La Piramide Rovesciata by Pietro Laureano [PDF]

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Zitiervorschau

Prima edizione novembre 1995

© 1995 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 Tutti i diritti riservati Stampato in Italia dalla Pozzo Gros Monti s.p.a., Moncalieri (Torino) Fotolito delle illustrazioni a colori: Litho Art New s.r.l. (Torino) ISBN 88-339 -0943-3 Le fotografie sono state realizzate dall'autore

Indice

r.

Un patto per il nuovo millennio Cooperare per sopravvivere

9 II

L'urlo del deserto

I2

Il paradiso perduto Il re di denari Il genio della lampada 2.

Le dimore del sole: le oasi del Sahara L'effetto oasi L'ecologia del deserto

49 55

Il ventre del Sahara

6I

Architettura dell'oasi

66

Le acque invisibili Il sistema globale dei segni Le cause di degrado

74

Il restauro dell'oasi di lghzer 3 . Il giardino diviene città: San' a

77 85

Il giardino del mondo

89

Gli architetti delle sorgenti atmosferiche

Io9

La spedizione ai limiti della terra I castelli delle acque del cielo

IIz

San'a, disegnata dal volo di una colomba

II8

Il collasso urbano e la salvaguardia Unesco

I2I

Dall'analisi ambientale una nuova strategia

4· Abitare la terra cruda: Shibam I29

Il ciclo della fenice e degli aromi

I34

Civiltà del deserto, arte della memoria

138

La città carovana

154

La valle della vita

157

La continua rigenerazione della città

162

Un piano per Shibam 5. Archeologia delle acque:

Petra

Un desiderio scolpito nella pietra La millenaria interazione uomo-ambiente Miele dalle rupi e olio dalle rocce Società delle acque 207

I pericoli per la Grande Petra

210

Il restauro archeologico dell'ecosistema

6. Oasi di pietra: i trulli pugliesi e i Sassi di Matera 215

Mondo sotterraneo

221

Architettura passiva Città labirinto Da giardino delle meraviglie a simbolo scandaloso Il progetto di rinascita culturale 7. Oasi di mare: Eritrea e isole Dahlac Terra del mito Alle origini dell'umanità La fucina dei segni e dei simboli Il volto della nuova Africa

275

I re del mare

279

Appello per Massaua e le isole Dahlac

8. Comunità autopoietiche I bibliotecari di Babele Il paradigma della società idraulica Un nuovo modello: la comunità idrogenetica Il rovescio della piramide

299

Bibliografia Indice analitico

AVVERTENZA BIBLIOGRAFICA

I nomi d'autore seguiti da data rimandano alla Bibliografia alla fine del volume. Nel caso di opere citate in traduzione o in un'edizione diversa dalla prima, l'anno è quello dell'edizione effettivamente utilizzata.

I.

Un patto per il nuovo millennio Il torrente impetuoso che scende dalle montagne va a perdersi nei precipizi, ma la più piccola goccia di rugiada è assorbita dal sole che l'eleva fino alle stelle. (Sa'di)

Cooperare per sopravvivere Ci è stato insegnato che l'evoluzione del genere umano è avvenuta attraverso la competizione e la lotta. Un continuo contendere tra le specie e un duro pro­ cesso di selezione, favorendo i più forti e combattivi, avrebbe avuto come risul­ tato l'apice del processo evolutivo costituito dall'Homo sapiens. Una uguale dinamica è stata proposta per spiegare il successo nel campo economico e sociale o il progredire delle scienze e delle tecniche: le persone e le imprese più aggres­ sive e competitive acquisterebbero vantaggi a scapito di tutte le altre; la lotta di classe sarebbe il motore di ogni sviluppo. Non sfugge a questo paradigma con­ flittuale la formazione della stessa psiche individuale che si attuerebbe attra­ verso la rimozione delle pulsioni. Alla base di tale ipotesi sono le teorie e le scienze del XIX secolo, i grandi sistemi speculativi di Darwin, Marx e Freud. Il loro pensiero, espresso in campi differenziati e guidato da motivazioni diverse, scientifiche o sociali, ha nel complesso avvalorato l'idea che la molla dello svi­ luppo biologico, economico e psichico siano le tensioni e i conflitti. Il secolo scorso ha così generato le concezioni che ancora dominano la fine del millennio: la legittimazione del predominio dell'uomo su altri uomini e dell'umanità su tutte le altre specie; il diritto al saccheggio delle risorse planetarie; la fiducia in un costante progresso nel tempo delle società; la convinzione che il benessere sia possibile solo nella illimitata crescita e nell'espansione economica generata da dinamiche competitive. Questa visione è oggi ribaltata. Le moderne ricerche biologiche dimostrano che gli organismi sopravvivono attraverso processi di simbiosi e di alleanza. Le specie complesse si sono evolute, non distruggendosi a vicenda, ma mettendo insieme i rispettivi caratteri. L'esistenza degli alberi è resa possibile dalla sim-

biosi con i funghi, che mettono in grado le radici di sintetizzare gli elementi vitali. La composizione atmosferica, essenziale a tutta la biosfera, è mantenuta dall'incessante attività di microscopici batteri. Non solo questi invisibili orga­ nismi hanno reso il pianeta fertile e abitabile per tutte le altre forme di vita, ma con la loro attività biochimica e il continuo scambio e mutamento genetico rea­ giscono ai cambiamenti ambientali funzionando come un regolatore automatico in grado di mantenere costanti condizioni di equilibrio. Ed è proprio il progre­ dire della batteriologia che ha dimostrato come i processi di selezione ed evolu­ zione non riescono da soli a spiegare la complessità delle forme di vita sulla terra (Margulis e Sagan 1989). Una delle scoperte più stimolanti della microbiologia moderna è derivata dallo studio delle caratteristiche dei mitocondri, quei piccoli granelli o filamenti che si trovano all'interno di ogni cellula vivente, sia di un animale che di una pianta o di un fungo. La loro presenza è fondamentale per­ ché sono loro a mettere in grado le cellule di assimilare l'ossigeno. Ma quello che ha sorpreso gli studiosi è la caratteristica dei mitocondri di possedere un DNA diverso da quello della cellula in cui risiedono e di avere momenti riproduttivi autonomi rispetto a questa, quasi fossero organismi indipendenti. La spiegazione va ricercata nei processi verificatisi tre miliardi di anni fa nel mare primordiale. Alcuni batteri si combinarono in quelle epoche lontane con altri microrganismi costituendo un'alleanza capace del grande vantaggio che porterà alla respira­ zione. La presenza dei mitocondri, grazie alla quale ogni cellula animale o vege­ tale è capace di metabolizzare le sostanze nutritive, non è quindi frutto di un processo evolutivo, ma costituisce il risultato di una fusione: un organismo auto­ nomo originario, privo di nucleo, ma in grado di operare la sintesi proteica, si sarebbe unito a una cellula primitiva e le avrebbe assicurato la possibilità di uti­ lizzare l'ossigeno come fonte di energia ponendo così le basi per tutta la vita superiore sulla terra. Le specie, dunque, non si evolvono, ma coevolvono. E l'affermazione è vera anche nell'ambito antropologico e sociale. Sono proprio le comunità che hanno imparato a unire le risorse e a farne buon uso ad avere più speranza di riuscita nel lungo periodo. Le ricerche presentate in questo libro, condotte nel Sahara e come consulente dell'Unesco per la salvaguardia di ambienti, città ed ecosistemi in pericolo, verificano questo assunto nella proposta di una teoria dell'oasi: lo studio dei processi di stretta associazione uomo-natura capaci di creare, nelle più dure condizioni di esistenza, cicli vitali, ecosistemi autopoietici, vale a dire in grado di perpetuarsi e rigenerarsi continuamente. All'alba del III millennio, quando l'intera ecologia planetaria risulta minacciata da uno sviluppo squilibrato e pervasivo, queste esperienze tracciano un'ipotesi di nuova progettualità e coo­ perazione internazionale basata sulla simbiosi e l'alleanza. Gli studi elaborati

costituiscono interventi di rispetto delle culture, di valorizzazione delle speci­ ficità e delle risorse locali. Sono i primi passi per una strategia di compatibilità tra la presenza umana e l'intera armonia planetaria. L'assimilazione della lezione di umiltà e di sopravvivenza è iniziata in un lontano passato in una piccola oasi del deserto. L'antica conoscenza perduta è ricordata negli enigmatici versi di questo canto tramandato dai nomadi e trascritto dallo storico arabo al-Hamdani, morto in prigione a San'a nel 945 d. C.: Nelle sabbie del deserto è sepolta una piramide rovesciata, racchiude la verità sulla specie umana. La verità è sepolta nelle sabbie del deserto affinché chi la scopra sia considerato un pazzo con la mente bruciata dalla solitudine e dal sole.

L'urlo del deserto

Il Sahara è un gigante disteso, dice una leggenda dei Tuareg, i grandi nomadi del deserto. Da milioni di anni giace coricato sul dorso, da sud a nord, nella parte settentrionale del continente africano. La folta capigliatura forma le foreste pluviali dell'equatore. I piedi costituiscono le alte cime della catena dell'Atlante. I suoi organi sono i tesori del sottosuolo. Il ventre nudo e liscio è costituito dalle vaste solitudini centrali: la regione delle oasi. Il gigante è a volte assopito, ma vivo. Non è esente da movimenti e non limita la sua influenza alla sola terra afri­ cana. Il grande corpo, immerso nei due oceani, proietta l'ombra su tutto il mondo antico. I suoi cicli biologici spiegano i fenomeni naturali del deserto: il perenne respiro del vento e il palpito irrequieto delle grandi dune, l'ergersi delle monta­ gne corrugate e disseccate e la continua dissoluzione e desquamazione delle pia­ nure aride, il calore febbrile delle rocce e il trasudare delle caverne umide. Parte integrante di questa concezione del deserto personificato è la stessa pre­ senza umana. Le azioni delle genti del Sahara sono componenti fondamentali della fisiologia del grande gigante. Sfruttare le miniere, scavare pozzi, incidere piste significa attingere agli organi interni, spillare umori, modificare il derma. Azioni legittime, ma regolate da limiti precisi. Il ciclo vitale del titano impone i modi di abitare e produrre, dà il ritmo al tempo del lavoro e del riposo, della festa e del dolore. L'antico procedere delle carovane, il trasporto dei prodotti, lo scambio dell'oro e dell'avorio del sud con il sale e i manufatti del nord, corri­ spondono al fluire dei liquidi organici nel corpo disteso. I nomadi, guerrieri, alle­ vatori, commercianti, sono il sangue che permette la circolazione e i ricambi

vitali. I sedentari, a loro volta, producono gli alimenti metabolizzando le rare risorse provenienti da spazi infiniti. La regione delle oasi corrisponde al ventre del Sahara: in esse, infatti, la sintesi di luce, umidità, calore e humus genera il nutrimento per tutto l'immenso organismo del deserto. La personificazione del Sahara operata dalla metafora dei Tuareg rende con una bella immagine la realtà profonda di un deserto vivo, dall'intensa comples­ sità biologica, di cui quella umana è una componente fondamentale, antica di storia e ricca di cultura. Questa condizione è leggibile nel paesaggio percorso, organizzato ed edificato nel corso del tempo grazie a un'interazione di lungo periodo dei popoli con questi spazi, ma l'antropomorfizzazione allude a qualcosa di più. Chi ha detto che il grande gigante debba restare per sempre nei luoghi dove ora è relegato? Quali leggi o catene lo tengono confinato in Africa? Per­ ché il suo sguardo bruciante non potrebbe volgersi altrove, verso l'altra sponda del Mediterraneo, solo apparentemente diversa, ma in realtà cosl prossima?

Il paradiso perduto

Sappiamo che il Sahara non è stato sempre un deserto, che ha avuto periodi di umidità e abbondanza, testimoniati dalle immagini preistoriche dipinte e graf­ fite a migliaia sulle sue rupi. Raffigurano un ambiente ricco e popolato dove, oltre 8ooo anni fa, comunità umane conducevano un'esistenza opulenta che con­ sentiva la liberazione di tempo utile per la creazione, il pensiero, la religione e l'arte. Su quelle stesse incisioni seguiamo l'evolversi di questi gruppi da caccia­ tori in agricoltori e allevatori. L'umanità impara a domesticare e selezionare le piante e gli animali e a modificare produttivamente lo spazio che la circonda. Imbocca il lungo cammino che separerà sempre più la natura dalla cultura. E pro­ prio la conoscenza fu la causa della distruzione di quei primi paradisi. Infatti le grandi mandrie di buoi, sostituite alla varietà delle specie, determinarono un carico eccessivo per l'ambiente. Imposero la trasformazione delle foreste in pascoli, cosa che provocò con il tempo la sparizione completa del manto vege­ tale. Il suolo, non protetto dagli alberi, fu smantellato dall'escursione termica e dal vento, e trasformato in sabbie sterili. La gran parte delle acque superficiali sparirono, asciugate dal sole o inghiottite nel sottosuolo. Solo in seguito a questa catastrofe l'umanità, rimasta sola di fronte al deserto, ne ha appreso la dura lezione, e la civiltà delle oasi porta il segno di quella caduta, dell'errore e della catastrofe originaria, e della grande capacità di rina­ scita. Costituisce l'esempio straordinario di un sapiente utilizzo di risorse rare. Le aree di vegetazione e di fertilità non sono frutto del caso, ma il prodotto

dell'ingegno umano. Le palme, le costruzioni di terra cruda, i sistemi idraulici, le stesse grandi dune di sabbia sono realizzate e appropriatamente utilizzate dagli abitanti per mantenere un ambiente vivibile in una situazione tra le più inclementi del pianeta. Ogni singola palma è piantata e curata, è irrigata con acque drenate attraverso imponenti gallerie che raccolgono ogni goccia di umi­ dità dalle sabbie, è fertilizzata con i rifiuti organici. Così si forma l'ombra e si condensa il vapore e, al riparo dal sole e dal vento, si moltiplicano i microrgani­ smi e gli altri elementi biologici che compongono il terreno fertile, l'humus. Si crea un'interazione virtuosa di fattori in grado di innescare dinamiche positive atte a contrastare il contesto duro e ostile. Si continua a pensare il deserto come qualcosa di altro e di estraneo, l'estrema terra dell'esotico e dello spaesamento, un utile eremo per confinare le diversità, i timori e anche la generosa voglia di fare del bene. Ci si chiede con tristezza e commiserazione se i popoli potranno sopravvivere in quelle condizioni: se i Tua­ reg riusciranno a perpetuare la loro cultura, e le oasi a sfuggire il degrado e l'impoverimento crescente. Ma il problema va completamente rovesciato. Occorre chiedersi piuttosto quanto tempo ancora le nostre aree temperate potranno ospitare condizioni di vita possibile. Molte regioni del Mediterraneo, come la Mesopotamia, il Libano e gran parte dell'Anatolia, proprio quelle che hanno visto nascere le civiltà antiche, sono passate negli ultimi I 500 anni, un periodo molto breve rispetto ai tempi geologici e anche rispetto a quelli della sto­ ria umana, dalle grandi foreste e dai giardini coltivati al desolante quadro odierno. In Europa la pioggia, l'aria, la stessa luce del sole tendono a divenire elementi pericolosi, carichi di acidità, di gas o di radiazioni nocive da cui dob­ biamo difenderci. L'attuale generazione è cresciuta nell'idea che i fiumi siano luoghi inquinati, dove è pericoloso bagnarsi. I nostri discendenti saranno abi­ tuati a considerare i mari e i litorali infetti, inavvicinabili. Si è arrivati al para­ dosso che nelle città, quegli spazi che gli uomini stessi hanno eretto a propria dimora, siano posti in funzione allarmi per avvertire i cittadini di non uscire pena l'intossicazione da gas velenosi. Anche intere aree territoriali saranno pre­ sto giudicate impercorribili. Non a caso comprare impianti di acque minerali, costruire abitazioni o automobili ermeticamente chiuse, dove l'atmosfera sia fil­ trata e condizionata, smaltire rifiuti tossici, fabbricare maschere antigas sono ormai settori d'investimento privilegiati dalle grandi finanziarie. Le metropoli hanno raggiunto una dimensione tale che è possibile viverci solo utilizzando costantemente la rete di trasporti sotterranei. Così sono sempre meno luoghi dell'uomo, non percepibili nella loro interezza, e sempre più membra e fram­ menti sparsi raggiungibili attraverso i percorsi del sottosuolo: spazi di degrado e di alienazione.

Nelle oasi, dove ogni più piccolo fattore è indispensabile alla sopravvivenza, ogni costruzione, ogni manufatto è carico di simboli e di significato. Un legame indissolubile vincola l'uomo all'ambiente e tesse una inestricabile rete di corri­ spondenze, per la quale una casa, un giardino, un animale, il più piccolo gesto non è mai qualcosa di anonimo, ma diventa parte di una sfera complessiva di cognizioni e rituali. Si determina cosl un microcosmo in cui la vita e il pensiero sono strettamente collegati ai luoghi, agli altri esseri viventi e ad ogni cosa. Tutto ha un senso in questo sistema globale retto da un inviluppo inseparabile tra la natura, l'architettura e le trame dell'esistenza. È come se qui le genti, con­ sapevoli dell'errore originario, ne portino il segno: tracciato sui volti, inciso sulle abitazioni, iscritto nei campi. Dell'espiazione e della riparazione hanno fatto il fondamento del loro essere, il simbolo dell'umiltà ritrovata, la consapevolezza della dipendenza della vita da equilibri labili e precari. Per questo possiamo dire che il Sahara è davanti a noi. Che dall'alto della sua esperienza plurimillenaria ci può fare da guida. Spesso i Tuareg, al tramonto, siedono immobili sulla cima delle dune più alte. Dicono di ascoltare la voce del gigante. Questa voce risuona come un grido. Il grido del deserto che nessuno può ignorare. Esso dice: solo un nuovo patto tra tutta l'umanità, e tra questa e le specie animali e vegetali, può garantire la sopravvivenza di quell'oasi nel cosmo che si chiama Terra.

Il re di denari

Viaggiare, spostarsi, percorrere interi continenti, attraversare i mari è da sempre una caratteristica fondamentale dell'Homo sapiens. Interpretando le migrazioni degli uccelli e muovendosi al seguito della selvaggina i cacciatori paleolitici popolarono tutta la terra. Accompagnando le grandi mandrie gli alle­ vatori neolitici tracciarono i primi trattori e su rudimentali zattere diffusero i nuovi modi di coltivazione. Il movimento degli astri, il perenne percorso del sole verso occidente guidò i carri dell'Età del Bronzo alla scoperta di nuove terre. Una fitta trama di carovaniere, di vie d'acqua e di strade commerciali legava tutto il mondo antico, al cui interno gli uomini, le idee e le merci si spostavano molto più facilmente di quanto noi siamo portati a credere. Sono noti i grandi viaggi di scoperta organizzati dai faraoni e le spedizioni commerciali attribuite dalla Bibbia al re Salomone. Ancora poco si conosce delle navigazioni dei Fenici, che tenevano gelosamente segrete le loro rotte e le strane tecniche impiegate per sfruttare le correnti sottomarine. In Malesia alcuni misteriosi megaliti conser­ vati sulla sponda orientale dello Stretto di Malacca sono stati interpretati come la rappresentazione di ancore e strumenti di navigazione fenici (Miller 1974,

p. 258). Il più enigmatico di tutti, rimasto indecifrato per la inconsueta forma di un grande cucchiaio è forse proprio il dispositivo che, immerso nel mare come una vela ad acqua, permetteva di usare come motore la forza delle correnti. Con

questi espedienti gli antichi navigatori fenici, originari delle sponde dell'Ara­ bia, giunsero forse sino in Brasile. Il semitista Cyrus H. Gordon ha dimostrato che una delle numerose iscrizioni fenicie rinvenute in Sudamerica non può essere un falso perché le particolarità lessicali con cui è composta sono divenute note agli studiosi soltanto in epoca successiva alla data del suo ritrovamento (Gordon 1968). Da un resoconto di Quinto Metello Celere, proconsole in Gallia nel 6o a. C., si può desumere che in epoca romana uomini di oltre Atlantico arrivarono in Europa. La vicenda è riportata da Pomponio Mela e Plinio il Vecchio, che li defi­ niscono Indiani poiché si accomunavano con questo nome tutte le genti esotiche o piuttosto perché i contatti con l'India e l'Estremo Oriente erano già frequenti (Pomponio Mela, Corografia, III 5; Plinio il Vecchio, Storia naturale, II 67). L'imperatore romano Marco Aurelio era conosciuto fino in Cina con il nome di An Duan, il signore del Grande Quin, l'impero romano (Sun Yufu 1989). In un sito sul delta del Mekong sono state trovate medaglie dell'epoca di Antonino Pio e imitazioni di oggetti romani. Fonti cinesi riportano che sotto Marco Aurelio un inviato romano giunse in Cina con regali tipici delle rive del Mar Rosso e in particolare della città di Adulis. Gli stessi Cinesi raggiunsero prima dell'epoca delle grandi conquiste le coste dell'Asia, dell'Africa e, forse, anche la sponda sull'Oceano Pacifico dell'America, ma l'avvenimento non interessò più di tanto «il paese del centro» e restò una semplice relazione di viaggio nelle enciclopedie imperiali. Nel 1350 il grande viaggiatore musulmano Ibn Battuta, che era stato sei anni prima a Pechino, si reca nella mitica Sigilmasa, città chiave delle caro­ vaniere· transahariane. Qui è ospite del giureconsulto locale e con stupore apprende di averne conosciuto il fratello in Cina durante il suo precedente viag­ gio (Ibn Battuta 1968, IV, p. 377). La «scoperta» del continente americano nel XVI secolo fu anticipata dai Vichinghi e, forse, da navigatori africani. Ma proprio con l'espansione europea il viaggio diventa appunto «scoperta», termine che implica la negazione totale di una esistenza autonoma dell'Altro e giustifica l'instaurarsi di un rapporto di subordinazione dei popoli autoctoni. La coloniz­ zazione delle Americhe s'impernia su questo presupposto e sull'invenzione pura e semplice di un'epopea di esplorazione di terre vergini dove invece c'erano cul­ ture e nazioni. Nel XVIII secolo i Padri Pellegrini sbarcano nell'America Setten­ trionale dando inizio all'epica di civilizzazione di paesi selvaggi su cui si fonda la conquista del Nuovo Mondo. Quasi nessuna cronaca, tuttavia, riporta che al loro sbarco a Plymouth essi vengono accolti da un nativo indiano di nome

r

Squanto appena tornato da un viaggio in Europa e capace di esprimersi in per­ fetto inglese (Clifford 1993, pp. 31 e 388). Viaggiare e conoscere è per l'Occidente conquistare e imporre un modello interpretativo. È affermare una supremazia e costruire un'immagine del mondo a giustificazione di questo progetto egemonico. Il museo del Louvre di Parigi ospita un'immensa collezione dell'antico Egitto, ma le indicazioni ai visitatori non menzionano l'esistenza di una sezione archeologica dedicata all'Africa: la valle del Nilo è considerata estranea a questo continente. Ciò è dovuto all'impos­ sibilità per la coscienza occidentale di accettare che l'Africa sia stata la culla della più antica e possente società umana. Il processo di mistificazione e appropria­ zione da parte della cultura europea della civiltà dei faraoni è stato operato fino dai tempi della prima grande spedizione in· Egitto effettuata da Napoleone. Sembra addirittura che in quella occasione si sia volutamente alterato l'aspetto della Sfinge troncandone il celebre naso per nascondere l'evidenza dei caratteri del volto appartenenti a un tipo somatico sudanese (Diop 1954). Anche i testi scolastici, iniziando la storia d'Europa a partire dagli Egizi, assimilano comple­ tamente questo popolo all'Occidente perché sarebbe dirompente ammetterne l'origine e il carattere tutto africano. In modo analogo la storiografia moderna dell'antichità è dominata dalla costruzione del modello greco, esaltato dal nazio­ nalismo e dal romanticismo europeo, che volutamente ignora il debito verso le grandi correnti di civiltà dell'Oriente e dell'Africa. Gli esploratori e gli scien­ ziati impegnati in ricognizioni di studio contribuiscono alla continua creazione di paradigmi basati sulla supremazia occidentale. In realtà i loro rinvenimenti sarebbero impossibili senza le guide autoctone sistematicamente non citate nelle relazioni di studio. Sono i Tuareg gli artefici della conoscenza europea delle pitture preistoriche sahariane e i conoscitori locali sono sempre i veri autori di tante scoperte archeologiche. A volte l'accompagnatore del posto si rivela più colto di quanto lo scienziato straniero avesse potuto immaginare, come nel caso di Hayyim Habsus, il fabbro yemenita, guida dell'archeologo Joseph Halévy nella prima spedizione di ricerca epigrafica nello Yemen (Halévy I 877), che scrisse una sua relazione della missione (Habsus 1976). Più spesso la visione creata dal pensiero occidentale annulla i modi locali di interpretare e concepire la realtà creando i presupposti culturali della subordinazione e dello scambio economico impari. «Davano in cambio di un solo amo o di un coltello cinque o sei galline; per un pettine, un paio di oche; per uno specchio o un paio di forbici, una quantità di pesce sufficiente a sfamare dieci uomini; per un campanello o un laccio di cuoio, un cesto di batate. Queste batate hanno il sapore delle castagne e la forma delle rape. Per un re di denari, che è una carta da gioco, mi dettero sei galline,

r.

La Sfinge di Giza in una rappresentazione del 1798 di Vivant Denon che nel suo Voyage (r8oz) la descrive ammettendone l'evidente fisionomia africana.

credendo per di più di avermi ingannato». Così Antonio Pigafetta, il cronista di bordo della spedizione di Magellano (1519-22), descrive nel suo libro Il primo viaggio intorno al mondo il suo incontro con la popolazione del Brasile (Pigafetta r 989). Il testo è esemplificativo dei rapporti tra i paesi occidentali e quelli non industrializzati. Sono i meccanismi dello scambio ineguale che impoverisce i paesi ricchi di risorse primarie naturali e ci fa considerare sottosviluppati luoghi a cui sottraiamo alimenti e beni a prezzi irrisori. Queste dinamiche sono da tempo note e analizzate dal punto di vista economico (Emmanuel 1969), tutta­ via non sempre è stato preso in considerazione quel processo che costituisce una premessa indispensabile alla instaurazione di queste distorte regole di scambio economico. È il deprezzamento dei valori culturali, dell'insieme di regole, costumi, modi di fare e di vivere su cui si fondano l'identità di una comunità e il suo patrimonio storico. Solo smantellando questi valori, realizzando lo scadi­ mento morale, spirituale e culturale dei popoli è possibile affermare le ragioni economiche di scambio ineguale. La pretesa di supremazia rispetto alle altre culture, che determinò l' annien­ tamento dei popoli precolombiani e ha operato in tutto il resto del globo, può essere considerata la categoria su cui si fonda economicamente e ideologica­ mente il mondo moderno. La società avanzata impone i suoi prodotti attraverso un dispositivo formidabile di affermazione dei principi a lei propri. La creazione

del mercato unificato si attua mediante la dispotica omologazione dei luoghi e delle genti e l'imposizione di una superiorità basata sulla sopravvalutazione cul­ turale. Lo spazio planetario, creato dai mezzi di comunicazione di massa, diventa la vetrina delle attrazioni e dei desideri, lo scenario della rappresenta­ zione e della produzione d'immaginario, componenti determinanti dell'econo­ mia postindustriale. La pubblicità e i telefilm raggiungono tutti i luoghi, diffon­ dendo un'immagine «patinata» e irreale dello sviluppo, seguita dall'invasione massiccia di prodotti che confermano l'idea dell'Occidente come un irresistibile paese dei balocchi. Si provoca in questo modo nelle società non industrializzate uno shock culturale profondo che mina il complesso di cognizioni, tradizioni, capacità usate nel tempo e continuamente trasmesse. Si sminuisce e scompare il sistema locale di valori su cui si fonda la ragion d'essere di un gruppo umano, quell'identità sociale che crea la comunità. I modelli di comportamento e i parametri di scelta e di preferenza inculcati decretano come «non moderni» e poco prestigiosi i modi di vivere ancestrali e vengono accettati anche a fronte di un peggioramento delle condizioni di vita. Le tecniche introdotte hanno perlopiù una efficacia immediata che rende indi­ scutibile agli occhi stessi delle semplici genti locali il potere del nuovo. Ma le soluzioni avanzate non hanno subito, come la sapienza antica, una verifica di lungo e lunghissimo periodo. Ed è proprio l'accertata validità in un estesissimo arco temporale, l'avere avuto come banco di prova calamità e situazioni dalle ricorrenze lontanissime, la spiegazione di tanti modi di esistere tradizionali. Il tecnico straniero, non abituato, in genere, nemmeno a una verifica delle sue proposte rispetto al semplice cambiamento climatico stagionale, reagisce con disprezzo alla volontà degli abitanti di non costruire in un determinato luogo o all'attaccamento alle architetture di terra cruda e di paglia. Poi, quando dopo cinque, dieci, o anche venti anni l'onda di piena si verifica proprio su quel ter­ reno o il terremoto abbatte tutte le case in cemento risparmiando gli abitanti di quelle di terra cruda e canne, più flessibili e leggere, è ormai troppo tardi per comprendere che le remare considerate superstizioni e tabù erano motivate da una memoria collettiva lunghissima. Questa affida alla tradizione il compito di dare una misura agli interventi dell'uomo in rapporto alle forze sopite, ma sem­ pre presenti della natura. Invece, di fronte al successo immediato della moder­ nità, le cognizioni che avevano assicurato la sussistenza nel tempo, siano esse di ordine architettonico, produttivo, di medicina tradizionale o spirituale, vengono lasciate decadere e, quando ai primi risultati seguono le catastrofi e l'impoveri­ mento, la dipendenza culturale è ormai ineluttabile. Nelle oasi del deserto, secondo processi che sono storia comune a tutti i centri antichi, per le nuove costruzioni in cemento e con il tetto di lamiera ondulata, status symbol del pro-

gresso, si abbandonano gli antichi insediamenti fatti di case a corte in terra cruda e strade sotterranee, certamente più confortevoli e adatti al clima. Si scavano pozzi a grande profondità, affermando la supremazia delle pompe a motore rispetto agli arcaici sistemi di capillarità, condensazione e distribuzione delle acque per gravità, compromettendo nel tempo la capacità di rinnovo delle falde. Efficacia immediata e catastrofe nel lungo periodo: questo è l'imperativo della moderna tecnologia. Che importa? La società industriale ha memoria di breve termine, fa della trasformazione continua e del disprezzo delle tradizioni la sua ragione.

Il genio della lampada

Come nella favola di Aladino, le vecchie lucerne vengono scambiate con lumi nuovi e scintillanti e viene cosl ceduto anche il genio nascosto nella lampada. Ritrovare quel genio antico significa comprendere l'essenza dei luoghi, esaltare il rapporto che lega questi ai gruppi umani che li hanno prodotti e affermare le qualità culturali che sono il cuore della comunità. Occorre impegnarsi nell'iden­ tificazione delle specificità di ogni sito, anche se a volte è necessario ricostruire un passato ormai scomparso o improponibile. Il valore di un bene culturale sta proprio nella sua capacità evocativa, nella carica di informazione che trasmette grazie alla quantità di studi e di conoscenze che ne hanno creato l'aura e che gli si sono sedimentati attorno nel tempo. La patina semantica è generalmente ricca e spessa per le realizzazioni auliche e preziose che fanno parte ormai del patri­ monio storico consolidato del pensiero occidentale. Questo ha operato un impe­ gno e un investimento intellettuale che rischiano ora, per la disponibilità di superiori mezzi economici, di divenire soverchianti e totalizzanti rispetto a espressioni culturali diverse, definite povere. Su di esse è pressoché inesistente o muta l'aura di consapevolezza capace di crearne l'apprezzamento e il valore e nessuna difesa si erge ad arrestare i travolgenti caterpillar del cambiamento. Ora che l'industrializzazione massiccia minaccia l'equilibrio ecologico plane­ tario occorre riflettere sull'uso indiscriminato della tecnologia moderna che, come un nuovo giocattolo, non abbiamo ancora imparato a controllare comple­ tamente. L'era industriale copre un breve segmento della storia millenaria umana e non è verificata di fronte alle emergenze ambientali e alle cicliche tra­ sformazioni planetarie, mentre piccole comunità e culture arcaiche, consapevoli della !abilità degli equilibri necessari alla vita, hanno elaborato un'estrema responsabilità comune, realizzato ecosistemi in equilibrio armonico con la natura, basati sul rinnovo delle risorse e capaci quindi di sussistere nel lungo

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periodo. Proprio nelle condizioni più rudi e inclementi, in quelle situazioni estreme dove i vincoli naturali sono più forti, le trasformazioni introdotte restano entro i limiti precisi imposti dalle condizioni geografiche. Si sono così storicamente realizzati i modi di esistenza portatori del patrimonio di cultura e di conoscenza alla base dei sistemi oasiani qui analizzati: oasi immerse nel sole del deserto, scavate nella terra cruda, scolpite nella pietra o create in mezzo al mare. Sono esempi di progettazione ambientale imperniata sulla riproposizione del sapere antico e la valorizzazione delle qualità locali, finalizzata a salvaguar­ dare fragili realtà dall'avanzata inarrestabile dell'ideologia modernista. Nel Sahara, come nello Yemen, culture millenarie, basate sulla sapiente rac­ colta delle acque piovane e sulla regolazione e recupero delle rare piene, sono minacciate dal gigantismo urbano e da interventi tecnicisti di costruzione di grandi dighe o condotte forzate d'acqua in cemento armato. Vengono indicate come unica soluzione possibile per città che pure esistono da migliaia di anni rea­ lizzando tutto con i soli materiali locali. San'a, un tempo giardino di acque e fiori celebrato dalle Mille e una notte, vede decrescere la falda freatica al ritmo di 6 metri l'anno. Dopo avere assorbito tutte le risorse idriche della regione espandendo a dismisura la città, la soluzione conseguente dei tecnocrati è quella di una titanica opera che pomperà acqua da desalinizzare con grande dispendio energetico dal Mar Rosso superando una distanza (sul terreno) di 300 chilome­ tri e un dislivello di 2300 metri. Fino a quando San'a dovrà crescere sorretta da costose opere e procrastinando una catastrofe che sarà tanto più terribile quanto più, utilizzando questi mezzi, sarà rinviata? Il destino di Shibam è ancora più paradossale. È la capitale storica della valle dell'Hadramaut nello Yemen meridionale, l'Arabia Felix degli antichi, il paese sacro dove si producevano l'incenso e la mirra. Tutto in questa valle traspira cultura e conoscenza: un sistema urbano armonioso perfettamente integrato con la natura dei luoghi; architetture splendide realizzate con sola terra e fango sfi­ dano le leggi della statica e l'orgoglio dei nostri architetti; giardini rigogliosi contrastano l'aridità del deserto. Quale ignorante presunzione autorizza l'intro­ duzione di costruzioni di cemento e l'ammodernamento distruttivo delle tecni­ che agricole? Nel sud d'Italia l'intera popolazione dei Sassi di Matera di circa 20 ooo abi­ tanti fu traslocata negli anni cinquanta e sessanta dalle antiche case scavate nella pietra e costruite con il tufo. Dalla città storica, geniale per le soluzioni di adat­ tamento termico e ambientale e formata da spazi realizzati per favorire la ric­ chezza delle relazioni umane, gli abitanti furono trasferiti in periferici apparta­ menti di cemento. Condizioni igieniche e sanitarie motivarono l'esodo forzato da questo centro urbano, esempio scandaloso per la moderni_tà di un modo di



Oasi del Tuat

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Localizzazione dei sistemi oasiani trattati nel volume.

vivere e di abitare non omologabile agli imperativi del consumismo. Come ridare dignità e coscienza a genti deportate, marchiate dall'epiteto della vergogna e dell'inadeguatezza rispetto al futuro incombente, e come salvare le vestigia del passato aggredite dalla speculazione e dalle trasformazioni irrispettose? In Giordania e in Eritrea luoghi archeologici e siti naturali unici rischiano di essere perduti per sempre per l'incapacità di leggere gli insediamenti antichi come un tutto unico in cui ambiente e architettura creano un paesaggio culturale frutto della cura continua. Scavi archeologici sono tesi alla scoperta del tempio prezioso o della prestigiosa sepoltura, utili al più alla vanità dell'accademico, quando non funzionali al peggiore sfruttamento turistico. Restauri mirati al solo monumento pregiato per la ricerca di un puro effetto d'immagine tralasciano la manutenzione dell'insieme. Complessi alberghieri impongono un carico insop­ portabile a un ambiente fragile e delicato. Esiste una possibilità di salvaguardare Petra, le cui pareti scolpite nell'arenaria, dopo avere sfidato i millenni, si sfal­ dano ora rapidamente ritornando impalpabili grani di sabbia del deserto? È ancora possibile garantire la conservazione del patrimonio storico di Massaua e

Adulis e impedire il saccheggio delle isole Dahlac, ultimo paradiso marino rima­ sto intatto grazie all'isolamento trentennale dell'Eritrea? Assicurare la salvaguardia di questi luoghi non significa congelarne una dif­ ficilmente definibile autenticità nell'ottica di una conservazione museale. È necessario affermarne la validità propositiva nel mondo moderno stesso, dare spazio a futuri possibili che scaturiscano dagli intrinseci valori locali, prefigurare scenari diversi rispetto ai destini determinati dall'univoco modello di sviluppo ovunque imposto. Occorre per questo svolgere un'analisi capace di individuare quei valori negati. Un'analisi che è già progetto in quanto non ha la pretesa dell'oggettività distaccata, ma è mirata. Consapevole che ogni ricerca interviene in modo attivo alla trasformazione dei dati in esame, questo tipo di indagine esalta il coinvolgimento nell'oggetto di studio, elimina la distanza tra osservatore e osservato. Prende chiaramente parte. Rifiutando un'illusoria neutralità scien­ tifica, opera con sconfinamenti continui tra le varie discipline e scavalca gli stec­ cati del sapere precostituito. Usa i metodi dell'osservazione partecipe propri all'antropologia e interroga gli ambienti e i centri storici come reperti di archeo­ logia. Cerca l'origine dei simboli nelle tecniche e spiega forme e sistemi di habi­ tat, attribuiti al caso o a ignote credenze, con la sapienza ambientale e le neces­ sità materiali. Nella continua commistione tra ricercatore e luoghi, il primo impara a conoscere grazie all'umiltà, la curiosità e l'identificazione, i secondi acquistano un discorso che, se da un punto di vista strettamente filologico non è propriamente il loro, li interpreta nella lingua dell'oggi. La nuova lettura per­ metterà di coniugare realtà locali irriducibilmente estranee al moderno con i modi e i tempi dell'espressione contemporanea, e rintracciare nelle culture arcai­ che i segmenti di alternative per il domani. Solo così si potrà risvegliare il genio sopito, scatenarne la mitica natura nella vetrina industriale delle illusioni, rifon­ dare la scala dei valori e svelare che il «re di denari» è solo un pezzo di carta, parte di un gioco che sta diventando rischioso per tutti e di cui è impellente riprogettare le regole.

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Le dimore del sole: le oasi del Sahara Dio che provvedi alle nuvole che portano l'acqua dai mari lontani e la rovesciano sulle montagne di Bou Hemroun permettendo al cardo di germogliare e al pesce delle sabbie di esistere, benedici gli uomini che nel tempo hanno costruito tutto questo: distribuito l'acqua dei pozzi, alimentato i canali, scavato i bacini, piantato gli alberi. O

(Canto rituale dell'oasi di Timimoun)

L'effetto oasi

Un netto contrasto tra i fertili luoghi d'insediamento stabile e le estensioni vuote caratterizza il deserto in un'apparente opposizione tra momenti fortunati, dove la natura ha regalato vegetazione e vita, e la grande desolazione degli spazi sterili. In realtà dinamiche ambientali dalle complesse interazioni collegano in un rapporto indissolubile le grandi montagne, le estese superfici pietrose denu­ date, smantellate dal vento e dal calore, gli assolati ammassi dunari, i profondi canyon scolpiti dall'erosione con le aree abitate, fruttifere e confortevoli. Le specificità ambientali del deserto possono sinteticamente essere ricon­ dotte alle condizioni di estrema siccità, di rarefazione della vegetazione e di assenza di suolo. In geologia questo termine indica quello strato superficiale della crosta terrestre dove si mescolano i composti organici e inorganici, bruli­ cante di batteri e altri microrganismi, comunemente chiamato terreno. L'atti­ vità biologica più intensa lo rende humus, miscuglio colloidale saturo di sostanze organiche provenienti dalla decomposizione di resti animali e vegetali. È il suolo a permettere la vita sulla terra. La sua presenza è così abituale nelle zone tem­ perate da apparire naturale e scontata, invece esso è il complesso risultato dell'azione continua di fattori chimici, fisici e biologici e spesso antropici. Nel deserto le superfici rocciose appaiono nude, senza il terreno che è disidratato dal

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sole, sminuzzato dalla dilatazione termica e asportato dal vento per la mancanza di protezione arborea. Il manto vegetale è, allo stesso tempo, il risultato e il presupposto del suolo: sul terreno i semi si radicano e trovano alimento; le piante, da parte loro, assi­ curano la difesa dell'humus e la sua costante rigenerazione con le loro stesse parti secche. L'assenza di vegetazione espone la superficie del deserto alla violenza degli agenti atmosferici, alla brutalità dei fattori di erosione che disgregano le rocce e producono le sabbie. Queste rinforzano i fattori erosivi e aggravano la siccità: forniscono al vento particelle di duro silicio che lo caricano di una forza abrasiva capace di distruggere anche le rocce più dure; contribuiscono alla scom­ parsa delle acque di scorrimento superficiale accumulandosi e colmando il corso dei torrenti, costringendoli così a cambiare direzione, a ristagnare su vaste superfici dove l'acqua evapora, o a sparire nel sottosuolo. Sul terreno non ombreggiato l'esposizione al sole determina alte temperature che, come una pompa, aspirano l'umidità dagli strati sotterranei. I flussi idrici, rimontando si caricano di sali, ed evaporando li rilasciano in superficie, dove si concentrano sterilizzando il suolo e inibendo la vegetazione. Il circuito è chiuso: il suolo, l'acqua e la vegetazione sono collegati tra loro in un'interazione tale che l'assenza di ciascuno dei fattori provoca la mancanza dell'altro, amplificando continuamente i processi di degradazione e d'impoverimento biologico, in una spirale di desertificazione sempre crescente. Questo andamento generale può essere spezzato da situazioni specifiche che creano nicchie e microambienti in contrasto con il ciclo complessivo. Una piccola depressione raccoglie umidità, un sasso dà ombra, un seme attecchisce. Si sca­ tenano così dinamiche favorevoli: la pianta genera la sua stessa protezione ai raggi del sole, concentra il vapore acqueo, attira gli insetti, produce la mate­ ria biologica, costruisce il suolo da cui a sua volta si alimenta. Si crea un sistema biologico utilizzato da altri organismi che arrecano il loro contributo. Si attua una simbiosi, un microcosmo, frutto della coesistenza. Utilizzando questi processi le genti del Sahara realizzano le oasi. Alla loro origine c'è spesso una singola palma piantata in uno scavo del terreno e circondata da rami secchi che la proteggano dalle sabbie. Con il tempo si sviluppano estese coltivazioni lungo canyon terrazzati o arcipelaghi verdi immersi tra le dune di sabbia grazie a diversificate e complesse tecniche di produzione idrica, organiz­ zazione del territorio e determinazione del microclima. Sia pure su differente scala dimensionale opera il medesimo il principio, l'effetto oasi: l'instaurazione di un circuito virtuoso capace di autopropulsione e autorigenerazione. È il pro­ cesso tramite il quale si formano nel deserto le isole di fertilità che possiamo così definire: oasi è un insediamento umano in situazioni geografiche inclementi che

utilizza risorse rare, disponibili localmente, per innescare un'amplificazione cre­ scente di interazioni positive e realizzare una nicchia ambientale fertile e auto­ sostenibile le cui caratteristiche contrastano l'intorno sfavorevole. Il termine oasi deriva dal greco oasis, ma la parola ha una origine molto più antica ed esiste già nella lingua egizia. Strabone (64 a. C.- 24 d. C.) per primo ne dà una definizione geografica riferendola proprio alla terra del Nilo: «Gli Egizi chiamano oasi i luoghi abitati circondati da vasti deserti, come isole nel mare aperto» (Geografia, xvn 1, 5). La frase avvalora la definizione di oasi come inse­ diamento umano contrapposto al deserto sterile. Da parte sua la lettura del termine egizio per oasi- uha o waha -nell'elaborato sistema espressivo dei geroglifici, che è allo stesso tempo figurativo, fonetico e simbolico, permette una comprensione più precisa del suo arcaico significato. L'antico egizio usa i geroglifici come semplici lettere, ma essi concorrono con il loro valore ideografico alla carica evocativa del termine stesso. I segni con valore fonetico sono seguiti da un geroglifico finale che sintetizza il significato complessivo. Nella parola corrispondente a oasi compare il geroglifico u, che raffigura un pulcino appena nato e simbolizza un essere piccolo e caro da proteggere; il geroglifico h, che rappresenta il tracciato di una costruzione sommaria o un recinto di rami e simbolizza la custodia e il riparo nel deserto; il geroglifico a, che rappresenta un ramo fiorito e incarna lo sbocciare vegetale, la natura che si rende visibile. Nell'insieme il termine esprime, dunque, tutto il significato dell'oasi come spazio custodito di salvaguardia di una vita biologica preziosa. Il determinativo sintetico è il gero­ glifico niut, designazione del luogo abitato, la città. I Tuareg usano ancora oggi questo arcaico simbolo come segno distintivo di cultura e protezione inciso su un anello infilato al dito. Nel loro antico e continuo peregrinare la città perduta, la meta da riconquistare, il giardino agognato diventano progressivamente un sim-

3. Anello tuareg che ricorda il disegno del geroglifico niut. I nomadi conservano nell'artigianato e in oggetti trasportabili l'arte e la memoria.

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bolo di cui si parla segretamente durante i bivacchi, un amuleto da invocare contro le calamità dei percorsi o si riduce a un semplice ornamento dal signifi­ cato dimenticato, utile solo a mettersi in mostra agli occhi di turisti in cerca di curiose eccitazioni. Il Sahara, ostile e implacabile, sa anche essere accogliente e prodigo di inse­ gnamenti. Mostra sul suolo eroso e denudato i segni delle forze della disgrega­ zione e del decadimento che agiscono sulla terra e, nello stesso tempo, esalta l'opera costruttiva della vita, la tenacia biologica capace dovunque di radicarsi e di creare un habitat. Le genti del deserto imparano a dare un valore estremo alle cose minime. L'essenzialità e la purezza delle forme naturali insegnano a mantenere sempre acuta la capacità di osservare, la voglia di stupirsi e interro­ garsi, l'attenzione ad ogni fenomeno, dal più complesso al più semplice. Voci e rumori lontani, amplificati dalla propagazione delle onde sonore o generati dallo strofinio continuo dei grani di sabbia e dalla contrazione e dilatazione delle rocce per l'escursione termica, danno indicazioni vitali sulla natura del terreno, le condizioni climatiche e la possibilità di trovare pascoli. L'azione dei venti -sferzanti tempeste di sabbia abrasiva o tenui correnti di frescura e umidità :._ è piegata a utilizzi pratici. Gli stessi miraggi, prodotti dalla rifrazione dell'aria calda e ricorrenti in luoghi e momenti precisi, fanno parte del paesaggio, utili punti di riferimento o mezzi di dilatazione visiva. Tutti questi eventi apparte­ nenti a una dimensione più vicina forse a quella dell'illusione e dei sogni, pro­ dotti da forze tenui e immateriali, l'aria, la luce, il suono, il calore, assumono nel deserto un ruolo e una consistenza inconsueti. Con gli stessi elementi rare­ fatti e delicati, la terra cruda, i semi vegetali, i grani di sabbia, i vapori d'acqua, la sintesi dell'humus, è creata l'oasi. È il risultato della comprensione delle leggi deboli della natura e della loro applicazione costante nel tempo per elaborare tecniche e processi: dispositivi idraulici gestiscono oculatamente le acque di superficie e sotterranee; ogni minima occasione di umidità viene utilizzata amplificandone gli effetti; piantagioni di palme proteggono il suolo dall'irrag­ giamento solare e dalla forza del vento e mantengono il microclima e l'humus; le masse dunarie sono artificialmente provocate e i loro movimenti controllati e usati a vantaggio della protezione delle coltivazioni. Si realizzano le condi­ zioni per l'insediamento umano stabile, organizzato in architetture adatte alle esigenze climatiche, attraverso azioni che si potenziano favorevolmente a vicenda (Laureano 1988). È dunque oasi non solo il palmeto o l'abitato, ma un tipo di paesaggio costi­ tuito dall'insieme di tutte le componenti ambientali e architettoniche sapiente­ mente organizzate da tempi lontani dalle genti del deserto. Un'accurata utiliz­ zazione delle risorse e lo sfruttamento più adeguato dei rari fattori vitali sono

all'origine dell'intera organizzazione spaziale. Antichissime tradizioni e cono­ scenze, raffinate tecniche per la produzione e la distribuzione dell'acqua, archi­ tetture adattate e climatiche, capacità di controllo del microclima, utilizzo appropriato dei fattori fisici e geomorfologici, selezione e diffusione delle specie vegetali ne hanno permesso la realizzazione. Nel Sahara numerose preesistenze arcaiche su pinnacoli rocciosi, granai, mausolei, cittadelle, villaggi fortificati o complessi sistemi abitativi, ridotti a ruderi abbandonati lungo le carovaniere o ancora popolati in estesi palmeti, testimoniano di questo intervento antichis­ simo che travalica le semplici costruzioni e costituisce un processo globale di modificazione e di edificazione dello spazio: dai più semplici dispositivi biocli­ matici alla morfologia architettonica, alle imponenti opere idrauliche, alla intro­ duzione della palma e alla sua coltivazione, fino al controllo degli stessi sistemi dunari. L'intervento umano determina l'organizzazione dello spazio del deserto e l'architettura dell'ambiente traendo le risorse necessarie dalla conoscenza profonda dei luoghi. Gli elementi strutturali naturali non possono da soli dare vita a un'oasi, ma ne costituiscono la condizione di base, la matrice geologica e idrografica che determina forme e soluzioni diversificate.

L'ecologia del deserto

Anche in assenza quasi totale di precipitazioni il Sahara non è completamente arido. Nella morfologia di questa vasta depressione continentale è ancora leggi­ bile l'imponente struttura fluviale che la irrigava fino agli inizi del Quaternario. Essa costituisce tuttora lo scheletro fossile della particolare rete idrica formata dai wadi, alvei fluviali con scorrimento superficiale nullo o pressoché nullo, ma capaci di piene improvvise di portata eccezionale. Il termine wadi, affine alla parola wahat, oasi, che infatti esiste tuttora con il significato di acqua nella lin­ gua amarica, esprime il concetto di umidità e flusso idrico, presente anche nel greco hydor e nell'inglese water. Questi letti disseccati di sistemi idrografici ormai seppelliti dalle sabbie hanno un ruolo fondamentale nell'ecosistema del deserto e nell'installazione delle oasi. Il loro corso ha subito molteplici variazioni durante le ere geologiche per la natura endoreica, cioè chiusa, continentale, senza sbocco al mare, dell'idrografia sahariana. Per l'enorme dimensione del­ l'Africa e l'andamento orografico in pendenza verso l'interno, i corsi d'acqua non riescono ad aprirsi un deflusso verso il mare, cosicché le sabbie e i materiali sedimentari trasportati non sono evacuati e colmano i bacini, impongono al fiume cambiamenti del percorso o lo cvstringono a infiltrarsi nel sottosuolo. Per questo la mor Fologia del deserto appare cc sì disorganizzata, fermata da un caos

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di letti di fiume che non hanno un andamento gerarchico in pendenza continua verso uno sbocco comune, ma, in mancanza di questo, si incrociano, si allargano su superfici immense, si accavallano su piani sfalsati o scompaiono in profonde depressioni o contro muraglie di sabbia. L'erosione fornisce un ulteriore continuo contributo di grani silicei che, tra­ sportati dal vento, formano le grandi dune. Queste si organizzano in lunghe catene che si succedono per superfici di centinaia di chilometri dando luogo a quelle regioni chiamate erg nel Sahara. Gli erg sono mari di sabbia, spazzati da venti brucianti, che si estendono a perdita d'occhio nell'immensità del deserto. L'azione eolica li alimenta continuamente di sabbia e perennemente ne cambia e modella le forme, ma la loro posizione complessiva rimane pressoché fissa, agli sbocchi della rete di wadi che hanno fornito gli accumuli iniziali. Sulle grandi estensioni piane del deserto i corsi dei wadi sono riconoscibili dalla vegetazione spontanea che cresce ordinata lungo tracciati sinuosi, seguendo il fondo dell'alveo dove riesce a sfruttare l'umidità provocata da acque sotterra­ nee, create da microflussi di scorrimento o residuo di quelle piene improvvise la cui ricorrenza ha cadenze anche pluridecennali. Esse si verificano grazie a piogge su montagne lontanissime che alimentano corsi d'acqua travolgenti e improvvisi nel deserto più interno poiché sono raccolte in un bacino immenso. Questo, per la mancanza di suoli, non è capace di assorbirle e, come un grande imbuto, le convoglia precipitosamente lungo il letto del wadi. Le acque rimangono poi nel sottosuolo o finiscono nell'erg che nelle sabbie, come un'enorme massa spu­ gnosa, trattiene il liquido riparandolo dalla forte evaporazione. Lo scorrimento, sia pure lentissimo, continua sotterraneo, i microflussi utilizzano l'antica rete idrografica e si indirizzano verso le grandi aree di depressione. Queste sono chia­ mate chot a nord quando ancora, a volte, hanno una umidità superficiale che le trasforma in paludi salate, e sebkha nel deserto più interno dove le superfici sono completamente aride. Percorse da forti venti che le tengono libere dalla sabbia, queste grandi depressioni appaiono come laghi evaporati dalla superficie insi­ diosa e sterile coperta da una crosta di sale. Sono i luoghi più bassi della rete idrografica, costituiscono i punti di convergenza di tutti i wadi. lnghiottitoi disi­ dratati, gorghi pietrificati del mare del Sahara, le sebkha sono i buchi neri nell'universo del deserto. Wadi, erg e sebkha costituiscono le strutture geomorfologiche fondamentali dell'ecologia del Sahara, utilizzate dall'uomo per la realizzazione delle oasi. Pos­ siamo quindi stabilire una classificazione delle oasi in base a questi sistemi geo­ grafici e distinguere: le oasi di wadi, che utilizzano il grande alveo di un fiume fossile; le oasi di erg, poste nella massa stessa del deserto di sabbia; e le oasi di sebkha, realizzate intorno alla depressione di un grande lago salato.

Le oasi di wadi sono collocate lungo la parte superiore delle rete idrografica, dove i corsi, ancora ben caratterizzati, scolpiscono con profondi canyon i sedi­ menti di arenaria o le rocce calcaree. Per la vicinanza alle vette montane o agli altipiani, beneficiano a volte di magri corsi d'acqua perenne, più spesso questa è presente come inferoflusso o sotto forma di piene dalla cadenza annuale. Appaiono come lunghi nastri di vegetazione incassati tra profonde pareti sco­ scese. Il palmeto occupa tutto il letto del fiume perché è proprio questo che viene coltivato. Solo nella parte più profonda dell'alveo una stretta striscia lasciata senza vegetazione, o percorsa da un magro rigagnolo, denunzia l'esi­ stenza di acque di scorrimento. Sbarramenti costruiti in profondità, perpendicolari al letto del wadi, bloccano i flussi sotterranei, trattengono il terreno e tra­ sformano il corso in una successione di terrapieni su cui sono possibili i campi coltivabili. Altro terreno per l'agricoltura viene ottenuto sui pendii delle due sponde contrapposte organizzandole in terrazzamenti paralleli al corso stesso. Questi si trovano a una quota più elevata rispetto al fondo del wadi e sono irrigati grazie a una tecnica ingegnosa che utilizza la sola gravità senza la necessità di impianti di sollevamento. Da prese d'acqua realizzate sugli sbarramenti a monte dei campi da irrigare si dipartono canali che, pur seguendo la pendenza del terreno, mantengono una quota più elevata rispetto all'alveo e permettono così un'irrigazione per semplice scorrimento gravitazionale e coltivazioni a un livello superiore del fondo naturale. La fornitura d'acqua varia secondo l'ap­ porto idrico del wadi. In alcune situazioni questa è presente solo nei sedimenti del sottosuolo. Si ha allora uno scorrimento superficiale solo grazie ai terrapieni, che da prese poste alla base drenano i flussi raccolti nei sedimenti a monte dello sbarramento. Quando anche questo è impossibile, l'acqua viene raggiunta grazie a pozzi che pescano nell'umidità conservata nel sottosuolo grazie al sistema di dighe sotterranee. I secchi sono sollevati mediante un lungo bilanciere fornito di un contrappeso e posto su due alti montanti di terra cruda. La tecnica, che nel Sahara algerino è chiamata khottara, è simile a quella degli shaduf arabi. Essa è raffigurata in una tomba a Tebe del XIV secolo a. C., compare in un cilindro accadico del III millennio e si ritrova nelle incisioni del palazzo di Sennacherib a Ninive, risalenti al VII secolo a. C. Le oasi di erg utilizzano le grandi estensioni di sabbia come fattore protettivo e come risorsa. I l deserto d i dune è quello più implacabile e impercorribile, ma fornisce ospitalità e possibilità di sussistenza a chi ne conosce le leggi ecologiche. La forma dell'erg risponde a geometrie complesse e rigorose determinate dall'andamento dei venti e dalla forma dei rilievi rocciosi. I singoli grani di sab­ bia sono impalpabili e finissimi, perché tutti sono il risultato del trasporto del vento e sono quindi selezionati secondo dimensioni omogenee e precise. Si spo-

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4-5 . Pozzi a bilanciere chiamati localmente khottara, ancora in uso nell'oasi d i el-Ouata sul wadi Saoura. Sono del tutto simili agli shaduf usati sino dal III millennio a Babilonia e rappresentati (vedi disegno) nel p alazzo del re assiro Sennacherib a Ninive nel VII secolo a. C .

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stano continuamente, ma la formazione delle dune non è casuale e il loro assem­ blaggio nei grandi cordoni paralleli che formano l'erg è guidato da fattori precisi. L'organizzazione della sabbia in lunghi cordoni dunari è una disposizione ondu­ latoria determinata dalla risultante verticale della spinta operata dal vento che agisce allo stesso modo sia a livello macroscopico che a quello microscopico: visto da satellite, l'intero erg è simile ad ogni sua più piccola porzione in cui la sabbia si dispone sempre in onde successive. Si può dire che l'erg con la sua forma rap­ presenta la visualizzazione delle forze in gioco, il modello di un teorema mate-

matico. Quando un ostacolo attenua la forza del vento vengono rilasciati sul ter­ reno i grani di sabbia. I più grandi procedono per balzi successivi sulle dure superfici rocciose. Così a un primo fermarsi di grani segue un accumulo sempre più grande poiché questi non rimbalzano sulla sabbia. Enormi rilievi montuosi localizzati a grandissima distanza o più microscopici ostacoli allo scorrimento delle sabbie possono quindi essere fa causa dello scatenarsi del meccanismo di formazione dunaria e della morfologia dell'erg. La componente orizzontale dell'azione del vento determina il movimento delle dune. Ma, di queste, si muovono solo quelle isolate, a forma di mezzaluna, chiamate barcane. Le altre hanno i singoli grani di sabbia in movimento conti­ nuo dall'una all'altra, ma la forma complessiva resta immutata, éome un organi­ smo che cambia le sue cellule rimanendo sempre lo stesso. Per questo è possibile vedere oasi installate ai piedi di una grande duna pronta apparentemente a travolgerle. In realtà l'oasi convive da centinaia di anni senza alcun rischio con la duna. Il fronte dell'erg, pur continuamente in movimento, come il mare per gli insediamenti costieri, non costituisce un pericolo se non a seguito di avveni­ menti catastrofici o interventi perturbatori. Le oasi di erg rispettano le leggi di formazione del grande mare di sabbia e le usano per la loro esistenza. Non sono basate su una struttura geomorfologica o su un sistema idrografico ben visibile perché il rilievo è coperto dalle sabbie. In alcuni casi dipendono da acque sotterranee poco profonde che le radici delle palme raggiungono direttamente nel sottosuolo. Non c'è bisogno quindi di irri­ gare questi palmeti, che sono chiamati infatti bur, cioè non irrigati. Il compito dell'agricoltore è quello, ancora più gravoso, di tenere libere dalle sabbie le isole di palmeto. Il lavoro incomincia effettuando uno scavo per permettere alle palme di essere più vicine alla zona umida del terreno. Intorno alla cavità circolare rea­ lizzata si installano foglie di palme secche che smorzano la forza del vento e pro­ vocano il rilascio di sabbia. Secondo la dinamica dell'accumulo successivo e con­ tinuo vengono create così artificialmente dune protettive. Con il tempo queste diventano sempre più alte e l'oasi assume l'aspetto di un cratere di sabbia con il fondo coltivato. La chioma delle palme chiude dall'alto questi grandi imbuti, che

6. Oasi di erg collocate in crateri artificiali di sabbia (bur) tipici della regione del Souf. Le dune offrono la pro­ tezione perimetrale e le p alme, che attingono direttamente dal sottosuolo l ' acqua necessaria, creano il micro­ clima favorevole alla orticoltura.

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al loro interno conservano u n microclima ideale. Nella regione del Souf nel Grande Erg orientale lo scavo di queste depressioni nella sabbia determina un paesaggio straordinario, dove il movimento perenne dell'erg strutturato in lun­ ghi cordoni dunari è come modulato dalla presenza di centinaia e centinaia di crateri. Questi sembrano galleggiare su sabbie in grado di sommergerli ad ogni istante, invece la forza distruttiva dell'erg è volta a favore dell'oasi che da esso assorbe umidità, ottiene difesa dal vento e riparo dal calore. Si concretizza un'impresa titanica: abitare stabilmente la mutevolezza del mare di dune, con­ trollarne i movimenti e modellarne il paesaggio. Le oasi di sebkha sono poste lungo i bordi delle grandi depressioni. Queste hanno forma ellittica con un lato contro il fronte dell'erg e l'altro libero dalle sabbie. Le oasi, come insediamenti costieri di un lago, circondano la sebkha, uti­ lizzando strategie proprie sia alle oasi di erg che a quelle di wadi. La loro speci­ ficità è dovuta al tipo di rifornimento idrico che, sfruttando la particolare morfo­ logia della sebkha, luogo di convergenza di flussi, è basato su particolari e imponenti opere idrauliche. Sono queste a rendere possibile la vita nel Sahara estremo, reso fertile anche in assenza completa di acque superficiali libere e di precipitazioni. La definizione di oasi può essere allargata fino a comprendere variegate categorie insediative. Si può parlare di oasi di montagna per agglomerazioni dove l'altitudine tempera l'effetto del calore e le precipitazioni forniscono l'acqua necessaria, o di città oasi dove cospicue risorse idriche hanno permesso la crea­ zione di agglomerati urbani di larghe dimensioni, o anche di oasi di mare, situa­ zioni oasiane lungo le coste o su isole in cui l'intorno deserto è dato dall'acqua marina salata e sterile. Tuttavia la terra di elezione delle oasi, dove esistono ancora i tipi originari, è in queste depressioni del Sahara interno, lungo le caro­ vaniere costellate di palmeti e punti d'acqua che da tempo immemorabile per­ mettono la discesa nel ventre del più grande deserto del pianeta. In antico egizio la regione delle oasi è chiamata Uhat. Al determinativo niut è ora sostituito khaset. Questo raffigura proprio due avvallamenti oasiani rac­ chiusi da dune di sabbia e rappresenta la contrada desertica di un paese lontano e straniero. Nella lingua berbera i Tuareg chiamano Tuat, o T' wahat, l'uha o waha egizio con l'aggiunta del prefisso berbero del femminile T, una vasta regione che dai piedi dell'Atlante Sahariano scende nel deserto più interno. L'area è strutturata dalla rete idrografica del wadi Saoura, che comprende le sebkha del Gourara e del Touat, trasformazione quest'ultima in lingua francese della voce tuat o t 'wahat. Questo immenso spazio che abbraccia tutto il Grande Erg occidentale è definito dai Tuareg il ventre del Sahara ed è considerato la regione delle oasi per eccellenza.

7. Aridità ed erosione sono i fattori fondamentali dell'ecologia del deserto. Le alte temperature e la escur­ sione termica spaccano le rocce più dure e smantellano e sminuzzano i suoli trasformandoli in sabbia.

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8. Fattori apparentemente immateriali e impalpabili come il vento agiscono profondamente sul paesaggio. La formazione e la morfologia della duna è determinata dal cono roccioso che, smorzando la forza dei venti, provoca il rilascio dei grani di sabbia.

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9-10. Sia da grandissima altitudine come nella foto da satellite dell'intero erg (fig. Io), sia sulla scala dei cor­ doni dunari (fig. 9, in secondo piano), sia a distanza ravvicinata (primo piano), le sabbie assumono forme simili, sono il frutto di rigorose geometrie, la visualizzazione delle forze in gioco.

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Roufi, oasi di wadi, sfrutta per le coltivazioni la protezione offerta dalle pareti del canyon c l'alveo del wadi. L'approvvigionamento idrico è fornito dal flusso sotterraneo e dalle piene occasionali.

12. Le oasi di erg della regione del Souf con i crateri artificiali (bur) scavati e protetti da barriere di foglie con­ trollano i movimenti dunari e modellano il paesaggio del grande deserto di sabbia.

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13. L'oasi di lghzer ai bordi della Sebkha di Timimoun, scelta per il progetto di restauro dell'ecosistema. Il rcl n ' di dune artificiali (a destra) protegge il palmeto, che dalla rupe della cittadella, dove sboccano le gall rie drenanti (foggara) provenienti dall'altopiano, digrada verso la grande depressione della sebkha.

14. Il re del Mali rappresen · tato come uno splendido sovrano regnante su ricche città oasi e recante in mano la celebre pepita d'oro. Archivio di Stato di Firenze, portolano (n. 12) diJacomo Russo, 1502 (particolare). 15. Il re del Mali spogliato di ogni dignità e regalità. È l'immagine che la colonizzazione codificherà per l'Africa. Archivio di Stato di Firenze, portolano (n. 7) di Giacomo Bertran, 1482 (particolare).

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r6- I 7. Mausoleo preistorico nei pressi dell'oasi di Djanet, Tassili dell'Ajjer, Sahara algerino. Questi complessi, denominati tombe solari dalla forma ad anelli concentrici, possono essere interpretati come dispositivi di raccolta dell'umidità.

18. Sebkha di Timimoun, coltivazioni a giardino delle oasi. Le palme, irrigate capillarmente dall'acqua raccolta in piccoli bacini, proteggono gli alberi da frutta e gli orti.

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19-zr. La nascita di un'oasi. Un piccolo scavo concentra l'umidità; la palma attecchisce e fornisce ombra e materia biol gica che richiamano altri organismi; si forma l'humus che permette altre coltivazioni.

22. L'oasi di Taghit con l'abitato fortificato di terra cruda. Posta ai piedi delle dune, si alimenta con le acque che filtrano al di sotto del Grande Erg occidentale.

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23. Oasi di Timimoun, kc ria, sistema di ripartizione delle quote di acqua.

24-25. La continua manutenzione delle gallerie drenati (foggara) e la ripartizione delle acque allo sbocco in superficie.

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26-27. I cumuli di terra in superficie, residuo dei materiali di scavo dei pozzi di aerazione verticali, denun­ ciano il tracciato sotterraneo della foggara, la galleria drenante che si apre sotto l'abitato in grandi cavità utilizzate per le abluzioni e per il raffrescamento.

z8. Muretti di terra cruda delimitano le piccole particelle coltivate e contribuiscono al bilancio idrico. Il vento, nel passare attraverso i piccoli interstizi tra i mattoni pianoconvessi, si accelera ed espande provo­ cando frescura. La terra cruda ne assorbe l'umidità e la rilascia al terreno.

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29. Un maestro dell'acqua dell'oasi di Adrar mostra la piastra perforata (hallafa) con cui vengono misurati i flussi allo sbocco della grande foggara.

Il ventre del Sahara Il wadi Saoura è stato definito un avvenimento unico in tutto il Sahara afri­ cano e paragonato, per la rilevanza geografica e l'impatto sulle civiltà, al Nilo in Egitto. Il suo corso delimita a ovest e a sud-ovest, con un canyon a volte ampio e profondo, il Grande Erg occidentale, separandolo dalla piattaforma rocciosa della Hammada del Guir e dagli erg meridionali. La rete idrica della Saoura, che dall'Atlante fino a Reggane penetra verso sud per quasi Iooo chilometri, è for­ mata da una corona di wadi che, a est del corso principale, drenano l'Atlante Sahariano su un fronte di oltre 500 chilometri e si riversano nel Grande Erg occidentale. Si può dire così che il bacino idrico della Saoura comprende nel suo alveo settentrionale l'intera superficie di circa 8o ooo chilometri quadrati della grande massa dunaria dell'erg. Ai margini meridionali di questa si estende la grande depressione del Gourara che, in pendenza verso sud-ovest, riconfluisce nel corso principale della Saoura, che assume il nome di Touat. Questo sistema

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chiuso di sebkha è la confluenza meridionale di tutto il grande bacino. Si deter-

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30. Il sistema idrografico formato da Saoura, Gourara e Touat è strutturato come una Y ai bordi del Grande Erg occidentale ed è la regione delle oasi per eccellenza.

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3 r -3 2. Sbarramenti lungo il corso superiore del

wadi

Saoura che hanno la funzione di bloccare il flusso

sotterraneo e produrre acque superficiali per le coltivazioni poste lateralmente all'alveo.

mina cosl una struttura dello spazio conformata come una Y in cui i bracci supe­ riori formati dalla Saoura e dal Gourara delimitano il Grande Erg occidentale e il braccio inferiore è costituito dal Touat. Fin dai tempi più antichi l'uomo ha utilizzato questa morfologia naturale del territorio. Gli innumerevoli ritrovamenti paleolitici e neolitici con le raffigura­ zioni della grande fauna tropicale testimoniano delle epoche umide nel primo Postglaciale quando, per il maggiore apporto di acqua dovuto allo scioglimento dei ghiacciai, i grandi fiumi scorrevano impetuosi. Intorno alle depressioni, riem­ pite allora di acqua dolce, foreste e praterie erano il teatro di cacce allo struzzo, all'orice, all'ippopotamo e all'elefante. Con il progressivo esaurirsi degli apporti idrici del disgelo le acque diventano più magre, la grande fauna rara e i gruppi umani si dedicano alla pesca, alla coltivazione e all'allevamento. Sulle superfici piane il rogo dei boschi crea spazio ai pascoli delle mandrie. Negli avvallamenti si diffondono le prime tecniche di agricoltura. Non si tratta di vaste estensioni coltivate, ma di piccole particelle, giardini in aree difese e artificialmente irri­ gate. Gli effetti del progressivo riscaldamento climatico, combinati al depaupe­ ramento vegetale provocato dalle tecniche di allevamento, accelerano il processo di desertificazione. I boschi, la selvaggina, le mandrie spariscono e le timide esperienze di coltivazione diventano la base per la creazione di nicchie di sussi­ stenza: oasi di protezione e di benessere nella catastrofe incipiente. Attorno alle depressioni, ormai paludi salmastre, l'umanità abita le emer­ genze rocciose dalle cui grotte e cavità si distilla acqua bevibile. In tutto il Touat centinaia di vestigia abbandonate su luoghi elevati, forniti di ipogei e recinti for­ tificati, attestano la diffusione di questo tipo di habitat preistorico. Le incisioni rupestri del periodo mostrano carri trainati da cavalli e si ricollegano alle raffi­ gurazioni egee dette «al galoppo volante» e allo stile dei dipinti egizi di quei guerrieri che intorno al XIII secolo a. C. invasero la valle del Nilo. Sono i Popoli del Mare delle cronache dei faraoni facenti parte delle grandi migrazioni di genti, chiamate Lebu, Lukka, Shardana, Akhaiwasha, Tursha e Peleset, che nella metà del II millennio sconvolsero tutti gli assetti del mondo antico. I nomi citati dagli Egizi possono rispettivamente essere identificati con i Libi, i Lici, i Sardi, gli Achei, gli Etruschi e i Filistei, ricollegando così gli autoctoni prato­ berberi della preistoria sahariana alle correnti di popoli che costituiscono la base della civiltà protomediterranea. Nello stesso periodo nei dipinti rupestri com­ pare la palma da dattero. La pianta, inesistente allo stato selvatico, è frutto della selezione operata dagli uomini e attesta la diffusione e la installazione delle oasi. Una conferma ci è data da Erodoto che nel v secolo a. C. racconta di avere raccolto a Cirene, la colonia greca sulle coste africane, informazioni sulla tra­ versata del grande deserto e sul misterioso commercio dell'oro che vi si effet-

tuava. Nelle sue Storie (IV r8r-83, 190) egli descrive i popoli del deserto e le loro abitudini: gli Ammoni, coltivatori della celebre oasi di Siwa; i Nasamoni, nomadi dalle abitazioni trasportabili fatte di steli intrecciati che si spostano nell'oasi di Augila all'epoca della raccolta dei datteri; i Garamanti, impavidi guerrieri che inseguono i loro avversarsi trogloditi su veloci carri tirati dai cavalli. I Garamanti sono i probabili antenati degli attuali Tuareg e vengono descritti come «una numerosa popolazione che trasporta la terra sul sale per potere seminare». Questa citazione, insieme alla descrizione nel deserto di «col­ line di sale da cui sgorga l'acqua, circondate da palme fruttifere in gran numero», è stata imputata a una leggerezza dello storico greco nel riportare fonti fantasiose. Alla luce dell'ecologia degli insediamenti oasiani il racconto appare, invece, veritiero e particolarmente significativo. Attesta il modello insediativo formato da sterili lande di sale costellate da collinette, dalle quali si ottiene acqua bevibile e coltivate grazie a un duro lavoro di creazione di terreno fertile. Com­ prova già al v secolo a. C. l'esistenza delle oasi e delle opere necessarie per ren­ dere fertile il Sahara, le cui caratteristiche sono accuratamente delineate: la vita nomade e la sedentaria; la compresenza di modi di abitare permanenti e tempo­ ranei intorno a luoghi elevati, protetti e forniti di cavità per l'acqua, il rifugio e la conservazione dei grani; un'agricoltura stabile basata sulla creazione dell'oasi tramite la palma da dattero e le coltivazioni a giardino; il traffico carovaniero su lunga distanza. Ancora in epoca romana i Garamanti sono citati come l'ultimo anello di una catena di intermediari che dagli scali del Mediterraneo - Cartagine, Sabrata, Leptis Magna - si spingevano attraverso il deserto nel continente africano. È nota l'importanza strategica data al Nordafrica da Roma, che si sostituì al mono­ polio commerciale instaurato da Cartagine e si riforniva del grano prodotto nelle terre disboscate delle regioni dell'altopiano, al giorno d'oggi ridotte a sterili steppe. Ma l'interesse dei Romani si stendeva fino alle aree più interne del Sahara. Durante il regno di Domiziano (8r-96 d. C.) una spedizione condotta da Giulio Materno insieme al re dei Garamanti discende la Saoura verso l'Etiopia. Raggiunge una regione chiamata Agisymba, nella quale viene descritta l'esi­ stenza di rinoceronti. Nigeria Metropolis chiamarono i Romani queste terre ric­ che e popolate, identificate con l'ansa superiore del fiume Niger. Ma è più pro­ babile che la descrizione riguardi proprio il Touat, ricco di fortezze e verdeggiante di oasi e dove persistevano ancora zone paludose capaci di ospitare una fauna tropicale residua. In epoca romana si diffonde nel Sahara il dromedario, cammello a una gobba, domesticato in Oriente, che apre nuovi orizzonti ai percorsi delle carovane. I gruppi nomadi acquistano con il cammello grandi possibilità di movimento.

Nuove piste sono ora praticab�li per il commercio e la colonizzazione degli erg più aridi. Alla limitata autonomia dei cavalli e alla stentata mobilità degli asini, efficaci solo nei percorsi di altura, si oppongono la straordinaria resistenza e sobrietà di questo animale capace di tappe altrimenti impossibili. Il piccolo tran­ sumante è sostituito dal grande nomade cammelliere, il quale, oltre che produt­ tore di carne e commerciante, è un fiero guerriero, il cui clan familiare è una for­ mazione militare perennemente mobilitata e invincibile. I nomadi, signori del grande deserto, assicurano gli spostamenti e la protezione delle carovane. Costi­ tuiscono l'elemento di collegamento dell'organizzazione complessiva del sistema sahariano, in cui le oasi sono i poli dove i sedentari assicurano la produzione agri­ cola e la gestione delle risorse idriche. Queste hanno nuovo impulso dallo svi­ luppo dei commerci e da successive ondate migratorie. Nei primi secoli dell'era cristiana nel Touat gruppi di Ebrei migranti dalla Palestina verso occidente vei­ colano di oasi in oasi nuove conoscenze e tecniche e promuovono l'organizza­ zione agricola e l'insediamento urbano (Mammeri 1973). Alle soglie dell'islamizzazione una rete di oasi, abitate da Berberi di religione ebraica o cristiana, costituisce l'ossatura di un commercio carovaniero a lunga distanza, che mette in comunicazione attraverso il Sahara le sponde mediterra­ nee con l'Africa equatoriale. Con la diffusione dell'Islam, religione nata nelle aree desertiche, questo modello trova una conferma e una spinta propulsiva, dovuta all'ampio contesto internazionale che l'enorme estensione geografica delle sue conquiste offre agli scambi economici. In epoca medievale grandi fami­ glie di commercianti si ripartivano nelle varie oasi attraverso il Sahara per diri­ gere i loro affari. Si scambiavano manufatti europei come tessuti, perle di Vene­ zia, spade e rame con le spezie, gli alimenti e il bestiame delle oasi (Lacoste 1966). Ma soprattutto a queste affluiva l'oro proveniente dalle regioni tran­ sahariane. Sul monopolio del commercio aurifero si basano le fortune delle dina­ stie e dei reami che vogliono assicurarsi il controllo delle piste e dei poli com­ merciali. Città oasi come Sigilmasa, Ghardaia, Sedrata diventano grandi capitali splendide e ricche (Davidson 1959). La loro fama e il racconto dei favolosi castelli nel deserto del Touat si diffondono attraverso i mercanti e i viaggiatori e alimentano le cronache medievali. Le carte portolane dell'epoca riportano, al di sotto della catena dell'Atlante, città e fortezze rette da splendidi sovrani, più importanti per numero e ricchezza dei centri europei. E non si trattava di esa­ gerazioni. L'esperienza diretta di un mercante genovese, Antonio Malfante, riferita nel suo rapporto di viaggio del 1445, ne costituisce la prova. Malfante si reca fino nel Touat e soggiorna a Tamentit, la sua capitale. Descrive la piacevole vita nelle oasi, gli intensi commerci e le esose commissioni versate alle autorità del

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posto, che esigevano anche il Ioo per cento di ogni transazione senza che per questo i ricchi scambi ne fossero scoraggiati. «Qui gli Ebrei abbondano, dice Malfante, la loro vita scorre pacifica, sotto un governo oligarchico in cui ogni capo difende i propri clienti. Così conducono una vita sociale molto dolce» (La Roncière I9 I9). Padroni degli spazi circostanti sono, invece, i loro acerrimi nemici, arditi cavalieri dal volto velato, che il mercante genovese chiama Fili­ stei. La presenza ebraica a Tamentit è archeologicamente provata da iscrizioni e vestigia architettoniche. Una stele conservata nel museo locale reca iscrizioni funerarie in ebraico arcaico e odi alla divinità Mimun. I Filistei sono probabil­ mente gli attuali Tuareg, la curiosa identificazione di Malfante potrebbe spie­ gare le loro affinità con i Peleset stanziati poi in Palestina a cui danno il nome. I racconti di Malfante sono confermati dai geografi e viaggiatori musulmani, di cui abbondano le descrizioni del Sahara popolato e verdeggiante di oasi: una via continua di palme si estende da nord a sud e da oriente a occidente attra­ verso il deserto, e l'acqua è così abbondante che a volte tra alcuni villaggi può svolgersi un vero e proprio traffico nautico. Nessuna modificazione importante dei fattori climatici spiega il decadimento avvenuto nelle epoche successive. È con la crisi del commercio aurifero transahariano, indotta dalla circumnaviga­ zione del Golfo di Guinea alla fine del xv secolo e dal cambiamento dei grandi assi commerciali, che viene a mancare il sostegno necessario al mantenimento dell'intero sistema. Sugli spazi oasiani, frutto dell'impegno delle genti, il Sahara riprende rapidamente il sopravvento. La colonizzazione aggiunge al deserto dei luoghi quello degli animi e della cultura. La reconquista cristiana dell'Andalusia, le reazioni musulmane contro le comunità ebree sahariane e le «scoperte» euro­ pee in America e in Africa determinano la rottura dei rapporti tra Islam e cri­ stianità che avevano operato per tutta l'epoca medievale e che tramite il conti­ nuo flusso di idee e scambi commerciali avevano mantenuto la centralità del Mediterraneo. Le conseguenze per l'Africa sono disastrose. Nelle carte portolane di questo periodo il re del Mali, una volta raffigurato splendido e regale, è ora dipinto nudo e selvaggio, proprio come l'Occidente vuole rappresentare il mondo diverso da sé. L'immagine anticipa tristemente gli avvenimenti successivi della colonizzazione. Il planisfero inviato da Lisbona agli Estensi nel I502 mostra il forte di Sào }orge da Mina costruito in Sierra Leone per la tratta degli schiavi, che con l'occupazione europea diventa qualcosa di assolutamente incomparabile per dimensioni e atrocità alle pratiche di servaggio in uso nel mondo antico. È una vera industria che determina la spoliazione umana dell'Africa, da cui vengono deportati, secondo le stime operate da Joseph Ki Zerbo, 3 5 milioni di abitanti a partire dal XVI secolo (Ki Zerbo e Mokhtar I98o). Da questo momento il numero complessivo di I 30 milioni di Africani,

cifra non deficitaria rispetto ai livelli coevi europei e asiatici, non si incrementa per i quattro secoli successivi. Nel planisfero la costruzione occidentale troneg­ gia estranea tra le capanne, davanti alle quali s'intravede l'immagine lugubre di una forca con corpi di Africani uccisi. Anche in questo caso, purtroppo, non si tratta di fantasie. Con il depauperamento demografico e culturale dell'Africa l'idea di un Sahara sede di antiche civiltà e importanti insediamenti diventa completamente estranea all'Occidente: l'evidenza di pitture rupestri, testimonianza di un pas­ sato fertile e popoloso, viene ascritta ad apporti esteriori; le centinaia di vesti­ gia abbandonate nel deserto sono spiegate con la bizzarra abitudine di genti nomadi di costruire e, improvvisamente, abbandonare; i lavori idraulici frutto di un impegno comunitario e sociale vengono attribuiti all'uso di schiavi; per giu­ stificare l'esistenza delle oasi si invoca il caso. Solo il capovolgimento di questi paradigmi consolidati può ridare dig:nità e prestigio culturale alle genti e salvarne le vestigia affermandone il valore. E necessario per questo riandare alla matrice dei luoghi, scendere nelle viscere del deserto, ascoltarne la voce, decifrarne il linguaggio, condividerne gli umori.

Le acque invisibili Nelle regioni della Saoura, del Gourara e del Touat, del Sahara algerino nonostante il degrado di svariate situazioni, centinaia di insediamenti oasiani sono ancora intatti e vitali, assicurano l'esistenza di considerevoli quote di popo­ lazione e una importante produzione agricola. Tramandano conoscenze una volta utilizzate e ormai perdute dovunque nel Sahara, dal Marocco al Nilo. Attualmente, se innumerevoli vestigia di opere idrauliche, prova di una più estesa antropizzazione, risultano abbandonate, gli insediamenti costituiscono ancora una testimonianza eloquente dell'antico splendore e della sapienza accu­ mulata. La realtà delle oasi è vasta e variegata. Tutte rispondono al modello interpretativo che le definisce come realizzazioni dovute all'uomo. È sufficiente considerare che ogni palma, componente indispensabile e fondamentale dell'eco­ sistema oasiano, è introdotta e coltivata, non esiste allo stato brado e se non è continuamente curata si riduce a un cespuglio improduttivo. Le oasi si differenziano secondo la situazione geografica, le condizioni idro­ geologiche, la storia e la cultura dei gruppi umani. Alle specifiche diversità si aggiungono le trasformazioni recenti che hanno provocato l'abbandono di molte aree un tempo fertili e abitate e il gigantismo di altre ormai trasformate in vere e proprie città in cui diventa difficile riconoscere l'originaria matrice. È tutta-

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via ancora presente una cultura che ci parla dei primi passi dell'avventura umana, dell'invenzione della regolamentazione delle acque, dei giardini coltivati e della civiltà stabile. In particolare il Gourara presenta una concentrazione di oasi in un quadro naturale e paesaggistico di eccezione, unico per bellezza e con­ servazione in tutto il Sahara, dove, insieme alle numerose vestigia, molteplici insediamenti mantengono un elevato grado di vitalità produttiva e culturale. La grande depressione del Gourara si estende da nord-est a sud-ovest lungo il mar­ gine del Grande Erg occidentale nel Sahara algerino. La parte meridionale è limitata dai contrafforti frastagliati dell'ampio altopiano del Tademait. Il fondo dell'immenso bacino è costituito dalla Sebkha di Timimoun, coslchiamata dal nome della sua oasi principale. Il bacino arido della Sebkha di Timimoun, lungo 50 chilometri e largo Io, è privo di acque superficiali, ma risulta il centro di con­ vergenza di flussi idrici sotterranei che provengono sia dall'Erg occidentale che dall'altopiano del Tademait. La sebkha agisce come una pompa, attraverso la quale i flussi, evaporando sulla superficie surriscaldata, aspirano nuove quantità d'acqua, richiamando quella contenuta nei sedimenti del grande impluvio e inne­ scando un meccanismo di circolazione idrica su un raggio di centinaia di chilo­ metri. L'intervento umano, utilizzando questa dinamica idrogeologica, riesce a sfruttare le acque impedendone la dispersione per evaporazione sulla sebkha e realizza, in un quadro fisico assolutamente ostile, il più denso sistema di habitat del Sahara occidentale. Centinaia di oasi collocate lungo i margini della depres­ sione captano l'acqua prima della evaporazione nel bacino e la distribuiscono nei campi con una rete di canalizzazioni superficiali che permettono il dilavamento continuo del terreno. Si contrasta coslla concentrazione di sali, si favorisce la formazione di humus e si crea quell'interazione positiva tra umidità, componenti biologiche del suolo e vegetazione propria dell'oasi. La captazione delle risorse idriche avviene attraverso una tecnica straordina­ ria che utilizza gallerie drenanti sotterranee chiamate localmente foggara. Que­ sto metodo è di origine plurimillenaria ed è impiegato in un'area estesissima che va dalla Cina alla Persia, alla Spagna e fino all'America latina (Goblot 1979). Alle foggara sahariane corrispondono, sia pure con caratteristiche differenti, i qanat o kariz persiani, ifalaj arabi, le khottara marocchine, le madjirat andaluse. Impianti idrici molto simili sono stati rinvenuti nel Perù e nel Messico in sistemi di coltivazione precolombiani chiamati hoyas (Soldi 1982 ). È difficile stabilire con precisione se si tratti della diffusione di conoscenze o di reinvenzioni in aree che presentano le stesse caratteristiche fisiche. È certo che la fondazione delle più antiche città era legata alla realizzazione di questi dispositivi: la città biblica di Qana sembra derivare il suo nome dai qanat che ne assicuravano l'esistenza; Gerico e Gerusalemme erano rifornite d'acqua nello stesso modo. Il geografo

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33. Foto aerea di parte della rete di foggara che alimentano le oasi della Sebkha di Timimoun. Le gallerie drenanti sotterranee, riconoscibili in superficie dalla teoria dei pozzi di scavo, risalgono dalle oasi, in basso a sinistra, verso gli alvei delle rete idrografica fossile, in alto a destra.

arabo al-Idrisi (sec. XII) riporta che la città di Marrakech si era sviluppata grazie alla costruzione di gallerie drenanti, realizzate sotto la direzione di un ingegnere venuto dall'Andalusia. Lo stesso nome della città di Madrid deriverebbe da quello di analoghi impianti: le già ricordate madjirat andaluse. Nel sottosuolo di Palermo è stata individuata una rete di gallerie drenanti eseguite in epoca musul­ mana o risalenti ai tempi della presenza punico-fenicia (Todaro 1988) e un dispo­ sitivo analogo, realizzato nel periodo greco-romano o arabo, è tuttora in opera nella città di Taranto (Grassi e altri 1991). Le prime iscrizioni documentarie sui qanat risalgono al re assiro Sargon II che nel VII secolo a.C., durante una campagna in Persia, descrive il rinvenimento di canali sotterranei per l'acqua. Sennacherib, il figlio di Sargon, sembra avere appreso a Urartu, antico centro minerario, la tecnica di utilizzare canalizzazioni sotterranee per rifornire Ninive. Lo storico greco Polibio, vissuto nel II secolo a.C., racconta dei pozzi e canali sotterranei scavati nel deserto dell'Asia Minore in tali quantità che «al giorno d'oggi chi usa tali acque non sa donde sgorghino

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e siano state condotte» (Storie, x 28). Vitruvio, architetto e trattatista romano del I secolo a.C., tra «i metodi per trovare l'acqua» descrive quello basato su pozzi di aerazione riuniti insieme da condotti sotterranei (Architettura, VIII r, 6) che richiamano la tecnica delle foggara. In periodo musulmano furono compilati trattati sulla manutenzione e costruzione delle gallerie drenanti, tra i quali il Kitab inbat al-miyah al-hafiyya (L'arte di fare sgorgare le acque nascoste), opera del matematico al-Karagi compilata all'inizio dell'xi secolo d.C. Nelle regioni del Gourara e del Touat questi antichi metodi di produzione idrica e le complesse procedure legate alla loro gestione sono ancora utilizzati. Si contano circa un migliaio di foggara, di cui la metà è tuttora funzionante con uno sviluppo sotterraneo dai 3000 ai 6ooo chilometri. In superficie una serie di pozzi riconoscibili dal caratteristico bordo rialzato, frutto dei detriti di scavo, permettono di identificare la galleria. I pozzi, alla distanza di circa 8-ro metri l'uno dall'altro, garantiscono l'aerazione durante i lavori nel sottosuolo e ser­ vono alle opere di manutenzione, ma non hanno la funzione di attingere l'acqua. Lo scavo della foggara, al contrario di quanto avviene nei qanat iraniani, viene iniziato dal luogo di insediamento, risalendo poi verso i margini dei coni di deie­ zione dei wadi fossili. Le foggara, a differenza di un canale addutivo, non sono convogliatori di risorse idriche da sorgenti o da pozze sotterranee al luogo di uti­ lizzo, ma attraverso il loro sviluppo lineare captano i microflussi infiltrati nelle rocce e creano acque libere, funzionano come dispositivi di produzione, miniere di acqua. La galleria, scavata parallela al terreno, non affonda nella falda, ma, ove esiste, ne drena la parte superiore, senza provocarne quindi l'abbassamento e assorbendone quantità compatibili con le capacità di rinnovo. L'area del sot­ tosuolo di approvvigionamento di acqua, più che a un bacino sotterraneo, asso­ miglia a una grande spugna rocciosa. Questa si alimenta con i microflussi diretti verso la sebkha, l'affioramento di falde profonde costituite da persistenze geo­ logiche non rinnovabili, e gli apporti atmosferici differenziabili in tre tipi. Il primo è dato dai flussi che scorrono sotto le sabbie dell'erg e sono dovuti alle piogge verificatesi a nord, sugli altipiani e l'Atlante Sahariano. Si tratta di montagne lontane migliaia di chilometri, distanza che i microflussi impiegano 5000 anni a colmare sotto le sabbie dell'erg prima di raggiungere l'oasi, dove si raccoglie, quindi, acqua piovuta nella preistoria. Il secondo apporto atmosferico è costituito dalle normali precipitazioni, che in questa area non superano i 5-ro millimetri annui. Date le enormi dimensioni dei bacini di raccolta, anche queste minime componenti possono, se non spre­ cate, fornire un contributo significativo. Infatti, se le piogge del Gourara appaiono un'inezia, sia per le zone temperate, dove le precipitazioni raggiun­ gono i 3000 millimetri, sia per quelle aride, definite tali a partire da una quan-

tità annua inferiore ai 300 millimetri, bisogna considerare che anche solo 5 mil­ limetri di precipitazione su una superficie di r o ettari significano, se raccolti, 5000 litri di acqua. Il terzo apporto è dovuto a fenomeni ancora più impalpabili e imponderabili. Si tratta delle quantità d'acqua prodotta mediante condensazione in superficie. È il fenomeno delle cosiddette precipitazioni occulte, fondamentale nell'ecologia del deserto. Esso permette alle gazzelle di dissetarsi leccando la rugiada notturna da pietre imbibite d'acqua e agli scarabei e alle lucertole di assorbire dall'umi­ dità atmosferica gli apporti idrici a loro indispensabili. A causa degli scarti di temperatura tra il giorno e la notte, superiori anche ai 6o gradi, si produce una condensazione notturna al suolo che bagna la sabbia e, seccata dai raggi del sole, provoca quella crosta dura tipica per lo scricchiolio prodotto quando viene cal­ pestata. Oculatamente gestite, le precipitazioni occulte riescono a creare impor­ tanti riserve idriche. Appropriati dispositivi idraulici permettono di raccogliere il vapore d'acqua dell'atmosfera e di conservarlo nel sottosuolo prima della sua sparizione con il nuovo giorno. In determinate condizioni è possibile ottenere durante le notti del deserto 4 litri d'acqua su una superficie di un solo metro quadrato. Sono alimentate in questo modo alcune reti di foggara tipiche del Touat, che non sono scavate in profondità e vengono perciò chiamate foggara superficiali (Gauthier 1928, p. 242). Molti studiosi dubitano delle modalità di funziona­ mento delle gallerie drenanti per condensazione aerea. Ciò è dovuto alla circo­ stanza che le ricerche sono state sinora prevalentemente interessate ai qanat ira­ niani, i quali dispongono di un regime idrico sotterraneo più ricco. La differenza nel tipo di approvvigionamento prevalente spiegherebbe anche le diverse modalità di scavo tra i qanat e le foggara. È certo che le semplici necessità di estra­ zione non giustificano la particolarità dell'enorme quantità di pozzi realizzata lungo il percorso. Infatti sarebbe più economico evacuare i detriti lungo il con­ dotto orizzontale, come si fa nei normali acquedotti sotterranei, piuttosto che scavare i numerosi condotti verticali. Questi dovevano quindi avere un ruolo nelle dinamiche di funzionamento delle foggara. L'esistenza dei pozzi verticali mantiene all'interno della galleria una pressione atmosferica pari a quella esterna, facilitando lo scorrimento dell'acqua anche a pendenze minime ed è plausibile che essi siano direttamente funzionali all'alimentazione idrica. La rete delle foggara presa nel suo complesso, con l'enorme quantità di condotti verticali e gallerie drenanti, costituisce un sistema di manutenzione della falda garan­ tendo l'imbibizione del terreno attraverso lo scambio con l'umidità aerea. Il trattato già menzionato di al-Karagi elenca tre origini delle risorse idriche dei qanat corrispondenti alle dinamiche riscontrate nelle foggara del Gourara. Il materna-

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34· Funzionamento di un mausoleo sahariano come raccoglitore di umidità e di acque di scorrimento sul pendio. Gli allineamenti di pietra convogliano i flussi verso l'area protetta dal tumulo.

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tico medievale, insieme alle acque primordiali e a quelle di pioggia, cita, signifi­ cativamente, la trasformazione sotterranea dell'aria in acqua. Anche strutture preistoriche formate da tumuli e ambienti ipogei, abbon­ danti nel Sahara, possono essere interpretati come dispositivi di raccolta dell'umidità e della brina. Camere sotterranee o cumuli di pietra favoriscono il processo di condensazione e di conservazione idrica. Le cosiddette tombe solari del Sahara, costituite da anelli concentrici intorno a un tumulo, sono collegate ad antichi metodi di raccolta e culti dell'acqua. Le stesse enigmatiche lunghe file di pietre che a volte si dipartono dal cerchio come lunghe antenne, dando ai monumenti la curiosa forma di sonde spaziali, trovano una spiegazione come col­ lettori d'acqua. Aperte verso il pendio e convergenti sulla camera ipogea, servi­ vano a incanalare e convogliare l'umidità raccolta sulla superficie di condensa­ zione compresa tra questi due grandi bracci. È possibile che l'origine delle foggara sia proprio dovuta allo sviluppo della tecnica delle camere di condensazione. Anche nell'ambiente ancora paludoso della preistoria sahariana era utile produrre acqua pura e bevibile tramite la per­ colazione nelle grotte. Con il procedere della desertificazione e l'esaurirsi degli apporti idrici delle cavità ipogee, gli uomini possono avere cercato di ampliarne lo scavo per seguire la direzione dei flussi, creando una galleria che prolunga la camera di condensazione e amplia l'area di drenaggio. Si realizza coslla tecnica della foggara che ha la particolarità di utilizzare tutti i diversi principi di pro­ duzione dell'acqua: la captazione, la percolazione e la condensazione.

Architettura dell'oasi Il sistema di produzione idrica è il presupposto dell'insediamento dell'oasi. Nelle oasi a foggara la collocazione del villaggio e l'inizio del palmeto dipendono dal punto di sbocco in superficie del flusso sotterraneo. Questa localizzazione è determinata da quella che potremmo definire la riva del grande lago prosciugato della Sebkha di Timimoun, una grande ellisse rocciosa frastagliata dagli estuari fossili dei wadi dove, tra anfratti e speroni calcarei, l'altopiano s'interrompe e incomincia il pendio in discesa verso il fondo salino della depressione. Su questo ciglio, scavato da cavità naturali, sono collocate le fortezze e i villaggi che controllano lo sbocco della foggara e l'incanalazione successiva delle acque tramite condutture a cielo aperto lungo il declivio dove viene impiantato il palmeto. Lo scavo della foggara deve fare in modo che il tracciato arrivi proprio a questo punto di sbocco orograficamente determinato, altrimenti tutto lo scorrimento dell'acqua per gravità sarebbe impossibile. Il tracciato sotterraneo deve essere quindi sapientemente calcolato e procedere verso l'altopiano con una pendenza minima, sufficiente cioè a garantire lo scorrimento dell'acqua, ma non tale da provocare l'erosione del fondo del tunnel e il trasporto di detriti e sabbie, cause di abbassamento o intasamento del percorso. Questo mantiene un andamento quasi orizzontale, ma diviene sempre più profondo perché la quota del terreno sovrastante si eleva con l'allontanarsi dalla sebkha. Ogni 4 o 8 metri sono scavati i pozzi verticali che mettono in comunicazione il tunnel con la superficie e consentono di evacuare i detriti di scavo. Accumulati intorno alle bocche, deter­ minano i caratteristici piccoli crateri che evidenziano sul terreno il tracciato della foggara. I pozzi, che con l'aumentare della lunghezza di quest'ultimo divengono profondi anche 150 metri, servono per discendere nel tunnel durante i lavori di 35 ·

Struttura dell'oasi. L'acqua prodotta nella galleria sotterranea della foggara (A), riconoscibile in superficie per i pozzi di scavo (B), passa al di sotto dell'abitato di terra cruda (c), dove si raccoglie in successive vasche di decantazione (o), utili per l'alimentazione, le abluzioni e il raffrescamento delle abitazioni. Ripartita nei canali a cielo aperto tramite le kesria (F), che ne misurano � distribuiscono il flusso, irriga il palmeto (E), diviso da muretti di terra (G) in particelle coltivate.

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manutenzione, ma, come si è detto, hanno una funzione specifica nei patticolari meccanismi di produzione idrica delle gallerie drenanti. La struttura dell'oasi si può schematizzare come costituita da una foggara lunga dai 4 agli 8 chilometri che dalla riva della depressione si dirige a monte verso l'altopiano, da una fortezza collocata sul ciglio roccioso e da una fascia di palmeto che si estende a valle nella sebkha tanto più profondamente quanto più cospicua è la portata d'acqua della foggara. Dalle risorse idriche della galleria drenante dipende la quantità di terreno coltivabile che si riesce a strappare al deserto, ma la possibilità di estensione verso il fondo della sebkha ha comunque un limite invalicabile dovuto al fatto che, procedendo verso di esso, aumenta la concentrazione salina del terreno. Pertanto il palmeto viene ampliato lungo i bordi della sebkha con lo scavo di nuove foggara e l'installazione di altri vilaggi. Con il tempo intorno alla Sebkha di Timimoun si è così creata una completa rag­ giera di foggara che convergono sulla depressione e una fascia quasi continua di palmeto che ne corona il bordo. Su questo si ergono le più arcaiche fortezze cir­ colari di pietra, spesso situate su rupi e grotte abitate sino dalla preistoria, e le più recenti cittadelle quadrangolari. È il modello tipico di insediamento delle oasi chiamato ksar al singolare, e ksur al plurale. Si tratta di villaggi compatti, fatti di case strettamente assemblate le une alle altre, accessibili attraverso una stretta trama di stradine anch'esse coperte come tunnel sotterranei nell'abitato e realizzati di sola terra cruda e tronchi di palme. La struttura e i materiali richia­ mano l'abitato neolitico di ç atal Hiiyiik, in Anatolia, risalente al x millennio, di cui è stata ipotizzata la mancanza totale di strade. L'accesso alle abitazioni sarebbe avvenuto dall'alto, attraverso le terrazze. È possibile invece che i per­ corsi fossero simili a quelli degli ksur sahariani, fortemente embricati all'archi­ tettura e funzionali all'ottimizzazione climatica e alle necessità di difesa. La rossa terra del deserto frantumata viene impastata con acqua e paglia che ne aumenta le proprietà leganti. Con uno stampo di legno viene assemblata in forma di mattoni rettangolari, tub in arabo. Da questo termine, tramite la Spa­ gna andalusa, deriva la parola adobe (al-tub) generalmente usata per indicare le costruzioni in mattoni di terra cruda. Lasciati seccare al sole, i mattoni diven­ gono duri e resistenti senza alcuno spreco di energia per la cottura. Con essi si realizzano gli spessi muri portanti delle abitazioni, che creano all'interno am­ bienti perfettamente coibentati, adatti sia alle forti temperature estive che alle fredde notti invernali. Nelle abitazioni le stanze non hanno un'assegnazione pre­ cisa delle funzioni, ma vengono utilizzate secondo le variazioni di stagione e clima, realizzando quello che viene chiamato un nomadismo interno alla casa. Anche le terrazze riparate da alti muretti di terra cruda divengono nelle calde notti estive arieggiate stanze da letto a cui il cielo stellato fa da copertura.

La foggara, prima dello sbocco in superficie, passa sotto il villaggio, viene ripartita e decantata in vasche di raccolta sotterranee e fornisce acqua corrente per le abitazioni e i lavatoi collettivi. Antiche cavità e grotte per la raccolta dell'acqua costituiscono un ulteriore elemento di raffrescamento per il villaggio e luoghi di riunione nella stagione calda. All'uscita del villaggio l'acqua della foggara viene ripartita in canalizzazioni a cielo aperto (seguia) che percorrono tutta la zona coltivata dell'oasi. Questa risulta intimamente collegata al complesso abitativo sia dalla rete idrica sia nella geometria organizzati va e nell'architettura. La trama delle proprietà è struttu­ rata dal sistema di adduzione dell'acqua e marcata da pareti in mattoni di terra cruda che racchiudono le particelle di terreno. Le perimetrazioni accentuano le caratteristiche di continuità tra il tessuto abitativo e lo spazio coltivato, ren­ dendo quest'ultimo un ambiente costruito e conchiuso a cui le chiome delle palme fanno da tetto vegetale. Il più arcaico sistema costruttivo di questi muri utilizza mattoni di terra cruda a calotta semisferica. Sia la forma che la messa in opera appaiono del tutto simili ai modelli di muratura cosiddetta «a spina di pesce» realizzati con mat­ toni pianoconvessi in Mesopotamia nel rrr millennio. Per stampo viene usato un paniere di vimini e i mattoni, una volta seccati al sole, sono messi in opera disposti obliquamente in bande alternate in modo da formare il disegno a spina di pesce. Gli interstizi determinano nel muro una trama traforata che, oltre agli innegabili effetti di decoro e di luce, risulta costituire la protezione più idonea contro i venti di sabbia: un ostacolo completamente chiuso comporterebbe un accumulo dei materiali portati dal vento e l'insabbiamento progressivo delle sin­ gole particelle. È probabile che la tecnica costruttiva serva a fornire i giardini di ulteriore apporto idrico. La notte il vento è forzato sulle parti convesse dei mat­ toni rilasciando l'umidità alla terra dei muretti. Durante il giorno il vento caldo compresso nei fori si espande fuoriuscendo nel giardino e determina assorbi­ mento di calore e abbassamento della temperatura. Le canalizzazioni seguono le stradine marcate dalle pareti di terra, penetrano al di sotto dei muri o corrono sugli stessi. L'irrigazione per scorrimento continuo dell'acqua è funzionale alla necessità di sottoporre il terreno a un dilavamento costante per arginare il forte rimontare di sali nelle zone più prossime alla sebkha, ma questo metodo non si adatta alle colture degli ortaggi e richiederebbe una grande disponibilità d'acqua. Così il rimontare della salinità, dovuto alla forte evaporazione alla superficie del terreno, è contrastato dal mantenimento di un microclima sotto la volta delle chiome di palma e l'irrigazione può farsi in modo non continuo attraverso la raccolta dell'acqua in piccoli bacini individuali

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di forma rettangolare con i bordi arrotondati chiamati majen. Come in un sistema arterioso, la portata complessiva viene capillarmente suddivisa fino a questi piccoli invasi terminali di minimo stoccaggio e di distribuzione che carat­ terizzano ogni cellula coltivata. La ripartizione dell'acqua si attua tramite un bacino a triangolo isoscele (il qasri). Questo ha il vertice nel tunnel e alla base la kesria, particolare dispositivo in pietra a forma di pettine che, attraverso la dimensione degli spazi tra i «denti», permette la ripartizione dell'acqua nelle canalizzazioni secondo le quote di proprietà. Nel deserto la terra non ha valore se non è irrigata, quindi è il possesso di una quantità di acqua che determina la ricchezza. Il calcolo delle quote spettanti a ciascuno è dunque un compito estremamente importante e delicato. Esso è affidato ai «maestri dell'acqua», depositari di conoscenze com­ plesse, e capaci di seguire le misurazioni, legate all'intricato evolversi delle pro­ prietà, molto velocemente mediante un sistema aritmetico la cui base sessagesi­ male (come le ore) ne attesta l'arcaica origine. L'acqua prodotta dalle foggara deve essere continuamente utilizzata sia per l'impossibilità di stoccaggio sia per il bisogno fisiologico dell'oasi di una irriga­ zione costante. Per questo motivo la misurazione e la distribuzione non possono essere effettuate attraverso l'interruzione del flusso e la suddivisione del tempo di fruizione. Inoltre si devono simultaneamente e automaticamente frazionare le variazioni della produzione idrica in modo proporzionale alle quote. Il sistema delle spaziature nel pettine ripartitore risponde perfettamente a tutte queste necessità. La misurazione del flusso viene effettuata ostruendo lo scorrimento nel canale principale con una piastra di rame forata (chiamata hallafa), i cui pic­ coli buchi vengono otturati con argilla. Si procede poi a sbloccare progressiva­ mente i fori fino a quando il fluire dell'acqua non ridiviene regolare: l'insieme dei vuoti ottenuto, che rappresenta la portata complessiva, è poi suddiviso secondo le quote di ciascun proprietario e serve a determinare, con lo stesso metodo, l'ampiezza delle aperture da praticare nella pietra a forma di pettine che funge da ripartitore. È interessante notare che la quantità di misura più piccola, grande come la punta del dito mignolo, è chiamata habba, termine applicato anche al seme di orzo e che si ricollega a una misura di oro. Non è possibile dire se il diametro del foro sia stato determinato dal diametro del seme di orzo, ma è certa la corri­ spondenza di quest'ultimo con una precisa quantità di oro. Si crea così un rap­ porto significativo tra misura di acqua, cereali e oro. Poiché la velocità di scor­ rimento dell'acqua è controllata per evitare l'erosione e l'abbassamento del tracciato dei canali ed è quindi omogenea per tutte le foggara, il volume di un habba può ritenersi univocamente definito.

In realtà l'apporto delle foggara è soggetto per svariati motivi a modificazioni stagionali, di conseguenza l'habba risulta una misura relativa la cui variazione determina il corso di tutti gli altri beni. Non è quindi una quantità fissa, ma una misura di valore la cui entità rappresenta in ogni momento la situazione della produzione acquifera, lo stato, potremmo dire, dell'economia dell'oasi. Il sistema idrico, ripartendo automaticamente le variazioni di produzione, costi­ tuisce così un modello fisico dei processi di svalutazione e di rivalutazione: l'acqua nelle oasi è l'equivalente generale, che circola, si scambia e fluttua come il denaro nel sistema monetario delle economie contemporanee. Attraverso la ripartizione dell'eredità, i matrimoni o per compravendita, le quote d'acqua continuano a frammentarsi o a riunificarsi e un intricato sistema di kesria, di raccordi e di ponticelli- questi ultimi necessari all'incrocio di due o più canali per evitare il mescolarsi del liquido - rappresenta sul terreno l'evol­ versi nel tempo del sistema di proprietà. Si realizza una trama «idrogenealogica» che registra il succedersi delle generazioni, i legami e le proprietà familiari in un grafo di parentela fisicamente costruito dalla rete di canalizzazioni (Marouf 1980). Come un giardino di memoria l'oasi trascrive nello scorrere dell'acqua la sua storia.

36. Rappresentazione schematica della distribuzione dell'acqua nell'oasi. Le tre famiglie (A, B, c) del villaggio (1) si dividono l'apporto idrico della foggara (2) tramite le kesria (3). Con il tempo l'acqua è suddivisa tra le generazioni (r-vu) creando una intricata trama di canaliz­ zazioni, ripartitori e particelle coltivate .

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Il sistema

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globale dei segni

Tutto il complesso sistema, sorprendente insieme di tecniche e soluzioni appropriate, è frutto di una selezione e verifica continue nel processo d'intera­ zione tra l'uomo e il suo ambiente. In una situazione in cui lo spostamento di un semplice sasso può provocare il movimento di una grande duna o la forma di un muro di mattoni costituire il fattore determinante per la vita vegetale, il com­ portamento umano qiventa parte di un tutto indissolubile di cui ognuno è responsabile. Siccome gli errori sono duramente pagati dall'insieme della comu­ nità, le soluzioni positive assumono un valore che travalica il singolo evento per assurgere a significati di portata cosmica. L'assicurazione del perpetuarsi delle corrette regole di comportamento è affidata alla disciplina rigorosa delle proce­ dure e cristallizzata in codici tramandati attraverso metafore e simboli. Questi permeano completamente tanto la vita degli uomini quanto lo spazio costruito. In gesti minimi, come annodare la foglia di una palma ogniqualvolta si attinge l'acqua di una foggara, o in segni dall'apparenza insignificante, come le strisciate di calce bianca sulle pareti di terra cruda, si tramandano moniti e principi. Non è importante l'oggetto in sé, ma la catena di suggestioni, di racconti, di ricordi che questo permette di liberare. Così un semplice cumulo di sassi o un tracciato sulla sabbia è sufficiente per creare un monumento o una moschea. L'architettura non ha bisogno di strutture auliche e ridondanti: la sola teoria di pietre allineate nel deserto definisce un luogo più di alte muraglie, poiché con le forme e i simboli si mira alle categorie del sentimento e della memoria. Lo spa­ zio dell'oasi, quello sociale come quello architettonico, diviene un palinsesto, denso e saturo di significati. Un impero di segni dappertutto presenti: essi vigi­ lano le attività quotidiane, guidano i gesti, danno regola e misura alle architet­ ture, sono raffigurati in ogni prodotto artigianale e risultano iscritti sul corpo stesso degli individui. È un linguaggio inconsueto, non trasmesso secondo gli usuali parametri scientifici, ma non per questo meno coerente. Per interpretarlo è necessario rivolgersi a categorie fondate sull'assonanza, l'analogia, l'allusione o la metafora, categorie attraverso le quali una stretta catena di corrispondenze avvolge tutta la società oasiana. Il tracciato delle canalizzazioni d'acqua che sgorgana dal pettine ripartitore diventa il grafo augurale riportato nel tappeto nuziale. L'acqua è la linfa vitale che si distribuisce attraverso le famiglie, per questo il gioiello simbolo di fertilità legato al collo delle donne berbere è la stilizzazione in variegate fogge della stessa struttura. Conoscendo i legami profondi della cultura oasiana con le più antiche civiltà del deserto, come mera­ vigliarsi che il geroglifico egizio mes, che significa nascere, abbia la stessa forma?

37· Il grafo riportato su tappeto nuziale dell'oasi di Beni Isguen richiama le tecniche di ripartizione delle acque, il geroglifico egizio mes, nascere, e il gioiello berbero simbolo di fecondità.

Il medesimo disegno è tatuato sulla pelle o riportato nella foggia delle petti­ nature. E non a caso. Queste ultime, infatti, marcano i vari stadi della crescita e della maturazione dell'individuo ricollegandola alle pratiche agrarie e alla genesi stessa dell'oasi. Alla nascita la testa completamente priva di capelli rap­ presenta il vuoto cosmico originario. Nell'infanzia essa viene rasata lasciando al centro una sola ciocca di capelli: la terra primigenia. Al momento della pubertà la parte rasata si riduce a una sola stretta banda intorno alla capigliatura cen­ trale, simbolo dell'oceano salato e sterile che circonda la terra, ancora incolta, ma pronta per il lavoro dei campi. Con il trascorrere degli anni i capelli, sempre rasati lungo la circonferenza del cranio, sono divisi in ciocche da una linea mediana che riproduce il canale centrale dei sistemi di irrigazione. Quando la ragazza è pronta per il matrimonio, la chioma, non più rasata, viene suddivisa in righe e piccole trecce, a rappresentare la terra coltivata dove l'acqua circola nei canali di irrigazione. L'acconciatura delle donne maritate, infine, lascia crescere i capelli per raccoglierli in grosse trecce. La donna è ora fecondata e fertile, come l'oasi. Le fogge della pettinatura ripercorrono dunque nella persona le vicende complessive, la storia individuale si identifica con quella dell'intero sistema. La corrispondenza tra l'io e il mondo istituisce un patto tra la cultura e la natura; il simbolo e la tradizione ne divengono la testimonianza e la custodia, garanzia del

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mantenimento dell'armonia del cosmo. Nel rapporto solidale così stabilito, l'individuo trae il conforto necessario alla precaria condizione dell'esistere, e lo spazio si carica della sacralità indispensabile alla sua salvaguardia e protezione. Il legame stretto tra le azioni e l'armonia naturale impone una serie di proibi­ zioni, vincoli e prescrizioni poiché anche i gesti più banali concorrono al man­ tenimento dell'equilibrio universale. Così nell'oasi il rapporto costante tra microcosmo e macrocosmo non è una concezione metafisica, ma un principio etico basato su precise condizioni materiali. Tecnici europei che volevano introdurre dei miglioramenti proposero di sosti­ tuire la rete di canalizzazioni a cielo aperto con tubi di plastica per evitare la dispersione d'acqua per evaporazione. La resistenza degli abitanti fu ascritta a superstiziose credenze. Essi, invece, rifiutando la trasformazione della meravi­ gliosa trama di canalette gorgoglianti in un sistema di tubature e tombini, e insomma impedendo di intaccare il simbolismo e l'estetica dell'oasi, ne hanno salvaguardato l'esistenza stessa. Infatti la possibilità di coltivare i giardini pro­ duttivi dipende dal mantenimento al riparo delle· chiome delle palme di un microclima. L'umidità, che nel deserto raggiunge il dato bassissimo compreso tra lo zero e il 5 per cento, ha nelle oasi quote dell'So per cento. Questi valori, che permettono la coltivazione, la formazione di humus e, impedendo la forte evaporazione dell'acqua usata per irrigare, contrastano la formazione di sali sul terreno, sono mantenuti proprio grazie allo scorrimento idrico superficiale. Le quantità d'acqua in apparenza perdute sono in realtà ampiamente ripagate dall'instaurarsi dell'effetto oasi complessivo. Il palmeto limita i fenomeni di dispersione di liquidi dovuti all'evapotraspirazione della biomassa e agisce da attrattore e accumulatore di umidità. Questa, grazie all'escursione termica not­ turna, viene rilasciata alle sabbie per tornare a rifluire dai canali sotterranei fino ai campi. Le foggara favoriscono il processo agendo come pompe che attraggono l'aria carica di vapore e producono acqua dall'atmosfera come sorgenti aeree. Durante la notte l'aria fredda scende verso il basso e penetra nel suolo. Si veri­ fica un fenomeno di condensazione che bagna il terreno e le pareti dei pozzi e della galleria. Con il sorgere del sole il processo si inverte. Il suolo riscaldato pro­ voca un movimento ascendente nell'aria. della foggara espulsa attraverso i pozzi di aerazione esposti alle· temperature brucianti del deserto. Si crea nella gallerìa sotterranea una circolazione che aspira l'aria dalla parte inferiore, quella che ha lo sbocco nella zona ombreggiata del palmeto. L'umidità di quest'ultimo viene così risucchiata e ricondensata sulle pareti e nel suolo prima che l'aria fuoriesca dai pozzi. L'acqua si conserva nella porosità del suolo, che diventa sempre più imbevuto di liquido e scende per gravità al canale sotterraneo adduttore fino all'apertura che alimenta l'oasi.

Umidità trattenuta dalla sabbia e ceduta poi al canale 3 8 . Apporto idrico dell'umidità alle foggara. L'aria umida del palmeto, risucchiata dalla foggara nel senso inverso a quello dello scorrimento delle acque, si condensa nella galleria e fuoriesce dai pozzi come aria secca. Durante la notte il calo di temperatura provoca ulteriore condensazione sulla superficie del terreno, assorbita nei pozzi e nella galleria.

Il continuo ciclo riproduttivo delle oasi è sintetizzato nella cerimonia della sepoltura, che esprime nella coincidenza di concezioni metafisiche e cognizioni utili il rapporto indissolubile tra spiritualità e tecniche. Accanto al tumulo viene posta una brocca recante un ramo di palma. L'acqua salirà nelle foglie come l'anima del defunto verso il cielo. Il circuito dell'acqua che, condensata nelle sab­ bie, alimenta il villaggio e le coltivazioni per rifluire lungo il tronco delle palme e ritornare al deserto dove ricomincia l'opera, è accomunato al flusso delle esi­ stenze, all'avvicendarsi perenne delle nascite e delle morti nella continuità delle generazioni. Tuat chiamavano gli antichi Egizi la meta finale di tutte le vite, il giardino dell'oltretomba nel deserto dell'occidente (le auree scuderie del sole degli Inni omerici), dove si compirà il tramonto e il lungo esilio, destino di ogni essere. Dalle illustrazioni dei papiri delle piramidi si vede chiaramente come il Tuat sia proprio un'oasi dove, tra canali d'acqua e palme, si attua il miracolo dell'espiazione e della rigenerazione. La concezione egizia dell'oltretomba, rappresentata a immagine delle oasi, viene assunta dall'antichità classica e, attraverso il mondo musulmano, giunge fino al Rinascimento. I giardini del deserto sono il modello di quelli urbani. Nel peristilio romano, nel patio islamico, nel chiostro medievale, nell'hortus conclu­ sus rinascimentale ricorrono gli elementi dello spazio oasiano: il recinto murato, la grotta, la palma, le acque che scorrono. Ma sono già solo mere componenti simboliche senza alcun riferimento a funzioni reali. Con il tempo il giardino perde completamente l'aspetto utilitario e diventa solo un luogo estetico e di piacere. La modernità, fondata sulla separazione netta delle attività per la sus­ sistenza dai ritmi naturali, opera la divisione drastica tra il tempo del lavoro e

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39· Cimitero dell'oasi di Feraun, Sebkha di Timimoun. La brocca riempita al momento della sepoltura sim­ boleggia, con il ciclo dell'acqua che evapora al cielo per tornare alle sabbie, il destino delle esistenze.

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quello della riflessione o dello svago, tra la sfera della produzione e quella della contemplazione, tra l'orto e il giardino. Solo il pensiero colto e speculativo continua ad attribuire al giardino una carica di sacralità, ma attua un rovesciamento: l'aura è spiegata dal suo derivare da un modello ultraterreno. Così, quello che era un orto botanico diviene il giar­ dino dei beati, e l'oasi reale, prodotto umano, scompare per trasformarsi in una categoria immaginaria, un frutto del caso o un luogo edenico miracoloso. La sovrapposizione di giardino e paradiso nella cultura occidentale deriva dalla tra­ duzione greca della Bibbia realizzata proprio ad Alessandria nel rn secolo a.C. Il testo biblico dice: «Il Signore costruì un giardino in Eden» (Genesi, 2, 8). Nelle lingue di Akkad e di Sumer edin significa deserto, si trattava quindi pr prio di un'oasi nel deserto. Ma il senso della parola ebraica eden è piacere o deli­ zia, così il giardino nel deserto diventò il giardino delle delizie. La cultura elle­ nistica dell'epoca tolemaica, permeata com'era dagli influssi egizi e orientali, per tradurre il termine usò il persiano pairidaeza. Da questo vocabolo, che ha il signi­ ficato letterale di luogo recintato e designava i giardini murati dei grandi re per­ siani, luoghi di delizia e di caccia, deriva il termine paradiso. Ecco quindi l'ori-

gine della consuetudine culturale che il giardino sia la metafora del paradiso. È vero invece l'esatto contrario: il paradiso costituisce l'idealizzazione della realtà concreta del giardino. Dalla materia meravigliosa della terra coltivata, dalla forza prodigiosa della natura vegetale, dall'oasi, dove si rinnova continuamente il miracolo della rinascita, deriva la concezione della vita dopo la morte, l'idea di paradiso. «Se c'è un paradiso è in terra, è qui, qui, qui» recita un verso del poeta persiano del XIII secolo Sa'di. Ancora oggi i coltivatori del deserto, consci del prodigio di fertilità rinnovato nelle fatiche quotidiane e consapevoli che le incombenze materiali non sono separabili dal nutrimento della mente e dello spi­ rito, hanno un unico termine per designare i campi coltivati grazie al grande lavoro delle oasi: jennat, cioè giardino e paradiso.

Le cause di degrado Premessa indispensabile per comprendere il sistema oasiano e affrontare il problema della sua salvaguardia è la non separazione del patrimonio spirituale da quello conoscitivo-materiale: l'oasi racchiude la complessità di un mondo, tutto affidato alla responsabilità dei suoi abitanti. Gli insediamenti oasiani sono frutto di un equilibrio delicato e dell'interazione di fattori complessi in cui ogni com­ ponente - sociale, architettonica, agricola e ambientale - è un elemento indis­ solubile del sistema. La società delle oasi in trasformazione ed evoluzione neces­ sita l'introduzione di adeguati livelli di servizio e miglioramento delle condizioni di vita senza che questi distruggano i valori intrinseci al sistema. Proprio l'in­ comprensione di questi valori, la negazione della globalità dell'universo oasiano ha portato a interventi di modernizzazione che, operati in modo settoriale, si sono rivelati inadeguati o addirittura nocivi. Grandi infrastrutture come strade, miglioramento del sistema idrico e delle condizioni igieniche, costruzione di edifici pubblici sono realizzati senza tenere conto dell'(!quilibrio ecologico millenario su cui si basa l'oasi. Spesso benefici momentanei sono raggiunti con un grande apporto di energie esterne che si rive­ lano non rinnovabili e disastrose nel lungo periodo per l'esistenza stessa di tutta l'area. È il caso dello scavo di pozzi che, grazie a pompe meccaniche, assorbono l'acqua a grande profondità. Essi provocano l'abbassamento del livello idrosta­ tico e la messa fuori uso delle foggara. Sfruttano, inoltre, la falda a un ritmo superiore alla sua capacità di rinnovo o pescano in pozze di acqua fossile rima­ sta imprigionata in epoca geologica e destinata all'esaurimento. Le nuove costruzioni sono attuate con l'importazione completa e massiccia di tecnologia e materiali estranei negando le specificità locali sia culturali che eli-

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matiche. Gli stessi interventi operati nel turismo sono condotti nella totale igno­ ranza dei valori e qualità architettonici, paesaggistici, di cultura dell'ambiente. I grandi alberghi introducono nuovi modelli architettonici che contraddicono le strutture abitative tradizionali. Queste nel confronto vengono squalificate, per­ dono di dignità e viene così minata la volontà delle popolazioni locali di conti­ nuare ad abitare nel modo ancestrale. L'attrazione esercitata dal modernismo e la carenza di opportunità di lavoro nelle oasi determinano l'abbandono di molti centri. L'incapacità da parte delle imprese di intervenire con restauri dell'abitato antico fa preferire alla manutenzione la nuova costruzione. Questa è inadatta alle condizioni climatiche, è dotata di comfort spesso inutilizzabili e dall'elevato consumo energetico, è inadeguata nell'organizzazione spaziale, è nociva per le relazioni sociali e necessita una gestione costosa ed estranea alle tradizioni e pos­ sibilità degli abitanti. Tuttavia viene preferita perché i modelli culturali im­ portati decretano come arretrata e sinonimo di inferiorità sociale l'abitazione tradizionale. Nell'agricoltura l'impegno di capacità lavorative umane su cui si basa il fun­ zionamento dell'oasi non è, nelle attuali condizioni, sufficientemente remune­ rativo e nessuna esperienza è stata condotta per espletare i medesimi compiti attraverso metodi innovativi non distruttivi. Quando gli elementi di base, come la foggara e il sistema di ripartizione delle acque, che mantengono in esercizio il sistema delle oasi, vengono lasciati deperire, tutto il modello collassa. In alcuni casi intere regioni vengono abbandonate e aree fertili e irrigate divengono ste­ rili e invase dalle sabbie. Solo le vestigia di innumerevoli fortezze in rovina e di lavori idraulici sotterranei testimoniano che il deserto era vivo e abitato. In altre situazioni le economie esterne legate al terziario amministrativo o al lavoro nel­ l'edilizia mantengono sul posto la popolazione. In questi centri si verifica una trasformazione completa dei modi di abitare e produrre che entrano sovente in contrasto con lo stesso spazio agricolo: il condizionatore elettrico sostituisce il microclima vegetale, e il substrato oasiano, travolto dalla cementificazione, non risulta più nemmeno identificabile. È emblematico il caso della regione del wadi Ziz in Marocco, area antichis­ sima di agricoltura irrigata tramite una diffusa rete di gallerie drenanti local­ mente chiamate guettara. Sede di antiche oasi di cui nel Medioevo fu capitale la mitica città carovaniera di Sigilmasa, la regione è stata oggetto di un programma di sviluppo della Banca Mondiale. Il progetto ha comportato la costruzione della grande diga di Errachidia che blocca le acque della rete idrica dello Ziz prove­ nienti dall'Atlante per creare un grande bacino destinato alla creazione di agri­ coltura irrigua. Il risultato è che l'acqua, che una volta scorreva nel sottosuolo per alimentare le oasi, stoccata a cielo aperto è sottoposta a una forte perdita per

evaporazione. Inoltre il bacino è rapidamente colmato dai sedimenti del wadi. La popolazione locale ha abbandonato l'agricoltura e l'allevamento nomade per lavorare alla costruzione della diga. Si è creata una città che richiede nuovo lavoro nell'edilizia e attrae ancora persone. I conti economici segnano così un progresso marcato dall'aumento di salariati e dall'espansione urbana, mentre invece siamo in presenza di un ciclo di sviluppo tutto fittizio, operante con spreco e distruzione di risorse. L'acqua della diga è ora impiegata per dissetare la città in rapida crescita e, esaurita la rete di approvvigionamento tradizionale, l'agricoltura è ora alimentata tramite tubi e contatori a pagam�nto. Un identico scenario si è verificato nella città oasi di Bechar in Algeria. E bastata una sta­ gione in cui gli apporti del bacino idrico sono stati sufficienti solo alle nuove necessità urbane perché tutta l'area agricola di Abadla, creata con lunghi e impo­ nenti sforzi, ridiventasse una landa deserta. Rispetto all'incalzare del modernismo gli economisti e i geografi hanno decretato la fine della civiltà oasiana e liquidato come frutto di una romantica volontà di ritorno al passato gli studi basati sul suo apprezzamento. Incapaci di leggerne gli elementi di pregio e di vitalità, hanno considerato povertà e freno allo sviluppo la persistenza di modi e forme di vita arcaici. Gli stessi architetti, generalmente portati a valutare i valori delle costruzioni tradizionali, reputa­ vano frutto della recente storia coloniale le vestigia monumentali più appari­ scenti. L'equivoco è stato generato dalla tendenza dell'architettura coloniale a distruggere e riprodurre in forme simili, reinterpretate secondo un'ottica orien­ talista, le architetture delle oasi. Ai primi del Novecento, durante il periodo dell'occupazione francese, dopo che diverse fortezze arcaiche erano state demo­ lite a colpi di cannonate, anche Timimoun è stata abbellita di grandi portali di terra cruda realizzati in stile neosudanese. Gli stessi pozzi delle foggara che attraversano il villaggio, sono stati resi oggetti monumentali, coperti di volte dalle forme delle cupole dei mausolei sacri dedicati agli uomini pii venerati, i cosiddetti marabutti. Di conseguenza, come recita il Guide bleu dell'Algeria, i puristi della datazione e dell'autenticità hanno ridotto a frutto del genio euro­ peo ogni realizzazione delle oasi. Non è possibile dire se fosse proprio questo lo scopo degli interventi francesi. La pratica di abbattere le strutture autentiche per riproporle come realizzazioni dei nuovi dominatori è propria a tutti i colo­ nialismi. Così, anche se i tipi edilizi, gli artefici materiali, gli artigiani e gli ar­ tisti sono ancora quelli della tradizione locale, la filologia architettonica può stabilire l'indiscussa natura occidentale di tutto quello che è degno di apprezza­ mento e valore. Fortunatamente basta uscire dagli ambiti più frequentati dai turisti della storia dell'arte e delle culture e addentrarsi lungo piste poco battute per ritrovare ancora intatti i tipi originali, di cui le architetture coloniali hanno

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operato il rifacimento e l'imitazione realizzando un'opera di vera e propria espropriazione culturale. Oggi, nonostante il drammatico avanzare del modernismo, le numerose comunità del Tuat danno prova di ricchezza spirituale e tenacità materiale. Rispetto alla portata delle distruzioni materiali e culturali arrecate non devono stupire le ineluttabili trasformazioni in corso, quello che veramente sorprende è invece proprio la persistenza delle oasi. Queste, nonostante tutto, si sono ancora perpetuate, grazie all'attaccamento ai modi di vita ancestrali, preservati con fieri episodi di orgoglio culturale o più semplici astuzie quotidiane dell'esistere. Tra­ mite le ramificazioni della famiglia allargata viene operato dalla comunità un uso diversificato delle occasioni offerte dalla modernità per approfittare dei suoi vantaggi senza soccombervi. Un ramo della famiglia accetta l'abitazione in cemento armato nei nuovi complessi perché costituisce uno status irrinunciabile, mentre altri continuano ad abitare la casa in terra cruda dello ksar, che in tal modo non deperisce completamente. Qualcuno acconsente al lavoro salariato nell'edilizia, che garantisce un reddito costante, e altri perpetuano il lavoro dei campi o l'allevamento, gestendo collettivamente i redditi rispettivi. Così, spesso, la tenda e i cammelli coesistono con le Toyota e le lamiere ondulate e le comu­ nità delle oasi attraversano la modernità operando una resistenza, anche se inconsapevole e ingenua, al cambiamento.

Il restauro dell'oasi

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di Ighzer

Le condizioni di vitalità e persistenza del sistema di oasi della Sebkha di Timimoun, unite alle caratteristiche di grande pregio archeologico e qualità ambientale dell'area, sono la premessa alla possibilità di attuazione di un pro­ getto di conservazione e restauro. Già nella dizione «restaurare un'oasi» è insita la carica innovativa del progetto. Si restaura un'oasi perché essa è pari a un cen­ tro storico. È il risultato dell'ingegno delle genti del deserto, negarlo significa negare la loro cultura. Il progetto, quindi, attraverso l'intervento in una zona in abbandono, intende valorizzare la storia delle genti del Sahara che nella coope­ razione simbiotica di nomadi e sedentari hanno edificato nel tempo il loro spa­ zio. Il ripristino dell'organizzazione oasiana permette di aumentare la compren­ sione della sua genesi e delle sue leggi di funzionamento per un'applicazione in situazioni analoghe e per una maggiore acquisizione delle dinamiche di esistenza degli ecosistemi in equilibrio, problematica dalle ricadute sempre più attuali su scala addirittura planetaria.

Per controbattere nell'intera Sebkha di Timimoun la spinta al modernismo e alle trasformazioni, il progetto intende realizzare un intervento esemplificativo che renda evidente come sia vantaggioso e di prestigio l'utilizzo delle strutture tradizionali. È necessario per questo dimostrare le potenzialità dell'abitare in terra cruda adeguandole con servizi oggi indispensabili e restaurandole senza comprometterne la qualità storica e sostituire i materiali in armonia con il clima e il paesaggio. Attraverso le conoscenze locali e la sperimentazione di procedure innovative adattate si ricostituirà l'ecosistema oasiano in disfacimento: dove il deserto ha ripreso il sopravvento l'acqua tornerà a sgorgare, le dune a essere controllate, la vegetazione innescherà il microclima, le sabbie si trasformeranno in humus. Le operazioni di restauro consolidano un patrimonio di conoscenze traman­ dato oralmente che rischia di sparire per sempre e creano, tramite questa espe­ rienza pilota, scuole di formazione per operatori che avranno possibilità di impiego nella stessa Sebkha di Timimoun e in tutto il Sahara. Si intende inne­ scare un processo di valorizzazione su scala più larga attraverso l'emulazione dell'esperienza da parte di altre oasi. Con la diffusione di manuali e tipologie di intervento da tutti facilmente utilizzabili si generalizzano il restauro e la manu­ tenzione adattata e si propongono modelli di nuove costruzioni compatibili con il clima e le qualità storiche e ambientali. È stata scelta per l'intervento l'oasi di lghzer che presenta tutte le caratteristiche specifiche dell'insediamento oasiano. È situata sui bordi della Sebkha di Timimoun con l'arcaica cittadella in pietra in posizione elevata e l'abitato in terra cruda che digrada verso il palmeto. Questo è irrigato da quattro foggara ancora in esercizio delle sette una volta funzionanti. A causa dell'interrotta ero­ gazione delle acque una parte del palmeto è completamente sterile. Si verifica un veloce accumularsi delle sabbie anche perché la manutenzione delle dune artifi­ ciali, i cosiddetti afreg, è cessata. La popolazione dell'oasi è composta da trecento persone con un alto grado di coesione sociale, dovuto anche all'esistenza di legami familiari tra tutti i membri. La cittadella, antico granaio fortificato col­ lettivo, è disabitata e in stato di degrado, mentre il villaggio di terra cruda manca dell'acqua corrente e di dispositivi igienici. Obiettivo del progetto, che intende operare solo tramite la collettività locale, è quello di assegnare i mezzi economici iniziali perché si realizzi un processo di autosostentamento. Il metodo prescelto, concordato insieme alla collettività, è quello di finanziare il restauro della cittadella e delle foggara salariando i com­ ponenti dell'oasi interessati. Gli abitanti sono quindi stipendiati per lavorare alla loro oasi. Ogni azione con i relativi risultati è oggetto di scuole di forma­ zione tra gli abitanti per consolidare e trasmettere le conoscenze esistenti e

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acquisite. Un altro fondo finanziario è destinato al restauro delle abitazioni indi­ viduali. Questo intervento è attuato dai proprietari che utilizzano il fondo solo come forma di prestito. Grazie all'erogazione del salario sono messi in grado di restituire il prestito e ricostituire il fondo collettivo per ulteriori operazioni. Le abitazioni sono dotate dei servizi igienici necessari senza intaccarne la natura tradizionale e divengono un esempio di strutture abitative in terra cruda anche per nuove costruzioni. Il ripristino delle dune afreg, del palmeto e delle foggara consolida le conoscenze dei maestri dell'acqua locali e permette di sperimentare metodi di scavo e manutenzione non manuali grazie alla progettazione di piccoli utensili meccanici che possono avere grande impiego in situazioni analoghe. Nelle previsioni la cittadella restaurata è il centro comunitario e di prestigio di tutta l'oasi. In essa viene raccolta la documentazione dell'intervento e creato un museo. Tutta Ighzer con il palmeto, le foggara, le dune, la cittadella diviene il parco museo di se stessa, un ecosistema sperimentale dove le paleotecnologie divengono un esempio per il futuro. In realtà a tutt'oggi i pur minimi fondi promessi dalla cooperazione italiana, che si era impegnata al finanziamento del progetto, non sono mai arrivati. Tuttavia gli abitanti di Ighzer, a fronte delle ripetute missioni e della pubblicità data al programma, hanno cominciato ad attuarlo da soli. Le foggara sono state ripulite e hanno ripreso a produrre l'acqua. Le giornate di riposo sono state col­ lettivamente dedicate alla manutenzione delle dune afreg, che hanno ripreso ad accumulare sabbia proteggendo il palmeto. Questo, vivificato dall'acqua, ha pro­ dotto ortaggi e cereali in più grande quantità. Naturalmente il parco museo e il lancio economico e produttivo dell'oasi non si sono potuti realizzare. Tuttavia gli abitanti hanno acquistato un nuovo orgoglio per essere stati prescelti come oasi investita di un progetto assunto a modello internazionale e si sono fatti pro­ pugnatori rispetto all'intera Sebkha di Timimoun di una politica di salvaguardia. La consapevolezza recuperata e il rilancio di un'attitudine comunitaria alla gestione dei dispositivi che assicurano il funzionamento dell'oasi sono l'obiet­ tivo più importante del progetto stesso, realizzato senza alcun aiuto economico. In assenza di tale aiuto anche il restauro della cittadella non è stato effettuato. Ma che importa? Ha il tempo del deserto, potrà aspettare la nuova ondata di attenzione dell'Occidente. I suoi spalti pietrificati hanno visto scorrere tanta della sabbia filtrata nell'enorme clessidra dell'erg e molta ne passerà ancora.



. Il giardino diviene città: San' a Hanno echeggiato i tuoni, hanno echeggiato sui monti. Irrigheremo la terra, invochiamo la pioggia desiderata, irrigheremo la terra. (Canto della pioggia di San'a)

Il giardino del mondo Lo Yemen è il margine estremo del mondo degli antichi, l'ultimo dei paesi abitati al di là del grande deserto arabico. Occupa il bordo inferiore della peni­ sola araba, quella parte di questo immenso scudo continentale che si protende a sud, quasi a toccare l'Africa e si bagna nei caldi mari tropicali. Per latitudine e clima non sarebbe sfuggito al destino di tutto il resto dell'Arabia: un deserto immenso e terribile situato proprio nel punto di contatto dei tre continenti anti­ chi, l'Europa, l'Africa e l'Asia, ed esteso con i suoi ammassi di sabbie fino alle coste dei mari che lo circondano, l'Oceano Indiano e il Mar Rosso. Tuttavia le forze titaniche che agiscono all'interno del nostro pianeta modellandolo lenta­ mente, ma inesorabilmente, hanno stabilito altrimenti, realizzando le condizioni strutturali primarie su cui hanno operato la tenacia e lo spirito delle genti. Al di sotto del Mar Rosso passa una faglia, una di quelle lunghe fratture della crosta terrestre dove emerge il magma del nocciolo e si crea nuova terra che allontana e spinge alla deriva le zolle continentali. Così le due sponde del Mar Rosso si separano di un centimetro l'anno e l'enorme pressione esercitata sposta verso l'alto la fascia costiera. Lo Yemen deve la sua natura a questo innalzamento della superficie della terra che continua da lontanissime ere geologiche. Quando ancora l'uomo non era apparso sul pianeta, catene di montagne si elevarono fin oltre i 3 000 metri di altezza, frastagliate da immensi coni vulcanici le cui ceneri e colate eruttive si sedimentarono in estesi altipiani. Si formò la grande dorsale montuosa che struttura l'Arabia meridionale, fatta di valli, picchi e pianure dove l'altitudine crea le condizioni climatiche primarie per sfuggire all'aridità.

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Dalla superficie dei mari caldi la forte evaporazione crea correnti cariche di umidità. I venti, incontrando l'ostacolo delle montagne, salgono di quota e il vapore acqueo, per la diminuita pressione, si espande, si raffredda e si condensa causando le piogge sugli altipiani. La catena montuosa, ripida dalla parte della costa, forma un grande semicerchio aperto a nord e nord-est verso l'interno, l'immensa depressione del continente arabico. Questa area riceve solo venti caldi e secchi poiché tutta l'umidità è stata rilasciata sui monti e rimane arida e bruciata dal calore formando il grande deserto del Rub al-Khali. Qui le uniche acque disponibili sono quelle delle precipitazioni sugli altipiani, che si riversano verso l'interno in alluvioni torrenziali, erodono i pendii e trascinano a valle i detriti determinando il collasso idrografico tipico delle zone aride con l'accu­ mulo dei sedimenti e la sparizione della rete fluviale superficiale. Per queste particolari condizioni geografiche a distanza di poche decine di chilometri in linea d'aria si determinano nello Yemen situazioni climatiche com­ pletamente diverse, a cui corrispondono modi di vita, tradizioni e culture diffe­ renti. Così nessun paese al mondo racchiude in spazi così prossimi tanta varietà di paesaggi e ricchezza di passato e di cultura: la natura variegata e grandiosa sembra unire nella stessa regione i grandi canyon del deserto americano, le alte montagne tibetane e le lunghe coste australiane; la stratificazione archeologica è ricca come in Egitto e in Anatolia, ma ancora quasi completamente ignota e inesplorata; la quantità e qualità architettonica degli insediamenti antichi abi­ tati sono comparabili alla densità di centri storici della Toscana e dell'Umbria. È possibile differenziare quattro grandi ripartizioni che corrispondono ad altret­ tanti sistemi ecologici e territoriali: la banda costiera calda e assolata; le alte terre costituite da montagne e altipiani temperati; il deserto interno; la rete idrica della valle dell'Hadramaut. La fascia costiera, limitata da pendii scoscesi che decrescono bruscamente fino al mare, ha larghe spiagge corallifere, un clima caldo durante tutto l'inverno e temperature torride e umide in estate. La costa occidentale, lungo il Mar Rosso, è chiamata Tihama, che in arabo conserva ancora l'antico significato semitico di terra calda e malsana. La radice thm dà nella lingua accadica il nome Tiamat, mostro marino rappresentante l'oceano primordiale nella leggenda babi­ lonese della creazione; nella Bibbia il tehom è l'acqua primitiva, l'abisso marino dal quale sorgono le terre (Fahad 1968). L'immagine si adatta perfettamente al Mar Rosso, fossa tettonica dalle particolari caratteristiche geologiche. Qui gli assolati e umidi porti di Hodeida e Luhaiya sono «alcuni degli inferni di cui par­ lano i marinai», come direbbe Paul Nizan (Nizan 193 1). Nella Tihama crescono le mangrovie e si coltiva la papaia, il mango e la banana. Si respira l'odore della vicina Africa. Nei pressi delle moschee e dei fortini di epoca medievale islamica

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La ripartizione geografica dell'Arabia meridionale nelle fasce costiera, del bassopiano e dell'altopiano determina ecosistemi specializzati. A ovest il pendio si presenta scosceso sulla riva del Mar Rosso. A est l'andamento altimetrico digrada dolcemente verso il deserto e la valle dell'Hadramaut.

si preferisce abitare le capanne coniche dai muri di fango e i tetti di paglia tipi­ che dell'Etiopia. A Zabid, antica capitale e sede nel IX secolo di quella univer­ sità dove fu inventata l'algebra, le abitazioni hanno facciate sobrie e uniformi secondo i principi religiosi che impongono austerità e parsimonia. Tuttavia nelle corti protette si scopre un'esplosione di vitalità e di gioia espressa dalla fitta trama di decorazioni che copre tutte le pareti con disegni geometrici e ghirigori elaborati secondo complessi principi combinatori. La costa oceanica è invece pervasa dagli influssi dell'India e dell'Indonesia. Gli agili sambuchi, guidati da marinai che sembrano uscire da racconti di pirati, approdano in spiagge di corallo e madrepora. Tra le palme da cocco sorgono città costruite in aggraziati stili orientali con la stessa materia dei banchi marini. Mukalla ha porte e balconi di legno delicatamente scolpito e palazzi progettati per i sultani yemeniti da mae­ stranze indiane.

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La zona delle montagne e degli altipiani ha temperature miti durante tutto l'anno con estati fresche e temperate. Sui dirupi e le valli le piantagioni di caffè, di cui lo Yemen deteneva il monopolio mondiale fino al XVIII secolo, sono ora sostituite da quelle del qat, la droga leggera di cui si fa un larghissimo uso sociale nel paese. Sulle superfici piane si coltiva il sorgo, il grano, i legumi e gli ortaggi, che forniscono la base alimentare a quest'area che è la più fittamente popolata dello Yemen. Amran, San'a, Ibb, Jibla, Ta'izz sono le grandi capitali storiche lungo l'itinerario nord-sud fino al porto di Aden. A queste città si aggiunge una quantità innumerevole di centri minori dalla sorprendente qualità urbanistica, impreziosita da antiche moschee e ricchi palazzi. Non esistono casupole o abi­ tazioni povere, ma anche il più piccolo villaggio è formato da alte architetture di pietra perfettamente tagliata e assemblata. Sono case torri ardite come gratta­ cieli e ospitano ognuna una sola famiglia allargata che, da generazioni, vuole con­ tinuare a vivere unita nella stessa grande dimora. Le scarpate che digradano dai due lati delle alte terre, costituiscono una fascia climatica intermedia chiamata bassopiano. Ma, mentre il lato occidentale che scende con ripidi pendii verso i bordi della penisola in direzione del mare beneficia di un clima umido, quello orientale rivolto all'interno, digradante dolcemente nel deserto, ha condizioni di estrema aridità. La parte interna del paese, oltre le montagne costiere, è un deserto caldo e secco, il Rub al-Khali che significa la parte vuota. È il regno dei grandi nomadi che ancora oggi vivono in tende e allevano capre e cammelli, anche se spesso la Toyota ha sostituito le antiche carovane. Le rovine di città archeologiche ospi­ tano gruppi bedu che vi hanno installato i loro accampamenti. Innumerevoli città antiche sono ancora sepolte dalle sabbie, come la mitica Hiram che si racconta fosse edificata su mille colonne. La pista che da Petra e la Mecca attra­ versa tutta l'Arabia arriva a Marib, la leggendaria città della regina di Saba, dove si biforca in due direzioni. Una prosegue sugli altipiani diretta a sud fino ad Aden. L'altra volge a oriente verso Shabwa, l'imprendibile capitale del deserto nota anche agli antichi Romani, ma a tutti preclusa, e poi conduce nel­ l'Hadramaut, la valle dell'incenso. La carovaniera passa per il deserto del Ram­ lat as-Sabatayn dalle dune altissime e dalle immense estensioni di sabbie. Nel passato chi non riusciva ad attraversarlo in sette giorni vi trovava morte certa per mancanza di acqua. Oggi con i veicoli fuori strada è possibile in due giorni con una sosta alle rovine di Shabwa raggiungere la valle dell'Hadramaut. Questa per la sua singolarità, dalla netta demarcazione sia geografica che sto­ rico-sociale, può essere considerata una regione territoriale distinta. Qui il deserto sfocia in una ramificata rete di wadi ricca di insediamenti, palmeti e cisterne d'acqua. È il paese dell'incenso e della mirra, percorso da tempo imme-

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4 1 . Le carovaniere dell'Arabia. La via dell'incenso non era un'unica pista, ma un reticolo di percorsi commerciali variamente utilizzati a seconda dei momenti storici e delle necessità.

morabile dalle carovane fino alle bianche spiagge dell'Oceano Indiano. Nei porti di as-Shirir e Qana, nei pressi, rispettivamente, delle attuali Mukalla e Bir Ali, dove le feluche e i sambuchi scaricavano le merci del lontano Oriente, si con­ cludeva il terribile viaggio attraverso i deserti dell'Arabia. Ognuna delle diverse parti dello Y emen è un ecosistema dalle caratteristiche specifiche, che ha prodotto distinte aggregazioni storiche e politiche capaci nel tempo di un lavoro di trasformazione e utilizzo dell'ambiente con metodi diffe-

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renziati, ma sempre adattati alle varietà del clima e della geografia. Sulle montagne e gli altipiani una trama di terrazzamenti cesella con i campi coltivati i pendii scoscesi e scolpisce le vette più elevate con ardite gradinate che si arram­ picano a spirale come le rampe della torre di Babele. Nel deserto interno innumerevoli opere idrauliche, argini, sbarramenti resero fertili le sterili sabbie. Lungo la costa assetata, impluvi artificiali, cisterne e dispositivi di raccolta d'acqua permettevano l'alimentazione delle città e garantivano il rifornimento per il traffico nautico. L'intero paesaggio è frutto di un investimento di ingegno ed energie prolungato nel tempo, che ha dato vita a civiltà prodigiosamente con­ servatesi fino ai nostri giorni grazie all'attaccamento alla tradizione e alla prote­ zione offerta dall'isolamento geografico. In questa terra erosa dal tempo, bruciata dal sole, modellata dai venti sono nate antiche civiltà. Si dice in genere che lo Yemen ci fa sentire come tuffati in pieno Medioevo. Ma le architetture, le genti, i paesaggi perpetuano un passato ancora più arcaico. Gli enormi archivi yemeniti sono ancora in gran parte non studiati, ma intatti, perché il paese non ha mai nella sua storia subito i drammi del dominio straniero e della colonizzazione. Tutti i più importanti autori arabi medievali li hanno consultati. Tra questi il grande storico at-Tabari, nato in Per­ sia e vissuto dall'83 8 al 92 3, di cui si dice abbia scritto per quarant'anni qua­ ranta pagine al giorno, e al-Isfahani (897-967), il cui Kitab al-aghani (Libro dei canti) impressionò talmente il visir che, solito viaggiare con trenta cammelli cari­ chi di libri, li scaricò tutti per conservare solo quello. Questi autori affermano che lo Yemen fu la sede delle più antiche genti della terra e riportano storie risa­ lenti agli albori dell'umanità e versioni locali di tutti i più importanti avveni­ menti mitici dalla discendenza di Noè alla collocazione delle colonne d'Ercole. La cronologia dei re sudarabici rimonta ininterrotta fino al xv secolo a. C. e com­ prende avvenimenti quali la dominazione di Babilonia, la civilizzazione della Persia e spedizioni fino in Cina. Nessuna documentazione archeologica permette di verificare queste indica­ zioni, è certo però che i luoghi e le tradizioni sudarabiche richiamano continua­ mente le vicende che hanno fatto da cornice alle lontane epopee dell'umanità, le usanze dei tempi dei primi patriarchi, i racconti del testo biblico. Kamal Salibi, in un libro dalle tesi rivoluzionarie, colloca non in Palestina, ma in Arabia cen­ tro-meridionale, nella regione dell'Asir, la parte settentrionale dello Yemen antico che si prolunga fino quasi alla Mecca, il teatro delle vicende del popolo ebraico (Salibi 1986). Tramite una minuziosa ricerca a carattere geografico ed etimologico egli ritrova in quest'area i nomi delle tribù di Israele e identifica tutti i toponimi biblici. Localizza anche il paradiso terrestre, il mitico giardino (gn) piantato dal Signore in Eden (dn), dove crescevano i sacri alberi, quello della

vita (hyym) e quello della conoscenza (d'h) del bene e del male, irrigato da un fiume che si ripartiva in quattro parti e difeso, dopo la cacciata di Adamo ed Eva, dai cherubini (krbym) . Esistono nella regione da lui individuata l'oasi di Junayana, diminutivo di gn, giardino in ebraico, quella di Adana ( 'dn) e i villaggi di al-Hayat e di al-Da'yah, che portano nei loro nomi in arabo il significato di vita e di conoscenza. In questa dettagliata ricostruzione anche gli angeli cheru­ bini, il cui nome in ebraico significa preti, trovano un riferimento onomastico: sarebbero gli abitanti dell'oasi di Qarban, fieri custodi dei loro giardini. Le coincidenze risultano suggestive, ma i toponimi in oggetto ricorrono in moltissime altre località sia dell'Arabia che dell'Africa, lungo la sponda del Mar Rosso. Tuttavia, se non è possibile dare una sicura localizzazione geografica dei luoghi mitici, l'orizzonte di riferimento è certamente quello degli antichi popoli che coltivavano in oasi protette e irrigate alberi sacri. Il paradiso terrestre era un giardino murato, un giardino costruito, da qualche parte oltre il mare di sabbia, nel deserto, in Eden. Un'altra località dove ricorre il toponimo biblico è Aden, Eden in arabo, il porto yemenita sull'Oceano Indiano, terminale meridionale della carovaniera che attraverso la Mecca e Petra lo congiungeva a Gaza e al Me­ diterraneo. Lungo questa via si trasportavano le essenze aromatiche, l'incenso e la mirra, preziose più dell'oro, destinate alle offerte rituali sugli altari degli dei. Merci ricercate da tutti i popoli dell'antichità perché associate all'idea della risurrezione e della vita eterna. Le piante da cui si estraevano erano rare e segrete, coltivate da preti giardinieri su alte montagne nel deserto in campi irri­ gati e gelosamente custoditi. Nessuna informazione sulle tecniche usate trape­ lava dai sacri giardini che emanavano il profumo divino degli alberi del paradiso. La diffusione del toponimo indica che la tradizione dell'Eden ha origine in pratiche di produzione largamente estese, ma scrupolosamente vigilate, i cui caratteri assumevano un significato religioso per le genti arabe, pronte anche a morire per difenderne i segreti. Nel Corano, infatti, non si parla di un solo giardino dell'Eden, ma la citazione è sempre plurale come se questi fossero in gran numero, e molteplici erano anche i sistemi d'acqua per irrigarli. L'importanza religiosa è attestata dalla sura XVII che nei versetti 89-9 r riporta come a Muhammad venne chiesto, per affermare la sua autorità profetica, di dimostrare il possesso di «un giardino di palme e vigne con le acque che scorrono». Gli storici musulmani riportano che nel VII secolo diecimila monoteisti arabi combatterono al grido di «Il giardinol Il giardino ! » contro le truppe del primo califfo Abu Bakr. Questi santi coltivatori, guardiani dei segreti delle piante, ultimi cherubini, furono sterminati mentre conducevano l'estrema difesa fino dentro le mura del loro sacro recinto. Ancora oggi i campi dello Yemen, strappati all'aridità e al deserto, sono guardati da torri e muniti di mura, come a tutela di qualcosa di

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42-43. Yemen settentrionale. Nei dintorni di Sa'da giardini murati e protetti ricordano le preziose col­ tivazioni aromatiche dell'antichità. Al valico di Shahara, lungo l ' arcaico itinerario della via del­ l' incenso, l'ardito ponte attuale è di epoca ottomana (sec . xvn ) .

troppo prezioso per permetterne a tutti l'accesso. L'antica Aden è costruita su una penisola vulcanica in un paesaggio grandioso, ma assolato e sterile, senza la minima traccia di acqua dolce. Ibn Battuta, il grande viaggiatore arabo che la visita nel 1350, dice che la città non ha sorgenti, ma solo grandi vasche sempre piene. Aden fece la sua fortuna vendendo prodotti agricoli e acqua alle imbar­ cazioni che non avevano alcuna possibilità di approvvigionamento lungo le aride coste del Mar Rosso. Esistono ancora le cosiddette cisterne della regina di Saba, un sistema di grandi bacini e canalizzazioni che alimentavano il porto. Ma questi impressionanti serbatoi circolari, scavati nel terreno in modo digradante lungo il vallone che dalla montagna scende fino al mare, sono oggi completa­ mente privi d'acqua. Da dove proveniva il prezioso liquido ? Qual era il segreto del giardino del mondo ?

La spedizione ai limiti della terra Tutti i popoli antichi avevano cercato di risolvere il mistero che circondava la produzione delle preziose essenze aromatiche, l'incenso e la mirra offerti dagli Egizi, dai Caldei e in tutto il mondo classico sugli altari degli dei. Le flotte dei faraoni scesero lungo il Mar Rosso spinte dalla necessità di attingere alle risorse biologiche e naturali delle terre meridionali. Le navi della spedizione del faraone donna Hashepsut sono raffigurate negli affreschi di Deir el-Bahri ( 1500 a. C. circa) intente al trasporto di vasi e giardini mobili recanti preziose piante aro­ matiche. Ma l'esperimento di trapianto e di coltivazione nei giardini dei templi nella valle del Nilo non deve avere dato buoni risultati. Infatti tutta l'antichità ha continuato a dipendere per il suo approvvigionamento dalla produzione pro­ veniente dalle terre sconosciute dello Yemen controllate dal popolo dei Sabei. Le sostanze aromatiche, utilizzate nell'imbalsamazione, bruciate nei riti magici e funerari, considerate di provenienza ultraterrena, indispensabili al contatto con il divino, ricercate come un passaporto per la vita immortale, erano le resine estratte da alberi monopolizzati da questo popolo. Plinio il Vecchio nel libro dodicesimo della Storia naturale descrive le ricchezze dell'Arabia e le ragioni per cui era chiamata felice e fortuna. Gli abitanti, si diceva, avevano oro e argento in grandissima quantità e conducevano una vita prospera negli agi e negli ozi. Tutto questo, lamenta l'enciclopedista latino, era pagato dai Romani, che spen­ devano annualmente l'enorme cifra di r oo milioni di sesterzi in essenze e pro­ fumi. « È il lusso delle donne e la vanità degli uomini a fare la fortuna dell'Ara­ bia» scrive Plinio (xn 4 2), riportando gli eccessi di Nerone, che per il funerale di Poppea fece bruciare tanto incenso quanto se ne produceva in un anno intero.

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Nessuno era mai riuscito a carpire il segreto degli aromi, poiché tutte le spedi­ zioni in Arabia si erano imbattute in sabbie aride e terribili deserti che avevano umiliato ogni pretesa di conquista. Lo stesso nipote e figlio adottivo di Augusto, Gaio Cesare, «appassionato per la fama dell'Arabia», vi era morto nel 4 d. C. in una sfortunata missione (Plinio, XII 3 I). Eppure le antiche cronache riferivano di boschi profumati il cui odore giunse fino alle navi di Alessandro il Grande al largo delle coste arabe (Erodoto, III I I3 ; Diodoro Siculo, III 46, 4-5; Plinio, xn 86). I resoconti di navigatori fenici tra­ mandavano di un popolo che riusciva ad abitare il deserto coltivando in vallate nascoste e montagne inaccessibili gli alberi sacri dalle preziose resine. Era la regione degli aromi, abitata, dice Strabone (Geografia, XVI 4, I9), dai Sabei, «il più grande popolo della terra, presso il quale si trovano la mirra, l'incenso e il cinnamomo divisi in quattro regioni corrispondenti ad altrettanti regni, il sabeo, il mineo, il qatabanita e l'hadramita». Ognuno governato dalle rispettive grandi capitali Marib, Ma' in, Timna e Shabwa. A questa suddivisione, attinta da Eratostene, Strabone ne aggiunge un'altra basata su una differenziazione in cinque stati o reami specializzati ciascuno in un'attività: i guerrieri che combat­ tono per tutti gli altri, i lavoratori della terra che producono i cereali, gli arti­ giani, i coltivatori di incenso e quelli di mirra che forniscono anche la cassia, il cinnamomo e il nardo. Questa ripartizione fa pensare alla trasposizione territo­ riale di un sistema di caste ereditarie o a un'organizzazione sociale che riflette le caratteristiche fortemente marcate degli ecosistemi specializzati. Essa non esclude una unità complessiva poiché ogni gruppo fornisce prestazioni agli altri e gli autori antichi concordano nella omogeneità dell'impero di Saba, il cui nome, dice Plinio il Vecchio (XII 52), secondo i Greci significa mistero. L'imperatore Augusto decise di penetrarne il segreto e ordinò una spedizione di conquista oltre il deserto, fino ai limiti estremi della terra. Fu mosso, forse, dal puro desiderio di conoscenza, nel quadro dell'ambizioso programma di com­ prendere e misurare il mondo intero affidato al suo stesso genero Vipsanio Agrippa, che voleva installare sotto la cupola del Pantheon a Roma una rappre­ sentazione della terra conosciuta. O piuttosto fu spinto da concrete ragioni eco­ nomiche, bloccare l'esborso di denaro latino che continuava a impinguare le casse sabee. Della missione ci è pervenuto il resoconto dettagliato del geografo Strabone, che fu consigliere in campagne successive del governatore romano d'Egitto Elio Gallo a cui fu affidata l'operazione. Il corpo di spedizione, forte di I o ooo uomini, fu concentrato ad Arsinoe, vicino a Suez, da dove raggiunse su I30 navi l'altra sponda del Mar Rosso sbar­ cando forse a Leuke Kome. I Romani, dopo avere svernato in questa città, partirano nella primavera del z4 a. C. lungo la via dell'incenso, che con un percorso

lungo 2000 chilometri, attraverso l'Hegiaz e l'Asir, arriva a Marib, capitale dei Sa bei. Elio Gallo aveva come guida l'arabo Silleo, un nabateo di Petra, la città che alla confluenza della via dell'incenso e della via della seta controllava gli accessi a Gaza e al Mediterraneo delle due importanti carovaniere. Il governa­ tore romano impegnò i Sabei in un'unica battaglia campale dove uccise I o ooo nemici riuscendo, con la sola perdita di tre uomini, a conquistare la città di Atzula, identificata con Yathil, l'attuale sito archeologico di Baraqish. Dopo questa prima vittoria, tuttavia, la missione si trasformò in un disastro completo. L'esercito invasore vagò per terre desolate e senz'acqua, decimato dalla sete e dagli stenti. I campi erano abbandonati, gli argini e i canali asciutti e dal cielo non veniva una sola goccia di pioggia. Quando finalmente si riusciva a porre l'assedio a una città, questa resisteva indefinitamente mentre i Romani non ave­ vano acqua da bere. Così Elio Gallo non riuscì a raggiungere Marib e ripiegò sulla costa dove, costruita una flotta, rientrò via mare in Egitto con quel che restava dell'armata. Il condottiero ritornò in patria con l'impressione di non avere raggiunto il mitico paese dai giardini di aromi, ma di essere. stato ingannato e volutamente sviato. La responsabilità fu ascritta al tradimento della guida, il nabateo Silleo, che avrebbe condotto i Romani su strade riarse e disabitate poiché la sua città Petra non desiderava l'inserimento di Roma nel commercio degli aromi. Per que­ sto Silleo fu condotto a Roma e giustiziato. Tuttavia dalle cronache dello storico Flavio Giuseppe, nato nel 3 7 d. C. da una famiglia sacerdotale ebrea, sappiamo che Silleo non era una semplice guida. Fu viceré di Oboda III (28-9 a. C. ) re di Petra ed entrò in forte contrasto con il nipote di questo e futuro successore Areta IV (9 a. C. - 40 d. C.) di cui aveva fatto assassinare alcuni amici tra i per­ sonaggi più potenti della città nabatea. Silleo era ricco e intrigante e uso ai veleni con i quali aveva provocato la morte di Perora, il fratello di Erode il Grande, che aveva scoperto il suo idillio con la sorella Salomè. Per volere di Silleo, una donna araba esperta di misture, avuto il compito di preparare un afrodisiaco per Perora, gli somministrò invece una pozione mortifera. Con la corruzione e i maneggi politici, Silleo cercò di succedere a Oboda che non aveva discendenti. Non essendo riuscito a sposare Salomè, la bella sorella di Erode il Grande, cercò di sostituirsi a questo nei favori di Augusto. Non era, quindi, una persona tale da anteporre motivi patriottici al tornaconto personale e aveva, piuttosto, tutto l'interesse a favorire Elio Gallo e portare a buon termine la missione. È possi­ bile, dunque, che Silleo, contrariamente a quanto riportato da Strabone e una­ nimemente creduto, avesse condotto l'esercito sulla buona strada. La parados­ sale situazione in cui si trovarono i Romani, di essere privi in quanto assedianti delle risorse idriche che invece non mancavano agli assediati, non fu dovuta al

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4 4 · Shahara, insediamento fortificato a z 6oo metri di altitudine, è fornita di 2 3 cis terne per la raccolta delle piogge, intagliate ad anfiteatro nella roccia.

suo tradimento. Le cause della sconfitta degli invasori vanno ricercate nella par­ ticolare geografia dell'Arabia meridionale e nel modo sapiente con cui era stato nel tempo strutturato e urbanizzato il territorio.

Gli architetti delle sorgenti atmosferiche L'organizzazione dello spazio yemenita, funzionale alla produzione e al com­ mercio delle resine aromatiche, è antichissima. Il profeta Ezechiele nel vn secolo a. C. enumera le città più importanti del mondo che mandavano mercanzie alla fenicia Tiro sul Mediterraneo, fornendo un quadro preciso dell'antico sistema internazionale di scambi. Tra i centri sudarabici che commerciavano «gli aromi più squisiti, pietre preziose e oro», Ezechiele (27, 21-24) cita Canne, Eden e Saba. Canne corrisponde a Qana, l'antico porto sull'Oceano Indiano della valle dell'Hadramaut. Oggi i suoi celebri magazzini dell'incenso sono solo un cumulo di rovine. Ma è sufficiente camminare tra i resti abbandonati di mura dai conci di roccia lavica per imbattersi in belle teste di statue del periodo sabeo chiamato himyarita e smuovere le sabbie per ritrovare tra pareti di pietra nera, ricoperta da una patina lucida, come vetrificata, una strana sostanza dall'odore penetrante. È l'incenso che dopo oltre duemila anni non ha perso le sue proprietà. Il ricco emporio commerciale, a cui giungevano le carovane dal deserto e le flotte dei mari orientali, giace ai piedi di un promontorio vulcanico, chiamato Husn al-Ghurab, posto in posizione dominante l'ampia baia di Bir Ali e gli splendidi fondali marini. Immediatamente alle sue spalle, la sabbia della spiaggia compo­ sta di minuti detriti di corallo bianco si mischia con quella rossa delle grandi dune. Inizia il terribile deserto costiero, privo di vegetazione e suoli, formato da un caos di rocce erose e di sterili colate laviche, da cui emergono solo i neri coni dei crateri spenti. Husn al-Ghurab ha l'apparenza di una di queste impervie pietraie dai pendii rovinosi su cui è impossibile inerpicarsi, ma è in realtà parte inte­ grante dell'antica Qana. È stata definita la sua cittadella per la posizione elevata e alcuni resti di mura interpretati come fortificazioni. I lavori di cui è stata oggetto avevano, invece, una ben diversa utilità. Uno stretto sentiero seminascosto e difficilmente riconoscibile sulla parte nord-occidentale si trasforma, dopo le prime salite sinuose, in una rampa comoda e ben costruita. L'accesso è marcato da due torri che sembrano avere una fun­ zione più monumentale che difensiva. Sulla parete spicca una bella incisione in caratteri sudarabici. Si tratta di un alfabeto semitico, famiglia linguistica a cui appartengono le più antiche scritture come i caratteri cuneiformi mesopotamici del rv millennio e le lingue degli Assiro-Babilonesi e dei Fenici. In Arabia esi-

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stono diversi tipi arcaici di questi caratteri incisi da nomadi sulle rupi del deserto come il tamudeno, a sud, e il safaitico, a nord, derivazioni dirette dei graffiti preistorici. Il sabeo, nelle sue differenti varietà locali, himyarita, qatabanita o hadramita, è, come tutte le lingue semitiche, scritto con le sole consonanti, indif­ ferentemente da destra a sinistra o il contrario. Un'iscrizione bilingue sabea e greca è stata ritrovata nel santuario di Apollo nell'isola di Delo a riprova della grande diffusione di questo popolo di commercianti (Conti Rossini 1 9 3 r ) . Numerose incisioni sulla pietra erano apposte dal sacerdote sovrano per dedi­ care alla divinità l'opera realizzata. Spesso le linee di scrittura procedono alter­ nativamente l'una da destra verso sinistra e l'altra nel senso opposto nello stile chiamato bustrofedico. Il sabeo è considerato una lingua morta, anche se alcuni gruppi nell'isola di Socotra e nel sud dello Yemen lo parlano ancora; tuttavia molti suoi vocaboli si sono perpetuati nel ge'ez, ancora esistente in Etiopia, nell'arabo e nell'aramaico, cosa che facilita le traduzioni. L'iscrizione di Husn al-Ghurab, che si legge da destra verso sinistra, dire­ zione riconoscibile dal verso in cui sono orientati i caratteri, celebra i lavori di manutenzione fatti eseguire da sovrani di tarda epoca sabea nella città di qn sulla roccia m 'hyt. Aggiungendo le vocali si è identificata Qana e il nome arcaico della rupe di Husn al-Ghurab chiamata Mawaiyyat che, secondo le traduzioni cor­ renti, sarebbe stata rinforzata a scopi difensivi. Sulla collina si notano vestigia antiche, ma nessuna a carattere militare. La cima risulta spianata in conca cir­ colare di 50 metri di diametro digradante in leggera pendenza verso nord, dove I 2 3

- Cisterne Porto - Rampa d'accesso e scorrimento delle acque 4 - Vestigia archeologiche

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45· Planimetria dell'antica Qana. Le vestigia archeologiche lungo la costa sono sor­ montate da una rupe elevata, attrezzata di cisterne per la raccolta delle acque meteoriche.

inizia la rampa che scende al porto di Qana. Il bordo meridionale più elevato è occupato da un edificio più importante che domina l'area centrale. Intorno a questa, più in basso, spiccano una serie di vasche di varia forma e dimensione scavate nel terreno. La più grande, quadrata, è profonda oltre 3 metri. Un'altra, rettangolare, è lunga I 5 metri e larga 4 · Entrambe hanno i bordi arrotondati e l'imbocco preceduto da bacini più piccoli. Una terza ha la forma di ur�a mezzaluna e la quarta è separata in due scomparti. Si tratta evidentemente di un sistema idraulico per conservare l'acqua dopo averla decantata tramite i bacini successivi. La superficie di raccolta è costituita da tutta l'area centrale dominata dall'edificio più importante, dedicato probabilmente alle offerte propiziatorie e al culto. L'acqua è quella atmosferica, ma più che dalle rare e sporadiche piogge l'alimentazione è data dalla condensazione dei vapori marini carichi di umidità nella grande conca che funziona come una sorgente aerea. Gli architetti di Qana avevano dunque risolto un problema molto più importante di quello militare: permettere tramite la produzione idrica l'esistenza stessa della città e l'approv­ vigionamento delle navi. È possibile che il nome riportato nell'iscrizione sabea rappresenti proprio questa funzione. m 'hyt può essere vocalizzata come ma (acqua) e hayat (vita): la rocca dell'acqua di vita. La comprensione dell'organizzazione della rupe di Qana facilita l'interpreta­ zione di lavori idraulici simili effettuati a Aden. L'intera isola dove è posta la città è costituita dal cono di un enorme vulcano spento. L'antica Aden è costruita proprio nel punto di rottura del bordo del grande cratere che si apre con un avvallamento verso il mare. Il cono vulcanico era utilizzato come un immenso catino per raccogliere piogge e particelle di umidità che, dalle pendici sapientemente coibentate, venivano convogliate nell'avvallamento . Addossate ai lati delle pareti scoscese, erano state costruite vasche di raccolta capaci di intercettare ogni più piccolo flusso di scorrimento. Tunnel e canali alimentavano una serie di cinquanta grandi cisterne a cielo aperto con una capacità di I 400 ooo ettolitri d'acqua, versanti l'una dentro l'altra lungo tutta la discesa verso il mare. Con il tempo le opere di impermeabilizzazione sono andate distrutte, i tunnel si sono intasati e gli abitanti hanno visto inaridire le vasche, le cui acque, perduto il segreto dell'approvvigionamento, hanno attribuito ai prodigiosi poteri della regina di Saba. Qana e Aden erano città portuali, la loro collocazione sulla costa assolata è motivata dalla necessità di occupare la riva del mare, grande via commerciale. Ma anche le altre importanti città sudarabiche non erano poste nella zona tem­ perata degli altipiani. Tutte le grandi capitali storiche, Marib del regno di Saba, Ma' in dei Minei, Timna dei Qatabaniti e Shabwa degli Hadramiti, giacciono a valle degli altipiani settentrionali, verso l'interno, il più possibile avanzate den-

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4 6. Aden situata allo sbocco di un cratere. Una serie di immense cisterne conservava le acque raccolte nel cono vulcanico in vista della vendita del prezioso liquido alle navi sulla rotta delle Indie.

tra il deserto. Questo perché anch'esse, come gli empori marittimi, mantengono una posizione strategica per i commerci e si collocano ai margini del grande mare del deserto sulle vie delle carovane. Si tratta quindi, in entrambi i casi, di cen­ tri portuali e di sistemi oasiani impegnati in uno sforzo immenso per mantenere le condizioni di abitabilità e produrre le risorse idriche. Il motore economico che motivava e finanziava le opere necessarie era la ricchezza prodotta dal grande commercio degli aromi. Così nelle capitali del deserto un popolo di pastori nomadi e agricoltori oasiani realizzò una civiltà urbana monumentale. Le sporadiche e rovinose allu­ vioni, provenienti dai monti e destinate a perdersi tra le sabbie, furono trasfor­ mate in fecondo humus apportatore di vita. A Marib, mitica capitale della biblica regina di Saba, l'acqua controllata, raccolta e distribuita permise di pian­ tare le palme, coltivare la terra, dissetare gli uomini e arginare il deserto. Tremila anni fa, quando Atene e Roma non erano che poveri villaggi di capanne, dove ora è una landa sterile e desolata sorgeva una grande e possente città immersa nel

verde di giardini e frutteti. La leggenda tramanda che qui, tra i pilastri del tem­ pio della luna, la bella Bilqis, nome yemenita della regina amata da Salomone, compiva tra giochi d'acqua e osservazioni astrologiche i riti propiziatori alla fer­ tilità dei campi e alla prosperità dei commerci. L'impressione di quell'epoca meravigliosa è rimasta vivida nelle epopee dei popoli arabi e nelle trascrizioni letterarie. Il Corano dedica a Saba la sura XXXIV in cui cita «il paese delizioso» formato da due giardini, quello del nord e quello del sud. La tradizione riporta che Abramo, quando gli fu mostrato il regno dei cieli, chiese di conservare in esso solo due cose terrestri: l'area agricola della Ghuta di Damasco e i due giar­ dini di Saba a Marib. Lo storico medievale al-Mas'udi nel Murudj adh-dhahab (Praterie d'oro, III 3 67) scrive che l'oasi di Marib era talmente vasta che un viag­ giatore a cavallo impiegava un mese per attraversarla procedendo sempre all'ombra delle palme. Alle donne, riferiscono altri autori, era sufficiente cam­ minare nei due giardini con un paniere sulla testa per ritrovarlo riempito di frutti, poiché questi maturavano in tale abbondanza che non era necessario salire a prenderli sugli alberi o raccoglierli da terra. A sostegno di queste opinioni, che dimostrano come i giardini di Saba e la loro bellezza fossero diventate pro­ verbiali nella cultura araba e nel mondo intero, lo storico al-Hamdani riporta che l'area dei campi coltivati si estendeva nel deserto fino a Shabwa e alla valle dell'Hadramaut (Iklil, VIII 98). I resti titanici delle realizzazioni che rendevano possibile questo prodigio sono ancora evidenti e il ruolo idraulico delle vestigia non è stato messo in discussione. Ciclopiche muraglie di pietra poste sul lato destro e sinistro del wadi Adana, a monte del sito archeologico di Marib, sono state riconosciute come le testate della possente diga, considerata una delle meraviglie del mondo antico, che permetteva di imbrigliare le piene e utilizzarle sapientemente per l'agricol­ tura. Le numerose iscrizioni sabee incise sui grossi blocchi di pietra non lasciano alcun dubbio sull'identificazione della possente struttura chiamata ' Arim, la difesa. Tuttavia definire diga le installazioni idrauliche di Marib è riduttivo e fuorviante. La cosiddetta diga, la struttura più imponente, oggi ben visibile, sbarrava il corso del wadi Adana orientato in direzione est-ovest con un terra­ pieno lungo 62o metri, alto r6 e spesso alla base 6o. Ma aveva il compito non tanto di creare un bacino idrico a monte dell'opera muraria quanto piuttosto di innalzare l'acqua e ripartire le piene ai due lati del corso del wadi. Infatti alle due estremità vi sono le gigantesche chiuse e canalizzazioni che indirizzano l'acqua a nord e a sud della città. Ecco spiegato, quindi, il significato dei due giardini citati da tutti gli autori: la ripartizione dei flussi creava due oasi principali allar­ gando a ventaglio il deposito di terreno fertile oltre entrambe le rive. Misurando l'altezza degli accumuli di limo, che arriva anche a 30 metri, e considerando

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Antiche canalizzazioni dei giardini

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Dighe o sbarramenti

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0 Distributori principali 4 7. Il sistema di irrigazione di Marib, formato dalla grande diga e da una serie di chiuse e riparti tori di flusso, permetteva di creare ai due lati dell'alveo del wadi Dhana i celebri giardini del nord e del sud.

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tempi di sedimentazione pari a I , I centimetri l'anno, si è calcolato un periodo di operatività del sistema idrico di almeno 2 700 anni. Siccome la pratica di con­ trollo idrico è cessata intorno alla fine del VI secolo d.C., i giardini esistono almeno dal III millennio. Questa datazione così antica della civiltà sabea è con­ fermata e prolungata ancora più indietro nel tempo dal recente scavo di riparti­ tori analoghi sepolti da sedimenti e abbandonati già in epoca arcaica. La diga di Marib è quindi un ripartitore di flussi che permette di creare giardini e campi coltivati. 'Arim, la difesa, non è una diga per l'acqua, ma una barriera contro il deserto. È parte di un complesso sistema idrico formato da molteplici deviatori idrici, misuratori, argini e canali, testimonianza di una tecnologia idraulica il cui livello avanzato doveva essere frutto di conoscenze maturate e sperimentate in epoche ancora più lontane. I ripartitori di Marib divenivano operativi durante le piene distribuendo il flusso apportatore di humus e creando terreno fertile imbevuto d'acqua. Oltre questi momenti eccezionali altri sistemi di produzione assicuravano l'acqua bevi-

bile. Questa necessità può spiegare numerose opere, celebrate nelle iscrizioni, costituite da enigmatici canali e ambienti ricavati alla sommità delle alte mura della diga e delle possenti fortificazioni di tante città sabee. Illuminante per la loro comprensione è la struttura più originale e misteriosa dell'antica Marib, il santuario di Awam, dedicato al dio lunare Almaqah, attualmente noto come il palazzo di Bilqis. Il complesso è formato da una sala quadrata introdotta da un ingresso monumentale costituito da otto pilastri tagliati in grossi monoliti a forma di parallelepipedo disposti molto vicini l'uno all'altro nel modo tipico dell'architettura sabea. Su questa sala si innesta un gigantesco recinto ovale lungo r oo metri e largo 6o che racchiude quindi una corte di 6ooo metri quadri. È costituito da due muraglie parallele, dalle pietre finemente lavorate e perfet­ tamente connesse, unite da conci trasversali in modo da formare un'intercape­ dine che alla base raggiunge anche i 4 metri di larghezza, colmata a tratti con pie­ trame e terra di riempimento a secco. A cosa serviva la gigantesca costruzione? Le traduzioni correnti dell'iscrizione dedicatoria apposta sull'architettura indi­ cherebbero la realizzazione di torri e spalti. Ma le mura di Awam sono perfet­ tamente lisce senza alcuna traccia delle fortificazioni esistenti in altre città sabee. Proprio questa circostanza ha permesso a Jacqueline Pirenne, che ha dedi­ cato le sue ricerche alla migliore interpretazione della lingua e della civiltà sabea, di ipotizzare che la parola usualmente tradotta con torri, mahfid, avesse tutt'altro significato. Il termine risulta apposto in decine di costruzioni in cui i re e i dignitari, chia­ mati mukarrib, si vantano di avere realizzato questi mahfid, opere considerate preziose e oggetto di venerazione. La collocazione prevalente su imponenti strut­ ture murarie ha originato una prima interpretazione erronea ripercossa nelle ricerche effettuate successivamente. Già a partire dal lavoro pionieristico dell'orientalista francese Joseph Halévy, che per primo compluna missione nello Yemen alla fine del secolo scorso, gli studiosi si sono preoccupati di raccogliere quante più iscrizioni possibile traducendole al ritorno in patria senza una cono­ scenza diretta e precisa della realtà del paese. Jacqueline Pirenne fa notare come «gli epigrafisti e gli stessi archeologi non fanno molta attenzione alle tecniche: l'arte, l'architettura e il culto vengono per loro al primo posto» (Pirenne 197 7 , p . 14). Inoltre gli studiosi, per l a gran parte europei, ignorano del tutto l'ecolo­ gia dei paesi aridi e quindi le loro conoscenze di sistemi di utilizzo delle risorse idriche non potevano andare oltre la nozione di diga, canale o pozzo. Cosltutte le realizzazioni venivano interpretate come mausolei e templi o torri e altre strut­ ture a carattere militare. Quando la loro funzione idraulica è indiscutibile, come nel caso della diga di Marib, vengono spiegate secondo i canoni dei paesi oc­ cidentali.

Mahfid

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Marbid

e

manhal

Tu'rat

Rasaf

Una celebre iscrizione dedicatoria in cui si chiede al dio di portare «la piog­ gia di autunno e la pioggia di inverno» non ha senso nel regime climatico già arido al tempo dei Sabei. Traducendo invece il termine pioggia con rugiada si scopre quali fossero le preoccupazioni e le attenzioni di questo popolo. Si com­ prendono allora anche i mahfid: dispositivi per la raccolta dell'acqua che utiliz­ zano la doppia camicia muraria come camera di condensazione. Reinterpretando sotto questa luce le iscrizioni, si capisce come la costruzione di un mahfid con­ sistesse nell'apporre davanti a mura già esistenti una seconda muratura capace di creare ombra e umidità. La tecnica impiegata si ritrova fino alle epoche più recenti nelle architetture diffuse dalla civiltà islamica. È presente nei palazzi e castelli del Medioevo arabo e nelle costruzioni arabo-normanne come la Zisa di Palermo. Appaiono così chiare tutta una serie di strutture come mura di pietra, canali e superfici levigate che avevano il compito di raccogliere il liquido, e diventano comprensibili i termini che le designano. Marbid è un muro basso di pietre a secco che crea alla sua base umidità raccolta sulla superficie piana da esso cir­ condata. Tu'rat è un accumulo di pietre a forma di mezzaluna capace di inter­ cettare i venti carichi di nebbia e convogliarne la condensazione entro cisterne scavate nella roccia calcarea, le neqaba. Manhal è un allineamento di pietre piatte lungo i bordi di un rilievo. Rasa/ è una serie di bacini organizzati lungo le pen­ denze per raccogliere la pioggia. Questa è in genere destinata al tempio, tanto che il rasaf si confonde spesso con la superficie della corte o della terrazza del rito. Numerose iscrizioni menzionano infatti santuari a rasaf, termine il cui cor­ rispondente ebraico rise/a è utilizzato anche nelle descrizioni bibliche del tempio di Salomone. È probabile che anche i numerosi altari forniti di pietre piatte e scolatoi, ascritti a sacrifici e riti cruenti, fossero piuttosto pacificamente utilizzati per abluzioni sacrali e culti dell'acqua. Dove si sono volute vedere torri, baluardi e fortificazioni si scoprono captatori di umidità, superfici di condensazione, bacini di raccolta. Emerge così il vero sentimento di questo popolo alle prese con una sfida di sopravvivenza, vinta grazie alla comprensione dei principi sottili della natura e all'elaborazione delle tecniche e degli ingegnosi dispositivi atti a trarne i benefici necessari. A un regime feudale bellicoso e guerriero si sostituisce una comunità impegnata in uno sforzo di produzione idrica. Consapevole e operosa, essa dedicava le preghiere alla divinità lunare chiamata Almaqah o Sin, appor­ tatrice dell'umidità notturna. I riti erano affidati dai mukarrib, i sovrani delle iscrizioni, più simili a magi costruttori che a feroci condottieri. La parola ricorda i biblici cherubini custodi dei sacri giardini, designa dei re sacerdoti, architetti di sorgenti aeree.

4 8. Il wadi Gazua (Yemen) è un oasi di montagna. La riva destra (a sinistra nella foto) è coltivata grazie ai flussi intercettati da prese d'acqua a monte e incanalati dal ponte acquedotto al centro.

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49· Organizzazione di un pendio terrazzato. Lo scorrimento naturale che termina nella depressione in alto a destra è deviato nei terrazzi coltivati. 50. La distribuzione dell'acqua nei campi tramite un deviatore provvisto di foro, l'iglamah.

51. Terrazzi digradanti sorretti da imponenti murature a secco permettono la formazione di terreno coltivabile. Argini posti contro il pendio consentono di raccogliere anche le più piccole quantità di humus.

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52. Vestigia di Qana, sbocco della via dell'incenso sull'Oceano Indiano. Sullo sfondo la rupe della cittadella.

53· La cisterna a forma di mezzaluna sulla cima del promontorio di Qana è alimentata dall'umidità marina. 54· Aden, il sistema di vasche e cisterne che allo sbocco del cratere intercettava le acque raccolte nello stesso. Sullo sfondo la città moderna.

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55· La chiusa sud e la chiusa nord della grande diga di Marib. Si trattava di un complesso sistema di riparti­ zione dell'acqua intercettata da uno sbarramento che si estendeva perpendicolare al wadi tra le due chiuse.

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56. Thula, ricostruzione dei sistemi di raccolta di acqua, cisterne a cielo aperto, cavità e tunnel sotterranei che dalla cittadella alimentano i giardini terrazzati e- le sale di abluzione della moschea. L'impianto idraulico, ancora in uso, è simile a quello delle antiche città sabee.

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57-58. Cisterne e sistemi di raccolta e decantazione dell'acqua piovana sulla rocca di Thula. 59· Hababa.La città è disposta intorno al grande bacino cisterna alimentato dalle acque raccolte dalle ter­ razze dei palazzi. Il piccolo edificio ai bordi dell'acqua è la moschea che ha vasche interne rifornite tra­ mite le grandi arcate.

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6o-6r. San'a. Nella planimetria del r879 sono visibili i campi coltivati del quartiere Bir el-Azab.

62. Dar al-Hajar, il palazzo sulla roccia, si presenta come un'ardita architettura lungo il wadi Dhahr, sistema di oasi a 15 chilometri da San'a.

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6 3-64. Le finestre dei palazzi yemeniti hanno geometrie elaborate che richiamano simb lismi astrologici e scansioni della scienza dei numeri. Esse riproducono nella dimensione c nella forma es te riore (ora tonda ora quadrata) la funzione degli ambienti interni.

I castelli delle acque del cielo Nessuna causa esterna o cambiamento climatico spiega la fine di Marib e l'attuale degrado ambientale. Le leggende riportate da numerosi autori arabi rac­ contano che enormi topi con i denti di acciaio e gigantesche unghie chiamati khuld minavano alla base le installazioni idrauliche dei Sabei, costretti a una lotta perenne e alla capitolazione finale dai malefici roditori. La realtà è che le opere diventavano sempre più imponenti con il crescere della popolazione e necessitavano di cure costanti e continue riparazioni. Con il tempo l'accumularsi dei sedimenti provocava il massiccio innalzamento del terreno irrigabile e la con­ seguente necessaria sopraelevazione della muraglia della diga-ripartitore di Marib. Più volte nella sua storia l'opera crollò e fu restaurata, ma nel VII secolo d. C. la rottura, in concomitanza forse di una piena eccezionale, provocò guasti irreparabili. La catastrofe dell'abbandono della città dei due giardini ebbe riper­ cussioni tali da restare nella leggenda come il diluvio distruttore della civiltà sudarabica. Il Corano riporta la storia del crollo di questo capolavoro di inge­ gneria idraulica come punizione divina del popolo dei Sabei adoratori degli astri (xxxrv r6). Ma il collasso dell'antica civiltà è probabilmente stato causato da precise ragioni economiche. Il mantenimento delle capitali nel deserto era moti­ vato dalla necessità di controllare gli sbocchi più avanzati della via dell'incenso e imponeva sforzi e investimenti enormi sostenuti grazie agli alti profitti del commercio. Con la fine del mondo pagano e la caduta di Roma venne meno la domanda mondiale di piante aromatiche e scomparirono le basi economiche per sostenere i continui lavori di manutenzione delle opere idrauliche. Il sistema di dighe, canalizzazioni, vasche e ripartitori d'acqua rapidamente decadde e la sua distruzione decretò la fine delle città e delle coltivazioni che per migliaia di anni avevano reso il deserto un giardino fiorito. Le grandi capitali furono sepolte dalle sabbie e le città portuali videro inari­ dire le loro ::isterne, ma sulle montagne e gli altipiani elevati, dove le condizioni climatiche �ono più miti e lo sforzo economico meno imponente, la civiltà yeme­ nita esiste tuttora. Quella che era una società idraulica retta da forti poteri cen­ tralizzati si è perpetuata in piccole comunità idroagricole memori degli antichi metodi di gestione delle risorse. Per questo, arrivando a Thula, Kawkaban, Shahara o Manakhah, non si ha l'impressione di percorrere sperduti villaggi di montagna, ma piuttosto la sensazione di centri di storia e di cultura dove è viva la tradizione dei grandi imperi, l'orgoglio di una conoscenza millenaria. Le anti­ che tecniche sono tuttora in esercizio nelle opere agricole, nelle moschee e nelle architetture, nei modi di produrre e di abitare. Questa continuità è riscontra-

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Harrah

Ma'had

IlO

Caratteri sabei

bile nella enorme quantità di vocaboli sabei ancora presenti nelle parlate odierne. Si tratta soprattutto di termini relativi a lavori idraulici, alla coltiva­ zione e alle costruzioni: harrah è il modo comune di indicare i muretti o argini di pietra nei campi; masra/ è lo sbarramento nel torrente per elevare il livello dell'acqua; iglamah è il deviatore d'acqua provvisto di un foro per indirizzarla nei campi; zabur è la costruzione di terra cruda; ma'had è la sala di abluzioni della moschea. Innumerevoli parole conservate nella lingua araba indicano con preci­ sione tutte le differenti forme geografiche (Rossi 1940). Gli avvallamenti sui pendii, i tipi di impluvio, le varietà di superfici di drenaggio, le zone di possibile inondazione, perfino le differenti parti di una valle hanno un nome distinto secondo che siano considerate la porzione meno utile o la migliore, a scopo idrico, detta il cuore. La quantità e la precisione di questi vocaboli mostra come si sia tramandata una conoscenza accurata del territorio reso abitabile e coltiva­ bile attraverso la raccolta e la distribuzione dell'acqua. Gli antichi Sabei si sono confrontati con la gestione e la previsione dei pro­ cessi naturali e hanno espresso il loro pensiero nel culto dei pianeti e nella scienza cabalistica dei numeri. I toponimi sudarabici riflettono ancora nei loro significati la connessione stabilita tra i luoghi terrestri e gli astri: al-Moqa, luna; Kawkaban, pianeti; Nuqum, stelle; Shams, sole; Astar, Venere. Si tratta di cognizioni trasmesse a tutta la cultura occidentale come il culto dei sette pianeti caldeo e sudarabico, che è all'origine della odierna denominazione corrente dei giorni della settimana. E come non riconoscere nelle lettere dell'alfabeto sabeo i segni usati dall'astrologia medievale ? Ma per i Sabei la ricerca espressa in que­ ste forme aveva una concreta applicazione nel controllo dei processi fisici e di previsione meteorologica. I pastori preistorici scavarono lungo i percorsi del­ l'altopiano piccole fosse dove gli armenti potevano trovare acqua bevibile. Accanto ad esse monoliti di pietre levigate erette costituivano sorgenti aeree di umidità condensata sulle superfici. Forse queste pietre su cui si formavano come per miracolo lacrime di rugiada sono all'origine del culto dei betili o menhir e delle credenze relative alle statue piangenti. Ancora oggi il contadino yemenita rizza nei pressi di ogni nuova pianta una pietra piatta che fornisce l'apporto idrico. Ara il campo anche al di fuori dei periodi di semina e non asporta dalle coltivazioni le pietre calcaree: il terreno rimosso offre una superficie con mag­ giori asperità e zone d'ombra, capace di captare e conservare la rugiada, e le pie­ tre porose agiscono da spugne nei confronti della preziosa umidità aerea. Il trac­ ciato dei solchi segue un percorso sinuoso procedendo alternativamente da destra verso sinistra e da sinistra verso destra, secondo l'andamento riprodotto nella scrittura sabea in stile bustrofedico. I sacri caratteri apposti sulle opere idrauliche, incisi sui templi e sui monoliti memorizzano i tempi della irrigazione

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c quelli dell'aratura, marcano il trascorrere delle stagioni e annunciano il periodo delle piogge. Lungo ogni giogaia, vetta e vallata il complesso sistema di cittadelle, posti di �uardia e samsara, i palazzi per le soste delle carovane, è certo organizzato per controllare e proteggere i percorsi commerciali, ma è anche e soprattutto una rete di stazioni di osservazione meteorologica. Sugli altipiani le piogge arri­ vano rare, a scrosci impetuosi e improvvisi. Possono inondare rovinosamente una valle e lasciare completamente arida quella vicina. Matar! Matar! (Pioggia! Pioggia!) gridano gli avvistatori sulle torri ed è tutto un correre per spostare pietre e chiudere argini, per irrigare i campi e riempire le cisterne. A Zafar, antica capitale sabea, ve ne sono 365, una per ogni giorno dell'anno, e solo quando saranno tutte piene si potrà pensare con tranquillità alla stagione suc­ cessiva. Ad Hababa le aree delle terrazze raccolgono le piogge, che vengono incanalate nella grande piazza cisterna attorno cui è costruita l'intera città come un anfiteatro dell'acqua. Le superfici rocciose dell'altopiano, mediamente a quota 3000, costituiscono un grande impluvio che convoglia le piogge o la semplice rugiada notturna verso i bordi dove inizia il pendio. Qui sono poste le fortezze elevate che immagazzi­ nano l'acqua e la ripartiscono nella vallata dove è localizzato il centro abitato più importante. Le acropoli di Thula e Kawkaban hanno cisterne a cielo aperto e grandi cavità ipogee, sono castelli per il controllo della risorsa idrica. La sommità della rupe che sovrasta Thula è attrezzata con sistemi di raccolta, ancora in uso, del tutto simili a quelli rinvenuti a Qana. Lo sperone roccioso, il cui nome antico è Husn al-Ghurab come quello di Qana, è completamente scavato da ipogei con funzioni di camere rupestri, granai, cisterne e passaggi. Un tunnel rifornisce il centro abitato subito ai piedi della scarpata a quota 2 700. La galleria sbocca nel sottosuolo della moschea che ha grandi ambienti con vasche per l'abluzione e costituisce un vero e proprio monumento all'acqua. Nelle forme del luogo di culto islamico sembra ancora di vedere in vita l'antico tempio sabeo di Awam con i suoi mahfid e marbid e con la corte di raccolta, il rasaf, e l'altare lustrale. L'acqua, dopo essere stata utilizzata per i riti sacri, viene ripartita per irrigare i giardini. Tutto il percorso avviene per gravità, senza impegnare energie per pompare o sollevare, grazie a una elaborata organizzazione del territorio che sfrutta le linee orografich�,Palla raccolta sull'altopiano all'incanalamento lungo i pendii, fino alla distribuzione nei campi. Nei momenti di pericolo, di grande necessità di difesa, le opere periferiche venivano abbandonate e le popolazioni si ritira­ vano nelle cittadelle elevate. Da queste comandavano il complesso sistema di condensazione e raccolta e dominavano il paese condannandolo alla sete: chiu-

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III

devano i cancelli delle acque del cielo. L'uso di questa tecnica di difesa fino nel secolo scorso è provato a Thula dalla resistenza fatta ai Turchi, che dovettero assediare per un anno la rupe della città senza comprendere come il sultano potesse resistervi e avere anche disponibilità di contatti mantenuti tramite i cuni­ coli sotterranei. Alla stessa strategia difensiva, come si è visto, dovettero soc­ combere le armate romane comandate da Elio Gallo. L'esercito invasore non trovò che deserto e desolazione e, incapace di comprendere la complessa orga­ nizzazione del territorio, si ritirò sconfitto senza avere scalfito il mistero di Saba.

San'a, disegnata dal volo di una colomba

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La civiltà sabea risultò provata dall'invasione romana. Segui, infatti, un'epo­ ca di decadenza accentuata dalla diminuzione del traffico carovaniero poiché i commerci internazionali si organizzarono sempre di più sulle vie marittime. Nel 525 d. C. Marib fu occupata da Abraha re di Aksum, in Etiopia, che ripara an­ cora una volta la grande opera idrica e costruisce una chiesa cristiana. Agli inizi del VII secolo avvenne la catastrofe finale con la distruzione dei Sabei menzio­ nata dal Corano (xxxiv r6). Dopo il crollo della civiltà antica le popolazioni, come si è detto, si riorganizzarono sulle alte terre, dove le quote elevate tempe­ rano il calore della latitudine e creano un clima primaverile durante tutto l'anno. Qui il paesaggio è come il rovescio dell'organizzazione spaziale abituale delle zone temperate. A una quota di 3000 metri si estendono grandi pianure dalle sterminate visuali piatte e ininterrotte. Le linee orografiche accidentate, le mon­ tagne, i crateri e i canyon sono invece in basso, negli avvallamenti tettonici creati dalle fratture della piattaforma tabulare e dai fenomeni vulcanici. Le terre strategicamente importanti sono gli altipiani elevati dove passano le carovaniere sicure e si condensa e raccoglie l'acqua. Le confederazioni di gruppi nomadi, alle­ vatori transumanti e commercianti, si ripartivano queste aree cingendole con il sistema di avvistamenti e centri fortificati. Popoli fieri e costantemente in lotta, usi a una vita rude comandata dai principi della solidarietà familiare e dall'epica combattiva, controllavano dai margini degli altipiani i pendii inferiori coltivabili e i bacini agricoli interni. Questi, a un'altitudine media di 2300 metri, difficil­ mente difendibili e dipendenti in tutto dai clan guerri�ri delle aree superiori, erano zone di confine, di separazione tra i vari gruppi. E il motivo per cui dive­ nivano un luogo di contatto e di scambio: il mercato. L'area scelta era una zona ai piedi di un grande avvallamento torrentizio, uno dei piccoli bacini circolari prodotti dall'allagamento dei wadi, quasi sempre secchi, ma soggetti a volte a inondazioni e quindi liberi da costruzioni o coltivazioni. Il mercato, formato da

attrezzature mobili, mercanzie, tende e servizi che si organizzavano per un periodo definito a cadenze temporali, poteva usufruire di questo terreno lasciato libero e mai privatizzato. L'area veniva dichiarata hijra, cioè neutrale, e vi era

vietato l'uso delle armi per garantire gli incontri e i liberi commerci. Hayyim Habsus, il fabbro yemenita di religione ebraica che fu la guida di Joseph Halévy, ha riportato una bella descrizione della loro inviolabilità. Hab­ sus è stato il principale artefice delle trascrizioni epigrafiche riportate in Europa dall'archeologo francese, il quale dovette trascorrere la maggiore parte della sua missione nascosto per la diffidenza degli abitanti. Con rammarico di Halévy, che non lo menzionò mai esplicitamente nei suoi scritti, il semplice fabbro yemenita si rivelò colto e sapiente e scrisse un suo diario della spedizione chiamato Imma­ gine dello Yemen, ricco di vividi racconti sulle consuetudini e gli ordinamenti di quella società. Il mercato di Dahdah è descritto come una radura ai margini del palmeto dove merci di tutti i tipi sono posate per terra senza banchi nei negozi, semplicemente esposte sui tappeti: cotoni colorati con indaco; sale minerale pro­ veniente da Marib; frutta e cereali prodotti localmente. Uno sconosciuto corre­ ligionario offrì ad Habsus da bere pagando con una manciata di datteri la ven­ ditrice d'acqua. Improvvisamente scoppiò un tumulto e tutti cominciarono a gridare: mercato! mercato!, finché la situazione non tornò calma. Questo per­ ché, spiega Habsus, «il mercato è un luogo consacrato e non si può esigere un debito o il riscatto, anche se si tratta di un omicidio» (Habsus I976, p. I28). Con il tempo alcuni luoghi dell'inviolabilità assicurata agli scambi e agli incontri aumentavano il loro prestigio tramite la localizzazione di un santuario, venivano attrezzati con una struttura di rifornimento idrico, una fortezza e altre costruzioni stabili. Dall'accordo di diverse grandi confederazioni nasceva cosl una città che, sintesi dei vari territori circostanti, arrivava a divenirne la capi­ tale. In questo modo è stata realizzata San'a che, come tutte le celebri capitali dei popoli arabi, ha nel mercato l'origine, nella rete commerciale la base econo­ mica e nei gruppi nomadi l'equilibrio politico istituzionale. San'a è situata in una grande conca posta a quota 2300 metri, proprio nella zona centrale della dorsale delle alte terre yemenite ai piedi della montagna più alta dell'Arabia, il Nabi Shu'eib che si eleva fino a 3720 metri. La sua posizione è baricentrica tra Hodeida a ovest, emporio sul Mar Rosso, e Marib a est, a I Ioo metri di quota, porto del deserto. Intercetta l'asse nord-sud che collega gli altri bacini geografici, sedi di altre capitali delle alte terre, attraverso la lunga caro­ vaniera transarabica. La leggenda vuole sia stata fondata da Sem, uno dei figli di Noè, che aveva inizialmente scelto la parte orientale del bacino, ai piedi del Jebel Shams, la montagna del sole. Sem liberò una colomba per stabilire il punto della prima pietra, ma questa volò dalla parte opposta a ovest, sulle pendici del

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Jebel Nuqum, la montagna delle stelle, alta 2892 metri. Ai suoi piedi è posta la cittadella, il nucleo originario, recinto fortificato che presenta nelle sue fonda­ zioni strutture architettoniche di epoca sabea. La porta esterna verso la monta­ gna, che costituisce l'accesso orientale di San'a, si chiama Bab es-Sertan, la porta del segreto. L'uscita opposta si apre internamente verso la città, ed è detta Bab el-Qasr, la porta del palazzo. La città si è estesa verso est occupando la leggera pendenza fino alla zona più bassa, raggiungendo il tracciato di un corso d'acqua asciutto, il wadi Saila. Nell'area centrale, in una depressione circolare, vi è il mercato con nei pressi la grande moschea. Quella di San'a è una delle moschee più sacre di tutto l'Islam, pari per importanza e venerazione a quella della Mecca, di cui è coeva e con la quale condivide l'organizzazione interna formata dalla inviolabile struttura cubica centrale, la ka 'ba. Sull'area del mercato, radiali rispetto a questo, si imperniano i principali assi urbani. Lungo quello nord-sud che unisce la porta settentrionale Bab el-Shuub alla porta meridionale Bab el-Yemen (la più importante della città), il mercato si prolunga sull'intero per-

65. San'a in una fot a.i primi del Novecento. La città v ·cchia s.i estende compatta ai piedi del Jebel Nuqum inglobando nella cinta c.li mura il orso del wadi Saila. In primo piano è il quar­ tiere di Bir cl-i\zab con .il tessuto più diradato d.i giardini e orti.

corso attraversando cosl tutta la città. Una cinta muraria di epoca medievale racchiude tutta questa area dalla forma semicircolare abbracciando anche uno spazio oltre il wadi Saila. Questa parte murata della città, chiamata San'a el-Qadima, vecchia San'a, è generalmente identificata con il centro storico, per­ ché nel corso del tempo si è andata sempre più densificando, fino ad assumere l'aspetto intricato e compatto che si attribuisce in genere all'urbanistica araba, ma non era questo il suo carattere originario. Campi coltivati a vigne e giardini si aprivano vicino alle numerose moschee che sostituiscono arcaici templi sabei. Susseguendosi in una geometria rigorosa, larghi spazi aperti erano circondati da alte case torri le cui sommità, attraversate da finestre e luci ornate di disegni bianchi, si stagliano leggere nel cielo come merletti traforati. Le ricche ed elaborate decorazioni sono l'aspetto più appariscente dell'archi­ tettura di San'a, che evidenzia esternamente con il bianco della calce o con il colore della pietra le linee dei solai degli edifici e il disegno delle finestre, esal­ tando la struttura della costruzione e l'effetto ottico della facciata. Le luci di apertura sono diverse tra loro e compaiono o meno su i vari piani secondo regole precise. Creano motivi mai del tutto identici, ma scanditi da ritmi omogenei, attraverso la composizione delle forme: finestre rettangolari, chiuse da gratic­ ciate di legno, si aprono all'altezza del pavimento; strutture sporgenti come bal­ coni, gli shubbak, sono completamente chiusi da legni traforati o da mattoncini disposti in un aggraziato ricamo; ovali detti ukud appaiono disposti in coppia e collegati tra loro da fasce bianche; mezzelune fatte di diversi pezzi di vetro colo­ rato tenuti insieme da una trama di gesso bianchissimo generano mosaici sempre vari. L'uso di palazzi elevati, ognuno abitato da una sola famiglia, è tipico dell'architettura dello Yemen, ma solo nelle città, e a San'a in particolare, la decorazione ha una carica espressiva cosl intensa. Le case torri rurali isolate o le città in terra cruda del deserto hanno uno stile sobrio e rigoroso, si confondono nell'ambiente e si adattano al colore e alle linee del paesaggio. Invece quelle di San'a si mostrano quasi impudicamente, sembrano aggredire visivamente l'osservatore. Questa differenza trova una spiegazione proprio nella caratteri­ stica commerciale di San'a, che non può nascondersi, ma deve apparire, e si difende, allora, esaltando la sua presenza e caricandola di mistero. I piani alti degli edifici sporgono dalla linea delle mura con le loro luci cerchiate di gesso come mille occhi che scrutano. L'effetto è del tutto simile a quello ottenuto dalle donne che, coprendo la parte inferiore del viso, esaltano la capacità magnetica dello sguardo evidenziato dal trucco delle ciglia. L'enigma, la maschera antro­ pomorfa, la concezione magico-religiosa dell'attrarre e sviare l'estraneo, di confondere la vista portatrice di maleficio sono tutti elementi chiave per inter­ pretare le facciate di San'a, basate sul gioco a un tempo seduttivo e repulsivo

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Palazzo urbano

Casa torre rurale

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della fascinazione. Ma non sono i soli parametri necessari a comprendere questa città. È forte la sensazione che i cerchi rotondi collegati da bande, le finestre disposte ad albero ramificato, le losanghe e linee spezzate lungo i piani facciano parte di un codice nascosto che è possibile decifrare. Poiché qui nulla è casuale. Quando ogni centimetro di terreno coltivabile deve essere faticosamente strap­ pato all'aridità, quando ogni scroscio di pioggia deve essere controllato e con­ servato, tutto, dal colore di un mattone all'intera planimetria della città, ha uno scopo e una ragione. Per gli antichi Sabei la scrittura era carica di un potere segreto strettamente legato alle conoscenze matematiche, alle osservazioni astrali e ai loro influssi sulle persone. Le antiche incisioni venivano apposte sulle pareti a scopo propi­ ziatorio e fornivano anche precise indicazioni tecniche. Allo stesso modo le decorazioni delle facciate sono segni magico-protettivi, ma capaci di parlare: costituiscono il linguaggio della scienza yemenita dell'abitare. Sulle pareti di San'a simboli antichi e ritmi matematici marcano, ·tramite il senso recondito dei numeri, le funzioni interne della casa: il piano degli uomini, quello delle donne, lo spazio del lavoro e quello del riposo. L'antichità della tradizione è attestata dalle cronache medievali che riportano come vi fosse a San'a un palazzo fortezza di venti piani alto r83 metri, chiamato Gumdan e attribuito alla regina di Saba. Lo storico arabo al-Hamdani, morto in prigione a San'a nel945 e autore del Sifat jezirat al-Arab (La penisola araba) e di al-Iklil (La corona), dice di averne visto le rovine, confermato in questo dallo scienziato afgano al-Biruni, morto nel 1048. Secondo le descrizioni il palazzo aveva quattro facciate, ognuna di una pietra di colore diverso: bianca, nera, rossa e verde. Ad ogni angolo erano installati dei leoni di bronzo e di rame che ruggi­ vano quando il vento passava nelle loro fauci. Le finestre o l'intera copertura dell'ultimo piano erano fatte di alabastro per potere osservare il cielo stellato. Gli elementi estetici e simbolici che compaiono nella descrizione possono collegarsi a precisi principi di funzionalità costruttiva e sapienza ambientale. La orienta­ zione del palazzo era infatti accuratamente studiata e, riferisce al-Hamdani nell'Iklil, il pozzo, che prima era secco, dopo la costruzione era ricco di acqua mentre «all'interno non vi prevaleva la calura d'estate né il freddo d'inverno». Le medesime regole abitative si sono perpetuate nel tempo. Ancora oggi le alte case torri yemenite usano pietre differentemente colorate, chiudono le fine­ stre con lastre di alabastro e sono tutte dotate di una stanza all'ultimo piano, dedicata al ricevimento, al riposo e alla contemplazione, chiamata mafraj. Il pre­ gio dell'architettura yemenita consiste proprio nell'avere operato una fusione profonda tra concezione simbolica e tecnica costruttiva, una fusione che nell'abi­ tazione urbana di San'a realizza la sintesi più matura. Le case torri sono co-

struite intorno all'ampia scala centrale dalle rampe comode poggiate su una solida base di pietra. È il perno strutturale dell'edificio, il sostegno centrale dei vari piani, appoggiati perimetralmente alle pareti esterne portanti. Nelle archi­ tetture arcaiche costituisce un nucleo ciclopico su cui si sorreggono i blocchi della muratura, anch'essi così imponenti che i vuoti ricavabili sono estrema­ mente ridotti rispetto al pieno della massa muraria. La costruzione diventa una massiccia torre di nera pietra lavica, il cui interno è formato da piccoli spazi, simili ad alveoli scavati in un volume roccioso. Le luci di apertura nelle pesanti pareti sono necessariamente ridotte a piccoli fori e la porta di ingresso è sor­ montata da un architrave ciclopico per sostenere la grande massa muraria. L'architettura di San'a è il risultato delle soluzioni date nel tempo per miglio­ rare questa tecnica costruttiva. Solo il pianterreno dell'abitazione, che deve sostenere tutto il peso superiore, rimane formato dai grossi blocchi di pietra. Con il procedere in altezza della costruzione sono utilizzati progressivamente · materiali sempre più leggeri. così l'edificio avrà un succedersi di piani fatti in pietra, mattoni cotti e sola terra cruda. La caratteristica dei materiali si riper­ cuote sull'aspetto esteriore per effetto della varietà del colore e della diversa pos­ sibilità di realizzare aperture. Inoltre la casa urbana deve rispondere in un unico edificio a esigenze di vita familiare e di abitudini sociali soddisfatte nella for­ tezza rurale da più costruzioni. Infatti le abitazioni del deserto sono ancora oggi composte da due case torri, una dedicata agli uomini e un'altra tutta per le donne, e dispongono di ampie strutture separate di magazzino e rifornimento alimentare. In città ogni piano si fa carico di questi differenti compiti. Il pian­ terreno, massiccio, formato da grosse pietre nere, dalle finestre quasi inesistenti per motivi statici e per garantire maggiore inviolabilità, è usato come magazzino e deposito. I piani superiori hanno colori diversi secondo la varietà del materiale utilizzato e, procedendo in altezza, sempre più finestre che contribuiscono ad alleggerirne la muratura. I livelli intermedi sono occupati dalle donne, che mar­ cano la loro presenza con i vari tipi di aperture esterne necessarie alle attività domestiche, ognuna di forma diversa secondo la distinta funzione assicurata: l'aerazione, la conservazione dei cibi, la possibilità di guardare fuori senza essere viste. Le piccole strutture sporgenti di mattoni traforati posti su questi piani funzionano come frigoriferi e condizionatori d'aria costituiti da una giara di coccio trasudante umidità, in modo da rinfrescare il vento che penetra accelerato dalle piccole aperture. Quelle un poco più grandi sono balconcini capaci di acco­ gliere nella loro alcova traforata un'intera persona, che così può osservare la strada senza essere vista. I piani superiori sono destinati agli uomini e si aprono sempre di più sul pae­ saggio fino alla grande terrazza con il mafraj. Queste parti più alte, realizzate

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con la terra cruda, necessitano di protezione contro le intemperie, e vengono imbiancate a calce, rinforzando soprattutto le linee di scorrimento della pioggia lungo i bordi delle finestre. Le diverse camere, ognuna dall'accesso indipendente aperto su un disimpegno collegato alla scala centrale, sono arredate secondo l'usanza araba senza mobili elevati. Si abita al livello del pavimento coperto da tappeti e attrezzato con lunghi cuscini lungo i bordi della sala. Questo spiega la presenza in uno stesso piano di più ordini di finestre che si susseguono dal pavi­ mento, per quando si è seduti per terra, all'altezza dello sguardo della persona in piedi e al soffitto, per l'aerazione e l'illuminazione. Esse, inoltre, sono tutte differenti poiché le funzioni di illuminazione, ventilazione e visione esterna, da noi assolte da una stessa apertura, si differenziano in più forme dagli usi specializzati: il tondo occhio di bue circolare sigillato da una lastra di alabastro per dare luce; le piccole finestre, apribili alternativamente, per assicurare il raffre­ scamento; le più grandi aperture di affaccio. All'ultimo piano sulla terrazza, rinfrescato dalla brezza nelle giornate asso­ late e riscaldato dal tepore immagazzinato nella muratura durante le fredde notti, è realizzato il mafraj. Questa vasta camera rettangolare, arredata come un triclinio con i cuscini per sedersi lungo le pareti, con la sua presenza immanca­ bile in tutte le abitazioni yemenite mostra il tenore di questa cultura educata al gusto del paesaggio e della riflessione, sensibile ai ritmi interiori e a quelli del cosmo. Nel mafraj si declamano poesie, si ascolta la musica, si ricevono gli ospiti, si discutono e concludono gli affari, si fuma il tabacco e si masticano le foglie del qat, l'arbusto dalle proprietà anestetiche ed euforizzanti. È lo spazio per i con­ tatti umani e la riflessione intima e filosofica favorita dalla sapiente architettura. Il mafraj ha finestre composte da un mosaico di colori nel lato orientale e luci chiuse da lastre di alabastro in quello occidentale. Il sole, compiendo il suo arco nella giornata, è prima filtrato dalle vetrate colorate e riempie la stanza di mille colori, esplicitando la sua natura di variegato spettro luminoso, poi penetra dalle diafane finestre di alabastro, anticipando l'effetto della luce notturna della luna. Infatti nella lingua araba luna è gamar e la lastra di alabastro è detta gamaria. La pallida pietra dal magico potere lunare trasforma i raggi del sole possente e ne preannunzia il declino all'occidente, ricordando così il destino finale a cui anche i potenti non possono sottrarsi.

Il collasso

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urbano e la salvaguardia Unesco

Nel XVI secolo, durante l'occupazione turca dello Yemen, un'altra zona urbana si è aggiunta a San'a el-Qadima prolungando a est la città con l'area detta

Bir cl-Azab, ai cui margini orientali è il Qaa al-Yahud, il quartiere ebreo. Le costruzioni di Bir el-Azab, secondo le abitudini turche, sono basse e spaziate nel verde. Hanno tutte un patio con un ampio affaccio sul giardino e una vasca cen­ trale. Questa raccoglie le acque destinate a una sala sotterranea per i bagni di vapore e alla irrigazione dei campi. Le case del quartiere ebraico sono invece ser­ rate le une alle altre con le stanze che si aprono intorno a una corte centrale. Anche questa parte della città fu circondata di mura e, nel punto di contatto con la cinta più antica, venne installato il palazzo del sovrano al-Mutawakkil a controllo di un elaborato sistema di doppie porte. San'a si estende nel corso della storia da est verso ovest ripercorrendo a ritroso il volo della leggendaria colomba, e assumendo una forma simile al segno matematico dell'infinito o a quella di una farfalla le cui ali dispiegate sono le due distinte cinte murarie, quella orientale originaria e quella occidentale del quar­ tiere di Bir el-Azab. Così la vide nel suo straordinario viaggio compiuto ai primi del Cinquecento Ludovico de Varthema, che la descrive nel suo Itinerario ricca di vigne e fontane (de Varthema I928). Formata dai due distinti recinti murati e piena di spazi verdi è rappresentata nella carta disegnata nel I 877 da Renzo Manzoni, nipote dell'autore dei Promessi sposi, che fu medico a San'a in quel periodo (Manzoni I884). Ancora nello stesso straordinario stato di conserva­ zione, con le mura che definivano precisamente il limite tra la città e lo spazio esterno, la ammirò Pier Paolo Pasolini, che vi si recò nel I970 per la lavorazione del film Ilfiore delle mille e una notte. Il poeta e regista italiano, sensibile ai luo­ ghi e alle tradizioni, avvertì come il delicato equilibrio su cui si fondava la città di San'a, leggenda millenaria miracolosamente tramandatasi fino ai nostri giorni, fosse in pericolo e, tramite un documentario girato con gli spezzoni di pellicola rimastigli dal film, lanciò un appello all'Unesco. Pasolini, in nome della sempli­ cità e della purezza del popolo yemenita, facile preda delle lusinghe della moder­ nità, si rivolse all'Unesco affinché le mura di San'a, simboliche custodi della «scandalosa forza rivoluzionaria del passato», non fossero distrutte. La coope­ razione cinese aveva costruito una strada asfaltata che collegava per via carroz­ zabile la città al Mar Rosso rompendo l'antico isolamento imposto dalle asperità orografiche. Il vecchio imam di San'a inizialmente osteggiò il progetto preve­ dendo che questa strada avrebbe significato la fine dello Yemen, ma poi accon­ sentì alle pressioni favorevoli del suo giovane erede. Da quella strada appena terminata arrivarono due carri armati egiziani in aiuto alla nascente rivoluzione yemenita e abbatterono il regime degli imam distruggendo l'antico equilibrio dei poteri. Nel I969, alla fine dei pochi anni di guerra civile risolta con la vittoria dei repubblicani e l'accordo internazionale di spartizione dello Yemen, iniziò la modernizzazione. L'area dell'antico palazzo di al-Mutawakkil con le doppie

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porte di comunicazione tra San'a el-Qadima e Bir el-Azab fu rasa al suolo e sosti­ tuita con un grande asse viario a doppia corsia. Le mura di Bir el-Azab furono abbattute, i palazzi abbandonati, e le distruzioni stavano per coinvolgere irri­ mediabilmente tutta la città antica. A seguito dell'appello di Pasolini l'Unesco, nell'ambito della convenzione mondiale per il censimento e la protezione dei beni ritenuti di interesse ecce­ zionale per tutta l'umanità, avviò una campagna di salvaguardia della città sto­ rica di San'a. Grazie alla promozione di studi e di una maggiore consapevolezza sono state salvate le mura di San'a el-Qadima, che con l'aiuto della cooperazione internazionale è stata dotata di rete idrica e fognaria. In questo modo la popo­ lazione ha potuto continuare ad abitare la città antica e diversi palazzi di pregio sono stati restaurati. Fortunatamente vari progetti urbanistici degli anni ottanta, che prevedevano l'asfaltatura del wadi Saila per trasformarlo in un asse stradale di scorrimento interno alla città storica, grandi svincoli di circonvallazione e l'abbattimento dell'intera area del mercato, non hanno avuto esito. Così, oggi, la città antica di San'a è ancora uno dei centri storici meglio conservati al mondo. Ha l'ambiente e il fascino delle Mille e una notte ed è, allo stesso tempo, una città vitale, piena di gente e animazione. Fedele alle origini di città neutrale, San'a vieta al suo interno l'uso delle armi, permesse in tutto lo Yemen setten­ trionale, tranne l'immancabile coltello, la jambia, che è simbolo di distinzione sociale presso gli Yemeniti. È rimasta una grande città mercato con uno dei più bei suq dell'Oriente. Vi si comprano gioielli di argento, corallo e pietre dure, tessuti e legni scolpiti. Una suggestiva esperienza è sedersi davanti alle piccole botteghe del mercato dei profumi e farsi confezionare dall'alchimista profumiere le essenze su misura, una per ognuna delle sette parti del corpo, come faceva la regina di Saba. Purtroppo plastiche e lattine riempiono le strade. San'a è oggi una città moderna con tutti i guasti delle grandi metropoli e la società yemenita, che una volta riutilizzava e riciclava tutti i rifiuti, è impreparata alla gestione delle sco­ rie non deteriorabili dell'industria contemporanea e ne risulta travolta. In futuro, tuttavia, sarà facile risolvere questo problema. Irrimediabile è invece la trasformazione o completa distruzione di monumenti e palazzi per la richiesta di nuove abitazioni. I pericoli sono di ordine strutturale e tali da mettere in discus­ sione la sopravvivenza stessa della città. La San'a moderna si estende incontrai­ lata lungo le direttrici delle strade principali, saturando di nuove costruzioni il bacino naturale in cui sorge la città. Il cemento ha ormai riempito la parte pia­ neggiante della grande conca e già ne aggredisce i pendii che, un tempo ricchi di boschi e campi terrazzati, costituivano una cintura di protezione climatica e di raccolta delle acque. L'impoverimento vegetale, la diminuzione dei terreni agri-

coli, la distruzione degli argini, delle cisterne e dei pozzi, l'interramento e l'ostruzione dei canali e dei wadi provocano il dissesto idrologico, lo spreco e il mancato rinnovarsi delle risorse d'acqua. Con l'uso di pompe e lo scavo di pozzi a sempre maggiore profondità la falda acquifera si è abbassata negli ultimi trent'anni al ritmo catastrofico di 6 metri l'anno: con gli attuali andamenti di crescita e di uso indiscriminato del territorio si rischia il totale collasso urbano. In questo quadro la protezione della città storica diventa la vana difesa di una cittadella assediata. Solo un programma di salvaguardia territoriale può garan­ tire, attraverso il restauro e il riequilibrio ecologico e ambientale, il controllo della crescita urbana e la sopravvivenza stessa della città. Questa nuova strate­ gia è stata avviata a partire da una originale lettura ambientale svolta insieme a docenti e studenti della Facoltà di Architettura di Firenze nell'ambito della cam­ pagna di salvaguardia Unesco (Laureano 1991).

Dall'analisi ambientale una nuova strategia «San'a è simile a Damasco per l'abbondanza delle acque e della vegetazione» scriveva al-Biruni nell'xi secolo. Sembra impossibile oggi riconoscere nella città attuale la San'a «giardino del mondo» descritta dal grande scienziato musulmano e cantata dagli autori antichi. La parte della città storica racchiusa nella cinta muraria occidentale si è andata nel corso del tempo sempre più densificando. Il sistema degli orti e degli spazi verdi, collegato alle moschee e alla rete di dre­ naggio e di raccolta delle acque, che contribuiva in modo sostanziale al sostenta­ mento alimentare e idrico della città, si è ridotto a rari giardini, mal coltivati. L'antica gestione delle piogge e delle acque è un elemento chiave per capire la città di San'a, che si è edificata su una trama territoriale già precedentemente organizzata a scopo agricolo e progressivamente urbanizzata. Attraverso l'ana­ lisi aereofotogrammetrica è possibile leggere la relazione fra la trama urbana e l'insieme spaziale in cui è collocata la città. Si arriva cosl alla ricostruzione dell'ecologia territoriale che ha guidato la formazione di San'a dettando leggi precise ad ogni scala dimensionale, dalla forma dei quartieri alla direzione delle strade fino ai tipi edilizi dei singoli edifici. È necessario per questo decifrare la organizzazione idroagricola spaziale: riconoscere le linee di drenaggio e le dire­ zioni di scorrimento delle acque; definire l'andamento del corso del wadi Saila che, in apparenza, esiste solo nel tratto interno a San'a; comprendere l'organiz­ zazione dei lotti coltivati e i metodi di produzione e distribuzione idrica. Le ana­ logie morfologiche tra la città e il territorio evidenziano come i modelli urbani siano una diretta derivazione dei tipi di organizzazione dello spazio rurale.

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La città occupa la zona più bassa del grande impluvio aperto verso nord-ovest in direzione della depressione del deserto del Ramlat as-Sabatayn. La foto aerea mostra chiaramente come, attraverso le millenarie tecniche di produzione agri­ cola e di gestione delle risorse proprie a tutto lo Yemen, la grande conca sia stata organizzata e attrezzata. Nei margini inferiori destro e sinistro si notano le superfici scoscese e i declivi trasformati dai lavori di terrazzamento per trattenere il terreno e l'humus in un susseguirsi di lotti sinuosi, definiti dalle canalizzazioni delle acque che si riversano dall'una all'altra, convogliate lungo i margini delle particelle. Nel centro, la parte pianeggiante è organizzata in lotti più grandi dalle linee di drenaggio geometriche che sono strade torrenti utilizzate nei momenti di piena per distribuire l'acqua nei giardini murati. In questi casi gli alvei dei wadi si trasformano in vasche di raccolta, mentre nelle stagioni secche si utilizza tra­ mite pozzi l'umidità assorbita dal suolo. Complessivamente le acque che scen­ dono dai pendii a oriente e a occidente convergono verso il centro e seguendo l'inclinazione generale dell'impluvio piegano a nord, attraversando verticalmente l'area di San'a convogliate in una rete idrografica di cui il wadi Saila è uno degli assi principali. L'intera città è organizzata su questa trama idrica come un gigan­ tesco sistema di controllo, raccolta e distribuzione delle acque che convergono verso il centro del bacino. I diversi aspetti della morfologia urbanistica sono dovuti ai differenti modi di alimentazione e ripartizione idrica. La trama strutturale del nucleo iniziale, la fortezza della cittadella ai piedi del Jebel Nuqum, che digrada con una serie di lotti edificati verso l'area del mercato, mostra evidenti analogie con la morfologia agricola di pendio. Sistemi corrispondenti sono chiaramente individuabili sulla foto area a sud-est della cittadella di San'a. In questo modello i campi sono organizzati all'interno di un'ampia forcella che, come una U coricata, ha il vertice nella parte alta del pen­ dio. Qui c'è il raccoglitore principale delle acque che devia il corso di scorri­ mento naturale lungo la massima pendenza e lo biforca per irrigare la serie di terrazzi organizzati trasversalmente ai due lati di questa. Il tracciato naturale resta visibile come superficie di scorrimento di piene non imbrigliabili, che ter­ minano in una depressione di raccolta dell'acqua la cui forma circolare è lasciata libera dalle coltivazioni perché soggetta a inondazione. Nell'organizzazione di San'a el-Qadima la grande forcella a U è riconoscibile nella cinta occidentale delle mura. La cittadella è il luogo di raccolta delle acque ed è collocata ai piedi del Jebel Nuqum per utilizzarne gli elevati pendii come bacino di scorrimento. In questa posizione erano localizzati l'antico palazzo Gumdan e il nucleo origi­ nario di San'a, a controllo dei flussi idrici. Infatti ancora oggi da questa area si diparte un tunnel sotterraneo simile alle foggara sahariane e ai qanat iraniani, chiamato nello Yemen gai!. Più in basso, nella piccola depressione liberata dalle

66-67. Foto aeree di San'a. Il confronto con un'area non urbanizzata (in alto) spiega il particolare tessuto della città edificata sull'antecedente organizzazione idrica e agricola (in basso). Sono riconoscibili la grande forcella a U rovesciata (r) che devia le acque del pendio nel sistema di terrazzi (2) e la depressione circolare formata dallo scorrimento naturale (3). Nella urbanizza­ zione del sistema di antropizzazione agricolo, a queste forme corrispondono la cittadella posta a controllo delle risorse idriche (r), le strade e i quartieri urbani (2) e l'area del mercato (3).

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(c) 68. Evoluzione della trama idraulica nella forma urbana: in alto, urbanizzazione dei terrazzi di pendio; al centro, urbanizzazione delle coltivazioni di pianura; in basso, uso della depressione semicircolare inondabile come area di mercato e successiva edificazione.

inondazioni con l'organizzazione dei terrazzi, si è strutturato il mercato di cui si spiega così la forma circolare. L'abitato al di fuori della cittadella si è esteso lungo gli argini dei lotti coltivati in alte case torri per occupare la minore superficie possibile. Le terrazze delle abitazioni erano usate per la raccolta delle piogge in modo che non fosse necessario portare l'acqua bevibile fino alla sommità degli edifici. A questo scopo le terrazze, proprio come gli antichi rasaf e marbid, sono organizzate come una serie di vasche separate da muretti elevati secondo la stessa suddivisione degli ambienti interni. Poiché l'edificio non veniva costruito in una sola volta, ma nel corso di diversi anni, in ragione delle disponibilità economiche, ogni piano, prima di essere sopraelevato, è stato la terrazza di quello sottostante. È il motivo per cui i solai risultano marcati con bande e segni bianchi di gesso, motivi utilizzati per contrassegnare i bordi delle cisterne e degli arcaici dispositivi idrici. Con la densificazione abitativa le case torri circondano completamente i terrazzamenti dando luogo alla tipica struttura urbana in quartieri serviti da vicoli ciechi intorno a un campo attraversato da acque descritto da poeti e scrittori. Progressivamente San'a el-Qadima ha occupato tutti i suoi giardini e si è spinta fino alla linea di drenaggio di fondovalle del wadi Saila, trasformato in una grande cisterna interna. Prima delle

69. Morfologia idroagricola pre­ cedente la urbanizzazione: r) sistemi di pendio a terraz­ zi digradanti; 2) pianura a campi irrigati da strade tor­ renti; 3) depressione; 4) cra­ teri vulcanici adibiti a raccoglitori di acque piovane.

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demolizioni degli anni sessanta era ancora possibile vedere le chiuse che sul peri­ metro della cinta muraria sbarravano a nord e a sud il corso del torrente. La seconda parte di San'a, l'area occidentale, si estende sul lato speculare fatto di campi convergenti a ventaglio verso la porta orientale. Questa area, for­ mata dal quartiere di Bir el-Azab, è in basso rispetto al pendio occidentale e ha una morfologia agricola originaria fatta di grandi lotti chiusi da giardini irrigati da strade torrenti. Sul tessuto di orti si sono collocate le prime costruzioni otto­ mane seguendo un'organizzazione urbana prodotta dallo scorrimento delle acque e dagli innumerevoli pozzi che alimentavano fontane e vasche di piacere utilizzate anche per l'irrigazione. La trama stradale ricalca le linee di drenaggio lungo le quali sono posizionati i pozzi. È il sistema di raccolta delle acque delle strade torrenti riscontrabile ancora in funzione nel wadi Dhahr, sistema di oasi a 15 chilometri da San'a. Durante le piogge le stradine murate convogliano, attraverso chiuse inserite nelle recinzioni, le acque nei giardini ripartiti su un piano leggermente più basso. Nella stagione secca si attinge l'acqua conservata nei sedimenti tramite pozzi. Questi sono realizzati secondo una tipica tecnica yemenita, che fa in modo di risparmiare al massimo lo sforzo del dromedario impiegato a tirare la corda del secchia pieno d'acqua. Il pozzo è sopraelevato di parecchi metri sul terreno e si arriva alla cima tramite una lunga rampa. Il dromedario compie questo percorso in salita senza sforzo mentre il secchia vuoto scende in profondità. Quando poi deve sollevare il secchia pieno tirando la corda lontano dal pozzo, è facilitato dal tragitto discendente della rampa Le abitazioni sono costruite ai margini delle particelle agricole, irrigate a par­ tire dalle vasche delle case. I successivi palazzi signorili, residenza delle famiglie nobili yemenite, si situano invece al centro delle particelle, trasformando parte della struttura agricolo-produttiva in parco. Con l'abbattimento delle mura il quartiere meno connesso e strutturato di San'a el-Qadima è stato considerato di minore pregio e non tutelato dalle moderne espansioni e manomissioni. Inizialmente è stato risparmiato dalle nuo­ ve costruzioni per la preferenza della popolazione stessa per le aree di nuova espansione. Tuttavia negli ultimi periodi, con la progressiva saturazione delle periferie e l'incremento del fabbisogno abitativo, le zone verdi di Bir el-Azab incominciano a essere intaccate. A questo contribuisce la proliferazione di eser­ cizi commerciali, di megacentri per lo shopping e la crescente richiesta di attrez­ zature per il turismo. Anonime costruzioni iniziano a sostituire la vegetazione e gli orti. Gli alti palazzi in bello stile yemenita, fagocitati dal cemento, sono desti­ nati all'abbandono e alla distruzione. Belle abitazioni con il mafraj, vasche, fon­ tane e bagni turchi, con stanze riccamente decorate da stucchi e da finestre di

alabas t ro c vetri colorati, vengono abbattute. I materiali tradizionali, come la pie t ra , la terra cruda e i mattoni, che aggiungono alle qualità estetiche il van­

taggio di una grande inerzia termica, vengono sostituiti da prodotti industriali che necessitano, invece, il continuo apporto di energia per la climatizzazione e la manutenzione.

Tuttavia, mentre alcuni edifici storici sono in stato di abbandono, altri per la centralità e l'accessibilità sono stati preservati come sedi di ambasciate e di istituzioni culturali. Nel complesso l'area conserva ancora una grande quantità di spazi verdi che richiamano l'antica immagine di San'a giardino del mondo e costituiscono un patrimonio su cui fondare la nuova visione urbanistica. Bir el-Azab è un nodo fondamentale per gli interventi di pianificazione urbana su grande scala proprio per gli aspetti che sinora ne hanno determinato la sottova­ lutazione: la bassa densità edilizia, la disomogeneità dei tipi costruttivi, le modi­ fiche del tessuto originario. Con i suoi campi ancora coltivati, l'alto grado di atti­ vità economica e sociale, le varietà architettoniche, le stesse trasformazioni operate, costituisce un patrimonio di spazi e di vitalità sociale, un laboratorio di esperienze sui modi di realizzarsi della città esistente. Può divenire il polo pro­ pulsivo di un piano complessivo di tutela e di riorganizzazione che armonizzi San'a el-Qadima con le espansioni più recenti, costituire il cuore, il giardino della cultura e dell'ospitalità dell'intera San'a. Le abitazioni di valore storico e tipologico, gli spazi verdi ancora utilizzati a orti e giardini o abbandonati sono gli elementi di connessione per la riprogetta­ zione del quartiere e di tutta l'area centrale della città. Ripercorrendo le linee strutturali della trama primitiva, ricollegando le aree a verde esistenti e riorga­ nizzando e riqualificando le zone dismesse, è possibile ricucire in un percorso articolato e variegato le varie componenti urbane. Strade e piazze alberate, zone di sosta e di osservazione presso gli orti e i giardini produttivi, scorci e punti di vista sui parchi chiusi, aree di gioco, di distensione o di raccolta per manifesta­ zioni collettive formano un sistema continuo e coerente. Un reticolo connettivo di verde percorribile s'innesta nel quartiere di Bir el-Azab e prosegue fin dentro la cinta di mura occidentale, ricollegando l'intero tessuto della San'a storica. Attrezzature culturali, per il tempo libero e turistiche utilizzano i palazzi e gli edifici storici immersi nel verde, realizzando poli di cultura e di ospitalità a dimensione urbana. San'a è oggi una città turistica e l'interesse dei visitatori per le antiche costruzioni e le tradizioni è funzionale alla loro conservazione e costi­ tuisce un provento economico per i residenti. L'attuale polarizzazione del turi­ smo sulla parte storica orientale rischia di snaturarne completamente le caratte­ ristiche e comprometterne i valori. A Bir el-Azab è possibile invece attrezzare antichi complessi ad albergo in ampi spazi verdi senza alterare la qualità degli

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edifici e intaccare il tessuto urbano. È importante rendere possibile il soggiorno a San'a, non nel modo anonimo proposto dalle catene del turismo internazionale standardizzato, ma in veri palazzi yemeniti che consentano di assaporare piena­ mente e fisicamente la cultura che traspira da ogni pietra di questi luoghi. La garanzia di salvaguardia delle costruzioni storiche si ottiene proprio conferendo loro ruolo e funzionalità e dimostrandone l'adattabilità alle esigenze della vita contemporanea. Nel quartiere, non ghetto turistico o centro storico museificato, ma insieme vitale e animato, il recupero delle costruzioni e delle abitazioni minori fornisce ampie possibilità per la residenza e il commercio, permettendo di conservare all'area la polifunzionalità e le caratteristiche economiche e sociali. Tutto questo, tuttavia, è ancora inutile se la riqualificazione urbanistica non riuscirà ad affrontare il problema della emergenza idrica della città. I topi dai denti di acciaio che distrussero Marib sono sempre in azione e non è realizzando opere sempre più colossali, come portare l'acqua con enorme dispendio dal Mar Rosso, che si potrà evitare la catastrofe. Perché non tornare, allora, ai metodi del passato ? San'a stessa, disegnata dal volo della colomba, costruita sulla poesia dei giardini, fornisce le indicazioni per immaginare futuri possibili in armonia con la forte carica creativa della sua identità. La città è sintesi di conoscenze clima­ tiche e astrali, di scienze algebriche e tecniche costruttive, che diventano modo di intendere il destino e la società. Nel sistema urbano, nell'architettura, nell'arte si riflettono religione e concezione filosofica. Gli elaborati ornamenti che rivestono le facciate delle abitazioni, le decorazioni che marcano i punti di raccolta delle piogge e le linee di scorrimento, i moduli delle architetture, la scan­ sione dei piani e delle finestre mettono in scena il segreto della città: è l'acqua che arriva sotto forma di precipitazioni improvvise ritmate da leggi casuali o che si condensa comandata da principi sottili. Che si chiami cabala o meteorologia, numerologia o calcolo delle probabilità, la conoscenza sabea, tesa ad afferrare la logica del caos e a governarne i segreti processi, è soprattutto osservazione della natura e attenzione alle imperscrutabili leggi dell'universo: perché la chiave delle acque e dell'esistenza è nei cieli.

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Abitare la terra cruda: Shibam Se è vero che veniamo dalla terra, la terra è la nostra casa e il mondo intero la nostra famiglia. (Iscrizione su tessitura yemenita)

Il ciclo della fenice e degli aromi La fenice, il mitico uccello solare degli antichi testi, il bennu per gli Egizi, il simurg degli Arabi, alla fine della sua lunga esistenza si reca nella parte meri­ dionale dell'Arabia alla ricerca di mirra e incenso. Con i legni preziosi e le rare essenze si costruisce un nido resinoso, la sua ultima dimora che incendia in un rogo profumato. Le ceneri della fenice, consumata dal fuoco di aromi, sono bagnate dall'umidità, imputridiscono, e si forma un verme che cresce e ridiventa il magico uccello (Erodoto, II 73; Plinio, x 4). Il prodigio si ripete ogni 540 anni, il ciclo del grande anno cosmico, e ha un significato di rinascita e rinnovamento legato ai movimenti degli astri. Marca il ritorno delle costellazioni nelle posi­ zioni originarie, da cui sono slittate per il movimento di precessione degli equi­ nozi, e celebra il continuo ricorrere del sorgere dei segni zodiacali nelle stagioni di un tempo. Nel viaggio della fenice e nelle sue metamorfosi Marcel Detienne ricostruisce un'affascinante mitologia degli aromi basata sulle opposizioni: occi­ dente/oriente; umido/secco; freddo/caldo; insipido/aromatico; matrimonio/ seduzione; Demetra/Adone (Detienne 1972). Il pensiero greco riconosce nei primi termini della sequenza tutto ciò che gli è proprio: la razionalità, l'olimpica freddezza, i fondamenti delle istituzioni civili. Ai secondi riferisce la passionalità, l'eccesso, la perversione dei costumi e le sregolatezze di una società disorganiz­ zata. Aspetti propri all'umanità, ma inaccettabili dalla sapienza ellenica e relegati all'universo dell'Altro, identificato con l'Oriente e le sue categorie aliene. La terra misteriosa della fenice «è l'ultima delle terre abitate - scrive Ero­ doto - l'unica dove nascono incenso e mirra e cassia e cinnamomo e !adano (... ) Da questa terra esala un profumo di divina dolcezza» (Storie, III ro6-o7). Solo sui luoghi elevati di inaccessibili altipiani deserti, nelle aspre regioni infuocate dal

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calore tropicale, bagnate da rare piogge o irrorate da !abili vapori di condensa­ zione, crescono le misteriose piante aromatiche. Fino dal III millennio gli Egizi utilizzavano i segreti balsami nella mummifi­ cazione, da cui il termine imbalsamare. La pratica era ritenuta indispensabile per assicurare al defunto una vita ultraterrena, e si pagava qualsiasi cifra per la mirra che, grazie alle proprietà antiputrefattive, costituiva la base della ricetta per l'eternità. Le essenze, bruciate sugli altari, hanno lo scopo di attirare gli dei, sal­ gono nell'etere e, come la fenice, collegano quello che è in basso con quello che è in alto. Il fuoco e il fumo dell'incenso e della mirra, piante celesti che crescono sulla terra, uniscono i contrari: il putrido e l'igneo, il deperibile e l'incorruttibile, l'umano e il divino, la femmina e il maschio. La consuetudine di offrire alle divi­ nità le sostanze aromatiche ne aumentava enormemente il consumo soprattutto in occasione di feste e cerimonie che, proprio per l'uso massiccio dei profumi inebrianti, raggiungevano altissimi livelli di intensità e frenesia. All'epoca dei Tolomei una processione percorreva le rive del Nilo aspergendo incenso tra­ sportato da un'intera carovana di cammelli carichi di essenze e di legni aroma­ tici, mentre da un corteo di barche si levavano nuvole di vapori odorosi. Cen­ toventi ragazze inghirlandate di fiori di iris e di nardo recavano vasi d'oro pieni di incenso, mirra e zafferano, accompagnate da danzatrici nude dal corpo inon­ dato di profumi. Il carattere seduttivo e trasgressivo dei balsami aromatici è confermato dal mito della loro origine (Apollodoro, Biblioteca, III 14, 4; Ovidio, Metamoifosi, x 298-5 1 8). Mirra era una bella principessa presa da un amore incestuoso e irte­ frenabile per il re suo padre. Con l'inganno riuscì, senza farsi riconoscere, ad appagare per dodici notti la sua passione. Ma all'ultimo incontro, il padre, desi­ deroso di vedere la misteriosa amante, la illuminò con un lume. Capì allora di essersi unito con la figlia e sguainò la spada per ucciderla. Mirra, improvvisa­ mente consapevole dell'orrore commesso, scappò via sconvolta. Corse nove mesi fino alla terra dei Sabei dove, stremata, si fermò con il ventre gravido del frutto dell'incesto. Allora piangendo, per non contaminare «i vivi vivendo e morendo i trapassati», pregò di essere cacciata da entrambi i regni e fare di lei qualcosa d'altro a cui fosse negata sia vita che morte. Gli dei pietosi la trasformarono nell'albero della mirra e le sue lacrime divennero la preziosa essenza. Dal tronco, contorto come il corpo di una partoriente, nacque un bambino chiamato Adone. Il dio greco della bellezza e dell'erotismo di origine semitica. Conteso tra Per­ sefone, dea dell'oltretomba, e Afrodite, dea dell'amore, Adone trascorre l'anno diviso tra il mondo inferiore e quello superiore. Impersona il ciclo della vegeta­ zione con l'alternanza del periodo invernale, di germinazione nel sottosuolo,

e di quello estivo, di sviluppo alla luce. Tuttavia, coerente con la sua natura sregolata ed edonistica, non rappresenta le utili piante dei cereali, ma quelle dei fiori profumati ed effimeri. Il dio aromatico, infatti, ferito da un cinghiale, ha vita breve e viene trasformato in un anemone, il fragile fiore rapidamente sradicato da quei venti che gli danno il nome, poiché anemos in greco significa appunto vento. Il mito per la sua forte carica, dai caratteri trasgressivi e anticonformisti, non poteva che essere collocato dai Greci nella terra degli eccessi e dell'estraneità, negli spazi infuocati ai limiti del mondo, cinti dal mare primordiale. Questi luo­ ghi, secondo una tradizione che si perpetuerà in tutto il pensiero occidentale, diventano l'espressione del vuoto assoluto, la negazione delle norme civili, l'estrema ostilità, il trionfo delle illusioni. Ma si tratta di un'immagine costruita: la polis si contrappone al deserto per confermare se stessa, crea l'Altro per con­ solidare 1a propria identità. Rapportando il racconto della fenice e della mirra alle condizioni etnografi­ che e geografiche, si sfata il pregiudizio classico di un Oriente terra dell'irra­ gionevole, privo di storia urbana, e si scopre una regione dai caratteri propri, ma tutta reale. Anche il viaggio e la vita erratica, il desiderio dell'eterno ritorno, la forza del calore e dell'umidità, la carica evocativa degli aromi, il loro potere seduttivo e conservante, l'esplosione vitale ed effimera, la putredine tra­ sformata nel suo contrario sono parte di un mondo concreto, non una mera proiezione fantasmatica operata secondo un'idea di Oriente costruita come specchio e rifugio delle rimozioni dell'Occidente. Rappresentano condizioni di vita effettive e pratiche utilitarie, finalizzate all'organizzazione e costruzione del proprio spazio operate dalle genti. È così possibile aggiungere ai diversi piani di significato del mito, sociologico, astronomico, botanico, alchemico, un codice d'ihterpretazione basato sul rapporto materiale stabilito tra le genti e l'ecologia dell'Arabia Felix. La mirra e l'incenso sono alberi tipici delle zone aride. Bassi, dalla chioma aerodinamica, con foglie piccole e spinose per controllare al massimo il dispen­ dio di liquidi dovuto all'evapotraspirazione, utilizzano meravigliosamente le risorse limitate. Come bonsai naturali, hanno una crescita lenta, stentata, quasi in animazione sospesa. L'intensa forza vitale è tutta all'interno del tormentato tronco legnoso: nella linfa densa, dorata e odorosa. Questa concentrazione di essenze nutritive rende la resina spessa e gommosa. La dota di un prepotente richiamo olfattivo, indispensabile nel deserto dove le piante devono faticosa­ mente contendersi i rari insetti necessari al ciclo riproduttivo. Così dalle pieghe della corteccia antica, ma liscia, tesa e luminosa come la pelle di una partoriente,

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stillano in dense lacrime le gocce della preziosa sostanza. Formano sfere tanto più pure quanto più solare è la loro trasparenza. Racchiudono l'energia del giorno e l'umidità delle notti, l'odore di brezze lontane e il sapore di rocce sgre­ tolate da millenni di erosione. Per questo l'incenso e la mirra venivano conside­ rati alberi divini, perché crescevano senza acqua, su altipiani sterili, nutriti di caldo e di vento, utilizzando i principi eterei della condensazione. A ragione la loro resina è stata una delle sostanze più desiderate dell'antichità : quintessenza della forza vitale che sconfigge l'aridità del clima e la degradazione del tempo, farmaco divino, aroma di seduzione, memoria di paradiso. Le piante erano custodite con gelosia dai paesi produttori e circondate da un alone di mistero. Questo spiega come mai fino dai tempi degli autori antichi ai nostri giorni si faccia confusione tra le diverse specie botaniche e le differenti qualità di resine spesso sottoposte a svariate sofisticazioni. Con il nome di incenso, bokhur in arabo, si designa una gamma di materie odorifere preparate con varie sostanze resinose. Dal punto di vista botanico le due piante regine degli aromi sono la Boswellia, nelle varietà thurifera e carterii per l'incenso, e la Commiphora myrrha o Abyssinica, per la mirra. L'incenso è un alberello basso dalla scorza liscia che si squama in sfoglie tra­ sparenti. Nelle stagioni più calde sboccia con un fiore dorato a sei petali dalla parte centrale color porpora ed emette dal tronco piccole gocce di resina. Prati­ cando delle incisioni è possibile effettuare tre raccolti ali'anno di queste sfere tanto più preziose quanto più sono grandi e bianche. Lubam, che vuole dire bianco, lebonah in ebraico, è infatti chiamata nello Yemen la resina pura dell'incenso ancora oggi molto cara. Accostata a carboni accesi, libera un fumo candido dal forte odore balsamico, denso di proprietà esaltanti che spingono a sognare. Questi effetti delle fumigazioni, paragonabili a quelli della cannabis, erano noti agli antichi che ne facevano un uso mistico. Il nib, l'incenso, era detto dagli Egizi s-neter «colui che permette di conoscere il neter», la divinità, l'essenza della natura. Le qualità meno pregiate erano usate nei riti di purifica­ zione, non solo a scopo simbolico, ma per le loro proprietà antisettiche. L'aria e le pareti asperse mediante le fumigazioni risultano disinfettate e così durante le feste pubbliche si prevenivano le malattie e i contagi tra la folla. In paesi dal clima caldo dove è più facile la diffusione di epidemie e parassitosi, queste pro­ prietà dell'incenso erano molto importanti. La fumigazione delle vesti o il suo uso nel maquillage mischiato al kohl, la polvere per gli occhi, aveva una funzione preventiva contro infezioni molto comuni. Ancora oggi esso ha svariati usi medici come antiemorragico e antisettico nelle affezioni respiratorie, genitali e oculari. Viene direttamente masticato come una gomma americana o utilizzato per rendere pura l'acqua facendo attraversare il liquido dai suoi fumi. La

bevanda cosl preparata ha per i matematici dell'antica università di Zabid un effetto positivo sulle funzioni cerebrali e stimola la memoria. Queste proprietà corroboranti sono in modo ancora maggiore collegate alla mirra. La pianta è più bassa di quella dell'incenso con un tronco tarchiato, quasi umano per le sue lisce rotondità strette da anelli nodosi. Ha spine lunghe che si dipartono direttamente dai rami. Da questi stilla una linfa ambrata, la stakte o lacrima di mirra, che si vendeva a Roma tre volte più cara del migliore degli incensi. L'essenza è talmente persistente che rimane intatta per anni e viene usata in piccolissime parti per fissare gli altri profumi. È l'unica sostanza bal­ samica dalle proprietà antiputrefattive e quindi utilizzata nella mummifica­ zione. Per questi motivi era considerata simbolo di incorruttibilità, di eternità e di memoria. Il nome mor, murr, nelle lingue semitiche significa amaro e la mirra ha infatti un odore caldo, mordente e amarognolo di non facile apprez­ zamento. Se l'incenso invita all'elevazione spirituale, la mirra scuote e stimola. Per i Greci era un forte afrodisiaco. Non va ingerita durante la gravidanza. Serve invece dopo il parto, infatti il suo unguento combatte le smagliature. Forse per questo uso venne offerta alla Madonna alla nascita di Cristo insieme all'oro e all'incenso. O perché, amaro frutto di lacrime divine legate alle vi­ cende di nascita e morte di un dio, preannunzia nei momenti della felicità il dolore futuro. Nell'uso odierno le essenze aromatiche rimangono legate alla seduzione e all'erotismo. Le donne yemenite si occultano completamente agli sguardi fasciando il corpo di lunghi vestiti di seta nera e nascondendo il viso dietro inquietanti maschere di pelle o tessuto. Si rivelano però all'olfatto lasciando al passaggio una scia di aromi che le distingue perfettamente. È il risultato di gior­ nate passate in una camera di fumigazione, in cui il corpo si impregna delle sostante preziose, acquista tonalità dorate e un profumo che è sintesi degli umori personali e delle essenze divine. In alcune famiglie arabe, dove è ancora in uso la regola di fare sposare due giovani senza che si siano mai visti prima, il bokhur ha un ruolo sociale fondamentale nei delicati momenti di incontro e avvio alla conoscenza comune. Sulla pelle della donna vengono inserite in parti nascoste alcune tracce di sostanze profumate. La prima notte di matrimonio il novello sposo, completamente bendato, deve trovare i punti odorosi esplorando con l'olfatto il corpo nudo della giovane moglie. Il rito risolve, in un intreccio di gioco, sfida ed erotismo, il delicato momento iniziale dell'accettazione e della conoscenza reciproca. Quello che allo sguardo viene negato, è svelato grazie all'aroma che infrange il pudore verginale svolgendo il suo ciclo di mediatore dei contrasti, strumento di congiunzione, sigillo del rapporto vitale. 133

Civiltà del deserto, arte della memoria

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Le coppie di opposizioni negazione/seduzione, nomadismo/sedentarizza­ zione, cancellazione/ricordo, costruzione/distruzione permeano la tradizione e la cultura dei popoli arabi. Derivano dai forti contrasti di questa terra, dove la con­ dizione di ombra o di sole, di umidità o di aridità, di solitudine o di solidarietà può fare in qualsiasi momento la differenza tra la vita e la morte. Dai tempi più remoti la brutalità dell'ambiente ha selezionato le genti tese in un impegno di sopravvivenza, che vede momenti di accentramento e di edificazione urbana alternarsi a fasi di dispersione caratterizzate dalla vita erratica e pastorale. Nelle condizioni del deserto la vita stabile è un lusso e può organizzarsi solo grazie alla profusione di enormi sforzi e a un'accurata sapienza ambientale, capace di rea­ lizzare agglomerazioni oasiane. Gli insediamenti sono situati lungo le direttrici che permettono le relazioni tra la costa e l'interno e le vie di comunicazione nord-sud lungo le depressioni e le ramificazioni dei fiumi fossili. Le oasi, luoghi di sosta per le carovane e di scambio di merci provenienti da paesi lontani, anche se di modeste dimensioni, hanno sempre caratteristiche urbane. L'attività agri­ cola è infatti una componente primaria dell'economia oasiana, ma non la sola. Gli enormi sforzi necessari per strappare al deserto le superfici coltivabili, gli imponenti lavori idraulici e le realizzazioni architettoniche sono giustificati dal ruolo assunto dalle oasi nel commercio a lunga distanza. Tramite la rete delle vie carovaniere e i movimenti dei gruppi nomadi, le oasi divengono i poli di un reti­ colo economico che si estende su scala molto vasta. Se l'oasiano ha cultura cosmopolita e cittadina, il nomade, a sua volta, non è uno sradicato che conduce una vita errante e avventurosa per il solo piacere o per caratteristica genetica. La sua condizione non è il residuo di un lontano passato dell'evoluzione sociale umana, uno stadio arretrato rimasto immutato rispetto al progresso generale. Costituisce, invece, il migliore uso dell'ambiente del deserto, una capacità razionale di vivere in un territorio tra i più ostili e difficili del pianeta, dove l'allevamento praticato secondo la grande transumanza per­ mette l'organizzazione ottimale di uno spazio dalle risorse scarse e disperse. Le capacità acquisite per trovare i pascoli che possono improvvisamente spuntare in una zona grazie a imponderabili fattori microclimatici, per reperire i punti d'acqua e le direzioni di percorso, vengono applicate nell'impianto del commer­ cio carovaniero a lunga distanza. Nello Yemen fino dai tempi più remoti il suolo meno arido e le piogge più abbondanti avevano permesso l'insediarsi di civiltà basate su una solida orga­ nizzazione agricola. Il benessere conseguito provocava una continua crescita demografica che, a causa della scarsità di terre coltivabili, poteva trovare sbocco

solo nell'espulsione della popolazione in eccesso. Le genti, strette su tre lati da mari al di là dei quali vi erano terre altrettanto inospitali, erano costrette a emi­ grare verso nord, nel deserto interno. È così che gruppi portatori di conoscenze e di cultura sedentaria, a cui la domesticazione del dromedario già dal XIII-XII secolo a. C. aveva fornito un formidabile strumento di locomozione per il deserto, assicuravano la loro esistenza dandosi alla vita nomade e all'allevamento ovino e cammellino. Tuttavia, quando si davano condizioni favorevoli, riassu­ mevano la vita stabile utilizzando le tecniche idrauliche per la creazione di oasi. L'eccedenza di popolazione nello Yemen era un fenomeno continuo e inces­ santemente giungevano nel deserto nuovi gruppi che spingevano ancora più a nord i precedenti. Il processo si ripeteva, alternando nomadismo e sedentariz­ zazione, pacifica'Zioni e conflitti, di oasi in oasi lungo tutto il deserto arabico fino a quello iracheno e siriano per terminare, dopo un viaggio di parecchie gene­ razioni, nelle fertili terre della Mesopotamia e sulle sponde del Mediterraneo. L'afflusso costante di popoli dalle regioni aride meridionali nella Mezzaluna Fer­ tile è attestato dal IX secolo a. C. nei testi cuneiformi di Mari e non è mai ces­ sato: ogni famiglia «cittadina» installata nel nord tramanda il ricordo ancestrale della lunga traversata. «Lo Yemen è la culla degli Arabi e l'Iraq è la loro tomba» dice un proverbio arabo, esprimendo la consapevolezza dei cittadini delle loro origini nomadi e del lungo periodo di permanenza nel deserto che, come una pos­ sente forgia, ha plasmato gli uomini e temprato le dinastie rendendole capaci di grandi realizzazioni. L'andamento ciclico della condizione nomade/sedentario è lo stesso riscon­ trato con quasi le medesime modalità nel Sahara, dove i gruppi berberi seden­ tari con la diffusione del dromedario si danno alla vita nomade per sfuggire all'occupazione romana. Il modello sociale è descritto nella Muqaddima (Intro­ duzione) di Ibn Khaldun, formatosi nella cultura urbana dell'Andalusia e del Magreb del XIV secolo. Pur rimproverando ai nomadi il ruolo di razziatori e distruttori, Ibn Khaldun riconosce che il rinnovamento delle dinastie e la ric­ chezza dei commerci derivano dalla vita nomade e dagli spazi deserti. La società, umran, si fonda su entrambi i termini dell'opposizione: la vita nomade, badiya, da cui deriva il nostro modo di dire beduino e il termine più corretto bedu; e quella sedentaria, hadra. La prima, scrive lo storico arabo padre della sociologia, è caratterizzata dall'utilizzo diretto della natura e dalla soddisfazione dei biso­ gni elementari, e vi dominano i rapporti di fierezza e di lignaggio; la seconda si basa sulla trasformazione della natura e si organizza sulla divisione del lavoro, determinando le classi e il dominio di un'aristocrazia economica (Ibn Khaldun 1 978, 1, p. 24 1). Capacità delle grandi dinastie e dei forti momenti di espansione araba è stata quella di tenere insieme i due poli. Così fu per i regni sabei e que-

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sta è stata la grandezza dell'Islam: stabilire un'alleanza tra nomadi e cittadini, un'armonia tra natura e cultura, riconoscere accanto allo spazio delle leggi, il bled al-makhzen, quello della insubordinazione, il bled as-siba, entrambi istitu­ zionalizzati nel comune dar al-Islam, la casa dell'Islam (Petruccioli 1985). Conservare l'Altro costantemente dentro di sé, interiorizzato, e non espulso per creare il diverso barbaro, è la grande specificità delle culture del deserto. In mancanza di riferimenti statali stabili sono i legami familiari e di lignaggio ad assicurare la coesione sociale. La parola data, la fierezza, l'ospitalità, il codice d'onore costituiscono i vincoli immateriali, quindi trasportabili e più solidi di qualsiasi organizzazione statale. La tradizione orale, l'epica, la poesia divengono forme di memorizzazione e di identità indispensabili per gruppi che restano divisi per anni e si ritrovano in occasione di grandi riti periodici. È possibile che la stessa nascita dell'alfabeto, il passaggio dal sistema pitto­ grafico a quello astratto, sia proprio dovuto all'incontro di nomadi e sedentari attraverso le piste dell'Arabia (Mandel 1973). Il sedentario si forma un'imma­ gine naturalistica delle cose e le disegna in modo realistico dando origine alle prime forme di caratteri. Il nomade, per le necessità del commercio e del com­ puto pastorale, sviluppa il sistema di trascrizione e lo semplifica e graficizza. La percezione dinamica della vita e della realtà lo porta all'astrazione simbolica, così i segni divengono sempre meno naturalistici e più geometrici, ha origine l'alfa­ beto. La grande qualità grafica dei caratteri sudarabici dimostra il grado di maturità raggiunto da questo processo e l'alta propensione al gusto raffinato ed estetico nella cura dei minimi dettagli. La scrittura araba riconosce di essere tri­ butaria alla terra del deserto. Per i maestri calligrafi le consonanti, che si allun­ gano sulle pagine da destra a sinistra, seguono la direzione del cuore e rappre­ sentano le file delle carovane di cammelli nel deserto. Le vocali, non apposte, o segnate come punti diacritici sopra e sotto le linee, costituiscono le anime dei viaggiatori, compagne invisibili, ma sempre presenti. Un particolare tipo di cal­ ligrafia araba denuncia nel nome, ancora conservato, di huruf al-ghubar, lettere di polvere, la sua origine di segni tracciati su una superficie di sabbia. La tecnica ha un diretto rapporto con antichissime pratiche geomantiche ancora in uso tra i Tuareg ed è alla base del calcolo matematico. I quadrati magici e le tavole arit­ metiche hanno una comune radice nella pratica nomade di utilizzare superfici sabbiose per scrivere e calcolare. La possibilità di cancellare e riposizionare i segni è il presupposto di tutta la moderna scienza dei numeri. Anche il termine abaco, di origine semita, in ebraico significa polvere. La parola al-ghubar, uti­ lizzata dal matematico al-Khuwarizmi all'università di Zabid, darà il nome alla nostra algebra. Siamo in genere abituati a leggere la grandezza di un popolo nelle realizza-

zioni auliche delle architetture. Queste certamente non mancano ai popoli suda­ rabici che necessitano di istituzioni urbane, giuridiche e religiose: il tempio, costruzione stabile per raccogliere l'intero gruppo; il luogo dell'abluzione con le opere idrauliche connesse; i centri di insegnamento e di commercio. Le dinastie, per consolidarsi e governare, moltiplicano le città secondo il modello degli inse­ diamenti nel deserto. Aree irrigue sono create utilizzando situazioni geomorfo­ logiche favorevoli in sistemi geografici precisi. Una grande capitale domina cia­ scuna unità di paesaggio: bacini isolati in mezzo al deserto; grandi pianure tra picchi montani; nastri di oasi lungo reti idrografiche; crocevia di strade lontane, internazionali o intercontinentali. Il nomadismo mantiene i collegamenti tra questi poli: è la forza militare, la capacità di mobilitazione e la rapidità di spo­ stamento; diviene lo strumento di conquista e il veicolo dei commerci. Assicura i contatti e l'espansione culturale, ma soprattutto la resistenza nei momenti di catastrofe ed esodo. Così la cultura dei popoli del deserto si tramanda non nelle architetture imponenti destinate prima o poi al decadimento, ma in beni imma­ teriali e in segni minimi. È perpetuata nei valori culturali memorizzabili come i modi di fare, la letteratura, l'arte, o in manufatti artigianali facilmente traspor­ tabili quali il cesello, la tessitura, la decorazione. Si può affermare che l'orga­ nizzazione di un accampamento, la struttura di una tenda, la costruzione di terra cruda comprendono e superano in pianificazione, design e tecnologia qualsiasi architettura aulica. Le case emisferiche di canna dei Tuareg nelle loro diverse evoluzioni di tende in pelle o in lana e gli arredi temporaneamente e rapidamente montati hanno in nuce caratteristiche strutturali e potenzialità di sviluppo di variegate forme architettoniche come le cupole, le esedre e i recinti . Nelle srefe mesopotamiche e nelle capanne di canna dei Rasciaida in Eritrea si realizzano, legando insieme fasci vegetali, strutture dalla volta a botte decorate da elementi architettonici di colonne, timpani e tetti a spiovente. Con i giunchi vengono fatte leggere imbarcazioni facilmente trasportabili nel deserto, dove fungono da pratici tetti mobili pronti al riuso nautico in caso di corsi d'acqua in piena. Ancora oggi leggere piroghe di papiro simili alle raffigurazioni neolitiche navi­ gano sul lago Tana in Etiopia, nell'alto Nilo e in Sardegna. La cultura nomade perpetua in queste forme conoscenze e tecnologie. Quando, sotto il peso di una crescita demografica sempre più forte, è stato impossibile mantenere in esercizio le enormi opere idrauliche, l'antico regno dei Sabei è scomparso. Varie fasi di crescita, di collasso e di dispersione della popo­ lazione si sono succedute nel tempo. Durante i periodi di crisi, le genti partivano riprendendo la vita del deserto. Il patrimonio di conoscenze veniva conservato e trasmesso tramite la tradizione orale o era affidato a supporti trasportabili. Sono così la tessitura, gli ornamenti, i monili e le decorazioni, indossati o dise-

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gnati sul corpo stesso, a costituire veicoli di memoria e di sapere. Questo spiega come in un ricamo o in un tappeto si possano riconoscere i segni di lavori agri­ coli e idraulici, come il maquillage di un volto femminile rifletta i motivi decorativi di un'abitazione o come un anello possa ricordare complesse architetture. Nei lunghi periodi trascorsi nel deserto questi disegni e oggetti acquistano un valore simbolico, si caricano di contenuti immaginari e favolosi. A volte viene perso completamente il significato funzionale d'origine e si continua a ripro­ durre la sola forma con ossessione e ridondanza figurativa. Altre volte sono la nostalgia e il desiderio della terra perduta, della casa promessa a trasformare i ricordi in allucinate fantasie. La città delle origini e della memoria si identifica con la meta finale e il percorso materiale diviene la metafora di un cammino spi­ rituale. Per questo le architetture e le città arabe hanno spesso l'aspetto di crea­ zioni fiabesche e oniriche. Sbocciano improvvisamente dopo essere state a lungo interiorizzate. Come un sogno ricorrente di cui non si distinguono più gli ele­ menti del contesto reale da quelli ricostruiti dalla mente, sono il prodotto della memoria continuamente e collettivamente alimentata nei racconti ripetuti durante le lunghe veglie delle carovane.

La città carovana

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La dimensione del viaggio, dello spostamento, del commercio è indispensa­ bile a comprendere la struttura organizzativa e sociale dello spazio arabo. Il mondo è nel Corano un insieme di città lontane collegate dalle carovaniere (sura xn) . L'organizzazione itinerante che assicura i trasporti ha un ruolo e un valore pari ai poli del sistema. Le città si ripetono, simili nella struttura territoriale, nella rete idrica, nelle architetture, lungo percorsi estesi su scala intercontinen­ tale. Sono spaziate secondo moduli precisi dovuti alle esigenze delle tappe. Il commercio, richiedendo condizioni di supporto accettabili in ogni situazione lontana, spiega la trama organizzativa urbana omogenea in ogni centro: il pal­ meto, il serraglio per le carovane, il cimitero e il tempio esterno all'abitato, l'asse del mercato percorribile senza penetrare il tessuto delle abitazioni private, i grandi edifici religiosi con i bagni e gli alberghi. Sarebbe tuttavia fuorviante pen­ sare a un modello costituito da due mondi separati: le carovane in perenne movi­ mento e le città loro stazioni di servizio. Si tratta invece di due aspetti di uno stesso fenomeno. La città organizza e struttura le vie commerciali e i convogli, ma è vero anche il contrario: la carovana crea l'agglomerato urbano. Per dimensione, organizzazione, popolazione, varietà di beni e strutture tra­ sportate, le periodiche grandi carovane commerciali possono essere considerate

vere città in movimento. La struttura commerciale è, infatti, una derivazione della vita nomade basata sullo spostamento di grandi gruppi con tutti i propri beni. Questa capacità e propensione hanno creato nella storia il caso di interi popoli per lunghi periodi in marcia o di grandi dinastie fondate su una capitale itinerante. L'epopea ebraica è un esempio a tutti noto della prima situazione. Le carovane dei re persiani esemplificano la seconda. Prendendo modello da que­ sti ultimi, lo stesso Alessandro il Grande soleva muoversi con una città viag­ giante. È rimasta nella storia la grande carovana del re del Mali Kankan Mussa, che nel I307, con enorme seguito, compì il lunghissimo viaggio da Timbuctù a sud del Sahara fino alla Mecca, trasportando beni e attività artigianali in tale abbondanza da travolgere il corso dei cambi e le economie dei paesi attraver­ sati. La tradizione delle grandi carovane è molto arcaica e rimonta alla storia mitica dei popoli. I racconti arabi abbondano dei viaggi intrapresi dalla regina di Saba. La Bibbia narra del suo ingresso a Gerusalemme «con grande e ricco seguito, con i cammelli, gli aromi, oro in grande quantità e pietre preziose. Mai furono portati tanti aromi quanti ne offrì in dono a Salomone la regina di Saba» (I Re, IO, I- I3). Anche se di più piccole dimensioni, le compagnie di mercanti e viaggiatori formate per i lunghi percorsi del deserto avevano sempre la complessità di vere città in movimento. Quando la carovana sostava, l'accampamento rispondeva a precisi principi organizzativi e difensivi, simile in impianto a un agglomerato urbano. L'installazione improvvisa intorno ai punti d'acqua, a una cittadella, a un castello di caccia di una grande quantità di strutture e persone è forse all'ori­ gine di tante leggende su città rapidamente spuntate nel deserto o planate dal cielo come un tappeto volante. Molti centri arabi dal perfetto rigore geometrico e dalla rigida pianificazione urbana fanno pensare a queste fantastiche creazioni e hanno invece una origine concreta proprio nelle esperienze di installazione dei campi nomadi. Il consolidarsi della carovana crea la città e ciò ne spiega le sue caratteristiche. È all'inizio un luogo di sosta in un'area organizzata con strut­ ture idriche e di produzione agricola. Conformandosi a questa matrice, che ha leggi e trama organizzativa sue proprie, si crea l'agglomerato stabile come pas­ saggio dal sistema di tende a quello costruito: una città oasi spesso strutturata intorno al tempio o alla cittadella luogo di deposito collettivo delle merci ospi­ tate in queste che sono per un lungo periodo iniziale le uniche strutture in mura­ tura. Si consolidano poi i palazzi, le residenze deposito privato dei ricchi mer­ canti e in seguito le altre abitazioni. L'ultima struttura a divenire stabile è il mercato che, legato ai movimenti commerciali, resta più simile nel tempo a un'organizzazione mobile o precaria. Questo processo spiega perché le città arabe sono spesso strutture doppie. Il centro urbano, una volta formato e cinto

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da mura, ricrea all'esterno un nuovo spazio per la carovana che, con il tempo, può dare origine a una seconda agglomerazione. Oltre al modello della città accampamento che si crea improvvisamente dal nulla, c'è quello del centro completamente costruito e tenuto in perfetta effi­ cienza, ma abbandonato per la gran parte dell'anno. Sono città che ricevono una popolazione solo nei momenti dei grandi pellegrinaggi, occasione in cui un'accu­ rata manutenzione viene effettuata su tutte le strutture e gli edifici. Nell'Hadra­ maut un esempio ancora intatto di queste città deserte e improvvisamente ripo­ polate, legate a remoti culti dell'acqua e della vegetazione, è l'agglomerazione ai piedi del mausoleo Qobr Nabi Hud. Venerato da tempo immemorabile come la sepoltura di Hud figlio di Noè, il santuario è costruito intorno a una grande pie­ tra dove sgorga dell'acqua alimentata da un raccoglitore posto più a monte. Il profeta, che è il fondatore eponimo dell'Hadramaut (il cui nome potrebbe volere dire proprio luogo della morte di Hud), avrebbe per primo coltivato qui la pianta del caffè. L'alacre lavoro di restauro a cui sono periodicamente sotto­ poste le abitazioni e i monumenti ricorda le pratiche dei luoghi sacri collocati sugli itinerari della preistoria, quando in occasione dei grandi raduni si rinnova­ vano i dipinti rupestri con veli di pittura stratificati l'uno sull'altro e si rinsal­ davano le tradizioni. Le città fondate per intercettare e gestire i traffici divengono stabili e assu­ mono un ruolo a seconda della linea commerciale che controllano. Più che di stati territorialmente definiti sono capitali di una grande carovaniera interna­ zionale. La loro economia dipende dai lunghi convogli di cammelli le cui soste, organizzazione e partenze ne scandiscono i ritmi di vita. A Timbuctù l'arrivo della grande carovana del sale, l'Azelai, proveniente da Marrakech, si dice fosse annunziato alla popolazione trepidante dal canto della montagna. Il fenomeno era provocato dal battito, amplificato nei canyon, dei tanti zoccoli sulle dure cro­ ste rocciose del deserto (Bovill 1978). Il modello della città carovana necessita di un forte supporto economico come il commercio del sale e dell'oro attraverso il Sahara, della seta nei deserti asia­ tici, dell'incenso e della mirra in Arabia. Ogni via carovaniera non è un unico tracciato, ma è costituita da una serie di piste utilizzate secondo i periodi storici e le città che le controllano. Inoltre non è uno stesso convoglio che percorre tutto il tragitto della via del sale, della seta o dell'incenso, ma le carovane si sciol­ gono e si riformano nelle diverse città che sono le vere organizzatrici dei com­ merci e rimangono padrone dei segreti degli itinerari e dei percorsi. Per questo motivo in Europa sono rimaste ignote le aree di produzione degli aromi. A volte l'origine del prodotto è attribuita all'ultima città emporio come Alessandria o Petra. Oppure si favoleggia intorno a mitiche capitali mai raggiunte.

70 .

Le abitazioni rurali yemenite sono alte case torri di terra cruda. Le necessità di difesa impongono la mimesi con il paesaggio e la diminuzione delle luci di apertura.

71-75. Il ciclo di produzione della al e nella valle dell'Hadramaut simboleggia una metamorfosi sacra. La calce pietra (hagiar) è bruciata con sterco. Trasformata in calce viva è battuta e spenta al ritmo di canti erotici. Diventa nur, la luminosa, modellata in pani di calce usati per imbiancare gli edifiéi sacri.

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76 . Il Qobr Nabi Hud, mausoleo del profeta Hud all'estremità del wadi Hadramaut, è un complesso costruito intorno a una grande roccia, dalla quale sgorga l'acqua raccolta sulla montagna venerata da tempi anti­ chissimi. Intorno al monumento sorge un'intera città, deserta tutto l'anno e improvvisamente abitata nei tre giorni del pellegrinaggio, ma sempre accuratamente tenuta.

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77. La grande moschea di Shibam costruita, secondo la tradizione, durante il regno di Harun al-Rashid, il califfo delle Mille e una notte.

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78 . Come nell'antica Babilonia le seminatrici dell'Hadramaut seguono l'aratro inclirizzand tramite un bastone forato.

il s

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nel solco

79- 8 2 . L'humus impastato con acqua e paglia, modellato tramite stampi di legno, forma i piatti e larghi mattoni di terra cruda per la costruzione. Nell'Hadramaut si edificano ancora in questo modo con rapi­ dità grandi case destinate ognuna a una sola famiglia.

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83. La valle dell'Hadramaut e l'antica città murata di Shibam circondata dagli argini e dai canali del sist tradizionale di ripartizione delle piene e coltivazione dei campi, in gran parte abbandonati.

·mn

84. L'area centrale di Shibam con le antiche case torri. I piani elevati sono imbiancati per imperm ·abilizzare le terrazze di terra cruda. La calce, conferendo un disegno omogeneo alla molteplicità delle architetture, simboleggia l'unità della comunità nella varietà delle famiglie. 148

85 . La moschea nella piazza di ingresso. Il color verde del minareto è un simbolo della vegetazione.

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86-87. L'antica diga di Shibam usata non per creare un bacino a cielo aperto, ma p'r ri1 arLirc le piene su una piLl vasta superficie.

88-89. Gli sbarramenti indirizzavano i flussi in piccoli impluvi, dove il terreno saturo di umidità per­ metteva le coltivazioni tutto l'anno.

90. Ad al -I Iajarain, situata nel wadi omonimo, uno degli innumerevoli affluenti dell'I ladramaut, sono ancora in uso i sistemi di ritenuta delle piene in piccole depressioni e giardini separati da argini di terra.

Shabwa, citata da tutti gli autori antichi, ricordata da Plinio (xn 63) con il nome di Sabota e così indicata nel planisfero di Tolomeo, è rimasta sempre misteriosa e inaccessibile agli stranieri. La città carovana, posta nel cuore del deserto del Ramlat as-Sabatayn, domina la via dell'incenso, collegata a sud con il suo porto di Qana sull'Oceano Indiano, e a nord con Gaza sul Mediterraneo, dopo un tragitto di zooo chilometri, percorso, dice Plinio, in 65 tappe. La regione, oggi completamente arida, ha rivelato alle prospezioni e agli scavi com­ piuti da Jacqueline Pirenne nel 1975 e nel 1977 innumerevoli tracce di strutture di raccolta e condensazione dell'acqua sul jol, il tavolato pietroso ai cui piedi è situata. Secondo la studiosa queste strutture, fatte da allineamenti di pietre lungo il bordo e da cumuli vuoti all'interno, servivano a captare l'umidità emessa dalle stesse antiche coltivazioni di palme e ortaggi che, come a Marib, si esten­ devano tutto intorno a Shabwa. Si permetteva così l'esistenza sull'altopiano delle segrete piante della mirra e dell'incenso. Plinio riporta che tremila famiglie avevano il diritto ereditario di sfruttarle. I raccoglitori erano considerati sacri e rispettavano determinati obbli­ ghi di purificazione. Quando i tronchi e i rami avevano un aspetto pieno e roto1_1do, simili alle braccia di un bambino paffuto, veniva incisa la scorza tesa e sottile nei punti dove si presentava più gonfia di linfa. La resina sgorgava agglutinandosi in sfere di pregio differente secondo la qualità e la dimensione. La stagione e il momento del raccolto, scelti secondo precisi canoni astrali, e così pure l'osservanza delle procedure rituali, determinavano considerevoli variazioni di apprezzamento e valore. Si otteneva così una svariatissima gamma di pro­ dotti. Le concrezioni emesse naturalmente dalla pianta erano le migliori e rag­ giungevano il massimo del pregio quando si aspettava a raccoglierle finché non divenivano una grossa palla bianca, detta mammellare, che riempiva tutta una mano. La resina di alberi più sfruttati era di qualità via via minore fino ad arri­ vare a quella di piante la cui stessa sopravvivenza era messa in pericolo dall'avi­ dità dei proprietari. Il prodotto disteso su larghe stuoie era accuratamente sele­ zionato da donne accovacciate sui talloni secondo la consuetudine dei popoli del deserto. Le diverse qualità venivano poi portate in città e disposte nel tempio del Sole, presidiato da guerrieri armati, in mucchi ordinati recanti ognuno una tavo­ letta con la misura e il prezzo richiesto. Assenti tutti i proprietari, venivano ammessi nel tempio i mercanti che, fatta la scelta, prendevano le essenze e lascia­ vano al loro posto il prezzo richiesto. Un sacerdote passava infine a prelevare la terza parte del denaro e il rimanente era a disposizione dei venditori ( Teofrasto, Ricerche sulle piante, IX 4-6; Plinio, xn 5 8-6o). La curiosa pratica di scambio, che evita accuratamente l'incontro tra il com­ pratore e il venditore, denominata commercio muto, è documentata nell'anti-

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chità in altre situazioni. Erodoto racconta dell'acquisto di oro effettuato dai Cartaginesi in modo simile con la misteriosa popolazione di una spiaggia oltre le colonne d'Ercole (Storie, IV r96). Il commercio degli aromi mostra come questa pratica permettesse alla città di trarre un alto beneficio dalla sua opera di inter­ mediazione e di mantenerne segreti i centri di produzione. Ancora oggi, a causa delle attuali condizioni desertiche e della gelosa custodia delle fiere popolazioni locali, molti autori dubitano che l'area di Shabwa possa essere stata una zona di produzione. Le imponenti vestigia in mezzo al deserto mostrano, invece, il ruolo antico. Sono ancora utilizzate le miniere di sale, un tempo più prezioso dell'oro negli scambi. La sua presenza favoriva la localizzazione dei primi gruppi pasto­ rali perché è indispensabile nell'alimentazione degli uomini e degli animali, spe­ cialmente nei lunghi percorsi in luoghi caldi e lontani dal mare. Stringendo un rapporto d'amicizia con i capi dei gruppi bedu installati sul sito archeologico, è possibile ancora vedere alcune specie dei preziosi alberi del paradiso. Si tratta di poche piante residuali delle ricche foreste di un tempo. Il vero segreto di Shabwa, dove si è perpetuata la memoria sabea e l'ingegno antico, è infatti nell'Hadramaut, la valle misteriosa di cui la possente città carovana era la chiave e il sigillo.

La valle della vita

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La rete idrica del wadi Hadramaut è l'unico estuario di un immenso implu­ vio alimentato da una serie di altipiani e massicci montuosi alti dai 2000 ai 3000 metri che convogliano le precipitazioni monsoniche verso l'interno desertico. Esse si perdono nel bacino sabbioso del Ramlat as-Sabatayn, la cui grande depressione sbocca a imbuto in una larga valle su cui, come in una torta di are­ naria scavata da mille rivoli, si inseriscono innumerevoli affluenti. È il corso del wadi Hadramaut che periodiche inondazioni hanno mantenuto relativamente libero scavando un percorso a oriente semiparallelo alla costa dell'Oceano Indiano. La profonda e lunga valle taglia per 250 chilometri gli altipiani deser­ tici dello Yemen meridionale ricevendo da sud e nord una serie di affluenti che scavano nell'arido jol una intricata struttura ramificata di canyon. L'ambiente è durante tutto l'anno caldo e arido, tuttavia la pioggia può arrivare in scrosci improvvisi e precisamente localizzati. Poiché numerosi affluenti drenano una vastissima superficie, le acque di precipitazioni lontane possono essere inaspet­ tatamente convogliate nell'alveo principale. Quando la condizione si verifica simultaneamente in più parti della ramificata rete idrografica, accadono piene irruenti e distruttive.

Dai tempi più remoti l'uomo ha imparato a utilizzare la particolare situazione climatica dalle condizioni estreme realizzando, in quest'area strategica ai mar­ gini del grande deserto dell'Arabia e nel cuore delle regioni di produzione delle preziose piante aromatiche, un denso sistema abitativo. Lungo la rete idrica dell'Hadramaut si sono succedute leggendarie capitali che hanno basato la loro ricchezza da un lato sul sapiente sfruttamento della risorsa acqua per le coltiva­ zioni e dall'altro sul commercio. I mercanti dell'Hadramaut non vendevano solo i prodotti della loro terra, ma dal riparo della loro valle segreta commercializza­ vano con i lontani stati europei le merci dell'Africa, importate attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb, e dei naviganti indiani, che conoscevano il segreto dei venti monsonici. Questi commerci fecero la prosperità della regione riconosciuta dagli antichi come la terra felice per eccellenza: l'Arabia Felix. Il quadro naturale e la situazione geografica hanno reso la valle dell'Hadra­ maut un luogo strategico d'insediamento, ma è l'incontro dell'ingegno dei popoli con la natura dei luoghi a renderla una delle aree più sorprendenti del pianeta, un ambiente privilegiato della storia culturale dell'umanità, un'oasi gigante, densa di vita e fervida di attività. Senza la costruzione di cisterne, di terrazza­ menti, di dighe, di ripartitori di flusso, di argini e di canali, le condizioni clima­ tiche estreme, che alternano l'assoluta aridità alle piene improvvise e distrut­ trici, avrebbero reso inabitabile il territorio: il paese è il risultato dell'opera di una laboriosa popolazione che ha edificato il proprio spazio e realizzato un monumento impressionante al prezzo di un investimento in lavoro considere­ vole, più che millenario (Chelhod 1 984). È l'antica scienza dei Sabei, sempre rinata attraverso l'avvicendarsi delle organizzazioni statali. Dopo il collasso di Marib la civiltà idraulica si perpetuò in altre regioni: nel Ma'in, a nord, con la capitale Yathil , poi chiamata Baraqish, dalle grandi mura circolari in pietra; nell'IIimyar, a sud-ovest, che assume importanza con l'apertura delle vie marit­ time dal Mar Rosso alle Indie; nel Qataban, al centro, con capitale Timna, che sottomise il Ma'in nel 1 secolo a. C.; e nell'Hadramaut, con capitale prima Shabwa poi Shibam. Se degli antichi imperi non restano che le impressionanti rovine di possenti città, nell'Hadramaut e a Shibam si è conservata ancora viva la tradizione di queste organizzazioni statali che per la necessità di cooperazione nell'approvvi­ gionamento idrico hanno espresso una forte unità sociale e un controllo pianifi­ cato sullo spazio. Lungo il wadi Amd, uno dei numerosi affluenti dell'Hadra­ maut, una rete di canali databile tra il IV e VI secolo a.C., o forse ancora più arcaica, dipartendosi dal tempio della Luna nell'antica Mudab (l'attuale Hurai­ dah) copre un'area di 7 chilometri quadrati. Comunità costituitesi nell'interesse reciproco dell'irrigazione utilizzano gli altipiani e le ripide pendenze, opportu-

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namente modellate e coibentate, come impluvi per raccogliere le precipitazioni in un sistema di bacini e di cisterne. Grazie a quest'opera costante e alle cono­ scenze tramandate da organizzazioni specifiche, vengono controllate le piene dei torrenti che si riversano irruenti dai pendii dopo le piogge. Poiché non vi è altra risorsa idrica disponibile, le regioni dei declivi devono la loro esistenza alla con­ servazione dei preziosi flussi e all'accurato lavoro di terrazzamento che crea le particelle di terreno tra cui viene minuziosamente ripartita l'acqua. Sulle larghe estensioni pianeggianti del letto del wadi l'ampia cooperazione sociale è ancora più necessaria. Ogni superficie coltivata dipende dalla realizzazione di lunghe dighe in pietra e malta, o in terra cruda. Il loro scopo non è quello di creare bacini idrici a cielo aperto, che sottrarrebbero terreno all'agricoltura e sotto­ porrebbero l'acqua a una forte evaporazione, ma di conservarla nel sottosuolo e di proteggere il terreno: le sporadiche piogge e le più deboli piene vengono uti­ lizzate saturando il suolo d'umidità attraverso le dighe che bloccano il flusso sot­ terraneo e trattengono l'humus; le precipitazioni irruenti e le piene distruttive sono controllate ripartendole con sbarramenti e argini su una superficie più vasta. Con pozzi e canali l'acqua viene poi usata per creare palmeti e campi col­ tivati nel secco, ma fertile, loess. Nella valle dell'Hadramaut le più lontane tradizioni agricole e costruttive si perpetuano immutate. Durante la semina la donna accompagna l'aratro con il compito di indirizzare i grani nel solco per mezzo di un lungo bastone forato. La pratica, legata alla necessità di controllare la corretta dimora di ogni seme e ad antiche credenze propiziatorie di fecondità, compare in un sigillo babilonese del n millennio. Le donne lavorano accovacciate nei campi, ammantate di vesti nere, munite di falcetto e protette da alti cappelli conici. Hanno l'aspetto delle stre­ ghe e delle fate dell'immaginario medievale e praticano ancora i segreti delle erbe dalle prodigiose virtù, erbe che nascondono nella lunga cavità del copri­ capo. Alla luce della luna piena di primavera celebrano con danze e riti di pos­ sessione il grande sabba, la festa sabea dedicata al dio lunare. Chiamato Sin,

9r. Aratro babilonese con seminatrice. Da un sigillo cilindrico del n millennio a.C. La pratica dell'indirizzo da parte della donna del seme nel solco tramite un bastone forato è ancora in uso nell'Hadramaut.

come tra i Sumeri, è una divinità maschile, ma piena di ambivalenze, apporta­ trice di umidità e profumata di mirra e aromi. Centinaia di insediamenti, castelli, torri di guardia, cisterne e fontane pub­ bliche si susseguono rivelando una trama territoriale frutto di un'antichissima e consapevole organizzazione sociale. L'enorme patrimonio edilizio è realizzato con la sola terra cruda dei sedimenti del wadi. Se il suolo non fosse trattenuto dagli argini, reso coltivabile attraverso i ripartitori d'acqua e protetto dall'ombra dei palmeti, sarebbe sottoposto all'azione distruttrice dell'erosione. Si verifi­ cherebbero l'aumento della salinità superficiale, lo smantellamento, la trasfor­ mazione in sabbia e la dispersione tramite il vento e le inondazioni. La terra invece viene fissata con il lavoro agricolo e utilizzata per la costruzione con un impasto di acqua e paglia, residuo dei cereali, per aumentarne la forza di coesione e alleggerire i mattoni. Le proprietà leganti sono dovute alle qualità col­ loidali dell'humus, risultato dell'apporto biologico fornito dagli escrementi. Così dall'agricoltura derivano i materiali per l'edificazione della città e, a sua volta, questa è determinante per la concimazione dei campi. Infatti un contributo fon­ damentale alla fertilizzazione della terra è dato dal recupero dei rifiuti organici umani e dal loro riciclaggio nelle coltivazioni. La pratica, che comporta adeguate e ingegnose soluzioni architettoniche, è leggibile nella città di Shibam, dove determina, insieme ad altri fattori tecnici, funzionali e sociali, l'intera morfologia urbana, dall'organizzazione dell'isolato fino alla struttura delle abitazioni.

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La continua rigenerazione della città

Su un terrapieno quadrilatero, regolare e compatto nel letto del wadi, Shibam si erge meravigliosa per la precisa forma geometrica e per la verticalità delle costruzioni. Le abitazioni, tutte a più piani e alte oltre 30 metri, sono realizzate con semplice terra cruda, il limo stesso trasportato dalle alluvioni. Sembrano moderni grattacieli, ma sono vecchie di cinquecento anni e in ognuna di esse vive una sola famiglia. Per il numero e l'altezza degli edifici Shibam è stata chiamata la Manhattan del deserto, ma è forse più appropriato, per affinità di luoghi e cultura, pensare a Babilonia, al sogno mai estinto di costruire più in alto e in modo sempre più audace. L'orgogliosa consuetudine yemenita impone d'abitare in posizione elevata, in palazzi e castelli, per ragioni di prestigio e di difesa come nelle case torri dell'Europa medievale. Vengono date di questa usanza spiegazioni di ordine simbolico: tutti i componenti della famiglia allargata pre­ feriscono occupare lo stesso suolo ancestrale e vivere in un'abitazione comune, che quindi si sviluppa in altezza. Ma vi sono anche motivi più specifici di ordine

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sociale e tecnico. L'utilizzo della terra cruda realizza un risparmio energetico nel combustibile altrimenti necessario per la cottura dei mattoni e determina le migliori condizioni di coibentazione termica degli edifici. Allo stesso tempo non si sottrae spazio all'agricoltura e si ottimizzano i fattori costruttivi legati alle tec­ niche e alle condizioni climatiche. Una casa di terra cruda, si dice, deve avere un ottimo cappello e buoni stivali, deve cioè essere protetta in alto dalle piogge e in basso dall'umidità: lo sviluppo in altezza degli edifici minimizza proprio le dimensioni del tetto e delle fondazioni, quelle parti dell'abitazione che necessi­ tano di un trattamento più accurato e costoso. Per le necessità di impermeabi­ lizzazione i piani elevati sono per questo imbiancati a calce. Il metodo di fabbricazione di questa sostanza, che ha in tutte le culture una parentela con la purezza e il divino, riassume il ciclo di esistenza della città. Le sue metamorfosi compiute tramite il letame, il fuoco e l'acqua rievocano la morte e la rinascita, richiamano la vicenda di un dio. La calce è all'inizio semplice pie­ tra estratta nelle viscere della montagna. Vicino alle cave sono realizzate enormi fornaci, abbandonate e spostate seguendo l'esaurirsi del materiale. Nel fuoco, alimentato con escrementi animali, la pietra si carbonizza, si trasforma e si puri­ fica. La calce «viva» è allora stesa in letti simili a sepolcri, ornati di coperture a baldacchino, dove è irrorata con acqua, martoriata e battuta. Il processo è scan­ dito da canti religiosi ed erotici che danno il ritmo al lavoro. Raccolta in pani, è usata come latte di calce per imbiancare le parti più esposte delle abitazioni. Sulle terrazze ripara dal caldo e protegge le murature di terra cruda dall'azione distruttiva delle piogge permettendo di raccogliere le acque, rare e preziose. Alla base degli edifici disinfetta e impedisce le infiltrazioni. Evidenzia i mausolei e gli spazi sacri come la grande moschea di Shibam, luogo di preghiera e di studio eretto all'epoca di Harun ar-Rashid, il califfo delle Mille e una notte. Così la calce ha preso dal fuoco la proprietà sterilizzante del sole, ha tratto dall'acqua la purezza e il colore bianco e da vile pietra, agiar, ha cambiato natura. Ora il suo nome è nur, la luminosa. Indica ascendenza e spiritualità, marca lo spazio del sacro e della preghiera, impermeabilizza i luoghi delle abluzioni, risplende sui terrazzi. Creando una banda candida sull'ultimo piano delle alte case torri, rende omogenea la sommità della città, conferendo unità al molteplice. L'impianto di Shibam con una trama stradale chiara e regolare contraddice le credenze sull'urbanistica islamica, descritta in genere come il regno del caos planimetrico e del disordine urbano. La città ha piazze proporzionate e un'ordi­ nata collocazione degli edifici e degli spazi pubblici. La viabilità mostra una pre­ cisa gerarchia di percorsi: la grande piazza alla porta di ingresso principale; l'asse del mercato; le piazze secondarie intorno a cui si organizzano i quartieri sedi di moschee più piccole; la rete di vicoli ciechi e di direttrici di attraversamento.

Questa ge metria complessiva non comunica monotonia e freddo rigore razio­ nale, c me quando si applica ciecamente un impianto stabilito con autorità. I sing li edifici, realizzati come unità indipendenti, concorrono in modo indivi­ duai alla costituzione del progetto globale, conferendogli armonia e varietà. Il risultato è di una qualità difficilmente riscontrabile altrove ed è ancora più sor­ prendente se si considera che le caratteristiche di alto valore urbano hanno qui origini più antiche che in qualsiasi altra città. La data di fondazione non è ancora archeologicamente provata. Alcune ipotesi propongono il XII secolo, altre il II a.C. Gli studiosi sono tuttavia concordi nell'affermare che la città nel II secolo d.C. era già un centro fiorente e affermato. Secondo la leggenda le popolazioni fuggite all'epoca delle guerre himyarite nel I secolo d.C. (Bafaqih r990) vollero riprodurre in Shibam la pianta della loro antica capitale, Shabwa, che aveva, come mostrano le prospezioni archeologiche, un impianto e una trama regolari. Shibam, dunque, conserva nell'architettura la memoria della sapienza antica, la volontà di un popolo di non rompere i rapporti con il proprio passato. La città fu collocata proprio al centro della grande vallata del wadi Hadra­ maut. È quindi continuamente sottoposta al pericolo di una piena straordinaria che potrebbe travolgerla e distruggerla completamente. È stato proposto di pro­ teggerla con una grande opera di cemento armato, introducendo in modo mas­ siccio questo materiale in una cultura che sinora ha realizzato tutto con la sola terra cruda e ha mantenuto indipendenza energetica ed economica. Tuttavia la città esiste da un periodo di tempo lunghissimo, nel corso del quale si sono veri­ ficate numerose piene, eppure è sempre riuscita a difendersi dalla distruzione.

92. Planimetria di Shibam. L'ar­ moniosa distribuzione di piaz­ ze, strade e vicoli ciechi è frut­ to della necessità di raccolta degli rifiuti organici usati come concime. Ogni abitazione ha impianti igienici forniti di scarichi esterni (marcati in nero) . Questi si affacciano su stradine più riservate, i vicoli ciechi o i percorsi perimetrali (disegnati più scuri).

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Shibam attuava una difesa territoriale utilizzando come risorsa quello che poteva essere un fattore distruttivo. Le piene venivano frammentate e bloccate a monte lungo i pendii e gli affluenti dell'alveo fluviale. Il corso del fiume veniva trasformato in un sistema continuo di sbarramenti di deviazione e canali che allargavano la superficie inondabile disperdendo la forza dell'acqua su una enorme area resa idonea all'agricoltura. Intorno alla città erano scavate grandi depressioni circolari che raccoglievano e assorbivano l'acqua. In questo sistema di crateri artificiali di sabbia si impiantavano le coltivazioni, protette perime­ tralmente dagli argini della terra di riporto e ombreggiate dalla chioma del pal­ meto. Qui venivano depositati i rifiuti organici della città che insieme all'acqua rendevano le sabbie sterili del loess un terreno fertile. Cosl è l'esistenza stessa di Shibam con il suo apporto di materia biologica a permettere la crescita delle palme e la produzione agricola. Si determina un continuo circuito interattivo. Non solo i prodotti alimentari nutrono la popolazione e ritornano alla terra per fertilizzarla, ma è l'intera città nella sua forma e architettura a essere fondata su questo perenne principio di riuso integrale. I mattoni di terra cruda provengono infatti dalla terra dei giardini. L'humus continuamente creato e scavato nei cra­ teri dà alla terra le qualità colloidali e leganti che consentono la costruzione degli arditi e solidi edifici. La struttura della trama urbana e le forme architettoniche si spiegano proprio a partire dalla necessità di raccolta dei preziosi rifiuti organici. Le case torri infatti hanno tutte una facciata che guarda una stradina cieca. Qui gli scarichi dei gabinetti situati ad ogni piano degli edifici si riversano per la raccolta. Gli escrementi sono recuperati in ceste di paglia poste alla base delle facciate, dove precipitano utilizzando una caditoia ricavata entro le pareti. L'operazione è pos­ sibile perché i rifiuti solidi sono rigorosamente separati da quelli liquidi, dannosi per le costruzioni di terra cruda: in questo modo essi diventano rapidamente secchi grazie al clima arido e sono trasportati nei crateri agricoli. La divisione si fa all'origine grazie a un'invenzione ingegnosa, un gabinetto in uso da centinaia di anni, da quando da noi il water-closet ancora non esisteva. Il vaso sanitario ha due uscite, quella anteriore incanala i liquidi, quella posteriore raccoglie i solidi, che precipitano direttamente per gravità nei canestri di raccolta lungo i vicoli. I piani dei palazzi si estendono leggermente in fuori procedendo verso l'alto, come una ziqqurat rovesciata, per permettere ad ogni gabinetto di versare per caduta il suo contenuto alla base. Cosl il circuito di smaltimento e riuso dei rifiuti genera i blocchi degli edifici e degli isolati, impone alla trama geometrica movimento e varietà, diversifica l'andamento dei prospetti e modella la stessa pianta delle singole abitazioni, che devono avere almeno una parete sulla zona dell'isolato destinato all'evacuazione.

Le facciate libere dalla servitù degli scarichi hanno gli ingressi, dai bei por­ tali lavorati e decorati, sulle strade principali e sull'armonioso sistema delle piazze. Nelle loro forme regolari si possono leggere antiche proporzioni e canoni geometrici, ma la perpetuazione di questi moduli è dovuta a un'esigenza con­ creta. È nei momenti rari, ma fondamentali, in cui la struttura è sottoposta al rischio delle piogge e delle inondazioni che può comprendersi il significato delle sue forme. La città conserva la dimensione ordinata e compatta proprio perché ogni espansione arbitraria è impedita dalle inondazioni, che fungono così da strumento regolatore dei limiti urbani. A partire dalle terrazze delle abitazioni si raccolgono le piogge indispensabili al rifornimento idrico. Le strade, artico­ late secondo le linee di pendenza, per mezzo di canali a cielo aperto convogliano le acque piovane che, lasciate libere, potrebbero infiltrarsi nel terreno con effetti disastrosi. La piazza della moschea principale funge da grande impluvio con una cisterna e la fontana. Le acque in sovrappiù scorrono verso la piazza posta all'entrata della città per essere smaltite attraverso la sua porta. Le piazze avevano la funzione di spazi per il carico e lo scarico delle carovane che deposi­ tavano le merci nei piani terra dei palazzi. La loro origine tuttavia può spiegarsi a partire da una loro precisa funzionalità nei metodi costruttivi e di manuten­ zione urbana. Al momento di costruire, l'impasto di terra e paglia che serve per la realizza­ zione dei bassi e larghi mattoni di terra cruda, viene disteso sul suolo nei pressi dell'edificio. Una superficie piana e regolare, dimensionata sul modulo del mat­ tone è dunque necessaria nelle vicinanze delle costruzioni. Queste hanno tutte un ciclo di vita determinato, e sono più volte ricostruite rispettando il luogo, le forme e le dimensioni iniziali. Con il passare del tempo le alte architetture di terra cruda sottoposte a usura e crollo sono ricostruite sulle stesse rovine in modo conforme alle precedenti nei materiali, nell'aspetto e nella dimensione. Sia nel caso di ricostruzione degli stabili, sia per la loro manutenzione, viene fatto sempre un nuovo impasto, dato che la terra utilizzata nella precedente abi­ tazione ha perso con il tempo le componenti biologiche che ne determinano le proprietà leganti. Per questo gli spazi liberi, necessari al ciclo di ricostruzione urbana, distribuiti in modo da potere servire gruppi di abitazioni, sono mante­ nuti nel tempo realizzando il sistema delle medie e piccole piazze. Solo il terreno raccolto ai piedi delle palme, arricchito di concime organico, ha gli elementi bio­ logici che determinano le proprietà leganti necessarie per realizzare le alte costruzioni di mattoni crudi. Il circuito si chiude: la raccolta dei rifiuti umani condiziona la forma urbana e permette nei campi la coltivazione dei cereali, ortaggi e piante aromatiche; l'humus creato nei giardini ritorna in città per innal­ zare le alte case torri periodicamente ricostruite su se stesse. In questo ciclo con-

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tinuo di putrefazione e rinascita, di decadimento e riuso è il segreto dell'Arabia Felix celato nel mito della fenice. La parola letame deriva dal latino laetus (fer­ tile, poi lieto) , e ager laetus è il campo concimato e coltivato: il giardino fertile che rende il deserto felice. Shibam si comporta nel tempo come una entità biologica: si rinnova nelle sue singole cellule, ma l'organismo complessivo conserva forma e identità. È la rea­ lizzazione di un circuito indissolubile che lega l'abitato, la sua salvaguardia dalle inondazioni, la manutenzione igienica e il ricambio organico degli abitanti all'approvvigionamento idrico, alla fertilizzazione dei giardini e alla continua manutenzione e ricostruzione degli edifici.

Un piano per Shibam

Le necessità di amministrare ogni risorsa naturale disponibile, di capovolgere in elementi favorevoli le difficoltà ambientali, hanno realizzato un modello esemplare di organizzazione e gestione del territorio. Nella valle dell'Hadramaut ogni abitante può costruire la propria casa, realizzare il proprio ambiente proteggendo tradizioni e cultura. È questa la vera ricchezza: essere proprietari della propria esistenza. Ma si tratta di un equilibrio delicato, in cui tutte le atti­ vità sono estremamente legate l'una all'altra. Intaccare un solo anello, introdurre un piccolo cambiamento significa distruggere l'intera catena. Procedure stan­ dardizzate si diffondono in ogni paese come puri simboli della modernità, sosti­ tuendosi a più sapienti e appropriati metodi. Il sistema di gabinetti a water-clo­ set è una moderna soluzione europea internazionalmente adottata. Non è certo il metodo più sicuro e sano nelle zone aride. Anche in Occidente alla sua prima introduzione l'allacciamento di ogni abitazione con una rete fognaria collettiva causò terribili disastri per la diffusione attraverso le tubature di pestilenze vei­ colate da topi e altri agenti di contagio. Nello Yemen l'ingegnoso gabinetto che separa e raccoglie gli escrementi solidi è utilizzato dalle epoche più lontane e costituisce un esempio di cui dovrebbe fare tesoro ogni città contemporanea. Invece anche a Shibam la stretta connessione che lega la forma e la realizzazione dell'abitato, la salvaguardia dalle inondazioni, l'approvvigionamento idrico, lo smaltimento organico, la fertilizzazione e l'organizzazione dei giardini, è già incrinata. In attesa di un intervento risolutore degli ingegneri europei, le anti­ che dighe ripartitrici non sono più riparate, i campi sono abbandonati per man­ canza di acqua e la città non è più protetta dal pericolo delle piene. Nel modello di organizzazione del territorio realizzato a Shibam nel corso di un'esperienza millenaria, la manutenzione dell'intero sistema non si pone come

una necessità culturale o come onere per la collettività, ma costituisce una com­ ponente indissolubile dai modi di vita e di produzione. Questi stessi principi, che hanno assicurato la unicità di Shibam, devono guidare la strategia globale di salvaguardia in una prospettiva in cui la conservazione e il restauro diventino parte integrante delle prospettive economiche e del benessere della comunità. Dare un futuro a Shibam significa recuperare le conoscenze e le tecniche tradi­ zionali, riaffermare il valore dei materiali locali e dell'esperienza antica, proporre le condizioni di apparente arretratezza come fattori propulsivi e creativi. In questa ottica il piano di Shibam promosso attraverso la campagna Unesco si fonda su un recupero integrato, attento alle interazioni tra ambiente, architet­ tura, economia e archeologia (Laureano 1 99oa). La salvaguardia dalle piene è ottenuta tramite il restauro del sistema dei giardini agricoli che circondano la città. Con il ripristino degli argini e dei canali, la riorganizzazione del sistema dei campi negli invasi ricrea l'ambiente coltivato extramurario e costituisce la prote­ zione dalle inondazioni. La generalizzazione su scala territoriale del riutilizzo dei metodi e delle conoscenze tradizionali permette il controllo di inondazioni anche eccezionali. Le tecniche sono confermate da miglioramenti che non intaccano, ma potenziano i principi di base. La pratica di separare all'origine i solidi e i liquidi, con il recupero dei primi come fertilizzanti e la canalizzazione e lo smal­ timento dei secondi tramite un sistema di digestori biologici a terrazze digra­ danti, è una soluzione indispensabile nelle zone aride e generalizzabile in altre situazioni. Il restauro delle case torri e dei castelli extraurbani crea un itinerario culturale tra le abitazioni estive, le costruzioni difensive, i sistemi di distribu­ zione e ripartizione delle acque, i metodi di coltivazione e i prodotti botanici. I giardini divengono sede di un'agricoltura biologica altamente remunerativa, commercializzata attraverso il marchio di fabbrica di origine controllata. La reintroduzione delle piante aromatiche e di medicina naturale che fanno parte della tradizione archeologica e storica dell'Hadramaut costituisce un ulte­ riore interesse culturale ed economico. I prodotti commercializzati nella città la rendono centro di trasformazione e di mercato e danno nuovo impulso all'atti­ vità urbana sia come luogo di produzione sia come area privilegiata di vendita. Laboratori legati alla produzione di profumi, spezie e medicamenti biologici sono sedi di grandi case internazionali interessate a legare il loro nome alla cam­ pagna di salvaguardia Unesco di Shibam. Altri palazzi restaurati propongono esposizioni archeologiche, e di cultura materiale e sulla storia antica dello Yemen, valorizzando la capacità di gestione delle acque e la produzione e com­ mercializzazione delle piante aromatiche. Il recupero urbano guidato da una cor­ retta regolamentazione è avvertito così come vantaggio economico remunerato dall'alto incremento di valore degli stabili, i cui vasti locali ritornano ad avere

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93· Ricostruzione del sistema idrico di Shibam. Lo sbarramento a monte della città (in basso a sini­ stra nel disegno) ripartisce le occasionali piene in canali delimitati da argini di terra, che alimen­ tano i giardini scavati in piccoli crateri dove si raccoglie l'acqua. I flussi così deviati e frammen­ tati su un'ampia superficie non costituiscono più un pericolo per la città fatta di terra cruda.

funzioni produttive. Il mantenimento delle caratteristiche storiche della città e delle qualità uniche di integrazione all'ambiente realizza un concreto interesse degli abitanti, perché su di esso si basano la campagna di immagine nazionale e internazionale e la valorizzazione dei prodotti. Shibam afferma come risorsa economica l'antica immagine di capitale della natura e degli aromi, di città che realizza la sottile alchimia della trasmutazione della materia vile in vegetazione, profumi, architettura e vita, attuando, in c m­ pleta armonia con l'ambiente, la fusione tra le differenti esigenze: abitar , pro­ durre, proteggere e tramandare.



Archeologia delle acque: Petra Che il Signore vi apra il prezioso tesoro dei cieli per far discendere sul paese le piogge benedette, la rugiada e la pioggia, quella d'autunno e quella di primavera, ognuna nel suo tempo. (Manoscritti di Qumran)

Un desiderio scolpito nella pietra

Se esiste un luogo al mondo che rappresenta pienamente l'animo delle genti del grande deserto arabico è Petra. ·Gli interminabili racconti delle carovane, i ricorrenti sogni delle fredde notti tra le sabbie, gli impalpabili miraggi delle lande assolate si sono dati qui appuntamento per divenire reali nel modo più grandioso: scolpiti sulla roccia in scenari titanici che appaiono concepiti da una mente sovrumana. Visitandola, è difficile dire se sia Petra ad avere dato origine alle tante favole ripetute nel deserto di città incantate e paesaggi di sogno o se, al contrario, furono quei racconti a scatenare l'ambizione e la volontà che l'hanno creata. Perché Petra è la concretizzazione delle mille e una forma del desiderio. Solo il deserto e i suoi popoli possono spiegare come allucinazioni sconfinate e sapienza antica si siano potute fondere insieme nella forgia dei canyon assolati. Fieri guerrieri nomadi, tenaci coltivatori, grandi commercianti carovanieri hanno realizzato un monumento alla gloria degli antenati e alla pietà degli dei. Nel tempo, i successi militari ed economici hanno impreziosito questo luogo di tutta la conoscenza e la ricchezza dell'Oriente arabo, dell'Egitto afri­ cano e dell'Occidente greco-romano. Santuari, tombe, abitazioni scavate nelle rupi dai colori porpora , bianco e oro hanno gigantesche facciate cesellate in forme e stili classici che conferiscono all'ambiente naturale l'aspetto di una spet­ tacolare architettura. «Le parole scolpite nella pietra sono durature come quelle incise nei cuori» recita un proverbio del deserto. E in nessun altro luogo come a Petra questo detto è stato applicato in modo così determinato e superbo. Petra è l'esempio più grandioso di come popoli arabi dediti al nomadismo e alla transumanza siano intervenuti positivamente sulla dinamica di erosione e di

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inaridimento naturale. Nella continua lotta per la protezione dei suoli, l'orga­ nizzazione dei terreni coltivabili e la raccolta di acqua hanno creato un habitat retto dalla simbiosi tra i grandi carovanieri del deserto e i sedentari della città. Il sito di Petra è costituito da un grande anfiteatro che si apre nei calcari della dorsale montuosa sovrastante quel sistema di depressioni della crosta terrestre che raggiungono con il Mar Morto una profondità di 396 metri sotto il livello del mare. Queste depressioni costituiscono il prolungamento della frattura geo­ logica della Rift Valley provocata dalla deriva delle zolle tettoniche. La faglia è il prolungamento della fossa del Mar Rosso nel Golfo di Aqaba che prosegue, mantenendo un andamento parallelo alla costa mediterranea, con la valle del­ l'Araba, il Mar Morto e il Giordano, fino alle montagne del Libano e agli alti­ piani siriani. La linea di frattura e di sprofondamento centrale determina l'in­ nalzamento ai lati di due catene montuose parallele. Queste creano un corridoio di terre elevate dalle temperature miti che separano il deserto del Negev a ovest dal deserto arabico a est. A Petra la piattaforma calcarea della catena orientale, alta con il Jebel as-Shara oltre I 700 metri, forma un grande semicerchio aperto a ovest verso la valle dell'Araba, dove in soli 35 chilometri di percorso l'altitudine scende alla quota di I oo metri. Lo sprofondamento tettonico mette a nudo gli strati geolo­ gici più antichi, che si susseguono da est a ovest digradando come in un gran­ dioso anfiteatro. A quota I400 metri, alla base del massiccio calcare del Creta­ ceo, emergono gli strati ordoviciani di arenaria bianca e, al gradino sottostante, l'arenaria rosa del Cambriano, chiamata arenaria di Nubia, che costituisce il sub­ strato geologico del sito archeologico di Petra. Più in basso appare in superficie il basamento cristallino dai colori nerastri, che precipita con una ripida scarpata fino al wadi Araba e fa parte dello scudo arabico precambriano. L'immenso impluvio raccoglie le acque di precipitazione delle superfici piane elevate. Le piogge, scarse e concentrate in periodi ben determinati, sono dre­ nate da una ramificata rete idrografica i cui molteplici wadi si suddividono e si frammentano tra i canyon di arenaria. È il bacino del wadi Musa che mantiene un andamento da est a ovest, raccogliendo da nord le acque del versante di Beida e da sud quelle di Sabra. Gli innumerevoli alvei, quasi perennemente secchi, dopo avere contornato i massicci di al-Khubtha, ad-Dayr, Umm al-Biyara, Jebel al-Madhbah, Jebel al-Habis e Jebel Nabi Harun, che costituiscono il quadro geo­ grafico del sito di Petra, sfociano nelle sabbie della valle dell'Araba, quella parte della grande depressione che da Aqaba va fino al Mar Morto. Magre sorgenti perenni sgorgano alla quota di I4oo metri, proprio nel punto di contatto della base dei calcarei con le arenarie. Sono le aree dei villaggi di Bedebdeh alle sorgenti del wadi Beida a nord, di al-Haya e Nawafle sul wadi

Hl Siti archeologici

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Villaggi

94· Il sistema idrografico del wadi Musa, che scorre dalle montagne a est verso la valle dell'Araba a ovest, individua l'area della Grande Petra. Essa comprende le agglomerazioni satellite di Beida a nord e di Sabra a sud.

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Musa e dell'insediamento di Wadi Musa stesso a est, di Bareaq e Taiyiba sul cri­ nale meridionale. Formano un semicerchio di punti d'acqua, origine della rami­ ficata rete di wadi che confluiscono a imbuto in una strettoia tra due alte pareti. È l'entrata del Siq, il leggendario accesso al sito di Petra, che inizia tra le rocce di arenaria bianca a I ooo metri di altitudine, erose in un susseguirsi caotico di cupole, gobbe e pani di zucchero, e scende dolcemente con un percorso di 3 chi­ lometri a 8oo metri di quota fino alle gole e rupi delle formazioni geologiche di arenaria rosa. Lo svizzero Johann Ludwig Burckhardt fu il primo europeo a per­ correrlo in epoca moderna, dopo che Petra era rimasta per secoli dimenticata, regno inavvicinabile di bellicosi gruppi nomadi. Il suo viaggio, effettuato nel­ l'agosto I8 I2, ha del favoloso come tutte le vicende di questa città. Burckhardt era travestito da pellegrino indiano, lo sheikh Ibrahim in viaggio verso i luoghi santi dell'Islam lungo i tragitti delle carovane. Alla guida locale aveva raccon­ tato di volere effettuare un sacrificio ad Aronne, il fratello di Mosè, che la tra­ dizione vuole sepolto in un santuario venerato dalle tre religioni monoteiste posto sul monte dominante Petra, chiamato appunto Jebel Nabi Harun, la mon­ tagna del profeta Aronne. La guida, tuttavia, sospettava i reali moventi della spedizione e, dubitando dell'identità del viaggiatore, ne spiava ogni mossa, pronto a coglierlo in fallo. Così Burckhardt dovette sfilare tra i meravigliosi sce­ nari e le architetture rupestri dissimulando la passione che lo animava e costrin­ gendosi a dare solo sguardi furtivi e apparentemente disinteressati all'oggetto del suo desiderio. Arrivato nel luogo chiamato Qasr al-Bint, l'enorme tempio costruito al centro dell'area di Petra, non riuscì a trattenere l'interesse e la guida minacciò di ucciderlo. Per salvare la vita dovette allora mostrarsi insensibile al richiamo di quelle meraviglie, proibirsi di eseguire rilievi o disegni, e affrettarsi al sito del sacrificio, motivo dichiarato del suo viaggio. Nonostante la fugace visione, Burckhardt, come racconta nei suoi diari (Burckhardt I822) , identificò quelle vestigia lungo il wadi Musa come la perduta Petra degli autori classici. Fu celebrato nel mondo come il primo visitatore occi­ dentale dopo che, all'inizio del vu secolo d.C. con la fine della presenza bizan­ tina, Petra era stata abbandonata e dimenticata. Ma questo merito non spetta all'esploratore svizzero. Tra il I I o8 e il I I I6 il wadi Musa fu occupato dai cro­ ciati, che lo chiamarono la valle di Mosè. I cavalieri medievali furono enorme­ mente interessati al luogo perché vi costruirono il castello di Wu'ayra, in posi­ zione dominante i wadi di accesso a Petra, e imponenti fortificazioni sull'alto picco di al-Habis, nel cuore stesso della città. Queste massicce realizzazioni, fatte di torri, depositi, cisterne, ipogei e passaggi occulti, costituiscono un poten­ ziale inestimabile per lo studio dell'architettura dei crociati e una testimonianza ancora pressoché intatta della loro presenza. Questa, nonostante le ricerche

compiute dall'équipe italiana degli archeologi Guido Vannini e Roberto Fran­ chi, resta ancora inspiegata, ma è generalmente ritenuto che i conquistatori del Santo Sepolcro non abbiano identificato nel sito la capitale commerciale della storia antica. Tuttavia l'archeologo giordano Fawzi Zayadine nota che nel 1 2 1 7 il pellegrino Thetmar doveva essere informato su Petra perché la cita nella sua Peregrinatio (xv ro) come la città di Archim, metropoli araba (Zayadine 1 99ra). Infatti il nome aramaico di Petra è Arken o Reqem nella lingua degli antichi abi­ tanti, i Nabatei. Con questo appellativo la città, terminale carovaniero della via della seta, era conosciuta fino in Cina, dove è chiamata Li Kam secondo la defor­ mazione lessicale locale. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe non lascia dubbi sull'identificazione ricordando che «il monte su cui morì Aronne domina Petra, in passato chiamata Arken» (Antichità giudaiche, IV 82). La prova che viaggiatori medievali anticiparono la scoperta europea è stata ritrovata da Fawzi Zayadine nei manoscritti dello storico arabo an-Nuwairi, vis­ suto tra il 1 279 e il 1 332 (Zayadine 1 99rb). La descrizione del sito di Petra è riportata in occasione del passaggio del sultano Baibars in fuga dal Cairo a Kerak nel r2 76. Il cronista descrive con meraviglia e precisione le abitazioni «scavate nella montagna dalle forme magnifiche, decorate di colonne e munite di porte, dalle facciate ornate di sculture tagliate con lame nella pietra e tutte incise di immagini e decorazioni». Il manoscritto cita il passaggio nella gola del Siq, così descritto: «Dalla potenza di Allah grandissimo sono state create due opposte montagne, separate da un cammino, ogni montagna è simile a un'alta muraglia, cosicché le abitazioni risultano allineate a destra e a sinistra». La successiva spie­ gazione della toponomastica locale richiama le vicende del libro dell'Esodo nell'Antico Testamento. Il sultano, dice la cronaca medievale, uscito dal Siq, risalì il wadi al-Madarah e si accampò in un villaggio chiamato Odma. Questo nome, spiega l'autore arabo, è dovuto alla sorgente che Mosè creò grazie a un colpo di bastone. Dalla fonte sgorgava sangue e Mosè ordinò: ridiventa acqua; in lingua araba od ma. Ancora oggi i vecchi della regione percorrono il wadi al­ Madarah per uscire da Petra verso l'antica carovaniera che monta alla Via dei Re. Dopo trenta minuti di cammino, procedendo verso est dal luogo ove attual­ mente viene mostrata ai turisti la fonte di Mosè, raggiungono sull'altipiano di Tawilan la sorgente di Odma, che prospezioni archeologiche hanno dimostrato frequentata fino dal 4ooo a.C. Così tradizioni, fatti storici, avvenimenti biblici e descrizioni che sembrano tratte dalle Mille e una notte si sedimentano sui pae­ saggi e le architetture dando luogo a una geografia densa di echi e reminiscenze. Zayadine suggerisce che il gioco di parole delle origini della sorgente di Mosè, od ma, sia la spiegazione favolosa di un toponimo antichissimo trasformato nei ripetuti racconti, ma ancora presente, il nome originario della regione: Edom.

La millenaria interazione uomo-ambiente

Gli Edomiti, il cui nome significa rosso, erano un popolo semita più volte menzionato dalla Bibbia. Nel Genesi (25 , 30) sono indicati come figli di Esaù. Installati dal XIV secolo sul wadi Araba, tra Aqaba e il Mar Morto, impedirono agli Ebrei, in cammino verso la terra promessa, di attraversare i loro domini e raggiungere la Via dei Re, costringendoli a una penosa marcia nel deserto (Numeri, 20, 14-2 1 ). La vicenda è esemplificativa del ruolo strategico del sito di Petra, una fortezza rupestre, incrocio di importanti vie carovaniere, collocata in un labirinto di canyon e di montagne di arenaria, dove il wadi Musa permette l'attraversamento della catena orientale della Rift Walley (il Jebel as-Shara) verso la grande depressione. Ai piedi della rupe di Umm al-Biyara tra i monu­ menti di Zibb al-Firwan e Qasr al-Bint partono le piste verso i quattro punti car­ dinali: a sud, passando ai piedi del Jebel Nabi Harun attraverso Sabra, raggiun­ gono Aqaba; a ovest portano al wadi Araba, verso il Negev fino a Gaza sul Mediterraneo o al delta del Nilo; a nord, dopo Beida, proseguono con la Via dei Re verso il Libano e la via della seta; a ovest, verso Tawilan, passata Ma'an, si dirigono nel sud dell'Arabia per la via dell'incenso. È questo lo spazio geogra­ fico di Edom, il controllo di un importante nodo di scambio tra gli antichi imperi - l'Egitto, la Mesopotamia, l'Arabia meridionale - e le nascenti civiltà medi­ terranee. La ricerca archeologica permette di collocare le informazioni bibliche nel con­ testo ancora più arcaico del popolamento della regione a partire dalle prime forme di insediamento stabile dell'umanità. Queste sono attestate nei pressi di Petra da numerose vestigia come il villaggio neolitico preceramico di Beida, par­ zialmente scavato, e numerosi siti ancora completamente intatti quali Shakaret Musei'ed simile al celebre insediamento di Gerico. Il sito di Beida present� sei livelli di occupazione stabile databili dal 7000 al 65oo a. C. Nei cinquecento anni del suo uso continuato è possibile seguire l'evoluzione dei tipi abitativi che si sovrappongono con forme diverse circa ogni settant'anni. Il sesto livello, il più arcaico, preceduto da forme di occupazione semipermanente in alcuni periodi dell'anno intorno a focolari, è costituito da costruzioni circolari in pietra dal pavimento seminterrato nel sottosuolo. Le mura portanti perimetrali sono stret­ tamente addossate l'una all'altra per sostenersi mutuamente e gli interstizi tra le diverse costruzioni sono riempiti di pietrame. Nel quinto livello le abitazioni hanno ancora la forma di capanne circolari di pietra, ma appaiono realizzate anche isolatamente. Il quarto livello mostra il passaggio dalla forma rotonda a strutture quadrate dagli angoli leggermente arrotondati. L'innovazione com­ porta l'acquisizione di nuove e superiori capacità costruttive per risolvere le dif-

ficoltà di sostegno delle muratore rettilinee. Gli interni hanno soffitti e mura­ accuratamente intonacati e sono dotati di focolari. Il terzo e secondo livello presentano una straordinaria innovazione, che ha fatto presumere l'arrivo di gruppi esterni dotati di diverse tradizioni costruttive (in effetti nel livello seguente, l'ultimo di occupazione del sito, si torna alle forme del quarto). L'innovazione è costituita dalle «case corridoio», così chiamate dalla forma rettangolare contenente sei piccole stanze disposte tre per lato di un corridoio cen­ trale. È possibile che queste costruzioni fossero laboratori artigianali e che le massicce muratore reggessero un piano superiore abitativo realizzato in strut­ ture più leggere. Le case corridoio erano affiancate da complessi costituiti da una corte a gomito lungo i due lati di ambienti molto ampi, dove vi era il focolare e si tenevano, forse, mense collettive. La struttura simile a una b è comparabile a quella delle abitazioni di Giarmo nel Kurdistan iracheno, uno dei luoghi del primo Neolitico esteso a tutta questa area. È il modello originario dell'abitazione fenicia chiamata beit, la cui forma ha originato la lettera dell'alfabeto b. turc

95· Sito neolitico preceramico di Beida. Case corridoio e complesso con corte a gomito con caratteristica forma a b. Le strutture avevano un probabile uso artigianale e pastorale.

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I cinquecento anni dell'esistenza del sito di Beida sono quelli delle fonda­ mentali trasformazioni neolitiche, dall'allevamento alla lavorazione dei grani, alla organizzazione complessiva dello spazio. Strutture sinora interpretate come opere militari e difensive, quali i recinti, i meandri o la celebre torre del sito di Gerico, sembrano piuttosto finalizzate alle attività agropastorali. Sono magaz­ zini, opere idriche o necessarie alla difesa ambientale secondo i modi degli inse­ diamenti oasiani. Il Neolitico di Beida precede l'introduzione della ceramica cotta, ma, oltre agli innumerevoli ritrovamenti di pietre per la macina a mano dei cereali, ha fornito manufatti di argilla cruda, tra i quali una tazza e la sta­ tuetta di un ibex o ariete. Accanto a un grande complesso, chiamato il santua­ rio, dai pavimenti finemente intonacati vi è una larga pietra piatta munita di sco­ latoio, che fa pensare a culti o pratiche collegate all'acqua e al mondo pastorale. Scavi recenti nell'area più ampia di Beida hanno rivelato l'esistenza di un lungo muro che circonda tutto il sesto livello. Dell'altezza di circa un metro, più che di una struttura difensiva militare è un'opera di consolidamento e di organizza­ zione del terreno. Nei millenni successivi, caratterizzati dal Neolitico ceramico, si accentua il processo di modificazione dello spazio a scopo produttivo. La lavorazione del rame marca il Calcolitico, datato a partire dal 4500 a. C. , con cui iniziano le grandi trasformazioni dell'Età dei Metalli. La caccia diviene sempre meno importante rispetto all'allevamento di pecore e di capre e alla coltivazione di grano, orzo, datteri, olive e lenticchie. Il clima si fa più arido e nel deserto le condizioni di vita diventano simili a quelle degli attuali gruppi bedu. Le nuove conoscenze vengono applicate per favorire l'esistenza degli insediamenti urbani. Nel deserto del Negev a nord-ovest di Petra, su una collina dominante il versante orientale della valle di Beersheba, lo scavo del sito di Araci, effettuato a partire dal 1 962 dall'archeologa israeliana Ruth Amiran, ha fornito l'esempio più completo di un insediamento del Calcolitico e della prima Età del Bronzo. La topografia della collina disegna un largo emiciclo che drena le acque di scor­ rimento dell'insieme della superficie, rinchiusa da una muraglia verso l'interno dove sono raccolte da un serbatoio centrale. Come si riscontra ancora oggi nei villaggi sudarabici, le abitazioni si raggruppano intorno alla cisterna, biro birkeh, e la fortificazione, che racchiude una superficie molto più ampia dell'area costruita, ha lo scopo di proteggere l'impluvio di raccolta. Sistemi analoghi sono riscontrabili nel sito di Teleylat Ghassul nella valle del Giordano e nella città di Jawa nel deserto orientale. Qui fino dalla prima Età del Bronzo, nel 3ooo a. C. , un sistema di sbarramenti indirizzava l'acqua delle montagne in bacini che ali­ mentavano una popolazione di circa 2ooo abitanti. La tecnica, immutata, è stata utilizzata dai Nabatei nella città di Umm al-Jamal ai confini del deserto siriano.

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Cisterne Templi

3 · Palazzi

96. Planimetria del sito di Arad nel deserto del Negev. L'insediamento della prima Età del Bronzo è situato su una collina dalla sommità concava che funge da impluvio per raccogliere l'acqua nelle cisterne intorno alle quali si dispongono i quartieri di abitazioni.

Per spiegare l'improvvisa creazione e altrettanto rapida scomparsa delle città del deserto l'archeologo Svend Helms ipotizza la pratica di una urbanistica migra­ toria (Helms I 98 I ) . Il termine concorda con lo scenario proposto della civiltà del deserto, basata sulle tappe e le piste di nomadi portatori di tradizioni urbane. All'interno di Petra, nel sito di as-Sadeh, è stato rinvenuto un insediamento della prima Età del Bronzo con venticinque abitazioni costruite su pilastri. Sulla rupe di Umm al-Biyara, vera rocca naturale della città, vestigia di case corridoio dell'Età del Ferro sono organizzate con cisterne e fosse per magazzini. Petra occupava una posizione riparata e strategica nella terra di Canaan, che com­ prendeva la Palestina, la Giordania e la Siria. La regione, centro della Mezzaluna Fertile, era l'area di congiunzione e di scambio dei grandi imperi fluviali dell'epoca, cui si deve la prima grande architettura monumentale: l'Egitto nella valle del Nilo con le piramidi e Sumer tra il Tigri e l'Eufrate con le ziqqurat. Nell'Età dei Metalli queste forti organizzazioni statali idrauliche, grazie al

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sovrappiù agricolo, mantenevano una grande quantità di artigiani, capaci di un enorme potenziale produttivo. L'Egitto inviava periodicamente spedizioni, for­ mate di genti a piedi e asini, attraverso il deserto nel Sinai per prelevare il tur­ chese e nel Negev per il rame. Si trattava inizialmente di squadre militari che accompagnavano i minatori con scorte e vettovaglie, ma presto si trasformarono · in convogli di mercanti che utilizzavano le popolazioni locali. I Sumeri organiz­ zavano carovane di carri trainati da buoi e onagri, cariche di manufatti urbani da scambiare con i villaggi situati lungo le piste. La presenza di risorse minera­ rie messe a nudo dagli sconvolgimenti tettonici rendeva l'area della Rift Valley un luogo di particolare interesse. Il bitume del Mar Morto era utilizzato e com­ mercializzato fino dal Neolitico, ma era l'estrazione del rame la risorsa più importante. Le miniere della valle dell'Araba, a una giornata di cammino da Petra, sono tra le prime mai scavate. Furono sfruttate a partire dal Calcolitico, nella prima e media Età del Bronzo e di nuovo tra il XVIII e il XIII secolo a. C. dagli Edomiti. Più tardi contribuirono alla potenza economica del regno di Salo­ mone e continuarono a essere in funzione fino in epoca islamica. Le pratiche di coltivazione delle miniere� favorite dalla disponibilità di attrezzi migliori, svi­ luppano le tecniche di scavo. I pozzi all'aperto del Neolitico evolvono in galle­ rie con sezione quadra o rotonda, dotate di pilastri di puntello, sistemi di venti­ lazione e di drenaggio delle falde. L'esperienza nella estrazione mineraria fornisce la base tecnica per lo scavo di cave e abitazioni rupestri nelle pareti di arenaria e il traforo di gallerie per imponenti opere idriche. Nell'oasi di Megiddo gallerie per la raccolta di acqua, simili ai tunnel e canali della Gerusalemme di David, sono state datate intorno al 1 500 a. C. Il quadro naturale è la base della società di Petra, che fonde il nomadismo, la pastorizia, il commercio con le attività estrattive e agricole basate su elaborate conoscenze idrauliche. Il precipitoso cambiamento di altitudine dovuto alla conformazione geologica della Rift Valley crea la presenza di ecosistemi diversi in uno spazio molto limitato, facilitando la transumanza per attività agricole e pastorali. Ancora oggi gruppi bedu si spostano alternativamente dalla depres­ sione desertica dell'Araba alle quote più alte secondo le stagioni. La piccola tran­ sumanza stagionale determina la propensione al viaggio e allo spostamento e diviene grande nomadismo carovaniero che controlla traffici e scambi su lunghe distanze. I luoghi elevati e ricchi di anfratti delle arenarie di Petra offrono riparo per gli animali, i prodotti e le merci e divengono fortezze, centri di accumula­ zione, di incontro, di mercato e luoghi di culto. Le caratteristiche del territorio permisero il rifugio e la difesa delle genti durante l'espansione degli Hyksos, i «sovrani stranieri» delle cronache faraoni­ che. Dotati del carro da guerra trainato dai cavalli, ancora sconosciuti in Egitto,

questi re guerrieri, tra il r8oo e il 1 550 a. C. , alla fine della media Età del Bronzo, attraverso la Palestina, conquistarono la valle del Nilo. La riscossa egizia avviene nell'ultima Età del Bronzo, dal 1 550 al 1 200 a. C. con i faraoni del Regno Nuovo che svilupparono le arti, gli scambi e una politica di espansione territoriale. Tutmosi I (r5o6-r494) scavò sulla riva sinistra di Tebe «gli ipogei nel wadi», cioè i primi monumenti dell'area nota a tutto il mondo come la Valle dei Re. Verso il 1 500 Hashepsut, il faraone donna, orga­ nizzò il celebre viaggio lungo il Mar Rosso alla ricerca della mirra e dell'incenso. Amenofi IV ( 1 363- 1 347) fu il grande Akhenaton, il marito di Nefertiti, fonda­ tore della monumentale città palazzo di Akhetaton (l'odierna Tell el-Amarna). Le vittorie di Tutmosi III a Megiddo nella valle del Giordano nel 1469 e di Ram­ ses II sugli Ittiti nella battaglia di Qadesh sulle rive dell'Oronte nel 1 296 a. C. decretarono il completo controllo del paese del Nilo sulla terra di Canaan. La pace egizia sviluppò il commercio internazionale con il Mediterraneo, le civiltà egee e le sponde africane e yemenite del Mar Rosso, ma la fine dell'ultima Età del Bronzo fu un periodo di grandi sconvolgimenti per i regni del Vicino Oriente e il Mediterraneo. Le principali città della Grecia micenea e di Cipro, degli Ittiti in Anatolia e di Canaan vennero distrutte. Causa di queste devastazioni furono i flussi migratori dei Popoli del Mare in movimento dall'Egeo, da Creta e dall'Anatolia attraverso tutto il Mediterraneo, spinti forse dai cataclismi provo­ cati dall'eruzione e sprofondamento dell'isola di Thera. Uno dei molteplici gruppi era formato dai Peleset dei testi egizi, in greco i Pelasgi, i Filistei della Bibbia, che si stabilirono nella Palestina a cui dettero il nome. È in questo contesto che si collocano le vicende dell'esodo biblico. Anche le guerre condotte dagli Ebrei sono state probabilmente un aspetto dei sommavi­ menti e del declino dell'ultima Età del Bronzo. La Bibbia riporta la distruzione di molte città della terra di Canaan, tra cui Gerico vinta nel I 2 30 a.C. quando, tuttavia, era ormai un luogo quasi disabitato, preda delle differenti ondate migratorie. Saul e David furono i primi sovrani del regno di Israele creato intorno al rooo a. C. Essi combattono più volte Edom, l'antico nemico che negò il passaggio a Mosè. Salomone, figlio e successore di David, riuscì ad avere un quasi completo controllo del territorio e fondò all'apice del Golfo di Aqaba il porto di Eziongeber per monopolizzare i commerci lungo il Mar Rosso. Con le celebri spedizioni compiute con gli alleati fenici di Tiro commerciò fino al paese di Ofir, la mitica città dell'oro identificabile con Zafar, la capitale himyarita dello Yemen. Nel corso delle campagne militari gli Edomiti trovarono tuttavia sempre scampo in un luogo imprendibile che nella Bibbia è chiamato Sela, cioè Roccia, in greco Petra. 1 75

Miele dalle rupi e olio dalle rocce

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È cognizione corrente che durante l'Età del Ferro per la prima volta nella terra di Canaan, retta nel passato da città in perenne lotta e dunque facile preda delle grandi potenze, si formano vere e proprie organizzazioni statali autonome. Lungo la fascia orientale della grande depressione sulla dorsale montuosa che da Aqaba domina l'Araba, il Mar Morto e la valle del Giordano fino ai contrafforti del Libano si costituiscono regni indipendenti: Edom nel sud, Moab nel centro, Amman nell'area settentrionale dell'attuale Giordania e Aram a nord. In realtà la formazione e la prosperità di questi stati sono dovute al ruolo delle strade commerciali transarabiche che in questo periodo, con la diffusione del cammello, assumono una nuova rilevanza. Le rispettive capitali - Bozrah (Buseirah), Aroer (Diban) , Rabbat Amman (Amman) e Soba ( Sobha)- si snodano lungo il percorso di altura nord-sud della Via dei Re, e ognuna intercetta un terminale carovaniero che si spinge a est verso il grande deserto e controlla un passaggio a ovest, oltre la depressione, verso un porto mediterraneo. Si tratta dunque di stati carova­ nieri fondati dal consolidamento di un gruppo nomade in una dinastia stabile. È la padronanza di una linea di percorso che rende capaci gruppi di grandi transu­ manti del deserto di creare organizzazioni cittadine e territoriali. Le vicende del popolo ebreo sono un esempio di questi clan nomadi, formazioni statali in movi­ mento che, secondo un processo continuamente ripetuto, si sedentarizzano avvi­ cendandosi e sovrapponendosi su altre e precedenti ondate migratorie. Come lo stesso Israele molti dei grandi stati citati dalla Bibbia non erano altro che un gruppo bedu con a capo uno sceicco patriarca. Periodicamente nella storia uno di questi gruppi realizza il sogno di creare una grande aggregazione di clan e una dinastia regnante. Le aree fertili o più idonee al consolidamento stabile, i san­ tuari sui passi elevati, i punti di acqua, fanno parte della rete di percorsi con­ suetudinari del gruppo e rimangono nella memoria anche se il movimento è effettuato nel corso di più generazioni. I luoghi di sedentarizzazione possono quindi essere sempre ricondotti a una terra ancestrale «promessa», ma non per questo libera da altri popoli. Nell'ultimo suo cantico Mosè, che inizia chiedendo ispirazione alla pioggia e alla rugiada, dedica a Israele «una terra elevata dove è possibile succhiare il miele dalla rupe e l'olio dai ciottoli della roccia» (Deuteronomio, 32, 1 3). Queste oscure parole sono interpretabili se rapportate alle pratiche del deserto di produrre acqua tramite i sistemi di condensazione basati sui cumuli di pietre. Moderne ricerche israeliane hanno dimostrato come nel Negev antichissimi resti di olivi e vigne fossero irrigati grazie a un sistema di muretti a secco collettori di rugiada chiamati in arabo teleylat al 'anab, monticoli per la vigna. Le piante erano instal-



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plicato un controllo stretto di salva­ guardia e la visita è rigidamente guidata . E vietata ogni circolazione che non sia quella pedonale, in modo particolare nell' area entro le mura e lungo il Siq di Petra ed è proibita ogni attività economica non espressamente autorizzata e organizzata. La protezione non si limita al sito stesso e alle sue immediate vici­ nanze, ma si estende al paesaggio per evitare costruzioni o interventi che tur­ bino l'armonia complessiva. Dei tre siti quello di Sabra è oggi il solo a non avere alcun tipo di protezione. Finora è stato relativamente tutelato dalla maggiore distanza, ma questa inaccessibilità si riduce sempre più con l 'incremento degli itinerari turistici su lunghe distanze. Con il tempo, sia per l'aumentata presenza di visitatori in tutto il parco, sia per il progredire delle prospezioni archeologi­ che, i vincoli di tutela integrale con guardiani e barriere protettive vanno estesi ad altre aree. Il sistema del bacino superiore del wadi Musa è l'area più delicata perché finora non correttamente considerata all'interno delle preoccupazioni di salva/ guardia di Petra. Costituisce l'ingresso ecologico e urbanistico del parco, si affac­ cia sull'area archeologica di P etra ed è sottoposta alle più intense tensioni di tra­ sformazione. Su questa area si giocano i destini del sito nel lungo periodo. W adi Musa è l'agglomerazione centrale di tutto il sistema. Essa vive ora in modo com­ pletamente distorto i benefici del turismo . Questo costituisce per la gente un 'occasione di lavoro e di guadagno, ma non diventa una capacità locale di gestione turistica e un momento di qualificazione urbana e di reale crescita eco­ nomica. Le attività turistiche si sono installate ai margini di W adi Musa intac­ cando, attraverso un maggiore flusso di denaro, le sue caratteristiche di villag­ gio senza per questo trasformarla in una città . Nessuna compagnia turistica è gestita da abitanti di W adi Musa e solo pochi alberghi di minore qualità sorgono nel centro abitato . Il turismo del grande albergo in posizione panoramica e domi­ nante, lontano dal tessuto abitativo, richiede una presenza breve e costosa, per isole separate dai centri abitati e senza alcun beneficio a questi ultimi. È neces­ sario organizzare un modello diverso di gestione. W adi Musa con le sue case sto-

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riche restaurate, le sue sorgenti e i suoi giardini deve divenire un centro turi­ stico di prestigio con un progetto urbanistico appropriato e un programma ade­ guato di infrastrutture. Servizi superiori come la sede del quartiere generale del parco, centri di formazione e di orientamento vanno localizzati a Wadi Musa . Musei, spettacoli e mostre sulla storia antica di Petra, commerci e mercati arti­ giani possono rendere la sosta nei complessi turistici di W adi Musa più attraente dell'isolamento in hotel lontani, permettere una integrazione fra il turismo e la popolazione residente e rendere la permanenza a Petra più vitale e prolungata oltre gli orari della chiusura delle aree archeologiche. La strada asfaltata che segue tutto l'arco intorno al sito archeologico di Petra da Taiyiba fino a Beida è uno dei punti più importanti del programma di prote­ zione. Su questa direttrice si esercitano le pressioni più forti di urbanizzazione e le più pericolose per il sito. La strada corre proprio sulla linea delle sorgenti e domina tutta la zona archeologica. La sua urbanizzazione selvaggia è un grave rischio per la falda freatica e implicherebbe scarichi di acque usate e pressioni incontrollabili sull'area archeologica. Lungo questa strada sono localizzati i vil­ laggi tradizionali di Bedebdeh, Beida, al-Haiya, Nawafle, Taiyiba. Questa strut­ tura di insediamenti è sottoposta a un rapido spopolamento per l'attrazione eser­ citata dalle nuove costruzioni . Costituisce invece un enorme patrimonio utilizzabile a scopi residenziali, turistici e di servizi. Il piano del bacino propone lo sviluppo coordinato, con l'integrazione dei servizi e delle infrastrutture, garantendo la separazione fisica dei villaggi attraverso zone agricole e verdi di protezione e l'autonomia amministrativa. Il bacino del wadi M usa è organizzato come una struttura a rete di villaggi immersi in un teatro di coltivazioni e rim­ boschimenti. L'organizzazione del parco della Grande Petra fornisce nuovi itinerari e occa­ sioni di permanenza più attenta e prolungata, gestiti attraverso l'agriturismo e il turismo nomade. L'agriturismo costituisce la sintesi tra le finalità di recupero architettonico e di protezione ambientale e lo sviluppo turistico. Oggi gli ope­ ratori turistici abbandonano i vecchi villaggi e le aree coltivate che erano la sola protezione contro le erosioni e il degrado ambientale. Dando agli abitanti che gestiscono correttamente la loro tenuta agricola la possibilità di organizzare strutture turistiche, si fornirà un incentivo al ritorno agli antichi villaggi e col­ tivazioni. Per il visitatore l'accoglienza in un' abitazione e un villaggio tradizio­ nali con i suoi ritmi e modi di vita, i cibi, le feste, l'occasione di conoscenza e di incontro con la gente costituisce un motivo in più di attrazione. Attraverso l'offerta di modi di abitare diversi da quelli del turismo internazionale standar­ dizzato e anche più economici, si incentiva la sosta più prolungata che usufrui­ sce appieno della possibilità di compiere itinerari più larghi organizzati a piedi,

a cavallo, a cammello con le guide, i mezzi e l'esperienza messi a disposizione dalla stessa azienda agroturistica. Bedebdeh, Beida, al-Haiya, Nawafle e altre agglomerazioni sparse possono essere così recuperare. Il progetto di Taiyiba costituisce a questo proposito già un esempio per l'intervento di restauro archi­ tettonico. Il modello organizzativo consiste nel dare ai proprietari e alle famiglie stesse un incentivo a praticare turismo e conduzione agricola. La prima attività rappresenta un supporto per la seconda, che rimane una sicura base economica nel caso di oscillazioni e crisi delle presenze turistiche. Il parco della Grande Petra ha una estensione tale e offre tante varietà di pae­ saggi che solo un turismo itinerante può permetterne appieno la visita. Il viag­ gio con guide, a piedi, a cavallo, a cammello, con gli asini può essere effettuato con strutture di accoglienza temporanee e con villaggi in tenda. Questo tipo di ricettività, se correttamente organizzata, può assicurare un'accoglienza di alto livello e di enorme attrazione e gestire flussi turistici nel rispetto del patrimonio culturale e della natura. L'esistenza di Petra è stata possibile grazie all'impegno della popolazione per rendere vivibile un territorio aspro e dalle difficili condizioni climatiche . L'ambiente faticosamente strappato all'aridità è stato protetto dall'erosione attraverso la cura e la manutenzione. A Petra più che in qualsiasi altro luogo si può verificare questo impegno prolungato nel tempo di organizzazione e di edi­ ficazione dello spazio da parte di popoli che hanno imparato a conoscere le leggi del loro clima e i segreti processi della natura per utilizzarli a loro favore . L'esi­ stenza della parte monumentale di Petra è intimamente legata a quella del sup­ porto territoriale complessivo. Con la mancata manutenzione degli argini e delle dighe, l'abbandono dei sistemi di drenaggio, di canalizzazione e di raccolta delle acque e la scomparsa del manto vegetale, l'ambiente è entrato in un circuito vizioso di amplificazione sempre crescente dei fattori di degrado . Gli effetti sui monumenti e le pareti di arenaria sono solo lo stadio finale di un processo che, innescato inizialmente dalla distruzione di una semplice gronda di raccolta dell'acqua o il taglio di qualche albero, vede ormai gravemente intaccato e dete­ riorato l'intero assetto territoriale. Una piena irruenta è sempre possibile nel regime climatico ad andamento catastrofico della regione. Non ha senso tuttavia realizzare enormi strutture di protezione dimensionate su un evento catastrofico : esse sono perlopiù inutili nella gran parte del tempo e si rivelano comunque insufficienti al momento della piena eccezionale. È più opportuno condurre una politica di piccola idraulica, di riparazione degli argini e degli sbarramenti, di protezione dei suoli: impedire la formazione di grandi piene attraverso il controllo parcellizzato di tutta la nume­ rosa rete degli affluenti e la ritenuta delle acque sui pendii.

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La protezione nel lungo periodo necessita di una strategia di intervento su scala globale, di un progetto di restauro dell'intero ecosistema . In un sito come Petra la riparazione e la manutenzione dei dispositivi di controllo e di gestione dei flussi idrici, la formazione dell'humus e la stabilizzazione dei suoli, il man­ tenimento del manto vegetale, che erano impegno costante degli antichi abitanti e sono tuttora gli unici interventi capaci di arrestare l' azione distruttiva del vento, dell'acqua e dell'erosione, devono essere considerati parte integrante dell'intervento di conservazione archeologica. Il progetto relativo al wadi al-Mataha è un esempio pilota delle possibilità di attuare un recupero integrato di tipo archeologico e ambientale con forti valenze sociali attraverso l'inseri­ mento lavorativo e gestionale della popolazione locale . Il wadi al-Mataha era nell'antichità terrazzat o e coltivato a giardini agricoli. Lungo le sue sponde erano collocate le abitazioni rupestri di ricchi nabatei come la C asa di Doroteo. Sono complessi ora perlopiù poco visitati e certamente non compresi nella loro antica struttura. Erano dotati di giardini pensili dove si coltivavano le piante aromati­ che, di fontane monumentali e di cisterne alimentate dall'imponente sistema di canalizzazioni e acquedotti che parte dalla Zurraba e termina al Palace Tomb . Il progetto si propone di attuare il ripristino del sistema di condutture d'acqua dei terrazzi e dei giardini per rendere visitabile un ambiente abitato dell'antica P etra, e di riattivare le dighe di diversione e le cisterne e le coltiva­ zioni del wadi al-Mataha . L' area sarà data in gestione ai gruppi bdul di Um Sayhun, che ne assicureranno la manutenzione e la coltivazione e la sfrutteranno economicamente dal punto di vista turistico e agricolo . Il progetto di grande immagine costituirà un nuovo elemento di attrazione per la visita a Petra, per­ metterà di sperimentare gli effetti del restauro ambientale sulla tutela dei monu­ menti e la possibilità di coinvolgere gli interessi della popolazione locale nella gestione e manutenzione del territorio, unica garanzia di salvaguardia nel tempo.

6.

Oasi di pietra: i trulli pugliesi e i Sassi di Matera

Fare scaturire acqua novella dalle antiche fonti. (Federico II)

Mondo sotterraneo Nella Grotta dell' Addaura, sul Monte Pellegrino in Sicilia, in un graffito preistorico rupestre dieci personaggi maschili, disposti in cerchio, compaiono in una rappresentazione d'eccezione. Con i volti raffigurati in forme animali, o pro­ tetti da maschere dai lunghi becchi di uccello, e le teste sormontate da caschi o grandi acconciature, circondano due persone distese in una posizione innaturale. Il busto di una di queste è sollevato da terra sulle braccia allungate mentre le gambe sono ripiegate all'indietro, la seconda sembra essere costretta in un'ana­ loga situazione da un laccio che raggiunge il collo . L'enigmatico graffito, risa­ lente al Paleolitico finale, è stato interpretato come una vicenda di cattura e di tortura conclusa con lo strangolamento di due prigionieri, pratica che spieghe­ rebbe l'aspetto itifallico delle vittime. Ma il contenuto appare diverso se rap­ portato a immagini dell'arte preistorica africana e a pratiche ancora in uso in questo continente. Le figure mascherate, dai tratti del viso zoomorfi o comple­ tamente occultati, sono simili ai cosiddetti personaggi « dalle teste rotonde » del Paleolitico e del Mesolitico sahariano e gli avvenimenti rappresentati sono ricon­ ducibili a riti e cerimonie africane. I personaggi in piedi esprimono con forza espressiva una scena in movimento: le braccia e le gambe delle singole figure sono alzate o flesse secondo l' andamento di una cadenza e i corpi appaiono scossi da sensazioni ritmiche. Si sta compiendo una danza, una cerimonia magica che ha per protagonisti proprio i due personaggi centrali. Questi, come in alcuni riti virili tuareg, mostrano il loro valore assumendo pose acrobatiche . L'aspetto iti­ fallico, secondo una consuetudine tipica dell'arte preistorica, non denuncia la condizione della vittima, ma piuttosto quella di protagonista. Caratterizza l'eroe, lo sciamano, impegnato nell'impresa e nella lotta, o nella sua ripetizione

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1 28-29 . Scene preistoriche di danza rituale. Dalla Grotta dell' Addaura sul Monte Pellegrino nei pressi di Palermo (a sinistra) e dalla rupe di Tin Tegheghent nei Tassili dell'Ajjer, Sahara algerino (a destra) .

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rituale . È la rappresentazione di un'iniziazione maschile ai misteri della caverna di cui, forse, le celebri statuette femminili, le cosiddette Veneri paleolitiche che si ritrovano sovente associate a questi siti, sono un'allusione. Ma perché un graf­ fito preistorico della Sicilia può essere oggi compreso attraverso espressioni pro­ prie della società e dell'arte africana ? L' Europa meridionale si frastaglia nel Mediterraneo con penisole e isol . Molte di queste terre furono un tempo più estese e collegate tra loro a causa dell' abbassamen. t o del livello delle acque dovuto alle grandi glaciazioni. Così il mare non fu mai una barriera agli incontri e agli scambi tra i continenti del mondo antico. Ne sono prova i ritrovamenti preistorici che attestano le migra­ zioni dei popoli tra l'una e l'altra sponda e la continua diffusione delle culture.

In particolare la penisola italiana, che si allunga al centro del Mediterraneo formando con la Calabria e la Sicilia quasi un ponte verso l'Africa e si protende a oriente con la Puglia, ha in queste sue regioni tracce intatte del lontano pas­ sato comune a tutti i popoli. L'arte paleolitica delle caverne è la testimonianza più evidente e completa dei livelli di capacità e cultura di quelle arcaiche genti nomadi. Anche se l'Italia è in genere considerata relativamente marginale rispetto ai più alti fenomeni artistici dei cacciatori-raccoglitori, la Grotta del­ l' Addaura in Sicilia, la Grotta Genovese nell'isola di Levanzo, le Grotte Pagliacci e Romanelli in Puglia e la Grotta del Romito a Papasidero sul versante calabro del Monte Pollino hanno fornito scene di vita e rappresentazioni animali databili dal 2 0 ooo al I 5 ooo a. C . Le concordanze stilistiche e figurative tra que­ ste raffigurazioni e l'arte preistorica del Sahara sono impressionanti. Un graf­ fito della Grotta del Romito a Papasidero, considerato il più perfetto esempio di arte parietale italiano, raffigura un toro lungo I 20 centimetri, la cui armonia delle forme e precisione dei dettagli richiamano direttamente le rappresentazioni sahariane della fauna bovidiana. L'arte delle caverne è il risultato di un lungo processo attraverso cui l'uma­ nità si è appropriata dei recessi nella roccia e li ha resi i suoi ripari. Gli animali avevano per primi utilizzato i vantaggi di questi ambienti naturali come rifugio dalle intemperie, ricoveri dalle temperature ottimali durante tutte le stagioni, luoghi di riposo forniti di comodo guano per distendersi e di pozze per bere. La presenza dell'acqua, in particolare, ne determinava l'utilizzo non solo da parte delle grandi fiere usualmente considerate abitatrici delle caverne come gli orsi e le tigri dai denti a sciabola, ma anche da ogni tipo di erbivori. Ancora oggi in Kenya profonde cavità sono frequentate da vaste mandrie di elefanti che vi si recano per abbeverarsi e bagnarsi nelle palle d'acqua. L'umanità ha seguito l'esempio degli animali e li ha scacciati dalle grotte grazie alla padronanza del fuoco. Questo fu utilizzato in modo sporadico dai primi Ominidi già da oltre un milione di anni fa. Ma a partire da 500 ooo anni fa si hanno le tracce di un uti­ lizzo continuato da parte di gruppi che, grazie al suo uso, conquistarono un enorme vantaggio di sopravvivenza. Il fuoco non era impiegato per cuocere gli alimenti, pratica introdotta in epoche molto successive, ma permise di rischia­ rare e riscaldare le caverne e tenere lontani gli animali notturni. Rubato a un incendio spontaneo, veniva gelosamente conservato dai cavernicoli, alimentato e protetto perché le tecniche di accensione furono scoperte solo a partire da I oo ooo anni fa. Le pratiche di conservare carboni accesi e scintille sono all'ori­ gine degli antichi culti del fuoco, officiati da sciamani e vestali capaci di ravvi­ vare in una grotta la magica fiamma apportatrice di luce e sicurezza. L'impor­ tanza dei rami resinosi, facilmente combustibili, propri delle piante aromatiche

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può risalire a queste epoche lontane. L'illuminazione delle caverne fu il primo modo di appropriarsi di un ambiente così come è in natura per organizzarlo arti­ ficialmente . L'altra grande trasformazione fu la raccolta delle infiltrazioni idriche e degli sgocciolii delle stalattiti in cavità appositamente create. Così la gestione dell'acqua e dell'energia luminosa e termica, nelle cavità inizialmente solo naturali della pietra, è protagonista dell'originario processo attraverso cui l'umanità ha plasmato lo spazio . È per questo che la grotta, primo riparo degli uomini e degli animali, soglia tra il mondo esterno, aperto e ostile, e la dimensione riparata, intima e sociale, è il luogo privilegiato delle rappresenta­ zioni artistiche e delle scene del rito, l'archetipo del tempio . L'uso delle caverne, generalmente abbandonato con il progredire dell'archi­ tettura, si è perpetuato in sistemi di habitat dell' Italia meridionale. Pantalica in Sicilia è un complesso rupestre a più piani sovrapposti di ipogei risalente al XIV secolo a. C . I Sassi di Matera in Lucania, nome antico dell'attuale Basilicata, e gli insediamenti scavati nelle gravine della Puglia sono sistemi di habitat analo­ ghi mantenuti intatti e abitati fino ai nostri giorni. La frequentazione umana nelle grotte e cavità carsiche del Materano è attestata dal più lontano Paleoli­ tico. Nel 1 93 3 in una profonda cavità nei pressi del Pulo di Altamura è stato rin­ venuto uno scheletro intatto di ominide dalle caratteristiche neandertaliane, o preneandertaliane, che costituisce un ritrovamento unico a livello europeo . A Matera la Grotta dei Pipistrelli ha avuto un utilizzo dalla preistoria all'epoca contemporanea . Tracce di focolai, lame e asce di pietra, bulini, grattatoi e ciot­ toli lavorati con motivi geometrici e meandri attestano l'occupazione umana durante tutto il Paleolitico superiore. Alla fine di questo periodo la formazione di imponenti strati di stalattiti testi­ monia le modificazioni climatiche che seguono la fine della grande glaciazione. Il clima diventa più caldo e lo scioglimento delle nevi mette in circolazione più acqua e piogge, agenti dei fenomeni di concrezione calcarea . Il miglioramento ambientale favorisce la vita neolitica che si svolge prevalentemente in insedia­ menti all'aria aperta. La grotta continua a essere utilizzata per usi sacrali e sepol­ crali, ma ora le cavità naturali sono artificialmente trasformate con le tecniche di scavo. È il passaggio da una occupazione nomade, che si appropria dell'ambiente attraverso modificazioni che possiamo definire trasportabili, come l'accensione del fuoco, la raccolta dell'acqua e l 'arte mobile o parietale, a interventi più mas­ sicci, implicanti una presenza stabile e un forte investimento motivazionale nella trasformazione dello spazio . I cosiddetti villaggi trincerati della Daunia in Puglia e nelle località di Murgecchia e di Murgia Timone presso Matera, occupati dal vn al IV millennio, rappresentano le prime manifestazioni neolitiche europee in cui un forte sovrappiù produttivo ha sorretto lo svolgimento di imponenti opere

frutto dell'attività collettiva. Profondi fossati realizzati con i semplici attrezzi di pietra sono scavati nella superficie rocciosa per ottenere recinti a più cerchi con­ centrici, meandri e mezzelune che delimitano vaste aree. Contrariamente a quanto era apparso all'epoca del loro primo rilievo (Ridola I 926) , i fossati non avevano uno scopo difensivo. In essi infatti non sono state rinvenute punte di freccia o altre armi preistoriche. Inoltre sarebbero facilmente attraversabili in un attacco di gruppi umani. È probabile piuttosto che fossero funzionali alle pratiche neolitiche di allevamento e coltivazione. Lo studio, ese­ guito dal paleontologo Giuseppe Leuci, dei villaggi della Daunia caratterizzati da molteplici serie di trincee a forma di mezzaluna ha dimostrato come queste erano sistemi di drenaggio per bonificare e rendere utilizzabile il terreno (Tiné I 98 3; Leuci I 99 I ) . Le analisi delle foto aeree degli insediamenti di Murgia Timone evidenziano i perimetri riempiti ormai dal terreno per la vegetazione che cresce più folta grazie all'umidità raccolta nel fossato . È possibile che su questi altipiani calcarei lo scopo delle trincee fosse proprio quello di raccogliere l'acqua o l'humus . È stato riscontrato che tecniche analoghe furono utilizzate già dai rac­ coglitori paleolitici, che miglioravano il rendimento di piante commestibili sel­ vatiche deviando verso di esse rigagnoli e drenaggi (Drower I 954). Sul basa­ mento roccioso che fronteggia l'abitato di Gravina in Puglia, fra le tracce di intagli, vasche e sepolture che si sovrappongono da periodi lontani, compaiono enigmatici graffiti circolari e altre figure geometriche. Uno di questi è formato da un cerchio che si innesta nell'angolo di un quadrato più grande che lo rac-

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Fossati del villaggio neolitico a Passo di Corvo nella Daunia, sviluppati per circa 5 chilometri in un'area di 40 ettari. Sono spiegati da Giuseppe Leuci come dispositivi di drenaggio.

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chiude. I solchi della figura quadrata finiscono nell'angolo opposto in una cavità scavata più profondamente. Sembra proprio di vedere la schematizzazione pro­ gettuale di un sistema di drenaggio e raccolta di acqua quale è quello realizzato nell'impianto dell'insediamento neolitico di Murgia Timone. Questo racchiude una superficie di zo ooo metri quadrati che difficilmente poteva essere tutta dedicata a scopi abitativi. Nella parte in cui è visibile il basamento originale ripu­ lito dai sedimenti, appaiono chiaramente i fori di pali infissi nella roccia. Gli abi­ tanti dovevano quindi utilizzare capanne circolari simili a quelle dei paesi afri­ cani, realizzate con il materiale ligneo diffuso nell'ambiente ancora boschivo del Neolitico . Altre zone presentano lo scavo di cisterne a campana, tracciati di canalette, fosse, vasche e silos. Alcune serie di cisterne sono collegate tra loro per realizzare un sistema di successive vasche di sedimentazione e di filtro dell'acqua piovana. Siccome solo una piccola porzione del perimetro è stata ripulita, non è possibile dire quanta parte dell'insediamento fosse utilizzata per scopi abitativi e quanta per le attività produttive. Ma è certo che queste ultime dovevano avere un posto di tutto rilievo. L'uso di fossati e recinti è una pratica riscontrabile in tutte le attività agro­ pastorali, fondamento della vita neolitica. Labirinti, corral e passaggi obbligati sono strutture necessarie alle pratiche di contare, mungere o tosare gli animali. In dipinti neolitici sahariani sono rappresentate mucche che attraversano soglie. Lo scopo rituale e simbolico loro comunemente attribuito può avere una origine concreta proprio in queste attività dell'allevamento. Ancora oggi i recinti dei pastori delle Murge in successione lungo la strada che da Gravina va a Poggior­ sini hanno forme simili agli arcaici recinti neolitici. La struttura del doppio cer­ chio separata da una soglia di attraversamento serve per tenere distinte le pecore nella quotidiana incombenza della mungitura. Gli ovili sono tutti dispo­ sti contro un pianoro in pendenza, cosicché i liquami possono essere asportati tramite lavaggio grazie alle piogge raccolte sul pendio sovrastante e drenati per gravità in fosse dove si conserva l'humus necessario alle coltivazioni. Cavità sot­ terranee costituiscono depositi protetti e freschi per la conservazione casearia. Il caglio, indispensabile alla trasformazione del latte in formaggio, vi viene gelo­ samente custodito e tramandato come un tesoro di famiglia. Vasche rupestri ser­ vono al lavaggio delle lane. Queste tecniche basate sulla forza di gravità, sull'uso e la conservazione delle energie della natura e sul potere degli umori e dei liquami risalgono al passato preistorico e hanno caratterizzato la vita dei popoli in un arco temporale lunghissimo. Ritenute aspetti marginali e desueti della sto­ ria umana, esse si sono conservate nell'universo agropastorale apulo-lucano e ora emergono dall'arcaico mondo sotterraneo per reclamare il capovolgimento di valori e modi di operare ritenuti scontati.

Architettura passiva La grotta è l'esatto rovescio di una costruzione architettonica. Costituisce una forma passiva apprezzabile da un interno che non ha un rapporto con una struttura esteriore. Anche se artificialmente ampliata e modellata, non è otte­ nuta costruendo un involucro ma estraendo la materia. Siamo in genere così abi­ tuati al processo contrario che non appare evidente come questo sia il modo più appropriato di realizzare uno spazio: creare un vuoto in qualcosa che già c'è senza necessariamente modificare il paesaggio innalzando un volume. L' attitu­ dine passiva, non basata sullo spreco di energie, ma sulla loro conservazione e controllo, sviluppata dal mondo sotterraneo delle caverne rappresenta una con­ cezione esistenziale: evitare la sfida orgogliosa della natura, per immergersi in essa e apprendere e stabilire relazioni mimetiche o una vera fusione con l'uni­ verso . L' attenzione all'uso oculato delle risorse naturali nasce dalla penuria e dalle costrizioni imposte da ambienti difficili e trova soluzioni adeguate nelle forme da questi natur�lmente fornite. Gli altipiani e le colline della Puglia e della Lucania chiamati Murge con le 1 3 1 loro rocce calcaree, ricche di grotte, anfratti naturali e inghiottitoi carsici, offrirono efficaci ripari naturali agli abitanti. Le vicende geologiche, plasmando forme e ambienti, hanno fornito il modello per i tipi abitativi successivamente utilizzati.{te Murge si sono costituite sul fondo del mare per sedimentazione di .:1:-----­ scheletri e organismi marini. La piattaforma calcarea, a causa di un lento solle­ vamento geologico, emerse completamente dal mare nel primo periodo del Qua­ ternario . Lo scontro con la dorsale appenninica provocò il maggiore innalza­ mento della parte interna rivolta verso le montagne, chiamata Murgia Settentrionale o Murgia Alta. Nel sollevamento si formarono piegamenti degli strati che crearono zone più elevate, susseguentisi sul tavolato apulo come tante gobbe, più imponenti nella Murgia Alta, verso l'interno lucano, e via via digra­ danti verso la fascia costiera . Queste gibbosità calcaree spaccandosi formarono nel mezzo valloni più o meno profondi chiamati lame e gravine. Sono canyon quasi sempre asciutti tranne in occasione di violente piogge. La loro origine non fluviale spiega come mai le gravine sorgano improvvisamente nel paesaggio senza che prima e dopo ci sia, o ci sia mai stato nel passato, un alveo dalla portata idrica capace di incidere l'enorme crepaccio . Infatti questo è frutto, come si è detto, non dell'azione di scavo di un fiume, ma di un innalzamento e di una frattura. Con il tempo l'avvallamento viene utilizzato dallo scorrimento delle acque e sottoposto alle forze dell'erosione. Le piogge incidono le rocce calcaree, forano le superfici e si infiltrano nel sottosuolo, dove scavano grandi cavità sotterranee. In alcuni casi le volte sprofondano e si creano depressioni circolari chiamate

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Golfo di Taranto

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Vicinato ipogeo di Matera

Le Murge apolo-lucane e le aree dei trulli. Le rocce calcaree delle Murge costituiscono un sistema carsico ricco di grotte, canyon e inghiottitoi.

pula. In superficie l'azione chimica di dissoluzione dei calcari produce una terra rossa molto fertile, detta bolo, che si accumula nelle conche e negli avvallamenti, o viene dilavata lasciando le rocce nude e trasportata verso la costa e il mare. Gli sprofondamenti circolari dei puli e i crepacci delle gravine e delle lame sono i luoghi più antichi di habitat umano e forniscono i tipi di base per la rea­ lizzazione di strutture insediative riprodotte poi in modi e situazioni differenti. Il pula, come un grande imbuto, raccoglie le acque e protegge il terreno fertile e la vegetazione. Nelle Murge sud-orientali, a Conversano in provincia di Bari, sono ancora in uso i cosiddetti « laghi »: leggere depressioni e doline il cui fondo è attrezzato con numerosi pozzi cisterne che catturano le piogge stagionali (Pal­ misano e Fanizzi 1 992) . Le grotte naturali, disposte lungo le pareti in gironi cir­ colari, formano le cellule abitative aperte sullo spazio interno. Si realizza una corte centrale su cui si aprono gallerie orizzontali radiali. Una struttura simile è prodotta artificialmente nelle miniere di selce neolitiche di cui il Gargano ha i più estesi esempi di tutta l'Europa (Di Lernia e altri 1 990) . Questo modello dà luogo al tipo abitativo ottenuto scavando in verticale, verso il basso, nella super­ ficie pianeggiante, una corte collettiva semicircolare a cielo aperto : il cosiddetto

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132.

Il Cisternale di Traversa nei pressi di Alberobello: veduta di insieme eseguita all'inizio del Novecento. Simile ai « laghi» di Conversano, è una depressione in cui sono state scavate numerose cisterne che intrappolano l'acqua delle inondazioni.

vicinato a pozzo, dalle cui pareti inizia il traforo delle cavità sotterranee paral­ lele al terreno. È utilizzato nei pianori di Matera, lungo le sponde calcaree della Loira in Francia e sulle piattaforme argillose di Matmata in Tunisia. Nelle situa­ zioni elaborate le gallerie si uniscono nel sottosuolo con quelle che si dipartono da altre corti a pozzo, dando luogo a, un paesaggio di molteplici grandi buchi riu­ nificati da una trama stellare di grotte. Livelli di organizzazione più complessa si realizzano nelle pianure di loess lungo il Fiume Giallo in Cina, dove la cavità verticale non è semicircolare ma è scavata in ambienti rettangolari. Nei villaggi degli Indiani Anasazi chiamati Pueblo, che si susseguono lungo il Chaco Canyon nell'America Settentrionale, e che risalgono al xn e XI secolo d. C . , strutture ana­ loghe hanno forme tecnologicamente molto elaborate, costituite da corti a pozzo, chiamate kiva, realizzate in una massiccia muratura a secco. Il modello della corte a pozzo realizza un impluvio per l' acqua e uno spazio aperto, assolato, ma protetto perimetralmente, per le lavorazioni agricole e ali­ mentari. Alcune corti sono destinate alla raccolta dei rifiuti e alla creazione di humus e formano il giardino scavato nella pietra. La tecnica risolve il problema della povertà dei suoli e permette di riparare le piante secondo il metodo di col-

Corte a pozzo di Matmata (Tunisia)

Corte a pozzo del Fiume G iallo (Cina)

Dalla cavità naturale alla grotta artficiale con cisterna a campana

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tivazione impiegato a Petra nel deserto giordano . Lo spazio scavato, chiuso verso l'esterno e aperto verso il cielo, è all'origine del principio della casa a corte utilizzata dai Sumeri, nel mondo etrusco e classico e in quello islamico . Un tes­ suto di case a corte, infatti, non è altro che la realizzazione costruita di ciò che si ottiene scavando in questo tipo di architettura trogloditica . Le gravine determinano un modello diverso, sviluppato linearmente lungo il canyon. In questo caso non è necessario effettuare lo scavo verticale perché si usano le pareti del vallone naturale. Quando questo è molto stretto le file di ipo­ gei si fronteggiano dalle opposte rive, come nel caso del complesso trogloditico di Petruscio a Mottola in Puglia, che presenta molteplici piani di abitazioni rupe­ stri disposte in più file sovrapposte. Nel caso di un vallone ampio l'insediamento rupestre assume dimensioni urbane su una sola delle sponde, come nei Sassi di Matera, a Gravina in Puglia e nei limitrofi centri di Ginosa e Castellaneta. Le grotte naturali carsiche presentano spesso l'apertura principale affacciata sul pendio e un inghiottitoio nella parte terminale dall'aspetto a imbuto rovesciato o a campana. La forma è dovuta all'azione di scavo operata dalle acque. Queste danno origine sul piano a un'apertura molto piccola sulla superficie delle rocce che, sottoposte all'atmosfera, hanno una patina più dura. Forata questa, le gocce incontrano strati più teneri e la cavità si allarga a campana. L'insieme ipogeo for­ mato da ingresso sul pendio, cunicolo e cavità terminale a volta conica che sbocca sulla superficie superiore, è riprodotto nello scavo di grotte artificiali, dotate cosl di un condotto verticale dal sottosuolo sul piano. Fogge o foggiali, dal latino fovea, sono chiamate queste cavità usate come raccoglitori di acqua o di grani. I prodotti, versati dal pianoro, fluiscono nelle cavità sotterranee, da dove possono essere distribuiti nel complesso rupestre organizzato sul pendio. L'architettura delle caverne costituita da un corridoio sotterraneo recante a una camera a volta è il modello della costruzione circolare con volta conica o a semicupola che costituisce il tipo più arcaico di monumento. La forma è la versione in pietra delle capanne di legno tuttora in uso in Africa e si ritrova nell'architettura religiosa e sepolcrale tipica degli antichi popoli mediterranei. All'inizio si tratta ancora di strutture ipogee con accesso rettangolare, il dromos, e tholos, la pseudocupola circolare . Diffuse in area egea, raggiungono vertici architettonici nella realizzazione del cosiddetto Tesoro di Atreo a Micene del xv secolo a. C . Questa cupola, realizzata in blocchi di muratura megalitica, alta 1 3 , 2 0 metri e larga 1 4 , 2 0 , rappresenta il passaggio dalle tecniche costruttive pas­ sive di origine neolitica, ispirate alle cavità naturali del Paleolitico, all' architet­ tura costruita. 1 400 anni più tardi il Pantheon di Roma, con l'occhio centrale da cui penetra la luce, è ancora una 'tiproposizione dell'antico tempio delle caverne, ma ora la cavità è il risultato di un'architettura attiva in cui il vuoto è ottenuto tramite l'elevazione di una imponente massa muraria.

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Dalla trama ipogea al tessuto costruito in Tunisia. A Matmata (in alto) nei pozzi verticali, impluvi e sistemi di aerazione, si aprono le abitazioni ipogee scavate orizzontalmente nel sottosuolo. A Tozeur (in basso) il tessuto delle case a corte è la riproposizione costruita della struttura trogloditica di pozzi ipogei e « vicinati».

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La struttura delle pseudocupole dalla pianta circolare con il profilo esteriore a monticello, il tumulo, è utilizzata in quelle costruzioni tipiche del paesaggio murgico pugliese chiamate trulli. Questi assumono una densità urbana nella cele­ bre cittadina di Alberobello (Allen 1 969) , ma sono diffusi in svariati tipi di rifugi rurali in tutta la Murgia costiera (Ambrosi, Degano e Zaccaria 1 990) . Le forme di questi rifugi, variamente chiamati pagghiari, casali, chippuri e casedde, sono così lontane da quelle di un'architettura rustica che i viaggiatori del Settecento in visita in Puglia hanno lasciato descrizioni e rappresentazioni di un paesaggio costellato di strutture monumentali e complessi funerari, carico di reminiscenze di alta archeologia (Saint-Non 1 78 1 ) . Lo stesso nome trullo deriva dalla voce greca tholos, cupola. Le elevazioni richiamano antichi monumenti mesopotamici e africani come i coni di terra e paglia ancora visibili nelle regioni di Aleppo e Harran e i tumuli di pietra, i medracen, del Nordafrica. La pianta ricorda i lobi dei nuraghi o i meandri del labirinto cretese. Le analogie non sono casuali. La campagna pugliese abbonda di monumenti megalitici quali i dolmen, i menhir, gli ammassi di pietre chiamate specchie, fatte a gradoni terrazzati come le ziqqurat e le prime piramidi. La presenza di commercianti cretesi e micenei nella tarda Età del Bronzo in tutta questa area, che diventerà in epoca storica la Magna Gre­ cia, è un fatto accertato. Tra il XIV e il XIII secolo a. C . si sviluppano il grande commercio internazionale del Mediterraneo e quei vasti movimenti di genti chia­ mate dagli Egizi Popoli del Mare. I luoghi di ritrovamento di manufatti egei cor­ rispondono agli insediamenti di questi gruppi che, come i Filistei in Palestina e i Tirreni in Etruria, trovarono stabilità nelle nuove terre. I Lici, i Siculi, i Sardi sono citati dagli Egizi come commercianti delle « isole del mare », e forse anche i Dauni, i Peucezi e i Messapi, popolazioni in cui si ripartisce la Iapigia, nome antico della Puglia, sono parte di questo grande movimento di scambi. Tuttavia l'orizzonte di riferimento è, forse, ancora più vasto. La tholos è una tipica forma di origine africana e Martin Berna!, a partire da una indagine lin­ guistica, mitografica e storiografica, sostiene una diretta influenza egizia e feni­ cia all'origine della civiltà cretese e micenea (Berna! 1987, pp. 1 9-2 2) . L'ipotesi è suffragata dal ritrovamento a Tebe, in Grecia, da parte dell'archeologo Theo­ dore Spyropoulos di un monumento risalente al primo Elladico, intorno al 2 8oo a. C . La struttura, costituita da un tumulo di terra cruda a gradoni terrazzati, è stata identificata come la tomba di Anfione e Zeta, i mitici costruttori delle mura della città. Lo studio dell' aichitettura, simile a quella delle prime piramidi a gradoni, ha convinto l' archeologo, soprintendente negli anni settanta della regione della Beozia, di una originaria colonizzazione egizia della Grecia (Spy­ ropoulos 197 2 ) . Tebe è nei tragici greci associata alla Sfinge e Cadmo, il fonda­ tore mitico, è di origine fenicia. Allo stesso periodo del tumulo appartengono

135 -3 7 .

Dall 'architettura idraulica ipogea a quella funeraria e alla pseudocupola in superficie: cisterna; tholos detta del Tesoro di Atreo a Micene; trullo pugliese.

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sofisticati lavori idraulici che permettevano durante l'inverno il drenaggio del vicino lago Copaide e la conservazione dell'acqua per uso irriguo nelle aride estati. L'elaborata ingegneria idraulica, fatta di fossati, argini e canali, non in possesso in quel periodo degli autoctoni, è ritenuta dalle fonti classiche intro­ dotta dal re egizio Danao, mitico fondatore di Argo, o dai Minei, un gruppo sta­ bilito nella città di Orcomeno a nord del lago Copaide. Berna! nota come ambe­ due i termini abbiano una etimologia egizia. Il nome Danao può derivare dall'egizio dni, che significa irrigare, e Minei da mniw, cioè pastori (Berna! 199 1 , p. 1 3 4) . Anche se non si può dimostrare l'identificazione dei Minei con i Minoici di Creta o, addirittura, con i Minei sudarabici, è significativo il legame esistente tra gruppi pastorali in possesso di tecnologie idrauliche e le migrazioni prove­ nienti dall'Africa e dall' Oriente. È possibile poi stabilire un'analogia con Minasse e il mitico faraone Menes, o Mendes che, secondo Diodoro Siculo, realizzò in Egitto il primo labirinto sede del culto del toro sacro (Biblioteca storica, 1 66) . E a Eracle, la cui tradizione mitica sincretizza epopee di vari paesi, è attribuita la costruzione delle cosiddette catavotre, tunnel sotterranei seminaturali del lago Orcomeno nel Peloponneso, che permettevano di trasformare l'Arcadia in una regione irrigata e fertile. L'eroe, educato dal bovaro Teutaro, denuncia la sua origine pastorale pulendo le stalle del re Augia con un espediente ancora in uso negli ovili del sud d'Italia: l'indirizzo sul letame di un canale d'acqua e il suo drenaggio in un sistema di fos­ sati. Il toponimo Orcomeno ricorre sia in Beozia che in Arcadia, ambedue regioni caratterizzate dall'uso di sistemi idrici . Il termine compare già nelle tavo­ lette cretesi in Lineare B ed è formato da orch- , che significa luogo chiuso, recinto coltivato, e -menos, riconducibile all'aramaico mayn, acqua (Berna! 1 99 1 , pp. 1 39-40) . Il nome significa quindi recinto per regolare l'acqua e si ricollega ai sistemi idrici neolitici della Puglia e della Lucania. Le analogie tra l' Egitto, l'Oriente e le isole e penisole mediterranee fanno parte di un comune substrato preistorico, in seguito continuamente rinnovato da migrazioni, conquiste e scambi che seguivano arcaici tracciati nomadi e pastorali. Questa trama spiega la comune matrice della civiltà mediterranea senza dovere necessariamente ricor­ rere alle dirette penetrazioni egizie in Grecia e nell'Egeo ricostruite da Berna! a partire dalle fonti classiche greche. 1 L'interesse per le penisole occidentali è dovuto alla ricerca delle materie prime e all'estrazione dei metalli in particolare. Le pratiche minerarie e l'intro­ duzione dei nuovi strumenti di metallo permettono l'ulteriore sviluppo dell' atti­ vità di scavo di grotte e cavità artificiali. Queste con il peggioramento ambien­ tale risultano sempre più utili all'insediamento umano. Nella parte più elevata delle Murge il progressivo depauperamento del manto vegetale lascia i villaggi in

superficie senza riparo, i suoli indifesi e determina la penuria di materiali lignei per la costruzione e il riscaldamento. Il clima vede l'alternanza di inverni freddi e di estati torride. La carenza di acqua, del tutto assente in fiumi o in falde e pre­ sente solo in piogge violente e concentrate, rende indispensabili le pratiche di raccolta meteorica e di conservazione sotterranea. Le cavità hanno temperatura costante tutto l'anno, costituiscono i ricoveri ideali per gli uomini e per gli ani­ mali e per lo stoccaggio dei grani. Ma soprattutto sono lo strumento di produ­ zione e di raccolta dei flussi idrici. L'acqua che stilla dalle pareti, trasuda dalle rocce, compare in pozze e, continuamente attinta, mantiene sempre « miracolo­ samente » un identico livello, come in una grotta di Manduria descritta da Pli­ nio (Storia naturale, n 2 2 6) , è il dono maggiore del mondo sotterraneo. Ogni cavità ipogea può essere sempre messa in relazione con le pratiche di approvvi­ gionamento e conservazione idrica o con riti collegati all'acqua . Nella Grotta Scaloria, alle pendici del Gargano in Puglia, contenitori di ceramica collocati sotto le stalattiti per raccoglierne lo stillicidio attestano pratiche di questo genere risalenti al rv millennio (Tiné e Isetti 1 980) . Monumenti usualmente considerati di tipo funerario sono rapportabili a usi idrici a scopo funzionale o rituale. A Murgia Timone di fronte a Matera, lungo il fossato degli arcaici recinti neolitici, furono inserite nell'Età del Bronzo strutture monumentali, formate da un doppio cerchio di pietre attraversato da un corridoio di accesso a un ambiente centrale ipogeo. Le opere sono del tutto simili ai preistorici tumuli e anelli concentrici del Sahara e agli allineamenti e ammassi di pietra del deserto del Negev e dello Yemen, utili alla condensazione dell'umidità e alla conservazione della brina. Anche i complessi di Murgia Timone pos­ sono avere avuto la stessa funzione di raccoglitori d'acqua o rapportarsi a culti ad essa collegati . Ne costituisce u�a conferma l'associazione con le trincee degli insediamenti neolitici. Questi erano ormai abbandonati al momento delle rea­ lizzazioni dell'Età del Bronzo, ma il fossato continuava a convogliare umidità utilizzata dalla camera ipogea. Se gli anelli concentrici fossero stati sormontati da ammassi di pietre, si ritroverebbe la forma della tholos con il corridoio di accesso . In questo caso il tumulo poteva sia avere una concreta funzione di ulteriore raccolta di umidità, sia richiamare simbolicamente nel mausoleo del defunto la forma dei dispositivi idrici, fonti di acqua e di vita . Il fatto che a Murgia Timone l'apporto idrico sia fornito dal fossato può spiegare l'inesistenza delle coperture di pietra sui mausolei a doppio cerchio. In un significativo processo inverso ancora oggi in tutte le Murge sono uti­ lizzate cisterne sotterranee che hanno la forma di monumenti funerari som­ mersi nel terreno, di cui spuntano in superficie solo gli spioventi della copertura a tetto. Realizzati nel fondo di un leggero impluvio, filtrano e raccolgono i

r6-r 7 , r 4 z

Possibile copertura di un recinto di pietre

Cisterna a tetto

Muro a secco

Tumulo

Camera di condensazione 150

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microflussi idrici e l'umidità del suolo . Con il loro tetto a falde e i frontoni for­ manti quasi un timpano assumono dignità architettonica e sembianze di templi e mausolei. Come produttrici di acqua possono essere interpretate la gran parte delle strutture di pietra a secco diffuse nelle terre aride delle Puglie, dove gli accumuli di massi spugnosi assorbono la brina notturna e riforniscono di umidità il terreno (Cantelli 1 994) . Infatti le radici di ulivi centenari sono tutte rivolte verso i muretti, che caratterizzano il paesaggio agrario. È significativo che nei più impo­ nenti di queste muri, i cosiddetti parieti, i filari di pietra che chiudono superior­ mente i due paramenti della muratura sono disposti con le lastre inclinate verso l'interno per permettere lo scorrimento della brina nella pietraia interna di riem­ pimento. I muri, i tumuli, i trulli e i cumuli di roccia calcarea chiamati specchie agiscono quindi da strutture di condensazione e conservazione dell'acqua. Gli ammassi di pietre assolvono la loro funzione sia di giorno che di notte. Sotto il sole cocente il vento con tracce di umidità si infiltra tra gli interstizi del cumulo di pietre, le quali hanno una temperatura inferiore nella parte interna perché non esposta al sole o raffrescata dalla camera ipogea sottostante quando questa è presente. L'abbassamento di temperatura provoca la condensazione di gocce che sono assorbite dal terreno nel caso dei muri o precipitano nella cavità . La stessa acqua accumulata fornisce ulteriore umidità e frescura amplificando l'effi­ cacia della struttura di condensazione. Durante la notte il processo si inverte e la condensazione avviene esternamente ma con risultati analoghi. Sulla superfi­ cie esterna delle pietre, più fredda, si condensa l'umidità e si deposita la brina che scivola negli interstizi, umidifica il suolo o si raccoglie nella camera della cisterna . È significativo che la costruzione di ogni trullo incomincia con una cisterna sotterranea scavata proprio sotto lo stesso e con un allineamento di pie­ tre che vi convoglia l' acqua. I cumuli e i trulli sono caverne artificiali che, in alcuni casi, assolvono anche alla funzione dello stillicidio e dello sgocciolio proprio delle cavità carsiche sot­ terranee, in altri raccolgono l'acqua delle falde del tetto mantenendo all'interno ' un ambiente asciutto abitabile . Proprio per le analogie con le caverne le loro forme divennero le tipiche strutture cultuali e funerarie. La corrispondenza tra grotte e trulli riconduce a unità la differenziazione, nelle Murge apulo-lucane, dell'area settentrionale caratterizzata dallo scavo e di quella costiera dove pre­ dominano le costruzioni a secco. Si tratta dell'applicazione di un medesimo prin­ cipio in situazioni geomorfologiche diverse. Sulle terre rosse e fertili della Mur­ gia costiera i muri e i tumuli a secco producono attraverso gli apporti aerei della umidità e della brina quello che nelle cavità calcaree dell'Alta Murgia è realiz­ zato tramite lo stillicidio e l'infiltrazione nella roccia spugnosa .

Città labirinto Minasse, il re di Creta, secondo la leggenda si recò a C urna in Campania e poi a Carnico presso Agrigento, in Sicilia, all'inseguimento di Dedalo, il costruttore del labirinto. Il mitico sovrano, personificazione della supremazia cretese pre­ greca che intorno al II millennio si esercitava su tutto l'Egeo, fu ucciso nella città siciliana . Per vendicarlo i Cretesi compirono una infruttuosa spedizione puni­ tiva e al ritorno naufragarono sulla costa ionica, presso Taranto, dove si stabili­ rono . Iapige, il loro condottiero, figlio dello stesso Dedalo e di una donna cre­ tese, diviene l'antenato eponimo dei popoli iapigi che hanno dato il nome alla Puglia. Il racconto, riportato da Erodoto (VIII 1 70) , semplifica, nella ricostru­ zione del popolamento della regione, una realtà storica più complessa, fatta di diverse ondate di frequentazione egea, dell'apporto di genti illiriche e della con­ tinua fusione con lo strato autoctono di arcaica tradizione appenninica e subap­ penninica . Costituisce tuttavia un riconoscimento da parte della storiografia greca dei caratteri preelladici di quella che sarà la Magna Grecia. La geografia delineata dal mito, con i ruoli assunti da Minasse, da Dedalo e dall'isola di Creta nelle vicende dell'Italia meridionale, è densa di significati. La civiltà minoica è sintesi di apporti del Mediterraneo meridionale e dell'Oriente. Gli stessi Dori, che dal sud della Grecia mossero verso la penisola italiana, nerbo della realizza­ zione della Magna Grecia, reclamavano una origine africana. Più tardi, nel v secolo a. C . , Pitagora, definito dall'oratore ateniese Isocrate « il primo che porta ai Greci la filosofia » (Busiride, 28), trae dall' Egitto le sue conoscenze (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, I 69 , 98) , e da questo paese viene a stabilire la sua scuola, basata su un rigido insegnamento iniziatico, prima a Sibari e poi a Meta­ pento sulla sponda ionica della Lucania. Il mare Ionio costituisce una grande insenatura che penetra verso occidente nella penisola italiana . Per genti che vivono le terre secondo il movimento dei commerci, basati soprattutto sul traffico nautico, questa conformazione geografica rappresenta una condizione strategica. Taranto in particolare è situata pro­ prio nel vertice occidentale di quella che è chiamata dai geografi greci una linea istmica. Il tragitto schematizza un collegamento trasversale lungo un itinerario interno fra opposti versanti marini. La linea istmica è descritta intorno alla seconda metà del v secolo a. C . nell'opera del geografo Antioco di Siracusa per­ venutaci attraverso le citazioni di Strabone. Va da Taranto, sullo Ionio, fino alle foci del Sele, sul Tirreno, dove è collocata Poseidonia, la Paestum dei Latini, e permette il congiungimento del Mediterraneo occidentale con quello orientale senza dovere circumnavigare tutta la Calabria e passare per il pericoloso stretto di Messina . Ma la linea non è un semplice asse di attraversamento, definisce

r 3s

2,3 1

1 3 8 . La linea istmica italiana da Taranto a Poseidonia dei geografi greci.

23 2

anche un insieme etnico e culturale separando dall'Europa continentale a nord una regione peninsulare a sud. « Gli antichi - scrive Strabone - chiamavano Ita­ lia la terra enotria che si estendeva dallo stretto di Sicilia fino al golfo di Taranto e di Poseidonia » (Geografia, v r ) . Sarà solo per caso che 2 5 00 anni più tardi lo scrittore Carlo Levi nel libro Cristo si è fermato a Eboli collocherà proprio in que­ sta città, sul Sele, il limite della penetrazione della modernità e l'inizio di una terra dagli immutabili caratteri arcaici e precristiani ? Su questa regione si costruisce l'immagine della Magna Grecia, ma la colo­ nizzazione non ha mai ragione delle popolazioni locali, che sui monti e lungo gli itinerari della transumanza perpetuano le tradizioni continuamente pronte a rinfocolare tensioni e conflitti. Anche nelle aree di più completa penetrazione, le coste e le profonde e ampie valli fluviali, la cultura classica non cancella, ma integra il passato arcaico . Nelle città iapigie l'impianto urbano ortogonale ippo­ dameo si sovrappone a strati dell'Età del Bronzo. Le tecnologie adattate all'am­ biente e quindi necessarie alla sopravvivenza sono quelle che più resistono alle sedimentazioni delle culture e al trascorrere del tempo. Sono tramandate nelle consuetudini popolari o riprodotte in forme monumentali che acquistano signi­ ficato simbolico autonomo rispetto agli usi funzionali d'origine. A Egnazia sulla costa adriatica la cultura trogloditica traspare dall'uso delle tombe a camera di tradizione messapica del IV secolo a. C . , scavate su preesistenti intagli della superficie calcarea.

I 3 9 -40 .

L 'attraversamento della soglia da parte della mucca nel dipinto del Neolitico sahariano, usual­ mente interpretato come un rito di passaggio all'oltretomba, trova una spiegazione pratica nelle necessità pastorali degli ovili del sud d'Italia.

234

1 4 1 - 4 2 . La forma dei recinti dei pastori con la soglia per la mungitura e la conta si ritrova nel fossato neolitico di Murgia Timone, individuabile dalla vegetazione più verde. In basso è riconoscibile il mausoleo a doppio cerchio dell'Età del Bronzo.

1 43 . Gravina in Puglia. Enigmatico graffito rupestre sul ciglio del canyon che richiama le planimetrie dei fossati e recinti neolitici.

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1 44 . Gravina in Puglia. Tombe, vasche di raccolta e sistemi idraulici ai piedi della collina di Botromagno. Il ponte acquedotto collega ancora oggi le due sponde del canyon.

1 45 - 46. Analogie morfologiche nelle strutture a pseudocupola: abitazioni ad Harran nell'alta Mesopotamia (Turchia) e trulli di Alberobello. 1 4 7 - 4 8 . Sassi di Matera. Fossa granaria ipogea e trasformazione di una cavità simile in chiesa rupestre.

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149-50.

1 5 1 -5 3 .

Murgia dei Trulli, Puglia. Muretto a secco e cumulo di raccolta dell'umidità (specchia) . Costruzione rurale semipogea a pseudocupola. Vestigia archeologiche di Paestum. Ai piedi del tempio è il bothros, fossa sacra delle acque, piramide rovesciata. L' heroon, il mausoleo dell'antenato divinizzato, ha la stessa forma delle cisterne a tetto ancora in uso in Puglia e Lucania. Dipinto del Tuffatore rinvenuto su una copertura tombale.

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154.

Oud Djerat, graffito rupestre del Neolitico sahariano rappresentante una figura femminile cosiddetta «a gambe divaricate » . La posa e l'ornamento richiamano riti di iniziazione sessuale.

Su queste tombe a camera si impiantano le belle ville classiche dotate di sistemi di canalizzazione e fosse per l'acqua, che fanno di Egnazia una capitale archeologica dell'idraulica antica. Il celebre criptoportico, formato da gallerie sotterranee in parte scavate nella roccia in parte voltate a botte lungo i lati di una superficie rettangolare, è stato interpretato come un semplice ambulacro coperto o una fossa per il deposito dei cereali. Le superfici intonacate e impermeabiliz­ zate e le canalette di imbocco dalla spianata superiore centrale alle gallerie infe­ riori permettono di considerarlo piuttosto un sistema di raccolta dell'acqua, la riedizione in canoni classici di un dispositivo a impluvio superficiale e a conser­ vazione ipogea. Lo stesso cosiddetto anfiteatro o agorà con la sua forma pseudocircolare appare un recinto, la reminiscenza, barbaricamente discordante dalle forme geometriche ippodamee, delle tradizioni pastorali. A conferma le pendici dell'acropoli, dove è stato rinvenuto il primo insediamento dell'Età del Bronzo del xv-xn secolo a. C . , digradano proprio verso questa struttura posta in leggera depressione. A Paestum, sulla sponda tirrenica, il sacello del fondatore mitico della città è una struttura sotterranea che esce dal terreno con una copertura a spiovente rivestita di lastre calcaree. La somiglianza con le cisterne a tetto ancora in uso nelle Murge è totale . Anche se dalla vegetazione più intensa è possibile notare il percorso dell'umidità verso la camera ipogea, il suo uso idraulico non può essere affermato, poiché nessuna ricerca archeologica è stata orientata in questo senso. La struttura è significativa perché prova la relazione, proposta per i mausolei a doppio cerchio dell'Età del Bronzo, tra le forme funerarie e i dispositivi per l'acqua . A Paestum l'incontro tra l'arcaico mondo pastorale lucano e la cultura classica produce i vertici più alti dell'espressione figurativa nei dipinti delle

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Egnazia. L'acropoli (A), posta su un sito dell'Età del Bronzo, sovrasta la co­ siddetta agorà (B), la cui forma e collocazione nella depressione fanno pensare a un recinto o a un sistema idrico pastorale.

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lastre tombali risalenti al v e IV secolo a. C . Uno di questi è il celebre Tuffatore (480-470 a . C . ) , rappresentazione di un uomo librato a tuffo verso una superfi­ cie d'acqua. La scena coglie il defunto nel passaggio verso la soglia dell'ignoto, la sua immersione nell'oceano del tempo . I dipinti sono posti nella parte interna delle coperture dei sacelli, simili in forma ridotta al mausoleo del fondatore della città. Il Tuffatore si immerge dunque verso l'interno della camera sotterranea, dove è collocata la sepoltura e dove nelle cisterne a tetto si raccoglie l'acqua . L'analogia tra le due strutture permette quindi di affermare che la rappresenta­ zione dell'acqua non. sia solo allegorica, ma costituisca un riferimento a concrete corrispondenze . Il nome arcaico di Paestum è Poseidonia, la città dedicata a Posidone, l'Oceano (Greco, D 'Ambrosia e Theodorescu 1 995) . Questi nella sua forma preomerica, riportata nelle tavolette di Pila in antico cretese, non è il dio del mare, ma quello dell'acqua primordiale da cui anche gli dei hanno origine. La città dell'acqua celebrava la dea della terra, H era, immergendone la statua in una grande vasca sacra dotata di rampe, piattaforme e un enigmatico labirinto acquatico. Negli insediamenti sull'Alta Murgia il rapporto con l' arcaica matrice medi­ terranea è rimasto ancora più immutato. Taranto, esperienza di organizzazione statale ideale dei pitagorici, prima democrazia nell' Occidente mediterraneo, è una città isola tra due mari. Da essa una serie di gravine si protendono come for­ tezze naturali verso l 'interno: i canyon di Massafra, Mottola, Castellaneta, Ginosa e Laterza; Matera con i suoi Sassi; Gravina in Puglia (chiamata antica­ mente Botromagno, dal latino Petra Magna o dal greco bothros, fossato) . Sono tutte labirintiche città di pietra che hanno origine nell'arcaica cultura preisto­ rica delle caverne. L'esistenza di una fittissima rete di cisterne a campana risalenti almeno all'Età del Bronzo, successivamente riutilizzate e modificate, prova come la trama idrica anticipi il processo di urbanizzazione. L'intrico di stradine, scale, passaggi che digradano lungo il pendio del canyon, si insinuano tra le rupi, col­ legano le grotte e i giardini pensili, è il risultato dello sviluppo del sistema semi­ nomade pastorale in un complesso urbano . La produzione, conservazione e distribuzione idrica funziona per gravità tramite canali e serbatoi. Durante le piogge violente terrazzamenti e sistemi di raccolta proteggono i pendii dall'ero­ sione e convogliano per gravità le acque verso le cisterne nelle grotte artificial­ mente scavate . La gestione dei suoli è strutturata in aie giardino familiari davanti alle grotte, dove intorno alla cisterna si forma l'unità di vicinato, nucleo della solidarietà sociale e della vita collettiva. Le linee d'acqua e le aie agropa­ storali sono la matrice su cui si organizzano i percorsi e gli spazi comunitari, le strade e le piazze della città rupestre (Laureano 1 993) .

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Ciglio dei Sassi Alveo del torrente Gravina Orli di terrazzi e scarpate

1. Chiesa del Purgatorio

2. Chiesa di San Francesco

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Fosso di erosione Siti neolitici e dell'Età del Bronzo Siti dell'Età del Ferro

3· Chiesa di San Pietro Caveoso

1 5 6 . Matera, margini del Sasso Caveoso, area compresa tra le chiese del Purgatorio, di San Francesco e di San Pietro. La trama idrografica antropizzata fin dall'epoca preistorica (in alto) è la matrice del tes­ suto urbano dei Sassi (in basso).

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Grotta con camera di condensazione

Graffito preistorico

A Matera i Sassi Caveoso e Barisano, i più celebri e grandiosi di questi com­ plessi rupestri, hanno oltre dieci piani di cavità sovrapposte con molteplici cisterne a campana collegate da canali e vasche di sedimentazione. Gli ipogei si prolungano con lunghe gallerie che affondano obliquamente nel sottosuolo . L'inclinazione è realizzata in modo da permettere ai raggi del sole di penetrare più in fondo quando c'è più necessità di calore . In inverno, infatti, i raggi sono più obliqui e colpiscono la parete terminale degli ipogei. In estate il sole, più vicino allo zenit, investe solo gli ingressi lasciando le profondità fresche e umide. Nella stagione secca le cavità scavate funzionano durante la notte come aspira­ tori di umidità atmosferica, che si condensa nella cisterna terminale degli ipogei, sempre piena anche se non collegata con canalette esterne . Questi ambienti, posti al culmine del percorso sotterraneo, hanno sulla parete finale una nicchia scavata nella roccia e due banchetti laterali. Come non pensare al labirinto cre­ tese, che non era un palazzo, ma un complesso di gallerie scavate nel sottosuolo, una caverna di iniziazione ? L'incontro nella profondità della pietra dei raggi solari e della produzione di acqua è un avvenimento ricco di significati. È la rap­ presentazione di una unione cosmica. In effetti nei monumenti dell'Età del Bronzo il doppio cerchio simboleggia la matrice femminile e il condotto rettilineo il membro maschile. La stessa forma si trova riprodotta nei dipinti rupestri del Neolitico sahariano come sola sche­ matizzazione del sesso femminile o indicante la vulva nella rappresentazione di una intera figura di donna. Queste immagini, dette dalla loro posizione « a gambe divaricate », sono graffite o dipinte in cavità e luoghi appartati e recano al collo un enigmatico pendente. A Creta, dove sono attestate le correnti cultu­ rali africane, riscontrabili negli affreschi della vicina isola di Thera, la vicenda culmine dei misteri consisteva in un matrimonio sacro. Il re, dopo avere com­ piuto prove vittoriose, libagioni, abluzioni purificatorie e offerte, lo celebrava nel cosiddetto palazzo di Minasse (Faure 1 99 1 , p. 2 1 0) . In una sala del labirin­ tico complesso, dotato di cantine sacre, cripte e cisterne, uno dei rilievi rappre-

(a) 157. 244

(b)

(c)

Simbolismo sessuale e architettura: a) graffito preistorico rappresentante un sesso femminile; rinto cretese da una moneta di Cnosso; c) planimetria di un trullo.

b) il labi­

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senta un uomo che mette un monile al collo di un personaggio femminile: la Dea del Palazzo, la Signora del Labirinto, la Madre delle C averne riceve l'omaggio della ierogamia. Anche i giochi e le sfide che si svolgevano nelle occasioni misteriche erano a lei dedicati. Plutarco nella Vita di Teseo ( 2 I ) ricorda che le danze imitavano i meandri di un labirinto o un movimento circolare effettuato saltellando pro­ gressivamente su una sola gamba . Gheranoi era in effetti il nome di queste « danze della gru », l'uccello che a terra mostra una sola zampa e poi si libra mae­ stoso. Quei movimenti sono ancora oggi ripetuti nelle cerimonie africane e dei nativi americani e in un gioco universalmente diffuso, chiamato del mondo o della settimana, dove saltellando da una casella all'altra i ragazzi si sfidano come negli antichi riti di passaggio alla pubertà. Giochi di Troia - il nome della città per eccellenza dell'Età del Bronzo - sono denominati questi riti rappresentati con il simbolo cretese del labirinto a una entrata (Virgilio, Eneide, v 5 45 -604) . In tutte le mitologie i detentori di un potere segreto, gli stregoni, i fabbri, gli adepti, ricordano con un andamento claudicante o una ferita alla coscia il per­ corso iniziatico . Vulcano zoppo, Edipo dai piedi gonfi, Achille debole nel tal­ lone, Ulisse e i pitagorici con la cicatrice sulla coscia sono eroi e illuminati che portano il segno della conoscenza raggiunta e il monito della ca�ucità e dei limiti. Il forte metallo si scava nelle miniere e si forgia nel fuoco, ma si tempra nell'acqua e da questa può essere dissolto. Per questo i riti deambulatori e le lotte ludiche sono celebrati intorno ai mausolei funerari che hanno pozze dove i guerrieri immergevano le loro armi. Nella Grotta dell' Addaura il cerchio ritmico dei personaggi dal volto di uccello e la sfida rituale testimoniano una origine ancora più lontana di queste pratiche. È possibile una così lunga continuità nel tempo dei riti delle caverne ? Le classificazioni da noi stessi operate tra le ere e i periodi dell'umanità non sono barriere reali della storia . Nella cultura pastorale nomade si trasferiscono cre­ denze e pratiche risalenti ai cacciatori-raccoglitori paleolitici grazie al filo delle generazioni e alla forza della trasmissione epica. Il viaggio di Dedalo, con le ali di piume e cera, in fuga dal labirinto non è forse il resoconto di un volo sciama­ nico tante volte riprodotto nell'arte preistorica ? La caduta di Icaro che vuole osare fino ai caldi raggi rappresenta il complemento agrario del mito dei caccia­ tori. L'eroe solare sfida il cielo e precipita sulla terra del labirinto, dal corpo dell'ucciso nascono i grani coltivabili. Il sacrificio spiega il collegamento tra i mausolei funerari e le cisterne, il rapporto necessario tra dissoluzione e fecon­ dità. È il significato delle sfide e delle danze liberatorie, che mimano nel labi­ rinto del mistero la ricerca del cammino per un auspicato ritorno . Il fuoco, l'energia solare maschile, incontra la cavità umida, la forma passiva femminile.

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La caverna, soglia tra il fuori e il dentro, inversione tra il giorno e la notte, pura interiorità senza aspetto esterno, è il luogo di incontro dei principi opposti: il putrido e il secco, il duro e il malleabile, il solido e l'etereo, la vita e la morte. Narra la tradizione che Platone si recò a Taranto alla ricerca dei Libri sulla natura delle cose lasciati in eredità da Pitagora ai suoi discepoli lucani. Questi libri sono le forze della natura creatrice esemplificate nelle caverne dal meraviglioso ciclo dell'acqua: gocce incorporee e malleabili scavano la roccia più dura, modellano la terra, estinguono il fuoco, salgono al cielo e perennemente ritornano affinché possano radicarsi i grani, crescere gli alberi e vivere tutti gli esseri.

Da giardino delle meraviglie a simbolo scandaloso Gli abitati rupestri dt:lle gravine della Puglia e della Lucania hanno mante­ nuto nel tempo percorsi autonomi rispetto all'evoluzione della città moderna. Sono riusciti ad attraversare le epoche continuando a elaborare gli stessi principi originari e a conservare intatta la loro carica di arcaica diversità. I grandi momenti di organizzazione statale come quello operato da Roma tracciarono nuove strade che lasciarono ai margini i pastorali percorsi di crinale. Gli antri e le rupi delle gravine, alternativamente dimenticati dai poteri forti o reinseriti nelle correnti della storia, fornirono riparo e rifugio a esuli, insubordinati e uto­ pisti. Con la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo l'insediamento in grotta ha un nuovo e importante momento di estensione. La religione cristiana, diffusa da predicatori, anacoreti ed eremiti e vivificata dalle ondate monastiche in fuga dalle persecuzioni dell' Oriente, trova nelle gravine paesaggi e modi di vivere simili ai luoghi di provenienza. Alla fine del v secolo d . C . il vescovo di Siponto denunzia l'apparizione dell'arcangelo Michele in una caverna sulle montagne del Gargano. Il luogo cultuale, di remota frequentazione preistorica e pagana, diviene una meta sacra di pellegrinaggi cristiani provenienti da tutta Europa, un centro di fama e di ricchezze. Dall'viii secolo monaci basiliani sbarcano sulle spiagge della Puglia e inizia una costante diffusione del fenomeno religioso che si prolunga per tutto il Medioevo . Rifugi pastorali semipermanenti, grotte preistoriche, arcaiche cisterne vengono riattivati e riutilizzati nelle strutture di organizzazione dello spazio religioso: la cripta, l'eremo, il cenobio e la laura . Quest'ultima indica un gruppo di celle monastiche formate da grotte scavate nelle rocce, ognuna separata dalle altre, ma con una chiesa in comune. Deriva dalla parola greco-bizantina laura o labra, che in epoca antica significa pietra, e anche cammino, strada e poi quartiere . Si ritiene generalmente che le prime

!aure sorsero nel IV secolo in Palestina e si diffusero altrove per effetto dell'inva­ sione persiana e araba del VII secolo, ma la Chiesa copta, egiziana ed etiope, con­ serva un' autonoma tradizione con modelli analoghi di tipologia rupestre. Le !aure più famose sono quelle di san Saba a Gerusalemme, del monte Sinai, la grande laura del monte Athos, ancora vitali, e gli immensi complessi della Cap­ padocia. Comune a questi centri è una tradizione preesistente di abitati ipogei che gli anacoreti, alla ricerca di isolamento e protezione, utilizzano e sviluppano organizzando economicamente e religiosamente le popolazioni che assimilano nel cristianesimo riti e credenze di precedenti culti pagani. Rinnovando arcaiche pratiche e tradizioni le grotte diventano il centro di una intensa attività economica e produttiva. Sugli altipiani ricchi di essenze aroma­ tiche si raccolgono le piante officinali che vengono trattate e conservate . Dalle grotte si trae salnitro, licheni e muffe, si organizzano cantine e laboratori per confezionare elisir prodigiosi. La terra apulo-lucana, naturalmente arida e deso­ lata, vivificata dal lavoro dell'uomo, diventa un giardino di vigne e ortaggi, un sistema di oasi dove l'olivo ha la funzione della palma. Per l'intero Medioevo è il luogo di continue invasioni e conflitti. Ma qualsiasi trasformazione lasciava intatta l' anima antica di tutto l'ordinamento economico e sociale, l'universo pastorale che con i suoi modi e movimenti scandiva i tempi e la produzione. I ritmi delle transumanze, l'alternato spostarsi delle grandi mandrie dalle regioni appenniniche alle pianure del Tavoliere pugliese, erano il motore dell'economia, la fonte di ogni scambio e benessere. E a questi ritmi dei pastori si adeguano anche le guerre, che vengono interrotte nelle stagioni della grande migrazione delle pecore verso i pascoli delle pianure. I modi e le credenze del mondo pastorale si perpetuano sia nelle costruzioni religiose che nelle usanze profane . Dalle strutture rupestri della produzione derivano le architetture sacre . La forma di una cisterna o di una foggia per il grano fornisce la volta per una chiesa. Gli impianti per la produzione casearia sono i modelli degli arredi sacri. Questa comune matrice nel mondo pastorale rende possibile l' analogia tra strutture rupestri lontane nello spazio e nel tempo come gli altari nabatei di Petra, risalenti al III secolo a. C . , e gli amboni delle cappelle bizantine. E anche la persistenza di riti e credenze quali la possessione, la fascinazione e il malocchio. Le pratiche dell'esaltazione parossistica, necessaria alla liberazione di un posseduto, celebrate con musiche e danze frenetiche negli antri e nelle grotte, si ripetono simili nella concezione del tarantismo dell' Italia meridionale e nelle credenze dello zar e del buda dell' Etiopia e dell'Arabia. Ricordano i culti resi al possente Pan degli Inni orfici, rappresentazione della « totalità del mondo » amante delle grotte e dall'aspetto capriforme

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{Inni or/ici, xr) . Anche a questi influssi della terra del sud le ondate di conqui­ statori e guerrieri non poterono restare impermeabili. Nel Medioevo una intera crociata, radunata da tutta Europa a Brindisi, dovette rinunciare al suo viaggio in Terra Santa perché presa da una crisi collettiva di spasmodico tarantismo (De Martino I 96 I ) . L'imperatore Federico I I degli Hohenstaufen, nato nel I I 94 , è l'ultima grande personalità che riuscì a interpretare lo spirito delle terre meridionali come fusione mediterranea di influssi dei tre continenti. Puer Apuliae, figlio della Puglia, fu detto lui che discendeva per parte di padre dall'imperatore ger­ manico Federico I Barbarossa e per parte di madre dal re normanno Ruggero I I . Da quest 'ultimo, insieme al Regno di Sicilia, aveva ereditato l'affinità con il mondo arabo e il desiderio di mantenere vivi quei rapporti culturali con l'Africa e l' Oriente mai interrotti dai Normanni nella loro amata « terra del sole ». È per Ruggero II che il cartografo musulmano al-Idrisi redige in arabo il suo celebre trattato geografico e architetti e maestranze orientali costruiscono palazzi e opere idrauliche. Federico II, che riuscì, tramite un'accorta politica di contatti e trattative, a mantenere un dominio cristiano in Terra Santa, si spostava con una corte mobile accompagnata da quadrighe cariche d'oro, argento, gemme e tessuti preziosi. Insieme a sapienti e dignitari viaggiavano con lui musicisti, gio­ colieri e danzatrici di ogni paese e tutte le strutture per realizzare accampamenti confortevoli. Non mancavano elaborati sistemi idraulici, perché l'imperatore amava prendere quotidianamente il bagno . Accompagnava questi gioiosi spo­ stamenti per le terre meridionali un intero serraglio, custodito da inservienti saraceni ed etiopi, di animali rari ed esotici: pavoni, falchi, civette, cammelli, pantere, leoni e anche elefanti (Kantorowicz I 988, p. 407) . La similitudine della corte mobile di Federico II con le capitali nomadi dei sovrani orientali fornisce una spiegazione alle enigmatiche caratteristiche dei numerosissimi castelli e padiglioni da lui fatti realizzare nel Meridione . In particolare Castel del Monte, lo splendido complesso dalla corte e dai torrioni ottagonali edificato sulle Murge, ha sempre suscitato l'interesse di studiosi e appassionati. Le sale monu­ mentali si susseguono in una geometria labirintica, l'una eguale all'altra, senza mostrare una diversificazione di ambiente e soprattutto lasciando il complesso totalmente privo di tutte quelle strutture che rendono abitabile un castello : gerarchia e differenziazioni di funzioni, stanze per la servitù, depositi e cucine . Grazie all'analogia con le pratiche orientali possiamo ipotizzare che tutti questi compiti venivano assolti dall'accampamento temporaneamente costituito in­ torno al castello . Quest 'ultimo assumeva soprattutto un ruolo monumentale e simbolico e provvedeva a raccogliere nella corte e a conservare nelle cisterne del sottosuolo l'acqua necessaria ai bisogni dell'accampamento . Come i castelli del

deserto i monumenti realizzati da Federico II sono tappe e punti di riferimento idrico in una organizzazione statale basata su una capitale mobile. La cultura dell 'imperatore, che visse nella Zisa di Palermo, restaurò i sistemi idraulici romani del lago Fucino e volle realizzare a Gravina un giardino murato (ce ne informa Vasari nella Vita di Nicola e Giovanni Pisano) fornito di uno specchio d' acqua artificiale sul modello dei « paradisi » orientali, influenzò queste opere . Tuttavia l'esperienza della corte nomade non si sarebbe potuta attuare senza un substrato e una propensione locale, basata sull'economia della transumanza che Federico incoraggiò e protesse emanando l' apposita legge detta della « mena delle pecore ». Alla morte di Federico II nel r 2 5o la restaurazione del papa to e della dina­ stia d'Angiò innescano il lungo processo di declino dell'Italia meridionale, le cui conseguenze di lunga durata sui sistemi di habitat rupestri sono esemplificate dalle vicende dei Sassi di Matera, che assumono un valore simbolico dei destini dell' arcaico mondo agropastorale. Tra il XVII e il XVIII secolo, mutate le condi­ zioni produttive e sociali, la rete di raccolta e regimazione delle acque non è più mantenuta in esercizio. Grandi complessi religiosi si trasferiscono dal canyon sul piano interrando il tessuto connettivo ipogeo e interrompendo l' approvigiona­ mento idrico. Quella che era una organizzazione urbana geniale e avanzata diviene un abitato saturo e misero, in cui gli interventi di pavimentazione dei torrenti di drenaggio e gli sventramenti per la viabilizzazione operati dal fasci­ smo impediscono ormai la stessa lettura dell'ecosistema originario . Questa situa­ zione giustifica negli anni cinquanta una politica di completo abbandono dei Sassi di Matera. Essi sono assunti dalla cultura italiana come il simbolo vergo­ gnoso per la nazione della condizione di miseria del Sud e il banco di prova delle capacità progressive della modernità. Un complesso di oltre 2 0 ooo abitanti viene completamente svuotato e trasformato in una città morta, paragonabile ai centri abbandonati dell'America precolombiana o alle città carovaniere del deserto. La costruzione a spese dello stato di nuovi quartieri nella periferia per­ mette la creazione di un tessuto economico locale basato sull'edilizia ed è fun­ zionale all' imperativo di creare una cultura del consumo e dell' emigrazione. L' operazione unisce gli interessi della borghesia locale, del controllo sociale e dello sviluppo internazionale. La cultura urbanistica e architettonica guarda piuttosto al campo di sperimentazione aperto dalla creazione dei quartieri di riai­ loggia che alla realtà dell'habitat antico . Le poche voci a favore di interventi di semplice rarefazione della densità demografica e di restauro delle strutture rimangono inascoltate e la vicenda dei Sassi di Matera pesa da quel momento come un marchio della vergogna, imposto dalla cultura del moderno a tutte le città di pietra delle gravine.

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Il progetto

di rinascita culturale

Negli anni novanta, a seguito di un concorso nazionale di idee del 1 9 7 7 e di una legge straordinaria di finanziamento del 1 986, inizia il programma di recupero dei Sassi affidato al Comune di Matera . Gli interventi sono tuttavia all'interno della stessa logica che ha determinato lo svuotamento delle strutture rupestri. I Sassi sono considerati un'area urbana abbandonata e inadeguata, che necessita di ammodernamenti per diventare accettabile . Si progettano così affacci urbani, scale mobili, parcheggi, rifacimenti in cemento armato, rinnovo delle facciate, e tutta la panoplia di operazioni care all'architettura moderna. È come se l'alterità della città spaventi i progettisti che cercano a tutti costi di ricondurre i Sassi dentro le categorie del comprensibile e del consueto . Il pen­ siero razionale rifiuta la tensione indotta da questo dedalo urbano, labirinto a più dimensioni che ai passaggi sotterranei e alla trama inestricabile delle stradine unisce la vertigine della verticalità. L'immagine è fortemente legata alla caduta nel peccato e nell'inferno. È infatti la costruzione spaziale del labirinto dei dan­ nati di Dante con la discesa a spirale nel profondo degli inferi, dove il poeta e Virgilio incontrano il Minotauro. L'analogia con i gironi dell'inferno è proposta da Carlo Levi nella descrizione dei Sassi in Cristo si è fermato a Eboli e la metafora pesa come una colpa nella coscienza materana. « Dicitur labyrintus causa labor intus », « si chiama labirinto a causa della fatica che si compie all'interno », scri­ vevano i religiosi della Controriforma glossando i manoscritti classici e operando una fantasiosa etimologia del termine labirinto per attribuirgli un significato fun­ zionale alla loro ideologia. Allo stesso modo i moderni studi sull'assetto urbano di Matera hanno avvalorato la visione di una città del piano, in alto, luogo della razionalità e della ricchezza, e una bassa, nei Sassi, spazio della miseria e della subordinazione sociale. Conseguenza di questa convinzione è la necessità di ope­ rare la riunificazione e la perequazione delle funzioni, distruggendo la carica anti­ classica del tessuto dei Sassi. I progettisti del moderno entrano nel labirinto di pietra senza più demoni, mostri o divinità e considerano lo spazio come un luogo da dipanare a piacimento. Hanno la pretesa che debba esistere necessariamente un cammino che porta a uno scopo e pianificano percorsi e sventramenti che sono solo la proiezione della volontà di potenza del pensiero razionale. La gran parte degli abitanti di Matera osservano muti il processo di chiusura delle grotte, di riempimento delle cisterne e distruzione di una memoria lontana, accettandolo come un mezzo per cancellare un vicino passa to di discriminazione e penuria vissuto come una colpa di cui arriva l'espiazione . Ma i Sassi non si identificano con le vicende recenti delle famiglie che pure vi hanno abitato e sof­ ferto. Sono la testimonianza di una storia millenaria iniziata nella remota era

delle caverne e appartenente come valore alla eredità culturale dell'umanità intera . Questo riconoscimento, sancito dall'Unesco con l'iscrizione nel 1 993 dei Sassi nella lista del Patrimonio Mondiale, permette un capovolgimento di pro­ spettiva fondato sulla riappropriazione e rivendicazione culturale della città tro­ gloditica; e così l'habitat rupestre diviene il protagonista di un processo di rina­ scita e di ricostruzione di identità di tutta la comunità materana. Con vantaggi non solo per gli aspetti specificatamente legati alla fruizione culturale e turistica, ma in tutti i settori produttivi. Ai Sassi di Matera sono state riconosciute dall'Unesco qualità eccezionali derivanti da una simbiosi particolarmente significativa delle caratteristiche cul­ turali e naturali. Nella sua storia millenaria la città ha perpetuato principi costruttivi risalenti al più lontano Neolitico, realizzando un habitat rupestre sot­ terraneo e un'architettura costruita basati sulla gestione parsimoniosa delle ener­ gie e il corretto utilizzo dell'acqua, della pietra e del sole. I Sassi di Matera e le altre oasi di pietra delle Murge permettono di estendere il concetto di bene cul­ turale ad aspetti dell'attività umana finora considerati a torto come conoscenze tecniche, cultura materiale, o annoverati tra il patrimonio minore. Fanno invece parte integrante di quel rapporto millenario e continuo tra l'umanità e lo spazio che costituisce la premessa indispensabile per ogni realizzazione di pregio, dall'opera d'arte alla città al paesaggio culturale. Sono l'esemplificazione con­ creta del capovolgimento delle idee correnti su cui è basato un pensiero culturale « forte », detentore di una scala dei valori che coincide spesso con la supremazia storico-economica dei paesi. Stimolano un'azione progettuale tesa all'estensione dell'idea di bene culturale e alla elaborazione di scenari di intervento utili in quelle realtà in cui è ancora possibile riannodare i legami con le conoscenze e le tecniche delle tradizioni antiche e salvaguardare la storia dai processi di moder­ nizzazione distruttivi. I Sassi di Matera e gli insediamenti delle Murge possono mostrare come la tutela delle specificità culturali, storiche, archeologiche e ambientali non solo non contrasta con il miglioramento economico, ma è anzi un elemento propul­ sivo per innescare nuovi e più adeguati modelli di vita. Il recupero del patrimo­ nio culturale, costituito dalle qualità spaziali storicamente sedimentate e dal complesso di conoscenze e tecniche tramandate, è un valore capace di divenire, attraverso metodi di gestione corretti, bene produttivo . Su di esso è possibile fondare un concetto di progresso basato non sul consumo indiscriminato delle risorse, ma sulla loro gestione e salvaguardia, un benessere che sia autovaloriz­ zazione ed ecosviluppo. I Sassi costituiscono un laboratorio straordinario per la sperimentazione di tecnologie innovative e di conservazione ambientale integrata . La gestione del

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complesso ecosistema comporta l'analisi e il controllo delle caratteristiche micro­ climatiche a livello ambientale e all'interno delle cavità ipogee e rupestri. La manutenzione dell'habitat è in stretto rapporto con il ripristino delle reti tradi­ zionali di raccolta e distribuzione dell'acqua, dei sistemi di terrazzi coltivati, di raffrescamento e aerazione. Arcaici dispositivi di condensazione e raccolta di umidità possono essere studiati e riproposti sia per illustrare la sapienza antica, sia come contributo moderno alla produzione di acqua tramite il recupero di que­ gli apporti dovuti alla brina, alla nebbia e all'umidità che, sotto il nome di pre­ cipitazioni occulte, concorrono in modo sostanziale nelle zone aride al bilancio idrico dell'ecosistema. La sperimentazione di questi dispositivi e lo studio di tec­ niche di consolidamento delle superfici tufacee e di conservazione del patrimo­ nio pittorico nelle chiese rupestri costituiscono un bagaglio di conoscenza ripro­ ponibile in siti analoghi a livello internazionale. È necessario per questo affermare la città come produttrice di cultura, ren­ dere visibile ed effettuabile nei Sassi l'itinerario nella storia dell'uomo, delle sue capacità tecniche, della sapienza nel trovare risposte adeguate a problemi com­ plessi. Anche se i Sassi vanno riabilitati e abitati, una vasta zona di essi deve divenire un parco culturale dove sia possibile mostrare tutti gli aspetti architet­ tonici, storici e urbanistici di questo patrimonio : partendo dalle grotte, dai ter­ razzamenti, dai giardini pensili e dai metodi per raccogliere le acque e propo­ nendo poi altri itinerari nell'altopiano murgico, nell'entroterra della Lucania, delle Puglie o in luoghi analoghi del mondo. Il parco museo è un luogo di espo­ sizione, ma, come nel significato antico di questa parola, anche di produzione artigianale e tecnica. Un'arca del tempo che mostri la storia passata delle capa­ cità costruttive e artistiche, ma anche i possibili sviluppi futuri: la città e la terra di domani. Un villaggio delle arti e dell'ecologia da visitare per informarsi, o solo per sperdersi in un labirinto di sensazioni, poiché l'inquietudine, il dubbio, lo spaesamento sono fonte di umiltà e conoscenza.

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Oasi di mare: Eritrea e isole Dahlac C ' è una terra sulle rive dell'Etiopia, una terra ombreggiata da mille ali in volo, terra di valenti navigatori che mandano ambasciatori per mare in canotti di papiro sulle acque. Andate, messaggeri veloci, andate a questo popolo alto e bruno, temuto ora e sempre, popolo forte e vittorioso, il cui paese è solcato dalle acque. (Isaia)

Terra del mito « 0 Salone, Salone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un greco vecchio non esiste ! » Nel Timeo di Platone inizia con queste parole il racconto dei saggi preti egizi che irridono la presunzione greca di conoscere la storia umana (2 r a - 2 5 d) . I Greci, spiega il celebre testo sul mito di Atlantide, sono ignoranti del passato perché la loro cultura, come quella della gran parte degli altri popoli sulla terra, è stata periodicamente distrutta da enormi disastri, compiuti dal fuoco o dal­ l' acqua, che hanno impedito la trasmissione della memoria e la continuità delle istituzioni. Lo sterminio per mezzo del fuoco avviene a distanza di lunghi inter­ valli di tempo, a causa della deviazione dei corpi celesti che si muovono attorno alla terra e nel cielo . In queste occasioni gli abitanti delle montagne e degli alti­ piani aridi muoiono, e si salvano quelli che vivono presso i fiumi e il mare. Quando invece le acque inondano la terra, sono i pastori e i montanari a salvarsi dal diluvio, mentre le città, poste vicino ai fiumi e ai mari, vengono distrutte. Ogni volta che una civiltà è annientata ricomincia i suoi passi dall'inizio ignara, come un fanciullo, dei tempi antichi. L'Egitto è risparmiato dalle distruzioni del fuoco perché il Nilo, allagando i campi, lo salvaguarda. Inoltre, poiché l'acqua del grande fiume non proviene da alture vicine, ma scaturisce da una terra arida, il paese è protetto anche dalle alluvioni celesti. Così, spiegano i saggi, solo tra gli Egizi e in quei luoghi dove le generazioni non sono state interrotte si sono con-

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servate le più antiche memorie. Queste narrano l'avvicendarsi di molteplici cata­ strofi e gli stretti legami tra l'Egitto e la civiltà greca prima dell'ultimo grande diluvio verificatosi 9000 anni addietro a partire dal momento del racconto, svol­ tosi all'inizio del VI secolo a. C . In quella occasione, insieme ai Greci, il mare­ moto distrusse l'intera isola di Atlantide che dominava l'Africa fino all'Egitto e l'Europa fino all'Etruria. La concezione riportata da Platone nel mito di Atlantide della periodica fine delle civiltà e del primato egizio sulla più giovane cultura greca è condivisa dagli autori antichi. Erodoto riporta come nozione comunemente accettata la domi­ nazione degli Egizi sul Peloponneso (Storie, VI 55) e Diodoro Siculo racconta come essi diffusero l'agricoltura e la civiltà in Europa (Biblioteca storica, I 20) . Secondo questo « modello antico », comunemente accettato in età classica ed elle­ nistica, la cultura greca ha origine per effetto della colonizzazione operata intorno al 1 5 00 a. C . da Egizi e Fenici che hanno civilizzato i nativi. Successi­ vamente i Greci hanno continuato ad attingere largamente dalle culture orien­ tali. La storiografia contemporanea rifiuta tale visione e vede nella Grecia antica una realizzazione tutta europea. È il « modello ariano », definito da Martin Ber­ na! un processo di costruzione della Grecia classica operato a partire dalla prima metà del XVIII secolo della nostra era . La confutazione del modello ariano e il ritorno a quello antico, riattualizzato attraverso le ultime ricerche, sono secondo Berna! una necessità « non solo per ripensare le basi fondamentali della civiltà occidentale, ma anche per identificare la penetrazione del razzismo e dello scio­ vinismo continentale in tutta la nostra storiografia e filosofia della storia (. . . ) Per i romantici e i razzisti del XVIII e XIX secolo era intollerabile che la Grecia, vista non semplicemente come simbolo dell'Europa, ma anche come la sua propria infanzia, fosse il risultato di un misto di nativi europei colonizzati da Africani e Semiti. Per questo il modello antico doveva essere demolito e rimpiazzato con qualcosa di più accettabile » (Berna! 1 98 7 , p. 2) . La fede nello sviluppo e nella scienza domina il XIX e xx secolo, e gli umani­ sti, a fronte dei successi delle scoperte fisiche e tecniche, hanno reclamato il pos­ sesso di un analogo metodo scientifico. Negando miti e tradizioni irrazionali, hanno affermato che la strada migliore per produrre una vera conoscenza sia operare passi successivi cumulativi in un terreno sicuro . Ma il progresso del­ l'epoca industriale è avvenuto in un contesto fortemente dominato dalla supre­ mazia europea. Così gli archeologi e gli storici hanno costruito la loro dignità scientifica attraverso la conferma dei paradigmi dominanti, per reale adesione ideologica a questi, o, semplicemente, per mantenere posizioni di potere rag­ giunte come guardiani dello status quo accademico. Cautela e rigore accademico sono stati, quindi, lo strumento di affermazione della supremazia razzista e

dell 'imposizione della modernità. Thomas Kuhn ha invece dimostrato come nella storia i reali progressi scientifici siano avvenuti grazie a rivoluzioni dei punti di vista prevalenti, compiute spesso da ricercatori nuovi o estranei al campo in cui hanno effettuato le proposte . Proprio perché liberi da preconcetti e non identificati, per motivi emozionali o di interesse, nella vecchia concezione, questi fondamentali innovatori della storia hanno potuto creare nuovi paradigmi (Kuhn 1 96 2 ) . Gli studiosi che hanno inficiato l e concezioni contemporanee sulle antiche correnti di civiltà e avviato la costruzione di un modello che si accorda con le nozioni antiche, sono stati violentemente attaccati dalle organizzazioni scienti­ fiche dominanti. Alla fine degli anni cinquanta Cyrus Gordon ha interpretato la scrittura delle tavolette cretesi in Lineare A come un alfabeto di tipo semi­ tico, offendendo gli accademici e distruggendo la sua reputazione di grande lin­ guista (Gordon 1 966) . Michael Astour ha pagato duramente nella sua carriera la pubblicazione nel r 967 di studi tesi a dimostrare analogie tra la mitologia greca e quella del Vicino Oriente non spiegabili con categorie come l' omoge­ neità delle strutture del pensiero. Non gli fu perdonato di considerare il mito, le leggende, il linguaggio e le tradizioni al pari delle prove archeologiche e di essere convinto che le leggende dell'egizio Danao e del fenicio Cadmo come fon­ datori delle città greche avessero un nocciolo di verità (Astour 1 967) . Tuttavia, nonostante l'iniziale discredito arrecato ai loro propugnatori, a questi studi è seguito il ritrovamento sempre più frequente di oggetti orientali nei siti egei dell'ultima Età del Bronzo e della prima Età del Ferro. L' archeologia, infatti, fornisce risultati nuovi se le ricerche sono mirate, guidate da ipotesi o almeno da queste stimolate. Grazie agli apporti di ricercatori afroamericani e africani si è operato il capovolgimento completo del modello ariano . L'afroamericano George James, partendo dalla considerazione che le teorie pitagoriche sono state elaborate in Egitto, ha sostenuto con argomenti plausibili che la scienza e la filo­ sofia greca sono di derivazione africana Games 1 95 4) . Lo storico senegalese Cheikh Anta Diop ha dimostrato il carattere tutto africano della civiltà egizia e verificato la sua origine nelle società dell'alto N ilo. La stessa morfologia degli scheletri del primo periodo dinastico intorno al xxx secolo si accorda perfetta­ mente con l' aspetto degli attuali Etiopi (Diop r 98o) . La ricollocazione della civiltà egizia nel contesto africano, a cui era stata espropriata dagli studiosi europei, chiarisce importanti quesiti su questa civiltà . Infatti l'enigma del paese dei faraoni consiste nel fatto che esso appare improvvisamente intorno al 3 ooo a . C . come una civiltà raffinatissima, capace già di realizzare opere come le pira­ midi e i sistemi idrici mai eguagliate negli anni successivi. La risposta a questa problematica va ricercata nei racconti stessi degli antichi Egizi, che non sba-

gliavano nell'indicare le sorgenti del Nilo come l'inizio della loro storia e la culla dell'umanità intera. La verifica delle concezioni antiche e dei racconti mitici si è avuta a partire da quelle che possono essere considerate le acquisizioni più importanti del nostro secolo per quello che riguarda la storia della umanità: le opere d'arte prei­ storiche e i ritrovamenti paleoantropologici. A partire dai primi pionieristici rin­ venimenti si è proceduto sempre più nel dopoguerra alla classificazione delle immagini graffite e dipinte che adornano, impressionanti per quantità e qualità grafica, le rupi dell'Africa. Le figure di animali, spirali, enigmatici personaggi, scene di vita familiare e segni indecifrabili sono concentrati soprattutto nel Sahara su rocce isolate nel deserto, tra gli alti valichi montuosi, in nicchie e anfratti di valli intricate come labirinti di pietra. Risultano, tuttavia, diffuse dappertutto con una similarità di stili e forme impressionante per le distanze e le epoche . Costituiscono il più grande museo figurativo esistente e impongono la revisione di cognizioni consolidate sulla storia, l'arte e la cultura . Furono rea­ lizzate in età lontanissime e coprono migliaia di anni di evoluzione. Rappresen­ tano l'esposizione iconografica del passato dell'umanità e anticipano concezioni, credenze, miti e simboli che si ritrovano successivamente in ogni società. In luo­ ghi impervi o oggi completamente deserti fiorirono sistemi di organizzazione comunitaria e di trasmissione delle conoscenze sopravvissute alle ricorrenti cata­ strofi verificatesi nella storia umana . Le inaspettate connessioni tra popoli e civiltà si spiegano, dunque, non per la fortuita convergenza delle idee e neppure con l'arbitraria costruzione di strutture simboliche innate, ma come riflesso di una realtà effettuale. In Africa, quando l'Europa era stretta nella morsa dei ghiacci, si verificarono le condizioni più adatte per l'evoluzione del genere umano e infatti in questo continente la ricerca paleontologica ne ha ritrovato le più antiche tracce.

Alle origini dell'umanità L'Africa ha una massa enorme sviluppata sui due emisferi. Abbraccia l'equa­ tore ed è estesa in zone climatiche dalle caratteristiche disomogenee . Così, durante gli sconvolgimenti che hanno caratterizzato la storia geologica del pia­ neta, questa enorme zolla tettonica ha costantemente avuto nel suo interno aree con condizioni favorevoli, raggiungibili per mezzo di migrazioni terrestri. In par­ ticolare un avvenimento geografico che la attraversa da sud a nord, dal tropico del Capricorno fino a quello del Cancro, ha costituito un corridoio naturale di collegamento attraverso i climi e le stagioni.

1 5 8 - 59 · Dipinti del Neolitico sahariano sembrano rivivere in scene consuete della vita pastorale eritrea. r 6o. Capanna lignea etiope, dalla cui forma deriva la tholos di pietra.

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r 6 r . Paesaggio della Rift Valley, Etiopia, con armenti e campi coltivati. r 6 2 . Sistema di irrigazione nella valle di Ghindah, Eritrea.

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r 6 3 . Obelisco monolitico di Aksum nel Tigrai, Etiopia. Richiama l'architettura dei palazzi sabei a più piani. r 6 4 . Keren, Eritrea, fabbricazione dei mattoni di argilla cotta.

r 6 5 . Massaua, architetture dallo stile orientalista colpite dal bombardamento del

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z6r

r 66 . L'aridità e il diboscamento accentuano l'erosione dei suoli. 262

r 67 - 69 . Sistemi di raccolta delle acque: cisterna nella Grande Dahlac; bacino di Aksum di epoca sabea; pozzo cisterna nella Grande Dahlac.

J 70 - J I .

Isola deserta di Schuma nelle Dahlac. Il pastore, nomade di mare, mostra come gli allineamenti di pietre riescono a produrre l'acqua evidenziata dalla vegetazione. Con lo stesso principio si dissetano i gabbiani (lntierra).

1 7 2 -73. Isole Dahlac: Schuma e Assakra. Bacino di acqua dolce, prezioso prodotto della tenacia e dell'ingegno nell'oasi isola del Mar Rosso.

È la grande Rift Valley, una fossa tettonica dove la crosta terrestre si apre e si solleva, formando alte catene di montagne e altipiani paralleli, divisi da una profonda depressione che raccoglie fiumi e laghi di acqua dolce. L'immenso sistema geologico caratterizza l'Africa orientale comprendendo quasi tutta la regione intertropicale, dal Mozambico all'altezza del ventesimo parallelo meri­ dionale fino a Port Sudan sul Mar Rosso al ventesimo parallelo settentrionale, per una lunghezza di 56oo chilometri. Attraversando lo Zambia, lo Zaire, la Tanzania, l'Uganda e il Kenya forma la regione dei grandi laghi: il lago Tanga­ nica, una fossa abissale, seconda per profondità solo al lago Bajkal in Siberia; il lago Vittoria, alla latitudine dell'equatore, su cui si affacciano la piana del Seren­ geti e il monte Kilimangiaro, il più alto dell'Africa con i suoi 5 895 metri; e il lago Turkana, che drena l'Etiopia meridionale. Qui la Rift Valley si prolunga nella valle dell' Orno e dell' Awash e determina la morfologia delle alte terre etio­ piche provocando il sollevamento, a occidente, dello scudo continentale africano e, a oriente, della piattaforma somala. Continuando a nord verso la costa incon­ tra la dorsale oceanica che passa lungo il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Si divide così in due bracci che formano il cosiddetto triangolo dell'Afar, una delle depres­ sioni più interessanti della superficie terrestre, e struttura la riva dell'Etiopia: l'Eritrea. Le alte terre a occidente della fossa, dai grandi laghi in Tanzania al lago Tana in Etiopia, costituiscono l'immenso serbatoio delle acque del Nilo, che ha qui la sua origine con il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro . I rami della dor­ sale oceanica proseguono l'uno a nord e l'altro a est . Il primo crea il Mar Rosso e si spinge con il Mar Morto e la valle del Giordano fino alle sponde del Medi­ terraneo orientale. Ha nella valle del Nilo un asse parallelo più occidentale. L' altro si dirige a est verso l'Oceano Indiano provocando il sollevamento del fronte meridionale della penisola arabica. Le ramificazioni della frattura geologica sono state le direttrici attraverso cui successive ondate di diffusione del genere umano hanno colonizzato il pianeta. Le gole di Olduvai in Tanzania, il lago Turkana in Kenya, l' Awash e il fiume Orno in Etiopia sono località della Rift Valley rese celebri dai ritrovamenti di fossili di Ominidi, che testimoniano le tappe della storia dei nostri antenati indietro nel tempo fin oltre quattro milioni di anni fa . In questo formidabile laboratorio ecologico costituito dalla fascia equatoriale dell'Africa sono nati gli Australopitechi capaci di realizzare i primi utensili con sassi appena sbozzati, i Pitecantropi diffusi un milione e mezzo di anni fa e già classificati come Homo erectus e il genere Sapiens, prima neandertaliano, poi sapiens sapiens : l'uomo moderno. I gruppi umani si propagarono seguendo il sistema orografico della Rift Valley che con i massicci e gli altipiani elevati offriva un habitat privile­ giato. Infatti le alte terre oltre i I ooo metri di quota sono libere dal flagello della

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1 74 .

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La diffusione dei gruppi umani e le aree di ritrovamento dell'arte rupestre preistorica. Varie ondate di popolazioni hanno utilizzato le alte terre lungo la Rift Valley.

mosca tse-tse, nociva per gli uomini e mortale per gli animali, e furono utilizzate come zone di percorrenza e di sosta al riparo dalle terribili infezioni che nelle aree elevate e asciutte non si propagano . Le differenti zone climatiche africane sono disposte per fasce latitudinali e costituiscono barriere geografiche invali­ cabili come il deserto, la savana e la foresta. La faglia tettonica attraversa que­ ste aree ecologiche impermeabili l'una all'altra e crea un percorso di diffusione e di scambio che ha avuto un impatto sul popolamento dell'intero pianeta. Fu utilizzato dagli arcaici cacciatori al seguito della selvaggina e percorso dagli alle­ vatori nomadi che, sulle originarie piste tracciate dalle migrazioni animali, sta­ bilirono la prima grande rete di comunicazione mondiale . Come gli Ominidi, così i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, in seguito i transumanti coltivatori del Neolitico e infine le grandi correnti di storia e di civiltà si propagarono dall'Africa verso oriente. Percorsero quello che è oggi lo stretto di Bab el-Man­ deb, che sette milioni di anni fa non era ancora invaso dalle acque del Mar Rosso, o lo attraversarono su canotti di papiro e zattere per andare in Arabia e poi in Asia. Oppure arrivarono nell'emisfero settentrionale seguendo la valle del

Nilo e gli altipiani del Sahara fino al Mediterraneo e all' Europa, raggiunta gra­ zie all'abbassamento del livello dei mari dovuto alle glaciazioni. L'immenso patrimonio di incisioni e pitture rupestri è la testimonianza unica di questo processo. Le opere ricorrono, notevoli per quantità e qualità, con caratteristiche e stili figurativi simili lungo distanze vastissime su tutta l' esten­ sione dell'intero continente . Raggiungono le concentrazioni più elevate nelle zone ora completamente desolate del Sahara, ma sono diffuse in ogni regione. Localizzando su una carta le aree di ritrovamento delle incisioni e pitture rupestri, appare chiaro il rapporto con le direttrici e i percorsi del sistema della grande frattura della Rift Valley e con le tappe della evoluzione e diffusione dei gruppi umani. Raffigurazioni tra le più antiche sono state ritrovate in Namibia, dove pitture di animali policrome sono state datate a circa 3 0 ooo anni fa. La qualità e preci­ sione nelle tecniche di esecuzione dimostrano una tradizione artistica nelle popo­ lazioni già matura e conseguita quindi in periodi passati. In Tanzania le forme più arcaiche di arte rupestre risalgono a 40 ooo anni fa e costituiscono le testi­ monianze più lontane nel tempo di qualsiasi arte finora datata nel mondo . La serie di sequenze e di stili si prolunga per epoche lunghissime coprendo tutto il periodo paleolitico della vita dedita alla caccia e alla raccolta. Per trovare forme analoghe di creatività artistica in Europa bisogna arrivare all'epoca dei siti cele­ bri di Lascaux e Altamira, risalenti tra I 6 ooo e I o ooo anni fa e corrispondenti alle ultime fasi dei cicli pittorici dei cacciatori paleolitici della Tanzania. È pro­ babile �he sempre nuovi ritrovamenti, come quello della Grotta Chauvet sco­ perta nel I 994 nella regione delle Ardenne in Francia e databile intorno ai 30 ooo anni fa, permettano di spostare ancora più indietro nel tempo questa cro­ nologia. Essa ha comunque un orizzonte molto preciso, dovuto al fatto che le forme compiute di arte sono direttamente associate alla comparsa dell'Homo sapiens, la specie alla quale tutti noi apparteniamo. Questa, dalla sua regione di origine, la Rift Valley, si è diffusa nel mondo intero occupando aree mai rag­ giunte dagli stessi Ominidi come l'Australia e il continente americano . A causa delle sconfinate dimensioni planetarie la colonizzazione dei cinque continenti si è compiuta in un largo arco di tempo, necessario ai gruppi umani per diffondersi lungo gli immensi spazi. Se tra i I OO ooo e i 6o ooo anni fa è possibile datare la prima comparsa dell'Homo sapiens sapiens in Africa, è solo 35 ooo anni fa che si attua la sua supremazia in tutte le regioni del globo. La progressiva espansione è marcata proprio dalla cronologia dei reperti artistici e dalle località di ritrova­ mento, tanto da poter sostenere che l'attività estetica, simbolica e mitopoietica sia una prerogativa caratterizzante la nostra specie e, forse, anche una ragione determinante della sua affermazione.

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La fucina dei segni e dei simboli Non c'è da meravigliarsi che la più alta testimonianza figurativa della storia dei nostri lontani predecessori, eseguita dagli stessi protagonisti, sia conservata proprio in Africa, tra le terre di percorso degli altipiani del Sahara, reso umido e irrigato in quel periodo da condizioni ambientali privilegiate. Dai tempi dei cac­ ciatori paleolitici agli allevatori transumanti e ai coltivatori neolitici questa arte copre un periodo lunghissimo e documenta, attraverso rappresentazioni di ani­ mali ormai estinti, raffigurazioni di mandrie e scene di vita domestica realizzate con abilità e capacità artistiche, quei remoti momenti di trasformazione econo­ mica e sociale. Ogni passo dell'avventura umana, dalla caccia alle fiere selvagge alla prima domesticazione animale, dalla formazione di grandi mandrie e dalle esperienze di coltivazione fino all'introduzione della ruota e dell'alfabeto, è rap­ presentata con vivezza e realismo tra le rupi e le pareti di arenaria del deserto . Lungo le antichissime direttrici si crearono stazioni di incontro e di riti stagio­ nali che, da semplici tappe nei percorsi, divennero luoghi deputati alla trasmis­ sione delle conoscenze . Queste migrarono con i continui spostamenti dei gruppi umani e perpetuarono le vicende eroiche ripetute nelle grotte e tra le rupi: la pie­ tra mappa o calendario cosmico dalle misteriose copiglie scolpite; il dio delle piogge e della vegetazione che si erge su un orizzonte nuvoloso; il toro avvinto dal lazo spirale o imprigionato nella trappola labirinto; danzatori dalla testa di animale; il primo uomo che cavalcò una giraffa e comandò agli elefanti; piroghe e voli sciamanici; la dea delle messi recante la macina per i grani; la donna dalle gambe divaricate che invita alla fecondazione; la processione degli armenti verso i recinti. Ecco in germe tutto il bagaglio mitologico del genere umano: le origini astrali; i giochi del toro di Atlantide ed egei; il pantheon zoomorfo egizio; le fati­ che di Gilgamesh ed Ercole; i viaggi di Ulisse e degli Argonauti e le barche solari dei faraoni; i culti di Demetra e la passione di Adone; l'iniziazione misterica. L'arte rupestre preistorica non ha ancora avuto sulla cultura tutto l'impatto che una novità di questa portata finirà con il determinare. La classificazione sistematica delle numerosissime incisioni e pitture è tuttora agli inizi e una esau­ riente analisi comparativa non è mai stata effettuata. Sempre nuovi ritrovamenti si susseguono rimettendo in discussione cronologie e ipotesi interpretative. I tentativi di datazione e periodizzazione compiuti per l'arte del Sahara non lasciano completamente soddisfatti. La necessità di separare e classificare è una esigenza scientifica, ma nasconde l' accavallarsi e lo stratificarsi nel tempo di periodi e stili, la contemporaneità di condizioni climatico-ambientali diversifi­ cate, l'esistenza sincronica nella storia di esperienze umane e modelli culturali dissimili (Campbell 1 95 9 , 1) . Il primato dell'economia e della conflittualità, pro-

prio della nostra epoca, ha portato a interpretare con queste categorie fatti ap­ partenenti a periodi lontanissimi, sviando la comprensione del significato intrin­ seco delle pitture preistoriche. L'esplosione figurativa paleolitica e neolitica scandisce tutti i momenti signi­ ficativi della nostra specie. Essa è parte integrante dei successi evolutivi e tec­ nologici e forse li anticipa con la sua carica puramente creativa o Iudica. In genere si ritiene che i miglioramenti delle condizioni di vita abbiano permesso a quote di lavoro sociale di affrancarsi dalla costrizione produttiva e abbiano così liberato energie per attività estetiche e speculative. Secondo questa ipotesi la fine della penuria alimentare raggiunta dai cacciatori sarebbe stata all'origine dell'arte delle caverne e, successivamente, la scoperta dell'agricoltura avrebbe prodotto cibo in abbondanza e in questo modo favorito la concentrazione demo­ grafica, la vita urbana, la divisione del lavoro e la creazione di corporazioni di artisti. È possibile invece che il processo sia andato proprio nel senso contrario . Il gioco, la contemplazione e l'arte sono una caratteristica specifica del compor­ tamento dell'Homo sapiens sapiens (Eibl-Eibesfeldt 1 993 , p. 402) . Proprio que­ sto dedicarsi ad attività non direttamente legate alla sussistenza ha prodotto elaborazioni divenute solo in seguito praticamente utilizzabili in nuove e mu­ tate condizioni. Probabilmente le prime pietre sono state sbozzate solo per il piacere di man­ darle in frantumi o per la curiosità di ascoltare il rumore determinato nel coz­ zarle. Successivamente questa attività oziosa si è rivelata un vantaggio pratico. Anche le bacche, le radici e i semi, la cui conoscenza ha prodotto la rivoluzione neolitica, furono inizialmente raccolte dalle donne e dai bambini, naturalmente portati a prendere e a gustare quello che trovano, per pura curiosità e gioco . Infatti le piante più usate sono quelle che si distinguono per la vivacità dei colori e delle forme, come le leguminose, la datura, la belladonna, o per il profumo intenso, come le piante aromatiche . Anche in epoca moderna le patate, i pomo­ dori, il tabacco furono inizialmente introdotti in Europa solo per motivi orna­ mentali. Con il tempo si cominciarono ad apprendere i poteri delle piante, a con­ servarle, a trasportarle, a verificar ne l'energia vegeta tiva, la forza della vi t a inclusa nel seme e la possibilità di coltivazione e riproduzione. L' allevamento animale ha, probabilmente, avuto le stesse origini non utilitarie attraverso la col­ lezione di insetti, rane, uccelli recati con sé per curiosità, divertimento, o per assumerne le qualità attraverso l'imitazione e la magia simpatica. La pratica di mantenere in cattività dei cuccioli di mammiferi, per semplice istinto materno senza alcun fine concreto, favorendo gli esemplari gracili dai caratteri più deboli e remissivi che alla vita selvaggia sarebbero stati selezionati negativamente, è all'origine della domesticazione.

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I dipinti del Sahara costituiscono il racconto ancora vivido di quei lontani avvenimenti. Il progressivo riscaldamento climatico favorì il raccogliersi della popolazione nelle zone elevate, dove più facilmente si conservava l'umidità e si concentravano progressivamente la flora e la fauna. La continua crescita demo­ grafica impose l'uso pratico delle tecniche di giardinaggio e di domesticazione. Così le piante giardino trasportabili del Paleolitico, gli orti di essenze aromati­ che, medicinali o allucinogene, gli animali meraviglia delle prime domesticazioni divennero la base per una trasformazione produttiva dell'ambiente . È la teoria dell'oasi per l'origine delle coltivazioni e dell'allevamento. I giardini santuari si trasformarono in campi agricoli, i recinti sacri ospitarono armenti sempre più numerosi. Con l' applicazione massiccia delle scoperte relative alla vegetazione e alla domesticazione si compì la cosiddetta rivoluzione neolitica, il passaggio da un'economia di semplice prelevamento di risorse dall'ambiente alla sua progres­ siva trasformazione a scopo utilitario e produttivo. I primi villaggi di coltivatori erano la realizzazione di un mondo ideale, ma, come tutte le utopie, fragile ed effimero. Forse proprio le catastrofi accentuarono l'esigenza della rappresenta­ zione. Come un'arca di Noè figurativa si dipingevano gli animali perché diven­ tavano sempre più rari. Ma le conoscenze iniziali, che hanno innescato la grande separazione dell'umanità dalla natura rendendola diversa da tutte le altre spe­ cie, non sono nate per effetto della costrizione. È la propensione all'arte e alla creazione simbolica a determinare una diversità, solo successivamente impiegata come vantaggio. Essa pone l'umanità in una condizione di superiorità rispetto al mondo perché rappresentando si crea, si domina e si prefigura. Non è un caso che i soggetti principali dei cacciatori siano state le grandi belve e gli eroi o gli sciamani che le combattevano: animali e personaggi carichi di una forza magica e religiosa, reciprocamente avvinti in un conflitto e una tensione esistenziale durissimi. L'umanità, edificando il pantheon mitico a immagine e somiglianza delle sue passioni e tensioni, le domina, sublima ed esorcizza. Le figure sono immagini di potere. L'arte, aiutando a vincere la difficoltà dell'esistere, confe­ rendo fiducia e coesione sociale, ha effetti efficaci. Così identità. e affermazione sono il prodotto dell'attività Iudica e oziosa di apporre segni, di imparare a rap­ presentare. Le tracce di una belva osservate sul terreno costituiscono, per chi sa conoscerle, la prova tangibile di una presenza, sono l'animale stesso, l' apposi­ zione sul territorio della sua esistenza. L'impronta della mano aperta impressa sulle pareti della caverna è la manifestazione di individualità, vitalità e forza . La padronanza e il distacco sempre crescente dal mondo della natura si com­ piono attraverso un' azione che nessun animale può operare: la modifica del corpo stesso . L'ornamento, l'abbigliamento, il tatuaggio intervengono sulla per­ sona conferendogli differenziazione e aura. Sanciscono l'appartenenza a un

gruppo e le condizioni di supremazia. I diversi tipi fisici all'interno dell'umanità sono dovuti proprio a questo processo di creazione di identità. Con l'espansione in tutto il pianeta, l'azione dei vantaggi selettivi offerti ad alcuni caratteri fisici da ambienti specifici si è unita all'eliminazione dei nati non rispondenti a un modello culturale . L'esposizione rituale o il sacrificio, riportati nelle epopee, sono reminiscenze di quelle arcaiche pratiche. Essi determinano la differenzia­ zione delle caratteristiche morfologiche dei gruppi umani come conseguenza della ricerca di identità. Dal suo apparire l' Homo sapiens la persegue attraverso il suo peculiare mezzo di distinzione: il gioco e l'arte, strumenti di memoria. La società contemporanea utilizza come formidabile macchina di afferma­ zione della industria dei consumi questa caratteristica profonda della nostra spe­ cie, il potere dei segni e delle immagini. Ma allo stesso tempo ne nega il valore adducendo al profitto e alla competitività la molla di ogni scienza. Il rovescia­ mento operato dalla nostra era, che ha una fede totale nella supremazia occi­ dentale e nello sviluppo, è riconoscibile nella stessa concezione corrente del mito di Atlantide. Il continente perduto è per Platone l'utopia negativa di una società dispotica basata sull'uso empio e ipertrofico della conoscenza, in contrapposi­ zione con il modello ateniese proposto come società armonica, organizzata entro limiti precisi. Diviene invece, a partire dal xvn e xvnr secolo, una utopia posi­ tiva: la Nuova Atlantide di Francis Bacon, il luogo della fede smisurata nelle capacità espansive della scienza. La prefigurazione oggi di nuovi modelli passa attraverso la messa in discus­ sione del primato dell'economia e la negazione dell'assioma che individua nella competizione e nell'interesse la molla innata dell'attività umana (Latouche 1 99 1 ) . La storia più antica dell'umanità mostra come le capacità creative seguano sentieri autonomi rispetto a quelli del tornaconto immediato. Nuove categorie interpretative come la contemplazione, il gioco, i valori interpersonali, la coesione, l'amore, l'immaginario e il simbolico devono essere applicate nella valutazione del livello di benessere e di progresso delle società umane. Questi valori hanno prodotto nel tempo le grandi realizzazioni artistiche e creative e determinato la persistenza di ecosistemi come quelli delle oasi. Ancora oggi in comunità tradizionali africane gli individui sono associati tra loro in un rapporto stretto di alleanza in cui sono i vincoli familiari, la solidarietà e il dono ad avere il sopravvento sui principi utilitari e di mercato (Mauss 1 9 2 3 -2 4) . L'Africa, terra originaria di produzione dei segni e dei miti, con il suo patrimonio di con­ suetudini ed espressioni rituali ancora intatte, retaggio della storia ancestrale, tuttora diversa e vitale nonostante le omologazioni e tribolazioni subite, può ancora una volta nella millenaria vicenda umana indicare un nuovo modello di vivere e di progredire .

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Il volto

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della nuova Africa

Allo sbocco della Rift Valley nel Mar Rosso e al culmine del sistema di laghi da cui ha origine il N ilo, l'Eritrea è un piccolo paese di soli 3 milioni di abitanti che si è affacciato per ultimo all'indipendenza. L'ha conquistata nel 1 99 1 dopo oltre trent 'anni di lotte, che l'hanno vista confrontarsi contro tutte le grandi potenze del mondo . Solo la tenacia di questo popolo, che ha inviato le madri esuli in paesi stranieri per permettere ai figli di combattere in patria alla macchia e nel deserto, ha potuto avere ragione di una guerra cosl dura . La vittoria è giunta perché gli Eritrei hanno saputo utilizzare tutta la sapienza ambientale per gestire un territorio a loro soli noto . Hanno dimostrato che le differenze di reli­ gione e di villaggio sono barriere create dall'esterno e che il popolo africano può prendere nelle mani unite il proprio futuro. Durante la guerra il governo di libe­ razione ha retto uno stato in diaspora per il mondo intero, ma coeso nell' obiet­ tivo comune . Nel paese ogni più piccola risorsa veniva amministrata e conti­ nuamente riciclata in fabbriche e città sotterranee dotate di ospedali, farmacie e scuole, poste cosl al riparo dai bombardamenti nemici. L'Eritrea ha pagato duramente con vittime umane e distruzioni la sua battaglia, ma questa terra, pre­ servata dall'isolamento e fortificata dall'esperienza accumulata, rappresenta ora un patrimonio per la costruzione di tutta la nuova Africa. L'Eritrea, in posizione geografica strategica, ponte fra l'Etiopia e l'Arabia, occupa tutta la fascia costiera della piattaforma africana con una varietà di pae­ saggi, che vanno dagli altipiani continentali alle spiagge del Mar Rosso e ai deserti dell' Afar. Ad Asmara si incontrano i cacciatori del Tigrai e i nomadi cam­ mellieri della Dancalia, gli agricoltori del bassopiano e i pescatori delle isole. Qui, come in nessun'altra nazione al mondo, i cristiani e i musulmani, gli uomini del mare e quelli del deserto, gli abitanti delle città e quelli delle campagne insieme operano e pacificamente convivono. Basta uscire da Asmara, la capitale, e percorrere le strade che si inerpicano verso l'interno, per essere subito avvolti dall'atmosfera forte e seducente del mondo africano, in un susseguirsi di incon­ tri con gli ambienti e le genti della storia primordiale dell'uomo. Intorno alle pozze d'acqua si ripetono scene e gesti che credevamo dimenti­ ca ti nei recessi più lontani della storia: le grandi mandrie all'abbeverata, il pastore con il bastone sulla spalla circondato da capri, i gesti regali delle donne, la macina della farina e la fabbricazione della birra. Sono immagini identiche a quelle dei dipinti diffusi in tutta l'Africa . Ma concordanze nelle mitologie e nei rituali si riscontrano in un'area che supera i limiti del continente. Leo Frobenius nella sua monumentale mappatura degli usi e costumi africani ipotizza una « grande zona culturale eritrea », che nei tempi antichi si estendeva dalle coste

n s-7 6 . Analogie tra le raffigurazioni preistoriche e le consuetudini africane: l' elegante figura femminile, detta Antinea, di una opera preistorica sahariana; . donna eritrea fotografata nel 19 3 5 .

dell 'Oceano Indiano alla Mesopotamia (Frobenius 1 93 1 , pp . 3 2 9-30) . Joseph Campbell, per le analogie riscontrate, considera questa « area eritrea come la prima zona di diffusione della mitologia della nostra Mezzaluna Fertile » (Campbell 1 990, p. 48 r ) . È possibile che i primi influssi si siano diffusi partendo dal sud verso il nord, perché qui siamo al vertice di diramazione della rete preistorica dei percorsi attraverso cui si sono popolati tutti i continenti. Alla fine dell' ultima glaciazione intorno al rx millennio a. C . , seguendo le stesse tracce di precedenti ondate migratorie paleolitiche, prese le mosse l'ultima grande inno­ vazione del genere umano, i prato-Afroasiatici della Rift Valley che portarono al mondo la nuova cultura del Neolitico . Questi gruppi cacciavano l'ippopotamo con gli arpioni, ma possedevano già bestiame addomesticato e coltivavano le risorse alimentari. Dallo studio delle famiglie linguistiche Martin Bernal rico­ struisce i lunghi percorsi attraverso i deserti e le savane per raggiungere i diversi punti della terra. La famiglia linguistica ciadica raggiunse il lago Ciad nell'Africa occidentale, i Berberi il Magreb attraverso il deserto del Sahara; i proto-Egizi

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l'Alto Egitto guidati dal bacino idrografico del N ilo; i gruppi di lingua protose­ mitica abitarono l'Etiopia e, attraversato il Mar Rosso, mossero verso il deserto arabo. Lo scioglimento delle nevi nel Postglaciale creava un momento umido favorevole per la vita nelle zone ora completamente aride, ma con il progressivo riscaldamento climatico i gruppi umani si addensarono nelle valli dei grandi fiumi: dal Sahara nel bacino del Nilo e dal deserto arabico in Mesopotamia. Qui la concentrazione di conoscenze e di popolazioni permise il fiorire delle grandi civiltà. Il sapere di base proveniva dai popoli delle grandi migrazioni. Proprio la capacità di conservazione e trasmissione della memoria delle genti nomadi spiega le influenze africane riscontrabili in tutto il Mediterraneo. Costituiscono un esempio di questo antico sapere i costumi dei gruppi nomadi gelosi delle loro identità come i Rasciaida e gli autoctoni Dancali. Questi ultimi, a cui vengono attribuite capacità di resistenza fisica al caldo e alla sete e imprese straordinarie nel vivere e attraversare il deserto, occupano uno dei due soli punti del pianeta, l' altro è in Irlanda, dove si può osservare la dorsale oceanica in un' area non invasa dalle acque. E « buco infernale della creazione » è chiamato il deserto della

r n-7 8 . Woodhenge in Gran Bretagna è un sito preistorico caratterizzato da una grande casa rotonda !ignea che racchiude una corte centrale (fig. r n) . Una interpretazione delle sue funzioni è resa possibile dal raf­ fronto con l'insediamento pastorale eritreo (fig. n8) . Esso è formato da: la grande tet­ toia di tronchi (abur) destinata al riparo degli armenti; l' abitazione (daza); il foco­ lare esterno (ma) ; il fossato per la raccolta del letame (hadu/) .

Dancalia, dove le altitudini scendono al di sotto del livello del mare e tra lunari colate di lava e piatte distese di sale si formano fantasmagoriche concrezioni di solfati espulsi dagli abissi profondi. Questa terra, in larga parte non studiata, cela ancora i segreti della preistoria umana e dell'ultima grande epopea neolitica, quando gli autori delle immagini rupestri si sparsero per il Sahara, il bacino del Nilo e lo Yemen. Un'unica cul­ tura, con tecniche, stili e artisti comuni, diffusa attraverso la rete dei percorsi, doveva caratterizzare il Neolitico africano ed estendersi, attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb a quella che sarà chiamata Arabia Felix . Successivamente sarà quest'ultima regione a dare la sua impronta culturale alla costa africana: la civiltà sabea trova nelle terre dello Yemen e in quelle eritree due sistemi geografici sim­ metricamente simili in cui applicare tecniche idriche e titanici sistemi di colti­ vazione a campi terrazzati. La magica terra di Punt, dove gli antichi Egizi si rifornivano di oro e di aromi e la cui localizzazione è contesa tra il Corno d'Africa e l'Arabia, era probabilmente una nazione che comprendeva entrambe le coste del Mar Rosso. Su questo mare, scrive Agatarchide verso il 1 2 0 a. C . , si specchiano le alte montagne dalle terre rosse e perciò il mare è chiamato eryth ­ ros, cioè rosso in greco .

I re del mare Al mare l'Eritrea deve l'identità e, dal colore delle sue terre, ha dato il nome al Mar Rosso, termine con cui gli antichi chiamavano tutto l'Oceano Indiano . Dal Periplo del Mar Eritreo, un racconto di viaggi del I secolo a. C . , ci pervengono le prime informazioni storiche sul paese formato dalle rive dell'Etiopia. Nel III secolo a. C . Tolomeo Filadelfo ha fondato, o rifondato, il porto di Adulis che per oltre mille anni, fino al prevalere di Massaua, è uno degli scali più impor­ tanti del Mar Rosso, frequentato dalle navi fenicie, egizie e greche. Plinio cita gli Asachi che vivono della caccia all'elefante su montagne a cinque giorni dal mare (Storia naturale, VI 1 9 1 ) . Si può ipotizzare un'analogia tra questo termine e il nome dell'antica Aksum nel Tigrai, la città che controlla le origini del N ilo Bianco emissario del lago Tana, ornata di alte steli monolitiche che sembrano raffigurare i palazzi a più piani della tradizione sabea (Anfray 1 9 80) . La via dell'avorio citata dal Periplo, che proveniva da Aksum nell'interno dell'Africa e attraversava gli antichi centri di Matara, Toconda e Coloe sull' altopiano di Cohaito, aveva proprio ad Adulis il suo sbocco al mare. A Matara sono ancora visibili le rovine di grandi edifici con murature digradanti in altezza e cripte sot­ terranee. Una stele con una iscrizione in antico ge'ez, oggi spostata dalla collina

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dove era elevata e collocata lungo la pista, reca inciso sulla sommità il segno della mezzaluna sormontata da un disco. Il simbolo, antichissimo, fu diffuso dai Fenici in tutto il Mediterraneo come la stilizzazione della dea Tanit . Si ritrova con lo stesso significato antropomorfo nelle sculture tradizionali africane ed è tra i Sabei una rappresentazione astrale. Gli Egizi raffiguravano cosi la divinità del possente toro Api coronando con un disco solare le corna stilizzate a forma di mezzaluna. La stessa immagine si ritrova nelle figure preistoriche, dove tori e capri appaiano divinizzati e collegati a simboli planetari. Una enigmatica cosmo­ gonia dei Dogon, popolo situato sulle rive del Niger nell'Africa occidentale, recita: « Il vaso sfera è il sole femmina, l'ariete o il toro maschio lo fecondano e dal cielo sgorga l'acqua di vita » (Griaule 1 949) . Ma nella terra eritrea basta vol­ gersi intorno per afferrare l'origine dei miti. Mandrie di zebù passano con appesa in mezzo alle corna una giara scavata in una zucca piena d'acqua: sono le neces­ sità del trasporto idrico ad avere creato la complessa simbologia astrale e di fecondità. A Cohaito e ad Askum è ancora in uso il bacino artificiale che ali­ mentava la città antica. Lo sbarramento è simile alle opere idrauliche sabee. Nel canyon a est della città dipinti rupestri rappresentano mandrie e buoi nello stile comune a tutta l'arte pastorale sahariana. Marcano i percorsi di una preistorica migrazione, che qui si dirige verso il fine deputato di ogni transumanza : il mare. Negus el-bahari, re del mare, erano chiamati i sovrani eritrei. Condottieri di armenti e pastori, ma anche navigatori e controllori del vantaggio strategico di dominare le rive dell' Etiopia, l'accesso all'Arabia e la via d'acqua dal Medi­ terraneo ai mari caldi orientali. Filostrato, nella Vita di Apollonia di Tiana scritta all'epoca dell'imperatore romano Settimio Severo, racconta dei commerci egizi con l'Oceano Indiano, raggiunto tramite lo scavo di un canale che collegava il Nilo al Mar Rosso. Ma i faraoni dovevano negoziare la navigazione nel Mar Rosso con il re locale Erythras, che impediva loro l'accesso con navi da guerra e concedeva il passaggio di un battello commerciale per volta. Dal Mar Rosso arrivò all'Etiopia la religione cristiana, che si è fortemente radicata sovrapponendosi ai millenari riti di epoca salomonica . I re Abreha e Atzebeha nella metà del rv secolo d . C . furono convertiti da due naufraghi e dif­ fusero la nuova religione. Narra la leggenda che essi fondarono ad Aksum una cattedrale sulle acque da loro miracolosamente prodotte . Il racconto si riferisce probabilmente al sistema di cavità e raccolta idrica su cui è stata costruita la chiesa cristiana di Aksum. Nei suoi recessi proibiti è ancora oggi conservato il sacro tabot, l'arca dell'alleanza degli Ebrei, che si ritiene qui giunta per la via terrestre, attraverso l'Egitto, il corso del Nilo e il lago Tana e sulla cui venera­ zione e mistero si basa l'unità della Chiesa etiope. Essa fu vivificata dagli apporti successivi di monaci e predicatori. Dopo il concilio di Efeso nel 4 3 r i siriani

nestoriani si diffusero per tutto l'Oriente, fino in Cina. Successivamente i monofisiti seguirono la stessa diaspora cercando rifugio in Egitto, in Arabia e in Etiopia, che raggiunsero sia attraverso la valle del Nilo che attraverso lo Yemen. I missionari e gli ecclesiastici sono all'origine dell'iconografia sacra così radicata nel paese e dell'immenso patrimonio di chiese rupestri. Questi complessi scavati nella roccia si sovrappongono agli arcaici luoghi di culto delle grotte e si inne­ stano sulle strutture di conservazione delle acque diffuse su tutti gli altipiani aridi, la costa e le isole. In alcune grotte le esalazioni di vapore provocate dall'affioramento del calore e del magma interno alla crosta terrestre sono con­ densate lungo le pareti per produrre acqua. Il metodo, a cui fa riferimento il trat­ tatista latino Vitruvio (Architettura, VIII 4) , è riscontrabile nelle rovine della città romana di Tiddis in Nordafrica. Sugli altipiani e le regioni dell' Afar l'umidità delle fumarole create dalle fratture della Rift Valley, chiamate dai Dancali boina (Dainelli e Marinelli 1 9 1 2) , è raccolta a cielo aperto tramite un dispositivo di rami di albero . La tecnica consiste nell'edificare sulla fumarola vulcanica una struttura simile alle abitazioni a capanna con il tetto conico vegetale. L'acqua contenuta nel vapore sale verso i rami e si condensa su questi precipitando in basso dove è collocato un recipiente di raccolta. Un'analoga procedura sfrutta la rugiada depositata su paglia e foglie che coprono profonde trincee scavate nel terreno . Tale dispositivo fu usato dai Nabatei e nella città ipogea romana di Bulla Regia nel deserto tunisino (Pignauvin 1 93 2 ) . Nel 5 25 d. C . sbarca ad Adulis il religioso greco-egiziano Cosma detto Indi­ copleuste, che ha trascritto nella sua Topografia cristiana i viaggi di ricognizione geografica compiuti in Africa e in India. Il suo intento era confutare l'idea pagana della rotondità della terra, che egli rappresenta cubica come il tabernacolo di Mosè nel deserto, l'arca dell'alleanza e le tende dei bedu. Cosma descrive i ric­ chi commerci di aromi, spezie e smeraldi che si effettuavano nella bella e pro­ spera città tra Romani, Greci ed Egiziani con navi provenienti dallo Yemen, dalla Persia, dall'India e da Ceylon. Visita l'interno fino ad Aksum e riporta come essa sia collegata con una via di trenta tappe alle cateratte del Nilo . Ogni due anni una carovana di circa cinquecento persone si dirige a sud, alle fonti del N ilo, con buoi, pezzi di sale e ferro. Giunta alla meta, la carovana si accampa all'interno di un recinto di spine. Gli uomini depongono su di esse la carne dei buoi uccisi e le mercanzie e attendono riparati all'interno. I locali pongono vicino ad ogni merce una certa quantità d'oro che, se ritenuta sufficiente, viene ritirata dai mercanti. Il baratto silenzioso, che Cosma dice di avere personalmente verificato, è simile al commercio muto descritto da Erodoto e praticato nei templi sabei di Shabwa e permette gli scambi tra persone che non parlano la stessa lingua e hanno diffi­ denza reciproca o motivi per non rivelarsi l'un l'altro.

Boina

Ad Adulis Cosma assiste ai preparativi di una grande spedizione navale con­ tro lo Yemen. Sappiamo infatti da fonti successive che in quel periodo gli Aksu­ miti conquistano il Sudarabia per difendere i cristiani presenti nel paese gover­ nato dagli Himyariti e divengono una delle grandi potenze del tempo. La loro fama di difensori della fede e del credo monofisita diffusa fino a Bisanzio è all'origine delle leggende popolari nell'Europa medievale del potente re africano detto il prete Gianni. Al ritorno da una vittoriosa campagna il pio re Caleb decise di terminare i suoi giorni in un eremo di Aksum, donò la corona regale alla chiesa di Gerusalemme e il governo del Sudarabia venne assunto dal comandante abissino Abraha. Questi conquistò l'Hadramaut e Marib riparandone, come da lui stesso riportato in una lunga iscrizione, la grande diga, le canalizzazioni e i giardini. Ricevette ambasciate da Bisanzio, dalla Persia e dai maggiori condot­ tieri del deserto arabico. Fondò la chiesa cristiana di San' a, di cui sono tuttora visibili le fondazioni circolari, ricca di marmi bianchi, gialli, rossi e neri. Ornata di oro, argento e pietre preziose, chiusa da porte di bronzo munite di lamine e di chiodi d'oro. Secondo le tradizioni arabe nel 570 Abraha marciò con i suoi elefanti fino alla Mecca proprio nell'anno della nascita del profeta Muhammad, che fu per questo chiamato anno dell'elefante. Il suo esercito fu misteriosamente sterminato di fronte alle porte della città santa di tutti gli Arabi. La strage, dice il Corano, fu provocata per volere divino da migliaia di uccelli, ognuno dei quali scagliò un pietra su cui era già segnato il nome del soldato cui era destinata. Si trattò forse di un'epidemia di vaiolo nelle cui pustole la leggenda ha voluto vedere i segni delle pietre della collera divina. Alla morte di Abraha gli Abissini furono scacciati dallo Yemen dai Persiani nel quadro delle lotte che opponevano questo impero ai Bizantini, ma ormai l'Islam nascente muta tutti gli equilibri mondiali e, invertendo ancora una volta i rapporti tra Arabia e Africa, inserisce le rive dell'Etiopia nelle grandi correnti di scambi intercontinentali create dalla civiltà musulmana. L'Eritrea non diventa tuttavia dominio completo della nuova religione. Gli antichi monasteri continuano a prosperare mantenendo rapporti stretti con la cristiana Etiopia, dove l'arte copta raggiunge l'apice delle realizzazioni rupestri a Roba, nota come Lalibela, dal nome del re che nel XIII secolo la ornò, secondo la tradizione, dei monumenti più belli. Abitazioni e chiese sotterranee sono in uso tra gli Agau, a Ucrò, il cui nome viene dalla stessa radice di waqara, scavare, e a Dongollo, che significa pietra . La particolarità di queste strutture è che sono state ricavate ese­ guendo grandi fosse a cielo aperto e lasciando isolato nel mezzo un grande blocco di pietra. Questo è stato poi svuotato dall'interno e scolpito esternamente per realizzare la chiesa, che risulta così un monolito il cui tetto rimane all'altezza del pianoro, da esso separato dal profondo scavo. Le strutture di Lalibela uniscono

quindi la tecnica delle corti a pozzo del Nordafrica e del sud d'Italia realizzate con lo scavo a cielo aperto a quella degli ipogei di Petra svuotati internamente. Le chiese sono fornite di impluvi per l'acqua e di sistemi idrici che alimentano le vasche dei battisteri. Un canale sotterraneo lungo 5 0 metri e profondo 7 rea­ lizza tra questi complessi un corso d' acqua artificiale chiamato Giordano . Il nome non è casuale perché Lalibela con le dieci chiese decorate da croci gigliate e da colonne scolpite, collegate tra loro da passaggi sotterranei, ha voluto attuare l'immagine idealizzata della città di Gerusalemme. Il Kebra nagast (Gloria dei re) , il libro sacro dei sovrani etiopi, attribuisce a Lalibela imprese favolose come quella di avere deviato le sorgenti del Nilo Azzurro per minacciare di distruzione l'intero Egitto. Si tratta di racconti fantastici, ma le realizzazioni di Roba, che uniscono alle tradizioni preistoriche delle grotte i motivi della Chiesa copta tratti dagli ipogei dell' Egitto faraonico, lo stile bizantino e l'arte dei Templari, hanno del meraviglioso . Attestano la ricchezza e la centralità culturale della regione. Rinnovano il desiderio di utopia concretizzato attraverso la creazione in terra, scolpita nella pietra, della Gerusalemme che è nei cieli.

Appello per Massaua e le isole Dahlac Le vestigia dell'antica Adulis, i bei palazzi a gradoni, le chiese aksumite, gli alabastri sabei, giacciono lungo il magnifico Golfo di Zula ancora sepolte dallo strato di sedimenti portato dall'inondazione che la distrusse nell'vrn secolo d. C . D a quell'epoca porto ed emporio commerciale principale è diventata Massaua, chiamata «perla delle acque» perché eretta nel mare su una serie di isole di madre­ para che si prolungano nel Mar Rosso con l'arcipelago delle Dahlac. Massaua è una città storica dove Arabi, Portoghesi, Turchi e Italiani hanno lasciato le tracce della loro presenza. Colpita da un terremoto negli anni venti, è stata riedificata durante la colonizzazione italiana mediante un piano urbanistico che ha conser­ vato le preziose abitazioni turche e l'ha dotata di importanti infrastrutture. Massaua dista solo 6o chilometri in linea d'aria da Asmara. Quest'ultima, tuttavia, è posta a 2300 metri di altitudine, sugli altipiani che si affacciano sulla costa con un bordo montuoso tagliato come da immensi gradini. Dopo un primo salto, ripido e impervio, il paesaggio scende da quota r 500 a 700 e si apre in una serie di pendii, valli e colline, il bassopiano, che digradano dolcemente verso la costa desertica . Le due città, tanto vicine, sono in pratica lontane per le diffi­ coltà del percorso e hanno opposte condizioni climatiche. Massaua è città di mare con giornate aride in estate e calde e nuvolose in inverno. Asmara, che controlla le alte terre, ha estati fresche e piovose e inverni dai cieli tersi e dalle tempera-

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La via dell'avorio era la strada più breve d a Aksun al porto d i Adulis attraverso l'altopiano d i Cohaito per raggiungere il Mar Rosso e l'arcipelago delle Dahlac.

ture miti. Asmara e Massaua hanno dunque stagioni invertite: l'una secca in gen­ naio, l'altra ad agosto. Le aree intermedie, i pendii del bassopiano, beneficiano sia dell'umidità della costa che di quella della montagna, e hanno, come nella zona di Ghinda, le terre più verdi e irrigate . La presenza di ecosistemi così diversi fa sì che passando da una valle all'altra si possa trovare, nell'una, il gran­ turco verde e gli alberi in fiore e, nell'altra, il raccolto ormai maturo e gli alberi in frutto. Ciò ha determinato nel tempo la necessità dello scambio e del contatto tra i diversi gruppi. Alle varietà climatiche e ambientali corrispondono attitudini e tipi fisici differenti, ricchezza di costumi e di habitat . Questo spiega l'abitudine alle varietà culturali, all'amichevole rapporto con gli altri, qualità tipiche dell'odierna società eritrea. La mentalità diventa duttile e aperta grazie alla pro­ pensione ai viaggi e agli spostamenti. Il nomade, transumante stagionale, grande

carovaniere del deserto, o il profugo politico durante la guerra di indipendenza, è il flusso vitale che garantisce i commerci, lo scambio di informazioni e cultura, che continuamente percorre ambienti, stagioni e idee diverse. Si crea la comple­ mentarità tipica dei deserti tra il coltivatore stabile e l' allevatore transumante, tra le terre irrigate e gli altipiani desertici. Ma qui all'abituale bipolarità si aggiunge un terzo elemento costituito dal mare, con i suoi navigatori e le sue isole. Già dal punto di vista ambientale e fisico si può dire che la costa non costituisce una demarcazione netta tra terra e mare. Le numerose insenature, le forti escursioni delle maree, le grandi pianure lagunari e, soprattutto, le centinaia di isole che con l'arcipelago delle Dahlac si addentrano profondamente verso il largo, creano una compenetrazione di deserto e mare a cui corrisponde anche una unità di culture. Uno stesso grande gruppo familiare può allo stesso tempo coltivare un palmeto, allevare il bestiame e praticare la navigazione e la pesca. Quando le tre cose si combinano in un'isola o in una serie di isole si determina la creazione prodigiosa dell'oasi di mare. Lungo le coste dell'Arabia il mito dell'isola fortunata, della terra dei beati, della società ideale risale agli albori dell'umanità. I Sumeri e gli Egizi chiamavano Dil­ mun l'isola paradisiaca dove per la prima volta fu prodotta la palma domestica, fondamento dell'esistenza di ogni oasi. Il luogo mitico è stato identificato con Bahrein, nel Golfo Persico . L'isola risulta coltivata fino dal VI millennio e alla fine del IV è organizzata con un'economia oasiana completamente costituita in cui all'agricoltura palmiera si aggiungono la pesca e la pastorizia (Cleuziou 1 988) . Ma l'attribuzione non può essere certa. Centinaia di altre situazioni presentano nel Mar Rosso tracce simili e segni di frequentazione fino dal Paleolitico e Dil­ mun ha il significato di una narrazione mitica, un'utopia, un non luogo collocato da nessuna parte e dappertutto. E, come Pancaia degli Egizi, Scheria dei Feaci, Ogigia di Calipso e altre innumerevoli creazioni delle isole felici, l'oasi di mare porta il segno della genialità nel realizzarla e della estrema fragilità di fronte alla catastrofe sempre imminente. Nelle Dahlac branchi di cammelli allo stato brado tra dune sterili, iscrizioni, opere idrauliche attestano l'antica occupazione dei luoghi. Pastori bambini frequentano isole completamente deserte, praticando una sorta di nomadismo di mare secondo forme cosi arcaiche da non sembrare oggi ancora possibili. Rimangono soli con le loro mandrie su questi piccoli fazzoletti di terra per mesi e, quando il pascolo è terminato, tramite il segnale di una lucerna avvertono feluche e zattere che li trasbordano su un'altra isola . I modi con cui si procurano l'acqua in questi suoli di corallo privi di falde di acqua dolce e dove anche le piogge sono estremamente rare, costituiscono un campionario delle tecniche di condensazione e di sussistenza negli ambienti aridi. Sulle superfici sabbiose sono

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realizzate delle cisterne aeree tramite grandi giare immerse nella rena. Cumuli di pietre servono a captare l'umidità atmosferica, che precipita nel serbatoio cir­ costante. Nei suoli porosi di madrepora grandi crateri scavati circolarmente nella roccia contengono al loro centro cumuli di pietre. Al di sotto vi è la cisterna non coibentata sempre piena di acqua limpidissima, che viene assorbita alla brezza marina dalle porosità delle pareti del cratere artificiale e appare miracolosamente nella pozza trasudando dalle rocce . Sulle distese piatte ogni piccola depressione viene utilizzata per conservare l'umidità necessaria al pascolo e anche gli alberi funzionano con le loro foglie da raccoglitori di rugiada, canalizzata in fosse ripa­ rate dal calore grazie alla loro stessa ombra. Non mancano anche i metodi che sfruttano gli scorrimenti idrici sul pendio, indirizzati da file di pietre verso gli orifizi delle cisterne. Così si alimentano ancora oggi i villaggi della Grande Dah­ lac, l'unica abitata, ma che è ormai solo la parvenza del giardino incantato di un tempo. Tuttavia, se i trent'anni di guerra hanno distrutto l'economia dell'arci­ pelago, l'isolamento ha salvaguardato il sistema ambientale. Danni sono invece stati arrecati alle infrastrutture costiere e alle architetture di Massaua. La ferrovia e la teleferica realizzate durante la colonizzazione ita­ liana con un progetto ardito per collegare Asmara e Massaua unendo la monta­ gna e il mare, l'entroterra africano alle vie per il Mediterraneo e l'India e per­ mettendo il passaggio rapido da un clima all'altro, già smantellate durante il protettorato inglese, sono state definitivamente distrutte dalla guerra. Il porto di Massaua, il suo centro e tutta la periferia sono stati gravemente colpiti dai bombardamenti. Ottocento case, molte delle quali di interesse architettonico e monumentale, sono devastate. La città, tuttavia, non è finita. Molti edifici sono intatti e gli altri sono in via di restauro. Sono necessari programmi e aiuti inter­ nazionali per avviare piani di recupero edilizio accurati. Soprattutto la ricostru­ zione dovrà evitare di cedere alle lusinghe di un facile sfruttamento del­ l' ambiente. L'indipendenza eritrea ha dimostrato di sapere operare nella tradizione di un antico e straordinario passato. La stessa logica di grande prefi­ gurazione e di volontà di non seguire i modelli scontati dei paesi industrializzati può guidare ora il popolo eritreo, capace di perseguire un suo progetto sociale nuovo e indipendente . La ricchezza dell'Eritrea è nella sua gente, nella sua natura e nel suo passato; nessuna corsa verso lo sviluppo deve metterne in peri­ colo il patrimonio culturale e ambientale. Così l 'Eritrea può costituire un modello da seguire, offerto a tutti i paesi dell'Africa. La comunità internazionale può favorire questo processo e fornire gli aiuti necessari affinché Massaua sia il centro di una vasta area protetta di tipo ambientale, archeologico e culturale estesa alle coste, al deserto, ai fondali del Mar Rosso e alle isole Dahlac. Massaua e l'arcipelago possono e devono essere beni di tutta l'umanità.

8.

Comunità autopoietiche Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive. Eppure tra l'una e l'altro c'è un rapporto. (Itala Calvino)

I bibliotecari di Babele Un'architettura infinita raccoglie i testi ottenuti combinando i caratteri di ogni lingua esistente o immaginabile, dunque tutti i libri possibili: è la biblio­ teca di Babele descritta dall'immaginazione di Jorge Luis Borges. Proprio a causa della quantità enorme dei volumi contenuti, l'immensa libreria è inutilizzabile per i suoi stessi bibliotecari, che non ne possiedono la chiave di consultazione e di lettura. Questa visione di una raccolta di testi, che per la loro stessa quantità restano dimenticati, si adatta al patrimonio illimitato di conoscenze conservato nell'ambiente naturale e nell'organizzazione umana del paesaggio. Il territorio è il risultato del processo storico di modificazione dello spazio, al cui interno gli aspetti fisici e biologici non sono separabili da quelli artificiali. Come le città e le architetture anche il paesaggio è creato dal lavoro umano . È determinato dall'uso del suolo, dalle trasformazioni agricole e produttive, dall'introduzione e diffusione delle specie vegetali, dalla gestione delle acque, dalle consuetudini sociali di coloro che lo abitano o lo percorrono e dai loro sistemi giuridici. Tutto questo forma una biblioteca di storia e di cultura tramandata attraverso le età e le generazioni, retaggio delle esperienze e delle conoscenze verificate nei mil­ lenni, scrigno di saper fare e di saper vivere. La saggezza territoriale sedimentata nei tempi è oggi in pericolo a causa dell'enorme capacità moderna di intervento tecnologico in grado di operare trasformazioni distruttive e di negare passato e identità . In rapporto alla meravigliosa biblioteca dell'ambiente formata dalle vestigia storiche, dai segni lasciati dalla memoria di coloro che hanno vissuto, lavorato e amato, non siamo forse noi come i bibliotecari di Babele ? Distruttori ignoranti di un patrimonio millenario, o, al più, guardiani sterili di un sapere indecifrabile ?

Da quando i gruppi umani abitano la terra la utilizzano e la trasformano con­ tinuamente. Il processo di modificazione e sfruttamento a scopo produttivo dello spazio ha avuto inizio con le prime pratiche di coltivazione e allevamento nel Neolitico, messe in atto proprio in quelle aree oggi sottoposte ai più intensi processi di degrado e desertificazione. L'origine dell'agricoltura in ambienti tro­ picali e subtropicali e nei climi aridi e semiaridi, cioè proprio nei luoghi appa­ rentemente meno adatti a svilupparla (Childe 1 954), è dovuta al fatto che in que­ ste zone le temperature elevate e la quantità di giornate assolate permettono anche a una piccola particella di terreno di fornire i mezzi di sostentamento per un considerevole gruppo umano. Senza questa condizione di immediata conve­ nienza le prime attività agricole, condotte necessariamente in esperienze di limi­ tata dimensione, sarebbero state abbandonate prima di dimostrarne le poten­ zialità di applicazione su vasta scala. La grande trasformazione sociale avvenne quindi proprio nelle regioni secche e dal regime idrico con andamento catastro­ fico, dove si alternano le alluvioni e i periodi di magra, le piogge torrenziali e la lunga siccità. In queste particolari condizioni ambientali lo sfruttamento delle possibilità favorevoli richiede collaborazione sociale e impegno lavorativo per lo scavo di argini e canali, la raccolta delle acque, la formazione e protezione di suoli coltivabili (Drower 1 954). La maggior parte di queste aree, tuttavia, godeva nel passato di condizioni arboree molto migliori della situazione odierna. Nel periodo che segue l'ultima glaciazione un apporto idrico maggiore, risultato dello scioglimento delle nevi perenni, aveva prodotto una fase umida nelle zone aride. Il successivo processo di riscaldamento climatico non spiega da solo la completa scomparsa delle fore­ ste e del manto vegetale in tante aree una volta fertili e popolate. È la trasfor­ mazione dall'economia paleolitica, basata sul prelievo contenuto dall'ambiente delle risorse naturali, a quella neolitica, fondata sullo sfruttamento produttivo del territorio, a innescare un processo di degrado che in situazioni geografiche limite si amplifica in modo sempre crescente. Dobbiamo convenire che questi ambienti si sono desertificati non per sconvolgimenti climatici naturali, ma a causa della interazione negativa da parte dell'uomo . Lo sviluppo delle pratiche di vita neolitica è reso possibile da tre condizioni fondamentali: il possesso dei semi coltivabili e degli animali domestici; il terreno fertile; l'acqua. L'organizzazione della vita produttiva e sedentaria dipende dalla realizzazione di queste condizioni. Proprio gli sforzi necessari per soddisfarle in situazioni di penuria idrica e di rudezza ambientale spiegano lo sviluppo della tecnologia, la creazione di sistemi di habitat e l'elaborazione di forme complesse di organizzazione sociale. I semi coltivabili e gli animali domestici, sottoposti a selezione e classificazione, necessitano delle strutture fisiche per la conservazione

dei grani e il ricovero stabile degli animali e delle genti, premessa dell' ar­ chitettura; l'esigenza di terreno fertile stimola le conoscenze legate alle pratiche di concimazione, formazione di humus e assetto, protezione e manutenzione dei suoli, che sono i principi di base dell'organizzazione dello spazio; la produzione e amministrazione dell'acqua comporta la consapevolezza delle leggi della fisica dei fluidi e di sottili dinamiche ambientali, è scienza della natura ed elaborazione di complessi metodi di numerazione, computo, trascrizione e memorizzazione, induce la formazione di sistemi giuridici e sociali. Dalla combinazione delle solu­ zioni operate e, in particolare, da quelle di raccolta e distribuzione dell'acqua, dipendono la nascita e lo sviluppo delle prime società. Queste imboccano dire­ zioni di crescita dagli esiti distruttivi per gli equilibri ambientali, ma imparano anche a trarre dall'esiguità delle risorse le ragioni di una ingegnosa economia basata sul loro corretto utilizzo e sul risparmio delle energie. L'origine delle tecniche idriche precede di gran lunga la neolitizzazione. Pra­ tiche di raccolta dell'acqua e forme arcaiche di coltivazione e di irrigazione erano in uso fin dal Paleolitico . I cacciatori-raccoglitori realizzavano nelle caverne pozze sotto le stalattiti per conservarvi l'acqua bevibile prodotta dalle essuda­ zioni e dal gocciolio della roccia. In prossimità di aree di erbe selvatiche utili sca­ vavano sui pendii e davanti alle grotte fosse e rigagnoli per infoltire la vegeta­ zione spontanea, realizzando la prima irrigazione artificiale. Le conoscenze e i riti di domesticazione animale e vegetale, tramandati dai popoli migranti secondo le stagioni e al seguito della selvaggina, si diffusero in un'area molto vasta lungo i territori delle mandrie, in paesi e climi differenziati, seguendo percorsi di alti­ tudine al riparo dalle zone paludose e malsane. Le pratiche dell'allevamento e della coltivazione, anticipate dalle esperienze dei nomadi paleolitici dell'Africa equatoriale, furono inizialmente applicate durante la fase umida di riscaldamento del Postglaciale in regioni bagnate da piogge violente e sporadiche come gli alti­ piani sahariani, le montagne dell'Anatolia, le piattaforme continentali dell'una e dell'altra sponda del Mar Rosso fino all'Arabia meridionale e al Corno d'Africa. Organizzate in piccole particelle di terreno rigorosamente protette, tali pratiche configuravano più una struttura intensiva di preziosi giardini murati che un'agri­ coltura estensiva su grandi superfici. Successivamente, con l' aumentare delle temperature e la desertificazione delle aree originarie, innescata anche dal dibo­ scamento operato per creare i pascoli, grandi aree coltivate furono create nei bacini, divenuti praticabili, dei grandi fiumi come le valli del Nilo e dell'Indo e il basso corso del Tigri e dell'Eufrate utilizzandone l'apporto di acqua perenne. In queste regioni la costruzione di grandi opere idrauliche - argini, canali, sbar­ ramenti - divenne un fattore profondo di trasformazione economica e sociale e determinò la civiltà urbana, l'esplosione demografica e produttiva delle possenti

formazioni sociali della Mesopotamia, dell'Egitto e dell'India. Si delinea il mo­ dello di formazione sociale basato sulle tecnologie idriche noto come società idraulica, proprio di vasti sistemi geografici sfruttati grazie a investimenti sem­ pre crescenti del potere statale fortemente centralizzato .

Il paradigma

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della società idraulica

Il modello della società idraulica elaborato da Karl August Wittfogel nel 1 95 7 dimostra la genesi di imperi di grandi dimensioni, diretti da una burocra­ zia autoritaria caP.ace di rendere produttive vaste aree territoriali grazie alla for­ nitura di acqua. È caratterizzato dal monumentalismo delle architetture e dal dispotismo politico, condizioni entrambe funzionali alla necessità di tenere costantemente occupata e sotto controllo l'enorme quantità di forza lavoro mobilitata nelle strutture idrauliche . Lo scenario di un potere ierocratico che domina la manodopera contadina, schiavizzata o militarizzata, applicato indif­ ferentemente a Sumer e all'Egitto, è stato da più parti sottoposto a critica . Le condizioni dei due paesi non sono uguali. Contrariamente alla valle del N ilo, che era uno stato unificato, la Mesopotamia era costituita da una molteplicità di organismi indipendenti. Questi avevano sempre continuato a mantenere una relazione stretta con i gruppi nomadi, mentre l'Egitto è stato fin dalle origini costituito da un considerevole blocco demografico di sedentari. In entrambi i paesi la condizione dei lavoratori non era così subordinata come viene general­ mente presentata . Lo stesso uso di schiavi per la costruzione delle piramidi è solo un luogo comune smantellato dalla ricerca archeologica, che ha dimostrato l'esistenza di artigiani e artisti abitanti in villaggi autonomi e organizzati in cor­ porazioni fiere del loro status. Tuttavia, temperando schematismi e omologazioni, è possibile delineare per la valle del Nilo, la Mesopotamia, il bacino dell'Indo e la Cina del Fiume Giallo i caratteri generali di un modello idraulico . Questi sono la centralizzazione della sovranità, le vaste dimensioni territoriali strutturate da un grande bacino idro­ grafico e l'esistenza di una numerosa popolazione. In architettura fa riscontro la costruzione di opere gigantesche, imperniate sulla concezione simmetrica, la chiarezza costruttiva, la forte carica di rappresentatività e l'uso di masse di lavo­ ratori centralmente guidati e organizzati. In urbanistica prevale il sistema pia­ nificato con gli assi intersecantisi di tipo ippodameo, tipico delle città fondate da un sovrano o frutto di una decisione coloniale. Le abitazioni tendono a una similarità esteriore per celare il benessere economico all'invidia del potere unico e nascondono all'interno il lusso e Je decorazioni. Il modello economico-sociale

è quello di un'espansione crescente, sostenuta da un massiccio sviluppo demo­ grafico innescato dal forte potenziale agricolo e mantenuto da una politica di conquista imperiale, da forti redditi commerciali e dal dispendio delle risorse in monumenti o nelle guerre. Le conseguenze nel lungo periodo sono l'ipertrofia della popolazione e del territorio, l'autoritarismo, la centralizzazione statale e la distruzione crescente dell'ambiente fino alla catastrofe ecologica. Il loro stesso gigantismo spiega il declino e la fragilità dei grandi imperi tiran­ nici sorti in Oriente e in Mesoamerica; la fine dei regni sudarabici è provocata dalla crisi nell'equilibrio tra risorse e costi di manutenzione delle opere idrauli­ che, esemplificata nella rottura della diga di Marib; il mutamento delle vie com­ merciali, privando le capitali carovaniere lungo le vie della seta e dell'incenso, come Petra, Samarcanda, Turfan, del reddito necessario alla manutenzione dei sistemi idraulici, ne causò il rapido collasso e sparizione; il depauperamento delle aree geografiche, sottoposte allo sfruttamento intensivo, ha determinato il disa­ stro ecologico e i mutamenti climatico-ambientali degli altipiani sahariani e delle aree, una volta ricoperte di foreste, del Nordafrica e del Mediterraneo. Si conclude così con la catastrofe e l' abbandono l'evoluzione dei modelli abi­ tativi e sociali. Il ciclo delle trasformazioni agricole e idrauliche è riassumibile secondo questo schema : a) esperienze nella foresta da parte di nomadi paleolitici spinti dalla curiosità e dal piacere; b) creazione di giardini santuari e iniziale applicazione produttiva delle conoscenze a opera di comunità agropastorali con­ clusasi con i primi dissesti ecologici; c) impiego massiccio delle tecniche agricole nelle società fortemente strutturate dei grandi imperi che, attraverso la ricerca organizzata in giardini laboratori, intervengono consapevolmente sull'ambiente e trasformano luoghi aridi in centri fertili e produttivi; d) ipertrofia demogra­ fica, gigantismo territoriale, fine dell'equilibrio tra risorse e costi di manuten­ zione e di organizzazione, collasso economico e catastrofe ecologica; e) condizio­ ne moderna, punto di arrivo della rivoluzione agricola, urbana e demografica iniziata nel Neolitico con l'estensione di tale processo a tutte le aree del pianeta. Quando l'equilibrio tra risorse e loro uso produttivo, faticosamente mante­ nuto nei secoli, si interrompe, l'ecosistema urbano collassa innescando il degrado di intere aree territoriali. Nel bacino mediterraneo, nelle sue isole e penisole, in Siria, Libano, Mesopotamia, Palestina, Arabia e Nordafrica, i luoghi delle più antiche civiltà, dove gli scavi archeologici rivelano città una volta circondate da una natura rigogliosa, ricche di campi e giardini fiorenti, risultano ora abban­ donati e seppelliti dalle sabbie. Il processo di desertificazione ha avuto una costante progressione a partire da 3 000 anni fa; si è accentuato con l'era indu­ striale e ha raggiunto dimensioni catastrofiche negli ultimi cinquant'anni. Il con­ tinuo degrado ambientale non è dovuto a cause naturali e climatiche, ma alla

pressione indiscriminata operata dall'uomo. I modelli di esistenza, di produzione e di consumo che hanno sostituito gli assetti tradizionali nei paesi avanzati, determinano l'esaurimento totale delle risorse locali, alimentando la crescita ipertrofica delle aree sviluppate tramite il ricorso massiccio a energie convogliate dall'esterno, prima dall'hinterland, poi da zone sempre più lontane. Si allarga così a tutto il pianeta la distruzione del patrimonio vegetale e paesistico e si interrompe nei popoli la catena millenaria di trasmissione attraverso le genera­ zioni di conoscenze appropriate all'ambiente. La loro scomparsa provoca la fine delle capacità di manutenzione e di governo dello spazio a cui dobbiamo l'assetto equilibrato e armonioso di territori esemplari come paesaggi creati dal lavoro e dalla cultura. L'accresciuta capacità d'intervento espone oggi a rischio ecologico anche zone al di fuori degli ambienti geografici più delicati e mette in pericolo l'intero equilibrio della biosfera. L'uomo si è progressivamente, anche se mai del tutto, liberato dalle costrizioni imposte dall'ambiente. Produttore del proprio spazio, è riuscito a trarre dalla natura sempre più di quello che questa fornisce diretta­ mente e al tempo stesso si è reso artefice di danni irreparabili. Tuttavia, proprio dove i vincoli ambientali sono più forti per le condizioni rudi e inclementi, l'in­ tervento umano ha imparato a mantenere limiti precisi, stabilendo un equilibrio con le risorse.

Un nuovo modello: la comunità idrogenetica

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Il modello della società idraulica fornisce un'interpretazione della genesi dei grandi imperi, ma non spiega tutte le formazioni sociali basate sulla produzione e gestione dell'acqua. L'applicazione estensiva della teoria di Wittfogel e l'assimi­ lazione ai canoni del gigantismo e del dispotismo orientale di ogni civiltà fondata sulla disponibilità idrica risultano fuorvianti. Impediscono di riconoscere la spe­ cificità di formazioni sociali basate sulla produzione idrica e organizzate secondo una logica opposta rispetto all'ipertrofia e al dirigismo statale. Si tratta di tipi di habitat originati in aree che non beneficiano delle grandi çlisponibilità dei bacini fluviali perenni, in sistemi ambientali impervi e di piccole dimensioni, dove il pae­ saggio frammentato impone il controllo su scala locale delle risorse. Le tecniche utilizzate sono fondate sulla combinazione vantaggiosa di disponibilità minime e sull'utilizzo di principi sottili di umidità, fertilità e vivibilità. Appaiono in diretta continuità con le originarie pratiche di sussistenza paleolitiche e con le prime esperienze di coltivazione « a giardino » neolitiche, evolvendo in sistemi elaborati di conoscenze volte alla creazione e gestione di ecosistemi autosostenibili. Si for­ mano così, ai margini delle grandi concentrazioni demografiche, piccole comunità

completamente isolate o mantenenti rapporti particolari di scambio, fornitrici di prodotti rari e centri di elaborazione di procedure ingegnose. Costituiscono aree di rifugio dall'invadenza degli stati autoritari, presidi di ambienti inospitali, mer­ cati capaci di organizzare comunicazioni lungo vie inaccessibili. Prosperano paral­ lelamente alla crisi degli imperi e si diffondono, spesso, proprio in conseguenza delle catastrofi ecologiche da essi provocate. A una lettura superficiale queste comunità mostrano arretratezza e povertà materiale e tecnologica, ma questa apparenza è dovuta all'uso parsimonioso dei mezzi, frutto di una fondamentale consapevolezza: i luoghi di maggiore fertilità e produttività potenziale sono proprio quelli dove più grandi sono le possibilità di distruzione. Le risorse sono gestite secondo modelli alternativi a quello idrau­ lico, utilizzando tecniche che non possono essere controllate dirigisticamente a livello statale, ma sono il risultato del lavoro familiare o della prestazione col­ lettiva della comunità . L'economia agricola, con l'irrigazione su piccola scala e i conseguenti lavori di organizzazione dello spazio come i terrazzamenti, le recin­ zioni a secco e lo spianamento del terreno, dà luogo a nuclei di piccoli proprie­ tari in possesso degli animali e degli strumenti di produzione. L'architettura è basata sulla fusione degli ambienti strutturati a partire dall'interno verso l'esterno come nell 'organizzazione di un sistema di grotte. L'arte preistorica delle caverne è un esempio di questo modo di percepire lo spazio e viverlo. Le pitture creano una visione globale, in cui le dimensioni superficie, volume e tempo non sono separate . Risultano distribuite sulla parete in modo continuo integrando nella rappresentazione tutte le caratteristiche, le gibbosità e le ano­ malie del substrato. Si assommano sovrapponendosi con forme e stili diversi per periodi lunghissimi. Questa logica, che possiamo definire nomade e polidirezio­ nale, si ritrova nell'organizzazione urbana basata sull'equivalenza delle dire­ zioni: non univoca, ma polivalente; non pianificata, ma spontanea; non decisa autoritariamente, ma stratificata nel tempo. Lo spazio, dalla trama coinvolgente e labirintica, comunica disorientamento e sensazioni caotiche, ma è retto da principi precisi . L'insieme non è abbracciabile da una posizione dominante, come un monumento o lo sguardo del sovrano, ma va scoperto gradualmente ed è fruibile dall'interno delle singole cellule. L'organizzazione sociale è formata da collettività autonomamente gestite, fondate sull 'uso dei rari mezzi localmente disponibili e regolate da autorità patriarcali, religiose o consuetudinarie, e dirette dall'assemblea degli anziani. Le tecnologie mettono a profitto le pratiche arcaiche di controllo dell'acqua su pic­ cola scala e predispongono le necessarie strutture di percolazione capillare nelle caverne, le fosse, le cisterne, sviluppandole in opere idrauliche più imponenti, ma sempre gestibili attraverso la cooperazione di tutta la comunità. Utilizzano i metodi di raccolta sui pendii e gli impluvi e creano dispositivi, a volte difficil-

mente riconoscibili, capaci di trarre umidità dall'atmosfera sia per produrre acqua bevibile sia per irrorare le piante. Vere e proprie sorgenti artificiali aeree alimentano sistemi di habitat frutto di una sapienza ambientale basata sull'idro­ genesi, la creazione di acqua. Complementare e speculare rispetto alla società idraulica, si definisce così un modello di comunità idrogenetica, organizzato in sistemi di oasi dove la simbiosi di fattori vitali minimi e la gestione accurata delle risorse scatenano effetti positivi, capaci di realizzare nicchie ecologiche che con­ trastano le condizioni di ostilità ambientale. Queste tecniche specifiche dei deserti sono il retaggio di un'arcaica cultura nomade e agropastorale diffusa nel Vicino Oriente, lungo gli altipiani della Rift Valley, nelle coste arabiche, nella Grecia arcaica, nel meridione d' Italia, a Creta e nelle altre isole e penisole mediterranee. In situazioni geografiche varie, ma caratterizzate dalla frammentazione e asperità geomorfologica, dall'aridità cli­ matica o da particolari condizioni di umidità. È la realtà vasta e variegata dei sistemi oasiani autopoietici e autosostenibili qui esaminati: città oasi di terra cruda come quelle dei letti secchi dei fiumi dello Yemen, che utilizzano i rifiuti organici degli abitanti per fertilizzare le sabbie e renderle adatte alla costruzione; oasi di pietra scavate fino dalla preistoria nei tufi dei Sassi di Matera e nelle gra­ vine e lame pugliesi, capaci di condensare nelle grotte e sulle strutture murarie a secco l'acqua necessaria; oasi religiose scolpite nelle valli d'erosione dell'Etio­ pia e della Palestina, simili a quelle della Cappadocia e della Tebaide e organiz­ zate in forma di eremi e giardini murati irrigati tramite gallerie drenanti, cisterne e canalizzazioni; oasi di mare diffuse nelle aride isole del Mediterraneo e del Mar Rosso, alimentate da sorgenti aeree. Ma esistono anche oasi di fore­ ste pluviali, dove particolari ambienti carsici impediscono la formazione di corsi d'acqua superficiali e rendono gli insediamenti in tutto dipendenti da sistemi di raccolta e conservazione di acqua meteorica, come i chultun dello Yucatan in Messico . Sono tutti ecosistemi artificialmente creati grazie alla realizzazione di cicli autopropulsivi di interazioni positive. Essi dimostrano come le strade intraprese nella storia umana non siano solo quelle del gigantismo dei grandi imperi, ma anche di realizzazioni di piccole dimensioni e autosufficienti. Il primo modello necessita di un continuo apporto di energie esterne per rinviare una catastrofe che con il passare del tempo sarà di proporzioni sempre più terribili. È la condizione attuale della valle del Nilo, dei grandi agglomerati urbani della Palestina e di tante altre zone del Mediter­ raneo e dell'Arabia, che hanno ritmi di crescita sempre più accelerati e sostenuti da grandi dighe, dallo sfruttamento completo di falde profonde, da costosi impianti di desalinizzazione o dal ricorso a megaprogetti per sfruttare risorse sempre più lontane .

Il secondo modello è quello dell'oasi che, nel collasso delle grandi organizza­ zioni territoriali, ha permesso il perpetuarsi della vita e della società umana, ha tramandato la sapienza collettiva e le regole di coesistenza indispensabili alla sopravvivenza : la capacità di intervenire in sintonia con l'ambiente esaltandone le potenzialità senza esaurirle . Il metodo applicato è quello di ribaltare le condi­ zioni svantaggiose in risorse rinnovabili, cosicché i luoghi di maggiore rudezza e difficoltà ambientale divengono anche quelli di più grande armonia e organiz­ zazione ecologica. Questa stessa logica può essere oggi proposta in condizioni dove l'apparente ritardo rispetto alla modernità viene capovolto in un vantaggio fondato sulle condizioni paesistiche e insediative arcaiche intatte : il principale valore per il futuro . Le paleotecnologie unite a nuove tecniche appropriate per­ mettono di realizzare un vero recupero culturale : la salvaguardia delle vestigia passate e la loro rivitalizzazione come fonti di progresso e di insegnamento per la salvezza del pianeta Terra .

Il rovescio

della piramide

In epoca remota, ai tempi dei primi passi della civiltà egizia, uno scettro di pietra datato intorno al 3 2 00 a. C. mostra il mitico re Scorpione nell'atto di tagliare la prima zolla dello scavo di un canale di irrigazione . La zappa da lui uti-

r 8o . Scettro del re Scorpione (3200 a. C. circa) rappresentato nell' atto di tagliare la prima zolla di un canale di irrigazione. Da Iera­ compoli in Egitto.

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lizzata è il segno del geroglifico mer, dal molteplice significato di canale, amore e piramide. Mer è lo strumento con cui il faraone fonda il primo tempio e inau­ gura un sito ed è anche l'attrezzo con cui il contadino quotidianamente apre la terra madre e la rende fertile . È il canale dove circolano i fluidi, correnti vivifi­ canti simili all'energia dell'amore che genera l'attrazione tra i viventi e stimola la loro unione feconda. È la piramide, cristallizzazione in pietra del fuoco, sim­ bolo del movimento ascendente delle forze e degli umori, rappresentazione della capacità costruttiva dell'amore che unisce la terra al cielo, il faraone agli dei. Tuttavia la stessa radice mer assume il significato di morte. Infatti la piramide è anche un mausoleo funebre e la vitalità travolgente dell'eros ha, come la carica seduttiva dell'aroma per eccellenza, il sapore amaro della mirra . La caducità del mondo organico, che deve nascere e morire per essere costan­ temente rigenerato, è all'origine di queste analogie. « 0 viventi che vi trovate su questa terra, che passate davanti a questo mausoleo, versate per me dell'acqua »: così recita la frase iscritta dai faraoni all'ingresso degli ipogei, ricordando il rap­ porto più volte riscontrato tra vita e morte, raccolte idriche e strutture funera­ rie . Ma la duplice valenza che unisce nello stesso termine lo scavo e la costru­ zione, l'affondare l'aratro nelle viscere della terra e l'edificare tonnellate di pietre megalitiche, il lavoro umile del contadino e la più grande sfida architet­ tonica mai elevata dall'umanità, ha una precisa motivazione storica e sociale. La civiltà egizia si costituisce improvvisamente intorno al 3 000 a . C . come un immenso processo pianificato di fondazione urbana, accompagnato dalla realiz­ zazione delle grandi mastabe e delle piramidi, strutture ineguagliate per dimen­ sione nella storia dell'architettura antica e moderna. Immediatamente prima di questo processo l'Egitto era un paese costituito da gruppi stabiliti su piccole col­ linette, disperse come isole tra le inondazioni spontanee del Nilo, con un livello tecnologico molto arretrato. Il balzo repentino è stato dovuto a un intervento esterno, apportatore delle conoscenze necessarie e in grado di unificare il Basso e l'Alto Egitto, determinare la rivoluzione urbana e l'organizzazione idraulica del paese. La costruzione delle piramidi è stato proprio lo strumento per realiz­ zare questo obiettivo: fissare i gruppi nomadi, concentrare la popolazione, otte­ nere una massa demografica stabile. La piramide, creazione dispendiosa della civiltà monumentale e assolutistica, fonda il regno millenario d'Egitto, ma il segreto del sapere dei faraoni è nel suo rovescio: la conoscenza veicolata dalle popolazioni nomadi africane; gli scavi neolitici di fossati e canali; i recinti e gli orcomeni pastorali; la capacità di creare la vita con gli umori sottili dell'aria, della terra, del sole. Dall'alto della piramide si vedono i lavori idraulici e si control­ lano le piene del Nilo. La terra accumulata per i più antichi di questi monumenti e per le ziqqurat di fango è proprio quella dello scavo dei canali. Per questo i

r 8 1 . Le piramidi sovrastanti il Nilo in piena in una foto d'epoca.

tumuli erano ritenuti in possesso di virtù fecondatrici e vivificatrici e la loro argilla era prelevata e conservata come reliquia sacra o ingerita alla stregua di un farmaco prodigioso. « Nella terra si scavano pozzetti, piramidi rovesciate, e si colmano di pani di sterco di mucca . Fra essi si adagiano vasi sigillati e sempre con pani di sterco di mucca si costruisce una cupola alla cui cima si dà fuoco » . In questa pratica della medicina ayurvedica riportata da Elemire Zolla si realizzano nel vaso della pira­ mide rovesciata i principi della putrefazione, fermentazione, distillazione e sublimazione (Zolla 1 985 , p . 7 7 ) . Racconta la tradizione che Alessandro il Grande ritrovò la Tavola di smeraldo , il più importante documento dell' alchimia ellenistica, nei sotterranei della piramide di Giza, dove i preti egizi avevano rica­ vato la tomba di Ermete Trismegisto . Il testo guida la ricerca della forza vitale che ascende di terra in cielo e quindi di nuovo cala al suolo, descritta con le enig­ matiche parole: « Il sole ne è il padre, la luna la madre, il vento l'ha portata nel proprio ventre, la terra è la sua nutrice >> . È sufficiente prendere alla lettera le indicazioni, tralasciandone il senso esoterico, per capire il significato pratico della formula . L' acqua, innalzata dal calore del sole, condensata alla fredda luce lunare, trasportata dal vento, precipita nella terra per corrompere il seme e tra­ sformarne la putredine in energia vegetale che lo rende capace di sbocciare verso il cielo . Dai tempi della crescita demografica neolitica provocata dalla cono-

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scenza delle tecniche di coltivazione dei cereali, il principio della forza vitale è il segreto della natura più profondamente indagato dall'umanità . Ricorre nei miti di morte e di risurrezione come quelli di Gilgamesh, di Orfeo, di Persefone, e in quelli di iniziazione alla sessualità . Non è forse la pianta che per talea o per separazione dei suoi bulbi può rigenerarsi e rinascere ? Così i miti di smembra­ mento - Dioniso che viene fatto a pezzi o Osiride macellato da Seth, il malefico dio dell'aridità, e sepolto lungo tutto l'Egitto - derivano dall'osservazione delle piante. Il mistero antico esorcizza il potere bruciante del deserto che ha colpito molte volte nel passato i nuclei umani e pone un limite di timore e di rispetto allo sfruttamento della natura. I libri segreti di al-kmi, la terra nera d' Egitto, madre della scienza alchemica, tramandano le conoscenze della sussistenza . A queste fa riferimento l'antico sim­ bolismo mitologico e astrologico . Al di sotto della piramide c'è il labirinto, il contrario della costruzione megalitica è il pozzo di condensazione. L'umanità preistorica aveva sviluppato un rapporto con la natura fondato su un modo di sentire gli esseri viventi e gli elementi ormai dimenticato . Una caverna nello Yucatan è chiamata Lultun, che vuole dire fiore di pietra. Il termine, secondo la tradizione, è dovuto al suono che producono due stalattiti e stalagmiti sigillate l'una sull 'altra a formare come una coppia di colonne affiancate di accesso al tempio . È possibile ancora oggi verificare l' etimologia onomatopeica percuo­ tendo alternativamente le due formazioni calcaree: lul-tun; il suono, la musica

r 8 2 . La raccolta dell'umidità atmosferica rappre­ sentata in un libro di pratiche alchemiche (Altus, Mutus liber, La Rochelle r 6n ) .

creano le parole e la conoscenza . Nella caverna si vedono ancora le fosse di rac­ colta dell'acqua, le pietre per i funghi sacri e i graffiti di meandri e di labirinti incisi sulla roccia: i fiori di pietra della tradizione. Abbiamo riconosciuto un vantaggio specifico dell' Homo sapiens nella crea­ zione estetica e artistica come attività non separata dalle necessità pratiche della vita. La tradizione classica conserva questo potere a eroi mitici di chiara deriva­ zione africana come Anfione, che eleva con la lira le mura di Tebe, o Orfeo, che con il suo canto fa muovere le querce selvatiche e le dispone in un ordinato giar­ dino. Ma oggi le nostre abitazioni non sono più edificate secondo l'armonia della musica, la logica della produzione ha escluso dai suoi ferrei recinti i luoghi della contemplazione e del sogno. Il lavoro e lo svago, la città e il giardino, la vita e l'arte, l'umanità e la natura sono irrimediabilmente separati. L'antropologo War­ ren Hern, nel definire l' Homo sapiens ecofago, lo paragona a una cellula cance­ rosa che si è introdotta in tutti gli ecosistemi sostituendosi agli elementi sani e moltiplicandosi fino alla uccisione dell'organismo che la ospita (Hern I 993) . Gli attuali ritmi di crescita demografica e di distruzione delle risorse ambientali legit­ timano tale definizione (Milone I 99 I ) . Ma le comunità idrogenetiche dimostrano che questo non è un carattere innato della nostra specie, costituisce solo una dire­ zione culturale divenuta egemone, e autorizzano un messaggio di speranza . I nomadi del Sahara, dopo secoli di esistenza erratica lungo le assolate piste delle carovane, danno vita a oasi e architetture splendide. I popoli mediterranei, emi­ granti, transumanti, sradicati, dilaniati da guerre che non sono le loro, riman­ gono tenacemente capaci nella loro storia di rifondare civiltà. Le decorazioni, l'artigianato, i gioielli, lo stesso linguaggio del corpo e dei costumi salvaguardano l'identità e la memoria. Le donne africane perpetuano nei tatuaggi, nella foggia delle acconciature e dell'abbigliamento la storia familiare e collettiva. Le pale­ stinesi conservano nel disegno dei tappeti il ricordo di ogni città distrutta e abbandonata. In tutto il Mediterraneo nei racconti, nell'arte, in semplici manu­ fatti, facilmente recati con sé attraverso gli esodi, le deportazioni, le catastrofi, si cela un messaggio costantemente trasmesso ai posteri. L'umanità ha una origine comune e al di là delle varietà di ordine storico e culturale non è ammissibile alcuna teorizzazione razziale. Basti per questo con un semplice gioco matematico ricostruire a rovescio la piramide degli antenati di ognuno di noi. A ogni generazione gli ascendenti raddoppiano : due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e cosl via . Ritornando indietro solo di 6oo anni, il numero degli antenati di una persona è ormai pari all'intera presenza umana sul pianeta che ammonta in epoca medievale a 250 milioni. Siamo immersi comple­ tamente nell'evoluzione planetaria e, nel lungo periodo, i successi sono realiz­ zati dalle comunità capaci di integrarsi con la natura e garantire la sussistenza in

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equilibrio con la biosfera: trasformare il deserto in un giardino realizzando sistemi basati, come a Shibam, sul ciclo dell'humus, termine connesso alla stessa radice da cui deriva homo; valorizzare l'habitat delle Murge dove il banco geo­ logico degli organismi marini fossili rivive come riparo, grotta e casa; proteggere le città di Petra e di San' a disegnate dallo scorrere delle acque; apprendere dai popoli africani, depositari dei valori della solidarietà interpersonale e dei legami familiari. Oggi questi progetti appaiono utopie e i modelli a cui fanno riferi­ mento sono in pericolo e relegati a una condizione marginale rispetto alle dire­ zioni dello sviluppo, tuttavia rappresentano ancora la stragrande maggioranza dei modi di vivere sulla terra. Se, tramite la macchina dispotica di esportazione dei consumi e dei modelli di comportamento, il processo di industrializzazione fosse applicato ad ogni paese così come si è verificato nell' Occidente, le trasfor­ mazioni sarebbero insostenibili per tutti. Il geroglifico egizio del bello, del buono, della perfezione è ne/er, rappresen­ tato dalla schematizzazione dell'arteria principale innestata sull'organo del cuore. Il disegno, inserito tra i fiori di loto e di papiro, simbolizza l'unificazione dell'Alto e del Basso Egitto. Nel sistema geografico antropomorfo dei nomadi l'arteria è il Nilo e il cuore sono i grandi laghi della terra d'origine. Il lago Tana in Etiopia ha infatti proprio la forma di un cuore. Questo organo è rappresen­ tato dagli Egizi, che ne fanno la sede della mente, come un triangolo con il vertice orientato verso il basso. Nel Poimandres, il testo sacro della filosofia erme­ tica, proprio il cuore, il motore dei fluidi vitali che scandisce nel profondo dell'essere il tempo soggettivo, evidenzia i sussulti del sentire e modera gli

r 8 3 . L 'unione del Nilo superiore e inferiore simboleg­ giata da due divinità che legano i loro emblemi intorno al simbolo del fiume, rappresentato come un'arteria che porta al cuore. La raffigurazione è schematizzata nel geroglifico nefer, la bellezza. Trono di Senusret I, 1900 a. C. circa.

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eccessi della volontà, è descritto con la forma della piramide rovesciata. Come un segnale e un avvertimento è posto nella società del Nilo alle radici del pro­ cesso di costruzione del paese. Rappresenta il passato profondo e il battito inte­ riore, il meridione geografico e il sud che è dentro ognuno di noi. Racconta Vitruvio che i faraoni nel chiuso del labirinto iniziatico si prostravano davanti a un'urna piena d'acqua, il cuore di tutte le cose (Architettura, VIII 4) . I sacerdoti egizi, spiega Plutarco nel suo Iside e Osiride impastavano nel Nilo una statua di humus e incenso e l'adornavano di tutti gli attributi regali. Essa serviva a dimo­ strare che il neter, la divinità, non è altro che essenza di terra e acqua. È il prin­ cipio unico della natura impersonato dal possente Pan degli Inni or/ici, un dio il cui culto si celebra in silenzio, nel segreto dei cuori e nell'inquieto sgomento, il panico, delle forze sopite del mondo. Ma l'Egitto, forte dei suoi successi, orgoglioso per la sconfitta della penuria alimentare, sicuro dei risultati nella selezione delle piante e degli animali, rivolto alla sfida più ambiziosa, la conquista dell'immortalità, dimentica l' antico mo­ nito. La società moderna è il limite estremo del processo di sedentarizzazione e di edificazione urbana. Presa da un'analoga ebbrezza di potenza, persegue con orgoglio e presunzione la sfida dei faraoni. La piramide, riproposta nelle forme dei moderni grattacieli, simbolo del potere di pochi eretto sulla base di molti, è tuttora la metafora dei caratteri della società dominante. La modernità, diretta dall'imperativo di un'espansione economica distruttiva di ogni limite e vincolo, non vede l'impronta negativa lasciata da ogni costruzione, la voragine di deso­ lazione creata dalla produzione industriale. La scienza, perseguendo una strada senza incertezze, ha scatenato forze incontrollabili che scardinano gli equilibri naturali e incrinano i fondamenti stessi della trasmissione biologica. L'ingegne­ ria genetica e l'energia atomica permettono manipolazioni sulle specie e distru­ zioni della materia, di fronte alle quali le aspirazioni più ardite dell'antica alchi­ mia risultano tentativi timidi e innocui. Proprio le nuove tecnologie possono divenire, invece, la premessa per il supe­ ramento dei modelli distruttivi e autoritari. La connessione telematica e la tra­ smissione elettronica creano possibilità che rendono desueti i giganti territoriali delle società idrauliche e dell'epoca industriale. Così la civiltà fondata sulla con­ centrazione nelle metropoli è ormai alle soglie del suo superamento. Ma i teorici dell'era cibernetica e informatica, con il rifiuto della storia e l'esaltazione del virtuale e della velocità dei bit (Negroponte 1 995) contrapposta ai libri, alla riflessione sul terreno e alle tradizioni, non sembrano perseguire modelli alter­ nativi. La prefigurazione di una vita elettronica completamente svincolata dalla natura è una prospettiva inquietante, premessa di nuove possibilità di manipo­ lazione delle coscienze e di dominio dei popoli.

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Solo rapporti nuovi tra le nazioni e all'interno dei paesi stessi, il superamento di condizioni di sopraffazione culturale e l'eliminazione delle gerarchie tra gli stati imposte dagli imperativi economici centralizzati e dispotici possono garan­ tire la permanenza del vivente sul pianeta. Il ribaltamento radicale dei modi di vivere e di produrre, il programma antico dell'unione del Nord e del Sud, basato sull'armonia e l'autonomia delle culture, si fondano su una nuova etica: il recu­ pero degli antichi valori, la simbiosi dei popoli, il rispetto delle comunità e degli ecosistemi. Non è possibile sfidare il labirinto della conoscenza, decifrare la biblioteca di Babele, navigare dentro Internet privi del filo di Arianna dei miti e degli eroi. Nessun popolo, nessuna comunità può affrontare l'avvenire senza una identità collettiva, senza che la coscienza di quello che è stata nel tempo guidi la sua azione per il futuro. Sono la funzione della tradizione epica, il signi­ ficato dei libri sulla natura delle cose, affidati all'arte delle caverne, scolpiti nel cuore della pietra, celebrati con aromi, a marcare in modo indelebile i centri della memoria. Bisogna per questo scegliere tra la piramide e il suo rovescio, tra gli stati e le culture, tra la metropoli e la comunità autopoietica. Il segreto del vivente è modificare le singole parti senza perdere l'identità. Praticare un'auto­ manutenzione capace di conservare in ogni trasformazione ciò che è utile. Recu­ perare continuamente, con l'associazione e la simbiosi, l' enorme biblioteca delle esperienze della natura. È il modello dell'oasi generalizzabile su scala planeta­ ria: evolvere è co-evolvere, conoscere è ri-conoscere, esistere è co-esistere. Le carovane che si trovano a mezzogiorno nelle lande più piatte e assolate del Sahara usano fermarsi un momento nel silenzio più assoluto. Il viaggiatore assa­ pora in quell'istante la sensazione di sospensione dell'essere di fronte al vuoto, prova il timore panico dell'ignoto e ascolta la voce del deserto. Quello che giunge ai sensi è il battito del proprio cuore, il fluire degli umori nel corpo, il ronzare delle correnti cerebrali, o il respiro e l'amicizia dei compagni vicini, il contatto e la presenza della carovana, il pulsare e vivere del pianeta intero?

Lode a te, gigante disteso, altissimo signore della sabbia, padrone della terra, mummia dal lungo membro virile. Quando ti muovi la terra trema, il Nilo sgorga dal sudore delle tue mani, tu soffi il fiato della tua gola nelle narici della gente. È divino quanto ci fa vivere. Tutto quel che esiste dipende dal tuo respiro: alberi, piante, giunchi, erba, grano, orzo e ogni frutto. (Inno egizio

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Osiride)

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Indice analitico

Acqua(e) : adduzione di, 58-59, 6 3 , 68, 2 04-05, 209, 2 1 4 atmosferica, 9 1 ciclo dell ' , 2 4 6 deviazione di, r 6o, z o r , 204, 2 1 4 , 2 1 9 fossile, 7 1 gestione delle, 5 6 , 94, r z r , r 63 , z r 8, 2 2 8 , 249, 2 8 3 , 285, 2 88-89 meteorica, 290 piovana, zo, 58, 6o, 1 2 5 , r z 8 , 1 5 4 , r 6 r , z o r , z z o; vedi anche Pioggia; Precipitazioni ritenuta di, r 84 , zo6, zo8, 2 1 3 scorrimento e distribuzione per gravità, 1 9 , 2 9 , 6 1 , 63-64, 68, 8 3 , I I I , 1 2 1 , 1 2 6, 1 7 2 , 2 0 1 , 2 04 , zo8, 2 2 0-2 1 , 2 4 2 superficiali, r z , 2 4 , z6, 2 9 , 3 2 , 59 Acquedotti, 59, 2 04-05 , 2 1 4 Aden, 8o, 8 3 , 85 , 9 I , 2 65 Adobe, 6 2 Adulis, 1 5 , 2 2 , 2 75 , 2 7 7-79 Afreg, dune, 75-76 Agiar, 1 58 Agropastorale, universo, 1 3 4 , 1 3 6, 1 5 4 , 1 7 2 , 1 7 4, r 8 z , 209- 1 0 , 2 2 0 , 2 2 8 , 2 4 1 -4 2 , 245 - 4 7 , 2 49 , 2 76, 2 8 7 , 290, 2 9 2 Aie, 2 4 2 Alimentazione idrica, vedi Approvvigionamento idrico Alberobello, 2 2 6 Allineamenti di pietre, 9 6 , 1 5 3 , 2 2 9-30 Alte terre, 29, 52, 56, 58, 6 r -6 z , 77-78, 8o, 8 2 , 9 1 , 1 0 9- 1 3 , 1 2 9, 1 3 2 , 153-5 5 , r 66, 2 1 9 , 2 2 1 , 2 4 7 , 2 5 2 -5 3 , 265, 2 68-69, 2 7 2 , 2 75 , 2 77 , 2 79 , z 8 r , 285 , 2 8 7 , 290

Anelli concentrici, 6o, 229 Ansab, vedi Betili Apporto idrico, 2 9 , 5 1 , 58-6o, 63 , r r o , 1 5 7 , 2 0 3 , 2 2 9-3 0 , 2 5 2 , 2 84-85 Approvvigionamento idrico, 29, 3 2 , 56-5 9 , 6 3 , 73 , 8 2 , 85, 9 1 , ! I O- I I , 1 1 3 , 1 2 1 , 1 5 5 , ! 6 1 -6 2 , r 8 3 , 2 03-04, 2 2 9-30, 2 49 , 286 Argini, 8 2 , 87, 94, r r o-r r , r z r , 1 25 , 155-5 7 , r 6o, r 63 , 2 1 3 , 2 28 , 2 84-85 Aromi, 83 , 85-86, 89, 1 2 9-3 3 , 1 3 9 , 1 5 7 , r 64 , z o 6 , 2 4 7 , 2 7 0 , 2 7 5 , 2 9 2 , 2 98 commercio e produzione degli, 87, 89, 9 2 , 1 40, 154, 2 7 7 giardini di, 87 mitologia degli, r 2 9 vedi anche Piante aromatiche A secco, strutture, 95-96, q6, r 84 , 204, zo8-o9, 2 2 3 , 2 3 0 , 289 Aspiratori idrici, 24, 56, 68, 2 3 0 , 2 44 ; vedi anche Condensazione Bacini, 2 3 , 2 7-28, 49, 5 6 , 5 8 , 63-64, 7 2 -73 , 85, 91, 9 3 , 96, I I 2 , ! 2 2 , 137, 156, 1 7 2 , Z O I , 2 0304, 2 1 0 , 2 76 Badiya, 1 3 5 ; vedi anche Nomadi/nomadismo Barcane, 3 1 Beida, r 67 , 1 70 , 1 7 2 , 1 79 , zo8-o9, z r r - 1 3 Bernal, Martin, 2 2 6 , 2 2 8 , 2 5 4 , 2 7 3 Betili, r r o , r 8o-8 r , r 83 ; vedi anche Menhir Bilancio idrico, 2 5 2 Bir, 1 7 2 Birkeh, 1 7 2 Boina, 2 7 7

Bokhur, 1 3 2-33 Brina, 6o, 2 0 3 , 2 2 9-3 0 , 252; vedi anche Rugiada Bur, 3 1 Calce, 66, 1 1 5 , n 8 , 1 5 8 Canaan, I 73 , 1 75-76, n8 C anali/canalizzazioni, 23, 2 9 , 5 6-58, 6o-6 1 , 6369, 85 , 8 7 , 9 1 , 93-97, I I I , 1 2 1 -2 2 , 1 55-56, I 60-6 I , 1 63 , 1 74 , 1 80 , 1 8 2 , 1 84 , 2 0 1 , 203-04, 2 08-09, 2 1 3 - 1 4 , 2 2 0 , 228, 2 4 1 -42 , 2 44 , 2 76, 2 78-79, 282, 2 84-85 , 290-92 Capanne, 5 5 , 79, 9 2 , 1 3 7, 1 70 , 2 20 , 2 2 4 , 2 7 7 Captazione, 56, 58, 6o, 9 6 , I I O , 1 5 3 , n 8 , 2 8 2 Capillarità, 1 9 , 64, 2 8 9 Carovaniero, universo: città carovana, 1 3 8 , 1 40, 1 5 3 -54 clan/città/stati, 72, 1 76, n8, 2 0 5 , 2 49 , 2 8 7 commercio/traffico, 5 2-53 , 1 1 2 , 1 3 4, 1 65-66, 2 0 4 nomadismo, 1 74 , 1 79 vie, 1 4- 1 5 , 2 7 , 3 2 , 8o, 8 3 , 8 7 , 1 1 2 - I 3 , 1 3 4 , 1 40 , 1 69-70, n6, 1 78-79, 1 8 2 , 2 04-05 , 2 8 1 ; vedi anche Commerciali, strade; Piste Carsici, sistemi, 2 1 8 , 2 2 1 , 2 2 4 , 2 3 0 , 2 90 Case a corte, 1 9, 2 2 4 Casali, 2 2 6 Casedde, 2 2 6 Catavotre, 2 2 8 Cavità, 3 1 , 5 1 -5 2 , 6o-6 1 , 63 , I I I , 1 8 2 , 2 0 3 , 2 1 71 8 , 2 2 0-2 1 , 2 23 - 2 4 , 2 2 8-3 0 , 2 44-45 , 2 5 2 , 2 76 Chippuri, 2 2 6 Chot, 2 8 Chultun, 290 Circolazione idrica, vedi Flussi idrici Cisterne, 8o, 8 2 , 85, 9 1 , 96-9 7 , I I I , 1 2 1 , 1 2 5 , 1 55-57, 1 6 1 , 1 68, 1 7 2 - 7 3 , 1 78 , 1 80 , 1 8 2 -84, 2 0 1 , 2 03 -05, 2 1 4 , 2 2 0 , 2 2 2 , 2 2 9-3 0 , 2 4 1 -4 2 , 2 44-48, 2 5 0 , 2 8 2 , 2 89-90 Città carovana, 1 3 8 , 1 40 , 1 5 3-54 Città oasi , 32, 53, 7 3 , 1 3 9 , 290 Collettore idrico, 6o, 1 76 Coltivazione « a giardino », 2 88 Commerciali, strade, 1 4 , n6; vedi anche Carovaniero, universo; Piste Commercio muto, 1 5 3 , 2 7 7 Comunità autopoietiche, 1 0 , 2 8 3 , 287-88, 290, 298 Comunità idrogenetica, 2 88 , 290, 295 Condensazione, 59-60, 68, 9 1 , 96, 1 3 0 , 2 0 1 , 203 , 2 2 9-30 dispositivi e sistemi di, I 9 , 6o, 96, 1 1 1, 1 76, 2 3 0 , 252, 2 8 1 , 294

C ondutture idriche, 2 0 , 58-59, 61, 1 8 3 , 2 1 4, 2 24 , 2 8 3 -84 Conservazione idrica, 29, 59-60, 68, 9 1 , I I O-I 1 , 1 1 6, 1 2 6, 1 56, 1 8 2 , 204, 2 2 8-30 , 2 77, 285, 290 Corte, strutture a, 1 9, 79, 95-96, I I I , 1 1 9 , 1 7 1 , 1 8 4 , 2 2 2-24, 248, 2 79 Criptoportico, 2 4 1 Cumuli, 6 o , 6 6 , 9 6 , 1 5 3 , n 6 , 2 3 0 , 2 8 2 Dahlac, 2 2 , 2 79 , 2 8 1 -8 2 Decantazione, 63 , 9 1 , 2 04, 2 2 0 , 2 2 9 Deserto, ecologia del, 2 7, 59 Deviatore idrico, 94, 1 r o , 1 22; vedi anche Acqua(e) Dighe, 7 2 -73, 93 -95 , 1 0 9 , 2 78 , 287 Distillazione, 41, 5 1 -5 2 Distribuzione idrica, vedi Ripartizione idrica Drenaggio, 1 3 , 2 9 , 5 6-6o, 6 2 , 7 2 , 1 1 0 , 1 2 1 - 2 2 , 1 25-26, 1 5 4 , 1 66, 1 7 2 , 1 74 , 2 0 1 , 2 0 3 , 208-09, 2 1 3 , 2 1 9-20, 2 2 8 , 2 49 , 290; vedi anche Gallerie drenanti Dromos, 2 2 4 Dune, 1 0 , 1 3 - 1 4 , 2 3 -3 2 , 4 9 , 6 6 , 75-76, 8o, 89, 2 8 1 ; vedi anche Afreg; Barcane; Erg Ecosistemi, 1 0 , 1 9 , 2 7 , 5 5 , 74-76, 8 1 , 86, 1 74, 2 1 0 , 2 1 4 , 2 49, 2 5 2 , 2 7 1 , 2 8o , 2 8 7-88, 290, 295, 298 autosostenibili, vedi Comunità autopoietiche Edom/Edomiti, 1 69-70, 1 74-76, 1 78 Effetto oasi, 2 3 -24, 68 Erg, 28-3 2 , 49, 5 3 , 58, 76 Escrementi, vedi Rifiuti organici Essenze aromatiche, vedi Aromi Evaporazione, 24, 28, 56, 63 , 68, 72-73, 78, 1 3 1 , 1 56 Fattorie nabatee, 2 04 Flussi idrici, 2 4 , 2 7 , 5 6 , 68, 1 2 2 , 2 1 4 , 2 2 9-30 , 2 8 2 Foggara, 56, 58-66, 68, 7 1 - 7 3 , 75-76, 1 2 2 superficiali, 59 Fogge, 2 24 , 247 Foggiali, 2 2 4 Fossati, 2 1 9-20, 2 2 8-29, 2 4 2 , 2 9 2 Fosse, 1 1 0 , 1 73 , 1 80 , 2 0 1 , 2 2 0 , 2 4 1 , 2 7 8, 2 8 2 , 285, 289, 295 Gabinetto, d i Shibam, 1 6o, 1 6 2 Gail, 1 2 2 Gallerie drenanti, 1 3 , 5 6-6o, 6 2 , 68, 7 2 , 74, 1 1 1 ,

I 74 , 203-04, 2 2 2- 2 3 , 2 4 1 , 244, 29o; vedi anche Foggara Giardini, I 3 - I 4 , 20, 2 5 , 5 1 -5 2 , 56, 63 , 68-7 1 , n , 8 2 -83 , 85, 87, 93-94, 96, 1 09, I I I , I I 5 , 1 2 2 , 1 25-27, 1 60-63, 1 83-84, 2 04-09, 2 1 2 , 2 1 4 , 2 4 2 , 247, 249, 2 5 2 , 2 70 , 2 78 , 285, 2 87-88, 2 90 paradiso, 70-7 1 , 82-83 , 1 5 4 , zo6, 2 49 Giare, 1 1 7, 1 78 , 2 76, 2 8 2 Gocciolatoi, 2 0 1 , 2 0 3 , zo8 Gourara, 3 2 , 49, 5 1 , 55-56, 5 8-59 Gravine, 2 1 8-2 2 , 2 2 4, 2 4 2 , 2 46, 2 49 , 290 Gravità, scorrimento e distribuzione idrica per, 1 9 , 29, 6 1 , 63 -64, 68, 83 , I I I , 1 2 1 , 1 2 6, 1 7 2 , 2 0 1 , 2 04 , 2 08 , 2 2 0-2 1 , 2 4 2 Gronde, 2 0 1 , zo8, 2 1 3 Grotte, 5 1 , 6o, 6 2-63 , 6 9 , 1 8 2-83, z o6, 2 1 5 , 2 1 718, 2 2 1 -2 4 , 2 2 8-30, 2 4 2 , 245-47, 250, 2 5 2 , 2 67-68, 2 7 7, 2 7 9 , 2 85 , 2 89-90, 2 9 6 Habba, 64-65 Habsus, Hayyim, 1 6, 1 1 3 Hadramaut, zo, 78, 8o, 89, 9 3 , 1 40 , 1 54-56, 1 5 9 , 1 62 -63 , 2 7 8 Hallafa, 6 4 Harrah, 1 1 0 Hauanet, 1 8 2 Hoyas, 5 6 Humus, 1 2- 1 3 , 23-26, 5 6 , 6 8 , 75 , 92, 94, 1 2 2 , 1 5657, 1 60-6 1 , 207, 2 1 4, 2 1 9-20, 2 2 3 , 285, 296 Idrauliche, tecniche: dispositivi e sistemi, 1 3 , 2 6 , 59-60, 65, 7 1 , 9 1 , 94, I I O , 1 2 5 , 2 0 1 , 2 0 3 , 2 2 8-29, 255, 2 79 opere, 2 7 , 3 2 , 55-56, 7 2 , 8 2 , 9 1 , 9 3 , 1 09 - I o, 1 1 2 , 1 3 0 , 1 3 4, 1 3 7-38, 1 7 2 , 1 74 , 1 8 2-83 , 207o8, 2 2 8, 248, 2 76, 2 8 1 , 285-87, 289, 2 9 2 tecnologia, 94, 1 09 , 1 3 5 , 1 74 , 2 04 , 2 2 8 , 2 75 , 2 85-86 Idrogenealogia, 65 Idrogenesi, 290 Ighzer, oasi di, 74-76 Iglamah, 1 10 Imperi fluviali, 1 7 3 Incenso, 2 0 , 8o, 83 , 85-8 7 , 89, 109, 1 2 9-3 3 , 1 40 , 1 5 3 , 1 70 , 1 75 , q8-79, 2 8 7 , 297 Ipogei, ambienti e strutture, vedi Sotterranee, strutture Irrigazione, 1 3 , 2 7 , 2 9 , 3 1 , 5 1 , 63-64, 67-68, 7 2 , 7 5 , 8 3 , 1 09- 1 1 , 1 1 9 , 1 2 2 , 1 2 6, 1 5 5 , 1 76 , 204, 2 0 7 , 2 2 8 , z68, 2 80-8 1 , 2 85 , 2 89-9 1

Jennat, 7 1 Jol, 153-54 Kariz, 56 Kesria, 64-65 Khaur, 204 Khottara, 2 9 , 5 6 Kiva, 2 2 3 Ksar/ksur, 6 2 , 74 Labirinto, 2 2 0, 2 26 , 2 2 8, 2 3 1 , 242, 2 44-45 , 250, z68, 289, 294, 297 Lame, 2 2 1 - 2 2 , 290 Laura, 2 46-47 Lubam, 1 3 2 Lultun, 294 Luoghi elevati, 5 1 -5 2 , 1 2 9 , 1 66, 1 74 , 2 0 1 , 207 Madjirat, 56-5 7 Maestri dell'acqua, 64, 76 Mafraj, I I 6- I 8, 1 2 6 , 1 79 Ma'had, 1 1 0 Mahfid, 95 -96, 1 1 1 Majen, 64 Manhal, 96 Marbid, 96, 1 I I , I 2 5 Marib, 8o, 86-87, 9 I -95, 1 09 , I I 2 - I 3 , 1 2 8 , I 5 3 , I55, 2 7 8 , 2 8 7 Masraf, I I O Massua, 2 I , 2 75 , 2 79-80, 2 8 2 M atar, I I I Matera, 20, 2 1 8, 2 23-24, 2 29, 242, 244, 249-5 2 , 290 Mattoni, 62-63, 66, I I5, I q , I 2 7, I 5 7-5 8, I 6o-6 I Mausolei, 27, 73, 95, 1 40, I 58, 203, 2 29-30, 24I-42 , 2 45 , 2 9 2 Medracen, 2 2 6 Menhir, I I O , 2 2 6; vedi anche Betili Mirra, 2 0 , 8o, 83 , 85-86, I 29-3 3 , I 40 , I 5 3 , I 5 7 , 1 75 , q8-79, 2 9 2 Modello: antico/ariano, 254-55; vedi anche Bernal dell'oasi, 298 idraulico, z 86, 289 Mukarrib, 95, 1 08 Muri/muretti, 6 2 -63 , 66, 79, 96, 1 I o , I 2 5 , I 58, I 76, 1 84 , 204, 2 08-09, 2 2 3 , 2 3 0 Murge, 2 I 8- 2 2 , 2 2 6, z z 8-3o, 2 4 1 -4 2 , 2 4 8 , 25 I -5 2 , 296 Nabatei, 87, I 69 , I 72 , q8-8 I , 183, 2 0 I , 2 04-05 , 207, z i o, 2 1 4, 247; vedi anche Fattorie nabatee

� ( )()

Neqaba, 96 Nib, 1 3 2 Nomadi/nomadismo, I I , 5 2 -53 , 5 5 , 6 2 , 73 -74, 80, 90, 92, ! ! 2 - 1 3 , 1 3 4-3 7 , 1 3 9 , 1 65 , r 68 , 1 73 - 74, 1 76, 1 78-79, r 8 r -8 2 , 2 0 1 , 2 09, 2 I 7r 8 , 2 2 8 , 2 4 2 , 2 45 , 2 48-4 9 , 266, 2 7 2 , 2 74 , 2 8o8 r , 2 85-87, 2 89-90 , 2 9 2 , 295- 9 6 Nur, 1 58 Oasi, I I - I 4, r 8 , 2 0 , 2 3 - 2 8 , 3 1 -3 2 , 5 1 -56, 58, 6 r 7 6 , 8 3 , 9 3 , ! 2 6 , 1 3 4-35 , 1 3 7, I 74 , ! 78, I 83 , 2 4 7 , 2 70-7 1 , 2 8 r , 290, 2 95 a foggara, 6 r città oasi, 3 2 , 5 3 , 7 3 , 1 3 9 , 290 definizione di, 2 4 di erg, 2 8-29, 3 1 -3 2 di foreste pluviali, 290 di mare, 2 0 , 32, 2 5 3 , 2 8 r , 2 9 0 d i montagna, 3 2 di pietra, 2 0 2 2 5 , 2 5 1 , 2 90 di sebkha, 2 8 , 3 2 di terra, 2 0 , 290 di wadi, 2 8-29 effetto oasi, 2 3-24, 68 gigante, 1 5 5 modello dell ' , 2 9 1 , 2 9 8 religiose, 290 restauro di, 7 4 struttura dell', 6 r -62 teoria dell ' , r o , 2 70 Oasiani, sistemi, 2 0-2 1 , 3 2 , 5 2 , 5 4-55, 66, 69, 7 1 73 , 7 5 , 9 2 , 1 3 4, 1 7 2 , 2 8 r , 290 Orcomeno, 2 2 8 Orti, 7 0 , r 2 r , r 2 6- 2 7 , 2 70 Ovili, 2 2 0, 2 2 8

3!0

Pagghiari, 2 2 6 Palma/palmeto, 1 3 , 2 4 , 26-2 7 , 2 9 , 3 1 -3 2 , 5 1 -5 2 , 5 4-55 , 6 r -63, 66, 68-69, 75-76, 79-80, 83 , 9 2 9 3 , 1 1 3 , 1 3 8, 1 5 3 , 1 5 6-5 7, r 6o-6 r , 2 8 r Paradiso, vedi Giardini Parieti, 2 3 0 Percolazione, 6 o , 2 89 Petra, 2 1 , 8o, 83 , 8 7 , 1 40 , r 65-2 1 4 , 2 2 4 , 2 4 2 , 2 4 7 , 2 79 , 2 8 7 , 296 Piante: aromatiche, 85 , 1 09 , 1 3 0 , 1 55 , r 6 r , r 63 , 2 1 4 , 2 ! 7, 269 giardino, 2 70

Piene, 2 0 , 2 7-29, 9 3 -9 4 , 1 2 2 , 1 5 4-56 , 1 5 9-60, r 62 -63, 2 0 1 , 203-04, 2 07-08, 2 1 3 , 2 9 2 trappola per, 2 0 4 Pietra, strutture in, 6 o , 6 2 , 6 4 , 75, 8 o , 8 9 , 93 , 96, ! I O, I I 5 - 1 7 , 1 2 7 , 1 40 , 1 55-56, 1 69-70, 1 7 2 , ! 83 , 2 0 ! , 203-04, 2 09 , 2 ! 8, 2 2 3 -24, 2 2 6, 2 2 930, 2 4 2 , 2 49-50 , 256, 2 78 Pioggia(e), 1 3 , 2 8 , 58, 6o, 7 7-78, 9 1 , 96, I I I , I I 6, I 2 I , 1 2 5-26, 1 2 8 , 1 3 0 , 1 3 4, 1 5 4 , 156, 1 5 8 , r 6 r , 1 65-66, 1 76, 2 0 1 , 2 0 3 , 208, 2 1 8 , 2 2 0-2 2 , 2 2 9 , 2 4 2 , 2 8 1 , 2 84-85 ; vedi anche Acqua, piovana; Precipitazioni Pirenne, Jacqueline, 95, 1 5 3 Piste, 5 3 , 8 o , 1 3 6 , 1 40 , 1 70 , 1 73 - 7 4 , 1 7 8 , r 8 2 , 2 0 1 , 2 0 3 , 2 6 6 , 2 76 ; vedi anche Carovaniero, universo; Commerciali, strade Popoli del Mare, 5 1 , 1 75 , 2 2 6 Pozze, 5 8 , 7 1 , 2 o r , 2 1 7 , 2 2 9 , 2 45 , 2 7 2 , 2 8 2 , 2 85 Pozzi, I r , 1 9 , 2 3 , 2 9 , 5 7-59 , 6 r , 68, 7 1 , 7 3 , 95, I I 6, 1 2 1 -2 2 , 1 2 6, 1 5 6 , 1 74, 2 0 3 , 2 2 2 - 2 3 , 2 7 9 , 293-94 Precipitazioni, 2 7, 3 2 , 58-59, 78, 1 28, 154, 156, r 66 occulte, 59, 2 5 2 vedi anche Acqua, piovana; Pioggia Produzione idrica, 24, 2 7 , 58, 6o-6 2 , 64-65, 68, 76, 9 1 , 96, 1 76, 1 83 , 230, 244, 2 5 2 , 2 7 7 , 288, 290 Pulo, 2 1 8 , 2 2 2 Qana, 5 6 , 8 r , 89-9 1 , I I r , 1 5 3 Qanat, 5 6-59, 1 2 2 , 2 03 Qasri, 64 Qattara, 203 Raccolta idrica, 2 0 , 2 4 , 5 8-6o, 9 1 -9 2 , 96, r r 2 , r r 9-2 r , 1 25 , 1 2 8 , 1 5 4 , 1 5 6, 1 5 8 , r 6o-6 r , r 66, r 83 , 2 0 1 , 203-04, 2 06, 2 1 3 , 2 r 8-2o, 2 2 2 , 2 2 9 , 2 4 2 , 2 5 2 , 2 76-77, 2 84 , 2 9 2 dispositivi e sistemi d i , 58, 6o, 62-63 , 9 1 , 9 6 , I I I , ! 2 2 , 1 25-26, 1 40 , 1 5 3 , 1 7 2 , 1 74 , 1 8 2 -83 , 2 0 1 , 206, 2 08 , 2 1 3 , 2 20 , 2 2 4 , 2 2 9-3 0 , 2 4 1 -4 2 , 2 4 9 , 2 5 2 , 2 76, 2 8 2 , 2 85 , 2 89 -90, 295 Rasaf, 96, r r r , 1 25 Recinti, 5 1 , 69, 83 , 1 1 4 , r r 9 , 1 3 7 , 1 7 2 , 1 78 , r 8 2 , 2 1 9-20, 2 2 8-29, 2 4 1 , 2 68 , 2 70 , 2 77 , 2 9 2 Regime idrico, 59, 2 8 4 Rete idrica, 2 7 , 49, 6 3 , 7 2 , 78, 1 2 0 , 1 2 2 , 1 3 8 , 1 54�5, 2 0 9 , 2 4 2 , 2 4 9 , 2 5 2 Rifiuti organici, 1 3 , 1 2 0 , 1 5 7-5 8 , r 6o-6 2 , 2 2 3 , 290, 2 93

Rifornimento idrico, vedi Approvvigionamento idrico Rift Valley, 1 66, 1 74 , 2 65 , 267, 2 7 2 - 7 3 , 2 7 7 , 290 Ripartitori di flussi, vedi Ripartizione idrica Ripartizione idrica, 1 9 , 2 7 , 2 9 , 63 -65 , 7 2 , 9 3 , 1 09 - I I , 1 2 1 - 2 2 , 1 2 6, 1 5 6-5 7 , 1 63 , 2 04 , 2 08 , 2 4 2 , 2 5 2 , 2 85 dispositivi e sistemi di, 64, 66, 94, 1 09 , 1 55 , 1 5 7 , 1 62 Risorse idriche, 2 0 , 3 2 , 53 , 56, 58-5 9 , 6 2 , 87, 9 2 , 95 , I I I , 1 2 1 , 1 56, 2 0 1 Rugiada, 9, 5 9 , 1 08 , I I O- I I , 1 65 , q6, 2 7 7 , 2 8 2 ; vedi anche Brina Rupestre, universo: arte, 5 1 , 5 5 , 1 40 , 2 1 5 , 2 67-68, 2 75-76 insediamenti e strutture, I I 1, 1 68 , qo, 1 74 , 1 79 , 1 8 3 , 2 0 4 , 2 0 6 , 2 1 4, 2 1 8 , 2 2 0 , 2 2 4 , 2 4 2 , 2 44 , 2 46-47 , 2 49-5 2 , 2 7 7-78 Sahrij, 1 80 San' a, 1 1 , 2 0 , 7 7- 1 2 8 , 2 78, 296 Saoura, 3 2 -3 3 , 49, 5 1 -5 2 , 5 5 Sbarramenti, 2 9 , 8 2 , I 1 0 , 1 5 6 , 1 6o, 1 7 2 , 1 84 , 2 04 , 208, 2 1 3 , 2 76, 2 8 5 Scorrimento idrico, vedi Flussi idrici Sebkha, 2 8 , 3 2 -3 3 , 56, 58, 6 1 -63 Sebkha di Timimoun, 56, 6 1 -6 2 , 74-76 Sedimentazione, 94, 2 2 0 , 244 Seguia, 63 Serbatoi, 85 , 1 7 2 , 1 80 , 2 0 1 , 2 04 , 2 4 2 , 2 8 2 Shabwa, 8o , 86, 9 1 , 9 3 , 1 53 -5 5 , 1 59, 2 7 7 Shaduf, 29 Shibam, 2 0 , 1 2 9-64 Shubbak, 1 1 5 Sleisel, 204 Società idraulica, 1 09 , 1 5 5 , 1 73 , 2 86 , 2 88-90, 2 9 2 , 297 Sorgenti, 58, 85 , 1 66, 1 69, 1 78, 203, 208, 2 1 0, 2 1 2 atmosferiche, 68, 89, 9 1 , 96, 1 1 0, 290 Sotterranee, strutture, 19, 29, 51, 56-6o, 62-63 , 68, 72, I l 1 - 1 2 , I 19, 1 2 2 , 1 68, 1 75 , 1 79-80, I 82-84, 2o r , 20 3-04, 206, 2 1 8, 2 2o-2 I , 2 2 3-24, 2 2 8-30, 23 3 . 24 1 -42 , 244 . 247, 2 5 0-5 2 , 272, 2 75, 2 7 779, 292 Specchie, 2 2 6, 2 3 0 Srefe, 1 3 7

Sterco, 2 9 3 ; vedi anche Rifiuti organici Stillicidio, 2 2 9-30 Strade torrenti, I 2 2 , 1 2 6 Suolo, 1 2 , 2 3 - 2 4 , 2 6 , 2 8 , 56, 59, 68, 89, 1 2 2 , 1 3 4 , 1 5 6-5 7 , 1 66 , 2 0 I , 2 04 , 2 0 7 -08, 2 1 3 - 1 4 , 2 2 3 , 2 2 9-3 0 , 2 4 2 , 2 8 1 -85 Terra cruda, strutture in, 1 3 , 1 8-20, 26, 29, 6 2 63 , 66, 73-76, 1 1 0 , 1 1 5 , 1 1 7 - 1 8 , 1 2 7 , 1 3 7 , 1 5 6 - 6 1 , 2 2 6 , 290 Teleylat al'anab, 1 76 Terrazzamenti, 2 4 , 2 9 , 8 2 , I I I , 1 2 0 , 1 2 2 , 1 2 5 , 1 5 5-56, 1 63 , I 84 , 2 04 , 2 08-09, 2 1 4 , 2 2 6, 2 4 2 , 2 5 2 , 2 75 . 2 8 9 Tholos, 2 2 4, 2 2 6, 2 2 9 Touat, 3 2 , 4 9 , 5 1 -5 3 , 5 5 , 58-59 Trappola per le piene, 204 Triclini, 1 1 8 , 1 79-80, 1 83 -84, 2 04-06 Trincee, 2 1 9 , 2 2 9 , 2 7 7 Trulli, 2 2 6, 2 3 0 Tu'rat, 9 6 Tuat, 3 2 , 6 9 , 74 Tub, 6 2 Tumuli, 6 o , 69 , 2 2 6, 2 2 9-30, 293 Tunnel, 61, 64, 91, I I I , 1 2 2 , 1 74 , 1 83 , 2 2 8 Umidità, I 2- I 3 , 2 4 , 2 7-29, 3 2 , 5 6 , 59-6o, 6 3 , 68, 78, 9 1 , 96, l IO, I I 7, 1 2 2 , I 3 I -3 2 , 1 3 4 , 1 5 3 , 1 5 8, 1 7 8, 2 0 1 , 2 0 3 , 2 1 9 , 2 2 9-3 0 , 2 4 1 , 244, 252, 2 7 0 , 2 7 7 , 2 80 , 282, 2 88 , 290 atmosferica, 59, 1 I o , 2 44 , 282, 290 Vapore acqueo, I 3 , 24, 26, 59, 68, 78, 9 I , I 30, 277 Vasche, 63 , 85 , 91, 109, 1 1 9 , 1 2 2 , 1 2 5-26, 1 84 , 2 0 1 , 203-04, 2 07-08, 2 1 9-20, 2 4 2 , 2 44 Via dei Re, 1 69-70, q6, 1 78 Via dell'avorio, 2 7 5 Via dell'incenso, 86-87, 1 09 , 1 5 3 , qo, 2 8 7 Via della seta, 87, 1 69-70 Vicinato a pozzo, 2 2 3 Vie d'acqua, 1 4 Villaggi trincerati, 2 1 8 Wadi, definizione di, 2 7-29 Zabur, 1 1 0