La pecora di Giotto (Saggi) (Italian Edition)
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Zitiervorschau

Luciano Bellosi

La pecora di Giotto

Giulio Einaudi editore

© 1985 Giulio Einaudi Editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

Indice

p. XXIII

Avvertenza

La pecora di Giotto 3 9 14 17 25

La barba di san Francesco Moda e cronologia nelle Storie di san Francesco ad Assisi Le Storie di san Francesco e gli affreschi della sala dei Notai a Perugia Le Storie di san Francesco e i mosaici del Rusuti Le Storie di san Francesco e il papa Niccolò IV

«Opus magistri locti» 41 48 49 52 54 56 57 58 61 66 67 80 85

103 105 109 114 116 123 128

I separatisti Gli angeli-gnomi: Assisi prima di Padova Assisi prima di Padova: schemi compositivi Assisi prima di Padova: la riscoperta del profilo Illusionismo architettonico ad Assisi e a Padova Diversità di condizioni ambientali fra Assisi e Padova Assisi: nascita della concezione figurativa del secolo di Giotto San Francesco, personaggio da «comedia» Modernità rivoluzionaria delle Storie di san Francesco Giotto ad Assisi e la plausibilità storica Dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco La « iprova inoppugnabile»: il san Francesco del Louvre Da Assisi a Padova

«Romanizing» o assisiate? Una tendenza romana nella pittura fiorentina? La scuola romana prima del rinnovamento: il Torriti La scuola romana rinnovata e la cronologia del Cavallini La scuola romana rinnovata: Filippo Rusuti Tre indizi: il trono, il tratteggio, la «diadema» Centralità di Assisi

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Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 149 155 160 162 164 169 173 175 178 179

Continuità della decorazione della Basilica Superiore Cimabue ad Assisi e la pittura umbra del Duecento La «veduta» di Roma di Cimabue Un Cimabue ormai «trecentesco» Un contesto cimabuesco degli anni ottanta II vero Cimabue La vetrata del Duomo di Siena del 1287-88 Alla ricerca di un Giotto giovanissimo II ruolo del giovane Duccio Giotto e una risposta «romana » allo «struktive Illusionismus» delle maestranze oltremontane di Assisi

205 215

Indice dei luoghi Indice dei nomi

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Elenco delle illustrazioni

1. Pittore romano, Frate Francesco (particolare), c. 1227. Subiaco, Sacro Speco. (Foto Bellosi, Siena). 2. Giotto, Stimmate di san Francesco (particolare). Firenze, Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 3. Jacopo Torriti, Mosaico absidale (particolare). Roma, San Giovanni in Laterano. (Foto Alinari, Firenze). 4. Jacopo Torriti, Mosaico absidale (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 5. Simone Martini, San Francesco. Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 6. Simone Martini, Santa Margherita (?). Ibidem. 7. Simone Martini, Madonna col Bambino tra i santi Stefano d’Ungheria e Ladislao d’Ungheria. Ibidem. 8. Simone Martini, Sant’Enrico d’Ungheria. Ibidem. 9. Francesco di Michele, Sant’Enrico d’Ungheria (particolare). Firenze, San Martino a Mensola. (Foto Brogi-Alinari, Firenze). 10. Giotto, Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Museo Civico, Padova). 11. Nicola Pisano e bottega, Arca di San Domenico (particolare). Bologna, San Domenico. (Foto Grassi, Siena). 12. Giotto e bottega, San Francesco dona il mantello (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 13. Maestro della Santa Chiara, I parenti tentano di distogliere santa Chiara dal convento. Assisi, Santa Chiara. (Foto Alinari, Firenze). 14. Giotto e bottega, Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma).

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15. Giotto, Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Museo Civico, Padova). 16. Maestro della Santa Chiara, Incontro di san Francesco e di santa Chiara (particolare). Assisi, Santa Chiara. (Foto Alinari, Firenze). 17. Giotto e bottega, Morte del signore di Celano (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 18. Giotto e bottega (Maestro della Cattura?), Busto di santa. Ibidem. 19. Marino da Perugia (?), Busto di giovane. Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai. (Foto Fiorucci, Perugia). 20. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 21. Marino da Perugia (?), Creazione di Eva (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai. (Foto Artini, Firenze). 22. Maestro del Farneto (?), Gedeone e l’angelo (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai. (Foto Fiorucci, Perugia). 25. Giotto e bottega, Visione dei Troni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 24. Cimabue, Fregio architettonico (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 25. Giotto e bottega, Fregio architettonico (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 26. Maestro del Farneto (?), Fregio architettonico (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai. (Foto Fiorucci, Perugia). 27. Giotto e bottega, Conferma della Regola. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 28. Filippo Rusuti, II patrizio Giovanni davanti a papa Liberio. Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 29. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 30. Filippo Rusuti, Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 31. Giotto e bottega. Presepe di Greccio (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 32. Filippo Rusuti, Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 33. Filippo Rusuti, Redentore e angeli (particolare). Ibidem. 34. Giotto e bottega, Sogno di Innocenzo III. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 35. Maestro del San Francesco, Sogno di Innocenzo III (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 36. Maestro delle tempere francescane (?), Sogno di Innocenzo III (particolare). Ottana, Duomo. 37. Cimabue, Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 38. Giotto e bottega, Resurrezione della donna di Benevento (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 39. Giotto, Compianto (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 40. Giotto e bottega, Decorazone ad affresco (particolare). Ibidem. 41. Giotto e bottega, Predica ad Onorio (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). © 1985 Giulio Einaudi Editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

42. Giotto, Tradimento di Giuda (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 43. Giotto e bottega, Presepe di Greccio. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Alinari, Firenze). 44. Giotto, Presentazione della Vergine al Tempio (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Museo Civico, Padova). 45. Giotto e bottega, Omaggio dell’uomo semplice. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 46. Giotto, Morte di san Francesco (particolare). Ibidem. 47. Giotto (bottega di). Morte di san Francesco (particolare). Ibidem. 48. Giotto, Inganno di Giacobbe. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 49. Giotto, Adorazione dei Magi (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Museo Civico, Padova). 50. Giotto e bottega, Cacciata dei diavoli da Arezzo. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Alinari, Firenze).

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51. Giotto e bottega, Decorazione intorno al triforio dell’arcone d’ingresso. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 52. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 53. Giotto e bottega, Visione di fra’ Agostino (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 54. Giotto, Inganno di Giacobbe (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 55. Giotto e bottega, Visione del carro di fuoco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 56. Giotto e bottega, Pentecoste (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 57. Giotto e bottega, Prova del fuoco davanti al Sultano (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Alinari, Firenze). 58. Giotto, Inganno di Giacobbe (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 59. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 60. Giotto (bottega di), Ascensione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 61. Giotto (bottega di), Volta dei Dottori (particolare). Ibidem. 62. Giotto (bottega di), Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 63. Giotto, Disputa coi Dottori (particolare). Ibidem. 64. Giotto (e bottega?), San Francesco dona il mantello (particolare). Ibidem. 65. Giotto (e bottega?), Compianto (particolare). Ibidem. 66. Giotto, Sogno di Innocenzo III (particolare). Ibidem. 67. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 68. Giotto e bottega. Conferma della Regola (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma).

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69. Giotto e bottega, Ascensione (particolare). Ibidem. 70. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 71. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 72. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 73. Giotto, Visione del carro di fuoco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 74. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate. Ibidem. 75. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate. Parigi, Louvre. (Foto Giraudon, Parigi). 76. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi). 77. Giotto e bottega, Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 78. Giotto e bottega, Morte del signore di Celano (particolare). Ibidem. 79. Giotto e bottega. Compianto delle Clarìsse (particolare). Ibidem. 80. Giotto e bottega, Resurrezione della donna di Benevento (particolare). Ibidem. 81. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi). 82. Giotto e bottega, Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 83. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi). 84. Giotto e bottega, Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore, (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 85. Giotto e bottega, Ingresso a Gerusalemme (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 86. Giotto e bottega, Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare). Assisi, San Francesco, Basìlica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma).

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87. Giotto e bottega, Inferno (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Alinari, Firenze). 88. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 89. Giotto e bottega, Battesimo di Cristo (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Museo Civico, Padova). 90. Giotto e bottega, Omaggio dell’uomo semplice (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 91. Giotto, Presentazione della Vergine al Tempio (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 92. Giotto e bottega, Predica ad Onorio (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 93. Giotto e bottega. Presentazione al Tempio (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 94. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi). 95. Giotto e bottega. Morte del signore di Celano (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 96. Giotto e bottega, Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 97. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 98. Giotto, Giaocchino e Vangelo (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 99. Giotto e bottega, Madonna col Bambino (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 100. Giotto e bottega, Incontro alla Porta Aurea (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 101. Giotto e bottega, Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 102. Giotto e bottega, Nozze di Cana (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 103. Giotto e bottega, Madonna col Bambino (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 104. Giotto, Croce dipinta (particolare). Firenze, Santa Maria Novella. (Foto Scala, Firenze).

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105. Giotto e bottega. Giustizia (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. (Foto Alinari, Firenze). 106. Giotto, San Pietro. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 107. Giotto, San Pietro (particolare). Firenze, Uffizi. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 108. Giotto, Resurrezione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 109. Giotto, Funerali di san Francesco. Firenze, Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 110. Giotto e bottega, Apparizione al capitolo di Arles (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 111. Giotto e bottega. Apparizione al capitolo di Arles (particolare). Firenze, Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 112. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Alinari, Firenze). 113. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Firenze, Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 114. Maestro di San Gaggio, Crocifissione. Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie. (Foto Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie, Berlino). 115. Maestro di San Gaggio, Crocifissione. Berlino Dahlem, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. (Foto Staatliche Museen, Gemäldegalerie, Berlino Dahlem). 116. Jacopo Torriti, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 117. Jacopo Torriti, Madonna «advocata» (particolare). Tivoli, Santa Maria Maggiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 118. Jacopo Torriti, Incoronazione della Vergine (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 119. Jacopo Torriti, Le Vergini sagge (particolare). Roma, Santa Maria in Trastevere. (Foto Alinari, Firenze). 120. Jacopo Torriti (?), Santa Lucia. Grenoble, Musée de Peinture et de Sculpture. (Foto Ifot, Grenoble). 121. Jacopo Torriti, Madonna col Bambino. Roma, Santa Maria del Popolo. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 122. Jacopo Torriti, Madonna col Bambino e angeli (particolare). Roma, Santa Maria in Aracoeli. (Foto Anderson-Alinari, Firenze).

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123. Jacopo Torriti, Annunciazione (particolare). Ibidem. 124. Jacopo Torriti, Madonna col Bambino e santi (particolare). Roma, San Saba. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 125. Jacopo Torriti, Mosaico absidale (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 126. Jacopo Torriti, Madonna col Bambino e santi (particolare). Roma, Santa Maria in Aracoeli. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 127. Filippo Rusuti, Madonna col Bambino e santi. Roma, San Crisogono. (Foto Alinari, Firenze). 128-29. Filippo Rusuti, Redentore e santi (particolari). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 130. Filippo Rusuti, Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 131. Filippo Rusuti, Mosè davanti al roveto ardente (particolare). Grottaferrata, Abbazia. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 132. Filippo Rusuti (?), San Pietro (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 133. Filippo Rusuti, Mosè e il serpente (particolare). Grottaferrata, Abbazia. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 134. Filippo Rusuti (?), Apostolo (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Alinari, Firenze). 135. Filippo Rusuti, San Nilo (particolare). Grottaferrata, Abbazia. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storia, Roma), 136. Filippo Rusuti, Redentore e santi (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 137. Filippo Rusuti, Angelo. Béziers, Saint-Nazaire. (Foto Bulloz, Parigi). 138. Filippo Rusuti (?), Angelo. Subiaco, Santa Scolastica. (Foto Alinari, Firenze). 139. Filippo Rusuti, Angelo. Béziers, Saint-Nazaire. (Foto Bulloz, Parigi). 140. Rogerio da Todi, Madonna col Bambino, 1295. Sangemini, San Niccolò. (Foto Fiorucci, Perugia). 141. Mosaicista romano, Madonna col Bambino e santi (particolare), c. 1296. Roma, Santa Maria sopra Minerva. (Foto Alinari, Firenze). 142. Mosaicista romano, Madonna col Bambino e santi, c. 1299. Roma, Santa Maria Maggiore. (Foto Alinari, Firenze).

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143. Jacopo Torriti, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 144. Jacopo Torriti, Creazione del mondo (particolare). Ibidem. 145. Cimabue, Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 146. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foro Kunsthistorisches Institut, Firenze). 147. Giotto e bottega, Omaggio dell’uomo semplice (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Brogi-Alinari, Firenze). 148. Pietro Cavallini, Giudizio Finale (particolare). Roma, Santa Cecilia in Trastevere. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 149. Giotto e bottega, Compianto (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 150. Pietro Cavallini (bottega di), Compianto. Napoli, Santa Maria Donnaregina. (Foto Alinari, Firenze). 151. Maestro della Cattura, Natività. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 152. Pietro Cavallini, Natività. Roma, Santa Maria in Trastevere. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 153. Maestro romano della fine del secolo XIII. Angelo. Subiaco, Sacro Speco. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 154. Giotto, Madonna col Bambino. Borgo San Lorenzo, Pieve. (Foto Opificio delle Pietre Dure, Firenze). 155. Giotto, Madonna col Bambino (particolare). Ibidem. 156. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 157. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 158. Pittore fiorentino degli inizi del secolo XIV, Visita dell’imperatrice a santa Caterina in carcere (particolare). San Jacopo a Castelpulci (Firenze). (Foto Dipartimento di Storia dell’Arte, Università di Pisa). 159. Memmo di Filippuccio, Decorazione della controfacciata. San Gimignano, Collegiata. (Foto Artini, Firenze). 160. Duccio, Madonna col Bambino. Già Bruxelles, Collezione Stoclet.

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161. Giotto e Maestro della Cattura, San Paolo. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 162. Marino da Perugia, Madonna col Bambino, angeli e santi (particolare). Perugia, Galleria Nazionale. (Foto Fiorucci, Perugia). 163. Pittore campano della fine del secolo XIII, Ascensione (particolare). Capua, Museo (già San Salvatore Piccolo). (Foto Museo Provinciale Campano, Capua). 164. Pittore napoletano (?) degli inizi del secolo XIV. San Domenico e storie della sua vita (particolare). Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte. (Foto Alinari, Firenze). 165. Primo maestro di Sant’Antonio di Polesine, Crocifissione. Ferrara, Sant’Antonio di Polesine. (Foto Villani, Bologna). 166. Pittore lombardo degli inizi del secolo XIV, Storia delle sante Faustina e Liberata. Como, Museo Civico. (Foto Alinari, Firenze). 167-68. Pittore veneziano degli inizi del secolo XIV, Crocifissione e santi (particolari). Treviso, Seminario. (Foto Alinari, Firenze). 169. Giovanni da Rimini, Presentazione al Tempio. Rimini, Sant’Agostino. (Foto Alinari, Firenze). 170. Cimabue e bottega, Decorazione del transetto destro. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 171. Giotto e bottega. Decorazione verso la controfacciaia. Ibidem. 172. Cimabue e bottega, Decorazione intorno alla cattedra papale. Ibidem. 173. Giotto (bottega di), Volta dei Dottori (particolare). Ibidem. 174. Jacopo Torriti e bottega, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 175. Giotto, Funerali di san Francesco (particolare). Ibidem. 176. Cimabue (bottega di), Profeta. Ibidem. 177. Giotto, Sant’Antonio abate. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 178. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Andata al Calvario (particolare). Ibidem.

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179. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, San Benedetto (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 180. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, San Pietro martire. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 181. Giotto e Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 182. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 183. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, Santa Vergine (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore, (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 184. Giotto (bottega di), Pentecoste (particolare). Ibidem. 185. Giotto (bottega di). Estasi di san Francesco (particolare). Ibidem. 186. Cimabue, Maestà (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 187. Cimabue, Maria e Cristo in trono. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 188. Miniatore di Deruta, Crocifissione. Deruta, Biblioteca Comunale. (Foto Biblioteca Comunale, Deruta). 189. Maestro della Croce di Nocera, Croce dipinta. Nocera Umbra, Pinacoteca. 190. Maestro delle Palazze, Derisione di Cristo. Spoleto, Sant’Agata. 191. Primo miniatore di Perugia, Cristo in gloria. Perugia, Biblioteca Augusta. (Foto Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Università di Siena). 192. Maestro della Croce di Gubbio (?), Crocifissione. Gubbio, Capitolo del Duomo. (Foto Gabinetto Fotografico Nazionale, Roma). 193. Giotto e bottega, Battesimo di Cristo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 194. Maestro della Croce di Gubbio (?), Crocifissione (particolare). Gubbio, Capitolo del Duomo. (Foto Bellosi, Siena). 195. Maestro del San Francesco, Deposizione. Perugia, Galleria Nazionale. (Foto Alinari, Firenze).

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196. Maestro del Farneto, Deposizione. Ibidem. 197. Cimabue, Volta degli Evangelisti (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 198. Maestro di Barberino (?), Madonna della Misericordia (particolare). Firenze, Oratorio del Bigallo. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 199. Cimabue, Transito della Vergine. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 200. Cimabue, Dormitio Virginis. Ibidem. 201. Cimabue, San Giovanni Evangelista (particolare). Pisa, Duomo. 202. Cimabue, Maestà (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 203. Cimabue, Maestà. Parigi, Louvre. 204. Duccio, Madonna Rucellai. Firenze, Uffizi. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 205. Cimabue, Madonna di Santa Trinità. Firenze, Uffizi, (Foto Brogi-Alinari, Firenze). 206. Cimabue, Croce dipinta (particolare). Firenze, Museo di Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 207. Vigoroso da Siena, Polittico di santa Giuliana (particolare). Perugia, Galleria Nazionale. (Foto Alinari, Firenze). 208. Cimabue, Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto De Giovanni, Assisi). 209. Cimabue, Croce dipinta (particolare). Firenze, Museo di Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 210. Corso di Buono, Miracolo di san Giovanni Evangelista (particolare). Montelupo Fiorentino, ex chiesa di San Giovanni Evangelista. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 211. Cimabue, Crocifissione. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 212. Cimabue, Cornice della Maestà (particolare). Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi). 213. Duccio, San Matteo, vetrata. Siena, Duomo. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Siena). 214. Cimabue, Volta degli Evangelisti (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma).

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215. Duccio, Incoronazione della Vergine, vetrata. Siena, Duomo. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Siena). 216. Duccio, Piccola Maestà. Berna, Kunstmuseum. (Foto Kunstmuseum, Berna). 217. Duccio, Madonna dei francescani (particolare). Siena, Pinacoteca. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Siena). 218. Duccio, Piccola Maestà (particolare). Berna, Kunstmuseum. (Foto Kunstmuseum, Berna). 219. Duccio, Madonna di Crevole. Siena, Museo dell’Opera del Duomo. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Siena). 220. Duccio, Incoronazione della Vergine (particolare). Siena, Duomo. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Siena). 221. Duccio, San Savino (particolare). Ibidem. 222. Duccio, San Gregorio (particolare). Boston, Museum of Fine Arts. (Foto Fototeca Fondazione Berenson, Settignano). 223. Cimabue e Giotto (?), Madonna col Bambino. Castelfiorentino, Propositura. (Foto Alinari, Firenze). 224. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 225. Cimabue e Giotto (?), Madonna col Bambino (particolare). Castelfiorentino, Propositura. (Foto Alinari, Firenze). 226. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 227. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Anderson-Alinari, Firenze). 228. Cimabue, Croce dipinta (particolare). Firenze, Museo di Santa Croce. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 229. Duccio, Madonna Rucellai (particolare). Firenze, Uffizi. (Foto Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, Firenze). 230. Pittore oltremontano, Trasfigurazione. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 231. Pittore oltremontano e Maestro di San Pietro (Jacopo Torriti?), Decorazione della parete di fondo del transetto destro. Ibidem. 232. Pittore oltremontano, Triforio. Ibidem. 233. Cimabue e bottega, Triforio. Ibidem.

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234. Giotto e bottega, Tre storie di san Francesco. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 235. Portale del transetto sud. Parigi, Notre-Dame. (Foto Alinari, Firenze). 236. Giotto e bottega, Visione del carro di fuoco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 237. Pittore oltremontano, Deesis (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze). 238. Arnolfo di Cambio, Madonna col Bambino (particolare). Orvieto, San Domenico. (Foto Grassi, Siena). 239. Giotto e bottega (Maestro della Cattura?), Busto di santa. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma). 240-41. Cimabue, Fascia decorativa (particolari). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. (Foto Kunsthistorisches Institut, Firenze).

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A questo libro pensavo da anni. Mancanza di tempo, pigrizia, congenita lentezza nel lavorare mi hanno impedito di realizzarlo prima. Il capitolo iniziale, relativo alla retrodatazione delle Storie di san Francesco della Basilica Superiore di Assisi al principio degli anni novanta del Duecento, era già stato elaborato nel 1975-76 e mi sono deciso ad anticiparne la pubblicazione qualche anno fa (La barba di san Francesco - Nuove proposte per il «problema di Assisi», in «Prospettiva», 1980, n. 22, pp. 11-34). Punto dipartenza senza il quale questo libro non avrebbe senso, lo ripropongo come capitolo iniziale con poche modifiche, con una suddivisione in paragrafi, con alcune variazioni nell’apparato illustrativo, con note in gran parte rielaborate, ma senza la parte finale, che sintetizzava i temi trattati qui nei capitoli successivi. Per l’autorizzazione a riutilizzare questo testo, ringrazio il Centro D di Firenze, nel ricordo ancora vivo e affettuoso di Ferruccio Marchi. Il titolo del libro allude, naturalmente, al popolare aneddoto illustrato anche su certe scatole di matite colorate che accompagnano tanti ricordi della nostra infanzia. La popolarità di questo aneddoto è dovuta al fatto che lo racconta il Vasari: un fatto che è anche la causa della sua mancata considerazione da parte della critica. Ma il Vasari non fa che parafrasare un succinto passo del secondo Commentario del Ghiberti: «Nacque uno fanciullo di mirabile ingegno il quale si ritraeva del naturale una pecora; in su passando Cimabue pictore per la strada a Bologna vide el fanciullo sedente in terra et disegnava in su una lastra una pecora [...] Cimabue menò seco Giotto e fu discepolo di Cimabue». Ora, un aneddoto raccontato dal Ghiberti non può essere liquidato come

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Avvertenza

uno dei tanti aneddoti raccontati dal Vasari, per il quale essi avevano la funzione di artifici retorici utili a dare compiutezza al racconto storico, secondo una concezione della storia che egli condivideva con i contemporanei. Lo scritto del Ghiberti appartiene a un genere letterario diverso e non ha le preoccupazioni del Vasari. Del secondo Commentario, le cui notizie che si possono controllare risultano sostanzialmente attendibili, va preso sul serio tutto e io credo che anche il raccontino della pecora di Giotto, al di là del suo significato letterale, alluda almeno a due aspetti reali. Uno è il rapporto da maestro ad allievo tra Cimabue e Giotto: rapporto che è venuto in luce con molta chiarezza lungo il cammino a ritroso condotto in questa ricerca, partendo dalla enucleazione di quei dati arcaici che costituiscono l’elemento diversificatore più profondo degli affreschi di Assisi da quelli di Padova, ma che giustificano anche questa diversità in ragione di un prima e di un dopo, nella prospettiva naturale dello sviluppo di una grande personalità artistica, al di là del confronto meramente sincronico operato dai «separatisti». Ma l’aneddoto raccontato dal Ghiberti vuole anche alludere alla portata innovatrice della pittura di Giotto di rivalutazione degli aspetti reali e mondani del visibile, con un totale ribaltamento del significato del cosiddetto «realismo» medievale. È l’aspetto per cui i contemporanei - tra i quali si incontrano personaggi del calibro di un Petrarca e di un Boccaccio - ammiravano incondizionatamente Giotto. Ed è l’aspetto che ha la sua rivelazione più clamorosa nelle Storie di san Francesco. Anche se non ne condivide alcune idee, questo libro ha alle spalle il Giudizio sul Duecento di Roberto Longhi, è nato sotto lo stimolo delle ricerche di Giovanni Previtali per la sua monografìa su Giotto e la sua bottega, e ha trovato molti punti di appoggio nel libro fondamentale di Hans Belting sulla decorazione della Basilica Superiore di Assisi (Die Oberkirche von San Francesco in Assisi, Berlin 1977). Ma ha voluto essere anche una rimeditazione sul celebre saggio di Richard Offner Giotto - non Giotto, imparato quasi a memoria.

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Avvertenza

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Questo libro deve moltissimo a Giovanna Ragionieri, che, nella stretta finale, ha preso in mano la situazione organizzando il seguito dei lavori con una straordinaria disinvoltura professionale e con suggerimenti che si sono rivelati preziosi. Per aver discusso con me su molti aspetti di questa ricerca e per aver espresso pareri che mi sono stati utili, ringrazio in modo speciale gli amici più vicini, primo fra tutti Giovanni Previtali e poi Alessandro Bagnoli, Ferdinando Bologna, Alessandro Conti, Irene Hueck, Giovanni Romano e Carlo Volpe, purtroppo scomparso prematuramente. Ringrazio, inoltre, Luigi Artini, Miklós Boskovits, Enrico Castelnuovo, Giulietta Chelazzi Dini, Mario Di Giampaolo, Pierpaolo Donati, Riccardo Francovich, Annarosa Garzelli, Alessandra Marchi, Paolo Nannoni, Antonio Paolucci, Francesco Papafava, Giuseppe Pucci, Luciano Rossi, Max Seidel, Fiorella Sricchia Santoro, Fiorella Superbi. Un ringraziamento particolare va alla direzione e al personale del Kunsthistorisches Institut di Firenze per la generosa ospitalità accordatami.

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La pecora di Giotto

a mia nipote, Simona

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La barba di san Francesco

Come è noto, san Francesco aveva la barba. Ce lo assicura Tommaso da Celano che lo aveva conosciuto di persona1, come ce lo assicura l’iconografìa duecentesca del santo, dall’immagine di Subiaco (fig. 1) a quelle di Margarito d’Arezzo, di Bonaventura Berlinghieri, del Maestro del san Francesco, di Cimabue, ecc. Anche nelle Storie della Basilica Superiore di Assisi il santo porta la barba; ma, scendendo nella Basilica Inferiore, ci imbattiamo in numerose immagini che lo mostrano ben rasato: nel finto trittico della cappella di San Nicola, negli affreschi giotteschi del transetto destro, nelle figurazioni di Pietro Lorenzetti, nell’affresco del Maestro di Figline in sagrestia e addirittura nelle Allegorie delle Vele, proprio sopra l’altare, nel punto più in vista dell’intera chiesa. E subito viene in mente la cappella Bardi in Santa Croce a Firenze (fig. 2), dove perfino sul letto di morte il santo è bellamente sbarbato, come in altre figurazioni giottesche, quali il polittico della cappella Baroncelli nella stessa chiesa, o il Giudizio Finale nella parete di fondo della cappella Scrovegni. Senza la barba è anche il san Francesco affrescato dal Cavallini in Santa Maria in Aracoeli a Roma, o quello del mosaico del Torriti in Santa Maria Maggiore (fig. 4). Più tardi, da Taddeo Gaddi in poi, il santo torna ad assumere la sua legittima barba, che, pur con numerose eccezioni soprattutto quattrocentesche, mantiene fino alle immagini dei nostri giorni. Che significato riveste, nella storia dell’iconografia di san Francesco, questa innovazione che interessa i primi decenni del Trecento? Chi ha pratica di iconografia sa quanto sia tenace la tradizione figurativa di un santo. San Pietro deve essere vecchio

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La pecora di Giotto

e canuto, ma con la barba corta; san Paolo, invece, deve essere più giovane, calvo e con la barba nera, ma lunga e appuntita. San Giacomo minore deve avere le fattezze simili a quelle di Gesù Cristo. Le numerose figurazioni quattro-cinquecentesche di san Sebastiano lo volevano giovane e imberbe e nemmeno il peso della Controriforma riuscirà ad imporre un’iconografia più rispondente alle immagini antiche del maturo e barbuto soldato romano, martirizzato sotto Diocleziano2. L’improvvisa innovazione iconografica del san Francesco senza barba appare, allora, come un’alterazione dell’immagine del santo, che ha tutta l’aria di essere intenzionale; tanto più che si trattava di un santo recente, che qualche vecchio poteva perfino ricordare di aver visto di persona. Ma quale intenzione si poteva nascondere dietro questa singolare novità? La moda del tempo esigeva che l’uomo fosse ben rasato e si potrebbe pensare semplicemente che si fosse voluto raffigurare san Francesco secondo la moda corrente. Ma perché, allora, non radere la barba anche ad altri santi? Perché, ad esempio, il Torriti raffigura senza barba proprio san Francesco, mentre la lascia a sant’Antonio da Padova nel mosaico di Santa Maria Maggiore? In realtà, portare la barba in quest’epoca in cui non si usava aveva un suo significato. Quando agli inizi degli anni quaranta del Trecento la barba ritorna di moda fra i giovani, non manca di suscitare il biasimo di burberi censori. Come per dare l’idea di cosa significasse la barba per una generazione di uomini che era vissuta radendosela accuratamente, l’anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo si diffonde sul racconto straordinario di un uomo saggio che poteva permettersi di sputare impunemente nella barba di un re. Il cronista romano ci informa che i giovani di allora (cioè del 1340 circa), oltre a vestire in modo del tutto nuovo e inusitato, «portavano varve granne e foite; como bene iannetti e Spagnoli voco seguitare. Donanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva, e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portato varva, fuora stato auto in sospietto da essere omo de pessima rascione»3. Dunque, chi voleva san Fran-

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La barba di san Francesco

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cesco senza barba, cioè aggiornato alla moda corrente, voleva anche dargli un significato contrario a quello di «omo de pessima rascione», darne un’immagine più coltivata e dignitosa, meno selvaggia e meccanica, meno da povero Cristo - o da povero diavolo, se si preferisce4. Questa immagine di un san Francesco senza barba è diffusa, come abbiamo visto, tra la Roma papale, la Firenze di Giotto e Assisi: la Roma della curia pontificia, potenza temporale ed economica - oltre che spirituale - minacciata nella sua credibilità dalla diffusione delle idee pauperistiche francescane; la Firenze dei ricchi borghesi razionalisti e spregiudicati, che fondavano sul danaro e sull’iniziativa privata una loro forma di protocapitalismo all’avanguardia in Europa; Assisi, ormai dominata dalla corrente dei conventuali alleati alla curia pontificia dal tempo del generalato di Giovanni da Murro (1296-1304) in poi. È risaputo che il movimento francescano stava allora assumendo proporzioni inusitate, soprattutto per il favore che esso godeva presso le classi meno abbienti; al punto che per la stessa Chiesa rischiava di diventare una minaccia. Infatti, la sua rivalutazione della povertà era in netto contrasto con la realtà della curia papale, centro di affluenza di grandi capitali. L’amministrazione di questi capitali era in mano ai potenti banchieri fiorentini, che avevano abilmente soppiantato i loro rivali senesi5. Le preoccupazioni romane erano anche le loro. Gli interessi economici comuni li univano in questa diffidenza soprattutto verso le frange estremiste dei francescani, gli spirituali, che interpretavano in senso radicale l’aspirazione alla povertà e erano infatti fortemente avversi alla Chiesa di Roma. Sia la curia romana che la ricca borghesia fiorentina avevano interesse ad addomesticare il movimento francescano, ad integrarlo entro le strutture di potere vigenti, a sostenerlo per guidarlo. In questo si appoggiavano alla corrente più moderata dei francescani, i conventuali, che davano della aspirazione francescana alla povertà un’interpretazione assai possibilistica. È in questi ambienti, evidentemente, che si aveva interesse a fornire di san Francesco un’immagine addomesticata, più civile e accettabile, ricondotta all’ordine, integrata entro le strutture

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della società ufficiale; un san Francesco gradito all’establishment, ripulito delle scorie pauperistiche; un san Francesco «perbene», che non assomigliasse ad uomini «de pessima rascione»; insomma, un san Francesco senza barba6. Esso compare infatti per la prima volta nel mosaico di Santa Maria Maggiore (fig. 4), commissionato da Niccolò IV, il primo papa francescano, esponente di primo piano della corrente dei conventuali. Compare nell’affresco del Cavallini sulla tomba del cardinale Matteo d’Acquasparta, il grande sostenitore dei conventuali, citato proprio per questo da Dante7 come contraltare di Ubertino da Casale, capo riconosciuto degli spirituali italiani. All’immagine del san Francesco senza barba fa poi propaganda soprattutto Giotto, i cui legami con l’alta borghesia fiorentina sono stati ripetutamente rilevati. Ad Assisi, il san Francesco senza barba compare più volte nella Basilica Inferiore, in affreschi la cui esecuzione cade certamente dopo il sopravvento dei conventuali, dal tempo di Giovanni da Murro in poi, in coincidenza con l’aprirsi delle ostilità contro gli spirituali, iniziate con la forza da Bonifacio VIII e concluse d’autorità da Giovanni XXII con la bolla del 1323. Il san Francesco senza la barba si pone, perciò, come un’immagine intenzionale, pregna di una forte carica ideologica, in polemica con gli spirituali e simbolo del francescanesimo moderato dei conventuali, gradito alla Chiesa e alla ricca borghesia fiorentina. Questa conclusione potrà anche sembrare capziosa; ma, a riprova di quanto si afferma, si cerchi di immaginare come poteva essere accolta dagli spirituali un’immagine del loro fondatore cui, in omaggio alla moda vigente, si radeva la barba perché non assomigliasse ad «omo de pessima rascione». Niente di più contrario, evidentemente, alla loro concezione radicale, misticheggiante e neomedievale del francescanesimo. E del resto si consideri ciò che accade nella Napoli angioina. Gli Angiò avevano sempre simpatizzato per gli spirituali. Dalla prigionia, i figli di Carlo II avevano scritto a Pietro Olivi, in quel momento il più importante esponente del movimento estremista francescano, le cui opere erano già state condannate. Il primogenito, Ludovico, si fece

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frate francescano, fu in rapporto con personaggi dell’ordine chiaramente spirituali, e la sua vita fu improntata a un ideale di povertà addirittura autolesionistico. Celestino V, salutato con grande giubilo da tutti gli spirituali italiani, fu eletto papa per volontà degli Angiò. Roberto, pur essendo in ottimi rapporti col papa Giovanni XXII, scrisse un trattatello intorno alla povertà di Cristo e degli Apostoli in cui appoggiava le tesi pauperistiche degli spirituali e si rifiutava di pubblicare nel suo regno la bolla papale promulgata nel 1323, circostanza per la quale Giovanni XXII lo rimproverava ancora nel 1331 e nel 13328. Ebbene, a Napoli le immagini di san Francesco, anche quelle di più diretta ispirazione giottesca (come nell’affresco con l’Allegoria della moltiplicazione dei pani in Santa Chiara), sono tutte con la barba. Si pensi che il Cavallini, dopo aver dipinto un san Francesco ben rasato nell’Aracoeli a Roma, una volta arrivato a Napoli lo dipinge con la barba, come nel Giudizio Finale in Santa Maria Donnaregina, dovuto almeno alla sua bottega. E con la barba lo dipinge un suo allievo (forse Lello da Orvieto, come vuole il Bologna)9 nell’affresco in Santa Chiara col Redentore in trono fra sei santi e quattro personaggi angioini. Non meraviglierà, allora, che le uniche immagini di san Francesco con la barba dei primi decenni del Trecento che si vedono nella Basilica Inferiore di Assisi siano quelle dipinte da Simone Martini (fig. 5). Non vi è dubbio infatti che gli Angiò ebbero a che fare con la commissione degli affreschi assisiati al pittore senese10, cui era stato affidato l’incarico di dipingere la grande tavola di san Ludovico di Tolosa in occasione della sua canonizzazione avvenuta nel 1317. I santi che, oltre a san Francesco, santa Chiara e sant’Antonio da Padova, compaiono nel sottarco della cappella di San Martino e che si rivedono in una fascia in basso nel transetto destro della Basilica Inferiore hanno quasi tutti a che fare con Roberto d’Angiò. Ludovico di Tolosa era suo fratello, Luigi IX di Francia era suo bisnonno, Elisabetta d’Ungheria era la zia di sua madre, la Maddalena era particolarmente venerata da suo padre e così doveva essere di santa Caterina, perché in Santa Ma-

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ria Donnaregina a Napoli sono dipinte molte storie della sua vita, insieme a quelle delle altre sante che si sono nominate sopra. Ed è proprio partendo da un’ipotesi di committenza angioina e da un confronto con gli affreschi di Santa Maria Donnaregina che si potranno identificare alcuni dei misteriosi santi dipinti da Simone Martini nel transetto destro. A parte la cosiddetta santa Chiara, che non fu mai tale perché non vestita in abiti monacali e che si dovrebbe identificare semmai con santa Margherita (fig. 6), dato che il recente restauro ne ha rimesso in luce la crocellina tenuta nella mano destra11, si considerino i due misteriosi santi coronati con scettro e globo in mano che compaiono ai lati della Madonna (fig. 7); sarà facile identificarli con santo Stefano d’Ungheria e san Ladislao d’Ungheria, se li confrontiamo con la raffigurazione di questi due santi in Santa Maria Donnaregina12, che recano gli stessi segni iconografici. Si ricorderanno i legami politici degli Angiò con l’Ungheria e i loro interessi sul trono di quel paese, in favore dei quali si era adoperato proprio Gentile Partino da Montefìore, il cardinale francescano amico degli Angiò che aveva voluto dedicare a san Martino la cappella di Assisi dipinta poi da Simone Martini13. L’ingerenza angioina nella commissione assisiate al pittore senese e i rapporti tra gli Angiò e l’Ungheria spiegano anche la presenza del giovane santo con il giglio in mano (fig. 8), che non può essere Luigi di Francia perché non porta la corona in testa, ma che è invece il figlio di santo Stefano d’Ungheria, il principe sant’Enrico, raffigurato raramente, ma perfettamente corrispondente negli attributi iconografici a quello dipinto da Francesco di Michele nel polittico di San Martino a Mensola, datato 139114 (fig. 9). Il san Francesco con barba raffigurato per due volte da Simone Martini nella Basilica Inferiore di Assisi è dunque quello degli Angiò, favorevoli agli spirituali. Una volta appurato il significato che si nasconde dietro l’innovazione iconografica del san Francesco senza barba, rimane da chiedersi quali conclusioni se ne possono trarre in relazione al ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi, in cui il santo compare dotato di una corta ma folta barba. L’immagine più an-

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tica che ci sia rimasta di un san Francesco senza barba è quella del Torriti nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore a Roma (fig. 4), che è del 129615. Nel 1290 lo stesso artista, nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano, eseguito per lo stesso committente, il papa Niccolò IV, aveva posto in opera un san Francesco con la barba16 (fig. 3). Se ne deve dedurre che l’idea di un’immagine di san Francesco senza barba è nata tra il 1290 e il 1296. Ora, se la Basilica di Assisi fu uno dei luoghi più ospitali per l’immagine di san Francesco senza barba e se in ambito giottesco essa trova la sua più larga accoglienza, bisognerà prendere in considerazione la possibilità che le Storie francescane di Assisi siano state dipinte prima del 1296. Lo stesso vale anche per chi considera questi affreschi - come li considerava l’Offner - opera di scuola romana, se è proprio a Roma che troviamo la prima immagine di san Francesco senza barba, nel 1296 appunto. Mi rendo conto che un argomento simile sembrerà labilissimo a chi ha presente il peso della tradizione critica formatasi intorno a questo problema: sarà difficile pensare seriamente che su una base simile si possa proporre una datazione diversa, soprattutto una datazione anticipata rispetto a quelle proposte generalmente. Dovremo, per ora, limitarci a considerare le osservazioni fatte sopra per quello che valgono: non più che una pulce nell’orecchio. Ma se, con questa pulce nell’orecchio, ci mettiamo a riconsiderare senza pregiudizi proprio il problema della datazione e a meditare su alcuni fatti che non erano stati presi in considerazione, allora dovremo riconoscere che questo argomento non era poi così futile e peregrino17.

Moda e cronologia nelle «Storie dì san Francesco» ad Assisi. Guardiamo, ad esempio, le Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi con gli occhi attenti ad un altro aspetto; quello della moda e del costume. Esso ci fornirà dei dati sorprendenti. La storia di san Francesco era una storia moderna e vi comparivano personaggi che non potevano indossare i generici e

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classici abiti delle storie testamentarie. La sua narrazione in figura è stata certamente uno degli stimoli principali in direzione di quel singolare fenomeno che caratterizza l’arte del Tre e Quattrocento, per cui si vestono disinvoltamente i santi in abiti contemporanei e si fanno partecipare a scene sacre, anche le più remote nel tempo, dei personaggi in abiti contemporanei. Mi si permetta di iniziare l’esame degli affreschi di Assisi sotto l’aspetto della moda e del costume con una citazione da una lettera del Petrarca al fratello Gerardo, in cui, con una punta di nostalgia per la gioventù passata, lamenta gli eccessi nell’adeguarsi ai dettami della moda, anche i più scomodi. Ti sovviene egli, o fratello, quanto si fosse la pazza nostra ansietà per la smodata eleganza nel vestire, la quale pur tuttavia, sebbene venuta di giorno in giorno scemando, al tutto non m’abbandona? quali il nostro affaccendarsi in mutar vesti mattina e sera, quali i timori che ci si avesse a scomporre sulla testa un capello, o lieve soffio di vento le chiome laboriosamente acconciate scompigliare? quanta la nostra attenzione a stare in guardia da ogni bestia che per le strade ci venisse di fronte o alle spalle, perché schizzo di fango non lordasse la nitidezza, od urto della persona non alterasse le pieghe delle profumate nostre guarnacche?... E che dirò dei nostri calzari che fatti a difendere i piedi, ad altro non servivano che a dar loro tormento e martorio?... E i ferri da increspare i capelli, e i tormenti delle nostre pettinature?18.

I «ferri da increspare i capelli», o meglio - per rifarsi alla terminologia del Petrarca - i calamistri, sono certamente quelli usati dagli uomini dei primi decenni del Trecento per acconciare i capelli a rullo. Di questa elaborata acconciatura si trovano continue testimonianze figurative: dagli affreschi di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti ad Assisi, a numerose tavole di Bernardo Daddi, agli affreschi del Camposanto di Pisa e della sala della Pace nel Palazzo Pubblico di Siena. I capelli, tenuti assai lunghi, uscivano sulla nuca da sotto la cuffia bianca, e qui venivano rivoltati in su, avvolgendoli intorno ad un ferro (o forse venivano «messi in piega» con un ferro caldo), come dice il Petrarca. Questa acconciatura era già di moda al tempo in cui Giotto dipingeva la cappella dell’Arena a Padova, tra il 1303 e il 130519. Tra i beati del Giudizio Finale (fig. 10), tra i dannati che recano ancora qualche

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traccia di come andavano vestiti in vita, tra gli inservienti delle Nozze di Cana, tra i pretendenti alla mano della Madonna, tra i Magi, tra i servi di Caifa e di Erode, tra i soldati che assistono alla Crocifissione, nelle piccole scene sotto alcune figure allegoriche non mancano casi di acconciature dei capelli come quelle descritte. Anche il donatore, Enrico Scrovegni, al centro del Giudìzio Finale, ne è un esempio; infatti, i suoi capelli non potrebbero terminare con quella piega verso l’alto se non fossero stati trattati almeno con una messa in piega. È evidente che l’uomo coltivato degli inizi del Trecento non voleva in nessun caso lasciarsi cadere i capelli sul collo o sulle spalle e in questo si differenziava assai dagli uomini della seconda metà del Duecento, che lasciavano ricadere sul collo una massa di capelli assai fluente, come si vede poniamo - nelle miniature del Maestro del De Arte venandi cum avibus o nei rilievi dell’arca di San Domenico a Bologna della bottega di Nicola Pisano (fig. 11) o in quelli dello stesso Nicola e del figlio Giovanni nella Fonte Maggiore di Perugia. Tra gli esempi di questa acconciatura più arcaica si può citare anche la tavola della Santa Chiara di Assisi (fig. 13), datata 128320, e - quel che a noi più interessa - proprio gli affreschi con la Leggenda di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi. Qui, infatti, accanto a personaggi che portano già i capelli a rullo o comunque sollevati sulla nuca, ve ne sono altri con i capelli ricadenti sul collo (figg. 12, 14, 29), persino nella scena con l’Omaggio dell’uomo semplice (fig. 45), che è certamente l’ultimo affresco ad essere stato eseguito21. Naturalmente, quello relativo alle acconciature maschili è solo uno dei numerosi elementi della moda, il cui esame ci fornisce degli indizi rilevanti per una non generica proposta di datazione. Abbiamo, infatti, due punti di riferimento cronologici: gli affreschi Scrovegni, databili al 1303-30522, e la citata tavola della Santa Chiara del 1283, questa sicuramente più antica degli affreschi di Assisi - ed infatti i personaggi maschili che vi compaiono in abito secolare portano esclusivamente i capelli ricadenti sulle spalle (fig. 13). Confrontando il maggior numero possibile di elementi relativi alla moda e al costume, potremo stabilire, almeno in via approssimativa, quale posizione vengano ad assumere gli affreschi

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di Assisi tra questi due estremi cronologici: il 1283 della tavola della Santa Chiara e il 1303-305 degli affreschi dell’Arena. Non che in questo ventennio si registrino dei mutamenti sostanziali nel costume e nelle acconciature, ma si possono cogliere alcune variazioni notevoli. L’abito, per esempio, rimane fondamentalmente lo stesso nelle sue strutture, ma soprattutto quello femminile subisce qualche modifica. Certo, i severi e generici abbigliamenti che caratterizzano i personaggi sacri negli affreschi di Giotto a Padova non ci forniscono molti dati; bisogna ricorrere, semmai, ad alcune figure marginali, ad alcuni personaggi in abito contemporaneo nel Giudizio Finale (fig. 15). Le vesti sono lunghe e larghe, assai accollate; ma lungo i bordi, lungo gli scolli, lungo le cuciture si vedono larghe liste ricamate, o forse applicate, che rendono sontuoso l’abito. Le donne fanno grande sfoggio di questi ornamenti, che si stampano anche in fasce orizzontali molto più larghe, all’altezza del petto (fig. 49). La Madonna stessa se ne adorna. Particolarmente ricca di queste liste ricamate è la veste della giovane sposa nelle Nozze di Cana. L’abito femminile, inoltre, quello almeno che sta sotto il manto o la guarnacca, è sempre cinto molto in alto, assai al di sopra della vita, subito sotto il seno: un modo di portare l’abito che si rifa forse all’antico, come accadrà con la moda Impero. Venti anni prima degli affreschi padovani, nella tavola della Santa Chiara, le donne portano abiti infinitamente più semplici (fig. 16); nessuna delle loro vesti è ornata come quelle delle donne padovane; la cintura è tenuta assai bassa, all’altezza della vita. Ebbene, l’abito femminile che compare nelle Storie di san Francesco è ancora perfettamente in linea con quello che andava di moda nel 1283; solo in un caso esso è cinto subito sotto i seni: si tratta di una giovinetta fra le assistenti alla Confessione della donna di Benevento; in tutti gli altri numerosi casi l’abito è cinto alla vita. La totale mancanza di ornati ne accentua l’accollatura severa; la Madonna nel tondo sopra la porta d’ingresso sembra avere la veste pari-collo se confrontata con una donna dell’Arena di Padova, a cui il largo bordo ornato fa sembrare più ampio lo scollo. Con altrettanta evidenza ci riportano ad un’epoca assai precedente a quella degli affreschi

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padovani e vicina alla tavola della Santa Chiara le acconciature femminili. È già diffusa a Padova la moda della treccia a vista (figg. 15, 100), che dalla nuca sale al sommo della testa, girando intorno ai capelli come una ghirlanda. Invece, nessuna delle numerose donne che compaiono negli affreschi assisiati fa mostra di questa treccia (figg. 17, 32). Esse accomodano i capelli in modo assai complicato, tenendoli fermi con bende, nastri e fili. Questa acconciatura si ritrova identica - se si guarda al di là delle differenze di resa figurativa - nelle donne della tavola della Santa Chiara del 1283 (fig. 16), che portano la stessa benda orizzontale sulla fronte e le due laterali che salgono in verticale. Un’altra osservazione riguarda il copricapo maschile. Quello che più si distingue per la sua foggia singolare nelle Storie di san Francesco è una sorta di cappuccio dalla profilatura molto marcata che si innalza sulla fronte a formare una specie di corno (figg. 14, 29). Così lo portano anche molti uomini nella tavola della Santa Chiara (fig. 13), nonché in altre figurazioni della fine del Duecento; mentre negli affreschi padovani non si ritrova questo modo di portare il copricapo (fig. 10) ma anzi si nota una tendenza a renderne più compatto il contorno e, nel caso che esso sia di una fattura più frastagliata, tutto ciò che potrebbe sporgere viene come compresso e rincalzato dentro le falde della stoffa. Quali conclusioni si possono trarre da queste osservazioni? La prima, intanto, è di importanza capitale nel panorama degli studi sugli affreschi di Assisi e riguarda il termine ante quem. Una volta, chi non credeva nella paternità giottesca delle Storie di san Francesco era disposto a collocarle assai tardi. Più recentemente, il White, il Meiss e il Previtali hanno potuto stabilire che questi affreschi dovevano già esistere prima del 1306-30823. Ma con le osservazioni fatte sulla moda si può stabilire che le Storie di san Francesco sono sicuramente precedenti agli affreschi della cappella degli Scrovegni. Questa è la prima conclusione che scaturisce dalle osservazioni fatte sopra. Ma mi pare che si possa stringere anche di più. Considerando nel loro insieme, sotto l’aspetto della moda, i rapporti tra la tavola della Santa Chiara del 1283, le Storie di san Francesco nella Basi-

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lica Superiore di Assisi e gli affreschi di Padova, bisogna osservare che gli affreschi di Assisi, più che costituire una fase intermedia, si accostano maggiormente alla tavola del 1283, come abbiamo notato. Dovremmo concludere, dunque, che, salvo controprove, l’esecuzione degli affreschi di Assisi dovrebbe cadere ad una data più vicina al 1283 che al 1303-305; dovrebbe cadere, cioè, verso gli inizi degli anni novanta del Duecento. Una datazione assai alta, come si vede, e che a molti potrà sembrare inaccettabile. Eppure anche altri fatti sembrano portare a questa stessa conclusione, o almeno sembrano renderla possibile.

Le «Storie di san Francesco» e gli affreschi della sala dei Notai a Perugia. Non mi risulta che alcuno abbia mai messo in rapporto gli affreschi della sala dei Notai nel Palazzo dei Priori a Perugia24 con il ciclo francescano di Assisi. Essi sono stati spesso considerati di scuola cavalliniana25 e se ne possono capire le ragioni. Infatti, il largo spazio dato ai solenni episodi della Genesi fa sì che quando vi compare la figura umana essa sia improntata a una solennità e a una severità da ricordare il Giudizio Finale di Santa Cecilia in Trastevere. Ma a guardar bene, i rapporti col Cavallini diventano sempre più generici via via che sotto le ridipinture si scopre sempre più marcata la caratterizzazione umbra di quelle fisionomie. Quegli occhietti acuti, quei tratti marcati, quella inclinazione espressionistica sono bene un denominatore comune di questo pittore con il Maestro del Crocifisso di Montefalco, con l’autore della Crocifissione nel Capitolo del Duomo di Gubbio (fig. 192), col Maestro espressionista di Santa Chiara, o meglio ancora con il perugino Marino, che iscrisse il suo nome sulla spada del san Paolo nella Madonna tra angeli e santi della Pinacoteca di Perugia (fig. 162). I rapporti di questi pittori col ciclo francescano di Assisi sono evidenti, anche nel caso di Marino da Perugia, in cui lo Smart ha creduto di vedere un collaboratore al ciclo stesso. Ora, io non credo di essere lontano dal vero nel proporre l’attribuzione degli

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affreschi della sala dei Notai proprio a Marino26, come ho fatto in altra sede; ma in questo momento ciò che interessa veramente nel nostro discorso è il rapporto di questi affreschi con quelli di Assisi. Nessun dubbio, ad esempio, che alcuni partiti decorativi siano una derivazione letterale almeno dal registro alto della Basilica Superiore27; così i motivi a voluta floreale con la rosetta, che sono una copia della fascia decorativa sotto i tondi di San Pietro e di San Paolo nella controfacciata di Assisi; o l’incorniciatura decorativa dei busti negli sguanci delle finestre, derivati chiaramente dalle Sante a mezzo busto negli arconi della prima campata di Assisi (figg. 18, 19). Ma il pittore della sala dei Notai conosceva già anche le Storie di san Francesco. Infatti, non avrebbe potuto organizzare così il banchetto del Mese di gennaio senza aver visto la Morte del signore di Celano. E soprattutto la tavola imbandita che ne costituisce una citazione diretta; lo si capisce meglio se la si mette a confronto con quella che ad Assisi stessa aveva imbandito il Torriti o chi per lui nelle Nozze di Cana. Lì era un semplice piano ribaltato e i vassoi che vi poggiavano sopra erano perfettamente circolari, come visti in pianta, in modo del tutto irrazionale. La tavola di Perugia evita i vassoi; ha solo delle brocche e dei recipienti verticali, sicché la loro collocazione sul piano della tavola appare molto più credibile; il piano stesso è molto scorciato e la tovaglia pende già dai lati del tavolo facendo delle pieghe. Con la tavola del signore di Celano ha in comune anche molti degli oggetti imbanditi e soprattutto la tovaglia con la stessa trama di tessuto e le pieghe che forma nel ricadere giù dagli angoli. Un’altra evidente derivazione da Assisi è la figura di Eva nella sua Creazione. Essa ripete il san Francesco della Rinuncia ai beni, e non soltanto nel gesto, nell’idea stessa del corpo nudo in profilo, nel modo di giungere le mani, nello sporgere in avanti le braccia e nella struttura stessa del corpo. Così come le due teste di Adamo e di Eva sembrano calcate su quelle dei due prelati alle spalle del vescovo nell’affresco di Assisi (figg. 20-21). Anche le architetture richiamano immediatamente quelle delle Storie francescane di Assisi, sia nella loro formulazione in termini oggettuali che nella

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loro caratterizzazione e decorazione (si vedano in particolare le architetture del Mosè e Aronne davanti al faraone, del Cavaliere in preghiera o del Cane che porta la carne}. Nel caso della scena con Gedeone e l’Angelo l’edicola architettonica è addirittura citata da quella che si vede nella Visione dei Troni ad Assisi (figg. 22,23). Ma per chi avesse ancora dei dubbi ecco un particolare decorativo che, per quanto insignificante possa sembrare, è invece decisamente rivelatore. Si ricorderà che le Storie di san Francesco sono inquadrate da un architrave che poggia su colonne tortili (fig. 234); su questo architrave, con la faccia inferiore tavellata a fingere dei cassettoni e il fronte decorato con un motivo cosmatesco, si appoggia una serie interminabile di mensole viste in prospettiva. Ora, non è tanto il motivo in se stesso, già presente in Cimabue, quanto la soluzione prospettica delle mensole a rivelarci la derivazione: si noterà che le mensole di Cimabue (fig. 24), come quelle che si trovano in numerosi affreschi romani, sono raffigurate secondo una prospettiva doppiamente invertita: innanzitutto divergono dal centro, invece di convergere come vuole l’esperienza ottica (fig. 172); inoltre, sono molto sottili al punto di attacco colla parete e si ingrossano via via che vengono in avanti, quasi piegando verso il basso per poi risalire in una voluta puramente grafica. Questo sistema irrazionale continua anche nelle finte mensole decorative che corrono lungo i costoloni della Volta dei Dottori e della prima campata (fig. 173); ma nelle Storie di san Francesco sono costruite in modo del tutto diverso e molto più razionale (fig. 25); il loro massimo spessore è nel punto di attacco colla parete e diminuisce nel momento in cui la voluta si piega verso l’alto; il loro scorcio è giustamente convergente verso la mensola centrale ed hanno una consistenza oggettuale invece che grafica. Ebbene, nella volta della sala dei Notai corrono delle membrature architettoniche dipinte in forma di architravi che, oltre a ripetere i motivi cosmateschi e lo pseudocassettonato di quelli delle Storie di san Francesco, risolvono nello stesso modo anche lo scorcio della mensola (fig. 26). Ciò dimostra in modo incontrovertibile - mi pare - che riflettono gli affreschi assisiati già nella fase delle Storie di san Francesco, che cioè gli affreschi perugini sono successivi alle Storie di san Francesco.

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Ora, gli affreschi della sala dei Notai sono stati dipinti assai precocemente; a giudicare dalle notizie documentarie raccolte dal Pellini, la parte del Palazzo dei Priori dove si trova questa sala fu costruita fra il 1293 e il 1297 e al momento del suo compimento anche gli affreschi dovevano essere già stati portati a termine28. Questo ce lo indica non solo la logica delle cose, trattandosi di un ambiente di rappresentanza, ma anche il fatto che i primi dei numerosi stemmi dei Capitani del Popolo e dei Podestà con cui sono decorate tutte le pareti della sala sono datati 1296 e 1297. Tali date, dunque, costituiscono un termine ante quem per gli affreschi di Assisi29.

Le «Storie di san Francesco» e i mosaici deI Rusuiì. Ma questo ante quem può arretrare ancora di qualche tempo. Vi è, infatti, un’altra impresa decorativa i cui rapporti con Assisi o non sono stati presi in considerazione o sono stati interpretati nel senso sbagliato. Si tratta dei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore a Roma, firmati da Filippo Rusuti30. Essi furono certamente commissionati dai Colonna, protettori della Basilica; vi compare infatti il loro stemma e i donatori inginocchiati che vi si vedevano sono due cardinali, uno certamente Giacomo Colonna, come indicava una scritta; l’altro, presumibilmente, Pietro, il suo più giovane fratello. Mancando tra i committenti la figura di Niccolò IV, che invece compare nel mosaico del Torriti finito nel 1296 ma evidentemente iniziato prima del 1292, prima cioè della morte di quel papa, bisogna pensare che il mosaico della facciata sia stato iniziato dopo quello dell’abside. Tuttavia esso doveva essere già terminato entro il 1297. Nel maggio di quell’anno, infatti, Giacomo e Pietro Colonna furono cacciati da Bonifacio VIII, che li privò del cardinalato e li scomunicò. I Colonna vennero ricostituiti nei loro titoli solo nel 1306, quando, morto Bonifacio VIII, Clemente V li riabilitò. Si è spesso ipotizzato che questi mosaici sarebbero rimasti interrotti nel 1297 e terminati solo dopo il 1306, anche in considerazione del

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fatto che il Vasari indica la data 1308 per la loro esecuzione31. Ma gli argomenti di Julian Gardner in favore di una datazione che precede il 1297 sono decisivi32. Se i Colonna avessero rimesso mano alla decorazione di Santa Maria Maggiore dopo il 1306, perché non avrebbero fatto completare anche la decorazione del transetto? Inoltre, una evidente citazione dei mosaici di facciata negli affreschi di Santa Maria in Vescovio, quasi certamente già eseguiti prima del 130233, postula per i mosaici stessi una data precedente. Infine, il papa Liberio è raffigurato con la stessa tiara portata da Niccolò IV nel mosaico del Torriti, la tiara con un grosso rubino alla sommità e un cerchio a smalti nella parte inferiore citata negli inventari papali del 1295; la tiara a cui Bonifacio VIII aggiunse due cerchi dopo il Giubileo del 1300 e di cui andò perduto il grosso rubino il 4 novembre 1305, quando essa cadde a terra durante l’ingresso di Clemente V a Lione. Da parte mia, a sostegno delle argomentazioni del Gardner, vorrei fare osservare un particolare della moda. Nelle scene in basso del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, proprio quelle scene - cioè - che spesso si considerano eseguite dopo il 1306, si vedono alcuni personaggi laici che, secondo l’uso del tempo, portano una cuffia bianca in testa; ebbene, molti di essi lasciano ancora che i loro capelli ne escano ricadendo sciolti sul collo e non arricciati nel rullo (fig. 28); il loro inconfondibile carattere di personaggi ben vestiti e moderni rende difficile che essi possano essere così raffigurati dal 1306 in avanti, e cioè in un’epoca in cui, come abbiamo visto, non si usava più portare i capelli secondo questa foggia. Anche i mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore hanno dunque come terminus ante quem il 1297. Le tangenze di queste figurazioni musive con le Storie di san Francesco ad Assisi sono state puntualizzate molto bene dallo stesso Gardner, sia negli aspetti più generali che in alcuni passi particolari. Bisogna riconoscere, infatti, che questo porsi come storia moderna (fig. 28), in abiti contemporanei e fra architetture gotiche fa di queste storie del Miracolo della neve quanto di più vicino si possa immaginare agli affreschi di Assisi. Alcuni passaggi, poi,

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mostrano un rapporto talmente stretto da dichiararsi come una ispirazione diretta o addirittura una citazione. Il Gardner si riferisce soprattutto a tre casi. Uno è la storia con II patrizio Giovanni davanti a papa Liberio, la quale ha molto in comune con la Conferma della Regola ad Assisi (figg. 27, 28). Il secondo caso è rappresentato dal Sogno di papa Liberio, in cui l’idea compositiva, sia pure in controparte, sembra rispecchiarsi puntualmente nel Sogno di Innocenzo III ad Assisi. Somiglianze anche più forti rilevava il Gardner tra la Fondazione di Santa Maria Maggiore e la Rinuncia ai beni. In effetti, il gruppo formato da papa Liberio e il suo seguito richiama invincibilmente quello formato dal padre irato di san Francesco e dai personaggi che lo accompagnano (figg. 29, 30). Questo drappello umano così serrato in mezzo a un vuoto figurativo, la soluzione delle teste collocate idealmente allo stesso livello ma realizzate su piani orizzontali sfalsati, la presenza dei due bambini all’estrema sinistra sono evidenti punti di contatto tra le due scene. Alle osservazioni del Gardner se ne possono aggiungere altre. Cosi, a rileggere la scena del Sogno del patrizio Giovanni nel disegno antico di Edimburgo, eseguito prima che il mosaico di Santa Maria Maggiore fosse danneggiato e malamente rifatto, appare indubbio il rapporto tra la figura distesa nel letto e il giovane san Francesco che sogna nella terza scena di Assisi. La posizione delle figure, il loro atteggiarsi nel sonno, il movimento e il panneggio della coperta che li ricopre parzialmente sono soluzioni figurative quasi sovrapponibili nei due casi. Vi sono poi due passi che sembrano una citazione l’uno dell’altro; si tratta della donna all’estrema sinistra nella Fondazione di Santa Maria Maggiore e di quella al centro nel Presepe di Greccio ad Assisi (figg. 31, 32); una delle due figurazioni è certamente il frutto di un appunto ricavato dall’altra. Allo stesso modo, le volte a crociera stellate che compaiono nel Sogno di papa Liberio e nel Patrizio Giovanni davanti a papa Liberio richiamano intensamente la scena assisiate della Predica ad Onorio. Un altro elemento comune è l’idea di inquadrare le scene entro una solida cornice architettonica formata da un architrave aggettante soffittato a pseudolacunari nella sua faccia verso il basso e sor-

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retto da vistose colonne appoggiate su di un piano orizzontale comune. In Santa Maria Maggiore, le colonne diventano piuttosto dei pilastri (fig. 28) ma la loro consistenza oggettuale ha lo stesso valore che ad Assisi. Dati i rapporti evidenti fra i due cicli, e cioè i mosaici del Rusuti sulla facciata di Santa Maria Maggiore e le Storie di san Francesco ad Assisi, sarebbe di capitale importanza stabilire da quale parte stia il dare e l’avere. Il Gardner vede nel ciclo romano una fonte figurativa per Assisi, con l’aria di chi da per scontato che i rapporti vadano in questa direzione. Ci dobbiamo chiedere, invece, se le cose non siano andate in modo diverso34. Come è noto, l’aspetto più caratterizzante della rivoluzione figurativa avvenuta sullo scorcio del Duecento è la scoperta (o la riscoperta) dei valori spaziali. Ed è soprattutto l’affresco ad essere investito di questa nuova concezione: non più, come era accaduto fino adesso, una grande pagina stesa su una parete, quasi fosse una miniatura ingrandita con il suo fregio a motivi ornamentali coloratissimi e puramente grafici, ma una porzione di spazio proiettata al di là della parete della chiesa, a cui la parete della chiesa fa da piano trasparente, e il suo riquadro è pensato - molto coerentemente - come parte della parete stessa e quindi come un’inquadratura architettonica che entra, o da l’illusione di entrare, nello spazio reale dell’architettura circostante. Ora, questo nuovo ordine di idee si realizza nel modo più sistematico e coerente nelle Storie di san Francesco ad Assisi, dove ogni particolare, ogni scorcio, ogni effetto architettonico e spaziale è controllato sul reale ed ha una sua credibilità e una sua giustezza, seppure raggiunte attraverso mezzi empirici. Ed è tanto autentico e diretto questo controllo sul reale che l’architettura non è più generica, ma è quella moderna, più o meno gotica, com’era davvero quella italiana nella seconda metà del Duecento; ed è in questa occasione che essa viene accolta sistematicamente nella pittura italiana. Nei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore a Roma, la complessità delle soluzioni di architettura figurata è ormai come ad Assisi. Le coincidenze riguardano soprattutto quei caseggiati così sviluppati in altezza da un articolarsi di altane, di verande e

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di vani; riguardano le soluzioni degli interni con le volte a crociera stellate; riguardano infine l’idea di spartire le scene con colonne che sostengono un architrave soffittato. A Roma invece di colonne vi sono dei pilastri (fig. 28); essi impressionano per il senso di oggettualità che riescono a dare, per la loro solidità e quasi tangibilità. Tuttavia questa impressione è da ridimensionare alquanto alla luce della constatazione che questi pilastri, invece di essere esagonali od ottagonali quali sembrano, sono pensati come quadrati. Ciò appare chiaro dalla realizzazione del capitello ionico, che vuole imitare, evidentemente, un capitello antico, forse di quelli usati nella navata della basilica stessa. Ma appare anche più chiaro quando esaminiamo la curiosa soluzione prospettica messa in opera per le mensolette che sostengono l’aggetto del pavimento su cui posano i santi dell’ordine superiore (fig. 33); esse, invece di convergere (come vorrebbe l’esperienza visiva) divergono dal centro e la mensoletta centrale ha i due lati in scorcio semplicemente allineati con quelli delle mensole che stanno alla sua destra e alla sua sinistra; sicché ne viene fuori una specie di forma trapezoidale. Rappresentando i pilastri, seppure in una proporzione maggiore, lo stesso problema prospettico, sono risolti con lo stesso meccanismo figurativo. Un meccanismo, cioè, già in uso presso Cimabue (fig. 172) e comune a tutti quei motivi architettonici che si incontrano nella pittura romana di questo periodo35; motivi architettonici che, però, sono realizzati in modo puramente grafico. Ora, è proprio il fatto che su questo contesto culturale arcaico, che possiamo chiamare per ora romano-cimabuesco, si innestino nel mosaico del Rusuti le nuove esigenze di corposità e di consistenza oggettuale, senza che questo innesto incida minimamente sulla capacità di comprendere il funzionamento dei meccanismi di trasposizione dallo spazio reale a tre dimensioni su una superficie figurata a due dimensioni, a farci sospettare che si tratti di un innesto puramente meccanico tra due concezioni diverse l’una dall’altra e delle quali il Rusuti è soltanto un mediatore. Che il Rusuti fosse un semplice trascrittore di testi e di idee, che egli non comprendesse fino in fondo come funzionano i meccanismi di cui si parlava, perché non li aveva scoperti lui stesso,

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lo dimostrano alcuni particolari, in apparenza quasi insignificanti ma in realtà clamorosamente rivelatori. Se io ho un pavimento aggettante su una serie di mensolette, questo pavimento mi occupa in larghezza tutto lo spazio della figurazione, questa figurazione è fortemente centralizzata come nel caso nostro dove tutto è perfettamente simmetrico intorno alla mandorla del Redentore, ragione vuole che anche le mie mensolette si comportino nello stesso modo e che il centro della figurazione sia in asse con la mensola centrale. Ebbene, il Rusuti ha posto la mensola centrale molto spostata sulla destra, quasi a filo con il vertice dell’arcatura destra della mandorla (fig. 33); come se la composizione e il suo spazio fossero due cose indipendenti. Ma ecco un’altra curiosa distrazione. I pilastri che separano le scene hanno una base scorciata in profondità e siccome è immaginata come vista dal basso le linee di scorcio si dirigono verso la linea orizzontale del pavimento. Ma c’è un passaggio risolto in modo del tutto irrazionale: nella base è incavata una cornice rettangolare i cui lati orizzontali nella veduta in scorcio dovrebbero anche essi dirigersi verso la linea del pavimento; invece, mentre quello superiore converge, quello inferiore è perfettamente parallelo alla linea del pavimento (fig. 28). Ad Assisi, nei casi consimili non si ha mai una défaillance così clamorosa (figg. 43, 234); perfino nelle architetture che inquadrano i santi nei sottarchi della prima campata le cornicette rettangolari che ornano la base, dal lato che cala in profondita (fig. 171), si lasciano tagliare nettamente dal piano orizzontale del pavimento, dando così la perfetta illusione di essere viste dal basso. Si guardino anche le volte a crociera stellate nelle due scene che abbiamo messo in rapporto con la Predica di san Francesco davanti ad Onorio. Mentre nella scena assisiate esse sono definite con una chiarezza e una credibilità straordinarie, nel mosaico romano (fig. 28) non si riesce a capire come queste volte si articolino realmente, su quale pilastro vada a poggiare quel dato costolone, come si incroci con quell’altro, ecc. Qualcuno potrebbe, allora, pensare che si tratti della fase più arcaica di un processo di perfezionamento del quale Assisi rappresenta un momento più evoluto. Ma i motivi di architettura

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figurata dànno perfino l’impressione di essere, nei mosaici romani, più complicati che ad Assisi; e non si dimentichi che gli storici dell’arte hanno quasi sempre considerato i mosaici di Santa Maria Maggiore come assai più tardi. Del resto, se esaminiamo la pittura del Trecento nel suo complesso, dobbiamo riconoscere che se il nuovo problema della rappresentazione dello spazio trova le sue soluzioni più razionali e coerenti nelle Storie di san Francesco ad Assisi e in Giotto, via via che ci allontaniamo sia geograficamente che cronologicamente da questi vertici, una tale razionalità e una tale coerenza diminuiscono progressivamente. In altra sede, ho avuto occasione di fare alcuni esempi a tale proposito36, come quello di Duccio, che, partito da un totale disinteresse per i problemi di spazio nella Madonna Rucellai (si vedano gli angeli inginocchiati nel vuoto), si è poi trovato a fare i conti con le novità di Assisi e di Padova nella Maestà eseguita fra il 1308 e il 1311, e, ben lontano dal poter essere considerato come uno dei fondatori della nuova visione spaziosa, ne accoglie i principi con grande spirito di adattamento ma non senza denunciare notevoli incongruenze. Altri esempi che portavo sono quelli del Maestro della Santa Cecilia, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Giuliano da Rimini e dello stesso Rusuti. Particolarmente affini gli ultimi due: nel polittico di Boston di Giuliano da Rimini, datato 1307, facevo osservare come le suddivisioni del polittico attraverso finte partizioni marmoree fossero un’evidente forzatura, trattandosi di un dipinto su tavola e non di un affresco. Una forzatura sono anche i finti pilastri collocati dal Rusuti a separare le scene della Fondazione di Santa Maria Maggiore, non solo perché si tratta di un mosaico e non di un affresco, ma soprattutto perché questi pilastri vengono spezzati inesorabilmente dai due rosoni laterali della facciata (fig. 28), pregiudicando la credibilità dell’intera impalcatura architettonica, che ad Assisi è invece immaginata con ben altra razionalità anche rispetto alla parete sulla quale doveva essere figurata. Insomma, mentre il frescante di Assisi è perfettamente coerente con i principi a cui la sua opera appare ispirata, il mosaicista romano mostra per vari segni di introdurre nelle proprie figura-

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zioni gli stessi elementi con evidenti forzature e con una incomprensione del loro funzionamento, che lo fa cadere in singolari distrazioni. Se, dunque, uno di questi due testi figurativi deriva dall’altro, al punto che bisogna ammettere che uno dei due artisti abbia preso sul testo dell’altro veri e propri appunti (come nel caso della donna nel Presepe di Greccio e della donna nella Fondazione di Santa Maria Maggiore), si deve concludere che i mosaici romani derivano dagli affreschi assisiati e non viceversa e che anch’essi vanno collocati in quel contesto di fatti che testimoniano di una irradiazione delle idee di Assisi con progressivo offuscamento del loro razionalismo iniziale (come abbiamo notato in Giuliano da Rimini, nel Maestro espressionista di Santa Chiara, nel Maestro della Santa Cecilia e perfino nel grande Duccio). Una riprova che le cose siano andate effettivamente così ci è fornita da un altro elemento. Quando notavamo alcune strette somiglianze tra i mosaici del Rusuti e gli affreschi di Assisi, ne abbiamo rilevate di particolarmente evidenti tra il corteo della Fondazione di Santa Maria Maggiore e il gruppo di sinistra della Rinuncia ai beni, il gruppo del padre irato, e dei compagni che gli tengono bordone (figg. 29, 30). Il punto in cui tale somiglianza raggiunge il culmine è nei due bambini all’estrema sinistra. Ora, va osservato che, mentre nel gruppo romano essi costituiscono una presenza puramente esornativa, ad Assisi hanno una loro precisa funzionalità iconografica. Questi fanciulli, infatti, come il Calandrino del Boccaccio, sul greto del Mugnone, si sono tirati su i lembi della veste per riempirla di pietre da tirare contro san Francesco per disprezzo della sua follia, secondo un passo della Legenda maior37. Che sia così ce lo rivela chiaramente la stessa scena nella cappella Bardi in Santa Croce, dove i due fanciulli, posti questa volta alle i due estremità della figurazione, sono colti nell’atto stesso di lanciare i sassi contro san Francesco con una mano, mentre con l’altra si tengono la veste che contiene i sassi. I fanciulli che lanciano sassi contro san Francesco e la Povertà si vedono anche in una delle Vele della Basilica Inferiore di Assisi. Dunque, la presenza dei due fanciulli nella scena assisiate della Rinuncia ai beni ha una i precisa ragion d’essere e risponde ad una puntuale necessità ico-

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nografica. Non così nel mosaico romano, dove costituiscono un puro episodio esornativo. È evidente, perciò, che se una delle due figurazioni deriva dall’altra, è la scena romana a derivare da quella assisiate e a far diventare un semplice abbellimento quanto era nato per una precisa ragione. Ora, abbiamo visto che i mosaici del Rusuti dovevano essere già terminati nel maggio del 129738: ma quanto tempo prima erano stati terminati? e soprattutto quanto tempo prima il Rusuti aveva avuto occasione di studiare gli affreschi di Assisi? Se si considera la lentezza di esecuzione dei mosaici, possiamo esser sicuri che questa occasione deve essere arretrata nel tempo ad una data che non può essere posteriore al 1295 almeno. E questo anno diventa un termine ante quem per gli affreschi di Assisi, facendo così cadere ogni possibilità di collegare la commissione con Giovanni da Murro, che divenne generale dei francescani soltanto nel 1296, e sganciandoci a questo punto da ogni obbligo di riferimento cronologico che si reggeva esclusivamente sul Vasari39. Tirando le fila degli argomenti presi qui in esame, possiamo contare ora su tre possibili termini ante quem: quello sicuro degli affreschi della cappella Scrovegni fornitoci dall’esame della moda e del costume; il 1296-97 della decorazione della sala dei Notai a Perugia; il probabile 1295 dei mosaici del Rusuti, che potrebbe del resto - anche arretrare. Avevamo incominciato il nostro discorso con il forte sospetto che gli affreschi di Assisi fossero precedenti al 1296, come sembrava indicarci il caso della barba di san Francesco; mentre l’esame della moda e del costume ci suggeriva una data intorno agli inizi degli anni novanta40.

Le «Storie di san Francesco» e il papa Niccolò IV. Con questi nuovi elementi a disposizione, possiamo ora anche riconsiderare seriamente le osservazioni del Murray, che tendevano a ricollegare gli affreschi di Assisi con Niccolò IV, papa dal 1288 al 129241. Il Murray notò la singolarità della costruzione

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ecclesiale sostenuta da san Francesco nella scena del Sogno di Innocenzo III (fig. 34); una costruzione che corrisponde alle descrizioni dell’antica basilica lateranense lasciateci dal Panvinio e dall’Ugonio. La basilica fu restaurata profondamente da papa Niccolò IV, come ci attesta un’iscrizione nell’abside sotto il mosaico che egli fece rifare al pittore Jacopo Torriti. L’iscrizione, datata 1290, comincia ricordando il sogno di Innocenzo III, quando vide san Francesco sostenere la basilica di San Giovanni in Laterano che stava andando in rovina; memore di questo, papa Niccolò, figlio di san Francesco, primo dei frati minori a salire al pontificato, vedendo questa chiesa in rovina, «ante retroque levat destructa reformat et ornat et fondamentis partem componit ab ymis». Questi lavori riguardarono anche la facciata visibile nell’affresco. La connessione tra l’affresco e i restauri di ispirazione francescana voluti da Niccolò IV sembrò al Murray diretta, tanto più che le figurazioni successive di questa scena derivate da quella di Assisi (come la predella del San Francesco del Louvre) non sono più così fedeli nella raffigurazione della basilica lateranense42. Da parte mia, vorrei aggiungere una considerazione che viene a confermare l’intuizione del Murray. È evidente la difformità iconografica del san Francesco che sostiene la basilica di San Giovanni in Laterano rispetto a raffigurazioni più antiche, quali quella in una vetrata della Basilica Superiore e in un affresco della navata della Basilica Inferiore, dove il santo sostiene la chiesa con la schiena, inarcandosi sotto il suo peso e voltando la testa verso di essa. Nell’affresco, dipinto presumibilmente dal Maestro del San Francesco (fig. 35), la scena è frammentaria e si vede solo una metà della figura del santo; ma si può indovinare facilmente la sua posizione: facendo leva colle braccia sulle ginocchia, egli puntella la chiesa con la schiena e si volge indietro a guardarla. Che la posizione del santo sia esattamente questa ce lo dimostra il confronto con una versione trecentesca dello stesso soggetto, quella del polittico della cattedrale di Ottana (fig. 36). Tale iconografia corrisponde alla lettera al testo della Legenda maior di san Bonaventura, secondo la quale nel Sogno di Innocenzo III san Francesco sosteneva la basilica lateranense col dorso: «proprio dorso submisso».

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Queste stesse parole si leggono anche sotto la storia affrescata nella Basilica Superiore: ma il santo vi figura perfettamente eretto, a sostenere il portico di San Giovanni in Laterano con il braccio e con la spalla (fig. 34). Una difformità che è tanto più notevole in quanto non trasgredisce soltanto il testo letterale della Legenda maior, ma anche una tradizione iconografica già affermata. L’innovazione non mancherà dunque di significato. Certo, essa ci mostra un san Francesco in un atteggiamento molto più dignitoso e nobile, meno da uomo di fatica di quanto non apparisse nelle versioni iconografiche precedenti (fig. 35); insomma, un ritocco dell’iconografia francescana in linea con quello del san Francesco senza barba. Ora, sembra che questa innovazione iconografica sia da riconnettere proprio con Niccolò IV. Infatti, l’iscrizione del 1290 che il papa fece apporre in San Giovanni in Laterano per ricordare la connessione del restauro della chiesa da lui voluto col sogno di Innocenzo III, pur richiamandosi chiaramente al testo della Legenda maior, vuole che san Francesco sostenesse la chiesa «humerum supponens»43: mettendovi sotto le spalle e il braccio, esattamente come nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi. Si deve anche notare la modificazione dei tre aggettivi che qualificano l’aspetto del santo: «pauperculus, modicus, despectus», diceva la Legenda maior; «pannosus, asper, despectus», dice la scritta di Niccolò IV, dove è significativa soprattutto l’abolizione di «pauperculus», evidentemente sospetto per via della pericolosa disputa sulla povertà. Non farà meraviglia, allora, la ricomparsa dell’iconografia antica in una figurazione trecentesca come quella del polittico di Ottana (fig. 36), dato che questa opera, eseguita probabilmente a Napoli, ha un carattere tutto particolare, da riconnettere - come vuole il Bologna44 - con le tendenze spirituali dei committenti. Tutto ciò pone l’affresco assisiate e Niccolò IV in un rapporto molto più stretto di quanto non pensasse lo stesso Murray. Ma più si approfondisce l’indagine e più si infittiscono gli indizi dei rapporti di questo papa con la Basilica Superiore di Assisi. Nell’abside si vede ancora il bellissimo trono papale, di un’architettura gotica ricca di motivi cosmateschi, che è stata cer-

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tamente una fonte di ispirazione per alcuni edifici dipinti nelle Storie di san Francesco. Come è stato notato da tutti, questo trono è opera romana, ma un fatto per noi ancora più significativo è che nel gradino sono scolpite le quattro bestie della profezia biblica, il cui testo si legge ancora, subito al di sopra: «super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem»; ebbene, nella basilica di San Giovanni in Laterano Niccolò IV aveva fatto porre un trono papale che recava scolpiti su uno dei gradini un aspide, un leone, un drago e un basilisco, esattamente come nella Basilica Superiore di Assisi45. Non sarà un caso, inoltre, che Jacopo Torriti, l’artista romano prediletto da Niccolò IV che gli fece eseguire i mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, abbia partecipato alla decorazione della Basilica Superiore di Assisi. L’ipotesi che questa decorazione sia legata al pontificato di Niccolò IV è ben plausibile, anche per altre ragioni. Va tenuto presente, innanzitutto, il fatto che egli fu il primo francescano a diventare papa. Egli favorì ampiamente il suo ordine e i frati minori lo idolatravano. Le sue preoccupazioni missionarie rivolte verso l’Oriente erano state anche quelle di san Francesco46. L’iniziativa di far porre le immagini di san Francesco e di sant’Antonio da Padova tra quelle degli Apostoli e della Madonna nei due mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore dovette apparire come un fatto inusitato, tanto è vero che Bonifacio VIII sembra abbia progettato di farle togliere, perché non poteva tollerarne l’intrusione in un consesso di santi di così venerabile antichità47. Questa volontà francescana di Niccolò IV si riversò innanzitutto sulla Basilica di Assisi. Le bolle promulgate in favore di essa in appena quattro anni di pontificato sono più numerose di quelle promulgate dagli altri papi prima e dopo di lui. Le indulgenze da lui concesse a chi la visitava sono di gran lunga superiori a quelle concesse dagli altri papi di quell’epoca. I suoi regali alla Basilica sono splendidi: con una bolla del 13 maggio 1288 egli dona tutti i suoi paramenti di seta di vario colore, vasi d’argento, una somma di danaro e varie altre cose come pegno del passato e del futu-

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ro affetto - sono parole sue - per la Basilica di Assisi. Il 9 agosto 1298 dona un paliotto per l’altare del Santo, ricamato in oro, argento e perle, con le storie di san Francesco. Tra i suoi doni erano anche un piviale con le figure degli Apostoli ricamate e lo splendido calice eseguito dall’orafo senese Guccio di Mannaia, uno dei capolavori dell’oreficeria italiana48. Il 15 maggio 1288, nei primi giorni del suo pontificato, Niccolò IV promulga una bolla in cui si dispone che le elemosine raccolte nella Basilica di Assisi e alla Porziuncola vengano utilizzate anche per «ornare» la Basilica stessa49. Ciò costituisce, come è già stato osservato dal Brandi50, l’aggancio più concreto fra questo papa e la decorazione della Basilica Superiore. Se è vero che con la Basilica di Assisi ha avuto a che fare il papato, come tutta una serie ben nota di fatti sta a dimostrare, chi potrebbe dubitare che Niccolò IV non vi abbia avuto una parte da protagonista, dal momento che è proprio con lui che il papato mostra il massimo di interesse per la Basilica di Assisi? Non bisogna dimenticare, per giunta, che le sue iniziative in campo artistico sono rilevanti, se paragonate a quelle degli altri papi della sua epoca51. In soli quattro anni di pontificato egli fa restaurare, ingrandire e decorare San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, con un intervento di tale peso che rappresenterà uno dei capitoli più importanti nella storia delle due basiliche romane. Egli fondò il Duomo di Orvieto, consacrò la chiesa dell’Aracoeli e fece costruire un palazzo presso Santa Maria Maggiore52. Siamo di fronte ad un papa che si presta bene ad avere avuto un ruolo importantissimo nell’impresa della Basilica di Assisi. E se la parte architettonica era ormai ultimata e la decorazione della Basilica Inferiore già compiuta, non rimane da legare alla sua iniziativa che la decorazione della Basilica Superiore53. Questa decorazione e i lavori intrapresi nelle due basiliche romane si richiamano continuamente. Lo abbiamo visto a proposito del San Giovanni in Laterano nel Sogno di Innocenzo III, lo abbiamo visto ancora nel caso dei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore così apertamente appoggiati al ciclo francescano di As-

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sisi. Lo abbiamo visto, infine, a proposito del fatto che proprio l’artista prediletto di Niccolò IV, Jacopo Torriti, che esegue i mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore (figg. 3, 4) è insieme uno dei collaboratori più importanti nell’impresa decorativa della Basilica Superiore (fig. 116, 143, 144). Cosa dire, allora, degli affreschi del transetto sinistro di Santa Maria Maggiore, i cui resti con i famosi clipei (figg. 132, 134) sono stati attribuiti talora a Giotto stesso54, per via degli stretti legami con Assisi? Dal momento che i lavori di restauro, di ampliamento e di decorazione intrapresi da Niccolò IV in San Giovanni in Laterano e in Santa Maria Maggiore presentano, come abbiamo visto, tutta una serie di rapporti con la Basilica Superiore di Assisi, diventa davvero molto probabile che il suo interessamento per la chiesa madre dei francescani sia da ricollegare con la decorazione della Basilica Superiore55.

1

F. Thomae De Celano, Vita prima S. Francisci, XXIX 83: «Barba nigra, pilis non piene respersa».

2

Vedi G. Previtali, La fortuna dei primitivi, Torino 1964, figg. 7-9.

3

Di questo importantissimo testo (già pubblicato in L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, Milano 1738-42, III), si riporta qui di seguito tutto il passo relativo al mutamento della moda e alla straordinaria novella cui si è fatto cenno dall’edizione a cura di Giuseppe Porta (Anonimo Romano, Cronica, Milano 1981, cap. ix, pp. 42-44): «In questo tiempo [1340 circa] comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, si de vestimenta si della perzona. Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi [...] comenzaro a portare panni stretti alla catalana e celiati, portare scarzelle alle correie e in capo portare capelletti sopra lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite, como bene iannetti e Spagnuoli voco sequitare. Denanti a questo riempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere orno de pessima rascione, salvo non fusse Spagnuolo overo orno de penitenza. Ora ène mutata connizio-ne, che a deletto portano capelletto in capo per granne autoritate, varva folta a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ène, chi non portasse capelletto in capo, varva foita, scarzella in cerna, non ène tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi porta varva ène temuto. Qui me voglio un poco stennere. In uno palese fu uno rege lo quale moito onorava li filosofi e l’uomini li quali sono savii e dico bone paravole. Questo re molto cercava de avere compagnia de huomini virtuosi. In sua corte accadde un grande filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de questo buono orno e tanto maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente responneva ad orme questione che ad esso

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se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la scienzia, la vertute, la quale in questo filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de doverzi civi delicati e buoni, allo quale convito fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e larga. Le tavole messe atomo atomo. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li quali tappiti erano de pura e netta seta. Le mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini messi a seta ed aoro filato. Lo cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d’aoro. Moiti panni tartareschi li sparzi erano. Voleva lo re che quello convito solenne fussi. In capo alla sala stava una tavola piccola. A questa tavola sedevano lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano manicare. Mentre che sse manicava, lo re non perdieva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li rennessi rascione de certi dubbi. Lo filosofo, come prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie resposte fortemente cadevano nello animo dello re, ca sse accostavano allo vero. Donne lo re spesse fiate diceva: “Bene dicesti. Piacerne“. Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare. Teneva in vocca una granne spurgata una ora grossa. Più tenere non la poteva. Fore conveniva che uscissi; guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo loco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca, como ditto ène, onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo e abbe veduta la faccia dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza fi’ a mieso lo pietto, le banne fi’ nelle ionie delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto loco de quella sala e più atto a recipere lo suo sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentio ciò, fortemente stette turbato e regoglioso e disse: “Questo perché hai fatto?“ Respuose lo filosofo e disse: “De sotto, da lato, de sopre, de onne canto me staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da sputare potere, salvo questa toa varva: è lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato, ca orno deo sputare nello più laido luoco “. A questa paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo filosofo lo toccava in la spalla e disse: “Di’ ca bene dico? Di’ ca te piace“. Ora se questi, li quali portano la varva, staiessino a lato di questo filosofo, reciperano quello che reciperano lo re». 4

A questo proposito è di grande interesse - anche se andrà valutato con la dovuta circospezione - il racconto di Ruggero di Wendover e Matteo Paris, monaci di Sant’Albano, dell’accoglienza riservata inizialmente da Innocenzo III a san Francesco «che gli apparve come uno straccione, dalla faccia insignificante, con la barba lunga [il corsivo è mio], i capelli incolti, le sopracciglia nere e trascurate; “Vattene, frate, dai tuoi maiali ai quali assomigli, e rivoltati con essi, nel fango: la tua regola dalla a loro ed anche la tua predicazione“» (vedi G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia Einaudi, II, Torino 1974, p. 741).

5

Vedi P. Jones, La storia economica, ibid., pp. 1729-30.

6

La ‘scomoda’ figura di san Francesco è stata oggetto di tutta una serie di addomesticamenti. Impressionante quello avvenuto durante il generalato di san Bonaventura: «Non credo si dia un altro caso, in questi secoli, di una così sapiente, programmata e consapevole opera di revisione e alterazione degli episodi della vita, dei detti, degli insegnamenti di un personaggio storico, accompagnata dalla sistematica distruzione delle notizie e delle tracce che ne tramandavano un ricordo diverso, come avvenne per la biografia di Francesco durante il generalato di Bonaventura (febbraio 1257 - luglio 1274). Il decreto del capitolo generale di Parigi del 1266, che ordinava la distruzione di tutte le Legendae di san Francesco anteriori a quella di Bonaventura, rappresenta un fatto assolutamente unico nella storia dell’agiografia e della cultura medievali» (Miccoli, La storia cit., p. 764).

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La pecora di Giotto 7

«Ma non fia da Casal ne d’Acquasparta | là onda vegnon tali a la scrittura, | ch’uno la fugge e altro la coarta» (Paradiso XII 124-26).

8

Tutta questa situazione napoletana è stata ben riassunta da F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp. 202-3.

9

Si veda ibid., pp. 126-32.

10

Fu A. Gosche, Simone Martini, Leipzig 1899, p. 35, a sostenere la commissione da parte di Roberto d’Angiò per gli affreschi di Simone ad Assisi. Bologna, I pittori cit., pp. 150-59, ha ripreso l’argomento con dovizia di giustificazioni storiche. Sulla cronologia degli affreschi di Simone nella Basilica Inferiore di Assisi vedi anche L. Bellosi, Moda e cronologia. A) La decorazione della Basilica Inferiore di Assisi, in «Prospettiva», 1977, n. 10, pp. 28-29. Per quanto riguarda i rapporti della decorazione della cappella di San Martino con gli Angiò e con la loro politica ungherese, si veda, più recentemente, S. M. Newton, Tomaso da Modena, Simone Martini, Hungarians and St. Martin in Fourteenth Century Italy, in «Journal of the Warburg and Courtauid Institutes», XLIII, 1980, pp. 234-38.

11

Il fatto che tra questi santi manchi proprio santa Chiara sta a dimostrare che essi non sono qui raggruppati in quanto francescani.

12

Vedi G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Firenze 1965, nn. 218 e 379. Il san Ladislao è frammentario e non si può stabilire che cosa tenesse nelle mani, ma il santo Stefano regge chiaramente uno scettro e un globo. Ambedue hanno una corona in testa e sono accostati nello stesso contesto decorativo. La differenza più forte consiste nel fatto che i due santi hanno, a Napoli, la barba, diversamente da quelli di Simone Martini. Ma, data la rarità della loro raffigurazione, si può anche pensare che in questo particolare vi fosse una certa libertà di rappresentazione e che Simone Martini li abbia raffigurati in una forma più consona ad un suo ideale della regalità.

13

Vedi Bologna, I pittori cit., p. 150. Il cardinale Gentile Parlino da Montefiore, inviato in Ungheria da Clemente V nel 1307, era riuscito a farvi incoronare re nel 1310 il figlio del fratello maggiore di Roberto d’Angiò, Caroberto, che veniva così compensato della rinuncia ai suoi legittimi diritti sul trono di Napoli, cui Bonifacio VIII aveva destinato fin dal 1297 Roberto stesso.

14

Per l’identificazione dell’autore del polittico di San Martino a Mensola con Francesco di Michele si rimanda a L. Bellosi, Francesco di Michele, Maestro di San Martino a Mensola, di prossima pubblicazione in un numero speciale della rivista «Paragone» in memoria di Carlo Volpe.

15

Il DeAngelis (Basilicae S. Mariae Maioris... Descriptio, Roma 1621, p. 90) vi leggeva «ANNO data che il mosaico recava iscritta è «ANNO Die Papstbildnisse des Altertums und des Mittelalters, II, Roma 1970, p. 246).

DOMINI M.CC .XCV», ma la lettura corretta della DNI. M.CCLXXXXVI» (si veda G. B. Ladner,

16

II mosaico absidale di San Giovanni in Laterano è completamente rifatto, ma la barba di san Francesco è ben evidente. Quanto alla datazione, va accolto il 1290 che si legge alla fine della scritta posta alla base del mosaico, secondo quanto riporta P. Lauer, Le palais du Latran, Paris 1911, p. 215, e quanto ha appurato C. Cecchelli, A proposito del mosaico dell’abside lateranense, in «Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana», XVI, 1961, pp. 13-18. La data 1291 si legge invece in un’altra iscrizione incastrata nel muro al lato della porta della sagrestia (Lauer, Le palais cit., p. 193) posta evidentemente al termine dell’intero restauro della basilica.

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L’amico Ferdinando Bologna (The Crowning Disc of a Duecento «Crucifixion» and

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La barba di san Francesco

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other Points Relevant to Duccio‘s Relationship to Cimabue, in «The Burlington Magazine», 1983, pp. 330-40) solleva delle obiezioni sulla impostazione che ho dato a questo argomento. Devo osservare, tuttavia, che non mi sembra di aver voluto dire che «a beard was invariably considered a sign of “spiritual “ or “pauperist “», ma soltanto che l’innovazione iconografica del san Francesco senza barba che compare per la prima volta nel mosaico torritiano dell’abside di Santa Maria Maggiore del 1296, proprio perché riguarda specificamente san Francesco e non altri santi (come Giovanni Battista, Pietro, Paolo) deve avere una ragione che riguarda specificamente la sua immagine. E la ragione che ancora continua a sembrarmi la più plausibile è quella che ho esposto nel testo. Quanto all’obiezione del Boskovits (Studi recenti sulla Basilica di Assisi, in «Arte cristiana», 1983, n. 697, p. 209) relativa al sant’Antonio da Padova che, invece, nello stesso mosaico di Santa Maria Maggiore porta la barba, è facile rispondere che il diverso trattamento riservato a san Francesco sta ad indicare che il problema era proprio quello di addomesticare e «depauperizzare» l’immagine di questo santo. Era Francesco, infatti, il protagonista e l’ispiratore del pauperismo degli spirituali, e non sant’Antonio. II fatto che successivamente anche sant’Antonio sia stato privato della sua barba, al punto che l’immagine più fortunata di questo santo restò proprio quella senza barba, arrivata fino ai nostri giorni (e può forse essersi diffusa da un luogo deputato come la Basilica di Padova, dove si trova - se non vado errato - la sua prima immagine sbarbata in un affresco molto giottesco), significa, mi pare, che, una volta riuscita l’operazione relativamente a san Francesco, la si adattò per estensione anche a sant’Antonio da Padova. Alle obiezioni del Bologna relative al san Francesco con la barba nelle formelle degli armadi di Santa Croce (ora nella Galleria dell’Accademia di Firenze) credo di aver già risposto nel testo. Gli armadi di Santa Croce, così come la Crocifissione della sagrestia, furono eseguiti probabilmente dopo il 1340. Infatti, quando gli uomini del Trecento ricominciarono a piacersi più con la barba che senza, il san Francesco barbato non aveva più alcuna connotazione riprovevole. Nel polittico Bromley Davenport a Macclesfield, lo stesso Taddeo Gaddi raffigura san Francesco senza barba, circostanza che può essere presa in considerazione come conferma della datazione precoce di questo dipinto. Sono comunque d’accordo col Bologna che questo argomento ‘barboso’ non è certo il più forte per proporre una retrodatazione delle Storie di san Francesco. Esso può solo far venire qualche sospetto in proposito. 18

II passo della lettera, del 25 settembre 1348, è riportato nella traduzione di G. Fracassetti, Lettere di Francesco Petrarca, II, Firenze 1864, pp. 461-63. L’originale latino suona così: «Meministi, inquam, quis ille et quam supervacuus exquisitissime vestis nitor, qui me hactenus, fateor, sed in dies solito minus, attonitum habet; quod illud induendi exuendique fastidium et mane ac vesperi repetitus labor: quis ille metus ne dato ordine capillus afflueret, ne complacitos comarum globos levis aura confunderet; que illa con-tra retroque venientium fuga quadrupedum, nequid adventitie sordis redolens ac fulgida toga susciperet neu impressas rugas collisa remitteret [...] Quid de calceis loquar? pedes quos protegere videbantur, quam gravi et quam continuo premebant bello! [...] Quid de calamistris et come studio dixerim?».

19

Una conferma della datazione al 1303-305 della decorazione della cappella Scrovegni sembra suggerita dalla scoperta delle croci della consacrazione - avvenuta il 25 marzo 1305 - aggiunte a tempera sulle parti decorative degli affreschi e dalle notizie documentarie relative ai lavori nel 1306 per gli antifonari del Duomo di Padova, che ripetono alcune scene della cappella (vedi A. Borzon, Codici miniati. Biblioteca Capitolare della Cattedrale di Padova, Padova 1950; M. Walcher Casotti, Miniature e miniatori de! Trecento a Venezia, Trieste 1962, p. 31; D. Gioseffi, Giotto architetto, Milano 1963, pp. 11718; C. Bellinati, La cappella di Giotto all’Arena, Padova 1967, p. 10; G. Previ-

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La pecora di Giotto tali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, 2a ed. cit. 1974, p. 74). Ma se questi argomenti possono prestare il fianco a qualche dubbio, la datazione tradizionale ha per me un fondamento ben solido nel fatto che alcuni piccoli particolari della moda pongono l’esecuzione degli affreschi di Padova prima del polittico di Giuliano da Rimini del Museo Gardner di Boston, datato 1307. Per esempio: in un periodo in cui l’ampiezza dello scollo degli abiti femminili è rigidamente uniforme e col passare del tempo tende ad allargarsi, tutte le donne - dico tutte - che compaiono negli affreschi padovani hanno ancora uno scollo che non supera la circonferenza del collo, mentre già comincia a superarla negli abiti delle donne del polittico di Boston. 20

La controversa lettura della data della tavola della Santa Chiara (1283?, 1284?, 1285?) è stata risolta in favore del 1283 mediante il calcolo dell’indizione che accompagna la cifra dell’anno («Indic. XI tempore Dmi Martini papae quarti») da F. Casolini, Il protomonastero di S. Chiara in Assisi, Milano 1950, p. 74 e nota 229. Vedi anche E. Zocca, Assisi, Roma 1936, p. 199.

21

Per l’esecuzione dell’Omaggio dell’uomo semplice dopo tutte le altre Storie di san Francesco, si veda oltre, p. 102, nota 91.

22

Vedi la nota 19.

23

J. White, The Date of ‘The Legend of St. Francis‘ at Assisi, in «The Burlington Magazine», 1956, pp. 344-51; M. Meiss, Giotto and Assisi, New York 1960; Previtali, Giotto cit., p. 46, che parla di «termini più stretti di quanto non indichino le pure date, e che si riflettono all’indietro nel tempo anche sulla datazione degli affreschi dell’ordine superiore». Per quanto riguarda il terminus ante quem individuato dal Bracaloni e ripreso dal Kleinschmidt, ma ingiustamente trascurato dalla critica, si veda nel capitolo seguente, p. 46 e nota 19.

24

Su questa decorazione, si veda ora M. Boskovits, Gli affreschi della Sala dei Notari di Perugia e la pittura in Umbria alla fine del XIII secolo, in «Bollettino d’arte», 1981, pp. 1-41, anche per la bibliografia precedente. Si vedano inoltre J. B. Riess, Uno studio iconografico della decorazione ad affresco del 1297 nel Palazzo dei Priori a Perugia, ivi, pp. 43-58; Id., Political Ideals in Medieval Italian Art. The Frescoes in the Palazzo del Priori, Perugia (1297), Ann Arbor 1981.

25

Si vedano, ad esempio, R. Van Marle, The Development of the Italian Schools of Painting, I, The Hague 1923, p. 530; M. Boskovits, Pittura umbra e marchigiana fra Medioevo e Rinascimento, Firenze 1973, pp. 12-13. Si veda anche R. Longhi, La pittura umbra della prima metà del Trecento, a cura di M. Gregori, in «Paragone», 1973, nn. 281-83, p. 13.

26

Ho sviluppato questa proposta in La Sala dei Notai, Marino da Perugia e un ante quem per il «problema di Assisi», in Per Maria Cionini Visoni. Scritti di amici, Torino 1977, pp. 22-25. Il successivo intervento di Boskovits, Gli affreschi cit. ha riesaminato il problema dell’attribuzione a Marino, escludendola e pensando piuttosto a due personalità artistiche, quella del Maestro del Farneto e quella del Maestro espressionista di Santa Chiara, che pare da identificarsi con Palmerino di Guido dopo le ricerche del Todini (si veda oltre, p. 146, nota 80). Debbo dire che il suo esame, finalizzato specificamente a questi affreschi, e perciò molto più sistematico e dettagliato del mio, mi trova sostanzialmente d’accordo sulla divisione di massima della decorazione fra due artisti, e anche sulla partecipazione del Maestro del Farneto; meno su quella del Maestro espressionista di Santa Chiara. Io continuo a trovare nelle figurazioni assegnate dal Boskovits a questo pittore una tendenza a un modellato più gonfiante e a delle caratteristiche anche fisionomiche che mi sembra possano approdare più naturalmente alla Madonna firmata da Marino che ad opere come il Crocifisso di Montefalco. Ma esprimo questo parere con

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La barba di san Francesco

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qualche esitazione. Comunque sia, la cosa più importante mi pare sia stato il riconoscimento del carattere umbro di questi affreschi anche da parte del Boskovits, che in un primo momento si era allineato sul tradizionale riferimento cavalliniano. 27

Questo rapporto è stato notato anche da H. Belting, Die Oberkirche von San Francesco in Assisi. Ihre Dekoration als Aufgabe und die Genese einer neuen Wandmalerei, Berlin 1977, p. 96.

28

II Pellini (Dell’Historia di Perugia, I, Venezia 1664, p. 317) afferma di aver visto un documento di provvisione del 1296 relativo alla fabbrica del «palazzo nuovo» per gli anni dal 1293 al 1297. Gli spazi sotto gli affreschi sulle pareti della sala sono ricoperti dalle raffigurazioni degli stemmi dei capitani del Popolo e dei podestà che si sono succeduti nel governo di Perugia e i primi stemmi intorno alla porta d’ingresso sono datati 1296 e 1297. Va notato, tuttavia, che, come è confermato dai recenti restauri, tutti gli stemmi sono completamente rifatti; ma ciò non toglie che i rifacimenti si siano modellati su quanto restava di originale, come è avvenuto per gli affreschi negli arconi, che sono stati completamente ‘ripresi’ durante i restauri ottocenteschi. Va considerata, a questo proposito, l’ordinanza del 1296 (vedi A. Briganti, Notizie sui primordi delle arti in Perugia, in «Rassegna d’arte umbra», 1910, pp. 89 e 96, doc. 12), in cui si allude a pitture fatte «nel palazzo novo».

29

Boskovits, Gli affreschi cit., p. 31, nota 47, riconosce che il motivo della fila di mensole prospetticamente convergenti - deriva «con molta probabilità dalle Storie francescane di Assisi». Successivamente (Studi recenti cit., p. 208), rifiuta questa eventualità, pensando che vi possa essere stato un altro modello comune. Ma il fatto che in un primo momento, già nella fase giottesca della prima campata, si usino ancora le mensole prospetticamente divergenti del tipo cimabuesco e solo sotto i trifori dell’imposto dell’arcone di ingresso si sperimenti la prima piccola fila di mensole prospetticamente convergenti, che anticipano quelle della Leggenda di san Francesco, sta ad indicare con chiarezza che l’evoluzione di questo motivo è avvenuta proprio nella Basilica di Assisi e che li sono nate le mensole prospetticamente convergenti. Come si vede nel testo, altre osservazioni si sono aggiunte a quelle già fatte in occasione della pubblicazione della Barba di san Francesco a convincermi ulteriormente del fatto che gli affreschi della sala dei Notai sono posteriori alle Storie francescane di Assisi, le quali perciò sono state dipinte prima del 1296-97. Sono tranquillamente convinto che anche l’amico Miklós Boskovits si convincerà prima o poi della precocità delle Storie di san Francesco. Alla sua capacità di vedere i fatti artistici non potrà sfuggire, infatti, la stretta contiguità tra gli affreschi dei registri alti dalle Storie di Isacco in poi e le prime Storie di san Francesco, dal Dono del mantello in avanti, in contrapposizione alla distanza che esiste tra questo e gli affreschi Scrovegni. Quanto alla diffusione di un linguaggio ‘classicheggiante’, di fondamento romano, nella pittura perugina di fine Duecento, a mio parere è dovuta essenzialmente alla presenza degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti. Il contegno solenne e dignitoso, la caratterizzazione sublime, l’alta recitazione delle Storie di Isacco valgono come il più diretto precedente anche per le scene più sostenute della sala dei Notai, come quella con Mosè e Aronne davanti al Faraone. Che, a sua volta, il linguaggio ‘classicheggiante’ delle Storie di Isacco sia romano, lo si potrà ammettere solo in senso molto generale (si veda oltre, pp. 187-201).

30

Per una bibliografia recente sui mosaici del Rusuti, vedi C. Cecchelli, I mosaici della basilica di S. Maria Maggiore, Torino 1956, p. 274; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, Roma 1966, pp. 229-30; Id., Mosaici medievali delle chiese di Roma, Roma 1961, p. 382; W. Oakeshott, The Mosaics of Rome, London 1967, pp. 326-28; H. Kerpp, Die Mosaiken in Santa Maria Maggiore zu Rom, Baden-Baden 1966, figg. 196-

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La pecora di Giotto 209; Bologna, I pittori cit., pp. 132-35; J. Gardner, Pope Nicholas IV and the Decoration of Santa Maria Maggiore, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», XXXVI, 1973, n. I, pp. 1-30, 31

Si veda, ad esempio, Bologna, I pittori cit., p. 134, che ipotizza un ritorno del Rusuti a Roma per terminare i mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore in occasione del trasporto in questa basilica delle spoglie del cardinale Giacomo Colonna, morto in quell’anno. Il Bologna (The Crowning Disc cit., p. 339, nota 38) ha ribadito la sua opinione in favore di una datazione molto più tarda delle Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore rispetto alle figure soprastanti. In questo senso si esprime anche A. Tomei, II ciclo vetero e neotestamentario di Santa Maria in Vescovio, negli Atti del convegno (tenutosi nel maggio 1980) Roma anno 1300, Roma 1983, pp. 355-78 (si vedano le pp. 358-60).

32

Gardner, Pope Nicholas cit. Anche M. Boskovits, Proposte (e conferme) per Pietro Cavallini, in Roma cit., pp. 297-329, pensa che le Storie della fondazione di Santa Maria Madore siano anteriori al 1297, anzi databili entro il 1295, in considerazione della proposta di A. Tomei, per cui si veda la nota successiva.

33

Recentemente Tomei, II ciclo cit., propone di vedere in una testimonianza documentaria del 1295 relativa a importanti lavori fatti eseguire in Santa Maria in Vescovio dal cardinale Gerardo Bianchi da Parma, a quel tempo vescovo della Sabina (di cui la chiesa era cattedrale), un punto di riferimento cronologico per la decorazione ad affresco. Pur non potendo superare lo stadio di una cauta ipotesi, lo studio del Tomei mi sembra un contributo importante e, nel suo complesso, indicativo anch’esso della precocità della presenza giottesca ad Assisi. Anche il Tomei accenna a questa circostanza, pur limitando il discorso alle Storie di Isacco.

34

C. L. Ragghianti, Percorso di Giotto, in «Critica d’arte», 1969, nn. 101-2, pp. 3-78, aveva già notato la dipendenza dei mosaici di Santa Maria Maggiore dalle Storie francescane di Assisi (p. 35).

35

Anche il Gioseffi (Giotto cit., p. 21) aveva sottolineato la differenza di costruzione tra le mensole dipinte da Cimabue e dai romani (notando anche la singolarità delle mensole di mezzo in «prospettiva rovesciata») e quelle dipinte sopra le Storie di san Francesco ad Assisi, di ben altra portata illusionistica. Si veda sopra, p. 16, e oltre, p. 151.

36

L. Bellosi, La rappresentazione dello spazio, in Storia dell’arte italiana, IV, Torino 1980, pp. 1011.

37

San Bonaventura da Bagnorea, Legenda maior, II 2.

38

Nonostante quanto ha ribadito il Bologna (per cui vedi nota 31), a me continuano a sembrare fondati gli argomenti per una datazione ante 1297. Il malconcio mosaico col Sogno di Innocenzo III nel cavetto sul fianco meridionale della facciata di Santa Maria in Aracoeli, databile probabilmente al tempo di Niccolò IV (M. Andaloro, II sogno di Innocenzo III all’Aracoeli, Niccolò IV e la basilica di S. Giovanni in Laterano, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Roma 1984, pp. 29-42), lascia intravedere una concezione non troppo dissimile dell’articolazione dell’architettura. A spiegare la diversità tra la parte alta e le scene in basso nel mosaico di Santa Maria Maggiore si potrebbe ipotizzare un viaggio del Rusuti ad Assisi. Mi pare che i rapporti con le Storie di san Francesco siano troppo diretti e ‘freschi’ perché si possa pensare a una datazione tarda, che renderebbe mal giustificabili gli ‘errori’ nella rappresentazione dello spazio visti sopra.

39

G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze 1568, ed. a cura di P. Della Pergola, L. Grassi, G. Previtali, I, Milano 1962, p. 304: «si condusse in Ascesi, città dell’Umbria, essendovi chiamato da fra’ Giovanni de Muro della Marca,

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La barba di san Francesco

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allora generale de’ frati di San Francesco, dove nella chiesa di sopra dipinse a fresco sotto il corridor che attraversa le finestre, da i due lati della chiesa». A proposito della scarsa attendibilità della notizia del Vasari, va anche tenuto presente che assai difficilmente qualunque generale dell’ordine francescano potrebbe essere stato il committente delle Storie di san Francesco ad Assisi che era una basilica papale; si veda, in proposito, Belting, Die Oberkirche cit. | 40

Due interventi hanno fornito delle conferme indirette della datazione precoce delle Storie francescane di Assisi. Uno è quello di I. Hueck, II cardinale Napoleone Orsini e la cappella di S. Nicola nella basilica francescana di Assisi, negli atti del convegno Roma cit., pp. 187-98, dedicato a una discussione sulla cronologia degli affreschi della cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore. Le sue osservazioni forniscono un serio argomento per una datazione precedente al 1297. Ora, è di tutta evidenza la seriorità di questi affreschi rispetto alle Storie francescane della Basilica Superiore: a chi non bastasse l’esame dei caratteri di stile, che appaiono assai più evoluti rispetto alle Storie francescane, si potrà ricordare - come fa la Hueck - che la facciata della chiesa nel Perdono del console è direttamente ispirata a quella del Compianto delle Clarisse. Un secondo intervento che sollecita indirettamente una datazione precoce è quello di S. Maddalo, Bonifacio VIII e Jacopo Stefaneschi. Ipotesi di lettura dell’affresco della Loggia Lateranense, in «Studi Romani», XXXI, 1983, n. 2, pp. 129-50, che, sulla base di varie considerazioni - la più convincente delle quali è il confronto con l’Incoronazione di Bonifacio VIII illustrata nel De Coronatione dello Stefaneschi, codice Vat. lat. 4933, c. 7v -, sottopone a una critica serrata l’interpretazione tradizionale dell’affresco lateranense come Bonifacio VIII che indice il Giubileo e lo considera invece la Presa di possesso del Laterano da parte di quel papa, che faceva parte delle cerimonie dell’incoronazione, avvenuta il 23 gennaio 1295. L’autrice suppone che l’affresco (in origine molto più ampio, come è noto) fosse stato eseguito verso il 1297, quando più alte si levarono le voci contro la legittimità della successione di Bonifacio VIII a Celestino V. Il linguaggio di questo affresco, che a mio avviso è stato giustamente attribuito dal Bertelli allo stesso autore degli affreschi più moderni del monastero delle Tre Fontane a Roma (si veda oltre, p. 131 e nota 72), presuppone le Storie di san Francesco ad Assisi: che verrebbero - anche per questa via - a sollecitare una retrodatazione rispetto al 1296-1300 circa previsto di solito da chi crede che esse siano opera di Giotto. Per inciso, vorrei notare che anche S. Nessi, La basilica di S. Francesco in Assisi e la sua documentazione storica, Assisi 1982, p. 215 e passim, sembra convinto della validità di quanto ho proposto e argomentato in proposito. Infine, D. Blume, Wandmalerei als Ordenspropaganda, Worms 1983, p. 37, prende già in seria considerazione una datazione delle Storie di san Francesco agli inizi degli anni novanta.

41

P. Murray, Notes on Some Early Giotto Sources, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1953, pp. 58-80. Le Storie di san Francesco sono state collegate col pontificato di Niccolò IV anche da Ragghianti, Percorso cit., ma senza fornire altro argomento a sostegno di questa tesi che non sia quello di una coerenza cronologica all’interno di un percorso giottesco avanguardisticamente anticipato. Va notato che i mosaici dell’ultima vela del Battistero fiorentino, quelli che il Longhi attribuiva a un «Ultimo maestro del Battistero» e che il Ragghianti vuole inserire nel percorso stesso di Giotto giovane, lungi dall’essere degli anni ottanta del Duecento, sarà difficile possano essere collocati prima degli inizi del Trecento, dato che certi particolari della moda non compaiono prima di quell’epoca: la veste della Salomè, ad esempio, è confrontabile solo con quelle delle donne che si vedono nella cappella degli Scrovegni. Su Niccolò IV come possibile committente per Assisi, si veda anche C. H. Mitchell, The Imagery of the Up-

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La pecora di Giotto per Church at Assisi, negli atti del convegno del 1967 Giotto e il suo tempo, Roma 1971, pp. 113-34, che sottolinea l’importanza di Girolamo d’Ascoli, sia come generale dell’ordine sia soprattutto come papa Niccolò IV, per il programma iconografico della decorazione della Basilica Superiore. 42

Andaloro, II sogno cit., afferma categoricamente che «la facciata della basilica lateranense rappresentata da Giotto non presenta alcun elemento attribuibile ad interventi di Niccolò IV». Ma quello di Niccolò IV fu soprattutto un restauro di una «ruentem ecclesiam»; qualunque incertezza interpretativa si possa avere sul significato esatto di un passo della scritta che egli stesso fece apporre («romanus praesul partes circumspicit huius Ecclesie certa jam dependere ruina ante retroque levat destructa reformat et ornat et fundamentis partem componit ab ymis») è chiaro che qualcosa fu fatto anche nella facciata. V. Hoffmann, Die Fassade von San Giovanni in Laterano, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 1978, pp. 1-46, pensa che il mosaico di facciata fosse stato rinnovato da Niccolò IV, probabilmente ad opera del Torriti, e si pone il problema se tutta la parte superiore della facciata fosse stata rinnovata da quel papa. Egli pensa di no, perché vi mancherebbe una forma costruttiva allora moderna, il «cavetto». In realtà, nell’affresco di Assisi il «cavetto» è indicato molto chiaramente (mentre non lo si vede più nella predella delle Stimmate di san Francesco del Louvre né nell’affresco dell’abside di San Francesco a Pistoia, che sono le due immagini antiche di San Giovanni in Laterano di cui si serve l’Hoffmann, che non considera la raffigurazione della Basilica Superiore di Assisi in quanto largamente lacunosa; ma, nonostante la vasta lacuna, è evidentissima la curvatura del «cavetto» così come l’estremità delle ali di uno dei due angeli che in facciata erano figurati a mosaico ai lati del Salvatore) e questo indurrebbe a rispondere positivamente al dubbio dell’Hoffmann. Quanto al termine dependere con cui è indicato lo stato rovinoso della basilica lateranense, mi pare corrisponda in modo puntuale all’affresco assisiate, tanto da spiegarci la singolarità della raffigurazione della chiesa: ‘pendente’ come la torre di Pisa, per intenderci. Credo valga la pena riportare anche, a complemento e per migliore comprensione della più lunga scritta riportata dall’Andaloro, quella apposta nell’abside della basilica lateranense, datata 1290: «Partem posteriorem et anteriorem ruinosas huius sancti templi a fundamentis reedificari fecit et ornari opere mosayco Nicolaus PP. IIII. filius Beati Francisci, sacrum vultum Salvatoris integrum in loco ubi prius miraculose apparuit quando fuit ecclesia consecrata».

43

Lauer, Le palais cit., p. 193.

44

Bologna, I pittori cit., pp. 252-64.

45

II rapporto tra la cattedra papale di Assisi e quella di San Giovanni in Laterano è già stato notato, proprio per via di questa raffigurazione. B. Kleinschmidt, Die Basilika San Francesco in Assisi, I, Berlin 1915, p. 144, nota 1, ricorda che il Rohault de Fleury (Le Latran, p. 185) suppone quella lateranense copiata da quella di Assisi, mentre il Lauer (Le palais cit., p. 228) crede questa supposizione poco verosimile.

46

Si veda H. K. Mann, The Lives of the Popes in the Middle Ages, VII, London 1931, pp. 14-141.

47

Si veda Lauer, Le palais cit. Il fatto che si tratti di un racconto evidentemente leggendario non ne diminuisce il valore indicativo.

48

Queste osservazioni sono già state fatte da C. Brandi, Duccio, Firenze 1951, pp. 130-31, cui interessava metterle in rapporto con la parte della decorazione della Basilica Superiore intrapresa da Cimabue. Egli dava ancora molto peso alla lettura che il Kleinschmidt (Die Basilika cit., p. 192) aveva fatto delle lettere iscritte nel libro del Cristo fra

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La barba di san Francesco

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i Dottori nella vetrata a destra dell’abside - «Nicolaus pulcro modo me fecit picturari GM» - che è risultata errata ad esami più recenti (si veda G. Marchini, Le vetrate dell’Umbria, Corpus vitrearum medii aevi. Italia I, L’Umbria, Roma 1973, p. 30). 49

Vedi G. Fratini, Storia della Basilica e del Convento di S. Francesco in Assisi, Prato 1982, pp. 85-88.

50

Si veda la nota 47.

51

A. Venturi, Storia dell’arte italiana, V, Milano 1907, p. 1050, lo chiama «mecenate del Dugento».

52

Su Niccolò IV «patron of art» vedi Mann, The Lives cit., pp. 196-206.

53

Nonostante l’opinione espressa da Andaloro, II sogno cit., che, per quanto riguarda il Sogno di Innocenzo III della Basilica Superiore di Assisi, il rapporto con Niccolò IV «ne costituisce un presupposto ineliminabile», ma che «cronologicamente non è determinante se non come terminus post quem», mi pare che la prospettiva in cui l’autrice vede il papato di Niccolò IV sia estremamente favorevole all’ipotesi di una sua sostanziale responsabilità per le Storie francescane di Assisi: «dal generalato di S. Bonaventura in poi, il cammino dell’ordine francescano, nonostante tutti gli attriti che drammaticamente lo scuotono, procede nella direzione auspicata dalla chiesa romana, fino al punto che a capo di essa viene eletto un francescano. Con questo avvenimento l’osmosi tra le due istituzioni non poteva avere un sigillo più marcato». E proprio questo momento della massima osmosi possibile tra la Chiesa e l’ordine francescano il più favorevole a che la basilica di Assisi, chiesa-madre dell’ordine e insieme basilica papale, si rivestisse di una splendida decorazione, anche contravvenendo a disposizioni come quelle dei capitoli generali, valide per le costruzioni promosse dall’ordine, ma non per la basilica assisiate, che non è toccata da quelle disposizioni in quanto direttamente dipendente dal papa. Su questo punto, il libro del Belting (Die Oberkirche cit.) ha chiarito qualsiasi dubbio. Si tenga presente anche che la nascita di un «tesoro» della Basilica di San Francesco si deve sostanzialmente a Niccolò IV. Se si pensa alle opere artistiche realizzate da questo papa, e in particolare alla promozione dell’arte figurativa con la commissione dei grandiosi mosaici di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, di nuovo si ha in lui il committente ottimale della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. Più ci si riflette sopra, più viene da pensare a Niccolò IV come a uno dei papi più importanti come mecenati artistici, paragonabile a un Giulio II. Uno studio su questo papa come committente credo sarebbe di enorme utilità da parte di chi si occupa di questi aspetti della storia dell’arte.

54

Pietro Toesca, cui va il grande merito di aver resi noti gli affreschi (Gli antichi affreschi di Santa Maria Maggiore, in «L’Arte», 1906, pp. 312-17), giunse in seguito ad attribuirli a Giotto (II Medioevo, Torino 1914-27, p. 1061); per la fortuna di questa attribuzione, si veda Previtali, Giotto cit., p. 370. Di una possibile attribuzione a Filippo Rusuti si parlerà oltre.

55

Non si può fare a meno di ricordare qui che l’argomento condizionante per la cronologia degli affreschi di Assisi, secondo cui la Volta dei Dottori non dovrebbe essere precedente al 1298 perché solo allora Bonifacio VIII avrebbe decretato il culto dei Dottori della Chiesa, non ha alcuna validità. Nonostante sia ancora utilizzato con imperterrita ostinazione dal Brandi (Giotto, Milano 1983, p. 14), esso è stato già confutato ampiamente e in modo definitivo. Previtali, Giotto cit., p. 38, adduce la testimonianza dell’Enciclopedia cattolica secondo cui il culto dei Dottori è molto più antico di Bonifacio VIII, che si limitò a istituire per essi il «rito doppio». Gardner, Pope Nicholas cit., nota 113, fa notare la raffigurazione dei Padri della Chiesa già nel mosaico absidale di San

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La pecora di Giotto Clemente a Roma. Anche Belting, Die Oberkirche cit., pp. 95-96, confuta quella vecchia illazione cronologica con gli argomenti addotti dal Previtali e dal Gardner e cita l’affresco di San Giovanni a Tubre degli inizi del XIII secolo, cui ha poi dedicato un’attenzione particolare B. Brenk, Zu den Gewölbefresken der Oberkirche in Assisi, in Roma cit., pp. 221-28. In questo affresco, la presenza di Padri della Chiesa è accostata ai simboli degli Evangelisti e alla Dèesis, in un contesto iconografico assai affine a quello delle volte della Basilica Superiore di Assisi.

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«Opus magistri Iocti»

La datazione agli inizi degli anni novanta del Duecento proposta per le Storie di san Francesco spiega meglio le cose in rapporto al grande interrogativo sulla loro paternità. È ben noto come la letteratura giottesca sia divisa da quando il Rintelen pubblicò, nel 1912, la sua monografia sul pittore italiano1, di cui si negava la paternità delle Storie di san Francesco. L’area dei «separatisti» - come credo possiamo chiamare i sostenitori di questa idea, per affinità con la celebre questione omerica - si spostò dal campo tedesco a quello angloamericano dopo la pubblicazione da parte dell’Offner, nel 1939, del celebre saggio Giotto - non Giotto2. Coloro che sono rimasti fedeli all’idea giottesca hanno quasi sempre evitato un confronto sistematico con i separatisti, sicché si sono formati come due circoli chiusi, che hanno dialogato all’interno di se stessi, dando luogo a due letterature parallele su Giotto, a «due verità» giottesche.

I separatisti. La pretesa di questo lavoro è invece di affrontare la questione senza dare niente per scontato e di tenere ben presenti le idee dei separatisti. Parto, naturalmente, dalla considerazione preliminare che ad essi viene a mancare un forte argomento, se è vero che le Storie di san Francesco si possono datare agli inizi degli anni novanta del Duecento. Il punto più debole della tradizione critica che sostiene la paternità giottesca degli affreschi di Assisi era proprio l’aspetto cronologico per cui ci si appoggiava alla testimo-

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La pecora di Giotto

nianza del Vasari che pone le Storie di san Francesco al tempo di Giovanni da Murro, generale dei francescani a partire dal 12963. Ma con questo terminus post quem le Storie di san Francesco venivano a cadere in un tempo così vicino agli affreschi Scrovegni da far dubitare seriamente dell’idea di una paternità unica per i due cicli. Se invece gli affreschi di Assisi sono riferibili agli inizi degli anni novanta del Duecento, possiamo contare su più di dieci anni per una evoluzione dei modi di Giotto da Assisi a Padova: un arco di tempo che lascia respiro anche per altri problemi altrimenti difficilmente collocabili, come il soggiorno riminese del pittore. Altra considerazione preliminare è che, indipendentemente da tutto il resto, gli interventi dei separatisti rimangono all’interno del contesto giottesco. Dal 1912 in qua - e sono passati più di settant’anni - una seria alternativa all’attribuzione a Giotto non si è mai fatta strada; è rimasta solo l’ipotesi «non-Giotto», di puro e semplice segno negativo. Come nel caso del serpente che si morde la coda, tutti gli interventi dei separatisti hanno ruotato intorno a Giotto, sono tutti dedicati al problema giottesco. E questa circostanza, anche da sola, vorrà ben dire qualcosa, e non a favore delle tesi dei separatisti. Col passare degli anni, un’ipotesi, se è buona, trova sempre delle conferme, porta a degli sbocchi positivi, non fosse che per le cose che fa andare a posto. Questo non è certo avvenuto nel caso dell’ipotesi separatista per la quale, col passare degli anni, le cose si sono fatte più problematiche e il saggio Meiss doveva riconoscere che il fardello delle prove era un grave peso sulle spalle di chi nega la paternità giottesca del ciclo francescano di Assisi e che tale fardello si andava ancora appesantendo col seguito delle ricerche4. Il Meiss si riferiva in particolare ai termini ante quem del 1307 e del 1308 che il White ed egli stesso, rispettivamente, avevano potuto stabilire per la datazione del ciclo francescano5; ma quella coscienziosa considerazione si può riferire ad altro ancora. Il fatto è che l’ipotesi separatista nasceva in un clima culturale particolare, che non è più quello attuale; nasceva, inoltre, entro

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«Opus magistri locti»

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un contesto di conoscenze abbastanza diverse da quelle odierne; si presentava, infine, con dei contorni assai netti e perentori: gli affreschi di Assisi si sarebbero differenziati da Giotto non solo per alcuni singoli aspetti di tipo morelliano, ma soprattutto per ragioni più profonde, riguardanti la stessa concezione artistica. Non solo non sarebbero stati opera di Giotto, ma nemmeno della sua cerchia immediata: un tardivo riflesso; per il Rintelen, sarebbero stati di scuola umbra; per l’Offner, di scuola romana6. La loro esecuzione sarebbe caduta intorno al 1320 e comunque molto più tardi di quella che veniva considerata la prima opera di Giotto arrivata fino a noi, e cioè gli affreschi Scrovegni. Successivamente, questa idea si è allontanata da quella perentoria formulazione per adattarsi alle nuove conoscenze, dando l’impressione di essere pronta ad addivenire a notevoli compromessi pur di restare in vita. Così, per un separatista non del tutto convinto come Millard Meiss gli affreschi di Assisi diventavano pressoché contemporanei a quelli di Padova e ad eseguirli sarebbero stati degli scolari di Giotto, forse su qualche indicazione lasciata dal maestro7. Non si può negare che anche in campo avverso cambiava qualcosa, soprattutto quando si prendeva coscienza del fatto che era difficile parlare del ciclo assisiate come di un’opera giottesca in senso stretto e si era sempre più pronti a riconoscere l’ampiezza dell’intervento degli aiuti, fino ad arrivare al concetto di «bottega giottesca» (come è stato formulato dal Previtali nella sua monografia su Giotto e la sua bottega), che va oltre quello romantico di personalità o di autografìa, meno adatto a rispecchiare la situazione operativa dell’artista del Trecento8. Ma osserviamo come si modifica il contesto di convinzioni e dì conoscenze su cui era maturata l’ipotesi separatista. Se il ciclo francescano non poteva essere opera di Giotto, non lo erano nemmeno il Crocifisso di Santa Maria Novella (fig. 104) e la Madonna di San Giorgio alla Costa, nonostante le illustri testimonianze a favore; anzi, queste due opere non potevano riferirsi nemmeno allo stesso artista. L’Offner attribuiva la Madonna di San Giorgio alla Costa al Maestro della Santa Cecilia; ma più tardi egli rivedeva le

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proprie idee ed era pronto ad ammettere che i due dipinti fossero opera di uno stesso pittore e che il Crocifisso di Santa Maria Novella mostrava indubbie affinità col ciclo francescano di Assisi9. Nel momento in cui l’Offner conquistava l’area angloamericana all’ipotesi separatista col celebre Giotto - non Giotto, proprio nella roccaforte dei separatisti, la Germania, si levava la voce dissidente di Oertel10 e da allora gli storici dell’arte tedeschi diventavano molto più inclini ad ammettere la responsabilità di Giotto nel ciclo francescano di Assisi. I separatisti tendevano a sorvolare sugli affreschi dei registri alti della navata di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti, intorno ai quali spirava un’aura romana (gli affreschi erano stati attribuiti perfino al Cavallini)11, mentre Oertel li riconduce decisamente entro l’opera prepadovana di Giotto, insieme al ciclo francescano, al Crocifisso di Santa Maria Novella e alla Madonna di San Giorgio alla Costa, così come facevano in Italia il Toesca e il Longhi. Escludere qualsiasi intervento di Giotto ad Assisi prima della sua attività a Padova sembrò al separatista Millard Meiss andare contro ogni plausibilità storica («general historical plausibility»)12 e fu a seguito di una riflessione su questo punto che propose di identificare l’autore delle Storie di Isacco (fig. 48) con il giovane Giotto. Alle stesse conclusioni arrivò lo Smart, un altro separatista13. Il seguito della decorazione dei registri alti non si manteneva, secondo il Meiss, allo stesso altissimo livello ed assumeva dei caratteri che già annunciavano il ciclo francescano, opera di uno scolaro di Giotto. Nella bottega del pittore fiorentino sarebbe nato anche il Crocifisso di Santa Maria Novella14. Come si vede, il contesto separatista è profondamente mutato rispetto a quello del Rintelen e dell’Offner e oggi anche in America c’è chi da per sicuro che la Madonna di San Giorgio alla Costa e il Crocifisso di Santa Maria Novella siano opera di Giotto15. Un punto di riferimento per le tesi separatiste era l’aspetto romaneggiante delle Storie di san Francesco. Ma in proposito si doveva essere disponibili a non guardare troppo per il sottile; perché, in realtà, si faceva equivalere romaneggiante a cavallinia-

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no, con una semplificazione indebita dal momento che romano non era solo il Cavallini ma anche un pittore ben noto come il Torriti, attivo nell’ultimo decennio del Duecento e presente di sicuro ad Assisi con una cultura pittorica che non presenta aspetti strettamente cavalliniani. Ma Pietro Cavallini era il genio rilanciato da quell’evento clamoroso che fu, all’inizio di questo secolo, la scoperta dei suoi affreschi di Santa Cecilia in Trastevere16. La loro datazione intorno al 1293, che da presunta si incominciò presto a considerare sicura, la loro cultura artistica e la loro alta qualità fecero convergere verso il Cavallini tutte quelle manifestazioni pittoriche innovatrici (ivi compreso il ciclo francescano di Assisi) che tra la fine del Due e gli inizi del Trecento andavano diffondendosi in Italia secondo una formulazione che non sembrava coincidere con quella degli affreschi Scrovegni, cioè della prima opera sicura di Giotto, ma piuttosto con quella degli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere. Nacque così un vero e proprio fenomeno di «pancavallinismo»17. Le Storie di Isacco ad Assisi, la decorazione della sala dei Notai a Perugia, il Maestro di Cesi, gli affreschi romani di Vescovio e di Subiaco, la pittura riminese del primo Trecento, la pittura romana, la pittura campana e perfino quella fiorentina: tutto rientrava nell’orbita del Cavallini. L’Offner, così severo con la testimonianza vasariana sulla paternità giottesca delle Storie di san Francesco, arriva fino a dar credito allo storico aretino quando, nella seconda edizione delle Vite, parla di un’attività del Cavallini a Firenze, grazie alla quale si poteva risolvere il problema fiorentino del Maestro della Santa Cecilia, che non sarebbe stato giottesco ma cavalliniano e «romanizing»18. È evidente la forzatura di un simile modo di vedere le cose. Nella città di Giotto, in tempi in cui Giotto doveva essere già attivo, è molto più credibile che il Maestro della Santa Cecilia sia un giottesco. La fioritura della civiltà pittorica riminese di primo Trecento è molto più probabile che sia avvenuta sotto lo stimolo di Giotto, del quale sappiamo che ha lavorato a Rimini, mentre non c’è nessuna testimonianza di una presenza riminese del Cavallini. La forza del buon senso è bastata a sgonfiare tali eccessi

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di «pancavallinismo», mentre altri aspetti di questo fenomeno sono andati ridimensionandosi. E avremo modo di riparlarne nel capitolo successivo. Un altro punto che non ha avvantaggiato i separatisti è quello della cronologia. Essi consideravano gli affreschi di Assisi più tardi di quelli padovani; per il Rintelen, come abbiamo già detto, erano da collocare verso il 1320. Una sensatissima osservazione del Bracaloni, ripresa dal Kleinschmidt19, secondo cui il ciclo assisiate sarebbe anteriore al 1305 perché la torre del Palazzo Comunale di Assisi raffigurata nell’Omaggio dell’uomo semplice (fig. 45) manca ancora del rialzamento realizzato in quell’anno, fu ingiustamente bistrattata20: in realtà essa rimane valida anche oggi. Furono, comunque, proprio i separatisti a scoprire dei termini ante quem per il ciclo assisiate che diventavano molto imbarazzanti per chi doveva continuare a sostenere la precedenza cronologica del ciclo padovano. White trovò che la scena con la Stigmatizzazione di san Francesco era stata tenuta presente da Giuliano da Rimini nel polittico di Boston, firmato e datato 1307; il Meiss scopri delle citazioni da Assisi nel dossale di Cesi del 130821. La proposta cronologica del Rintelen subiva così un notevole ridimensionamento e con essa l’idea che quanto di giottesco si poteva scorgere nel ciclo assisiate fosse solo un tardivo riflesso. La tesi dei separatisti che rifiutavano di riconoscere nel ciclo di Assisi e nelle tavole fiorentine di San Giorgio alla Costa e di Santa Maria Novella l’attività giovanile, prepadovana di Giotto, subivano un altro colpo dalla riscoperta del polittico di Badia22. Citato dal Ghiberti, esso costituisce un anello di congiunzione tra quelle opere e gli affreschi padovani, tra quelle opere e la Madonna di Ognissanti: per alcuni aspetti ancora «scritto», disegnato e diligentemente modellato come ad Assisi, per altri già pittorico come a Padova. Il ripensamento dell’Offner sui rapporti stilistici tra il Crocifisso di Santa Maria Novella e la Madonna di San Giorgio alla Costa, il ridimensionamento del «pancavallinismo», la scoperta del polittico di Badia, l’ingresso sempre più consistente nel problema giottesco degli affreschi dei registri alti della Basilica Superiore di

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Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti, e la scoperta dei termini ante quem al 1307-308 per le Storie di san Francesco hanno mutato notevolmente il contesto delle conoscenze e delle certezze sulle quali i separatisti fondavano le loro idee, sicché il Meiss deve riconoscere la difficoltà della loro situazione. Ma bisogna dire che anche il clima culturale è assai mutato. Oggi nessuno direbbe, come faceva il Rintelen, che negli affreschi di Assisi è presente «in luogo del fantasioso indefinito di Giotto, una fredda naturalezza, spinta ad una volgare tangibilità»23. Non si nega che nella rappresentazione delle cose il ciclo Scrovegni sia più indefinito e quello di Assisi più naturalistico, oltre a dare l’impressione di una maggiore tangibilità. Ciò che non si può accettare è che a tali caratterizzazioni debbano essere riferiti dei valori positivi o negativi; che, cioè, l’indefinitezza di Padova debba significare una qualità superiore e che la tangibilità di Assisi debba essere invece tacciata di volgarità. Tutto ciò rappresenta un atteggiamento mentale in linea con l’idealismo della cultura del momento, ma non può costituire un criterio di giudizio. L’Offner è meno esplicito, ma anche la sua caratterizzazione degli affreschi di Padova pecca di eccessivo idealismo: in essi, scrive, «l’essere è messo in risalto sul fare, l’eternità sul momento, l’idea sul fenomeno»; «l’uomo è distaccato dagli interessi del mondo», «rappresenta l’essenza della virtù in modo ideale»; il suo sguardo «non è mai occupato da un soggetto estraneo ma riflette sempre uno stato interiore». Le scene di Padova «mantengono una distanza ideale e indeterminata dallo spettatore, come visioni di sogno»; «le architetture, le rocce, gli alberi [...] sono [...] innanzitutto delle astrazioni cubiche». Ed ecco il confronto svantaggioso con Assisi, dove appare un tipo di umanità dalla coscienza refrattaria, mentre a Padova «diventiamo coscienti [...] di uno spirito vivente che dirige il corpo e lo mette in movimento, piuttosto che della sua irriducibile materialità come ad Assisi»24. Se possiamo essere d’accordo sul tono più distaccato e idealizzante del racconto negli affreschi padovani, di contro alla maggiore vivacità naturalistica delle Storie di san Francesco, non possiamo fare a meno di notare una tendenza ad enfatizzare e

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radicalizzare le differenze tra i due cicli da parte dell’Offner, che lo portano a qualche sfallo. Così, quando celebra l’apice idealistico della plasticità giottesca nel Crocifìsso della cappella Scrovegni, dove questa plasticità sarebbe «sentita essenzialmente come una manifestazione dell’immateriale»25, sembra non accorgersi che gran parte di questa immaterialità è dovuta al labile stato di conservazione del dipinto, come si è visto chiaramente in occasione della mostra Da Giotto al Mantegna26. Egli afferma che a Padova «l’architettura è sostanzialmente ideale ed astratta»27, ma con una significativa dimenticanza, non ricorda mai in tutto il suo lungo saggio i due finti ceretti in prospettiva (fig. 40), un apice di concretezza in ordine alla rappresentazione dello spazio che rimarrà insuperato in tutto il Trecento28. Un esperimento singolare e così chiaramente rapportabile, anch’esso, a ragioni di concretezza «spaziosa» come quello delle aureole in scorcio usate per le figure di profilo o di tre quarti (figg. 44, 49, 89) diventa per l’Offner un espediente compositivo e formalistico, «un mezzo sia per far risaltare che per differenziare i personaggi, con l’intenzione di realizzare una più chiara organizzazione nella singola scena e una fluidità ritmica nella narrazione»29; e rappresenta per lui un elemento differenziante tra il ciclo padovano e quello assisiate. Gli angeli-gnomi: Assisi prima di Padova. Un altro evidente travisamento dell’Offner è quello relativo alla raffigurazione degli angeli. «Ad Assisi - egli osserva - gli angeli sono concepiti come abitanti della terra a figura intera, differenziati dall’umanità soltanto dalle loro ali. A Padova essi sono piccoli, simili a gnomi [...] la parte bassa dei loro corpi svanisce in una nuvola, sicché ci meravigliamo di trovarli occasionalmente posati nella loro figura intera su piedi umani. Ma gli angeli di Assisi mantengono il loro corpo intero anche in volo»30. Sembra che l’Offner non si sia accorto che era molto comune in quest’epoca raffigurare gli angeli sotto un duplice aspetto: a figura intera, con i piedi per terra ma anche volanti, oppure a mezza figura

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sempre volanti. Cimabue, ad esempio, usa tutti e due i tipi. Non so quale sia l’origine di questa duplice figurazione e quale ne fosse il significato, ma sta di fatto che anche le Storie di san Francesco non fanno eccezione a questa regola, perché, se in due delle tre scene dove compaiono degli angeli essi sono rappresentati a figura intera, nella terza, la Confessione della donna di Benevento, è presente proprio uno di quegli angeli «piccoli e simili a gnomi» in volo a mezza figura (fig. 38) che l’Offner credeva di aver visto soltanto negli affreschi padovani. Ed essi compaiono anche nella Deposizione del registro alto della navata di Assisi. E vero, tuttavia, che a Padova gli angeli-gnomi sono un po’ diversi (fig. 39): il loro corpo non è tagliato a metà come ad Assisi, ma è interrotto da una nuvoletta che sembra nascondere l’altra metà; inoltre le loro ali non sono, come ad Assisi, formate da lunghe scaglie coloratissime ed astratte ma simili a quelle di un uccello vero. Ma che significa questa differenza? Una cosa sola, mi pare: significa che gli angelignomi di Assisi sono ancora quelli duecenteschi, che si vedono anche - per fare un esempio molto vicino - negli affreschi di Cimabue (fig. 37), mentre gli angeli di Padova sono già quelli che compariranno nelle figurazioni trecentesche. Insomma, significa che gli affreschi di Assisi sono più antichi di quelli di Padova. E bisogna anche riconoscere che l’innovazione di Padova ha un significato squisitamente naturalistico e che, in questo caso, la bilancia di una maggiore astrattezza pende decisamente in favore di Assisi. Assisi prima di Padova: schemi compositivi. Per ora, comunque, concentriamoci sulla circostanza che, come dimostra anche il caso degli angeli-gnomi, gli affreschi di Assisi sono più antichi di quelli di Padova. Questa circostanza giustifica - mi sembra - molte delle differenze innegabili che l’Offner enuclea tra i due cicli. Egli nota, per esempio, che «in contrasto con Padova, dove l’occhio dell’osservatore è costantemente pensato al livello delle teste in primo piano [...] ad Assisi la composizione è vista spesso da sopra»31. Ma di un simile modo

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di comporre le figure si potrebbero citare moltissimi esempi dall’epoca tardoantica alla fine del Duecento, a dimostrazione del fatto che si tratta di una prassi arcaica; ma, per non andare troppo lontano, basta soffermarsi nella stessa Basilica Superiore davanti agli affreschi di Cimabue, come l’Assunzione, le due Crocifissioni, la Visione del trono, il Cristo apocalittico, la Crocifissione di san Pietro, ecc. (figg. 118, 211). E tuttavia, in confronto a queste composizioni, quelle francescane come - ad esempio - la Conferma della Regola (fig. 27) mostrano già un’intenzione «spaziosa», perché le figure si dispongono, è vero, una più in alto dell’altra, ma soprattutto una dietro l’altra, schierandosi lungo linee di fuga che si dirigono verso il centro della scena e dando così l’impressione di degradare nella profondità dello spazio. È un criterio che a Padova viene seguito in scene come l’Ultima Cena, la Lavanda dei piedi o la Pentecoste, ma soprattutto nel Giudizio Finale, dove le schiere degli eletti (figg. 10, 15) si dispongono come il piccolo manipolo di frati inginocchiati dietro san Francesco che presenta la Regola. Anche molte altre differenze tra Assisi e Padova fatte notare dall’Offner in ordine alla disposizione compositiva e «spaziosa» della scena sono spiegabili col fatto che gli affreschi assisiati, essendo più antichi, conservano un maggior numero di elementi tradizionali che le opere giottesche più mature. È evidente che una tradizione figurativa quasi millenaria non poteva essere spazzata via da un giorno all’altro. Così, se in certi affreschi come la Cacciata dei diavoli da Arezzo (fig. 50), diversamente da quanto accade a Padova, «l’azione è spostata su un lato senza alcun elemento figurativo dall’altro lato»32, è perché la tradizione figurativa medievale, insieme a composizioni rigidamente simmetriche, accoglie soprattutto nelle scene narrative - composizioni molto libere da preoccupazioni di bilanciamenti compositivi. Si potrebbero citare molti casi al riguardo, tra affreschi, mosaici, miniature, smalti, rilievi, ecc.; ma basterà ricordare gli esempi più vicini nel tempo di molte scene musive della cupola del Battistero fiorentino, della Predica agli uccelli di Bonaventura Berlinghieri nel dossale di San Francesco a Pescia, di Gioacchino tra i pastori del Maestro di San Martino nella tavola eponima del Museo di

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Pisa, ecc. E un pittore più anziano di Giotto come Duccio di Boninsegna si ricorda di un simile procedimento compositivo ancora nel 1308-11 in alcune storiette della Maestà del Duomo di Siena, come l’Andata ad Emmaus. Del resto, nemmeno a Padova Giotto si era sganciato del tutto da certe consuetudini figurative medievali, come saprà fare poi nelle opere successive. Vorrei segnalare almeno due casi di compromesso (se non di resa) con tradizioni che venivano da molto lontano. Uno è quello delle acque del Giordano nel Battesimo di Cristo. Non che Giotto le raffiguri secondo lo schema della «montagna d’acqua» in cui si era trasformato lo scorcio del Giordano nelle rappresentazioni medievali del Battesimo33, ma resta evidente che nell’affresco di Padova l’acqua forma almeno una leggera altura e che se davvero arrivasse a coprire, come si vede, metà della figura di Cristo, anche parte delle rocce e dei corpi degli altri personaggi ne dovrebbero essere sommersi. Il secondo caso riguarda la rappresentazione della folla nel Bacio di Giuda. Come in tante figurazioni più antiche, da Sant’Angelo in Formis agli affreschi di Cimabue (fig. 211), il vocabolo folla è sempre stato rappresentato da alcune figure in primo piano e da un monticello di teste svettanti dietro queste, a formare un blocco compatto e chiuso. Negli affreschi di Santa Croce Giotto eviterà sistematicamente questo arcaismo, ma a Padova esso è ancora presente, come si vede nel Bacio di Giuda, appunto. Meno generiche e più direttamente implicanti le origini dell’arte di Giotto sono le osservazioni fatte dall’Offner sulla materia pittorica, che, ad Assisi, ha nel panneggio una «lucentezza metallica», nelle rocce «una luce fredda», negli incarnati un tratteggio a striature distinte, molto diverso dal soffice pittoricismo di Padova34. La lucentezza metallica, la luce fredda sono ancora quelle che caratterizzano molte opere di Cimabue o di artisti a lui molto prossimi, come il Crocifisso di Santa Croce, la Madonna dei Servi di Bologna (figg. 209, 228), alcune scene dei mosaici del Battistero di Firenze, la Madonna Rucellai di Duccio (figg. 204, 229) e soprattutto la Madonna di Castelfiorentino (figg. 223, 225). Questo fatto sta a indicare come la formazione di Giotto si svolse probabilmente nella bottega di Cimabue e in

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qualche rapporto col giovane Duccio negli anni intorno al 1285, data della Madonna Rucellai. Ma su questo punto torneremo più avanti35. Qui è importante far notare come questi effetti di lucentezza metallica che caratterizzano ancora le Storie di san Francesco siano anch’essi spiegabili come segni di maggiore arcaismo nei confronti degli affreschi Scrovegni. Anche il modellato a tratteggio si riallaccia direttamente ad una prassi cimabuesca (figg. 145-47), vistosamente denunciata dagli stessi suoi affreschi assisiati. E vedremo più avanti l’importanza che la constatazione di questa filiazione diretta ha nel considerare il problema del Cavallini36. Contrariamente a quanto sembra voler dire l’Offner, Giotto rimarrà sostanzialmente fedele a questo procedimento, come si vede ancora nel tardo Santo Stefano Horne. Altro segno arcaico delle Storie di san Francesco nei confronti degli affreschi Scrovegni è la presenza di una finta tenda nella parte più bassa della parete, sotto le scene figurate (fig. 234). Essa riprende il motivo utilizzato da Cimabue nel transetto della stessa Basilica Superiore (fig. 170), mentre a Padova troviamo un finto zoccolo marmoreo entro cui sono inseriti i finti rilievi dei Vizi e delle Virtù (fig. 40), secondo un’idea più progredita e più sistematicamente architettonica; insomma più trecentesca e così moderna da porsi come il precedente più diretto per un genere di decorazione ad affresco che avrà grande fortuna nel Quattro e Cinquecento: il Chiostro Verde di Santa Maria Novella e il Chiostro dello Scalzo a Firenze ne sono gli esempi più illustri. Ma si pensi anche a tutte le finte statue che i fiamminghi dipingeranno negli sportelli delle loro tavole d’altare, dal Polittico dell‘Agnello mistico in poi; si pensi, infine, alle specchiature di marmi mischi così amate dai pittori italiani di metà Quattrocento. Assisi prima di Padova: la riscoperta del profilo. È singolare che non si sia mai messo l’accento su una evidente disparità figurativa tra Assisi e Padova, che riguarda la rappresentazione del profilo. I due cicli si inseriscono, infatti, nella stra-

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ordinaria storia della scomparsa del profilo nell’arte del Medioevo, che una volta dovrà essere raccontata e che, come la storia della guarigione delle scrofole ricostruita da Marc Bloch come miracolo della sacra regalità medievale, potrebbe diventare una piccola porta di servizio per penetrare qualche aspetto della mentalità dell’uomo medievale dal IV fino al XIV secolo. Dai rilievi della base dell’obelisco di Teodosio a Costantinopoli alla Madonna di Santa Trinità di Cimabue (fig. 203) esiste un filo conduttore nel quale è implicato il concetto di «maestà», che si trasferisce sulle raffigurazioni di monumentali Madonne in trono e sul quale getta qualche luce l’inciso del Cennini: «... in faccia, o vero in maestà»37. Come le figure di Teodosio e dei suoi dignitari, così le immagini sacre e i personaggi positivi esigono sempre la frontalità, e quando, come gli angeli che fanno corona ai troni delle Madonne di fine Duecento, si devono rivolgere verso un’altra figura, lo fanno rimanendo frontali e piegando la testa nella direzione della figura verso cui si volgono. Con Giotto, tutto ciò scompare e già nella Madonna di Ognissanti, ora agli Uffizi, gli angeli si rivolgono alla Vergine disponendosi di profilo. Ma questo è uno dei tanti aspetti della riappropriazione del visibile in termini più mondani e naturali, per non dire naturalistici, operata da Giotto e attuata a Padova con tanta conseguenza da implicare anche l’esperimento delle aureole in scorcio (figg. 44, 89). Alcuni profili, non dico di figure minori ma dello stesso Cristo e della Vergine (figg. 15, 15), sono tra i più puri e solenni di tutto il Trecento e la loro «maestà» è tutta interiore, affidata alla capacità di rappresentarla per forza di espressione e nobiltà di atteggiamento, nonostante la mancanza di frontalità, cioè di quella consuetudine iconografica, durata un millennio, attraverso cui si indicava la dignità e l’importanza del personaggio raffigurato. Una simile consuetudine non aveva mancato di provocare un vero e proprio impoverimento della capacità di vedere un profilo e quando, nelle Storie di san Francesco (figg. 12, 31) ci si prova per la prima volta dopo tanto tempo a reimpiegarlo sistematicamente, esso appare curiosamente irrealizzato e mancante (figg. 99,101). Quelli dei frati dietro san Francesco nella Conferma della Regola (fig. 27), quello del signore di Celano, quello dello stesso san Fran-

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cesco nel Miracolo dell’assetato e tanti altri che si vedono ad Assisi lasciano molto a desiderare sotto l’aspetto naturalistico e in confronto a quelli purissimi e pienamente realizzati di Padova costituiscono un momento più arcaico nella storia del recupero di questo aspetto del visibile. Né si può imputare questo «difetto» a mancanza di qualità. Si può ricorrere a un esempio qualsiasi per spiegare un simile fenomeno. Consideriamo - che so? - gli affreschi intorno all’arco trionfale di San Zeno a Verona38, assai belli e interessanti ma non certo paragonabili con quelli di Assisi per altezza di risultati. Essendo esemplati sulle figurazioni padovane di Giotto, essi contengono profili straordinari e perfettamente svolti. Invece, in opere di cultura più arcaica e ancora soltanto protogiottesca come quelle di un Maestro di San Gaggio o di un Maestro della Santa Cecilia, si ritrovano nella raffigurazione dei profili gli stessi impacci delle Storie di san Francesco ad Assisi. Lo stesso accade a Siena, al tempo di Duccio i cui profili nelle storiette della Maestà sono ancora del tipo assisiate, quando invece Simone Martini e i Lorenzetti, formatisi qualche decennio più tardi, arrivano perfino ai virtuosismi del profilo in scorcio dall’alto o dal basso. Il ritrovare nella pittura riminese di primo Trecento dei profili del tipo assisiate fa pensare che Giotto abbia soggiornato a Rimini in un periodo intermedio fra Assisi e Padova, come qualcuno ha già suggerito per altre ragioni39. Illusionismo architettonico ad Assisi e a Padova. Se alcune differenze tra Assisi e Padova, come quelle relative alla raffigurazione degli angeli, alla collocazione del punto di vista, alle asimmetrie compositive, alla materia pittorica, alla tenda nella zoccolatura o alla realizzazione delle teste in profilo, sono imputabili al fatto che le Storie di san Francesco, in confronto agli affreschi Scrovegni, rappresentano un momento più arcaico in quel processo di reinvenzione e di riorganizzazione del visibile in termini più mondani e meno simbolici (che nemmeno a Padova è del tutto compiuto, come dimostrano i casi della raffigurazione

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delle acque del Giordano nel Battesimo di Cristo e della folla nel Bacio di Giuda), al punto che esse possono considerarsi quasi a metà strada fra Cimabue e il Giotto padovano, altri elementi di diversità sottolineati dall’Offner si giustificano per altre ragioni. Egli considera inconciliabile il sistema di incorniciatura architettonica di Assisi con quello di Padova, il primo realizzato in un vistoso trompe-l’oeil che interferirebbe con le scene figurate distraendo l’osservatore (fig. 234), il secondo molto più discreto, piatto ed esclusivamente decorativo. Ma, intanto, non bisogna dimenticarsi di osservare che tutto l’impianto decorativo di Padova è pure esso organizzato fingendo una ben tangibile intelaiatura architettonica i cui elementi portanti sono costituiti dal finto zoccolo marmoreo e da quattro solidi pilastri, con capitelli e tutto, dipinti ai quattro angoli della cappella e più precisamente alle estremità della parete dell’arco trionfale e della parete di fondo. Qui, tutto il Giudizio Finale è incorniciato, «come se fosse visto attraverso una finestra» (per usare l’espressione con cui l’Offner caratterizza gli affreschi di Assisi differenziandoli da quelli di Padova)40, da un’impalcatura architettonica tanto solida che alcuni dannati dell’Inferno vi camminano sopra. Più ancora impressionanti come puro trompe-l’oeil architettonico sono i due finti coretti in prospettiva sulla parete dell’arco trionfale, che, occupando due spazi in cui avrebbero dovuto trovar posto due storie figurate, interferiscono con gli affreschi e rappresentano la più esplicita dichiarazione che anche a Padova, come ad Assisi, la cornice architettonica finge di far parte dell’architettura reale, giocando su questa idea fino a creare un caso di puro illusionismo architettonico senza precedenti nella storia della pittura italiana. Dell’intelaiatura architettonica della cappella Scrovegni l’Offner sembra aver guardato soltanto alle larghe e piatte fasce verticali: «lungi dal creare un passaggio dallo spazio reale a quello dipinto, come fa la cornice del ciclo di San Francesco, la rete di fasce incornicianti che si vede a Padova rimane sostanzialmente ornamentale ed astratta»41. In realtà, come ha già osservato il Gioseffi, nessuna delle finte membrature architettoniche della cappella Scrovegni, anche le più piatte, manca di un suo spessore.

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Anzi, gli «scorniciamenti» orizzontali sono «scorciati secondo un sott’in su tanto più pronunciato quanto più siano collocati alti»42, al punto che l’ultimo nasconde le parti basse della decorazione dei tre arconi che cerchiano la volta. Diversità di condizioni ambientali fra Assisi e Padova. Astratto in una disamina puramente stilistica, l’Offner non ha considerato nemmeno la profonda diversità di situazione con cui il pittore doveva fare i conti. Ad Assisi, operava nell’ampio spazio di una basilica destinata ad accogliere folle di visitatori e di pellegrini ed aveva a che fare con una sorta di zoccolo orizzontale fortemente aggettante rispetto alle pareti alte su cui si aprono le finestre; a Padova, si trovava invece ad operare in una piccola cappella voluta da un committente che, per quanto ricco e ambizioso, rimaneva pur sempre un privato (fig. 234). Le Storie di san Francesco si svolgevano su un’unica fascia orizzontale e il forte aggetto della parete e l’ampio spazio della navata davano la possibilità di giocare su più ampi aggetti architettonici. Che il sistema decorativo qui messo in opera non fosse un semplice gioco illusionistico vistosamente sottolineato, ma avesse una potenzialità perfettamente funzionale è dimostrato dal fatto che esso riproduce in parte quello che è il reale sviluppo architettonico riscontrabile nel transetto della vicina basilica di Santa Chiara, dove lo stesso alto zoccolo aggettante è coronato da una scorniciatura reale sorretta da una fila di mensole vere. A Padova, invece, il pittore aveva a che fare con pareti lisce da terra fino al sommo della volta (fig. 40). Per di più, vi erano delle buone ragioni contingenti a vietargli di fingere degli aggetti architettonici troppo pronunziati. La più evidente consisteva nella circostanza che aveva a che fare con uno spazio reale molto ridotto in confronto a quello della Basilica di Assisi e fìnti aggetti troppo pronunciati avrebbero dato l’impressione di uno spazio ancora più ristretto; non per nulla il suo grande exploit di illusio-nismo spazioso, i «coretti», non finge un aggetto ma un «recesso» ar-

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chitettonico, che crea uno spazio al di là della parete non al di qua di essa. Di un’altra diversità oggettiva di situazione bisogna poi tener conto: quella delle dimensioni dei riquadri destinati alle storie dipinte, che sono di 270 centimetri di altezza ad Assisi e di 200 a Padova43. Se si considera che la pittura ad affresco aveva come unità di misura la figura umana a grandezza naturale, si può immaginare quali conseguenze diversificanti potesse avere sull’assetto compositivo delle storie dei due cicli una simile differenza di formato44. Essa spiega il maggiore sviluppo architettonico dei riquadri di Assisi, così come la maggiore concentrazione ed organicità di rapporto tra figura e architettura che si è sempre sottolineata negli affreschi padovani, ma che è anche frutto di una forzata riduzione al minimo delle presenze architettoniche: a Padova, le scene sono sempre caratterizzate dalla presenza di un solo elemento architettonico, con l’unica eccezione della Strage degli innocenti dove ne compaiono due. Questa differenza di proporzioni ha condizionato perfino le dimensioni delle figure, che a Padova sono eccezionalmente racorciate in confronto a quelle che si vedono non solo ad Assisi ma in tutto il resto della produzione giottesca. Dunque, per quanto riguarda la diversità di comportamento tra Padova ed Assisi nei confronti della concezione dell’incorniciatura architettonica, essa si spiega in gran parte con la profonda diversità di situazione in cui il pittore si è trovato ad operare. Assisi: nascita della concezione figurativa del secolo di Giotto. Del resto, possiamo guardare le cose anche un po’ più da lontano. Se facciamo un confronto tra i sistemi di incorniciatura dell’affresco medievale fino alla fine del Duecento e quelli trecenteschi si notano subito le profonde differenze di concezione: grafici e decorativi i primi, come se si trattasse di una miniatura ingrandita o di una stoffa appoggiata alla parete; solidi e architettonici

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i secondi, come se fingessero di far parte integrante dell’architettura reale dell’ambiente in cui sono dipinti. Sembra che questa nuova concezione, che si diffonde sistematicamente nella pittura italiana insieme alle novità giottesche, sia particolarmente organica e razionale negli ambienti più vicini a Giotto, tanto da far supporre che essa fosse parte integrante di quelle novità, come la sostituzione del trono di legno tutto elaborato da intagli e torniture e tramato d’oro, in uso fino al tempo di Cimabue e del giovane Duccio, con un trono architettonico in uso da Giotto in poi. In questa prospettiva, la cornice architettonica di Assisi apparirà soltanto come più vistosamente architettonica di quella di Padova, ma ugualmente architettonica e giottesca, e non dissimile da quelle usate dai pittori più vicini a Giotto quando hanno a disposizione spazi che lo permettano. In particolare, l’uso di solide colonne ai lati delle figurazioni ad affresco si ritrova nella cappella di San Nicola e in quella della Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi, nella cappella Baroncelli e in quella Rinuccini a Santa Croce, ecc. San Francesco, personaggio da «comedia». Riflettiamo ora su un’altra delle differenze che, secondo l’Offner, renderebbero inconciliabili le Storie di san Francesco e gli affreschi Scrovegni o quelle che egli considera le opere autografe di Giotto. A dire dell’Offner, ad Assisi l’azione è resa in modo naturalistico; le figure umane hanno un’esistenza fisica e rispondono a tutte le sollecitazioni del mondo fisico, «sono presentate come felicemente consapevoli dei loro corpi e dei loro gesti, occupate nei propri pensieri, essendo scopertamente coscienti di quanto sta accadendo»; è imitata la mutevole varietà del mondo reale. In Giotto, invece, è l’atemporale e il generico; «l’espressione non risponde mai ad un momento ma è rapportata all’eternità»45. Sono osservazioni bellissime, ma caratterizzano davvero l’intero campionario umano figurato da Giotto a Padova? Esse si attagliano perfettamente alle figure di Cristo, di Maria, di Gioac-

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chino, di Anna, degli angeli, degli Apostoli, insomma dei più venerandi e solenni personaggi che agiscono in questi affreschi. Ma se spostiamo lo sguardo sui personaggi minori, sulle «comparse» di queste storie, ci troviamo di fronte ad un’umanità più feriale, ordinaria e segnata perfino da caratterizzazioni comiche o grottesche. I pastori intorno a Gioacchino, alcune comari di Anna che ridono presso la Porta Aurea (fig. 100), i servi nelle Nozze di Cana (fig. 102), molti dei soldati e dei seviziatori nelle scene della Passione, alcuni fra gli Eletti e quasi tutti i Dannati del Giudizio Finale, alcune delle personificazioni dei Vizi e delle Virtù nei finti rilievi marmorei dello zoccolo, ecc., sono figure per le quali le osservazioni dell’Offner sull’umanità giottesca cadrebbero nel vuoto, mettendo in evidenza, per contro, la potenzialità di Giotto in ordine alla congrua raffigurazione di un tipo di umanità più umile. Questa intenzionale diversificazione di livelli di umanità apre dei problemi estremamente affascinanti, soprattutto per i riscontri e le affinità con la letteratura teatrale. Dalle sacre rappresentazioni medievali - in particolare modo quelle tedesche - alle tragedie di Shakespeare è viva la tradizione di un doppio livello di dignità delle situazioni e dei personaggi (i tragici protagonisti e le comiche comparse; gli episodi seri e quelli grotteschi; le Pie Donne, Rubino e la medichessa nel Mistero pasquale di Eriau; Macbeth e il portiere del castello di Inverness, ecc.) che interagiscono, dando coloriture diversificate ad un’opera che rimane comunque unitaria. Ai personaggi minori degli affreschi Scrovegni sembrano attagliarsi perfettamente le osservazioni che l’Offner fa a proposito del tipo di umanità figurata nelle Storie di san Francesco: «uomini dall’animo semplice che vivono strappando alla terra le loro necessità corporee», «la loro coscienza è refrattaria se paragonata alle creature di Padova, spiritualmente più evolute», in cui «tutto l’uomo appartiene ad un più alto ordine di sensibilità»46. Se Giotto ha potuto concepire a Padova un’umanità minore che agisce intorno a personaggi esprimenti un più alto grado di consapevolezza e di dignità, bisognerà chiedersi se non sia possibile che ad Assisi si fosse posto - per qualche ragione - il problema di

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caratterizzare intenzionalmente tutte le Storie di san Francesco con questo tipo «inferiore» di umanità. Nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore a Roma, compiuto dal Torriti nel 1296, san Francesco e sant’Antonio da Padova sono presenti alla Incoronazione della Vergine insieme ai santi Pietro, Paolo, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista (fig. 4). Le figure di questi ultimi quattro santi stanno erette, impassibili, solennemente ammantate; quelle di san Francesco e di sant’Antonio, poste alle due estremità, sono un po’ ripiegate su se stesse, più pateticamente caratterizzate e perfino più piccole di statura, come figure minori in quell’alto consesso. Essi comparivano in una situazione simile anche nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano (fig. 3), dove, a giudicare dalle condizioni attuali, questa differenza di caratterizzazione doveva essere ancora più marcata, non fosse altro che per le loro proporzioni ancora più ridotte. Che le figure dei due moderni santi francescani (evidentemente volute dal committente dei due mosaici, Niccolò IV, il primo francescano arrivato a diventare papa) fossero sentite quasi come delle intrusioni in questi contesti ne è una riprova indiretta la notizia, significativa anche se leggendaria, che Bonifacio VIII avrebbe voluto farle togliere dall’abside di San Giovanni in Laterano47. Ma se alla fine del Duecento si percepiva questa differenza tra un santo moderno, sia pure popolarissimo come san Francesco, e i protagonisti dei fatti più solenni e importanti della storia del cristianesimo, sembra molto conseguente che tale differenza diversifichi le Storie di san Francesco ad Assisi da quelle di Maria e di Cristo a Padova. Che fosse messa in atto una intenzionale differenziazione di livelli di stile non sembrerà impossibile, se si pensa che siamo nella stessa epoca in cui Dante stava dando forma sistematica ad un simile comportamento in letteratura, basato su una differenziazione di stile e di linguaggio a seconda degli argomenti trattati. La sua teoria dei diversi livelli di stile è chiaramente formulata nel De vulgari eloquentia: «Per tragediam superiorem stilum inducimus, per comediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum». Il linguaggio stesso deve differenziarsi: «si tragica

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canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre [...] si vero comice, tunc quandoque mediocre quandoque humile vulgare sumatur [...] si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere»48. Ed è tanto importante questa concezione che Dante chiamò Comedia il suo grande poema. È in questa prospettiva di un san Francesco personaggio da «commedia», per esprimersi in termini danteschi, che si può ridurre ad unità il diverso comportamento artistico e la diversa caratterizzazione umana delle Storie di san Francesco ad Assisi e delle Storie di Maria e di Cristo a Padova. Tutto fa credere che questa intenzionale differenziazione nasca da una concezione gerarchica dei diversi gradi di santità, se non addirittura da una volontà di diminuire la dignità della figura di san Francesco per farla regredire al livello di un’umanità reale, meglio confrontabile con quella con cui l’uomo comune si trova normalmente in contatto. Negli affreschi di Assisi, il santo non è il campione di una umanità superiore, ma piuttosto caratterizzato come un frate particolarmente pio, protagonista di scene edificanti. La sua figura rivoluzionaria è così rimessa in riga fra i tanti santi che la Chiesa aveva avuto. Ricordo un breve passaggio di Poesia informa di rosa in cui Pier Paolo Pasolini accenna a «quei memorabili affreschi pieni di devoti | che fanno i devoti, col santo marroncino, slavato | che contro colate di blu di prussia, | fa il santo...»49: vi è tutta la delusione di fronte a questa interpretazione curiale delle Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi.

Modernità rivoluzionaria delle «Storie di san Francesco». Ma se alla base di questa concezione appare trasparente quello che il Belting chiama il «compito» assegnato agli artisti dalla committenza della decorazione assisiate50, la parte avuta dal pittore in questo «compito» sta nell’aver ribaltato il significato conservatore di una simile interpretazione di san Francesco, così chiaramente segnata dall’ottica di parte «conventuale», in una vi-

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sione realistica e concreta del mondo, che si esprime in termini di contemporaneità. Cosa c’è di più moderno in tutta l’arte occidentale, verso il 1290-95, di queste Storie di san Francesco? E non si tratta soltanto della riappropriazione del mondo visibile in termini di volume e di spazio: questo aspetto, pur fondamentale, che significava ritornare a dar valore dopo quasi un millennio alla realtà fenomenica che l’uomo controlla con la propria esperienza (di contro al cosiddetto «realismo» medievale che concepiva la realtà sensibile come simbolo della «vera» realtà, quella oltremondana), rientrava in una più vasta riconsiderazione del mondo e dell’uomo in termini più naturali e terreni. Dalla figura umana scomparivano quelle deformazioni grafiche astrattive, di formulazione bizantina, che con Cimabue e col giovane Duccio si erano soltanto addolcite: gli occhi-occhiali, il naso a becco, le mani a forchetta, l’anatomia segnata da righe simboliche, il ventre a tre pance, ecc. Le fisionomie tornano a differenziarsi fin quasi a rasentare il ritratto, in un’epoca in cui soltanto la scultura poteva già vantare delle esperienze in questa direzione e soltanto la riflessione filosofica di Duns Scoto tornava a mettere l’accento sull’importanza delle realtà individuali (hecceitas). L’anatomia umana si normalizza, conquistando una verità prima sconosciuta; ne è un esempio il nudo parziale del giovane san Francesco nella Rinuncia ai beni, che, pur nell’impaccio come di crisalide che rimarrà sempre nei nudi trecenteschi, mostra una verità straordinaria nella descrizione delle scapole e delle costole che deve aver sbalordito i contemporanei. Il profilo di un volto ritorna ad assumere quel valore positivo che gli era stato negato per quasi un millennio, o almeno la neutralità e la normalità che gli attribuisce l’esperienza visiva. Per la prima volta, in pittura, la gente ritorna a sorridere, di un sorriso che è qualcosa di più di quello della scultura francese della seconda metà del Duecento, perché rappresenta solo uno dei tanti «affetti» che tornano a segnare il volto, il gesto e l’atteggiamento delle figure, dopo tanti secoli di compassata etichetta gestuale. Che impressione doveva fare sui contemporanei la figura del padre di san Francesco nella Rinuncia ai beni (fig. 29), che esprime

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la propria ira contraendo il volto, avanzando contro il figlio, stringendo il pugno e tendendo il braccio trattenuto saldamente da un amico! Gli occhi, il volto, l’atteggiamento, il gesto ritornano ad essere parlanti ed espressivi. Qualcuno, assumendo lo stesso atteggiamento di chi sgrida un bambino perché si mette le dita nel naso, ha criticato il modo di gestire dei personaggi delle Storie francescane di Assisi51; per esempio, il moto quasi da autostoppista di san Francesco nella Predica ad Onorio (fig. 41). Ma evidentemente esso era perfettamente in linea con le regole di buona creanza dell’epoca di Giotto, dato che quel gesto, oltre a comparire in una delle scene della Passione (fig. 42) tra gli affreschi Scrovegni (come è stato già notato)52, ha fatto scuola ed è stato riutilizzato in tanti capolavori della pittura italiana del Trecento; per esempio, nella celebre Madonna dei tramonti di Pietro Lorenzetti nella Basilica Inferiore di Assisi, dove a compierlo è la Madonna in persona; oppure nell’Annunciazione del 1344 del fratello Ambrogio, dove quel gesto è compiuto dall’angelo. Ma l’intera scena della Predica ad Onorio offre un vasto campionario di bellissimi gesti di meditazione a tutta la pittura del Trecento, utilizzati in modo stupendo soprattutto dai fratelli Lorenzetti; e basterà ricordare l’affresco di Ambrogio in San Francesco a Siena con la Vestizione di san Ludovico da Tolosa. Insieme all’attenzione per gli aspetti individualizzanti e concreti del visibile, con le Storie di san Francesco entra sistematicamente nella pittura italiana una concezione positiva del contemporaneo. Scompaiono, così, le anacronistiche toghe, clamidi e tuniche del vestiario tardoromano e orientale: quella di san Francesco era una storia moderna ed era assurdo continuare a figurarla in panni antichi come avevano fatto Bonaventura Berlinghieri e gli altri artisti duecenteschi che si erano trovati a dipingere dossali con san Francesco e gli episodi della sua vita. Dagli affreschi di Assisi in avanti la rivalutazione del contemporaneo diventerà uno degli aspetti caratterizzanti della pittura italiana del Tre e Quattrocento, che vestirà in abiti moderni perfino i personaggi di scene molto antiche, al punto che spesso si possono avere dei precisi punti di riferimento cronologico istituendo

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dei confronti con l’evoluzione della moda53. Anche per questo aspetto qualche precedente si era avuto in scultura; per esempio nei rilievi dell’arca di San Domenico a Bologna (fig. 11), commissionati a Nicola Pisano, o nella Fontana Maggiore di Perugia eseguita congiuntamente da Nicola e Giovanni Pisano. E perfino la pittura presenta qualche caso più antico delle Storie di san Francesco, come la tavola della Santa Chiara del 1283 nella vicina basilica di Santa Chiara ad Assisi (figg. 13, 16), dove, come abbiamo visto, le storie della santa sono figurate in abiti contemporanei. Ma assolutamente inedita era la rappresentazione sistematica degli ambienti, dalle architetture alle suppellettili, in termini di contemporaneità; perfino il Maestro della Santa Chiara aveva continuato ad ambientare le storie della santa entro le tradizionali architetture orientaleggianti di formula bizantina (fig. 13): colonne, finestre, archi, cupole come non si usavano più in Italia da tempo immemorabile e che invece ricordavano il Palazzo di Teodorico nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i paesaggi della Moschea di Damasco, le architetture che si vedevano nelle illustrazioni dei Menologi e delle Omelie orientali, palazzi di basilei e basilisse ridotti a cifre grafiche, le muraglie divenute trine. Invece, nelle Storie di san Francesco della Basilica Superiore di Assisi (figg. 43, 45, 50) vengono ritratte per la prima volta delle strutture architettoniche moderne, non necessariamente gotiche (anche se nella Predica ad Onorio troviamo le prime volte gotiche messe in prospettiva della pittura italiana), ma certo quelle in funzione nell’Italia centrale di allora, paragonabili con cibori arnolfiani (come quelli di San Paolo fuori le Mura e di Santa Cecilia in Trastevere a Roma), con cattedre cosmatesche (come quella papale nell’abside della stessa Basilica Superiore di Assisi, fig. 172), con sale capitolari dalle tre aperture di rito, con aule riccamente voltate o cassettonate o coronate da file di archetti sorretti da mensole fortemente aggettanti, con facciate e absidi di chiese sontuosamente adorne di marmi intarsiati, di sculture, di pinnacoli, di rosoni, di bifore gotiche, di cuspidi, di gattoni rampanti, ecc. E vi si vedono tante decorazioni cosmatesche, quelle che hanno fatto parlare di influssi specifici dell’arte romana, ma che ormai, dopo due secoli che i marmorari romani

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le avevano adottate, eran diventate patrimonio comune della decorazione architettonica italiana, o almeno dell’Italia centromeridionale54. Con la stessa intensità che sulla facciata del Duomo di Orvieto o sui monumenti sepolcrali di Arnolfo di Cambio, le piccole tessere marmoree brillano di colori vivi e diversi negli affreschi assisiati, decorando cornicioni, architravi, pinnacoli o perfino lo sgabello su cui Onorio ascolta la predica di san Francesco, così come brillavano nelle architetture e nelle ricche suppellettili ecclesiastiche della sovrastante Volta dei Dottori. E cosa dire della ricostruzione di veri e propri ambienti, come nel Presepe di Greccio (fig. 43) l’interno di una chiesa visto dalla parte dell’abside da dietro l’iconostasi che le donne non possono oltrepassare, da dietro l’altare col suo ricco ciborio, da dietro il badalone con il grande libro corale per i cantori illuminato da tante candeline, da dietro il pulpito, da dietro il crocifìsso ligneo che pende verso la navata mostrando solo il retro debitamente parchettato: immagine sacra ridiventata semplice oggetto. Ed è probabile che a noi sfuggano certi ritratti di ambienti perché magari sono andati distrutti i termini di confronto, che invece potevano saltare agli occhi ai contemporanei; ma almeno uno è ancora possibile riconoscerlo, quello della piazza di Assisi nell’Omaggio dell’uomo semplice (fig. 45), con il tempio della Minerva e con il Palazzo Comunale la cui torre è oggi più alta perché nel 1305 vi fu aggiunto un piano55. Certo, non ci possiamo aspettare una fedeltà fotografica, ma anche soltanto l’idea di ricostruire almeno indicativamente un ambiente reale è un fatto talmente straordinario e nuovo nella storia della pittura (lo Smart definisce questo affresco la prima scena in una strada della pittura italiana)56 da porsi come un punto d’arrivo, nonostante che l’esecuzione di questo affresco sia imputabile in gran parte alla bottega57. Un punto d’arrivo che, a giudicare dalle opere giunte fino a noi, sembra non sia stato più tentato da Giotto; ma esso costituisce il più diretto precedente per quello straordinario sviluppo della rappresentazione dello spazio come ritratto topografico58 che rappresenta il più grande contributo artistico portato dalla pittura senese della prima metà

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del Trecento, lungo le tappe che vanno dal Castello dì Giuncarico recentemente scoperto nel Palazzo Pubblico (e che, a mio avviso, è uno straordinario exploit del vecchio Duccio)59, al Guidoriccio di Simone Martini al Buongovemo di Ambrogio Lorenzetti. Il seguito della sperimentazione spaziosa di Giotto e dei suoi più diretti seguaci ha raggiunto dei vertici da far pensare alla pittura prospettica del Quattrocento, ma in una direzione più astratta, dimostrativa e virtuosistica di quanto non accada nella pittura senese contemporanea. Giotto ad Assisi e la plausibilità storica. Anche limitando il nostro esame a questi soli aspetti, le Storie di san Francesco ad Assisi assumono una tale importanza nella storia della pittura italiana, soprattutto se collocati al livello cronologico che loro spetta, cioè agli inizi degli anni novanta del Duecento, da spingerci a riprendere in mano le considerazioni che il Meiss faceva a proposito dei problemi che porrebbe l’esclusione della paternità giottesca in ordine a un criterio di plausibilità storica. Il significato naturalistico che la letteratura artistica del Trecento attribuisce alla radicale innovazione operata da Giotto in pittura si coglie prima di tutto nel ciclo francescano di Assisi e anche solo in base a questa considerazione sarebbe davvero irragionevole e contrario a ogni logica negarne la paternità giottesca. Per continuare a farlo, i separatisti, dovrebbero portare delle prove troppo più concrete di quelle che sono state avanzate fino ad ora. Né va dimenticato che tra le ragioni di «general historical plausibility» c’è, come metteva in evidenza il Meiss, il passo di Riccobaldo Ferrarese che nel secondo decennio del Trecento elencava la decorazione della Basilica di Assisi come prima tra le opere di Giotto60. Il grande storico dell’arte americano sopiva i suoi rimorsi di coscienza di separatista proponendo di vedere all’opera il giovane Giotto negli affreschi dei registri alti della navata, dalle Storie di Isacco (fig. 48) in avanti61. A questi affreschi l’Offner aveva accennato

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solo di sfuggita; quando egli scriveva non erano ancora entrati stabilmente nel problema giottesco. Ma se anche un separatista può accedere all’idea che essi siano opera di Giotto, allora la differenza di caratterizzazione della figura umana rimane quasi il solo aspetto che li distingue dalle Storie di san Francesco, perché gran parte delle difformità enucleate dall’Offner tra il suo Giotto e l’autore delle Storie di san Francesco vengono a cadere: il modo di drappeggiare, di modellare, di concepire gli angeli, le rocce, la flora, la fauna o le aureole sono sostanzialmente identici nei registri alti della navata e nelle Storie di san Francesco. Anche qui la forma umana è espressa in termini scultorei; anche qui, «lo spazio ha un valore di vuoto tanto più esplicito quanto più densamente solida è la forma»62, come dice l’Offner per le Storie di san Francesco. Anche qui è una tal quale arcaica rigidezza (l’Offner arriva a parlare di figure anchilosate per le Storie di san Francesco)63 in confronto alla più evoluta «flessibilità» e «suscettibilità al movimento» delle figure di Padova. Anche qui è una forte accentuazione della decorazione architettonica dipinta; è vero che i fregi sono ancora perfettamente conformi a quelli vegetali e grafici di Cimabue e degli altri pittori che hanno iniziato la decorazione della Basilica Superiore; ma è innegabile che l’ultima campata, quella d’ingresso (fig. 171), tutta affrescata sotto la direzione del pittore che aveva eseguito le Storie di Isacco, è caratterizzata da un vistoso infittirsi della presenza di architetture dipinte; nell’arcone d’ingresso, le coppie di santi a figura intera sono inserite in una partitura puramente architettonica, che costituisce la premessa più immediata alle soluzioni adottate per l’inquadratura delle Storie di san Francesco64. Dalle «Storie di Isacco» alle «Storie di san Francesco». Il White rileva una sostanziale differenza di modellato tra la testa di Giacobbe e quella del giovane san Francesco che dona il mantello al povero65 (figg. 58, 64); ma cosa dire delle differenze che si possono rilevare tra le varie parti di uno stesso affresco della Leggenda

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di san Francesco? Per esempio, nel Presepe di Greccio (fig. 43), tra la stupenda testa di uno dei cantori e quelle poverissime dei due accoliti dietro il sacerdote celebrante; o, nella Morte di san Francesco, tra le bellissime teste degli angeli in alto a destra (figg. 46, 47) (che reggono bene il confronto con il gruppo della Madonna e gli angeli nel Giudizio Finale di Padova) e quelle degli angeli al centro che portano in cielo l’animula del santo, di un’esecuzione meticolosa e banale. Oppure, tra affresco e affresco: quanta differenza tra il Dono del mantello e la Prova del fuoco davanti al Sultano, dove le figure raggiungono uno dei livelli di esecuzione più modesti di tutti i ventotto riquadri francescani! Bisognerà dunque pensare che siamo di fronte alla tipica situazione tre-quattrocentesca (da Giotto a Raffaello) di una grossa impresa artistica compiuta dal «maestro» a cui è stata commissionata (e che, eventualmente, vi iscriverà il proprio nome) con l’aiuto di una bottega più o meno numerosa composta da persone che ne eseguono fedelmente le direttive. In altra occasione ho citato un esempio che abbiamo oggi davanti agli occhi e che può essere utile a farci capire come andavano le cose: quello delle ditte dei grandi restauratori. Quante campagne di restauro debbono essere giustamente attribuite a Tintori, nonostante che in gran parte siano state eseguite dai suoi aiutanti, che ne hanno seguito scrupolosamente le direttive, a volte senza lavorare nemmeno sotto i suoi occhi66! Sono convinto che, tenendo presente questo esempio, si possa arrivare a giustificare differenze di esecuzione nel contesto di un vasto gruppo di affreschi che, dalle Storie di Isacco fino all’Omaggio dell’uomo semplice, si possono attribuire alle direttive, alla mente e parzialmente ali’esecuzione di una sola, geniale personalità. Leggendo gli interventi di separatisti come il Meiss e il White, ci imbattiamo continuamente in osservazioni che mettono in risalto la genialità degli artisti diversi che avrebbero eseguito questi affreschi, rinnovando profondamente la pittura italiana in una direzione molto simile e ognuno preludendo all’altro. Secondo il Meiss, una parte degli affreschi dei registri alti non può essere dello stesso pittore che ha eseguito le Storie di Isacco, in quanto

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sterza in direzione dei modi delle Storie di san Francesco67. Il White è convinto che «il Maestro di Isacco deve essere inserito fra i più grandi di quei pochi genii eccezionali che fondarono la nuova scuola della pittura italiana». D’altra parte, la scena della Pentecoste è il preludio immediato alle Storie di san Francesco; le quali Storie di san Francesco «rappresentano uno degli eventi più importanti nella storia dell’arte non solo italiana ma europea»68. Già questi apprezzamenti e queste ammissioni di stretti rapporti tra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco sono altamente significativi. Ma, nonostante alcune opinioni contrarie, fra le quali quella del Brandi69, mi pare che i rapporti tra le due zone affrescate siano talmente stretti che si possono ricoverare tranquillamente sotto l’egida di un solo pittore, come ideatore e in parte come esecutore, pur con l’aiuto determinante di alcuni collaboratori. Ma vorrei andare oltre le dichiarazioni verbali per indicare almeno alcuni punti di contatto che mi paiono particolarmente rivelatori. Dovremmo incominciare, credo, dall’aspetto tecnico. Dopo i rilevamenti del Meiss e del Tintori70, emerge chiaramente che le Storie di Isacco segnano nella decorazione della Basilica Superiore uno stacco non soltanto stilistico, ma anche tecnico. Fino a quel punto, dal transetto alla navata, gli affreschi erano stati eseguiti col sistema delle pontate, dalle Storie di Isacco a tutte le Storie di san Francesco sono eseguiti con la nuova tecnica delle «giornate». Non è ancora un dato che ci assicuri anche dell’unità di esecuzione di questo gruppo di affreschi, ma resta il fatto che essi sono unificati dal comune denominatore di un rinnovamento tecnico che inaugura la grande avventura della pittura ad affresco italiana. Le due Storie di Isacco (fig. 48) contengono, comunque, tutti gli elementi che caratterizzano gli affreschi successivi, dalla Volta dei Dottori alle ultime Storie di san Francesco. Converrà fermarci, innanzitutto, sulla rappresentazione dello spazio, senza limitarci, tuttavia, all’astratta formulazione - come si fa troppo spesso - ma facendo caso anche alle soluzioni più particolari, agli arredi, agli aspetti decorativi e ai personalissimi «tic» disegnativi.

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Le Storie di Isacco segnano l’inizio di una nuova concezione della pittura come restituzione di una realtà a tre dimensioni in cui lo spazio e il volume delle cose riacquistano tutta la loro terrena potenzialità. Le due composizioni sono rese razionali e nitide dal calibrato inserimento della regolarissima scatola architettonica entro la cornice dell’affresco, conformandosi ad essa per linee perpendicolari e parallele. Questa regolarità è ottenuta anche grazie ad uno stratagemma che è stato certamente suggerito dal controllo diretto sugli aspetti del mondo visibile. Guardando il fianco di una costruzione coperta da un tetto a capanna, non al centro ma in una posizione che permetta di vedere anche un po’ della facciata, si può trovare un punto in cui, per l’effetto dello scorcio, la linea orizzontale formata dalla sommità del tetto viene a coincidere con quella formata dal bordo della tettoia; si crea così un’unica linea retta che arriva fino al vertice dello spiovente del tetto, in facciata. Questo effetto, dovuto alla veduta dal basso, è messo in pratica, pur con qualche minima irregolarità, nei due edifici in cui si svolgono le due Storie di Isacco (fig. 48) e così la loro profilatura in alto viene ad essere, quasi tutta, perfettamente parallela alla linea della cornice dell’affresco, contribuendo al senso di calcolata regolarità della composizione. È chiaro che, per osservare un effetto di questo genere e per tradurlo in pittura era necessaria una sensibilità visiva sviluppatissima e già rivolta verso il problema della resa della tridimensionalità dello spazio. Né il Cavallini, né Duccio, né il Maestro della Santa Cecilia, né i riminesi di primo Trecento sono ricorsi mai - almeno a giudicare dalle opere arrivate fino a noi - ad un simile stratagemma figurativo, che ha tutta l’aria di essere una trovata personale del pittore delle Storie di Isacco. Questa trovata fa di nuovo la sua comparsa nelle Storie di san Francesco (nonché negli affreschi Scrovegni) ed assume un carattere particolarmente vistoso nell’Omaggio dell’uomo semplice (fig. 45), dove il caseggiato in alto a destra a due logge sovrapposte ha il tetto allineato lungo una unica retta, parallela alla cornice dell’affresco, dall’estremità sinistra della tettoia fino al vertice dello spiovente. I due «oggetti architettonici» dalla squadratura così rigorosa

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in cui si svolgono le Storie di Isacco sono riccamente connotati da un sistema di decorazioni e di suppellettili che caratterizza tutti gli affreschi successivi della Basilica Superiore di Assisi, fino alle ultime Storie di san Francesco. Per esempio l’alcova di Isacco (fig. 48) è molto simile a quelle in cui si svolgono il Sogno del palazzo con le armi e il Sogno di Innocenzo III (fig. 34): identici sistemi di cortine di stoffa dai sontuosi disegni geometrici, scostate e fermate ai sostegni laterali, pendono da due aste orizzontali, una più illuminata e più grossa in primo piano, l’altra più in ombra e più sottile (per calcolo prospettico) sul fondo. Negli affreschi successivi ritornano continuamente anche la singolare cassettonatura del soffitto e la decorazione architettonica a tarsie marmoree cosmatesche. Questi due motivi, tuttavia, non si possono considerare una novità assoluta in questa serie di affreschi: essi comparivano già nel transetto e nell’abside della Basilica Superiore (figg. 172, 199, 233); ma vi è una differenza sostanziale, perché Cimabue li usava soltanto per decorare l’incorniciatura degli affreschi, mentre dalle Storie di Isacco in avanti essi decorano anche le architetture e le suppellettili marmoree che fanno parte delle scene affrescate (figg. 48, 34). Le generiche quinte architettoniche orientaleggianti di Cimabue sono sostituite da architetture perfettamente confrontabili con quelle reali, in uso nell’Italia centrale alla fine del Duecento. Questo passo fondamentale è compiuto con le Storie di Isacco e da allora in avanti tutti gli artisti italiani vi si atterranno. Tuttavia, i motivi cosmateschi sono usati ad Assisi con una particolare coerenza e freschezza, e diventano vivacissimi nella Volta dei Dottori, che, trovandosi nella campata successiva a quella con le Storie di Isacco, fu dipinta subito dopo. Qui le architetture sostengono, più che contenere, gli otto personaggi circondati da un sistema complesso di suppellettili sontuosamente arricchite dalla decorazione cosmatesca e ispirate evidentemente alle suppellettili marmoree d’uso, alle transenne, agli amboni, ai plutei e perfino ai pavimenti che si vedevano nelle più ricche chiese di allora71. Questa decorazione continua negli affreschi successivi e alcuni passaggi delle Storie di san Francesco sono particolarmente affini, per questo aspetto, alle Storie di Isacco, così

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come molta della suppellettile che ne arreda gli ambienti (per esempio la pedana della sedia papale nella Predica ad Onorio) rimanda immediatamente alla Volta dei Dottori. Ma la decorazione cosmatesca non è l’unico motivo di ornato architettonico: è solo il più vistoso. Così, nella Cacciata dei diavoli da Arezzo (fig. 50), con tutte le architetture e i caseggiati che vi sono figurati, non compare nemmeno un motivo cosmatesco. Ve ne sono, tuttavia, altri che si ritrovano in tutti gli affreschi assisiati, dalle Storie di Isacco in avanti, e che intendono caratterizzare riccamente le architetture o le suppellettili. Sulle parti lisce delle mura e dei caseggiati della città di Arezzo si vedono delle formelle circolari, o a losanga, o di forma ancora più complessa il cui sbalzo sul muro acquista un’evidenza da trompe-l’oeil; esse compaiono per la prima volta nelle Storie di Isacco (fig. 54), nella parte alta della parete di fondo, sulla stessa linea delle minuscole finestre, e costituiscono un vero e proprio leitmotiv della decorazione architettonica di tutti i successivi affreschi della Basilica Superiore; così come la continua sottolineatura delle strutture architettoniche attraverso sottili ma robuste cornici, rese più vistose dalla vivace policromia72. Il balcone al centro della Cacciata dei diavoli da Arezzo, che si protende sulla porta della città, ha il muretto di recinzione a sformellature con il motivo di un grande fiore aperto visto frontalmente, come negli intagli dei plutei romanici: anche questo è un motivo decorativo che ricorre frequentemente tra gli ornati delle architetture dipinte negli affreschi assisiati; così è decorato il pozzo in cui viene gettato Giuseppe dai fratelli, o l’edificio sulla sinistra del San Francesco davanti al Sultano (fig. 57), mentre l’edificio di destra ha nella parte alta, sul fianco, una complessa formella mistilinea di carattere ormai gotico, assai simile a quelle che si vedono nei pennacchi tra gli archi a sesto acuto sulla fronte dell’edificio in cui si svolge la Predica ad Onorio. Motivi vegetali a rilievo assai lussureggianti decorano anche le suppellettili più importanti, come il letto di Isacco, il banco su cui è appoggiato il leggio di san Gregorio nella Volta dei Dottori, il carro di san Francesco nella Visione del carro di fuoco, i lacunari del soffitto nell’Apparizione a Gregorio IX, ecc. Il motivo di gusto romano dei

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girari di acanto disposti simmetricamente decora quasi allo stesso modo, bianco su fondo blu (come nell’interno a mosaico del ciborio arnolfiano di San Paolo fuori le Mura), le lunette dell’edifìcio in cui si svolge la Pentecoste e quelle dei portali laterali della chiesa di San Damiano nel Compianto delle Clarisse. In quest’ultimo affresco è la stupenda ricostruzione della facciata di una chiesa gotica (come nella Cacciata dei diavoli da Arezzo si poteva vedere l’abside), tutta candida di marmo e guarnita di sculture. Quello delle sculture, a tutto tondo o a rilievo, è un altro dei motivi ricorrenti per tutta la decorazione della Basilica Superiore, a partire dalle Storie di Isacco, dove un piccolo rilievo con un centauro è inserito nel lato in scorcio del pancale in primo piano. Ma nei registri alti è soprattutto nella Volta dei Dottori che compaiono statuette o rilievi di angeli, di leoni, di putti alati, ecc., ricorrenti anche negli affreschi successivi e nelle Storie di san Francesco, dove raggiungono degli aspetti virtuosistici nelle ultime scene. Una forma architettonica che, pur comparendo raramente, colpisce per la stretta affinità e quasi coincidenza tra la Volta dei Dottori e le Storie di san Francesco è quella ringhiera di marmo bianco a coronamento di un edificio, sulla quale, in corrispondenza di ogni elemento verticale, è posta una palla marmorea: si può vederla sia sull’edicola nella quale è alloggiato il segretarioaccolito del dottore san Gregorio, sia sull’edificio dell’Apparizione di san Francesco a frate Agostino (figg. 52, 53). Anche il fregio orizzontale che corre all’altezza delle teste di Giacobbe e della madre nella prima Storia di Isacco (fig. 54) è un motivo di decorazione architettonica assai raro, ma ricompare nelle Storie di san Francesco, per esempio nell’edificio della Visione del carro di fuoco (fig. 55). Abbiamo parlato più volte della fila di mensole che corre lungo l’architrave dipinto al di sopra delle Storie di san Francesco, la cui idea era già nata negli affreschi cimabueschi del transetto dove la realizzazione andava però contro le regole prospettiche. Abbiamo pure già osservato che anche nella decorazione della navata la raffigurazione delle mensole segue lo stesso criterio otticamente errato, perfino nella Volta dei Dottori, in zona ormai giottesca. La correzione avviene nella fase delle Storie di san Fran-

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cesco. Ci sono tuttavia due brevissimi passaggi dei registri alti della navata in cui le mensole sono già messe in fila come nelle Storie di san Francesco. Si tratta del punto in cui si imposta l’arcone d’ingresso, immediatamente al di sopra della trifora, in una zona dei registri alti tra le ultime ad essere stata decorata. Guardando la figura 51, in cui è riprodotta la trifora a sinistra entrando e in cui si vedono sia la fila di mensole che sta sopra di essa sia alcune mensole che stanno sopra la Morte del signore di Celano, probabilmente nessuno sospetterebbe (a meno che non ricordi bene come è sistemata questa zona della Basilica Superiore) che le prime facciano ancora parte della decorazione del registro alto e che le seconde facciano già parte delle Storie di san Francesco; a nessuno poi verrebbe da dubitare che chi ha dipinto le prime abbia dipinto anche le seconde. Si può notare, fra l’altro, che le mensole creano un’ombra sul piano da cui aggettano, come accade sistematicamente nella raffigurazione delle architetture dalle Storie di Isacco in avanti; non è propriamente un effetto di intenzione naturalistica, perché non si tratta di una vera e propria ombra portata ma di un espediente per aumentare l’illusione dell’aggetto della mensola o di qualsiasi altro elemento architettonico. Questo effetto procede da un criterio molto empirico di resa del visibile, per cui tutto ciò che sta più avanti è più in luce di ciò che sta più dietro. Chi vuole controllare, si accorgerà che si tratta di un criterio a cui si attengono sistematicamente gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti. Ma per quanto riguarda, più specificamente, l’effetto di ombra prodotto da un elemento aggettante, vorrei proporre un confronto tra l’architettura della Pentecoste e l’edicola del Sultano nella Prova del fuoco (figg. 56, 57), anche per l’evidente consonanza della decorazione e della conformazione architettonica tra un affresco dei registri alti e una delle Storie di san Francesco. Che non si tratti di un’ombra naturalistica è dimostrato dal fatto che a volte sta in opposizione alla fonte luminosa immaginata per gli altri elementi figurati di uno stesso affresco, come nel caso dell’Apparizione nel capitolo di Arles dove la luce viene da sinistra, dalla stessa parte, cioè, verso cui i semiarchi che sostengono le volte sembrano get-

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tare ombra sulla parete di fondo. Ciò non toglie, comunque, che questi singoli nidi d’ombra diano luogo nel loro ambito circoscritto a stupende osservazioni naturalistiche come l’effetto di lustro che fa brillare in quell’ombra le tessere dorate dell’opus cosmatesco. A cominciare dalle Storie di Isacco (fig. 48), le architetture dipinte negli affreschi assisiati sono spesso sorrette da sottili ma robuste colonne (fig. 34), non solo di semplice marmo bianco, ma anche di un più sontuoso marmo mischio. I capitelli, sempre fogliati e di solito con delle volute nella parte più alta, sono raccordati agli architravi da un abaco i cui lati sono sistematicamente curvi verso l’interno. Le basi, invece, hanno delle modanature la cui circolarltà è resa incurvandole e rialzandole alle estremità, con una curiosa deformazione, come a ventosa, che caratterizza tutti gli affreschi successivi, comprese le Storie di san Francesco. Questo singolare modo di rendere lo scorcio di una forma circolare adagiata su un piano si ritrova anche in altri oggetti o parti di architetture; per esempio, in quella sorta di piccola pigna posta ai due angoli estremi del basso parapetto-divano collocato davanti al letto di Isacco (figg. 48, 227). Qualcosa di simile si vede nel singolare banco su cui sta leggendo Gregorio nella Volta dei Dottori; è, in particolare, la base del leggio ad attaccarsi al piano di marmo come una ventosa. La stessa caratteristica si ritrova nelle Storie di san Francesco, come nel bellissimo badalone ligneo del Presepe di Greccio (fig. 31), dove la descrizione della complessa tornitura dell’oggetto fornisce ulteriori termini di confronto col leggio di san Gregorio. Ciò introduce il discorso a proposito di un altro aspetto che caratterizza tutti gli affreschi dalle Storie di Isacco in avanti: l’attenzione continua per gli oggetti, descritti nella loro funzionalità. Nelle Storie di Isacco si tratterà di quel parapetto-divano collocato in basso, in primo piano, o delle campanelle che sostengono la tenda alle aste orizzontali in alto; nella Volta dei Dottori di tutte quelle attrezzature cancelleresche che servono per uno scriptorium, come la scrivania lignea stupendamente oggettualizzata dell’accolito-segretario di san Gregorio, o la pergamena su cui sta scrivendo, della quale vengono descritte perfino le guarnizioni

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dei due fori dove passa la cordicella che servirà a chiudere e a sigillare la lettera. Nelle Storie di san Francesco questo aspetto raggiunge degli esiti straordinari; si può citare la lumiera appesa al soffitto del tabernacolo nella Visione dei Troni (fig. 23), con la sua corda che passa attraverso una carrucola ed è poi fermata di lato per farla funzionare come un saliscendi; oppure lo straordinario crocifisso-oggetto visto da dietro nel Presepe di Greccio (fig. 43), con la sua parchettatura e il cavalletto di legno che serve a tenerlo inclinato in avanti verso la navata per mezzo di una corda doppia di cui si vedono anche i nodi: straordinario esempio di una attenzione in progress per le forme più concrete del reale, oltre che documento diretto del «funzionamento» di una suppellettile ecclesiastica73. Le osservazioni fatte sulle architetture, sugli oggetti e sulla loro decorazione legano gli affreschi dei registri alti della navata (dalle Storie di Isacco in avanti) e le Storie di san Francesco in una sostanziale unità di concezione. Lo stesso si può dire delle figure, ove si tenga conto della larga collaborazione di aiuti più o meno dotati e si ammetta una intenzionale diversificazione di livelli di stile tra l’intonazione «tragica» delle Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento e quella «comica» delle storie di un santo quasi contemporaneo come san Francesco (ma già la Volta dei Dottori, costituisce un trait d’union fra questi due livelli). Certo, se ci limitiamo, come fa J. White74, a mettere una accanto all’altra le teste di Giacobbe e del giovane Francesco nel Dono del mantello (figg. 58, 64), possiamo anche rimanere indecisi. Ma guardiamo qualche altro personaggio delle prime Storie di san Francesco come - ad esempio - i due ecclesiastici alle spalle del vescovo di Assisi nella Rinuncia ai beni: qui il volto è formulato in modo tanto simile a quello di Isacco da farci sospettare che sia stato utilizzato lo stesso disegno (figg. 58, 59). La linea verticale della fronte sulla quale sporge la zazzera dei capelli, l’incavo in ombra degli occhi, il gonfiore della palpebra inferiore, il naso della canna spianata che con il lato in discesa verso la guancia forma uno spigolo vivo, come fosse cesellato in un metallo rilucente, l’ombra che il naso sembra gettare sulla guancia destra, la luce che modella l’articolazione tra le narici e il labbro superiore o che segna la prominenza del men-

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to, il disegno della bocca e, più ancora, il movimento del pennello in sottili curve parallele che assecondano il modellato: sono tutti aspetti che rendono le due figurazioni quasi sovrapponibili. Certo, vi è una leggera differenza di esecuzione: i contorni sono più segnati nei due ecclesiastici assisiati, il tratteggio è più graffiante, marcato e meticoloso. Inoltre, queste due figure non hanno il contegno sublime del giovane Giacobbe, il loro sguardo non è altrettanto distante dalle cose, la loro umanità è più piccola. Ma è, questa, una differenza da mettere in conto tra i meriti del pittore, che ha certamente voluto distinguere la superiore dignità di un patriarca dell’Antico Testamento da quella di due preti assisiati quasi contemporanei. E per far questo è bastato inclinare un poco gli occhi, storcere appena la bocca, tirare un po’ di più la pelle. Sono differenze che si ritrovano pure nella Volta dei Dottori, dove caratterizzano la testa del san Gregorio, che rappresenta anch’essa una stupenda variazione del modulo usato per la testa di Giacobbe. Qui l’esecuzione è molto alta di qualità, mentre in altre parti della Volta dei Dottori dobbiamo evidentemente fare i conti con l’intervento esecutivo di aiuti, come nella testa dell’accolito-segretario di sant’Agostino (fig. 61), dove la formulazione del modellato è meno raffinata, soprattutto nell’esagerato spigolo lungo la canna nasale, che è un tratto riscontrabile anche nel Cristo dell’Ascensione (fig. 60), nella controfacciata, o in alcune teste delle Storie di san Francesco, come quelle degli accoliti sulla sinistra della Verifica delle Stimmate (fig. 62). Infatti, l’unità stilistica fra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco è testimoniata perfino dalla presenza degli stessi aiuti. Ma su questo punto si veda più avanti, nel quarto capitolo. Meglio che col Giacobbe, la testa del giovane san Francesco nel Dono del mantello andrebbe confrontata con quella di Cristo fanciullo nella Disputa coi Dottori (figg. 63, 64), dove è impressionante l’affinità del gonfiore della guancia. E vero che, anche qui, l’espressione consapevole di Cristo contrasta con quella quasi ingenua di Francesco; ma di fronte a una concezione così affine del modellato di una testa giovanile, che si esprime con una qualità egualmente su-

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perba, è difficile pensare che abbiamo a che fare con due artisti diversi. Le Storie di san Francesco ci offrono la possibilità di controllare anche l’adeguamento ad una caratterizzazione da «comedia» del sublime tipo di vecchio rappresentato dall’Isacco cieco (fig. 67), con la sua bellissima barba bianca pettinata accuratamente, le cui ciocche terminano in ricciolini uncinati, come - ad esempio - in uno degli ecclesiastici dietro Innocenzo III nella Conferma della Regola (fig. 68). Anche la straordinaria testa del san Francesco nel Sogno di Innocenzo III (fig. 66), tanto intensa da far già prevedere cose a venire come la celebre figura al centro del Concerto di Pitti del giovane Tiziano, non è senza precedenti nei registri alti della navata della Basilica Superiore. In una «maria» del Compianto sul Cristo morto (fig. 65) è lo stesso fortissimo modellato dello zigomo reso turgido dall’ombra intensa che incava la guancia e che trapassa di nuovo in luce per rilevare la robusta e ben tornita mascella. L’idea di un san Francesco robusto, così contraria alle immagini di smunto asceta che ce ne avevano date un Bonaventura Berlinghieri o un Margarito d’Arezzo, è del resto già presente nei registri alti della navata, dove compare tra i santi a figura intera dell’arcone d’ingresso, solido e ben piantato come si vedrà nelle sottostanti scene della Leggenda75. Le mani: pensando a quelle a forchetta che ancora usava Cimabue, articolandole in modo puramente bidimensionale, si rimane sbalorditi di fronte alla superba naturalezza, alla squisita eleganza, alla varietà di posizione con cui vengono figurate nelle Storie di Isacco (fig. 97), come fossero uno straordinario congegno del corpo umano. Solide, agili, dalle dita affusolate, esse si muovono e si articolano nello spazio con aristocratica eleganza e levità. Vi rimane, certo, qualche tratto che ricorda le stilizzazioni di fonte bizantina, come la strozzatura che segna il polso usata ancora da Cimabue e presente fino nelle ultime Storie di san Francesco; ma ciò va di nuovo nel conto dell’arcaicità di questi affreschi. In compenso, vi sono aspetti di un naturalismo stupefacente, come il trasparire dell’azzurro delle vene sul dorso della mano destra della donna alle spalle di Esaù. Probabilmente, per quasi tutto il

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seguito degli affreschi l’esecuzione delle mani è lasciata agli aiuti, cui qualche volta (come nei fratelli inginocchiati davanti a Giuseppe o nei santi a mezzo busto dei sottarchi) sembra difficile dimenticare le vecchie formulazioni stilizzate di tipo bizantino; ma a idearle è sempre il pittore delle Storie di Isacco. Così, la mano destra del segretario-accolito di sant’Agostino nella Volta dei Dottori, nell’arco disegnato dal polso alla punta dell’indice, nel pollice lungo, sottile e diritto, ripete la destra di Esaù; la sinistra di Cristo nell’Ascensione, con le dita gentilmente scalate nella profondità dello spazio, ripete la sinistra di Isacco che respinge Esaù (figg. 69, 70; mentre la destra si rifa alla formulazione elegantissima di una mano vista dalla parte del dorso, come quella della donna alle spalle di Esaù, che è molto simile, del resto, alla sinistra del vescovo di Assisi nella Rinuncia ai beni (fig. 71). Superbamente articolata è la mano destra sollevata dal frate al centro della Visione del carro di fuoco (fig. 73), ancora più impressionante per complessità e forza di modellato della mano di Isacco che respinge Esaù (fig. 72). Bellissime le mani della Madonna nel tondo sopra la porta d’ingresso (che fa parte del ciclo delle Storie di san Francesco), soprattutto la sinistra che tiene saldamente il Bambino, dove un nitido filo di luce rialza la carne intorno alle unghie, che è un tratto caratteristico del pittore, dalle Storie di Isacco in avanti. Molto belle, ancora, le mani che si vedono nella Predica ad Onorio e che inaugurano gesti nuovi nella pittura italiana, come abbiamo già osservato. Non mi pare che sia il caso di insistere oltre nell’evidenziare le strettissime affinità esistenti fra tutti questi affreschi; esse sono più che sufficienti a dimostrare - io credo - la presenza di una unica personalità che dirige e in parte esegue i lavori, sia pure all’interno di una evoluzione continua, che finisce per diversificare notevolmente i risultati delle ultime Storie di san Francesco dalle due Storie di Isacco, che sono il punto di partenza. Ma di questo aspetto avremo modo di riparlare più avanti. È arrivato, invece, il momento di porsi l’interrogativo basilare, quello della compatibilita degli affreschi di Assisi con l’opera di Giotto.

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La «riprova inoppugnabile»: il «San Francesco» del Louvre. Nonostante che i separatisti lo abbiano sempre scansato, esiste un dipinto che costituisce il primo termine di confronto con le Storie di san Francesco. Si tratta della grande tavola con le Stimmate di san Francesco da tempo sotto gli occhi di tutti, esposta com’è nella Grande Galerie del Louvre (fig. 75): quella che il Toesca chiamava la «riprova inoppugnabile»76. Proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa, essa è firmata «Opus Iocti Florentini» ed è chiaramente in rapporto col ciclo francescano di Assisi (fig. 74), da cui ripete, con liberissime varianti, la scena delle Stimmate nel campo principale e, nella predella, il Sogno di Innocenzo III, la Conferma della Regola e la Predica agli uccelli. Il maggiore rimprovero che si possa rivolgere ai separatisti è di aver fatto scomparire quest’opera dal dossier giottesco, inizialmente per un’intima convinzione che non fosse all’altezza dei dipinti più memorabili del grande pittore fiorentino (come gli affreschi Scrovegni o la Madonna di Ognissanti), ma poi perché deve aver costituito una presenza sempre più imbarazzante77. Uno degli aspetti più sconcertanti degli studi su Giotto è il fatto che si è venuto affermando un singolare luogo comune: che i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto. L’Offner, quando stabilisce il catalogo del pittore, non fa cenno neppure ad una delle tre opere firmate: le Stimmate di san Francesco del Louvre, il polittico della Pinacoteca di Bologna e l’Incoronazione Baroncelli in Santa Croce a Firenze78. E un modo di procedere davvero curioso! La Maestà del Duomo di Siena firmata da Duccio è opera di Duccio; la Maestà di Palazzo Pubblico firmata da Simone Martini è opera di Simone Martini; ma i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto! Del Cavallini non esiste un dipinto firmato o datato; quello che sappiamo su di lui è basato esclusivamente sulla testimonianza del Ghiberti78; eppure gli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e i mosaici di Santa Maria in Trastevere vengono considerati da tutti - giustamente - ope-

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re sicure del pittore romano. Ma i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto! Siamo d’accordo che il nome di un pittore iscritto sotto un dipinto del Trecento non ha lo stesso valore di una firma di Picasso; ma almeno si dovrà convenire che il nome di Giotto iscritto sotto un dipinto avrà lo stesso valore del nome di Duccio apposto alla Maestà del Duomo di Siena o del nome di Simone Martini apposto alla Maestà di Palazzo Pubblico. Oppure, del nome del Ghiberti apposto alla Porta Nord del Battistero fiorentino. E questo un caso particolarmente significativo, perché nessuno ha mai pensato di togliere dal catalogo ghibertiano la Porta Nord o una sua parte, nonostante si sappia con certezza che la esegui con un nutrito gruppo di aiutanti di cui conosciamo anche i nomi. Con gli stessi criteri andrà considerato il caso delle tre opere firmate da Giotto. Esse saranno state dipinte nella bottega di Giotto, da Giotto e dai suoi aiutanti, i quali si attenevano tanto scrupolosamente alle sue direttive che se egli avesse scritto qualcosa di simile al secondo Commentario del Ghiberti le avrebbero elencate fra le opere eseguite da lui. Per quanto riguarda le Storie francescane di Assisi, il punto sarà, dunque, di stabilire se, come Giotto ha firmato le Stimmate di san Francesco del Louvre, avrebbe potuto firmare anche gli affreschi di Assisi. Per uno storico, questo rimane l’interrogativo essenziale. Parlando delle Stimmate di san Francesco del Louvre si è sempre privilegiato il rapporto iconografico con gli affreschi di Assisi, che è quello che salta subito agli occhi e che nessuno si sognerebbe di negare. E questo è già un fatto molto importante, perché sarà difficile sostenere che Giotto, il pittore che si conquistò per tempo un posto nella letteratura contemporanea come il più grande innovatore della pittura, si sia assoggettato a ripetere delle composizioni inventate da un altro artista80. È più logico pensare alla riutilizzazione degli stessi schemi da parte di uno stesso pittore, a quella che si chiama la replica d’autore; tanto più che non mancano delle varianti sostanziali, come l’abolizione del fra-

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te compagno nella scena principale o l’aggiunta di san Pietro nel Sogno di Innocenzo III. Tuttavia, preme ancora di più sottolineare la sostanziale identità di stile81. Data l’eccessiva diversità di formato tra le scene della predella e i corrispondenti affreschi assisiati, mi limiterò a prendere in considerazione nella tavola del Louvre la grande scena delle Stimmate (fig. 75), dove le figure sono grosso modo a grandezza naturale, come nell’affresco corrispondente di Assisi (fig. 74). Si noterà, innanzitutto, la straordinaria affinità della messa in scena, che è tanto più significativa in quanto non vi è nemmeno un particolare nella tavola che possa dirsi copiato dall’affresco. Anzi, la piattaforma di roccia su cui è genuflesso san Francesco si confronta meglio con quella nel Miracolo dell’assetato o nel Dono del mantello, conformandosi perfettamente con la caratterizzazione che ne dà l’Offner: «II deserto petroso degli affreschi di Assisi sale in piattaforme stratificate a piani di un bianco splendente, che rimanda una luce fredda, e scende con spigoli di una lacerante durezza in scuri declivi perpendicolari»82. Come si vede, nonostante sia ripetuta l’idea di uno spuntone roccioso a piramide tronca che si innalza sopra la figura di san Francesco, la roccia si modella in articolazioni completamente diverse nell’affresco e nella tavola (nel dipinto del Louvre, essa si divide addirittura in due blocchi), pur mantenendo la stessa identica natura di frammento di pietra ingrandita. Perfino gli alberelli hanno posizioni molto differenti, anche se mantengono le stesse dimensioni nei confronti della roccia e la stessa fattura con i tronchi irregolari, segnati talvolta dalla rottura o potatura di un grosso ramo, e l’ombrello frondoso di foglie botanicamente differenziate ma esageratamente ingrandite. Vi è la stessa idea delle due cappelle, una dietro le spalle e l’altra davanti al santo, la prima più in alto e la seconda più in basso; ma la loro descrizione è assai differenziata nell’affresco e nella tavola. E si veda, tuttavia, come in questa differenziazione faccia spicco l’identità di risultato ottico nell’occhieggiare del paliotto ricamato dell’altare, che sembra brilli nella penembra dell’interno della cappella sulla sinistra. Il Cristo crocifisso con le sue ali di serafino è identico e insie-

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me diverso nei due casi: ad Assisi ha le ali mediane abbassate, nella tavola del Louvre le ha sollevate come se le mani di Cristo vi fossero inchiodate sopra. Le piume sono più astratte ad Assisi, come lunghe squame iridescenti, mentre a Parigi sono più simili a quelle di un uccello; inoltre, si vede svolazzare il perizoma, che manca ad Assisi. Altre affinità-diversità ognuno può controllarle per proprio conto nell’impostazione della figura del santo e negli episodi del panneggio o del cordone che pende dalla vita (figg. 74, 75). È il caso, invece, di soffermarsi sulle affinità stilistiche che la tavola parigina mostra con gli altri affreschi assisiati. La testa del santo si confronta bene con quella che si vede nei Funerali e nel Compianto delle Clarisse ad Assisi (figg. 76, 77, 79): si osservino, in particolare, le pieghe della pelle tra le sopracciglia, aggrottate per la sofferenza; la conformazione della zazzera dei capelli, tagliati con l’immensa tonsura e recisi di netto sul davanti, ma che sono molto folti come dimostra il filo d’ombra che gettano sulla fronte. Si veda l’occhiaia delimitata in basso da una sporgenza della pelle, come se tirasse perché le è venuta a mancare la carne sottostante; si veda il modellato delle narici e della bocca semiaperta, la peluria dei baffi o la barba, assai folta ma resa leggera e soffice dalle filature del pennello che si fondono con l’ombreggiatura del modellato. Nonostante un’esecuzione più metallica e arrotata e la diversità di illuminazione, anche la testa del san Francesco nella Morte del signore di Celano (fig. 78) si presta bene ad un confronto con quella del Louvre: le rughe della fronte e, di nuovo, l’aggrottare delle ciglia, l’occhio sinistro in scorcio, la peluria dei baffi e della barba, l’elegantissima delineazione dell’orecchio, l’accenno al modellato del cranio sotto la pelle tra la fronte, la tempia e la mascella, la forma triangolare del volto di tre quarti sono aspetti quasi sovrapponibili. La testa del Cristo-serafino di Parigi (fig. 81), dallo sguardo profondamente serio, dalla folta massa di capelli che si raccoglie serpeggiando dietro la nuca è pressoché gemella di quella del Cristo che compare in un episodio marginale, ma intensissimo, nella Confesssione della donna di Benevento nell’angolo di cielo in alto a sinistra dove si svolge il dialogo fra Cristo e san Francesco (fig. 80): è uno degli

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affreschi considerati di solito opera del Maestro della Santa Cecilia83, ma dove alcune parti - fra cui questa - sono del migliore livello dell’intero ciclo. Si veda, ad esempio, l’articolazione della mano sinistra di Cristo, elegante e solida insieme, con la falange ripiegata dell’indice che scorcia stupendamente nella presa del rotule. Quale delle mani del Cavallini che si vedono numerose negli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere arriva mai all’altezza di un particolare minimo come questo di Assisi? Invece, le mani del san Francesco che riceve le stimmate del Louvre, per l’intensità del modellato, la solidità plastica e, insieme, l’eleganza e la gentilezza di sagomatura sono paragonabili alle parti di più alta qualità degli affreschi assisiati, dalle Storie di Isacco ai più belli fra i riquadri francescani. Tra i tanti che si potrebbero fare, mi limito qui a proporre un confronto tra la mano destra del san Francesco del Louvre (fig. 94) e la mano di un cardinale nella Predica ad Onorio (fig. 92), che, a dir la verità, ha un significato molto diverso in quanto è sollevata in un gesto di meraviglia, ma che è molto simile nel modellato del palmo, nelle dita stupendamente affusolate, nel pollice lungo e sottile, energicamente teso. Ci sarebbe da fare, poi, un lungo discorso sulle immagini decorative che adornano le architetture, secondo un gusto che è tipicamente assisiate. Bellissima la Madonna col Bambino a mezza figura nella lunetta sopra la porta d’ingresso della cappelletta di destra, come una riduzione in miniatura della Madonna di San Giorgio alla Costa; riduzione non solo nel taglio e nel formato, ma anche nella formulazione dell’immagine, più diminutiva nella tavola di Parigi, nonostante ripeta il motivo del velo e il gonfiante arco cupoliforme delle spalle. Sulla facciata del San Giovanni in Laterano sostenuto da san Francesco nel Sogno di Innocenzo III nella predella della tavola del Louvre (fig. 83) sono dipinti il Salvatore e due angeli a figura intera, come era nella realtà e come doveva essere anche nel corrispondente affresco di Assisi, purtroppo lacunoso proprio in questa zona84. Le tre immagini sono realizzate con una pittura morbida, quasi cavalliniana. Risultati molto simili si possono leggere in certe parti di decorazione architettonica degli affreschi assisiati; mi riferisco, in particolare, ai rilievi che si

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vedono dipinti nella parte absidale della chiesa sulla sinistra del san Francesco che caccia i diavoli da Arezzo (fig. 82). Nonostante l’iconografia più profana, vi si leggono effetti pittorici quasi identici; ognuno può controllarli per proprio conto, ma mi sembra particolarmente indicativo il confronto tra la testa al centro in mezzo a volute di acanto e quella del Cristo nella predella parigina (figg. 82, 83). Gli stretti rapporti tra la tavola e gli affreschi assisiati presuppongono evidentemente una cronologia ravvicinata, che, ove non bastassero gli aspetti stilistici, chiaramente prepadovani delle Stimmate del Louvre, è confermata a puntino da una circostanza minima, ma significativa. L’aureola del san Francesco è bordata da una fila di punti scuri (fig. 76), che sembrano alludere all’incastonatura di pietre preziose: è una foggia dell’aureola in uso a Firenze tra la fine del Due e gli inizi del Trecento, di cui partecipano non solo la Madonna di San Giorgio alla Costa e il polittico di Badia (fig. 107) ma perfino la Madonna di Santa Trinita di Cimabue85 (fig. 205). Ne è ancora segnato il Crocifìsso della cappella Scrovegni, ma non più la Madonna di Ognissanti di Giotto o il San Pietro in trono di San Simone, del 1307. La foggia dell’aureola costituisce dunque un indizio preciso per una datazione alta delle Stimmate del Louvre, lasciando ampio spazio alla possibilità di un aggancio cronologico assai ravvicinato con le Storie francescane di Assisi. Considerati tutti questi dati, mi sembra evidente che la risposta all’interrogativo che ci siamo posti sia affermativa: se Giotto ha firmato le Stimmate dì san Francesco del Louvre, avrebbe potuto firmare anche gli affreschi di Assisi. Da Assisi a Padova. Resta, naturalmente, il problema della compatibilita fra gli affreschi di Assisi - soprattutto le Storie di san Francesco - e il ciclo Scrovegni di Padova e le altre opere di Giotto. La poca comunicabilità tra i separatisti e gli altri, convinti ognuno della propria verità giottesca, ha fatto sì che non si sentisse seriamente il bisogno di verificare le rispettive posizioni. I separatisti hanno conti-

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nuato ad accusare gli altri di dogmatismo, ma nemmeno loro si sono posti il problema di valutare criticamente le osservazioni dell’Offner, considerate come Vangelo. Non appena si è scoperto un caso di stretta parentela tra il fanciullo sull’albero nel Compianto delle Clarisse ad Assisi e quello nell’Ingresso a Gerusalemme di Padova86 (figg. 84, 85), quasi una citazione l’uno dall’altro, è scoppiata una lite interminabile sulla priorità cronologica dell’una o dell’altra figurazione. La sicurezza che abbiamo raggiunto a proposito della precedenza di Assisi su Padova risolve questa disputa nella sola direzione ragionevole, quella che ci indicano le affinità tra le Storie di san Francesco e le Stimmate del Louvre firmate da Giotto. Ma le parti direttamente confrontabili del ciclo padovano e di quello assisiate non si limitano al caso del fanciullo sull’albero, che ha solo un valore emblematico. Esse sono infinitamente più numerose87, anche se, nel segnalarle, bisogna tener conto di uno sviluppo notevole verso una pittura più soffice e disinvolta. Di un’evoluzione in questa direzione si coglieva già qualche segno nel procedere del ciclo assisiate. È evidente che ogni confronto con Padova e le altre opere più tarde di Giotto non può prescindere dalla considerazione di questa maturazione sopravvenuta. Incominciamo, anche in questo caso, col considerare un comportamento figurativo di carattere generale come quello della rappresentazione dello spazio. Abbiamo già accennato alle implicazioni diversificanti che ha certamente avuto la differenza di formato tra gli affreschi assisiati e quelli padovani in ordine alla rappresentazione dello spazio, sempre più articolato nelle Storie di san Francesco. La maggiore genericità dei vani spaziali e delle architetture nella capella Scrovegni è certamente legata alla volontà di rendere più distanti e «tragiche» le Storie di Maria e di Cristo da quelle moderne di san Francesco e trova un perfetto corrispondente ad Assisi nelle Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento dei registri alti della navata, dove la «casa» di Isacco è più generica e meno moderna di qualsiasi vano architettonico delle Storie dì san Francesco. Semplificate ed essenziali, le architetture padovane; eppure, guardando le improvvise articolazioni di mensole e di balconi aggettanti nel-

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le parti alte delle due architetture gemelle che accolgono i protagonisti dell’Annunciazione, è difficile non pensare a tanti passi di architettura figurata che si vedono ad Assisi, dalla scena dei Fratelli inginocchiati davanti a Giuseppe a molte Storie di san Francesco; mentre i drappi annodati allo stenditoio con i lembi tirati sul davanti richiamano invincibilmente quello che si vede alle finestre del Palazzo Comunale di Assisi nell’Omaggio dell’uomo semplice (fig. 43). Non meno in linea con le idee di architettura figurata di Assisi è il continuo arricchimento con marmi mischi, con fregi intagliati, con decorazioni vegetali, con rilievi figurati, con acroterii a forma di efflorescenze o di statuette (figg. 42, 44). Particolarmente evocativi di Assisi sono, a Padova, i cavalli e i leoni sul portico antistante il Tempio di Gerusalemme, nella Cacciata dei mercanti; o le efflorescenze vegetali sul fastigio dei vani in cui si svolgono le Nozze di Cana e la Flagellazione, che richiamano quelli che si vedono nella Predica ad Onorio; o le aquile marmoree sul cornicione del vano in cui si svolgono l’Ultima Cena e la Lavanda dei piedi, memori di quella in cima alla cuspide centrale della chiesa di San Damiano nel Compianto delle Clarisse. Né vanno dimenticati i finti rilievi delle Virtù e dei Vizi nello zoccolo, sulle cui affinità con i finti rilievi di cui sono ricche le architetture negli affreschi di Assisi ha già attirato l’attenzione il Previtali, proponendo dei confronti che parlano da soli88. Emblematicamente, il primo affresco giottesco di Assisi, la Benedizione di Isacco (fig. 48), e l’ultimo di Padova, la Discesa dello Spirito Santo (fig. 40), si richiamano con forza per la somiglianza di impostazione della «scatola» architettonica, anche se nell’affresco padovano è intervenuto un sottile mutamento, che è un segno di evoluzione in direzione naturalistica: la linea retta della base dell’edificio e quella del tetto sono diventate leggermente convergenti, accennando così all’effetto, otticamente più giusto, di uno scorcio del lato lungo del vano architettonico, che non potrà mai apparire in perfetta frontalità (come accadeva nelle Storie di Isacco) se il punto di vista è laterale, come indica il fatto che si vede, sia pure fortemente scorciata, anche la facciata dell’edificio.

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Si noterà che nell’affresco padovano il punto di vista è appena un po’ più alto e resta visibile una sottilissima striscia di tetto oltre il cornicione; questo cornicione non si allinea perfettamente con la cornice di facciata dello spiovente più vicino, come accadeva invece nelle Storie di Isacco; ma il risultato rimane molto simile. Per assicurarci che, comunque, quell’espediente assisiate è usato anche a Padova, basterà guardare il tetto della capanna di legno che compare nella Natività e nell’Adorazione dei Magi (figg. 48, 49). Abbiamo visto come uno dei risultati più straordinari in ordine alla rappresentazione dello spazio - o sarebbe meglio dire, meno astrattamente, in ordine alla raffigurazione di un ambiente - sia, tra le Storie francescane, il Presepe di Greccio (fig. 43), per via della sua presentazione dell’interno di una chiesa visto dalla parte dell’abside, nella zona presbiteriale. Sia pure nei termini di una architettura più generica e più parca di allusioni a quella contemporanea, a Padova troviamo idee consimili, soprattutto nelle raffigurazioni del Tempio di Gerusalemme quali si vedono nella Cacciata di Gioacchino e nelle due Presentazioni, quella di Maria e quella di Cristo (fig. 44). L’interno del Tempio viene, anche in queste scene, enucleato nel settore presbiteriale e definito da un sistema di arredo liturgico costituito dall’altare con ciborio sovrastante, dall’ambone con la sua scala d’accesso e da un’articolazione di transenne di marmo liscio ma variegato che recinta il tutto89. La cosa straordinaria sta nel fatto che questo complesso è presentato ogni volta da un punto di vista diverso e mai frontalmente. Nella Cacciata di Gioacchino lo spettatore è collocato nella zona absidale e questo complesso risulta sollevato dal pavimento solo da una pedana marmorea; nella Presentazione della Vergine, ci si colloca dalla parte della navata dove il complesso appare sollevato su uno zoccolo ben più alto e per accedervi bisogna salire una gradinata. Nella Presentazione di Cristo si è immessi direttamente dentro il recinto e rimane in vista solo l’altare sovrastato dal ciborio. È questa capacità di visualizzare con tanta precisione e coerenza un ambiente - fino a poterne rendere più di un punto di vista - che rimanda direttamente agli esperimenti assisiati tentati nel Presepe di Greccio o in altre scene come i Fune-

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rali di san Francesco (qui, l’apparizione azzurra, sul fondo, della conca absidale cassettonata rimanda a sua volta a Padova, dove ne compare una identica nello Sposalizio della Vergine e nei due affreschi che lo precedono immediatamente). Ma un accordo ancora più profondo tra questi interni di chiese ad Assisi e quelli del Tempio negli affreschi padovani è da vedere nell’idea stessa di concepire un interno raffigurando solo ciò che contiene e non il suo contenitore. Il modo più diffuso di raffigurare un interno ad Assisi, a Padova e poi in tutta la pittura del Trecento è quello del tipo casa-di-bambola: una sorta di scatola cubica aperta sul davanti, che rappresenta il vano spaziale. Invece, nel caso delle scene qui considerate il vano spaziale non compare (figg. 43, 44); si vedono solo gli arredi che stanno dentro di esso, campiti sul fondo blu, come se l’occhio dell’osservatore fosse tanto addentrato nell’interno dell’edificio da rendere superflua ogni allusione ad esso. Questa eccezione ad una regola trecentesca, che rende tanto più ricche le possibilità della raffigurazione dello spazio, avvicina ulteriormente gli affreschi di Assisi a quelli di Padova90. Che, nonostante le differenze enucleate dall’Offner, perfino nelle idee relative all’incorniciatura architettonica non vi sia una irriducibile incompatibilità tra i due cicli lo abbiamo già osservato e sta a indicarlo emblematicamente la fila ininterrotta di piccolissime mensole usate per la sottile cornice orizzontale in aggetto che corona lo zoccolo, subito al di sotto delle scene affrescate, sia nella cappella Scrovegni che nella Leggenda di san Francesco. Le considerazioni che si facevano a proposito del ruolo più ampio giocato dalle architetture nell’economia compositiva degli affreschi di Assisi valgono pure per il paesaggio, giudicato anch’esso dall’Offner come troppo sviluppato in confronto a Padova. In particolare, le rocce gli sembravano troppo invadenti e diverse da quelle di Padova. Ma, se anche in questo caso teniamo presenti le differenze di formato e di cronologia fra i due cicli, nemmeno le rocce sembreranno tanto difformi. Come sempre, la materia pittorica apparirà a Padova, più soffice in confronto a quella tagliente, metallica e «cimabuesca» di Assisi; ma si note-

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ranno anche delle affinità fondamentali, soprattutto nelle profilature dei contorni che si articolano in denti e spuntoni. Nel considerare le figure, possiamo incominciare da confronti che, anche se non sono così immediatamente stringenti come quello già ricordato tra i due fanciulli sull’albero, si presentano anch’essi come molto indicativi. L’Offner, nell’evidenziare le differenze tra gli angeli assisiati e quelli padovani, sembra non si sia accorto di quanto erano simili le loro controparti, cioè i diavoli (figg. 86, 87). Ad Assisi, vi sono quelli cacciati dalla città di Arezzo; a Padova, se ne vedono molti nell’Inferno, sulla destra del Giudizio Finale. Si tratta di creature grottesche e ferine, comiche più che terrificanti, tanto da prestarsi - soprattutto a Padova - ad un divertimento quasi da caricaturista, come nelle dróleries di un codice miniato. Neri e irsuti, col corpo a metà strada fra un lupo, una scimmia e un orso, le zampe ad artigli come in un uccello rapace, il pelame arruffato, la testa da caricatura grottesca, sono concepiti in modo talmente simile ad Assisi e a Padova, persino nelle pose rampanti con cui si dispongono, da sembrare quasi intercambiabili, ove non fosse per un che di più metallico nei primi. Immagini eccezionali come quelle dei diavoli potrebbero trovare ragioni di una oggettiva somiglianza proprio nella loro eccezionalità. Dai diavoli, passiamo allora a considerare le figure umane. Se ci soffermiamo sulle loro pose, sui loro gesti, sulle mani, sui panneggi, sulle stoffe di cui si coprono, troveremo ad Assisi molti precedenti diretti per Padova. È particolarmente impressionante l’affinità nel modo di concepire le stoffe, evidenziandone il peso fisico o rendendone le cavità in maniera così convincente che sembra di potervi mettere dentro le mani. Così, nelle Storie di Isacco, i piedi del vecchio patriarca puntano contro la coperta del letto, rilevandosi con un’intensità straordinaria, in un effetto molto simile a quello provocato dal premere del ginocchio nello stupendo brano di panneggio della veste della comare che fila presso la porta, nell’Annuncio ad Anna. Così, le pieghe tubolari che danno un’evidenza quasi tangibile alla veste donata al povero

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dal giovane san Francesco (fig. 12) preludono invincibilmente all’altrettanto straordinario «pezzo» padovano della veste che un fanciullo si sfila dal capo nell’Ingresso a Gerusalemme: unica differenza, l’effetto più tagliente e arrotato di Assisi. Anche a confrontare il panneggio di uno degli angeli che tengono le vesti di Cristo nel Battesimo di Padova e del padre irato di san Francesco che tiene le vesti del figlio nella Rinuncia ai beni (figg. 88, 89), si osserverà come gli episodi in cui si articolano le pieghe raggiungano in qualche tratto la sovrapponibilità. E le celebrate «prefiche» viste di spalle nella Deposizione sono il formidabile sviluppo di un’idea che era nata ad Assisi non già nella Deposizione dei registri alti ma proprio nelle Storie di san Francesco, e precisamente nella Morte del santo. Si dirà che questi fraticelli, seduti a terra e visti di spalle, sono inconfrontabili con la monumentalità delle «pie donne» padovane, ma bisogna tener conto del fatto che esse partecipano di quella concezione semplificata ed essenziale del corpo umano coperto dalle vesti che è una delle caratteristiche più specifiche del Giotto padovano e che ha il suo momento più impressionante nel Giuda che bacia Cristo: poche pieghe semplici e grandiose drappeggiano la veste che per un ampio tratto rimane quasi completamente liscia per far risaltare unicamente il turgore tondeggiante del corpo. Nelle opere successive Giotto non tenterà più effetti così spettacolari in questa direzione; non sarebbe, dunque, corretto pretendere di trovare effetti identici ad Assisi, dove il panneggio è ancora molto legato alle soluzioni cimabuesche di pieghe fitte, a taglienti sottosquadri. Tuttavia va segnalato anche in questa direzione un preciso precedente assisiate, nell’Omaggio dell’uomo semplice. Qui, la figura sulla destra si può confrontare bene con uno dei personaggi visti di spalle sulla destra della Presentazione della Vergine al Tempio (figg. 90, 91) o col san Giovanni Battista nel Battesimo di Cristo a Padova: vi è la stessa identica idea che le spalle rappresentano un’unica, intatta massa gonfiante, dalla quale ricadono verso terra rade pieghe verticali. È questo un caso che sta a indicare come il procedere della decorazione assisiate vada proprio in direzione di Padova, dal momento che l’Omaggio dell’uomo semplice è cer-

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tamente uno degli ultimi - e probabilmente l’ultimo - in ordine di esecuzione tra gli affreschi assisiati91. Se nella Deposizione di Assisi (fig. 149) non è ancora presente l’idea delle «pie donne» in primo piano viste di spalle - idea che sembra anch’essa maturare piuttosto col procedere della decorazione nella fase delle Storie di san Francesco - vi compare già quella straordinaria gestualità come solenne recitazione del cordoglio che caratterizza anche la Deposizione di Padova. E il passo che più avvicina le due scene è il gesto dell’apostolo che tiene le mani intrecciate sul grembo, probabilmente studiato dall’antico92. In generale, è proprio nei gesti e nelle mani che si possono cogliere le affinità più stringenti fra le figure di Padova e quelle di Assisi: gesti di meditazione o di indicazione, di disponibilità o di meraviglia (figg. 92, 93); mani disegnate nello stesso identico modo, con le dita articolate elegantemente (figg. 95, 96), ma ugualmente modellate e tornite in tutta la loro solidità, energia e consistenza voluminosa (figg. 97, 98). Ad indicare le affinità fra Padova e Assisi nel modo di dar forma ai volti delle figure - nonostante i «progressi» compiuti nella definizione dei profili - basteranno pochi confronti; per esempio, quello tra il profilo del Bambino in braccio alla Madonna nella controfacciata di Assisi e il profilo di una comare di Anna nell’Incontro alla Porta Aurea a Padova (figg. 99, 100). A farli assomigliare tanto è innanzitutto il modo di sorridere aprendo la bocca e tenendo le labbra serrate intorno ai denti; ma è, anche, la piega ad arco dei muscoli della faccia che partendo dalle pinne delle narici gira intorno all’angolo della bocca e viene a raggiungere la linea che inizia la profilatura del mento. E l’articolazione del chiaroscuro tra le guance, il naso e gli occhi, fino alle «zampe di gallina» che si formano ai bordi degli occhi stessi, così come il collo robusto cerchiato da un leggero solco della pelle, sono tratti quasi sovrapponibili. Particolarmente evidenti sono, poi, le somiglianze tra i profili di Assisi e quelli di certi personaggi minori di Padova (figg. 101, 102) in cui sembra che il pittore abbia sfruttato la vecchia difficoltà nella definizione del profilo stesso per raggiungere una caratterizzazione quasi comica.

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II confronto che parla da sé tra la testa della Madonna nella controfacciata di Assisi e quella della Giustizia di Padova (figg. 103, 105) coinvoile anche altre figurazioni giottesche, come la Madonna del Crocifisso di Santa Maria Novella, che ha la stessa contrazione, la stessa schiacciatura della guancia all’altezza della piega che parte dalle narici (fig. 104); nei confronti della Madonna di Assisi, ha anche la stessa canna nasale spianata, di ricordo duecentesco. La Madonna del polittico di Badia è più fusa di quella assisiate, ma appare costruita secondo moduli proporzionali in tutto simili e identici nell’idea di far trasparire sotto il velo i capelli raccolti nella cuffia, o nelle pieghe verticali del velo stesso. Non è senza significato, nello stesso polittico di Badia, il richiamo del san Pietro a quello dipinto in uno dei tondi della controfacciata di Assisi (figg. 106, 107), ugualmente frontale, anzi - si direbbe - costruito sullo stesso disegno, a giudicare da molti particolari, coma l’identica posizione leggermente asimmetrica degli orecchi, il nesso capelli-orecchi-barba-zigomi, ecc. Nel polittico di Badia, il chiaroscuro più fuso o gli occhi più socchiusi e allungati rappresentano differenze che ne denunciano la seriorità: anche tra la Madonna di San Giorgio alla Costa e la Madonna di Ognissanti corrono queste stesse differenze-affinità, che hanno lo stesso significato. Nonostante l’ancora più evidente diversità di esecuzione, è impressionante anche la stretta parentela figurativa tra la stupenda testa in scorcio di uno dei soldati che dormono presso il sepolcro nella Resurrezione dei registri alti della navata di Assisi e il frate che si china a baciare la mano a san Francesco nelle Esequie del santo della cappella Bardi in Santa Croce (figg. 108, 109). Tra la Leggenda di Assisi e le grandiose Storie di san Francesco della cappella Bardi corre una distanza di molti anni, forse trenta o quaranta, e non si ripete il caso delle Stimmate del Louvre in cui, a brevissima distanza di tempo, sono replicate quasi alla lettera quattro scene di Assisi. Nessuno degli affreschi Bardi è una replica di quelli di Assisi e tuttavia alcuni passaggi li richiamano in modo impressionante, come le figure del vescovo, del giovane san Francesco e del

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padre irato nella Rinuncia ai beni (figg. 112, 113), o la robusta figura di sant’Antonio, sulla destra dell’Apparizione nel capitolo di Arles (figg. 110, 111). I punti di contatto fra il ciclo assisiate, il ciclo padovano e le altre opere di Giotto si presentano, dunque, come un complesso organico e sistematico e testimoniano, allo stesso tempo, di una profonda maturazione che, nell’arco di un decennio, è avvenuta nella mente di un artista dapprima tutto teso nella polemica con la pittura duecentesca, ma anche pressato da vicino dal peso della sua tradizione, e poi approdato ad una visione pittorica più serena, soffice e disinvolta. Ma il viaggio verso questo approdo era cominciato molto per tempo, nel corso stesso dei lavori assisiati, la cui parte iniziale, le Storie di Isacco, si differenzia notevolmente dalla parte finale, le ultime Storie di san Francesco e l’Omaggio dell’uomo semplice. A questo proposito, si noterà che è maggiore la distanza tra le prime e le ultime Storie di san Francesco che non tra le Storie di Isacco e le prime Storie di san Francesco. Non per nulla, passando in rassegna i casi di più stretta affinità stilistica tra gli affreschi dei registri alti e quelli francescani, abbiamo fatto riferimento soprattutto ai dipinti iniziali di questo secondo ciclo: il Dono del mantello, il Sogno di Innocenzo III, la Rinuncia ai beni, ecc. Che il procedere delle Storie di san Francesco segni dei grandi avanzamenti artistici è stato messo in evidenza con molta enfasi anche dal White: «una dimostrazione della statura del Maestro della Leggenda di san Francesco è la velocità meteorica della sua evoluzione artistica»93. E non si tratta solo di avanzamenti negli schemi della rappresentazione dello spazio, ma anche nella scoperta degli ambienti concreti, degli oggetti e della decorazione moderna da cui questo spazio è connotato. Si tratta, inoltre, di un sottile affinamento figurativo che ha fatto pensare, per gli ultimi affreschi, all’intervento del Maestro della Santa Cecilia94 e perfino, sia pure marginalmente, del giovane Simone Martini95; o ha indotto a configurare la possibilità di una fase gotica di Giotto stesso, di cui è testimonianza anche la predella delle Stimmate di san Francesco al Louvre96. Si tratta, infine, di un sensibile addolcimento della materia pittorica, proprio in direzione degli affreschi di Padova (figg. 146, 147); tanto è vero che qualcuno ha voluto vedere ne-

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gli ultimi riquadri francescani e nell’Omaggio dell’uomo semplice dei riflessi degli affreschi Scrovegni. In effetti, rispetto alla superficie metallica, ai taglienti sottosquadri del panneggio che ancora caratterizzano le prime storie francescane, le ultime si differenziano per un effetto più morbido e fuso della materia pittorica. È probabile che qui sia da vedere l’inizio di una svolta da parte del pittore, di un superamento dell’asprezza petrosa e metallica che caratterizza gran parte degli affreschi di Assisi. Di questa direzione di tendenza è esempio emblematico il modo di realizzare le nubi. Nella Volta dei Dottori, quelle che compaiono nei quattro vertici a sostenere una mezza figura di Cristo sembrano piuttosto dei cristalli di quarzo; quelle che nascondono Cristo nell’Ascensione della controfacciata sono già più sfrangiate e lanose; nell’Estasi di san Francesco, infine, la nube che sostiene il santo è diventata un morbido nido di bambagia. Ma nelle ultime Storie francescane l’addolcimento della materia pittorica si fa più generale. Si guardi, ad esempio, la Liberazione di Pietro d’Assisi: nella figura del carceriere, la stoffa della veste è più soffice, gli angoli delle pieghe assai più smussati di quanto non accada mai nei panneggi delle figure che compaiono nelle prime storie francescane, dal Dono del mantello in avanti. Il Toesca aveva messo l’accento su alcune zone degli affreschi, come nella Morte di san Francesco, dove, essendo caduta la pellicola cromatica superficiale, si vedevano parti del disegno preparatorio di una libertà e di una morbidezza impressionanti, certo dovute alla mano del pittore che dirigeva i lavori e che poi lasciava gran parte del meticoloso lavoro di esecuzione ai suoi aiuti97. Insomma, tutto sta ad indicare che il cammino verso il più soffice pittoricismo di Padova era già iniziato ad Assisi e che quella di una pittura più dolce dovette diventare ben presto la preoccupazione maggiore di Giotto e raggiungere probabilmente il suo culmine al tempo del soggiorno a Rimini, se la pittura riminese ne rimase segnata indelebilmente, fino a risultati di una tenerezza quasi bacata, mentre per gli aspetti di organizzazione dello spazio restò sempre più vicina ai modi assisiati che a quelli padovani98.

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1

F. Rintelen, Giotto una die Giotto-Apokryphen, München-Leipzig 1912, 2a ed. Basel 1923; della fortuna che arrise, almeno negli ambienti culturali tedeschi, alle tesi del Rintelen è prova che proprio a lui sia stata affidata la voce su Giotto nel prestigioso Künstlerlexikon di U. Thieme e F. Becker (XIV, Leipzig 1921, pp. 94-100). Precursori ottocenteschi dei «separatisti» sono W. [K. Witte], Der Sacro Convento in Assisi, in «Kunst Blatt», 1821, che ripartì le Storie di san Francesco fra tre artisti tutti diversi da Giotto, e il ben più noto K. F. von Rumohr, Über Giotto, in Italienische Forschungen, II, Berlin-Stettin 1827, pp. 39-75, la cui attribuzione del ciclo a Spinello Aretino e a Parri Spinelli (p. 67) rimanda gli affreschi ad una data talmente inaccettabile da non aver trovato seguito. Ma, per la storia del problema, si vedano, su fronti opposti, P. Toesca, II Trecento, Torino 1951, pp. 446-54, note; A. Smart, The Assisi Problem and the Art of Giotto. A Study of the ‘Legend of St. Francis’ in the Upper Church of San Francesco, Assisi, Oxford 1971, pp. 46-62.

2

R. Offner, Giotto - non Giotto, in «The Burlington Magazine», I, LXXIV, 1939, pp. 259-68; II, LXXV, 1939, pp. 96-113. Si veda sopra, p. 36, nota 39.

3

M. Meiss, Giotto and Assisi, New York 1960, p. 2 («The burden of the proof lies - or at least should lie - heavily upon those who deny the cycle to Giotto»). Si veda anche quanto ammette J. White, Art and Architecture in Italy, 1250-1400, Harmondsworth 1966, p. 137. Si veda sopra, p. 34, nota 23.

4

Rintelen, Giotto cit., p. 179; Offner, Giotto cit., che indica la sua attribuzione nelle didascalie alle foto degli affreschi delle Storie di san Francesco.

7

Meiss, Giotto cit., pp. 11-25.

8

Un approccio del tutto opposto, e per me assai poco costruttivo, è quello di certi studiosi americani pronti a distinguere con puntiglio il ruolo dei vari collaboratori di un’impresa: esempi tipici la proliferazione di alter ego di Ambrogio Lorenzetti e di Duccio nelle monografie dedicate loro rispettivamente da G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958 e J. H. Stubblebine, Duccio di Buoninsegna and His School, Princeton 1979.

9

Dall’attribuzione al Maestro della Santa Cecilia (Studies in Florentine Painting, New York 1927, p. 21, nota 22; A Corpus of Fiorentine Painting, sez. III, I, Berlin 1931, p. 32) l’Offner è passato alla proposta di un «Master of the Santa Maria Novella Cross», considerato autore anche della Madonna di San Giorgio alla Costa (A Corpus, VI, New York 1956, pp. 3-7, 9-18).

10

R. Oertel, Die Frühzeit der italienischen Malerei, Stuttgart 1953, 2a ed. 1966, pp. 70-71. Si vedano anche l’edizione inglese (Early Italian Painting to 1400, London 1968, pp. 64-82) e la breve monografìa su Giotto, in Meilensteine Europäischer Kunst, a cura di E. Steingräber, München 1965, pp. 173-98.

11

Si veda in particolare R. Van Marle, The Development of Italian Schools of Painting, I, The Hague 1923, p. 521 e passim.

12

Meiss, Giotto cit., p. 2.

13

A. Smart, The Santa Cecilia Master and His School in Assisi, in «The Burlington Magazine», CII, 1960, pp. 405-13, 431-37.

14

Meiss, Giotto cit., pp. 23-24.

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15

B. Cole, Giotto and Florentine Painting, New York - Evanston - San Francisco 1976, pp. 40-52.

16

F. Hermanin, Un affresco di Pietro Cavallini a S. Cecilia in Trastevere, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 1900, pp. 397-410; Id., Nuovi affreschi di Pietro Cavallini in Santa Cecilia in Trastevere, in «L’Arte», 1901, pp. 239-44; Id., Gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastevere, in «Le gallerie nazionali italiane», 1902.

17

Per una rassegna più approfondita del «pancavallinismo» si vedano le note 12 e 13 a p. 12 del mio scritto La rappresentazione dello spazio, in Storia dell’arte italiana, IV, Torino 1980, pp. 5-39.

18

Offner, A Corpus cit., I, pp. XIX-XXVII.

19

L. Bracaloni, Assisi Medioevale. Studio topografico, in «Archivum Franciscanum Historicum», VII, 1914, p. 19; B. Kleinschmidt, Die Basilika San Francesco in Assisi, II, Berlin 1926, p. 157. Toesca, Il Trecento cit., p. 468, nota 14, riprende questa osservazione, pur con qualche riserva.

20

Si veda, per esempio, White, Art and Architecture cit., p. 143. Egli pensa che, data la reinterpretazione del Tempio di Minerva di Assisi col rosone e gli angeli volanti del timpano e con una colonna centrale invece di un intercolumnio centrale, non ci si può fidare del fatto che alla torre del Palazzo del Comune manchi un piano per dedurne che esso rispecchi la sua forma precedente al rialzamento del 1305 e che questa data costituisca un ragionevole terminus ante quem per l’affresco. In realtà, mentre sarebbe troppo chiedere a un’arte che si sta appena ponendo il problema di ritrarre un ambiente una fedeltà fotografica (come sarebbe quella di riprodurre l’esatto numero delle colonne dell’atrio di un tempio antico), ben differente mi pare il caso della sopraelevazione di un piano di una torre. Quanto alla concretezza della raffigurazione, è stato notato che la presenza di finestre inferriate documenta l’uso del Tempio di Minerva come carcere (P. Scarpellini, Assisi e i suoi monumenti nella pittura dei secoli XIII-XIV, in Assisi ai tempi di San Francesco, Assisi 1978, pp. 97-100), con un riferimento diretto alla situazione reale.

21

Vedi sopra, p. 34, nota 23.

22

Fu U. Procacci, La tavola di Giotto sull’altar maggiore della chiesa della Badia fiorentina, in Scritti di storia dell’arte in onore di Mario Salmi, II, Roma 1962, pp. 9-45, ad identificare il polittico già allora ben noto e conservato nel Museo dell’Opera di Santa Croce (restaurato nel 1957 ed in seguito trasferito agli Uffizi) con la «tavola» nella Badia fiorentina ricordata dal Ghiberti (Lorenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten - I Commentarii, a cura di J. von Schlosser, Berlin 1912, I, p. 36).

23

Rintelen, Giotto cit., p. 158: «an die Stelle der phantasievollen Unbestimmtheit Giottos tritt kalte, bis zum grob Handgreiflichen gehende Natürlichkeit».

24

Offner, Giotto cit., I, p. 261 («being is emphasized over doing, eternity over the moment, idea over fact»); ibid. («man stands detached from earthly things and interests»); ibid. («Man represents the essence of virtue in an ideai worid»); II, p. 102 («Giotto’s eye is never preoccupied with an outer object, but always reflects an inner state»); ibid. («The expression accordingly never responds to a moment, but is related to eternity»); I, p. 268 («the scenes, by contrast with Assisi, mantain an ideal and indeterminate distance from the spectator, like pictures in a dream»); II, p. 101 («[At Assisi] the buildings, the rocks, the trees are not, as in Giotto, primarily cubie abstractions»); II, p. 102 («But the conscience within them, like their type, is stolid and impenetrable»); ibid. («we become aware of an ultimate indwelling meaning, as of a living spirit that di-

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La pecora di Giotto rects the body and sets it in motion, rather than of its irreducible materiality as in Assisi»).

25

Ibid., I, p. 261 («[Plasticity] attains to a pitch of refìnement in the Paduan Cross that makes it felt essentially as a manifestation of the immaterial»).

26

Si veda la scheda n. 1 del catalogo, a cura di L. Grossato, Padova 1974. Il dipinto ha subito un intervento di pulitura da parte di Mauro Pelliccioli nel 1955.

27

Offner, Giotto cit., II, p. 107 («In Giotto the architecture is consistently ideal and abstract»).

28

Un ben più alto apprezzamento dei due coretti è stato dato da R. Longhi, Giotto spazioso, in «Paragone», 1952, n. 131,pp. 18-24, ora in «Giudizio sul Duecento» e ricerche sul Trecento nell’Italia centrale, Firenze 1974, pp. 59-64, che traccia anche una storia della loro limitata fortuna, e da Gioseffi, Giotto cit., pp. 52-54, 118-20.

29

Offner, Giotto cit., II, p. 107 («[the aureole] is foreshortened as a mean of both accenting and differentiating the personages with the intention of achieving a clearer organization within the single scene and a rhythmic fluidity in the narrative»).

30

Ibid. («In Assisi the angels are conceived as full-sized earth-inhabitants differentiated from humanity solely by their wings. In Padua they are small and gnome-like and haunt the free space like creatures of the air, from which they seem to watch over the fortunes of men below with the friendly solicitude of familiar spirits. In flying, the lower part of their bodies vanishes in cloud, so that we are astonished to find them occasionally alight in their tuli height on human feet. But the Assisan angels retain their entire bodies even in flight»).

31

Ibid., p. 101 («In contrast to Padua where the spectator’s eye is uniformly assumed to be at the height of the foreground heads - a device that provides a sharper foreshortening and a completer overlapping to the end of achieving a more ideal space-illusion - in Assisi the composition is often sighted from above»).

32

Ibid. («the action is shifted to one side with no figural elements on the other»).

33

E. Panofsky, Die Perspektive als ‘symbolische Form’ (1924-25), ed. it. a cura di G. D. Neri, con una nota di M. Dalai, Milano 1966, p. 53.

34

Offner, Giotto cit., II, pp. 107-8.

35

Si veda oltre, pp. 175-79.

36

Si veda oltre, pp. 125-26.

37

C. Cennini, II libro dell’Arte o Trattato della Pittura, ed. a cura di F. Tempesti, Milano 1975, cap. IX, p. 34.

38

Si veda ad esempio M.T. Cuppini, La pittura e la scultura in Verona al tempo di Dante, nel catalogo della mostra Dante e Verona, Verona 1965, pp. 175-98, figg. 25-26.

39

La notizia del soggiorno riminese di Giotto si fonda su un passo della Compilatio Chronologica di Riccobaldo Ferrarese (in L. A. Muratori, RIS, IX, p. 325a); «Zotus pictor eximius agnoscitur; qualis in arte fuerit testantur opera facta per eum in Ecclesiis Minorum Assisii, Arimini, Padue et in ecclesia Arene Padue». I dubbi sull’autenticità del passo sono stati risolti in senso positivo da C. Gnudi, II passo di Riccobaldo ferrarese relativo a Giotto e il problema della sua autenticità, in Studies in the History of’ Art dedicated to William E. Suida, London 1957, pp. 26-30, che ne ha stabilito la data al 1312-13. Per la data di questo soggiorno si veda G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, 2a ed. cit. 1974, pp. 70-72, 135-36, note 119-25, che riferisce concisamente delle varie opinioni in merito. Si veda anche oltre, p. 138, nota 1.

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«Opus magistri Iocti»

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40

Offner, Giotto cit., I, p. 267 («as it were seen through a window»).

41

Ibid., pp. 267-68 («far from creating a transition from the actual to the painted space as does the framework of the St. Francis cycle, the network of enframing bands in Padua remains largely ornamental and abstract»).

42

Gioseffi, Giotto cit., p. 52.

43

Si fa qui riferimento alle misure date da E. Baccheschi, in L’opera completa di Giotto dei «Classici dell’arte» Rizzoli, Milano 1966, che sono misure medie, considerate senza contare le cornici né le strisce riquadranti.

44

Già F. Mather, Giotto’s St. Francis Series at Assisi Historically Considered, in «Art Bulletin», 1943, pp. 47-111, indicava nell’eccezionalità iconografica del ciclo francescano e nella diversità di formato le ragioni delle differenze degli affreschi Scrovegni che erano state osservate. Si veda, a questo proposito, anche Gioseffi, Giotto cit., p. 102. Un ragguaglio delle misure dei riquadri padovani, che, tra l’altro, sono differenziate a seconda dell’altezza per un sottile calcolo dell’effetto visivo, è dato da A. Prosdocimi, Osservazioni sulla partitura delle scene affrescate da Giotto nella cappella degli Scrovegni, negli Atti del congresso su Giotto e il suo tempo cit., pp. 13542.

45

Offner, Giotto cit., II, p. 102 («the figures are presented simply as contentedly aware of their embodied selves or their gestures, busy with their own thoughts as they are barely mindful of what’s going on»).

46

Ibid. («simple-souled men who live by forcing their bodily needs from the earth. But the conscience within them, like their type, is stolid and impenetrable compared to the spiritually evolved creatures of Padua. Here the whole man belongs to a higher order of sentiency»).

47

Si veda sopra, pp. 28 e 38, nota 47.

48

De vulgari eloquentia, lib. II, IV, 5-6.

49

Poema per un verso di Shakespeare, in Poesia in forma di rosa, Milano 1964, p. 104.

50

Belting, Die Oberkirche cit.

51

Meiss, Giotto cit., p. 21: «the more tentative, rather petty, gestures often apparent in the Legend, such as a pointing thumb, or fingers to lips or check, or chin in hand».

52

Gioseffi, Giotto cit., pp. 107-8. Il Gioseffi nota anche che il gesto di papa Onorio di tenersi il mento con la mano (cioè uno dei gesti «beccati» dal Meiss nelle Storie di san Francesco di cui non ci sarebbe la minima traccia nelle Storie di Isacco e negli affreschi di Padova) è ripetuto da uno degli astanti nella Resurrezione di Lazzaro nella cappella Scrovegni.

53

Si veda quanto ho affermato in Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, pp. 41-43; si veda anche il primo capitolo di questo volume, pp. 9-14. Della novità introdotta nelle Storie di san Francesco sembra cosciente anche il Vasari (Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori cit., p. 305): «fa bellissimo vedere la diversità degl’abiti di que’ tempi».

54

É. Bertaux, Les arts de l’Orient musulman dans l’Italie meridionale, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», 1895, pp. 419-57, metteva in rapporto la diffusione dei motivi decorativi cosmateschi nell’Italia meridionale con influssi arabi.

55

Si veda sopra, p. 97, nota 19.

56

Smart, The Assisi Problem cit., p. 152 («the first modern street-scene in Italian art»).

57

A proposito dell’attribuzione corrente al Maestro della Santa Cecilia di questo e degli ultimi riquadri delle Storie francescane di Assisi, si veda oltre, p. 102, nota 94.

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La pecora di Giotto

58

Riprendo qui la felice formulazione di U. Feldges, Landschaft als topographisches Porträt. Der Wiederbeginn der europäischen Landschaftsmalerei in Siena, Bern 1980.

59

M. Seidel e L. Bellosi, Castrum pingatur in palatio, in «Prospettiva», 1982, n. 28, pp. 17-65.

60

Meiss, Giotto cit., p. 2. Per il passo di Riccobaldo Ferrarese, si veda sopra, p. 98, nota 39.

61

Ibid., pp. 11-15.

62

Offner, Giotto cit., II, p. 101 («The space thereby acquires a more explicit emptiness in proportion as the form is more densely solid»).

63

Ibid., p.102.

64

È un’osservazione che hanno fatto in molti, anche chi non ammette che gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco siano da ricondurre a uno stesso artista. Si veda, ad esempio, J. White, The Birth and Rebirth of Pictorial Space, London 1957, ed. cit. 1972 (meno attendibile è la traduzione italiana, Milano 1971), p. 33. «The clearest evidence that the master responsible, for the main body, of ‘The Legend of St. Francis’ starts from that vision of reality shared by the painters of the middle register and vaults of the two entrance bays is to be seen in ‘The Vision of the Thrones’».

65

Id., Art and Architecture cit., pp. 143-44 e tavv. 57a-b.

66

Bellosi, Buffalmacco cit., p. 120.

67

Meiss, Giotto cit., p. 23.

68

White, Art and Architecture cit., p. 135 («the Isaac Master must be counted among the greatest of those few, exceptional geniuses who founded the new school of Italian painting»); p. 136 («The painting of the Legend of St. Francis [...] is one of the supremely important events in the history not only of Italian but of European art»).

69

C. Brandi, Sulla cronologia degli affreschi della chiesa superiore di Assisi, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 61-66, e, più recentemente, Giotto, Milano 1983.

70

L. Tintori e M. Meiss, The Painting of the Life of St. Francis in Assisi, New York 1962, 2a ed. 1967.

71

Per la ricchezza di suppellettili liturgiche marmoree decorate alla cosmatesca presenti nella Basilica di Assisi (a cui Giotto avrebbe potuto ispirarsi direttamente per la Volta dei Dottori e per le Storie di san Francesco) si veda ora anche I. Hueck, Der Lettner der Unterkirche von San Francesco in Assisi, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 1984, pp. 173202.

72

Queste cornici sono spesso di un colore rosso rosato, come quelle del trono della Madonna di San Giorgio alla Costa.

73

Quanto ho affermato in queste pagine va nello stesso senso di alcune osservazioni, necessariamente più rapide, di Previtali, Giotto cit., p. 55 sull’«analitica penetrazione delle sottigliezze del vero» e sulla «stupefacente simulazione delle più difficili operazioni dell’uomo e della natura» che caratterizzarono Giotto agli occhi dei suoi contemporanei.

74

Si veda sopra, p. 67 e nota 65.

75

A proposito delle strette affinità tra gli affreschi dei registri alti e le Storie di san Francesco, si vedano anche le osservazioni di Belting, Die Oberkirche cit., pp. 241-42. Particolarmente significativo è il confronto che Belting propone tra il San Pietro nel clipeo della controfacciata e la testa di san Francesco nella Prova del fuoco davanti al Sultano (tav. 88).

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«Opus Magistri Iocti»

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76

P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento, Verona 1929, pp. 16-20; si vedano anche Id., Giotto, Torino 1941, pp. 59-61; Id., Il Trecento cit., p. 454, nota.

77

Fra i separatisti, solo Smart, The Assisi Problem cit., pp. 109-17, affronta il problema posto dalla tavola del Louvre.

78

Le opere considerate da Offner autografe di Giotto («So secure, indeed is this combined testimony as to justify the confident assumption that he had none other painted») sono soltanto gli affreschi e il Crocifisso Scrovegni, le cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce e la Madonna di Ognissanti (Offner, Giotto cit., I, p. 260).

79

Ghiberti, I Commentari, ed. cit., I, p. 39.

80

A proposito della tavola del Louvre si vedano anche le osservazioni di Previtali, Giotto cit., pp. 45, 64, 367.

81

Su questo punto si veda già Gioseffi, Giotto cit., p. 107.

82

Offner, Giotto cit., II, p. 108 («The stony waste of Assisi frescoes climbs in stratified stages of shining white levels, flashing back a cold light, and drops at edges of a lacerating sharpness into sheer dark declivities»).

83

Per il problema dell’attribuzione al Maestro della Santa Cecilia della prima e delle ultime scene della Leggenda di san Francesco, si veda oltre, p. 102, nota 94.

84

Si veda sopra, pp. 25-26 e 37, nota 41.

85

Si veda oltre, pp. 164-67.

86

M. R. Fisher, Assisi, Padua and the Boy in the Tree, in «Art Bulletin», 1954, pp. 47-52. Egli pensava a una ripresa immediata da Padova entro il 1307, in quanto il bambino nell’albero dell’affresco assisiate gli sembrava un’indebita estensione di un motivo pensato per Padova, dove si inserirebbe più appropriatamente nella scena dell’Ingresso di Cristo a Gerusalemme. Va tuttavia notato che il riferimento all’ingresso a Gerusalemme è già configurato nel testo della Legenda maior di san Bonaventura, come si può controllare perfino dalla scritta sotto l’affresco assisiate dove si parla di «turbae quae convenerant [...] cum ramis arborum».

87

Si vedano, a questo proposito, le serrate e convincenti argomentazioni di Gioseffi, Giotto cit., pp. 104-8, e i confronti già proposti da Previtali, Giotto cit., pp. 74-83. Si considerino anche certe osservazioni di Belting, Die Oberkirche cit., p. 242, come quelle relative all’Ascensione, la cui composizione è simile ad Assisi e a Padova, ma sembra nata ad Assisi, dove è più congrua alla situazione della superficie da affrescare.

88

Previtali, Giotto cit.; si vedano le illustrazioni alle pp. 80-81.

89

Sembra di aggirarsi all’interno di una delle basiliche minori romane arricchite di arredi liturgici marmorei, come San Lorenzo fuori le Mura o San Clemente. All’interno di quest’ultima chiesa fa riferimento anche J. White, Giotto‘s Use of Architecture in ‘The Expulsion of Joachim’ and ‘The Etry into ]erusalem’ at Padua, in «The Burlington Magazine», cxv, 1983, pp. 439-47, che considera l’architettura della Cacciata di Gioacchino dal Tempio come «the only surviving example of Giotto’s use of a portrayal of an existing building in a narrative context». È un aspetto che non manca di riconnettersi strettamente, anch’esso, con le ricostruzioni di ambienti architettonici negli affreschi di Assisi.

90

Id., The Birth and Rebirth cit., pp. 37-39, dedica molta attenzione a questo fenomeno, riferendosi però soltanto agli affreschi di Assisi e segnatamente al Presepe di Greccio e ai Funerali di san Francesco. Egli lo considera ancora in rapporto con la tradizione medievale (testimoniata, ad esempio, da alcune miniature del Menologio di Basilio II, databili al X secolo) e pone, così, le due composizioni assisiati alla fine di una lunga evolu-

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La pecora di Giotto zione piuttosto che all’inizio di un’altra. In questo senso, la libertà spaziale delle due composizioni non può essere considerata più evoluta - e quindi più tarda - rispetto alle soluzioni padovane, come pensava il Rintelen. Tuttavia, il White non ha osservato che alcune scene padovane, come quelle che abbiamo qui esaminate, presentano ancora lo stesso fenomeno.

91

C. Gnudi, Giotto, Milano 1958, p. 66, ritiene, in maniera assai plausibile, che l’affresco sia stato eseguito per ultimo perché, al momento in cui si dette inizio alla Leggenda di san Francesco, si stava impostando la trave dell’iconostasi. Soltanto verso la conclusione dei lavori si sarebbe deciso di affrescare il primo e l’ultimo riquadro, con l’avvertenza di impostare la trave in una zona del fondo blu. La seriorità di questo affresco rispetto agli altri è stata confermata dai rilievi di Tintori e Meiss, The Painting cit. Per l’attribuzione al Maestro della Santa Cecilia, si veda oltre, nota 94.

92

S. Settis, Immagini della meditazione, dell’incertezza e del pentimento nell’arte antica, in «Prospettiva», 1975, n. 2, pp. 4-18, ha notato come il gesto dell’apostolo all’estrema destra della Deposizione di Padova derivi dal Demostene di Polyeuktos, noto dalla copia romana della gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen; lo stesso Settis ricorda che «l’ingresso del gesto di Demostene nell’arte cristiana comincia già nel sarcofago di Giunio Basso, per la figura di san Pietro imprigionato» (p. 8). Il gesto studiato da Settis è anticipato dalla figura in piedi seconda da destra nella Deposizione di Assisi.

93

White, Art and Architecture cit., p. 144 («one demonstration of the stature of the Master of the St. Francis Cycle is the meteoric speed of bis artistic development»).

94

Per l’attribuzione della prima e delle ultime Storie di san Francesco al Maestro della Santa Cecilia, che è opinione prevalente della critica, si veda soprattutto Offner, A Corpus cit., I, pp. 18-23, tavv. I-IV. L’intervento di questo maestro è stato talvolta sopravvalutato, fino ad arrivare alla posizione estrema di Smart, The Santa Cecilia Master cit. Per i dubbi su questa attribuzione si veda soprattutto Toesca, II Trecento cit., p. 606, nota 127. R. Longhi, In traccia di alcuni anonimi trecentisti, in «Paragone», 1963, n. 167, pp. 3-16, ora in «Giudizio» cit., p. 166, ha espresso delle riserve a mio avviso giustissime, mettendo in dubbio la compresenza del Maestro della Santa Cecilia nelle Storie di san Francesco ad Assisi. Si veda infine Previtali, Giotto cit., pp. 55-59.

95

I. Hueck, Frühe Arbeiten des Simone Martini, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», XIX , 1968, pp. 29-60.

96

R. Longhi, Giudizio sul Duecento, in «Proporzioni», 1948, pp. 5-54, ora in «Giudizio» cit., p. 49; C. Volpe, Un momento di Giotto e il «Maestro di Vicchio a Rimaggio», in «Paragone», 1963, n. 157, pp. 3-14; Previtali, Giotto cit., p. 64.

97

P. Toesca, Una postilla alla «Vita di san Francesco» nella chiesa superiore di Assisi, in Studies ... to W. E. Suida cit., pp. 21-25; si veda in particolare la fig. 1. Il contributo di Toesca (alcune considerazioni del quale si trovano anticipate in II Trecento cit., p. 455, nota 9) è molto importante anche per le precisazioni sullo stato di conservazione e sull’entità delle ridipinture nel ciclo francescano.

98

Sul problema del soggiorno riminese di Giotto tra Assisi e Padova si veda anche oltre, pp. 103 e 138, nota 1.

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«Romanizing» o assisiate?

Il richiamo del Meiss alla «general historical plausibility» non manca di presentarsi come una critica a quell’aspetto della lettura giottesca proposta dall’Offner che è il suo porsi come una purissima distillazione stilistica, astratta dalle connessioni con la realtà storica circostante. Infatti, non appena i separatisti devono fare i conti con la storia, sorgono problemi enormi. Il primo e più grave viene, come abbiamo visto a proposito delle Stimmate del Louvre, dal non aver tenuto in nessun conto le tre opere firmate da Giotto che sono arrivate fino a noi. C’è, poi, l’importante testimonianza di Riccobaldo Ferrarese, un contemporaneo di Giotto, che nel 1313 asserisce che il pittore fiorentino aveva dipinto nelle chiese francescane di Assisi, di Rimini e di Padova e nella chiesa padovana dell’Arena, dove questa successione ha tutta l’aria di avere un significato cronologico1. Inoltre, il rifiuto dell’attribuzione a Giotto del Crocifisso di Santa Maria Novella, conseguente al rifiuto delle Storie di san Francesco ad Assisi, va contro una ben nota testimonianza documentaria del 1312 che in quella chiesa fiorentina esisteva un Crocifisso dipinto da Giotto; e va contro l’evidenza che quell’opera, già ricopiata nel 1301 da Deodato Orlandi, rappresenta un’innovazione totale nella tipologia della croce dipinta italiana, che la pone come capostipite di tutta la serie trecentesca2. Ma il rifiuto di riconoscere negli affreschi di Assisi una testimonianza dell’attività giovanile di Giotto pone enormi problemi anche in rapporto ad una visione d’insieme della pittura italiana tra la fine del Due e gli inizi del Trecento. Il più evidente è che agli inizi del Trecento lo stile assisiate è molto più diffuso dello

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La pecora di Giotto

stile giottesco quale si manifesta a Padova. I separatisti hanno visto una soluzione a questo problema nel Cavallini e nella scuola romana. Il Garrison pone molto chiaramente la questione in questi termini: «è certo che il movimento verso un nuovo naturalismo fu notevolmente affrettato dal Cavallini a Roma e da Giotto a Firenze, e, qualunque fossero i rapporti tra questi due spiriti guida, è ugualmente certo che, nelle fasi evolute della loro opera e nell’opera dei loro immediati seguaci, furono sviluppate due diverse maniere»3. Queste due maniere parallele, che fanno capo a due artisti, Cavallini e Giotto, vengono fatte coincidere con le maniere di due centri diversi, rispettivamente Roma e Firenze, insomma con due «scuole» artistiche: «lo stile romano appare con chiarezza indiscussa negli affreschi del Cavallini a Santa Cecilia a Roma e nei mosaici di Santa Maria in Trastevere, negli affreschi di Santa Maria Donnaregina a Napoli, dei suoi seguaci, e nei più tardi degli affreschi di Vescovio. Ugualmente romani, anche se meno cavalliniani, sono affreschi variamente attribuiti nella Chiesa Superiore di San Francesco ad Assisi, compresi quelli del cosiddetto Maestro d’Isacco [...]. Per contro è fiorentino lo stile degli affreschi nella cappella dell’Arena a Padova, del 1305 circa, e nelle cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce a Firenze [...], della Madonna di Ognissanti, tutti di Giotto, così come alcuni affreschi della sua cerchia immediata nella Basilica Inferiore di Assisi, ivi compresa la cappella della Maddalena»4. Che cosa distingue queste due maniere diverse e parallele? Ambedue, risponde il Garrison, «affermano una volontà di rappresentare le esperienze visive del periodo, così da abbattere quelle meramente tradizionali nella pittura precedente. Tra le altre cose, ciò comprendeva la sostituzione di linee, luci e ombre schematiche con un chiaroscuro evocativo [...] per produrre l’apparenza di massa e peso. Ma i romani sono interessati all’aneddoto, a ciò che è reale e perfino momentaneo e questo porta ad un’urgenza di rappresentare non solo le forme naturali ma anche ad un naturalismo totale di relazioni e azioni. I fiorentini invece cercano in ogni tema il significato trascendentale e duraturo, per razionalizzare e sintetizzare, e, mentre modellano grosso modo in

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«Romanizing» o assisiate?

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maniera simile, immobilizzano le figure in pose simbolicamente espressive, che, tuttavia, hanno poco di ieratico e di rigido»5. Ribaltate su due «scuole», le differenze tra romani e fiorentini sono in sostanza quelle enucleate dal Rintelen e dall’Offner tra gli affreschi di Assisi e quelli della cappella Scrovegni. Il sospetto che si tratti di un circolo vizioso aumenta di gran lunga considerando che, per far coincidere le due maniere parallele e diverse con due «scuole», si compie un’operazione semplificatrice che a sua volta apre dei grossi problemi. La scuola romana non si esaurisce affatto con la tendenza che fa capo al Cavallini, anzi essa ha un altro grande e ben diverso rappresentante nel Torriti, l’artista che almeno fino al 1295 circa riceve le commissioni più prestigiose nella città papale. D’altra parte, Firenze, la città di Giotto, presenta agli inizi del Trecento una fitta produzione che non fa ancora pensare allo stile che caratterizza l’attività giottesca dalla cappella Scrovegni in avanti, ma piuttosto a quello degli affreschi di Assisi. Una tendenza romana nella pittura fiorentina? Non mi risulta che i separatisti si siano posti il primo di questi problemi. Hanno invece dovuto tener conto del secondo e lo hanno risolto individuando una tendenza romana nella pittura fiorentina. Così, secondo l’Offner, il Maestro della Santa Cecilia è un antigiottesco e si è formato soprattutto in rapporto col Cavallini. Sia l’Offner che il Garrison si appoggiano molto alla dubbia affermazione del Vasari, presente soltanto nella seconda edizione delle Vite, che il Cavallini sarebbe venuto a lavorare a Firenze6. «Il Vasari parla della visita del Cavallini a Firenze e di numerose opere eseguite da lui in San Marco e in San Basilio e di altre a lui attribuite nella città. Per quante riserve si possano fare sulla credibilità di questo scrittore, la presenza dei seguaci del Cavallini a Firenze è attestata dagli affreschi sopravvissuti nella cappella Velluti in Santa Croce e da altri staccati, ora nel refettorio della chiesa; perché, nonostante che gli storici moderni abbiano oscillato

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nel definirli cimabueschi e giotteschi - ma nei termini più esitanti essi sono romani in ogni loro aspetto»7. Seguendo questo criterio, tuttavia, finiremmo probabilmente per scoprire che la produzione dei fiorentini «romanizing» è molto più cospicua di quella dei romani stessi. Ma c’è un’altra obiezione fondamentale. Chi voglia controllare nel suo insieme la situazione della pittura fiorentina avrà subito il sospetto che tutto ciò che in essa i separatisti chiamano «romanizing» rappresenti in realtà una fase di sviluppo più antica rispetto a tutto ciò che essi vorrebbero etichettare come fiorentino. Prima del 1305-10 circa, a Firenze non si ha niente che possa far pensare allo stadio stilistico rappresentato dagli affreschi Scrovegni, che sembra avere un’affermazione solo più tardi, con l’intermezzo di una fase interlocutoria, nel secondo decennio del secolo, prima della piena affermazione, dal 1320-30 in avanti, con Taddeo Gaddi, Maso di Banco, Bernardo Daddi, ecc. In confronto a questi artisti, l’arte del Maestro della Santa Cecilia rappresenta la cultura di una generazione più antica e non una maniera parallela a quella «giottesca». Infatti, mentre essi sono attivi molto più tardi e di nessuno di essi conosciamo opere che precedono il terzo decennio del Trecento, il Maestro della Santa Cecilia operava già nel primo decennio. Per la tavola eponima degli Uffizi esiste il punto di riferimento cronologico del 1304, data dell’incendio della chiesa di Santa Cecilia (per cui fu dipinto), subito ricostruita8, mentre il San Pietro in trono di San Simone, che anche se non sarà da attribuire allo stesso pittore rappresenta una cultura molto simile alla sua, è datato 13079. Va poi notato che la cultura artistica dei pittori fiorentini che i separatisti chiamano «romanizing» segue immediatamente quella cimabuesca, si direbbe senza soluzione di continuità. Il caso che ci da più informazioni in questo senso è quello del cosiddetto Maestro di San Gaggio (figg. 114, 115). Quattro delle sue opere sono proprio quelle presentate dal Garrison nel suo saggio sui fiorentini «romanizing». Nello specifico, per non sbagliarsi, egli preferisce distinguerle tra un primo, un secondo, un terzo e un quarto «florentine romanizing master», ma le analogie sono tali che è

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difficile non trovarsi d’accordo con chi le ha riunite nell’opera di un solo pittore, collegandole in maniera ineccepibile - mi pare (si vedano i confronti fotografici proposti dal Longhi e dal Previtali)10 - con un dossale di cultura cimabuesca, anzi attribuito a Cimabue stesso. Che il Maestro di San Gaggio avesse incominciato molto presto la sua attività sta a dimostrarlo anche il fatto che il dossale di collezione privata newyorkese presentato dal Garrison (ora alla Putnam Foundation di San Diego) reca al centro una Madonna col Bambino dipinta da un pittore nato forse anche prima di Cimabue, il Maestro della Maddalena. Tuttavia, già nelle scenette che si svolgono ai lati di questo dossale, il Maestro di San Gaggio denuncia un adeguamento alle tendenze innovatrici. Inoltre, in un trittico che faceva parte della collezione del conte di Crawford and Balcarres, egli esegue, al centro, una Tebaide, seguendo evidentemente un esempio bizantino, al punto che in un primo momento viene da pensare che si tratti di un’opera diversa dai laterali, ben più personali e caratteristici di questo maestro11. Egli si esprime qui ancora in stile cimabuesco, sia pure con un linguaggio un po’ riduttivo, che rimpiccolisce l’umanità di quel grande artista. Nelle scenette eseguite ai lati della Madonna del Maestro della Maddalena e nel dossale degli Staatliche Museen di Berlino Est (fig. 113), il Maestro di San Gaggio denuncia già, invece, un adeguamento alle idee innovatrici ancora più evidente che nel tabernacolo diviso tra la collezione Sessa e la Christ Church di Oxford, dove, nonostante i primi accenni a un chiaroscuro più intenso e creatore di volume, la rappresentazione degli ambienti e delle architetture rimane fedele alla tradizione bizantina. Che esso sia un’opera molto più antica della data intorno al 1320 che gli attribuisce il Garrison lo fa sospettare anche il rapporto, notato dallo stesso Garrison, con tre Madonne ancora pienamente duecentesche come quella già Sirén, quella Kress e quella Kingsley Porter. Il motivo del Bambino che lascia intravedere le gambe attraverso la veste aperta sul davanti compare in un’altra opera del Maestro di San Gaggio, la Madonna in trono della Galleria dell’Accademia di Firenze, dalla testa completamente ridipinta, che deve essere più tarda delle altre perché il tro-

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no è risolto ormai come un vistoso pezzo di architettura in marmo, decorato alla cosmatesca. Inoltre, le figure dei santini ai lati, ancora irrazionalmente sospesi nel vuoto come nel Maestro della Maddalena, hanno una struttura più controllata, una maggiore compostezza e convinzione. L’opera più avanzata di questo Maestro è, a mio avviso, un piccolo trittico - Madonna col Bambino e due santi, santo vescovo e donatore inginocchiato, Crocifissione - che nei cataloghi Kress è attribuito a un seguace di Duccio, ma in cui ho l’impressione che l’aspetto duccesco della parte centrale sia opera di un astuto restauratore, mentre nei laterali sono troppo evidenti la puntigliosità figurativa, le piccole espressioni acute e grifagne, di ricordo ancora cimabuesco, caratteristiche di questo pittore12. La sua vicenda artistica ci dice con molta chiarezza che a Firenze la cultura che segue immediatamente quella cimabuesca è la maniera che i separatisti chiamano «romanizing». Ma se subito dopo Cimabue e i cimabueschi vengono i cosiddetti «romanizing», mentre lo stile che i separatisti chiamano fiorentino e che fa capo agli affreschi Scrovegni di Giotto si sviluppa solo più tardi, quale era stato il ruolo di Giotto nella sua città prima degli affreschi Scrovegni? Dante dice che, dopo Cimabue, «ora ha Giotto il grido»13: «ora», cioè quando? Come è ben noto, il mistico viaggio dantesco è collocato nell’anno 1300 e questo punto di riferimento cronologico è rigorosamente rispettato in tutta la Divina Commedia. Se Dante dice «ora», vuol dire nell’anno 1300. Sulla base di queste considerazioni, continuare a credere alla spiegazione «romanizing» dei separatisti equivarrebbe a negare valore alla testimonianza di un contemporaneo di Giotto del livello intellettuale di Dante14 e andare contro ogni «general historical plausibility». Nella città di Giotto, le grandi novità che i separatisti considerano parallele a quelle giottesche, nate al momento in cui decade l’interesse per i modelli di Cimabue, bisogna credere che siano di fonte giottesca. Questa è la spiegazione più logica e naturale. Una spiegazione diversa dovrebbe essere sostenuta con argomenti troppo più convincenti di considerazioni che non partono da dati concreti, ma sono una

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tautologia, in quanto conseguenza - piuttosto che riprova - dell’ipotesi che gli affreschi assisiati sarebbero di scuola romana. La scuola romana prima del rinnovamento: il Torriti. Il concetto di scuola romana elaborato dai separatisti è estremamente semplicistico e presenta aspetti di una eccessiva disinvoltura filologica. Innanzitutto ci si dimentica - come abbiamo accennato - che, lungi dall’identificarsi con l’opera del Cavallini, la pittura di fine Duecento ha a Roma un altro grande e diverso protagonista in Jacopo Torriti. Anzi, a giudicare da ciò che sappiamo dalle opere che sono arrivate fino a noi, sembra essere stato lui la figura di maggiore spicco, almeno fino alla metà degli anni novanta. È a lui che toccano, tra il 1288 e il 1295, le commissioni più prestigiose, quali le decorazioni musive delle absidi di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, affidategli dal papa stesso, Niccolò IV. Tutto lascia credere che anche la sua partecipazione alla decorazione della Basilica Superiore di Assisi sia da mettere in rapporto con l’alta considerazione di cui godeva presso la corte pontificia15. Che proprio questi affreschi siano le parti più sicuramente romane di tutta la decorazione assisiate e che da essi non possa prescindere chi voglia studiare la pittura romana di fine Duecento16 è un po’ un’ironia della storia, perché non sono affatto romani nell’accezione dell’Offner e del Garrison e non mostrano specifiche affinità col Cavallini, del quale il Torriti viene considerato un contemporaneo. Il linguaggio solenne e paludato vi è sorretto da una grande sapienza e disinvoltura figurativa, restando comunque all’interno di una tradizione sostanzialmente bizantina. Il riferimento all’arte tardoantica rimane nel sottofondo, ma i vivaci accostamenti di macchie cromatiche della pittura «compendiaria» sono come attutiti e ovattati da una matassa di sottilissimi filamenti lanosi tracciati con grande diligenza e con effetti di pittura a corpo, che sembra modellare i volti e le carni per via di protuberanze (figg. 143, 144). Nel grande mosaico absidale di Santa Maria Maggiore (figg. 4, 118), il Torriti raggiunge ri-

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sultati di aulico sussiego e insieme di grande delicatezza. Il Toesca ne apprezzò molto anche la personalissima gamma cromatica: «ha un colorito di gradazioni così tenui, così velato di luci perlacee, ch’esso sembrerebbe sorgere da un suo proprio modo di vedere, se non vi fossero chiare, soprattutto nelle lumeggiature, le formule bizantine attenuate da interpretazioni personali, ma non rimosse»17. Le raffigurazioni di animali e di vegetali sono indice di vivi interessi naturalistici - come hanno sottolineato il Bertelli18 e il Gardner19 - che già ad Assisi avevano trovato, soprattutto negli uccelli figurati nella Creazione, degli esiti così straordinari da impressionare lo stesso Giotto. Jacopo Torriti fu un artista molto importante20. Per far risaltare la figura mitica del Cavallini lo si è relegato in secondo piano, ma egli rimane una grande e originale personalità, la cui presenza ha lasciato un segno molto più profondo di quanto si creda di solito nel panorama della pittura romana di fine Duecento. Della sua presumibile operosità ho già trattato nel corso di un intervento al convegno Roma anno 1300, tenutosi nel 1980. Mi si consenta di riportare in questa sede il brano relativo, che si potrà qui avvalere di un numero maggiore di illustrazioni21. «Raramente i testi sulla pittura romana della fine del Duecento, quando trattano del Torriti, vanno oltre il mosaico absidale di Santa Maria Maggiore; tuttavia, quest’opera grandiosa e capitale non esaurisce certo il discorso sull’artista; né lo esaurisce la parte che gli spetta della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. A parte il mosaico absidale di San Giovanni in Laterano, commissionato da Niccolò IV e finito nel 129022, che si giudica male a causa del radicale rifacimento che lo ha sfigurato in occasione del trasporto eseguito nel 1878, vi sono altre opere romane che stanno a dimostrare il ruolo importante che l’artista ebbe nella città papale. Mi sembra doveroso riprendere la traccia indicata dal Toesca in proposito e lasciata cadere troppo sbadatamente dagli studiosi di pittura romana, ove si escludano il Bertelli e, a suo modo, Irene Hueck23. Le opere messe dal Toesca in rapporto più o meno diretto col Torriti sono la Vergine advocata di Santa Maria Maggiore a Tivoli, le tre Vergini sagge sulla sinistra del mosaico

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di facciata di Santa Maria in Trastevere, i tre affreschi della chiesa di San Saba, la Madonna di Santa Maria del Popolo, la lunetta a mosaico sopra la porta laterale di Santa Maria in Aracoeli, il mosaico del monumento Capocci nella stessa chiesa e i due frammenti vaticani con i santi Pietro e Paolo. Il Toesca cita ancora qualche altra cosa che non ho potuto controllare direttamente24. Un breve esame di queste opere credo sarà sufficiente a convincerci della loro sostanziale unità stilistica. Abbiamo fatto caso al modo di tratteggiare del Torriti. Il modo di condurre le pennellate come una ragnatela di sottili e grassi filamenti in curva che si vedono nella Madonna della volta della terza campata di Assisi - per fare un esempio - ricompare identico nel volto della Vergine advocata di Santa Maria Maggiore a Tivoli (figg. 116, 117). Le due immagini sono somigliantissime anche nell’impostazione, nei giri delle pieghe della veste, nelle mani la cui compassata rigidità è intenerita dalla materia grassa e morbida, come formicolante. Nel tondo di Assisi è una più espansa e matronale imponenza, nel rettangolo di Tivoli una più allampanata eleganza; ma per il resto le due immagini sono quasi sovrapponibili. Assai vicine nel tempo sembrano le tre Vergini sulla sinistra del mosaico di facciata di Santa Maria in Trastevere (fig. 119), evidentemente le “tres Imagines musaycas virginum” che fece eseguire il canonico de Malpiliis, secondo la notizia del Necrologio della basilica resa nota dal Cecchelli25. Che si tratti di un intervento torritiano non mi pare dubbio: le tre figure sono ben più floride della smunta vergine più antica che le accompagna sulla destra e che si differenzia nettamente anche per le tessere musive più grosse e più rigidamente disposte. Il rutilante splendore del fondo d’oro, le fitte cascate del panneggio gonfiante e molti particolari accomunano queste tre figure ai mosaici absidali di Santa Maria Maggiore (fig. 118) e anche agli affreschi di Assisi. Più tardi di Assisi e di Santa Maria Maggiore dovrebbe cadere invece un gruppo di opere comprendenti quelle raggruppate dal Garrison sotto il fittizio “Maestro di San Saba“26 e gli affreschi dell’abbazia delle Tre Fontane pubblicati dal Bertelli con l’ascrizione al Torriti27, appunto. In particolare, sembrano accostabili

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tra loro l’Incoronazione della Vergine delle Tre Fontane e la Mani donna di Santa Maria del Popolo (fig. 121), di una pittura fattasi più magra e sottile, che punta su una maggiore accentuazione dei segni di contorno. Negli affreschi di San Saba, la lunetta con la Vergine in trono fra due santi è ben confrontabile con certe scene nell’abside di Santa Maria Maggiore (figg. 123, 124); si veda, ad esempio, il trono ormai architettonico accanto a quello dell’Annunziata. Anche le vistose inquadrature architettoniche si legano bene ai tentativi “assisiati“ evidenti nello stesso trono dell’Annunziata o nei tre oggetti architettonici della Presentazione al Tempio. Ugualmente del Torriti, in un momento di meditazione su Giotto stesso (penso soprattutto alla Madonna della controfacciata di Assisi) deve essere la lunetta a mosaico della porta laterale di Santa Maria in Aracoeli28 (fig. 122): forse l’immagine più concentrata e solenne che ci abbia lasciato l’artista romano. Anche cromaticamente questo mosaico è straordinario; il blu del fondo è intenso, ma dentro il clipeo è di un azzurro ben più chiaro per far risaltare il profondo blu con riflessi violacei del velo di cui la Vergine è tutta ammantata; i colori azzurrino e grigio rosato delle vesti degli angeli e del Bambino hanno quelle tonalità perlacee tanto ammirate dal Toesca nel mosaico di Santa Maria Maggiore, mentre tutto è sottolineato dal luccichio dell’oro che brilla in una ragnatela di striature e perfino nella sclerotica degli occhi degli angeli. Ancora più avanzato nel tempo deve essere il mosaico del monumento Capocci nella stessa chiesa dell’Aracoeli, già inserito nel gruppo del “Maestro di San Saba“ del Garrison e della cui paternità torritiana fa la spia soprattutto il san Giovanni Battista, parente un po’ più povero dell’immagine dello stesso santo nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore e nella volta della terza campata di Assisi29 (figg. 125, 126). L’evidente semplificazione di sapore ormai trecentesco sembra indicare che quest’opera è la più tarda del gruppo che fa capo al Torriti. Si noti anche il san Francesco senza barba. Ed è importante rilevare che solo ora la testa della Madonna e quella del Bambino, così attondate e sfumate, mostrano qualche riflesso cavalliniano30. Ciò sembra indicare che, quanto al rapporto generazionale, nella situazione romana il Torriti sta al

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Cavallini come nella situazione fiorentina Cimabue sta a Giotto. Un intervento della Hueck31 è molto significativo in questo senso, se si fa un passo oltre la cautela con cui la studiosa tedesca presenta i due frammenti vaticani con le teste di san Pietro e di san Paolo, resti di un ciclo di affreschi che decorava l’atrio dell’antico San Pietro. Ad essi la Hueck accosta un settore della parte più antica della decorazione della Basilica Superiore di Assisi e alcune delle opere messe in rapporto col Torriti dal Toesca, di cui abbiamo riferito sopra. La studiosa tedesca preferisce parlare di un pittore romano anonimo che del Torriti sarebbe stato il maestro, resa guardinga dalla precocità del ciclo dell’atrio di San Pietro, che dovrebbe risalire al tempo di Urbano IV, papa dal 1261 al 1264. Ma gli evidenti rapporti col gruppo Torriti fanno sì che l’articolo della Hueck diventi in realtà un contributo notevole al problema del pittore romano, in ordine alla chiarificazione della sua cronologia, che, per ragioni stilistiche, sembrerebbe più alta di almeno una generazione rispetto a quella del Cavallini». Della presunzione che il Cavallini sia un contemporaneo del Torriti e che l’inizio della sua attività vada collocato negli anni settanta del Duecento mi pare faccia giustizia sommaria un solenne dipinto da riferire anch’esso, io credo, a Jacopo Torriti, o almeno al suo stretto ambito. Si tratta di una tavola di notevoli dimensioni, già nella chiesa di Santa Lucia in Selci a Roma e ora nel Museo di Grenoble, raffigurante Santa Lucia (fig. 120). In piedi e perfettamente frontale, essa è vestita come una basilissa bizantina. La grande e sontuosa corona con le pendulae, la profusione sfarzosa dei gioielli e delle perle rimandano invincibilmente alla Madonna incoronata nell’abside di Santa Maria Maggiore (fig. 118) e alle Vergini della facciata di Santa Maria in Trastevere (figg. 119). Nella fattura della testa e delle mani si scoprono rapporti anche con gli affreschi di Assisi e con altre opere che abbiamo incluso nel catalogo del Torriti. Nel pubblicare la Santa Lucia di Grenoble, anche la Coor-Achenbach32 la metteva in rapporto con molte di queste opere, pur lasciando il dipinto nell’anonimato. Ma la cosa più interessante è la presenza in basso a sinistra di una minuscola donatrice inginocchiata: ANGILA UXOR ODONIS CER-

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RONIS.

Una signora di casa Cerroni, dunque. Questa nobile famiglia, sulla quale esiste uno studio di un erudito del Seicento, Domenico Mita33, si componeva di un ramo emiliano, di un ramo romagnolo e di un ramo romano. I Cerroni di Roma furono molto attivi nel Due e Trecento. Oddone doveva essere un nome di famiglia, perché compare in un documento romano del 1377. Ma il marito della signora Angela era evidentemente un Cerroni di più antica data, più vicino nel tempo a due altri personaggi della stessa famiglia ricordati come testimoni in un atto notarile del 1273: Bartolomeo di Giovanni e «Petrus dictus Cavallinus de Cerronibus». Come si ricorderà, quest’ultimo è stato spesso identificato con Pietro Cavallini34, nonostante che nel documento manchi l’appellativo di pittore o quello più generico di maestro. Chi ha avuto il buon senso di non accettare questa allegra identificazione35, trova nel dipinto di Grenoble un argomento in più per rifiutarla. La signora Angela Cerroni ha in famiglia il Cavallini e commissiona un dipinto importante ad un altro pittore? Che sbadataggine, signora Cerroni! La scuola romana rinnovata e la cronologia del Cavallini. L’identificazione con il «Petrus dictus Cavallinus de Cerronibus» del documento del 1273 è solo uno dei punti deboli su cui è fondato il mito del Cavallini, nato dopo la scoperta dei suoi affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e nutrito dalla disinvoltura filologica più allegra e spensierata36. Chi si ammanta di rigore critico nei confronti dell’opera di Giotto e delle notizie sui suoi dipinti si spoglia improvvisamente di ogni severità filologica a proposito del Cavallini, arrivando fino a dar credito al Vasari - come abbiamo visto - quando parla di una presenza e di un’attività del pittore romano a Firenze. Se questa notizia avesse un minimo di attendibilità, sarebbe difficile spiegare il silenzio assoluto a questo riguardo da parte di un fiorentino come il Ghiberti, molto bene informato sull’attività del Cavallini e molto più vicino del Vasari ai tempi del pittore romano.

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Anche le date 1291 per i mosaici di Santa Maria in Trastevere e 1293 per gli affreschi di Santa Cecilia, che pure sono diventate un luogo comune da manuale, hanno fondamenti labilissimi. La prima si basa su una strana cifra non più esistente, ma letta e trascritta dal Barbet de Jouy, che la interpretava come 1351. Il De Rossi, invece, interpretò la cifra trascritta dal Barbet de Jouy come 1291 e da allora questa data è stata considerata come sicura per i mosaici di Santa Maria in Trastevere37. Solo recentemente sono sorti in proposito numerosi dubbi38, che tuttavia non hanno alterato la sostanza della figura del Cavallini cara ai separatisti. Anche la data 1293 riferita agli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere ha fondamenti ben poco sicuri. Si basa, infatti, soltanto sull’ipotesi che il tabernacolo di Arnolfo di Cambio, recante quella data, e la decorazione ad affresco della chiesa fossero stati eseguiti contemporaneamente. Questa ipotesi fu formulata con la dovuta cautela dall’Hermanin39 e fu poi accettata con una generalità di consensi che dimostra soltanto come nella storia dell’arte si formino delle tradizioni di generale acquiescenza su alcuni argomenti, mentre su altri nascono risse continue e ci si accanisce a spaccare il capello in quattro, dimenticando ogni criterio di normale buonsenso. Nemmeno gli affreschi del Vecchio Testamento visti dal Ghiberti in San Paolo fuori le Mura valgono a testimonianza sicura di un’attività precoce del Cavallini. Purtroppo, non esistono più e ogni tentativo di interpretarli attraverso le copie grafiche cinqueseicentesche lascia notevolmente scettici. Qualche informazione più precisa viene dalla veduta del Pannini del 1741 alla Leonard Koetser Gallery di Londra, ma sfortunatamente ce li presenta troppo scorciati40. Comunque sia, se dobbiamo credere che furono eseguiti al tempo dell’abate Bartolomeo (ma mi pare che i dati raccolti non ci diano alcuna sicurezza nemmeno su questo punto), bisogna ricordare che questi era in carica fino al 1297, come precisa P. Hetherington41, e non fino al 1285, come si legge di solito. La conclusione è che niente ci assicura di una nascita precoce

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del Cavallini e di una sua attività precedente alla metà dell’ultimo decennio del Duecento, quando molte cose lasciano credere che sia stato eseguito l’affresco absidale di San Giorgio in Velabro42. Questo, con la sua arcana severità e una certa lucentezza metallica che ancora caratterizza la superficie dipinta in confronto alla maggiore morbidezza, al chiaroscuro più sfumato del Giudizio Finale di Santa Cecilia in Trastevere, sembra l’opera più antica del Cavallini fra quelle arrivate fino a noi. Una simile posizione cronologica del grande pittore romano verrebbe ad integrarsi molto bene con quella del Torriti, che proprio fino a verso la metà del nono decennio sembra il pittore di maggior spicco nella Roma di fine Duecento, legato ancora agli ideali artistici della generazione che precede il rinnovamento della pittura italiana in direzione trecentesca. L’incongruità della cronologia attribuita finora al Cavallini sarebbe saltata agli occhi anche solo riflettendo un momento sulla posizione che egli verrebbe ad assumere in confronto a Duccio di Buoninsegna. Nel classificarli, etichettarli e anche solo disporne il materiale relativo alle nostre librerie e fototeche, il pittore romano lo consideriamo un duecentesco, mentre il grande pittore senese lo collochiamo nel settore trecentesco. Eppure, Duccio, già attivo nel 1278, ha eseguito nel 1285 un dipinto come la Madonna Rucellai, capolavoro ancora tutto duecentesco, che non ha paralleli nella produzione del Cavallini, tutta orientata nella nuova direzione43. La scuola romana rinnovata: Filippo Rusuti. Bisogna, poi, notare che il rinnovamento romano non è espresso soltanto dalla grande figura del Cavallini. Lavora, infatti, a Roma alla fine del Duecento un altro pittore importante, Filippo Rusuti44, anch’egli sacrificato ad una concezione della pittura romana rimasta allo stato di etichetta, o quanto meno di idea, e non di realtà storica. La commissione al Rusuti del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore (figg. 28, 33) offre qualche argomento

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di meditazione. Abbiamo già notato che tra i donatori non vi compare, come accade invece nell’abside, il papa Niccolò IV, ma solo i due cardinali Colonna. Si direbbe, allora, che i lavori non cominciarono prima del 1292, anno della morte di quel papa. Tuttavia, la decisione deve essere stata presa abbastanza per tempo, altrimenti si sarebbe aspettato - vien da pensare - che il Torriti avesse compiuto l’abside per poi affidargli la facciata. Invece i due lavori dovettero svolgersi quasi in parallelo: quello del Torriti finito nel 1296 e quello del Rusuti entro il 1297, anni in cui i due cardinali Colonna caddero in disgrazia45. Come il Torriti, anche il Rusuti appose orgogliosamente la propria firma sul mosaico da lui eseguito. Ma con il Torriti impegnato nell’abside, perché la scelta è caduta sul Rusuti e non sul Cavallini? Forse perché quest’ultimo era ancora troppo immaturo per un lavoro così impegnativo? Non so se questa sia effettivamente la risposta giusta, ma l’interrogativo va posto e, per chi voglia affrontare seriamente una ricostruzione della storia della pittura romana di fine Duecento, andrà meditato contestualmente ai dubbi che suscita la cronologia attribuita tradizionalmente al Cavallini. La figura del Rusuti emerge anch’essa, insieme con quella del Cavallini, con notevole risalto nell’ambito della rinnovata pittura romana di fine Duecento e della generazione post-torritiana. Al di là del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, altre opere prestigiose fanno capo a lui. Una di esse è il mosaico absidale di San Crisogono, con la Madonna in trono fra i santi Crisogono e Jacopo (fig. 127), ancora passabilmente leggibile nonostante le non buone condizioni e i rifacimenti. Attribuito spesso al Cavallini o al suo ambito46, ha ricevuto l’apprezzamento più alto dal Bologna, che lo considera un «autentico capolavoro», ispirato «alle composizioni moderne di Cimabue»47. E tuttavia nessuna delle opere di Cimabue arrivate fino a noi allude ad un trono così palesemente architettonico, rivestito di marmo, arricchito di decorazioni cosmatesche e fornito perfino di due colonne tortili. C’è, in esso, tutto il senso di oggettualità che caratterizza le architetture nelle Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore (fig. 28) e non vi manca nemmeno qualche curiosa

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distrazione, in linea con quelle che abbiamo notato nella rappresentazione dello spazio dei mosaici liberiani. Così, se le punte del cuscino su cui siede la Madonna si infilano, con una ingegnosa trovata, nel vano dei due archetti che traforano i fianchi del trono, sulla sinistra le cose funzionano bene, ma sulla destra il mosaicista è incorso in un errore, perché l’archetto avrebbe dovuto essere interrotto dal cuscino e non viceversa. Ma in confronto a questo tipo di affinità, che qualcuno potrà trovare generiche, ve ne sono altre che legano strettamente il mosaico di San Crisogono con quelli della facciata di Santa Maria Maggiore. La severità della Madonna, l’intensità dello sguardo trovano termini di confronto nelle due mezze figure di Cristo e di Maria che compaiono nell’alto del Miracolo della neve, o con la Vergine che affianca il Cristo in trono nel riquadro maggiore del mosaico liberiano (fig. 128). In questa figura, sono in tutto simili la bellissima curva cupoliforme della spalla, la rotondita del mento, le pieghe del velo che ricadono sulla fronte dal sommo della testa con una verticalità un po’ innaturale e semplificatrice, che elude la sfericità del capo. La testa del san Crisogono (fig. 127) trova una corrispondenza quasi letterale con alcuni dignitari che stanno alle spalle del papa Liberio nella Fondazione di Santa Maria Maggiore (fig. 30), e in particolare col patrizio Giovanni. Il san Giacomo, poi, è gemello della figura dello stesso santo in piedi ai lati del Cristo in trono di Santa Maria Maggiore (fig. 129): la fisionomia, la mano destra sollevata, le pieghe dei panni sulla gamba destra si corrispondono puntualmente. È vero che esiste una certa differenza di concezione tra le figure più amplificate e monumentali di Santa Maria Maggiore e la verticalità di quelle del mosaico di San Crisogono, ma si deve anche pensare ad una possibile evoluzione dell’artista verso una figurazione più gotica. Una direzione simile mostra quella che io credo un’altra impresa del Rusuti: il restauro e il rifacimento degli affreschi dell’abbazia di Grottaferrata. Anch’essi sono stati messi in rapporto col Cavallini dal Matthiae48, che ha proposto di riconoscervi la sua attività giovanile. Ma, a mio avviso, ha avuto ragione il Bertelli49 a collegarli con le due tavole della stessa abbazia, che, dipinte davanti e dietro, raffigurano l’Angelo annunziante, la Ver-

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gine annunciata e i Santi Nilo e Bartolomeo da Rossano50. Questo giusto collegamento significa una datazione più tarda per le pitture in questione e il Bertelli le mette in rapporto con i tempi di Bonifacio VIII e con un momento di grande interesse da parte di questo papa per l’abbazia di Grottaferrata. Gli ultimi restauri hanno dimostrato che gli affreschi sono il risultato di un rifacimento, o meglio, di una ridipintura di un ciclo più antico, presumibilmente di metà Duecento. L’entità delle ridipinture varia nella consistenza, «più densa quando occorreva ricoprire interamente, più sottile, quasi fosse un ritocco, là dove con poche pennellate era possibile adeguare alla nuova visione quanto preesisteva». «Nella nuova stesura possono trovare posto anche brani dell’antica, intatti o circoscritti». I nuovi interventi sono come «una mezza tempera, di consistenza opaca e farinosa, di intonazione fredda, con prevalenza di verdini, di azzurri e di grigi, in opposizione al tono caldo dello strato sottostante»51. Le osservazioni del Matthiae sulla «intonazione fredda con prevalenza di ombre verdine» si possono estendere anche alle due tavole e l’accostamento del Bertelli52 tra l’Angelo annunziante e il Mosè nell’affresco con la Vocazione parla da solo. Non si può negare nel pittore di Grottaferrata una certa aria di famiglia col Cavallini, ma i risultati sono assai diversi. La linea di contorno ha una tensione maggiore, il modellato è più trasparente, le tinte più fredde; il panneggio, più metallico e setoso, tende a rimanere piatto nonostante le accurate sfumature e l’articolarsi in incisioni taglienti o in lunghe pieghe tubolari. Come sagome di un tiro a segno, le figure sono profilate da lunghe curve, sulla cui linearità non hanno effetto le articolazioni del panneggio (fig. 133). Nonostante che i passaggi dalla luce all’ombra avvengano attraverso accurate gradazioni, i corpi non arrivano a diventare dei volumi. E come se il chiaroscuro avesse anch’esso una funzione decorativa, invece che strutturale e servisse ad impreziosire ulteriormente, con degli effetti serici, la superficie dipinta. Anche il panneggio tende a rimanere piatto, ad articolarsi soltanto in parallelo con la superficie, come se la materia preziosa e ve-

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trina non permettesse altro che scalfitture, incisioni e tagli poco profondi. Il mosaico di Santa Maria Maggiore è ricco di effetti simili, soprattutto nella parte alta: si veda, per esempio, l’angelo in alto a destra ai lati della mandorla del Redentore. Notevole è anche l’affinità tra la tunica del Mosè davanti al roveto ardente (fig. 131) e certi episodi del panneggio della Madonna di San Crisogono (fig. 127), a taglienti sottosquadri, quasi arnolfiani, ma in cui le pieghe rimangono un po’ rigide e fanno fatica a superare la fase di una formulazione bidimensionale e a suggerire anche lo scorcio in profondità. Nei volti, gli occhi grandi, a fior di pelle, incastonati dalla mezza luna della palpebra inferiore, il naso dalla punta smussata, la guancia piena, il mento grosso e tondeggiante, da far pensare ad un uovo sodo sgusciato (figg. 133, 136), trovano molti riscontri nei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore (figg. 130, 131), dove è anche un modo simile di atteggiare le teste e di guardare lateralmente. Se gli affreschi di Grottaferrata, costretti a ricalcare una stesura più antica, ci dicono ben poco su come il pittore affrontava la rappresentazione dello spazio, ce ne possiamo fare un’idea dalla tavola con la Vergine annunciata, dove il trono marmoreo, ricco di decorazioni cosmatesche, si lega molto bene con il mosaico di San Crisogono e con le Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore. Un’altra opera ben nota potrebbe collegarsi con il Rusuti, anche se in questo caso la proposta si fa più cauta ed esitante. Si tratta dei resti della decorazione ad affresco del transetto sinistro della stessa basilica di Santa Maria Maggiore. I celebri «clipei» con i busti di Profeti, o più probabilmente di Apostoli, sono un’opera capitale nell’ambito della pittura romana e i loro rapporti con gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi sono tali che è stata ventilata perfino un’attribuzione a Giotto53. Questa decorazione, condotta di conserva con il mosaico absidale del Torriti, rimase probabilmente interrotta54. Nell’insieme, che comprende anche vasti e bellissimi tratti ornamentali, colpisce, intanto, quella gamma cromatica particolare, che raggiunge gli effetti più straordinari negli accostamenti deli-

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cati e freddi di azzurro e di verde, come avevamo visto anche a Grottaferrata. Ma consideriamo più da vicino i busti degli Apostoli a cominciare da quello più giovane, dal volto simile a Cristo, probabilmente da identificare, perciò, con san Giacomo. Nella concentrazione dello sguardo, nell’incisiva scalpellatura del naso, nell’andamento dei capelli, nel rapporto molto calcolato fra la testa, il collo e le spalle, esso è ben confrontabile col Cristo che compare nel cielo del Miracolo della neve sulla facciata stessa della basilica e anche con la testa del Cristo in trono nella parte alta. Questa è stata spesso messa in relazione con l’Eterno nell’affresco con la Creazione della navata di Assisi55, che mi pare invece esclusivamente torritiano e quasi sovrapponibile al Cristo nella Volta dei Santi (figg. 143, 144), lì accanto (si vedano, soprattutto, i lustri sulla canna nasale). Anche il panneggio del probabile San Jacopo e quello, più ampio e meglio giudicabile, dell’apostolo che ha le caratteristiche di un san Pietro (fig. 132) mostra forti affinità con il Rusuti nel non interferire sulle profilature formate da un unico tratto, nel creare delle zone piatte scalfite da lunghe e sottili pieghe a taglienti sottosquadri, nel loro rimanere sostanzialmente delle superfici senza diventare volumi, nonostante i forti contrasti chiaroscurali. Certo, il probabile San Pietro, con la sua corporatura espansa e monumentale, con le ciocche dei capelli e della barba fortemente scalpellate, sembra più difficile da confrontare con i mosaici del Rusuti e con gli affreschi di Grottaferrata. Tuttavia, è innegabile una forte affinità con il san Pietro a mosaico, non solo nella tipologia ma - soprattutto - nel collo taurino, potentemente modellato dalle corde e dai muscoli. Qualcosa di molto simile si trova anche a Grottaferrata, soprattutto nell’Angelo annunziante dal collo erculeo, quasi spropositato. Ma anche la sua testa gentile non manca di sorprendenti affinità col possibile San Pietro liberiano, nello sguardo, nelle sottili «borse» sotto gli occhi, nel naso dalla punta arrotondata, profilato da una linea che si chiude su se stessa subito sopra le labbra, con un occhiello calligrafico. Affinità sorprendenti si riscontrano anche in aspetti più minuti, come la forma degli orecchi. Lo faccio notare non perché creda

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in questo tipo di confronti «morelliani», ma perché in questo caso gli orecchi sono di una fattura veramente singolare: hanno infatti il risvolto del padiglione molto largo, segnato all’estremità interna da una forte lumeggiatura che forma un’unica linea curva, subito prima che si apra la cavità formata da un’ombra intera che la fa sembrare solo vuota e senza articolazioni interne. Ed è una caratteristica che si ritrova anche a Grottaferrata, soprattutto nelle varie figure di Mosè (figg. 132, 133). Anche certe particolarità del modellato, come le forti e raffinate lumeggiature che sembrano far lustrare le parti in rilievo accomunano gli affreschi di Grottaferrata a quelli di Santa Maria Maggiore. Si vedano, ad esempio, le mani sollevate del Mosè con la verga e quelle dell’apostolo con la barba lunga di Santa Maria Maggiore (fig. 134). Di questa figura colpisce anche la somiglianza perfino fisionomica col San Nilo in preghiera in una delle tavole di Grottaferrata (fig. 135). Tutte queste opere che, più o meno direttamente, fanno capo al Rusuti ne coinvolgono anche altre, come il bellissimo e purtroppo malconcio Crocifisso di San Tommaso de’ Cenci, reso noto da Ilaria Toesca, nel quale sono pure evidenti i rapporti con Assisi e soprattutto con il Compianto sul Cristo morto56. Oppure, l’angelo in una delle volte del monastero di Santa Scolastica a Subiaco (fig. 138), così prossimo all’Angelo annunziante di Grottaferrata e straordinario nell’idea di quella cornice circolare a motivi marmorei in aggetto, prospetticamente complicati come in un Paolo Uccello avanti lettera. Ma non è forse il caso di discuterne più che tanto in questa fase ancora sperimentale di ricostruzione della personalità del Rusuti che, con un corpus come quello qui proposto, non manca di porre dei problemi, soprattutto cronologici. Con le opere di cui abbiamo parlato sopra, la personalità del Rusuti acquista un grande rilievo e se si potranno confermare a lui i clipei di Santa Maria Maggiore e il Crocifisso di San Tommaso de’ Cenci la sua posizione nell’ambito della pittura romana tra la fine del Due e gli inizi del Trecento non risulterà inferiore a quella del Cavallini. Né i destini dei due pittori sono molto diversi. Dopo l’esodo della corte papale verso Avignone, come il Cavallini (che va a lavorare a Napoli), anche il Rusuti si allontana da

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Roma e lo si ritrova in Francia, dove è documentato nel 1308, nel 1309 e nel 1317 al servizio del re, insieme ad altri pittori romani. E io sono perfettamente convinto che siano da riferire al Rusuti gli angeli della chiesa di Saint-Nazaire a Béziers (figg. 137, 139), affrescati nella cappella dello Spirito Santo che nel 1307 era appena costruita57. Essi furono malamente sfregiati durante le guerre di religione del secondo Cinquecento e oggi li vediamo completamente privi dei tratti del volto. Ma quel che resta sembra andare ben d’accordo con gli aspetti che abbiamo notato nel Rusuti. Così, il chiaroscuro delle vesti ha quello stesso carattere velleitario e decorativo - come nei cangianti di una morbida seta - che abbiamo già riscontrato soprattutto negli affreschi e nelle tavole di Grottaferrata. Le ali degli angeli si aprono, distanziando l’una dall’altra le piume più lunghe, in una caratteristica profilatura quasi spinosa (fig. 137), come accade nel mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, soprattutto nei simboli degli evangelisti o negli angeli che attorniano la Madonna (per quanto ci lasciano intravedere gli interventi di restauro) nella parte alta del Sogno di papa Liberio (fig. 136). Anche le mani si prestano a precisi confronti, che potranno sembrare brutalmente «morelliani» ma che si rendono necessari dati i pochi elementi di giudizio che ci permettono gli Angeli di Béziers. Uno di essi sporge di lato la destra, ripiegando in dentro le falangi delle dita in un modo molto particolare, che, in controparte, è quello stesso della sinistra dell’Angelo annunziante di una delle tavole di Grottaferrata. La mano sollevata di un altro Angelo di Béziers (fig. 137) ha una struttura così singolare da costituire quasi una firma, dal momento che è pressoché identica alla destra benedicente del Cristo sulla facciata di Santa Maria Maggiore (fig. 28) e, più ancora, alla mano alzata del Patrizio Giovanni davanti a papa Liberio.

Tre indizi: il trono, il tratteggio, la «diadema». Da questa revisione dell’opera e della cronologia del Torriti, del Cavallini e del Rusuti mi pare risulti già abbastanza evidente che la pittura romana degli ultimi decenni del Duecento e degli

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inizi del Trecento presenta delle articolazioni molto complesse, in confronto alle quali l’interpretazione «romanizing», basata esclusivamente sulle opere del Cavallini, appare un’indebita semplificazione. E si ritorce su di essa l’accusa che l’Offner rivolgeva ai sostenitori dell’autografia giottesca degli affreschi di Assisi: «urged on by the irrelevant force of usage or patriotism, have been taking too much for granted»58. Ciò vale, infatti, tanto di più per i promotori del mito del Cavallini, basato su dati cronologici che gli sono stati attribuiti con troppo entusiasmo e che sono stati poi «taken too much for granted». Il grande interrogativo rimarrà per molti quello dei rapporti tra la pittura romana e gli affreschi di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti. Ma la datazione delle Storie di san Francesco agli inizi degli anni novanta del Duecento avvia questo problema ad una soluzione. Per chi considerasse ancora fermo ad uno stadio congetturale il discorso sulla direzione degli scambi, varrà la pena di prendere in esame alcuni aspetti figurativi ai quali non si è fatto molto caso. Essi ci forniscono degli indizi rivelatori. Cominciamo pure da opere di importanza più modesta e perfino mal leggibili, com’è un affresco che si trova nella chiesa di San Niccolò a Sangemini, in Umbria, firmato da Rogerio da Todi59 e datato 1295 (fig. 140). A quest’epoca, il non eccelso pittore umbro fa già sedere la sua Madonna su un trono architettonico con decorazioni cosmatesche, che è una delle novità caratterizzanti della rivoluzione pittorica di fine Duecento, in quanto si contrappone al più arcaico trono ligneo, ricco di torniture e decorazioni, che veniva da una secolare tradizione tardoantica e bizantina e che aveva avuto elaborazioni stupende in Cimabue, nel Maestro di San Martino e nel giovane Duccio. Qualche tempo dopo, il marmoraro romano Giovanni di Cosma esegue in Santa Maria sopra Minerva il monumento funebre di Guillaume Durand, vescovo di Mende, morto nel 129660; nel fondo è figurato un mosaico (fig. 141) in cui la Madonna sta seduta su un trono che mantiene ancora moltissimi elementi del tipo di tradizione bizantina (come accade anche nel mosaico absidale del Torriti in Santa Maria Maggiore, finito nel 1296, e nella parte alta del mosaico di faccia-

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ta della stessa basilica, eseguito dal Rusuti pressoché contemporaneamente); e benché responsabile del monumento Durand sia uno della famiglia dei Cosmati, non vi compare nemmeno un motivo cosmatesco. È solo qualche anno più tardi che nel mosaico di un altro monumento sepolcrale, quello del vescovo Consalvo (morto nel 1299) in Santa Maria Maggiore, eseguito dallo stesso Giovanni di Cosma61, compare un trono architettonico con dei motivi cosmateschi, sia pure molto sobrii (fig. 142). Così, tre figurazioni omogenee come livello di qualità artistica, esaminate contestualmente, sembrano indicare che uno dei motivi della pittura rinnovata di fine Duecento, il trono architettonico rivestito di marmo e ornato di decorazioni cosmatesche, era noto in Umbria prima che a Roma. Trovandolo a Sangemini, nell’opera di un oscuro pittore di Todi, bisogna anche pensare che nel 1295 questo motivo fosse diffuso già assai capillarmente, quando a Roma ancora non esisteva. Questo sembra indicare che la direzione degli scambi Assisi-Roma fosse dalla città umbra alla città papale, e non viceversa. Se poi guardiamo ad un altro aspetto, dobbiamo arrivare alle stesse conclusioni. Abbiamo accennato al modo di dipingere ad affresco del Torriti ad Assisi, a quanto la sua diligenza di esecuzione attutisca gli effetti brillanti, per macchie accostate, della pittura compendiaria tardoantica, cui l’artista romano si ispira, in parallelo con la tradizione bizantina. A guardare da vicino la testa della Luce e dell’Eterno nella Creazione o la testa del Redentore nella Volta dei Santi62 (figg. 143, 144), ad esempio, si vedrà come le ombre del chiaroscuro non siano macchie di colore ma quasi una ragnatela di sottili filamenti scuri, accostati fittamente; allo stesso modo, la luce sulla punta del naso, anche se lustra, non ha il risalto che avrebbe attinto nella pittura compendiaria tardoantica, perché rimane come irretita dai continui ritorni del pennello. Cosi, l’effetto finale del modellato è quello di forme definite come da gibbosità. In questo, non mancano affinità con quanto accadeva a Firenze, al tempo di Coppo di Marcovaldo. Penso soprattutto al Crocifisso di San Gimignano. Ma con Cimabue si va molto oltre questa concezione

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del dipingere. Una delle sue grandi invenzioni è la pittura trasparente e sottile che raggiunge effetti straordinari in opere come il Crocifisso di Santa Croce (fig. 228) e che il giovane Duccio porterà a vertici di sublime raffinatezza nella Madonna Rucellai (fig. 229). La materia pittorica si assottiglia e si intenerisce, ma allo stesso tempo acquista uno splendore quasi metallico. I colori si impreziosiscono per gli accostamenti di toni freddi: verde, azzurro, rosa, grigio, ecc. Negli affreschi di Assisi (fig. 145), Cimabue modella le carni con lunghi e sottili tratti del pennello, più radi che nel Torriti, ma più sistematici e costruttivi; nel loro andamento, essi accompagnano il modellato delle forme e con la loro tensione e incisività sembrano quasi graffiare la superficie63. Lo stesso metodo viene seguito anche nella navata della Basilica Superiore, dalle Storie di Isacco alle ultime Storie di san Francesco (figg. 146, 147) ed è il metodo che seguirà anche il Cavallini (fig. 148). Il fatto che esso non trovi riscontro nella tradizione pittorica romana a lui precedente ci dice chiaramente che la consonanza del Cavallini con la Basilica Superiore di Assisi, dove questo tipo di tratteggio del modellato era già operante negli affreschi di Cimabue nel transetto prima che in quelli della navata, significa che fu lui ad adeguarsi alle novità assisiati, e non viceversa. Le stesse indicazioni ci fornisce un’altra particolarità degli affreschi di Assisi, che, mentre costituisce un’ulteriore prova della direzione degli scambi, diventa emblematica delle idee innovatrici cui dovette dar luogo la grande e irripetibile occasione della sistematica decorazione ad affresco della Basilica Superiore. Nel suo straordinario Trattato della pittura, il Cennini da istruzioni su come bisogna eseguire ad affresco un’aureola, cioè una «diadema», o «corona», come lui diceva: «Sappi che la diadema si vuole rilevarla in su lo smalto fresco con una cazzuola piccola, in questo modo. Quando hai disegnato la testa della figura, togli il sesto, e volgi la corona. Poi piglia un poco di calcina, ben grassa, fatta a modo d’unguento o di pasta, e smalta la detta calcina, grassetta di fuori intorno intorno, e sottile inverso il capo. Poi ripiglia il sesto, quando hai ben pulita la detta calcina; e col coltellino va’ tagliando la detta calcina su per lo filo del sesto, e rimarrà

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rilevata. Poi abbi una stecchetta di legno, forte; e va’ battendo i razzi d’attorno della diadema. E questo ordine vuole essere in muro»64. La «diadema» descritta dal Cennini è la forma usata di regola negli affreschi del Trecento: una regola che ha veramente pochissime eccezioni65. Il suo uso è tanto normale e generalizzato che nessuno si è mai domandato quando e dove essa sia nata. Eppure, fino alla fine del Duecento la norma era che l’aureola fosse semplicemente dipinta ad affresco sulla parete come tutti gli altri elementi della figurazione66. Chi faccia un minimo di indagine si accorgerà ben presto che tutto punta ad una conclusione: l’aureola rilevata e raggiata di tipo trecentesco, la «diadema» descritta dal Cennini, è nata nella Basilica Superiore di Assisi. In quella Inferiore, il Maestro del San Francesco non la conosceva ancora e non la conosceva neppure lo stesso Cimabue a giudicare dal suo affresco frammentario del transetto destro. Essa compare per la prima volta nel transetto della Basilica Superiore, e precisamente negli affreschi del pittore oltremontano del transetto destro, precedenti all’intervento di Cimabue67; il quale, comunque, adotta e perfeziona la «diadema», che viene poi usata sistematicamente in tutto il resto della decorazione. È ben difficile dire come sia nata e che significato rivesta. Verrebbe da pensare che si tratti di una derivazione dalla pittura su tavola, dove dalla metà del Duecento in poi si trovano numerosi esempi di aureola rilevata e raggiata. Si può citare, a questo proposito, il Crocifisso di Coppo di Marcovaldo a San Gimignano, la Madonna di Santa Maria Maggiore a Firenze, probabilmente dello stesso Coppo, la Madonna dei Servi di Orvieto, o il San Francesco cimabuesco della Porziuncola nella stessa Assisi. Ma il fatto che sia un oltremontano ad adottare per la prima volta in Italia questa forma di aureola nell’affresco farebbe pensare ad un’idea non italiana, per la quale soccorrono certi murali svedesi del Duecento e, soprattutto, un gruppo di affreschi della stessa epoca nella cattedrale di Le Puy, che era una delle tappe più importanti dei pellegrinaggi medievali68. Qualunque sia la risposta da dare a questo interrogativo e il significato di questa novità, resta il fatto che essa nasce

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nella Basilica Superiore di Assisi e da lì si diffonde in tutta Italia. A Roma, essa non aveva alcun precedente. Il Torriti la usa solo ad Assisi. Non compare ancora nemmeno nei «clipei» di Santa Maria Maggiore né negli affreschi di Vescovio. Ma poi diventerà di rigore e anche il Cavallini la userà sistematicamente (almeno a giudicare dalle sue opere arrivate fino a noi)69. Più ancora che con la concezione del trono e il tratteggio del modellato è questa «diadema» rilevata e raggiata, per cui bisogna risalire oltre Cimabue al pittore oltremontano di Assisi, a fornirci la prova del debito che la rinnovata pittura romana ha nei confronti degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi. Centralità di Assisi. Non è Firenze né la pittura fiorentina in se stessa il punto di partenza per le nuove idee cui si rifanno il Cavallini e i pittori italiani della sua generazione, ma quello che si elaborava nella Basilica Superiore di Assisi. Non è un problema di precedenza della scuola fiorentina su quella romana, o viceversa; il cuore del problema sta nella centralità e nella forza di irradiazione di Assisi. Se si hanno nuove cose da dire e le si dicono fra quattro amici nel bar di un piccolo paese, queste non faranno mai strada. Se invece si riesce a dirle e a ripeterle davanti ad un vasto pubblico, avranno ben altra diffusione. Proclamare nuove forme di pittura sulle pareti di un luogo come la Basilica di San Francesco ad Assisi era dare loro il massimo di pubblicità che ci si potesse aspettare per quei tempi. Nessuna chiesa italiana del momento - nemmeno le basiliche romane avrebbe potuto fare da cassa di risonanza per le nuove idee come quella di San Francesco ad Assisi. In un momento in cui il movimento francescano era al colmo della popolarità, questa basilica era mèta di continui pellegrinaggi e probabilmente vi saranno stati pochi italiani che non l’abbiano visitata almeno una volta nella vita. Ci si aspetterebbe, come conseguenza, che l’autore o gli autori di quegli affreschi fossero i più richiesti di tutta Italia. Ma

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dove sono, fuori della Basilica Superiore di Assisi, le opere del Maestro di Isacco e del Maestro della Leggenda di san Francesco? Sono, tutti e due, morti giovani, di peste? Tutto può darsi, ma le ragioni di «general historical plausibility» puntano di nuovo sul grande nome di Giotto, il pittore cui toccarono le commissioni più prestigiose di tutta Italia e che tolse il «grido» a Cimabue con le sue enormi, entusiasmanti novità. La Basilica di San Francesco ad Assisi è un luogo del tutto eccezionale dell’arte italiana. Lì i più grandi pittori attivi tra la fine del Due e i primi decenni del Trecento hanno lasciato i loro capolavori: Cimabue, Pietro Lorenzetti, Simone Martini. È molto coerente con questa tendenza ad affidare la decorazione della Basilica di Assisi ai più grandi artisti del momento il fatto che anche Giotto vi abbia avuto una grande parte, più importante di quella che avrà nella decorazione della Basilica Inferiore, con la cappella della Maddalena, il transetto destro e le «Vele», nella quale ritenne di impegnarsi personalmente soltanto in modo parziale. Il punto essenziale - dicevamo - sta nella centralità e nella forza di irradiazioni della decorazione ad affresco della Basilica Superiore di Assisi. Apparirà, ora, chiaro che l’autore dei mosaici di facciata e degli affreschi nel transetto sinistro di Santa Maria Maggiore rivolgeva la sua attenzione alla basilica umbra, stupito e ammirato dalle nuove cose che vi vedeva nascere. Perfino il Torriti nelle scene sotto la grande Incoronazione liberiana, eseguite per ultime, si sente in dovere di accennare a qualche «oggetto architettonico» e alla decorazione cosmatesca nell’Annunciazione (fig. 123) e nella Presentazione al Tempio. Il Cavallini dovette meditare a lungo sull’intera decorazione della navata della Basilica Superiore, e forse, come dovette fare il Rusuti, ne trasse anche degli appunti grafici. Ne sono un segno gli echi delle Storie di Isacco nella Natività della Vergine in Santa Maria in Trastevere, o una citazione letterale dalla Deposizione in Santa Maria Donnaregina a Napoli (figg. 149, 150). E più ancora indicativo è il fatto che non si è limitato a guardare gli affreschi del gruppo ormai giottesco, ma anche quelli precedenti, come la Natività a cui egli si richiama nella stessa sce-

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na in Santa Maria in Trastevere, dove il pastore dal profilo in ombra raggiunge la puntualità di una citazione letterale (figg. 151, 152). Che la materia pittorica del Cavallini sia più dolce e fusa e la gamma cromatica più calda di quanto non accadesse nel Rusuti significa probabilmente che egli era un po’ più giovane e che i suoi punti di riferimento assisiati sono stati piuttosto le ultime Storie di san Francesco. Non a caso si sono trovati tanti rapporti tra il Cavallini e il Maestro della Santa Cecilia70. La figurazione cavalliniana che, nell’effetto di lustro quasi metallico delle parti lumeggiate e nella maggiore incisione della cesellatura delle forme, richiama più direttamente gli affreschi dei registri alti di Assisi e le prime Storie di san Francesco è l’affresco del catino absidale di San Giorgio in Velabro. Non c’è dubbio che, se teniamo come punto di riferimento la lunetta del monumento funebre del cardinale Matteo d’Acquasparta (morto nel 1302), all’Aracoeli, questo, con la sua stupenda fusione e dolcezza chiaroscurale, apparirà il più distante da San Giorgio in Velabro. Mentre gli affreschi di Santa Cecilia appariranno come a metà strada, in un momento in cui la densità lievitante del chiaroscuro cavalliniano mantiene ancora qualcosa della tensione di San Giorgio in Velabro. Così, ci si spiega meglio come molte delle novità che si manifestano nell’ambito della pittura romana non siano necessariamente dipendenti dal Cavallini, ma ne rappresentino piuttosto dei paralleli. Abbiamo già visto il caso del Rusuti. Un altro è quello degli affreschi del Sacro Speco di Subiaco, che solo nelle parti di qualità più scarsa spettano a Magister Conxolus71. Le Storie di san Benedetto sono quasi tutte riferibili ad un artista che è passato direttamente dal Torriti alle novità assisiati, come dimostra soprattutto il busto di Innocenzo III e come dimostra anche la Madonna col Bambino in trono (un trono rifatto in stile rinascimentale) cui fanno corona busti di angeli della chiesa di San Silvestro a Tivoli. Il pittore delle volte dello stesso Sacro Speco (fig. 153), tanto lucido e tagliente che sembra esagerare certi effetti di Assisi, con una tensione anche maggiore che nei clipei liberiani e un risultato assai lontano dall’interpretazione calda, pacata e densa

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che il Cavallini ci propone della pittura assisiate. Perfino il frescante di Vescovio, che è l’artista romano più prossimo al Cavallini, ci offre la possibilità di istituire dei confronti diretti con Assisi. Invece, con il pittore più evoluto della «Enciclopedia delle Tre Fontane», che è forse l’autore dell’affresco con Bonifacio VIII di San Giovanni in Laterano, come ha proposto il Bertelli72, siamo ormai in rapporto con l’attività romana di Giotto e col suo celebre mosaico della Navicella, da cui è citato il pescatore seduto sulla riva del mare. La pittura romana tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento presenta dunque una casistica tra le più vistose di quel fenomeno di ampie proporzioni che è la diffusione rapida, fortunata e capillare della nuova pittura elaborata ad Assisi, dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco. Basta allargare l’orizzonte del nostro esame, sia pure senza pretesa di sistematicità, per accorgersi che quegli aspetti della pittura che si son voluti indicare come «romanizing» si ritrovano un po’ in tutta Italia. Seguendo i criteri che l’Offner e il Garrison hanno applicato alle opere del Maestro della Santa Cecilia, del Maestro di San Gaggio e del Maestro della Cappella Velluti, dovremmo finire per spiegare tutto col Cavallini. Ma che significato avrebbero, allora, certe singolari affinità di risultati tra la pittura umbra e la pittura toscana? Mi riferisco ai rapporti tra il Crocifisso di Santa Maria Novella e gli affreschi di Assisi, messi in evidenza perfino dall’Offner; allo stupefacente lacerto di Madonna col Bambino della pieve di Borgo San Lorenzo (fig. 154), riscoperto recentemente da sotto una completa ridipintura, tanto simile a certe parti degli affreschi di Assisi e - insieme - alla Madonna di San Giorgio alla Costa (figg. 135, 136) da imporsi clamorosamente come reliquia di un capolavoro di Giotto73; al fatto che il fiorentino Maestro della Santa Cecilia sia stato chiamato tanto spesso in causa per le ultime Storie di san Francesco; alla serie di crocifissi umbri (Montefalco, Spello, Gubbio, ecc.) che rivelano profonde affinità con quello di Santa Maria Novella. E cosa vorrebbe dire che certi affreschi frammentari di Castelpulci74, subito fuori Firenze, evocano tanto intensamente

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alcune parti delle Storie di san Francesco ad Assisi (figg. 157, 158)? Cosa c’è di più assisiate degli affreschi dipinti nel 1305 dal senese Memmo di Filippuccio nella controfacciata della Collegiata di San Gimignano75 (fig. 159), con quelle finte architetture così vistose da sfiorare il trompe-l’oeil? Questa ed altre domande trovano la loro risposta meglio motivata nella realtà di una grandissima personalità artistica, come quella di Giotto, che propone delle novità rivoluzionarie su quel formidabile palcoscenico che era la Basilica di Assisi. Con un simile comune denominatore, si spiegano meglio anche molti dipinti del pisano Maestro di San Torpè, la Madonna della rosa a Lucca e gli affreschi di Deodato Orlandi a San Pietro in Grado. O, ad Arezzo, le opere di Gregorio e Donato e del Maestro delle Sante Flora e Lucilla, tanto implicati in questa vicenda che alcuni dei loro dipinti sono stati avvicinati dall’Offner al Maestro della Santa Cecilia e a Pacino di Bonaguida76. Anche il grande Duccio di Buoninsegna è legato in qualche modo a questa congiuntura. Per chi non sapesse o non volesse rendersene conto attraverso la Maestà del Duomo di Siena o l’affresco comparso di recente su una delle pareti della sala del Mappamondo in Palazzo Pubblico77, lo sta a testimoniare in modo didascalico la citazione dalle incorniciature architettoniche delle Storie di san Francesco nella stupefacente soluzione del davanzale della piccola Madonna ex Stoclet (fig. 160). I monografi e i fans del grande pittore senese, nel timore di vederne diminuita l’originalità e la libertà mentale, hanno sempre evitato di soffermarsi su questo particolare e il loro inconscio desiderio di abolirlo appare anche dal fatto che qualche volta la tavola è stata riprodotta senza di esso. Come diventerebbe piccino Raffaello, il grande genio della ricettività, se fosse giudicato con gli stessi criteri in base ai quali molti si sentono in dovere di difendere la totale autonomia culturale di Duccio! In realtà, la soluzione del davanzale della Madonna Stoclet ci da la misura della duttilità e della felicità inventiva con cui il pittore senese seppe impadronirsi del motivo. Certo, ci da anche la misura della forza ineluttabile con cui si imposero le novità assisiati, prima di quelle padovane.

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«Romanizing» o assisiate?

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O si dovrebbe parlare del Cavallini anche per tutti questi artisti e definirli «romanizing»? Se non per la pittura toscana fuori di Firenze, lo si è fatto per una parte della pittura umbra. Ne sono esempi il dossale di Cesi e la croce a doppia faccia della Pinacoteca di Perugia. Gli affreschi della sala dei Notai nel Palazzo dei Priori erano ritenuti cavalliniani perfino dal Longhi78. Abbiamo visto come, invece, essi si inseriscano nella produzione umbra e siano ricchi di risonanze dirette degli affreschi di Assisi, tanto che possono considerarsi un punto di riferimento cronologico prezioso per le Storie di san Francesco, essendo stati dipinti nel 1296-9779. Tutti questi dipinti umbri sono perfettamente coerenti con la produzione pittorica della regione, e in particolare della zona tra Perugia, Assisi, Gubbio e il territorio folignate. Il Maestro del Crocifisso di Montefalco e il Maestro espressionista di Santa Chiara (che sono, probabilmente, un’unica persona - e c’è già una proposta di identificazione con Palmerino di Guido)80, il Maestro del Farneto81, il perugino Marino di Elemosina82 (fig. 162) rappresentano una cultura molto coerente e omogenea con quella degli autori del dossale di Cesi, della croce a doppia faccia della Pinacoteca di Perugia e degli affreschi della sala dei Notai. Certe affinità col Cavallini, che si sono volute sottolineare anche di recente83, trovano la loro giustificazione nel comune denominatore giottesco (figg. 161, 162), che spiega anche una certa aria di famiglia con alcuni esiti della pittura in Toscana. Mi riferisco, per esempio, al cosiddetto «Primo miniatore perugino», cui il Longhi pensò di attribuire i dipinti che fanno capo al dossale con il Compianto del Museo Civico di Pistoia84. E la singolare proposta del Brandi di inserire questo dipinto in un gruppo di cui farebbero parte anche il Crocifìsso romano di San Tommaso de’ Cenci, il Compianto nella Basilica Superiore di Assisi e i due dolenti del Crocifisso di Santa Maria Novella85 diventa una sorta di riconoscimento preterintenzionale dell’esistenza di una koinè giottesca all’interno della quale si hanno dei risultati estremamente affini, tanto che si può rischiare di mettere insieme ciò che insieme non può stare. Fino a qualche tempo fa, si consideravano cavalliniane anche

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quelle testimonianze pittoriche campane che risalgono ad un’epoca precedente al soggiorno del Cavallini a Napoli. Mi riferisco prima di tutto all’affresco già in San Salvatore Piccolo di Capua e ora nel locale Museo Campano (fig. 163) e poi alle decorazioni murali del transetto e del chiostro di San Lorenzo Maggiore e della cappella Minutolo nel Duomo di Napoli. Alcune di esse sono state messe in rapporto con Montano d’Arezzo dal Bologna86: ed è una proposta che mi sembra perfettamente accettabile. Anche in questo caso, le affinità col Cavallini sono solo generiche e non specifiche, come ognuno può giudicare con i propri occhi da un riscontro sui cicli realmente cavalliniani esistenti a Napoli. Dopo gli argomenti e i confronti addotti dal Bologna, così calzanti, mi pare difficile contestare la radice assisiate degli affreschi napoletani ricordati sopra. Quanto allo stupendo frammento capuano di San Salvatore Piccolo (fig. 163), vorrei richiamare l’attenzione sull’effetto di arrotatura metallica e rilucente delle vesti che drappeggiano le figure - e si veda, in particolare, il san Pietro - in cui è evidente il rapporto con i nuovi fatti artistici che fanno capo alle Storie di Isacco. Tutt’altro che di un «mediocre artefice locale»87, questo affresco ha un respiro, un’eleganza, una limpidezza cromatica, una fluidità di panneggi paludati che avrebbero fatto invidia a un pittore paleologo. Una componente così intensamente «greca» andava sottolineata, perché anche nel caso della cultura pittorica campana valgono le osservazioni che facevamo a proposito del fiorentino Maestro di San Gaggio o del romano Conxolus: si tratta di una cultura che si innesta direttamente su quella duecentesca di tradizione bizantina. Che una simile cultura esistesse a Napoli prima dell’arrivo del Cavallini sta a dimostrarlo il caso del dossale di San Domenico (fig. 164), che, a guardare solo la figura del santo al centro, si direbbe ancora molto arcaico88, se non vi fossero le storiette lungo i fianchi, in cui la vistosa presenza di «oggetti architettonici» denuncia un’ascendenza assisiate89 che, per una volta, non ha fatto pensare al Cavallini, tanto ne è indipendente. Da Assisi la nuova concezione della pittura si diffuse non solo nell’Italia centrale e meridionale, ma anche in quella settentrio-

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nale, e perfino oltralpe. A Ferrara, nella chiesa del convento di Sant’Antonio di Polesine, l’abside destra è decorata da un gruppo di finissime Storie della Passione, dove sono messe in opera deliziose variazioni su motivi assisiati, come le partizioni tra le scene attraverso gli improbabili e singolarissimi pilastri in marmo candido, tutti percorsi da volute di foglie, come fossero dei grandi fiori di giglio stilizzati infilati l’uno nell’altro. E, nella Crocifissione (fig. 165), delle gratuite scatole architettoniche sono poste accanto alle figure con una soluzione che non differisce di molto da quella del Cavallini nella Presentazione al Tempio, pur caratterizzandosi per una gentilezza e un garbo gotici del tutto sui generis, sconosciuti alla severità sacramentale e liturgica del pittore romano90. In Sant’Abbondio a Como, il gusto per le architetture dipinte e tridimensionali arriva fino all’illusionismo puro delle finte riquadrature delle finestre e connota vistosamente le scene dipinte nell’abside91. Anche le tenere Storie delle sante Faustina e Liberata nel Museo Civico di Como (fig. 166) manifestano chiaramente una simile tendenza92, come altri affreschi lombardi dei primi decenni del Trecento. E perfino certi casi di pittura veneta, fra Treviso e Venezia (figg. 167, 168), riproposti di recente all’attenzione dal Muraro come episodi che precorrerebbero i modi giotteschi (il Muraro ha definito sintomaticamente il pittore responsabile un Cavallini veneto)93 si inseriscono troppo bene in questo contesto sincronico della fortuna e diffusione dell’oggettualità architettonica assisiate per potersi dichiarare come precorritori, soprattutto in un contesto come quello veneziano in cui il nuovo linguaggio pittorico incontrerà notevoli resistenze a causa del prestigio di cui continua a godere la cultura di fonte bizantina. Ma l’esempio più clamoroso della indebita estensione del mito del Cavallini è quello relativo alla scuola riminese. Quante volte il Van Marle ribadisce che questi pittori sono in rapporto col Cavallini e non con Giotto!94. Ed è una conclusione perfettamente logica da parte di chi sosteneva che le Storie di Isacco sono opera del Cavallini95 e che nelle Storie di san Francesco Giotto risentiva fortemente del pittore romano96; da parte di chi sosteneva che la

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nuova fase della pittura italiana dopo la dominazione bizantina inizia con il Cavallini, una generazione prima di Giotto97. Ma l’idea della «cavallinesque riminese school» ha mostrato ben presto la sua debolezza e dopo il recupero del Crocifisso del Tempio Malatestiano e un ripensamento sulla testimonianza di Riccobaldo Ferrarese a proposito del soggiorno riminese di Giotto98 credo che non abbia più credito nemmeno presso i separatisti più convinti. E vero che J. White evita accuratamente ogni accenno alla testimonianza di Riccobaldo Ferrarese e al Crocifisso del Tempio Malatestiano e si guarda bene dall’alludere a qualsiasi parallelismo con la cappella di San Nicola ad Assisi, per insistere ancora sugli elementi cavalliniani, ma fa già qualche accenno a influenze giottesche99. E vedo che lo Smart ritiene la scuola riminese inspiegabile senza l’esempio di Giotto e ormai non fa più alcun riferimento al Cavallini100. Il contesto delle osservazioni dello Smart, aggiornato alle acquisizioni più recenti, può servire benissimo da base per una corretta interpretazione dello straordinario fenomeno che la fioritura della pittura riminese di primo Trecento rappresenta. Il testimoniato soggiorno di Giotto a Rimini ebbe luogo proprio agli inizi del Trecento, se non prima, perché già nel 1309 Giovanni da Rimini riflette il Crocifisso giottesco del Tempio Malatestiano, cioè della chiesa di San Francesco in cui, secondo Riccobaldo, Giotto lavorò. Giuliano da Rimini riflette, nel polittico di Boston datato 1307, non solo l’iconografia delle Stimmate di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi, ma anche lo stile del Maestro della cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore101. Affreschi come la Presentazione al Tempio nella cappella del campanile di Sant’Agostino a Rimini sarebbero inconcepibili senza l’esempio di Giotto, ma allo stesso tempo richiamano le scene della Leggenda di san Francesco ad Assisi attribuite al Maestro della Santa Cecilia. Sono tutte indicazioni in favore di un soggiorno di Giotto a Rimini precedente a quello padovano. I riminesi si sarebbero formati su un momento di Giotto più antico rispetto a quello degli affreschi Scrovegni. Mi pare che questa conclusione, già prospettata con argomen-

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tazioni convincenti dal Gioseffi e dal Previtali, sia non solo accettabile ma necessaria102. Chi studi il Crocifisso malatestiano con attenzione dovrà concludere che sta a metà strada fra quello di Santa Maria Novella e quello Scrovegni, e semmai un po’ più vicino al primo che al secondo; l’Eterno della cimasa ritrovato dallo Zeri103 arieggia ancora le ultime Storie di san Francesco e le Stimmate del Louvre. Che il Giotto riminese fosse ancora vicino a quello assisiate lo indicano anche le continue allusioni alle vistose incorniciature architettoniche degli affreschi di Rimini (fig. 169), mentre Giuliano arriva a porre delle colonne tortili di marmo perfino in un dipinto su tavola. Negli affreschi riminesi le aureole sono normalmente circolari e fanno pensare che nella sua attività a Rimini Giotto non avesse ancora inaugurato l’aureola in scorcio padovana. Le poche eccezioni sono molto significative a questo riguardo, perché sono da mettere in rapporto proprio con Padova; riguardano infatti gli affreschi padovani di Pietro da Rimini, che anche nello stile dimostrano un aggiustamento in direzione degli affreschi Scrovegni104. Gli angeli-gnomi che si vedono nella pittura riminese sono già di un tipo postassisiate, tagliati da nubi, ma hanno ancora le ali duecentesche e prepadovane a lunghe squame e non con le piume simili a quelle di un uccello, come accadrà a Padova. I colli lunghi e robusti, ma un po’ pieghevoli, così caratteristici di Pietro, hanno qualche precedente nelle ultime Storie di san Francesco ad Assisi, con le quali si può mettere in rapporto anche l’estrema dolcezza pittorica della pittura riminese. La crisi giottesca di superamento dell’asprezza e della tensione quasi metallica delle superfici pittoriche duecentesche in direzione di un modellato più dolce e fuso deve aver avuto il suo culmine durante il soggiorno riminese, pur essendo già iniziata nelle ultime Storie di san Francesco; e i pittori di Rimini ne rimarranno toccati per sempre, fino a raggiungere effetti di una dolcezza melata e patetica. D’altra parte i parallelismi col Cavallini sono innegabili. A me hanno sempre fatto molta impressione soprattutto le affinità tra il riminese Maestro delle Storie del Battista e le scene della Passione in Santa Maria Donnaregina a Napoli. Queste affinità esi-

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stono realmente e, dopo che si è creduto ad esse fino al punto di ipotizzare una scuola riminese-cavalliniana, non si può far finta di niente ed eludere l’interrogativo che esse pongono, la cui risposta più plausibile sta nel denominatore comune rappresentato da Giotto. Il caso della pittura riminese del Trecento diventa, infatti, una delle riprove più evidenti che ciò che una volta si chiamava cavalliniano (o «romanizing») deve invece considerarsi giottesco; diventa anche indicativo dell’equivoco storiografico del mito del Cavallini, su cui si appoggiava, più o meno implicitamente, la tesi separatista ai tempi dell’articolo dell’Offner, quando quel mito era al suo culmine. Il fatto che Giotto abbia lavorato a Rimini di persona è una delle spiegazioni per l’eccezionale fioritura della pittura riminese, nei confronti della quale dovette esercitare un effetto galvanizzante che si attenuò col passare del tempo, fin quasi a spegnersi alla metà del Trecento. Ma di regola furono le pareti della Basilica Superiore di Assisi l’alto palcoscenico su cui Giotto poté reclamizzare le sue nuove idee in fatto di pittura, il grande pulpito dal quale poté predicarle. La diffusione del suo linguaggio più evoluto, da Padova in poi, rimase assai più limitata.

1

Si veda sopra, p. 98, nota 39. Che l’ordine di citazione corrisponda in Riccobaldo a quello cronologico è parso probabile anche a D. Gioseffi, Lo svolgimento del linguaggio giottesco da Assisi a Padova: il soggiorno riminese e la componente ravennate, in «Arte Veneta», 1961, pp. 12-24.

2

Il 15 giugno del 1312 Riccuccio del fu Puccio del Mugnaio, del popolo di Santa Maria Novella a Firenze, disponeva, fra altri lasciti, anche quello di «libras quinque florenorum parvorum» alla sacrestia dei frati predicatori di Firenze per l’acquisto di olio «pro tenenda continue illuminata lampada Crucifixi entis in eadem ecclesia Sancte Marie Novelle, picti per egregium pictorem nomine Giottum Bondonis»; il testamento ricorda anche un’altra tavola in Santa Maria Novella (probabilmente la Madonna Rucellai di Duccio) e una di Giotto, oggi perduta, in San Domenico di Prato (si veda G. Milanesi, in G. Vasari, Le vite, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 394-95). Rimando volentieri all’analisi appassionata e ricca di termini di riferimento che del Crocifisso di Santa Maria Novella e del suo «significato assolutamente rivoluzionario» fa Previtali, Giotto cit., pp. 31-36. Per Deodato Orlandi si veda anche oltre, p. 195, nota 43.

3

E. B. Garrison, A Tentative Reconstruction of a Tabernacle and a Group of Romanizing

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Florentine Panels, in «Gazette des Beaux-Arts», XXIX, 1946, pp. 321-46 («it is certain that the movement toward a new naturalism was markedly quickened by Cavallini in Rome and by Giotto in Florence, and whatever the relations between these two leading spirits, it is equally certain that, in the developed phases of their own work and in the work of their immediate followers, two distinguishable manners were evolved», p.331). 4

Ibid., p. 332 («the Roman style is seen in undisputed clarity in Cavallini’s frescoes in S. Cecilia, Rome, and his mosaics in S. Maria in Trastevere, there, in the frescoes at S. Maria in Vescovio (Torri in Sabina). Equally Roman, though less Cavallinesque, are variously attributed frescoes in the upper church of S. Francesco, Assisi, including those by the so-called Isaac Master»); p. 333 («Florentine, on the other hand, is the style of the frescoes in the Arena Chapel in Padua, of about 1305, and in the Peruzzi and Bardi Chapels in S. Croce, Florence [...], of the Ognissanti Madonna in the Uffizi, all by Giotto himself, as well as of certain frescoes by his immediate circle in the lower church of S. Francesco, Assisi, including those in the Magdalen Chapel»).

5

Ibid. («affirm a will to present anew the visual experiences of the period - thus to abate the merely traditional in previous painting. Among other things, this involved the replacing of schematized lines, lights and shadows by evocative chiaroscuro [...] in order to produce the semblance of mass and bulk. But the Roman is preoccupied with anecdote, with the actual and even momentary, and this begets an urge to represent not only natural shapes but also a total naturalism of relations and actions. The Florentine, on the other hand, seeks out the transcendental and perdurably significant in each teme, to rationalize and abstract, and, while modeling grosso modo in a similar way, immobilize the figures in simbolically espressive postures, which, however, retain little of the hieratic or rigid»).

6

È assai interessante confrontare la redazione del 1550 e quella del 1568 della Vita del Cavallini del Vasari (si veda l’edizione a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, II, Firenze 1967, pp. 185-89): nella seconda lo storico aretino presenta il pittore come uomo virtuoso «che fu quasi tenuto santo», nel quadro del generale ritocco del testo in chiave controriformistica che è stato ben puntualizzato da Previtali, La fortuna dei primitivi cit., pp. 19-20. In conseguenza di ciò gli attribuisce numerose immagini «miracolose», molte delle quali a Firenze; in questo contesto nasce la notizia del soggiorno fiorentino, a cui si lega l’accentuazione del rapporto di dipendenza del Cavallini nei confronti di Giotto.

7

Garrison, A Tentative Reconstruction cit., pp. 331-32 («Vasari tells of Cavallini’s visit to Florence and of several works he executed in S. Marco and S. Basilio, as well as of others in the city attributed to him. And whatever reservations be made concerning this writer’s reliability, the presence of Cavallinesques in Florence is attested by frescoes surviving in the Cappella Velluti in S. Croce, and by others detached and hung in the Refectory of the Church; for although modern historians bave wavered between calling them Cimabuesque and Giottesque - but in the most hesitant terms - they are, by their every feature, Roman». Si veda anche Offner, A Corpus cit., p. XXIV: «What the St. Cecilia Master took over from Roman painting, however, was what any Florentine craftsman of the time might have borrowed - as in some measure he did borrow - from a school that at the moment enjoyed a time-honored authority. For Roman art was accessible to him not in Assisi alone. If Vasari was correct in his statement that Cavallini worked in Florence - and there is enough ground afforded by contemporary Fiorentine painting to believe him - then the St. Cecilia Master would

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La pecora di Giotto have had abundant example and opportunity to borrow from the Roman, and to be exposed to his influence on the two principal sites of his activity». Ho chiarito qualche anno fa (Moda e cronologia. B) Per la pittura di primo Trecento, in «Prospettiva», 1977, n. 11, pp. 12-27) che non è affatto necessario ritenere il dossale di Santa Cecilia anteriore all’incendio della chiesa, come aveva ritenuto Offner, A Corpus cit., p. 24, male interpretando i dati forniti da G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, II, Firenze 1755, p. 54, che invece precisa che la chiesa «fu tosto dalla Repubblica rifabbricata» (Bellosi, Moda e cronologia. B cit., pp. 15, 25, nota 11).

9

II dipinto è generalmente attribuito al Maestro della Santa Cecilia (tanto che M. Bietti Favi, Gaddo Caddi: un’ipotesi, in «Arte cristiana», 1983, n. 694, pp. 49-52, ne fa il cardine della sua proposta di identificare l’anonimo con Gaddo Gaddi); mi sembrano invece giustificati i dubbi espressi su questo punto da R. Longhi, Giudizio cit., p. 50, e da Previtali, Giotto cit., p. 322.

10

Longhi, Giudizio cit., p. 44 e tavv. 35-37; Previtali, Giotto cit., pp. 26, 30 e 132, note 42-44. A loro si rinvia anche per il problema del Maestro di San Gaggio nel suo complesso e per la bibliografìa in materia.

11

Si veda G. Achenbach, An Early Italian Tabernacle, in «Gazette des Beaux-Arts», xxv, 1944, pp. 121-52, che data questo trittico verso il 1285-90, rilevandone una cultura cimabuesca con qualche influsso senese. Ho proposto l’attribuzione al Maestro di San Gaggio in Buffalmacco e il Trionfo della Morte cit., p. 20, nota 15.

12

F. R. Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection - Italian Schools XIII- XV Century, London 1966, p. 15; ho riferito il trittichetto al Maestro di San Gaggio in Buffalmacco cit., pp. 7778.

13

Purgatorio XI 94-96: «Credette Cimabue nella pittura | tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, |si che la fama di colui oscura».

14

Quella di Dante è una testimonianza la cui validità mi è stata gentilmente confermata anche da Pier Vincenzo Mengaldo.

15

Mi pare molto probabile che sia da identificare col Torriti quell’«Jacobus pictor» che nel 128688 lavorava «in Palatio S. Petri». Si veda M. Carta, «Jacobus pictor pinxit in Palatio S. Petri»: ipotesi per un pittore ornatista della fine del Duecento, negli Atti del convegno del 1980 Roma cit., pp. 457-65.

16

Nonostante una certa oscillazione delle opinioni sull’argomento, mi pare che gli affreschi spettanti al Torriti e alla sua équipe siano sostanzialmente, nella quarta campata, la Creazione del Mondo, la Creazione di Adamo, la Costruzione dell’arca, il Diluvio, l’Annunciazione, le Nozze di Cana e la Resurrezione di Lazzaro; nella terza, la Volta dei Santi, la Creazione di Eva, il Peccato originale, il Sacrificio di Isacco e Abramo e gli angeli. In proposito concordo in linea di massima con le opinioni di Boskovits, Gli affreschi cit., pp. 11 e 34, nota 58. Per la probabile collaborazione del Torriti con la maestranza oltremontana alla decorazione del transetto destro, si veda anche oltre, p. 113.

17

Toesca, Il Medioevo cit., pp. 1010-11.

18

C. Bertelli, L’Enciclopedia delle Tre Fontane, in «Paragone», 1969, n. 235, pp. 24-49.

19

Gardner, Pope Nicholas cit., pp. 1-50.

20

Un’ alta valutazione di Jacopo Torriti è espressa anche da Boskovits, Gli affreschi cit., pp. 8-9.

21

L. Bellosi, La decorazione della Basilica superiore di Assisi e la pittura romana di fine Duecento, in Roma cit., pp. 127-33 (il brano riportato qui di seguito è alle pp. 130-31).

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22

Per la datazione del mosaico lateranense, si veda sopra, p. 32, nota 16. Sulla riutilizzazione di un brano molto più antico con il busto di Cristo (che sormontava una croce rifatta dal Torriti sull’esempio antico), si veda Y. Christie, A propos du décor absidal de Saint-Jean du Latran a Rome, in «Cahiers archéologiques», XX, 1970, pp. 197-206.

23

Toesca, Il Medioevo cit., pp. 1012-14, nota 38 e p. 1020; Bertelli, L’Enciclopedia cit.; I. Hueck, Der Maler der Apostelszenen im Atrium von Alt-St. Peter, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XIV, 1969-70, pp. 115-44.

24

Si tratta del mosaico frammentario di Palazzo Colonna, proveniente dall’Aracoeli (per cui vedi più avanti, nota 29) e di quello con il Salvatore sul frontone dell’antica facciata di San Giovanni in Laterano (attribuzione ripresa da Matthiae, Pittura romana del Medioevo cit., p. 226).

25

C. Cecchelli, Santa Maria in Trastevere, Roma s.d., p. 38. Il Necrologio è pubblicato integralmente da P. Egidi, Necrologi e libri affini della provincia romana, I, Roma 1908, pp. 85-103 (si veda p. 95: «Ob. pbri. B. de Malpiliis can. n. qui fecit fieri tres ymagines muisaycas virginum supra portas et reliquit bacile de argento»; l’annotazione, in data 15 luglio, appartiene al gruppo di quelle databili al XIV secolo).

26

E. B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting, Firenze 1949, p. 29. Curiosamente, Matthiae, Pittura cit., p. 231, definisce il «Maestro di San Saba» come «il pittore più vicino al Torriti che meglio di ogni altro mostra di intenderne la maniera», anche se del maestro «gli sfugge quello che è il senso della monumentalità e la sicura intenzione decorativa».

27

Bertelli, L’Enciclopedia cit.

28

Già Toesca, Il Medioevo cit., p. 1012, considerava questo mosaico un’opera eseguita direttamente dal Torriti.

29

Per quanto riguarda un possibile monopolio del Torriti sulla decorazione musiva di qualsiasi genere in Santa Maria in Aracoeli, ricordo che il Toesca (ibid., nota 38) ricollegava con i suoi modi anche il frammento di mosaico ora in casa Colonna, ma proveniente da quella chiesa, mentre P. Cellini, Di fra’ Guglielmo e di Amolfo, in «Bollettino d’arte», 1955, pp. 215-29, gli attribuiva (p. 225) il mosaico, oggi molto frammentario (confesso che a me non è riuscito di leggervi molto) con la raffigurazione del Sogno di Innocenzo III sul risvolto meridionale del fastigio della facciata della stessa chiesa. Per l’intervento più recente di Maria Andaloro, si veda sopra, p. 36, nota 38.

30

Boskovits, Proposte (e conferme) per Pietro Cavallini cit., p. 302, lo attribuisce addirittura al Cavallini. Alla sua nota 21 si rimanda per le precisazioni sulla storia esterna di questo mosaico.

31

Hueck, Der Maler cit.

32

G. Coor-Achenbach, Notes on two Unknown Early Italian Panel Paintings, I, The Center of a Tabemacle of St. Lucy, in «Gazette des Beaux-Arts», XLIII, 1953, pp. 247-57.

33

D. Mita, Sull’origine e sulle gesta della famiglia Ceroni, Faenza 1882-84.

34

L’atto di vendita del 2 ottobre 1273 nelle carte liberiane è stato pubblicato con questa identificazione da G. Ferri, Un documento su Pietro Cavallini, in Nozze Hermanin-Hausmann, Perugia 1904, pp. 59-62, e, in seguito, da Id., Le carte dell’Archivio Liberiano dal secolo X al XV, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», xxx, 1907, pp. 127-28.

35

Si veda, fra gli altri, Boskovits, Proposte cit., pp. 297-98, il quale ironizza giustamente su questa identificazione.

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È altrettanto sorprendente la fiducia tradizionalmente accordata a una postilla dello

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La pecora di Giotto scrittore papale Giovanni Cavallini (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. lat. 1927), che ricorda il padre esaltandone la longevità e l‘abitudine di non portare il cappello: naturalmente i separatisti e tutti coloro che esaltano il ruolo di Pietro Cavallini identificano con il pittore questo simpatico vegliardo romano (si veda per esempio G. Matthiae, Pietro Cavallini, Roma 1972, p. 14). L’unico documento che si riferisce senza equivoci all’artista è invece la citazione nei perduti Registri angioini, che ci assicura la presenza a Napoli nel 1308 di «Magister Petrus Cavallinus de Roma pictor» (ibid., p. 13); ma la stagione napoletana del Cavallini non sembra troppo amata da separatisti e romanisti. Sull’inattendibilità della documentazione riferita al pittore, si veda G. Ragionieri, Cronologia e committenza: Pietro Cavallini e gli Stefaneschi di Trastevere, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. III, XI, 1981, pp. 447-67.

37

F. H. Barbet de Jouy, Les Mosaiques chrétiennes de Rome, Paris 1857, riferiva dell’iscrizione «MCCLCI, que je crois étre 1351»; G. B. De Rossi, Mosaici cristiani e saggi dei pavimenti delle Chiese di Roma anteriori al secolo XV, Roma 1899, operava la correzione in MCCXCI (1291), poi rimasta canonica.

38

Sui dubbi già avanzati dalla critica a proposito della datazione convenzionale dei mosaici di Santa Maria in Trastevere, si veda Ragionieri, Cronologia cit., che propone a sua volta, in conseguenza dello studio del committente Bertoldo Stefaneschi e del fratello cardinale Jacopo, che essi siano stati eseguiti nei primi anni del Trecento e si possano leggere come risposta polemica a quelli ordinati al Torriti dai Colonna nell’abside di Santa Maria Maggiore. Un rapporto di seriorità con questa stessa decorazione musiva e una dipendenza del riquadro col donatore dal mosaico del monumento funebre di Bonifacio VIII sono ora ben argomentati da J. Poeschke, Per la datazione dei mosaici del Cavallini in S. Maria in Trastevere, in Roma cit., pp. 42331, che suggerisce perciò una datazione a «qualche tempo dopo il 1296» e trae anche delle interessanti deduzioni sui rapporti del Cavallini con Giotto.

39

Per la scoperta degli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere e per i primi studi di Federico Hermanin, si veda sopra, p. 97, nota 16.

40

Il Ghiberti ci informa che «in santo Pagolo era di musayco la faccia dinanci; dentro nella chiesa tutte le parti della nave di meço erano dipinte storie del testamento vecchio. Era dipinto el capitolo tutto di sua mano egregiamente fatte»; si veda Lerenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten (I Commentarii) cit., I, p. 39. Sulle copie seicentesche ha fatto eccessivo affidamento J. White, Cavallini and the Lost Frescoes in S. Paolo, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XIX, 1956, pp. 84-95. La veduta del Pannini è riprodotta fra l’altro da F. Arisi, Gian Paolo Panini, Piacenza 1961, fig. 199. P. Hetherington, Pietro Cavallini. A Study in the Art of Late Medieval Rome, London 1979, pp. 90 e 105, nota 61, che riprende B. Tritone, O.S.B., Serie dei preposti, rettori ed abbati di San Paolo di Roma, in «Rivista storica benedettina», IV, 1909, p. 254.

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Tutto considerato, l’ipotesi più sensata sembra ancora quella, nata da una tradizione di origine seicentesca, che vuole committente dell’affresco Jacopo Stefaneschi, nominato cardinale di San Giorgio in Velabro il 17 dicembre 1295; si veda tuttavia la proposta di J. Gardner, recensione a Hetherington, Pietro Cavallini cit., in «The Burlington Magazine», CXXII, 1980, p. 257, che anticipa l’esecuzione di alcuni anni riferendo la commissione a Pietro Peregrosso (cardinale di San Giorgio dal 1288 al 1295). Né sembra ormai da porre in discussione la sua attribuzione al Cavallini. Sull’affresco si vedano recentemente Hetherington, Pietro Cavallini cit., pp. 66-72; Ragionieri, Cronologia cit., pp. 463-65; Boskovits, Proposte cit., p. 300. Una recente revisione dell’opera del Cavallini, che mi trova d’accordo su molti punti,

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è quella di Boskovits, Proposte cit., pp. 297-329. Credo siano opera del pittore romano anche due figure di Dolenti di una collezione privata di Monaco di Baviera. È molto probabile che un altro dipinto del Cavallini si nasconda sotto i rifacimenti della cosiddetta Madonna della strada nella chiesa del Gesù a Roma. Le proposte per il Rusuti qui elaborate erano già state anticipate da me negli atti del convegno Roma cit., pp. 131-33, e in La barba di san Francesco (Nuove proposte per il ‘problema di Assisi’), in «Prospettiva», 1980, n. 22, p. 34, nota 46. Si veda il primo capitolo, p. 17.

46

Van Marle, The Development cit., I, pp. 545-46.

47

Bologna, I pittori cit., p. 117.

48

G. Matthiae, Gli affreschi di Grottaferrata e un’ipotesi cavalliniana, Roma 1970. È il fascicolo che accompagnava la mostra tenutasi nel 1970 a Roma e dedicata al settore del ciclo di Grottaferrata che fu distaccato durante i restauri curati dalla Soprintendenza di Roma, sotto la guida dello stesso Matthiae.

49

C. Bertelli, La mostra degli affreschi di Grottaferrata, in «Paragone», 1970, n. 249, pp. 91-101.

50

Sugli affreschi di Grottaferrata, si veda anche M. Andaloro, La decorazione pittorica medioevale di Grottaferrata e il suo perduto contesto, in Roma cit., pp. 253-87.

51

Matthiae, Pietro Cavallini cit., p. 57.

52

Bertelli, La mostra cit., figg. 46-47; si veda anche il confronto alla figura 48 fra il San Nilo e la Disputa di Mosè.

53

Si veda sopra, p. 39, nota 54. 54

54

Gardner, Pope Nicholas cit., p. 13, e, anche per la bibliografia, Previtali, Giotto cit., pp. 22, 370.

55

Si veda soprattutto Bologna, I pittori cit., pp. 132-35.

56

I. Toesca, Una croce dipinta romana, in «Bollettino d’arte», 1966, pp. 27-32; per una decisa attribuzione a Giotto si è dichiarato R. Salvini, Giotto a Rimini, negli Atti del convegno del 1967 Giotto e il suo tempo cit., p. 96, nota 15. Si veda anche, p. 133 e nota 85.

57

M. Meiss, Fresques italiennes, cavallinesque et autres, a Béziers, in «Gazette des Beaux-Arts», II, 1937, pp. 275-86. È il Meiss che collega gli affreschi della cappella dello Spirito Santo con un documento in cui la cappella è indicata come «noviter constructa», in un atto di donazione del vescovo Bérenger III di Frédol. Il Meiss esprime la ragionevole ipotesi che questi affreschi «cavalliniani» siano opera di uno dei tre pittori romani, Filippo Rusuti, suo figlio Giovanni e Nicola «Desmarz» che lavorano nel 1308 nel castello del re Filippo il Bello a Poitiers, che nel 1309 ricevono una pensione e che nel 1317 sono ricordati come pittori del re, con il quale Bérenger III era in stretti rapporti. Il Meiss pubblica anche gli affreschi della cappella di Santo Stefano, nella stessa chiesa, considerandoli ugualmente romani, seppure un po’ posteriori e più gotici nell’impostazione. In questo senso, egli cita soprattutto le Storie di san Francesco ad Assisi come fonte ispiratrice. Ed è una notazione interessante, perché questi affreschi, molto rovinati, presentano nello sviluppo dell’architettura qualche rapporto con le scene della Leggenda della fondazione di Santa Maria Maggiore, nella parte bassa del mosaico di facciata della basilica romana. Sugli affreschi della cappella dello Spirito Santo si vedano anche, fra gli altri, E. Castelnuovo, Affreschi gotici francesi, in «Paragone», 1955, n. 63, pp. 55-57, che riproduce (fig. 23) uno degli Angeli, e Bologna, I pittori cit., p. 145, nota 139.

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La pecora di Giotto

58

Offner, Giotto cit., I, p. 259.

59

Pubblicato da F. Santi, Restauro di opere umbre inedite o mal note, in «Bollettino d’arte», 1959, pp. 170-80 (si vedano lepp. 171 e 179, note 4 e 5).

60

Guillaume Durand, noto anche come Guglielmo Durante, o Durando, morì il 1° novembre 1296. La lunga scritta elogiativa alla base del monumento funebre del famoso ecclesiastico è riportata da J.-J. Berthier, L‘église de la Minerve, Roma 1910, p. 199, nota 1. L’anno di morte vi è indicato con la formula «sub mille trecentis quatuor remotis annis», che vuol dire 1296 (1300 meno 4) e non 1304 come crede W. Oakeshott, The Mosaics of Rome, London 1967, p. 334.

61

Si veda Cecchelli, I mosaici cit., p. 294. Il monumento del cardinale Consalvo Rodriguez, vescovo di Albano, morto nel 1299, reca un’epigrafe con questa data e la «firma»: «Hoc opus fecit Iohannes magistri Cosmae civis romanus».

62

Nonostante l’autorevole opinione dell’amico Ferdinando Bologna I pittori cit., pp. 132-35), mi pare che l’Eterno della Creazione e il Redentore della Volta dei Santi abbiano tratti talmente simili da postulare l’esecuzione di un unico artista. Mi sembra, tuttavia, estremamente significativo il rilievo che nel Creatore di Assisi siano assenti aspetti cavalliniani e si rimanga «in una sfera di bizantinismo aulico affatto torritiano» (ibid.,p. 133).

63

W. Paeseler, Cavallini e Giotto: aspetti cronologici, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 35-44, quando si riferiva (p. 42) a questa tecnica per dimostrare la precedenza degli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere del Cavallini su Giotto, non teneva presente che essa era già usata da Cimabue.

64

Cennini, Il Libro dell’Arte o Trattato della Pittura cit., cap. CII, pp. 88-89.

65

Le eccezioni più vistose sono le aureole in scorcio di Giotto nella cappella Scrovegni a Padova e nella cappella della Maddalena ad Assisi, ma soprattutto le aureole riccamente decorate da motivi stampati a punzone negli affreschi di Simone Martini e del suo atelier familiare, nonché di qualche seguace.

66

Questa norma ha pochissime eccezioni. Si veda il caso di Sant’Angelo in Formis, dove solo il Cristo Pantocratore e il san Michele al centro dell’abside hanno un’aureola a raggiera sgraffita. Qualche aureola raggiata si vede anche negli affreschi duecenteschi del Battistero di Parma. Quelle rilevate e raggiate in affreschi lombardi del tardo Duecento (Sant’Ambrogio a Milano, San Vincenzo a Galliano) sembrano indicare delle affinità con gli affreschi di Le Puy.

67

Per la sicura precedenza cronologica degli affreschi del pittore oltremontano di Assisi rispetto a quelli di Cimabue, si veda oltre, p. 191, nota 5.

68

Sui murali svedesi di Bjäresjö si veda C. R. Dowell, Painting in Europe 800-1200, Harmondsworth 1971, p. 167 e tav. 185. Per gli affreschi di Le Puy si veda P. Deschamps e M. Thibout, La peinture murale en France au début de l’époque gothique, Paris 1963, pp. 81-87, tavv. I, XXXI, XXXII , XXXIV, XXXV, XXXVI, LIV, LV.

69

Questa nuova idea ha un tale successo nella pittura romana che viene adottata anche nei dipinti su tavola (mentre era una tecnica specifica dell’affresco, come ci testimonia il Cennini). Così fa il Cavallini nel Cristo del Camposanto Teutonico pubblicato dallo Zeri (Un frammento su tavola di Pietro Cavallini, in Diari di lavoro 2, Torino 1976, pp. 3-7) e nelle due figure di Dolenti citate in questo capitolo alla nota 42. Così fanno anche altri pittori romani (Madonna del Duomo di Anagni, tavole di Grottaferrata, Crocifisso di San Tommaso de’ Cenci, ecc.).

70

Si veda, in particolare, A. Parronchi, Attività del Maestro della S. Cecilia, in «Rivista d’arte», 1939, pp. 210-28.

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Ad una differenziazione tra gli esecutori degli affreschi del Sacro Speco di Subiaco è dedicato un intervento - che solo in parte condivido - di M. L. Cristiani Testi, Consolo: il Maestro del busto di Innocenzo III e i collaboratori, negli Atti del convegno Roma cit., pp. 403-11. Va tenuto presente che la pittura romana di questo momento è ben testimoniata a Subiaco non solo nel Sacro Speco, ma anche nel monastero di Santa Scolastica. Oltre agli affreschi di un’ala del chiostro di cui fa parte l’Angelo (in realtà simbolo di san Matteo) che credo si possa attribuire al Rusuti (si veda p. 122), va considerata anche la decorazione della facciata della chiesa del monastero con affreschi romani non meno importanti, erroneamente riferiti di solito alla seconda metà del Trecento. Essi presentano un interesse particolare per le vistose incorniciature architettoniche finte e per una caratterizzazione delle immagini che richiama alla mente certe figure di Memmo di Filippuccio a San Gimignano. La stessa impressione fanno alcune Sante in un sottarco del Sacro Speco, meno note delle altre figurazioni, ma da inserire con certezza proprio tra le opere di Magister Conxolus.

72

Bertelli, L’Enciclopedia cit.

73

La scoperta è avvenuta nei laboratori di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure dislocato nella Fortezza da Basso a Firenze. Purtroppo, la tavola originaria di una Madonna col Bambino in trono che doveva essere stata simile alla Madonna di San Giorgio alla Costa era stata segata in antico e quel che ne restava completamente ridipinto a figurare l’immagine devozionale di una santa. L’orrendo stato di conservazione in cui si presenta questa tavola frammentaria, da cui gran parte del colore e perfino della preparazione è scomparsa scoprendo il nudo legno, non ha impedito di riconoscere la mano del giovane Giotto in ciò che resta della figurazione. Non sono certo il primo ad esprimere un’opinione simile; lo hanno già fatto Umberto Baldini, per primo, Antonio Paolucci, Miklós Boskovits, Bruno Santi e altri. Anche Giovanni Previtali ha espresso la stessa convinzione. Nonostante le disastrose condizioni, alcune parti si leggono molto bene, come il modellato del velo blu con le bellissime pieghe che cadono verticalmente dal sommo della testa verso la fronte e che scendono di lato fino sul petto in un andamento ondeggiante, sottolineato dal filo d’oro del bordo, secondo un’intenzione di ricordo duccesco di cui farà tesoro Lippo di Benivieni. Gli occhi grandi dallo sguardo profondo e la severità quasi vedovile del velo scuro che la ammanta, la trepida carnosità del volto (che si esprime anche nelle «borse» sotto gli occhi, come in certi compagni del padre di san Francesco nella Rinuncia ai beni di Assisi), lo stupendo intaglio delle labbra sono aspetti del Giotto più alto e rimandano tutti alle opere giovanili del pittore tra Assisi e Firenze, e fanno pensare alla donna nella scena di Isacco che respinge Esaù, alla Madonna della controfacciata di Assisi, alla Madonna di San Giorgio alla Costa. Quel che resta del Bambino lascia intravedere un atteggiamento di affettuosa vivacità, come nel polittico di Badia. La veste è di quel colore rosa-violetto trasparente che si ritrova tanto spesso ad Assisi: ad esempio, nell’ecclesiastico alla destra del papa al centro della Predica ad Onorio. Alcune foto relative alle indagini tecniche sono state pubblicate da O. Casazza e P. Franchi, Conservazione, restauro, analisi, in «Critica d’arte», gennaio-marzo 1985, pp. 76-77. La tavola comparirà, alla fine del 1985, in una mostra, nel cui catalogo verrà descritta da una scheda di Bruno Santi: debbo alla sua cortesia, e a quella degli altri amici Antonio Paolucci e Marco Ciatti, la possibilità di pubblicarne la foto in questo volume.

74

A. Garzelli, Protogiotteschi ad Assisi e Firenze, in «Critica d’arte», 1974, n. 136, pp. 9-30.

75

Gli affreschi della controfacciata della Collegiata di San Gimignano sono stati collegati

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La pecora di Giotto con il documento di pagamento del 1305 a Memmo di Filippuccio da E. Carli, Ancora dei Memmi a San Gimignano, in «Paragone», 1963, n. 159, pp. 27-36.

76

Mi riferisco in particolare al dossale Hearst con Santa Caterina e storie della sua vita (avvicinato al Maestro della Santa Cecilia da Offner, A Corpus cit., I, pp. 65-66), riconosciuto a Gregorio e Donato da R. Longhi, In traccia di alcuni anonimi trecentisti, in «Paragone», 1963, n. 167, pp. 316, ora in «Giudizio» cit., pp. 171-73, e al trittico composto dalla Madonna Loeser e dai laterali con le Sante Flora e Lucilla delle collezioni Griggs di New York e Hutton di Londra (opera pacinesca per Offner, A Corpus, II, Berlin 1930, tomo I, p. 6, tomo II, pp. 215-21), che dà il nome all’anonimo studiato da P. P. Donati, Per la pittura aretina del Trecento, in «Paragone», 1968, n. 221, pp. 12-14 (si veda anche la prima parte dello stesso saggio, n. 215, pp. 22-39, per Gregorio e Donato).

77

Si veda il capitolo precedente, p. 100, nota 59.

78

Si veda sopra, pp. 14 e 34, nota 25.

79

Si veda sopra, pp. 17 e 35, nota 28.

80

Si vedano E. Neri Lusanna, Percorso di Guiduccio Palmerucci, in «Paragone», 1977, n. 325, pp. 1039; F. Todini e B. Zanardi, La Pinacoteca Comunale di Assisi - Catalogo dei dipinti, Firenze 1980, pp. 42-45.

81

Si veda il capitolo seguente, p. 159 e note 23, 24.

82

Si veda sopra, pp. 14-15.

83

Si veda Boskovits, Gli affreschi cit., p. 6 e figg. 36-37, a proposito di presunti rapporti fra la tavola firmata da Marino da Perugia e gli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere.

84

R. Longhi, Apertura sui trecentisti umbri, in «Paragone», 1960, n. 295, pp. 3-17, ora in «Giudizio» cit., pp. 147-62; per altri interventi che collocano il dipinto in area toscana in prossimità di Lippo di Benivieni, si veda Boskovits, Corpus of Florentine Painting, sez. III, IX, Firenze 1984, pp. 170-77.

85

Brandi, Giotto cit., pp. 18-19, 28; si veda anche sopra, nota 56.

86

Bologna, I pittori cit., pp. 92-94, 102-7.

87

C. Lorenzetti, La corrente pittorica romana e senese e la tradizione locale in alcuni dipinti inediti della Campania, in «Bollettino d’arte», xxx, 1936-37, p. 422. L’affresco fu pubblicato da A. O. Quintavalle, Un affresco ignorato di Pietro Cavallini a Capua, ivi, XXVII, 1933-34, pp. 412-31, con un’attribuzione a Pietro Cavallini. Per la bibliografia sull’argomento, nella quale si distingue l’intervento di Ferdinando Bologna (I pittori cit., pp. 92-94), si veda A. Margiotta, L’affresco dell’Ascensione di Cristo proveniente dalla chiesa di S. Salvatore piccolo a Capua, in «Capys», XII, 1979,pp. 20-28.

88

Qualcuno è arrivato addirittura a fare paragoni con gli affreschi di Sant’Angelo in Formis e a sostenere che il San Domenico di Capodimonte «riassume in sé gli accenti del linguaggio benedettino e ne attesta il perdurare» (O. Morisani, Pittura del Trecento in Napoli, Napoli 1947, pp. 13-14).

89

Si vedano in questo senso le osservazioni di Bologna, I pittori cit., p. 59, sul «tal qual sentore delle novità» delle Storie francescane nelle architetture delle storiette.

90

Questi interessantissimi affreschi e gli altri della cappella di sinistra mancano a tutt’oggi di uno studio specifico e approfondito; si vedano tuttavia gli stimolanti accenni di C. Volpe, La pittura riminese del Trecento, Milano 1965, pp. 9 e 56, nota 2.

91

Su questi affreschi si veda il recentissimo studio di M. Boskovits, La decorazione pittorica del presbiterio nella basilica di S. Abondio in Como, in «Arte cristiana», 1984, n.

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705, pp. 369-80. Una considerazione più attenta anche dei dati della moda mi fa credere che lo studioso abbia ragione nello spostare la datazione almeno al secondo decennio del Trecento rispetto a quella più precoce da me proposta (Bellosi, Moda e cronologia. B cit., pp. 22-23). Su questi bellissimi affreschi, esposti alla mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, Milano 1958, si veda anche S. Matalon, in Affreschi lombardi del Trecento, Milano 1963, pp. 359-60, e il contributo di Miklós Boskovits citato alla nota precedente. M. Muraro, Veneto arte e storia nei secoli XIII e XIV, in «Pantheon», 1980, pp. 346-59; la definizione del pittore di San Zan Degolà a Venezia come «quasi un Cavallini veneto» era stata data dallo stesso Muraro nel catalogo della mostra Venezia e Bisanzio, Venezia 1974, n. 61; la datazione proposta dallo studioso al settimo decennio del Duecento appare troppo alta, proprio in virtù delle architetture dipinte, troppo solide e concrete per non postulare un precedente assisiate.

94

Van Marle, The Development cit., IV, 1924, pp. 279-354.

95

Ibid., I, 1923, pp. 521-25.

96

Ibid., III, 1924, pp. 17-42.

97

Ibid., X, 1928, p. 31.

98

Si veda sopra, p. 98, nota 39.

99

White, Art and Architecture cit., pp. 272-74.

100 A. Smart, The Assisi Problem and the Art of Giotto, London 1971, pp. 125-27. 101 Ibid. 102 Si veda sopra, p. 138, nota 1; si vedano inoltre Previtali, Giotto cit., p. 70, e R. Salvini, Giotto a Rimini, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 93-103. 103 F. Zeri, Due appunti su Giotto, in «Paragone», 1957, n. 85, pp. 75-87. Il frammento si trova adesso nella collezione inglese di Lady Jekill. 104 Si veda Volpe, La pittura riminese cit., pp. 25, 58, 60.

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Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto

Se il papato di Niccolò IV è un punto di riferimento per la parte giottesca della decorazione della Basilica Superiore, che cosa ne è del resto? Io credo che lo stesso valga, sostanzialmente, per tutta la decorazione, ove si escluda - per ora - il caso iniziale della maestranza oltremontana, sul quale rimangono ancora troppi interrogativi. Intanto, l’intervento del Torriti e della sua équipe si spiega molto bene, anch’esso, con Niccolò IV, di cui - come abbiamo visto - era il pittore favorito. Ma credo che anche per l’intervento di Cimabue si debba arrivare alle stesse conclusioni. E le ragioni sono svariate.

Continuità della decorazione della Basilica Superiore. Il Belting, riassumendo e razionalizzando una serie di studi precedenti, ha dimostrato la profonda organicità e la sostanziale unità di programma e di significato della decorazione pittorica della Basilica Superiore di Assisi1: organicità e unità che rappresentano un caso del tutto eccezionale e che si spiegano meglio senza le lunghe interruzioni che di solito si postulano tra una fase e l’altra della decorazione. Per quanto riguarda gli aspetti più strettamente figurativi, salta agli occhi una uguale organicità e unità del sistema decorativo, che divengono anzi più evidenti per la profonda distanza stilistica che separa la fase iniziale dalla fase finale dell’intero lavoro. Tra il sistema decorativo della Volta degli Evangelisti di Cimabue e quello della Volta dei Dottori, ormai giottesca, non ci

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La pecora di Giotto

sono grandi differenze2. I bordi che incorniciano la figurazione (figg. 197, 173) consistono di motivi vegetali di tipo grafico e bidimensionale che continuano anche sulla parete della controfacciata. E in ambedue i casi l’intonazione cromatica è fredda e quasi minerale. I motivi cosmateschi che caratterizzano gli affreschi della fase giottesca erano già presenti nel transetto dipinto da Cimabue, anche se non vi costituivano una così vistosa e sistematica presenza. Perfino le cornici marmoree poligonali che inquadrano busti di profeti, angeli e santi ricorrono per tutta la Basilica (figg. 176, 177, 18), dal transetto alla navata, nei sottarchi delle grandi arcate cieche che in ogni campata si appoggiano alle pareti alte nella zona delle finestre. Semmai è da segnalare una evoluzione della loro forma verso una complessità mistilinea ormai gotica, che caratterizza soprattutto la campata d’ingresso (fig. 18). Allo stesso modo, il motivo della cortina di stoffa che finge di essere appesa nella parte più bassa della decorazione corre lungo tutta la Basilica Superiore (fig. 170), sotto i riquadri di Cimabue nel transetto e sotto le Storie di san Francesco nella navata (fig. 234). Lo stesso si può dire della decorazione a finte architetture, già ampiamente presente nelle parti alte del transetto, soprattutto nella zona dei trifori dove la decorazione ad affresco si integra con l’archi-tettura reale (fig. 233). I motivi di finti pilastri scanalati, coronati da capitelli a foglie, qui vistosamente presenti, si ritrovano quasi identici nella decorazione delle pareti alte della navata, nella fase dei lavori torritiani e di quelli giotteschi (fig. 31), in prossimità della controfacciata. In questa zona, tuttavia, la parte affidata alle finte architetture è diventata preponderante (fig. 171) e annunzia ormai ciò che accade nella zona con le Storie di san Francesco (fig. 254). Qui, l’incorniciatura di finta architettura diventa sistema-tica ed è il primo caso di una prassi decorativa che sarà regola costante per tutto il Trecento. E tuttavia anche questa idea era stata precorsa e parzialmente attuata da Cimabue nei riquadri narrativi della parte bassa del transetto(fig. 170). Va ricordato che questa parte è notevolmente aggettante rispetto alle pareti più alte, tanto da costituire un vero e proprio zoccolo, la cui sommità da luogo ad un camminamento percorribile lungo tutto il perimetro interno della Basilica Superiore. E stata probabil-mente questa situazione architettonica rea-

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Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto

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le a suggerire a Cimabue l’idea di un finto architrave visto dal basso e sorretto da una serie di mensole che, col loro recedere verso la profondità, vogliono evidentemente dare l’illusione che le superfici su cui sono dipinte le scene siano a filo con quelle delle pareti alte. E già - in germe - l’idea delle incorniciature delle Storie di san Francesco. Dico in germe perché Giotto trasforma il motivo delle file di mensole e, razionalizzandolo, costruisce un vero e proprio sistema architettonico: là dove Cimabue poneva delle fasce a decorazione bidimensionale per separare le scene una dall’altra (fig. 170), egli colloca delle bellissime, robuste colonne tortili a creare un sistema di logge architravate a tre aperture, separate dai pilastri a fascio reali che dividono una campata dall’altra (fig. 234). Le colonne tortili poggiano a loro volta su un piano di base che nel suo leggero aggetto è sostenuto da un’altra fila di piccolissime mensole, al di sotto delle quali è dipinta la finta stoffa che ricade fino a terra. Tra la semplice fila di mensole cimabuesche e il complesso sistema architettonico di Giotto si hanno dei passaggi intermedi nella decorazione della parte alta della navata. Infatti, lungo le facce verticali dei costoloni o all’imposto delle volte in corrispondenza degli arconi laterali delle campate, corrono spesso delle file di mensole costruite come quelle cimabuesche. Questo accade sistematicamente nella fase torritiana (figg. 172) e accade anche nella Volta dei Dottori ormai giottesca (figg. 173, 174). Tuttavia, sopra le due trifore che si aprono all’imposto dell’arcone d’ingresso della Basilica (fig. 51), subito al di sotto delle coppie di santi a figura intera, compare una serie di mensole che sono ormai identiche a quelle che corrono sopra le Storie di san Francesco3. Questo fatto, oltre a costituire, come abbiamo visto, un ulteriore legame e un’ulteriore riprova della continuità tra la fase finale della decorazione dei registri alti e le Storie di san Francesco, sta lì a mostrarci come in questo insieme unitario che è la decorazione della Basilica Superiore di Assisi le cose siano andate nel senso di un’evoluzione all’interno di una rigorosa continuità. Questa evoluzione nella continuità si può cogliere anche in alcuni aspetti figurativi all’interno delle «storie». Proviamoci, per

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esempio, a seguire la rappresentazione del nudo. Il Cristo della celebre Crocifissione di Cimabue (fig. 211) è ancora figurato secondo le formule astrattive e simboliche di origine «greca»; si inarca sulla croce con una curva impossibile e la sua anatomia è ancora indicata simbolicamente con formule tradizionali, come quella del ventre tripartito. Nel Crocifisso che pende dall’iconostasi della chiesa in cui si svolgono i Funerali di san Francesco (fig. 175) il nudo è visto con altri occhi, in modo assai più naturalistico. E se il cattivo stato di conservazione della figura impedisse a qualcuno di vedere quanto esso sia più moderno in confronto a quello di Cimabue, ecco il nudo parziale di san Francesco nella Rinuncia ai beni, in cui si può controllare l’approssimazione al vero nel modellato della scapola e delle cestole. L’evoluzione da Cimabue a Giotto avviene con una certa gradualità attraverso vari passaggi negli affreschi alti della navata. Nella Creazione del mondo del Torriti, la luce è simboleggiata da una figura maschile nuda, che corrisponde ancora alla concezione del nudo di Cimabue; lo stesso si può dire per i putti ai quattro angoli della Volta dei Santi (fig. 174), nella seconda campata, ancora del Torriti. Nell’ultima campata, ai quattro angoli della Volta dei Dottori, in zona ormai giottesca, si vedono altri putti nudi (figg. 224, 226): qualcuno reca ancora qualche segno delle formule astrattive usate da Cimabue e dal Torriti, ma altri sono ormai del tipo più naturalistico e moderno che si vede nelle Storie di san Francesco. Parlare di evoluzione nella continuità a proposito dell’insieme della decorazione della Basilica Superiore potrà sembrare a qualcuno il segno di una incomprensione del profondo stacco che gli affreschi che vanno dalle Storie di Isacco in avanti segnano in confronto a quelli precedenti. In realtà, siamo ben convinti di questo stacco; ma sono proprio gli elementi di continuità avvertibili nonostante questo stacco a rivelarci che non ci devono essere stati anche degli stacchi cronologici4. Siamo di fronte ad un caso del tutto eccezionale di una chiesa affrescata da cima a fondo rispondendo ad un progetto unitario sia dal punto di vista iconografico che dal punto di vista decorativo. Si tratta di un unicum, in confronto al quale già la Basilica

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Inferiore presenta molte smagliature. In tutta Italia non esiste un altro caso simile. La letteratura artistica sull’argomento ha creato una situazio-ne per cui sembra scontato che tra i vari interventi (quello cimabuesco, quello torritiano e quello giottesco) ci siano state delle interruzioni più o meno prolungate. Ora, ragioni di plausibilità storica vorrebbero che, invece, si desse per scontato il contrario e cioè che per decorare una basilica che in quel periodo doveva apparire come la più importante della cristianità si fosse richiesto il minimo indispensabile di tempo. Possiamo credere davvero che una chiesa come questa, mèta di continui pellegrinaggi ed edificio cui erano destinate continue elemosine e donazioni potesse restare ingombra per anni e anni da vistosi ponteggi? O, altrimenti, che si smontassero e rimontassero a intervalli pon-teggi così complessi come dovevano essere questi, in un’epoca in cui non esisteva ancora il moderno sistema dei tubi Innocenti (e si ricordi quale problema non fu quello delle impalcature per la decorazione della Volta Sistina, come ci racconta il Vasari!)? Mi pare molto improbabile, e sarebbe anzi legittimo chiedersi se non fosse stata prevista fin dall’inizio la presenza di più maestranze che operassero in parallelo per completare i lavori nel più breve tempo possibile. Ma una tale eventualità è esclusa da prove molto evidenti che le varie maestranze si sono succedute l’una all’altra. Cosi, i Profeti cimabueschi nel sottarco della parete destra della quarta campata della navata (fig. 176) fanno pensare che la bottega cimabuesca abbia incominciato a decorare anche le pareti alte della navata prima di essere soppiantata dalla maestranza torritiana5 e la maestranza giottesca deve essere succeduta ad essa dal momento che ne completa l’opera nella terza campata con le due ultime «storie» rimaste da eseguire sulla parete nord (le Storie di Isacco) e perfino con almeno un santo di quelli entro cornici esagonali nella parte bassa del sottarco relativo6 (fig. 177). È stato chiarito più volte che, contemporaneamente al procedere della decorazione delle zone alte della navata da parte della équipe guidata dal Torriti, lavoravano delle maestranze di cultura più strettamente cimabuesca, attive soprattutto nella parete sini-

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stra, come quelle facenti capo al Maestro della Cattura. È stata notata anche la stretta affinità tra il Maestro della Cattura e alcune parti della decorazione ormai giottesca (fig. 18), come se, una volta allontanatisi il Torriti e la sua équipe e subentrato Giotto, quel maestro si fosse adattato ad entrare nel gruppo dei collaboratori del nuovo grande pittore7. A me pare che lo stesso discorso valga anche per l’artista - diverso dal Maestro della Cattura - che ha lavorato all’Andata al Calvario, le cui affinità con alcune parti giottesche (figg. 178, 179) sono state ugualmente notate8. Tali affinità mi pare si possano seguire fino alle Storie di san Francesco e segnatamente alla Prova del fuoco davanti al Sultano (come ha già indicato il Previtali)9 e ai Funerali di san Francesco (figg. 180, 181, 182, 183). Se è vero che il Maestro della Cattura e il Maestro dell’Andata al Calvario si sono adattati a far da collaboratori a Giotto, deve esser vero - anche - che Giotto è subentrato alla squadra del Torriti e compagni immediatamente, senza che si sia verifìcata una sostanziale interruzione dei lavori, e che le Storie di san Francesco hanno seguito senza soluzione di continuità la decorazione dei registri alti. Su quest’ultimo punto si può fare qualche osservazione ulteriore. Se non riesco a convincermi del tutto che il pittore che ha eseguito le figure inginocchiate dei Fratelli davanti a Giuseppe e le figure della Pentecoste sia tutt’uno con il Maestro della Cattura10, mi pare invece indubbia la sua presenza nelle Storie di san Francesco, dove lo si può individuare con sicurezza in quelle teste che sono modellate con un chiaroscuro un po’ pesante ed eccessivamente contrastato e che nelle vedute di tre quarti presentano una canna nasale molto caratteristica nella sua forma, irrigidita da un’ombra perfettamente diritta, come se vi fosse incollato sopra un listello di legno arrotondato (figg. 184, 185). Le osservazioni che abbiamo appena fatte ci spingerebbero a credere che la decorazione della Basilica Superiore di Assisi sia stata eseguita sostanzialmente senza soluzioni di continuità, almeno da Cimabue in poi, tanto da rendere concretamente giustificabile l’ipotesi da cui eravamo partiti, che essa si sia svolta tutta - grosso modo - sotto il pontificato di Niccolò IV, cioè all’incirca tra il 1288 e il 1292.

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Cimabue ad Assisi e la pittura umbra del Duecento. Un indizio della rapidità di successione tra la decorazione cimabuesca e quella giottesca e della loro prossimità cronologica ci viene anche dalla pittura umbra di fine Duecento. L’impatto giottesco è denunciato vistosamente da pittori come Marino da Perugia o come gli anonimi Maestro del Farneto, Maestro del Crocifisso di Montefalco, Maestro espressionista di Santa Chiara, Maestro della Croce di Gubbio, ecc., per limitarsi solo ai più antichi. Ma prima di essi si può parlare di una generazione di pittori ugualmente colpiti dalla presenza di Cimabue ad Assisi? Per rispondere a questa domanda, bisogna, naturalmente, tener conto del fatto che siamo di fronte ad una situazione più complessa di quanto si possa immaginare pensando soltanto all’intervento di Cimabue nel transetto e nel coro della Basilica Superiore di Assisi. L’esistenza nel transetto destro della Basilica Inferiore della ben nota Madonna col Bambino in trono fra angeli e san Francesco (fig. 186) sta a testimoniare di una più articolata presenza ad Assisi del pittore fiorentino11. Non mi sembra si possa dubitare, infatti, che la Madonna della Basilica Inferiore sia precedente alla Madonna di Santa Trinita (fig. 205) e quindi agli affreschi della Basilica Superiore. Senza volere entrare in questo momento nel problema della cronologia di Cimabue, a cui si accennerà più avanti, ci limiteremo qui a due osservazioni. Una riguarda le aureole, che sono ancora piatte, secondo la norma dell’affresco duecentesco, mentre nella Basilica Superiore, a seguito della novità introdotta dal pittore oltremontano, Cimabue perfezionerà il nuovo tipo di aureola rilevata e raggiata che rappresenterà la norma nell’affresco trecentesco, come abbiamo già notato a suo tempo. Un’altra osservazione che ci autorizza a credere la Madonna della Basilica Inferiore più antica degli affreschi della Basilica Superiore riguarda un elemento molto importante - come vedremo più avanti - nella figurazione cimabuesca, e cioè il trono. Proprio ad Assisi possiamo coglierne

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l’evoluzione dal tipo duecentesco, disposto allo stesso tempo frontalmente e in tralice, al tipo trecentesco, perfettamente frontale. Il trono della Madonna della Basilica Inferiore (fig. 186) è ancora quello duecentesco, la cui frontalità è contraddetta dal fatto che se ne vede lo scorcio di un lato. Nella volta della crociera della Basilica Superiore, gli Evangelisti di Cimabue (fig. 214) siedono su scranni disposti ancora in questo modo, mentre nello zoccolo del coro l’ultima delle quattro scene mariane ci fa vedere Cristo e la Madonna (fig. 187) seduti su un gigantesco trono visto solo frontalmente, che è il precedente diretto per il trono già «trecentesco» della Madonna di Santa Trinita, oggi agli Uffizi (fig. 205). L’affresco della Basilica Inferiore è mutilo, perché manca sulla sinistra una seconda figura di santo che doveva esistere in origine a riscontro del san Francesco che sta sulla destra (fig. 202). Ma è da pensare che, oltre a ciò, Cimabue avesse affrescato almeno tutto il transetto destro, se non addirittura anche la volta sopra l’altar maggiore, il coro e il transetto sinistro. Un’altra opera cimabuesca ad Assisi è il San Francesco del Museo di Santa Maria degli Angeli, la chiesa che contiene la Porziuncola dove il Santo mori. Va inoltre ricordato che una testimonianza indiretta dell’arte del pittore fiorentino era arrivata in Umbria già nel 1280, col polittico di Vigoroso da Siena, firmato e datato, che si vede nella Galleria Nazionale di Perugia, proveniente dal locale convento di Santa Giuliana (fig. 207). Con questa rete abbastanza fitta di testimonianze cimabuesche in Umbria, che possiamo ricostruire anche solo sulla base delle opere che sono arrivate fino a noi, ci aspetteremmo che la pittura umbra fosse notevolmente toccata da questa esperienza, soprattutto se fosse vero che Cimabue ha lavorato ad Assisi assai presto, intorno al 1280 o anche prima, come molti credono; se fosse vero, cioè, che i pittori umbri ebbero più di un decennio di tempo per meditare sull’opera di Cimabue, prima di essere trascinati in un’adesione così compatta alla nuova arte giottesca. Invece, a testimonianza dell’impressione suscitata da Giotto sta un grande numero di opere e un notevole gruppo di artisti; molto meno ci rimane a testimoniare l’impatto di Cimabue sulla pittura

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umbra12. Poco più che un Messale francescano miniato a Deruta (fig. 188), una bella croce dipinta a Nocera Umbra (fig. 189), in cui il Cristo sembra rifarsi direttamente a quello della celebre Crocifissione cimabue-sca del transetto sinistro di Assisi (fig. 211), nonché un modesto pittore anonimo attivo nel perugino, il Maestro di Montelabate13. A proposito del Messale di Deruta, andrà notato tuttavia che, siccome esso è in stretto rapporto con altri due messali miniati, uno nel Duomo di Atri, l’altro nel Duomo di Salerno14, nonché con la Crocifissione ad affresco nella cappella Forteguerri in Santa Maria Nuova a Viterbo, la cui data è probabilmente da leggere come 128815, viene il sospetto che l’epicentro di diffusione cimabuesca per queste opere sia stato, prima di Assisi, piuttosto Roma, dove Cimabue è documentato nel 1272 e dove la decorazione pittorica del Sancta Sanctorum, eseguita al tempo di Niccolò III, e cioè tra il 1277 e il 1280, sembra davvero costituire una delle conseguenze della presenza cimabuesca nella città dei papi16. Un altro dei pochi testi pittorici in Umbria che facciano pensare al grande pittore fiorentino sono gli affreschi delle Palazze di Spoleto (fig. 190), molti dei quali sono stati abusivamente staccati e esportati nel Museo di Worcester (Usa); e tuttavia l’interpretazione che se ne può dare - «gusto delle accentuazioni grafiche e delle coloriture espressive», «grafia spessa» e «ruvida caratterizzazione» - «lascia relativamente inattivo il modello forse troppo arduo degli affreschi cimabueschi del transetto» e fa entrare in gioco soprattutto i maestri delle prime Storie di Cristo nella navata, in particolare la Natività, la Presentazione al Tempio, la Cattura di Cristo e l’Andata al Calvario, come osserva Bruno Toscano17. E non credo sia legittimo citare in rapporto con Cimabue la croce portatile a doppia faccia della Pinacoteca di Perugia, in cui il Cristo è ormai composto e fermo sulla croce come nel Crocifisso di Giotto in Santa Maria Novella e come in altri Crocifìssi umbri di evidente estrazione giottesca. Anche nelle miniature raggruppate dal Longhi sotto la denominazione di «Primo miniatore perugino»18, se sembra apparire qualche riflesso della drammatica e clamante figurazione cimabuesca, l’espressività malinconica, grifagna e quasi jacoponica del pittore fiorentino è già superata

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nel rapprendersi di una materia più intera e solida e nella presenza di architetture-oggetto ormai giottesche. Ad esempio, nella pagina miniata col Cristo in gloria in una A di un codice della Biblioteca Augusta di Perugia19 (fig. 191), i personaggi accalcati e urlanti in basso ricordano il clima di alcune scene apocalittiche di Cimabue; ma le loro vesti sono compatte e lanose, gli angeli ai lati hanno una notevole solidità voluminosa e il Cristo è seduto su un trono ormai architettonico e moderno. Sono questi i segni più evidenti che subito dopo una prima reazione a Cimabue si sono imposte le novità giottesche. Un altro caso umbro interessante ed eloquente è quello dellaCrocifissione affrescata nel Capitolo del Duomo di Gubbio20 (fig. 192). Eseguita nel fondo di una specie di grande arcosolio, gli sguanci sono decorati con motivi vegetali bellissimi e coloratissimi, ma di tipo ancora duecentesco nella mancanza di elementi architettonici e tridimensionali. Tuttavia, il Crocifisso non ha niente da spartire con quelli sguscianti di Cimabue ma è di una compostezza che richiama alla mente una serie di Crocifissi umbri di ispirazione giottesca, come quello di Spello, quello di Montefalco, ecc., tutti assai vicini, nell’impostazione e nell’anatomia ormai regolarizzata, al grande Crocifisso eseguito da Giotto per la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella (o ad uno eseguito da Giotto per la Basilica di San Francesco e andato perduto?)21. L’interezza un po’ metallica e lo splendore cromatico, così come molti particolari, rimandano agli affreschi giotteschi della Basilica Superiore di Assisi (figg. 193, 194). Scarse e problematiche, dunque, le presenze di apprezzabili riflessi cimabueschi in Umbria, soprattutto se si confrontano con la fitta e sistematica produzione che risente della presenza di Giotto. Del resto, osserviamo questo stesso fenomeno da un altro punto divista. Uno dei capolavori della pittura umbra del Duecento è la grande ancona con al centro Santa Chiara in piedi e ai lati gli episodi salienti della sua vita, che si trova su un altare della chiesa di Santa Chiara ad Assisi. L’ascendente culturale che subito richiama alla mente, sia nel formulario figurativo che nei colori, è il co-

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siddetto Maestro del San Francesco, il grande anonimo che rimedita con sottigliezza raffinata e una certa ironia l’elegante lezione bizantineggiante di Giunta Pisano, attivo ad Assisi nella prima metà del Duecento, al tempo di Frate Elia. Ma nella tavola della Santa Chiara (figg. 13, 16) le formule del Maestro del San Francesco vengono rivestite di un impasto più vero e tenero e il racconto si fa accostante, ricco di accenti quotidiani, che vanno dagli sguardi intenti ai gesti espressivi e pronti, dalle notazioni di costume contemporaneo ai ricami moderni delle stoffe. A tutto può far pensare questo dipinto fuorché all’alto, drammatico linguaggio figurativo di Cimabue. Le figure gracili, dalle grosse teste quasi infantili, dalle braccia esilissime, sono inconfrontabili con i grandiosi personaggi del pittore fiorentino. Ora, la tavola della Santa Chiara è tanto più importante in quanto reca una data, che è il 128322. Se a questa data Cimabue avesse già eseguito i suoi affreschi nel transetto della Basilica Superiore di Assisi, possibile che il Maestro della Santa Chiara non ne risentisse minimamente? Al contrario, sembra che i pittori umbri attivi tra Perugia e Assisi siano passati da una situazione culturale come quella del Maestro del San Francesco e del Maestro della Santa Chiara alla fase giottesca. E il cosiddetto Maestro del Farneto a indicarci emblematicamente un simile fenomeno. Questo ennesimo anonimo pittore umbro prende il nome da un dossale a cinque scompartì che si trova oggi nella Pinacoteca Nazionale di Perugia, proveniente dal convento del Farneto. E stato più volte notato che la Madonna col Bambino al centro deriva da quella giottesca nel tondo centrale della controfacciata della Basilica Superiore di Assisi23. Ma il fatto sorprendente è che lì accanto la Deposizione dalla croce (fig. 196) è desunta quasi letteralmente dalla stessa composizione del Maestro del San Francesco (fig. 195) in un dossale che si trova anch’esso nella Galleria Nazionale di Perugia24. Ciò sta a indicare assai chiaramente come la pittura umbra passò dalla fase culturale del Maestro del San Francesco alla fase giottesca senza una rilevante mediazione cimabuesca. Ora, non è credibile che se gli umbri rimasero così forte-mente impressionati da Giotto, quasi nessuno di essi abbia battuto ci-

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glio di fronte alla pittura di Cimabue. La cosa si spiega soltanto se tra l’intervento di Cimabue e quello di Giotto passò così poco tempo che in Umbria non si fece in tempo ad accorgersi del primo che già il secondo lo aveva reso sorpassato e aveva attirato su di sé tutta l’attenzione con la forza delle sconvolgenti novità che proponeva. La «veduta» di Roma di Cimabue. Le conclusioni tratte da questa rassegna della pittura umbra di fine Duecento mi sembra costituiscano una chiara riprova di quanto dicevamo: che, cioè, l’intervento di Cimabue nella Basilica Superiore di Assisi spetti ad un momento assai tardo della sua attività. E la veduta di Roma, figurata per l’Italia (fig. 197), che si vede presso San Marco nella Volta degli Evangelisti non lo contraddice, anzi offre un’ulteriore indicazione nello stesso senso. Non avrei mai voluto occuparmi di questa dibattutissima questione, date le contraddittorie conclusioni che se ne sono tratte considerando la presenza degli stemmi Orsini sulla facciata del Palazzo Senatorio che vi è figurato. La proposta della Monferini25 per una datazione degli affreschi di Cimabue tra il 1280 e il 1283, sulla base di una presunta intenzione antipapale che essi conterrebbero è certamente sbagliata, come appare evidente soprattutto dopo che il Belting ha ricostruito le fila del rapporto diretto tra il papato e la costruzione e la decorazione della Basilica di Assisi26. Ma il suo intervento contiene un’utilissima, conclusiva precisazione, e cioè che gli stemmi Orsini dipinti da Cimabue sul Palazzo Senatorio sono semplicemente segni di riconoscimento del palazzo stesso, in quanto vi erano stati fatti apporre dagli Orsini nel momento in cui lo restaurarono, quando diventarono senatori di Roma al tempo di Niccolò III. Perciò essi non implicano alcuna datazione precisa, ma soltanto che l’affresco di Cimabue fu dipinto dopo che questi stemmi furono posti sulla facciata del palazzo. La ragione per cui mi soffermo su questa «veduta» è la presenza di un edificio non ancora identificato

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chiaramente tra i numerosi ben riconoscibili che vi compaiono. Si tratta della chiesa che si vede dalla tettoia del portico di facciata in su, collocata accanto al Palazzo Senatorio, sulla destra. E di sicuro una delle grandi basiliche romane, ma quale? Certo, l’antico San Pietro non era fatto cosi. L’unica basilica che le assomigli è quella di San Giovanni in Laterano27, che era la sede abituale dei papi in quel periodo, quando risiedevano a Roma, ed era anche la cattedrale della città eterna28: posta, dunque, così a proposito accanto al Palazzo Senatorio. La somiglianza con la chiesa di San Giovanni in Laterano figurata nel Sogno di Innocenzo III di Giotto (fig. 34) è evidente. San Giovanni in Laterano era dedicata al Salvatore e nella figurazione al centro della facciata, sopra il portico, si intravede infatti Cristo in piedi affiancato da due figure. A giudicare dalla predella delle Stimmate di san Francesco al Louvre, dovrebbero essere angeli. Sulla facciata dipinta da Cimabue, ad affiancare Cristo sembrano essere la Madonna da un lato e san Pietro dall’altro. Ma, nonostante questa discrepanza, ogni altra delle tre restanti grandi basiliche romane differirebbe molto di più dalla chiesa figurata da Cimabue. Se, dunque, questa chiesa è San Giovanni in Laterano, il discorso che facevamo per il Sogno di Innocenzo III sui rapporti con il papato di Niccolò IV può valere anche per gli affreschi di Cimabue. Considerare gli affreschi di Assisi opera assai tarda di Cimabue non significa sminuirne l’importanza e la qualità. La piena dei sentimenti, la profonda severità di rappresentazione, il pathos che li agita ne fanno uno dei capolavori più alti di tutta la pittura italiana. Va aggiunto, anzi, che ciò che si riesce ad intravedere da certe parti meglio conservate fa pensare ad una qualità e a una ricchezza di esecuzione sbalorditive, affidate a una materia formicolante, articolata e grassa, percorsa da guizzi improvvisi, ricoperta di colori preziosi e di continui ornati. Per capire come dipingeva Cimabue ad Assisi, bisogna vedere da vicino i busti angelici del sottarco intorno alla vetrata di fondo del transetto sinistro, che sono le cose meglio conservate di tutto il ciclo. Qui i filamenti cromatici si intessono con pittoresca libertà, fatti di colori puri e preziosi che si contrappongono e si intersecano, mesco-

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landosi in una schiumosa, stupefacente emulsione. Non c’è dubbio che, in termini pittorici, le stesure più intere e lisce degli affreschi giotteschi rappresentano un impoverimento, sia pure volontario.

Un Cimabue ormai «trecentesco». La raffigurazione di Roma (fig. 197) che abbiamo appena considerata nella Volta degli Evangelisti non è una «veduta», ma un elenco di monumenti caratterizzanti, ognuno dei quali reso ben riconoscibile. Essa richiama alla mente la «veduta» di Firenze che compare sotto la Madonna della Misericordia in un noto affresco della sala dei Capitani nell’oratorio del Bigallo (fig. 198), datato 134229. Anche questa raffigurazione reca una serie di monumenti ben riconoscibili della Firenze di allora e descritti in maniera tale che possiamo renderci conto del punto cui erano arrivati in quell’anno i lavori della facciata del Duomo e del Campanile di Giotto30; e tuttavia questi singoli monumenti non sono disposti in «veduta», cioè non viene rispettata la loro collocazione topografica, esattamente come nella raffigurazione di Roma ad Assisi. Cimabue vi appare allora, visto in questa prospettiva, con pensieri già «trecenteschi», per quanto riguarda la resa della realtà visiva, o - vogliamo dire - la rappresentazione dello spazio. E un aspetto che riguarda varie parti dell’opera assisiate del pittore fiorentino. Basti pensare all’invenzione del finto architrave dipinto sopra gli affreschi dello zoccolo, al carattere di voluminosità quasi illusiva che assumono certi «oggetti architettonici», come l’impalcatura lignea al centro della Caduta di Simon Mago o la piramide di Caio Cestio e la probabile meta Romuli ai lati della Crocifissione di san Pietro. Ma l’attenzione di Cimabue per questi aspetti «oggettuali» e tridimensionali non sembra costante e sistematica: nel Transito della Vergine (fig. 199) si ha l’invenzione forse più sorprendente del pittore in ordine alla rappresentazione dello spazio: le figure sono collocate sotto una specie di loggia limitata da due archi trilobati, uno dei quali sta in primo piano, l’altro sul

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piano di fondo; la figura in piedi sulla destra si colloca esattamente nella striscia di spazio coperta da questa architettura e la puntualità di tale collocazione è resa controllabile da uno straordinario stratagemma: l’aureola dell’apostolo è tagliata dall’arco antistante ma non da quello retrostante. Una così precisa connotazione di spazio è completamente annullata nella scena successiva, situata nello stesso ambiente, dove le figure stanno tutte davanti all’arco antistante (fig. 200). Questa mancanza di coerenza suscita il sospetto che le idee attuate da Cimabue ad Assisi in ordine alla rappresentazione dello spazio si sovrappongano alle sue intenzioni artistiche, invece di integrarsi in esse. Eppure è proprio su questi aspetti che si basa sostanzialmente il nostro giudizio su Cimabue come precursore della spaziosità e della voluminosità di Giotto31. Ma un simile giudizio centra davvero le intenzioni artistiche di Cimabue? Era davvero con una posizione come questa che il grande artista fiorentino tenne, a dire di Dante, il campo nella pittura prima della comparsa di Giotto? Io ne dubito fortemente e sono convinto che questa lettura in chiave di precursore di Giotto non ha punto giovato a Cimabue, perché lo ha relegato in una posizione acerba e imperfetta, quella di una crisalide da cui sarebbe sbocciato Giotto: Dante non ne avrebbe parlato nei termini in cui ne ha parlato se Cimabue fosse stato solo questo. Una simile immagine è sostanzialmente quella impostata nel momento del primo assestamento positivo dell’opera del grande pittore fiorentino dopo il terribile dubbio storiografico sollevato agli inizi di questo secolo sulla esistenza di Cimabue, o almeno sulla possibilità di recuperare la sua identità artistica. Com’è noto, il Vasari aveva posto al centro della sua Vita di Cimabue la Madonna Rucellai (fig. 204), considerandola il suo capolavoro. Alla fine dell’Ottocento ci si rese conto che questo dipinto non era opera di Cimabue32. Da qui, un crollo di fiducia nel Vasari e un notevole scetticismo sulla figura stessa di Cimabue, al punto che molti importanti storici dell’arte, tra i quali lo Schlosser33, pensarono che rappresentasse per noi moderni niente più che una leggenda. A far barriera contro questo scetticismo restava abbastanza poco:

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la figura a mosaico dell’abside del Duomo di Pisa (fig. 201), unica opera documentata dell’artista34. Tuttavia, era possibile aggregare ad essa la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi (figg. 205, 202). Il recupero su questa base della personalità artistica di Cimabue ebbe la sua consacrazione nella fondamentale monografia del Nicholson del del 193235. Malauguratamente, il San Giovanni di Pisa è un’opera tardissima del pittore, eseguita nel 1301-302. Viene, allora, il sospetto che la coerenza tra questo, la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi sia dovuta principalmente al fatto che sono anch’essi opere tarde e che di Cimabue ci siamo fatti un’idea inesatta, parziale, basata soprattutto sulla sua attività tarda. Dipinti come il Crocifisso di Santa Croce (figg. 206, 209, 228)e la Madonna del Louvre, certo più remoti dal mosaico pisano, sono stati guardati con molto sospetto. II riconoscimento del Crocifisso di Santa Croce come un capolavoro di Cimabue è un fatto relativamente recente. Nella monografia di Nicholson si legge di una sua «mancanza di vigore»36, che lo fa considerare come un’opera solo parzialmente eseguita da Cimabue. Per la Madonna del Louvre (fig. 203), il Nicholson parla addirittura di «inerzia uniforme»37, che gliela fa escludere dal catalogo delle opere dell’artista. Questi giudizi negativi hanno condizionato anche molta parte della letteratura successiva, ivi compresa la monografia del Battisti38, che, considerando già risolto il «problema Cimabue», ha finito per non fargli fare alcun passo avanti.

Un contesto cimabuesco degli anni ottanta. Invece, l’immagine che abbiamo del grande pittore fiorentino è ancora molto sfocata. Le notizie sicure che sono arrivate fino a noi sono incredibilmente scarse per un artista della levatura che i versi danteschi ci lasciano indovinare. Né sulla sua fisionomia artistica e sul significato della sua arte, né sulla sua evoluzione e la sua cronologia si hanno le idee chiare. Eppure credo sia possibile ricavare numerose indicazioni da uno studio paziente del-

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la pittura contemporanea, da Deodato Orlandi al Maestro della Maddalena, da Meliore a Manfredino da Pistola, ma soprattutto tenendo ben presente un gruppo di opere che, essendo sicuramente collocabili negli anni ottanta del Duecento, lungo una linea di sviluppo estremamente significativa, costituiscono importantissimi punti fermi di un contesto cimabuesco. Fra queste opere, la Madonna Rucellai (fig. 204), oggi agli Uffìzi, si rivela di un’importanza capitale. Com’è noto, essa fu commissionata a Duccio di Buoninsegna nel 1285 per la cappella dei Laudesi in Santa Maria Novella. Le incertezze sulla sua attribuzione al grande pittore senese, e quindi sul suo collegamento col documento del 1285, sono durate a lungo e ancora nel 1951 il Toesca faceva fatica a superarle39. Nella sua opera sul Medioevo, egli aveva puntato l’indice sulle straordinarie affinità di questa figurazione con la grande Maestà cimabuesca del Louvre40 (fig. 203), proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa. E in effetti è difficile dargli torto: le due tavole si richiamano strettamente nelle loro linee essenziali, più di quanto la stessa Madonna di Santa Trinita (fig. 205) si richiami a quella del Louvre. Intanto, è identica l’idea della cornice ornata di liste decorative che si alternano a dei tondini con mezze figure sacre; idea che viene abbandonata nella Madonna di Santa Trinita, per una decorazione più semplice, simile a quella che Giotto userà per la Madonna di Ognissanti. Ad avvicinare la Madonna del Louvre alla Madonna Rucellai, più che alla Madonna di Santa Trinita, sono poi, oltre alla presenza di tre coppie di angeli, il largo gesto benedicente del Bambino che allunga il braccio destro davanti al busto della madre, la mano destra di lei che si abbassa fino a toccare il ginocchio del figlio. Infine, il volto della Madonna, mestamente reclinato, si ripete quasi tratto per tratto, come se fosse stato utilizzato lo stesso disegno. E, a guardar bene, c’è anche una notevole consonanza nella preferenza per un tipo di panneggio che fascia i corpi con stoffe leggere che si piegano fittamente; il fremito stupendo di pieghe lunghe e fitte del manto che fascia la Madonna del Louvre non ha riscontro nella Madonna Rucellai, in cui

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è scomparso il modellato del manto, ma ha delle straordinarie controparti nei panneggi degli angeli, trasparenti e impalpabili (fig. 229). Queste evidenti affinità fra due dipinti di due diversi, grandissimi artisti li legano in una stretta unità cronologica, mentre li allontanano nel tempo dalla Madonna di Santa Trinita (fig. 205). È, quest’ultima, un’opera assai più tarda delle altre due e molte cose lo stanno ad indicare; la più importante è la forma del trono. Nella Madonna Rucellai e in quella del Louvre (figg. 204, 203) il trono è collocato in tralice ed ha la forma di uno straordinario, complicatissimo scranno di legno a fitte torniture, come a rocchetti montati uno sull’altro, che ne rendono estremamente elaborata la struttura, arricchita anche da intagli e da filamenti d’oro. Molta di questa sontuosità e leggerezza è perduta nel trono della Madonna di Santa Trinita. Esso è divenuto più solido e simile ad un’architettura e inoltre non è più visto in tralice ma frontalmente, in asse col dipinto. È, questo, un cambiamento in linea con le nuove idee che informeranno tutta la pittura del Trecento italiano e che nel contesto delle opere di Duccio e dei suoi seguaci immediati si può seguire quasi passo passo, fino al grande trono architettonico e frontale della Maestà del Duomo di Siena. Un momento intermedio è rappresentato dalla tavola eponima del Maestro di Badia a Isola, dove il trono è già frontale e architettonico, ma l’incoerenza del suppedaneo in tralice denuncia ancora il ricordo della impostazione più arcaica. Che il trono della Madonna del Louvre sia quello più tipicamente cimabuesco sta ad indicarcelo il fatto che ha più o meno la stessa forma e la stessa impostazione anche nelle altre due Madonne più sicuramente cimabuesche che sono arrivate fino a noi, quella del transetto destro della Basilica Inferiore di Assisi (fig. 186) e quella della chiesa dei Servi di Bologna. Il trono della Madonna di Santa Trinita (fig. 205) rappresenta, invece, una novità41. Anche altri indizi ci dicono che la Madonna di Santa Trinita è più tarda di quella del Louvre. Per esempio, l’aureola: meno ampia che nella tavola parigina, è bordata da una fila di punti scuri, ad imitazione di gemme, come si usa a Firenze in un momento assai circoscritto, che riguarda anche opere di Giotto come la Ma-

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donna di San Giorgio alla Costa, la tavola firmata con le Stimmate di san Francesco al Louvre, il polittico di Badia agli Uffizi (figg. 75, 76,107); invece, questo motivo non si vedrà più nelle tavole dalla Madonna di Ognissanti in poi. Esso indicherebbe, dunque, per la Madonna di Santa Trinita, una collocazione cronologica tra l’ultimo decennio del Due e gli inizi del Trecento. Ma vi è un’altra caratteristica che, per quanto minima possa sembrare, costituisce un tratto inequivocabile delle opere tarde di Cimabue, dal momento che si trova nel San Giovanni Evangelista del mosaico absidale del Duomo di Pisa, eseguito dall’artista fiorentino nel 1301-302, come sappiamo. Mentre nel Crocifisso di Santa Croce (fig. 206), nella Madonna del Louvre e perfino nella Madonna Rucellai il naso tende a incurvarsi come un becco aquilino, a Pisa esso è invece più diritto e regolare (fig. 201) e la narice, posta obliquamente, sale quasi a produrre un’incisione nella carne, come accade sistematicamente nella Madonna di Santa Trinita e mai nella Madonna del Louvre e nel Crocifisso di Santa Croce. Questo tratto distintivo compare già, invece, negli affreschi di Assisi (fig. 208), coi quali infatti la Madonna di Santa Trinita è messa di solito in rapporto cronologico. In effetti, mi sembra ci siano pochi dubbi sul fatto che gli affreschi di Assisi, la Madonna di Santa Trinita e il San Giovanni Evangelista di Pisa si legano bene insieme, in un gruppo che costituisce l’opera tarda di Cimabue. In questi dipinti, il tono espressivo della figurazione, per quanto rimanga corrucciato, si fa meno cupo, fino a raggiungere i sensi di una tenerezza struggente; il cromatismo metallico e minerale delle opere precedenti si scioglie in una tessitura più soffice e quasi piumosa; le capigliature si gonfiano, i panneggi si arruffano e si gualciscono, le corporature si fanno più robuste e squadrate, con un crescendo che va dagli affreschi di Assisi alla Madonna di Santa Trinita al mosaico di Pisa. L’evoluzione dalla torva, aggrondata mestizia della Madonna del Louvre alla più distesa e quasi sorridente atmosfera della Madonna di Santa Trinita passa anche attraverso opere come la Madonna Rucellai di Duccio. Se essa si appoggia, culturalmente, alla Madonna del Louvre, segna anche un avanzamento rispetto ad es-

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sa e la traduce in una forma più gentile. Nei suoi effetti di limpida trasparenza cromatica, di intonazione fredda ma chiara e preziosa, sembrano come purgarsi i toni cupi e scuri della Madonna del Louvre (fig. 203), violentemente contrastati dal bagliore cromatico delle ali degli angeli. Per questi aspetti, la Madonna del Louvre trova forti consonanze con il dossale di Vigoroso da Siena della Pinacoteca di Perugia (fig. 207), che reca la firma e una data lacunosa, da interpretare come 1280, stando alla testimonianza di chi l’ha studiata durante un restauro di qualche tempo fa42. Si legge qui la stessa atmosfera cupa, dovuta sia alle espressioni aggrondate delle figure che alla preparazione scura degli incarnati, sulla quale il volto viene modellato attraverso una trama accuratissima di sottili striature di biacca, che creano come dei bagliori metallici. Se nel 1280 Cimabue avesse già eseguito la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi, così pittorici, soffici e sciolti, ci aspetteremmo che il cimabuesco Vigoroso ne avesse accusato qualche sintomo, e sarebbe diffìcile giustificare il fatto che continui perfino ad accogliere la formula «greca» di segnare con una placca rossa le guance delle figure. Anche il celebre Crocifisso di Santa Croce, semidistrutto dall’alluvione del 1966, partecipa della stessa atmosfera cupa della Madonna del Louvre e della tavola di Vigoroso da Siena. I tratti del volto dei due dolenti (fig. 206) sono fortemente segnati e assoggettati a scomposizioni astrattive; le loro fisionomie adunche sono diverse da quelle della Madonna di Santa Trinita e non vi si vedono ancora le narici dal taglio saliente che caratterizzano le opere più tarde come il San Giovanni Evangelista del mosaico absidale del Duomo di Pisa (fig. 201). Il naso adunco è come cubizzato e costruito a spigoli vivi, secondo una concezione figurativa molto più astratta, in confronto alla quale la Madonna di Santa Trinita e il San Giovanni di Pisa appaiono di una grande naturalezza. Che la Madonna del Crocifisso di Santa Croce sia notevolmente più antica lo stanno ad indicare anche altre particolarità, come le grosse striature chiare in cui è suddiviso il chiaroscuro del modellato tra il naso e la bocca, secondo un metodo pittorico che risale almeno a Giunta Pisano e in confronto al quale la pittura di Cimabue si pone, nel suo in-

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sieme, come un superamento, mirando piuttosto a effetti di trasparenza, qui leggibili soprattutto nel Cristo. Il modellato del corpo è di una tenerezza così soffice, il perizoma (fig. 228) di una trasparenza pittorica così sottile da farci comprendere l’ammirazione che un giovane di genio come Duccio poteva nutrire per Cimabue. Abbiamo qui, infatti, il precedente più diretto per quei giochi di trasparenza, per quei veli impalpabili che si vedono nella Madonna Rucellai (fig. 229). Sulla precocità del Crocifisso di Santa Croce abbiamo non solo la ben nota testimonianza del Crocifisso del 1287 di Deodato Orlandi43, ma anche quella degli affreschi nella ex chiesa di San Giovanni Evangelista a Montelupo Fiorentino, firmati da Corso di Buono e datati 128444. È soprattutto il fatto che per qualcuna delle sue figure questo pittore utilizzi il modulo faciale del Crocifisso di Santa Croce (figg. 209, 210) ad assicurarci che a quella data esso esisteva già.

Il vero Cimabue. Se dipinti come il Crocifisso di Santa Croce e la Madonna del Louvre vanno collocati prima del 1284-85, bisogna pensare che è sugli ideali artistici rappresentati da essi che si doveva fondare la grande reputazione che Cimabue godette presso i contemporanei prima della comparsa di Giotto, piuttosto che su opere del genere della tarda Madonna di Santa Trinita o anche, probabilmente, degli affreschi di Assisi. Abbiamo sollevato dei dubbi sulla coerenza di questi affreschi in ordine alla rappresentazione dello spazio e alla concezione voluminosa e tridimensionale delle cose raffigurate; ma soprattutto dei dubbi sul fatto che questi aspetti centrino davvero il significato reale dell’arte di Cimabue. Bisognerà ricordarsi che, nonostante le puntualizzazioni fatte sull’importanza di certi raggiungimenti di Cimabue ad Assisi per la storia della pittura prospettica, l’ammirazione incondizionata di tutti è sempre andata alla Crocifissione del transetto sinistro, certo il capolavoro del grande pittore fiorentino, ma un capolavoro arcaico e medievale, o, come è stato definito talvolta, reazionario45, nel

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quale non sono implicati gli elementi progressisti di prefigurazione della spaziosità e voluminosità trecentesche. La composizione è ribaltata in superficie, concepita in termini bidimensionali, e qualunque pittore del Trecento avrebbe potuto ironizzare sui personaggi a destra che sembrano pestarsi i piedi, perché disposti secondo un criterio che partecipa ancora di una concezione arcaica dello spazio figurato, in cui manca la nozione della tridimensionalità. Avrebbe certamente ironizzato anche sul fatto che ad una folla con tante teste corrispondano così pochi piedi. Con tutto ciò, rimane il sospetto che il vero Cimabue sia proprio questo e che la Crocifissione di Assisi sia il capolavoro che è proprio perché non implica problemi di tridimensionalità e di volume, come accade anche per il Crocifisso di Santa Croce e per la Madonna del Louvre. Sarebbe difficile negare che il Cristo di Santa Croce (figg. 209, 228) corrisponda nella formulazione a quello di Assisi, salvo l’idea formidabile del perizoma drammaticamente svolazzante, che è connessa con la funzione narrativa dell’affresco. Prima dell’alluvione del 1966 il Crocifisso di Santa Croce ci avrebbe aiutato a ricostruire anche le qualità pittoriche di quello assisiate, ridotto a poco più di una larva. Mi domando se il Nicholson, nonostante l’implicito giudizio negativo sulla qualità artistica, non offrisse involontariamente una chiave di lettura in termini positivi del Cristo di Santa Croce, quando parlava di «mancanza di vigore». Di fatto, è come se questa gigantesca figura fosse stata sfibrata dalla morte e le fosse sopravvenuta una misteriosa, infinita debolezza, una sublime «mancanza di vigore», appunto. Ha un grandioso scarto patetico, come una gigantesca canna piegata dal vento. L’arco formato dal corpo che scarta lateralmente è un motivo dell’arte bizantina che era già stato utilizzato stupendamente da Giunta Pisano. Lo stesso Cimabue lo aveva fatto proprio nel Crocifisso giovanile di San Domenico ad Arezzo. Ma a Santa Croce egli rielabora questo motivo, sforzandolo ed enfatizzandolo pateticamente. E il corpo di un gigante senza spina dorsale, abbandonato in una sublime mollezza, come se nella morte la struttura ossea si fosse trasfor-

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mata in cartilagine. Il corpo, di una lunghezza abnorme, si dilata sui fianchi in una conformazione quasi femminea. E proprio nel modellato del corpo di Cristo (figg. 209, 228) che, prima dell’alluvione del 1966, si potevano cogliere in questa tavola i più densi e sottili effetti pittorici. Si poteva giudicare appieno della qualità straordinariamente molle e soffice di questo corpo anomalo, la cui pelle è realizzata attraverso striature sottili condotte in punta di pennello che sembrano fili lucenti di un tessuto di seta finissima. Della sublime trasparenza del perizoma e dell’impressione che effetti pittorici così raffinati dovevano fare sul giovane Duccio al tempo della Madonna Rucellai abbiamo già parlato. Io mi schiero, poi, con molta convinzione, dalla parte di coloro che considerano anche la Madonna del Louvre (fig. 203) uno dei capolavori di Cimabue e che ne spiegano la divergenza dalle sue opere più sicure con una cronologia più antica46. Il corpo straordinariamente sviluppato in altezza, il naso a becco, le mani artigliate, l’espressione aggrondata e come di cattivo umore, la nota quasi vedovile del manto scuro che l’avvolge completamente convogliano sull’immagine di questa Madonna la sensazione di un idolo lontano, appollaiato sul suo trono sontuoso. E certo, comunque, che, diversamente dalla Madonna di Santa Trinita in cui si respira un’atmosfera più sorridente, qui si vuole esprimere nella madre di Cristo il turbamento di colei che conosce il tragico destino del figlio. L’invadente sedile di legno tornito e fittamente decorato è una delle più geniali idee figurative di Cimabue, non razionale costruzione inserita nello spazio, ma fantastica lievitazione di un tema di origine bizantina tradotto in carolingio, come in un trono di Lotario o di Witekindo47. Su questo trono, la Madonna sembra librarsi oscillando, invece che sedere. Il manto blu la fascia strettamente, moltipllcandosi in un fremito leggero di pieghe fitte e sottili e aderendo al corpo come in una statua di togato antico. L’aureola gigantesca si confonde con l’oro del fondo e crea con esso un improvviso, misterioso vuoto, che da una sensazione di vertigine, confermata in basso dai trafori del trono a giorno che più che appoggiato su una solida base lo fanno sembrare so-

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speso su un vuoto incommensurabile. Gli angeli stessi, i cui gesti indicano che sono loro a tener fermo il trono, non hanno una razionale collocazione nello spazio. La loro bellezza è nelle loro sontuose acconciature orientaleggianti, nelle loro vesti di veli dalle tinte raffinate e preziose, cui manca poco per assumere la trasparenza impalpabile di quelli di Duccio nella Madonna Rucellai. Le loro ali sono di uno splendore favoloso: coloratissime in secondo piano, sembrano ardere come fuoco vivido o accogliere un’esplosione luminosa che stacca quasi in controluce le piume scure in primo piano. Questo cromatismo denso e raffinato, fatto di accensioni improvvise che si staccano su tonalità scure, in cui la materia sembra farsi cupa, costituisce uno degli aspetti più nuovi della pittura di Cimabue, che utilizza gli effetti di lustro metallico di origine bizantina portandoli ad un grado di trasparenza e sottigliezza che, se non vado errato, il Medioevo occidentale non aveva ancora conosciuto. Chi non riuscisse a valutare la suprema qualità pittorica di questo dipinto a causa delle svelature della superficie nella figurazione principale potrà apprezzarla nelle figurette a mezzo busto entro i tondini della cornice, alcune delle quali sono perfettamente conservate. Il Crocifisso di Santa Croce e la Madonna del Louvre credo si possano giudicare a buon diritto le due uniche opere sopravvissute di quel momento dell’attività di Cimabue per cui venne considerato il più grande pittore della generazione precedente a Giotto. È intorno al 1280 che egli doveva occupare quella posizione centrale nel campo della pittura cui alludono i celebri versi danteschi. Operante in una città come Firenze, che fino a quel momento era stata un centro artistico di un’importanza relativa, certo imparagonabile con Pisa, Roma e perfino Assisi, Cimabue aveva ricevuto commissioni importantissime da Arezzo (dove pure lavorava Margarito), da Pisa stessa (in cui lavoravano Ugolino di Tedice e il Maestro di San Martino); ed era stato a Roma dove le conseguenze del suo precoce soggiorno sono leggibili (io credo) nella decorazione del Sancta Sanctorum del tempo di Niccolò III, cioè della fine degli anni settanta48. Probabilmente, è dalla città

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papale che le sue idee si diffondono fino a Viterbo (Crocifissione Forteguerri in Santa Maria Nuova) e in Umbria (miniatore di Deruta). Cimabue attrae nella sua orbita anche Manfredino da Pistoia49 e, quanto agli artisti senesi, il caso di Duccio è preceduto da quello di Vigoroso, mentre anche il dossale di San Pietro e quello di San Francesco nella Pinacoteca, o numerosi codici miniati per il Duomo, rappresentano casi senesi di rapporti con Cimabue paralleli a quello di Duccio50. D’altra parte, il legame con Cimabue non impedisce a Duccio di mantenere una posizione originalissima. Il fragile e tremulo arabesco - di evidente ispirazione gotica - disegnato dai bordi del manto nella Madonna Rucellai (fig. 204) sarebbe impensabile nel pittore fiorentino. Né ci aspetteremmo mai di trovare in Cimabue, tra gli intagli e le decorazioni dei troni di tradizione bizantina, le minuscole bifore archiacute che si vedono nella Madonna Rucellai. Siamo, insomma, di fronte ad un pittore prontissimo a tentare ogni sperimentazione e a captare ogni novità nel momento stesso in cui si presentava. La vetrata del Duomo di Siena del 1287-88. Niente lo dimostra meglio della vetrata circolare dell’abside del Duomo di Siena (figg. 213, 215), che i documenti riferiscono al 1287-8851, due o tre anni dopo la Madonna Rucellai. Nonostante l’enorme divario di tecnica e di dimensioni, essa va letta d’un fiato con la minuscola Maestà del Museo di Berna (figg. 215, 216), un dipinto che nonostante le riserve espresse di recente sarà difficile escludere dal catalogo di Duccio, data la sua strettissima affinità stilistica e qualitativa con la Madonna dei francescani52. La vetrata del Duomo di Siena e la piccola Maestà di Berna (figg. 217, 218) sono connesse tra loro dal nuovissimo e in tutto affine interesse per la rappresentazione dello spazio, che vi appare spinto fino ad uno stadio cui Cimabue non è mai arrivato, ne negli affreschi di Assisi ne nella Madonna di Santa Trinita. I troni dei quattro Evangelisti e quello di Cristo e di Maria nell’Incoronazione della vetrata (figg. 213, 215) senese sono le più antiche testi-

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monianze arrivate fino a noi di un trono architettonico raffigurato in pittura (che tale è sostanzialmente la vetrata senese)53. E lo stesso trono che si vede nella Maestà di Berna, decorato da identici intarsi marmorei a piccole liste con losanghe chiare su fondo scuro. I troni di Cimabue ad Assisi sono ancora quelli bizantini di legno tornito, mentre il trono della Madonna di Santa Trinita rimane a metà strada fra i due tipi, nonostante la sua più evoluta sistemazione frontale. Questo fatto, insieme alla utilizzazione di cornici mistilinee di fattura ormai gotica quali sarebbero impensabili in Cimabue, rende inaccettabile l’attribuzione della vetrata a quest’ultimo artista proposta dal White54. È, comunque, una proposta che va tenuta in considerazione come ulteriore testimonianza della cultura cimabuesca di Duccio. Anche la perfetta identità che abbiamo notato, sotto l’aspetto della raffigurazione del trono, fra la vetrata del Duomo di Siena e la piccola Maestà di Berna (figg. 215, 216) ci obbliga a riconsiderare queste due opere nell’ambito della produzione di Duccio, dopo le recenti proposte in contrario. Che la vetrata sia un lavoro della seconda metà del Trecento, come crede lo Stubblebine55, apparirà impossibile a chiunque abbia anche un’idea vaga dell’evoluzione figurativa di quel secolo, soprattutto in una città come Siena, dove la maniera «greca» che ancora caratterizza la vetrata fu sentita come sorpassata fin dagli inizi del Trecento, quando si facevano ridipingere in forma più moderna dipinti come la Madonna dei Servi di Coppo di Marcovaldo o la Madonna di San Domenico di Guido da Siena. Del resto, basti l’osservazione del Carli che tra i protettori di Siena vi si trova ancora san Bartolomeo invece di san Vittore, che lo sostituirà dalla Maestà di Duccio in avanti56, ad assicurarci che si tratta di un’opera assai più antica di quanto pensi lo Stubblebine. Del carattere strettamente duccesco della vetrata ci assicurano, oltre ai rapporti con la piccola Maestà di Berna, alcune parti meglio leggibili come l’Incoronazione della Vergine, dove gli angeli (fig. 220) mostrano un garbo e una gentilezza molto maggiori di quanto non accada mai in Cimabue, mentre i tratti dei loro volti sono più minuti e graziosi. La mano aperta della Vergine ha una deforma-

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zione tipica di Duccio giovane ed è quasi sovrapponibile alla destra della Madonna di Crevole (figg. 219, 220). Inoltre, la stoffa gettata sulla spalliera del trono dell’evangelista Matteo (fig. 213) ha lo stesso carattere di fondo disegnato a motivi geometrici ripetuti, con un effetto di rivestimento di piastrelle in maiolica, che caratterizza anche la stoffa dietro la Madonna dei francescani. Nella figura di san Savino si colgono, nonostante le cattive condizioni del modellato, gli stessi tratti ascetici e sfinati del San Gregorio nello sportello destro del tabernacolo del Museo di Boston (figg. 221, 222). Nella Dormitio Virginis, il giovane apostolo sbarbato che si china sul corpo della Madonna fa già pensare ai dolenti che si chinano sul corpo di Cristo nella Deposizione sul retro della Maestà. Insomma, troppi aspetti della figurazione della vetrata rimandano direttamente a Duccio perché si possa dubitare che sia lui l’autore almeno del disegno o del cartone, se anche non ha delineato e chiaroscurato alcune parti direttamente sul vetro. Del resto mantengono ancora un grande peso le argomentazioni in questo senso del Carli, la cui attribuzione a Duccio della vetrata del Duomo di Siena rimane, a mio avviso, uno dei suoi contributi più importanti alla storia dell’arte italiana.

Alla ricerca di un Giotto giovanissimo. Ma è venuto il momento di chiedersi che cosa è accaduto a Duccio in questi pochi anni che separano la Madonna Rucellai dalla vetrata senese. E certo che nel contesto cimabuesco così come viene formulandosi fino al 1285 col polittico perugino di Vigoroso del 1280, con gli affreschi di Corso di Buono a Montelupo del 1284 e infine con la Madonna Rucellai del 1285, che tra le opere di Cimabue trovano le loro premesse nel Crocifisso di Santa Croce e nella Maestà del Louvre, non vi è alcun cenno a interessi per la rappresentazione dello spazio in senso trecentesco. Nella Madonna del Louvre (fig. 203) non si sa dove gli angeli trovino posto per poggiare i piedi. Gli ambienti architettonici di Corso di Buono non sono certo

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ispirati da una nuova problematica spaziosa. Nella Madonna Rucellai (fig. 204) quattro dei sei angeli si inginocchiano irrazionalmente sul vuoto del fondo oro. Sulle nuove esperienze con cui si è trovato a confronto Duccio nei due o tre anni che separano la Madonna Rucellai e la vetrata del Duomo di Siena si possono fare molte supposizioni, ma una mi sembra più verosimile delle altre. Il secondo Commentario del Ghiberti ci fornisce le notizie più serie e attendibili sull’arte del Trecento. La sua serietà appare evidente anche dal fatto che non concede niente alla aneddotica che sarà tanto cara al Vasari, e per la quale poteva fornire molti spunti la novellistica trecentesca. Tuttavia, un aneddoto di sapore leggendario è presente anche nel Ghiberti ed è quello celebre su Giotto fanciullo che viene scoperto da Cimabue mentre sta ritraendo una pecora57. Mi chiedo se il sapore leggendario di questo aneddoto non sia stato la causa principale di un atteggiamento sostanzialmente negativo da parte della critica sui rapporti da maestro ad allievo tra i due grandi pittori58. Venendoci da una fonte seria come il Ghiberti, mi chiedo se anche questo episodio non nasconda, invece, una profonda verità e non sia simbolo proprio di quella situazione e di quel rapporto59. Come si è già notato, molte delle differenze che l’Offner vedeva giustamente nelle Storie di san Francesco ad Assisi in confronto agli affreschi della cappella Scrovegni sono segni di arcaismo, segni di un retaggio cimabuesco. Se poi ci spostiamo nei registri alti della navata della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco e dalla successiva Volta dei Dottori in avanti, questi richiami si fanno ancora più intensi, e di recente il Brandi li ha messi benissimo in evidenza, soprattutto facendo riferimento ai panneggi «prismatici»60. E le opere di Cimabue che richiamano sono proprio quelle del momento del Crocifìsso di Santa Croce e della Madonna del Louvre. Il naso costruito a spigoli vivi, la strozzatura del polso (figg. 58, 60, 69) si spiegano con un rimando alle scomposizioni astrattive e cubizzanti presenti in quei dipinti di Cimabue (fig. 206): scomposizioni che tendono a scomparire nelle opere successive. C’è, in particolare, un dipinto su tavola di ambiente cimabue-

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sco che presenta speciali consonanze con gli affreschi di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti, ed è la Madonna della Propositura di Castelfiorentino (fig. 223). Entrata da tempo nella discussione sui rapporti fra Cimabue e Duccio, questa tavola, la cui altissima qualità va giudicata al di là di uno stato di conservazione non del tutto soddisfacente, impressiona per l’espansione grandiosa della sagoma della Madonna e per il suo calcolato inquadrarsi entro la superficie disponibile. La qualità trasparente e preziosa dell’incarnato della Vergine sembra essere affine al Duccio della Madonna Rucellai e della Madonna di Crevole (fig. 219), ma il Bambino, vivace e insieme potente ed erculeo, non ha paralleli nel pittore senese e nemmeno nello stesso Cimabue. Esso richiama piuttosto i putti ai quattro angoli della Volta dei Dottori nella Basilica. Superiore di Assisi (figg. 223-26), come ha notato recentemente anche il Bologna62. Il modellato dà forma ad una anatomia massiccia, che allude ad un peso vero e ad un reale ingombro fisico del corpo. Le membra aggettano con una forza che supera la trasparenza della materia. Le affinità arrivano fino a certi particolari, come il filo bianco di luce che disegna il labbro superiore. La veste del Bambino è, anch’essa, di una materia lucida e trasparente, ma mentre in Duccio diventa un velo leggero e impalpabile che sembra lasciar trasparire davvero ciò che sta sotto (fig. 229), nel Bambino di Castelfiorentino essa mantiene una tensione nei lustri metallici e nei taglienti sottosquadri delle pieghe tali da evidenziare l’aggetto della coscia, del ginocchio e della gamba piuttosto che il loro trasparire sotto la stoffa (fig. 225). Sono aspetti che, se non vedo male, caratterizzano anche gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti. Ad esempio, nella scena con Isacco che respinge Esau, il lenzuolo del letto su cui il patriarca è disteso (fig. 227) è realizzato con pieghe a sottosquadri taglienti e tesi, e modellato per mezzo di una sorta di alone lustro e metallico nella zona in cui emerge il gonfiore del materasso sottostante, da richiamare invincibilmente il comportamento del pittore che ha dipinto la veste del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino. Anche nelle Storie di san Francesco, i chiari con cui sono indicati gli aggetti sotto la stoffa con-

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servano ancora molto della qualità lucente e metallica che si vedeva nella Madonna di Castelfiorentino (figg. 88, 225). La Madonna di Castelfiorentino, col suo preludere alla pittura per aggetti voluminosi che caratterizzerà le Storie di Isacco e il seguito degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, sta ad indicare la possibilità di una nuova, bruciante presenza accanto al vecchio Cimabue e al giovane Duccio; sta ad indicarlo con intensità ancora maggiore la vetrata del Duomo di Siena. Giotto fu colui che sollevò la problematica della rappresentazione dello spazio al livello più alto in tutto il Trecento. Fino a Masaccio, nessuno si comportò mai con più rigore e coerenza di lui nei confronti di questo aspetto nuovo della pittura. Allora, di fronte al sostanziale disinteresse per la rappresentazione razionale dello spazio in ambito cimabuesco almeno fino al 1285 circa, la comparsa delle prime allusioni a questo problema nella vetrata del Duomo di Siena del 1287-88 ci autorizza a formulare l’ipotesi emozionante che a quella data le idee di Giotto avessero già incominciato a farsi strada63. E ognuno può vedere le conseguenze di un’ipotesi come questa per i grandi problemi ancora aperti riguardanti le vicende della pittura italiana nel suo passaggio da una figurazione di tradizione ancora bizantineggiante alle grandi novità trecentesche.

Il ruolo del giovane Duccio. Dovremmo immaginare delle discussioni di un interesse straordinario, di una portata enorme, tra il vecchio Cimabue, il giovane Duccio e il giovanissimo Giotto. E va tenuto ben presente che in questo alto consesso la voce di Duccio deve avere avuto una grande autorevolezza. Lo dimostra il fatto che molti cimabueschi fiorentini presentano aspetti di raffinatezza cromatica e figurativa per cui si è parlato spesso di affinità con Siena (e mi riferisco a casi come la Madonna di San Remigio, il Crocifisso del Carmine ora nella Galleria dell’Accademia, o il Crocifisso di Paterno). Lo dimostra l’attribuzione a Duccio che si è proposta non

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solo per alcune parti della decorazione cimabuesca del transetto della Basilica Superiore di Assisi, ma anche per alcuni affreschi della navata eseguiti da maestranze toscane in parallelo con quelle romane guidate dal Torriti64. Gli stessi affreschi giotteschi, dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco, presentano una gamma cromatica dai toni freddi, trasparenti e raffinati, paragonabili a quelli della Madonna Rucellai. Cimabue era stato il grande inventore di questa pittura trasparente e preziosa, ma in lui restano delle tonalità profonde e fosche, come un basso continuo di maggiore gravità, mentre Duccio si fa portatore di una gamma cromatica più chiara e purgata, di una straordinaria sensibilità per il colore che costituirà uno dei denominatori comuni della pittura senese fino al Cinquecento. Ma la vetrata del Duomo di Siena sta a dimostrare anche la sua disponibilità ad accogliere le nuovissime idee rivoluzionarie di tridimensionalità figurativa proposte dal giovane Giotto e la sua prontezza a contribuire da par suo alla loro messa a punto. È in questa prospettiva che acquista un valore emblematico il caso della Madonna già Stoclet (fig. 160), con il suo davanzale marmoreo che evoca immediatamente le incorniciature architettoniche delle Storie di san Francesco ad Assisi, ma allo stesso tempo fa diventare questa tavoletta il lontano prototipo di tante Madonne al davanzale del Quattrocento. Per quanto riguarda il vecchio Cimabue, molti affreschi del transetto di Assisi e la Madonna di Santa Trinita (figg. 199, 205) ci dicono che anch’egli si trovò a fare i conti con le nuove idee, ma con delle notevoli riserve mentali. Giotto e una risposta «romana» allo «struktive lllusionismus» delle maestranze oltremontane di Assisi. Se è vero che ci sono state discussioni appassionate fra l’anziano Cimabue, il giovane Duccio e il giovanissimo Giotto, possiamo immaginare che uno degli avvenimenti da cui hanno avuto origine sia stato l’inizio della decorazione ad affresco della Basilica Superiore di Assisi ad opera di una maestranza oltremontana sulle pareti alte del transetto destro (figg. 230-32).

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Già l’architettura della Basilica Superiore aveva importato in Italia il nuovo stile «alieno» delle cattedrali gotiche, che nella prima metà del Duecento aveva fatto delle apparizioni del tutto eccezionali nella versione non-sontuosa dei cistercensi. L’arte d’oltralpe aveva continuato a fare la parte del leone, ad Assisi, con le vetrate, che rappresentavano anch’esse una novità legata al nuovo stile architettonico. Pur adattandosi alla situazione locale, i modi artistici del gotico d’oltralpe stavano diventando una linea di tendenza nella casa-madre di un ordine internazionale, come era diventato quello francescano. L’inizio della decorazione ad affresco della Basilica Superiore ad opera di una maestranza oltremontana rappresentò l’apice di questa linea di tendenza. L’importanza che il seguito della decorazione, dagli affreschi di Cimabue alle Storie di san Francesco, ha avuto per l’arte italiana ha fatto passare nettamente in secondo piano il suo inizio, del resto mal giudicabile dato il suo tragico stato di conservazione. Solo di recente, dopo gli accenni dell’Aubert, del Coletti, del Brandi e dell’Oertel65, si sono avute delle precisazioni da parte del Volpe66 e della Hueck67, mentre il libro del Belting68 sulla decorazione della Basilica Superiore di Assisi contiene il tentativo più rilevante e sistematico di interpretare anche quella parte iniziale e di valutarla nel suo significato69. Tuttavia, secondo una caratteristica delle ricerche importanti, che nell’approfondire alcuni problemi aprono prospettive nuove, dopo l’enorme sforzo per definire la patria di origine della bottega gotica di Assisi, anche il libro del Belting ha lasciato aperto l’interrogativo circa le conseguenze che queste novità gotiche hanno avuto non solo per il seguito della decorazione della Basilica Superiore di Assisi, ma anche per la storia dell’arte italiana70. L’attenzione posta dal Belting agli inizi della decorazione della Basilica Superiore di Assisi e lo studio sistematico che ne ha fatto hanno rivelato aspetti di una portata enorme negli affreschi della bottega gotica. Da una parte c’è la novità di un linguaggio figurativo tanto diverso da apparire esotico ed alieno su terra italiana, ma un linguaggio che dimostrava per la prima volta dopo tanti secoli di po-

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ter vivere indipendentemente dalla cultura figurativa di tradizione bizantina. Dall’altra c’è una funzione nuova attribuita all’affresco, che non si limita più a decorare la superficie eminentemente bidimensionale di una parete, ma crea strutture architettoniche finte (figg. 231, 232) che illusionisticamente sembrano continuare e completare le strutture architettoniche reali, integrandosi in esse. Ambedue gli aspetti, quello stilistico e quello funzionale, sembrano avere provocato profonde reazioni nell’arte italiana, in parte di rigetto ma sostanzialmente di grande interesse. Si è trattato di una lettura critica e di una interpretazione che hanno avuto una portata enorme per quei mutamenti capitali che si sono verificati nella pittura italiana alla fine del Duecento. Certamente si sono rigettati alcuni aspetti con cui la pittura gotica d’oltralpe si presentava ad Assisi, come la fragilità figurativa, la leggerezza quasi incorporea delle cose, i manierismi grafici e l’espressività quasi caricaturale. Per fare un esempio: ad un pittore italiano, la testa dell’Eterno che compare inaspettatamente di lato nella Trasfigurazione (fig. 230), con l’indice vivacemente puntato verso il Cristo, nella grande lunetta in alto sopra la parete destra, deve essere sembrata molto poco seria e sconveniente per il personaggio che doveva rappresentare. Per quanto riguarda il linguaggio stilistico, non c’è dubbio che gli affreschi di Assisi hanno avuto la risonanza maggiore nell’arte senese71. Non dico questo per influenza di quel luogo comune molto abusato anche oggi per cui tutto ciò che è gotico in Italia si identifica con Siena. Lo dico perché ci sono indicazioni per i tramiti attraverso cui questo passaggio è avvenuto. Non c’è dubbio che Duccio conobbe gli affreschi di Assisi, si accetti o non si accetti la proposta del Longhi che egli abbia lavorato nella Basilica Superiore (e io sono tra quelli che non credono a questa proposta)72. Se anche non ve lo avessero richiamato interessi artistici e non ve lo avessero condotto i suoi rapporti con Cimabue, Duccio non può aver mancato di recarsi nella Basilica di San Francesco almeno per ragioni religiose, come dovettero fare tutti gli italiani di allora e moltissimi europei. Gli episodi goti-

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ci che già si leggono nella Madonna Rucellai73 trovano in una precoce meditazione sugli affreschi dell’oltremontano di Assisi la loro più naturale spiegazione. Ma c’è un altro legame anche più esplicito fra Assisi e Siena ed è quello degli orafi senesi, gli inventori dello smalto traslucido. La loro opera più famosa è il reliquiario del Corporale di Orvieto, compiuto nel 1338; ma esso è stato eseguito quando gli smaltisti senesi non erano più ai vertici che avevano raggiunto nei decenni precedenti. Chiunque intraprenda uno studio anche superficiale su questa materia, non mancherà di meravigliarsi dell’altissima ed eccezionale temperatura gotica raggiunta già verso il 1290 dagli smalti del calice di Guccio di Mannaia donato da Niccolò IV alla Basilica di Assisi, certo più radicalmente gotici di qualsiasi pittura di Duccio stesso e in straordinario anticipo sugli esiti pittorici di Pietro Lorenzetti e di Simone Martini74. Io ricordo bene di aver nutrito a lungo dei dubbi sull’attendibilità di una datazione così precoce per il calice di Niccolò IV. Ma, una volta superati questi dubbi, bisognerà allora ammettere che sono stati gli orafi senesi a costituire la punta di diamante della penetrazione gotica a Siena e in Italia. Per essi si è chiamata in causa la miniatura francese e Maître Honoré75, ma gli affreschi di Assisi rappresentano un tramite ancora più diretto di una cultura gotica che in effetti sembra la premessa per quella di Maître Honoré. Anche i rapporti sottolineati dal Volpe76 tra gli affreschi di Assisi e il retablo di Westminster hanno lo stesso significato, dal momento che si dura fatica a distinguere tra questo capolavoro della pittura inglese e certe pagine del Breviario di Filippo il Bello del miniatore francese. E gli smalti del calice assisiate di Guccio di Mannaia hanno le stesse possibilità di essere letti in rapporto col retablo di Westminster. Così dagli affreschi di Assisi attraverso l’opera degli smaltisti senesi si trasmette a Siena un bagaglio di cultura gotica che costituisce la premessa per la grande arte di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti. Ma l’aspetto nuovo degli affreschi gotici di Assisi che ha avuto conseguenze più profonde è stato quello funzionale, soprattutto per quei connotati che hanno fatto usare al Belting il concetto di

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«struktive Illusionismus»77. Bisognerà abituarci a riconoscere che la caratteristica più specifica della pittura italiana dalla fine del Duecento al Cinquecento, cioè la rappresentazione dello spazio, affonda alcune sue radici nella decorazione ad affresco delle cattedrali gotiche78 ed ha i suoi punti di riferimento più diretti negli affreschi assistati della bottega oltremontana. Certo è che tra questo genere di pittura importato ad Assisi e le novità introdotte da Giotto esiste una serie di straordinarie convergenze, consistenti soprattutto nel rifiutare la tradizione figurativa bizantina, nel rimettere la pittura al passo con la scultura e l’architettura, nel fingere la cornice di un affresco come articolazione architettonica della parete su cui è inserito. In un saggio sulla rappresentazione dello spazio nell’arte italiana pubblicato qualche anno fa non mi ero reso conto di questo fatto, perché non avevo ancora letto il libro del Belting. In esso acquista un valore veramente attivo, e non solo di trovata brillante che sottende una ricerca, l’idea-guida che la decorazione della Basilica Superiore di Assisi non può essere esaminata partitamente, in rapporto solo col singolo artista che si sta studiando di volta in volta, ma va considerata nel suo insieme, come un compito unitario alla cui realizzazione hanno contribuito tutti i pittori che vi hanno preso parte, nonostante si siano succeduti l’uno all’altro sui ponteggi della Basilica. In questo modo, tenendo presenti i risultati di «struktive Illusionismus» della bottega gotica (figg. 231, 232) che ha iniziato la decorazione, si capisce meglio l’illusionismo architettonico delle Storie di san Francesco (fig. 234) che hanno concluso la decorazione. Sulle pareti del transetto destro sono le prime architetture finte visibili in una decorazione ad affresco su terra italiana. Si leggono ancora molto bene, nonostante le cattive condizioni generali, le slanciate vimperghe che fingono un coronamento per gli archi reali del triforio (fig. 232). Si leggono meno bene, ma sono anche più sorprendenti, le finte strutture architettoniche sulla parete di fondo che continuano quelle reali della finestra (fig. 231), trasformando così la parete, per via di illusionismo, in un’unica grande finestra vetrata, come in una cattedrale dell’Île-de-France. Anche lo stile

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architettonico è perfettamente in linea con quello delle cattedrali gotiche e anzi aggiornato agli esiti che si ebbero intorno al 1260, come ha dimostrato il Belting studiando soprattutto il particolare modulo di vimperga con cui il pittore oltremontano di Assisi ha completato l’architettura reale delle arcate del triforio. E i punti di riferimento più convincenti sono il portale del transetto sud di 235 Notre-Dame di Parigi (fig. 234) e il portale di facciata della cattedrale di Auxerre79. L’illusionismo architettonico dell’incorniciatura delle Storie di san Francesco ha evidentemente le sue premesse in questi esperimenti della bottega gotica di Assisi; anzi, sarebbe più giusto dire, ne costituisce un’agguerrita risposta. Una risposta che elude totalmente gli aspetti stilistici, perché degli affreschi gotici non solo non accetta il linguaggio figurativo, ma nemmeno lo stile architettonico. I dati architettonici delle Storie di san Francesco sono infatti quelli dell’architettura contemporanea dell’Italia centrale, con le sue forme moderatamente gotiche, le sue sopravvivenze romaniche, le colonne tortili, le decorazioni cosmatesche, ecc. Non manca, tuttavia, qualche punto di contatto più diretto con certi particolari architettonici figurati del pittore oltremontano. Per esempio, mi sono chiesto spesso quale rapporto con la realtà avessero negli affreschi giotteschi di Assisi certi aspetti che non si ritrovano quasi affatto nei successivi, dalla cappella Scrovegni in avanti (ma si vedono nella cappella di San Nicola), come quelle coperture riquadrate (fig. 236), piccole ma massicce, che sporgono fortemente da uno dei quattro lati di una costruzione a torre in certi caseggiati delle Storie di san Francesco. E mi pare di averne individuata un’idea ispiratrice tra le articolazioni architettoniche del fastigio dell’edicola della Maiestas Domini del pittore oltremontano sulla parete ovest del transetto destro (fig. 237). E così mi sembra ci sia un rapporto diretto tra la decorazione a rosette in aggetto nel fondo degli affreschi gotici (fig. 232) e quelle continue decorazioni a piccole formelle, a volte ad incavo, a volte in aggetto, che, con un effetto di trompe-l’oeil, punteggiano le pareti, dall’interno della casa di Isacco alle mura di Arezzo nella Cacciata dei diavoli (figg. 50, 53, 54). In un primo momento pensavo ad un effetto assimilabile a quello dei

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bacini di maiolica inseriti nei muri di tante chiese romaniche italiane; ma in realtà esse funzionano qui come le decorazioni consimili che si vedono, ad esempio, nella grande vimperga del portale del transetto sud di Notre-Dame di Parigi (fig. 235), cioè proprio in quel tipo di architettura che è l’esempio per il pittore oltremontano di Assisi. La risposta delle Storie di san Francesco allo «struktive Illusionismus» della bottega gotica è il segno di una meditazione profonda su quell’esempio. Gli affreschi gotici indicavano un ordine mentale nuovo. Con le Storie di san Francesco la pittura italiana è ormai entrata totalmente in questo ordine mentale nuovo. L’idea di fondo di rifiutare le formule architettoniche orientaleggianti tramandate dalla pittura italiana di tradizione «greca» e di rifarsi all’architettura contemporanea è ormai pienamente digerita. Ma rifiutando lo stile architettonico e anche quello figurativo della bottega gotica di Assisi, le Storie di san Francesco hanno evitato il rischio che la pittura italiana diventasse l’espressione di una provincia gotica. Anzi, la risposta alla lezione gotica è di una consapevolezza tale da andare anche oltre questo segno. Le idee suggerite dagli affreschi oltremontani, genialmente rimeditate, si trasformano in una nuova estetica, quella della pittura italiana del Trecento. La conseguenza più importante di questa rimeditazione geniale è stato l’andare molto più avanti sulla strada dell’illusionismo spaziale con la scoperta della tridimensionalità. Le finte architetture della bottega gotica di Assisi vi alludevano soltanto, non la realizzavano. Il compito di passare dall’allusione alla realizzazione della tridimensionalità è assunto nella decorazione della Basilica Superiore di Assisi dalla serie di affreschi che vanno dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco. Qui si realizzano organicamente le premesse fornite dalle coordinate che il Belting evidenzia nella decorazione murale delle cattedrali gotiche80: strutture architettoniche cieche che imitavano quelle a giorno e incorniciavano figurazioni che potevano essere dei rilievi scolpiti e policromati; ma che potevano essere imitati anche da dei dipinti, così come potevano essere imitate con i mezzi della pittura anche le strutture architettoniche cie-

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che. Questa intercambiabilità fra strutture architettoniche reali e strutture architettoniche finte e tra figurazioni tridimensionali (i rilievi policromati) e figurazioni dipinte viene sostituita con le Storie di san Francesco da un sistema figurativo esclusivamente dipinto, ma finto come tridimensionale. È il nuovo sistema della pittura italiana del Trecento81. Gli aspetti petrigni e statuari che sono stati notati nelle Storie di san Francesco, e talora giudicati negativamente, nascevano dall’urgenza di questa scoperta. E i tanti rapporti che sono stati visti con la scultura di Arnolfo di Cambio anche negli affreschi dei registri alti dalle Storie di Isacco in avanti82 (figg. 238, 239) indicano quale tipo di statuaria si proponevano idealmente di fingere83. Ma non vorrei rischiare delle schematizzazioni troppo semplificatrici di fronte alla complessa realtà di questi affreschi: solo indicare una possibile serie di nessi culturali, di idee che ne hanno fatte scaturire altre in questa rimeditazione geniale di cui parlavamo. Una risposta così organica, ma anche così indipendente, allo «struktive Illusionismus» della bottega gotica di Assisi è il segno di una reazione attiva che investe tutto il seguito della decorazione della Basilica Superiore, in cui la sua conclusione, con le Storie di san Francesco, costituisce la soluzione della crisi posta dall’intervento iniziale della bottega gotica. Ma credo ci siano pochi dubbi che, interrotta l’opera della bottega gotica, la risposta allo «struktive Illusionismus» diventa un tema specifico della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. Per fare un esempio: il finto architrave a mensole sopra gli affreschi cimabueschi dello zoccolo del transetto (figg. 172, 199), pur con la sua formulazione imperfetta, sperimentale e di transizione, è stato pensato ad Assisi e non portato qui da qualche sistema di decorazione romano. Nessuno degli esempi consimili, pur così frequenti nella pittura romana, può datarsi con sicurezza prima degli affreschi assistati di Cimabue. E non solo ne manca qualsiasi potenzialità nella pittura romana di metà Duecento, ma non ve ne è segno nemmeno nella decorazione del Sancta Sanctorum del tempo di Niccolò III (1278-80). Ad Assisi questo motivo si inquadra logicamente nel problema

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specifico della risposta allo «struktive Illusionismus» della bottega gotica e si colloca accanto agli altri tentativi di Cimabue, in cui è da vedere una prima reazione, già di segno profondamente diverso e mediterraneo. Che si trattasse di una risposta polemica lo sta ad indicare la diversa soluzione dei trifori, dove la zona sopra le arcate reali è strutturata da un fìnto sistema architettonico completamente svolto in orizzontale e chiuso da cornici, di contro alle vimperghe svolte in altezza e come libere in uno spazio aperto della bottega gotica del transetto destro (figg. 232, 233). Il finto loggiato ad archi ribassati con pilastri scanalati e capitelli a foglie di acanto e con la decorazione cosmatesca (fig. 233) tentano l’attuazione di uno «struktive Illusionismus» in termini di cultura del tutto mediterranea o romana - a seconda di come si vorrà etichettare - ma certo deliberatamente anti-gotica. La posizione di Cimabue si dimostra, così, ben altrimenti autorevole rispetto a quella del tutto subordinata con cui il «pittore romano di San Pietro»84 si presenta nel transetto destro, sostanzialmente come collaboratore del pittore oltremontano. È lui a mettere in pratica il progetto relativo alla parete di fondo del transetto destro e ad eseguire le nervature gotiche che riprendono quelle della vetrata reale (fig. 231), trasformando in un’unica grande finestra tutta la parete di fondo. È lui a dipingere le due grandi figure di Profeti e a mitigare lo slancio delle nervature gotiche decorandole col motivo ad ovuli ed astragali di antica tradizione classica85. E nel triforio ad est, dopo essersi adattato a ripetere le vimperghe finte del maestro gotico, ne ha leggermente modificati i gattoni rampanti ed ha abolito il fondo a rosette applicate che il pittore gotico usava sistematicamente. Queste correzioni, un po’ patetiche, significano una riserva mentale di segno puramente negativo, che non incide sulla sostanza; invece, le soluzioni diverse adottate da Cimabue sono una risposta polemica, ma energica e positiva, che riconosce tutta l’importanza che merita allo «struktive Illusionismus» gotico. Ho parlato di una risposta in termini di cultura mediterranea o romana. Se con il primo aggettivo ci possiamo capire meglio tra

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noi moderni, io credo che alla fine del Duecento si sarebbe preferito usare l’aggettivo «romano». La polemica risposta al linguaggio artistico della bottega gotica non aveva certo un significato toscano, perché riguardava almeno l’intera area dell’Italia centrale e idealmente aveva il suo punto di riferimento in Roma e nella tradizione che questa città simboleggiava. Abbiamo insistito più volte sull’importanza della nuova Basilica di Assisi, soprattutto in questo periodo, e sul significato che veniva ad assumere in campo artistico. Essa era diventata allora il punto più in vista di un’area culturalmente assai omogenea, come quella dell’Italia centrale. Soprattutto fra la Toscana e Roma dovevano esservi degli scambi praticamente ininterrotti, resi possibili non solo dalle comunicazioni stradali (la via Francigena) ma soprattutto dai contatti continui dei banchieri senesi e fiorentini che controllavano l’amministrazione dei capitali che affluivano alla curia papale di Roma. La presenza documentata di Cimabue a Roma nel 1272 e il prolungato soggiorno romano di Arnolfo di Cambio sono i dati emergenti di questi rapporti in campo artistico. Lo scoppio nel cuore di questo contesto sostanzialmente ancora legato alla «maniera greca» delle novità gotiche del pittore oltremontano di Assisi dovette provocare come una deflagrazione. La risposta polemica che ne seguì da parte dei continuatori italiani della decorazione può chiamarsi, almeno simbolicamente, una risposta romana, che non significa uno specifico riferimento all’arte romana contemporanea ma piuttosto all’eredità religiosa, culturale e artistica che Roma ancora rappresentava. Nel segno di questa unità culturale ci si propone di risolvere il grande problema della decorazione della Basilica Superiore di Assisi come risposta alla bottega gotica. Quando si colorano di campanilismo le dispute sulla preminenza nel rinnovamento dell’arte italiana da parte di Roma o di Firenze, cioè da parte di Giotto o del Cavallini, a parte tutte le considerazioni che si sono fatte nel capitolo precedente, si dimentica che stretti rapporti artistici tra le due città si stabiliscono molto prima ed esistono già al tempo di Cimabue e di Arnolfo. Si

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dimentica, inoltre, che in tutte le città italiane, particolarmente in quelle dell’Italia centrale, il rapporto di discendenza da Roma era fortemente sentito. Siena, Pisa, Firenze si consideravano tutte eredi di Roma e molte leggende medievali sulle loro origini si concretizzano in precisi simboli: la lupa che allatta Aschio e Senio per Siena86, i sarcofagi e il cratere del Camposanto di Pisa87, la statua di Marte sul Ponte Vecchio a Firenze88 diventano testimonianze dirette e tangibili del rapporto di filiazione da Roma. Come Arnolfo diventa romano, così Giotto probabilmente si sarà sentito erede dell’arte romana. Il soggiorno romano di Cimabue avrà avuto un significato simile a quello di Arnolfo; anche le sue commissioni assisiati venivano da Roma. Tutti questi artisti, probabilmente, si sentivano rappresentanti della tradizione artistica romana e nelle antiche basiliche romane trovavano conferme o ispirazioni per le proprie idee artistiche. In questo senso, il prestigio di Roma e l’idea di una ininterrotta tradizione artistica romana era più rivolta all’indietro, verso il passato, che al presente. Il presente non doveva avere un grande significato per artisti che venivano da città progredite e attive, come erano Pisa, Firenze e Siena in confronto alla Roma di fine Duecento, la cui positività era soprattutto nella presenza del papa e della corte pontificia, che tuttavia si spostavano continuamente fra l’Urbe e le città satelliti del Lazio e infine emigrarono in Francia. Gli artisti contemporanei di Roma, legati strettamente alla curia pontificia, dovevano costituire una presenza ugualmente labile e incostante che praticamente finì con lo spostamento in Francia della corte pontificia agli inizi del Trecento. Cosicché Roma presenta il fenomeno anomalo di una città che, sotto l’aspetto artistico, scompare nel nulla nella prima metà del Trecento, proprio mentre quasi ogni centro italiano raggiunge i suoi vertici. La differenza tra la grandezza del valore simbolico di Roma e la sua realtà contemporanea fa sì che gli ideali artistici romani si travasino nelle città figlie e lì vengano coltivati nella convinzione di portare avanti l’eredità romana. In questo senso, la risposta polemica agli ideali artistici portati dalla bottega gotica di Assisi può considerarsi una risposta romana, senza che questo significhi un riferimento specifico all’arte romana contemporanea.

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II Belting ha notato che il sistema «romano» dell’incorniciatura architettonica delle Storie di san Francesco (fig. 234) ha in realtà il suo precedente più immediato in un contesto non «romano» della decorazione della Basilica Superiore di Assisi, cioè nell’articolazione finta a spazi architettonici «a nicchia» dell’imbotte dell’arcone d’ingresso della stessa Basilica con le coppie di santi a figura intera89 (fig. 171). Il finto architrave a mensole è un perfezionamento di quello adottato da Cimabue sopra gli affreschi dello zoccolo del transetto (figg. 24, 25). Ed è molto probabile che questo motivo cimabuesco sia stato adottato proprio per Assisi e da lì si sia diffuso a Roma. Il motivo simile che si trova in una zona della cripta del Duomo di Anagni fa parte di quegli affreschi del Maestro delle Traslazioni che vanno riferiti ad un’epoca assai più antica che la metà del Duecento90 e viene così ad essere un precedente romano solo nel senso che si diceva. Motivi simili si ritrovano anche altrove nella pittura medievale: si veda, per esempio, il San Salvatore di Brescia ristudiato recentemente dal Peroni91; così come le strutture a colonne che inquadrano figurazioni si ritrovano spesso anche fuori dell’area specificamente romana: gli stessi mosaici della cupola del Battistero fiorentino ne sono un esempio, perfino nelle colonne tortili. L’idea del Belting che le parti decorative degli affreschi di Cimabue siano state eseguite da pittori romani mi sembra del tutto ingiustificata e una delle parti deboli del suo libro. Egli stesso riconosce che proprio la decorazione messa in atto ad Assisi dalla équipe sicuramente romana del Torriti nella navata rappresenta una parentesi fra la serie cimabuesca e la Volta dei Dottori. E in alcune parti decorative degli affreschi di Cimabue (figg. 240, 241) compaiono delle figurazioni (gli «atlanti» nei pennacchi della Volta degli Evangelisti, le piccole teste nelle fasce ornamentali) che sono perfettamente cimabuesche92. Per quanto riguarda la pittura, Cimabue fu certamente il personaggio centrale di questa area «romana» prima della comparsa di Giotto. Con la sua attività che andava ben oltre le mura di Firenze e investiva anche Roma, Arezzo, Pisa e Bologna, appare logico che la risposta «romana» alle provocazioni della bottega gotica di Assisi fosse affidata a lui. Ma se gli affreschi di Cima-

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bue sono della fine degli anni ottanta del Duecento e se nel 128788 la vetrata duccesca del Duomo di Siena fornisce soluzioni più avanzate di quelle cimabuesche in direzione dell’illusionismo architettonico trecentesco, bisognerà ammettere che al dibattito su come rispondere allo «struktive Illusionismus» gotico nel seguito della decorazione della Basilica Superiore di Assisi abbiano partecipato lo stesso Duccio e il giovanissimo Giotto. Anzi, il dibattito a tre che abbiamo immaginato in prima istanza si sarà allargato all’area «romana», e quindi anche al Torriti, che aveva lavorato con la bottega gotica nella veste di «maestro romano di San Pietro»93. A questo dibattito ha certamente partecipato, con una posizione importante, Arnolfo di Cambio, cui la letteratura ha fatto spesso riferimento come grande suggeritore del cambiamento della pittura italiana alla fine del Duecento, fino a proporlo come responsabile in persona degli affreschi dei registri alti di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti94 (figg. 238, 239). È nel vivo di questo dibattito che si è formata quella nuova, grande personalità «romana», alla cui rimeditazione geniale sugli affreschi gotici di Assisi si deve davvero il radicale cambiamento della pittura italiana. Un cambiamento che la letteratura trecentesca attribuisce concordemente a Giotto95.

1.

Belting, Die Oberkirche cit.

2.

Questa osservazione era già stata fatta da W. Schöne, Studien zur Oberkirche von Assisi, in Festschrift Kurt Bauch, 1957, pp. 50-110, che sottolineava l’importanza di Cimabue per il sistema decorativo dell’intera navata. Si veda sopra, p. 74.

3. 4.

Si vedano, a questo proposito, anche le osservazioni di Boskovits, Gli affreschi cit., p. 10: «dai molti sforzi fatti in sede critica per ricostruire questa vicenda ed il suo seguito emerge l’immagine di un lavoro che, procedendo a stento e con l’intervento successivo di un numero incredibile di artisti, si trascinava per oltre quindici anni: una storia a dir poco assai insolita se si pensa sia all’importanza del tutto eccezionale della commissione, sia alle abitudini dei frescanti dell’epoca in materia di collaborazione».

5.

Che la maestranza cimabuesca abbia iniziato la decorazione della navata nella quarta campata è ben chiarito da Belting, Die Oberkirche cit., pp. 101-2. Egli suppone che Cimabue sia passato a decorare la navata subito dopo aver compiuto la volta della crociera, con gli Evangelisti, che egli considera eseguita dopo tutte le altre parti della decora-

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192 La pecora di Giotto zione del transetto, ivi comprese le figurazioni degli «zoccoli». Questa supposizione è risultata erronea dopo i rilievi circostanziati della sequenza dei lavori cimabueschi compiuti da J. White e B. Zanardi, Cimabue and the Decorative Sequence in the Upper Church of S. Francesco, Assisi, negli Atti del convegno del 1980 Roma cit., pp. 103-17. Questi rilievi permettono di dirimere alcuni interrogativi che erano stati sollevati, come quello relativo all’intervento delle maestranze oltremontane nella parte alta del transetto destro, che si è dimostrato sicuramente precedente ai lavori di Cimabue. L’intervento di Cimabue nella Volta degli Evangelisti si colloca subito dopo la parte alta dell’abside, in parallelo con la volta del transetto sinistro, e prima di tutte le figurazioni dello «zoccolo» del transetto e dell’abside. Si veda anche J. White, Cimabue and Assisi: Working Methods and Art Historical Consequences, in «Art History», 1981, pp. 355-83. 6.

Come ha notato anche G. Bonsanti, Giotto nella cappella di S. Nicola, in Roma cit., pp. 199209, fig. 12.

7.

È merito di M. Boskovits, Nuovi studi su Giotto e Assisi, in «Paragone», 1971, n. 261, pp. 3456, aver rilevato le stringenti affinità fra il Maestro della Cattura e alcune parti della decorazione dei registri alti della campata d’ingresso, compresa la controfacciata. Ma il significato che egli attribuisce a tali affinità - che cioè il Maestro della Cattura fosse rimasto il direttore dei lavori e il giovane Giotto un suo collaboratore - è inaccettabile. Il profondo stacco stilistico e figurativo sopravvenuto all’altezza delle Storie di Isacco è controllabile anche sulle figurazioni del Maestro della Cattura: nonostante l’identità dell’esecutore, una cosa è la Cattura e una cosa ben diversa è la vela col sant’Ambrogio nella Volta dei Dottori o le altre parti della campata d’ingresso eseguite dal Maestro della Cattura. Il risvolto più interessante della situazione che viene a profilarsi dopo le osservazioni del Boskovits è proprio quello che un pittore forse più anziano, ma dotato di una personalità artistica di gran lunga inferiore a quella del nuovo venuto, si adegui alla sua nuova concezione pittorica, pur di continuare a lavorare nella Basilica di Assisi.

8.

La situazione delle maestranze di parte cimabuesca attive in parallelo col Torriti mi pare sia assai più complessa di quanto non indichi la tendenza recente ad attribuire tutto al Maestro della Cattura (Belting, Die Oberkirche cit., pp. 226-34). L’Andata al Calvario e la Crocifissione manifestano qualità così delicate e intense da giustificare - anche se non fino al punto di poterlo condividere - il riferimento a Duccio proposto dal Longhi e ripreso dal Volpe e dal Bologna (si veda a questo proposito oltre, p. 198, nota 64). Invece, la maggior parte delle figure di questi due affreschi non sono della stessa qualità, ma non coincidono nemmeno con quelle del Maestro della Cattura. Quest’ultimo artista si caratterizza per una pittura larga e ordinata, più soffice nella fase cimabuesca, più vitrea e trasparente in quella giottesca, quando trova il suo momento di maggiore autonomia nella «vela» del sant’Ambrogio nella Volta dei Dottori. Il Maestro dell’Andata al Calvario usa un modellato dal tratteggio quasi spinoso. La barba del soldato che si rivolge a Cristo nella scena eponima sembra fatta di setole. Senza dubbio è lo stesso pittore che, nella fase giottesca, ha dipinto il San Benedetto nell’arcone d’ingresso (figg. 178, 179): le affinità che hanno colpito il Bologna (I pittori cit., p. 100, tav. 115) e il Belting (Die Oberkirche cit., tavv. 85a-b) parlano chiaro in questo senso. Nella fase giottesca, tuttavia, la sua pittura si condensa in un chiaroscuro più serrato, ma in cui le parti in ombra sembrano come bruciate. Sono aspetti che caratterizzano figure come il San Benedetto e la coppia di Santi domenicani nell’arcone d’ingresso (figg. 179, 180), qualche busto di Vergine nei sottarchi laterali della prima campata (come quelle riprodotte da Previtali, Giotto cit., p. 259, figg. 236, 240, 241), tutta la «vela» del san Gerolamo nella Volta dei Dottori, alcune figure della Prova del fuoco davanti al Sultano (ibid., p. 49, figg. 68, 70), o alcune figure

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di frati (fig. 181) che assistono ai Funerali di san Francesco (si veda in aa.vv., Giotto e i giotteschi in Assisi, Roma 1970, tav. a colori XIII). Queste figurazioni mantengono molti stilemi duecenteschi, ad esempio nelle mani o nella incapacità di raffigurare l’occhio in profilo. Altre parti dell’Andata al Calvario mostrano un’eleganza di delineazione e una gentilezza di tratti, soprattutto nelle figure femminili, da evocare davvero la pittura senese. Sono aspetti che caratterizzano anche gran parte della Crocifissione, come la «pia donna» all’estrema destra (fig. 182), che mi pare molto ben confrontabile con altri busti di Vergini nei sottarchi laterali della prima campata (fig. 183), come quelli riprodotti in Previtali, Giotto cit., pp. 295-96, figg. 238, 244. Ma si veda anche oltre, p. 198, nota 64. 9.

II Previtali (ibid., pp. 44-50) identifica nel senese Memmo di Filippuccio il principale aiuto di Giotto nei registri alti della navata (pensando che egli abbia seguito i lavori delle Storie di san Francesco a partire dalla Prova del fuoco davanti al Sultano). Gli aspetti più grafici, gotici e «ducceschi» dell’Andata al Calvario e della Crocifissione sarebbero un argomento a favore di una possibile identificazione del Maestro dell’Andata al Calvario con questo pittore, che si può seguire successivamente come aiuto di Giotto in un ruolo più limitato nei registri alti rispetto a quanto indicato dal Previtali, ma grosso modo coincidente con le sue proposte nelle Storie di san Francesco.

10. Boskovits, Nuovi studi cit., pp. 41 e 52, nota 22, parla di un «Maestro della Pentecoste». 11. Anche B. Toscano, Il Maestro delle Palazze e il suo ambiente, in «Paragone», 1974, n. 291, pp. 3-23, formula analoghe ipotesi su un soggiorno di Cimabue ad Assisi anteriore agli affreschi della Basilica Superiore (p. 11). 12. Ad una scarsa incidenza di Cimabue sulla pittura umbra accenna anche Boskovits, Gli affreschi cit., p. 8. 13. Sul Maestro di Montelabate, si veda Id., Pittura umbra cit., pp. 9-10. 14. Su questo gruppo di Messali si veda F. Bologna, La pittura italiana delle origini, RomaDresden 1962, p. 118; Id., I pittori cit., pp. 91-92, 108-11, note, dove l’analisi è più ampia e articolata. Già nel 1962 F. Bologna (La pittura italiana cit.) alludeva all’eventualità che almeno il Messale di Salerno riflettesse una cultura cimabuesca preassisiate. 15. La data della Crocifissione Forteguerri è apparsa, ad un controllo diretto, MCCLXXXVIII. Bologna, I pittori cit., pp. 90-92, la leggeva 1283; per una rassegna più ampia si veda Previtali, Giotto cit., p. 131, nota 28. Mi pare che al pittore della Crocifissione Forteguerri spettino anche le tavolette con San Francesco, Santa Chiara e due Arcangeli della Pinacoteca di Perugia (vedi F. Santi, Galleria nazionale delI’Umbria, Dipinti, sculture e oggetti d’arte di età romanica e gotica, Roma 1969, n. 9, pp. 32-33) e il deperitissimo dossale con Santa Margherita da Cortona del Museo diocesano di Cortona (citato da Previtali, Giotto cit., p. 133, nota 49, come dopo il 1297). 16. Su questo punto si veda oltre, p. 196, nota 48. 17. Toscano, II Maestro delle Palazze cit.,pp. 12-13. 18. R. Longhi, Apertura sui trecentisti umbri, in «Paragone», 1966, n. 191, pp. 3-17, ora in «Giudizio» cit., pp. 156-58. Si veda anche sopra, p. 146, nota 84. 19. Id., La pittura umbra cit., p. 29, sottolineava già del codice (Perugia, Biblioteca Augusta, graduale 2781) i caratteri insieme cimabueschi e gotici. 20. Si veda G. Donnini, Una «Crocifissione» umbra del primo Trecento, in «Paragone», 1975, n, 305, pp. 4-12. 21. L’esistenza di un Crocifisso giottesco nella Basilica Superiore di Assisi è già parsa plausibile a C. Volpe, Sulla Croce di san Felice in Piazza e la cronologia dei crocifissi giotteschi,

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La pecora di Giotto negli Atti del convegno del 1967 Giotto e il suo tempo cit., p. 262, nota 11; si veda anche Donnini, Una «Crocifissione» cit., pp. 4 e 11, nota. P. Scarpellini, in Fra’ Ludovico da Pietralunga, Descrizione della Basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi, Treviso 1982, p. 490, nota 60, dà notizia della polemica sviluppatasi sulla stampa quotidiana a seguito della proposta del Ragghianti di attribuire a Giotto il Crocifisso di Spello e di considerarlo in rapporto con la Basilica Superiore di Assisi. 22. Si veda sopra, p. 34, nota 20. 23. R. Longhi, II Maestro del Farneto, in «Paragone», 1961, n. 141, pp. 3-7, ora in «Giudizio» cit., p. 129; Id., La pittura umbra cit., p. 11; G. Previtali, Una tavola del «Maestro del Farneto» a San Damiano, in «Paragone», 1961, n. 141, pp. 7-11; Id., Giotto cit., pp. 46 e 134, nota 77 (con bibliografia). 24. Curiosamente, Boskovits, Gli affreschi cit., p. 4, senza tener conto della precisa derivazione dalla Madonna della controfacciata di Assisi, considera il dossale del Farneto come ancora indipendente dall’attività assisiate di Giotto. 25. A. Monferini, L’Apocalisse di Cimabue, in «Commentari», XVII, 1966, pp. 25-55. 26. Belting, Die Oberkirche cit.; si veda il capitolo Die Chronologie der Ausmalung, e in particolare il paragrafo Fakten una Vermütungen zur äusseren Geschichte (pp. 87-97). 27. R. Krautheimer, S. Corbet e A. K. Frazer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae, V, Città del Vaticano 1980, p. 7, danno per certo che la chiesa che si vede nell’affresco di Cimabue sia la più antica «veduta» di San Giovanni in Laterano: «Veduta schematica dall’esterno; essa fa vedere il nartece ad arcate, il muro sopraelevato e la facciata, quest’ultima con figure (tratte dal mosaico absidale?), inoltre il campanile a man destra presso la facciata». 28. Si veda, ad esempio, L. Spezzaferro, in aa.vv.. Via Giulia, Roma 1973, 2a ed. cit. 1975, p, 22. Ancora nel 1372 la bolla lapidaria di Gregorio XI, tuttora visibile, confermava la supremazia della basilica lateranense su tutte le chiese di Roma e dell’intera cristianità: «Nos igitur [...] declaramus [...] sacrosanctam Lateranensem ecclesiam precipuam sedem nostram inter omnes alias urbis et orbis ecclesias ac basilicas, etiam super ecclesiam seu basilicam Principis Apostolorum de Urbe supremum locum tenere, eamque de jure majorem esse omnibus aliis ecclesiis ac basilicis supradictis, ac super omnes et singulas prefatas ecclesias et basilicas prioritatis, dignitatis et preminentie honore letari». Si veda Lauer, Le palais cit., pp. 268-69. 29. H. Kiel, II Museo del Bigallo a Firenze, Milano 1977, pp. 118-19. 30. Si veda, per esempio, la recente monografìa di G. Kreytenberg, Andrea Pisano, München 1984, p. 54. 31. Si veda, per esempio, White, The Birth and Rebirth cit., pp. 23-30, la cui analisi dell’importanza degli affreschi di Cimabue ad Assisi per la storia della rappresentazione dello spazio si diffonde fino ad individuare «Cimabue’s conception of the choir and transepts, and probably of the entire church, as a single unified space» (p. 26). Si veda inoltre la lettura degli affreschi di Assisi in E. Battisti, Cimabue, Milano 1963, pp. 42-53, punteggiata dal ricorso al nome di Vitruvio, dove la pedana della Morte della Vergine è definita «un espediente caro ai magniloquenti decoratori rinascimentali», mentre «in Cimabue si può constatare una vocazione spaziale e volumetrica ancora intuitiva, risultante dalla preponderanza dei pieni sui vuoti. Alcune ricerche illusionistiche sono però spinte assai più in là». 32. Vasari, Le vite, ed. 1962 cit., pp. 203-4. L’identificazione della Madonna Rucellai con la tavola commissionata a Duccio dalla Compagnia dei Laudesi di Santa Maria Novella

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(secondo un documento per il quale si fa di solito riferimento a G. Milanesi, Documenti per la storia dell’arte senese. I, Siena 1854, p. 158, ma già pubblicato da V. Fineschi, Uomini illustri del convento di Santa Maria Novella, Firenze 1790, pp. XLI, 98, 118) si deve a F. Wickhoff, Über die Zeit des Guido da Siena, in «Mitteilungen des Institutes für österreichische Geschichtsforschung», 1889, pp. 244 sgg. 33. J. von Schlosser, Die Kunstliteratur, Wien 1924; ed. it. La letteratura artistica, Firenze 1964, pp. 50-51; si veda anche A. Aubert, Die malerische Dekoration der San Francesco Kirche in Assisi. Ein Beitrag zur Lösung der Cimabue-Frage, Leipzig 1907. Ad un’ampia rassegna sul «problema Cimabue» è dedicata una delle appendici della monografia del Nicholson (per cui si veda alla nota 35). 34. G. Trenta, I mosaici del Duomo di Pisa e i loro autori, Firenze 1896. 35. A. Nicholson, Cimabue. A Critical Study, Princeton 1932. 36. Ibid., p. 55 («lack of vigor»), 37. Ibid., p. 58 («uniform deadness»). 38. Battisti, Cimabue cit. 39. Toesca, Il Trecento cit., p. 500. 40. Id., Il Medioevo cit., p. 1047, figg. 713-14 (con un significativo accostamento fra le teste della Maestà del Louvre e della Madonna Rucellai). 41. II passaggio dalla impostazione del trono usuale per Cimabue e quello della Madonna di Santa Trinita si coglie proprio ad Assisi. Negli Evangelisti della crociera della Basilica Superiore di Assisi, che corrispondono alla fase più antica della decorazione cimabuesca del transetto, il trono è ancora di legno tornito e presentato in tralice come quello della Madonna della Basilica Inferiore. Nella parete bassa del coro, cioè in una fase più tarda della decorazione, il trono del Cristo e della Vergine in gloria è impostato in modo molto più simile a quello della Madonna di Santa Trinita. 42. Santi, Galleria cit., pp. 41-42; si vedano anche Bologna, La pittura cit., p. 127, e A. Conti, Appunti pistoiesi, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1971, pp. 109-24, anche per notizie sulla tecnica e i restauri (pp. 113-140 nota 3). 43. Longhi, Giudizio sul Duecento cit., pp. 26-27; Previtali, Giotto cit., pp. 32, 35; Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, IV, Torino 1973, ad vocem. 44. G. Castelfranco, Restauri e scoperte d’affreschi. Il pittore Corso, in «Bollettino d’arte», 1935, pp. 322-33; Longhi, Giudizio cit., p. 15; P. P. Donati, II punto su Manfredino d’Alberto, in «Bollettino d’arte», 1972, pp. 144-53, con l’attribuzione degli affreschi di Mosciano presso Firenze con figure di Profeti; L. Moscone, in Dizionario ... Bolaffi, III, Torino 1972, ad vocem. Alle opere finora riconosciute a Corso di Buono mi sembra da aggiungere la Madonna col Bambino, con le due figure dell’Angelo e dell’Annunziata, della chiesa di San Jacopo al Girone (per cui si veda recentemente A. Conti, in I dintorni di Firenze. Arte Storia Paesaggio, Firenze 1983, p. 246, che la data verso il 1270-80). L’attribuzione a Corso della Madonna col Bambino della pieve di San Giovanni Battista a Remole (proposta da M. Boskovits, Cimabue e i precursori di Giotto, Firenze 1976) può essere convincente a patto che la si consideri l’opera più antica del pittore, e quasi un super-Maestro della Maddalena. 45. Battisti, Cimabue cit., p. 52. 46. E. Sindona, L’opera completa di Cimabue, nei «Classici dell’arte» Rizzoli, Milano 1975, pp. 115-16, rende conto in particolare delle opinioni di chi, come lui, rifiuta l’attribuzione a Cimabue. Preferisco seguire studiosi come Roberto Longhi (Giudizio cit., pp. 11-12, 42-44) o, più recentemente, C. Volpe, Preistoria di Duccio, in «Paragone»,

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La pecora di Giotto 1954, n. 49, p. 5; L. Marcucci, Un Crocifisso senese del Duecento, ivi, 1956, n. 77, p. 19; Bologna, La pittura cit., pp. 101-3 e passim. Si veda anche quanto già affermava Toesca, II Medioevo cit., pp. 1042-43. 47. Mi sembra giusto richiamare a questo proposito la caratterizzazione data da Roberto Longhi di Cimabue come «patriarca melanconico e grifagno che rimugina a nuovo pensieri vecchi di secoli; che, dal greco calcificato d’oriente, risale al latino polemico di san Gerolamo e sempre si esprime con una cupa avvampata possanza che è bene occidentale» (Giudizio cit., pp. 11-12). Si veda anche Bologna, La pittura cit., pp. 104-6. 48. Fu Longhi (Giudizio cit., p. 43) a indicare l’aspetto tutto cimabuesco degli affreschi del Sancta Sanctorum. Non li ho potuti controllare dal vero, date le difficoltà di accesso. Tuttavia, la campagna fotografica utilizzata da J. T. Wollesen, Die Fresken in Sancta Sanctorum, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 1981, pp. 37-83, che comprende particolari ravvicinati ancora assai ben giudicabili nonostante le ridipinture, permette di farsi un’idea delle caratteristiche effettivamente cimabuesche di questi affreschi. Potrebbe essere da mettere in rapporto con essi il Crocifisso della Walters Art Gallery di Baltimora, per cui F. Zeri, nella scheda n. 2 del catalogo del 1976, parla di caratteri cimabueschi, a metà strada fra il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo e quello di Santa Croce. 49. Longhi, Giudizio cit., p. 15; Donati, Il punto cit., pp. 144-45; Dizionario ... Bolaffi, VII, Torino 1975, ad vocem. 50. Sia il dossale di San Pietro che quello di San Francesco della Pinacoteca di Siena, pur partecipando di un substrato culturale in cui si leggono ancora elementi riferibili a Guido da Siena, rispecchiano un interesse per Cimabue che non sembra dipendere dal giovane Duccio. A questi due importanti dipinti, che io credo spettino ad un unico artista, va collegata la bella Madonna della chiesa di San Regolo a Montaione, pubblicata da E. B. Garrison, Post-War Discoveries: Early Italian Paintings. IV, in «The Burlington Magazine», 1947, pp. 300-3. Allo stesso artista spettano anche alcune miniature dei corali 33, 34 e 35 del Museo dell’Opera del Duomo di Siena. Una cultura cimabuesca senese affine a quella del giovane Duccio è presente anche nelle straordinarie illustrazioni del Tractatus de Creatione Mundi della Biblioteca degli Intronati di Siena. Su questi aspetti della miniatura senese della fine del Duecento, si veda il catalogo della mostra II Gotico a Siena, Firenze 1982, schede nn. 5-10 (a cura di A. M. Giusti) e n. 22 (a cura di G. Chelazzi Dini). Molto simili sono alcune miniature del codice I della Biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona, per cui si veda M. Degl’Innocenti Gambuti, I codici miniati medievali della Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusco di Cortona, Firenze 1977, pp 73-95. Il problema dei cimabueschi senesi era già stato impostato da Longhi, Giudizio cit., p. 45. 51. E. Carli, Vetrata duccesca, Firenze 1946; per la bibliografia più recente si vedano F. Deuchler, Duccio, Milano 1983, p. 216, e le note 54 e 55, più avanti in questo capitolo. 52. Questa strettissima affinità non deve tuttavia far dimenticare che la piccola Maestà di Berna è posteriore alla Madonna dei francescani e non il contrario, come si dice spesso. È proprio la struttura del trono, ancora ligneo e cimabuesco nella Madonna dei francescani e più architettonico e marmoreo in quella di Berna, a darci una chiara indicazione in questo senso. Si veda anche, a questo proposito, G. Previtali nella recensione a Deuchler, Duccio cit., in «Prospettiva», 1984, n. 37, p. 72 e nota 2. 53. Toesca, II Trecento cit., p. 868, arriva a parlare a questo proposito di un «difetto» nelle «vetrate che vogliano imitare i dipinti e diventino trasparenti pitture». 54. Si veda White, Art and Architecture cit., pp. 127-29, che cita come proprio precedente

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J. Pope-Hennessy, An Exhibition of Sienese Stained Glass, in «The Burlington Magazine», 1946, p. 306. Si veda anche J. White, Duccio, London 1979, pp. 136-40. 55. J. H. Stubblebine, Duccio di Buoninsegna and His School, Princeton (N.J.) 1979, pp. 13-14, attribuisce la vetrata a quell’Jacopo da Castello che fu incaricato invece, nel 1369, del suo restauro (come già osservava Toesca, II Trecento cit., p. 868). 56. Carli, Vetrata cit. 57. Lorenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten (I Commentarii) cit.. I, p. 35: «Cominciò l’arte della pittura a sormontare in Etruria, in una villa allato della città di Firenze la quale si chiamava Vespignano. Nacque uno fanciullo di mirabile ingegno il quale si ritraeua del naturale una pecora; in su passando Cimabue pictore per la strada a Bologna uide el fanciullo sedente in terra et disegnaua in su una lastra una pecora. Prese grandissima amiratione del fanciullo, essendo di si pichola età fare tanto bene; domandò ueggendo auer l’arte da natura, domandò il fanciullo come egli aueua nome. Rispose et disse: “per nome io son chiamato Giotto el mio padre a nome Bondoni et sta in questa casa che è appresso“, disse. Cimabue andò con Giotto al padre, aueua bellissima presentia, chiese al padre el fanciullo, el padre era pouerissimo. Concedettegli el fanciullo a Cimabue menò seco Giotto et fu discepolo di Cimabue». Il fatto che la storiografia artistica non abbia dato alcun peso a questo episodio è dovuto soprattutto alla sua presenza nel Vasari (Le vite, ed. 1962 cit., pp. 299-300), e alla scarsa attendibilità che gli viene attribuita per le notizie sull’arte di epoche così lontane dalla sua. 58. A. Caleca, A proposito del rapporto Cimabue-Giotto, in «Critica d’arte», 1978, nn. 157-59, pp. 42-46, ritiene di scarso fondamento storico la tradizione dell’alunnato di Giotto presso Cimabue e pensa piuttosto ad Arnolfo come suo maestro. 59. Già Longhi, Giudizio cit., p. 47, pensava che l’aneddoto ghibertiano, «tradotto in termini concreti di bottega, significa ch’egli [Giotto] potè esser prima garzone, poi aiutante, poi collaboratore di Cimabue», mentre Toesca, II Trecento cit., p. 444, nota 3, affermava che «il racconto [...] fa intravedere nel fanciullo il primo sviluppo istintivo fuori dei canoni di qualunque scuola». 60. Brandi, Giotto cit., passim. 61. Sul dipinto, presente alla Mostra giottesca del 1937 a Firenze (si veda il catalogo a cura di G. Sinibaldi e G. Brunetti, Pittura italiana del Duecento e Trecento, Firenze 1943, n. 91, p. 291), richiamò l’attenzione Longhi, Giudizio cit., pp. 34, 45. Per Volpe, Preistoria cit., pp. 14-15, si tratta di un’opera tutta cimabuesca; anche recentemente (in II Gotico a Siena cit., p. 140) Carlo Volpe tornava sull’argomento con la stessa attribuzione. Del tutto opposta la posizione di chi, come P. Venturoli, Giotto, in «Storia dell’arte», 1969, p. 146, attribuisce per intero al giovane Duccio il dipinto. Per ulteriore bibliografia si vedano P. Dal Poggetto, nel catalogo della mostra Arte in Valdelsa, Certaldo 1963, n. 6, pp. 20-21, e Bologna, The Crowning Disc cit., p. 337, che ribadisce la sua opinione, già espressa in più occasioni, che la Madonna di Castelfìorentino sia opera di collaborazione tra Cimabue e Duccio. 62. I rapporti fra il Bambino della Madonna di Castelfiorentino e uno dei putti della Volta dei Dottori di Assisi sono stati notati anche dal Bologna (ibid.), in un intervento importantissimo per aver reinserito nella discussione sull’attività giovanile di Duccio lo stupendo e delicatissimo Crocifisso Odescalchi, dimenticato nelle tre recenti monografie sul grande pittore senese. Conseguentemente con la sua supposizione che la Madonna di Castelfiorentino sia opera di Cimabue e Duccio (come aveva proposto Longhi, Giudizio cit., p. 34), il Bologna attribuisce al pittore senese anche uno dei putti della Volta dei Dottori. Ma questa è stata eseguita successivamente alle Storie di Isacco, e non credo

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La pecora di Giotto si possa ammettere una collaborazione marginale del giovane Duccio con l’équipe ormai giottesca. Il rapporto di un altro dei putti della Volta dei Dottori con la Madonna di Crevole, notato dallo stesso Bologna, è, a mio avviso, un’ulteriore riprova della formazione di Giotto nell’ambito della cultura cimabuesca dei primi anni ottanta del Duecento e dell’incidenza che su di essa deve aver avuto lo stesso Duccio. Ma su questo punto si veda sopra, pp. 178-79 e nota 64. 63. Si veda quanto già affermava Longhi, Giudizio cit., p. 47: «dal ‘76 all’85 [...] Giotto poteva essere noto e riconosciuto come pittore». È chiaro che una cronologia come quella qui proposta per la formazione e le prime opere di Giotto ha il suo presupposto nel considerarlo nato alla metà degli anni sessanta del Duecento. D’altra parte, come ha ribadito P. Murray, On the Date of Giotto‘s Birth, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 25-34, la fonte più attendibile perché più vicina ai tempi di Giotto è il Centiloquio di Antonio Pucci, in base al quale si può fissare la data di nascita al 1266-67. Tutte le altre ipotesi rimangono congetture, sia quella del 1277 indicata dal Vasari (nonostante riprese recenti come quella di Brandi, Giotto cit.), sia anche quella del 1257, per cui si vedano C. L. Ragghianti, Percorso di Giotto, in «Critica d’arte», 1969, nn. 101-2, p. 10; M. Boskovits, in Dizionario... Bolaffi, VI, Torino 1979, ad vocem; Bologna, The Crowning Disc cit., p. 339 e note 41 e 42. 64. Fu il Longhi (Giudizio cit., pp. 14 e 43) a vedere nel giovane Duccio un collaboratore di Cimabue ad Assisi e poi l’esecutore in proprio di alcuni affreschi dei registri alti della navata (soprattutto la Crocifissione). Le indicazioni del Longhi sui rapporti fra Cimabue e Duccio furono riprese, con risultati in parte divergenti, da Volpe, Preistoria cit., pp. 4-22 e da F. Bologna, Ciò che resta di un capolavoro giovanile di Duccio, in «Paragone», 1960, n. 125, pp. 3-31; Id., La pittura cit., pp. 126-30. Il Volpe proponeva di porre in qualche rapporto con l’attività giovanile di Duccio a Firenze la Madonna della chiesa di San Remigio e il Crocifisso Loeser, mentre considerava di Duccio senz’altro il Crocifisso Odescalchi del castello Orsini di Bracciano. Il Bologna insisteva sulla Madonna Gualino (ora nella Galleria Sabauda di Torino) come opera di Duccio giovane e, per quanto riguarda Assisi, riportava il discorso anche sulla Cacciata dal paradiso terrestre, mentre tentava di precisare la «compresenza» di Cimabue e di Duccio nella Madonna dei Servi di Bologna e in quella di Castelfiorentino. Si potrà anche nutrire un certo scetticismo su alcune di queste proposte (ma le attribuzioni a Duccio del Volpe per il Crocifisso Odescalchi e del Bologna per la Madonna di Buonconvento restano dei punti fermi, ed è incredibile che non siano state recepite dai moderni monografi del pittore senese) e per quanto mi riguarda non credo ad un’attività di Duccio nella Basilica Superiore di Assisi. E tuttavia si dovrà ammettere che esse puntano l’indice su un problema reale e che, in fondo, non fanno che sostituire con una visione più concreta e calata nella realtà le vecchie indicazioni di pittore fiorentino seneseggiante (nel genere di quella usata per il Crocifisso di Paterno da E. Sandberg Vavalà, La croce dipinta italiana, Verona 1929, pp. 785-89). Il significato più profondo di quelle indicazioni del Longhi, del Volpe e del Bologna sta nel fatto che le opere a cui si riferiscono rappresentano una testimonianza dell’impatto di Duccio sulla pittura fiorentina degli anni ottanta del Duecento. 65. Aubert, Die malerische Dekoration cit., pp. 20-28; L. Coletti, Gli affreschi della Basilica di Assisi, Bergamo 1949, pp. 26-46; C. Brandi, Duccio, Firenze 1951, p. 131; Oertel, Die Frühzeit cit.,pp. 55-56 (si veda anche l’edizione inglese cit., p. 52). 66. C. Volpe, La formazione di Giotto nella cultura di Assisi, in Giotto e i giotteschi cit., pp. 23-24, 28. 67. Hueck, Der Maler cit., pp. 115-44. 68. Belting, Die Oberkirche cit., pp. 112-19, 182-90,192-204.

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69. Gli interventi più recenti sugli affreschi oltremontani di Assisi non mi sembrano altrettanto costruttivi. Su quello di A. Cadei si veda più avanti, nota 79. Quello di V. Pace, Presenze oltremontane ad Assisi: realtà e mito, negli Atti del convegno del 1980 Roma cit., pp. 239-51, debbo confessare che mi è stato diffìcile da comprendere. Mi è sembrato volto più a tentativi definitori che aperto a saggiare le implicazioni di quel grande evento artistico. 70. Se il Belting sembra essersi fermato sulla soglia del discorso riguardante l’importanza che devono aver avuto gli affreschi gotici di Assisi per l’arte italiana, si è d’altra parte sbilanciato in una interpretazione della Faltensprache di Cimabue come conseguenza di quella della bottega gotica di Assisi (pp. 211-13) che mi pare discutibile. 71. Va tenuta presente, a questo proposito, l’intuizione di Oertel, Die Frühzeit cit. (si veda l’edizione inglese cit., p. 52: «The decorative elements of the borders and friezes are pure Gothic, and in the pictures there are noteworthy attempts at rendering prespective in the representations of Gothic architectures [...] The pictures in the north transept [...] were painted by an artist of great ability, whose origins remain a complete mystery [...] technique suggests that the artist was trained in the north, but the bold elegance of the linear style indicates that he was probably an Italian, possibly a Sienese»). 72. Si veda la nota 64 di questo capitolo. 73. Qualche anno fa, occupandomi del Crocifisso della cappella della Pura in Santa Maria Novella a Firenze, ero rimasto colpito dalle figurazioni nei piccoli tabelloni polilobati alle estremità con la Flagellazione, la Derisione di Cristo, la Discesa al Limbo e il Giudizio Finale: figurazioni che, nonostante non fosse mai stato notato, mi sembrarono subito opera di un artista gotico non italiano, verosimilmente ancora duecentesco. A rendere di un interesse estremo il Crocifisso era anche la possibilità che esso si trovasse fin dall’antico in Santa Maria Novella (la sua presenza in questa chiesa si può controllare fino alla metà del Trecento), dove Duccio poteva averlo visto al tempo della Madonna Rucellai. L’arabesco del bordo dorato del manto, per esempio, poteva trovare ispirazione nell’idea del sottile filo d’oro che serpeggia lungo il bordo del manto del Cristo giudice. Segnalai il Crocifisso per il restauro alla Soprintendenza alle gallerie di Firenze, dove allora lavoravo, e a restauro ultimato esso è stato pubblicato in modo esemplare da A. M. Giusti, Un dipinto inglese del Duecento in Santa Maria Novella, in «Bollettino d’arte», 1984, pp. 65-78, che ne aveva seguito le fasi del restauro. Una riflessione successiva mi ha fatto tuttavia ripensare alla fondamentale importanza che devono aver avuto anche per gli aspetti gotici del giovane Duccio gli affreschi oltremontani di Assisi. 74. Che Guccio anticipi certe soluzioni di Pietro Lorenzetti era stato già notato da Toesca, Il Trecento cit., p. 894. Sull’orafo, dopo i richiami di R. Longhi, Ancora su San Galgano, in «Paragone», 1970, n. 241, pp. 6-8, ora in «Giudizio» cit., p. 125, si vedano I. Hueck, Una Crocifissione su marmo del primo Trecento e alcuni smalti senesi, in «Antichità viva», 1969, n. 1, pp. 23-34; E. Cioni Liserani, Alcune ipotesi per Guccio di Mannaia, in «Prospettiva», 1979, n. 17, pp. 47-58; P. L. Leone de Castris, Smalti e oreficerie di Guccio di Mannaia al museo del Bargello, ivi, pp. 58-64; G. Previtali, I. Hueck ed E. Cioni Liserani, in Il Gotico a Siena cit. (rispettivamente pp. 95, 96-98, 101-8). 75. Cioni Liserani, Alcune ipotesi cit., p. 48; A. M. Giusti, in II Gotico a Siena cit., p. 50. 76. Volpe, La formazione cit., p. 24, nota. 77. Belting, Die Oberkirche cit. Ma una rapida notazione era già stata fatta da R. Oertel (per cui si veda la nota 71).

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78. Un interessante accenno al possibile ruolo svolto dai cantieri gotici francesi nella «genesi dello spazio moderno» è alla fine dell’intervento di F. Pomarici, Gli affreschi di S. Maria Maggiore a Tivoli: ipotesi per una lettura ‘spaziosa‘ di alcune opere di pittura romana della fine del Duecento, in Roma cit., pp. 413-22. 79. Alle deduzioni cronologiche del Belting (Die Oberkirche cit., p. 187 e passim) si contrappongono le recenti proposte di A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l’architettura e la prima fase della decorazione, in Roma cit., pp. 141-60, secondo il quale non è necessario aspettare che la pittura d’oltralpe accolga - solo verso il 1270 - le forme dell’architettura gotica più recente per spiegare quanto avviene ad Assisi negli affreschi delle maestranze oltremontane del transetto destro della Basilica Superiore. Il Cadei si preoccupa di liberare questi affreschi «dall’imperativo categorico di dover corrispondere a tutti i costi ad irreperibili precedenti di pittura monumentale transalpina» (p. 49). E tuttavia le ricerche del Belting, nonostante la cautela propositiva, dimostrano che questi precedenti sono tutt’altro che irreperibili e colgono particolarmente nel segno quando portano in campo esempi di pitture murali delle cattedrali gotiche particolarmente significativi in rapporto con Assisi, come la St Faith di Westminster o la porta romana della cattedrale di Reims, il cui timpano era in parte scolpito e in parte dipinto. Ai lati delle vimperghe dei trifori di Assisi (fig. 232) non è affatto certo che dovessero esservi delle figure, come ad Auxerre; le grandi vimperghe del portale del transetto sud di Notre-Dame di Parigi (fig. 235), eseguito verso il 1260, hanno ai lati proprio dei pinnacoli come ad Assisi, dove non sono figurati così perché visti in tralice, come crede il Cadei (e perfino il Belting), ma perché, come a Notre-Dame, sono collocati di spigolo. Pensare che la spinta verso soluzioni di architettura finta fosse, nel caso delle maestranze oltremontane di Assisi, dovuto a interferenze italiane significa attribuire alla pittura italiana valori che le diverranno peculiari solo dalla fine del Duecento in poi. La presenza accanto alle maestranze oltremontane del «pittore romano di San Pietro» non ha alcun significato in questo senso; il suo ruolo è del tutto subordinato e se dipinge delle figure in uno stile che può ben corrispondere a una fase arcaica del Torriti, quando esegue le finte architetture è costretto a rispettare il progetto generale limitandosi ad annacquare gli aspetti gotici con l’abolizione delle rosette applicate nei fondi del triforio est e decorando pateticamente ad ovuli e astragali le finte nervature della parete di fondo (che anche la parete di fondo sia opera del «pittore romano di San Pietro» lo aveva notato anche il Belting, e basta confrontare la struttura della testa di David con quella del san Pietro nel triforio est per convincersene). L’ipotesi del Cadei di una precedenza cronologica delle maestranze oltremontane che lavorano nel transetto destro della Basilica Superiore sul Maestro del San Francesco e sulla decorazione della Basilica Inferiore vanno prese con la stessa cautela con cui egli propone di far entrare in gioco tra le presenze gotiche ad Assisi anche i lacerti di affreschi intorno al monumento cosiddetto della regina di Cipro. Gli artisti gotici con cui è venuto in contatto il Maestro del San Francesco sono quelli delle vetrate francesizzanti della Basilica Superiore. Queste sono notevolmente più arcaiche degli affreschi delle maestranze oltremontane nel transetto destro, i quali hanno a monte anche la cultura rappresentata dalle miniature del Salterio di Luigi IX (databili fra il 1253 e il 1270 e già vistosamente caratterizzate dall’introduzione di incorniciature architettoniche), ma presentano ormai quella straordinaria fioritura delle capigliature e delle barbe, quella larghezza di tratti, quella sostanza chiaroscurale delicata ma consistente che vanno verso gli esiti di fine Duecento rappresentati dalle figurazioni del retablo di Westminster e da quelle quasi intercambiabili delle miniature di Maître Honoré. In questo senso, restano valide le indicazioni del Volpe (per cui si veda la nota 66) e in questo senso può valere l’osservazione che, se vogliamo intendere come funzionano le rocce della Trasfigurazione di Assisi, mal comprensibili dato lo stato di conser-

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vazione, possiamo ricorrere a quelle dietro il giovane David che uccide Golia nella celebre pagina del Breviario di Filippo il Bello nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Sul problema della datazione potrebbe far luce la presenza dei gigli entro rombi inseriti a intervalli regolari nella cornice che decora gli arconi laterali del transetto destro. Se non sono semplici motivi decorativi standardizzati, ma alludono - come sembra - al giglio di Francia, non sarebbe da trascurare la notazione della Monferini (L’Apocalisse cit., pp. 4143), che pensa a Carlo d’Angiò come finanziatore, fra il 1280 e il 1283, degli affreschi. La Monferini si riferisce agli affreschi di Cimabue, ma mi pare che il rapporto con quelli delle maestranze oltremontane assumerebbe un significato ben più concreto. 80. Belting, Die Oberkirche cit., pp. 200-2. 81. Un cenno all’importanza della cultura gotica luigiana ad Assisi per l’arte di Giotto era già stato fatto da Longhi, La pittura umbra cit., pp. 9-10, dove istituiva un rapporto tra gli affreschi oltremontani del transetto destro della Basilica Superiore e miniature come il Salterio di Isabella nel Fitzwilliam Museum di Cambridge. 82. La vicinanza tra le opere attribuite al giovane Giotto - nella fase «Maestro di Isacco» - e la scultura di Arnolfo è stata ravvisata da più parti ed è stata anche sottolineata fino al punto di proporre un’identità fra il cosiddetto «Maestro di Isacco» e Arnolfo. Si veda, a questo proposito, la nota 94. 83. È questo un punto nevralgico della discussione sui rapporti di Giotto con il gotico. Secondo l’impostazione data da C. Gnudi, Su gli inizi di Giotto e i suoi rapporti col mondo gotico, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 3-29, Giotto avrebbe potuto conoscere la scultura gotica francese e tedesca. Tuttavia, ogni suo riferimento è a quella scultura che rappresenta la fase del classicismo gotico, la cui altissima temperie regge - come sottolinea lo stesso Gnudi - fin verso il 1260, cioè fino all’epoca del pulpito di Pisa di Nicola Pisano. È quella cultura che a Giotto arriva soprattutto tramite il grande allievo di Nicola, Arnolfo di Cambio, cui egli guardò con profondo interesse. Ma se non ci fossero stati gli affreschi gotici di Assisi, portatori di una mentalità artistica in cui pittura e scultura sono perfettamente parallele e perfino intercambiabili, dubito che sarebbe scattata nella mente di qualsiasi pittore italiano l’idea di guardare alla scultura. Fino all’epoca di Cimabue, nella cultura artistica italiana permane una sostanziale incomunicabilità tra pittura e scultura, rivolta verso l’oriente bizantino la prima, più profondamente occidentale la seconda. 84. Hueck, De Maler cit. 85. Belting, Die Oberkirche cit., fa notare (p. 217) che la finestra è stata dipinta dal maestro romano. 86. M. Cristofani, nel catalogo della mostra Siena: le origini, testimonianze e miti archeologici, Firenze 1979, p. 117, e J. Polzer, Simone Martini ‘s Guidoriccio da Fogliano: A New Appraisal in the Light of a Recent Technical Examination, in «Jahrbuch der Berliner Museen», 1983, p. 127, nota 150, hanno fatto presente che la leggenda della fondazione di Siena da parte dei figli di Remo in fuga da Roma per evitare le ire dello zio era già nota nel Trecento e non è di origine quattrocentesca. Per la ricostruzione di un clima morale da repubblica romana nella Siena del Trecento si veda F. Carter-Southard, Simone Martini’s Lost Marcus Regulus, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 1979, p. 217 (Marco Regolo ne doveva appunto rappresentare un eroe). La Lupa coi gemelli appare già nel Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti. 87. M. Seidel, Studien zur Antikenrezeption Nicola Pisanos, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 1975, pp. 307-92, dedica particolare attenzione al cratere, copia di era traianea di un originale neoattico, non solo per le derivazioni da

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La pecora di Giotto esso nel pulpito di Nicola del 1260, ma anche per la credenza, diffusa nel Medioevo, che si trattasse del «talento» dove si ponevano le decime dovute all’imperatore in età romana (p. 321): da questa opinione sarebbe nata anche una pseudoetimologia di Pisae da «pesare» (riferita anche da A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1882, p. 120). 88. Per la statua equestre in cui si ravvisava Marte, posta sul Ponte Vecchio fino all’inondazione del 1333, basti il richiamo a due celebri passi danteschi: «I’ fui della città che nel Battista | mutò ‘l primo padrone; ond’ei per questo | sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che in sul passo d’Arno | rimane ancor di lui alcuna vista, | quei cittadin, che poi la rifondarno | sovra il cener che d’Attila rimase, | avrebber fatto lavorare indarno» (Inferno XIII 143-50), e «Tutti color ch’a quel tempo eran ivi | da poter arme, tra Marte e ‘l Batista| erano il quinto di quei che son vivi» (Paradiso XVI 46-48). Si veda inoltre, anche per le testimonianze del Boccaccio e del Villani, G. Padoan, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, p. 844. 89. Belting, Die Oberkirche cit., p. 143. 90. Si veda M. Boskovits, Gli affreschi del Duomo di Anagni: un capitolo di pittura romana, in «Paragone», 1979, n. 357, pp. 3-41. 91. A. Peroni, San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico alto-medievale rivisitato, in «Arte medievale», 1983, n. 1, pp. 53-80. 92. II Belting (Die Oberkirche cit.) ha dedicato al sistema degli ornati un esame molto particolareggiato, che ha portato a dei risultati positivi, ma non sempre. Io non riesco a condividere, per esempio, l’idea che ornatisti specializzati lavorassero in parallelo con Cimabue. Le testine inserite nelle fasce ornamentali sono chiaramente cimabuesche (su questo punto, si veda anche Boskovits, Gli affreschi cit., pp. 11, 13 e nota 56). Credo non sia corretto aver considerato gli ornati di Assisi come un sistema caratteristico dell’aftresco. Prima del profondo rinnovamento di fine Duecento della concezione dell’affresco nella sua funzione e - di conseguenza - nella sua incorniciatura che diventa architettura finta, le differenze tra gli ornati di un affresco, di un dipinto su tavola e perfino - di una pagina miniata erano molto meno nette. Così gli ornati delle cornici della Madonna cimabuesca del Louvre o della Madonna Rucellai credo contengano molte indicazioni utili in rapporto con gli ornati degli affreschi di Assisi: allo stesso modo di certi gruppi di miniature; e penso ad esempio al complesso capolettera con una Ascensione nel Graduale I della Biblioteca Comunale di Cortona (si veda Degl’Innocenti Gambuti, I codici cit., pp. 75-95). 93. Dell’identificazione possibile fra il «maestro romano di San Pietro» individuato da Irene Hueck e Jacopo Torriti si è già parlato nel capitolo precedente, p. 113. 94. Si vedano soprattutto R. Pesenti, Maestri amolfiani di Assisi, in Studi di storia dell’arte, Genova 1977, pp. 43-53 (da cui si riprende il confronto qui proposto alle figg. 238-39); A. M. Romanini, Arnolfo e gli «Arnolfo apocrifi», in Roma cit., pp. 27-72 (soprattutto pp. 44-47). 95.

I problemi cimabueschi presi in considerazione in questo capitolo sono trattati molto sommariamente. Cosi, non ho potuto addentrarmi nella ricca discussione tenuta viva recentemente in Italia soprattutto da F. Bologna (si vedano, in particolare, i primi due capitoli del suo volume fondamentale, più volte citato, su I pittori alla corte angioina di Napoli). L’intenzione è di riaffrontare l’argomento in modo più organico in un’altra sede.

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1. Pittore romano, Frate Francesco (particolare), a. 1227. Subiaco, Sacro Speco. 2. Giotto, Stimmate di san Francesco (particolare). Firenze, Santa Croce.

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3. Jacopo Torriti, Mosaico absidale (particolare). Roma, San Giovanni in Laterano.

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4. Jacopo Torriti, Mosaico absidale (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore.

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Simone Martini,

5- San Francesco. 6. Santa Margherita (?).

Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore.

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7. Simone Martini, Madonna col Bambino tra i santi Stefano d'Ungheria e Ladislao d'Un gheria. Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. 8. Simone Martini, Sant'Enrico d'Ungheria. Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. 9. Francesco di Michele, Sant'Enrico d'Ungheria (particolare). Firenze, San Martino a Mensola.

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10. Giotto, Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. 11. Nicola Pisano e bottega, Arca di San Domenico (particolare). Bologna, San Domenico. 12. Giotto e bottega, San Francesco dona il mantello (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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13. Maestro della Santa Chiara, I parenti tentano di distogliere santa Chiara dal convento.

Assisi, Santa Chiara.

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14- Giotto e bottega, Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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15- Giotto, Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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16. Maestro della Santa Chiara, Incontro di san Francesco e di santa Chiara (particolare). Assisi, Santa Chiara. 17. Giotto e bottega, Morte del signore di Celano (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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18. Giotto e bottega (Maestro della Cattura?), Busto di santa. Assisi, San Francesco, Ba silica Superiore. 19. Marino da Perugia (?), Busto di giovane. Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai.

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20. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 21. Marino da Perugia (?), Creazione di Eva (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai.

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22. Maestro del Farneto (?), Gedeone e l'angelo (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai.

23. Giotto e bottega, Visione dei Troni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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24. Cimabue, Fregio architettonico (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. .

25. Giotto e bottega, Fregio architettonico (particolare). Assisi, San Francesco, silica Superiore.

26. Maestro del Farneto (?), Fregio architettonico (particolare). Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notai.

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27. Giotto e bottega, Conferma della Regola. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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28. Filippo Rusuti, II patrizio Giovanni davanti a papa Liberio. Roma, Santa Maria Maggiore.

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29. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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30. Filippo Rusuti, Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore.

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31. Giotto e bottega, Presepe di Greccio (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Su periore. 32. Filippo Rusuti, Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore.

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33. Filippo Rusuti, Redentore e angeli (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore.

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34. Giotto e bottega, Sogno di Innocenzo III. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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35. Maestro del San Francesco, Sogno di Innocenzo III (particolare). Assisi, San France sco, Basilica Inferiore. 36. Maestro delle tempere francescane (?), Sogno di Innocenzo III (particolare). Ottana, Duomo.

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37- Cimabue, Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 38. Giotto e bottega, Resurrezione della donna di Benevento (particolare). Assisi, San Fran cesco, Basilica Superiore. 39. Giotto, Compianto (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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40. Giotto e bottega, Decorazione ad affresco (particolare). Padova. Cappella degli Scrovegni. 41. Giotto e bottega, Predica ad Onorio (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore 42. Giotto, Tradimento di Giuda (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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43. Giotto e bottega, Presepe di Greccio. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 44. Giotto, Presentazione della Vergine al Tempio (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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45- Giotto e bottega, Omaggio dell'uomo semplice. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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46. Giotto, Morte di san Francesco (particolare). 47. Giotto (bottega di), Morte di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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48. Giotto, Inganno di Giacobbe. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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49- Giotto, Adorazione dei Magi (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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50. Giotto e bottega, Cacciata dei diavoli da Arezzo, Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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51. Giotto e bottega, Decorazione intorno al triforio dell'arcone d'ingresso. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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52. 53. 54. 55. 56. 57.

Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Giotto e bottega, Visione di fra' Agostino (particolare). Giotto, Inganno di Giacobbe (particolare). Giotto e bottega, Visione del carro dì fuoco (particolare). Giotto e bottega, Pentecoste (particolare). Giotto e bottega, Prova del fuoco davanti al Sultano (particolare) Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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58. Giotto, Inganno di Giacobbe (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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59- Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Giotto (bottega di), 60. Ascensione (particolare). 61. Volta dei Dottori (particolare). 62. Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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63. 64. 65. 66.

Giotto, Disputa coi Dottori (particolare). Giotto (e bottega?), San Francesco dona il mantello (particolare). Giotto (e bottega?), Compianto (particolare). Giotto, Sogno di Innocenzo III (particolare). . . . Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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67. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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68. Giotto e bottega, Conferma della Regola (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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69. 70. 71. 72. 73.

Giotto e bottega, Ascensione (particolare). Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Giotto, bacco respinge Esaù (particolare). Giotto, Visione del carro di fuoco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Giotto e bottega, 74. San Francesco riceve le Stimmate. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 75. San Francesco riceve le Stimmate. Parigi, Louvre.

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Giotto e bottega, 76. San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre. 77. Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Giotto e bottega, 78. Morte del signore di Celano (particolare). 79. Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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80. Giotto e bottega, Resurrezione della donna di Benevento (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

81. Giotto e bottega, San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre.

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Giotto e bottega, 82. Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 83. San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Parigi, Louvre.

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Giotto e bottega, 84. Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 85. Ingresso a Gerusalemme (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni. 86. Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 87. Inferno (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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Giotto e bottega, 88. San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 89. Battesimo di Cristo (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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90. Giotto e bottega, Omaggio dell'uomo semplice (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 91. Giotto, Presentazione della Vergine al Tempio (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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Giotto e bottega, 92- Predica ad Onorio (particolare). Assisi, San France sco, Basilica Superiore. 93- Presentazione al Tempio (particolare). Padova, Cap pella degli Scrovegni. 94- San Francesco riceve le Stimmate (particolare). Pari gi, Louvre.

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Giotto e bottega,

-

95. Morte del signore di Celano (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 96. Giudizio Finale (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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Giotto,

97. Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 98. Gioacchino e l'angelo (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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99. Giotto e bottega, Madonna col Bambino (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Giotto e bottega, 101. Compianto delle Clarisse (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 102. Nozze di Cana (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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103. Giotto e bottega, Madonna col Bambino (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 104. Giotto, Croce dipinta (particolare). Firenze, Santa Maria Novella. 105. Giotto e bottega, Giustizia (particolare). Padova, Cappella degli Scrovegni.

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106. Giotto, San Pietro. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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107. Giotto, San Pietro (particolare). Firenze, Uffizi.

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108. Giotto, Resurrezione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 109. Giotto, Funerali di san Francesco. Firenze, Santa Croce. 110. Giotto e bottega, Apparizione al capitolo di Arles (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 111. Giotto e bottega, Apparizione al capitolo di Arles (particolare). Firenze, Santa Croce.

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112. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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113. Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Firenze, Santa Croce.

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114. Maestro di San Gaggio, Crocifissione. Berlino, Staatliche Museen Preus-sischer Kulturbesitz, Gemàldegalerie.

115. Maestro di San Gaggio, Crocifissione. Berlino Dahlem, Staatliche Museen, Gemaldegalerie.

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116. Jacopo Torriti, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

117. Jacopo Torriti, Madonna «advocata» (particolare). Tivoli, Santa Maria Maggiore.

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118. Jacopo Torriti, Incoronazione della Vergine (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore.

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119. Jacopo Torriti, Le Vergini sagge (particolare). Roma, Santa Maria in Trastevere. 120. Jacopo Torriti (?), Santa Lucia. Grenoble, Musée de Peinture et de Sculpture.

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121. Jacopo Torriti, Madonna col Bambino. Roma, Santa Maria del Popolo.

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123. 124. 125. 126.

Jacopo Torriti, Annunciazione (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Madonna col Bambino e santi (particolare). Roma, San Saba. Mosaico absidale (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Madonna col Bambino e santi (particolare). Roma, Santa Maria in Aracoeli.

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127. 128. 129. 130. 131.

Filippo Rusuti, Madonna col Bambino e santi. Roma, San Crisogono. Redentore e santi (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Redentore e santi (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Fondazione di Santa Maria Maggiore (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Mosè davanti al roveto ardente (particolare). Grottaferrata, Abbazia.

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132. 133. 134. 135.

Filippo Rusuti (?), San Pietro (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Filippo Rusuti, Mosè e il serpente (particolare). Grottaferrata, Abbazia. Filippo Rusuti (?), Apostolo (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Filippo Rusuti, San Nilo (particolare). Grottaferrata, Abbazia.

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136. 137. 138. 139.

Filippo Rusuti, Redentore e santi (particolare). Roma, Santa Maria Maggiore. Filippo Rusuti, Angelo. Béziers, Saint-Nazaire. Filippo Rusuti (?), Angelo. Subiaco, Santa Scolastica. Filippo Rusuti, Angelo. Béziers, Saint-Nazaire.

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140. Rogerio da Todi, Madonna col Bambino, 1295. Sangemini, San Niccolo. 141. Mosaicista romano, Madonna col Bambino e santi (particolare), c. 1296. Roma, Santa Maria sopra Minerva.

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142. Mosaicista romano, Madonna col Bambino e santi, c. 1299- Roma, Santa Maria Maggiore.

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143. Jacopo Torriti, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 144. Jacopo Torriti, Creazione del mondo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 145. Cimabue, Crocifissione (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 146. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Su periore. 147. Giotto e bottega, Omaggio dell'uomo semplice (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 148. Pietro Cavallini, Giudizio Finale (particolare). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.

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149150. 151. 152.

Giotto e bottega, Compianto (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. Pietro Cavallini (bottega di), Compianto. Napoli, Santa Maria Donnaregina. Maestro della Cattura, Natività. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. Pietro Cavallini, Natività. Roma, Santa Maria in Trastevere.

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153. Maestro romano della fine del secolo XIII, Angelo. Subiaco, Sacro Speco. 154. Giotto, Madonna col Bambino. Borgo San Lorenzo, Pieve.

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155. Giotto, Madonna col Bambino (particolare). Borgo San Lorenzo, Pieve.

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156. Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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157- Giotto e bottega, San Francesco rinuncia ai beni (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 158. Pittore fiorentino degli inizi del secolo XIV, Vìsita dell'imperatrice a santa Caterina in carcere (particolare). San Jacopo a Castelpulci (Firenze). 159. Memmo di Filippuccio, Decorazione della controfacciata. San Gimignano, Collegiata.

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160. Duccio, Madonna col Bambino. Già Bruxelles, Collezione Stoclet.

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161. Giotto e Maestro della Cattura, San Paolo. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 162. Marino da Perugia, Madonna col Bambino, angeli e santi (particolare). Perugia, Gal leria Nazionale.

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163. Pittore campano della fine del secolo XIII, Ascensione (particolare). Capua, Museo (già San Salvatore Piccolo).

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164. Pittore napoletano (?) degli inizi del secoloXIV, San Domenico e storie della sua vita (particolare). Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte.

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165. Primo maestro di Sant'Antonio di Polesine, Crocifissione. Ferrara, Sant'Antonio di Polesine. 166. Pittore lombardo degli inizi del secolo xiv, Storia delle sante Faustina e Liberata. Co rno, Museo Civico.

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167-68. Pittore veneziano degli inizi del secolo xiv, Crocifissione e santi (particolari). Treviso, Seminario. 169. Giovanni da Rimini, Presentazione al Tempio. Rimini, Sant'Agostino.

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170. Cimabue e bottega, Decorazione del transetto destro. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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171. Giotto e bottega, Decorazione verso la controfacciata. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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172. Cimabue e bottega, Decorazione intorno alla cattedra papale. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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173- Giotto (bottega di), Volta dei Dottori (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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174- Jacopo Torriti e bottega, Volta dei Santi (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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175- Giotto, Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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176. Cimabue (bottega di), Profeta. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore, Quarta campata.

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177- Giotto, Sant'Antonio abate. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore, Seconda campata.

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178. Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Andata al Calvario (parti colare) . 179. Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, San Benedetto (particolare). 180. Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, San Pietro martire. 181. Giotto e Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Funerali di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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182. Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), Crocifissione (particolare). 183. Maestro dell'Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?) e Giotto, Santa Vergine (particolare). 184. Giotto (bottega di), Pentecoste (particolare). 185. Giotto (bottega di), Estasi di san Francesco (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. . .

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Cimabue, 186. Maestà (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore. 187. Maria e Cristo in trono. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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188. Miniatore di Deruta, Crocifissione. Deruta, Biblioteca Comunale.

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189. Maestro della Croce di Nocera, Croce dipinta. Nocera Umbra, Pinacoteca.

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190. Maestro delle Palazze, Derisione di Cristo. Spoleto, Sant'Agata. 191. Primo miniatore di Perugia, Cristo in gloria. Perugia, Biblioteca Augusta.

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192. Maestro della Croce di Gubbio (?), Crocifissione. Gubbio, Capitolo del Duomo.

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193- Giotto e bottega, Battesimo di Cristo (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore. 194. Maestro della Croce di Gubbio (?), Crocifissione (particolare). Gubbio, Capitolo del Duomo.

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195- Maestro del San Francesco, Deposizione. Perugia, Galleria Nazionale.

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196. Maestro del Farneto, Deposizione. Perugia, Galleria Nazionale.

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197. Cimabue, Volta degli Evangelisti (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Su periore. 198. Maestro di Barberino (?), Madonna della Misericordia (particolare). Firenze, Orato rio del Bigallo. .

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199. Cimabue, Transito della Vergine. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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200. Cimabue, Dormitio Virginis. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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201. Cimabue, San Giovanni Evangelista (particolare). Pisa, Duomo.

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201. Cimabue, Maestà (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Inferiore.

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204. Duccio, Madonna Rucellai. Firenze, Uffizi.

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205. Cimabue, Madonna di Santa Trinità. Firenze, Uffizi.

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209. Cimabue, Croce dipinta (particolare). Firenze, Museo di Santa Croce. 210. Corso di Buono, Miracolo di san Giovanni Evangelista (particolare). Montelupo Fio rentino, ex chiesa di San Giovanni Evangelista.

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211. Cimabue, Crocifissione. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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212. Cimabue, Cornice della Maestà (particolare). Parigi, Louvre.

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213. Duccio, San Matteo, vetrata. Siena, Duomo.

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214- Cimabue, Volta degli Evangelisti (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Duccio, 215. Incoronazione della Vergine, vetrata. Siena, Duomo. 216. Piccola Maestà. Berna, Kunstmuseum.

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Duccio, 217. Madonna dei francescani (particolare). Siena, Pinacoteca. 218. Piccola Maestà (particolare). Berna, Kunstmuseum.

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Duccio, 219. Madonna di Crevole. Siena, Museo dell'Opera del Duomo. 220. Incoronazione della Vergine (particolare). Siena, Duomo.

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221. Duccio, San Savino (particolare). Siena, Duomo.

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222. Duccio, San Gregorio (particolare). Boston, Museum of Fine Arts.

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223. Cimabue e Giotto (?), Madonna col Bambino. Castelfiorentino, Propositura.

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225. Cimabue e Giotto (?), Madonna col Bambino (particolare). Castelfiorentino, Propositura.

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226. Giotto e bottega, Volta dei Dottori (particolare). 227. Giotto, Isacco respinge Esau (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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228. Cimabue, Croce dipinta (particolare). Firenze, Museo di Santa Croce. 229. Duccio, Madonna Rucellai (particolare). Firenze, Uffizi.

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230 Pittore oltremontano, Trasfigurazione. 231. Pittore oltremontano e Maestro di San Pietro (Jacopo Torriti?), Decorazione della parete di fondo del transetto destro. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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232. Pittore oltremontano, Triforio. 233. Cimabue e bottega, Triforio. 234. Giotto e bottega, Tre storie di san Francesco. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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235- Portale del transetto sud. Parigi, Notre-Dame.

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236. Giotto e bottega, Visione del carro di fuoco (particolare) 237. Pittore oltremontano, Deesis (particolare). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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238. Arnolfo di Cambio, Madonna col Bambino (particolare). Orvieto, San Domenico.

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239- Giotto e bottega (Maestro della Cattura?), Busto di santa. Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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240-41. Cimabue, Fascia decorativa (particolari). Assisi, San Francesco, Basilica Superiore.

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Indice dei nomi

Achenbach, G., vedi Coor-Achenbach, G.M. Andaloro, M., 36 n, 38 n, 39 n, 141 n, 143 n. Angiò, dinastia, 6-8, 32 n. Anonimo Romano, 30 n. Arisi, F., 142 n. Arnolfo di Cambio, 65, 115, 186, 189, 197 n, 201 n. Aubert, A., 180, 195 n, 198 n. Baccheschi, E., 99 n. Baldini, U., 145 n. Barbet de Jouy, F.-H., 115, 142 n. Barocchi, P., 139 n. Bartolomeo, abate, 115. Basilio II Bulgaroctono, imperatore d’Oriente, 101 n. Battisti, E., 164, 194 n, 195 n. Becker, F., 96 n. Bellinati, C., 33 n. Bellosi, L., 32 n, 36 n, 100 n, 140 n, 147 n. Belting, H., 35 n, 37 n, 39 n, 40 n, 61, 99 n - 101 n, 149, 160, 180, 182-84, 190, 191 n, 192 n, 194 n, 198 n - 202 n. Bérenger III, vescovo di Frédol, 143 n. Berlinghieri, Bonaventura, 3, 50, 63, 78. Bertaux, E., 99 n. Bertelli, C., 37 n, 110, 111, 118, 119, 131, 140 n, 141 n, 143 n, 145 n. Berthier, J.-J., 144 n. Bettarini, R., 139 n. Bianchi, Gerardo, 36 n. Bietti Favi, M., 140 n. Bloch, Marc, 53. Blume, D., 37 n. Boccaccio, Giovanni, 24, 202 n. Bologna, F., 7, 32 n, 33 n, 35 n, 36 n, 38 n, 117, 134, 143 n, 144 n, 146 n, 192 n, 193 n, 195 n - 198 n, 202 n.

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Cerroni, famiglia, 114. Cerroni, Angela, 113, 114. Cerroni, Bartolomeo di Giovanni, 114. Cerroni, Oddone, 113, 114. Cerroni, Pietro, 114. Chelazzi Dini, G., 196 n. Christie, Y., 141 n. Ciatti, M., 145 n. Cimabue, 3, 16, 21, 36 n, 38 n, 49-53, 55, 58, 62, 67, 71, 78, 85, 107, 108, 113, 117, 12429, 144 n, 149-202. Cioni Liserani, E., 199 n. Clemente V (Bertrand de Got), papa, 17, 18, 32 n. Cole, B., 97 n. Coletti, L., 180, 198 n. Colonna, famiglia, 17, 18, 142 n. Colonna, Giacomo, 17, 36 n, 117. Colonna, Pietro, 17, 117. Consalvo, vescovo, vedi Rodriguez, Consalvo. Conti, A., 195 n. Coor-Achenbach, G. M., 113, 140 n, 141 n. Coppo di Marcovaldo, 125, 127,174. Corbet, S., 194 n. Corso di Buono, 175, 195 n. Cosmati, 125. Cristiani Testi, M. L., 145 n. Cristofani, M., 201 n. Cuppini, M. T., 98 n. Daddi, Bernardo, 10, 106. Dalai Emiliani, M., 98 n. Dal Poggetto, P., 197 n. Dante Alighieri, 6, 60, 61, 108, 140 n, 163. De Angelis, 32 n. Degl’Innocenti Gambuti, M., 196 n, 202 n. Della Pergola, P., 36 n. De Rossi, G. B., 115, 142 n. Deschamps, P., 144 n. «Desmarz», Nicola, 143 n. Deuchler, F., 196n. Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore romano, 4. Donati, P. P., 146 n, 195 n, 196 n. Donato d’Arezzo, 132, 146 n. Donnini, G., 193 n, 194 n. Dowell, C. R., 144 n. Duccio di Buoninsegna, 23, 24, 51, 52, 54, 58, 62, 66, 70, 80, 81, 96 n, 108, 116, 124, 126, 132, 138 n, 165-67, 169, 171-179, 181, 182, 191, 192 n, 194 n, 196 n-199 n.

Duns Scoto, Giovanni, 62. Durand, Guillaume, vescovo di Mende, 124, 144 n. Egidi, P., 141 n. Elia, frate, 159. Enrico Wajk, principe d’Ungheria, santo, 8. Feldges, U., 100 n. Ferri, G., 141 n. Filippo IV, re di Francia, detto il Bello, 143 n, 201 n. Fineschi, V., 195 n. Fisher, M. R., 101 n. Fracassetti, G., 33 n. Francesco d’Assisi, santo, 3-9 e passim, 58-61 e passim. Francesco di Michele, 8, 32 n. Franchi, P., 145 n. Fratini, G., 39 n. Frazer, A. K., 194 n. Gaddi, Gaddo, 140 n. Gaddi, Taddeo, 3, 33 n, 106. Gardner, Julian, 18-20, 36 n, 39 n, 40 n, 110, 140 n, 142 n, 143 n. Garrison, E. B., 104-7, 109, 111, 112, 131, 138 n, 139 n, 141 n, 196 n. Garzelli, A., 145 n. Gerolamo, santo, 196 n. Ghiberti, Lorenzo, 46, 80, 81, 97 n, 101 n, 114, 115, 142 n, 176. Gioseffi, D., 33 n, 36 n, 55, 98 n, 99 n, 101 n, 137, 138 n. Giovanni XXII (Jacme Duesa), papa, 6, 7. Giovanni da Murro, fra, 5, 6, 25, 36 n, 42. Giovanni da Rimini, 136. Giovanni di Cosma, 124, 125, 144 n. Giovanni Pisano, 11, 64. Girolamo d’Ascoli, 38 n. Giuliano da Rimini, 23, 24, 34 n, 46, 136, 137. Giulio II (Giuliano Della Rovere), papa, 39 n. Giunta Pisano, Giunta Capitini, detto, 159, 168, 170. Giusti, A. M., 196 n, 199 n. Gnudi, C., 98 n, 102 n, 201 n. Gosche, A., 32 n. Graf, A., 202 n. Grassi, L., 36 n. Gregori, M., 34 n. Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort), papa, 194 n.

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Indice dei nomi Gregorio d’Arezzo, 132, 146 n. Grossato, L., 98 n. Guccio di Mannaia, 29, 182, 199 n. Guido da Siena, 174, 196 n. Hermanin, Federico, 97 n, 115, 142 n. Hetherington, P., 115, 142 n. Hoffmann.V., 38 n. Hueck, Irene, 37 n, 100 n, 102 n, no, 113, 141 n, 180, 198 n, 199 n, 202 n. Innocenzo III (Giovanni Lotario), papa, 26, 27, 31 n, 130, «Jacobus pictor», vedi Torriti, Jacopo. Jacopo da Castello, 197 n. Jekill, Lady, 147 n. Jones, P., 31 n. Kaftal, G., 32 n. Kerpp, H., 35 n. Kiel, H., 194 n. Kleinschmidt, B., 34 n, 38 n, 46, 97 n. Krautheimer, R., 194 n. Kreytenberg, G., 194 n. Ladislao I, re d’Ungheria, santo, 8. Ladner, G. B., 32 n. Lauer, P., 32 n, 38 n, 194 n. Leilo da Orvieto, 7. Leone de Castris, P. L., 199 n. Liberio, papa, 18, 118. Lippo di Benivieni, 145 n, 146 n. Longhi, R., 34 n, 37 n, 44, 98 n, 102 n, 107, 133, 140 n, 146 n, 157, 181, 192 n- 199 n, 201 n. Lorenzetti, Ambrogio, 54, 63, 66, 96 n, 201 n. Lorenzetti, C., 146 n. Lorenzetti, Pietro, 3, 10, 54, 63, 129, 182, 199 n. Lotario, 171. Ludovico da Pietralunga, fra, 194 n. Ludovico di Tolosa, santo, 6, 7. Luigi IX, re di Francia, santo, 7, 8, 200 n. Maddalo, S., 37 n. Maestro del Crocifisso di Montefalco, 14, 133, 135 Maestro del De Arte venandi cum avibus, 11. Maestro del Farneto, 34 n, 133, 155, 159. Maestro della cappella di San Nicola, 136. Maestro della cappella Velluti, 131. Maestro della Cattura, 154, 192 n.

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Maestro della Croce di Gubbio, 155. Maestro della Leggenda di san Francesco, 129. Maestro della Maddalena, 107, 108, 165. Maestro dell’Andata al Calvario (Memmo di Filippuccio?), 154, 192 n, 193 n. Maestro della Santa Cecilia, 23, 24, 43, 45, 54, 70, 84, 94, 96 n, 99 n, 101 n, 102 n, 105, 106, 130-32, 136, 139 n, 140 n, 146 n. Maestro delle Sante Flora e Lucilia, 132. Maestro delle Storie del Battista, 137. Maestro del San Francesco, 3, 26, 127, 159, 200 n. Maestro di Badia a Isola, 166. Maestro di Cesi, 45. Maestro di Figline, 3. Maestro di Isacco, 6, 100 n, 104, 129, 139 n, 201 n. Maestro di Montelabate, 157, 193 n. Maestro di San Gaggio, 54, 106, 107, 131, 134, 140 n. Maestro di San Martino, 50, 124, 172. «Maestro di San Saba», vedi Torriti, Jacopo. Maestro di San Torpè, 132. Maestro espressionista di Santa Chiara, 14, 23, 24, 34 n, 64, 133, 155, 159. Magister Conxolus, 130, 134, 145 n. Maître Honoré, 182, 200 n. Malpiliis, B. de, 111, 141 n. Manfredino da Pistoia, 165, 173. Mann, H. K., 38 n, 39 n. Marchini, G., 39 n. Marcucci, L., 196 n. Margarito di Magnano, detto Margaritone d’Arezzo, 3, 78, 172. Margiotta, A., 146 n. Marino da Perugia, 14, 15, 34 n, 133, 146 n, 155. Martini, Simone, 7, 8, 10, 32 n, 54, 66, 80, 81, 94, 129, 144 n, 182. Masaccio, Tommaso di ser Giovanni, detto, 178. Maso di Banco, 106. Matalon, S., 147 n. Mather, F., 99 n. Matteo d’Acquasparta, 6, 130. Matthiae, G., 35 n, 118, 119, 141 n - 143 n. Meiss, M., 13, 34 n, 42-44, 46, 47, 66, 68, 69, 96 n, 99 n, 100 n, 102 n, 103, 143 n. Meliore, 165. Memmo di Filippuccioo, 132, 145 n, 146 n; vedi anche Maestro dell’Andata al Calvario.

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Indice dei nomi

Mengaldo, P. V., 140 n. Miccoli, G., 31 n. Milanesi, G., 138 n, 195 n. Mita, D., 141 n. Mitchell, C. H., 37 n. Monferini, A., 160, 194 n, 201 n. Montano d’Arezzo, 134. Morisani, O., 146 n. Moscone, L., 195 n. Muraro, M., 135, 147 n. Muratori, L. A., 30 n, 98 n. Murray, P., 25-27, 37 n, 198 n. Neri, G. D., 98n. Neri Lusanna, E., 146 n. Nessi, S., 37 n. Newton, S. M., 32 n. Niccolo III (Giovanni Gaetano Orsini), papa, 157, 160, 172, 186. Niccolo IV (Girolamo Mosci), papa, 6, 9, 17, 18, 25-30, 36 n - 39 n, 60, 109, 110, 117, 149, 154, 182. Nicholson, A., 164, 170, 195 n. Nicola Pisano, 11, 64, 201 n, 202 n. Oakeshott, W., 35 n, 144 n. Oertel, R., 44, 96 n, 180, 198 n, 199 n. Offner, R., 9, 41, 43-52, 55, 56, 58, 59, 66, 67, 80, 82, 86, 89, 90, 96 n -102 n, 103, 105, 109, 124, 131, 132, 138, 139 n, 140 n, 144 n, 146 n, 176. Olivi, Pietro, 6. Orlandi, Deodato, 103, 132, 138 n, 165. Orsini, famiglia, 160. Pace, V., 199 n. Pacino di Bonaguida, 132. Padoan, G., 202 n. Paeseler, W., 144 n. Palmerino di Guido, 34, 133. Pannini, Giovanni Paolo, 115, 142 n. Panofsky, E., 98 n. Panvinio, Onofrio, 26. Paolo Uccello, Paolo di Dono, detto, 122. Paolucci, Antonio, 145 n. Paris, Matteo, 31 n. Parronchi, A., 144 n. Partino da Montefiore, Gentile, cardinale, 8, 32n. Pasolini, P. P., 61. Pelliccioli, Mauro, 98 n. Pellini, P., 17, 35 n. Peregrosso, Pietro, cardinale, 142 n. Peroni, A., 190, 202 n.

Pesenti, R., 202 n. Petrarca, Francesco, 10. Petrarca, Gerardo, 10. Picasso, Pablo, 81. Pietro da Rimini, 137. Poeschke, J., 142 n. Polzer, J., 201 n. Pomarici, F., 200 n. Pope-Hennessy, J., 197 n. Porta, Giuseppe, 30 n. Previtali, G., 13, 30 n, 33 n, 34 n, 36 n, 39 n, 40 n, 43, 87, 98 n, 100 n - 102 n, 107, 137, 138 n - 140 n, 143 n, 145 n, 147 n, 154, 192 n - 196 n, 199 n. «Primo miniatore perugino», 157. Procacci, U., 97 n. Prosdocimi, A., 99 n. Pucci, Antonio, 198 n. Quintavalle, A. O., 146 n. Raffaello Sanzio, 68, 132. Ragghianti, C. L., 36 n, 37 n, 194 n, 198 n. Ragionieri, G., 142 n. Riccobaldo Gervasio Ferrarese, 66, 98 n, 100 n, 103, 136, 138 n. Riccuccio del fu Puccio del Mugnaio, 138 n. Richa, G., 140 n. Riess, J. B., 34 n. Rintelen, F., 41, 43, 44, 46, 47, 96 n, 97 n, 102 n, 105. Roberto d’Angiò, re di Sicilia, 7, 32 n. Rodriguez, Consalvo, 125. Rogerio da Todi, 124. Rohault de Fleury, C., 38 n. Romanini, A. M., 202 n. Rowley, G., 96 n. Ruggero di Wendover, 31 n. Rumohr, K. F. von, 96 n. Rusuti, Filippo, 17, 20-25, 35 n, 36 n, 39 n, 116-18, 120-23, 125, 129, 130, 143 n, 145 n. Rusuti, Giovanni, 143 n. Salvini, R., 143 n, 147 n. Sandberg Vavalà, E., 198 n. Santi, Bruno, 145 n. Santi, F., 144 n, 193 n, 195 n. Scarpellini, P., 97 n, 194 n. Schlosser, J. von, 97 n, 163, 195 n. Schöne, W., 191 n. Scrovegni, Enrico degli, 11. Seidel, M., 100 n, 201 n. Settis, S.,102 n.

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Indice dei nomi Shakespeare, William, 59. Shapley, F. R., 140 n. Sindona, E., 195 n. Simbaldi, G., 197 n. Smart, A., 14, 44, 65, 96 n, 99 n, 101 n, 102 n, 136, 147 n. Spezzaferro, L., 194 n. Spinelli, Parri, 96 n. Spinello Aretino, Spinello di Luca Spinelli, detto, 96 n. Stefaneschi, Bertoldo, 142 n. Stefaneschi, Jacopo Caetani, 37 n, 142 n. Stefano I Wajk, re d’Ungheria, santo, 8. Steingräber, E., 96 n. Stubblebine, J. H., 96 n, 174, 197 n.

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Volpe, C., 32 n, 102 n, 146 n, 147 n, 180, 182, 192 n, 193 n, 195 n, 197 n - 200 n. Walcher Casotti, M., 33 n. White, J., 13, 34 n, 42, 46, 67-69, 76, 94, 96 n, 97 n, 100 n - 102 n, 136, 142 n, 147 n, 174, 192 n, 194 n, 196 n, 197 n. Wickhoff, F., 195 n. Witekindo, 171. Witte, K., 96n. Wollesen, J. T., 196 n. Zanardi, B., 146 n, 192 n. Zeri, F., 137, 144 n, 147 n, 196 n. Zocca, E., 34 n.

Tempesti, F., 98 n. Thibout, M., 144 n. Thieme, U., 96 n. Tintori, L., 68, 69, 100 n, 102 n. Tiziano Vecellio, 78. Todini, F., 34 n, 146 n. Toesca, I., 122, 143 n. Toesca, P., 39 n, 44, 80, 95, 97 n, 101 n, 102 n, 110-13, 140 n, 141 n, 165, 195 n - 197 n, 199 n. Tomei, A., 36 n. Tommaso da Celano, 3, 30 n. Torriti, Jacopo, 3, 4, 9, 15, 17, 18, 26, 28, 30, 38 n, 45, 60, 105, 109-13, 116, 117, 120, 123-26, 128-30, 140 n - 142 n, 149, 152-54, 179, 190, 191, 192 n, 200 n, 202 n. Toscano, B., 157, 193 n. Trenta, G., 195 n. Trifone, B., 142 n. Ubertino da Casale, 6. Ugolino di Tedice, 172. Ugonio, 26. «Ultimo maestro del Battistero», 37 n. Urbano IV (Jacques Pantaléon), papa, 113. Van Marle, R., 34 n, 96 n, 135, 143 n, 147 n. Vasari, Giorgio, 18, 25, 36 n, 37 n, 42, 99 n, 105, 114, 138 n, 139 n, 153, 163, 176, 194 n, 197 n, 198 n. Venturi, A., 39 n. Venturoli, P., 197 n. Vigoroso da Siena, 156, 168, 173, 175. Villani, Giovanni, 202 n. Vitruvio Pollione, Marco, 194 n.

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