La paura e la speranza: Europa, la crisi globale che si avvicina e la via per superarla [PDF]

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GIULIO TREMONTI  LA PAURA  E LA SPERANZA   

europa: la crisi globale  che si avvicina e  la via per  superarla 

 

Parte prima

LA PAURA

5 20 30 47

I costi della globalizzazione

I II

Il lato oscuro della globalizzazione

III Europa: le cause della crisi continentale IV

Europa:

gli

effetti

della

crisi

continentale Parte seconda

LA SPERANZA

61

V Una politica nuova, dopo il fallimento delle ideologie

74

VI I

87

VII  Sette parole

99

VIII  Quo vadis Europa? Proposte

112

valori, per una identità europea d'ordine, per salvarsi dalla crisi globale Poscritto

concrete

3 I costi della globalizzazione

È finita in Europa l'«età dell'oro». È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la «cornucopia» del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro. I prezzi - il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari - invece di scendere, salgono. Low cost può ancora essere un viaggio di piacere, ma non la spesa di tutti i giorni. Un viaggio a Londra può ancora costare meno di 20 euro, ma una spesa media al supermercato può costare ben più di 40 euro. Come in un mondo rovesciato, il superfluo viene dunque a costare assurdamente meno del necessario. Cosa è successo? È successo che in un soffio di tempo, in poco più di dieci anni, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo. Meccanismi che normalmente avrebbero occupato una storia di lunga durata, fatta da decenni e decenni, sono stati prima concentrati e poi fatti esplodere di colpo. Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre. Il corso della storia non poteva certo essere fermato, ma qualcuno e qualcosa - vedremo chi e che cosa - ne ha follemente voluto e causato l'accelerazione aprendo come nel mito il «vaso di Pandora», liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare.

4 È così che una massa di circa un miliardo di uomini, concentrata prevalentemente in Asia, è passata di colpo dall'autoconsumo al consumo, dal circuito chiuso dell'economia agricola al circuito aperto dell'economia di «mercato». È una massa che prima faceva vita a sé: coltivava i suoi campi e allevava i suoi animali per nutrirsi; raccoglieva la sua legna per scaldarsi; non aveva industrie. Ora è una massa che non è più isolata, che comincia a vivere, a lavorare, a consumare più o meno come noi e insieme a noi, attingendo a quella che una volta era la nostra esclusiva riserva alimentare, mineraria, energetica. È una massa che non ha ancora il denaro necessario per comprare un'automobile, ma ha già il denaro sufficiente per comprare una moto, un litro di benzina o di latte, un chilo di carne. I cinesi, per esempio, nel 1985 consumavano mediamente 20 chilogrammi di carne all'anno, oggi ne consumano 50. Se il numero dei bovini da latte o da carne che ci sono nel mondo resta fisso, ma sale la domanda di latte o di carne, allora i prezzi non restano uguali, ma salgono anche loro. E lo stesso vale per i mangimi vegetali con cui si allevano gli animali e, via via salendo nella scala della rilevanza economica, per quasi tutti i prodotti di base tipici del consumo durevole e poi per tutte le materie prime necessarie per la nascente e crescente produzione industriale: l'acciaio, il carbone, il petrolio, il gas, il cotone, le fibre, la plastica per far funzionare le industrie. La squadratura che si sta così determinando, tra offerta che resta fissa e domanda che cresce, ha avuto e avrà nel mondo un effetto strutturale sostanziale: la salita globale dei prezzi. E dunque del costo della vita. Non solo per quelli che nel mondo sono relativamente più ricchi, negli USA o in Europa, ma anche per quelli che sono relativamente più poveri, in Africa.

5 Può essere che recessioni economiche o nuove scoperte minerarie o invenzioni rallentino questa salita, ma sarà solo nel breve periodo, solo per un po' di tempo. Poi, se il

funzionamento del meccanismo non sarà rallentato, la forza crescente della domanda tornerà a prevalere sulla quantità limitata dell'offerta. Procedendo per inevitabili linee di rottura, la globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo l'inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo. È infatti già cominciata la lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali e delle aree di influenza. Nuove tensioni si sviluppano lungo linee di forza che vanno oltre i vecchi luoghi della storia, oltre i vecchi passaggi strategici. Dalla superficie terrestre fino all'atmosfera, dal fondo del mare fino alle calotte polari, le «nuove» esplorazioni strategiche, fatte sul fondo marino o ai poli, le conseguenti pretese di riserva di proprietà «nazionale», non sono già segni sufficienti per capirlo? Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l'imprevedibile, l'irrazionale, l'oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni. In Europa, per la massa della popolazione - non per i pochi che stanno al vertice, ma per i tanti che stanno alla base della piramide - il paradiso terrestre, l'incremento di benessere portato dalla globalizzazione è comunque durato poco, soltanto un pugno di anni. Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a

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stare ancora peggio chi stava già peggio. Sta meglio solo chi stava già meglio. E non è solo questione di soldi. Perché la garantita sicurezza nel benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale. È così che ci si presentano insieme la paura e la speranza. La paura. Il fantasma della povertà sta bussando alle nostre porte. Il fantasma della povertà materiale, ma soprattutto il fantasma della povertà spirituale, la madre di tutte le povertà. Dopo l'estasi prodotta dalla droga «mercati-sta», ora viene infatti la depressione. Come se l'universo fosse un supermercato, stiamo consumando il futuro dei nostri figli, con il rischio di farlo tanto in fretta da vedere noi stessi gli effetti delle nostre azioni. Rispetto a qualche anno fa, rispetto al vecchio mondo come era prima della globalizzazione, abbiamo certo un po' più di cose materiali, ma stiamo perdendo una cosa fondamentale. Stiamo perdendo la speranza. Abbiamo i telefonini, ma non abbiamo più i bambini. La speranza. Perché il fantasma della povertà è un fantasma che in Europa possiamo respingere, dato che soprattutto noi siamo gli autori delle idee che lo hanno generato. Nella grande famiglia delle idee il «mercatismo», la fanatica forzatura del mondo nel liberismo economico, la fede illusoria in cui tantissimi hanno creduto negli ultimi anni, ha un antenato molto illustre: l'«illuminismo». Un antenato lontano più di due secoli e certo molto più prestigioso e famoso. Ma il mercatismo ne è comunque l'ultimo discendente, un discendente astuto e calcolatore, commerciale, terminale. Come due secoli fa l'illuminismo poneva l'individuo al centro dell'universo e della storia, e con la leva della ragione lo sollevava dal buio immettendolo nella prospettiva di un continuo progresso materiale capace di garantire il diritto alla felicità, così la nuova modernità mercatista nata con la globalizzazione e dalla globalizzazione si è candidata a

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costituire per i decenni a venire una nuova fede razionale e secolare. Una fede diversa da quella dell'illuminismo e tuttavia, alla fine, su questa prevalente. Prevalente perché basata sulla nuova concretezza del «mercato» invece che sulla vecchia e ormai superata astrazione della «società» ideale; prevalente perché basata sugli «interessi» anziché sulle «idee», non più capaci di attrarre e dunque non più di moda; soprattutto prevalente perché basata su «desideri» proiettabili senza limiti in nuove dimensioni di sogno piuttosto che sui vecchi «bisogni» materiali ormai, in Occidente, già quasi tutti più o meno soddisfatti. In questi termini, per il combinato disposto tra una nuova ingegneria sociale e un'illusione demenziale, il mondo a venire avrebbe dovuto essere felice e sempre più felice. Un tipo di felicità che sarebbe stata appunto portata dalla globalizzazione e con la globalizzazione, nella forma di un «colonialismo» di seconda generazione, di tipo nuovo, benevolo e perciò politicamente corretto, un colonialismo all'incontrario: il colonialismo del XXI secolo. Con i nostri negozi pieni di merci generosamente prodotte in Asia a basso costo; con la produzione industriale delocalizzata in Asia, così da preservare il nostro ambiente naturale; con gli immigrati chiamati a fare al nostro posto i lavori più duri o più sporchi o tutti e due insieme, naturalmente sempre a basso costo; con il vecchio posto di lavoro «fisso» sostituito dal più competitivo e perciò più stimolante posto di lavoro «rotativo»; con il denaro reso disponibile su scala quasi illimitata e quasi gratuita dalla nuova «tecno-finanza»; con le nostre tradizioni civili non solo esportate - ragione, questa, di un nostro legittimo orgoglio, come del resto era già ai tempi del vecchio colonialismo -, ma anche virtuosamente ibridate e contaminate con quelle straniere, considerate uguali o superiori, spesso solo per effetto della loro esotica novità, in un misto tra fusion e new age; da ultimo, con la pace perpetua che

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sarebbe stata finalmente possibile in un mondo livellato sulla geografia piana del grande mercato. Non è andata esattamente così, se non per poco. Come per un prodotto che è tutto tranne che senza prezzo e senza scadenza. Infatti, tanto il prezzo quanto la scadenza del mercatismo, la nuova ideologia razionale e universale, li abbiamo già sotto gli occhi. Prima ancora della paura e dell'insicurezza che ora sono portate dalla globalizzazione, i segnali, i presagi della crisi erano comunque già immanenti, erano già tra di noi. Cosa è successo in questi anni in Europa, cosa ha cambiato la nostra vita? Cosa ci ha portato via la speranza? Cosa ci consegna a un futuro senza futuro? Perché abbiamo buttato via la civiltà contadina, ma non sappiamo più gestire la modernità? Perché abbiamo scambiato gli interessi con i valori, l'avere con l'essere, il consumismo con l'umanesimo? Perché, barattando il piccolo con il grande, abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il «dio mercato»? Perché, passando disinvoltamente from Marx io market, dall'utopia comunista all'utopia mercatista, abbiamo fatto del mercato unico il nostro nuovo habitat? Un territorio nuovo popolato da nuovi simboli, da nuove i-cone, da nuovi totem: pop, rap, jeans, reality, ecstasy, pc, online, e-commerce, e-bay, i-Pod, dvd, facebook, r'n'b, disco, te-chno, tom tom, ecc. Simboli, icone e totem capaci tutti insieme di avvolgerci nella forza virtuale propria di una nuova dialettica esistenziale. Nella forma dinamica continua di un nuovo materialismo storico, la fabbrica illusoria del nuovo uomo post-moderno. Perché siamo passati da un eccesso all'eccesso opposto, dall'impulso del bisogno alla frenesia compulsiva dello spreco? Cosa ha piegato le curve un tempo piene del nostro progresso? Cosa ci ha portato in questa situazione? Perché la crisi della nostra società, prima ancora che dall'arrivo prossimo della nuova paura portata dalla globalizzazione, è già segnata dallo straniamento, dalla solitudine nella moltitudine, dal «nichilismo», da esplosioni irrazionali di violenza individuale e collettiva, dai delitti «inspiegabili»,

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dalla diffusione su scala di massa della droga, dallo squadrismo calcistico, dal principio di tanti piccoli pogrom? Perché c'è tanta alienazione dalla politica, come se dopo il comunismo esistessero solo le privatizzazioni? Perché stiamo perdendo il nostro tessuto connettivo? Perché ci sono più turisti fuori che fedeli dentro le nostre cattedrali, lo splendore pietrificato della nostra storia? Perché si fa fatica a credere, ma c'è anche totale smarrimento per il fatto di non credere? Perché tante periferie cingono le nostre città in una morsa ostile? Perché il Belgio si sta dissolvendo come Stato? Che origini, che intensità hanno le forze che tra loro combinate ci lavorano contro? Perché l'Europa ci si presenta così simile all'Angelus novus di Klee, con la testa rivolta all'indietro, mentre il vento del progresso la trascina oltre? Perché l'Europa non è più la signora della storia e rischia anzi di essere spiazzata dalla storia, restandovi solo come un mero agglomerato geografico? Perché gli altri nel mondo hanno una politica, mentre noi in Europa abbiamo per politica la «non politica»? Cosa possiamo fare per invertire questa tendenza, per sottrarci a questa non ineluttabile fatalità? Il mito del XXI secolo, il mito dell'economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto; il mito dell'economia dominatrice assoluta della nostra esistenza, matrice esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori; il mito a cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi anni, ci ha in realtà prima rubato un pezzo di vita e di storia - come eravamo prima, con il nostro vecchio ordine e con le nostre vecchie leggi, con le nostre tradizioni e con valori che pensavamo immutabili, immersi nella nostra «cultura» - e poi ha fallito nel suo piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale mosso dal motore primo della finanza. Il secondo conto che ci presenta la globalizzazione, dopo lo shock sui prezzi e sul carovita, è appunto quello della «crisi finanziaria». Un conto che, per la verità, la globalizzazione ha presentato per prima a se stessa.

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Sotto la pressione della crisi che arriva stanno infatti e per primi dichiarando fallimento proprio gli alchimisti che, appena ieri (solo alla fine del Novecento), hanno inventato il mercatismo, l'utopia-madre della globalizzazione, il suo strapotente motore ideologico: i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i postcomunisti divenuti liberisti per salvarsi; i banchieri travestiti da statisti; gli speculatori-benefattori; e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo. Spinta insieme dall'ideologia mercatista e dalla nuova tecno-finanza, che ne ha finanziato il miracolo quasi istantaneo, la magia della globalizzazione si sta in specie risolvendo nel suo contrario. Lubrificata all'inizio dal magico fluido del denaro, la nuova macchina miracolosa si sta inceppando e, non per caso, si sta inceppando proprio a partire dalla finanza. Dove è stato il principio, lì ora è la fine del processo. Ed è così che entriamo nel secondo shock. Uno shock che per la verità era prevedibile già due anni fa (Giulio Tremonti, L'America ora rischia una crisi stile '29, in «Corriere della Sera», 12 novembre 2006). Come nel 1929 l'Harvard Economic Society rassicurava l'opinione pubblica sostenendo che «una severa depressione è fuori dall'arco delle probabilità», così quello che ancora nell'agosto 2007 veniva definito da autorità ed esperti, da governatori ed economisti un semplice turbamento, si sta ora e invece rivelando per quello che è nella realtà. Una crisi con la C maiuscola. Una crisi non congiunturale ma strutturale, non limitata alla finanza ma estesa all'economia, non limitata all'America ma estesa all'Europa. Possiamo infatti chiamarla come vogliamo: turbamento, crisi, tempesta, collapse, storm, turmoil, distress, crunch. Possiamo - o no - paragonarla a quella del 1929, pur sapendo che la storia non si ripete comunque mai per identità perfette. Possiamo chiamarla o vederla come vogliamo. Ma è certo che, a partire dall'«agosto 2007», dalle profondità

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misteriose del capitalismo finanziario salgono in superficie scosse fortissime, che spezzano certezze fino a ieri assolute. Lo stiamo verificando in concreto. Dopo una lunghissima catena di interventi operati subito dopo l'«agosto 2007», tanto negli USA quanto in Europa, segno che la crisi non è solo americana ma globale, il 15 novembre 2007, per esempio, la Federai Reserve americana ha pompato nel sistema liquidità per 47 miliardi di dollari, una somma più alta di quella pompata in emergenza il giorno seguente l'11 settembre 2001. Per suo conto, appena una settimana dopo, il 26 novembre, la Banca centrale europea ha pompato nel sistema liquidità per 178 miliardi di euro. Altri successivi interventi sono stati sempre più complessi e sempre più consistenti. E tuttavia non c'è stato il minimo stop al corso della crisi. Anzi. È bastato, per esempio, che il 12 dicembre fosse dato l'annuncio di una nuova immissione di liquidità «coordinata» tra le principali Banche centrali (Fed, BCE, Banca d'Inghilterra, Banca del Canada, Banca centrale svizzera) per produrre l'effetto opposto a quello voluto. Per trasmettere un segnale di paura che ha fatto cadere i corsi di borsa. Il 18 dicembre 2007 la BCE ha immesso nel sistema la cifra monstre di 349 miliardi di euro: l'effetto sui tassi è stato dello zero virgola. Le scosse già registrate sono sufficienti per far tramontare l'idea fiabesca che il progresso economico possa essere continuo e gratuito, e con ciò segnano il nostro improvviso ritorno dal futurismo finanziario alla durezza della realtà materiale; impongono il passaggio dall'irresponsabilità alla responsabilità; portano con sé la fine dell'illusione che grazie al nuovo capitalismo il profitto possa essere estratto con istantanea rapacità da titoli di debito di cui non si conoscono origine e fondamento o da titoli di proprietà che non esistono in concreto, come nella realtà virtuale di un videogame; mettono infine in crisi il meccanismo di sviluppo della globalizzazione.

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Globalizzazione e finanza sono state infatti le due facce di una stessa medaglia. Globalizzazione e finanza hanno fatto coppia fin dal principio, hanno subito cominciato a vivere in simbiosi. La globalizzazione, con l'apertura su vasti spazi dei mercati e con la caduta dei vecchi confini e dei vecchi controlli, ha forgiato la sua nuova finanza. La nuova finanza, consentendo la divisione del mondo tra Asia produttrice di merci a basso costo e America consumatrice a debito, ha spinto a sua volta e «dopato» la globalizzazione, superando di gran lunga, con i suoi grandi numeri fantastici, i numeri più piccoli e concreti dell'economia reale. Da circa dieci anni a questa parte, con un'accelerazione marcata negli ultimi cinque anni, dentro l'industria bancaria, e dunque nel cuore del nuovo capitalismo mercati-sta, si è in specie manifestata una fortissima doppia mutazione, tanto dimensionale quanto funzionale. Mutazione dimensionale: le grandi banche internazionali, passando attraverso un intensissimo processo di concentrazione globale, hanno alla fine preso la forma dominatrice della «megabanca». Mutazione funzionale: le «megabanche» hanno applicato in forma radicale e su scala globale la forma nuova della tecnofinanza: l'OTD (Originate-to-Di-stribute Model). L'OTD non è solo una nuova tecnica operativa che permette la «distribuzione» del rischio sul credito, con il trasferimento del rischio stesso dalla banca originaria creditrice a terzi. È qualcosa di più, un qualcosa capace di originare a sua volta un tipo nuovo di banca: la banca che è insieme «universale» e «irresponsabile». È così che universalità e irresponsabilità sono diventati i caratteri terminali propri della «megabanca», un tipo di industria assolutamente nuovo. Per secoli le banche hanno infatti preso denaro sulla fiducia e prestato denaro a rischio, l'arte del banchiere essendo in specie nella capacità di valutare il merito del «rischio proprio», così assunto e poi gestito.

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In un crescendo che parte più o meno dal principio di questo secolo, il secolo della globalizzazione, la struttura aperta dei mercati finanziari, la caduta dei controlli e le nuove tecniche della finanza hanno invece tutte insieme consentito l'uscita da questo schema fisso; la rottura del vecchio equilibrio tra rischio e responsabilità; l'apertura di una fortissima asimmetria, tra «origine del rischio» e «responsabilità per il rischio». È così che le nuove «megabanche» globali si sono liberate dal proprio originario rischio sui loro prestiti, trasferendolo a terzi. Lo hanno fatto impacchettando i propri crediti in «prodotti finanziari» a volte denominati bond a volte denominati in altro modo, tutti comunque destinati a essere collocati sul mercato presso acquirenti attratti dagli alti rendimenti, confusi dalla complessità degli strumenti, quasi sempre inconsapevoli del rischio «spazzatura» che potevano così assumere. Tutto si è sviluppato dentro la meccanica perversa del «meno rischi più guadagni», perché, con le nuove tecnologie finanziarie gli operatori, più trasferivano a terzi i loro rischi, più facevano profitti. I cosiddetti subprime, i prestiti a rischio concessi negli USA e poi impacchettati e fatti circolare per il mondo con i rischi connessi, sono stati in realtà solo il primo anello di una lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti. Una fuga e una corsa fatte con tanti altri strumenti: vehicle, conduit, asset-backed commercial papers, collateralized debt obligations, derivatives, monolines, hedge funds, ecc. Strumenti diversi tra loro, ma sempre con un «comune denominatore»: l'essere operati e operabili fuori da ogni controllo. Gli hedge funds - per esempio - nient'altro sono, infatti, se non banche irregolari. L'opposto delle vecchie banche. Le banche sono difatti sottoposte a una giurisdizione statale, a regole, a standard, a limiti e criteri prudenziali di azione. Non è così per gli hedge funds. La loro regola è in realtà una sola: la regola di non avere regole. E in specie proprio così che gli hedge funds sono diventati l'opposto di

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quanto indica il loro stesso nome (hedge = copertura antirischio). La combinazione di tutte le forme nuove della tecno-finanza ha in particolare immesso sul mercato enormi quantità di liquidità e questa, a sua volta, è stata moltiplicata con la leva del debito. È così che i valori delle operazioni sono cresciuti artificialmente. Valori in sostanza inventati, finanziati a debito, con rischio non proprio ma di terzi. Con una particolarità. In Asia lo strumento del debito è stato utilizzato in modo tradizionale, per finanziare la «costruzione» di industrie «nuove», mentre in Occidente, in un crescendo che è divenuto spettacolare negli ultimi anni, lo stesso strumento è stato invece utilizzato per finanziare a debito i consumi o per «speculare» sul valore di industrie «già esistenti» e non per creare ricchezza nuova. È così che le «megabanche», divenute insieme universali e irresponsabili, replicando e moltiplicando artificialmente i valori, potenzialmente fino all'ennesimo grado, beneficiando di più o meno solide coperture assicurative e certificazioni contabili, del voto positivo delle agenzie di rating, hanno finito per avere nei propri bilanci attivi per centinaia di miliardi di dollari o di euro, su cui hanno emesso derivati per migliaia di miliardi di dollari o di euro. Qualcosa di assolutamente nuovo e tuttavia di tremendamente simile ai vecchi assegni scoperti. Qualcosa di cui non soffrono solo i conti economici, ma anche e soprattutto i conti patrimoniali, così da porre in forse non solo quanto guadagna una «megabanca» in un anno, ma la consistenza patrimoniale stessa della «megabanca». Qualcosa di potenzialmente simile a una Global Parmalat. È così che il contromodello è diventato il modello, l'eccezione la regola, la negatività lo standard. Solo adesso si denuncia nelle sedi e nelle forme più autorevoli l'altissimo «livello di complessità» tipico dei nuovi strumenti. Ma proprio questa stessa complessità doveva e poteva essere la prova prima e più chiara della sostanziale

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inutilità e pericolosità di strumenti configurati come indecifrabili geroglifici finanziari! È per tutto questo che, alla fine, la cattiva prassi di alcuni è diventata la paura di tutti. È così che, nella meccanica della crisi in atto, i banchieri non si fidano più dei banchieri (Giulio Tremonti, I banchieri non si fidano più dei banchieri, in «Corriere della Sera», 21 settembre 2007). È così che si è rarefatto, fino quasi a scomparire, il vitale circuito «interbancario». Un circuito che funziona, dentro il capitalismo, come funziona dentro un corpo il sistema circolatorio. Tanto che le Autorità e le Banche centrali devono ora sostituirlo con una serie impressionante di interventi pubblici, mai così estesi per dimensione e durata, fino ad annunziare pubblicamente l'intenzione a operare in questo modo interventi sostitutivi «fin quando basta». Appunto: fino a quando? È stato scritto - davvero piuttosto riduttivamente - che quella in atto non è una crisi di «liquidità», ma solo una crisi di «fiducia». In realtà, dire che nel mercato finanziario c'è liquidità ma non c'è fiducia è un po' come dire che c'è sì una Chiesa, ma in temporaneo difetto della fede! L'idea di superare la crisi con un'«operazione verità» basata sulla scrittura di nuove e più chiare regole contabili (Tremonti, I banchieri non si fidano più dei banchieri, citato) non è stata naturalmente neppure presa in considerazione. La storia tende del resto a ripetersi. A ridosso della crisi del 1929, rispetto all'idea di introdurre nel sistema «istituzioni, norme di comportamento il cui orizzonte funzionale e temporale oltrepassa i singoli interessi individuali», si preferì dare ancora fiducia «a chi ha fabbricato e venduto carta a mezzo mondo ... usando commutatori cartacei dello stesso tipo di quelli che hanno causato la crisi stessa» (così, sulla crisi del 1929, Luigi Einaudi, Il mio piano non è quello di Keynes, 1933). È così che la perdurante opacità in essere nel mercato finanziario ha generato la sfiducia, ed è ormai proprio la sfiducia ad alimentare la crisi che si presenta ai nostri occhi

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come crisi della globalizzazione. Come si è premesso, la nuova tecno-finanza non è stata di fatto solo un mezzo per realizzare in forma aggiornata le classiche speculazioni finanziarie. È stata qualcosa di assolutamente nuovo. Qualcosa che non si era mai visto nella storia in questa dimensione. Creando effetti ricchezza e domande artificiali, la nuova tecno-finanza ha infatti e fondamentalmente concorso a finanziare il «miracolo» quasi istantaneo della globalizzazione. Non è affatto detto che quanto è successo a partire dall'«agosto 2007» sia già tutto il peggio che poteva o che potrebbe succedere. Non è imprudente attendere avvenimenti più estremi. Altri shock. Anche perché, come in una cascata di fenomeni, come in una catena che lega insieme cause ed effetti, che a loro volta diventano cause di altri effetti, la crisi finanziaria può incrociare altri vettori di forza. Può incrociare la già citata salita verticale del prezzo delle materie prime e dell'energia, prodotta a sua volta dall'incrocio tra l'aumento vorace e vertiginoso nella domanda di materie prime ed energia che viene dall'Asia. Può incrociare gli squilibri politici causati dal nuovo imperialismo o dal caos politico, alternativamente propri dei Paesi che esportano energia o che ne sono aree di coltivazione mineraria. Ma, in ogni caso, quello che è già successo basta da solo e avanza per spingerci verso orizzonti mentali diversi da quelli fin qui dominanti, verso una visione diversa della vita, meno materiale e più spirituale, meno chiusa nel privato e nel laissez faire, più comunitaria, più responsabile, in una parola più politica. È l'annunciato, clamoroso «ritorno del pubblico». L'economia è importante, ma la realtà nella sua pienezza e la vita nella sua complessità sono una cosa diversa. Il mercatismo, l'ideologia totalitaria inventata per governare il XXI secolo, demonizzava lo Stato e quasi tutto ciò che era pubblico o comunitario, ponendo la sovranità del

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mercato in posizione di dominio su tutto il resto. Ora non si può più dire che questa è la linea giusta, la linea esclusiva. Ancora qualche anno fa, infatti, quando si notava che c'orano in giro milioni di disoccupati, lo si giustificava dicendo: «È il mercato». Il mercato con la sua mano invisibilo, ma alla fine infallibile. Ora, davanti a un'impressionan-te catena di potenziali default bancari, si assiste invece, e lo si accetta, all'intervento della mano pubblica attraverso «iniezioni di liquidità» nel mercato finanziario, iniezioni operate sistematicamente, illimitatamente e permanentemente dalle Banche centrali. E cioè da banche pubbliche. A riprova del fatto che in un settore vitale del mercato, il settore finanziario, la mano privata è così invisibile che, proprio per questo, deve essere sostituita dalla ben più visibile mano pubblica. Non prevista, anzi esclusa dagli esperti e dalle autorità responsabili, con meccanica semplicità la crisi di un settore economico e di un'area geografica si sta dunque estendendo agli altri settori, alle altre aree. È così che, con la sua progressiva diffusione, la crisi portata dalla globalizzazione, a partire dalla crisi dei prezzi e della finanza, entra nelle nostre vite, nelle nostre menti, nelle nostre coscienze. La crisi ruota intorno al mercatismo e questo libro non è affatto contro il liberalismo (anzi), è contro il mercatismo, la versione degenerata del liberismo. Quella contro il mercatismo è una battaglia oggettivamente difficile, perché la forza sta ancora in gran parte nell'economia e ormai l'economia sta nel mondo. È vero che il mercatismo, il motore ideologico della globalizzazione, sta perdendo colpi, sta dimostrando le sue crepe, a partire dalla crisi finanziaria. E vero ancora che il bilancio ambientale della globalizzazione ci sta diventando nemico. È vero, infine, che le disordinate costellazioni di forze che stanno emergendo nel mondo, e le tensioni geopolitiche che queste stanno creando, proiettano la loro ombra sul mito della pace mercantile perpetua. È certo vero tutto questo. Ma quella contro il mercatismo resta comunque una battaglia molto difficile. E pure necessaria. E dunque una battaglia che si

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deve cominciare. La definizione della posta in gioco è dei resto in se stessa già parte della soluzione.

II  Il lato oscuro della globalizzazione

Per secoli le carte geografiche sono state «eurocentriche», disegnate mettendo al centro l'Europa, con l'Asia a destra e l'America a sinistra. Ora si stanno tracciando carte geografiche diverse, di nuova generazione. Carte che hanno al centro alternativamente l'America o l'Asia. La visione che le ispira è molto semplice: è insieme una visione di futuro e di potenza, espressa da popoli più giovani, più vitali, più determinati. Non solo. C'è anche un'altra e ancora più nuova cartografia, non centrata solo sull'America o solo sull'Asia, ma su tutte e due insieme, una cartografia che delinea scenari geopolitici radicalmente diversi, che si sviluppano ipotizzando nuove entità, nuovi arcipelaghi. La «Chimerica», per esempio: China + America Una sintesi transpacifica. Una visione che prima assorbe in sé e poi supera i secolari transatlantici «confini dell'Occidente». Una visione che prima sposta l'Occidente verso l'Oriente, dall'Atlantico al Pacifico, e poi gli fa perdere la sua identità storica confondendolo con l'Asia. Del resto, già al principio del Novecento a San Francisco, in occasione della posa del cavo telegrafico sottomarino destinato a collegare l'America

  con l'Asia, il presidente Theodo-re Roosevelt lanciò la profezia: in questa nuova dimensione l'oceano Pacifico diventerà il «nuovo Mediterraneo». Non tutta la nuova cartografia annuncia tempesta. Alcuni quadranti, per esempio quelli dell'India o dell'America latina, presi a sé, come se fossero i soli quadranti nuovi della carta, permetterebbero di formulare scenari tutto sommato conservativi e specificamente favorevoli all'Europa. Ma questi quadranti non sono isolabili dagli altri e soprattutto non sono quelli strategicamente più rilevanti. In teoria, la nuova cartografia dovrebbe portare la pace mercantile perpetua, garantita dal dominio razionale assoluto del mercato su tutte quelle umane irrazionalità che finora hanno fatto la storia: le passioni e le pulsioni, gli ideali, le fedi e le razze. Ma può anche essere l'opposto. Può essere che la nuova cartografia sia essa stessa causa e terreno di nuovi conflitti. La catena di crisi va già dal Corno d'Africa al Golfo persico, dall'Asia meridionale al Caucaso, ed è proprio qui che può iniziare il «grande gioco». La «tempesta perfetta» può essere scatenata dalla combinazione tra una di queste crisi «locali», le forme nuove dell'imperialismo energetico che ispira i Paesi produttori ed esportatori di petrolio e di gas, la crisi finanziaria in atto. Ma anche senza tutto questo, se anche tutto questo non fosse, se anche si andasse avanti per decenni, a globalizzazione invariata, per questo e proprio per questo nel lungo andare il nostro futuro non sarebbe comunque un futuro pacificamente positivo. Se la globalizzazione andrà avanti, spinta a velocità forsennata dal motore ideologico del mercatismo, verranno infatti a incombere su di noi due rischi fatali. Un rischio globale. Un rischio locale. Il rischio globale della catastrofe ambientale. Il rischio locale di un colonialismo asiatico di ritorno sull'Europa. Il rischio globale. Non solo per un principio di ragione e di precauzione, nel conto della globalizzazione spinta dal mercatismo va infatti messa la fondata e generale previsione

  di un disastro ambientale, un disastro capace di erodere alla base le ragioni stesse della nostra sopravvivenza sulla terra. «Mercatismo» e «ambientalismo» sono infatti termini tra loro incompatibili. Non ci può essere ambientalismo, con mercatismo invariato. Non ci può essere ambientalismo, con sviluppo forsennato. Stiamo consumando le risorse del nostro pianeta, il bilancio ambientale sta diventando negativo, la febbre sta salendo (Gordon Brown, Discorso sul cambiamento climatico, 19 novembre 2007). A sviluppo invariato, già nel 2030, e cioè domani, e per la maggioranza della popolazione mondiale attuale (una popolazione che nella sua quasi totalità vive infatti sempre più a lungo), avremo sul pianeta e tutti insieme effetti di enorme rilevanza. Nel 2030 la domanda di energia globale sarà del 50% superiore a quella di oggi e l'80% della domanda riguarderà i combustibili fossili. In particolare i fabbisogni energetici mondiali risulteranno nel 2030 pari a 17.721 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ovvero il 55% in più di quanto già registrato nel 2005. In questo scenario, Cina e India assommeranno il 45% dell'aumento della domanda mondiale. Nel 1990 il «Vecchio Continente» contava per circa il 45% della domanda globale. Nel 2030 questa incidenza diminuirà, attestandosi intorno al 31%. Contemporaneamente i Paesi asiatici in via di sviluppo, che nel 1990 raggiungevano una percentuale del 18%, aumenteranno il loro peso raggiungendo nel 2030 il 36% della domanda globale di energia. Il 22% sarà della sola Cina, Paese in cui la domanda di energia primaria è destinata a raddoppiare, passando dalle 1742 Mtep del 2005 alle 3819 Mtep nel 2030, con un tasso di crescita medio annuo pari al 3,2%. Poco dopo il 2010, la Cina sorpasserà gli Stati Uniti diventando il più grande Paese consumatore. La domanda di energia primaria dell'India si prevede più che raddoppiata entro il 2030, con un aumento medio annuo del 3,6% e con il risultato che, per

  allora, la maggior parte di questo suo fabbisogno aggiuntivo dovrà essere soddisfatto attraverso l'importazione. Per quell'epoca, il prezzo medio del petrolio resterà come minimo sopra i 60 dollari al barile, e la maggior parte della produzione di greggio e di gas avrà luogo in regioni instabili del pianeta. Le emissioni di biossido di carbonio aumenteranno del 60% circa e, se la situazione rimarrà quella attuale, entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica aumenteranno del 57% rispetto ai valori del 2005, passando da 27 giga tonnellate a 42 gigatonnellate. Circa i due terzi di tale aumento saranno imputabili a USA, Cina, Russia e India. Pechino e Delhi valgono da sole il 56% di questo aumento. La Cina sorpasserà gli USA come «maggiore emettitore» di C02 già nei prossimi anni e sicuramente entro il 2015. Naturalmente, l'impatto del riscaldamento globale sarà più drammatico nelle aree aride o semiaride dell'Africa e dell'Asia. Se tali tendenze non saranno invertite, causeranno entro la fine di questo secolo aumenti medi delle temperature fino a 4 gradi centigradi e un innalzamento dei livelli oceanici di 60 centimetri, con conseguenze devastanti e prolungate sugli ecosistemi, sulle scorte di acqua e sugli insediamenti umani. Una parte dei dati catastrofici citati sopra può forse essere considerata eccessiva. Troppo apocalittica, non rigorosamente scientifica, strumentalmente sfruttata dagli interessi economici propri della nuova industria climatica. Può anche essere che, davanti alla prospettiva dell'apocalissi, siano scattati meccanismi mentali irrazionali, tipo credo quia absurdum. Si crede nei numeri del disastro proprio perché sono numeri da disastro. Le folle, e non solo le folle, sono influenzabili e credule, subiscono il contagio mentale. Soprattutto può essere messo in discussione il nesso causa-effetto, il nesso tra lo sviluppo industriale (la causa) e il riscaldamento globale (l'effetto). Forse la «colpa» non è tutta dell'«uomo». Un esempio. Nell'Europa del Nord, tra il 1000 e il 1300, e dunque in assenza di gas serra, il clima era diverso e più caldo rispetto a quello che c'è adesso. In

  Inghilterra maturava l'uva e i Vichinghi colonizzavano la Groenlandia. Può in specie essere che una parte importante dei fenomeni in atto sul pianeta sia spiegabile con le macchie solari e dunque con la variabilità dell'attività del sole. C'è la prova scientifica che la temperatura media è correlata con i cicli dell'attività solare. Negli ultimi centoventi anni, dal 1870 al 1990, quando l'attività solare è stata più forte, la temperatura media è aumentata. È soprattutto probabile che proprio il flusso solare sia la determinante più importante dell'aumento della temperatura. Tutto questo è vero, ma non è certo una ragione sufficiente per aggiungere catastroficamente al calore solare anche il calore industriale. All'opposto, proprio quella del riscaldamento solare in atto è una ragione in più per governare e moderare di qui in avanti la produzione industriale. Non solo. Con il mercatismo non ci hanno guadagnato l'Africa e i Paesi più poveri, se non da poco, e solo marginalmente, con un piccolo incremento del loro prodotto interno lordo. Paesi prevalentemente agricoli e che perciò sono tagliati fuori dal grosso della partita. Perché il libero mercato si applica con forza al settore secondario (l'industria) e al settore terziario (i commerci, la finanza), ma non a quello primario (l'agricoltura). Un settore in cui si alzano anzi, in deroga tollerata alla filosofia di base del mercatismo stesso, le barriere e gli ostacoli più forti. Ora, osservando gli effetti ambientali del mercatismo, vediamo che a perderci non sono solo l'Africa e i Paesi più poveri, ma anche l'Europa. E la stessa sorte toccherà all'intero pianeta. E la soluzione non è certo quella tipicamente «europea» programmata nel Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007. Una soluzione basata sull'applicazione «unilaterale» - e cioè solo in Europa - di nuove e molto rigorose regole ambientali, nella lungimirante (?) speranza che per emulazione l'Asia segua a sua volta questo illuminato modello.

  Non è questa la soluzione corretta, per la semplice ragione che causerà, fuori dall'Europa, l'effetto opposto rispetto a quello desiderato: un incremento in Asia dell'inquinamento produttivo, spinto dal vantaggio competitivo addizionale e artificiale offerto all'industria asiatica proprio da questa scelta. Il bilancio ambientale previsionale di questa scelta unilaterale non sarà dunque positivo, un bilancio amico, ma negativo. Negativo anche per questo effetto di ritorno suicida sull'Europa. Se il mondo è unico, le politiche non possono infatti essere diverse. Se il mondo è unico, le regole non possono essere parziali. O sono generali o non sono. Nel tempo presente, se non sono generali, le regole sono solo un nonsenso. La soluzione efficiente totale non è neppure nella cosiddetta green economy, e cioè nel grandioso piano mondiale di investimenti in energia pulita, a bassa intensità di emissione di anidride carbonica. Un piano che non dovrebbe essere limitato solo a USA ed Europa, ma esteso anche all'Asia. E che dovrebbe (potrebbe) essere finanziato soprattutto dai Paesi sviluppati. È certo necessario, questo piano, ma non è sufficiente da solo. Perché, si ripete, è in parallelo necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti. È necessario in parallelo fermare il mercati-smo, l'ideologia forsennata dello sviluppo forzato spinto dalla sola e assoluta forza del mercato. A questo punto è logica e legittima la domanda: perché penalizzare ora i Paesi in via di sviluppo? Perché le ragioni dell'ambientalismo dovrebbero valere solo ora, con l'ingresso dell'Asia nel mercato mondiale? Per una ragione molto semplice e non solo per astuzia politica o per egoismo occidentale in generale ed europeo in particolare. Perché non si può rifare la storia, non si può guardare indietro, si può solo guardare avanti. L'ipotesi che, per esempio, 200 o 300 milioni di cinesi abbiano nei prossimi anni la loro automobile (inquinante) terrorizza per prime le stesse autorità cinesi. La risposta è quindi e in ogni caso una

  sola. Nell'interesse di tutti, va fermato ovunque il mercatismo. Il rischio locale che deriva dalla globalizzazione, il rischio specifico per l'Europa, prende poi la forma tipica di un «colonialismo di ritorno», dall'esterno verso l'Europa. La storia si può infatti ripetere all'incontrario. La storia insegna che le leadership cambiano. Già nel 1913 gli USA, forti di un'economia e di una popolazione in crescita impetuosa, avevano superato nelle statistiche l'Inghilterra, potenza-madre e ancora potenza dominatrice per inerzia, perché allora il mondo era fermo. Dopo mezzo secolo, dopo che il mondo si era messo in moto con la seconda grande guerra mondiale, gli USA sono infine arrivati a esercitare il loro primato su mezzo mondo. Ora, finita la divisione artificiale del mondo causata dalla guerra fredda, con la nuova geografia piana fatta dalla globalizzazione, la leadership può cambiare nuovamente. Ma questa volta non spostandosi da una sponda all'altra del lago Atlantico, Occidente su Occidente, piuttosto spostandosi da Occidente verso Oriente. È così che può iniziare una nuova età della storia: l'«età del Pacifico». La vecchia sequenza tra le varie età della storia è stata finora scandita nel passaggio dall'età mediterranea a quella europea a quella atlantica. La nuova storia può andare oltre, passando direttamente dall'Atlantico al Pacifico. Saltando l'Europa. I venti che spirano da Oriente sono in ogni caso venti impetuosi. La nuova cartografia non annuncia infatti solo nuove leadership, ma anche nuovi imperialismi. A partire dalla Cina, che nella sua storia, e non per caso, si chiama «Impero di Mezzo». Non per caso, già adesso risulta dai sondaggi di opinione che per un terzo degli americani la Cina dominerà il mondo; circa la metà considera il Celeste Impero una «minaccia per la pace mondiale». E del resto c'è una forte analogia storica «tra la nuova Cina e la Germania com'era tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento» (Giulio Tremonti, Rischi fatali, 2005).

  La Cina non fa e non farà l'errore dell'URSS, che ha confuso la strategia con la tattica e il tempo strategico con il tempo tattico. L'URSS è stata forte nel mondo più o meno per mezzo secolo, ma è stata forte non solo e non tanto perché il suo hardware, la sua economia industriale, era allora più o meno militarmente competitivo, quanto perché l'ideologia comunista, il suo software di potere, esercitava in parallelo una forza attrattiva globale a favore dell'URSS. Per mezzo secolo questo mix ha funzionato. Poi ne è venuta la fine. Negli anni Ottanta la fine dell'URSS come potenza globale non è stata infatti causata solo o tanto dall'improvvisa accelerazione tecnologica militare degli USA, quanto dalla sua progressiva perdita di forza ideologica. Sperimentata quest'ultima sul campo fatale dell'Afghanistan, dove le armi russe da sole non sono riuscite a sostituire l'ideologia comunista, solo alla fine e troppo tardi l'URSS si è accorta che il suo strutturale deficit economico non era più compensato dall'ideologia. A differenza dell'URSS di allora, la Cina non ha mai avuto e non pensa di avere una forza ideologica attrattiva ed espansiva, ha solo una forza economica. E proprio questo si sa e si studia nelle accademie militari cinesi. L'espansione politica della Cina fuori dai suoi confini ci sarà dunque solo quando l'economia cinese sarà competitiva. Per ora la Cina sta crescendo e investendo nella sua sicurezza interna. Poi verrà il «tempo esterno». Un tipo di tempo già preannunciato dai massicci investimenti nel Golfo persico, in Africa, in America latina, dai revival di memoria storica (la rievocazione delle grandi flotte che, nella prima metà del XV secolo, salparono dalla Cina verso il Medio Oriente e l'Africa), dai simbolismi di potenza tecnologica e militare (la bomba atomica nel 1964; il satellite nel 1970; l'astronauta nel 2003). L'Europa è, tanto per cambiare (per provare a suicidarsi), naturalmente già pronta a far cadere il suo embargo militare, a vendere armi alla Cina, ma l'isolamento della Cina sarà davvero superato solo quando lo permetterà la sua economia.

  La Cina ha certo in sé impressionanti forze, ma anche impressionanti fragilità: sociali e demografiche, ambientali e finanziarie. In ogni caso, se la globalizzazione si svilupperà invariata, queste fragilità potranno causare solo crisi congiunturali e non strutturali. Rallenteranno, non invertiranno la curva del progresso della Cina. Nel 2050 il prodotto interno lordo (PIL) della Cina (48 trilioni di dollari) sarà maggiore di quello USA (37 trilioni di dollari) e doppio di quello europeo (18 trilioni di dollari). Ovviamente queste sono solo stime e ovviamente il PIL non è l'unico criterio per valutare il grado di sviluppo di un Paese. Ma è comunque fortemente probabile che alla crescita nella dimensione del PIL corrispondano simmetricamente anche lo sviluppo scientifico e tecnologico, dei servizi e degli armamenti. In ogni caso la Cina ha un'ambizione strategica: sostituirsi all'Occidente nella guida della prossima rivoluzione industriale, che non sarà più la rivoluzione delle macchine o dei computer, ma la rivoluzione della «genetica», applicata ai prodotti agricoli e all'uomo. A favore della Cina, un decisivo fattore di successo in questa strategia dovrebbe essere costituito dal fatto che, a differenza dell'Occidente, la Cina non ha in questo campo vincoli, remore o limiti di tipo morale o legale. Quando lo sviluppo porrà fine alla dipendenza finanziaria della Cina dall'Occidente, quando la tecnologia le permetterà di interrompere il dominio della US Navy sulle sue rotte marittime - perché le masse continentali si controllano dal mare e non viceversa -, allora lo scenario geopolitico sarà diverso e più complesso. L'asse del potere non si sposta infatti mai senza conflitti e senza traumi. Allora potrebbero tramontare tanto il mito della «Chimerica», quanto la cosiddetta «dottrina Zoellick», sul mantenimento conservativo dello status quo e sul contenimento della Cina come potenza regionale. Quelli che si

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fanno in Cina non sono infatti piani tattici, ma piani strategici. E non sono piani commerciali, ma piani imperiali. Farli non è una colpa della Cina, i cinesi fanno i cinesi. Subirli è invece una colpa, dell'Occidente e soprattutto dell'Europa, che ne riceverà il danno maggiore. Una colpa che, in Europa, è anche specificamente propria di quella «quinta colonna» costituita dagli «eurocinesi». Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento era l'Europa ad avere una sua tremenda forza proiettata verso l'esterno, mentre la Cina soffriva una crisi interna. Ora, al principio di questo nuovo secolo, le posizioni sono rovesciate. A differenza dell'Europa, la Cina sta infatti perfettamente nel nuovo «spirito del tempo». Ha forza e visione, ha idee precise di comando e di politica. Sarà soggetto attivo e non passivo in una strategia di neocolonialismo. Alla fine, spinto dalla globalizzazione, se la globalizzazione continua a svilupparsi a velocità forsennata, il dragone cinese farà propria con il suo consenso e possiederà la mite, la «gentile» Europa. Dal cuore del capitalismo sono infatti scaturite forze che si sono aggiunte a quelle già evocate nel secolo scorso dal primo colonialismo, forze che ora tendono ad abbracciare e trasformare il mondo, forze che prima si sono estese in Asia e ora tornano dominatrici sulla loro stessa fonte di origine.

  III  Europa: le cause della crisi continentale

Perché non è più l'Europa a cambiare il mondo, ma il mondo a cambiare l'Europa? Per una ragione molto semplice. Perché non è stata l'Europa a entrare nella globalizzazione, ma è stata la globalizzazione a entrare in Europa, trovandola insieme incantata e impreparata. Trovandola sì pronta, ma pronta solo per una crisi continentale. Una doppia crisi. Una crisi interna, perché ci siamo fermati nella produzione di idee politiche, coltivando e conservando all'opposto e con assurda tenacia un'idea che si è rivelata sbagliata: l'idea mercatista. E poi una crisi esterna perché, senza reagire, subiamo da fuori una pressione crescente, prima economica e poi politica. Tutto è, infatti, questa Europa, tranne che una «fortezza». La fortezza che sarebbe invece necessaria per difenderci e per sopravvivere senza soccombere in quel campo di forza che sta diventando il nuovo mondo. Paradossalmente, ora, l'Europa è sempre più necessaria, ma anche sempre più debole. Per reagire dobbiamo prima capire cosa è successo. A quali idee, a che tipo di persone va attribuita la colpa di questa folle accelerazione della storia? Perché non è affatto vero che «nessuno l'ha avviata», non è affatto vero che la globalizzazione è stata «assenza organizzata della responsabilità» (Ulrich Beck, Sette tesi contro l'uomo globale, in «Corriere della Sera», 12 dicembre 2007). Chi e che cosa ha invece determinato proprio questa «assenza»? Per capire

  tutto questo è necessario un flash back. Ne ho parlato diffusamente in Rischi fatali, e ripercorrerò qui quell'analisi che, alla luce dei fatti accaduti nei due anni successivi alla pubblicazione, si rivela ancora attuale. Sono due le date che hanno cambiato la struttura e la velocità del mondo in cui viviamo: 9 novembre 1989; 15 aprile 1994. Sono date diverse, ma vanno messe insieme perché racchiudono il tornante seguendo il quale la storia ha girato all'improvviso. La cosa che fa effetto è che mentre la prima data è piuttosto famosa, all'opposto la seconda è piuttosto misteriosa. Eppure la seconda data non è meno importante della prima. È una data fredda. Ma è anche lei una data storica. La prima è la data-madre. Segna il crollo del muro di Berlino, il big bang della storia contemporanea. La seconda è la data-figlia, il giorno della stipula a Marrakech, in Marocco, dell'accordo WTO (World Trade Organization) sul libero commercio mondiale. Da quella data, il mondo non sarebbe stato più, e non è più, come prima. Tre volte cinque. Nei primi cinque anni (1989-1994) sono state poste le basi della «rivoluzione». Poi ci sono stati altri cinque anni (1995-2000) di applicazione, di carica, di naturale progressiva accumulazione. Quindi, proprio all'inizio di questo secolo, nell'autunno del 2001, le forze messe in campo nel 1994 si sono scatenate. Su due diverse onde di ritorno. Il mondo arabo ha reagito in negativo. Che cosa sono infatti e come si «legittimano», dentro il mondo arabo, l'«ll settembre» 2001 a New York e poi l'«ll marzo» 2004 a Madrid e il «7 luglio» 2005 a Londra, l'assolutismo fanatico e il terrorismo che hanno prodotto questi attentati, se non come reazione contro la blasfema empietà della società occidentale nella sua proiezione commerciale globale e neocoloniale? E cos'altro è questa reazione, se non una modalità barbarica di difesa dell'identità, della memoria, della tradizione?

  Cose e persone, di cui si consente all'improvviso la libera circolazione, sono vettori che, quanto più è radicalmente conservatrice la parte del mondo che si sceglie di aprire al loro ingresso, tanto più provocano squassi culturali, shock identitari, reazioni autoimmunitarie. Solo illudendosi si poteva pensare che le novità portate e create nel mondo dal mercato unico fossero tutte positive, che ne derivasse solo il bene, che non si scatenasse anche il male. Nel mondo ha fatto invece il suo ingresso un sentimento nuovissimo, anzi vecchissimo: la paura. Perché l'incertezza identitaria, l'effetto esterno del mercato unico, prima intaccano le vecchie sicurezze, i vecchi codici di appartenenza a un territorio, a una storia, a una fede. E poi per reazione scatenano forze primordiali. Forze che prima vivisezionano il nuovo, per conoscerlo. Poi puntano a distruggerlo, per ripristinare il vecchio. Il mondo asiatico ha invece reagito in positivo. E così che, dopo il muro di Berlino, è caduto anche il muro di Pechino. «Qui di seguito» scrivevo in Rischi fatali «si parla in specie di Cina, per dire Asia. Essendo dell'Asia la Cina, ancora più dell'India e di altri Paesi, il caso forte. Il caso potenzialmente fatale.» Il negoziato Unione europea-Cina sul WTO è stato chiuso il 19 maggio 2000. A quel punto per i singoli Stati europei l'adesione è stata un atto dovuto, dato che il commercio estero, proiezione esterna del mercato interno, è di specifica competenza europea. Per suo conto la Cina è diventata membro del WTO l'11 dicembre 2001. Sono occorsi decenni per integrare il mercato europeo. Il Trattato di Roma è infatti datato 1957. Le frontiere interne europee, però, sono definitivamente cadute, e unicamente per le merci, solo all'alba del 1o gennaio 1993. Perché il mondo si trasformasse in un mercato unico ci sono invece voluti soltanto cinque anni. In ogni caso, è solo una coincidenza se le due date si allineano, se l'11 dicembre 2001 viene appena tre mesi dopo l'«ll settembre»?

  È in questo modo che inizia la nuova storia. Una nuova storia retta da una nuova ideologia. Dal mercatismo. «Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comunismo sia del liberalismo. Sostituiti entrambi da un'ideologia nuova: il mercatismo, l'ultima follia ideologica del Novecento. Il liberalismo si basava su di un principio di libertà applicato al mercato. Il comunismo su di una legge di sviluppo applicata alla società. Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al mercato una legge di sviluppo lineare e globale. In questi termini il mercatismo può essere concepito come l'immissione del mercato in un campo di forza. Il mercatismo fa infatti convergere a forza e sulla stessa scala offerta e domanda, produzione e consumo, e per farlo normalizza tutto, standardizza e spazza via tutti i vecchi differenziali. Postula e fabbrica prima un nuovo tipo di pensiero, il "pensiero unico", e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l'"uomo a taglia unica". Fonde insieme consumismo e comunismo. E così sintetizza un nuovo tipo di materialismo storico: "mercato unico", "pensiero unico", "uomo a taglia unica"» (Tre-monti, Rischi fatali, citato). Ma occore andare all'origine. Insieme con il muro di Berlino sono cadute le barriere politiche che per mezzo secolo avevano diviso il mondo, e si sono sprigionate verso il futuro forze che erano rimaste chiuse a lungo nei forzieri militari, internet ne è stato il simbolo. La geografia del mondo si è aperta e si è unificata, ma questa nuova geografia piana non era sufficiente, da sola, perché cambiassero di colpo la struttura e la velocità del mondo. Da solo non bastava neppure il nuovo capitalismo, attirato dalla sconfinata massa di manodopera a basso costo reperibile in Oriente, mosso dalla prospettiva globale di tornare a nuovi illimitati profitti, agevolato dalla nuova rete dei computer, che finalmente sprigionavano la forza della finanza, permettendo di raccogliere in tempo reale e su scala globale sconfinate masse di capitali e di muovere in

  continuo e con ritmo sempre crescente colossali flussi finanziari. E soprattutto, «da soli non bastavano né il mitico "esercito di riserva" del proletariato (una massa composta da due miliardi di nuovi potenziali lavoratori a basso costo, una massa tale da rendere l'offerta di lavoro strutturalmente superiore alla domanda di lavoro), né i nuovi spiriti animali del capitalismo, né i computer. Non bastavano le multinazionali» (Tremonti, Rischi fatali, citato). Serviva, dunque, qualcosa di più. Qualcosa che nella nuova età dell'oro armonizzasse la nuova geografia e la nuova economia. Serviva una nuova ideologia, in grado di attribuire al nuovo mercato una sua propria ragione d'essere, un nuovo codice universale, una nuova legge capace di modellare la storia in divenire. In tre parole, serviva appunto un «nuovo materialismo storico». In un mondo aperto al mercato e in esso unificato, domanda e offerta, consumo e produzione dovevano necessariamente e simmetricamente convergere su scala globale. Per esistere, il mercato unico esigeva un tipo di pensiero globale uniforme: il «pensiero unico». E proprio questa doveva essere la culla dell'uomo nuovo, la culla del consumatore globale ideale: l'«uomo a taglia unica». Intollerante a confini e barriere, differenze di pensiero e di consumo, la nuova scala universale richiedeva standard. Richiedeva che si andasse oltre le vecchie geografie, i vecchi differenziali accumulati dalla storia e stratificati nella matrice della tradizione, derivati dalle vecchie identità, originati dai retroterra arcaici e umorali, dalle riserve della memoria. In parte questo processo ideologico è stato creato nel laboratorio politico globale della nuova sinistra, la cosiddetta «Terza via», ma in realtà le forze in campo erano ancora più intense e venivano dal profondo della storia. Prima del 1989 il mondo era diviso, ma dialetticamente equilibrato tra due ideologie diverse. L'ideologia liberale, l'ideologia comunista.

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«Nel 1989,» scrivevo in Rischi fatali «con la fine dei regimi comunisti, la forza ideologica profonda della sinistra si è spostata, da sinistra a destra, dal suo vecchio quadrante al quadrante opposto, e lo ha fatto senza trovare resistenze, portando con sé il suo storico tasso di dogmatismo e di fanatismo, di integralismo e di fondamentalismo. È così che è cambiata per invasione di campo la struttura stessa del liberalismo. Il comunismo ha perso perché ha perso. Il liberalismo ha perso anche lui perché, subito dopo aver vinto, ha perso la sua specifica identità storica: così insieme ha celebrato la sua vittoria e ha consumato la sua sconfitta.» Diversamente dal comunismo, il liberalismo non poggiava infatti su una legge assoluta, ma da un lato sul principio della libertà applicato al mercato, dall'altro lato su un apparato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa. Spinte e controspinte, pesi e contrappesi in equilibrio. Niente ricorda la complessa dinamica propria del vecchio liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio meccanico. Dopo il 1989, nell'illusione della vittoria, ha ceduto anche il liberalismo e lo ha fatto sotto la fortissima pressione ideologica che veniva proprio dalla parte opposta, da quella del comunismo. A fine esercizio, il comunismo è riuscito a trasferire e trapiantare proprio nel campo opposto, nel dominio del mercato, il proprio DNA, con l'idea che la vita degli uomini sia mossa e possa essere mossa da una «legge». Il trapianto ha avuto successo. La vecchia mentalità laica e critica, empirica e graduale, tipica del vecchio liberalismo si è come assolutizzata. In questo modo, il nuovo mercato mondiale è diventato il campo di applicazione - naturale e ideale insieme - della nuova «legge» di sviluppo globale. Da questo processo ideologico creativo è derivato un culto politico nuovo, dogmatico, praticato con forme devote di furore ideologico e di attivismo estremistico.

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In tal modo, all'utopia comunista si è sostituita l'utopia mercatista. È così che prima nell'economia e poi nella società si è impiantata la fabbrica del nuovo uomo postmoderno. «Un tipo umano che non solo consuma per esistere, ma che esiste per consumare. Un soggetto che pensa come consuma e consuma come pensa, per cui i vecchi simboli civili e morali sono sostituiti dalle icone e dalle immagini commerciali. Per cui i jeans e le scarpe sono una divisa e la divisa un sostituto dell'anima, per cui il turismo sublima l'avventura umana, la musica metallica spiritualizza l'esistente, i concerti sostituiscono provvisoriamente la comunità. ... L"'uomo a taglia unica" non è solo la forma ideale del consumismo di massa diffuso su scala globale. È l'"uomo normale" idealizzato per primo dal comunismo. È così che consumismo e comunismo si sono infine trionfalmente fusi in un nuovo materialismo. La modernità è nel mercato e dunque il difensore dei consumatori è il nuovo tribuno della plebe, il supermarket è la nuova agorà, le banche sono il sinedrio della democrazia, le élite identificano e sostituiscono "rappresentandola" la volontà dei popoli. Il territorio è dominato dai nuovi simboli, dalle nuove icone, dai nuovi totem del mercato» (Tre-monti, Rischi fatali, citato). La realtà risiede sempre più nell'economia e l'economia è sempre più dominata da un pensiero unico che tende a travolgere e demonizzare, fino a cancellarle, le vecchie diversità, perché il consumismo funziona solo su scala di massa, e la sua efficienza cresce solo se è lanciato su scala globale. Il comunismo non è quindi finito, si è solo trasformato, ha stretto alleanza con il capitalismo, si è spostato in modo strumentale dal controllo dei mezzi di produzione al controllo prima dei prodotti e poi dei consumatori. In particolare, è il comunismo a fornire al consumismo il codice di forza necessario per la sua diffusione lineare su scala globale. Certo, non tutto è stato pianificato. Molto è avvenuto

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in progressione e per la combinazione di uomini e idee diversi, in un mutevole campionario umano costituito da visionari e benefattori, da industriali e da venditori, da banchieri e banchieri centrali divenuti finalmente protagonisti sulla scena, da politici liberisti e da politici transcomunisti, con la naturale spontaneità tipica dei comitati etici per il progresso e con la meccanica determinazione propria dei comitati d'affari. E poi c'è stata la combinazione oggettiva di fatti e di fattori diversi (economici e sociali), di interessi e ideologie, speranze ed egoismi, passato e presente, processi di lunga durata e curve improvvise della storia, razionale e irrazionale, bene e male. Tutto alla fine si è però saldato nel WTO, il pantheon del nuovo rito commerciale mondiale. Mercato unico, errore unico. Mai nella storia dell'umanità un processo politico della portata di quello attivato con il WTO, l'apertura del mondo al mercato, è stato consentito e avviato con tanta istantanea e superficiale precipitazione. Nel 1994 (quasi) tutti in realtà pensavano, se pure a vario titolo, che il segno della globalizzazione fosse comunque e per sempre positivo, (quasi) tutti ignoravano la reale estensione della nuova geografia economica e sociale che si apriva. E agivano dunque senza una seria e reale simulazione e prospettazione sulla tempistica e sulla magnitudine delle onde di ritorno. È stato proprio così che gli apprendisti stregoni del WTO hanno aperto di colpo il «vaso di Pandora». Qualcosa che ancora ricorda il Manifesto di Marx-Engels: «... lo stregone non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate...». Il WTO sta al vecchio GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), il vecchio sistema di accordi commerciali, come il nucleare sta al vapore. L'acqua avrebbe dovuto salire e sollevare insieme tutte le barche. Come si è detto, il WTO non è stato solo il comitato d'affari delle multinazionali, ma è stato pensato più in grande, come la centrale di sviluppo del mondo, della

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«modernizzazione» del mondo, prodotta dal mercato. In particolare per l'Europa il WTO è stato la replica, su scala mondiale, della sua avventura storica, l'avventura dell'integrazione interna del mercato europeo, lo spostamento sull'esterno dell'esperienza interna. Dal mercato unico europeo al mercato unico mondiale. In questi termini l'Europa non è stata solo socio fondatore del WTO, ma anche il suo incubatore ideologico. L'Europa è stata sacerdote e zelota del mercato unico mondiale e così artefice e insieme vittima del suo stesso destino. Spiriti benevoli e filosofie beautiful. Occorre una specifica. Aderendo al WTO, gli USA si sono però riservati una via d'uscita, una way out, in caso di gravi pregiudizi alle loro industrie o di ripetute restrizioni di operatività. L'Europa, invece, si è limitata a aderire, anche se avrebbe avuto il diritto di comportarsi come gli USA. Ma non lo ha (ancora) fatto. Niente da eccepire, s'intende, al libero mercato. E comunque, dopo il 1989, l'integrazione del mondo era irreversibile. Non poteva certo essere fermata, ma poteva essere governata. Fino a dieci anni fa i rapporti di forza, le ragioni di scambio, erano molto diversi da quelli attuali. E tutti, allora, a favore dell'Occidente. In questi termini, i tempi e i metodi dell'apertura potevano e dovevano essere molto diversi, basati sui principi del liberalismo e non del mercatismo. In Rischi fatali portavo questo esempio: «Nel dopoguerra, l'Occidente ha aperto al Giappone, che allora era appena un decimo di quello che ora può essere la Cina, con un gradualismo che è durato per alcuni decenni. Eppure, non si può dire che allora l'Occidente fosse dominato da ideologie anti-mercato. All'opposto, erano proprio le ragioni del vecchio liberalismo che da una parte spingevano certo per l'apertura. Ma dall'altra parte anche per la prudenza. L'obiettivo era l'apertura al mercato, ma la base di partenza erano dazi di ingresso e quote commerciali, destinati a essere progressivamente abbattuti».

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Era semplicemente una follia pensare che con il WTO l'apertura mondiale del mercato potesse svilupparsi in modo lineare, senza creare enormi squilibri economici e sociali, sia nei Paesi di destinazione del nuovo progetto sia nei Paesi di origine. La cascata dei fenomeni di ritorno dal WTO è giunta in Occidente e soprattutto in Europa in forme che gli apprendisti stregoni non avevano previsto, e comunque prima e diversamente e più intensamente di quanto si fosse immaginato. È proprio nella culla del WTO che il «fantasma» della povertà è nato e ha intrapreso la sua marcia. Nel 1995, subito dopo il WTO, uscì un saggio politico intitolato Il fantasma della povertà. Tra i suoi autori c'era anche l'autore di questo libro. Allora non era ancora prevedibile quando sarebbe arrivato il fantasma, né per esempio che la Cina sarebbe entrata nel WTO così presto: l'11 dicembre 2001! Allora non si poteva neppure prevedere come e in che termini lo starter della nuova tecno-finanza avrebbe spinto la globalizzazione, fungendone insieme da innesco e da leva. Ma già allora era previsto che il fantasma sarebbe arrivato e come sarebbe arrivato. Per anni quel saggio è stato sostanzialmente ignorato, come era del resto prevedibile. Si ammetterà tuttavia che, riesaminate ora, le ipotesi-tesi avanzate tredici anni fa fanno un certo effetto, un effetto, come dire, di preveggenza. Eccone una selezione: a) «Le direttrici e le forme del movimento sono diverse, ma l'effetto complessivo è lo stesso: l'Occidente esporta ricchezza e importa povertà.» b) «I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali, senza che i salariati orientali debbano immigrare e venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Non occorre che gli operai si muovano. A muoversi ci pensano infatti i capitali occidentali, che direttamente o indirettamente finanziano le fabbriche orientali. La convenienza a investire capitali dove

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la manodopera costa pochissimo fa scattare, su scala mondiale, la concorrenza salariale.» c) «Gli operai occidentali si trovano, infatti, stretti nella morsa tra "salari orientali" e "costi occidentali". I salari percepiti dagli operai occidentali tendono a livellarsi verso il basso, appiattendosi sul parametro dei salari orientali. Per contro, il costo dello standard di vita materiale e sociale resta quello occidentale.» d) «È in questo modo che la povertà entra nella busta paga dei salariati occidentali. Ci entra in modo virtuale: attraverso l'applicazione del "parametro concorrenziale", che tende a livellare automaticamente i salari occidentali su quelli orientali ... Il conflitto sociale non è più solo tra operai e robot (la macchina "ruba lavoro"), ma anche tra "operaio occidentale" (la declinante aristocrazia operaia) e "operaio orientale" (il nuovo proletariato). Nella migliore delle ipotesi, l'operaio orientale fa concorrenza sul salario all'operaio occidentale; nella peggiore, gli ruba il posto di lavoro.» e) «Gli occidentali assistono passivamente all'apertura di questo cantiere di demolizione, prendendo atto separatamente (a) della mondializzazione dell'economia, (b) della crisi dello Stato sociale ("Welfare State"), (c) della crisi della politica ... Non si comprende che gli anelli spezzati e sparsi a terra appartengono a una stessa catena.» f) Non si può competere con l'Asia sulla «forza lavoro». Si devono riorganizzare gli Stati. È strategico «l'investimento pubblico nel capitale umano... Sapere audere». Ed è strategico per lo sviluppo «l'uso formativo dei network televisivi pubblici». Da allora, dal 1995, poco o niente è stato fatto. Ma ora il «fantasma» sta davvero arrivando in Occidente e comincia a fare paura nelle periferie e nelle famiglie, nelle campagne, nelle fabbriche. E ora anche nelle cittadelle della finanza, tanto negli USA quanto in Europa. Partiamo dagli USA. A cominciare dal 2000-2001, il PIL degli USA è stato «dopato» con la continua iniezione di «bolle»: prima la bolla della new economy, poi la bolla di borsa, infine e soprattutto la bolla creata con la crescita vertiginosa dei valori immobiliari.

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Non per caso, alla fine del 2001 non troviamo solo l'«11 settembre» e l'«ll dicembre» (la data di ingresso della Cina nel WTO), ma anche l'avvio di una nuova politica economica basata sulla spinta allo sviluppo dei mutui ipotecari. La nuova tecno-finanza ha fatto tutto il resto. È così che negli ultimi anni, soprattutto dagli immobili e dai plusvalori immobiliari, il consumatore USA ha estratto flussi crescenti di valore per finanziare, proprio con la leva del debito, il suo crescente tenore di vita. Ed è stata proprio la leva finanziaria a spingere in modo determinante la globalizzazione. Una leva che è stata in specie basata su di una nuova e finora mai vista divisione dei ruoli: l'Asia produttrice a basso costo e rispar-miatrice, gli USA consumatori a debito. La crisi finanziaria in atto, che non per caso parte dalla crisi dei cosiddetti mutui subprime, erode alla radice proprio il meccanismo di base tipico di questa nuova formula, che tuttavia al suo inizio fu presentata come capace di migliorare la bilancia commerciale americana e di creare occupazione negli USA. Una formula che, lo si vede ora, ha in realtà prodotto effetti opposti a quelli pianificati e presentati: la bilancia commerciale USA si è infatti follemente squilibrata e i posti di lavoro, invece di salire, sono scesi. Fino a che la perdita dei posti di lavoro era tra gli operai, tra i cosiddetti «colletti blu» (blue collars), veniva accettata, quasi come un segno della modernità tipica della nuova società dei servizi. Ora che si licenziano, e su vasta scala, anche i white collars, i «colletti bianchi», senza graziare neppure l'aristocrazia degli addetti ai servizi, ovvero gli addetti ai servizi finanziari, le reazioni contro la globalizzazione si fanno via via più forti. È così che per cominciare è finito il primato ideologico, un tempo assoluto, del «mega-supermercato» globale Wal-Mart, il simbolo di un'economia che non ha inventato un nuovo modo di produrre, ma solo un nuovo modo di vendere.

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E non solo. In appena sette anni il debito pubblico USA è salito da 5600 a 9000 miliardi di dollari e la Cina possiede già ora una quota enorme, quasi la metà, del debito pubblico USA collocato sul mercato finanziario. Su questa scala, la posizione di creditore che la Cina ha nei confronti degli USA non è politicamente neutrale: essere creditore è, infatti, avere potere ed è un tipo di potere che cresce esponenzialmente se il creditore ha - e può prospettare al debitore di avere - reali possibilità «alternative» di impiego del suo capitale. Per esempio, se può ipotizzare alternative di impiego in altri debiti pubblici denominati in altre valute. Magari in euro. Un ulteriore effetto di dipendenza finanziaria degli USA dall'esterno è poi quello prodotto dagli investimenti operati negli Stati Uniti dai cosiddetti «fondi sovrani», un caso in cui l'aggettivo da solo dice tutto. I «fondi» di questo tipo, essendo «sovrani», urtano infatti contro la dottrina e l'ortodossia classica del capitalismo USA che, per ironia della storia, alla fine perde la sua natura inquinandosi proprio con il suo opposto, lo State capitalism. Con buona pace del mercatismo, ai fondi sovrani non si applicano infatti se non formalmente le regole base del capitalismo: le regole «Antitrust», o quelle che vietano il market abuse. Soprattutto, essendo diretta proiezione di governi stranieri, i fondi sovrani possono esercitare (e non è affatto escluso, anzi!, che esercitino) la loro influenza politica, soprattutto nel caso che investano, come già stanno facendo, in un tipo di industria che è sempre più strategica: l'industria bancaria. In sintesi, impressiona la progressiva caduta della un tempo incontrastata sovranità finanziaria degli USA. Una caduta che è soprattutto simbolizzata, nel sentire popolare, e per la verità non solo in questo, dalla caduta di valore del dollaro sull'euro, una caduta che ora è pari al 40%, rispetto al valore iniziale di base dell'euro. Una svalutazione di questa intensità produce certo un relativo beneficio economico, perché una moneta svalutata favorisce le esportazioni rendendole più convenienti per chi compra, ma produce anche e soprattutto un assoluto

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maleficio politico, perché pone in forse il ruolo del dollaro come «moneta guida» nel mondo. In altri termini: se il dollaro è come un re che ha perso il trono, se non è più la (indiscussa) «moneta di riserva» del mondo, può ancora essere il dollaro quella «moneta di debito» su cui gli USA hanno impostato la loro vita? È così che il 29 novembre 2007, davanti al Congresso, i Parlamentari della Pennsylvania hanno dichiarato: «È ora che il Commonwealth della Pennsylvania e la nostra delegazione al Congresso diventino leader della nazione nello spirito del 1776. La Pennsylvania deve offrire al Paese una soluzione bipartitica ai pignoramenti e alla crisi bancaria che ci colpiscono, una crisi che minaccia di mettere in moto un collasso economico peggiore della Grande Depressione degli anni Trenta ... stiamo assistendo al tracollo di una bolla finanziaria composta da decine di migliaia di miliardi di dollari tra mutui, titoli emessi sui mutui e derivati finanziari, dove il tutto poggia sui prezzi delle abitazioni che sono stati inflazionati artificialmente dalla politica seguita dalla Federai Reserve negli ultimi anni. Assistiamo al taglio di centinaia di migliaia di posti di lavoro nei servizi finanziari, nelle costruzioni, nelle migliorie abitative e nei settori collegati. La caduta della spesa al consumo provocata dai licenziamenti e dalla perdita di valore delle abitazioni, mentre la crescita economica cala verso lo zero e oltre, provocherebbe la perdita di 3 milioni di posti di lavoro ... Le entrate fiscali dello Stato e dei governi locali crollerebbero di conseguenza». In ogni caso, mentre l'America sta entrando in recessione, la campagna elettorale per la presidenza degli USA si sta concentrando progressivamente sull'economia. Per capire cosa sta in realtà succedendo, in un mondo che negli ultimi dieci anni è radicalmente cambiato, così

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che le vecchie analisi economiche non dicono quasi più niente, si possono utilizzare due diverse e tra di loro alternative visioni o rappresentazioni della struttura dell'economia globale: la visione A e l a visione B. Nella visione A il mondo è costruito come un tempio. Un frontone basato su più colonne: USA, Europa, Cina, India, Russia, altri. Eccone la rappresentazione grafica:

La visione B è invece configurata come una piramide rovesciata:

La visione A consente in specie di immaginare che il relativo cedimento del PIL interno a una colonna (per esempio, del PIL interno alla colonna USA o alla colonna Europa) sia simmetricamente e complementarmente compensato dalla tenuta o dal rafforzamento delle altre colonne. Questo effetto di compensazione non è tuttavia automatico. Non è automatico perché USA e UE producono insieme circa i due terzi dell'economia globale, mentre il resto del mondo ne produce invece solo il residuo terzo. Vuole dire in concreto che una riduzione, per esempio, del 2% nella crescita di USA ed Europa dovrebbe essere compensata da

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una «ulteriore» accelerazione del 6% della crescita nel resto del mondo. Non è realistico. Come non è realistico pensare che l'economia dell'Asia possa comunque e solo tenere il suo ritmo di crescita, senza risentire della caduta del PIL negli Stati Uniti o in Europa. Si dice che ciò sarebbe possibile perché l'economia dell'Asia esporta negli USA o in Europa solo il 40% della sua produzione, ma non ha molto senso. Infatti, le industrie fanno i loro utili «al margine». Così che una caduta al margine dei consumi in USA o in Europa, e dunque delle importazioni asiatiche in USA o in Europa, porterebbe automaticamente dal segno più al segno meno - in pratica dal successo alla crisi - i conti delle industrie dell'Asia. La visione B si basa invece, alla fine, tutta sul «consumatore» USA. Un consumatore che tuttavia ora non può più estrarre valore dagli immobili, e neppure dalle carte di credito: carte che, mai come in questa fase, più che «di credito» sono «di debito»; carte su cui corrono tra l'altro interessi passivi a due cifre. Ancora, un consumatore che ormai non può più estrarre valore dalla borsa; una borsa il cui andamento incerto e altalenante è, in realtà, più un segno di crisi che un segno di tenuta. Un consumatore che infine paga sempre di più l'energia che consuma, stretto nella morsa fra il petrolio che sale e il dollaro che scende. In un tempo relativamente breve sapremo quale delle due visioni è quella giusta. In un tempo relativamente breve sapremo in specie quanto intensa è la crisi economica in atto, prodotta insieme dalla caduta del valore della ricchezza delle famiglie, dalla salita del costo delle materie prime, dal freno allo sviluppo causato dalle probabili restrizioni del credito fatto dalle banche alle industrie. In ogni caso, comunque vada, il sistema economico globale non sarà più come prima. Sarà profondamente diverso. E non solo il sistema economico.

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Dal lato dell'Europa lo scenario è ancora più complesso, perché, anche a prescindere dalla sua intensità, la crisi economica in atto mette a nudo una crisi più profonda. Nata con il mercato e dal mercato - il mitico MEC, il «mercato comune europeo» -, l'Europa rischia infatti di morire proprio di mercato, trovando così nel mercato tanto il principio della sua vita quanto il principio della sua morte. Artefice e vittima del suo destino, l'Europa è in realtà l'unica area del mondo in cui si crede che il mercato possa sostituire la politica; confondendo e scambiando un'opportunità con una fatalità, l'Europa ha infatti pensato che il mercato potesse essere la sua sola politica. Abbiamo fatto il mercato unico europeo, ma poi non abbiamo capito che nel mondo il nostro non è l'unico mercato e che nel mondo non c'è solo il mercato. Il mondo non è a dimensione unica, a dimensione europea. Il mercato, la nostra ideologia dominante, non è tutto, non sa tutto e non fa tutto. Nel mondo le cose vanno diversamente e altri Paesi, altri «insiemi» geopolitici ci stanno spiazzando. Basata su idee vecchie di molti anni, in un mondo che accelera, l'Europa riesce dunque ancora a garantire l'esistente, fino a che è possibile garantirlo, ma non garantisce l'essenziale: non garantisce il futuro. In Europa, soprattutto, regna un'atmosfera in cui l'illusione è ancora - per il momento - quella di poter continuare a vivere a velocità costante, quasi in un noioso continuum esistenziale, normale e banale. Ma se, sotto l'apparenza, si guarda alla sostanza, si può vedere che non è così. Europa: gli effetti della crisi continentale

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Nella sua storia l'Europa ha certo vissuto e superato fasi di intensa, rivoluzionaria trasformazione. E stato cosi al principio dell'Ottocento, prima con la caduta dell'Ancien Regime e poi con Napoleone, quando si diffonde un «sentimento di ignoto ... l'intera massa delle rappresentazioni, dei concetti che abbiamo avuto finora, le catene del mondo, si sono dissolte e sprofondano come in un'immagine di sogno» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807). È stato ancora così al principio del Novecento, con l'«avvento delle masse», portato insieme dalla rivoluzione industriale e dalla prima grande guerra, cocktail micidiale preparato con un misto di romanticismo e di meccanica moderna. È stato così soprattutto al principio del Cinquecento quando, con la scoperta delle Americhe e con la conseguente apertura degli spazi atlantici, si rompono gli equilibri del Medioevo e il mondo europeo diventa mundns furiosus. E questo è forse il paragone insieme più proprio e più drammatico. Ma con una differenza fondamentale: ora non è più l'Europa che entra nel nuovo mondo, ma è il nuovo mondo che entra in Europa. Chi può agire non sa vedere. Ma chi sa vedere deve agire, per cambiare in meglio il futuro che ci viene incontro. Non basta l'economia, l'economia da sola non ci porta da nessuna parte. Come la politica senza la realtà è vuota, così l'economia senza la politica è cieca. Per come è strutturata, per un gioco congiunto di fatalismo e di illusioni, di divisioni e di nichilismo, l'Europa è divenuta un continente politicamente acefalo dominato dall'opposto della politica, dalla «non politica». E infatti l'Europa: a) non ha una vera politica estera, senza neppure un seggio unico all'ONU, non sostituito dall'illusione di poterlo compensare unendosi al coro del pacifismo e del buonismo mondiale;

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b) non ha una vera politica industriale, da un lato con il divieto di interventi statali di sostegno alla nostra industria, non compensati da sufficienti fondi europei, e dall'altro lato con la corsa a fabbricarci regole-handicap. Paradossalmente siamo infatti convinti che il mercato non si faccia con meno regole, ma con più regole, a partire dalla regolamentazione del mercato stesso. Non abbiamo le regole che ci servirebbero: per esempio, non abbiamo ancora un vero e funzionale sistema di diritti europei a tutela della proprietà industriale e intellettuale. Ma - per contro - fabbrichiamo, tanto a livello europeo quanto simmetricamente a livello nazionale, una quantità crescente di regole che non ci servono, che anzi ci creano handicap, producendo per le nostre imprese costi artificiali e addizionali che le spiazzano nella competizione globale e che ingessano le nostre società, essendo regole assurde mirate a disegnare non solo il mercato perfetto ma anche la società perfetta, insieme modellata e bloccata da un'infinità di regole sociali, alimentari, ambientali. Una prova empirica del paradosso europeo? Più negli anni cresceva la competizione nella globalizzazione, più cresceva in modo suicida la nostra produzione giuridica. Alla crescita delle Gazzette Ufficiali nazionali si aggiungeva infatti, simmetrica e poderosa, la crescita della Gazzetta Ufficiale Europea. Nel 1995 quest'ultima contava 16.500 pagine, nel 2005 19.600, nel 2006 28.000! È difficile che la nave del mercato europeo possa navigare in un oceano di regole. È così che il mercatismo ha portato l'«Europa-mercato» a competere sul mercato, ma con competitori dove non è prevalente il mercato. Il mercatismo europeo, infatti, predica ed estremizza il mercato, ma solo in Europa. Per il resto chiude gli occhi due volte. Una prima volta li chiude facendo finta che ci sia un mercato uguale al nostro dove invece c'è un mercato del

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tutto diverso, perché totalmente anarchico: dunque un tipo di mercato con cui non possiamo competere ad armi pari, essendo noi completamente bloccati dalle nostre stesse regole. La nuova auto indiana, la «Nano», costa solo 1700 dollari, ma produrla in Europa porterebbe in prigione il suo costruttore, per violazione delle regole sociali e ambientali. Una seconda volta li chiude facendo finta che ci sia mercato dove invece non c'è mercato, ma l'opposto del mercato e del suo elemento base - il capitalismo privato -, ossia lo State capitalism, il capitalismo di Stato. In specie permettendo che vengano da noi, sul nostro mercato e non solo in USA, i cosiddetti «fondi sovrani» originati da Cina, Russia, Emirati Arabi, ecc. Fondi che sono cresciuti e cresceranno esponenzialmente (500 miliardi di dollari nel 1990, 3000 nel 2007, 10.000 nel 2012) e che, come già notato, costituiscono un caso in cui l'aggettivo dice molto di più del sostantivo. Perché sono fondi che non operano solo nella pura logica del mercato, ma anche (soprattutto) nella logica della proiezione e dell'influenza sull'Europa degli Stati che li possiedono e governano. Così che nel Vecchio Continente le imprese europee in difficoltà o in crisi non possono essere sostenute dagli Stati, e tutte devono comunque rispettare l'Anti-trust, devono essere totalmente trasparenti, non devono avere informazioni privilegiate, non devono incorrere nel market abuse, hanno «responsabilità sociale», ecc., mentre le imprese che stanno fuori dall'Europa o che vengono in Europa possono fare più o meno quello che vogliono. In sintesi, in Europa esiste e si recita in un teatro in cui il dumping - la concorrenza asimmetrica - è vietato in Europa e per l'Europa, ma si tollera che sia fatto da fuori, avverso l'Europa. A conclusione del circuito, l'Europa finisce dunque per tollerare il tipo di dumping più assurdo, quello asimmetrico o all'incontrano: l'auto-dumping, il dumping contro se stessa; c) non ha una vera politica commerciale. L'Europa, per come è strutturata, ha infatti competenze vastissime tanto sul mercato «interno» quanto su quello «esterno», così

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monopolizzando tutta la politica commerciale europea. Ma, mentre l'Europa è, se pure a modo suo, fortissima nel governo del mercato interno, è invece, per come è istituzionalmente strutturata, debolissima sul mercato esterno. Un esempio. Tutti gli altri vanno nel WTO con la forza propria dei loro governi; l'Europa ci va solo con un «Commissario». È così che siamo entrati in un campo di forza con un altissimo grado di debolezza; d) non ha una vera politica energetica. Sull'energia infatti, che è sempre più vitale e sempre più strategica, perché l'energia è una componente sempre più essenziale dell'economia, noi continuiamo a insistere per costruire in Europa il «mercato perfetto», mentre i nostri fornitori costruiscono intorno all'Europa non solo un «cartello perfetto», come è stata ed è da anni l'OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), ma ora anche il «monopolio perfetto». In particolare, la Gazprom russa non è, e non ci si presenta, come una normale società soggetta alle moderne regole del mercato, ma come la versione moderna di quella che nel Seicento era la Compagnia delle Indie: mercantilismo + imperialismo. È così che la Russia, che prima ha perso la guerra fredda, ora, spezzando l'unità dell'Europa in tanti accordi bilaterali di sopravvivenza, si attrezza per vincere la guerra «calda» dell'energia; e) non ha una vera politica demografica. I numeri della demografia ci sono avversi. È un'avversità che in specie ci viene tanto dalla caduta dei tassi di fertilità e di natalità, quanto dalla crescita della speranza di vita. In particolare, lungo una catena storica che va dalla biancheria che si può lavare, apparsa su scala di massa solo nell'Ottocento con l'avvento del telaio meccanico, fino all'acqua potabile in bottiglia, non solo l'«igiene», ma anche lo Stato sociale europeo ha potentemente influito sulla nostra demografia, sulla struttura interna della popolazione europea. Il nostro Welfare State ha infatti funzionato e sta funzionando benissimo. Ma purtroppo in modo asimmetrico. Perché, pensato all'origine per portare l'uomo «dalla culla alla

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tomba», ha prodotto e sta in realtà producendo poche tombe e poche culle. In Europa, sappiamo tutto sulla demografia, ma non facciamo niente; f) non ha una vera politica sociale, perché ignoriamo gli effetti destrutturanti e destabilizzanti prodotti sulle nostre famiglie e sulle nostre società dal lavoro di tipo nuovo: dal lavoro di tipo instabile. C'è infatti in Europa un legame stretto fra tipo di lavoro e tipo di società. La società americana è diversa, è una società mobile, storicamente e strutturalmente basata sulle migrazioni. Migrazioni tanto da fuori quanto da una parte all'altra del Paese, migrazioni da un lavoro all'altro. La società europea è invece storicamente basata sul presupposto del luogo fisso, in senso sia geografico che sociale. E per questo che le mutazioni nel modello del lavoro, lo spostamento dal lavoro fisso a quello rotativo, portano con sé anche fortissime mutazioni sociali, a cui non siamo preparati; g) non ha infine, salvo solo l'Erasmus (il sistema europeo di circolazione degli studenti), una vera politica culturale, ma piuttosto una politica alternativamente turistica o stucchevole, perché abbiamo trovato nel mercato un nuovo dio e pensiamo che tutto il nostro territorio e le nostre coscienze ne siano il nuovo tempio. È così che l'Europa, investendo tutto nell'assoluto del mercatismo, scambiando una prima esperienza interna (la costruzione del mercato unico europeo) con un successivo esperimento esterno (il mercato globale), è arrivata per prima all'«avanguardia» della politica futura?

Non è certo così in America e soprattutto non è così in Asia. A differenza dell'Asia, l'Europa è stata infatti, ed è ancora - ed è questo il fulcro del suo attuale essere politico -, il principale e più tipico punto di incrocio tra due forze tra di loro opposte: la forza «crescente» del mercato globale; la forza «decrescente» dello Stato nazionale. È un fenomeno,

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quello della crisi dello Stato-nazione, evidente da un po' di anni. Ma non da molti. Nel 1989, per esempio, il tema non era davvero frequente (si veda, comunque, Giulio Tremonti, Una rivoluzione che svuota i Parlamenti, in «Corriere della Sera», 19 luglio 1989. Si noti: «luglio 1989», cioè prima della caduta del muro di Berlino). Sotto la pressione dell'economia globale si è in particolare spezzata, in Europa, la catena politica fondamentale: la catena Stato-territorio-ricchezza (Giulio Tremonti con Giuseppe Vitaletti, La fiera delle tasse, 1991). Un tempo, allo Stato bastava controllare il suo territorio per controllare la ricchezza e dunque per esprimere la sua forza politica: per riscuotere le tasse, per battere la moneta, per esercitare la giustizia. Il territorio era infatti il container della ricchezza, agraria e mineraria, o la base della nuova ricchezza industriale. La ciminiera, la grande macchina a vapore. Ora non è più così. La ricchezza, sempre più dematerializzata e finanziarizzata, sfugge ai suoi antichi vincoli territoriali, ci vola sopra. Lo Stato resta a controllare il suo territorio, ma non controlla più la parte più affluente e strategicamente rilevante della ricchezza, e per questo perde quote crescenti del suo originario potere politico: un potere pensato, in una logica di «monopolio della forza», dentro un sistema a dominio territoriale chiuso. Un tipo di dominio che dava appunto allo Stato-nazione il potere esclusivo di battere moneta, di riscuotere le tasse, di esercitare la giustizia. Non solo. In Europa questo processo storico ha preso e prende infatti una forma politica particolare e addizionale, perché una quota notevole della forza politica residua dello Stato-nazione non è stata conservata, ma a sua volta devoluta verso l'alto, all'Unione europea. Una Unione che per suo conto, allargandosi di continuo fino a comprendere 27 Paesi, ha prodotto un ulteriore effetto di dispersione di forza. L'Europa che c'è ora non è né carne né pesce, siamo tra la fine del giorno e il principio della notte. Non abbiamo più la

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vecchia macchina politica nazionale, ma non abbiamo ancora una macchina politica europea. La vecchia politica nazionale è stata infatti erosa dalla globalizzazione e, al contempo, devoluta verso l'alto in nuovi contenitori europei, a loro volta sempre più allargati. Contenitori che, non avendo un'identità politica propria, non hanno neppure una forza propria. Bruxelles, castello di Laeken, 14 e 15 dicembre 2001, vertice dei capi di Stato e di governo europei. Si lancia il progetto di una nuova Costituzione europea. Nel corso dei lavori si propone di inserire nel testo il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell'Europa. Si apre un dibattito. La prima, e in qualche modo superficiale o parziale, interpretazione ha visto questo dibattito come una partita giocata tra Parigi e Roma. Tra Parigi, luogo tutelare dei «Lumi», e Roma, centro storico e spirituale. L'interpretazione più vasta e più profonda è invece un'altra: non una partita tra Parigi e Roma, ma tra Londra e Roma e, al fondo, la lotta tra due visioni della società. Londra come base di irradiazione di una visione della società che, banalizzandosi nei consumi e di riflesso nei costumi, si identifica e si appiattisce sull'economia: l'idea dell'«Europa-mercato». All'opposto, l'idea dell'«Europa-politica». Frutto della sua storia passata e proiettata nella storia a venire proprio perché costruita come qualcosa di diverso e più alto, rispetto alla geografia piana tipica di un'area di libero scambio + alcune autorità guardiane preposte alla regolamentazione del traffico.

Nel primo tempo della partita ha vinto l'Europa-mer-cato, ha vinto una visione dell'Europa come piattaforma ideale per sublimare ancora una volta il mercatismo; per questo le «radici» non sono state inserite nella bozza di testo costituzionale, celebrando invece il trionfo del mercato, tanto

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su quel che resta degli Stati nazionali europei, quanto e soprattutto sul nucleo embrionale dell'Europa, un nucleo da modellare a sua volta a immagine e somiglianza del mercato. È così che l'Europa, rinunciando a codificare le sue radici in nome del mercatismo, più ancora che del laicismo, ha rifiutato la propria identità, perché ha rifiutato la propria anima. E, rifiutando la sua identità e la sua anima, accettando la confusione globale, l'opposto della cultura che invece per sua natura non è solo universale, ma anche locale, ha rinunciato alla sua difesa dalle forze esterne che premono sull'Europa. La difesa dall'esterno e infatti possibile solo se si sa cosa si è all'interno e se ci si crede. Nel secondo tempo non è comunque andata propriamente cosi, perché popoli che hanno potuto votare hanno votato contro la nuova e sradicata bozza costituzionale. È stato ed è dunque, questo delle radici, l'inizio di una nuova e possibile storia, perché con il solo mercatismo l'Europa non può che declinare, nella duplice forma di un declino economico e insieme demografico. Declino economico. Per cominciare, se le cose continuano così, c'è per l'Europa un futuro di declino nelle proiezioni globali dei numeri indicatori dello sviluppo economico, i numeri che misurano la crescita del PIL, il prodotto interno lordo europeo. Le prospettive di lungo termine per l'economia europea (dal 2005 al 2050) prevedono infatti un tasso di crescita limitato tra L'1% e il 2%. Numeri che crescono, certo, se pure molto meno di quelli mondiali, ma soprattutto numeri che non crescono tanto quanto è necessario per sostenere i costi crescenti del nostro Wel-fare State. Costi che sono dovuti tanto all'invecchiamento della popolazione quanto allo sviluppo della tecnologia. Sta per la verità diventando di moda in Europa una tesi consolatoria, secondo la quale il PIL non è un indicatore completo, perché non contiene tante cose belle della vita. Se ne trae il corollario estetico secondo cui lo sviluppo lento, tipico dell'Europa, è «bello». Bello ma insostenibile, non solo per questioni di prestigio nelle statistiche mondiali, ma

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soprattutto perché il sistema sociale europeo è come una grossa moto, leggera da guidare fintanto che si è in corsa, pesante invece da tenere, fino a diventare insostenibile, se la velocità rallenta progressivamente. E la ragione è molto semplice: nella storia dell'umanità la crescita economica non è stata la regola, ma l'eccezione; la curva dello sviluppo è stata sostanzialmente piatta per secoli e solo a partire dalla rivoluzione industriale e poi soprattutto negli ultimi decenni, e solo in Occidente, è andata davvero verso l'alto. Proprio su questa ipotesi, sull'ipotesi della crescita, è stato strutturato e finanziato il vasto sistema di servizi pubblici per la popolazione che ora conosciamo in Europa; se la curva della crescita europea torna a essere sostanzialmente piatta, il sistema non regge e l'Europa cessa di essere un'area felice. Come può infatti essere garantito il Welfare State europeo, se a crescere sono il numero degli anziani e i costi di funzionamento, se a scendere sono il numero dei giovani e le cifre dello sviluppo interno? E poi declino demografico. Declino nelle proiezioni future dei numeri demografici, i numeri della popolazione. Questi ultimi sono, se possibile, ancora più avversi dei numeri economici. La demografìa è una scienza precisa anche nelle sue «profezie» su cosa accadrà nel futuro, perché è basata sui «grandi numeri», che non si spostano significativamente nel loro lungo andare. Salvo che a un certo punto, proprio avendo presenti le profezie demografiche, si cominci a fare qualcosa per invertire la tendenza. In specie, in base alle conoscenze storiche sul passato e alle proiezioni demografiche che abbiamo sul futuro, è possibile avere

chiara la dinamica delle popolazioni nell'arco di un secolo (1950-2050) in cui il peso percentuale sulla popolazione mondiale dell'antico mondo (Europa, USA, Giappone, ecc.) ha subito una drastica frenata, passando dal 32% del 1950 al 15% previsto nel 2030, per stabilizzarsi circa su questa

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percentuale fino al 2050 (14%). La caduta è dovuta in particolare all'andamento negativo della popolazione dell'Europa che, pur allargata a oriente dopo la caduta del muro di Berlino, si ridurrebbe fino a rappresentare nel 2050 solo il 7% della popolazione mondiale e a fine secolo addirittura il 4%. L'area asiatica (escludendo il Giappone industrializzato), che rappresentava già nel 1950 più della metà dell'intera popolazione mondiale (52%), arriverà invece nel 2030 al 58%. Alla rilevante crescita demografica mondiale, da 2,5 miliardi del 1950 a più di 8 miliardi nel 2030, non contribuisce quindi l'Occidente, dove declina in particolare l'Europa. A questo dato negativo ne va poi aggiunto un altro, costituito dall'invecchiamento specifico della popolazione europea; si crea così un paradosso, per cui l'insieme delle battaglie individuali vinte nella lotta contro la morte diventa un problema sociale. L'invecchiamento della popolazione, un processo la cui velocità dipende insieme dal tasso di fecondità (quanti nascono) e dal tasso di sopravvivenza (quanti invecchiano), si misura in specie in funzione del numero di persone che hanno passato una certa soglia di età. Fissata per esempio come indicativa dell'invecchiamento la soglia dei 65 anni, si vede che nel 1950, in Europa, ad averla superata era circa l'8% della popolazione; nel 2005 era già circa il 15%; nel 2050 arriverà circa al 27%. E sarà cioè quasi un terzo della popolazione. È così che per effetto puro del mercatismo, per effetto della politica di non avere una politica, se non quella del mercato, l'Europa sarà insieme sempre più povera e sempre più debole. Fino al rischio di entrare in crisi da dentro e di essere colonizzata da fuori. Per incominciare, l'Europa rischia di entrare in crisi da dentro, perché abbiamo una limitata e decrescente capacità di assorbimento dell'onda di immigrazione attesa per i prossimi decenni. Un'onda che da oggi al 2030 porterà la percentuale degli immigrati sul totale della popolazione europea dall'attuale 8% a circa il 20%. E che destabilizzerà le

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nostre strutture sociali, già fragili per effetto della combinazione tra sviluppo economico lento e invecchiamento accelerato. È dunque segno di responsabilità ipotizzare che in questi termini, senza variazioni di tendenza, per effetto di due opposte polarità (l'attrazione verso la ricca Europa, la spinta della disperazione che viene dall'Africa subsahariana), si presenterà in Europa uno scenario di contrasti e conflitti sociali crescenti. Contrasti e conflitti per la disputa su risorse scarse, prima tra giovani e vecchi europei e poi tra vecchi europei e immigrati. E questa frattura demo-migratoria alimenterà a sua volta, all'interno dell'Europa, reazioni identitarie opposte, non solo economiche o sociali, ma culturali. L'immigrazione non è infatti la soluzione dei nostri problemi demografici e sociali, ma sarà la causa di una loro radicalizzazione. La pianta maledetta della xenofobia sta già crescendo in Europa. E poi l'Europa sarà colonizzata da fuori, da popoli più giovani, più vitali, più determinati, perché il mercatismo ha fatto da forcipe a una nuova storia. Una storia in cui il declino dell'Europa si manifesterà a fronte della crescita di altri popoli e di altre potenze, che occuperanno il mondo e lo modelleranno, e che naturalmente, fatalmente tenderanno a immettere la loro nuova forza in una strategia di dominio politico dei più forti sui più deboli. Imporranno prima i loro prodotti industriali, i loro prezzi, la loro forza finanziaria (la Cina non esporta solo prodotti: è già il secondo esportatore di capitali del mondo), infine i loro modelli culturali e politici. E sarà il tramonto della vecchia Europa, con la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia. In una parola: la nostra civiltà. È per tutto questo che è tornato anche per l'Europa il tempo della politica. Non il tempo di una politica chiusa

nelle sempre più strette gabbie nazionali, non il tempo della politica schiava dell'economia, ma il tempo delle i-dee generali e dei valori spirituali.

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Gli spazi si sono estesi. Le rotte sono cambiate. Se pensiamo di poter restare uguali, mentre cambia la realtà, a un certo punto sarà la realtà a cambiarci: in peggio! È venuto per l'Europa il tempo di mettere in campo una visione diversa del suo destino, una visione diversa della società, una visione strutturata e non destrutturata, attiva e non passiva. La finis Europae è l'antica profezia di caduta dell'Europa, come replica della caduta della civiltà romana, una caduta annunciata tra Ottocento e Novecento, ritardata e insieme amplificata prima dalle due guerre mondiali (in realtà una guerra sola, con in mezzo un lungo armistizio) e poi dalla guerra fredda. La profezia, però, non è irreversibile. La finis Europae non è il nostro unico destino possibile. Ma dobbiamo insieme saperlo e volerlo. Sapere della crisi e volere reagire. Perché, se anche superandola usciamo dalla crisi dell'«agosto 2007», non possiamo comunque continuare come prima, come se niente fosse successo e come se niente potesse più succedere. Sarà in specie proprio la spinta del malessere materiale e soprattutto spirituale che c'è già alla base della nostra piramide sociale, un malessere che via via si sposterà dal basso verso l'alto, a portarci verso il rifiuto delle forme attuali della politica, miope e abulica, fatalista e stupida. Sarà all'opposto proprio questa spinta dal basso verso l'alto a decretare il successo delle forme e delle forze politiche che sapranno intercettare il nuovo spirito del tempo. In Europa dobbiamo e possiamo dunque trasformare proprio la crisi che è in atto, e che cresce, in un'opportunità positiva di pensiero e di azione. Fallito il piano mer-catista di neocolonialismo, rischiamo infatti, soprattutto noi in Europa, di essere colonizzati dall'Asia. È venuto il tempo per provare a evitarlo.

 

Parte seconda La speranza Una politica nuova, dopo il fallimento delle ideologie

Il primo pensiero politico organizzato è stato espresso da Platone nella Repubblica. Qui la politica è téchne, nella sua forma superiore: «E téchne politiké». L'immagine usata da Platone è quella del timone come strumento di governo della nave. Un'arte, la politica, che tra le arti è la più complicata, perché occorre insieme conoscere la nave e l'equipaggio, la superficie del mare, i fondali, le stelle. Non possiamo fermare il mondo, ma dobbiamo capirlo e muoverci di conseguenza. La meteorologia non fa il tempo, non decide quando splende il sole o quando piove, ma aiuta a navigare. I marinai sanno che non si governa il mare ma la nave, che si manovrano le vele e non il vento, ed è proprio così che la nostra nave deve provare a prendere il largo, se non vuole affondare in porto. La crisi che viviamo non è in specie solo una crisi economica. È soprattutto una crisi sociale e morale. È la crisi del modello europeo finora dominante in Europa ed è il prodotto di un errore. Il mercatismo, la riduzione ideologica dell'uomo nel mercato - esisto per consumare, consumo e dunque esisto -, basa infatti la sua essenza su di un calcolo troppo sintetico, un calcolo che si sta dimostrando sbagliato.



Per non continuare nell'errore non basta dire che ora al mercato si deve «aggiungere» la politica. Non basterebbe questo esercizio, perché finora il mercato è stato ed è esso stesso la forza politica prevalente avendo ancora, proprio il mercato, il quasi totale monopolio culturale e materiale dell'esistente. Fino a che è così, c'è dunque spazio solo per il mercato e non per la politica. Per cambiare, l'unica politica che si può fare è una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una «filosofia» politica diversa, una filosofia che ci sposti dal primato dell'economia al primato della politica. Serve una leva che come ogni leva - per funzionare deve però avere un punto d'appoggio. Questo punto può essere uno solo: quello delle «radici», le «radici giudaico-cristiane» dell'Europa. Per la difesa dell'Europa non basta il PIL, serve un demos. Demos non è solo una demografia positiva, è qualcosa in più, è una visione strutturata e stabilizzata della società: sicurezza sul lavoro, per fare una famiglia con i bambini; sicurezza sociale, per programmare con serenità il proprio futuro nel bisogno e nella vecchiaia; sicurezza portata dalla garanzia della legge e dell'ordine. Per il demos serve la politica, e alla politica servono tanto una cultura e uno spirito collettivo positivo - un ethos quanto il potere per affermarlo. I popoli domandano e i governi devono poter rispondere: le imprese domandano decisioni; i bisognosi domandano assistenza; nell'insieme i popoli domandano certezze e sicurezze. Ma i governi europei rispondono sempre meno, per la loro strutturale crescente debolezza. È così che, assurdamente, più cresce la domanda di politica, più ne decresce l'offerta. In ogni caso il principio della soluzione della crisi europea non sta nella tecnica, non sta nella supposta forza salvifica della tecnocrazia, sta nella politica e nel potere.



Non si può dunque iniziare un nuovo corso partendo dall'economia - dai «valori secondi» -, ma dai «valori primi» di un nuovo ordine morale. Un nuovo ordine morale porta infatti con sé e naturalmente anche progresso economico, ma senza un nuovo ordine morale ci sono solo declino generale e conflitto sociale.

Certo la fine del mercatismo non comporta automaticamente la fine dell'influenza dell'economia sulla politica. In specie, resta ancora valida la profezia, fatta al principio del Novecento, che annuncia l'«ingresso dell'economia nella politica» (Walter Rathenau, L'economia nuova, 1917). Ma certo hanno fallito le sue due estremizzazioni: prima il comunismo (che è stato in parte dominante una specifica ideologia economica) e poi il mercatismo (l'economia è tutto, sa tutto, fa tutto). Hanno fallito sia perché la realtà e la vita non hanno una dimensione unica, essendo insieme materiali e spirituali, sia perché il corso della storia ha improvvisamente preso una direzione nuova, una direzione che non può essere ignorata. Solo così si può dunque iniziare ora un «discorso sulla politica», certo non più basato su vecchie formule e su vecchie parole chiave, su vecchi schemi culturali e su vecchi luoghi mentali, su vecchi materiali e su vecchi quaderni. La politica, la politica nel senso platonico della téchne, non è affatto superata; all'opposto, è sempre più necessaria, ma può e deve vivere e rivivere solo nella realtà e nello spirito del tempo presente. È appena stato detto (Tony Blair) che la politica non è più nella dialettica tra «sinistra» e «destra», una dialettica superata dalla storia, ma nell'alternativa tra «apertura» o «chiusura» alla globalizzazione; tra chi ha le capacità di

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guidare le nostre società nell'adattamento alla globalizzazione e chi non le ha. Questa è una tesi che è insieme vera e falsa. Vera perché centra l'essenza della realtà che la politica deve guidare, ossia la globalizzazione. Falsa perché è proprio con la globalizzazione che prosegue la storia, se pure per linee di rottura e di novità, per distruzione e creazione. E, con la storia, prosegue anche, se pure in forme nuove e non più ideologiche, la storica necessaria semplificazione della realtà nella dialettica tra la «sinistra» e la «destra». Una dialettica che non è affatto cancellata, ma anzi rinforzata proprio dalla modernità. La modernità assoluta della globalizzazione avrebbe dovuto portare con sé e decretare il trionfo della «sinistra» che, a partire dall'Ottocento, si è sempre messa proprio sulla linea della modernità, trovando nella modernità e facendo della modernità la sua «cifra» politica essenziale. Non è stato e non è così. È invece proprio con la modernità e nella modernità che la «sinistra» sta perdendo colpi e perdendo quota. E questo perché, esaurita negli anni Novanta la geniale e generosa spinta «socialista» e trovandosi distratta e confusa dalle attività di governo la sinistra «antagonista», la sinistra ha esaurito la sua spinta vitale, tanto sul piano dell'economia, con l'accettazione neofita ed enfatica del mercatismo che è stata ed è tipica della parte finora preponderante della sinistra (la parte «governista»), quanto e soprattutto e decisivamente sul piano del modello sociale. Perché i vettori della modernità si sono rovesciati? Perché, dopo quasi due secoli, la sinistra non è più il progresso e il progresso non è più a sinistra? Perché, per la prima volta nella sua storia, la sinistra non è più proiettata verso il futuro, ma impigliata nel passato? Perché la sinistra ci si presenta come un albero con le radici rovesciate, come un albero che cresce a rovescio, dall'alto verso il basso?

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La risposta a queste domande si trova a sua volta rispondendo a una domanda di fondo: cosa è successo alla sinistra? Per capirlo è prima necessario identificare le categorie base storicamente e culturalmente proprie della sinistra e poi verificare come queste siano contemporaneamente entrate in crisi proprio con la «modernità», prima evocata e poi spinta dalla globalizzazione, con l'apporto decisivo e paradossalmente suicida proprio della sinistra stessa. È un'analisi critica che si può fare in alcuni passaggi, sintetici ma molto significativi. Cominciamo dal linguaggio, perché le fondamenta sono sempre intellettuali e le parole sono segni che hanno sempre una loro propria e tremenda forza espressiva. Il linguaggio della sinistra è ancora fatto da alcune parole chiave: forza, massa, spinta, equilibrio, reazione. Per derivazione diretta dalla sua ideologia totalitaria madre, il sistema politico della sinistra, il suo sistematico riferimento mentale, anche dopo il passaggio dal comunismo al socialismo, è ancora concettualizzato dentro una visione meccanicistica e quantitativa della società. La realtà è cambiata, ma la meritai imagery e il «meccano» mentale tipici della sinistra sono rimasti fermi; la sinistra cataloga infatti ancora la realtà per classi: classi di interessi, classi di opinioni, classi che sono per definizione quantitative. Il meccanicismo quantitativo come concettualizzazione della politica, lo scientismo classificatorio e categoriale, funzionavano ancora nel Novecento. Non funzionano più ora. Non hanno più senso e non colgono più il senso della società contemporanea. Se si pensa alla massa come quantità scalare e dunque come quantità mutabile solo per aggregazione o per sottrazione, non si riesce infatti più a cogliere l'essenza della modernità, la non omogeneità della massa e la velocità che agisce sulla massa creando in continuo nuove masse. Non è fantascienza politica, è già realtà. Un esempio per tutti: fermo il numero assoluto della massa, internet crea in

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continuo comunità diverse, senza che per formarle ci sia bisogno di rivoluzioni o di riforme pianificate o determinate dall'alto o da fuori su iniziativa di uffici politici, con la vecchia pretesa di guidare gli eventi del mondo. La «rivoluzione del silicio» conta ormai più di tutte le altre rivoluzioni fatte dalla sinistra nella storia. Per verificarlo basta guardare alle mutazioni intervenute nei processi produttivi, basta guardare un personal computer, per capire che la vita non è più massa, non è più collettivo, non è più grandi numeri. Le masse ci sono ancora, ma non sono più il soggetto collettivo attivo che per un secolo ha storicamente incarnato la mistica e l'azione politica: la «ribellione delle masse», la «dittatura delle masse». La moltiplicazione delle comunicazioni e delle decisioni, sempre più individuali e indipendenti, la disuniformità, ha posto in crisi le gerarchie, tanto le gerarchie violente delle «rivoluzioni», quanto le gerarchie benevole delle «riforme». Il mito politico dell'Arbeiter (la figura insieme mitica ed eroica del «lavoratore») è progressivamente sostituito dal medium del personal computer che, agendo in termini «periferici», destruttura le vecchie organizzazioni economiche, sociali, politiche. I computer, rompendo l'ordine chiuso degli spazi territoriali, modificano la bilancia dei poteri, a favore delle libertà individuali. Quello che si sta formando, attraverso processi di distruzione e ricostruzione creativa, è in specie un mondo «libertario», basato su ampi spazi fisici e virtuali di libertà. La vecchia struttura sociale era simile a un vecchio main frame computer, disegnato e organizzato, a somiglianza della società e della mentalità da cui veniva e per cui lavorava, dentro uno schema rigido e verticale, geometrico, disegnato dall'alto verso il basso: top down. La nuova struttura sociale è invece simile a internet, anche perché è in parte fatta proprio dalle nuove strutture della comunicazione: è orizzontale e

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flessibile, anarchica e federale. Questo nuovo habitat non è favorevole per la «sinistra»; lo è invece molto più probabilmente per la «destra». II Dna della sinistra è poi costituito da due elementi essenziali e tra di loro legati: il «progresso» e il «collettivo». È un Dna che si sta dissolvendo: il progresso non è più di sinistra, perché non è più collettivo. A partire dall'Ottocento, progresso e collettivo si sono in specie combinati e sublimati in due strutture essenziali, la «fabbrica» e lo «Stato», ma ora non è più così. Se le sorti politiche della fabbrica sono a termine, lo stesso vale per lo Stato storicamente, sistematicamente organizzato dalla sinistra nella forma del big government. La sinistra ha creato lo «Stato provvidenziale», l'État providence, e lo Stato provvidenziale ha alimentato la sinistra diventandone l'habitat naturale. È per questo che in Europa la sinistra tende ancora automaticamente a identificare ciò che è «pubblico» con ciò clic è «statale»; è per questo che la sinistra ha difficoltà a concepire il pubblico come comunitario, fatto da persone che si uniscono per il bene comune, ma fuori dal patronaggio e dal controllo statale. Lo Stato è ora destinato a fare la fine del dinosauro, macchina politica leviatanica incapace di sopravvivere in un ambiente radicalmente mutato. La nuova «geopolitica» del mondo, infatti, erodendone le basi di potere, erodendone quel dominio territoriale chiuso su cui esercitava il monopolio della forza, mette in crisi le «creature» di questo tipo, troppo grandi per gli affari piccoli, troppo piccole per gli affari grossi; perché i grandi flussi migratori dei consumi, dei capitali e delle persone si sviluppano ormai su scala mondiale. Non solo: lo Stato nazionale, il container e insieme l'hardware dell'ideologia di sinistra applicata alla società, è in crisi di potere perché è finita l'età del debito e dei deficit pubblici, usati come leva sociale di transfert dall'alto verso il basso. È così che la sinistra ha perso una delle sue ultime basi di forza, l'essenza della sua politica sociale: la spesa pubblica fatta a debito. Una magia che non può essere replicata, se

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non in forma politicamente suicida, con l'aumento della spesa pubblica finanziato con la crescita delle tasse. È poi in crisi un'altra idea base della sinistra, l'idea della «ragione» e della «scienza» come vettori esclusivi di una modernità positiva. La ragione non fornisce più spiegazioni totalizzanti, spiegazioni che il corso della storia ci ha finora presentato in sequenza nella forma di progressive e indiscutibili illuminazioni scientifiche. Lo sviluppo scientifico non è più tutto positivo e non è più tutto lineare Per la prima volta nella storia ciò che è possibile tecnicamente non è automaticamente lecito dal punto di vista morale, a partire dalla «bioetica», che oggi è la metafora

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più forte della modernità. Una modernità che non è più solo automaticamente positiva, che può essere alternativamente positiva o negativa. È l'uomo che, sfidando paure ancestrali, avanza nei domini insondabili della sua stessa esistenza, che si cala nell'antro della vita e della morte e ne risale, angelo o lucifero, homo sapiens o homunculus, mito o incubo. Nel tempo presente la «cifra» delle mutazioni in atto è drammaticamente intensa. Siamo in una fase della storia in cui si stanno manifestando vertiginose accelerazioni; nell'ultimo mezzo secolo il progresso è stato infatti «orizzontale» e lineare sulle cose, ma «verticale» sull'uomo. Le cose sono sempre le stesse: auto, treni, aerei, televisori, lavatrici. Sono migliorate in senso qualitativo e sono sempre più diffuse in senso quantitativo, ma sono rimaste le stesse cose. Sull'uomo, invece, il progresso si è sviluppato in modo verticale: il salto scientifico sta passando dalla pura analisi «ontologica» - cosa è un corpo umano, cosa c'è «dentro» un corpo umano - all'azione «sui» corpi umani. Non ci limitiamo più alla fase gnoseologica, a conoscere la vita, ma agiamo sulla vita, tentando di crearla o di ricrearla. Certo, anche la bomba atomica agiva sulla vita, ma in negativo: la

  distruggeva; poneva dilemmi morali drammatici, ma diversi da quelli che si presentano ora. Un conto è infatti distruggere la vita, un conto è crearla. Distruggere la vita è «drammatico», ma crearla è «diverso». E ancora più drammatico. Si sta in specie avverando la profezia di Malthus, la profezia dell'uomo che non dipende da un'origine, ma che è origine esso stesso: la bestiaccia della favola era già la profezia del post-umano, la fabbrica di nuovi corpi o di nuovi ectoplasmi. Sono dilemmi che non si pongono solo a «destra», si pongono anche a «sinistra». Ma è con questo e proprio per questo che la sinistra ha perso un'altra delle sue basi storiche di sicurezza: la «assoluta» sicurezza nella scienza come matrice infallibile di progresso. È in crisi ed è ragione di crisi, ancora, l'insufficienza dell'analisi che la sinistra fa sul lavoro e sulla società. Il cambiamento nella struttura del lavoro non è stato interno, ma esterno, non è venuto da dentro, ma da fuori: è venuto dalla globalizzazione. Politici cinici o incapaci - ma il cumulo delle cariche non è vietato - girano invece ancora per tutta l'Europa pronti a negarlo. Politici secondo cui la sinistra avrebbe la bacchetta magica, perché basterebbe agire dall'interno, basterebbe cambiare un governo di destra o cambiare una legge di destra, per abolire il «precariato», per riportare il lavoro, per riportare la speranza. Questa non è la bacchetta magica, è la bacchetta sbagliata. Nella migliore delle ipotesi è come vedere nel termometro la causa della febbre.Le cause del male non sono infatti interne ma esterne, sono nella globalizzazione e nel mercatismo. Però questo non lo si vuole vedere, di questo non si osa parlare, contro questo non si osa lottare, se non troppo confusamente e solo da parte della sinistra antagonista. Cambiare o abrogare una legge nazionale in materia di lavoro può far guadagnare qualche voto preso con l'inganno, ma è solo propaganda e non porta lontano; anzi, probabilmente porta indietro. Perché in questo modo non si agisce sulle cause, ma solo sugli effetti; si agisce sulla forma e non sulla sostanza. Il lavoro non può essere decretato o creato per legge. Non è necessario leggere Marx (anche se a

  volte farlo aiuta) per sapere che legge e realtà, sovrastruttura e struttura, si allineano e non si separano. Non è la legge che fa la realtà, è la realtà che fa la legge. Non si può pretendere o sperare di curare un male grave con l'aspirina: farlo, serve solo a chi produce e a chi vende aspirina politica. Non è tanto o solo questione di «ammortizzatori sociali». Come passare in modo flessibile e indolore - per dirlo in due parole, come passare «all'americana» - da un lavoro precario a un altro lavoro precario. Tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Il precariato fisso, al posto del lavoro fisso, può infatti andare bene in società molto mobili, con grandi e continue migrazioni interne, da un luogo all'altro, da un lavoro all'altro. Non va invece bene in società - come sono le società europee - che per storia e per tradizione si sono torma te e fermate su luoghi geografici e sociali fissi. Mobilità geografica ed evoluzionismo sociale spinto dalla «competizione» possono infatti andare bene (e vanno bene) anche in Europa, ma solo per la parte più forte e dinamica della popolazione, non per le masse che stanno alla base delle nostre società. Non solo. La questione del lavoro è a sua volta centrale all'interno di una più generale questione sociale. Che tipo di società vogliamo? Una società destrutturata e destabilizzata che smorza la voglia e la speranza di avere una famiglia e dei bambini, e poi una casa e infine una pensione o. una società strutturata e stabilizzata sul lavoro e sulla famiglia e per questa via - su valori che non siano dominati dal continuo ricatto dell'economia competitiva del precariato? Sul mercatismo, la parte maggiore della sinistra - la parte governista - tace e dunque acconsente. Tutto questo ci porta al punto di crisi centrale e definitivo, che è precisamente il punto di partenza, indicato all'inizio. Il punto del rapporto con la globalizzazione. Come organizzare e guidare le nostre società in questa nuova fase storica? La base fondamentale della sinistra è culturalmente, storicamente, sistematicamente e inevitabilmente, pluralista ed eterogenea, multiculturale, cosmopolita, in definitiva «ermafrodita». È così che, nella forma di un nuovo

  futurismo, quasi ignorando le identità e la storia, quasi confondendo il passato e il presente con il futuro, la sinistra va incontro alla società globale come anticipandone il movimento. Come soffrendo di una specie di bulimia culturale e sociale, la sinistra considera infatti il «nuovo» bello solo perché nuovo, l'esterno «buono» solo perché esterno, l'immigrazione come la soluzione e non come un problema, le radici non come una base, ma come un freno. E nell'insieme così che la sinistra cerca di internalizzare la globalizzazione, sforzandosi di mettere il vino nuovo nelle botti vecchie, cercando di fare botti nuove per il vino vecchio. È così che guardando al futuro senza guardare al passato, costruendo una società più disintegrata che integrata, la sinistra non produce sicurezza, ma insicurezza. Ed e così che in definitiva non prende, ma all'opposto perde, consenso popolare, uscendo dal cuore dei popoli, non interpretandone più l'anima profonda. È così che la sinistra resta in sintonia con la «cultura» dei vertici, ma non più con l'«anima» della base, un'anima che non può neppure essere catturata con un'esca di tipo nuovo: il mito inedito, militante e nevrotico del «consumatore politicizzato», solo un altro totem, alzato nel vecchio cerchio magico del «divino mercato». È dunque così, mancando del consenso popolare di base, che la sinistra non può più pretendere di guidare il presente e il futuro. E non basta neppure, per operarne il salvataggio, la tesi secondo cui Il liberismo è di sinistra (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, 2007). Un esercizio finale di salvataggio, questo, un piccolo capolavoro, basato però su di una falsa equiparazione: il liberismo è bene - la sinistra è bene - il liberismo è di sinistra. La sequenza non funziona, perché ne è falso un termine. La sinistra, come il bene, il sogno, il contenitore pensato nell'Ottocento e nel Novecento, a sua volta non funziona più: come la realtà non si riduce nel mercatismo, così la vita e il futuro non proseguono a sinistra. Tutto questo vuoto politico, culturale, spirituale della sinistra non può neppure essere colmato dal «pensiero

  debole», dal «populismo leggero», dal «relativismo», dal «sincretismo». In questo modo la «sinistra post-moderna» si limita infatti a frullare, a confondere e infine a sublimare materiali eterogenei, nell'illusione di prendere tutto, usare tutto, diventare tutto. Come in una versione politica del Truman Show, lo show in cui tutto è falso. In realtà, ciò che diventa vero per la sinistra post-mo-

derna è solo una foresta di contraddizioni. Va di poco più avanti, rispetto al Truman Show, solo perché alla tecnica scenica aggiunge una tecnica retorica, identificando e combinando relativamente verità e utilità. Non è vero ciò che è vero. Non è falso ciò che è falso. È vero solo ciò che è utile per la propaganda. È così che ora la sinistra attacca la democrazia che non decide. La democrazia che non decide, per esempio, sui trafori o sulla spazzatura. Bene. Ma questo equivale solo a vedere gli effetti e non le cause dei fenomeni sociali che si denunciano. Le cause del blocco e dello stallo politico sono infatti proprio nella democrazia dal basso, nella democrazia permanente, nella democrazia dei sindacati universali e dei comitati territoriali, in sintesi nella «democrazia del '68».  La sinistra tratta tutto, ma non questo. Per una ragione molto semplice: perché non può. Perché la matrice, la madre di questo tipo di democrazia, della democrazia in cui gli aggettivi e i predicati cancellano il sostantivo (democrazia) è proprio la «sinistra». Nella sinistra post-moderna c'è in specie una sola variante, rispetto alla sinistra storica, ed è una variante leggermente degenerativa. La vecchia sinistra parlava di bisogni. La nuova supera questa frontiera, passando dai bisogni ai desideri; in questa nuova prospettiva politica, non è necessario garantire qualcosa, è sufficiente promettere tutto. La sinistra postmoderna prende in questi termini la forma del riformismo

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gratuito: il mio impegno è il vostro desiderio. L'ope legis al posto del merito. È infatti proprio con il '68  che la sinistra ha «spogliato gli altari». E, come si dice, se non credi più a niente, finisci per credere a qualsiasi cosa. È così che la mediocrità diventa maestà: la maestà della mediocrità. È il '68  aggiornato. Ed è proprio dal '68  in poi che sono invece scomparse dal vocabolario della sinistra, come se fossero state sbianchettate, le parole autorità e responsabilità, morale e dovere. Perché l'essenza del '68 è precisamente nell'assenza di valori, nella decivilizzazione prodotta dal relativismo. Per tutte queste ragioni, per interpretare e governare il futuro non si può guardare «a sinistra» e non si può candidare «la sinistra». Dobbiamo guardare dall'altra parte, che tuttavia non è più e nemmeno la vecchia «destra», ma qualcosa di nuovo.

VI

I valori, per una identità europea

Quel che resta del mercatismo come dottrina globale è un vacuum a sua volta globale. E dunque un vacuum di tipo nuovo e tipico, proprio in questi termini, del tempo presente. Non abbiamo la retromarcia. Non possiamo camminare all'indietro nella storia. Non si può pensare a un meccanico ritorno al Novecento, perché è un tempo che è passato. In sintesi, non è possibile applicare un meccanismo che del resto non ha mai ben funzionato: il meccanismo della «restaurazione». La via d'uscita dalla crisi può essere trovata solo andando avanti, andando in profondità nello spirito che, nel bene e nel male, anima il nostro tempo. Farlo per estrame nuove idee e nuovi principi. Viviamo infatti in un tempo in cui l'intellettuale è politico e il politico, se non è intellettuale, non è. La proiezione dei principi e delle idee non può in ogni caso essere chiusa come una volta nei confini nazionali e nei loro apparati governativi. I principi e le idee nuovi che sono necessari, infatti, o sono tali da avere un'estensione generale in Europa, o non sono. O sono principi e idee che si muovono su spazi vasti e su linee lunghe, o non sono. Ciò che ora e per prima cosa stupisce è che tutti notano quello che c'è: il «consumismo». Mentre pochi riflettono su quello che non c'è più: il «romanticismo». È invece proprio a partire dalle conseguenze di questo vuoto che va avviata la

VI riflessione, perché la fine del romanticismo è stata in parte un bene, in parte un male. fi stato un bene che il flusso globale e banale dei consumi, diffusi su scala di massa e standardizzati, abbia dissolto quell'infernale cocktail di idee e di ideologie, di pulsioni e di leggende, di miti e di inni, di luoghi sacri e di stati maggiori che, combinandosi al principio del Novecento con la meccanica moderna, ha finito per insanguinare l'Europa. Anche per questo è impensabile un'altra guerra tra le nazioni europee, finalmente accomunate nei principi della pace, anche perché polarizzate sui consumi e da questi rese omogenee. La fine del romanticismo è stata tuttavia anche un male, perché la forza impetuosa del nuovo flusso ha cercato di sbriciolare e di spazzare via, trascinandola con sé, anche una buona parte dell'humus che c'era sul fondo della nostra storia: l'idea che l'uomo non ha creato la società ma, all'opposto, è parte di un meccanismo storico più complesso dell'uomo stesso; l'idea non divisionista e non atomica della sua appartenenza a una comunità storica, a una civiltà organica; l'idea che le sue radici affondino nella stessa terra in cui riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare, l'opposto dell'universale globale; il valore proprio delle riserve della memoria, che sono qualcosa di più intenso di una parodia bigotta della tradizione; le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici e umorali, le diversità, i vecchi valori e le «piccole patrie», i monumenti e i patrimoni d'arte, che sono i nostri geni civili. In una parola le nostre «radici». Inaridirle, strapparle, equivarrebbe a staccarci dalla nostra anima e dalla nostra coscienza. Perché certo le radici da sole non bastano. Ma senza radici non si sta in piedi. Dopo la fine del romanticismo la storia ha certo avuto un corso pieno in Europa e per un intero secolo. Un secolo pieno, se pure breve. Un secolo che non con-

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infatti solo la fine del comunismo e l'avvento del mercatismo, le due polarità ideologiche più forti nate rispettivamente al principio e alla fine del Novecento, ma anche i fascismi, il nazismo, la Shoah, i misteri di Fatima, la sepoltura della civiltà contadina, il principio e la fine della fabbrica, il consumismo, infine la crisi della democrazia e l'alienazione dalla democrazia. È tutto questo insieme di frenetici mutamenti, tutta questa straordinaria concentrazione di eventi, che ha stravolto la nostra cultura e che alla fine ha creato e lasciato un vuoto nel cuore e nell'anima dell'Europa. Prima non era così. Prima l'Europa «cristiana» era une grande république che, pur dilaniata da guerre interne, si presentava tuttavia come lo spazio di un'immensa repubblica dominante «nell'arte ... nella ricchezza ... nell'industria» (Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, 1751). Un continente unificato da un unico «codice» religioso e linguistico, artistico e giuridico, e proprio per questo, per questa sua base unitaria, un continente capace soprattutto di fare in continuo rivoluzioni: rivoluzione commerciale, urbanistica, monetaria, grafica, protestante, francese, scientifica, industriale, musicale, artistica (Paolo Prodi, La storia dell'Europa come rivoluzione permanente, in «il Mulino», maggiogiugno 2007). Ora non è più così. L'Europa, unificata dalla moneta (la penultima rivoluzione) e allargata a Est (l'ultima rivoluzione), ci si presenta infatti esausta, non più in grado di fare altre rivoluzioni. Eppure, serve un'altra rivoluzione per resistere all'incalzare, all'incombere di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia dell'Europa, non viene da dentro e non si fa dentro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella della globalizzazione. tiene

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Il mondo non è più costituito da un sistema di percorsi prestabiliti: basta seguire la mappa per imbattersi nel bene o nel male. La vita stessa sfugge agli aut aut della politica, e la vita non è fatta solo dalla politica organizzata, come invece nella sua illusoria pretesa voleva la politica del Novecento. È molto più plurale, è fatta anche dalla ragione e dalla fede, dalla storia, dalla tradizione e dalla cultura. È per questa ragione che il codice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime: «identità», «valori». Identità e valori sono le due facce di una stessa medaglia. L'identità è fatta dai valori, i valori fanno l'identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni «proprie». In una parola, nella prevalenza dei loro valori. Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono «altre». Perché è proprio e solo nella «differenza», nella comparazione differenziale, che si forma il carattere unitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica «noi-altri». Se il «noi» non viene marcato, ma all'opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è «altro» e niente è «noi»; all'inverso, perché esista un «altro» deve esistere un «noi». Non vale qui la logica «sia l'uno che l'altro». La memoria è una cosa, l'oblio un'altra, la soggezione preconcetta alla diversità un'altra ancora. Il dramma che rischia l'Europa è proprio questo. È nella difficoltà a portare fino in fondo il suo esercizio identitario, avendo finora prevalso un tipo di cultura universalistica, basata sull'idea assoluta, aprioristica e non selettiva di «eguaglianza» indifferenziata e di «importazione» libera, categorie queste progressivamente estese dalle persone alle merci. Diventa così automatica la tendenza ad accettare a

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scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perché viene da fuori. La confusione tra «noi» e gli «altri» può anche essere

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banale e normale, in tempi normali, ma nel pieno della globalizzazione persistere nella confusione è tutto tranne che banale e normale: è suicida. Tanto più ci universalizziamo nella globalizzazione, tanto più la dialettica tra «noi» e gli «altri» diventa infatti al tempo stesso strategica e drammatica. Non possiamo andare avanti a senso unico, unilateralmente, non possiamo continuare a pensare che «noi» non siamo «noi», gli «altri» sono «altri», mentre invece continuiamo a essere «altri» per gli «altri». È un dramma che l'Europa si è fabbricata in un tempo in cui l'universale era banale, ma ora non è più così: più ci universalizziamo e più rischiamo. Deve essere in specie chiaro che il discorso sull'«identità»,ci impone un'intensa revisione, una forte e chiara riforma delle nostre regole politiche. L'inclusione degli «altri» in Europa può proseguire, però solo se gli «altri» cessano di essere «altri» e diventano «noi». Quindi: o sono gli «altri» che rinunciano alla loro identità, venendo in Europa, o è l'Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte incontro alla sua disintegrazione. Il mondo non è neutrale, non è omogeneo, non è fatto da un'armonia universale; i grandi spazi del mondo non sono indifferenti, muti e inerti, ma caricati di energia come campi di forza. Se non fosse così, avrebbe senso universalizzarsi e continuare a universalizzarsi. Ma è così, e noi non possiamo rassegnarci a ignorare il problema, nell'illusione di restare per sempre in un cantuccio felice. Il mondo non è governato solo dal bene, ma anche dal male: «I primi cristiani sapevano bene che il mondo è go-

  vernato dai demoni» (Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, 1919). Se è così, niente è più moralmente indifferente. Dio, il bene, il male, l'onore, la gerarchia, il significato della vita, la modestia e l'orgoglio non possono scomparire. Per questo dobbiamo reintrodurli nel nostro codice identitario. Niente infatti in Europa può più avere un contenuto etico e politico, al di fuori del nostro storico sistema di valori identitari. L'Europa che vogliamo è certo un'Europa con le porte, ma non con le porte sempre aperte e per di più sempre aperte solo verso l'interno, un'Europa dominata dal buo-nismo e dall'«entrismo». Un esempio per tutti. È sbagliato che nelle basi di calcolo statistico per il voto nel Parlamento europeo già si contino tutti gli immigrati, così costituendo, attraverso un irreversibile precedente (come si dice in gergo diplomatico, ovvero eurocratico, un acquis), lo scivolo automatico per dargli domani anche il voto politico. È in specie sbagliato far prevalere le pretese ragioni dell'uniformità statistica sulle ragioni della politica, salvo che la politica che si vuole sia proprio quella di dare domani e in blocco il voto politico al «proletariato esterno». È sbagliata la politica del grimaldello, per scassare e mettere le mani su di un nuovo «bottino elettorale», che si ipotizza voti a favore di una parte (la sinistra), ma che potrebbe invece anche fare blocco a sé, destabilizzando dall'interno il sistema. È in ogni caso irresponsabile agire senza una preventiva decisione sul presupposto ritenuto necessario - o meno - per concedere il diritto di voto politico a chi entra: l'accettazione della nostra cultura e delle nostre tradizioni, delle nostre leggi e dei nostri principi. Non farlo è un modo suicida non per evitare ma, all'opposto, proprio per importare e creare conflitti identitari. Perché l'integrazione, se è possibile, è comunque possibile solo se è iniziale e solo se è totale. L'integrazione non può essere fatta a tappe, non può essere parziale e graduale perché, come in una nuova e non scritta «legge sociale», se le prime generazioni accettano per bisogno e le seconde per indifferenza, le terze reagiscono. Ed è comunque tanto più

  difficile, l'integrazione, quanto più le società che per la prima volta nella loro storia recente accolgono masse di immigrati sono percorse da proprie crisi sociali e prive di propri omogenei e forti valori interni. I valori non si raccolgono come fiori in un prato. Bene e male come valori politici hanno un senso solo in relazione a qualcuno che li impone e non devono e non possono essere necessariamente valori universali. Basta che sul piano dell'organizzazione sociale, e cioè sul piano della politica, bene e male siano definiti come tali da «noi» e per «noi» e per gli «altri» che vogliono venire da «noi». L'individuazione di valori identitari passa necessariamente attraverso una «rivendicazione di potere» e questa può anche portare a confronti con altri sistemi di valori. È una responsabilità non declinabile, se è assunta - come dobbiamo assumerla - solo dentro un programma di pura difesa. Alzare le bandiere dell'onore e dell'orgoglio, della legge e dell'ordine, introdurre nella vita la politica, e dare alla politica la prospettiva di un ordine etico, e crederci, vuole dire scegliere di non essere più, in Europa e dall'Europa, solo «commessi viaggiatori» o solo «burocrati predicatori». Vuol dire scegliere di tornare a essere protagonisti della storia, protagonisti di una storia che può anche includere confronti e conflitti con altri sistemi. E non illudiamoci di evitarli, i confronti e i conflitti, chiudendoci nella passiva accettazione del buonismo imperante. Solo agendo dall'inizio e in radice, codificando la nostra identità e i nostri valori, sotto la pressione della crisi e dei conflitti che dall'esterno si delineano sul nostro orizzonte, avremo davvero la possibilità di evitarli. L'Europa potrà restare in quel nuovo campo di forza che con la globalizzazione è diventato il mondo solo se si saprà forgiare come identità politica, solo se saprà darsi una visione e solo se saprà dotare questa visione di un potere sufficiente. Non importa che i valori che fanno e difendono l'identità siano o possano essere di «sinistra» o di «destra», anche se è

  probabile che siano più di «destra» che di «sinistra». Quello che importa è che sono «necessari». Per identificare i valori serve un'anima, per difendere i valori serve un potere politico, per esercitare il potere politico serve un programma, per scrivere un programma serve una visione d'insieme. Per cominciare serve una visione della vita che non sia materiale ma spirituale. Non più solo laicista. Non più solo privatista. Una visione che non escluda Dio e che non demonizzi lo Stato e la dimensione pubblica. Per prima, una visione che non escluda Dio. L'eclissi del sacro è finita, e con essa la furia «secolare» suggestionata da Darwin e da Malthus, da Marx e da Freud. Nel novembre 2007 l'«Economist» ha prodotto uno special report che si intitola In God's name. Vi è scritto: «Trascurare il ruolo della religione nella vita pubblica significa anche perdere molte potenziali soluzioni ... visto che la religione è parte della politica, deve anche essere parte della soluzione». Dire questo non è come dire che anche in Europa - come in tante altre parti del mondo - Dio è finalmente tornato a incedere nella storia. Ma è molto più di quel laicismo negazionista che, appena ieri, se pure con minor forza del prevalente mercatismo, ha portato a escludere la verità storica delle radici giudaico-cristiane. E coincide perfettamente con la dottrina razionale e secolare che insegna: «Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio» (Joseph Ratzinger Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, 2007). Parlare di religione vuole dire ora richiamarsi alle fondamenta morali del nostro essere, ai valori spirituali, cattolici o laici che siano. Vuol dire pensare che la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori che, cadute le ideologie, è divenuto proprio delle nostre democrazie; può introdurre nel sistema politico la spiritualità che ha progressivamente perso; nell'insieme può offrire la possibilità di vivere anche nelle istituzioni politiche con la «speranza». 82

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  Serve una visione che, a differenza di quella mercatista, non demonizzi lo Stato e la dimensione pubblica: «Market if possible, government if necessary». È questa in realtà la formula nuovissima, anzi antichissima, che sta alla base del vero liberalismo. Una formula che si iscrive nel quadrante delimitato da quattro concetti fondamentali: libertà, proprietà, autorità e responsabilità. Libertà e proprietà sono valori che si autodefiniscono permanentemente. Autorità e responsabilità sono invece valori che vanno attualizzati perché si intrecciano con il problema politico che è oggi centrale ed essenziale in Europa: il problema del «potere». Nel tempo che stiamo vivendo, all'interno dell'Europa continentale la questione politica fondamentale è infatti la questione del potere. I popoli domandano, i governi non hanno potere sufficiente per rispondere. Ed è proprio questa asimmetria tra domanda e offerta che erode progressivamente le basi della politica, aprendo lo spazio all'antipolitica e per questa via all'antidemocrazia. Per mezzo secolo, dalla caduta dei regimi totalitari dopo la seconda guerra mondiale fino a oggi, nell'Europa continentale la questione del potere è stata trattata in senso essenzialmente «negativo». Come contenere il potere dei governi? Come eliminare il rischio di eccessi di potere da parte dei governi? La Costituzione della Repubblica italiana ne è l'emblema. Nel tempo presente, la questione del potere si ripropone, ma in termini opposti. Il problema non è infatti più quello di tutelare la democrazia, limitando e controllando il potere dei governi. All'opposto, il problema della democrazia è quello di consolidare e incrementare il potere dei governi, alla ricerca di un nuovo equilibrio politico, tra intensità della domanda che viene dai popoli e capacità di soddisfarla da parte dei governi. È dunque proprio in questi termini che si pone oggi il problema del potere dei governi. Non nei termini sbagliati di una restaurazione autocratica, ma all'opposto nei termini

  giusti della conservazione democratica: per salvare la democrazia. In democrazia autorità e potere non sono dati allo Stato dall'alto e per sempre, ma devono essere acquisiti e riconosciuti dal basso e giorno per giorno. Nell'Ottocento era la sola borghesia, dal Novecento è tutto il popolo che contratta e consente allo Stato di esistere: non perché lo impone la legge, ma perché esso stesso - il popolo - fa la legge e dunque fa lo Stato. È tuttavia proprio questo fondamentale meccanismo che sta entrando in crisi in Europa e che va invece subito riassestato. Per capire come va riparato sono necessarie due determinazioni preliminari essenziali. Prima determinazione. Cresce soprattutto nell'Europa continentale il quantum di consenso politico che è necessario per governare. L'intensità «straordinaria» dei problemi che arrivano da fuori sull'Europa continentale sovrasta infatti la forza «ordinaria» dei governi, per una ragione molto semplice: perché sono problemi che, imponendo riforme ad alto impatto economico e sociale, non possono essere gestiti con il 50 virgola qualcosa di suffragio elettorale, come è invece stato finora per decenni e decenni. È questa la ragione per cui nell'Europa continentale il pendolo della politica non va più - come è stato per decenni - da destra a sinistra, o da sinistra a destra, ma in una direzione sola: contro i governi in carica. E la soluzione non è nella scorciatoia delle leggi elettorali. Difatti, se sei minoranza o risicata maggioranza nel Paese e diventi larga maggioranza in Parlamento solo perché la legge elettorale ti attribuisce un «premio» - un premio di collegio o un premio nazionale -, comunque non riesci a governare solo per effetto di questo artificio. Le leggi elettorali premiali di questo tipo funzionavano infatti per il governo della normalità. Non funzionano più, se come ora devi governare problemi straordinari. Se hai il 40% dei voti nel Paese e vinci per premio il 55% dei seggi in Parlamento, vinci le elezioni ma non vinci il governo. In termini di potere di governo reale, il «valore aggiunto» delle architetture formali, legali o

  costituzionali è ormai modestissimo. Essere al governo non porta più automaticamente consenso. Anzi! E comunque ti basta fare un errore di governo per andare sotto nei sondaggi e dunque per andare sotto nel potere. È questa la ragione del successo crescente nell'Europa continentale delle «grandi coalizioni». Ma con un caveat essenziale: si tratta di formule che sono state sperimentate solo come formule economiche, applicate per realizzare «agende» economiche. Necessarie, ma temporanee. E questo ci porta alla seconda determinazione essenziale preliminare. In Europa la crisi del potere politico non dipende dall'economia. Per due ragioni sostanziali. In primo luogo, perché, via via che si esce dal mercatismo, diventa sempre più chiaro che la vita non è tutta nell'economia, non è a dimensione unica. La vita è più vasta, più complessa, più forte, e per questo reagisce al preteso dominio dell'economia. La realtà non è solo nell'economia. La realtà non è a dimensione unica. L'essenza della realtà è nella società. Il mercato è una parte, non è il tutto. Inoltre, a ridurre l'importanza «politica» dell'economia ha contribuito l'Europa stessa che, prima dell'ultima fase di eccesso mercatista, nei lunghi decenni che sono andati dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, ha costruito e generalizzato alla sua base un «comune» e «uniforme» modello economico di «economia liberale». Un modello dolce, che ha sottratto l'economia allo scontro ideologico. Una parte può dire, per esempio, che vuole fondi pensione più solidaristici, un'altra parte può invece dire che vuole fondi pensione più speculativi, ma nessuna parte contesta più i fondi pensione in quanto tali. Certo, l'economia resta importante. Ed è anche (ancora) sull'economia, e in specie sulle tasse, che si vincono o si perdono le elezioni. Certo è sull'economia che ancora si manifestano, e anche forti, le differenze politiche: a) cresce infatti, tendenzialmente, con i governi di sinistra la pressione fiscale. E questo determina e marca differenziali di posizione, tra chi è a favore e chi è contro; b) persiste ancora, a sinistra, un'ideologica «fiscale» spesso giacobina, totalitaria e odiosa. In sintesi, l'idea che la

  vita può, deve essere contenuta, schematizzata e dichiarata fiscalmente in un «modello unico». Ma tutti comunque nell'Europa continentale, tanto a destra quanto a sinistra, accettano in termini generali un unico «modello classico di economia liberale». Ovvero: non propongono modelli alternativi. Esclusi solo i modelli onirici o messianici, tipo quelli di «rifondazione comunista». Certo, la specifica «inefficienza fiscale» dei governi può erodere la base democratica di consenso, e dunque può erodere una quota della loro autorità, soprattutto nel caso di governi che prendono tanto, rispetto a quello che danno, o che non danno, perché decidono male o tardi o non decidono. La gestione funzionale dello Stato è infatti necessaria, ma non è da sola sufficiente. Ma nel tempo presente, un tempo eccezionale e non normale (come già notato), non è tuttavia quello dell'economia il centro vero del problema politico da risolvere. Il caso dell'Italia è, in questi termini, il più significativo in Europa. È appena stato scritto che «in confronto agli altri Paesi, le nostre infrastrutture si sono deteriorate, la nostra scuola si è degradata, l'università e la ricerca non tengono il passo, la giustizia civile ha tempi incompatibili con un'economia avanzata, la pubblica amministrazione nel suo insieme è inefficiente» (Michele Salvati, L'illusione del dittatore, in «Corriere della Sera», 22 dicembre 2007). È questo un corretto elenco degli effetti, ma non è l'elenco delle cause della crisi. Le cause vengono infatti normalmente prima degli effetti e li producono. All'origine della crisi ci sono state la «cultura del '68» e di riflesso la «democrazia del '68», con la moltiplicazione e con la sublimazione dei diritti rispetto ai doveri: la democrazia dal basso, la democrazia permanente, la democrazia dei sindacati universali e dei comitati territoriali ne sono state l'effetto. È così che sono state azzerate le leve dell'autorità, ed è così che sono state destrutturate e depotenziate la società e le sue istituzioni. È così che si è chiuso, compiendo un anello perfetto, un intero ciclo storico. Un ciclo che inizia con il tragico, secolare «particolarismo» italiano. Un ciclo

  che a partire dalla metà dell'Ottocento compie un tornante, passando attraverso il processo di unificazione istituzionale nazionale dell'Italia. Un ciclo che deraglia poi nel fascismo, che conosce quindi un'ultima fase vitale, nei primi due decenni d'oro del dopoguerra, per entrare infine in una fase di involuzione dal '68 a oggi. L'effetto di questo processo è stato la distruzione del «capitale istituzionale» del Paese. L'acido del '68 non ha infatti eroso solo il «capitale culturale», ma anche quello istituzionale, un tipo di capitale che è sempre stato importante, ma che è divenuto strategico nell'età della competizione globale (Giulio Tremonti, La guerra «civile», in «il Mulino», settembre-ottobre 1996). È propriamente per questo, per ricostituire tanto il capitale culturale quanto il capitale istituzionale, sempre più necessari per competere, che la nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori.

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VII  Sette parole d'ordine, per salvarsi dalla crisi globale

Le parole chiave che nell'insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo. E' questo un tipo di politica che può anche essere di «grossa coalizione», ma fondata su di un catalogo di valori forti, che si articolano nei seguenti termini. Valori, famiglia e identità. Il nostro problema, in un'età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni. Rispetto al consumismo, è meglio quel che di bene resta ancora nel «romanticismo». Un esempio per tutti: il contrasto politico all'idea postmoderna della cosiddetta «famiglia orizzontale». Non è questione di essere religiosi o laici. L'idea della famiglia orizzontale e dei suoi strumenti contrattuali di base (in Belgio: Cohabitation légale/wettelijke samenwoning; in Danimarca: Registreret partnerskab; in Francia: PACS, Pacte civil de solidarité; in Germania: Eingetragene Lebenspartnerschaft; nel Regno Unito: Civil partnership; ecc.) sublima infatti la cultura del consumismo, consente di passare, come su una piattaforma girevole, dal consumo delle cose al consumo dei rapporti, delle relazioni e dei sentimenti, in nome della

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nuova ideologia delle liberalizzazioni. L'essenza delle nuove unioni civili, stilizzate come matrimoni «pop», è infatti nella banalizzazione. Non è nemmeno più necessario salire nella sala delle cerimonie del Municipio: è sufficiente fermarsi al pianterreno in sala anagrafe per fare shopping giuridico, per consumare al banco un prodotto tipico di questo tempo, immersi come moltitudine nella solitudine dell'effimero. Un prodotto a bassa intensità morale, e per questo un prodotto che ha un plus rispetto al matrimonio religioso o civile, così démodé nella liturgia, soprattutto così carico di fastidiosi vincoli e doveri. A questa visione si oppone, e francamente va opposta, una visione antica e forte della società, fatta da principi e da doveri. Per quanto riguarda il necessario sostegno alla famiglia, si veda più avanti. Autorità. È scomparsa l'autorità. Il '68  ha in specie portato con sé la morte dell'autorità distruggendo con furia iconoclasta i suoi simboli di decoro, di rango e di merito. È così che i «diritti» hanno preso il posto dei «doveri». E così che le nostre società si sono trasformate in corpi invertebrati, in una poltiglia che - soprattutto in Italia - ha degradato nel particolarismo le strutture vitali della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università, della giustizia. È così che sono bloccate opere pubbliche essenziali. Non si può abrogare per legge il '68,  ma molto si può fare anche per legge. Un esempio. Per principio, i pubblici uffici non sono al servizio degli impiegati che ci lavorano, ma dei cittadini per cui gli uffici devono lavorare. Siccome pare che le cose non vadano proprio così, l'idea della sinistra è stata un'idea tipica della «sinistra»: istituire una «autorità» contro i fannulloni. Tipica della sinistra, nei termini che seguono. C'è un problema? Facciamo una legge, ma non una legge che supera il problema, una legge che lo aggira. Salvo infine scoprire che ci sono i fannulloni anche dentro gli uffici dell'autorità contro i fannulloni. Ciò che

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serve sono invece leggi che ristabiliscono in tutte le pubbliche amministrazioni le antiche linee verticali della gerarchia e dell'autorità. In parallelo, il principio di autorità va ristabilito anche nella scuola. Ordine. Il limite essenziale all'impero dell'ordine è nella asimmetria tra ciò che si dice, nella legge, in astratto, e ciò che si fa in concreto «applicando» la legge stessa. L'«apparenza» di regole formali e di sanzioni, scritte ma non applicate (o applicate con lassismo), sta in specie trasformando i nostri codici in gridari. Così che: «La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuziosa prolissità ... Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1840). Secoli dopo, il fenomeno connesso alla moltiplicazione di norme «disancorate» dalle istituzioni e alla proliferazione di sanzioni minacciate, ma inapplicate, viene definito come «iperanomia» (Ralf Dahrendorf, Legge e ordine, 1985): troppe leggi, nessuna legge. Con conseguente sfiducia nell'ordine sociale. Attualmente il binomio legge-ordine richiede dunque l'avvio di un processo opposto: demoltiplicazione e concentrazione, invece di moltiplicazione ed espansione normativa; conoscibilità reale ed effettiva delle leggi, invece di confusione; rigore, invece di lassismo applicativo.

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In questa strategia sono essenziali non solo la coincidenza tra la «forma» della norma giuridica e la «sostanza» della sua concreta applicazione, ma anche la coincidenza tra norma «giuridica» e norma «morale». La norma che è solo giuridica, priva di una base morale, è infatti da evitare, tanto nella forma della sua proclamazione, quanto nella sostanza della sua applicazione. Responsabilità. La società non è fatta solo dai diritti, ma anche dai doveri. E, sempre più spesso, dai doveri che non valgono solo perché sono imposti dalla legge, ma anche soprattutto perché sono espressione del nostro cuore, della nostra anima, del nostro senso di responsabilità. C'è in specie una differenza fondamentale tra dire «siediti e aspetta» e dire «alzati e cammina». La prima formula è una formula legale e totalitaria. Una formula per cui, una volta assolto il tuo dovere fiscale, hai solo diritti e soprattutto sei liberato dall'universo dei doveri sociali: dagli antichi doveri verso te stesso, verso la tua famiglia, verso la tua comunità. In base a questa formula, tutto si identifica infatti verso l'alto, con lo Stato. È una visione totale e verticale. È una visione sbagliata. La visione giusta non è neppure quella opposta. Quella sintetizzata nel dictum tatcheriano, dialetticamente contrapposto allo statalismo della sinistra: «Non esiste la società, esistono solo gli individui». Il giusto è l'opposto dei due opposti. Non solo esistono gli individui. Non solo esiste lo Stato. Esistono anche, nell'intermedio, le famiglie e le comunità. La formula politica nuova e unificante è proprio in questa visione, una visione che è insieme vecchissima e nuovissima. Che è insieme sociale e morale. Una visione che sta in una parola: responsabilità. È questa la visione giusta. È questa - responsabilità - la parola giusta. Quello che c'è ora è infatti un mondo in cui la complessità strutturale va molto oltre la semplicità tipica del

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primo assistenzialismo, consistente nella mera fornitura della scodella di latte in refettorio, del posto letto in ospedale, del banco a scuola. Nel mondo attuale il problema politico reale non è più infatti o non è solo quello di portare una «massa» di cittadini, calcolata in percentuale sul totale, a un dato standard di prestazioni, ma di mettere in piedi e gestire un nuovo tipo di meccanismo sociale, verificandone l'efficacia, non tanto sull'astratto dei grandi numeri, quanto sul concreto dei singoli casi di intervento. Casi non più indifferenziati nell'universo dei «grandi numeri», ma che conservano e fanno anzi gradualmente emergere la loro propria crescente specificità. E possono dunque essere analizzati e trattati solo in questa dimensione. In questi termini, la soluzione non è, e non può più essere, solo nella pura continuazione e/o intensificazione dei meccanismi classici di intervento «di massa» e «dall'alto verso il basso». La soluzione, invece, può essere piuttosto concretizzata con un movimento diverso, un movimento doppio, non solo dall'alto verso il basso, ma anche e soprattutto dal basso verso l'alto. La soluzione - la sfida - non è infatti smontare il vecchio Welfare State, ma costruirne uno diverso, essenzialmente passando dalla massa alla persona, ossia costruire un Welfare State nuovo, intermedio tra lo Stato troppo «monolitico» e «gerarchico», e la persona, che non può essere vista da sola e lasciata da sola. Con una specifica preliminare, a questo proposito. Si fa qui indifferentemente riferimento all'individuo (idea laica) o alla persona (idea religiosa). Ma comunque resta ferma, alla base, la dimensione morale e spirituale propria della nuova visione politica. Non semplicemente compassionevole - come nella vecchia tradizione puramente caritatevole -, ma appunto «responsabile». Responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso la propria comunità. Responsabilità

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verso il passato (gli anziani), verso il presente e verso il futuro. È in questa strategia di riforma politica che viene messo in evidenza il ruolo essenziale delle strutture comunitarie. In sintesi, il modello sociale socialista trova la sua massima espressione nel «trasferimento» pubblico dall'alto verso il basso e con questo aliena la persona, spingendola verso l'astrazione dello Stato provvidenziale. Il modello sociale giusto assume invece una forte e nuova caratterizzazione personale e comunitaria, perché le persone non sono in grado di vivere, né lo vogliono, come atomi separati nel regno dell'anomia, e perciò tendono sempre a costituire e a vivere in comunità verso cui sentono doveri. Per reggere la sfida imposta dalla modernità non bastano certo e da sole le novità portate dal mercato. Ultimamente si è in specie notato, e con soddisfatto compiacimento, che oggi la giovane coppia può arredare casa, ascoltare ottima musica, o andare a Londra, grazie ai prezzi di Ikea, Naxos e Ryan Air. Questa sarebbe la funzione sociale del mercato. In realtà non basta, perché non su tutto arriva il mercato, così come non per tutto basta lo Stato. Nella matrice dei consumi non troviamo infatti solo la coppia «giovanisuperfluo», ma anche la coppia «anziani-necessario». La matrice dei consumi è molto più complessa. In particolare: non solo la pizzeria, ma anche la gastroscopia e le protesi dentarie. Non solo la discoteca, ma anche la protesi acustica o il pacemaker. Non solo il cinema, ma anche la laserterapia. Non solo la palestra, ma anche la fisioterapia. Non solo lo scooter, ma anche il deambulatore. Non solo i viaggi low cost, ma anche l'ambulanza attrezzata. Non solo il villaggio turistico, ma anche la casa di riposo. Guardiamo al futuro. La cornucopia della scienza ha appena cominciato a riversare su di noi una nuova fantastica classe di beni e servizi, che sta estendendo ed estenderà oltre il pensabile i

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confini della salute e la durata di vita. Da ora ai prossimi dieci anni, nella matrice dei consumi entrerà dunque un nuovo «paniere»: TAC, PET, ADRO, cellule, ioni, protoni, Roche, Abbott, Hitachi, Beckman-Coulter, Mitsubishi, farmaci derivati dell'ingegneria genetica, farmaci individualizzati dalla farmacogenomi-ca, e così via. Da che parte starà il sociale? Sarà una partita radicalmente nuova. Le forme di produzione e di somministrazione dei nuovi beni e servizi, e il loro costo, sposteranno infatti l'asse delle scelte: dall'individuale al collettivo, dal privato al pubblico. È proprio in questi termini che si apriranno nuovi drammatici dilemmi politici. Da un lato, la scienza offrirà speranze quasi illimitate di salute e di durata della vita, dall'altro lato, saranno sempre più drammatici i vincoli di bilancio pubblico. Non solo perché la spesa pubblica per la sanità cresce e crescerà in continuo (in mezzo secolo è già più che raddoppiata), ma soprattutto perché proprio la «nuova» ed esponenziale spesa sanitaria sarà la spesa pubblica strategica. Cosa offrire, dunque, cosa conservare, cosa tagliare? Saranno ancora così importanti le voci tradizionali di spesa pubblica, o saranno invece relativamente molto più importanti le nuove spese, per la salute e per la durata della vita? In questi termini il futuro che avanza imporrà alternative politiche reali, forti, drammatiche. Non più solo alternative tra scelte più o meno banali o convenzionali; è meglio un sussidio pubblico o garantire una speranza di vita? E dunque, quali nuovi equilibri? I prossimi dilemmi metteranno in crisi soprattutto i modelli classici della politica, siano questi modelli «sociali» (secondo cui il bilancio pubblico non ha limiti) o modelli «liberali» (secondo cui il bilancio pubblico ha comunque un limite, nella libertà del cittadino). La nuova realtà imporrà la necessità di scelte che non possono essere né «illusorie» (come se fosse davvero possibile garantire tutto a tutti con lo Stato), né «tragiche»

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(negare salute o speranze di vita). Offrire tutto con lo Stato sarà impossibile, negare qualcosa sarà immorale. 94

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Non solo. Per ironia della storia, in Europa questo nuovo scenario di progresso si cala in una prospettiva avversa. Da un lato, la cornucopia della scienza ci offre infatti quantità vertiginose di nuovi beni e servizi; dall'altro lato, in Europa (in Italia) siamo e saremo relativamente sempre meno ricchi e sempre più vecchi. In sintesi: progressi eccezionali più costi stratosferici, in un contesto avverso. Da un lato, fantastici progressi scientifici, destinati ad alimentare quasi all'infinito il «paniere» dei nuovi beni e servizi. Dall'altro lato, l'impatto fortissimo sui bilanci pubblici dei costi del progresso. Che fare? In questi ultimi anni i governi europei hanno fatto molto per garantire comunque i servizi sociali classici. Tuttavia, gli effetti futuri della scienza e della demografìa sono stati in sostanza ignorati da politiche tarate essenzialmente sul presente e sul breve periodo. Da qui in avanti tutto questo non basterà più. In particolare, d'ora in poi il problema non sarà gestire l'esistente, ma traguardare il futuro. La soluzione non è «tagliare» la spesa pubblica necessaria per la vita ma, proprio per non farlo, il problema è ridisegnare la spesa pubblica. A questo scopo è necessaria una visione all'altezza dei tempi. Per una politica seria dieci anni non sono un tempo lungo. All'opposto, sono un tempo minimo. I dieci anni a venire cominciano già ora. Non ci si può illudere: si deve cambiare. Non si può pensare di entrare nel futuro conservando invariati i vecchi meccanismi di governo, che da soli non reggeranno a nuove sfide e che da soli non saranno la soluzione, ma diventeranno piuttosto il problema. Per cominciare a cambiare non serve molta fantasia, basta non essere ciechi. Gli europei che fanno volontariato sono

  già molti milioni: sono milioni di nostri amici, fratelli, mariti, mogli, che volontariamente e gratuitamente fanno lavori spesso difficili, duri, sgradevoli e perciò sgraditi. Cosa vuol dire? Vuol dire tante cose. Anzitutto vuol dire che quanto lo Stato garantisce, in termini di orario di lavoro ridotto o di età di pensione anticipata, la società lo restituisce trasformando il «tempo libero» e l'«età di riposo» in forme intense di impegno civile. La generosità dello Stato sociale è dunque compensata e restituita da una parallela generosità della società. Vuol dire che nella vita c'è qualcosa di più del freddo calcolo delle ore, dei coefficienti, dei parametri di conto: ci sono generosità e passione, responsabilità e umanità. Questa compagine di volontari costituisce il cosiddetto «terzo settore». Un settore che dà moltissimo e riceve pochissimo. Il primo settore (il privato) finanzia infatti il secondo (lo Stato) con grande sforzo: con la metà circa del suo prodotto. Il secondo settore riserva invece e trasferisce al terzo solo le briciole di quel che riceve. Dare così poco, viste le enormi potenzialità del terzo settore, è un errore. All'opposto, dare di più a favore del volontariato, non sarebbe un costo, ma un investimento. Non una spesa, ma un risparmio. In specie, per una società che in futuro sarà relativamente sempre più vecchia e sempre meno ricca, il volontariato è l'unica speranza per produrre, con costi limitati ma con effetti di ritorno invece quasi illimitati, la massa crescente di servizi sociali di cui abbiamo (e avremo) sempre più bisogno, per quantità e per qualità. Servizi che lo Stato burocratico da solo non sarebbe capace di produrre o, comunque, di pagare, perché come macchina politica è già ora fin troppo grande e fin troppo costosa. La soluzione non è dunque e non può essere più pubblico impiego nei servizi sociali e più tasse per pagarli, immaginando un'illimitata quanto insostenibile imposizione fiscale. La soluzione è invece fuori dallo Stato, nel «comunitario». Ispirata da quello che può sembrare un «pensiero laterale», può essere «rivoluzionaria» la soluzione di estendere progressivamente anche ad altri settori il campo

  di applicazione di strumenti come l'italiano «5 per mille» (o di strumenti equivalenti, come deduzioni autogestite o voci di imposta con specifico scopo etico). Rivoluzionaria non tanto perché ibrida nuovo e vecchio, filantropia e sussidiarietà, quanto perché rompe il monopolio della politica, trasferendo quote di potere e di responsabilità dallo Stato alla società. A oggi, il disegno del circuito politico-finanziario è, in effetti, tutto centrale. Si assume infatti che tutto il sociale sia pubblico, che tutto il pubblico si finanzi via bilancio pubblico, che sul bilancio pubblico decida solo il Parlamento. È così che la politica fa da arbitro onnipotente e unico su tutto: causali, titoli, livelli, destinatari della spesa pubblica. È tuttavia uno schema superato dalla realtà: non tutto il sociale - e sempre meno sarà in futuro - è infatti pubblico. Il circuito politico-finanziario non può dunque restare artificialmente tutto centrale. In esatto parallelo rispetto a quella che è la nostra struttura sociale può essere disegnata a questo punto una nuova architettura fiscale e perciò politica, disintermediando lo Stato, andando oltre il classico «no taxation without representation». Per una società che è sempre più matura e sempre più direttamente coinvolta nel sociale non è infatti più solo questione di controllo democratico sul livello della tassazione, ma anche questione di un suo crescente e più diretto coinvolgimento nelle scelte di destinazione e di gestione delle risorse pubbliche, fuori dal calderone del bilancio pubblico. Può essere questo un modo per conservare, in uno scenario futuro sempre più complesso, imposizione fiscale e consenso democratico. In particolare, il meccanismo del «5 per mille» può essere specificamente esteso alla ricerca scientifica, superando il «monopolio scientifico» finora proprio del dirigismo statale, favorendo e sostenendo invece l'iniziativa e l'impegno della società. E poi esteso via via all'ambiente e ad altri settori vitali. Certo, si notava sopra, sono schemi che rompono l'«unicità» del bilancio pubblico e perciò erodono il monopolio

  della «politica». È un male? No, è un bene. È un pezzo del futuro a cui si deve guardare per credere. Federalismo. Cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici, i popoli credono ancora, ma credono soprattutto nelle cose piccole e più concrete, nelle cose che sono loro più vicine e che sono più attuali. Credono ancora nel «domani», ma non nel «futuro»; non chiedono la riforma del sistema della sanità, ma il funzionamento del «loro» ospedale; non chiedono la riforma del lavoro, ma il «loro» posto di lavoro. Il «campanile» non può sostituire la «nazione», ma può comunque compensare l'effetto di vuoto portato dalla crisi dello Stato-nazione. Quasi nessuno è infatti più disposto, se non a morire per la «patria», neppure a prestare il «servizio militare» obbligatorio; tutti, però, sono ancora disposti a riconoscersi identi-tariamente nel loro territorio e se necessario anche a difenderlo in concreto. È così che, se pure in forma nuova, conserva il suo permanente valore l'«ubi bene, ibi patria». Una volta, andando al profondo dei sentimenti, si notò a proposito dei soldati di leva che «l'esercito li trasforma in eroi, difendendo la nuova proprietà dall'interno, magnificando la dignità nazionale appena conseguita», ma si aggiungeva che «l'appezzamento di terra allungato e arrotondato nella fantasia è la loro patria, il patriottismo la forma ideale della proprietà» (Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852). È ancora così, se pure in termini diversi. E non è solo questione di proprietà, è qualcosa in più. È la continuità dell'interesse per il proprio territorio. La difesa dell'identità è in specie la difesa delle nostre identità tradizionali, storiche e di base: famiglie e «piccole patrie», vecchi usi e costumi, vecchi valori, patrimoni d'arte e simboli della memoria. Al fondo c'è - si ripete - qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale; è ciò che dà il senso dei comuni rapporti sociali e dunque il senso della sicurezza. È quel senso della vita che negare o comprimere o sopprimere non

  solo è difficile, è dannoso. Saremo infatti più forti, nel futuro, soltanto se saremo più radicati nel nostro territorio. È così che il federalismo può sostituire il calante senso del «dovere» verso lo Stato-nazione con la forma politica di una nuova «responsabilità». Nella parte già devoluta verso l'alto in Europa, il vuoto politico può essere compensato rafforzando (come vedremo) il Parlamento europeo; nella parte residua può essere rafforzato proprio con l'incremento del federalismo. Questi sono dunque gli obiettivi: valori, identità, famiglia,

autorità, ordine, responsabilità, federalismo. Ma quali sono i

mezzi per raggiungerli? Quali sono i mezzi per uscire dalla crisi e dai suoi sviluppi, per passare dalla paura alla speranza? Nella cascata dei fenomeni in atto, tutto si allinea e collima su di un intervallo di tempo che si posiziona tra il 2030 e il 2050. Ora come ora, se tutto continua così, avremo infatti il sorpasso della Cina, il collasso ambientale, l'ingresso in Europa di una massa tanto eterogenea quanto insostenibile di immigrazione. Il 2030 non è una data lontana. Il 2030 è una data vicina. Il 2030 è domani. È per questo che servono una visione e un progetto. Non basta il pensiero convenzionale, non è possibile la replica del vecchio, non è possibile l'insistenza sull'esistente. La politica ha piuttosto due doveri: capire il presente, prevedendo il futuro; agire localmente, ma pensare globalmente. Perché tutto è ormai connesso: presente e futuro, interno ed esterno.

VIII

Quo vadis Europa? Proposte concrete

 

Lo «stato dell'Unione» non è buono. La forza identitaria e unitaria dell'Europa non può infatti essere fabbricata creando ancora più regole o «Direttive», ma con i principi politici, perché il futuro non pone problemi giuridici, ma problemi politici. L'Europa non si fa in orizzontale con la standardizzazione, ma in verticale. Si fa elevando a principio comune interessi e valori, identificando nuovi mezzi comuni per realizzarli e difenderli. L'Europa non sopravvive se si ferma all'economia. L'Europa non sopravvive se ha soluzioni vecchie per problemi nuovi. In Europa non vince chi crede nel passato e nel presente, ma non crede nel futuro. Sappiamo dunque che non possiamo assolutamente fermarci all'esistente e che non possiamo neppure scrivere una nuova «quasi Costituzione» europea, che codifichi l'esistente. Questo è infatti più o meno quello che è già stato fatto il 13 dicembre 2007 a Lisbona, con la firma del nuovo «Trattato europeo». Tutto questo è dunque necessario, ma non è ancora sufficiente. A essere realisti sappiamo infine che non possiamo neppure passare istantaneamente e direttamente dall'ordinaria gestione dell'esistente all'«utopia federalista». E dunque che fare? L'Inno alla gioia è stato composto da Schiller nel 1786, è stato utilizzato come corale da Beethoven nel 1824, è stato adottato come inno europeo nel 1972. Per come vanno le cose in Europa, nel principio di questo nuovo secolo, vorremmo evitare che il Consiglio sia infine costretto a cambiare musica, a adottare, per esempio, l'Incompiuta di Schubert!

  La Commissione europea, concepita all'origine come il centro dell'architettura costituzionale funzionale dell'Europa, è in evidente crisi: per verificarlo basta visitare, giorno per giorno, il suo sito Web. Le prassi che qui appaiono ormai dominanti sono due: - quieta non movere; - compromessi de minimis. Il diavolo sta proprio nei dettagli. L'agenda delle sue riunioni è sempre più fatta da «punti A», e cioè da punti preparati dalla burocrazia (o da falsi «punti B», e cioè da punti burocratici, camuffati da punti politici e discussi per liturgia come se fossero tali, ma in realtà preparati e definiti dalla burocrazia). L'output è conseguentemente sempre più fatto: - da soft law, e dunque da sempre meno iniziative legislative realmente nuove e vincolanti, e da sempre più aggiornamenti, o interpretazioni o «manutenzione» di regole preesistenti. Come primo e parziale effetto di tregua legislativa, questo è bene; ma come indicatore di potere, no; - o da libri verdi (green papers), e cioè da materiali tecnici di documentazione, non diretti a decidere ma solo ad aprire discussioni. Perché? Perché dentro la Commissione a 27 non è più possibile un serio dibattito. Se, su di un qualsiasi singolo punto, tutti i 27 commissari parlano per dieci minuti, il dibattito dura infatti più di quattro ore; ma nessuno parla solo per dieci minuti. Di riflesso, per abbandono, poche riunioni durano più di mezza giornata. In questo contesto cresce enormemente il ruolo autoreferenziale e improprio della burocrazia e con questo, proporzionalmente, crescono tanto il deficit democratico dell'istituzione quanto la sua impopolarità. La stessa sindrome si estende poi al Consiglio, fatto direttamente dai ministri rappresentanti dei governi, ma con due specifiche essenziali: a) dato che i cicli elettorali nazionali sono mediamente ogni quattro-cinque anni, su 27 Stati membri, in qualsiasi momento, almeno 4 o 5 Stati sono in campagna elettorale. E

  dunque fuori da ogni tipo di reale possibile responsabilità decisionale. Ciò paralizza ovviamente il processo decisionale. Non solo. b) Nello schema a 27 membri, la geometria delle minoranze di blocco è, anche per effetto dei cicli elettorali (ma non solo per questo), tale da vanificare ogni maggioranza, portando di fatto alla permanente necessità di deliberare per consenso in una sostanziale unanimità. L'unanimità, cacciata dalla porta, rientra dunque dalla finestra! In questi termini, l'apparato istituzionale dell'Europa è due volte insufficiente: a) insufficiente per eccesso, se si vede nell'Europa ormai solo una grande area di libero scambio (l'idea dell'«Euro-pamercato»); b) insufficiente invece per difetto - e per questo crescono la delusione e la crisi - se dell'Europa si ha o si vuole avere una visione politica e non solo mercantile (l'idea dell'«Europa-politica»). E, dunque, come andare avanti? La storia della costruzione europea è stata - e sarà -una storia di «lunga durata». Ha già occupato mezzo secolo e ne occuperà forse ancora un altro. La storia politica dell'Europa comunitaria può in specie essere schematicamente divisa in 3 fasi: a) la prima fase è stata, dopo la guerra, la fase eroica, quella dei grandi principi e dei grandi uomini; b) poi è venuta la lunghissima fase economica: dal mercato unico alla moneta unica. Per la verità, questa non è stata solo una fase economica, poiché nel suo corso si sono formati materiali politici; ma, certo, è stata una fase dominata dall'economia; c) ora deve iniziare la fase propriamente politica. In senso storico mezzo secolo non è neppure stato un tempo breve, è stato il tempo giusto per un processo molto complesso. Ma ora la velocità del tempo presente e l'incombere da fuori e da dentro della crisi ci impongono di

  accelerare; abbiamo il dovere di iniziare la fase che ci è stata data dal nostro tempo: la fase politica. Nel farlo dobbiamo evitare due errori: a) dobbiamo evitare l'errore di iniziare la terza e nuova fase della costruzione europea con quei vecchi mezzi, tecnocratici e metapolitici, che sono stati tipici della seconda fase; b) dobbiamo evitare l'errore che troppo spesso fanno i tecnocrati, gli esperti e gli analisti: l'errore di vedere tutto, tranne l'essenziale. La fase che ora deve iniziare, infatti, o sarà politica o non sarà. O avrà un'alta intensità politica, nel senso proprio della parola «politica», o non sarà o rimarrà piuttosto l'Incompiuta. Le architetture costituzionali disegnate e tentate finora per l'Europa sono state e sono troppo fredde e troppo complesse. Troppo fredde. Guardiamo l'ultimo «eurobarometro» l'ultima serie dei sondaggi di opinione - e poniamoci qualche domanda sul perché del rifiuto popolare. Troppo complesse. Conviene sempre ricordare che in politica, come in architettura, non tutto il semplice è bello, ma quasi sempre tutto il bello è semplice. Proviamo a considerare ipotesi politiche diverse, ipotesi con un forte valore simbolico e dunque politico. È un catalogo di ipotesi, quello che segue, che prende la forma di un'«agenda immaginaria». Si conoscono bene infatti le resistenze culturali, la forza attrattiva dei luoghi comuni, il pregiudizio dei blocchi mentali. Forse è troppo presto per «fare», ma non è mai troppo presto per «sperare». A) Attribuire al Parlamento europeo l'«iniziativa legislativa» e dunque «competenza legislativa piena» sulle materie che sono già di competenza europea. Non si tratta dunque di dare all'Europa qualcosa in più. Ma di fare dell'Europa qualcosa di diverso, spostandone l'asse dalla «burocrazia» alla «democrazia».

  Il Parlamento europeo è l'unico Parlamento al mondo che non ha iniziativa legislativa e dunque non ha piena competenza. La politica moderna nasce invece, e proprio in Europa, con i Parlamenti, e i Parlamenti esistono essenzialmente per l'iniziativa legislativa. È così che nella storia del nostro continente il Parlamento è il principio della politica. Non c'è politica senza Parlamento. Non c'è Parlamento senza politica. Allora, perché non iniziare la terza fase della costruzione europea attribuendo finalmente al Parlamento europeo l'«iniziativa legislativa» sulle materie che non sono più di competenza nazionale, perché sono già di competenza europea? In questo modo, di riflesso, la Commissione cesserebbe di essere la principale autorità legislativa, come è stata finora, per diventare soprattutto un'autorità di controllo e vigilanza sulla vastissima platea delle regole europee. Non è fantapolitica. È un'ipotesi che può essere realizzata con la semplice modifica di un paio di articoli del Trattato europeo. Eppure è comunque un'ipotesi politicamente rivoluzionaria. Ma l'Europa ha bisogno proprio di una nuova «rivoluzione», e nella storia moderna le rivoluzioni politiche sono soprattutto «rivoluzioni parlamentari»! La democrazia è già in crisi negli Stati-nazione, che per due secoli ne sono stati l'habitat naturale. Qui la democrazia è in crisi perché a essere in crisi sono gli stessi Stati-nazione. Se, tuttavia, ancora si pensa che la democrazia non sia cosa rinunciabile, che non sia un optional, c'è un solo modo concreto per difenderla. Ed è, in Europa, recuperarla potenziando proprio la funzione democratica del Parlamento europeo. Compiendo un movimento dal «basso verso l'alto» parallelo al movimento già fatto con lo spostamento verso l'alto di una quota sostanziale dei poteri dei singoli governi. Se non si fa questo, l'alternativa in Europa è la progressiva caduta della democrazia nel pozzo della parodia e dell'ironia a fronte di un sistema che pretenderebbe di governare i problemi nuovi con una formula vecchia, cal-

  colata in base a maggioranze aritmetiche di votanti, espressione a sua volta discontinua delle rivalità organizzate all'interno di un popolo fatto da informati e ignoranti, intelligenti e stupidi, ricchi e poveri, stanziali e globali. Certo, il Parlamento europeo è molto vasto e molto vario: molto vasto geograficamente e molto vario culturalmente. Certo, c'è un rapporto diretto tra geografia, lingua e democrazia: più estese sono le superfici, più varie sono le culture e le lingue, più difficile è l'esercizio della democrazia. Ma ancora per oggi e per domani non pare ci siano alternative positive nuove rispetto alla definizione negativa datane da Churchill: «La democrazia è la peggiore forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre». B) Il nuovo Parlamento europeo non avrebbe solo competenza legislativa piena ma, proprio perché acquisirebbe una competenza legislativa piena, avrebbe anche un'enorme, autonoma, generale forza politica: potrebbe essere la «piattaforma» su cui sviluppare finalmente una «politica europea». C) Il nuovo Parlamento europeo potrebbe in specie, forte di questa sua nuova forza, definire e aggiornare il catalogo dei «valori». Sui valori dell'Europa è venuta da ultimo la Dichiarazione di Berlino del 27 marzo 2007. Ma non basta. Dov'è l'anima? I luoghi comuni ci sono tutti. La prosa d'occasione è un esercizio di diplomazia linguistica: vengono scelti con cura vocaboli neutri, che chiunque potrebbe sottoscrivere. L'effetto è retorico nella forma, elusivo nella sostanza. E anche ipocrita: come si concilia infatti il «ruolo guida» nella battaglia per reprimere «povertà, fame e malattie» con una politica agricola protezionistica che affama i Paesi del Terzo Mondo? Anche così si esprime quel «pensiero debole» che, in un unico grande volo pindarico, accomuna diritti dell'individuo, pacifismo, lotta al razzismo, politica energetica e ambientale e altro ancora, ma senza idealità e progettualità. L'insieme è una sensazione di vuoto.

  Non manca certo il compiaciuto riconoscimento delle ricchezze d'Europa: la «vivace varietà di lingue, culture e ragioni» e «l'abilità della sua gente», ma sembra di leggere il tema di un diligente alunno delle elementari di qualche decennio fa: il titolo è chiaro, lo svolgimento è lacunoso, manca la parte costruttiva. Il futuro è una pagina bianca. Solo il ricordo del passato riesce a essere blandamente evocativo. Come dire? Un grande futuro dietro le spalle! Dietro l'umanitarismo, il mercatismo e tutti gli altri «ismi» à la page non si intravede nulla. La «cifra» politica è assente. Dove sono gli Schuman e gli Adenauer, i De Gasperi e gli Spinelli? Chi raccoglierà la loro eredità? Qual è il nuovo sogno dell'Europa? Quale la nuova frontiera? La Dichiarazione non lo dice e si chiude elusivamente con un rinvio ad altra data. Un giornale italiano («Il Sole-24 Ore», 9 dicembre 2007) ha da ultimo pubblicato in prima pagina una notizia che fa riflettere: In Cina la Bibbia diventa il best seller dei giovani. Un Paese che ha praticato l'ateismo di Stato per quasi un secolo si apre al cristianesimo! L'Europa, invece, rinnega le proprie radici giudaico-cristiane, forse perché non si tratta di valori espressi in euro! Chi non sa difendere le proprie idee ha già perso la sfida del confronto con gli «altri». Gli islamici mettono in gioco la propria vita per l'islam, noi non sappiamo neppure dirci cristiani. Un continente che parla con una sola voce di economia, ma non di valori spirituali, è un'entità solo nominale. Come l'Italia dell'Ottocento: un'espressione geografica. Questo è un segno di decadenza, molto più degli indicatori di sviluppo dell'economia. L'uomo ridotto a una scheggia di PIL. D) I valori definiti possono essere simbolizzati con l'«alzabandiera» nelle scuole. Anche con le tre bandiere: europea, nazionale, regionale. Chi pensa che questo sia ingenuo, o è sciocco o è troppo furbo. Comunque non ha capito che sono proprio le cose semplici e piccole che contano, perché sono le uniche che i popoli capiscono davvero.

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E) Si può poi articolare anche una nuova «politica» economica di interesse europeo, una politica che potrebbe poi essere applicata dalla Commissione e dai governi nazionali. A titolo indicativo: a) estensione transatlantica dall'Europa agli USA di un trattato di unione commerciale basato su comuni principi doganali, di proprietà intellettuale (copyright), di Antitrust, di sussidi agricoli, ecc., così da creare un nuovo «grande spazio atlantico»; b) proposta per una nuova Bretton Woods, il grande accordo che nel 1944 pose le basi su cui nel dopoguerra si è sviluppato il mondo. La nuova Bretton Woods dovrebbe essere estesa dai cambi valutari alla tutela dell'ambiente, dalle clausole sociali e ambientali al ruolo di controllo sui mercati finanziari e di impulso all'economia che, in modo sempre più forte, i governi, singolarmente o insieme, devono e possono svolgere; c) in alternativa, applicazione effettiva delle clausole sociali e ambientali contenute nel WTO (rules based trade). L'Europa deve guadagnare tempo, per ristrutturarsi. Come minimo deve comportarsi come gli USA, che, anche in pieno mercatismo, si sono adoperati per tutelare i loro interessi economici. In specie, l'Europa: - deve (e può) esigere l'applicazione universale delle «clausole sociali» e delle «clausole ambientali» a tutela del lavoro e dell'ambiente. È soprattutto essenziale pretendere l'allineamento tra circolazione delle merci e tutela dei diritti; - deve (e può) introdurre un'IVA perequativa sulle importazioni dai Paesi che producono violando tali regole o applicare seriamente una tariffa doganale equivalente; d) e se non basta (ma basterebbe), l'Europa può, in analogia alle prescrizioni delle leggi USA di attuazione degli accordi del GATT/WTO, prospettare la sua uscita unilaterale se l'applicazione di queste regole arrecasse un serio pregiudizio o comportasse restrizioni all'operatività delle imprese europee. In ogni caso, l'Europa deve (e può) applicare davvero e con coraggio le esistenti regole Anti-trust anche ai

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cartelli internazionali delle materie prime (per esempio, l'OPEC) e ai monopoli in costruzione nei Paesi extraeuropei i cui effetti si manifestano dentro l'Europa; e) spostamento dell'asse del prelievo fiscale, dalle persone alle cose. Pur vivendo nell'età del consumismo, continuiamo a pagare le imposte personali, le imposte dell'idealismo. Si può (e si deve) dunque spostare l'asse del prelievo fiscale dalle persone alle cose: solo in questo modo, infatti, i sistemi fiscali possono reggere nell'età della globalizzazione. Questa filosofia politica (Tremonti e Vitaletti, La fiera delle tasse, citato) è diventata ormai sempre più necessaria, ma è possibile solo su scala e nella dimensione europea; f) moratoria legislativa. Sulle imprese e sul lavoro, sulle società e sui prodotti europei incide, per ragioni a un tempo ideologiche, politiche ed economiche, un elevatissimo quantum di regolamentazione e dunque di costi, quasi sempre artificiali o comunque non più sostenibili. Non è così nel resto del mondo. Ciò che ne deriva per l'Europa non è competizione a parità di condizioni (at arm's length), bensì l'esatto opposto. Non si può ragionare «Europa su Europa», né si può pensare o addirittura pretendere che il resto del mondo adotti le nostre regole. L'Europa deve (e può) rinunciare al disegno di una società perfetta e di un mercato perfetto, perché il benessere non si crea per legge, ma per legge lo si può distruggere. In senso quantitativo, occorre semplificare e ridurre lo stock della nostra regolamentazione, europea e nazionale. Le regole fondamentali sono un investimento, mentre le regole artificiali sono un costo. In senso qualitativo, dobbiamo essere meno utopisti e più realisti. Ne ricaveremo un mercato e una società forse meno perfetti in astratto, ma sicuramente più efficienti in concreto. Per competere serve infine una nuova politica legislativa, di ispirazione malthusiana. Il corpus giuridico europeo non può essere ampliato in continuazione, ma, all'opposto, deve

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essere ridotto all'essenziale necessario, mediante un'opera di «codificazione» dei testi giuridici fondamentali; g) attrazione di capitali esterni. L'Europa deve (e può) generalizzare il modello irlandese: tassazione zero (o di assoluto favore) per i nuovi investimenti esteri che operano in settori industriali e in aree geografiche strategici per lo sviluppo. In ogni caso e per contro va bloccata l'attività in Europa dei cosiddetti «fondi sovrani»; h) emissione di Euro-bond. Possiamo (e dobbiamo) incassare il dividendo di Maastricht, capitalizzando e sfruttando la straordinaria forza patrimoniale e la fiducia raccolta ed espressa dall'euro sui mercati finanziari. Ai limiti imposti sulle politiche di bilancio nazionali dal Trattato di unione monetaria può (e deve) corrispondere un «piano europeo di investimenti pubblici e privati» in settori strategici per lo sviluppo, finanziati da emissioni europee di Euro-bond, riprendendo e aggiornando lo schema del cosiddetto «Piano Delors». Solo così, rinnovando e intensificando la spinta allo sviluppo industriale, possiamo riprendere a competere nel mondo. Per realizzare questo programma può essere sufficiente una diversa interpretazione e applicazione dei vecchi strumenti giuridici; o può essere necessaria la creazione di strumenti nuovi. Questo non è e non può essere un ostacolo, vista la dimensione drammatica dei nostri problemi. Con una specifica finale: gli Euro-bond non sarebbero solo uno strumento finanziario, sarebbero soprattutto uno strumento politico, qualcosa di nuovo, qualcosa di «europeo». Anche gli Stati Uniti d'America partono con il debito pubblico di Hamilton; i) una politica industriale europea. In Europa la politica industriale o è europea o non è. L'Europa deve (e può) fermare l'uso indiscriminato e autolesionista dei suoi strumenti antiaiuti di Stato e Anti-trust; questi vanno usati con ragionevolezza (è la rule of reason, da sempre applicata negli USA), solo contro i sussidi puri e contro i cartelli e i

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monopoli che danneggiano davvero i consumatori e non invece contro le operazioni che fanno crescere le industrie e il mercato europeo. E queste ultime iniziative di sostegno alla crescita potrebbero essere finanziate proprio con i mezzi finanziari acquisiti con l'emissione di Euro-bond; 1) una politica europea per la famiglia. Esclusione dal 3% del «Patto europeo di crescita e stabilità» di tutte le spese sussidi, regimi fiscali speciali, detassazioni - fatte a favore della famiglia; anzi, una quota tutt'altro che simbolica del bilancio europeo deve poi essere dirottata sulle famiglie e sulle società. Deve (e può) essere introdotto un cosiddetto «libretto» europeo - una sorta di dote per i neonati -, per intervenire (nei limiti di quanto è possibile per scelta politica) sulla natalità e dunque sulla demografia. E poi ancora introdurre una detax (simile, per esempio, al nostro «5 per mille») a favore del non-profit, della ricerca scientifica, dell'ambiente, ecc.; m) un piano europeo di sviluppo del nucleare. Nel 1957 fu stipulato l'altro Trattato di Roma, il lungimirante e finora incompiuto Trattato Euratom. Semplicemente: va rivitalizzato; n) introdurre la detax (DT), per dare speranza all'Africa. La DT (Giulio Tremonti, Pour une anti-taxe Tobin, in «Le Monde», 11 settembre 2001), di cui qui si formula la presentazione politica, funzionerebbe così: - tutti i soggetti che, sul mercato, vendono beni o servizi (negozi, supermercati, ecc.), possono liberamente attivarsi per sviluppare o aderire a iniziative etiche, private o pubbliche, speciali o generali, nazionali o internazionali (lotta a fame e malattie, sostegno allo sviluppo, ecc.); - se lo fanno, possono offrire ai loro clienti uno sconto dell'1% sul prezzo dei loro beni o servizi, a condizione che il cliente trasformi lo sconto in un'offerta, con una sottoscrizione a favore di una tra le iniziative etiche in cui si è impegnato il venditore;

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- per suo conto, lo Stato rinunzia a tassare lo sconto-offerta così strutturato e si riserva solo una funzione residuale di controllo antifrode. In questi termini, la DT ha chance reali per configurarsi come leva decisiva, per rilanciare nel dominio etico la grande sconfitta del secolo del Welfare: la filantropia. Nonostante le eventuali critiche alla DT, per esempio la possibile confusione e ibridazione tra motivazioni diverse, insieme commerciali ed etiche, gli svantaggi possono essere stimati enormemente inferiori rispetto alle potenzialità della stessa. Il consumatore sceglie infatti beni e servizi in funzione delle esigenze e preferenze che questi soddisfano, esigenze e preferenze che possono essere egoistiche, ma anche altruistiche. Soltanto una visione ristretta del comportamento dell'homo oeconomicus può indurre a credere il contrario. Non vi è quindi nulla, né di eticamente, né di economicamente scorretto, nel fatto che l'offerta soddisfi congiuntamente esigenze e preferenze diverse. Affermare il contrario sarebbe un falso moralismo, che non considera come, in materia di tassazione (e, più in generale, in materia di politiche pubbliche), il corretto criterio è quello deH'«etica delle conseguenze», non quello deH'«etica delle intenzioni». Inoltre, la DT corrisponde in pieno al principio di sussidiarietà. La DT sposterebbe infatti dallo Stato alla società civile e infine ai cittadini la responsabilità per una serie di iniziative e di servizi che non sono di mercato. Se è vero, come è vero, che il principio fondamentale di ripartizione dei poteri e delle competenze all'interno dell'Unione europea è costituzionalmente quello della sussidiarietà orizzontale e verticale, allora la DT corrisponderebbe perfettamente allo spirito dell'Europa.

Quo vadis Europa? Proposte concrete

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Il tempo è sostanza. Il tempo dell'Europa non è ancora scaduto.

 

Poscritto

Un tempo sui tram c'era un cartello che invitava i passeggeri a «Non parlare al conducente». Ora è come se quel cartello non ci fosse più. Il tram si è fermato, i passeggeri litigano tra di loro e, per parte sua, il conducente discute con,i passeggeri. Non c'è un progetto comune se non c'è rispetto comune, se non c'è unità di intenti, se non c'è perseveranza nel perseguirli. Questo libro vorrebbe essere di aiuto tanto al conducente quanto ai passeggeri. Di aiuto al conducente, per fare il suo

 

lavoro. Di aiuto ai passeggeri, serenamente nel loro viaggio.

per

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