La scomparsa delle api. Indagine sullo stato di salute del pianeta Terra  
 8804577657, 9788804577652 [PDF]

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Zitiervorschau

Risvolto di copertina «Se l'ape scomparisse dalla terra, all'umanità resterebbero quattro anni di vita; niente più api, niente più impollinazione, niente più piante, niente più animali, niente più esseri umani.» (Albert Einstein) Questa frase, attribuita al geniale scienziato tedesco e a lungo considerata solo un paradosso e nient'altro che un'ipotesi quasi fantascientifica, si sta rivelando, da qualche anno a questa parte, molto più vicina alla realtà di quanto avremmo mai potuto immaginare. Per anni gli apicultori di entrambe le sponde dell'oceano hanno lanciato allarmi inascoltati, finché, nel febbraio 2007, negli Stati Uniti sono comparsi i primi dati ufficiali: mancano all'appello centinaia di miliardi di api, affette da un misterioso morbo. La notizia fa il giro del mondo, fino a quando, nel gennaio 2008, diviene chiaro che la grande moria riguarda anche l'Europa: 50 miliardi di api sono scomparse in Grecia, almeno 55 miliardi non fanno ritorno alle arnie nel nostro paese. Ma non è finita qui: lo stesso genere di notizie arriva da altri paesi europei, dall'India, dal Canada, dalla Nuova Zelanda. Qual è la causa di questo fenomeno, che sembra essere l'inizio dell'estinzione dell'ape? I ricercatori hanno avanzato diverse ipotesi. Si pensa che siano le onde elettromagnetiche emesse dai telefoni cellulari e dai ripetitori, si ipotizza che sia la conseguenza della diffusione di organismi geneticamente modificati nell'agricoltura, si sospetta che sia una delle tante conseguenze del riscaldamento globale. La scomparsa in massa delle api ha assunto dimensioni tali da non poter essere più ignorata. Se oggi ci sembra improbabile che l'umanità possa estinguersi per una causa apparentemente così banale, di certo un evento di questa portata appare come una sorta di campanello di allarme: forse ci siamo spinti troppo in là nella manipolazione del nostro ambiente naturale. Partendo da un'arnia deserta in Florida, Sylvie Coyaud ci porta con sé in un viaggio appassionato attraverso paesi vicini e lontani. Nella certezza che «trovare il colpevole» della scomparsa delle api potrebbe essere

il primo passo per scongiurare una futura catastrofe ecologica sul nostro pianeta. Sylvie Coynaud scrive di scienza al sabato su «D», il supplemento femminile di «Repubblica», alla domenica sul supplemento culturale del «Sole – 24 Ore», al lunedì ne parla a Radio Popolare e gli altri giorni sul suo blog (ocasapiens.blog.dweb.repubblica.it). IN COPERTINA: ILLUSTRAZIONE DI JOSH KEYES

Strade blu NONFICTION

Sylvie Coyaud

LA SCOMPARSA DELLE API Indagine sullo stato di salute del nostro pianeta

MONDADORI

( www.librimondadori.it

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«La scomparsa delle api» di Sylvie Coyaud Collezione Strade Blu

ISBN 978-88-04-57765-2

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione marzo 2008

Indice

11

Prefazione L'aveva detto Einstein Introduzione II collasso americano

29 53 71 77

Parte prima LA VITTIMA I Chiara fama II Origini oscure III Intervallo con pubblicità IV Nell'arnia

3

91 103 119 139 165 173 203

Parte seconda GLI INDIZIATI V II killer si chiama destructor VI Tradotto con cellulare VII Gli Ogm (non) si difendono così VIII II Gaucho, il Regent e il visconte IX Scoperto il virus, forse X Problemi con il termostato XI Intervallo con Messalina Parte terza LE INDAGINI PROSEGUONO XII Intelligenza XIII Geoingegneri e robot pronubi alla riscossa

209 213

Bibliografia Ringraziamenti

La scomparsa delle api

Prefazione L'aveva detto Einstein

Se l'ape scomparisse dalla terra, all'umanità resterebbero quattro anni di vita; niente più api, niente più impollinazione, niente più piante, niente più animali, niente più esseri umani.

ALBERT EINSTEIN (?) Barba da intellettuale e fisico da atleta, Walter Haefeker è membro del comitato direttivo dell'Associazione tedesca, e vicepresidente di quella europea, degli apicoltori professionisti. Per conto dei soci Haefeker chiede alle regioni, allo stato, alla Commissione europea provvedimenti per arginare l'invasione del miele e delle api straniere. Nel 2005, sulla rivista «Kritischer Agrarbericht» (Rapporto critico sull'agricoltura), aveva scritto un articolo preoccupato: la Germania perdeva almeno un 12% di api all'anno, per cause accertate e altre da accertare; e il calo stava accelerando nei Lànder più produttivi, come la Baviera. Nel resto dell'Unione Europea accadeva la stessa cosa. La catastrofe era vicina. L'aveva predetta persino Einstein, con la cui citazione Haefeker concludeva il saggio. Nel 2007 la profezia fa il giro del mondo. A fine febbraio il «New York Times» pubblica la notizia che in 24 dei 50 stati dell'Unione le api sono affette da Colony Collapse Disorder (Disturbo da collasso delle colonie), detto per brevità Ccd. La notizia in realtà è dell'ottobre precedente, quando il flagello aveva la sigla Vsb - per Vanishing Bee Syndrome, la «Sindrome dell'ape che svanisce» - un nome che sarà parso più da cartone animato che da emergenza nazionale, e a fine anno è stato cambiato. Intervistati dal quoti-

diano, alcuni entomologi dell'università Cornell di Ithaca (NY) spiegano che le api impollinano l'80% della frutta e della verdura consumata nel paese; che sulla costa orientale è vuoto il 70% delle arnie: un declino che s'è accelerato a partire dal novembre 2006 e che «per l'agricoltura potrebbe rappresentare un flagello simile all'Aids». Nel giro di una settimana si segnalano api scomparse dal Canada, dal Brasile, da alcuni stati dell'India, dalla Nuova Zelanda. E dall'Unione Europea, in particolare dai paesi dell'Est la cui popolazione apistica era già stata falcidiata da un freddo breve ma intenso nell'inverno 2005-2006. Il 14 marzo 2007, sotto il titolo Negli Usa le api sono a rischio di estinzione, sul «Telegraph» di Londra si legge: «Einstein profetizzò un giorno che, se le api dovessero scomparire, l'umanità le seguirebbe pochi anni dopo. L'ipotesi potrebbe essere presto sottoposta a verifica: la misteriosa congiuntura che negli ultimi 35 anni ha eliminato metà delle api statunitensi pare ripetersi in Europa. In Spagna centinaia di migliaia di colonie sono andate perse e gli apicoltori del Nord della Croazia stimano in cinque milioni le api morte nel giro di 48 ore, soltanto in questa settimana. In Polonia l'associazione professionale Swietokrzyskie ritiene che l'anno scorso ne sia scomparso il 40%. Altre pesanti perdite sono state registrate in Grecia, Svizzera, Italia e Portogallo». Segue l'annuncio dei disastri a cascata: per l'alimentazione umana e per quella degli animali d'allevamento, e per l'ambiente. Ogni paese si sceglie un colpevole: per i polacchi, per esempio, sono gli zuccheri industriali dati alle api per sostentarle durante l'inverno. I francesi, invece, fanno notare che, adesso, le loro api stanno benissimo, in campagna come in città. A Parigi, più fiorita che mai da quando è sindaco il socialista Bertrand Delanoe, sono tornate in massa. E secondo analisi biennali che ottengono la prima pagina dei quotidiani, producono un miele senza traccia di inquinanti e anzi degno dell'appellativo «qualité supérieure». La crisi nordamericana sarebbe causata dagli insetticidi, i giornali ne hanno la prova:

gli apicoltori non hanno più organizzato proteste da quando il governo ne ha vietato prima uno, poi due, tre... Anche in Germania la faccenda è politica e scientifica. Il 22 marzo 2007 il settimanale «Der Spiegel» cita ancora Einstein a corredo di un'inchiesta in cui i presidenti di associazioni e il signor Haefeker segnalano perdite dal 12% all'80% a seconda delle regioni, e del 25% nella media nazionale calcolata sull'arco di sette anni. Gli apicoltori accusano il mais transgenico, che libera una tossina letale anche per le api. Secondo loro è questo il primo colpevole dello svanimento statunitense e, dopo i pesticidi, il secondo sospetto anche in patria. Il mais transgenico, è vero, copre soltanto lo 0,06% delle terre coltivate in Germania e cresce esclusivamente nel Nord-Est, in Brandeburgo e in Meclemburgo-Pomerania occidentale - dove peraltro le api sembrano cavarsela. Proprio in quei giorni, però, il Bundestag sta discutendo se autorizzare o meno gli Ogm, e il signor Haefeker è contrario: sembra che una ricerca svolta all'università di Iena abbia dimostrato che quel mais ammazza davvero le api. La Gran Bretagna sopporta con stoicismo una diminuzione annua degli alveari tra il 10% e il 12%. Davanti agli stermini di mucche pazze, pecore con l'afta epizootica, polli con l'influenza aviaria, qualche migliaio di arnie in meno sono una bazzecola. Tuttavia anche i quotidiani inglesi si appassionano alla crisi americana, perché nel 1998 metà delle api britanniche erano state eliminate dall'infestazione d'un acaro, la Varroa destructor. Migrato proprio dagli Stati Uniti al Manitoba nel 1994, insieme a un'esportazione di cera, s'era diffuso nelle altre province canadesi, poi in Australia e da lì nel Regno Unito, ospite clandestino di qualche container. Per gli inglesi, la Varroa resta l'indiziato numero uno fino al 15 aprile, quando «The Independent» lo sostituisce con i cellulari. Sotto il titolo I telefonini stanno eliminando le nostre api? si legge: «Sembra la trama di un film horror particolarmente cervellotico, ma alcuni scienziati suggeriscono che la nostra passione per i cellulari potrebbe portare a

massicce carestie ... Avanzano la teoria secondo cui la radiazione emessa dai telefonini e da altri gadget elettronici sarebbe la possibile risposta a uno dei misteri più bizzarri mai accaduti nel mondo naturale: la brusca scomparsa delle api che impollinano i raccolti. Da una settimana, riferiscono alcuni apicoltori, il fenomeno iniziato negli Stati Uniti e allargatosi all'Europa continentale sta cominciando a colpire la Gran Bretagna». Poco più avanti, compare di nuovo la profezia di Einstein, e siccome in Italia «The Independent» gode di una buona reputazione, la stampa nostrana la ripete fiduciosa. Data la primavera insolitamente calda, ai quattro precedenti sospettati i media italiani aggiungeranno il riscaldamento globale. Che Einstein venisse in mente al signor Haefeker nel 2005, dichiarato dall'Onu anno internazionale della fisica, è del tutto comprensibile: in Germania si susseguivano conferenze, concerti, balletti e simposi per il cinquantenario della morte del fisico e il centenario dell'annus mirabilis in cui pubblicò gli articoli sul moto browniano, l'effetto fotoelettrico e la relatività ristretta che avrebbero cambiato le nostre idee sulla luce, lo spazio e il tempo. Inoltre è risaputo che a Einstein piacevano gli animali. Di lui si sa tutto, persino la sua esecrazione per i calzini. Strano dunque che il suo interesse per le api sia passato inosservato così a lungo. Possibile che una riflessione di tale portata per l'umanità sia sfuggita ai suoi biografi? Einstein è morto nel 1955, e in mezzo secolo la sua profezia sarebbe sicuramente saltata fuori prima: le morie delle api sono frequenti, lo sapeva anche Virgilio. Forse aveva pronunciato la frase durante una conversazione e l'interlocutore l'ha tramandata a pochi intimi, tra cui il signor Haefeker? Se l'avesse scritta, qualcuno in Israele potrebbe già saperlo. La digitalizzazione dei suoi documenti privati è in corso alla Jewish and University Library di Gerusalemme. Il curatore Roni Grosz non ricorda nessun'ape, ma per una risposta definitiva preferisce aspettare la fine dei

lavori, prevista per il 2015. Nell'opera omnia a stampa, api e formiche sono presenti soltanto una volta, in un articolo uscito sulla «Monthly Review» del maggio 1949, fa rispondere da un'assistente Diana Buchwald, responsabile degli archivi Einstein al California Institute of Technology. La scadenza indicata nella citazione è precisa, e il tono apocalittico; non sembrano le parole di uno scienziato. Già, ma gli scienziati geniali non sarebbero proprio compos mentis, e in fisica ancor meno. Simon Baron-Cohen, dell'università di Cambridge, ha incluso Einstein, dopo Newton e Cavendish, tra quelli affetti da sindrome di Asperger. Siccome questa spinge a volte al calcolo ossessivo, perché allora non al calcolo delle probabilità? E quindi... No, la diagnosi non può esser fondata: Einstein faceva battute di spirito, non prendeva alla lettera i giochi di parole, era socievole, impegnato in cause e movimenti politici, esibiva l'intera gamma dei comportamenti che secondo lo stesso BaronCohen escludono questa forma di autismo. Che la profezia sulle api sia la parte non ancora rivelata del terzo segreto di Fatima? Prima di chiederlo al Vaticano, conviene consultare internet. Snopes, un sito web che rintraccia le origini delle leggende metropolitane, identifica la fonte in un opuscolo a cura della Fédération nationale des apiculteurs francais, che nel 1994 veniva distribuito davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles, nel corso d'una protesta. In Google veritas? Forse. L'alta mortalità attuale delle api sarà, speriamo, una delle tante. Nel frattempo riassume i paradossi nell'air du temps. Viene attribuita a un nemico locale e globale, onnipresente e invisibile. Fra i sospetti killer, l'unico del quale non sarem mo complici con una qualche nostra attività è il tremendo acaro: non stimola grandi fantasie ma ci esime della coda di paglia; e ci priva del piacere di cercare i mandanti. Che non mancano. Senza la minima sollecitazione, nell'estate 2007 un simpatico vicino di sdraio mi porge un quotidiano e non mi la-

scia il tempo di leggere quello che lo sta agitando. Secondo lui, e le astanti approvano, è tutta colpa delle multinazionali della chimica e dell'agro-business. Delle monoculture che erodono la biodiversità, rincara una signora: lettrice, immagino io, di Vandana Shiva. Sì, ma sfamano una popolazione umana passata in un secolo da un miliardo e mezzo a sei miliardi e mezzo di individui. È la crescita economica a tutti i costi, distrugge l'ambiente, dice una bagnante, tendenza verde, deduco dalla crema solare da erboristeria. E già, ma rallentarla comporterebbe sacrifici intollerabili. È colpa dell'egoismo dei ricchi e degli stati nazionali. Sì, ma nessuno vuol essere senza un euro e senza uno stato. Dei governanti incompetenti. Sì, ma ce li siamo scelti. Colpa di tutti e di nessuno, dunque. La moria delle api rivela anche l'ambivalenza nei confronti della scienza e della tecnologia, che producono cambiamenti troppo veloci ma devono fornire lo stesso i rimedi. I quali rimedi, se arrivassero, sarebbero accolti con diffidenza - perché a quelli artificiali sono preferibili quelli naturali. La distinzione tra naturale e innaturale è però radicata nell'analfabetismo scientifico di massa, dicono razionalisti e scientisti puri e duri, che condannano tanta ignorante irrazionalità. E se la massa avesse le sue buone ragioni? «Stiamo attenti a non sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici, in materia di problemi umani; e a non presupporre che gli esperti siano gli unici ad avere il diritto di esprimersi su questioni che riguardano l'organizzazione della società.» Questo l'ha scritto davvero Einstein-in Why Socialism, «Monthly Review», maggio 1949. Non ha torto nemmeno da apocrifo, però: senza impollinatori saremmo nei guai. Un po' lo siamo già, e gli altri animali pure. I colibrì scompaiono insieme alle foreste tropicali che li ospitano; i pipistrelli che succhiano nettare sono tuttora sterminati per antichi pregiudizi, o perché confusi con i cugini che succhiano il sangue dei mammiferi; le farfalle, i calabroni, le vespe

e altri mosconi benefici soccombono agli insetticidi. Insetti e artropodi non vengono mai tutelati, nemmeno quando sono appesi a un filo sull'orlo dell'estinzione e vengono inclusi nella Red List delle specie a rischio. Non possiedono il glamour bianconero del panda, l'arcano fascino del delfino rosa né l'eleganza molleggiata della tigre. Ne so qualcosa, per aver provato a chiedere ai lettori di un quotidiano e agli ascoltatori di una radio, entrambi favorevoli alla biodiversità, di adottare la tarantola dal ginocchio rosso, grande circa come una mano e dalle articolazioni di un bell'arancione vivace. Dovevano soltanto alloggiarne una coppia, arrivava già nella teca, rifornirla di carne cruda - soprattutto dopo l'auspicata nascita di tanti tarantolini - e poi rispedirla allo zoo di Londra. La risposta è stata univoca e, sebbene espressa in forma educata, implicava che stavo perdendo qualche rotella. Quindi, chapeau agli elettori californiani che nel novembre 2006 hanno mandato via dal Congresso il loro rappresentante Richard Pombo. Tra altri motivi d'indegnità, aveva brigato lungo tutta la legislatura per costringere l'Environmental Protection Agency, cui spetta tutelare le specie in pericolo, a cancellare dall'elenco dei protetti un grandioso moscone tigrato, il Rhaphiomidas terminatus abdominalis. Così impara che gli insetti pronubi o impollinatori portano voti. Viva l'America.

Introduzione Il collasso americano Il 22 febbraio 2007, molti americani si sono svegliati per senti re dai notiziari che alle loro api qualcosa stava andando storto. BENJAMIN OLDROYD, «PLoS-Biology», 12 giugno 2007

La California, se fosse indipendente, sarebbe il primo stato al mondo nella produzione di mandorle. Nella San Joaquin Valley e nella Central Valley, attorno alla capitale Sacramento, la superficie a mandorli è stata moltiplicata per duecento dal 1905 e dovrebbe aumentare di un altro 50% entro il 2012. Merito della manodopera a buon mercato, che attraversa il Rio Grande per una raccolta o per sempre, legalmente dal ponte di Tijuana o illegalmente dal deserto, rischiando la morte per sete o per vigilantes; della Food and Drug Administration, che nel 2004 ha fatto sapere che limitare i grassi e mangiare 5 grammi di mandorle al giorno può ridurre il rischio di malattie cardiovascolari; e delle api. Nel 2002 le avvisaglie: aumentano il prezzo del miele e del noleggio colonie. Nel 2003 l'Almond Board of California denuncia colonie «deboli», perché prima dell'inverno gli apicoltori hanno venduto tutto il miele: la domanda era forte e il prezzo era alto, così ne hanno lasciato pochissimo negli alveari. Nel 2005 le api statunitensi non bastano e ne arrivano dall'Australia, in aereo. Nuova importazione massiccia nel 2007, e le mandorle sono salve. Ma in aprile i produttori di mele dello stato di New York e della Pennsylvania protestano contro i produttori di mirtilli del Maine, che si sono accaparrati le arnie nomadi. La mela dovrebbe aver la precedenza, visto che non è soltanto il simbolo di New York. Si dice «American as an appiè pie»: la torta di mele è il dolce nazionale e la nazione. Nel 1942 i GIs anda-

vano a combattere «for Mom and apple pie». Dal 1922 nessuno aveva più chiamato le legioni straniere alla riscossa, nemmeno nel 1987, al primo e devastante sbarco delle Varroa destrucior. Dato il North America Free Trade Agreement, in California sarebbe più economico usare api messicane invece che australiane, e qualcuno si chiederà se esse siano allergiche al nettare dei fiori di mandorlo, o se a sud del Rio Grande nessuno voglia aiutare i gringos. No, e forse no. Stati Uniti e Australia usano procedure simili per i controlli sanitari che accompagnano l'import-export, e che offrono enormi garanzie: proprio le garanzie richieste dall'Almond Board of California e dalle assicurazioni dei coltivatori. È vero d'altro canto che importazioni del genere sono sempre rischiose. Come le truppe mercenarie nell'Impero romano, le api straniere si trasformano talvolta in invasori «alieni», portano patogeni che le api locali non hanno mai incontrato e contro i quali non hanno alcuna immunità. Sulla costa est, dove l'industria delle colonie da nolo risale al 1909 - data di fondazione del primo «bee rental business» al servizio dei frutteti del New Jersey - l'inverno del 2006 è stato mite e il perfido acaro ne ha approfittato per moltiplicarsi negli alveari, decimando la generazione da mettere al lavoro in febbraio. Di solito il problema si risolve così: l'industria compra colonie preconfezionate da allevatori, e se non ne trova a sufficienza divide a metà le proprie e le sovralimenta nei mesi freddi. La cooperativa Blue Diamond è il principale raggruppamento di produttori di mandorle - e di esportatori: la mandorla californiana detiene l'80% del mercato mondiale, (gli importatori sono in ordine decrescente India, Germania, Giappone e Italia, dal 2005 tallonati da Russia e Cina. Fonte: rapporto Rabobank 2006). Quando la Blue Diamond prenota dagli abituali brokers le colonie per il 2007, scopre che il prezzo è aumentato da 50 dollari a 85,120, addirittura 150 cadauna. In febbraio, dagli altri stati ne arrivano un milione, ma la metà è assoluta spazzatura, dice una dotto-

randa dell'Harry Laidlaw Honey Bee Research Facility, dell'università della California a Davis. Le api sono dimezzate, svogliate. Per fortuna, il tempo resta caldo e soleggiato, le superstiti escono a bottinare e si riprendono. La crisi era annunciata dal 2004, quando al dipartimento dell'Agricoltura erano arrivate, dopo 83 anni di autarchia, le prime richieste di autorizzazione a importare api straniere. Il Consiglio nazionale della ricerca dell'Accademia delle scienze aveva commissionato a un gruppo di esperti diretto dall'entomologa May Berenbaum, dell'università dell'IIlinois a Chicago, uno studio sugli impollinatori nel Nord America. Il rapporto esce in prima versione nel luglio 2006 e in volume alla fine del 2007. Diminuiscono tutti gli animali pronubi, dice: uccelli, pipistrelli, coleotteri, vespe, calabroni, bombi, farfalle e falene, i cui habitat sono stati «massicciamente alterati». Racconta che le colonie di api sono passate da 5 milioni negli anni Quaranta a 2 milioni nel 1989. Nel 1987 è sbarcato l'acaro che stermina per prime api e fuchi selvatici; gli agricoltori ricorrono sempre più ai noleggi; i noleggiatori investono in nuove arnie e tra il 2000 e il 2004 il numero delle colonie è risalito a 2,5 milioni. «Dal 1947 il servizio statistiche del Dipartimento dell'agricoltura censisce le colonie, e i dati mostrano un declino costante tra il 1947 e il 1972, un secondo nel periodo 1989-1996 e uno molto brusco nel 2005.» Tuttavia quel censimento disegna un quadro incompleto, non distingue le api impollinatrici a noleggio, viaggianti, dalle api stanziali; include queste ultime soltanto se l'apicoltore è iscritto al registro dei produttori di miele, e non registra le morie invernali provocate da acaro negli allevamenti in cui viene scoperto. S'intuisce che i dati governativi fanno pena. «Non esiste un meccanismo che tenga conto delle colonie tenute da apicoltori dilettanti... né un criterio per escludere le registrazioni plurime di arnie che, per miele o impollinazione, vengono trasportate in camion da un capo all'altro del paese.» Un secon-

do censimento, quinquennale, è ancora più scadente: parte da definizioni diverse, perciò i dati sono incompatibili con quelli del monitoraggio statistico continuo. E non ci sono esperti che controllino se lo stato di salute delle protagoniste corrisponda a quello dichiarato dai loro badanti. Le cause del declino, prosegue il rapporto, sono: innanzitutto l'acaro sterminatore, poi i microbi, funghi, virus, in particolare quelli trasmessi dai fuchi - per la cui vendita non serve il certificato sanitario necessario per le api - allevati per fecondare regine di colonie che lavorano esclusivamente in serre; terza causa una «africanizzazione» delle api da nolo, a causa di incroci che avrebbero dovuto rafforzarle e invece le hanno rese più cattive e inadeguate. Scritto da ricercatori, il rapporto del 2006 dedica poche pagine ai costi crescenti di decrescenti impollinatori, ma fornisce alcune cifre: 150 milioni di dollari la spesa annua per il noleggio colonie; 14,6 miliardi il valore dei loro servizi; 19 miliardi la spesa in più per gli agricoltori in assenza di impollinatori selvatici e gratuiti; 95 le specie di frutta e verdura - nessun cereale - che dipendono da api domestiche, alle quali vanno sommate cinque colture che dipendono da api selvatiche e vespe «appositamente gestite». Seguono alcuni capitoli sulle ricerche da finanziare, e sui provvedimenti urgenti. Il ritornello che chiude ogni capitolo ribadisce l'importanza di avere dati affidabili da cui partire. Conclusione: il Dipartimento dell'agricoltura prenda spunto dai progetti lungimiranti della Commissione europea, per esempio la collaborazione Alarm. Difficile. In Europa ci sono secoli di archivi pubblici e privati, e improvvisamente sono tornati utili gli studiosi di «microstoria», che parevano dei curiosi d'anticaglie. Il progetto Alarm è stato finanziato dal VI programma quadro per «valutare i rischi su larga scala per la biodiversità con metodi collaudati», nell'ottica «dello sviluppo sostenibile, dei cambiamenti globali e degli ecosistemi». In quella ricerca pullulante di fiori e d'insetti, tutto fa brodo per rico-

struire il passato e i cambiamenti intercorsi: atti di processi, diari di parroci di campagna, lettere di castellane, disegni di botanici ed entomologi dilettanti, suppliche di villani al loro signore. Alarm è davvero emozionante, dietro ogni risultato ci sono migliaia di racconti e di personaggi monomaniaci o generalisti, simili al mugnaio di Carlo Ginzburg nel Formaggio e i vermi. Osservatori acuti sono soprattutto i pastori anglicani che mentre trascrivono i propri appunti di storia naturale lodano il Signore per le sue creature, meno peccaminose di quelle del proprio gregge. Tanti protagonisti in attesa di un narratore. Per le cronache sulle libellule, i cui territori si riducono come pelle di zigrino, sulle migrazioni dell'agrifoglio che l'inverno tiepido uccide e per altre trenodie, rimando a www.alarmproject. net. Se qualche epidemiologo ha notato la recrudescenza delle allergie da polline ed è interessato alle possibili cause in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi, segnalo che Alarm ha rilevato un calo dei fiori che dipendono da pronubi e un parallelo aumento di quelli impollinati dal vento. Ciò dovrebbe valere anche per il resto dell'Europa occidentale, pensano gli autori di Parallel Declines in Pollinators and Insect-Pollinated Plants in Britain and the Netherlands, pubblicato su «Science» del 21 luglio 2006. May Berenbaum e il suo gruppo non pretendono dal dipartimento dell'Agricoltura una storia altrettanto stratificata, chiedono soltanto un'indagine rigorosa, da condurre su un campione rappresentativo per ogni stato americano, a cominciare da quelli più esposti. A lungo termine, serve una tassonomia completa dei pronubi selvatici americani. Nessuno sa quante siano le specie e subspecie di bombi e calabroni, per esempio, né quali siano le loro preferenze alimentari. Il dipartimento deve poi finanziare progetti di «lotta sostenibile» ai patogeni: selezionare e semmai sovvenzionare la produzione di pesticidi meno tossici; collaudare sistemi di allevamento con il minor numero possibile di interventi chimici; migliorare il corredo genetico delle

colonie, identificando i marcatori biologici (geni, insiemi di geni, proteine) di vigore, mansuetudine, inclinazione al nomadismo e adattabilità a nuovi ambienti. Ci vorranno anche provvedimenti di tutela del territorio, da concordare con altre amministrazioni federali e statali, che proteggano gli habitat delle api selvatiche o inselvatichite, essenziali per rinvigorire con geni bradi la stirpe ormai fiacca delle operaie industriali. E un comitato, composto da gente senza conflitti d'interesse, dovrà certificare la qualità delle regine messe in commercio. Un programma di buon senso, visto che all'agricoltura servono impollinatrici di bocca buona, precarie e mobili dal Nuovo Messico al Maine; e ai produttori di miele occorrono delle pantofolaie che bottinino un singolo tipo di fiore nel raggio di un chilometro o due. In sintesi e nel linguaggio borsistico di Stephen Buchmann - uno dei 15 membri del comitato di esperti, ed entomologo dell'università dell'Arizona a Tucson - «la nostra miglior difesa contro le coltivazioni perse, le rese insufficienti e le cosiddette crisi degli impollinatori sta nel disporre di api selvatiche e nella gestione di impollinatori non Apis come parte integrante di un portfolio equilibrato per il mondo delle piante spontanee e coltivate». Le statistiche, per quel che valgono, collimano in una curva dalla pendenza sempre più ripida, e il tempo è poco, conclude il rapporto. Il dipartimento ringrazia e ignora la richiesta di più fondi per la ricerca. Dall'anno prima, il governo sovvenziona le coltivazioni di mais da etanolo; gli mancano soldi e personale per accertare la quantità di biocarburante prodotta in funzione di varietà, suolo, clima. Figurarsi per cercare cosa rode le api. Aspetteranno. Non aspettano. David Hackenberg di Lewisburg, in Pennsylvania, ha tremila colonie da nolo, una piccola-media impresa con un giro d'affari di 700-800 mila dollari all'anno. Sa del rapporto scientifico, ma le sue api stanno benone. Porta un primo gruppo di 400 arnie in R&R- riposo e riproduzione in que-

sto caso; la sigla in realtà è militare, sta per riposo e ricreazione fra un turno al fronte e l'altro ed è ritornata in uso nel linguaggio civile con la guerra in Iraq - vicino a Tampa, in Florida, e le impila davanti a una siepe frangivento. A fine ottobre 2006, va con il figlio a controllarle. «Ho sentito subito che qualcosa non andava» racconta. Per l'ennesima volta, presumo, ma gli piace raccontare. «Perché non si sentiva niente. Ce ne sono sempre che ronzano fuori, e invece silenzio. Alzo un coperchio, un secondo, al terzo non uso più l'affumicatore, vado a orecchio, li strappo via, uno dopo l'altro, come un matto... 368 arnie vuote, capisce? Non c'erano neanche le nutrici. Se stanno bene, non succede.» Mai? «Mai. Non se ne vanno mai prima di diventare bottinatrici, aspettano sempre che la nuova generazione prenda il relè. Sono partite perché stavano male. Non per fame, di cibo ne avevano. Perché si sono sentite morire.» Ma dov'erano finite? Non potevano essere sciamate? «A ottobre?» Il tono sottintende un deficit mentale nell'interlocutrice. «Le larve erano vive, quindi se n'erano occupate fino a poco tempo prima, tre, quattro giorni forse. Mi son buttato per terra, carponi con mio figlio a cercare cadaveri, davanti, dietro, sotto la siepe, dobbiamo trovarli gli dicevo. Niente, neanche uno.» A gennaio, gli resteranno settecento colonie. Hackenberg torna a casa e prende contatto con Maryann Frazier e Diana Cox-Foster, all'università della Pennsylva nia. Le conosce, ogni tanto gli chiedono un po' di api per qualche ricerca, e in cambio lo tengono aggiornato. Cercava cadaveri proprio per loro. Insieme a Dennis van Engelsdorp - l'apidologo di stato, un olandese dal volto tondo, occhi blu e barba bionda - le due ricercatrici mandano ai colleghi una email sull'anomalia segnalata a Tampa. Dalla costa orientale arrivano di rimando segnalazioni di colonie disertate nel giro di due settimane. Anche meno, dice Hackenberg, «un mio amico è rimasto con 9 colonie su 1200 tra il venerdì e il lunedì». Né Hackenberg, né l'amico, né Richard

Adee - dell'Adee Honey Farms a Bruce, nel South Dakota, il primo noleggiatore di arnie del paese - sono assicurati. «Nessuno di noi,» conferma Adee «le assicurazioni non ci vogliono, troppi imponderabili. Quando siamo nei guai, infestazioni, siccità... in qualche stato ci sono sovvenzioni dirette o prestiti agevolati, ma non dappertutto.» Dalla frontiera canadese a quella messicana, gli apidologi statali intervistano gli allevatori, ne confrontano le testimonianze, e l'università della Pennsylvania mette sul web il quadro clinico che ne risulta. È scritto in gergo, ma la descrizione dei sintomi viene tradotta e rilanciata in internet da associazioni professionali, riviste, dilettanti. Prodromi del collasso: nutrici in numero insufficiente ad accudire la covata, e tutte giovanissime; presenza della regina; riluttanza delle api rimaste a consumare sciroppi di mais o simili, e integratori a base di proteine. A collasso avvenuto: totale assenza di adulte, rarissimi cadaveri nella colonia o nei pressi; larve e pupe nelle celle di cova; riserve di miele e propoli che altre api non saccheggiano e che coleotteri e tarme vengono a razziare soltanto dopo parecchi giorni. Nel marzo 2007 radio e televisioni chiedono agli apicoltori, colpiti o meno, di compilare il questionario messo on line dalle università e da aziende specializzate come la Bee Alert Incorporated di Missoula, una spin-off dell'università del Montana, tra i primi dieci stati per la produzione di miele. Fondata nel 2003 da due biologi, un informatico e due ingegneri (uno elettronico e l'altro elettrico), l'azienda vende servizi, analisi, consulenze e strumenti di precisione, all'origine costruiti in un solo esemplare, per qualche ricerca. «Volevamo rivoluzionare un'attività rimasta immutata da più d'un secolo» dice Jerry Bromenshenk, presidente della Bee Alert, professore di biologia emerito ora che ha superato i 65 anni. «E lo stiamo facendo. Dopo due anni eravamo già in attivo, oltre al 6% versato all'università pagavamo già le tasse sui profitti.» Una sorpresa, perché «gli apicoltori diffidano delle novità». I bollettini e i siti

internet hanno raccomandato sia i sensori della Bee Alert, che indicano il peso dell'arnia e se è ora di toglierne il miele, cosa che normalmente si controlla de visu estraendo due o tre favi per arnia, sia i contatori che registrano il numero delle api in uscita e in entrata, e se la perdita è superiore «al tasso medio di erosione» del 5-10%. Ad andare a ruba però «è stato l'antifurto contro gli...» Uccelli? «No,» il presidente sorride sotto i baffi grigi, «indovini». Altri insetti, sarebbe normale... Mammiferi? «Sì.» I tassi, i procioni, i... «No, bipedi.» Gli orsi? Il furto delle arnie «avviene su grande scala in tutti gli Stati Uniti dal 2004, quando il prezzo del miele s'è impennato. Gli orsi sfasciano le cassette, non se le portano via lasciando impronte di pneumatici. Abbiamo costruito tre nuovi tipi di antifurto. Una minitarga, una sorta di carta d'identità per ogni arnia, con un lettore che ne legge il codice da 5 metri. Una minitrasmittente che manda segnali radio, fino a un chilometro e mezzo, a una ricevente che lei può tenersi in macchina, così mentre va controlla che le arnie siano al loro posto.» Poi c'è la Sentinella, una scatola nera, grande come un mazzo di carte. «Tecnologia di punta. Può appenderla a un palo o fissarla a un muro. Se un'arnia viene spostata, ne manda il codice a un cellulare, a un indirizzo email o a tutti e due. Forniamo anche il programma per gestire il sistema integrato sul computer.» Quanto costa? «Settecento dollari, ma stia tranquilla, fa presto ad ammortizzarla.» Oggi i furti continuano? «Dai nostri clienti ovviamente no, dagli altri sì anche se dati precisi non ne ho. C'era da aspettarselo, con il Ccd. Però sono iniziati prima. Qualunque cosa stia succedendo alle api, non è cominciata nell'autunno scorso.» Dev'esser successo qualcosa prima del 2004, o la criminalità non avrebbe fatto in tempo a organizzarsi per il furto d'arnie su grande scala. Quando, di preciso? «Di preciso vorrei saperlo anch'io. Sono anni che la situazione si degrada. Per quanto riguarda il Ccd, dalle risposte al nostro questionario, aveva già colpito il Michigan, l'Iowa e il

Wisconsin nella primavera del 2006; nell'estate si è diffuso nel Nord e nel Sud Dakota, in autunno negli stati del Sud e sulle due coste.» A Dennis van Engelsdorp quel che è successo mesi prima non interessa, le piste sono troppo vecchie. Insegue quelle fresche e - seimila chilometri e centodieci allevamenti dopo - torna trionfante, con una manciata di cadaveri. Un rapido esame post-mortem, e poi son fatti a fette. Alcuni restano in Pennsylvania, altri vengono spediti in una ventina di laboratori dotati di attrezzature diverse. Ai primi di maggio, i responsabili delle analisi portano i risultati preliminari al centro studi del dipartimento dell'Agricoltura, a Queensville, nel Maryland. «Sembrava lo scenario di un film di fantascienza» dice May Berenbaum al settimanale «Science» (18 maggio 2007). Convocati in sala di comando, «ciascuno con il suo dossier a fare ipotesi, e gli altri a confutarle». Nei cadaveri hanno trovato soltanto tracce (anticorpi) di infezione da virus, funghi, batteri e altri microbi noti. E gli stessi anticorpi sono stati individuati in api prelevate da colonie sane, quindi deve esserci dell'altro. Il brutto tempo? I bollettini meteo dei 24 stati colpiti si discostano tutti dalle medie stagionali, nessuno nello stesso modo però: più secco, più umido, caldo precoce, nevicata tardiva. Un nuovo pesticida tossico? Ma avrebbe dovuto essere polivalente, buono per i meloni e i mirtilli, le pere e le prugne, e tossico invece soltanto per le api e non per calabroni, vespe, mosconi? Improbabile. Sarà mutata la formula dello sciroppo di zucchero di mais, o saranno cambiati gli integratori alimentari dati per l'inverno? No. Saranno importati dalla Cina? Spiritoso... Che ne dite dei cellulari? Una fumisteria. Fumi, fumi... quelli emessi dai camion nei cui rimorchi vengono sballottate le arnie? Macché, nei carburanti gli additivi sono ancora quelli. Il mais transgenico? Ma si coltiva anche in stati immuni da Ccd. Avanti così per due giorni di brain-storming, sperando che per associazione, magari per una mera assonanza, salti fuori un'idea geniale. A Queen-

sville, «Città della regina», non è saltata fuori. Conclusione mesta di May Berenbaum: «Le nostre conoscenze sono patetiche, si sa così poco della salute di api domestiche e brade», che non è nemmeno possibile dire se il Ccd sia un fenomeno nuovo. Dalla biblioteca del dipartimento infatti, sono emersi due articoli, Api: una scomparsa patologica?, uscito sull'«American Bee Journal» nel 1975, e Api evaporate: una nuova malattia, pubblicato su «Gleanings in Bee Culture» addirittura nel 1897. Ci sono pochi dati - i dati sono l'ossessione di ogni ricercatore - e fanno pensare a un agente patogeno ben tollerato fino alla mutazione che l'ha fatto diventare letale, com'era successo con il virus dell'influenza umana fino alla spagnola. E con quello che nel 1995 ha falcidiato il 90% delle colonie nel Karnakata, lo stato dell'India che era il maggior produttore di miele. O con quello, non identificato, che ha eliminato il 90% delle api di Rimouski, nel Quebec. «Le nostre conoscenze sono patetiche» detto da May Berenbaum è l'understatement dell'anno: se c'è un'enciclopedia sui rapporti tra noi e gli insetti, è lei. Lo sanno tutti, è l'autrice di un classico: Bugs in the System. I suoi «bugs» non sono sempre amichevoli. «Si sono perse e vinte più guerre per via di insetti che per via di tutte le armi messe insieme» spiega. «Trasportano malattie: tifo, malaria, febbre gialla, e sconfiggono più eserciti dei generali più brillanti.» Ma davvero? «Napoleone ha tentato di invadere la Russia, débàcle totale: soprattutto per le perdite dovute al tifo, che ha ucciso un 90% delle sue truppe. Se non fosse per il pidocchio, a Mosca oggi parlerebbero francese.» Berenbaum non capisce l'indifferenza verso gli insetti, la combatte; per quelli utili esige «sicurezza sul lavoro. Interagiscono con noi come nessun altro gruppo di organismi, sono incastonati nella nostra cultura come simboli. Pensi alla metamorfosi, un tema trascendente nella letteratura mondiale. C'è chi sostiene che le piramidi sono la sostanziazione di un'escatologia divina. E che siano ispirate agli scarabei stercorari; i

faraoni ne emergeranno, come questi emergono dallo sterco, dopo un periodo di quiescenza. Non solo siamo circondati da simboli di insetti, li usiamo, e per certi loro prodotti si sono combattute delle guerre. Pensi alla seta: un suo filo regge un peso maggiore di un cavo d'acciaio delle stesse dimensioni. E che cos'è? Sputo d'insetto, sputo di bruco, in sostanza». Dovremmo esser grati a quelle creature: se non ci fossero, «moriremmo soffocati dai nostri stessi rifiuti; il mondo sarebbe di una sporcizia ributtante. Sono piccole, quindi insignificanti? Anche i diamanti sono piccoli» e nessuno più luminoso dell'ape. In un'intervista a David Zax, che cura il mensile della Smithsonian Institution - un insieme di musei e centri di ricerca in storia naturale la cui sede è un castello di mattoni rossi in stile neogotico inglese nel centro di Washington - May Berenbaum spiega che non si può contare sugli impollinatori selvatici. «Abbiamo talmente cambiato il paesaggio che ormai molti di loro non ce la fanno più.» Be', ci penseremo noi, dice David Zax. «Su migliaia e migliaia di ettari?» Comunque i fiori non si lasciano inseminare dal primo venuto. «Sono complicati, concepiti per tenere a bada i visitatori inadeguati che potrebbero portarne via il polline. Inutile illudersi di spolverarlo sul frutteto nella speranza che arrivi giusto sulla microscopica superficie stigmatica del fiore e ne fecondi l'ovulo.» Zax ha una sua «teoria» sulla scomparsa delle api: «Sanno qualcosa che noi non sappiamo e telano». Afferma, a sua volta, May Berenbaum: «Mi piace anche quella dei visitatori extraterrestri che sono venuti a rapire gli organismi più intelligenti del nostro pianeta». Torna seria, il Ccd è «una crisi in cima a un'altra crisi. Studi fatti qualche anno fa prevedono che l'apicoltura commerciale americana potrebbe finire nel 2035». Piano con l'allarmismo, dice Benjamin Oldroyd in What's Killing American Bees?, un saggio pieno di spunti per nuove ricerche, uscito il 12 giugno 2007 su «PLoS-Biology», mensi-

le gratuito on line. «Alcune perdite invernali sono normali» scrive «e poiché la percentuale di mortalità nelle colonie varia enormemente di anno in anno, è difficile dire quando c'è una crisi e quando le perdite rientrano nel continuum. Sappiamo che sono gravi circa un anno ogni dieci, e che succede da moltissimo tempo.» La biblioteca del Laboratorio di comportamento e genetica degli insetti sociali all'università di Sydney, dove Oldroyd lavora, è ovviamente più rifornita di quella del dipartimento statunitense per l'Agricoltura. Di precedenti storici, lui ne ha trovati parecchi: «In Irlanda, la grande moria delle api è avvenuta nel 950, di nuovo nel 992 e poi nel 1443. Uno dei casi più celebri è della primavera del 1906, quando nell'Isola di Wight la maggior parte degli apicoltori ha perso tutte le colonie. Succede anche negli Stati Uniti. Nel 1903, in una valle dello Utah, 2000 colonie hanno sofferto di una "malattia da scomparsa" dopo un duro inverno e una primavera fredda. E nel 1995, in Pennsylvania, il 53% delle colonie è andato perso.» L'Australia non vanta archivi ecclesiastici millenari come l'Irlanda, e ha importato api da miele molto dopo gli Stati Uniti, ma Oldroyd ha trovato scomparse ricorrenti anche nei documenti dell'amministrazione coloniale. «La sindrome è sempre la stessa: le colonie muoiono per mancanza di api adulte. Ma nel 2007 alcuni apicoltori americani ne hanno perse dall'80% al 100%, potrebbe esserci in gioco un fattore nuovo.» Un virus mutato? Lui non lo esclude, preferisce «tenere tutte le opzioni sul tavolo», citando la frase di Condoleezza Rice di pochi giorni prima, a proposito di un eventuale bombardamento dell'Iran. Mentre i biologi vanno alla ricerca dell'eventuale virus, gli ortofrutticoltori mobilitano le proprie lobby statali e federali. Si sentono relegati in serie B da quando i cerealicoitori degli stati centrali ricevono miliardi per produrre etanolo mentre loro si devono spartire la torta di sempre: 16 miliardi di dollari all'anno tra il 2002 e il 2006, stando all'Ocse: non proprio noccioline, ma loro si sentono fuori dal grande

giro. Le lobbie sono ascoltate perché, oltre alla primavera, è in anticipo anche la campagna per le elezioni presidenziali del 2008. Il Congresso, a maggioranza democratica da gennaio 2007, bacchetta quindi l'inazione del dipartimento dell'Agricoltura e l'incompetenza del governo Bush. La senatrice Hillary Clinton, pur abbastanza impegnata in altre vicende, digerisce montagne di rapporti. In aprile manda un elenco di domande molto pertinenti ai dirigenti del dipartimento, che non sanno rispondere. In maggio esige che presentino entro un mese un rapporto esauriente sulla situazione e sulle misure per fronteggiarla. A giugno Mike Johanns, il segretario all'Agricoltura, riferisce in Senato che essendo la questione, ci mancherebbe, una priorità assoluta per il suo dipartimento, i suoi funzionari ci lavorano giorno e notte. La minaccia è di una gravità inaudita, entro pochi anni non soltanto gli americani ma l'intera umanità potrebbe essere ridotta alla fame. Ha letto anche lui la profezia di Einstein? D'altronde, essendo la scienza statunitense la migliore del mondo, il suo Di partimento assumerebbe volentieri e subito la leadership di un'alleanza globale. Purtroppo ha impegnato i fondi in accertamenti sul mais da etanolo. Non poteva esimersi: gli accertamenti erano stati richiesti dalla Commissione senatoriale per le risorse energetiche, quando alcuni studi - tra cui uno diretto da David Pimentel, mitico ecologista dell'università Cornell - avevano mostrato che per far crescere quel mais si consumava quasi tutta l'energia che ne sarebbe stata poi estratta. (Sottinteso: il Senato mettesse un po' d'ordine nelle priorità sue.) Su pressione di eletti repubblicani, in particolare della Florida e della California, l'amministrazione Bush finisce per sbloccare quasi 5 milioni di dollari. Ingrato, il senatore John Casey, della Pennsylvania e della Commissione senatoriale per l'agricoltura, si arrabbia. Insieme a Barbara Boxer, pugnace senatrice democratica ambientalista della California, propone un decreto, l'Impollinator Protection

Act, che stanzia 89 milioni per il piano quinquennale di ricerca auspicato dal dipartimento. A fine settembre il segretario all'Agricoltura Johanns inaspettatamente si dimette. Ha deciso di presentarsi alle prossime elezioni come candidato repubblicano al Senato, nello stato del Nebraska, e così l'Impollinator Protection Act perde l'appoggio dell'unico funzionario che poteva difenderlo contro le mire degli altri dipartimenti. Casey s'arrabbia di nuovo e nasconde 20 milioni di dollari per la ricerca sulle api in un angolo della finanziaria, nella speranza che passi: 38 senatori promettono di votarlo. Metà è di parola: come Casey, si ripresenta alle elezioni del 2008 in uno stato che ha l'ape per emblema. Il decreto slitta e rislitta. Pazienza. Barbara Boxer calcolava che sei senatori contrari a spese per le api, ritenendole sottratte ad altre più urgenti per lo sviluppo di nuove armi, avrebbero rassegnato le dimissioni entro il 31 dicembre. Il 1° gennaio 2008, infatti, è entrata in vigore la legge che impone agli eletti un intervallo di due anni tra la scadenza del mandato e la possibilità di fornire prestazioni retribuite a un'impresa privata. I dimissionari, sperava Boxer, saranno sostituiti da gente che ha a cuore l'America dell'apple pie. Ai primi di dicembre del 2007 i congressisti ricevono una sintesi del rapporto biennale dell'International Food Policy Research Institute: il prezzo al consumo degli alimenti di base è aumentato del 53% tra il 2000 e il 2006. La ricevono anche gli economisti. Se l'America manca di impollinatori, l'offerta locale di cibo diminuisce, mentre la domanda resta invariata: per evitare aumenti nei costi degli alimenti di base nel 2008, gli autori del rapporto consigliano di ridurre le tariffe sulle importazioni, come l'Organizzazione mondiale del commercio chiede invano dal 2001. Al Congresso però prevalgono i protezionisti, che non ne vogliono sentir parlare. Il dollaro intanto è calato e le importazioni non sono affatto convenienti. I clienti di Melissa Inc., un distributore di frutta fresca, ricevono le pere coreane in confezione da otto

al prezzo di dodici, un aumento del 50% rispetto al 2006. Nei modelli di previsione a breve termine degli analisti finanziari, il fattore Ccd, accompagnato dal segno meno e da un punto interrogativo, finisce dopo i mutui sub-prime, il barile di brent a 100 dollari, e il deficit del bilancio federale, i milioni di consumatori che si sono sovraindebitati con le carte di credito... In fondo all'elenco: gli economisti pensano che la crisi delle arnie passerà presto. I politici pensano invece che «l'ape è l'animale più amato dagli americani».

Parte prima

La vittima

I Chiara fama Sono l'ape operaia del presidente operaio. MICHELA VITTORIA BRAMBILLA

L'iperattività del Congresso e le dichiarazioni del segretario per l'Agricoltura sono state commentate con stupore dai media europei. Alcuni hanno ironizzato sulla solita megalomania per cui una difficoltà in casa nordamericana diventa il sintomo d'un disastro planetario. Disastro, tuttavia, significa aumento dell'audience e dei lettori. Passati lo scherno (per quell'esibizione d'imperialismo), la carità pelosa (aiuti alimentari per gli Usa, roba buona, altro che Ogm), la Schadenfreude (sono nelle peste, se le son cercate, a furia d'esportare la democrazia a suon di bombe), l'insistenza sulla superiorità intellettuale del Vecchio Mondo (qui sì che sappiamo curare le api, lo facciamo da millenni) e vari sentimenti antiamericani espressi anche in altre occasioni, gli inviati italiani sono stati mandati al fronte, fra le arnie locali. E son tornati con notizie allarmanti. Strage di api per il caldo, titola «La Stampa» il 6 agosto 2007. «Nel nostro paese gli alveari sono più di un milione e ospitano una popolazione di 55 miliardi di api, di cui si prende cura un esercito di apicoltori (più o meno 50 mila) per un giro d'affari complessivo di 60 milioni di euro.» «Fioriture anticipate: i ritmi della natura non sono più gli stessi, e gli insetti non riescono a star dietro ai cambiamenti. Pesticidi killer: le polveri velenose che si depositano sulle piante sterminano tutti gli animali, anche quelli utili all'uomo.» Da qui le conversazioni in spiaggia. Per i bagnanti come per i giornali è una notizia fra tante. Niente ministri convocati in Senato, niente fondi sbloccati dal governo e, come la media degli italiani, i vicini di sdraio non ricordano quando hanno comprato l'ultimo vasetto di miele, ma di sicuro

era l'anno prima. Gli americani, non li capiscono proprio. Con quello che succede in Iraq, in Afghanistan, non hanno nient'altro di cui preoccuparsi? O non sarà per farlo dimenticare, invece? In spiaggia forse manca quel minimo di storia politica, religiosa, militare e intellettuale dell'ape in America che, confrontato con un brandello di storia dell'ape da noi, avrebbe fatto capire l'attivismo dei senatori e l'ansia del segretario all'Agricoltura. Invece l'America è stata incompresa. Operosa, frugale e virtuosa in senso lato, l'ape aveva le qualità in cui si riconoscevano i bianchi anglo-sassoni protestanti (white anglo-saxon protestants, designati con la sigla Wasp, cioè «vespa») che s'imbarcarono con le proprie arnie per la Virginia e il Massachusetts, dove si aprì nel 1642 il primo apiario municipale. L'ape aveva anche le qualità che i padri fondatori della repubblica nordamericana - alcuni dei quali amavano farsi ritrarre nei panni dell'onesto contadino, cappello di paglia e forcone sotto l'ascella - volevano infondere nella cittadinanza. Ma se l'aquila è l'emblema degli Stati Uniti è perché l'organizzazione sociale dell'alveare si prestava a troppe interpretazioni contrastanti. L'operosità era un valore, non c'erano dubbi. Praticato con assiduità, non c'erano dubbi. Qui la gente pensa soltanto a lavorare, osservano Tocqueville nella Democrazia in America, quasi i francesi di allora fossero dei fannulloni, Max Weber nell'Etica protestante e lo spirito del capitalismo, quasi i servi della gleba russi e ortodossi si crogiolassero nell'ozio quanto i francesi, e Bee Wilson in The Hive. Tocqueville e Weber sono dei classici, non insisto. La Wilson deve ancora diventarlo, e forse serve una breve presentazione. Autrice inglese, colta e spiritosa, critica gastronomica del «Sunday Telegraph», narra il fascino imperituro degli alveari e derivati, tra cui miele, cera e allegorie. Dalla seconda metà dell'Ottocento e fino alle lotte per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam, scrive, negli Stati Uniti l'ape svanisce dalla retorica di insegnanti e scrittori, politi-

ci e predicatori. Ricompare però negli anni Settanta quale simbolo di ben sedici stati sia repubblicani sia democratici e comunque industriosi: Arkansas e Carolina del Nord (1973), New Jersey (1974), Georgia, Nebraska e Maine (1975), Kansas (1976), Louisiana, Vermont e Wisconsin (1977), South Dakota (1978), Mississippi (1980), Missouri (1985), Oklahoma e Tennessee (1992). Quest'ultimo con il supporto dell'allora senatore dello stato, Al Gore Jr. Durante l'eclisse di popolarità, l'ape era diventata l'emblema dei mormoni. Il loro profeta John Smith era stato assassinato nel 1844, e ovunque i suoi seguaci cercassero di fondare la nuova Sion venivano cacciati in malo modo. Finché Brigham Young, l'imprenditore dalle ventisette mogli - però mai più di ventuno per volta - s'incaricò di guidarli verso la terra promessa. Che si trovava nell'Ovest, sulle rive aride d'un lago salato. Young chiamò l'insediamento Stato provvisorio del Deseret, termine che nella lingua segreta dell'ultimo vangelo - lasciato su sottili fogli d'oro dall'angelo Moroni a John Smith che non sapeva scrivere ma lo dettò agli amanuensi, e poi i fogli svanirono - significa sia ape sia frugalità, operosità e virtù. La sicurezza materiale dei mormoni, pensava Brigham Young, andava fondata sull'autosufficienza, e protetta dalla ricchezza. La comunità doveva perciò guadagnarsi con il sudore della fronte molto più del pane, e reinvestire i profitti nelle imprese di famiglia, la quale, moltiplicata dalla poligamia, coincideva con la cerchia dei fedeli, cioè la po polazione del Deseret meno gli infedeli tollerati in quanto indispensabili ai commerci. A ricordarlo ogni giorno, motivi ad ape, favo e alveare decorarono interni ed esterni degli edifici di Salt Lake City. Poi il Deseret aderì all'Unione, nel 1896: rinunciò alla poligamia, allo studio obbligatorio del vangelo secondo John Smith nelle scuole, ma non all'ape. E cambiò il nome in Utah (ci vivevano gli indiani Ute, prima). Era ora. Negli altri stati federali, l'indipendenza dei mor-

moni - e forse il loro successo economico - suscitava un'ostilità crescente. Superavano il livello, peraltro ben più alto di oggi, di eccentricità tollerata - nel periodo in cui ogni illuminato poteva crearsi una comunità sulla quale sperimentare dal vivo la bontà delle proprie idee, educazione, forme di culto, docce fredde e fiocchi d'avena, o divisione del lavoro, dei beni, dei ruoli. Una volta dimenticato il Deseret, scrive Bee Wilson, l'ape torna «l'animale più amato dagli americani». Vista la recente adozione del simbolo in sedici stati, avranno dimenticato anche i legami con la massoneria, guardata con sospetto in Usa come in Italia, e con le lotte operaie del Vecchio Mondo. Ai primi del Novecento, infatti, dalle nostre parti l'alveare era risorto per l'ennesima volta quale modello di società, desiderato o temuto a seconda del punto di vista e della classe di appartenenza. Esattamente come nei tre millenni precedenti. Oltre che le virtù condivise in teoria da protestanti e mormoni, all'ape sono state attribuite tutte quelle auspicabili, in se stessi e ancor di più negli altri: ubbidienza, altruismo, castità, coraggio, solidarietà, saggezza, ordine, intraprendenza, generosità, vigore, disciplina, igiene personale e collettiva, abnegazione, senso del dovere ecc. Divinità in India, Egitto, Scandinavia, antica Grecia o a Roma, nelle rispettive mitologie, l'ape era la portatrice sacra del miele, l'oro liquido e risanatore, e della cera bianca e pura, fonte di luce. Due doni così palesemente celestiali collocano l'ape molto al di sopra delle formiche. Sociali, allegoriche, attive, morigerate, diligenti anch'esse e osservate con analoga passione dall'antichità, alla fine però producono soltanto un formicaio. Basta la parola a distinguerlo dalla rigorosa geometria dei favi, dalla perfezione architettonica degli alveari, costruiti per la collettività proprio come le cattedrali - da qui il nesso con la massoneria - ma, diversamente da quest'ultime, produttive. I doni erano davvero una manna. La fiamma dei ceri brucia stabile e profuma-

ta, e soltanto nel 1907 la Chiesa comincia a sostituirli con quelli di paraffina. La cera d'api avrebbe accompagnato la diffusione della scrittura (e della pittura) e la trasmissione del sapere nelle grandi civiltà, dicono parecchi storici. «In pieno XVIII secolo ci si illuminava ancora con deboli fiammelle, mobili e fuligginose, come si era fatto per millenni: torce imbevute di resina, lampade a olio e candele in sego o in pece» scrive Jean-Marc Lévy-Leblond nella Velocità dell'ombra. «Le bugie di cera, così chiamate per la città algerina di Bougie che per molto tempo ha prodotto una speciale cera finissima, facevano meno fumo... ma erano ancora molto dispendiose e riservate ai ricchi.» E agli studiosi di corte o di chiesa. Quanto al miele, dove mancavano datteri, uva e fichi da seccare, per tre quarti dell'anno non ci fu dolce più dolce. Questo fino alla colonizzazione, alle piantagioni di canna da zucchero, alla tratta degli schiavi, e alla scoperta del metodo per estrarre saccarosio dalle bietole e fruttosio dal mais e da altre piante. Lo zucchero di massa è storia recente. In quella antica, filosofi e poeti studiavano gli alveari dal vivo e sui trattati dei predecessori, spesso finanziati da mecenati che volevano incrementare la produttività delle arnie. A Mecenate in persona Virgilio riassume i miti e il sapere accumulato fino a quel momento. Il libro IV delle Georgiche andrebbe citato tutto, anche se la biologia è sbagliata. Virgilio chiama l'arnia una «piccola repubblica», guidata però da un re impavido che a primavera parte con il proprio esercito per combattere un rivale. Stessa descrizione all'incirca nel poemetto Le Api di Giovanni Rucellai, «gentil'huomo fiorentino le quali compose in Roma, de l'Anno 1524 essendo quivi Castellano di Castel Sant'Angelo», un omaggio al quarto canto delle Georgiche. La biologia sbagliata rimane fino ai Lumi. Nonostante gli sforzi di Aristotele l'immancabile, di Varrone, Cicerone, Catone, Plinio, Aristomaco - che a dire di Plinio le aveva

osservate per cinquantotto anni - e altri, il sesso delle api varia insieme alle opinioni politiche. Ma come nascono le api? La risposta sta nell'anatomia e nei ruoli sociali: c'era una classe operaia con pungiglione; un'esigua minoranza di sfaccendati, privi di pungiglione; un fuoriclasse unico, dalla statura imponente, asileus o rex o padre della patria, dotato di pungiglione, che percorreva i favi circondato da guardie e servitori. Nelle Georgiche nessuno di loro si riproduce: «E meraviglia avrai di un'altra usanza dell'api: non inducono all'amplesso, non rendono fiacchi i corpi col piacere, né i figli partoriscono tra le doglie. Infatti con la bocca esse raccolgono i nati che le foglie generarono o qualch'erba soave». Ma Virgilio racconta poi la leggenda di Aristeo, figlio di Apollo e di una ninfa, supremo apicoltore che cerca di rapire Euridice a Orfeo nel giorno delle nozze: lei, mentre fugge, calpesta un serpente, ne viene morsa e muore. Per punizione muoiono anche le api di Aristeo, che si pente e, su consiglio della madre, sacrifica alle ninfe quattro tori e quattro giovenche. Ed «ecco le api dalle viscere putride dei bovi per tutto il ventre venir su ronzando, brulicare dai fianchi lacerati e affollarsi in nugoli infiniti: quindi in cima a un albero s'ammassano e pendon giù dai curvi rami a grappoli». Grazie alla madre, quindi, Aristeo aveva scoperto la «bugonia», la generazione spontanea degli insetti da cadaveri in putrefazione. In casi eccezionali, la bugonia funzionava in un caro estintosi di recente e ancora di bell'aspetto. La defunta Euridice, per esempio, da cui si librò uno sciame che in vece sua accompagnò Orfeo fuori dall'Ade. Dal momento che «i nati che le foglie generarono, o qualche erba soave» erano, si presume, in numero insufficiente, Virgilio suggerisce a Mecenate di sacrificare un vitello, l'animale più adatto a una bugonia generosa. Ma c'erano altre possibilità. Quando dovevano ripopolare gli apiari faraonici, gli egizi utilizzavano all'uopo animali sacri o

nobili, tori, leoni, cavalli, cammelli, e per le grandi occasioni il cadavere di un nemico prestigioso. Anche i greci credevano alla bugonia. Aristotele, ça va sans dire, confidava nella ragione, e questa stabiliva che la natura fornisce alle femmine armi non da combattimento bensì da seduzione. Ergo, gli operai erano maschi, almeno in parte. Stabiliva inoltre che un vero maschio non accudisce la prole, men che meno quella altrui. Ergo, gli operai erano androgini e generavano i fuchi: quelli sì femmine, disarmate, ridondanti e vergini fino alla morte - mentre il grande re, androgino pure lui, generava il successore e gli operai. Era il patriarca, e l'arnia era una monarchia assoluta. Nei paesi nordici, al contrario, la bugonia non richiedeva spargimenti di sangue, avveniva negli alberi, i quali producevano esclusivamente femmine; e l'arnia era un matriarcato. L'idea tornò comoda a cortigiani e poeti inglesi, che attinsero al repertorio sassone per elogiare Elisabetta I, Anna, e anche alcune regine consorti, fino all'imperatrice Vittoria. Pericolante nell'Ottocento per colpa di Napoleone I, la tradizione bugonica non è sopravvissuta al Novecento. Niente «Ode all'Apis regina commonwealthiana» da parte di Andrew Motion, il Poeta Laureato cui spetta comporre opere di circostanza, per celebrare nel 2006 l'ottantesimo compleanno di Elisabetta II. Peccato. Sua Maestà è proprietaria, tra l'altro, di migliaia di colonie di api distribuite fra Sandringham e Balmoral, senza contare quelle che bottinano sulle tenute «bio» del principe ereditario. La dottrina della bugonia risulta fra le più longeve. È stato faticoso concepire che gli insetti avessero una vita così varia. Era comprensibile che dalle uova nascessero larve, vermi, bruchi ma non la metamorfosi di queste in pupe e mosche, api o libellule: la differenza tra lo stadio giovanile e quello adulto era troppa. Con l'avvento del metodo scientifico e dei microscopi, la teoria bugonica è stata sussunta

in quella più ampia della «forza vitale» che dalla materia organica, inanimata, produce nuove creature. Questa generazione spontanea, ribattezzata più tardi abiogenesi, resisterà per altri due secoli. A dispetto sia di Francesco Redi - che mise carne cruda in barattoli senza tappo, con tappo, o coperti con una reticella, e per pura fortuna (la reticella avrebbe potuto lasciar passare dei moscerini, ma a Pavia quell'estate non c'erano) i vermi brulicarono soltanto in quelli senza tappo - sia di Lazzaro Spallanzani, che fece cuocere dei microbi per un'ora in brodo di coltura, sterilizzandolo e precorrendo la pastorizzazione. No! strepitò John Needham, un reverendo anglicano che nel 1745 aveva realizzato l'esperimento a suo avviso risolutorio: aveva versato del brodo di pollo filtrato in una bottiglia, e l'aveva tappata, eppure dopo un mese erano comparse delle creature. No, secondo Needham, Spallanzani aveva stracotto il proprio brodo e quindi ucciso la forza vitale! Così come Redi aveva tappato i boccali impedendole di penetrarci insieme all'aria! In quelli che lui, Needham, copriva con una reticella, i vermi brulicavano. Eccome. Spallanzani rifece l'esperimento del brodo di pollo, ma lo racchiuse in un boccale sotto vuoto e non comparve niente, la forza vitale non esisteva. Ma no! Pompando l'aria fuori dal boccale, ha dimostrato che la forza vitale sta proprio nell'aria, obiettò Needham. Le critiche di Needham innescarono una delle polemiche più virulente della storia scientifica, con duelli non soltanto verbali. Alla fine del Settecento, decenni dopo le prime osservazioni accurate del volo nuziale della regina, del suo accoppiamento con più fuchi che morivano a dovere compiuto mentre lei rientrava nell'arnia con l'addome irto dei loro peni e gonfio del loro seme, la controversia si spostò dall'origine degli insetti a quella dei germi. Terminò, più o meno, quando l'Accademia delle scienze di Parigi offrì un premio a chi avesse fornito prove inconfutabili prò o contro la generazione spontanea. Lo vinse Louis Pasteur nel

1864: perché aveva usato effetti speciali, dissero gli oppositori. No, ho usato il metodo scientifico, ribatté lui in un celebre discorso alla Sorbona. Quel discorso, almeno per i cinefili, è il lieto fine della contesa, dopo la scena in cui, «come» san Giorgio il drago, Paul Muni affronta gli accademici che lo trafiggono di frecciate «come» san Sebastiano, in The Life of Louis Pasteur di William Dieterle (Warner Bros, 1936), un low-budget tra agiografia e thriller giudiziario, memorabile anche per gli inaspettati incassi. Dopo il miele e la cera, il terzo dono dell'alveare è il «come». La pletora di allegorie, metafore (una per tutte, in inglese: honey per «dolce amica»), analogie, metonimie, mimesi e altre imperfette similitudini ch'esso non smette di suscitare. Per esempio: «Michela Brambilla (39 anni, capelli rosso fuoco, tailleur e tacchi a spillo, presidente dei neonati "Circoli della libertà" che dovrebbero dare nuova voce al centrodestra), erede di una dinastia industriale e miliardaria... si definisce l'ape operaia del presidente operaio», si legge su «Vanity Fair» del novembre 2007. Alcuni organi di stampa riportano la definizione con sussiego. Pochi ci vedono uno sforzo per superare il livello dei tacchi a spillo e portare il dibattito sui modelli proposti dalla letteratura - vastissima e plurimillenaria - che tratta dei rapporti ideali tra i membri di una polis: per esempio dal De Virginibus, opera del santo patrono dell'operosa e onesta capitale lombarda, che da fanciullo le api avevano nutrito del proprio miele, salvandolo da morte certa. Dalla Lombardia il dibattito non è decollato, forse perché Roma ladrona ha la memoria lunga e sa quanto la questione della polis sia lacerante. Aveva del resto dilaniato anche i politici americani dopo la guerra d'Indipendenza. Per approfondimenti sulla scelta dell'aquila federale e il ritorno in auge dell'ape nei singoli stati, rimando anche gli elettori italiani al già citato The Hive di Bee Wilson. Ci troveranno alcune delle utopie storicamente associate all'emble-

ma scelto da Michela Brambilla per rappresentare se stessa, Silvio Berlusconi e, se ne deduce, il partito. L'intenzione è ottima. Nell'alveare unità e libertà coincidono, il bene comune è perseguito con il consenso e la partecipazione di tutti e tutte in un'armonia che nessun tipo di associazione umana - dalla coppia alle Nazioni Unite - raggiunge mai. Bisogna imitarne il buon governo. Ma come si governano, le api? Nei regimi autoritari già cercare una risposta sarà stato pericoloso, riferirla ancora di più. Il mistero rimase irrisolto finché qualcuno si accorse che l'alveare aveva un Re. Cioè prima del V secolo a.C. Ed è da allora che ci sono tracce scritte dei paragoni tra l'ordine costituito e quello di natura. Restava appunto da scoprire i metodi di quel buon governo, tradurli in mito o poesia o favola, e sotto forma d'intrattenimento far arrivare consigli all'equivalente leader umano, soprattutto se egli dava ai sudditi motivi per ribellarsi. L'ape Re per esempio non usava mai il pungiglione, non ne aveva bisogno. Magnanime, generoso, mai che accaparrasse tutte le ricchezze; era amato dai sudditi, che ne anticipavano i desideri e gli sacrificavano la propria vita ancor prima ch'egli la chiedesse. Se il poeta o il filosofo voleva ingraziarsi il governante di turno, invertiva i termini dell'equazione, ed era il Re delle api a copiare le virtù del governante umano. I primi cristiani colsero il divino insegnamento dell'arnia nello stesso modo e, api nell'anima, eran d'esempio alle anime altrui. Sant'Ambrogio, che aveva per emblema un'arnia, nel De Virginibus li esorta a «lavorare quali api al favo, un confacente paragone di laboriosità, di modestia e pure di continenza, giacché le api si nutron di rugiada e non conoscono il talamo nuziale». Per i cattolici, l'alveare era «come» il convento, dove monaci e monache tessevano le lodi del Signore col dolce brusio delle proprie preghiere, mentre coltivavano gli orti o pulivano le celle: vergini, nubili e celibi, e attivi dall'alba al tramonto.

Però avevano arnie, ne filtravano il miele più limpido, la cera più immacolata e, rifornite le chiese e le proprie dispense, scambiavano l'eccedente con merci e favori. Conventi e abbazie fondati sull'ascetismo acquisivano privilegi, ricchezze, potere, le prediche contraddicevano le pratiche. Così la Riforma bandisce i ceri e le statue di cera dagli abiti sfarzosi, l'incenso e il resto dell'armamentario dei papisti, corrotti, spacciatori d'indulgenze, spietati con gli inermi e concilianti con i potenti. E il papato stesso ad abusare delle api per celare le proprie nefandezze, sostengono i protestanti nel Seicento. In Lo zoo sacro Vaticano. Iconografia e Iconologia zoomorfa nella Basilica di San Pietro lo storico dell'arte Sandro Barbagallo censisce 500 api, ma soltanto 470 colombe, 100 draghi, 38 leoni, 35 aquile, 24 serpenti, 15 agnelli, 7 delfini, 4 cani, 3 pipistrelli, 2 lucertole, un gatto, un coccodrillo, un unicorno. «Colpisce che l'animale più rappresentato in assoluto siano le api» scrive Barbagallo, e superino addirittura le «prevedibili colombe, simbolo dello Spirito Santo e citate in tanti episodi delle Sacre Scritture come il Battesimo di Gesù». Le api «richiamano l'industriosità, la fatica, la tenacia e l'eloquenza, e sono da collegare allo stemma dei Barberini, tra i committenti della Basilica». Per un qualche miracolo, avevano sostituito sullo stemma pontificio di Urbano VIII, Maffeo Vincenzo Barberini, i tre mosconi pittati d'oro del suo casato. I protestanti non si lasciarono sfuggire l'occasione di ricordare che, prima, quella famiglia faceva di cognome Tafani, insetti molesti e succhiasangue. Morale: le api si prestano alle contraffazioni. È il periodo in cui la loro reputazione declina. Arrivano navi cariche di zucchero delle Indie, molto più dolce del miele, e più facile da usare in cucina. Morale: i doni celestiali erano perfettibili e quindi non di origine divina. Per di più, sorgono dubbi sulla castità del Re. Peggio ancora, si scopre che è una regina. No, questo è troppo. La notizia è incredibile e infatti non ci crede nessuno. Non ci

crede Voltaire, e alla voce «Api» del suo Dizionario filosofico scrive: «Non so chi in seguito diede loro una regina al posto d'un re, né chi per primo suppose che quella regina fosse una Messalina dal serraglio prodigioso, che passava la vita a far l'amore e a partorire, che faceva e alloggiava circa quarantamila uova all'anno. Qualcuno si è spinto oltre: ha preteso che deponesse tre specie diverse, regine, schiavi chiamati bombi (sic), e serve chiamate operaie, il che non va molto d'accordo con le normali leggi di natura. Vari naturalisti hanno ripetuto quelle invenzioni e non avendo api» - a differenza di Voltaire che ne tiene, a Ferney - «ricopiano volumi sull'industriosa repubblica, come ... il signor Conte nello Spettacolo della natura». (Qui c'è un lapsus: lo Spettacolo della natura è un'opera allora assai derisa dell'abate Antoine Pluche, mentre il Conte era Georges Louis Ledere di Buffon, del quale stanno uscendo i primi volumi dell'Histoire Naturelle e vendono più dell''Enciclopédie. Voltaire non perdona.) Quella voce del Dizionario è un commento alla Favola delle api uscita in Inghilterra nel 1705 e in traduzione francese nel 1740, per disingannare i repubblicani e zittire le critiche dei protestanti dissidenti per i quali re e regine, capi della Chiesa anglicana e nobili si crogiolano nell'ozio e negli sfarzi. La satira più famosa nella storia degli alveari utopici, e la tesi mercantilista dibattuta da filosofi ed economisti da Hume a Adam Smith ad Albert Hirschman - è di Bernard de Mandeville, medico olandese emigrato a Londra. Gli insetti sono riconoscibili in quanto tali soltanto nel poemetto introduttivo, L'alveare brontolone, di cui Voltaire offre «un petit précis»: «Les abeilles autrefois / Parurent bien gouvernées. / Et leurs travaux et leurs rois / Les rendirent fortunées. / Quelques avides bourdons / Dans les ruches se glissèrent: / Ces bourdons ne travaillèrent, / Mais ils firent des sermons. / «Nous vous promettons le ciel; / Accordez-nous en partage / Votre ciré et votre miei.» / Les

abeilles qui les crurent / Sentirent bientòt la faim; / Les plus sottes en moururent. / Le roi d'un nouvel essaim / Les secourut à la fin. / Tous les esprits s'éclairèrent; / Ils sont tous désabusés; / Les bourdons sont écrasés, / Et les abeilles prospèrent». Non saprei rendere in italiano il ritmo, da canzoncina per bambini, delle rime lunghe e brevi. Comunque ecco il senso: un tempo le api parevano ben governate, e le loro opere e i loro re le rendevano fortunate. Certi avidi bombi s'infilarono nelle arnie. Quei bombi non lavoravano, facevano soltanto prediche. «Vi promettiamo il cielo; accordateci di condividere la vostra cera e il vostro miele.» Le api che credettero loro, presto patirono la fame; le più stupide addirittura morirono. Alla fine le soccorse il re d'un nuovo sciame. Tutti gli spiriti si rinfrancarono, i bombi furono schiacciati, e le api ripresero a prosperare. L'anticlericale Voltaire riassume a modo suo il poemetto di Mandeville, ma subito dopo ne interpreta fedelmente la Favola. «I vizi privati portano a pubblici benefici» scriveva Mandeville «e la prosperità di una nazione si fonda su la Frode, il Lusso e l'Orgoglio.» Lo dimostra l'arnia, apice d'ogni agio, sentina d'ogni vizio e perciò prospera. Ma un giorno i suoi abitanti decidono di diventare onesti e frugali, in mezz'ora crolla il commercio di lusso, seguito dall'intera economia nazionale, e i neo-onesti finiscono in miseria. Un po' esagerato, commenta Voltaire, ma in sostanza corretto. «Senza la vanità delle gran dame, niente belle manifatture di seta, niente operai e operaie di mille generi; senza l'avarizia dei negozianti, le flotte inglesi sono annientate e la nazione ridotta alla mendicità», senza ladri, niente «buona legislazione» né mezzi di sussistenza per chi la fa applicare, «niente guardie, tribunali e boia», anche i fabbri non vendono più serrature «e muoiono di fame». A parte le api, le idee di Mandeville si ritrovano sia nell'odierna economia liberista - per la quale soltanto un dittatore demente reprime il libero mercato dei beni di lusso

(il riferimento è spesso a Kim II Sung) perché il popolo non sappia di quali agi si gode in democrazia - sia nella politica liberale sul patto tra stato e cittadino: il primo è pagato dal secondo per badare al bene comune, e dei vizi privati non s'impicci a meno che non violino libertà e diritti di terzi. È rintracciabile anche nell'«ambientalismo scettico» à la Bjorn Lomborg, detto «consenso di Copenaghen», secondo cui - incaricate le Nazioni Unite di distribuire 50 miliardi di dollari in dieci anni per costruire il sistema educativo, sanitario e fognario dei paesi poveri - la mano invisibile del mercato eliminerà i mali del pianeta quali inquinamento, riscaldamento globale, estinzione delle specie, esaurimento delle risorse energetiche, idriche ecc. Per i fautori del consenso di Copenaghen, i verdi della tendenza «ecologia profonda» - che vogliono la riduzione dei consumi nei paesi occidentali - complottano per condurre tutti alla miseria del Terzo Mondo. Malgrado Voltaire, gli illuministi francesi si arresero all'evidenza scientifica, alla presenza di quella femmina grande e grossa. Non poteva che essere una buona madre universale, e la conferma che la monarchia - maschia per definizione in un paese di legge salica - non esiste in natura, e non doveva esistere tra gli uomini. L'alveare restava pertanto la società ideale cui aspirare perché la sua armonia derivava dal buon governo autentico, non dalla caricatura proposta da propagandisti prezzolati. Tra gli uomini, quell'armonia doveva perciò derivare dal governo scelto da cittadini dotati di ragione, che sanno qual è il bene comune e come perseguirlo. Era l'ora di seguire l'esempio dell'alveare vero. La Rivoluzione sparge allegorie di arnie, favi e celle come Sant'Ambrogio e i Barbarini-Tafani. Conta anche sui savants per migliorare i raccolti e la produzione degli opifici, e per armi in grado di sconfiggere la coalizione dei principi. E i savants scoprono cose tremende sull'ape regina, altro che castità; tiene all'ingrasso i fuchi, ne trae piacere e poi li uc-

cide. Quegli sventurati sono vittime della sua sfrenata lussuria, altro che aristocratici o scansafatiche; la regina inoltre costringe nutrici e operaie a ritmi infernali, altro che svolazzar leggiadre di fiore in fiore. E una Maria Antonietta. Il naturalista Louis Daubenton, uno dei savants più in vista per i lavori di anatomia comparata e per i circa novecento articoli scritti per l'Encyclopédie su piante e animali e su come farli moltiplicare, diede l'interpretazione politicamente corretta dell'allegoria. Proprio dalle stravaganze dell'odiata Maria Antonietta si deduceva che l'alveare non era governato da una regina: era una repubblica. Una repubblica socialista, precisarono a cavallo dell'Ottocento Charles Fourier, Saint-Simon, Owen, perché un'ape separata dalle altre muore. Se i mezzi di produzione fos sero una proprietà collettiva e si usassero a turno senza distinzione di classe, sesso o talento, gli esseri umani imparerebbero finalmente la solidarietà sociale che nelle api è innata. Visione ingenua secondo John Minter Morgan, l'autore socialista-luddista della Rivolta delle api (1826): le nostre città erano alveari idillici in mezzo ai campi, scrive, ma la rivoluzione capitalista ci ha introdotto le macchine, e ha preteso dalle operaie la produttività insensata che ne ha distrutto il legame sociale. Visione semplicistica, secondo Marx. Che ha provveduto a complicarla e si è permesso pure di criticare l'architettura delle api, a suo avviso ripetitiva e stucchevole. È stata imitata dai condomini a conigliera di Le Corbusier, dalle villette a schiera di migliaia d'architetti novecenteschi, ispirati da una visione egualitaria, se non proprio marxista. Comunque il giudizio del filosofo rivoluzionario è datato. Oggi l'ape è l'incarnazione dello sviluppo sostenibile, l'artifex naturae che trasforma in energia, alimenti e palazzi delle materie prime interamente rinnovabili senz'altro strumento che il proprio corpo. In simili circostanze, Marx non sarebbe stato capace di fare un

mattone; né, se Engels glieli avesse portati già pronti, di costruire un muretto. Nemmeno se Engels gli avesse prestato anche la cazzuola. Quei due, del resto, non erano per il «ritorno alla natura». Che è però in voga da metà del Settecento e ha attraversato indenne fino a oggi le fughe di poeti romantici su laghi alpini o litorali tirrenici, i villaggi sperimentali di socialisti e riformatori americani di fine Ottocento, i kibbutz israeliani, le comunità dei figli dei fiori e successive articolazioni. In Francia lo stato di natura, in felice equilibrio tra i nostri desideri e le risorse circostanti, era diventato di moda tra le aristocratiche del Settecento che giocavano alla pastorella - sulle terre avite o con Maria Antonietta al Piccolo Trianon - per aver letto l'Emile di Jean-Jacques Rousseau. Il filosofo ammirava l'autosufficienza e l'equità dell'alveare dove il miele è di tutti, a ciascuno secondo i propri bisogni. Lo zucchero di canna era un artefatto, d'ostacolo a una società democratica ed egualitaria, perché faceva prevalere sull'interesse comune i tornaconti di piantatori, armatori, banchieri e del commercio in generale. Rousseau è morto nel 1778, troppo presto per vedere Bonaparte farsi incoronare imperatore in un mantello di velluto rosso tempestato di api d'oro - come Childerico I, il re dei Franchi sepolto nel 481 con (oltre a false monete romane) trecento api d'oro sul manto, forse per desiderio del figlio Clodoveo. Il quale poi, convertito al cristianesimo, inventò la legge salica che vietava alla figlia d'un re d'ereditarne il trono. In ogni modo, Bonaparte e i suoi consulenti per l'immagine intendevano significare che il regno del Corso s'iscriveva nella continuità francese. La scelta dell'antenato metteva però sull'avviso la coalizione dei principi europei: Childerico aveva sconfitto i visigoti e fermato l'avanzata degli alemanni e per il resto era uno sciupafemmine, crudele con i nemici che si arrendevano, e impareggiabile saccheggiatore. Almeno in questo Napoleone lo emulò davvero, in Egitto come in Italia.

Il nipote Luigi - socialista da giovane, presidente eletto di una repubblica nel 1848, golpista nel 1851 e imperatore tramite plebiscito nel 1852 con il nome di Napoleone III si riteneva l'erede delle api dello zio. Victor Hugo, senatore all'opposizione sotto la monarchia costituzionale e sostenitore della repubblica, le aizzò ad alzarsi in volo dal mantello imperiale per trafiggere l'usurpatore in Napoléon le Petit, un pamphlet subito sequestrato dalla polizia. Il poeta si esiliò a Bruxelles, e trovò un editore che ne fece un best-seller del contrabbando. A tratti feroce come l'Eros e Priapo di Gadda, a tratti nostalgico di un giovane Bonaparte di fan tasia, dopo averle incitate al delitto l'autore non parla più né con né delle api. Con loro parla invece, e anche di politica, lo storico Michelet nell'Insetto: al contrario di Marx, ammira la possente architettura dell'alveare. E parla Maurice Maeterlinck, poeta simbolista, premio Nobel per la letteratura nel 1911, autore di Pelléas et Mélisande e della Vita delle api. Proprio Maeterlinck, che sorride delle allegorie ingenue di chi l'ha preceduto. In particolare di Buffon, il «signor Conte», che non nascondeva le simpatie e le antipatie che provava per i diversi animali. Matematico, cosmologo, ateo, ricco, potente e soprattutto naturalista insaziabile, spesso di seconda mano (su questo Voltaire aveva ragione), Buffon dedusse dalle somiglianze strutturali tra l'asino e il cavallo la discendenza delle specie attuali da antenati comuni, un secolo buono prima di Darwin. Ma le api gli erano antipatiche. Maeterlinck non perdona e scrive: «Si converrà, dice da qualche parte Buffon che nutre nei confronti delle api un rancore assai divertente, si converrà che a prenderle una per una, quelle mosche hanno meno genio del cane, della scimmia e della maggior parte degli animali; si converrà che mostrano meno docilità, meno attaccamento, meno sentimento, meno, in una parola, qualità rispetto alle nostre; donde va convenuto che la loro apparente intelligenza proviene soltanto dalla loro moltitudine riunita;

non per visioni morali esse si riuniscono, si trovano insieme senza il proprio consenso. Questa società è un mero assemblaggio fisico, ordinato dalla natura, prescinde da ogni sapere e ragionamento ... La madre produce diecimila individui in uno stesso momento e nello stesso luogo; anche se fossero mille volte più stupidi di quanto suppongo, saranno costretti ad arrangiarsi in qualche maniera, avessero pure iniziato per nuocersi a vicenda finiranno per farlo il meno possibile, cioè ad aiutarsi, avranno l'aria d'intendersi, l'osservatore presterà loro intenti e tutto lo spirito che a loro difettano: l'architettura, la geometria, l'ordine, la lungimiranza, l'amore della patria, in una parola la repubblica, il tutto fondato come si vede sull'ammirazione dell'osservatore». A malincuore tronco la citazione: contiene alcuni errori del naturalista sui quali Maeterlinck zompa per giustificare quanto scriveva poche pagine prima: «L'uomo avendo osservato la dedizione fino al sacrificio» delle operaie per la regina, «ha saputo trarre vantaggio dall'ammirevole senso politico, dall'ardore al lavoro, dalla perseveranza, dalla magnanimità, dalla passione per l'avvenire che ne derivano o in esso sono racchiuse, per addomesticare fino a un certo punto e a loro insaputa le selvagge guerriere che non cedono ad alcuna forza estranea perché servono soltanto le leggi cui sono asservite. La regina ne è il simbolo, non una sovrana che le applica a suo capriccio.» Maeterlinck sa chi governa davvero le api. A furia di immedesimarsi, scopre con un secolo d'anticipo che la regina è «schiava» dei feromoni propri e delle operaie, che l'accudiscono per impedirle di sollevare un attimo il naso, o meglio il sedere, dalle celle di covata. Si cala nei panni di ognuna finché capisce e annusa «lo spirito dell'arnia», un non so che nell'aria che spinge la regina al volo nuziale e la maggioranza a sciamare, lasciando alle nuove generazioni i beni che ha freneticamente accumulato per un anno. «Noi che cerchiamo talvolta, nel corso della storia umana, di va-

lutare la forza e la grandezza morale di un popolo o di una razza, non troviamo altra misura che la persistenza e l'ampiezza dell'ideale che perseguono e l'abnegazione con la quale vi si dedicano. Abbiamo incontrato di frequente un ideale più conforme ai desideri dell'Universo, più augusto, più disinteressato, più manifesto, e un'abnegazione più totale ed eroica? Strana piccola repubblica, così logica e grave, così positiva, minuziosa, economa eppur vittima d'un sogno così vasto e precario!» Se la Favola di Mandeville influenza tuttora il pensiero economico e politicò, la Vita delle api non ci è mai riuscita. Sentimentale, implicitamente femminista, è stata ignorata anche dalla letteratura porno-sado-maso con protagonista una dominatrix in guèpière, frustino e stivali di vernice con tacchi a spillo. È stata ignorata anche da Marco Ferrea, il regista dell'Ape regina (1963): titolo che dopo problemi con la censura dovette far precedere in cartellone dall'avvertenza «Una storia moderna», onde chiarire che non era un documentario entomologico per scolaresche. La storia, oggi d'antiquariato, narra di un ricco signore di mezz'età che sposa una bella illibata, così desiderosa di restare incinta da sfiancare il marito. Lui muore mentre lei partorisce. In natura, la sessualità supera la fantasia di poeti e politici, religiosi e romanzieri. Fuori dall'allegoria, a ogni primavera la regina in carica affronta in battaglia le regine appena uscite dalle celle di covata, finché ne resta una sola, che esce per il volo nuziale seguita dai fuchi che però vanno in cerca di regine non consanguinee. Oppure di operaie. In alcune subspecie, infatti, le operaie s'accoppiano con i fuchi, eliminano i figli maschi e tengono in vita soltanto quelli della propria regina. Dai «Proceedings of the Royal Society B» del dicembre 2007, s'è saputo che nella subspecie Apis mellifera capensis del Sudafrica le operaie si autoriproducono per partogenesi e, se alimentano con la pappa reale le proprie larve, figliano regine. Oppure accolgono operaie estranee

che fanno altrettanto. Madeleine Beekham, una genetista australiana dell'università di Sydney, ha analizzato i geni di 39 larve di regine prelevate in sette colonie attorno a Città del Capo: 23 erano figlie di operaie e di queste 15 erano figlie di operaie venute da altre colonie. E tre nuove regine nate dalla regina in residenza, essa stessa di madre operaia, erano nate da uova non fecondate. A quando un remake dell'Ape regina con sole attrici? Uscendo dalle visioni che gli uomini hanno del genere femminile tra le quali vien da includere quella stupidina dell'ape Maia, e tornando a quelle politiche, la Vita delle api non ha avuto influenza nemmeno sui socialisti francesi del primo Novecento. Che pubblicavano La ruche ouvriere per spiegare quanto si stesse bene nell'arnia sotto la dittatura del proletariato. L'immagine è evocata anche da Ho Chi Minh dopo la liberazione dell'Indocina e poi del Vietnam, negli stessi anni in cui le api diventano «l'animale più amato d'America». Per non sembrare allergica alle allegorie, eccone due della mia collezione. Jean Paulhan era un intellettuale francese defilato (un ossimoro, ma ne esistono) che durante la Seconda guerra mondiale scrisse per la rivista «Résistance» e dal 1941 trovò i soldi e la carta - razionata e distribuita dalla Kommandantur di Parigi alle sole pubblicazioni autorizzate - per le Éditions de Minuit, una casa editrice clandestina. Paulhan fu arrestato insieme ad altri autori: loro furono fucilati, lui salvato dall'intercessione di Drieu La Rochelle, il romanziere amico di autorità naziste. Gli scritti clandestini non fermavano i treni, Paulhan ne era consapevole, ma lottava anche per sé, per la propria funzione di intellettuale che era di produrre critica, pensiero. Nella Resistenza, qualcuno riteneva che fosse energia sprecata, un lusso: per lui era la ragion d'essere. «Puoi stringere in mano un'ape fino a soffocarla» scrisse. «Ma non soffocherà prima di averti punto. Poca cosa, dici tu. Sì, poca cosa. Ma se non ti pungesse, non ci sarebbero più api da mol-

to tempo.» Per alcuni francesi, il 2007 è stato il centenario della nascita di René Char, il poeta. Per altri, quello della nascita del Capitarne Alexandre - il nome di battaglia di Char dal 1941 comandante partigiano della Valchiusa, con il quale gli Alleati organizzarono lo sbarco di Tolone. Quando l'esercito tedesco superò la linea di demarcazione e occu pò la parte di paese sotto il governo di Vichy, fra uno scontro e l'altro Char prese appunti sulla propria esperienza, i Feuillets d'Hypnos, e scrisse poesie che nel 1948 raccolse in Fureur et mystère. Furore della lotta armata, mistero d'un pacifista che ne è appagato (semplifico): «Fiume dal cuore invitto in questo mondo folle di prigione, / conservami violento e amico delle api dell'orizzonte». E nel frammento 233 dei Feuillets d'Hypnos, una sera di giugno dopo aver bloccato una colonna di SS mandata a compiere una rappresaglia in un villaggio, averne smistato gli abitanti in case sicure, raggiunta la propria postazione con i compagni illesi, scrisse: «Oggi ho vissuto l'istante della potenza / e dell'invulnerabilità assolute. / Ero un alveare che migrava / verso le sorgenti del cielo / con tutto il suo miele e tutte le sue api». La Valchiusa di Char è la Provenza del Petrarca, terra di latte e miele, mandorli e torroni. Le api sono andate in guerra, fuor di metafora. Nei poemi epici indiani, per esempio, a combattere al fianco di dei e principi. Nelle guerre sante, insieme ai crociati che se le portavano da casa nelle arnie e le liberavano contro gli infedeli. I quali gettavano arnie dalle mura delle città sugli infedeli assedianti, e viceversa, a seconda di chi era dentro e fuori. Le cronache cristiane ricalcano anch'esse, forse un po' troppo da vicino per essere degne di fede, l'agiografia di santi e asceti difesi dalle api contro ladri e malandrini. La battaglia di Tanga, raccontata finanche da Bee Wilson in The Ulve, pareva ben documentata. Nel novembre 1914, il generale Aitken sbarca a Tanga, nell'attuale Tanzania, per

cacciarne i tedeschi. Questi battono in ritirata, lui li insegue nella giungla ma viene fermato da sciami di api. Bilancio: 848 inglesi morti e feriti contro 147 tedeschi. La sconfitta è dovuta a un disastro naturale, si dice in patria, Aitken ha soltanto perso la «battaglia delle api». Dopo la guerra, gli storici descrivono Aitken come un irruento, ma la Wilson cita una lettera pubblicata dal «Times» il 16 gennaio 1953, in cui un veterano lo difende: era stato attirato in una trappola. Alle proprie spalle i tedeschi avevano sbarrato la pista con fili tesi raso terra e legati ai coperchi di arnie nascoste dietro il fogliame, e le truppe di Aitken inciamparono nei fili. Pelle chiara, calzoncini e maniche corte, per le punture reiterate gli inglesi si contorcono dal dolore, non riescono più a prendere la mira, cadono sotto il fuoco del nemico. La Wilson dubita della ricostruzione del veterano. Sul finire del 1914, gli stati maggiori eran convinti che la guerra sarebbe durata poco; e pare più probabile che l'ambizioso, improvvido Aitken abbia ritenuto Tanga l'occasione giusta per far carriera, tanto più che all'uscita dall'arnia le api, africane comprese, non puntano sugli esseri umani nemmeno se vestiti da boy-scout: si dirigono verso il sole, verso «le sorgenti del cielo» di René Char. Api che puntano dritto sul bersaglio e dal pungiglione letale sono oggi dispiegate invece dal Pentagono. Il prototipo fu la «Faerie Queene», la regina delle fate, dal titolo del poemetto dedicato a Elisabetta I e ai Tudor dal poeta laureato Edmund Spenser, in cui la regina è Gloriana, «santa e Vergine». In realtà si trattava di un biplano radio-comandato dell'Aeronautica britannica, che nel 1933 fu catapultato in aria e sfuggì per due ore ai colpi d'una cannoniera della Marina. L'anno dopo, il ministero dell'Aviazione ordinò 420 apparecchi della serie «Queen Bee». Subito giudicati inutili, furono superati dai razzi e ribattezzati fuchi (drones) dai militari, altrettanto digiuni di Aristotele o di biologia quanto quelli che oggi fanno levare in volo i droni, indicati nei bilanci del Pentagono con

la sigla Uav per Unmanned Aerial Vehicles, e come Predator se si tratta di bombardieri. Se non piove e se il cielo non è coperto, raccontava l'«Economist» nel dicembre 2007, al tramonto i droni si alzano in volo sopra Baghdad, sopra Kabul: sono telegui dati via computer da piloti «seduti in un ufficio del Nevada, che ne sparano i missili Hellfire contro le tane degli insorti». Droni derivati dal Predator vengono usati anche per pattugliare le frontiere con il Messico da cui passano gli immigranti, e dalla polizia per la telesorveglianza, oltre che per ricerche scientifiche sulla composizione e i moti dell'atmosfera, e per portare soccorsi in caso di disastro. A chiudere il cerchio che dalle ricerche militari porta ad applicazioni civili, i progettisti dei prossimi droni, spie in miniatura che «bottineranno» informazioni, stanno già pensando a trasformarli nelle impollinatrici del futuro, come si vedrà dopo. Prima vediamo il passato di quelle odierne.

II Origini oscure

L'immortal Linneo nacque in Svezia, paese freddo e roccioso cui diede fama eterna, il 13 maggio 1707, insieme ai boccioli dell'anno... Naturalista innato, da fanciullo banchettava nei prati e nei giardini fioriti del suo villaggio di Rishult con la naturalezza di un'ape. JOHN MUIR (1838-1914), naturalista americano nato in Scozia un 21 aprile

L'ape appartiene al regno degli animali, phylum degli artropodi, classe degli insetti, ordine degli imenotteri. Scendendo nei dettagli, fa parte della famiglia Apidae, sottofamiglia Apinae, genere Apis ed è battezzata Apis mellifera nel 1758 da Carlo Linneo, il naturalista svedese che ha inventato la nomenclatura per classificare gli organismi. Grande latinista ed ellenista, in questo caso gli è capitato di sbagliare perché, semmai, l'imenottera in questione è pollinifera o nettarifera: il miele lo fa e non lo porta, se non nel senso di donum ferens. Linneo si è accorto dell'errore e l'ha corretto in mellifica. L'italiano Scopoli in cerifera. I francesi Réaumur in domestica, e Geoffroy in gregaria... Troppo tardi. La regola è che il primo battesimo non si scorda mai e viene fatta rispettare dal Comitato internazionale per la nomenclatura zoologica, per brevità detto d'ora in poi Cinz, anche se di norma si usa la sigla inglese Iczn, e si pronuncia Aissisièn. Non sempre il Cinz riesce nel proprio compito. Per esempio, la parola brontosauro, dal greco lucertolone tuonante, designava dal 1877 il dinosauro Brontosaurus excelsus. Nel 1903 quest'ultimo risultò appartenere a un genere già chia mato Apatosaurus - dal greco lucertolone ingannatore. «Visti questi fatti» sentenziò il Cinz «i due generi possono esse-

re considerati sinonimi. Siccome il termine "Apatosaurus" ha la precedenza, "Brontosaurus" ne sarà considerato un sinonimo» il cui uso andrà peraltro scoraggiato. Oggi l'imenottera è seguita in tutto il mondo da un aggettivo fuorviante, mentre nella cerchia degli apatosaurologi il brontosauro ha smesso di tuonare. Non c'è giustizia. Il padrino dell'Apatosaurus era Othniel Charles Marsh, eminente paleontologo americano, niente di più. Il grande Ordinatore e Catalogatore, che ha sostituito con termini descrittivi i nomi dati a caso da Adamo e ulteriormente ingarbugliati dopo la Torre di Babele, era Linneo. Aveva per motto «Deus creavit, Linnaeus disposuit», ci ha chiamati Homo sapiens e ci ha inseriti nell'ordine dei Primati insieme alle scimmie. Quando i protestanti svedesi, che non gradirono la vicinanza, chiesero l'intervento del vescovo di Uppsala ed egli espresse per lettera il proprio non placet, Linneo rispose: «Non placet, quod Hominem inter anthropomorpha collocaverim, sed homo noscit se ipsum. Removeamus vocabula. Mihi perinde erit, quo nomine utamur. Sed quaero a Te et Toto orbe differentiam genericam inter hominem et Simiam, quae ex principiis Historiae naturalis Ego certissime nullam novi. Utinam aliquis mihi unicam diceret!». I teologi non s'impiccino di storia naturale, insomma. E Linneo fu seppellito lo stesso nella cattedrale di Uppsala. Mellifera o mellifica, la sua ape è da miele. Altrimenti non godrebbe delle simpatie di destra e sinistra, bensì della stessa curiosità che dilettanti provvisti di lente d'ingrandimento e sterminatori provvisti di moccio o veleni riservano ad altri insetti sociali quali: forbicine, che sgretolano gli infissi dove nidificano e i cui maschi sono un esempio di paternità responsabile; termiti, che abbattono foreste e costruiscono torri alle quali si ancorano le isole delle pianure alluvionali; formiche, schiaviste e guerrafondaie che «se possedessero armi nucleari probabilmente distruggerebbero il mondo nel giro di una settimana» scrivono Edward O. Wilson e Bert Hoelldobler in Formiche (Milano, Adelphi, 1996).

Le api no. Le api se avessero l'atomica la sigillerebbero con la propoli, l'annegherebbero nel miele, l'avvolgerebbero nella cera. E noi ne faremmo leccornie, cosmetici e medicine alternative. Di ventimila specie di api, sedicimila sono mellifere, suddivise in sette famiglie e quarantaquattro sottospecie; una dozzina di africane tra cui la sahariana, che sembra finita nel posto meno adatto a una bottinatrice; sette o otto tra balcaniche e mediorientali; una dozzina di europee comprese la mellifera ligustica, una biondina di buon carattere e d'origine ligure come dice il nome, la mellifera comica - una slovena castana detta pure Carniola, gentilissima, la preferita di chi tiene api per il piacere di osservarle - e ancora la mellifera mellifera, ormai quasi estinta in natura, mora, detta pure Tedesca sebbene onnipresente negli apiari dagli Urali alla Norvegia. Le informazioni riguardanti l'ultima arrivata, la mellifera sicula, sono scarne. Esistono invece lunghe descrizioni delle sottospecie asiatiche, selvatiche, che spaziano da micro (Apis subgenere Micrapis) a mega (subgenere Megapis), una gigantessa che vive nell'Himalaya e chissà come s'è adattata all'altitudine e al clima. Per Maurice Maeterlinck, «tutte quelle specie non differiscono tra loro più di un inglese da uno spagnolo o un europeo da un giapponese... Sono lo stesso e identico insetto più o meno modificato dal clima e dalle circostanze alle quali ha dovuto adattarsi». Le api, noi, una sola specie, la diversità è un dettaglio. Conviviamo da tempo con la mellifera. Noi mammiferi, tranne i felini, amiamo il dolce, e tra bocca e cervello milioni di cellule congiurano per massimizzare la gratificazione che ne traiamo. Di conseguenza, i cacciatori-raccoglitori hanno conteso gli alveari ad altri animali che la pelliccia rende va incuranti delle punture, naso a parte: orsi nell'emisfero Nord, mellivora in Medioriente e nell'Africa meridionale. La mellivora è un simil-tasso bianco sopra e nero sotto, sui quattordici chili, zampe corte, coda lunga, muso tondo

da bradipo. Così se la incontrate, la riconoscete. Notturna, carnivora - mellivora soltanto per dessert, dopo roditori, serpenti, polli, capre, pecore e, fante de mieux, vitelli - non tollera provocazioni. Dall'inverno 2006 girava voce a Bassora che i militari inglesi ne avessero portate in città e le liberassero durante il coprifuoco per costringere in casa gli abitanti. La voce è stata smentita dai portavoce dell'esercito, maggiore David Geli («The Times», 11 luglio 2007) e maggiore Mike Shearer («The Telegraph», stessa data). Il primo ritratto di un homo sapiens rubamiele risale a seimila anni fa, e si trova sulla parete di una caverna vicino a Valencia. L'immagine è riprodotta nei manuali dotti o popolari, anche in quelli statunitensi come Beekeepingfor Dummies di Howland Blackiston, presidente delì'Eastern Apicultural Society e proprietario di bee-commerce.com. Il libro contiene ogni stereotipo e gioco di parole nei quali casco anch'io, dalla dedica «a mia moglie Joy che è l'ape regina del mio universo» a «To bee or not to bee». L'uomo di Valencia è colto in flagrante, una cesta in una mano e nell'altra una lama oblunga con cui trincia o raschia un alveare dal diametro grande sei volte e mezzo quello della sua testa. Sta in cima a «una scala di liane», scrive Bee Wilson. Si vedono tre corde appese a un ramo e niente gradini, l'uomo ha le gambe piegate e i piedi per aria. Attorno alla cesta ronzano una farfalla e quattro Ovni con zampe in numero variabile (anche i pittori egizi avevano difficoltà a contare fino a sei). Sotto, un compagno fa da contrappeso o, secondo altre versioni, si toglie dalla traiettoria del rubamiele in caduta libera. Su per le stesse liane, in Indonesia i «cacciatori di api» fanno tuttora gli identici gesti. In una radura mettono una tazzina di sciroppo, l'esca attira un'ape che ne richiama altre. Sono in parecchie, il loro volo di ritorno disegna una scia scura, visibile sullo sfondo della vegetazione. Basta seguirne la direzione, dritto fino all'alveare. Chissà se l'homo sapiens del ritratto l'aveva trovato così. Era arrivato a Valencia fra i quaranta e i trentamila anni

prima. L'ape l'aveva preceduto di almeno... Di quanto? Le origini e l'evoluzione dell'ape sono rimaste oscure fino a poco tempo fa. Non che i paleoentomologi siano degli sfaticati, ma, a differenza dei dinosauri, le creature piccole, mobili e molli lasciano raramente reperti fossili: si disintegrano o sono mangiate prima di averne l'occasione. Qualche insetto viene catturato nell'ambra, ma è raro che finisca in un laboratorio: chi lo scopre preferisce venderlo al miglior offerente, di solito un collezionista restio a lasciarselo frantumare a scopo di ricerca. Nella comunità paleoentomologica, c'era consenso intorno all'ipotesi di massima che le antenate delle api avessero avuto origine in America Latina o in Australia, a scelta, centoventi o centoquaranta milioni di anni fa, e le api mellifere in Asia centoventi milioni di anni fa. Purtroppo però, le api in ambra ne dimostravano al massimo sessantacinque milioni, mettendo così in crisi la teoria dell'evoluzione. Senza impollinatori pronti in tempo utile, infatti, spiegare la diversità dei fiori - unica in natura - e la velocità con la quale si sono propagati, be' era «un abominevole rompicapo», per dirla con Charles Darwin. Sul problema, gli evoluzionisti glissavano e si capisce, erano imbarazzati. Glissavano anche i creazionisti americani - mi conferma Telmo Pievani, filosofo della scienza all'università di Milano-Bicocca, che prova per loro i sentimenti di Buffon per le api - e questo si capisce meno. Pruderie, forse? Per abbordare l'argomento occorre parlare di sesso, che in natura non è necessariamente legato alla procreazione e dunque sottrae fondamento all'istituzione del matrimonio. A volte non c'è per niente: un batterio si divide in due con un metodo invariato da miliardi di anni. A volte c'è, ma non c'entra: i parameci si riproducono con il metodo batterico ma ogni tanto si concedono un amplesso, breve, giusto il tempo di trasmettere all'altro un po' dei propri geni. Ci sono piante e patelle ermafrodite che da bisessuate fanno da sé, anche se accolgono volentieri un po' di diversità genetica, polline portato dal vento, o gamete

scappato alla vicina di scoglio. Tanti insetti e alcune lucertole si riproducono per partenogenesi, di madre in figlia (il caso «padre vergine» in natura non si dà). O così s'è creduto fino al Natale del 2006, quando su «Nature» - che per tradizione secolare riserva per fine anno qualche sorprendente ricerca sugli animali - i curatori di due zoo inglesi, etologi e genetisti, hanno documentato un fatto che fino a quel momento sarebbe stato attribuito a intervento divino. Due varane di Komodo, una a Londra, l'altra a Chichester, in gabbia singola da due anni e prive di contatto con un qualsiasi varano, avevano messo al mondo ciascuna un figlio maschio. Nel caso pensiate che il varano adulto, o adulta, sia una bestiolina di cui è difficile sorvegliare l'andirivieni e che si sarà infilato/a nottetempo sotto la porta della gabbia per un incontro clandestino, toglietevelo dalla mente. Stazza sui cento chili, è lungo circa due metri e mezzo, pare un incrocio tra un dinosauro e un coccodrillo: è il più grande rettile vivente. Il Varanus komodoensis non s'infila sotto le porte e neppure le apre: le abbatte. Chissà da quale antenato le varane avranno ereditato quel trucco riproduttivo, più da pianta che da animale. Fino a 350 milioni di anni fa le piante asessuate, felci, conifere, si clonavano dalle gemme, o dalle radici, e le ermafrodite, da organi sessuali pudicamente celati e corazzati contro la penetrazione di polline altrui, producevano semi mono o bisessuati. Un giorno, tra 350 e 140 milioni di anni fa, se ne sono separate le angiosperme dai fiori maschi e femmine. Se avessero ereditato l'aspetto severo delle gimnosperme, non ci sarebbe stato alcun rompicapo. Invece si sono dotate di attrattive spettacolari, pericolose perché attirano anche i predatori e costose da crescere perché sottraggono energia e risorse al resto dell'organismo. Come la coda del pavone. Questa però è giustificata da un'aggiunta alla teoria dell'evoluzione per selezione naturale, che Darwin aveva delineato nell'Origine dell'uomo e la selezione sessuale. (Il libro è stato pubblicato postumo nel

1891. Dopo lo scandalo seguito all'Origine delle specie e per le obiezioni della moglie credente, Darwin aveva preferito tenerlo nel cassetto.) Un simile ornamento è d'intralcio, diminuisce la fitness, la capacità del pavone di sopravvivere, accoppiarsi e lasciare discendenti dalla coda spettacolare quanto la sua. La selezione naturale avrebbe dovuto eliminarla. Invece no, scriveva Darwin, perché le femmine preferiscono i maschi dalla coda vistosa. Lo hanno dimostrato esperimenti sugli uccelli vedova: le caudali tagliate ad alcuni maschi sono state incollate alle estremità delle caudali di altri e tutte le femmine hanno scelto questi ultimi. Darwin aveva ragione? Sì, ma per chi trova irritante quel suo perenne «ve l'avevo detto io», o l'idea implicita che le femmine si fidano delle apparenze (povere stupide) ho una buona notizia: esistono delle eccezioni. Su «Science» del 26 gennaio 2008, Alexis Chaine e Bruce Lyons scrivono di aver osservato per cinque anni 384 zigoli-allodola americani (Calamospiza melanocorys, un passero che è il simbolo dello stato del Colorado) e controllato il numero dei figli, sottoponendoli al test del Dna per stabilirne la paternità. Nel 1999 avevano avuto un grande successo riproduttivo gli zigoli con becco grande, nel 2002 quelli con il piumaggio scuro, nel 2003 quelli piccoli e snelli e l'anno dopo i marcantoni. «È probabile che, in base alle condizioni ambientali, le zigole scelgano le qualità desiderabili in un padre e nei propri figli» (sono sagge), dice Chaine. Simpatico. Ma poi aggiunge: «Questa scoperta è stata una vera sorpresa». Per i particolari sulle strategie riproduttive di maschi e femmine rimando a Sesso ed evoluzione di Andrea Pilastro (Milano, Bompiani, 2007), uno dei pochi ricercatori che padroneggiano le discipline - dall'etologia alla biologia molecolare - necessarie a esperimenti del genere. Sa quanto la questione sia delicata e dopo esempi in cui sesso e procreazione non coincidono, teme di dover «rassicurare il cardinal Ruini». Perciò passa alla «natura della competizione spermatica tra maschi e alla scelta del partner da parte del-

le femmine» che ne assaggiano parecchi prima di scegliere il padre per i figlioli. Così fan tutte, meduse, trote, galline, ma lui parte da un coleottero, la Scatophaga stercoraria. (Nomen omen, dirà il cardinale che ha opinioni già salde sulle donne.) Conclude con la specie umana e gli esperimenti - non suoi - per determinare la qualità dell'eiaculato, secondo me con la regia occulta di Woody Alien. Consiglio il libro perché erudendo e scherzando Pilastro rivela i pregiudizi dei suoi colleghi e come mai, dei due assi portanti dell'evoluzionismo, selezione naturale e selezione sessuale, in tanti si occupino della prima e in pochi, e da poco, della seconda. E questa ritrosia degli stessi scienziati in materia di sesso spiega anche il ritardo con il quale hanno risolto il rompicapo di Darwin. Per le piante, immobilizzate dalle radici, la selezione sessuale per la scelta del partner non ha molto senso. È vero che i fiori maschi spalancano la corolla a ruota per liberarne il polline, e «le fiore femmine» per offrire l'ovulo al loro seme, ma nessuna può raggiungere direttamente il partner più attraente. Finché il polline era affidato ai capricci del vento, bastava che questo girasse dall'altra parte, o qualche giorno di pioggia, e addio stagione degli amori. Conveniva rinunciare ai dispendiosi ornamenti e rimanere gimnosperme. Che le angiosperme se ne siano diramate almeno 140 milioni di anni fa, lo si sa con ragionevole certezza da un decennio. A quei tempi, in Nuova Guinea era già attecchita l'Amborella, simile a una ninfea rosa, ma cresce nei luoghi umidi, non nell'acqua, scrivevano nel 1999 su «Science» due ricercatori di Harvard. Il mese dopo su «Nature», genetisti canadesi, americani e svizzeri rilanciavano:' il gruppo delle Austrobaileyae, di cui resta una sola specie australiana, capostipite di molte altre tra cui l'anice stellato, sarebbe di qualche milione di anni più antica dell'Amborelìa. Questa ha poi recuperato il primo posto e il secondo è stato occupato dalle Nymphaeaceae, ma l'or-

dine cambierà ancora. Oggi le gimnosperme sono ridotte a 750 specie mentre le angiosperme superano le 250 mila: devono essere ricorse alla fecondazione assistita su scala planetaria. Per quasi ottanta milioni di anni sono convissute con i dinosauri: non saranno stati loro a impollinarle. I pipistrelli e gli uccelli succhianettare sono pochi, le farfalle e le falene molte di più, ma in balia degli elementi. Le spécialiste sono le api. Organizzate e stakanoviste finché si vuole, ma in 65 milioni di anni non sarebbero riuscite a provocare l'esplosione demografica dei fiori multicolori e polimorfi. La data d'origine della prima Amborelìa e delle prime Austrobaileyae non risolve il rompicapo che rimane abominevole per altri sette anni. Nell'ottobre 2006, proprio mentre scompaiono dalle arnie, le api americane compaiono sulle riviste scientifiche, «Nature», «Science», «Proceedings of the National Academy of Sciences», «Insect Molecular Biology», «Genome Research»... In estate è stata completata la mappatura dei loro geni a cura dello Honeybee Genome Sequencing Consortium (è in una banca dati pubblica: www.beespace.uiuc. edu), un gruppo di ricerca internazionale cui collaborano 67 laboratori e circa 170 bioinformatici, matematici, etologi, genetisti e biologi di altre sottodiscipline. Il progetto era iniziato nel dicembre 2002 dall'università dell'Illinois a Urbana-Champaign e allora si credeva che l'ape avesse almeno 16 mila geni o comunque parecchi di più rispetto ai quindicimila del moscerino della frutta. Prima sorpresa: ne ha appena 11 mila, e lo stesso numero di neuroni, circa un milione. Sembra paradossale: il moscerino ha una vita «semplice», mangia, anche frutta fermentata per cui s'ubriaca spesso, dorme e si riproduce. Appena esce dalla cella di covata, l'ape invece svolge compiti sempre differenti e assume atteggiamenti diversi nei confronti degli altri membri dell'alveare. Di sorprese ce ne sono altre. In confronto al moscerino e alla zanzara, l'ape si è evoluta

con «una lentezza da ghiacciaio» scrive Elizabeth Pennisi su «Science». Così ha conservato geni di vermetti primitivi di cui il moscerino s'è liberato milioni di anni fa. Al contempo ne possiede alcuni «moderni» che regolano i ritmi circadiani, le ore del sonno e della veglia, e in questo somiglia ai mammiferi. Negli Stati Uniti, come altrove, dei primi due genomi completi di insetti, appunto quelli del moscerino Drosophila melanogaster, bestia da soma della genetica da un secolo, e della zanzara Anopheles gambiae, portatrice del plasmodio della malaria, i media hanno parlato un giorno o due. Del genoma dell'ape, due mesi. Non perché sapessero delle arnie deserte - al momento ne erano al corrente soltanto gli apidologi avvisati dal signor Hackenberg - ma per via dell'ape «killer» africana. Ogni anno centinaia di persone sono ricoverate con choc anafilattico, volto, braccia, gambe tumefatte dalle sue punture. Secondo i testimoni, aggredisce a squadriglia ed è protagonista di leggende metropolitane, come la mellifera di Bassora. Invece la sua è una banale vicenda da «invasore alieno», come vengono chiamati non soltanto i già citati clandestini giunti a bordo di qualche container, ma anche gli organismi introdotti di proposito, per migliorare razze locali, come antiparassitario naturale per la «lotta biointe grata», come animale da compagnia, o pianta ornamentale. Di solito, se l'alieno sfugge ai controlli e si ritrova, magari da solo, in un ambiente estraneo, muore presto. Ogni tanto qualcuno riesce a riprodursi, adattarsi e soppiantare specie autoctone. Nel 1957 il genetista brasiliano Warwick Kerr, un pioniere della bio-informatica e della bio-statistica, ha già fatto ricerche all'università della California a Davis, e all'università Columbia di New York, con il fondatore della genetica evoluzionista, Theodosius Dobzhansky. Un curriculum di tutto rispetto. Nell'apiario sperimentale dell'università di San Paolo, per ottenere colonie più produttive nel cli-

ma tropicale, sta incrociando fuchi di mellifera ligustica con regine provenienti dall'Africa, quando 26 regine ricevute dalla Tanzania scappano dalle arnie passando attraverso il reticolo che doveva fermarle. Una volta in libertà fondano alveari, fecondate da fuchi locali, assecondate da api locali, e anno dopo anno avanzano verso nord. Nell'ottobre 2006, per la stampa popolare americana la notizia del genoma è questa: la madre dell'ape americana discendente della mellifera tedesca portata dai coloni olandesi e inglesi nel Seicento, non era né europea, né latinoamericana, né australiana e nemmeno filippina come pensavano molti entomologi perché nel Sud-Est asiatico c'è il maggior numero di specie odierne. Era uscita dall'Africa. Edward Wilson - quello che immaginava le formiche con l'atomica - l'aveva detto trent'anni prima, ma gli apidologi non danno retta a un mirmecologo. L'ape è uscita a più riprese, dall'Africa, e la prima volta tra i 140 e i 120 milioni di anni fa. L'evoluzione successiva nel clima temperato dell'Europa ha reso mansueta la mellifera nostrana. Le africane attuali invece sono aggressive, rimaste ai tempi delle Crabronidae, la famiglia delle vespe antenate da cui s'è separata quella delle Apidae. Il sottinteso, ma neanche tanto in certi fogliacci del Sud, è che le «killer» africane sono arretrate, violente, incivili perché ce l'hanno scritto nel Dna e, checché ne dicano gli scienziati politically correct come Luigi Luca Cavalli Sforza, la stessa cosa vale per gli africani di tutt'altra specie. Sulle riviste scientifiche, i geni dell'ape americana raccontano invece che alla fine dell'Ottocento gli apicoltori hanno incrociato la Tedesca con la ligustica italiana, all'inizio del secolo scorso con mellifere spagnole e portoghesi, e nel 1990 con africane importate legalmente, dalle quali hanno ottenuto colonie che avrebbero dovuto sopportare meglio le trasferte per l'impollinazione. La prima analogia che viene in mente è con un'altra forza lavoro importata e sfruttata; la seconda è che il genoma dell'ape americana è

anch'esso un melting-pot. La mappa dei geni non risolve ancora il rompicapo di Darwin, ma fornisce un indizio: se le mellifere si sono evolute molto lentamente, è possibile calcolare la durata di ogni tappa fra un adattamento e l'altro e risalire alla loro data d'origine. Il 10 ottobre 2006, sui «Proceedings of the National Academy of Sciences», Bryan Danforth dell'università Cornell e George Poinar dell'università statale dell'Oregon, mappano la diffusione geografica delle mellifere a partire dall'Africa con raffronti fra api europee, africane, asiatiche e americane, dal Dna alla forma del corpo (dalla genetica alla morfologia), e abbozzano un albero genealogico (filogenesi) di tutto il parentado. Si tengono però un asso nella manica, degno di Jurassic Park. Lo tirano fuori il 27 ottobre su «Science», sotto la foto di un'ape intrappolata nell'ambra. È insolita, primitiva, tanti dettagli indicano che si è separata da poco dalle vespe. Finita prigioniera in un paese prigione, merita un posto nelle allegorie. La «Melittosphex burmensis (nuova specie), Melittosphecidae (nuova famiglia) è stata ritrovata nella miniera d'ambra della valle di Hukwang (26°20' N, 96°36' E), dello stato diKachin nel nord di Myanmar (Birmania)» scrivono i due. È un maschio del Cretaceo, piccolo per un asiatico: misura 2,95 centimetri dalla testa «a forma di cuore» alla punta dell'addome. Segue una disamina di quello che lo distingue dalle vespe: girovita più largo, assenza di speroni sulle tibie posteriori, diversa attaccatura delle antenne, diverse venature delle ali. E peluzzi biforcuti. Che sono strumenti per la raccolta del polline, ma soprattutto sono la prova inoppugnabile che la burmense non fa parte delle vespe, le quali non ne raccolgono. Conclusione: «Questo esemplare di M. burmensis stabilisce che caratteri delle api attuali erano già presenti circa 100 milioni di anni fa, epoca confermata dalla datazione dell'ambra, e prossima all'origine delle eudicotiledoni, 125-120 milioni di anni fa. È probabile che la specie

abbia fatto da ponte nella transizione dalle Crabronidae alle Melittidae». (Avvertenza: le angiosperme si dividono in mono e dicotiledoni, il prefisso «eu» davanti alle seconde indica che sono dicotiledoni autentiche, e non necessariamente belle da vedere. O buone da mangiare, come qualcuno può rischiar di credere.) Gli autori esultano per il privilegio, accordato a chi le scopre, di battezzare sia una famiglia sia una specie. E per la soluzione del rompicapo, che è ancora scritta al condizionale ma trova presto delle conferme. A fine agosto 2007, sulla copertina di «Nature» un'altra ape incastonata nell'ambra, 15-20 milioni di anni fa nella Repubblica dominicana, risolve l'enigma delle orchidee, della loro delirante diversità, e smentisce la teoria, formulata sulla base delle datazioni dei loro pochi e incerti fossili, che le faceva risalire soltanto al Terziario, circa 50 milioni di anni fa. L'ape è una Proplebeia dominiamo, operaia senza pungiglione d'una specie estinta, di per sé non da copertina, però sulla schiena le sono rimasti attaccati due pollinari di Meliorchis caribea. Non soltanto è «la prima testimonianza mai trovata della congiunzione tra un impollinatore e una pianta» seri ve Santiago Rodriguez di Harvard, ma i due pollinari dimostrano che le prime orchidee risalgono almeno a 76-84 milioni di anni fa. Nei mesi successivi, sull'«International Journal of Plant Biology» e sui «Proceedings of the National Academy of Sciences», Elena Conti - una bolognese, da poco rientrata in Europa da Harvard - all'università di Zurigo, e Mike Moore, dell'Oberlin College nell'Ohio, ridefiniscono l'albero genealogico delle piante. Combacia ancora meglio con quello delle api. Il 99% dei fiori e il 95% delle monocotiledoni come erbe, cereali e parenti, e delle eudicotiledoni come pomodori, girasoli e rose, sono nati da un «big bang» di biodiversità, avvenuto 140 milioni di anni fa. Il terzo megagruppo delle magnolie aspetta ancora di trovare un posto nella storia dell'evoluzione vegetale, ma almeno è chiaro

che le pagine bianche della cronologia sono un effetto della scarsità di fossili: l'assenza di prova non è una prova di assenza, né di un progetto intelligente. A dispetto dei genitori americani che vorrebbero far insegnare nelle scuole «la controversia» tra la teoria dell'evoluzione e le sue alternative, di alternativa c'è soltanto un'idea religiosa, il creazionismo rinominato Intelligent Design, tradotto in italiano da Benedetto XVI all'inizio del proprio papato con «progetto intelligente». D'altronde nell'enciclica del 1° dicembre 2007, Benedetto XVI scrive che la scienza non dà speranza. Forse la segue poco, visto che, a dispetto dell'enciclica, la scienza suscita speranze addirittura smisurate. L'evoluzionismo, per esempio, dice che noi - stragisti degli innocenti e sacrificatori di agnelli - ci estingueremo come tutte le specie tra qualche milione di anni, e aggiunge che altre creature continueranno però a vivere finché ci sarà il Sole. A molti sembra una bella speranza. E nel dicembre 2006 sul mensile «Bee Culture», la bibbia dei professionisti e dei dilettanti seri, esce The Brave New World ofGMOs: How it Relates to Beekeepers dell'apidologo Malcolm Stanford, che passa in rassegna gli articoli scientifici dei mesi precedenti e i benefici per l'umanità che, a suo avviso, deriveranno dal genoma dell'ape: Nuovi antibiotici. L'aumentata resistenza ai farmaci dei batteri patogeni ha creato una domanda urgente di nuovi antibiotici. Gli insetti ne sono tra le fonti più promettenti e le api ne sono la più ricca. Come gli esseri umani, vivono in un ambiente sociale in condizioni quasi ideali per lo sviluppo e la trasmissione di patogeni.

Malattie infettive.

Gli esseri umani non hanno reazioni immunitarie innate a gravi patogeni quali il Mycobacterium turbercuìosis e lo Streptococcus pncumoniae. Una migliore conoscenza del sistema immunitario delle api può aiutare a combattere queste infezioni, soprattutto quando i vac-

cini hanno un'efficacia limitata.

Veleno dell'ape, anafilassi e allergie umane.

Le api difendono aggressivamente il proprio alveare con meccanismi comportamentali e biochimici altamente sofisticati. Il loro veleno ha un'ampia gamma di principi attivi importanti per la medicina e la farmacologia.

Alimentazione.

Le api sono l'insetto più proficuo del mondo, per il miele e per l'impollinazione, valutata in 15 miliardi di dollari per i soli Stati Uniti, che aumenta la qualità e la quantità di frutta, noci, verdure, alcune delle quali con rilevanti proprietà nutraceutiche* Tuttavia parassiti e patogeni ne compromettono la salute e l'attività, quindi la mappa dei loro geni consentirà di allevare api che resistano alle malattie e agli insetticidi, impollinino con maggior efficienza e pungano solo raramente.**

Salute mentale.

Alcune patologie mentali come l'autismo implicano problemi di integrazione sociale. Le api sono altamente integrate nella propria società e le loro attività dipendono dall'abilità di decifrare indizi sociali. Una volta definiti gli insiemi di indizi essenziali alle loro interazioni, si potranno progettare esperimenti sulla scala di un intero sistema sociale.

------*Neologismo introdotto negli anni Novanta per designare alimenti dai probabili benefici per la salute. **Eventualmente api transgeniche, da qui gli Ogm del titolo.

------Biosensori. Si potranno rendere più sensibili le api sentinelle ambientali, usate per monitorare gli inquinanti.

Patologia del cromosoma X. Nei maschi umani, mutazioni su questo cromosoma sono responsabili di gravi turbe quali sindromi di Turner e di Klinefelter, triso-

mia-X, emofilia, daltonismo e sindrome da X fragile, causa principale del ritardo mentale. Le api sono aplodiploidi,* si può dire che ogni loro cromosoma sia un X, perché una copia è presente nel maschio e due nelle femmine. Il genoma del primo organismo aplodiploide mai sequenziato farà capire quali regioni controllano l'espressione genica, lo sviluppo sessuale e la compensazione dell'X necessaria alla sua corretta espressione.

Istinti.

Secondo Edward Wilson, le api e gli altri insetti sociali occupano il secondo posto nell'evoluzione sociale, con una complessità pari alla nostra. Tra le similitudini: sistemi di comunicazione estensivi (compreso l'unico linguaggio simbolico noto fuori dall'Ordine dei Primati); sistemi bellici e/o difensivi organizzati; architetture complesse ed esempi di sacrificio personale inauditi nel resto del mondo animale.

Cognizione. Le api raccolgono cibo dai fiori, una fonte molto effimera, e hanno evoluto facoltà cognitive notevoli per massimizzare il proprio raccolto. Eccellono nell'apprendimento associativo in cui un colore, una forma, un odore o una località viene associata a una ricompensa in cibo. Possono anche imparare concetti astratti quali «simile» e «dissimile», e sono capaci di orientarsi in labirinti complessi usando stimoli visivi come «cartelli stradali» diretti o astratti, oltre che riconoscendo irregolarità nel percorso. -----------*Le femmine hanno due coppie di ciascun cromosoma, i maschi cromosomi singoli.

---------Gerontologia.

Regine e operaie hanno uno stesso genotipo* ma le prime vivono venti volte più a lungo delle seconde. Identificare le espressioni diverse degli stessi geni che portano a una simile longevità avrà senz'altro implicazioni per quanto riguarda longevità e invecchiamento umano.

Eterna giovinezza, salute fisica e mentale: speranze spropositate, uguali a quelle riposte ieri come oggi in pappa rea-

le, miele e propoli.

-----------*Corredo di geni.

III Intervallo con pubblicità La pappa reale è un eccellente ricostituente, destressante sul sistema nervoso, riequilibra la pressione arteriosa, rafforza il tono del muscolo cardiaco, antibiotico naturale, accelera il metabolismo, stimola appetito e digestione, ha effetti antidepressivi, accelera la guarigione dalle malattie, agisce sulle tensioni pre-mestruali, contro l'insonnia, da impulso all'attività fisica e intellettuale ecc. Dal foglietto accluso in una confezione di pappa reale venduta in Italia.

Per il parquet, ho appena comprato una cera liquida «tradizionale». Prezzo, 19,90 euro per un litro: contiene il 15% di «pura cera d'ape» e l'85% di trementina. In un negozio di Parigi avevo preso un panetto da mezzo chilo di pura cera d'ape per 32 euro. La trementina costa meno dell'acqua minerale, all'origine questa cera liquida sarà costata attorno ai cinque euro, compresa la lattina. I derivati rendono più dei doni celestiali? Dipende dal marketing. Sul margine di guadagno, in ogni modo, un pizzico di scienza fa l'effetto del lievito di birra sull'impasto del panettone. In alcuni drugstore americani e nel reparto di «parafarmacia» di Harrods, a Londra, il Life Mei Honey è in vendita a 79,95 dollari per quattro once (poco più di 110 grammi), e 42 sterline per 120 grammi. Secondo il distributore americano, «Questo miele esclusivo e brevettato è l'unico per il quale un esperimento clinico ha determinato l'efficacia nel ridurre gli effetti collaterali, inclusa l'anemia, dei pazienti in chemioterapia ... È il risultato di oltre trent'anni di ricerca ed è stato appositamente sviluppato per fornire i ben noti benefici per la salute del miele puro, in combinazione con erbe terapeutiche specifiche e altri ingredienti natura-

li. Viene prodotto da api nutrite con una particolare miscela alimentare che consente loro di fare una qualità unica di miele, con tutte le proprietà benefiche delle erbe alimentari e degli ingredienti naturali». Repetita iuvant. «Life Mei Honey è appositamente prodotto in un ambiente controllato che garantisce un processo d'impollinazione privo d'inquinamento.» Una fabbrica high-tech, linda come una clinica: avrà ispirato quella di Bee Movie? «A parte la raccolta dall'arnia e la confezione, il miele non è in alcun modo trattato artificialmente, né gli viene aggiunto alcun ingrediente dopo l'estrazione. Per risultati ottimali, va assunto un cucchiaino di Life Mei Honey al mattino a digiuno, e uno alla sera.» Secondo «un portavoce della società produttrice, Zuf Globus, la ricerca è promettente, e Life Mei Honey potrebbe aiutare le persone con carenze immunitarie.» Al condizionale. Sul sito della Zuf Globus è riprodotto il riassunto della ricerca stessa, ed è possibile risalire a «Medicai Oncology» dov'è uscita. L'esperimento riguardava 30 pazienti che per cinque giorni, in cui sono stati sottoposti alla chemioterapia, hanno ricevuto due cucchiaini di Life Mei Honey. Il numero dei globuli bianchi è aumentato in 12 pazienti (40%) che hanno poi sospeso la chemioterapia, ma non si sa per quanto tempo; in 18 (60%) i globuli sono rimasti invariati; in 3 (10%) sono diminuiti. Ma il 32% ha trovato migliorata la qualità della propria vita. Quella rivista è davvero poco esigente. Una più seria avrebbe preteso ulteriori dati: un secondo gruppo di pazienti cui fosse somministrato un placebo, e un terzo gruppo che ricevesse un altro tipo di miele, o del cioccolato ad alto tenore di cacao, o la visita del proprio animale da compagnia, insomma un altro coadiuvante terapeutico grazie al quale fosse già stato dimostrato un ricupero dei globu li bianchi e una migliore qualità della vita ospedaliera. Quell'articolo è stato citato un'unica volta da un ricercatore estraneo all'esperimento, durante un intervento a una

conferenza. Era prevedibile, perché l'impact factor - l'indice di rilevanza - di «Medicai Oncology» è 1,256, molto vicino a 1 (che sarebbe inconfessabile). Quello di «PLoSBiology», rivista molto più recente, è 10. Significa che dieci ricercatori ne citano un articolo per il contributo dato a una loro ricerca. Nel marketing però la qualità di una rivista non importa, importa che giri la voce secondo cui il Life Mei Honey proverrebbe da nettare d'iperico, le cui proprietà diuretiche e contro la malinconia erano apprezzate già ai tempi della regina Vittoria, e di ginseng. Non a caso il nome ufficiale del ginseng è Partax, dal greco panàkeia, la panacea che da millenni è prescritta per migliorare la resistenza fisica, la circolazione, le difese immunitarie, la memoria, l'intelligenza, le prestazioni sessuali, cioè la qualità della vita. La formula del Life Mei Honey è coperta da segreto industriale, non ho potuto controllarlo, né - presumo hanno potuto farlo Kylie Minogue e le altre star americane che affermano di trarne energia e tonicità. Se avessero letto le opere di Dame Barbara Cartland, però, saprebbero che analoghe virtù si possono trarre da qualunque miele di campagna. Basta che non provenga dai rododendri del Ponto. Barbara Cartland (Birmingham 1901 - Heath 2000) - scrittrice diventata miliardaria con i proventi dei 723 romanzi rosa che ha sfornato a ritmo bimensile per alcuni decenni è stata anche autrice di almeno tre volumi sulle proprietà terapeutiche, conservative e rigenerative del miele e della pappa reale, distribuiti gratuitamente dalla National Association for Health, da lei creata e finanziata. Aveva anche una linea di cosmetici antirughe, di cui era la testimonial perfetta. Sua figlia Raine, avendo sposato in prime nozze il nono conte di Darmouth e in seconde l'ottavo conte Spencer, era l'odiata matrigna di Diana Spencer, che insieme ai fratelli l'aveva soprannominata «Acid Raine». Questo per spiegare come mai, al matrimonio di Diana con Carlo d'In-

ghilterra, si sia potuto ammirare l'incarnato da fanciulla di Barbara Cartland: nell'occasione, è scesa dalla Rolls Royce bianca tappezzata di cuoio rosa, avvolta in una mantella di ermellino e volpe bianca lunga fino a terra, con ciglia finte lunghe tre centimetri, tiara di diamanti sui capelli cotonati e di sfumatura intonata al vestito rosa, e altri diamanti attorno al vasto décolleté. Un'apparizione miracolosa, Dame Barbara aveva 80 anni. Il padre era morto in battaglia nelle Fiandre, nella Prima guerra mondiale, e lei era stata una debuttante scandalosa, aveva scritto commedie un tantino osé nel dopoguerra, e poi... signora alla moda che teneva rubriche di pettegolezzi sui quotidiani, benefattrice di aviatori in pensione e di infermiere rurali, conservatrice in politica, ed era diventata un'ambientalista che sosteneva le campagne del principe Carlo, di cui era rimasta amica dopo il divorzio. A Diana aveva tolto il saluto. Dame Barbara ha infine voluto esser seppellita in una bara di cartone per inquinare il meno possibile, e ha lasciato a opere sociali la parte della fortuna di cui era libera di disporre. Come Barbara Cartland, Roxanne Quimby era rimasta senza padre in giovane età, benché il suo non fosse morto da eroe durante la guerra del '14-18. Nel 1984 Roxanne ha trentatré anni, un figlio a carico. E cerca un passaggio per Dexter, nel Maine, dove spera di trovare un lavoro. Glielo dà Burt Shavitz, un cinquantenne che vive a contatto con la natura in un ex pollaio trasformato in un monolocale e attorniato da arnie. Anche lui sta andando a Dexter, ma per vendere direttamente dal proprio camioncino i vasetti di miele, e poi fare la spesa. Lei si offre di aiutarlo ad accudire le api. Cinque anni più tardi fondano insieme Burt's Bees, una linea di candele, stick per le labbra, shampoo, balsami e altri prodotti di bellezza «ecologici», in rozze confezioni su cui campeggia il volto emaciato, pieno di rughe e con barba incolta, di Burt. La società, di cui Roxanne possiede i due terzi, fa ottimi affari. Nel 1993 lei ne sposta la sede

in North Carolina, che a Burt non piace. Due anni dopo lei compra in Florida una villa con parco, che a Burt piace ancora meno. Nel 1999 lui le cede il proprio terzo dell'azienda, in cambio di una casetta - da 120 mila dollari, vicino a Dexter - che rivende di lì a pochi mesi. Preferisce stare nel pollaio. Si è appresa tutta questa vicenda dai quotidiani americani nel novembre 2007, quando la Clorox ha comprato l'80% della Burt's Bees, per un miliardo di dollari, dalla Aie Investors. Tre anni prima, la società finanziaria aveva rilevato quella quota da Roxanne Quimby per 143 milioni di dollari: aveva chiamato a dirigere la società un giovane e brillante manager della Unilever, e le confezioni rozze e la barba incolta di Burt erano arrivate sugli scaffali della grande distribuzione. 1 clienti affezionati non avevano allora obiettato alcunché, ma non hanno tollerato che Clorox, una multinazionale che produce candeggianti e detersivi per uso domestico e industriale, comprasse la Burt's Bees «per farsi una facciata verde». E nel periodo natalizio ne hanno boicottato i prodotti. Scovato nel suo pollaio dai giornalisti, Burt Shavitz ha dichiarato che Roxanne può fare quello che le pare, e lui non vuole niente da nessuno; il presidente della Burt's Bees ha invece affermato che nel passaggio alla Clorox i suoi 380 dipendenti potranno orientare le scelte dell'azienda madre, 7800 dipendenti, verso la sostenibilità. Quanto a Roxanne, ha poi venduto alla Clorox, per 185 milioni di dollari, anche il 20% che le restava, e ora fabbrica vestiti per bambini prodotti, in maniera interamente sostenibile, sotto il marchio Happy Green Bee. Marchio azzeccato? Adottiamo gli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica e insieme ci piace credere che la naturalezza sia fonte di felicità, salute, bellezza e magari di maggior lucentezza del parquet. Dimentichiamo che Socrate è morto di naturalissima cicuta e che aggettivi quali «puro», «naturale», «tradizionale» sono fonte di profitti. Nel caso

del miele, lo sono dall'invenzione dell'arnia.

IV Nell'arnia

All'inizio una sede per le api e un quartiere bisogna cercare, dove i venti non abbiano accesso (perché i venti impediscono il trasporto del cibo nella casa), e le pecore e i capretti ruzzanti non calpestino i fiori, né una giovenca vagando per il campo scuota la rugiada dai rami o calpesti l'erba nascente... Invece le limpide fonti e gli stagni verdeggianti di muschio siano vicini, sottile in fuga tra l'erbe un rigagnolo; una palma l'ingresso o un grande oleastro ombreggi. Così, quando per la prima volta i nuovi re guideranno gli sciami nella primavera che è fatta per loro, e godranno di aver lasciato i favi le giovani api, vicino la ripa le inviterà a ritrarsi dal caldo, e pronta le accoglierà con la fronda ospitale la pianta... VIRGILIO, Georgiche

Un alveare non si possiede, si tiene al riparo in un luogo da scegliere con oculatezza. All'epoca di Virgilio, come oggi tra i non addetti, si usava alveare per dire arnia. Quella scavata in un tronco d'albero era già considerata rustica e Mecenate, che rustico non era, doveva farla (fare) in questo modo: «Sia che tu li abbia connessi di cortecce vuote sia che li abbia, gli alveari, di flessibile vimine intrecciati, angusti devono avere gli ingressi, perché col suo freddo i mieli indura l'inverno e viceversa il calore li fa troppo liquidi e molli. L'assalto di entrambi è per le api ugualmente temibile, ed esse non per nulla nei loro tetti a gara cospargono di cera i minuti spiragli, e di resina tratta dai fiori le fessure ricolmano; raccolgono per questa stessa funzione un glutine più appiccicoso del vischio o della pece dell'Ida frigia e lo conservano». In natura, è stato calcolato, un nido d'ape ha una capien-

za che varia da 10 a 100 litri (una colonia può comprende re fino a 90 mila operaie); la media è sui 45 litri. Collocato da 1 a 5 metri dal suolo, l'apertura è orientata a sud. Gli sciami tendono a nidificare a più di 300 metri dall'alveare d'origine: rivestono la superficie del tronco d'albero o della roccia con propoli e ne fanno discendere prima i favi da miele, poi quelli da polline, poi gli allevamenti delle operaie, e dei fuchi; per ultime ci sono le celle delle regine in fieri, più ampie e a forma di fagiolo invece che esagonali. Per usare le parole di Maeterlinck, ristrettosi per l'occasione alle dimensioni dell'ape: «Dall'alto d'un duomo più colossale di quello di San Pietro a Roma, scendono fino al suolo, verticali, multiple e parallele, gigantesche muraglie di cera, costruzioni geometriche sospese nelle tenebre e nel vuoto, che mutatis mutandis non si saprebbero per precisione, audacia ed enormità, paragonare ad alcuna costruzione umana. Ogni muraglia, la cui sostanza è ancora freschissima, verginale, argentea, immacolata, odorosa, è formata da migliaia di celle e contiene viveri sufficienti a cibare il popolo intero per varie settimane. Qui ci sono le macchie sfavillanti, rosse, gialle, malva e nere del polline, fermenti d'amore di tutti i fiori di primavera, accumulate nei trasparenti alveoli. Tutt'attorno, in lunghi e fastosi drappeggi d'oro dalle pieghe rigide e immobili, il miele d'aprile, il più limpido e profumato, riposa già nei suoi ventimila serbatoi chiusi da un sigillo che sarà violato soltanto nei giorni di massima emergenza. Più in alto, il miele di maggio matura ancora nelle grandi vasche aperte attorno alle quali coorti di vigilanti mantengono un'incessante corrente d'aria. Al centro e lontano dalla luce i cui getti di diamanti penetrano dall'unica apertura, nella parte più calda dell'alveare, dorme e si sveglia l'avvenire. È il dominio reale della covata, riservato alla regina e alle sue accolite: circa diecimila dimore in cui riposano le uova, quindici o sedicimila camere occupate dalle larve, quarantamila case abitate dalle bianche ninfe, accudite da migliaia di nutrici. Infine,

nel sancta sanctorum di quel limbo, i tre, quattro, sei o dodici palazzi chiusi, vastissimi in proporzione, delle principesse adolescenti che aspettano la propria ora, avvolte in una sorta di sudario, immobili e pallide, essendo nutrite nelle tenebre». In ceste intrecciate di corteccia, vimini o paglia, in «vasi» di legno, creta, qualche volta terracotta, per cinquemila anni le api hanno edificato la loro cattedrale. In natura essa dura almeno finché vive la sua regina, cinque o sei anni. L'arnia umana era usa e getta. Venuto l'autunno era sventrata o spaccata, per toglierne i favi da miele, bruciata o distrutta. Sarebbe cambiata soltanto nell'Ottocento anche se già Columella in un volume di De re rustica descriveva un modello d'arnia a pannelli mobili. Nato nel 4 e morto nel 70 d.C. Columella discendeva da grandi proprietari terrieri dell'Hispania Baetica. Militare con una bella carriera davanti, a trent'anni era tribuno in Siria; poi tornò a occuparsi personalmente delle proprie fattorie, alcune delle quali in Italia. Compiva esperimenti da vero pioniere dell'agronomia e, almeno in Spagna, deve aver fatto scuola. I giardini dell'El Andalus somigliavano al suo, non a quelli del Marocco, da dove venivano i mori. (Quelli cacciati da Cordoba nel IX secolo li riprodussero sulle colline attorno a Fès, con l'aiuto dell'Apis ligustica.) Dall'antichità erano pervenuti dipinti, bassorilievi, frammenti di arnie-ceste e arnie-vasi, mai però in quantità tali da evocare un apiario, un qualche centro di produzione di massa. Eppure le fonti scritte e archeologiche sono concordi: attorno al Mediterraneo il commercio di miele, cera e derivati era fiorente. Il 3 settembre 2007 l'università ebraica di Gerusalemme ha convocato la stampa: insieme ai colleghi che quell'estate lavoravano negli scavi di Tel Rehov, nella valle di Beth Shean, l'archeologo Amihai Mazar aveva scoperto un centinaio di arnie del IX secolo a.C. Erano in fila, impilate a tre a tre, ognuna consisteva in un cilindro di paglia e argilla

lungo 80 centimetri e largo 40 con un foro in cima e un coperchio d'argilla, come negli affreschi delle tombe egizie, e come oggi in tanti villaggi arabi. Gli apicoltori che hanno visitato gli scavi di Tel Rehov dicono che ogni arnia poteva produrre mezza tonnellata annua di miele. Alla lettera quindi, Israele era la terra del miele, se non del latte, in contraddizione con l'esegesi secondo la quale l'espressione allude ai datteri e ai fichi che a Canaan crescevano abbondanti e spontanei. L'Antico Testamento, infatti, menziona il miele soltanto due volte, ed è sempre selvatico. Sansone ne raccoglie dalla carcassa di un leone (un caso di bugonia...), Gionata, il figlio di re Saul, da un favo non meglio identificato, durante la battaglia di Micmas. Il padre aveva vietato a tutti di toccare cibo, pena la morte, prima che Dio gli concedesse la vittoria, ma Gionata non lo sapeva. Al momento era via con lo scudiero, e attaccava una postazione di Filistei, uccidendone venti. Informato del divieto, si presentò al padre anche se non sperava nella sua clemenza. Non ne aveva motivo. Nella Bibbia, Saul è quello che esegue la volontà di Dio, espressa tramite il profeta Samuele, e stermina gli Amalechiti. Tutti, proprio tutti?, avrà chiesto, perché Samuele ribadisce: «Così parla il Signore degli eserciti: Io ricordo ciò che Amalec fece a Israele quando gli si oppose nel viaggio mentre saliva dall'Egitto. Ora va', sconfiggi Amalec, vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene; non lo risparmiare, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». Degli umani, Saul e il popolo del Signore risparmiano tuttavia Agag, il re degli Amalechiti, perché pianga ed espii il peccato degli antenati, e «il meglio delle pecore, dei buoi, gli animali della seconda figliatura, gli agnelli e tutto quel che c'era di buono; non vollero votarli allo sterminio, ma votarono allo sterminio ogni cosa senza valore e inutile». La Bibbia non menziona l'apiario di Rehov eppure attorno a quelle venticinque, facciamo pure venti, tonnellate di

miele all'anno, a quelle montagne di cera, ci sarà stato un viavai di artigiani e mezzi di trasporto. La conseguente ricchezza per la città e i suoi duemila abitanti sarà stata degna di venir registrata: mostrava che il Signore era con Israele, come i venti cadaveri dei filistei avevano mostrato a Saul e al suo esercito che era con Gionata. Accanto all'apiario, però, sono stati trovati un altare con corna di bue ai quattro angoli, e statuine di dee della fertilità, nude e procaci, e frammenti di oggetti usati in altri culti mediorientali che il popolo eletto non praticava. L'apiario apparteneva ai cananei? Era in un'enclave pagana tollerata da re Salomone? Scrive Voltaire: «Nei Proverbi che gli sono attribuiti si trova "che vi sono quattro cose che sono le più piccole della Terra e più sagge dei saggi: le formiche, popolo piccolo che raccoglie provviste durante le messi; le lepri, popolo debole che dorme sulle pietre; le cavallette, che non avendo re viaggiano a gruppi; le lucertole, che lavorano con le proprie mani e risiedono nei palazzi dei re". Ignoro perché Salomone abbia dimenticato le api, che sembrano avere un istinto di gran lunga superiore a quello delle lepri, che non dormono sulla pietra se non forse nella pietrosa Palestina, e delle lucertole di cui ignoro il genio. Per di più, preferirò sempre un'ape a una cavalletta». È improbabile che Salomone la pensasse diversamente da Voltaire e riservasse a un popolo non eletto i doni celestiali di Rehov. Che la terra del miele fosse ancora di Canaan? si chiedono gli esegeti. Sottovoce, perché nei territori occupati e in Israele sarebbe ovvia la domanda successiva: allora di chi è, oggi? Morto Salomone, le arnie cambiano soltanto foggia. In Europa ci sono state lussuose «case di legno» con ampio davanzale, finestre in trompe-l'œil - quelle vere disturbano le attività delle api - e tetto apribile. Oppure rustiche ceste a campana, poi ovoidali con la parte inferiore rigida e quella superiore elastica per spremerne fuori miele e cera senza distruggere i favi da covata. Nelle tenute dei conventi

e dei nobili, a volte stavano in un edificio in pietra, monumentale e un po' funebre, a più piani, su ciascuno una fila di loculi e in ciascuno un'arnia. All'interno, l'alveare resta la cattedrale di natura fino ai primi dell'Ottocento quando ne inizia la razionalizzazione. Altro che San Pietro a Roma: cassette quadrate aperte su due lati, poi chiuse, e all'interno cornici di legno, prima vuote, poi con maglie esagonali che fanno da matrice per gli alveoli, fino ai vassoi di plastica con alveoli prestampati. E se la plastica non piacesse alle api americane? Di sicuro, negli alveari preconfezionati la distanza tra un telaio e l'altro non soddisfa mai le colonie, fino alla scoperta dello «spazio dell'ape» da parte del sacerdote Jan Dzierzon e del reverendo Lorenzo Langstroth. Il primo polacco e cattolico, il secondo americano e protestante. Per cui - spirito del capitalismo - l'arnia Langstroth, in vari formati e modelli, detiene tuttora il 75% del mercato mondiale. C'è polemica su chi abbia fatto per primo le osservazioni che hanno poi portato alla scoperta dello spazio dell'ape. Pazienza, comincio da Jan Swammerdam, l'olandese geniale nato nel 1637 e morto nel 1680. Forse il nome dice qualcosa, ogni tanto un testo scolastico lo ricorda come l'inventore del microscopio, o per aver osservato e disegnato per primo i globuli rossi. È un biologo, anche se la parola non esiste ancora. Il padre, facoltoso apoticario, gli fa studiare medicina all'università di Leida ma gli taglia i viveri quando si mette a dissezionare insetti invece di fare il medico. Inventa, scrive Maeterlinck, «gli autentici metodi di osservazione scientifica, le iniezioni conservatrici» di cera d'api finissima nelle vene, disseziona operaie, fuchi e regine, finché descrive le ovaie del presunto Re dell'alveare nella sua Historia insectorum generalis, «rischiarando di luce inattesa la politica dell'arnia e fondandola sulla maternità». Vive «nella brulicante e torbida Amsterdam di allora, nel rimpianto della dolce vita di campagna» e muore a 43 anni, «sfinito dal lavoro. In uno stile pio e preciso, in cui semplici e belli slanci

d'una fede che teme di barcollare riportano tutto alla gloria del Creatore, consegna le proprie osservazioni» in quella che diventerà la Bibbia della natura. Nella realtà Swammerdam è molto di più: un protagonista della rivoluzione contro il sapere tramandato da Aristotele e dagli antichi. Dimostra che gli insetti non sono forme elementari di vita, ma che si sviluppano come gli altri animali, però in tappe così sorprendenti che gli antichi non riuscivano nemmeno a concepirle. Per loro, larva, pupa e adulto erano tre animali distinti. Una dissezione dopo l'altra di zanzare, libellule, api, mosconi, un disegno dopo l'altro, Swammerdam ne illustra il passaggio da uno stadio a quello successivo. E muore di malaria cinque anni dopo aver rinunciato alle ricerche sotto l'influenza d'una mistica fiamminga, che le giudica empie. «Maestro e classico della scienza apicola odierna» cito ancora Maeterlinck «è Francois Huber». Nato a Ginevra nel 1750, cieco dall'adolescenza, è figlio di Jean, il naturalista che pubblicò le Osservazioni sul volo degli uccelli (dimenticabili, lo so, però Jean e l'amico Voltaire si ritrovavano per ammirare la partenza delle oche grigie dal laghetto nella tenuta di Ferney). Maeterlinck scrive, come Bee Wilson, come tutti, che Huber inventa l'arnia da osservazione con le pareti di vetro e dedica «la vita a studiare le api grazie all'aiuto di un domestico intelligente e devoto, Francois Burnens». Maeterlinck si diffonde su «colui che percepisce solo luce immateriale e guida con la mente le mani e lo sguardo dell'altro, per sorprendere i segreti più profondi del genio che forma quel raggio di miele per lui invisibile, come per insegnarci che non esiste alcuno stato in cui dovremmo rinunciare a sperare e a cercare la verità». Come tutti, Maeterlinck dimentica l'aiuto dell'intelligente e devota Marie-Aimée, la moglie di Huber che prende appunti, li ordina e redige le lettere, poi raccolte nel 1802 sotto il titolo Nuove osservazioni sulle api: «nuove» con una punta di polemica, perché smentiscono le precedenti del france-

se Réaumur. Nella tradizione di famiglia, il figlio di Huber si occuperà anche lui di animali sociali, e pubblicherà osservazioni sulle formiche. Jan Dzierzon avrebbe dovuto rientrare nella schiera degli ecclesiastici che con le virtù dell'alveare si consolano dei peccati del proprio gregge, e scrivono i diari strettamente privati consultati oggi dai biologi ed epidemiologi del programma europeo Alarm alla ricerca delle circostanze che, ripetendosi, spiegherebbero le ripetute infezioni degli alveari. Nasce nel 1811 a Lowkowice o Lowkowitz, nella Slesia prussiana, ma si considera polacco come i genitori; studia teologia all'università di Wroclaw, nel 1835 è ordinato prete, e gli viene assegnata la parrocchia di Katowice. Scopre che i fuchi nascono da uova non fecondate e il modo in cui le nutrici secretano la pappa reale, sperimenta con le arnie a cassetta e inventa il modello da cui discendono quelle attuali. Pubblica Teoria e pratica dell'apicoltura razionale e altri venticinque volumi in tedesco e in polacco, oltre a circa 800 articoli sul «Bienen Zeitung» e per alcuni anni sulla propria rivista «Der Bienenfreund aus Schlesien». Dopo tanto impegno sottratto ai propri parrocchiani, non capisce come mai il vescovo lo mandi in pensione, d'ufficio, nel 1869. Coperto di premi e lauree honoris causa, si ritira con arnie e bagagli e muore nel 1906 a Lowkowice-Lowkowitz, rinominata nel 1936 dai nazisti Bienendorf, Villaggio delle api. Dieci anni dopo, nei territori ricuperati dalla Polonia, la città che i tedeschi chiamavano Reichenbach e i polacchi Rychbach viene rinominata Dzierzoniow. Nel 1835 Jan Dzierzon inventa l'arnia aperta su due lati - visto il clima in Slesia, le api non passano l'inverno fuori, non serviva un'arnia chiusa - con telai mobili appesi all'asse in cima alla cassetta e tenuti da asticelle a tre centimetri dalle pareti. Un miglioramento rispetto all'arnia inventata da Huber, in cui i telai potevano esser girati come le pagine d'un libro ma poggiavano contro la parete. Nel modello di Dzierzon, pubblicato nel 1845 sul «Bienen Zeitung»

(e aggiornato in puntate successive), ai quattro angoli della cornice i telai hanno sporgenze da infilare in scanalature nelle pareti, e tra queste e la cornice ci sono 8 millimetri. Finalmente le api smettono di costruire favi aggiuntivi tra i telai e le pareti, di ridisegnarsi il proprio spazio cementando e immobilizzando con cera e propoli i comodi telai asportabili. Eppure nell'ottobre 1852, il brevetto n. 9300 per un'arnia con «spazio delle api» di 9,5 mm (poi modificati in 6,4 mm) e quattro pareti, veniva assegnato al reverendo Langstroth. Si sa benissimo com'è andata. Il reverendo collaborava all'«American Bee Journal» fondato da Samuel Wagner. Quest'ultimo aveva fatto visita più volte a Dzierzon in Slesia, era abbonato al «Bienen Zeitung» e ne riassumeva gli articoli. Nel 1850 aveva tradotto in inglese Teoria e pratica e l'aveva dato da leggere a Langstroth, che dieci anni dopo scrisse: «Non ci sono parole per descrivere l'interesse assorto con cui ho divorato quell'opera. Ho immediatamente riconosciuto nel suo autore il Grande Maestro dell'apicoltura moderna». Ne ha anche immediatamente ritoccato l'arnia, giusto quel tanto che serviva per brevettarla. Tra l'altro, Wagner non pubblicò mai la propria traduzione di Teoria e pratica, mentre nel 1853 Langstroth pubblicò Langstroth on the Hive & the Honey-Bee, un best-seller tutt'ora in vendita dopo quaranta edizioni. Come Dzierzon in Polonia, Lorenzo Lorraine Langstroth (Philadelphia, 25 dicembre 1805 - Dayton, Ohio, 6 ottobre 1895) è una gloria nazionale. La grande tenuta di Oxford, nell'Ohio, dove per trent'anni tenne le amie, è un Natio nal Historic Landmark e l'epitaffio sulla sua tomba dice: «Al padre dell'apicoltura americana, dai suoi affezionati beneficiati che, in rimembranza dei servizi resi dalle sue tenaci e minuziose osservazioni ed esperimenti con l'ape da miele, i suoi miglioramenti dell'arnia, e il talento letterario mostrato nel primo libro scientifico e divulgativo sul tema dell'apicoltura negli Stati Uniti, erigono con gratitu-

dine questo monumento». Nel 1852 Langstroth si fece costruire un centinaio di arnie e le vendette nel Massachusetts, dove abitava, in Pennsylvania e negli stati confinanti, insieme al libro. Ma il brevetto venne contestato, copiato, aggirato, e lui non riuscì mai a farsene pagare i proventi. Dopo parecchi esperimenti e ulteriori ritocchi, trovò la formula giusta. Attualmente un'arnia Langstroth si presenta così: due scatole rettangolari di legno o di polistirene, un coperchio quadrato con un foro d'uscita, da sovrapporre e mettere su un piano d'appoggio lasciando un paio di centimetri dal fondo di rete metallica. Nella scatola sotto, i telai di legno o plastica per i favi da covata e da provviste invernali. In quella sopra, dieci favi da miele verticali, tutti paralleli. Tra le due scatole, un reticolo dalle maglie troppo strette per far passare una regina, da togliere al momento della sciamatura. Quando sono pieni, i telai superiori vengono smielati in una centrifuga e riutilizzati per il miele della stagione successiva. Gli alvei preformati, in cera o in plastica, consentono un bel risparmio: le api consumano fino a 8 chili di miele per produrre un chilo di cera. Smontabili, ispezionabili, intercambiabili, i telai di Langstroth possono esser spostati in un'altra arnia per rafforzarne la colonia e divisi tra due arnie per moltiplicare le colonie, ma non bastano a renderle più produttive. Per quello servono regine e operaie straordinarie. Nel 1863 Langstroth si fece arrivare dall'Italia l'Apis mellifera ligustica Spinola, ne divenne il primo allevatore del paese, il più autorevole e ricercato. In una scatoletta di legno traforato metteva, con un pezzo di favo, una regina fecondata e una decina di operaie: 20 dollari a confezione, porto assegnato, fatturato medio annuo 2000 dollari, 40.000 di oggi, la mancia per Langstroth figlio che faceva da assistente. Un'ape regina, dicono oggi i manuali, va sostituita ogni due anni. Langstroth era uno scienziato-imprenditore, univa ricerche e affari e scriveva libri per promuoverli entrambi,

in una commistione deplorata da molti saggisti attuali: segnerebbe l'ingresso nell'«era della scienza post-accademica», un fenomeno favorito dal Bay-Doyle Act, del 1984, che autorizza i ricercatori degli enti pubblici americani a ottenere brevetti in proprio e a sfruttarli. Leggi simili sono state adottate in tutto il mondo, generando start-up e spin-off di laboratori universitari o di enti di ricerca finanziati dallo stato, creando un conflitto nuovo fra interessi privati e ricerca pubblica al servizio della collettività. Non così nuovo, in fondo. Oltre a Langstroth, accademico per lauree honoris causa, entravano nell'era della scienza post-accademica scienziati ben più famosi. Uno per tutti: ìustus von Liebig, che insegnava chimica all'università di Monaco di Baviera e intanto dirigeva l'azienda omonima. Plus ça change... Esistono arnie non Langstroth, ma tutte tengono conto dello «spazio dell'ape» e di altri che ne derivano, diversi per ogni funzione. Osservando gli eventi dalle arnie di vetro, Huber, Dzierzon, Langstroth (e parecchi altri personaggi, qui a malincuore sacrificati) avevano notato che le api colmano sempre con propoli gli interstizi inferiori ai 6 o 7 millimetri e con cera quelli superiori ai 9-10 millimetri. Sono «programmate» per farlo soltanto le api occidentali dei climi temperati, si crede di sapere oggi. Gli studiosi del primo Novecento erano convinti di aver decodificato il programma in base al quale le api si riproducono e lavorano, di poterlo manipolare e determinare. Da animale sinantropico, convivente - come il gatto che si presta a cacciar topi o l'elefante asiatico a trasportare tronchi - in cambio di cibo e cure, secondo loro l'ape era diventata una bestia d'allevamento, da ingrassare con foraggio artificiale, selezionare per il miele o per l'impollinazione. Come le mucche selezionate per il latte o per la carne, e con analoghi problemi di salute, di patogeni ricorrenti, di farmaci contro cui i patogeni sviluppano resistenze. Nemico numero uno e primo indiziato per la moria americana da Ccd: l'acaro sterminatore.

Parte seconda

Gli indiziati

V Il killer si chiama destructor

Attente, api: la Varroa destructor potrebbe raggiungere presto l'ultima frontiera. Titolo apparso sulla rivista australiana «AgricultUre Today», giugno 2006

Del feroce acaro ignoravo tutto. Peggio, lo confondevo con i tardigradi, nome collettivo di circa 700 specie grigiastre e lunghe al massimo mezzo centimetro che somigliano a un incrocio fra un ragno e un gambero e resistono a tutto. Qui ero meno ignorante, avendo puntato su di loro in una scommessa su quale extraterrestre, batteri esclusi, verrà scoperto per primo (si vince una foto dell'extraterrestre con dedica dei perdenti). «Li surgeli, li friggi, li deidrati» scriveva John Copley sul settimanale «New Scientist» «e risorgono più vispi di prima.» Lazzaro Spallanzani, che li aveva osservati al microscopio nel 1776 e battezzati tardigradi perché si muovono con calma, li congelava e scongelava davanti ai visitatori, i quali si stupivano di vederli tornare a sgambettare. Ma all'epoca si raggiungevano a malapena i meno 20° C. Nel 1950 Paul Becquerel li ha immersi nell'elio liquido, a meno 270°. Raoul-Michel May li ha bombardati con una dose di raggi X 250 volte superiore a quella letale per un mammifero. Nel 1998 Kunihiro Seki li ha schiacciati sotto una pressione di 6000 atmosfere. Ha sollevato la pressa e quelli hanno ripreso a sgambettare come gli scongelati sotto il microscopio di Spallanzani. Si riprendono anche dopo 120 anni di ibernazione nel permafrost. Sanno spegnere il metabolismo, e di questo saremmo capaci tutti, visto che

quel processo è detto comunemente morte, ma loro sanno anche riaccenderlo: perché, stando all'equipe dell'università di Copenaghen diretta da Reinhardt Kristensen che li studia da una ventina d'anni, prima di premere il tasto off i tardigradi sostituiscono l'acqua nelle membrane delle proprie cellule con uno zucchero (il trealosio) e producono proteine antigelo. Meno male che la Varroa, e torno al tema dopo una digressione dovuta all'entusiasmo, non ne è capace. Quando segnalo la scomparsa delle api americane sul blog dell'Oca sapiens, Piergiorgio M. di Mestre scrive: «Sono anche un modesto apicoltore e le mie tre casette sopravvivono. Per quanto non lo so, perché i miei amici, negli ultimi mesi, ne hanno salvate mediamente solo una su dieci e anche meno. Causa la chimica, il metodo delle coltivazioni che eliminano le siepi ecc., ma soprattutto a opera della Varroa jacobsoni: il tremendo parassita di 1,5 millimetri, incestuoso, efficiente, sempre più forte, che stermina le api sia traforandole per succhiare la loro emolinfa e sia per le malattie che trasmette (come la zecca). «I rimedi chimici funzionano sempre meno e si dovrebbe trovare un'altra via, tipo: rinforzare il Dna delle api e/o indebolire quello della Varroa, che invece si sta adattando molto rapidamente, come i topi. «Che mi potete dire?» «Poco» risponde l'Oca. «Qualcuno ne sa di più?» Certo. Non io, che sono l'Oca. Sapiens è soltanto un'aspirazione. Piovono risposte espertissime. Di Lorenzo M. «Le vie da percorrere sono due: studiare nuovi prodotti (abbiamo risultati incoraggianti da quelli di origine "naturale") oppure selezionare api resistenti, non agendo direttamente sulla genetica ma con incroci controllati che cerchino di far emergere quel comportamento igienico collettivo così utile alla pulizia dell'alveare. Ci sono api che sono - diciamo - più propense a pulire le compagne e togliere loro l'aca-

ro.» Lorenzo M. lavora all'Istituto nazionale di apicoltura «a cui fa capo la componente italiana della task force internazionale dedicata alla Varroa», la quale, ci informa in una nota in calce, si chiama destructor. La jacobsoni, rivela Wikipedia - dietro le cui voci i tassonomisti litigano - è sì un parassita, però benigno, scoperto ai primi del Novecento nell'Apis cerana delle Filippine e dintorni. Dal 2000 è appurato che la destructor è un acaro diverso con due ceppi, uno identificato in Corea e l'altro in Giappone e Thailandia. Ha infestato ì'Apis mellifera europea dopo che questa è stata esportata nelle Filippine e in altri paesi del Sud-Est asiatico, all'inizio degli anni Sessanta, dopodiché ha invaso il mondo. Destructor? Le si addice, considera Piergiorgio alla cui domanda iniziale risponde Pasquale Trematerra dell'università del Molise a Campobasso (anche se dal curriculum potrebbe tranquillamente trovare lavoro in quella della California a San Francisco). «Quanto ha riportato Piergiorgio sulla Varroa» scrive «corrisponde a situazione di fatto. L'aver ridotto l'ape a una macchina di produzione ne ha diminuite le capacità di difesa e da noi la Varroa ha preso il sopravvento. Nel tempo, per venirne fuori sarà utile ripartire da alveari sani e api geneticamente resistenti (non modificate da nessuno, altrimenti aggiungiamo problemi a catastrofi).» E come se non fosse uno scoop, Trematerra segnala en passant che «la Varroa, qualche anno addietro, è stata rilasciata come arma biologica, volontariamente, dalla Cia a Cuba per annientare il reddito di sussistenza degli agricoltori cubani. I focolai sono stati ritrovati infatti nella parte opposta agli scali aeroportuali dell'Isola (notizia pubblicata su "American Entomologist" nel 2004)». Piergiorgio trova sicuramente esecrabile la mossa della Cia, ma vorrebbe una soluzione al suo problema: «Non so se il professor Strematerra (?) potrà rispondere alle obiezioni dei miei amici e colleghi apicoltori, i quali dicono che al

momento attuale la ricerca non è in grado di aiutare le nostre amiche api infestate dalla Varroa. Riporto quanto trasmessomi: la Varroa non è un microrganismo che scambia geni con un altro genoma ma un parassita extracellulare, quindi con altri metodi di infestazione (ben diverso da "infezione"!) e contro i quali possiamo avere a disposizione poco più che mezzi chimici (con le disastrose conseguenze sul miele che possiamo ben immaginare tutti). Per intenderci, lo stesso rapporto che abbiamo noi con le zanzare... e non è che si possa alterare il nostro Dna per scacciarle: ci restano solo zampironi, zanzariere e repellenti chimici a uso esterno, ma non riusciamo a vincerle». Interviene Federico, che dissente. Secondo lui le equazioni naturale = buono e tecnologico = cattivo sono infondate: «Faccio notare che così come possono sorgere problemi anche con le tradizionali tecniche di selezione, forse altri problemi possono essere affrontati, nella giusta maniera e con la dovuta cautela, con gli Ogm». Cautela è la parola giusta. Una resistenza allo spietato acaro potrebbe indebolire le api contro altri parassiti che non vedono l'ora d'invadere i territori di quello sconfitto. È accaduto al cotone transgenico in Cina. Introdotto nel 1999 e immune all'infestante Heliocoverpa armigera, stuzzica l'appetito di altri insetti immuni alle sue tossine, scrive Nicola Jones in Transgenic Cotton Drives Insect Boom, su «Nature» del 24 luglio 2006. Gli agricoltori cinesi perdono soldi, e manifestano contro le autorità locali e le aziende gestite da funzionari del partito, che li riforniscono di sementi e pesticidi in base a direttive del governo centrale. Il quale è deciso a fare del paese il primo produttore mondiale di cotone. Gli farebbe comodo, con 1,3 miliardi di persone che vogliono vestiti decenti, che solo un terzo può permettersi, in cotone importato. Inoltre, nella corsa agli armamenti che caratterizza il rapporto tra predatori e prede, il cattivo evolve nuovi modelli per superare le difese che la vittima acquista, per evoluzio-

ne o per ingegneria genetica. In Argentina, nel 2004, il 70% delle larve di Heliocoverpa armigera prosperava nel cotone transgenico, il quale era stato «ingegnerizzato» per essere immune da padre in figlio da quando era stato introdotto nel 1996, scrivono Robin V. Gunning e altri su «Applied and Environmental Microbiology» del maggio 2005. Per Stephen Palumbi, il genetista delle popolazioni, autore di L'evoluzione esplosiva, quanto accaduto in Argentina è il risultato di una mutazione ineluttabile: lo stesso fenomeno si osserva ovunque si cerchi. Prima professore ad Harvard e ora direttore del Palumbi Lab a Stanford - non che Harvard sia di serie B, ma lui preferisce il mare e il clima della California - oltre a comporre e interpretare canzoni ambientaliste in stile garage rock, Palumbi è un evoluzionista, come tutti i suoi colleghi. I coltivatori americani probabilmente no, il che ne spiegherebbe l'entusiasmo per le piante transgeniche. Gli italiani in ogni modo non digeriscono il mais transgenico, figurarsi la manipolazione di una creatura carismatica come l'ape. Qui non se ne parla. Negli Usa invece sì, più che altro a proposito degli ostacoli tecnici da sormontare. Il signor Hackenberg - quello che aveva perso migliaia di colonie in Florida - non capisce perché i bioingegneri americani non si diano una mossa mentre, ne è convinto, i cinesi ci stanno provando. Forse. Nessun laboratorio cinese ha partecipato al progetto mondiale del sequenziamento del genoma delle api. I paesi coinvolti erano Usa, Unione Europea dei 27, Canada, Brasile, Giappone, Australia, Israele e Nuova Zelanda, paese in cui lavorano giovani genetisti cinesi, che dirigono pure alcuni laboratori. Curiosamente, in Florida le contee con più chiese creazioniste sono le stesse in cui d'inverno vanno a riposare le colonie da nolo e dove il satanico acaro ha sviluppato più resistenza agli svariati trattamenti destinati a eliminarlo. Più veloce nello sfruttare i vantaggi delle proprie variazioni genetiche casuali che i ricercatori nel mettere a punto un nuovo veleno, continua a moltiplicarsi mentre i suoi fratel-

li vulnerabili ai vecchi veleni muoiono senza discendenza. Da questo punto di vista, la destructor incarna la selezione naturale teorizzata da Darwin. Proprio come la muffa Nosema apis, un protozoo che da spora, allo stato dormiente, sopporta freddo, caldo, siccità, umidità, non muore nemmeno in freezer, e provoca la diarrea che costringe le api a interrompere di continuo il lavoro per lasciar fuori dall'arnia bisognini giallognoli dal profumo lievemente acidulo, non sgradevole (opinione personale). Durante l'ultima guerra mondiale, la nosemiasi ha fatto strage di colonie da Trieste a Danzica, ma la stampa aveva altro di cui occuparsi. Comunque il sintomo è evidente anche a un dilettante, in America ricorre ogni primavera e poi le api si riprendono: quindi con il collasso delle arnie americane non c'entra. Idem per le infezioni da Paenibacillus larvae larvae - in italiano «peste americana»: il nome stesso dice che risparmia le adulte. Però negli Stati Uniti, da una decina d'anni, circola un altro acaro pestifero, ì'Acarapis woodi che infesta la trachea proprio delle adulte. Secondo apidologi inglesi, aveva causato la moria dell'Isola di Wight - rimasta nelle cronache come «la Marie-Celeste» dal nome di una nave tornata in porto senza più equipaggio nonché sintomi identici a quelli del collasso delle colonie americane; una somiglianza messa in dubbio da parecchi ricercatori, tra cui il sapiente Benjamin Oldroyd. Secondo lui l'Acarapis woodi potrebbe essere soltanto un cofattore dell'epidemia attuale. L'acaro è malefico però sa sopravvivere, e ciò richiede parecchia inventiva in un parassita così specializzato. Tho mas Seeley - un neurobiologo del comportamento animale all'università Cornell - studia le colonie rinselvatichite di Carniole che nel 1978 un suo predecessore aveva trovato e censito nell'Arnot Forest, una riserva naturale nel Nord dello Stato di New York. Sono un caso unico (come l'università Cornell d'altronde, privata e fondata dal signor Cornell, e insieme pubblica in quanto «Land Grant College» finanzia-

to a fine Ottocento con la donazione da parte del governo di immensi terreni attorno al lago Cayuga, tra cui le colline boscose di quella riserva). Nel 2002 Seeley ha effettuato un nuovo censimento e le colonie erano altrettanto numerose, anche se nel frattempo la destructor aveva colonizzato gli Stati Uniti con le conseguenze che sappiamo. Ha quindi studiato le colonie dell'Arnot Forest per tre anni: erano sì infestate dallo spietato acaro il cui livello, però, non aumentava a fine estate, contrariamente a quanto accadeva nel resto del paese. Le Carniole erano immuni? Seeley prese una colonia dell'Arnot Forest e una di Carniole sane di altra provenienza e infestò entrambe con destructor prelevata dall'alveare devastato di un apicoltore della zona. L'acaro si moltiplicò e le devastò entrambe. Nell'Arnot Forest, tuttavia, il parassita si era comportato in modo diverso, scrive Steeley nel dicembre 2006 su «Aplologie». Era diventato meno virulento, attestandosi su una cattiveria sufficiente a mantenere stabile il numero delle colonie, così da riservare - con l'altruismo tanto ammirato da Maeterlinck nelle api ospiti per i propri discendenti, invece di sterminarli tutti, e costringere i figli a cercarne altri. La stessa adattabilità alle circostanze era stata vista in Giappone, dove la destructor pareva attaccare anche calabroni, mosconi e scarabei. Poi s'è capito che li usava come mezzi di trasporto verso l'Apis mellifera, e mai verso l'Apis cerana locale. Colpita per prima, l'ape asiatica aveva sviluppato subito una difesa. Non biologica, niente variante casuale d'un gene su cui facesse leva la selezione natura le. Ha mésso invece in atto una protezione più sociale: ha cambiato comportamento collettivo. Perlustra continuamente l'alveare in cerca di quel funesto nemico, appena ne scopre uno, una truppa la raggiunge e lo butta fuori, altre perlustrano di fino e procedono al repulisti totale. L'Apis cerana è aggressiva, diffidente verso acari e uomini. La mellifera non c'è arrivata a questi combattimenti organizzati, e l'acaro la perseguita in giro per il mondo.

Sul finire degli anni Sessanta la destructor è passata dal Giappone all'Urss; negli anni Settanta in Europa dell'Est, in Brasile e nel resto del Sudamerica; negli anni Ottanta in Francia, Svizzera, Spagna, Italia, Stati Uniti e Canada; negli anni Novanta in Inghilterra; dal 2000 in Nuova Zelanda donde la preoccupazione in Australia, ultima frontiera non ancora raggiunta - e dal 2007 nelle Hawaii. Non ha viaggiato da un continente all'altro a bordo di uno scarabeo, ma in confezioni di cere, miele, propoli o pappa reale spedite in container fino agli scali del commercio globale. Per combatterlo, occorreva conoscerlo meglio, il maledetto acaro, e nel 1998 il Centro svizzero per la ricerca sulle api ha pubblicato la sintesi di sei anni di ricerche, Un'occhiata sotto il tappo: nove pagine formato A4, altrimenti la tradurrei tutta, è scritta benissimo. Gli autori Gerard Donzé (che dà il tocco letterario), Peter Fluri e Anton Imdorf rivolgono un invito agli apicoltori «affascinati dall'eccezionale biologia delle api. La prossima volta che scoperchiate le celle da covata, prendetevi il tempo di osservare all'interno la magia di una specie che si è mirabilmente adattata. Purtroppo è una magia che procura un sacco di problemi». In realtà, se decapsulate la cella, ci trovate mezza dozzina di nei bruno-rossicci del diametro di 1,5 millimetri, con otto zampe tozze, attaccati alle pareti o alla pupa che stanno succhiando, o seduti su un mucchietto d'escrementi bianchi, i propri, all'incirca sotto la coda di lei. Tutte meno due, sono Varroe gravide in attesa di uscire insieme all'ape, o al fuco, per aggrapparsi a qualche nutrice che le porterà in un'altra cella dove una larva sta per esser rinchiusa insieme al cibo. Prima che la nutrice ne sigilli la cella, la Varroa gravida ci s'intrufola e si rintana in un angolo. Sta per iniziare la «magia» di Donzé, la complementarità tra lo sviluppo della larva in pupa e in ape, e il ciclo riproduttivo della Varroa. Per osservarla, Donzé ha allineato celle in polistirene trasparente su un supporto di plastica, le ha inserite nel favo da covata di una colonia infestata, e le ha spennellate

di miele per incitare le operaie ad approntarle per la deposizione delle uova. Ha sequestrato per dodici ore la regina nei suoi appartamenti e lasciato che le operaie accudissero le larve per otto giorni. Quando le operaie hanno sigillato le «sue» celle, Donzé se le è riprese, le ha messe in un'incubatrice sulla quale erano montati un microscopio binoculare, una macchina fotografica e una videocamera. Per farla breve, racconto soltanto la trama. La larva si srotola, mangia la pappa, sputa il filo del suo bozzolo, ne tappezza le pareti della cella per 33 ore se femmina, 48 se fuco. La Varroa incinta, alla quale stanno scappando le uova, non intende rimanere incastrata tra il bozzolo e la parete, quindi salta sulla larva che intanto si è sdraiata sulla schiena, la testa sotto l'opercolo, allo stadio di prepupa. Tra 12 o 14 giorni uscirà dalla cella, e la Varroa deve riuscire a riprodursi prima: eppure si muove al rallentatore, succhia un po' di linfa dai segmenti ventrali della pupa. Mai vicino a zampe, ali, mandibole, antenne, per non rovinare anzitempo il mezzo di trasporto: resa invalida, l'ape non riuscirebbe a uscire dalla cella e di conseguenza non potrebbero farlo neanche le giovani Varroe. Dimenticavo un particolare: la madre Varroa defeca sempre nello stesso punto, e lì si siede per tirare il fiato. Passano 80 ore prima che, appesa per due zampe alla tappezzeria del bozzolo, faccia il primo uovo. Con altre quattro lo sorregge a lungo, dai 20 ai 30 minuti, poi lo spinge sulla parete, gli dà dei colpetti perché aderisca bene, e torna a riposare sulle feci. Avanti e indietro, a deporre un uovo ogni 30 ore, circa dieci in totale, sistemati nella parte anteriore della cella, attorno alla testa dell'ape per non intralciare l'andirivieni materno. Solo l'ultimo contiene un maschio, e si schiude per primo. Il giovane si rifocilla sulla pupa nella quale sua madre, lungimirante, ha trivellato alcuni pozzi per facilitare l'accesso alla linfa. Le sorelle escono scaglionate dalle uova, diventano adulte una dopo l'altra e lui le feconda una dopo l'altra. Poi s'accascia e muore per lo stremo, sua madre pure. Le so-

relle veicolate dall'ape - malconcia ormai, ha le ore contate anche lei - si attaccano a una sua badante, si lasciano cadere ognuna in una cella di covata. E si ricomincia. Se nella colonia le Varroe sono ancora poche, preferiscono riprodursi senza fretta nelle celle dei fuchi, che impiegano più tempo a uscirne. E siccome i fuchi sono sovrabbondanti, il danno è limitato. In autunno, niente uova che generano fuchi, solo quelle da cui nascono api operaie; e se le Varroe sono tante possono infestare tutte le nuove generazioni. Raggiunte le cinque-sei settimane, le operaie della generazione precedente escono per andare a morire (d'inverno vivono più a lungo), ma non prima d'aver espulso le giovani malconce, senza troppi complimenti. Altre giovani sembrano illese e per un po' fanno vita normale, quella narrata e illustrata con fotografie incantevoli da Luca Mazzocchi su www.mondoapi.it. Escono dalla cella, sfarfallano, si fermano il tempo d'asciugarsi e si tuffano nel lavoro, a testa in giù nella prima cella scoperchiata che vedono, per pulirla. Il giorno dopo sono promosse al servizio incoraggiamento, igiene e nutrizione della regina; tra i tre e i sette giorni, nutrono le larve con la pappa reale. Poi diventano magazziniere, liberano le bottinatrici dal nettare, lo trasformano in miele che depositano nelle celle, e sigillano con la propria cera quelle dove il miele è maturo. Mentre vanno e vengono, si scambiano il cibo e i messaggi chimici che ne determinano il comportamene to individuale e collettivo. A tre settimane entrano nella squadra delle pulizie dell'alveare; buttafuori di malate ed estranei; imbalsamatrici, nella propoli, di invasori troppo grossi per esser trasportati fuori. Poi sono architette nella costruzione di nuovi favi, e ventilatrici che battendo le ali fanno evaporare l'acqua dal miele già immagazzinato. Verso il diciottesimo giorno fanno prove interne di volo e d'orientamento e verso il ventesimo escono dall'alveare, di guardia sul davanzale, per difendere l'ingresso dalle intrusioni. Dopodiché fino alla morte compiono migliaia di

viaggi cariche di acqua, nettare, polline, melata, e rischiano in ogni momento la vita. Le operaie sopravvissute alla Varroa sono deboli, più piccole, a volte malformate, nutrono le larve per un tempo brevissimo, a turni per cinque giorni in tutto invece di quindici, producono poca cera, e se arrivano all'età di guardiane non sono aggressive verso le api estranee e queste ne approfittano per razziarne la colonia; se arrivano all'età di bottinatrice volano maldestramente, perdono il senso di orientamento e muoiono lontano dall'arnia. Non le ha uccise l'acaro ma i virus che ha trasmesso loro. Già vi vedo rimuginare, come Nero Wolfe davanti alle orchidee. Le prime api americane sono svanite a primavera, il collasso delle colonie s'è prodotto in autunno, gli indizi coincidono. «Archie! Chiami il signor Hackenberg in Pennsylvania, gli chieda quanta Varroa destructor ha trovato nelle celle da covata delle arnie deserte.» Sì, capo. Hackenberg dice che ne ha trovate pochissime e non gli piace esser preso per un dilettante, conosce le terapie, le combina, le alterna. Usa strisce impregnate con piretroidi, derivati dal piretro che è un insetticida naturale, ma li impiega di sintesi, li trova più affidabili; e strisce impregnate con organofosfati, ma raramente, che contengono una neurotossina che gli ricorda il gas nervino. Usa anche de cine di aerosol - mentre Archie Goodwin legge i suoi appunti, gli balenano in mente migliaia di api con la faccia affondata in un imbuto - con olio minerale, acido ossalico, acido formico, essenze di limone, timo, menta. Quando Hackenberg trasferisce le colonie in certi luoghi a rischio, prima di liberarle le spolvera con zucchero a velo. Serve da sciolina: l'acaro non riesce a far presa sul pelo delle ragazze e slitta via. Oltretutto, quella cipria all'ape dà fastidio e mentre se la toglie, aiutata dalle altre, sloggia gli eventuali indesiderati. Ha provato arnie con sotto reticelle appiccicose, dalle quali l'acaro caduto non poteva risalire: non servono

a niente. Ha tentato con un'arnia rotante, che doveva disorientare la belva: ma disorienta anche le api. Adesso fa così: un paio di volte all'anno, mette nell'arnia un telaio con celle preconfezionate, della dimensione giusta perché la regina ci deponga uova di fuco, le preferite dalle Varroe. Quando le celle sono tappate lo ritira, lo tiene un paio di giorni nel freezer, lo scongela e lo rimette dentro. Le operaie buttano fuori dall'arnia le larve morte, e gli acari idem. Wolfe approva. Gettar via il bambino con l'acqua del bagno è un metodo che raccomanderebbe volentieri per controllare un'altra esplosione demografica, che trova ancora più molesta. «Archie, vada a Mestre e si porti un cellulare di riserva.»

VI Tradotto con cellulare

Gli studiosi mescolano tutti i tipi d'ipotesi, anche che qualche pesticida abbia provocato danni neurologici alle api, o alterato il loro senso dell'orientamento. Altri incolpano la siccità o le onde dei telefoni cellulari, ma quello che è certo è che nessuno sa di sicuro qual è il vero processo scatenante ... Può accadere di peggio... FIDEL CASTRO, Internazionalizzazione del genocidio, 3 aprile 2007

A metà aprile del 2007, «The Independent» scrive: «Dagli Stati Uniti, dove si diffonde dall'autunno ... il Colony Collapse Disorder si è esteso a Germania, Svizzera, Portogallo, Italia e Grecia. La settimana scorsa John Chapple, uno dei maggiori apicoltori di Londra, ha annunciato che 23 delle sue 40 arnie erano state abbandonate ... Ora una ricerca limitata, condotta all'università tedesca di Coblenza-Landau, ha scoperto che le api rifiutano di rientrare nelle arnie se accanto a esse viene collocato un telefonino. Jochen Kuhn, uno dei ricercatori, dice che ciò potrebbe indicare una possibile causa». A Mestre, Piergiorgio M. ha letto i quotidiani italiani e ha trovato proprio scritto «cellulare». Ha quindi preso il proprio e dopo aver composto il numero di un amico, avvertito perché disattivasse la segreteria e non rispondesse ad alcuna chiamata, l'ha posato sul tetto di una sua arnia. Risultato dell'esperimento: «Le ragazze si sono agitate». Come fa a saperlo? Siamo nella casa di campagna di un suo amico, apicoltore semidilettante, con mezza dozzina di arnie, osservatore attento anche lui, attorno al tavolo della cucina fresca e buia,

nel primo pomeriggio della giornata più calda registrata in Veneto da un secolo a questa parte. «A orecchio. C'è brusio e brusio. Ogni tanto do un colpetto sull'arnia» Piergiorgio mima il gesto con l'indice piegato. «Mi rispondono e dal rumore capisco se stanno bene o no.» Un paio d'ore più tardi, sotto gli alberi del frutteto - generosi pruni di regina Claudia, ma a fine giugno i frutti non sono ancora maturi - si respira un po' meglio, le arnie sono in fila sul prato, al sole. Le ragazze non mi conoscono, tengo le distanze. «S'avvicini pure, con questo caldo ce ne sono poche in giro.» In effetti, a un colpetto dato sulla prima cassetta, il ronzio cambia. «Sono a posto» diagnostica l'amico. Piergiorgio concorda e ritorna al killer numero uno, la Varroa destructor. Forse favorito dall'elettrosmog, che alle api comunque non fa bene, con tutti i problemi che già si ritrovano. A Milano, stessa afa e niente pruni ombrosi, Stefano gestisce un negozio di ottica e di telefonia mobile. In provincia, dove abita, produce ogni anno circa quattro quintali di miele, che per lo più regala a parenti e amici. Non crede al cellulare killer. «I giornali raccontano palle, soprattutto qui, manca la cultura scientifica.» L'espressione sottintende secoli di storia italiana, il processo a Galileo, Croce e Gentile, il Vaticano, la Democrazia cristiana, i suoi eredi. «Le api navigano a vista, no? Si orientano sul Sole, mica sui campi magnetici, quelli sono i piccioni.» Stefano liquida l'esperimento tedesco con un'analogia. «Ci mettessero sotto casa un cellulare cento volte più grande di noi, può scommettere che staremmo alla larga pure noi.» L'esperimento di Piergiorgio scientifico non è, però invece di liquidarlo Stefano lo interpreta così: «Ne avranno captato la vibrazione sul tetto, sono sensibilissime, basta un nulla». Ambientalista, attento alle proprie scelte e pronto a dare consigli saggi ai clienti, ha seguito la faccenda dell'elettrosmog. «Si era parlato di rischio leucemia e tumore al cervello per i ragazzi che stanno con il telefonino all'orecchio per ore e ore, ma i produttori avevano già modificato

le antennine. Per vedere un effetto, bisogna legare un topo sul telefonino per mesi. Come quelli che avevano tenuto appesi sotto i cavi dell'alta tensione. Nelle persone, effetti negativi non sono stati dimostrati.» Ci vorrebbe un lungo inciso sul senso del dimostrare, però Stefano ha naso. La ricerca era stata fraintesa da «The Independent», precisava «Der Spiegel» una settimana dopo: in tedesco mobil non sta per cellulare, che si dice handy. E i ricercatori - oltre a Jochen Kuhn c'erano altri cinque fisici e matematici, Hermann Stever, Stephan Simmell, Wolfgang Hardt, Christoph Otten e Bernd Wunder - non si erano occupati di scomparse massicce delle api, avevano concluso l'anno prima la seconda fase di un esperimento-pilota per verificare l'«Alterazione del comportamento delle api da miele esposte a radiazione elettromagnetica». Il loro resoconto è uscito non su una rivista scientifica, ma sul sito dell'università. Quelle alterazioni vanno davvero verificate. Le api sono usate come biosensori per monitorare l'ambiente e bisogna distinguere quello che nuoce alla loro salute, e rischia di nuocere alla nostra, ma proviene da cause naturali come pioggia, freddo, caldo, vento, acari, microbi, virus, e quel che nuoce per cause derivanti da attività umane come concimi, pesticidi, radiazioni non ionizzanti. Queste ultime, nello spettro delle onde elettromagnetiche, vanno dalle onde a bassa frequenza alla luce del Sole. In ordine di energia e calore crescenti, quelle aggiunte da noi provengono da elettrodomestici, fili della corrente, cellulari, cordless, radio, televisori, computer, forni a microonde, lampade a infrarosso (un tempo usate per riscaldare il bagno e oggi talvolta contro i reumatismi), ultravioletti per l'abbronzatura. Già che ci sono, faccio un inciso sulle altre radiazioni, quelle ionizzanti che fanno più paura. Hanno un'energia maggiore, vanno dagli ultravioletti ai raggi gamma, e spez zano il Dna: se ne riceve una dose massiccia, non riesce più a ripararsi. Sono onde, e quindi particelle, che arrivano dal-

lo spazio o da elementi radioattivi onnipresenti sulla terra: potassio, gas radon nel suolo, grès rosa o grigio di Bretagna, basalto di Sardegna, carbone, materiali da costruzione, torio, trizio, americio, radio usato in medicina per terapie o esami, uranio per centrali nucleari e bombe atomiche. La radioattività, tra l'altro, serve spesso a distinguere una sostanza naturale dalle sue imitazioni. L'androsterone, un ormone che si trova normalmente nel sangue di un campione del ciclismo, è radioattivo. Quello che viene iniettato il giorno prima per vincere la tappa del Giro, no; l'essenza di vaniglia estratta dal baccello dell'orchidea Vanilla planifolia è radioattiva, quella sintetizzata a partire dal petrolio no, e se ve la spacciano per essenza di orchidea è una truffa - e una frode alimentare molto frequente, perché quelle orchidee stanno scomparendo insieme alle farfalle specializzate nella loro impollinazione. Dal 2005 esiste anche una vanillina che Mayu Yamamoto, una ricercatrice giapponese, ha estratto dallo sterco di mucca. Per questo, ha ricevuto il premio IgNobel - alla scienza che prima fa ridere e poi fa pensare - per la Chimica 2007. Domanda: vi sembra più naturale la vanillina fatta con il petrolio o con lo sterco? Mentre ci pensate, torno alle api. Per capire se erano disturbate da onde radio corte, medie, a modulazione di frequenza, insomma quella fascia di radiazione non termica da radiofrequenza, nel giugno e luglio del 2005 e del 2006 i sei dell'università di Coblenza-Landau hanno attaccato sotto i favi, in alcune arnie del centro ricerca di Mayen, la base ricetrasmittente di un telefono cordless «Digitally Enhanced Cordless Communication, marchio Thomson», riducendo del 50% la potenza del segnale, oppure lasciandola tale e quale. Hanno catturato delle api mentre uscivano: 25 nel 2005, anestetizzate in un tubo raffreddato all'esterno con azoto liquido, e 16 l'anno dopo, di cui una non s'è ripresa dopo esser stata stordita, come le altre, con una spruzzata di anidride carbonica. Le hanno contrassegnate sul torace con un «colore rosso atossico», applicato con «paint marker

marchio Edding 750». Ci sono ulteriori particolari, triviali per noi, ma da elencare nella sezione «metodi e materiali» d'un resoconto di ricerca, così altri possono rifarla e controllare se i risultati collimano. I ricercatori hanno poi liberato le api a un chilometro di distanza dalle arnie, in linea d'aria, nel 2005; a cinquecento metri nel 2006. Quelle api servivano a cronometrare i tempi di rientro. Fatto questo, hanno aperto il foro alla base delle arnie, contato il numero di api in uscita e di quelle rientrate dopo quarantacinque minuti. Qui il racconto delle operazioni viene sospeso, e si descrive il modello matematico usato per rendere significativa la statistica dell'andirivieni. Salto ai risultati: era rientrato il 63% (482 su 765) delle api senza base del cordless sotto l'arnia; il 56,4% (203 su 360) con base a potenza ridotta; il 54,1% (365 su 675) con base a potenza normale. Tenuto conto delle diverse direzioni prese dalle api, e degli eventuali incontri di predatori lungo il tragitto, la differenza è minima. Oltretutto manca l'indicazione del numero delle api presenti in ogni arnia prima che fosse aperta. In quelle dotate di base a potenza ridotta, erano la metà. All'origine? Oppure hanno trovato l'esperienza così gradevole da tapparsi in maggioranza nell'arnia mandando a succhiar nettare un unico turno di operaie? Il risultato sul quale insistono i ricercatori è che nel follow-up del 2006, più sofisticato, i dati sono meno allarmanti che nella prima fase dell'anno precedente. Lavoro discutibile, il naso di Stefano aveva ragione. Ma Stefano aveva torto, le api si orientano anche sul campo geomagnetico. Quando escono, seguono le indicazioni, fornite dai movimenti delle perlustratrici, sul luogo in cui si trovano i fiori più appetitosi. È il «linguaggio delle api», il mezzo di comu nicazione e di organizzazione dei turni di lavoro all'esterno, visibile a occhio nudo. È stato visto per millenni, pur rimanendo incompreso. Si pensava che le api trovassero la meta con l'odorato finché Karl von Frisch, ricercatore di zoologia

all'università di Monaco di Baviera, pubblicò i propri esperimenti, fondò l'etologia e, da hobby per preti polacchi o business per reverendi protestanti, ne fece una scienza. Per aver scoperto il «linguaggio delle api», von Frisch (Vienna 1886 - Monaco di Baviera 1982) ricevette il premio Nobel nel 1973 insieme a Konrad Lorenz e Nikolaas Tìnbergen. La sua ricerca era tuttavia incompleta. Le arnie di solito sono buie, le api dovrebbero vederci poco. Nel 1967 l'americano Adrian Wenner cercò di invalidare i risultati di von Frisch e del suo gruppo. Non negava la danza, ma secondo lui serviva soltanto a spargere per l'arnia l'odore del fiore bottinato, tant'è che le api impiegavano parecchio a trovarne la fonte; se avessero avuto le coordinate esatte, avrebbero dovuto metterci mediamente il tempo d'un volo in linea retta. Wenner apparteneva a una nuova scuola, che deduceva il comportamento degli animali sociali da un modello matematico-statistico basato sull'intensità di una reazione a uno stimolo e su un «uso efficiente delle risorse» a disposizione. Un modello economico, insomma, e l'economia non era il forte né di von Frisch né dei suoi seguaci. Il comitato Nobel mise fine a una brutta diatriba fra europei e americani. A chi deplora premi a volte approssimativi, va detto che von Frisch meritava comunque il proprio per un lavoro precedente, non citato nella motivazione ufficiale: aveva scoperto che le api distinguono i colori. Se gli evoluzionisti di allora ci avessero prestato attenzione, avrebbero risolto il rompicapo di Darwin e della delirante diversità delle piante un secolo prima? Anche un secolo fa era un controsenso che gli impollinandi spendessero tante energie per farsi vedere, se gli impollinatori li raggiungevano a naso. Karl von Frisch sembra uscito da Tutti insieme appassionatamente, rivisto e corretto da Robert Musil. Nato in una famiglia della grande borghesia viennese, che conta una decina di scienziati, filosofi, medici e architetti, quarto figlio di una madre che sperava finalmente in una femmina, in

una famiglia di universitari e intellettuali. Tutti suonavano, cantavano, e passavano l'estate sul Wolfgangsee, dopo un trasloco epico insieme ad amici e animali da compagnia: per il piccolo Karl «un pappagallo verde con il quale ebbe una stretta e durevole amicizia». Nella villa di campagna, a Brunnwinkl, allestisce un «museo di farfalle, falene e coleotteri». Scrive di sé a otto anni: «Mi piaceva semplicemente osservare le manifestazioni delle funzioni biologiche e dei moti mentali in tutta la loro varietà, nelle varie tappe dello sviluppo animale». Alle api s'interessa dopo essersi laureato sulla visione dei colori in certi pesciolini. Per la tesi, aveva letto i lavori del professor von Hess, riverito oftalmologo della clinica universitaria di Monaco, che nel 1910 aveva compiuto rozzi esperimenti con le api: a suo avviso non distinguevano un papavero da una giunchiglia. «Non riuscivo a crederci, i colori brillanti dei fiori si spiegano soltanto come un adattamento a visitatori in grado di vederli» disse von Frisch nella conferenza in occasione del premio Nobel. Hess è un incapace e un arrogante, pensa - e non è il solo - dopo esser stato maltrattato dal luminare al quale aveva osato chieder dettagli sugli esperimenti. Senza quei dettagli non può riprodurli, quindi li reinventa. Installa a Brunnwinkl decine di arnie e per anni, ogni estate, come Maeterlinck, prova a farsi ape. Nel gioco di specchi che ne consegue, osservatore immedesimato nell'oggetto dell'osservazione, sospetterà che anche le api lo stiano osservando. Ridicolo? Forse, ma le api riconoscono il proprio apicoltore: quando s'avvicina, quelle di vedetta sul davanzale dell'arnia non lo minacciano. Per prima cosa, von Frisch mette su un ripiano un carton cino azzurro, e ci poggia sopra una ciotola di miele. Quando le api hanno preso l'abitudine di usarla per rifornirsi, la toglie, e sostituisce con un cartoncino rosso quello azzurro, che sposta qualche metro più lontano. Le api continuano a puntare sull'azzurro, dunque qualcosa vedono e ricordano. Due colori? O due intensità diverse di grigio nella gam-

ma dal bianco al nero? Riprova con cartoncini azzurri con e senza ciotola, cartoncini grigi senza e, nel caso le furbette ricordassero la strada, continua a variare la collocazione del ripiano. Con o senza ciotola, vince sempre l'azzurro. Che fiutino un odore particolare dell'azzurro? Riprova con una lastra di vetro sopra i cartoncini: stesso risultato. Cambia i colori e le forme dei cartoncini: stesso risultato, scrive in Der Farben unii Formensinn der Bienen, sullo «Zoologische Jarbùcher» (Physiologie) 1914-1915, l'annuario che esce doppio nel 1916. Dopo la guerra, von Hess non perdona, osteggia la nomina di von Frisch a direttore dell'istituto zoologico perché ha soltanto 38 anni e i giovani, come s'è appena visto, non hanno alcun rispetto per l'autorità. Ormai però è von Frisch, l'autorità. Ha un gruppo di ricerca e lo trasferisce con sé a Brunnwinkl. Trova l'arnia di vetro decorativa, utile semmai per osservare, non per capire. Se le costruisce, goffe e sghembe, con un lato in vetro polarizzato che fornisce un'illuminazione costante, ma obliqua, come sulla maggioranza delle sfaccettature di un occhio d'ape. E infatti l'ape deduce la posizione del Sole dalla polarizzazione dell'azzurro, le basta un pezzetto di cielo intravisto dal foro d'uscita dell'alveare. L'esperimento per determinare la presenza di un linguaggio specifico è una successione di incastri, come quello per i colori. Prima bisogna marcare un bel po' di api sulla schiena con pois dalle tonalità diverse, per individuare le api di ritorno, contarle e ottenere una statistica significativa. E anche per riconoscerle, fuori, sull'agrifoglio che sfuma dal panna al burro oppure sul trifoglio dalle mèche bianche con punte lampone; e infine, una volta rientrate, per vedere se convincono altre bottinatrici ad andare sulla siepe o nel prato. Dopo molti tentativi, ne tornano 599. Appena scaricato il proprio miele, la perlustratrice traccia «sul posto, con piccoli passi, un cerchio a destra e uno a sinistra, molto vigorosamente, per mezzo minuto o uno intero. La danza viene spesso ripetuta in un altro punto». Le

altre «si eccitano», le accarezzano la pancia con le antenne per sentire le tracce di nettare, si mettono a danzare pure loro e volano via: verso quel nettare. Ùber die «Sprache» der Bienen esce nello «Zoologische Jahrbùcher» (Physiologie) del 1923. È soltanto l'inizio. Vent'anni dopo, spinto da uno studente che nota gli addomi frementi delle perlustratoci di rientro, von Frisch riprende le ricerche. Che stupido ero stato, dirà all'inarca a Stoccolma, mi ero fermato al primo risultato per approfondire poi il senso del gusto e dell'odorato che pareva fondamentale. La «danza del ventre» aggiungeva al linguaggio altri segni. Tutta una geometria disegnata nell'aria, angoli di 60° in un semicerchio a destra e uno a sinistra, a partire dal basso se la direzione da prendere è quella del Sole, dall'alto se è quella opposta. Quella danza è rapida e ripetuta nove-dieci volte se i fiori stanno entro i cinquecento metri, rallenta e si ripete meno frequentemente via via che la distanza s'allunga. Cronometro alla mano, il ritmo scandisce le distanze fino a cinque chilometri, poi si fa dissuasivo, oltre i dieci chilometri è da «marcia funebre». L'odorato rimane essenziale. Una singola ape che scopre un vaso di menta fiorita provoca una migrazione verso quel vaso lì, anche se fra il suo viaggio e quello delle altre c'è stato un cambiamento nella collocazione del vaso, e anche se il vaso è in mezzo ad altri, solitamente più graditi, di lavanda, timo, maggiorana. Però quando la perlustratrice rientra, non è il suo odor di menta a suscitare l'attenzione delle altre, bensì la secrezione di una ghiandola che «avvisa la popò lazione. Laddove altri insetti lo usano per attirare un partner, l'operaia priva d'interessi sessuali mette quell'organo al servizio della comunità». L'operaia emette cioè feromoni, decifrati inizialmente da Colin Butler, ulteriori segni del linguaggio comune e al contempo molto di più: determinano i rapporti fra la regina e le operaie, la presenza di fuchi, se allevare una nuova regina, se nell'arnia servono poliziotte per estromettere gli in-

trusi, se all'esterno sono necessarie guerriere, per cacciarli via prima che entrino. «Non si studiano gli animali sulla carta» protesta von Frisch - come Voltaire a suo tempo - che approfitta del discorso di Stoccolma per criticare i lavori di Wenner. L'americano smette di pubblicare ricerche sulle api, ma ex studenti di von Frisch riprendono quelle del maestro e le proseguono. Scoprono che del linguaggio-danza fanno parte anche vibrazioni delle ali, circa 200-220 al secondo. Sulla seconda articolazione delle antenne, le api hanno qualcosa di vagamente simile a un orecchio, la deduzione era che sentivano quelle vibrazioni come un canto. Restava da dimostrare che 200-220 battiti al secondo producono un suono identificabile nel brusio dell'alveare. Nel 1988 Wolfgang Kirchner e William Towne riescono ad assemblare un'ape-robot, lunga come un'ape vera e ben più grassa, ali ritagliate da una lametta da barba, in pancia micromotori controllati dal computer per farle vibrare. Quel gnocchetto marrone sormontato da un tubo - per i fili elettrici e la siringa con cui depone un carico di miele nelle celle, così le altre l'accettano come una di loro - compie i cerchi e i semicerchi, una parodia, ma il ritmo è quello, e dal muso da topolino emana una soluzione di essenza di fiori. A ogni esperimento in un alveare vero l'essenza cambia, il ritmo anche, e le api vanno nel luogo indicato dal robot, su fiori corrispondenti a quell'essenza. È «un balletto con partitura e in odorama» scherza Kirchner. Le api che seguono le indicazioni sono la maggioranza, poi come sempre qualcuna va altrove o non torna. Perciò dal 2001 Wenner si rifa vivo e ripete che conta soltanto l'olfatto, la ricerca a vista della fonte avviene in un secondo momento: ecco perché le api arrivano in ritardo sul luogo comunicato rispetto al tempo che impiegherebbero volando in linea retta, senza seguire le tracce olfattive. Il «linguaggio comune è una fantasia» di von Frisch e seguaci, che non porta alcun beneficio agli apicoltori, scrive Wenner.

La polemica postuma si risolve, almeno temporaneamente, su «Nature» il 12 maggio 2005. Ricercatori inglesi e tedeschi hanno attaccato un mini-transponder sulle api che assistevano alla danza di una collega, e ne hanno seguito i percorsi con un radar di tipo nuovo (armonico). Volavano dritte seguendo le coordinate, e poi a cerchi concentrici sopra la località giusta fino a identificare il fiore giusto dall'odore del nettare. Se avessero avuto un gran fiuto, avrebbero fatto presto. Un secondo esperimento faceva da controllo al primo: se la fonte del nettare identificata dalla perlustratrice veniva trasportata altrove, le api volavano comunque seguendo le direttive impartite. Negli ultimi vent'anni si sono viste varianti specifiche della danza, per indicare l'acqua o la resina o un posto per nidificare con lo sciame, e altre dal significato ancora da decifrare. Unite nella stessa arnia le Carniole (ex) jugoslave e italiane faticano a capirsi per un giorno o due, le jugoslave superano il bersaglio, le italiane si fermano prima. Nel ritmo ci sarebbero «dialetti», occorre farci l'orecchio. Professore emerito dai primi anni Cinquanta, von Frisch aggiorna il proprio classico Aus dem Leben der Bienen, pubblicato per la prima volta nel 1927. Uscito in francese da Albin Michel nel 1956 come Vie et mceurs des abeilles, contiene una nota finale di ringraziamento dell'autore «al traduttore André Dalcq per il prezioso aiuto di cui i lettori e l'autore non avrebbero avuto bisogno se fossero stati api francesi e tedesche, perché avrebbero condiviso la stessa lingua». Nella prefazione all'edizione inglese del 1954, Dancing Bees, von Frisch scrive: «Immaginate che api tedesche e inglesi vivano nella stessa arnia e che una delle tedesche trovi un bel po' di nettare: le sue compagne inglesi capirebbero facilmente quello che avrebbe da dire sulla distanza e la direzione della fonte. Perciò sono grato alla dottoressa Dora Isle che ha tradotto il mio libro». Tedeschi e inglesi avevano appena avuto ben altre differenze, commenta Bee Wilson in The Hive. E il pacifico von Fri-

sch si chiederà poco dopo nell'autobiografia se impareremo mai dalle api «a dividere onestamente i frutti della terra». Il linguaggio danzato e cantato indica dove andare. Ma come fa una perlustratrice, che per ore zigzaga di qua e di là, a ricordare la strada di casa? Come altri insetti e vari uccelli, si fa guidare dalla magnetite nelle cellule, cristalli di ossido di ferro che cambiano orientamento a seconda di dove si trovano rispetto al campo magnetico terrestre. E il fenomeno sul quale due ex studenti di von Frisch s'erano basati per spiegare come mai le perlustratrici sbaglino abbastanza spesso a indicare l'angolo di volo rispetto al Sole. Spiegazione tutta teorica, nessuno aveva mai visto uno di quei cristalli in una cellula d'ape. Von Frisch è morto quando ormai era quasi certo che dovevano esserci, e probabilmente nell'addome anteriore dorsale. Etologi giapponesi e americani, dell'università delle Hawaii, avevano dimostrato che le api, con un filo d'acciaio magnetizzato incollato sulla schiena - a mo' di campo geomagnetico artificiale - tendevano a perdere la bussola e non ritrovavano la ciotola di sciroppo prelibato se era stata spostata a nord. Rispetto alle compagne senza filo, la differenza era piccola, ma molto più significativa di quella trovata nella ricerca sul presunto cellulare. Un 47% con filo magnetizzato ritrovava la ciotola, rispetto al 58% senza. Nel 1994 i biologi molecolari Chin-Yuan Hsu e Chia-Wel Li dell'università Tsing Huan a Hsinchu (Taiwan) pubblicano su «Science» una correzione agli esperimenti fatti dagli etologi. Le uniche cellule che contengono granuli di ferro e quindi cristalli di magnetite, scrivono, sono i trofociti. Sulla loro parete interna, i cristalli affiancati si allargano o si restringono a seconda dell'orientamento dell'ape rispetto al campo geomagnetico, la membrana cellulare ne accompagna il movimento, si deforma, e i nervi collocati al suo esterno ne avvertono il cervello. Quella sensazione viene però dall'addome posteriore ventrale, visto che i trofociti

si trovano nelle ovaie. Niente di definitivo. Servirebbero ulteriori ricerche e fondi per compierle, onde dimostrare che i fuchi privi di ovaie si perdono anche nel centro di Bologna, il che giustificherebbe la loro clausura fino al momento in cui la regina emette i propri afrodisiaci, esce dall'arnia e loro con lei. Mentre invece prosegue il dibattito sulla collocazione esatta della bussola, che esiste ed è addominale, per cui il cellulare di Piergiorgio potrebbe aver turbato le «ragazze» inducendo sgradevoli sensazioni viscerali. Piergiorgio si autodefinisce un dilettante. Jeff Pettis dirige invece i laboratori apidologici del dipartimento dell'Agricoltura a Beltsville, nel Maryland. Come esperto, è stato convocato dal Congresso i cui membri erano anch'essi stati informati dalla stampa del cellulare killer scoperto in Germania. Li ha rassicurati, la ricerca era «viziata da condizioni irrealistiche». Ma un deputato, di cui Pettis tace con diplomazia nome e luogo in cui è stato eletto, gli ha chiesto off-record se le api americane non avessero perso la bussola per colpa del ribaltamento del campo geomagnetico previsto dai Maya per il 2012, foriero di catastrofi immani, e magari giunto in anticipo. Idea non proprio peregrina. Quel campo non sta mai fermo e ogni tanto se ne in verte la polarità. Dall'orientamento delle particelle di minerali ferrosi contenute in sedimenti che milioni di anni fa erano melmosi e col tempo si son consolidati in rocce, i geofisici calcolano che ci siano stati circa duecento ribaltamenti, durati da migliaia a milioni di anni, in media uno ogni 250 mila anni. L'ultimo, l'inversione di Brunhes-Matuyama, risale a 780 mila anni fa, dunque potrebbe capitarcene uno tra poco. Per ordine di Roberto Sabadini, un geofisico con i fiocchi dell'università statale di Milano, devo accompagnare ogni accenno al ribaltamento prossimo venturo con una rassicurazione: gli ominidi che ci hanno preceduto ne hanno subito più di uno e se la sono cavata. Ciò detto, è l'incubo di

tutti i gestori di telecomunicazioni civili e militari, i cui sistemi saranno (sarebbero) ben più disorientati delle farfalle monarca, delle oche grigie e di altri popoli migratori. Conviene tenersi il tam tam a portata di mano. L'inversione del campo geomagnetico è globale per definizione, avrebbe dovuto disorientare nello stesso momento tutte le api del mondo, mentre il Ccd si è diffuso a macchie di leopardo durante il 2006. Dopo la testimonianza al Congresso, Pettis dichiarò al «Washington Post» che, per quanto lo riguardava, anche l'inquinamento da elettrosmog era stato eliminato, insieme a the usuai suspects; ormai bisognava indagare su sospetti inconsueti, e sulla complicità di più killer. Poteva fornire qualche esempio di sospetto insolito? «Sicuro: api morte per sfinimento dopo aver disegnato i solchi nel grano per conto degli extraterrestri: così risolviamo due misteri in un colpo solo» ha risposto. «Scherzo...» s'è affrettato ad aggiungere pregando il quotidiano della capitale di non sparare in prima l'intervista sotto il titolo US Bees killed hy aliens, top expert says. Piergiorgio pensa che «tutte queste radiazioni qualcosa fanno». A furia di aggiungerne a quelle in cui già siamo immersi, da quando siamo sul pianeta, gli sembra logico che abbiano un effetto su di noi e sulle altre forme di vita. Autorità scientifiche o meno dicono il contrario, ma lui resta scettico. Fa bene. Ci sono anche autorità scientifiche che la pensano come Piergiorgio. «A lungo termine, quindici, vent'anni, per accumulo qualche effetto deve esserci» diceva Lue Montagnier il 5 novembre 2007 al festival della scienza di Genova. Era stato invitato a parlare del proprio ruolo a fianco di Vittorio Colizzi nel processo in Libia alle cinque infermiere bulgare e al medico palestinese accusati, falsamente, di aver contagiato con il virus dell'Aids centinaia di bambini. Dopo la conferenza era di corsa, un po' ansioso fra due aerei, critico del consumismo e degli interessi economici privati che prevalgono sul bene comune, come alla prima inter-

vista quasi vent'anni prima. Quando pensa di ritirarsi in campagna, un libro in mano e sulle ginocchia un gatto? (Li ama e non ha voluto usarli per esperimenti dopo la scoperta del Fiv, l'analogo felino dell'Hiv) «Non ci penso più, adesso so che il lavoro mi mantiene giovane.» Sarà vero: i capelli non gli sono ricresciuti, ma sono tornati castani. Dall'alto della scalinata del palazzo ducale, guarda i passanti. «Tutti con il telefonino sull'orecchio... Ha visto la ricerca di Friedmann?» Euh, Friedmann quale? «Joseph, all'istituto Weizmann, in Israele.» No, dovrei? «Sì. Bella. Conferma osservazioni che si fanno da anni e soprattutto ne spiega il meccanismo.» Negli esseri umani? «In cellule umane. Si comincia sempre da lì.» La ricerca di Joseph Friedmann e del suo gruppo è uscita nell'aprile 2007 sul «Biochemical Journal», premiato come miglior rivista on line (open access, non c'è bisogno di essere abbonati per leggerla). Hanno esposto cellule umane e di topi alla stessa frequenza dei cellulari, 875 megahertz. Dopo dieci minuti hanno visto attivarsi la catena di produzione di un enzima, l'Erkl/2, che spinge le cellule a differenziarsi e a dividersi, lo stesso enzima notato in un esperimento - fatto nel 2002 su richiesta di un noto produttore di telefonini - da Dariusz Leczczynski dell'Autorità finlandese pelle radiazioni e la sicurezza nucleare. All'istituto Weizmann però hanno osservato le cellule a intervalli di pochi secondi, per ricostruire la successione degli eventi. La temperatura non si alza, non compaiono proteine da stress termico, invece dalla membrana cellulare si stacca un atomo di ossigeno reattivo (un radicale libero, che accelera anche la formazione delle rughe e altri invecchiamenti meno evidenti), che dà il via a una carambola fra molecole che ne formano altre, e compaiono proteine che prima non c'erano. Quel processo di trasformazione è tuttavia reversibile. L'enzima Erkl/2 ha parecchie funzioni, tra cui metter sull'avviso le cellule perché si preparino ad adattarsi a nuovi stimoli. Se lo stimolo è breve, l'enzima viene riassorbito. Per

Leczczynski, intervistato da «New Scientist» il 1° settembre 2007, Friedmann ha confermato un effetto biologico che va studiato più a fondo. Nel frattempo, gli ansiosi e Lue Montagnier lo evitano facilmente ascoltando dall'auricolare. L'altra prova a discolpa del cellulare killer e dei suoi ripetitori, almeno nel caso del Ccd, è che negli Stati Uniti sono meno diffusi che in Europa. Tant'è che un pick-up, la camionetta per uso agricolo, ha quasi sempre la ricetrasmittente nel cruscotto e il microfono appeso al retrovisore. Gli agricoltori usano la citizen's band: nei loro campi sterminati spesso non c'è campo, il segnale non arriva. In compenso dal 1994 sono arrivati gli Ogm.

VII Gli Ogm (non) si difendono così L'ape ci rappresenta, noi che siamo piccoli ma numerosi, e il cui dardo minuscolo esprime un segnale potente. Appello alla manifestazione del 30 settembre 2007, promossa dai cinquanta apicoltori del Collettivo «Pas d'Ogni dans le Gàtinais»

Oltre alla profezia di Einstein, Walter Haefeker dell'Associazione tedesca degli apicoltori citava una ricerca, svolta all'università di Iena, secondo la quale le api nazionali pativano per colpa delle coltivazioni transgeniche. La ricerca cui alludeva riguarda il mais Bt e rientra nel programma quadriennale della Commissione europea per accertare la sicurezza degli Ogm, coordinato da Hans-Hinrich Kaatz dell'università Martin Lutero di Halle. Svolto tra il 2001 e il 2004, lo studio è prudente sia nelle ipotesi sia nelle risposte. Da un lato, Kaatz era sgradito alle industrie agro-biotech: nel 2000 aveva visto che il gene di un batterio inserito nei semi di colza, per renderli resistenti a un erbicida, s'inseriva a sua volta nei geni dei batteri intestinali (di per sé innocui) dell'ape, evento rarissimo. Dall'altro, dall'esito di quel programma quadriennale dipendevano i test preliminari alle autorizzazioni che l'Unione Europea avrebbe incorporato nella propria normativa. Era prevedibile che le associazioni industriali cercassero di contestarne i dati. «Non è stato possibile rilevare l'esistenza di effetti tossici cronici delle varietà di mais Btl76 e Mon819 Bt sulle colonie sane» recita il sunto ufficiale. «Date le condizioni estreme della prò va, durata sei settimane e con alto contenuto di tossina Bt, ricerche effettuate ad ampio spettro mostrano che in condizioni naturali detti effetti possono essere esclusi con un elevato grado di certezza. A tale risultato si aggiunga che le api raccolgono solo piccole quantità di polline di mais,

meno del 3%, anche in zone dove questo è estensivamente coltivato, quando altre piante sono disponibili.» Il signor Haefeker deve aver letto l'intero rapporto, dopotutto la sua Associazione di apicoltori e gli ambientalisti tedeschi di Demeter International hanno intentato un processo ai produttori di semi transgenici, accusandoli di rovinare le colonie. Avrà notato che nella primavera 2001, primo anno della prova, con Bt o senza, tutte quante si erano prese la diarrea da Nosema apis, e ne avevano sofferto di più quelle che ricevevano dosi «realistiche» della tossina Bt. Nel rapporto si parla di «differenze significative che indicano un'interazione della tossina e del patogeno nelle cellule epiteliali dell'intestino, ma i meccanismi sottostanti a quest'effetto sono ignoti». Nei tre anni seguenti, una profilassi con antibiotici aveva evitato l'infezione e secondo ogni parametro - produzione di miele, propoli, cera, tasso di riproduzione, mortalità invernale ecc. - le colonie hanno goduto di ottima salute. La tossicità del Bt non era acuta nemmeno nelle api che in laboratorio avevano ricevuto cento volte la dose realistica, cioè cento volte quella che avrebbero ingerito bottinando esclusivamente sul mais transgenico. Già, ma in Germania quell'Ogm è una rarità e la diarrea primaverile la regola. John McDonald, un biologo-apicoltore della Pennsylvania, ritiene che i ricercatori statunitensi trascurino di indagare sul ruolo degli Ogm nel collasso delle colonie. Da comunicatore rodato, sul «Chronicle» di San Francisco del 10 marzo 2007 spiega innanzitutto la biotecnologia: «Il segmento di Dna transgenico trapiantato più di frequente viene dai geni di un batterio ben noto, il Bacillus thuringiensis (Bt) usato per decenni da contadini e giardinieri per controllare le farfalle che danneggiano cavoli e broccoli. Invece di utilizzare una soluzione batterica da spruzzare sulla pianta dove viene ingerita dall'insetto-bersaglio, si incorporano nel genoma delle piante i geni del bacillo. Mentre la pianta così modificata cresce, i

geni Bt si replicano insieme ai suoi e ogni sua cellula contiene una "pillola avvelenata" che uccide gli insetti-bersaglio. Nel caso del mais sono per lo più lepidotteri, farfalline le cui larve si nutrono di una parte della pianta, stelo, foglie, e muoiono perché quel gene causa una cristallizzazione nei loro intestini». Poi McDonald viene al nocciolo del problema: «Quello che l'opinione pubblica di solito non sa è che parecchie varietà Bt hanno per bersaglio anche dei coleotteri, come i maggiolini, e dei ditteri, come le mosche e le zanzare. Ci viene però garantito che gli imenotteri, la famiglia cui appartengono le api, non ne risente. È fuor di dubbio inoltre che il Bacillus thuringiensis sia presente nelle arnie. Gli apicoltori lo spruzzano ogni tanto all'interno del coperchio per eliminare una tarma le cui larve lasciano sul miele ragnatele fastidiose. Apicoltori canadesi hanno notato che la tarma scompare anche da arnie non trattate, apparentemente perché le operaie bottinano in campi di colza transgenica». C'è un'ovvia differenza tra la Germania e gli Stati Uniti dove «le colture di mais e di soia transgenica sono aumentate esponenzialmente, dicono le statistiche... e i geni Bt migrano ormai in altre colture. Per allevare le nuove covate, le api contano molto sul polline di mais i cui granelli contengono anch'essi il gene Bt. Non sarebbe possibile che, in assenza di un effetto letale diretto, ci sia un effetto subletale nelle giovani api, una soppressione immunitaria che agisce da killer lento? Non sarebbe possibile, tanto per cominciare, paragonare i dati sulle arnie deserte con la maggiore o minor estensione delle colture Ogm?». E fare d'ogni erba un fascio? Alcune varietà contengono pesticidi; altre conferiscono resistenza a un erbicida; altre sprigionano sostanze antivirali, per esempio contro il mosaico del tabacco; altre ancora mantengono per settimane il pomodoro maturo come se fosse stato colto il giorno prima, o producono sostanze farmaceutiche per uso umano. Jeff Pettis - lo spiritoso che suggeriva di indagare an-

che fra i sospetti insoliti, per esempio extraterrestri - ha replicato la ricerca fatta all'università di Iena e per lo stesso motivo. Anche negli Stati Uniti, il dipartimento per l'Agricoltura vuole un test semplice e affidabile di compatibilità tra api e nuovi Ogm, i cui produttori dovranno comunicare i risultati prima d'esser autorizzati a metterli in commercio. In laboratorio, le api di Pettis ricevono per 35 giorni polline di mais dolce contenente un'altra tossina di origine transgenica (Cry-IA) e stanno bene. In base alle stesse misure dei tedeschi, per le arnie sane collocate all'esterno Pettis deduce la non tossicità, con un «grado di certezza dell'80%». Ancora insufficiente, per cui servono ulteriori ricerche in condizioni realistiche, conclude su «Aplologie» dell'ottobre 2007. La condizione più realistica di tutte, quella che complica ogni indagine sulle cause di una patologia, è che «le colonie sono sempre piene di parassiti e nessuna nella stessa miscela». «Non fare d'ogni erba un fascio» è il motto di Manuela Giovannetti, preside della facoltà di agronomia di Pisa e firmataria insieme ad altri biologi e genetisti di un appello a una moratoria italiana sugli Ogm. Il 20 dicembre 2007 la sento mal disposta verso i giornalisti: è stata appena collocata da «Famiglia Cristiana» tra gli anti-Ogm, sebbene nell'intervista pubblicata dal settimanale dica che «nessuno è contrario alla ricerca sugli Ogm e alle biotecnologie». Lei ha guidato una delle ricerche a più ampio spettro sulle varietà di mais transgenico, verificandone tossicità e atossicità per i microbi del suolo, quelli che aiutano le piante a trarne i nutrienti. In materia di world wood web, la rete di microbi del sottosuolo da cui dipende la vegetazione, è una autorità: infatti è stata eletta dai suoi pari presidente della banca mondiale dei glomeromiceti, dei funghi benefici. Alcuni Ogm e non tutti, ha scoperto la Giovannetti, finiscono per sterilizzare il terreno, più che altro perché le stoppie non sono tagliate e asportate come una volta, ma rimescolate dalle macchine aratrici con l'humus, e nel decomporsi rilasciano

le proprie tossine. Le conseguenze si fanno già sentire in Brasile e in Argentina: grazie agli Ogm, gli agricoltori credevano di risparmiare sui pesticidi e sei-otto anni più tardi si ritrovano a dover raddoppiare le dosi di fertilizzanti, il cui prezzo segue l'andamento di quello del petrolio. «Come previsto,» sospira Manuela Giovannetti «eppure applicata in base a un sano principio di precauzione, quella tecnologia potrebbe risolvere tanti di quei problemi...» La prima precauzione obbligatoria in tutto il mondo è di riservare attorno ai campi delle «zone tampone» dove gli insetti parassiti trovino rifugio invece di subire una selezione accelerata; la seconda è di andarci piano con il Bacillus thuringiensis. È l'unico insetticida letale soltanto per gli insetti, «selettivo» come si dice in agronomia: ne esistono più ceppi e ognuno è capace di avvelenare uno o due ordini d'insetti per volta: lepidotteri, coleotteri e ditteri. Al massimo cinquanta o centomila specie. Utilizzato in abbondanza, rende quindi inevitabile la comparsa di lepidotteri, coleotteri, ditteri resistenti alla sua tossina. Stanno emergendo, infatti (o le specie sconfitte sono sostituite da nuove e invincibili, come s'è visto con il cotone transgenico in Cina, e per i contadini è drammatico) e si cerca di controllarli con «insetticidi» chiamati così per un eufemismo. Sono letali per molti altri animali e pericolosi per la salute umana. «Ah, ma la ricerca scoprirà presto un equivalente del Bt» dicono le multinazionali. «Noi confidiamo nel progresso, anzi lo incarniamo; e gli anti-Ogm sono dei reazionari anti-scienza.» Ci vuol coraggio per dare della reazionaria anti-scienza a Manuela Giovannetti. O a certi cofirmatari dell'appello per una moratoria, per esempio al genetista Marcello Buiatti. Ma qualche coraggioso s'è trovato, sul «Sole-24 Ore» per esempio. È curioso perché il quotidiano rappresenta la Confindustria e nessuna industria italiana produce sementi transgeniche. In qualità di reazionaria anti-scienza, faccio presente che da un secolo si cerca e non si trova un ricambio a quel fan-

tastico bacillo. Fantastico sul serio: immesso nelle pozze d'acqua, un ceppo scoperto in Israele, Bacillus thuringiensis serovar israeliensis, distrugge le larve delle zanzare. Per fortuna, gli Ogm-Bt hanno prodotto finora pochi mutanti resistenti, tra cui due farfalline delle zone temperate: la Plutella xylostella di cavoli, cavolfiori, rape, e la Trichoplusia ni di cavoli, pomodori (in serra soprattutto) e patate. Tra l'altro, il bacillo si chiama thuringiensis ma è stato identificato per la prima volta nel 1901 in Giappone, e in Germania soltanto nel 1911. E la prima azienda a usare i transgeni Cry non è stata una corporation americana, ma una ditta belga: la Plant Genetic Systems. Era il 1985 e la pianta modificata era il tabacco. Scelta ovvia per uno scienziato, e azzardata per il marketing di quella tecnologia in Occidente, nel momento in cui s'intensificano le campagne antifumo. Non è l'unica gaffe, e nemmeno la peggiore. A volte, sembra che i produttori di Ogm e i loro fan si diano apposta la zappa sui piedi. I fan economisti sostengono che sono merci come le altre, devono poter fare concorrenza alle altre sementi, e della gara decida il libero mercato. Però i semi transgenici sono venduti insieme ai pesticidi a cui resistono - si pensi al famigerato Roundup della Monsanto - in un abbinamento coatto che vieta il ricorso a pesticidi concorrenti e priva l'acquirente della libertà che in teoria gli spetta in qualunque mercato. E quando mai le risorse alimentari, i cereali innanzitutto, sono state merci come le altre? Sono beni di prima necessità, e le nazioni infatti ne tengono scorte, pena rivolte e rivoluzioni. Spesso si sente dire che gli Ogm (cioè cotone, mais, colza e soia, per ora i soli coltivati a fini commerciali) hanno avuto successo fra gli americani perché garantiscono una standardizzazione. Questa uniformità forse soddisfa l'industria, ma noi consumatori? Riccardo Velasco dell'istituto agrario di San Michele all'Adige (fondazione Edmund Mach) e 56 altri autori hanno pubblicato su «PLoS-One», il 19 dicembre 2007, l'analisi

delle sequenze genetiche dei 19 cromosomi del Pinot nero Vitis vinifera - un brogliaccio delle sequenze era uscito l'anno prima - confrontando l'apporto delle due genetrici di quell'uva, molto diverse tra loro, e identificando una serie di geni che codificano per i composti aromatici. La maggior parte dei fitogenetisti europei avranno brindato, e pensato a come usare quelle informazioni sul Dna: per rafforzare le vigne contro muffe, batteri, e altri parassiti, non per uniformare l'aroma e il sapore dello spumantino ovunque e quandunque ne sia stata vendemmiata la materia prima. Gli americani ci prendono in giro, noi francesi, perché siamo affezionati al terroir anche se non sappiamo definirlo e non distinguiamo un Cartizze da un Dom Pérignon. Nel mio caso è vero, sui vini sono una frana. Però distinguo a naso, e a occhi chiusi, gli spizzichi di Camembert industriali in mezzo a quelli Fermier: a occhi aperti è troppo facile, il primo è anemico e affetto da rigor mortis. Quindi credo agli amici quando dicono di provare piacere nel tocco di violetta in più, segno che l'estate era stata clemente, o nella lieve acidità, che era stata piovosa dalle parti di San Michele. Il terroir è un'idea platonica, somma astratta di molte esperienze proprie e altrui, tutto sommato preferibile all'idea bellica delle «nostre campagne», evocatrici dell'inno nazionale e di solchi abbeverati dal sangue impuro del nemico. Il genoma annotato del Pinot nero è stato finanziato dalla provincia di Trento e i firmatari della ricerca dichiarano di non avere conflitti d'interesse. Alcuni però sono ricercatori della Myriad Genetics di Salt Lake City (Utah), della Roche Diagnostics Corporation e della Roche Applied Science di Indianapolis (Indiana), e anche della 454 Life Sciences Corporation di Branford (Connecticut) e della Amplicon Express Inc. di Pullman (stato del Washington), due aziende che forniscono strumenti per la ricerca. Mettiamo che la Roche derivi un kit diagnostico precoce che salvi il Pinot noir da una piaga come quella della filossera, nessun viti-

cultore se ne lamenterà. La Myriad Genetics è un altro paio di maniche: brevetta geni, vende e compra brevetti sui geni, s'impossessa qualche volta del brevetto altrui, magari dell'università di Cambridge, Gran Bretagna, e lo sfrutta mentre il legittimo titolare tenta faticosamente di recuperarlo attraverso i tribunali americani. La pirateria biotech, insomma, non si pratica soltanto ai danni del Terzo Mondo. Quando i fitogenetisti della vigna dell'università della California a Riverside o della Florida a Gainesville avranno brevettato i Pinot nero transgenici perfetti che sanno di violetta comunque sia andata l'estate, ci abitueremo a quello? E smetteremo di amare l'imperfetto del Trentino? Gli aromi sono per gli intenditori, una minoranza. Uno spumantino a elevato contenuto di resveratrolo interesserebbe la maggioranza. Il resveratrolo, citato proprio all'inizio dell'articolo di Riccardo Velasco et al, è una fitoalessina presente nella buccia dei chicchi d'uva rossa, che dovrebbe difendere contro le malattie cardiocircolatorie, in particolare se dovute a diete troppo ricche di grassi saturi. È la molecola che spiegherebbe «il paradosso francese»: le abbuffate di cassoulet cotto nel grasso d'oca da cui usciremmo indenni perché le anneghiamo nel Bordeaux. Un Cabernet transgenico e farmaceutico - non d'annata, saranno tutte uguali, ma dall'aroma a scelta - sarebbe una panacea per milioni di persone ogni anno. Sennonché il resveratrolo non spiega nulla: per assumerne una dose terapeutica, i francesi dovrebbero bere almeno tre litri di vino rosso al dì e soccombere alla cirrosi prima dei cinquant'anni. Se proprio credete alle proprietà di quella sostanza che le piante producono per difendersi da muffe e batteri, ne troverete molta di più in lamponi, mirtilli, ribes rossi e altri frutti di bosco. Servirebbero Ogm per applicazioni più urgenti, o la pensano così soltanto le donne? La preside Giovannetti, prima donna eletta a quella carica da quando esiste la facoltà d'agronomia, è una biondina sorridente, ma i problemi che

ha in mente sono da piangere: siccità, alluvioni, monsoni in anticipo o in ritardo, acque e suoli inquinati con metalli, concimi, scarichi urbani o industriali, desertificazione, una somma di minacce, antiche e recenti, ai raccolti. Per tanti scienziati indipendenti, gli Ogm fornirebbero soluzioni temporanee; sono più speranzosi i giovani dei paesi poveri, mi sembra, almeno a sentire quelli che intervengono nei convegni internazionali, e più scettici in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti. Mettere fine alla fame nel mondo è il primo «obiettivo del millennio» delle Nazioni Unite. Gli Ogm promettono di contribuire ma non sono nati per questo, anche se «Cibo, salute e speranza» era lo slogan della Monsanto negli anni Novanta sotto la presidenza di Robert Shapiro, un ex professore di diritto con una «visione». Aveva un compito ingrato, poverino: doveva ridare un'immagine decente alla corporation, alquanto rovinata dalla produzione di policlorodifenili o Pcb, usati in lubrificanti, additivi, adesivi, ma cancerogeni e teratogeni. E dell'Agent Orange, una miscela di erbicidi e defolianti spruzzata a tonnellate dall'Aviazione americana sulle foreste del Vietnam e del Laos; anch'esso cancerogeno e teratogeno, danneggia il Dna pure nei gameti umani, le cellule riproduttive: infatti nascono tutto ra figli deformi da genitori contaminati. Sulla reputazione della Monsanto pesava, inoltre, il già citato Roundup, l'erbicida tossico per tantissime piante d'acqua dolce e salata. E il Posilac, un ormone di crescita bovino ottenuto da batteri geneticamente modificati, che somministrato alle mucche accresce la produzione di latte. Era stato autorizzato nel 1994 dalla Food and Drug Administration. Quand'era presidente della Monsanto, Robert Shapiro, poveretto, sfruttò ogni trucco legale per impedire ai produttori di latte senza l'ormone di scriverlo sulle loro etichette, con il risultato imprevisto di informarne le associazioni di consumatori. Che informarono l'intera nazione. Che boicottò il Posilac, il cui sviluppo tra il 1988 e il 1993 era costato un miliardo

di dollari. Da allora Monsanto continua a fare processi alle latterie stato per stato e li perde quasi tutti, ma non il vizio di sostenere che quell'ormone è innocuo. Invece fa male alle mucche: soffrono di mastite alle poppe, vanno imbottite di antibiotici per combattere l'infezione e il loro latte contiene anche pus e antibiotici. Il Posilac è vietato in Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Europea e in altri paesi ancora perché aggiunge al latte un contenuto di somatomedina (fattore di crescita insulino-simile, o Igf-1) dieci volte superiore alla norma. La sostanza passa nel sangue e favorisce lo sviluppo delle cellule. Un bene, in teoria. Infatti ha successo in medicina alternativa «contro l'invecchiamento» o come «integratore per culturiste». Purtroppo l'Igf-1 favorisce anche lo sviluppo di tumori, soprattutto al seno e alla prostata. A dispetto del Roundup e del Posilac, o per scacciarli dalla memoria dei consumatori, lo slogan della «svolta» shapiriana figurava ovunque, e le gaffe si moltiplicavano. Nel febbraio 1997, giusto dopo l'allarme dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'aumento dei decessi da sigarette in Cina - 60 milioni di vittime all'anno - arriva ai giornalisti una lettera della Monsanto. Sotto l'intestazione con il logo e lo slogan, questo titolo: «Le colture transgeniche salveranno i cinesi dalla fame». Seguivano informazioni sugli eccellenti risultati ottenuti con il tabacco transgenico sperimentato in Cina. Era tempo di Carnevale, di sicuro altri giornalisti avranno telefonato al numero in calce, una ditta milanese di pubbliche relazioni, per sapere se la lettera era autentica o uno scherzo di Greenpeace. Gli Ogm, ai quali i cittadini europei oppongono in maggioranza il «no pasaran» (mentre accettano l'idea di animali corredati di qualche gene umano perché nel latte producano degli anticoagulanti, per esempio) non sono nemmeno concepiti per tutelare la salute degli impollinatori. Dei quali, tutto sommato, alla cittadinanza importa poco, mentre

i lepidotterologi trovano il Bacillus thuringiensis fin troppo efficace in soluzione, e alla minima provocazione mostrano grafici sui quali la sua ascesa è inversamente simmetrica al crollo delle farfalle, cavolaie o meno. La cittadinanza - cui invece importa la politica agricola comunitaria, cioè l'uso delle proprie tasse - è al corrente dei contadini pagati per distruggere i raccolti, e dei pochi proprietari terrieri che ricevono una quota sproporzionata di sovvenzioni. In Francia, ogni piccolo exploitant agricole sa che un quarto dei sussidi comunitari va allo 0,5% degli agricoltori - tra cui 287 mila euro annui al principe Alberto di Monaco la cui fortuna personale ammonta a 2 miliardi di euro - esattamente come in Italia sa dei raggiri di latifondisti, membri di clan criminali. Dopo aver sopportato per decenni scandali e sprechi nella convinzione che l'autosufficienza alimentare e la tradizione gastronomica siano beni politici e culturali inalienabili, gli europei bevono coca con l'hamburger e ciononostante non vogliono dipendere da sementi importate. Hanno motivazioni sentimentali, gastronomiche, politiche e comunque in contrasto con quelle scientifiche. Eppure di Ogm non muo re nessuno, gli allergici alla soia lo sono altrettanto a quella non modificata, e in Europa, fuori da campi sperimentali, cresce solo il mais Monsanto 810 resistente alla piralide (Ostrinia nubilalis), approvato nel 1998, cioè prima della moratoria del 2001 decisa in attesa degli esiti del programma quadriennale coordinato dal professor Kaatz. Ma insomma svegliatevi, dicono i pro-Ogm, nel 2007 quel mais occupava 110 mila ettari e rappresentava appena il 2% della produzione Ue. Qualche quintale è finito mescolato a mais non Ogm stoccato in Italia come all'estero, ma un disguido capita sempre. Appunto, rispondono i contro, e capiterà sempre più spesso, perché rispetto al 2006 la superficie a Ogm è aumentata del 50% in Spagna, il paese dove incontrano minor opposizione, con 75 mila ettari coltivati; triplicata in Germania, quadruplicata in Portogallo,

Repubblica Ceca e in Francia. Dove José Bove è diventato più popolare di Le Pen, il leader del Fronte nazionale xenofobo, antisemita e filonazista, anti-Ogm pure lui come i trotzkisti e i verdi, per cui nell'ottobre 2007 il presidente Sarkozy ha deciso una propria moratoria. Il suo predecessore aveva firmato la direttiva che lasciava decidere alla Commissione europea, dopo consultazioni di esperti, quale Ogm era lecito piantare nell'Unione. Come Italia, Lussemburgo, Austria, Grecia, Danimarca, il governo francese aveva espresso riserve perché la direttiva non prevedeva che ogni paese potesse tener conto della propria opinione pubblica. La moratoria di Nicolas Sarkozy viola il trattato dell'Unione e dell'Organizzazione mondiale del commercio, ma tanto lui è un unilateralista e c'è il precedente dell'Austria, ribelle dal 1997. Perciò Syngenta aspetta da anni l'approvazione del suo mais Btll, e Pioneer Hi-Breed del suo 1507, che autoproducono sia gli erbicidi che i pesticidi di cui queste colture hanno bisogno. Incapace di raggiungere un accordo interno, nel 2004 la Commissione europea aveva chiesto un'ennesima perizia all'Autorità europea per la sicurezza alimentare di Parma, e promesso che ne avrebbe tenuto conto. La perizia, una valutazione degli articoli scientifici da parte di ventuno specialisti indipendenti, concludeva che, viste le precauzioni stabilite in precedenza, le due varietà non avrebbero «un effetto avverso sulla salute umana, animale o dell'ambiente». Consegnata nell'aprile 2005, era stata aggiornata nel novembre 2006 su richiesta del commissario all'ambiente Stavros Dimas. Un anno più tardi, Dimas annuncia che non approverà quei mais. Rissa generale. I commissari al commercio, all'industria e all'agricoltura si schierano con i prò, cioè gli industriali dell'Associazione europea sementifici e gli scienziati della Federazione europea di biotecnologia. La giornalista Alison Abbott denuncia su «Nature» un gioco delle tre carte: Dimas doveva accettare le conclusioni favorevoli

degli esperti, invece ha tenuto conto di undici ricerche sfavorevoli uscite nel frattempo, senza farle valutare da alcun comitato. Non si fa così: sembra il presidente Bush che tra centomila dati sul clima sceglie due centimetri di neve in più caduta sul polo Sud nel 2004 per negare il riscaldamento globale. Spagna e Gran Bretagna esigono una smentita ufficiale di Dimas, altri sei paesi esigono una conferma, i restanti cercano un compromesso politico. Impossibile rifilare la patata bollente al Consiglio europeo dei ministri per l'ambiente, né i prò né i contro arriverebbero alla maggioranza qualificata (ogni paese ha un voto proporzionale al numero dei suoi abitanti) dei due terzi. Nell'editoriale di «Nature», anonimo come sempre, ma stile e pensiero sono inconfondibili, Alison Abbott accenna alla mediazione proposta dalla Germania: creare un'agenzia autonoma che prenda decisioni basate sui pareri scientifici, senza interferenze politiche. Meno trinariciuta di certi sostenitori degli Ogm, Alison Abbott ritiene la mediazione inapplicabile: nelle democra zie non si usa ignorare l'opinione pubblica. Critica gli alti burocrati europei che temporeggiano, si parano le spalle, e finiscono lo stesso per accapigliarsi e sostenere la posizione dei paesi d'origine perché la loro direttiva è un pasticcio. Poi aggiunge: «A dispetto delle indicazioni della scienza, gli stati membri dell'Unione vogliono conservare il diritto di veto sulle culture di Ogm perché l'opinione pubblica le osteggia. E probabile che con il tempo i benefici di quella tecnologia, che gli scienziati non devono stancarsi di descrivere, diventino più apparenti... Fino a quel momento, i suoi difensori dovranno remare contro una potente marea politica». Fino a quel momento, le ricerche definiscono per ogni rischio una probabilità, non una certezza; e gli scienziati non sono gli unici abilitati a compiere scelte in condizioni d'incertezza. Lo facciamo tutti, basti pensare a quanta gente si sposa.

Nel frattempo, gli ambientalisti europei e americani hanno un'altra ragione per opporsi agli Ogm. Il senso del profitto di tre multinazionali delle sementi transgeniche non garantisce alcuna sicurezza alimentare (è scontato che le spinga a non avvelenare deliberatamente il cliente-consumatore). Per questo occorre un coordinamento mondiale senza scopo di lucro, che assicuri sementi ben accette da tutti. Esiste da tempo. Perché non cominciare a sostenere quello? Semi ibridizzati con metodi tradizionali prevengono carestie, resistono alla siccità, al sale lasciato nel terreno dall'onda di uno tsunami, mettono velocemente radice dopo l'alluvione che ha devastato le risaie. Non sono prodotti a tonnellate da Syngenta o Pioneer, ma pochi chili per volta purtroppo - rendono soltanto sul campo e non in banca nei laboratori coordinati dal Cgiar, il Consiglio internazionale per la ricerca agronomica, che vivono di finanziamenti internazionali ridicoli rispetto ai costi pubblici della regolamentazione e della sorveglianza degli Ogm. Ridicoli e talvolta ritrattati. Nel gennaio 2007 per esempio, il ministero degli Esteri italiano decide di non versare i finanziamenti stanziati per il 2006 dal governo precedente. Il Cgiar è un incrocio tra un ente pubblico e transnazionale di ricerca e un pronto soccorso gestito da scienziati che non diventano né famosi né miliardari. Al massimo, dopo aver sfamato milioni di persone ricevono il World Food Prize dal segretario generale delle Nazioni Unite, assenti le telecamere. Il Consiglio coordina quindici centri di ricerca tra cui le banche del germoplasma, del riso, del mais, del frumento. Queste raccolgono e custodiscono le varietà esistenti, le coltivano per averne sempre sementi utilizzabili, provano nuovi ibridi per scoprire i più adatti all'ambiente dove farli crescere. Adatti anche al sapere, alla cultura dei contadini, cioè spesso delle contadine, a cui distribuiscono gratuitamente queste sementi dopo averle «rodate in loco» insieme a loro. Alcuni di questi ricercatori sono leggendari (per me, almeno): Gurdev Kush, un india-

no che negli anni Sessanta ha creato il riso tozzo e robusto che, quasi a compensare la modesta statura, dà chicchi con una generosità mai vista prima ed è il cibo più mangiato nella storia umana; Pedro Sanchez, il cubano che ha scoperto come certi arbusti africani catturano l'azoto nelle radici e lo condividono con quelle del mais o della cassava coltivata nei campi attorno ai quali vengono piantati; Salvatore Ceccarelli dell'Icarda, la banca dei semi di Aleppo, e i suoi colleghi specialisti delle piante per le terre aride; Monty Jones, della Sierra Leone, creatore di un altro riso eccezionale. Tutti consapevoli di dover fare di più, più in fretta, perché intanto la popolazione aumenta, l'acqua dolce diminuisce, il degrado ambientale avanza. Speravo che Ceccarelli trovasse i fondi negati dal suo ministero degli Esteri facendo versare all'Icarda un tot sui suoi semi da un sementificio che li producesse industrialmente per superare la siccità australiana del 2005-2007. M'ha di singannata: «I cerealicoitori australiani ricevono sussidi, hanno uno stato ricco e funzionante, non hanno bisogno di noi». E se n'è andato a collaudare una sua avena insieme ai contadini in Iraq, Afghanistan, Sudan, Eritrea, Etiopia. Senza scorta. Per contribuire al Cgiar, la Farnesina non avrebbe dovuto svenarsi. Nel 2006 la Norvegia ha versato 12,5 milioni, l'Olanda 24,1, il Canada 36,4, la Gran Bretagna 44,2. E l'Italia? Il precedente ministro s'era vergognato della sua misera quota, e tra il 2003 e il 2006 l'aveva aumentata da 4 a 7,5 milioni. Forse per un «aiutiamoli a casa loro» e per rallentare gli sbarchi a Lampedusa. Il suo successore invece, una settimana dopo aver spedito al Cgiar la lettera in cui annunciava il taglio retroattivo - gli scienziati contavano ancora sui fondi, avendoli già impegnati, e pensavano a un ritardo, sapete com'è, col cambio di governo... - faceva nella sede delle Nazioni Unite un bellissimo discorso sull'importanza della lotta alla fame nel mondo per favorire la pace e la solidarietà tra i popoli. Amen.

Dove sono i vostri Ogm salva-vita? chiedono ai prò gli anti di tutti i colori, verdi, no-global, tradizionalisti nostalgici, nazionalisti xenofobi, economisti protezionisti, buongustai slow-foodisti, cattolici, protestanti, e quel 34% di consumatori che a un sondaggio europeo rispondevano che nei pomodori naturali non c'erano geni (percentuale tuttora usata da chi lamenta l'analfabetismo scientifico dei concittadini, fingendo di non aver mai sentito parlare del sondaggio fra scienziati inglesi, non biologi, che al 27% la pensavano come la massaia interrogata davanti alla bancarella del verduraio). Tra l'altro cresce l'opposizione agli Ogm nelle famiglie americane a reddito medio-alto, ancora di più tra i laureati, il che spiega il successo dei farmers' market, anche se spesso quel mercato dei contadini è l'ala d'un supermercato. La fiducia delle famiglie a reddito medio-basso è più salda, forse per la differenza di prezzo, forse perché equiparano un prodotto statunitense alla torta di mele e alla mamma. In Europa è andata male sin dall'inizio. Monsanto ha fatto arrivare la prima nave carica di mais transgenico nel 1996, mentre l'allarme per «mucca pazza» svelava che allevatori incoscienti costringevano gli erbivori a mangiare carne di pecora avariata, e nei tribunali i processi per l'amianto dimostravano che gli industriali trovano sempre scienziati disposti a giurare il falso. La massa sarà analfabeta, ma ha memoria. Nell'agosto 2007 il mio vicino di sdraio ricorda la mucca pazza, e sugli Ogm parla come il biologo John McDonald: «Ci garantiscono che non fanno male, d'accordo, ma chi lo dice?». Alla parola di chi li vende non crede «per principio e perché è stato scientificamente dimostrato che fanno male ai topi e alle farfalle, lei lo sa di sicuro». Sì, ma erano ricerche molto ehm... preliminari, il metodo era dubbio e non sono state confermate. Le farfalle erano state manipolate, uno stress pazzesco, e i topi, degli adolescenti, erano stati alimentati a patate transgeniche crude. «Come i maiali?» Appunto,

ma i maiali le digeriscono, i topi no: sono come noi, le patate crude, anche normali, fanno venir loro un mal di pancia... Non si commuove, sento un vago disappunto, quasi che criticando due ricerche criticassi, oltre alle sue convinzioni, l'edificio di conoscenze costruito da Galileo in qua. In ogni modo, ha un argomento decisivo: «Anche in America lo sanno che fanno male. Si ricorda il casino quando il mais Ogm per le bestie è finito nel pop-corn?». Sì, certo, ed erano tortillas - ma su questo taccio o penserà che tradisco la causa. Rasserenato, mi regala un quotidiano. Grazie signor vicino di sdraio, vedrà che m'è servito. Anche in America i ricercatori danno giudizi divergenti sugli Ogm, per motivi ideologici, per conflitti d'interesse, e soprattutto per ostacoli pratici. Da un lato, gli enti pubblici finanziano raramente le ricerche sugli Ogm esistenti, di cui dovrebbero occuparsi varie agenzie che invece si rimpallano le responsabilità: così Hans-Hinrich Kaatz non ha potuto proseguire la sua, sul gene passato dalla colza transgenica ai batteri intestinali. Dall'altro, è impossibile riprodurre in laboratorio un intero ecosistema, quindi va prima suddiviso per specie e condizioni ambientali, poi si stabilisce cos'è misurabile e cosa no, e infine che misura risponde alle domande relative alla sicurezza, e di chi. Il riduzionismo è necessario, ovviamente, ma quali altri dati - economici, sociologici, antropologici, climatici ecc. - servono per valutare davvero l'impatto di Ogm, per esempio del mais su 27,4 milioni di ettari nell'Illinois, della soia su 3 milioni nel Mato Grosso, del cotone su minuscoli appezzamenti nell'Andhra Pradesh? Nel 2007 c'erano 110 milioni di ettari coltivati a Ogm in 22 paesi da 20 milioni di contadini, un terzo dei quali analfabeti in senso stretto. È realistico pretendere che seguano alla lettera le istruzioni dei governi o dei produttori, visto che molti non sanno leggere quello che c'è scritto sul pacco delle sementi o dell'erbicida che le accompagna? I modelli che escono dai laboratori semplificano per forza il mondo reale.

Tuttavia, la ricerca europea coordinata da Hans-Hinrich Kaatz è un'altra smentita a May Berenbaum, quando diceva che della salute della api si sa poco. Se ne sa tantissimo: da un decennio, con i mezzi di bordo, dottorandi volenterosi, amici in laboratori di biologia molecolare, qualche ministro dell'Agricoltura preoccupato dalla crisi degli impollinatori che sblocca finanziamenti, insomma ogni tanto qualcuno studia la reazione delle api agli Ogm. Come Lue Montagnier a proposito dei cellulari e dell'elettrosmog, a Louise Malone dell'Istituto neozelandese di ricerca agronomica pare «evidente che alla lunga un qualche effetto degli Ogm ci sarà». Fra tutti i transgeni usati o ancora in prova, qualcuno «modificherà il fenotipo della pianta», dice: per esempio, gli organi riproduttivi di un fiore. Senza volerlo, per una mera contiguità con qualche gene autoctono, potrebbe cambiarne sottilmente il profumo. Nel 2000, su «Aplologie», Louise Malone pubblica una rassegna in cui riunisce le ricerche sugli effetti dell'ingestione di prodotti transgenici (Bt, inibitore di proteasi, chitinasi, glucanasi ecc.) sull'ape adulta, in particolare su fisiologia intestinale, consumo di cibo, apprendimento olfattivo e longevità, gli esperimenti di laboratorio con singole api e con colonie in campo aperto, le osservazioni su api e piante transgeniche in serra. Alcuni Ogm, pochissimi, sono dannosi in laboratorio. Eppure in campo aperto le api sembrano capaci di metabolizzare qualsiasi cosa. Lo diceva anche Ovidio a proposito del miele di cicuta. E Senofonte - soprannominato «l'Ape attica» per la prosa limpida e solare - nell'Anabasi. Dopo la terribile ritirata attraverso l'Armenia, arrivò sulle rive del Mar Nero con i suoi soldati. Attorno ai villaggi dove s'accamparono, c'erano molti alveari e tutti i soldati, affamati e stremati, che ne mangiarono il miele «persero la testa e soffrirono di vomito e di diarrea fino a non reggersi più in piedi. Quelli che ne avevano mangiato poco si comportavano come fossero ubriachi, quelli che ne avevano mangiato molto come fosse-

ro impazziti. Alcuni addirittura ne morirono. Gli altri giacevano a terra in gran numero come sul campo di battaglia», una pena... Eppure «l'indomani erano vivi e tornarono in sé all'incirca all'ora in cui avevano mangiato il miele». Le api avevano metabolizzato il nettare dei rododendri del Ponto senza degradarne l'andromedotossina. Si trova anche in azalee, oleandri, allori, ho letto una volta in un opuscolo della Danone sulla sicurezza alimentare. È una molecola dall'aria innocua, a forma di bruco, un veleno che fa «perdere la trebisonda». A noi, non alle api. Le quali, potendo scegliere, preferiscono fiori non transgenici. Ma se non hanno scelta? May Berenbaum, che lavora all'università statale dell'Illinois, e dunque sta proprio nella Corri Belt, la cinta del mais che attraversa gli Stati Uniti, ha risposto alla domanda di John McDonald. Ha paragonato i dati sulle arnie deserte e quelli sulle coltivazioni di mais Ogm. L'Illinois ne è il massimo produttore, eppure degli stati colpiti è quello con la moria percentualmente più bassa. Che gli Ogm proteggano le api, almeno nell'Illinois? Gli ambientalisti li chiamano Frankenfood, un marchio di mostruosità secondo loro; eppure il romanzo di Mary Shelley ha per sottotitolo // Prometeo moderno. La creatura del dott. Frankenstein è braccata da gente che non tollera i diversi con dei bulloni sul cranio. Sempre respinto, sempre tradito, soltanto la disperazione gli fa rendere pan per focaccia, il gigante uccide prima di rendersi conto che quell'atto lo separa dagli esseri umani di cui desidera così intensamente la vicinanza; e fugge al polo Nord, pur di non ripeterlo mai. Una volta che il dott. Frankenstein ha rubato il fuoco, ci bruciamo - piuttosto che rinunciarci. Il vantaggio è che oggi possiamo sceglierlo. Patate transgeniche a prova di Phytophora infestans, la muffa che nell'Ottocento causò la carestia irlandese, o trattamento fungicida? Avanti il prossimo indiziato.

VIII Il Gaucho, il Regent e il visconte

Le api sono le sentinelle del mondo. ALBERT EINSTEIN citato da Philippe Le Jolis, visconte de Villiers de Saintignon

Nostalgico della Vandea in cui nobili e braccianti combattevano uniti contro sanculotti atei e ugualitaristi, il visconte de Villiers è, forse, noto in Italia per il suo inscenare ogni estate, nella località Le Puy du Fou, una sfarzosa ricostruzione storica interpretata dagli abitanti del circondario. E, forse, per aver prezzolato un presentatore televisivo affinché gli facesse vincere il concorso nazionale del miglior spettacolo «Son et lumière». Eletto parlamentare europeo nel 2004, a Strasburgo risulta subito fra i più assenteisti, dopo Umberto Bossi; si dimette a favore del primo non eletto del proprio partito, ritorna a fare il deputato a Parigi e pubblica Quanti les abeilles meurent, les jours de l'homme soni comptés (Quando le api muoiono, l'uomo ha i giorni contati). Il visconte esordisce - e come biasimarlo? - con la profezia di Einstein sui quattro anni che ci resterebbero da vivere. Sul libro, una fascetta rossa reca la scritta Scandale d'état e il foglietto accluso dall'editore nelle copie per recensione dice: «Dopo aver avuto accesso al dossier esplosivo del Gaucho® e del Régent®, due insetticidi superpotenti che continuano a fare stragi nelle nostre campagne, Philippe de Villiers s'interroga, fa rivelazioni, dà l'allarme. Non esita a rimettere in discussione non soltanto un certo produttivismo irresponsabile manipolato dagli industriali, ma anche la complice passività dell'amministrazione. Comportamenti che possono portarci a un nuovo scandalo di stato para-

gonabile a quello di "mucca pazza" o del "sangue infetto". L'autore si basa su esperimenti scientifici schiaccianti che mostrano i rischi di quelle neurotossine per la flora e la fauna e, al di là di queste, per l'uomo stesso. Dopo la morte delle api, quella degli uomini? Di nuovo Philippe de Villiers infrange la legge del silenzio». Silenzio? Ne eravamo al corrente persino qui. Su «Repubblica» del 29 giugno 2002, Adriano Sofri si chiedeva «Dove sono finite le api?». Non perché, in carcere, gli arrivasse «L'Apiculture en Gàtinais», foglio ciclostilato in proprio nella contrada più mellifera di Francia, oggi sostituito dal web «Pas d'Ogm dans mon miei». Sofri legge «Le Monde», che «sta pubblicando reportage e commenti sulla scomparsa delle api. Senza intenzioni poetiche o profetiche, con una lingua diversa da quella che Pasolini impiegò nell'articolo delle lucciole ... Era il 1° febbraio del 1975. Pasolini commemorava la fine del mondo. Le pagine del "Monde" hanno a che fare con la fine del mondo, e si scelgono a epigrafe una frase forte, attribuita a Einstein: "Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita". L'allarme è sollevato da anni anche dai nostri apicoltori. Della premura nuova per la genuinità e la tradizione, il miele è la quintessenza. Nostalgia: ci fu un tempo in cui il miele scorreva a fiumi. Fra le piante selvatiche francesi, dice il giornale, 22 mila dipendono per la riproduzione dall'impollinazione delle api. A ogni primavera un quarto degli alveari francesi - oggi sono un milione e 350 mila - perde i suoi abitatori, facendo temere l'estinzione degli insetti. Responsabili principali, denunciano gli apicoltori, sono i cosiddetti insetticidi "sistemici", e in particolare quello prodotto dalla Bayer col nome "Gau cho", commercializzato da una decina d'anni. Basato sulla molecola attiva di imidaclopride, esso non viene cosparso in polvere sulle colture, ma inglobato nei semi di girasole, grano e mais, e rilasciato nel corso della crescita. Metodo che riduce il dosaggio e la dispersione, ma, si è poi appu-

rato, accresce la persistenza nei fiori e nel polline, oltre che nel suolo. Le api sono vulnerabilissime alla molecola, anche alle dosi più basse, inferiori a tre particelle per miliardo. La Bayer (e le sue concorrenti) negano la responsabilità dei loro prodotti. La questione è arrivata davanti alla Commissione europea. Quanto agli Stati Uniti, un apicoltore intervistato dichiara che hanno già perso l'80% delle loro api (in quanto tempo, non lo dice). Mi ha colpito un'altra frase, del portavoce degli apicoltori francesi: "L'ape gode di un capitale di simpatia nell'opinione pubblica". A parte l'associazione fra simpatia e capitale, mi ricordo tre versi di una canzone francese di spericolato sentimentalismo: "Io mi prolungo in te, come il fiume nel mare, comme la fleur dans l'abeille come il fiore nell'ape"...». Me la ricordo anch'io, è La Manie di Georges Dor, poeta e cantautore canadese. E la storia di lui che costruisce centrali idroelettriche sulla Manicouagan, un fiume del Quebec che si prolunga nel Saint-Laurent e nell'Atlantico, e vorrebbe più lettere dall'amata, più notizie dalla città. Come Sofri forse, da sei anni nel carcere di Pisa, a cui «Le Monde» fornisce il quadro francese delle api nell'agricoltura chimica. Nel quadro globale, in mezzo secolo siamo passati da tre a sei miliardi e mezzo, la denutrizione e la morte per inedia esistono tuttora, quando qualcosa, qualcuno dittatore, esercito regolare o ribelle - sbarra la strada agli aiuti alimentari. Anche senza gli Ogm, la rivoluzione verde di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi, partita negli anni Cinquanta dagli Stati Uniti, è stata un successo. I chimici hanno mantenuto la promessa, il bilancio è positivo. Però il costo è stato alto. La fisica ha prodotto la bomba atomica, dice Roald Hoffmann dell'università Cornell, mentre la chimica che ci sfama ha cattiva reputazione. Gli dispiace. È un chimico teorico, si occupa di orbitali degli elettroni, equazioni di funzione d'onda, e qualche volta i suoi calcoli si traducono in regole semplici, per esempio quelle di Woodward-Hoffmann per

le quali riceve il premio Nobel (Woodward ce l'aveva già). Gli dispiace per la chimica, però ritiene gli scienziati responsabili anche delle applicazioni traviate di un loro risultato. Secondo lui, devono valutarne l'eventualità a priori e se il rischio c'è, smettere di fare quella ricerca. Vorrebbe veder applicato il principio di precauzione, insomma, piuttosto impopolare negli Stati Uniti sotto il governo del presidente G.W. Bush. Hoffmann si domanda, non è il primo, se sia saggio usare con spensieratezza neurotossine come l'imidaclopride, quella che dà il via alle riflessioni di Adriano Sofri. Dopotutto quelle molecole interferiscono con gli scambi tra i neuroni, oltre a danneggiare altre cellule. Non è saggio per noi? O per le api? A Kyoto, ho appuntamento da Starbucks con due ricercatori del laboratorio di Tazuo Kubo, all'università. Capelli rossi, pantaloni grigi, ampia camicia bianca e gilerino nero entrambi (ci sono 30° e umidità soffocante), ci siamo incontrati a un convegno. Hanno partecipato al sequenziamento del genoma delle api, in particolare dei geni legati al metabolismo. Mi porto un ritaglio del «Japan Times», domenica 7 ottobre 2007, pagina 3: «Gli Stati Uniti approvano l'uso di un fumigante tossico. Nonostante le proteste di oltre cinquanta scienziati, l'Agenzia statunitense per la protezione ambientale (Epa) ha approvato venerdì un nuovo fumigante altamente tossico, destinato principalmente ai campi di fragole. Il nuovo pesticida - ioduro di metile - servirà soprattutto ai coltivatori della California e della Florida, i quali devono sostituire il bromuro di metile, bandito da un trattato internazionale perché danneggia lo strato d'ozono della Ter ra ... In una lettera al direttore dell'Epa Stephen Johnson, cinquantaquattro scienziati, in maggioranza chimici, tra i quali cinque premi Nobel, avvertono che "donne incinte e il loro feto, bambini, anziani, contadini e le altre persone che vivono in prossimità dei siti di applicazione correrebbero gravi rischi"». Quello ioduro viene approvato, ma soltanto per un anno, e attorno ai siti di applicazione dovranno es-

serci delle zone tampone. Infatti «i fumiganti sono preziosi perché, iniettati nel suolo prima di piantare, sterilizzano il campo e uccidono un ampio spettro di insetti e patogeni, senza lasciare residui nel raccolto». E le api non rischiano niente? I due giovani mi hanno appena raccontato di geni per l'energia prodotta dai loro mitocondri, per la cinghia di trasmissione che dagli zuccheri del nettare porta al miele e alle proteine della pappa reale. Sono ammirati da quel metabolismo potente e sofisticato, un motore che gira alla perfezione, «da Ferrari». Sullo ioduro di metile non hanno opinioni, ma «le api non si posano sul suolo finché le fragole non fioriscono. And they are tough, you know.» Sono toste, e lo sapevo: il loro motore da Ferrari tramuta in miele anche il nettare di rododendro del Ponto. Strano invece che non abbiano opinioni. La faccenda di quello ioduro è nota anche a Kyoto: da poco l'azienda produttrice americana è stata comprata proprio da una conglomerata giapponese, che commissiona ricerche sugli insetti pronubi... Non ne sanno niente? No, niente. Forse sono sospettosa per il cattivo umore: speravo mi portassero in un ristorantino del vecchio mercato e invece hanno scelto uno Starbucks e il cappuccino sa di metallo. Fra i cinque Nobel che scrivono al capo dell'Epa c'è Sherwood Rowland, che insieme al messicano Mario Molina aveva scoperto come i clorofluorocarburi distruggono l'ozono in stratosfera e, da cittadino responsabile, durante la campagna che avrebbe portato alla firma del proto collo di Montreal nel 1987 «aveva attaccato un bottone per uno a tutti i congressisti degli Stati Uniti» racconta sua moglie. E c'è Roald Hoffmann, avvertito da Susan Kingley, una Erin Brockovich, responsabile scientifica del Pesticide Action Network. Nei laboratori di ricerca quello ioduro si manipola «sotto cappa» per evitare ogni contatto, le dice Hoffmann. E lei scopre che l'ex presidente dell'azienda produttrice - in esubero dopo l'acquisto da parte dei giap-

ponesi - è appena stata nominata dal governo americano direttrice dell'Epa per il Midwest. Ma le fragole crescono in California e il governatore non transige sull'ambiente: «Niente ioduro nel mio stato finché quei 54 scienziati non saranno soddisfatti da ulteriori ricerche svolte dall'Epa» decide. Ne segue l'esempio il governatore della Florida, un altro repubblicano disattento alla linea del partito. «Schwarzenegger si ritrova con un ennesimo processo contro l'Epa, dopo quelli sulle emissioni delle centrali termoelettriche e delle automobili. Se lo perde, lo perdiamo tutti» dice Hoffmann, con ammirazione malgrado diffidi dei nerboruti, tanto più se hanno un passato filonazista; «e se il fumigante passa negli Usa, tra poco arriva in Europa» aggiunge. Poi viene al festival della scienza di Bergamo, incontra per caso Pia Locatelli, un'eurodeputata che fa parte della Commissione scienza e tecnologia al Parlamento di Strasburgo e lei gli promette di tener d'occhio la questione. In Europa, i fitofarmaci sono combattuti con lo stesso accanimento degli Ogm, e la diffidenza verso i secondi, mi sembra, discende in buona parte dai costi dei primi. Il movimento ambientalista s'è svegliato nel 1962, negli Stati Uniti, quando la biologa marina Rachel Carson ha pubblicato Primavera silenziosa, e raccontato il percorso lungo la catena alimentare del Ddt, sterminatore di insetti, affamatore di uccelli, avvelenatore di ruscelli e laghi. Poi ci sono state le vittime, negli Stati Uniti e in Vietnam, dell'Agent Oran ge della Monsanto; i 3800 morti di Bhopal per l'isocianate di metile della Union Carbide, il composto intermedio dei carbamati, usati come pesticidi; e la diossina emessa a Seveso durante la produzione di triclorofenolo, un erbicida della Givaudan... Aruspice come Adriano Sofri, Rachel Carson coglieva piccoli segni. L'idea del libro le era venuta da una lettera al direttore di un giornale locale: una signora chiedeva come mai le siepi attorno al suo giardino fiorivano come

un tempo, eppure non ci sentiva più cantare gli uccellini. Se vi capita di passeggiare in campagna, da quanti anni vi sorprende vedere delle farfalle? Ormai sono rare, il segno è macroscopico. In compenso c'è cibo per tutti, dice Lester Brown del Worldwatch Institute, almeno finché 3,5 miliardi di persone vegetariane per obbligo non diventeranno abbastanza ricche da potersi permettere la carne una volta alla settimana. Nel 2006 i quadrupedi d'allevamento erano 4,5 miliardi, vegetariani a vita. Il loro consumo - ripartito in maniera molto disuguale - è aumentato del 50% in 40 anni. I polli, 18 miliardi, sono quadruplicati in trent'anni, e dalle stime del Worldwatch, i maiali saranno 9 miliardi nel 2015, concentrati nel Sud-Est asiatico. E dalla fine degli anni Novanta, l'80% di quell'aumento si verifica nei paesi in via di sviluppo. Un manzo converte otto chili di foraggio in un chilo di carne (da disossare). Senza la rivoluzione verde, la bistecca sarebbe il privilegio di una persona su dieci. Dal 1950 siamo raddoppiati. Restano pochi posti liberi dove far crescere le granaglie necessarie senza radere al suolo le foreste che assorbono i gas da effetto serra. Per quelle tropicali, le più efficaci, è già tardi. Navigando per fiumi e canali del Pantanal nel Mato Grosso, per esempio, si vedono molte morpho, farfalle blu iridescenti dalle ali orlate di nero, e ci si domanda come insetti così grandi volino senza il minimo rumore. Vista dall'acqua, la foresta sulle rive sembra intatta. Nelle immagini satellitari invece si vede che è ridotta a una tenda, dietro cui cresce la soia su milioni di ettari. Il Brasile ne è il principale esportatore, e il primo cliente è la Cina, con il suo mezzo miliardo di maiali. Solo per alimentare quelli, ci vogliono 1,5-2 milioni di tonnellate di pastone al giorno. Montagne di farina di mais, soia, alfalfa... I biocarburanti, palma da olio indonesiana, mais statunitense, canna da zucchero brasiliana, si contendono le terre disponibili delle quali bisognerà raddoppiare la resa da

qui al 2050, quando saremo otto-nove miliardi, in media carnivori un giorno su tre, stando alle previsioni forse rosee delle Nazioni Unite. C'è bisogno di nuovi fertilizzanti, erbicidi, pesticidi, aggiunti in loco o espressi dalle piante transgeniche. Finiscono in aria, terra e acqua, e sterilizzano zone un tempo molto fertili lungo il corso dei fiumi, con danni alla flora e alla fauna marina (altra fonte di proteine animali). Trascurando i problemi dell'acqua, l'agricoltura ne ha già troppi per crearne all'insetto pronube di comprovata efficacia. Quelli molesti, però, sono numerosi, e i fitofarmaci hanno gli stessi effetti collaterali dei farmaci. Altra somiglianza tra Big Pharma e Big Agrochem, i due oligopoli accusati di analoghi misfatti e spietatezze. La normativa internazionale che stabilisce la tossicità tollerabile di un insetticida verso le specie non moleste si cura poco della perfezione meccanica del maggiolino o della coccinella, della bellezza della libellula o della morpho. In compenso, una nuova formula che danneggi le api non viene autorizzata e, se si scopre in corso d'uso, va ritirata dal commercio. Nella realtà, sulla confezione dell'insetticida c'è scritto come spargerlo, in quale quantità e in quale periodo, ma nemmeno il produttore più ambientalista può includere tutte le variabili locali nelle avvertenze, ammesso che qualcuno le legga, né le autorità controllare ogni spargimento, né gli scienziati prevedere cosa accadrà via via che la sostanza verrà usata insieme ad altre - e quali? - su superfici crescenti e come si combinerà con le sostanze naturali o di sintesi presenti nell'ambiente. Anche il Ddt, all'inizio, sembrava un'invenzione geniale. Per tutti questi motivi, nel 2007 i francesi accusano subito gli insetticidi di uccidere le api americane. Anche per sciovinismo, certo. Sono persuasi di tutelare meglio degli altri le proprie fonti di cibo, gloria nazionale. E anche per la bagarre politica cominciata nel 1994 quando gli apicoltori distribuiscono il volantino con la profezia di Einstein durante le manifestazioni di Bruxelles. In pochi anni, rie-

scono a far bandire il Poncho della Bayer, il primo della serie. Intanto il ministero dell'agricoltura promette ricerche sul Gaucho, e poi sul Regent, la cui introduzione coincide con rinnovati declini negli apiari. Gli insetticidi devono essere efficaci contro l'insetto-bersaglio, degradarsi rapidamente e nuocere il meno possibile alle altre forme di vita, scrive il biologo Jean-Pierre Louvet nel dossier Speciale api uscito su «Futura-Sciences» del marzo 2003. Il Gaucho della Bayer rispondeva ai tre criteri e, nota Sofri, era squisitamente «mirato». Veniva usato per conciare, cioè per trattare prima della semina i semi di girasole e di mais e, mentre germinavano, ne proteggeva le radici dagli aggressori. Meraviglia, la protezione durava fino al raccolto. Per un effetto collaterale, la pianta intera, polline e nettare compresi, contiene tracce dell'imidaclopride, molecola simile alla nicotina, e classificata nei neonicotinoidi. Dal 1994 l'Istituto francese per la ricerca agronomica (Inra) raccomanda però la prudenza, perché la molecola disorienta le api: perdono la strada del ritorno oppure, cosa più strana, quando rientrano dai campi di girasole «gauchoizzato», sono cacciate o uccise, come se fossero straniere. Le neurotossine agiscono su qualunque creatura abbia un sistema nervoso, mammiferi umani inclusi, e la loro in troduzione in agricoltura va sorvegliata da vicino per dieci anni almeno; per ora abbiamo soltanto dati sparsi e inconcludenti, dicono all'Ima. Dal 1995, in Vandea, in Alvernia e nel Midi, che significa meridione ma è il Sud-Ovest dalla valle della Garonna ai Pirenei, gli apicoltori lamentano un calo della produzione di miele da girasole e tornano a protestare a Parigi, davanti al ministero dell'Agricoltura. All'inizio, il ministero fa orecchio da mercante, la categoria è piccola e incline al lamento. Però sa sfruttare il «capitale di simpatia», che l'opinione pubblica estende agli apicoltori da quando esiste la scuola dell'obbligo. (Nel capitolo delle allegorie mi

sono trattenuta dal citare George Sand, Jean Giono, Colette; la letteratura nazionale è piena di maschi, anziani e taciturni, che dalle proprie arnie estraggono all'improvviso perle di saggezza.) Dai dati di laboratorio emerge che negli insetti tracce d'imidaclopride provocano, oltre a turbe neurologiche, convulsioni e morte. Il ministro sospende la concia del girasole con il Gaucho dal 1999 al 2001. Nel 2002, nuova protesta degli apicoltori, per il mais questa volta, la sospensione del quale viene concessa ed è poi confermata nel 2004 in attesa di un riesame da parte della Commissione europea. La decisione è stata lenta, ma era complicata da prendere. Quand'era ancora il fiore all'occhiello della chimica e della farmaceutica «franco-francese», la Rhóne-Poulenc aveva messo a punto una serie di insetticidi. Dal 1993 produce e vende i fenilpirazoli, delle neurotossine, da spargere in polvere contro le blatte e le formiche di casa, da spruzzare in soluzione sui campi contro certi grilli, in gocce e collari contro pulci di cani e gatti; e dal 1996 produce e vende il Fipronil per la concia delle sementi, sotto il marchio Regent. Sul finire degli anni Novanta, da una fusione aziendale all'altra quei prodotti passano, insieme al fior fiore, alla Bayer e poi alla Basf. Per il Fipronil, Rhòne-Poulenc aveva ottenuto un'autorizzazione temporanea valida fino al 2005 - e compresa nel prezzo pagato dalla Bayer - nonché la classifica T+, poco tossico. Meritava una classifica almeno T+R26, visto che per via respiratoria è pericoloso per gli esseri umani, tant'è che gli operai che lavorano alla sua produzione indossano lo «scafandro», un'apposita tuta integrale. Eppure in termini di sicurezza sul lavoro, il Fipronil è classificato soltanto S38, cioè «da manipolare con apparecchio respiratorio (cioè la maschera filtrante) in caso di ventilazione insufficiente». Tra fine marzo e inizio aprile del 2002, anno di elezioni politiche, gli apicoltori del Midi constatano una scomparsa delle proprie api, con rari cadaveri nelle vicinanze delle

arnie che hanno appena portato nelle zone dove si semina mais conciato con il Regent. Quelli di Saint-Gaudens - una cittadina sulla via romana tra Tolosa e Dax, nella valle della Garonna - fanno una denuncia alla procura che indaga sul reato di «distruzione di beni altrui». All'inizio sembra che certi coltivatori senza scrupoli stiano usando pesticidi illegali, ma le perizie chieste dal tribunale rivelano che sui cadaveri sono state trovate tracce di Fipronil. Il procuratore scopre la classifica T+. La trova strana, fa perquisire l'ufficio della Basf vicino a Parigi e aggiunge una nuova ipotesi di reato: «falsa dichiarazione per ottenere dallo Stato indebiti vantaggi». Il ministro dell'Agricoltura emette un comunicato rassicurante: un insetticida che viene interrato dopo la semina non può essere dannoso per le api. Il tribunale di Saint-Gaudens emette una sentenza che sospende l'autorizzazione e l'uso del Regent. Le televisioni mostrano apicoltori, anziani e taciturni, davanti ad arnie deserte, «Le Monde» cita Einstein, Adriano Sofri cita Pasolini e la Basf - che ha acquisito la Bayer Crop Sciences - si dichiara pronta a finanziare ricerche indipendenti, a conferma delle proprie, sull'atossicità del Regent. La Bayer Crop Sciences chiede la sostituzione del giudice di Saint-Gaudens per legittima suspicione: sarebbe in combutta con gli apicoltori, i quali cercherebbero di farsi indennizzare da multinazionali al di sopra di ogni sospetto i danni dovuti a qualche patogeno, la Varroa destructor, per esempio. Nel febbraio 2003, il ministero revoca l'autorizzazione del Regent a partire dall'esaurimento delle scorte di semi trattati, e non più tardi della primavera 2005. Un mese dopo la revoca, esce sul «Figaro», il quotidiano a più alta tiratura e conservatore, un articolo di Patrick Ravanel, professore all'università di Grenoble. «Non voglio apparire come il difensore d'ufficio della Basf o della Bayer», tuttavia «nessun dato scientifico consente di affermare che il Fipronil sia all'origine della moria di api». Poco solubile in acqua, la molecola non risalirebbe nella pianta e men che

meno nel nettare, scrive. Ed è vero. Secondo i ricercatori che hanno eseguito le perizie, il processo di semina libera nell'aria polveri contenenti Fipronil, il quale s'attacca alle api e le uccide per contatto. Ravanel ne tiene conto, ma critica comunque i periti: hanno fatto prove con semi molto polverosi, invece che con tutte le varietà. Vero anche questo, ma scritto in maniera da far pensare che i periti proprio indipendenti non fossero: magari in combutta con gli apicoltori? Né «Le Figaro» nel sottotitolo, né l'autore nel testo ritengono utile informare che l'autore medesimo riceve finanziamenti dalla Basf e dalla Bayer, come dichiarato nelle tesi dei suoi dottorandi. «Difensore d'ufficio» no, certo che no. In attesa che la Commissione europea dia un parere definitivo entro il 31 dicembre 2004 (non lo darà, e il ministro dell'Agricoltura finirà per sospendere il Fipronil fino a giugno 2006) la Bayer perde il processo per vilipendio del Regent, che aveva intentato al presidente dell'Associazione francese degli apicoltori - il capitale di simpatia della categoria nel frattempo era aumentato parecchio - ed è condannata ad accantonare due milioni di euro per l'eventuale risarcimento delle arnie deserte. Durante i dibattimenti nelle aule giudiziarie, le ricerche proseguono e non soltanto in Francia. Sono ricerche contraddittorie, al punto che sul «Journal of Agriculture and Food Chemistry» compaiono alcuni dati apparentemente solidi alternati ad altri che li smentiscono. Mentre i francesi trovano, per esempio, tracce di Gaucho nel nettare e nel polline di girasole e di mais, gli americani non ne trovano, eppure la differenza tra i protocolli sperimentali e tra gli strumenti utilizzati è minima. Idem per il Regent. La rivista è pubblicata dall'American Chemical Society, una sorta di sindacato dei chimici pubblici e privati, e due terzi del suo bilancio vengono dalle inserzioni di Big Agrochem e Big Pharma. Molti ricercatori americani hanno lo stesso conflitto d'interesse di Patrick Ravanel, fanno notare gli apicoltori tedeschi.

Seguono con attenzione i processi partiti da Saint-Gaudens e temono che, scagionato in Francia, il Fipronil sia automaticamente approvato dalle autorità europee. Stesso interesse in Belgio e in Italia dove la diffusione geografica di neonicotinoidi ricalca quella di morie annue, del 30-45% per le api belghe e del 25-35% per quelle italiane, rispetto a una normale erosione del 5-10%. Scrive «Le Soir», un quotidiano di Bruxelles, che di tutte le arnie della Vallonia nel 2004 si erano salvate soltanto quelle portate «in colline remote e selvagge delle Ardenne». Silenzio stampa nel mondo, d'altronde la Francia non è una superpotenza. Il 2004 però è anno di elezioni europee, i media locali coprono l'affaire con tanta più passione, e Philippe de Villiers si butta nella mischia e fa salire l'audience. Brevemente ministro della Cultura sotto la presidenza di Jacques Chirac, monarchico da giovane poi «presidenzialista-sovranista» à la Vladimir Putin, è il leader del proprio Mouvement pour la France, partito di destra populista, xenofoba, folcloristica e antieuropea. (Nel 2005 fa campagna per il no al referendum sulla Costituzione europea e poi sostiene d'averla sconfitta lui, anche se nella sua circoscrizione i sì sono stati il 66%. Prossimi al 67,2% con il quale era stato eletto deputato al Parlamento francese tre anni prima, e a quello europeo nel 2004.1 suoi elettori l'avranno frainteso?) In altre parole, Philippe Le Jolis de Villiers de Saintignon partecipa con il suo libro a un cancan decennale. Le Jolis è la terra normanna da cui viene il suo titolo di visconte, Saintignon è il cognome della madre, d'una dinastia del tondino in passato repubblicana e laica, tendenza radical-socialista. Io non voterei per quel gentiluomo, che è pure misogino, e inoltre questa volta non ritengo che l'amministrazione si sia comportata in maniera scandalosa: non poteva prendere decisioni che facessero calare le azioni della Rhòne-Poulenc durante la fusione con la Bayer, e rischiare co-

sì duemila posti di lavoro, per salvare delle api. Ma Franck Aletru, il presidente degli apicoltori di Vandea, pur risentito perché a infrangere la legge del silenzio semmai è stato lui, non Philippe de Villiers, e pur scettico sulla frase di Einstein («una caricatura») concorda con il visconte: ha una mappa con località e date delle arnie distrutte. Le patologie, dice, «hanno la stessa tracciabilità del cattivo uso di quelle molecole». Fra migliaia di esperimenti scientifici, il visconte schiaccia il lettore sotto quelli che confortano la sua tesi e omette di citarne le conclusioni: da trent'anni e in tutto il mondo, le api soffrono di una combinazione di patologie. Eppure... nel 2005, controlli eseguiti in un allevamento della Vandea su richiesta della procura di Saint-Gaudens rivelano tracce di Fipronil nel latte, anche se le mucche non potevano aver mangiato sementi conciate con il Regent. Il visconte ha ragione: la molecola è presente in tutta la pianta, al contrario di quanto sostengono Bayer, Basf e i dottorandi di Grenoble sotto la supervisione di Patrick Ravanel. Ha ragione? Proprio in quei mesi, in Spagna si cercano le cause della «sindrome di spopolamento delle arnie» che risale al 1999 ed è chiamata così perché «le manifestazioni cliniche non corrispondono a quelle delle principali malattie note»: niente diarrea, niente malformazioni fisiche, niente mucchietti di cadaveri davanti alle arnie. Su «Vida Apicola» di settembre-ottobre 2005, Aranzazu Meana dell'università Complutense di Madrid e altri sei colleghi documentano una «virulenza estrema» durante l'inverno 2004-2005 e la primavera 2005. Per sei anni, avevano già registrato una riduzione costante nella produzione di miele, propoli e cera, nel numero di individui per colonia, nel vigore delle adulte. E un aumento, per assenza di cura, delle infezioni e infestazioni delle larve. La trasandatezza culminava nello spopolamento quando, troppo deboli per svolgere i propri compiti, le ultime operaie ci rinunciavano e uscivano per morire.

Meana ha subito pensato a un insetticida, ma in Spagna il Gaucho non è mai stato autorizzato per i semi di girasole, infatti né la molecola né i suoi metaboliti sono stati trovati nei cadaveri; quanto al Regent, è utilizzato soltanto dal 2004 in superfici, attorno alle quali le arnie non stanno né peggio né meglio. Ha quindi raccolto nelle varie province spagnole i dati sulle infestazioni dichiarate. Quella da Varroa era costante dal 1998, come per la maggior parte degli altri patogeni. In compenso le diagnosi positive da Nosema aumentavano esponenzialmente: 13% dei campioni raccolti e analizzati in laboratorio nel 1999; 40% nel 2002; 97% nel 2005. Un'epidemia da Nosema avrebbe potuto spiegare la sindrome, ma alcuni particolari non quadravano. «Le alterazioni dell'apparato digerente erano più gravi, le lesioni cellulari estese e le colonie venivano colpite anche d'estate», mentre quella diarrea è primaverile; ed era «sorprendente che spore di Nosema apis fossero sopravvissute al fred do e alla scarsa umidità dell'inverno 2004-2005». Meana ha estratto i geni dalle spore di Nosema trovate nell'intestino delle api, e ne ha sequenziato il Dna: era quello della Nosema ceranae. Per la prima volta il fungo delle api asiatiche (Apis cerano) era attecchito neìYApis mellifera in Europa. Pochi mesi prima, un gruppo dell'università di Taipei, usando lo stesso metodo degli spagnoli, aveva trovato un'identica infezione in un allevamento di Apis mellifera nell'isola di Taiwan, e aveva presentato in anteprima i propri risultati alla conferenza dell'Associazione mondiale di patologia parassitaria, ad Anchorage in Alaska. La scoperta era così importante per l'agricoltura, e quindi per l'economia, che il gruppo decise di non tenerla segreta fino alla pubblicazione su una rivista scientifica, come si usa fare di solito. Per lo stesso motivo, Meana anticipa le proprie conclusioni su «Vida apicola». Sommata al lavoro dei taiwanesi, la sua ricerca suggerisce un metodo diverso per diagnosticare la causa degli spopolamenti denunciati in tutto il mondo.

Il metodo standard, raccomandato e riconosciuto dall'Organizzazione internazionale delle epizoozie (Oie, l'equivalente dell'Organizzazione mondiale della sanità, ma per gli animali d'allevamento) dà molti «falsi negativi», nega la nosemiasi - che pure c'è. Il mercato è ancora più globale che ai tempi dello sbarco della Varroa, ed è probabile che il Nosema ceranae stia rovinando colonie di api europee in tutto il mondo. Per fortuna è possibile sbarazzarsene. Come per il Nosema apis, si disinfettano le arnie con il caldo e/o con acido acetico, e alle api si somministra un antibiotico, la fumagillina, scrive Meana. Infatti, nella primavera 2007 le api spagnole si sono riprese. Ma «le reinfestazioni sono molto frequenti, a intervalli da due a quattro mesi» dice «bisogna tenersi pronti a ripetere il trattamento». Durante quella stessa primavera, la muffa asiatica era il sospettato numero uno del «Los Angeles Times», e in alcuni casi di Ccd sarà stata la fatidica goccia che fa traboccare il vaso, dice Jeff Pettis, del dipartimento dell'Agricoltura statunitense. Parecchi apicoltori americani, nel frattempo, avevano irradiato arnie deserte con raggi gamma - quelli usati per l'alimentazione - e ci avevano poi trasferito colonie sane che sane erano ancora a distanza di otto mesi. Però in Francia, da quando Gaucho e Regent sono vietati, le api si sono riprese, salvo nelle zone colpite da siccità. Aranzazu Meana è consapevole dei limiti della propria ricerca: le infezioni dichiarate sono soltanto quelle gravi. Perciò non esclude che in altri paesi il Gaucho, il Regent e altri insetticidi contribuiscano alla mortalità da Nosema ceranae, perché non gli è ancora chiaro come la muffa riesca a infliggere «lesioni estese» alle pareti intestinali delle api. Il giornalista Gii Riviòre-Wekstein lo esclude. In Abeilles: l'imposture écologique, sostiene che con il pretesto dell'ecologia - per lui sempre un po' opportunistica - una manciata di apicoltori abbia fatto il gioco di sindacalisti e politici, dall'estrema destra di Philippe de Villiers alla sinistra dei verdi e delle confederazioni contadine, tutti uniti contro

l'agricoltura moderna, scientifica e high-tech. Sulla fascia rossa del libro, la scritta «L'affaire degli insetticidi maledetti». Però innocenti. Rivière-Wekstein è un giornalista belga, e un precursore del più celebre ambientalista scettico Bjorn Lomborg; da anni, prima in Danimarca poi a Parigi, si batte per le centrali nucleari, per gli Ogm, per demolire bufale, a suo avviso, come quella del buco dell'ozono in stratosfera. Elabora «rapporti di intelligence» politico-economica che lo studio di cui è proprietario vende a investitori e clienti vari. Dal 2003 è l'editore e l'autore del mensile «Agriculture & Environnement», gratuito e in rete. Nel dicembre 2007 si rallegra della «resurrezione delle api spagnole», e trova incomprensibile che gli apicoltori francesi non facciano analizzare i cadaveri delle proprie nel laboratorio di Marchamalo, che dispone dell'attrezzatura necessaria. Più corretto del visconte, ripor ta le dichiarazioni del suo direttore, Mariano Higes: «Non tutte le arnie vengono colpite allo stesso modo e occorre analizzare l'insieme delle cause possibili, pesticidi, acaricidi, assenza di cibo, condizioni climatiche, altre malattie» dice il ricercatore spagnolo. Alcuni erbicidi e acaricidi usati in agricoltura o dagli stessi apicoltori possono modificare il comportamento della colonia e la sua resistenza alle malattie, avverte, «ma li abbiamo trovati soltanto nell'8% delle arnie analizzate». Di pesticidi, Higes non parla. Ne avevano parlato i suoi colleghi alla conferenza europea sulle api che si teneva a Helsinki nell'agosto 2007, per concludere che in dosi corrette essi non producono danni rilevabili, però - ritornello immancabile - servono un monitoraggio a lunga scadenza, ulteriori ricerche, e fondi. Stessa conclusione nell'indagine chiesta il 2 febbraio 2007, con un'interpellanza parlamentare, da una trentina di deputati della maggioranza. Il primo firmatario, Jacques Remillet, vuole «far piena luce su un dossier trattato dai poteri pubblici sotto intensa pressione mediatica, associativa e po-

litica». Chiama «in causa l'incoerenza della gestione tecnica e scientifica del deperimento delle api in Francia, il modo in cui vengono assegnati i finanziamenti all'agricoltura ... la gestione dei fondi europei negli ultimi dieci anni, la ricerca sulle api e l'apicoltura drammaticamente ridotta, gli scienziati che hanno scelto di ritirarsi da un settore troppo polemico e sottoposto alle pressioni di certe organizzazioni professionali. L'unico ente di ricerca indipendente, l'Itapi, è stato chiuso, la produzione di miele scende di mille tonnellate all'anno, aumentano invece le importazioni», soprattutto dalla Cina. Gli scienziati non si sono affatto ritirati, dice a fine anno Michel Barnier, ministro dell'Agricoltura del governo Fillon-Sarkozy (più Sarkozy che Fillon, i francesi faticano a ricordare il nome del primo ministro; forse anche il presi dente, che ogni tanto lo chiama «il mio assistente»). L'Itapi è stato chiuso perché i metodi e le apparecchiature per la diagnostica molecolare sono costosi, richiedono una formazione apposita, e riservarle a uso esclusivo delle api sarebbe uno spreco ingiustificabile. Tanto più che tutta la ricerca, tutt'altro che ridotta, approda sempre agli stessi risultati. Nelle api francesi e nei loro prodotti c'è di tutto: anticorpi per decine di virus, batteri, funghi, più imidaclopride, Fipronil, endosulfan, deltametrina, paration metil usati dagli agricoltori, più coumaphos e fluvalinate, due acaricidi usati dagli apicoltori contro la Varroa. In cinque anni, si è trovato un solo caso di mortalità generale delle colonie, ed era dovuta a un'overdose di endosulfan misto a fluvalinate. Agricoltori e apicoltori, scrive Rivière-Wekstein, devono rispettare le istruzioni per l'uso e smetterla di far di testa propria per poi prendersela con il governo, le multinazionali, la globalizzazione. Nell'Unione Europea, i ministri dell'Agricoltura non lo dicono, non lo scrivono, ma è probabile che lo pensino. Non hanno aspettato la crisi americana per commissionare ricerche su ogni fronte, i più moderni ne pubblicano gli aggior-

namenti sul proprio sito web, e tutti sperano che Bruxelles tolga le castagne dal fuoco al posto loro. Però l'8 gennaio 2008 il ministro Barnier annuncia i risultati di «un'analisi approfondita dell'Agenzia per la sicurezza alimentare, in particolare degli effetti sulle api» di altri due prodotti per la concia del mais. Il Poncho della Bayer (thiamethoxam), «usato in Germania, le cui sostanze attive sono state approvate dalle autorità europee» viene vietato, e il Cruiser della Syngenta (clothianidine) è autorizzato per un anno, solo per la concia e per due tipi di mais, e con precauzioni massime. I controlli in tre Regioni, più altre che vorranno partecipare, saranno fatti dall'Agenzia insieme ai rappresentanti degli apicoltori e dei movimenti ambientalisti, invitati a nominare i propri delegati per una serie di riunioni a partire dal 30 gennaio. La sorveglianza del Cruiser procederà in parallelo con «l'implementazione del piano nazionale d'azione apicola». E in collegamento con il «piano di riduzione dell'uso dei pesticidi» che «contempla il ritiro dal mercato nei tempi più brevi, compatibilmente con l'esistenza di soluzioni alternative, dei prodotti contenenti le 50 sostanze attive più preoccupanti, di cui 30 entro fine 2008, e una riduzione del 50% dell'uso dei pesticidi nell'arco di dieci anni, se possibile.» In Italia intanto, Legambiente presenta il dossier Pesticidi nel piatto 2007 e ricorda che «la diffusione di alcuni fitofarmaci sistemici in agricoltura sta determinando una significativa moria delle api, come scrive Claudio Tucci sul "Sole-24 Ore" del 22 maggio». Legambiente e l'Unione nazionale associazioni apicoltori italiani (Unaai) hanno scritto ai ministri della Salute Livia Turco e delle Politiche agricole Paolo De Castro perché si attivino per contrastare efficacemente il preoccupante fenomeno. La lettera inizia - ma già l'avete indovinato - con la profezia di Einstein. I governanti hanno sempre fatto promesse non mantenute, ma la difesa delle api spetta anche alle Regioni. La mellifera Umbria, dice Arcangelo Banconi, capelli bianchi

e occhi celesti, «apaio» a Spoleto, sovvenziona cassette anti-Varroa ormai superate, e distribuisce finanziamenti minimi, a pioggia, «anche agli incapaci». A primavera, Banconi fa il trattamento per liberare le proprie api dall'acaro. Poi le porta in campagna. Un dilettante sovvenzionato ci mette vicino le sue quattro cassette non trattate, e «sporca la casa». Con le cassette omaggio, la Regione tenta di rimediare a una perdita annua del 5-8% delle arnie, ma dovrebbe puntare invece «sulla bravura dell'apicoltore». Lui ha mille cassette, un laboratorio nuovo e ben attrezzato, costruito con un mutuo di 200 mila euro. Fa quattro tonnellate all'anno di mieli squisiti. Riesce a viverne? «Non più. Aumentano gli interessi del mutuo, la nafta, tutte le spese.» Sopravvi ve perché insieme alla moglie e al figlio ospita turisti nella grande casa rosa, su una collina appena fuori le mura. «Tutto aumenta, salvo il prezzo all'ingrosso per il nostro miele. Ci davano 3 euro al chilo nel 2005, 2,5 euro nel 2006, perciò tante aziende chiudono. Comandano le grandi catene di distribuzione, ci impongono le loro condizioni, ma, anche così, sullo scaffale non possiamo competere con il miele che comprano dalla Cina a un euro al chilo.» L'apaio di Spoleto sa della crisi spagnola anche se non è uscita sui giornali, e sa dei pericoli della peste americana: «È un po' che le malattie infettive si moltiplicano...». Le sue api però resistono, ne è fiero, qualche cassetta arriva a 50 chili all'anno. Meriterebbero «consumatori più educati», capaci di apprezzare un miele d'acacia, pallidissimo con riflessi argentei, che fila dal cucchiaio senza rompersi. E i pesticidi? «Sono il meno, in Umbria abbiamo ancora tanti boschi.» A Roma, intanto, il ministro delle Politiche agricole fa sapere a Legambiente e all'Unione degli apicoltori italiani di aver attivato «la richiesta per reperire i fondi necessari per avviare una ricerca pubblica per constatare la reale implicazione dei neonicotinoidi contenuti nei pesticidi nella moria di api». Una ricerca analoga, finanziata dalla Bayer, è in corso all'università di Bologna ma è limitata al Gaucho,

mentre associazioni e deputati chiedono da anni la sospensione dal commercio, come in Francia, dei prodotti a base di «Fipronil, Imidaclopride, Thiametoxan e Clothianidin, utilizzati per la concia delle sementi di mais e sui vigneti contro la flavescenza dorata». Il ministro Paolo De Castro convoca le parti in causa. Su «Mieli d'Italia», il sito dell'Unione, mai così attivo come nei mesi della crisi americana, Edoardo Spera e Federico Tulli, due giornalisti dell'agenzia di stampa «Il Velino», raccontano di «concitate riunioni» al ministero, e di un «aspro botta e risposta tra Coldiretti e Cedab, il Centro documentazione agrobiotecnologie». Coldiretti «ha puntato il dito, tra l'altro, contro il pericolo rappresentato dall'estensione delle coltivazioni Ogm in Italia in seguito ai nove protocolli d'intesa firmati dal ministero e da Assobiotech» (quest'ultima è portavoce in Italia dell'industria agrobiotecnologica). Patrick Trancu, del Cedab, non ne può più: «Ogni volta che emergono problemi con il nostro ecosistema, gli Ogm sono accusati di esserne i responsabili. Il prossimo passo sarà di ritenerli responsabili anche dei cambiamenti climatici?». Coldiretti adduce la sparizione di decine di migliaia di alveari nella pianura padana e in Svizzera, una moria nel Montana e la crisi in altri ventisette stati americani, per chiedere al Mipaaf di «bloccare immediatamente qualsiasi forma di sperimentazione di colture Ogm in campo a partire dai nove protocolli firmati dal ministero delle Politiche agricole con Assobiotech per vino, olio, pomodoro e altre importanti colture mediterranee, che rischiano di inquinare in modo irreversibile l'ambiente». In cambio del blocco, è pronta ad accettare «una sospensione cautelativa dei fitofarmaci». Trancu trova «fragile» la tesi della Coldiretti: «Per quanto riguarda le api, gli Ogm non si coltivano né nel Montana, né in Svizzera, né nella pianura padana» - nella quale la moria delle api sarebbe colpa dell'inverno insolitamente caldo - «e Coldiretti omette di riferire che diversi gruppi di lavoro scientifici negli Usa e in Europa hanno studiato

anche l'ipotesi secondo cui l'introduzione di mais Bt geneticamente modificato potrebbe esser responsabile della decimazione delle api. E che dopo un'attenta analisi dell'evidenza scientifica i ricercatori hanno tuttavia concluso che gli studi attualmente disponibili non contengono prove certe che indichino che le piante Bt possano essere dannose per le api... La demagogia nostrana non può dare alcun contributo a scoprire le cause e a identificare le migliori soluzioni per far fronte a questa tragica situazione». Agli incontri partecipa anche Agrofarma, «l'associazione delle imprese del comparto prodotti per la difesa del le colture dai parassiti animali e vegetali», per la quale «la tutela delle api è una priorità». Attribuisce il loro declino mondiale «a fattori patologici, modificazioni dell'ambiente naturale o climatico, e non corretto utilizzo di alcuni agrofarmaci». Spiega che schiaccianti prove scientifiche, le stesse del Cedab presumo, dicono che gli agrofarmaci sono innocui. Ma l'Unione degli apicoltori ne ha altre: «Molti ricercatori, in seguito a studi di laboratorio, hanno individuato nei neonicotinoidi i principali responsabili della scomparsa delle api. Inoltre le associazioni di apicoltori, l'università di Bologna, l'Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie e l'Istituto nazionale di apicoltura hanno scritto ripetutamente ai ministeri della Salute e delle Politiche agricole chiedendo ricerche adeguate e la sospensione cautelativa di tali sostanze senza mai avere alcun esito e risposta». Le lettere indirizzate al ministero della Salute si saranno perse: Silvio Borrello, il direttore generale per la sicurezza degli alimenti e della nutrizione, poco tempo prima aveva detto ai due giornalisti del «Velino» di non aver mai sentito parlare di alcuna moria di api. Eppure tutti i media italiani diffondono la notizia della crisi negli Stati Uniti, e diverse Regioni hanno già inviato al ministero rapporti allarmati sui danni da neonicotinoidi. E Pasquale Trematerra dell'università del Molise ne aveva già valutati i rischi. Durante una conferenza internazionale che si teneva a Erice nel

2002, li aveva confrontati con quelli dei feromoni, ormoni sintetici copiati su quelli degli insetti: fanno da repellente mirato, sono innocui per l'ambiente, come dimostrano da almeno cento milioni di anni, e si degradano velocemente. Sono più complicati da usare, ma meno nocivi agli insetti utili, o simpatici. Trematerra ha letto le ricerche citate dagli anti-neonicotinoidi e dai prò. Fa notare, come Benjamin Oldroyd e molti altri, la disparità tra quelle europee e quelle americane, quasi sempre finanziate da Big Agrochem. Per Oldroyd «c'è una reale possibilità che i neonicotinoidi contribuiscano alla scomparsa delle api. È difficile dimostrare che siano il fattore principale. Sappiamo una cosa: esposte a dosi anche minuscole di imidaclopride, le api non superano come prima i test di memoria e di apprendimento associativo. Potrebbe esserci un livello di esposizione al quale le bottinatrici rimangono disorientate e smarriscono la strada». Se le missive spedite al ministero della Salute non s'eran perse, Silvio Borrello sarà stato «frainteso»: i giornalisti italiani sono notoriamente duri d'orecchio, e il direttore generale per la sicurezza degli alimenti e della nutrizione intendeva dire «Non ho mai sentito parlare di moria delle api in rapporto con i fitofarmaci». Dopo l'articolo di Adriano Sofri, sui grandi media italiani non s'eran più visti, infatti. Ricompaiono su «Repubblica» del 22 maggio 2007, anche se in seconda posizione dopo il clima, nel titolo a nove colonne della pagina in cui Antonio Cianciullo riprende le notizie dei giornalisti del «Velino». Cianciullo intervista anche Giancarlo Naldi, il presidente dell'Osservatorio nazionale sul miele. Il caldo ha ridotto da quindici a cinque giorni la fioritura delle acacie, dice Naldi, «siamo davanti a modifiche climatiche radicali... da una parte c'è meno cibo, dall'altra c'è meno acqua.» Ma «c'è un insieme di fattori da prendere in considerazione. L'effetto dei pesticidi è determinante, lo provano le analisi sulle api morte. E probabilmente queste due cause, pesticidi e global

warming, hanno contribuito a un indebolimento che espone le api a contrarre malattie come la peste americana, che è un problema ricorrente». Nel settembre 2007 esce la notizia che dovrebbe rendere irrilevanti tutte le ipotesi fatte fin qui: gli americani hanno scoperto un virus precedentemente ignoto, che sarebbe l'untore della nuova peste. Rivière-Wekstein gongola sul tema del «ve l'avevo detto io» e deride gli anti-scienza che, come il visconte, se la prendevano con i pesticidi. Pasquale Trematerra consiglia di aspettare gli sviluppi, quel virus inedito non lo convince. Philippe de Villiers tace. Il presidente Sarkozy, che s'è appropriato dei suoi argomenti populisti-protezionistici, ha convocato per il 24 e 25 ottobre una «Grenelle dell'ambiente», nello stesso luogo dove nel maggio 1968 un incontro tra governo e sindacati aveva chiuso il mese degli événements. Questa volta, i rappresentanti del governo, delle collettività locali, di centinaia di Ong, dei sindacati e delle associazioni professionali che si sono incontrati per tutta l'estate devono decidere le priorità dello sviluppo sostenibile. Presiede i dibattiti Nicolas Sarkozy in persona, seduto tra Wangari Maathai, l'ambientalista keniota premio Nobel per la pace nel 2004, e Al Gore, invitato prima dell'annuncio del suo. L'accordo raggiunto, dice il presidente nel discorso conclusivo, impegna la nazione a combattere il riscaldamento globale, l'erosione della biodiversità e l'inquinamento. Vengono rimandate a ulteriori incontri e dibattiti le decisioni ancora non consensuali riguardanti l'energia nucleare, i biocarburanti, il trattamento dei rifiuti, gli Ogm, i pesticidi. A dicembre ottanta associazioni ambientaliste federate nell'Alleanza per il pianeta, tra cui Greenpeace e il Wwf, fanno secessione. Piovono critiche su quel processo consociativo in cui l'ecologismo perde la funzione di lotta politica, e viene subordinato alle esigenze della crescita economica e dei bisogni sociali. Il presidente va in vacanza con Carla Bruni, il giornalista

belga sembra aver vinto la partita, il paese ha imboccato la giusta via, i verdi sono furibondi, il visconte scornato. Poi il bando del Poncho e il Cruiser sotto sorveglianza scornano anche il giornalista. Da fautore della ragion scientifica, aveva chiesto decisioni basate sulle ultime ricerche e queste, per il momento, danno ragione al visconte.

IX Scoperto il virus, forse

Una colonia ha innumerevoli nemici, maltempo, disastri naturali, predatori, malattie, parassiti. Nessuno di questi tuttavia la stressa mai quanto l'apicultore. ERIC H. ERICKSON, Cari Hayden Bee Research Center, Tucson, Arizona

Il 20 settembre 2007 Diana Cox-Foster dell'università della Pennsylvania, il solito Jeff Pettis e Ian Lipkin dell'università Columbia pubblicano su «Science» le analisi di cadaveri provenienti da 40 colonie colpite da Ccd, e da 21 sane. Tutte le api «traboccavano di patogeni "canaglia"» dice Pettis, ma in quelle da colonie con il Ccd si eran trovate quantità maggiori di due muffe e di due virus, uno dei quali nuovo: il virus israeliano da paralisi acuta, o Vipa, che infetta 25 delle 40 colonie malate e soltanto una delle 21 sane. Mai visto prima sul continente americano, pare; è presente in apiari che avevano importato api australiane nel 2005, o nelle arnie accatastate vicino alle nuove venute durante il trasporto con Tir attraverso gli Stati Uniti. Sarebbe dunque stato introdotto inavvertitamente (al costo di 5 milioni di dollari) nel 2005. E, brivido lungo la schiena dell'intera nazione, di nuovo e su scala ancora più vasta (10 milioni) ai primi di febbraio del 2007. Il virus è detto «israeliano» perché nel 2002 Ilan Sela, dell'università ebraica di Gerusalemme, l'ha scoperto in arnie locali. Proprio Sela e il suo gruppo, su «Virology» del giugno 2007, avevano scritto che il Vipa paralizza e uccide il 98% delle api in pochi giorni, quando viene iniettato, in una settimana se viene somministrato nell'alimentazione. Senza

alcun contagio coatto, la prima peste israelo-australo-americana s'era diffusa in 27 stati dell'Unione nel giro di 14-18 mesi; nello stesso lasso di tempo la seconda causerà un super Ccd, e nel 2009 gli Stati Uniti dal deficit commerciale già stratosferico diventeranno i primi importatori al mondo di frutta e verdura. Così risulta dai modelli che gli analisti finanziari fanno girare sui computer, ma aspettano a pubblicare queste previsioni. L'economia traballa già abbastanza. Ilan Sela è del resto il primo a rassicurare gli alleati. Nei cinque anni intercorsi dalla sua scoperta, un terzo delle api israeliane hanno incorporato il virus nei propri geni, si sono per così dire autovaccinate: il 20% di quelle cui ha iniettato il virus sono sopravvissute, e da loro nascerà un ceppo immune. Anche parecchi virologi sono scettici. All'università di Uppsala, specializzata in ricerca agronomica, Joachim de Miranda trova premature le conclusioni di Diana CoxFoster e Jeff Pettis: «È la faccenda dell'uovo e della gallina» dice a Erik Stokstad di «Science», «negli apiari colpiti da Ccd, le api soffrono di un sacco di infezioni opportunistiche» e quella da Vipa potrebbe essere la conseguenza e non la causa del Ccd. Nemmeno Jerry Bromenshenk di Bee Alert, quello che vende gli antifurti contro orsi e umani, crede che l'untore sia il Vipa. Alcuni suoi collaboratori stanno lavorando sul Ccd al Centro di biologia chimica dell'esercito, nel Maryland. Anche lui collabora a ricerche per conto del dipartimento della difesa - attraverso la Defense Advance Research Projects Agency, Darpa, quella che aveva sviluppato Arpanet, poi diventato internet per i civili - su come usare api per localizzare le mine antiuomo. Negli esemplari che si sono procurati in California, Florida e Australia da colonie indenni da Ccd, dice Bromenshenk, hanno trovato una dozzina di virus «nuovi», Vipa compreso. Diana Cox-Foster e Jeff Pettis controbattono che nei loro campioni sani, provenienti sia dalla Pennsylvania sia dalle Hawaii, dove il Ccd non è stato segnalato, non c'erano né api australiane

né Vipa. Idem per quelle prelevate in Louisiana e in Pennsylvania e tenute in freezer dal 2004. Gli australiani fanno notare che il virus sarà anche stato importato con le loro api, ma queste alla partenza erano sanissime. Siccome da loro non c'è la Varroa, ritengono che l'untore sia proprio l'acaro, o semmai un altro virus di cui quello statunitense è portatore. Il Vipa è soltanto un «opportunista», tant'è che in Canada e in Israele, dove la Varroa è stata rintuzzata con una campagna a tappeto degli enti di sanità pubblica, il Ccd non si è verificato (in Usa, dal 2001, quegli stessi enti si son visti tagliare i finanziamenti). Pettis dà in parte ragione agli australiani: le api americane sono stressate dal precariato, dalla mobilità sui Tir, dalle cadenze infernali, e sono anche malnutrite perché gli apicoltori danno loro sciroppi scadenti, magari diluiti con acqua inquinata da fitofarmaci. Proprio come pensavano gli apicoltori polacchi all'inizio della crisi. Tutto ciò non sminuisce la ricerca di Cox-Foster e Pettis. Sono i primi ad ammettere che è stata condotta nell'emergenza, con un metodo per sequenziare il Dna dei patogeni (e l'Rna) più veloce che preciso, su un campione piccolo, e che il Vipa è saltato fuori perché era già stato ben descritto da Ilan Sela. La loro pubblicazione fa da battistrada ad altre ricerche, e infatti si aspettano critiche: mentre arrivano, e per essere certi che il Vipa è se non proprio la causa almeno una concausa del Ccd, loro ne infettano colonie «sane». In pochi giorni ci restano soltanto la regina, le larve e poche giovani operaie smagrite. Anche in questo caso, Cox-Foster e Pettis ammettono che nessuna colonia è perfettamente sana, nemmeno se creata di fresco a giugno con api regine fecondate in laboratori high-tech e dal genoma apparentemente privo di ospiti maligni. A fine novembre 2007, Judy Chen e Jay D. Evans, del Bee Research Laboratory al Dipartimento dell'agricoltura, pubblicano sull'«American Bee Journal» lo screening genetico di centinaia di api raccolte nel Maryland, in Pennsylvania,

in California, e in Israele tra il 2002 e il 2007: in quelle americane il Vipa era presente già nel 2002. È probabile che le api americane siano in parte autovaccinate, e Cox-Foster e Pettis siano capitati su colonie che non lo erano. Un'altra obiezione è sollevata dagli studi comparati di api americane d'origine europea e «africanizzate» che, in maggioranza, non soffrono di Ccd e non hanno il Vipa, almeno quelle poche decine analizzate di fino. Arrivo in California a metà ottobre mentre economisti, politici, entomologi e dirigenti dell'Almond Board, dibattono ancora del Vipa in prime lime. Peter Sinton, il presidente della San Francisco Beekeepers Association, mi ha invitata alla riunione mensile; prima però andiamo a trovare le sue arnie. Sono otto, riparate dietro il capannone per gli attrezzi dei giardinieri, accanto a un fontanile, nell'immenso Mountain Lake Park (lo chiamano spesso «il Presidio», perché un tempo c'era una guarnigione messicana). Metà del parco è in fase di ripristino, ma qui prati e boschi sono curati, fioriti come fosse giugno. Fa caldo sotto la giacca e la maschera protettiva prestate da Peter. Le indossa anche lui: «Non servono, ma se non dò io il buon esempio...». Nell'affumicatoio butta una manciata di foglie secche e scorze, il fumo profuma di pino. Le api si ritirano, meno qualcuna che ci ronza attorno. Con la mano guantata Peter spazza via piano le operaie dai telai, sostituisce quelli colmi di miele con altri vuoti. Poi ispeziona i favi di covata, e lo imito cercando una macchietta scura sulle larve bianche. Niente acaro, niente diarrea giallina sotto i davanzali, quelle api sono addirittura grasse, il ritratto della salute. «Ecco una regina.» Snella e pallida, se è infastidita dalla luce non lo dà a vedere, e né lei né le assistenti interrompono il lavoro. «Adesso che le conosci devi provare il loro miele» dice Peter. Si starebbe volentieri più a lungo nel parco sul lago. Capisco perché lui ci venga spesso. Peter è in pensione, abita con la moglie sulla collina, in una quartiere di villette con giardini alberati; la sua è l'ul-

tima casa della strada, ed è come stare in campagna. Non tiene più le arnie qui, «l'ho fatto per nove anni, rabbonivo i vicini con vasetti di miele, ma non è come avere dei canarini, bisogna avvisare la gente che rischia di farsi pungere». Gli altri soci «le tengono in giardino, sul terrazzo, sul balcone, nel vialetto d'accesso al garage, e qualcuna nei giardini pubblici». L'associazione ha quasi cinquant'anni e oggi conta 133 membri di San Francisco e della Bay Area: «Sono raddoppiati da quando c'è stata la prima crisi due anni fa,» dice Peter «qui gli ambientalisti sono molti, hanno voglia di dare una mano alle api». E lui come ha cominciato? «Per caso, una quindicina di anni fa. Un tizio aveva chiesto a mia zia il permesso di metterle in giardino un paio d'arnie, perché non anche nel mio? Me le ha portate, ma dopo un po' aveva troppi impegni, non se ne occupava più, e le ho ereditate...» Problemi? «Io no, ma in California, tanti. Per i pesticidi, dai tempi di Rachel Carson le cose non sono migliorate, il riscaldamento globale, e manca la varietà genetica. Le api sono talmente simili che se succede qualcosa soccombono tutte, e non ne abbiamo di ripiego.» E quelle africanizzate? «Non me ne parlare! Sono già arrivate nel sud dello stato, a Los Angeles, Phoenix e San Diego. Speriamo che si fermino lì o per noi apicoltori urbani sarà la fine. Troppo pericolose, attaccano senza esser provocate. Le mie, le hai viste, no? non si comporterebbero mai così, non schizzano via in ogni direzione quando tiro fuori un telaio, sono buonissime. Quelle possono ammazzare un uomo, è già successo.» Credevo fosse una leggenda metropolitana, invece no. Nell'agosto 2004, Johnny Darden voleva rimuovere un alveare in costruzione sotto un davanzale, al secondo piano di una palazzina di East Midway Street, a Big Spring, nel Texas. Non era la prima volta che gli capitava; 48 anni, grande e grosso e texano, non era una piccola colonia a fargli paura. Questa non s'è arresa: duecento guerriere l'hanno punto ed è morto poco dopo l'arrivo in ospedale. Alla sera il Texas Bee Identification Laboratory ha lanciato l'allarme, e l'indomani al-

l'alba la troupe di una televisione locale è riuscita a filmare le africane inferocite dalla sua presenza, appena prima che venissero gassate da un gruppo di esperti. «Per andare sul sicuro» dice Peter «molti membri del nostro club comprano ogni due o tre anni un package completo da un allevatore. Una confezione da un chilo e mezzo, una colonia compresa la regina, te la mandano per posta. Raggruppiamo gli acquisti, ordiniamo venti o trenta colonie e uno di noi le va a ritirare.» E quali api scegliete? «Italiane, ligustiche, carniole; o jugoslave... ma è una dicitura di comodo, ormai non hanno più niente di quelle originali.» Solo nella Central Valley gli allevatori sono una mezza dozzina e Peter non vuol fare pubblicità a nessuno. Però si fida «di Randy Oliver, onesto e competente, scrive per l'"American Bee Journal". Seguo i suoi consigli e mi son sempre trovato bene. Tiene cinquecento arnie da nolo, non di più, è un numero gestibile. Lui poi riassume le nuove ricerche in un linguaggio che tutti possono capire, e saggia i nuovi prodotti senza peli sulla lingua. Se fossi in te, segnalerei il suo blog ai tuoi amici italiani, soprattutto se hanno problemi di Varroa». Subito: http://randyoliver.com. Quella sera, nell'aula della scuola con vista sulla Baia, i soci sono una trentina. Se non fossero tutti bianchi, sarebbero un campione rappresentativo della popolazione locale: studenti e pensionati, avvocati e artisti, gay e lesbiche, intellettuali e businessman. Hanno portato le bibite, e Peter i biscotti. Mi ha avvisata: «Sono un po' strani». Strani? «Sì, chiamano le api "my girls", e a volte parlano con loro. Io no, anche se dicono che così rendono di più, non m'interessa, mi piace osservarle, curarle, ma non troppo, non voglio torturarle. Metti che ho un'arnia con sessantamila api, per nutrirsi hanno bisogno di cinquanta chili di miele, e ne raccolgo altrettanto, sui quattrocento chili all'anno. Ma se ne ricavo duecento per me fa lo stesso, anzi è tantissimo! Una colonia costa cinquanta dollari, se ne vendo dieci chili mi son rifatto della spesa». Glielo comprano gli amici, o

lo regala. Ebreo, «non molto praticante», si è stampato delle etichette a colori, con un'ape che incombe sui rotoli della Torah e la scritta Hapbce Honeykah che si pronuncia quasi come Happy Hanukkah, felice festa della Dedica. A mesi alterni, l'Associazione invita un esperto a tenere una conferenza, oggi la discussione è libera. A turno i soci fanno il punto sulle proprie arnie, si scambiano cataloghi e consigli. Su come combattere la Varroa, innanzitutto, e quali integratori proteici dare adesso che viene l'inverno. Naturali o di sintesi? Qualcuno ha provato il tuorlo d'uovo in polvere (contiene vitellogenina, una proteina importante della pappa reale)? E i sali minerali servono contro la diarrea da Nosema? M'intrometto. Casi di Ccd? No, nessuno. «Per forza, non le teniamo per soldi, le trattiamo bene, le lasciamo vivere al loro ritmo» dice Christiane Buchet, la signora francese che mi siede accanto. Una studentessa ha perso due colonie l'anno scorso, erano le prime, c'è rimasta male, voleva abbandonare, adesso ne ha due nuove che sono ok. «Si sta laureando con Eric Mussen» mi sussurra Peter. Ah, però! Dal 1976 Mussen è responsabile dell'Extension Apiculturists all'università della California, a Davis, uno dei pochissimi a conoscere le api, dalle proteine di membrana alle interazioni con l'ambiente; nel gennaio 2007 ha ricevuto il premio dell'American Association of Professional Apiculturists, e pochi mesi dopo è stato nominato Apicoltore dell'anno dalla California Association. L'ho incrociato a una conferenza. Per il Ccd, la diagnosi di Mussen è: «Stress». Da che cosa? «Da malnutrizione, quindi con suscettibilità accresciuta ad acari e microbi vari, a contaminazione da insetticidi, agli sballottamenti sui camion. Mi sa che non troveremo una causa specifica, diversa da tutte le altre, per la moria attuale.» Ma il nuovo virus? Alza le spalle. «Uno come tanti, in una crisi come tante da un secolo e mezzo. Questa volta i media hanno creato il caso, il calo dovuto al Ccd sarà del 25% e si ricupererà in un anno o due, vedrà. Una brutta faccenda, ma una tragedia na-

zionale? Andiamo...» Per malnutrizione intende gli sciroppi industriali? «No, intendo la scarsità e la cattiva qualità del nettare in agosto-settembre, le fioriture bruciate dalla siccità, i pollini impoveriti.» Senza il normale contenuto di proteine, vitamine, sali minerali e lipidi, la pappa prodotta dalle api per nutrire le larve è impoverita anch'essa, «e a primavera le nuove generazioni sono tutte anemiche». E dei neonicotinoidi, cosa pensa? «Quelli sono molto interessanti.» L'aggettivo è insolito. «A dosi microscopiche accelerano l'apprendimento, a dosi superiori le api non perdono la memoria, non superano più i nostri test perché sono come ubriache. Quei pesticidi saranno uno dei cofattori. Povere creature, fanno una vita d'inferno tra lo sfruttamento al quale sono sottoposte e le trasformazioni dell'ambiente.» In queste include il riscaldamento globale? Certo, «ma se fossero lasciate in pace, si adatterebbero meglio di noi». A proposito. Nel capitolo precedente Giancarlo Nardi, il presidente dell'Osservatorio nazionale sul miele, attribuiva la moria delle api italiane all'inverno mite, all'afa iniziata a marzo e quindi al global warming, sebbene quei due fatti riguardassero il meteo, il tempo che fa qui e ora. Il riscaldamento globale invece riguarda un cambiamento nel sistema planetario del clima a medio e lungo termine. Da decenni, noi giornalisti proviamo a spiegare la differenza, in vano. In nome della categoria faccio un altro tentativo.

X Problemi con il termostato

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Nel 2007 la disciplina più presente nella cronaca politica, economica e religiosa, senz'aver fatto scoperte clamorose, è stata la climatologia. Le altre ne sbandieravano ogni giorno, di scoperte, per attirare l'attenzione: dal pianeta simil-terra trovato attorno a una stella neppure tanto lontana, all'afnio che riduce di un terzo la dimensione dei chip, da femmine di scimpanzé che cacciano la selvaggina con una lancia ricavata da un ramo (arma e attività fino a quel momento ritenute maschili), a Neanderthal con la pelle chiara, i capelli rossi e forse la parola, a cellule staminali pluripotenti come fossero ottenute da un embrione però senza usare embrioni... C'era di che stupirsi e dibattere a lungo. Non ce n'è stato il tempo, perché da febbraio a dicembre è uscito a puntate il quarto rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), creato nel 1988 dall'Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma per l'ambiente, due agenzie delle Nazioni Unite. Il feuilleton, oltre a pronosticare la fine che faremo se non la smettiamo subito di

buttare biossido di carbonio o anidride carbonica, faccia mo C02, in atmosfera, festeggiava il compleanno della curva di Keeling, che ha compiuto cinquant'anni. L'idea che certi gas producano un effetto serra risale a metà Ottocento. Dalla fine dello stesso secolo data invece l'idea che un pizzico di C02 in atmosfera ci renda abitabile

questo mondo, perché se l'aria fosse fatta soltanto di azoto al 78%, ossigeno al 20,95%, argon allo 0,93%, un 1% circa di vapore acqueo e tracce minime di altri gas, congeleremmo a 16° sotto zero di media annua. L'idea che sarebbe stato interessante scoprire se e quanto variassero le proporzioni della miscela è invece del 1954. A Stoccolma si teneva una conferenza in cui i chimici facevano il punto sull'abbondanza in atmosfera di azoto e C02, entrambi importanti per la resa delle coltivazioni e quindi per la sicurezza alimentare. Se ne sapeva troppo poco (ovviamente), servivano delle stazioni in tutto il mondo per misurarne quantità e variazioni. Visto che la concentrazione di CO2 poteva influire sulla temperatura e sul clima, tan-

to valeva partire da quello. E nei paesi scandinavi vennero installate una quindicina di stazioni di monitoraggio. Purtroppo, le misure variavano di giorno in giorno e da una località all'altra, e sarebbero state inutilizzabili finché non si fosse saputo rispetto a quale quantità media variavano. Nel frattempo, al California Institute of Technology, Charles D. Keeling terminava il dottorato in geochimica e - da ricercatore a contratto che voleva stare all'aria aperta, in mare, scendere per tumultuose rapide o arrampicarsi su scoscesi ghiacciai, insomma tutto meno che star rinchiuso in un laboratorio - inventava uno strumento di misura più sensibile di quelli svedesi, e il metodo per analizzarne i risultati. Piantata la tenda nel Big Sur - il tratto di costa selvaggia alle pendici dei monti Santa Lucia dove in quegli anni Henry Miller scriveva Big Sur and the Oranges of Hieronymus Bosch - lo collaudò, e trovò che la C02 era aumentata di un quarto rispetto ai calcoli eseguiti sessant'an-

ni prima. Con lo strumento e il metodo giusto sono bravi tutti a misurare qualcosa, non è il genere di prodezza che procura molte offerte di lavoro. Nel 1956 il precario Keeling cercò fondi presso il dipartimento dell'Agricoltura e presso l'agenzia incaricata di limitare lo smog di Los Angeles, ma nessuno riteneva utile quel «livello base» che gli premeva accertare. Pensò quindi di dedicarsi alla carriera di pianista classico. All'università della California però, la Scripps Institution for Oceanography era diretta da Roger Revelle (1905-1991), il fondatore insieme a Hans Suess degli studi sul global wanning, detto «il gigante» sia per la statura scientifica sia per i due metri e passa di altezza. Revelle aveva lanciato l'Anno internazionale della geofisica 1957-1958 e trovato finanziamenti per verificare una propria ipotesi: la C02 prodotta dall'attività industriale poteva modificare i parametri del clima se restava tutta in atmosfera, ma quanto ne assorbiva la vegetazione, di preciso, e quanto gli oceani, che coprono i due terzi della superficie terrestre? Revelle assunse Keeling e lo aiutò a procurarsi il denaro per comprare strumenti sofisticati, degli spettrofotometri fatti in Germania, e a installarli al polo Sud e a Mauna Loa, un'isola delle Hawaii, a tremila metri sopra il livello del mare. Lassù, combinazione, era stato appena inaugurato un osservatorio meteorologico. Nel novembre 1958 i primi diciotto mesi di analisi antartiche mostravano già che il livello di C02 diminuiva da giu-

gno a ottobre, ma che il totale annuo aumentava. Purtroppo l'Anno internazionale della geofisica giungeva a termine, e i soldi pure. Da quel momento Keeling avrebbe dovuto elemosinarli, restando spesso senza. Nel 1963 il Congresso tagliò il budget per la ricerca e la National Science Foundation - l'equivalente del Cnr in plurimiliardario - avvertì Keeling che la sua ricerca ormai era un «monitoraggio di routine», non si desse la pena di presentare nuovi progetti e richieste di denaro... Paradossalmente - basandosi su una curva di Keeling

di soli quattro anni in cui la C02 cala ogni maggio un filino in meno e risale ogni ottobre un filino in più - la stessa National Science Foundation aveva appena consegnato al governo e all'Accademia delle scienze un rapporto in cui prevedeva, se la tendenza non si fosse invertita, un «rischio di riscaldamento globale». L'anno dopo, il Comitato per la consulenza scientifica del presidente Johnson riprese in considerazione l'ipotesi e, con soddisfazione di Revelle, che mal tollerava di veder vanificati i propri sforzi, la National Science Foundation rifinanziò Keeling, pur soltanto per la serie hawaiana. Interrotta solamente pochi mesi fra il 1963 e il 1964 - s'era guastato uno dei preziosi spettrofotometri, e non c'era un tecnico né soldi per comprare pezzi di ricambio... - la curva di Keeling è la serie di dati più lunga, completa, inattaccabile della climatologia. Nel frattempo si sono inventati decine di modi per ricavare dati a terra e nello spazio da centinaia di fonti, ma restano buchi, imprecisioni, contraddizioni, e i grafici vanno interpretati da esperti. La curva di Keeling invece è semplice e schietta. Dice che, per ogni milione di molecole dell'aria (ppm, parti per milione), nel marzo 1958 ce n'erano 316 di C02, e cinquantanni dopo 384. Sul finire degli anni Sessanta, Keeling stabilì che la diminuzione estiva era dovuta al fatto che nell'emisfero Nord - la più vasta estensione di terre emerse - la vegetazione cresce e assorbe carbonio. Negli anni Settanta, fu possibile distinguere l'influenza sul ciclo annuo del Nino e della Niha - l'oscillazione termica della corrente del Pacifico meridionale che porta alternativamente in superficie acqua calda o fredda dall'America Latina al corridoio tra Asia e Australia. Dal 1991, si è calcolato l'apporto calorico delle eruzioni vulcaniche come quelle del Pinatubo, nonostante le loro polveri oscurino il cielo e riflettano verso lo spazio la radiazione solare; e, tra tante altre cose, si è misurata la quota di co2 da combustione dei carburanti fossili che la biosfera non riesce più a riassorbire.

La curva di Keeling è unica perché «il monitoraggio è la Cenerentola della scienza, mal amata, mal pagata» scriveva su «Nature» del 6 dicembre 2007 Euan Nisbet, un fisico dell'atmosfera all'università di Londra. «Mantenere un programma a lunga scadenza che richiede notevoli capacità analitiche è tuttora un problema. Gli enti finanziatori sono sedotti da un concetto "puro" della ricerca fondamentale oppure dai "mulini satanici" delle ricadute commerciali. Nessuna di queste motivazioni favorisce il "noioso" monitoraggio perché i suoi esigenti criteri di analisi non sono ritenuti un investimento redditizio. A un certo punto, venne ordinato a Keeling di garantire due scoperte all'anno...» Con il senno di poi - e di quattro rapporti dell'Ipcc - la precarietà di quella curva sembra assurda. Eppure il «caso Keeling» è uno fra tanti, e nei corsi di storia della scienza serve a illustrare i legami - che determinano se una ricerca si farà o meno - tra scienziati, politici, militari (la US Navy, per esempio, aveva pagato le infrastrutture dell'osservatorio di Mauna Loa), e tra soldi, potere, ideologia; tra pressioni e rivalità internazionali e locali, tra ambizioni private e pubbliche virtù. Altro che razionalità scientifica. Nel 2007 i climatologi sono stati presi sul serio. Conferenze mondiali con migliaia di delegati e giornalisti (e tonnellate di C02 e di ossido d'azoto emesse dai loro viaggi aerei, a quando le videoconferenze?); un primo ministro australiano che firma il protocollo di Kyoto sebbene il suo paese esporti carbone; altre nazioni che intendono render obbligatori tagli dal 30 al 60% alle emissioni di gas serra nel giro di dieci o quindici anni; addirittura il premio Nobel per la pace all'Ipcc e Al Gore. Oh, finalmente! Quindici anni prima, per decidere come salvare il pianeta, c'era stata la conferenza di Rio de Janeiro, seguita poi da centinaia di conferenze sul clima, le risorse idriche, la de sertificazione, l'acidificazione degli oceani (per colpa della C02), l'erosione della biodiversità o dei ghiacciai... Come sempre, la conferenza di Bali, nel dicembre 2007,

ha rinviato le scelte dolorose a più tardi. Nonostante tutto, è stata accompagnata da dissensi e fischi. Da un lato della cacofonia, la minoranza ambientalista che denunciava un calar di brache, impegni vaghi reiterati a ogni vertice e ignorati una volta tornati a casa. Dall'altro gli scettici. Tanto rumore per nulla, sono cinquant'anni che la lobby del global xvarming vuol farci portare la Mercedes dallo sfasciacarrozze e pedalare. Eh no, così si realizza la Favola di Mandeville e crolla l'economia, mentre soltanto una crescita del Pil, e quindi dei consumi d'energia, consente di avere abbastanza da spendere per l'ambiente. Il quarto rapporto dell'Ipcc dice che si tratta di rallentare quella crescita per meno di una generazione, nel periodo di transizione verso fonti di energia alternative? Ma quella del paradiso in fondo alla valle di lacrime, o del povero che passa dalla cruna dell'ago mentre il ricco ci resta incastrato come un cammello, o del Sol dell'avvenire che s'alza radioso dopo i sacrifici compiuti per la rivoluzione, l'abbiamo già sentita. Non siamo mai stati le api di Maeterlinck che lasciano l'alveare pieno alla generazione successiva, assicurandone il futuro con «abnegazione eroica». Perché mai le previsioni dell'Ipcc dovrebbero convincerci a cambiare atteggiamento? Almeno fossero affidabili... Gli scettici infatti le ritengono truccate, per suonare più «catastrofiste». Il 2 febbraio 2007, quando esce la sintesi del quarto rapporto, la criticano con gli stessi argomenti di alcuni petrolieri. Stranamente, non criticano previsioni molto simili pubblicate il mese prima dalle grandi compagnie di riassicurazione, Munich Re, Swiss Re, Lloyds di Londra, la cui solidità finanziaria viene erosa dalla frequenza di alluvioni, incendi, uragani, tifoni, eventi che tutte e tre le società collegano al riscaldamento globale. Senza notare quanto le reazioni al rapporto siano diverse nei vari settori dell'economia, o all'interno di uno stesso settore, l'amministrazione Bush e gli scettici avanzano soprattutto argomenti economici. Eppure i settori industriali

che sviluppano energie sostenibili, sistemi per abbassare le emissioni, automobili ibride, si rallegrano; e si compiacciono addirittura alcune industrie vecchie. Tre esempi. Quel 2 febbraio, a noi giornalisti arrivano tre comunicati stampa. Dalla Dupont - multinazionale della chimica i cui prodotti derivati dal petrolio, per esempio la vitamina C, sono più redditizi dei carburanti - la dichiarazione della vicepresidente Linda Fisher che «ribadisce l'impegno dell'azienda, preso nel 1990, a diminuire le emissioni di gas serra, già ridotte del 70% a fine 2006 ... con un risparmio di tre miliardi di dollari». La cifra sembra stratosferica però risulta dai bilanci, consultabili sul sito web della multinazionale. La B.P. - sigla di British Petroleum che nelle pubblicità è tradotta nello slogan «Beyond Petroleum», oltre il petrolio - annuncia il versamento di 500 milioni di dollari al Lawrence Berkeley National Laboratory, gestito dall'università della California, per la ricerca sulle energie alternative. Forse perché B.P. ha dovuto rivedere al ribasso le proprie riserve dichiarate di petrolio, e provvedere a una costosa manutenzione di una pipeline che, in Alaska, affonda nel permafrost - cioè il suolo in teoria permanentemente ghiacciato, in pratica non più. L'ultimo esempio riguarda la più grande delle sette sorelle petrolifere: la ExxonMobil, che manda l'invito a una festa, a Londra, in cui verrà presentata una rassegna degli errori dell'Ipcc, preparata da una fondazione canadese finanziata da... ExxonMobil. La quale finanzia pure l'American Enterprise Institute, un think-tank di Washington diretto dalla moglie di Dick Cheney. Il vicepresidente degli Stati Uniti - serve ricordarlo? - in pieno scandalo Enron «subappaltava la politica energetica americana ai suoi amici del settore, e poi si batteva come un demonio per mantenere il segreto sull'intera faccenda» (citazione non dal «Manifesto», ma dall'«Economist», 19 gennaio 2008). Due settimane prima che uscisse il sunto del rapporto Ipcc, l'American Enterprise Institute aveva mandato a quattro-

cento scienziati ed economisti una lettera in cui offriva diecimila dollari, più rimborso delle spese di trasferta, per un articolo che enfatizzasse i difetti (sic: emphasize the shortcomings) del rapporto. ExxonMobil sta alle emissioni di C02 come la Monsanto alle colture di Ogm. Per qualcuno guida la coalizione delle forze del bene contro gli ecoterroristi; per altri, è la manipolatrice occulta che dai tempi delle riunioni preliminari al protocollo di Kyoto paga i sabotatori di ogni accordo. Ma è così poco occulta da farsi cogliere ripetutamente con le bustarelle, già intestate, in mano. Primo destinatario il presidente, oggi emerito, del George Marshall Institute di Washington: il fisico Frederick Steitz, «nonno degli scettici del global warming», scriveva il settimanale «Business Week» nel giugno 2000. Ex dirigente e azionista di una società che gestisce centrali a carbone, ex presidente della National Academy of Sciences, nel 1998 confezionò un rapporto che dall'aspetto pareva un articolo uscito sui «Proceedings of the National Academy of Sciences». Accompagnava una petizione che si diceva già firmata da quindicimila scienziati, in cui Steitz scriveva: «Gli Stati Uniti sono vicinissimi all'adozione di un accordo internazionale che razionerebbe l'uso dell'energia e delle tecnologie che dipendono dal carbone, dal petrolio, da gas naturale e da altri composti organici. Quel trattato, a nostro parere, si basa su idee fallaci. I dati della ricerca sul cambiamento climatico non mostrano che l'uso umano di idrocarburi sia dannoso. Al contrario, ci sono solide prove che un aumento della C02 atmosferica sia d'aiuto all'ambiente». L'Accademia prese le distanze e denunciò la frode. Avrebbe dovuto farlo prima. Dal 1978 al 1989 Frederick Steitz aveva diretto ufficialmente di persona - e poi attraverso intermediari - la ricerca, cosiddetta, della R.J. Reynolds Tobacco, distribuendo quarantacinque milioni di dollari a laboratori disposti a inventare esperimenti e risultati che

gettassero dubbi sul legame, già dimostrato in Germania negli anni Trenta, tra fumo e cancro al polmone. Negli anni Settanta, Steitz figurava in primo piano nella pubblicità «More doctors smoke Camels than any other cigarette!», non l'unica a puntare sull'autorevolezza dei camici bianchi, ma forse la più cinica. Nei primi anni Novanta, i tribunali rendevano via via accessibili al pubblico i documenti che implicavano Steitz nei falsi di Big Tobacco (disponibili su www.tobaccodocuments.org), quindi il suo passaggio al Marshall fu discreto. L'istituto, un ente non a scopo di lucro, era stato fondato nel 1984 con la missione di sostenere, e propagare nel Congresso e nel governo, la scienza che porta a «interventi politici migliori», per esempio a scudi spaziali, nuovi armamenti nucleari o, di recente, misure contro il bioterrorismo, ed era sovvenzionato dal complesso militar-industriale. Le battaglie di Steitz a favore delle emissioni di C02 lo hanno reso famoso, forse più di quanto volessero le multinazionali che le pagavano. Resero famosi anche i ricercatori, in buona o mala fede, che ne erano beneficiati. Ma i loro conflitti d'interesse ne sminuivano la credibilità. A questo punto, alcune società fecero un proprio esperimento per verificare se conveniva di più adeguarsi al protocollo di Kyoto, magari sfruttandone gli incentivi economici, o pagare risultati inquinati alla fonte. Nel 1997 B.P. smise di versare la propria quota al Marshall e spese invece 20 milioni di dollari in tecnologie per limitare la dispersione di C02 nell'ambiente. Nel 2000 le sue emissioni erano calate del 18% e le sue spese per l'energia di 650 milioni di dollari. B.P. non venne imitata dalla ExxonMobil che sta alla C02

come la R.J. Reynolds Tobacco alle sigarette - secondo la Union of Concerned Scientists (Ucs) americana, nota soprattutto per la lotta contro la proliferazione degli armamenti nucleari. Nel dicembre 2006 l'Ucs pubblica Smoke, Mirrors and Hot Air (Fumo, gioco di specchi e aria fritta), un'inchiesta sui circa 16 milioni di dollari versati tra il 1998 e il

2005 da ExxonMobil a fondazioni e agenzie di pubbliche relazioni per «incrementare l'incertezza» sugli effetti delle emissioni antropiche di gas serra. A sorpresa, i protagonisti sono gli stessi che negli anni Novanta avevano ideato la campagna che negava, perché non suffragati da «scienza valida», i rischi del fumo passivo. L'indagine dell'Union of Concerned Scientists è disponibile sul loro sito: ExxonMobil non l'ha smentita, ritiene che disinformare sia un modo legittimo di difendere i guadagni dei propri azionisti, tra cui parecchie società finanziarie che gestiscono fondi pensioni (chissà che non difenda anche la pensione di qualche lettore). Non sembra però legittimo alla Royal Society. Il 4 settembre 2006 Bob Ward, direttore per la comunicazione con il pubblico, scrive a Nick Thomas, direttore delle Corporate Affairs della Exxon. Ringrazia «dear Nick» per avergli mandato due brochure aziendali, ma esprime «la propria delusione» per la loro «visione inesatta e fuorviante» delle ricerche sui cambiamenti climatici. Ne cita alcune frasi e acclude una rivista scientifica, affinché dear Nick constati di persona quanto gli articoli siano stati travisati. Infine gli chiede quando pensa di mantenere l'impegno, preso in luglio, di non sovvenzionare più organizzazioni che disinformano il pubblico sui lavori di scienziati, alcuni dei quali appartenenti alla Royal Society. «La Royal Society ha cercato di forzare la Exxon a non finanziare gli anticatastrofisti ... Che incredibile censura» denuncia l'avvocato Alessandro De Nicola, membro del co mitato scientifico di Confindustria, sul «Sole-24 Ore» del 5 novembre 2006, «il boicottaggio di chi dissente da una serie di postulati "politicamente corretti" ... è un fenomeno sempre più diffuso in Occidente.» Anche per De Nicola disinformare è legittimo, e la Royal Society non si azzardi a difendere i lavori dei propri membri. Nel 2006 ExxonMobil ha dichiarato profitti per 38 miliardi di dollari: 16 milioni in sette anni per la disinformazione

sul clima erano noccioline al confronto, diceva in dicembre il suo presidente, Lee Raymond, che pochi giorni dopo andava in pensione con una buonuscita di 400 milioni. Antonio Navarra, fisico dell'atmosfera e direttore dello Europe Mediterranean Centre for Climate Change di Bologna, ritiene «un vero peccato sprecare noccioline per ottenere più incertezza, quella che c'è già basta e avanza!». Oltre alle misure contraddittorie e alle serie temporali incomplete, ci sono ipotesi da verificare. Modifichiamo il clima dalla rivoluzione industriale in poi, sostiene Paul Crutzen, Nobel 1995 per la chimica, che chiama i tempi moderni 1'«Antropocene»; ma per William Ruddiman, un geologo marino americano, quell'era è iniziata ottomila anni fa con l'anidride carbonica salita dalle foreste incendiate in Eurasia per far posto all'agricoltura, e con l'aggiunta del metano rilasciato dalle risaie - quando s'è scoperto, tremila anni dopo, che rendevano di più se venivano allagate. Da due millenni, gli occasionali cali della temperatura e della C02 sono stati causati dalle pandemie in Europa, nel Medioriente e in America, scrive Ruddiman in Plows, Plagues and Petroleum; per esempio coincidono con ondate di peste sotto Giustiniano, e nel Trecento. La tesi di Ruddiman è contestata perché ci sono state brusche oscillazioni del clima anche prima di noi - la successione maestosa delle ere glaciali e temperate, a guardare più da vicino, s'è rivelata un'illusione prospettica - e soltanto ora si comincia a decifrarne le cause. Valter Maggi, dell'uni versità di Milano-Bicocca, è il responsabile italiano di Epica, la ricerca europea che ha estratto dall'Antartide l'omonima carota di ghiaccio in cui sta leggendo le variazioni climatiche da ottocentomila anni in qua. «Purtroppo proviene da una zona dove è nevicato troppo poco» dice. Investirebbe volentieri le noccioline dell'ExxonMobil in un'esplorazione per trovare il posto delle «buone precipitazioni». Quelle che, strato su strato di neve compressa, producono la carota ideale nonché, chiuse nel suo ghiaccio, le bollicine d'aria

in cui analizzare gas, polveri, microbi, frammenti d'alga e leggere come in un registro le variazioni stagione per stagione: una saga ininterrotta e dalla risoluzione talmente fine da renderla paragonabile, se non proprio alla curva di Keeling, ad altre serie di misure accumulate dall'Ottocento in poi. Servirebbe pure l'equivalente dell'Epica carota per svelare la temperatura passata degli oceani. Capire se ogni tanto rilasciano milioni di tonnellate di metano in atmosfera. Accertare se la corrente del Golfo è solita fermarsi e se ciò importa. Nadia Pinardi, che dall'università di Bologna coordina alcune ricerche europee, la giudica poco influente rispetto all'insieme delle correnti della «circolazione termoalina», la cinghia di trasmissione planetaria che tempera il clima. Una volta proiettati nel passato o nel futuro, i modelli, di cui i rapporti dell'Ipcc sono la somma, fanno previsioni divergenti. Su un punto però concordano. «Le cause antropogeniche spiegano il comportamento globale del clima anche in nuovi modelli difficili da criticare perché, diversamente da quelli dinamici, non c'è bisogno di "aggiustarne" i parametri» dice Antonello Pasini del Cnr. Uno dei modelli è suo, e dovrebbe esser contento così. Invece no, anche a lui 16 milioni farebbero comodo (ogni tanto provava a guadagnarne una frazione partecipando a quiz televisivi, ma non lo invitano più, è troppo bravo) perché sul versante del futuro le previsioni disegnano più un ven taglio che una forchetta. «Mancano ancora una giusta parametrizzazione delle nubi e il "peso" da attribuire agli aerosol.» Già, gli aerosol: quanto raffreddavano l'aria le polveri eruttate da vulcani o strappate al suolo e al mare dai venti, prima che si aggiungessero i nostri inquinanti? Per Antonio Navarra «è un dettaglio, il quadro globale ce l'abbiamo. Per giustificare l'aumento della temperatura negli ultimi trent'anni avrebbe dovuto esserci un'eruzione a catena di tutti i vulcani del mondo. L'incertezza di fondo è un'altra: gli standard statistici usuali nella comu-

nità scientifica non riescono a stabilire se quell'aumento è abnorme. Danno per buona una probabilità del 95%, ma è una convenzione». Il pianeta ha conosciuto parecchi sbalzi di temperatura abnormi. 15 mila anni fa, per esempio, finiva un'era glaciale ma nel giro di un secolo le temperature dell'emisfero Nord tornarono quasi glaciali, e lo rimasero per un millennio: fu il periodo Dryas recente, chiamato così per la Dryas octopetala, o camedrio alpino, un fiorellino bianco che cresce nel circolo artico e, qui, in alta montagna. Poi, circa 11.500 anni fa, le temperature si riscaldarono velocemente, e in certi posti aumentarono addirittura di 20° C in un decennio. Negli ultimi due millenni la temperatura media globale era rimasta stabile, nel senso che le variazioni locali si annullavano a vicenda. In cento anni è aumentata di 0,6° C. Niente di drammatico. Sennonché, fino alla rivoluzione industriale, anche la concentrazione di gas serra in atmosfera era rimasta stabile. Dal 1750, invece, quella di C02 è aumentata del 35%, e dal 1985 ne aggiungiamo dai 22 ai 25 miliardi di tonnellate all'anno, tre quarti da combustibili fossili e uno da deforestazione. Siamo in tanti, viviamo a lungo e in un agio - anche nel più misero paese del Terzo Mondo - inimmaginabile per i nostri antenati del Dryas recente. Abbiamo desideri e progetti che per realizzarsi dipendono da fonti energetiche, da una relativa stabilità dei ghiacciai, del livello del mare, del ciclo delle stagioni, dei monsoni. Se la primavera è anticipata e non coincide con il ciclo vitale delle nostre api, ci andiamo di mezzo anche noi. May Berenbaum citava il pronostico per cui, dato il declino costante del «parco api» negli ultimi 30 anni, nel 2035 l'apicoltura americana avrà finito di esistere. Più o meno il tempo che ci resta per evitare un «cambiamento climatico abrupto», secondo gli esperti dell'Ipcc. Ma quanto sono affidabili questi pronostici?

Nei giorni in cui il Senato americano ascoltava testimonianze sul Ccd, usciva Ari Inconvenient Truth di Al Gore Jr, in parte documentario, in parte presentazione in power point, in parte appello alla rivolta contro le posizioni del governo Bush. Per gli anticatastrofisti, quel video era la prova del complotto tra scienziati corrotti, ecoterroristi e politici di sinistra contro il capitalismo e l'America, descritto da Michael Crichton in Stato di paura. Sebbene già nel 1992, prima di diventare vicepresidente, avesse ribadito la propria posizione ambientalista nel prologo a una ristampa speciale per i quarant'anni dalla prima edizione di Primavera silenziosa di Rachel Carson, Gore Jr era diventato la serpe che all'improvviso morde il seno in cui è stata allevata. Il blog dell'Oca non riceve molti commenti, a meno di non segnalare qualcosa che riguardi il riscaldamento globale. Nel giugno 2007 dico che sul numero di luglio-agosto di «American Scientist» uscirà un articolo di Philip Mote e Georg Kaser sul Kibo, il grande ghiacciaio del Kilimangiaro. Il cambiamento climatico c'entra poco, scrivono i due, e soltanto per vie indirette. Dagli anni Cinquanta si sa che i ghiacciai tra i tropici «sublimano» - cioè evaporano, invece di sciogliersi e ruscellare a valle come gli altri - per via della radiazione solare, ma sono le precipitazioni a mo dificarli. Negli ultimi vent'anni però la loro sublimazione non coincide con l'impennata delle temperature, al contrario di quanto succede altrove. Le nevi perenni ammirate dagli esploratori della regina Vittoria erano eccezionali, e probabilmente dovute a un periodo di piogge abbondanti. Al Gore Jr - dice la redazione del bimestrale - non avrebbe dovuto usare come simbolo il Kilimangiaro, anche se le foto «prima e dopo la cura» sono impressionanti: è smagrito del 90% in un secolo. Il Kibo, intendo - non Al Gore Jr. Tutti gli americani hanno sentito almeno nominare il racconto di Hemingway. Gli effetti peggiori del riscaldamento globale si faranno sentire in Africa. An Inconvenient Truth

è un manifesto politico, e io trovo le nevi del Kilimangiaro un buon promemoria. Se Gore avesse preso a simbolo un ghiacciaio statunitense che si restringe a pelle di zigrino, per esempio il Muir dell'Alaska citato proprio da Mote e Kaser quale esempio di scioglimento accelerato, gli avrebbero dato dell'allarmista. Arriva subito un lunghissimo commento di Andrea che riprende molti degli argomenti anticatastrofisti. Estratto del dialogo: Andrea: Sig.ra Coyaud, quello che mi ha sempre stupito è che a fronte della correlazione istantanea che molti fanno tra Exxon (e simili) e il suo interesse nel dibattito sul riscaldamento climatico, vi è come un bloccaggio a studiare quello che si potrebbe chiamare «l'economia degli ambienti scientifici», e gli interessi che muovono Ipcc e altre organizzazioni simili. Ci vuol poco a capire che Exxon pretende (giustamente) un'analisi approfondita di qualsiasi tesi che concluda con la necessità di ridurre le emissioni di co2, pena la catastrofe planetaria. Siamo però sicuri che nessuno guadagni dall'allarmismo sul clima, e dall'attribuzione alle attività umane (e quindi ipotetica reversibilità) degli indubbi mutamenti climatici? L'Oca: Guardi Andrea, un conto è finanziare ricerche, un altro sponsorizzare «campagne per screditare le ricerche e incrementare l'incertezza sul clima» come stipulato tra la Exxon ed ex lobbysti del tabacco. Fare disinformazione è sempre sbagliato. Le campagne della Exxon hanno tolto credibilità agli scienziati in buona fede che facevano le pulci ai dati dei colleghi, e ora l'opinione pubblica li sospetta di essere prezzolati. È ingiusto, e ci rimettiamo tutti: gli scettici onesti sono indispensabili alla conoscenza, scientifica o meno. Andrea: Osserverei in primo luogo che il mondo scientifico è lungi dall'essere unanime sulla vulgata popolarizzata dal latifondista del tabacco Mr. Gore. L'Oca: Non è mai unanime, qualunque sia il tema. An-

drea, lei dev'esser giovane... Il padre di Al Gore era un famoso uomo politico, aveva una fattoria nel Tennessee, allevava mucche, coltivava tabacco, come tutti. Non Al Gore figlio. Quando è tornato dal Vietnam, ha eliminato il tabacco e i pesticidi. Sa, sua sorella - bellissima - fumava, è morta di cancro al polmone. Andrea: Il professor Zichichi ha recentemente espresso forti dubbi sull'origine umana dei mutamenti climatici, mentre sono in molti a chiedere maggior chiarezza sui meccanismi legati a C02 e CH4. L'Oca: Il professor Zichichi non è uno studioso di clima, conviene ignorarne le esternazioni per la cortesia dovuta agli anziani. Andrea: Non pochi studiosi di geostrategia ritengono i vantaggi di un lieve riscaldamento di gran lunga superiori agli inconvenienti, notando gli immensi deserti della Siberia, Alaska, Canada, e Patagonia. L'Oca: Infatti ho paura degli strateghi. Quattro miliardi di persone vivono tra i Tropici, quante vuol deportarne? E come pensa che sarebbero accolte da russi, statunitensi, canadesi e argentini? Andrea: I cultori di storia conoscono perfettamente il lungo periodo molto più caldo dell'attuale (vari secoli intorno all'anno Mille) documentato fra l'altro dagli anelli di crescita di alberi millenari, dagli archivi vaticani a proposito delle fiorenti comunità agricole della Groenlandia, da varie opere architettoniche ad alta quota sulle Alpi italiane, e dalla produzione di vino nelle isole britanniche. L'Oca: Anche i ragazzi delle medie lo conoscono, presumo. Ma vale la risposta di prima, da allora il mondo è un tantino cambiato. Tornato il freddo, i pochi discendenti di Erik il Rosso che lasciavano la Groenlandia potevano sperare di sistemarsi in regioni più temperate. Oggi, sono in 35 milioni a doversi risistemare da qualche parte, e nessuno li vuole. Andrea: Un'osservazione inevitabile riguarda poi l'inte-

resse dei climatologi stessi. Convincere governo e opinione pubblica di un gravissimo pericolo incombente è sempre stato il modo più rapido per ottenere cospicui finanziamenti sia pubblici che privati, indispensabili in Usa per fare ricerca e carriera. L'Oca: Parliamo di soldi. In Usa i ricercatori guadagnano dai 30 agli 80 mila dollari all'anno. I capi delle compagnie petrolifere da 1,5 milioni all'anno in su, più benefits e stock options. I profitti realizzati nel 2006 dalla sola Exxon rappresentano quaranta volte i finanziamenti mondiali alla ricerca sul clima. Il presidente dell'Ipcc guadagna venti volte meno del presidente dell'Exxon, e niente benefits né stock options. Gli scienziati che preparano i rapporti dell'Ipcc lo fanno gratuitamente. E poi... Nel 2006, il prodotto mondiale lordo era di 48 mila miliardi di dollari (fonte: Imf), l'industria rappresentava 28.500 miliardi, la ricerca pubblica e privata 200 miliardi. «L'economia degli ambienti scientifici» è decisa dai governanti che seguono le pressioni politiche e sociali, è vero, ma di per sé fa ridere. Andrea: Ricordo negli anni Settanta «mutatis mutandis» la moda degli Ufo, in cui scienziati, giornalisti, politici sguazzavano insieme in una follia alimentata come oggi da episodi da prima pagina, seri convegni, dibattiti politici, il cui esito è stato soprattutto la pioggia di miliardi di cui hanno beneficiato l'astrofisica e l'astronautica americana. L'Oca: Ma no! Le ipotesi sulle forme di vita extraterrestri sono ben più antiche della moda degli Ufo, contro la quale gli scienziati americani erano schierati in blocco. La Nasa è stata creata nel 1958 perché c'era la guerra fredda e l'Unione Sovietica mandava Gagarin nello spazio, non per una leggenda metropolitana. L'astronautica Usa è nata nel 1945 con von Braun, sottratto al processo di Norimberga che gli sarebbe spettato. E l'astrofisica nel 1935, con l'arrivo degli scienziati fuggiti dal nazismo, dal fascismo. Andrea: Oggi molteplici interessi convergono sull'utile mito dell'attività umana che riscalda il pianeta che - ve-

ro o falso che sia - nessuno finora ha potuto provare, non potendosi sperimentare, che sarebbe accaduto senza emissioni umane. L'Oca: Quale mito? Le attività di tutti gli esseri viventi, batteri in primis, modificano il pianeta. Andrea: Gli scienziati sempre a caccia di finanziamenti. I politici sempre a caccia di nuove tasse. I giornalisti sempre a caccia di sensazionale. E, mirabile auditul, in prima linea Francia e Giappone, ovvero i due paesi leader nell'industria nucleare, che ci promette un futuro pieno di scorie radioattive e di rischi di incidenti esiziali, ma senza la cattiva C02 e il lieve riscaldamento che (forse) comporta. L'Oca: Concordo con la prima affermazione; qualche ricercatore mi scrocca pure un panino ogni tanto. Non con le altre. Fra i giornalisti lei può scegliere, fra Foresta Martin sempre equilibrato al «Corriere», i bastian contrari del «Foglio», i verdi squillanti del «Manifesto» ecc. Ci sono politici che abbassano le tasse, i presidenti Bush e Sarkozy quelle pagate dai ricchi. Il Giappone ha ratificato il protocollo di Kyoto dopo cinque anni di tentennamenti, senza applicarlo: da allora le sue emissioni di C02 si sono impennate. La

Germania e la Gran Bretagna, non la Francia, hanno insistito perché l'Europa adottasse misure anti gas serra. La Francia intanto ronfava, sperando di vendere centrali nucleari. Andrea: Grazie per la sua risposta. L'oca: Di niente, l'informazione è il mio mestiere. Né la risposta né altri commenti - talvolta scettici proprio per le contraddizioni interne alla ricerca, talaltra moderatamente convinti - convincono Andrea, che non si modera e manda altri lunghissimi commenti. Estratto:

Andrea: Sig.ra Coyaud, la sua difesa di un personaggio come Gore è patetica. L'Oca: Non l'ho difeso, ci pensi da solo. Ho detto che non è un latifondista coltivatore di tabacco.

Andrea: Vuole che le enumeri le leggi a favore delle lobbies del tabacco che ha votato al Congresso? Anche dopo la morte per cancro della sorella? L'Oca: Oh sì, per favore, faccio collezione di ipocrisie. (Ipocrita io, in Italia la gente confonde spesso Al Gore padre con Al Gore figlio e muove la stessa accusa, avevo già verificato...) Andrea: Non credo abbia risposto seriamente ai miei argomenti contro l'origine umana del riscaldamento climatico. L'Oca: La serietà non è il mio forte. Ci provo. Che la C02 contribuisca all'effetto serra, si sa da oltre un secolo e per ora nessuna ricerca l'ha smentito. È aumentata rapidamente negli ultimi due secoli e per ora nessuno ha scoperto una fonte inumana che lo spieghi. L'ipotesi dell'origine umana aspetta ancora di essere smentita. Aspetto anch'io. Andrea: Zichichi un incompetente rimbambito dall'età? Certo Gore è più credibile. L'Oca: Né con Gore né con Zichichi. Non invocherei l'autorità scientifica del professor Zichichi, che sul clima non ha mai fatto ricerca. Dopo ricerche nella sua opera omnia, invece, ne hanno dimostrato i vaneggiamenti Carlo Bernardini, fisico, e Piergiorgio Odifreddi, matematico. Andrea: Manca invece completamente il mio argomento sul riscaldamento in epoca medievale. Se vi fu (e vi sono molte prove) vuol dire non solo che la vita umana sul pianeta può sussistere a temperature molto più alte, ma anche che i riscaldamenti ciclici della Terra non sono dovuti alle emissioni umane di COz, ma ad altre cause, come per

esempio l'attività solare. L'Oca: Vi fu, vi fu. Si recitava alle medie: «La Groenlandia è marrone e bianca ma nel X secolo faceva così caldo che era coperta di vegetazione e quando Erik il Rosso approdò la chiamò terra verde». (Quel riscaldamento, locale, è stato attribuito a una serie di eruzioni vulcaniche.) Ma dov'è il suo argomento? Da decenni l'attività del Sole - osservata

con attenzione, anche per la necessità di proteggere i satelliti da tempeste solari - non è eccezionale. Le temperature sì, e sono correlate con le concentrazioni di gas serra. Il Sole, per ora, risulta innocente. Se ha le prove della sua colpevolezza, le tiri fuori. Andrea: E bloccare lo sviluppo di intere nazioni per stoppare la C02 non cambierà di una virgola il riscaldamento climatico, che ci porterà ad avere nuovi continenti abitabili come Siberia, Alaska e Groenlandia, il che non mi pare un gran male. L'Oca (che si scalda): «Bloccare» lo dice la futurologia ingenua, ma lo sviluppo non è un percorso obbligato per cui se salta la tappa «radio a galena» non arriva mai a «Canale 5». Altrimenti, a Singapore non ci sarebbe un telefonino. Diceva lo sceicco Yamani quand'era presidente dell'Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec): «Non siamo usciti dall'età della pietra perché eran finite le pietre». Non usciremo dall'età del carbonio perché finirà il petrolio, una risorsa strategica, figurarsi per un pezzo di carta tipo Kyoto bis. Semmai grazie a carburanti a basso costo che non ammorbano l'aria. Se non la scaldano e non scatenano guerre, tanto di guadagnato. E poi Alaska, Siberia, Groenlandia non sono più terre vergini, Andrea, là accettano soltanto immigrati con soldi o laurea. Lei si rallegra di un eventuale tepore siberiano, ma diventerebbero inabitabili territori dove oggi vive la maggioranza della popolazione, che ne soffrirebbe. Chissene..., basta che crescano i limoni sul delta della Lena: è questo che lei pensa? Andrea: Non mi ha assolutamente capito sull'economia degli ambienti scientifici. La possibilità di fare o meno una ricerca, di aprire o meno un posto di ricercatore, dipendono dal budget delle università. E questo budget è deciso da funzionari o fondazioni in base alle esigenze percepite come tali. Se tutto il mondo si convince della necessità di potenziare la ricerca sul clima, ecco che i budget dedicati a tali ricerche aumentano. Più posti, più ricerche, più

laboratori, più viaggetti in Antartico e altrove a spese del contribuente. Non c'è niente di male, ma le opinioni degli scienziati vanno sempre prese con un certo distacco, tenendo conto del conflitto di interesse. Ha mai sentito uno scienziato sostenere che occorre destinare meno risorse alla ricerca scientifica? L'Oca (ormai con la senape che le sale al naso, come dicono al suo paese): Ho capito, ma lei no e riprovo a risponderle. I conflitti d'interesse sono legati ai soldi. I soldi per la ricerca, tra cui quella sul clima, rappresentano lo 0,5% della spesa pubblica mondiale, fanno ridere rispetto ai soldi dell'industria e quindi fa ridere anche il suo bersaglio, An drea. Per non metterla così, le davo le cifre pensando che ci arrivasse da solo. Dei conflitti d'interesse nella ricerca tengo conto. Lei difende ExxonMobil la quale deve difendere la pagnotta, è vero. Non contro verdi e climatologi, gente trascurabile, ma contro nuove lobby industriali. Dei veicoli non inquinanti. Delle energie alternative. Dei termoisolanti. Delle grandi corporation che chiedono addirittura al governo americano di stabilire presto dei limiti per timore che ogni stato dell'Unione ne decida uno diverso. «Ah, se fosse subito obbligatorio un 20% d'etanolo nella miscela» sospira l'industria chimica Big Pharma alla Dupont. «Calerebbe il prezzo del barile, aumenterebbero i profitti sulla vitamina C.» Andrea: Ma con quale diritto europei e giapponesi, dopo essersi sviluppati fino all'ultimo metro quadrato disponibile, impedirebbero a stati come Alaska, Nevada, Australia di svilupparsi? L'Oca: A lei paiono sottosviluppati? Mai stato a Las Vegas? In Alaska il reddito prò capite è superiore a quello italiano e i cittadini non pagano tasse. Si possono permettere una carbon tax, come gli australiani che in maggioranza l'approvano. Lei prova pietà per i ricchi, è mal riposta. Andrea: Le ricordo infine che fare informazione comporta il dovere di riportare argomenti di entrambe le parti, senza

trascurare i numerosi libri e articoli scientifici che non credono a un significativo contributo delle emissioni di C02 al riscaldamento climatico. L'Oca: Lo farei volentieri, se ce ne fossero. Ma uso l'aggettivo «scientifico» in senso letterale, non figurato. Invece son preoccupata per la sua ossessione con la C02, dovreb-

be far qualcosa. Yoga, magari. L'Oca (pentita, l'indomani): Il mio cattivo carattere trapela, dovrei far qualcosa. «Yoga, magari.» Mentre Andrea prosegue nelle polemiche fiume e viene estromesso dal dibattito per insulti non tanto all'oca incompetente e venduta come tutti i giornalisti, ma a chi dissente con cortesia maggiore della mia, i climatologi si ricordano di Charles Keeling, della sua lunga impresa che non garantiva due scoperte all'anno e nemmeno una al decennio. Paragonano le misure degli ultimi vent'anni con le previsioni dell'Ipcc. Purtroppo quelle date al 95% di probabilità risultano molto ottimiste. Quelle pessimiste, e con probabilità attorno al 50%, corrispondono invece alle misure effettive. Scioglimento dei ghiacciai, aumento delle temperature, del livello del mare, dei gas serra, maggior frequenza di tifoni, uragani, incendi, siccità, alluvioni ecc. sono stati tutti sottostimati. Con una sola eccezione: il metano (CH4) è fermo, e forse - forse - sta leggermente diminuendo. Qualcosa tuttavia non quadrava, e Andrea faceva bene a chiedere «maggior chiarezza sui meccanismi legati a co2 e CH4». Gli emuli di Keeling avevano fatto una scoper-

ta, dopotutto, e ghiotta: una misura in contro tendenza che costringe a ripensare le relazioni tra tutte quante. Andrea, inoltre, leggeva con attenzione i quotidiani. Nel gennaio 2006 era uscita su «Nature» una ricerca, fatta al Max Planck di Magonza, secondo cui la vegetazione, le graminacee in particolare, emetterebbe il 30% del metano presente in atmosfera. Era il nostro cibo quotidiano, irrinunciabile, a causare il riscaldamento? All'epoca alcuni giornali avevano interpretato quel risultato come un colpo inferto al proto-

collo di Kyoto: i suoi incentivi al rimboschimento per sequestrare più C02 avrebbero portato all'emissione di altro metano, e una molecola di metano ha un effetto serra quadruplo rispetto a una molecola di C02. Più controproducen-

te di così... I ricercatori del Max Planck non s'aspettavano quella deduzione fantasiosa, e avevano chiesto una rettifica: il protocollo di Kyoto non era da mettere in discussione, quel 30% veniva da piante coltivate ancora prima dell'aumento delle temperature registrato dal 1970, ancora prima della deforestazione massiccia. La rettifica non è mai uscita. Ma su «New Phytologist» di luglio 2007, quindici olandesi di Wageningen rifacevano la ricerca del Max Planck, e nelle loro serre le piante rilasciavano lo 0,3% di metano. Nel frattempo le emissioni totali di quel gas - principalmente dovute a batteri e ruminanti - erano state riviste al ribasso: il loro «budget» annuo varia tra 20 e 60 milioni di tonnellate, mentre dalle estrapolazioni fatte dai tedeschi dovevano essere comprese tra 60 e 240 milioni. Il «mistero del metano mancante» continua. Le polemiche anche. Il primo giorno del vertice di Bali, un'ottantina di scienziati e una ventina di economisti - trasformati in quattrocento dal Marshall Institute che ne riferisce - scrivono al segretario generale delle Nazioni Unite che il rapporto dell'Ipcc è allarmistico e superato. Come Andrea, vogliono più sviluppo economico. «Applicare il principio di precauzione sarebbe irrazionale, perché a medio termine sono possibili sia raffreddamenti che riscaldamenti. I tentativi di prevenire un cambiamento climatico globale sono in sostanza futili e costituiscono un'allocazione tragicamente sbagliata di risorse che sarebbe meglio spendere per problemi reali e urgenti dell'umanità.» Può darsi. In privato, i climatologi che conosco sono costernati da quella presa di posizione. Alcuni dei firmatari, mi spiegano, sono paleoclimatologi, lavorano sulle ere del «tempo profondo» quando l'aumento delle temperature

non coincideva con quello della C02 perché in atmosfera la miscela dei gas era diversa, sulla terra e nei mari le forme di vita non erano come quelle attuali. Oppure studiano i cicli di Milankovic, variazioni nell'orbita e nell'asse della Terra che dovrebbero avvenire su scale temporali diverse, 100 mila, 40 mila, 20 mila anni, ma ancora non si è riusciti a riconciliarle. Quei firmatari hanno poco peso, l'opinione pubblica li confonde con i prezzolati del Marshall Institute ed è ingiusto: non hanno conflitti d'interesse, ma prospettive diverse. D'altronde era proprio quello il mandato di Steitz, screditare la ricerca in generale, onesta o meno che fosse. In privato, i climatologi che conosco prima difendono il bastian contrario onesto dalle mie illazioni, e poi ne demoliscono le opinioni perché trovano fin troppo rassicurante il rapporto dell'Ipcc. Potremmo essere vicini al tipping point, pensano, a un punto di squilibrio in cui l'aumento di uno o due fattori indica che tutti gli altri stanno per imballarsi. Di tipping point parlano tra loro, detestano che lo faccia un giornalista, detestano il catastrofismo. C'è chi ci sguazza, invece. Per esempio Peter Schwartz, presidente della Global Business Network (Gbn), e Doug Randall, responsabile per la consulenza, gli autori di Un cambiamento climatico brusco e le sue implicazioni per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti: immaginare l'impensabile, un'opera commissionata dal Pentagono. La Gbn, uno studio di consulenza, vende «scenari plausibili» alle multinazionali che ci basano i propri programmi di sviluppo a lungo termine; Schwartz è un ex dirigente della Royal Dutch-Shell, di cui curava la «pianificazione strategica»; Randall segue lo sviluppo di risorse energetiche alternative, pratica l'Ashtanga yoga e la meditazione tutti i giorni e, come l'economista ambientalista Jeremy Rikfin, anni fa annunciava che stavamo entrando nell'«era dell'idrogeno». Gli scenari che i due avevano scritto per il Pentagono comprendevano guerre locali e internazionali, per le quali l'esercito avrebbe dovuto

attrezzarsi. Sospettate Schwartz, Randall e gli stati maggiori del Pentagono d'essere al soldo del complesso militar-industriale? Aspettate a pensar male: anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, durante il vertice di Bali del dicembre 2007 ha annunciato un aumento dei conflitti, e sei mesi prima aveva detto addirittura che le stragi nel Darfur erano una conseguenza della crescente siccità, e questa del riscaldamento globale. Perciò all'incontro mondiale di Kyoto sulla scienza e la tecnologia per un mondo più armonioso, il ministro sudanese per la sicurezza interna citava Ban Ki-moon per scagionare il proprio governo - a suo parere composto interamente da missionari d'un Islam pacifista e ascetico dall'accusa di complicità con i miliziani janjaweed. Si vede che nel deserto del Sudan gli assassini nascono spontaneamente. Per bugonia. Incoraggiati dal successo ottenuto al Pentagono, Schwartz e Randall hanno aggiornato i propri scenari e nel marzo 2007 hanno consegnato il risultato alla stampa e ai policymakers. Negli stessi giorni, il Center for naval analyses della Marina americana pubblicava Sicurezza nazionale e l'impatto del cambiamento climatico, a cura di undici generali, ammiragli e controammiragli. In sintesi, il rapporto della Gbn incita la business community a cogliere una «opportunità strategica» e cercare soluzioni ai problemi, tutti risolvibili, che si presenteranno entro il 2050, mentre il Centro analisi della Marina incita il governo degli Stati Uniti ad affrontare «con una visione strategica fenomeni lenti ma inesorabili, che accresceranno la volatilità di aree geografiche dove da tempo operano elementi ostili». In entrambi i casi, la strategia comprende l'identificazione di mezzi capaci di raffreddare il pianeta di qualche grado nel giro di poco tempo: i cosiddetti quickfix che dovrebbero essere forniti dalla geoingegneria. I centri di ricerca del dipartimento della Difesa ne progettano da un decennio, sotto segreto militare ovviamente, ma siccome hanno do-

vuto far appello a scienziati della Nasa, che è civile, e questi ai colleghi delle università, qualcosa trapela. I quickfix, decidono quelli al corrente, non possono esser lasciati ai militari e al libero mercato. E cominciano a ragionarci tra loro, come vedremo. Servono strateghi, infatti, e qualcuno che li tenga d'occhio. Nel 2007 la Gbn analizza i prezzi del cibo, in aumento, complice il global warming, e le esigenze della sicurezza nazionale, alimentare questa volta. Di sfuggita menziona anche la crisi, americana e mondiale, degli impollinatori. La popolazione delle api localmente oscilla, fra una peste americana e l'altra, ma globalmente declina, da trent'anni. Globalmente, da trent'anni aumenta la temperatura. È una coincidenza? Uscite dall'Africa come noi, le api temono il freddo: per svilupparsi, le loro uova hanno bisogno di 34,5°, e tollerano una deviazione soltanto di mezzo grado, in più o in meno. Ma le api sono attrezzate per un controllo ottimale della temperatura: d'inverno sigillano ogni fessura da cui potrebbe arrivare uno spiffero e si stringono Luna all'altra sopra i favi da cova; se l'estate è torrida, aumenta il numero delle operaie che si trasformano in ventilatori. Insomma, se il cambiamento climatico portasse soltanto a qualche grado in più, se la caverebbero, magari con l'ausilio del Bee Cool Ventilator (vedi citazione iniziale). Alcuni anni fa è uscito un documentario del «National Geographic» sulla crisi delle api europee importate dal Giappone. Cadevano come mosche sotto i colpi di un calabrone bestiale, grande dieci volte una di loro, che in un quarto d'ora ne ammazzava fino a tremila. Le piccole lo combattevano disperatamente, disordinatamente, infilzandolo con il pungiglione, ma non serviva. Invece le api giapponesi, mellifere avare, reagivano diversamente. Mandavano avanti le kamikaze a tenerlo impegnato, e mentre quelle si sacrificavano le altre lo circondavano e battevano le ali alla massima velocità possibile. Così si scaldavano, e l'aria pure - fin-

ché superava i 45° C. A quella temperatura, le proteine che proteggono dallo stress termico il calabrone - e le api europee - danno forfait, e lui soccombe. Mentre le api giapponesi hanno una temperatura critica di 48-49 gradi. Sembrava un'invenzione locale, come l'aikido e altre arti marziali. Nel settembre 2007 il mensile «Current Biology» pubblicava le foto di un alveare di Apis mellifera cypriana, prese da Alexandros Papachristophorou, dell'università Aristotele di Salonicco. Nell'estate torrida - era stata quella dei grandi incendi - il cibo era scarso, le api erano deboli e smagrite. E il calabrone Vespa orientalis, rossiccio e carognesco, era affamato. Questo usa le maniere forti: decapita un'operaia, se la porta sulla schiena e così mascherato penetra nell'alveare dov'è capace di mangiarsi in mezzora tutte le larve di un favo da covata, eliminando la generazione successiva. Come le asiatiche, le api cipriote bloccano il calabrone all'ingresso. In due o trecento lo chiudono in una palla «compatta e grande all'inarca come un limone», dice Papachristophorou, senza tentare di pungerlo; sarebbe inutile, non riuscirebbero a perforarne la cuticola. Al centro della palla la temperatura è soltanto di 44° C, quel calabrone resiste tranquillamente fino a 50° C, eppure finisce stecchito lo stesso, ma dopo un'ora: le cipriote non si scaldano, stanno immobili, strette addosso a lui per bloccargli i movimenti addominali e gli orifizi di entrata e di uscita dell'aria. Per di più respirano profondamente e così gli sottraggono l'ossigeno. Perciò non è tanto il caldo, la nuova peste o un qualche fattore ancora da scoprire nella «crisi multifattoriale» del Ccd a impensierire Eric Mussen dell'università della California a San Francisco e i suoi colleghi americani, gli esperti della Commissione europea, dei ministeri dell'Agricoltura di mezzo mondo o della Fao di Roma. È il cambiamento climatico che altera i cicli delle stagioni e delle piogge e li sfasa rispetto ai cicli dell'alveare, coordinati con quelli dell'agricoltura umana. Abbiamo tutti bisogno d'acqua,

di suoli in grado di immagazzinarla per le piante. Invece l'acqua manca, anche nel Primo Mondo. C'è un'altra curva originata in California: più giovane di quella di Keeling, ha soltanto venticinque anni, ma anch'essa è confermata da altre, che l'hanno presa a modello, dagli Appennini alle Ande. Nel 1983 gli ecologisti dello US Geological Survey avevano contrassegnato 21 mila pini e abeti della Sierra Nevada, poi regolarmente auscultati per diagnosticare la salute delle foreste. Sulle «Ecology Letters» di settembre 2007, due di loro hanno sommato le osservazioni e trovato che il tasso di natalità annua rimaneva costante, ma il tasso di mortalità aumentava del 3% in media, con picchi del 10% in caso di siccità. E questa stava diventando più frequente. Tra i diversi anniversari del 2007, uno è legato proprio all'acqua, forse per un ricordo privato. Negli anni Trenta, Dorothy Day - un volto che evoca Katherine Hepburn - cattolica e socialista, militava per i diritti dei neri e dei lavoratori. Due attività rischiose. Deve schivare le pallottole dei seguaci del Ku Klux Klan e dei gangster assoldati dagli industriali per toglier di mezzo quella rompiscatole. Nel dopoguerra ne aggiunge una terza e manifesta contro la bomba atomica, per cui finisce spesso in galera. Nel marzo 1957 era nel carcere femminile allora situato all'angolo fra 6th Avenue e lOth Street, a Manhattan. Una mattina andava in fila con le altre detenute a far la doccia settimanale - ha raccontato poi al poeta W.H. Auden, un suo amico - quando una prostituta aveva gridato: «Migliaia sono vissuti senza amore, nessuno senza acqua» e le altre ne avevano riprese in coro le parole, marciando sul loro ritmo. È l'ultimo verso di una poesia (First Things First) che Auden aveva pubblicato tre mesi prima sul «New Yorker», un settimanale per intellettuali. Coincidenza o ricorrenza, Auden e Dorothy Day erano nati nel 1907, e in cima al rapporto sull'emergenza idrica mandato in bozza ai gior-

nalisti per il 22 marzo 2007, giornata mondiale per l'acqua, c'è quel verso. First Things First. Prima le cose che contano davvero. Sappiamo come risparmiare l'acqua e se proprio volessimo, sapremmo anche condividerla. I ricercatori intanto progettano energie alternative, adattamenti per l'agricoltura, interventi di geoingegneria. E se niente di tutto ciò dovesse funzionare, nuove api.

XI Intervallo con Messalina

AAA Ape reginn cerca harem di danzatori CHARLES Q. CUOI, «Live Science», 21 gennaio 2008

Prima l'acqua, poi l'amore - diceva Auden, e gli amori della regina decidono il fato dell'alveare. Lei esce per il volo nuziale, vergine e matricida (ha appena ucciso la sovrana in carica), oppure esperta dei fatti della vita e infanticida (ha appena ucciso le figlie aspiranti al trono), accompagnata dai fuchi che non saranno i suoi partner, che quelli arrivano da arnie del vicinato. Si accoppia con una dozzina di fuchi se è africana, da sei a venti se è europea, più di cento se è l'enorme Megapis dell'Himalaya. Se li cerca e ne è cercata. Fino al sequenziamento del genoma delle api, non si sapeva esattamente come. Lei emette un feromone apposito, un «gas regale» che ne esprime l'autorità: attira a lei le operaie e rallenta lo sviluppo del loro apparato riproduttivo (a loro volta, le operaie emettono feromoni che innescano la deposizione di uova da parte della regina). Ma i fuchi non sono specializzati nel distinguere fra varie sostanze odorose, non ne hanno bisogno: né per comunicare né per riconoscere il cibo, hanno la proboscide così corta da non poterlo risucchiare dalle celle; quindi sono le nutrici a dar loro il biberon. Devono essere in grado di riconoscere gli odori una volta fuori, per avvertire il richiamo delle regine, una volta e mai più. Intervallo con Messalina Hugh Robertson, dell'università dell'Illinois, uno dei genetisti che avevano partecipato alla mappatura del genoma dell'ape nel 2006, aveva trovato i geni legati ai ricettori di 170 odoranti. Il 30 agosto 2007, sui «Proceedings of the

National Academy of Sciences», pubblicava la scoperta di un recettore, più abbondante nel cervello dei fuchi che in quello delle operaie, che anche a 60 metri di distanza reagisce a una delle otto sostanze contenute nel «gas regale»: l'acido 9-oxo-2 decenoico, detto 9-ODA. La regina si cerca i fuchi e ne è cercata, adesso s'è capito come. Ma se la permanenza fuori dall'arnia la espone ai predatori, perché ne cerca tanti, se ne basta uno a fecondarla per tutta la vita? Se l'era già domandato Darwin che - siccome frequentava selezionatori di razze bovine e canine, di varietà di frutta e verdure - sapeva che i bastardi sono robusti e i purosangue cagionevoli, e pochi. Aveva ipotizzato un effetto «dimensione del gregge»: quando una popolazione aumenta, al suo interno aumenta anche la diversità degli individui, e questa accelera l'evoluzione di resistenze ai patogeni. Ma fin dall'inizio dell'agricoltura selezioniamo le caratteristiche che ci servono e ne eliminiamo altre, riducendo la diversità all'interno delle greggi. Da quando le regine si comprano fecondate artificialmente, sono geneticamente più omogenee; lo è anche la loro discendenza, e la selezione naturale ha poche variazioni su cui giocare. Lasciata libera di accoppiarsi con chi le pare, quella Messalina fa uova da padri molteplici e ne trasmette le varianti genetiche a milioni di api e di fuchi. Un bene, in teoria. Restava da dimostrare che lo fosse in pratica, e lo ha fatto Thomas Seeley, che dirige il dipartimento di neurobiologia e comportamento all'università Cornell, già incontrato nel capitolo sulla Varroa. Sui «Proceedings of the Royal Society-B» del gennaio 2007, lui e David Sarpy dell'università della Carolina del Nord hanno raccontato che Sarpy ha inseminato 25 regine con lo sperma d'un solo fuco (una è morta poco dopo l'intervento), e 25 con quello di dieci fuchi. Seeley ha poi dato a ciascuna una colonia e in un laboratorio ad alta sicurezza, interamente sterilizzato, ha compiuto un esperimento «crudele»: ha spolverato i favi in cui eran deposte le uova

con l'agente più virulento che esista, l'autentica peste americana: spore di Paenibacillus larvae larvae. Come prevedeva, le operaie figlie di dieci padri erano più resistenti. Api che non s'ammalano sono un vantaggio, ma sono altrettanto produttive? Su «Science» del 20 luglio 2007, Seeley e Heather Mattila, una giovane ricercatrice anche lei all'università Cornell, hanno inseminato dodici regine con lo sperma di quindici fuchi, e nove con quello di uno solo (diverso ogni volta). A giugno hanno lasciato sciamare, e fondare nuovi alveari, le colonie che ne erano nate. Dopo due settimane, quelle geneticamente diverse avevano costruito un 30% di favi in più, stoccato il 39% di cibo in più, e le bottinatrici riportavano quotidianamente dal 27% al 78% di nettare e polline in più. A fine estate, quelle colonie contenevano cinque volte più api, otto volte più fuchi, e le operaie erano più grasse di un 10-15%; alla fine dell'inverno - che sulle terre dell'università Cornell dura a lungo ed è rigido - ne era sopravvissuto un quarto. Tutte le colonie geneticamente omogenee erano morte di fame e di freddo. Oggi si sa che l'effetto «dimensione del gregge» si verifica anche nella nostra specie. Sui «Proceedings of the National Academy of Sciences» dell'll dicembre 2007, John Hawks, all'università del Wisconsin, e altri genetisti hanno analizzato le variazioni consolidate da poco nei nostri genomi e registrate sulla carta geo-genetica HapMap: da cinquemila anni in qua, diventiamo più robusti alla velocità del boom demografico. Se il fisico migliora, il cervello segue a ruota. Viste le emergenze ce ne servirà parecchio, vediamo perciò di mantenere il melting pot vario e accogliente. «Gli esseri umani, a differenza delle altre specie sociali, non vivono soltanto in società: producono società per vivere» scrive l'etnologo Maurice Godelier in Fondements des sociétés humaine, che poi ci paragona agli scimpanzé e ai bonobo, altri due primati con cui abbiamo antenati comuni ma che, a differenza degli umani, non saprebbero adattare

i propri rapporti interpersonali a situazioni nuove. Non è del tutto vero. Altre specie sociali «producono società per vivere», la cambiano se lasciamo loro il tempo e lo spazio per farlo, e costruiscono «per il proprio gruppo un futuro differente». Inoltre noi produciamo società alleandoci con altre - sfruttandole - di piante e di animali: altrimenti avremmo (avuto) ben poca storia da scrivere. Da pochi anni è cominciata un'alleanza inedita.

Parte terza

Le indagini proseguono

XII Intelligenza È assurdo affermare che un animale sia superiore rispetto a un altro. Noi consideriamo come superiori quelli in cui la struttura cerebrale e le cui funzioni intellettuali siano più sviluppate. Senza dubbio un'ape lo sarebbe qualora si considerassero gli istinti. CHARLES DARWIN, Taccuini

Qui si parla delle api sociali e mellifere, ma in natura i tre quarti delle api sono solitarie e non fanno miele. Sono pronubi lo stesso, prendono nettare e polline da piante sia selvatiche che coltivate, e alcune si lasciano attirare in nidi preconfezionati dove costruiscono celle, le riempiono di polline impastato con nettare e ci depongono le uova, poche però. Alcune sembrano dei mosconi bigi, altre sono magnifiche, verde turchese e scintillante l'Euglossa viridissima, specializzata in orchidee messicane ma con un debole per il basilico della Florida, il corpo blu scuro metallizzato sotto la peluria bianca, come YOsmia lignaria dei frutteti. Appartengono alle «non Apis» che Stephen Buchmann suggeriva di includere nel «portfolio equilibrato» degli impollinatori. Schive, isolate, vivono una stagione sola, è difficile che suscitino passioni, ditirambi, o la vocazione a occuparsene da entomologo per tutta la carriera. Si cominciano a studiare soltanto ora, per necessità. Manca loro il fascino del superorganismo che si riproduce per scissione, come un'ameba o un batterio, immortale in potenza, e i cui membri sono talmente coordinati da far pensare che il loro minuscolo cervello sia sintonizzato su quello di tutti gli altri e ne risulti una mente, viva finché vive la colonia, depositaria delle sue esperienze e dei suoi progetti.

«La mente Gestalt» di creature telepatiche è un tema da fantascienza. Però l'entomologo Giorgio Celli intitola La mente delle api un nuovo libro di «considerazioni tra etologia e filosofia». Sa di sicuro che attribuire una mente a un animale, perfino quando si tratta di uno scimpanzé, è ritenuto tuttora una provocazione, o un peccato di antropomorfismo, un a priori sentimentale. I neuroscienziati non concordano nemmeno su che cosa sia, di preciso, la mente umana, figurarsi quella di un'ape o di migliaia unite in colonia. Però Kevin Passino, dell'università dell'Ohio, racconta su «Behavioral Ecology and Sociobiology» di febbraio 2008, come le api scelgono dove costruire un nuovo alveare. Durante la sciamatura, la regina ha altro da fare che cercar casa, e le operaie che l'hanno seguita si appendono a un ramo in un grappolo, il glomere. Alcune partono per andare a visitare nuovi locali, passano una mezzora a valutare per esempio la cavità di un tronco, la sua posizione rispetto al Sole, i vantaggi e svantaggi del quartiere: non gradiscono formicai nei dintorni. All'inizio le perlustratrici sono poche. Tornate al glomere, ci danzano sopra. Ripetono le stesse figure circa centocinquanta volte e reclutano una o due colleghe per una seconda valutazione. Al rientro, anche queste ballano e reclutano. Se il giudizio è negativo, le figure ripetute dalle reclute - ormai sono centinaia - diminuiscono di quindici ogni volta finché non c'è più alcuna danza. Nel frattempo, le reclute che confermano un giudizio positivo mantengono costante il numero delle figure, e danzano sempre più numerose, finché raggiungono «il livello del quorum» e scatta il consenso sulla nuova residenza. Il glomere utilizza una «memoria di gruppo» scrive Kevin Passino «per ricordare e confrontare i voti assegnati alle varie località», un proces so analogo a quello usato dal nostro cervello quando i nostri neuroni dall'attività più intensa ne «reclutano» altri in un crescendo. Nell'articolo, Passino si limita a descrivere le api sulla superficie del glomere che registrano e trasmettono agli strati

sottostanti gli stimoli provenienti dal calpestio della danza, e la loro maggiore o minore intensità. Da simulazioni al computer, ha calcolato che 150 ripetizioni sono il numero di partenza ottimale per scartare il più rapidamente possibile l'errore di giudizio di una perlustratrice. Reazioni istintive, fisiologiche come quelle dei batteri, privi del benché minimo neurone, ai diversi gradienti chimici? Niente affatto. In privato Passino respinge l'analogia, parla del glomere come di «un'assemblea democratica, un caucus più armonioso» di quelli che si svolgono proprio in quel febbraio per designare i candidati alle elezioni presidenziali. Visto il legame tra cervello, linguaggio e la «mente senziente» che riconosciamo a tanti animali sociali che comunicano tra loro, perché non riconoscerlo alle api mellifere? Passino non si sbilancia, non si occupa di mente, senziente o meno, bensì di intelligenza. Allora perché studia le api? «Per tradurne l'intelligenza collettiva dello sciame che coordina le mosse di ciascuna per raggiungere lo scopo comune, in intelligenza artificiale» - in algoritmi, e in oggetti matematici ben più raffinati, infine in programmi informatici - «e questa, distribuita nel cervello elettronico di singoli robot autonomi, li metterà in grado di collaborare tra loro.» Come facciamo noi, con il nostro cervello biologico e con quello elettronico dei nostri computer. Insieme all'articolo di Passino, esce un libretto del poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger, secondo il quale «non siamo abbastanza intelligenti per capire che cos'è l'intelligenza», ma parla della nostra.

XIII Geoingegneri e robot pronubi alla riscossa

Se tutti i progressi della tecnologia finiscono per uccidere gli impollinatori naturali, forse l'industria robotica dovrebbe pensare a fabbricarne. Commento di Donbert sul sito della rivista «Wired», 17 ottobre 2007

Avere cibo e acqua a sufficienza, favorire la biodiversità, non riscaldare troppo l'aria, allevare una generazione sana e non farle mancare niente, tenere la casa in ordine e pulirla: il programma delle api è quello delle casalinghe, e delle Nazioni Unite per il nuovo millennio. Sembra più facile andare su Marte che realizzarlo, e la casalinga è una figura sottovalutata. Eppure il programma è già avviato. Dai tempi dell'arancia blu fotografata dagli astronauti, la maggior parte di noi ha in mente la Terra intera, invece dello Stivale o dell'Esagono. In parecchi poi immaginano la biosfera, il suo sottile strato di vita, come un superorganismo: e qualcuno lo chiama Gaia. Sarà per antropomorfismo, anche noi siamo un superorganismo, una simbiosi tra colonie di microbi - nove di loro per ogni cellula umana d.o.c. - e il nostro corpo è tenuto in vita dall'insieme di ospiti non umani. Sarà una metafora e un'allegoria, fatto sta che vediamo e pensiamo il pianeta come non avevamo fatto finora. Nell'Origine dell'uomo e la selezione sessuale, Darwin scriveva: «Non bisogna dimenticare che, sebbene un alto livello di moralità procuri solo poco o anche nessun vantaggio a ogni individuo e ai suoi figli sugli altri membri della stessa tribù, tuttavia un progresso nel livello della moralità e un maggior numero di uomini dotati di essa darà certa-

mente un'immensa superiorità a una tribù sopra un'altra. Non può esservi dubbio che una tribù che racchiude in sé molti membri i quali, possedendo in alto grado lo spirito di patriottismo, la fedeltà, l'obbedienza, il coraggio e la simpatia, fossero sempre pronti ad aiutarsi scambievolmente e sacrificarsi per il bene comune, vincerebbe su molte altre tribù; e questa sarebbe la scelta naturale. In ogni tempo nel mondo certe tribù ne hanno soppiantate altre; e siccome la moralità è un elemento di riuscita, il livello di moralità e il numero degli uomini nobilmente dotati tenderà così ovunque a innalzarsi e a estendersi». Era il 1871, e i nostri valori morali sono un po' diversi. Oggi abbiamo un'idea di tribù molto capiente, ci stanno dentro i panda e le balene, le api e le orchidee. Darwin ci ha concatenati, anche se non l'abbiamo mai letto o ci consideriamo i custodi del Creato. L'effetto intellettuale della «dimensione del gregge» ha portato a un'associazione inedita tra noi e le macchine. Nel 1957 si è aggiunto alla Luna il primo satellite, ma oggi lo Sputnik ci sembra un giocattolo rozzo, come la Mir sovietica e spartana ormai sostituita dalla ben più confortevole stazione spaziale internazionale Alpha 1; e i satelliti sono migliaia. Insieme alle stazioni di monitoraggio a terra, immettono nella rete informatica «googol» di informazioni. Dal 1993 internet è diventato la «matrice» immaginata nel 1985 dallo scrittore di fantascienza William Gibson, un cyberspazio aperto a furfanti e anime belle, pornografi e spacciatori di afrodisiaci, predicatori di ogni religione e giocatori d'azzardo, mondi inventati e diari, enciclopedia aggiornata d'ogni scibile. Sempre sull'orlo del collasso e insieme robusto, un po' badante e un po' piovra, allunga i tentacoli sul cruscotto dell'automobile e nel telefonino, nella cassa del supermercato e nel bancomat, in un via vai frenetico di dati, con algoritmi matematici a dirigerne la circolazione ed elaborarli. Ma il cyberspazio è popolato anche da scienziati e altruisti. Insieme hanno aggirato il veto di militari e gover-

nanti, e stanno collegando i sistemi che sorvegliano terre e mari, perché i dati servano ad altro che a bombardare presunti depositi di presunte armi di distruzione di massa. Risultato: un diluvio di rilevamenti fatti con sensori diversi, interpretati da programmi informatici diversi, da rendere compatibili tra loro e con quelli a terra, per poi estrarne un senso e degli strumenti di previsione per chi si occupa della sicurezza del territorio e nostra. Per trovare i «nodi», i punti dove l'informazione si aggrega e diventa rilevante per l'intera matrice, oltre al sesto senso dei cybernauti di William Gibson servono calcoli spaventosi. Isaac Asimov immaginava che si sarebbe dovuto costruire un computer mondiale apposta, grande come una montagna. Invece i computer sono diventati piccoli, ubiqui, e cooperano tra loro, perché oltre agli altruisti, esistono dei «meta-altruisti». Nel 2002 David Anderson ha messo nel pubblico dominio la Berkeley Open Infrastructure for Network Computing (Boinc). Chiunque può scaricarla sul personal computer e farle elaborare in sottofondo pacchetti di dati. Inventata per captare i messaggi da civiltà extraterrestri e in attesa che i tre milioni di pc origlianti ci riescano, facilita le ricerche di nuovi farmaci o aiuta a studiare la formazione delle nuvole. Funziona anche con le PlayStation, che in 40 mila soltanto, nel settembre 2007, formarono il calcolatore più potente del mondo, 1 petaflop/secondo, e da allora catalogano tutte le possibili pieghe di una proteina, a cominciare da quelle responsabili di malattie neurodegenerative. Nel 2003 Bram Cohen, un ragazzo affetto da sindrome di Asperger - quella che qualcuno attribuiva a Einstein - inventa il software BitTorrent che accelera la distribuzione di dati. Nel 2007 Anderson crea il Berkeley Open System for Skill Aggregation (Bossa). Alla potenza di calcolo distribuì ta nei vari personal computer, Bossa aggiunge il «talento» (skill) distribuito nella testa dei proprietari. I primi «clienti» di Anderson sono le agenzie delle Nazioni Unite a cui

servono mappe aggiornate di strade, fiumi, dispensari ecc. per distribuire gli aiuti umanitari in paesi le cui carte geografiche risalgono spesso all'era coloniale. Nel frattempo la potenza di calcolo di cui ha dovuto dotarsi il Centro europeo per la ricerca nucleare per cercare nuove particelle nel Grande acceleratore di adroni - accensione prevista verso fine 2008 - ha prodotto Grid, una «griglia» di cui gli epidemiologi sfruttano i tempi morti per mappare l'avanzare della malaria, così l'Organizzazione mondiale della sanità sa dove spargere insetticida contro la zanzara che la porta, e le Ong sanno dove portare le zanzariere intrise di Ddt. Le agenzie spaziali, l'Organizzazione mondiale della meteorologia, quella per l'agricoltura e l'alimentazione, per la medicina veterinaria, decine di agenzie dell'Onu, centinaia di associazioni non governative stringono alleanze per conseguire obiettivi limitati che, sommati, sono quelli delle Nazioni Unite per il nuovo millennio. A mo' di vaccino contro gli egoismi, l'operi access, l'operi source, il copyleft e tanti altri accordi spartiscono risorse intellettuali e le moltiplicano. Non è mai stata combinata tanta intelligenza umana e tanta intelligenza artificiale, la versione matematica dell'altra, che le macchine imparano più facilmente. Le maglie della griglia sono ancora larghe - in Africa soprattutto - ma a poco a poco si infittiscono. Esiste già un Panopticon planetario, scriveva Declan Butler su «Nature»: controlla «24 ore su 24 e 365 giorni all'anno» i bacini idrici, l'erosione dei suoli e delle coste, le colture alimentari, il pesce nei mari, i gas serra nell'atmosfera, gli spostamenti degli iceberg, i ghiacciai, l'altezza della copertura nevosa. Una settantina di reti oceaniche e spaziali stanno per aggiungersi da qui al 2015. Il progetto Neon (National Ecological Observatory Network, www.neoninc.org), un esperimento pilota che inizierà nel 2013, seguirà da vicino per venti o trent'anni gli ecosistemi grandi e piccoli degli Stati Uniti, non soltanto per identificare e prevenire i potenziali disastri (incendi, alluvioni, schiume d'inquinanti

sui fiumi), ma anche per misurare i flussi dei gas, il vapore acqueo, l'irradiazione solare, le concentrazioni d'ozono, i batteri, i pollini, le temperature al suolo, in acqua, in aria, i millimetri di precipitazione, la pressione atmosferica... e altro ancora. Una volta collaudato, si potrà copiare, adattare e costerà molto meno: i suoi sensori, da prototipi di ricerca diventeranno prodotti di massa. Le conoscenze accumulate concimano, fanno crescere nuove idee e progetti. Per esempio, la corrente El Nino fa calare dal 16% al 35% la resa dei raccolti lungo il proprio percorso, si sa. Si sa anche della sua comparsa sei mesi prima che porti acqua calda, tempeste e incendi verso il SudEst asiatico. Il 6 dicembre 2007 un gruppo di agronomi australiani, americani e francesi ha definito a grandi linee le misure da prendere per temperarne gli effetti, una lettura suggerita a ministri e ambientalisti. E si sa che l'azoto rilasciato dalle risaie si trasforma in ossido d'azoto, un gas che contribuisce al riscaldamento globale quanto il metano, e si sa anche come creare un riso transgenico capace di assorbirlo per nutrirsene. O facciamo di ogni Ogm un fascio? E si sa usare in maniera efficiente l'energia che esiste, e ridurre le forze che la sprecano sostituendo i vecchi materiali pesanti con quelli compositi, leggeri, resistenti, pieni di nanobuchi fatti ad arte. E dove cercare energie nuove. Il progetto Helios diretto da Steven Chu al Lawrence Berkeley National Lab, all'università della California, vuole imbrigliare lo 0,01% dell'energia venuta dal Sole, che basta e avanza per i nostri bisogni, in qualunque forma si presenti: radiazione diretta, vento, biomasse, ricavata da alghe, da batteri, dai nostri stessi movimenti. Steven Chu, premio Nobel per la fisica degli atomi ultrafreddi, un americano di seconda generazione, sull'energia, la pensa come Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli in Energia oggi e domani: deve essere equamente disponibile, quindi occorre identificare fonti diverse e locali. Chu non è contrario alla fusione nucleare, quella che avviene all'interno del Sole, e che il pro-

getto Iter promette per il 2050. Quando sarà costruito e in funzione, verso il 2018, dentro il suo guscio di magneti, fonderà nuclei di idrogeno, e dovrà dimostrare che è possibile costruire un mini sole artificiale. Iter è «soltanto un prototipo e già un'impresa colossale, follemente costosa,» dice Chu «un modello che produrrà poche centrali da fusione, due o tre per continente. Si vede che i suoi sostenitori sono convinti che tra poco la pace scenderà sul mondo, o perché scommettono su un sistema così palesemente vulnerabile? Addirittura la durata stessa di Iter dipende dalle decisioni politiche di potenze attuali, come se fosse ovvio che saranno ancora potenze nel 2050. Non mi fraintenda, da quel prototipo uscirà tanta ricerca per la quale troveremo applicazioni, non voglio che venga interrotto, ma è l'idea politica che mi deprime, la sua miopia.» Le risorse centralizzate scatenano sempre conflitti, «sono l'oro del Perù. Nell'Ottocento voi francesi avete combattuto contro i tedeschi per il carbone, nell'Ottocento tutti quanti per il petrolio, nel Niger e in India si combattono guerriglie attorno alle miniere d'uranio. La vogliamo imparare, la lezione?». Iter costerà più di 10 miliardi di dollari, mentre Chu sogna pannelli solari a 10 centesimi l'uno da piantare attorno al Sahara. Ci sono progetti simili al suo in Europa, in Australia, addirittura negli Stati Uniti, «e presto in Cina e in India», spera. Considera incoraggiante che persino la B.P. finanzi il suo. «Non faccio discriminazioni, prima vengono i bisogni del Terzo Mondo, è l'unica visione strategica che abbia un senso e non generi disparità, ingiustizia, odio.» Su questo Chu è d'accordo con gli scettici del cambiamento climatico. Diversamente da loro, crede che le innovazioni tee nologiche, magari low-tech ma concepite insieme a quelli che dovranno usarle e tenendo conto delle loro esigenze, servano allo sviluppo economico dei poveri molto più «del business as usuai. La differenza tra la nostra vita qui e quella di una contadina del Sahel o del Sechuan è oscena, umilia noi». Quanto ci vorrà perché il progetto Helios produca

innovazioni low-tech? «Se continua così, 8-10 anni.» Tanti. Nel 2011-2012 arriverà al culmine la stagione delle tempeste solari iniziate nel gennaio 2008, farà più caldo che nel 2003, si riparlerà delle visioni strategiche della geoingegneria. Se n'era già parlato trent'anni fa. Quando la curva di Keeling aveva rivelato il primo segnale di riscaldamento dell'atmosfera, il rapporto presentato al presidente Lyndon Johnson dai suoi consulenti scientifici non suggeriva di limitare le emissioni di gas serra, bensì di «spargere sulla superficie oceanica minuscole particelle che riflettessero la radiazione solare», impedendole di scaldare l'acqua sottostante. Negli anni Settanta, l'Unione Sovietica voleva lanciare nello spazio ombrelloni solari che inclinati nel modo giusto avrebbero fatto ombra dove serviva e, al contrario, mandato i raggi di luce sulla Siberia. Per intiepidirla. Il programma era troppo ambizioso, sarebbe bastato un guasto a produrre l'opposto dell'effetto desiderato, è rimasto sulla carta. Oggi, il timore di una carbon tax e magari qualche rimorso di coscienza per viaggi in aereo che emettono gas serra hanno generato aziende che s'incaricano di «sequestrare C02» piantando alberi in varie parti del mondo, ed esistono già voli e conferenze internazionali carbon free, sebbene i risultati siano poco controllati. Ci sono tentativi di sequestro più discutibili. Il dipartimento statunitense dell'Energia ha finanziato un esperimento in cui la C02 viene requisita alla fonte, dalle ci-

miniere di centrali a carbone, per esempio, e rinchiusa in un deposito geologico accessibile attraverso pozzi di petrolio in disuso. Di pozzi vuoti ce ne sono migliaia, dalla Russia all'America e dal Delta del Niger al Golfo del Messico. La Norvegia pompa già co2 nei suoi, sotto il Mare del Nord, finora senza incidenti. Il Frio Brine Pilot Experiment nordamericano doveva dimostrare che era possibile farlo anche a terra. Nel 2003 vicino a Dayton, in Texas, sono state

iniettate 1600 tonnellate di C02 a 1550 metri di profondità, nell'ex giacimento di South Liberty dove restava soltanto uno strato di acqua salmastra. Sono state affidate alla sorveglianza di Yousif Kharaka e del suo gruppo di ricercatori dell'US Geological Survey, e con scadenza biennale avrebbero dovuto esser seguite da altre migliaia di tonnellate. Ma su «Geology» del luglio 2005 Yousif Kharaka et al. scrivevano che il gas ha creato una poltiglia acida come l'aceto (pH 3, all'origine pH 6,5 quasi neutro) che scioglie i carbonati e ossida i metalli delle rocce. L'esperimento è stato sospeso. (Dal pozzo, per fortuna, percola soltanto un tanfo mefitico.) Negli Stati Uniti, come nell'Unione Europea, all'inizio del 2008 è stata sospesa la costruzione di prototipi di centrali a carbone «pulite»: costavano troppo. Costa pochissimo invece la «fertilizzazione del plancton», sulla carta un'idea geniale dietro la quale sta una scoperta altrettanto geniale. Nel 1990 John Martin, un oceanografo dei laboratori di Moss Landing in California, aveva pensato che il «misterioso deserto delle acque antartiche e subantartiche» fosse dovuto a una carenza di ferro che impedirebbe alle alghe di assorbire due nutrienti essenziali, l'azoto e il fosfato, e così facendo di assorbire anche C02. Tre anni dopo, Martin era morto da poco, i suoi colleghi di Moss Landing andarono in un altro deserto marino, al largo delle Galapagos, e «seminarono» mezza tonnellata di limaglia di ferro su quaranta chilometri quadrati di oceano. Nel giro di un mese il fitoplancton aumentò di trenta volte spargendosi per oltre trecento chilometri quadrati. Con grandi speranze, «The Environmental Magazine» riferì che «nell'insieme, l'esperimento ha prodotto l'equivalente vegetale di duemila volte il peso del ferro, e ridotto di 2500 tonnellate, ovvero del 20%, il livello di C02 presente in acqua».

Dopo aver identificato zone più meridionali e conformi alla teoria di Martin, nel 2002 l'esperimento fu riprodotto, e i risultati pubblicati il 16 aprile 2004 su «Science». Questa volta erano state seminate due superfici distinte di quindici

chilometri quadrati ciascuna, e la limaglia era stata dosata per aumentare di cento volte il ferro naturalmente presente in mare. L'effetto fu strepitoso: ogni «campo» consumò 30 mila tonnellate di C02 e comparvero due gigantesche fioriture di alghe, ciascuna a coprire migliaia di chilometri quadrati, macchie di un verde torbido, ben visibili sulle foto riprese dai satelliti. Esportandola a superfici più grandi nel Pacifico meridionale, la fertilizzazione del plancton potrebbe rimuovere dall'atmosfera qualche miliardo di tonnellate di C02 ogni anno. Dalle carote di ghiaccio estratte in Antar-

tide sembra che durante le ere glaciali gli oceani ne abbiano assorbito 100 miliardi di tonnellate. Allora cosa aspettiamo? I risultati di altri esperimenti ancora, perché potenziare la crescita del plancton rischia di potenziare quella di batteri che producono metano e biossido d'azoto, due gas il cui effetto serra è maggiore di quello della C02, e undici esperimenti hanno già misurato un eccesso di biossido d'azoto. E poi, entro un mese o un mese e mezzo, la fioritura deve scendere a cinquecento metri di profondità o essere mangiata dai microrganismi e dallo zooplancton. Se non scende a quel livello, detto «l'orizzonte dei cent'anni», restituisce la C02 sequestrata nel giro di un anno, invece di un secolo o più. Per ora certe fioriture s'inabissano; altre restano entro i cento metri; altre si sfilacciano e diventano irrintracciabili. Nessuno sa come costringerle a comportarsi tutte allo stesso modo. La Planktos Inc. vende servizi di «eco-bonifica» e, derivati per fertilizzazione del plancton, «crediti carbonio» che le aziende possono comprare per evitare le multe se superano le emissioni di C02 cui hanno diritto nel proprio paese.

Con sede a San Francisco, fondata e diretta dall'ex militante di Greenpeace, Russ George, la Planktos ha una nave seminatrice registrata a Vancouver, Canada. Non negli Stati Uniti dove una legge vieta il dumping, lo scarico in mare, di sostanze prelevate in un porto statunitense. Per i pae-

si che aderiscono al Protocollo di Londra, e lo rispettano, lo scarico è vietato e basta. Ma, per la Planktos, per la Climos e altre aziende concorrenti, c'è una differenza tra scarico abusivo e sequestro della C02, ed è probabile che ci sia anche dal punto di vista legale. Russ George trova che la riserva marina delle Galapagos stia a una distanza conveniente, nel senso di economicamente sostenibile per l'azienda. Però ha un difetto, è protetta da accordi internazionali e nel novembre 2007 l'associazione ambientalista Seashepherd - in cui militano altri ex attivisti di Greenpeace, noti per aver ostacolato la mattanza delle balene da parte dei giapponesi, nel gennaio-febbraio 2008 - ha documentato «l'interferenza della Planktos Inc. con l'ecosistema dell'arcipelago», e ha denunciato Russ George al tribunale di San Francisco. In attesa del processo, lui si difende così: «Il mondo ha speso vent'anni e più di 100 milioni di dollari» per la ricerca sulla quale ha fondato il suo business pian, ed è certo che tale piano non soltanto «risucchierà carbonio dall'atmosfera, ma accrescerà il livello del plancton, il quale contribuirà a invertire il processo di acidificazione dell'oceano, un processo collegato ai cambiamenti climatici e che sta uccidendo le barriere coralline». Affermazioni dettate dal business, almeno in parte, forse incaute: come mai la GreenSea Ventures, detentrice dei brevetti legati alla fertilizzazione del plancton, ha dichiarato che non ha intenzione di sfruttarli? La geoingegneria è troppo importante per lasciarla ai militari e agli imprenditori, venissero pure da Greenpeace. In realtà la pratichiamo da sempre, modificando gli ecosistemi con l'agricoltura, l'industria, i trasporti, l'urbanizzazione. Non a caso i sensori nell'infrarosso dei satelliti vedono le città cementificate, con edifici riscaldati d'inverno e raffreddati d'estate, come «isole di calore». Agiamo come se lo volessimo, il riscaldamento globale, è inutile tentare di frenarlo cambiando la nostra cultura e i nostri interessi «profondi», ha scritto Jay Michaelson, avvo-

cato dello studio legale Joseph Levy di Tel Aviv, in Geo-engineering: A Climate Change Manhattan Project. Il saggio è del 1997 ma rimane il testo di riferimento. Esordisce con «Suoniamo la lira mentre la Terra brucia?», passa in rassegna le soluzioni possibili, gli argomenti favorevoli e contrari, e conclude: «Il dibattito sulla geoingegneria riguarda le politiche ambientali da perseguire in un mondo imperfetto. Può sembrare ridicolo predicare la geoingegneria mentre la tendenza è alla gestione olistica dei sistemi, fa pensare all'apprendista stregone che corre da un sintomo all'altro. Può anche sembrare che usare meno la macchina e tagliare meno alberi sia più semplice che disperdere polveri nella stratosfera, ed è sicuramente più elegante. Ma quando sulla nostra testa è sospesa la spada di Damocle di un travolgimento biotico massiccio, dovremmo scegliere quello che funziona. In fin dei conti, anche se le strategie normative contemplate dal protocollo di Kyoto devono continuare a fare la loro parte, serve qualcosa di più di un piano Marshall globale, fatto di incentivi e di riduzioni, per evitare un cambiamento climatico potenzialmente disastroso. Abbiamo bisogno di un progetto Manhattan sui cambiamenti climatici». Il progetto Manhattan è quello sfociato nella prima bomba atomica; l'associazione è infelice ma è evocata da Steven Chu, e da parecchi ricercatori che vorrebbero sfruttare le risorse intellettuali in rete, per rifletterci prima che governi, militari e aziende facciano da soli. Perciò nell'agosto 2006 la rivista scientifica «Climate Change» ha preso il toro per le corna e ha pubblicato articoli di scienziati famosi tra cui Paul Crutzen, il chimico dell'atmosfera che ha coniato per la nostra era la parola «Antropocene». Nel novembre 2006 la Nasa e la Carnegie Institution organizzavano un simposio, in cui alcuni scettici, erano molti, si son convinti che era meglio avere un «Piano B», «una seconda linea di difesa», scriveva l'«Economist» nel maggio 2007: così come si sottoscrive una polizza di assicurazione, sperando di non incassarne mai gli indennizzi.

Spaventati dalle proposte emerse dal simposio, alcuni ricercatori ne hanno discusso durante un seminario a Harvard nel novembre 2007. Secondo loro, l'idea del megaombrellone sospeso nello spazio, con un diametro di qualche chilometro, è irrealizzabile, per la ben nota legge di Murphy («quello che può andar storto lo farà»); piuttosto si potrebbe circondare la Terra con milioni di ombrellini dal diametro di un metro l'uno, tanto da bloccare l'l,5-2% dei raggi solari. Il costo si aggirerebbe sui 3 o 4 milioni di miliardi di dollari, lo 0,5% del prodotto mondiale lordo: fattibile, secondo chi «sta esplorando l'opzione». Paul Crutzen invece preferirebbe imitare la natura, e più precisamente le eruzioni vulcaniche, mandando nella stratosfera degli aerosol, particelle di solfati che l'industria rilasciava normalmente fino alle leggi degli anni Settanta e Ottanta contro l'inquinamento dell'aria. Il lato positivo è che le polveri potrebbero esser sparate sopra il circolo polare per mantenerne ghiacciato il mare, che, coperto di bianco, riflette verso l'esterno più calore di quanto ne assorbe. Il lato negativo è che le polveri inquinano e il circolo polare è già la discarica degli inquinanti immessi in atmosfera nell'emisfero Nord, per colpa di come girano i venti e la Terra. Ne risente la salute degli abitanti umani e animali che non hanno mai inquinato nessuno. Il seminario di Harvard era su invito, vigeva la «Chatham House Rule», una regola inglese che dà a tutti la libertà di usare le informazioni e le opinioni scambiate, ma vieta di attribuirle a un singolo interlocutore, però alcuni partecipanti sono stati intervistati da «Science». Tutti hanno detto di aver provato disagio davanti a quei rimedi estremi, proprio da apprendisti stregoni che corrono da un sintomo all'altro, ignari dei rischi. Però se lo scioglimento dei ghiacciai accelerasse all'improvviso, hanno aggiunto, sarebbe un cambiamento irreversibile, almeno per decine di generazioni e senza un piano B... Ritornello: per identificare un rimedio d'emergenza, sostenibile, pulito, reversibile in poco

tempo, servono più ricerche e più soldi. In parte quei desideri sono stati esauditi dalla finanziaria statunitense per il 2008, che quelle son ricerche con ricadute industriali. Quindi sono aumentati i fondi per geologia, oceanologia, climatologia, energie alternative. In cambio, il presidente Bush ha diminuito il budget per la protezione dell'ambiente. Se proprio dovesse servire un piano B, il mio quickfix preferito sarebbe la flottiglia di navi robot a energia eolica e solare, che aspirano acqua dal mare e la spruzzano fuori in microgocce, formando una nuvola bassa riflettente e quindi rinfrescante. Potrebbero navigare nell'emisfero Nord durante i mesi estivi, in quello Sud quando arriva l'autunno; e spostarsi, nelle stagioni degli uragani e dei tifoni, a rinfrescare l'oceano dov'è più caldo e nascono le turbolenze atmosferiche. Con turbine che sembrano frullini per montare le uova, telecomandabili, agiscono localmente, sono mobili, operose, morigerate, instancabili - un po' api insomma. Ne servirebbero una cinquantina, costerebbero sui venti o trenta milioni di dollari l'una (per un confronto, i nuovi jet supersonici privati costano 2,5 miliardi di dollari l'uno). Sono ancora virtuali, modelli in tre dimensioni sullo schermo del computer di Stephen Salter, un ingegnere dell'università di Edimburgo, nel cui laboratorio - con annessi capannoni pieni di vasche d'acqua di varie dimensioni e tubi d'aria che producono venti, onde e marosi a volontà - sono già stati inventati sistemi per imbrigliare la potenza delle onde. A Harvard, invece, c'è un laboratorio di robotica dove, se non fate rumore, sentirete un ronzio e vedrete volare una mosca-robot. Batte le ali 120 volte al secondo con una potenza muscolare che una mosca viva di sicuro le invidia. Grande come una moneta da cinque centesimi, pesa appena 60 milligrammi. Tra poco ce ne saranno migliaia come lei, progettate e coordinate dalla robotica a sciame, una disciplina ispirata «alla metafora degli insetti sociali» scrive Marco Dorigo

dell'università libera di Bruxelles, nell'introduzione a un numero speciale di «Autonomous Robots», perché «le loro colonie sono esempi affascinanti di sistemi collettivamente intelligenti che si possono generare dall'interazione tra un gran numero di agenti relativamente semplici.» Gennaio 2008, la profezia di Einstein appare sui quotidiani in Grecia, che ha perso il 20% delle colonie, e riappare sul «Corriere della Sera» perché l'Italia ne ha perse altrettante. Febbraio 2008: su «Repubblica» niente Einstein, ma un'indagine di Michele Smargiassi, e per lui come per Antonio Cianciullo dieci mesi prima, il killer resta l'insetticida nicotinoideo, questa volta senza la complicità del global warming, visto che l'inverno è stato treschino. Indago anch'io. Arcangelo Banconi, l'apaio di Spoleto, ha perso il 60% delle sue api, stroncate dalla Varroa. Piergiorgio M. di Mestre che aveva sperimentato con il cellulare, manda questo rapporto dal Veneto: «Perse metà delle mie, causa il pesticida Macho che i contadini usano per il granoturco, particolarmente tossico per la delicata regina; il mio amico il 90%, gli altri da metà a due terzi». Stefano, nel negozio di ottica e telefonia mobile a Milano, «metà, per colpa della Varroa». È nella media lombarda, un mal comune che non lo rallegra neanche un po'. «Ci vorrebbero sciami selvatici per formare nuove colonie, ma son finiti. Abbiamo occupato tutto lo spazio, gliel'abbiamo pure rovinato, se anche tornassero, sarebbe troppo tardi. Tanto, gli facciamo fuori tutti, gli animali. Quand'è che impareremo a condividerlo con gli altri, 'sto benedetto mondo!» Stiamo imparando. Nel dicembre 2007, la Commissione mondiale per le aree protette ha pubblicato un grafico intitolato «Crescita delle riserve naturali dal 1872 al 2005». Sono passate da zero a 60 mila, escluse 43.500 per le quali la data di istituzione non è pervenuta in tempo, da zero a 18 milioni di chilometri quadrati, in totale circa 25 milioni, sembrano molti e sono pari alla superficie della Sicilia. Impariamo lentamente.

Preferiamo condividere il mondo con le macchine. Se l'ape scomparisse dalla terra, si alzerebbero da arnie automatizzate sciami di api-robot, con la proboscide telescopica, l'addome e le ali trasparenti, ricaricate dal Sole, programmate per succhiare nettare e raccogliere polline dai fiori di mandorlo o dai girasoli transgenici, teleguidate da un emisfero all'altro come un drone su Baghdad o una nave-nuvola, a prova di acari e cellulari, pesticidi e riscaldamento globale, calabroni mozzatesta e allegorie. Perfette, forse.

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Ringraziamenti

«Le api rubacchiano di qua e di là ai fiori, ma dopo ne fanno il miele che è tutto loro ... allo stesso modo, i pezzi presi ad altri, l'autore l i trasformerà e confonderà per fare un'opera tutta sua.» (Montaigne, Saggi.) Sono grata a chi ha letto fin qui, anche se avrebbe preferito che gli scienziati (o l'autrice) prendessero una posizione univoca, la sua magari, anche se è rimasto deluso perché invece di preludere a una bella catastrofe globale, il declino delle api segnala soltanto cambiamenti. Ancora più grata se conclude che per affrontarli, la ricerca dà informazioni utili, ma non bastano, e un punto di vista razionale, ma non l'unico, che s'intreccia e si scontra con ragioni economiche, politiche e altre, e con i nostri desideri che contano molto di più, credo. Ringrazio anche gli apicoltori e i ricercatori che hanno risposto alle mie domande, fornito articoli, suggerito libri, spero di averli citati tutti, e le due signore che nella loro reggia d'inverno mi hanno tenuta al caldo, nutrita e aiutata mentre cercavo di trasformare quello che avevo rubacchiato.

Arnoldo Mondadori Editore Questo libro è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa Mondadori – Cles (Tn) Stampato in Italia – Printed in Italy