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Italian Pages XV, 220 pagg. [228] Year 2014
Osmano Oasi
La psicologia dinamica e Sigmund Freud
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La psicologia dinamica e Sigmund Freud
Osmano Oasi
La psicologia dinamica e Sigmund Freud
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Osmano Oasi Dipartimento di Psicologia Università Cattolica del Sacro Cuore Milano
ISBN 978-88-470-2524-0
ISBN 978-88-470-2525-7 (eBook)
DOI 10.1007/978-88-470-2525-7 © Springer-Verlag Italia 2014 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore e la sua riproduzione anche parziale è ammessa esclusivamente nei limiti della stessa. Tutti i diritti, in particolare i diritti di traduzione, ristampa, riutilizzo di illustrazioni, recitazione, trasmissione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o altri supporti, inclusione in database o software, adattamento elettronico, o con altri mezzi oggi conosciuti o sviluppati in futuro,rimangono riservati. Sono esclusi brevi stralci utilizzati a fini didattici e materiale fornito ad uso esclusivo dell’acquirente dell’opera per utilizzazione su computer. I permessi di riproduzione devono essere autorizzati da Springer e possono essere richiesti attraverso RightsLink (Copyright Clearance Center). La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dalla legge, mentre quelle per finalità di carattere professionale, economico o commerciale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Le informazioni contenute nel libro sono da ritenersi veritiere ed esatte al momento della pubblicazione; tuttavia, gli autori, i curatori e l’editore declinano ogni responsabilità legale per qualsiasi involontario errore od omissione. L’editore non può quindi fornire alcuna garanzia circa i contenuti dell’opera. 9 8 7 6 5 4 3 2 1 Layout copertina: Ikona S.r.l., Milano Impaginazione: Ikona S.r.l., Milano
Springer-Verlag Italia S.r.l., Via Decembrio 28, I-20137 Milano Springer fa parte di Springer Science+Business Media (www.springer.com)
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In ricordo di mio padre
Presentazione
Con molto piacere presento questo volume. Non è un atto formale, ma avviene per ragioni scientifiche e culturali. Mi accomuna all’autore, infatti, una radice di appartenenza e di formazione che sento necessario argomentare. In primo luogo la Psicoanalisi, nelle sue varie forme, manifestazioni e applicazioni, anche istituzionali (la Società Psicoanalitica Italiana) e, in secondo luogo, l’Università (la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, nel nostro caso). Luoghi e ambiti che questo libro riesce a far convivere felicemente, nonostante un momento storico nel quale la Psicoanalisi e gli psicoanalisti hanno visto ridursi la loro presenza in ambito accademico. Non è questo il momento per sviluppare una riflessione sulle ragioni di tale progressivo e, si spera, non irreversibile, allontanamento. Voglio invece sottolineare come questo libro sia una significativa testimonianza dell’importanza di questa convivenza, che diventa possibile quando, come nel testo, la psicoanalisi e il suo progenitore diventano materia viva e pulsante e non articoli per antiquari o nostalgici. In questo senso, la psicoanalisi e il Freud di cui ci parla Oasi sono, al contrario, profondamente radicati dentro i cambiamenti e le trasformazioni che la teoria, la clinica e la cura hanno mostrato negli anni trascorsi ormai in tre differenti secoli. Obiettivo di fondo di questo testo, a me sembra, è quello di presentare sinteticamente e di saldare insieme alcuni aspetti fondamentali di un approccio alla persona che pone al centro le forze consce e inconsce che la governano. Per comprendere come queste forze si muovano, si combinino o entrino in contrasto una con l’altra occorre apprendere e condividere un “vocabolario” che l’autore cerca di fornire nel primo capitolo: senza di quello sarebbe difficile capire poi il contributo della psicoanalisi e di Freud in particolare. Né è possibile capirlo senza tener conto di una concezione “dinamica” dell’individuo e del paziente che era già ben presente prima che il padre della psicoanalisi gettasse le fondamenta di quest’ultima: da qui l’utilità di una sintetica presentazione del pensiero pre-psicoanalitico, nella convinzione che Freud si sia mosso su un terreno già dissodato da autori che, come suggerisce Ellenberger in un suo testo divenuto un “classico” (La scoperta dell’inconscio) collochiamo all’interno della prima psichiatria dinamica. Oasi sembra così privilegiare l’ottica della continuità, che porta a pensare alla psicoanalisi non come l’affermarsi di un vii
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Presentazione
punto di vista ex novo, ma il naturale punto d’arrivo di un percorso. È questa un’ottica molto affascinante e, mi si consenta, rassicurante, perché colloca Freud e la sua “scoperta”, la psicoanalisi, dentro un cammino che ne giustifica le origini (senza nulla togliere alla genialità del personaggio), ma ridimensionando un’aura mitica e mistica che non gli ha mai giovato. L’idea del percorso anima tutta la parte dedicata a Freud, capitoli che idealmente lo studente dovrebbe percorrere in compagnia del padre della psicoanalisi. Il legame tra la vita e gli scritti di Freud è più volte evidenziato dall’autore. Emergono così non solo i concetti chiave (inconscio, libido e molti altri), ma anche le difficoltà e i momenti critici affrontati da Freud. Proprio ad essi si riconnettono i passaggi fondamentali di sviluppo del costituendo modello psicoanalitico: si pensi alla morte del padre di Freud e all’avvio della sua “autoanalisi”, punto di partenza della psicoanalisi, o alla dibattuta questione degli avvenimenti bellici della Grande Guerra e alla stesura di Lutto e melanconia. Molto apprezzabile è il frequente rimando al testo originale, che garantisce un’oggettività espositiva che deve precedere qualunque ipotesi interpretativa del pensiero di Freud. Ma ha ancora un senso dare così ampio spazio a Freud a più di cento anni dalla sua morte? Non è il suo un modello superato e pertanto liquidabile rapidamente? Insomma, come recitava un interessante articolo di Westen di qualche anno fa, Freud è “davvero morto”, oppure rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di psicoanalisi? Leggendo questo testo l’impressione è che Freud abbia ancora molto da dirci, benché su di lui sia stato scritto e detto molto, il più delle volte per mostrare i limiti dei suoi costrutti teorici o delle sue modalità tecniche. Eppure il suo pensiero rimane un imprescindibile termine di confronto. In questo senso è indispensabile soffermarvisi, a maggior ragione per chi sta iniziando un percorso universitario come quello di Psicologia. Chi lo leggerà troverà nel testo un rapporto, mi vien da dire, “dinamico” con il pensiero freudiano, privo di idealizzazione o di svalutazione. Infine, un ultimo punto di forza di questo testo, che – come l’autore dice nella sua prefazione – rimane un manuale introduttivo, è la presenza di un capitolo sulla diagnosi e l’assessment: si tratta di una tematica di grande importanza sia perché fa meglio capire la concezione dinamica/psicoanalitica del paziente, sia perché invita a riflettere su quello che costituisce il primo “contatto” con il paziente, momento troppo spesso sottovalutato. È bene che lo studente ne capisca da subito l’importanza anche nell’approccio psicoanalitico. Una psicoanalisi, quella di cui ci parla Oasi, che non ha nulla da temere dal e nel confronto con le discipline limitrofe. Basterebbe, a questo proposito, leggere il caso clinico considerato attraverso il confronto tra i differenti strumenti diagnostici, dove appare evidente come l’integrazione tra diversi approcci possa produrre benefici in primo luogo per le persone che arrivano da noi per essere aiutate. Buona lettura! Milano, ottobre 2013
Pietro Roberto Goisis
Prefazione
La motivazione alla scelta del Corso di Laurea in Psicologia e il significato che una materia come Psicologia dinamica poteva avere in tale Corso di Laurea, allora quinquennale, furono due tra le più significative aree di studio che mi trovai ad approfondire all’inizio della mia attività universitaria. Si trattava di qualcosa che stava molto a cuore a Silvio Stella: di mezzo c’era la riflessione su un percorso formativo in cui problematiche di apprendimento e personali si intrecciavano le une con le altre. Ne nacquero dei lavori, alcuni dei quali citati nel capitolo 1. Ha ancora senso interrogarsi su questo? E, se sì, con quali obiettivi? A distanza di tempo, le cose sono cambiate da più punti di vista: la riforma universitaria, che ha “spezzato” la formazione psicologica in due tronconi, l’enorme sviluppo di discipline evidence-based come quelle afferenti alle neuroscienze – la cui ricaduta su moltissime aree della psicologia, psicoanalisi compresa, è molto significativa – e, non ultima, la diversa configurazione dei giovani nella società postmoderna1 costituiscono fattori di grande cambiamento. D’altra parte, se è storicamente rintracciabile una “psichiatria dinamica” – anzi, giustamente Ellenberger2 la considera la base di partenza della psicoanalisi – e se oggi la “psichiatria psicodinamica” continua a dare un fondamentale contributo alla comprensione della psicopatologia3, più complesso è invece dare dei confini precisi alla “psicologia dinamica”. L’impressione è che, di fronte a quei cambiamenti cui si accennava poco sopra, l’obiettivo di una disciplina come la psicologia dinamica possa essere quello di dare un contributo affinché ognuno di noi possa riflettere sui propri processi mentali e, nello stesso tempo, possa porsi all’ascolto dell’altro. In altre parole, ripensare alle proprie origini e sviluppare il contributo di quegli autori appartenenti alla prima psicologia sperimentale, come Gustav Fechner, Wilhelm Wundt e Hermann von Helmholtz, ma anche di quei filosofi, come Franz Brentano e Edmund Husserl, che hanno mostrato una finezza d’analisi esemplare nel mettere in luce ciò che accade dentro di noi. E dentro di noi, prima o poi, ci imbattiamo in qualcosa che è sintetizzabile in una parola: l’inconscio. 1 2 3
Baumann Z (2002) La società individualizzata. il Mulino, Bologna. Ellenberger HF (1970) La scoperta dell’inconscio, 2 voll. Bollati Boringhieri, Torino. Gabbard GO (2005) Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano. ix
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Prefazione
Già. Ma esiste l’inconscio? Comunque lo si consideri – inconscio dinamico, non rimosso, pre-riflessivo, non convalidato – non vi è dubbio che esso ha rappresentato la “parola chiave” del secolo scorso, ma anche del tempo presente. D’altra parte, Freud rimane colui che, attraverso la costruzione dell’edificio psicoanalitico, ha dato una collocazione precisa a questo concetto. Da qui la necessità e l’utilità di un confronto con il suo modello, fin dall’inizio di un percorso di studi in Psicologia. Eccoci però di fronte a un altro interrogativo: la psicoanalisi si può insegnare? All’indomani della fine della Prima guerra mondiale fu istituita presso l’Università di Budapest, grazie al desiderio di cambiamento sostenuto dal nuovo governo, una cattedra di psicoanalisi affidata a Ferenczi. In tale occasione, Freud scrisse un interessante articolo nel quale fa chiaramente capire che, per esercitare la psicoanalisi, è necessario, dopo l’acquisizione dei fondamenti teorici, un ulteriore “addestramento” pratico, così come “l’istruzione universitaria non fornisce allo studente di medicina una preparazione tale da renderlo un abile chirurgo”4; saranno necessari anni di lavoro nel reparto chirurgico di un ospedale. Se, però, si leggono le definizioni di “psicoanalisi” date da Freud qualche anno dopo5, si comprende implicitamente che la distanza tra teoria e pratica poc’anzi esposta non deve impedire l’avvicinamento alla psicoanalisi. Quest’ultima, infatti, non è soltanto “un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere” o “un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici”; ma anche “una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica”5. È proprio su quest’ultima definizione che vorrei attirare l’attenzione: la psicoanalisi come disciplina scientifica e come modello – rivoluzionario per quei tempi, ma forse ancora oggi pensando alla centralità del concetto di inconscio – di comprensione del funzionamento normale e patologico della mente umana. Accostarsi ad esso e comprenderlo costituisce il “primo tempo” di un apprendimento che, per chi lo vorrà, potrà proseguire in seguito necessariamente in altre forme. Questi dunque gli obiettivi del manuale: confermare la specificità di una disciplina psicologica da un lato, dare i primi fondamenti della psicoanalisi dall’altra. Nel fare questo si è privilegiato il taglio storico focalizzando, in particolare, i passaggi fondamentali dello sviluppo del pensiero freudiano. È stata pertanto perseguita non l’esaustività, bensì l’individuazione degli snodi fondamentali di tale pensiero. La speranza è che altre aree tematiche lasciate più sullo sfondo possano essere affrontate dagli studenti in successivi momenti di approfondimento. Osmano Oasi
4 5
Freud S (1918) Bisogna insegnare la psicoanalisi nell’università? In: Opere, vol. IX p. 35. Boringhieri, Torino. Freud S (1922) Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi” e “Teoria della libido”. In: Opere, vol. IX p. 439. Boringhieri, Torino.
Ringraziamenti
Sono grato a Silvia Paolicelli per la discussione e il confronto su alcune parti del testo e a Davide Cavagna per aver condiviso con me l’attenta rilettura delle bozze; alla dott.ssa Donatella Rizza e a Catherine Mazars di Springer per la disponibilità dimostratami.
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Indice
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Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina . . . . . 1 1.1 Dinamismo mentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 1.2 Psicologia dinamica e motivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 1.3 Psicologia dinamica e “psicologia del profondo”: sovrapposizione o contrapposizione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 1.4 Continuità/discontinuità della vita mentale . . . . . . . . . . . . . . . . 8 1.5 Psicologia dinamica e metodo: un incontro fruttuoso? . . . . . . . 11 1.6 Concetti metapsicologici e concetti clinici . . . . . . . . . . . . . . . . 13
2
Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1 La diagnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2 La nosografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3 Psicoanalisi e psicopatologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.4 Una esemplificazione clinica: DSM e PDM a confronto . . . . . . 2.4.1 Diagnosi descrittiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.4.2 Diagnosi psicodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Curare ai tempi di Freud (precursori e contemporanei) . . . . . . . . . . 3.1 Uno sguardo sul passato: alle origini del concetto di malattia e di cura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 F.A. Mesmer e la prima psichiatria dinamica . . . . . . . . . . . . . . 3.3 H. Bernheim e J.-M. Charcot: verso una nuova psichiatria dinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4 Pierre Janet: un Freud francese? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.1 L’automatismo psicologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.2 Teoria dinamica delle nevrosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.3 Analisi e sintesi psicologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.4 Riflessioni conclusive su Janet: la sua cultura e la sua eredità intellettuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
37 37 38 43 52 54 55 57 60 xiii
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Indice
Le basi del pensiero freudiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1 Freud: l’uomo e il contesto storico-culturale . . . . . . . . . . . . . . . 4.2 Il periodo prepsicoanalitico: grandi slanci e primi studi clinici sull’ipnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.1 Progetto di una psicologia (1895) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.2 Trattamento psichico (trattamento dell’anima) (1890); Ipnosi (1891) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3 L’isteria: prima sfida per la tecnica psicoanalitica (Studi sull’isteria, 1892–1895) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.1 Comunicazione preliminare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.2 Casi clinici (Anna O.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.3 Casi clinici (Signorina Elisabeth von R.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.4 Scritto teorico di Breuer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.5 Scritto teorico di Freud . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
63 63
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La nascita della psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1 L’autoanalisi e la Traumdeutung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2 L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora . . . . . . . . . . . . . . 5.3 Come funziona l’inconscio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.3.1 La Psicopatologia della vita quotidiana (1901a) . . . . . . . . . . . 5.3.2 Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905b) . . 5.4 La configurazione definitiva del modello topografico . . . . . . . . 5.4.1 Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (1911) . . 5.4.2 L’inconscio (in Metapsicologia [1915a]) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.1 La sessualità infantile: la teoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.2 I Tre saggi sulla teoria sessuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.2.1 Primo saggio. Le aberrazioni sessuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.2.2 Secondo saggio. La sessualità infantile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.2.3 Terzo saggio. Le trasformazioni della pubertà . . . . . . . . . . . . . . 6.3 Dalla teoria alla clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.3.1 L’isteria d’angoscia. Caso clinico del piccolo Hans . . . . . . . . . 6.3.2 L’altra faccia delle psiconevrosi: la nevrosi ossessiva. Caso clinico dell’uomo dei topi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Il narcisismo e lo studio della patologia grave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1 Fondamenti teorici: Introduzione al narcisismo (1914b) . . . . . 7.2 Le nevrosi narcisistiche. Caso clinico del Presidente Schreber . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.1 Storia della malattia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.2 Tentativi d’interpretazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.3 Il meccanismo della paranoia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.4 Poscritto del 1911 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3 Le riflessioni freudiane sulla depressione . . . . . . . . . . . . . . . . .
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7
67 67 74 80 82 83 88 91 92
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163 164 166 168 170 170
Indice
xv
7.4 7.4.1 7.4.2 7.4.3 7.4.4 7.4.5
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Il ritorno alle psiconevrosi. Caso clinico dell’uomo dei lupi . . . Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sguardo generale all’ambiente e alla storia della malattia . . . . . La seduzione e le sue immediate conseguenze . . . . . . . . . . . . . Il sogno e la scena primaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La nevrosi infantile: materiali dai tempi remoti e riattualizzazioni nel presente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Verso l’ultimo Freud: aperture sul futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.1 L’introduzione del dualismo pulsionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.2 La seconda topica o modello strutturale della mente . . . . . . . . . 8.3 La nuova concezione dell’angoscia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.1 Modificazioni di vedute già esposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.2 Aggiunta circa l’angoscia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.3 Angoscia, dolore e lutto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.4 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia
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Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
1.1
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Dinamismo mentale
Esistono molti modi per intendere l’aggettivo “dinamico”: la sua etimologia ci richiama immediatamente qualcosa che si muove e il concetto di “forza” (δυ´ναμις), in contrapposizione a qualcosa di statico, fermo. In natura è possibile rintracciare delle chiare esemplificazioni. Chiunque osservi un ambiente, supponiamo desertico, in assenza totale di presenza umana e animale, sotto un sole allo zenit, può sentire un silenzio “assordante”, prova che nulla si muove; al contrario, essere in riva al mare, osservando il volo di qualche gabbiano e il moto incessante delle onde create dalla brezza marina, dà immediatamente l’idea che ci sia un movimento, in qualche modo “perpetuo”. Spostando l’attenzione dall’ambiente alla persona, a tutti sarà capitato di pensare o di osservare che quella tale persona è “dinamica”, cioè attiva e vitale. Con questa affermazione si vuole di solito sottolineare la particolare capacità che qualcuno può avere nell’affrontare in modo pronto ogni situazione gli si presenti, nel proporre qualcosa in grado di modificare lo “status quo” e, in generale, nell’attivare se stesso e gli altri. È tuttavia interessante osservare che anche le persone più dinamiche non possono esserlo sempre allo stesso modo e che, d’altra parte, anche le persone più “immobili” possono avere qualche spunto dinamico. La clinica, anche solo intuitivamente, ci conferma in questa ipotesi: vi sono pazienti che ci colpiscono per il loro grande attivismo, che tuttavia li porta il più delle volte al punto di partenza – una specie di schema ripetitivo, chiamato da Freud coazione a ripetere – dal quale faticano a liberarsi; d’altra parte, ve ne sono altri che ci appaiono pressoché immobili, per così dire bloccati dal e nel loro disagio: è con questo tipo di pazienti che succede più facilmente di osservare l’avvio di un cambiamento che non può non far pensare a un “dinamismo” della mente. Ci si potrebbe chiedere: che cosa determina tutto ciò? Se ci limitassimo all’ambiente, non avremmo particolari dubbi: ci potremmo riferire al gradiente barico che determina spostamenti d’aria (venti) da una zona all’altra del pianeta (pensiamo, per esempio, agli alisei); oppure a un minor irraggiamento solare che, nel cretaceo, ha determinato una riduzione di cibo a disposizione degli erbivori, che sono alla base della catena alimentare, e a una loro graduale estinzione (questa è, almeno, la teoria più accreditata per la scomparsa dei dinosauri). Le cose però si complicano, e di molto, se ci riferiamo O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_1, © Springer-Verlag Italia 2014
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
a cosa può determinare l’introduzione di un “movimento”, piuttosto che un suo esaurimento, nella mente umana. Si tratterà del prevalere di un istinto o non piuttosto di una particolare situazione relazionale o ancora dell’interazione tra qualcosa di istintuale e di ambientale? Ci sono così stati autori che hanno più posto l’attenzione su movimenti presenti all’interno dell’individuo e autori che hanno invece sottolineato l’importanza della presa in esame dell’insieme delle interazioni dinamiche tra individuo e ambiente. Nel primo caso è emblematico il punto di vista di Carl R. Rogers (1902–1987), che parla di una tendenza attualizzante a suo avviso presente in ogni individuo: attraverso essa si manifesterebbe in modo spontaneo una spinta (motivazione) all’autorealizzazione (Rogers, 1951), consistente in uno stadio di minor conflittualità possibile, maggiore integrazione possibile e, quindi, maggiore energia a disposizione per una vita produttiva. Un qualcosa presente a livello psichico, che ha una corrispondenza a livello organico: per esempio, le informazioni che i geni da noi posseduti portano e di cui noi siamo espressione. Così come non possiamo impedirci di crescere, svilupparci e quindi invecchiare, analogamente, secondo Rogers, se non intervengono fattori di impedimento capaci di generare più o meno gravi forme di disagio psichico, noi siamo “programmati” per autorealizzarci. Si tratta di un punto di vista evidentemente ben radicato in un ottimismo e pragmatismo presente negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Nell’altro caso è esemplare la concettualizzazione di Kurt Lewin (1890–1947), in particolare laddove ipotizza il principio di interdipendenza tra persona (P), ambiente (A) e comportamento (C), i tre fattori fondamentali che, a suo parere, determinano ciò che osserviamo. Formatosi in Europa presso autori di spicco della Gestalt Theorie1, Lewin ha dato un contributo molto significativo a una visione squisitamente dinamica dell’uomo e dell’ambiente in egli cui vive. Criticando il modo di procedere sino a quegli anni in uso in psicologia e in psicoanalisi2, Lewin è partito dalla constatazione che lo spazio psicologico o spazio di vita è qualcosa di molto complesso, ma di osservabile e descrivibile con precisione grazie al contributo di discipline extra-psicologiche quali la topografia. Il suo obiettivo è stato quello di ricomporre la frattura che si stava creando in quegli anni tra area cognitiva e area affettivo-dinamica, ipotizzando una reciproca influenza tra esse. Ne sono prova i comportamenti infantili che spesso Lewin utilizza per illustrare i suoi principi (Lewin, 1935), nei quali centrale è il concetto di valenza o forza (attrattiva o repulsiva) che ogni regione dell’ambiente possiede. In questa prospettiva, un conflitto può essere definito da Lewin come “l’opposizione di forze di campo di intensità approssimativamente uguale” (Lewin, 1935, pp. 111–112). Un vettore rappresenterà graficamente la direzione del comportamento e l’intensità con cui esso è cercato.
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2
Si tratta di una delle più importanti correnti della psicologia del primo ’900. Suoi fondatori sono di solito considerati Kurt Koffka, Wolfgang Köhler e Max Wertheimer, che condussero fondamentali studi sulla percezione e altre funzioni cognitive; si opposero allo strutturalismo e all’elementarismo; uno dei capisaldi del loro pensiero è ben sintetizzato dalla convinzione che il tutto sia diverso dalla somma delle singole parti. Si tornerà tra poco su questo autore a proposito di “metodo” in psicologia dinamica.
1.1 Dinamismo mentale
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È nell’ordine naturale delle cose che più l’individuo cresce, più il suo spazio psicologico diventerà complesso; e più tale spazio sarà complesso, più la ricerca di cosa ci spinge a un certo comportamento piuttosto che a un altro sarà ricca e articolata. A questo proposito, Lewin dà delle semplici, ma chiarificanti descrizioni della mente (persona) e dell’ambiente in cui essa è inserita (Fig. 1.1).
r
r r
r
r
A
r
p c p cc c p c c c p c c r p
r r r
r
P A = ambiente psicologico P = persona r = regioni in cui è suddiviso l’ambiente psicologico p = regioni periferiche della persona a più diretto contatto con l’ambiente (zona percettivo-motoria) c = regioni centrali della persona (zona interno-personale) Fig. 1.1 Lo spazio psicologico: la totalità dei fatti (Ambiente + Persona) che determina C
(Comportamento) in un dato momento T1 (tratto e modificato da Lewin, 1936, p. 188)
Bc p c p
a
c
Bp
Bp
Bp
p c
A
p
p M b
c
A p
A M
M
c
c = regioni centrali della persona (zona interno-personale) p = regioni periferiche della persona a più diretto contatto con l’ambiente (zona percettivo-motoria) A = ambiente psicologico Bc = linea di frontiera (boundary) delle regioni interne della persona (parte più interna dell’individuo I) Bp = linea di frontiera (boundary) delle regioni meno interne della persona rispetto a quelle centrali (parte intermedia dell’individuo I) M = regione moto-percettiva della persona (parte più esterna dell’individuo I) Fig. 1.2 La persona in diverse situazioni (tratto da Lewin, 1936, p. 192): a situazione rilassata; b situazione di tensione; c situazione di forte tensione
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
Sia la persona che l’ambiente risultano divisi in regioni ben delimitate, la cui valenza positiva o negativa varia continuamente. Non solo, ma può capitare che un’emozione particolarmente impegnativa da gestire, determinata dall’ambiente, provochi un irrigidimento delle frontiere della persona o, nel caso peggiore, un temporaneo venir meno delle frontiere presenti all’interno della persona stessa: è, per esempio, il caso dell’attacco di panico, nel momento in cui lo stato d’ansia crei una tensione tale nell’individuo da coinvolgere disordinatamente la totalità delle regioni della persona (relazione con le persone, attenzione al contesto, concentrazione sugli altri stimoli, ecc.) (Fig. 1.2). Lewin introduce il principio di contemporaneità per dare l’idea di come certi assetti della mente della persona, dell’ambiente e del comportamento che ne scaturisce si diano in un preciso tempo T0; si può stare certi che solo qualche istante dopo, in T1, le cose sono già cambiate, poiché il campo ha come sua caratteristica fondamentale quella di contenere dell’energia in equilibrio instabile. Un esempio tratto dalla clinica può aiutarci a cogliere intuitivamente quello che Lewin ha cura di formalizzare con precisione: il campo psicologico che si crea in una stanza d’analisi varia di momento in momento, a partire per esempio dalla posizione che l’analista prende – di fronte al paziente o dietro di lui. Non solo, ma per quanto l’analista sia incline al silenzio, il suo stesso silenzio non potrà non interferire con la strutturazione di uno specifico campo – di attesa da parte del paziente, di ostilità nei confronti dell’analista o di altro ancora. Tutto ciò rende l’idea della complessità di un concetto molto utilizzato, non solo in campo psicologico, che è quello di motivazione: è infatti la motivazione che spinge a fare (o a non fare) qualcosa, in grado di modificare, creando uno squilibrio, un determinato campo psicologico. E la psicologia dinamica, secondo una certa letteratura, è anzitutto una “psicologia della motivazione”. Vale perciò la pena soffermarsi brevemente su tale concetto.
1.2
Psicologia dinamica e motivazione
Nel secolo scorso vi sono stati alcuni autori – Boring (1950) per primo, ma poi anche Murray (1964) – che hanno considerato appropriata la definizione di psicologia dinamica come psicologia della motivazione, poiché essa avrebbe come scopo principale l’identificazione dei fattori alla base del nostro comportamento e ciò che lo guida. Questa semplice definizione diventa immediatamente più articolata e complessa se però ci si ferma a riflettere sul fatto che, in realtà, la motivazione è un costrutto composto da differenti elementi, attuabile a partire da singoli processi parziali tra loro associati (Rheinberg, 2002). È per esempio possibile interrompere la lettura di questo libro per il fatto di trovarlo noioso, ma anche perché abbiamo un appuntamento a breve o ancora perché ci si trova di fronte a un passaggio particolarmente ostico che richiede una concentrazione che in questo momento non abbiamo. In linea generale, è condivisibile l’ipotesi esplicativa della motivazione a partire da due prospettive d’analisi: quella che pone al centro la spinta interna a
1.2 Psicologia dinamica e motivazione
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fare (o evitare di fare qualcosa) e quella che invece si focalizza sull’attrazione a trovarsi (o a non trovarsi) in una certa condizione da raggiungere (Rheinberg, 2002). D’altra parte, un conto è “motivarsi” a mangiare spinti dai morsi della fame; un altro conto è “motivarsi” a studiare e sostenere esami per arrivare a conseguire una maggiore competenza in un settore che ci interessa. Per non parlare poi di un certo tipo di comportamento, la cui base motivazionale ha un chiaro risvolto sociale come, per esempio, può essere la riuscita o il potere (McClelland, 1975; 1978). Anche a partire da queste considerazioni, alcuni anni fa altri autori hanno messo in evidenza che, per quanto la motivazione rimanga un costrutto rilevante all’interno della psicologia dinamica, non ne esaurisce la ricchezza d’approccio. Imbasciati (1986) ha così affiancato con decisione, come aspetto fondativo di questa area della psicologia, allo studio della motivazione quello dei processi “profondi” della nostra mente, mentre Jervis (1993; 2001) ha sottolineato che la psicologia dinamica sviluppa tematiche in forma aperta e a volte controversa. In questa prospettiva, di grande interesse è anche l’approccio alla disciplina proposto da Stella (1992), che ha posto l’accento sul fatto che la psicologia dinamica rappresenta un insieme molto complesso di conoscenze circa la natura del mondo interno e delle sue relazioni con quello esterno. Questo punto di vista, ribadito con convinzione successivamente (Stella e Rossati, 1996), fa agio sulla convinzione che la psicologia dinamica abbia preso spunto, nel corso del suo sviluppo, da teorie diverse: per esempio, dalla Gestalt Theorie, dalla teoria di campo, o da quelle a orientamento personologico (Stella, 2000). Forse proprio questa contaminazione tra più aree del sapere psicologico ha permesso alla psicologia dinamica di avere ampi territori di applicazione (Brustia Rutto e Ramella Benna, 2003), fornendo un suo specifico contributo alla comprensione di fenomeni dell’individuo, del gruppo o dell’istituzione. Una ricerca condotta qualche anno fa all’interno della Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano (Oasi e Castelli, 2004) ha confermato un’altra convinzione abbozzata da Stella nel 2000: quella che la psicologia dinamica possa avere come compito meno immediatamente individuabile, ma determinante sul piano motivazionale e formativo, quello di “formare un’attenzione”, cioè “sensibilizzare il suo frequentatore a un’osservazione critica dei messaggi che di continuo ci raggiungono, da dentro e da fuori” (Stella, 2000, p. 17). Con un gioco di parole efficace e sintetico, la psicologia dinamica ci indica come “apprendere ad apprendere” (Oasi e Castelli, 2004). Si tratta naturalmente di un obiettivo “ideale”, nel senso che gli elementi che a volte interferiscono con i nostri processi di apprendimento rimangono oscuri, senza che questi ultimi fortunatamente ne rimangano troppo danneggiati. Tali processi fanno spesso parte di quell’area della nostra mente, perlopiù preconscia, su cui raramente ci soffermiamo, nonostante sia il tramite per l’area della nostra mente più “profonda”. Quest’aggettivo, poco preciso ma effettivamente efficace dal punto di vista comunicativo, ci porta all’altra grande area con cui la psicologia dinamica è stata identificata: la “psicologia del profondo”.
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1.3
1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
Psicologia dinamica e “psicologia del profondo”: sovrapposizione o contrapposizione?
Anche nel linguaggio comune si parla di “psicologia del profondo” per indicare quell’area della psicologia che indaga le zone meno accessibili della nostra mente, quelle cioè che si sottraggono ai comuni processi di autopercezione e consapevolezza. In modo spesso sbrigativo ciò ha comportato una sorta di equiparazione tra “psicologia del profondo” e psicoanalisi e tra quest’ultima e la psicologia dinamica. Si tratta, in realtà, di un tipo di classificazione piuttosto discutibile. Chi scrive ritiene infatti che esistano autori che, pur non appartenendo alla psicoanalisi, hanno concezioni dell’uomo e degli eventi estremamente dinamiche (un esempio per tutti può essere proprio Kurt Lewin di cui si è poc’anzi parlato). È d’altra parte innegabile che il modello psicoanalitico, in particolare quello freudiano, abbia come sua caratteristica essenziale proprio l’ipotesi dell’esistenza all’interno dell’individuo di una forza – la pulsione – che ne determina il comportamento. A complicare le cose c’è il fatto che la storia della psichiatria comprende due momenti di sviluppo denominati “prima psichiatria dinamica” e “nuova psichiatria dinamica” (Ellenberger, 1970). Come nel caso della motivazione, ci si trova dunque anche qui di fronte a un qualcosa di estremamente articolato. Un tentativo per chiarire meglio tutto ciò può essere fatto tenendo conto dell’etimo dell’aggettivo “dinamica”: come detto all’inizio di questo capitolo, esso rimanda al concetto di “forza”, cioè a qualcosa che agisce dentro noi o è presente all’interno degli eventi, spesso senza che l’agente o l’osservatore ne sia consapevole. Ad esempio, uno studente potrebbe interrogarsi su cosa l’abbia spinto a iscriversi al Corso di Laurea in Psicologia: senz’altro riuscirebbe a darsi delle risposte legate al desiderio di capire come la mente umana funzioni o a quello di essere di aiuto agli altri (Stella e Oasi, 1996a) o ad altri desideri ancora. Ma tali desideri esaurirebbero davvero tutte le motivazioni possibili? O non è forse plausibile pensare a qualcosa d’altro, che potrebbe sfuggire allo studente in questione? Non si tratta di “psicoanalizzare” – brutto verbo, tra l’altro – ogni comportamento del singolo; anzi, ogni individuo dovrebbe provare il piacere di sentirsi libero. Tuttavia, l’esperienza insegna che possono intervenire motivazioni “profonde”, meno accessibili alla coscienza, ma molto influenti: un meccanismo di identificazione inconscia con qualcuno che forse non si conosce neppure direttamente o, all’opposto, il bisogno di disidentificarsi, cioè identificarsi come diverso rispetto a qualcun altro. Se per “psicologia del profondo” si intende quell’area della psicologia dinamica sensibile a processi mentali come questo, allora non si possono negare ampie aree di sovrapposizione tra l’una e l’altra e tra esse e un operare in senso psicoanalitico. La convinzione di chi scrive è che la motivazione, che pure è un concetto trasversale a più aree della psicologia, acquisti una sua specificità in psicologia dinamica, poiché quest’ultima sarebbe particolarmente attenta ad aree che sfuggono alla coscienza. Il che non implica l’accoglimento di specifici modelli psicoanalitici, a partire da quello freudiano, che hanno cercato di dare un nome a queste aree “profonde” della mente. Situazioni esemplificanti e illuminanti rispetto a quanto sopra affermato sono offerte dalla clinica. Un paziente può, a un certo punto del suo trattamento, iniziare a esprimersi o a comportarsi come il suo analista: inserire modi di dire o utilizzare toni
1.3 Psicologia dinamica e “psicologia del profondo”: sovrapposizione o contrapposizione?
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di voce di quest’ultimo (Mancia, 2004), senza esserne consapevole. All’interno di un’équipe psichiatrica, il discutere sul caso di un paziente può attivare negli operatori reazioni verbali e non che possono essere “agite” in quel contesto o essere fatte silenziosamente proprie dal singolo e solo in secondo tempo, se ritenuta utile la cosa, comunicate. L’immagine sintetizzata da Racamier nel titolo del suo lavoro del 1972 rende bene l’idea di un assetto della mente che, a prescindere dalla cornice in cui è inserita, si attiva per raggiungere una consapevolezza di ciò che succede dentro e fuori di lei. Far fronte a idee, desideri, affetti, paure, fantasie che una situazione attiva dentro ognuno di noi è forse la specificità di una disciplina psicologica che pone comunque al centro i diversi “strati”, più o meno “profondi”, di cui la nostra mente è composta (Fossi, 1983; Gabbard, 1990). Come si accennava sopra, anche la storia della psichiatria è costellata di “incursioni” nel “profondo” e si è in alcuni periodi storici connotata in senso “dinamico” (Ellenberger, 1970). Vale la pena osservare che il timore dell’azione di forze provenienti dall’interno della psiche, ma nonostante questo sconosciute, si può dire attraversi l’intera storia dell’umanità: si pensi al mito platonico della biga alata e al tentativo in esso fatto di raffigurare le due parti della nostra “anima” – quella razionale (il cavallo bianco) e quella irrazionale (il cavallo nero) – e una funzione organizzante (controllante) delle stesse, l’auriga della biga; o, sempre nell’antica Grecia, alla contrapposizione tra spirito apollineo e spirito dionisiaco: straordinaria la lettura nietzschiana al riguardo (Nietzsche, 1872). Ma si pensi anche alla famigerata “caccia alle streghe” in epoca tardo medioevale, con il tentativo di attribuire poteri derivati da contatti con forze oscure, perlopiù di origine infernale, ad alcune donne, ritenute a quel punto capaci di compiere sortilegi, malefici, fatture o altro ancora nei confronti dell’uomo e dell’umanità in generale; è noto a tutti il terribile destino occorso a queste donne. O, ancora oggi, al disagio che una malattia psichiatrica grave, come può essere la schizofrenia, genera in chi ne soffre e in chi convive con essa perché un familiare ne è affetto: benché ampie siano ormai le conoscenze e le possibilità di cura al riguardo, significativa è ancora la presenza dello stigma (Dickerson et al., 2002), che tende a isolare questi pazienti dal tessuto sociale come fossero portatori di qualcosa di profondamente inquietante, che sfugge al controllo3. Nello stesso tempo, ciò che è sconosciuto e oscuro può incuriosire, quando non attrarre: è, in fondo, qualcosa che fa parte di noi, del nostro modo di funzionare, per quanto poco o per niente abituale. È così più che condivisibile l’ipotesi di chi – come appunto Ellenberger (1970) – ha messo in evidenza che l’avvento della psicoanalisi, intesa come disciplina del “profondo”, affonda le sue radici in un movimento storico e culturale partito molti anni prima. E la psicoanalisi, nel suo sviluppo come movimento, si interfaccia continuamente con il momento storico e culturale in cui si inserisce: dai suoi inizi, in cui essa rappresenta un gruppo ristretto di medici e intellettuali che intende dar voce alle emergenti aspirazioni della vita del singolo in un 3
È bene precisare che questo non implica la condanna di chi possa provare un senso di disagio nell’entrare in contatto con questo tipo di realtà: l’uscire dal solco tracciato – questo, tra l’altro, il significato etimologico del termine delirio – vissuto da questo tipo di pazienti porta spesso con sé un carico d’angoscia di fronte al quale ci si può trovare a volte impreparati.
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
momento che vede la nascita della produzione e della società di massa (1890–1914), agli anni della sua affermazione, nei quali essa fornisce una sorta di ideologia utopica capace di essere alternativa a quella della grande impresa di capitali (1919–1939) (Zaretsky, 2004). È come se la psicoanalisi fornisse le motivazioni interiori, dei singoli, per una trasformazione socioeconomica più ampia. In questo senso essa ha a sua volta influenzato stili di vita ed educativi – come non pensare all’apporto della psicoanalisi alla comprensione dell’infanzia – ma soprattutto nuove modalità d’approccio alla psicopatologia, quella quotidiana e quella dei servizi psichiatrici (Jervis, 1999). Per non dire, poi, della forte commistione tra psicoanalisi e arte da un lato (Lavagetto, 1998), psicoanalisi e altre branche della psicologia dall’altro (Westen, 1998): sul finire dell’Ottocento, Vienna è la capitale del più vasto impero del mondo e lì vivono e lavorano straordinari artisti e pensatori (Gustav Klimt, Gustav Mahler, Ludwig Wittgenstein solo per citarne alcuni); ma il declino è ormai vicino e verrà sancito dall’esito della Prima guerra mondiale. È possibile ritenere che gli intellettuali del tempo abbiano operato una sorta di negazione della realtà esterna e si siano rivolti difensivamente ad aspetti della vita interiore (Jervis e Bartolomei, 1996)? Se è così, Freud sembra seguirli su una via che lo porterà a scavare dentro di sé, scoprendo quelli che diventeranno i contenuti dell’inconscio. Ma con una importante differenza: Freud conserverà sempre una sostanziale fiducia nel modo di procedere secondo le ragioni della scienza, cercando di trovare in essa la spiegazione anche a comportamenti irrazionali o distruttivi (Freud, 1932c).
1.4
Continuità/discontinuità della vita mentale
Quanto detto sinora richiama un altro tema proprio della psicologia dinamica: quello dei confini, ma anche delle intersezioni tra specifici modi di essere di ciascuno di noi, tra il singolo (il mondo interno) e l’ambiente (il mondo esterno). La domanda cui la psicologia dinamica tenta cioè di dare una risposta è se esista continuità, piuttosto che discontinuità o cesure, nella mente di ciascuno e tra la mente del singolo e l’ambiente. Se osserviamo un bambino, anche molto piccolo, nel suo percorso di crescita, non possiamo non prendere atto di una forza che lo spinge lungo linee di sviluppo che coinvolgono aspetti diversi: quello emotivo anzitutto, con una progressiva migliore gestione delle proprie emozioni (positive e/o negative), ma anche quello cognitivo, con un costante aumento delle competenze linguistiche e logico-matematiche, e quello sociale, con un significativo aumento delle capacità di stare in gruppo. Anna Freud ha mirabilmente sintetizzato tutto questo introducendo il concetto di linea evolutiva (Freud A, 1965), attraverso cui il punto raggiunto dal bambino nel corso del suo sviluppo può essere valutato con attenzione e precisione. Si tratta di un percorso di sviluppo che porterà il bambino, nel corso degli anni, a diventare dapprima adolescente e poi persona adulta. Ma già il passaggio all’età adolescenziale pone importanti questioni relative al-
1.4 Continuità/discontinuità della vita mentale
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l’effettiva continuità, piuttosto che a un’importante discontinuità, nello sviluppo. Se già per un genitore può a volte essere difficile “riconoscere” il proprio figlio o la propria figlia per i nuovi modi di porsi e comportamenti che mette in atto, figuriamoci per l’adolescente in questione! Non è però questa la sede per illustrare i vari modelli interpretativi dell’adolescenza, che hanno cercato di fornire qualche possibile spiegazione a supporto di un processo di comprensione di questa fase dello sviluppo. Qui interessa sottolineare che questo passaggio evolutivo sembra segnare un cambiamento tale da implicare una discontinuità con il passato: il senso di incertezza, il bisogno di sentirsi reale (“consistere”) o ancora il senso di isolamento e di solitudine sembrano caratterizzare in modo specifico gli affetti di questa età (Oasi, 2000). Non solo, ma anche i cambiamenti avvenuti nella società contemporanea – dove molti riti di passaggio sono stati eliminati o persi (Ahovi e Moro, 2010), la figura del padre sembra essere pressoché “tramontata”, perdendo molta della sua “forza” di opposizione, ma anche di crescita (Recalcati, 2011), e i confini della persona sembrano a volte messi a rischio dalla “rete” e dalla “connessione h24” – sembrano rendere ancora più stridente il contrasto tra infanzia e adolescenza, a volte anticipandolo nel tempo. Detto questo, tuttavia, nel momento in cui l’adolescente, a fronte magari di un momento di crisi o di difficoltà, si fermi a riflettere sulla sua storia o laddove, all’interno di un’analisi, il paziente ritorni con la dovuta calma e profondità sul proprio passato, riemergono importanti e imprescindibili elementi di continuità. Molti sono i modi attraverso cui essa può essere colta: a partire da un conflitto con uno dei genitori già presente in infanzia e ora riattivatosi, da un senso di rinuncia a “buttarsi” nell’infanzia che ora si trasforma in fastidiosa inibizione e obbligata rinuncia a qualcosa o a qualcuno o ancora da un comportamento adolescenziale che sembra l’esatto opposto di quello infantile (a proposito di una continuità negata). La psicoanalisi, d’altra parte, ha il proprio punto di forza proprio nella possibilità di ritornare sul passato, nel tentativo di fornirne una rielaborazione nel “qui e ora” della relazione analitica. Tracciare delle linee che dal presente tornano al passato e, da questo, di nuovo al presente non implica fortunatamente sempre una messa in discussione della propria vita: sono “azioni mentali” che spesso si attivano da sole (una sorta di forza propulsiva preesistente). Esse fanno parte di quel processo di costruzione dell’identità, che avviene spontaneamente, ma che può riservare inevitabili difficoltà nei momenti di passaggio più delicati. D’altra parte, identità richiama da un lato continuità, dall’altro discontinuità (cambiamento), nel senso che è possibile sperimentare esigenze di separatezza, di autonomia, di indipendenza, ma nello stesso tempo esigenze di condivisione, di cooperazione e di dipendenza (Stella e Oasi, 1996b). L’argomento diventa ancora più complesso nel caso si tenga conto di approcci come quello delle neuroscienze o delle scienze cognitive che, accanto a quello clinico, hanno recentemente fornito un ulteriore contributo (Bara, 2007). Ci si potrebbe soffermare sul tema continuità/discontinuità anche attraverso un altro vertice osservativo, forse un po’ di parte, ma estremamente stimolante: quello che contrappone conscio e inconscio. Come si vedrà nello sviluppo di alcuni punti del pensiero di Freud, il padre della psicoanalisi è stato maestro nel mostrarci come solo per ragioni di comprensione dei nostri processi mentali sia opportuno distinguere l’uno dall’altro e che, in realtà, la mente possa “essere parlata” da essi contempora-
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
neamente, seppure, a volte, in modo conflittuale. Si prenda, ad esempio, l’attività onirica: essa è chiara espressione di un’attività che ha luogo in un momento in cui il nostro controllo cosciente è minimo, se non nullo, e sembra ispirarsi a un tipo di funzionamento totalmente diverso da quello presente nella vita vigile. La discontinuità è evidente. Eppure, siamo sempre noi a produrre quel sogno e possiamo essere solo noi a portare delle associazioni che possano favorire una sua comprensione/interpretazione. Non solo: la nostra parte cosciente può riuscire, grazie anche all’aiuto di ciò che è recuperabile nella nostra memoria (preconscio), a sentire come “proprie” anche le parti espresse nel sogno. Certo, ci si potrebbe interrogare su cosa sia la coscienza, come molti filosofi hanno brillantemente fatto già prima che venisse fondata la psicoanalisi (Di Francesco, 2000); ma non è questo il punto. Il punto è valutare la “consistenza” dei confini tra conscio e inconscio. L’ipotesi dell’esistenza di un “pensiero onirico della veglia” proposta da Bion (Bion, 1962; 1991) è, da questo punto vista, rivoluzionaria. Ritenere che, mentre viviamo un’esperienza, in qualche modo la sogniamo e solo ciò che è preventivamente sognato – e quindi elaborato dalla nostra funzione α (alfa)4 – può diventare inconscio, ribalta con decisione la prospettiva dicotomica conscio/inconscio e spinge con decisione a porre lungo un continuum pensiero diurno e pensiero notturno. In questa prospettiva viene meno un’ultima contrapposizione su cui può essere opportuno soffermarsi: quella tra normalità e patologia. In altre parole: che cosa è “normale”? Ed è possibile individuare un limite oltre il quale si entra nell’area della patologia (mentale)? Si parta anche qui da ciò che è osservabile: di fronte a una stessa situazione, per esempio un lungo viaggio aereo, ognuno si pone in modo diverso e attua proprie strategie di adattamento. Ci sarà chi affronterà questo viaggio come fosse uno dei tanti spostamenti possibili, forse solo un po’ più lungo; chi, consapevole di affrontare un’esperienza per lui un po’ particolare, la affronterà comunque con serenità e motivazione; chi, infine, preoccupato (o messo in ansia) da tante ore di volo, vi rinuncerà. In quest’ultimo caso si è di fronte a qualcosa di psicopatologico? Parlando in termini strettamente descrittivi, si deve dire di sì (fobia specifica); ma quanti hanno delle fobie e ci convivono senza per questo sentirsi “anormali”? O quanti vivono come ansiogene talune situazioni, ma non per questo si rivolgono a uno specialista? Sulla base di questo esempio, è possibile fare alcune considerazioni: 1) sapersi adattare a una situazione nuova è sicuramente una capacità che garantisce un buon livello di benessere; 2) a fronte di alcune carenze adattative, può aumentare il livello di disagio (e, per esempio, di ansia); tuttavia, il grado di tolleranza di quest’ultimo varia da persona a persona (né è da sottovalutare che una certa quota d’ansia, attivando ai massimi livelli la capacità di reazione allo stimolo, può tornare utile); 3) avere una certa variabilità nel funzionamento è normale: così qualcuno, pur sapendo di non poter intraprendere lunghi viaggi aerei, può sentirsi del tutto “normale”. Semplificando un po’, si potrebbe allora dire che è l’esperienza soggettiva, percepita 4
La funzione α (alfa) è descrivibile come quella funzione che permette alla nostra mente di elaborare e rendere “digeribili” quelli che Bion chiama elementi β (beta), cioè elementi sensoriali ed emotivi grezzi non organizzati. Prototipo della funzione α è quella che la madre mette inconsapevolmente in atto per comprendere i bisogni del proprio bambino nei primi mesi di vita.
1.5 Psicologia dinamica e metodo: un incontro fruttuoso?
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del disagio e del sintomo a determinarne il carattere psicopatologico. Taluni vissuti possono inoltre essere normalmente presenti in specifiche fasi dello sviluppo (per esempio, un senso di impasse o di forte irrequietezza in adolescenza: il che rende ancora più complesso discriminare tra normalità e patologia). Si deve allora rinunciare a qualunque distinzione? Evidentemente no! E lo sforzo fatto dai redattori del PDM (cfr. capitolo 2) va in questa direzione. L’obiettivo ultimo di un corretto approccio dinamico non è dunque quello di contrapporre normalità e patologia, bensì quello di vederle disposte ai poli opposti di un continuum lungo il quale l’individuo si pone. La sua posizione su tale continuum varierà nel tempo sia rispetto al suo assetto strutturale di personalità, sia rispetto alla gestione dei suoi rapporti con l’ambiente. È uno sforzo che accomuna tutti gli autori che si ispirano al modello psicodinamico, compresi quelli di area francese, notoriamente meno inclini a classificazioni nosografiche. Così Bergeret offre una sintesi conclusiva di quanto stiamo affermando in questo modo: “la normalità non può che coordinare i bisogni pulsionali con le difese e gli adattamenti alla realtà, i dati interni sia ereditari che acquisiti con la realtà esterna, le possibilità caratteriali e strutturali con i bisogni relazionali” (Bergeret, 1996, p. 11).
1.5
Psicologia dinamica e metodo: un incontro fruttuoso?
Come si accennava scrivendo su K. Lewin, il metodo è un altro aspetto caratterizzante la psicologia dinamica. Fu proprio questo autore, infatti, a porre con forza il problema, evidenziando come una delle criticità della psicologia, non solo quella dinamica, fosse proprio quella di un metodo che la rendesse scientificamente fondata e, come tale, confrontabile con altre discipline scientifiche. In particolare, questo autore propose un cambiamento radicale di prospettiva: era necessario, infatti, passare da una concezione aristotelica a una concezione galileiana dell’evento psicologico. L’aspetto più qualificante di questo nuovo modo d’intendere le cose consisteva nel considerare anche il singolo fatto come qualcosa di inscrivibile all’interno di leggi più generali, oltre al netto abbandono di approcci che attribuivano qualità agli oggetti a partire dalla loro essenza. Un metodo di questo tipo non è però così facilmente attuabile all’interno di un contesto di cura; in altre parole, non è affatto semplice individuare leggi generali che governano il nostro comportamento. Benché Lewin abbia fornito e descritto ottimi esempi delle modalità attraverso cui un conflitto si sviluppa e può risolversi, la psicoanalisi ipotizza, per esempio, la presenza di forze di cui l’individuo non sarebbe sempre cosciente e che possono esercitare una pesante influenza nel determinare uno specifico stato mentale. Vero è, come Lewin più di tutti ha cercato di dimostrare, che il metodo osservativo, di chiara matrice fenomenologica, rimane uno dei più specifici di questa area della psicologia. Esso va incontro anche all’esigenza di rispettare l’ambiente in cui un certo evento avviene (criterio ecologico), a scapito di un possibile controllo da parte dell’osservatore (Kazdin, 1992). A supporto del metodo osservativo, in psicologia dinamica si sono via via affermati alcuni importanti strumenti di valutazione, che si
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
propongono l’individuazione di forze riconducibili a determinate rappresentazioni interne o di specifiche modalità di funzionamento mentale (cfr. capitolo 2). Rimangono tuttavia alcuni elementi problematici, ascrivibili probabilmente alla complessità dell’oggetto trattato. Facciamo qualche esempio. In fisica, se sto studiando il cambiamento di stato da liquido a gassoso di un elemento, posso facilmente dimostrare che tale cambiamento è causato da un innalzamento della temperatura dell’elemento stesso: tutti sappiamo, infatti, che a 100 gradi l’acqua bolle e si trasforma in vapore acqueo (fatta eccezione per alcune condizioni particolari come quelle d’alta quota). Si tratta dunque di una causalità che potremmo definire lineare: da un certo evento A (innalzamento della temperatura) dipende un preciso evento B (il cambiamento di stato dell’elemento). In medicina le cose si complicano un po’. Supponiamo infatti che un paziente febbricitante si presenti in ambulatorio dal medico: quest’ultimo può prendere in considerazione sia quanto il paziente gli riferisce (per esempio, un dolore addominale), sia valutare il grado di tensione dell’addome attraverso una visita accurata. Non è detto, tuttavia, che il medico abbia sufficienti elementi per stabilire la causa certa della febbre: il dolore addominale potrebbe essere infatti attribuibile a un’indigestione, a un’infiammazione dell’appendice o ancora a una forma virale di tipo influenzale. Solitamente il medico, correlando i vari indizi, si fa un’idea abbastanza precisa della causa della febbre e propone una terapia al paziente; ma può anche capitare che decida di prescrivere degli accertamenti diagnostici (per esempio, esami ematici) per dissipare ogni dubbio di fronte a una non remissione del sintomo. Dunque, in sintesi, il medico riesce in linea di massima a determinare la causa di un certo evento morboso; ma quello che qui è importante rilevare è che un sintomo – la febbre – può avere più di una causa. Passiamo ora alla psicologia, nello specifico all’area della psicologia dinamica, nella sua declinazione all’interno della clinica5. Un paziente si presenta in studio con un aspetto provato e lamentando un senso di oppressione al petto, risvegli notturni e irritabilità: subito possiamo sviluppare delle ipotesi sulla possibile causa di questi sintomi e pensare, ad esempio, a un disturbo d’ansia. Ma supponiamo che il paziente, dopo averci riferito i sintomi di cui sopra, ci racconti di un lutto subito recentemente e della sofferenza ad esso connessa o che, invece, si trovi in questo momento in una particolare situazione nell’azienda in cui lavora: saremmo subito costretti a seguire un’altra strada rispetto a quella del disturbo d’ansia. Risulta allora chiaro quanto sia difficile determinare cause precise: una tendenza alla somatizzazione del paziente? Un evento stressante recentemente avvenuto? Altro? Certo, anche lo psicologo, come il medico, può decidere di utilizzare degli strumenti di approfondimento diagnostico, oltre al colloquio: ad esempio, un test di personalità o un reattivo. Di solito, tuttavia, è difficile in psicologia dinamica arrivare a individuare un’unica causa: più opportunamente, a parere di chi scrive, risulta utile parlare di una multifattorialità causale, ossia di una causa che fa riferimento a più di un fattore, per esempio di ordine personale e ambientale. A dimostrazione della difficoltà a individuare cause precise possono essere citati anche i risultati delle recenti ricerche in campo psicoterapeutico. Capire, per esempio, 5
L’aggettivo “clinico” deriva dal sostantivo greco κλίνη (letto), a indicare il luogo dove il paziente è fatto accomodare durante una visita medica.
1.6 Concetti metapsicologici e concetti clinici
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che cosa fa “funzionare” una psicoterapia è una sfida che ha talvolta scoraggiato anche i più agguerriti ricercatori. Così, per un certo periodo, si è diffusa l’idea della veridicità del verdetto di Dodo: “Tutti hanno vinto e ognuno deve ricevere un premio”; un modo per far passare l’idea che, confrontando diversi approcci terapeutici, nessuno risulta significativamente più efficace di altri (Dazzi, 2006). Conviene allora rinunciare a ricerche di questo tipo e credere in una qualche forza che fa andare bene le psicoterapie? Evidentemente no! Oltre a un progressivo ampliamento di metodi e obiettivi di ricerca in psicoterapia – ricerche sull’esito, ricerche sul processo, ricerche sui microprocessi terapeutici (Migone, 2006) – anche nella comunità psicoanalitica, da sempre piuttosto refrattaria per motivi a volti anche giustificati all’approccio empirico, cioè di verifica dei risultati, sono stati fatti significativi sforzi in questa direzione. Esemplari sono, a questo riguardo, gli articoli di Westen et al. (2004) e di Fonagy (2006), raccolti in appendice nell’edizione italiana del PDM, che cercano di mostrare da un lato la necessità di pensare a metodologie corrette quando si vogliano valutare disturbi e trattamenti specifici, dall’altro l’efficacy delle psicoterapie psicodinamicamente orientate per una serie di disturbi.
1.6
Concetti metapsicologici e concetti clinici
Questa distinzione si ricollega a quanto detto poc’anzi sul metodo; nello stesso tempo, permette di delimitare con più chiarezza l’area concettuale della psicologia dinamica. Il termine metapsicologia è accennato da Freud per la prima volta in due lettere indirizzate a Fliess del 13 febbraio 1896 – “La psicologia – in verità la metapsicologia – mi occupa incessantemente” (Freud, 1887–1904, p. 201) – e del 2 aprile dello stesso anno e poi ripreso in un’altra lettera del 10 marzo 1898. Dunque, un argomento che fu ben presente a Freud in anni in cui l’edificio psicoanalitico era ancora in piena fase di progettazione. Utilizzato anche in Psicopatologia della vita quotidiana del 1901, il termine metapsicologia assume il suo pieno significato nel saggio dedicato all’inconscio compreso in Metapsicologia del 1915 e indica la massima espressione della ricerca psicoanalitica. “Propongo che, se riusciamo a descrivere un processo psichico nei suoi rapporti dinamici, topici ed economici, la nostra esposizione sia chiamata metapsicologica. Dobbiamo osservare fin d’ora che allo stato attuale delle nostre conoscenze tale risultato potrà essere raggiunto solo in alcuni casi particolari” (Freud, 1915a, p. 65). È possibile che in Freud l’idea di introdurre questo termine si basi sull’ipotesi di istituire un parallelo tra mondo fisico e mondo psicologico: se esiste una metafisica, che designa tutto ciò che va al di là del mondo fisico6, deve esistere una metapsicologia, 6
Il termine metafisica fu introdotto dai primi studiosi di Aristotele per indicare quei testi che, nella produzione del filosofo greco, erano posti dopo quelli intitolati Fisica. Nel stesso tempo, il prefisso meta- iniziò a indicare non soltanto la collocazione di quest’altro gruppo di studi (appunto “dopo” quelli di Fisica), ma anche il loro obiettivo ultimo: individuare i principi fondanti di tutte le sostanze (in questo senso “sopra” o “oltre” i libri precedenti).
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
che si occupa di tutto ciò che va al di là del mondo psicologico (osservabile). In altre parole, si tratterebbe di una disciplina che cerca di descrivere al meglio i processi psichici, individuandone la collocazione a livello dei sistemi psichici, le forze che li indirizzano verso una certa meta e la quantità di energia su cui si basano. Si tratta naturalmente di una meta ideale – Freud per esempio si cimenta con estrema perizia nella descrizione metapsicologica del processo di rimozione nel saggio sopra ricordato (Freud, 1915a) –, che apparirà ben presto molto più difficile da raggiungere del previsto. Eppure, rimangono ben individuabili, all’interno della teoria freudiana, i concetti fondativi, cioè a valenza metapsicologica, dell’edificio psicoanalitico: quello di pulsione in primis7, ma anche quello di Io o, naturalmente, quello di inconscio. I concetti clinici, come dice la parola, hanno invece l’obiettivo di descrivere specifici fenomeni o specifiche situazioni che avvengono all’interno del rapporto psicoterapeuta-paziente: la forma e l’evolversi in senso dinamico di tali concetti dipendono proprio dai concetti metapsicologici. Ecco un primo esempio: il setting. Con esso si intende quella particolare situazione entro la quale ha luogo la relazione tra chi offre una cura e chi ne usufruisce e comprende tanto aspetti concreti e strutturali (il luogo nel quale avviene l’incontro, l’orario in cui avviene, la sua frequenza e così via) quanto aspetti non “tangibili” e più “fluidi” (come mi predispongo a ricevere quel paziente? Come penso di reagire a una presa di posizione che il paziente ha mostrato nell’ultima seduta?). È il cosiddetto setting mentale dell’analista: qualcosa che “non si vede”, ma che è indispensabile esista, possibilmente non solo nella stanza d’analisi. Il setting è uno straordinario strumento a disposizione del clinico, ma è necessariamente soggetto a continue variazioni sulla base delle forze in gioco: ad esempio, non è possibile pensare di far sdraiare immediatamente sul lettino un paziente che chiede aiuto, ma che è anche in parte diffidente rispetto a un trattamento di tipo analitico; probabilmente, all’interno di un setting anche per lui accettabile, dovremo prima impegnarci ad affrontare quelle forze, espressione di una resistenza al trattamento, che devono comunque trovare modo d’esprimersi nel setting. O ancora: improbabile, anche se non impossibile, lavorare con un adolescente utilizzando un setting che preveda il lettino e un elevato numero di sedute settimanali: anche quando alla ricerca di aiuto, l’adolescente, nella maggior parte dei casi, teme i rapporti “stretti” e si troverebbe spinto in una direzione opposta – finalizzata a creare una dipendenza, seppur terapeutica – rispetto a quella che biologicamente si trova a perseguire, orientata verso l’autonomia. Tutto ciò non implica affatto che, avviata la terapia, si debba mantenere fisso un certo tipo di setting: così, un paziente può, a un certo punto, chiedere di utilizzare il lettino o un adolescente desiderare un rapporto più stretto con il suo psicoterapeuta incontrandolo più volte alla settimana. 7
Sempre in uno dei saggi in Metapsicologia (Pulsioni e loro destini), Freud dà una delle più note definizioni di questo concetto metapsicologico, che caratterizza tutto il suo modello, descritto anche come modello pulsionale. “Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista biologico, la ‘pulsione’ ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea” (Freud, 1915a, p. 17).
1.6 Concetti metapsicologici e concetti clinici
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Da cosa dipende tutto questo? È possibile fare qui riferimento a uno dei concetti metapsicologici cui si accennava sopra: l’Io. La sua “forza” (si pensi alle teorizzazioni della Psicologia psicoanalitica dell’Io) e la sua “consistenza” (si pensi alle riflessioni di Winnicott sul tema) sono elementi che non possono essere sottovalutati nel momento della presa in carico di un paziente, ma anche nel corso del suo trattamento. Né, come a un certo punto si cominciò a supporre anche all’interno dell’ortodossia psicoanalitica, sono elementi da trascurare nel lavoro clinico con i pazienti più gravi (Katan, 1954). Un secondo esempio può riguardare il concetto clinico di elaborazione (o working through, o Durcharbeitung): esso si riferisce a quel lavoro mentale necessario affinché talune nuove connessioni tra presente e passato, tra disagio attuale e ricordo doloroso ad esso legato possano essere metabolizzate e fatte proprie dal paziente, poiché prima di lui intraviste e mentalizzate dall’analista. Solo così, osservava già Strachey nel 1934, ciò che dice l’analista può dare una significativa spinta al cambiamento. Ma chiunque si occupi di clinica sa che questa è una condizione ideale e che spesso l’analista procede per progressivi avvicinamenti o “aggiustamenti di rotta” rispetto a uno specifico nucleo psicopatologico. Del resto, lo stesso Freud sembra non favorire il lavoro elaborativo di Dora (Freud, 1901b), soprattutto nel momento in cui pare aver più presente alcune sue ipotesi teoriche sull’isteria che i bisogni della giovane paziente. Ingombri teorici (dell’analista) o particolari carichi emotivi legati a quel particolare momento della vita personale (dell’analista e del paziente) o altri fattori (dell’uno o dell’altro membro della coppia analitica al lavoro) possono rendere più difficile l’avvio del lavoro suddetto. Dal punto di vista metapsicologico è possibile trovare un senso a tutto ciò tenendo conto, ad esempio, di un Super-io piuttosto rigido dell’analista, che lo “costringe” a letture interpretative del materiale che il paziente porta in seduta troppo aderenti a una sua teoria; o tenendo presente, a partire da un’altra chiave di lettura, la possibilità di aver incontrato aree dell’inconscio particolarmente impegnative non solo per il paziente, ma anche per l’analista. La metapsicologia ci suggerisce che, laddove lo scambio tra i tre sistemi psichici (Inconscio, Conscio e Preconscio) si fa più difficile o una delle istanze (il Super-io) diventa prevaricante sulle altre, il lavoro elaborativo può subire contraccolpi. A conclusione di queste riflessioni è possibile dire quali rapporti vi siano tra teoria metapsicologica e teoria psicoanalitica? Ed è possibile individuare uno specifico modo di procedere della psicologia dinamica rispetto a quello della psicologia clinica? L’impressione è che occorra evitare un eccessivo riduzionismo, tale da spiegare quanto la psicoanalisi ha proposto e propone attraverso una teoria generale esplicativa fondata su assunti extra-clinici (per esempio, ritenere la coazione a ripetere come espressione dell’istinto di morte). Non che questo non possa avere un possibile suo fondamento, ma molto più fruttuoso sembra l’approccio di chi, da Klein (1976) in avanti, ha proposto che esistano non una, ma due teorie all’interno della psicoanalisi: una teoria metapsicologica e una teoria clinica. In questo modo, acquistano cittadinanza tutte quelle teorie cliniche che si fondano sull’osservazione analitica e tentano di spiegare la regolarità dei fenomeni clinici; e proprio sulla clinica può avvenire l’incontro tra diverse teorie e scuole psicoanalitiche (Wallerstein,
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1 Psicologia dinamica: radici e aree di sviluppo della disciplina
1988). Rispetto alla specificità della psicologia dinamica condivisibile è l’opinione di chi la considera “un insieme ampio e variegato di assunti teorici e modelli di intervento clinico, che risultano solo in minima parte sovrapponibili o convergenti fra loro” (Dazzi e De Coro, 2001). Essa, tuttavia, non esaurisce affatto i modelli clinici e forse la sua specificità risiede, come si diceva all’inizio, nel significato che l’aggettivo “dinamico” racchiude.
Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
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In questo capitolo saranno affrontati due temi particolarmente complessi, ma di grande importanza: la diagnosi e la nosografia. L’ottica privilegiata sarà quella psicoanalitica, senza dimenticare la concezione dinamica dell’uomo e delle interazioni con l’ambiente in cui esso è inserito. Poiché la diagnosi dà luogo alla nosografia e, d’altra parte, approfondite riflessioni sulla nosografia possono far interrogare sull’utilità e sull’attendibilità della diagnosi, i due argomenti sono tra loro strettamente connessi e presentati insieme. È curioso osservare che molti ottimi manuali riservano poco spazio a diagnosi e nosografia: questo fenomeno, più che una lacuna, potrebbe essere una scelta espositiva che considera impliciti in ogni autore o corrente di pensiero tanto la diagnosi, quanto la nosografia. Per esempio, è evidente che esporre il pensiero di Freud significa illustrare il modo in cui il padre della psicoanalisi cominciò a individuare le psiconevrosi, distinguendole dalle nevrosi attuali: egli non aveva certo immediati intenti diagnostici o nosografici, ma dimostrò ben presto quanto questa distinzione fosse importante soprattutto sul piano del trattamento. Nel corso degli ultimi anni, gli studi e le ricerche su diagnosi e nosografia a orientamento psicoanalitico sono diventati un utile strumento per il clinico, affiancando un grande sforzo e lavoro classificatori di tradizione psichiatrica. All’interno di quest’ultima si collocano i noti Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), curati dall’American Psychiatric Association (APA), e le altrettanto note versioni dell’International Classification of Diseases (ICD), curate dalla World Health Organization (WHO). Constatare la necessità di un continuo aggiornamento di questi manuali di classificazione di psicopatologia fa intuire un aspetto che accomuna diagnosi e nosografia: la loro “instabilità” o, detto in termini meno pessimistici, il loro evolversi nel corso degli anni. Esemplificando, è quasi certo che uno stesso paziente possa modificare alcuni aspetti della diagnosi a lui riferita nel momento in cui intercorrano eventi significativi – per esempio un trattamento psicoterapeutico – tra una rilevazione e l’altra. D’altra parte, sfogliando le varie edizioni del DSM, ci si accorge che alcune psicopatologie sono scomparse (per esempio l’Isteria), mentre altre si sono affermate sempre di più (per esempio i Disturbi di personalità1). 1
Né è da sottovalutare l’influenza culturale e ambientale: ad esempio, alcune gravi forme di Disturbo del comportamento alimentare, come l’anoressia nervosa, risultano pressoché assenti in O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_2, © Springer-Verlag Italia 2014
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
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Tuttavia, diagnosi e nosografia hanno caratteristiche specifiche, su cui è necessario ora soffermarsi separatamente, ma con la convinzione che siano terreno fertile d’incontro tra psichiatria e psicoanalisi.
2.1
La diagnosi
∼σις, Si potrebbe definire la diagnosi una sorta di percorso conoscitivo (dal greco γνω conoscenza, con il prefisso δια´ -, che conferisce al sostantivo l’accezione di distinzione, discernimento) condotto da un clinico, a volte specificamente addestrato, utile a capire e, quindi, a meglio comprendere la o il paziente e a cercare una sua collocazione all’interno di una terminologia nosografica condivisa. In questo caso, il clinico opera come una specie di radiologo. Come quest’ultimo può farsi un’idea delle condizioni, supponiamo, di un organo per mezzo di lastre appositamente effettuate, così uno psicologo può essere in grado di capire le condizioni psicologiche del paziente attraverso specifici strumenti a sua disposizione. Egli ha una certa discrezionalità nella scelta di tali strumenti, ma sicuramente quello più abituale è il “semplice” colloquio (Lang, 2005; Del Corno e Lang, 2005): esso dà una serie d’informazioni che possono riguardare la vita, ma anche il modo di porsi del paziente. Per esempio, è possibile che il paziente racconti una serie di eventi della sua vita indispensabili per capirne lo sviluppo in senso più o meno patologico; nello stesso tempo, di quello stesso paziente è possibile osservare il comportamento non verbale (particolari posture, tremori, modalità espositive nel racconto, ecc.), a volte straordinariamente utile per capire le sue reali condizioni. Da un punto di vista descrittivo (Sims, 1988) si è soliti distinguere tra sintomi (ciò che il paziente dice di sperimentare, sentire) e segni (ciò che il paziente manifesta suo malgrado). Solitamente, sintomi e segni spingono il clinico a formulare delle ipotesi diagnostiche che vanno nella stessa direzione: ad esempio, un paziente depresso da un lato può raccontare di provare un senso di oppressione al petto, di trascorrere notti insonni e di provare un senso di inutilità della vita (sintomi), dall’altro rendere visibili sul suo viso e sul suo corpo le tipiche manifestazioni dell’insonnia e dell’angoscia (segni). È bene ricordare, tuttavia, che le cose non sono sempre così “unidirezionali”: per fare un altro esempio, una giovane paziente anoressica può affermare di essere in grande forma e non provare alcun tipo di disagio da una parte, ma essere assolutamente al di sotto del peso di riferimento per la sua età dall’altro. Esistono alcuni elementi di fondamentale differenza fra un approccio medico (descrittivo) e un approccio psicologico, e in particolare psicodinamico (comprensivo), alla diagnosi (Sarno, 2007). Uno di essi è costituito dal ruolo che riveste il paziente: nel primo caso egli contribuisce alla valutazione del medico rispondendo semplicemente a una serie di domande ed è quindi piuttosto passivo; nel secondo
zone del mondo, come l’Africa, nelle quali il cibo costituisce spesso un bene preziosissimo. Su quest’area di lavoro si è attivata anche l’American Psychiatric Association con uno specifico gruppo di studio (APA, 2002).
2.1 La diagnosi
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caso egli è coinvolto attivamente in un processo esplorativo che lo riguarda e che, pur collocandosi in un momento preciso della sua vita, è in realtà senza spazio e senza tempo. In altre parole, il colloquio clinico ha una sua cornice materiale (per esempio, ogni studio è arredato in modo diverso) e una sua cornice psicologica (a partire dalla disponibilità all’ascolto): tuttavia, lo sviluppo del colloquio psicodinamico è, tutto sommato, imprevedibile e dato da una sapiente alternanza di momenti in cui il paziente è lasciato libero di raccontare il motivo della sua domanda di aiuto a momenti in cui il clinico si fa guidare da una sua ipotesi di lettura del materiale esposto. Da una parte, il libero flusso associativo potrà aprire finestre su un lontano episodio passato del paziente e far emergere fantasie significative sul suo futuro (Semi, 2011); dall’altra, chi conduce il colloquio metterà progressivamente a fuoco aree da perlustrare meglio o aree che il paziente evita, ma di cui potrebbe essere importante farsi un’idea. È come se il clinico facesse progressivi “aggiustamenti di rotta”, tali però da fargli comprendere al meglio chi ha davanti, all’interno di un processo che pone al centro la relazione terapeuta-paziente (Lang, 1996) e che tiene conto del modo di esprimersi di quest’ultimo, del suo linguaggio – cui faremo riferimento quando ci rivolgeremo a lui – e del fatto che egli si aspetta un “ritorno” dopo la fatica di esporci il suo disagio. Il che non significa, però, metterci in una condizione tale da gratificare i desideri (presumibilmente inconsci), che hanno dato vita al sintomo (Semi, 1985): così, se un paziente chiede di fumare una sigaretta occorrerà valutare se questa richiesta sia legata a un reale bisogno di gestione dell’ansia, piuttosto che a un comportamento provocatorio (desiderio aggressivo inconscio) presumibilmente diretto verso qualche altra persona, ma che è in quel momento realmente messo in atto con noi. Anche se non in particolare difficoltà nel formulare ipotesi diagnostiche, il clinico può decidere d’avvalersi di alcuni “strumenti diagnostici”, nel tentativo di “oggettivare” ciò che soggettivamente gli è sembrato di cogliere rispetto a quel paziente. La cosiddetta “valutazione testologica” (Del Corno e Lang, 2008) può essere di due tipi: etero o autosomministrata. In linea di massima, tutte le tecniche proiettive – per esempio il Reattivo di Rorschach – necessitano di un somministratore e, in un secondo momento, di un esperto siglatore delle risposte date dal paziente e di un’interpretazione delle stesse; al contrario, quasi tutti i questionari o gli inventari sono self-report: il paziente compila, meglio se in presenza del clinico, lo strumento di rilevazione e, sempre in un secondo momento, si procederà alla correzione e al calcolo del punteggio ottenuto. Quest’ultimo collocherà il paziente all’interno di un range di valori utile a fornire indicazioni per la sua diagnosi. In tempi più recenti è stata inserita anche la possibilità di audio- o videoregistrare i primi colloqui, lavorando sui trascritti degli stessi: alcuni costrutti possono infatti essere valutati anche attraverso l’applicazione di particolari procedure di siglatura – per le quali è di solito necessario abilitarsi con uno specifico training – sul testo dei colloqui2; per altri costrutti, come per esempio quello della metacognizione, il lavoro sui trascritti è l’unico possibile. 2
Un esempio in questo senso è costituito dalla Defense Mechanism Rating Scale (DMRS) di J. Christopher Perry, un interessante strumento di valutazione dell’assetto difensivo del paziente (Lingiardi e Madeddu, 2002, cap. 4).
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
È a questo punto evidente che la diagnosi non è costituita da un momento puntuale di raccolta dati, ma da un processo diacronico a volte piuttosto complesso, che non necessariamente si conclude con la “presa in carico” del paziente. Non a caso, in letteratura è ormai condivisa da molti la distinzione tra psychological testing e psychological assessment: il primo è qualcosa di più tecnico e descrittivo; il secondo è invece qualcosa di più dinamico e concettuale (Sloves et al., 1979). In altre parole, si tratta “di passare da un concetto riduttivo e limitato di diagnosi a un concetto multidimensionale di assessment più strettamente legato al trattamento” (Barron e Lingiardi, 2005, p. XX). L’obiettivo finale dell’assessment, o processo diagnostico, è quello di “individuare le possibili strategie di cui avvalersi per ridurre, modificare o eliminare, laddove possibile, la causa che provoca la sofferenza che il paziente stesso e/o i suoi familiari lamentano” (Lang, 1996, p. 44). Un obiettivo a volte non semplice da raggiungere e che necessita di una serie di conoscenze sul paziente che vanno ben al di là dei sintomi e segni da lui manifestati. Westen (1995; 1996) ha cercato di mettere a fuoco tali conoscenze a partire da alcune domande cui un buon assessment dovrebbe essere in grado di rispondere. Prima domanda: quali sono i desideri, le paure e le cose a cui il soggetto dà valore; inoltre, in quale misura queste motivazioni sono consce e compatibili fra loro? Seconda domanda: quali sono le risorse psicologiche (cognitive, affettive e di attitudini comportamentali) di cui dispone l’individuo? Terza domanda: in che modo l’individuo fa esperienza del Sé e degli altri e in quale misura può instaurare relazioni intime? Quarta domanda: come si sviluppano questi processi? Dare una risposta a queste domande significa avere una visione dinamica e sistemica del paziente, intendendo con essa sia che la personalità dell’individuo è data dall’interazione di più processi psicologici, sia che l’interazione tra individuo e ambiente è costante e determina una reciproca influenza tra essi. In questa prospettiva, il punto d’arrivo è la cosiddetta diagnosi funzionale che ha, tra l’altro, il grosso merito di considerare l’individuo non soltanto per “ciò che non funziona” (probabilmente la base del suo disagio e della sua sofferenza), ma anche per “ciò che funziona” (il possibile punto di partenza di una possibile cura) (Westen, 2005). Questo modo d’intendere la diagnosi permette di gettare un ponte tra punti di vista che per molto tempo sono stati considerati inconciliabili: se infatti un’accurata raccolta e organizzazione delle informazioni può permettere al clinico una corretta e utile formulazione del caso (case formulation), in quale modo quest’ultima si può conciliare con criteri diagnostici che vogliono collocare quel tipo di paziente all’interno di categorie generalizzabili (per capirci, quelle del DSM)? La via intrapresa da alcuni ricercatori (Westen e Shedler, 2003a; 2003b) è stata quella di tentare una traduzione – tuttora in corso – dei giudizi formulati dai clinici in senso “quantitativo”; in altre parole, rendere questi giudizi non tanto esito del processo diagnostico di questo o quello specialista (criterio soggettivo), quanto piuttosto punto di partenza per la costituzione del “prototipo” psicopatologico di un certo disturbo (criterio oggettivo). Tutto ciò valorizza il grande lavoro che, da Freud fino ai giorni nostri, la psicoanalisi ha svolto nel tentativo di comprendere sempre più a fondo i pazienti. Sfogliando il testo di Nancy McWilliams (2011) dedicato proprio alla diagnosi psicoanalitica,
2.1 La diagnosi
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ci si accorge che il punto di vista di Freud, che poneva al centro del momento diagnostico l’individuazione di un conflitto intrapsichico e che considerava il sintomo come formazione sostitutiva di un contenuto inconscio, si è molto arricchito e via via completato nel corso dello sviluppo della teoria e della tecnica psicoanalitiche. Hanno così assunto un peso rilevante anche altri aspetti come per esempio il tipo di relazione che il paziente è in grado di instaurare con l’altro e con le rappresentazioni che dell’altro conserva dentro sé, o il tipo di temperamento e di gestione dell’affettività, o ancora quale livello di organizzazione e quale esperienza del proprio Sé egli abbia3. Siamo probabilmente in un momento storico in cui si sente sempre più l’esigenza di trovare un modello in grado di integrare la valutazione delle dimensioni e delle funzioni psichiche (Lingiardi, 2009), con particolare riferimento al modo di presentarsi del paziente, alla sua motivazione al trattamento, alla sua sintomatologia, alla rappresentazione del Sé e dell’altro che gli è propria, ai suoi prevalenti pattern comportamentali, alle sue motivazioni, ai suoi bisogni e ai suoi desideri di vita, agli affetti prevalenti, ai suoi standard ideali e morali, nonché alle sue risorse. Un processo conoscitivo dunque piuttosto complesso, ma che ha come obiettivo il confronto e l’integrazione di metodologie diagnostiche differenti (Albasi, 2009). Un elemento preso in esame fin dai tempi di Freud, ma molto presente anche nella psicodiagnostica attuale (vedi, per esempio, il PDM, cui si accennerà più avanti), è costituito dai meccanismi di difesa: essi sono definibili come processi mentali che svolgono, per l’individuo, la fondamentale funzione di adattamento a una situazione di pericolo o di stress, che può derivargli tanto dal mondo esterno quanto da una sensazione interna. In questa sede, e in modo propedeutico rispetto a quanto si dirà nella parte dedicata a Freud, può essere utile riprendere il punto di vista proprio del padre della psicoanalisi, che così si esprime in uno dei suoi ultimi, intensi saggi: I meccanismi di difesa servono allo scopo di tenere lontani i pericoli. È incontestabile che questo risultato lo raggiungono e c’è da dubitare che l’Io possa, nel corso dello sviluppo, rinunciare ad essi completamente; ma è altresì certo che questi stessi meccanismi possono trasformarsi in pericoli. [...] Naturalmente l’individuo, singolarmente preso, non utilizza tutti i possibili meccanismi di difesa, ma si limita a selezionarne alcuni; questi, però, si fissano nel suo Io, diventano abituali modalità di reazione del suo carattere che si ripetono nel corso dell’intera esistenza ogniqualvolta si ripresenta una situazione analoga a quella originaria (Freud, 1937a, p. 520)
Come osserva Lingiardi (2002), sono schematicamente individuabili in questo passo alcuni punti fondamentali, tuttora imprescindibili per una corretta descrizione del concetto di difesa. Essa è anzitutto lo strumento principale di gestione degli affetti negativi (rabbia, paura, tristezza, ecc.); l’Io gestisce l’insieme delle difese: 3
Di grande interesse è anche l’approccio proposto dalla Developmental Psychopathology (Cicchetti e Cohen, 2006), all’interno del quale è posta particolare attenzione su come gli elementi relativi al Sé e all’altro si sviluppino.
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
esso non potrà mai rinunciare del tutto ad esse per la loro funzione protettiva, ma contemporaneamente potrà trovarsi in pericolo a causa di esse, nel momento in cui queste ultime diventino ripetitive e anacronistiche (rispetto all’evento/momento che le ha attivate); sono distinguibili l’una dall’altra e, soprattutto, agiscono per lo più in modo inconsapevole, cioè sono inconsce4. Con riferimento al pensiero freudiano sui meccanismi di difesa, Dazzi e De Coro (2001) hanno giustamente osservato che, attraverso essi, Freud inizia un progressivo spostamento dell’attenzione dalla dimensione biologica a quella dell’organizzazione strutturale della personalità, con i conflitti che possono aver luogo al suo interno o tra essa e il mondo esterno. È proprio all’interno di una prospettiva di questo tipo che è diventato possibile, in tempi recenti, pensare ai meccanismi di difesa come strumenti a protezione del Sé e del suo livello di integrazione (Cramer, 1998). Si può dunque affermare che l’individuazione dei meccanismi di difesa costituisca uno degli strumenti più importanti a disposizione del clinico: essi sono una sorta di punto osservativo, che permette di “fotografare” la situazione del paziente nel momento in cui lo si incontra, nella consapevolezza che si tratta di una semplice “istantanea” scattata su un “soggetto fotografico” dinamico e, quindi, mutevole per definizione. Per essere aiutati in questo lavoro, già Freud (1936; 1937a) intuì la necessità di fornire un quadro organizzato e dettagliato di questi meccanismi: un compito che, proprio in quegli anni, fu portato a termine dalla figlia Anna (Freud A, 1936). Rimane comunque aperto l’interrogativo sull’importanza e utilità di classificare i meccanismi di difesa; certamente, accanto a una loro categorizzazione deve essere anche prevista una descrizione della loro forza e intensità, oltre che dell’influenza che possono esercitare sull’individuo che li utilizza. Sebbene sia possibile identificare una struttura gerarchica nelle difese – per esempio, Bond (1995) ha individuato quattro stili difensivi principali: da quello maladattativo a quello adattativo con due livelli intermedi – rimane, tuttavia, indispensabile intenderli in modo non eccessivamente rigido. L’esperienza clinica suggerisce, infatti, che soggetti con disturbi psichici gravi possono utilizzare, accanto a difese piuttosto maladattative come la scissione, difese più funzionali e adattative come la repressione; d’altra parte, può accadere che particolari situazioni stressanti attivino in individui cosiddetti “normali” meccanismi di difesa primitivi come l’acting out. O si consideri l’oscillazione tra due difese come spostamento e proiezione, da noi tutti usate spesso inconsapevolmente: nel primo caso, difesa più matura, l’individuo si trova a “spostare” su un altro individuo una propria reazione emotiva (per esempio, si può essere arrabbiati con il proprio padre, ma ce la si può prendere con il vigile, “spostando” la rabbia su quest’ultimo); nel caso invece della proiezione, difesa più immatura, l’individuo proietta in modo non consapevole un proprio vissuto o sentimento su un altro individuo esterno, in quanto incapace di riconoscerne l’origine interna (per esempio, si può “proiettare” la propria rabbia sul mondo esterno, che diventa a questo punto ostile 4
Affrontando l’ultima fase dello sviluppo del pensiero freudiano, si vedrà come uno degli aspetti salienti del modello strutturale della mente sia proprio quello di considerare parti dell’Io come inconsce (cfr. capitolo 8).
2.2 La nosografia
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suo malgrado). Occorre quindi considerare ancora una volta la dinamicità della persona. Le due ipotesi secondo cui le difese si collocano lungo un continuum che va dall’immaturità alla maturità delle stesse in corrispondenza dello sviluppo dell’individuo (cfr. per esempio i contributi di Vaillant, 1971 e 1977, e di Cramer, 1998), o dalla salute alla malattia dell’individuo (cfr. per esempio Kernberg PF, 1994) in concomitanza dell’aggravarsi delle condizioni psicopatologiche, possono essere considerate valide solo se tenute presenti con scopi orientativi. La cosiddetta teoria della specificità è infatti debole: sono l’utilizzo di una difesa e l’intensità con cui si esprime – non l’affrettata equivalenza conflitto-difesa-diagnosi – a dover guidare il clinico nel suo lavoro. Un buon suggerimento potrebbe essere l’invito a chiedersi e possibilmente a stabilire da cosa il paziente si stia difendendo: da un desiderio inaccettabile (aggressivo o sessuale) o per esempio da un’angoscia di frammentazione? E inoltre: da quanto tempo il paziente sta utilizzando questa difesa (principale), cioè si costringe rigidamente all’interno di un certo stile difensivo? Ma perché porre così tanta attenzione al processo diagnostico? Intuitivamente si potranno pensare a più motivi, ma certamente la sua funzione “predittiva” è fondamentale. Fare una buona diagnosi non solo permette di poter trasmettere meglio le informazioni a un collega o arricchire le informazioni che su un paziente ci sono già note in partenza, ma consente anche di fare previsioni sufficientemente attendibili sul decorso e sull’esito di un certo disturbo e soprattutto proporre o non proporre un certo tipo di trattamento a un certo paziente. Si tratta di un modo di operare che va nella direzione di “ottimizzare” il lavoro clinico, “ritagliandolo su misura” per ogni paziente (Horwitz et al., 1996).
2.2
La nosografia
Come detto all’inizio di questo capitolo, esiste un legame assai significativo tra diagnosi e nosografia. Quest’ultima può essere definita come un tentativo di ordinamento e di sistematizzazione complessiva delle forme di psicopatologia riscontrate. Si è anche accennato alle due principali modalità di “classificazione” attualmente in uso: DSM e ICD. Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) è un manuale di classificazione dei disturbi mentali curato da un pool di psichiatri in gran parte di provenienza nordamericana: esso costituisce da sempre uno degli strumenti più utilizzati per “inquadrare” diagnosticamene i pazienti e per la comunicazione tra operatori sanitari diversi. Nelle prime edizioni del DSM si ritrovano termini appartenenti alla tradizione psicoanalitica come gli psychoneurotic disorders (disturbi psiconevrotici) (APA, 1952) o le hysterical neurosis (nevrosi isteriche) (APA, 1968): si vedrà più avanti come le psiconevrosi costituiscano per Freud l’insieme dei disturbi psichici più adeguatamente trattabili con la tecnica psicoanalitica. In realtà, l’obiettivo ideale degli estensori delle varie edizioni del DSM è sempre stato quello di una presunta “ateo-
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reticità” o “approccio neopositivistico”, ossia quello di individuare dei criteri oggettivamente condivisibili sulla base dei quali collocare i pazienti in questa o quella categoria nosografia. Tali criteri si basano in linea di massima su presenza/assenza di sintomi e segni, sulla loro durata e sul livello di funzionamento lavorativo/sociale. La versione attualmente in uso del DSM, seppur ancora per poco, è la quartarivista (APA, 2000) ed è organizzata in cinque Assi5, il cui obiettivo è quello di facilitare una “valutazione ampia e sistematica dei vari disturbi mentali”, tenendo tuttavia conto della complessità delle situazioni cliniche, della possibile eterogeneità degli individui e di un approccio integrato di tipo “biopsicosociale” (cfr. parte introduttiva alla Valutazione multiassiale). Nonostante sia stato molto acceso il dibattito nel team di lavoro (Research Agenda for DSM-5), il DSM 5 è stato finalmente pubblicato dall’APA nel maggio di quest’anno e se ne dovrebbe vedere l’edizione italiana a breve. La presunta “ateoreticità” del DSM rimane un ideale che si può perseguire, ma che non è sempre facile raggiungere: per esempio, benché l’influsso della psicoanalisi si sia molto ridotto rispetto agli inizi, è probabile che, senza le riflessioni di uno psicoanalista come Otto Kernberg6 sulle organizzazioni della personalità, difficilmente sarebbe stato introdotto l’intero secondo Asse II a partire dal DSM-III (APA, 1980), dedicato ai Disturbi della personalità. Un altro modo per classificare i disturbi mentali è la Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD), curato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta in realtà di un manuale di classificazione che riguarda l’insieme delle patologie e comprende diverse sezioni sulla base del “distretto” interessato7. La sua storia è più lunga di quella del DSM (la prima edizione risale infatti al 1893), ma ha avuto una certa difficoltà ad affermarsi a livello internazionale, perlomeno in campo psichiatrico. Questo fenomeno è attribuibile al predominio che la psichiatria nord-americana, di cui il DSM è perlopiù espressione, ha avuto nella seconda metà del secolo scorso. Il punto di forza dell’ICD, ora giunto alla sua decima edizione (WHO, 1992), è la sua attenzione alle diverse dimensioni culturali sottese alla psicopatologia e alla necessità di distinguere piano clinico e piano della ricerca. L’ICD-11 è atteso per il 2015. Ma qual è l’obiettivo ultimo di questo grande impegno di classificazione? Quando è nato e quali ricadute ha avuto sul modo d’intendere la psicopatologia? 5
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Asse I: Disturbi clinici e altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica. Asse II: Disturbi di personalità e ritardo mentale. Asse III: Condizioni mediche generali. Asse IV: Problemi psicosociali e ambientali. Asse V: Valutazione globale del funzionamento. Otto F. Kernberg è nato a Vienna nel 1928. Trasferitosi nel 1939 in Cile a causa delle persecuzioni razziali, là iniziò la sua formazione medica e psicoanalitica. Acquisì successivamente la cittadinanza statunitense. Membro, nonché per molti anni Presidente dell’International Psychoanalytic Association, ha coniugato insegnamento universitario (Cornell University Medical College) e attività clinica come psicoanalista, dando vita a un modello teorico che cerca di coniugare teorie differenti (pulsionale, delle relazioni oggettuali, della psicologia psicoanalitica dell’Io). L’ICD-10, che classifica oltre 2000 malattie di varia origine e natura, è strutturato in 19 settori, di cui il V è quello relativo a “Patologie mentali e del comportamento” con codice che va da F00 a F99 (per esempio, i Disturbi di personalità vanno da F60 a F69). È importante tenere presente che l’ICD comprende anche i Disturbi dello sviluppo psicologico (esiste invece a parte un DSM per bambini e adolescenti; vedi Rapoport e Ismond, 1996).
2.2 La nosografia
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Per cercare di rispondere a queste domande si farà ora cenno ai primi tentativi di classificazione della moderna psichiatria, particolarmente importanti per il percorso ideale di questo manuale, poiché il periodo storico interessato è vicino o si sovrappone a quello della psicoanalisi. All’interno della prospettiva psicoanalitica si farà riferimento a una suddivisione, seppur molto schematica, dei quadri psicopatologici. Sarà infine ripreso il tema di fondo che soggiace a tutti questi tentativi di classificazione: quello della possibile distinzione tra normalità e anormalità in senso psichiatrico/psicologico. Come ricorda Ellenberger (1970) sono collocabili nella seconda metà dell’Ottocento i primi sistematici tentativi di costruzione di una nosografia simile a quella attuale: si trattava d’abbandonare concezioni della malattia mentale che facevano riferimento più a credenze popolari, a volte prossime alla superstizione, che alla raccolta di osservazioni di tipo empirico fondanti possibili ipotesi esplicative. Un secondo fondamentale passaggio fu quello che portò da una concezione strettamente organicista della malattia mentale a una concezione più globale della stessa, comprendente anche fondamentali elementi di natura psicologica (cfr. anche capitolo 3). Sia nella Francia portavoce dello spirito dei Lumi, sia nella Mitteleuropa sede dei primi importanti laboratori di anatomia umana sono rintracciabili figure di straordinaria importanza per i futuri destini della classificazione e del trattamento della malattia mentale: forse non è solo un caso che Freud abbia trascorso significativi periodi di formazione tanto nell’una quanto nell’altra area europea sopra citate (cfr. capitolo 4). Philippe Pinel (1745–1826), probabilmente per la sua grande fiducia nella razionalità, si spinse per primo a chiedere la modifica del trattamento riservato fino a quei tempi agli “internati” presso l’ospedale di Bicêtre, situato nei pressi di Parigi e del quale lo psichiatra francese fu nominato responsabile delle infermerie nel 1793. Pinel era convinto che l’istituzione dovesse avere una funzione non più repressiva, bensì sanitaria; i suoi operatori avrebbero dovuto dare maggiore dignità e ascolto ai malati in essa inseriti. Si tornerà a parlare di Francia – Parigi e Nancy in particolare – nel prossimo capitolo, nel quale verrà dato spazio alla figura di Bernheim, con le sue ricerche e i suoi interventi basati sull’ipnotismo. A quest’ultimo si riferì un clinico di grande importanza per la nascita e lo sviluppo della psichiatria moderna: Auguste Forel (1848–1931). Noto per l’attenzione da lui riservata al campo delle scienze naturali – rigoroso e in qualche modo curioso il suo studio sulle formiche –, Forel si fece ben presto notare anche per le sue ricerche nel campo della neuroanatomia, mettendo a frutto il suo apprendistato presso Theodore Hermann Meynert (1833–1892), un convinto sostenitore, insieme a Carl Wernicke (1848–1905), di una psichiatria di tipo organicista e meccanicista. La vera svolta ebbe luogo con la sua nomina a professore di psichiatria presso l’Università di Zurigo; tale nomina prevedeva automaticamente anche la supervisione dell’ospedale psichiatrico collegato all’università: il Burghölzli. Forel lo diresse con passione per più di quindici anni, dando per primo grande importanza, ai fini dell’intervento sul paziente, all’atteggiamento del clinico nei suoi confronti; in questa sede, cercò anche di applicare alcune prime forme di psicoterapia fondate sulla tecnica ipnotica, da lui appresa a Nancy. Con Forel, il Burghölzli cominciò a di-
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
ventare un luogo di straordinaria importanza per lo sviluppo della psichiatria moderna, ma anche per alcuni psicoanalisti che in essa trascorsero un certo periodo di attività: tra essi Carl Gustav Jung, Karl Abraham, Ludwig Binswanger e il creatore delle “macchie” più famose della storia della psicologia clinica: Hermann Rorschach. Allievi di Forel furono due figure di spicco della nascente psichiatria moderna: Eugen Bleuler (1857–1939) e Adolf Meyer (1866–1950). Emigrato nel 1892 negli Stati Uniti, Meyer divenne uno degli psichiatri più influenti d’oltreoceano e sottolineò l’importanza che le storie della vita dei pazienti avevano per lo sviluppo della loro psicopatologia: nonostante la sua attenzione alla psicobiologia, egli era convinto che un’attenta descrizione e valutazione sia di cosa il paziente presentava a livello di segni e sintomi, sia del suo ambiente e delle interazioni avute con esso fossero indispensabili. Questo suo modo d’intendere l’approccio al paziente lo avvicinava tanto a Kraepelin, nel dare importanza agli aspetti nosografici, quanto a Freud, nel tenere conto degli aspetti psicologici. Fu anche presidente dell’American Psychiatric Association e fu lui a ispirare il termine “igiene mentale” per indicare Società o Comitati di ricerca sulla malattia mentale. Con Bleuler si ritorna invece nel cuore dell’Europa, in particolare a quella straordinaria struttura di cura, ma anche di sperimentazione, che fu il Burghölzli. Dopo un’esperienza più che decennale condotta come direttore all’ospedale psichiatrico di Rheinau, nel 1898 Bleuler venne scelto come successore di Forel presso la celebre clinica svizzera. In essa egli proseguì quell’azione di rinnovamento nell’approccio alla psicopatologia grave già iniziato negli anni precedenti. Il “paradigma della dissociazione-autismo” è la proposta bleuleriana per la comprensione della schizofrenia: esisterebbe un disturbo primario, determinato da un substrato biologico ancora in gran parte sconosciuto, a fronte del quale si attiverebbero una serie di risposte adattative, determinate questa volta dalla psiche, che determinerebbero la fenomenologia del quadro clinico. È da rilevare, inoltre, come in Bleuler il cuore della psicopatologia schizofrenica sia costituito dalla condizione autistica, intesa come perdita del “contatto” con il mondo esterno e come netta predominanza della vita interiore, in particolare delle produzioni ideative alla base del delirio. Una posizione non lontana da quella che Freud farà poggiare sul concetto di autoerotismo (cfr. capitolo 7). Sulla base di questa dialettica tra piano biologico e piano psicologico – o tra sintomi primari/fisiologici e sintomi secondari/psicogeni – si basa anche un’altra possibile descrizione delle concezione bleuleriana della schizofrenia: quella organicodinamica. Gli aspetti psicodinamici, o più schiettamente psicoanalitici, sono però rintracciabili nella particolare sensibilità e apertura di Bleuler nei confronti della possibile relazione con il paziente (affektiver Rapport) e nell’introduzione di tecniche ispirate a concetti della nascente psicoanalisi o proposte da suoi pionieri, come il reattivo di associazione verbale. È infine da attribuire a Bleuler l’introduzione del termine “schizofrenia”: esso è da preferire a quello di “dementia praecox”, poiché include una serie di condizioni caratterizzate da manifestazioni cliniche acute e rende giustizia a tutta quella serie di processi psichici di tipo dissociativo (schizofrenia dal greco σχι´ζειν, dividere, e ϕρη´ν, mente) che non dipendono dal degrado del funzionamento mentale del paziente, né hanno luogo necessariamente in età giovanile. La particolare sensibilità di Bleuler per i processi mentali e le leggi che li governano lo fece schierare a più
2.3 Psicoanalisi e psicopatologia
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riprese a favore della psicoanalisi – nel 1910 diede il suo contributo alla fondazione della Società Psicoanalitica Internazionale – e lo contrappose, su alcuni importanti punti, ad altri noti psichiatri del tempo come Emil Kraepelin (1856–1926). La International Kraepelin Society racconta di una “storica” contrapposizione tra Kraepelin e Freud così come si potrebbero contrapporre Mozart a Salieri o Aristotele a Platone o Schopenhauer a Hegel. È possibile che questa opinione sia dovuta all’approccio dello psichiatra tedesco, rimasto noto nella psichiatria moderna soprattutto per il suo enorme sforzo classificatorio. A lui si deve, infatti, l’introduzione di una prima distinzione, all’interno della grande categoria delle psicosi, tra disturbi maniaco-depressivi e dementia praecox. Si sono già visti poco fa i motivi che spinsero Bleuler a criticare quest’ultima ipotesi diagnostica: Kraepelin “parteggiava” per una spiegazione ampia della psicopatologia, all’interno della quale la componente biologica (genetica, anatomica, neurologica) aveva però sempre un peso prevalente. Egli fondò la sua interpretazione della schizofrenia sul “paradigma demenziale”, secondo cui ci si troverebbe di fronte a differenti forme cliniche di disturbo mentale, accomunate però da un decorso sovrapponibile a quello delle demenze organiche: da qui il termine dementia praecox. Benché orientato ad attribuire la sua eziologia a fattori neurobiologici, Kraepelin pose la massima attenzione nell’osservare il paziente e nel classificarne le sue manifestazioni cliniche (Kraepelin, 1883): forse proprio questo ha contribuito a far apparire lo psichiatra tedesco come un freddo osservatore, poco coinvolto nelle sofferte vicende dei suoi pazienti. Certo è che, senza di lui, Alois Alzheimer non avrebbe “scoperto” l’omonima malattia degenerativa; ma, soprattutto, gli autori del DSM e dell’ICD non avrebbero trovato già la via aperta in modo così chiaro. E Freud? Come si poneva il padre della psicoanalisi di fronte a questi “giganti” della psichiatria, lui che aveva una formazione di tipo soprattutto neurologico e che non frequentò mai ospedali psichiatrici, né ebbe in cura pazienti con una psicopatologia di tipo schizofrenico. Attraverso la lettura delle prime pagine del Caso clinico del Presidente Schreber (Freud, 1909) si può tuttavia ipotizzare che Freud fosse ben informato su ciò intorno a cui i colleghi psichiatri stavano lavorando in quegli stessi anni e ne fosse molto interessato. In quelle stesse pagine egli utilizza un termine, “parafrenia” che, nelle sue intenzioni, avrebbe potuto dar vita a un possibile accordo tra i sostenitori di termini differenti per designare la patologia schizofrenica. In realtà, tale termine ebbe poca fortuna e, ben presto, si affermò con sempre maggior forza quello bleuleriano di “schizofrenia”, tuttora utilizzato.
2.3
Psicoanalisi e psicopatologia
Il successo di una certa terminologia nosografica introdotta da Freud nei suoi primi studi (Freud, 1894; 1895; 1896a; Breuer e Freud, 1892–1895) è testimoniato dal fatto che uno dei primi e più completi trattati di nosografia psicoanalitica (Fenichel, 1946) ad essa si appoggia. Si trattava, comunque, di quadri psicopatologici molto diversi da quelli affrontati nelle cliniche psichiatriche e facevano sostanzialmente riferimento alla categoria delle psiconevrosi. Rimandando ai singoli casi clinici per
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una descrizione dettagliata dei vari quadri nosografici, in questa sede vale la pena segnalare alcune prime importanti distinzioni introdotte dal padre della psicoanalisi. La prima e forse più netta pone la categoria poc’anzi menzionata, le psiconevrosi, da un lato, le nevrosi narcisistiche (o, oggi diremmo, psicosi) dall’altro. Alle nevrosi narcisistiche appartengono sostanzialmente l’insieme dei disturbi mentali che con un termine un po’ generico, ma efficace, si potrebbero definire gravi: ad esse fanno capo tanto le varie forme di schizofrenia – oggi si potrebbe diagnosticare al Presidente Schreber (Freud, 1909) una “schizofrenia di tipo paranoide” – quanto quelle di depressione – in Lutto e melanconia, uno dei saggi più belli compresi in Metapsicologia (Freud, 1915a), il padre della psicoanalisi affronta il tema di quelle che oggi si diagnosticherebbero “depressione maggiore” e “psicosi maniaco-depressiva”. Le psiconevrosi comprendono invece due grossi raggruppamenti nosografici: l’isteria da un lato; la nevrosi ossessiva dall’altro. L’isteria, a sua volta, si distingue in isteria da stato ipnoide, da ritenzione, d’angoscia, da difesa sulla base di precise considerazioni teorico-cliniche riportate da Freud nella stesura dei suoi casi clinici (cfr. capitolo 4). Al di fuori delle psiconevrosi sono collocate le cosiddette nevrosi attuali (nevrastenia e nevrosi d’angoscia) (Freud, 1898, pp. 411–412): un particolare tipo di nevrosi, molto meno trattabile delle due forme precedenti per il tipo di eziopatogenesi e di decorso che le caratterizza. È fondamentale tener presente che il percorso che porta Freud a introdurre queste prime e fondamentali distinzioni in campo nosografico si basa su osservazioni di natura clinica e considerazioni di tipo teorico, in un costante e fruttuoso intreccio. Dopo Freud la più importante innovazione introdotta nella nosografia psicoanalitica è da attribuire a Otto Kernberg. Attraverso di lui la “classica” distinzione tra nevrosi e psicosi si è arricchita per mezzo del concetto di organizzazione della personalità (cfr. anche sopra questo stesso capitolo) e di stato borderline, cioè di una condizione propria di quei pazienti collocabili in una zona intermedia tra disturbi nevrotici e psicotici. Il modello di Kernberg è complesso e attinge a più filoni della psicoanalisi post-freudiana. Dal punto di vista nosografico, è tuttavia intuitivamente comprensibile anche per chi sia agli inizi del suo percorso di studi, fornendo chiare e utili distinzioni. Kernberg considera la personalità come una modalità di integrazione dinamica di tutti gli schemi comportamentali derivati da temperamento, carattere e sistemi di valori interiorizzati (Kernberg O, 1984). In modo un po’ schematico si potrebbe definire il temperamento la tendenza innata, filogeneticamente determinata, a reagire in un determinato modo di fronte a specifici stimoli ambientali; il carattere, l’insieme delle manifestazioni comportamentali derivanti dal modo di funzionare dell’Io (o dell’identità dell’Io); il sistema di valori interiorizzati, la dimensione etica e morale della personalità strutturata dall’integrazione dei diversi livelli di funzionamento del Super-io. La personalità si struttura per Kernberg sulla base sia del tipo di relazioni che l’individuo ha avuto con gli oggetti e le persone esterne, sia soprattutto delle modalità con cui tali relazioni sono state interiorizzate; non a caso, per Kernberg si parla di modello strutturale delle relazioni oggettuali (interiorizzate). Tre sono le modalità possibili di integrazione dinamica della personalità (nevrotica, borderline e psicotica) e tre sono i fattori a partire dai quali è possibile distinguerle (esame di realtà, meccanismi di difesa, livello di integrazione dell’identità) (Tabella 2.1).
2.3 Psicoanalisi e psicopatologia
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Tabella 2.1 Strutture psicopatologiche (tratto e modificato da Kernberg, 1984, p. 33)
Livello di integrazione dell’identità
Nevrosi
Stati borderline
Psicosi
Integrazione dell’identità
Diffusione dell’identità
Diffusione dell’identità
Le rappresentazioni del Sé sono differenziate da quelle degli Oggetti
Meccanismi di difesa
Esame di realtà
Rimozione e altre difese di alto livello
Le rappresentazioni del Sé non sono differenziate da quelle degli Oggetti
Scissione e altre difese di basso livello
Le difese proteggono il soggetto da conflitti intrapsichici
Le difese cercano di proteggere il soggetto dalla disintegrazione e dalla fusione del Sé con l’Oggetto
Conservato
Perduto o gravemente compromesso
Conservato
A commento di questa proposta di Kernberg, è possibile osservare che esistono fattori discriminativi che svolgono il loro compito in modo più chiaro rispetto ad altri: l’esame di realtà, inteso come conservazione della capacità critica di distinguere proprie produzioni di fantasia o ideative dalla realtà esterna e come area condivisa di tutti, è infatti un fattore più facilmente discriminante di quello che fa riferimento ai meccanismi di difesa. Benché esistano, secondo una delle classificazione più condivise (Bond, 1986), meccanismi di difesa maturi, nevrotici e immaturi, è tuttavia clinicamente innegabile che una persona ritenuta “normale” possa arrivare a utilizzare difese primitive (per esempio, l’acting out) e che una persona psicotica sia in grado talvolta di utilizzare difese mature (per esempio, l’ironia). Sull’assetto difensivo di una persona possono influire diversi elementi, a volte stressanti e a volte facilitanti, di fronte ai quali quella stessa persona può mettere in atto strategie difensive (e quindi comportamentali) più primitive o più mature. In altre parole, si tratta di un funzionamento mentale che non può mai essere “inquadrato” in modo rigido, ma che rende bene l’idea di qualcosa di “dinamico” e alla continua ricerca di un suo equilibrio. Una prospettiva analoga potrebbe essere mantenuta rispetto al fattore relativo al livello di integrazione dell’identità: per rendere l’idea di cosa si tratti, si potrebbe immaginare che una persona si osservi in uno specchio intero o rotto. In questo secondo caso, l’immagine riflessa, anziché intera e coerente, apparirebbe spezzettata o frantumata: ci si troverebbe di fronte alla disintegrazione (diffusione) della propria immagine corporea e di ciò che essa rappresenta. Si tratta di una con-
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
dizione propria delle organizzazioni psicotiche della personalità e, fortunatamente, presente non sempre in modo così lacerante; al contrario, può essere sperimentata solo eccezionalmente dalle organizzazioni nevrotiche della personalità, caratterizzate da un Io sufficientemente forte, sufficientemente in grado di tollerare l’angoscia e controllare gli impulsi. Osservando la Tabella 2.1, si può notare come l’organizzazione borderline di personalità abbia caratteristiche, tanto in riferimento ai meccanismi di difesa quanto rispetto al livello di integrazione dell’identità, sovrapponibili ora alla condizione dell’organizzazione psicotica, ora alla condizione nevrotica. La proposta nosografica di Kernberg è dunque una tra quelle che sostengono l’idea che ci sia un’entità nosografica intermedia tra psicosi e nevrosi. Si tratta di un punto di vista che anche molti altri autori hanno sostenuto e che fa riferimento alla difficoltà, sentita sin dai tempi di Kraepelin e Bleuler, di “inquadrare” alcune situazioni cliniche in modo netto nell’uno o nell’altro raggruppamento nosografico. Sono stati così coniati termini come schizoidia, schizoastenia, prepsicosi e molti altri (Bergeret, 1996): la difficoltà consiste sempre nell’individuare con chiarezza la struttura (psicotica o nevrotica) sottostante a certi tipi di pazienti. A partire da queste considerazioni cliniche, ha così trovato spazio una riflessione teorica che ha portato a possibili soluzioni: esse risentono naturalmente, come visto per Kernberg, della proposta interpretativa della psicopatologia fornita. In questa prospettiva una proposta interessante è stata formulata dalla scuola psico-analitica francese, che ha raggruppato tutte le entità nosografiche sottese al termine borderline nei casi limite o stati limite (Bergeret, 1996). Bergeret situa il punto critico di questa organizzazione nella dimensione narcisistica, ipotizzando che la relazione con l’altro sia rimasta centrata su una dipendenza di tipo anaclitico8 e il pericolo maggiore sottostante sia la depressione. È interessante, comunque, notare che anche per questo autore i criteri principali fanno riferimento ad aspetti rintracciabili anche in Kernberg e, più in generale, in autori dell’area psicoanalitica anglosassone e nordamericana (Fonagy, Masterson, Gunderson): le modalità di espressione abituale del sintomo; i principali meccanismi di difesa; le modalità di relazione oggettuale (e quindi di relazione con l’altro); la natura dell’angoscia latente. Di grande importanza è stata infine la stesura e la pubblicazione del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) (PDM Task Force, 2006): esso rappresenta ad oggi il miglior tentativo di offrire una valida alternativa ai precedenti e più noti sistemi di classificazione9 e su di esso si è sviluppato un ampio interesse e dibattito 8
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Il termine anaclitico deriva dal greco α̉ να´ κλιτος (letteralmente, “supino”, “sdraiato indietro”) e fu introdotto da R.A. Spitz per indicare una depressione infantile con tendenza all’autoaggressività, dovuta a deprivazioni precoci dell’amore materno. In Germania, sul finire degli anni ’90, un gruppo di lavoro di circa 40 psicoterapeuti ed esperti di medicina psicosomatica si mise all’opera per realizzare un metodo operazionalizzato per la diagnosi psicodinamica: il risultato del loro lavoro è confluito nella messa a punto di un manuale per questo tipo di diagnosi (OPD Task Force, 2002), basato su 4 Assi psicodinamici – Asse I: vissuto di malattia e presupposti per il trattamento; Asse 2: relazioni; Asse 3: conflitti; Asse 4: struttura –, e un quinto Asse (disturbi mentali e psicosomatici) di tipo nosografico-descrittivo. La nuova versione, OPD-2 (OPD Task Force, 2006), si propone di essere strumento non solo diagnostico, ma anche di pianificazione del trattamento e di misurazione dei cambiamenti.
2.3 Psicoanalisi e psicopatologia
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che porterà a una nuova versione dello stesso. Il PDM è articolato in tre macro-dimensioni: una prima riguarda la valutazione della personalità (Asse P) ed è solo in piccola parte sovrapponibile al DSM; una seconda riguarda il funzionamento mentale (Asse M); una terza riguarda i pattern sintomatici e l’esperienza che di essi hanno i pazienti (Asse S). Come evidenziano Del Corno e Lingiardi nella presentazione all’edizione italiana del PDM, se la valutazione DSM è multiassiale, categoriale e politetica, quella del PDM è multiassiale, multidimensionale e prototipica. In estrema sintesi, si tratta di un sistema diagnostico che anzitutto si propone di descrivere “i disturbi di personalità clinicamente più comuni in termini di funzionamento cognitivo, affettivo, relazionale e difensivo” (PDM Task Force, 2006, p. 9). Per raggiungere questo obiettivo è stata proposta una tassonomia basata su resoconti clinici e indagini empiriche, in grado di distinguere i differenti disturbi di personalità e tale da individuare dei prototipi per ogni disturbo. Individuare “prototipi” significa descrivere le caratteristiche di “tipi ideali” per classificare le diverse configurazioni di pensieri, emozioni, cognizioni, comportamenti e motivazioni presentate dai pazienti, ma che molto raramente essi presentano in modo completo. Il livello di organizzazione della personalità e il funzionamento mentale complessivo nel PDM è invece basato su nove macrofunzioni: capacità di regolazione, attenzione e apprendimento; capacità di relazioni e intimità; qualità dell’esperienza interna; esperienza, espressione e comunicazione degli affetti; pattern e capacità difensive; capacità di formare rappresentazioni interne; capacità di differenziazione e integrazione; capacità di auto-osservazione; capacità di costruire o ricorrere a standard e ideali interni. Ne risulta complessivamente uno strumento molto ricco, capace di dare al clinico una visione completa del paziente. A conclusione di questo capitolo ci si potrebbe chiedere: è realmente possibile, con un adeguato processo diagnostico, distinguere chiaramente la normalità dall’anormalità (o psicopatologia)? È in realtà probabilmente impossibile rispondere in modo definitivo a questa domanda: la risposta, infatti, dipende molto dal punto di vista che si è deciso di prendere. Freud ha mostrato più volte che, anche nella vita quotidiana e “normale” di un individuo, possono essere presenti segnali di un modo di essere, se non proprio “anormale”, perlomeno sconosciuto all’individuo stesso: un esempio per tutti può essere quello degli atti mancati (cfr. capitolo 5). In questa prospettiva, il limite tra un’area e l’altra non è tracciato in modo chiaro e definito, ma è in qualche modo soggettivo e riscrivibile ogni giorno. D’altra parte, scopo principale della psicoanalisi è stato quello, sin dai suoi esordi, di costruire conoscenze e tecniche di trattamento in grado d’intervenire in funzione dei bisogni e delle richieste portate dal paziente: ridurre il conflitto intrapsichico, superare disagi nelle relazioni interpersonali, intervenire su stati mentali di sofferenza. In altre parole, il punto di vista privilegiato è sempre stato quello dell’individuo che si auto-osserva nel percorso analitico. Al contrario, prendendo come punto di partenza quello di un osservatore esterno (psichiatra, psicologo clinico, criminologo che sia), diventa inevitabile introdurre criteri differenziali: essi discendono da esigenze istituzioni e sociali, delle quali l’osservatore è partecipe, il cui scopo principale non è tanto la cura, quanto la difesa sociale. Volendo estremizzare, si potrebbe sostenere l’equivalenza tra malattie della mente e malattie del cervello e basare in questo modo la distinzione su evidenze organiche.
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2 Cenni di diagnosi e nosografia psicoanalitiche
Si tratta dunque di un problema complesso, che ha trovato soluzioni diverse sulla base delle discipline che vi si sono applicate e dei periodi storici intercorsi.
2.4
Una esemplificazione clinica: DSM e PDM a confronto
Si fornirà ora un breve resoconto di un assessment psicologico: si tratta, ovviamente, di una sintesi di quanto il paziente ha raccontato in più incontri. Il signor F. è un uomo di 45 anni, celibe. È laureato in giurisprudenza. Professionalmente affermato, si presenta per una valutazione psicodiagnostica, lamentando un disagio che definisce “esistenziale”, ma del quale non riesce a spiegare le origini. Al primo colloquio si presenta con quindici minuti di anticipo. Vestito impeccabilmente con abiti sartoriali, siede in sala d’attesa composto. Durante il colloquio parla lentamente, lo sguardo sembra assente. L’eloquio è organizzato, fluente e informativo. Non si ravvisano disturbi formali del pensiero. Inizia raccontando del suo lavoro da avvocato, di come lo svolge in maniera metodica, quasi seguendo “dei rituali” che incominciano al mattino quando “scendo dal letto, mi faccio la doccia e poi preparo il caffè che bevo nella tazza che ho preparato la sera prima capovolta sul tavolo della cucina, così che non prenda polvere durante la notte; poi mi vesto e come ultima cosa mi annodo la cravatta con un nodo doppio ed esco”. Il lavoro si svolge per la maggior parte del tempo in un prestigioso studio legale che si occupa di fusioni aziendali. La storia familiare di F. è estremamente intricata. La madre rimane incinta quando era poco più che adolescente di un uomo di origine francese di qualche anno più grande di lei in Italia per terminare il percorso universitario. All’inizio non riconosciuto, F. incontra per la prima volta il padre quando ha cinque anni. “Anche se ero piccolo mi ricordo quella scena come se fosse accaduta ieri. Con mia madre siamo andati a Lione, in treno, perché non potevamo permetterci una macchina. Alla stazione sono sceso dalla carrozza e mi ricordo il gradino: come era alto quel gradino! Per arrivare a terra quasi bisognava saltare. Sulla banchina c’era quest’uomo alto, magro, molto distinto e che portava un cappello grigio. Mi ricordo che il mio cuore batteva fortissimo. Dopo quell’incontro ho iniziato a frequentare mio padre regolarmente. Lui era sposato e aveva tre figli. Quando andavo a casa loro, una bella casa, non come quella in cui abitavo con mia madre, non mi sentivo a mio agio. Gli altri mi guardavano come se fossi un alieno e mi avevano battezzato con il nomignolo di ‘straniero’”. Il padre, figlio unico di una famiglia agiata, viene descritto da F. come una figura distante, anaffettiva, concentrato solamente sui soldi e con il vizio di bere. Deceduto quando F. aveva 30 anni per un infarto improvviso, non ha lasciato alcun testamento e questo ha portato il paziente a intraprendere una lunga battaglia legale per “avere quello che mi spetta”; battaglia che al momento della consultazione non ha ancora visto una conclusione. La madre, vivente, è descritta come una persona molto ansiosa ed emotivamente fragile “da bambino la vedevo spesso piangere quando pensava di essere da sola.
2.4 Una esemplificazione clinica: DSM e PDM a confronto
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Anzi, io mi nascondevo e la spiavo”. L’infanzia del paziente è caratterizzata da un estremo senso di solitudine ed estraniamento, con continui spostamenti dall’Italia alla Francia. “A volte mi svegliavo durante la notte e non sapevo dov’ero. Mi spaventavo, dovevo accendere la luce e, solo dopo aver osservato gli oggetti nella stanza, mi calmavo”. Durante l’adolescenza incominciano a manifestarsi quelli che il paziente chiama “i miei rituali”, che consistono nel contare un certo numero di volte fino al numero 28 mentre cammina per strada, oppure lavarsi le mani tre volte prima di mettersi a tavola “iniziando sempre prendendo il sapone con la sinistra e bagnando prima la mano destra”. Rituali che persistono ancora nel momento della consultazione. Il signor F. vive in un appartamento in affitto in una zona centrale della città. Oltre alle persone con cui lavora non ha relazioni sociali intime, a parte un amico dell’università che definisce “il mio confessore”. I rapporti con l’altro sesso sono per lo più inesistenti e occasionali. Riferisce di aver avuto una sola relazione affettiva importante quando aveva vent’anni con una ragazza conosciuta all’università. Relazione interrotta dopo due anni in seguito a un tradimento. Il signor F. si descrive come una persona molto metodica, ordinata fin quasi alla maniacalità, con una preoccupazione verso la pulizia e l’igiene. L’alimentazione è poco varia: ogni giorno della settimana ha il suo menù “in questo modo non resto mai senza scorte per qualche imprevisto o dimenticanza”. Durante il colloquio emergono vissuti ansiosi che sono solo parzialmente riconosciuti dal paziente. Riferisce su somatizzazioni, in particolar modo a livello gastro-intestinale, che il paziente fa coincidere con l’elevato stress che vive sul lavoro. Dalle informazioni presentate durante il colloquio di consultazione si cercherà ora di formulare una diagnosi sia descrittiva che psicodinamica.
2.4.1
Diagnosi descrittiva
Il paziente presenta tratti di personalità che inducono in lui comportamenti finalizzati al mantenimento dell’ordine, del controllo dei propri processi mentali e delle relazioni interpersonali, peraltro molto limitate al di fuori dell’ambito lavorativo. Mostra un’eccessiva dedizione al lavoro, che lo porta a escludere attività di svago e amicizie. È estremamente coscienzioso e scrupoloso, ai limiti del perfezionismo, con una forte tendenza alla rigidità. In particolare, il paziente presenta un’eccessiva attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione e gli schemi. Tale quadro compare nella tarda adolescenza e abbraccia una varietà di contesti. Si tratta dunque di un tratto di personalità che si presenta in modo pervasivo: è cioè un modo di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di sé stessi che si manifesta in modo costante, all’interno di un ampio spettro di contesti sociali e personali. Contemporaneamente è presente una forte preoccupazione per essere il più possibile aderente a quanto questo tratto di personalità “impone” al paziente: è su tale base che il paziente lamenta una certa quota d’ansia, in parte convertita sul soma (disturbi gastro-intestinali).
2 Nelle relazioni mettiamo in gioco le nostre risorse e... noi stessi
34
2
Seguendo il DSM-IV-TR è possibile porre diagnosi di Disturbo ossessivocompulsivo di personalità rispetto all’Asse II (301.4 – prevalente) e Disturbo d’ansia generalizzato con somatizzazioni rispetto all’Asse I (300.02 – secondario).
2.4.2
Diagnosi psicodinamica
Il paziente presenta dei meccanismi di difesa tipici dei quadri ossessivi: isolamento, formazione reattiva, intellettualizzazione e annullamento retroattivo, con l’obiettivo di tenere a distanza stati emotivi che possono farlo sentire “fuori controllo”. Gli affetti principali che il paziente sperimenta sono rabbia, colpa, vergogna e paura, con la credenza che la propria aggressività sia pericolosa e che debba quindi essere controllata. Il paziente può essere descritto come una sorta di “macchina vivente”, secondo una calzante immagine ripresa da W. Reich. L’identificazione inconscia sembra essere stata effettuata con la figura paterna: per quanto spesso assente, essa è vissuta dal paziente come esigente e castrante e ha dato luogo a un Super-io molto severo. In questo senso, non è da escludere un “fondo” depressivo, legato all’abbandono precoce e alla possibile colpevolizzazione derivante da questo. Accanto alla sottomissione nei confronti del padre, è presente nel paziente, perlopiù a livello inconscio, un’intensa pulsione aggressiva di ribellione: i possibili derivati di quest’ultima sono vissuti come inaccettabili e questo determina lo sviluppo di un’importante sintomatologia ossessiva. I sensi di colpa verso i desideri inaccettabili sono estremamente forti, spingendo la coscienza ad essere rigida e punitiva. Per evitare di sentire disagio legato alla colpa, il paziente si impone degli standard lavorativi e di vita molto elevati che lo portano a seguire le regole in modo letterale, perdendosi nei dettagli e nella scrupolosità. A causa di tutto quanto viene represso, il paziente vive un costante stato di tensione interna che gli impedisce di vivere momenti di intimità e socialità. Questo porta il paziente a considerare le espressioni della propria emotività come delle forme di immaturità non accettabili, spingendolo a sopravvalutare gli aspetti razionali. Le emozioni sono dunque accettate solamente nel momento in cui sono logicamente o moralmente giustificate. Dal punto di vista della maturazione dell’individuo, Freud (1908a; 1909; 1912–1913) ha fatto risalire questo tipo di funzionamento psicologico alla fase anale e all’educazione sfinterica in essa introdotta, mettendo in relazione la testardaggine e la puntigliosità con i conflitti relativi all’igiene e ai bisogni evacuativi. Come segnalato dal PDM, la natura introiettiva del funzionamento psicologico di questa tipologia di pazienti dovrebbe rendere più utili quelle forme di psicoterapia che tentano di facilitare l’insight. Durante il trattamento, il terapeuta dovrebbe aiutare progressivamente il paziente a entrare nel suo mondo interno, uno spazio che il soggetto vede come estremamente pericoloso, aiutandolo a prendere contatto con le sue emozioni, con i suoi desideri e istinti, sempre tenendo conto che pazienti con questa particolare struttura di personalità spesso possono ingaggiare una sorta di “braccio di ferro” con il terapeuta. Nel caso specifico qui presentato non è da escludere un iniziale supporto farmacologico, soprattutto per una certa familiarità
2.4 Una esemplificazione clinica: DSM e PDM a confronto
35
per i disturbi d’ansia (madre) e dell’umore (padre). Sulla base delle indicazioni fornite dal PDM, è possibile porre diagnosi di Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (P112.1), associandovi un Profilo del funzionamento mentale caratterizzato da moderate limitazioni e alterazioni nell’esperienza di sentimenti e/o pensieri nelle aree più importanti della vita, nell’orientamento al piacere e nella percezione di sé e dell’oggetto (M205), con un’esperienza soggettiva dei pattern sintomatici tipica dei Disturbi ossessivo-compulsivi (S302.3), che il PDM annovera da questo punto di vista tra i Disturbi d’ansia. Attraverso un approccio complessivo alla diagnosi, che tiene conto degli aspetti sia descrittivi che psicodinamici, è possibile ottenere un quadro completo del paziente non solo a livello nosografico, ma anche di funzionamento mentale e di esperienza soggettiva dei sintomi. Tale quadro può inizialmente guidare il clinico nell’impostazione del trattamento terapeutico e successivamente nelle modalità di intervento. Diagnosi descrittiva e diagnosi psicodinamica sembrano dunque integrarsi, benché la ricchezza di informazioni sul paziente fornita da quest’ultima sia da valorizzare. Sta al clinico farne l’uso migliore.
Curare ai tempi di Freud (precursori e contemporanei)
3.1
3
Uno sguardo sul passato: alle origini del concetto di malattia e di cura
Nel corso dei secoli furono molteplici le concezioni di malattia mentale che si susseguirono, così come le terapie ad esse associate. Seguendo Ellenberger (1970) nel suo straordinario viaggio nel passato, è possibile soffermarci su alcune primitive concezioni della malattia (mentale) e della cura: in esse è presente una serie di spunti che hanno preso una forma definitiva nella psichiatria dinamica prima e nella psicoanalisi poi. Ma andiamo con ordine. All’inizio del Paleolitico, in zone come l’America, la Siberia orientale, l’Asia sudorientale, l’Australia e la Nuova Zelanda, prese piede la teoria secondo cui la malattia mentale sarebbe stata determinata dall’intrusione di un oggetto, ovvero si credeva che la causa dei mali risiedesse in una sostanza estranea presente all’interno di un corpo e per esso dannosa. Non era tanto l’oggetto in sé a determinare la malattia, quanto l’“essenza” contenuta in esso. Il trattamento consisteva nell’estrarre l’“oggetto malattia”: tale compito era svolto dallo stregone di turno, di solito molto abile a mimare l’estrazione dell’oggetto intruso e a farlo scomparire attraverso un gioco di prestigio. Un’altra concezione che si diffuse alla fine del Paleolitico si basava, invece, sulla credenza secondo cui la malattia (mentale) sarebbe insorta nel momento in cui l’anima o lo spirito avesse lasciato il corpo, spontaneamente o per un incidente: si riteneva fossero maghi o fattucchieri a compiere questo. La terapia veniva questa volta fornita da un guaritore, che si impegnava ad andare alla ricerca dell’anima perduta o assente, riportandola indietro e restituendola al corpo1. La malattia poteva però generarsi anche per l’introduzione di uno spirito nel corpo di una persona, che risultava quindi posseduta da agenti maligni: la condizione di possessione sonnambolica o lucida era simile a quella che, molti secoli dopo, sarebbe stata studiata all’interno della Prima psichiatria dinamica. L’esorcista aveva il compito di rendere attiva la possessione, portando lo spirito a “parlare” e determinando così un terapeutico effetto di abreazione o “scarica”. La concezione secondo cui una malattia mentale potesse derivare dall’infrazione 1
Esemplificative, oltre che di grande interesse, sono le esperienze in questo senso riportate da Piero Coppo presso i “guaritori” dell’Africa subsahariana (Coppo, 2007).
O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_3, © Springer-Verlag Italia 2014
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38
3
3 Curare ai tempi di Freud (precursori e contemporanei)
di un tabù si originò in tempi più recenti e soprattutto all’interno di culture connotate in senso religioso: la trasgressione spesso era di natura morale, solitamente a sfondo sessuale. La terapia consisteva nella confessione della trasgressione; tale confessione, che di solito era pubblica, veniva accompagnata da cerimonie o rituali di purificazione, come vomito e sanguinamento. È relativamente facile intravedere, al di sotto di questa specifica concezione della malattia, un riferimento a quello che la psicoanalisi ha ridefinito come di senso di colpa (inconscio). Tra la fine del sedicesimo secolo e l’inizio del diciassettesimo è collocato lo sviluppo della scienza moderna, fondata sulla sperimentazione e la misurazione e non più sull’osservazione e la deduzione. “Così la medicina divenne un ramo della scienza, la psichiatria uno della medicina e la psicoterapia un’applicazione della psichiatria, basata su scoperte scientifiche” (Ellenberger, 1970, p. 54). Medico e psichiatra iniziarono a criticare e a opporsi alle vecchie concezioni di malattia, che avevano radici perlopiù in credenze popolari. Ma – come osserva sempre Ellenberger (1970) – non si possono sottovalutare tutta una serie di legami tra esorcismo e magnetismo (cfr. Mesmer), tra magnetismo e ipnotismo (cfr. Charcot e Bernheim) e tra quest’ultimo e la psicoanalisi. In primis, a partire dalla centralità della persona del guaritore o del medico. Tuttavia, quello che cambierà, e radicalmente, sarà il modo di concepire il disagio psichico: da qualcosa di reificato e “tangibile” a qualcosa di immateriale e “mentale”. D’altra parte, non tutto ciò che è “mentale” è riconducibile a un substrato organico. Associazionismo e illuminismo ebbero un rilevante peso nello sviluppo della psicoterapia dinamica (Zaretsky, 2004): il primo per le nuove idee che propose rispetto al funzionamento della mente e dei processi di cui essa sarebbe capace; l’altro per la proposta di cura della follia secondo metodi alternativi a quelli sino a quei tempi praticati. Al 1775, anno “ufficiale” dello scontro tra Gassner e Mesmer, Ellenberger (1970) fa risalire l’inizio della Prima psichiatria dinamica.
3.2
F.A. Mesmer e la prima psichiatria dinamica
Il medico e filosofo tedesco Mesmer fu il promotore di una nuova relazione terapeutica, più attenta alla persona del malato, benché il suo lavoro sia stato osteggiato dalla medicina ufficiale e guardato con sospetto. Il percorso teorico di Mesmer prese avvio nel 1766 con la tesi di dottorato in medicina, dal titolo Dissertatio physico-medica de planetarum influxu. Questo testo costituisce la premessa dell’intero sistema mesmeriano, dal momento che nella definizione della gravità animale vi è l’intuizione da cui è sviluppata la teoria sul magnetismo animale. Dopo aver analizzato l’influenza reciproca dei pianeti, soffermandosi sull’attrazione della Terra verso la Luna, Mesmer afferma nella Dissertatio che anche l’uomo è soggetto all’azione degli astri; in quanto parte della Terra, è composto di fluidi e solidi. Per illustrare la relazione microcosmo-macrocosmo Mesmer introduce l’idea di un fluido onnipervasivo:
3.2 F.A. Mesmer e la prima psichiatria dinamica
39
Vi è, inoltre, un’altra specie d’influenza che agisce sui corpi animali, influenza che non sembra dipendere dalle qualità comuni dell’atmosfera, ma piuttosto direttamente da questa forza che [...] è la causa della gravitazione universale e, molto probabilmente, il fondamento di tutte le proprietà dei corpi [...] forza che può, da questo punto di vista, essere chiamata gravità animale (Spiquel, 1997, p. 34)2
Mesmer pensa che vi siano, al di là delle variazioni atmosferiche, altri effetti della forza universale che agiscono sui corpi viventi e cerca di conciliare la gravitazione, ispirata dagli studi di Newton, con un fluido ancora indefinito. L’evoluzione delle idee di Mesmer si articola in tre momenti successivi: la pratica medica esercitata a Vienna dal 1766 al 1772, l’adesione al magnetismo tradizionale (1772–1774) e, infine, la fondazione di un nuovo metodo curativo (a partire dal 1775) (Montesperelli, 2002). Soprattutto nel periodo viennese Mesmer sviluppò le sue conoscenze fino alla formazione del metodo definito come “mesmerismo”. In un primo tempo egli impiegò come cura la forza elettrica scoperta da poco. I tentativi di Mesmer di agire sulle malattie nervose per mezzo di scosse elettriche non produssero, però, nessun effetto. Il desiderio di scoprire un mezzo di cura per chi soffriva di nervi lo portò allora nel 1772 a far ricorso alla calamita. Già nel Medioevo erano stati attribuiti al magnete effetti curativi. L’originalità di Mesmer consistette nel fatto che egli si servì della calamita non contro i dolori localizzati, ma contro il mal di nervi e l’isteria. Constatando l’efficacia del magnete, Mesmer credette di aver individuato l’applicazione pratica della sua teoria e comunicò questa scoperta nello scritto tradotto in francese con il titolo Lettre de M. Mesmer, docteur en médecine à Vienne, à M. Unzer, docteur en médecine, sur l’usage médicinal de l’aimant (Traetta, 2007). Nella Lettre, Mesmer illustrò il trattamento di Franziska Österlin, una giovane di ventotto anni che soffriva di attacchi convulsivi. Il magnetizzatore, tramite l’applicazione della calamita, cercava di stabilire nel corpo della paziente una marea artificiale. Mesmer fondò questo tentativo su alcune considerazioni che risalivano alla sua tesi di dottorato: i grandi magneti naturali, cioè il Sole, la Luna, la Terra e i pianeti, agiscono continuamente sull’uomo. Essi non influenzano solo le maree e l’atmosfera, ma anche le particelle solide e liquide dell’organismo. Finché si è sani, però, non si sente questo effetto; solo se l’armonia dei nervi viene turbata si avverte l’influenza dei corpi celesti sotto forma di dolore. Il magnete artificiale deve causare nelle parti del corpo su cui viene posto un flusso e riflusso artificiale e ripristinare l’armonia turbata dei nervi. Mesmer interpretò i fenomeni apparsi durante la cura della Österlin con il magnete come “una lotta contro il disturbo dell’armonia del fluido nervoso” (Traetta, 2007, p. 22). Il 2
Citato da A. Spiquel, Mesmer et l’influence, in Romantisme, 1997, vol. 27, n. 98, p. 34: “Il y a, en outre, une autre espèce d’influence qui agit sur le corps animal, influence qui ne semble pas dépendre de ces qualités communes de l’atmosphère, mais plutôt immédiatement de cette force qui [...] est la cause de la gravitation universelle et, très probablement, le fondement de toutes les propriétés corporelles, [...] force qui peut, sous ce rapport, être appelée gravité animale”.
40
3
3 Curare ai tempi di Freud (precursori e contemporanei)
magnete, a causa della sua analogia con il fluido nervoso, rimette a posto la ripartizione disuguale del fluido. Tramite l’applicazione dei piccoli magneti venivano contrastati gli effetti dei grandi magneti (i corpi celesti), di cui determinate costellazioni provocavano turbolenze nel fluido nervoso. Nello stesso tempo Mesmer attribuì un’importanza crescente al fattore umano. Nella Lettre, formulando l’ipotesi della pluralità delle sostanze con proprietà magnetica, egli abbandonò il ruolo centrale assegnato alla calamita e rivalutò la figura del terapeuta, prima relegato alla funzione di intermediario e catalizzatore. Soprattutto, la Lettre segna un importante progresso, laddove si afferma che anche il corpo umano può fungere da magnete: come il magnete rende il ferro magnetico, allo stesso modo l’uomo agisce polarmente sull’uomo. Successivamente, Mesmer tentò di dare un ordine alla sua teoria, articolandola in ventisette proposizioni. Nel 1779 vide la luce infatti la Mémoire sur la découverte du magnétisme animal. Ellenberger riassume il sistema di Mesmer esposto in questa opera in quattro principi fondamentali (Ellenberger, 1970, p. 71): a. un sottile fluido fisico riempie l’universo e forma un mezzo di connessione tra l’uomo, la Terra e i corpi celesti, e anche tra uomo e uomo; b. la malattia ha origine dalla distribuzione non omogenea di questo fluido all’interno del corpo umano; la guarigione si ottiene quando si ritorna a questo equilibrio; c. per la sua analogia con un flusso di tipo elettrico, il fluido può essere immagazzinato e convogliato su altre persone; d. è possibile provocare con questo procedimento una “crisi” nel paziente e così curare le malattie3. Dalle ventisette proposizioni emerge che la nozione centrale della Mémoire è il fluido4. La nozione di fluido formulata da Mesmer mette in evidenza l’importanza attribuita al rapporto tra curante e curato, oltre al contesto affettivo in cui si svolge la terapia. Il fluido, secondo il medico tedesco, non può sostituirsi alla persona che lo emana. In questo modo la creazione di un rapporto empatico, attraverso la mediazione del fluido, diventa una nozione essenziale del metodo mesmeriano. Secondo Ellenberger, queste intuizioni fanno di Mesmer “l’inventore della psicologia dinamica” (Ellenberger, 1970, p. 72). 3
4
Le ventisette proposizioni, però, non espongono tutte le conclusioni che Mesmer trasse dalla sua esperienza. Le crisi sono menzionate solo di sfuggita e non vi è nessun accenno al fatto che lo stato del malato peggiora prima di migliorare. Inoltre, come nella Lettre del 1775, anche qui Mesmer chiama magnetismo animale la proprietà del corpo umano e non la forza esterna che agisce su di lui. “I. Il existe une influence mutuelle entre les corps célestes, la terre et les corps animés. II. Un fluide universellement répandu et continué de manière à ne souffrir aucun vide, dont la subtilité ne permet aucune comparaison et qui, de par sa nature, est susceptible de recevoir, propager et communiquer toutes les impressions du mouvement, est le moyen de cette influence. III. Cette action réciproque est soumise à des lois mécaniques, inconnues jusqu’à présent. VIII. Le corps animal éprouve les effets alternatifs de cet agent; et c’est en s’insinuant dans la substance des nerfs qu’il les affecte immédiatement. X. La propriété du corps animal, qui le rend susceptible de l’influence des corps célestes et de l’action réciproque de ceux qui l’environnent, manifestée par son analogie avec l’aimant, m’a déterminé à la nommer magnétisme animal. XVII. Cette
3.2 F.A. Mesmer e la prima psichiatria dinamica
41
Sempre all’interno della Mémoire del 1779, Mesmer affermò l’esistenza di un “senso interno” all’uomo che potrebbe essere in relazione con l’universo. In questo assunto alcuni autori hanno visto una prefigurazione dell’inconscio, evidente soprattutto nel fatto che il medico tedesco paragona il senso interno alla notte. Questo senso interno viene colpito dai movimenti del fluido universale e giustifica il fenomeno della telepatia. Soprattutto nello stato di sonnambulismo, questa facoltà si estende, permettendo all’uomo addormentato di diagnosticare le proprie malattie. L’analisi sul sonnambulismo serve a Mesmer per delineare la nozione di “essere in rapporto”, intesa come “una reciprocità e un accordo, una specie di convenzione tra due volontà”. Egli considera infatti il “sonno magnetico” non uno stato di assenza di rapporto (in quanto si ha la perdita di coscienza), ma come la porta d’ingresso che permette di accedere a un linguaggio più profondo, in cui avviene una specie di scambio di messaggi subliminali. Il termine “rapporto” indica una relazione di tipo nuovo tra il medico e il paziente (Traetta, 2007). A differenza del medico tradizionale, Mesmer entra in rapporto con la persona e con quella che oggi si chiama realtà psichica del paziente. Questo costituisce un’innovazione importantissima nel campo medico e una svolta verso la cura psicologica, il cui elemento centrale è rappresentato, per Mesmer, dalla “crisi” di cui egli riconosce il valore catartico. Secondo la definizione contenuta nella Mémoire del 1779, il termine “magnetismo animale” indica sia il sistema delle influenze in generale, sia il rimedio e il metodo per guarire le malattie. La malattia, per Mesmer, è l’ostruzione della circolazione del fluido vitale. Come rileva Montesperelli, “la fibra muscolare è lo strumento di tutto il movimento. Essa è pervasa dal fluido, fa circolare i liquidi nel corpo e mantiene l’organismo in vita. Tutte le malattie dunque derivano da un blocco della circolazione che provoca lo spasmo o la paralisi della fibra muscolare: si arriva così all’ostruzione dei vasi e alla malattia” (Montesperelli, 2002, p. 18). Dal momento che tutte le malattie hanno un’unica causa, c’è solo una cura generale, vale a dire il ripristino del movimento dell’organismo attraverso il magnetismo animale. La malattia può essere superata, però, solo grazie a una crisi salutare: vertu magnétique peut être accumulée, concentrée, transportée. XVIII. J’ai dit que les corps animés n’en étaient pas également susceptibles; il en est même, quoique très rares, qui ont une propriété si opposée que leur seule présence détruit tous les effets de ce magnétisme dans les autres corps. XIX. Cette vertu opposée pénètre aussi tous les corps; elle peut être également communiquée, propagée, accumulée, concentrée et transportée, réfléchie par les glaces et propagée par le son; ce qui constitue, non seulement une privation, mais une vertu opposée positive. XXI. Ce système fournira de nouveaux éclaircissements sur la nature du feu et de la lumière, ainsi que dans la théorie de l’attraction, du flux et reflux, de l’aimant et de l’électricité. XXIII: On reconnaîtra par les faits, d’après les règles pratiques qui j’établirai, que le principe peut guérir immédiatement les maladies des nerfs et médiatement les autres. XXIV. Qu’avec son recours, le médecin est éclairé sur l’usage des médicaments; qu’il perfectionne leur action et qu’il provoque et dirige les crises salutaires, de manière à s’en rendre la maître. XXVII. Cette doctrine, enfin, mettra le médecin en état de bien juger du degré de santé de chaque individu et de la présence des maladies auxquelles il pourrait être exposé. L’art de guérir parviendra ainsi à sa dernière perfection” (Spiquel, 1997, p. 37).
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3
3 Curare ai tempi di Freud (precursori e contemporanei)
la crisi è il processo generale della natura per ripristinare l’armonia disturbata tra le parti fluide e solide. Il compito del magnetismo animale è quello di rinforzare e guidare terapeuticamente queste crisi (Ellenberger, 1970). Se le crisi costituiscono una necessità nel processo verso la guarigione, Mesmer mette in evidenza però il pericolo legato a un abuso della magnetizzazione. La paura dell’abuso deriva dalla natura del rapporto tra il magnetizzatore e il paziente: per magnetizzare è necessario stabilire il rapporto attraverso il contatto, i cosiddetti passes, cioè l’azione di passare la mano sul corpo o su una parte di esso5. Questa vicinanza fisica e l’intimità che a volte si determina nelle sedute favoriscono un attaccamento particolare che lega il malato al medico e che può diventare sconveniente. Uno dei motivi essenziali per cui la medicina ufficiale si oppose al magnetismo fu proprio il rifiuto dell’emergere della sessualità femminile nella pratica del magnetismo (Traetta, 2007). Le donne, che nel XVIII secolo dovevano incarnare un ideale di sensibilità e di purezza, potevano lasciare affiorare nelle sedute mesmeriche il desiderio e la sessualità attraverso le convulsioni. Un momento fondamentale nell’evoluzione della teoria mesmeriana e nella polemica con la medicina ufficiale fu il trattamento magnetico di Maria Theresia Paradis, la famosa pianista cieca amica di Mozart. Questo incontro si collocò in una fase di crescente interesse per il mesmerismo. Nel 1777 Luigi XVI, pur considerando con diffidenza ogni “terapeutica dell’anima”, incaricò l’Académie de médecine e la Société royale de médecine de Paris di compiere un’inchiesta ufficiale sul magnetismo animale6. Alla nascita, la Paradis non presentava nessuna patologia agli occhi e non erano chiare né le cause della sua cecità, né se la perdita della vista fosse avvenuta all’improvviso o gradualmente intorno al terzo o quarto anno di età. La causa era attribuita a una “degenerazione” umorale a cui si riconduceva anche la predisposizione alla melanconia (di cui sembra soffrisse la Paradis), connessa a un’ostruzione alla milza e al fegato. Tra le possibili cause della cecità si ipotizzava 5
6
Il baquet era una grande tinozza di legno, coperta e riempita con diversi materiali magnetizzati, acqua, sabbia, pietre, bottiglie di vetro riempite di acqua. Dal centro partivano conduttori, cioè sbarre di ferro, un’estremità delle quali era immersa nel baquet, mentre l’altra poteva essere applicata sulla parte malata. I malati si disponevano intorno a questa batteria magnetica, toccandosi reciprocamente con il pollice e l’indice delle mani per formare una catena, qualcosa come un circuito elettrico. Le sedute, infatti, non avevano luogo nei giorni di tempesta, perché le scariche elettriche dei fulmini erano considerate perturbatrici del magnetismo. Mesmer pensava che questa vasca permettesse la circolazione del fluido tra i pazienti poiché la corrente magnetica si rafforzava passando attraverso parecchi organismi umani, così da fargli preferire al trattamento individuale il magnetismo collettivo nel baquet. L’apparato che circondava la terapia magnetica influiva sugli stati emotivi dei pazienti. Durante le sedute Mesmer circolava con la bacchetta magnetica in pugno e, attraverso i gesti, il contatto e gli sguardi, provocava le crisi che erano convulsioni quasi epilettiche, simili alle trance dei sonnambuli. Il suo procedimento di cura era affascinante: egli sedeva con le ginocchia dei pazienti chiuse tra le sue e faceva scorrere le dita lungo il corpo dei malati, cercando i poli dei piccoli magneti che compongono l’intero magnete del corpo umano (cfr. Ellenberger, 1970, p. 73). Gli accademici condannarono il magnetismo dopo aver concluso che la sua esistenza non era stata dimostrata. Ne interdissero, inoltre, l’applicazione terapeutica, che giudicavano inutile e dannosa.
3.3 H. Bernheim e J.-M. Charcot: verso una nuova psichiatria dinamica
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non solo una causa organica, ma anche un processo di origine nervosa (come un forte spavento). Alcuni autori contemporanei spiegano, invece, la cecità della Paradis con un disturbo di origine isterica. Traetta, ad esempio, spiega la patologia con un episodio traumatico della vita della pianista e riporta anche alcune citazioni tratte da Eziologia dell’isteria e da I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica di Freud (Traetta, 2007)7. La Paradis avrebbe utilizzato la cecità isterica come protezione e avrebbe così coltivato la sua attività musicale. Infatti i suoi genitori, per alleviare la sua condizione, promossero con ogni mezzo la sua educazione musicale. Inoltre, tutte le personalità mediche del tempo si interessarono al caso della Paradis nel tentativo di offrirle una cura. Tutti i tentativi di cura fallirono e la pianista fu dichiarata incurabile. L’incontro con Mesmer avvenne nel 1777 e diede l’occasione al medico tedesco di accreditare il magnetismo. Dopo aver constatato l’integrità del nervo ottico della donna, Mesmer cominciò il trattamento. Il magnetizzatore riuscì a ristabilire subito la posizione naturale degli occhi. L’effetto più singolare fu il modo in cui la Paradis percepiva l’influsso magnetico, descritto come una leggera brezza che penetrava nella nuca, causandole una sensazione dolorosa (Traetta, 2007). Queste sensazioni dolorose si affievolirono però quasi subito e la donna cominciò a mostrarsi sensibile alla luce. Grazie ai progressi Mesmer cominciò a mostrare alla donna i diversi colori, cercando pian piano di insegnarle a distinguere i contorni e le distanze degli oggetti. Tuttavia, le ostilità pubbliche e l’opposizione della famiglia finirono per scoraggiare la paziente e per provocarle frequenti attacchi di melanconia, oltre alla perdita del virtuosismo musicale. Alla fine, il padre ottenne dal preside della Facoltà medica un’ingiunzione per Mesmer, attraverso la quale si imponeva la fine al trattamento. La vicenda della Paradis determinò una sconfitta del medico tedesco sia sul piano della teoria che su quello della prassi. Sul piano della teoria egli non riuscì a comunicare e a diffondere le sue scoperte. Infatti il magnetismo animale, in quanto ipotesi di cura e di “trasformabilità dell’inconscio” (Fagiou e Homberg, 1993, p. 15), era un approccio sconosciuto nel Settecento e richiedeva un linguaggio appropriato. Mesmer cercò di definire il magnetismo come un “sesto senso artificiale”, dimostrando la difficoltà di trovare un linguaggio adeguato.
3.3
H. Bernheim e J.-M. Charcot: verso una nuova psichiatria dinamica
Nella prima metà dell’Ottocento l’ambito di studi sulla personalità “profonda” registrò una scissione tra il mesmerismo ortodosso (fedele all’insegnamento di Mesmer) e la sua corrente eterodossa (sviluppata da Puységur, che fondò una propria 7
Maria Theresia Paradis, figlia unica di una madre probabilmente isterica, avrebbe sofferto lei stessa di isteria somatizzata dall’infanzia nel cosiddetto crampo isterico di convergenza, collegato a un restringimento delle pupille, che avrebbe potuto portare a un indebolimento della vista.
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scuola). La moltiplicazione dei contributi scientifici portò alla distinzione tra un filone di studi più attenti alle tematiche del “magnetismo” e un secondo filone focalizzato soprattutto sull’ipnosi. In questo secondo ambito si colloca Ambroise Liébeault, da cui avrebbe avuto origine la scuola di Nancy. Liébeault si avvicinò in un primo tempo alla pratica mesmerica, per poi elaborare una propria metodica relativa al sonno ipnotico. Quest’ultimo, secondo il medico francese, era “identico al sonno naturale; la sola differenza era che il primo era indotto per suggestione, facendo concentrare l’attenzione sull’idea di sonno. Questo era anche il motivo per cui il soggetto rimaneva ‘in rapporto’ con l’ipnotizzatore” (Ellenberger, 1970, p. 100). La tecnica utilizzata da Liébeault consisteva nell’ordinare al paziente di fissarlo negli occhi e nel suggerirgli che stava provando una crescente sonnolenza. Nel momento in cui la condizione ipnotica era avviata, Liébeault rassicurava il paziente rispetto a tutti i suoi sintomi, suggerendogli che erano scomparsi. L’attività di Liébeault suscitò l’attenzione di Hippolyte Bernheim, chiamato nel 1872 alla facoltà medica di Nancy come docente di clinica medica. La notorietà di Bernheim è legata soprattutto al suo interesse per i fenomeni di ipnotismo e per il sonno ipnotico, ai quali egli tentò di attribuire dignità scientifica dopo aver constatato i risultati che Liébeault stesso riusciva a ottenere in un’ampia serie di casistiche cliniche (Zaretsky, 2006). Lo studio sull’ipnosi conobbe un’accelerazione nel 1882. In quell’anno Charcot propose all’Accademia delle Scienze la relazione Sur les divers états nerveux déterminés par l’hypnotisation chez les hystériques. Contemporaneamente la Scuola di Nancy, organizzata intorno a Liébeault e sotto la guida di Bernheim, cominciò a proporre al mondo scientifico le proprie tesi sull’ipnotismo. Si aprì così una querelle ventennale tra la scuola di Bernheim, da un lato, e Charcot e il gruppo della Salpêtrière dall’altro, intorno al modo di concepire l’ipnotismo e, di conseguenza, l’isteria. Nel 1884 Bernheim pubblicò il testo fondamentale della scuola di Nancy dal titolo De la suggestion dans l’état hypnotique et dans l’état de veille. Bernheim, Liébeault e gli studiosi di Nancy definivano l’ipnosi come una sorta di “sonno” (o stato alterato di coscienza) prodotto dalla suggestione, che poteva anche avere implicazioni terapeutiche, e a base più psicologica che neurologica. Essi ritenevano che il sonno ipnotico non fosse un elemento distintivo della personalità isterica (come sostenuto da Charcot)8, ma che potesse essere evocato, più o meno agevolmente, in ogni soggetto. Questi studiosi confutavano, inoltre, che l’ipnotismo potesse essere assunto come modello specifico dei fenomeni isterici, punto centrale nelle tesi di Charcot, Richer, Gilles de la Tourette e Babinski. In altre parole, i fenomeni ipnotici possono esistere anche senza il sonno, cioè senza ipnosi (intendendo per ipnosi una condizione di sonno provocato). Da un lato, questa posizione della scuola di Nancy privava l’isteria di un modello “sperimentale” essenziale e riproponeva la questione della “definizione del8
Charcot sosteneva, infatti, che l’ipnosi fosse una condizione molto differente dal sonno, che si poteva verificare solo in pazienti predisposti all’isteria.
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l’isteria”. Dall’altro lato, però, essa rendeva possibile il suo trattamento e suggeriva come l’ipnosi si avvicinasse allo stato di veglia. Progressivamente, il medico francese iniziò a utilizzare sempre meno la metodica ipnotica, osservando come gli effetti che si ottenevano con l’ipnosi potevano essere ottenuti anche in altra condizione: quella di stato vigile attraverso un’adeguata forma di suggestione. Quello di “suggestione vigile” è diventato uno dei capisaldi della proposta teorico-clinica di Bernheim, tanto da affermare che “i fenomeni di suggestione non sono funzione né di uno stato magnetico (vedi Mesmer), né di uno stato ipnotico (vedi Braid), né di un sonno provocato (vedi Liébeault)” (Bernheim, 1911, pp. 16–17, corsivo nell’originale). Il procedimento di suggestione vigile iniziò quindi ad essere chiamato da Bernheim “psicoterapia”. Se Charcot contribuì quindi a definire e a sistematizzare i quadri di isteria, la scuola di Nancy contribuì in modo fondamentale alla prima elaborazione del metodo psicoterapeutico freudiano9. Per quanto riguarda l’isteria, Bernheim aveva ben presenti le teorie medico-psicologiche proposte alla fine dell’Ottocento. Esse descrivevano l’isteria come caratterizzata da suggestionabilità eccessiva, istintività, impulsività, anomalie degli istinti (specie degli istinti sessuali), attitudine alla menzogna o mitomania, instabilità mentale, tendenza ai sogni, estrema mobilità dei sentimenti, variabilità degli stati affettivi, simpatia, antipatia, collera, angoscia, tristezza, atti incoerenti e impulsivi, e altro ancora. Bernheim non fu mai convinto di queste possibili descrizioni sintomatiche di isteria, soprattutto poiché molte delle pazienti, che realizzano completamente o incompletamente la cosiddetta “mentalità isterica”, non presentavano alcuna crisi isterica. Ciò significava affermare che la crisi isterica non si appoggiava necessariamente su una speciale costituzione predisposta alla psicopatologia o su una specifica degenerazione mentale; era più probabile ipotizzare una certa “impressionabilità nervosa”. D’altra parte, in questo modo si estendeva il campo di significazione dell’isteria a disturbi da essa distinti. Bernheim arrivò a sostenere che tutti noi possiamo essere in qualche misura isterici, nel momento in cui ci si trovi di fronte a una forte emozione, manifestando collera, spavento o turbamento in modo drammatizzato e incontrollato. Sono, per così dire, le diverse “forme dell’isteria”, termine che ha avuto anche recentemente largo utilizzo. L’ipotesi di Bernheim è che possano esistere turbe psichiche transitorie negli isterici e che, a partire da esse, possano svilupparsi delle psicosi isterogene. In altre parole, tutte le emozioni possono diventare isterogene, ma solo in alcuni soggetti determinano uno sviluppo psicopatologico. La diagnosi di isteria deve così essere ristretta a quei pazienti che sviluppano crisi sintomatiche su base emotiva riproducibili per suggestione o autosuggestione. La polemica con Charcot e i clinici della Salpêtrière era aperta. Nato a Parigi nel 1825 da un fabbricante di carrozze, Jean-Martin Charcot seguì 9
Freud si fermò alcune settimane nel 1889 a Nancy per perfezionare la propria tecnica ipnotica. Tradusse De la suggestion et de ses applications à la thérapeutique di Bernheim e nel 1892 Hypnotisme, suggestion, psychothérapie: études nouvelles.
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i corsi di medicina nella capitale francese. Veniva descritto come “un giovanotto freddo, silenzioso, timido, distaccato”, e sembra avesse dei disturbi nel parlare (Ellenberger, 1970, p. 104). All’inizio della carriera Charcot fu assegnato per qualche tempo come interno alla Salpêtrière, un vecchio ospedale che, a quell’epoca, era soprattutto un ospizio medico per quattromila o cinquemila internate. L’ospedale parigino era stato diretto alla fine del XVIII secolo da Philip Pinel, che aveva rivoluzionato le pratiche di internamento. La Salpêtrière di Pinel venne aperta proprio con il progetto principale di “curare” la follia, inaugurando una scienza terapeutica fondata sulla convinzione della curabilità della patologia psichiatrica. Entrando per la prima volta alla Salpêtrière, Charcot si accorse che l’ospedale “ospitava numerose pazienti con malattie neurologiche rare o ignote, e che quindi poteva costituire una fonte inesauribile per la ricerca clinica” (Ellenberger, 1970, p. 106). La carriera di Charcot fu piuttosto lenta. Dopo aver svolto l’attività privata di anatomopatologo, alternata a periodi di insegnamento, nel 1862, all’età di trentasei anni, fu nominato primario di uno dei reparti più importanti della Salpêtrière. Nel 1870 Charcot assunse l’incarico supplementare di uno speciale reparto, riservato dall’amministrazione ospedaliera a un numero piuttosto elevato di pazienti affette da convulsioni. Alcune di queste donne erano epilettiche; altre erano isteriche che avevano imparato a imitare le crisi epilettiche. Charcot “cercò di individuare i mezzi che gli permettessero di distinguere tra convulsioni isteriche e convulsioni epilettiche” (Ellenberger, 1970, p. 105). Egli iniziò anche “a fare ricerche sull’isteria con gli stessi metodi che aveva impiegato nelle ricerche sulle malattie neurologiche organiche” (Ellenberger, 1970, p. 105). Il punto di partenza del metodo charcotiano può essere individuato nello studio della isteria post-traumatica, cui egli ha riconosciuto una eziologia prevalentemente psichica. Nel saggio Paralisi istero-traumatiche (Charcot, 1887–1889, tomo 2) egli si chiede quale sia la causa dei fenomeni isterici. Nell’isteria, sostiene, vi sarebbe una lesione corticale che però non è una lesione organica. Non si tratta né di rammollimento cerebrale, né di emorragia, né di nessun altro tipo di lesione grossolana. Si tratta di una lesione dinamica. Charcot parte dalla convinzione che i presupposti teorici non siano sufficienti per rendere ragione della realtà dei fenomeni clinici. Era necessario, invece, elaborare un metodo di indagine anatomo-clinico. Secondo Charcot, lo studio delle malattie del sistema nervoso doveva essere condotto prima di tutto sotto forma di una “patologia delle regolazioni funzionali” (Canguilhem, 1998, p. 175). Questo non significava che era necessario sottoporre tutte le manifestazioni patologiche all’indagine fisiologica. Però l’osservazione clinica doveva “allearsi alle scienze generali e avvicinarsi sempre più alla fisiologia per dare origine a una medicina davvero razionale” (Canguilhem, 1998, p. 175). Charcot si proponeva, in sostanza, di analizzare le manifestazioni psicopatologiche attraverso l’approfondimento, dal punto di vista funzionale, dei loro schemi neuro-motori e delle loro regolazioni fisiologiche. Per lo studioso francese il campo di indagine della psicologia erano le malattie nervose, analizzate attraverso la fisiologia della corteccia cerebrale.
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Il “metodo anatomo-clinico” di Charcot si fondava, in sostanza, su un compromesso, necessario in quel periodo per studiare le malattie nervose. Anche se era impossibile vedere direttamente il funzionamento del cervello, si potevano però “individuare dei sintomi, visibili sul corpo, degli effetti provocati dalle alterazioni di questo funzionamento e di conseguenza esprimere un giudizio su quest’ultimo” (Didi-Huberman, 2008, p. 49). Charcot fu praticamente costretto a seguire questo procedimento: studiare i sintomi presentati da un malato (durante la sua vita); in seguito (cioè dopo la morte del malato) studiare la “sede” delle lesioni constatate; ripetere questi studi su un gran numero di casi e confrontarli tra di loro per fissare con certezza quale fosse questa “sede reale” delle lesioni che aveva avuto come conseguenza determinati sintomi. Si trattava, in sostanza, di uno studio delle “localizzazioni cerebrali” (Didi-Huberman, 2008, p. 49). La lettura di una lezione dattilografata (Charcot, 1887–1889) permette di sottolineare alcuni punti importanti. Il protocollo prevedeva, in primo luogo, che si scegliesse il caso. La “lezione” comportava innanzitutto la presenza del paziente, che veniva invitato a mostrare dal vivo i sintomi. Gli veniva chiesto di camminare, per mostrare l’andatura scoordinata di tipo atassico; veniva invitato ad alzarsi, a sedere, a bere un bicchiere d’acqua, per mostrare le peculiarità del tremore; lo si faceva parlare, per presentare i disturbi dell’eloquio, e così via. Con lo stesso metodo Charcot illustrava i sintomi dell’isteria. Un altro punto importante riguardava il metodo con cui Charcot identificava e caratterizzava i sintomi delle malattie. Si trattava di un metodo comparativo: un sintomo veniva attribuito a una determinata malattia e considerato specifico di essa attraverso l’analisi delle differenze rispetto al modo in cui lo stesso tipo di sintomo si presentava in altre malattie. L’identità del sintomo veniva riconosciuta per differenza. Sulla base di questo metodo di indagine, Charcot arrivò a postulare che, nei casi in cui non fosse riscontrabile una lesione organica alla base del disturbo, vi era una lesione funzionale “dinamica”, sempre localizzata nel sistema nervoso. Egli riteneva, inoltre, che il progresso nelle tecniche di indagine anatomica avrebbe dimostrato in un modo certo l’esistenza di questa lesione (Ellenberger, 1970, p. 109). Questa interpretazione spiegava anche perché i meccanismi responsabili dell’isteria e dei disturbi che avevano una base organica risultavano identici. Nella paralisi isterica, infatti, la lesione dinamica interessava la stessa area anatomica responsabile dell’insorgenza dei disturbi che erano osservabili nelle paralisi organiche. Il metodo di Charcot aveva la caratteristica di analizzare la patologia isterica non per individuare la relazione tra il “morbo” e la “sede”, secondo un approccio tipico della scienza psichiatrica della seconda metà dell’Ottocento. Egli intendeva comprendere le dinamiche della malattia, coglierne la processualità e il senso segreto, individuarne i nessi che spiegano, attraverso la diacronia delle lesioni e delle reazioni, la sincronia del quadro sintomatologico. Questo approccio permette di evitare che si scambino le lesioni secondarie alla malattia con gli elementi che l’hanno invece determinata e scatenata. Per comprendere che cosa era per Charcot l’isteria, è importante rendersi conto che egli affrontava questa malattia con la mentalità e con gli strumenti di esplora-
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zione e di interpretazione che erano propri della neurologia di allora. Uno dei più rilevanti traguardi raggiunti da Charcot in neurologia riguardò la sclerosi a placche (detta anche sclerosi multipla o disseminata). L’analisi delle lezioni charchotiane su questa malattia può essere utile per cogliere l’orientamento che egli ha adottato in seguito anche in rapporto ai disturbi isterici. Nell’Ottocento la sclerosi veniva spesso confusa con altre patologie caratterizzate da manifestazioni analoghe. Charcot ne descrisse con precisione la forma sintomatologica e fu in grado di collegarla al fondamento anatomopatologico che fino ad allora non era ancora stato interpretato correttamente. Il metodo utilizzato era quello dell’analisi differenziale, che Charcot conduceva sui diversi modi di presentarsi del tremore nella sclerosi a placche, nella paralisi agitante (il morbo di Parkinson) e in altre patologie neurologiche (Charcot, 1886–1890). Mentre il tremore della paralisi agitante era permanente, perdurava anche in stato di riposo e non era influenzato dall’esecuzione di movimenti volontari, il tremore della sclerosi a placche si manifestava con movimenti volontari. Charcot formulò così un criterio importante per differenziare le due malattie che allora venivano confuse. Nelle lezioni di Charcot si possono individuare numerosi esempi di analisi differenziali. Laddove la differenziazione risultava difficoltosa, perché il sintomo si presentava con le stesse caratteristiche in due diverse condizioni morbose (per esempio l’eloquio scandito nella sclerosi a placche e nella paralisi generale), Charcot faceva entrare in gioco per fondare la diagnosi i sintomi e gli altri fenomeni concomitanti. Egli lavorava quasi esclusivamente attraverso un’attenta osservazione clinica: questo gli consentiva di tenere conto delle più piccole differenze con cui i sintomi potevano presentarsi. Anche il problema dell’isteria, come si è detto, si è posto a Charcot essenzialmente come un problema semeiotico, cioè un problema che richiedeva un’analisi accurata delle differenze formali. L’isteria si manifestava, infatti, soprattutto a livello somatico: con attacchi convulsivi periodici e con disturbi fisici permanenti (le cosiddette stigmate). Rispetto alle svariate situazioni sintomatologiche con cui l’isteria poteva presentarsi, occorreva dimostrare che i sintomi isterici imitavano i sintomi organici, ma sempre con qualche differenza, a volte minima, che permetteva di escludere una diagnosi di malattia organica (Ellenberger, 1970). Anche se i limiti di Charcot nella comprensione e nel trattamento dell’isteria sono evidenti, un suo merito fu quello di avere scoperto l’isteria con un metodo differenziale, e quindi di avere fondato la pratica di diagnosticare l’isteria per differenziazione e per esclusione da ogni possibile malattia organica. L’ipotesi che un disturbo fisico (per esempio una paralisi) dipendesse da fattori psicologici veniva presa in considerazione solo dopo aver escluso ragionevolmente un’origine organica. Charcot fu il primo a istituire sistematicamente questa prassi diagnostica. Le lezioni permettono di cogliere un altro punto centrale nell’approccio clinico di Charcot: il concetto di “malattia tipo”. Per Charcot è essenziale riuscire a descrivere la forma perfettamente sviluppata della malattia, cioè la forma in cui la malattia presenta nelle sue diverse fasi tutti gli elementi clinici che la caratterizzano. La forma tipo diventa il modello della malattia in questione, un modello da utilizzare
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sul piano diagnostico per identificare la malattia anche nel caso in cui essa si presenti in forme non perfettamente sviluppate. La forma tipica costituisce, per Charcot, la garanzia della coerenza di ogni processo morboso. Questo è un punto importante: conoscere la forma tipica significa possedere la logica e le regole della malattia, attraverso le quali ordinare e dominare anche il campo delle situazioni atipiche. Charcot procedeva esattamente allo stesso modo nella diagnosi dell’isteria. Egli affrontava questa patologia con gli stessi presupposti e gli stessi metodi che aveva utilizzato nello studio delle malattie neurologiche. È opportuno sottolineare anche un’altra importante intuizione di Charcot: il concetto fondamentale di isteria da lui elaborato è basato sulle “idee fisse”. Queste idee, secondo il clinico francese, si creano in uno stato ipnoide, sia che esso nasca attraverso la suggestione o a causa di un trauma. Questo fenomeno determina una viva emozione, la quale in soggetti predisposti favorisce la formazione di uno stato sonnambolico: esso porta all’emergere e al rafforzamento di idee patogene e alla loro “conversione” sul corpo (Ellenberger, 1970). Ciò, secondo Charcot, è dimostrato dal fatto che, se a un soggetto in stato di ipnosi viene suggerito che al risveglio comparirà una paralisi a un arto, questo avviene. Peraltro, se lo stesso paziente, con una paralisi post-ipnotica, viene nuovamente posto in ipnosi e gli viene suggerito che la paralisi è scomparsa, questo si realizza. Per Charcot questo fenomeno indica in modo “scientifico” il meccanismo alla base dei sintomi isterici, qualunque sia il tipo di trauma subito, a carattere fisico o psichico. Anche se Charcot riteneva che i fattori ereditari costituissero la causa primaria dell’isteria e attribuisse in generale ai fattori non ereditari il ruolo di “agenti provocatori”, buona parte dei suoi scritti teorici e delle sue lezioni accademiche furono rivolti a determinare l’influenza del trauma e delle idee fisse nei casi d’isteria. Nel momento in cui subisce un trauma, la vittima viene a trovarsi in uno stato particolare in cui la coscienza normale, come avviene nell’ipnosi, è inoperante. Questo fenomeno di “auto-suggestione” relativa alle conseguenze del trauma si esercita indipendentemente dalla volontà del soggetto ed è del tutto simile all’ipnosi indotta dal terapeuta. Servendosi della suggestione ipnotica, Charcot aveva suscitato nei suoi pazienti uno stato di sonnambulismo durante il quale essi riproducevano artificialmente i sintomi isterici. Inoltre, ricorrendo all’ipnosi in soggetti adatti, Charcot illustrò come si potessero suscitare sintomi isterici, come paralisi, tremori, anestesie, afasie motorie, identici a quelli dell’isterismo spontaneo di altri pazienti. Ciò dimostrava che essi non derivavano da lesioni organiche, ma da rappresentazioni mentali o, più probabilmente, “ripetevano attraverso il linguaggio del corpo una scena legata ai contenuti di un’esperienza traumatica” (Ellenberger, 1970, p. 124). Il clinico francese fornì infatti la prova, qualunque fosse la causa neurologica dell’isteria, che i sintomi dell’isteria avevano un movente psicogeno, che essi potevano essere indotti ed eliminati servendosi di “idee”, di parole e non di interventi terapeutici aggressivi. In questo modo era stato spiegato, per la prima volta, il meccanismo psicologico del fenomeno isterico e, inoltre, era stata dimostrata la sua natura generale, indipendentemente dalle distinzioni di sesso o di epoca storica.
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Dal punto di vista medico, ciò significava il necessario ricorso all’indagine psicologica dei malati, “un’indagine alla quale la psicologia accademica non era in grado di fornire strumenti di intervento adeguati e che la medicina non aveva preso in considerazione, né come possibile campo di ricerca, né come ausilio terapeutico o probabile strumento di indagine eziologica” (Gullotta, 1980, p. 43). Charcot riuscì in questo modo a dare rigore scientifico allo studio di una malattia i cui effetti, sino ad allora, non erano stati considerati un campo d’indagine della neuropatologia. Infatti, secondo l’etimologia della parola, l’isteria era stata considerata sin dall’antichità una prerogativa esclusiva del sesso femminile, tanto che spesso i medici ne attribuivano le cause a una malformazione dell’utero e la terapia consisteva a volte nella sua asportazione. Anche l’idea romantica che faceva dell’isteria la malattia “passionale” per eccellenza aveva contribuito a far sì che essa rimanesse ai margini del discorso nosologico istituzionale. Charcot riuscì a dimostrare che essa colpiva ugualmente malati di sesso maschile, soprattutto tra gli appartenenti ai ceti operai e proletari. La scoperta dell’indifferenza sessuale dei sintomi aveva rilevanti conseguenze sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista medico. Una volta individuata la sua esistenza nel sesso maschile e spiegato il meccanismo del suo funzionamento, l’isteria poteva ormai venir classificata tra le affezioni del sistema nervoso e poteva divenire oggetto dello studio scientifico e della ricerca clinica (Guillain, 1955). Accanto a un’interpretazione psicologica della crisi isterica, Charcot tentò anche di fornire una spiegazione fisiologica secondo la quale i sintomi sarebbero provocati da lesioni “dinamiche” o “funzionali” localizzate nel sistema nervoso e simili alle lesioni strutturali delle malattie nervose di origine organica. La sola differenza sta nel fatto che, mentre le lesioni strutturali presentano le caratteristiche dell’irreversibilità, quelle dinamiche sono transitorie. Le scoperte di Charcot quindi, anche se sono caratterizzate dal pregiudizio dell’ereditarietà e non abbandonano del tutto una visione organicistica delle malattie nervose, suggeriscono una via di ampliamento dell’indagine psicologica e fanno cadere definitivamente l’ipotesi che l’isteria sia una manifestazione simulatoria o immaginativa. Charcot contribuì a dimostrare nel XIX secolo come l’isteria appartenesse a una classe di disturbi psichici la cui genesi non doveva essere cercata in un danno cellulare o biochimico del cervello, ma in un meccanismo psico-genetico di tipo ideogeno. Un’idea fissa si trasforma in una specie di parassita mentale, “attivo e patogeno”, che il corpo subisce facendo ciò che essa suggerisce. Si tratta di un’idea nata in una condizione emotiva psico-traumatica, oppure suggerita dall’ipnotizzatore, e che realizza nel corpo ciò che essa contiene. Tale idea suggestiva è esclusa dal controllo mentale (Charcot, 1886–1890). Questa impostazione è approfondita da Charcot per interpretare il meccanismo all’origine delle paralisi isteriche. Egli era dell’opinione, come osserva Ellenberger, che “un’idea o un gruppo di idee fra di loro coerenti, isolate dal resto della mente, determinino i fenomeni motori e i difetti di sensibilità [...]. Tale gruppo di idee è nato dalla auto-suggestione, [...] come morbi si sviluppano in un posto della mente inaccessibile al soggetto, operano subconsciamente e danno origine a tutti i disturbi dell’isteria” (Ellenberger, 1970, p. 112). L’isterica, secondo Charcot, non è quindi
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una mitomane, ma è vittima di un’attività ideativa che crea all’interno della mente un’idea fissa, che ha effetti specifici e attivi sul corpo. Sintetizzando le precedenti teorie, attorno agli anni ’70 del XIX secolo Charcot operò una rivoluzione nell’ambito dell’isteria. Egli, come si è ricordato, la interpretò come un disturbo mentale, quindi né uterino né cerebrale. Il clinico francese, infatti, inquadrò l’isteria (come già avevano fatto Castle, Briquet e Brodie) come una manifestazione “psichica” che nasce da un’ereditarietà similare o eteronoma e dall’azione di un “agente provocatore”. I fattori scatenanti, secondo Charcot, sono generalmente di tipo emotivo, con sintomi reattivi sia di paura sia di tristezza. Egli ritenne che, se l’isteria nasce da un trauma fisico, non sia tanto l’evento traumatico in sé e per sé (traumi infortunistici, ad esempio) a svolgere un’azione scatenante, quanto la reazione emotiva individuale allo stress, che egli chiama “shock psichico”. Anche la malattie debilitanti a decorso cronico, come la lue e la tubercolosi, possono agire da fattori scatenanti in quanto provocano una condizione psichica che Charcot definì come “esaurimento nervoso”, che può avere un ruolo favorente (Charcot, 1886–1890). Nell’isterica, in ogni caso, è sempre presente un temperamento predisponente individuale. Le donne isteriche presentano, infatti, stigmate somatiche e psichiche costituzionali, come anestesie, iperestesie, oppure uno squilibrio mentale caratterizzato da eccessiva etero e auto-suggestionabilità. Charcot, in questo modo, respinge la teoria che valorizzava l’evento ipererotico. Nell’isteria, anzi, si nota sempre una donna non tanto, come si credeva, “libertina e senza pudore”, quanto “piuttosto frigida seppur con tendenza alla mitomania”. Secondo Charcot, essa vuole più che un “vero e proprio rapporto sessuale”, che provoca spesso in lei “ripugnanza e disgusto”, tenerezza e affettuosità: ciò che egli definisce come desiderio di “attenzione e delicatezze”. La malata è descritta infatti come una donna fragile, debole, spaventata e che quindi vuole aiuto e protezione. Ciò avviene, secondo Charcot, attraverso l’espressività del sintomo, per secoli interpretato come una richiesta di tipo seduttivo-erotico (Bollas, 2000). Si può quindi rilevare come, una volta abbandonati dopo il 1860 sia il modello classico utero-centrico sia quello contrapposto cerebro-centrico, con Charcot si affermò una prospettiva psico-emotiva. Essa evidenzia il ruolo giocato nell’isteria da fattori di personalità ereditari e da eventi slatentizzanti: l’isteria assume così “un aspetto assimilabile ai quadri clinici chiamati psicogeni, detti in seguito nevrotico-reattivi” (Didi-Huberman, 2008, p. 32). Come è stato rilevato, “la sintomatologia conversiva appare essere come la manifestazione di un sottofondo malinconiforme, ossia di patologie dell’umore di tipo distimico, più che come segno di un orgasmo sessuale fantasticato” (Didi-Huberman, 2008, p. 32). L’energia, messa in moto da un evento traumatico, si scarica nel corpo o provoca fenomeni di ansia. Il sintomo sembra essere, così, una specie di “drammatizzazione” di una sofferenza emotiva interiore a carattere depressivo. Questo percorso è stato poi intrapreso dalla psicoanalisi, che ha focalizzato l’attenzione sulle fantasie inconsce, sull’erotizzazione del pensiero e sulle rappresentazioni mentali pregresse fissate alla fase pregenitale (infantile). Questa evoluzione, però, è stata resa possibile dall’opera innovatrice di Charcot. La concezione dell’isteria come “nevrosi traumatica”, infatti, ha aperto la strada
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a successivi sviluppi propri della psicoanalisi. Il fatto traumatico, secondo il primo Freud, non è quello recente, ma è un fatto che viene “dimenticato” e rimosso per la sua natura sessuale. L’emozione connessa con questo evento stressante, però, al contrario della sua immagine mentale, rimane viva, perché esso è stato vissuto in stato ipnoide-crepuscolare. Esso viene dimenticato perché è “rimosso” a causa della sua natura inconciliabile e incompatibile con la morale.
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Pierre Janet: un Freud francese?
Questa parte sui precursori e contemporanei di Freud si conclude con Pierre Janet, un autore altrettanto noto del conterraneo Charcot, di grande cultura e molto preparato sia dal punto di vista clinico che metodologico. Vale la pena accennare al fatto che tra Janet e Freud ci fu quasi certamente stima reciproca, ma poca simpatia, probabilmente a causa della similarità di alcune scoperte effettuate da entrambi separatamente. È passato alla storia un episodio avvenuto al Congresso internazionale di medicina tenutosi a Londra nell’agosto del 1913: al centro di una sessione di lavori congressuali dedicata alla psichiatria fu posta la psicoanalisi di Freud e la sua legittimità. Tra i relatori vi era proprio Janet, che non mancò di criticare su alcuni punti la psicoanalisi: egli, in particolare, da un lato attribuiva a sé sia la scoperta del metodo catartico, di fondamentale importanza nella cura dei pazienti, poiché permetteva di affrontare e, eventualmente, elaborare il trauma alla base dello sviluppo della nevrosi; dall’altro, contestava il metodo freudiano d’interpretazione dei sogni, laddove esso sembrava appoggiarsi con più forza al simbolismo, nonché l’eziologia a carattere sessuale della nevrosi, che già peraltro aveva creato non pochi problemi a Freud. Come osserva acutamente Ellenberger (1970), è molto probabile che l’atteggiamento polemico di Janet fosse determinato più dal suo aver constatato che egli non era stato assolutamente tenuto in considerazione, né citato, da Freud (sebbene con evidenza alcune considerazioni del padre della psicoanalisi su nevrosi e trauma fossero chiaramente ispirate all’autore francese), che da una reale acrimonia o ostilità. Prova ne è il fatto che, in successive occasioni pubbliche, Janet non mancò di prendere le difese di Freud quando ingiustamente accusato. Ma chi era Janet? E il suo pensiero è stato davvero così capace da un lato di far tesoro di quanto la prima psichiatria dinamica aveva “scoperto” anni prima, dall’altro di “ispirare” alcuni punti del pensiero di Freud, Jung e Adler? Proveniente dal ceto medio-superiore, Pierre Janet apparteneva a una famiglia di ampia tradizione letteraria e professionale; fu legato da profondo affetto alla madre, mentre più complesso fu il rapporto con il padre, capace di una comprensione così “ampia” verso il figlio da sembrare in qualche modo indifferente nei suoi confronti; particolarmente influente su di lui fu lo zio Paul, che ebbe un percorso formativo e lavorativo simile a quello del nipote. Un primo passaggio fondamentale della vita di Pierre Janet fu un episodio depressivo verso i quindici anni: si trattò di una crisi di natura religiosa, superata at-
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traverso una passione verso la filosofia che si sviluppò sempre più. Anche negli anni della piena maturità, Janet ritenne la filosofia quella disciplina capace di conciliare scienza e religione, fede e ragione. Poco dopo essere divenuto professore di filosofia nel 1882, Janet lasciò Parigi per Le Havre, città marittima e vivace, popolata al tempo da 105.000 abitanti. I sei anni e mezzo nei quali vi soggiornò costituiscono un secondo passaggio fondamentale nella vita di Janet: lì, infatti, egli cominciò a frequentare da volontario l’ospedale e a interessarsi a tematiche di pertinenza psichiatrica. Non gli sfuggiva un grande vantaggio di cui a Le Havre poteva usufruire: i pazienti che vedeva erano in un certo senso “nuovi”, nel senso che essi non avevano subito quel gran numero di visite da parte di specializzandi e altri medici che frequentavano cliniche di livello internazionale come la Salpêtrière. D’altra parte, Janet era alla ricerca di un tema originale, a partire dal quale dimostrare soprattutto l’importanza di regole metodologiche ben precise: se c’era un campo nel quale queste erano ancora in qualche modo da fissare, questo era proprio quello psicologico e psicoterapeutico. Come osserva acutamente sempre Ellenberger (1970), il suo lavoro per la laurea in filosofia su Bacone, un filosofo “a cavallo” tra gli antichi alchimisti e la nuova scienza sperimentale, ha probabilmente a che fare con lo stato d’animo che più o meno inconsciamente Janet sentiva dentro sé: lui che forse si sentiva da un lato appartenere a una certa tradizione illuministica, che aveva avuto in Mesmer una straordinaria figura di spicco, ma dall’altro percepiva lo spirito di una nuova psicologia positivistica e basata sull’esperimento. Sebbene il titolo conseguito fosse di grande prestigio, Janet si rese immediatamente conto che, senza una laurea in medicina, non avrebbe potuto continuare a coltivare i suoi interessi nel campo della psicopatologia. Si arriva così a un terzo momento di passaggio nella vita di questo autore, ossia gli studi e la laurea in medicina, che conseguì nel luglio del 1893. Fu un periodo ulteriormente formativo e di grande impatto sulla mente lucida e penetrante di Janet: conobbe Charcot e dedicò molto del suo tempo a frequentare le corsie della Salpêtrière. Qui entrò in contatto con molti pazienti; il suo merito maggiore fu però quello di sottoporre a prolungate osservazioni e approfonditi studi alcuni di essi: si trattava perlopiù di donne con diagnosi di isteria, ma che spesso presentavano un quadro clinico ben più grave. Nonostante l’improvvisa morte di Charcot, avvenuta il 16 agosto del 1893, subito dopo il conseguimento della laurea da parte di Janet, e il clima a lui meno favorevole che si creò alla Salpêtrière, egli non si stancò mai di portare avanti con impegno e passione per una decina d’anni il suo lavoro nel laboratorio di psicologia sperimentale di cui era responsabile e che proprio con Charcot era partito. Proprio quest’ultimo elemento ci può far dire che Janet rimase fedele a un rigoroso modo di procedere, per il quale, anche all’interno di un contesto clinico, non bisognava prescindere da quanto accadeva nella mente, o nella “coscienza”, descrivendone nel modo più accurato possibile le varie “attività”. Solo in questo modo è possibile capire lo sforzo classificatorio e la sua idea di una “struttura gerarchica” della mente su cui si tornerà più avanti. È necessario infatti soffermarci sull’ultimo passaggio fondamentale della vita di Janet: la nomina di professore di psicologia sperimentale presso il Collège de France. Chiamato a ricoprire questo incarico nel 1902 direttamente dal Ministro dell’Istru-
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zione, che lo preferì ad Alfred Binet, Janet rimase a lavorare presso questa prestigiosa istituzione francese fino al 1935: i suoi corsi comprendevano lezioni su svariati temi, molti dei quali di carattere clinico, e confluirono in alcune importanti pubblicazioni. La passione per l’insegnamento e la ricerca filosofica, accanto a un vivo interesse per il funzionamento della mente e la psicopatologia, costituirono dunque elementi importanti della vita di questo autore che, ancora pochissimi anni prima della morte, era stato invitato a tenere lezioni presso cattedre universitarie di psichiatria.
3.4.1
L’automatismo psicologico
L’automatisme psychologique, pubblicato da Alcan a Parigi nel 1889, costituisce l’opera di Janet che ha forse avuto maggior fortuna o con la quale, in ogni caso, è stato spesso identificato. Nata nel periodo trascorso dall’autore a Le Havre, essa dimostra una straordinaria capacità osservativa, guidata da un approccio metodologico molto rigoroso: è infatti a partire da una precisa ricostruzione di ventisette significativi casi clinici (quattordici donne isteriche, cinque uomini isterici e otto psicotici ed epilettici) che Janet ipotizza vari livelli di attività mentale, che l’autore lega sempre e comunque alla coscienza, per quanto rudimentale, dell’individuo. In particolare, Janet distingue un automatismo totale da un automatismo parziale: all’interno del primo, si passa da un possibile stato di catalessi (si tratta del livello più basso di coscienza, senza coscienza dell’Io), a uno stato meno primitivo che si ritrova nello stato ipnotico o di sonnambulismo artificiale (Janet fa per esempio riferimento alle sue osservazioni su Léonie e alla necessità che ci sia amnesia al risveglio, ricordo di stati ipnotici precedenti durante l’ipnosi e infine ricordo dello stato vigile durante gli stati ipnotici), a uno stato ancora più evoluto definibile come quello delle “esistenze successive” (ossia la possibilità che le diverse “personalità” della paziente siano tra loro in contatto, “si sentano” reciprocamente). All’interno dell’automatismo parziale, si passa invece da una condizione di catalessi parziale (ossia quei particolari stati della mente nei quali il paziente, pur concentrato su qualcosa, può essere “distratto” dal terapeuta e portato in questo modo su materiale subconscio; un esempio illuminante al riguardo è quello della scrittura automatica), a un’altra condizione riscontrabile nella suggestione postipnotica (quella per cui l’ipnotizzato sente di dover eseguire ordini ricevuti dall’ipnotizzatore durante l’ipnosi), a tutta un’altra serie di condizioni nelle quali il paziente, pur trovandosi in uno stato di coscienza dell’Io, si sente spinto a fare qualcosa di cui non sa dare spiegazione razionale. A proposito dell'automatismo parziale, Janet afferma: Dovremmo passare in rassegna tutta la patologia mentale e forse una parte importante della patologia fisica per mostrare tutti i disturbi psicologici e corporei che un pensiero persistente così al di fuori della coscienza personale può produrre (Janet, 1889, p. 444)
Su quest’ultimo aspetto di vita della coscienza vale la pena sottolineare che Janet sostenne sempre di aver coniato lui la parola “subconscio”: Ellenberger
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(1970) ritiene che l’intento di Janet fosse quello di sottolineare la sua concezione psicologica dell’inconscio, in contrapposizione a quella “metafisica” propria di autori di area filosofica come Von Hartmann. Non solo; su questo punto Janet mostra una grande modernità e vicinanza con quanto Freud e Breuer stavano scoprendo nel trattamento delle loro prime pazienti (cfr. Studi sull’isteria). Infatti, Janet si convinse che molti dei sintomi isterici, ma non solo, erano ascrivibili a eventi di natura traumatica, capaci di determinare frammenti scissi della personalità (le idee fisse subconsce), dotate di una loro autonomia e un loro sviluppo all’interno della mente del paziente; analogamente, Freud interpreterà i sintomi come una formazione di compromesso, cioè un qualcosa in cui i sistemi psichici di cui la mente dell’individuo si compone si esprimono in modo parziale (cfr. Le neuropsicosi da difesa del 1894). Si è dunque di fronte a una concezione del funzionamento mentale molto “dinamica”: la riduzione del “campo di coscienza” avrebbe luogo nell’isteria proprio a partire da variazioni di “forza” che si determinerebbero all’interno della mente del paziente. Originale è, infine, il modo con cui l’autore francese reinterpreta il concetto di “rapporto”, punto di partenza delle prime e rudimentali forme di psicoterapia: si tratterebbe di un modo distorto di percepire il mondo – e quindi il terapeuta – basato su una particolare forma di “anestesia”, riconducibile anch’essa a un venir meno dello stato di coscienza dell’Io.
3.4.2
Teoria dinamica delle nevrosi
È ora giunto il momento di approfondire la ricerca clinica effettuata da Janet, soffermandoci su alcune ipotesi nosografiche formulate dall’autore francese; si tornerà nel paragrafo successivo al Janet più attento alla psicologia sperimentale e alla sua proposta di analisi e sintesi psicologiche. Janet poté osservare un gran numero di pazienti, dentro e fuori la clinica della Salpêtrière; alcuni di essi furono da lui presi in carico e curati, il più delle volte con buon successo. Il risultato di questo duplice lavoro di psicodiagnosta e di psicoterapeuta è rintracciabile in due corpose opere: Névroses et idées fixes (1898) e Les obsessions et la psychasthénie (1903). Janet parte da una distinzione “di base” all’interno del complesso delle nevrosi: l’isteria da una parte, la psicastenia dall’altra. Di isteria si era occupato Charcot (cfr. Clinique des maladies du système nerveux del 1893), se ne stava occupando Freud (cfr. Breuer e Freud, Studi sull'isteria 1892–1895) ed era, ai tempi, la forma di malattia mentale forse più studiata. Anche Janet la considerò una malattia di origine psicogena, nonostante potesse innestarsi su una base costituzionale alterata, e ipotizzò la presenza, nelle pazienti che ne erano affette, di una doppia personalità. Specifica dell’autore francese è invece l’ipotesi che in queste pazienti si sia di fronte a un “restringimento del campo della coscienza”, determinato da una carenza di “forza psicologica”. La personalità isterica sarebbe in grado di percepire tutti i fenomeni, ma ne sacrificherebbe alcuni. Tali fenomeni si svilupperebbero però comunque, senza che il soggetto ne sia consapevole. Nell’isteria, quindi, bisognerebbe parlare di fenomeni che restano fuori dal
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campo della coscienza per il suo restringimento, piuttosto che di inconscio. Tale restringimento ha, alla base, una “faiblesse innée” della capacità di sintesi psicologica. Dal punto di vista sintomatologico, Janet distinse due livelli: gli “accidenti” o sintomi accidentali o contingenti (sono variabili nel tempo e dipendono strettamente dalle idee fisse subconsce) e le “stigmate” o sintomi negativi (sono stabili e si determinano a partire da un restringimento del campo di coscienza). Anche in riferimento alla psicastenia Janet distinse due differenti livelli sintomatici, per certi aspetti in modo simile a quanto ipotizzato per l’isteria, ma con due importanti differenze: i sintomi più superficiali (gli “accidenti”) si riferirebbero anche qui a idee fisse subconsce, di cui però il paziente sarebbe “cosciente”, esprimendosi di fatto in comportamenti come fobie o ossessioni; quelli più stabili (le “stigmate”) deriverebbero, invece, da un disturbo della “funzione del reale”. Si intravede qui un aspetto fondamentale dell’approccio clinico, ma soprattutto teorico di Janet: ogni operazione mentale è concepita in termini di minore o maggiore aderenza alla realtà, secondo un modello gerarchico che vede al vertice superiore la presentificazione, cioè la capacità di “afferrare” la realtà con assoluta adeguatezza, e a quello inferiore la scarica motoria, ossia un comportamento che prescinde dalla coscienza del soggetto così come dalle condizioni dell’ambiente. Così Janet si esprime: Il presente reale per noi è un atto di una certa complessità, che afferriamo come un singolo stato di coscienza malgrado questa complessità e malgrado la sua durata reale che può essere di maggiore o minore lunghezza [...]. La presentificazione consiste nel rendere presente uno stato della mente e un gruppo di fenomeni (Janet, 1903, p. 491)
In questo modo, Janet ritenne di poter dare spiegazione di molti dei comportamenti degli individui, lungo un continuum che vede la normalità da un lato e la psicopatologia o il ritardo mentale dall’altro. Per dar conto di tutto questo, Janet introdusse un altro concetto, direttamente collegato a quello di “energia psichica”: essa, infatti, nel suo aspetto quantitativo, non può esaurire la complessità della vita psichica. La capacità di utilizzare l’energia psichica per alzare il “livello” di funzionamento della mente è determinata dalla “tensione psicologica”. Tra energia psicologica e tensione psicologica c’è un certo equilibrio, la cui rottura può spiegare una parte significativa della psicopatologia. Emerge qui con evidenza una concezione dinamica delle nevrosi, che Janet svilupperà fino alla fine della sua produzione scientifica (cfr. Les médications psychologiques del 1919). A tal proposito, Janet afferma: È probabile che un giorno saremo in grado di stabilire il prospetto di bilancio dello spirito così come si fa oggi negli affari. Lo psichiatra potrà allora efficacemente utilizzare risorse limitate evitando inutili sprechi, e dirigendo lo sforzo esattamente dove è necessario; ancor più, egli insegnerà ai suoi pazienti ad aumentare le loro “entrate”, ad arricchire le loro menti (Janet, 1919, pp. 469–470)
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All’interno di questa prospettiva di tipo dinamico, Janet distinse nelle nevrosi due sindromi principali: una astenica e una ipotonica. La sindrome astenica, determinata da un’insufficienza di energia psicologica, fa riferimento a una caduta in uno stato di apatia, che può presentarsi in gradi diversi. Si va da forme asteniche lievi, in cui i pazienti sono spesso insoddisfatti di sé, instabili e lenti nell’adattarsi a situazioni nuove e tendono a evitare iniziative e rapporti sociali (facilmente sviluppano uno stato ansioso o depressivo), a forme intermedie, in cui i pazienti si isolano o sviluppano forti dipendenze (frequentemente evolvono verso forme psicopatologiche di dipendenza o di antisocialità), a forme gravi (in cui i pazienti diventano incapaci di impegno in qualunque attività); siamo qui di fronte a particolari condizioni schizofreniche o, come erano chiamate a quei tempi, a casi di dementia praecox. A tal proposito, Janet era solito affermare che la dementia praecox era una sorta di “demenza sociale”. La sindrome ipotonica è invece determinata da un’insufficienza di tensione psicologica e si caratterizza per due tipi di sintomi: il primo è l’esito di un’incapacità del paziente di compiere atti di “sintesi psicologica” di un certo livello; il secondo ha a che fare con uno spreco di forza nervosa, non utilizzabile al livello desiderato e che tende a dar luogo a un’ampia gamma di segni e sintomi di natura corporea. Nella sindrome ipotonica il paziente percepisce un generale sentimento di incompiutezza. Il tipo di trattamento proposto da Janet è differente se ci si trovi di fronte a un tipo di sindrome piuttosto che all’altra. In sostanza, si tratta nel primo caso di trovare strategie che diano forza o energia psicologica al paziente: lo psichiatra può agire sul modo di rapportarsi del paziente con il suo corpo o con gli altri e può tentare la “liquidazione” di quegli atti legati alle idee fisse subconsce che sottraggono molta energia. Nel secondo, invece di “riassorbire” le derivazioni e aumentare la tensione psicologica, lo psichiatra può agire proponendo attività adatte alla condizione clinica del paziente e capaci di agire positivamente sul suo grado di tensione. Sulla base di questo modello Janet riuscì a descrivere lungo un continuum le varie condizioni che possono caratterizzare la vita umana: si va così dai cosiddetti “milionari psicologici” (Ellenberger, 1970, p. 445), dotati di una grande quantità di energia o forza psicologica combinata con un alto livello di tensione psicologica, ai pazienti affetti da schizofrenia ebefrenica, carenti invece sia dell’una che dell’altra. Lo sfondo entro il quale inscrivere queste importanti descrizioni cliniche rimane comunque quello di una gerarchia delle funzioni mentali, cui analisi e sintesi psicologiche rimandano.
3.4.3
Analisi e sintesi psicologiche
L’obiettivo che Janet si pose fin dalle sue prime esperienze alla Salpêtrière fu quello di trovare un metodo che da un lato desse conto delle singole parti di cui la malattia si compone (importanti eventi presenti nell’anamnesi, periodo di sviluppo della sindrome clinica, tipologia di sintomi e così via), dall’altro arrivasse poi a ricostruire e sintetizzare lo sviluppo della malattia stessa. Alcuni dettagliati resoconti clinici, scritti e pubblicati da Janet su riviste specializzate, approfondiscono e completano quanto l’autore presentò in quegli anni
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al grande pubblico con la pubblicazione de L’automatisme psychologique (1889). Egli, ad esempio, distinse i sintomi rispetto alla loro “profondità”: se ne potevano riscontrare di più superficiali (si trattava di temporanei allentamenti dell’attenzione del paziente, simili a quelli presenti negli stati di suggestione postipnotica), di intermedi (erano impulsi che si presentavano sulla base dell’azione di idee fisse subconsce), di più profondi (questi sintomi costituivano il nucleo morboso del disturbo e avevano a che fare con fattori ereditari o, molto spesso, con eventi di natura traumatica). Attraverso il famoso caso di Justine, Janet arrivò anche a meglio descrivere i differenti tipi di idee fisse subconsce: le idee fisse derivate (come suggerisce l’aggettivo, si tratta di quelle idee che sono direttamente collegate a quella principale e che possono apparire meglio quando quest’ultima è stata “eliminata”), le idee fisse stratificate (come si può intuire dall’aggettivo, il riferimento è a quelle idee che si trovano al di sotto dell’idea fissa principale e che però non sono con essa collegate) e, infine, le idee fisse accidentali (si tratta di quelle idee che si presentano improvvisamente e sollecitate da qualche episodio della vita quotidiana; come tali facili da “eliminare”). È da tenere presente che era sempre la presenza delle idee fisse subconsce a determinare anche sintomi in pazienti non affetti da isteria, ma da altri disturbi psichici come la nevrosi ossessiva o, in generale, in quei quadri clinici che oggi iscriveremmo tra le organizzazioni psicotiche della personalità: cambiava il loro modo di manifestarsi e, soprattutto, il possibile loro trattamento. Per esempio, Janet osservò che spesso nell’isteria certi ricordi, legati alle idee fisse subconsce, non potevano essere evocati volontariamente; d’altra parte, poteva succedere che questi stessi ricordi potessero irrompere in modo irresistibile e inopportuno nella mente del paziente. Per il loro trattamento Janet, pur con molta prudenza non avendo egli in quegli anni ancora conseguito la laurea in medicina, sostenne che era di fondamentale importanza capire se e come tali idee potessero essere “eliminate” o combattute. Janet intuì la necessità di identificare e portare nel campo della coscienza tali idee: d’altra parte, esse si formerebbero proprio a partire da una “debolezza mentale”, cioè da un indebolimento delle normali funzioni della mente. Un metodo da lui molto utilizzato fu l’ipnosi, ma impiegati furono anche la scrittura automatica o il discorso automatico; Janet si rese anche conto che la suggestione poteva costituire più un intralcio che una tecnica di trattamento e sottolineò che il “sentimento” verso l’ipnotizzatore doveva essere tenuto sotto stretta osservazione affinché potesse essere di reale aiuto per la o il paziente. Esistevano infatti pazienti, come gli isterici, che mostravano il bisogno di essere ipnotizzati e altri, come i depressi o gli ossessivi, che erano invece più alla ricerca di qualcuno che li “dirigesse”. L’obiettivo era comunque quello di mettere in guardia il terapeuta da facili e sbrigativi approcci di trattamento. La loro complessità è dimostrata dal modello della grande sintesi: una complessa concezione delle attività mentali in cui trovano collocazione psicopatologia e normalità. La costruzione di tale modello occupò quasi gli ultimi trent’anni dell’attività scientifica di Janet. La sua idea era quella di fornire una visione unitaria e globale della mente basata su un concetto che assumerà per lui molta importanza: quello di tendenza. Per tendenze, Janet intende qualcosa di molto vicino all’istinto, ma preferibile a quest’ultimo per le loro maggiori flessibilità e capacità di differenziarsi e ricombi-
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narsi una con l’altra. Ogni tendenza tende alla propria realizzazione – un po’ come avviene per l’istinto (e la pulsione) in Freud – e ognuna delle tendenze si colloca all’interno di una gerarchia, a partire dalla quale si possono “rileggere” le condotte psicopatologiche; anche l’atto subconscio, che rimanda a un’idea fissa subconscia, può essere ridefinito come un atto di forma inferiore all’interno della scala gerarchica. L’atto subconscio è infatti descritto come un atto che ha mantenuto una forma inferiore in mezzo a atti di livello superiore. Ecco le nove tendenze ipotizzate da Janet: accanto a una breve descrizione, si farà cenno al corrispettivo psicologico o psicopatologico cui la realizzazione di ciascuna tendenza porta con sé. Come in altri casi, Janet pensò a un continuum lungo il quale le tendenze sono collocate e suddivise in tre differenti livelli: inferiore, medio e superiore. Ecco le tendenze inferiori: 1. tendenze riflesse: si tratta di atti non controllabili dal soggetto che hanno luogo una volta che lo stimolo abbia raggiunto un certo livello; di solito sono qualcosa di compiuto rispetto a un oggetto o a una situazione esterna. È un tipo di tendenza particolarmente presente nel comportamento di soggetti con ritardo mentale o, come si diceva allora, “idiozia grave”; 2. tendenze percettivo-sospensive: hanno a che fare con quelle azioni che necessitano di più di una stimolazione per essere portate a termine, soprattutto perché non si esauriscono in un breve lasso di tempo (come nel caso precedente); 3. tendenze socio-personali: sono tendenze importanti poiché segnano la separazione tra condotte dirette verso l’altro e condotte rivolte verso se stessi. Janet intuì che molte delle condotte con cui ci adattiamo agli altri hanno delle ricadute sul modo con cui ci adattiamo a noi stessi: qui si sviluppano anche le principali emozioni che colorano il nostro modo di essere. Per mezzo di queste tendenze Janet spiegò molte manifestazioni rinvenibili non solo in talune tipologie di individui – ad esempio, timidi rispetto ad autoritari –, ma anche alcune manifestazioni proprie della psicopatologia grave – ad esempio, i deliri di persecuzione; 4. tendenze intellettuali elementari: si collocano a quel livello in cui ha origine il linguaggio e si sviluppano le prime funzioni cognitive, come la memoria e il pensiero simbolico. Nelle gravi forme psicopatologiche può accadere che l’individuo “regredisca” a livelli di funzionamento simili a questo. Seguono le tendenze medie: 5. azioni immediate e credenze affermative: è un livello in cui il linguaggio gioca un ruolo fondamentale, contribuendo a creare una separazione tra corpo e mente. Dal linguaggio interiore, infatti, nascerebbe il pensiero. Sempre a questo livello si situa la credenza, di solito legata a propri sentimenti o in generale a fatti. È per questo che Janet porta come esemplificazione di questo livello sia quanto succede ai bambini che agli individui facilmente suggestionabili; 6. azioni riflessive o credenze: è un livello importante, connesso al precedente, ma più centrato sul rapporto esistente tra l’individuo e le proprie percezioni di sé e degli altri e la realtà. È qui che Janet colloca alcuni sintomi psicotici come deliri e allucinazioni, nei quali la condivisione tra l’individuo e gli altri rispetto alla realtà esterna può vacillare.
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Infine si hanno le tendenze superiori: 7. tendenze razional-ergetiche: si tratta di quelle tendenze che si esprimono nella ricerca e nella messa in atto del lavoro. Janet osserva che il mantenere un lavoro implica una specifica distribuzione di forza e la capacità di sostenere degli obblighi. Sebbene si collochi tra le tendenze superiori, questo tipo di tendenza può comunque presentare dei risvolti psicopatologici: pedanteria, dogmatismo, a volte rigidità; 8. tendenze sperimentali: con queste tendenze ci si avvicina, secondo Janet, a un tipo di condotta che tiene conto dell’esperienza e dei fatti. Come tale, è alla base della scienza; 9. tendenze progressive: sono tendenze che permettono il più originale sviluppo dell’individuo, come singolo e come individuo appartenente a una società; a questo livello, le tendenze sembrano aprirsi verso il futuro secondo un teleologismo che sembra ispirarsi al pensiero filosofico di Bergson. Certamente molte delle ipotesi formulate da Janet, soprattutto a proposito delle tendenze, possono risultare oggi non condivisibili. Del resto, anche il concetto di pulsione, alla base del modello freudiano, è stato contestato, a volte in modo radicale. Come in tutti i tentativi onnicomprensivi, quelli cioè che cercano di proporre un modello che spieghi un po’ tutto quello che succede nella mente dell’uomo, le ipotesi esplicative possono risultare efficaci per alcuni fenomeni, meno per altri. È tuttavia innegabile lo sforzo fatto dall’autore francese e particolarmente da apprezzare il rigore metodologico che caratterizza il suo modo di procedere.
3.4.4
Riflessioni conclusive su Janet: la sua cultura e la sua eredità intellettuale
Queste poche pagine non danno appieno l’idea della complessità del pensiero di Janet. La sua ampia formazione non gli impedì di occuparsi anche di psicologia della religione, forse a partire dalla sua crisi adolescenziale a carattere depressivo o forse per la curiosità stimolata dal carattere religioso che molti dei deliri e delle bizzarrie dei suoi pazienti avevano. Come accennato nelle sue vicende biografiche, Janet partì da una formazione filosofica e – oggi si direbbe – da psicologo “generalista”; solo successivamente si avvicinò alla medicina e con più decisione alla clinica, intesa come modalità di trattamento del paziente. Anche la sua passione per l’insegnamento, sempre presente e particolarmente significativa nell’ultima parte della sua vita, è un’ulteriore prova di una traiettoria scientifica e professionale diversa da quella di alcuni suoi detrattori, soprattutto di area psicoanalitica. Sebbene abbiano avuto decisamente meno fama di quelle di Freud, la figura e l’opera di Janet non vanno comunque sottovalutate da chiunque voglia comprendere meglio cosa possa intendersi per concezione “dinamica” del funzionamento della mente umana e rendersi conto dell’humus in cui la psicoanalisi di Freud ha avuto origine; il riferimento è, comunque, a tutto quell’ambiente scientifico e medico francese molto vivace nella seconda metà dell’800. Non è un caso che nei primi scritti di Freud, in particolare negli Studi sull’isteria, Janet venga citato e siano riscontrabili importanti punti di contatto tra l’autore francese
3.4 Pierre Janet: un Freud francese?
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e il padre della psicoanalisi. A Janet sembrano riferirsi anche altre importanti figure di spicco del periodo: Bleuler, laddove propone la distinzione tra sintomi primari e sintomi secondari nella schizofrenia; Jung, nel momento in cui descrive la tipologia introversa della personalità, che richiama le descrizioni dei casi di psicastenia dell’autore francese; e ancora Adler, quando introduce il sentimento di inferiorità, che richiama le sentiment d’incomplétude di origine janetiana. Varie sono le ragioni che impedirono al modello di Janet – soprattutto quello completo delle tendenze – di avere sostenitori e continuatori di fama: il non aver avuto un suo ben determinato gruppo di allievi; l’assenza di un incarico di prestigio all’interno di qualche clinica; forse la sua stessa personalità, piuttosto timida e sempre rispettosa delle posizioni altrui. Un autore, tuttavia, che rimane tra i più importanti nella fase di passaggio dalla prima psichiatria dinamica alla nuova psichiatria dinamica e a Freud.
Le basi del pensiero freudiano
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Freud: l’uomo e il contesto storico-culturale
Sigmund (ma Sigismund fino al tredicesimo anno su documenti ufficiali) Schlomo Freud nacque il 6 maggio del 1856 a Příbor (in tedesco Freiberg), una cittadina della Moravia-Slesia (attuale Repubblica Ceca) allora appartenente all’Impero austro-ungarico, dall’unione del padre Jacob con la terza moglie Amalia Nathanson. Jacob, mercante ebreo di lana proveniente dalla Galizia e stabilitosi a Vienna nel 1860 a causa dei rivolgimenti politico-economici là avvenuti, apparteneva a quel gruppo di ebrei detti “viaggianti”, poiché era solito spostarsi dalla Galizia a Freiberg. Saly Kanner fu la prima moglie di Jacob e dalla loro unione nacquero due figli, Emanuel e Philipp: essi andarono a vivere, in seguito alla morte della propria madre, con la seconda moglie di Jacob, Rebecca. Anche quest’ultima morì prematuramente e il 29 luglio 1855 Jacob Freud si sposò con la futura madre di Sigmund, Amalia. Emanuel e Philipp seguirono il padre: la loro età era pari a quella di Amalia. Secondo alcune fonti (Jones, 1957), la situazione finanziaria di Jacob fu sempre piuttosto precaria, ma altre (Bernfeld, 1951) affermano che egli riuscì a mantenere la famiglia in modo decoroso. Della madre di Sigmund, Amalia Nathanson, si sa che nacque nel 1836 e che trascorse una parte della sua infanzia a Odessa, in Russia, prima di trasferirsi a Vienna dove il padre, Jacob, era agente commerciale. Di lei le fonti concordano nell’affermare la sua bellezza, il carattere autoritario e la sua grande ammirazione per il figlio Sigmund, verso il quale riservava un trattamento privilegiato. Morirà nel 1931, all’età di novantacinque anni. Queste caratteristiche della madre, unite a un rapporto con il padre ispirato ad ammirazione, ma anche a delusione per un oltraggio antisemita da lui subito passivamente, costituirono probabilmente la base su cui il futuro padre della psicoanalisi elaborò la teoria del complesso edipico. La famiglia Freud fu piuttosto insolita e anticonvenzionale, in quanto era composta dai due fratellastri Emanuel e Philipp, che avevano quasi la stessa età della madre di Sigmund, dal primo figlio di Emanuel e dai numerosi fratelli di Sigmund, in totale sette, i quali nacquero nel corso di dieci anni. Nel periodo in cui la famiglia Freud si trasferì a Vienna, erano presenti forti componenti antisemitiche, un evidente ostacolo che però non limitò la libertà di pensiero di Sigmund. Dalla madre e poi dal padre ricevette i primi rudimenti: Jacob, O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_4, © Springer-Verlag Italia 2014
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4 Le basi del pensiero freudiano
che era un libero pensatore, nonostante avesse studiato le scritture della tradizione ebraica, non impose al figlio un’istruzione ortodossa. A fronte di questo, in giovane età Sigmund si dedicò alla lettura e allo studio della Bibbia. In seguito venne iscritto a una scuola privata e frequentò con grande profitto il primo ginnasio comunale di Leopoldstadt, l’Istituto Superiore “Sperl Gimnasyum” (dal 1866 al 1873), dimostrando grandi doti intellettive per tutto il corso dei suoi studi e fino alla maturità, tanto da ricevere una menzione d’onore. Durante il periodo adolescenziale fu presente in Freud un notevole spirito di ribellione: egli si identificava con Annibale e con il generale Masséna. Il “desiderio di conquista” di Roma – ma anche dell’Inghilterra se ci si riferisce al sogno fatto dal padre della psicoanalisi nella notte del 4 giugno del 1938 – e più in generale la passione per l’impero romano e il mondo antico accompagnerà sempre Freud. Nonostante una forte epidemia di colera e le difficoltà economiche di quel periodo, Vienna rimaneva una città estremamente stimolante, ricca dal punto di vista scientifico e culturale: è in questo ambiente che Freud fu colpito da una conferenza tenuta dallo zoologo Carl Brühl, che lo indirizzò nella scelta della professione e nel successivo inizio dei suoi studi in medicina, durante il semestre invernale del 1873. Alla fine del quinto semestre cominciò a lavorare regolarmente presso il laboratorio di anatomia comparata di Carl Claus, soggiornando due volte alla stazione sperimentale zoologica di Trieste, esperienza che gli permise di pubblicare il suo primo scritto scientifico. È in tale frangente che entrò in contatto con il darwinismo e, lasciato il laboratorio di Claus, decise di trasferirsi in quello di fisiologia e istologia di von Brücke. Alcuni biografi di Freud, come Sulloway (1979), hanno particolarmente attirato l’attenzione su quanto questo primo periodo formativo del padre della psicoanalisi abbia avuto grande importanza nella costruzione del suo modello teoricoclinico (si consideri, ad esempio, il concetto di pulsione). Von Brücke rappresentò per Freud un maestro esemplare per i sei anni seguenti. Allievo di Johannes von Müller, zoologo e fisiologo tedesco che incarnò la concezione meccanicistico-organicistica del Positivismo, von Brücke credeva nella possibilità di spiegare i processi psicologici all’interno di leggi fisiologiche e i processi fisiologici all’interno di leggi fisiche e chimiche. È in questo istituto che Freud conobbe Josef Breuer, che fu per lui un valido collega e amico, dal momento che gli fece un prestito in denaro e lo fece venire in contatto con la sua esperienza di cura di una giovane donna isterica, poi diventata nota con il nome di Anna O. Dopo un anno di servizio militare (1879–1880) e dopo aver conseguito la laurea in medicina il 31 marzo 1881, completando dunque tale percorso di studi in otto anni, Freud ottenne prima un posto come assistente presso il laboratorio di von Brücke, continuando la sua ricerca nell’ambito dell’istologia e lavorando poi per due semestri nel laboratorio chimico del professor Ludwig. Nel giugno del 1882 decise di abbandonare il lavoro trovato per dedicarsi alla libera professione di medico. Nel frattempo si innamorò di Martha Bernays, con la quale si fidanzò nel giugno del 1882. Appartenente a una famiglia ebraica molto conosciuta e originaria di Amburgo, risulta che il padre, commerciante di mestiere, si fosse trasferito a Vienna molto tempo prima. Martha è descritta come molto attraente e con una personalità ferma, proprio come la madre di Sigmund. Desideroso di raggiungere un’indipendenza
4.1 Freud: l’uomo e il contesto storico-culturale
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economica per poter prendere in moglie Martha, Freud decise di dedicarsi alla pratica clinica, che gli avrebbe consentito un reddito maggiore e lavorò, quindi, per tre anni presso l’Ospedale Generale di Vienna: dapprima nel reparto di chirurgia e poi come aspirante in quello di medicina interna; infine, il primo maggio 1883, fu assunto come medico sostituto presso il reparto di psichiatria diretto da Theodor Meynert. Nel settembre 1883 Freud venne a far parte della quarta divisione medica coordinata dal dottor Scholtz, evento che gli permise di acquistare una certa esperienza clinica con pazienti neurologici. A questo periodo risalgono i suoi studi sugli effetti della cocaina1. Il 21 gennaio 1885 Freud fece domanda per divenire libero docente in neuropatologia, mentre nel mese di marzo presentò domanda all’Università di Vienna per una borsa di studio, comprendente un viaggio della durata di sei mesi. Dopo aver superato l’esame per diventare libero docente, ottenne la tanto agognata borsa di studio che lo portò a Parigi tra il 1885 e il 1886, presso l’ospedale dove insegnava Charcot. Il 13 maggio 1886 Freud prese in moglie Martha e nell’ottobre di quello stesso anno aprì uno studio privato nella Rathausstrasse. La prima figlia, Mathilde, nacque nel 1887, cui seguirono altri cinque figli, dei quali l’ultima fu Anna, nata nel 1895 e destinata a diventare la nota psicoanalista. Risale a questo periodo il momento di maggior collaborazione con Breuer. Il 1896 fu segnato da un importante evento: la morte del padre Jacob, avvenuta il 23 ottobre di quell’anno. A questa data si fa risalire l’inizio dell’autoanalisi di Freud, che ebbe nell’incontro e nello scambio epistolare con Wilhelm Fliess, celebre otorinolaringoiatra berlinese, uno straordinario punto di riferimento. Come si vedrà più avanti, da questo particolare momento della vita di Freud prenderà avvio la scrittura de L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899b), considerata una pietra angolare della allora nascente psicoanalisi. Con la pubblicazione di quest’opera si chiude una prima fase della vita e della produzione teorica di Freud. Dal 1902, anno in cui Freud ottenne il titolo di professore straordinario alla cattedra di Neuropatologia, la vita del fondatore della psicoanalisi si intreccia con quella della “Società Psicologica del mercoledì” prima, della Società Psicoanalitica di Vienna (1908) poi e dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale (1910) infine. Sempre dall’inizio del secolo, Freud pubblica alcuni lavori che man mano andranno a costituire l’intero edificio psicoanalitico e che costituiscono la seconda grande fase dello sviluppo del pensiero del padre della psicoanalisi: essi contribuiranno alla diffusione della psicoanalisi nel mondo intero e l’invito rivolto a Freud da Stanley Hall nel 1909, affinché tenesse a Worcester nel Massachusetts presso la Clark University una serie di conferenze, ne è prova evidente. Sempre a questa fase appartengono 1
È nell’aprile 1884 che Freud inizia una ricerca su tale sostanza, un alcaldoide ignoto al tempo e componente attiva delle foglie di coca. Partendo dalla scoperta che alcuni popoli indiani la impiegavano come analgesico, ne ottenne un grammo dalla Società Farmaceutica Merck, sperimentandola su se stesso e su alcuni dei suoi conoscenti. Freud ne verificò gli effetti stimolanti e afrodisiaci, ma anche contro i disturbi di stomaco, la cachessia, l’asma e per l’eliminazione dei sintomi dolorosi. È con questo ultimo intento che il futuro padre della psicoanalisi la somministrò all’amico Fleischl-Marxow che, a causa di gravi nevralgie, aveva sviluppato una dipendenza da morfina. L’esito, negativo, fu che Fleischl-Marxow divenne cocainomane.
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tutti i casi clinici, fatta eccezione per quelli compresi negli Studi sull’isteria del 1892–1895 e quello compreso in Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile del 1920. Leggendo Freud, si coglie subito il suo modo di procedere, frequentemente fatto di intuizioni improvvise, tentativi di stabilire punti fermi, cambiamenti di prospettiva e spinte in avanti: percepibile è lo sforzo di integrare sempre il pregresso2 e di appianare possibili contraddizioni. Ne risulta, a fronte di una chiarezza espositiva straordinaria3, una inevitabile complessità, che a volte può scoraggiare chi si avvicini a Freud per la prima volta. Allo scoppio della prima guerra mondiale (1914), Freud si dimostrò animato da un elevato spirito patriottico, anche perché i suoi due figli Jean-Martin ed Ernst furono arruolati nell’esercito austriaco. A fronte di questo, i suoi pazienti diminuirono notevolmente. L’interesse per le nevrosi di guerra rilanciò in un certo senso la psicoanalisi e, al fine di approfondire l’argomento, venne organizzato un congresso a Budapest nel 1918. Le lezioni tenute da Freud nei due semestri invernali del 1915–16 e 1916–17 presso l’Università di Vienna sulla psicoanalisi furono raggruppate in un’opera introduttiva, ma di ampio respiro (Freud, 1915–1917). Nel 1920 Freud venne ufficialmente nominato professore presso l’Università di Vienna. La psicoanalisi godeva ormai di certa buona fama, a tal punto che, ripresi i collegamenti internazionali, molti pazienti di Freud cominciarono a provenire anche da paesi stranieri. Con il 1920 e la pubblicazione di Al di là del principio di piacere, si entra nell’ultima parte della vita e della produzione teorica di Freud. Nel febbraio 1923 a Freud fu diagnosticata una leucoplachia al palato e alla guancia, che in seguito si scoprì essere cancerosa. Fu l’inizio di un lungo e travagliato percorso costellato da numerose operazioni che il fondatore della psicoanalisi dovette subire fino alla morte. A questo periodo risale anche la morte della figlia Sophie e del nipote Heinerle Halberstadt, al quale Freud era molto legato. A quest’ultima stagione appartengono opere di grande rilevanza teorica e clinica, come Inibizione, sintomo e angoscia del 1925, ma anche di taglio culturale e sociale, come L’avvenire di un’illusione del 1927 e Il disagio della civiltà del 1929. Al 1932, infine, risale la pubblicazione delle 2
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Esemplare in questo senso sono le Minute teoriche per Wilhelm Fliess: si tratta di scritti, redatti in forma di appunti più o meno organizzati, che coprono il periodo che va dal 1892 al 1897 e che Freud inviò all’amico separatamente o in accompagnamento a una lettera. Esse non erano destinate alla pubblicazione. Anzi; Freud, quando nel 1936 venne a sapere che erano state miracolosamente acquistate da Marie Bonaparte, avrebbe voluto la loro distruzione. Così non fu e questo permette di constatare come, per esempio nelle Minute H e K, siano presenti osservazioni sulla proiezione e la paranoia che si ritroveranno nello studio sul presidente Schreber del 1909. Nel 1930 fu conferito a Freud il premio Goethe. Delegò la figlia Anna per il ritiro dello stesso, ma ne fu sinceramente felice. Nella motivazione si elogia tra l’altro la capacità di Freud di coniugare metodo empirico e attenzione alle produzioni di poeti e letterati, favorendo una rinnovata collaborazione tra le discipline scientifiche e una migliore comprensione tra i popoli. A Freud è anche attribuita l’appassionata lettura in età giovanile del saggio di Goethe La natura. All’indomani dei festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno (1936), accompagnati da un messaggio augurale sottoscritto da quasi 200 tra scrittori e artisti di spicco, ci si preoccupò perché fosse avanzata la candidatura di Freud al Nobel; ma i tempi non erano maturi perché la psicoanalisi potesse ricevere un tale riconoscimento.
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sette nuove lezioni introduttive alla psicoanalisi (Introduzione alla psicoanalisi [Nuova serie di lezioni]), scritte con lo stesso stile delle precedenti 28, ma in realtà mai pronunciate o lette in pubblico. In esse, Freud fornisce il suo nuovo punto di vista su alcune importanti questioni. Nel 1933 Hitler prese il potere, evento che portò a mettere al rogo tutti i libri di Freud a Berlino l’anno seguente e alla confisca del deposito dell’Internationaler Psychoanalitischer Verlag di Lipsia. In seguito all’ascesa del nazismo, molti amici e allievi di Freud tentarono, invano, di convincerlo a emigrare. Il 12 marzo 1938 Vienna fu invasa dai nazisti, evento che portò Freud a darsi alla fuga, resa difficile dagli stessi nazisti e ottenuta attraverso numerose negoziazioni da parte della principessa Marie Bonaparte e di altre personalità influenti. Ottenuto il visto per l’Inghilterra grazie all’interessamento di Jones, Freud arrivò finalmente a Londra il 5 giugno, accompagnato dai suoi familiari più stretti, dopo aver fatto tappa a Parigi in casa proprio di Marie Bonaparte. Oltremanica fu accolto con grande entusiasmo e fu eletto membro della Royal Medical Society. Alla prima operazione chirurgica subita nel 1923, ne seguirono altre trentadue. Negli ultimi anni della sua vita Freud dovette portare una protesi e sopportare le difficoltà date da una masticazione resa difficile dall’indebolimento della mascella; non solo, sopraggiunsero inevitabilmente anche difficoltà nell’eloquio e un abbassamento dell’udito. Le apparizioni pubbliche si erano oramai ridotte da tempo e già da alcuni anni Freud aveva iniziato a incaricare la figlia Anna di fargli da portavoce; nonostante tutto questo, non si lasciò mai andare all’autocommiserazione e affrontò sempre con coraggio il dolore. Schur, il suo medico personale, lo seguì passo passo: si è molto parlato del suo contributo alla morte di Freud. In realtà, è semplicemente probabile che il progressivo aumento del dosaggio di morfina su un corpo ormai anziano e provato dalla malattia abbia indotto uno stato di sopore in Freud negli ultimi giorni della sua vita. La morte sopraggiunse la notte del 23 settembre, nella casa di Ernst a Hampstead. Non fu tenuta alcuna cerimonia religiosa e il suo corpo venne cremato al Golden Green Crematorium.
4.2
Il periodo prepsicoanalitico: grandi slanci e primi studi clinici sull’ipnosi
4.2.1
Progetto di una psicologia (1895)
Il Progetto di una psicologia (Freud, 1895) rappresenta un tentativo, cui inizialmente Freud credette in modo entusiastico come ci testimonia il carteggio con Fliess di quell’anno, di tracciare uno schema completo del funzionamento del sistema nervoso, tale da rendere conto sia dei processi psichici emersi nello studio dell’isteria e di altre manifestazione psicopatologiche, sia della fenomenologia della vita psichica. Non solo, si trattava di tentare un’integrazione tra conoscenze provenienti da campi del sapere diversi: quello neurologico, da cui Freud proveniva, e quello psicologico, verso cui il padre della psicoanalisi era indirizzato. La costruzione di una nuova psicologia, fondata su approfondite conoscenze neurologiche del sistema nervoso
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centrale, è dunque l’obiettivo ultimo del Progetto di una psicologia o, come Freud la chiamava, Psicologia per neurologi. Il clima culturale di quegli anni, d’altra parte, spingeva in questa direzione: le scienze naturali avevano avuto notevoli progressi e Freud era cresciuto con la convinzione, presente nella fisica newtoniana, che le cause fossero determinabili e gli effetti determinati, oltre che quantificabili e quantificati. Si riteneva che a governare tutti i processi naturali fisici e psicologici fossero le leggi della termodinamica. Fu Wilhelm Waldeyer-Hartz a introdurre il concetto di neurone nel 1891, intendendo con esso l’unità del sistema nervoso, anche se è possibile affermare che Freud stesso contribuì alla formazione di questo concetto. La definitiva scoperta della cellula base del cervello si deve però a Camillo Golgi e a Santiago Ramon y Cajal, che ottennero il Premio Nobel nel 1906. Gli studi successivi misero poi in luce la capacità del neurone di eccitarsi e trasmettere gli impulsi elettrici, rendendolo così l’unità funzionale del sistema nervoso. È sulla base di questi presupposti che Freud cercò di spiegare le manifestazioni psichiche in termini organici, ideale che tra l’altro era piuttosto comune negli ambienti medico-scientifici del tempo. L’influenza esercitata dal determinismo scientifico, per quanto sottesa a molta parte del pensiero di Freud, è ancora più visibile nel Progetto di una psicologia, in cui emerge una concezione meccanica dell’apparato mentale, che sarebbe impegnato in operazioni di spostamento, accumulo e scarica di un’energia psichica quantificabile, la quale circolerebbe nella mente in maniera conforme a determinati principi fisici. È noto che, dopo una fase di grande entusiasmo, peraltro bilanciato da momenti di scoraggiamento, Freud decise di abbandonare la scrittura di quest’opera e a Fliess, che probabilmente4 lo incitava a non desistere, Freud rispose l’8 dicembre 1895 dicendo che forse sarebbe tornato su quel lavoro più avanti. Cosa che in realtà non fece più. Tutto ciò mise in pericolo la conservazione del manoscritto, che è giunto a noi insieme ad altro materiale indirizzato a Fliess; Freud non avrebbe mai voluto fosse pubblicato e questo spiega la presenza di alcuni passaggi oscuri che una revisione del testo avrebbe evitato. Certo, il Progetto contiene straordinarie anticipazioni di teorie che troveranno adeguata sistemazione nelle opere che Freud darà alle stampe da lì a qualche anno, prima fra tutte L’interpretazione dei sogni. Ben vengano dunque certe rinunce!
4.2.1.1 Capitolo 1. Schema generale All’inizio dello scritto, Freud esordisce in questo modo: L’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili. Due, le idee principali: 1) di considerare come ciò che distingue l’attività dalla quiete una quantità (Q), soggetta alle leggi generali del movimento; 2) di considerare i neuroni come le particelle materiali (Freud, 1895, p. 201) 4
Le lettere indirizzate da Fliess a Freud non ci sono infatti pervenute.
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Subito dopo, Freud si sofferma sul funzionamento dell’apparato psichico affermando: è stato possibile formulare un principio fondamentale dell’attività neuronica in rapporto alla Q, principio che prometteva di essere altamente chiarificatore poiché sembrava comprendere l’intera funzione. È questo il principio dell’inerzia neuronica, secondo il quale i neuroni tendono a liberarsi di Q. La struttura, lo sviluppo e le funzioni dei neuroni diventano così comprensibili (Freud, 1895, pp. 201–202)
L’apparato psichico, quindi, sarebbe governato dal principio di inerzia: i neuroni tenderebbero a liberarsi di Q allo scopo di mantenere il livello più basso possibile e costante di energia; nel caso in cui si verificasse un accumulo di Q nei neuroni, si produrrebbe uno stato di tensione, percepito dal soggetto come dispiacere, che a sua volta innescherebbe un’azione di scarica, avvertita dall’individuo come piacere. Sulla base dell’immediata scarica muscolare piuttosto che su quella della ricerca di un’azione specifica in grado di riportare allo stadio di quiete, Freud parla di funzione primaria o di funzione secondaria. Funzione primaria e secondaria esauriscono l’insieme delle attività del sistema nervoso. Detto questo, Freud introduce il concetto di “barriera di contatto”, affermando che il flusso di Q, in certi punti, va incontro a delle resistenze che fungono da barriere nei punti di contatto tra un neurone e l’altro. Tali punti di contatto possono però subire delle modificazioni diventando maggiormente permeabili e facilitando, di conseguenza, il passaggio di Q. Ciò potrebbe verificarsi, ad esempio, nel momento in cui su un neurone si sommano più eccitazioni; se invece vi è un investimento simultaneo di due neuroni, tra di essi si produce un’associazione in cui l’investimento dell’uno attiverebbe l’altro. Tale meccanismo spiegherebbe il fenomeno per cui un determinato stimolo, che eccita un dato neurone, in genere causa l’emergere di un certo ricordo, corrispondente a un secondo neurone associato al primo. In generale, l’ipotesi formulata da Freud circa la mente è che essa imparerebbe a seguito dell’esperienza e svilupperebbe una memoria tramite le modificazioni dei punti di contatto provocate dalle eccitazioni cui è sottoposta. Le particelle che formano l’apparato psichico sono da Freud chiamate neuroni: in realtà, non si tratta di reali neuroni biologici, ma di neuroni “teorici”, intesi come entità astratte. La struttura della mente viene infatti interpretata come analoga a quella del cervello, composto da numerose cellule autonome aggregate e collegate tra loro, appunto i neuroni. Secondo la concezione di Freud, i neuroni che compongono la mente possono essere o “caricati”, cioè investiti da un’eccitazione, intesa come una certa quantità di energia psichica che Freud indica con la lettera Q, oppure essere vuoti. La quantità Q viene vista come energia in movimento, sulla base dell’analogia con la corrente elettrica che scorre lungo le cellule nervose. L’apparato psichico sarebbe composto da tre tipi di neuroni: i neuroni phi (φ), i neuroni psi (ψ) e i neuroni omega (ω). I primi, essendo permeabili, presiederebbero alla percezione, in quanto non trattengono la quantità di energia che ricevono e non sono quindi modificati in maniera permanente; essi verrebbero eccitati dall’esterno
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del soggetto. I neuroni ψ sarebbero i depositari della memoria dal momento che sono impermeabili e offrono resistenza alla conduzione dell’eccitamento, ovvero tenderebbero a trattenere le cariche che ricevono e verrebbero eccitati dall’interno o dai neuroni φ. I neuroni ω, invece, una volta attivati, produrrebbero le esperienze coscienti e ne determinerebbero le proprietà qualitative. Tali neuroni sarebbero espressione del principio di realtà e verrebbero eccitati contemporaneamente agli altri durante la percezione. Freud sostiene inoltre che, all’interno dell’apparato mentale, è possibile individuare una particolare rete di neuroni che tendono a costituire l’Io. Nelle parole di Freud: Questa organizzazione si chiama l’Io, e può facilmente essere descritta se pensiamo che la recezione, costantemente ripetuta, di Qη’ [quantità di energia interneuronica, NdA] endogene in certi neuroni (del nucleo), e il conseguente effetto facilitante, produrranno un gruppo di neuroni dotati di una carica costante [pp. 222 e 267], corrispondente quindi al veicolo di scorta necessario alla funzione secondaria [p. 203]. L’Io deve quindi essere definito come la totalità delle cariche ψ (psi) in un dato momento, ove una porzione stabile può essere distinta da un’altra soggetta a mutarsi [vedi oltre p. 232]. È facile vedere che le facilitazioni tra i neuroni ψ (psi) fanno parte del dominio dell’Io, in quanto rappresentano la possibilità di indicargli l’ammontare dei suoi cambiamenti nei momenti successivi (Freud, 1895, p. 227)
I neuroni che costituiscono l’Io sarebbero dunque strettamente associati tra loro e verrebbero investiti da una carica costante. L’Io è quindi composto da un nucleo di neuroni sempre attivo, il quale interviene sul percorso spontaneo che un’eccitazione seguirebbe andando da neurone a neurone, cambiandone la direzione e attirandola verso di sé allo scopo di difendere la mente da esperienze spiacevoli. Così facendo, l’Io produce l’inibizione del processo primario, in quanto impedisce che l’eccitazione giunga al punto di arrivo, verso cui mira naturalmente, evento che darebbe luogo alla scarica. I rapporti tra processo primario e secondario sono così sintetizzati da Freud: L’investimento di desiderio portato fino all’allucinazione e lo sviluppo pieno del dispiacere, che reca con sé l’esaurirsi completo della difesa, si possono definire come processo psichico primario. D’altra parte, quei processi che sono resi possibili solo da una buona carica dell’Io e che funzionano da moderatori del processo primario, possono essere definiti come processi psichici secondari (Freud, 1895, p. 231)
Tuttavia, il processo primario può aver luogo senza essere disturbato dall’Io durante il sonno, momento in cui l’Io stesso è privo di energia e non può quindi interferire sul decorso delle eccitazioni. Freud sostiene che ciò che condiziona il sonno è l’abbassarsi del carico proveniente dalle stimolazioni endogene all’interno dei neuroni ψ; anche i sogni sarebbero privi di scarica motoria e, insieme ad essa, di elementi motori, ovvero l’individuo sarebbe privo di attività motoria. Freud spiega
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tale meccanismo affermando che ciò sarebbe dovuto alla cessazione delle scariche derivate da φ, con la conseguenza che i neuroni non si caricano e l’eccitamento non è in grado di superare la barriera. Durante il sonno avverrebbero dei processi ψ: i sogni. La loro caratteristica centrale è che i nessi onirici sarebbero in parte dei controsensi, in parte di scarso senso oppure senza senso, “stranamente folli” (Freud, 1895, p. 241). Ma ciò che maggiormente contraddistingue il sogno è che: Le rappresentazioni oniriche sono di natura allucinatoria; esse risvegliano la coscienza e vengono credute. Questa è la più importante caratteristica del sonno. Essa diventa immediatamente evidente con l’alternarsi del sonno [alla veglia]; si chiudono gli occhi e le allucinazioni si producono, si aprono e si pensa in parole (Freud, 1895, p. 242)
Freud anticipa qui una delle più note definizioni di sogno, che verrà ripresa e sviluppata nella Traumdeutung: esso sarebbe l’appagamento di desideri inconsci e verrebbe governato da una serie di processi ψ.
4.2.1.2 Capitolo 2. Psicopatologia Obiettivo del secondo capitolo del Progetto è l’analisi dei processi patologici a partire dalle ipotesi di funzionamento presentate nel primo capitolo. Partendo dall’osservazione clinica dell’isteria, egli mette in luce come gli individui affetti da tale patologia sarebbero soggetti a una coazione che deriverebbe da rappresentazioni sovraintense, cioè con caratteristiche quantitativamente elevate. Tali rappresentazioni si verificano anche normalmente, ma, nel caso dell’isteria, colpiscono per la loro stranezza. “La coazione isterica è quindi: 1) incomprensibile; 2) insolubile attraverso il processo del pensiero; e 3) incongrua nella sua struttura” (Freud, 1895, p. 248). La strategia migliore per risolverla immediatamente consisterebbe nella sua spiegazione e comprensione. Il meccanismo della coazione consisterebbe nella sostituzione di una rappresentazione B originaria con una nuova rappresentazione A: il paziente non sa perché A si presenti così spesso alla sua coscienza, generandogli sofferenza, ma non può impedirlo (coazione). L’analisi con quel paziente consentirà di scoprire il lavoro psichico che egli ha compiuto per allontanare da sé quella primitiva rappresentazione B, che presentava tutte le caratteristiche per produrre un effetto doloroso e duraturo. Ma – osserva Freud – è come se, nella memoria, la riproduzione o il ritorno del ricordo su quell’evento avvenisse in modo tale che, al posto di B, si presentasse sempre e comunque A, diventato in qualche modo il sostituto, il simbolo di B. Nell’isteria il simbolo sostituisce completamente la cosa, l’evento. È facile convincersi che per ogni stimolo esterno o associazione che dovesse di fatto investire B, è A che penetra nella coscienza al suo posto. Certo, si può scoprire la natura di B dalle circostanze che provocano, stranamente, l’emergere di A. Possiamo riassumere questo stato di cose dicendo che A è in forma di coazione e B rimosso (almeno dalla coscienza) (Freud, 1895, pp. 249–250)
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Si tratta di un processo difensivo avente origine nell’Io caricato, cioè che ha a disposizione una certa quantità di energia: tale processo difensivo si concretizza nella rimozione isterica e con ciò nella coazione isterica. In ogni caso, non è possibile cancellare del tutto A, che tende a riemergere. In tale cornice, Freud individua “speciali condizioni psichiche” in cui verificare quanto affermato: esse riguarderebbero la sfera sessuale. In tale sfera si determinerebbe una particolare costellazione psichica, per cui una certa associazione passerebbe attraverso degli anelli intermedi inconsci prima di giungere a una condizione cosciente. In genere, l’elemento che entra nella coscienza è quello che suscita un interesse particolare, ma vi sono dei casi in cui è il simbolo ad avervi accesso. Quest’ultimo caso darebbe vita a un processo patologico (sintomo). La situazione tipica di una rimozione isterica sarebbe quella in cui verrebbe rimosso un ricordo diventato trauma solamente più tardi, a causa di uno sviluppo sessuale temporalmente successivo (in adolescenza). A esemplificazione di quanto esposto, Freud riporta la vignetta clinica di Emma, una paziente che non riesce a entrare sola in un negozio. Con abilità, il padre della psicoanalisi ci mostra come, nella mente di Emma, si siano sovrapposti due ricordi, a forte intensità emotiva, di cui uno risalente all’età di dodici anni – la rappresentazione A – e un secondo risalente all’età di otto anni – la rappresentazione B. È questa seconda rappresentazione quella da cui la paziente si difende credendo alla prima: è il cosiddetto “proton pseudos” isterico. La paziente, se non fosse entrata in cura, avrebbe continuato a credere alla “prima” rappresentazione (A), che risulta però essere “falsa” rispetto all’origine del disturbo5. Freud arriva così alla conclusione secondo cui la perturbazione dei normali processi psichici dipende da due condizioni: la prima consisterebbe nella scarica sessuale collegata a un ricordo, anziché a un’esperienza, mentre la seconda riguarderebbe la scarica sessuale precoce (Freud, 1895, pp. 256–257). Secondo Freud, lo sviluppo di un affetto intenso tenderebbe a inibire il normale corso del pensiero e ciò avverrebbe secondo varie modalità. A tal proposito, il padre della psicoanalisi scrive: In primo luogo, possono essere dimenticate molte direzioni di pensiero – che di solito vengono prese in considerazione – come si verifica nei sogni. Per esempio, mi accadde, in uno stato di agitazione provocato da una grave preoccupazione, di dimenticare di fare uso del telefono che poco tempo prima era stato installato nella mia abitazione. Il percorso recente soggiacque allo stato affettivo; la facilitazione, vale a dire la parte più antica, prese il sopravvento. Simili dimenticanze comportano una perdita di selezione, di azione efficiente e di logica nel decorso [del pensiero], proprio come si verifica nei sogni. In secondo luogo, senza alcuna dimenticanza, possono
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È questo un primo importante spunto di ciò che Freud denominerà più avanti Nachträglichkeit, un termine di difficile traduzione, ma che in sintesi indica un “riattivarsi a posteriori” di rappresentazioni di eventi, e di emozioni ad essi relative, particolarmente significativi per lo sviluppo della persona (cfr. anche il Caso clinico dell’uomo dei lupi, Freud, 1914c, e Ferraro e Garella, 2009).
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venir seguite vie di solito evitate: in particolare, vie che portano alla scarica, per esempio azioni compiute in stato affettivo. In conclusione, il processo affettivo ha una somiglianza con il processo primario non inibito (Freud, 1895, p. 257)
Dal passo sopra citato, Freud arriva alle seguenti conclusioni: in primo luogo, egli sostiene che la rappresentazione attraverso cui ci liberiamo di un affetto si intensifica; in secondo luogo, la funzione principale dell’Io sarà quella di evitare nuovi processi affettivi e di ridurre le vecchie facilitazioni affettive. Nel caso dell’isteria, però, l’intervento dell’Io arriverebbe troppo tardi.
4.2.1.3 Capitolo 3. Tentativo di rappresentare i processi ψ normali A partire dal concetto di processo secondario, e in particolare dagli effetti prodotti dall’Io su un gruppo di neuroni con cariche mutevoli, Freud sviluppa la concezione di attenzione psichica: Se ho da una parte l’Io, dall’altra percezioni, vale a dire cariche in ψ aventi origine da ϕ (dal mondo esterno), allora devo trovare un meccanismo che induca l’Io a seguire le percezioni e a influenzarle. Questo meccanismo consiste nel fatto che, secondo le mie ipotesi, una percezione invariabilmente eccita ω, cioè trasmette segni di qualità. Per dirla con maggiore precisione, essa eccita la coscienza (la coscienza di una qualità) in ω, e la scarica dell’eccitamento ω, come ogni scarica, fornisce a ψ un’informazione, che in sostanza costituisce il segno di qualità. Suppongo quindi che siano questi segni di qualità che interessano ψ nella percezione [p. 239] (Freud, 1895, p. 259)
Freud è convinto che il meccanismo dell’attenzione psichica sia biologicamente determinato, ovvero che sia sopravvissuto nel corso dell’evoluzione psichica, poiché ogni altro comportamento di ψ è stato escluso a causa dello sviluppo di dispiacere. L’attenzione psichica avrebbe quindi come effetto quello di investire gli stessi neuroni portatori dell’investimento percettivo e consisterebbe: nello stabilire una situazione psichica di attesa anche per certe percezioni che non coincidono in parte con gli investimenti di desiderio [...]. L’attenzione è biologicamente giustificata; il problema è solo quello di indicare all’Io quale investimento d’attesa esso debba stabilire, e a ciò servono i segni di qualità (Freud, 1895, p. 260)
I segni di qualità compaiono anche grazie all’associazione verbale: questa rende possibile la conoscenza. I segni di scarica verbale porrebbero i processi di pensiero sullo stesso livello dei processi percettivi, rendendo possibile il loro ricordo. Freud, a questo punto, associa la percezione di alcuni oggetti a una loro precisa fonetica, sostenendo che la caratteristica del pensiero conoscitivo è che l’attenzione sarebbe fin da subito diretta ai segni di scarica del pensiero, ovvero ai segni di linguaggio. Tornando a parlare di attenzione, Freud sostiene che la regola biologica che la
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caratterizza si può articolare nei seguenti due modi: 1) ha a che fare con la difesa primaria, cioè la tendenza a non investire i neuroni che conducono a una liberazione di dispiacere; 2) con riferimento diretto all’Io, si basa sulla comparsa di un “sovraccarico” di energia sull’investimento percettivo sollecitato dalla realtà esterna. Durante il percorso del pensiero possono verificarsi degli errori, poiché le percezioni della realtà non sono “totali” e i nostri organi di senso limitati: tali sono gli errori di ignoranza. Altri errori possono verificarsi nel momento in cui il preinvestimento psichico risulta difettoso e ne possono risultare percezioni inesatte e decorsi di pensiero incompleti: ciò darebbe vita agli errori dovuti ad attenzione insufficiente. Con queste osservazioni sul pensiero e i suoi errori si chiude il Progetto: come si accennava, soprattutto in quest’ultima parte e nella prima non mancano alcuni punti di difficile intrepretazione, su cui Freud però non tornerà.
4.2.2
Trattamento psichico (trattamento dell’anima) (1890); Ipnosi (1891)
Nel corso della propria formazione, e in particolare tra il 1888 e il 1892, in Freud nacque un forte interesse per i temi dell’ipnosi e della suggestione, come testimonia la lettera del 28 dicembre 1887 che egli inviò a Fliess, in cui raccontava di essersi dedicato allo studio dell’ipnotismo. Dovendo trattare con pazienti nevrotici non organici, Freud era mosso dall’esigenza di individuare e adottare uno strumento terapeutico che si distinguesse dalle tecniche diffuse in quel periodo, come l’elettroterapia, e al tempo stesso era rimasto colpito dagli esperimenti di Charcot a Parigi. Contemporaneamente ebbe l’opportunità di perfezionare la propria tecnica ipnotica durante il suo soggiorno a Nancy, presso la scuola di Liébeault e Bernheim, la quale impiegava le tecniche suggestive con esiti sorprendenti, ma che si opponeva a Charcot per quanto riguardava l’interpretazione dei fenomeni ipnotici (confronta anche capitolo 3). Freud rimase sempre più vicino alla concezione di Charcot e rifiutò la tesi della scuola di Nancy, la quale sosteneva che gli effetti dell’ipnosi erano causati dalla persuasione che colpiva il soggetto nel momento in cui lo sperimentatore gli suggeriva un’idea, quindi senza un’alterazione più profonda della coscienza. Trattamento psichico (trattamento dell’anima) del 1890 e Ipnosi del 1891 sono due tra gli scritti più rappresentativi di questo periodo e testimoniano il profondo interesse di Freud proprio per la suggestione e per l’ipnosi. In entrambi i lavori si sente, neppure tanto velatamente, la polemica che Freud mosse verso gli ambienti medici viennesi, in particolare verso Meynert, che mostravano disinteresse, quando non ostilità, nei confronti dell’impiego dell’ipnosi, ritenuta inutile e pericolosa. Lo scritto Trattamento psichico (trattamento dell’anima) (Freud, 1890) è un contributo che Freud elaborò per un’opera a carattere semipopolare – Die Gesundheit (La salute) – cui collaborarono più autori. Freud parte dal presupposto che, poiché “psiche” in greco significa “anima”, il trattamento psichico corrisponda al trattamento dell’anima, con un’attenzione particolare a quei disturbi, psicologici e somatici, di cui molti individui soffrono; i mezzi di cura più efficaci risultano essere
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quelli che agiscono prima di tutto sulla psiche del soggetto. Tra questi Freud individua la parola: Un tale mezzo è soprattutto la parola, e le parole sono anche lo strumento essenziale del trattamento psichico. Il profano troverà certo difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le “sole” parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita. Ma sarà necessario prendere una via indiretta, più ampia, per far capire come la scienza riesca a restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica (Freud, 1890, p. 93)
È in tale passo che Freud comincia a rivolgere una critica nei confronti dell’ambiente medico scientifico del tempo, scettico e incapace di apprezzare il trattamento psichico. A tal proposito, egli sostiene che da sempre la medicina si è limitata a occuparsi del corpo, scindendo da esso la psiche: Il rapporto tra corpo e psiche (nell’animale come nell’uomo) è un rapporto di interazione, ma l’altro aspetto di questo rapporto, l’azione della psiche sul corpo, trovò in passato poca clemenza agli occhi dei medici. Pareva che questi temessero di accordare una certa autonomia alla vita psichica, come se con ciò abbandonassero il terreno della scientificità (Freud, 1890, p. 94)
Da qui emerge la necessità di considerare il corpo e la psiche come inscindibili. Tuttavia, Freud mette in luce come progressivamente stia avvenendo un mutamento, proveniente dallo stesso ambiente medico, costituito dal fatto che vi è una gran quantità di malati psichici nei quali non è rintracciabile alcun segno tangibile e concreto della patologia di cui sono affetti. È a partire da tale situazione che si è cominciato a considerare l’ipotesi secondo cui tali malati siano colpiti da una modificazione della vita psichica. A partire dall’osservazione delle più comuni azioni e condizioni psichiche, come “l’espressione dei moti d’animo” e gli stati affettivi, è emerso come stati affettivi dolorosi e di lunga durata quali tristezza, preoccupazione e lutto, portino a effetti come perdita di peso, imbiancamento dei capelli, malnutrizione e modificazione delle pareti dei vasi sanguigni. Freud sostiene che gli affetti depressivi possano diventare anche la causa di malattie del sistema nervoso e di altri organi, creando quindi una sorta di base d’innesco della patologia. Gli stessi affetti depressivi o stati affettivi dolorosi o intensi, inoltre, potrebbero portare a una diminuzione della durata della vita stessa. Partendo da questi presupposti, Freud afferma che tutti gli stati psichici sono “affettivi” e, in quanto tali, determinano certe reazioni somatiche e possiedono la capacità di modificare i processi corporei. Di grande interesse risulta essere lo stato psichico dell’attesa: chi, ad esempio, è in attesa angosciosa è più a rischio di ammalarsi; invece, l’attesa contraria, quella speranzosa e fiduciosa, rappresenta una forza attiva che occorre tenere in considerazione nelle situazioni di cura e guarigione.
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Il caso più evidente in cui agisce l’attesa speranzosa è nelle guarigioni cosiddette “miracolose”, che avvengono senza alcun intervento medico. Appare evidente come siano le forze psichiche a determinarle. È a tal proposito che Freud mette in luce come l’effetto di ogni rimedio o intervento che il medico prescrive al paziente è caratterizzato da due elementi: il primo è dato dal comportamento psichico del malato, la cui attesa fiduciosa nei confronti del provvedimento medico dipende da una serie di fattori, come la volontà di guarire, la sua fiducia nell’aver fatto i passi giusti al fine di raggiungere tale scopo, la sua stima per la medicina, il potere che egli attribuisce alla persona del medico e la simpatia che il medico stesso è riuscito a suscitare in lui. Il secondo elemento riguarda il fatto che vi sono medici con una capacità maggiore rispetto ad altri di guadagnare la fiducia del paziente. È in tale contesto che Freud parla della magia della parola: Le parole sono infatti i mediatori più importanti dell’influsso che un uomo vuole esercitare sull’altro; le parole sono un buon mezzo per provocare modificazioni psichiche in colui al quale sono dirette e, perciò, non suona più enigmatica l’affermazione secondo cui la magia della parola può eliminare fenomeni psicologici, in primo luogo quelli che sono essi stessi fondati su stati psichici (Freud, 1890, p. 102)
Gli influssi psichici che risultano efficaci nell’eliminazione della patologia sembrano essere caratterizzati da imprevedibilità; in ogni caso, gli affetti, la volontà e l’attesa fiduciosa non sempre portano alla remissione della malattia. Quello che impedisce la regolarità del successo terapeutico è, secondo Freud, la personalità singolare di ciascun individuo. Si riconosce quindi l’importanza dello stato psichico per la guarigione e da qui la necessità di instaurare nel paziente uno stato d’animo favorevole alla cura. Tra i metodi adeguati a questo scopo, il fondatore della psicoanalisi annovera l’ipnosi, che può essere praticata in diversi modi: si può ipnotizzare facendo fissare l’attenzione della persona su un oggetto specifico e, quindi, stancando l’attenzione attraverso stimoli sensoriali deboli e regolari; oppure tramite dei semplici suggerimenti verbali. Poiché – osserva Freud – uno stato patologico non fa in alcun modo parte delle condizioni dell’ipnosi, accade che le persone “sane” siano più facilmente ipnotizzabili rispetto ai soggetti nevrotici, mentre “i malati di mente sono assolutamente refrattari” (Freud, 1890, p. 104). Lo stato ipnotico può assumere differenti gradazioni: nella sua fase più blanda, l’individuo sotto ipnosi avverte un semplice stordimento, mentre nella fase più acuta l’ipnosi assume le forme del sonnambulismo, anche se se ne differenzia per la conservazione di alcune prestazioni psichiche. A questo punto, Freud sposta l’attenzione sulla peculiarità del rapporto tra ipnotizzato e ipnotizzatore, sostenendo che l’ipnotizzato si comporta come un dormiente nei confronti del mondo esterno, ma da sveglio verso l’ipnotizzatore, il quale sente, vede, comprende e fornisce risposta. Tale fenomeno è detto rapport ed è simile al modo in cui dormono alcune persone, come nel caso della madre che nutre il suo bambino. L’ipnotizzato diventa arrendevole e obbediente nei confronti dell’ipnotizzatore e l’influsso della vita psichica sul corpo è notevolmente intensificato nella persona sotto ipnosi. Come sostiene lo stesso Freud:
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La rappresentazione che l’ipnotizzatore ha dato all’ipnotizzato attraverso la parola ha suscitato in quest’ultimo esattamente quel comportamento psicofisico che corrisponde al contenuto di essa. Questo implica da un lato obbedienza, ma dall’altro lato accrescimento dell’influsso fisico di un’idea. Qui la parola è ridiventata realmente magia (Freud, 1890, p. 105)
Freud definisce il discorso che l’ipnotizzatore produce “suggestione”, alla quale l’intero corpo e l’attività psichica dell’ipnotizzato obbediscono, senza che egli intraprenda alcuna azione di sua iniziativa. Il risveglio dall’ipnosi avviene grazie all’ordine dell’ipnotizzatore (“Si svegli”) e generalmente non comporta fatica. Negli stati ipnotici più profondi pare non vi siano ricordi di quanto successo durante l’ipnosi stessa, anche se alcuni soggetti ricordano tutto oppure possiedono un ricordo sognante. Secondo Freud tale tecnica dovrebbe essere adottata dal medico nei confronti del proprio paziente. Il medico dovrebbe trasporre il malato in uno stato di ipnosi, trasmettergli la suggestione secondo cui egli non sarebbe malato, cosicché al suo risveglio non presenterà più i sintomi tipici della sua patologia. Se una sola applicazione non dovesse essere sufficiente, il procedimento potrebbe essere ripetuto più volte. Tra le controindicazioni a questo trattamento psichico Freud elenca la possibilità di dipendenza dal medico ipnotizzatore e l’assuefazione all’ipnosi, anche se ciò avverrebbe nei casi di applicazione continua. Un altro svantaggio consisterebbe nell’eventualità in cui l’ipnosi causasse un disturbo o una debilitazione di una certa durata nella vita psichica della persona ipnotizzata. È a questo punto che Freud muove un’altra critica nei confronti degli ambienti medici del tempo, i quali tendevano a usare l’ipnosi soltanto quando tutti gli altri rimedi erano falliti. Egli afferma che il medico di famiglia dovrebbe essere un esperto di ipnosi e utilizzarla, se è il caso, fin dall’inizio. Tale tecnica dovrebbe avere quindi la stessa dignità e importanza delle altre procedure terapeutiche. Il suo utilizzo è ampio e trasversale, poiché la terapia ipnotica non è utilizzabile soltanto in tutti gli stati nervosi e nei disturbi insorti per “immaginazione”, nonché nel divezzamento da abitudini morbose (alcoolismo, morfinomania, aberrazioni sessuali), bensì anche in molte malattie organiche, perfino infiammatorie, dove, pur perdurando il male di fondo, esiste la prospettiva di eliminarne quei sintomi che soprattutto affliggono il malato, quali i dolori, l’inibizione motoria e simili (Freud, 1890, p. 108)
Sarà il medico a dover stabilire, una volta valutato il caso, se usare o meno il procedimento ipnotico. Freud ritiene di poter smentire alcune convinzioni circa questa tecnica: essa non fa perdere al soggetto l’arbitrarietà del suo comportamento psichico; egli la conserva e la manifesta con la presa di posizione davanti al tentativo di ipnotizzarlo. La docilità completa è molto rara e dipende dalla volontà del paziente, poiché la suggestione ha potere limitato e non sempre ottiene la vittoria sulla malattia. Nei casi di
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gravi disturbi psichici, essa deve essere applicata più volte e con la consapevolezza che porti alla soppressione dei fenomeni patologici, ma per una breve durata. Terminato questo tempo, i sintomi tendono a ripresentarsi e dovrebbe essere applicata una nuova ipnosi con suggestione. Se ciò avviene frequentemente, vi è il rischio che medico e malato decidano di rinunciare al trattamento ipnotico, oppure che il paziente sviluppi una dipendenza dal medico. È dunque importante che il paziente sia consapevole dei limiti della terapia ipnotica e delle eventuali delusioni che ne possono derivare. Lo scritto Ipnosi (Freud, 1891) rappresenta la voce Hypnose, che Freud scrisse per il “Therapeutisches Lexicon”, un dizionario medico curato da Anton Bum. In questo breve e interessante scritto, Freud descrive la tecnica ipnotica da lui stesso usata e suggerisce alcune precauzioni da prendere al fine di ottenere lo stato ipnotico. Secondo Freud, la tecnica ipnotica è da considerarsi pari a quella di altre procedure mediche: quindi il medico dovrebbe imparare il metodo da un maestro in tale arte, per poi dedicarsi alla pratica personale. Una volta acquisita una certa esperienza, dovrà dimostrare serietà e determinazione, trasmettendo ai propri pazienti una sicurezza tale da suscitare in loro delle aspettative di guarigione. Il trattamento ipnotico non deve essere imposto e va contrastato il pregiudizio secondo il quale l’ipnosi costituisce un intervento pericoloso. Se tale pregiudizio suscita nella persona una forte resistenza all’ipnosi, è preferibile non applicarla prima che tale persona riceva maggiori informazioni al riguardo e si riconcili con l’idea di venire ipnotizzata. Diverso è il caso di pazienti che dichiarano di non temere o non credere nell’ipnosi. Questo loro atteggiamento può essere un valido aiuto, al contrario di quello adottato da persone insistentemente desiderose di farsi ipnotizzare. Freud specifica che non tutti gli individui sono ipnotizzabili: non lo sono, ad esempio, gli “ammalati mentali” e i “degenerati”, mentre coloro che egli chiama “nevrastenici” lo sono con una certa difficoltà. Negli isterici, invece, l’ipnosi sembra insorgere naturalmente in seguito a interventi fisiologici. Egli sottolinea l’importanza di guadagnarsi prima di tutto la fiducia del paziente, per poi eventualmente applicare la tecnica ipnotica, che sembra particolarmente utile nei casi di disturbi di natura psichica e per le diverse forme di dipendenza. Può essere impiegata anche per molti sintomi di malattie organiche o ai fini di una diagnosi differenziale, ad esempio nel caso in cui sia necessario comprendere se certi sintomi sono imputabili all’isteria o a un quadro organico. A questo punto dello scritto, Freud introduce la questione riguardante la presenza di una terza persona nel setting dell’ipnosi. Così egli si esprime: Questa sarebbe una misura per proteggere i pazienti da un abuso di ipnosi, e il medico dall’accusa di un tale abuso: e sono entrambe cose che accadono! Ma non è sempre possibile ricorrere a questa misura. La presenza di un’amica, del marito, e via dicendo, spesso disturba notevolmente la malata e diminuisce di molto l’influenza del medico; inoltre, il contenuto delle suggestioni impartite nell’ipnosi non sempre è adatto a essere comunicato a un’altra persona, intima della paziente. La presenza di un secondo medico non avrebbe questi svantaggi, ma rende talmente più difficile l’attuazione del trattamento che nella maggior parte dei casi non vi si può ricorrere; infatti, il medico,
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che ha prima di tutto il dovere di aiutare il paziente mediante l’ipnosi, nella maggior parte dei casi rinuncerà alla presenza di una terza persona, pur incorrendo nel pericolo summenzionato, che si affiancherà agli altri pericoli connessi con l’esercizio della sua professione. La paziente, dal canto suo, si guarderà dal farsi ipnotizzare da un medico che non le sembra degno della massima fiducia (Freud, 1891, p. 114)
Ancora, Freud sottolinea quanto sia importante per il paziente, prima di sottoporsi a ipnosi, l’apprendere per imitazione il comportamento da adottare, osservando altre persone sotto ipnosi e imparando da esse le sensazioni che si provano durante tale tecnica. Oltre a questo, esistono altri procedimenti che hanno in comune tra loro il fatto di ricordare il processo dell’addormentarsi tramite specifiche sensazioni corporee. Secondo Freud il procedimento migliore è il seguente: Si fa sedere il paziente comodamente, e gli si dice di stare molto attento e di non parlare più iniziando da quel momento, perché ciò gli impedirebbe di addormentarsi. Gli si fanno togliere tutti gli indumenti che possano in qualche modo esercitare una costrizione, e si fanno disporre le persone presenti in una parte della camera dove il paziente non le possa vedere. Si provvede a rendere la camera oscura e silenziosa. Dopo questi preparativi, ci si pone di fronte al paziente invitandolo a fissare due dita della mano destra del medico, ponendo attenzione alle sensazioni che proverà. Dopo pochissimo tempo, più o meno due minuti, si comincia a indurre nel paziente la sensazione dell’addormentarsi. Gli si dice ad esempio: “Vedo già che con Lei le cose andranno in fretta. Il suo viso ha già assunto un’espressione fissa, il respiro le è divenuto più profondo, una gran calma si è impadronita di Lei, le palpebre le pesano, gli occhi si socchiudono, già non riesce più a vedere distintamente, presto dovrà inghiottire, poi gli occhi le si chiuderanno, ed eccola addormentata”. (Freud, 1891, p. 115)
È con queste ultime frasi utilizzate dall’ipnotizzatore che inizia il processo che Freud chiama “suggestione”, intendendo con essa una forma di persuasione all’interno dell’ipnosi, la quale deve essere impartita energicamente e a ritmo veloce. Anche nei casi in cui l’ipnosi sia solo apparente, è possibile ottenere dei successi terapeutici; il grado di ipnosi raggiungibile non dipende dal procedimento medico, ma dalla reazione casuale del paziente. Se il medico non è soddisfatto dell’ipnosi ottenuta, può ricorrere all’uso di altri metodi, come strofinare per 5–10 minuti con entrambe le mani il viso e il corpo del paziente. Lo scopo è quello di suscitare con un’associazione di idee l’immagine dell’addormentarsi e di fissare l’attenzione del paziente con una sensazione persistente. Secondo Freud il vero valore terapeutico dell’ipnosi sta proprio nella suggestione, che consiste in una negazione del disturbo del paziente o nell’assicurazione che egli è in grado di fare qualcosa o ancora nell’ordine di eseguire un’azione. L’effetto è più efficace se si mette in rapporto la guarigione attesa con una certa azione o intervento durante l’ipnosi. L’obiettivo centrale è quello di ottenere o un effetto immediato tramite la suggestione, come avviene nel trattamento delle paralisi e delle
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contratture, oppure un effetto postipnotico, che si deve realizzare in un particolare momento dopo il risveglio. Nel caso di quei disturbi che Freud chiama “ostinati”, è consigliabile inserire un periodo di attesa, come una notte intera, tra la suggestione e la sua realizzazione. È stato possibile notare, infatti, come una certa alterazione somatica avvenga dopo un determinato tempo, detto periodo d’incubazione. Freud prosegue sostenendo che ogni suggestione debba essere impartita con la massima decisione, evitando ogni forma di contraddizione e richiamandosi a proprie capacità di produrre alterazioni della coscienza. Il tempo d’ipnosi deve essere stabilito in base alle esigenze pratiche; secondo Freud, un’ipnosi continuativa di parecchie ore è con più probabilità destinata al successo. Il risveglio deve avvenire tramite formule del tipo: “Basta, per questa volta”. In seguito alla prima ipnosi, occorre assicurarsi che la persona non abbia un risveglio caratterizzato da cefalea, ma che sia di buon umore e in forma. Freud fornisce delle indicazioni anche riguardanti la profondità dell’ipnosi: questa non è sempre direttamente proporzionale al successo dell’ipnosi stessa, poiché un’ipnosi lieve potrebbe portare a cambiamenti notevoli, mentre uno stato di sonnambulismo a un esito fallimentare. Il problema sorge nel momento in cui non vi è alcun successo terapeutico dopo poche ipnosi, in quanto il medico e il paziente si stancano piuttosto in fretta a causa del contrasto tra suggestioni e realtà. Inoltre, nei trattamenti prolungati, bisognerebbe individuare nuovi punti di partenza per le suggestioni e nuovi cambiamenti del procedimento ipnotico, andando però a creare delle tensioni in chi già dubita del successo di tale tecnica. Freud parla dell’ipnosi come dotata di un campo d’azione molto più ampio rispetto a quello di altri metodi di guarigione delle malattie nervose. Se essa ha successo, la guarigione dipenderà dagli stessi fattori da cui dipende con altri metodi di cura: se l’ipnosi è conclusa e i fenomeni che si manifestano sono solo residui di un processo finito, la guarigione sarà durevole; se invece le cause dei sintomi morbosi sono ancora presenti, probabilmente avverrà una recidiva. Accanto all’ipnosi, può essere utilizzata anche un’altra terapia, come quella dietetica, meccanica o di altro genere. Freud conclude lo scritto affermando che: In una serie di casi, quelli cioè in cui i sintomi morbosi sono di origine esclusivamente psichica, l’ipnosi soddisfa tutti i requisiti di una terapia causale, e interrogando e tranquillizzando il paziente in ipnosi si ottengono molto spesso i più brillanti successi (Freud, 1891, p. 121)
4.3
L’isteria: prima sfida per la tecnica psicoanalitica (Studi sull’isteria, 1892–1895)
Di isteria Freud cominciò a occuparsi fin dal suo soggiorno parigino presso la Salpêtrière dove aveva conosciuto e visto lavorare Charcot. Si trattò, come si è in precedenza accennato, di uno dei più importanti periodi formativi per il padre della psicoanalisi e frutto d’esso furono alcune traduzioni dal francese di importanti saggi. Certamente,
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però, il lavoro del 1888, scritto per “Handwörterbuch der gesamten Medizin”, un Dizionario Medico pubblicato sotto la direzione di Villaret, e intitolato appunto Isteria6, costituisce il punto d’arrivo di queste prime riflessioni freudiane e, nello stesso tempo, il punto di partenza dei successivi Studi sull’isteria del 1892–1895. Gli Studi sull’isteria si sviluppano dunque lungo tre anni di lavoro e sono il frutto della collaborazione di Freud con Josef Breuer. Quest’ultimo, di quindici anni più anziano, era già un medico affermato nel momento in cui Freud era poco più che uno studente di medicina e fu prodigo di aiuti. La collaborazione tra i due, significativa fino al 1891, andò man mano scemando, cosicché gli Studi sull’isteria videro la luce quando ormai tra i due autori non vi era più che un dovuto rispetto di Freud nei confronti del collega più anziano, che aveva mostrato tanta generosità nei suoi confronti. È possibile solo ipotizzare i motivi di questo progressivo distacco. Anzitutto un difficile rapporto che Freud aveva soprattutto con i colleghi più anziani e affermati di lui: in essi probabilmente vedeva dei rappresentanti della figura del padre, i rapporti con il quale – come si potrà osservare nel percorso di autoanalisi della Traumdeutung (cfr. capitolo 5) – non erano dei migliori. A ciò va aggiunto che in quel periodo, ma soprattutto a partire dal 1897 e fino a tutto il 1900, Freud, forse proprio per sottrarsi a un vissuto di sudditanza e dipendenza paterna, si legò profondamente a Fliess, un collega a lui più vicino per età, che andava sviluppando idee piuttosto originali sulla bisessualità e sui bioritmi. C’era però anche un motivo squisitamente scientifico, riconducibile all’eziologia dell’isteria. Anche quando Freud fu, di lì a poco, violentemente attaccato rispetto alle sue idee sulla sessualità, in particolare sulla valenza sessuale che il trauma avrebbe nelle psiconevrosi (isteria e nevrosi ossessiva), Breuer mostrò forti oscillazioni, a volte appoggiando, altre volte prendendo le distanze dalle idee del padre della psicoanalisi. Su questo punto Freud, però, non aveva dubbi, proprio a partire da un caso presentato da Breuer negli Studi sull’isteria – il noto caso di Anna O. – e sulla cui interruzione Freud sapeva che il collega aveva sottaciuto alcuni elementi importanti. Gli Studi sull’isteria possono essere suddivisi in tre parti: 1. la “Comunicazione preliminare”: scritta a quattro mani da Freud e da Breuer, si propone di descrivere che cosa caratterizza i fenomeni isterici. Essa suscitò notevole interesse negli ambienti medici tedeschi; non avranno la stessa sorte gli Studi nel loro complesso; 2. cinque casi clinici (Anna O., Emmy von N., Lucy R., Katharina, Elisabeth von R.); 3. due saggi teorici: il primo di Breuer, rimasto in realtà piuttosto nell’ombra e di taglio più medico; l’altro di Freud, in cui ritroviamo esposti per la prima volta alcuni principi fondativi del nascente metodo psicoanalitico. 6
In questo lavoro, prettamente clinico, Freud mostra ottime capacità descrittive – si veda tutta la parte dedicata alla sintomatologia – e grande attenzione alle proposte di trattamento. Tra esse, è annoverata quella di J. Breuer “consistente nel ricondurre il paziente sotto ipnosi alla preistoria psichica del suo disturbo, costringendolo a riconoscere l’occasione psichica che ha scatenato il disturbo in questione” (Freud, 1888, p. 59).
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4
4.3.1
Comunicazione preliminare
Come accennato, la “Comunicazione preliminare” fa riferimento ai fenomeni isterici: al loro caratteristico modo di manifestarsi e alla loro possibile cura. Freud e Breuer ipotizzano anzitutto una stringente connessione tra sintomo isterico e trauma, cioè un evento occorso al paziente in un periodo precedente all’insorgere del quadro sintomatologico. Un esempio portato è illuminante: un’emozione dolorosa insorta, ma repressa, durante un pasto produce nausea e vomito, e questo poi perdura per mesi sotto forma di vomito isterico (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 176)
È evidente che questo tipo di connessione non è sempre così evidente e semplice da cogliere come in questo esempio. Si tratta, sottolineano Freud e Breuer, di “manifestazioni idiopatiche”, ossia di manifestazioni sintomatologiche che dipendono esclusivamente dalla presenza di un disturbo mentale ascrivibile a un quadro d’isteria e non da condizioni organiche o di altro genere. L’attenzione al trauma non era certo nuova, ma la sua centralità nelle pagine degli Studi porta Freud e Breuer a fare delle ipotesi innovative sul funzionamento mentale dei pazienti che lo subiscono. Essi introducono il concetto di isteria traumatica, un tipo di nevrosi in cui la vera causa della malattia è lo “spavento, il trauma psichico”. Caratteristica del trauma è il fatto che si crea una scissione nella mente tra rappresentazione dell’evento e affetto legato a quello stesso evento; ulteriore caratteristica del trauma è quella di continuare a “sopravvivere” nella mente del paziente, ma come si trattasse di un corpo estraneo. Si arriva così alla celebre affermazione per cui “l’isterico soffrirebbe per lo più di reminiscenze” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 179). Ecco allora che un evento reale assume una connotazione squisitamente psicologica e l’impatto che esso può avere varia da persona a persona. Più l’impatto è significativo, più c’è il rischio che si crei una vera e propria “scissione della coscienza”: una tendenza, osservano Freud e Breuer, che sembra esistere sempre, seppur a volte in stato rudimentale, in ogni isteria e che osserviamo clinicamente nel momento in cui il paziente manifesti stati di semi-incoscienza o di tipo “ipnoide”. Si tratta di una condizione che inizialmente fu ritenuta dai due studiosi come possibile causa dell’isteria (isteria da stato ipnoide), laddove l’evento traumatico si fosse “installato” nella mente del paziente in un momento di particolare “debolezza” della stessa7. La convinzione di fondo di Freud e Breuer è dunque che la rappresentazione mentale di un evento traumatico non segua il normale decorso che caratterizza altri e normali eventi di vita, che sia identificabile come evento reale e che la carica affettiva ad esso legata non sia stata “scaricata” e quindi metabolizzata nel momento in cui l’evento stesso è avvenuto. 7
Evidente qui il riferimento a Janet, citato tra l’altro in queste pagine da Freud e Breuer. Si tornerà sui differenti tipi di isteria tra poco, prendendo in considerazione l’isteria da ritenzione e l’isteria da difesa.
4.3 L’isteria: prima sfida per la tecnica psicoanalitica (Studi sull’isteria, 1892–1895)
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Perché accade questo? Freud e Breuer individuano due possibili cause: 1) la natura del trauma esclude la possibilità di una reazione (per esempio, la morte insostituibile di una persona cui si è particolarmente legati o divieti di reazione imposti da specifiche condizioni sociali o, ancora, il desiderio di dimenticare il più in fretta possibile quanto avvenuto8); 2) lo stato psichico del malato, che caratterizza esperienze di per sé non significative e le rende traumatiche (per esempio, rappresentazioni presentatesi al malato in stati di terrore, crepuscolare o semipnotico, possono assumere connotazioni traumatiche). Freud e Breuer intuiscono a questo punto che non è sufficiente “ricordare” il fatto avvenuto o la condizione psichica del passato da cui sembra aver preso le mosse la psiconevrosi, ma occorre “riattualizzare” nel presente lo stato affettivo legato a quel determinato fatto o la condizione psichica in cui il paziente si è venuto a trovare nel passato. In questo modo, la rappresentazione originaria non abreagita perde la sua forza e il sintomo legato ad essa può venir meno. Nonostante Freud e Breuer parlino di un “metodo di psicoterapia” che fa leva sia sull’ipnosi, sia sulla suggestione da parte del medico, si è qui di fronte a un nuovo metodo che Freud stesso, nella prefazione alla seconda edizione degli Studi sull’isteria del 1908, definirà catartico9. Nelle parole dello stesso Freud: Inoltre a chiunque si interessi dell’evoluzione che dalla catarsi ha portato alla psicoanalisi, non saprei dar miglior consiglio che cominciare con gli Studi sull’isteria, effettuando così il cammino da me stesso percorso (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 175)
Alla fine della “Comunicazione preliminare”, Freud e Breuer affermano con modestia, ma con rigore scientifico, di aver dato un contributo alla comprensione del meccanismo con cui si formano i sintomi isterici, ma di non aver aggiunto nulla di nuovo rispetto alle cause intime dell’isteria.
4.3.2
Casi clinici (Anna O.)
Dei cinque casi presentati negli Studi sull’isteria, uno (Anna O.) fu seguito da Breuer, mentre gli altri quattro da Freud. È probabile che l’obiettivo di questi casi clinici fosse, da parte di Freud e Breuer, quello di mostrare con un certo orgoglio come il loro tipo di trattamento ottenesse buoni risultati. In realtà, i due partono da alcune importanti ipotesi teoriche (cfr. sopra la “Comunicazione preliminare”), ma
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È qui che compare per la prima volta il termine rimozione e l’azione del rimuovere (verdrängen), forse il più noto di tutta la psicoanalisi. Catarsi è parola di derivazione greca che significa letteralmente “purificazione”: usata anche in contesti extra-religiosi, tale termine già nell’antica Grecia indicava in senso lato un processo di “liberazione” e di “espressione” indiretta delle proprie emozioni, attraverso per esempio l’assistere a uno spettacolo teatrale nel quale lo spettatore poteva vedere rappresentate esperienze da lui già vissute.
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arrivano a conclusioni che sembrano non tanto convalidare tali ipotesi, quanto piuttosto aprire nuove prospettive di sviluppo legate alla futura teoria e tecnica psicoanalitiche. È qui che Freud e Breuer utilizzano la parola “inconscio” nell’accezione che diventerà propria della psicoanalisi; ed è sempre qui che Freud scopre con una delle sue pazienti uno dei capisaldi della tecnica psicoanalitica: le libere associazioni. Ci si soffermerà proprio sui due casi clinici in cui tutto ciò avviene: quello di Anna O. di Breuer e quello di Elisabeth von R. di Freud. Anna O., in realtà Bertha Pappenheim, era una signorina di giovane età che Breuer ebbe in cura circa dieci anni prima della pubblicazione degli Studi sull’isteria (dal dicembre 1880 al giugno 1882). Ecco la descrizione che Breuer fa della sua paziente: La signorina Anna O., di ventun anni all’epoca della malattia (1880), sembra presentare tare nevropatiche di non eccessivo rilievo, costituite da alcune psicosi verificatesi nella sua numerosa famiglia; i genitori sono sani di nervi. Lei stessa era stata prima sempre sana, senza alcun fatto nervoso durante l’età dello sviluppo; è di intelligenza notevole, dotata di intuizione acuta e di una sorprendente capacità di afferrare le relazioni fra le cose. [...] Il suo ricco talento poetico e fantastico era controllato da uno spirito critico molto acuto che la rendeva anche del tutto insuggestionabile; soltanto argomenti, mai pure affermazioni avevano su lei un’influenza. La sua volontà era energica, tenace e costante, giungendo talora fino all’ostinazione, e rinunciava alla propria meta soltanto per bontà, per far piacere agli altri. Fra i tratti essenziali del suo carattere erano la bontà e la simpatia umana; la cura e l’assistenza di taluni ammalati poveri le furono di grande aiuto nella sua malattia, consentendole di soddisfare un forte suo impulso naturale. I suoi stati d’animo avevano sempre una leggera tendenza all’esagerazione, sia nell’allegria che nella tristezza; ne derivava anche una certa lunaticità. L’elemento sessuale era sorprendentemente poco sviluppato; la paziente, la cui vita divenne per me così trasparente come di rado la vita di un essere umano lo può essere per un altro, non aveva mai avuto un amore; e in tutta la congerie di allucinazioni della sua malattia non è mai emerso questo elemento della vita psichica (Breuer e Freud, 1892–1895, pp. 189–190, corsivo di chi scrive)
Si sono evidenziate con il corsivo le parti di descrizione della paziente che la rendevano “speciale”: la sua insuggestionabilità, ossia la presenza di uno “spirito critico” che impediva con lei l’utilizzo di tecniche di tipo ipnotico; una marcata tendenza a occuparsi degli altri, cioè a dedicare agli altri molte delle sue energie (la cura del padre malato sarà uno dei fattori che porterà al vero e proprio esordio dell’isteria di Bertha); una “leggera tendenza all’esagerazione” e “lunaticità”, note comportamentali che oggi sarebbero considerate tratti istrionici di personalità; infine, una certa immaturità sessuale, che apre la strada all’ipotesi sviluppata successivamente da Freud di una regressione (o fissazione) nello sviluppo psicosessuale delle o dei pazienti. Breuer aggiunge un’altra nota descrittiva molto interessante sulla paziente: ben prima dell’esordio della malattia, Bertha era solita accompagnare le proprie mansioni domestiche, ma anche le chiacchierate che faceva con chiunque, con “sogni
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ad occhi aperti”, dando luogo a un suo vero e proprio “teatro privato”. Caratteristica fondamentale di questa attività fantastica era che nessuno si accorgeva di nulla e Bertha sembrava perfettamente adeguata al contesto: si intravede, in realtà, un altro aspetto fondamentale dell’isteria che nella “Comunicazione preliminare” Freud e Breuer avevano definito “scissione della coscienza”. È lo stesso Breuer a descriverci le fasi del trattamento: 1. l’incubazione latente (la malattia era già presente, ma non in modo manifesto): da metà luglio a circa il 10 dicembre 1880; 2. la malattia manifesta: la sintomatologia isterica esplode nel dicembre 1880 e diventa sempre più pesante (Bertha presenta gravi disturbi nel linguaggio, nella vista e nella muscolatura degli arti), con solo un lieve miglioramento interrotto però bruscamente dalla morte del padre, avvenuta nell’aprile del 1881; 3. un periodo di sonnambulismo persistente, con alternanza di stati più “normali”: dall’aprile al dicembre 1881; 4. graduale scomparsa degli stati patologici e dei fenomeni sintomatologici fino al giugno 1882. Ed è sempre lo stesso Breuer a delinearci in modo esemplare le condizioni della paziente alla sua “presa in carico”: In questo stato io presi in cura la paziente e potei ben presto rendermi conto della grave alterazione psichica. Vi erano due stati di coscienza del tutto distinti, che spesso e repentinamente si alternavano e che nel corso della malattia si venivano sempre più nettamente separando. In uno stato, la paziente conosceva ciò che la circondava, era triste e angosciata, ma relativamente normale; nell’altro stato allucinava, era “cattiva”, vale a dire imprecava, buttava i cuscini addosso alle persone (quando e nella misura in cui la contrattura glielo permetteva) e con le dita rimaste mobili strappava i bottoni dalla biancheria da letto e personale, o faceva altre cose del genere (Breuer e Freud, 1892–1895, pp. 191–192)
L’aggravarsi delle condizioni di Bertha nel primo periodo di cura non scoraggia Breuer; al contrario, lo studioso intuisce il significato “relazionale” della profonda disorganizzazione funzionale del linguaggio e del mutismo in cui Bertha si era chiusa man mano: Come io sapevo, si era sentita molto offesa per qualcosa e aveva deciso di non dire nulla. Quando indovinai ciò e la costrinsi a parlare, scomparve l’inibizione che prima aveva reso impossibile anche qualsiasi altra espressione (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 193)
È in questa fase di parziale remissione dei sintomi che interviene “il trauma psichico più grave che potesse colpirla”: la morte del padre. In verità, la paziente sembrò inizialmente reagire in modo più che adeguato all’evento, con una riduzione parziale dell’angoscia propria del periodo precedente. Stava però avvenendo una fenomeno di cui Breuer era solo molto parzialmente consapevole: Bertha sembrava riconoscere tra chi le faceva visita solo lui e stare in
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uno stato migliore solo in sua presenza; un pericoloso rifiuto nel nutrirsi da parte di Bertha era stato superato da Breuer con una sua disponibilità a imboccare la paziente; insomma, sempre di più Breuer stava diventando l’oggetto d’investimento libidico (affettivo) della paziente e, a testimonianza di questo, un temporaneo allontanamento di Breuer dalla paziente procurò un grave peggioramento delle condizioni cliniche della stessa. Perduravano intanto anche quei particolari stati di “sonnolenza”, quando non di “profondo sopore” o di “profonda ipnosi” (in qualche modo autoindotta), che da subito avevano caratterizzato lo stato clinico di Bertha. Per questa sua condizione la paziente stessa coniò il termine inglese di clouds: ora, Breuer si era accorto che se Bertha riusciva a “sfogarsi col parlare” o se riusciva “a narrare le allucinazioni10 di quel giorno, si ridestava lucida, tranquilla, serena” (Breuer e Freud, 1892–1895, pp. 194–195). Si rimaneva tuttavia colpiti dall’osservare il contrasto tra una Bertha incapace di ragionare e perseguitata dalle allucinazioni durante il giorno e una Bertha perfettamente lucida mentalmente di notte. Breuer osserva acutamente che tale periodicità poteva senz’altro essere paragonabile a quella riscontrabile in una persona che debba sobbarcarsi per mesi l’assistenza di un malato, vegliandolo di notte, cosa che era accaduta alla paziente con il padre ammalato. Nonostante le condizioni cliniche di Bertha sembrassero buone, o caratterizzate da apparente lucidità di notte, il suo stato psichico andava peggiorando, come tentativi ripetuti di suicidio, gesti pantoclastici e allucinazioni senza “assenza” stavano a testimoniare. Si decise così di portare Bertha, contro la sua volontà, in una casa di campagna nei pressi di Vienna. Questo trasferimento impedì a Breuer di visitare quotidianamente la paziente, ma gli permise anche di osservare che Bertha lo attendeva per “sfogarsi col discorso” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 197). Si trattava di una procedura avviatasi quasi per caso, grazie ad alcune parole-stimolo che chi assisteva la paziente ebbe a dire mentre la accudiva, ripetendo qualcosa che lei stessa farfugliava dopo essere uscita da uno stato di sopore prolungato, ma rimanendo agitata e con gli occhi chiusi nel letto. Bertha avviava così un discorso o si metteva a raccontare qualcosa di ben definito: per tutto ciò, lei stessa trovò “il termine felice e serio di talking cure (in inglese, cura parlata) e quello umoristico di chimneysweeping (spazzare il camino)” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 197). Questi racconti, che ad occhi chiusi e in uno stato a volte di agitazione Bertha faceva a Breuer, dopo essersi ben accertata che fosse lui tastandogli accuratamente le mani, ebbero uno straordinario effetto terapeutico. Molti dei suoi sintomi, soprattutto legati al corpo, regredirono; ma il suo benessere era strettamente legato agli “sfoghi a parole”, effettuati da Bertha in presenza di Breuer (e solo di lui). Al nuovo trasferimento in città (Vienna) Bertha era in condizioni discrete, ma di lì a poco (dicembre 1881, a un anno dall’inizio del trattamento) le cose sembrarono peggiorare. 10
Durante il caso clinico, Breuer parla a volte di allucinazioni e di psicosi: tali termini non sono, a mio avviso, da intendersi come nella clinica psichiatrica attuale, bensì come primi tentativi di dar conto delle condizioni della paziente in termini di psicopatologia descrittiva. Nell’isteria del tempo, d’altra parte, erano di fatto riscontrabili sintomi simili a quelli dell’area psicotica e schizofrenica in particolare, ma si verrà man mano scoprendo che l’eziologia e il significato di tali sintomi nell’area suddetta è completamente diversa.
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L’alternarsi tra i due stati di coscienza sopra descritti si caratterizzò anche per la possibilità che in uno di essi, quello della condition seconde, cioè di assenza, si ripresentassero avvenimenti avvenuti esattamente l’anno precedente. In questo modo, era possibile ritornare su fatti che non potevano non aver avuto un certo peso nello sviluppo dei sintomi. Non solo, capitò anche che un certo sintomo, in seguito a un discorso “casuale” fatto da Bertha, regredisse. In questo modo Breuer aveva a disposizione due differenti modi per raggiungere il suo scopo. Dal punto di vista tecnico, tuttavia, poco cambiava: ogni sintomo doveva essere esaminato separatamente; tutte le circostanze nelle quali si era manifestato dovevano essere raccontate in ordine di successione inversa, fino ad arrivare alle circostanze del loro primo manifestarsi. Se tutta questa sequenza era narrata, il sintomo veniva per sempre eliminato. Breuer fornisce alcuni esempi di questa procedura, che a volte non incontrava ostacoli nel processo di “ricostruzione”, altre volte invece si bloccava di fronte a difficoltà nel ricordare. Poiché nella condition seconde Bertha riferiva su avvenimenti avvenuti più di un anno prima, Breuer non solo aveva modo di far beneficiare alla paziente dell’effetto “catartico” del racconto, ma anche di mettere a fuoco i fattori eziologici (patogenesi) dell’isteria della paziente. Essi sembravano ricondursi all’angoscia provata durante una notte in cui il padre, già molto sofferente, fu da lei assistito. In attesa del medico che doveva giungere da Vienna, Bertha si assopì e, in quello stato di dormiveglia, immaginò che al letto del padre si avvicinasse una biscia nera per morderlo. Angosciata da questo, si trovò nell’impossibilità di reagire: il braccio, appoggiato allo schienale della sedia, era come anestetizzato e le sue stesse dita si trasformarono in piccoli serpentelli. Terrorizzata cercò di pregare, ma l’unica cosa che le uscì dalla bocca fu un versetto in inglese della sua infanzia. Solo il fischio del treno, svegliandola, interruppe questa sorta di allucinazione. Breuer avanza l’ipotesi che, da questo punto in avanti, i sintomi si siano “installati” e che la paziente abbia cominciato a produrre tendenze autoipnotiche, a tal punto che “la paziente quando era desta nulla sapeva di ciò che era successo” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 205). Breuer parla in realtà con più precisione di un sovrapporsi di condizioni di assenza e di condizioni di particolare stato affettivo, nel senso che taluni sintomi si ripresentavano nell’una o nell’altra condizione indistintamente. È pur vero, tuttavia, che Breuer ritiene che all’isteria debba collegarsi un particolare stato della mente, caratterizzato da debolezza e assenza temporanea di reazione allo stimolo esterno, contro cui impatta un particolare evento di natura traumatica (isteria da stato ipnoide). Prima di raccontare come si concluse il trattamento, vale la pena accennare a quanto Breuer afferma nelle ultime pagine del caso. Anzitutto, una somiglianza tra la sua teoria e quella di Charcot rispetto al meccanismo di formazione dell’isteria: la presenza di uno stato ipnotico nel quale si verifica un lieve trauma. In secondo luogo, la messa in luce di una certa predisposizione allo sviluppo dell’isteria, consistente nell’eccedenza di energia psichica e di una sua mobilità, che si scarica in una costante attività fantastica e che favorisce il costituirsi di una scissione patologica della coscienza. Infine, la convinzione che la comunicazione a parole nell’ipnosi dei contenuti ascrivibili alla condition seconde sia tecnicamente efficace per il trattamento.
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Ma come andarono realmente le cose? Breuer afferma che Bertha si era proposta di terminare il trattamento prima del nuovo trasferimento in campagna previsto nell’estate del 1882: per questo, il suo impegno nella talking cure fu massimo. Capitò così – riferisce sempre Breuer – che proprio nell’ultimo giorno Bertha riuscisse a riprodurre l’allucinazione angosciosa presentatasi durante la notte in cui vegliava il padre. Da quel momento riprese a parlare in tedesco e fu libera da tutti gli innumerevoli disturbi precedenti. “Poi lasciò Vienna per un viaggio, le ci volle tuttavia ancora parecchio tempo prima di ritrovare del tutto il suo equilibrio psichico. Da allora gode perfetta salute” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 206). Le cose, in realtà, non andarono proprio in questo modo: lo sappiamo non solo dalla biografia di Bertha Pappenheim, ma anche da alcune notazioni critiche riportate da Freud molti anni più tardi; in particolare, in una lettera indirizzata a S. Zweig del 1932, il padre della psicoanalisi fa notare come Breuer avesse a quei tempi “lasciato cadere” tutta la vicenda legata al transfert sviluppato dalla paziente.
4.3.3
Casi clinici (Signorina Elisabeth von R.)
Elisabeth viene inviata a Freud nel 1892 da un amico medico. Nell’autunno del 1892 un collega mio amico mi invitò a visitare una signorina che da più di due anni soffriva di dolori alle gambe e che camminava male. Aggiunse all’invito che egli riteneva si trattasse di un caso di isteria, benché non fosse riscontrabile alcuno dei comuni sintomi della nevrosi. [...] Pareva intelligente e psichicamente normale e sopportava la sofferenza, che le guastava vita sociale e divertimenti, con aria serena; la belle indifférence delle isteriche, dovetti pensare. Camminava col corpo curvo in avanti, ma senza sostegno; la sua andatura non corrispondeva ad alcun tipo noto come patologico, e non era comunque tale da dare nell’occhio. Ma essa si lamentava di grandi dolori nel camminare, di stancarsi subito sia camminando sia anche stando in piedi: dopo breve tempo doveva fermarsi, i dolori allora diminuivano senza tuttavia scomparire del tutto. Il dolore era di natura indeterminata, si poteva all’incirca definire come una stanchezza dolorosa. Quale focolaio di dolori, venne indicata una zona abbastanza grande, mal delimitata, della superficie anteriore della coscia destra, donde i dolori partivano con maggior frequenza, in cui raggiungevano la loro maggiore intensità, e dove anche la cute e la muscolatura erano particolarmente sensibili alla pressione e alla pizzicatura [...]. Non solo in questa zona, ma praticamente in tutta l’estensione di ambedue le gambe era determinabile la stessa iperalgesia della cute e dei muscoli (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 290)
Dalla descrizione molto accurata che Freud fa si evince che il sintomo principale di questa paziente riguarda le capacità motorie, la deambulazione, e non sembra avere basi organiche. Un aspetto che Freud vuole cercare di capire meglio è la localizzazione del sintomo in un preciso punto del corpo. Questo, dirà Freud, è un’opera molto ardua poiché i sintomi spesso sono sovradeterminati: il che significa che i
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sintomi possono collegarsi a più di una causa scatenante. D’altra parte, aggiunge Freud, il sintomo è anche mobile: esiste un sintomo principale (nel caso di Elisabeth il dolore alle gambe), ma poi le manifestazioni sintomatiche possono coinvolgere altre parti del corpo. Di conseguenza, l’attribuzione di un significato preciso a un sintomo è operazione piuttosto difficile da attuare e può spesso essere erronea. Impossibilitato a utilizzare l’ipnosi per le caratteristiche della paziente (nello scritto del 1891 sopra analizzato si sono già evidenziati i limiti individuati da Freud rispetto a questa tecnica), Freud ha l’intuizione clinica che gli fa ritenere che la paziente conosca la causa dei suoi sintomi e che Elisabeth, da qualche parte nella sua mente, abbia presente il momento in cui i sintomi sono iniziati e quindi possa in qualche modo aiutarlo a capirne il senso. In altre parole, Freud ritiene che quello che ha determinato la malattia della paziente debba essere progressivamente portato alla coscienza dentro la paziente stessa, riducendo la scissione presente dentro di lei. Freud inizia così a sollecitare i ricordi di Elisabeth sul momento in cui il suo indolenzimento e poi dolore alle gambe andò presentandosi: essi ruotano spesso intorno alla figura del cognato di Elisabeth, marito della sorella maggiore. Era, tra le sorelle, quella cui la paziente era più legata e che stimava di più, sia per il modo felice con cui aveva saputo unirsi in matrimonio al marito, sia per aver avuto dei figli. Elisabeth era invece rimasta nubile, dedicandosi al padre, alla famiglia e ai nipoti. Ora accadde che durante una gita con il cognato, alzandosi da una panchina, Elisabeth sentì questo forte dolore alle gambe, cui peraltro non diede peso e che passò lentamente camminando. D’altra parte, il cognato era stato così gentile a invitarla a quella passeggiata! Questi incontri occasionali non cessarono, anzi aumentarono ancor di più, allorquando alla sorella maggiore si riacutizzò un’affezione cardiaca contratta durante il parto. La sorella doveva perciò rimanere sempre più a riposo e capitava che fosse lei stessa a incoraggiare Elisabeth ad accompagnare il marito a fare qualche camminata. Le condizioni della sorella si aggravarono sempre di più ed Elisabeth era seriamente preoccupata dell’evoluzione della cosa; in questo stesso periodo, il dolore alle gambe aumentò e divenne in alcune occasioni così intenso da costringere Elisabeth a non muoversi da casa o a rinunciare a fare due passi con il cognato. Nonostante i tentativi di cura effettuati, in poco tempo la salute della sorella di Elisabeth peggiorò sensibilmente. La paziente sembrò vivere la cosa in modo molto doloroso, considerato il forte legame tra sorelle; in aggiunta, i dolori alle gambe rendevano particolarmente penosa la vita della paziente. Ma Elisabeth aveva detto davvero tutta la “verità”? Oppure c’era qualcosa che giaceva in qualche parte remota della sua mente? O, ancora, qualcosa che sapeva bene, ma aveva molta resistenza ad ammettere? Freud si affida alla tecnica delle libere associazioni, introducendo, laddove gli sembra di percepire una certa resistenza alla libera comunicazione, la cosiddetta pressure technique (Breuer e Freud, 1892– 1895, p. 299). Convinto che la paziente si fermi di fronte a certi ricordi, la tocca sul capo con entrambe le mani, come a dare un segnale concreto di massimo sforzo mnemonico11. Si trattava, in altre parole, di superare non tanto un tipo di difesa che 11
Si tratta, è evidente, di un “residuo” delle tecniche ipnotiche, che Freud aveva probabilmente osservato a Parigi e legate alla forza della suggestione.
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cominciava ad essere nota (la rimozione), quanto quella più legata alla parte conscia della paziente che Freud descriverà come resistenza (al comunicare). Cosa passava dunque per la mente di Elisabeth? Che cosa rendeva così difficile la sua comunicazione? La sorella di Elisabeth ha un improvviso e ulteriore peggioramento e muore mentre Elisabeth è con la madre fuori Vienna. Elisabeth si trova così davanti al capezzale dell’amata sorella ormai morta: davanti al letto, vedevano la morta; e in quell’istante dell’orrenda certezza che la sorella amata fosse morta senza prendere congedo da loro, senza avere i suoi ultimi giorni confortati dalle loro cure [...] in quell’istante dunque era sfrecciato attraverso il cervello di Elisabeth un altro pensiero, che ora si ripresentava inevitabilmente, come un lampo nell’oscurità: “Adesso egli è nuovamente libero, e io posso diventare sua moglie” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 309)
Quello che la paziente non ammetteva era dunque un desiderio amoroso nei confronti del cognato. Il conflitto tra tale desiderio e la sua inammissibilità, a partire soprattutto dal rapporto tra le due sorelle, è tale da generare nella paziente uno stato d’angoscia, che prende la via somatica attraverso il meccanismo difensivo della conversione. Tale stato si accentua nel momento in cui il desiderio può essere in qualche modo realizzato, con aggravamento sintomatologico. È molto probabile che l’amore per il cognato costituisca per Elisabeth una condizione emotiva che riattiva un investimento, mai superato, verso la figura del padre: qualcosa di simile, anche se con attori diversi, è avvenuto nel caso di Anna O. e avverrà nel caso di Dora. Freud stesso ci informa che, di comune accordo, il trattamento di Elisabeth si concluse di lì a poco, benché l’abreazione dei sentimenti di tenerezza trattenuti non fosse stata effettuata in modo completo (Freud e Breuer, 1892–1895). Seguì un improvviso peggioramento, comunicato con preoccupazione a Freud dalla madre della paziente, cui è però attribuita un’eccessiva intromissione nelle faccende della figlia. Il padre della psicoanalisi rimase comunque fiducioso; né, d’altra parte, la paziente avrebbe voluto rivederlo. Due mesi dopo, lo stesso collega che gliela aveva inviata lo informò sulle buone condizioni di Elisabeth, cosa che gli confermò anche successivamente. Elisabeth si sposò “per propria inclinazione, con un estraneo” (Freud e Breuer, 1892–1895, p. 313). Una ventina d’anni più tardi, Freud descriverà in modo mirabile la tecnica delle libere associazioni, uno dei pilastri dell’intero corpus tecnico della psicoanalisi (la cosiddetta regola aurea), qui abbozzata a partire da esigenze squisitamente cliniche. Così il padre della psicoanalisi si esprime in Introduzione alla psicoanalisi (Parte terza: Teoria generale delle nevrosi. Lezione 19: Resistenza e rimozione): Imponiamo all’ammalato di mettersi in uno stato di tranquilla auto-osservazione, di non darsi pensiero di nulla, e di riferire tutte le percezioni interiori che può avere in tal modo: sentimenti, pensieri, ricordi, nella successione in cui affiorano in lui. Nello stesso tempo lo mettiamo espressamente in guardia dal cedere a un qualsiasi motivo
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che possa indurlo a operare una scelta o un’esclusione tra ciò che gli passa per la mente, con la scusa che “è troppo sgradevole o indiscreto per dirlo”, ovvero “è irrilevante, non c’entra, oppure non ha senso, non c’è bisogno di dirlo”. Gli raccomandiamo vivamente di seguire sempre soltanto la superficie della sua coscienza, di tralasciare ogni critica, qualsiasi essa sia, contro ciò che trova, e gli confidiamo che il successo del trattamento, ma soprattutto la sua durata, dipende dalla scrupolosità con la quale egli osserverà questa regola tecnica fondamentale dell’analisi (Freud, 1915–1917, p. 448)
Sarà poi l’analista che tirerà dei fili che collegano tra loro le associazioni che il paziente porta spontaneamente. Più il paziente presenta resistenza a seguire la regola delle libere associazioni, più il trattamento è in difficoltà: l’analista è, infatti, impossibilitato a entrare rapidamente in contatto e a conoscenza di parti probabilmente all’origine del disagio o del sintomo del paziente.
4.3.4
Scritto teorico di Breuer
Piuttosto trascurato nel passato, lo scritto teorico di Breuer è stato giustamente rivalutato in tempi recenti: sebbene infatti in queste riflessioni si senta, molto di più che in quelle di Freud, l’ancoraggio con il passato, in particolare con il metodo catartico, esse sono tuttavia scritte con grande spirito scientifico. Lo si osserva fin dall’inizio, laddove nel paragrafo “I fenomeni isterici sono tutti ideogeni?” Breuer precisa che il termine di meccanismo psichico dei “fenomeni isterici”, non dell’“isteria” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 354), utilizzato fin dalla “Comunicazione preliminare”, sottolinea l’intenzione di non pretendere il raggiungimento di una validità illimitata dal punto di vista esplicativo. Non solo, ma Breuer poco oltre fa una notazione di metodo significativa, affermando che l’isteria è “un quadro clinico trovato empiricamente, proveniente dall’osservazione, esattamente come la tisi polmonare tubercolosa” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 355). In contrapposizione a Moebius, Breuer propone una visione “unitaria” dell’isteria: non è cioè possibile distinguere quanto un determinato sintomo (per esempio, un arrossamento o un eritema sul collo di una persona) sia da attribuire a una rappresentazione sottostante e quanto a uno stato di irritazione/eccitazione della cute, attribuendo solo alla prima delle due eziologie carattere isterico. Più prudenzialmente di Moebius, Breuer così si esprime: “Moltissimi dei fenomeni isterici, probabilmente più di quanti attualmente sappiamo, sono ideogeni” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 358), ma non tutti. Di certo, ciò che accomuna entrambi i casi sopra accennati è una “anormale eccitabilità del sistema nervoso” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 358). Breuer prosegue approfondendo un’ipotesi di tipo neurofisiologico, che era già stata formulata da Freud nel Progetto e in una lettera a Fliess: essa prevede che, all’interno della psiche, uno stesso apparato non possa gestire contemporaneamente percezioni stimolanti ed eccitatorie provenienti dall’esterno e memoria rappresentativa dell’evento percepito. Occorre, al contrario, ipotizzare due apparati distinti, poiché mentre il primo tende a ristabilire una condizione “di base” (restitutio in statum quo
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ante), l’altro deve presupporre delle modificazioni permanenti al suo interno legate al mantenimento della traccia mnestica (cfr. Progetto e sistema neuronale ψ). Approfondendo il funzionamento probabile di entrambi, riusciamo a capire come si formi il sintomo isterico e in cosa consiste la conversione isterica. Si tratta comunque – osserva Breuer – di un fenomeno sovradeterminato, ossia, come osserverà anche Freud, occorre la concomitanza di più fattori perché si sviluppi una vera e propria isteria. La conversione isterica si determinerebbe nel momento in cui la tensione psichica, presente all’interno della mente del paziente, diventi in grado di danneggiare il circuito che la contiene: come in un impianto elettrico che, in alcuni punti, presenti fili non adatti alla carica elettrica in transito o che corrano il rischio di entrare in contatto tra loro. È lì che avrebbe luogo una “facilitazione” anormale (Freud e Breuer, 1892–1895, p. 351) e lo sviluppo del sintomo. Breuer si sofferma poi sui cosiddetti “stati ipnoidi”: si tratterebbe di particolari stati mentali, causati artificialmente da un ipnotizzatore, ma anche naturalmente da scosse emotive o da particolari condizioni neurofisiologiche (per esempio, l’insonnia), nei quali avverrebbero con più facilità quei fenomeni di “scissione” della psiche (o della coscienza) alla base dello sviluppo dell’isteria. La suddivisione tra rappresentazioni psichiche ammissibili alla coscienza e rappresentazioni psichiche inammissibili alla stessa non fa riferimento a una divisione della coscienza, bensì della psiche. La distinzione proposta da Breuer non è di poco conto, soprattutto poiché marca la distanza da Janet: La scissione della coscienza non si verifica perché i malati siano frenastenici [come per Janet, NdA]; al contrario, i malati sembrano frenastenici perché la loro attività psichica è divisa e solo una parte della sua capacità di prestazione è disponibile per il pensiero cosciente. Non possiamo considerare la debolezza mentale come typus hystericus, cioè come l’essenza della disposizione all’isteria (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 375)
Nell’ultima parte del suo saggio, Breuer cerca di mettere a fuoco le possibili cause ultime dello sviluppo dell’isteria: lo studioso sembra cercare di coniugare peculiarità dell’intero sistema nervoso (ad esempio, una forte eccitabilità degli organi di senso) con elementi ideogeni, psichicamente determinati (ad esempio, rappresentazioni mentali di eventi spesso a carattere sessuale sentiti come inaccettabili). Insiste, infine, sul ruolo che la tendenza all’autoipnosi o allo sviluppo di stati ipnoidi ha nei casi più gravi di isteria. Un’ipotesi questa che, insieme a quella della valenza sessuale del trauma, contribuì ad allontanare Breuer da Freud.
4.3.5
Scritto teorico di Freud
Lo scritto di Freud, dal significativo titolo “Per la psicoterapia dell’isteria”, prende le mosse da un’attenta disamina di pregi e difetti del metodo catartico, segnalato nella “Comunicazione preliminare” come il metodo per eccellenza nella cura dell’isteria ed esemplificato in modo sufficientemente ampio nel caso di Anna O. di
4.3 L’isteria: prima sfida per la tecnica psicoanalitica (Studi sull’isteria, 1892–1895)
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Breuer. Le critiche non vengono risparmiate sia rispetto al tipo di psicopatologia cui esso può essere applicato12 (solo i quadri psicopatologici in cui i “meccanismi psichici” abbiano un ruolo eziologico), sia rispetto alla “tenuta” della cura (il metodo catartico è efficace dal punto di vista sintomatico, ma lo è molto meno nell’identificare le cause del disturbo). Molto più efficace e soprattutto estendibile a tutte le pazienti, anche quelle non ipnotizzabili o che lo sono ma conservano nella condizione ipnotica forti limiti nella ricerca delle cause del loro disturbo, sembra essere un altro metodo, in grado comunque di raggiungere i ricordi patogeni: Freud si sofferma così sul meccanismo della resistenza e sui mezzi per superarla (la pressione sulla fronte o pressure technique), descrivendo dettagliatamente quella che, come si è accennato poc’anzi, è oggi chiamata regola aurea della psicoanalisi. Freud intuisce che, per renderla più efficace, non sono sufficienti la motivazione della paziente o la stimolazione della sua curiosità rispetto a storie passate; occorre anche fare affidamento sul “fattore affettivo” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 420) rappresentato dalla persona del medico (alias psicoanalista). Sta comunque all’abilità di quest’ultimo addentrarsi nell’organizzazione del materiale patogeno: esso, infatti, spesso si presenta in modo nebuloso e il paziente, senza saperlo, ci spinge a seguire dei nessi che in realtà sono falsi e creati appositamente per non raggiungere mai il nucleo da cui tutto è partito. Né, osserva con grande modernità Freud: ci si deve attendere un ricordo traumatico unico e, quale suo nucleo, un’unica rappresentazione patogena, ma ci si devono aspettare una serie di traumi parziali e concatenamenti di processi ideativi patogeni (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 424)
Forse anche per questo Freud mostra di credere poco alla possibilità che esista un’isteria da stato ipnoide: una rappresentazione, accolta in uno stato psichico particolare, diventerebbe patogena per il fatto di essere esclusa fin da subito dall’Io (era l’ipotesi avanzata da Breuer sulla base del caso di Anna O.). Sembra invece convincerlo di più l’esistenza di un’isteria da ritenzione: una rappresentazione diventerebbe patogena poiché l’eccitamento ad essa connesso non è sufficientemente scaricato, abreagito (era l’ipotesi avanzata congiuntamente da Freud e Breuer in un primo tempo). Ma decisamente da preferirsi per Freud è l’entità nosografica di isteria da difesa: una rappresentazione è sentita come insopportabile e come tale viene rimossa; essa, tuttavia, continua a sussistere quale debole traccia mnestica e l’affetto tolto a quella rappresentazione prende la via del corpo attraverso il meccanismo della conversione (è l’intervento della rimozione a rendere patogena la rappresentazione e questa sarà l’ipotesi ritenuta più plausibile da Freud). Prima di concludere il suo saggio, Freud ritorna sul tema del rapporto tra paziente e medico, gettando le basi per un altro elemento fondante la tecnica psicoanalitica: il transfert. Esso è un fenomeno di natura clinica con cui si avrà a che fare in ogni 12
Freud riprende qui la distinzione tra nevrastenia, nevrosi d’angoscia e psiconevrosi (isteria e nevrosi ossessiva).
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4 Le basi del pensiero freudiano
trattamento analitico e può costituire un ostacolo allo stesso in almeno tre modi diversi: 1) può determinare un senso di estraniamento nella paziente rispetto al trattamento, laddove si senta poco stimata o trascurata; 2) può suscitare nella paziente un timore di dipendere eccessivamente dalla figura del curante; 3) può rendere difficile, da parte della paziente, il riconoscimento di ciò che trasferisce per “falso nesso” sulla figura del curante. In altre parole, la paziente sarebbe facilitata nel far riemergere antichi desideri, subito ricacciati nell’inconscio, dalla presenza della figura del curante che, appunto per falso nesso istituito dalla paziente, si troverebbe a rappresentate l’antico oggetto del desiderio. Inizialmente – come osserva Freud – la cosa ci sembra una seccatura, ma ben presto il padre della psicoanalisi ravvisa nella possibilità d’affrontare e risolvere il legame determinato dal transfert una condicio sine qua non del trattamento analitico. Si tratta di effettuare non un puntuale intervento chirurgico, come avveniva con la terapia catartica, ma di mettere in atto una serie di “operazioni psicoterapeutiche” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 439), atte a produrre condizioni “di risanamento migliori per l’ulteriore decorso del processo” (Breuer e Freud, 1892–1895, p. 439).
La nascita della psicoanalisi
5.1
5
L’autoanalisi e la Traumdeutung (1899)
Gli anni che vanno dalla morte del padre, avvenuta il 23 ottobre 1896, alla pubblicazione della Traumdeutung, avvenuta nel 19001, sono caratterizzati da un percorso di profonda riflessione su di sé da parte di Freud. È in questo periodo che ha luogo la cosiddetta autoanalisi di Freud, un percorso intrapreso con grande coraggio e lucidità dal padre della psicoanalisi e unico nel suo genere, dove momenti e vissuti del passato si riconfigurano e si integrano in uno straordinario sforzo ricostruttivo e costruttivo insieme (Anzieu, 1998). Disseminati nella Traumdeutung troviamo così molti riferimenti a episodi della vita di Freud, oltre che ad alcuni suoi sogni. Tra questi ultimi, di grande interesse è quello narrato nel terzo paragrafo del capitolo 6 (Freud, 1899b, pp. 292– 293): esso è noto soprattutto per la frase che Freud dice di vedere in sogno su una “tabella a stampa, un manifesto o un affisso – pressappoco come i cartelli: ‘Vietato fumare’ nelle sale d’aspetto delle ferrovie –” e che egli sintetizza nella formula “Si prega di chiudere gli/un occhi(o)”. Fatto nella notte precedente (o più probabilmente successiva) il funerale del padre2, il sogno è da Freud interpretato attraverso un’associazione che lo porta a ipotizzare che il “chiudere un occhio” si riferisca al suo desiderio di ricevere indulgenza per delle esequie funebri di eccessiva semplicità agli occhi altrui, ma anche alla pietà figliale di chiudere gli occhi al padre defunto. Sottace così l’aspetto più emotivamente conflittuale presente in lui nei confronti del padre e implicito in un agito avvenuto il giorno stesso del funerale, cui Freud arrivò in leggero ritardo per essere stato trattenuto dal barbiere (cfr. lettera citata in nota). In tutto ciò si intravede la futura teoria del complesso edipico, ma anche la sostanziale ambivalenza che caratterizza molte delle relazioni umane (Barale, 1996). 1
2
Die Traumdeutung fu pubblicata in realtà il 4 novembre 1899, ma l’editore, spinto probabilmente da Freud, vi appose la data del 1900. Freud era probabilmente così entusiasta e orgoglioso della sua opera da ritenerla degna di aprire il nuovo secolo. Le aspettative di Freud andarono tuttavia deluse: delle 600 copie stampate della prima edizione, ne furono vendute solo 350, mentre le rimanenti lo furono nei successivi sei anni. È probabilmente a causa di questo scarso iniziale successo che Freud pubblicò un saggio molto più snello e agile sullo stesso argomento dal titolo Il sogno (Freud, 1900). Lo stesso sogno è infatti raccontato a Fliess in una lettera del 2 novembre 1896: in essa il sogno è però attribuito da Freud alla notte dopo il funerale del padre.
O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_5, © Springer-Verlag Italia 2014
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5 La nascita della psicoanalisi
È in una lettera a Fliess del 12 giugno del 1897 che Freud stesso confida il suo malessere all’amico: “Per quanto mi riguarda ho subito una specie di esperienza nevrotica, con strani stati d’animo incomprensibili: pensieri nebbiosi e dubbi velati, con qualche raggio di luce di tanto in tanto” e circa due mesi più tardi: “Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso [...]. Questa analisi è più difficile di ogni altra ed anche la cosa che paralizza la mia capacità di scrivere e di comunicare ciò che finora ho appreso” (Lettera del 14 agosto). Sappiamo che Freud soffrì nel corso della sua vita di disturbi nevrotici, soprattutto di natura ansiosa, e di alcuni stati fobici, in particolare rispetto ai viaggi3; anche il rapporto intrattenuto con alcuni colleghi è testimonianza di una certa conflittualità presente nel padre della psicoanalisi e da lui non sempre ben elaborata. Di quegli anni fu il dissidio con Breuer: la diversità di vedute circa il meccanismo di formazione dell’isteria non sembra sufficiente a giustificare la rottura dell’amicizia, se non addirittura una certa antipatia, da parte di Freud, che pure molto doveva, non solo dal punto di vista scientifico, al collega più anziano e più autorevole in quegli anni di fine secolo rispetto a lui. È quindi ragionevole ipotizzare che la morte del padre abbia riacutizzato aspetti conflittuali, prevalentemente inconsci, presenti in Freud, determinando un certo peggioramento dei sintomi. Certamente Die Traumdeutung, nota in italiano con il titolo L’interpretazione dei sogni, è l’opera di Freud più conosciuta, oltre che più ampia, occupando un intero volume – il terzo – delle opere complete del padre della psicoanalisi. Freud rimase sempre molto legato a quest’opera, che ebbe otto edizioni pubblicate nell’arco di 30 anni (l’ultima è del 1930). Il suo impianto generale restò pressoché invariato nel corso delle varie edizioni: da annotare però la significativa aggiunta riguardante la parte sul simbolismo onirico, presente nel capitolo sesto, forse indirettamente influenzata dal lavoro sull’analogo tema svolto da Carl Gustav Jung, oltre a un completamento delle voci bibliografiche affidato da Freud all’allievo Otto Rank. La testimonianza dell’affetto provato da Freud verso L’interpretazione dei sogni è rintracciabile con evidenza nella “Prefazione” alla terza edizione inglese e americana del 1931, in cui Freud così si esprime su questo suo testo: “Esso contiene, 3
Sono noti e ottimamente descritti da Musatti (1970) questi sintomi presentati da Freud. Una parte importante d’essi è legata all’ambivalenza mostrata da Freud nei confronti di Roma e di una visita alla “città eterna”. Il padre della psicoanalisi era un grande appassionato di cultura classica e dal 1895 al 1898 era venuto per ben quattro volte in Italia, ma – come confida nella lettera del 3 dicembre 1897 a Fliess – mai era riuscito ad andare oltre il Trasimeno. Addurrà improbabili motivi di salute per il mancato viaggio del 1899, mentre nell’anno successivo soggiornerà di nuovo solo nell’Italia settentrionale. Finalmente, nel 1901, in compagnia del fratello Alexander, Freud visiterà Roma, rimanendone in parte deluso. Varie interpretazioni sono state date a questa difficoltà di Freud nel raggiungere Roma: la più suggestiva, suffragata peraltro da alcuni riferimenti successivi di Freud stesso a questi avvenimenti, è che Roma rappresenti la madre e il suo corpo. Scoperti gli elementi del complesso edipico fin dal 1897, a Freud occorsero quattro anni per elaborarli, superando così definitivamente il conflitto con il padre e il sintomo fobico. Non del tutto, però, se Freud stesso ricorderà nel 1936 un episodio di derealizzazione e spersonalizzazione avvenuto nel 1904 sull’Acropoli di Atene, legato ancora probabilmente al desiderio di farsi una posizione migliore del padre e conquistare la madre – Atene, come Roma, poteva ben rappresentare anch’essa una madre di cultura e civiltà dell’antichità.
5.1 L’autoanalisi e la Traumdeutung (1899)
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anche secondo il mio giudizio di oggi, la più valida di tutte le scoperte che io abbia mai avuto la fortuna di fare. Intuizioni come questa capitano, se capitano, una volta sola nella vita” (Freud, 1899b, p. 9). L’interpretazione dei sogni è in effetti un’opera straordinaria per più di un motivo, ma colpisce soprattutto la capacità di Freud di collegare e amalgamare aspetti molto personali della sua vita con ipotesi di grande obiettività scientifica sul funzionamento della mente durante il sonno e il sogno. Questa duplice ispirazione rimanda da un lato all’epistolario con Fliess, particolarmente ricco nel periodo antecedente la stesura della Traumdeutung, dall’altro al Progetto di una psicologia (1895), un’opera che negli intenti di Freud doveva fornire alla psicologia delle basi scientifiche simili a quelle delle scienze naturali, ossia rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali (cfr. capitolo 4). Né va trascurata l’esigenza clinica da cui l’opera trae ispirazione: Freud si era infatti accorto che le sue pazienti, mentre erano in seduta, oltre ad associare liberamente, raccontavano spontaneamente scene oniriche. Un esempio brillante è presente nel caso clinico di Dora: benché pubblicato da Freud nel 1905, la paziente fu infatti seguita nel 1900, quindi in un periodo molto vicino alla stesura della Traumdeutung. Non solo, Freud, in accordo con il parere di alcuni autorevoli neurologi e psichiatri come Griesinger, aveva osservato anche che in alcuni pazienti gravi, in particolare nei pazienti psicotici, le allucinazioni consistevano spesso nell’appagamento di un desiderio. Come sottotitolo alla Traumdeutung Freud pone un motto latino: Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo (Se non posso piegare al mio volere gli dei celesti, mi rivolgerò agli dei infernali). Tratta dal libro VII dell’Eneide di Virgilio, questa citazione riporta le parole di Giunone, che si trova in uno stato d’ira tale da essere disposta anche ad appellarsi agli dei degli Inferi per contrastare l’arrivo di Enea in Lazio. Freud usa questo riferimento letterario per rappresentare la determinazione che i desideri inconsci, sostenuti dalle pulsioni, hanno per manifestarsi nel sogno, nonostante la censura del sognatore cerchi di porre un freno a questi stessi desideri. L’opera è strutturata in sette capitoli, di cui il sesto e settimo, dedicati rispettivamente al lavoro onirico e alla psicologia dei processi onirici, costituiscono da soli circa metà dell’opera e contengono le intuizioni e le ipotesi teoriche più significative, oltre che alcune definizioni di sogno divenute ormai “classiche”4. Più condivisibile è però la suddivisione in tre parti della Traumdeutung proposta da Quinodoz (2004): la prima è costituita dal capitolo 1 (La letteratura scientifica sui problemi del sogno), dedicato a una revisione di quanto pubblicato fino a quegli anni sull’argomento. La seconda va dal capitolo 2 (Il metodo di interpretazione del sogno. Analisi di un sogno campione), che contiene il famoso “Sogno dell’iniezione di Irma”, al capitolo 6 (Il lavoro onirico), dedicato ai meccanismi che sono alla base dello scostamento tra contenuto manifesto e contenuto latente del sogno. La 4
Tra esse si ricordano le seguenti: il sogno come fenomeno tra il fisiologico e lo psicologico; il sogno come “formazione di compromesso” tra contenuto rimosso e istanza rimovente; l’interpretazione del sogno come “la via regia” che porta alla conoscenza dell’inconscio del sognatore.
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terza e ultima parte è costituita dal capitolo 7 (Psicologia del processi onirici), una sorta di saggio, ispirato in parte al Progetto, in cui Freud propone una sua prima concezione dell’apparato psichico e del suo funzionamento. Come si farebbe anche oggi in apertura di un articolo scientifico, Freud parte da una “rassegna della letteratura”: in essa sono presentati alcuni problemi centrali nello studio del sogno. Anzitutto, il rapporto che il sogno ha con lo stato di veglia: l’ipotesi che la mente del sognatore si comporti nel sogno come se la realtà della veglia le fosse estranea si contrappone a quella che ritiene il sogno la continuazione dello stato di veglia. Quest’ultima condizione – sembra far intuire Freud alla fine del capitolo – può essere colta nel momento in cui ci si soffermi a considerare le forti analogie tra quanto avviene negli stati psicopatologici gravi, come quelli psicotici, e nelle produzioni oniriche. Successivamente, Freud rileva che molto del materiale onirico non è ricordato o utilizzato nell’attività psichica dello stato di veglia e proviene direttamente dalla vita infantile; inoltre, osserva ancora Freud, la scelta del materiale riprodotto sembra ricadere non su fatti o eventi importanti, bensì insignificanti. Questo aspetto, unito all’assenza di un filo logico e di una organizzazione razionale, rende i sogni facilmente soggetti alla dimenticanza. Freud prosegue osservando che esistono almeno quattro tipi di stimolo o fonte del sogno: sensoriale esterno, sensoriale interno, corporeo, psichico. Si intravede qui il costante interesse del padre della psicoanalisi sui punti di contatto tra somatico e psichico o sul passaggio dall’uno all’altro. Freud osserva anche che il giudizio morale sui sogni ha spesso determinato una loro scarsa valutazione da parte del sognatore, soprattutto se quest’ultimo mal sopporta un attacco alla sua integrità morale; d’altra parte, ciò fa intuire che il sogno dispone di materiale estraneo alla nostra coscienza o è, perlomeno, portavoce di impulsi estranei ad essa. Infine, un esame della letteratura in merito all’argomento, per quanto dettagliato, non dà risposte univoche rispetto alle funzioni e al livello di attività del sogno: si tratterebbe, per esempio, di un’attività puramente evasiva, di fantasia? Si collocherebbe completamente al di fuori di un possibile intervento dell’Io, cosa che spiegherebbe la percezione di impulsi estranei che a volte rileviamo durante il sogno e nel ricordarlo? E questo dovrebbe autorizzarci a considerarlo un tipo d’attività mentale di scarso o nullo interesse? Freud afferma di apprezzare la posizione di Scherner (1861), secondo il quale il sogno è una libera attività di fantasia, che presenta frequentemente legami con stimoli corporei. Ma si tratta di un punto di vista che non soddisfa Freud, il quale ha in mente per il sogno non solo una concezione teorica rivoluzionaria, ma anche un suo fondamentale utilizzo clinico; il sogno e la sua interpretazione si configureranno, infatti, come uno dei pilastri della tecnica psicoanalitica. Il secondo capitolo si apre con l’importante affermazione che i sogni sono interpretabili. Mi sono proposto di dimostrare la possibilità di interpretare i sogni, e gli eventuali contributi al chiarimento dei problemi onirici sin qui trattati dovranno essere considerati solo come risultati accessori acquisiti nel corso dello svolgimento del compito che mi sono propriamente prefisso. Con la premessa che i sogni sono interpretabili, contraddico immediatamente la teoria onirica dominante, anzi tutte le teorie oniriche
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a eccezione di quella scherneriana [vedi sopra, pp. 86 e segg.], poiché “interpretare un sogno” significa indicare il suo “senso”, costituirlo con qualche cosa che si inserisca come elemento di grande importanza e di pari valore nella concatenazione delle nostre azioni psichiche (Freud, 1899b, p. 99)
Ma come procedere? Freud cita due metodi tra loro diversi: quello basato sui simboli e quello basato sul procedimento di decifrazione. Né l’uno, né l’altro, tuttavia, possono essere utilizzati se si vuole trattare scientificamente l’argomento. Per illustrare il suo metodo interpretativo, Freud espone e analizza a questo punto un suo sogno: il “sogno dell’iniezione di Irma”. Si tratta di un sogno piuttosto complesso, fatto nella notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, che ha Irma, una giovane donna che Freud aveva in cura in quel periodo, come figura dominante. La sera precedente il sogno si era parlato delle condizioni cliniche della paziente, non del tutto soddisfacenti nonostante il trattamento in corso. Le velate critiche fatte a Freud da un giovane collega vengono nel sogno “restituite al mittente” e ogni responsabilità delle poco accettabili condizioni della paziente attribuite a lui. Freud si sofferma con minuzia associativa anche su altri filoni interpretativi che il sogno sembra contenere, ma il suo punto d’arrivo – che costituisce anche una fondamentale definizione del sogno – è il seguente: il sogno è l’appagamento di un desiderio. Nel terzo capitolo della Traumdeutung Freud torna su questa definizione, che in modo più completo potrebbe essere così formulata: il sogno è l’espressione mascherata (allucinatoria) di un desiderio (rimosso) di origine infantile. Si tratta di un modo di funzionare della mente più primitivo (cfr. Processo primario più avanti), per mezzo del quale noi riusciamo – perlomeno nel sogno – a superare le difficoltà, o semplicemente gli inevitabili adattamenti, che la realtà (esterna) ci impone (cfr. Processo secondario più avanti). Citando Fornari (1981), si potrebbe fare riferimento ai sogni delle madri in gravidanza: questa particolare condizione porta talvolta in queste donne sogni in cui già si trovano ad allattare o ad accudire il bambino, bypassando l’evento nascita e ciò che di preoccupante esso porta con sé. O anche a quei sogni nei quali “ci vendichiamo”, come fa Freud, di un affronto che abbiamo subito durante la giornata e che abbiamo ben tollerato, ma di fronte al quale avremmo desiderato comportarci ben diversamente. Freud osserva che sono soprattutto i bambini a “funzionare” in questo modo: essi cioè non hanno necessità di celare il loro desiderio, per quanto possa apparire sconveniente agli occhi di un adulto. Si tratta il più delle volte – osserva ancora Freud – di sogni spesso brevi e semplici, che necessitano non tanto di una vera e propria interpretazione, ma di una semplice “contestualizzazione”, che ci guida facilmente al desiderio frustrato che nella scena onirica trova soddisfacimento. Sogni di questo tipo ci confermano l’origine infantile del materiale onirico, ma ci sono poco utili nel capire i meccanismi che stanno alla base del sogno di un adulto e quindi di un eventuale paziente. È nel capitolo quarto che Freud inizia a darci i primi elementi della sua teoria sul sogno. L’ipotesi avanzata dal padre della psicoanalisi è prettamente dinamica: nella mente, durante il sonno, si fronteggerebbero due forze, delle quali l’una volta a plasmare il desiderio che il sogno cerca di esprimere, l’altra a introdurre una de-
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formazione dello stesso. È un lavoro di “censura”, analogo, si potrebbe dire, a quello effettuato a volte sugli organi di informazione, laddove chi li detiene non voglia che il lettore scopra la totale verità dei fatti. Né ci devono trarre in inganno – osserva acutamente Freud – quei sogni che sembrano tutt’altro che un appagamento di desiderio. Il fatto è che il desiderio che dovrebbe esprimersi nel sogno è a volte così temuto dal sognatore da dare luogo in lui a un controdesiderio, o a una tendenza masochistica o a un sogno d’angoscia nel momento in cui la libido (energia sessuale) non abbia trovato adeguata scarica. Ma quali sono, dunque, le fonti psichiche del sogno e da quale materiale è costituito? Nel quinto capitolo della Traumdeutung Freud si sofferma su questo punto, sottolineando che c’è sempre un legame tra ciò da cui il sogno è costituito ed elementi di origine infantile. Poiché però ciò che abbiamo provato nella nostra infanzia è ritenuto inaccettabile dalla nostra parte adulta, molto spesso tali elementi non sono così immediatamente individuabili. Si pensi, per esempio, al sogno della morte di persone care come un fratello o come uno dei genitori: se c’è indifferenza – sostiene Freud – è probabile che al desiderio di morte ne sia sotteso un altro; se c’è invece effettivo dolore manifestato nel sogno, è verosimile che in quello stesso contenuto siano espressi gli effettivi desideri di morte che in infanzia possono con intensità essere stati provati verso chi sottrae le attenzioni dei genitori o verso il genitore “rivale in amore”. Accanto all’infanzia, è il soma (fonti somatiche), con le sensazioni ad esso connesse, a potersi costituire come fonte del sogno e determinarne il materiale. Un impellente bisogno (desiderio) di far pipì può trovare temporanea soddisfazione nella ricerca di una toilette durante un sogno; o una grande fame può per qualche momento placarsi nel sonno per mezzo di un sogno nel quale il sognatore si trovi a mangiare un gustoso panino. Si possono qui fare due osservazioni: la prima ha a che fare con una delle interessanti definizioni date da Freud del sogno; l’altra con il carattere allucinatorio che il sogno avrebbe. La definizione è quella che considera “il sogno come il custode del sonno” (cfr. anche il saggio del 1900, Il sogno, p. 41 e segg.): Freud ribalta così la comune opinione che considererebbe il sogno come un’attività mentale che disturba il sonno. Il carattere allucinatorio del sogno richiama invece un modo di funzionare della mente arcaico, nel quale la pressione dell’istinto – e quindi del desiderio – può essere tale da far “apparire” gli oggetti anche in loro assenza: qualcosa di simile a quello che può accadere in un deserto in assenza prolungata d’acqua. Qui si intravede anche un leitmotiv dell’opera freudiana, ossia il costante legame tra mente e corpo, tra funzionamento psicologico e funzionamento fisiologico. Nel capitolo sei della Traumdeutung, Freud espone uno dei concetti chiave di questa importante opera: il lavoro onirico. In sostanza, è attraverso esso che il contenuto latente – riconducibile alla parte inconscia del sognatore – sarebbe reso irriconoscibile, trasformandosi in contenuto manifesto. L’artefice di questa trasformazione è un’istanza, la censura, da concepirsi in modo squisitamente dinamico. Non si censurano allo stesso modo tutti i contenuti, ma più il contenuto latente è ingombrante, imbarazzante e difficile da accettare, più la censura agisce per mascherare la manifestazione di questo stesso contenuto. Viceversa, meno il contenuto del desiderio è lontano dalla parte conscia o più è ammesso dal sognatore,
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meno la censura dovrà intervenire a deformare il sogno. La censura determina la cosiddetta deformazione onirica attraverso omissioni, modificazioni, ristrutturazioni del materiale onirico, che costituiscono appunto il lavoro onirico. Nello specifico esso consta di due parti, definite da Freud come elaborazione primaria ed elaborazione secondaria. Come indicato dalla stessa aggettivazione, l’elaborazione primaria interviene immediatamente nella produzione onirica: mentre si sogna il contenuto latente del sogno viene già sottoposto a deformazione. Al momento del risveglio interviene invece l’elaborazione secondaria, determinante nei processi ricostruttivi “a posteriori” del sogno. I meccanismi dell’elaborazione primaria sono quattro: condensazione, spostamento, drammatizzazione e simbolismo. In breve: la condensazione, che ha il suo opposto nella dispersione, descrive un processo mentale per cui un’immagine onirica può condensare in sé diversi significati o desideri inconsci presenti nel sognatore. Al contrario, la dispersione si ha quando un desiderio non è rappresentato in un unico momento della scena onirica, ma è ripetuto o ri-rappresentato in momenti diversi della scena stessa. Alla base di tutto di tutto ciò sta, secondo Freud, la sproporzione tra l’essenzialità e la laconicità del sogno e la ricchezza e l’abbondanza dei pensieri onirici, ossia di quei pensieri che traggono diretta ispirazione dall’enorme serbatoio costituito dall’inconscio. Lo spostamento (d’accento) consiste nel fatto che spesso nei sogni l’elemento principale è quello che risulta meno importante per il sognatore, ovvero è l’elemento che spesso è sommerso da mille altri particolari presenti nel sogno5. In altre parole, il lavoro onirico fa sì che elementi dotati di alto significato psichico perdano il loro valore, mentre altri dal basso valore ne acquisiscano parecchio grazie a un meccanismo di sovradeterminazione. La drammatizzazione è la naturale conseguenza del fatto che, mentre si sogna, non si ha consapevolezza di avere il desiderio per qualcosa; al contrario, tale desiderio è messo in scena. Esso non è espresso a parole, ma trova una sua espressione nell’immagine onirica. Questa “traduzione” sul piano rappresentazionale di un contenuto mentale porta con sé delle inevitabili conseguenze: l’immagine onirica – osserva Freud – non necessariamente ha un richiamo diretto e inequivocabile con il desiderio di cui è portatrice; inoltre, sull’immagine onirica (sul sogno in generale) non si può intervenire con un’opera di mediazione o di mitigamento, tipica della comunicazione verbale, né il sognatore può decidere di interrompere il sogno (il sogno ha una sua vita autonoma) o può far prendere una direzione al sogno (si pensi a quando ci si sveglia e si cerca poi di riaddormentarsi sperando di continuare il sogno interrotto). Infatti, il desiderio prende di solito altre vie per mezzo di scene apparentemente sconnesse con le prime; altre volte, il risveglio che ha determinato l’interruzione del sogno può dare alla censura una maggior forza e impedire il riemergere del desiderio espresso nel sogno interrotto6. Il simbolismo infine fa riferimento all’ipotesi che certi oggetti, meno riconducibili 5
6
Si noti come questo aspetto del sogno abbia un corrispondente anche nell’attività clinica; spesso comunicazioni del paziente del tipo “questo non è importante, ma glielo dico lo stesso” oppure “mi dimenticavo di dirle che...” sono in realtà le più importanti. Non ci si riferisce qui ai sogni d’angoscia e agli incubi veri e propri, su cui ci si soffermerà tra poco.
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al desiderio inconscio espresso nel sogno, possano fungere da rappresentanti di altri oggetti, legati invece più direttamente a quello stesso desiderio7. Il simbolismo, sottolinea Freud, non appartiene in modo esclusivo al sogno, ma piuttosto alla rappresentazione inconscia espressa nei miti, nel folklore, nelle leggende e nei modi di dire di un intero popolo, se non dell’uomo in quanto tale. I più importanti simboli riguardano il corpo e parti del corpo a carattere eminentemente sessuale: ad esempio, oggetti appuntiti, come il bastone, stanno per l’organo sessuale maschile; oggetti che hanno invece una capacità di contenimento, come uno scrigno, rappresentano l’organo sessuale femminile. L’elaborazione secondaria consta invece di due meccanismi: l’assimilazione percettiva e la razionalizzazione mnestica. Essi intervengono immediatamente dopo il risveglio. L’assimilazione percettiva consiste nello sforzo che il sognatore fa di assimilare i contenuti presenti nella scena manifesta del sogno a sue precedenti e personali percezioni di oggetti, scene ed eventi realmente vissuti. Se, ad esempio, il sognatore in una scena onirica si trova su un treno, presumibilmente l’assimilazione percettiva farà pensare a quel treno come a quello che prende abitualmente. Questo, tuttavia, avviene non senza una deformazione: il treno del sogno, infatti, non è proprio lo stesso che si prende abitualmente. La razionalizzazione mnestica è, invece, il processo per cui, mentre si ricostruisce il sogno, si inseriscono inconsapevolmente delle regole logiche, soprattutto a livello di sequenze temporali. Secondo Freud, una delle caratteristiche del sogno è infatti l’atemporalità: non esiste nel sogno un passato, un presente e un futuro. Freud ipotizza così che il sogno sia la manifestazione di una vita mentale diversa da quella conscia e che ha delle proprie regole di sviluppo. Questo richiama, inoltre, un altro concetto fondamentale in Freud: la continuità della vita mentale, per la quale non esiste una scissione netta tra vita da svegli e vita da addormentati, ma la mente funziona in entrambe le condizioni. Cambiano, però, le leggi che ne governano il funzionamento. Freud valorizza la vita notturna e stabilisce una sorta di continuità tra questa e la vita diurna. Nel sogno c’è un desiderio che nella vita cosciente non si ammette e che, invece, è presente nella vita onirica. Come nelle associazioni libere Freud aveva ipotizzato che la paziente Elisabeth fosse a conoscenza del suo desiderio, analogamente il sognatore, o una parte del sognatore, ha ben presente di quale desiderio parli il sogno. Il problema è però che intervengono delle forze che tendono a mascherare e oscurare questo desiderio. La razionalizzazione deforma il sogno e impone sul funzionamento dell’inconscio il funzionamento del conscio: spesso, infatti, i pazienti raccontano un sogno dopo averlo “sistemato”, ovvero dopo averlo reso un po’ più “bello”. Ed eccoci arrivati al settimo e ultimo capitolo (Psicologia dei processi onirici) della Traumdeutung: come accennato in precedenza, si tratta di una parte per così dire a sé stante dell’intera opera, ispirata in parte al Progetto, e in cui Freud getta le basi della sua prima concezione dell’apparato psichico (modello topografico): in questa prospettiva, tale capitolo ha anche una grande rilevanza metapsicologica. 7
Freud dedicherà un’intera lezione in Introduzione alla psicoanalisi al simbolismo nei sogni (Freud, 1915–1917. Parte seconda: Il sogno. Lezione 10), affermando con chiarezza che i sogni sono tali solo quando c’è il lavoro onirico.
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Freud è consapevole della difficoltà di questo passaggio: dobbiamo essere ben convinti che il tratto comodo e piacevole del nostro cammino è dietro di noi [...] d’ora in avanti, dal momento in cui decidiamo di penetrare più a fondo nei processi psichici del sogno, tutti i sentieri sfoceranno nel buio (Freud, 1899b, p. 467)
E poco oltre Freud è esplicito: saremo costretti a enunciare una serie di nuove supposizioni, che sfiorano in via d’ipotesi la struttura dell’apparato psichico e il giuoco delle forze che agiscono in esso; dovremo tuttavia badare a non articolare le nostre ipotesi troppo al di là delle loro prime implicazioni logiche, perché altrimenti la loro validità si vanificherebbe (Freud, 1899b, p. 467, corsivo di chi scrive)
In altre parole, Freud non dubita più del significato che il sogno può avere (esemplare è l’intenso sogno riportato da Freud all’inizio di questo capitolo), ma si propone d’inserire il fenomeno onirico all’interno di una prima visione unitaria della mente. Dopo essersi inizialmente soffermato sul fenomeno dell’oblio dei sogni, riconducendolo perlopiù alla forza della censura, meno intensa durante il sonno, Freud osserva che durante l’interpretazione della veglia, noi seguiamo una via che dagli elementi onirici retrocede fino ai pensieri del sogno. Il lavoro onirico ha seguito la via inversa e non è affatto probabile che queste vie siano praticabili in direzione contraria (Freud, 1899b, p. 486)
Dunque, un compito arduo; ma, sottolinea Freud, è necessario tentare l’inserimento dell’attività onirica nel contesto della vita psichica. Inoltre, occorre non cadere nella tentazione, osserva ancora Freud, di determinare in senso anatomico la località psichica. Restiamo sul terreno psicologico e ci limitiamo ad aderire all’invito di rappresentarci lo strumento che serve alle attività psichiche pressappoco come un microscopio, un apparecchio fotografico e simili (Freud, 1899b, pp. 489–490)
E poco oltre: Immaginiamo dunque l’apparato psichico come uno strumento composito, alle cui componenti daremo il nome di istanze o, per amor d’evidenza, di sistemi. Ci aspetteremmo che questi sistemi abbiano tra loro un orientamento spaziale costante, all’incirca come i vari sistemi di lenti del telescopio, che si trovano uno di seguito all’altro (Freud, 1899b, p. 490)
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Da qui la dizione di “modello telescopico” della mente, strettamente legato alla cosiddetta prima topica (Preconscio-Conscio-Inconscio). Ma seguiamo passo passo lo straordinario sviluppo del pensiero freudiano. L’apparato psichico è composto da numerose componenti o parti, definite da Freud “sistemi ψ” già nel Progetto. L’attività psichica che da esse prende avvio ha una direzione: parte da stimoli (interni o esterni) e si instrada in un sistema efferente, cosicché l’eccitazione nervosa parte da un’estremità sensitiva (sistema P) e si scarica nell’estremità opposta, quella motoria (sistema M) (Fig. 5.1). Ora, continua Freud, introduciamo una prima differenziazione all’interno dell’estremità sensitiva a partire dalla constatazione che in ognuno di noi permangono delle “tracce mnestiche”, determinate dall’insieme dei mutamenti permanenti avvenuti negli elementi dei sistemi. Poiché, però, è evidente che lo stesso sistema rimane aperto a ricevere nuovi stimoli, e quindi nuovi possibili mutamenti, occorre pensare a due distinte attività, riconducibili a due differenti sistemi: uno deputato ad accogliere gli stimoli percettivi senza conservare nulla (il Preconscio) e un secondo che traduce l’eccitamento momentaneo del primo in tracce durature (Tmn; Tmn1; Tmn2; ecc.) (l’Inconscio)8 (Fig. 5.2). Questo fa pensare che Freud faccia sua l’ipotesi di una stratificazione dei ricordi – le varie tracce – e che la funzione della “memoria” si riferisca proprio alla possibilità di associare tra loro, per esempio per una coincidenza temporale, differenti tracce mnestiche. Una funzione, quella della memoria, di cui invece il sistema P
Sistema che accoglie le percezioni
Direzione dell’eccitamento nervoso
Sistema che avvia la reazione motoria
L’apparato psichico, costituito di componenti diverse (sistemi ψ) Fig. 5.1 Schema generale dell’apparato psichico (tratto e modificato da Freud, 1899b, p. 491) 8
Nella lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 Freud riporta uno schema generale di funzionamento della mente che si pone tra quello in Figura 5.2 e quello riportato in Figura 5.3; soprattutto, fa già cenno alla tripartizione in sistemi dell’apparato psichico.
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Sistema che avvia la reazione motoria
Direzione dell’eccitamento nervoso
Sistema che accoglie le percezioni Tmn
Tmn1
Tmn2
Tmnn
L’apparato psichico, costituito di componenti diverse (sistemi ψ)
Fig. 5.2 Schema generale dell’apparato psichico (tratto e modificato da Freud, 1899b, p. 492)
sarebbe del tutto privo: solo in questo modo è possibile spiegarsi la varietà delle qualità sensoriali della nostra coscienza9. Freud prosegue osservando che i nostri ricordi, concretamente rappresentati dalle tracce mnestiche sopra descritte, sono di per sé inconsci e sono perlopiù destinati a non diventare coscienti; inoltre, continua ancora Freud, nei “sistemi ψ” memoria e qualità (sensoriale) sembrano escludersi a vicenda, quasi appartenessero a due istanze o sistemi diversi: quando ricordiamo, cioè portiamo alla coscienza un certo evento, è di solito minima la qualità sensoriale che riusciamo a riattivare. Si ritrova qui una distinzione fra due sistemi psichici in grado di spiegare l’esclusione dalla presa di coscienza di determinati contenuti, per esempio quelli appartenenti al contenuto latente del sogno, sottoposti a una severa istanza critica. Trasportando questa contrapposizione tra sistemi all’interno dello schema rappresentato in Figura 5.2, eccoci in grado di dare un nome a tali sistemi psichici. Nelle parole di Freud (Fig. 5.3): Chiamiamo preconscio l’ultimo dei sistemi disposti all’estremità motoria, per indicare che i processi di eccitamento che vi si svolgono possono giungere alla coscienza senza ulteriore impedimento [...]. Chiamiamo inconscio il sistema posto dietro questo, perché non ha accesso alla coscienza se non attraverso il preconscio; nel passaggio il suo processo di eccitamento deve accettare determinate modificazioni (Freud, 1899b, p. 494) 9
Riprendendo l’immagine dello strumento ottico, Freud conferma quanto già affermato da Breuer negli Studi sull’isteria: “lo specchio di un telescopio non può essere, allo stesso tempo, una lastra fotografica” (Freud e Breuer, 1892–1895, p. 336).
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5 Via retrograda dell’eccitamento nervoso nel sogno Sistema che accoglie Accumulo di tracce mnestiche le percezioni
Sistema che avvia Sistema Sistema la reazione inconscio preconscio motoria
L’apparato psichico, costituito di componenti diverse (sistemi ψ) Fig. 5.3 Definizione dei sistemi dell’apparato psichico (tratto e modificato da Freud, 1899b, p.
494)
Come si può constatare con evidenza dalla citazione sopra riportata, Freud definisce i due sistemi psichici a partire dal loro rapporto con la coscienza o sistema C. A questo riguardo, sul finire del capitolo, il padre della psicoanalisi fa alcune osservazioni di estremo interesse e dense di futuri sviluppi. Intenzionalmente e, perché no, anche orgogliosamente, Freud sottolinea che il suo inconscio non coincide con l’inconscio dei filosofi e di Lipps in particolare, poiché esso si presenta come funzione di due sistemi separati e come tale esiste già nella vita psichica normale. Vi sono dunque due tipi di inconscio [...], di cui uno – quello che chiamiamo Inc – è per di più incapace di giungere alla coscienza, mentre l’altro viene da noi chiamato Prec, perché i suoi eccitamenti [...] possono giungere alla coscienza (Freud, 1899b, p. 559)
Quale parte svolga la coscienza è poco dopo chiarito da Freud: “Nient’altro che quella di organo di senso per la percezione di qualità psichiche” (Freud, 1899b, p. 560). Si tratterebbe di un sistema simile, osserva ancora Freud, ai sistemi percettivi P: cioè, eccitabile da parte di qualità psichiche e incapace di conservare la traccia dei mutamenti, cioè senza memoria. Al sistema C affluiscono eccitamenti provenienti sia dal sistema P, sia dall’interno dell’apparato stesso. Ma quale direzione prendono questi eccitamenti durante il sogno? È rispondendo a questa domanda che Freud abbozza alcune prime importanti ipotesi sul funzionamento mentale. Egli ipotizza che nel sogno, che ha luogo in uno stato di sonno (quindi in una condizione a basso consumo energetico), l’eccitamento prenda una via “retrogada” (Fig. 5.3); questo significa che, anziché trasmettersi verso l’estremità motoria, si trasmette verso l’estremità sensitiva, giungendo infine al sistema per-
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cettivo. Si tratta di una direzione che Freud definisce regressiva, in contrapposizione a una direzione progressiva che avrebbe luogo quando il processo psichico procede dall’inconscio. Le relazioni logiche dei pensieri onirici, continua Freud: non sono contenute nei primi sistemi Tmn, ma in altri situati più avanti, e nella regressione sino alle immagini percettive sono costrette a rinunciare alla loro espressione. Nella regressione, la struttura dei pensieri del sogno viene disgregata nella sua materia prima (Freud, 1899b, p. 496)
Infine, la regressione può essere di ordine topico, rispetto allo schema dei sistemi ψ, temporale, rispetto alla presenza di formazioni psichiche più antiche, e/o formale, rispetto a primitivi modi di espressione e di raffigurazione che sostituiscono quelli abituali. Su questi aspetti regressivi del funzionamento della mente del sognatore si appoggia la concezione esposta da Freud del sogno come appagamento di desiderio: ora però il padre della psicoanalisi può essere più preciso e collocare la sede di questo desiderio non solo nell’infanzia, ma anche all’interno di uno dei sistemi psichici proposti, cioè l’Inc. Prima di arrivare alla conclusione di questo denso capitolo della Traumdeutung, Freud ritorna sulla sua ipotesi teorica “forte”, cioè che il sogno sia un appagamento di desiderio, anche laddove abbia contenuto spiacevole o penoso. Il fatto è che tale sensazione è determinata dalla parte conscia (legata all’Io), solitamente in dissidio con quella inconscia. Il ruolo di quest’ultima è determinante, anche rispetto a possibili resti diurni di particolare pregnanza: la forza motrice necessaria al sogno deve essere fornita da un desiderio che là si colloca e che Freud, in un’altra bella immagine che riprenderà nel caso di Dora, ritiene possa essere in grado di fornire il capitale per mezzo del quale sostenere le spese psichiche del sogno. Freud intuisce anche che trarre così “ampie speculazioni psicologiche dall’interpretazione dei sogni” (Freud, 1899b, p. 518) non può non aver rilevanza per altre formazioni psichiche: in particolare, il sistema Inc trova una propria manifestazione non solo nei sogni, ma anche nell’insieme dei sintomi psiconevrotici. Nelle parole di Freud: un sintomo isterico sorge unicamente là dove due appagamenti di desiderio opposti, ciascuno proveniente da un sistema psichico diverso, possono coincidere in un’unica espressione (Freud, 1899b, p. 519)
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a formazioni di compromesso, cioè a “prodotti” psichici che cercano una modalità d’accordo tra sistema psichico Inc e Io. Laddove questo compromesso fallisca, il sogno perde una delle sue funzioni principali – essere il custode del sonno – e ha luogo il risveglio del sognatore; a volte, si arriva alla determinazione di veri e propri stati d’angoscia come quelli che abitualmente chiamiamo incubi. La loro spiegazione sta nel fatto che – osserva
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Freud – il desiderio appartiene a un sistema, l’Inc, mentre il sistema Prec ha rifiutato e represso questo desiderio. E in una nota aggiunta nell’edizione del 1919 Freud conferma questa ipotesi sostenendo che il sognatore intrattiene coi propri desideri un rapporto del tutto speciale. Li rigetta, li censura, in breve non li vuole. Un loro appagamento può quindi non arrecargli alcun piacere, bensì soltanto il contrario del piacere (Freud, 1899b, p. 530)
Ci troviamo dunque di fronte a due diverse modalità di funzionamento della mente: Dobbiamo dunque ammettere che alla formazione del sogno partecipano due tipi di processi psichici, di natura diversa; uno crea pensieri onirici perfettamente corretti, equivalenti al pensiero normale; l’altro procede con essi in modo assai strano, scorretto (Freud, 1899b, p. 544)
Ciascun tipo di questi processi psichici si ricollega a uno specifico sistema: il processo primario al sistema psichico Inc, il processo secondario al sistema psichico Prec. Freud precisa che questa distinzione non ha a che fare né con la loro importanza, né con la loro capacità di prestazione, ma semplicemente con una scansione temporale: i processi primari sarebbero presenti fin dall’inizio della vita psichica e verrebbero inibiti e ricoperti da quelli secondari nel corso dello sviluppo dell’individuo. Tuttavia, i moti di desiderio legati ai processi primari non possono essere distrutti: la differenza consisterebbe nel fatto che tali moti, esprimendosi in età non più infantile, non provocherebbero più uno stato affettivo di piacere, bensì di dispiacere. Freud sottolinea che è “appunto questa trasformazione dello stato affettivo che costituisce l’essenza di ciò che definiamo ‘rimozione’” (Freud, 1899b, p. 550). I contenuti rimossi sono ascrivibili alla vita infantile, sono solitamente a sfondo sessuale e vengono mal tollerati nel caso si presentino nella vita adulta; laddove essi assumano particolare forza, si può arrivare allo sviluppo di sintomi psiconevrotici. In quest’ultimo caso, la mente tenderebbe ad allontanarsi dal principio di piacere o, se si preferisce, ad avvicinarsi al principio di dispiacere, esistendo una sorta di incompatibilità tra i contenuti dei due sistemi psichici. Testimonianza del lavoro psichico che si rende necessario per inibire i processi primari è l’effetto comico che si determina nel momento in cui consentiamo loro di penetrare alla coscienza10. D’altra parte, “il sogno ci dimostra che il materiale represso continua a sussistere anche nell’uomo normale e rimane capace di prestazioni psichiche” (Freud, 1899b, p. 553). Questa fondamentale opera di Freud si conclude con una ripresa di alcune questioni fondamentali su inconscio, coscienza e realtà. Riprendendo l’immagine della mente come strumento ottico, Freud precisa che: 10 A
questa tematica Freud dedicherà Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio del 1905.
5.2 L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora
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Tutto ciò che può divenire oggetto della nostra percezione interna è virtuale, come l’immagine nel telescopio data dal passaggio dei raggi luminosi. Ma i sistemi [...] siamo autorizzati a considerarli alla stregua delle lenti del telescopio, che proiettano l’immagine. Insistendo in questo paragone, la censura tra due sistemi corrisponderebbe alla rifrazione dei raggi, nel passaggio in un nuovo mezzo (Freud, 1899b, p. 556)
L’obiettivo ultimo di Freud è però mostrare che rappresentazioni, pensieri e, in generale, qualunque formazione psichica non possono di fatto essere localizzati in elementi organici del sistema nervoso; bensì si muovono tra di essi. Centrale nel funzionamento della mente è il processo psichico inconscio e ciò cui esso dà luogo. Ancora Freud: L’inconscio è il cerchio maggiore, che racchiude in sé quello minore del conscio [...]. L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, altrettanto sconosciuto nella sua natura più intima quanto lo è la realtà del mondo esterno, e a noi presentato dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalla indicazione dei nostri organi di senso (Freud, 1899b, p. 557)
Se teniamo in conto i processi psichici inconsci, il contrasto tra vita conscia e sogno da più parti evidenziato viene meno. Né il sogno deve essere inteso come prodotto di una potenza psichica estranea rispetto ad altre più familiari: esso non è altro che una forma espressiva di impulsi, sui quali agisce nella stato di veglia la resistenza e che di notte fa agio su rinforzi provenienti da fonti di desiderio profonde. Freud ripropone qui la distinzione tra due tipi di inconscio: il primo è l’Inc propriamente detto, i cui contenuti non possono giungere alla coscienza; l’altro è il Prec, i cui eccitamenti (perlopiù di natura sensoriale) possono invece giungere alla coscienza. Il sistema Prec sta come uno schermo tra il sistema Inc e la coscienza. Dopo aver mostrato scetticismo nei confronti di altre distinzioni proposte in ambito letterario e filosofico (per esempio, quella tra coscienza superiore e coscienza inferiore), Freud, attraverso alcune vignette cliniche, mostra come il fine ultimo dello studio del sogno risieda nel contributo che esso può dare alla comprensione delle psiconevrosi e che la miglior cosa sia “mettere i sogni in libertà” (Freud, 1899b, p. 564).
5.2
L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora
Il titolo pensato in origine da Freud per questo caso clinico era Sogni e Isteria. La tiepida accoglienza data alla Traumdeutung spinse infatti il padre della psicoanalisi da un lato a una sintesi teorica nel breve saggio Il sogno (1900), dall’altro a mostrare l’utilità clinica dell’utilizzo del sogno attraverso un caso clinico. I due sogni in
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esso riportati sono la prima testimonianza dell’intuizione freudiana che vede il sogno come “via regia all’inconscio”, benché sia piuttosto evidente il tentativo che Freud fa di “modellare” l’interpretazione degli stessi sulla base di una sua precisa ipotesi teorica rispetto all’eziologia dell’isteria. Ciò non ci deve spingere a sminuire lo sforzo fatto da Freud in quegli anni: come egli stesso afferma nell’introduzione non era affatto semplice pubblicare un caso clinico che toccava argomenti così privati e, per certi aspetti, scabrosi. Il caso clinico di Dora è un frammento di analisi, poiché la giovane paziente decise di sua volontà di interrompere il trattamento dopo soli 3 mesi. Dora nasce nel 1882; i suoi problemi di salute iniziano già a otto anni quando si presentano alcune difficoltà respiratorie (dispnea). A dodici anni compaiono tosse nervosa ed emicranie. A sedici anni spariscono le emicranie, mentre perdura la tosse e ad essa si aggiungono anche svenimenti, depressione, alterazione del carattere, irritabilità verso i genitori e taedium vitae. In una lettera scoperta per caso dal padre, Dora manifesta anche intenzioni suicidarie: si creano così le condizioni perché Dora venga “accompagnata” da Freud e “convinta” a iniziare un trattamento. Si tratta, nonostante tutte le giustificate preoccupazioni del caso, di un’evidente forzatura: la scarsa motivazione al trattamento colluderà ben presto con il desiderio di Freud di trovare anche in questo caso clinico una conferma della sua teoria sull’origine traumatica a sfondo sessuale dell’isteria. La diagnosi proposta da Freud è di petite histérie, ossia una forma di isteria nella quale le manifestazioni sintomatologiche non presentano quegli eccessi propri delle forme più gravi. Indubbiamente la famiglia di Dora occupa, nell’evolversi del suo disturbo, un ruolo importante: benché a ragione si faccia spesso riferimento alla pulsione e alla sue spinte alla gratificazione per sintetizzare il punto di vista di Freud, in questo caso clinico il padre della psicoanalisi mostra una capacità osservativa ammirevole del contesto, permettendoci così una visione più integrata delle dinamiche psicopatologiche. Il padre di Dora rappresenta la figura dominante, sia per carattere che per intelligenza. Le sue condizioni economiche erano piuttosto agiate, ma la sua vita non fu comunque serena, soprattutto per una certa precarietà delle sue condizioni di salute: a causa d’esse, Dora si trovò nella condizione di prendersi cura del padre, sentendosi spesso come l’unica in grado di farlo, ma dando vita in questo modo a un legame in qualche modo “morboso” con lui. Furono proprio le condizioni di salute del padre a costringere tutta la famiglia a trasferirsi in una città, da Freud chiamata B, dove soggiornavano abitualmente anche i signori K. La madre è presentata come una donna mediocre, poco attenta ai problemi della famiglia e affetta da quella che Freud chiamò “sindrome della massaia”. Infatti, le sue attenzioni erano più rivolte alle faccende domestiche che ai figli e al marito. Il fratello, maggiore di un anno e mezzo, è il modello che Dora si sforzò di imitare fin dall’infanzia. Negli ultimi anni, però, il loro rapporto si era complicato: lui cercava di tenersi lontano dalle dispute familiari, ma qualora fosse stato obbligato a prendere una posizione, tendeva a schierarsi a favore della madre (tratto che lo distingueva da Dora, la quale invece prediligeva la figura paterna). L’amicizia tra la famiglia di Dora e quella dei signori K diede luogo a due
5.2 L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora
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legami di grande importanza per lo sviluppo del disturbo di Dora: quello di suo padre con la signora K e quello di Dora con il signor K. Nello stesso tempo, si strutturò un legame particolare anche tra Dora e la signora K: quest’ultima affidava volentieri a Dora i suoi due figli e Dora diventerà spesso la confidente della signora, particolarmente insoddisfatta del marito (Fig. 5.4). Il rapporto tra il signor K e Dora fu da subito improntato a una certa ambiguità: piccoli regali e attenzioni che il signor K aveva per lei erano chiara prova di un suo interessamento nei confronti della giovane ragazza. Freud ritiene che Dora, sotto un aperto rifiuto e perfino una chiara ostilità nei confronti del signor K, abbia nutrito in realtà un segreto interessamento per lui. È la situazione che, come ormai abbiamo imparato a osservare anche negli altri casi trattati, sta alla base dello sviluppo dell’isteria: un desiderio, sostenuto da una forte pulsione, è ritenuto inaccettabile dalla paziente; come tale viene rimosso e “gettato” nell’inconscio. Da lì, tuttavia, mostra la sua forza e il conflitto intrapsichico che ne segue genera angoscia e, di conseguenza, sintomi. Freud cerca di individuare nei racconti di Dora episodi che possano confermare questa sua ipotesi. Si tratta di episodi relativamente recenti, che però riattivano alcuni particolari sentimenti di Dora nei confronti della figura maschile. Un primo episodio importante riguarda un bacio ricevuto dal signor K all’età di quattordici anni. Dora racconta così a Freud che il signor K aveva organizzato con sua moglie e con lei un incontro per vedere una festa religiosa dalle finestre del suo ufficio nella piazza principale di B. Egli, tuttavia, persuase all’ultimo la moglie a restare a casa e mandò via tutti gli impiegati in modo da poter restare solo con Dora. Quando venne il momento di scendere, egli chiese alla ragazza di attenderlo sulla porta
Padre: forte personalità, spesso malato, sensibile
Madre: grezza, interessata alle faccende domestiche
Dora: figlia prediletta del padre; sta dalla parte di quest’ultimo
Figlio: 1 anno e 1/2 più grande: si sottrae ai conflitti familiari; sta dalla parte della madre
Signor K: interessato a Dora
Signora K: molto “vicina” al padre di Dora Due figli: Dora se ne occupa “come una madre”
Fig. 5.4 Schema riassuntivo del contesto psicopatologico. In tratteggiato le “relazioni perico-
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5 La nascita della psicoanalisi
delle scale, mentre chiudeva le persiane. Appena tornò, il signor K attirò improvvisamente Dora a sé e la baciò sulla bocca. Questo evento provocò in Dora una sensazione di disgusto, che la paziente ancora oggi ricorda bene11. Un secondo episodio importante si riferisce a una passeggiata fatta da Dora e dal signor K al lago su cui la località di B. si affaccia. In quell’occasione, il signor K fece a Dora delle proposte amorose che lei raccontò subito alla madre, la quale a sua volta riferì al marito. Il padre raccontò a Freud l’accaduto: era però piuttosto scettico sulla veridicità del racconto di Dora e fu lui stesso a suggerire a Freud che quello della figlia era probabilmente uno dei tanti tentativi messi in atto per attirare la sua attenzione, oltre che per separarlo dalla signora K. È ragionevole ipotizzare che Dora avesse intuito la relazione tra il padre e la signora K, ne soffrisse e tentasse in questo modo di costringere il padre a chiuderla. Freud, con il procedere delle sedute, sembra avere le idee sempre più chiare: Dora non ha mai superato la fase fallica dello sviluppo psicosessuale. Ciò si manifesta in un morboso investimento nei confronti della figura del padre (e conseguente gelosia nei confronti della signora K), che si era poi manifestato anche nei confronti del signor K. In lui Dora cercherebbe non tanto un uomo, quanto il padre che la rifiuta. In aggiunta, Freud ritiene che sia rintracciabile anche un investimento di tipo omosessuale di Dora nei confronti della signora K: si trattava della tipica ammirazione provata da un uomo verso una donna, in quanto la signora K era riuscita in ciò in cui Dora aveva fallito: attirare l’attenzione del padre di Dora. Le sedute si susseguono e Freud sembra farsi un quadro sempre più preciso di che cosa faccia soffrire Dora e dell’origine della sua condizione psicologica. Non è chiaro quanto Freud sia consapevole che, in realtà, l’alleanza terapeutica tra lui e la paziente non è certo solida. Si comprende forse meglio l’utilizzo dei sogni e della loro interpretazione tenendo conto proprio di ciò: quasi Freud abbia voluto dimostrare a Dora che i sogni – quindi il suo inconscio – vanno in una direzione a lei poco gradita, ma corrispondente al suo sentire più profondo. Siamo a circa due mesi dall’inizio del trattamento ed ecco il primo sogno. Freud lo riporta utilizzando le stesse parole della paziente e sembra dargli estrema importanza, dedicandogli la massima attenzione: Dora infatti ritiene contenga una scena a lei nota, sia cioè un sogno ricorrente. In una casa c’è un incendio12 – mi raccontò Dora. Mio padre è in piedi davanti al mio letto e mi sveglia. Mi vesto rapidamente. La mamma vorrebbe ancora salvare il suo scrigno dei gioielli, ma il babbo dice: “Non voglio che io e i miei due bambini bruciamo a causa del tuo scrigno dei gioielli.” Scendiamo in fretta, e appena sono fuori mi sveglio (Freud, 1901b, p. 353)
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Freud ritiene di poter attribuire tale sensazione alla percezione del membro eretto dell’uomo durante il forte abbraccio. “A casa nostra non c’è mai stato, in realtà, un incendio”, mi disse poi Dora rispondendo a una mia domanda. Da notare che nell’originale di Freud i due sogni raccontati da Dora sono scritti in corsivo, probabilmente per sottolinearne l’importanza.
5.2 L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora
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Dora riferisce di aver fatto il sogno per tre notti di seguito a L. (un paese sul lago nei pressi di B. dove accadde la scena con il signor K). Freud invita la ragazza a scomporre il sogno in parti e ad associare. Dora racconta così di una lite tra il padre e la madre rispetto al chiudere a chiave o meno la porta della sala da pranzo durante la notte; il che significava permettere o meno al fratello della paziente di uscire liberamente, non avendo la sua camera un’uscita propria. Rispetto all’incendio, Dora associa il ricordo di un arrivo con il padre a L., mentre infuriava un violento temporale. La casetta era di legno e priva di parafulmine: la paura era quindi del tutto naturale. In cerca di conferme alle proprie ipotesi interpretative, Freud chiede a Dora se il sogno sia stato fatto prima o dopo l’episodio del lago tra lei e il Signor K. Con qualche esitazione, Dora colloca il sogno dopo tale episodio e racconta un’altra circostanza nella quale, dopo aver fatto una gita sempre al lago, si stese sul divano a riposare. Al suo risveglio trovò il signor K in piedi accanto a lei. Dora fece presente che dopo questo fatto si procurò la chiave della camera per evitare che il signor K potesse entrare, ma la chiave sparì; secondo Dora era stato il signor K ad appropriarsene. Freud ritiene di poter interpretare quel “mi vesto rapidamente” come il ripresentarsi nel sogno del proposito presente in Dora di sottrarsi alle insidie del signor K, vestendosi rapidamente e uscendo fuori dalla casa. Il sogno deformerebbe così un desiderio opposto: stare in casa con il signor K. Un’altra catena associativa fa riferimento allo scrigno dei gioielli. Dora riferisce di un regalo fatto dal padre alla madre, ma poco gradito da quest’ultima. Aggiunge che anche lei aveva ricevuto in regalo uno scrigno di gioielli molto costoso dal signor K. Freud, dopo aver precisato che lo scrigno rappresenta simbolicamente l’organo genitale femminile, ritiene che nel sogno ci sia stato un capovolgimento di situazione: un desiderio che si trasforma in un pericolo, tale da richiedere l’intervento del padre. In altre parole, Dora si farebbe salvare dal padre di fronte al desiderio di concedersi al signor K, rappresentato dal padre nel sogno. A suffragare questa ipotesi interpretativa, Freud indica il fatto che Dora stessa gli racconta che a lei il regalo fatto dal padre alla madre sarebbe stato ben gradito. Se poi sostituiamo alla madre la signora K, appare evidente il desiderio rimosso, per celare il quale vi è stata la trasformazione nel contrario degli elementi del sogno: il desiderio presente in Dora di offrire al signor K il suo scrigno, giacché lui le aveva dato in regalo uno scrigno, e, riguardo alla signora K, di dare in dono al marito ciò che quest’ultima gli rifiuta. Proseguendo nell’interpretazione di questa prima parte del sogno, Freud conclude: Il sogno conferma ulteriormente quanto Le avevo già detto prima di questo sogno, ossia che Lei risveglia l’antico amore per Suo padre allo scopo di difendersi dall’amore per il signor K. Ma insomma che cosa provano questi Suoi sforzi? Non soltanto che Lei temeva il signor K, ma anche che Lei temeva ancora di più sé stessa, temeva la Sua tentazione di cedergli. Provano dunque quanto fosse intenso il Suo amore per lui (Freud, 1901b, p. 358)
Prendendo in considerazione l’incendio, e quindi il fuoco, presente nel sogno, si aggiungono altri importanti elementi all’interpretazione del sogno. Sono possibili
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due catene associative: la prima fa riferimento al fuoco come diretto rimando all’amore, al fatto di essere innamorati, di bruciare d’amore; l’altra fa riferimento al suo opposto, l’acqua, che non solo richiama di nuovo l’atto sessuale, ma anche quello che può succedere di notte per cui occorra correre fuori dal letto per evitare disastri. Freud pensa al “disastro” del bagnare il letto da piccoli e al fatto che, per evitare ciò, si ricorra al risveglio dei bambini (proprio quello che fa il padre di Dora nel sogno). Ecco l’avvenimento reale che ha facilitato la sostituzione del signor K con il padre e che fa dire a Freud che Dora abbia sofferto di incontinenza notturna. Come avvenuto rispetto alla collocazione dell’episodio del lago, Dora ha qualche esitazione, ma poi accetta quanto sostenuto da Freud. L’interpretazione del sogno soddisfa Freud, forse un po’ meno Dora. Il giorno dopo, Dora aggiunge ancora un particolare: al risveglio dal sogno, ogni volta, aveva sentito odore di fumo. Questo particolare è interpretato da Freud come espressione del desiderio di un bacio da parte di un fumatore (il signor K lo era) e come un chiaro richiamo alla scena del lago. Il padre della psicoanalisi però fa anche un riferimento a sé e a una frase che era solito ripetere: “Dove c’è fumo c’è fuoco”. A questo punto, egli avanza l’ipotesi che sia plausibile anche una traslazione13 su di lui, essendo anch’egli un fumatore. Poche settimane dopo, Dora fa il secondo sogno: Mi aggiro per una città che non conosco, vedo strade e piazze che non mi sono familiari. Giungo, poi, in una casa dove abito, vado nella mia camera e trovo lì una lettera della mamma. Mi scrive che poiché sono fuori di casa all’insaputa dei genitori, non aveva voluto scrivermi che il babbo era malato: “adesso è morto e, se vuoi, puoi venire”. Allora vado alla stazione e domando un centinaio di volte: “Dov’è la stazione?”. Ricevo sempre la risposta: “A cinque minuti”. Poi vedo davanti a me un fitto bosco in cui mi addentro e mi rivolgo lì a un uomo che incontro. Mi dice: “Altre due ore e mezzo”. Si offre di accompagnarmi. Rifiuto e vado da sola. Vedo la stazione davanti a me e non la posso raggiungere. Qui ho il solito senso d’angoscia che si prova nei sogni quando non si può andare avanti. Poi eccomi a casa; nel frattempo devo aver fatto il viaggio, ma non ne so nulla. Entro nella guardiola del portiere e gli chiedo del nostro appartamento. La cameriera mi apre e risponde: “La mamma e gli altri sono già al cimitero”14 (Freud, 1901b, p. 379)
Seguendo la costituenda tecnica psicoanalitica, Freud invita la paziente a scomporre il sogno in elementi e ad associare su di essi. Il vagare nella città sconosciuta è legato al fatto che, qualche giorno prima, Dora aveva cercato un album con delle foto di una località turistica che era conservato in una scatola; non riuscendo a tro13 14
Il termine traslazione è sinonimo di quello più noto e recente di transfert. Per uniformità con la traduzione qui utilizzata delle opere di Freud, viene comunque utilizzato. Due aggiunte fatte nella seduta successiva: “Mi vedo in modo chiarissimo mentre salgo le scale”, e: “Dopo la sua risposta vado in camera mia, ma niente affatto triste, e comincio a leggere un grosso libro che sta sul mio scrittoio”. Cfr. anche poco oltre nel testo.
5.2 L’uso clinico del sogno. Caso clinico di Dora
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varlo, aveva chiesto alla madre: “Dov’è la scatola?”. Dora racconta anche che l’album le era stato regalato da un giovane che, probabilmente, avrebbe chiesto la sua mano nel momento in cui fosse riuscito a consolidare la sua posizione sociale. Associando ancora, Dora si ricorda di una visita a suo cugino a Dresda. Qui voleva visitare la celebre Pinacoteca e il cugino si era offerto di farle da guida; lei aveva rifiutato ed era andata da sola. Per quanto riguarda la parte del sogno in cui Dora dice: “Domando un centinaio di volte”, la paziente ricorda un episodio della sera prima: il padre aveva chiesto un cognac e lei, non trovando la chiave della dispensa, si era per più volte rivolta alla madre, ma questa non le aveva risposto. Alla fine, Dora aveva ripetuto la domanda, aggiungendo: “Sono cento volte che ti chiedo dov’è la chiave!”. Freud osserva che la domanda “Dov’è la chiave?” sembra il corrispettivo virile dell’altra “Dov’è la scatola?”. Si tratta, cioè, di domande a sfondo chiaramente sessuale. Proseguendo nell’analisi, a Freud sembra ipotizzabile che il contenuto della lettera, che faceva riferimento alla morte del padre, rappresenti una fantasia di vendetta nei confronti di quest’ultimo, che non aveva creduto a quanto la figlia le aveva raccontato sul signor K. E il signor K ricompare attraverso una catena associativa di Dora che porta, ancora una volta, alla scena del lago. Infatti, dopo l’incidente con il signor K, la paziente voleva ritornare a piedi a L. e aveva chiesto a un uomo quanto avrebbe dovuto camminare. La risposta era stata: “Due ore e mezzo”, così come le viene detto nel sogno. Al bosco presente nel sogno Dora associa il fatto che il giorno prima aveva visto un quadro in cui era raffigurata una fitta foresta, sullo sfondo della quale si trovavano delle ninfe (un simbolo a chiaro carattere sessuale). Freud ritiene a questo punto che nel sogno possa celarsi un desiderio di deflorazione, che spaventa e attrae nello stesso tempo Dora. A supporto di questa ipotesi interpretativa, vi è un frammento del sogno inizialmente non ricordato e raccontato da Dora: “va tranquillamente in camera sua dove comincia a leggere un grosso libro che sta sul suo scrittoio” (Freud, 1901b, p. 384). Dora, a questo punto, associa su suo cugino: quando questi si ammalò di appendicite, ella aveva consultato un dizionario medico per informarsi sulla malattia. Freud arriva così a dare un importante significato a un’appendicite presunta di cui Dora aveva sofferto. Chiedendo alla ragazza quanto tempo dopo la scena sul lago si era presentato l’attacco di appendicite, Dora prontamente risponde: “Nove mesi dopo”. Si trattava allora di un sintomo isterico in piena regola, stimolato dall’episodio del lago vissuto con il signor K, capace di dar luogo a una fantasia di gravidanza e di parto. Si potrà osservare a questo punto con facilità che la linea interpretativa di Freud è ben precisa, a tratti quasi “forzata” dal dover avverare le sue ipotesi sull’eziologia dell’isteria15. Ne è soddisfatto, mentre Dora dichiara di non vedere i grandi risultati di cui Freud parla. Freud intuisce il proposito di Dora di interrompere il trattamento: la seduta successiva Dora comunica a Freud che quella sarebbe stata la sua ultima seduta. 15
È bene ricordare che questa “forzatura” non spinge affatto Freud nella direzione di ritenere Dora una ragazzina precocemente incline a pratiche sessuali adulte, ma in quella della ripresentazione, attraverso il conflittuale rapporto con il signor K, di una difficile relazione affettiva con il padre.
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Quale spiegazione dare allo sviluppo di questo trattamento e alla sua preannunciata interruzione? Che cosa Freud aveva colto e che cosa, invece, gli era sfuggito, così da non riuscire a evitare che Dora se ne andasse? Ci si è già soffermati sul fatto che Dora fu accompagnata in analisi dal padre, un fatto questo che cela fin dall’inizio la probabile scarsa motivazione della paziente al trattamento. Ma ci fu dell’altro. Nel poscritto, è Freud stesso a evidenziarlo, affrontando, come mai prima aveva fatto, il tema della transfert. Nelle sue parole: Che cosa sono le traslazioni? Sono riedizioni, copie degli impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante il progresso dell’analisi, in cui però – e questo è il loro carattere peculiare – a una persona della storia precedente viene sostituita la persona del medico. In altri termini, un gran numero di esperienze psichiche precedenti riprendono vita, non però come stato passato, ma come relazione attuale con la persona del medico. Vi sono traslazioni il cui contenuto non differisce in nulla da quello del modello, se si eccettua la sostituzione della persona; queste sono allora, per seguire la metafora, vere e proprie “ristampe” o riedizioni invariate. Altre sono compiute con più arte, subiscono una mitigazione del loro contenuto, una sublimazione, come io la chiamo, e sono persino capaci di divenire consce appoggiandosi su una qualche particolarità reale, abilmente utilizzata, della persona del medico o del suo ambiente. In questo caso non si tratta più di ristampe, ma di rifacimenti (Freud, 1901b, pp. 396–397)
Poco oltre, Freud continua in questo modo: La traslazione, invece, dev’essere intuita dal medico senza l’aiuto del malato, sulla base di piccoli indizi e guardandosi dai giudizi arbitrari. Non va però in alcun caso tralasciata, perché la traslazione viene utilizzata per la formazione di tutti gli ostacoli che rendono il materiale inaccessibile alla cura, e perché solo dopo che è stata sciolta il malato ha la sensazione di essere convinto dell’esattezza dei vari nessi costruiti dall’analisi (Freud, 1901b, p. 397)
In questa fase del pensiero freudiano il transfert è dunque “un requisito necessario” (Freud, 1901b, p. 397) al trattamento, ma assume sfumature ancora piuttosto negative: non potendo essere evitato, deve essere considerato una sorta di prodotto creato dalla malattia e, come si fa con i sintomi, combattuto. Poco oltre, Freud sottolinea come il transfert può diventare il migliore alleato dell’analista, laddove quest’ultimo riesca a coglierlo intuitivamente e a restituirne il senso al paziente. In una nota aggiunta nel 1923, il padre della psicoanalisi rimanda a questo riguardo ai suoi scritti sulla tecnica del 1912–1914. Tornando al caso di Dora, Freud spiega l’interruzione del trattamento di Dora in questo modo: Non riuscii a rendermi tempestivamente padrone della traslazione; la prontezza con cui la paziente mise durante la cura a mia disposizione una parte del materiale pato-
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geno distolse la mia attenzione dai primi segni della traslazione ch’ella andava preparando con un’altra parte di quel materiale, a me ancora ignota (Freud, 1901b, p. 398)
E, poco oltre: La traslazione poté quindi cogliermi alla sprovvista; a causa di un ignoto fattore per cui le ricordavo il signor K, la paziente si vendicò su di me come aveva voluto vendicarsi di lui e mi lasciò come egli stesso, secondo lei, l’aveva ingannata e lasciata. In tal modo ella mise in atto una parte essenziale dei suoi ricordi e delle sue fantasie, invece di riprodurla nella cura (Freud, 1901b, p. 399)
Dunque Freud, da un lato, sembra riconoscere un suo limite nell’applicazione della tecnica psicoanalitica; dall’altro, attribuisce a Dora un acting out, derivante dalla sua incapacità di elaborare in seduta quanto provato verso il signor K. Quello che emerge, in ogni caso, con grande evidenza è la centralità del transfert, come strumento tecnico di cui lo psicoanalista dispone, e la messa in luce della distanza inevitabilmente presente tra quanto avviene in seduta e quanto su esso può essere detto a posteriori. Nell’ultimissima parte del caso clinico, Freud stesso ci informa che ebbe nuove notizie di Dora quindici mesi dopo l’interruzione del trattamento. Fu la paziente a ripresentarsi, apparentemente per chiedere aiuto: in realtà, per informare Freud che aveva rivisto i signori K, facendo loro visita per la prematura morte di uno dei loro due figli. In tale visita aveva affrontato le questioni lasciate “aperte”: la signora K non aveva così negato la sua relazione con il padre di Dora e il signor K era stato da lei indotto ad ammettere la scena del lago, da lui sempre negata. Si era poi ripresentata un’importante afonia, che Dora stessa aveva ricollegato a un forte spavento vissuto per strada: un pedone che veniva investito da una carrozza. Il pedone era il signor K, che, incontratala un giorno per strada, era rimasto come smarrito e attonito, facendosi travolgere! Si era però subito persuasa che il signor K ne era uscito illeso. Da ultimo, l’aveva colta una forte nevralgia al viso e aveva pensato di rivolgersi a Freud. Quest’ultimo interpreta questo dolore come un’autopunizione che Dora si stava infliggendo per lo schiaffo inflitto a suo tempo al signor K e a Freud stesso. Rassicurata dal vedere che il padre della psicoanalisi non nutriva alcun rancore per lei, salutò Freud, il quale chiude il caso dandoci notizia del matrimonio di Dora e richiamando il secondo sogno, nel quale la paziente rifiuta di essere accompagnata da un uomo che richiama simbolicamente il signor K o il padre (o, oggi si potrebbe dire, lo stesso Freud).
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Come funziona l’inconscio
5.3.1
La Psicopatologia della vita quotidiana (1901a)
Già in un duplice scambio epistolare avuto con Fliess nel 1898, Freud si sofferma sulla possibilità di analizzare alcune dimenticanze, apparentemente di poco conto
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e certamente prive di gravi conseguenze, che possono tuttavia avere un significato. Sempre al 1898 risale la pubblicazione di un breve articolo (Freud, 1898) in cui Freud mette in evidenza come, a volte, le nostre capacità attentive, per quanto sorrette da una forte intenzionalità, non riescano a “recuperare” nella memoria un nome proprio e come, al posto di quello cercato, se ne presenti costantemente un altro16. Al 1899 risale invece la pubblicazione di Ricordi di copertura (Freud, 1899a), un altro articolo, più ampio del precedente, in cui il padre della psicoanalisi, celandosi dietro le sembianze di un ipotetico paziente trentottenne di cultura universitaria, riferisce di una propria esperienza per la quale risulta che abbia luogo una sovrapposizione tra episodi appartenenti al passato dell’individuo (generalmente l’infanzia) di scarso significato, ma ben ricordati, e altri episodi molto più significativi, ma rimossi. Ciò è dovuto al progressivo crearsi di uno iato tra evento reale, suo significato psichico e suo ricordo17. La Psicopatologia della vita quotidiana (Freud, 1901a), per quanto, come il lavoro testé citato, ponga al centro implicitamente il tema della memoria e del suo malfunzionamento, si presenta come opera scritta con tutt’altro spirito: il successo e le diverse edizioni in differenti lingue che essa ebbe sono la testimonianza di un proposito soprattutto divulgativo da parte di Freud. L’opera è corposa e consta di 12 capitoli, di cui solo l’ultimo presenta un’attenta riflessione teorica sugli elementi caratterizzanti l’insieme delle “prestazioni difettose” (Fehlleistung) della vita psichica. Nella parte precedente Freud, mettendo a frutto una sua straordinaria capacità osservativa, riporta una gran quantità d’esempi: il che comporta che il criterio seguito dal padre della psicoanalisi non sia qui quello della sistematicità, bensì quello di un progressivo arricchirsi di esperienze a sostegno del punto di vista interpretativo offerto18. Musatti (1977) ne ha tentato una classificazione, riassumibile nello schema riportato nella Tabella 5.1. Ma quale obiettivo di fondo ha quest’opera? Un po’ come accaduto nel caso della Traumdeutung Freud vuole valorizzare fenomeni, ritenuti da molti come semplici eventi dovuti di volta in volta a scarsa attenzione, stanchezza, mancanza di concentrazione, considerandoli invece espressione di forze psichiche di cui il soggetto è solo in parte consapevole. In altre parole, occorre per Freud andare al di là di una spiegazione puramente fisiologica delle microdisfunzioni della vita quotidiana e valutare l’ipotesi che ve ne sia un’altra di tipo psicologico, orientata in senso dinamico. La minor “forza” delle tendenze in gioco rende questo percorso di conoscenza più semplice rispetto a quello che mette la psicoanalisi di fronte al sogno e al sintomo. Ne è prova il fatto che tali tendenze possono essere riconosciute – e ammesse – con più facilità da chi ne è “l’esecutore”. 16 17
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Freud cita poi un esempio preso dalla sua vita, che costituirà l’esemplificazione d’apertura nella Psicopatologia della vita quotidiana. Si può qui solo accennare allo straordinario valore che questa area tematica avrà per lo sviluppo del pensiero di Freud, sia da un punto di vista teorico e personale (cfr. Freud, 1936) che clinico (Freud, 1914c). Né sono da sottovalutare gli studi più recenti sul legame tra memoria, trauma e psicopatologia (cfr. per esempio Williams, 2009). Una trattazione più succinta, e forse più organizzata, del tema affrontato nella Psicopatologia della vita quotidiana è offerta da Freud in Introduzione alla psicoanalisi nelle lezioni 2-3-4 (Freud, 1915–1917).
5.3 Come funziona l’inconscio
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Tabella 5.1 Le disfunzioni momentanee della vita comune (o Fehlleistungen) I lapsus
Le disfunzioni momentanee della memoria
Le disfunzioni momentanee del comportamento
Lapsus verbale Lapsus di lettura Lapsus di ascolto
Oblii di nomi, parole e propositi Ricordi di copertura
Smarrimenti Rottura di oggetti incidentale Piccoli infortuni
La sintesi di quanto avviene nelle situazioni nelle quali la nostra prestazione è “difettosa” è descritta in modo esemplare nella quarta delle lezioni introduttive alla psicoanalisi (Freud, 1915–1917). In essa Freud parla del reciproco disturbo, o interferenza, che ha luogo tra due diverse intenzioni, o tendenze: l’una, quella perturbata, è collegata al comportamento che risulta modificato rispetto all’intenzione originaria; l’altra, quella perturbatrice, costituisce invece ciò che è intervenuto a modificare il comportamento suddetto. Tale interferenza può essere più o meno “pesante”: su questa base, si può pensare a prestazioni nelle quali la tendenza perturbatrice sia più che evidente (ad esempio, un lapsus verbale ripetuto in tempi ravvicinati) e a situazioni nelle quali questa stessa tendenza si esprima in modo spontaneo e non contrastato (ad esempio, il tamburellare su un tavolo un motivo musicale con le dita di una mano). In altre parole, si è di fronte, come nel caso del sogno e del sintomo, a una formazione di compromesso e la prestazione difettosa condensa in sé due tendenze contrapposte. È facile immaginare che la tendenza perturbatrice è per Freud un’ulteriore prova dell’esistenza dell’inconscio, poiché da esso ha origine. In un esempio suggeritogli dal collega Brill di New York, si fa cenno alla rassicurazione che un amico chiede all’analista – lo stesso Brill – rispetto all’efficacia del trattamento su un paziente che gli ha inviato: nella risposta il futuro traduttore americano di Freud dice “durable” anziché “curable” (Freud, 1901a, p. 142), evidenziando l’inconscio bisogno di avere tempo a disposizione per la cura più che quello della certezza della stessa. I moltissimi esempi riportati da Freud hanno tutti uno stesso scopo dimostrativo: “Certe insufficienze delle nostre prestazioni psichiche [...] e certe azioni che appaiono non intenzionali, risultano, se si applica loro il metodo dell’indagine psicoanalitica, come ben motivate e determinate da motivi ignoti alla coscienza” (Freud, 1901a, p. 263). Freud, poco dopo, precisa che i fenomeni compresi nella spiegazione sopra citata devono conservare alcune caratteristiche: essere collocabili “entro l’ambito della normalità” (Freud, 1901a, p. 263, virgolettato in Freud), avere carattere temporaneo e venire spesso spiegati come effetto della disattenzione o del caso. Si intravede qui il sottile confine tra comportamento normale e sintomo, quest’ultimo come possibile espressione di una nevrosi. D’altra parte, un conto è arrivare in ritardo in seduta per un guasto dell’auto o della metropolitana non prevedibile, un altro è essere sempre in ritardo di alcuni minuti. Compito dell’analista sarà quello di interpretare questo ripetuto atto mancato, che diventa appunto sintomo. È infatti importante avviare nel paziente una riflessione/rielaborazione su quanto
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avvenuto e farlo accedere a un’area inconscia, in cui è probabilmente presente una quota d’aggressività nei confronti dell’analista o una quota di resistenza all’analisi, che non trova altra modalità espressiva che quella dell’atto mancato ripetuto. Se dunque è condivisibile una lettura di quest’opera come espressione di un “determinismo psichico” (ogni azione, anche banale, ha infatti una causa ben precisa derivante dall’opera dell’inconscio), criticabile è ritenere che il padre della psicoanalisi non abbia in questo modo anche valorizzato le grandi potenzialità auto-conoscitive derivanti da azioni così apparentemente insignificanti come le microdisfunzioni della vita quotidiana.
5.3.2
Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905b)
Già all’interno della Psicopatologia della vita quotidiana (Freud, 1901a) sono rintracciabili numerosi riferimenti all’altra opera di Freud cui si accennerà ora: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (Freud, 1905b). D’altra parte, si può facilmente constatare che alcuni lapsus possono a volte scatenare risate compiaciute in chi vi assista. Non solo, ma il motto di spirito presenta punti di contatto anche con il sogno, nel momento in cui, come quest’ultimo, è costretto a seguire una via indiretta per esprimere i propri contenuti: “lavoro onirico” e “lavoro dell’attività costruttrice dei motti di spirito” sono dunque molto simili (Aggiunta all’edizione del 1909 della Traumdeutung; Freud, 1899b, p. 276). L’orizzonte entro cui è scritto Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio è quello che pone al centro dell’attenzione il punto di vista dinamico (il rapporto di forza tra i tre sistemi psichici) e conferma una visione del funzionamento mentale basata sul concetto di energia psichica (punto di vista economico). L’eco di opere quali il Progetto di una psicologia (Freud, 1895) o del famoso capitolo settimo della Traumdeutung (Freud, 1899b) è ben percepibile e conferma come il primo modello della mente – punto di vista topografico – sia ormai cosa ben radicata in quegli anni nel pensiero di Freud. L’opera si compone di tre parti – A) Parte analitica. B) Parte sintetica. C) Parte teorica – e fa in apertura il punto sullo “stato dell’arte”: Freud cita, tra gli altri, Theodor Lipps e la sua opera Komik und Humor, che già aveva posto l’accento sugli aspetti inconsci legati al comico. Segue un’ampia parte dedicata alla tecnica del motto di spirito e agli obiettivi da esso sottesi. In particolare, Freud sottolinea che: “In certi casi il motto è fine a sé stesso e non è subordinato ad alcuna intenzione particolare, in altri casi si pone al servizio di un’intenzione siffatta: diventa tendenzioso” (Freud, 1905b, p. 80). Questo secondo tipo di motto – osserva Freud – può essere subordinato sostanzialmente a due tendenze: ostile (al servizio dell’aggressività, della satira e della difesa) o oscena (al servizio della denudazione19). Inoltre, esso richiede generalmente 19
Il riferimento è a quei motti o a quelle battute a sfondo sessuale, il cui carattere è descritto anche con il termine “scurrilità”. “La scurrilità è una sorta di denudazione della persona di sesso diverso verso la quale [la battuta, NdA] è diretta” (Freud, 1905b, p. 87).
5.3 Come funziona l’inconscio
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la presenza di tre persone: “oltre a quella che dice il motto ce n’è una seconda, che viene fatta oggetto dell’aggressione ostile o sessuale, e una terza, nella quale si attua il proposito del motto, quello di produrre piacere” (Freud, 1905b, p. 89). È dunque l’ascoltatore inattivo che ride del motto e ne gode l’effetto di piacere: nel caso di una tendenza oscena tale ascoltatore, inizialmente elemento di disturbo, diventa alleato di chi crea il motto, la battuta, il cui impulso libidico ha trovato un ostacolo nel suo soddisfacimento ricercato nella seconda persona, una donna, verso la quale svilupperà ora un sentimento di ostilità. La situazione non cambia nel caso di una tendenza ostile: Il motto ci permette di sfruttare il lato ridicolo del nemico, che prima non potevamo apertamente e coscientemente rivelare per via degli impedimenti che si frapponevano, e quindi, ancora una volta, aggirerà le limitazioni e schiuderà fonti di piacere divenute inaccessibili (Freud, 1905b, p. 92)
Anche in questo caso l’ascoltatore prenderà facilmente le parti di chi crea il motto contro il nemico, per il piacere che ne trae. Questa sezione dell’opera si conclude osservando che la tendenza ostile del motto tendenzioso trova espressione in altre due caratteristiche circostanze: quando si rivolge contro la propria persona o contro un popolo, un’istituzione di cui la persona fa parte (motto di spirito cinico) e quando è basato sul controsenso. Ma quale è il meccanismo capace di generare piacere all’ascolto di un motto di spirito? La seconda parte di questa opera di Freud – Parte sintetica – è dedicata a mettere in luce questo aspetto. Al di là di possibili differenze determinate dalle diverse tecniche con cui un motto può essere costruito, il padre della psicoanalisi fa sua l’ipotesi di un alleviamento del dispendio psichico in atto o risparmio di quello necessario, nel momento in cui il motto, intervenendo, ci sgrava di molte di quelle costrizioni determinate dall’educazione. Una quota di questa energia liberatasi si trasformerebbe in riso. Il fatto che il motto abbia in qualche modo una valenza “sociale” fa dire a Freud che esso abbia una sorta di duplicità d’intenti: “quelli in vista dei quali avviene la formazione del motto nella prima persona e quelli destinati a garantire al motto il massimo effetto piacevole possibile nella terza persona” (Freud, 1905b, p. 138). La comunicazione del motto a terzi ha, d’altra parte, più di uno scopo: dare la certezza che il lavoro di costruzione del motto è ben riuscito; sommare il mio piacere a quello dell’altro e, se il motto è stato creato da altri, compensare il venir meno della novità. Ne risulta un fenomeno per certi aspetti “in due tempi”: c’è un risparmio di energia in loco nella persona che produce il motto, ma il vero senso di alleviamento – con eventuale scarica – si ha facendo intervenire una terza persona. La terza e ultima parte de Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio – Parte teorica – inizia con il tentativo di individuare significativi elementi di accomunamento tra motto di spirito e sogno: è un’operazione che riesce bene a Freud, permettendogli di giustificare appieno la seconda parte del titolo della sua opera. Benché i due fenomeni si basino su processi mentali differenti, Freud dimostra che
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alcune caratteristiche del lavoro onirico si ritrovano in azione mentre si crea un motto di spirito: in particolare, la condensazione, lo spostamento e la raffigurazione di contenuti di pensiero. Né è da sottovalutare l’utilizzo del contrario, rispetto a quanto si vuole realmente evidenziare, e del controsenso mentre si fa una battuta, modi di funzionare tipici dell’inconscio. Il motto di spirito ci mette dunque di fronte a un modo di funzionare della mente che coinvolge tutti e tre i sistemi psichici. Così Freud sintetizza: Decidiamoci quindi ad adottare l’ipotesi che sia questa l’origine del modo in cui si forma il motto nella prima persona. Un pensiero preconscio viene abbandonato per un momento all’elaborazione inconscia e ciò che ne risulta viene colto immediatamente dalla percezione cosciente (Freud, 1905b, p. 148)
Detto questo, importanti rimangono le differenze tra sogno e motto di spirito: essi prendono forma in sfere diverse della vita psichica e, mentre il sogno può servirsi dei meccanismi che dominano i processi mentali inconsci, fino a produrre una deformazione cui solo il lavoro di interpretazione può far fronte a posteriori, il motto di spirito è “la più sociale di tutte le funzioni psichiche che mirano al profitto di piacere” (Freud, 1905b, p. 160). Infatti, esso si appoggia su un’attività psichica libera da bisogni, contrariamente al sogno che porta con sé il bisogno di gratificare un desiderio di natura inconscia, e il piacere che ne nasce è un “prodotto aggiunto”, che presenta connotazioni sociali. L’ultima ampia sezione di questa terza parte dell’opera è dedicata ad approfondire i rapporti tra motto di spirito e comicità. In modo sintetico, ma incisivo, Freud osserva: “Il motto lo si crea, l’aspetto comico lo si scopre: nelle persone anzitutto, e solo per estensione anche in oggetti, situazioni e simili” (Freud, 1905b, p. 161). E, poco oltre: “Il comico nasce anzitutto come una trovata improvvisa sorta dalle relazioni sociali tra gli uomini” (Freud, 1905b, p. 168) e non necessariamente richiede la presenza di un terzo perché il processo si completi. Il comico, così come l’arguzia e l’umorismo, hanno a che fare con la capacità, attraverso tecniche diverse (l’imitazione, la caricatura, la parodia e così via), di trasformare una situazione in cui qualcuno, diverso da noi, si comporta in un modo molto differente dal nostro, che riteniamo essere il più corretto. Il momento del confronto è centrale e può riguardare non solo l’Io e l’altro, ma anche due modi di essere dell’altro o miei; l’importante è che non ci sia eccessivo investimento affettivo su ciò che dovrebbe generare comicità, poiché, in questo caso, il processo si blocca. Anche in quest’ultima parte dell’opera Freud è prodigo di esempi, ma ciò che egli vuole dimostrare è che, qualunque sfumatura abbia il comico, il piacere che l’apparato psichico ne trae discende sempre e comunque da un risparmio d’energia e dalla possibilità di recuperare uno stato mentale – quello infantile – in cui le varie attività psichiche erano svolte con poco dispendio energetico. Il particolare argomento de Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio – soprattutto il fondamentale ruolo svolto dal linguaggio20 e dalla cultura di appar-
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123
tenenza per la creazione e la fruizione del motto – ne costituiscono anche il suo punto critico: non è forse un caso che lo stesso Freud valorizzò poco questa sua opera, cosicché le edizioni successive alla prima non presentano praticamente integrazioni e aggiunte, né la si trova citata in modo significativo nei suoi scritti autobiografici (per esempio, Freud, 1924b). Forse è lo stesso Freud che ci dà una spiegazione di questo, suggerendo, in più punti di questa stessa opera, che analizzare un motto o una battuta può essere un buon esercizio di comprensione dei processi mentali, ma svilisce la brillantezza della “trovata”.
5.4
La configurazione definitiva del modello topografico
5.4.1
Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (1911)
L’articolo Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (Freud, 1911) fu letto dallo stesso Freud nell’ottobre del 1910 in una seduta della Società psicoanalitica di Vienna. Da uno scambio epistolare con Jung sappiamo che Freud vi stava già lavorando dall’estate e da uno con Ferenczi che l’accoglienza riservata a questo lavoro in quella sede non soddisfò Freud. Di fatto, questo articolo, da lì a qualche mese, sarebbe stato dato alle stampe: esso, pur nella sua brevità, rappresenta un fondamentale punto d’arrivo rispetto a quanto Freud aveva teorizzato in tutto il primo periodo della sua produzione scientifica, in particolare nel Progetto di una psicologia (Freud, 1895) – allora però inedito – e nella Traumdeutung (Freud, 1899b). La riflessione di Freud prende le mosse dal tentativo di chiarire quale tipo di rapporto abbia la realtà, e in generale il mondo reale esterno, con lo sviluppo dell’individuo normale e patologico21. La psicoanalisi suggerisce che il punto di partenza è costituito dai processi psichici inconsci. Essi sono i processi più antichi e primari e obbediscono a una precisa tendenza: “essa può venir indicata come principio di piacere-dispiacere (o più brevemente come principio di piacere)” (Freud, 1911, p. 454). Tali processi hanno come obiettivo il raggiungimento del piacere e l’evitamento di tutto ciò che può provocare dispiacere. È quanto è possibile osservare durante la notte, allorquando, nel tentativo di mantenere lo stato di quiete, soddisfacciamo in modo allucinatorio nel sogno un desiderio/bisogno. È il mancato soddisfacimento atteso e la disillusione che da esso si sviluppa a far sì che l’apparato psichico abbandoni queste posizioni ed entri in contatto con le condizioni che la realtà impone. Questo passaggio comporta l’instaurarsi di un nuovo principio di at20
21
Ad esempio, la parola Witz, presente nel titolo dell’opera, che può indicare tanto la battuta, e il suo contenuto, quanto la capacità di costruirla; o la parola Tendenz, vocabolo utilizzato da Freud sia con riferimento alla disposizione d’animo che al motto. Freud cita, a questo proposito, il nevrotico, che si isolerebbe dalla realtà, trovandola insopportabile, e il paziente che oggi definiremmo psicotico, nel quale può subentrare un distacco dalla realtà, più o meno temporaneo.
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tività psichica, il principio di realtà, che determina un importante cambiamento: non più ciò che è piacevole, ma ciò che è reale viene posto all’attenzione dell’individuo. Le conseguenze di questo passaggio sono sviluppate in otto punti. Anzitutto, Freud osserva che l’impatto della realtà esterna sulla psiche comporta una maggiore importanza degli organi sensori e della coscienza ad essi collegata; non solo, si attiverebbero ulteriori e importanti funzioni quali l’attenzione, la trasformazione in azione degli stimoli o, in alternativa, l’attivazione di un processo di pensiero, nonché la memoria e la capacità di giudicare se un data rappresentazione sia in accordo o no con la realtà; in questi ultimi due casi si è di fronte a uno degli elementi su cui il trattamento analitico si fonda. In secondo luogo, benché il principio di realtà prenda il sopravvento, l’individuo conserva alcune fonti di piacere: in particolare, il fantasticare (un’attività psichica che inizia nell’infanzia e che ha un suo corrispettivo nei sogni ad occhi aperti dell’adulto), per mezzo del quale si rinuncia alla dipendenza dagli oggetti reali. In terzo luogo, Freud osserva che: “Il dissolversi del principio di piacere mediante il principio di realtà [...] non si effettua in realtà in una volta sola e contemporaneamente su tutta la linea” (Freud, 1911, p. 457). In particolare, il padre della psicoanalisi distingue il diverso destino delle pulsioni dell’Io rispetto alle pulsioni sessuali22: queste ultime, infatti, dapprima trovano il loro soddisfacimento attraverso il corpo stesso dell’individuo (autoerotismo); successivamente, il loro soddisfacimento è procrastinato per l’ingresso nel periodo di latenza. “In base a tali condizioni una più stretta relazione si istituisce tra la pulsione sessuale e la fantasia da un lato, e tra le pulsioni dell’Io e l’attività della coscienza dall’altro” (Freud, 1911, p. 457). Proseguendo – quarto punto – occorre considerare che la contrapposizione tra Io-piacere e Io-realtà non porta a un totale sopravvento del secondo sul primo23. Al contrario, è possibile ritenere che questo processo confermi il permanere del principio di piacere, salvaguardandolo: infatti, un piacere momentaneo o incerto può essere abbandonato in vista del conseguimento di un piacere più sicuro (Freud fa l’esempio delle “rinunce terrene” in vista di un premio nell’aldilà). Se l’educazione – quinto punto – può essere considerata “come un incitamento a superare il principio di piacere, e a sostituirlo col principio di realtà” (Freud, 1911, p. 458), l’arte – sesto punto – è uno straordinario modo per arrivare a una conciliazione dei due principi. L’artista è, infatti, un uomo che inizialmente si distacca dalla realtà, dando ampio spazio alla sua fantasia, per poi ritornare alla realtà attraverso i suoi prodotti artistici: gli altri apprezzano questo sforzo, osservando un modo non nevrotico d’affrontare l’insoddisfazione per le rinunce che la realtà impone24. Riprendendo il differente percorso intrapreso da pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali – settimo punto – Freud sottolinea che, se è vero che una disposizione alla 22 23
24
Sulla differenza tra questi due tipi di pulsioni si veda il capitolo 6. In Pulsioni e loro destini, uno dei saggi compresi in Metapsicologia, Freud fa sintesi sui rapporti tra pulsioni, vita psichica e realtà in questo modo: “i moti pulsionali sono soggetti all’influsso delle tre grandi polarità che dominano la vita psichica. Di queste, la polarità ‘attività-passività’ potrebbe esser indicata come polarità biologica, quella ‘Io-mondo esterno’ come polarità reale, e infine quella ‘piacere-dispiacere’ come polarità economica” (Freud, 1915a, p. 35). Freud aveva già affrontato e approfondito questa area tematica ne Il poeta e la fantasia (Freud, 1907b).
5.4 La configurazione definitiva del modello topografico
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futura malattia nevrotica può evincersi dal duplice processo evolutivo che le caratterizza, la scelta della nevrosi dipende dalla specifica fase dell’evoluzione dell’Io e della libido interessata. Il padre della psicoanalisi conclude questo breve, ma importante articolo, con una notazione clinica densa di significato. Succede a volte di sottovalutare le fantasie che i pazienti producono per il fatto che esse non sono qualcosa che appartiene, o è appartenuto, alla realtà: eppure, tali fantasie svolgono un importante ruolo nella formazione dei sintomi: il problema – osserva Freud – è che, a volte, è difficile distinguere ciò che è puro prodotto dell’inconscio (le fantasie, appunto) da ciò che è divenuto inconscio (i ricordi rimossi). In questo modo, l’intreccio tra inconscio e conscio, tra principio di piacere e principio di realtà è riaffermato all’interno di una concezione unitaria della mente.
5.4.2
L’inconscio (in Metapsicologia [1915a])
Nell’introduzione di questo scritto, Freud riprende il concetto di rimozione, descrivendolo come un processo che impedirebbe l’accesso della rappresentazione di un evento nella coscienza. Solo nel lavoro analitico è possibile seguire la traduzione del materiale da inconscio a conscio, consentendo al paziente di superare quelle resistenze che in passato hanno attivato il processo di rimozione. Freud considera l’esistenza dell’inconscio come necessaria e legittima. Necessaria in quanto non è avvalorabile la tesi che ogni atto psichico possa essere cosciente. Esistono atti mentali, come gli atti mancati, i sogni e i sintomi, ma anche le idee improvvise, la cui origine risulta inconoscibile. Solo se collegati con l’esistenza di un inconscio, essi possono essere ricostruiti, rintracciandone gli effetti scaturiti nella sfera cosciente. Legittima in quanto dobbiamo riconoscere che esistano dei processi psichici in contrasto con la nostra coscienza, allo stesso modo in cui ci appaiono inconoscibili gli stati d’animo delle altre persone. Per Freud la capacità percettiva del soggetto, nei confronti degli stati mentali inconsci, può essere paragonata alla capacità percettiva degli organi di senso nei confronti del mondo esterno: vincolata al condizionamento soggettivo da cui non si può prescindere. Pertanto, non è corretto sovrapporre la percezione cosciente con l’oggetto psichico, in quanto esso è inconoscibile all’essere umano, come lo è la sua natura fisica. La stessa pulsione non potrà diventare mai oggetto della coscienza; piuttosto, potrà essere percepita tramite la sua rappresentazione o lo stato affettivo che determina. Freud si chiede se l’atto psichico, ovvero la rappresentazione, giungendo dal sistema Inc al sistema C, subisca una ritrascrizione e se, contemporaneamente, si conservi nel sistema inconscio come originaria. In questo modo potrebbero coesistere due trascrizioni della stessa rappresentazione, nei rispettivi sistemi Inc e C. Nel trattamento analitico, quando l’analista informa il paziente rispetto a una sua rappresentazione rimossa, non cambia lo “stato” rimosso della stessa. Quindi cosa avviene nel processo di rimozione? Sono proprio le rappresentazioni, poste sul confine tra sistema Inc e sistema C,
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5 La nascita della psicoanalisi
ad essere soggette a rimozione. Freud specifica che all’interno della rappresentazione conscia dell’oggetto sono comprese sia la rappresentazione “della cosa” che della “parola corrispondente” (Freud, 1915a, p. 85), mentre la rappresentazione inconscia coincide unicamente con la rappresentazione della cosa. Pertanto, non si tratterebbe di due trascrizioni diverse, presenti contemporaneamente in Inc e C, bensì: ll sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali (Freud, 1915a, p. 85)
Pertanto sono proprio tali sovrainvestimenti a realizzare una più evoluta organizzazione psichica nel sistema Prec. Infatti, con il processo di rimozione la rappresentazione dell’oggetto si scinde affinché la rappresentazione non espressa in parole, della cosa, si conservi nell’Inc, mentre quella verbale proceda nel Prec. Nel trattamento analitico, l’investimento presente a livello verbale tra paziente e analista permetterebbe la ricongiunzione della rappresentazione verbale con l’oggetto perduto. Si delinea in questo senso una comunicazione bidirezionale tra i sistemi: dalle pulsioni, presenti nell’Inc, verso il cosciente; dalle “sollecitazioni esterne” (Freud, 1915a, p. 87), attraverso il sistema C e Prec, fino all’Inc. Oltre alla distinzione, assunta convenzionalmente, tra conscio e inconscio, è opportuno distinguere tra i diversi significati dell’inconscio, in particolare tra gli atti latenti “provvisoriamente inconsci” (Freud, 1915a, p. 55), del tutto simili a quelli consci, e i processi rimossi, diversi per natura da quelli coscienti. Freud ritiene che la consapevolezza (Bewusstheit) costituisca il punto di partenza di ogni possibile indagine a carattere psicoanalitico e distingue i tre sistemi Inc, Prec e C, secondo una concezione dinamica dei processi psichici. Per quanto riguarda la natura affettiva dell’impulso, Freud delinea tre possibili destini: “o l’affetto permane immutato – interamente o in parte – o si trasforma in un ammontare affettivo qualitativamente diverso, soprattutto in angoscia; oppure esso viene represso, e cioè il suo sviluppo è completamente bloccato” (Freud, 1915a, p. 61). Aggiunge Freud che lo scopo della rimozione consiste proprio nel reprimere lo sviluppo affettivo, trattenendo il suo dispiegamento, anche dal punto di vista motorio. Quindi, il sistema C risulta essere controllante l’affettività, dando luogo a una contesa con il sistema Inc. Dal punto di vista economico, la rappresentazione rimossa mantiene il suo investimento nel sistema Inc; tuttavia, il sistema Prec attiverà un controinvestimento per proteggersi dalla rappresentazione inconscia. Qui Freud delinea, dal punto di vista clinico, i possibili esiti del processo di rimozione individuabili nelle tre forme di nevrosi di traslazione rispettivamente dell’isteria d’angoscia, dell’isteria di conversione e della nevrosi ossessiva. Nella prima, come controinvestimento il sistema C creerà una formazione sostitutiva, intorno alla quale sarà posta una barriera così da non creare una nuova situazione di angoscia. In tale costruzione nevrotica, detta fobia, l’angoscia è funzionalmente proiettata su uno stimolo esterno. In questo modo, la rimozione è andata a buon
5.4 La configurazione definitiva del modello topografico
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fine. Nell’isteria di conversione: “l’investimento pulsionale della rappresentazione rimossa si trasforma nell’innervazione del sintomo” (Freud, 1915a, p. 68). Nella nevrosi ossessiva, il controinvestimento si organizza in una formazione reattiva, in cui, tuttavia, l’assenza della scarica provocherebbe un’eccessiva angoscia. Nella parte successiva, Freud delinea i caratteri specifici dei sistemi della prima topica, Inc, C e Prec, così come già descritti nella Traumdeutung (1899b). Freud sottolinea che il sistema Inc intrattiene relazioni continue con gli altri sistemi e soprattutto con l’Io. È messo in evidenza, inoltre, il fatto che la consapevolezza non è il criterio distintivo fra i tre sistemi, nel senso che non tutto ciò che è condiviso dal sistema Prec diventerà C. Nelle parole di Freud: “La verità è che non resta estraneo alla coscienza solo ciò che è psichicamente rimosso, ma anche una parte degli impulsi che dominano il nostro Io [...]. Nella misura in cui vogliamo conquistare la capacità di considerare metapsicologicamente la vita psichica, dobbiamo imparare a emanciparci dall’importanza del sintomo ‘consapevolezza’” (Freud, 1915a, p. 76). Proprio la censura tra Prec e C ci suggerisce che il passaggio alla coscienza non è un puro atto percettivo, bensì un sovrainvestimento, come precedentemente descritto25.
25
Il concetto sarà poi sviluppato in L’Io e l’Es (1922b), dove il nuovo modello strutturale faciliterà la descrizione del funzionamento psichico. Nel trattamento analitico, invitare il paziente a formare delle libere associazioni significa spingerlo a superare le diverse barriere censorie, aprendo la strada al superamento della rimozione.
Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
6
Gli anni che seguirono alla pubblicazione della Traumdeutung (1899b) furono caratterizzati dalla conclusione dell’autoanalisi di Freud e dell’amicizia con W. Fliess (l’ultima lettera indirizzata a quest’ultimo è dell’11 marzo 1902). È difficile comprendere fino in fondo i motivi che allontanarono i due studiosi l’uno dall’altro: certamente un contrasto scientifico, legato da un lato alla teoria di Fliess sui bioritmi, che Freud temeva inficiasse quella psicoanalitica; dall’altro all’ipotesi, formulata sempre da Fliess, di una bisessualità, che affascinò Freud a tal punto che quest’ultimo la “fece propria”. Ma quasi certamente anche una difficoltà personale a elaborare uno stato di reciproca dipendenza. A questo riguardo, è probabile che, terminato il periodo di autoanalisi, Freud volesse “emanciparsi” dall’amico, il quale era sì dotato di ottime intuizioni e vasta cultura, ma presentava anche note caratteriali che potevano rendere difficili i rapporti con i colleghi. A Fliess subentrò così progressivamente il nascente movimento psicoanalitico. Subito dopo la fine dei rapporti epistolari con il collega berlinese, Freud infatti invitò quattro medici viennesi a periodiche riunioni nel suo studio: Max Kahane e Rudolf Reitler, che avevano apprezzato le lezioni tenute da Freud in università e avevano tentato una qualche applicazione della tecnica psicoanalitica; Wilhelm Stekel e Alfred Adler, personalità brillanti che molto aiutarono Freud in questa prima fase di sviluppo del movimento psicoanalitico. Le riunioni si svolgevano il mercoledì, divennero regolari e si costituirono come momento di incontro e di approfondimento della “Società psicologica del mercoledì”. Pochi anni dopo si aggregarono a questo primo e piccolo gruppo altri importanti studiosi: tra gli altri, Paul Federn nel 1903 e Otto Rank nel 1906. Quest’ultimo, nonostante non fosse medico e fosse privo di qualunque formazione accademica, divenne una sorta di “figlio adottivo” per Freud, acquisendo rapidamente una straordinaria cultura e facendosi carico di redigere regolari verbali degli incontri (Nunberg e Federn, 1973): si tratta di documenti di grande interesse, soprattutto per il fatto che, all’interno di queste riunioni, venivano discusse questioni che poi si ha la possibilità di ritrovare, riviste e organizzate, in alcune opere di Freud e non solo. Nel 1908 la “Società psicologica del mercoledì” assunse la denominazione di “Società psicoanalitica di Vienna”: sul suo modello si costituirono le società psicoanalitiche presenti in altre nazioni, unite, dal 1910, nell’“Associazione psicoanalitica internazionale”. Il vero “salto di qualità”, che fece uscire la psicoanalisi dalla ristretta cerchia viennese, avvenne però già nel 1906 grazie a un unico e significativo canale, rappresentato da Eugen Bleuler. Quest’ultimo era uno dei massimi esponenti della O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_6, © Springer-Verlag Italia 2014
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6 Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
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psichiatria di allora e dirigeva una delle più importanti cliniche psichiatriche universitarie del tempo: il Burghölzli di Zurigo. Da subito aveva manifestato interesse per la psicoanalisi – pur conservando sempre una certa ambivalenza nei suoi confronti – e rese noti a Freud alcuni studi a orientamento psicoanalitico che si stavano svolgendo nella sua clinica, seguiti in particolare da due brillanti allievi: Franz Riklin e Carl Gustav Jung. Dopo uno scambio epistolare, quest’ultimo raggiunse Freud a Vienna nel febbraio del 1907; seguirono altri incontri e già nel settembre di quell’anno Jung fondò a Zurigo una Società, analoga quella di Vienna, che chiamò “Società Freud di Zurigo”. Ma da Zurigo arrivarono molti altri studiosi; alcuni portati da Jung, come Ludwig Binswanger; altri direttamente, come Max Eitingon, Ernest Jones e Karl Abraham. Quest’ultimo, trasferitosi a Berlino nel 1908, vi fondò la corrispondente Società psicoanalitica. Jung, inoltre, presentò a Freud Sandor Ferenczi da Budapest e si fece promotore, su suggerimento di Jones, dell’organizzazione a Salisburgo di un primo convegno in cui tutti questi studiosi, ormai provenienti da più nazioni, si potessero incontrare. Fu così indetto il “Convegno di psicologia freudiana”, passato alla storia come Primo Congresso Internazionale di Psicoanalisi. Correva l’anno 1908. La psicoanalisi sembrava così essersi avviata sulla buona strada per diffondersi nel mondo; soprattutto, a Freud fece un’ottima impressione Jung, che per la sua provenienza non ebraica, la sua lunga formazione psichiatrica e il suo inserimento negli ambienti scientifici importanti di quei tempi poteva diventare il più accreditato successore del padre della psicoanalisi. Furono anni, questi, in cui si fondarono le prime riviste psicoanalitiche e in cui si iniziò a parlare della traduzione delle opere di Freud in inglese: l’invito alla Clark University rivolto a Freud nel 1909 da Stanley Hall sembrò una conferma di tutto questo. Ma proprio in quel Primo Congresso Internazionale di Psicoanalisi che sembrava dare l’avvio a un nuovo corso per la psicoanalisi emersero anche i primi contrasti tra i cosiddetti “Viennesi”, più vicini a Freud e da più lunga data suoi collaboratori, e gli “Svizzeri”, ossia il gruppo di studiosi provenienti dal Burghölzli, che vantavano una maggiore notorietà e una più alta posizione accademica. L’aspro contrasto che si ebbe tra Abraham e Jung dopo le rispettive relazioni al Congresso sopra citato ne fu la prova evidente. Freud si prodigò per placare gli animi, ma l’accordo durò poco.
6.1
La sessualità infantile: la teoria
L’ufficializzarsi della psicoanalisi rendeva importante rinsaldare i capisaldi teorici della stessa. Tra questi un posto di assoluta rilevanza era occupato dalla funzione da attribuire al trauma e al suo ruolo nell’eziologia delle psiconevrosi. Risale al 1905 (Freud, 1905c) un breve saggio in cui Freud, per la prima volta dopo alcuni anni, ritorna ufficialmente sull’argomento. Ufficialmente poiché già in una lettera a Fliess del 21 settembre 1897 il padre della psicoanalisi aveva mostrato forti dubbi sulla sua prima ipotesi, presentata solo un anno prima nella Minuta K del 1 gennaio 1896 e soprattutto sostenuta in due pubblicazioni di quello stesso anno (Freud, 1896a; 1896b).
6.1 La sessualità infantile: la teoria
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Si trattava della nota teoria, che certamente risentiva del retaggio clinico francese presente nel giovane Freud, secondo la quale vi sarebbe, all’origine delle psiconevrosi, una situazione traumatica risalente alla prima infanzia e consistente in una sorta di aggressione sessuale subita, nel caso dell’isteria, o esercitata attivamente, in quello della nevrosi ossessiva. Lo stesso Freud si era tuttavia subito chiesto se effettivamente tutti i pazienti e le pazienti da lui trattati avessero realmente subito o agito un evento di natura traumatica a sfondo perlopiù sessuale. La straordinaria intuizione di Freud, forse favorita dall’avvio della sua autoanalisi che gli poneva di fronte eventi della sua stessa infanzia, fu che ciò che è necessario trattare con i pazienti non è tanto l’evento che è avvenuto nel passato, ma anche, e soprattutto, il vissuto che il paziente ha attraversato mentre succedeva quell’evento. A parità di evento, infatti, il vissuto relativo può differire da paziente a paziente. Parafrasando Freud: se gli episodi specifici potevano non essere corrispondenti al vero, le situazioni emotive generatrici di falsi ricordi e le fantasie legate ad essi dovevano esserlo. E l’attivazione di tali falsi ricordi e di tali fantasie era da collegarsi alla presenza, sin dalla prima infanzia, di una sessualità in grado di attivarli spontaneamente. Altro elemento tutt’altro che semplice da sostenere. Dunque, il quadro si complicava e, soprattutto, si trattava di lasciar cadere un’ipotesi “forte”, ma a questo punto insostenibile. Nella lettera del 1897 a Fliess già richiamata poco sopra, la sorpresa, ma anche lo sconforto di Freud, sono evidenti: Caro Wilhelm, eccomi di nuovo qui, da ieri mattina, fresco, di buon umore, un po’ meno ricco, momentaneamente senza lavoro, e per prima cosa scrivo a te, dopo che ci siamo sistemati nell’abitazione. Voglio subito confidarti il grande segreto che ha cominciato lentamente a chiarirsi in me negli ultimi mesi. Non credo più ai miei neurotica [i pazienti nevrotici, NdA]. Probabilmente ciò non si riuscirà a comprendere senza una spiegazione; tu stesso hai già trovato degno di fede ciò che sono riuscito a esporti (Freud, 1887–1904, p. 297)
Il lavoro del 1905 costituisce dunque il punto d’arrivo delle riflessioni condotte da Freud in quegli anni e mette a fuoco alcune distinzioni nosografiche che il padre della psicoanalisi non modificherà più. In particolare, riprendendo il filo storico degli studi clinici sino a quel punto condotti, Freud conferma la distinzione tra le nevrosi attuali e le psiconevrosi. Nelle prime ritroviamo la nevrastenia e la nevrosi d’angoscia: si tratterebbe di quadri psicopatologici di natura organica, prevalentemente ascrivibili a comportamenti sessuali non soddisfacenti, nei quali una carica di eccitamento libidico non defluirebbe in modo completo e soddisfacente. Nelle altre inseriamo l’isteria e la nevrosi ossessiva: su queste ultime è necessario apportare, come sopra si è anticipato, una modifica alla precedente teoria del trauma sessuale infantile come fattore eziopatogenetico. Nelle parole di Freud: “Io sovrastimai la frequenza di tali eventi [seduzioni sessuali, NdA] (che sotto altri riguardi non si prestavano a dubbi), non essendo per giunta ancora in grado a quel tempo di distinguere con sicurezza le illusioni mnestiche degli isterici sulla loro infanzia dalle rievocazioni di fatti reali, mentre ho appreso in seguito che parecchie di queste
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6 Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
fantasie di seduzione si risolvono in tentativi di difesa dal ricordo di una propria attività sessuale (masturbazione da bambino)” (Freud, 1905c, p. 220)
Lo sviluppo di fantasie da parte del paziente si legherebbe dunque al tentativo di coprire tendenze sessuali presenti già in infanzia (cfr. i Tre saggi) e i “traumi sessuali infantili” devono essere sostituiti da un “infantilismo della sessualità” (Freud, 1905c, pp. 220–221). D’altra parte, anche nel caso delle nevrosi attuali sembrò a Freud piuttosto plausibile l’ipotesi che comportamenti sessuali non normali fossero da attribuire a inibizioni o difese nevrotiche nei confronti della sessualità e che, quindi, anche questo gruppo di nevrosi avesse una base psicogena. Tuttavia, forse per non escludere a titolo definitivo una qualche componente organica, Freud non eliminò questa categoria nosografica, anche se lasciò cadere l’idea di una così netta distinzione inizialmente sostenuta. Il ruolo della sessualità costituì, sin dall’inizio, uno degli aspetti più controversi e discussi del pensiero psicoanalitico. Più in generale, tuttavia, il padre della psicoanalisi costruì un modello di sviluppo in cui il concetto di “libido”, e le sue vicissitudini, acquisirono un ruolo di fondamentale importanza. È proprio in questi anni che diventa possibile distinguere nel pensiero freudiano le manifestazioni della sessualità in termini di istinto, pulsione e, appunto, libido1. Al fine di evitare qualunque fraintendimento, è bene chiarire che Freud diede ampio spazio al tema della sessualità non in modo aprioristico o provocatorio, ma sulla base di osservazioni cliniche, raccolte nel corso dei primi trattamenti analitici che ebbe modo di condurre. In altre parole, evidenze tratte dalla storia dei pazienti confermavano a Freud che, per esempio, molti dei desideri di natura inconscia, così come il contenuto latente di molti sogni, rimandavano alla sfera sessuale. È chiaro che si trattava di una visione dell’individuo – e dello sviluppo infantile in particolare – che andava contro una Weltanschauung consolidata, nella quale in particolare l’infanzia era vista come “l’età dell’innocenza”; un’età in cui certi desideri e conflitti non potevano trovare spazio. Così come è altrettanto chiaro che il tema della sessualità suscitava già di per sé una certa eco in un’epoca, come quella vittoriana, in cui si privilegiava, perlomeno a parole, una certa rettitudine nel comportamento sessuale (Fornari, 1989). Oggi a nessuno verrebbe più mente di criticare l’approccio freudiano all’infanzia, nonostante si senta ancora a volte parlare di “pansessualismo” di Freud in proposito; questa maggiore libertà, o a volte assenza di tabù, non ci deve tuttavia far ritenere l’attuale modo di rapportarci al tema sessualità come liberatorio dall’insieme dei conflitti, per esempio quelli ascrivibili al complesso edipico, individuato dal padre della psicoanalisi. Un’ultima considerazione introduttiva riguarda il termine stesso di “sessualità”: in particolare, il significato più esteso che tale termine ha all’interno del pensiero 1
In estrema sintesi: “istinto” (Instinkt) è un termine usato raramente da Freud e indica un comportamento fissato ereditariamente in modo simile in una stessa specie di esseri viventi; “pulsione” (Trieb) è invece utilizzato dal padre della psicoanalisi per sottolineare la spinta, interna all’organismo, verso una certa meta; “libido” sta infine a indicare la forza attraverso la quale l’istinto sessuale si manifesta: in questo caso tale istinto è concepito in modo dinamico e assume carattere qualitativo nel momento in cui connota uno specifico distretto corporeo (ad esempio, “libido orale”).
6.2 I Tre saggi sulla teoria sessuale
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freudiano. Va da sé che la sessualità si manifesta in età infantile in forme differenti rispetto all’età adulta, declinandosi in forme che si pongono al di qua della cosiddetta “genitalità”, cioè del rapporto sessuale adulto, e che possiamo definire pregenitali. L’orizzonte temporale in cui la sessualità si manifesta risulta dunque molto più ampio, sebbene sia opportuno conservare una distinzione tra età infantile ed età adulta. In questa prospettiva, potrebbe essere di chiarimento distinguere tra sessualità adulta e sensualità infantile: se nella prima a essere la sede della maggiore eccitazione sono gli organi genitali, nell’altra l’eccitazione può riguardare uno o più organi di senso (per esempio, l’attivazione eccessiva provata anche da bambini piccoli per troppo “maneggiamento”). Quanto detto fa intendere l’altro modo con cui è possibile estendere il significato del temine “sessualità” in Freud: benché sessualità e genitalità non coincidano (non a caso le manifestazioni della sessualità infantile sono differenti da quelle della sessualità adulta), è possibile ritenere che essa coinvolga non solo gli organi genitali, ma anche altri distretti corporei. Del resto, anche nella sessualità adulta permangono, perlopiù confluendo nell’atto sessuale, eccitazioni appartenenti a parti non genitali del corpo. Come spesso succede in Freud, riscontri clinici e ipotesi teoriche si alternano all’interno di una costruzione unitaria. Questo è particolarmente vero per il tema di questo capitolo che vede nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905a) e nel Caso clinico del Piccolo Hans (1908e) i due punti di riferimento teorico e clinico. A conferma dell’importanza della sessualità e della possibilità che fissazioni e regressioni dello sviluppo libidico siano alla base dello sviluppo della nevrosi, seguirà un altro importante caso clinico: Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi) (1909).
6.2
I Tre saggi sulla teoria sessuale
I Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud, 1905a) costituiscono un punto d’arrivo della dottrina della sessualità che Freud era venuto elaborando fin dal 1896–1897. L’importanza che Freud diede a quest’opera è intuibile dalle varie edizioni – l’ultima è la quarta del 1920 – che la stessa ebbe, dovute ad aggiornamenti che il padre della psicoanalisi riteneva di dover apportare ai vari saggi (per esempio, rispetto a nuove conoscenze fisiologiche e chimiche legate allo sviluppo sessuale), ma anche al desiderio di difenderla da accuse che si estendevano a tutto il pensiero psicoanalitico2. La costruzione “a strati” dei Tre saggi, con revisione e aggiunte che coprono almeno quindici anni di studi e riflessioni di Freud, rende la loro lettura complessa e straordinariamente ricca nello stesso tempo. Altrettanto intuibile dal titolo scelto da Freud è la pretesa della loro non esaustività o presunta completezza: l’idea di scrivere tre saggi fa più pensare a un lavoro in progress, passibile di ulteriori modifiche o ampliamenti. Originale è infine l’ordine con cui i tre saggi sono presentati: Freud, infatti, 2
Nella sua Prefazione alla quarta edizione del 1920, Freud difende con forza la psicoanalisi dall’accusa di spiegare “tutto” con la sessualità (Freud, 1905a, p. 450).
6 Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
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parte da quello dedicato alle aberrazioni sessuali, per proseguire con quello focalizzato sulla sessualità infantile e chiudere con quello che mette a tema le trasformazioni della pubertà. Non sembra un ordine “logico”, che segue cioè quanto può avvenire nella realtà, in cui uno sviluppo psicosessuale normale può a un certo punto “deviarsi”. È noto però che una delle prime esigenze sentite da Freud era di tipo clinico e nasceva, in particolare, dall’osservazione che molti dei sintomi nevrotici avevano a che fare con l’attività sessuale più o meno inibita del paziente. Non solo; la sessualità infantile presentava, a parere di Freud, caratteristiche che l’avvicinavano molto alla sessualità dei pazienti perversi, con la differenza che talune espressioni della sessualità, normali durante l’infanzia, assumono valenze psicopatologiche in età adulta. In ultima analisi, dunque, si trattava di andare all’origine dei fenomeni osservati percorrendo a ritroso, come spesso capita nella psicoanalisi, la storia dell’individuo.
6.2.1
Primo saggio. Le aberrazioni sessuali
In apertura di questo primo saggio, Freud porta subito l’attenzione del lettore sul termine libido, che la scienza userebbe per designare uno stato, una condizione che implica la ricerca di qualcosa (la parola latina libido è traducibile con desiderio, bramosia) e che attiva nell’individuo la spinta a una certa azione in grado di soddisfarla. L’esempio che porta Freud è la fame, ossia la ricerca del cibo (libido), che attiva l’azione del mangiare (pulsione). In opposizione a quanto sostenuto dall’opinione popolare, il padre della psicoanalisi fa immediatamente capire che la pulsione sessuale non è affatto assente nell’infanzia e che il suo sviluppo è spesso tutt’altro che lineare. Ciò risulterà più chiaro se si farà riferimento ai concetti di oggetto e di meta: Introduciamo due termini: chiamiamo la persona dalla quale parte l’attrazione sessuale, oggetto sessuale, l’azione verso la quale la pulsione spinge, meta sessuale; a questo punto l’esperienza, vagliata dalla scienza, ci indica numerose deviazioni per ciò che riguarda sia l’oggetto che la meta sessuale, il rapporto dei quali rispetto alla presunta normalità richiede un’indagine approfondita (Freud, 1905a, pp. 451–452)
Su questa base Freud distingue tra inversioni e perversioni sessuali, considerate deviazioni dal normale sviluppo sessuale. L’inversione sessuale ha luogo quando si è attratti da una persona dello stesso sesso (deviazione rispetto all’oggetto) ed è definibile anche come omosessualità. Freud prende decisamente le distanze da una troppo semplicistica spiegazione del fenomeno in termini sia di cause innate (oggi si potrebbe dire genetiche), sia di fattori ambientali: si tratta di affrettate conclusioni cui si può giungere se pulsione sessuale e oggetto sessuale vengono concepiti insieme, senza soluzione di continuità. 3
Freud sembra qui anticipare alcune riflessioni che svilupperà meglio quando si occuperà di narcisismo e parlerà di una precoce fase anoggettuale dello sviluppo (cfr. Introduzione al narcisismo, Freud, 1914b).
6.2 I Tre saggi sulla teoria sessuale
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Al contrario – afferma Freud – occorre considerare che: “La pulsione sessuale probabilmente è in un primo tempo indipendente dal proprio oggetto e forse non deve neppure la sua origine agli stimoli del medesimo” (Freud, 1905a, p. 462)3. Di grande interesse è poi la riflessione sulla cosiddetta “bisessualità”: si tratta di un termine utilizzato già da R. von Krafft-Ebing, ma che Freud attribuisce anche all’ormai ex-amico W. Fliess. A Freud sembrano interessare poco i tentativi fatti per ricondurre la bisessualità a caratteristiche cerebrali o ormonali; sembra piuttosto attirare l’attenzione su una serie di comportamenti, e quindi di caratteristiche psicologiche sottostanti, presenti in chi si sentirebbe attratto da una persona dello stesso sesso, senza per questo essere omossessuale, ma per trovare in essa caratteristiche del proprio sesso. Freud esemplifica citando quanto avveniva nell’antica Grecia, in cui uomini di spiccata virilità cercavano nei giovani concubini caratteristiche come la timidezza, il ritegno, il bisogno di imparare o di essere aiutato più tipici della donna; o donne omosessuali attive che presentano caratteri somatici e psichici dell’uomo, cercando nella partner caratteristiche più specificatamente femminili. La bisessualità sembra essere di estrema importanza anche nel processo di sviluppo psicosessuale: Freud sembra sostenerlo con evidenza in una nota aggiunta nel 1914 in cui non solo ritiene che: “L’indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare gli omosessuali come un gruppo di specie particolare dalle altre persone” (Freud, 1905a, p. 460), ma anche che una scelta omosessuale può comunque essere stata presente a livello inconscio e che i sentimenti libidici, non necessariamente a carattere sessuale, verso persone dello stesso sesso hanno “un’importanza non minore di quelli che si rivolgono al sesso opposto e una maggiore importanza come motivi di malattia” (Freud, 1905a, p. 460)4. Nel corso dei trattamenti analitici non è inusuale sentire i pazienti raccontare sentimenti di trasporto, non necessariamente agiti, o momenti di confronto con persone dello stesso sesso, specialmente nel periodo adolescenziale. La perversione sessuale si determina nel momento in cui abbia luogo una deviazione rispetto alla meta. Nelle parole di Freud: “Meta sessuale normale è considerata l’unione dei genitali nell’atto definito copula, che porta alla risoluzione della tensione sessuale e a un temporaneo estinguersi della pulsione sessuale (un soddisfacimento analogo alla sazietà nella fame)” (Freud, 1905a, p. 463). Mete sessuali provvisorie, come il toccare o l’osservare l’oggetto sessuale, costituiscono relazioni intermedie con esso, che possono o essere preparatorie all’atto sessuale vero e proprio o, nel caso delle perversioni, porsi di fatto come l’unica fonte di piacere. Una suddivisione possibile delle perversioni fa riferimento, secondo Freud, a prevaricazioni anatomiche delle regioni del corpo destinate all’unione sessuale, con relativa sopravvalutazione delle stesse (per esempio, il distretto orale), e al feticismo, caratterizzato dalla sostituzione dell’oggetto sessuale con una sua parte, per esempio i piedi o i capelli, o con un oggetto inanimato che ne faccia le veci, per esempio della biancheria intima. È bene tenere presente che si è di fronte a deviazioni sessuali solo nel momento in cui i comportamenti sopra descritti si fissino o siano esclusivi. Non a caso Freud chiude 4
Di grande interesse potrebbe essere considerare questa tematica rispetto alla funzione maschile o femminile svolta dall’analista durante il trattamento; funzione che ovviamente va al di là del sesso dell’analista stesso.
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6 Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
questa parte del saggio sottolineando che il tastare e il guardare costituiscono, soprattutto per gli uomini, un passaggio indispensabile al raggiungimento della meta sessuale normale; così come sadismo e masochismo – ma anche attività e passività o maschile e femminile – sono coppie di contrari che sono alla base del carattere generale della vita sessuale. L’ultima parte di questo primo saggio è soprattutto dedicata ai rapporti tra perversioni e psiconevrosi. Il punto di partenza di Freud è chiaro: “Devo premettere, e ripetere come in altre pubblicazioni, che queste psiconevrosi, fin dove giungono le mie esperienze, si fondano su forze pulsionali sessuali [...]. I sintomi, come ho affermato in altro luogo, sono l’attività sessuale dei malati”5 (Freud, 1905a, p. 475). Il padre della psicoanalisi si pone qui su un piano prettamente clinico e fa riferimento a quel particolare “procedimento psichico (la rimozione)” con cui verrebbe sbarrata la strada a tutta una serie di processi, desideri e aspirazioni psichiche investiti affettivamente, ma inaccessibili alla coscienza o inaccettabili per l’Io. A questo punto Freud afferma che ciò che i pazienti psiconevrotici non accettano afferisce perlopiù proprio a quell’area della sessualità sin qui descritta (aberrazioni o perversioni); detto in altri termini, la sessualità che tenta di esprimersi in questi pazienti non è di tipo genitale, ma pregenitale; lo si è visto bene nell’eccitazione corporea o nella sopravvalutazione del fallo nei casi di isteria e lo si vedrà altrettanto bene nel sadomasochismo che caratterizza le relazioni affettive dell’uomo dei topi. Tenta appunto di esprimersi o lo fa in forma mascherata attraverso i sintomi; al contrario dei veri perversi, che “agiscono” le loro fantasie sessuali. Da qui la nota frase di sintesi di Freud: “la nevrosi è per così dire la negativa delle perversioni” (Freud, 1905a, p. 477). Di estremo interesse è infine il paragrafo 5 (“Pulsioni parziali e zone erogene”). Freud riprende qui il termine “zone erogene”, presente già nel Caso Dora e ancor prima in una lettera a Fliess del 6 dicembre 1896; è ispirato presumibilmente a quello di “zone isterogene” e con esso condivide il senso, ossia quello di indicare una zona o un organo del corpo particolarmente sensibile all’eccitazione, nella quale la libido può venire a “concentrarsi” e attraverso cui la pulsione cerca una gratificazione. La pulsione, di per sé un elemento unitario nel determinare il raggiungimento di una certa meta, tenderebbe così a “parcellizzarsi”, muovendo verso quella zona o organo del corpo eccitati. Proprio attraverso il concetto di pulsione, si viene a delineare lo stretto legame tra corpo e psiche, fisico e mentale. A questo punto si deve concludere che quanto detto su inversioni e perversioni debba esserci utile solo per la comprensione della vita infantile dei pazienti? Assolutamente no. Conclude Freud: “Ora ci si offre la conclusione che le perversioni hanno certamente qualcosa di innato a loro fondamento, ma qualcosa che è innato a tutti gli uomini, e che in quanto disposizione può subire oscillazioni nella sua intensità e attende di essere accentuato dagli influssi della vita” (Freud, 1905a, p. 482). È giunto dunque il momento di affrontare la vita sessuale infantile. 5
Dopo il 1914 Freud sarà ancora più estensivo e, oltre all’isteria e alla nevrosi ossessiva (le psiconevrosi qui prese in considerazione), menzionerà anche dementia praecox e paranoia. Sul legame tra sintomi e attività sessuale dei malati Freud si era già espresso nel Caso Dora.
6.2 I Tre saggi sulla teoria sessuale
6.2.2
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Secondo saggio. La sessualità infantile
Il secondo saggio si apre con la constatazione che, all’interno dei vari studi che si occupano dello sviluppo dell’individuo, si è dato più rilievo all’influsso derivante da generazioni passate rispetto a quello riconducibile al passato del singolo. Come spiegare questo paradosso? Freud lo riconduce a una sorta di amnesia che non colpirebbe solo l’infanzia, cosicché i ricordi infantili si fermano spesso intorno ai 5 o 6 anni, ma anche chi si occupa di infanzia. È possibile che si attui un meccanismo simile a quello riscontrabile nell’amnesia isterica, nella quale certi ricordi sostituiscono quelli che vengono sottratti a una disponibilità cosciente; anzi, non ci sarebbe amnesia isterica se non vi fosse amnesia infantile. Ma cosa effettivamente si cela sotto il velo di quest’ultima? E quali forze producono questa rimozione delle impressioni d’infanzia? La presenza dell’amnesia infantile ha fatto sì che gli studiosi non abbiano dato alcun valore a ciò che essa celerebbe. Ma è vero esattamente il contrario e – sostiene Freud – quanto scoperto nella vita infantile delle pazienti isteriche ne è la prova. L’ipotesi sviluppata da Freud parte dal presupposto che frequentemente si scoprono nei bambini impulsi sessuali; in modo ancor più radicale, Freud arriva ad affermare che il neonato porta con sé germi di impulsi sessuali che, nel corso dello sviluppo, sono ben osservabili attorno al terzo o quarto anno di vita, per poi subire una repressione sempre crescente. È durante il periodo di latenza che si costruiscono quelle forze psichiche che costringono la pulsione sessuale a seguire certe direzioni, che si è soliti collocare all’interno di emozioni attribuite ai contesti educativi (disgusto, pudore, sentimenti estetici e morali). I meccanismi psichici più frequentemente utilizzati sono in questo caso la formazione reattiva (per esempio, la pulsione aggressiva si trasforma nel suo opposto e dà luogo a un comportamento altruista) e la sublimazione (la forza della pulsione rimane intatta, ma cambia la meta e l’oggetto della stessa). Solo con l’arrivo della pubertà e lo strutturarsi definitivo della vita sessuale, le correnti pulsionali tornerebbero a manifestarsi con forza e apertamente, come corrente sensuale afferma Freud, spingendo l’individuo alla scelta oggettuale definitiva. Si è dunque di fronte alla cosiddetta “scelta oggettuale in due tempi”: un processo che potrebbe non essere esente da rischi, soprattutto nel momento in cui le due correnti affettive (pulsionali) di origine infantile e adolescenziale non dovessero riuscire a trovare la loro sintesi in un unico oggetto. Ma quali sono le manifestazioni della sessualità infantile e quali caratteristiche hanno? Freud si sofferma su quanto avviene nella suzione da parte del piccolo dal seno della madre: si tratta di un’azione che si lega indubitabilmente all’istinto di sopravvivenza. Tuttavia, in questa azione è implicito anche un piacere derivante dal movimento ritmico, dal contatto epidermico tra labbra e seno e da altre sensazioni corporee legate alla vicinanza tra corpo del bambino e della madre. Si tratta, è ovvio, di una primitiva forma di sessualità, espressa in forma non genitale, ma che fa dire a Freud che in generale: “L’attività sessuale si appoggia in primo luogo a una delle funzioni che servono alla conservazione della vita, e solo in seguito se ne rende indipendente” (Freud, 1905a, p. 492). E, poco oltre: “Questa [la manifestazione sessuale infantile, NdA] sorge appoggiandosi a una delle funzioni vitali del corpo, non conosce
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ancora un oggetto sessuale, è autoerotica: e la sua meta sessuale è dominata da una zona erogena” (Freud, 1905a, pp. 492–493). In questa frase troviamo altre due affermazioni importanti. Anzitutto che l’attività sessuale del bambino è di tipo autoerotico, ossia ha come oggetto una parte del suo corpo: un semplice esempio può essere quello del bambino che ciuccia il proprio dito, procurandosi da sé piacere. La sua meta è quella di provocare, attraverso un’azione esterna esercitata sulla zona erogena, una sensazione di soddisfacimento a fronte di uno stimolo proiettato su quella stessa zona erogena. In secondo luogo il concetto di zona erogena, descrivibile come specifica zona del corpo nella quale “stimolazioni di un certo tipo provocano una sensazione di piacere di qualità determinata” (Freud, 1905a, p. 493). Da quanto esposto si può comprendere l’affermazione di Freud che considera presente nel bambino una “disposizione perversa polimorfa” (Freud, 1905a, p. 499). Fu questa una delle affermazioni dei Tre saggi più attaccate dai contemporanei di Freud: il bambino avrebbe una sessualità che si esprimerebbe secondo modalità che fanno riferimento a pulsioni parziali presenti nelle organizzazioni pregenitali (un forte investimento nel guardare o nell’essere guardati porta per esempio a comportamenti voyeuristici o esibizionistici) e a eccitazioni che possono investire varie parti del corpo (distretti orale, anale e fallico). Solo nel 1914 Freud introdusse in questo secondo saggio un paragrafo dedicato esplicitamente alla descrizione dell’organizzazione sessuale pregenitale comprendente la fase orale (la cui meta sessuale consiste nell’incorporazione dell’oggetto) e la fase sadico-anale (la caratteristica essenziale della quale è l’ambivalenza affettiva nei confronti dell’oggetto). E in una nota del 1924 Freud afferma la necessità di introdurre una terza fase pregenitale, la fase fallica, nella quale, pur mostrandosi già un oggetto sessuale e una certa convergenza delle aspirazioni sessuali, esse risultano limitate dal fatto di conoscere solo un tipo organo genitale, quello maschile6. Questo denso secondo saggio si sofferma, anche qui in virtù di aggiunte fatte da Freud dopo il 1914, sui “temi” che con maggiore frequenza caratterizzano la fantasie sessuali del bambino, un argomento che era già stato affrontato nel 1907 (Freud, 1907a) e nel 1908 (Freud, 1908c). Sin dalla prima infanzia sarebbero presenti impulsi epistemofilici su argomenti di natura sessuale: essi, straordinariamente pressanti in alcuni bambini, troverebbero in età adulta modalità espressive legate alla cultura e alla scienza (Freud, 1910–1917). Al contrario, in infanzia, tali impulsi riguarderebbero tematiche inerenti la nascita (da dove vengono i bambini e come nascono?), la scena primaria (in che cosa consiste l’essere “sposati” o il “rapporto sessuale”) e, infine, il complesso di evirazione e l’invidia del pene (se esiste, come si configura la diversità tra bambino e bambina?). Nelle ultime pagine del secondo dei Tre saggi, Freud dà alcune indicazioni rispetto alle possibili “fonti” della sessualità infantile; in altre parole, sull’origine 6
Freud aveva approfondito la cosa un anno prima, mettendo anche in evidenza le polarità antitetiche e specifiche di ciascuna fase: quella tra soggetto e oggetto della fase orale, quella tra attività e passività della fase anale e quella tra il possedere o l’essere privi di un genitale maschile della fase fallica (Freud, 1923).
6.2 I Tre saggi sulla teoria sessuale
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dell’eccitamento sessuale nell’infanzia, in ultima analisi, della pulsione. Di quest’ultima Freud aveva già dato importanti definizioni, a partire dalle quali avanza alcune ipotesi che prevedrebbero da un lato il coinvolgimento del corpo con specifiche stimolazioni sensoriali, dall’altro della psiche con particolare riferimento ai processi affettivi intensi o allo sviluppo intellettuale. È importante tenere presente che lo sviluppo differente di singole fonti di eccitamento sessuale dà solitamente luogo a diverse costituzioni sessuali, che rimandano ad aspetti caratteriali (Freud, 1908a; 1915c).
6.2.3
Terzo saggio. Le trasformazioni della pubertà
L’arrivo alla pubertà produce nell’individuo gli ultimi significativi cambiamenti nell’ambito dello sviluppo psicosessuale ed è in essa che ha luogo l’assestamento definitivo dell’individuo stesso. La pulsione sessuale da autoerotica diventa orientata su un oggetto; inoltre, le pulsioni parziali, prima indipendenti l’una dall’altra nel cercare un proprio piacere come unica meta sessuale, ora si danno una nuova meta, per così dire “altruistica”, in quanto legata alla procreazione e alla conservazione della specie; in modo analogo, le zone erogene tendono ora a “sottomettersi” al primato della zona erogena genitale. Freud si sofferma a descrivere in quale modo l’apparato genitale possa ricevere stimoli: dal mondo esterno, dal corpo e dalla vita psichica. Tale stimolazione genera un innalzamento della tensione, destinata a crescere continuamente per l’apporto di ulteriori specifici stimoli, fino ad arrivare a un’azione di scarica del piacere nell’atto sessuale. Il dettaglio con cui Freud ci descrive quanto avviene a livello chimico e fisiologico testimonia il suo debito formativo nei confronti della biologia e della fisiologia e risente ovviamente delle conoscenze dei tempi. Inserito dopo il 1914 è l’interessante paragrafo dedicato alla formulazione di una teoria della libido. “Abbiamo definito il concetto di libido come una forza quantitativamente variabile, che fosse atta a misurare processi e conversioni nel campo dell’eccitamento sessuale. Questa libido la distinguiamo, riferendoci alla sua origine specifica, dall’energia che in generale dev’essere supposta nei processi psichici, e in tal modo le conferiamo anche un carattere qualitativo” (Freud, 1905a, p. 523). Poco oltre, Freud aggiunge: “Noi dunque giungiamo a rappresentarci una quantità di libido la cui rappresentanza psichica (Vertretung) chiamiamo libido dell’Io, e la produzione, l’aumento o la diminuzione, la suddivisione e lo spostamento della quale ci deve offrire le possibilità per spiegare i fenomeni psicosessuali osservati. Questa libido dell’Io, tuttavia, diventa facilmente accessibile allo studio analitico solo se ha trovato l’utilizzazione psichica investendo oggetti sessuali, dunque se è diventata libido oggettuale” (Freud, 1905a, p. 523). Vale la pena precisare che qui Freud fa riferimento alla rappresentazione (Vorstellung) di oggetti, non a oggetti veri e propri del mondo esterno. Non solo, Freud equipara libido dell’Io e libido narcisistica e ritiene che questa sia quella presente nelle prime fasi di sviluppo dell’individuo e costituisca “il grande serbatoio dal quale vengono inviati gli investimenti oggettuali e nel quale essi di nuovo vengono
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6 Il ruolo dell’infanzia nel modello freudiano
ritirati” (Freud, 1905a, p. 524). È probabile che Freud abbia voluto inserire qui riflessioni sviluppate alcuni anni dopo i Tre saggi – e precisamente in Introduzione al narcisismo (Freud, 1914b) – poiché introducono una distinzione di grande importanza per un fondamentale concetto metapsicologico del suo modello come è quello di libido, centrale nello sviluppo psicosessuale. Di grande interesse è anche il paragrafo successivo, dedicato alla differenziazione del maschile e del femminile. È ovvio: durante la pubertà avviene quella netta separazione tra le caratteristiche maschili e femminili che, durante la prima infanzia, è meno marcata, ma soprattutto spesso negata, dai diretti interessati. In una nota aggiunta nel 1914 Freud, benché ritenga possibile evidenziare almeno tre punti di vista a partire dai quali “maschile” e “femminile” siano individuabili (ossia, quello che fa riferimento all’attività o alla passività, quello biologico e quello sociologico), sottolinea la sostanziale ambiguità dei due concetti. Egli sembra orientato a supporre non tanto una contrapposizione, quanto un intreccio tra “maschile” e “femminile”: un’ipotesi che richiama chiaramente il tema della “bisessualità”, molto caro a W. Fliess e cui Freud aveva già accennato nel primo saggio. Tutta la questione sarà ripresa più volte da Freud (1908b; 1925b; 1932b; 1937a) sia sotto un profilo evolutivo, sia rispetto a ricadute sul trattamento, tenendo comunque ferme tanto la maggiore complessità dello sviluppo psicosessuale femminile, quanto la co-presenza di elementi “maschili” e “femminili” nei singoli individui. Chiudono i Tre saggi alcune riflessioni comprese nel paragrafo dal significativo titolo “Il rinvenimento dell’oggetto”7. La domanda cui cerca di rispondere Freud ha a che fare con le modalità di scelta oggettuale in età puberale e adulta: quanto descritto nei Tre saggi spinge il padre della psicoanalisi a ritenere che a livello psichico si compia “quel rinvenimento dell’oggetto che era già stato preparato sin dalla prima infanzia” (Freud, 1905a, p. 527). Ma in che senso? Il percorso è piuttosto lineare e rimanda a quello sviluppo sessuale “in due tempi” cui si è già accennato. L’interruzione determinata dal periodo di latenza – osserva Freud nel breve riepilogo conclusivo – sembra garantire all’uomo lo sviluppo di una civiltà superiore per il forte investimento su aree extra-sessuali, ma determinare anche una certa predisposizione alla nevrosi. Se – riprendendo sempre le parole di Freud – il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso, allora il rinvenimento dell’oggetto è propriamente una riscoperta. Poco prima di questa “riscoperta” si sviluppa la barriera contro l’incesto, riferibile al complesso edipico; ma nelle fantasie dell’epoca puberale, come nei sogni in età adulta, sono spesso rintracciabili tracce di tali primitive fantasie infantili. Alcune di esse (osserva Freud in una nota introdotta nel 1920) hanno carattere universale (Ürphantasie) e sembrano presentarsi indipendentemente dalle esperienze dell’individuo: quelle sui rapporti sessuali tra i genitori, sulla seduzione piccolo-infantile da parte di persone care, sulla minaccia di evirazione, sul ventre materno e sul mito delle proprie origini illegittime (il cosiddetto “romanzo familiare”). Tra i vari fattori interni ed esterni che disturbano lo sviluppo psicosessuale, determinando fenomeni di fissazione o di regressione, Freud ne individua di costituzionali o ereditari, ma 7
Freud ritornerà in modo significativo sulla questione in Introduzione al narcisismo (1914b).
6.3 Dalla teoria alla clinica
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anche di accidentali e legati all’ambiente (da qui l’attenzione sempre data da Freud nei suoi casi clinici al tipo di rapporto esistente tra il paziente e ciò che lo circonda durante l’infanzia). Di fatto, anche all’interno di un “normale” percorso evolutivo, la forza attrattiva dei modelli esperiti nella prima infanzia sembra per Freud di straordinaria importanza e sarà ribadita anche alcuni anni dopo (Freud, 1910–1917).
6.3
Dalla teoria alla clinica
6.3.1
L’isteria d’angoscia. Caso clinico del piccolo Hans
Il caso clinico del piccolo Hans, pubblicato nel 1908, rappresenta un pionieristico esempio di analisi infantile seguito, pur indirettamente, da Freud. Il suo obiettivo principale fu quello di mostrare come nella vita psichica infantile si ritrovino elementi che sono poi riscontrabili nella vita psichica adulta dei pazienti (e non): in particolare, l’esistenza di precoci pulsioni erotiche di tipo extragenitale, l’angoscia di castrazione e, più in generale, il cosiddetto complesso edipico. In altre parole, Freud non riteneva il caso clinico del piccolo Hans come una prima esemplificazione di applicazione della psicoanalisi all’infanzia. Rimane tuttavia innegabile che esso costituisce un primo punto fermo nella storia della psicoanalisi, su cui si fonderanno importanti sviluppi postfreudiani. Esso mostra anche che il ruolo di “accompagnamento” che una coppia di genitori può fare rispetto al percorso di crescita del proprio figlio, così come un analista rispetto allo sviluppo del processo terapeutico di un proprio paziente, è fondamentale. La vivacità del caso e la ricchezza di spunti che offre sono tali da presentare a Freud la possibilità di utilizzare parte del materiale emerso nel corso del suo sviluppo in altri due saggi dedicati all’infanzia (Freud, 1907a; Freud, 1908c). Herbert Graf, più comunemente conosciuto come “il piccolo Hans”, è un bambino di 5 anni, nato nell’aprile del 1903, figlio di una coppia di amici e seguaci di Freud. Il padre, Max Graf, era uno scrittore e critico musicale austriaco, membro delle riunioni del mercoledì a casa Freud. La madre era stata una paziente di Freud e da sempre molto interessata alla psicoanalisi. L’analisi fu condotta tramite il padre, che comunicò a Freud le sue osservazioni sul figlio attraverso preziosi e precisi appunti pressoché quotidiani. Queste osservazioni iniziarono nella primavera del 1906, epoca in cui il piccolo Hans non aveva ancora compiuto 3 anni, e si conclusero nel maggio 1908. L’analisi sembra nacque da una sollecitazione che Freud rivolse ai suoi primi seguaci, invitati a prendere appunti sugli aspetti salienti della vita dei propri figli, in modo da fornire del materiale per ricerche successive. A questa richiesta aderirono anche i genitori del piccolo Herbert. È durante questa attività di osservazione attenta della vita del figlio che iniziarono a notare la manifestazione di una fobia. Nella trascrizione di questi dialoghi quotidiani, Hans mostra un persistente interesse per il proprio organo genitale, che lui stesso chiama “fapipì”. L’interesse del piccolo Hans verso il suo organo genitale non si limita alla sola osservazione, ma coinvolge anche la manipolazione dello stesso, attività nella quale è sorpreso più di una volta dalla madre. In questi casi ella reagisce al comportamento del figlio con la minaccia
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di chiamare un certo dottor A. per fargli tagliare il “fapipì”. Secondo Freud, il piccolo Hans: “acquista in quest’occasione il complesso di evirazione” (Freud, 1908e, p. 483). Nell’estate nel 1906 Hans trascorre le vacanze con la sua famiglia a Gmunden, un luogo che ricorrerà spesso nei pensieri di Hans. Il padre per motivi di lavoro è costretto a lasciare frequentemente la famiglia nel luogo di villeggiatura, per recarsi a Vienna. In queste occasioni Hans quindi rimane solo con la madre, dormendo spesso nel suo letto. Inoltre, egli ricorda di quell’estate i giochi con gli amici Berta, Olga e Fritzl con cui era solito passare molto tempo. Un altro argomento di interesse messo in luce del padre riguarda le precoci relazioni amorose di Hans. Il padre, a questo proposito, sottolinea l’interesse provato dal figlio per due ragazzine conosciute al pattinaggio e che Hans guardava sempre con grande ammirazione e curiosità, chiedendo ripetutamente dove fossero e quando le avrebbe raggiunte; riferisce, inoltre, sui teneri abbracci e le frasi dolci rivolte al cuginetto quando gli faceva visita e l’abitudine del figlio di osservare dalla finestra una ragazzina di otto anni. Hans manifestava anche il frequente desiderio di dormire con Mariedl, la figlia del proprietario di casa, e un persistente interesse per una ragazzina conosciuta in un ristorante. Viene anche sottolineata, infine, la predilezione di Hans per Fritzl, uno dei suoi compagni di gioco in villeggiatura a Gmunden, che spesso abbraccia e a cui dichiara il proprio amore. In accordo con il pensiero freudiano Hans mostra di muoversi in direzione della poligamia. In particolare, il desiderio di dormire con una delle ragazzine è collegato al piacere provato nel dormire con la madre. Ciò che il padre annota durante le sue osservazioni, conferma l’idea di Freud riguardo la scelta oggettuale dei bambini. Hans, come tutti i piccoli della sua età, mostra tendenze anche omosessuali, come la predilezione per Fritzl. Questo dipende dal fatto che il bambino non conosce ancora la distinzione tra genitale femminile e maschile e crede che ne esista solamente uno: il suo. All’incirca alla stessa età (3 anni e mezzo), durante una visita al parco zoologico di Schönbrunn, davanti alla gabbia del leone, dice eccitato e felice: “ho visto il fapipì del leone” (Freud, 1908e, p. 484). A 3 anni e 9 mesi vede alla stazione una locomotiva da cui viene fatta scaricare acqua e dice al padre: “guarda la locomotiva fa pipì. Ma dove ha il fapipì?” (Freud, 1908e, p. 484). Successivamente aggiunge: “il cane e il cavallo hanno il fapipì; il tavolo e la sedia no” (Freud, 1908e, p. 484). Questo interesse sessuale lo rende un ricercatore attento di tutto ciò che lo circonda e lo spinge a creare delle proprie teorie. La presenza e l’assenza del “fapipì” diventa il tratto essenziale distintivo tra animato e inanimato, rilevando come il desiderio di sapere e la curiosità sessuale siano inseparabili. Nello stesso periodo, Hans rivolge la stessa attenzione per i genitali dei genitori, mosso anche da un bisogno di confronto. Ha osservato infatti che gli animali grossi hanno il “fapipì” più grosso del suo: perciò suppone che la stessa cosa accada anche nel caso dei suoi genitori e vuole accertarsene, non avendo ancora colto la differenza tra gli adulti di sesso opposto. Tra le osservazioni annotate dal padre, acquista notevole interesse il disegno di una giraffa. L’animale era stato visto dal piccolo Hans più di una volta a Schönbrunn. Hans, nel suo disegno, dota la giraffa di un lungo “fapipì”. Lo spiccato interesse del bambino verso quest’organo traspare anche dall’abitudine
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frequente di farne allusione in riferimento a ogni oggetto, animale o persona che Hans si trova davanti. Un altro evento interessante, evidenziato dal padre, riguarda il momento del bagno. Nell’attimo in cui la madre si accinge ad asciugare Hans, incipriandolo nella zona del pene, il bambino chiede: “Perché non ci metti il dito?” (Freud, 1908e, p. 492), mostrando divertimento, nonostante il disappunto della madre. Nei giorni successivi il piccolo Hans racconta di aver fatto un sogno, all’apparenza incomprensibile: Sai, stanotte ho pensato: Uno dice: “Chi vuole venire da me?” Allora un altro dice: “Io”. Allora gli deve far fare pipì (Freud, 1908e, p. 491)
Il padre riesce a ricollegare il sogno appena raccontato al gioco del pegno che Hans faceva con le sue due compagne di giochi nella residenza a Gmunden. Il sogno è costruito sul modello del gioco con la differenza che, a colui a cui apparteneva il pegno, non veniva proposto il solito bacio, o lo scappellotto, bensì bisognava che facesse la pipì. Hans considera questa attività molto piacevole. Questo avvenimento, così come quello del bagno, conferma ciò che sosteneva Freud e che aveva sempre scandalizzato l’opinione pubblica: il bambino prova piacere nel mostrare e manipolare il suo genitale. Hans, infatti, non si vergogna di manifestare il desiderio di essere osservato e accompagnato nel fare la pipì, anzi lo considera come qualcosa di estremamente piacevole. Qualche giorno dopo l’episodio del bagno, mentre il padre accompagna Hans a fare pipì come di consueto, Hans chiede però di essere portato dietro casa, in modo tale da non essere visto da nessuno. Dal piacere dell’essere visto far pipì, passa così nella vita reale alla rimozione di questo piacere. Nel sogno tale desiderio di essere guardato cerca di essere appagato, travestito sulla base del gioco del pegno in modo da essere più facilmente accettato. Nell’ottobre del 1906, Hans assiste alla nascita della sorellina Hanna. Nei giorni precedenti il parto, viene raccontata a Hans la storia di una cicogna che avrebbe portato in famiglia un fratellino o una sorellina. Dapprima il bambino crede a questa spiegazione, ma tutto ciò che avvenne il giorno del parto, come i gemiti della mamma, l’arrivo di un dottore e le bacinelle piene d’acqua insanguinata, creano in Hans dei dubbi sulla veridicità del racconto che gli era stato fornito. Il piccolo, comunque, vive la nascita della nuova arrivata con profonda gelosia, in quanto si sente trascurato dai genitori. Ammalatosi improvvisamente di angina, nel delirio febbricitante lo si sentiva esclamare esplicitamente di non aver mai voluto una sorellina. Apparentemente questa fase di gelosia viene superata, lasciando posto all’interesse verso il “fapipì” della sorella che Hans definisce ancora piccolo, ma che pensa diventerà più grande con la crescita di Hanna. Hans ride guardando il “fapipì” di Hanna: “è un fapipì così bello” (Freud, 1908e, p. 493). In realtà non è sincero, il padre coglie dell’ironia nelle parole del figlio, indice dell’iniziale distinzione tra i genitali femminili e quelli maschili, non più negata. Questa attenzione spinge Hans a inventarsi un gioco che coinvolga il suo “fapipì”. Hans, infatti, tramuta lo stanzino della legna in una sorta di “gabinetto suo” (Freud, 1908e, p. 488), dove finge, per puro divertimento, di far pipì.
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Nel gennaio del 1908 si verificano i primi sintomi della fobia. Il padre scrive a Freud con tono preoccupato: Egregio professore, le mando ancora qualcosa su Hans. Purtroppo, questa volta si tratta del materiale per un caso clinico. Come vedrà, negli ultimi giorni si è sviluppato nel bambino un disturbo nervoso [...]. La paura di essere morso da un cavallo per la strada (Freud, 1908e, p. 494)
Il padre, da questo punto in poi, mette al corrente Freud di tutte le osservazioni condotte in modo particolarmente preciso e puntuale. Di particolare rilievo è un sogno d’angoscia di Hans: una mattina il bambino, piangendo, racconta alla madre che mentre dormiva aveva pensato che lei se ne fosse andata e che non ci sarebbe più stata per coccolarlo. Già qualcosa di simile era stato notato a Gmunden, quando Hans, andando a letto, diventava sentimentale dicendo: “se non avessi la mamma” o “ se tu (il padre, NdA) andassi via” (Freud, 1908e, p. 495). Il 7 gennaio 1908, prossimo ai 5 anni d’età, Hans si reca al parco municipale, come d’abitudine, insieme alla governante. Una volta lì, comincia a piangere chiedendo di tornare a casa perché vuole farsi coccolare dalla madre. Quella stessa sera Hans non vuole allontanarsi da lei. La mamma allora, nell’intento di capire, decide di condurlo lei stessa a passeggio a Schönbrunn al posto della governante. Hans piange e ha paura, ma, convinto dalla madre, cede. Per strada cammina intimorito e al ritorno esplicita alla madre la sua paura di essere morso da un cavallo. Questa paura permane anche di sera: Hans è preoccupato che il cavallo possa entrare nella sua camera ed è spaventato dalle passeggiate al parco. Sempre quello stesso giorno il piccolo confessa, sotto richiesta della mamma, di tenere la mano sul “fapipì” tutte le sere prima di addormentarsi, nonostante i divieti posti dai genitori. A questo punto, Freud osserva come il disturbo del piccolo Hans prenda le mosse dall’angoscia di perdere la madre. Quest’ansia è dovuta all’accrescersi della tenerezza nei confronti della donna, confermato dai tentativi di seduzione nei suoi confronti: in particolare il desiderio di farsi toccare dalla madre (estate del 1906) e di vantare con lei il proprio genitale. Il grande affetto provato verso la madre, carico di erotismo, provoca angoscia ed è quindi rimosso. Inizialmente si tratta di angoscia, specifica Freud: non ancora paura, perché il bambino non può sapere ancora di che cosa abbia timore. Sente solo il desiderio di stare vicino alla madre e farsi coccolare da lei. All’inizio la fobia della strada o della passeggiata o del cavallo non esiste ancora; è alla sera che Hans diventa ansioso, momento in cui c’è un rafforzamento della libido, il cui oggetto è la madre e la cui meta è dormire con lei. Inoltre il piccolo Hans, a Gmunden, aveva compreso che mostrarsi angosciato alla madre gli permetteva di raggiungere il suo obiettivo, ovvero dormire con lei. Dice Freud che l’angoscia corrisponde a un ardente desiderio rimosso. Ma anche se questo desiderio venisse appagato, come nel caso della vicinanza della madre durante le passeggiate: l’angoscia non può più ritrasformarsi completamente in libido. V’è qualcosa che mantiene la libido in stato di rimozione (Freud, 1908e, p. 497)
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Nel marzo 1908 Freud suggerisce al padre di esplicitare al piccolo Hans la vera natura del suo desiderio – dormire con la madre –, collegando la paura dei cavalli con l’interesse eccessivo del bambino per il proprio organo genitale. Inoltre, consiglia di rassicurare il bambino dicendogli che il suo timore per i cavalli è una sciocchezza e che la sua paura dipende dall’eccessivo interesse che dimostra nei confronti del loro “fapipì”. Infine, Freud raccomanda al padre di cominciare a dare al figlio qualche istruzione in materia sessuale. Dopo un’influenza che costringe a letto il bambino per due settimane, la fobia arriva a impedirgli di uscire di casa. Il padre, seguendo i consigli di Freud, spiega al figlio che le donne non posseggono un fapipì come il suo, ma Hans dimostra in molti episodi di non credere al padre. Inoltre, il padre si accorge che il figlio non ha paura solamente dei cavalli, ma anche di tutti gli animali di grossa taglia. Un’affermazione del figlio però cattura in particolare l’attenzione del padre: “E tutti gli uomini hanno un fapipì, e il fapipì crescerà insieme a me quando diventerò grande, perché fa parte di me” (Freud, 1908e, p. 502). Successivamente viene riportato un sogno che Hans fa nella notte tra il 27 e il 28 di marzo. Hans racconta: Nella camera questa notte c’erano una giraffa grande e una giraffa sgualcita, e quella grande strillava perché io le avevo preso quella sgualcita. Poi ha smesso di strillare e allora io mi sono messo a sedere su quella sgualcita8 (Freud, 1908e, p. 504)
Il padre, dopo aver ascoltato il figlio, ha un’intuizione, ovvero collega il sogno a una scena familiare che avveniva quasi tutti i giorni: ogni mattina Hans raggiungeva la mamma a letto e il padre le rimproverava di essere troppo comprensiva. Nel sogno, quindi, la giraffa grossa, con il collo lungo che allude a un pene grande, è probabilmente il padre stesso e la giraffa sgualcita la madre. La giraffa grande (il padre) si arrabbia con Hans perché gli ha portato via la giraffa sgualcita (la madre). Il fatto che Hans parli di “mettersi sopra alla giraffa sgualcita” indica il voler possedere la madre. Questo spiegherebbe la sua paura di dover competere con la “giraffa grande” che ha un “fapipì” molto più grande del suo. Hans teme dunque di non essere amato dalla mamma perché il suo pene non può competere con quello del padre. Verso la fine del mese, Hans racconta al padre di aver pensato due “cose”. La prima riguarda padre e figlio che si recano da alcune pecore e, infrangendo la legge, passano sotto le corde del recinto, venendo così catturati e imprigionati da una guardia. Nella seconda, i due rompono un finestrino di un treno, venendo poi catturati dalla guardia per aver infranto le regole. Questi pensieri fanno ipotizzare che Hans, inconsciamente, riconosca che voler possedere la madre non sia lecito. Non potendo ottenere l’oggetto della libido, Hans crea con l’immaginazione scene in cui compie qualcosa di proibito, sostituendo il possesso della madre con il compimento di azioni non permesse. Il tutto accompagnato dalla presenza del padre che, nella realtà, possiede ciò che Hans non potrà mai avere. Sottolinea Freud come 8
Il sogno è riportato in corsivo nell’originale, a sottolinearne l’importanza.
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Hans si sia imbattuto per la prima volta nella barriera contro l’incesto. Nonostante lo scorrere del tempo, la paura di Hans nei confronti dei cavalli persiste e padre e figlio sono costretti a recarsi da Freud. Quest’ultimo decide di rivelare a Hans la natura delle sue paure, spiegandogli che è l’amore per la madre che gli fa temere il padre. Il cavallo non è nient’altro che suo padre9. Nell’aprile 1908 si notano i primi miglioramenti: Hans inizia a uscire di nuovo oltre il portone di casa e seguono dialoghi con il padre circa la sua fobia. In queste occasioni, Hans rivela un conflitto tra il suo amore per il padre e la sua ostilità verso di lui, come rivale rispetto alla madre. Hans dice, rivolto al padre: “quando tu sei via, io ho paura che non torni più a casa”; “papà, perché trotti subito via?” (Freud, 1908e, p. 510). Freud sottolinea come: questa parte dell’angoscia di Hans ha due componenti: paura del padre e paura per il padre. La prima proviene dall’ostilità verso il padre, la seconda dal conflitto tra tenerezza, che qui è esagerata per reazione, e ostilità (Freud, 1908e, p. 511)
Nello stesso mese il padre cerca di approfondire il senso della paura dei cavalli. Il padre intuisce che Hans ha paura non solo che il cavallo, tirando un carretto pesante, possa cadere, ma anche che il cavallo possa nello stesso tempo mordere. Freud specifica quindi che Hans teme che il cavallo (il padre) lo morda a causa del suo desiderio di veder cadere il cavallo (il padre). Infatti, ricostruendo la genesi della fobia, emerge che i cavalli più temuti dal figlio sono quelli che hanno: “una cosa nera sulla bocca” (Freud, 1908e, p. 514), intendendo la cinghia che i cavalli da tiro portano intorno al muso. È in questa occasione che il padre capisce definitivamente qual è stato l’avvenimento che ha scatenato in Hans la paura dei cavalli. Hans racconta, infatti, di essersi spaventato, durante una passeggiata con la mamma, alla vista di un cavallo caduto a terra mentre trainava una carrozza. Ciò che lo aveva spaventato maggiormente era che il cavallo potesse morire e anche il suo continuo scalciare per tentare di rialzarsi. Hans stesso sosteneva che, dopo questo evento, gli fosse venuta per la prima volta la “sciocchezza”, come padre e figlio chiamano la fobia. La conclusione a cui il padre giunge è che i cavalli che spaventano suo figlio sono principalmente quelli che portano carichi pesanti perché hanno maggiori possibilità di cadere per via del peso che devono portare. Hans associa il padre al cavallo caduto: la paura e il desiderio di voler vedere il papà cadere come il cavallo coesistono dentro di lui. Secondo Freud, la fobia nasce da elementi presenti nella quotidianità. Il fatto che proprio il cavallo sia divenuto l’oggetto fobico non è affatto casuale. L’appartamento in cui viveva Hans, situato vicino alla dogana centrale, favoriva la vista di molti cavalli. Inoltre, il bambino ricordava spesso di giocare a “cavalluccio” con i suoi amici a Gmunden. Al ricordo di Fritzl caduto mentre giocavano, si può far risalire la paura che il cavallo cada e si sbucci il ginocchio, così come era successo al compagno di giochi. 9
È questo l’unico incontro “diretto” tra Freud e il piccolo paziente. Avendoli entrambi di fronte, Freud intuisce che Hans “traspone” alcuni particolari del muso del cavallo sul viso del padre (i paraocchi e il nero sul muso del cavallo diventano gli occhiali e i baffi del papà).
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Sempre nel mese di aprile Hans riferisce al padre di aver pensato una cosa: “Io sto nella vasca da bagno e poi viene lo stagnaio e la svita. Poi lui prende un grosso trivello e mi colpisce nella pancia”. [...] Poi Hans riferisce un secondo pensiero: “Andiamo in treno a Gmunden. Giunti a quella stazione ci rivestiamo, ma non riusciamo a finire in tempo e il treno riparte con noi sopra” (Freud, 1908e, p. 527)
È solo verso metà aprile che il padre inizia a trovare un collegamento tra queste ultime fantasie, la vasca da bagno e lo sfortunato viaggio a Gmunden. Il padre e Freud intuiscono, con il procedere dell’analisi, come la nascita della sorellina abbia scatenato nei suoi confronti gli stessi sentimenti ambivalenti riservati al padre. La rivalità per la sorella, che sottrae amore da parte dei genitori, in particolare della madre; paura che possa nascerne un’altra; nostalgia per l’ultima estate serena (1906) prima che arrivi la sorella; fantasie sulla procreazione, sulla gravidanza, sul parto. In realtà, il desiderio di morte della sorellina viene esplicitato con minor senso di colpa. Ecco, quindi, come la fantasia della vasca da bagno possa nascondere una fantasia di procreazione. La vasca rappresenterebbe il ventre materno e il grosso trivello che penetra la pancia indicherebbe l’intervento del padre che ha inseminato il ventre materno. Gmunden indica come questo posto, un tempo spensierato, non lo sia più stato con la nascita della sorellina nell’estate successiva (1907). Inoltre, approfondendo la paura della vasca, il padre intuisce che Hans non teme che la madre possa far cadere lui durante il bagnetto, bensì nutra il desiderio che la madre vi lasci cadere la sorellina Hanna. Hans confessa a entrambi i genitori di aver desiderato che la sorellina non fosse mai nata. Un ulteriore avvenimento interessante che cattura l’attenzione del padre è quello di vedere suo figlio giocare con una bambola di gomma che chiama Grete. Hans si diverte infilandole un temperino in mezzo alle gambe per poi staccargliele in modo tale da far uscire il temperino. Quando il padre interroga il figlio su quanto stesse facendo, emerge che ormai Hans ha intuito autonomamente ciò che i loro genitori non gli avevano spiegato, cioè come avviene una nascita. Hans ha partecipato indirettamente al parto della madre: in questa occasione sorgono in lui i primi dubbi sulla favola della cicogna raccontatagli dal padre. Da qui il padre capisce il collegamento presente tra l’interesse per come avviene una nascita e la paura dei cavalli, soprattutto di quelli che trasportavano carichi molto pesanti, le casse. Il carico pesante portato dai cavalli altro non è che il carico portato dalla mamma durante la gravidanza. La caduta del cavallo avrebbe dunque un doppio significato: da una parte corrisponderebbe al parto, dall’altra alla morte del padre. Inoltre, Hans nei suoi racconti inizia a interessarsi anche alla defecazione, introducendo nei suoi discorsi il tema del “fare tattetta” (Freud, 1908e, p. 526), esprimendo disgusto per tutte le cose che associa all’evacuazione (mutande nere della madre, pezzi di carne di fegato, polpette di carne). Il padre comincia a intuire il collegamento non casuale tra il tema della “tattetta” e il tema della nascita: la sorella Hanna, come tutti gli altri i bambini, non sarebbero altro che delle “tattette” e il rumore che il cavallo fa quando cade corrisponderebbe al rumore che fa la “tattetta” quando cade nel vaso.
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Le idee che il piccolo Hans si è fatto sulla nascita dei bambini generano in lui molte nuove domande. Il bambino si chiede come i figli possano essere generati sia dalla mamma che dal papà. Inoltre, nasce in lui il desiderio di averne di propri. Hans esprime il desiderio di essere sposato con la madre e avere dei figli con lei. Spesso allude ai “miei bambini” (Freud, 1908e, p. 548), finge di accudirli, di fargli fare la pipì e di pulirli, proprio come la mamma aveva fatto amorevolmente con lui. Il 30 aprile il padre chiede al figlio se sa che i bambini non possono generare bambini e Hans risponde: Hans: “Lo so. Prima io ero la mamma, adesso sono il papà”. Io: “E chi è la mamma dei bambini?” Hans: “Eh, la mamma, e tu sei il nonno.” Io: “Allora tu vorresti essere grande come me, essere sposato con la mamma e così lei potrebbe avere i bambini”. Hans: “Sì, vorrei così, e la nonna di Lainz (mia madre) sarebbe la nonna” (Freud, 1908e, p. 551)
Ecco la svolta: l’angoscia per l’inconciliabile amore per il padre con il desiderio della sua morte, in quanto rivale, ora ha trovato una soluzione. Hans si identifica con il padre, sostiene di essere sposato con la mamma e che il padre diventi il nonno, anch’egli sposato felicemente con sua madre. L’identificazione di Hans con il padre viene confermata anche da un altro avvenimento immaginato dal piccolo. Egli afferma che sia venuto uno stagnaio e con le tenaglie gli abbia tolto “il popò” e il “fapipì” vecchi per dargliene altri più grossi. È in quest’occasione che Hans ammette di voler somigliare al papà e avere dei baffi come lui. A questo punto, il complesso di castrazione è stato superato, così come la fobia per i cavalli. È questa soluzione personale che conduce alla conclusione dell’analisi del piccolo Hans. A dimostrazione della buona riuscita del suo percorso di sviluppo, Freud racconta di aver rivisto Hans dopo più di 10 anni dalla sua guarigione. Il ragazzo, ormai diciannovenne, si presenta da Freud come un giovane sano. Racconta di non presentare particolari disturbi e di aver superato con tranquillità anche il divorzio dei genitori. Il giovane, inoltre, non ricorda nulla dell’analisi e delle sue paure passate. Solo il ricordo di un viaggio a Gmunden ha fatto riaffiorare in lui qualche ricordo. Secondo Freud, la guarigione è stata possibile solo permettendo al bambino di lasciare defluire le pulsioni e i suoi desideri rimossi. Grazie a ciò, il piccolo Hans ha potuto esprimere la sua angoscia, superandola. Per Freud, infatti, un’educazione che si propone di dominare o reprimere le pulsioni può portare solo a effetti negativi. Per il padre della psicoanalisi, la fobia è stata un sintomo salutare per Hans, in quanto ha richiamato l’attenzione dei genitori sulle sue difficoltà a superare il suo investimento pulsionale nei confronti della madre. Inoltre, Freud sottolinea come, durante lo svolgimento dell’analisi, Hans abbia mantenuto una sua autonomia e libertà, lasciando al padre in diverse occasioni un ruolo di semplice osservatore passivo. In qualche modo è Hans che ha condotto il padre nel suo percorso di analisi, dimostrando che nel suo inconscio ha sempre saputo come nascono i bambini e dove si trovano prima della nascita.
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L’altra faccia delle psiconevrosi: la nevrosi ossessiva. Caso clinico dell’uomo dei topi
Con il caso clinico dell’uomo dei topi Freud sposta il focus della sua attenzione sulla nevrosi ossessiva, l’altro importante quadro nosografico delle psiconevrosi. Di essa, per la verità, Freud si era già occupato nel 1894 nel saggio dedicato alle Neuropsicosi da difesa; ma la comprensione che di tale tipo di nevrosi Freud mostra in questo caso clinico è decisamente più ampia, sia per la possibilità di ricondurlo all’interno di una precisa impostazione libidica (la fase anale), sia per l’acutezza con cui viene descritto il processo di formazione dei sintomi e le difese ad esso connesse. Freud quindi, se da un lato trova ulteriori conferme al suo modello psicosessuale di sviluppo, dall’altro anticipa alcune importanti osservazioni cliniche presenti in Inibizione, sintomo e angoscia (Freud, 1925c). Dai verbali della Società psicologica del mercoledì (Nunberg e Federn, 1973) risulta che Freud portò il caso clinico più di una volta all’attenzione dei colleghi; tale caso costituì, inoltre, l’oggetto della sua comunicazione al primo Congresso di psicoanalisi, tenutosi a Salisburgo il 27 aprile del 1908. Pubblicato nel 1909, esso si è arricchito, dopo la morte di Freud, di un’interessante appendice contenente degli Appunti riferibili alle singole sedute. Essi coprono circa tre mesi e mezzo dell’analisi e raccolgono riflessioni, prima puntualmente raccolte dopo ogni seduta e poi formulate in forma riassuntiva, sviluppate dal padre della psicoanalisi a margine del trattamento. Si tratta di un ritrovamento eccezionale, non solo poiché Freud era solito distruggere documenti come questo, ma anche per il fatto di rivelarci un Freud alle prese con difficoltà costituite da amnesie e dubbi determinati da un paziente che lo metteva spesso “alla prova”. Forse per suoi conflitti non risolti (Freud, 1909, p. 81) o forse per un transfert a volte molto aggressivo del paziente, Freud commette anche alcune “violazioni del setting”, come quando fa preparare del cibo per il paziente giunto in seduta affamato o si difende con forza dal sospetto, avanzato dal paziente, che il fratello del padre della psicoanalisi sia un delinquente. Si seguirà lo sviluppo del caso attraverso le tappe individuate da Freud, arricchendolo in itinere delle considerazioni teoriche, che in Freud costituiscono invece una parte a sé stante.
Premessa Nella premessa, Freud sottolinea come questo caso di nevrosi ossessiva sia da annoverare tra i più gravi, per durata, per conseguenze e per valutazione dello stesso paziente. D’altra parte, se è vero che il linguaggio della nevrosi ossessiva è, per cosi dire, solo “un dialetto” del linguaggio isterico, dovrebbe essere più facile comprenderlo, poiché più vicino al nostro modo abituale di comunicare basato sul pensiero cosciente. “Soprattutto esso non contiene quel salto dallo psichico all’innervazione somatica – la conversione isterica – di cui non riusciamo mai a farci un concetto” (Freud, 1909, p. 8). Ma – osserva Freud – è scarsa la frequenza con cui ci imbattiamo nella nevrosi ossessiva e incorriamo spesso in difficoltà nel trattamento per le resistenze e le forme in cui la nevrosi si esprime. Rispetto a quelli colpiti da isteria, d’altra parte, i pazienti affetti da nevrosi ossessiva decidono di interpellare un medico solo nello stadio avanzato della malattia, essendo in grado di dissimulare il loro stato di disagio nella vita quotidiana.
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Dalla storia della malattia Inizio del trattamento Il paziente, che si presenta a Freud per una consultazione nell’ottobre del 1907, è un giovane uomo di circa trent’anni, di cultura universitaria. Egli dichiara di soffrire di rappresentazioni ossessive fin dall’infanzia, ma con particolare intensità negli ultimi quattro anni. Racconta di timori rispetto alla possibilità che qualcosa di pericoloso possa accadere alle due figure più significative della sua vita: il padre e la donna amata. Inoltre, dichiara di avvertire impulsi ossessivi, come tagliarsi la gola con un rasoio, e di produrre una serie di divieti riferiti a cose insignificanti. Il paziente decide di sottoporsi all’analisi presso Freud perché interessato alle sue teorie sulla sessualità, pur non avendo letto nessuno dei suoi scritti. Sessualità infantile Il paziente racconta di una precoce attività sessuale intorno ai quattro o cinque anni: episodi di esplorazione e curiosità nei confronti del corpo femminile, in particolare quello delle due governanti di casa. Queste giovani ragazze avevano permesso al bambino di farsi toccare nelle parti intime e di osservarle mentre erano in bagno. In seguito riferisce di frequenti erezioni all’età di sei anni e del desiderio di vedere corpi femminili nudi. Queste sensazioni di desiderio e piacere si accompagnano però al timore che qualcosa di spiacevole possa accadere. In particolare, la paura persistente che possa morire suo padre è un pensiero che l’ha ossessionato fin da piccolo, nonostante Freud scopra con stupore che sia morto da nove anni. Inoltre, il paziente racconta di aver avuto durante l’infanzia l’idea persistente che i genitori conoscessero i suoi pensieri, come se potessero leggere nella sua mente. Un’idea nata quando aveva circa sette anni e che da allora in poi non l’aveva più abbandonato. Per Freud questi episodi non sono l’inizio della malattia, ma già la malattia stessa. Freud descrive come i desideri di natura sessuale del bambino fossero accompagnati da un “affetto penoso” (Freud, 1909, p. 13) e una paura ossessiva, associata a superstizioni. Da tutto ciò scaturiscono impulsi, coazioni a fare qualcosa che scongiuri la disgrazia, delle specie di regole protettive. Il grande timore ossessivo Il paziente riferisce due episodi avvenuti durante il servizio militare: la perdita degli occhiali (pince-nez) e il racconto di una tortura praticata in Oriente. Questi due avvenimenti si verificano durante un’esercitazione militare e nell’arco della stessa giornata. Nel primo episodio il giovane racconta di aver perso durante la marcia i suoi occhiali da vista (pince-nez) e di averli ordinati subito, tramite telegrafo, all’ottico di Vienna. Nel secondo riporta con difficoltà un racconto udito da un capitano cèco durante una sosta delle esercitazioni militari. Quest’ultimo, noto tra gli ufficiali per la sua crudeltà, descrive una tortura applicata in Oriente, in cui alle natiche del condannato viene legato un vaso pieno di topi, che si infilano nell’ano del prigioniero. Il paziente racconta con orrore questo episodio, interrompendo più volte il racconto, ma giungendo alla fine a dire che ciò sarebbe potuto accadere “a una persona a me cara” (Freud, 1909, p. 16), ovvero al padre o alla donna amata. Freud nota che a questa “idea”
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segue sempre una “sanzione”, ossia una regola difensiva, un rituale che permetta di annullare questo pensiero sgradevole, secondo una tendenza proiettiva. Nella sera seguente il pacchetto del pince-nez arrivato per posta viene consegnato al paziente dallo stesso capitano cèco, che gli riferisce che il tenente A. ha anticipato il pagamento con un assegno; gli raccomanda di restituire la somma di 3 corone e 80 al collega ufficiale. È questa l’occasione in cui si forma nel paziente la “sanzione”: “non restituire il denaro altrimenti succede quella cosa” (Freud, 1909, p. 17), ovvero la fantasia dei topi per il padre e la donna amata. Nello stesso momento la sanzione viene ribattuta da un ordine che è quasi un giuramento: “tu devi rendere le 3 corone e 80 al tenente A.” (Freud, 1909, p. 17). Avendo scoperto poi che il pagamento era stato effettuato da un altro tenente, il paziente è colto dal tormento del dubbio. Egli non può restituire il denaro al tenente A. per la superstizione che possa capitare la tortura ai suoi cari, ma nello stesso tempo deve adempiere al giuramento, restituendo i soldi al tenente A. Il paziente viene anche aiutato da un amico a recarsi presso l’ufficio postale ad effettuare il pagamento direttamente all’impiegata, scoprendo però che lei stessa aveva anticipato la somma. Freud sottolinea come proprio “Nella trama del delirio s’inserì sagacemente [...] la decisione di consultare un medico” (Freud, 1909, p. 20), da cui farsi rilasciare un certificato che gli permettesse di giustificare per problemi di salute la restituzione della somma di denaro al tenente A. e rispettare quindi il giuramento. Una volta giunto in cura da Freud, il giovane in realtà non chiese alcun certificato, ma solo di liberarsi dalle sue ossessioni.
Avvio alla comprensione della cura Nella successiva seduta il paziente racconta diffusamente la storia della malattia del padre, morto nove anni prima di enfisema. Il giovane all’inizio non sembrò “realizzare” la morte del padre e solo dopo un anno e mezzo incominciò a rimproverarsi di non essere stato presente al momento del suo trapasso. Un rimorso che permetterà a Freud di guidare il paziente verso la comprensione dei suoi sintomi. Dice Freud che proprio in questo caso la sproporzione tra il contenuto rappresentativo e l’affetto, ovvero tra l’enormità dell’autorimprovero e il pretesto che ha fornito lo spunto, aiuta a capire che si tratta di un falso nesso. In realtà l’affetto di rimorso del paziente è più profondo rispetto al motivo attuale e trova radici nell’infanzia. Il conscio è soggetto a usura, pertanto non c’è consapevolezza da parte del soggetto, ma l’inconscio non conosce quest’alterazione temporale. Freud sottolinea come: “L’inconscio è l’infantile: è quella parte della personalità che a quell’epoca si è separata, non ha seguito l’evoluzione del tutto ed è stata perciò rimossa” (Freud, 1909, p. 20). Nelle sedute successive affiorano progressivamente alcuni ricordi infantili del paziente legati al pensiero della morte del padre. In particolare, il paziente racconta di un episodio risalente alla sua infanzia. A circa 12 anni si innamorò di una ragazzina, ma non fu corrisposto: gli venne allora il pensiero che se fosse morto suo padre la ragazzina sarebbe stata più affettuosa con lui, in questa circostanza di disgrazia. Egli continua riferendo che gli stessi pensieri erano sorti anche sei mesi prima della morte del padre, in concomitanza con il suo attuale innamoramento per la signora oggetto dei suoi timori ossessivi. Tale innamoramento era tuttavia ostacolato da impedimenti materiali. Pertanto, pensò alla morte del padre come a una
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soluzione economica in virtù dell’eredità che gli sarebbe spettata. Freud riconosce l’idea della morte del padre come un antico desiderio rimosso, che negli anni continua ad affiorare. L’intensità attuale della nevrosi del giovane, dovuta a un’ambivalenza affettiva nei confronti del padre, si lega a questo lutto patologico non elaborato. Per il paziente è difficile accettare questa ambivalenza pulsionale, ovvero che il suo dichiarato amore per il padre possa in realtà coesistere con un odio intenso, ma rimosso dalla coscienza. La fonte dell’ostilità è antica: il padre si era mostrato ai suoi occhi come un intralcio ai suoi appetiti sensuali. Nelle sue prime esperienze sessuali con le governanti, raccontate all’inizio del caso, il padre era stato punitivo. Dice Freud che il paziente si era trovato in uno stato di conflitto inalterato negli anni, di natura inconscia, tra impulsi sessuali e amor filiale. Il conflitto ora si era riattualizzato a causa della perdita del padre, fonte principale dell’intensità della sua malattia.
Alcune rappresentazioni ossessive e loro traduzione Successivamente, il paziente racconta un altro episodio recente, collegato alla donna a lui cara: trovandosi su una strada sterrata, il paziente inciampa su un sasso e, pensando che di lì a poco sarebbe passata la carrozza della sua amata, decide di raccogliere il sasso e di posarlo al lato della strada per evitare che la donna si possa fare male. Pochi minuti dopo, ritenendo il suo gesto assurdo, torna a riposizionare il sasso così come lo aveva trovato. Inoltre, racconta un altro episodio relativo all’assenza della donna amata, che era dovuta partire per un certo periodo per assistere la nonna gravemente malata. Egli, in quell’occasione, sentì un impulso suicida, tagliarsi la gola con il rasoio, e nello stesso tempo un desiderio omicida nei confronti della parente della donna amata, in quanto causa della sua assenza. Per Freud il monito: “Ammazza te stesso” (Freud, 1909, p. 31), segue come autopunizione per il desiderio omicida. Queste rappresentazioni ossessive si esprimono in modo coatto, come reazioni di pentimento contro un impulso contrario, ostile, verso le persone amate. Nel paziente infuria una lotta tra amore e odio verso la stessa persona, una lotta che trova una raffigurazione plastica nel gesto coatto. In realtà, egli prova collera nei confronti della donna amata e ciò contribuisce a formare le ossessioni. Per esempio, togliere il sasso dalla strada, che avrebbe potuto essere un pericolo per la carrozza dell’amata, è un atto d’amore, subito dopo annullato dall’atto contrario, rimettere il sasso. La coazione è un tentativo di compensare il dubbio, una tendenza allo spostamento del sentimento ostile. Entrambe le azioni coatte appartengono allo stesso atto patologico, come due facce della stessa medaglia: tali azioni in due tempi sono tipiche della nevrosi ossessiva. In essa si attiva un’onnipotenza del pensiero, espressa nella tendenza al controllo e all’annullamento retroattivo. Le azioni coatte sono razionalizzate dal soggetto, mentre inconsciamente raffigurano un conflitto tra due impulsi antagonisti di pari forza, odio e amore. Freud identifica così un nuovo modo di formarsi del sintomo: nell’isteria avviene un compromesso in cui i due opposti si presentano in una sola raffigurazione; nella nevrosi ossessiva i due opposti vengono rappresentati singolarmente, prima l’uno e poi l’altro. L’antagonismo dei sentimenti che il paziente prova per questa donna si esprime poi sempre più consapevolmente, durante la cura, nell’alternanza di sentimenti positivi e di impulsi negativi, che rendono lontana la meta matrimoniale.
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La causa immediata della malattia Per Freud la nevrosi ossessiva, come tutte le nevrosi, trova i suoi presupposti nell’infanzia. Tuttavia, la rimozione agisce in modo diverso. Nell’isteria la rimozione provoca l’amnesia del trauma, mentre nella nevrosi ossessiva il trauma viene privato del suo investimento affettivo, così da mantenersi nella coscienza come un contenuto rappresentativo indifferente. L’uomo dei topi racconta a Freud proprio un avvenimento che si può rintracciare come la causa immediata dello scoppio della malattia, ma che appare nel racconto come un avvenimento privo di valore. Alla morte del padre, il paziente aveva saputo che la madre si era accordata per un matrimonio combinato tra il figlio e la figlia di un cugino, ma solo a conclusione degli studi del ragazzo. Questo progetto familiare aveva provocato un conflitto nel paziente: perseguire nel suo amore per la donna di cui era innamorato, benché povera, o assicurarsi un futuro agiato, come aveva fatto il padre, sposando una ragazza ricca? Infatti il padre, benché fosse innamorato di una ragazza di modeste condizioni, aveva sposato sua madre che proveniva da una ricca famiglia, raggiungendo una posizione agiata. Nel paziente si innesta quindi un conflitto tra il suo amore e la volontà paterna, nonostante il padre sia già morto. La malattia ha come esito principale il ritardo della conclusione degli studi, quindi una fuga nella malattia che ha come utilità secondaria la sottrazione al conflitto. Il paziente inizialmente non accetta l’interpretazione degli eventi data da Freud: d’altra parte, osserva il padre della psicoanalisi, i pazienti ignorano l’enunciazione esatta delle proprie idee ossessive. In realtà la causa della malattia si rivela anche in una fantasia di traslazione del paziente. Egli infatti immagina che una ragazza, incontrata per caso sulle scale della casa di Freud, sia la figlia dello stesso Freud. Ulteriormente il paziente interpreta l’amabilità e la pazienza di Freud come desiderio di quest’ultimo di averlo come genero, elevandone lo stato sociale. Il paziente riesce, con l’aiuto di Freud, a intravedere le analogie tra quanto emerge nella traslazione e la realtà del passato. Oltre a ciò, l’analisi di un sogno permette di chiarire il conflitto in atto nel paziente. Il giovane sogna la figlia di Freud davanti a lui con due pillacchere di sterco al posto degli occhi: quindi nella sua immaginazione egli la sposa non per i suoi begli occhi, ma per il suo denaro. In realtà, questo conflitto attuale tra le sue inclinazioni amorose e la volontà paterna ha radici antiche. Il complesso paterno e la soluzione dell’idea dei topi Lo sfondo familiare del paziente è dominato dalla figura del padre, descritto come un uomo dalla personalità contraddittoria: dotata sì di buone capacità affettive, ma, al tempo stesso, militaresca, autoritaria, passionale e talora preda di una rabbia incontrollabile che sfociava in severi castighi per i figli. Tuttavia, il paziente sottolinea il legame con il padre, in quanto con la crescita dei figli egli era diventato più bonario che autoritario. Nei racconti precedenti Freud individua nel padre il principale ostacolo alle precoci tendenze erotiche del figlio. Dice Freud che la sessualità, soprattutto nella sua pratica di onanismo, può provocare effetti patologici se l’individuo non riesce ad assolvere il compito di reprimere e sublimare le componenti sessuali, senza inibizioni. In questo caso, nel racconto del paziente si osserva una precoce attività sessuale, interrotta durante la pubertà e ripresa inten-
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samente solo dopo la morte del padre. L’ipotesi di Freud è che nell’infanzia il paziente fosse stato esposto a punizioni paterne in seguito ad attività onanistiche, che pongono fine alla pratica, ma lasciano dietro di sé rancore verso il genitore come: “colui che intralcia il godimento sessuale” (Freud, 1909, p. 43). Il giovane racconta un altro episodio che risale alla prima infanzia, in cui era stato picchiato e punito dal padre per un morso dato a qualcuno, probabilmente una governante. Le percosse subite da bambino provocano in lui una rabbia repressa che si trasforma in viltà per la paura di perdere la misura della sua collera. Questa è la ricostruzione dei nessi che porta al chiarimento dell’episodio del capitano cèco e del debito del pince-nez. Freud nota come i due episodi abbiano colpito zone ipersensibili del suo inconscio, come se esistesse nel malato una “sensibilità complessuale” (Freud, 1909, p. 47). Per Freud “topo” è una “parola-stimolo” (Freud, 1909, p. 51), che avvia una serie di associazioni nella mente del paziente. La rappresentazione del supplizio dei topi ha sollecitato una serie di pulsioni e ha risvegliato una grande quantità di ricordi, per cui i topi acquisiscono più significati simbolici. In particolare, si rintracciano nella parola topo alcuni rimandi sessuali: come veicolo di pericolose infezioni, come organo genitale, come qualcosa che ha a che fare con un rapporto sessuale. E ancora il topo che brulica nell’ano come il verme brulica nella pancia del paziente bambino: erotismo anale. L’associazione tra le parole “Ratten (topo) e Raten (pagamenti, rate)” (Freud, 1909, p. 49) rimanda al collegamento tra topo e denaro. In una seduta il paziente costruisce un’associazione: “tanti fiorini tanti topi” (Freud, 1909, p. 49), inventando una valuta dei topi. Inoltre, per Freud esiste nel paziente un’identificazione inconscia con il padre, anch’egli sottufficiale. Episodi attuali nella vita del paziente si collegano ad avvenimenti di vita militare narrati dal padre: una somma di denaro ricevuta in custodia viene persa al gioco delle carte. Il padre, quindi, come Spielratte, “un topo di gioco”, termine usato per indicare un giocatore d’azzardo. Nel paziente il debito per la consegna del pincenez si collega inconsciamente al debito di gioco paterno mai saldato. Ed ecco che il giovane riferisce che la donna amata da tanti anni, che non si decide a sposare, in realtà è sterile. Questa è la causa della sua esitazione al matrimonio, poiché non avrebbe potuto avere dei bambini che amava tanto. In tutta questa ricostruzione Freud rintraccia: “l’oscuro processo intervenuto nella formazione della sua ossessione” (Freud, 1909, p. 52). Il racconto del capitano sul supplizio dei topi, crudele e lascivo, si collega al morso dato a qualcuno quando era bambino; non solo, il capitano prende il posto del padre punitivo, capace di infliggere simili crudeltà. Il capitano attiva così l’antico rancore provato per il padre e il timore che qualcosa possa avvenire a una persona cara in realtà è il desiderio che possa capitare. Queste idee punitive e vendicative per il padre esigono però un castigo: il giuramento di rendere il debito del pince-nez, rispettato alla lettera. Il supplizio dei topi che vorrebbe inflitto alla donna amata, incapace di dargli figli, si collega alla teoria sessuale dei bambini secondo cui i bambini uscirebbero dall’ano. Quindi l’uscire dall’ano è rappresentato dal suo contrario, l’entrare nell’ano. I due conflitti che animano il paziente sono: rimanere o no obbediente al padre; rimanere o no fedele all’amata. Freud conclude che:
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non è certamente lecito attendersi per idee ossessive così gravi soluzioni più semplici o che si possano raggiungere con metodi diversi. Ottenuta la soluzione sopra descritta, il delirio dei topi scomparve (Freud, 1909, p. 54)
Il trattamento durò circa un anno. È Freud stesso a darci notizia della morte del paziente durante la prima guerra mondiale in una nota aggiunta nel 1923.
Il narcisismo e lo studio della patologia grave
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Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Freud anni di produzione intensa dal punto di vista scientifico e clinico, ma anche piuttosto difficili per le vicissitudini che il movimento psicoanalitico attraversò. Sono di questi anni i distacchi da Adler e da Stekel: il primo dovuto a discordanze concettuali ben precise, il secondo a fattori soprattutto di ordine caratteriale. Ma di tutt’altra specie si stava rivelando il dissidio con Jung: su quest’ultimo Freud aveva riposto molta fiducia, ipotizzando che egli avrebbe potuto imprimere alla psicoanalisi un carattere meno ebraico, cui i primi collaboratori di fatto facevano necessariamente pensare. Non solo, considerati i contatti di Jung con Bleuler e altri medici e psichiatri non viennesi, Freud era convinto che grazie a Jung la psicoanalisi avrebbe potuto assumere un carattere più internazionale, diffondendosi nel mondo. Non a caso Jung era stato nominato Presidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, mentre Freud si era “limitato” a subentrare ad Adler come Presidente della Società Psicoanalitica di Vienna. La reciproca stima e il reciproco rispetto avevano caratterizzato da subito i rapporti tra Freud e Jung, sebbene, già nel lungo viaggio che aveva portato entrambi nel 1909 negli Stati Uniti per il ciclo di conferenze alla Clark University, Jung si fosse accorto di una certa reticenza di Freud nel riferirgli alcune associazioni che riconducevano alla sua vita privata; cosa che aveva in parte compromesso il lavoro di reciproca interpretazione dei sogni che i due si erano impegnati a fare. Le cose peggiorarono a partire dallo sviluppo condotto da entrambi su due aree concettuali, celando in realtà un dissidio che aveva le sue radici nella difesa dell’ortodossia psicoanalitica, ma soprattutto dell’esserne il portavoce più autorevole da parte di Freud. Le aree in questione si intrecciavano da un lato con lo sviluppo del pensiero di Freud su costumi, credenze e forme di organizzazione sociale propri delle popolazioni primitive e che il padre della psicoanalisi ritrovava, attraverso l’analisi dei pazienti nevrotici, come elementi comuni della personalità inconscia di tutti gli uomini. I quattro saggi di cui si compone Totem e tabù (Freud, 1912–1913) richiamavano, neppure tanto indirettamente, alcune ipotesi fatte da Jung sull’inconscio: quasi che Freud temesse di dover riconoscere una sorta di “diritto di prelazione” in questo straordinario viaggio di scoperta della mente al collega svizzero. Dall’altro lato, e in modo ben più scottante, lo sviluppo del concetto di libido, sostenuto e approfondito da Freud proprio in questo periodo, mal si conciliava con le idee che, sullo stesso concetto, stava sviluppando Jung. Su questo punto i due non erano mai stati in O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_7, © Springer-Verlag Italia 2014
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accordo, se già in una lettera del 31 marzo 1907 Jung scriveva a Freud che era necessario approfondire la tematica dell’autoerotismo rispetto allo sviluppo della dementia praecox. Ma certo la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido (Jung, 1912) da parte di Jung sancì un punto di vista nettamente diverso, e soprattutto inconciliabile, con quello di Freud1. I rapporti tra Freud e Jung, critici, ma ancora improntanti a un reciproco rispetto pur diffidente, esplosero nel giugno del 1912. È il cosiddetto “affare di Kreuzlingen”: Freud e Jung avrebbero dovuto incontrarsi appunto a Kreuzlingen, a casa di Binswanger in quel momento ammalato; ma Jung non si presentò e motivò la cosa con l’essere stato avvertito in ritardo; in realtà, Jung poi ammise di non aver controllato il timbro postale, che portava una data antecedente e utile all’incontro, e di essersi assentato proprio nei giorni in cui Freud si trovava da Binswanger. Di fronte a una rottura che sembrava ormai inevitabile e al timore di possibili sfilacciamenti e deviazioni all’interno del nascente movimento psicoanalitico, Jones assunse un’iniziativa piuttosto strana: propose a Freud (lettera a Freud del 30 luglio 1912) di formare una sorta di “Comitato segreto”, composto da “fedelissimi” all’ortodossia freudiana. Ne fecero parte Jones, Ferenczi, Abraham, Rank, Sachs e – a partire però dal 1919 su suggerimento di Freud – Eitingon; si riunì per la prima volta nel maggio 1913. Come segno d’appartenenza ciascuno portò un anello al dito con un cammeo riportante un’iscrizione greca, simbolo della stima reciproca e dell’appartenenza al gruppo dei “pionieri” (da qui anche la denominazione di “Compagnia dell’anello”). Nell’autunno-inverno del 1912–1913 i rapporti tra Freud e Jung sembrarono inizialmente appianarsi, sia con un chiarimento tra i due sia rispetto a quanto accaduto a Kreuzlingen, sia per quanto sostenuto da Jung in alcune conferenze tenute quella stessa estate in America, nelle quali si era permesso di “semplificare”, ma non di contraddire, alcune teorie freudiane. In realtà, un violento scambio epistolare proprio a cavallo dei due anni sancì la fine dell’amicizia tra i due studiosi. Al quarto Congresso dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, organizzato a Monaco per il 7–8 settembre 19132, l’atmosfera fu molto pesante: Jung fu rieletto Presidente con 52 voti a favore e 22 astenuti del gruppo vicino a Freud. Nell’ottobre di quello stesso anno Jung e Bleuler si dimisero dallo “Jahrbuch der Psychoanalyse” e quando, nel 1914, apparve il lavoro di Freud dedicato alla ricostruzione della storia della psicoanalisi (Freud, 1914a) e al narcisismo (Freud, 1914b) con chiare e forti prese di posizione contro quanto sostenuto dai dissidenti, e da Jung in particolare, il futuro fondatore della Psicologia Analitica ritenne di dover dare le dimissioni dalla Presidenza della Associazione Psicoanalitica Internazionale e fu sostituito da Abraham. Al di là di queste prime lotte interne, che segnarono profondamente il nascente movimento psicoanalitico, gli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale (29 luglio del 1914) furono caratterizzati da una significativa produzione 1 2
Cfr. più avanti Introduzione al narcisismo (Freud, 1914b). I primi tre si erano svolti a Salisburgo (27 aprile 1908), Norimberga (30–31 marzo 1910) e Weimar (21–22 settembre 1911).
7.1 Fondamenti teorici: Introduzione al narcisismo
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scientifica di Freud, quasi a tracciare con forza le linee imprescindibili della sua teoria e della sua tecnica a fronte di uno sgretolarsi di importanti certezze politiche e sociali che il padre della psicoanalisi visse in prima persona. Sono di questo periodo l’importante saggio sul narcisismo, due importanti casi clinici e Metapsicologia (Freud, 1915a) in cui, tra l’altro, ritroviamo Freud alle prese con la depressione.
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Fondamenti teorici: Introduzione al narcisismo (1914b)
Utilizzato da Freud per la prima volta in una riunione della Società Psicoanalitica di Vienna (10 novembre del 1909), il termine narcisismo – definito da Freud in apertura della prima parte del saggio – indicherebbe “il comportamento di una persona che tratta il proprio corpo allo stesso modo in cui è solitamente trattato il corpo di un oggetto sessuale” (Freud, 1914b, p. 443), così come era stato descritto qualche anno prima da P. Näcke, che con H. Havelock Ellis si era occupato pionieristicamente della questione. L’interesse di Freud è però per quei casi in cui singoli aspetti del comportamento narcisistico si presentano all’interno di altri disturbi psichici, per esempio nei casi di perversione, ma anche di psiconevrosi e soprattutto nei momenti del trattamento in cui tali disturbi psichici sembrano poco “attaccabili”. Tuttavia, nelle psiconevrosi il rapporto con la realtà non è affatto interrotto; al contrario, essa è oggetto di forti investimenti, benché spesso in forma di fantasia. In altre parole, anche pazienti come Anna O., in cui sembravano periodicamente subentrare distacchi dalla realtà, sviluppavano nella loro mente intense fantasie, più o meno consapevoli, nei confronti di persone a loro vicine, come Breuer. Al contrario, le parafrenie3, i cui tratti caratteristici sono secondo Freud il delirio di grandezza e il disinteresse per persone e cose del mondo esterno, appaiono pervase da reali “ritiri” di tipo narcisistico che le rendono inaccessibili ai trattamenti psicoanalitici. Quale destino ha la libido sottratta agli oggetti? Freud non ha dubbi: la libido sottratta agli oggetti è di nuovo rivolta sull’Io. Si tratta in realtà di una riappropriazione da parte dell’Io di un qualcosa che era già suo: è per questo che è opportuno – osserva Freud – parlare di narcisismo secondario, che a questo punto si configura come qualcosa caratterizzante i gravi disturbi mentali, distinguendolo dal narcisismo primario, una normale condizione della primissima infanzia. Proprio nei bambini molto piccoli e nei popoli primitivi (Freud, 1912-1913) è rintracciabile una “onnipotenza del pensiero”, o forme di pensiero magico, tali da farci pensare alla presenza di “un investimento libidico originario dell’Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d’oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette” (Freud, 1914b, p. 445). 3
Il termine fu utilizzato da Freud con l’obiettivo di trovare un punto d’incontro tra il termine dementia praecox, utilizzato da Kraepelin, e schizofrenia, di cui parlava Bleuler e il suo gruppo. Ebbe tuttavia scarsa diffusione. Non solo. Freud aveva avanzato l’ipotesi che la paranoia costituisse solo una “parte” delle parafrenie, contrariamente a quanto sostenuto da Kraepelin.
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7 Il narcisismo e lo studio della patologia grave
È dunque possibile osservare una contrapposizione tra libido (o pulsione) dell’Io e libido (o pulsione) oggettuale: esse stanno tra di loro in un rapporto dinamico, tale per cui al crescere dell’una l’altra diminuisce. Esemplificazioni portate da Freud al riguardo sono l’autopercezione di una catastrofe interiore tipica dei pazienti paranoici nel primo caso, di innamoramento totalizzante nel secondo. La prima parte di questo denso saggio si conclude con la risposta fornita da Freud a due possibili quesiti: il primo riguarda il rapporto tra narcisismo e autoerotismo; il secondo l’utilità di distinguere le due forme di libido di cui sopra. L’ipotesi che fa Freud è che l’Io, non esistendo sin dall’inizio della vita come unità coesa in sé, ma che vada man mano evolvendosi, possa divenire oggetto d’investimento solo in un “secondo tempo”, cosicché per le pulsioni autoerotiche, assolutamente primordiali, sia da ritenere plausibile l’assenza di oggetto. La libido dell’Io farebbe dunque da “ponte” tra autoerotismo (privo d’oggetto) e amore per l’altro (libido oggettuale). Né è da mettere in dubbio, come fa Jung, la teoria della libido e del suo sviluppo per il fatto di sembrare in difficoltà nello spiegare le parafrenie. Freud si fa qui molto aspro: paragonare un paranoico a un anacoreta poiché entrambi ritirano la libido dal mondo (Jung, 1913) sembra superficialmente non tenere nel dovuto conto la spinta verso qualcosa che proviene da fonti di natura erotica (il paranoico) piuttosto che da altre fonti (l’anacoreta). La seconda parte di Introduzione al narcisismo si apre con il tentativo fatto da Freud di individuare altre condizioni, non necessariamente psicopatologiche, in cui sia evidente un assetto narcisistico della persona. Una prima condizione è quella della persona tormentata da un dolore o colpita da malattia: diventa inevitabile in questi casi abbandonare ogni interesse per avvenimenti o persone appartenenti al mondo esterno, a meno che non abbiano diretto riferimento con la condizione suddetta. Anche lo stato di sonno può, secondo Freud, essere annoverato tra le condizioni di ritiro della libido sull’Io: l’esclusivo desiderio di dormire ci spinge a “isolarci” dal mondo esterno. Da ultimo Freud cita l’ipocondria, una condizione psicopatologica caratterizzata da un forte investimento su uno specifico organo (sua erogenicità), tale da determinare forti preoccupazioni sul suo buon funzionamento e causare un’alterazione dell’investimento libidico dell’Io. A questo punto, sulla base delle vicissitudini della libido dell’Io e della libido oggettuale, Freud fa un’ipotesi eziopatogenetica fondata sul possibile “ingorgo” dell’una o dell’altra. È piuttosto evidente la “forza” esplicativa attribuita da Freud a questo concetto metapsicologico, che lo porta a sostenere una posizione che può apparire riduzionistica, ma che certo ha dalla sua la forza della coerenza. Dunque, nel caso di ingorgo, ossia di una sorta di rallentamento o blocco nel normale fluire e dispiegarsi della libido dell’Io, ci troveremo di fronte a casi di ipocondria, quando non di parafrenia; se, invece, questo destino tocca alla libido oggettuale, ci imbatteremo nelle psiconevrosi (isteria e nevrosi ossessiva). E se invece lo sviluppo della libido segue il suo corso normale? Come avviene lo spostamento di una quota della libido dall’Io all’oggetto? La risposta a questa domanda completa la seconda parte del saggio. L’ipotesi che sviluppa Freud è basata sulla convinzione che lo studio della vita amorosa degli esseri umani sia un terzo utile modo per accostarci allo studio del narcisismo. Ora, come l’attenzione rivolta
7.1 Fondamenti teorici: Introduzione al narcisismo
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sinora alla libido oggettuale ha impedito di valutare l’esistenza e l’importanza di una libido dell’Io, così lo studio di come avvengono le scelte oggettuali nel bambino ha messo in secondo piano i suoi orientamenti narcisistici. I primi oggetti sessuali del bambino sono infatti indissolubilmente legati a esperienze di soddisfacimento delle principali funzioni vitali: le pulsioni sessuali all’inizio “si appoggerebbero” così alla gratificazione di pulsioni dell’Io, rendendosi solo in un secondo tempo indipendenti. Per fare un nostro semplice esempio: un bambino allattato al seno trova in esso fonte di soddisfazione per le pulsioni dell’Io, ma ben presto “registra” anche tutta un’altra serie di sensazioni legate al movimento ritmico della bocca, al contatto con la madre, al maneggiamento che procurano una gratificazione delle pulsioni sessuali: queste ultime, tuttavia, non esisterebbero se non ci fossero le prime. Tale manifestazione “per appoggio”4 diventa ancora più evidente nel momento in cui il bambino porta alla zona orale qualcosa non per nutrirsi, ma per il semplice piacere di manipolarlo con la bocca. Freud osserva che questo tipo di condizione trova ulteriore testimonianza e conferma nel fatto che i primi oggetti sessuali sono costituiti dalle persone che hanno a che fare con la nutrizione, la cura e la protezione del bambino (in genere la madre). Ma questa non è l’unica scelta oggettuale possibile. La ricerca psicoanalitica – continua Freud – ci ha segnalato che ne esiste una seconda propria di chi nella successiva scelta dell’oggetto d’amore assume la propria persona. “Essi cercano palesemente sé stessi come oggetto d’amore e manifestano il tipo di scelta oggettuale da definirsi ‘narcisistico’ (Freud, 1914b, p. 458). Si tratta di un fenomeno più evidente nei casi in cui lo sviluppo libidico abbia subito un qualche disturbo5, ma molto evidente anche in quelle relazioni affettive in cui un partner cerca nell’altro una parte del suo Io non sviluppata (per esempio, si potrebbe pensare banalmente a una formazione culturale che l’altro possiede) o, ancora, come osserva Freud alla fine di questa parte del saggio, in quelle relazioni filiali nelle quali, al di sotto dell’amore oggettuale verso i figli, è riscontrabile quello narcisistico dei genitori, che vedono la possibilità di realizzazione per mezzo del figlio di parti del proprio Io. In sintesi, dunque, un essere umano può amare secondo due differenti modi: 1. secondo il tipo narcisistico (di scelta oggettuale): a. quel che egli stesso è (cioè se stesso); b. quel che egli stesso era; c. quel che egli stesso vorrebbe essere; d. la persona che fu una parte del proprio Sé; 2. secondo il tipo (di scelta oggettuale) “per appoggio”: a. la donna nutrice; b. l’uomo protettivo, e la serie delle persone che fanno le veci di queste (Freud, 1914b, p. 460) 4
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Anlehnungstypus, in tedesco. Strachey introdurrà come sinonimo della parola tedesca l’espressione anaclitic type, in analogia con il termine “enclitico”, che sta a indicare parole prive d’accento che, nella pronuncia, si appoggiano sulle parole precedenti. Per cui si parla di scelta di tipo “anaclitica”. È nota la “datata” posizione di Freud sull’omosessualità, considerata una manifestazione di inversione sessuale, cioè di alterazione dello sviluppo sessuale rispetto all’oggetto.
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Dunque, alla fine Freud sembra far intravedere un modello di scelta oggettuale “per appoggio” che tenga conto anche dello sviluppo della donna: poco prima aveva sottolineato che tra i due sessi esistono “differenze di fondo” (Freud, 1914b, p. 458), connesse soprattutto al cambio d’oggetto d’investimento – dalla madre al padre – implicito nell’evoluzione psicosessuale della bambina. La terza e ultima parte di Introduzione al narcisismo si apre con alcune considerazioni sul “complesso di evirazione” (angoscia per il pene nel ragazzo e invidia del pene nella ragazza): esso indica una situazione a partire dalla quale si può arguire che pulsioni libidiche e pulsioni dell’Io possono comparire unite sotto forma di interessi narcisistici. In opposizione a Adler, chiamato direttamente in causa con la sua proposta di “protesta virile”, Freud ritiene che né quest’ultima, né il complesso di evirazione possano, presi isolatamente, spiegare l’origine della nevrosi. Tuttavia, è noto che le pulsioni sono soggette a rimozione, generando conflitto nell’individuo, nel momento in cui entrino in rotta di collisione con le rappresentazioni che egli ha della civiltà e dell’etica. La rimozione – osserva Freud – procede dall’Io; anzi – precisa – procede dalla considerazione che l’Io ha di sé. Da tale considerazione deriva la costruzione di un ideale dell’Io, cui si rapporta l’Io attuale: è su questa base che è possibile capire le diverse reazioni che individui diversi hanno rispetto a impressioni, esperienze, impulsi e moti di desiderio analoghi. Infatti, l’ideale dell’Io può porsi a una distanza tale dall’Io attuale da generare processi di rimozione sempre più consistenti. È esistito, in realtà, un momento in cui l’ideale dell’Io e l’Io attuale erano pressoché sovrapponibili: nell’infanzia è lo stesso bambino a costituire il proprio ideale. In altre parole, l’Io reale del bambino gode di quell’amore di sé che, in età adulta, è indirizzato all’ideale dell’Io (o Io ideale)6. Certo, verrebbe da chiosare, si tratta di “sviluppi” dell’Io determinati dall’attento studio di Freud delle vicissitudini della libido legata all’Io. A questo proposito, Freud si sofferma su due meccanismi psichici, la sublimazione e l’idealizzazione, che hanno a che fare rispettivamente con la pulsione e con l’oggetto. In particolare, l’idealizzazione fa sì che l’oggetto, pur non mutando la sua natura, venga “amplificato” e “psichicamente elevato” (Freud, 1914b, p. 464); inoltre, favorendo la formazione di un ideale, essa accresce l’esigenza dell’Io ad adeguarvisi e favorisce lo sviluppo della rimozione laddove si crei uno iato eccessivo tra Io e ideale dell’Io. La sublimazione offre invece all’Io una via d’uscita, poiché le esigenze ad esso legate possono essere soddisfatte in modo socialmente accettato. La presenza di un ideale dell’Io e della possibilità di avvicinarvisi costituisce una fondamentale modalità attraverso cui diventa possibile un soddisfacimento narcisistico: chi però valuta quanto questo “avvicinamento” sia soddisfacente, adeguato oppure no? Per dirla con Freud: chi “osserva costantemente l’Io attuale commisurandolo a questo ideale”? (Freud, 1914b, p. 465). Si tratta della “coscienza morale”7, una specifica istanza che si sedimenta a partire dalle critiche dei genitori e succes6 7
In Freud non si trova un’effettiva distinzione concettuale tra Idealich (Io ideale) e Ichideal (ideale dell’Io), che sarà sviluppata da autori successivi. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Freud, 1921) e in L’Io e l’Es (Freud, 1922b) Freud sosterrà che il Super-io nasce dalla combinazione di questa istanza con l’ideale dell’Io.
7.2 Le nevrosi narcisistiche. Caso clinico del Presidente Schreber
163
sivamente della società e che è ben visibile tanto in alcuni quadri psicopatologici (per esempio, nella paranoia), quanto nella normale vita onirica8. Strettamente inerente ai movimenti della libido narcisistica è anche un’altra modalità autopercettiva del soggetto: si tratta del sentimento di sé9, che Freud descrive come “modo di esprimere l’ampiezza dell’Io [...] residuo del primitivo sentimento di onnipotenza che l’esperienza corrobora in lui” (Freud, 1914b, p. 468). A conferma di questa posizione, il padre della psicoanalisi cita l’esaltazione del sentimento di sé presente nelle parafrenie, dove netto è il prevalere della libido narcisistica, e il suo degradarsi nelle nevrosi di traslazione o nel non sentirsi amati nella vita amorosa, dove invece è la libido oggettuale a essere prevalente. La valutazione del rapporto che si viene a creare tra sentimento di sé da un lato e investimenti oggettuali libidici dall’altro permette a Freud di introdurre un ultimo concetto che acquisterà grande rilevanza nella psicopatologia descrittiva: quello di egosintonia (e egodistonia). Occorre infatti “distinguere il caso in cui gli investimenti amorosi sono in sintonia con l’Io da quello in cui al contrario essi hanno subito una rimozione. Nel primo caso (di impiego egosintonico della libido), l’atto di amare è considerato alla stregua di ogni altra attività dell’Io” (Freud, 1914b, p. 469). Laddove questo non avvenga, la libido viene rimossa, il soddisfacimento amoroso diventa impossibile e la libido tende a ritirarsi sull’Io: regredire a una fase in cui libido oggettuale e libido dell’Io non sono ancora ben distinte può essere una modalità attraverso cui recuperare una condizione di vero e proprio amore felice. Introduzione al narcisismo si conclude aprendo importanti prospettive sul possibile legame tra ideale dell’Io e psicologia delle masse (Freud, 1912–1913; 1921): il padre della psicoanalisi infatti intuisce che tale ideale non ha solo un aspetto individuale, ma anche familiare e gruppale.
7.2
Le nevrosi narcisistiche. Caso clinico del Presidente Schreber
Nel 1910 Freud pubblica uno studio psicoanalitico basato sul testo Memorie di un malato di nervi. Si tratta dell’autobiografia pubblicata nel 1903 del dottore in legge Daniel Paul Schreber10, ex Presidente della Corte d’Appello di Dresda. Sembra che il libro suscitò all’epoca un notevole interesse tra gli psichiatri – tra i quali Jung, che segnalò a Freud le Memorie – e Freud decise di studiarlo a fondo, con il proposito di illustrare i meccanismi della paranoia.
8
In Introduzione alla psicoanalisi (Freud, 1915–1917), lezione 26, il padre della psicoanalisi così si esprime: “L’istanza autosservatrice ci è nota come il censore dell’Io, la coscienza morale; è la stessa che nottetempo esercita la censura onirica, dalla quale hanno origine le rimozioni contro moti di desiderio inammissibili” (Freud, 1915–1917, p. 578). 9 Il corsivo è di chi scrive, a sottolineare il fatto che questo è forse l’unico punto, nelle opere di Freud, dove compare il termine “sé”, la cui fortuna sarà invece straordinaria in alcuni orientamenti psicoanalitici post-freudiani (per esempio, in quello avviato da M. Klein). 10 Schreber morì il 14 aprile 1911, pochi mesi prima della pubblicazione del caso da parte di Freud.
7 Il narcisismo e lo studio della patologia grave
164
7
7.2.1
Storia della malattia
Schreber, nel suo scritto autobiografico, afferma di essere stato affetto due volte dalla malattia, in seguito a una fatica intellettuale eccessiva. L’esordio ha luogo tra l’autunno del 1884 e l’inverno del 1885, all’età di 42 anni, in occasione della sua candidatura al Reichstag, quando era direttore del Tribunale provinciale a Chemnitz. Il paziente, seguito dal professore di psichiatria dottor Flechsig (1847– 1929), viene ricoverato per sei mesi per un grave attacco di ipocondria. Dopo questa prima manifestazione della malattia, Schreber si ristabilisce e trascorre con la moglie otto anni apparentemente tranquilli. Nel giugno del 1893 riceve la comunicazione della sua imminente nomina a presidente di Corte d’Appello a Dresda, una carica che assumerà il 1° ottobre. Proprio nell’estate di quell’anno hanno luogo alcuni sogni angosciosi: è l’inizio del ritorno della malattia. Inoltre, nelle prime ore del mattino, in uno stato tra il sonno e la veglia, si affaccia a Schreber “la rappresentazione che dovesse essere davvero bello essere una donna che soggiace alla copula” (Freud, 1910c, p. 343), idea che in stato di coscienza egli respinge con indignazione. Il riacutizzarsi della malattia si manifesta alla fine dell’ottobre del 1893 con un’insonnia tormentosa che induce Schreber a ricoverarsi nuovamente nella medesima clinica dove era stato seguito da Flechsig; ma il suo stato peggiora rapidamente. In una successiva perizia (1899), il dottor Weber ipotizza lo strutturarsi di una schizofrenia paranoide, descrivendo i sintomi seguenti: “egli espresse più volte idee ipocondriache, si lamentava di soffrire di rammollimento cerebrale, di dover presto morire” (Freud, 1910c, p. 343). Soprattutto nel quadro clinico emergono idee di persecuzione derivate da allucinazioni che all’inizio erano sporadiche; in seguito, comincia a manifestarsi una notevole iperestesia e grande sensibilità a luce e rumore. Successivamente, le allucinazioni visive e acustiche diventano sempre più frequenti e finiscono per essere totalizzanti. Inoltre, il paziente riferisce al medico di essere già morto e in parte già putrefatto come un malato di peste. Il suo vaneggiamento verte soprattutto su sensazioni corporee, in quanto ritiene di essere oggetto di orribili manipolazioni in nome di “una causa sacra” (Freud, 1910c, p. 343). Queste suggestioni lo tormentano a tal punto da rimanere immobile per ore, in preda a uno “stupor allucinatorio” (Freud, 1910c, p. 343), e da invocare la morte, tentando di annegarsi nella vasca da bagno. Le sue idee deliranti assumono ben presto un aspetto mistico e religioso: egli dichiara di essere in comunicazione diretta con Dio, in balìa dei diavoli, con “apparizioni miracolose” e “musiche celesti” (Freud, 1910c, p. 344), credendo di vivere in un altro mondo. Ritiene di essere perseguitato infatti da più persone, prima di tutto dal suo medico curante Flechsig, che apostrofa come “assassino di anime” e “piccolo Flechsig” (Freud, 1910c, p. 344). Nel giugno del 1894 viene ricoverato nella clinica di Sonnenstein, dove la malattia si configura in uno stabile quadro di paranoia. Il direttore della clinica, dottor Weber, descrive il decorso della malattia, delineando un passaggio da un’acuta psicosi iniziale a un miglioramento stabile nel 1899, segno di una ricostruzione della personalità in grado, ora, di affrontare compiti di vita quotidiana. Nella già citata perizia del 1899 il dottor Weber conferma questa diagnosi, specificando che al di là dell’in-
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gegnoso sistema delirante, il paziente non appare “né confuso né psichicamente inibito né sensibilmente leso nella sua intelligenza; egli è riflessivo, la sua memoria è eccellente […], ha interesse per gli avvenimenti politici, scientifici, artistici […] e in questo senso un osservatore che non conosca il suo stato complessivo scorgerà ben difficilmente qualcosa di anomalo” (Freud, 1910c, p. 344). In una successiva perizia del 1900 viene confermata, ad eccezione delle sue idee deliranti, una notevole vivacità intellettuale rispetto a molteplici campi di interesse: politica, diritto, arte e letteratura, nonché amabilità e gentilezza nelle relazioni all’interno della clinica. Freud sottolinea come “l’acutezza del suo ingegno e la logica stringente di cui diede prova, pur essendo un paranoico conclamato” (Freud, 1910c, p. 345), lo portarono al riacquisto dei diritti civili, vincendo il ricorso all’autorità giudiziaria contro l’interdizione che l’aveva colpito. Ottenuta nel 1902 tale revoca, nel 1903 furono pubblicate le sue Memorie. Nella sentenza che concede la libertà a Schreber si legge: Egli ritiene di esser chiamato a redimere il mondo e a restituire ad esso la perduta beatitudine, a condizione però di trasformarsi da uomo in donna (Freud, 1910c, p. 346)
Il sistema delirante del paziente è caratterizzato da due aspetti principali: la trasformazione in donna e la missione di redentore. Schreber è persuaso di essere l’uomo più singolare che sia mai vissuto sulla terra, in quanto ha il compito preciso di redimere il mondo, grazie a una sua diretta ispirazione divina. Egli è l’esclusivo oggetto di miracoli divini, che si esprimono in raggi che ricostituiscono il suo corpo, nonostante sin dall’inizio della sua malattia venga privato progressivamente di organi vitali. Queste distruzioni corporee hanno lo scopo di predisporlo a uno sviluppo verso la femminilità, tramite nervi femminili, i quali, per diretta fecondazione da parte di Dio, permetteranno la nascita di nuovi uomini. Questo avverrà tra circa un centinaio di anni, a cui seguirà poi la sua morte naturale, conquistando la beatitudine per sé e per gli altri uomini. A questo punto Freud sottolinea come la psicoanalisi debba approfondire il contenuto stesso delle formazioni deliranti in quanto, sebbene inconsuete e originali, traggono la loro origine da pulsioni della vita psichica, come accade nelle psiconevrosi. Per Freud il delirio di redenzione è una fantasia frequente tra i pazienti, ma il collegamento con la trasformazione da uomo in donna è meno comune. Si potrebbe pensare che la missione di redentore sia la forza motrice di questo complesso delirante, mentre l’evirazione rappresenterebbe soltanto il mezzo per raggiungere tale fine. In realtà, per Freud l’idea di essere trasformato in donna è il nucleo originario del sistema delirante di Schreber, anzi è il delirio primario, che solo in un secondo tempo si sviluppa in missione di redenzione. Quindi il delirio di persecuzione sessuale, l’essere abusato sessualmente, si trasforma successivamente nel paziente in megalomania religiosa. Il ruolo di persecutore inizialmente è assegnato al dottor Flechsig e, in seguito, a Dio stesso. Lo stesso Schreber indica il novembre 1895 come l’epoca nella quale si stabilì la connessione tra la fantasia di evirazione e l’idea di redenzione:
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7
acquistai la incrollabile certezza che l’Ordine del Mondo richiedeva imperiosamente l’evirazione [...] e che quindi per motivi razionali non mi restava altra scelta se non quella di conciliarmi con l’idea della trasformazione in donna (Freud, 1910c, p. 350)
D’altra parte, il delirio della trasformazione in donna è il solo aspetto che persiste, nonostante il miglioramento del paziente nel 1901, quando la sua situazione clinica si stabilizza. Schreber descrive un complesso sistema di gerarchia celeste, in cui la figura di Dio è scissa in due parti: superiore (Ormuzd) e inferiore (Ariman). Il paziente ci dice che il Dio superiore è intimamente attaccato alle razze di pelle chiara (gli Ariani), mentre il Dio inferiore a quelle di razze scure (i Semiti). Inoltre, nonostante l’unità dell’Onnipotente, il Dio superiore e quello inferiore vanno considerati esseri separati, dotati ciascuno di un proprio egoismo, per cui ciascun Dio si sforza continuamente di imporsi sull’altro. Nella sua autobiografia, Schreber sottolinea come il Divino non possa comprendere i vivi, in quanto non mantiene alcun rapporto regolare con le anime degli uomini, tranne che dopo la morte. Inoltre, in questo sistema divino si sottolinea la relazione tra la voluttà e la beatitudine degli spiriti defunti, nel senso di una particolare sessualizzazione del sistema divino, come se il concetto di beatitudine di Schreber derivasse dalla condensazione dei due principali significati dell’aggettivo tedesco selig, impiegato per due situazioni differenti: “defunto” e “felice”. A questo proposito, Freud prende in esame l’atteggiamento del paziente nei confronti dell’erotismo in generale. Prima di ammalarsi, il paziente aveva condotto una vita estremamente austera, incline all’ascesi in campo sessuale e scettico nei confronti della religione. Con lo sviluppo della malattia il suo atteggiamento era mutato in un accresciuto senso di voluttà e di religiosità insieme. Dice Freud che non si trattava di una maggior libertà sessuale maschile, bensì di sentimenti sessuali femminili, sentendo Schreber di essere diventato la donna di Dio. La sua pretesa trasformazione in donna viene descritta nei minimi particolari, come una fecondazione, in quanto “per un miracolo divino erano stati gettati nel mio corpo nervi divini corrispondenti al seme virile” (Freud, 1910c, p. 350). Egli insiste nel reclamare una visita medica per accertare nelle parti sessuali del suo corpo i segni di questa femminilità. Il sogno stesso che il paziente ebbe nel periodo d’incubazione della malattia è collegato al suo delirio di trasformazione in donna, che è in accordo con questo atteggiamento femminile nei confronti di Dio.
7.2.2
Tentativi d’interpretazione
Freud prende in esame prima di tutto il rapporto del paziente con il suo primo medico curante, il dottor Flechsig di Lipsia. Si è visto come le prime manifestazioni della malattia abbiano un carattere paranoico, che portano il paziente a individuare come principale persecutore il dottor Flechsig. Schreber sviluppa un sentimento persecutorio nei confronti di una figura che un tempo era stata ammirata e cui era grato per le cure ricevute con successo, dopo la prima fase della malattia. Successivamente, con il ripresentarsi della malattia, l’importanza affettiva rivestita dal dottor Flechsig
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viene tramutata nel suo contrario: colui che un tempo era oggetto d’amore e di venerazione ora è odiato e temuto. Con il riacutizzarsi della condizione psicopatologica si risveglia anche il ricordo del medico. Freud collega il sogno di essere una donna che soggiace alla copula con la figura del medico: forse il sogno che la malattia era tornata rivestiva il senso di una nostalgia del tipo: “magari potessi rivedere Flechsig” (Freud, 1910c, p. 369)
È probabile che si fosse mantenuto nel paziente un tenero attaccamento per il medico, che tenderebbe ora ad assumere un’inclinazione erotica. A questo punto si determina un’indignata repulsione delle fantasia di femminilità. Con l’aggravarsi del quadro clinico, tale fantasia dà luogo al timore che il proprio medico commetta un abuso sessuale su di lui. Infatti, Flechsig è accusato da Schreber di aver commesso un “assassinio dell’anima” (Freud, 1910c, p. 371), come fosse un diavolo che volesse impadronirsene. Ben presto il delirio assume un ulteriore sviluppo, in quanto il paziente identifica Dio stesso come alleato di Flechsig, nel piano ordito contro di lui. Per Freud la causa determinante della malattia di Schreber è stato: un assalto di libido omosessuale, il cui oggetto in origine fu, con ogni probabilità, il dottor Flechsig, e la lotta contro questo impulso libidico provocò il conflitto che generò le manifestazioni patologiche (Freud, 1910c, p. 370)
Aggiunge che il successivo crollo nervoso si verificò durante un’assenza di quattro giorni della moglie, come se la semplice presenza della moglie esercitasse una funzione protettiva contro l’attrazione omosessuale del paziente rimasta inconscia. Ogni uomo oscilla nel corso della sua esistenza tra sentimenti eterosessuali e omosessuali e ogni frustrazione e delusione in una direzione tende a sospingerlo verso l’altra. Inoltre, per Freud, il sentimento di simpatia di Schreber per il suo medico curante può avere avuto origine da un processo di traslazione. Quindi, in realtà, in questo processo di traslazione il medico sembra essere stato scelto come persona sostitutiva, come surrogato di un’altra persona, molto più vicina al paziente. Nonostante l’accanimento contro il medico, Schreber si sforza di distinguere “l’anima di Flechsig” del delirio, dall’uomo Flechsig “in carne e ossa”, quasi conservasse il ricordo della gratitudine provata dopo la prima fase della sua malattia. In realtà, la scomposizione è un meccanismo tipico della paranoia, laddove l’isteria condensa. La figura persecutoria è scomposta, sia che venga riconosciuta in Flechsig che in Dio, ed entrambi vengono nuovamente scomposti in superiore e inferiore, ma come se appartenessero a una stessa figura affettiva. Freud prende in considerazione a questo punto la storia autobiografica di Schreber, individuando due figure di grande importanza per il paziente: il padre e il fratello, entrambi già morti al riacutizzarsi della malattia. Schreber stesso definisce i due familiari sacri e per Freud la radice della fantasia femminile del paziente risiederebbe nella nostalgia per la perdita di suo padre e di suo fratello, ora intensificata nella
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7
forma di esaltazione erotica. La memoria relativa al fratello si esprime, per traslazione, sul medico Flechsig; mentre quella per il padre si riconduce a Dio stesso. L’analisi del caso procede mettendo in evidenza le analogie tra la figura del padre e di Dio. Il padre di Schreber, il dottor Daniel Gottlob Moritz Schreber, era un medico di nota fama per i suoi studi sullo sviluppo armonico della gioventù, volti al miglioramento del livello sanitario dei giovani attraverso la cultura fisica e il lavoro manuale. Secondo Freud, il padre era stato un modello da emulare per il paziente e diventa nel ricordo del figlio “oggetto di trasfigurazione divina” (Freud, 1910c, p. 378). In questo esempio paterno si può riscontrare una combinazione di rispettosa sottomissione e di ribellione violenta, la stessa che si rivela nel rapporto con Dio. Nella paranoia Schreber riserva un analogo trattamento alla figura autoritaria divina, connotata in modo sarcastico: l’incapacità di comprendere i vivi e di apprendere dall’esperienza. Attribuzioni che per Freud nascono nella ribellione alla figura autoritaria del padre e che si esprimono con lo stesso potente sarcasmo. Quindi, anche nel caso del Presidente Schreber ci troviamo nel territorio del complesso paterno: nella lotta contro l’autorità di Dio e del dottor Flechsig siamo di fronte alla rappresentazione simbolica di un conflitto infantile con il padre, determinante per il contenuto del delirio. Il padre appare come colui che impedisce il soddisfacimento, per lo più autoerotico, a cui il bambino aspira. Nella fase finale del delirio di Schreber, la tensione sessuale infantile celebra però un trionfo, nel senso che la stessa voluttà, intralciata dal padre, diventa una richiesta di Dio stesso. E proprio la minaccia paterna dell’evirazione fornisce al paziente la possibilità di creare la fantasia della trasformazione in donna, alla fine accettata. L’allusione a una colpa – quella connessa a un lasciarsi andare a un piacere voluttuoso – è implicita nella creazione della formazione sostitutiva del presunto “assassinio dell’anima” da parte di Flechsig. Freud specifica che il caso si può comprendere partendo dal mettere in relazione la fantasia di desiderio di avere figli, quindi questa volta femminile, con una frustrazione imposta dalla vita reale. Schreber ammette di aver subito questa privazione nel suo matrimonio, ovvero la mancata generazione di figli: “quel figlio che lo avrebbe consolato della perdita del padre e del fratello” (Freud, 1910c, p. 383) e su cui avrebbe potuto riversare la sua tenerezza omosessuale insoddisfatta. Schreber può aver fantasticato che, come donna, gli sarebbe riuscito avere dei figli: aver così trovato la via che gli consentisse di riportarsi all’atteggiamento femminile nei confronti del padre che era stato proprio dei primi anni della sua infanzia (Freud, 1910c, p. 384)
Il delirio di grandezza si può realizzare grazie alla sua evirazione. Un compito salvifico onnipotente guida Schreber: popolare il mondo di nuovi uomini, tutti nati nel suo spirito.
7.2.3
Il meccanismo della paranoia
Freud sostiene che l’elemento paranoico della malattia si costituisce come una difesa
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dalla fantasia di desiderio omosessuale, a cui il paziente reagisce con un delirio di persecuzione. In ogni caso, lo sviluppo della malattia è letto da Freud come difesa contro il desiderio omosessuale; ma questa difesa subisce, in realtà, uno scacco. Nella paranoia prevale il meccanismo della proiezione: una percezione interna, quella dell’omosessualità, viene repressa e rimossa e, al suo posto, il contenuto deformato perviene alla coscienza sotto forma di percezione esterna: la persecuzione percepita dal soggetto. Ovvero, il ritorno del rimosso prende la forma del delirio di persecuzione. La formazione delirante è un tentativo di guarigione, di ricostruzione e di “ricucitura” di una profonda scissione dell’Io11. Sviluppando alcune considerazioni che sistematizzerà in Introduzione al narcisismo (Freud, 1914b), il padre della psicoanalisi osserva come questo processo abbia luogo in seguito a un’alterazione dello sviluppo libidico. In particolare, nello stadio in cui la libido dovrebbe procedere dall’autoerotismo per giungere all’amore oggettuale. Si indica questa specifica fase con il nome di “narcisismo”, che consiste nel fatto che l’individuo, nel corso del suo sviluppo, assume sé stesso, il proprio corpo, come oggetto d’amore, prima di passare alla scelta oggettuale di una persona estranea. Sembra però che molte persone persistano e si trattengano per un tempo prolungato in questa assunzione di sé come oggetto d’amore. Nello sviluppo normale, questa fase viene superata poi attraverso una scelta eterosessuale, in quanto le tendenze omosessuali sono sviate dalla loro meta sessuale e utilizzate per altri scopi, come le pulsioni sociali, l’amicizia, l’amore del prossimo in generale. Nell’omosessualità, invece, una corrente libidica particolarmente intensa giunge a sessualizzare le pulsioni sociali: i soggetti non si sono mai completamente liberati dallo stadio narcisistico. Si è verificata una fissazione o regressione della libido nella fase di passaggio dall’autoerotismo alla relazione d’oggetto, in cui persiste l’esigenza che l’oggetto d’amore sia il proprio Io. I paranoici tentano di sottrarsi a tale sessualizzazione dei loro investimenti pulsionali sociali tramite una tendenza proiettiva che vuole contraddire l’omosessualità, confutando la proposizione “Io (un uomo) amo lui (un uomo)”. Il soggetto può contraddirla affermando: “Io non lo amo – io lo odio”, una contraddizione rispetto al verbo. Attraverso la proiezione, il paranoico sostituisce alla percezione interna di odio la percezione esterna di essere odiato: “Io lo odio perché egli mi perseguita”, ovvero un delirio di persecuzione. Un’ulteriore contraddizione della frase iniziale da parte del soggetto si esprime nell’affermazione: “Non è lui che io amo – io amo lei”, questa volta rispetto all’oggetto. Attraverso la proiezione, il paranoico sostituisce alla percezione interna d’amore la percezione esterna di essere amato: “Io amo lei perché lei mi ama”, ovvero erotomania. In una terza forma di contraddizione della proposizione iniziale, il soggetto trasforma la pulsione omosessuale in: “Non sono io che amo l’uomo – è lei che lo ama” oppure “Non sono io che amo le donne – è lui che le ama”. Quindi una contraddizione rispetto al soggetto, un delirio di gelosia, in cui attraverso la proiezione l’intero processo di percezione dell’emozione è “gettato fuori dell’Io”. 11
Tale processo si lega al meccanismo della negazione (Freud, 1925a), l’unico modo affinché in alcuni pazienti il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un pensiero possa entrare nella coscienza. In altre parole, negando la sua omosessualità, Schreber in qualche modo la ammette.
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7
Nell’ultima forma di contraddizione della proposizione iniziale da parte del paranoico, egli può affermare: “Io non amo affatto e nessuno” ossia “Io amo solo me stesso”. Avviene un rifiuto globale della proposizione nel suo insieme, una negazione, che determinerebbe il delirio di grandezza nella sopravvalutazione sessuale del proprio Io. In Schreber, il distacco della libido dalla persona di Flechsig significa il distacco dal mondo esterno e il conseguente ritiro della libido, ormai libera, sull’Io. Questo provoca l’annuncio di una catastrofica fine del mondo esterno, in cui l’unico sopravvissuto è il paziente, ma anche lo sviluppo di un delirio di grandezza salvifico.
7.2.4
Poscritto del 1911
Freud sottolinea come l’autobiografia di questo “paranoico altamente dotato” (Freud, 1910c, p. 404) abbia consentito di capire quanto materiale possa essere derivato dal contenuto simbolico delle fantasie e idee deliranti. Nel caso del Presidente Schreber, Freud ha colto l’opportunità di approfondire i nessi tra credenze deliranti e mitologia. In generale, la psicoanalisi rintraccia nella mitologia e nella religione prodotti psichici dell’umanità, riscontrabili anche nelle nevrosi. Nel sogno e nelle nevrosi si ritrova il bambino, nel suo modo di pensare e nella sua affettività. Ma anche nell’uomo primitivo e nel selvaggio, attraverso le produzioni mitologiche e religiose, si rintracciano gli stessi contenuti psichici: si afferma così un parallelismo tra ontogenesi e filogenesi. Per Freud si tratta di un punto di vista antropologico che vede il delirio come prova delle funzioni mitopoietiche dell’uomo e in cui si rintraccia un parallelo tra il bambino, il primitivo e il selvaggio. In particolare, come esempio Freud prende una delle produzioni deliranti del paziente più interessanti: la personificazione del “Sole”, a cui Schreber si rivolge direttamente, ingiuriandolo e parlandogli a voce alta. Dopo la “guarigione”, egli si vanta di poter tranquillamente guardare il sole senza rimanerne abbagliato. Freud coglie in tutto questo una modalità espressiva di tipo mitologico volta a rappresentare il rapporto filiale di Schreber nei confronti del sole e collegabile a un mito del mondo animale: quello dell’aquila che sottopone i suoi piccoli a una prova prima di riconoscerli come legittimi. Se essi guardano il sole socchiudendo le palpebre, li getta fuori dal nido come illegittimi. Quindi la possibilità per Schreber di “poter fissare impunemente il sole” (Freud, 1910c, p. 404) esprime un privilegio delirante, ovvero un orgoglio familiare di appartenenza alla nobiltà celeste, un simbolo paterno.
7.3
Le riflessioni freudiane sulla depressione
Lutto e melanconia è un breve, intenso saggio facente parte di una raccolta di saggi intitolati Metapsicologia (1915a). Il loro obiettivo era quello di porre con chiarezza – dopo il tentativo “andato a vuoto” del Progetto (Freud, 1895) – le basi teoriche della teoria psicoanalitica: molti, d’altra parte, erano gli argomenti su cui Freud aveva fino a quel momento lavorato e su alcuni di essi egli sentiva di poter dire una parola “definitiva”. Né è da escludere che questo impulso creativo sia legato all’uscita da un momento de-
7.3 Le riflessioni freudiane sulla depressione
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pressivo di Freud, connesso in particolare allo scoppio e allo sviluppo del conflitto bellico: a un iniziale entusiasmo – forse mai prima d’allora Freud si era sentito tanto austriaco – fecero ben presto seguito la preoccupazione per i due figli Martin e Ernst al fronte e la constatazione che il conflitto sarebbe stato tutt’altro che breve e circoscritto. Ne nacque uno straordinario breve saggio (Freud, 1915b) e il desiderio di produrre qualcosa di importante in contrapposizione alla distruttività degli eventi bellici. Dei dodici saggi che dovevano costituire Metapsicologia, tuttavia, solo cinque sono giunti fino a noi12. Benché Freud avesse ben chiaro il proposito di unire in un unico volume i saggi che venivano man mano pubblicati tra il 1915 e il 1917 su alcune riviste come l’“Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse”, egli stesso decise in un primo momento di posticipare questo proposito e poi di distruggere i sette saggi ancora in attesa di pubblicazione. Il rammarico per la loro perdita è mitigato dal fatto che probabilmente Freud, già poco dopo averli scritti, da un lato riteneva alcune considerazioni in essi presenti superate, dall’altro aveva fatto confluire alcuni dei loro contenuti in altri saggi di quegli stessi anni – per esempio, i primi studi sul carattere del 1915 (Freud, 1915c) e 1916 (Freud, 1916). Freud apre Lutto e melanconia ponendo immediatamente in evidenza l’obiettivo del saggio: “Vogliamo tentare di delucidare l’essenza della melanconia confrontandola con il normale affetto del lutto” (Freud, 1915a, p. 102), benché i casi clinici relativi a questo quadro nosografico siano ancora pochi13. Come quasi sempre accade in Freud, l’avvio delle riflessioni si richiama a un possibile legame tra psicopatologia (melanconia) e normalità (lutto). Acutamente, il padre della psicoanalisi osserva che il lutto può essere generato dalla perdita non soltanto di una persona amata, ma anche della patria, della libertà o di un ideale: la vita di ognuno di noi, si potrebbe aggiungere, non può non essere costellata di perdite di questo tipo. Fortunatamente, però, solo una piccola parte di coloro che le subiscono ha un esordio melanconico. Ma che cosa distingue allora il lutto dalla melanconia? Freud affronta l’argomento partendo dal lato opposto, cioè da ciò che accomuna le due condizioni: un profondo e doloroso scoramento (termine chiaramente riferibile ad Abraham, che indica un “lasciarsi andare”, un venir meno delle forze e della voglia di vivere), uno scarso interesse per il mondo esterno, la perdita della capacità d’amare e l’inibizione di qualunque attività. Specifico del melanconico, benché presente anche nel lutto normale ma in forma meno intensa e pervasiva, è invece l’avvilimento del senso di sé, che si manifesta soprattutto come senso di colpa. Tuttavia, le differenze maggiori emergono se ci si sofferma sulle modalità con cui il lutto viene (o non viene) elaborato. Nel lutto normale si ha innanzitutto un esame di realtà, che evidenzia al soggetto che l’oggetto amato non esiste più; la libido che su di esso era investita deve essere pertanto ritirata. Con sagacia Freud 12
13
Si tratta di Pulsioni e loro destini, La rimozione, L’inconscio, Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno e Lutto e melanconia. Un sesto saggio, Sintesi generale delle nevrosi di traslazione, è stato ritrovato nel 1983 a Londra e pubblicato nel 1985 (tradotto in Opere. Complementi 1885–1938. Boringhieri, Torino, 1993). Vale la pena ricordare che, su questo tema, Karl Abraham aveva pubblicato uno scritto di grande peso teorico e clinico solo qualche anno prima (Abraham, 1912) e anche Freud vi aveva gettato un primo sguardo nel 1910 (Freud, 1910b).
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7 Il narcisismo e lo studio della patologia grave
osserva che gli uomini abbandonano con grande difficoltà una certa posizione o un certo investimento libidico, a tal punto da suscitare in alcuni di essi stati mentali alterati in cui l’oggetto perso sembra in qualche modo ripresentificarsi in forma allucinatoria. Parafrasando Freud, si potrebbe parlare di una normale difficoltà di adattamento alla nuova situazione e/o di una resistenza al cambiamento. Solo facendo riemergere ricordi e aspettative legate all’oggetto, soffermandosi su di essi spesso in modo doloroso e concedendosi un tempo per fare tutte queste operazioni mentali, si elabora il lutto e la nuova realtà si impone, determinando nel soggetto investimenti libidici verso nuovi oggetti. Quando allora il lutto diventa patologico? Ciò che si osserva negli stati melanconici – continua Freud – è la sensazione che il melanconico possa sapere quando, ma non cosa sia andato perduto in lui: in altre parole, saremmo di fronte a una perdita oggettuale capace di sottrarsi alla coscienza; nulla, invece, di ciò che riguarda la perdita è inconscio nel lutto. Ne consegue che: “Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso” (Freud, 1915a, p. 105). E ancora, rispetto al senso di colpa: “Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno [...]; si rimprovera, si vilipende e si aspetta di essere respinto e punito. [...] Il quadro di questo delirio d’inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita” (Freud, 1915a, p. 105). L’attenta osservazione delle vicissitudini della perdita nella melanconia fornisce, inoltre, un interessante contributo alla descrizione della costituzione dell’Io: Freud osserva che, nel melanconico, una parte dell’Io si contrappone all’altra e questo avrebbe luogo in virtù di un meccanismo di scissione agente sull’Io stesso. In questo modo, un’istanza comunemente definita come coscienza morale e identificabile con una parte dell’Io giudicherebbe l’altra. Non solo, ma ascoltando attentamente ciò di cui il melanconico si lamenta, ci si rende conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti all’oggetto d’amore e solo successivamente distolti da esso e riversati sull’Io. Cercando di descrivere questo impegnativo passaggio freudiano, è possibile immaginare che una parte dell’Io del melanconico accusi l’oggetto per averlo lasciato, attribuendogli la responsabilità e chiedendone in qualche modo spiegazione, e che un’altra parte del suo Io ritenga invece che la perdita dell’oggetto sia dovuta alla sua indegnità dell’amore dell’altro e non abbia fatto abbastanza per “trattenerlo”. Perché questo avvenga deve accadere qualcosa di particolare, che Freud descrive così: L’investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione (Freud, 1915a, p. 108)
7.3 Le riflessioni freudiane sulla depressione
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L’ipotesi di un’identificazione narcisistica, ossia dell’identificazione di una parte dell’Io con l’oggetto, guida tutta la formulazione freudiana: tale tipo di identificazione, molto più primitiva di quella riscontrabile nell’isteria o nella nevrosi ossessiva nelle quali l’investimento oggettuale è conservato, svuoterebbe l’Io e si baserebbe su scelte oggettuali di tipo narcisistico. Freud è dunque attento a differenziare specifici quadri psicopatologici, pur rilevandone alcuni punti in comune: in particolare, egli nota come il conflitto dovuto all’ambivalenza affettiva nei confronti dell’oggetto presente nella nevrosi ossessiva sia rintracciabile anche nella melanconia. L’investimento libidico nei confronti dell’oggetto ha così nel melanconico un duplice destino: da un lato regredisce fino a uno stadio narcisistico reinvestendo direttamente l’Io; dall’altro, proprio nel tentativo di recuperare l’oggetto identificandovi una parte del suo Io, vi riversa sopra una forte ambivalenza affettiva, con punte di odio e sadismo estreme. Solo in questo modo – osserva Freud – ci possiamo spiegare l’enigmatica inclinazione al suicidio che rende la melanconia così interessante, ma anche pericolosa per chi si cimenta nel suo trattamento. Uccidendosi, il melanconico dirige contro sé un’ostilità diretta in realtà contro l’oggetto; allo stesso modo, anche nell’innamorato l’Io è sopraffatto dall’oggetto, annullandosi totalmente in esso. Mentre perdita dell’oggetto e ambivalenza affettiva accomunano nevrosi ossessiva e melanconia, l’investimento regressivo della libido sull’Io è tipico di quest’ultima. Nell’ultima parte del saggio, Freud cerca di fornire una lettura della melanconia dal punto di vista economico e topografico. Il primo sembra essere particolarmente utile per spiegare la tendenza talvolta presente a convertirsi in mania dei quadri melanconici: si tratta di un assetto in cui il paziente si illude di poter padroneggiare o mettere da parte l’oggetto. Un grande spiegamento di energia psichica diventa allora improvvisamente e illusoriamente libero, cercando vie di scarica disparate. Più complesso è capire in che modo Freud si riferisca al punto di vista topografico: il padre della psicoanalisi sembra sostenere l’ipotesi che nella melanconia si sia di fronte a processi psichici che si svolgono sul terreno di investimenti oggettuali inconsci. “La rappresentazione inconscia (cosale)14 dell’oggetto viene abbandonata dalla libido” (Freud, 1915a, p. 115): questa la sintetica frase con cui Freud descrive il graduale distacco della libido dall’oggetto, che è proprio tanto del lutto quanto della melanconia. La differenza tra le due condizioni risiederebbe proprio nel fatto che gli investimenti libidici verso l’oggetto, che tendono a mantenere una certa posizione libidica nei suoi confronti, e gli attacchi verso di esso, che spingono invece a eliminare tale posizione, avvengono esclusivamente nel sistema Inc, regno delle tracce mnestiche delle cose, nella melanconia, mentre possono accedere al sistema Prec e da questo fino alla coscienza (sistema C) nel lutto. Tutto ciò impedirebbe ai melanconici di fare un movimento verso la morte tale da consentire loro di investire veramente sugli oggetti, rispettandone la caducità. 14
Nel saggio L’inconscio Freud aveva distinto tra “rappresentazione di cosa” e “rappresentazione di parola” e sostenuto che “la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta” (Freud, 1915a, p. 85).
7 Il narcisismo e lo studio della patologia grave
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7.4
Il ritorno alle psiconevrosi. Caso clinico dell’uomo dei lupi
7.4.1
Premessa
Il caso dell’uomo dei lupi è la storia di una nevrosi infantile analizzata quando il paziente è già adulto. Per Freud le analisi delle nevrosi infantili possiedono un notevole interesse teorico in quanto: forniscono all’esatta comprensione delle nevrosi dell’adulto più o meno lo stesso contributo dei sogni infantili rispetto ai sogni dell’adulto (Freud, 1914c, p. 488)
Freud aggiunge che l’utilità clinica di una nevrosi infantile è determinata non dalla facilità del caso, bensì dall’immediatezza con cui emerge l’essenza della malattia. Una nevrosi infantile risulterebbe priva di tutte quelle sovrastrutture che successivamente si costruiscono attorno al nucleo della nevrosi. Dice Freud che la nevrosi, nell’infanzia, salta agli occhi in modo inequivocabile e non viene celata da configurazioni difensive. Nel 1910 Freud incontra un giovane paziente di 23 anni, che, incapace di affrontare la vita, lamenta gravi disturbi intestinali. Essi sono accompagnati da un’intensa inibizione in quasi tutte le attività quotidiane. Il ragazzo aveva contratto, all’età di 18 anni, un’infezione blenorragica che lo aveva condotto a un tracollo fisico. Prima di affidarsi alle cure di Freud, il paziente era stato ricoverato in differenti cliniche tedesche, nelle quali gli fu diagnosticata una psicosi maniaco-depressiva. Freud ritiene che la diagnosi si possa riferire, invece, al padre del ragazzo più che al giovane stesso. Infatti, la vita del padre era stata turbata, ripetutamente, da episodi depressivi gravi. La prima parte dell’analisi di Freud dura quattro anni, dal 1910 al 1914. Tra il 1919 e il 1920 il paziente riprenderà gratuitamente il trattamento con Freud, in quanto privo di possibilità economiche a causa della guerra. Nell’illustrazione del caso, Freud non si sofferma sui dettagli della vita attuale del paziente, rivolgendo piuttosto l’attenzione alla narrazione dei suoi ricordi d’infanzia.
7.4.2
Sguardo generale all’ambiente e alla storia della malattia
I genitori del paziente si erano sposati giovani e avevano condotto una felice vita coniugale fino ai primi problemi di salute di entrambi. La madre fu colpita da disturbi addominali e il padre dai primi episodi depressivi, che lo costrinsero ad assentarsi spesso da casa. Il giovane paziente comprese più tardi la gravità della malattia del padre, mentre intuì subito la condizione di salute precaria della madre, poiché le impediva di occuparsi dei figli. A questo proposito racconta un episodio risalente all’età di due anni, quando udì la madre lamentarsi con il medico delle sue condizioni, pronunciando le parole: “Non posso più vivere così!” (Freud, 1914c, p. 550). Questo episodio turbò notevolmente il bambino che ben presto si attribuì lo stesso stato d’a-
7.4 Il ritorno alle psiconevrosi. Caso clinico dell’uomo dei lupi
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nimo della madre, in particolare a quattro anni e mezzo dopo un episodio di incontinenza. Durante la fanciullezza il rapporto col padre fu caratterizzato da vivo affetto. Il bambino, orgoglioso del padre, aveva più volte espresso il desiderio di diventare come lui. Tuttavia il padre, con il passare del tempo, non riuscì più a celare davanti ai familiari i lati patologici del suo carattere, manifestando inoltre un’esplicita preferenza per la figlia maggiore. Si creò una frattura definitiva con il figlio maschio. La sorella, maggiore di due anni, viene descritta come una ragazzina vivace, intelligente e precocemente maliziosa. Ebbe una grande influenza nella vita del fratello, fino a quando, al compimento dei vent’anni, cominciò a soffrire di depressione. La sua preoccupazione maggiore verteva sul fatto di non sentirsi sufficientemente avvenente, evitando ogni rapporto umano. Verso i vent’anni, compì due viaggi con una signora anziana, amica di famiglia, che l’avrebbe maltrattata spesso. Durante un secondo viaggio, la ragazza iniziò a soffrire di sintomi da dementia praecox, a cui seguì un suicidio per avvelenamento, morendo così lontano da casa. Un’altra figura importante, nella costellazione familiare, è rappresentata dalla bambinaia: un’anziana contadina, che nutriva per lui un’inesauribile affetto e per la quale egli rappresentava il figlio morto in tenera età. Il giovane paziente, in realtà, rammenta a stento la sua infanzia; infatti, la maggior parte degli episodi infantili vengono appresi dai racconti familiari. Sembra che nei primi anni di vita il bambino abbia avuto un’ottima indole, essendo piuttosto tranquillo e mite. Tuttavia, all’età di cinque anni, i genitori, al ritorno da un viaggio che solevano fare in estate, riscontrarono in lui un cambiamento caratteriale piuttosto visibile. Egli risultò molto irascibile, violento, scontento; spesso era colto da eccessi di rabbia che lo portavano a gridare come un selvaggio. La madre ipotizzò che dipendesse dall’influenza dell’istitutrice inglese, rimasta con i bambini durante l’estate. Ella, infatti, si rivelò una donna eccentrica, litigiosa, dedita all’alcool, che spesso maltrattava la bambinaia. In tali occasioni il bambino prese apertamente le parti dell’amata bambinaia, non nascondendo il suo odio verso l’istitutrice. Costei fu licenziata, ma il carattere del bambino non mutò. Il paziente serba il ricordo di quel periodo di “cattiveria”. Gli sembra di aver fatto la prima scenata il giorno di Natale, perché non gli erano stati fatti i regali in quantità doppia, come si aspettava, dal momento che il suo compleanno cadeva in quello stesso giorno. Gli anni del suo cambiamento si riuniscono, nei ricordi del paziente, in un unico periodo che egli chiama “ancora al tempo della prima tenuta” (Freud, 1914c, p. 494), cioè prima dei cinque anni. Altri episodi patologici sono legati alle figure degli animali. In particolare, la sorella si divertiva spesso a spaventarlo con un libro illustrato, in cui vi era rappresentato un lupo, che camminava ritto sulle zampe posteriori. Gli bastava gettare uno sguardo su quella illustrazione per avere paura che il lupo lo divorasse. In tal modo, sviluppò una paura per i lupi, che si estese, successivamente, anche ad animali più piccoli. Una volta, mentre rincorreva una farfalla nella speranza di catturarla, venne colto improvvisamente da un incredibile terrore che gli impedì di proseguire la sua caccia. Provava terrore e ribrezzo anche per scarabei e bruchi, nonostante si divertisse a torturarli e farli a pezzi. Veder percuotere un cavallo gli provocava turbamento,
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7
anche se in altre occasioni si era divertito a batterlo. Freud avanza l’ipotesi che in quegli anni d’infanzia stesse sviluppando una nevrosi ossessiva. Quando il paziente aveva quattro anni, la madre gli raccontò la storia della Bibbia, allo scopo di elevarne lo spirito, e da quel momento il bambino diventò estremamente religioso. L’iniziazione religiosa mise fine agli stati d’angoscia e di crudeltà per gli animali, ma suscitò in lui dei sintomi ossessivi: prima di addormentarsi era costretto a pregare per lungo tempo, baciare devotamente immagini sacre e farsi il segno della croce più volte. Nello stesso tempo, e in concomitanza con queste pratiche cerimoniali, egli sviluppò una coazione alla bestemmia e a pensieri blasfemi, come se fosse stato ispirato dal demonio stesso. Il paziente racconta a Freud che le sue prime impressioni sulla storia sacra non furono gradevoli. Innanzitutto si ribellò alla figura dolorosa di Cristo, poi nei confronti di tutta la storia sacra. Se Dio era davvero onnipotente, allora la malvagità degli uomini era da attribuirsi alla sua responsabilità. A queste critiche si aggiunsero dubbi e ripensamenti che tradivano spinte pulsionali. Una delle prime domande che rivolse alla bambinaia fu se anche Cristo avesse le natiche. Si chiese se anche Cristo avesse bisogni fisiologici come la defecazione e si rispose che, siccome era stato in grado di trasformare l’acqua in vino, allora sarebbe stato anche in grado di trasformare il cibo in nulla, non andando di corpo. Tutti questi pensieri scomparvero verso l’ottavo anno, anche se saltuariamente tornavano a manifestarsi.
7.4.3
La seduzione e le sue immediate conseguenze
Freud indaga il repentino cambiamento caratteriale del bambino, cercando di ricollegarlo ai racconti della sua infanzia. I familiari del paziente imputavano la colpa all’istitutrice inglese che si era occupata dei bambini durante l’estate. In relazione a ciò Freud si sofferma su alcuni sogni che hanno sempre lo stesso contenuto: Si trattava di azioni aggressive del ragazzino contro la sorella o la governante. [...] Era come se ... dopo il bagno ... avesse voluto denudare la sorella ... strapparle le vesti ... o i veli ... e così di seguito (Freud, 1914c, p. 497)
Questi sogni rivelano delle fantasie che hanno lo scopo di coprire un episodio di reale seduzione ad opera della sorella. Il paziente improvvisamente ricorda che, quando era ancora molto piccolo, all’incirca all’età di tre anni, la sorella lo aveva indotto a pratiche sessuali. Dapprima ricorda che al gabinetto, dove andavano spesso assieme, la sorella gli aveva proposto: “‘facciamoci vedere il popò’ e alle parole erano seguiti i fatti” (Freud, 1914c, pp. 497–498). In un altro episodio: A un certo punto la sorella gli afferra il membro, ci gioca e intanto quasi a mo’ di spiegazione gli racconta storie incomprensibili sulla nanja [bambinaia, NdA]: la nanja
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fa questa stessa cosa con tutti, per esempio col giardiniere, lo mette a testa sotto e poi gli afferra i genitali (Freud, 1914c, p. 498)
Freud spiega che le elaborazioni di fantasie ostili sulla sorella e sull’istitutrice inglese sono un tentativo per cancellare e sostituire il ricordo di seduzione. Come se l’aggressività, nell’immaginazione, riscattasse il ruolo passivo, intollerabile per la propria virilità. Inoltre, nello stesso periodo, l’astio manifestato per l’istitutrice era motivato dal fatto che quest’ultima aveva spesso insultato la bambinaia, nello stesso modo in cui la sorella aveva, per prima, screditato la figura della bambinaia ai suoi occhi. La sorella, una bambina brillante e di notevole intelligenza, lo superava in tutte le attività. Una rivale scomoda nel raggiungere l’affetto e la stima esclusivi dei genitori. Sembra che fosse divenuta poi una ragazza molto disinibita, con molti corteggiatori, di cui amava prendersi gioco. A partire dai quattordici anni, i rapporti con la sorella cominciarono a migliorare e durante la pubertà il paziente tentò un approccio sessuale con la sorella, ma fu respinto. Rivolse allora le sue attenzioni a ragazze di condizioni inferiori: domestiche, contadine. Queste giovani ragazze sono assunte come surrogato della sorella, come un tentativo, agli occhi del giovane paziente, di sminuirla e distruggerne la superiorità. Alla sua morte il paziente non provò dolore, piuttosto contentezza per essere rimasto l’unico erede. Avviene però un episodio di spostamento: egli racconta di aver pianto sulla tomba di un poeta che il padre soleva paragonare alla sorella, come apprezzamento per i suoi versi. Per quanto riguarda invece la bambinaia, le informazioni ottenute dalla sorella sulle sue pratiche sessuali con gli uomini fecero sì che ella diventasse il nuovo oggetto sessuale del paziente. In particolare, questi cominciò a toccarsi il pene davanti a lei e ne seguì, però, la minaccia di una ferita sul membro. Il paziente racconta di aver abbandonato l’onanismo poco dopo il rifiuto e la minaccia della bambinaia: Ciò significa che la sua vita sessuale che cominciava a svolgersi sotto il primato della zona genitale si era imbattuta in un ostacolo esterno e perciò era stata respinta in una fase anteriore di organizzazione pregenitale. In seguito alla repressione dell’onanismo, la vita sessuale del bambino assunse in effetti un carattere sadico-anale (Freud, 1914c, p. 503)
Da quel momento in poi si sviluppa un’immaginazione sadica, di tipo attivo, nei confronti di animali e di maschi, che il fanciullo si figura come castigati e percossi sul pene. E ancora fantasie di tipo passivo, masochistico, immaginando sé stesso come un principe rinchiuso in una stanzetta e picchiato. Il sadismo si è trasformato in masochismo, alla cui base vi è il senso di colpa connesso alla masturbazione. Dopo il rifiuto da parte della bambinaia, il fanciullo si staccò da lei e cercò un nuovo oggetto sessuale che trovò nel padre. Il padre era per lui un modello da ammirare. In questa fase sadico-anale l’oggetto di identificazione, ovvero il padre, si trasforma in oggetto sessuale. La seduzione della sorella sembra aver imposto un ruolo passivo al paziente. Freud afferma che non sarebbe stato facile assumere e mantenere nella fase sadica un atteggiamento attivo nei confronti della potente figura paterna. Quando
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il padre tornò dalla vacanza riscontrò nel ragazzo rabbia, con frequenti scoppi d’ira. Secondo Freud, il fanciullo cercava di mettere il padre nella condizione di somministrargli una punizione, allo scopo di un proprio appagamento sessuale masochistico e, contemporaneamente, di un alleggerimento del proprio senso di colpa.
7.4.4
Il sogno e la scena primaria
Il giovane paziente racconta il primo sogno d’angoscia che ricorda della sua infanzia. È il sogno da cui il caso prende il nome:15 Sognai che era notte e mi trovavo nel mio letto (il letto era orientato con i piedi verso la finestra e davanti ad essa c’era un filare di vecchi noci; sapevo ch’era inverno mentre sognavo, e ch’era notte). Improvvisamente la finestra si aprì da sola, e io, con grande spavento vidi che sul grosso noce proprio di fronte alla finestra stavano seduti alcuni lupi bianchi. Erano sei o sette. I lupi erano tutti bianchi e sembravano piuttosto volpi o cani da pastore, perché avevano una lunga coda come le volpi, e le orecchie ritte come quelle dei cani quando stanno attenti a qualcosa. In preda al terrore – evidentemente di essere divorato dai lupi – mi misi a urlare e mi svegliai (Freud, 1914c, p. 507)
L’interpretazione del sogno impegna Freud e il paziente durante tutto il corso dell’analisi. Prima di tutto, il giovane aggiunge che l’unica azione contenuta nel sogno è l’aprirsi della finestra, in contrasto con la posizione immobile dei lupi sul tronco. Inoltre, il sogno viene messo in relazione con la straordinaria paura per l’immagine del lupo. Il colore bianco dei lupi ricorda al paziente le greggi di pecore che si trovavano intorno alla tenuta estiva. Un’estate il gregge fu colpito da un’epidemia. L’albero, infine, viene ricollegato a una fiaba che gli raccontava il nonno, quella del lupo e del sarto: un sarto viene sorpreso da un lupo che balza dentro la sua stanza, attraverso la finestra. Il sarto riesce a prendere il lupo per la coda e a strappargliela. Successivamente, un branco di lupi sorprende il sarto nel bosco, che si ripara su un albero, ma i lupi, montando uno sopra l’altro, assediano il sarto. A quel punto il sarto urla, rivolgendosi al lupo mutilato, anch’esso nel branco, il quale terrorizzato fa cadere tutti gli altri che stava sorreggendo. Il numero sette sembra invece provenire dalla favola dei sette capretti, dove compare anche il colore bianco e altri elementi in comune. Freud nota che la zoofobia riscontrata nel paziente si distingue per il fatto che l’animale, che suscita angoscia, non è un oggetto percepibile dal bambino nella vita quotidiana, se non nelle fiabe e nei libri illustrati. Per Freud, al di sotto del contenuto rappresentativo del sogno, fatto dal paziente tra i quattro e i cinque anni, si cela l’esistenza di una scena appartenente a un’epoca più remota. Si tratta dell’osservazione da parte del paziente della scena primaria: un coito a tergo tra i suoi genitori. Freud ipotizza che il bambino, all’età di un anno e mezzo, mentre dormiva nel lettino della camera matrimoniale, si sia svegliato im15
Tutto il sogno, di fondamentale importanza, è riportato in corsivo nell’originale.
7.4 Il ritorno alle psiconevrosi. Caso clinico dell’uomo dei lupi
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provvisamente e abbia assistito a un rapporto sessuale dei genitori. A quell’età sembra che soffrisse di una forma malarica, con sintomi ripetuti quotidianamente alla stessa ora. Infatti, a partire dai dieci anni, il paziente andò periodicamente soggetto a stati d’animo depressivi che iniziavano proprio nel primo pomeriggio, fino alle cinque, ed erano presenti ancora al momento dell’analisi. Collegando il sogno alla scena primaria, Freud interpreta l’opposizione tra guardare ed essere guardato, tra attività e passività, come elementi centrali. In particolare: lo sguardo fisso dei lupi come il suo, da spettatore; l’assenza di ogni movimento nel sogno e il movimento nella scena primaria; la posizione attiva del padre durante il rapporto sessuale e la posizione prona della madre rispetto alla posizione dei lupi. Nell’interpretazione di Freud, i genitori vengono sostituiti dai sette lupi: la madre sembra assumere, in questo collegamento, la posizione del lupo senza coda, evirato, su cui montano gli altri lupi; il padre invece quella del lupo eretto che monta. Inoltre, il lupo evirato scappa terrorizzato non appena il sarto gli ricorda la sua condizione di evirazione, come se il paziente si fosse riconosciuto nella madre e avesse lottato contro quest’identificazione. Identificarsi con la madre porta alla condizione di castrazione. Nell’osservazione del coito, infatti, il bambino può riconoscere la “ferita” della madre, ovvero il suo organo sessuale come esito dell’evirazione. Essere posseduto dal padre significherebbe quindi l’evirazione del membro virile, come nella condizione materna. Il desiderio di congiungimento con il padre si trasforma così nella paura di essere divorato dai lupi. Freud intende quindi rintracciare il ponte associativo che conduce dal contenuto della scena primaria a quello della storia dei lupi. Il primo elemento riguarda la posizione: il lupo senza coda, evirato, invita gli altri lupi a montargli sopra. Attraverso questi dettagli si desta nel paziente il ricordo visivo della scena primaria, che gli permette di rappresentare il materiale di tale scena attraverso la storia dei lupi, adattandola alla fiaba dei sette capretti. La meta sessuale ultima del bambino, ovvero essere posseduto dal padre, si trasforma in angoscia, con il ripudio di questo desiderio: La sua meta sessuale ultima, l’atteggiamento passivo verso il padre, era incorsa nella rimozione e al suo posto era comparsa la paura del padre sotto forma di fobia dei lupi (Freud, 1914c, p. 522)
Secondo Freud la forza motrice di questa rimozione sarebbe la libido narcisistica: Dal suo narcisismo minacciato il bambino trasse dunque la virilità con cui si difese dall’atteggiamento passivo verso il padre (Freud, 1914c, p. 522)
Il sogno ha consentito il passaggio a un nuovo stadio di organizzazione sessuale: dalla fase sadico-anale verso la fase genitale, che porta a una scelta oggettuale femminile. La riattivazione onirica della scena primaria conduce il paziente alla scoperta del maschile e femminile, al loro significato biologico, a cui attivo e passivo corrispondono. Ma il femminile, nell’immaginario del bambino, comporta la castrazione; pertanto si verifica una regressione sadico-anale. La paura di evirazione viene rimossa
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e sostituita dalla paura del lupo. Tale evoluzione sessuale: “dapprima influenzata in modo decisivo dalla seduzione, fu poi fuorviata dalla scena dell’osservazione del coito, la quale, in virtù del suo effetto ritardato, agì come una seconda seduzione” (Freud, 1914c, p. 523).
7.4.5
La nevrosi infantile: materiali dai tempi remoti e riattualizzazioni nel presente
A questo punto della trattazione, per Freud è importante riaffermare l’origine della nevrosi nell’infanzia. Nella formazione della sintomatologia nevrotica adulta I conflitti attuali, il distogliersi dalla realtà, il soddisfacimento sostitutivo ottenuto grazie alla fantasia, la regressione verso il materiale passato, tutto ciò fa da gran tempo parte integrante della mia dottrina [...]. Ma la mia dottrina non è tutta qui; questi sono solo alcuni dei fattori causali che a mio parere danno luogo alla formazione delle nevrosi [...]. Accanto a questa derivazione le mie teorie lasciano campo a un’altra forma d’influsso, progressivo in questo caso: quello che agisce a partire dalle impressioni dell’infanzia, traccia il cammino alla libido che indietreggia davanti alla vita e ci permette di comprendere la regressione verso l’infanzia, altrimenti inspiegabile (Freud, 1914c, p. 529)
Questa è la tesi centrale che Freud ribadisce attraverso l’analisi del caso. Quindi due fattori cooperano nella formazione dei sintomi nevrotici: da una parte, nell’adulto si attiva un movimento regressivo che riconduce inevitabilmente alla prime impressioni infantili; dall’altra, l’influsso dell’infanzia interviene già nello stadio iniziale della nevrosi come movimento progressivo. Tale influenza concorre in modo decisivo a determinare “se e in qual punto l’individuo subirà uno scacco nel tentativo di padroneggiare i problemi reali della sua esistenza” (Freud, 1914c, p. 529). Il caso clinico ci offre la conferma che la nevrosi dell’età adulta è preceduta da una nevrosi dei primi anni d’infanzia, insorta nel quarto o quinto anno di età. Quindi, la conferma che le esperienze infantili sono in grado di produrre una nevrosi, dovuta all’assenza di gestione controllata e di soddisfazione dei moti pulsionali. Nelle nevrosi infantili l’enorme abbreviamento dell’intervallo tra l’insorgere della nevrosi e l’epoca delle esperienze infantili in questione consente, com’era prevedibile, di ridurre al minimo la parte eziologica regressiva, e di mettere in piena luce la parte progressiva, l’influsso delle impressioni di più antica data (Freud, 1914c, p. 530)
Freud si riferisce, inoltre, alla “fase cannibalesca o orale” (Freud, 1914c, p. 578) della primissima infanzia in cui il paziente mostrò una generale inappetenza, tranne che per una preferenza esclusiva per i dolci. Viene spiegato come l’eccitamento sessuale abbia un appoggio originario nella pulsione di nutrizione. Pertanto, un’alterazione della pulsione di nutrizione consente di rilevare che l’organismo non è
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ancora in grado di padroneggiare l’eccitamento sessuale. Nel caso in questione, il cannibalismo rimanda alla paura di essere divorato dal lupo, ovvero di essere posseduto carnalmente dal padre. Riguardo alla veridicità della scena primaria, Freud spiega che non è importante verificare se si tratti di un episodio avvenuto realmente o di fantasticherie regressive ricostruite durante l’analisi. Il ritorno nei sogni delle scene primarie ha valore quanto un ricordo, a seconda della percezione del paziente. D’altra parte, un bambino così piccolo difficilmente avrebbe potuto attingere ad altra fonte, se non a quella di una scena realmente accaduta. In ogni caso, si tratta di una tendenza che si nota anche in tutte le personalità predisposte a sviluppare la nevrosi ossessiva e l’osservazione di un accoppiamento tra animali, per esempio nel gregge, avrebbe potuto suscitare la trasposizione nel sogno ai genitori. La conoscenza della storia sacra apre la possibilità al bambino di sublimare il prevalente atteggiamento masochistico nei confronti del padre. Identificandosi con il carattere passivo del Cristo stesso e assimilando suo padre a Dio, egli accosta il sacrificio di Cristo alla sua condizione masochistica passiva. L’ambivalenza tra l’antico amore per il padre, appartenente ai primissimi anni di vita, e l’ostilità attuale si uniscono nella critica contro Dio. Ciò che risulta da questa lotta sotto forma di sintomo – le idee blasfeme, la coazione a pensare a bestemmie – costituisce dunque “un autentico prodotto di compromesso” (Freud, 1914c, p. 541). La nevrosi ossessiva, nella tarda infanzia, si ritrova anche in altre relazioni, in particolare nel rapporto con un precettore tedesco: esso diventa una figura sublimata, “un padre nuovo e più alla mano” (Freud, 1914c, p. 543). Freud rintraccia, poi, i sintomi di erotismo anale, tuttora presenti nel paziente adulto. Un erotismo anale che si esprime nel suo rapporto ambivalente con il denaro – prodigalità alternata ad avarizia – come rappresentazione del “piacere escrementizio” (Freud, 1914c, p. 546). Il denaro, nelle sue vesti libidiche e non razionali, rappresenta infatti un soddisfacimento anale. A questo Freud ricollega i disturbi intestinali, di cui il paziente soffriva sin da bambino, come sintomi nevrotici a carattere isterico. Essi si manifestano nell’identificazione con la madre, da cui aveva sentito pronunciare le parole “non posso più vivere così”, o meglio con l’intestino della madre. Nell’immaginazione del bambino, l’intestino della madre era malato in seguito a ciò che subiva sessualmente dal padre, pertanto si crea un’associazione tra intestino e atteggiamento femminile verso l’uomo. Pertanto, la zona anale è quella mediante la quale poteva estrinsecarsi la sua identificazione con le donne e quindi la sua omosessualità: L’atteggiamento femminile verso l’uomo, ripudiato mediante l’atto di rimozione, si ritrasse nella sintomatologia intestinale, manifestandosi nelle frequenti diarree, costipazioni e dolori intestinali degli anni infantili (Freud, 1914c, p. 553)
Freud cita inoltre l’episodio di eccitamento, con emissioni di urina, e risalente a quando il paziente aveva due anni e mezzo, nell’osservare la prima bambinaia, Gruša, inginocchiata a terra. Questa predilezione si riscontra anche nelle scelte suc-
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cessive oggettuali, in quanto il paziente rivela a Freud di essere sempre stato attratto da donne che si trovano in posizione a tergo, prone, che mostrano le natiche. La scelta oggettuale definitiva del paziente sembra dipendere, come esito di un meccanismo di coazione, dalla scena primaria. Essa ci presenta il bambino nell’atto di imitare il padre e ci permette di riconoscere in lui una tendenza a evolversi in una direzione che in seguito potrà essere chiamata virile. La seduzione ad opera della sorella lo costrinse a una passività alla quale d’altra parte era già stata preparata la strada dal suo comportamento come spettatore del coito dei genitori. [...]. La vecchia teoria traumatica [...] riacquistava a un tratto tutto il suo valore (Freud, 1914c, p. 567)
Si delinea un’evoluzione sessuale in due tempi, in cui l’aspetto traumatico della seduzione da parte della sorella si riattiva su una predisposizione alla sessualità già presente nel bambino, rafforzata in un secondo tempo. Può essere utile sintetizzare, con Freud, le fasi dell’infanzia del paziente nel modo seguente: - fase precedente la seduzione (prima dei tre anni e tre mesi): in essa si colloca la fase orale cannibalesca; l’osservazione della scena primaria e la scena con la bambinaia Gruša spingono verso una precoce organizzazione genitale; - fase della seduzione: favorisce anch’essa il precoce sviluppo dell’organizzazione genitale, ma in modo incompatibile con l’impostazione maschile; subentra la minaccia di evirazione, fino ad arrivare al sogno d’angoscia (quattro anni). Sembra che a questo punto, per Freud, l’organizzazione genitale precoce del paziente non tenga e si metta in moto un movimento regressivo verso una fase sadico-anale; - fase della zoofobia: dall’iniziazione religiosa (quattro anni e mezzo) fino allo sviluppo di importanti tratti riconducibili a un erotismo di tipo anale; - fase della nevrosi ossessiva (fino al decimo anno): il sadismo si trasforma in masochismo. Naturalmente le fasi non si succedono repentinamente, bensì coesistono e si mescolano. Tuttavia, si rintracciano tre direzioni evolutive sessuali del bambino, intrecciate tra loro: Dopo il sogno, dal punto di vista dell’inconscio il bambino era omosessuale; dal punto di vista della nevrosi si trovava sul piano del cannibalismo; il precedente atteggiamento masochistico, infine, restava dominante. Tutte e tre queste correnti avevano una meta sessuale passiva; si trattava dello stesso oggetto e dello stesso impulso sessuale, ma quest’ultimo aveva subito una scissione su tre piani diversi (Freud, 1914c, p. 539)
La nevrosi dell’adulto è sempre costruita su una nevrosi infantile, anche se non sempre è abbastanza intensa da esternarsi ed essere riconosciuta. Il paziente, nel riassumere tutti i suoi mali, afferma che:
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il mondo era per lui come avvolto da un velo [...]. Il velo si squarciava – fatto singolare – in una sola circostanza: quando, a seguito di un enteroclisma, il contenuto intestinale passava per l’ano. Allora il paziente si sentiva di nuovo bene e, per un brevissimo momento, vedeva il mondo chiaramente (Freud, 1914c, p. 571–572)
Tutti i desideri del paziente espressi nel linguaggio dell’erotismo anale appartengono al nucleo dell’omosessualità, come fissazione sul padre. L’identificazione con la madre in realtà esprime il desiderio di ritorno al ventre materno: Solo quando egli può mettersi al posto della donna e sostituirsi a sua madre per lasciarsi soddisfare dal padre e partorirgli un bambino, solo allora la sua malattia gli darà tregua. [...] Egli continuava dunque ad esser fissato, come per un sortilegio, a quella scena che sarebbe stata decisiva per la sua vita sessuale, scena il cui ritorno, nella notte del sogno, inaugurò la sua malattia (Freud, 1914c, p. 573)
Tuttavia, il lacerarsi del velo è assimilabile all’aprirsi della finestra, in quanto la scena primaria rappresenta, nello stesso tempo, la sua occasione di guarigione. L’effetto ritardato dell’osservazione del coito ristabilisce la sua organizzazione genitale, attraverso la rimozione della sua omosessualità, come strato isolato e più profondo. Dice Freud che l’omosessualità inconscia rimossa s’è ritratta nell’intestino, rivelando un lato isterico della malattia. La nevrosi ossessiva si è inserita sul terreno dell’organizzazione sessuale sadico-anale. I sintomi ossessivi sarebbero la manifestazione di un conflitto antecedente tra amore per il padre e paura del padre. Successivamente, con gli anni della pubertà subentrò nel paziente, in concomitanza con l’obiettivo sessuale dell’organizzazione genitale, una corrente di tipo virile, contraddistinta da un carattere coatto nei confronti delle donne e connessa agli episodi con la bambinaia Gruša. Il suo oggetto sessuale, dopo il sogno, rimase definitivamente la donna, approcciata in maniera coatta. Freud conclude affermando che: La sua infanzia […] era stata caratterizzata da un oscillare tra attività e passività; la sua pubertà da una lotta per la virilità; e l’epoca che seguì allo scoppio della malattia da una battaglia per l’oggetto della sua tendenza virile (Freud, 1914c, p. 589)
Tra il 1926 e 1927 il paziente fu preso in cura da Ruth Mack Brunswick. Dopo un’esistenza funestata anche dal suicidio della moglie Teresa, avvenuto nel 1938, e da numerosi episodi depressivi, morì nel 1979.
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Benché segnati dal ritorno della pace, gli anni successivi al primo conflitto mondiale furono tutt’altro che semplici per chi, come i viennesi, ne erano usciti sconfitti. In particolare, Vienna cessava d’essere la capitale di un impero che aveva saputo riunire in sé etnie e tradizioni culturali differenti; non solo, ma le restrizioni imposte dai vincitori costituivano di fatto un grosso ostacolo a ogni tentativo di ripresa economica di tutta l’area centrale dell’ormai ex territorio imperiale. Per la psicoanalisi, e per Freud in particolare, questo significò una drastica riduzione dell’attività clinica: erano ormai davvero pochi i viennesi che potevano permettersi un trattamento analitico. Solo grazie a qualche invio da parte di Jones di qualche ricco paziente americano che aveva la disponibilità economica non solo di pagarsi le sedute, ma anche di soggiornare a Vienna, Freud poté riprendere a lavorare nel suo studio. Anche le riunioni fino ad allora periodiche e regolari del “Comitato segreto” subirono una momentanea interruzione: non era semplice raggiungere Vienna, che continuava ad essere considerata capitale di un paese nemico dagli alleati. Due conseguenze principali ebbe questa particolare situazione sullo sviluppo del movimento psicoanalitico: la prima legata a un impulso che la psicoanalisi ebbe in quel momento di crisi in quei paesi dove si erano appena insediati nuovi governi; la seconda ascrivibile al maggior tempo a disposizione per Freud che, svolgendo poca attività clinica, poté dedicare più energie alla produzione scientifica. Tra i nuovi governi sembrò creare molte aspettative quello ungherese di Béla Kun: esso parve particolarmente “aperto” alla psicoanalisi e per Ferenczi fu istituita la prima cattedra di psicoanalisi; non solo, in Ungheria il dottor Anton von Freund, un ex paziente appassionatosi poi di psicoanalisi, aveva deciso di fare una generosa donazione in favore del movimento psicoanalitico. Si trattò, tuttavia, di eventi destinati a non incidere molto (il governo rivoluzionario ungherese cadde ben presto e la forte svalutazione di quel periodo non permise di utilizzare al meglio quanto donato da von Freund), fatta eccezione per la fondazione della casa editrice “Internationaler Psychoanalytischer Verlag”1, che divenne strumento essenziale per la diffusione del sapere psicoanalitico. 1
Ad essa Jones, in accordo con Freud che vedeva migliore accoglienza del suo pensiero presso il mondo anglosassone, affiancò la “International Psycho-Analytical Press”, che raccoglieva traduzioni dal tedesco e lavori originali in lingua inglese.
O. Oasi, La psicologia dinamica e Sigmund Freud, DOI: 10.1007/978-88-470-2525-7_8, © Springer-Verlag Italia 2014
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Freud mise a frutto il maggior tempo a disposizione rimettendosi al lavoro dopo alcuni mesi di impasse, come confidò a Ferenczi in una pessimistica lettera del 6 gennaio 1919. Fu, del resto, proprio grazie agli stimoli provenienti da quest’ultimo che Freud pubblicò gli unici suoi due lavori del 1918: il primo dedicato a rispondere all’interrogativo se e come bisogna insegnare la psicoanalisi in università (Freud, 1918a); il secondo (Freud, 1918b) letto al quinto Congresso internazionale di psicoanalisi, tenutosi proprio a Budapest, nel quale Freud tenne sullo sfondo due nodi problematici dello sviluppo della tecnica psicoanalitica: la questione della tecnica attiva, proposta da Ferenczi, e il problema di estendere la terapia analitica a una popolazione più ampia e di ceto sociale differente rispetto a quella fino a quei tempi presente negli studi degli psicoanalisti. L’uscita da questo periodo di “blocco” costituì il punto d’inizio dell’ultimo, straordinario periodo produttivo di Freud, che porterà il padre della psicoanalisi a introdurci in una nuova concezione della pulsione, della mente e dell’angoscia. Ci limiteremo a questi tre aspetti fondamentali della terza e ultima fase del pensiero freudiano. Sullo sfondo rimangono importanti lavori di taglio sociale e tecnico, già segnalati nelle note biografiche su Freud e in altri punti di questo volume.
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L’introduzione del dualismo pulsionale
Il 1920 era iniziato per Freud con due gravi sciagure che lo avevano colpito negli affetti più cari. Il 20 gennaio il generoso Anton von Freund, il primo mecenate della psicoanalisi e fondatore della “Internationaler Psychoanalytischer Verlag”, a cui Freud era legato, oltre che dall’amicizia, da comuni interessi nel campo psicoanalitico, manifestò dei disturbi addominali che finirono per dimostrarsi metastasi del precedente sarcoma. Anton von Freund si recò a Vienna e Freud non poté che assistere inerme alla lenta, straziante morte per cancro di un uomo completamente consapevole della propria sorte. Vedere come una cosa simile potesse accadere a chi era tanto più giovane di lui e ricco di grandi possibilità gli dava un senso di amara impotenza. A tre giorni dalla sepoltura di quest’ultimo, un virus influenzale fulminante stroncò la giovane vita della diletta figlia di Freud, Sophie, che lasciò orfani due figlioletti in tenera età: il primo, Ernst, sul quale Freud aveva compiuto qualche anno prima le osservazioni sulla ossessiva ripetitività del gioco infantile riferite in Al di là del principio di piacere; il secondo, il piccolo Heinz, su cui il nonno riversò un affetto intensissimo (ma anch’egli morirà improvvisamente nel 1923). Al grande dolore per la morte della figlia, Freud reagì con compostezza e lucidità, anche se per lui non fu affatto facile. Con Al di là del principio di piacere (1920) ci accostiamo a una monografia breve, ma assolutamente rivoluzionaria per lo sviluppo del pensiero freudiano. Il “lungo” periodo di gestazione – dal marzo 1919 al luglio 1920, a fronte di un Freud abitualmente molto rapido nella stesura dei suoi scritti – è spiegabile a partire dalla complessità del lavoro, dedicato a una revisione e a un parziale superamento della precedente teoria pulsionale. L’esigenza di tale revisione è implicita in un saggio
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coevo (Freud, 1919), idealmente una prosecuzione dei Tre saggi del 1905, ma di fatto anche l’avvio delle riflessioni sul sadomasochismo, su cui Freud tornerà nel 1924 (Freud, 1924a). Al di là del principio di piacere si compone di sette serrati paragrafi, dei quali i primi tre hanno un carattere squisitamente clinico, mentre i successivi sviluppano sostanzialmente un punto di vista speculativo. Fin dal primo paragrafo, Freud pone dei limiti precisi al principio di piacere, poiché è a tutti evidente che, se esistesse un’egemonia di tale principio, “la stragrande maggioranza dei nostri processi psichici sarebbe accompagnata da piacere o porterebbe al piacere, mentre l’universale esperienza si oppone energicamente a questa conclusione” (Freud, 1920, p. 195). È bene ricordare che, fino a quel momento, il principale regolatore del flusso degli eventi psichici è costituito per Freud proprio dal principio di piacere (contrapposto al principio di realtà): in particolare, se l’energia libera aumenta si avrà un aumento della tensione interna e, conseguentemente, dispiacere; in caso contrario, si otterrà piacere. In accordo con Fechner, Freud collega piacere e dispiacere a “stabilità” e “instabilità” dei processi mentali e conclude che il principio di piacere scaturisce dal principio di costanza, forza regolatrice dell’apparato psichico che tende a mantenere stabile il livello energetico dell’organismo. Già nel 1911 Freud aveva attirato l’attenzione alle limitazioni che al principio di piacere impone l’adattamento alla realtà, con il progressivo affermarsi del principio di realtà; non solo, appariva sempre più evidente a Freud il “sacrificio” di pulsioni o componenti pulsionali incompatibili con quelle deputate alla costituzione e organizzazione dell’Io e da quest’ultimo sottoposte a meccanismi difensivi come la rimozione o la scissione. Il secondo paragrafo si apre con alcune considerazioni cliniche sulle “nevrosi traumatiche”: in particolare, come spiegare i sogni – ritenuti “il metodo più attendibile per l’esplorazione dei processi psichici profondi” (Freud, 1920, p. 199) – dei pazienti affetti da “nevrosi di guerra” o “nevrosi traumatica”, nei quali il malato è riportato spesso nella situazione del suo incidente, cosa che abitualmente sfocia in un brusco e drammatico risveglio? Non è forse opportuno pensare, se non si vuole mandare all’aria uno dei pilastri della teoria e della tecnica psicoanalitica, che il sogno, che qui non tende all’appagamento di un desiderio, sia in questo caso deviato nei suoi scopi e nelle sue funzioni da qualcosa di ancora sconosciuto e non teorizzato? Freud fa qui intravedere con chiarezza un fenomeno su cui aveva già maturato lunghe, seppur ancora incomplete, riflessioni e che pareva ai suoi occhi possedere qualcosa di inquietante per l’ostinata e insidiosa interferenza che esercitava spesso nella situazione analitica: si tratta del fenomeno della ripetizione – o dell’“eterno ritorno dell’uguale”2 – la cui silenziosa opera sarà riconosciuta dal padre della psicoanalisi all’interno dei trattamenti analitici e al di sotto del “clamore” delle pulsioni erotiche. Freud, tuttavia, non impone subito al lettore l’inevitabile conseguenza di tutto ciò, cioè il venir meno dell’unicità del principio di piacere. Al contrario, come 2
Come il titolo del presente saggio, anche questa espressione riecheggia il pensiero nietzschiano, in particolare il Così parlo Zarathustra, ed era già stata utilizzata da Freud ne Il perturbante del 1919.
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farebbe un formidabile scrittore, interrompe momentaneamente la trama dell’azione e fa volgere altrove l’attenzione. Verso qualcosa che in realtà induce Freud, per mezzo di una sua straordinaria abilità osservativa nei confronti del gioco infantile, a confermare da altro punto di vista quanto detto a proposito delle nevrosi di guerra o traumatiche. Freud ci introduce così al gioco forse più famoso di tutta la storia della psicoanalisi: il “gioco del rocchetto”, che il padre della psicoanalisi osserva fare al suo nipotino di un anno e mezzo, Ernst, e il cui significato è colto da Freud dopo un “certo tempo”, a testimonianza del fatto che anche situazioni apparentemente banali possono nascondere importanti complessità. Il gioco era infatti apparentemente incomprensibile: il bimbo non usava i suoi giocattoli normalmente, ma li gettava lontano da sé urlando “fort” [“via”]. Quale spiegazione dare a questo comportamento ludico? Freud coglie improvvisamente un particolare rivelatore: Ernst sta maneggiando un rocchetto di legno con attaccato un filo e, come solitamente faceva, lo lancia via, accompagnando il gesto con il suo espressivo “fort”; ma poi, attraverso il filo, riavvicina il rocchetto a sé, salutandone la ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Al di là dell’interpretazione del gioco, attraverso il quale il bimbo mette in scena l’allontanamento e la ricomparsa della madre, due sono gli elementi da mettere in evidenza: anzitutto la “rinuncia pulsionale” da parte del piccolo, consistente nel dover consentire alla madre di allontanarsi quando ella doveva assentarsi da casa per alcune ore; in secondo luogo, lo svolgimento, sempre da parte del piccolo, di un ruolo attivo, ripetendo, sotto forma di gioco, un’esperienza che pure era stata spiacevole e in un primo tempo subita. La domanda che allora Freud si pone è stringente e genera un’ulteriore “falla” nel “sistema” apparentemente inespugnabile del principio di piacere: “Ci sorge allora il dubbio se la spinta a elaborare psichicamente e a impadronirci appieno di un evento che ha suscitato in noi una forte impressione possa manifestarsi primariamente e indipendentemente dal principio di piacere” (Freud, 1920, p. 202). Un filo sembra legare la ripetizione dei sogni nei soggetti affetti da nevrosi traumatica alla ripetizione ludica di un’esperienza spiacevole. Il terzo paragrafo di Al di là del principio di piacere è di grande raffinatezza clinica e fa agio non solo su acquisizioni di tecnica psicoanalitica, ma anche sulla convinzione mai abbandonata da Freud che lo sviluppo infantile giochi un ruolo centrale nell’eziologia della nevrosi. Quando abbiamo in trattamento un paziente e l’analisi procede bene, è inevitabile arrivare a un punto in cui – secondo Freud – l’Io (coerente) si contrappone al rimosso3: lo “svelamento” dei contenuti di quest’ultimo non può infatti non portare dispiacere (per esempio, scoprire il dolore, sottoposto a rimozione, ma riconducibile a un abbandono temporaneo di un genitore o a un’umiliazione subita in tenera età da un coetaneo). Tale percorso di cura – come osserva Freud all’inizio di questo paragrafo – è quello che si è cercato di attuare sin dall’inizio in psicoanalisi, proponendo delle interpretazioni in grado di “svelare” al paziente i propri contenuti inconsci e fargli superare le resistenze; il che è reso possibile in virtù di quella particolare condizione denominata “nevrosi di transfert”. Ma – osserva ancora Freud –: “Il malato non può ricordare tutto ciò che in lui è rimosso [...]. Egli
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Qui Freud è su posizioni che saranno approfondite nel proseguo di questo capitolo (II topica).
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è piuttosto indotto a ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale, anziché, come vorrebbe il medico, a ricordarlo come parte del proprio passato” (Freud, 1920, p. 204). Ecco introdotta la testimonianza più “viva” di un fenomeno – la coazione a ripetere – su cui Freud aveva già attirato l’attenzione da un punto di vista tecnico nel 1913–1914 (in particolare, nel secondo dei tre saggi: Ricordare, ripetere e rielaborare), ma che qui assume anche un valore confermativo rispetto all’esistenza di un principio regolatore dell’accadere psichico che si pone al di là di quello di piacere. È solo in questo modo – osserva ancora Freud – che possiamo azzardare qualche ragionevole ipotesi sul motivo per cui, ad esempio, le relazioni umane di talune persone si concludono tutte nello stesso modo. Si tratta quindi di un fenomeno che coinvolge tanto la psicopatologia, come testimoniato dalle nevrosi traumatiche, quanto la vita comune dell’uomo (ne è prova il “gioco del rocchetto”, ma anche quelle sensazioni di déjà vu che a tutti sarà occorso di provare). Sono i baluardi difensivi messi in atto dall’Io o l’intreccio, quando non la vera e propria commistione4, tra piacere e dispiacere (dolore) a determinare una spesso complessa e non immediata individuazione dei due principi in azione5. Come anticipato, i paragrafi 4, 5, 6 e 7 costituiscono la parte speculativa di questo saggio di Freud: in essa, il padre della psicoanalisi sembra voler fondare su considerazioni metapsicologiche quanto ravvisato nella clinica e nell’osservazione della vita comune. Per perseguire tale obiettivo non mancano riferimenti a precedenti riflessioni di taglio appunto metapsicologico: in particolare, quelle del Progetto di una psicologia (Freud, 1895) e di Metapsicologia (Freud, 1915a). Non solo: si ravvisa qui anche una delle caratteristiche più tipiche del procedere freudiano, ossia quella che cerca di rintracciare in altre discipline assai più affermate a quei tempi dal punto di vista scientifico, quali la biologia e la neurologia, importanti conferme per la giovane teoria psicoanalitica. Ecco allora che Freud si sofferma sulle vicissitudini del sistema C (coscienza) e i rapporti che esso intrattiene con le tracce mnestiche connesse ai processi di eccitamento. Il sistema C avrebbe dunque la peculiare caratteristica che in esso – diversamente da quanto accade negli altri sistemi psichici – i processi di eccitamento non lasciano dietro di sé una durevole trasformazione degli elementi del sistema, esaurendosi, per così dire, nel fenomeno del diventare cosciente (Freud, 1920, p. 211)
Ciò sarebbe dovuto alla particolare “esposizione” di tale sistema nei confronti del mondo esterno. È possibile, così, rappresentarci l’organismo vivente nella sua
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Più avanti Freud parlerà di vero e proprio “impasto pulsionale” (Freud, 1924a) per sottolineare lo stretto e in qualche modo inscindibile legame tra pulsione di vita e pulsione di morte. Ad esempio, a proposito del “gioco del rocchetto” Freud osserva: “Questo era dunque il gioco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto” (Freud, 1920, p. 201).
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forma più semplice – continua Freud – come una vescichetta indifferenziata, la cui superficie a contatto con la realtà si differenzierà per la sua stessa posizione. Tale “parte” dell’organismo, che si organizzerà ben presto nel sistema C, ha l’importante compito di creare una sorta di barriera protettiva nei confronti di eccitamenti eccessivi determinati da stimoli provenienti dall’esterno. Ma – osserva ancora Freud – esistono stimoli che provengono dall’interno e di fronte ai quali una protezione di questo tipo è impossibile: è per questo che le sensazioni di piacere/dispiacere (punto d’arrivo di ciò che avviene all’interno dell’apparato) prevalgono su tutti gli stimoli esterni e che, laddove esse siano eccessive, vengono trattate come fossero esterne attraverso il meccanismo della proiezione. Questo discorso teorico si riallaccia a quello clinico nel momento in cui Freud ipotizza che la nevrosi traumatica sia da considerarsi la conseguenza di una vasta breccia apertasi nella barriera protettiva: non è a questo punto più possibile evitare grandi quantità di eccitamento e il principio di piacere viene messo temporaneamente “fuori combattimento”. Ed ecco spiegati anche i sogni d’angoscia, tipici delle nevrosi traumatiche: essi cercherebbero di padroneggiare gli stimoli, causa dell’eccitamento, “a posteriori”, facendo attivare quel livello d’angoscia e quei sistemi di ricezione colti, per così dire, di sorpresa nel momento in cui l’evento si è verificato. In questa prospettiva, tali sogni non solo costituiscono un’eccezione alla regola per la quale il sogno è l’appagamento di un desiderio, ma anche la prova che essi “ubbidiscono” alla coazione a ripetere. Il punto di vista su cui Freud attira qui l’attenzione è soprattutto economico – le nevrosi traumatiche sono considerate delle specie di “disturbi economici” – e su questa linea prosegue la sua speculazione metapsicologica: è così ripreso il concetto chiave di pulsione e il diverso destino che hanno i processi psichici “legati”, propri del sistema conscio e preconscio, da quelli “mobili”, rintracciabili nel sistema inconscio, da essa originati. Ora – osserva Freud –: “Le manifestazioni della coazione a ripetere [...] rivelano un alto grado di pulsionalità e, quando sono in contrasto col principio di piacere, possono far pensare alla presenza di una forza ‘demoniaca’” (Freud, 1920, p. 221). Poco oltre, Freud cerca di mettere in relazione coazione a ripetere e pulsionalità, individuando una proprietà universale delle pulsioni. Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno; sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica (Freud, 1920, p. 222)
A sostegno di questa ipotesi, Freud adduce esempi tratti dal mondo animale in cui la pulsione è espressione della natura conservatrice degli esseri viventi e dell’e6
Ad esempio, citando direttamente Freud, “la capacità di riprodurre un organo perduto formandone uno nuovo perfettamente uguale si ritrova fino a un livello assai elevato della gerarchia animale” (Freud, 1920, p. 223).
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sistenza di una coazione a ripetere organica6. Si arriva così a uno dei punti più “estremi” della parte speculativa di questo saggio, in cui Freud afferma: Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi (Freud, 1920, p. 224)
Solo le pulsioni sessuali farebbero eccezione e si opporrebbero a questo ritorno all’inorganico e a uno stato di quiescenza originario: all’inizio del sesto paragrafo Freud introduce la contrapposizione tra pulsioni dell’Io (o di morte) e pulsioni sessuali (o di vita), dando inizio a quello che sarà definito dualismo pulsionale, fatto proprio da M. Klein. Potrebbe fare una certa impressione l’attribuzione all’Io delle pulsioni che spingono verso la morte. Come osserva Freud, occorre tuttavia tener presente da un lato che una certa parte dei nostri moti pulsionali sono sottoposti a rimozione, dall’altro che molti sono i progressi che l’analisi dell’istanza dell’Io deve ancora compiere prima di dirsi completata e, dall’altro ancora, che continuano a coesistere nell’Io pulsioni di morte e pulsioni di autoconservazione. Facendo un chiaro riferimento a Introduzione al narcisismo (1914b), Freud “corregge” la posizione colà espressa, affermando che l’originaria contrapposizione tra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali deve ora tener conto che all’interno delle pulsioni di autoconservazione, quindi dell’Io, si esprimono anche pulsioni sessuali. Si tratta di aggiungere una distinzione non solo unicamente qualitativa, ma anche topografica, cioè a partire dal “luogo” nel quale la pulsione è identificabile7. Questa complessa articolazione del concetto metapsicologico di pulsione e di libido se, da un lato, è resa necessaria dal progressivo arricchimento del discorso freudiano, dall’altro allontana sempre più Freud da Jung, cui è attribuita dal padre della psicoanalisi una concezione monistica della libido, causa di inevitabili “equivoci” (Freud, 1920, p. 238). Nelle ultime pagine del saggio è lo stesso Freud a suggerire il grande cambiamento introdotto: “Non mi nascondo che il terzo passo che sto compiendo nella teoria delle pulsioni non può pretendere la stessa certezza dei primi due: l’estensione del concetto di sessualità e l’ipotesi del narcisismo” (Freud, 1920, p. 244); né è possibile, per Freud, trarre tranquillità dal fatto che filosofi come Platone o Schopenhauer facciano aperto riferimento al contrasto tra forze vitali o alla morte come vero scopo della vita8 o che biologi come Weismann o Hering insistano sulla contrapposizione tra vita e morte. La preoccupazione di Freud non è certo quella di un disaccordo con altre discipline, bensì la consapevolezza di aver introdotto un cambiamento di straordinaria portata all’interno della sua teoria non solo della pulsione, ma della mente. 7 8
Su questo punto confronta anche la nota, straordinariamente chiara e riepilogativa, posta da Freud a chiusura del paragrafo sesto (Freud, 1920, p. 246). Freud cita in nota anche le Upanishad.
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La seconda topica o modello strutturale della mente
L’elaborazione di una nuova concezione della mente fu probabilmente presente in Freud già alcuni anni prima dell’uscita dell’opera – L’Io e l’Es (Freud, 1922b) – che, di fatto, ne suggella l’affermazione; sarà riesposta in modo sintetico, ma comunque esauriente, nel 1932 in Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (Freud, 1932b, lezione 31). Il “filo rosso” che porta alla nuova tripartizione della mente – Io, Es e Super-io – parte perlomeno da Introduzione al narcisismo (1914b) e da Metapsicologia (1915a) e si dipana attraverso Al di là del principio di piacere (1920) e Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921). Con essa è definitivamente superata la vecchia contrapposizione, presente fin dagli Studi sull’isteria (1892–1895), tra Inconscio e Io, a motivo della considerazione sviluppata da Freud che anche una parte dell’Io è inconscia: pertanto, “conscio” designerà, d’ora in poi, “solo” una qualità che uno stato psichico può o meno possedere. Ciò significa anche ritenere che le province (o sistemi psichici, ossia Conscio, Preconscio e Inconscio) non siano sovrapponibili alle istanze (Es, Io e Super-io), né collimino con esse. Se le prime danno una descrizione topografica della mente e dell’attività psichica, le altre mettono più l’accento sull’aspetto dinamico e spesso conflittuale di tale attività. In realtà, si vedrà che il vero proposito di Freud non fu quello di suggerire la descrizione “migliore” dell’apparato psichico, quanto quello di arrivare a un definitivo assetto dello stesso, in grado di comprendere i due punti di vista testé citati e quello economico. Pensata nell’estate del 1922, l’opera L’Io e l’Es fu terminata in quello stesso anno e pubblicata nell’aprile del 1923: alcune anticipazioni di essa, in particolare rispetto alla pluralità di significati assunti in psicoanalisi dal termine “inconscio”, furono portati da Freud al settimo Congresso internazionale di psicoanalisi di Berlino (settembre del ’22; cfr. Freud, 1922a), l’ultimo cui il padre della psicoanalisi partecipò personalmente prima che la forma cancerosa, diagnosticatagli nel 1923, lo allontanasse progressivamente da apparizioni pubbliche. Il titolo scelto da Freud induce a porci subito due domande, in qualche modo introduttive all’opera: se si parla di tripartizione della mente anche nel modello strutturale, perché il titolo non comprende anche il Super-io? Forse Freud lo considera meno importante? Inoltre, a quale scopo introdurre un nuovo termine, Es, per descrivere la mente? E come si differenzia da quello di Inconscio? Freud ci dà una spiegazione solo per il secondo dei due quesiti posti: alla ricerca di un termine che rendesse conto dell’esistenza di qualcosa che, pur indirizzando il comportamento dell’individuo e agendo al suo interno, fosse da lui sentito in qualche misura estraneo e riconoscibile più per contrapposizione all’Io che per caratteristiche proprie, Freud “approda” al termine Es. Il carattere oggettivo e impersonale delle pulsioni sembrò a Freud essere bene rappresentato da questo termine, pronome neutro di terza persona della lingua tedesca (come il latino id) utilizzato anche come soggetto dei verbi impersonali: esso sintetizzava altresì un punto di vista espresso in modo coerente da Groddeck, che per primo utilizzò in campo medico questo termine, traendolo presumibilmente dalle lezioni che il suo maestro, Ernst
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Schweninger, aveva tenuto su Nietzsche9. Rispetto al secondo quesito, un’ipotesi esplicativa potrebbe fare riferimento all’implicita considerazione che il Super-io è, tra le istanze, quella che si sviluppa più tardivamente, ossia, come lo stesso Freud aveva precisato, in concomitanza con il “tramonto del complesso edipico”. In altre parole, benché il Super-io non derivi in realtà esclusivamente dall’autorità parentale, ma sia in qualche modo filogeneticamente determinato da un substrato ascrivibile alle generazioni passate dell’individuo (cfr. l’ultima parte proprio de L’Io e l’Es), esso di fatto pare essere “secondario” sia all’insieme degli istinti che costituisce l’Es, sia all’opera di mediazione tra istinti e realtà esterna che determina il costituirsi pressoché immediato dell’Io. Detto questo, non è così importante capire se Freud desse un’importanza differente alle tre istanze: di certo l’istanza che in Freud assume un peso sempre maggiore, anche rispetto alla clinica, è l’istanza dell’Io. Si tratta di una tendenza che prenderà sempre più piede nell’ultima fase del pensiero del padre della psicoanalisi e che sarà fatta propria dalla corrente della Psicologia psicoanalitica dell’Io. L’Io e l’Es si compone di una breve premessa, nella quale Freud accenna alla continuità con il suo saggio sul dualismo pulsionale (Freud, 1920) e afferma la necessità di definire confini e contenuti della psicoanalisi, e da cinque parti o sezioni nelle quali è messa a fuoco una nuova concezione della mente (modello strutturale), centrata sull’istanza dell’Io e sui rapporti che essa intrattiene con le altre due istanze, le pulsioni e la realtà esterna. Nella prima sezione (Coscienza e Inconscio), Freud riprende alcuni argomenti già sviluppati e ben “consolidati” in suoi scritti precedenti, a partire dal noto settimo capitolo della Traumdeutung (Freud, 1899b). Al centro di questa sezione vi è infatti il concetto di Inconscio. D’altra parte: La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fondamentale della psicoanalisi; solo questa distinzione le consente di comprendere e inserire in una sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica (Freud, 1922b, p. 476)
Partendo da un punto di vista strettamente descrittivo – si potrebbe anche dire topografico – Freud si sofferma su cosa significhi “essere cosciente” di qualcosa e sul fatto che questo qualcosa possa perdurare nell’area della coscienza o, con destino opposto, essere sottoposto a rimozione e diventare così inconscio. Dipende – osserva Freud – dalla “dinamica” psichica, ossia dalle forze che entrano in gioco per mantenere viva, cosciente, o meno, rendendola quindi inconscia, una determinata rappresentazione psichica (punto di vista economico e dinamico). Nel lavoro analitico – continua ancora Freud – avvertiamo la “forza che ha prodotto e mantenuto attiva la rimozione [...] come resistenza” (Freud, 1922b, p. 477). D’altra parte, il latente in grado di di-
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È noto il debito, rispetto all’utilizzo di questo termine, nei confronti di Groddeck e del suo testo Il libro dell’Es (1923), da parte di Freud, e da quest’ultimo riconosciuto (cfr. Freud, 1922b, p. 486).
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venire cosciente può essere denominato preconscio e nulla ha a che vedere con l’inconscio derivante dalla rimozione10. Solo nell’ultima parte di questa sezione, Freud introduce il suo nuovo punto di vista, con tutta la sua portata rivoluzionaria: Costatiamo che l’Inc non coincide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è inc, ma non che ogni Inc è rimosso. Anche una porzione dell’Io, una porzione Dio sa quanto importante dell’Io, può essere, e anzi è certamente Inc (Freud, 1922b, p. 481)11
Si tratta in qualche modo di una terza specie di Inc, inteso in un senso che non è né descrittivo, né dinamico; esso caratterizza il nuovo modo d’intendere la mente – modello strutturale – nel quale il carattere dell’essere inconscio ha poco a che fare con il “semplice” rimosso. La seconda sezione ha lo stesso titolo dell’opera (quindi: L’Io e l’Es) e si sofferma in particolare sui rapporti tra queste due istanze e lo sviluppo della mente secondo questo nuovo modello. Freud dedica tutta la prima parte di questa sezione alle vicissitudini delle percezioni: quelle che provengono dall’esterno (le percezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno (sensazioni e sentimenti). Se il rapporto intercorrente tra le prime e l’Io è chiaro, meno chiaro è il possibile percorso di collegamento tra l’Io e le percezioni interne. A questo proposito Freud ha le idee molto precise: “In altre parole: la distinzione fra C e Prec per le sensazioni [interne, NdA] è priva di senso; il Prec qui manca, queste sensazioni o sono coscienti o sono inconsce” (Freud, 1922b, p. 485). Dunque Freud sembra avanzare l’ipotesi che non tutta la coscienza – o l’essere consci di qualcosa – siano ascrivibili al sistema P-C (Percezione-Coscienza). Solo dopo queste precisazioni, Freud si sente in grado di poter proporre l’immagine che dell’Io si è venuta a determinare. “Noi lo vediamo estendersi dal suo primo nucleo che è il sistema P, così da comprendere innanzitutto il Prec che si appoggia ai residui mnestici. L’Io però, come abbiamo veduto, è anche inconscio” (Freud, 1922b, p. 486). Poco oltre, dopo aver citato Groddeck, così continua il padre della psicoanalisi: Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo. [...] L’Io non avviluppa interamente l’Es, ma solo quel tanto che basta a far sì che il sistema P formi la sua superficie [dell’Io], e cioè più o meno come il disco germinale poggia 10
Sembra qui di intravedere un’importante distinzione tra inconscio in senso dinamico (ciò che è sottoposto alla forza della rimozione) e inconscio in senso descrittivo (ciò che è latente, ma capace di divenire cosciente senza “vincere” alcuna rimozione). Una distinzione che susciterà qualche perplessità in Ferenczi (lettera a Freud del 28 ottobre del 1923). Questa distinzione ha avuto invece ampio sviluppo e approfondimento nella psicoanalisi contemporanea e nell’interpretazione della psicopatologia della condizione borderline. 11 È un’affermazione ripresa e sviluppata da Al di là del principio di piacere (1920) e, ancor prima, da Metapsicologia (1915a), in particolare nel saggio L’inconscio, secondo quel “filo rosso” cui si accennava a inizio capitolo.
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sull’uovo. L’Io non è nettamente separato dall’Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso (Freud, 1922b, pp. 486–487)
Il rimosso confluirebbe nell’Es, costituendone una parte, ma rimanendo nettamente separato dall’Io; l’Io sarebbe anche in contatto con il mondo esterno grazie a una sorta di “berretto auditivo”, posato, per così dire, di sghimbescio. A supporto di questa descrizione della mente, Freud fornisce una rappresentazione grafica della stessa, con il solo scopo di facilitarne la comprensione (Fig. 8.1). Essa non coincide del tutto con quella fornita nella Lezione 31, forse di più immediata lettura (Fig. 8.2). Chiudono questa sezione alcune importanti conseguenze di questo complesso rapporto tra l’Io e l’Es: l’Io sarebbe quella parte dell’Es modificatasi sotto l’influenza del mondo esterno in virtù dell’intervento del [sistema] P-C; l’Io cerca di sostituire al principio di piacere, che domina l’Es, il principio di realtà; l’Io ha con la percezione
Fig. 8.1 Rappresentazione grafica
P-C
t. cus
a
dei rapporti strutturali della personalità psichica (Freud, 1922b, p. 487)
Prec
Io Es Fig. 8.2 Rappresentazione grafica
dei rapporti strutturali della personalità psichica (Freud, 1932b, lezione 31, p. 189)
P-C
Rim
oss
o
Io Inconscio
Es
SU PER-IO
Preconscio
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lo stesso rapporto che l’Es ha con la pulsione. Derivando in ogni caso dall’Es, l’Io fatica a mantenerne il controllo; anzi, spesso deve assecondarne i voleri, così come – descrive Freud con un bell’esempio – farebbe un cavaliere che vuole cercare di domare la prepotente forza di un cavallo. A proposito della genesi dell’Io e della sua differenziazione dall’Es, Freud osserva infine che l’Io è “anzitutto un’entità corporea” e che l’Io cosciente “è prima di ogni altra cosa un Io-corpo” (Freud, 1922b, pp. 488 e 490). In questo modo, Freud sembra sia ricollegare l’Io a ciò che ci mette in contatto, sin dai primi giorni di vita, con il mondo esterno (il corpo appunto), sia attribuire all’Io quel compito di mediazione tra interno e esterno fondamentale per l’equilibrio psichico. Nella terza sezione (L’Io e il Super-io [ideale dell’Io]) Freud ci accompagna nel cuore del tema piuttosto complesso relativo alla genesi del Super-io e dell’ideale dell’Io: essa tocca così aree appartenenti sia alla psicopatologia (in particolare, la sofferenza del melanconico) che alla psicologia dello sviluppo (soprattutto la questione edipica). Di fatto, tutto ruota intorno alla constatazione che l’Io non può essere considerato soltanto una “parte” dell’Es, né tanto meno una parte della psiche che ha rapporti solo con la coscienza, ma un’istanza molto più complessa, caratterizzata al suo interno da un “gradino”, una differenziazione che Freud aveva già denominato ideale dell’Io, o Super-io12. Nel processo di sviluppo della melanconia era stato in particolare necessario supporre che “un oggetto perduto tornasse a ergersi nell’Io, che cioè un investimento oggettuale venisse sostituito da un’identificazione” (Freud, 1922b, p. 491). È la cosiddetta identificazione narcisistica, quella cioè che prevede che una parte dell’Io si identifichi con l’oggetto perso e contribuisca, in questo modo, a modificare la configurazione iniziale dell’Io o, detto in altro modo, a forgiare un certo “carattere”. In realtà – osserva Freud – non si tratta di un fenomeno che avviene solo nei quadri melanconici, ma che è proprio del processo di sviluppo dell’individuo. A questo riguardo, è bene osservare che, in una primissima fase di vita e, parallelamente, in una primitiva fase di sviluppo della civiltà, identificazione e investimento oggettuale non sono distinguibili. Infatti, così come, nella fase orale dello sviluppo libidico, l’oggetto desiderato è incorporato durante il pasto e perciò distrutto come oggetto, analogamente il cannibale “ama i nemici che mangia e non mangia se non quelli che in qualche modo può amare” (Freud, 1921, p. 291). È dall’Es che giungono i primi investimenti oggettuali e i suoi impulsi erotici sono percepiti come bisogni; l’Io cerca di respingere tali investimenti, rimuovendoli o “erigendo dentro sé”, analogamente a quanto avviene nel melanconico, l’oggetto. Sull’oggetto introiettato può così riversarsi l’investimento dell’Es, con una libido che da oggettuale torna ad essere narcisistica. Ha luogo in questo modo una parziale alterazione dell’Io, che assume i tratti dell’oggetto introiettato, ma, nello stesso tempo, ha trovato un modo per “controllare” l’Es. Gli effetti di queste prime identificazioni (narcisistiche) saranno persistenti. E 12
Il riferimento, secondo il “filo rosso” già precedentemente citato, rimanda soprattutto a Introduzione al narcisismo (1914b); tuttavia, alcune considerazioni che seguiranno si ricollegano anche a Lutto e melanconia in Metapsicologia (1915a) e a Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921).
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quali sono gli oggetti con cui più frequentemente l’Io tende a identificarsi? Freud non ha dubbi: “Questo ci riporta alla formazione dell’ideale dell’Io, giacché dietro ad esso si cela la prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria” (Freud, 1922b, p. 493). A questo punto della sezione, Freud si sofferma su due fattori che rendono particolarmente complesse le scelte oggettuali appartenenti al primo periodo sessuale, intrecciandosi con il processo testé descritto: “il carattere triangolare della situazione edipica e la bisessualità costituzionale dell’individuo” (Freud, 1922b, p. 494). Ecco la conclusione cui giunge Freud: Si può dunque supporre che l’esito più comune della fase sessuale dominata dal complesso edipico sia il costituirsi nell’Io di un lascito di queste due identificazioni in qualche modo fra loro congiunte [con il padre e con la madre, NdA]. Questa alterazione dell’Io conserva la sua posizione particolare contrapponendosi al restante contenuto dell’Io come ideale dell’Io, o Super-io (Freud, 1922b, p. 496)
Nell’ultima parte della sezione, Freud cerca di caratterizzare l’uno e l’altro. Il Super-io, oltre a essere un residuo dei primi investimenti oggettuali, ha anche un potente ruolo di divieto nei confronti di quegli investimenti. Devi essere come il padre – esemplifica Freud – ma, nello stesso tempo, non puoi fare tutto ciò che egli fa. La “forza” del Super-io dipende strettamente dalle vicissitudini del complesso edipico: poco oltre, Freud specificherà che tale forza è ascrivibile sia al fatto che il Super-io costituisce il primo oggetto di identificazione per l’Io, in un momento in cui quest’ultimo è ancora allo stato iniziale del suo sviluppo e quindi piuttosto debole; sia alla constatazione che il Super-io è l’erede del complesso edipico e, come tale, introduce nell’Io oggetti di estrema importanza (padre e madre). Altri due fattori alla base dell’origine del Super-io sono di tipo biologico e hanno a che fare con “la lunga durata che ha nell’uomo la debolezza e la dipendenza infantile [...] e all’inizio in due tempi della sua vita sessuale” (Freud, 1922b, p. 497). Di certo, conclude Freud: La separazione del Super-io dall’Io non è dunque qualche cosa di casuale. Essa rappresenta le più importanti caratteristiche evolutive e dell’individuo e della specie: infatti, dando espressione durevole all’influenza dei genitori, perpetua l’esistenza di quegli stessi fattori a cui deve la propria origine (Freud, 1922b, pp. 497–498)
Per quanto riguarda l’ideale dell’Io, è necessario intenderlo in stretta connessione con il Super-io13: come quest’ultimo può essere considerato l’erede del complesso edipico e latore dei più potenti impulsi e importanti sviluppi libidici dell’Es. Non solo; l’ideale dell’Io assomma in sé tutte quelle caratteristiche che l’uomo attribuisce 13
Freud cita verso la fine di questa sezione anche l’Io ideale (Idealich) con lo stesso significato tuttavia di ideale dell’Io (Ichideal). Cfr. anche Introduzione al narcisismo (Freud, 1914b).
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a un essere superiore e, in qualche misura, perfetto. All’ideale dell’Io Freud attribuisce così lo sviluppo non solo dei sentimenti sociali, ma anche della religione e della morale. È forse didatticamente opportuno, a questo punto, passare subito ad analizzare la quinta sezione (I rapporti di dipendenza dell’Io), assai connessa a queste riflessioni sulle istanze, lasciando in chiusura la quarta sezione (Le due specie di pulsioni). Freud consapevolmente vuole ribadire l’importante ipotesi per cui “l’Io si forma in gran parte mediante identificazioni, le quali prendono il posto di investimenti che l’Es ha abbandonato”; “tali identificazioni si configurano invariabilmente come una particolare istanza che, all’interno dell’Io, si contrappone come Super-io allo stesso Io” (Freud, 1922b, p. 510). È tuttavia evidente lo stretto legame che intercorre tra Es e Super-io; a tal punto da far dire a Freud che quest’ultimo è “profondamente immerso nell’Es, ed è perciò più dell’Io lontano dalla coscienza” (Freud, 1922b, p. 511). Uno sguardo sulla clinica aiuta il lettore a orientarsi all’interno dei rapporti esistenti tra le istanze: in particolare, se ci si sofferma sulla questione del senso di colpa. Esso sembra essere un sintomo che si manifesta in modo differente nei diversi quadri psicopatologici: si parte da un livello “normale e cosciente” (Freud, 1922b, p. 511), che si sviluppa a partire da una tensione tra l’Io e l’ideale dell’Io; tale tensione diventa, però, sempre più intensa e fonte di sofferenza passando dalla nevrosi ossessiva alla melanconia. La differenza sta nel fatto che, mentre nella nevrosi ossessiva gli impulsi intollerabili sono rimasti fuori dall’Io (da qui i tentativi di “difesa” dalle accuse messi in atto in questo tipo di nevrosi), nella melanconia ciò cui si riferiscono le accuse del Super-io è stato, in virtù dell’identificazione narcisistica, assunto nello stesso Io. La severità del Super-io del melanconico può essere attribuita al fatto che questa istanza pare impossessarsi di tutto il sadismo e di tutta la pulsione distruttiva o di morte presente nel paziente; ciò spiegherebbe il suicidio cui a volte arrivano i melanconici, soprattutto laddove non “virino” verso un temporaneo stato maniacale. Benché spesso molto tormentato dal senso di colpa, il nevrotico ossessivo non giunge mai al passo del suicidio, barcamenandosi tra gli impulsi dell’Es e i rimproveri della coscienza morale (Super-io). La sua “sopravvivenza” è garantita dal “mantenimento” dell’oggetto come qualcosa di esterno al suo Io. Destini molto diversi ha il senso di colpa nell’isteria e in quei pazienti che sviluppano una “reazione terapeutica negativa”. Nel primo caso, l’Io non riuscirebbe a fare altro che a “tenere lontano” il materiale, solitamente riconducibile a tematiche edipiche cui il senso di colpa si riferisce, attraverso il meccanismo della rimozione: ci troviamo così di fronte a un Super-io particolarmente vicino all’area Inc. Nell’altro caso, incappiamo in un senso di colpa che fa trarre al paziente soddisfazione nel sentirsi ammalato; l’ideale dell’Io si identificherebbe cioè con uno stato di benessere irraggiungibile. Avviandosi alla conclusione della sezione e dell’intera opera, Freud cerca di fare sintesi in riferimento alle ipotesi che è andato man mano sviluppando sull’Io: esso mostra i suoi punti di forza, legati soprattutto alla sua relazione con il sistema percettivo P-C, ma anche le sue debolezze, specialmente in riferimento alla forza delle pulsioni (o istinti) sessuali che risiedono nell’Es e dei rimproveri, a volte di estrema crudeltà, derivanti dal Super-io. Si arriva così alla nota conclusione di Freud:
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D’altro canto noi vediamo questo stesso Io come una povera cosa che soggiace a un triplice servaggio, e che quindi pena sotto le minacce di un triplice pericolo: il pericolo che incombe dal mondo esterno, dalla libido dell’Es e dal rigore del Super-io (Freud, 1922b, p. 517)
Il padre della psicoanalisi si sofferma sulle varie “vie” a disposizione dell’Io per sottostare a questo complesso ruolo, che lo vede impegnato su più fronti: ad esempio, cercando di offrire ai comandi Inc dell’Es una sorta di copertura Prec di tipo difensivo (la razionalizzazione). È tuttavia innegabile che all’Io spetti il difficile compito di mediare tra le istanze e la realtà esterna: dall’esito di questa mediazione dipende la gestione degli stati affettivi dell’Io stesso, tra cui quello d’angoscia. Inibizione, sintomo e angoscia (1925c) è alle porte. Prima però di dare spazio alla nuova concezione dell’angoscia formulata da Freud nel 1925, merita uno sguardo la quarta sezione, lasciata temporaneamente in disparte (Le due specie di pulsioni). Il riferimento ad Al di là del principio di piacere (1920) è esplicito e non sono fatte aggiunte rispetto a quanto affermato due anni prima: esistono due specie di pulsioni, ossia le pulsioni sessuali o Eros cui si contrappone una pulsione di morte. Freud afferma che la prima “è di gran lunga la più appariscente e la più facile da individuare” (Freud, 1922b, p. 502): essa comprende non soltanto la pulsione sessuale vera e propria, ma anche i moti pulsionali inibiti o sublimati e la tendenza all’autoconservazione, quest’ultima da attribuirsi all’Io. Chiaro rappresentante della pulsione di morte è invece il sadismo, in particolare nella sua manifestazione all’interno della perversione: scopo ultimo di tale pulsione è “ricondurre il vivente organico nello stato privo di vita” (Freud, 1922b, p. 502). In realtà – continua Freud – le due pulsioni difficilmente sono del tutto separabili, così come amore e odio si presentano sempre congiuntamente, dando luogo a una sorta di ambivalenza nell’investimento. I termini utilizzati da Freud sono quelli di impasto e disimpasto pulsionale14: tornando all’esempio del sadismo, se esso costituisce parte della pulsione sessuale, si parla di impasto; al contrario, se esso si presenta in modo autonomo come nella perversione, si parla di disimpasto. Ma quale rapporto è possibile delineare tra le due pulsioni e le istanze psichiche? Freud è molto prudente, affermando che si è qui di fronte a un problema “ancora molto oscuro” (Freud, 1922b, p. 506). Ecco tuttavia quanto si può affermare: le pulsioni erotiche appaiono più plastiche, facilmente deviabili e spostabili rispetto alle pulsioni distruttive. In quanto tali, esse sembrano lavorare al servizio del principio di piacere, evitando ingorghi di libido e facilitando scariche della stessa. Poiché si tratta il più delle volte di libido desessualizzata, è possibile ipotizzare che sia l’Io a compiere questo processo attraverso il meccanismo della sublimazione, così come si è visto all’opera l’Io nell’assumere su di sé la libido legata ai primi investimenti oggettuali dell’Es per mezzo del meccanismo di identificazione narcisistica. È per questo che Freud ritiene che l’Io lavori contro le finalità dell’Eros e si ponga al servizio dei moti pulsionali di parte avversa (Freud, 1922b, p. 508). In sintesi:
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Saranno termini che avranno una certa eco nel pensiero kleiniano.
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All’inizio tutta la libido è ammassata nell’Es, mentre l’Io è ancora in fase di formazione, o troppo debole. L’Es proietta una parte di questa libido negli investimenti oggettuali erotici; al che l’Io, il quale nel frattempo si è rafforzato, cerca di impadronirsi di questa libido oggettuale e di imporsi all’Es come oggetto d’amore. Il narcisismo dell’Io è pertanto un narcisismo secondario, sottratto agli oggetti (Freud, 1922b, p. 508)
Anche rispetto alle vicissitudini della libido l’Io sembra così avere un ruolo fondamentale, ma anche impegnativo. Infatti, il Super-io tende a escludere l’Io, collegandosi direttamente all’Es: ne è prova il senso di colpa inconscio a volte suscitato da spinte libidiche. Se qualcuno volesse sostenere la tesi paradossale che l’uomo normale non soltanto è molto più immorale di quanto egli creda, ma anche molto più morale di quanto egli sappia, la psicoanalisi, sulle cui scoperte poggia la prima parte dell’affermazione, non avrebbe nulla da obiettare neppure sulla seconda parte (Freud, 1922b, pp. 513–514)
Un ultimo, significativo cambiamento riguarda anche gli obiettivi che il trattamento analitico dovrà perseguire. Nelle parole di Freud: “La psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io” (Freud, 1922b, p. 517).
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La nuova concezione dell’angoscia
Scritta nell’estate del 1925, Inibizione, sintomo e angoscia è opera di grande respiro e complessità insieme: essa nasce soprattutto dalla necessità, pressante dopo le revisioni sulla concezione della personalità apportate negli anni ’20, di dare una nuova lettura dell’eziopatogenesi dei sintomi nevrotici, in particolare dello sviluppo dell’angoscia. È un lavoro che impegnò Freud a fondo e su cui egli si sentì di dover ritornare per aggiustamenti e precisazioni ancor prima di darlo alle stampe, come il capitolo 11, costituito da Aggiunte su alcuni temi trattati, ma accantonati prematuramente (Freud, 1925c, p. 303), sta a dimostrare. Rodrigué (2007) riporta un’opinione dello stesso Freud su questo lavoro, che viene giudicato dal suo stesso autore innovativo e importante, ma sostanzialmente non un “buon libro”. A posteriori, si potrebbe più ragionevolmente sostenere che esso raccoglie una grande quantità di spunti, cosicché Freud da un lato sembra chiudere definitivamente con alcune sue precedenti concezioni teorico-cliniche, dall’altro aprire su un futuro non ancora ben delineato. Di tali spunti Freud aveva parlato ad Abraham e probabilmente a quest’ultimo – morto improvvisamente nel dicembre del 1925 – le riflessioni contenute in Inibizione, sintomo e angoscia sarebbero state dedicate. Ma Freud, dal tempo della pubblicazione del suo scritto sulle afasie del 1891, aveva perso l’abitudine delle dediche.
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Il primo capitolo di Inibizione, sintomo e angoscia parte ponendo una distinzione tra inibizione e sintomo, necessaria sia perché essi vengono a volte opposti uno all’altro e confusi per “capriccio”, sia perché altre volte sono sovrapposti nella pratica clinica. In realtà, precisa Freud: L’uso linguistico parla di inibizione laddove appare una semplice riduzione di una funzione, e di sintomo quando si tratta di un’inconsueta modificazione della funzione, o addirittura di una manifestazione nuova (Freud, 1925c, p. 237)
In sostanza, nel primo caso si è soliti sottolineare solamente la limitazione della funzione; nel secondo l’avvio di un processo morboso. È possibile esemplificare la cosa attraverso l’analisi di alcune importanti funzioni dell’Io, come quella sessuale, locomotoria, lavorativa o relativa all’assunzione di cibo che possono essere disturbate nello sviluppo di una nevrosi. Tale disturbo può manifestarsi in svariati modi: dal distoglimento della libido alla cattiva esecuzione della funzione, dalla prevenzione mediante misure protettive rispetto al suo espletarsi alla reazione posticipata del “rendere non accaduto”; a questo punto, è possibile descrivere l’inibizione come “una restrizione di una funzione dell’Io” (Freud, 1925c, p. 239), la cui causa può essere diversa da caso a caso. L’inibizione, e quindi la restrizione di una funzione dell’Io, può naturalmente essere più o meno estesa: un conto è non riuscire a suonare uno strumento musicale in pubblico, un altro è non riuscire a mettere piede fuori di casa. Diventa anche chiaro in che cosa un’inibizione si differenzi da un sintomo: quest’ultimo è un processo che in qualche modo sfugge al controllo dell’Io e agisce profondamente su di lui. Ma perché l’Io rinuncia parzialmente o totalmente all’espletamento di alcune sue importanti funzioni? Freud non ha dubbi: l’Io rinuncia ad alcune sue funzioni per evitare un conflitto con l’Es e un nuovo processo di rimozione; d’altra parte, si impone di non fare certe cose per non venire in conflitto col Super-io (Freud, 1925c, p. 240). Il secondo capitolo si apre con una possibile definizione di sintomo: esso può essere considerato un segno e sostituto di un soddisfacimento pulsionale sottoposto a processo di rimozione e come tale mancato. Occorre tener presente che l’Io è in contatto con eccitamenti e sensazioni che provengono tanto dall’esterno, attraverso il sistema P-C (Percezione-Coscienza), quanto dall’interno, in particolare dall’Es. Ora, il decorso che il soggetto predilige è invariabilmente connesso al principio di piacere; ed è a partire da esso che l’Io ha buon gioco nel tentativo di “manovrare” quanto accade nella mente, un po’ come potrebbe avvenire – osserva Freud – in uno Stato in cui una certa fazione minoritaria (l’Io) si impadronisca della stampa, influenzi l’opinione pubblica e ottenga l’approvazione per ciò che vuole. Fuor di metafora, l’Io sarebbe in grado di determinare un ritiro dell’investimento (preconscio) dalla rappresentazione di cosa cui la pulsione è diretta e che va rimossa; l’energia resasi disponibile è utilizzata per sprigionare dispiacere o angoscia. A questo punto, e il cambiamento di prospettiva è considerevole, si può avanzare l’ipotesi che “l’Io sia la vera e propria sede dell’angoscia” (Freud, 1925c, p. 243),
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respingendo la formulazione precedente secondo cui l’energia d’investimento dell’impulso rimosso si trasformerebbe automaticamente in angoscia. A sostegno di questa nuova formulazione, Freud adduce il fatto che ora egli dà una rappresentazione metapsicologica della cosa, mentre prima si sarebbe mosso su un piano di mera descrizione fenomenica. Ma, da un punto di vista economico, come tutto ciò è possibile, considerato che dispiacere e angoscia non possono essere il risultato di un semplice processo di ritiro o di scarica, ma piuttosto di un aumentato investimento? La risposta a questa domanda spinge Freud a richiamarsi alla fisiologia e a ipotizzare che taluni stati affettivi, come quello dell’angoscia, siano incorporati nella vita psichica come sedimenti di antichissime esperienze traumatiche, ridestabili come simboli mnestici in situazioni simili (Freud, 1925c, p. 243). Rifacendosi al saggio di Metapsicologia (1915a) dedicato alla rimozione, Freud sottolinea che la maggior parte delle rimozioni che si presentano nel lavoro psicoterapeutico sono casi di post-rimozione. “Esse presuppongono rimozioni originarie già effettuate, che esercitano la loro attrazione sulla situazione nuova” (Freud, 1925c, p. 244). Né è da attribuire alla comparsa del Super-io la distinzione tra rimozione originaria e post-rimozione. Quel che è certo è che: “I primi e intensissimi accessi di angoscia avvengono in ogni caso prima della differenziazione del Super-io” (Freud, 1925c, p. 244) e che si ha a che fare con fattori quantitativi. A questo punto, l’Io sembra, soprattutto attraverso la rimozione, avere sufficiente spazio di manovra tanto sul moto pulsionale, quanto sulla sua rappresentanza psichica. In realtà – osserva Freud a conclusione di questo secondo capitolo – questo non deve far pensare che la dipendenza dell’Io sia dall’Es che dal Super-io affermata in precedenza (Freud, 1922b) debba essere sconfessata. Nel capitolo successivo, il terzo, Freud attira subito la nostra attenzione sul fatto che il pensare l’Io come qualcosa di contrapposto e nettamente separato dell’Es e dal Super-io è un’operazione in qualche modo troppo astratta, che isola una realtà mentale di fatto articolata e complessa. Di certo, e l’intervento finalizzato della rimozione ce lo dimostra, l’Io è molto più organizzato dell’Es, per essere precisi ne costituisce una porzione organizzata. Proprio la rimozione può dare avvio al sintomo che, in quanto tale, sopravvive in modo indipendente e al di fuori dell’organizzazione dell’Io. Riprendendo una similitudine di molti anni prima (Freud, 1892–1895, pp. 178 e 426), Freud considera il sintomo come una sorta di corpo estraneo, che stimola e modifica il tessuto in cui è inserito. Il padre della psicoanalisi acutamente osserva che la lotta difensiva contro il moto pulsionale sgradito, capace di generare dispiacere, non si conclude con la formazione del sintomo (situazione forse riscontrabile solo nell’isteria), ma ha una sua ampia prosecuzione nella lotta contro quest’ultimo. Come si sviluppa tale lotta? Tenendo conto della tendenza dell’Io, via via più consolidata con il procedere del suo sviluppo, a legare e a unire, è inevitabile che esso metta in atto strategie tese a rendere meno estraneo e isolato il sintomo, cercando piuttosto di legarlo a sé e di incorporarlo nella sua organizzazione. Questo processo non è indifferente per chi voglia comprendere come i sintomi si sviluppano. L’obiettivo dell’Io diventa allora non quello di eliminare il sintomo ma, visto che c’è e non può essere eliminato, adattarvisi nel modo migliore possibile, traendone anzi, se possibile, vantaggio. Il sintomo si compenetra così nell’Io e diventa per l’Io qualcosa di
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pressoché indispensabile: esso può rappresentare addirittura interessi importanti per il paziente e quest’ultimo impara a trarne un tornaconto secondario15. Maggiore è la consistenza dei sintomi, maggiore è la soddisfazione narcisistica da essi ottenibile: un nevrotico ossessivo si sentirà più coscienzioso e meritevole di lodi di qualunque altro; un paranoico si sentirà libero di sviluppare fantasie deliranti di straordinaria grandiosità. Di fatto, si tratta di un assetto che nella clinica non può non rinforzare le resistenze al trattamento (e al cambiamento). È una specie di paradosso: l’Io lotta ma, nello stesso tempo, si fa amico del sintomo. L’unica altra alternativa è aumentare il grado di rimozione: la qual cosa, tuttavia, non può far altro che alimentare la produzione sintomatica in veste di legittimo sostituto e derivato del moto rimosso in una sorta di circolo vizioso patologico. Ma come si svolge e quali forme prende la lotta contro il sintomo? Per fare questo Freud ritiene utile soffermarsi su singoli quadri nosografici, in particolare quello della nevrosi isterica, più facilmente interpretabile rispetto a quelli più complessi della nevrosi ossessiva, della paranoia o di altre psicopatologie. Ciò ci porterà ad affrontare più direttamente il problema dello sviluppo e della gestione dell’angoscia. Ecco allora che nel quarto capitolo Freud riprende alcuni elementi del caso clinico del piccolo Hans (Freud, 1908e). Di primo acchito, tutto sembra chiaro: “La paura incomprensibile verso i cavalli è il sintomo, l’incapacità di andare per strada è la manifestazione inibitoria, una restrizione che l’Io s’impone per non risvegliare il sintomo dell’angoscia” (Freud, 1925c, p. 251). Il sintomo richiede però di essere meglio precisato per essere meglio capito: esso, infatti, consiste più specificatamente nel timore di Hans che il cavallo lo morda. Il lavoro analitico condotto sul piccolo ha fatto emergere un conflitto affettivo nei confronti del padre, verso cui Hans prova in modo ambivalente amore e odio insieme. “La sua fobia dev’essere un tentativo di sciogliere questo conflitto” (Freud, 1925c, p. 252); e, poco oltre, sempre con parole di Freud: “Ciò che ne fa una nevrosi è unicamente e soltanto un altro aspetto: la sostituzione del padre mediante il cavallo” (Freud, 1925c, p. 253). Emerge anche che la deformazione alla base della formazione del sintomo non è intrapresa direttamente nei confronti del moto pulsionale da rimuovere (odio e/o amore), bensì nei confronti di un qualcosa di molto lontano da esso (il cavallo), che ha preso vita in reazione al moto pulsionale sentito come sgradevole. È come se la rimozione non si fosse limitata a celare il vero oggetto verso cui il moto pulsionale è diretto (il padre), ma cercasse di agire anche sul carattere (aggressivo) del moto pulsionale stesso. Anche se in modo più complesso, considerata l’età del paziente, il caso clinico dell’uomo dei lupi (Freud, 1914c) ci fornisce una situazione clinica simile: in particolare, Freud sottolinea che come Hans aveva il timore di essere morso dal cavallo, così Sergej Costantinovicˇ Pankëev – questo il nome del paziente – aveva sviluppato il timore di essere divorato dai lupi. Lo sviluppo della nevrosi porta con sé non soltanto la rimozione dell’impulso ostile verso il padre e la sua trasformazione nel 15
Di esso Freud aveva già parlato sia nel caso clinico di Dora (Freud, 1901b) che in Introduzione alla psicoanalisi (Freud, 1915–1917, pp. 535 e segg.).
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contrario (vendetta del padre contro la propria persona), ma anche una regressione dello sviluppo libidico, che “porta indietro” a un sadismo di tipo orale (l’essere divorati). Il caso dell’uomo dei lupi mette in evidenza anche un altro aspetto significativo dell’ambivalente rapporto verso il padre: un moto di tenerezza, testimoniato anche dall’intensa rimozione del suo opposto, e di passività rispetto alla sua figura16. Il risultato di questa “analisi comparativa” dei due casi porta Freud a mettere in evidenza che in entrambi uno stesso fattore ha scatenato la rimozione: la paura dell’evirazione. È una paura d’evirazione non trasformata – e non una quantità di libido non scaricata o relativa a un moto pulsionale ritenuto inaccettabile – a determinare la rimozione: si tratta di un’angoscia reale, di fronte a un pericolo sentito realmente presente e che incombe sull’Io. Dunque, lo stato affettivo angoscioso dell’Io costituisce il fattore primario alla base della rimozione. Si tratta di un notevole cambio di prospettiva, di cui lo stesso Freud si rende ben conto e che giustifica in qualche modo facendo riferimento al tipo di nevrosi di cui si occupava allora – le nevrosi attuali – e soprattutto alla sua attuale maggiore consapevolezza delle funzioni dell’Io. Il capitolo cinque allarga ulteriormente l’orizzonte clinico: Freud decide di prendere in esame isteria (da conversione) e nevrosi ossessiva. Immediatamente il padre della psicoanalisi sottolinea quanto complesso sia indagare la formazione dei sintomi, e darne un’interpretazione, nell’isteria da conversione, forse perché determinati da processi d’investimento molto variabili, a volte permanenti e altre volte intermittenti. Le cose vanno meglio nel caso della nevrosi ossessiva? Per quanto Freud ammetta che la nevrosi ossessiva rappresenti “un problema tuttora non superato” (Freud, 1925c, p. 262), tale disturbo costituisce uno degli oggetti più interessanti per l’indagine psicoanalitica. Le sue caratteristiche sintomatologiche – divieti, misure prudenziali, espiazioni contrapposte a soddisfacimenti sostituivi, spesso simbolicamente mascherati – evidenziano immediatamente due elementi: è presente una lotta perenne contro ciò che è rimosso e Io e Super-io svolgono un ruolo fondamentale nella formazione dei sintomi. Ma procediamo con ordine. Il punto di partenza di nevrosi ossessiva e isteria sembra essere comune: “la necessaria difesa dalle pretese libidiche del complesso edipico” (Freud, 1925c, p. 262). Forse per un certo peso di fattori costituzionali o forse perché la lotta difensiva messa in campo dall’Io inizia più precocemente che nell’isteria, sta di fatto che negli ossessivi è presente un meccanismo difensivo di regressione alla fase sadico-anale dello sviluppo libidico. In questo modo le “pretese libidiche”, che si vanno costituendo nella fase fallica (e genitale), vengono quanto meno parcellizzate e, solo in apparenza, affievolite. Se le tendenze contro cui l’ossessivo si difende sono quelle proprie del complesso edipico, il motore dei processi difensivi è individuato da Freud, come nel caso dell’isteria d’angoscia (fobie), nel complesso di evirazione. La configurazione del modello strutturale della mente consente a Freud di soffermarsi sulla particolare severità e scarso amore del Super-io nei confronti delle altre parti della personalità, così come sullo sviluppo di grandi formazioni 16
“Hans sembra essere stato un bambino normale, con un cosiddetto complesso edipico ‘positivo’” (Freud, 1925c, p. 257) o “attivo”, cui si contrappone quello “negativo” o “invertito” o “rovesciato”.
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reattive di coscienziosità, pietà e pulizia da parte dell’Io. Anzi, la formazione reattiva si aggiunge alla rimozione e alla regressione come meccanismo specifico di difesa. Lo sviluppo puberale non può che accentuare un’intensa conflittualità tra le istanze già presente in fasi precedenti dello sviluppo, a tal punto che nessuna azione dell’Io riesce a sottrarsi a tale conflitto (cfr. per esempio il caso dell’uomo dei topi [Freud, 1909]). Lo stato d’angoscia che l’ossessivo proverebbe è straordinariamente descritto da Freud in termini strutturali: il Super-io si comporterebbe come se non fosse avvenuta alcuna rimozione (e come, allora, non punirsi per i propri moti aggressivi?); l’Io sente di provare un senso di responsabilità, quando non di colpa, che non sa spiegarsi a motivo della sua totale “chiusura” nei confronti dell’Es per mezzo della rimozione. Il capitolo sei approfondisce due “attività dell’Io”, secondo Freud di particolare interesse poiché significativamente connesse alla formazione dei sintomi: il rendere non avvenuto e l’isolare. Con il primo meccanismo, il paziente affetto da nevrosi ossessiva si propone di “soffiar via” non tanto le conseguenze di un avvenimento o fatto, quanto il fatto stesso: è, di fatto, quanto è riscontrabile anche in alcune azioni magiche presenti in taluni usi popolari, piuttosto che in specifici cerimoniali religiosi. Nella nevrosi, il sintomo è per così dire bifasico: vi è una prima azione, o misura psichica, preventiva, affinché qualcosa non accada o non si ripeta; la seconda ha lo scopo di revocare la prima e ha radici nell’atteggiamento animistico verso il mondo esterno (cfr. il famoso episodio del sasso sulla strada tolto e poi rimesso da Ernst Lanzer, vero nome dell’uomo dei topi). Questa tendenza ad annullare il passato è – secondo Freud – rintracciabile anche nella coazione alla ripetizione: un evento viene reso non avvenuto per mezzo di una sua continua ripetizione in modi diversi rispetto a quello in cui si desiderava non accadesse. Per quanto riguarda l’isolamento, il riferimento è ancora alla sfera motoria: questa volta, però, si tratta dell’obbligo di una pausa, durante la quale nulla può verificarsi, da introdursi dopo che un evento o un’attività, significativi nel senso della nevrosi, hanno avuto luogo. Si tratta di un meccanismo che trova la sua ragion d’essere nel fatto che nella nevrosi ossessiva un’esperienza (traumatica) non viene dimenticata, bensì spogliata del suo affetto, così come le relazioni associative ad essa sono represse o interrotte. Infine, le azioni motorie (o non azioni) non hanno altro scopo che rinforzare questa procedura difensiva. Freud osserva che tanto il rendere non avvenuto quanto l’isolare sono prova di alcune difficoltà incontrate dalla rimozione nel suo esplicarsi e comportano una maggiore difficoltà, da parte del paziente ossessivo, nell’attenersi alla regola aurea della psicoanalisi. Il suo Io è costantemente all’erta: lo stato di grande tensione conflittuale tra Es e Super-io determina l’attivazione continua di meccanismi difensivi. Essi hanno soprattutto a che fare con il tabù del contatto: d’altra parte – osserva Freud – il toccare costituisce la rappresentazione concreta tanto dell’investimento oggettuale aggressivo, quanto di quello amoroso. Tutto ciò che riguarda questa azione deve essere isolato, così come l’Io cerca di “isolare” l’Es dal Super-io. A conclusione di questo capitolo Freud osserva come, da una comparazione dei tre quadri psiconevrotici analizzati, emerga sia la destrutturazione del complesso edipico, sia la paura di evirazione contro cui l’Io si attiva. È sufficiente questo?
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Nel capitolo settimo, Freud riparte dalle zoofobie infantili (piccolo Hans), ritenendole più facilmente accessibili e comprensibili dalla psicoanalisi. Approfondendo quanto detto in precedenza, il padre della psicoanalisi sottolinea il carattere proiettivo della fobia17: essa sostituisce un pericolo pulsionale interno con un pericolo percettivo esterno. I vantaggi sono evidenti: il paziente può fuggire da qualcosa di esterno, evitandone la percezione; non c’è invece fuga da un qualcosa che proviene dall’interno. La percezione del pericolo genera angoscia, ma ciò cui essa si riferisce – l’evirazione – rimane inconscio o diventerà conscio solo in modo deformato. Un attacco d’angoscia è in genere alla base dello sviluppo di una fobia: quest’ultima rende buoni servigi come strumento di difesa e funziona stabilmente a patto che venga rispettata. Si può allora affermare che “i sintomi vengono creati per evitare la situazione di pericolo, segnalata dallo sviluppo dell’angoscia” (Freud, 1925c, p. 277). Quanto detto fa apparire inevitabile un richiamo alle nevrosi traumatiche, nelle quali sembra più che mai evidente che l’angoscia sia connessa a una reazione dell’Io alla percezione del pericolo. Tuttavia – precisa Freud – non abbiamo evidenze cliniche che spingano a pensare allo sviluppo di una nevrosi collegandola al semplice pericolo corso dalla pulsione di autoconservazione. È, al contrario, possibile ipotizzare che nelle nevrosi traumatiche sia stata infranta la naturale barriera protettiva contro gli stimoli e quantità eccessive di eccitamento abbiano invaso l’apparato psichico (punto di vista economico). Né è da sottovalutare l’influenza di strati inconsci dell’apparato psichico. A questo riguardo, è possibile immaginare un accostamento tra angoscia di morte e angoscia di evirazione e ritenere che ciò che fa sentire l’Io particolarmente vulnerabile è l’abbandono da parte di un Super-io protettivo. Una nuova concezione dell’angoscia si va man mano definendo: Considerata finora come segnale affettivo del pericolo, essa ci appare ora, dato che si tratta tanto spesso del pericolo di evirazione, come la reazione a una perdita, a una separazione (Freud, 1925c, p. 279)
Prototipo di tutte le esperienze angosciose è, per l’uomo, la nascita: una separazione della madre, paragonabile in qualche modo a un’evirazione (in base all’equivalenza bambino = pene) che la madre subisce. Ma spesso le separazioni vengono accompagnate da sentimenti di dolore o di lutto, piuttosto che da angoscia. Come spiegare ciò? (Cfr. anche aggiunta C). Il capitolo otto mostra la straordinaria capacità di Freud di cambiare prospettiva sullo stesso problema, fornendo così un ulteriore contributo alla comprensione dell’angoscia cui l’intera opera è dedicata: quale definizione è possibile dare dell’angoscia e quale sviluppo può avere nella vita di un individuo? L’angoscia è dunque, in primo luogo, un qualche cosa che si sente. Noi la chiamiamo
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Il “carattere proiettivo” non deve far confondere la proiezione con lo spostamento, tipico delle fobie.
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uno stato affettivo, benché non sappiamo neppure che cosa sia un affetto. Come sensazione, essa ha – nel modo più palese – carattere spiacevole [...]. Vi sono altre sensazioni di carattere spiacevole (tensioni, dolore, lutto), e l’angoscia deve avere altre particolarità oltre a questa qualità di essere spiacevole (Freud, 1925c, p. 280)
Freud osserva che questo carattere spiacevole si concretizza in sensazioni che interessano gli organi respiratori e il cuore e che le variazioni fisiologiche che interessano tali organi sono percepite dall’individuo. Riassumendo: “L’analisi dello stato d’angoscia mostra dunque: 1) uno specifico carattere spiacevole; 2) atti di scarica; 3) percezioni di tali atti” (Freud, 1925c, p. 281). Ora, non ci si può accontentare di una spiegazione di tutto ciò in termini puramente fisiologici: un aumento dell’eccitamento che provoca da un lato una sensazione di spiacevolezza, dall’altro la necessità di un suo allentamento attraverso un processo di scarica. Occorre pensare, secondo Freud, a un fattore storico unificante, che consenta di interpretare l’angoscia come un riprodursi nell’hic et nunc di un’esperienza passata che si è prodotta nello stesso modo. Tale esperienza prototipica sarebbe identificabile con l’evento nascita. L’angoscia insorge, dunque, come reazione a uno stato di pericolo legato alla nascita, in special modo nei mammiferi; viene riprodotta regolarmente ogniqualvolta uno stato simile si ripresenti di nuovo. È tuttavia chiaro che rispondere a una nuova situazione di pericolo con uno stato d’angoscia, riedizione di quella legata alla nascita, genera incongruenze e allontana spesso l’individuo da una reazione adeguata. Diverso è, invece, il caso in cui l’angoscia si attivi per segnalare e prevenire una situazione di pericolo. Ma che cos’è un pericolo? E come si correla alla situazione prototipica dell’angoscia, ossia quella della nascita? Che l’atto del nascere possa costituire un pericolo obiettivo per la vita del neonato (e della madre) è un dato di fatto; ma che il pericolo connesso a tale atto abbia un contenuto psichico è – sostiene Freud – da escludere. Quello che il feto può percepire è “nient’altro che un grandissimo disturbo nell’economia della sua libido narcisistica” (Freud, 1925c, p. 283). Freud sembra qui attenersi all’obiettività di ciò che è scientificamente riscontrabile: non sappiamo in che modo il neonato conservi il ricordo dell’evento nascita e, se sì, di che cosa nello specifico. Criticando quanto sostenuto da Rank al riguardo18, Freud ritiene di doversi attenere più prudentemente a quanto è possibile “osservare” nel bambino piccolo e trova che siano pochi i casi in cui si riscontra lo sviluppo dell’angoscia nella prima infanzia: quando il bambino è solo, quando si trova al buio e quando trova una persona estranea al posto di quella a cui è avvezzo (la madre). Questi tre casi si riducono a una circostanza sola, la mancanza della persona amata (agognata) (Freud, 1925c, p. 284) 18
Freud fa qui riferimento al noto testo Il trauma della nascita (Rank, 1924), nel quale l’autore dà all’evento nascita e alle sensazioni ad esso legate un ruolo fondante rispetto a tutte le successive esperienze di vita.
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L’ipotesi che formula Freud è che si crei una “nostalgia” della persona amata e che tale nostalgia si trasformi in angoscia. Ma perché questa persona, solitamente la madre, è così intensamente investita? La modernità di Freud si mostra qui nel mettere in luce che la sensazione di “pericolo” ha luogo nel piccolo per il mancato soddisfacimento di un bisogno, di fronte al quale egli è impotente, e per la crescente tensione dovuta ad esso. La separazione dalla madre è dunque fonte d’angoscia per il poppante, impotente dal punto di vista psicologico, ma prima ancora da quello biologico. Né è da ritenere sia presente grande discontinuità tra vita intrauterina, in cui tutti i bisogni del feto sono naturalmente appagati, e prima infanzia. Certo, poco più avanti Freud, richiamandosi alla prima situazione di questo tipo che il neonato deve aver vissuto – quella della nascita – sottolinea la “perturbazione economica dovuta all’aumento delle quantità di stimoli che richiedono di essere liquidati, fattore questo che rappresenta dunque il nucleo vero e proprio del ‘pericolo’” (Freud, 1925c, p. 285): in questo, il padre della psicoanalisi rimane più strettamente aderente al modello pulsionale e al principio dell’omeostasi. Si intravede qui un’importante distinzione tra tre tipi d’angoscia: esiste anzitutto una angoscia reale, che si attiva in relazione alla percezione di un pericolo reale (cfr. anche capitolo dieci); vi è poi una angoscia automatica, che si produce in modo involontario e appunto automatico di fronte a situazioni percepite come minacciose per la propria autoconservazione; infine, è ben identificabile una angoscia segnale, che ha luogo nel momento in cui è avvertito il venir meno dell’oggetto che protegge dal pericolo (la perdita della madre), prima ancora del pericolo stesso (la sua assenza). La valenza psicologica di quest’ultimo tipo d’angoscia è evidente. Ma quali forme può prendere l’angoscia nel corso dello sviluppo dell’individuo? All’angoscia legata al trauma della nascita – un tipo d’angoscia tra l’altro non abreagibile – subentra nella fase fallica l’angoscia di evirazione, come separazione dal genitale. Tale angoscia si lega al timore di crescita della libido genitale. Il successivo passo è legato allo sviluppo del Super-io: il pericolo diventa più indeterminato – non più tanto e solo il pericolo dell’evirazione – e l’angoscia si caratterizza come morale e sociale. In questa fase ciò che l’Io considera come un pericolo e vi risponde con un segnale d’angoscia è l’ira, la punizione del Super-io, nonché la perdita d’amore da parte di quest’ultimo. Questa scansione temporale non deve far pensare – avverte Freud – che non sia possibile l’emergere di angosce primitive in epoca adulta, né che esse non possano entrare in azione collegandosi l’una all’altra. Interessante è però l’ipotesi che vi siano angosce specifiche per ogni quadro psicopatologico: la condizione angosciosa sembra così ricollegarsi principalmente alla perdita d’amore nell’isteria, alla minaccia d’evirazione nella fobia e alla forza del Super-io nella nevrosi ossessiva. La nuova concezione dell’angoscia è ormai delineata: è lo stesso Freud a esprimerla con chiarezza verso la fine di questo denso capitolo. L’idea espressa in Metapsicologia (Freud, 1915a), nel saggio dedicato all’inconscio, che l’investimento ritirato mediante il processo di rimozione sia quello utilizzato come scarica d’angoscia è integrata dall’affermazione qui espressa – ma già presente in L’Io e l’Es (Freud, 1922b) – che l’Io sia la sede propria dell’angoscia. Dall’Es possono attivarsi processi psichici
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capaci di generare angoscia nell’Io o nell’Es possono essere risperimentate situazioni analoghe a quelle del trauma della nascita in grado di attivare automaticamente angoscia; ma solo l’Io, in quanto organizzazione psichica capace di valutare differenti situazioni (di pericolo), può percepire uno stato affettivo come quello dell’angoscia. Il capitolo nono è – come scrive Freud in apertura – dedicato a “trattare i rapporti tra formazione sintomatica e sviluppo dell’angoscia” (Freud, 1925c, p. 291). Due sono i punti di vista al riguardo: 1) l’angoscia è “solo” un sintomo della nevrosi; 2) tra angoscia e nevrosi è presente un legame molto più stretto e articolato. Freud propende per questo secondo punto di vista, affermando che: qualsiasi formazione sintomatica verrebbe intrapresa esclusivamente per sottrarsi all’angoscia; i sintomi legano l’energia psichica, che altrimenti sarebbe scaricata come angoscia, cosicché l’angoscia sarebbe il fenomeno base e il problema centrale della nevrosi (Freud, 1925c, p. 291)
Per essere più precisi – continua Freud – si dovrebbe dire che i sintomi hanno l’obiettivo di sottrarre l’Io alla situazione di pericolo: in questo modo, i rapporti tra angoscia e sintomo sono “mediati” dalla situazione di pericolo. È comunque lo sviluppo dell’angoscia a dare avvio alla formazione dei sintomi; tale sviluppo si riconnette alla percezione di piacere-dispiacere sentita dall’Io, da cui gli deriverebbe la forza necessaria a bloccare quanto preparato nell’Es. Pertanto, la formazione sintomatica presenta due aspetti: il primo ha a che fare con l’intervento sul processo pulsionale proveniente dall’Es e cerca di mutarlo, così da sottrarre l’Io al pericolo che tale processo rappresenta; il secondo riguarda ciò che viene prodotto al posto del processo pulsionale modificato, cioè il sintomo. Approfondendo l’ipotesi che i sintomi siano un mezzo per sottrarsi a un situazione di pericolo, Freud si interroga sulla natura di questo modo che ha l’Io di difendersi e lo paragona alla fuga che si mette in atto di fronte a un pericolo esterno. In realtà, anche laddove si possa parlare di pericoli esterni, quali possono essere la perdita dell’oggetto e la minaccia d’evirazione, non si deve sottovalutare che essi sono “sostenuti” da moti pulsionali interni. Non solo, ma il processo difensivo attuato dall’Io è spesso diretto su un processo interno di natura pulsionale sentito come minaccioso, reprimendolo o deviandolo dalla sua meta, in una parola rendendolo innocuo. È inoltre possibile caratterizzare l’angoscia e il pericolo ad essa correlata a partire dalla fase evolutiva dell’apparato psichico che il soggetto sta attraversando: i nevrotici sono proprio coloro che, pur sapendo che il rischio di certune perdite sia inconsistente (per esempio l’evirazione), si comportano come se esso fosse reale. D’altra parte, osserva Freud: “Non c’è nevrotico adulto nel quale non si possano rinvenire i segni della nevrosi infantile, mentre ovviamente non tutti i bambini che presentano queste caratteristiche diventano più tardi dei nevrotici” (Freud, 1925c, p. 295). Con estrema lungimiranza, Freud sottolinea che lo sviluppo dei quadri nevrotici in infanzia è cosa normale, per quanto ad essi non sia mai stata data l’opportuna attenzione; così come è cosa normale che specifiche condizioni d’angoscia e determinate situazioni di pericolo perdano significato e peso. A questo punto, che cosa determina
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8 Verso l’ultimo Freud: aperture sul futuro
il perpetuarsi o meno di angosce infantili anche in età adulta? In altre parole, da dove si genera la nevrosi? L’ultimo capitolo di Inibizione, sintomo e angoscia, il decimo, si apre ribadendo che l’angoscia è la reazione a un pericolo. Ma, riprendendo la domanda poco sopra formulata, se i pericoli sono costituiti da eventi simili e ugualmente distribuiti su tutti gli uomini, perché non a tutti riesce l’inserimento dell’affetto dell’angoscia nella normale attività psichica? Freud prende in esame i due tentativi di risposta forniti da Adler e da Rank. Il primo è liquidato in poche righe – d’altra parte, l’allontanamento di Adler da Freud risaliva ormai a più di dieci anni prima – e giudicato lontano dalle più importanti scoperte fatte dalla psicoanalisi per la sua eccessiva attenzione al fattore “sociale” scatenante la nevrosi. Al secondo, in qualche modo di segno teorico opposto al primo per l’attenzione dedicata al pericolo e alla sua intensità rispetto al trauma originario della nascita, Freud dedica molto più spazio e attenzione: la sintesi è che la proposta di Rank19, di per sé, contiene buone intuizioni, ma è però poco attendibile nel momento in cui la si voglia utilizzare per stabilire la causa delle nevrosi. Quale via seguire dunque? Freud si concentra anzitutto sui rapporti tra Io ed Es: di fronte a un moto pulsionale sentito come pericoloso, l’Io attiva la rimozione con l’obiettivo di inibire e in qualche modo danneggiare una porzione di Es che, a questo punto, è anche sottratta alla sua sovranità. Il rimosso è escluso dall’organizzazione dell’Io; tuttavia, tale contenuto tenderà di nuovo a manifestarsi (coazione dell’Es), utilizzando altre vie, meno note all’Io; quest’ultimo si troverà a gestire nuovi moti pulsionali vissuti come pericolosi, con un rimosso che lo potrà cogliere di sorpresa e di fronte al quale attiverà un nuovo segnale di pericolo e uno stato d’angoscia. Si è sostanzialmente di fronte a un equilibrio di forze che, per essere compreso meglio, si giova del punto di vista economico che tiene conto di relazioni quantitative: tale equilibrio è ben documentato da quanto avviene nel corso dei trattamenti analitici. In essi, infatti, nel momento in cui rendiamo capace l’Io di sospendere le sue rimozioni, esso recupera la sua potenza sull’Es rimosso e può lasciar fluire i moti pulsionali prima tenuti a freno. Queste considerazioni sono in linea con quanto Freud affermerà essere uno dei fini ultimi del trattamento analitico in uno dei suoi ultimi scritti (Freud, 1937b): rinforzare l’Io, consentendogli di “imbrigliare” le pulsioni dell’Es (cfr. anche L’Io e l’Es, Freud, 1922b, p. 517). Tre, secondo Freud, sono i fattori che concorrono più di altri a determinare condizioni tali da far sì che le tre istanze psichiche si fronteggino tra loro. Anzitutto un fattore biologico, consistente nella “lungamente protratta impotenza e dipendenza del bambino piccolo” (Freud, 1925c, p. 301): essa comporta la precoce comparsa di situazioni di pericolo e il conseguente bisogno di essere amati e protetti dall’oggetto (la persona che più di altri si occupa del piccolo). Un fattore filogenetico: studiando le tappe attraverso cui si sviluppa la libido, Freud osserva che la vita sessuale 19
Rank si era in quegli anni molto avvicinato a Ferenczi e con lui aveva avanzato delle proposte innovative dal punto di vista della tecnica psicoanalitica (la cosiddetta tecnica attiva). Se Ferenczi, benché con qualche difficoltà, rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1933, legato a Freud, Rank si allontanò dal maestro viennese e dalla “ortodossia” freudiana. Trasferitosi a Parigi nel 1926, morirà negli Stati Uniti d’America nel 1939.
8.3 La nuova concezione dell’angoscia
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dell’uomo non si sviluppa in modo stabile e regolare dall’inizio della vita fino alla piena maturità. Si tratta di una sorta di interruzione dell’evoluzione sessuale (cfr. anche Freud, 1905a), il cui significato patogeno è implicito nel fatto che molte delle pretese pulsionali infantili sono respinte dall’Io come pericoli e rischiano di esserlo anche durante il periodo puberale. Questo soprattutto laddove il contatto con esse sia stato troppo precoce e disequilibrato (cfr., per esempio, il caso clinico dell’uomo dei topi), così come potrebbe essere dannoso un prematuro, o poco mediato, contatto con il mondo esterno. Infine un fattore psicologico, ascrivibile alla modalità stessa attraverso cui il nostro apparato psichico si costituisce: per l’Io è molto più complesso difendersi da un pericolo che proviene dall’interno, anzi da una struttura – l’Es – da cui esso stesso si è differenziato nel momento in cui il piccolo è entrato in contatto con la realtà, che dall’esterno. È infatti a partire dalla difficoltà di gestione delle pulsioni dell’Es che si generano le sofferenze nevrotiche. “Non credo che la nostra comprensione dell’essenza e delle cause della nevrosi sia giunta fino a questo momento più innanzi” (Freud, 1925c, p. 302). Come si accennava nella breve introduzione a Inibizione, sintomo e angoscia, Freud sentì subito l’esigenza di aggiungere una sorta di appendice in più punti al saggio appena concluso, a testimoniare probabilmente la necessità di essere il più chiaro possibile in un momento in cui la sua teoria dell’angoscia (e delle nevrosi) subiva un significativo cambiamento.
8.3.1 -
Modificazioni di vedute già esposte
Resistenza e controinvestimento. Il tema su cui Freud sente l’esigenza di ritornare è anzitutto quello relativo al meccanismo della rimozione: poiché continuamente attiva è la pulsione rispetto alla quale interviene, la rimozione richiede un dispendio permanente di energia, tale da garantire il suo utilizzo. “Questa azione a difesa della rimozione è ciò che nei nostri sforzi terapeutici avvertiamo come resistenza. E la resistenza presuppone ciò che io ho indicato come controinvestimento” (Freud, 1925c, p. 303). Un semplice riferimento alla clinica fa cogliere in cosa consista tale controinvestimento: quando nella nevrosi ossessiva l’Io attua una serie di atteggiamenti o comportamenti reattivi (compassione o bontà verso gli altri), o regole protettive (pulizia) che si oppongono alla tendenza pulsionale, ci si trova di fronte al processo testé descritto. Non è affatto semplice far abbandonare all’Io questo tipo di resistenza: dal punto di vista dinamico, si tratta di rendere reversibili rimozioni attuate dall’Io a fronte di una tendenza alla ripetizione determinata dall’attrazione dei modelli inconsci sul processo pulsionale rimosso. In questo senso, Freud osserva che si può parlare di resistenza dell’inconscio e che il processo terapeutico implica un fase “rielaborativa” della stessa (cfr. anche Freud, 1937b). Ma è questa l’unica resistenza da affrontare? In realtà, Freud individua altri cinque tipi di resistenza. Le prime tre appartengono all’Io e sono identificabili come resistenza di rimozione, ossia l’insieme delle azioni messe in atto dall’Io per non rinunziare ad essa; resistenza di traslazione, determinata dal ravvivare ex novo, anziché semplicemente ricordare, all’interno
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del setting analitico o della relazione con l’analista, una situazione che era stata rimossa; resistenza proveniente dal tornaconto della malattia, legata a vantaggi secondari che l’Io trae dallo sviluppo della psiconevrosi e dei sintomi. Una quarta forma di resistenza è collegata all’Es e ha a che fare con la tendenza a far ritornare su contenuti rimossi non elaborati. Una quinta forma di resistenza è infine riconducibile al Super-io e prende la forma di un sentimento di colpa o di un bisogno di punizione che ostacola qualunque progresso nel trattamento analitico. Angoscia da trasformazione da libido. Si tratta di un’aggiunta in cui Freud ribadisce il suo cambio di prospettiva rispetto al problema dell’angoscia: il nesso tra angoscia e libido cede il posto al nesso tra angoscia e Io. “La nostra precedente ipotesi di una trasformazione diretta della libido in angoscia è diventata ai nostri occhi meno interessante” (Freud, 1925c, p. 308) e si deve ipotizzare un’utilizzazione differente dell’investimento libidico del moto pulsionale rimosso (cfr. poco oltre). Rimozione e difesa. Trent’anni di studi e di clinica spingono Freud a precisare che l’equivalenza tra “processo di difesa” (Freud, 1894) e rimozione non ha più ragion d’essere. Tuttavia, il vecchio concetto di difesa rimane assai vantaggioso, a patto di stabilire che esso designi l’insieme delle tecniche utilizzate dall’Io per gestire i conflitti. In altri termini, la rimozione è solo una di queste tecniche e non le esaurisce affatto; basti pensare al complesso armamentario difensivo proprio delle nevrosi ossessive. Con straordinaria modernità, Freud osserva che un approfondimento nello studio dei processi difensivi potrà dimostrare una connessione significativa tra specifico quadro clinico e specifico meccanismo di difesa, così come già riscontrato nel legame tra isteria e rimozione; non solo, ma il padre della psicoanalisi ipotizza che i metodi di difesa sono diversi a seconda del livello di organizzazione dell’apparato psichico; come dire: esistono normalmente difese più primitive nelle fasi iniziali dello sviluppo e più mature in quelle successive.
8.3.2
Aggiunta circa l’angoscia
Si tratta di un’aggiunta di grande interesse. L’angoscia [Angst] ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza d’oggetto; nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura [Furcht] (Freud, 1925c, p. 310)20
20
Sulla distinzione tra paura, spavento e angoscia Freud si era già soffermato in Introduzione alla psicoanalisi, Parte terza: Teoria generale delle nevrosi. Lezione 25: L’angoscia (Freud, 1915– 1917) e, soprattutto, in Al di là del principio di piacere (Freud, 1920, pp. 198–199). Non sempre, tuttavia, Freud rispetta questa distinzione terminologica e spesso usa il termine angoscia anche in presenza di un oggetto preciso cui essa si legherebbe (cfr. anche quanto segue qui nel testo).
8.3 La nuova concezione dell’angoscia
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L’angoscia, inoltre, può essere reale nel caso in cui l’individuo si trovi di fronte a un pericolo reale, che egli conosce; nevrotica nel caso in cui l’individuo si trovi di fronte a un pericolo che non conosce, di origine pulsionale. I due tipi d’angoscia coincidono nel momento in cui, attraverso un percorso analitico, l’Io del paziente diventi cosciente del pericolo di origine pulsionale a lui inizialmente sconosciuto. Facendo ora un passo in avanti, si potrebbe dire: “Di fronte al pericolo reale noi sviluppiamo due tipi di reazione: quella affettiva (l’accesso d’angoscia) e l’azione protettiva” (Freud, 1925c, p. 311). La clinica suggerisce che vi sono situazioni in cui l’angoscia assume dimensioni maggiori di quelle che ragionevolmente ci si potrebbe aspettare: è l’elemento nevrotico a introdurre questo sovrappiù, innestando sull’angoscia provata per un pericolo reale un’angoscia nevrotica legata a un pericolo pulsionale. Ciò che fa vivere come estremamente pericoloso qualcosa è il vissuto d’impotenza che si prova di fronte ad esso: impotenza materiale di fronte a un pericolo reale; impotenza psichica di fronte a un pericolo pulsionale. “Chiamiamo traumatica una simile situazione vissuta di impotenza; abbiamo allora un buon motivo per distinguere la situazione traumatica dalla situazione di pericolo” (Freud, 1925c, p. 311). In linea per così dire retrograda si incontra, quindi, una situazione di pericolo, capace di riattivare un antico vissuto d’impotenza; il vissuto d’impotenza presente all’interno di una situazione traumatica scatena la reazione originaria d’angoscia; tale reazione d’angoscia originaria, se è riprodotta all’interno di una nuova situazione di pericolo, si manifesta come segnale d’allarme. L’Io dà vita, così, a una situazione nella quale, anziché subire passivamente il trauma, cerca di “ripresentarselo” in forma attenuata e con la speranza, questa volta, di poterne orientare autonomamente lo sviluppo. L’esempio che Freud porta al riguardo fa implicito riferimento al noto gioco del rocchetto del nipotino, descritto in modo approfondito in Al di là del principio di piacere. Freud conclude queste osservazioni aggiuntive sull’angoscia sottolineando che spesso l’Io si difende da un pericolo di natura pulsionale come se si trattasse di un pericolo esterno, forse per il fatto che il soddisfacimento della pulsione porterebbe con sé effettivamente un pericolo esterno. D’altra parte – osserva Freud – le fobie infantili sono probabilmente l’esito di primitive reazioni, del tutto normali, al pericolo di perdere l’oggetto; si trasformano in sintomi laddove il loro contenuto si metta in collegamento con pretese di natura pulsionale e possa rappresentare quindi un pericolo proveniente dall’interno.
8.3.3
Angoscia, dolore e lutto
Quest’ultima aggiunta si propone di chiarire i fattori che determinano, di fronte alla separazione dell’oggetto, differenti stati affettivi: angoscia, lutto o dolore. Freud si muove con molta prudenza, ma riesce comunque a dare illuminanti intuizioni. Prendendo in considerazione la condizione del bambino nei primi mesi di vita, Freud osserva che, in assenza della madre, egli può incorrere in una situazione di pericolo nel momento in cui avverta un bisogno che la madre abitualmente gli soddisfa; tale condizione diventa traumatica se il bambino avverte l’impossibilità di soddisfare questo bisogno. Ecco qui una prima condizione, che si sviluppa per così dire in due
8 Verso l’ultimo Freud: aperture sul futuro
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tempi e che genera angoscia: dalla perdita della percezione della madre alla perdita dell’oggetto (madre). Di lì a poco il piccolo sperimenta che l’oggetto (la madre), pur rimanendo presente, può comunque diventare cattivo. Ecco una nuova condizione d’angoscia: la perdita dell’amore da parte dell’oggetto (madre). La condizione di dolore – osserva Freud – non può generarsi fino a che ripetute situazioni di soddisfacimento abbiano creato nella mente del piccolo una rappresentazione dell’oggetto (madre), verso il quale, in caso di bisogno, dirige un intenso investimento “nostalgico”. Freud cerca di approfondire il tema del dolore distinguendo il dolore fisico dal dolore psichico. Il primo sembra essere riconducibile a un importante investimento narcisistico sulla parte lesa e dolente del corpo (cfr. anche Freud, 1914c, p. 452); il secondo a un altrettanto importante investimento sull’oggetto mancante (perduto) e nostalgicamente desiderato. La lettura proposta qui da Freud tiene conto soprattutto del punto di vista economico e degli investimenti ad esso sottesi, ma l’importanza e il ruolo attribuito all’oggetto (madre) sembrano precorrere successivi sviluppi della psicoanalisi. L’affetto del lutto è spiegato in stretta connessione con quello del dolore. Il lutto è una condizione che ha luogo attraverso il confronto con l’esame di realtà, il quale “esige” il distacco da un oggetto che non esiste più (cfr. anche Freud, 1915a, Lutto e melanconia in Metapsicologia). Il retrocedere o disinvestimento dall’oggetto sarà tanto più fonte di struggimento e dolore quanto più intenso ed elevato è stato l’investimento nei suoi confronti.
8.4
Conclusioni
Giunti alla fine dell’esposizione dei contenuti presenti in Inibizione, sintomo e angoscia non è possibile non apprezzare lo sforzo fatto da Freud per prendere le distanze dalla sua stessa teoria in un percorso d’innovazione e integrazione che caratterizzò sempre il suo modo di procedere. È questo, d’altra parte, il modo di procedere della scienza: trovare nuovi paradigmi esplicativi o adattare quelli esistenti a fronte di fenomeni, in questo caso clinici, altrimenti inesplicabili (Kuhn, 1962). Si saranno inoltre colti alcuni passaggi di quest’opera che, unitamente a quelli presenti nelle altre due precedentemente affrontate in questo capitolo, daranno il via a importanti correnti psicoanalitiche post-freudiane.
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