La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente. In appendice Il capolavoro sconosciuto di Balzac [PDF]

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Zitiervorschau

ISBN 97 8- 8 8 4 2 8 1 2 6 1 - 6

788842 812616

Georges Didi-Huberman La pittura incarnata

esigenza della carne» mette in gioco il rapporto che pittura figurativa stabilisce fra i propri mezzi - una perfide piana, dei colori - e il suo oggetto - la pelle, umori. Georges Didi-Huberman legge questo raprto come una forma di alienazione, in cui l'oggetto l soggetto della pittura si trovano in permanente adizione d'instabilità.

Georges Didi-Huberman La pittura incarnata

Saggio sull'immagine vivente

In appendice II capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac

ilSaggiatore

Il fine della pittura è andare oltre la pittura, af­ ferma Honoré de Balzac, che nel Capolavoro sco­ nosciuto narra il mito di quest'arte, le sue origini, i suoi mezzi, i suoi estremi. Nella scena cruciale del racconto, Poussin e Porbus sono davanti al­ l'Opera del loro maestro Frenhofer, un ritratto co­ sì perfetto agli occhi del pittore, da fargli credere che la donna raffigurata sia viva, che si muova, che respiri. La visione del quadro lascia i due os­ servatori stupiti: «Vedete niente, voi?» domanda Poussin a Porbus. «Io no. E voi?» «Niente.» Dal drammatico desiderio dell'artista di ren­ dere viva la carne dipinta, nascono i «pensieri sparsi» di Georges Didi-Huberman sul problema estetico deH'incarnato in pittura. L'autore riper­ corre e interpreta le riflessioni sviluppatesi intor­ no all'«esigenza della carne», da Cennini a Dide­ rot, Hegel, Merleau-Ponty. Richiama i miti, che sempre ritornano, di Pigmalione e Orfeo. Penetra nello struggimento che costringe l'artista a «scen­ dere neirinferno» per rendere vivo l'oggetto della pittura, per dare vita alla sua Galatea, per ridare la vita alla sua Euridice. Non solo. Didi-Huberman affronta anche il dopo, quello che avviene quando l'artista ha ormai realizzato l'opera, il senso di perdita, o la perdita di sé, che può derivarne: se l'oggetto della pittura, la carne, si perde irrimedia­ bilmente sulla superficie piana, che cosa rimane? Un bagliore? Un dettaglio? Un lembo? O niente?

La Cultura

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Georges Didi-Huberman

La pittura incarnata

Saggio sull’immagine vivente Traduzione di Sara Guindani in appendice

Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac

ilSaggiatore

La traduzione de II capolavoro sconosciuto è di Paola VaUerga

www.saggiatore.it © Les Éditions de Minuit, Paris 1985 © il Saggiatore S.P.A., Milano 2008 Titolo originale: ha peinture incarnée

La pittura incarnata

Sommario

Il dubbio (la sapienza) del pittore

Sapienza e senso. Il getto di colore, il getto d'umore. Il fantasma del sangue nella pittura. La questione del «colpo che conduce alla dispa­ rità». Dubbio e genio maligno: io dipingo, io esisto. Tra isteria e me­ lanconia. La «follia del dubbio con delirio del tatto». Si può contare il colore, calcolare Tumore? Erubescenze, dubbi e decisioni.

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L’incarnato 20 L'esigenza della carne nella pittura. Colore (belletto) e colorito (vita). Tra le carni e la pelle, profondità e superficie. Il cinabro e il sangue (Cennini). Vicissitudini dell’incarnato (Diderot). L'incarnato, ciò gra­ zie a cui la pittura si sogna dotata di sintomo. L'incarnato come l'ideale e il culmine del colorito (Hegel). UIneinander (profondità e trasparenza) e l'«animazione interna» del colorito.

Il lembo

Il colore non è una superficie. Il diafano secondo Dolce e Aristotele. La pelle non è una superficie. La generazione delle superfici secondo Cartesio. L'esigenza pittorica dell'interstizio. Forma e ripiego: la teoria spettrale di Balzac. Il quadro non è una superficie. Il fantasma e la nozione di subjectio. Paradigmi del nodo e della treccia. La carne secondo Merleau-Ponty. Che cos'è il lembo? Vermeer. La violenza disgiuntiva e la struttura d'alienazione. Pelle, piano, lembo. Effetto

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di lembo e prossimità. Tiziano. Avvicinarsi: l’incerto, l’ostacolo, il gioco del lontano. Il momento-culmine della funzione aptica. Effetto di lembo e «delusione». Il fenomeno-indizio del corpus nell’opus. «C’è una donna là sotto.» Il dubbio (il desiderio) del pittore Lo scambio perverso «una donna per un’altra». La nozione d’imene. L’aporia del contratto, la donna inavvicinabile. Frenhofer e Orfeo: la prova dell’inoperosità. L’incarnato come colorito-inferno. La mac­ chia e il desiderio (Tiziano). Il sangue, sostanza spettrale del desi­ derio (Michelet). L’incarnato come malattia della posa. Posa e pu­ dore. Pudore e colpa (Vico). Frenhofer e Pigmalione: odio, desiderio e pudore. DalTo/^ al corpus', la dialettica del «quasi». La donna fuori scala. Taglia o dettaglio. La donna-bagliore: venustas e feticizzazione. Frenhofer e Protogene. La dis-località del quadro. Il dettaglio Effetto di lembo, effetto di dettaglio. Il piede come iconologia della pittura in quanto aporia (Orapollo, Ripa). Dettaglio e feticizzazione. Tra l’ideale e l’immondo. Teoria balzachiana dell’andatura: «mostra­ re tutto, ma non lasciar vedere nulla». Divinità della donna. L’iper-riconoscimento e il non-senso del dettaglio unico. Iconografia/ichnografia. La marmorizzazione del piede di Catherine. Perversioni (follie e magie) del marmo di Paros. Semiosi pittorica e semiosi scultorea. Le origini minerali del corpo e della pittura. Corpo - eternamente in sparizione. L’andatura di Gradiva. Tra feticcio e reliquia: lutto e bellezza. L’immobilità «psichica» del piede di Catherine. Il dubbio (la lacerazione) del pittore Pietrificazione e sparizione (il kolossos). Ritorno a Pigmalione e a Orfeo. Il sangue delle pietre, la morte dell’eroe. L’introvabile Venere. La donna unica, intera, originaria (Pandora). Il soggetto velato, mu­ rato, della pittura. Quando il quadro mostra la sua pittura (Tiziano). Quando l’ideale dell’incarnato produce la sfigurazione dei corpi. Magia del colorito (Diderot, Hegel). Tirannia del lembo o tirannia del dettaglio. Il crollo del feticcio. La carne informe. La pittura e i

suoi mezzi di auto-fagocitamento. L’ipotesi autoscopica. Frenhofer come coscienza lacerata. Poteri antitetici dell’umore. Nozione antite­ tica di Venus. Lacrime, schiuma e sangue.

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Note Bibliografia

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La pittura pensa. Come? È una domanda infernale. Forse inawicinabile per il pensiero. Brancoliamo. Cerchiamo un filo. Siamo tentati di affron­ tare questa domanda come una domanda sulla sapienza del pittore, sulla sua vocazione alla saggezza e la sua vocazione alla scienza. Ma forse è una domanda più sottile. Probabilmente fuori luogo, solamente fuori luogo. Saggezza e scienza, da sempre, si sono contaminate e pervertite, si sono intrecciate, insomma si costituiscono, con il senso. Il senso è però esso stesso un intreccio, una perversione. Almeno tre paradigmi si annodano e fanno gioco al suo interno: sono i paradigmi del semiotico (il senso-sema), dell’estetica (il senso-aisthesis) e del patetico (il senso-ftathos). E capitato che Leonardo da Vinci, nelle sue Profezie, desse alla pa­ rola sentimento tutta l’estensione e la perversione di questo retìcolo. Il sentimento,1 nel suo testo, sembra designare tanto il «sentimento» (il patetico) quanto il «senso»: sensazione (l’estetica) e significazione (il se­ miotico); addirittura il «senno», il giudizio, in quanto la pittura stessa produce e vaglia giudizi. In una delle sue profezie Leonardo, misteriosa­ mente, va oltre: sembra suggerirci che questo intreccio potrebbe avere a che fare con una struttura di pelle. Ecco cosa scrive: Quanto più si parlerà colle pelli, veste del sentimento, tanto più s’acquisterà sapientia. Si tratta delle pelli nella misura in cui in esse si congiungono, dice, scritture e senso del tatto.2 C’è qui uno scom­ piglio semantico: lo specchio, il famoso specchio leonardesco, produce bagliore, vale a dire scalpore, macchia, scotoma; non fosse altro che per

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l’uso di veste che traduco con vesture termine del XVI secolo che si pre­ sta tanto all’investitura (che si diceva anche vest) quanto al vestito (per il quale si diceva, genericamente, veste)', e questo dà «pelle», cioè aspetto, ma anche rivestimento, secretazione. Infine vestir vuol dire, in questa stessa epoca, «abbassare le palpebre». Sarà certo capitato che il pittore abbassasse le palpebre per terminare il suo quadro. Almeno nelle leggende su di lui. Ma proprio questo indica una distanza che la pittura scaverebbe, nella pratica, tra sapienza e pru­ denza (per tradizione congiunte altrove, ossia nel buon senso filosofico). Spesso le leggende dicono, a loro modo, il vero. Forse questa domanda sulla sapienza del pittore passa fatalmente per quella, sempre paradossale, dei suoi movimenti, dei suoi cambiamenti di umori - la sua flemma, la sua bile, la sua atrabile fino al suo sangue. Non si tratta qui di psicologia della creazione. E infatti un paradigma storico a raccontarci per primo la folle proiezione dell ’humor (liquido colorato) su una tavola che grazie a ciò diviene figurativa. Proiezione: vale a dire dire getto. Ci si ricorderà del famoso colpo di spugna del pittore Apelle (ma questo getto è paradigmatico già nel suo essere attribuito a molti altri pittori e la versione che ne do, quella di Valerio Massimo, riguarda solo un praecipuae artis pictor, universalizzato benché straordinario); questo getto è infatti esemplare di una tale «veste» o investitura del senso: «Un pittore di grande talento aveva, a forza di arte e di lavoro, rappresentato un cavallo di ritorno dall’allenamento al quale mancava solo la vita. Ma quando volle dipingere la schiuma delle narici, ecco il grande artista accanirsi invano bloccato da questo piccolo dettaglio {tam parvula materia, una così infima materia). Alla fine, preso da stizza, affer­ rò la spugna che aveva sotto mano intrisa di tutti i colori e la lanciò con­ tro il quadro, per annientare la sua opera. Il caso (fortuna) diresse la spu­ gna proprio sulle narici del cavallo e ottenne l’effetto voluto dal pittore. Così ciò che l’arte era stata incapace di produrre, si fece carico di rap­ presentarlo il caso».4 Il getto è qui miracoloso soprattutto perché, al di fuori del pennello, segna la battuta d’arresto del susseguirsi transfinito, spossante e vano, delle pennellate alle quali il piccolo dettaglio, l’infima materia, riusciva in qualche modo sempre a sottrarsi. Il colpo è miraco­ loso perché chiude un insieme, in modo insperato, e infine permette una

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sorta di sottrazione. Sottrarre, ossia calcolare quello che doveva essere diminuito; in ogni caso, significa saper distinguere (per esempio, saper distinguere in un insieme l’ordine del globale e l’ordine del locale). La domanda sarebbe dunque quella del distinto in pittura: domanda della condivisione e della divisione, della perequazione del visibile - infima materia. È però significativo che, nella storia del getto di spugna, i conti si chiudano con un gesto d’annientamento - gesto quasi alla cieca, gesto quasi suicida, e rovesciamento di questo gesto nella più miracolosa delle «fortune». Del resto non è propriamente un gesto cieco, benché «alla cieca». Immagino piuttosto un’esorbitazione, cioè propriamente un’erezione dell’occhio: la sua vocazione a dare colpi, colpi che l’impotente pennel­ lo non sa ancora sostenere. E questo avviene proprio grazie a un richia­ mo di umori, l’occhio si inietta di sangue. Immagino il bianco dell’oc­ chio di Apelle iniettato dello stesso sangue di quello della sua spugna, e immagino che sia anche per questo che la bianca bava del cavallo rap­ presentato alla fine vi mischiava così bene i suoi filamenti di sangue, come scrive Dione Crisostomo in un’altra versione della leggenda.5 E proprio questo era «la vita» che mancava al quadro: una miscela retico­ lata, una fibrina, improiettabile (nel senso di progetto), ma gettabile solamente, di umori bianchi e rossi: schiuma e sangue. Un fantasma di sangue reticolare attraversa la storia della pittura. Forse nelle leggende (i mirabilia sui gesti miracolosi dei pittori) esso ha valore solo per quello che indica proprio in quanto fantasma: un limite. Avanzo l’ipotesi che l’apparizione, o piuttosto la «trasparizione», di un sangue abbia provocato l’esigenza più folle della pittura (ne esiste anche un’altra, ci tornerò più avanti). Una simile esigenza riguarda l’ideale, ma questo ideale è un limite; il limite indica un fallimento (un fallimento, non un’in­ sufficienza); il fallimento è l’esercizio stesso dell’esigenza. Così questa ipo­ tesi ne implica un’altra: laddove si manifesta qualcosa di simile a un «limi­ te» del pittorico (questo comprende allo stesso tempo il suo odio, il pen­ siero del suo irrappresentabile per principio e il sogno della sua più alta riuscita) si mostrano i paradigmi in cui, effettivamente, opera la pittura. Ecco perché spesso bisogna andare a cercare tali paradigmi nel teatro scritto dei pittori, dove in un certo senso questi paradigmi sono a loro

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volta eroicizzati, nelle finzioni in cui questo teatro s’inventa, si reinventa. Così è per il celebre episodio cézanniano, in Gasquet, dove si coniuga­ no proprio i due motivi: la misura calcolabile e temporale dei colpi di pennello; l’occhio che tocca, iniettato di sangue. Questi due motivi sono poi messi in relazione con un terzo, quello di un pensiero della pittura, sotto la specie della follia. «IO: sì, l’ho notato, talvolta lei resta venti minuti tra due pennellate. CÉZANNE: E gli occhi, non è così? Me lo dice mia moglie, mi escono dalla testa, sono iniettati di sangue... non riesco a staccarli... sono talmente incollati al punto che sto guardando che mi sembra sanguinino. Una specie di ebbrezza, di estasi mi fa barcollare come in ima nebbia, quando mi distolgo dalla tela... Mi dica, non sarò mica un po’ folle?... l’idea fissa della pittura... Frenhofer».6 Un accostamento simile non è immotivato. Come d’altronde non lo è neppure il riferimento finale al Capolavoro sconosciuto. E non solo per­ ché Frenhofer, il pittore inventato da Balzac, attraversa, come si è soliti dire, l’intera modernità. Ma anche perché 11 capolavoro sconosciuto è il racconto congiunto, intrecciato in maniera assoluta ed esemplare, di una triplice domanda: quella sulla misura dei colpi, nella parte che implica l’idea di completamento, termine del quadro; quella su ciò che per ora chiamerò lo sguardo-getto del pittore; e infine quella sull’ingiunzione di sangue nella stessa pittura. È un’ingiunzione estrema. Balzac ci racconta che la causa finale della pittura è un andare oltre la pratica della pittura: un topos di tutte le belle parole scritte sull’arte. Ma una tale «evidenza» non implica che la si debba trascurare. D’altra parte, Balzac trasfigura questi topoi nel congegno stesso in cui li produce. Il risultato è spesso folgorante. A ogni modo, è possibile seguire il racconto del Capolavoro sconosciuto come un perpetuo ritardare: di quadro in quadro, dalla tela intaccata solo da tre o quattro tratti bianchi (probabilmente bianchi su bianco, vale a dire poco più di nulla) e dalla santa peccatrice di Porbus, fino al penultimo quadro, la figura di donna «a grandezza naturale», seminu­ da, in cui Poussin e Porbus credettero probabilmente, ma a torto, di riconoscere il capolavoro in questione. Perpetuo ritardo della causa finale intesa come realizzazione: cercavano la pittura compiuta, sappia­ mo che non la troveranno.

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Ma perché si desidera sempre il compimento della pittura? Porbus e Poussin, e Frenhofer stesso, cercano il compimento della pittura come atto che la conduce alla disparità. La disparità si oppone alla parità in quanto questa designa l’impossibilità di scegliere tra due sensi, o addi­ rittura due sentimenti: tormenti dell’amore condiviso. La disparità deci­ de, fa cessare il rinvio producendo un atto di disimmetria: nella sua accezione giuridica, fa cessare la parità delle voci in un voto, raddop­ piando la voce di un soggetto per ottenere l’imparità. E questo sogget­ to raddoppiato è proprio quello che scongiura la duplicazione, decide scongiurando la parità (poiché la parità qui significa, paradossalmente, una specie d’indistinzione, l’indecisione in ogni caso). Fa dunque pre­ valere la decisione, porta a compimento. Creare la disparità equivale a costituire l’indiviso di un soggetto dell’enunciato. Ma la posta in gioco è in fondo la costituzione di un soggetto dell’enunciazione, dunque quella di un soggetto tout court. Finché il soggetto resta spartito7 (penso a Frenhofer), creare la disparità, che pur egli invoca con tutte le forze, gli sfugge. Forse perché il suo desiderio è altrove. E tuttavia, finché tale atto non avviene, il soggetto rimane indeciso, incostituito. Forse perché il soggetto, anche in pittura, esiste solo diviso. Tuttavia, Frenhofer non esita a terminare «d’un sol colpo» il quadro di Porbus (è quello che si dice nel racconto, in modo forse aggressivo, «Paf! Paf! Paf!» e «Pam! Pam! Pam!»). Ma per l’appunto: questa disparità riguarda un altro, un pittore di poco conto. La decisione di Frenhofer sul quadro di Porbus è efficace solo perché Maria Egiziaca non lo riguarda. Frenhofer può vantarsi di poter firmare il proprio «tocco» sul quadro di Porbus, ma è escluso che lo faccia. Si strugge infatti senza fine tra il «è questo» e il «non è questo» del proprio quadro. Solo l’ultima pennellata porta alla disparità (pennellata che «conta» e che sconta), dice in sostanza Frenhofer al giovane Poussin. È nella disparità che si auspica una costi­ tuzione ideale del soggetto pittore, ma questa speranza appartiene al Super-Io, se mi è concesso dirlo, essa è sovrumana, in ogni caso eroica, probabilmente aporetica, disperata. Al soggetto non rimane allora che la sofferenza del dubbio? Io so dipin­ gere, dice Frenhofer, e lo dimostra agli occhi di tutti, ma dubito. Doman­ da rivolta «alla sapienza del pittore, e ancora oltre, al suo pensiero e all’esistenza stessa della sua pratica. In pittura non ci sarebbero che cose

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«che si possono mettere in dubbio»? Forse un’ipotesi del genio maligno ha diviso sin dall’inizio il soggetto della pittura, che può dire io dipingo, io esisto solo cadendo sotto il giogo della minaccia e dell’aporia: io fingo, io esisto, anche qualora questi giunga a credersi il genio in persona. La sapienza del pittore Frenhofer, pertinente e paradossale, è purtroppo di sapere questo. La sua disperazione è speculativa: ha troppo «a fondo meditato sui colori, sulla verità assoluta della linea; ma, a forza di inda­ gare, è arrivato al punto di dubitare dell’oggetto stesso delle sue ricer­ che».8 Il dubbio fomenta inoltre questo grande dramma del ritardo (non dimentichiamo che questa parola in greco si dice hystérésis) del quadro, in quanto fallisce sempre (hysterizei) il proprio compimento. Frenhofer, quandò termina genialmente il quadro di Porbus, sotto la spinta di una specie di spensieratezza dell’/o dipingo (e questa spensieratezza è possi­ bile, lo ripeto, solo perché ciò che è dipinto non lo concerne in quanto soggetto dell’enunciazione, non lo riguarda), Frenhofer-come-pittore agisce «contro il volere dell’uomo», scrive Balzac.9 Questo significa che l’esercizio (lavoro) non è in accordo con il pensiero (il suo capo), con la sua preoccupazione fondamentale: con il suo umore, per dirla tutta, che la medicina potrà di certo ricondurre al «calore o a qualche ispessimen­ to degli ipocondri».10 Al contempo, Frenhofer-come-pittore è solo un povero corpo scosso dal genio maligno in persona: Poussin nota il suo viso scosso da «qualcosa di diabolico»; quando Frenhofer dipinge non è lui, ma un demone che agisce attraverso le sue mani, che le scuote. A meno che, in quello stesso momento, Frenhofer non sia il demone in persona.11 Il suo umore fondamentale non sa separare la convulsione (l’isteria) dall’ipocondria. Non sa nemmeno, nell’istante della convulsio­ ne, separare il demoniaco (il posseduto) dal demone (che lo possiede). Soggetto diviso, soggetto quindi confuso, indistinto. Nel XIX secolo, si diffuse una specie di follia osservata e descritta prima, a partire dal 1814, da Esquirol, poi da Falret, Baillarger, Morel e altri, che possiamo prendere in considerazione come fosse un’eco del dubbio di Frenhofer. Eco storica, e non giudizio clinico, almeno per il fatto che la nozione di questa follia resta legata all’intelligibilità del XIX secolo (anche se essa non è scomparsa del tutto); a questo titolo, mostra un insieme di significati che ha legami con l’ipotesi balzachiana. Legrand du Saulle dedicò a questa nozione una breve monografia nel 1875, allo

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scopo di attribuirle un nome e di darle un inquadramento nosologico, destinato proprio a individuare un campo limite tra ipocondria e isteria. — E una follia, dice, «con coscienza». «Essa è costituita da una specie di delirio attivo, espansivo, senza nessun legame con il delirio di persecu­ zione e con il delirio della malinconia, ed è stata erroneamente conside­ rata come facente parte ora dell’ipocondria, ora dell’isteria».12 Legrand du Saulle ne dà quindi una definizione che bisogna leggere tutta d’un fiato (il «con» non è qui una congiunzione solamente circostanziale, bensì essenziale): Follia, del dubbio (con delirio del tatto},. «Il dubbio apre la scena morbosa» dice «molto tempo dopo, le eccentricità del tatto la chiudono. Nella designazione onomastica della malattia, il dubbio e il tatto debbono essere riuniti.»13 Si tratta però proprio di un delirio di carattere speculativo. La figura esemplare sarebbe quella del teorico. «Tutto quello che gli si presentava alla mente - idea o immagine - s’accompagnava immancabilmente a un come o a un perché», scrive Legrand du Saulle in una delle sue osserva­ zioni.14 E più avanti insiste sulla teatralità di questa figura di teorico, sul suo linguaggio «immaginifico ed esagerato», sulla messa in scena dei suoi gesti. Il suo dolore centrale, «a seconda di come è interpretato, suscita compassione, diffidenza o scherno. La verità è che è un dolore molto reale».15 Il teorico è indubbiamente spesso ridicolo, ma «non è raro osservare vere e proprie idee di suicidio»,16 talvolta seguite da effet­ ti. Ma che cos’è questo dolore? E una specie d’infiltrazione, d’incorpo­ razione invincibile, invincibilmente lenta, della domanda. Il soggetto ha tendenza a fossilizzarsi. «La situazione diventa ogni giorno più intollera­ bile: ogni tipo di socializzazione tende a scomparire; molte azioni nor­ mali della vita sono impossibili; le uscite sono accettate solo con ripu­ gnanza, e poi rifiutate categoricamente; i movimenti sono sempre più lenti, e si finisce per spendere molte ore per la toilette del mattino, o a ogni pasto della giornata; il circolo delle idee deliranti si restringe, e le angosce aumentano in proporzione; le paure di camminare, di sedersi, di sfiorare qualcuno, di dare la mano, di aprire una finestra o una porta, e le repulsioni invincibili per un tale o un tal altro oggetto aumentano; i terrori non vengono neanche più espressi, e il movimento delle labbra tradisce solo la persistenza di un linguaggio mentale; continua comun­ que a sussistere la coscienza perfetta di una situazione così dolorosa; non

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si giunge mai alla demenza, la vita si prolunga e si spegne, è in uno stato molto prossimo all’immobilità.»17 Ma lo statuto di quanto Legrand du Saulle chiamava «eccentricità del tatto» non è semplice: questo non indica, in ogni caso, un puro annien­ tamento dell’esercizio del tatto. Anzi. Chi «dubita» che tutto lo spazio sia appestato di certo non toccherà nessuno, brucerà i propri vestiti e tutti gli oggetti che abbiano avuto contatti con altri; lui però si laverà giorno e notte, si spalmerà di unguenti, e vorrà gettare calce viva sui muri della propria casa, forse addirittura su tutto ciò che lo ri-guarda. Il delirio del tatto sembra piuttosto sconfinare nella dimensione adesiva e «tattile», catturante, dello sguardo. Che questo delirio del tatto sia anco­ rato al visibile è fondamentale: esso deriva da una supposizione secondo cui tutto ciò che è visibile può toccarmi, forse mi sta già toccando. Legrand du Saulle racconta il caso di una donna dominata da un delirio di «ripugnanza a scrivere»: ella sospettava che nella superficie stessa degli oggetti ci fosse qualcosa come un entre-deux in cui potesse ficcarsi chissà quale terribile strumento di scrittura: «non rimarrebbe mai in una stanza in cui vi fosse un tappeto, tra il tappeto e il parquet potrebbero infatti trovarsi delle matite».18 Un altro paziente, sempre angustiato da questioni teologiche, volge quest’efficacia del visibile contro di sé e non smette di chiedersi «se non ha giurato di cavarsi un occhio per compia­ cere Dio».19 E un altro ancora, per finire, «sostiene di essere ossessiona­ to da due cose: i colori e i numeri e che, non appena ha la mente libera per qualche minuto, è costretto suo malgrado a discutere di cose che abbiano sempre rapporto con i colori e i numeri. Si domanda, per esem­ pio, perché i colori siano ripartiti in maniera diseguale, perché gli alberi siano verdi, perché i soldati portino pantaloni rossi, perché la donna si sposi in bianco, perché il lutto si porti in nero, perché alcuni fogli siano dipinti in blu, in giallo, in rosa o grigio, ecc. Quando si trova da qualche parte, somma quanti mobili, oggetti o vestiti ci siano di tale o tal altro colore. Se è stato in treno, saprà dire quanti fiumi e ponti ha visto sfila­ re da una stazione all’altra, o quanti strapuntini, frange, losanghe e chio­ di c’erano nel suo vagone. Se, per evitare la stanchezza, ha voluto chiu­ dere gli occhi e cercare il sonno, racconterà che involontariamente è stato obbligato a rispondere a questa domanda: perché l’arcobaleno ha sette colori?».20

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Ritomo, quindi, alla doppia domanda della sottrazione e del colore. Ossia: come calcolare il colore? Come fame la somma, la differenza, la divisione? Come metterlo in maniera discreta? Questo vorrebbe dire, antico fantasma, calcolare l’umore. Bisogna ricordarsi della circolarità, in Lomazzo per esempio, dell’effetto prodotto dal colore sugli umori (è nel capitolo «De gl’effetti che causano i colori», nel Trattato) e dell’indu­ zione colorata degli umori stessi: la regola del colorare21 consiste infatti nel saper distinguere tra la carnagione di un melanconico (deve virare in maniera surrettizia al nero) e quella di un sanguigno (in cui domina il rosso).22 Circolarità, quindi, del senso-pathos e del senso-sema nell’eser­ cizio stesso delYaisthesis - quella del «modello» attraverso il pittore, o quella del quadro attraverso il suo spettatore. Possiamo seguire il racconto di Balzac anche attraverso l’insistente con­ tro-soggetto di un afflusso d’umori. Si tratta soprattutto di sangue. Ciascuno dei personaggi, a eccezione di Porbus (ma questi ha solo fun­ zione mediatrice nella circolazione delle passioni, è solo il vettore di scambio tra il vecchio genio sconosciuto, Frenhofer, e il futuro genio ben noto alla storia dell’arte, Nicolas Poussin), ciascuno o quasi, dunque, a un certo momento arrossisce. E questo istante di erubescenza del viso ha ogni volta a che fare con il passaggio sconvolgente da un dubbio a una decisione (e ritorno). Costituisce il cuore della domanda, come contare il colore?, e dell’evento, del sintomo colorato stesso. C’è innanzitutto il «pudore indefinibile» del neofita, «e forse il pudore è un dubbio anch’esso», scrive Balzac.23 In questo Poussin, sin dall’inizio, ha raggiunto e compreso il suo vero maestro, Frenhofer. Il pudore è un dubbio, ed è nello stesso tempo quasi un sintomo (l’evento corporeo del segreto, scri­ ve Pierre Fédida).24 Infine è forse l’imminenza dell’ardire più folle, pro­ prio perché l’audacia si sa trasgressiva, cioè colpevole: «Maestro, ahimè, perdonate l’ardire, rispose il neofita arrossendo»... e passò all’atto («All’opera!») rifacendo, a sanguigna, il quadro di Porbus. E la stessa matita rossa gli servirà per apporre l’unica firma del racconto.25 Le guan­ ce livide di Frenhofer invece si tingono di un rosso vivo quando oscilla, con violenza, tra la decisione e il tabù («deve rimanere vergine», «se altri occhi all’infuori dei miei le si posassero addosso, arrossirebbe»), tra il desiderio e il desiderio di assassinio («Il giorno dopo ucciderei colui che l’ha insozzata con un solo sguardo»), e tra l’arte, nel senso della mano,

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della maniera, dell’abilità, e l’incapacità, il sintomo di una morte («le mani gli tremavano», come d’altronde avrebbero tremato quelle di Poussin, quello vero, alla fine della sua vita). Infine, la sola donna con­ creta di questo racconto lascia che un «pudico rossore» le attraversi il viso, abbassando gli occhi (atto del vestir), nel momento stesso in cui si appresta a offrire la propria nudità allo sguardo del vecchio maestro.26 Questo dono non è propriamente quello di una nudità. È un dono della carne - ecco quello che manca al quadro. Ecco l’esigenza ed ecco il limi­ te. Ecco il senso di quello che manca a tutti i quadri, eccezion fatta natu­ ralmente per il capolavoro sconosciuto. Il più bello dei quadri, infatti, fino al «giorno» del capolavoro di Frenhofer, è rimasto sempre al di qua di un dono simile; il più bello dei quadri ha trattato sempre le carni come panni21 vestiti o rivestimenti colorati che non conoscono più l’arte della vera metamorfosi, sono semplice artificio, non sanno nemmeno mentire sulla propria natura di tela. Ma la tela è proprio quanto ci fa vedere che un corpo dipinto è una non-vita. «No, amico mio, non scorre il sangue sotto quell’incamato d’avorio, la vita non gonfia con la sua rugiada pur­ purea il reticolato dei capillari sotto la trasparenza ambrata delle tempie e del petto. [...] Alle vostre donne voi fate dei begli abiti di carne, dei bei drappeggi di capelli, ma dov’è il sangue che induce alla calma o alla passione, e che è causa di particolari effetti? [...] È questo, ma non è questo. Che cosa manca? Un niente, ma quel niente è tutto.» E quando Frenhofer, dopo l’invettiva, «riprende» il quadro di Porbus, chiede ai suoi «piccoli tocchi» di fare rosseggiare, cioè arrossire e riscaldare, il «tono glaciale» della santa Maria Egiziaca: vi trasfonde o piuttosto vi infonde sangue.28 Frenhofer, secondo me, ha quindi di mira Xincarnato. Risiede forse in questo, più concretamente, nominatamente, l’ingiunzione estrema di cui parlavo. Se non si devono fare «belle vesti di carne», è perché non si trat­ ta di rivestire i corpi di colore. Il colore non è un vestito; il colore non dovrebbe mai trovarsi sui corpi come rivestimento; quando succede, esso non è che un sudario o un belletto. Un sogno ricorrente dei pittori è di aggirare la critica platonica del colore-belletto come attributo sofi­ stico (il poikilos, l’inessenziale varietà della moltitudine dei colori). Se Dolce si preoccupò, nel XVI secolo, di distinguere colore e colorito, fu

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indubbiamente per questo sogno.29 E se il colore può mostrare di non essere semplicemente messo sul proprio «oggetto», ma di costituirne lo stesso apparire, il colorito, allora diventa ciò che restituisce alla pittura l’aspetto «vivo» e «naturale» cui per tradizione tende: si può dire la radi­ ce della pittura e quello que gli da la perfezione.30 Bisogna leggere in que­ sta prospettiva i testi di Roger de Piles su Rubens e, prima di questi, quelli di Vasari o di Dolce su Tiziano: in quest’ultimo, non solo le figu­ re sembrano vive e in movimento grazie alle loro carni tremanti, ma in più, per renderne conto, Dolce è costretto a utilizzare un’immagine ter­ rificante: «Credo che in questo corpo Tiziano abbia utilizzato la carne per alcuni colori».31 Immagine terrificante (pensiamo a una sorta di Apollo mentre sgozza Marsia per assortire la propria tavolozza). Essa fonda tuttavia l’equivoco più raffinato della pittura: la nozione di tableau «vivant». E probabil­ mente uno dei grandi principi retorici del movere, del muovere pittori­ co, e anche uno dei più banali. Ma esso offre tutta la propria pertinenza semiotica solo a patto di essere considerato al di qua dei dualismi classi­ ci e astratti vivente/inanimato, mobile/immobile, che solitamente ci si limita a citare al riguardo. È meglio considerarlo per quello che in maniera equivoca produce nel lavoro del pittore, vale a dire nel tratta­ mento colorato di un lembo di tela, di legno, di muro. Bisogna dunque interrogarsi su questo incarnato, a cominciare dall’indecidibilità della parola. «In» sta per dentro, sta per sopra? E la «carne»32 non è ciò che designa in ogni caso il sanguinante assoluto, l’informe, l’in­ terno del corpo, in opposizione alla sua bianca superficie? Allora perché le carni si trovano costantemente invocate, nei testi dei pittori, per desi­ gnare il loro Altro, vale a dire la pelle} Probabilmente è perché questo stesso equivoco, quest’indecidibilità costituiscono già uno dei fantasmi più importanti della pittura. E il fantasma non è il sogno, che mette tra parentesi la pratica, ma è un rapporto con l’oggetto del desiderio tale da flettere inconsapevolmente l’attenzione e l’atto, dividendo il soggetto. Esso modifica quindi l’opera, la chiama, la genera, la divide. Leggiamo Cennino Cennini: «Dèi venire a colorire i visi; i quali ti con­ viene cominciare per questo modo: abbi un poco di verdeterra con un

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poco di biacca ben temperata, e a distesa danne due volte sopra il viso, sopra le mani, sopra i pie’ e sopra i gnudi. Ma questo cotal letto vuole essere a’ visi di giovani con fresca incarnazione, temperato il letto e le incarnazioni co rossume d’uovo di gallina della ciptà, perché sono più bianchi rossumi che quelli che fanno le galline di contado o ville, che sono buoni per la loro grossezza a temperare incarnazioni di vecchi e bruni. E dove in muro fai le tue rosette di cinabrese, abbi a mente che in tavola vuole essere con cinabro. E quando dai le prime rosette, non fare che sia cinabro puro, fa’ che vi sia un poco di biacca; e così da’ un poco di biacca al verdaccio che di prima aombre. [E] secondo che lavori e colorisci un muro, per quel medesimo modo fatte tre maniere d’incarna­ zioni, più chiare l’una che l’altra, mettendo ciascuna incamazion all’ombre del verdaccio, che in tutto le ricopra; ma a darle con la carnazion più scura, allequidandole e ammorbidendole sì come un fummo. E abbi, ce la tavola richiede essere più volte campeggiata che in un muro; ma non però tanto, ch’io non voglia che il verde che è sotto le incarnazioni sem­ pre un poco traspaia. Quando hai ridotto le tue incarnazioni, che ’l viso stia appresso di bene, fa’ una incarnazione più chiaretta e va’ ricercando su per li dossi del viso, biancheggiando a poco a poco con dilicato modo, per fino a tanto che pervegna una biacca pura a toccare sopra alcun rilievuzzo più in fuora che gli altri, come sarebbe sopra le ciglie e sopra la punta del naso».33 L’incarnato è dunque pensato, nella ricetta che ne dà Cennini, e malgrado il lavoro dello strato su strato, come un intreccio inestricabile di bianco e di rosso (prima sopra, poi sotto), tale che in fin dei conti la distinzione non sia più possibile, non più di quanto non debba esserlo una qualche trasparenza del verdastro, colore della carne morta, che fa da fondo a tutta l’operazione. Cennini riconosce il princi­ pio di ciò che Balzac chiama «purpurea rugiada» nell’aggiunta, al «bian­ co di san Giovanni», di un rosso detto cinabro?* Ma il cinabro è già quasi un sangue: come questo, seccando esso tende a virare al nero; è inoltre un colore mitico, estratto, si dice, dal sangue dei dragoni morti in com­ battimento; oppure viene estratto dal fondo della terra, da una specie di fossile, un animale antidiluviano dall’odore così strano che bisogna coprirsi il viso per paura di venirne infettati; il cinabro è ottenuto artifi­ cialmente al termine di una specie di alchimia che chiama in gioco allo stesso tempo lo zolfo, il fuoco, la pelle e una mutazione dal nero al rosso: Furetière scrive che è una «composizione di zolfo fuso con due volte

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tanto di mercurio, che si chiude in un pezzo di pelle [...] e, mescolando le materie, se ne fa una massa nera che si lascia raffreddare, e la si ritro­ va di un colore rosso scuro cosparso di lunghe venature brune e lucenti che si avvicinano alla forma di quelle dell’antimonio. Questo serve per le malattie veneree e per altri utilizzi. Quello in gomma serve ai pittori ed è il colore migliore per imitare il sangue». Tutto questo fa l’incarnato, vale a dire «la voce della carne», secondo l’espressione che utilizza Fulvio Pellegrino Morato nel suo trattato Del significato de’ colori (Venezia, 1535), ma solo per aggiungere immediata­ mente che l’effetto è quello di una lacca (si rassembra tal lacca)?5 L’incarnato vuole dunque sorprendere sotto due aspetti: per quello che lascia intuire di soggiacente (le «venuzze che s’intrecciano a reticolo sotto...») e per quello che impone di una superficie tesa al massimo, come uno specchio, levigata, ma trasparente («... la trasparenza ambra­ ta delle tempie e del petto»). Questo colorito per eccellenza è dunque sotto il giogo di un imperativo categorico dell ’entre-deux: tra superficie e profondità. Cennini, in sostanza, indica che il cinabro più è utilizzato puro, più «scava» la superficie delle carni, fino a poter diventare improv­ visamente mimesi della piaga (pelle scorticata, in-camato nel senso di intrusione nella carne interna).36 Conosciamo il destino di questa problematica nel testo di Diderot: «La carne è più bella del più bel panneggio» scrive per prima cosa, volendo dire che bisogna concepire l’incarnato come Aufhebung, come sostituto organico del problema figurativo della superficie coprente. Ma l’impera­ tivo dell’entre-deux è di folle difficoltà. Da un lato, come difficoltà, ri­ sponde a quanto di più «colto» possa esserci nell’esercizio della pittura; dall’altro, come follia, presenta il rischio «che l’artista si intestardisca nella vanità di mostrarsene esperto; che il suo occhio si guasti al punto di non sapersi più fermare alla superficie».37 Un pittore del genere non farebbe che scannare, in senso proprio, le sue figure. Folle difficoltà, dun­ que, aporia forse, nel senso in cui Ventre-deux indica qui la difficoltà del passo, cioè del «passaggio di un filo nella lama», come si dice per la tessi­ tura («essere fuori dal passo: prendere un filo per un altro», ci insegna Littré); una folle difficoltà, dunque, del passaggio, del poros. Ma Diderot va ancora oltre attribuendo questa aporia a una temporalità: la tempora­

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lità monadica del corpo, quella dei suoi sintomi o passaggi più infimi. «Ciò che finisce per fare impazzire il grande colorista - infatti - è il per­ petuo variare [vicissitude] di quella carne.»38 Vicissitudo: l’alternativa, lo scambio, l’alternanza di ruolo, il ritorno, l’oscillazione, il cambiamento, insomma il destino. Nell’esercizio del ritratto è presente in maniera esem­ plare l’oscillazione dello sguardo, e in essa l’oscillazione del pathos. Questa oscillazione non è dunque nient’altro che l’incessante passaggio (quando poso, «passo», scrive Diderot, dalla noia all’ironia, poi alla gioia, eccetera), l’incessante passaggio degli umori, quindi passaggio, vicissitu­ dine, del colorito. Così, all’improvviso, «la gioia mi esce dai pori della pelle, il cuore si è dilatato, i piccoli serbatoi di sangue hanno oscillato, e la tinta impercettibile del fluido che ne è fuggito ha versato da ogni parte l’incarnato e la vita». I pittori rischiano in ogni momento di scorticare la carne del loro «soggetto», della «figura» o del viso che si trovano davan­ ti - davanti come una spaventosa tela-Proteo (si noti anche la non meno spaventosa circolarità delle metafore tra corpo e quadro): «Che suppli­ zio è dunque per loro il volto umano, questo schermo che si agita, si muove, si tende, si rilascia, si colora, smuore seguendo la moltitudine infinita delle alternative di quel soffio leggero e mobile che chiamiamo l’anima!».39 L’incarnato sarebbe allora, altro fantasma, il colorito in atto e di passag­ gio. Un intreccio della superficie e della profondità corporee, un intrec­ cio di bianco e di sangue: «bianco vellutato, uguale senza essere né pal­ lido né cupo», più «una mescolanza di rosso e di blu che traspira imper­ cettibilmente». Ma è un intreccio temporalizzato, per così dire: il passag­ gio colorato è solo una dialettica indiscreta, sempre imprevedibile, del­ l’apparizione (epiphasis) e della sparizione (aphanisis). Qui non siamo lontani da Frenhofer. Diderot, infatti, non può che concludere il proprio testo in questi termini: l’oscillazione temporale dell’incarnato del viso indicherà una sorta di limite della pittura; questo limite «farà la dispera­ zione del colorista», e la disperazione, diventando presto una follia, richiederà l’indefinito processo del ritocco; il ritocco è infine esasperato fino a giungere alla perdita della leggibilità, al fallimento, al caos. Così l’incarnato, modello di una verità-a-colori, finisce per ingannare il pitto­ re «sulle sue possibilità e gli fa rovinare un capolavoro: senza saperlo, egli era al limite estremo dell’arte».40

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Limite: vale a dire qualcosa che funziona allo stesso tempo come verità assoluta e come alterità assoluta. Essenza, oppure genio maligno. L’in­ carnato sarebbe il colorito-limite, innanzitutto in quanto designa un co­ lorito a cui la pittura tende, per un certo verso mai o quasi mai realizza­ to (nel senso hegeliano) nel quadro: è infatti il colorito «della vita», sarebbe meglio dire che è un colorito-sintomo. E un colorito attraverso cui la pittura si sogna dotata di sintomo, vale a dire dotata delle capacità di epiphasis e di aphanisis che si riconoscono a un corpo quando esso è abitato, attraversato, posseduto dai tormenti, dai cambiamenti dell’umo­ re. E un colorito attraverso il quale la pittura riuscirà a immaginarsi corpo e soggetto: colorito della vicissitudine, quindi della sensibilizza­ zione al desiderio. Che un quadro dorma, si svegli, soffra, reagisca, si rifiuti, si trasformi o riprenda colore come il volto dell’amante quando sa di essere osservata dall’amato è quanto di meglio e di più efficace pos­ siamo sognare per l’immagine: Frenhofer non sognava che questo. Si guarda solo (e forse si dipinge solo) per essere guardati. Lo sguardo di compassione delle immagini miracolose della Vergine (guardando, ella ne guarda uno solo, e sono io), o il sangue della Passione che zampilla fuori dalla superficie delle icone del Cristo, flagellate da qualche eretico forse curioso di mettere alla prova l’immagine e la divinità (nella Legenda aurea, per esempio, lo si legge ovunque): questi sguardi e questo sangue non indicano nient’altro che un fantasma relativo ai mezzi della pittura stessa: sguardo e colore liquido. Ciò che è miracoloso è anche verità. O piuttosto ideale, nel senso in cui Hegel impiega questo termine nell'Estetica, rifiutando cioè di pensarlo al di fuori del suo effetto di verità. L’incarnato, scrive Hegel, è «l’ideale per così dire» {das Ideale gleichsam), il «culmine» {der Gipfel) del colorito, ovvero il mimine d* quHI^ "l’Hfmento per eccellenza della pittura» 41 Culmine è una parola ambigua, lo sappiamo. Ma indica pur sempre, quale sia l’intenzione secondo cui la si prenda, un’essenza. Possiamo-potare-ehe nel tp«tr> Hi l’inramatn è pensato secondo il fondamento stesso di una teoria del colore; esso vi si definisce, infatti, come l’intreccio dei tre colori primari o «fondamentali», Hauptfarben, riconosciuti come tali a partire dal Traité du coloris di Le Blond, nel 1756, ripresi in seguito da Tobias Mayer nel 1758 e da J.H. Lambert nel 1772: rosso delle arterie, blu delle vene e giallo, della pelle, Ma, dice Hegel, è un

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giallo trasparente: Durch das durchsichtige Gelb der Haut, «attraverso il giallo trasparente della pelle...». Leggiamo quindi due volte la parola «attraverso», e in durchsichtig, «ciò-che-è-visibile-attraverso», vi sono anche le connotazioni del manifesto, dell’evidente. Come se l’evidenza dell’incarnato, ciò che ne fa la parte manifesta della carne, fosse accessibi= le solo secondo l’osdUazione di un doppio attraversamento, dalla superfì­ cie alla profondità* e ritorno. Noi certo vediamo solo la superficie: ^ani­ mazione interna», scrive Hegel (il testo tedesco è più preciso: Denn dies Innerliche, Subjektive der Lebendigkeit), un’animazione che, considerati i mezzi della pittura, deve essere «trasposta su una superficie» (auf einer Fläche... aufgetragen). Ma ciò non basta: l’animazione, Infatti, non deve apparire sul quadro come un riflesso, dice. Essa non deve essere riflesso di qualcos’altro, una mimesi speculare e -piatta, ma al contrario un «tutto avente» che sorge dalla profondità. Profondità trasparente, quindi (dur­ chsichtig tief). Si trova qui una relazione fondamentale che Hegel chiama in ultimo ein ideelles Ineinander, un intreccio ideale, «gli uni negli altri», dei tre colori primari; Jankélévitch l’ha tradotto con interpénétration e ha omesso Faggettiver43 Una nozione simile deWUno-nell’-Altro non è priva di conseguenze per lo statuto stesso del quadro. Certo, noi vediamo solo la superficie, ma siamo guardati solo dalla profondità, nel momento in dii essa viene verso di noi. 11 quadro dunque sarebbe già l’Uno-nell’-^SItro di una superficie e di una profondità. Questo significa innanzitutto che il colore non è una pura qualità della superficie. Non è un caso che Dolce, nel suo celebre Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori (Venezia, 1565), non abbia voluto dare ragione né ai pitagorici né ai platonici riguardo alla questione dell’essere (esser) del colore: «I Pitagorici» scrive «crederono che il colore fosse solo superficie. Platone, invece, nel suo Timeo dice che esso era luce (lume). È vero che Aristotele, seguendo una via inter­ media, ritenne che il colore era il limite del corpo (termino di corpo)»-, e Dolce puntualizza: non limite nel quale il corpo è «contenuto» (questo, infatti, è la sua superficie), ma limite della sua lucidezza che tuttavia non è il lume platonico.44 Che cos’è allora questa lucidezza? Il termine traduce qui il diaphanes aristotelico, sul quale è bene ritornare; infatti, anche se Dolce ne semplifica un po’ l’esposizione, esso rappresenta pro­ babilmente l’argomento cruciale di un’elaborazione compiuta del con­ ,43

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cetto di colorito, in quanto si distingue dal colore-superficie di un corpo o dal colore disposto su di esso. Il nucleo dell’argomentazione aristote­ lica consiste nello scindere la potenza e l’atto del colore. «Possiamo prendere ogni sensibile secondo un doppio senso: in atto e in potenza» scrive Aristotele. Diafano sarà il nome del colore in potenza. È pura dynamis, dunque incolore come tale, invisibile ma incorporata, labile, nel senso che si espande in tutto lo spazio, attraversa tutti i corpi. Essa è però il principio e la coadüiû del divenire-visibile di ogni colore. «Il f ricettacolo del colore deve essere l’incolore, come quello del suono il silenzioso.» Questo ricettacolo è pensato come una natura mista {koiné physis) di aria e di acqua: l'atmosferico e l’acquoso, i due elementi di cui, tra l’altro, è costituito l’occhio. Nella fisica aristotelica il diafano è elevato all’atto dalla presenza del fuoco che a esso è immanente: la sua messa in atto è innanzitutto la luce. L’evento colorato, in quanto tale, costitui­ rà poi la propria determinazione singolare, a seconda dei corpi, a secon­ da che essi contengano più o meno fuoco o terra, elemento brillante o elemento oscuro. «La luce è come il colore del diafano» dice Aristotele, ma il colore stesso (il colorito, direbbe Dolce) è il diafano, non la luce, messo in atto grazie al suo passaggio attraverso un singolo corpo.45 Colore in potenza: ciò non va inteso astrattamente. Il diafano è il mezzo del visibile. Aristotele va oltre, lo intende come un veicolo della visibili­ tà, la sua dinamica. Il diafano penetra i corpi, li attraversa (più o meno bene, a seconda delle loro proporzioni di aria e acqua), li altera dunque, secondo una sottile specie di motilità. Questa alterazione è l’evento colo­ rato stesso. Ciò significa che il colore non è il luogo della superfìcie dei corpi (una pura circoscrizione topica), ma che esso ha luogo in un limi­ te del diafano che è in essi, che li attraversa. Non è né una giustapposi­ zione né una sovrapposizione, ma un’interpenetrazione corporea effetti­ va, per quanto sottile: si attualizza dunque al limite (e Aristotele utilizza qui il termine escaton) della sua invisibile causa, il diafano, esso è «visi­ bile perché contiene in se stesso la causa della propria visibilità». È infat­ ti la nozione stessa di limite, in quanto superficie, che qui comincia a vacillare. Aristotele scrive che l’evento colorato «esiste nel limite del corpo, ma tuttavia non è il limite del corpo. Bisogna piuttosto pensare che la stessa natura che, esternamente, è il veicolo del colore, esiste anche all’interno del corpo».46 Questo indica tutto il potere di confusio­

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ne, di aura, di evanescenza e di apparizione che il colorito possiede. Il colore in senso aristotelico esiste quindi «nel limite», ma esso esiste anche, sottilmente, diversamente attualizzato, forse un po’ al di qua del corpo colorato, forse un po’ al di là di quest’ultimo, fino ad arrivare a me (l’umore acquoso del mio occhio) e andare oltre. Esso non è posato sulla superficie dei corpi, è un gioco labile del limite, una sfoglia sottile, vacil­ la di piano in piano nello spazio, a seconda dell’aria, a seconda dell’ac­ qua. Un’iperfisica. Come l’Uno-nell’-Altro del limite visibile e del diafa­ no come potenza: al contempo gioco di specchi della superficie pitago­ rica e corporeizzazione, se così possiamo dire, degli «effluvi», o delle «fiamme» platoniche, di cui parlava Dolce. Una pittura «lucida», una pittura della lucidezza sarebbe allora un tentativo di produrre lo scivola­ mento, o addirittura la confusione, l’indiscernibilità tra colore-pigmento e colore-attraversamento (quello dei corpi, detto «naturale»). Qui non troviamo solo l’indizio di uno stadio pre-newtoniano del pensiero. Si tratta anche e innanzitutto di un movimento necessario alla nozione stes­ sa di colorito-sintomo, che forse rappresenta l’obiettivo di tutta la trat­ tazione aristotelica di Dolce. Azzarderò un’analogia. La lucidezza sarebbe per il colore, in pittura, quello che i «vapori» furono per il corpo femminile, nella tradizione fisiologica e medica, dal Rinascimento al xvni secolo. Non è solamente un’analogia «sessuale», anche se in tutta la storia dell’arte si evince chia­ ramente un movimento di femminizzazione del colore, sotto la specie, appunto, del colorito. Colorito-sintomo significherebbe piuttosto, da questo punto di vista, una specie d’imperativo categorico e fantasmatico, per la superficie pittorica, a essere isterizzata, il che presuppone almeno cinque aspetti convergenti. Ciò verso cui essi convergono e fanno fascina (fascio e fascino) è forse semplicemente la nozione alla quale si richiamava per l’appunto Aristotele nel momento in cui tentava di spiegare l’efficacia del visibile: è la nozione di allotosis, che di volta in volta indica l’alterazione, il cambiamento, l’ellissi (in particolare l’ellissi di costruzione che chiamiamo anacoluto) e infine l’alienazione mentale. Il primo aspetto dell'allotosis, da questo punto di vista, sarebbe la pre­ gnanza di un’invisibilità come ciò che fa da fondamento all’avvenimen­ to stesso del sintomo visibile; è il diafano aristotelico come efficacia pro­ digiosa di una «potenza» (il non-attualizzato) o addirittura di un difetto

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(Yhysterein). Il secondo aspetto sarebbe la multilocalità, o meglio, la dislocalità alla quale questo sintomo è come costretto, ma di cui allo stes­ so tempo si serve: abbiamo visto che l’evento colorato, secondo Ari­ stotele, non si riduce alla propria area visibile, alla propria superficie, al proprio extensum; il limite non smette qui di vacillare, di disporsi in sfo­ glie. Sappiamo, d’altra parte, che la dislocalità caratterizza l’emergen­ za del sintomo isterico, dato che l’identificazione, secondo i termini di Freud, è plurale quanto estremamente labile; è ciò che rende possibili quegli scatenamenti ubiquitari, quei momenti fascinanti di epiphasis e di aphanisis del sintomo, attraverso un corpo interamente «lavorato» come la superficie di un notes magico. Il terzo aspetto sarebbe Yalterazione, la costrizione d’alterità; vedere, dice Aristotele, è un’alterazione immobile del soggetto, un cambiamento, ma immobile;47 come un lavoro «sul posto» dell’eterogeneo. Da qui si capisce come Yallotosis si dia come potenza del passaggio, del passo, una potenza del contraddittorio: tempo­ ralità paradossale di ciò che Freud, cercando d’interpretare la struttura della crisi isterica, chiamava «contraddittoria simultaneità» dei «fatti altrimenti così plasticamente figurati». E passiamo in tal modo al quarto aspetto, il contraddittorio. Esso va però inteso, in definitiva, come quan­ to si lega all’intensità dell’evento (potenza dell’incarnato, intensità isteri­ ca del sintomo); potremo allora cogliere meglio perché questa intensità si produce su un fondo d’invisibilità, di diafanità: proprio perché ecces­ sivamente intenso e suscettibile di una «contraddittoria simultaneità», il sintomo, «così plasticamente figurato», si presta perfettamente a ima dialettica della dissimulazione.48 È forse da questo punto di vista che bisognerà affrontare l’enigma di Catherine Lescault, che non smetteva di apparire come carne nella sua interezza (la sera) e di sparire (la mattina) agli occhi di Frenhofer: invisibilità, temporalità contraddittoria ò.dYepi­ phasis e dell'aphanisis, imprevedibilità. Ma tali qualità sintomatiche dell’imprevedibilità non erano semplici qualità ottiche: esse continuavano a legarsi a un aspetto estremo di questa alterazione del visibile, la tattilità. Ci torneremo. Tuttavia, già in Aristotele, Yallotosis relativa al visibile, in quanto alterazione o movimento immobile del soggetto, è un atto della distanza che contiene in sé (in potenza) la motilità che chiamerebbe que­ sta distanza, se si trattasse di toccare, per esempio. Ebbene, si tratta pro­ prio di questo: senza il tatto non può darsi nessun altro senso - ed è il concetto di allotosis a condurre Aristotele a questa ipotesi, con cui si

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conclude il trattato De anima. Il colore non è una superfìcie: esso è nei corpi, tra il diafano (il passaggio invisibile) e la pèllé (l’intensità di una carezza). Probabilmente è per questa ragione che Dolce tentò, come Frenhofer, di pensare la superficie pittorica non come area caratterizza­ ta dall’aritmologia pitagorica, ma al contrario come una pelle, una pelle dotata di sintomo. D’altra parte, nemmeno la pelle è una superficie. Il suo significato con­ tinua a oscillare tra tegumento (ciò che ricopre) e derma (ciò che scopre o spoglia, secondo l’etimologia della parola). Il corpo cartesiano stesso, in quanto res extensa (un concetto di estensione in grado di rendere conto allo stesso tempo sia dello spazio che del corpo, Umwelt e Innenwelt), sembra prendere atto di questa difficoltà. In un certo senso, è vero che Cartesio ha ridotto la pelle al rango di tegumento, di superfi­ cie coprente: la pelle è solo un guanto, dice49 (ma sappiamo che, soprat­ tutto a partire da Lacan, la nozione di guanto è tutt’altro che banale). Non è, insomma, l’organo di un senso in quanto tale, ma la superficie d’interposizione tra il sensibile e il senso. Se l’occhio gode di un tale pri­ vilegio, è perché la sua «pelle» è molto «chiara e trasparente», così come gli umori che la costituiscono: qui il sensibile (la luce) agisce sul senso, il nervo, «come se fosse completamente scoperto».50 La pelle è dunque concepita innanzitutto come superficie e come principio di separazione. Tuttavia esistono, scrive altrove Cartesio, due specie di generazione delle superfìci. «Ci sono delle superfici che si formano dapprima con il corpo che terminano e altre che si formano dopo, a causa del fatto che questo corpo è separato da qualche altro di cui era prima una parte. Del primo genere è la superficie esterna della pelle che viene chiamata secondina, che avviluppa i fanciulli prima che siano nati, come anche la superficie del polmone, del fegato, della milza, dei rognoni, e di tutte le ghiandole. Ma quelle del cuore, del pericardio, di tutti i muscoli e anche di tutta la pelle dei nostri corpi sono del secondo.»51 La pelle-rivestimento sarà allora pensata come après-coup, mentre una posizione in qualche modo originaria è attribuita alle pelli che si costituiscono come Yindistinto limi­ te dei corpi di cui esse sono la pelle. Non siamo lontani dal problema dell’incarnato (le nostre «venuzze che s’intrecciano a reticolo sotto la trasparenza ambrata delle tempie e del

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petto»): il paradigma della pelle-limite è infatti sviluppato in maniera esemplare da Cartesio in relazione a quanto egli chiama proprio i «retico­ li» del sangue, in cui le particelle «si allontanino e si separino, ma [dove] anche alcune altre si radunino e si pressino, fregandosi e dividendosi in parecchi rami estremamente piccoli e che restano così vicini gli uni agli altri da non lasciare che la materia molto sottile (che ho chiamato il primo elemento nei miei Principi) che occupa gli intervalli rimasti attorno ad esse».52 Un modello reticolare, ma anche un modello di generazione della «pelle dalle arterie». Le «particole solide del sangue», infatti, tendono, dice Cartesio, a «unirsi insieme» (le altre, più fluide, tendono invece a separarsi), ed è così che esse «cominciano a comporre le loro pelli».53 L’incarnato sarebbe quindi, seguendo questa logica, il colorito-rete di un entre-deux della nozione stessa di pelle: tra limite-separazione (la pelle come interposizione) e limite-indistinzione (la pelle come manifestazione del proprio colorito fibrillare), limite-superficie e limite-intreccio. Questo richiama ancora una volta, ritorniamoci, l’esigenza formulata dal pittore Frenhofer nel Capolavoro sconosciuto. Frenhofer rimprovera al quadro di Porbus che il corpo della santa peccatrice sia «incollato sullo sfondo della tela»: «è una silhouette a una dimensione, un’immagine ritagliata».54 Detto altrimenti, quel che manca è la virtù fondamentale dell 'interstizio, del «tener-si-fra». Virtù che dipende dalla doppia esigen­ za di aria e di sangue: a un corpo dipinto si deve poter «girare intorno», dice Frenhofer, vale a dire che esso deve rompere, in quanto corpo, con tutto lo spazio atmosferico del rappresentato; deve di conseguenza pre­ sentarsi, rispetto al mondo, allo sfondo o alla scena, come un soggetto, un individuus (individuato, cioè separato, ma anche indivisibile). D’altra parte, questo corpo dev’essere a sua volta provvisto della virtù intersti­ ziale della pelle: superficie viva, porosa, irrigata, calda - come a dire una non-superfìcie. C’è bisogno del lucente e del sangue-. «Osserva come il satinato lucente che le ho passato sul petto renda bene la rotonda mor­ bidezza di una pelle di fanciulla, e come questa tonalità, un miscuglio di rosso scuro e ocra, riscaldi la grigia freddezza di quest’ampia ombra, dove il sangue si raggelava anziché scorrere».55 L’esigenza della «forma» secondo Frenhofer non è quindi l’esigenza delle sue qualità di superficie, quand’anche tridimensionali: «Prova a

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prendere l’impronta della mano della tua amica e posala davanti a te: ti troverai di fronte a un orribile cadavere senza alcuna somiglianza»56 dice Frenhofer al mesto Porbus. «Non vi calate abbastanza nell’intimo della forma.»57 Ma cos’è «la forma»? E, risponderà sostanzialmente Frenhofer, una fecondità inafferrabile della piega. Il visibile sarebbe una specie di immensa e diffusa topologia delle pieghe, una sfoglia pellicola­ re generalizzata, nella quale l’interstizio sarebbe in qualche modo porta­ tore della differenza, del senso. Quando Frenhofer ci parla di un «Pro­ teo ben più inafferrabile e fecondo di pieghe di quello della favola»,58 bisogna allora ricordarsi di quello che ci dice Nadar su Balzac, in posa per il proprio ritratto fotografico di corpo «in sfoglie»: «Balzac si sentì a disagio davanti al nuovo prodigio: non poteva difendersi da una vaga apprensione per l’operazione daguerriana. Aveva trovato una personale spiegazione [...]. Dùnque, secondo Balzac, ogni corpo, in natura, è com­ posto da una serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, stratificati in membrane infinitesimali, in tutti i sensi in cui si attua la percezione ottica. Non essendo consentito all’uomo di creare - ovvero costituire una cosa solida da un’apparizione, dall’impalpabile, ossia dal niente fare una cosa -, ogni operazione daguerriana interveniva a rivelare, distacca­ va e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo obiettato».59 Obiettato, dice bene Nadar: infatti nel momento in cui_è «messo, in opera», oggettiyalo, il corpo si trova confutato, spogliato, annientato. Sarebbe come un effetto mortifero dell’aura: il divorare diafano, a opera delTimmaaine. idei foglio dei corpi. Non tanto effluvio^ quafìttf effetto di un interstizio pellicolare generalizzato, vorace. Frenhofer, nome proprio enigmatico inventato da Balzac, ha probabil­ mente qualche affinità con l’idea di un mondo visibile instabile, in cui ogni forma dovrebbe la propria esistenza solo alla quasi casualità di una concrezione spettrale. Poussin e Porbus fanno parte della «vera» storia dell’arte, ma di quale storia fa parte questo genio sconosciuto chiamato Frenhofer? Di una storia mitica, di sicuro, un 'invenzione balzachiana, ma anche della storia del diafano, per l’appunto. Cinque anni prima della stesura del Capolavoro sconosciuto, moriva al colmo della gloria l’ottico Fraunhofer, autore di una Teoria degli aloni, di uno studio sulle variazioni della luce e, soprattutto, fondatore notorio della spettroscopia: era stato il primo fisico a mettere in evidenza lo spettro della luce solare

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(utilizzando a questo scopo il potere dispersivo dei prismi): il raggio di pura luce si rivelava costituito da cinquecentosettantasei pellicole o stri­ sce (dette «strisce di Fraunhofer») di cui si suppose che l’organizzazio­ ne dicesse qualcosa sulla natura materiale dell’astro solare (la supposi­ zione fu confermata: Fraunhofer stabilì tra l’altro una vera e propria classificazione spettrografica delle stelle). Il sapiente Fraunhofer aveva dunque penetrato l’intimità dei corpi celesti semplicemente analizzan­ done gli spettri, le diafane emanazioni pellicolari. Possiamo immaginare che l’iper-pittore Frenhofer tentasse la stessa impresa con i corpi di carne. Una simile «esigenza di forma» si espone a un enorme pericolo. Essa s’in­ scrive, infatti, in una specie di gioco crudele, un mortale chi-vince-perde (e qui il pensiero corre a La pelle di zigrino) in cui ciò che detta legge è una sorta di iperfisica (il termine è, fra gli altri, di Nadar), un’iperfisica della mimesi. Iperfisica e non metafisica: la mimesi è qui di fatto pensata come una materia, certo sottile, ma in ogni caso una materia, una «sostan­ za madre», scrive Balzac, un tessuto di viscere. È dunque un’iperfisica della piega e della vibrazione, come un diaphanes generalizzato, quasi organico. L’apparire corporeo, ma anche il pensiero, ne deriverebbero. Per il suono e per la luce sarebbe la stessa cosa, secondo un principio d’equivalenza generalizzata, sottile: «Il suono è la luce sotto altra forma: ambedue procedono per vibrazioni che fanno capo all’uomo, che le tra­ sforma in pensiero nei suoi centri nervosi. La musica, come la pittura, fa uso dei corpi che hanno la facoltà di liberare questa o quella proprietà dalla sostanza base, per comporli in quadri» spiega Balzac attraverso un altro genio sconosciuto, Gambara. Il quadro non è quindi solo una topi­ ca, ma una dinamica e un’energetica del vivente (il diafano pensato come una biologia del visibile). Balzac ne conclude che, come la pittura, «la musica è un’arte intessuta nelle stesse viscere della natura».60 Intessuta nelle stesse viscere, formula mirabile. Il quadro (intelato, tessu­ to), insomma, non è una superficie più di quanto non lo siano il colore, la pelle o il principio del visibile «disposto in sfoglie» che Balzac qui sug­ gerisce. Il quadro è anch’esso una struttura della piega, dell’interstizio. Ma quale struttura, esattamente? Questo è il punto. Frenhofer la cerca­ va, sollevando «strato per strato i quadri di Tiziano»,61 al fine di progre­

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dire in sapienza. Il quadro sarebbe come un letto della piega. Forse è qui che viene indicato il suo statuto più materiale. L’ipotesi balzachiana di un’iperfisica pellicolare ne costituirebbe la splendida parabola. Basti considerare il problema che stiamo analizzando, quello dell’incarnato: qui si intuisce bene la perpetua esigenza di una conversione topologica del piano in quanto tale a un effetto di pelle, il suo divenire reticolo, interstizio^ trasudazioni, passaggi (vicissitudini àéX’epiphasis e àeWapha­ nisis). Ci troviamo «sul piano» di un fantasma relativo ai mezzi della pit­ tura. Ma, per l’appunto, il fantasma non è un «piano». Si rapporta cori ciò che lo concerne in termini di strutturazione, come un punzone (dice Lacan), ovvero con la triplice funzione di apertura, intreccio strutturale e messa in impronta. Questo avviene quando la tela si abbandona, nel­ l’incarnato, al fantasma della pelle. Da quel momento, nella sua stessa struttura, nella sua semiosis, essa si differenzia nettamente da una pura superficie: fa l’intreccio e l’interstizio tra la propria esistenza di supporto (di sotto: sub), la propria esistenza colorata (ciò che è gettato, ejectus, sul supporto) e la propria esistenza significante (ciò per cui non la si può distinguere da un soggetto, da un subjectus). La nozione di subjectio sembra poter essere pertinente per un approccio alla problematica del quadro. La sua costellazione semantica, in latino, vi si presta in maniera esemplare: la subjectio è innanzitutto l’atto del getto, una proiezione materiale (non ideale, non geometrica) su un supporto; in secondo luogo, e come conseguenza, è una spettacolarizzazione: quanto è stato gettato esiste in una distanza che rende visibile, che fonda l’ipotiposi pittorica (ciò che è stato gettato, o addirittura deiettato contro il sup­ porto, diventa difatti subjectus sub adspectum, soggetto a o soggetto di un’intenzionalità del vedere); in terzo luogo, la subjectio è un atto di con­ versione, il verbo latino significa infatti anche «mettere al posto di, sosti­ tuire»: si tratta allo stesso tempo di una conversione dell’oggetto visibile e di una conversione della sua condizione di visibilità - è, si dice, una «subordinazione (subjectio) della testimonianza»; il Capolavoro sconosciu­ to racconta, fra le altre cose, il dolore estremo di questa subordinazione, nel momento in cui Frenhofer s’interroga: mostrare o non mostrare, a questi «altri» (corruttori) che sono Porbus e Poussin, il proprio quadro; si tratta quindi, in quarto luogo, di un’operazione di scarto: il pittore subjecit nel senso che, nell’atto della presentazione (esposizione, ipotiposi),

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egli ha «sottomesso», vale a dire suggerito e insinuato (un altro senso della parola), qualcos’altro: qualcosa che resta nei retroscena, o piuttosto manifesta l’efficacia di quanto Freud chiamava precisamente YUnter­ drückt; è, in quinto luogo, l’operazione di un ritardo, il getto è infatti un’aggiunta, «si mette dopo», «fa seguito» (altri sensi della parola, in una costellazione deìYhystérésis): ed è vero che ciò che di fronte alla pittura spesso ci assoggetta, ci turba e divide, è il fatto che essa agisce nel perpe­ tuo scarto di un après-coup; è anche per questo che la subjectio assesta la sua ultima ambiguità, quella del gettare-sotto: ovvero mostrare, gettare davanti a noi sotto al nostro sguardo, ma anche «mettere da sotto», vale a dire dissimulare, «sotto» al nostro sguardo. Non sorprenderà, dunque, che la vecchia nozione di soggettile sia un vero e proprio nodo (pertinenza e difficoltà) all’interno di questa proble­ matica. È Jean Clay ad aver ridato valore teorico a questa nozione, ponendola al centro delle pratiche pittoriche del XIX secolo: qui «attra­ verso intreccio, traboccamenti, accavallamenti», la pittura «tende a superare la problematica della superficie per raggiungere [...] la catego­ ria della sfoglia, dello strato, dello spessore».62 Che ci siano intreccio, piega, interstizio, «palpito di spazio» grazie al quale i fondi «risalgono, attraversano, fanno superficie»,63 significa innanzitutto che il quadro funziona come un 'aporia della proiezione, della proiezione-progetto. La proiezione rincalza o si affossa, si manca sempre, a un certo momento, nello spessore del quadro, proprio perché la dimensione del soggettile, nella sua complessità, produce il ritorno, il rinvio, il ritiro del progetto nelYaprès-coup del getto. E per questo che, in questo caso, potremmo parlare di superficie solo precisando la sua natura induttiva, non proiet­ tiva, e reiniettandovi, oltre alle qualità di extensum (di grandezza esten­ siva, di distesa o di piano), la qualità intensiva dello spatium, della «pro­ fondità implicata» che Jean Clay indica come struttura di rivestimenti, cancellature, e allo stesso tempo di sollevamenti, di eco.64 Siamo di fronte alla riformulazione della nozione di superficie. Forse pro­ prio perché è solo una nozione, forse perché non è mai stata un concet­ to, chiaro e distinto. In qualche modo, la pittura approfitta di questo equivoco: si fa beffe della nozione (mentre agonizza e scompare nel con­ cetto). La maggior parte delle volte siamo condannati a tergiversare. Mi­

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serabili rinvìi della nozione e del concetto. O la pittura ride di noi o noi l’uccidiamo; un po’ di questo è presente anche nel dilemma di Frenhofer: tra un’ontologica derisione e un voto di morte. Follia del dubbio, coscien­ za lacerata. Il pittore stesso ci parla di «distruzione dell’entità di super­ ficie», e allo stesso tempo, o quasi, salva la parola, ma sdoppiando­ la: «superficie reale» / «superficie pittorica», opposizione che Christian Bonnefoi ha messo bene in luce. La determina però secondo qualità di cui il senso comune ci direbbe che sono in assoluta contraddizione con l’idea di superficie: spessore e invisibilità.65 Eppure siamo vicinissimo a ciò di cui effettivamente si tratta; è una tensione (e forse ben più di que­ sto) tra supporto, piano e superficie;66 è una destabilizzazione dei luoghi di posa del pigmento e del significante. Questa tensione sarebbe esatta­ mente ciò che produce, seguendo Bonnefoi, la funzione di quello che egli chiama sottotenenza pittorica; e Bonnefoi scrive ancora che «la pittura si sostiene e si pensa a partire da un fondo d’invisibilità che è il punto stes­ so d’indivisibilità»...67 Ritorno, quindi, sulle due problematiche, fondamentali, fondamentalmente legate, àÆUno-nell’-Altro e dell’epiphasisaphanisis (diafanità, intensità contraddittoria, alterazione). Forse è strano, forse ridicolo, girare e rigirare intorno alla nozione di una superfìcie che non sarebbe tale. Descriviamo una figura di nodo solo perché il nodo costituisce l’oggetto stesso di questa problematica. «I nodi hanno una priorità logica sulle linee», scrive Lévi-Strauss,68 essi interrogano ancora prima che vengano formulate le domande sul dise­ gno, ovvero sul progetto della pittura. Hubert Damisch, sviluppando l’enunciato-programma di Lévi-Strauss, ha proposto, di questa doman­ da, il paradigma più pertinente: quello della treccia. «Laddove il semiologo si sfinisce inutilmente per mettere in luce le “unità minime” che l’autorizzerebbero a parlare della pittura come di un “sistema di segni”, la pittura dimostra, nella sua stessa testura, che il problema va preso alla rovescia, al livello della relazione tra i termini, non a quello delle linee ma dei nodi.»69 In un certo senso qui viene costruito un paradigma della tensione e della discontinuità sopra citate, e questo avviene nell’elemen­ to stesso del piano. Il quadro sarebbe strutturato come una treccia, «vale a dire come una superficie a scacchiera di cui però l’apparenza disconti­ nua sarebbe il risultato dell’incrociarsi, nello spessore del piano, di strisce continue - una striscia sotto, una striscia sopra».70

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La bellezza di questo paradigma risiede nel fatto che la nozione dell’Ineinander non è pensata, figurata, né come principio di ima confu­ sione o deriva generalizzata né come relazione bi-univoca (l’uno, l’altro). E una triplice relazione: la treccia non è assolutamente un passo a due (questo, ci ricorda Damisch, è un taffettà) ma un passo a tre-, «ossia l’im­ magine di un tessuto lavorato, o tessuto piatto a tre componenti, che obbedisce a una trama regolare: a passa sopra a b che passa sopra a c che passa sopra ad a, eccetera [...]. Come scrive Soury, da cui prendo in pre­ stito la definizione, la trama è un vero tre nel senso che “i tre sono lega­ ti ma indipendenti a due a due”, cosa che ci riconduce al nodo borromeo».71 È sorprendente, inoltre, che questa struttura supponga, nella propria definizione, i parametri della torsione e del dibattito-, un vero tre, si direbbe, «si dibatte» nell’operazione stessa dell’intreccio, per il fatto di supporre una torsione. Ma lo «scambio» dei sotto e dei sopra è tutt’altro che semplice. ^Ineinander incarnato non sarà mai l’aggiunta o la giustapposizione del rosso delle arterie, del blu delle vene e del giallo della pelle; sarà quanto meno la loro treccia e il loro dibattito. Il paradigma che propone Hubert Damisch è, in ultima analisi, un para­ digma geometrico. Ma bisogna vedervi, mi sembra, l’ampiezza husserlia­ na di un fine trascendentale, al pari che formale. Descrive il rapporto di un reticolo e di un piano. Il concetto di piano però (è infatti proprio di un concetto che si tratta qui) sussume sia il dibattito che la torsione. Sarebbe il luogo, legittimo, rigoroso, dell’iscrizione figurale. Il concetto geometrico di piano ammette, in effetti, la profondità, poiché è nel piano che la treccia può operare. Il piano sarebbe quindi come la costrizione, la legittimazione e il luogo di dispiegamento del «dibattito» pittorico: l’idealità geometrica propria del nodo problematico in cui discontinuità e indivisibilità si intrecciano. Esse sono qui, in qualche modo, tessute [parfilées\ - termine caro a Balzac, all’epoca del Capolavoro sconosciuto, per significare l’analisi «filo per filo».72 Direi, inoltre, che un simile concetto di piano intrecciato sviluppa la questione dell’Uno-nelT-Altro attraverso una figura topologica che sa­ rebbe quella dell’Uno-nell’-Uno-nell’-Uno (ecco perché parlo qui del tes­ sere). Quando Diderot inferisce dalla pelle una «tela che si agita», è forse il caso di andare in direzione di questo «dibattito della treccia nel pia­ no», per comprenderne il movimento.

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Il problema dell’incarnato è però anche un problema di pelle. Forse, allora, esso esige un ritorno non tanto al di là, quanto al di qua di que­ st’ipotesi formale. Che ci sia spiegamento e «dibattito» della pelle (la pelle dipinta) solo nel piano lo si capisce. Bisogna tuttavia anche consi­ derare l’intensità dello spatium pittorico quando il punzone del fantasma (fantasma di pelle, fantasma di sangue, incarnato) vi tiranneggia il sog­ gettile. Bisogna considerare il desiderio di metamorfosi per cui il piano stesso vuole farsi pelle, o «carne». Qui si apre una domanda d’ordine fenomenologico. Domanda attraverso cui potremmo forse ripensare ciò che ho chiamato temporalizzazione della treccia. Non fu un caso che Merleau-Ponty, nel cammino verso la nozione di carne, attraversasse proprio le regioni del nodo e della trama, del ritorno e del fondo, del passaggio e dell’apertura, del tatto e della distanza, del tessuto e della differenza; forse non fu un caso che quella pagina, esem­ plare per questo incamminamento, riguardasse anche il colore rosso: «Questo rosso non è tale se non collegandosi dal suo posto ad altri rossi che gli stanno attorno, con i quali fa costellazione, o ad altri colori che esso domina o che lo dominano, che attira o che l’attirano, che respinge o che lo respingono. In breve, è un certo nodo nella trama del simultaneo e del successivo. È una concrezione della visibilità, non è un atomo. [...] Un certo rosso è anche un fossile estratto dal fondo dei mondi immagina­ ri. Se si tenesse conto di tutte queste partecipazioni, ci si accorgerebbe che un colore nudo, e in generale un visibile, non è un lembo d’essere assolutamente duro, indivisibile, offerto completamente nudo a una visione che non potrebbe essere se non totale o nulla, ma piuttosto una specie di stretto fra orizzonti esterni e orizzonti interni sempre aperti, qualcosa che viene a toccare dolcemente e fa risuonare a distanza diverse regioni del mondo colorato o visibile, una certa differenziazione, una modulazione effimera di questo mondo, e quindi meno colore o cosa che differenza fra cose e fra colori, cristallizzazione momentanea dell’essere colorato o della visibilità. Fra i cosiddetti colori e i cosiddetti visibili, si ritroverebbe il tessuto che li fodera, li sostiene, li alimenta, e che, dal canto suo, non è cosa, ma possibilità, latenza e carne delle cose».73 Probabilmente dobbiamo lasciare questo testo allo splendore della sua solitudine. Prendendone però atto e facendone un punto di partenza.

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Merleau-Ponty parlava della carne come dell’«awolgimento del visibile sul corpo vedente, del tangibile sul corpo toccante».74 È un effetto di ritorno e di rivolgimento. Concerne innanzitutto lo sguardo. Concerne tutto ciò che crea l’abisso del quadro: ciò per cui, non appena crediamo di vedere un quadro, siamo di fatto guardati. Il pittore Frenhofer mirava all’incamato: mirava alla pelle al di qua o al di là del piano, come punto estremo del suo «dibattito»; si sentiva guardato dal quadro al punto da attribuirgli il sesso e l’amore; «lei mi ama» diceva del suo quadro; ma, così facendo, non vedeva che a guardarlo era, proprio per questo, solo una «muraglia di pittura». Mirava alla pelle al di là del piano, finì come semplice gingillo di un effetto di lembo [pan],15 che alla fine realizzò, di colpo, vacillando, dicendo «Niente! Niente!», piangendo. Passiamo quindi a interrogare questa famosa «muraglia di pittura». Questo «Niente! Niente!», questo tremito di Frenhofer, queste lacrime e questa specie di follia o di verità pittorica. Avanzo l’ipotesi che un pen­ siero di quello che chiamo l’effetto di lembo potrebbe costituire la chia­ ve di tale interrogarsi. Lembo [pan] indicherebbe qui l’effetto, tanto strutturale quanto fenomehologico, attraverso cui Yextensum del quadra fa di colpo punctum, ma allo stesso tempo spatium - profondità implica­ ta, intensa, temporale. Il lembo designerebbe una capacità di metamor­ fosi del quadro, l’estremità pungente del «dibattito della treccia nel piano»: designerebbe il quadro nel suo effetto di piano pungente. E un effetto paradossale. E qualcosa dell’ordine dell’istante, della scansione, del supplemento, del fantasma. Esso fa da punzone (apertura, buco, macchia, taglio, impressione), il punzone figurale del fantasma nella chiusura del quadro. Ha a che fare con il dettaglio, o piuttosto con il brandello, con la sua folgorazione. Barthes non aveva trascurato di segnalare la «forza di espansione» del punctum.76 Si tratta, quindi, anche di individuare quest’espansione nel lembo di pittura. In quanto effetto metamorfico, il lembo è un al-di-qua (un rovescio, una dislocazione) della metafora; interviene come acqua torbida, o addirittura come cata­ strofe, nell’elemento iconografico della pittura figurativa. In quanto pungente, è ancora un al-di-qua, una «dislocazione locale» del piano e del reticolo; planus in latino indica il piano, l’unito, il chiaro e l’eviden­ te: «ciò che va da sé»; il lembo sarebbe invece un effetto di delegittima­ zione dell’evidenza, potremmo definirlo una violenza, una precipitazio­

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ne disgiuntiva. Ritroveremo questa disgiunzione sotto le specie successi­ ve dell’ostacolo e della profondità, del tattile e dell’ottico, del corpo e del quadro, del desiderio e dell’ideale, del visto e del non-visto, del locale e del globale, e infine della bellezza e del lutto. Riprendiamo il discorso. «Pan [lembo, falda, lato, spigolo, ala], s.m., un tempo significava l’esten­ sione di un corpo in lungo e in largo.» Furetière crede che il termine derivi da pagina,77 «che significa questa stessa estensione». Sappiamo tuttavia che l’etimologia è pannus, cioè: il brandello di un piano. La paro­ la dovette inizialmente oscillare tra tessuto e muro: cencio, straccio, pezzo di stoffa o pezzo di vestito, brano, striscia; verso la metà del XII secolo, in francese compare il paradigma della muraglia. La parola si biforca poi tra piano e volume: «Pan [lato] si dice anche dei corpi che hanno numerosi angoli e diverse facce» scrive Furetière. Da cui questa nuova ed esemplare disgiunzione tra l’idea del davanti e l’idea del den­ tro: si dice «il pan [falda] del suo vestito» spiega ancora Furetière «per significare il davanti del suo vestito», ma «si dice anche che un uomo ha portato qualcosa dentro un pan [lembo] del suo vestito»... Littré, dal canto suo, scrive: «Pan coupé [angolo smussato], superficie che sostitui­ sce l’angolo nel punto d’incontro tra due pan [spigoli] di muri. À pan, tout à pan, locuzione in uso in alcune province con il significato di in pieno, proprio». Pan si lacera infine tra la nozione di un’estensione glo­ bale (il pan [lembo, ala] di muro) e persino inglobante (il pan è una spe­ cie di retino che si tende per la cattura degli animali selvaggi), e la nozio­ ne (forse la nozione iniziale) del locale, del frammento, del pezzo: pan­ nus, il brandello. Effetto disgiuntivo, il pan è un effetto di non-senso. È ciò per cui Ylneinander, l’Uno-nell’-Altro, funziona non come treccia dell’Uno (nell’Uno-neU’-Uno) ma come sua reale e immediata alterazione. Si tratta qui di una categoria forse non tanto topologica quanto temporale, addirittu­ ra evenemenziale; per questo essa richiede la descrizione fenomenologi­ ca, il racconto, perfino la finzione e l’autobiografia, la nostra esperienza della pittura. Che Frenhofer vacilli, che delle lacrime siano venute, improvvisamente, a velare la sua visione, non è un fatto secondario nel nostro discorso, non è un dettaglio. O meglio, qui è in gioco l’efficacia stessa del dettaglio, la sua tirannia; Proust chiamava questo fenomeno

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estasi del tempo, intendendo «isolare, immobilizzare - la durata di un lampo - un po’ di tempo allo stato puro».78 Il termine pan è infatti innanzitutto proustiano. C’è qui, per esempio, la folgorazione di un lutto nel visibile, attraverso la semplice inclinazione di un corpo: chinarsi sul proprio piede, toccare il primo bottone dello stivaletto e, «chino sulla propria stanchezza», riceverne lo choc di una «presenza ignota», scrive Proust, presenza che significa avvedersi della morte stessa, nello scher­ mo delle lacrime.79 L’effetto di lembo [pan] sarebbe innanzitutto l’effet­ to, raccontato da Proust, del celebre piccolo lembo di muro giallo: «Alla fine, fu davanti al Vermeer [...] e - infine - la preziosa materia del minu­ scolo lembo [pan] di muro giallo. Le vertigini aumentavano; lui non staccava lo sguardo, come un bambino da una farfalla gialla che vorreb­ be catturare, dal prezioso piccolo lembo di muro. “E così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo.” Tuttavia, la gravità delle verti­ gini non gli sfuggiva. [...] Si ripeteva: “piccolo lembo di muro giallo con tettoia, piccolo lembo di muro giallo”, crollò su un divano circolare. [...] Era morto».80 Dobbiamo almeno notare che questo colpo del visibile in quanto colpo della sorte avviene come sovrapposizione violenta, ma discreta, e allo stesso tempo mortale, del quadro sul sintomo di Bergotte: incubi, urina (il giallo) e sangue (la vita - la vita che fugge). La pittura di Vermeer è d’altronde, «ai miei occhi», la più sanguinosa in assoluto; il cappello della signora di Washington, il nastro rosso di quella della col­ lezione Frick a New York, il serpente dell’Allegoria della Fede costitui­ scono per me altrettanti piccoli lembi rossi. E davanti alla Merlettaia che se n’è imposta subito l’evidenza:81 un quadro piccolissimo; la vicinanza dell’occhio al piano, come del viso della merlettaia al suo lavoro; occhi aperti e chiusi (magia della raffigurabilità); la testa che s’inclina legger­ mente su questo lavoro, che direi quasi insensato nel momento in cui lo guardo veramente: una macchia blu; inclinarsi malinconico, come asso­ pito, sguardo in dentro, still-Ufe1,i minuscoli lembi del tappeto verde in cui il colore, solo in quel punto, produce luminose goccioline e apre un momento indeciso, liquefatto, che si allontana - tutto un paesaggio è in espansione nel dettaglio. Ma soprattutto l’effetto di lembo, secondo me intensivo, panico, vertiginoso, di questa specie di macchia rossa affasci­ nante che scende, fugge dal cuscino (il nécessaire da cucito) e che si fa

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diluvio sul piccolo paesaggio verde già liquefatto; filo di colore pungen­ te come sangue, perché? Proprio perché non rappresenta niente, non somiglia a niente, quasi niente. Si dirà che «è» un filo, del filo rosso. Vermeer sapeva dare perfettamente legittimazione mimetica a un filo che sfugge da un cuscino, sapeva tessere [parfiler] - ed è d’altronde quello che fece, incontestabilmente, tra le dita della sua stessa merlettaia, dove possiamo dire che «lì il filo è un filo», detto altrimenti: il filo è dipinto «come» un filo e a filo del pennello più fine. Ma qui è tutta un’altra cosa; è molto meno di una mimesi di filo che deborda da un cuscino. È come niente, quasi niente. Sembra della pittura posata allo stato liquido attra­ verso la trama della tela. Ha la sua propria scansione di macchie più pal­ lide, di macchie più purpuree e immobili come una coagulazione. Qui associata a un’altra effusione di bianco. Ritorno e rovesciamento del getto di colore su se stesso, divagazione, gioco irragionevole e rischiatutto di un pennello. Allora questo filo rosso, siccome non rappresenta nulla, avanza verso di me, mi sottomette al suo dettaglio, mi guarda, diventa sangue (intendo dire che produce di colpo una temporalità di metamorfosi), diventa caduta, diventa cielo - un lembo: brandello di piano, filo inidentificabile nella stasi di un attributo, profondità in atto, vertigine colorata che si avvicina. È una fascinazione tesa tra il colmo e la dislocazione dell’immagine. Possiamo figurarci la procedura di questa tensione nell’Ineinander che chiamavo «violenza disgiuntiva»? Non so. Mi arrischierei tuttavia ad affrontarla attraverso il vel («o») disgiuntivo di cui Lacan fece l’operato­ re di una relazione del Soggetto con il suo Altro, dell’essere e del senso relazione che egli chiamava alienazione. Il Soggetto, dice, intrattiene con il suo Altro un rapporto «circolare», fatto di ritorni e di ribaltamenti, fatto soprattutto di «torsioni nel ritorno». Lacan ha identificato questo rapporto come un punzone, appunto, un «bordo funzionante», scrive, dove alienazione e «separazione» si alternano secondo un hattitp domi­ nato dalfmëîuttabüe perdita {aphanisis) di Uno-al-meno dei due membri di un’alternativa. Tutto II racconto del Capolavóro sconosciuto mi sembra posto sotto il sigillo crudele del dilemma e dell’altemativa: crudeltà del genere o la borsa o la vita! - vale a dire crudeltà di una proposizione che suppone in ogni caso la perdita della borsa. «Il vel dell’alienazione è defi­ nito da una scelta le cui proprietà dipendono dal fatto che, nella riunio­

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ne, c’è un elemento che comporta, quale che sia la scelta operata, che essa abbia per conseguenza un né l’uno né l’altro. La scelta dunque è solo quella di sapere se si intenda conservare una delle parti, mentre l’altra scompare in ogni caso. [...] Scegliamo l’essere, il soggetto scompare, ci sfugge, cade nel non-senso - scegliamo il senso, e il senso non sussiste che smangiato di quella parte di non-senso che, propriamente parlando, è ciò che costituisce, nella realizzazione del soggetto, l’inconscio. In altri ter­ mini, è proprio della natura del senso quale viene a emergere nel campo dell’Altro, di essere, per una gran parte del suo campo, eclissato dalla scomparsa dell’essere, indotta dalla funzione stessa del significante.»82 È dunque quanto chiamiamo alienazione e disegniamo:

Così il soggetto non si manifesta nella sfera del senso se non sotto la spe­ cie, decaduta, di un’intrusione violenta, quella di un effetto d’epiphasisaphanisis: avvenimento di non-senso. Forse, seguendo questa figura, fa­ cendola scivolare nel campo della problematica di Frenhofer, si potreb­ be ritrovare uno schema simile, in cui il «soggetto» del capolavoro sco­ nosciuto si manifesterebbe nella sfera del piano (struttura intrecciata, legittimazione dell’evidenza visibile, senso - e non dico significato) solo sotto la specie dell’intrusione: effetto d’epiphasis-aphanisis, effetto di lembo. Il «soggetto» del quadro di Frenhofer, Balzac ce lo indica all’ini­ zio del capitolo, è una donna, una donna chiamata Catherine Lescault. Ma è innanzitutto l’incarnato, una carne del desiderio, un corpo. E una

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pelle «viva» che guarda Frenhofer, che lo ama. Frenhofer si sente il crea­ tore e l’amato di una donna di cui canta, prima di tutto, la pelle: la sua schiena, «questo seno, vedete», la sua guancia, il suo modellato e la sua rotondità, le carni che «palpitano».83 Non parla mai dello sguardo di Catherine (parla dei suoi occhi solo secondo la modalità del «ho credu­ to che») - e tuttavia, dice, «lei mi ama»: a guardarlo è infatti la carne. Così, l’effetto di lembo («muraglia di pittura», «niente, niente») sarebbe come la caduta e l'unico resto possibile di questo delirio della pelle nel­ l’ordine del senso pittorico, o del suo significato, vale a dire nell’ordine del piano:

Il lembo Il lembo «avviene fuori somiglianza» (ritorneremo sulla strana, estrema metamorfosi del piede, nel Capolavoro sconosciuto). È un avvenimento rigorosamente inspiegabile: è infatti profondità, ripiego, «intessuto nelle viscere», benché si manifesti all’improwiso. Il suo spatium non ha legittimazione nell’ordine delì’extensum. Il lembo avviene fuori campo: Frenhofer credette di dover esibire telaio e cavalletto come «prove» dell’esistenza-piano di Catherine Lescault, tanto era sicuro che si vedesse solo un corpo, ima pelle, un incarnato, un desiderio, una vita - quando invece si vedeva solo il brandello di tutto questo, un lembo.84 Questa doppia condizione, fuori somiglianza e fuori quadro, è dovuta innanzi­ tutto all’efficacia della vicinanza nell’effetto di lembo. Qui troviamo un primo parametro della sua violenza disgiuntiva. Frenhofer aveva «scom­ posto strato per strato» i quadri di Tiziano, a cui possiamo immaginare

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si fosse avvicinato come nessun altro avrebbe potuto farlo. Non è un caso: sappiamo che una parte della fortuna critica di Tiziano si è concen­ trata sull’effetto disgiuntivo tra la vivacità85 delle sue figure, un leggen­ dario effetto di pelle nel piano, e il loro rapporto con il non-senso, l’in­ forme, l’inidentificabile. Questa disgiunzione figurale riprende il vecchio problema della disgiunzione tra visione da lontano e visione ravvicinata. Vasari racconta così il paradosso dei quadri di Tiziano: da un lato, erano molto apprezzati per la vivacità delle figure che conferisce loro un colo­ rito «quasi vivo e naturale»; dall’altro lato, era pur vero che le figure della sua ultima maniera86 erano «condotte di colpi» estremamente grez­ zi, «con macchie», «in modo che da vicino erano inguardabili e da lon­ tano apparivano perfette»: il lavoro del pittore, in particolare la sua «fatica», si sottrae a ogni tentativo di vederlo; ed è questa magia a da­ re, secondo Vasari, all’arte di Tiziano patente d’inimitabilità. Quando Abraham Bosse riprenderà questo giudizio, sarà per congiungere il cri­ terio dell’inimitabilità a quello del colorito-carne: i quadri di Tiziano, dice, sono straordinari per «la maniera di dipingere, il cui colorito è così bello, così vivo e fresco, in una parola talmente di carne, che è quasi ini­ mitabile per i copisti».87 Anche Frenhofer si dà come pittore inimitabi­ le. Ma, per un certo verso, egli produce lo sventurato rovesciamento di una simile magia. Innanzitutto crede che avvicinandosi al quadro si veda tutto il suo faticoso lavoro: «Avvicinatevi, lo vedrete meglio. Da lontano scompare. Ecco, vedete? Qui direi che si nota proprio bene».88 In segui­ to, crede che quello che vi si vede sia il tocco stesso del desiderio, un’energia, forse una vita; ma, con la punta del pennello, indica ai due pittori, scrive Balzac, solo «un impasto di colore chiaro».89 In realtà su questa ingiunzione di Frenhofer aleggia un equivoco: che cos’è, ai suoi occhi, che sparisce da lontano? E veramente il lavoro, la fatica, la traccia del procedimento pittorico, la materialità del suo tocco? Questo signifi­ cherebbe, per converso, che Catherine Lescault è a tal punto nell’aria del rappresentato che «non riuscite più a distinguerla da quella che ci cir­ conda»90 come se «l’aria» rappresentata, lo spazio in cui Catherine s’il­ languidisce, sotto le tendine, respirando i profumi esalati, fosse un trom­ pe-l’œil assoluto dell’aria che circonda il quadro. Trompe-l’œil d’aria: caso estremo del trompe-l’œil, forse ancora più della tenda di Parrasio la soppressione della cornice nell’«aria» in cui il quadro è posto. Questo quindi significherebbe che, da lontano, Catherine esiste veramente come

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corpo individuato, fuori campo, fuori piano, «palpabile»; ma, appunto, non bisognerebbe avvicinarsi né «palpare», se supponiamo che da vici­ no si possa ancora «vedere il lavoro», il lavoro della mimesi pittorica, il tocco. Forse non è l’ipotesi giusta. È dunque la stessa Catherine che da lontano scompare? Come se la verità della sua carne, l’incarnato, non fosse accessibile se non in una dimensione della quasi-carezza, o a ogni modo nella dimensione di uno sguardo sempre più vicino? Ritornerò sul frammento di piede intravisto al termine di un movimento progressivo di avvicinamento al quadro. I primi due episodi di questo avvicinamen­ to, in ogni caso, smentiscono le due ipotesi: da lontano, nell’atelier, Porbus e Poussin non vedono niente, cercando il ritratto annunciato «senza riuscire a scorgerlo». Reversibilità, dunque, dell’effetto «classi­ co» di cui parlava Vasari (da vicino non si vede niente, da lontano si vede il «soggetto»). Poi i due pittori si avvicinano, «esaminano» il quadro, scrive Balzac, «spostandosi a destra, a sinistra, davanti, abbassandosi e raddrizzandosi più volte».91 Poussin vedrà soltanto, lo sappiamo, «un confuso ammasso di colori, e delimitati da un’infinità di linee strane, che formano una muraglia di pittura».92 Fin qui c’è allora una doppia perdi­ ta: cercare il ritratto nell’atelier, cercare la carne nell’ammasso dei colori - e non trovare niente se non un lembo. Reversibilità sfortunata che cor­ risponde precisamente alla doppia esigenza del capolavoro di Frenhofer: l’aria e il sangue. Sfortunata, forse, per questa stessa duplicità. La dupli­ cità è però ancora quella del lontano (spazio ottico) e del vicino (la quasicarezza). A ogni modo, questa perdita non fa che raccontare la tirannia dell’effetto di lembo (la muraglia di pittura): a forza di volere la carne stessa, e non il suo disegno, il suo miserabile contorno, Frenhofer otter­ rà solo un brandello, una scaglia - questo qui vicinissimo al seno (che è il solo a vedere) o questo qui, non meno vicino, del piede, che alla fine Porbus e Poussin scopriranno. Bisogna quindi avvicinarsi ancora. Ma ravvicinarsi è una struttura d’alienazione: lontano vel vicino, corpo inte­ grale vel dettaglio del corpo. Il corpo integrale perso in ogni caso. Ma avvicinarsi è assolutamente necessario. Tirannia della vicinanza. Avvicinarsi, epistemologicamente, equivale a slegare il pensiero e la real­ tà: è ciò che mostra Bachelard quando dice che, nella conoscenza ravvi­ cinata, «la realtà perde in qualche modo la sua solidità, la sua costanza, la sua sostanza. [...] Realtà e pensiero sprofondano insieme nello stesso

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niente», e questo niente è per un certo verso il dettaglio stesso. Il detta­ glio, prosegue, «sfugge alla categoria». Corrisponde a un gioco delle «perturbazioni della materia sotto la forma». Nel dettaglio «le determi­ nazioni oscillano»: esso infatti «porta con sé la ricchezza ma [anche] l’in­ certezza. Insieme alle determinazioni delicate intervengono le perturba­ zioni profondamente irrazionali». Questo effetto di turbamento e di non-senso ha la sua condizione d’essere proprio nella differenza degli ordini di grandezza che uno stesso oggetto è suscettibile di autorizzare:93 è ancora il vel, l’o disgiuntivo del vicino e del lontano, di cui certi qua­ dri sconvolgenti ci impongono la necessità e la sublimità sotto la forma del bagliore e del lembo. Avvicinarsi equivale a mettere la visione davanti a un ostacolo. Il vicino fa il gioco di qualcosa di simile a un accecamento nell’ordine stesso della visibilità. Uno scotoma, forse. Lo sguardo ravvicinato non sa «fare la dif­ ferenza», quindi il senso. Tende a esaurirsi, nella sua stessa fascinazione, come un contatto cieco. Il vicino è l’oscuro, oppure la chiarezza obnubi­ lante. «L’ostacolo spaziale ritorna con maggiore evidenza in quella com­ ponente di un dipinto paesaggistico che appartiene al primo piano» scri­ ve Bloch.94 Ma questo effetto di primo piano o di «spazio troppo vicino» mi pare forse ancora più tirannico, più sovrano, nelle parti «non sceno­ grafiche» del quadro - un lontano che fa impasto colorato, per esempio, e che dunque si avvicina, malgrado la prospettiva, malgrado la mimesi, per effetto stesso della sua pesantezza, della sua materialità (penso alla strada color ocra di Giorgione, nella Tempesta). Ciò non ha impedito a Bloch di delineare, in maniera ammirevole, la questione della visione rav­ vicinata come «imprecisione», residuo o «resto d’oscurità proprio all’istante che si vive», e infine come spazio contaminato. Parlavo del lembo come dell’effetto di un niente, o piuttosto di un quasi-niente mimetico. A seguire Bloch, si potrebbe dire che il lembo manifesta in pit­ tura la nozione del non in quanto tale: «Ma la prossimità immediata, nel riferimento al suo “ci”, non è affatto apparsa, anzi è, così il buon senso, il non stesso [...] che come fame e urto iniziale, è sempre giù, in basso, a sospingere in su, per essere continuamente portato fuori verso il suo “che cosa” e così progressivamente predicato. Ancora scontento di tutto quel­ lo che ha raggiunto finora, lascia agitare dialetticamente il suo “no”. In questo modo, il “non” non è affatto un “niente”, come tale questo pre­

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suppone piuttosto un divenire reso vano, un fallimento del determinare. Mentre invece il “non” nell’immediato della prossimità sta sempre all’ini­ zio ed è votato a procedere proprio verso il “non-ancora”, anche se, con la possibilità del “niente”, dopo, alla fine. Essendo così ancora non dive­ nuto, quindi ancora aperto, l’“adesso” continua a bussare in ogni avvio di “ora e qui”, non scorrendo, ma pulsando. Continua a correre pulsando in ogni enunciare, in cui tenta di determinarsi con un esserci più ricco di contenuto».95 Così il problema del lembo (non il Niente, ma il «Niente! Niente!», l’evidenza raddoppiata di un non-senso figurale) sarebbe un avatar pittorico del vecchio e sempre attuale problema del non-so-che: il non, il non-ancora come momento sublime della pittura. Avvicinarsi vuol dire finire per fare il gioco del lontano. «Avvicinarsi fa il gioco dell’allontanamento» scrive Maurice Blanchot. «Il gioco del lonta­ no e del vicino è il gioco del lontano. [...] L’indecisione è ciò che ravvi­ cina vicino e lontano: tutti e due non situati, insituabili, mai dati in un luogo e in un tempo, ma ciascuno per se stesso il proprio scarto di tempo e di luogo.»96 È un gioco che, in quanto fascinazione, dal dettaglio viene a invadere il tutto: è un effetto panico. Effetto «totalitario» del pittorico nel quadro, effetto specifico del Male - parola che sappiamo essere una parola della sorte, della macchia, della maglia, del limite, parola del pit­ torico come tale. «Il Male non sta nello spazio» scrive Henri Maldiney; «lo abita, lo possiede.»97 L’effetto di lembo sarebbe allora simile al ribal­ tamento panico del locale sul globale, del dettaglio sul tutto, nel senso in cui il dettaglio come spatium ritornerebbe sul tutto come extensum per divenirne l’assillo, l’ossessione - l’invasione puntuale e struggente, insen­ sata, del dettaglio nel tutto. Questo rovesciamento del locale sul globale, per l’appunto, non è privo di legami con quello che dicevo della nozione di carne: «L’avvolgimento del visibile sul corpo vedente» scriveva Merleau-Ponty, ma anche «del tangibile sul corpo toccante».98 A partire da Riegl conosciamo il legame fondamentale tra Voptisch e il taktisch, messo in luce grazie alla nozione del piano tattile-. «[...] piano {Ebene) che non è il piano ottico, che il nostro occhio si illude di scorgere a una certa distanza dalle cose, ma quello tangibile suggeritoci dagli accertamenti del tatto; ché in questo momento dell’evoluzione perfino la persuasione dell’individualità mate­

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riale dipende dalla certezza della impenetrabilità (al tatto). Da un punto di vista ottico, questo piano è quello che l’occhio percepisce quando esso si pone così vicino alla superfìcie di un oggetto che tutti i contorni, e per­ fino le ombre che potrebbero servire a indicarci la profondità, vengono a scomparire».99 L'occhio in questo, spazio non «possiede» niente; è come spossessato da un effetto di sguardo alienante, o meglio è come «posseduto». L’effetto di lembo indicherebbe allora il momento-culmìne della funzione aprica, momento in cui la «certezza della impenetrabi­ lità» di cui parla Riegl si trasforma, per così dire, nella torbida evidenza di un brusco avanzare o di un gonfiarsi dello spazio. Momento in cuiJa «suggestione» delle percezioni tattili genera choc, non-senso, addirittura trauma. Deleuze ha avuto ragione a insistere sul fatto che il colore, ben­ ché sembri in prima istanza la risultante di una pura funzione otticaj sap­ pia, nella modulazione, sollecitare una funzione propriamente aptica, che per così dire si aureola «intorno a un punto culminante di visione ravvicinata».100 Ma io direi che non si tratta tanto di punto (un punto sa ordinare, gradatamente, i suoi effetti di «culminazione»), quanto piutto­ sto di una zona - macchia, bagliore, aura, brandello. Questo non vieta che il colore, nella sua estremità aptica, si dia allo stesso tempo come un avvicinamento senza fine del «corpo vedente» di cui parla MerleauPonty, vale a dire una carezza, «asintotica all’integralità della carne»,101 e come un effetto di lembo, di choc, di lacerazione, di stigma, di piano pungente. Il senso del tatto, a sentire Aristotele (ci ritornerò), è ciò senza cui la visione non può avere luogo102 e allo stesso tempo Yeskaton della visio­ ne, il suo limite, ma anche, e proprio per questo motivo, fantasmaticamente, il suo telos\ toccare sarebbe come l’obiettivo (ossessione o fobia) della visione. Le fenomenologie dell’«immagine del corpo» hanno sicu­ ramente messo in luce molteplici dissociazioni tra il senso tattile e il senso ottico. Ma il fantasma, per l’appunto, vi prepara il lètto delle pro­ prie elaborazioni. Simili dissociazioni sono d’altro canto costantemente «confuse», come dice Paul Schilder, dato che Yeskaton, il limite del senso, è quanto di meno evidente ci sia per il senso. C’è separazione e confusione. Una certa qualità dell'Ineinander influenza per esempio la maniera stessa in cui sentiamo la nostra pelle, tra il tattile e l’ottico. Anche il contatto con gli oggetti riserva, paradossalmente, una confu­

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sione dei limiti - benché si tocchi un oggetto anche per cercare la pre­ cisione dei contorni del nostro corpo. L’oggetto sfiorato tende in effet­ ti a «svanire», mentre la pelle è sentita come una strana turgescenza fuori di sé. «L’esterno della pelle non è sentito come una superficie liscia, netta; i contorni sono qui confusi; non c’è demarcazione netta tra il mondo esterno e il corpo. La superficie della pelle può essere parago­ nata in ciò che essa ha d’indistinto a quello che Katz chiama il colore spaziale. (I colori spaziali fluttuano nello spazio senza relazione defini­ ta con gli oggetti.) Altro fatto sorprendente, quando un soggetto con­ fronta con l’immaginazione e le sue percezioni visive quanto sente e percepisce tattilmente del proprio corpo, trova una sfasatura. La pelle sentita è nettamente al di sotto della pelle percepita visivamente. [...] È sorprendente, dal punto di vista psicologico, che, anche se noi sentiamo come distinti l’oggetto, il nostro corpo e la sua superficie, oggetto e corpo tuttavia non si toccano completamente. Non sono fusi. Tra di loro c’è uno spazio distinto. Oggetto e corpo sono psicologicamente separati da uno spazio intermedio. Osserviamo quello che succede quan­ do diminuiamo la pressione su un oggetto: sentiamo sempre meno l’og­ getto e sempre più le dita. Quando le dita sfiorano appena l’oggetto questo è a stento percepito, anche se noi conserviamo una sensazione netta, distinta sulla punta delle dita. Poi appare una sensazione strana, come se la pelle si gonfiasse in superficie e formasse un piccolo cono, come se si tendesse verso l’oggetto.»103 In quanto momento culmine della funzione aptica, ossessione subita, panico del Male, l’effetto di lembo sembrerebbe allora avere a che fare con un’esperienza allucinatoria, o quasi allucinatoria. Non c’è niente. O meglio, il rapporto ne risulta duplice, ritorto, capovolto. In quello che possiamo chiamare l'allucinazione di Frenhofer, immagino un triplice legame dello sguardo («mi ama»: mi guarda) con lo sfioramento, con la carezza («non sembra quasi di poter sfiorare questo dorso con la ma­ no?») e con la turgescenza, discreta ma sconvolgente, ritmica, della pel­ le: «E par di vedere il seno di Catherine sollevarsi nell’atto della respira­ zione [...]. Ma respira, mi pare... Questo seno, vedete? [...] Le sue car­ ni palpitano».104 Qui si tratta forse di esclamazione e Bejahung, afferma­ zioni allucinatorie. Perché allucinatorie? Perché Balzac, perlomeno, induce il suo lettore a non credere a Frenhofer (anche per questo moti­

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vo non si tratta di un racconto fantastico sulla taumaturgia pittorica). Ma in fondo non è così semplice. Chi non crede al seno «vivo» di Catherine Lescault, perché poi dovrebbe credere al suo piede «vivo»? Perché altri due, Poussin e Porbus, lo vedono, si accordano per vederlo? Ma la fol­ lia non è forse epidemica, soprattutto nell’ordine del visibile? Il raccon­ to di Balzac deve una delle sue ricchezze al fatto che si possa credere o meno a chi si vuole. Nell’ordine di un sapere o di una verità gli avveni­ menti dello sguardo sono sempre legittimati solo a metà; lo sono solo nell’ordine della certezza. E per questo che un racconto simile è suscet­ tìbile di ammettere una pluralità di dispositivi semiotici. Le certezze, infatti, sono esibite qui come sospette, sospette di follia per esempio. In un certo senso, la certezza non ha nulla a che vedere con il sapere: è appunto nella misura in cui la certezza è assoluta che si tende a dire che è allucinata. Per quanto mi riguarda, osservo che questi momenti asso­ luti di certezza, nel Capolavoro sconosciuto, sono come i contraccolpi {après-coup e reversibilità) di uno choc d’incertezza figurale (cioè l’effet­ to di lembo). E ciò almeno due volte in modo esemplare. «Muraglia di pittura» dice Poussin: effetto di lembo. Ma avvicinandosi rimane impie­ trito davanti al frammento «vivo» del piede: certezza (quasi) allucinato­ ria; ed eccolo preso interamente dalla figurazione, «più vera del vero», dopo esserne stato spossessato. «Niente! Niente!» dice Frenhofer: effet­ to di lembo. Si siede e piange, ma nello schermo delle proprie lacrime ritrova o recupera la «sua» Catherine, riprende il suo bene, la sua figu­ ra, la sua amata (certezza allucinatoria) subito dopo esserne stato, per un momento, spossessato. L’iper-riconoscimento (l’estremo del «realismo») si dà quindi allo stesso tempo come la coda e come intera reversibilità dell’effetto di lembo. Quest’ultimo, lo si vede, indica in ogni caso il con­ trario del trompe-l’œil, o dell’illusione realista, o dell’allucinazione in quanto tale. E innanzitutto un effetto, intenso, di delusione105 figurale. In quanto momento-culmine o momento-limite, il lembo fa comunque il doppio gioco, per così dire. Quello del piano e quello della pelle; quello della legittimazione del visibile e quello della sua allucinazione. L’effetto di lembo si definirebbe come l’«uscita», fuori dal piano, di un brandel­ lo pungente di questo piano. Vale a dire che si definirebbe innanzitutto come un momento del pas: momento di negazione e, simultaneamente, momento di passaggio. Il lembo deriva ancora dal piano (sebbene ne

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alteri tutta la semiosis) e non-ancora dall’allucinazione (l’allucinazione, qui, della pelle femminile). È in funzione di un simile statuto fenomenologico che l’effetto di lembo è un momento nodale, una violenza disgiun­ tiva, un’aporia in atto, un tempo critico e tuttavia un passaggio. È in quanto tale che esso produce quindi una presenza nel quadro - e sappia­ mo che «con praesens si intende propriamente non “ciò che c’è” ma “ciò che c’è davanti a me”, dunque “imminente, urgente”, pressappoco come l’immagine dell’inglese ahead; ciò che è praesens non ammette differi­ menti (dieculae), non è separato da un intervallo dal momento in cui parlo. [...] Per questo praesens si applica a quello che è sotto agli occhi, visibile, immediatamente presente...».106 Precisiamo. Il lembo sarebbe, in primo luogo, l’imminenza (il non, il non-ancora) di un momento allucinatorio del quadro; quello della certezza che il corpo di Catherine Lescault sia lì davanti a me «palpabile» e che stia «per alzarsi», per esem­ pio. In quanto tale, il lembo sarebbe la condizione di possibilità pittori­ ca di un’allucinazione del soma, il corpo, nel sema, la raffigurabilità. Ma è solo una quasi-allucinazione: il lembo propone solo una qua-simetamorfosi, la pittura rimane pittura, sebbene nella dimensione del colmo o dell’estrema tensione. Il lembo quindi, in secondo luogo, non è che l’estremità di un «dibattito» nel piano: non è più un piano, poiché è il crollo della sua evidenza, della sua unità; ma è ancora qualcosa del piano ad accadere lì, prendendo l’intensità eccessiva di un praesens-, è allora la brusca avanzata del di-fronte, è un puro fare-fronte della pittura stessa. È solo un effetto di pittura: tra l’evidenza della formalità del piano e l’eviden­ za della certezza allucinatoria della pelle. È un avvenimento della pittura: intreccio fondamentale di uno spazio del davanti {praesens), il piano del quadro, e di una temporalità dell’imminenza «precipitata» {praesens), apparente-sparente. Il lembo è sola naturo sintomo della pittura Tra la traccia figurale, dunque sema, e l’esistenza-corpo. soma. Con tutto quello che questa esistenza-corpo supporrebbe di nitidezza allucinato­ ria, una sorta di stereoscopia del quadro, o anche di più, l’universo di un possibile contatto. Frenhofer vedeva la schiena e persino H seno di Catherine Lescault. Impossibile ridurre questo, nell’economia del rac­ conto di Balzac, a qualche astuzia manierista di contrapposto.107 Fren­ hofer credeva o voleva poter fare il giro della sua figura, e solo a un corpo si può girare intorno. Si trattava, letteralmente, di uno sguardo

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abbracciante, tattile, avvolgente. Sarebbe stato necessario poter passare dietro. Ma l’effetto di lembo indica la violenza di una delusione («Nien­ te! Niente!») attraverso cui l’esistenza pittorica del sema finisce per invadere e obnubilare lo sguardo, fargli fronte colorato, soma coloratopiatto. Sì, colorato. Un corpo non si distinguerà mai completamente, in un quadro, dal letto di colore da cui pure trae tutti i suoi effetti mimeti­ ci di distinzione, d’individuazione. In quanto momento-cólmo, l’effetto di lembo rovescia di colpo la nostra progressione fantasmatica verso un corpo che sarebbe talmente davanti da non poter essere guardato dietro. O meglio, la contrassegna negativamente, questa progressione, come arresto, come passaggio sconvolgente. Di colpo, nel lembo, l’esistenza-corpo crolla - fa fronte di pittura e la sua mimesi passa - essa passa al di sotto. «C’è una donna là sotto» esclamerà alla fine Porbus davanti alla muraglia di pittura, come bloccato, fisso davanti a lei (lei: la mura­ glia; ma forse anche la donna, in quanto non la vede). Il fronte colorato, nell’effetto di lembo, è anche un passaggio dall’evidenza figurale, o dal riferimento, a un livello sotterraneo. Questo potrebbe avere qualche legame con ciò che Hubert Damisch chiama il sotto della treccia. A ogni modo, un simile passaggio al sotterraneo è qui solo una conseguenza del modo temporale che l’effetto di lembo propone. Se il non è qui un non­ ancora (un’imminenza, un ritardo, un 'hystérésis) oppure un già-più (un apres-coup di memoria), questo significa che nella sua stessa violenza, nel suo effetto di presenza e di choc, il lembo indicherebbe l’efficacia, nel piano, di un 'invisibilità. Ma un’invisibilità che, come in ogni sintomo, sa creare rapidità, irruzione, avvenimento, sorpresa - quindi incontro. Si tratta proprio di un modo d’essere sintomale. In altri termini, l’effetto di lembo potrebbe trovare un’enunciazione in quello che Heidegger chia­ mava «fenomeno-indizio»: «In questo senso si parla dell’“apparire di una malattia”. Si allude a eventi del corpo che si manifestano e che, nel manifestarsi come questi manifestatisi, fanno da “indizi” di qualcosa che in se stesso non si manifesta. L’insorgere di tali eventi, il loro manifestar­ si, va di pari passo con malesseri che in se stessi non si manifestano. Apparenza come apparenza “di qualcosa” non significa dunque: mani­ festazione di sé, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta, mediante qualcosa che si manifesta. L’apparire è un non-manifestarsi. Ma questo “non” non può assolutamente essere confuso col “non” pri­ vativo che caratterizza la struttura della parvenza».108 L’effetto di lembo

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del capolavoro di Frenhofer si dà proprio come l’annuncio di un corpo femminile che non si manifesta attraverso qualcosa che si manifesta vale a dire una muraglia di pittura. Il corpo di Catherine vi è dunque indicato ma senza che si manifesti come tale (al di fuori di questo fram­ mento, il piede, di cui riparlerò) e nemmeno come apparenza. L’effetto di lembo sarebbe dunque, lo ripeto, il sintomo per S£C£ïïsxxza del soma nel sema pittorico. Sintomo e non più mimesi. Sintomo paradossale come l'isteria* poiché non fa che manifestare, violentemente, un’invisibiUtà alFopera. Tuttavia vediamo come un’invisïBÏÏita simile esista in pittu-' ra: esiste come sorpresa, come imprevedibilità del lembo (ed è per que­ sto che una semiotica pittorica, se questo termine ha un senso, esistereb­ be solo a condizione di pensare, implicare il nodo fenomenologico, temporalizzato, dei suoi parametri es-plicativi). «C’è», es gibt - «una donna» - «là sotto.» È terribile che l’unico dono (Gift: il dono, il veleno) di un corpo si sia realizzato, nel quadro di Frenhofer, come distanza!109 Questa distanza indicherebbe qui la pro­ fondità specchio, una lontananza che si sarebbe però avvicinata. È l’au­ ra. È Yactio in distans. Nietzsche: «L’incanto e il più potente effetto delle donne, è, per usare il linguaggio del filosofo, un effetto a distanza (eine Wirkung in die Ferne, una operazione a distanza), una actio in distans: ma ci vuole appunto - in primo luogo e soprattutto - distanza1.».110 Questa distanza indicherebbe qui la profondità colorata. La «muraglia colorata» fa lembo solo perché il non-senso che essa propone viene da lontano; potremmo dire: avvicinandosi a Poussin e a Porbus, questo non-senso indica loro la distanza da dove proviene. Avvicinarsi al capo­ lavoro di Frenhofer vorrebbe allora dire fare il gioco di una lontananza. Il quadro dava «Catherine Lescault» come lontananza, e non è un caso che Frenhofer per un attimo non sapesse decidersi tra il seppellirsi, per così dire, nell’atelier e il partire oltremare alla ricerca di una «donna irre­ prensibile». Questo dono è anche frutto di uno scambio. «Una donna in cambio di un’altra»111 dice Porbus. Una «vera» donna, Gillette, mai guardata vera­ mente per quello che è, in cambio di una donna dipinta, una donna da guardare, ma che non è veramente, che non riuscirà a esistere. Considerando la schize dell’occhio e dello sguardo (per cui non possia­

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mo guardare niente e nessuno «per quello che è», né dov’è e nemmeno da dov’è), Hubert Damisch ha mostrato, in particolare attraverso gli epi­ sodi dello scambio di firme e della prova allo specchio, la struttura e la fragilità di questo scambio. Questo scambio, dice in sostanza, sviluppa l’operazione stessa della pittura: donna reale in cambio di donna dipin­ ta o, in altre parole, «bella peccatrice» in cambio di «bella scontrosa» ma ancor più sopra contro sotto: il «vero tre» della pittura infatti defini­ sce la struttura stessa dello scambio di sopra e di sotto.112 Direi che si tratta, rigorosamente parlando, di uno scambio perverso: di uno scam­ bio in cui la traversata (per) crea sempre una torsione, un rovesciamen­ to (versio), un dibattito. E il suo senso è ciò che sta al cuore di ogni domanda perversa (nell’accezione analitica): di che sostanza corporea è fatta una donna? O più precisamente, in questo caso: di quale sostanza corporea sarà fatto il quadro dell’incamato assoluto, ossia «vivo», il qua­ dro della pelle, del corpo, della donna-fatta-pittura? Lo scambio o il contratto perverso non è soltanto l’applicazione di una legge (e qualco­ sa che perciò stesso blocca una legge, la sospende); è anche la messa in scena di un rituale che garantisce la ripetizione del desiderio e la sospen­ sione del «colpo finale»: il rinvio infinito di Frenhofer per il compimen­ to del suo quadro tratta esattamente di questo. E infine uno scambio che ha per oggetto, scrive Pierre Fédida, lo «statuto delle apparenze nella rappresentazione»:113 questo concerne la visibilità stessa del corpo, il cor­ po dipinto, in quanto rappresenterebbe il soggetto, per così dire, di un’altra visibilità, quella della donna «ideale». E tale sarebbe la sua voca­ zione rappresentativa. Ciò che viene trascurato, in questo contratto, è il corpo singolare di Gillette, che in qualche modo sparisce dalla scena visi­ bile nell’atelier del vecchio maestro, una volta che la porta è stata aper­ ta. Solo una «figura femminile a grandezza naturale, per metà nuda»114 fa da ostacolo alla ricerca di questa «donna incomparabile» che Poussin e Porbus sono venuti a vedere nell’atelier. Anche se a grandezza natura­ le e non meno semi-nuda di Gillette, non si tratta di Gillette ma di un quadro. Frenhofer dice ai due pittori che essi si trovano al cospetto di una donna ma non parla di Gillette, parla di un quadro. Loro dicono di non scorgere niente, come se la viva nudità di Gillette si fosse metamor­ fosata, fosse diventata un’invisibilità, «dimenticata in un angolo», scrive Balzac, ridotta a un suono, il suo pianto, forse al bagliore discreto di una lacrima, come il lamento di Siringa nella cava del canneto del Ladone.

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Una singola donna sarà sempre trascurata per «la donna incomparabile» che, però, non giunge all’esistenza. Doppia perdita, alienazione. Incon­ triamo questo nuovo vel disgiuntivo anche in Gambara di Balzac: «C’è una melodia che mi invita a seguirla, dice, passa e si snoda davanti a me, nuda e fremente come una bella fanciulla che chiede al suo amante, che li tiene nascosti, i vestiti. Addio, bisogna che vada a vestire la mia aman­ te, vi lascio mia moglie».115 Ma perderà sia l’amante che la moglie. Al pari dell’impossibile interstizio dell’incarnazione, Frenhofer avrà quindi avuto di mira l’impossibile interstizio di un imene: scopico, quasi tattile, quasi carnale. Pittorico e amoroso. Pittorico o amoroso (un o sognato). Ma un tale imene non si scambia, anche se la pittura esi­ ste solo se sottoposta alla condivisione di più sguardi. Ecco perché Catherine Lescault dovrebbe obbedire all'ingiunzione contraddittoria di essere guardata (come quadro) e di non esserlo (come amante). È tra tela (dipinta) e velo (amante nascosta, segreta). E la funzione stessa del tra [.entré] (la separazione, l’interstizio), così come quella dell 'antro [antre] (il sotto, il fondo). Derrida: «L’imene, consunzione dei differen­ ti, continuità e confusione del coito, matrimonio, si confonde con quel­ lo da cui sembra derivare: l’imene come schermo protettore, scrigno della verginità, parete vaginale, velo finissimo e invisibile che, davanti all’hystera, si tiene tra il dentro e il fuori della donna, di conseguenza tra il desiderio e il compimento. Non è né il desiderio né il piacere ma tra i due. Né l’avvenire né il presente, ma tra i due. E l’imene che il deside­ rio sogna di trapassare, di rompere in una violenza che è (contempora­ neamente o tra) l’amore e l’omicidio».116 La perpetrazione è esclusa da questo fragile equilibrio, e il desiderio non potrà mai dire compietamente «il suo nome» (questa è una definizione che dava Lacan per il desiderio perverso, che caratterizza conseguentemente la «precarietà significante»). Frenhofer resterà indeciso, diviso, alienato, perdente. E il movimento del «passaggio delle verginità», che Damisch ha visto bene (come la bella «scontrosa» diventa «vergine» incorporandosi, per così dire, una verginità «viva», quella di Gillette), tale movimento non potrà nulla: tutta questa dialettica, a causa del vel disgiuntivo, è desti­ nata nei fatti a qualcosa di simile a un fallimento. A una perdita, in ogni caso.

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Vediamo che questo «scambio» è in fondo fragilissimo. Si romperà. Non ci sarà «funzionamento» del contratto. Le verginità non si ricollocheran­ no in un dispositivo omeostatico. Frenhofer perse la speranza di andare in Asia alla ricerca della «donna irreprensibile»; anche se lo sguardo di un’Altra donna (genitivo oggettivo) gli era necessario per proteggersi dallo sguardo di Catherine (genitivo oggettivo e genitivo soggettivo). Ma anche l’altra soluzione, lo scambio «d’una donna per un’altra», lo porta alla disperazione: è qui lo sguardo dell’Altro (genitivo soggettivo) che uccide lo sguardo di Catherine (genitivo soggettivo e genitivo oggettivo). Pittura vel piacere. E non è il fallimento di un quadro, di un’opera sin­ gola; è un fallimento ontologico, fallimento per ciascuno: morte del desi­ derio per Frenhofer (e morte del quadro, morte del soggetto, morte tout court)-, morte dell’amore per Nicolas Poussin e per Gillette; morte del sapere per il pittore Porbus. Il capolavoro sconosciuto avrà dispiegato la struttura di uno scambio e di un desiderio perversi, ma ne avrà soprat­ tutto raccontato il fallimento, o piuttosto il decadimento. L’esercizio della pitti ira avrebbe dunque a che vedere con questa strut­ tura di perversio che non si fissa mai completamente in un contratto, in un dispositivo, ma che si rilancia sempre dalla propria rottura o aporia, come desiderio, quando non si annienta completamente nel suicidio? Balzac, in ogni caso, propone qui una sorta di parabola dell’alienazione pittorica: donna vel quadro. Con la donna che, in ogni caso, sparisce. «Siete davanti a una donna, e cercate un quadro»; ma che provino a cer­ care una donna, non troveranno altro che una muraglia di pittura. Non si possono vedere la donna e il quadro: è per l’appunto, dice in sostanza Hubert Damisch, ciò che rende unita la pittura contro ciò che ne costi­ tuisce il soggetto.117 Questa disgiunzione sarebbe strutturale, sussumererebbe le opposizioni con cui Balzac, dal canto suo, diede conto di quei «drammi dell’arte» in alcuni suoi racconti - desiderio vel piacere, idea vel fatto, bellezza vel passione... Solo in due circostanze, in Balzac, il vel disgiuntivo non produce destino, costrizione, del desiderio nell’arte: è, innanzitutto, quando la donna fa del proprio corpo un’opera. In questo caso il sema può appiattirsi sul soma senza perdita: il desiderio «turba» certo la voce della Tinti innamorata del principe Emilio, ma questo tur­ bamento resta sublime, mentre «fa sbandare» completamente quella del tenore genovese che non fa altro che «sbraitare» la propria passione.118

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La seconda circostanza delle disgiunzioni riconciliate, in Balzac, concer­ ne Raffaello, non tanto lodato come il più grande degli artisti quanto presentato all’intelletto come «un colpo di fortuna del Padre eterno»: un colpo di fortuna, vale a dire un colpo non mirato, un caso insensato. La «Forma» e l’«Idea», scrive Balzac, sono state fatte «nemiche, altrimenti nulla vivrebbe». Raffaello riconciliò proprio Forma e Idea: da questo punto di vista, sarebbe stato non solo un miracoloso colpo di fortuna, ma anche una vera e propria mostruosità ontologica: Forma e Idea mostruosamente riconciliate nella sua opera. Si noterà che, appena prima di Balzac, Delacroix, nel suo saggio su Raffaello, aveva proposto un’inversione più sottile dei topoi riguardanti la figura leggendaria di Raffaello: la «perfezione» della Forma e dell’Idea non è tale; questa «mostruosità» ontologica sarebbe solo un supremo grado del fascino o della grazia, qualità divina o qualità femminile, qualità velante per eccel­ lenza: «Raffaello non ha raggiunto la perfezione più di un altro; e nem­ meno ha, come è opinione comune, riunito da solo il maggior numero di perfezioni possibili; ma lui solo ha portato a un così alto grado le quali­ tà più vivide e quelle che esercitano maggior presa sugli uomini; un fasci­ no irresistibile nel suo stile, una grazia veramente divina, che respira dappertutto nelle sue opere, che vela i difetti e che fa scusare tutte le arditezze».119 Frenhofer fu un genio ma non un mito vivente, né un pit­ tore fatto donna; ontologicamente parlando, fu la sorte comune del pit­ tore a fomentarne la sventura. Ontologicamente parlando, infatti, «la donna» irreprensibile di cui parla Frenhofer è l’Euridice del pittore. La donna irreprensibile (incarnato, sguardo, imene) è in realtà la donna inawicinabile. Non è che essa sia lontana nello spazio: Frenhofer sa bene che non la troverà in Asia più che in Turchia o in Grecia. Questa donna, lo sappiamo, è lì proprio al di sotto del lembo di colore. Ma soprattutto, questa donna è inawicinabile perché il suo allontanamento è temporale. La sua distanza è un’immi­ nenza immobile (il perpetuo «sta per alzarsi») ed è allo stesso tempo l’oblio. È rigidamente designata da Frenhofer come P«introvabile Ve­ nere degli antichi», di cui già preannuncia l’esistenza che essa avrà, per sempre, nel suo quadro, agli occhi di Porbus e Poussin: «tanto spesso ricercata, e della quale noi rinveniamo a malapena qualche bellezza spar­ sa», vale a dire qualche frammento, qualche bagliore. La bellezza, la bel­

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lezza-Euridice, crea disgiunzione tra il tutto e le sue parti: questa bellez­ za, secondo il mito, deve essere piena o non è tale. Quindi (secondo la storia) essa non è tale, persino in quel bagliore, il piede che Porbus e Poussin scopriranno, persino se lascia stupefatti. La bellezza dell’«introvabile Venere» inesiste in questo piede: non esiste perché è troppo lon­ tana, rovinata, sepolta (tutta la ricerca del pittore consisterà nel dissep­ pellirla, ma ricoprendo il quadro, strato dopo strato). Essa poi esiste nel­ l’incontro traumatico con il dettaglio. Ma sparisce nello stesso momento sotto la «muraglia di pittura», che è la muraglia della pittura. Tale è l’ef­ fetto, sublime e disperante, del dettaglio (il piede) e del lembo, effetto doppio che sottolinea bene, tra l’altro, la ricchezza della parola bagliore [éclat].120Meteora di bellezza, lavoro dello sparso, dell’impari, della spa­ rizione in un caos. Tale bagliore costringerà però ogni personaggio, pro­ babilmente ogni pittore, a desiderare ancor più questa bellezza da sem­ pre a lutto. «Oh! Pur di vedere anche solo per un attimo, una volta sol­ tanto, la natura divina, l’ideale insomma, cederei ogni mia fortuna, ma verrò a cercarti nel tuo limbo, beltà celeste! Scenderò come Orfeo nel­ l’inferno dell’arte per riportarne la vita.»121 Scendere negli inferi per trovare la «donna incomparabile» e per ricon­ durla alla luce, al quadro, alla vita, è proprio questo l’ultimo appello e l’ultimo gesto del pittore Frenhofer. Ma sappiamo che perderà tutto: la donna, il quadro, la propria vita. Cercava l’estremo dell’arte, questo «punto profondamente oscuro verso cui l’arte, il desiderio, la morte, la notte sembrano tendere», come scrive Maurice Blanchot a proposito del gesto di Orfeo.122 Lopera sarebbe consistita nel dare figura e luce a questo estremo; ma questo estremo è la notte stessa. L’opera sarebbe consistita nell’astuzia e nel sotterfugio, nella ricerca wie absichtslos, «come senza scopo».123 Attraverso Orfeo «il mito greco dice: si può produrre un’opera solo se l’esperienza smisurata della profondità [...] non è perseguita per se stessa»;124 Frenhofer, come Orfeo, ha avuto la sventurata impazienza di ricercarla (questa profondità, questa donna) per se stessa; nella sua fedeltà all’esigenza estrema, rifiutò il sotterfugio dell’opera. Nel momento in cui si abbandonava alla più estrema ispira­ zione, grazie a cui rimane geniale, si abbandonava anche a ciò che Blanchot chiama «la prova dell’eterna inoperosità».125 Fare l’opera sarebbe stato il compimento del contratto; uno scaltro compromesso

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tra pittura e desiderio, quadro e donna: «Conserverai [tu garderas] l’opera solo a patto di non guardare [tu ne regardes] la donna», tale è la legge che Orfeo-Frenhofer credette di poter oltrepassare. Guardare la «donna incomparabile» ed essere guardato da lei fu al contempo l’estre­ mo e unico oggetto del suo desiderio e della sua opera. In questo modo però la sapienza del pittore Frenhofer venne travolta, cadde nella dismi­ sura e nell’impazienza (dieci anni non sono niente rispetto a quello che desiderava). Poussin dal canto suo, malgrado la sua giovane età, sembra più consapevole di questa specie di esigenza del sotterfugio: sa fare la differenza, lui, tra donna e quadro, ed è d’altronde ciò che constatava amaramente Gillette: «Desideri che posi [...]. I tuoi occhi non mi dico­ no più nulla. A me non pensi più, anche se mi guardi».126 Poussin quin­ di non ha cercato l’impossibile riconciliazione di occhio e sguardo, ecco perché oggi i nostri musei possono essere pieni dei suoi capolavori. E possiamo immaginare perché ci turbino tanto, questi capolavori di Nicolas Poussin (e in particolare lo scambio stupefacente tra gli sfon­ di-carne, al di sotto, e i rivestimenti-cielo, al di sopra, scambio colora­ to degli strati dove impazzisce ogni nozione di una figura «dentro» uno spazio o «sopra» uno sfondo di paesaggio, per esempio), ci turbano tanto perché si sono sottratti, pur ricordandosene, all’esigenza e al fal­ limento dello sconosciuto pittore Frenhofer. «Anche davanti al capola­ voro più certo, in cui brillano lo splendore e la decisione del principio, ci accade d’essere anche di fronte a ciò che si spegne, opera che è ridi­ ventata improvvisamente invisibile, che non è più là, non è mai stata là. Questa eclissi improvvisa è come il ricordo lontano dello sguardo d’Orfeo, il ritorno nostalgico all’incertezza dell’origine.»127 L’effetto di lembo, effetto dell’incertezza in pittura, momento del «Niente! Niente!», sarebbe forse anche un effetto di memoria, nell’opera, del­ l’inoperosità radicale. Insisto: l’inferno del pittore, la profondità in cui deve scendere per ri­ portarne la vita, il movere, è innanzitutto un colore. È l’incarnato. In quanto colorito d^Ineinander e dell’«animazione interna», l’incarnato obbliga il pittore a un viaggio, iniziazione o insuccesso, nei retroscena infernali del quadro. L’incarnato tormenterà il pittore come un inferno, Diderot non smette di ripeterlo, e Balzac offrirà il simmetrico di questa proposizione affermando come se fosse evidente: «Il diavolo, lo sapete,

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è un gran colorista».128 Ma sappiamo anche che questo inferno fu, forse originariamente, femminizzato: il colorito sarebbe ogni volta una sorta di femminile singolare del quadro, la sua stregoneria; nei dibattiti sul colo­ rito del xvil secolo, per esempio, si vedeva un tal difensore parlarne come della «bella incantatrice», mentre lo spregiatore sbeffeggiava que­ sta «amante, civetta e frivola»129 che è il colore. In effetti, l’incarnato sarebbe il colorito infernale per eccellenza per il fatto di non essere tanto il predicato colorato di una precisa sostanza localizzata quanto il feno­ meno-indizio del movimento stesso del desiderio sulla superficie tegu­ mentaria del corpo. Movimento e desiderio costituiscono per l’appunto l’estremo, l’oltre, l’ideale, l’inferno della pittura. L’incarnato sarebbe a ogni modo una sorta di dover essere del colorito: sarebbe il coloritoEuridice da cercare nei retroscena (in cui, puro movimento del deside­ rio, è ancora invisibile, diafano in quanto colorito «in potenza») e da ricondurre alla superficie visibile del quadro. I pittori hanno sognato l’incarnato attraverso ciò in cui consiste, secondo loro, l’indizio corpo­ reo di ogni desiderio. L’incarnato deriva dal rosso, vale a dire dal sangue, materia per eccellenza, ma anche dallo sguardo, atto dello spirito e mezzo del desiderio; Lomazzo sosteneva che i rossi sono all’origine dello «spirito» e dell’«acuità» dello sguardo: causano spirito, acutezza nel guar­ dare.13° L’incarnato è d’altra parte caratterizzato dalle qualità tattili della pelle stessa, quali la grassezza o la tenerezza-,131 come sappiamo, è stato spesso chiamato la voce della carne. Sarebbe una specie di colorito-carezza, e proprio per questo «significa» il piacere amoroso, amoroso piacer, si legge nei trattati, o meglio, desiderio d’amore, destre d’amoreP2 Ma fa più che «significare», a sentire Dolce nella sua ammirevole lettera ad Alessandro Contarmi, sull'Adone e Venere di Tiziano: l’incarnato, que­ sto mitico incarnato, sarebbe come la mescolanza finalmente possibile di tutte le disgiunzioni in cui la pittura s’inabissa e resta incompiuta. Dolce, per questa mescolanza, scrive: mistura difficile, e più sotto: unione.13ì In questa unione mitica, la carne (dipinta) dovrebbe diventare veramente amabile, così amabile da dimostrare allo stesso tempo un sangue reale e regale, sangue Reale. Sono il reale e la regalità del desiderio nei nostri corpi. E questo desiderio arriva persino al punto di fare la mistura diffici­ le dei sessi: l’uomo e la donna in un solo corpo. Adone è infatti incarna­ to e vivo, pieno di desiderio (anche se fugge), solo facendo prova di una

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bellezza che partecipa della donna che lo tocca: gratiosa bellezza, che par­ ticipaitdo della femina... Questa problematica della mescolanza è una problematica della sublime impurità, direi: il non so che1}4 di cui parla qui Dolce è l’indizio di un ultra-sesso, di un’ultra nudità. L’incarnato, come il desiderio, si dispiega e si realizza nell’ordine di un’assolutezza che ammette, e che addirittura esige, il vizio, il difetto, la macchia. In questo modo, la Venere del quadro di Tiziano, sulla quale Dolce continua la sua lettera, questa Venere di cui diremmo che i sentimenti e i sensi sono «vivi» solo se provengono da lei e da lei sola, questa Venere «di una bel­ lezza non solo straordinaria ma divina», questa Venere si segnala in ulti­ ma istanza per una chiazzatura: la macatura della carne causata del sede­ reP 5 È esattamente qui, in questa macchia, che il colpo, scrive Dolce, sembra provenire non tanto da un pennello quanto dalla «mano stessa della natura». Macchia e difetto nel perfetto candore di una pelle, mac­ chia come indizio stesso del vivente, del movimento del sangue, difetto come indizio del desiderio (il desiderio infatti non ha la mitica pienezza del piacere: il desiderio è la dialettica stessa del difetto, della mancanzaa-essere). Marbre veiné in italiano si dice marmo macchiato: la macchia, come fenomeno-indizio del movimento dell’umore, attraverso vene e arterie, nel suo effetto sulla pelle. L’incarnato quindi non solo significa il corpo, lo indica: dall’icona all’indice, un ostacolo decisivo è superato, il che permette a Dolce di fare un ultimo rilancio rispetto all’efficacia dèi desiderio nel colorito. Il fenomeno di macchia e d’incarnazione è così evi­ dente che Dolce racconterà come esso sia suscettibile di un effetto di rovesciamento sintomale sullo sguardo, sul desiderio* sull’umore, sul corpo intero dello spettatore di una siffatta Venere: per quanto sia raf­ freddato dagli anni (affreddato dagli anni), per quanto sia secco o duro per complessione naturale (duro di complessione), colui che la guarda sen­ tirà tutto il sangue commuoversi, sconvolgersi nelle vene (commoversi nelle vene tutto il sangue). Inoltre, una tale bellezza della macatura viene a penetrare nel midollo del giovane uomo (penetrar nelle midolle d’un gio­ vane): e questi per finire non potrà che produrvi l’eiaculazione della sua propria macchia (... ch’ei vi lasciò la macchia).136 Il paradigma di un qua­ dro che farebbe corpo implica dunque necessariamente quello di un corpo che gli «risponde» con il proprio sintomo o avvenimento, erotico e «figurale» allo stesso tempo: circolazione esemplare dell’umore e del pigmento tra soggetto dipinto e soggetto-voyeur. Si tratta qui, come sap­

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piamo, di un antichissimo topos della letteratura sull’arte, ma di cui forse bisognerà ora ripensare le premesse. Balzac in ogni caso lo riprende in certa misura a modo suo. Scrive che l’arte «versa fiotti di porpora nell’anima». I protagonisti degli Studi filo­ sofici si domanderanno se «attacca il sangue» o se «domina le fibre», oppure entrambe le cose.137 Il sangue appare a ogni modo come una sostanza fondamentale nell’iperfisica balzachiana della spettacolarità, della spettralità e del «ripiego» della forma. Non possiamo evitare di pensare qui alla specie di iperfìsiologia del sangue che Michelet svilup­ pava, significativamente nella stessa epoca, a partire dall 'Introduzione alla Storia universale, nel 1831, fino a La donna (1860) e a II mare (1861). Roland Barthes ne ha presentato i temi principali in maniera esemplare: il sangue come «sostanza cardinale della Storia»; il sangue come sostan­ za-femmina e, in quanto tale, sostanza di un «al di là della Storia»; il san­ gue come sostanza-desiderio, verso la quale si dirigerebbe tutta la «sacra indiscrezione» di Michelet, il suo erotismo di fondo; il sangue, dunque, come sostanza-sguardo; come «ultra-nudità», scrive ancora Barthes; co­ me sostanza-bellezza («la donna antica era un corpo» diceva Michelet, «nelle lingue barbare rosso e bella sono sinonimi»); e infine, in questo vicino al diafano balzachiano, «per Michelet il sangue non è assolutamente un elemento biologico chiuso, di proprietà di tale o talaltra per­ sona che possederebbe il suo sangue, così come abbiamo degli occhi o delle gambe. E un elemento cosmico, una sostanza unica e omogenea che attraversa tutti i corpi, senza perdere niente, in quest’individuazione acci­ dentale, della propria universalità».138 Il sangue circola nel corpo a se­ conda della singolarità delle sue emozioni, dei suoi desideri; ma il san­ gue circola anche da corpo a corpo, in maniera più sottile, e qui risiede l’universalità del suo passo, del suo passaggio nell’intero visibile. Le modalità del sanguinante non sono mai tanto conturbanti e propizie al desiderio come quando attraversano i corpi, appunto, quando produ­ cono actio in distans. Questa spettralità del sangue è esemplare, in Michelet, in ciò che lui stesso, ne II mare, chiama «fiore di sangue»: è il corallo. L’esemplarità consiste proprio nel passaggio, che scopriamo qui, dalle qualità del corpus (il sanguinante della carne) a quelle dell 'opus (il sembiante del gioiello, la pietra lavorata, ma viva): «I colori sopravvivo­

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no per poco. La maggior parte si scioglie e svanisce. Loro stesse, le madrepore, lasciano di sé solo la propria base, che si direbbe inorgani­ ca, e che è invece solo la vita condensata, solidificata. Le donne, che hanno questo senso molto più fine del nostro, non si sono sbagliate; hanno sentito confusamente che uno di questi alberi, il corallo, era una cosa viva. Da qui una giusta preferenza. La scienza potè ben ripetere che si trattava solo di una pietra; poi solo di un arbusto. Vi avvertivano qual­ cos’altro. “Signora, perché preferisce a tutte le pietre preziose quest’al­ bero dal rosso incerto? - Signore, si addice alla mia carnagione. I rubini rendono pallidi. Questo, opaco e meno vivo, fa invece risaltare la bian­ chezza.” Ha ragione. [...] "... questo è tenero. Ha la tenerezza della pelle, e ne conserva il tepore. Appena lo indosso due minuti, diventa la mia carne e parte di me. Non me ne distinguo più.”».139 Questa magia tattile e colorata della parure di corallo conferma un equivoco tra corpus e opus che l’incarnato, nella pittura, mette in opera come uno dei suoi principali fantasmi. L’incarnato, che è pelle e allo stesso tempo sangue, sarebbe il colore stesso dell’essere-guardato di un corpo, in quanto desiderato. L’erubescenza giunge alla pelle (visto che il sangue vi affluisce dal fondo verso la superficie) quando lo sguardo, come si suol dire, «trapassa», trapassa la pelle, vuole scendere nel pro­ fondo. L’incarnato sarebbe, come la spettralità balzachiana, una malat­ tia della posa, mentre la posa costituisce un momento della dialettica del desiderio. Il desiderio comprende però i propri momenti d’antite­ si: il pudore, in particolare, gli è sotteso. Il pudore, come momento d’erubescenza, manifesta infatti proprio ciò che vorrebbe nascondere. Ogni desiderio di vedere impazzisce, si esaspera, davanti al pudore, e ogni pudore impazzisce, si manifesta, davanti o nel desiderio. Arros­ sisce. Nel linguaggio medico si dice tradizionalmente erubescenza e, fino al XIX secolo compreso, erythema pudicum. Ho già osservato che il racconto del Capolavoro sconosciuto si organizza secondo un’inflessi­ bile scansione per ogni momento d’erubescenza: momenti del dubbio o della decisione, momenti del pudore o del desiderio, momenti del­ l’amore o dell’odio. Gillette, guardata da Frenhofer, abbassava gli occhi mentre «un pudico rossore le coloriva il volto», fino a che le la­ crime non protestassero, scrive Balzac, «contro la violenza al suo pu­ dore».140 Il rosso del pudore diventa qui il rosso della protesta, del ri­

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fiuto, presto dell’infelicità e dell’odio: «Uccidimi!» dirà infine. «Già credo di odiarti.»141 Possiamo suggerire un paradosso: è forse possibile che in pittura ogni «modello» (ma il termine è scelto male, preferirei dire vedette, nel senso verbale del termine) assecondi, tra desiderio e pudore, quindi in un arre­ sto del desiderio, una funzione d’odio? In ogni caso è possibile che asse­ condi un rovesciamento (reversio) del desiderio nel suo contrario: sap­ piamo d’altronde come la nullificazione del desiderio sia parte integran­ te del desiderio perverso, quando non si risolva a nullificare il proprio oggetto (in questo risiede tutto il suo dubbio, tutto il suo dramma).142 Potremmo spingerci fino a introdurre tale paradosso nella stessa sintesi hegeliana: questa, infatti, attribuisce il senso ultimo del colorito alle virtù dell’incarnato: colorito, abbiamo visto, della carne e del desiderio, colo­ rito della venustà - mentre l’ultima «caratterizzazione del soggetto» pit­ torico, secondo Hegel, si situa piuttosto nelVideale di un «amore puro», vale a dire puro rispetto a qualsiasi desiderio: è l’amore materno della Vergine per il Cristo-bambino.143 Anche qui Raffaello offre a Hegel il modello in cui una tale mistura difficile si realizzerebbe riconciliando l’inconciliabile: ideale e desiderio, interiorità ed esteriorità, universalità e singolarità; Tiziano resta invece colui a cui dobbiamo il «giusto mezzo tra lo schizzo e l’imitazione fedele della natura», vale a dire tra il movi­ mento reale, l’«impressione individuale», e la legge fisiognomica genera­ le dei corpi.144 Bisogna tornare su questa nozione di pudore che costituisce un momen­ to cruciale in tutte le suddette tensioni o antitesi: il pudore, infatti, indi­ ca proprio l’avvenimento antitetico di una pulsione scopica «trattenuta» attraverso il suo rifiuto, ma da esso confermata, in un vacillamento (e Gillette, arrossendo, trema, vacilla) del desiderio e del ritrarsi dall’ogget­ to del desiderio. Ma questo ritrarsi, ripeto, è necessario e addirittura definisce il desiderio come tale. Il pudore sarebbe questa qualità melan­ conica del corpo guardato, che resiste al perverso desiderio di vedere (vedere in fondo, vedere la sostanza), ma lo fonda e lo esaspera, resisten­ dogli, senza violenza, con il proprio ritirarsi, la semi-dissimulazione. Di questa dialettica, Vico aveva fatto per l’appunto una «sostanza-storia», come fece Michelet, l’abbiamo visto, per l’umore-sanguinante. Il pudo­

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re, secondo Vico, è il primo dei quattro castighi conseguenti alla caduta adamitica. Esso genera gli altri tre (infamia, curiosità e industria) ed è pensato, allo stesso tempo, come fonte di tutte le virtù. Le virtù umane infatti sono nate dal castigo. Il pudore è inoltre descritto da Vico come ciò che fa la «forma dell’umanità», dato che la sua materia è la libertà. Esso è fondamentalmente la «coscienza dell’errore».145 In quanto tale, il pudore è il paradigma antropologico in cui si originano il diritto natura­ le e la religione stessa: il pudore è difatti ciò per cui l’uomo tenta di ricor­ darsi della propria «semplicità perduta»; in questo modo esso dà fonda­ mento, nel ricordo, alla colpevolezza, al timore e, in particolare, al timo­ re di Dio. Il pudore è definito da Vico soprattutto come «la coscienza del mal fatto» (Pudor est prave facti conscientia): «le cose finite» - dice generano il desiderio e la sproporzione, la colpa, Yhybris; il pudore sarebbe la qualità per la quale «il genere umano è stato educato a nascondere le turpitudini e le oscenità della vita; e ad arbitrari e decernere gli eccessi.. .».146 II soggetto pudico è quindi Yarbiter della sproporzio­ ne; tuttavia «arbiter si definisce propriamente chi guarda; e colui che, guardando, giudica una cosa, viene detto arbiter»: ecco perché il pudo­ re realizza di già questa mistura difficile che consiste nel riscattarsi della curiosità (la fatale curiosità adamitica) con la curiosità: curiosità che per­ mette all’uomo, scrive alla fine Vico, di riscattarsi esattamente attraverso ciò che l’ha fatto peccare.147 C’è allora un nodo, nel pudore, in cui si coniugano la «coscienza» (cioè il rifiuto) «dell’azione perversa» e allo stesso tempo l’accettazione, il coinvolgimento in ima messa in scena della colpa, che è solamente la sua curiosità, curiosità perversa in senso stretto: la libido spectandi esiste accanto al sentimento della sua colpevolezza o della sua dismisura. E la forma stessa di quello che Freud chiamava Verleugnung, la negazione: «Lo so, ma comunque» - e pudicamente arrossisco, abbasso gli occhi ma, arrossendo, desidero, rimango curioso, guardo comunque un po’. Il pudore non è la sola qualità del soggetto guardato: malattia della posa, ne condiziona tutta la struttura, tutte le parti in gioco; non è tanto l’even­ to corporeo di un segreto tenuto per sé da parte di qualche individuo sottratto agli sguardi, quanto il fenomeno-indizio di un segreto sullo scambio degli sguardi.

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Proprio poco prima di paragonarsi disperatamente a Orfeo, Frenhofer - conversando con «il proprio spirito», come dice sottovoce Porbus -, invoca dunque «il signor Pigmalione». Somiglierebbe dunque a questi, per invocarlo così? Probabilmente, e almeno su questo punto: la sua ricerca della donna «irreprensibile», come dice, si nutre di un odio, tor­ bido ma assoluto, per ciò che chiama «prostituzione» del corpo guar­ dato; allo stesso tempo esso comporta l’esigenza, non meno assoluta e non meno torbida, se non proprio di una verginità, almeno di un pudo­ re del corpo guardato (visto che uno sguardo «non autorizzato» insoz­ zerebbe la virtù di Catherine Lescault). Tutto il racconto di Pigmalione prende le mosse, nelle Metamorfosi di Ovidio, da un odio e da un’esi­ genza simili. Bisogna seguire il filo di questa similitudine; è infatti pos­ sibile che essa ci offra l’unità dei rinvii balzachiani, delle loro estensio­ ni, delle loro arborescenze fittizie o teoriche. E per aver visto (viderat) e odiato l’impurità delle Propètidi, «le prime a quanto si dice a prosti­ tuire le loro grazie», che Pigmalione viveva senza compagna; Ovidio insiste: celibe, sine coniuge caelebs vivebat. Questo odio è solo la conse­ guenza di un ideale e di un’esigenza estremi che si ricollegano per l’ap­ punto alla qualità di pudor: Ovidio racconta come, per esserne state prive, le Propètidi non riuscissero più ad arrossire, perché il sangue del pudore gli si era indurito nelle vene e non gli saliva più in volto; ed è così che le Propètidi, «breve era il passo», erano state metamorfosate in pietre.148 Grazie alla sua arte felice e meravigliosa (mira feliciter arte), Pigmalione dà luogo all’esatta inversione di questo castigo «figurale» delle Propètidi, visto che il corpus di queste donne era diventato opus. Pigmalione scolpisce l’avorio virginale, «bianco come neve», e gli dà forma (formamque dedit): forma di donna - ma Ovidio si trattiene dall’utilizzare già la parola corpus - «così bella che nessuna può nascere più bella». «L’aspetto è quello di una vera vergine», virginis est verae fades, e, seguendo il testo, dovremmo forse precisare: è l’aspetto di una vera vergine. «Diresti che è viva e che, se il pudore non la trattenesse, vorrebbe muoversi. Tanta è l’arte, che l’arte non si vede», ars adeo latet arte sua.149 La bianchezza e l’immobilità di questo avorio indicherebbero quindi già la qualità di pudore. E persino Pigmalione si infiammerà per questo pudore. Per la sua opera concepisce amore, scrive Ovidio (operisque sui

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concepit amorerti), cade in completa adorazione di questo opus a cui ha conferito quasi tutte le qualità di un corpus. Il suo desiderio è mosso dallo ieratismo di questo quasi, tanto quanto dalla bellezza dell’aspetto, della facies. La bellezza provoca, chiama; il pudore trattiene, ovvero esa­ spera il movimento verso la bellezza. Il pudore, il pudore del quasi, il riti­ rarsi, l’indecisione, la precarietà significante dell’oggetto-corpo, la sua natura catalettica, l’imminenza immobile, in lui, di ima vita: tutto questo fa qui nodo nel desiderio. Ovidio ha drammatizzato superbamente que­ sto quasi per il quale Pigmalione si agitava tanto, non solo nelle irresolu­ tezze del corpus e dell’op«*, del verus e del simulatus, ma anche nel fatto che per raccontare tutto «quello che» desiderava Pigmalione è impiega­ to solo il genere neutro; Ovidio ha inoltre omesso i complementi (d’og­ getto, di fine) nel passo in cui si enuncia una specie d’illimitazione di ogni statuto univoco dell’oggetto adorato: Oscula dat reddique putat loquiturque tenetque, le dà baci, e gli pare che gli siano resi, e le parla e l’abbraccia...150 Questo volgere al neutro e in ellissi il soggetto o la sostanza verso cui si rivolgono gli sguardi, le parole e le carezze di Pigmalione, tutto questo dimostra bene anche la straordinaria fragilità del «compromesso-arresto» grazie al quale l’oggetto adorato trova il suo incerto statuto. Ma pur sempre uno statuto. Incerto e fragile perché esi­ ste nella forma del compromesso; ieratico, immobile e fisso (quindi sup­ porto di una specie di extra-certezza) perché esiste nell’arresto, nella neutralizzazione. L’imminenza «arresto» di una vita, in questo avorio scolpito, immobilizza così il desiderio stesso, lo vota a una specie d’im­ potenza (follia del dubbio con delirio del tatto), ma allo stesso tempo lo rende ieratico, emblematico, lo fissa: quindi lo afferma e lo preserva. È questo il compromesso, e al contempo questo è anche il funzionamento di ogni protocollo perverso: le divisioni per le quali il soggetto si vedreb­ be separato dal suo desiderio, le partizioni sono in qualche modo risolte grazie a questa neutralità dell’oggetto, al contempo pudore e disponibi­ lità dell’oggetto, inesistenza e permanenza dell’oggetto, esibizione cata­ lettica (offerta, in ritiro) dell’oggetto. In fondo, qui ha luogo una nega­ zione immaginaria (Verleugnung), una negazione della possibile sparizio­ ne dell’oggetto adorato:151 immaginario perché è proprio l’immagine che conferisce ieraticità, legittimazione a questa negazione. Conosciamo la saggezza delle immagini; deriva dal fatto che tendono a non sparire da sole, o a non contraddire un desiderio con un proprio desiderio

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(come farebbe invece una donna amata, troppo amata, per esempio). Pigmalione «riscatta» la perversione delle puttane Propètidi attraverso la perversione segreta di un «puro» rapporto con l’immagine: accarezza, bacia l’immagine (accarezza, bacia il neutro) attribuendo le qualità di pudore e verginità perpetui a questo oggetto che non risponde - non ancora - al suo desiderio. Rispondere è un atto ambiguo, rispondere spesso è negare, annientare una certezza immobile. «A volte temo quasi che un alito risvegli quella donna, e lei svanisca»,152 dice, per parte sua, Frenhofer. Effettivamente tutto accade tra una quasi-paura e un quasi-desiderio. Tra il sonno dell’oggetto (una bella addormentata nel bosco d’avorio o di pit­ tura) e il sogno del soggetto: «quasi temo che un alito di vento mi de­ sti...» - equivoco del pleonasmo: «riempie la frase», dicono ingenuamen­ te i grammatici, «senza essere necessario al senso» - «... mi desti quella donna». E quindi un desiderio che si dispiega (si muove, si accontenta, ma che certo anche si mente, non si soddisfa) nell’elemento immobile di un non-ancora. È l’elemento di un arresto di raffigurabilità (forma, facies): posa o pausa dell’oggetto, in quanto offerto alla vista. L’ideale compro­ messo tra la sofferenza celibe, la morte del desiderio («donna irreprensi­ bile»: l’impossibile, l’invisibile) e comunque il desiderio. Ed ecco che, nelle Metamorfosi, un simile compromesso perverso si esaspera e si risol­ ve, miracolosamente, ancora una volta attraverso vicissitudini di sangue sulle superfici. Ovidio ci racconta che Pigmalione, per aver stretto trop­ po la statua d’avorio tra le dita, teme (metuit) che sugli arti (artus), dove forse aveva esagerato la sua carezza, sopraggiunga un sangue, il sangue blu, livor, delle ecchimosi. Ma livor significa anche l’invidia, la gelosia, la malignità, significherebbe forse l’astuzia dell’Altro, la sua risposta, la ritorsione fatta al desiderio di Pigmalione, o la sua conseguenza negativa (questo desiderio è infatti, non v’è dubbio, di un’estrema violenza). Ci sono forse in questo metuit il desiderio e il timore mischiati in uno scam­ bio, in un'intersoggettività. Desiderio e timore per il fatto che la statua sia, non solo viva, ma anche soggetto, un soggetto capace di rifiutarsi (rifiutare o rifiutarsi-a, questo potrebbe quasi fornire una definizione di soggetto). L’amore che Pigmalione prova per la sua opera è però a senso unico, esige la catalessia del soggetto, la sua non-risposta, la non-reciprocità. Ma l’artista, nel culto privato che dedica alla sua opera, non trascu­

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ra di mimarne, probabilmente con meticolosità, tutte le modalità dello scambio e della socialità, visto che le offre fiori, vestiti, gioielli: munera fert illi, le offre doni - e qui di nuovo il complemento resterà equivoco (illi femminile oppure illi neutro).153 11 mito ovidiano tuttavia, dopo aver svolto l’equivoco, lo risolverà attra­ verso il miracolo dell’operazione metamorfica. Quest’ultima influenza innanzitutto il linguaggio, dove nasce il genere femminile. Come per rie­ quilibrare l’evocazione delle sontuose parures con cui Pigmalione copre la statua, Ovidio ci parla della sua nudità: e nello scivolare con un lapsus ben calcolato (la confusione, il cambiamento dei generi), Ovidio dà fi­ nalmente un sesso a questo avorio scolpito: nec nuda minus formosa videtur - ma nuda non è meno bella a vedersi... L’oggetto è svanito, l’ogget­ to è sessuato, è un quasi-corpo. Ebur, l’avorio, neutro, diventa quindi, nel testo, l’eburnea virgo, la vergine d’avorio, femminile (e, come per affi­ nare questa dialettica, Ovidio ha evitato ogni ricorso al termine medio che costituirebbe il femminile statua, per esempio). L’istante propria­ mente metamorfico, il sopraggiungere di una vita nell’avorio, la sua nascita come soggetto, questo istante sarà quello di un evento dell’incar­ nato non meno che dell’incarnazione. Un’erubescenza. La materia della statua ha già cominciato a intenerirsi e l’innamorato (già chiamato tale: amans) è rimasto stupito (stupet), esita ancora a lasciarsi andare alla gioia, scrive Ovidio, dubitando, non osando credere, temendo di sba­ gliarsi: quello che non osa vedere (e che è però il fine della sua visione) lo cercherà quindi di nuovo nella dimensione tattile di una carezza che diviene ossessiva, ritorna su se stessa, rursus rursusque manu sua vota retractat, più e più volte la mano palpa di nuovo il suo sogno, l’oggetto dei suoi desideri. Vale a dire una pelle. Infatti, scrive Ovidio, era proprio un corpo vero: Pigmalione sente palpitare, pulsare delle vene (saliunt venae). La sua stessa carezza si metamorfosa, diventa una «vera» carez­ za, e i suoi baci, dei veri baci: infatti «ella» ha sentito ed è arrossita. Sensit et erubuit. E nell’istante stesso (visto che tutto l’avvenimento è uno) le è stato dato lo sguardo: ella ha aperto gli occhi, e «vede, insieme al cielo (poiché naturalmente è sdraiata), colui che la ama». Il suo sguar­ do realizza la riconciliazione delle antitesi in cui era bloccato il deside­ rio perverso: esso si offre, accetta l’amante (vidit amantem)-, ma questi resta pudico (timidum). Solo Venere guarda questo sguardo che è, seri-

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ve Ovidio, «merito suo». Poi, senza transizione: «E quando per nove volte la falce della luna si è richiusa in un disco pieno, la sposa genera Pafo, dalla quale l’isola anche Pafo è detta».154 Il mito di Pigmalione non ci suggerisce solo una sorta di profilo del culto privato che Frenhofer avrebbe potuto dedicare a Catherine Lescault (in questo senso potremmo immaginare l’ipotesi seguente: il quadro è infor­ me, una «muraglia di pittura», per essere stato troppo accarezzato, trop­ po baciato, chissà, forse sulla pittura ancora fresca, come si dice della carne, e che per questo non ci fa vedere più nulla di sé, se non le sue macchie di livor). Questo mito ci racconta innanzitutto qualcosa sull’og­ getto del desiderio di vedere: è un oggetto diviso. Tra il femminile e il neutro; la dimensione propriamente mitica del racconto ovidiano consi­ ste difatti nell’inventare una riconciliazione, una «disparità» tra il vivo­ femminile e l’inerte-neutro, tra il desiderio e il timore, tra il desiderio di amare e il desiderio di vedere. Il pudore sarebbe il nodo di tutte queste riconciliazioni: bianco, ieratico, l’avorio inerte significa il pudo­ re squisito del non-ancora-, erubescente, addirittura offerta, la pelle color carne significa ancora il pudore, a Ovidio sta molto a cuore farlo notare. La «metamorfosi» costituisce qui l’imico colpo di scena in cui possono intrecciarsi, congiungersi in maniera assoluta e persino identi­ ficarsi i cinque eventi della nascita alla vita, del pudore e del desiderio, dell’incarnato e dello sguardo. Non è dunque per caso che Frenhofer invoca «il signor Pigmalione». Ma fallisce laddove Pigmalione è riusci­ to. Perché? Gli sarà di certo mancato il favore di Venere. In senso stret­ to, Il capolavoro sconosciuto non è un mito. Forse è un racconto in man­ canza del mito (quindi in ogni caso vicino a esso). Comunque sia, Fren­ hofer, rispetto a Pigmalione, commette una mancanza fatale, un’impa­ zienza, direi persino un’impudenza: ha dato troppo presto un nome al suo «soggetto», «Catherine Lescault» preesiste al suo corpus, possiede un nome ancora prima di nascere (Balzac infatti non ci dice mai che potrebbe trattarsi di un ritratto, con un riferimento al reale: questa don­ na non esiste, le è chiesto di esistere). E per questo, tra le altre ragio­ ni, il quadro non sarà mai veramente arrossito davanti a Frenhofer. «Catherine Lescault» resterà quindi un semplice titolo d'opus, di qua­ dro. Pigmalione, da parte sua, aveva intenerito gli dèi per la gravità della sua «follia del dubbio»: al colmo delle sue effusioni amorose con

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la statua, osa appena attribuirgli l’epiteto di «compagna» (lontanissimo da un nome proprio), e si mostra tutto «timido», scrive Ovidio, in piedi davanti all’altare di Venere, non osando chiedere ciò che desidera vera­ mente - Veburnea virgo stessa, come singolarità vivente. Si accontenta di chiedere un come-se-. «vorrei avere come moglie una simile (similis) alla fanciulla d’avorio» dice.155 Venere, il soggetto trascendentale che si suppone sappia tutto in materia, concede l’oggetto del desiderio solo nella dissociazione enunciativa del desiderio e della domanda: concede­ rà dunque come sposa a Pigmalione la vergine d’avorio in persona. Frenhofer invece, come abbiamo visto, è anche un po’ Orfeo: ha chie­ sto quello che desidera e, così facendo, ha mancato di pudore, di pa­ zienza. Ecco perché ha fallito. Ma parliamo àél’opus. In realtà, il quadro di Frenhofer non ha nulla da invidiare all’eburnea virgo di Pigmalione, e questo almeno per due aspet­ ti. Da ima parte, attua «la donna» come dismisura, come sproporzione. Di certo c’è dismisura nel desiderio di fare, di un’opera, di un corpo. Ma con più precisione, quest’opera e questo corpo sono forse essi stessi smi­ surati: sono fuori scala. Sembra curioso, dopotutto, che il mito di Pig­ malione abbia a che fare con l’avorio, e non con il marmo per esempio, tanto diffuso nella tematica ovidiana (la pietra è il tema più frequente nelle Metamorfosi). Tuttavia, Pigmalione sculpsit ebur, scolpì l’avorio, ossia, mi pare, nell’avorio. Faccio fatica a immaginare la sua opera come un assemblaggio di pezzi d’avorio su qualche altra materia; tutta la meta­ morfosi dell’oggetto si sarà prodotta nell’«animazione interna» della sostanza-avorio (l’hegeliana Innerliche, Subjektive der Lebendigkeit), e la questione stessa della metamorfosi sembra proprio essere quella del rap­ porto tra sostanza-op«s e sostanza-co^«*. Per quanto grande essa sia, una difesa da elefante non potrebbe essere proporzionata alle dimensio­ ni reali di un corpo. Abbiamo allora tutto l’agio d’immaginare che que­ sta statua non fosse concepita a grandezza naturale.156La forma era forse «così bella, che nessuna può nascere più bella» proprio perché probabil­ mente dipendeva dalla magia specifica dell’artefatto, che è quella del manichino, del modello ridotto. In ogni caso, è significativo che Ovidio abbia evitato, nel suo racconto, qualsiasi riferimento a scale o dimensio­ ni quando descrive l’opus di Pigmalione. Si tratta di una dismisura all’o­ pera anche in Frenhofer. Per due volte, nel racconto di Balzac, Porbus è

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messo davanti alla sua stupidità, che consiste nel credere alla «grandez­ za naturale» come all’ombelico di ogni mimesi pittorica. È «davanti a una figura femminile a grandezza naturale» che Porbus e Poussin si sba­ gliano sul capolavoro da vedere nell’atelier di Frenhofer; mentre sono «colti da ammirazione» davanti a quella «grandezza naturale», il vecchio pittore dice loro a voce alta che «questo quadro non vale niente», e glie­ lo fa vedere, insieme ad altri quadri, come lo spettacolo stesso dell’erro­ re. Il quadro da non fare: «ecco i miei errori», dice alla fine. Allo stesso modo di Ovidio, Balzac ha significativamente creduto opportuno non dire niente sulle dimensioni del capolavoro, e in particolare sulla scala del solo frammento di piede che usciva dal caos colorato. E perché il corpo sublime della «donna incomparabile» è un corpo della spropor­ zione, non risponde ai canoni di una visione situata, quindi limitata, rispetto a (lontano da) lui. L’esigenza è infatti qui quella di uno sguardo, e non quella di una visione. Il corpo della «donna incomparabile» è tale, in ogni caso, solo se risponde alle esigenze smisurate, poiché disgiunte, dell’ottica e dell’aptica, del lontano e del vicino. Il corpo sublime è sem­ pre «tra un troppo vicino e un troppo lontano».157 Questo interstizio è quello del fantasma. Il corpo della «donna incompa­ rabile» non esiste in qualità della sua taglia (il suo limite, la sua propor­ zione, la sua scala), ma in quella del suo dettaglio. Qui tocchiamo il secondo aspetto per il quale il quadro di Frenhofer forse rivela una segreta analogia con la statua di Pigmalione. Quest’ultima è fatta d’avo­ rio, materia di cui si vanta la piacevolezza al tatto e la brillantezza, il can­ dore e la levigatezza: il liscio, il compatto e il lucente. L’incontro di una qualità tattile e di ima qualità ottica non è qui estraneo al senso stesso del racconto. Ne va di un fantasma di pelle già mischiato alla sostanza stes­ sa. Sin dal suo aspetto giallastro, l’avorio richiama la nozione di pelle. In realtà gli manca solo la famosa virtù, propria al vivente, del passaggio, della vicissitudine colorata: l’incarnato. Non tanto l’essere-rosso, che appartiene già al corallo, per esempio, ma proprio l’erubescenza, l’even­ to del passaggio colorato. L’avorio è brillante, levigato. Possiede la virtù del luccichio, non dico del riflesso o del globale riflettere, ma del lucci­ chio locale, attenuato. Pigmalione guarda e accarezza la sua opera, la bacia, fa l’amore con lei: guardare qui significa lo spazio della più gran­ de prossimità, quella che per l’appunto permetterà di scorgere il minimo

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passaggio colorato. Questo passaggio, quindi, è forse proprio quello che attraversa o commuove, quello che trasmette Pigmalione stesso: ciò che vede nella brillantezza dell’avorio sarebbe l’erubescenza del proprio volto rapito dal desiderio. L’oggetto, guardato da così vicino, si tinge del colore di chi, mentre lo guarda, sa desiderarlo. Ecco perché la statua «risponde» così bene al desiderio di Pigmalione: per bagliori, lo riflette (ma il bagliore significa che un riflesso simile è indiscernibile come tale). C’è sicuramente qualcosa di questo genere nel quadro di Frenhofer: secondo la distanza normale della visione, Porbus e Poussin non videro niente; benché esperti in materia pittorica, «provarono a vedere se la luce, che cadeva perpendicolarmente sulla tela che lui mostrava loro, non ne neutralizzasse tutti gli effetti»;158 si dovettero avvicinare; videro un caos; ma è avvicinandosi ancora che videro lo splendore di quella parte di piede: un bagliore di vita, «frammento sfuggito a un’incredibi­ le, lenta e progressiva distruzione».159 La «donna incomparabile», la «donna irreprensibile» è dunque proprio la donna inawicinabile - inawicinabile ma invisibile per chi vi si tiene lontano. Non è soggetta allo sguardo se non nello spazio dell’estrema prossimità: si dà a colui per il quale guardare significa guardare sotto, fino in fondo, a rischio di vederne solo un pezzo. Struttura d’alienazio­ ne. È una donna fuori scala, è una donna-bagliore. Che cos’è un baglio­ re? E innanzitutto la qualità luminosa dell’apparire. In secondo luogo, è la sua qualità parziale. Ma nel momento in cui il dettaglio si fa lumino­ so, esso invade, divora, il tutto. Secondo Bailly, il termine greco per la venustas, charis, significa propriamente «ciò che brilla, da cui ciò che ral­ legra»: la grazia, la bellezza, il piacere, eccetera. Ciò che brilla dipende innanzitutto da una qualità evanescente e locale (tranne il sole stesso, luogo del brillare globale, senza che niente brilli). Ciò che brilla, in un primo momento, ci raggiunge solo come difetto, attraverso macchie luminose, eventi locali di un luccichio. Ma nel momento in cui ciò che brilla diventa bellezza, la macchia luminosa influenza in maniera globa­ le il nostro rapporto con l’oggetto. Per questo, il mito di Narciso non dovrebbe essere pensato solamente attraverso le categorie del riflesso, dello specchio: l’occhio infatti s’assorbe, annega, si perde anche nei sem­ plici luccichii (brillare parziale ed evanescente) dell’acqua. I luccichii sono solo effetti di superficie, riflessi estremamente parziali, perciò

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insensati, bagliori, istanti di brillantezza e di sparizione. Tuttavia in essi, nella pura scansione delle increspature dell’acqua, è indicata una pro­ fondità. C’è tutto. È infatti proprio questa profondità acquatica che, nel luccichio, ci turba, ci chiama pericolosamente. In un certo modo, la pelle suscita una dialettica analoga, nelle scansioni del suo pallore, della sua brillantezza, dei suoi passaggi incarnati. Incanto del bagliore, fantasma del tutto. Dora parlava della «bianchezza incantevole» del corpo della signora K. e, nello stesso fascio significante, confidava a Freud la propria «ammirazione, raccolta e sognante» per la Madonna Sistina di Raffaello. «Quando le domandai cosa le fosse tanto piaciuto in quel quadro, dap­ prima non seppe dirmi nulla di preciso, alla fine rispose: “La Madon­ na”.» Freud fa notare in maniera molto appropriata il valore al contem­ po tautologico e contraddittorio di questo incantesimo scopico focaliz­ zato sul bagliore (la bianchezza di una pelle) estendendolo però alla tota­ lità del corpo adorato.160 Forse è perché il bagliore della bianchezza è l’elemento stesso di un farsi praesens, presenza e imminenza, della carne incarnata (desiderante). Il bagliore, come sappiamo, costituisce l’elemento per eccellenza della definizione analitica del feticcio. Il Glanz auf der Nose, lo «sfavillio sul naso» con cui Freud introdusse il proprio concetto di feticcio, questo Glanz è proprio l’intreccio dello sguardo (glance, in inglese) e della qua­ lità luccicante.161 Vicini l’uno all’altra, addirittura associati nel quadro di Frenhofer, un tripode d’oro concentrava e intensificava la luce, mentre alcune tende richiamavano l’atto stesso del vedere, forse persino quello del toccare: «Si è tentati di tirare la nappa dei cordoni che trattengono le tende»... E l’associazione si chiude immediatamente sul bagliore di un dettaglio di pelle: «... e par di vedere il seno di Catherine sollevarsi nel­ l’atto della respirazione».162 Bagliore dorato, tendaggi, nappa, bagliore di pelle. Il compromesso perverso trova in questa dialettica forse la sua procedura più radicale, e quindi la più contraddittoria: la permanenza visibile del sostituto feticcio si struttura, infatti, attraverso le qualità eva­ nescenti (o suscettibili d’occultazione) di un Glanz, di un bagliore. Il fantasma diventerà però progressivamente padrone del gioco, scrive Freud, e saprà «attribuire» questa qualità dell’apparire quando gli pare, ovvero, se ne avrà voglia, sempre.163 E dal più piccolo riflesso fino alla luce abbagliante del sole, il fantasma saprà volgere in catastrofe (lacera­

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re sottilmente, e sottilmente rivelare) la funzione del soggetto nell’eser­ cizio del proprio sguardo. È guardando il Glanz che il soggetto si sente guardato, lacerato, rivelato. «Questa è la funzione situata nel punto più intimo dell’istituzione del soggetto nel visibile. Ciò che fondamental­ mente mi determina nel visibile è lo sguardo che sta all’esterno. E grazie allo sguardo che entro nella luce, ed è per lo sguardo che ne ricevo l’ef­ fetto. Dal che deriva che lo sguardo è lo strumento attraverso cui la luce si incarna...»164 Non è d’altronde un caso che, nella luce declinante della sera, Frenhofer abbia creduto di distinguere la fine, dice, della sua opera (vale a dire anche la propria distinzione narcisistica come soggetto-pittore): il baglio­ re necessita infatti, per apparire, della relativa oscurità di ciò che lo cir­ conda; e questa stessa oscurità esige lo spazio di una visione ravvicinata (possiamo immaginare che, col passare del giorno, Frenhofer lavoras­ se sempre più vicino al quadro). Questa fine, sostanza-scopo e momento di compimento, questa fine che il pittore vede o intravede, consiste innanzitutto nell’intreccio di un bagliore (l’inumidirsi di un occhio) e di ima carne: «I suoi occhi mi parevano umidi, le carni palpitavano»165 dice Frenhofer. Ma sappiamo che la mattina seguente, nell’atelier in cui si sprofonda, la luce fissa del giorno e la distanza di una visione generale distruggeranno o rimanderanno all’infinito questa fine: «stamattina, alla luce del giorno, ho constatato il mio errore».166Come ogni mattina, forse. Il dettaglio, il bagliore, si impongono come fine del quadro solo nello spa­ zio aprico in cui esistono intensamente, fuori dalla proporzione, dalla scala, dalla cornice. E ciò che Frenhofer chiama «vita» o «palpitare» di un seno. E ciò che chiama «l’unione tra la luce e gli oggetti».167 L’e­ sperienza luminosa del bagliore feticista ha bisogno infatti proprio di questa dimensione fenomenologica dell’accadere di un incontro in cui la luce dipinta viene risolutamente a «combinarsi», di colpo, con la «lucè vera» (le parole sono di Frenhofer), producendo un istante specifico di «reale» del quadro stesso. Più di un trompe-l’oeiï, uno sconvolgimento locale, una semi-allucinazione. «Guarda la luminosità del seno e nota come, con una serie di pennellate e di lumeggiature a lungo lavorate, sono riuscito a catturare la luce vera e a combinarla con il candore lucente delle tonalità più chiare...»168

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Il bagliore indica allora una qualità fenomenologica sconvolgente, tota­ litaria, del dettaglio come incontro, apparire, come spazio, come intensi­ tà. Ma è in balia di una disgiunzione (da sempre la stessa): quadro vel bagliore. Se guardi solo il quadro come quadro, ossia da troppo lontano, perdi il bagliore del quadro, quindi perdi il quadro (è la visione di Frenhofer, la mattina nel suo atelier, ed è la visione iniziale di Porbus e Poussin). Se però ti immergi nel bagliore del dettaglio, nella sua «vita», perdi il quadro, perché hai perso il tutto del quadro (è la visione crepu­ scolare, in cui il quadro ha valore solo per il bagliore locale della coda umida dell’occhio, per esempio, obnubilando il resto). Certo, in pittura la perfezione è sempre stata sognata come la co-possi­ bilità della parte e del tutto. Dolce, nella sua lettera ad Alessandro Contarmi, sembra voler «avvisare» della propria fascinazione per i det­ tagli del quadro di Tiziano, come se se ne scusasse in anticipo, tessendo le lodi di un’armonia unica, unificata, delle parti e dell’insieme: «In lui, non si può distinguere quale parte sia la più bella, perché ciascuna sepa­ ratamente e tutte insieme contengono la perfezione dell’arte».169 Ma naturalmente Dolce parlerà solo di alcune parti, molto locali ed eccezio­ nali (la macatura della carne causata del sedere). Comunque sia, la nozio­ ne di una «perfezione dell’arte» si fa strada fino all’ipotesi di una possi­ bile inferenza del dettaglio sul tutto, o del tutto sul dettaglio. Forse qui si tratta, in ultima analisi, di un ideale matematico. «Tutto si tiene» scri­ ve Diderot. In pittura come in fìsica - l’anatomia risponde infatti alle leggi della fìsica e quest’ultima alle leggi della matematica - il dettaglio dovrebbe enunciare la struttura del tutto e viceversa. D’altra parte è pro­ prio un piede che fornisce a Diderot il suo esempio più famoso in mate­ ria. Non è un caso che, in fin dei conti, i tre motivi della Venere, del piede e del caos (la mostruosità formale) si siano ritrovati congiunti nello sviluppo dell’esempio di Diderot (paradossalmente, Il capolavoro scono­ sciuto non è dunque molto lontano): «Volgete ora lo sguardo su quel­ l’uomo, la cui schiena e il cui petto hanno assunto una forma convessa. Mentre le cartilagini anteriori del collo gli si allungavano, la testa gli si è volta all’indietro, le mani si sono contratte all’articolazione del polso, i gomiti hanno arretrato, tutte le membra han cercato quel comune cen­ tro di gravità che poteva essere adatto per tale eteroclito sistema; e sul viso gli leggiamo un senso di costrizione, di pena. Coprite tutta questa

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La struttura di questa dis-località, forse ontologica, della pittura, non è semplice da cogliere. Parlo di bagliore, di lembo, di dettaglio. Bisogna forse fare ancora delle precisazioni. Ripartiamo da questo: abbiamo sognato una pittura senza resto. Abbiamo sognato, per la pittura, una perfezione. Rendere perfetta la pittura, farla andare fino in fondo, può innanzitutto indicare una specie di sussunzione sotto l’ideale: pittura adeguata alla propria idea, al proprio progetto, al proprio dispositivo, e persino al proprio algoritmo. Si tratterebbe qui di una perfezione, per così dire, platonica oppure pitagorica. Ce ne fu un’altra, altrettanto miti­ ca, potremmo dirla ovidiana, e che supponeva la perfezione della pittu­ ra in quanto evento della propria metamorfosi: come se le fosse richiesto di diventare ciò che essa rappresentava, di rendersi perfetta in un corpo. Non possiamo ignorare questi due fantasmi invocando la loro irrealtà, o addirittura ingenuità, e non possiamo accontentarci di confutarli, tanto è rilevante la loro pregnanza storica. La pittura prende atto di questi due fantasmi e attribuisce loro, per così dire, bagliore. Ossia la gloria e lo smembramento. L’ideale infatti, sia esso matematico o metamorfico, si frantuma e si spezza^ Il bagliore indicherebbe ciò che di tale fantasma resta, ciò che càdèj sul quadro, in quanto decaduto. Il bagliore sarebbe allora l’evento pittorico dello schianto dell’ideale pittura. Probabilmente si produce essenzialmente negli equivoci, nelle indecisioni, tra spazio Ottico e spazio aptico. Il suo effetto può essere duplice. Può essere innanzitutto effetto di lembo: un semi-trauma che porta avanti il figurale come inidentificabile; è un effetto di violenza delusiva (il contrario di un trompe-l’oeil); è il bagliore in quanto non senso; richiama qualcosa come la sorpresa di un non-è, di un non-è-possibile; è un effetto di disastro nel­ l’ordine del visibile. Il bagliore può però anche avvenire, secondaria­ mente, come effetto di dettaglio-, una semi-allucinazione, accompagnata dall’effetto di «reale» che le è proprio, e che porta avanti il figurativo come ima iper-identità, un’identità o una singolarità d’intrusione; è un effetto di violenza illusionista; è il bagliore in quanto dettaglio realista; richiama la sorpresa di un è-questo\ è un effetto di scoperta, di trovata o di ritrovato nell’ordine del visibile. Una simile distinzione (il bagliore come lembo, il lembo come dettaglio) mi sembra qui necessaria per cogliere la complessità, l’equivocità dello statuto figurale del frammento in pittura. Questo statuto, infatti, non ha nulla di scontato. Deve quindi essere discusso dialetticamente, a seconda dei propri aspetti divergenti

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d’interstizio e di schermo, di lapsus e di stile, d’insignificanza e di carat­ terizzazione di un soggetto, e infine di oscurità e di evidenza «reali­ sta».179 A ogni modo, nel Capolavoro sconosciuto, troviamo proprio la storia di un effetto di lembo: è il «Niente! Niente!» della muraglia di pit­ tura; e poi la storia di una scoperta del dettaglio in quanto tale: la punta di un piede nudo. Frenhofer chiama il secondo «uscire dal caos», caos attraverso cui il primo aveva inizialmente devastato la visione dei due pittori. Che ne è adesso di questo dettaglio «realista», di questo piede «delizio­ so», «vivo»? Hubert Damisch ne ha già segnalato la pregnanza emble­ matica: il piede rientra nella definizione iconologica della pittura stessa, ma proprio come oggetto Velato.180 Ripa rappresentava la Pittura come una figura femminile che fra i suoi attributi aveva un vestito di tessuto cangiante che le copre i piedi: veste di drappo cangiante, la quale le cuopra li piedi.181 Cangiante qui indica la qualità di ciò che cambia, di ciò che si tras-forma; è il gioco dei panneggi (per il drappeggio di questo vestito) e il gioco del versicolore, di cui la marezzatura, questa specie di scintillio, è il modello stesso. Marezzatura e panneggio sono entrambi funzioni d’epiphasis-aphanisis, funzioni del bagliore: sono effetti locali di superficie in cui s’intravede qualcosa di simile a una «sotto-forma», una profondità, un corpo. Effetti d’acqua ed effetti di pelle. Quando una tenda (un vestito, un tegumento) tocca ciò che nasconde, lo indica. In questo piede velato vi è certo l’ingiunzione di un «non vedere il sotto» della pittura; ma vi è anche, nei panneggi, nelle marezzature, il «fenome­ no-indizio» del sotto, l’indicazione e l’implicarsi della profondità e della superficie. D’altronde potremmo andare più lontano, a proposito di questo piede-icona, e formulare l’ipotesi che esso funzioni come un’ico­ nologia della pittura stessa - ma di una pittura il cui oggetto non sia solo velato, ma addirittura impossibile: il suo oggetto sarebbe infatti l’Im­ possibile stesso (ed è proprio di tutto ciò che si tratta nel Capolavoro sco­ nosciuto). Troviamo un piede anche nella grande tradizione degli Hieroglyphica di Orapollo: è, per l’appunto, un piede che si staglia su un caos figurativo; di esso si dice «che passeggia «///'acqua», nelle increspature, panneggi e marezzature, dell’acqua. E, siccome camminare sull’acqua è impossibile, salvo un miracolo, ci è detto che tale piede costituisce pro­ prio il geroglifico dell’Impossibile.182 Questo ci lascia immaginare che

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«la punta del piede», nel Capolavoro sconosciuto, non starebbe lì unica­ mente a significare ciò che «resta» del quadro di Frenhofer sul piano ico­ nico (la somiglianza), ma significherebbe anche l’iconologia del suo stes­ so processo. Messo in mostra, esibito, soprattutto attraverso una «punta», il piede è un oggetto quasi osceno. La nozione di «punta» d’altronde porta in sé, addirittura sopporta, la nozione d’erogeneità, di cui conosciamo la strut­ tura essenzialmente parziale.185 Che il fatto sia noto non ci permette però di trascurarlo: il piede si presta alla strutturazione feticista. Esso stesso è, come «punta», un bagliore, ossia un Glanz (tale è, in ogni caso, il suo valore di apparizione agli occhi di Porbus e Poussin). E un orga­ no già «feticizzato» nella sua rappresentazione, ovvero «fatato», femmi­ nile, fittizio e fallico allo stesso tempo, come sintetizzava Lacan parlan­ do deU’oggetto-feticcio: quest’ultimo deriva «da un essere femminile ambiguo che rappresenta se stesso e che in qualche modo incarna, al di là della madre, il fallo che le manca, e lo incarna ancora meglio proprio perché non lo possiede direttamente, ma è completamente impegnato nella sua rappresentazione».184 Nodo dell’irrappresentabile e della sua presentazione ieratica nel visibile, riveste qui una pregnanza decisiva per la funzione immaginaria del fallo. Il feticcio è sempre sublime per il sog­ getto dello sguardo, se è un po’ voyeur. E, come dice dal canto suo Balzac, attravèrso la voce «esteta» di Massimilla Doni, «il sublime è sem­ pre simile a se stesso».185 Esso deriva dal bagliore, dalla manifestazione, ma anche dal difetto, dal velarsi. Nel suo saggio breve sui «Piedi pudi­ ci», Salomon Reinach aveva notato che l’atto di guardare un piede passa generalmente o per un «crimine» o per «l’ultimo favore» (tra tutti, il piede che costituiva il tabù per eccellenza era certo quello della Re­ gina).186 L’arte d’amare di Ovidio si apre subito, o quasi, con questa in­ giunzione: per praticare l’Arte, devi cominciare con lo sbarazzarti delYistita, quel lungo velo che ti «copre la metà dei piedi.. .».187 La fortuna critica dell'incarnato in pittura ha trovato spesso il proprio sommo di bellezza o di venustà nelle parti delle gambe o dei piedi. E queste sono state associate a quelle del busto (come abbiamo visto in Balzac): la cosa emerge distintamente, di nuovo, in alcuni testi del XVI secolo che tratta­ no di Tiziano.188

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Tra il pudore e la fallicità, tra l’organo e la sua «punta», mezzo mostrato, mezzo nascosto, tra il femminile e il fittizio, il feticcio; un piede, dunque, d sedurrà. Non si tratta qui, dice Georges Bataille, che di «bassa seduzione»: «Siamo sedotti bassamente, senza trasposizione e fino a gridare, sgranando gli occhi».189Perché? Perché il piede, e la sua «punta» esemplare che è l’al­ luce, sgrana, se così si può dire, la nozione stessa di bellezza: ne va di «un’e­ spressione acutissima» del corpo umano, scrive Bataille, ma è l’espressione acutissima del suo disordine. Bataille ha visto nell’alluce la violenza disgiun­ tiva di un organo «squillante e orgoglioso», osceno e inquietante, da una parte; ma, dall’altra, quella di una bruttezza immobile, «cadaverica». Que­ sta violenza disgiuntiva èia stessa dell’alto e del basso, vale a dire dell’idea­ le e dell’immondo. «La vita umana infatti comporta la rabbia di vedere che si tratta di un movimento di via-vai dall’immondo all’ideale e dall’ideale all’immondo, rabbia che è facile spostare su un organo così basso come un piede.»190 Nell’economia del Capolavoro sconosciuto c’è di sicuro qualcosa che assomiglia alla rabbia di vedere di cui parla Bataille: vedere l’effetto disgiuntivo, vedere e avere contemporaneamente il disegno e il colore, l’ot­ tico e l’aptico, la superficie e il fondo, il quadro e la donna. Anche se, del­ l’ideale della donna, resta solo un quadro immondo. Balzac ha chiamato questo processo «l’arte e l’amore» o, in altri termini, «la forma dell’idea».191 Infine è forse utile notare che il motivo del piede svelato, in bilico tra la sepoltura e l’apparire, tra l’apparire e lo sparire, è motivo comune alle argo­ mentazioni contraddittorie di Capraja e del duca Cataneo, in Massimilla Doni (l’arte si impadronisce delle fibre o intacca il sangue?); e tutto questo è detto rispetto al godimento che ci procurerebbe una voce, quando è sublime: ad ascoltarla, dice Capraja, «il cuore mi si è riempito di sangue fre­ sco, e mille desideri mi sono corsi per le vene. Mai suoni più angelici mi hanno altrettanto liberato dai lacci corporei, mai la fata mi ha mostrato braccia più belle, sorriso più amorevolmente, sollevato la tunica sino a metà della gamba, alzando il sipario sotto cui si cela l’altra mia vita. - Domani, mio vecchio amico, riprese il duca, salirai sul dorso di un cigno abbaglian­ te che ti indicherà la terra più ricca, e vedrai la primavera come la vedono i bambini. Il tuo cuore riceverà la luce siderale di un nuovo sole, ti stende­ rai su una seta rossa, sotto gli occhi di una madonna, e sarai come un aman­ te felice mollemente carezzato da una voluttà di cui ancora si vedono i piedi nudi, e che sta per scomparire.. .».192

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«Una voluttà di cui ancora si vedono i piedi nudi, e che sta per scompa­ rire» significa: aver già perso l’ideale (c’è infatti un ideale del desiderio); ma vedere ancora, o comunque intravedere ciò che questo ideale ci lascia in pasto come suo resto, immondizia (e qui è il desiderio in quanto tale, confrontato con il reale, a entrare in gioco). O ciò che ci lascia come sua evanescenza: Poussin e Porbus, infatti, ci dice per l’appunto Balzac, hanno solamente «scorto», hanno colto al volo la punta di un piede nudo che «fuoriusciva» dal caos dei colori. Fuoriuscire: verbo dello choc figurativo, fuori campo, e verbo del puro passaggio, della labilità; fuo­ riuscire vuol dire sopraggiungere di colpo fuori da uno sfondo d’invisibilità, e, per un certo verso, vuol dire già ripartire. Mostrare di passag­ gio, ma senza lasciar veder nulla per davvero. Non ci si stupirà d’incon­ trare questa dialettica un po’ dappertutto in Balzac, e certo in maniera esemplare nella sua Teoria dell’andatura (scritta, sia detto di passaggio, tra le due versioni del Capolavoro). Ecco qui dunque il nono «aforisma»: «Camminando, le donne possono mostrare tutto, ma non lasciar vedere nulla...».193 Qui a parlare è un «artista». Come Frenhofer, egli in fondo annuncia il fallimento e la vanità di quello che sarebbe una sapienza assoluta; fallimento che non esclude né il sapere, né l’esaltazione di un momento. «Sarò sempre tra la misura del sapiente e la vertigine del folle» scrive Balzac.194 Ma di certo andrà a situarsi sempre più vicino alla vertigine che alla misura. Innanzitutto perché la portata di una tale «teoria» è data come quella di una rivelazione. Rivelazione di cosa? Di niente di meno che della divinità della donna, se ammettiamo che la cita­ zione virgiliana posta da Balzac in apertura della propria opera ne trac­ ci il programma: Et vera incessu / Patuit dea... La dea, la vera dea si rive­ lò (divenne patente, da latente che era) attraverso la propria andatu­ ra.195 C’è poi un’altra ragione per cui questa Teoria dell’andatura riguar­ da da vicino la problematica pittorica quale la formulerà Frenhofer: essa si presenta come teoria (o piuttosto come un modello narrativo) della fine del quadro, per così dire; Balzac l’enuncia così: una «teoria dell’an­ datura delle nostre idee», dove in gioco c’è la realizzazione, in senso hegeliano, dell’idea nell’opera. Il modello proposto riguarda innanzitut­ to il potere di folgorazione dell’immagine, l’effetto di apparizione e di praesens di un lontano o di una memoria (l’esempio offerto qui non è altro che la visione-ricordo di un «piedino di donna»); poi l’interstizio del fantasma, tutto avviene infatti tra sogno e risveglio; in seguito la

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sublimità, dato che una folgorazione simile può essere detta solo come «non-so-che»; per finire, tutto il modello si riduce alla questione che altrove Balzac chiama «Forma e Idea», ossia l’avvento dell’Idea nel­ l’opera: avvento presentato come una grazia, una delizia suprema, avvento che del resto è paragonato a una sorta di «donna irreprensibi­ le». Ebbene, questa grazia non è altro che il fare e il compimento del quadro stesso. Ecco il testo: «Viene l’ultima età del pensiero. Si è impiantata, si è radica­ ta nella vostra anima; vi ha maturato; poi, una sera o una mattina, quan­ do il poeta toghe il proprio foulard, quando il pittore ancora sbadiglia, quando il musicista soffia sulla propria lampada, pensando a un incante­ vole gorgheggio, rivedendo un piedino di donna o uno di quei non so che di cui ci si occupa dormendo o risvegliandosi, essi scorgono la loro idea in tutta la grazia delle sue fronde, delle sue fioriture, l’idea maliziosa, lus­ sureggiante, lussuosa, bella come una donna magnificamente bella, bella come un cavallo senza difetti! E allora il pittore dà un calcio al proprio copriletto, se c’è un copriletto, ed esclama: È finita! Farò il mio quadro! [...] Questa è la teoria dell’andatura delle nostre idee».196 Certo, l’antitesi è in agguato ovunque. Per esempio: «È finita - Farò». Come se il decidersi del quadro o del soggetto-pittore potesse enunciar­ si solo secondo un tempo e una performatività impossibili. La punta del piede, nell’opera di Frenhofer, si sarà di certo presentata come l’indizio di quella grazia di cui parla Balzac («quante delizie su questo pezzetto di tela!» esclama Porbus).197 Ma anche, e forse principalmente, come indi­ zio di un fallimento, il fallimento della decisione, l’indizio di un andare a fondo, di un arenarsi. Di un 'aporia, per dirla tutta, la stessa: aporia del desiderio nell’opera di pittura; la sua «inaccessibilità», cammino verso il senso inaccessibile, o accesso al puro negativo (il ritrarsi, l’arenarsi) del­ l’oggetto del desiderio. Arenarsi [S’enliser] è l’anagramma, un’inversio­ ne di leggere senso [lire sens]. Se la punta del piede funziona qui come iconologia della pittura in quanto aporia, e in particolare aporia di una lettura del senso, è anche perché essa porta a compimento, nel quadro di Frenhofer, il fiasco di ogni iconografia possibile. E questo, malgrado o attraverso il suo stesso «realismo». Se infatti l’elemento iconografico è quello del nominabile (leggere un senso per nominare l’immagine), quel-

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lo del dettaglio, qui, dipenderebbe piuttosto, come abbiamo visto, da un desiderio «che non osa dire il proprio nome»; tale è infatti la sua strut­ turazione feticista, la sua sublime indecisione. Non c’è icona, in fin dei conti, ma traccia, fenomeno-indizio. Al di là del momento del suo iperriconoscimento («Un piede vivo!»), il bagliore del dettaglio realista infatti non avrà dato niente, voglio dire niente che sia leggibile, identifi­ cabile in una catena significante, in un enunciato. Questo dettaglio, per quanto «vero» esso sia, e perché unico, richiamerà solo l’invisibilità di un corpo («c’è una donna là sotto») e l’innominabile, l’innumerevole o la dismisura di una delizia già assentatasi, passata («Quante delizie su questa piccola superficie di tela!», e questo suona più come una doman­ da o come l’esclamazione di un’incertezza ancora intatta). Questo detta­ glio d’altronde è unico forse solo per dare luce all’Unico in quanto tale, l’Unico che richiederebbe la nozione di Glanz o quella di sublime. Tuttavia, per la stessa ragione per cui è unico, questo dettaglio può rife­ rirsi solo al caos da cui ci è detto «fuoriuscire», questo dettaglio non è dunque riferibile a nessun enunciato, non è l’iconografia di niente. m

Non ci sarebbe quindi icona, ma traccia figurativa: segno di un piede, traccia di passo, impronta, sospetto significante, «traccia di colpi» (pen­ so ai «colori confusamente ammassati» della «muraglia di pittura» da cui la punta del piede è come scampata). Tutte cose che in greco sono dette ichnos. Ci arrischieremo dunque a parlare di una ichnografia proprio quando si riveli il fiasco di ogni iconografia. Michel Serres ha introdot­ to il termine «ichnografia» nella problematica del rapporto tra il «rumore di sottofondo», o meglio il rumore del sottofondo, e l’insieme delle possibilità metamorfiche di un fenomeno: tra la bella «scontro­ sa»,198 quindi, e il dio Proteo.199 Ci rimane da pensare questo termine anche nella dialettica della traccia (delirio del tatto) e del sospetto (foi­ ba del dubbio); è infatti attraverso tale dialettica che il capolavoro di Frenhofer si incrinerà nel duplice bagliore di una muraglia, di un lembo di pittura, e di un piede, unico dettaglio del quadro. Quanto è indicato qui forse non è altro, alla fine, che una violenza disgiuntiva della pittu­ ra e del quadro: la pittura, opaca sostanza, come ostacolo all’enunciato rappresentativo del quadro (di cui la pittura, opaca sostanza, è però l’unico veicolo).

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Ma questa «punta», questo dettaglio, non è solamente 1’ichnos, è allo stesso tempo il sema di Catherine Lescault: non la sua icona, quindi, ma il suo auspicio, in un certo senso («Sta per alzarsi, aspettate!» dice Frenhofer, forse perché in quel momento vede il piede «fuoriuscire» dal quadro, chissà). Ma questo significa innanzitutto il segno figurativo in cui si riconoscerà la sua sepoltura («qui sotto c’è una donna»). Il sema, quindi, come sepoltura del soma. Il capolavoro sconosciuto fu, in un certo senso, solo la tomba di Catherine Lescault: da una parte, il suo vestigio, ossia ciò che di Catherine ancora ci rimane; dall’altra, il luogo della sua sepoltura, del suo «essere murata viva» piuttosto; o la celebra­ zione della sua perdita, che ci dice: non è rimasto niente, niente o quasi niente. Tutto avviene in effetti tra il niente e il quasi-niente: il capolavo­ ro sconosciuto produrrà solo l’alternativa tra un niente (la devastazione del.lembo) e un quasi-niente (il bagliore del dettaglio). L’episodio finale del racconto di Balzac, l’ingresso dei due pittori nell’atelier di Frenhofer, la loro ricerca e la loro scoperta del quadro, l’intero episodio è in effetti posto sotto l’egida (ma è un vacillamento) della polvere e del bagliore. Niente, quasi-niente. Polvere che ricopre tutto, nell’atelier del vecchio maestro; bagliore della figura di donna a grandezza naturale, che suscita l’«ammirazione», scrive Balzac; bagliore di un gioco di luce sulla super­ ficie del quadro; bagliore del lembo di pittura, paura, stupore, davanti a un niente, all’assenza d’icona; bagliore del piede che suscita, infine, una vera e propria «pietrificazione» dei due pittori. Ma, al di là (e senza par­ lare del mucchio di cenere che diventeranno tutte le tele di Frenhofer), il bagliore ritorna alla polvere, nel senso in cui l’ultima parola di questo passo sarà lasciata a una metafora (stravagante, perentoria) dell’incenerimento e della rovina.200 Un piede, «un piede delizioso, un piede vivo» si dà dunque qui come resto decaduto, il bagliore che fuoriesce da una rovina (incertezza, immondizia, mineralità, polvere), la rovina figurativa del lembo di colo­ ri che è la «muraglia di pittura». Ma, in extremis, sono ancora altre rovi­ ne, «le rovine di una città incendiata», che dovranno dare conto dell’esi­ stenza di un simile bagliore. Quest’esistenza è suffragata innanzitutto da una somiglianza insensata. «Un piede vivo!», scrive Balzac, e poi: «Ri­ masero pietrificati». Ma subito la metafora si annoda in maniera antite­ tica, o forse si diffonde, infetta tutto: dà luogo a una metamorfosi, in­

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fluenzando di ritorno l’oggetto «vivo» dello sguardo. Tutto il vivente ritorna alla pietra: «Quel piede appariva come il busto di una Venere in marmo di Paros che sorgesse tra le rovine di una città incendiata».201 Il lembo di colori era capitato fuori da ogni somiglianza; il suo resto fu la somiglianza estrema, «viva», di una punta di piede; e quest’ultima rica­ de adesso sulla somiglianza insensata, candore e pietrificazione, di un busto di marmo. Perché proprio un busto di marmo? Forse perché mai nessuna materia fu più propizia al bagliore-feticcio, al fantasma metamorfico. Il marmo, e ancora più il marmo di Paros, attra­ versa in effetti la storia come una sostanza miticamente dotata di quelle stesse potenzialità di «sintomo» che per un altro verso troviamo attribui­ te, in pittura, all’incarnato (e che costituiscono qui il significato stesso del Capolavoro sconosciuto). Non che il marmo, materia dell’op«* per eccel­ lenza, possa vantarsi di replicare perfettamente le qualità ottiche e tattili di un corpo (anche se numerosi testi propongono quest’equivoca affer­ mazione). Anzi. È proprio perché mostra qualità antitetiche rispetto al vivente che esso si presta a quel «compromesso-arresto» che è richiesto, come abbiamo visto, dalla strutturazione feticista dell’adorazione di un oggetto, di un opus. Il marmo è tra la morte (pallore pietrificato, freddo) e la vita (bagliore, piacevolezza); tra superfìcie (il levigato, la brillantezza) e profondità (le venature); tra l’ideale (la statuaria antica) e l’immondo (un busto sudicio, mutilato, fra le rovine di una città incendiata). Il marmo è la sostanza di un entre-deux, di un Ineinander. Tra sema-sepol­ tura e soma-desiderio. Tra ciò che risponderà e ciò che non risponde già più al desiderio come tale, insomma, tra un’impassibilità mortale e la pos­ sibilità di tutti i movimenti (motilità, alterazioni) del desiderio. È quanto troviamo ovunque in Ovidio, Plinio, Clemente Alessandrino. Quest’ul­ timo, per esempio, ripete in continuazione che le statue di marmo sono degli anaistheta, una ripetizione che si trasforma presto in indizio di inquietudine. Sapete bene che queste statue sono solo delle cose insensi­ bili, dei non-soggetti. Ma comunque... L’evidenza si ripete solo per rac­ contare la perversione (dice lui) delle statue di marmo, appunto la loro natura di inganno, di trappola, di esca (apate): «Quanta forza ha l’arte per ingannare, lei che, per gli uomini presi d’amore, è stata la corruttrice che ha condotto all’abisso!».202 Ebbene, tutto ciò è scritto proprio per com­ mentare l’amore di Pigmalione per la sua statua d’avorio e quéllo di un

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misterioso giovane per la Venere di Cnido, «quest’ultima di marmo, anch’essa bella».203 Si intuirà che questo giovane è meno misterioso di quanto sembra: non possiede nome proprio perché è paradigmatico. È lo stesso che ritrovianio in Dolce, per la Venere di Tiziano.204 La circolazione è interessante. Indica che, nel xvi secolo, un topos rela­ tivo alla scultura antica aveva già investito il campo pittorico.205 Ma non si fa l’amore con un piano. E necessario perlomeno un sostituto del piano, capace di indurre una sorta di rilievo, che a sua volta possa indur­ re una sorta di nozione di sfondo. C’è bisogno di un gioco di umori, che passi dagli sfondi alle superfici, che sappia creare effetti diafani e passag­ gi da corpo a corpo, per poi tornare sugli sfondi. Ebbene, è proprio una circolazione degli umori a essere il Leitmotiv, il punto centrale, di tutte queste strane storie d’amore. In Dolce, la macatura della Venere, la sua macchia incarnatina, genera il ritorno della macchia del giovane. In Plinio, l’uomo che si nasconde, per tutta la notte, nell’aedicula della Venere di Cnido lascia sul marmo la traccia della propria libidine: cupiditatis indicem maculam.206 È quindi ancora una macchia, ma essa reste­ rà discreta, quasi diafana, un bianco traslucido sul bianco glassato del marmo. Come se questa «traccia d’amore», come scrive anche Plinio {amoris vestigium), non fosse altro che una sostanza-mimesi dell’oggetto amato: il bianco lattiginoso dell’oggetto richiama il bianco lattiginoso del soggetto, al fine di realizzare emblematicamente, feticisticamente, come un bagliore, una zona certa o incerta, una macchia nella quale soggetto (desiderio) e oggetto (marmoreo, morto) si sarebbero incontrati, raccol­ ti figuralmente. Ritroviamo queste macchie-mimesi ovunque nella let­ teratura sull’arte, in Luciano, Eliano, in Valerio Massimo, e in seguito ne II sogno di Polifilo, nel bel testo di Cartari su Venere, per esempio (... donde rimase poi sempre certa macchia in un fianco della bella statoa...) e per finire in Dolce.207 In Dolce si tratta però della pittura - cosa che ci fa pensare a un doppio paradosso: che la questione dell’umore sarebbe al fondo dei fantasmi figurali che riguardano il marmo (il marmo delle Veneri antiche amate dagli umani); e che la questione dello sculto­ rio sarebbe la punta stessa di una semiotica del quadro, in quanto il fan­ tasma di un sintomo corporeo, quale lo ritroviamo tra gli altri nel testo di Dolce, farebbe lì da punzone. Ma lo ritroviamo anche nel Capolavoro sconosciuto-, il «piede delizioso», infatti, forse esce dal piano o dal lembo

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[pari] di pittura solo per sottolineare come il quadro sia affetto da una semiosis scultorea. E questo avviene in termini che non hanno nulla a che vedere con il problema del trompe-l’oeil o dell’illusione del rilievo in pittura - ne avevamo già il presentimento, non foss’altro che per avere menzionato l’esigenza aptica del quadro di Frenhofer. Il marmo avrebbe dunque a che fare, paradossalmente, con l’incarnato. O perlomeno vi troviamo il punto d’incontro delle loro problematiche specifiche. Questo forse spiega già la strana associazione balzachiana tra un «piede vivo» e il «busto di una Venere in marmo di Paros». L’in­ conscio non conosce la contraddizione, dice Freud, cosa che potrebbe significare, tra le altre: il fantasma lavora con la contraddizione e con l’an­ tìtesi, è un lavoro dell antitesi. Qui: il bianco e il sangue. Bianco della superficie e sangue che sgorga dal profondo. Bianco dell’ideale e sangue del desiderio (macchia, difetto, erubescenza, punctum). Il marmo che chiamiamo statuario, ci spiega l’Encyclopédie, è scelto per la sua compat­ tezza, una certa «translucidità» - e innanzitutto per la sua bianchezza e la sua levigatezza: la sua brillantezza, la sua piacevolezza al tatto. Il marmo è però lungi dall’essere la materia ideale che si crede. Non è né il bianco «in sé», né una materia «per sé»; è già, come tale, una metamorfosi; geo­ logicamente parlando, il marmo è solo una trasformazione del calcare, un cambiamento di texture al contatto con le rocce eruttive (del calore quin­ di), ciò che è chiamato un «metamorfismo da contatto»; soprattutto, esso non esiste, o non esiste quasi (chi lo sa?), allo stato assolutamente puro: è giocoforza ritrovarvi qualche ossidazione o la presenza di materie orga­ niche; cosa che gli conferisce, appunto, le sue macchie o le sue vene.208 L’Encyclopédie, citando Plinio, insiste poi sul fatto che il marmo di Paros, il più pregiato, il più bello, il più celebre, in fondo non è quello più bian­ co. Il valore notoriamente fascinante di questo materiale non sarebbe allora da ricercare nella perfezione della sua bianchezza o dei suoi effetti mimetici, ma proprio nella sua relativa imperfezione, nel turbamento che essa suscita. Discreta imperfezione, mai o quasi considerata tale, idéal oblige. Essa sarebbe infatti l’indizio del desiderio (quindi del difetto), una qualità del fondo, una qualità dell'Ineinander: una sorta d’incarnato, dun­ que, la macatura di cui parlava Dolce. Il valore fascinante del marmo non dipenderebbe allora né dalle sue sole qualità di «purezza» o di bianchez­ za, né dalle sue qualità mimetiche, dato che il marmo non somiglierà mai

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veramente alla pelle, tranne se... e tutto sta qui: un pallore fissato per sempre (freddo, inerte, pietrificato) dove tuttavia passa, in maniera alea­ toria, il sospetto ddl’incamato, o del livor ovidiano. Si tratta, più esatta­ mente - e a guardare ancora oggi le Veneri greche - di una specie di leg­ gerissima cuperose; essa sembra affiorare, sorgere dal di dentro, per intaccare, in maniera locale e passeggera, il «levigato» della superficie. Questa specie d’instabilità dell’aspetto - e un bel marmo di Paros deve essere guardato a lungo per vedervi «passare» tali adombramenti, tali «difetti» o cuperose - questa instabilità dell’aspetto produce dunque un’affinità speciale tra la permanenza del materiale, la sua durezza, e una nozione del passaggio, del fenomeno-indizio, il sospetto di una macchia, un sintomo. Marmorizzare significa «macchiare», macchiare la superficie bianca di una pagina, per esempio. Talvolta, Plinio parla delle maculae del marmo come di ciò che gli attribuisce tutto il suo valore.209 Queste mac­ chie, infatti, sono forse l’indizio stesso del fantasma metamorfico (la pos­ sibilità di un sintomo, la possibilità di un corpo) a cui si presta il marmo. Fenomeno-indizio di un sangue nella pietra. Qui ritroviamo, allo stesso tempo, follia e magia. Il libro XXXVI della Storia naturale si apre con l’opinione che le pietre costituiscano l’ambito in cui «la follia (insania) dei costumi umani si esplica più che altrove», persino a prescindere dalla passione smisurata degli umani per il bagliore delle pie­ tre preziose, dell’ambra e del cristallo.210 Questa follia consiste principal­ mente nell’estrarre la sostanza stessa di ciò che era destinato a essere con­ densato, «che doveva consolidare le viscere della terra» - telluris visceribus densandis, scrive Plinio. «Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri (nulla alia quam deliciarum causa), montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valica­ re [• •.]. Ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare, e la natura è ridotta a un piano livellato (rerum natura agitur in pla­ num-. spostiamo la natura delle cose verso il piano).» E per finire, Plinio conclude: «E questo lavoro, o meglio queste, sofferenze, per quale utilità gli uomini se li sobbarcano, se non per stare su pavimenti di pietre vario­ pinte (inter maculas lapidum)? - come se questo piacere non lo togliesse il buio della notte, che occupa la metà della vita di ognuno».211

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Per un certo verso, tutta questa «follia» della passione umana per le pietre dipende anch’essa da un gioco d'entre-deux: tra l’informe (le viscere della natura) e il desiderio di una forma (la pietra come ornamento o mezzo di rappresentazione mimetica); tra l’inanimato e la favola di una metamorfosi corporea. La magia propria alle pietre induce o risponde a questa favola: essa consiste perlopiù nel giocare in o con questo entre-deux. Questo può essere un entre-deux o una circolazione mimeti­ ca dei poteri di una pietra: quale l’ematite, chiamata così perché somiglia al sangue e che, potremmo dire di conseguenza, «è straordinariamente giovevole per gli occhi iniettati di sangue [...], blocca le mestruazioni eccessive [...]; arresta inoltre in modo eccellente la caduta degli occhi dalle orbite».212 Circolazione altrettanto esemplare delle analogie e degli effetti. Può anche essere un entre-deux degli ordini della sostanza: ci sono delle pietre-sarcofago che corrodono i corpi (erodunt corpora), vivi o mor­ ti, e pare li annientino in meno di quaranta giorni, fatta eccezione per l’avorio dei denti; in questo modo, ogni essere vivente ritorna al minera­ le. Ma, per converso, c’è anche la pietra detta porus, «simile al marmo di Paros per la sua bianchezza e la sua durezza»: questa ha il potere di conser­ vare intatti i corpi - e d’altronde lo stesso marmo patio deve una parte della sua reputazione al fatto che esso conserva splendidamente i profumi.213 Forse il marmo particolarissimo, assolutamente fantasmatico, quale lo ri­ chiedeva il paragone balzachiano della «punta di piede», esisteva néNen­ tre-deux di un Paros o porus che conservasse «deliziosamente vivo» il piede di Catherine Lescault - e di una pietra-sarcofago che, irrimediabil­ mente, doveva fare del quadro, di Catherine Lescault e di Frenhofer stes­ so qualcosa di simile a un mucchio di cenere. Il marmo evocato dal Ca­ polavoro sconosciuto forse, dopotutto, rappresentò solo l’esigenza antiteti­ ca, disgiuntiva, di un corpo eternamente in sparizione: corpo perché ogni marmo è attraversato subito dal sospetto di una vena, di un sintomo livi­ do o incarnato; eternamente perché in esso prevale il legame della figura e della sua pietrificazione; in sparizione perché quel «busto di una Venere in marmo di Paros che sorge fra le rovine d’una città incendiata», quel busto è un lutto di Catherine Lescault, l’emblema della sua aphanisis. O addirit­ tura di qualche colpa originaria (infatti ci fa pensare alla moglie di Lot). Ma è bene ritornarci con un po’ più di precisione.

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Corpo: perché, nonostante il suo candore minerale, nonostante la fred­ dezza mortale, il marmo si è comunque prestato ai giochi ambigui di una mimesi della pelle. Parliamo senza pensarci della bianchezza di una pelle, cosa che, in termini propri, costituisce un abuso linguistico. Sap­ piamo bene, vediamo bene, che la pelle non è bianca (non è né latte, né giglio, né cerone, né neve, né ermellino). Ma questo non cambia nulla. La pietra quindi tenderà verso la carne (anche a costo di essere truccata: pelle infarinata o pietra ricolorata). E si commenteranno le statue famo­ se, quella degli amanti avvinghiati di Prassitele, per esempio, suggeren­ do che «le dita sembrano conficcarsi nella carne, piuttosto che nel marmo (digitis corpori verius quam marmori impressis)».214 Anche quan­ do si confronta la levigatezza del marmo, la sua brillantezza, alla seta, nella maggior parte dei casi è solo per ricondurre immediatamente il paragone a una nozione di superficie tegumentaria. Tant’è vero che la seta stessa è, per eccellenza, un «tessuto vivo» che «abbraccia volentieri la persona viva» per confondersi con la sua pelle.215 Il fantasma meta­ morfico esige quindi che il marmo intrattenga con la pelle il rapporto mimetico più stretto (ottico e aptico). Nonostante la bianchezza, la lumi­ nosità minerale, nonostante la freddezza. A completare l’immagine, a far attecchire il fantasma, il sospetto che, persino nel marmo più bianco, possa correre, nascondersi o apparire una vena, una macatura. Al punto da farne diventare reversibile la logica: il marmo imita così bene la carne (pelle, sotto reticolo di sangue) solo perché la carne ha la propria origi­ ne nel marmo. E quanto racconta la favola di Deucalione e di sua moglie Pirra, dopo che il diluvio ebbe sterminato l’intero genere umano a ecce­ zione di loro due: «s’incamminarono e si velarono il capo e si slacciaro­ no le vesti, e lanciarono aU’indietro dei sassi, ubbidendo al responso, sulle proprie orme. I sassi - chi lo crederebbe se non lo attestasse una tradizione così veneranda? - cominciarono a perdere la loro fredda durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a perdere forma (formam). Quindi crebbero e diventarono di natura più tenera, e allora si cominciarono a intravedere delle forme umane (forma hominis), ma ancora mal rifinite, come se abbozzate nel marmo {de marmore... exacta), similissime a statue appena iniziate. Poi, però, se c’era in loro una parte umida di qualche succo terreno, questa passò a fungere da corpo; ciò che era solido e impossibile a piegarsi si mutò in ossa; quelle che erano vene, rimasero, con lo stesso nome {quae modo venafuit sub eodem

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nomine mansit)».21(> Ed è così che, secondo Ovidio, nacque la nuova razza (genus) umana, la nostra, che deve la propria vita, il proprio san­ gue, alla metamorfosi minerale delle vene di un marmo. Eternamente. Ciò indica innanzitutto la connivenza, qui, delle due categorie del fisso e della figura. Materiale esemplare del «compromes­ so-arresto», il marmo in effetti è detto fissare i corpi - sarebbe il suo modo di renderli eterni. Di feticizzarli. Il marmo è in ogni caso (e pro­ prio per questo) una sostanza figurale per eccellenza. Non è un caso che il commento dedicato da Plinio al marmo di Paros congiunga questi tre motivi: il marmo di Paros è il marmo statuario per eccellenza; non è il marmo più bianco (è suscettibile di macchie, di imperfezioni, per quan­ to tenui); racchiude infine, come il sangue, la potenzialità di ogni figura­ zione, e qui risiede il suo mistero, la sua magia: «Usarono tutti quanti solo il marmo bianco dell’isola di Paros, la varietà che si cominciò a chia­ mare “licnite” perché lo si scavava nelle gallerie delle miniere alla luce delle lanterne, come sostiene Varrone (in seguito, vennero trovati molti marmi più bianchi, tra l’altro, di recente, anche nelle cave di Luni). Ma ecco il prodigio che si racconta a proposito dei marmi di Paros: una volta, dentro a un masso che gli operai avevano tagliato mentre fendeva­ no il marmo con i cunei, apparve l’immagine di un Sileno (imaginent Sileni intus extitisse)».211 Più in generale, la letteratura sul marmo è inte­ ramente dominata dalla questione delle sue virtù figurative, sia in conte­ sto cristiano sia in ambito pagano, come ha mostrato Baltrusaitis.218 Il fiorire di questa problematica nel Cinquecento e nel Seicento non stupi­ sce; la ritroviamo in particolare nei grandi trattati di Aldovrandi e di Kircher, nelle collezioni manieriste; e non è un caso che Lodovico Dolce ne facesse parte: il suo Trattato delle Gemme, pubblicato a Venezia nel 1617, ripropone sotto diversi aspetti il problema delle pietre a natura depictae.219 Troviamo qui, ancora una volta, una favolosa reversibilità logica: il marmo seceme figure che imitano le figure dipinte; questo per­ ché in effetti la natura, con le pietre, sembra agire «come un pittore»; il che presuppone anche che la pittura abbia potuto trovare la propria ori­ gine nelle vene del marmo. Vitruvio, in fondo, diceva precisamente que­ sto: «La pittura è la rappresentazione delle cose che sono o che possono essere, come di un uomo, di un edificio, di una nave o di qualsiasi altro oggetto di cui si imiti la forma e la figura. Le prime cose che gli antichi

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hanno rappresentato sull’intonaco sono le diverse venature del marmo (;imitati sunt primum crustarum marmorearum varietates)».220 Ancora una volta, posizione cruciale di queste vene, macchie, incrostazioni o «difetti» marmorei. «Non si dimentichi, scrive Plinio, che la scultura del marmo fu molto più antica della pittura e della statuaria in bronzo ebbero entrambe i loro inizi con Fidia»; cosa che permette di conclude­ re: «E, per Ercole, la pittura non solo non sarebbe stata tenuta in tanta considerazione, ma non sarebbe stata considerata affatto, se avessero avuto qualche prestigio i marmi».221 Se quindi il «piede delizioso» del Capolavoro sconosciuto funziona come un’iconologia della pittura «reale» (o «realizzata») in quanto Impossibile, il busto di marmo, dal canto suo, potrebbe evocare qualcosa di analogo a un’origine perduta della figura­ zione dei corpi, momento in cui la figura sarebbe stata, miticamente, (quasi) un corpo. La fissazione eterna di quel momento. Estrema dimensione di questo marmo, probabilmente la più paradossa­ le, e per questo vicina al quadro di Frenhofer: il marmo produrrebbe il bagliore del corpo in quanto scomparente. Questo proprio perché pro­ durrebbe l’aspetto del corpo in quanto stasi perpetua, reliquia del­ l’aspetto. Spesso, in Ovidio, le metamorfosi in pietra vogliono indicare un’estremità del desiderio: momenti in cui esso è tanto forte semplicemente perché il proprio oggetto gli è strappato per sempre, passando alla non-vita. Questo è il caso della favola di Eco, che si presenta come favola di pietrificazione: «A quel tempo, Eco aveva un corpo» scrive Ovidio per dire che la ninfa credeva ancora di poter toccare gli oggetti dei suoi desideri. Ma disprezzata (spreta) da Narciso, ella scompare immediatamente, nascondendosi nei boschi (latet silvis); ripiegandosi nelle viscere, negli antri solitari della natura (in antris solis). Tuttavia il suo amore resterà confitto, scrive ancora Ovidio, haeret, si attacca, si fissa, si immobilizza. Come in un marmo. La traccia è però eterna solo a patto di produrre la sparizione: Eco sparirà completamente, poiché il desiderio ne ha sfinito il corpo: «la pelle si raggrinzisce per la magrezza e tutti gli umori del corpo si disperdono nell’aria. Non rimangono che la voce e le ossa (vox tantum atque ossa supersunt); la voce esiste ancora; le ossa, dicono, presero l’aspetto di sassi (ossa ferunt lapidis traxisse figu­ ramiI».222 Ella rimarrà quindi per sempre, come una sparizione pietrifi­ cata, un effetto sonoro in dissoluzione della montagna. Nello stesso

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momento (alcune righe più sotto), Narciso, catturato dalla propria immagine, «rimane immobile come una statua (o un “segno”) scolpita in marmo di Paros, Adstupet ipse sibi vultusque immotus eodem / Haeret, ut e Pario formatum marmore signum... » appena prima di sparire come corpo umano.223 Il marmo è allora la materia di un sembiante, ciò che sta al posto di un corpo dove un desiderio è impazzito e naufragato. Allo stesso tempo, il marmo sarebbe però anche la materia dell’avvento di quel desiderio in quanto tale. E la materia della sua fissazione, del suo divenire pietra sotto lo sguardo di Medusa. Dunque del suo annientamento. Tra spari­ zione isterica dell’oggetto (un bagliore che passa e sfugge, un corpo che non è più lo stesso) e sparizione melanconica del soggetto (un desiderio che si mette per sempre a lutto). Questo antico topos attraversa tutta la nostra storia. Il capolavoro sconosciuto ne sarebbe una specie di ri-pro­ grammazione pittorica - con questo resto di marmo di Paros, spuntato tra rovine e macerie, indizio di una specie di origine. Probabilmente non è un indizio isolato. È possibile che, nel XIX secolo, intorno a questo motivo si dipanasse un intero reticolo romantico. Si è tentati di citare, per esempio, quello che Gasquet racconta di Cézanne, a proposito della Vittoria di Samotracia-, il marmo qui significa allo stesso tempo il retico­ lo di un sangue (la vita, la palpitazione), la frammentazione o la «punta» (questa statua, infatti, a ben vedere è solo un colossale frammento), e infine qualcosa che appartiene all’ordine dell 'aphanisis, del non-visto: «Le stoffe aderiscono, le ah battono, i seni si gonfiano. Non ho bisogno di vedere la testa per immaginare lo sguardo, perché tutto il sangue che sbatte, circola, canta nelle gambe, nelle anche, in tutto il corpo, è passa­ to come un torrente nel cervello, è montato al cuore. E in movimento, è il movimento di tutta la donna, di tutta la statua, di tutta la Grecia. Quando la testa si è staccata, ammettiamolo, il marmo ha sanguina­ to...».224 «Il movimento di tutta la donna» in quanto sua eterna (pietri­ ficata) sparizione. È la stessa problematica che, qualche anno più tardi, affronterà Jensen. Conosciamo l’analisi che ne propose Freud. Gradiva: marmo affascinante, dal bianco risplendente, affascinante al punto di vivere; vita che impallidisce fino al marmo, aspettando, malinconicamen­ te, che una pioggia di cenere venga a seppellirla. Gradiva-, «colei che risplende nel camminare». E che, per questo, affascina. Ma sempre nel-

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Ventre-deux: tra il fascino assoluto del suo incedere-arresto che «mostra senza lasciar vedere niente» (tema balzachiano quindi); l’enigma assolu­ to della sua sostanza corporea («si sentirà qualcosa toccando la sua mano?»); e il gioco fantastico delle sue apparizioni-sparizioni. Tra un bassorilievo di marmo e il «movimento di tutta la donna». «Grazia così particolare dell’immagine» commenterà Freud.225 Ma questa grazia rimane un enigma. Grazia immobilizzata nel movimento (vi fa dunque da arresto, da compromesso), nel movimento di un solo piede. Fetici­ smo, certo.226 A patto di capire perché tale feticcio non smetta di vacil­ lare tra passaggio (bianchezza del bagliore), marmorizzazione (bianchez­ za immobile dell’aspetto) e incenerimento (grigio manto sfigurante), sparizione. Il feticcio, in ogni caso, da solo non saprebbe dare conto di una «grazia così particolare dell’immagine». Sicuramente la nozione d’introvabile è al centro della sua costruzione. Ma non necessariamente quella dell’introvabile bellezza dell’immagine, che anima la ricerca di Frenhofer. Cercando l’introvabile possiamo trovare il feticcio. Ma la «bellezza introvabile di Venere» può essere afferrata solo attraverso un’elaborazione probabilmente più complessa, qualcosa come un aldilà della perversione, una perversità della perversione. «Ma prima o poi si dovrà pur accorgere che su quella tela non c’è nien­ te!»227 E un po’ come se Frenhofer non avesse saputo, o non avesse volu­ to sapere, che quello che faceva, nel suo capolavoro, da tanti anni, non era altro che un lungo e intensivo lavoro del lutto. Espressione estrema di un disconoscimento, forse. Un processo sospeso tra due implicazioni divergenti: un feticcio, da cui discende la reliquia (qui si tratta del baglio­ re del dettaglio, il piede); e la violenza melanconica del lembo di colori, questa bellezza-caos, questa bellezza-viscere. Processo in cui un corpo si rivelerà come eternamente in sparizione. «Ma prima o poi si dovrà pur accorgere che su quella tela non c’è niente!» Il piede (il dettaglio) ritor­ nerà per sempre al lembo di colori, che gli fece da letto. Tra il dettaglio e il lembo c’è dunque questa «strana virtù del corpo assente» che suppone, che suggella, l’opera-reliquia di Catherine Lescault. «Raccogliendo, nella materialità di un resto familiare per quanto irrisorio, la strana virtù del corpo assente, la reliquia conferisce alla realtà il suo diritto di necessità e, attraverso il rituale del culto privato che essa instaura, sfida, nel lavoro del lutto, le apparenze della morte. Se, come suggerisce Freud, il lavoro del

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lutto deve condurre l’Io, dopo una ribellione, ad accettare il rigoroso ver­ detto della realtà, la reliquia acquista senso nel desiderio di conservare qualcosa di ciò da cui ci si separa senza però dover rinunciare a separar­ sene. Frammento di un corpo scomparso nel quale si raccoglie il ricordo dell’essere nella sua totalità»,228 tale sarebbe allora il piede di Catherine Lescault, che sembra trarre tutto il suo potere (fascino, bellezza, esclusi­ vità) dalla precarietà significante che porta su di sé, tra il corpo «vero», la marmorizzazione e l’annientamento totale (le ceneri del quadro che alla fine Frenhofer brucierà). È ciò che conferisce alla «punta di piede», nel Capolavoro sconosciuto, quello statuto paradossale di visibilità: dando a vedere che «c’è una donna là sotto», essa mostra un corpo già messo sotto una cripta, già sepolto, scomparso. Ma si tratta anche di impedire in extremis che questa «incredibile, lenta e progressiva scomparsa» di cui parla Balzac, sia a sua volta distrutta, resa invisibile. E la visibilità violen­ ta del prodursi di un 'aphanisis, un’intensità contraddittoria. Tra il pudo­ re mortale e l’esibizione di questa fuga, verso il sotto, di un corpo di donna. Il corpo di Catherine sarà, in ogni caso, persino, anzi, soprattutto sepolto, incomparabile. L’effetto di bellezza - vale a dire il momento di scoperta di questo «piede delizioso» - ne risulterà solo accresciuto. Il pia­ cere davanti alla bellezza non determina solo il «giudizio di gusto», come dice Kant, determina anche «l’enigma del rapporto luttuoso - lavoro del lutto che viene qui intaccato in anticipo - con la bellezza».229 Una bellezza da fare paura; un corteo funebre; una roccia; un sonno magico; perdere l’Amore per aver voluto vederlo nelle tenebre: è esatta­ mente la favola di Psiche.230 «E alla fine la psyché - che forse non è altro che la metafora depressiva del vuoto - lungi dal doversi considerare come soffio vitale, non si definirebbe qui piuttosto come immobilità del corpo o persino come corpo trasformatosi per intero in luogo dell’assen­ za?»231 Nel Capolavoro sconosciuto si tratta probabilmente di questo. Sarebbe una sorta di conseguenza inevitabile della violenza disgiuntiva: donna vel quadro. La donna che in ogni caso scompare, lasciando, come reliquia della propria scomparsa, solo un piede marmoreo e tuttavia «vivo» (infatti esso è il corpo di Catherine); forse addormentato dal sonno di Psiche. Catherine, ci dice Frenhofer, era «distesa su un letto di velluto, sotto le cortine»,232 e come non richiamare alla mente l’illangui­ dimento della Venere d’Urbino o gli occhi chiusi di quella di Dresda? In

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questo piede ci sarebbe allora qualcosa di essenzialmente «psichico», nel suo predisporre al sonno, alla semi-morte. Una nozione che ci arriva dal pensiero greco sembra congiungere tutto ciò. Congiunzione dell’invisibile e della morte (entrambi infatti si dice­ vano aides)-, congiunzione dell’elemento plastico (l’opera scolpita) e del lutto che esso rappresenta; congiunzione deU’immobilizzazione minera­ le, della sua freddezza (psychron) e della psyché di cui sarebbe una sorta di doppio; e infine congiunzione dell’erezione del sema (l’idolo-menhir) e dell’invisibilità di un soma di cui questa erezione prenderebbe il posto. Si tratta della nozione di kolossos, statua religiosa che attuava contempo­ raneamente una figurazione dell’invisibile e una produzione pietrificata della categoria del doppio; qui, infatti, la morte è pensata in termini di pietrificazione, ma anche di «passaggio nei sotterranei» invisibili.233 I due testi più importanti citati da Vemant, in cui questa nozione di kolos­ sos è raccontata, o piuttosto drammatizzata, riguardano entrambi il lutto della donna amata, della donna unica, incomparabile, di cui d’altronde si vanta la bellezza, la bianchezza. Si tratta innanzitutto della nostalgia amorosa di Menelao, nelVAgamennone di Eschilo. Elena, o meglio il suo doppio, abita gli stessi luoghi che ha abbandonato. E questo avviene secondo tre forme cui il coro allude di volta in volta: «Prima si tratta del phasma, che sembra ormai regnare sul palazzo al posto della sposa scom­ parsa. Poi si parla di kolossoi, termine che molto giustamente C. Picard traduce con “figurine di sostituzione”: queste figurine sono utilizzate dalla magia amorosa per evocare l’assente, come lo sono nei riti funebri per evocare il morto. Infine si parla delle figure di sogno (oneirophantoi), che sorgono durante il sonno. Tutti questi “doppi”, sostituti per Mene­ lao della sua sposa, non hanno altro effetto che quello di rendergli più sensibile e più insopportabile il vuoto della sua assenza».234 A ogni modo, qui vediamo come s’inverta il movimento di pietrificazione del fantasma, per così dire, o al contrario come una semiosis scultorea possa funzionare come semiosis del dissolversi, della sparizione. Il secondo testo ci avvicina, per un certo verso, a Pigmalione. Si tratta della spari­ zione di Alcesti: ella ha ottenuto salva la vita di suo marito Admeto in cambio della propria morte. Admeto ogni notte si unirà alla statua della sua sposa; dice: «Raffigurato per mano di abili artisti, il tuo corpo sarà steso sul mio letto; mi coricherò accanto a lui, stringendolo tra le mani,

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chiamando il tuo nome, crederò di tenere tra le braccia la mia amata sposa, anche se assente (kaiper ouk echon echein)-. fredda voluttà proba­ bilmente (psychran meri), ma che saprà tuttavia alleggerire il fardello del mio cuore (psychés apantloien-. lo sfinimento della mia anima). In sogno possederai i miei occhi incantati; infatti è dolce, perfino la notte, vedere coloro che amiamo, per quanto poco si riesca. Ah! Se mi fosse data la voce melodiosa d’Orfeo...».235 L’accostamento a Pigmalione non è fortuito. Non più di questo estremo appello al nome d’Orfeo. Orfeo e Pigmalione: i due eròi mitici con i quali si è identificato, come ricordiamo, il pittore Frenhofer. Bisogna peraltro ritornare un attimo su questa congiunzione. Il mito di Pigma­ lione, lo sappiamo, si avvicina già moltissimo al testo di Euripide: rito privato, amoroso, riguardante una statua. Prossimità, quindi, eccezion fatta per una negazione, potremmo dire: animazione dell’op«* in un caso, funzione di lutto, decisamente «inanimata», nell’altro. Il fantasma però, per l’appunto, non fa eccezione per una negazione; il suo gioco è proprio quello, lo ripeto, dell’interstizio e del rovesciamento: tra la nozione di kolossos, qui, e quella di «statue viventi» quali le ritroviamo in tutte le leggende sugli automatoi d’Efesto, per esempio, o sulle famo­ se statue di Dedalo.236 La negazione logica, in quest’ambito, non è un segno di allontanamento o di eterogeneità, ma un segno di contiguità: Frenhofer certo fallisce laddove Pigmalione riesce, ma questo là costitui­ sce proprio il nesso, la somiglianza strutturale dei racconti (possiamo notare, sia detto di passaggio, che entrambi sono presi da un fantasma di onnipotenza dell’oggetto e dunque presentatici anche come personaggi molto ricchi: come se il danaro non fosse estraneo a questo sogno di tra­ sformare ogni sema in soma). Possiamo dire la cosa in altri termini: l’in­ vocazione di Frenhofer darebbe un nome al fondo di disperazione rispetto a cui il racconto ovidiano (quello di Pigmalione innanzitutto) funziona solo come abbagliante negazione. Le versioni del mito lasciate­ ci da Filostrato, Aristeneto, Eliano e, in modo diverso, da Clemente Alessandrino o Amobio, ci raccontano tutte Xinsuccesso di Pigmalione: una statua non potrà mai animarsi sotto le dita di un umano, ci dico­ no.237 Forse un mito va sempre pensato secondo l’Impossibile che esso esprime e nega allo stèsso tempo. L’episodio di Pigmalione, nelle Metamorfosi di Ovidio, appartiene a una serie che, nel complesso, non è

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altro che la leggenda dell’insuccesso di Orfeo. Anche Orfeo agognava un oggetto d’amore unico, pudico, offerto - anche Orfeo era stato «disgu­ stato dalle donne»; anch’egli fu in possesso di un’onnipotenza sull’ogget­ to; anch’egli aveva cercato la «donna incomparabile», l’unica, la «tutta». Tra gli ottantaquattro versi che raccontano la discesa agli inferi d’Orfeo e gli ottantacinque versi (simmetria inquietante) che raccontano la sua morte per odio delle Baccanti, tra questi due episodi che mettono in scena il potere estremo dell’arte e la sua estrema perdizione, tra questi due episodi, dunque, Orfeo canta, prende la parola, racconta... e rac­ conta la storia di Pigmalione. I due racconti, del resto, si presentano fon­ damentalmente intrecciati a ogni livello.238 Così, l’animazione del capolavoro di Pigmalione ha la sua fine, la sua coda narrativa, nella morte di Orfeo. E il motivo di un sangue delle pie­ tre si è completamente sciolto, compiuto, in questa morte. Orfeo canta­ va il proprio lutto in maniera talmente sublime che le ombre «esangui», le anime minerali stillavano lacrime, exsangues flebant animae-P9 poi, nel violento episodio delle Menadi accanite contro di lui, anche le pie­ tre che queste gli gettano si muovono: «Un’altra usa come proiettile un sasso, ma questo, mentre ancora vola, rimane estasiato dai soavi concen­ ti, della voce e della lira, e gli cade dinanzi ai piedi, quasi a chiedere per­ dono di quell’ardire folle». Ma Orfeo soccomberà, in un caos non meno minerale e cruento: «E così alla fine i sassi si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più».240 Nel reticolo problematico e dialettico dell’essere-animato (incarnato) e dell’essere pietrificato (muraglia, bu­ sto di una Venere di marmo pario), la doppia allusione balzachiana a Pigmalione e a Orfeo si rivela quindi assolutamente coerente. Persino nella centralità del nome di Venere, che in fondo rappresenta, riassume, tutta la ricerca di Frenhofer: la divinità fatta donna, o piuttosto il con­ trario. «Ma dove vive, dunque» aveva quasi implorato «questa introva­ bile Venere degli antichi, tanto a lungo cercata, e della quale ci imbat­ tiamo unicamente in poche bellezze sparse?»241 Per più aspetti, il «piede vivo», il piede-marmo del capolavoro sconosciuto sarà offerto come il frammento [épars] o il dispars di una bellezza rigidamente inte­ sa come venustas. Frazer aveva osservato giustamente che il culto di Afrodite costituisce la fonte principale del mito di Pigmalione (ma anche, in altro modo, quella del mito d’Orfeo): essa risalirebbe a un rito

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fenicio di matrimonio reale con la divinità, il re-Pigmalione rappresen­ terebbe Adone. Matrimonio simbolico con un’immagine, quindi, con una statua - che ha spesso lasciato spazio a svariati protocolli di prosti­ tuzione sacra.242 E per questo che la storia ovidiana di Pigmalione fun­ zionerebbe al contempo come metonimia (amare l’icona per sposare la dea) e come antifrasi della sua origine (odiare le puttane per amare l’icona). Amare l’icona per sposare Venere, l’«introvabile Venere degli antichi». La centralità del nome di Venere significa così allo stesso tempo: l’originale, l’unica, l’universale totalità. Vale a dire La Donna, ovviamente in quanto inesistente; in quanto inesistente secondo questa tripla esigenza fantasmatica, questa esigenza insensata. Anche Pandora avrebbe potuto fornire un nome per questa donna impossibile, unica, originale, assoluta. La prima di tutte le donne, quindi l’unica, modellata da Efesto con terra e acqua, dun­ que una statua, un soma-sema (e questo è il punto cruciale di ogni fanta­ sma all’opera); dotata da Afrodite, appunto, della charis, ossia della venustas; quindi assolutamente bella e provvista del più assoluto fascino; Atena le pone in capo un diadema d’oro ornato d’innumerevoli cesellature (daidala polla: [di] numerosi dedali figurali). Trionfo dell’arte. Ma conosciamo la fine del mito esiodeo: Pandora è una risposta, inviata dagli dèi, agli umani che avevano rubato il fuoco. Una risposta degli dèi agli artisti. Pandora è un kakon, un male, una ritorsione, e tuttavia una meraviglia: kalon kakon, c’è scritto, ovvero un male ammirevole, un male amabile. Ossia una trappola. Pandora offre finalmente agli uomini la sovranità della disperazione.243 Esiodo riconduce tutto ciò a un solo motivo (che fornisce tra l’altro l’inizio del mito): krupsantes gar echousi theoi bion anthropoisi, gli dèi hanno nascosto quello che fa vivere gli uomini. La trappola del bagliore (l’oro e la grazia) non sarebbe altro che l’oscurità dell’alienazione (il velamento, la disgiunzione) che esso genera o che l’ha generato. H marmo, l’incarnato. Quasi per reciprocità con la pregnanza della semio­ si scultorea - il piede-busto nel quadro di Frenhofer - bisogna adesso riaf­ fermare l’onnipotenza del pittorico come tale, il lembo di colori. «In caso contrario uno scultore avrebbe risolto tutti i suoi problemi facendo il calco di una donna vera! Ebbene, prova a prendere l’impronta della mano della tua amica e posala davanti a te: ti troverai di fronte a un orribile cadavere

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senza alcuna somiglianza» esclama Frenhofer in risposta all’ingenuità naturalista di Porbus.244 Nel racconto di Balzac questa frase viene pronun­ ciata esplicitamente a proposito del tema: «La missione dell’arte non con­ siste nel copiare la natura, ma neU’esprimerla!»245 che apre la replica di Frenhofer. E vero. Potremmo però anche intenderla come qualcosa di questo genere: «Altrimenti uno scultore, modellando una donna, sarebbe al pari di tutti i nostri lavori!». I lavori di noi pittori. «L’unica statua che abbia camminato» (ed è ancora Frenhofer a parlare, alludendo evidente­ mente al «signor Pigmalione»), come abbiamo visto, per la sua animazio­ ne dipendeva completamente dal passaggio colorato, tattile-ottico, che a un certo punto l’aveva attraversata. Ossia l’incarnato. La questione dello scultoreo costituisce qui il vertice stesso di una semiotica del quadro, a patto di aggiungervi: è il colore - l’umore - che permette di porre la domanda, nel quadro, di una semiosis scultorea. Perché possa comparire, nel capolavoro sconosciuto, questa «punta di piede nudo», d sarà stato probabilmente bisogno non solo del dettaglio dd suo incarnato, ma anche di tutto qud «caos di colori, di toni, di sfumature indecise, una specie di nebbia informe» che ne costituiva l’effetto di lembo.246 Questo indica che la pittura non «animerebbe» il proprio soggetto, non 10 rivelerebbe, se non a patto di presentarlo velato, oscurato, sepolto, murato. A patto di stenderlo in un letto di colori fatalmente «informi»: di sprofondarlo in un caos, in un lembo. Violenza disgiuntiva, probabil­ mente: cerchiamo il corpo, la carne nell’aspetto, nella figura; c’è bisogno del colore; ma il colore è troppo esigente; il colore, in quanto virtù cor­ porea o carnale (sintomatica, dunque), può, deve essere solo un passag­ gio, quindi un rendere caotico l’aspetto, la figura in quanto stasi. Il colo­ re divora l’aspetto. Penso ancora a Tiziano: quadri «a tal punto di carne» da risultare inimitabili, come diceva, ricordiamolo, Abraham Bosse.247 Ma l’espressione a tal punto non riesce a nascondere quel turbamento che arreca con sé ogni qualità giunta al colmo. I quadri di Tiziano erano giunti a essere «a tal punto di carne» da diventare presto inavvicinabili, inguardabili o piuttosto «illeggibili» da vicino, come aveva notato giusta­ mente il Vasari. E tuttavia è proprio la qualità del colorito a costringere 11 quadro a questa specie di alienazione (figura da vicino vel figura da lontano, con la figura da vicino che a ogni modo scompare). Sperone Speroni scrive, nei suoi Dialoghi pubblicati nel 1596, che Dio sembra

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aver messo, nei colori di Tiziano, il paradiso de’ nostri corpi, così come ha fatto mettendo in cielo il paradiso delle nostre anime...248 Divino Ti­ ziano, si è detto. Sappiamo tuttavia a quale caos, a quale inferno figura­ le lo sguardo è costretto, non appena ci si arrischi a sfiorare le «muraglie di pittura» della sua ultima maniera.249 Conosciamo anche le aporie d’in­ terpretazione che questa costrizione ha potuto suscitare in alcuni dei suoi capolavori ben noti. Secondo me, simili aporie non possono ridur­ si alla sola «oscurità» del lavoro allegorico, constatata da Panofsky; a meno di non includervi e articolarvi la funzione capitale, portante, del lembo colorato (penso a quel «fondo» deWAllegoria della Prudenza, per esempio, di cui Panofsky non dice nulla, quel lavoro in definitiva molto complesso della tenebra e della contaminazione colorata che bisogne­ rebbe assolutamente includere nell’interpretazione iconologica). Eccoci ritornati a una sorta di punto di partenza. È stata forse l’astuzia della stessa domanda. Il fantasma produce l’ideale del quadro; l’ideale è il limite; il limite produce l’insuccesso. La causa finale del quadro di Fren­ hofer, l’incarnato, la carne di un singolo corpo, alla fine produrrà solo la sfigurazione di ogni corpo. Qui probabilmente risiede una costrizione vorace che porta con sé un particolare modo di concepire la visibilità colorata-camale, nel quadro. «Ogni luce ha luogo nella produzione della carne» scrive Schelling, ma per aggiungere subito: «La carne è il vero caos di tutti i colori.»250 E davvero sconvolgente: non c’è origine se non sfigu­ rata, un altro modo per dire la perdita di Catherine Lescault. Lungi dal significare un venire meno, una «vanità» o un'«impotenza», come si legge spesso nella critica letteraria, il capolavoro di Frenhofer non fu probabil­ mente altro che un quadro in carena, per così dire, un quadro mancato, squilibrato, che mostra il proprio fianco, ciò che lo sosteneva, lo costitui­ va nel suo fondo: esso mostra la sua pittura, il suo lembo di colori voraci. Un quadro, quindi, che esibiva la sua più intima, più segreta, disgiunzio­ ne: quadro vel pittura, con il quadro che in ogni caso sparisce. Frenhofer aveva sognato la pittura come onnipotenza. Il suo capolavoro non fece forse altro che esibire un’onnipotenza del pittorico sulla figurazione, pro­ prio quando il pittorico era stato pensato, sognato, esclusivamente come mezzo di un’apoteosi della figurazione - l’introvabile, l’incomparabile corpo di Venere, la sua grazia e il suo incarnato.

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Così l’incarnato, in quanto ideale del colore, suo universale singolare (colorito assoluto e assolutamente riferito alla pelle di Catherine, al suo pudore, al suo desiderio), non esisterebbe. Esso, in effetti, non si è rea­ lizzato. Il colore avrà fatto sempre meno di quello, o più di quello. Meno, in quanto pigmento al servizio di un aspetto, di un contorno, di una «silhouette», come diceva Frenhofer. Di più, in quanto «magia», ma insensata, solitaria, del colore: un’applicazione del colore indipendente da ogni referente. La parola magia viene da Hegel. L’Estetica, come abbiamo visto, pone l’incarnato come l’«ideale, per così dire» e come il «colmo» del colorito. Ma Hegel, stranamente, ha avuto bisogno di enun­ ciare una specie di aldilà dell’incarnato, ma un aldilà che non è un sopra-ideale, e di cui non si sa se rappresenti, per così dire, la magia bianca o la magia nera della pittura, il meglio o il peggio di un ideale del colorito: «La magia consiste nel fatto che tutti i colori sono trattati in modo tale che ne nasca un gioco per sé inoggettivo della parvenza, il quale costituisce l’estremo culmine della colorazione».251 Un gioco d’apparenze senza oggetto, un’evanescenza: un gioco del quasi-niente e del niente, un puro caso delYepiphasis e dell 'aphanisis. Un sintomo, quindi, ma un puro sintomo della pittura. A voler imitare il corpo fin nelle sue modalità temporali, vale a dire nelle modalità del sintomo, la pittura perderà completamente il corpo come proprio riferimento mi­ metico. Che cosa resta? Un lavoro del diafano e un lavoro del lembo. Diderot aveva anticipato Hegel, chiamando anch’egli «magia» questo effetto di confusione e di non senso che il colorito sembra spesso impor­ re alla figurazione nel quadro: «Non si capisce nulla di questa magia. Sono densi strati applicati gli uni sugli altri e il cui effetto traspira da sotto in su. A volte si direbbe che si tratti di un vapore che hanno soffia­ to sulla tela; altre, una schiuma leggera che vi hanno gettato. [...] Avvi­ cinatevi, tutto si confonde, si appiattisce e scompare; allontanatevi, tutto si ricrea e si riproduce». Questo è quanto si dice a proposito di quel gran lembo di in-carnato - il rovescio della pelle, la carne del dentro - che è La raie dépouillée di Chardin: «l’oggetto è disgustoso, ma è la carne stessa...».252 Tirannia del lembo: divorare diafano o choc di ima «muraglia di pittura», oppure entrambe le cose. I «colori confusamente ammassati» del quadro di Frenhofer dicono il reciproco divorarsi delle sostanze attraverso cui la

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pittura tenterà tuttavia di costituirsi come mezzo di rappresentazione dei corpi. Tirannia del lembo: labilità infernale del colorito, rovina dell’aspet­ to. Nemmeno una «somma di eccessive coerenze parziali», quindi di det­ tagli, finalizzati alla specificazione di un aspetto, produrrà mai «una pro­ fondità trasparente, ma un sovraccarico, una pletora testuale (pittorica) in cui il viso (l’aspetto in generale) finisce per sprofondare, inabissarsi e spa­ rire».253 La figura diventa qui solo un palinsesto, nel senso attribuitogli da Gérard Genette, e forse è anche peggio di così. Un lembo, un caos. Ma come ha fatto Frenhofer per arrivare a tanto? C’è ancora bisogno di chiederselo? Il racconto di Balzac ce lo lascia immagi­ nare all’infinito. Senza fine e senza soluzione. Lo possiamo immaginare in un senso e nell’altro. Possiamo immaginare il lavoro di un’esuberanza colorata, sapendo «che nel punto culminante dell’esuberanza, il senso è in ogni caso velato».254 Ma possiamo anche immaginare un lavoro, altrettanto intensivo, di contrazione verso il niente: avere ridotto il corpo poco a poco, per produrre il tutto di Catherine, al puro bagliore del suo fascino, ossia alla pura evanescenza di un frammento aspettuale, il piede; vale a dire, quasi niente. Corpo ridotto al suo fascino, fascino ridotto al suo feticcio, feticcio ridotto a esistere solo nella più estrema precarietà del bagliore, un passaggio, un’evanescenza. O allora Frenhofer avrà pen­ sato quello che Bataille dice dell 'Olympia, ovvero che «nella sua provo­ cante esattezza, essa non è niente; la sua nudità (in accordo evidente­ mente con quella del corpo) è il silenzio che ne promana, come quello di ima nave incagliata, di una nave vuota: essa è l’“orrore sacro” della pro­ pria presenza - di una presenza la cui semplicità è quella dell’assen­ za».255 L'Olympia di Manet, continua Bataille, non significherebbe altro che la «sparizione» del senso in quanto tale.256 Frenhofer avrebbe volu­ to sfuggire alla sparizione che una nudità tanto «esatta», fuori atto, quin­ di mortifera, porta con sé - si è dovuto, suo malgrado, arrendere a un’al­ tra sparizione, quella dell’aspetto. Questa sparizione non è tuttavia meno devastante. Frenhofer, probabilmente, non ha smesso di correre, di sfi­ nirsi, tra la tirannia del dettaglio e quella del lembo, tra il silenzio esatto del dettaglio e il niente caotico del lembo. «Su quella tela non c’è niente» ha esclamato Poussin. Sappiamo quello che succede in seguito: «Niente sulla mia tela?» dice Frenhofer, guardan­

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do, non la tela, ma i due pittori. «Non vedi niente, eh?, criminale!», e così di seguito, sempre sul giovane pittore, cui afferra, con forza, il braccio. Dando quindi ancora le spalle alla propria pittura. «Rispondete?» Come se lo strano punto di domanda divenisse già infezione di un dubbio, che Frenhofer forse ritrova leggendolo nello sguardo dei due pittori di fron­ te a lui. Un’«ansia» scrive Balzac. «Vedete!»257 è la sola risposta. Mo­ mento vertiginoso in cui al pittore è chiesto non di guardare (guardare la Catherine dei suoi desideri, della sua vita, dei suoi dieci anni di lavoro, la Catherine dei retroscena del quadro), ma di vedere, vedere la sua pittura. Allora Frenhofer vacilla. «Niente! Niente!»,258 Catherine è sparita. Il quadro è sparito (Frenhofer desiderava di certo la sparizione del quadro, ma in un senso completamente diverso). Il dettaglio stesso, il piede, sarà sicuramente scomparso. Ritorna al neutro, s’incenerisce, soccombe all’ef­ fetto di lembo. Ogni feticcio è consegnato al rischio della propria défail­ lance panica.259 E nulla è propizio a suscitare un tale momento, una tale catastrofe, quanto lo sguardo che fa da terzo, esigente, del soggetto, un atto del vedere. Tutto crolla allora, tutto soccombe. Tirannia del lembo: rovina. Questo significherebbe che la pittura possie­ de i mezzi della propria distruzione. Che ciò che costituisce la pittura costituisce anche il più grande pericolo per ogni rappresentazione della pittura. Questa esistenza precaria non è priva di legami ontologici con la natura profondamente antitetica di ogni fascinazione, che commuove e afferra, colpisce e isola, avvicina vertiginosamente - anche se la vertigi­ ne è l’apertura di un vuoto; la fascinazione, come atto estremo del sog­ getto nel suo sguardo, è tuttavia la realizzazione di quello che Blanchot chiama l’impersonale, il neutro; fascinazione «in cui la cecità è ancora visione, visione che non è più possibilità di vedere, ma impossibilità di non vedere».260 «Sguardo morto» dirà ancora Blanchot; si tratta però dell’estrema protensione di un soggetto, di un desiderio, nel proprio sguardo. E quindi un lacerarsi. Che il soggetto faccia la prova di questa lacerazione fino in fondo, come il vecchio pittore del Capolavoro scono­ sciuto, e «si può dire ad ogni istante costituisca il proprio mondo attra­ verso il suo suicidio».261 Lacan scrive che il rapporto immaginario sa rag­ giungere il proprio limite e rovesciarsi al di là del punto «in cui l’imma­ gine fascinante del feticcio si fa statua».262 Questo rovesciamento sareb­ be una maniera più generale di chiamare l’assorbimento improvviso

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(«Niente! Niente!») del dettaglio nel lembo, vale a dire dell’incarnato di un piede «delizioso, vivo», nell’in-carnato di un effetto caotico, informe, qualcosa che possiamo indicare solo come una «carne dell’interno»; visto che la superficie e la sua trasparenza sono state divorate, distrutte, lacerate. E quanto avviene, per esempio, nel sogno dell’iniezione di Irma, proprio nel momento in cui la donna apre la bocca - e a questo punto potremmo dire che ella apre se stessa: «C’è qui un’orribile scoper­ ta, quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente, infor­ me, in quanto la sua forma per se stessa è qualcosa che provoca l’ango­ scia. Visione di angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo - Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più infor­ me».263 L’oggetto d’angoscia per eccellenza, ecco cos’è la carne, quella dell’interno. A furia di cercare il sembiante «della carne», o più esatta­ mente della pelle, vale a dire l’incarnato, Frenhofer finisce per trovare solo il dissimile della «carne», il ripiegarsi delle viscere. A furia di cerca­ re l’effetto dei fondi sulle superfici, non troverà altro che il caos dei fondi intesi come distruzione delle superfici. Questo «caos di colori» fa pensare naturalmente a un’autoscopia. Il lembo di pittura nel quadro di Frenhofer - e abbiamo visto che lembo significa anche l’interno di una piega - sarebbe l’aldilà sanguinante del ritratto di Catherine, Catherine vista dall’interno. Come se Frenhofer avesse voluto «afferrare» il proprio «soggetto» sino a penetrarvi, volendo compene­ trarsene. O addirittura compenetrarsene al punto da non produrre che un’autoscopia dei propri umori di pittore. D’altronde non è molto impor­ tante. Qui conta solo evocare la catastrofe del feticcio, nel momento in cui questa avviene: quando il soggetto è costretto a scegliere tra morte del desiderio e sparizione dell’oggetto, spesso sceglie d'identificarsi all’ogget­ to264 Un’osservazione di Magnan, ripresa da Krafft-Ebing, riporta il caso di un feticista della «pelle bianca e fine» delle ragazze giovani: non desi­ derava altro che posarvi la bocca e mordere la superficie per scoprirne il fondo. Visto che la realtà - o il dubbio, o il pudore - aveva sempre osta­ colato il suo desiderio, era giunto a lacerarsi la sua stessa pelle, a mangiar­ ne i lembi, immaginando, dato che sanguinava molto, «che fosse pelle vergine» di una giovane donna.265 Il XIX secolo ha amato sprofondarsi

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nello sguardo dei folli, farne un’anatomia. La clinica dell’autoscopia, com’era elaborata all’epoca, ricorda da vicino i «colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre» che Poussin scorge di fronte al quadro di Frenhofer. Le isteriche di Charcot e dei suoi allievi hanno fatto questo gioco perverso; hanno reso il loro sguardo sul­ l’interno, offerto una vera e propria «anatomia sul vivo», un’intera icono­ grafia di pieghe, viscere, una moltitudine di linee bizzarre di tutti i retico­ li organici. «Sento l’interno della mia testa» dice una giovane donna. «Com’è fatto? Sono mucchi di piccole cose che si muovono; oh! Vedo la mia faccia dall’interno; è orribile, però la riconosco; è come se la vedessi sotto la pelle da dietro. [...] Ma dove vanno tutte queste corde? Ce ne sono ovunque intorno a me, sono come avvolta da una rete; ce n’è un numero incalcolabile; fanno funzionare tutto e finiscono nella colonna e da lì arrivano nella mia testa [...] in piccoli fili che si intrecciano, come un tessuto [...]; ce ne sono alcuni che arrivano lì (indica la parete addo­ minale) e girano; ce ne sono alcuni avvolti nelle pieghe di un velo, e in queste pieghe c’è una specie di piccola nocciola.»266 Ma l’autoscopia non è che una figura. Una metafora dell’organismo. La sua «scoperta» nel XIX secolo, la sua osservazione sperimentale su sog­ getti isterici in stato d’ipnosi, mirava a qualcosa come un’iconografia, ancora una volta. Vale a dire a dare un aspetto nominabile. Ma in realtà essa fu soltanto un’isterizzazione dell’anatomia «volgare», come dice Freud. Essa ci può servire probabilmente solo per indicare lo scortica­ mento a cui si espone il pittore non appena desideri «penetrare» il segre­ to di una pelle, il suo incarnato. Cennini, Diderot e altri ancora enuncia­ rono, abbiamo visto, il rischio che corre ogni «gran colorista».267 Il desti­ no panico del quadro di Frenhofer non dipenderebbe quindi solo da una «distruzione» per progressiva copertura; dipenderebbe anche da una «distruzione» per intrusione, per lacerazione. La frase struggente di Fren­ hofer «Niente! Niente! Dopo averci lavorato per degli anni!» evoca qualcosa di simile a un movimento delirante del senso aptico (delirio del vedere e delirio del toccare), che potremmo esprimere in questi termini: «Aver penetrato il mio soggetto per compenetrarmene. Ma sono andato troppo lontano. Cercavo l’incarnato. Ho lacerato la sua pelle. Ho sacri­ ficato, ucciso, l’aspetto».

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Frenhofer avrà allora scoperto, nel lembo, proprio il senso mortifero di una «follia del dubbio con delirio del tatto». Assolutamente mortifero, tanto per il soggetto del quadro, Catherine, quanto per il soggetto pitto­ re. Il lembo di pittura indicherebbe allora la rovina, in generale, del sog­ getto della rappresentazione. Già solo perché ogni differenza (il diffe­ renziale in cui si costituirebbe una catena significante) si trova in rovina. La lacerazione avrà allora prodotto la rovina di una differenza e di un senso. A proposito della coscienza lacerata, Hegel scriveva che «poiché il comportamento di tale coscienza si trova congiunto a questa lacerazione assoluta, nel suo spirito scompare ogni differenza, ogni determinazio­ ne».268 Bisogna ricordarsi che la coscienza lacerata fornisce, nella Feno­ menologia dello spirito, «il linguaggio perfetto e lo spirito autenticamen­ te esistente di tutto il mondo della cultura». Ma essa è allo stesso tempo «quell’assoluta e universale perversione (Verkehrung) ed estraniazione dell’effettività del pensiero». E quindi analizzata da Hegel come «co­ scienza della perversione e propriamente della perversione assoluta: in essa è il concetto che domina».269 Autenticità, perversione, voracità di un puro concetto, il pittore Frenhofer fu proprio una coscienza lacerata. Un altro modo di chiamare, nel pittore, la follia del dubbio e il delirio del tatto (il tatto come senso aptico e non-differenziazione). Che la coscienza lacerata possa significare l’oblio di ogni differenza, di ogni determinazione, ci fa capire anche perché, legittimamente, Frenhofer era capace di tutti quei rovesciamenti di sguardo attraverso i quali, spesso, s’acceride il delirio. Questo dimostra, sia detto di passaggio, che il valo­ re del Capolavoro sconosciuto non sta tanto in una sorta di «definizione dell’arte» secondo Balzac, nel suo «catechismo estetico» o in una para­ bola sulla «condizione dell’artista», sulla sua «vanità», o chissà cos’altro ancora.270 Persino nelle sue asserzioni più teoriche, Frenhofer non mo­ strava nulla che somigliasse a un catechismo o a una definizione. Anzi: le sue parole come i suoi atti hanno prodotto solo una catena - tra l’altro ammirevole e pertinente - di antitesi, discrete o eclatanti, di ripensamen­ ti, di sconfessioni, di lacune. Strutture logiche d’alienazione e non di controllo, violenze disgiuntive. Il «Niente! Niente!» partecipa soprattutto a uno straordinario processo di reversione. Rovesciamenti insensati, affannosi, senza soluzione che non sia mortale. Rovesciamenti di credenza (avere allucinazioni, vedere

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il vero, avere allucinazioni) in cui precipita l’intera fine del racconto. «Non vedi niente, eh?, criminale!» esclama Frenhofer, che ancora per­ cepisce, volgendo le spalle al quadro, la grazia di Catherine laddove non vi erano che «sfumature indecise» di forme e colori. Poi, tutto si rove­ scia: vede, anzi non vede altro che «Niente! Niente!»... «Si sedette e pianse» scrive Balzac, come per finire. Ma no. Di nuovo tutto si rovescia: certezza riconquistata nell’istante. «Ma io la vedo!» gridò, «ed è meravi­ gliosamente bella.» E con la stessa «sollecitudine convulsa» che accom­ pagna il «disprezzo» e il «sospetto» nei confronti dei due pittori ladri di certezze, Frenhofer riconquisterà per sempre l’estrema solitudine (dub­ bio e certezza mischiati). Estremo rovesciamento, lo conosciamo: omici­ dio del quadro e suicidio, pensiamo, del pittore.271 Tutti questi rovesciamenti forse ci insegnano in che modo il pittore pensi, guardi, agisca antiteticamente - sotto l’influenza degli umori (che non sono i «senti­ menti», a meno di non intenderli secondo quanto ne diceva Leonardo). Liquidi colorati hanno presieduto agli atti, alle decisioni e ai dubbi di Frenhofer: tra la collera («Non vedi niente, eh?, criminale!») e la malin­ conia («Niente! Niente! [...] Sono soltanto un ricco che gira, gira e non combina nulla!»). Tra la flemma («Addio, miei cari amici» saranno le ultime parole di Frenhofer ai due pittori e a Gillette; suonano d’un trat­ to come una perversa impassibilità; «quel commiato gelò i due pittori» scrive Balzac) e il sangue. È attraverso lo schermo liquido delle lacrime che Frenhofer ritrova il proprio sguardo, «uno sguardo dardeggiarne» dice Balzac, come se lo sguardo, o la ripresa di visibilità del fantasma, avesse bisogno dell’umore antitetico a ogni visione chiara e «asciutta». La parola in cui si sottolinea questo ritrovamento, «Ma io la vedo!», in questo spazio per metà allucinato e per metà obnubilato, non è altro che un immenso inno alla gloria del sangue.272 L’enigma sussisterà. Che cosa vedeva dunque sullo schermo della sua tela e attraverso lo schermo delle sue lacrime? Non possiamo immagi­ narlo, visto che «Catherine Lescault» indica solo un’assoluta singolarità. Ma possiamo arrischiare nuovamente la parola chiave della ricerca di Frenhofer: Venus. E infatti una parola situata all’interstizio tra universa­ le e singolare, in quanto nome proprio di una divinità. E però innanzi­ tutto un termine neutro (l’oggetto, l’opus sono neutri) che ha inspiega­ bilmente, dicono i filologi, «virato al femminile», per poi giungere a

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significare il femminile per eccellenza, o la divinità del suo corpo. La nozione di venus è esattamente a metà strada tra la seduzione erotica inclusa quella dell’oggetto d’arte, come nei racconti che abbiamo visto e la religiosità. Hegel considerava proprio in questi termini la dialettica della coscienza lacerata: tra l’arte e la religione; «un artista è una vera religione» scriveva per parte sua Balzac, nel 1830, poco prima di comin­ ciare il Capolavoro. Venus è in ogni caso un termine del fascino, ma il fascino, lo sappiamo bene, è una nozione antitetica: tra l’efficacia del religioso e l’efficacia dell’osceno, tra la magia del filtro d’amore e la sen­ tenza di un veleno (la parola venus genera quella di venenum). O allora tra la grazia divina, che si dice venia, e la prostituzione, fino al male vene­ reo. Quello che è certo è che nell’antichità la nozione di venus richiama­ va un senso di fascino o di religiosità in opposizione formale a ogni nozione di fiducia o di fede.273 Venus impone la follia del dubbio e l’alie­ nazione; venus significa il fascino, la captazione come pericolo, intensità contraddittorie. E tutto questo forse avrà fatto il destino di Frenhofer: agitandosi senza saperlo nella necessità del venus (termine neutro) «in­ trovabile degli antichi...». Venus, quindi: quello cui mirava come pro­ prio ideale (divinità della donna); quello che incontrò come sua follia del dubbio, suo delirio del tatto (veleno del desiderio d’incarnato); la sua lacerazione, e infine la sua rovina. Cosa contemplava Frenhofer attraver­ so lo schermo delle proprie lacrime? Non possiamo immaginarlo, se non producendo il paradosso di una figura dell’origine: una figura che non sarebbe una Gestalt, ma un’intensa e contraddittoria Gestaltung, una nascita - quella di Venere, appunto. «Carnazione» di un corpo in stato di epiphasis (di epifania), la divinità si fa donna prendendo forma, scrive Esiodo, dalla bianca schiuma che fuoriusciva dal membro mutilato, san­ guinante, del Tempo.274 Lacrime, schiuma, sangue. Frenhofer cercava il sangue delle immagini; gli rimarrà solo lo schermo delle sue lacrime. I racconti filosofici di Balzac si concludono spesso con le lacrime. In Massimilla Doni, il prin­ cipe Emilio sogna delle perle versategli sul petto da un angelo: sono le lacrime della donna che lo guardava dormire.275 Gambara piange davan­ ti al bagliore di una moneta d’oro e, toccando le lacrime, dice: «L’acqua è un corpo bruciato»,276 eco del «Volere ci brucia» della Pelle di zigrino. L’umore sarebbe allora un corpo bruciato. Le lacrime di Frenhofer

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avrebbero dunque richiesto, preteso, che ai quadri fosse appiccato il fuoco, neirultima notte. La pittura pensa attraverso Tumore, ma Tumo­ re esige il suicidio, melanconico e convulso allo stesso tempo, del pitto­ re. Immagino l’incendio del capolavoro di Frenhofer, il suo suicidio, con un’intensità paragonabile a quella del colpo di spugna di Apelle: l’occhio iniettato di sangue nell’estremo tentativo, annichilente, per dare vita, per incarnare la (o il) Venus. Il termine venenum indica d’altronde precisamente questo: è il «colpo reale ai dadi», il colpo per diventare di colpo padrone assoluto del gioco, colpo del massimo rischio e del magico suc­ cesso.277 Frenhofer forse crede che, bruciando i propri quadri, suicidan­ dosi insieme a essi, il colpo della disparità, dell’incarnato realizzato, potrebbe avere una possibilità, una sola, l’ultima, di essere proprio quel colpo lì, quel suicidio. Ma quello che esce, e che forse macchia un lembo del muro dell’atelier o le ceneri del capolavoro, è solo il suo sangue, il suo umore, il colore della sua vita, della vita che scompare.

Il capolavoro sconosciuto a un lord

La versione originale de Le Chef-d!'oeuvre inconnu risale al 1831. Qui pubblichiamo quel­ la comparsa negli Études philosophiques (Delloye e Lecou, 1837, tomo xvn), riveduta e ampliata da Balzac. La dedica è del 1845.

I. Gillette

Sul finire dell’anno 1612, in una fredda mattinata di dicembre, un giova­ ne vestito con abiti alquanto dimessi passeggiava dinanzi alla porta di una casa di rue des Grands Augustins, a Parigi. Dopo aver camminato abba­ stanza a lungo su e giù per la via con l’esitazione di un innamorato che non osi presentarsi al cospetto della sua prima amante, quantunque di facili costumi, egli finì per varcare la soglia di quella porta, e domandò se il maestro François Porbus si trovava in casa. Alla risposta affermativa di una vecchia, intenta a spazzare una sala bassa, il giovane salì lentamente le scale arrestandosi a ogni gradino, come un cortigiano di nomina recen­ te, preoccupato dell’accoglienza che gli riserverà il re. Giunto in cima alla rampa, sostò per un attimo sul pianerottolo, indeciso se afferrare il grot­ tesco batacchio che adornava la porta dello studio in cui quasi certamen­ te stava lavorando il pittore di Enrico IV, abbandonato da Maria de’ Medici per Rubens. Il giovane era in preda a quella profonda sensazione che deve aver fatto vibrare il cuore dei grandi artisti quando, nel pieno della giovinezza e del proprio amore per l’arte, avvicinavano un uomo di genio o un capolavoro. In tutti i sentimenti umani esiste un fiore primiti­ vo, generato da un nobile entusiasmo che si va assottigliando poco a poco, fino a che la felicità non sia più che un ricordo, e la gloria una men­ zogna. Tra queste emozioni fragili, nulla somiglia maggiormente all’amo­ re della giovanile passione di un artista che intraprenda il delizioso sup­ plizio del proprio destino di gloria e di sventura, una passione colma d’audacia e di timidezza, di vaghe certezze e di avvilimenti certi. A chi,

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adolescente di genio ma di poco denaro, non abbia intensamente palpi­ tato il cuore presentandosi a un maestro, sempre mancherà una corda nel cuore stesso, una non so quale pennellata, un sentimento nell’opera, un’espressione nella poesia. Se qualche fanfarone pieno di sé crede trop­ po presto nel proprio avvenire, il suo ingegno non parrà tale che agli stol­ ti. Sotto questo aspetto il giovane sconosciuto sembrava meritevole dav­ vero, sempre che il talento si debba misurare su quella iniziale timidezza, su quel pudore indefinibile che gli individui votati alla gloria sanno per­ dere nell’esercizio della propria arte, come le belle donne smarriscono il loro nelle manovre della civetteria. L’abitudine al trionfo attenua il dub­ bio, e forse il pudore è un dubbio anch’esso. Oppresso dalla miseria e colto in quel momento alla sprovvista dalla propria audacia, il povero principiante non sarebbe entrato nella casa del pittore al quale dobbiamo il mirabile ritratto di Enrico IV, senza un ausilio straordinario inviatogli dal caso. Un vecchio prese a salire le scale. Dall’eccentricità del suo abito, dalla magnificenza della sua goletta di pizzo, dall’assoluta sicurezza del suo passo, il giovane ravvi­ sò nel personaggio un mecenate o un amico del pittore. Indietreggiò sul pianerottolo per fargli spazio e lo esaminò con curiosità, speran­ do di identificare in lui la natura bonaria dell’artista o la sollecitudi­ ne degli amanti dell’arte; ma avvertì in quella figura un qualcosa di dia­ bolico, e più ancora quel certo non so che che alletta gli artisti. Im­ maginate una fronte calva, bombata, prominente, che sporga su un pic­ colo naso schiacciato, con la punta rivolta verso l’alto come quello di Rabelais o di Socrate; una bocca beffarda e rugosa, un mento tozzo, fieramente sollevato, ornato da una barba grigia tagliata a punta, due occhi verdemare all’apparenza offuscati dagli anni ma che, grazie al contrasto del bianco madreperlaceo sul quale galleggiava la pupilla, dovevano talora dardeggiare di sguardi magnetici, al culmine dell’ira o dell’entusiasmo. Il volto era d’altronde singolarmente segnato dalle fatiche dell’età, e ancor più da quei pensieri che scavano di pari passo nell’anima e nel corpo. Gli occhi non avevano più ciglia, e a stento si intravedevano poche tracce di sopracciglia sulle arcate sporgenti. Posate quella testa su un corpo debole e gracile, cingetela con una gorgiera lavorata a merletto di abbagliante candore, buttate sul nero farsetto del vecchio una pesante catena d’oro, e otterrete un’immagine imperfetta di quel

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personaggio al quale la luce fioca delle scale conferiva per di più un colorito fantastico. Avreste potuto scambiarla per una tela di Rembrandt che avanzava in silenzio e senza la cornice nell’oscura atmosfera propria di quel grande. Il vecchio lanciò al ragazzo uno sguardo penetrante, bussò tre volte alla porta, e disse all’uomo che venne ad aprire, sulla quarantina e dall’aria malaticcia: «Buongiorno, maestro». Porbus s’inchinò con deferenza, lasciò entrare il giovane credendolo in compagnia del vecchio, e gli prestò un’attenzione tanto più scarsa in quanto il principiante era rimasto soggiogato dal fascino che deve pro­ vare chi è nato per fare il pittore la prima volta che vede un atelier in cui si svelano davanti a lui alcune tecniche dell’arte. Una vetrata aperta sulla volta rischiarava lo studio del maestro Porbus. Concentrata su una tela fissata al cavalletto, sulla quale comparivano soltanto tre o quattro pen­ nellate bianche, la luce del giorno non poteva raggiungere le buie pro­ fondità agli angoli di quella grande stanza; tuttavia alcuni riflessi vaga­ bondi accendevano in quell’ombra rossastra una scintilla argentata sul ventre di un’antica corazza da cavaliere appesa alla parete, solcavano con taglienti righe luminose la cornice scolpita e incerata di una vecchia cre­ denza carica di stoviglie curiose, o trapuntavano di forellini scintillanti la trama granulosa di certe vecchie tende di broccato d’oro dalle ampie pièghe, gettate là per modello. Calchi anatomici in gesso, frammenti e busti di divinità del passato, amorosamente levigati dai baci dei secoli, erano disseminati su mensole e ripiani. Un gran numero di schizzi, studi a tre matite, a sanguigna o a penna ricoprivano le pareti fino al soffitto. Scatole di colori, bottiglie d’olio e di solvente, sgabelli rovesciati lascia­ vano a malapena un angusto passaggio per arrivare sotto l’aureola che proiettava l’ampio lucernario i cui raggi ricadevano in pieno sul pallido volto di Porbus e sul cranio eburneo dell’uomo singolare. Ben presto l’attenzione del giovane fu catturata unicamente da un quadro che, in quell’epoca di disordini e di rivoluzioni, era già celebre, e che si recava­ no a visitare alcuni di quei caparbi ai quali si deve la conservazione del sacro fuoco nei giorni del pericolo. Quella bella opera rappresentava una santa Maria egiziaca in procinto di pagare il prezzo della barca. Quel capolavoro, destinato a Maria de’ Medici, fu poi da questa venduto quando cadde in disgrazia.

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«La tua santa mi piace» disse il vecchio a Porbus «e sarei disposto a pagartela dieci scudi d’oro più di quelli che ti offre la regina; ma invade­ re il suo campo... che diavolo!» «Secondo voi è ben fatta?» «Eh, eh!» fece il vecchio. «Ben fatta? Sì e no. «La tua brava donna non è eseguita male, ma non ha vita. Voialtri cre­ dete di essere a posto disegnando una faccia come si deve e mettendo ogni cosa al suo posto secondo le leggi dell’anatomia! Poi colorate que­ sti lineamenti con un color carne approntato in anticipo sulla vostra tavolozza, facendo bene attenzione a mantenere un lato più scuro dell’al­ tro, e solo perché di tanto in tanto date un’occhiata a una donna nuda in piedi su un tavolo credete di aver copiato la natura, vi immaginate di essere dei pittori e di aver rubato il segreto a Dio! Pfff! Per essere un grande poeta non basta mica conoscere bene la sintassi e non fare erro­ ri di grammatica! Guarda la tua santa, Porbus! A prima vista sembra bellissima; ma già alla seconda occhiata ci si accorge che è incollata sullo sfondo di una tela e non le si potrebbe mai girare attorno. È una silhou­ ette a una dimensione, un’immagine ritagliata, una figura che non potrebbe mai voltarsi, né mutare posizione. Non sento aria tra questo braccio e lo sfondo del quadro; mancano spazio e profondità. Eppure la prospettiva c’è, e le sfumature di colore sono applicate correttamente; ma nonostante questi lodevoli sforzi, non riuscirei a credere che questo bel corpo sia animato dal tiepido alito vitale. Ho l’impressione che, se posassi la mano su quella gola così soda e rotonda, la troverei fredda come il marmo! No, amico mio, non scorre il sangue sotto quell’incarnato d’avorio, la vita non gonfia con la sua rugiada purpurea il reticola­ to dei capillari sotto la trasparenza ambrata delle tempie e del petto. Questa parte palpita, ma questa invece è immobile, la vita e la morte lot­ tano in ogni dettaglio: qui è una donna, lì una statua, più in là un cada­ vere. La tua è una creazione incompleta. Sei riuscito a insufflare soltan­ to una parte della tua anima nella tua amata opera. Più di una volta la fiaccola di Prometeo ti si è spenta in mano, e molte parti del tuo quadro non sono stati sfiorati dalla fiamma celeste.» «Ma perché, mio caro maestro?» domandò rispettosamente Porbus al vecchio, mentre il giovane faticava a reprimere un forte desiderio di picchiarlo. «Be’, vedi» rispose il vecchietto «tu hai oscillato esitando tra due

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sistemi, tra disegno e colore, tra la flemma minuziosa, il rigore esatto dei vecchi maestri tedeschi e l’ardore abbagliante, la gioiosa esuberanza dei pittori italiani. Hai voluto imitare al tempo stesso Hans Holbein e Tiziano, Albrecht Dürer e Paolo Veronese. Certo che hai avuto una bella ambizione! Ma che è successo? Non hai avuto né il fascino severo del­ l’asciuttezza, né le ingannevoli magie del chiaroscuro. Da questa parte, come un bronzo fuso che crepi il suo stampo troppo fragile, il colore ricco e biondo di Tiziano ha fatto scoppiare il magro contorno di Albrecht Dürer, all’interno del quale l’avevi versato. Altrove invece le linee hanno resistito, riuscendo a contenere i magnifici straripamenti della tavolozza veneziana. La tua figura non è né perfettamente disegna­ ta, né perfettamente dipinta, e reca ovunque le tracce di questa sventu­ rata indecisione. Se tu non ti sentivi sufficientemente ferrato per far scio­ gliere insieme al fuoco del tuo ingegno le due modalità rivali, avresti dovuto optare decisamente per l’una o per l’altra, in modo da ottenere l’unità che simula una delle condizioni della vita. Sei fedele solo nelle parti in mezzo, i tuoi contorni sono falsi, non avvolgono e non lasciano immaginare niente dietro. Qui c’è del vero» concesse il vecchio indican­ do il petto della santa «e pure qui» riprese, mostrando il punto in cui nel quadro terminava la spalla. «Ma lì» terminò ritornando al centro della gola «lì tutto è falso. Non stiamo a fare delle analisi, non farebbe che get­ tarti nella disperazione.» Il vecchio si sedette sopra uno sgabello, si prese la testa tra le mani e tacque. «Eppure l’ho ben studiata questa gola sul nudo, maestro» obiettò Porbus. «Per nostra sfortuna tuttavia vi sono in natura veri che perdono verosimiglianza sulla tela...» «La missione dell’arte non consiste nel copiare la natura, ma nell’esprimerla! Tu non sei un volgare copista, ma un poeta!» gridò anima­ tamente il vecchio, interrompendo Porbus con un gesto dispotico. «In caso contrario uno scultore avrebbe risolto tutti i suoi problemi facendo il calco di una donna vera! Ebbene, prova a prendere l’impronta della mano della tua amica e posala davanti a te: ti troverai di fronte a un orri­ bile cadavere senza alcuna somiglianza, e sarai costretto ad andare in cerca dello scalpello di colui il quale, senza ricopiarla esattamente, saprà raffigurarne movimento e vita. Noi dobbiamo afferrare lo spirito, l’ani­ ma, la fisionomia delle cose e degli esseri. Gli effetti! Gli effetti! Ma

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quelli sono gli accidenti della vita, non la vita! Una mano, per continua­ re con l’esempio di prima, una mano non è solo collegata al corpo, ma esprime e prosegue un pensiero che bisogna afferrare e rendere! Né il pittore, né il poeta, né lo scultore debbono separare l’effetto dalla causa che gli è indissolubilmente unita! Qui sta la vera lotta! Molti pittori rie­ scono d’istinto, senza conoscere questo aspetto dell’arte. Una donna, voi la disegnate, però non la vedete. Non è così che si potrà mai forzare l’ar­ cano segreto della natura. Senza che ve ne rendiate neppure conto, la vostra mano riproduce il modello che avete copiato dal vostro maestro. Non vi calate abbastanza nell’intimo della forma, non la inseguite con sufficiente amore e perseveranza nelle sue deviazioni e le sue fughe. La bellezza è una cosa ardua e severa, che non si lascia certo raggiungere così; bisogna aspettare il momento buono, spiarla, tallonarla e stringerla forte per indurla alla resa. La forma è un Proteo ben più inafferrabile e fecondo di pieghe di quello della favola: solo dopo lunghe lotte la si può costringere a mostrarsi nelle sue vere sembianze. Voialtri, invece! Voi vi accontentate della prima apparenza che essa vi concede, o tutt’al più della seconda, o della terza. Ma non è così che si comportano i combat­ tenti vittoriosi! Quei pittori imbattuti non si lasciano ingannare dalle scappatoie, e insistono fino a che la natura non sia ridotta a mostrarsi nuda e nel suo autentico spirito. È così che fece Raffaello» disse il vec­ chio, levandosi il berretto di velluto nero per esprimere il rispetto che gli suscitava il re dell’arte. «La sua straordinaria superiorità deriva da quel senso di intimità che in lui sembra voler infrangere la forma. La forma è, nelle sue figure, ciò che essa è in noi: un tramite per comunicare delle idee, delle sensazióni, una grande poesia. Ogni figura è un mondo, un ritratto il cui modello è apparso in una visione sublime, soffuso di luce, evocato da una voce interiore, spogliato da un dito celeste che ha mostrato, nel passato di un’intera vita, le fonti dell’espressione. Alle vostre donne voi fate dei begli abiti di carne, dei bei drappeggi di capel­ li, ma dov’è il sangue, che induce alla calma o alla passione e che è causa di particolari effetti? La tua santa è una donna bruna, ma questo parti­ colare qui, povero il mio Porbus, appartiene a una bionda! Le vostre figure sono dunque pallidi fantasmi colorati che ci fate scorrere davanti agli occhi, e questa voi la chiamate pittura, la chiamate arte! Avendo fatto qualcosa che somiglia più a una donna che a una casa, voi pensate di aver colto nel segno e, tutti orgogliosi di non'esser più obbligati a seri­

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vere accanto alle vostre figure currus venustus o pulcher homo, come facevano i primi pittori, immaginate di essere degli artisti sublimi! Ah, ah! Ancora non ci siete, miei cari compagni, e dovrete consumare un bel po’ di matite, coprire un bel po’ di tele prima di arrivarci! Certo, una donna tiene il capo in questa posa, indossa la gonna in questa foggia, ha gli occhi languidi e struggenti come in quest’espressione di rassegnata dolcezza, e l’ombra palpitante delle sue ciglia sfiora così le sue guance! È questo, ma non è questo. Che cosa manca? Un niente, ma quel niente è tutto. Avete l’apparenza della vita, ma non esprimete il suo eccesso tra­ boccante, quel qualcosa che è forse l’anima, e che fluttua nebulosamen­ te sull’involucro; quel fiore vitale, insomma, che Tiziano e Raffaello hanno saputo sorprendere. Partendo dal punto più alto al quale arriva­ te, si farebbe forse dell’ottima pittura, ma voi vi stancate troppo presto. L’uomo del volgo ammira, ma il vero intenditore sorride. O Mabuse! O maestro mio!» soggiunse il singolare personaggio «Tu sei un ladro, ti sei portato via la vita! A parte questo» riprese «la vostra tela vale di più dei dipinti di quel mascalzone di Rubens, lui e le .sue montagne di carni fiamminghe cosparse di vermiglio, le sue ondate di capigliature rossicce e i suoi colori chiassosi. Voi almeno qui avete colore, sentimento e dise­ gno: le tre componenti essenziali dell’arte.» «Ma questa santa è sublime, signore!» esclamò ad alta voce il giova­ ne, abbandonando le sue fantasticherie. «Le due figure, la santa e il bar­ caiolo, hanno una chiarezza d’intenti ignota ai pittori italiani, e non ne conosco uno che abbia saputo esprimere l’indecisione del barcaiolo.» «È con voi questo giovane buffone?» domandò Porbus al vecchio. «Maestro, ahimè, perdonate l’ardire» rispose arrossendo il princi­ piante «sono uno sconosciuto, ho l’istinto dell’imbrattatele e sono da poco arrivato in città, fonte di tutte le scienze.» «All’opera!» gli disse Porbus porgendogli una matita rossa e un foglio di carta. Lesto, lo sconosciuto copiò i contorni della santa. «Ma guarda guarda!» esclamò il vecchio. «Come vi chiamate?» Sotto il disegno il giovane scrisse: Nicolas Poussin. «Niente male per un principiante» disse il singolare personaggio dal­ l’eloquio tanto folle. «Vedo che si può parlare di pittura in tua presenza. Non ti biasimo per aver ammirato la santa di Porbus. Tutti la giudicano un capolavoro, e solo gli iniziati ai più profondi segreti dell’arte possono

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scoprirne le pecche. Ma poiché sei degno della lezione e in grado di comprenderla, ti farò vedere quante poche cose mancherebbero per completare l’opera. Stai bene attento e sii tutt’orecchi, ché forse una simile occasione per imparare non ti si ripresenterà mai più. La tua tavo­ lozza, Porbus?» Porbus andò alla ricerca di tavolozza e pennelli. Il vecchietto si rim­ boccò le maniche con movimento rapido e convulso, infilò il pollice nella tavolozza screziata e carica di colori che gli porgeva Porbus, dalle mani di quest’ultimo strappò - più che prendere - una manciata di pen­ nelli di tutte le misure, ed ecco che la sua barba appuntita si mosse improvvisa in una tensione minacciosa, che esprimeva la bramosia di un pensiero passionale. Mentre caricava il pennello di colore, borbottava tra i denti: «Questi colori sono buoni per essere scaraventati giù dalla finestra insieme a colui che li ha composti, sono di una rozzezza e di una falsità rivoltanti, ma come si fa a dipingere con questa roba?». Quindi con febbrile frenesia immergeva la punta del pennello nei vari impasti di colore, dei quali a volte percorreva l’intera gamma più velocemente di quanto un organista della cattedrale non percorra tutta la tastiera quan­ do suona l’O filii di Pasqua. Porbus e Poussin stavano immobili, ciascuno a un lato della tela, immersi nella più intensa contemplazione. «Vedi, giovanotto» diceva il vecchio senza voltarsi «vedi come, con soli tre o quattro tocchi e una lieve velatura bluastra, si poteva far circo­ lare un po’ d’aria intorno al capo di questa povera santa, che certo si sen­ tiva soffocare, prigioniera di un’atmosfera tanto opprimente! Guarda adesso come svolazza quel drappeggio, e come si capisce che è sollevato dalla brezza! Prima sembrava una tela inamidata e tenuta su con gli spil­ li. Osserva come il satinato lucente che le ho passato sul petto renda bene la rotonda morbidezza di una pelle di fanciulla, e come questa tonalità, un miscuglio di rosso scuro e ocra, riscaldi la grigia freddezza di quest’ampia ombra, dove il sangue si raggelava anziché scorrere! Eh, giovanotto, ciò che ti mostro adesso non te lo potrebbe insegnare alcun maestro. Solo Mabuse possedeva il segreto per dar vita alle figure. E Mabuse ha un solo allievo: io. Allievi io non ne ho avuti, e ormai son vec­ chio! Hai abbastanza ingegno per indovinare il resto, con quello che ti lascio intravedere.» Mentre parlava, lo strano vecchio ritoccava il quadro in ogni sua

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parte: due pennellate qui, un’altra lì, ma sempre così opportune da far pensare a un nuovo quadro, inondato di luce. Lavorava con tale arden­ te passione che la fronte calva gli s’imperlava di sudore; e si muoveva così velocemente, con piccoli scatti impazienti, che il giovane Poussin aveva l’impressione che il corpo di quel bizzarro personaggio fosse abi­ tato da un demonio, che operava tramite le sue mani impossessandose­ ne prodigiosamente contro il volere dell’uomo. Il lampo sovrannaturale degli occhi, i movimenti convulsi, che parevano effetto di una resisten­ za, conferivano a quell’idea una parvenza di verità che certo suggestio­ nava la fantasia di un giovane. Il vecchio proseguiva: «Paf, paf, paf ! Ecco che il colore si spalma come il burro, giovanotto! Avanti, miei piccoli tocchi, fate rosseggiare un po’ questo tono glaciale! Coraggio! Pam! Pam! Pam!» diceva, animando le parti in cui aveva evidenziato una man­ canza di vitalità, spazzando via gli eccessivi contrasti con pochi tratti di colore e ripristinando l’unità di toni che un’egiziana ardente richiedeva. «Vedi, figliolo, l’unica pennellata che conta è l’ultima. Porbus ne ha date cento, io una soltanto. Nessuno ci ringrazia per quello che sta sotto. Ricordatelo bene!». Quel demonio finalmente si fermò, e volgendosi verso Porbus e Poussin, ammutoliti dall’ammirazione, disse loro: «Non è ancora al livel­ lo della mia Catherine Lescault, ma un’opera così si può firmare. Sì, io la firmerei» soggiunse mentre si alzava per prendere uno specchio col quale la osservò. «E adesso andiamo a mangiare» disse. «Venite entram­ bi a casa mia. Ho del prosciutto affumicato e del buon vino! Eh, eh! E in barba a questi tempi sventurati, parleremo di pittura! Noi possiamo, noi. E questo è un ragazzino» aggiunse con una pacca sulla spalla di Nicolas Poussin «che ha predisposizione.» E notando solo in quel momento la misera casacca del normanno, staccò dalla cintura una borsa di pelle, vi frugò, ne estrasse due monete d’oro e nel mostrargliele disse: «Compro il tuo disegno». «Prendile» disse Porbus a Poussin vedendolo trasalire e arrossire di vergogna, giacché il giovane adepto aveva l’orgoglio del povero. «Prendile, ti dico! Nelle sue tasche c’è il riscatto di due re!» I tre scesero insieme e camminarono discorrendo d’arte sino a una bella casa di legno situata in prossimità del pont Saint-Michel, e i cui decori, il batacchio, le intelaiature delle finestre, gli arabeschi colmaro­ no Poussin di meraviglia. L’aspirante pittore si trovò all’improvviso in

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una sala bassa, davanti a un bel fuoco, seduto accanto a un tavolo cari­ co di pietanze appetitose e, per sua somma felicità, in compagnia di due grandi artisti affabili e cordiali. «Giovanotto» gli disse Porbus vedendolo sostare stupefatto davanti a un quadro «non guardare troppo quella tela, o piomberai nella dispera­ zione.» Era YAdamo che dipinse Mabuse per uscire dalla prigione in cui i suoi creditori lo tennero rinchiuso tanto a lungo. In effetti quella figura era animata da un realismo così potente, che in quell’istante Nicolas Poussin iniziò a comprendere il vero significato delle confuse parole pronunciate dal vecchio. Costui guardava il quadro con aria soddisfatta, ma priva d’entusiasmo, come a dire: «Io ho fatto di meglio!». «La vita c’è» disse. «Il mio povero maestro ha superato se stesso; però mancava ancora un pizzico di verità sullo sfondo. L’uomo è proprio vivo, si alza e sta quasi per venirci incontro. Ma l’aria, il cielo, il vento che respiriamo, che vediamo e che sentiamo, quelli non ci sono. E poi que­ sto è solamente un uomo! Ora, l’unico uomo uscito direttamente dalle mani di Dio doveva certo avere qualcosa di divino, che qui manca. Mabuse stesso lo diceva con rabbia, quando non era ubriaco.» Poussin guardava il vecchio e Porbus, a turno, con una curiosità irre­ quieta. Si avvicinò a quest’ultimo come per domandargli il nome del padrone di casa, ma il pittore si poggiò un dito sulle labbra con aria di mistero, e il giovane, più che mai interessato, rimase in silenzio, speran­ do che prima o poi una parola gli consentisse di indovinare il nome del suo ospite, la cui ricchezza e i cui talenti erano già ampiamente testimo­ niati dal rispetto che Porbus gli dimostrava, oltre che dalle meraviglie ammassate in quella sala. Vedendo uno splendido ritratto di donna spiccare sulla scura boiserie di rovere, Poussin esclamò: «Che bel Giorgione!». «No!» replicò il vecchio. «Quello che vedi è uno dei miei primi sca­ rabocchi.» «Santo cielo! Ma allora sono nella casa del dio della pittura» disse Poussin con candore. Il vecchio sorrise con l’aria di un uomo avvezzo da tempo a simili elogi. «Maestro Frenhofer!» disse allora Porbus «Non potreste farmi por­ tare un po’ del vostro buon vino del Reno?»

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«Due botti» rispose il vecchio. «Una per sdebitarmi del godimento che ho provato stamane nel vedere la tua graziosa peccatrice, e l’altra come pegno della nostra amicizia.» «Eh, se io non fossi sempre malato» riprese Porbus «e se voi mi lasciaste vedere la vostra amica potrei fare un quadro di grande levatura, con figure a grandezza naturale.» «Mostrare la mia opera?» gridò il vecchio con voce turbata. «No, no, devo perfezionarla ancora. Ieri, verso sera, credevo di averla finita. I suoi occhi mi parevano umidi, le carni palpitavano. Le trecce dei capelli si muovevano. Respirava! Benché non abbia trovato il modo di realizzare su una tela piatta il rilievo e la rotondità della natura, stamattina, alla luce del giorno, ho constatato il mio errore. Ah! per arrivare a questo risulta­ to glorioso, ho studiato a fondo i grandi maestri del colore, ho analizza­ to e sollevato strato per strato i quadri di Tiziano, il re della luce; anch’io, come quel pittore supremo, ho abbozzato la mia figura in una tonalità chiara, con una pasta morbida e ricca, perché l’ombra è solo un acciden­ te, rammentalo, figliolo. Poi sono tornato alla mia opera, e per mezzo di mezze tinte e velature di cui diminuivo sempre più la trasparenza, ho reso le ombre più cariche, fino al nero di quelle più scure; infatti le ombre dei cornimi pittori sono di natura diversa dai loro toni chiari: sono legno, bronzo, sono tutto quello che volete, ma non carne nell’om­ bra. Si intuisce che se la loro figura cambiasse posizione, le zone om­ breggiate non si schiarirebbero e non diverrebbero più luminose. Io ho evitato questo difetto, in cui molti tra i più illustri son caduti, e nei miei quadri il biancore si rivela sotto l’opacità dell’ombra più fitta! A diffe­ renza della folla d’ignoranti che credono di saper disegnare come si deve perché hanno un tratto rifilato con cura, io non ho marcato nettamente i contorni esterni della mia figura, né ho messo in risalto i minimi detta­ gli dell’anatomia, giacché il corpo umano non termina con delle linee. In questo gli scultori hanno la possibilità di avvicinarsi maggiormente al vero di noialtri. La natura comporta una successione di rotondità avvi­ luppate le une nelle altre. A voler essere esatti, il disegno non esiste! Non ridete, giovanotto! Per quanto adesso quest’affermazione possa sem­ brarvi paradossale, un giorno ne capirete la ragione. La linea è il mezzo attraverso il quale l’uomo si rende conto dell’effetto cha la luce ha sugli oggetti; ma in natura, dove tutto è pieno, non vi sono linee: si disegna modellando, staccando cioè le cose dall’ambiente in cui esse sono: è solo

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la distribuzione della luce che dà apparenza al corpo! E così non ho fissato i lineamenti, ho cosparso sui contorni una nube di mezze tinte calde e dorate, che fanno sì che non si saprebbe dove posare precisamente il dito nel punto esatto in cui i contorni incontrano lo sfondo. Da vicino questa lavorazione sembra farraginosa e imprecisa, ma già a due passi di distanza tutto si rassoda, si fissa e si delinea; il corpo gira, le forme spic­ cano, e si sente l’aria che gli circola intorno. Eppure non sono ancora soddisfatto, ho dei dubbi. Forse non si dovrebbe disegnare neanche un tratto, e sarebbe meglio iniziare una figura dalla parte centrale, affron­ tando per prime le sporgenze meglio illuminate, per poi passare alle parti più scure. Non è forse così che avanza il sole, divino pittore del­ l’universo? Ah, natura, natura, chi ha mai sorpreso le tue fughe? Ecco, vedete: l’eccesso di scienza, così come l’ignoranza, porta a una negazio­ ne. Io dubito di tutta la mia opera!» Il vecchio fece una pausa, quindi riprese: «Sono ormai dieci anni che lavoro, giovanotto, ma cosa sono dieci miseri anni quando si tratta di lot­ tare con la natura? Non sappiamo quanto impiegò il signor Pigmalione a fare l’unica statua che abbia camminato!». Il vecchio cadde in una profonda fantasticheria, e se ne rimase con lo sguardo attonito, a giocherellare meccanicamente col coltello. «Eccolo che conversa con il suo spirito» sussurrò Porbus. Al sentire quelle parole, Nicolas Poussin si sentì posseduto da una inesplicabile curiosità d’artista. Quel vecchio dagli occhi bianchi, assor­ to e stralunato, diventato per lui più di un semplice uomo, gli apparve come un genio fantastico che viveva in una sfera sconosciuta. Mille idee gli si risvegliarono nell’animo. L’effetto di quella sorta di fascinazione sulla psiche non può definirsi più di quanto non si possa tradurre l’emo­ zione suscitata da un canto che richiami la patria al cuore dell’esiliato. Il disprezzo ostentato da quel vecchio per le più belle prove d’arte, la sua ricchezza, i suoi modi, la deferenza di Porbus nei suoi confronti, quel­ l’opera mantenuta così a lungo segreta, un’opera di pazienza, probabil­ mente di genio, a giudicare dalla testa della Vergine che il giovane Poussin aveva ammirato con tanta spontaneità, e che, conservando intat­ ta la sua bellezza, anche accanto all’Adamo di Mabuse, testimoniava del­ l’azione imperiale di un principe dell’arte: tutto in quel vecchio oltrepas­ sava i limiti della natura umana. Ciò che di chiaro e percepibile la fervi­ da immaginazione di Nicolas Poussin potè afferrare vedendo quell’esse­

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re sovrannaturale era un’immagine completa della natura artistica, di quella folle natura a cui sono affidati tanti poteri, e che troppo spesso ne abusa, conducendo il freddo raziocinio, i borghesi e persino qualche appassionato lungo mille sentieri pietrosi, in cui non vi è nulla per loro; mentre, assorta nelle sue pazze fantasie, quella fanciulla dalle bianche ali vi scopre epopee, castelli, opere d’arte. Natura faceta e bonaria, povera e feconda! E così, attraverso l’entusiasmo di Poussin, quel vecchio era divenuto, con una metamorfosi istantanea, l’Arte in persona, l’arte con i suoi segreti, le sue fughe e le sue fantasticherie. «Sì, mio caro Porbus» riprese Frenhofer «non sono ancora riuscito a incontrare una donna priva di difetti, un corpo i cui contorni siano di una bellezza perfetta, e in cui la carnagione... Ma dove vive, dunque» s’interruppe «questa introvabile Venere degli antichi, tanto a lungo cer­ cata, e della quale ci imbattiamo unicamente in poche bellezze sparse? Oh! Pur di vedere anche solo per un attimo, per una volta soltanto, la natura divina, completa, l’ideale insomma, cederei ogni mia fortuna, ma verrò a cercarti nel tuo limbo, beltà celeste! Scenderò come Orfeo nel­ l’inferno dell’arte per riportarne la vita.» «Possiamo anche andarcene» disse Porbus a Poussin. «Non ci sente più, non ci vede più!» «Andiamo nel suo studio» suggerì il giovane, sbigottito. «Oh, il vecchio furfante ha saputo ben precluderne l’accesso! I suoi tesori sono custoditi troppo bene perché noi possiamo arrivarci. Non ho certo aspettato la vostra proposta e la vostra ispirazione per tentare l’as­ salto al mistero.» «C’è un mistero, dunque?» «Sì» rispose Porbus. Il vecchio Frenhofer è l'unico allievo che Mabuse abbia accettato. Divenuto suo amico, suo salvatore, suo padre, Frenhofer ha sacrificato gran parte dei propri tesori per soddisfare le passioni di Mabuse; in cambio questi gli ha tramandato il segreto del rilievo, il potere di conferire alle figure quella vitalità straordinaria, quel fiore della natura, nostra perenne disperazione, del quale a tal punto padroneggiava la tecnica che un giorno, essendosi venduto e bevuto il damasco a fiori che avrebbe dovuto indossare in presenza di Carlo V, Mabuse accompagnò il suo maestro con indosso un vestito di carta dipinto a imitazione del damasco. L’eccezionale splendore del tessuto di

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Mabuse sorprese l’imperatore il quale, desiderando complimentarsi con il protettore di quel vecchio ubriacone, scoprì il trucco. Frenhofer è un uomo appassionato dall’arte, e sa vedere più in alto e più lontano degli altri pittori. Ha meditato a fondo sui colori, sulla verità assoluta della linea; ma a forza di indagare è arrivato al punto di dubitare dell’ogget­ to stesso delle sue ricerche. Nei momenti di disperazione sostiene che il disegno non esiste, e che si possano rendere con le linee soltanto delle figure geometriche: il che non è vero, dal momento che con le linee e con l’ombreggiatura, che non è un colore, si può fare una figura. Questo dimostra che la nostra arte, come la natura, è composta da un’infinità di elementi: il disegno fornisce l’ossatura, il colore è la vita, ma la vita senza le ossa è ancor più incompleta delle ossa senza la vita. Infine vi è qualcosa di ancor più vero, e cioè che la pratica e l’osserva­ zione per un pittore sono tutto, e che se il ragionamento e la poesia fanno a pugni coi pennelli, si finisce con il dubitare come il nostro amico, che è pittore, sì, ma è anche pazzo. Pittore sublime, ha avuto la sfortuna di nascere ricco, e questo gli ha permesso di disperdersi. Non imitatelo! Lavorate! I pittori devono meditare solo coi pennelli in mano.» «Eppure ci entreremo!» esclamò Poussin, che aveva smesso di ascol­ tare Porbus e oramai non dubitava più di niente. Di fronte all’entusiasmo del giovane sconosciuto Porbus sorrise, e dopo averlo invitato a tornare a fargli visita, si accomiatò. Nicolas Poussin ritornò a passi lenti verso rue de la Harpe, oltrepas­ sando senza accorgersi la modesta locanda in cui alloggiava. Agitato e frettoloso, salì su per la squallida scalinata, e raggiunse una soffitta sotto un tetto mansardato, una copertura semplice e leggera che copriva le case della vecchia Parigi. Accanto all’unica, angusta finestra di quella stanza buia, vide ima giovane che, al rumore della porta, si alzò di scat­ to con uno slancio d’amore: aveva riconosciuto il pittore dal modo di maneggiare il saliscendi. «Che hai?» gli disse. «Ho, ho» esclamò Poussin, senza fiato dalla gioia «che mi sono sen­ tito pittore! Fino a oggi avevo dubitato di me stesso, ma questa mattina ci ho creduto! Posso essere un grande! Dammi retta, Gillette, saremo ricchi e felici! Questi pennelli valgono oro.» Ma all’improvviso tacque. Il suo volto posato e vigoroso perse ogni

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traccia d’allegria quando paragonò l’immensità delle proprie aspirazioni alla scarsità dei mezzi di cui disponeva. Le pareti erano coperte da comuni fogli pieni zeppi di schizzi a matita. Non possedeva neppure quattro tele vergini. A quell’epoca i colori costavano cari, e la tavolozza del povero giovane era quasi vuota. Pur con quella miseria, tuttavia, egli era dotato di un’enorme ricchezza interiore e della sovrabbondanza di un genio divorante. Condotto a Parigi da un aristocratico suo amico, o forse dal proprio talento, ben presto vi aveva trovato un’amica, una di quelle anime nobili e generose che accettano di soffrire accanto a un grande uomo, sposandone le pene e sforzandosi di compatirne i capric­ ci, forti nella miseria e nell’amore, come altre sono intrepide nel lusso e nell’ostentare insensibilità. Il sorriso che le aleggiava sulle labbra illumi­ nava quella soffitta e rivaleggiava con lo splendore del cielo. Non sem­ pre brillava il sole, mentre lei era sempre là, concentrata sulla propria passione, avvinta alla propria felicità, alla propria sofferenza, a consola­ re il genio che traboccava nell’amore prima ancora di impadronirsi del­ l’arte. «Gillette, senti, vieni qui.» Allegra e obbediente, la fanciulla sedette d’un balzo sulle ginocchia del pittore. Era tutta grazia, bellezza, leggiadria, come la primavera, provvista di tutte le attrattive femminili, che rischiarava al fuoco di un’anima bella. «Oddio!» esclamò lui. «Non oserò mai dirle...» «È un segreto?» rispose lei. «Voglio saperlo anch’io!» Poussin rimase trasognato. «Dai, dimmelo!» «Gillette, cuore mio...» «Oh! Vuoi chiedermi qualcosa?» «Sì.» «Se vuoi che posi di nuovo per te come l’altro giorno» ribattè lei con aria un po’ imbronciata «non accetterò mai più, perché in quei momen­ ti i tuoi occhi non mi dicono più nulla. A me non pensi più, anche se mi guardi.» «Preferiresti vedermi ritrarre un’altra donna?» «Forse sì» rispose lei «solo se fosse brutta, però.» «Allora» rispose Poussin in tono serio «se per la mia futura gloria, per fare di me un grande pittore, tu dovessi posare per un altro?»

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«Lo dici per mettermi alla prova» disse la giovane. «Sai benissimo che io non ci andrei.» Poussin reclinò il capo sul petto, come chi soccombe a una gioia o a un dolore troppo forti per poterli sostenere. «Ascolta, Nick» gli disse lei, tirandolo per la manica del giubbetto consunto. «Ti ho detto che darei la vita per te, ma non ti ho mai promes­ so di rinunciare al mio amore, almeno finché sarò viva.» «Rinunciare?» «Se mi mostrassi in quel modo a un altro, tu non mi ameresti più. E anch’io mi sentirei indegna di te. Obbedire ai tuoi capricci, non è forse una cosa semplice e naturale? Mio malgrado, sono felice e persino orgo­ gliosa di fare quello che vuoi tu. Ma per un altro, mai e poi mai!» «Perdonami, Gillette» implorò il pittore gettandosi ai suoi piedi. «Preferisco il tuo amore alla gloria. Per me tu sei più importante della fortuna e dégli onori. Su, butta via i miei pennelli, brucia i miei schizzi! Mi sono sbagliato. La mia vocazione è quella di amarti. Non sono un pit­ tore, sono un uomo innamorato: al diavolo l’arte e tutti i suoi segreti!» Lei lo guardava, al colmo della felicità e della beatitudine. Era lei la regina. D’istinto intuiva che per lei le arti erano state dimenticate, e get­ tate ai suoi piedi come un granello d’incenso. «Comunque è solo un vecchio» riprese Poussin. «Vedrebbe solo la donna che c’è in te. Sei perfetta!» «Bisogna davvero amarti!» esclamò la fanciulla, pronta a sacrificare i propri scrupoli d’amore per ricompensare colui che la amava dei sacrifi­ ci che era disposto a compiere per lei. «Ma questo significherebbe per­ dermi. Ah, perdermi per te... Sarebbe bellissimo! Tu però mi dimenti­ cherai. Oh, che brutta idea ti è venuta!» «Mi è venuta e ti amo» ammise lui quasi contrito «perciò sono un infame.» «E se chiedessimo consiglio a padre Hardouin?» propose la giovane. «No, no! Deve rimanere un segreto tra noi due.» «Va bene: ci andrò. Tu però non devi essere presente» lei disse. «Rimani fuori dalla porta, pronto a sguainare la spada; se mi senti grida­ re, entra e uccidi il pittore.» Non vedendo più altro che la propria arte, Poussin strinse Gillette tra le sue braccia. «Non mi ama più!» pensò Gillette quando fu di nuovo sola.

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Era già pentita della decisione. Ma ben presto cadde in preda a una paura ancor più angosciosa del suo pentimento, e fece di tutto per scac­ ciare un pensiero orribile che le si annidava in fondo al cuore: le sembra­ va già di non amare più come prima il suo pittore, sospettando che fosse meno degno di stima di quanto lei avesse creduto.

IL Catherine Lescault

Tre mesi dopo l’incontro tra Poussin e Porbus, quest’ultimo andò a tro­ vare il maestro Frenhofer. Trovò il vecchio in preda a uno di quegli stati depressivi prostranti e involontari le cui cause vanno ricercate, stando a quanto dicono i fautori della medicina come scienza esatta, nella cattiva digestione, nel vento, nel calore o in un qualche ispessimento degli ipo­ condri; oppure, secondo gli spiritualisti, nell’imperfezione della nostra natura morale. In realtà il pover’uomo si era semplicemente affaticato nel perfezionare il suo quadro misterioso. Se ne stava languidamente seduto su una grande seggiola di rovere intagliato, rifinita in cuoio scuro, e senza smuoversi dal proprio atteggiamento melanconico, rivolse a Porbus lo sguardo di un uomo ormai rassegnato al baratro. «E allora, maestro?» lo interrogò Porbus. «L’oltremare che siete andato ad acquistare a Bruges era scadente? Non siete riuscito a maci­ nare il vostro nuovo bianco? Il vostro olio è di cattiva qualità, o sono i pennelli che si ribellano?» «Ahimè!» gemette il vecchio. «Per un istante ho creduto che la mia opera fosse terminata; ma evidentemente ho sbagliato qualche particola­ re, e mi metterò il cuore in pace solo dopo aver trovato una risposta ai miei dubbi. Ho deciso di partire. Andrò fino in Turchia, in Grecia, in Asia per cercare una modella e confrontare il mio quadro con diverse nature. Forse di sopra» soggiunse, lasciandosi sfuggire un sorriso com­ piaciuto «ho la natura stessa. A volte temo quasi che un alito risvegli quella donna, e lei svanisca.» Poi si alzò di scatto, come pronto a partire.

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«Oh!» rispose Porbus. «Arrivo giusto in tempo per risparmiarvi le spese e le fatiche del viaggio.» «Come sarebbe?» domandò Frenhofer, sbalordito. «Il giovane Poussin ha conquistato l’amore di una donna la cui incomparabile bellezza non conosce imperfezioni. Però, maestro caro, se accetta di prestarvela, dovrete come minimo lasciarci vedere il vostro quadro.» Il vecchio rimase in piedi, immobile, allibito. «Cosa?!?» esclamò infine, sconvolto. «Mostrare la mia creatura, la mia sposa? Lacerare il velo sotto il quale ho castamente coperto la mia felicità? Ma sarebbe un orrendo meretricio! Sono dieci anni che vivo con quella donna: lei è mia, solo mia, lei mi ama. Ha un’anima: quella che le ho dato io. Se altri occhi, all’infuori dei miei, le si posassero addosso, arrossirebbe. Mostrarla! Ma chi è quel marito, quell’amante tanto vile da spingere la propria donna verso il disonore? Quando dipingi un quadro per la corte, non ci metti l’anima: ai cortigiani vendi solo dei fantocci colorati. Il mio non è un quadro: è un sentimento, una passione! È nata nel mio studio e lì deve rimanere, vergine; può uscir­ ne solamente vestita. La poesia e le donne si offrono nude solo ai loro amanti! Forse che conosciamo la modella di Raffaello, l’Angelica deU’Ariosto, la Beatrice di Dante? No! Ne vediamo soltanto le forme. Ebbene, l’opera che custodisco di sopra sotto chiave è un’eccezione nella nostra arte. Non è una tela, è una donna! Una donna con la quale io rido, piango, parlo e penso. E adesso tutt’a un tratto tu vorresti che io buttassi via dieci anni di felicità come si scarta un vecchio mantello? Che in un sol colpo io cessassi di essere padre, amante e Dio? Quella donna non è una creatura, è una creazione. Il giovanotto venga pure: gli darò i miei tesori, gli darò i quadri di Correggio, di Michelangelo, di Tiziano, bacerò l’impronta dei suoi passi nella polvere, ma fame il mio rivale, mai! Ah, ah! Sono più un innamorato che pittore. Sì, avrò la forza di bruciare la mia Catherine quando esalerò l’ultimo respiro, ma infliggerle lo sguardo di un uomo, di un giovane, di un pittore? Assolutamente no! Il giorno dopo ucciderei colui che l’ha insozzata con un solo sguardo! E ucciderei seduta stante anche te, amico mio, se non ti prostrassi dinanzi a lei per renderle omaggio! E tu vorresti che io sot­ toponessi il mio idolo agli sguardi freddi e alle stupide critiche degli imbecilli? Ah! L’amore è un mistero, la vita sta nel profondo del cuore,

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e quando un uomo dice all’amico: “Ecco quella che amo”, vuol dire che tutto è perduto.» Il vecchio pareva ritornato giovane: gli occhi rilucevano di una scin­ tilla vitale, le guance erano soffuse di un vivo rossore e le mani gli trema­ vano. Stupefatto dall’appassionata veemenza con la quale vennero pro­ nunciate quelle parole, Porbus non sapeva che cosa rispondere dinanzi a uno stato d’animo così viscerale e inusitato. Frenhofer era savio o pazzo? Era vittima di una fantasia d’artista, oppure le sue idee erano frutto del fanatismo inesprimibile generato in noi dalla lunga gestazione di una grande opera? Si poteva mai sperare di scendere a patti con quel­ la passione bizzarra? Travolto da tutti quei pensieri, Porbus disse al vecchio: «Ma non si tratterebbe di una donna in cambio di un’altra, dopotutto? Poussin non consegna forse la sua amante ai vostri sguardi?». «Ma quale amante?» ribattè Frenhofer. «Prima o poi lei lo tradirà. La mia invece mi sarà sempre fedele!» «Va bene» riprese Porbus «non parliamone più. Ma prima di trovare una donna bella e perfetta come colei di cui vi parlo, foss’anche in Asia, forse morirete senza essere riuscito a terminare il quadro.» «Ma è finito!» rispose Frenhofer. «L’osservatore potrebbe pensare di scorgere una donna distesa su un letto di velluto, sotto le cortine. Ac­ canto a lei un treppiede d’oro emana dei profumi. Si è tentati di afferra­ re la nappa dei cordoni che trattengono le tende, e par di vedere il seno di Catherine sollevarsi nell’atto della respirazione. Ma vorrei essere ben sicuro...» «E allora vattene in Asia, se ci tieni tanto» sbottò Porbus cogliendo un’ombra di esitazione nello sguardo di Frenhofer. E mosse qualche passo in direzione della porta. Gillette e Nicolas Poussin giungevano nei pressi dell’abitazione di Frenhofer proprio in quel momento. Quando la giovane fu in procinto di entrare, si staccò dal braccio del pittore e indietreggiò come fosse stata colta da un improvviso presentimento. «Ma che cosa vengo a fare qui?» domandò al suo amante in tono grave, fissandolo. «Tu sei la mia padrona, Gillette, e ho deciso di obbedirti in tutto. Tu sei la mia coscienza e la mia gloria. Torniamo a casa: forse sarò più con­ tento così che...»

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«Forse che mi appartengo quando mi parli così? Macché! Sono solo una bambina. Andiamo» soggiunse, palesemente compiendo un violen­ to sforzo «se il nostro amore morirà, e io mi porterò nel cuore un lungo rimpianto, la tua celebrità non sarà forse il prezzo della mia obbedienza al tuo volere? Entriamo: significherà continuare a vivere, benché per sempre sotto forma di un ricordo sulla tua tavolozza.» Aprendo la porta dell’abitazione, i due innamorati si trovarono faccia a faccia con Porbus, il quale, colpito dalla bellezza di Gillette, i cui occhi traboccavano di lacrime, la prese, tutta tremante, e conducendola davan­ ti al vecchio disse: «Eccola: non vale forse tutti i capolavori del mondo?». Frenhofer trasalì. Gillette era lì, davanti a lui, con il contegno sempli­ ce e ingenuo di una giovane Georgiana, innocente e intimorita, rapita dai briganti e offerta a un mercante di schiavi. Un pudico rossore le colori­ va il volto, teneva gli occhi bassi e le braccia rilasciate lungo i fianchi; le forze parevano sul punto di venirle meno e le lacrime esprimevano ribel­ lione contro la violenza al suo pudore. In quel momento Poussin, dispe­ rato per aver trafugato quel mirabile tesoro dalla sua soffitta, maledisse se stesso. L’innamorato prevalse sull’artista, e mille scrupoli gli tortura­ rono il cuore nel vedere lo sguardo ringiovanito del vecchio che, con un automatismo da pittore, spogliò, per modo di dire, la fanciulla, indovi­ nandone le più segrete fattezze. A quel punto fu afferrato dalla feroce gelosia del vero amore. «Andiamo via di qui, Gillette!» gridò. A quel richiamo, a quel grido, la sua amica, radiosa, alzò gli occhi su di lui, lo vide e gli corse tra le braccia. «Ma allora mi ami!» esclamò scoppiando in lacrime. Dopo aver avuto il coraggio di tacere la propria sofferenza, non aveva la forza di celare la felicità. «Oh, lasciatemela un attimo» disse il vecchio pittore «e potrete met­ terla a confronto con la mia Catherine. D’accordo, accetto.» Quello di Frenhofer era pur sempre un grido d’amore. Sembrava nutrire una specie di civetteria nei confronti della propria donna finta, e anticipare compiaciuto il trionfo che la sua virginale bellezza avrebbe riportato su quella di una ragazza in carne e ossa. «Non dategli il tempo di cambiare idea!» esclamò Porbus battendo la mano sulla spalla di Poussin. «I frutti dell’amore se ne vanno in fret­ ta, quelli dell’arte sono immortali.»

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«Per lui insomma io non sarei nient’altro che una donna?» interven­ ne Gillette scrutando attentamente Poussin e Porbus. Alzò il capo con fierezza, ma quando, dopo aver scoccato a Frenhofer uno sguardo scin­ tillante, vide il suo innamorato assorto nella contemplazione del nuovo ritratto che poco tempo prima aveva scambiato per un Giorgione, disse: «Ah, andiamo di sopra! Me, non mi hai mai guardata così». «Guarda questa spada, vecchio» riprese Poussin, che la voce di Gillette aveva distolto dalle meditazioni in cui era immerso. «Alla prima parola di protesta che uscirà dalla bocca di questa ragazza te la pianterò in corpo, darò fuoco alla casa e nessuno uscirà vivo. Mi hai inteso?» Nicolas Poussin era torvo, e parlò in tono spietato. Quell’atteggiàmento, e soprattutto il gesto del giovane pittore, tranquillizzarono Gil­ lette, che quasi gli perdonò di sacrificarla alla pittura e al suo avvenire glorioso. Porbus e Poussin rimasero fuori dalla porta dello studio, guar­ dandosi in silenzio. Se sulle prime il pittore della Maria egiziaca si con­ sentì qualche esclamazione: «Ah ecco, si sta spogliando, lui le dice di mettersi sotto la luce! Adesso la sta mettendo a confronto!», presto tut­ tavia si zittì, vedendo la tristissima espressione sul volto di Poussin. E quantunque i vecchi pittori si siano lasciati alle spalle questi scrupoli insignificanti in presenza dell’arte, lui in quel momento li ammirò, tanto erano ingenui e teneri. Il giovane teneva la mano sull’impugnatura della spada e l’orecchio quasi incollato alla porta. Insieme, così in piedi e nel­ l’ombra, sembravano due congiurati in attesa del momento di uccidere un tiranno. «Entrate, entrate!» li invitò il vecchio, raggiante di felicità. «La mia opera è perfetta, e adesso posso mostrarla con orgoglio. Non esisterà mai un pittore, un pennello, un colore, una tela o una luce in grado di riva­ leggiare con Catherine Lescaultl» Spinti da una viva curiosità, Porbus e Poussin corsero verso il centro di un ampio studio ricoperto di polvere e pieno di disordine, dove qua e là notarono dei quadri appesi al muro. Per prima cosa si fermarono di fronte a una figura femminile a grandezza naturale, nuda a metà, che li colmò di ammirazione. «Oh, non fateci caso» disse Frenhofer. «E una tela che ho imbrattato per studiare una posa, non vale niente. Ed ecco i miei errori» riprese, mostrando loro alcune splendide composizioni fissate tutt’intomo alle pareti.

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Nell’udire quelle parole Porbus e Poussin, increduli dinanzi al suo disprezzo per opere tanto belle, cercarono con lo sguardo il ritratto pro­ messo, ma non riuscirono a scorgerlo. «Bene: eccolo!» annunciò loro il vecchio, che aveva i capelli scompi­ gliati, il volto infiammato da un’esaltazione innaturale, gli occhi sfavil­ lanti e che ansimava come un giovane uomo ebbro d’amore. «Ah, ah!» gridò. «Non ve l’aspettavate tanta perfezione! Avete davanti una donna, e cercate un quadro. Questa tela ha una tale profondità, l’aria è talmen­ te vera, che non riusciute più a distinguerla da quella che ci circonda. Dov’è l’arte? Perduta, smarrita! Queste sono le fattezze di una fanciulla in carne e ossa. Non ne ho saputo cogliere alla perfezione il colorito, la nettezza della linea che sembra terminare il corpo? Non è lo stesso feno­ meno che riscontriamo negli oggetti, immersi nell’atmosfera come pesci nell’acqua? Vi piace il modo in cui i contorni si staccano dallo sfondo? Non sembra quasi di poter sfiorare questo dorso con la mano? E così, per sette anni, ho studiato gli effetti dell’unione tra la luce e gli oggetti. E questi capelli? Non sono inondati di luce?... Ma respira, mi pare!... Questo seno, vedete? Ah! Chi non vorrebbe adorarla in ginocchio? La sue carni palpitano. Aspettate, ora si alza!» «Vedete niente, voi?» domandò Poussin a Porbus. «Io no. E voi?» «Niente.» I due pittori lasciarono il vecchio alla sua estasi, e provarono a vede­ re se la luce, che cadeva perpendicolare sulla tela che lui mostrava loro, per caso non ne neutralizzasse tutti gli effetti. Allora esaminarono il dipinto spostandosi a destra, a sinistra, davanti, abbassandosi e raddriz­ zandosi più volte. «Ma sì, ma sì che è proprio un quadro» diceva loro Frenhofer, inter­ pretando alla rovescia lo scopo di quella scrupolosa analisi. «Ecco, guar­ date: questo è il telaio, il cavalletto, e qui ci sono i miei colori, i miei pen­ nelli.» E così dicendo afferrò un pennello, che mostrò ai due con un gesto ingenuo. «Il vecchio mascalzone si prende gioco di noi» disse Poussin rimet­ tendosi davanti al presunto quadro. «Io qui vedo soltanto un confuso ammasso di colori, delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura.»

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«No, ci sbagliamo. Vedete?» disse Porbus. Avvicinandosi scorsero in un angolo della tela la punta di un piede nudo che fuoriusciva da quel caos di colori, di toni, di sfumature indeci­ se, di tutto, una specie di nebbia informe: ma era un piede delizioso, un piede vivo! Rimasero pietrificati per l’ammirazione dinanzi a quel fram­ mento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione. Quel piede appariva come il busto di una Venere in marmo di Paros che sor­ gesse tra le rovine di una città incendiata. «Qui sotto c’è una donna!» gridò Porbus indicando a Poussin i suc­ cessivi strati di colore che il vecchio pittore aveva sovrapposto a tutta la figura, nel tentativo di perfezionarla. I due si volsero istintivamente verso Frenhofer, cominciando a intui­ re, sia pure vagamente, il delirio nel quale egli viveva. «E in buona fede» affermò Porbus. «Sì, amico mio» rispose il vecchio riscuotendosi «bisogna aver fede, fede nell’arte, e vivere a lungo con la propria opera per creare una cosa simile. Alcune di queste ombre mi hanno fatto penare. Guardate, per esempio: lì, sulla guancia, proprio sotto gli occhi, vi è una lieve penombra che, se la vedete in natura, vi sembrerà quasi intraducibile. Be’, credetemi, questo effetto mi è costato degli sforzi inauditi. E tu, mio caro Porbus, osserva con attenzione questo lavoro, e capirai meglio quanto ti dicevo sul modo di trattare il modellato e i contorni. Guarda la luminosità del seno e nota come, con una serie di pennellate e di lumeggiature a lungo lavorate, sono riuscito a cattura­ re la luce vera e a combinarla con il candore lucente delle tonalità più chiare, e come, mediante un procedimento opposto, cancellando le sporgenze e le asperità della pasta, ho potuto, a forza di accarezzare il contorno della mia figura, immersa nelle mezze tinte, abolire comple­ tamente anche solo l’idea del disegno e dei mezzi artificiali, e confe­ rirle l’aspetto e la rotondità della natura stessa. Ma avvicinatevi, lo vedrete meglio. Da lontano scompare. Ecco, vedete? Qui direi che si nota proprio bene.» E con la punta del pennello indicava ai due pittori un impasto di colore chiaro. Porbus assestò una pacca sulla spalla del vecchio, e volgendosi verso Poussin disse: «Sapete che quest’uomo è un grandissimo pittore?»

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«Prima ancora che pittore, è un grande poeta» rispose Poussin con la massima serietà. «Qui finisce la nostra arte su questa terra» riprese Porbus occhieg­ giando la tela. «E da qui in poi si dissolve nei cieli» gli fece eco Poussin. «Ah, quante delizie su questo pezzetto di tela!» esclamò Porbus. Il vecchio, assorto, non li stava ad ascoltare, e sorrideva invece a quel­ la donna immaginaria. «Ma prima o poi si dovrà pur accorgere che su quella tela non c’è niente!» soggiunse Poussin. «Niente sulla mia tela?» disse Frenhofer, scrutando a turno i due pit­ tori e il presunto quadro. «Che avete fatto!» esclamò Porbus rivolto a Poussin. Il vecchio afferrò brutalmente il giovane per un braccio e disse: «Non vedi niente, eh?, criminale! delinquente! bandito! canaglia! E perché sei salito fin quassù, allora? Mio caro Porbus» riprese, volgendosi verso il pittore «anche voi vi fate beffe di me? Rispondete? Io sono vostro amico; ditemi: è vero che avrei rovinato il mio quadro?». Indeciso, Porbus non ebbe il coraggio di rispondere nulla, ma l’ansia che si dipingeva sui lineamenti pallidi del vecchio era così penosa, che finì per indicargli la tela, dicendo: «Vedete!». Frenhofer fissò per un attimo il proprio quadro e barcollò. «Niente! Niente! Dopo averci lavorato per degli anni!» Si sedette e pianse. «Ma allora sono un imbecille, un pazzo! Allora non ho talento, non ho capacità, sono solo un ricco che gira, gira e non combina nulla! Allora non ho prodotto niente!» Fissò la tela attraverso le lacrime, balzò di nuovo in piedi con fierez­ za e lanciò ai due pittori uno sguardo dardeggiante. «Per il sangue, per il corpo, per la testa di Cristo! Voi siete solo due poveri invidiosi e volete convincermi che è rovinata per rubarmela! Ma io la vedo!» gridò «ed è meravigliosamente bella!» In quell’attimo Poussin avvertì il pianto di Gillette, dimenticata in un angolo. «Che cos’hai, angelo mio?» le chiese il pittore, tornando immediata­ mente alla tenerezza dell’innamorato. «Uccidimi!» disse lei. «Sarei un’infame se ti amassi ancora, per­

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ché ti disprezzo. Ti ammiro, ma mi fai orrore. Ti amo e già credo di odiarti.» Mentre Poussin ascoltava Gillette, Frenhofer ricopriva la sua Catherine con un drappo verde, con la posata tranquillità di un gioiellie­ re che chiuda a chiave i suoi cassetti sapendosi in compagnia di abili fur­ fanti. Lanciò ai due pittori uno sguardo subdolo, carico di disprezzo e di sospetto, e in silenzio li sospinse verso l’uscita dello studio, con solleci­ tudine convulsa. Poi, giunto alla porta dell’abitazione, disse: «Addio, miei cari amici». Quel commiato gelò i due pittori. L’indomani Porbus, preoccupato, tornò a fare visita a Frenhofer, e scoprì che era morto durante la notte, non prima di aver bruciato le sue tele.

Note

1In italiano nel testo. [N.d.T.] 2 J.-P. Richter, The literary works of Leonardo da Vinci, Dover, New York 1970, voi. n, p. 369. 3Ecco infatti come Didi-Huberman traduce in francese la frase leonardesca: «Plus tu parleras avec les peaux, vestures du sens, plus tu acquerras sapience». [N.d.T.] 4 AJ. Reinach, Recueil Milliet. Textes grecs et latins relatifs à l'histoire de la peinture ancienne, Klincksieck, Paris 1921, pp. 354-355 (riedito da Macula, Paris 1985). 5 Ivi, p. 355. Cfr. p. 365. 6J. Gasquet, citato da P.M. Doran, Cézanne. Documenti e interpretazioni, trad. it. di N. Zandegiacomi, Donzelli, Roma 1998, p. 122. 7L'autore fa qui un gioco di parole tra i termini «partage» e «départage» (nel senso di «parità» e «disparità») e quello di «partagé» (corrisposto, diviso, con­ diviso), che è purtroppo impossibile conservare in italiano. [N.d.T.] 8H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, trad. it. di Paola Vallerga, a p. 115 di questo volume (d'ora in poi ci riferiremo a questo racconto con la sigla CS segui­ ta dal numero della pagina da cui è tratta la citazione, [N.d.T.]). 9Ibidem. 10Ibidem. 11Ibidem. 12H. Legrand du Saulle, Lafolie du doute (avec délire du toucher), Delahaye, Paris 1875, p. 6.

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13 Ivi, p. 7. Cfr. anche M. Ladame, «La folie du doute et le délire du tou­ cher», in Revue de l'hypnotisme, 1890, t. IV, pp. 130-141. 14 H. Legrand du Saulle, op. cit., p. 14. 15 Ivi, p. 21. 16 Ivi, p. 23. 17 Ivi, p. 8. 18 Ivi, p. 22. 19Ivi, p. 38. 20 Ivi, p. 12. 21 In italiano nel testo. [N.d.T.] 22 G.P. Lomazzo, «Trattato dell'Arte della pittura, scoltura et architettura», in Scritti sulle arti, Centro Di, Firenze 1974, voi. n, p. 177. Cfr. P. Pino, «Dialogo di pittura», in Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, Laterza, Bari 1960, vol. I, p. 128; P. Barocchi, Scritti d'arte del Cinquecento. IX. Colore, Ricciardi, Milano 1971-73, ried. Einaudi, Torino 1979, vol. ix, pp. 2261-2264,2269-2271. 23 H. de Balzac, CS. 24 P. Fédida, «L'exhibition et le secret de l’enveloppe vide», in Nouvelle Revue de psychanalyse, 1976, n. 14, p. 278. 25 H. de Balzac, CS. 26 Ibidem. 27 Sia «carni» che «panni» sono in italiano nel testo. [N.d.T.] 28 H. de Balzac, CS. 29 Cfr. Plato, Resp.yX, 598a-d; Gorg. 465b; L. Dolce, «Dialogo della pittura intitolato l'Aretino...», in Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Con­ troriforma, cit., pp. 183-184; J. Lichtenstein, «Eloquence du coloris: rhétorique et mimésis dans les conceptions coloristes au XVI siècle en Italie et au XVII siècle en France», in Symboles de la Renaissance, P.E.N.S., Paris 1982, t. II, pp. 173, 176. 30 G.P. Lomazzo, citato da J. Lichtenstein, «Éloquence du coloris: rhétori­ que et mimésis dans les conceptions coloristes au XVI siècle en Italie et au XVII siècle en France», cit., p. 182, in italiano nel testo. [N.d.T.] 31 L. Dolce, «Dialogo della pittura intitolato l’Aretino...», cit., p. 200. Cfr. J. Lichtenstein, «Éloquence du coloris: rhétorique et mimésis dans les conceptions coloristes au XVI siècle en Italie et au XVII siècle en France», cit., pp. 178-179. 32 In italiano nel testo. [N.d.T.]

Note

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33 C. Cennini, Il libro dellarte, o trattato della pittura, Le Monnier, Firenze 1991, cap. CXLVn, p. 132; cfr. anche capp. LXVH-LXVm, pp. 71-77. 34 In italiano nel testo. [N.d.T.] 35 P. Barocchi, Scritti d'arte del Cinquecento. IX. Colore, cit., p. 2172. 36 C. Cennini, Il libro dell'arte, o trattato della pittura, cit., p. 134. 37 D. Diderot, Saggi sulla pittura, trad. it. a cura di D. Neri, Abscondita, Milano 2004, p. 14. 38 Ivi, p. 26. 39 Ivi, pp. 14, 26. 40 Ivi, p. 27. 41Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano 1963, poi Einaudi, Torino 1967, p. 944. 42 L’autore fa qui riferimento all’edizione francese di G.W.F. Hegel, Esthétique, trad. fr. di S. Jankélévitch, Aubier-Montaigne, Paris 1964, pp. 92-93; per la traduzione italiana rimandiamo all’edizione già citata, p. 945, dove il passo in questione è tradotto con l’espressione «una compenetrazione ideale». [N.d.T.] 43 Sempre in italiano nel testo. [N.d.T.] 44 L. Dolce, Dialogi di M. Lodovico Dolce, nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori..., Sessa, Venezia 1565, p. 7. Cfr. P. Barocchi, Scritti sull'arte del Cinquecento. IX. Colore, cit., pp. 2212-2213. Cfr. Platone, Timeo, 67c-68d. 45 Aristotele, «Del senso e dei sensibili», in Della generazione e della corru­ zione, Dell'anima, Piccoli trattati di storia naturale, trad. it. di A. Russo e R. Laurenti, Biblioteca Universale Laterza, Bari 1983, m, 439; Inanima, trad. it. a cura di G. Movia, Bompiani, Milano 2001, n, 7, 418b. 46Aristotele, Inanima, cit., n, 7,418; «Del senso e dei sensibili», cit., m, 439a. Cfr. «De coloribus», in Id., Problemi, trad. it. di M.F. Ferrini, Bompiani, Milano 2002, n, 792a-IV, 792b. 47 Id., Uanima, cit., m, 12, 435a. 48 S. Freud, «Fantasie isteriche e loro relazione con la bisessualità», in Id., Opere, 1905-1908, ed. it. a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1972, p. 395. 49 R. Descartes, «L’uomo», in Opere scientifiche, trad. it. a cura di G. Micheli, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1966 (1988), vol. I, p. 89. 50 Ivi, p. 99. 51 R. Descartes, «Descrizione del corpo umano», in Opere scientifiche, cit., p. 243.

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La pittura incarnata

52 Ivi, p. 219. 53 Ivi, p. 235. 54 H. de Balzac, CS. 53 Ibidem. 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 ìbidem. 59 F. Nadar, Quando ero fotografo, ed. it. a cura di M. Rago, Abscondita, Milano 2004, pp. 13-14. Cfr. R. Krauss, «Tracing Nadar», in October, 1978, n. 5, p. 49. 60 H. de Balzac, Gambara. Racconto musicale, trad. it. di M.C. Marinelli, Passigli, Firenze 1984, p. 53 (con lievi modifiche [N.d.T.]). 61 H. de Balzac, CS. 62J. Clay, Bonjour Monsieur Manet, Centre Pompidou, Paris 1983, p. 10; Id., «La peinture en charpie», in Macula, 1978, n. 3-4, pp. 167-168. 63 Id., Bonjour Monsieur Manet, cit., pp. 10-11. 64 Id., «Gauguin, Nietzsche, Aurier. Notes sur le renversement matériel du symbolisme», in Léclatement de l'impressionnisme, Musée du Prieuré, SaintGermain-en-Laye 1982, p. 26; Id., «Pollock, Mondrian, Seurat: la profondeur plate», in L'atelier de Pollock, Macula, Paris 1982, s. p.; G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris, 1968, p. 296. 65 Cfr. C. Bonnefoi, «Sur l’apparition du visible», in Macula, 1979, n. 5-6, pp. 203-215. 66 Cfr. L. Marin, Détruire la peinture, Galilée, Paris 1977, pp. 61, 71-75. 67 C. Bonnefoi, «Sur l’apparition du visible», cit., p. 215; Id., «À propos de la destruction de l’entité de surface», in Macula, 1978, n. 3-4, p. 165. 68C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, trad. it. di P. Levi, Einaudi, Torino 1984. Citato da H. Damisch, «La peinture est un vrai trois», in Rouan, Centre Pompidou, Paris 1983, p. 31. 69Ibidem. 70 Ivi, p. 18. 71 Ivi, p. 24. 72H. de Balzac, Massimilla Doni, ed. it. a cura di G. Crico, Sellerio, Palermo 1990, p. 71. 73 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, trad. it. di A. Bonomi, rev. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1993, pp. 148-149. 74 Ivi, p. 161.

Note

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75 Nel testo francese l'autore gioca sull’assonanza tra pian, piano, e pan, che traduciamo qui con lembo, conformandoci alla traduzione di questo termine di chiara ascendenza proustiana fatta da Giovanni Raboni (in M. Proust, La Prigioniera, Mondadori, Milano 1992, p. 200). Il termine pan rimanda tuttavia, come vedremo, a uno spettro semantico la cui ricchezza non è interamente tra­ ducibile in italiano. Laddove fosse necessario, abbiamo quindi mantenuto l’ori­ ginale francese precisandone il significato italiano tra parentesi quadre. [N.d.T.] 76 R. Barthes, La camera chiara. Nota sullafotografia, trad. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980, pp. 28-60 passim', J. Derrida, «Les morts de Roland Barthes», in Poétiques, 1981, n. 47, pp. 271-274. 77 In italiano nel testo. [N.d.T.] 78M. Blanchot, Il libro a venire, trad. it. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969, pp. 21-22. 79 M. Proust, Sodoma e Gomorra, trad. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1991, p. 190. 80Id., Laprigioniera, trad. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1991, p. 201. G. Didi-Huberman, «Le sang de la Dentellière»,inComédie française 1983, n. 123-124, pp. 16-22. 82J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psi­ coanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 215. 83 H. de Balzac, CS. 84 Ibidem. 85 In italiano nel testo. [N.d.T.] 86 In italiano nel testo. [N.d.T.] 87 G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori\ scultori e architetti, a cura di C.L. Ragghiami, Rizzoli, Milano 1943, voi. m, p. 577; A. Bosse, citato in B. Teyssèdre, Lhistoire de Vart vue du grand siècle, Julliard, Paris 1964, p. 272. 88H. de Balzac, CS. 89Ibidem. 90 Ibidem. 91 Ibidem. 92Ibidem. 93 G. Bachelard, Essai sur la connaissance approchée, Vrin, Paris 1927, cit. rispettivamente alle pp. 257, 253, 95. 94E. Bloch, Experimentum mundi. La domanda centrale. Le categorie delportar-fuori. La prassi, trad. it. a cura di G. Cunico, Queriniana, Brescia 1980, p. 47. 95 Ivi, p. 106.

81

,

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96 M. Blanchot, Il passo al di là, trad. it. a cura di L. Gabellone, Marietti, Genova 1989, p. 57. 97H. Maldiney, Regard[ parole, espace, L’Age d’Homme, Lausanne 1973, p. 193. 98 M. Merleau-Ponty, op. cit., p. 161. 99 A. Riegl, Arte tardoromana, trad., notizia critica enote di L.Collobi Ragghiami, Einaudi, Torino 1959, pp. 32-33. 100 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Ver­ dicchio, Quodlibet, Macerata 1995, p. 198. 101 H. Maldiney, op. cit., p. 200. 102 Aristotele, Lànima, cit., m, 13, 435a-435b. 103 P. Schilder, Immagine di sé e schema corporeo, ed. it. a cura di D. Cargnello, Franco Angeli, Milano 1973, pp. 262-263. 104 H. de Balzac, CS. 105L’autore impiega qui il termine francese «délusion» che, mutuato dal lati­ no delusio (inganno, tradimento), è utilizzato soprattutto in psicologia per indi­ care un errore percettivo o un’affermazione falsa alla quale si finisce però per credere. [N.d.T.] 106 E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, trad. it. di M.V. Giuliani, il Saggiatore, Milano 1994, p. 140. 107 In italiano nel testo. [N.d.T.] 108 M. Heidegger, Essere e Tempo, ed. it. a cura di S. Chiodi, UTET, Torino 1969, p. 88. 109 J. Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche, ed. it. a cura di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, p. 44. 110Ivi, p. 48. 111 H. de Balzac, CS. 112 Cfr. H. Damisch, Fenêtre jaune cadmium, ou les dessous de la peinture, Seuil, Paris 1984, pp. 11-16. 113 P. Fédida, Le concept et la violence, U.G.E., Paris 1977, p. 42. 114 H. de Balzac, CS. 115 Id., Gambara. Racconto musicale, cit., p. 59. 116J. Derrida, Margini della filosofia, ed. it. a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 256. 117 Cfr. H. Damisch, Fenêtre jaune cadmium, ou les dessous de la peinture, cit., p. 25. 118 Si fa qui riferimento al racconto di H. de Balzac Massimilla Doni, cit. 119E. Delacroix, «Essai sur les artistes célèbres, Raphaël», in Revue de Paris,

Note

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1830, t. XI, pp. 138-150, pp. 142-143. Cfr. H. de Balzac, Massimilla Doni, cit.; cfr. J. Adhémar, «Balzac et la peinture», in Revue des Sciences humaines, 1953, n. 70, pp. 149-162, p. 160; cfr. Id., «Raphaël et Balzac», in Gazette des BeauxArts, febbraio 1984, VI période, t. CHI, n. 1381, suppl., pp. 1-3, passim; P. Laubriet, Inintelligence de l'art chez Balzac. D'une esthétique balzacienne, Didier, Paris 1961, pp. 397-400. 120 La parola francese éclat, tradotta qui con «bagliore», oltre a indicare lo scintillio, lo splendore, può infatti significare anche «scheggia», «frammento». [N.d.T.] 121 H. de Balzac, CS. 122 M. Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it. di G. Zanobetti, Einaudi, Torino 1975, p. 147. 123 Cfr. H. Damisch, «‘Wie absichtslos'. Le faire et le croire, la ruse, la théo­ rie», in Nouvelle Revue de psychanalyse, 1978, n. 18, pp. 55-73 passim. 124 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 147. 125 Ivi, p. 148. 126H. de Balzac, CS. 127 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 150. 128H. de Balzac, Massimilla Doni, cit., p. 52. 129 Cfr. J. Lichtenstein, «Le coloris ou le discours consumé», in Les fins de l'homme - À partir du travail de }. Derrida, Galilée, Paris 1981, pp. 536-541, 538-539. 130P. Barocchi, Scritti d'arte del Cinquecento. IX. Colore, cit., p. 2248. 131 In italiano nel testo. [N.d.T.] 132P. Barocchi, Scritti d'arte del Cinquecento. IX. Colore, cit., pp. 2172,2199, 2204, 2299, 2306, 2322. L. Dolce, Dialogi di M. Lodovico Dolce, nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà de i colori..., cit., p. 15. 133 «Mistura difficile» e «unione» sono in italiano nel testo. [N.d.T.] 134 In italiano nel testo. [N.d.T.] 135 In italiano nel testo. [N.d.T.] 136L. Dolce, «Lettera a Mgr Alessandro Contarmi», in M.W. Roskill, Dolce's «Aretino» and Venetian Art Theory of thè Cinquecento, New York University Press, New York 1968, pp. 212-217. 137 H. de Balzac, Massimilla Doni, cit., p. 98. 138R. Barthes, Michelet, Seuil, Paris 1954, éd. 1975, pp. 110 (corsivo di DidiHuberman). In generale, si veda alle pagine 105-127. Cfr. anche T. Moreau, «Sang sur: Michelet et le sang féminin», in Romantisme, 1981, t. XI, n. 31, pp. 151-165.

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La pittura incarnata

139Citato da R. Barthes in Michelet, cit., p. 127. Si veda anche J. Michelet, Il mare, trad. it. di A. Valesi, Il nuovo Melangolo, Genova 2001. 140H. de Balzac, CS*. 141Ibidem. 142 J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-1954, a cura di G. Contri, trad. it. di A. Sciacchitano e I. Molina, Einaudi, Torino 1978. 143 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 973. 144 Ivi, p. 982. 145 G.B. Vico, «De constantia jurisprudentis», in Opere Giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, pp. 402-404. 146Ivi, p. 406. 147 Ivi, p. 408. 148 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Mazzolla, Einaudi, Torino 1979, libro X, w. 238-246, p. 399. 149Ivi, w. 247-252, p. 399 (trad. it. leggermente modificata, [N.d.T.]). 150 Ivi, v. 256, p. 399. 151 Cfr. S. Freud, «Feticismo», in S. Freud, Opere, 1924-1929, ed. it. a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 487-497. P. Fédida, Labsence, Gallimard, Paris 1978, pp. 53-60. 152 H. de Balzac, CS. 153 Ovidio, Metamorfosi, cit., libro X, w. 257-260, p. 399. 154 Ivi, w. 266-297, pp. 399-401. 155 Ivi, w. 268, 274-276, pp. 399, 401. 156 M. Manson, «Le mythe de Pygmalion est-il un mythe de la poupée?», in Colloque Présence d’Ovide, Belles Lettres, Paris 1982, pp. 132-135. 157 J. Derrida, La verità in pittura, trad. it. di G. e D. Pozzi, Newton & Compton, Roma 1981, 2005, p. 136. 158 H. de Balzac, CS. 159Ibidem. 160 S. Freud, Casi clinici, ed. it. a cura di M. Ranchetti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, 2002, p. 225. 161 Id., «Feticismo», in S. Freud, Opere, 1924-1929, cit., p. 491. 162 H. de Balzac, CS. 163 S. Freud, «Feticismo», in S. Freud, Opere, 1924-1929, cit., p. 491. 164J. Lacan, Il seminario. Libro XL I quattro concetti fondamentali della psi­ coanalisi, cit., p. 108. 165 H. de Balzac, CS.

Note

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166Ibidem. 167Ibidem. 168Ibidem. 169L. Dolce, «Lettera a Mgr Alessandro Contarmi», in M.W. Roskill, Dolce s «Aretino» and Venetian Art Theory ofthe Cinquecento, cit., pp. 212-217. 170 D. Diderot, Scritti sull’arte, cit., pp. 11-13 passim. 171A.J. Reinach, Recueil Milliet. Textes grecs et latins relatifs à l’histoire de la peinture ancienne, cit., pp. 195-197. 172Cicerone, De inventione, ed. a cura di M. Greco, Congedo, Lecce 1998, n, 3. 173 E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, trad. it. di E. Cione, La Nuova Italia, Firenze 1952, 1996, pp. 6-9. 174A.J. Reinach, Recueil Milliet. Textes grecs et latins relatifs à l’histoire de la peinture ancienne, cit., p. 357. 175 Ibidem. 176H. de Balzac, CS. 177Ibidem. 178Ibidem. 179 Cfr. R. Barthes, «L’effet de réel», in Littérature et réalité, Seuil, Paris 1968, ried. 1982, pp. 81-90; H. Damisch, «La partie et le tout», in Revue d’esthétique, 1970, t. xxm, n. 2, pp. 168-188; N. Schor, «Le détail chez Freud», in Littérature, 1980, n. 37, pp. 3-14. 180 H. Damisch, Fenêtre jaune cadmium, ou les dessous de la peinture, cit., p. 18. 181 C. Ripa, Iconologia, overo descrittone di diverse imagini cavate dall’anti­ chità, e di propria inventione (1593/1603), ried. a cura di P. Buscaroli, Editori Associati, Milano 1991. 182Horapollo, Hieroglyphica (1505), trad. fr. di B. van de Walle e J. Vergote, in Chroniques d’Egypte, 1943, t. XVIII, n. 35, pp. 39-89; n. 36, pp. 199-239, §58, p. 84, corsivo nostro. 183J. Lacan, Scritti, trad. it di G.B. Contri, 2 voll., Einaudi, Torino 2002. 184 Id., Séminaire sur la relation d’objet, inedito, 1956/1957. Cfr. anche Id., Scritti, cit. 185H. de Balzac, Massimilla Doni, cit., p. 143. Cfr. L. Marin, «La description du tableau et le sublime en peinture. À propos d’un paysage de Poussin et de son sujet», in Communication, 1981, n. 34, pp. 61-84 (in particolare pp. 61-62). 186Cfr. S. Reinach, «Pieds pudiques», in Cultes, mythes et religions, Leroux, Paris 1903, poi 1922,1.1, pp. 105-110.

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La pittura incarnata

187 Ovidio, L'arte di amare, trad. it. di E. Barelli, Rizzoli, Milano 1977,1, w. 31-32, p. 6. 188 Cfr. L. Dolce, «Dialogo della pittura intitolato l'Aretino...», in Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Controriforma, cit., p. 204; G. Vasari, «Descrizione delle opere di Tiziano da Cador, pittore», in Le vite de' più eccel­ lenti architetti, pittori’ et scultori italiani\ da Cimabue, insino a' tempi nostri (nel­ l'edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550), a cura di L. Beliosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Einaudi, Torino 1986, 2 voli. 189 G. Bataille, «Le gros orteil», in Œuvres complètes, 1.1, Gallimard, Paris 1970, pp. 200-204. 190 Ivi, pp. 200-201. 191 H. de Balzac, CS; Id., Massimilla Doni, cit., p. 110. 192 Id., Massimilla Doni, cit., pp. 98-99. 193 Id., Teoria dell'andatura, trad. it. a cura di F. Relia, Cluva Editrice, Venezia 1986, p. 58. 194 Ivi, p. 19. 195 Ivi, p. 13. 196Ivi, pp. 16-17. 197 H. de Balzac, CS. 198«La bella scontrosa» traduce il francese La belle noiseuse, altro appellati­ vo dato al dipinto del Chef d'oeuvre inconnu balzachiano. Il termine noiseuse, letteralmente «attacca brighe», rimanda all'antico francese «noise», litigio, che ha naturalmente la stessa radice dell'inglese «noise», rumore. [N.d.T.] 199 M. Serres, Genèse, Grasset, Paris 1982, pp. 40-45. 200 H. de Balzac, CS. 201 Ibidem. 202Clemente Alessandrino, Il protrettico, a cura di M. Galloni, Boria, Milano 1991, IV, 57, §3. 203 Ibidem. 204 Cfr. L. Dolce, «Lettera a Mgr Alessandro Contarmi», in M.W. Roskill, Dolce's «Aretino» and Venetian Art Theory of thè Cinquecento, cit., pp. 212-216. 205 N. Haskell e F. Penny, L'antico nella storia del gusto, trad. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-38, 472-499. 206 G. Plinio Secondo, Storia naturale, ed. it. a cura di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Einaudi, Torino 1988, vol. V, libro XXXVI, 21-22, p. 549. 207 Ibidem. Cfr. anche Luciano, «Eikones», in Works, trad. ingl. di A.M. Harmon, Loeb Classical Library, Cambridge-London 1969, vol. IV, p. 263; F.

Note

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Colonna, Le songe de Poliphile ou Hypnérotomachie, trad. fr. di C. Popelin Slatkine, Genève 1971, vol. I, pp. 109-110; V. Cartari, Imagini delli dei de gl’an­ tichi, Tomasini, Venezia 1647, ried. Akademische Druck-u, Verlagsanstalt, Graz 1963, pp. 275-276. 208 Cfr. D. Monna, P. Pensabene e J.P. Sodini, «L'identification des marbres: sa nécessité, ses méthodes, ses limites», in Revue de l'Art, 1983, n. 60, pp. 35-46 passim. 209 G. Plinio Secondo, Storia naturale, cit., libro XXXVI, 49-50, p. 611. 210 Ivi, libro XXXVI, 1, p. 517. 211 Ivi, 1-3, pp. 517-519. 212 Ivi, 144-145, p. 687-689. 213 Ivi, 131-132, pp. 677-679; 62, p. 621. 214 Ivi, 24, p. 553. 215J. Michelet, citato da Barthes in Michelet, cit., p. 145. 216 Ovidio, Le metamorfosi, cit., libro I, w. 398-410, pp. 23-25. 217 G. Plinio Secondo, Storia naturale, cit., libro XXXVI, 14, p. 533. 218J. Baltrusaitis, Aberrations. Quatre essais sur la légende desformes, Perrin, Paris 1957, pp. 47-72. ed. italiana 219 L. Dolce, Trattato delle Gemme che produce la Natura... , Sessa, Venezia 1617, passim. 220 Vitruvio, Architettura, libri i-vn, a cura di S. Ferri, Rizzoli, Milano 2002, vn, 5, p. 277. 221G. Plinio Secondo, Storia naturale, cit., libro XXXVI, 15, p. 533; 47, p. 609. 222 Ovidio, Metamorfosi, cit., libro m, w. 359-399, pp. 111-113. 223 Ivi, w. 416-419, p. 113. 224J. Gasquet, citato da P.-M. Doran, Cézanne. Documenti e conversazio­ ni, cit. 225 S. Freud, Gradiva, trad. it. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1977, 2003, p. 42 passim. 226 Ivi, pp. 48-49. 227 H. de Balzac, CS. 228 P. Fédida, L'absence, cit., p. 53. 229J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 47. 230 Apuleio, Le metamorfosi, ed. it. a cura di L. Nicolini, Rizzoli, Milano 2005, IV, 26-Vl, 24, t. n. 231 P. Fédida, Labsence, cit., p. 71. 232 H. de Balzac, CS.

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La pittura incarnata

233J.-P. Vemant, Mito e pensiero pressi i Greci, trad. it. di M. Romano e B. Bravo, Einaudi, Torino 1970, pp. 219-224. 234 Ivi, p. 224. 235 Euripide, Alcesti, ed. it. a cura di D. Susanetti, Marsilio, Venezia 2001, w. 348-357, pp. 95-97. 236Cfr. F. Frontisi-Ducroux, Dédale. Mythologie de Vartisan en Grèce ancien­ ne, Maspero, Paris 1975, pp. 95-117; M. Manson, «Le mythe de Pigmalion estil un mythe de la poupée?», cit., pp. 131-134. 237 Cfr. S. Viarre, «Pygmalion et Orphée chez Ovide», in Revue des études latines, 1968, t. XLVI, pp. 235-247. 238 Ivi, p. 236. 239 Ovidio, Metamorfosi, cit., libro X, v. 41, p. 389. 240 Ivi, libro XI, w. 10-13 e 18-19, p. 427. 241 H. de Balzac, CS. 242 Cfr. J.G. Frazer, «La leggenda di Adone», in II ramo d'oro, introd. di A.M. di Nola, trad. it. di N. Rosati Bizzotto, Newton Compton, Roma 2006, pp. 371-395; S. Viarre, «Pygmalion et Orphée chez Ovide», cit., p. 240. 243 Cfr. Esiodo, Teogonia, ed. it. a cura di A. Colonna, UTET, Torino 1977, 1983, w. 570-584, p. 95; Le opere e i giorni, w. 59-99, pp. 253-255.; J.-P. Vemant, Mito e pensiero presso i greci, cit., pp. 30-31. 244 H. de Balzac, CS. 245 Ibidem. 246Ibidem. 247 A. Bosse, citato in B. Teyssèdre, op. cit., p. 272. 248 S. Speroni, cit. da G.B. Cavalcasele e J.A. Crowe, Titian: bis life and times, with some account of his family, chiefly from new unpublished records, Murray, London 1877, t. n, p. 106. Cfr. D. Arasse, «La signification figurative chez Titien: remarques de théorie», in Tiziano e Venezia, Neri Pozza, Vicenza 1980, p. 154. 249 In italiano nel testo. [N.d.T] 250 F.W.J. Schelling, citato da J. Lichtenstein, «Éloquence du coloris: rhéto­ rique et mimésis dans les conceptions coloristes au XVI siècle en Italie et au XVII siècle en France», cit., pp. 169-184. 251 G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 946. 252 D. Diderot, Œuvres esthétiques, Garnier, Paris 1968, p. 484. 253 G. Genette, Figure I, trad. it. di F. Madonia, Einaudi, Torino 1969,1988, p. 50(le parentesi all’interno della citazione sono di G. Didi-Huberman, [N.d.T.]).

Note

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254 G. Bataille, La parte maledetta. Preceduto da la nozione di «dépense», trad. it. a cura di F. Relia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 82. 255 Id., «Manet», in Œuvres Complètes, t. IX, Gallimard, Paris 1979, pp. 103167, p. 142. 256 Ibidem. 257 H. de Balzac, CS. 258 Ibidem. 259 O. Mannoni, Clefs pour l’Imaginaire, ou 1’Autre Scène, Seuil, Paris 1969, pp. 28-30. 260 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 18. 261J. Lacan, Scritti, cit., p. 112. 262 Ivi, p. 502. 263 J. Lacan, Il Seminario. Libro II. Lio nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1991, p. 193. Cfr. anche S. Freud, Ilinterpretazione dei sogni, trad. it. a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pp. 107-120, pp. 270-273. 264J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, cit., p. 234. 265R. von Krafft-Ebing, Psychopathia sexualis, Payot, Paris 1969, pp. 325-326. 266 P. Sollier, Les phénomènes d’autoscopie, Alcan, Paris 1903, pp. 58, 62-63, 73-74; cfr. anche G. Didi-Huberman, Invention de l}hystérie. Charcot et Ikono­ graphie photographique de la Salpètrière, Macula, Paris 1982, pp. 127-146, 263266. 267 C. Cennini, Il libro dell’arte, o trattato della pittura, cit., cap. CXLIX, p. 134. D. Diderot, Saggi sulla pittura, cit., p. 26. 268 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, rist. 1973, p. 457. 269 Ivi, pp. 460, 462. 270 Cfr. P. Laubriet, Un catéchisme esthétique. Le Chef-d’oeuvre inconnu de Balzac, Didier, Paris 1961, pp. 9, 123-124, 197, 216-222. O. Bonard, La pein­ ture dans la création balzacienne. Invention et vision picturales de «La maison du chat-qui-pelote» au «Père Goriot», Droz, Genève 1969, pp. 78-90. G.R. Besser, Balzacs concept of genius. The theme of superiority in thè «Comédie humaine», Droz, Genève 1969, pp. 75-78, 178-182. J. Lanes, «Art criticism and the authorship of the Chef d'oeuvre inconnu: a preliminary study», in The artist and thè writer in France. Essays in honour of Jean Seznec, Clarendon Press, Oxford 1974, pp. 86-99. 271 H. de Balzac, CS.

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La pittura incarnata

272 Ibidem. 273 Cfr. R. Schilling, La religion romaine de Vénus, depuis les originesjusqu'au temps d'Auguste, E.F.R./De Boccard, Paris 1954, pp. 8, 30-59; Id., «La famille sémantique des mots apparentés à ‘Vénus’», in Rites, cultes, dieux de Rome, Klincksieck, Paris 1979, passim. 274 Esiodo, Teogonia, cit., w. 190-191, p. 71. 275 H. de Balzac, Massimilla Doni, cit., p. 167. 276 Id., Gambara, cit., p. 115. 277Cfr. R. Schilling, La religion romaine de Vénus, depuis les originesjusqu'au temps d'Auguste, cit., pp. 45-54; Id., «La famille sémantique des mots apparen­ tés à “Vénus”», cit., p. 326.

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Georges Didi-Huberman, filosofo e storico del­ l'arte, insegna all'École des Hautes Études en Scien­ ces Sociales di Parigi. Studioso di estetica, la sua ricerca è volta all'analisi della rappresentazione della figura femminile. Dei saggi pubblicati ricor­ diamo: Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà (Ei­ naudi, 2001), L'immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell'arte (Bol­ lati Boringhieri, 2006), Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell'arte contemporanea (Fazi, 2008). Nel 2004 il Saggiatore ha pubblicato Nin­

fa moderna. Saggio sul panneggio caduto.

In copertina: Raffaello, La Fornarina, particolare, Foto Scala, Firenze