nostra mente - proprio come il morbo di Alzheimer non è che una delle numerose demenze tuttora incurabili e l'AIDS non è che una delle molte patologie infettive letali ancora da debellare. Sebbene di certo sia fragile, la memoria non è assolutamente l'unico aspetto rilevante della mente (e forse non è nemmeno il più vulnerabile) e la sua perdita non è affatto l'unico modo in cui se ne può perdere il possesso. Spesso, in mancanza di un termine migliore o più accurato, la gente parla del deterioramento della «memoria», quando ciò che la affligge, in realtà, è il declino di un aspetto del tutto diverso della cognizione. Come dimostrerò in questo libro, nessun'altra perdita, in ambito cognitivo, si avvicina a quella delle funzioni esecutive, per l'entità della devastazione che arreca alla mente e al sé~ Via via che apprendiamo nuove informazioni sulle malattie del cervello scopriamo che i lobi frontali sono particolarmente colpiti nelle demenze, nella schizofrenia, nei traumi cranici, nel disturbo da deficit di attenzione e in un'ampia gamma di altri disturbi. Nella demenza, le funzioni esecutive sono colpite spesso, e lo sono già a uno stadio precoce. Qualsiasi sforzo futuro per potenziare la longevità cognitiva - attraverso farmaci «cognotropi», esercizi cognitivi o qualsiasi altro sistema dovrà concentrarsi sulle funzioni esecutive dei lobi frontali. Questo libro passa in rassegna i metodi scientifici emergenti mirati a proteggere e potenziare la mente in generale, e le funzioni esecutive dei lobi frontali in particolare. Infine, tracceremo alcune analogie di ampio respiro fra lo sviluppo del cervello e quello di altri sistemi complessi, quali gli elaboratori digitali è la società. Tali analogie si basano sull'assunto che tutti i sistemi complessi abbiano in comune alcuni aspetti fondamentali, e che la comprensione di un sistema complesso contribuisca a quella degli altri. Io credo che le idee vengano comprese meglio se considerate nel contesto in cui nascono. Pertanto, insieme alla discussione sui vari temi delle neuroscienze cognitive, il lettore troverà alcuni brevi cenni ai miei maestri, ai miei amici, a me stesso, e ai tempi in cui viviamo.

E.G.

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1. Una fine, un principio e una dedica

Fatta eccezione per qualche banale motivo di scontento, noi viviamo in un mondo clemente, nel q~ale in genere il margine di errore è piuttosto generoso. Ho sempre sospettato che, perfino nelle alte sfere, le decisioni vengano prese attraverso un processo alquanto approssimato. D'altra parte, nella vita di un essere umano, come pure in quella di una società, ogni tanto si presentano situazioni che non consentono alcun margine di errore. Queste situazioni critiche mettono a durissima prova le capacità esecutive di chi deve decidere. All'età di 62 anni, considerando tutta la mia vita, riesco a vedere solo una di tali situazioni. Per me (che all'epoca dei fatti già studiavo le funzioni esecutive del cervello) quell'esperienza ebbe il duplice significato di una drammatica vicenda personale e di uno studio in chiave pratica sul funzionamento dei lobi frontali - nella fattispecie, i miei. In un pomeriggio di inizio primavera io e il mio mentore, Alek~andr Romanovic Lurija, eravamo immersi in una conversazione su un argomento che avevamo toccato già decine di altre volte. Eravamo usciti dal1'appartamento moscovita di Lurija e stavamo facendo quattro passi, percorrendo Frunze Ulitsa verso la Vecchia Arbat. 1 Camminavamo con prudenza, perché Lurija si era rotto una gamba e adesso era claudicante, il che aveva rallentato il suo passo, solitamente spedito. Mosca si stava sgelando dopo un inverno rigidissimo e la piazza andava riempiendosi di gente. Nel suo pesante soprabito di cachemire blu, lungo quasi fino ai piedi, con collo e cappello d'astrakan, Lurija aveva però un'aria così autorevole e professorale che la folla ci cedeva il passo. Era il 1972. Il Paese era soprawissuto ~gli anni sanguinosi di Stalin, alla guerra, a un secondo e altrettanto sanguinoso periodo staliniano, e 19

LA SINFONIA DEL CERVELLO

al disgelo abortito di Chruscev. Adesso i dissidenti non erano più mandati a morte, ma solo incarcerati. .A dominare l'umore della gente non era più un terrore da gelare il sangue; ma una ,deprimente, rassegnata e stagnante indifferenza, in _un clima privo di speranza - quasi che la società fosse sprofondata in una sorta di stato stuporoso. Il mio mentore aveva 70 anni, e io ne avevo 25. Mi stavo avvicinando alla fine dell'aspirantura, un dottorato che di solito sfociava in una posizione accademica. Stavamo parlando del mio futuro. Come in molte occasioni precedenti, Aleksandr Romanovic stava dicendo che era ora di iscrivermi al partito - il partito, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Essendone membro lui stesso, Lurija si offriva di presentare la mia candidatura e di procurarmi una seconda presentazione, da parte di Alexei Nikolaevic Leont' ev, anch'egli illustre psicologo e nostro preside di facoltà all'Università di Mosca, con il quale avevo un rapporto generalmente cordiale. In Unione Sovietica l'iscrizione al partito era il primo requisito per entrare nell'élite, un passaggio obbligato per realizzare qualsiasi seria aspirazione uno avesse nella vita. Era implicito che fosse una condizione sine qua non per qualsiasi avanzamento di carriera. Altrettanto chiara era la generosità dimostrata da Lurija e Leont'ev nel presentare la mia can-didatura per l'ammissione al partito. Io non solo erò di estrazione «borghese», ma ero un ebreo 'lettone, e la Lettonia era considerata una provincia indegna di fiducia. Mio padre aveva trascorso cinque anni in un gulag come «nemico del popolo». Non ero . esattamente un individuo conforme all'ideale sovietico. Garantendo per me, e inserendo «un altro ebreo» negli strati rarefatti dell'élite accadémica, Lurija e Leont' ev - le due figure più importanti della psicologia sovietica - correvano il rischio di irritare i responsabili del partito a livello accademico. Ciò nondimeno, erano disposti a farlo: questo implicava, da parte loro, il desiderio che io rimanessi all'Università di Mosca come giovane membro della facoltà. Entrambi mi avevano già protetto in varie situazioni, ed erano pronti a sostenermi ancora. Per l'ennesima volta, però, dissi a Aleksandr Romanovic che non avevo alcuna intenzione di iscrivermi al partito. In numerose occasioni, negli anni precedenti, ogni volta che Lurija tirava fuori quel discorso, io aggiravo l'argomento .buttando la cosa sullo scherzo - dicendo che ero troppo giovane, troppo immaturo, non ancora pronto. Io non volevo uno scontro aperto con Lurija, e lui non me lo impose. Quella volta,

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UNA FINE, UN PRINCIPIO E UNA DEDICA

però, mi parlò in tono risoluto. E quella volta gli dissi che non mi sarei iscritto al partito, perché non volevo farlo. Aleksandr Romanovic Lurija è stato forse il più importante psicologo sovietico del suo tempo. Nella sua poliedrica carriera, affrontò piònieristici studi transculturali e di psicologia dello sviluppo, principalmente in collaborazione con il suo mentore Lev Semenovic Vygotskij, uno dei massimi psicologi del XX secolo. Ad assicurargli un riconoscimento davvero internazionale, però, fu il suo contributo alla neuropsicologia. Universalm~nte considerato uno dei padri fondatori di questa disciplina, Lurija studiò i fondamenti neurali del linguaggio, della memoria e, com'è ovvio, delle funzioni esecutive. Nessuno dei suoi contemporanei contribuì più di lui alla comprensione della complessa relazione esistente fra cervello e cognizione, e per, questo era oggetto di una stima profonda su entrambe le sponde all'Atlantico. Nato nel 1902, figlio di un insigne medico ebreo, Lurija era passato attraverso il fermento culturale che aveva caratterizzato l'alba del XX secolo e aveva vissuto gli anni pericolosi della rivoluzione russa, la guerra civile, le purghe di Stalin, la seconda guerra mondiale, una successiva ondata di purghe staliniane, e poi, finalmentè, il relativo disgelo che seguì. Aveva visto lo Stato insozzare i nomi dei suoi più cari amici e mentori, Lev Vygotskij e Nicholai Bernstein, e cancellare il lavoro di tutta la loro vita, quasi che non fosse mai esistito. In varie occasioni era stato sul punto di essere rinchiuso nei gulag di Stalin ma, ~ome molti altri intellettuali sovietici, non venne mai incarcerato. La sua carriera fu una particolarissima fusione fra un'odissea intellettuale - che ricevette impulso da un autentico e spontaneo sviluppo della ricerca scientifica - e un corso di sopravvivenza in quel campo minato ideologico che era la RÙssia sovietica di allora. Quanto a me, originario della regione più occidentale dell'impero sovietico, e precisamente della città baltica di Riga; crebbi in un ambiente «europeo». A differenza di quanto era accaduto nelle famiglie dei miei amici moscoviti, la generazione dei miei genitori non era cresciuta sotto i Soviet. lo avevo una certa percezione della cultura e dell'identità «europea». Fra i miei professori dell'Università di Mosca, Lurija era uno dei pochissimi riconoscibilmente «europei», e questa fu una delle cose che mi attirarono di lui. Poliglotta, dotato di numerosi talenti, era un cittadino del mondo perfettamente a suo agio nella civiltà occidentale. Tuttavia, Lurija era anche un cittadino sovietico abituato a scendere a compromessi per sopravvivere. Sospettavo che nei più profondi reces21

LA SINFONIA DEL CERVELLO

Aleksandr Romanovic Lurija e la moglie Lana Pymenovna Lurija, quando entrambi avevano poco più di trent'anni (Per gentile concessione della dottoressa Lena Moskovic).

si del suo essere nascondesse una paur!l viscerale di subire una repressione fisica brutale. Avevo conosciuto altre personè come lui, e sembrava che quella paura latente fosse destinata a restare in loro per sempre, fino alla morte, anche quando le circostanze ormai erano cambiate e i loro timori non trovavano più alcun fondamento nella realtà. Quel terrore era il collante stesso,del regime sovietico - credo lo sia di qualsiasi regime repressivo - e lo rim,ase fino al suo collasso. Questo dualismo di libertà intellettuale (addirittura arroganza) da un lato e quotidiano com:promesso dall'altro era abbastanza comune nell' intelligencija sovietica.

UNA FINE, UN PRINCIPIO E UNA DEDICA

Io non condannavo l'appartenenza di Lurija al partito, ma neppure ritenevo di doverla rispettare, ed essa fu motivo di una persistente ambivalenza nel mio atteggiamento nei suoi confronti. In un certo senso, questa situazione me lo faceva compatire, ed era strano che uno studente nutrisse un sentimento del genere verso un mentore peraltro venerato. I miei rapporti con Aleksandr Romanovic e con sua moglie Lana Pymenovna, anche lei scienziata e oncologa famosa, erano pressoché familiari. Cordiali e generosi, essi avevano l'abitudine di coinvolgere gli assistenti nella propria vita familiare, invitandoli nel loro appartamento moscovita e nella dacia in campagna, e portandoli con sé alle mostre d'arte. 'Essendo il più giovane degli assistenti di Aleksandr Romanovic, ero spesso oggetto delle attenzioni quasi parentali dei coniugi Lurija, che andavano dal trovarmi un buon dentista fino al ricordarmi di pulirmi bene le scarpe. Come è normale nella vita, a volte arrivavamo ai ferri corti su piccole cose, ma eravamo molto uniti. Ora, non appena io dichiarai, così, chiaro e tondo, che non mi sarei iscritto al partito, Lurija si bloccò nel mezzo della strada. Con una nota di rassegnazione ma anche con un piglio di pragmatica determinazione, disse: «Allora, Kolya (il mio vecchio soprannome russo), non c'è nulla che io possa fare per te». E quello fo tutto: in circostanze diverse un tale scambio avrebbe potuto essere devastante, ma quel giorno io mi sentii sollevato. All'insaputa di Aleksandr Romanovic - e in effetti quasi di chiunque altro - avevo già deciso di lasciarè l'Unione Sovietica. Ponendo l'iscrizione al partito come condizione per continuare a proteggermi, Lurija mi liberava da qualsiasi obbligo sentissi verso di lui che potesse interferire con la mia decisione. Questo scambio rimosse le mie ultime esitazioni: adesso il problema non: era più il «se», ma il «come». La mia decisione di lasciare il Paese era maturata gradualmente, spinta da motivazioni di naura moltepice. Vivevo in un regime oppressivo. Ciò nondimeno, la mia carriera personale, fino a quel momento, non aveva subito impedimenti. Lo Stato praticava un antisemi.tismo implicito; si ~apeva, sebbene non fosse scritto da nessuna parte, che I~ università accettavano un numero limitato di ebrei- e tuttavia io studiavo nella migliore università del Paese. Sebbene si sapesse che in genere gli ebrei non erano i benvenuti nei livelli più alti della società sovietica, io non avevo mai sperimentato l'antisemitismo direttamente sulla mia persona. La maggior parte dei miei più cari amici era russa, e nell'ambiente sociale più vicino a me il problema dell'etnia, molto semplicemente, non si poneva. Ero circondato da ebrei di successo che appartenevano alla 23

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generazione dei miei genitori, e questo significava: che in Unione Sovietica, nonostante le tacite limitazioni, era possibile fare carriera. Le pratiche religiose erano negate e ostacolat~, ma io ero cresciuto in una famiglia laica, e la cosa non rappresentava quindi per me un motivo di preoccupazione. La maggior parte dei miei amici si rendeva conto che la società in cui vivevamo non era né libera né ricca. Nonostante tutto l'esibizionismo sovietico, a livello nazionale c'era un senso di inferiorità, unit~ alla percezione che il resto del mondo fosse più stimolante e ricco di opportunità. Noi eravamo tagliati fuori da quella realtà: la cortina di ferro era palpabile, e il mondo più vasto lanciava il suo richiamo. Essendo cresciuto nel clima occidentalizzato di Riga, io non avevo alcuna paura di quel mondo. In Unione Sovietica, l'indottrinamento politico cominciava praticamente dalla culla. La mia famiglia, però, era una piccola enclave di dissenso passivo, e già da piccolo io cominciai a ricevere un salutare antidoto contro la propaganda ufficiale. Mio padre fu spedito in un campo di lavoro quando io avevo un anno. A quei tempi circolava una barzelletta feroce, su due carcerati che chiacchierano in un gulag. «Quanto t'hanno dato?» «Vent'anni>>. «Che avevi fatto?» «Ho dato fuoco a un'azienda agricola del popolo. E tu?» «lo non ho fatto niente» .. . Mio padre fu condannato a dieci anni da scontare in un campo di lavoro della Siberia occidentale. Fu condannato nel contesto di quello che io chiamavo «sociocidio», ossia lo sterminio sistematico di interi gruppi sociali: l'intelligencija, le persone che avevano studiato all'estero, le ex classi abbienti. Bastava la semplice appartenenza a uno di questi gruppi per segnare un individuo destinandolo alla persecuzione. Mio padre fu mandato in un gulag; quanto a mia madre, nell'ingresso del nostro appartamento teneva due piccole valigie pronte: una per lei e una per me. Per le «spose dei nemici del popolo» esistevano campi di lavoro'appositi, e ai «figli dei nemici del popolo» erano riservati orfanotrofi speciali. In molti appartamenti sparsi in tutto il Paese c'erano valigie prontein attesa. Agenti in borghese, alla guida di automobili nere senza contrassegni (voronki, che in russo significa «piccolo corvo») suonavano il campanello senza preavviso nel bel mezzo della notte e concedevano alle loro vittime 15 minuti per prepararsi, prima di essere deportati per 5, 10, 20 ànni --'o magari per sempre. Bisognava tenersi pronti. Crebbi sapendo che mio padre viveva lontano, ma senza sapere esattamente dove si trovasse. L'indirizzo sulle sue lettere non era che una 24

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«casella postale», e io continuavo a domandarmi perché mio padre avesse deciso di vivere in una casella, lontano da noi. Nell'aprile del 1953, quando fu annunciata la morte di Stalin, in tutta la città venne trasmessa una musica triste agli altoparlanti. La gente piangeva nelle strade. Mia madre si precipitò nel nostro appartamento, trascinandosi dietro me, incapace di contenere la gioia e temendo di tradirsi in pubblico. Aveva sempre manifestato apertamente lt;! proprie posizioni politiche, fino arasentare l'avventatezza. A quell'epoca era pericoloso fidarsi anche dei propri figli, giacché lo Stato li incoraggiava a denunciare i propri genitori - e qualcuno lo fece davvero. Uno di essi, un ragazzino di nome Pav· lik Morozov, era diventato un eroe nazionale. Nell'arco di mesi, molti prigionieri rinchiusi nei gulag furono.liberati prima di aver scontato l'intera condanna, e mio padre fu fra questi. Ricordo mia madre abbandonarsi all'abbraccio di un estraneo, magro come uno scheletro, sul marciapiede della stazione ferroviaria di Riga. Io avevo sei anni, e nessun ricordo di mio padre. Solo allora scoprii che la «Casella» era un campo di lavoro, e appurai che cosa ciò significasse. Quella fu la prima volta in cui mi apparve chiara la vèra natura dello Stato in cui vivevamo. Molti anni dopo, mia madre ricordava come in quel1'occasione avessi avuto un accesso d'ièa, una crisi che l'aveva spaventata per la sua intensità, durante la quale gridai: «Allora è questa la vera Unione Sovietica... !» Ben presto la nostra vita si assestò sulla normalità. Mentre crescevo non mi feci alcuna illusione sullo Stato in cui vivevo e non sviluppai alcun attaccamento patriottico verso di esso. Anzi, ben lungi da tutto questo, con il tempo mi feci un'idea abbastanza.articolata del fatto che tutta .. la mia esistenza in Unione Sovietica fosse µn increscioso accidente dina- · scita. Ciò nondimeno, nella vita quotidiana mi seritivo a miò. agio e spesso ero felice: mi «integrai». Fui ammesso all'Università di Mosca~ giun- · si sul punto _di entrare alar parte dell'élite accademica. A poco a poco, ·tuttavia, crebbe in me la consapevolezza che in Unione Sovietica non ci fosse alcun futuro - proprio come non esisteva alcun futuro per l'Unione Sovietica. E ora eccomi lì, dritto in piedi nel mezzo della Vecchia Arbat,consapevole che anche l'ultima esitaziqne ormai era caduta. La mia decisione esistenziale attendeva adesso uno sbocco pratico. Il tentativo di lasciare il Paese richiedeva un piano elaborato, e non c'era. alcuna gara~zia di successo. Per espatriare dovevo essere più intelligertte dello Stato sovie-

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tico. Sapevo bene che i mesi a venire avrebbero messo a durissima prova i miei lobi frontali. Il «paradiso dei lavoratori» era progettato come una trappola per topi; in altre parole, era più facile entrarvi che uscirne. I cittadini sovietici non potevano lasciare il Paese a loro piacimento, nemmeno temporaneamente. Il permesso di espatrio come turista o in veste ufficiale già implicava uno status d'élite. Ai membri di una famiglia non era quasi mai permesso viaggiare tutti insieme; per prevenire la defezione, qualcuno era sempre trattenuto in ostaggio. L'emigrazione definitiva era ancora più difficile, Fino al principio degli anni Settanta si trattava di un'idea pressoché inaudita. Poi, come conseguenza della distensione e delle pressioni esercitate dal Congresso degli Stati Uniti, fu consentita una limitata emigrazione degli ebrei in Israele. Imponendo quelle limitazioni, le autorità speravano di riuscire a contenerne le potenziali conseguenze. In realtà, però, una volta espatriati gli ebrei erano liberi di andare dove volevano; molti, me compreso, scelsero gli Stati Uniti. Questo--produsse una situazione paradossale nella storia della Russia, in cui all'improvviso essere ebrei divenne un vantaggio; e io appartenevo a quella minoranza ritrovatasi tutt' a un tratto privilegiata. Più che rappresentare un fattore motivante, in quelle circostanze uniche il fatto di essere ebreo mi offrì un mezzo per tentare l'espatrio. Come spesso accade nella vita, in quel1'occasione il rapporto fra desiderio e opportunità fu, per certi v~rsi, circolare . . Esistevano comunque _molti ostacoli da superare. Lo Stato sovietico era brutalmente pragmatico. Tanto maggiore era il valore attribuito a un individuo, tanto più difficile era per lui ottenere il permesso di lasciare il Paese. Per i laureati presso le università d'élite le probabilità si avvicinavano a zero. Essendomi laureato all'Università di Mosca, una sorta di Harvard dell'Est, io rappresentavo una preziosa proprietà dello Stato: in genere, a quelli come me non era consentito di emigrare. L'analogia con il possesso di schiavi si spingeva oltre. Anche se in linea di principio l'autorizzazione veniva concessa, lo Stato riscuoteva un riscatto fissato in base al livello di istruzione. Nel mio caso, sarebbe stato esorbitante. Avevo già scritto e fatto rilegare la tesi di dottorato, e la discussione orale era programmata di lì a qualche mese. Era chiaro che non avrei potuto fare domanda per un visto d'uscita fintanto che ero all'Università di Mosca. Chiunque facesse una richiesta del genere diventava istantaneamente persona non gradita. In quelle circostanze, nessuno mi avrebbe

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.permesso di discutere la mia tesi: sarei stato immediatamente espulso dall'Università. Rimandare la domanda d'espatrio, inoltrandola solo dopo la dissertazione della tesi, sembrava una cosa logica. Tuttavia, mentre cominciavo a pianificare la fuga, mi resi conto molto chiaramente che un titolo di studio superiore avrebbe seriamente compromesso le mie possibilità di riuscita. Non senza riluttanza, stavo arrivando alla condusione che avrei dovuto in qualche modo sabotare la discussione della tesi. Come nel caso delle funzioni frontali, questo era un caso estremo di inibizione del bisogno di gratificazione immediata. Dovevo sacrificare qualcosa per la quale avevo lottato diversi anni, e che sarebbe stata mia, producendo risultati sicuri, nel giro di qualche mese. La gratificazione ritardata, d'altro canto, era la prospettiva di espatrio. Nella gerarchia degli obiettivi (stabilire la loro priorità è un'altra funzione dei lobi fronta~i), l'espatrio si collocava più in alto. La mia strategia non era scevra da rischi. Rinunciando al dottorato stavo semplicemente aumentando le mie probabilità di successo, ma non ne avevo assolutamente alcuna certezza. L'equazione per calcolare laumento delle probabilità con una certa precisione era troppo difficile. Quali che fossero, le probabilità che non mi fosse consentito di partire rimanevano comunque alte. In situazioni di questo tipo, alcuni restavano in un limbo che poteva anche durare una v#a. Re·spinta la richiesta di espatrio, costoro si vedevano· negare anche l'opportunità di rientrare a pieno titolo nella società sovietica. Licenziati dal posto di lavoro, diventavano dei reietti a vita, condannati a svolgere occupazioni meschine ai margini della società. Proprio per questo motivo, a quel punto, il dottorato non contava più. Se mi avessero negato il diritto di partire avrei passato la vita guidando un taxi, con o senza diplQma. C'era poi un'altra ragione per non discutere la tesi: proteggere i miei amici. Le autorità avrebbero ritenuto i miei professori responsabili di «mancanza di vigilanza politica», di aver allevato un futuro «traditore della patria». Per quanto bizzarre possano suonare queste espressioni, esse erano effettivamente usate nel linguaggio politico ufficiale dell'Unione Sovietica. Essendo il mio mentore, Aleksandr Rotnanovic ne sarebbe stat~ particolarmente danneggiato. Dovevo impedire che accadesse. A poco a poco nella mia mente prese forma un piano. In un modo o nell'altro, avrei evitato di discutere la mia tesi. Poi sarei scomparso dal27

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l'Università di Mosca nel modo più discreto possibile, e avrei lasciato M~sca. Sarei tornato nella mia città natale Riga e avrei trovato il lavòro più umile possibile. Poi, dopo diversi mesi, o forse un anno, avrei fatto domanda per il visto d'uscita. A quel punto gli eventi non sarebbero più dipesi da me. L'esatto tempismo della mia domanda sarebbe dovuto dipendere da fattori fuori dal mio controllo. La distensione si stava consolidando: Henry Kissinger entrava e usciva dal Paese; i giornali annunciavano una visita imminente del presidente Nixon. In quelle situazioni, l'Unione Sovietica tendeva ad assumere un volto liberale. Io ero determinato a scegliere con la massima cura il momento in cui presentare la mia domanda, in modo che coincidesse con questi eventi il più precisamente possibile. Mentre pensavo ai dettagli del mio piano, provavo una strana sensazione di depersonalizzazione, come se mi stessi addentrando nell'intreccio di un romanzo sulla vita di qualcun altro. Quella, però, sarebbe stata la mia storia, una storia che mi ero cercato io. Stavo cercando di coprire le mie tracce. Non che pensassi che al momento di decidere le autorità avrebbero ignorato il mio passato. Era impossibile coprire le proprie tracce in Unione Sovietica. Qualsiasi movimento uno facesse, doveva registrarsi presso la polizia locale. Un dossier riservato seguiva ogni cittadino sovietico in ogni suo spostamento. Io però contavo sull'indifferenza e sulla natura fondamentalmente ottusa della burocrazia sovietica. Ormai, negli anni Settanta, gli individui zelanti rimasti nel sistema erano pochissimi. Le procedure venivano eseguite come da regolamento. Il regolamento diceva che i laureati dell'Università di Mosca e di atenei sip-iili erano individui preziosi ai quali non si poteva concedere l'espatrio. Il regolamento diceva anche che gli spazzini, gli autisti e i commessi di drogheria erano tutta gente di cui si poteva fare a meno, e potevano esser lasciati andare in nome del rispetto, sia pur solamente &facciata, per la distensione. D'altra parte, quello stesso regolamento non diceva nulla a proposito di individui laureati presso l'Università di Mosca che avessero poi fatto carriera ~ome spazzini. Stavo scommettendo sul fatto che le autorità, con le loro procedure meccanicamente burocratiche, non si soffermassero troppo a riflettere sul mio dossier. Nei miei calcoli, poi, c'era un altro fattore. Con il mio comportamento stavo implidtamente comunicando alle autorità che non avevo paura di loro. Rinunciando volontariamente al prestigio e alle promesse dello status accademico e mettendomi a fare un lavoro meschino, in un certo sensci anticipavo la loro reazione. Mi stavo volontariamente autoinflig-

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gendo tutto ciò a cui esse stesse.avrebbero potuto condannarmi qualora avessi inoltrato la domanda per il visto mentre ero ancora all'Università di Mosca. Togliendo loro qualsiasi strumento di rappresaglia, le privavo anche del controllo che avevano su di me. L'unica possibilità rimasta loro era quella di incarcerarmi. D'altra parte, non essendo io un dissidente attivo, lo ritenevo poco probabile. Meno timore io dimostravo nei loro confronti, maggiore sarebbe stato lo sforzo necessario per intimidirmi e farmi recedere dal mio piano - e questo le autorità lo sapevano. Con la distensione nell'aria e il desiderio di sembrare «civili», probabilmente le autorità sarebbero giunte alla conclusione che, in fondo, non valesse la pena di trattenermi. Comunque, non avevo alcuna garanzia. Il mio primo impulso sarebbe stato di mettermi seduto accanto ad Aleksandr Romanovic e di rivelargli il mio piano. A distogliermi, tuttavia, c'erano due ragioni molto convin~enti. Sebbene stessi facendo il possibile per prendere le distanze da lui, minimizzando così ogni possibile ripercussione delle mie azioni sulla sua persona, non potevo essere certo della sua reazione. Quali che fossero le sue reali convinzioni, pubblicamente Lurija era sempre stato un cittadino sovietico leale - a volte entusiasticamente tale: Era solo una patina superficiale, che lui era stato bene attento a non incrinare? Credeva davvero in quel che diceva? lo sospettavo che, in un certo senso, la verità stesse nel mezzo, e che una costante, consapevole dissonanza fra ciò che si dice e ciò che si pensa sia troppo dolorosa da sopportare. Nei molti anni della mia stretta amicizia con Aleksandr Romanovic non riuscii mai ad avere una discussione politica sincera con lui. Ogni volta che cercavo di attirarlo allo scoperto, lui rispondeva con una perorazione, energica e quasi entusiasta, della «linea del partito». La volta in cui Lurija si spinse pili vicino a svelare il suo scontento, altrimenti profondamente sepolto, fu un occasionale, indiretto, borbottio: «Vremena slozhnye, durakov mnogo» («Questi sono tempi complicati, ci sono in giro molti imbecilli»). Quello che inizialmente era stato adottato come mimetismo protettivo, col tempo finì per diventare una forma di «autoipnosi». Per ironia della sorte, il termine «autoipnosi» mi fu suggerito nel 1990 - metà per scherzo, metà sul serio - niente di meno che dalla figlia di Lurija, Lena, durante una cena al Nirvana, un ristorante indiano. con vista su Centrai Park, a New York. Stavamo parlando dei suoi genitori, entrambi deceduti da molto tempo, e su altre persone della loro generazione. Proprio come me, Lena era affascinata dall'autoipnosi politica quale meccanismo di difesa psicologica sotto la tirannide. La moglie di 29

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Lurija, Lana Pymenovna, era molto meno incline a ricorrervi, e nel corso degli anni tra me e lei intercorsero.molte conversazioni sincere su argomenti proibiti. . Con queste premesse, non avevo i;ilcuna garanzia che Lurija non riferisse le mie intenzioni alle autorità universitarie. In effetti, secondo le norme che governavano il sistema, questo era proprio quanto ci si aspettava da lui: il fatto che un professore sovietico e uno stimato membro del partito ignorasse questa regola sarebbe stato percepito come una grave trasgressione. Una volta informata dei miei piani, l'università si sarebbe immediatamente liberata di me, quale potenziale fonte di imbarazzo. Mi sarei così ritrovato in una situazione impossibile ancor prima di inoltrare la richiesta del visto. Sarebbe stato particolarmente rischioso. Espulso dall'università come «politicamente irisano», mi sarebbe stato estremamente difficile trovare un lavoro - un lavoro di qualsiasi tipo .. Visti i parametri dello Stato ~ovietico - o anche quelli della trappola per topi - questo limb~ era un luogo molto pericoloso. Una legge scritta consentiva allo Stato di arrestare e di incarcerare i «parassiti», ossia le persone senza un impiego. Questa legge, raramente applicata, veniva invocata dalle autorità ogni qualvolta desideravano «pizzicare» qualcuno - in particolare gli individui «politicamente insani» che cercavano di lasciare il Paese. Per il buon esito del mio piano, e per l'anima del mio maestro, potevo solo sperare che egli non mi denunciasse, ma non avevo garanzie.. C'era poi un altro motivo, meno egocentrico, che mi spingeva a non confidarmi con Aleksandr Romanovic. Molto semplicemente, temevo che lo shock causato dal venire a conoscenza dei miei piani potesse - così, su due piedi - scatenargli un infarto. Lurija aveva già avuto un brutto attacco cardiaco, e la sua paura viscerale dello Stato avrebbe potuto portarlo a una reazione emotiva sproporzionata alla realtà della situazione. Comunque si considerasse la faccenda, per Aleksandr Romanovic era molto meglio non conoscere le mie intenzioni. Solo poche persone sapevano dei miei piani. Nonostante fossero di origini e convinzioni molto diverse, erano tutti amici fidati. Fu così che decisi di ricorrere a una bugia «a fin di bene». Cancellare la data già fissata per la dissertazione della tesi era inaudito. Così mi inventai una storia su un'emergenza dovuta a problemi di salute dei miei familiari e sulla conseguente improrogabile necessità di trovare con urgenza un lavoro. Il mio piano ufficiale era di tornare a Riga, trovare un lavoro, sostenere la mia famiglia finché la «crisi» non si fosse risolta, e 30

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poi tornare a Mosca per discutere la tesi .,.. con un poco di fortuna, in capo a sei mesi o un anno. Lurija rimase turbato dal mio racconto, ma alla finè di una conversazione che fu un autentico tour de farce la spuntai. Riuscii a sganciarmi dall'università senza svelare - e quindi senza compromettere - il mio piano. Arrivai a Riga e cominciai a cercare un lavoro. La cosa si rivelò difficilissima, giacché ero evidentemente troppo qualificato per gli impieghi per i quali mi offrivo. Finalmente, fui assunto come inserviente - il gradino più basso - presso un osped.ale nel centro della città. Fui assegnato all'unità di terapia intensiva del pronto soccorso. I pazienti - incidenti stradali, overdose, coltellate, stupri - mi offrirono l'occasione di considerare la mia città natale da una nuova prospettiva. I pazienti arrivavano in autoambulanza nel bel mezzodella notte. lo mi presentavo al lavoro alle sei di mattina, e per quell'ora alcuni di essi erano passati a miglior vita. Il mio primo compito della giornata era quello di contar17 e identificare i morti sui loro letti sudici. In media erano sei o sette per notte. Era mio compito anche portare i cadaveri ali'obitorio. Li trasportavo su una lettiga traballante, insieme a Maria, la mia «partner». Completamente sdentata e perennemente ubriaca, Maria aveva 40 anni, ma ne dimostrava 65. La sua padronanza di;:lle bestemmie disponibili in lingua russa era impressionante. A quei tempi, anch'io ero abbastanza scurrile, ma uscivo umiliato dal confronto con il virtuosismo di Maria. Ogni mattina, appena arrivava, controllava le autoclavi usate per sterilizzare gli strumenti chirurgici a caccia di etanolo: quella era la· sua colazione. Alle sette di mattina, quando ormai eravamo pronti a caricare i nostri . cadaveri sulla lettiga, era talmente ubriaca che riusciva a malapena a reggersi in piedi. Barcollava, incespicava e a volte cadeva. A quel punto mi ritrovavo bloccato con due cadaveri, uno vero, e l'altro virtuale. Le altre mie attività, al confronto, erano banali: portare bottiglie contenenti medicinali, pulire pavimenti, trasferire pazienti - i soliti compiti che gli inservienti svolgono negli ospedali di tutto il mondo. Fu un' esperienza surreale. Ma dopo mesi di estremo sforzo cognitivo (dev'essere stato allora che scoprii di che cosa si tratta) assodato alla necessità di prendere decisioni essenziali, ci fu un periodo di calma, uno iato, una parvenza di stabilità, per quanto fragile e bizzarra. Nei mesi che seguirono, fintanto che non inoltrai la domanda per il visto, non dovetti più prendere decisioni vitali. E quando finalmente inoltrai la domanda, non

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avrei potuto essere licenziato. Non da quel lavoro! Stavo facendo ripo. · sare i miei lobi frontali. A tempo debito feci domanda per ottenere il visto di espatrio, e qualche mese dopo fui convocato per ricevere la risposta. Era positiva. Ero libero di andare. La donna ignara che mi diede la notizfa aveva il mio dossier di fronte a sé. Gli diede un'occhiata ed esclamò incredula: «... E la lasciano andare con una formazione così!» Io mi limitai a stringermi nelle spalle. Non c'era alcuna indignazione nella sua voce, solo meraviglia. Non stava a lei decidere, e la cosa non la interessava. Nel sistema gli individui zelanti erano rimasti pochi. Per strada, mentre camminavo, provai ancora quel senso di spersonalizzazione, come se tutto ciò non stesse accadendo a me ma a qualcun altro, e io stessi osservando la vicenda dall'esterno. Volai a Mosca per gli addii. Come centinaia di altre volte prima di quella, sedemmo nello studio di Lurija, al grande scrittoio antico con le teste di leone d'ottone. Erano passati d~e anni dalla nostra passeggiata. lungo la Vecchia Arbat. Noi due, Aleksandr Romano;vic e io, parlammo per molte ore: sei, sette, forse di più. Lana Pymenovna serviva il tè e di tanto in tanto si univa a noi per un po'. Lurija non si era offeso per la mia bugia. Sembrò sollevato di essere stato lasciato foori dall'intera faccenda. Alfa fine disse: «lo non approvo ciò che stai facendo, ma ti rin- . grazio per come lo hai fatto». Era inteso che non avrd potuto contattarlo dall'estero, adesso ero persona non gradita. Quella sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Aleksandr Romanovic morì tre anni dopo. Giunsi negli Stati Uniti alla fine dell'estate del 1974, dopo un percorso tortuoso via Vienna e Roma, e ricominciai ~utto daccapo. La continuità intellettuale e di stile che lega: un allievo al suo maestro era stata sp~zzata, e io mi ritrovai nella mia nuova patria essenzialmente solo. Al principio questo rese le cose più difficili ma anche, a posteriori, più gratificanti. D'altra parte, la continuità fu preservata grazie alle influenze del mio maestro, numerose e resistenti, che an~ora oggi permeano la mia carriera in modo al tempo stesso chiaro e impercettibile. Sono passati esattamente 27 anni da quel difficile addio. Il mio interesse per i lobi frontali, di cui Aleksandr Romanovic ha gettato i semi, è rimast_o fra i temi più costantemente presenti nella mia carriera scientifica. Questo libto è scritto dunque in memoria di Aleksandr Rotnanovic Lurija, l'uomo che influenzò la mia vita in modo determinante e in memoria dei tempi difficili in cui, mentre la sua carriera termina~ va, la mia si accingeva a muovere i primi passi.

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2. Uno sguardo d'insieme ai lobi frontali: i vertici dell'organizzazione cerebrale

I molti volti della leadership Arrivano in limousine con i finestrini dai vetri affumicati; salgono ai pia-· ni alti degli uffici ·direzionali, servendosi di ascensori privati; i loro stipendi sono al di là dell'immaginazione dell'uomo della strada. Un'indagine informale indica che sono, in media, un po' più alti di tutti noi. Circondati da un'aura di potere e guardati con rispetto, sono i dirigenti ai vertici delle aziende americane, i CEO (Chief Executive Officers). In fondo alla strada dove - sospeso sul centro di Manhattan - sorge il quartier generale dell'azienda, un direttore d'orchestra dalla chioma scompigliata prova cori i suoi musicisti a Carnergie Hall. Qualche isolato più a sud, dalle parti di Broadway, un;· regista esasperato sta cercando di far capire agli àttori la sua interpretazione di un famoso testo teatrale. Direttore d'orchestra e regista sembrerebbero avere ben poco in comune con l'uomo ai vertici dellà gerarchia aziendale, e irivece tutti e tre questi personaggi eseguono una funzione simile. Agli occhi di un osservatore ingenuo, non è il CEO a fabbricare personalmente i beni prodotti dall'azienda, proprio come il direttore d'orchestra non esegue direttamente la . musica e il regista non recita. Essi tuttavia dirigono le azioni di quanti fa1Jbricano i prodotti, eseguono la musica, o recitano sul palcoscenico. Senza di loro non ci sarebbero prodotti, concerti né spe.ttacoli. Il ruolo del leader che spinge all'azione altri individui invece di agire in prima persona si è evoluto relativamente tardi nella società umana. La storia della musica primitiva non fa menzione di un direttore, né esiste accenno alcuno alla figura di un regista nel teatro dell'antica Grecia. Le prime guerre non erano che lo scontro fra due orde all'interno del quale ognuno combatteva la sua personale battaglia; prima che comparisse un

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generale passarono millenni. Ed è stato solo in tempi abbastanza recenti che il comandante ai vertici della gerarchia militare ha cessato di ispirare le truppe con il suo personale esempio di coraggio sulla linea del fronte, e ha cominciato a guidare la battaglla dalle retrovie. 1 La funzione della leadership si distingue e acquista uno status ben definito solo quando le dimensioni e la complessità dell'organizzazione (o dell'organismo) varcano una determinata soglia. Una volta che tale funzione si sia cristallizata in un ruolo specializzato, l'abilità della leadership sta nel mantenere un equilibrio, delicato e dinamico, fra l'autonomia delle parti dell'organismo e il controllo esercitato su di esse. Un leader lungimirante sa quando intervenire e imporre la propria volontà e quando farsi indietro lasciando che i suoi luogotenenti esprimano la propria iniziativa. Il ruolo del leader è elusivo ma essenziale. Se viene meno, anche per breve tempo, subentra il disastro. L'orchestra sprofonderà nella cacofonia, le decisioni aziendali si incepperanno, e un grande esercito vacillerà. In effetti, alcuni storici attribuiscono la sconfitta decisiva della Grande Armata di Napoleone a Waterloo alla leadership dell'imperatore, inde· ' bolita dall'esacerbarsi di una patologia cronica.2 · Il molo del leader è essenziale ma elusivo. Ricordo che da bambino mi chiedevo perché mai l'orchestra avesse bisogno di quel buffo ometto che si sbracciava sul podio, giacché egli non dava alcun contributo percepibile. alla musica che veniva creata davanti a me. E ricordo anche che un bambino di tre anni, figlio di un mio amico, descriveva il lavoro del padre dicendo che se ne stava «seduto in ufficio a far la punta alle matite» (il padre era a capo di un grande dipartimento in una prestigiosa università). Allo stesso modo, i primi testi di neurologia, che contenevano elaborate descrizioni delle funzioni delle altre parti del cervello, dedicavano ai lobi frontali a malapena una notira pie' di pagina.Timplicazione era che i lobi frontali si trovassero al loro posto principalmente a scopo ornamentale. Occorsero molti anni perché i neuroscienziati cominciassero appena ad apprezzare l'importanza di queste strutture ai fini della cognizione. D'altra parte, quando ciò finalmente accadde, emerse tin quadro di grande complessità ed eleganza che ora cominceremo a esaminare.

Il lobo esecutivo Il cervello umano è il sistema naturale più complesso esistente nell'universo conosciuto; la sua complessità compete con quella delle strutture 34

UNO SGUARDO D'INSIEME AI LOBI FRONTALI

sociali ed economiche più intricate, e probabilmente la supera. Gli anni Novanta furono dichiarati dai National Institutes of Health il decennio dèl cervello, il cui studio è la nuova frontiera della scienza. Proprio come la prima metà del XX secolo è stata l'era della fisica, e la seconda metà quella della biologia, l'alba del XXI secolo è l'era della scienza che si occupa di mente e cervello. Come una grande azienda, una grande orchestra o un grande esercito, anche il cervello ~onsiste di componenti distinte che servono a funzioni pure distinte. E proprio come queste grandi organizzazioni umane, anche il cervello ha il, suo dirigente esecutivo, il suo direttore d' orchestra, il suo generale: i lobi frontali. Per essere precisi, in realtà questo ruolo appartiene solo a una parte dei lobi frontali, precisamente alla corteccia prefrontale. Per brevità, comunque, di solito si parla di «lobi frontali». Come i ruoli di leadership ad alto livello che troviamo nella società umana, anche i lobi frontali comparvero tardi nel corso dell'evoluzione: il loro sviluppo cominciò ad accelerare solo nelle grandi scimmie antropomorfe. Come sede dell'intenzionalità e delle capacità di previsione e pianificazione, i lobi frontali sono la componente del nostro cervello più esclusivamente «umana». Nel 1928, il neurologo Tilney ipotizzò che l'intera evoluzione dell'uomo dovesse esser cortsiderata l' «età dei lobi frontali». 3 Come le funzioni di un alto dirigente, quelle dei lobi frontali sfuggono a una definizione concisa e al tempo stesso significativa. Queste . strutture non sono investite di un'unica funzione facile da etichettare. Un paziente affetto da una patologia frontale conserverà la capacità di muoversi nell'ambiente, di usare il linguaggio, di riconoscerç gli oggetti e anche di memorizzare informazioni. Ciò nondimeno, come un esercito privato del suo leader, con la perdita dei lobi frontali la cognizione si disintegra e infine collassa. Nella mia lingua madre, il russo, c'è un'espressione, «bez tsarya v golovye» che tradotta alla lettera suona come «una testa senza lo zar dentro». Questa espressione potrebbe essere stata coniata appositamente per descrivere gli effetti di un danno frontale sul comportamento. Come se l'analogia con gli zar non fosse sufficiente, i lobi frontali sono stati investiti anche di un'aura divina. Nel suo importante saggio neuropsicologico-culturale Il crollo della mente bicamerale e l'origine. della coscienza, Julian Jaynes avanza l'ipotesi che gli uomini primitivi scambiassero i comandi esecutivi prodotti internamente con voci di origine 35

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divina generat~ esternamente. 4 Ne discenderebbe che l'avvento della funzione cerebrale esecutiva a uno stadio precoce della civiltà umana potrebbe essere stato responsabile della nascita delle credenze religiose. Gli storici dell'arte h~nno notato un curioso dettaglio nella Creazione di Adamo, il grandioso affresco dipinto da Michelangelo sulla volta della cappella Sistina: il mantello di Dio ha la forma caratteristica del profilo di un cervello umano; i suoi piedi posano sul tronco encefalico, mentre la testa è incorniciata dal lobo frontale. Il dito indice di Dio, che punta verso Adamo, e lo rende umano, emerge dalla corteccia prefrontale. Come pa detto Julius Meier-Graefe, «C'è più genio nel dito indice di Dio, che chiama Adamo alla vita, che in tutta l'opera di qualsiasi predecessore di Michelangelo». 5 Nessuno sa se l'allegoria fosse stata cercata da Michelangelo, o se si tratti di una coincidenza: potrebbe benissimo esser valida la seconda ipotesi. D'altra parte, è difficile immaginare un simbolo più potente del profondo effetto umanizzante dei lobi frontali: essi sono davvero l' «organo della civiltà». Poiché i lobi frontali non sono legati a una singola funzione facilmente definibile, le prime teorie sull'organizzazione del cervello negarono loro qualsiasi ruolo importante ed essi furono anzi indicati come «lobi silenti». Nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, queste strutture sono state al centro di intense ricerche scientifiche. Ciò nondimeno, j nostri sforzi di comprendere le loro funzioni, e in particolare quelle della core teccia prefrontale, sono in larga misura tuttora in corso e, in assenza di concetti più precisi, spesso cadiamo nella metafora poetica. Il ruolo della corteccia prefrontale è fondamentale nella formazione di scopi e obiettivi e poi nell'ideazione dei piani d'azione necessari per raggiungerli. Essa seleziona le abilità cognitive necessarie per realizzare i piani, coordina quelle abilità, e le applica nel giusto ordine. Infine, la cortecda prefrontale è responsabile della valutazione delle nòstre azioni, classificandole come successi o fallimenti rispetto alle nostre intenzioni. La corteccia prefrontale svolge un ruolo cruciale nella formazione delle rappresentazioni astratte dell'ambiente così come dei comportamenti complessi, come hanno mostrato alcuni studi in cui veniva registrata l'attività extracellulare nelle scimmie. 6 ,7 La cognizione umana guarda avanti, prende attivamente l'iniziativa, piuttosto che limitarsi a reagire. È mossa da obiettivi, piani, aspirazioni, ambizioni e sogni - tutte cose che hanno a che fare con il futuro e non con il passato. Queste facoltà cognitive dipendono dai lobi frontali ed evolvono con essi. In senso lat~, ilobi frontali sono il meccanismo per li36

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berarsi del passato e proiettarsi nel futuro. Ilobi frontali conferiscono all'organismo labilità di crearsi dei model.li neurali delle cose, quale prerequisito per far sì che quelle cose accadano - modelli di ciò che non esiste ancora ma che noi vogliamo portare in essere. Per crearsi una rappresentazione interna del futuro, il cervello deve essere in grado di prendere alcuni elementi delle esperienze precedenti riconfigurandoli in un modo che, complessivamente, non corrisponde a nessuna reale esperienza passata. Per poterlo fare, I: organismo deve andare oltre la mera abilità di formarsi delle rappresentazioni interne, dei modelli, del mondo esterno. Esso deve acquisire anche la capacità di manipolare e trasformare tali modelli. Come ha detto un mio amico, un matematico di talento, l'organismo deve spingersi oltre l'abilità di vedere il mondo attraverso le rappresentazioni mentali; deve acquisire la capacità di servirsene, di lavorare con esse. Talvolta, per chiarire il ruolo peculiare della corteccia cerebrale prefrontale nel formare le rappresentazioni mentali, ricorro alla metafora della sirena. Non avete bisogno dei lobi frontali per produrre la rappresentazione mentale di un essere umano o di un pesce, poiché entrambe si basano su esperienze passate. Tuttavia dovete utilizzare la: corteccia prefrontale per ottenere la rappresentazione di una sirena, poiché è alquanto improbabile che ne abbiate mai incontrata una nel mondo reale. Si può dire che uno degli aspetti distintivi fondamentali della cognizione umana, ossia la fabbricazione sistematica di strùmenti, dipende proprio da quest~ abilità: uno strumento, infatti, non esiste pronto per l'uso nell'ambiente naturale e per essere fabbricato deve poter essere immaginato. Volendo spingersi oltre, possiamo considerare che lo sviluppo dei lobi frontali - la macchina neurale in grado di creare e di trattenere le immagini del futuro - sia un necessario prerequisito per la fabbricazione di strumenti, e pertanto per l'ascesa dell'uomo e l'emergere della civiltà umana nella forma in cui essa viene spesso definita. Inoltre, può darsi che anche il potere del linguaggio di creare nuovi costrutti - il suo potere generativo - dipenda da questa abilità. La capacità di manipolare e ricombinare rappresentazioni interne dipende essenzialmente dalla corteccia prefrontale, e la sua comparsa va di pari passo con l'evoluzione dei lobi frontali. La relazione fra lo sviluppo del linguaggio e la formazione dei lobi frontali nelle fasi più avanzate dell' evoluzione non viene citata spesso, ma la capacità generativa fornita dai lobi frontali, più del misterioso «istinto del linguaggio», 8 potrebbe aver reso possibili le strutture proposizionali più complesse. Questo punto è 37

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implicito in una revisione sulla neurobiologia del linguaggio condotta da Michael Ullman. 9 Il ruolo cent.rale svplto dalla corteccia prefrontale nell'utilizzo della capacità generativa s~mpre attiva riferita al linguaggio è stato chiarito in uno studio di neuroimaging funzionale (fMRI) condotto dal gruppo di neuroscienziati olandesi guidato da Peter Hagoort. 10 Quando soggetti sani sentono frasi che contengono affermazioni scorrette dal punto di vista semantico («i treni sono acidi») o reale (ad esempio, indicare in modo inesatto il colore dei treni olande:si), si attiva in particolare la corteccia prefrontale inferiore. Pertanto, lo sviluppo pressappoco contemporaneo delle funzioni esecutive e del linguaggio fu un evento altamente fortuito da un punto di vista adattivo. Il linguaggio fornì i mezzi per creare modelli; le funzioni esecutive offrirono quelli per manipolarli e condurre operazioni su di essi. Volendo convèrtire tutto questo in termini biologici, l'avvento dei lobi frontali era necessario per sfruttare la capacità generativa intrinseca nel linguaggio. Per chi è convinto che il principale fattore dell'evoluzione sia costituito da drastiche discontinuità, la confluenza fra sviluppo del linguaggio e funzioni esecutive potrebbe aver impresso la spinta decisiva che permise il salto quantico rappresentato dall'av\rento dell'uomo. Di tutti i processi mentali, la formazione di obiettivi è l'attività maggiormente centrata sull'attore. La formazione di obiettivi è un processo che ha a che fare con «io ho bisogno», e non con «questo è». Pertanto, la comparsa dell'abilità di formulare obiettivi dev'essere stata inesorabilmente legata a quella della rappresentazione mentale del «sé». Non dovrebbe sorprendere che l'emergere della consapevolezza di sé sia anch'esso intrinsecamente legato all'evoluzione dei lobi frontali. Tutte queste funzioni possono essere considerate metacognitive più che cognitive, poiché non si riferiscono a una particolare abilità mentale, ma forniscono invece una struttura organizzatrice che le abbraccia tutte. Per questa ragione alcuni autori si riferiscono alle funzioni dei lobi frontali chiamandole «funzioni esecutive», per analogia con il massimo dirigente di un'azienda. Secondo me, l'analogia con il direttore d' orchestra è ancor più rivelatrice. Ma per apprezzare appieno le funzioni e Je responsabilità del direttore, dobbiamo apprendere qualcosa di più sugli orchestrali.

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3. I:architettura del cervello: una breve introduzione

La prospettiva su scala microscopica Il cervello è costituito da centinaia di miliardi di cellule (neuroni e cellu. le gliali), connesse da un complesso intreccio di fibre (dendriti e assoni). Esistono diversi tipi di neuroni e cellule gliali. Delle fibre che connetto-· no i neuroni, alcune sono locali e si ramificano nelle loro immèdiate interpretati come una disfunzione dei lobi frontali o di strutture intimamente legate a essi. Non potrebbe darsi che i maschi siano più vulnerabili a qualsiasi disturbo colpisca in modo prevalente i lobi frontali? Questo potrebbe dipendere dal fatto che i lobi frontali femminili sono funzionalmente più simili e pertanto ciascuno di essi è in grado di sopperire alle funzioni dell'altro in caso di una disfunzione frontale lateralizzata. In effetti, indicazioni di una disfunzione cerebrale lateralizzata (e non completamente bilaterale) esistono per la schizofrenia,17 la sindrome di Tourette18 e forse anche nel disturbo da deficit di attenzione e iperattività. 19 Tutto questo significa che la corteccia femminile è in genere meno differenziata dal punto di vista funzionale rispetto a quella maschile? Questa domanda era stata tradizionalmente posta in senso stretto, ossia solo rispetto agli emisferi cerebrali, e allora la risposta doveva essere affermativa. Ma la ricerca recente indica che, per certi àspetti, la corteccia femminile è più differenziata dal punto di vista funzionale di quella maschile. Quando confrontammo gli effetti di lesioni posteriori (parietali e temporali) sulle strategie di selezione della risposta, anche le nostre ricerche diedero indicazioni in questo senso. 20 Nei maschi e nelle femmine, gli effetti di lesioni posteriori (parietali e temporali) sulle prestazioni nel CBT erano considerevolmente meno significativi di quelli delle lesioni frontali. Ci sarebbe da aspettarselo, se la presa di decisioni centrate sull'attore fosse primariamente sotto il controllo dei lobi frontali. Ciò nondimeno, anche gli effetti delle lesioni cerebrali posteriori presentavano un dimorfismo sessuale. Nei maschi gli effetti delle lesioni posteriori andavano nella stessa direzione di quelli delle lesioni frontali, sebbene fossero molto più deboli: le lesioni a sinistra rendevano il comportamento più contesto-indipendente, quelle a destra producevano l'effetto opposto. Nelle femmine, invece, gli effetti delle lesioni posteriori erano opposti a quelli delle lesioni frontali: esse riducevano (invece di aumentare) la dipendenza della prestazione dal contesto. Presi nel loro insieme, i dati relativi a maschi e femmine portano a una conclusione provocatoria. Questi risultati mettono in discussione la credenza consolidata secondo la quale in entrambi i sessi sarebbe presente lo stesso modello di differenziamento funzionale della corteccia,

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espresso però in modo più pronunciato nei maschi. I nostri dati indica~ no che la differenza fra i due sessi non è mer.amente nel grado, ma anche nel tipo: in altre parole, è presente una differenza qualitativa. La cortec-. eia femminile non è funzionalmente meno differenziata di quella maschile - né lo è dipiù. I due sessi enfatizzano aspetti diversi del differenziamento funzionale corticale. Nel cervello del maschio le differenze destra-sinistra sono meglio articolate di quanto non lo siano nel cervello della femmina. Nella femmina, però, sono meglio articolate le differenze lungo l'asse anteroposteriore. Questa conclusione è confermata da ricerche precedenti che hanno studiato gli effetti di lesioni cerebrali21 e hanno esaminato la distribuzione del flusso ematico cerebrale locale22 e l'attivazione alla risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI) in maschi e femmine. 23 Quando il compito consisteva nell'elaborare l'informa- . zione verbale, nei maschi veniva osservata la coattivazione delle regioni frontali e posteriori dello stesso emisfero, il sinistro. Nelle femmine, invece, la coattivazione era simmetrica («omologa»): in altre parole, era presente in entrambi gli emisferi. Quale potrebbe essere il meccanismo di questa diversa enfasi nell' organizzazione funzionale della corteccia del maschio e della femmina? Questa domanda potrebbe essere affrontata in modo ottim~le se invece del differenziamento funzionale prendessimo in considerazione l'integrazione funzionale. Il grado di integrazione funzionale contrapposto a quello di differenziamento fra le strutture cerebrali dipende dal grado di · interazione fra esse. Quanto maggiore è l'interazione fra due strutture cerebrali, tanto maggiore è anche la loro integrazione funzionale. Quanto più limitata è l'interazione fra queste strutture, tanto maggiore è il loro differenziamento funzionale. Tenendo presente questo ragionamento, consideriamo ciò che sappiamo sulle principali connessioni all'interno del cervello. Il corpo calloso è la struttura che, insieme alle commessure anteriore e posteriore, connette i due emisferi corticali. Certi aspetti del corpo calloso sono più sviluppati nelle femmine. 24 Nella misura in cui noi crediamo in una relazione più o meno diretta fra struttura e funzione (una proposizione allettante, sebbene precaria), questo può render conto della maggiore interazione (e quindi della maggiore integrazione) funzionale e del minore differenziamento riscontrabili fra gli emisferi corticali della femmina. Consideriamo poi le principali strutture di connessione fra le parti anteriori e posteriori dello stesso emisfero: i fascicoli longitudinali e altri 178

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lunghi fasci di materia bianca che connettono regioni corticali dist~nti all'interno di un emisfero. Studi recenti hanno dimostrato che queste strutture sono in qualche modo più sviluppate nei maschi rispetto alle femmine.25 Seguendo la logica adottata nelle precedenti analisi, ciò potrebbe spiegare la maggiore interazione funzionale (e quindi la maggiore integrazione funzionale e il minore differenziamento funzionale) esistenti fra le porzioni anteriori e posteriori di uno stesso emisfero nel maschio. Emerge così un quadro alquanto elegante ed equilibrato in cui, nei due sessi, viene posto un accento complementare su connessioni anatomiche diverse - il che potrebbe render conto di alcune delle fondamentali differenze cognitive fra maschi e femmine. In che modo, esattamente, queste due diverse configurazioni di connettività influenzano la cognizione? Quale delle due configurazioni è «migliore» per quale compito cognitivo? Qual è il valore adattivo, in termini evolutivi, derivante dal fatto di disporre, nella stessa specie, di queste due configurazioni complementari di organizzazioni neurali, rappresentate più o meno nelle stesse proporzioni (un interrogativo teleologico che continuo a pormi, correndo il rischio di incorrere nella collera dei seguaci di Stephen Jay Gould)? Queste sono tutte domande affascinanti e fondamentali. Cercando di dar loro una risposta si è tentati di approfittare del modo relativamente , semplice in cui le differenze di genere neuroanatomiche qui descritte si · prestano a essere formalizzate in un modello computazionale. Secondo me, il modo migliore per rispondere a questi interrogativi è attraverso la sperimentazione con modelli computazionali, forse reti neurali formali, confrontando, in un modello bicamerale, le proprietà emergenti delle connessioni potenziate entro gli strati e fra gli strati. Fra le molte sfide delle neuroscienze cognitive, quelle che ammettono modelli teorici naturali (contrapposti a quelli artificiali) sono particolarmente allettanti, poiché aiutano a estendere il campo della neuropsicologia oltre il dominio puramente empirico, verso quello delle discipline teoriche evolute. L' enigma delle differenze cognitive fra i sessi potrebbe essere una di queste sfide.

Ribelli in chiave minore: l'uso preferenziale di una mano e la ricerca della novità La ricerca della novità sembrerebbe l'attributo fondamentale della nostra specie inquieta, ma non è così. L'umano tende a essere conservato179

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re, .a gravitare intorno a ciò che è familiare. Durante le mie conferenze per i non addetti ai lavori mi diverre sempre constatare come la gente voglia sentirsi dire ciò che già sa, e q'on ciò che è davvero nuovo. Perfino i giornalisti, compresi quelli che a vblte mi intervistano sul tema del cervello per i loro servizi sulla stampa a grande diffusione, hanno la stessa inclinazione. Di fatto, si può dire che le scimmie tendono a essere attratte dalla novità molto di più degli esseri umani. In un esperimento condotto negli anni Cinquanta da Mortimer Mishkin e Karl Pribram, una scimmia doveva scegliere fra due oggetti, uno identico e l'altro diverso rispetto a un terzo oggetto mostratole in precedenza. 26 Dapprima la scimmia vedeva un oggetto. Poi ne vedeva un altro, identico o diverso dal primo. Furono. confrontate due condizioni: quando veniva rinforzato l'oggetto identico (familiare) e quando veniva rinforzato l'oggetto diverso (nuovo). Nel complesso, le scimmie imparavano a rispondere agli stimoli nuovi più velocemente che a quelli familiari, il che indica una loro maggior attrazione verso ciò che è nuovo rispetto a quanto è familiare. In una situazione analoga, gli esseri umani agiscono in modo molto diverso. Le preferenze mostrate dai nostri soggetti nel CBT (nel corso del quale chiedevamo loro di guardare l' òggetto «target» e poi di scegliere l'opzione che «preferivano» fra le dqe proposte) erano molto diverse da quelle delle scimmie. Quasi immancabilmente gli esseri umani sceglievano gli oggetti più simili al target, e non i più diversi. Questo valeva sia nel caso di soggetti sani destrimani, sia in quello dei pazienti cerebrolesi. Questa enfasi su ciò che è familiare è comprensibile giacché, più di qualsiasi altra specie, gli esseri umani, almeno gli adu:Iti, sono guidati da conoscenze precedentemente accumu:Iate. In altre parole, rispetto alle altre specie, negli esseri umani adu:Iti il rapporto fra la scoperta ex novo e il corpus di conoscenze accumu:Iate in precedenza è relativamente basso. Nessuna altra specie, infatti dispone di meccanismi di archiviazione e trasmissione della conoscenza collettiva, accumulati nel corso di molte generazioni, in strumenti culturali esterni (libri, film ecc.). Pertanto, la tendenza che ci spinge verso ciò che è familiare ha una funzione adattiva. In una scimmia, inv~ce, l'assimilazione della conoscenza precedentemente accumu:Iata è limitata all'imitazione del comportamento di altre scimmie. In linea di massima, quando un giovane animale intraprende un viaggio cognitivo, scopre il mondo con i propri mezzi. La predisposizione degli esseri umani nei confronti di ciò che è familiare può cambiare, poiché le nuove conoscenze si accumu:Iano a velo180

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cità esponenziale. Uno studioso di sociologia della scienza potrebbe un giorno ideare una formula per mettere in relazione la quantità di cono-. scenza acquisita nell'arco di una generazione con quella ereditata dalle generazioni precedenti. Il paradosso è che questo rapporto cambia in modo non monotono. Il rapporto è alto nei primati non umani e probabilmente lo fu negli stadi preistorici della civiltà umana; basso durante l'antichità e il medioevo, prese poi labbrivio nella storia più recente, assumendo modalità di crescita esponenziali in tempi moderni. Il primo picco di questo rapporto riflette un'assenza di strumenti culturali efficaci per l'archiviazione e la trasmissione dell'informazione. Il secondo picco, invece, riflette il potere di tali strumenti, che consente un accumulo sempre più rapido delle informazioni. Nelle società umane il basso rap-, porto fra conoscenza acquisita ed ereditata, riscontrato nelle culture tradizionali, è associato al culto degli anziani come depositari della saggezza accumulata. Nelle società moderne, invece, l'elevato valore di questo rapporto è associato al culto della gioventù come veicolo di scoperta e progresso. D'altra parte, una soci~tà non può prosperare fondandosi solo sulla tradizione. Affinché possa esservi progresso deve esistere un meccanismo che mantenga lequilibrio fra conservazione e innovazione. Una società eccessivamente conservatrice sarà stagnante. Una società troppo facilmente disposta a rinunciare a principi e concetti consolidati e a pre" cipitarsi verso idee nuove non ancora verificate sarà pericolosamente fragile e mancherà di stabilità. In ogni contesto sociale, questo delicato equilibrio viene mantenuto attraverso tacite convenzioni e regole esplicite che determinano quanto d~bba essere alta la barriera che una nuova idea deve superare per essere accettata. Società diverse fissano queste barriere a livelli diversi per situazioni diverse. Nella scienza, per esempio, quanto più una nuova idea è radicale, tanto più in alto si colloca la soglia di accettazione. Nella storia, una sempre maggiore velocità di accumulo della conoscenza è accompagnata da una crescente disponibilità, da parte della società, di rivedere assunti consolidati e diffusi. Ciò nondimeno, si può sostenere che perfino le società moderne diano valore alla conservazione e alla tradizione rispetto al cambiamento. Esiste dunque un meccanismo operante a livello biologico - forse genetico - che regola lequilibrio fra tendenze conservatrici e innovatrici nella popolazione umana? La semplice formulazione della domanda in questi termini ha già un suono provocatorio e alieno: Tuttavia le nostre 181

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ricerche non solo mi hanno indotto.a sospettare che tale.meccanismo effettivamente esista, ma mi ha anche suggerito qualè esso possa essere. In precedenza ho accennato al tatto che, nel nostro test del CBT, la stragrande maggioranza dei soggetti, purché destrimani, mostrava di preferire la similarità. Fra i mancini, d'altra parte, la distribuzione delle risposte era decisamente diversa e molti di essi presentavano una preferenza per l'opzione che differiva dal target invece di assomigliargli. 27 Questo valeva soprattutto per i mancini di sesso maschile. Nella misura in cui il nostro esperimento evocava la preferenza del familiare contrap. posto al nuovo, sembrava che i mancini, soprattutto i maschi, cercassero la novità. Da anni circolano voci folcloristiche sull'elevata prevalenza di mancini fra gli individui creativi. Le avevo sentite ripetere in diverse culture su entrambi i versanti dell'Atlantico e le avevo sempre liquidate considerandole del tutto gratuite - finché non mi trovai di fronte ai nostri risultati. Ora non posso fare a meno di ammettere l'affascinante possibilità che la diversità nella tendenza a usare una mano piuttosto che l'altra possa effettivamente essere associata a inclinazioni differenti nei confronti della routine e della novità. · L'uso preferenziale di una mano non è un'esclusiva umana. In molte specie di primati, sia antropomorfe che scimmie sensu strictu, per tutta la vita dell'animale una mano assume il ruolo dominante mentre l'altra è subordinata. 28 Questo vale anche per i roditori. Inoltre, esiste una relazione fra la lateralizzazione della concentrazione di dopamina ippocampale e le scelte lateralizzate nei ratti in labirinti a T. 29 La differenza fra noi e loro è che nei primati non umani non emerge alcuna preferenza costante all'interno della popolazione e l'uso preferenziale dell'una o del1' altra mano è distribuito in modo approssimativamente pari fra i membri della specie. Negli esseri umani, invece, circa il 90% della popolazione è destrimane in vario grado e solo circa il 10 % gravita invece verso il mancinismo. 3 Fra tutte le specie che manifestano una preferenza individuale per l'uso di una mano o delP altra, gli esseri umani sono quella che presenta la tendenza più forte e costante all'iriterno della popola-

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zione. I numerosi tentativi effettuati finora per scoprire i correlati cognitivi della preferenza per l'una o l'altra mano sono fondamentalmente falliti.31 Ciò che distingue il nostro studio dalla maggior parte delle ricerche ' precedenti è l'accento che abbiamo posto sugli aspetti del processo decisorio ADM, centrati sull'attore, e non su quello VDM. Più che capacità

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cognitive, noi stiamo cercando stili' cognitivi. Una volta che la domanda viene formulata in questo modo, emerge una possibiità affascinante: i mancini non solo non sono simili-ai destrimani, ma non rappresentano nemmeno il. loro «inverso» neuropsicologico; esemplificano piuttosto uno stile cognitivo nettamente diverso. Se l'uso preferenziale di una mano è correlato a un'inclinazione verso la familiarità contrapposta alla novità, allora il rapporto fra destrimani e mancini nella popolazione umana, rapporto pressapoco pari a 9:1, merita un ulteriore esame. Non potrebbe darsi che esso rifletta l'equilibrio adattivo fra tendenza alla conservazione e all'innovazione in seno alla popolazione, e che l'inclinazione verso la dominanza di una mano serva come meccanismo per controllare tale equilibrio? In tal caso, i mancini sarebbero gli innovatoti, i ribelli della cultura, individui la cui presenza è necessaria al fermento sociale, ma la cui proporzione dev' essere mantenuta relativamente bassa, altrimenti la società perderebbe il suo saldo ancoraggio culturale. Per funzionare, un tal meccanismo dovrebbe consentire una certa variazione, così da regolare il rapporto fra conservazione e innovazione in modo adattivo. Noi non sappiamo in quale misura l' «autentico» rapporto biologico fra destrimani e mancini sia variabile nelle diverse culture a diversi stadi. Sappiamo però che in·molte società questo rapporto è influenzato da fattori antropologici e culturali. Nel complesso, sembra che le società tradizionali, più inclini alla conservazione che non all'innovazione, tendano a bandire il 'mancinismo e a imporre il destrismo. Dottrine pedagogiche basate su questa tradizione, oggi respinte dalla moderna società occidentale, hanno resistito nella maggior parte delle società europee e asiatiche fino alla seconda metà del XX secolo e permangono t1,1ttora in molte culture. Io stesso, nato e formato nell'Europa . dell'Est, sono un mancino convertito, un prodotto di questo atavismo pedagogico. La società nordamericana, invece, più dinamica - meno influenzata dal «bagaglio» culturale - è stata anche meno incline a esercitare un controllo sull'uso preferenziale della destra sulla sinistra, e ha pertanto consentito l'espressione di una maggior percentuale di mancini. Sebbene sia molto improbabile chel'imposizione a passare dal mancinismo al destrismo modifichi in alcun modo sostanziale la neurobiologia e gli stili cognitivi alla base del fenomeno, l'imposizione del destrismo ha probabilmente rappresentato la reazione ingenua delle società tradizionali alla constatazione che spesso il comportamento iconoclasta era associato almancinismo. 183

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Possiamo porci una domanda di portata ancora più ampia. È possibile che nelle popolazioni di altri primati non umani la preferenza destra/sinistra serva a regolare l'equiijbrio fra conservazione e innovazione? Torniamo all'esperimento di Mishkin. Non potrebbe essere che nel suo campione le scimmie che cercavano la familiarità e la novità fossero, rispettivamente, destrimani e mancine? Purtroppo non sono disponibili dati sul mancinismo/destrismo degli animali di Mishkin. 32 Utilizzando un paradigma simile,Jonathan Wallis e i suoi colleghi del Massachusetts Institute of Technology hanno registrato l'attività neuronale nella corteccia prefrontale delle scimmie: i pattern di attivazione suggerivano il coinvolgimento di questa regione nella codificazione di regole astratte. 33 Due erano le regole utilizzate: risposta alle somiglianze e alle differenze. Sarebbe davvero interessante verificare la presenza di un'interazione fra il tipo di regola, la sede dell'attivazione neuronale e la prevalenza dell'uso di una zampa sull'altra nelle scimmie. Quali sono i meccanismi alla base della correlazione fra uso preferenziale di una mano e tendenza alla conservazione o all'innovazione? Nella nostra precedente discussione abbiamo collegato l'emisfero sinistro alle routine cognitive e l'emisfero destro alla novità cognitiva. Ma allora, in virtù della controlateralità del controllo motorio, il destrismo t_enderà a impegnare preferenzialmente l'emisfero sinistro e il mancinismo quello destro. Questo ragionamento implica che i ruoli dei due emisferi rispetto alla distinzione novità-routine siano immodificati nei destrimani e nei mancini. Tuttavia, la nostra ricerca - nella quale ci siamo serviti di compiti cognitivi centrati sull'attore - ha dimostrato l'inversione dei ruoli funzionali dei lobi frontali nei mancini rispetto ai destrimani.34 Questo mette ulteriormente in luce la relazione complessa fra uso preferenziale di una mano e specializzazione emisferica. Potreb- · be darsi, per esempio, che certi aspetti della specializzazione emisferica siano invertiti nei mancini, mentre altri rimarrebbero immodificati. • Un'altra possibilità è quella suggerita dagli studi che mettono in relazione i tratti della personalità con la biochimica cerebrale. Individui con una cospicua predilezione per il rischio sembrano avere una concentrazione eccezionalmente alta di un particolare tipo di recettori dopaminergici.35 La dopamina, naturalmente, è un neurotrasmettitore legato in modo molto stretto ai lobi frontali. È possibile che questo particolare tipo di recettore, una variante del recettore D4, sia particolarmente comune fra i mancini? E ancora: esso è particolarmente comune fra coloro che, di fronte a compiti cognitivi come il nostro CBT, mostrano una spie-

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cata tendenza a cercare la novità? In ratti del ceppo Lister Hoodedè stato riscontrato un nesso fra impulsività e riduzione dei recettori dopaminergid D2/3 nel nucleus accumbens. 36 Non è ancora chiaro come questo risultato possa essere riferito ai tratti caratteriali umani; la questione merita un esàme più approfondito. Finché queste domande non troveranno una risposta rigorosa, la tesi sviluppata in questo capitolo rimarrà speculativa. Ciò nondimeno, esiste l'affascinante possibilità che, nella storia, i mancini abbiano rappresentato, in mezzo a noi, il fermento inquieto, creativo, alla ricerca del nuovo: indispensabili catalizzatori del progresso che tuttavia è meglio tenere sotto controllo, altrimenti sconvolgeranno la nostra società. In La tredicesima tribù, Arthur Koestler cita un viaggiatore arabo del X secolo che così scrive a proposito di una tribù bulgara del Volga: «Quando notano un uomo che eccelle per sapere o per vivacità d'ingegno, essi dicono: 'È meglio che costui serva il Signore'. Lo prendono, gli passano la corda attorno al collo e lo appendono a un albero, dove viene lasciato mardre». 37 Viene da chiedersi quanti sfortunati bulgari erano mancini. Quale che sia la base neurobiologica di tutto questo, a livello fenomenico sappiamo comunque che alcune persone sono più versate per l'innovazione mentre altre se la cavano meglio seguendo delle routine. In effetti, questi talenti diversi sono spesso incompatibili. Gli individui lungimiranti, che sviluppano nuove tendenze nella scienza, nella cultura o negli affari, spesso non riescono a concretizzare le proprie idee in modo sistematico e con continuità; affinché le cose procedano, altre persone devono subentrar loro, gente forse incapace di sviluppare nuove tendenze, ma necessaria per sostenerle. Ciò significa forse che mentre nei pionieri lungimiranti è particolarmente sviluppato l'emisfero destro, nei tipi prudenti e convenzionali lo sarebbe di più il sinistro? Questa è un'ipotesi affascinante che la neuropsicologia delle differenze individuali dovrà esaminare. Come la creatività, anche la malattia mentale e i disturbi dello sviluppo neurologico sono stati assodati al mancinismo. La schizofrenia, l'autismo, la dislessia, il disturbo da deficit di attenzione sono tutti caratterizzati da una percentuale insolitamente elevata di mancinismo. Sebbene molti casi di mancinismo siano «patologici» (ossia acquisiti in seguito a una lesione cerebrale precoce),38 molti altri sono ereditari, owero geneticamente determinati. I paralleli fra creatività e follia hanno affascinato scienziati e poeti. Particolarmente interessanti sono i casi in cui i confini fra le due condizioni vanno fluidifica,ndosi e rarefacendosi: i casi 185

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di geni impazziti, come van Gogh e Nijinsky. Tanto il genio quanto la follia sono deviazioni dalla norma statistica. Secondo la visione romantica, le intuizioni creative che hanno ,luogo con eccessivo anticipo sui tempi sono spesso denunciate dai contemporanei come follia. La visione cinica, dal canto suo, suggerisce che alcune delle credenze culturali più resistenti siano scaturite da una psicosi. Sebbene la relazione fra creatività e malattia mentale vada bèn oltre gli scopi di questo libro, il fatto che entrambe siano in rapporto con il mancinismo è un dato altamente provocatorio.

Talenti esecutivi: il /attore S e la teoria della mente Nei suoi aspetti individuali, il cervello umano è variabile come qualsiasi altra parte del corpo. Il peso, le dimensioni relative dei diversi lobi, i dettagli di giri e solchi: tutti questi aspetti sono altamente variabili. Sebbene le neuroscienze cognitive debbano ancora offrire un quadro coerente delle differenze individuali, è intuitivo che tratti e talenti cognitivi abbiano qualcosa à che fare con la variazione individuale nell'organizzazione cerebrale. Fatto decisamente degno di nota, la variazione individuale della morfologia del cervello umano è particolarmente pronunciata nei lobi frontali.39 Noi tendiamo a definire le persone in base ai loro talenti e alle loro carenze. Un individuo è dotato per la musica, ma non ha senso spaziale; un altro ci sa fare con le parole ma è proprio senza orecchio. Queste descrizioni colgono i tratti peculiari di una persona, ma non la Sua essenza. D'altra parte, quando definiamo qualcuno «brillante» o «acuto» e qualcun altro «stupido» o «ottuso», non stiamo più parlando di tratti particolari e circoscritti: alludiamo a qualcosa di più elusivo e profondo. Ci stiamo awicinando maggiormente alla definizione dell'essenza stessa della persona; ci awiciniamo a definire la persona, e non i suoi attributi. Essere «brillanti>> o «stupidi» non è un vostro attributo. Siete voi. In particolare, esiste un certo grado di indipendenza fra questa dimensione globale della mente umana e i suoi tratti specifici, più circoscritti. Un individuo può essere privo di qualsiasi talento particolare - musicale, letterario o atletico - e tuttavia essere considerato dagli altri molto «brillante». Ed è anche possibile l'opposto, quando un individuo con untalento unico viene ciò nondimeno percepito dagli altri come «ottuso». A rischio di commettere un sacrilegio culturale, direi che sulla base delle 186

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descrizioni biografiche Mozart era probabilmente un genio «ottuso». La mancanza di quotidiano buonsenso potrebbe essere probabilmente attribuita anche ad Alan Turing, uno dei miei eroi intellettuali. Naturalm~nte gli esempi della situazione opposta, ossia i tipi «brillanti comuni», sono ni{merosi e per definizione anonimi. Molti dei miei lettori probabilmente risponderebbero a quei requisiti. Ma che cosa intendiamo con i termini «acuto» e «ottuso»? E quali sono le strutture cerebrali le cui variazioni individuali determinano tali caratteristiche globali? Questa domanda è direttamente collegata alla ricerca dell'intelligenza generale - il «fattore G» - e della sua misurazione, entrambi obiettivi al di fuori dalla portata di questo libro. Il problema è e rimane materia di un dibattito scientifico infuocato. Gli ultimi vent'anni hanno assistito a un allontanamento dall'idea di un singolo fattore G, a favore del concetto di «intelligenze multiple». Introdotte da Gardner40 e da Goleman, 41 queste «intelligenze» dominio-specifiche corrispondono approssimativamente alle variabili cognitive studiate in modo sistematico dai neuroscienziati, testate dai neuropsicologi clinici e che sappiamo dissociabili tanto nell'individuo neurologicamente sano quanto in quello neurologicamente malato. Indipendentemente da come si voglia definire il costrutto cognitivo di intelligenza generale, non sono a conoscenza dell'esistenza di una qualsiasi caratteristica cerebrale singola e distinta che possa dimostratamente rendere conto di tale fattore G. I pochi studi disponibili sul cervello di individui di genio non hanno prodotto risultati convincenti, e alcuni di essi vanno decisamente contro quanto suggerirebbe l'intuito (il che ditl).ostra come le nostre intuizioni in materia siano difettose). Per esempio, sappiamo che il cervello di Anatole France era di piccole dimensioni.42 Quello di Einstein.rivela una peculiare assenza di differenziamento fra lobi temporali e parietali, quasi che il lobo parietale si fosse «appropriato» di una porzione del temporale. 43 Questo potrebbe forse spiegare la preferenza che lui stesso raccontava di avere, quando sviluppava le sue idee, per la visualizzazione piuttosto che per la formalizzazione (come pure la sua dislessia). Ma a meno che non crediamo in un homunculus insediato nella regione del giro angolare/sopramarginale, tale riscontro ha un carattere troppo locale, troppo regionale, per spiegare un G di portata davvero generale. Questo ci porta a concludere che molte forme di «genio» riflettano proprietà locali della mente (e, per inferenza, del cervello) e possano avere poco a che fare con la nostra percezione intuitiva dell' «essere brillanti» come attributo globale, centrale, 187

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che definisce la persona. La natura locale del genio è suggerita dalle desc.rizioni biografiche di Mozart e Turing. Sulla base di ciò che sappiamo della loro vita, la maggior parte d~lle persone non avrebbe considerato . nessuno dei due «brillante». Ma che dire del fattore S (dove S sta per «smart», brillante)? Io credo che, a differenza del fatt~re G, il fattore S esista. In questo mi avvalgo del tacito supporto di decine di persone comuni, del tutto incuranti di G ma acutamente sensibili a 5. I profani, non essendo intralciati da alcun prec:oncetto derivante dalla psicologia ma dotati di buonsenso comune, sono sorprendentemente fiduciosi nel giudicare, in continuazione e con disinvoltura, chi sia brillante e chi no. A quale caratteristica degli altri esseri umani sono dunque reattivi tutti costoro? Qual è la base della loro intuizione? Ho sempre pensato che valesse la pena di porsi questa domanda, ma non sono riuscito a trovare una risposta in letteratura. Le basi della nostra percezione quotidiana dell'intelligenza sono un argomento affascinante che si colloca all'interfaccia fra neuropsicologia e psicologia sociale. Lo studio che io immagino dovrebbe avere un'impostazione il più possibile naturalistica. Supponiamo di mettere insieme un gruppo di «giudici» profani non intralciati da alcun preconcetto psicologico né vincolati da una mole eccessiva di istruzioni da parte del ricercatore. Supponiamo, inoltre, di reclutare un altro campione di soggetti, ugualmente profani. Ora, i giudici devono classificare i soggetti su una scala di dieci punti di «brillantezza», sulla base di un'interazione di un'ora a tu per tu e a ruota libera con il soggetto - oppure (ma questa seconda ipotesi è meno desiderabile) ·osservando la registrazione su nastro dell'interazione dei soggetti fra loro o con qualcun altro. La situazione (dal vivo o registrata) dovrebbe essere il più possibile naturalistica e libera da vincoli. Dopo l'esperimento, tutti i soggetti sarebbero sottoposti a una batteria approfondita di test neuropsicologici. Che cosa prevedete? Vi aspettate che la classificazione relativamente ,al fattore S sia cultura-di.pendente o rappresenti piuttosto un'invariante culturale? lo prevedo che le votazioni dei giudici, o almeno le loro classificazioni dei soggetti, siano altamente coerenti. Sebbene sia indubbio che fattori culturali e professionali sono importanti nel giudicare la «brillantezza» io credo che esistano fondamentali invarianti culturali di questa qualità percepiti in modo simile da diverse società, proprio come è stato ipotizzato che esistano per la bellezza fisica. Prevedo inoltre che di tutti i test neuropsicologici, le classificazioni relative alla «brillantezza» siano 188

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quelle correlate meglio con i test sulle funzioni esecutive. Nel quadro delle «intelligenze multiple», il fattore S, l'intelligenza che noi intuitivamente riconosciamo come «essere brillante», è l'intelligenza esecutiva. E di tutti gli aspetti dell'intelligenza, il fattore S - il «talento esecutivo»-, dà forma alla nostra percezione di una persona in quanto tale e non solo come portatrice di un certo tratto cognitivo. Ogni scala, d'altra parte, ha un proprio range definito da due punti estremi. Pertanto, classificare le persone in base al fattore S equivale a farlo sulla base del fattore D (dove D sta per «dumb», ottuso). Il che trasforma l'esperimento appena proposto in un'impresa altamente incendiaria,. che non vedrà mai la luce nella nostra cultura tanto preoccupata di conservare la correttezza. Sarebbe proprio una vergogna ... In larga misura, la caratteristica in questione si riferisce alla nostra capacità di capire intuitivamente le altre persone e di anticiparne il comportamento, le motivazioni e le intenzioni. Data la natura sociale della vita umana, questa capacità è di fondamentale importanza per il successo, inteso nel senso più ampio possibile. Indipendentemente dal fatto che si voglia cooperare con qualcuno o vanificarne le aspirazioni (e soprattutto in questo secondo caso) occorre prima di tutto comprendere e anticipare le intenzioni dell'interlocutore. .Nella descrizione che ho dato nel capitolo 2 delle funzioni esecutive essenziali ho sottolineato il loro aspetto sequenziale, pianificatore, di ordinamento temporale degli eventi. Qra, immaginate di dover pianificare e organizzare in modo sequenziale le vostre azioni coordinandovi con un gruppo di altri individui e istituzioni, a loro volta impegnati nella pianificazione e nell'organizzazione sequenziale delle proprie. Le vostre relazioni con questi altri individui e istituzioni potranno essere cooperative, antagoniste o entrambe le cose. Inoltre, la natura di questa relazione po.trà modificarsi nel corso del tempo. Per avere successo in questa interazione dovrete non solo poter disporre di un piano di azione, ma anche intuire la natura di quello altrui. In altre parole, dovrete saper prevedere non solo le conseguenze delle vostre azioni, ma anche quelle delle azioni degli altri. Per far questo dovete essere in grado di formarvi una rappresentazione interiore della vita mentale del vostro interlocutore, oppure; per usare il linguaggio alto della neuropsicologia cognitiva, di formarvi la «teoria della mente» dell'altra persona. La scelta delle vostre azioni,' allora, sarà influenzata dalla teoria, che avete formulato nella vostra mente, a proposito della mente dell'altra persona. Presumibilmente, costui o costei avrà formulato una sua teoria della vostra mente. Il sue189

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cesso di ciascuno di voi dipenderà in larga misura dall'accuratezza e dal grado di precisione delle vostre abilità nel formarvi una rappresentazione interna dell'altro. Tutto questo tende i processi esecutivi che occorrono per avere successo in un ambiente interattivo (o piuttosto sociale) assai più comp1essi di quelli necessari in una situazione solitaria come la risoluzione di un puzzle. Ciò vale nelle situazioni competitive, cooper~­ tive, o interattive misi:e. Gli scacchi o la dama rappresentano un esempio formalizzato e altamente distillato di tali funzioni esecutive «sociali» .. Anche le attività dei leader- in campo aziendale, politico o militare - sono fondamentalmente basate sull'abilità di formarsi una «teoria della mente>>"della controparte o, molto spesso, delle numerose controparti. In tutti questi ambienti le domande essenziali sono: «Che cosa farà adesso laltro?» e poi: «Che cosa dovrei fare io, se lui effettuasse questa mossa?» Nella mia esperienza personale, la partita che mi toccò giocare contro le istituzioni dello Stato per riuscire a espatriare dall'Unione Sovietica è stata l'esemplificazione più estrema e difficile che io abbia mai incontrato di una partita a scacchi nella vita reale, una partita in cui la posta in gioco era altissima. In quell'impresa azzardata, a fare la differènza fra successo e fallimento fu proprio la mia capacità di intuire e anticipare le mosse e le intenzioni dalla controparte. La capacità di intuire gli stati mentali altrui è fondamentale nelle interazioni sociali. Nel mondo animale se ne trovano pochissimi prototipi, ammesso che ce ne siano. L'inganno è una delle forme più raffinate ditale capacità, giacché comporta, da parte dell;ingannatore, la manipolazione dell'avversario cosl da fargli acquisire determinati stati mentali da poter poi sfrut'tare a suo vantaggio. C.D. Frith e U. Frith sostengono che -tale abilità non sia presente in grado apprezzabile nemmeno nelle scimmie antropomorfe e la ritengono pertanto un attributo esclusivamente umano. 44 Il corollario ironico di questa conclusione è che, proprio come le. interazioni sociali sviluppate sono esclusivamente umane, altrettanto può dirsi del comportamento sociopatico. Chi ha una comprensione della mente altrui viene intuitivamente percepito come «brillante» o «acuto», mentre chi manca di tale abilità è visto come «stupido» o «ottuso». Noi usiamo queste descrizioni per cogliere l'essenza cognitiva dell'individuo, in contrapposizione ai suoi tratti cognitivi specifici più limitati. Sebbene si possa ammirare un particolare talento in una persona >, 42, 8, pp. 1493-96, 1992; H.C. LEINER, A.C. LEINER, R.S. Dow, Reappraising the Cerebellum: Wbat does the Hindbrain Contribute to the Forebrain?, «Behav Neurosci», lOJ, 5, pp. 998-1008, 1989. 11 H.C. LEINER, A.L. LEINER, e R.S. Dow, Reappraising the cerebellum: what does the hindbrain contribute to the/orebrain?, > 16, pp. 202-204, 1991. 15 B. MrLNER, Cues to the cerebral organization o/ memory, in P. BUSER e A. ROUGEULBUSER (a cura di), Cerebral Correlates o/ Conscious Experience, Amsterdam, Elsevier, 1978, pp.139-53. 16 K.L. HOFFMAN e B.L. McNAUGHTON, Coordinated reactivation of distributed memory iraces in primate neocortex, «Science», 297, 2002, pp. 2070-3. 17 T. MAVIEL, T.P. DURKIN, F. MENZAGHI, e B. BONTEMPI, Sites of neocortical reorganization criticai/or remote spatial memory,_«Science», 305(5680), 2004, pp. 96-9.

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