La Nuvola Sonora Della Tuba Band - M. Piras [PDF]

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Zitiervorschau

La nuvola sonora della tuba band. I dodici brani Capitol di Birth of the Cool e i nastri delle registrazioni live venuti alla luce molto tempo dopo segnano un'esperienza fondamentale, storica per la carriera di Miles e per tutto il jazz. In quei giorni, tra il 1947 e il '50, un vero trust di cervelli esplorava con lui un insolito universo timbrico, aprendo nuove strade a composizione e orchestrazione. di Marcello Piras Nell'autunno del 1947, un gruppo di ragazzi negri e bianchi prese la strana abitudine di riunirsi dietro a una lavanderia cinese. Il luogo era uno stanzone a pianterreno, adibito a locale di servizio per il palazzo, con le tubature in bella vista, e gelido. L'inquilino, tale Gil Evans, campava scrivendo arrangiamenti per orchestre da ballo. Aveva più idee grandiose che soldi; e ormai era sui trentacinque anni. Da lui veniva Miles Davis, un negretto timido, sempre con un gelato in mano; due che litigavano sempre, l'irlandese Gerry Mulligan e l'italiano John Carisi; uno spiritoso ragazzo ebreo, Lee Konitz; l'olimpionico John Lewis; il concettuoso George Russel; altri meno noti, come il batterista Billy Exiner, il filosofo della compagnia; e un paio di fanciulle. Un bel mazzo di personaggi da cinematografo. In quel febbrile 1947 in cui nel jazz spuntava una novità al minuto, essi suonavano ognuno in un gruppo diverso. Si riunivano solo per discutere, e facevano progetti. (Avevano l'età giusta: tra i ventun anni di Davis, e i ventisette di John Lewis). La novità più grande era il bebop. Tutti loro lo suonavano, Davis addirittura con Sua Maestà Charlie Parker. Esso aveva dischiuso orizzonti sconvolgenti: ma per il momento restava un mero linguaggio solistico. Parker - ecco il problema era troppo grande. Diceva già tutto da solo, e non lasciava nulla da aggiungere agli altri. Il suo quintetto con Davis non consisteva in nient'altro che assoli, da cima a fondo. Ma allora i colori dell'orchestra, la composizione, l'arrangiamento, la polifonia? Il bebop, linguaggio ricco e inesplorato, doveva pur essere conciliabile con tutto ciò. I sogni fioccavano. Gil Evans aveva scritto arrangiamenti di temi bebop ottenendo nuovi impasti sonori con due corni e una tuba: ma lo faceva per l'orchestra di Claude Thornhill, che suonava musica da ballo, e aveva poco spazio per certe mattane. John Lewis immaginava di sposare il jazz con i velluti e i broccati del Barocco europeo. Gerry Mulligan meditava l'introduzione di nuove risorse compositive. Le discussioni li scaldavano assai più della stufa, che non c'era. una minoranza di intellettuali isolati che discettavano, e di che cosa? Di jazz! Roba da manicomio. Alla fine, il timido Davis fece "schioccare la frusta", come disse Mulligan. Affittò le sale, assunse gli uomini, prese i contatti, trovò un ingaggio e una casa discografica. Nel settembre 1948 nasceva la Tuba Band: tromba, trombone, corno, tuba, sax alto, sax baritono e ritmi. Quindici giorni al Royal Roost; poi - pare - un altro breve ingaggio al Clique, e stop. L'anno dopo, conclusosi lo sciopero discografico, il gruppo fu riconvocato negli studi Capitol, sempre a New York, dove, tra l'indifferenza generale, suonò il suo limitato repertorio per l'ultima volta. Ma poche vendette della storia sono state più trionfanti. Quei sei dischi Capitol a 78 giri, riuniti in LP col titolo "Birth of the cool", sono ormai una serie aurea del jazz: come gli Hot Five e i Red Hot Peppers, i Dial di Parker e gli Atlantic di Ornette. Gli intenditori non si stancano di assaporare lo stupefacente universo timbrico dispiegato dall'impasto dei sei fiati: quel suono "statico, fermo, sospeso come una nuvola" di cui amava parlare Gil Evans. O il tono pacato e disteso degli assoli. O la mirabile concisione e simmetria delle partiture, impeccabilmente inscritte nel classico giro dei tre minuti. A dire il vero, la famosa definizione della nuvola si attaglia molto alla Tuba Band che si ascolta in microsolco, così brillante e incisiva, quasi tagliente. Il fatto è che il riversamento ha gravemente alterato lo spettro timbrico dei 78 giri: chi ha gli originali sa che lì la "nuvola" si sente davvero. Sul resto non ci piove, per fortuna: di quei dodici pezzi, nove sono capolavori. Nel 1974, poi, sono apparsi i nastri dal vivo al Roost, che hanno svelato due titoli in più, e altre versioni dei pezzi noti. L'analisi comparata conferma così - se occorreva - che il centro e la virtù della Tubs Band è l'orchestrazione. Miles lo sapeva: fuori del locale aveva fatto scrivere: "Arrangiamenti di Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis". Ed è istruttivo vedere come le

personalità dei tre si rivelino anche sotto il manto delle soluzioni comuni imposte dallo strumentario. L'idea centrale non era solo di far largo alle parti scritte: era di conciliare la logica della scrittura con la logica dell'assolo. Un problemone, che ha assillato tutte le grandi penne del jazz, da Morton a George Lewis. In soldoni, il problema è questo. Tutta la musica è fatta, come diceva Schoenberg, di ripetizione e variazione. Si prende un'idea di partenza ("tema"), e la si sviluppa. Ora, l'improvvisatore che "varia" un tema di x battute, dev'essere sicuro che il tema rimanga di quella lunghezza: se no si perde. Viceversa, il compositore che "varia" un tema lo manipola, lo allunga e lo accorcia a piacimento. Come accontentare tutti e due allo stesso tempo? Il brain trust della Tuba Band scovò varie soluzioni: ed è in queste idee, nascoste sotto il manto timbrico sontuoso della "nuvola", che sta il senso profondo di quella irripetibile esperienza. * * * Lo schema ideale dei pezzi della Tuba Band è semplice. Si espone il tema, poi vengono due assoli, quindi una variazione scritta a pieno organico, e la riesposizione finale. Quando i sei fiati suonano tutti insieme, di solito si muovono a sei voci in omofonia, oppure sono divisi in due cori: quasi sempre tromba e sax alto all'unisono contro gli altri a quattro parti. La variazione scritta occupa un chorus, ed è come un "assolo" scritto: una nuova melodia sugli accordi del tema. Nel jazz moderno essa è di uso comune; di regola non modifica il numero delle battute, e quindi non crea problemi: è un chorus come un altro. Già con questi soli elementi, però, un pezzo sviluppa almeno cinque chorus, che potevano entrare in un 78 giri solo con giri armonici corti, tipo blues (ma la Tuba Band ne incise solo uno, Israel, una dissonante, lucente e sinistra partitura di John Carisi), oppure a tempo molto rapido. Se no c'era spazio per non più di quattro chorus, o anche meno. Di qui l'esigenza di scorciare i pezzi (con loro grande giovamento, va detto). Si veda nello schema A come le due versioni dal vivo di Budo contino due o tre chorus in più di quella in studio, che però è assai più bella. In definitiva, lo schema ideale non viene mai seguito alla lettera: manca sempre qualcosa.

Dei tre arrangiatori, John Lewis è il più prudente. Sebbene Budo e Rouge siano veri capolavori, le sue risorse di scrittura appaiono ancora limitate. Di fatto, egli fa il minimo: riarmonizza il tema, dispone gli assoli e li sostiene con qualche fondale, aggiunge una variazione scritta, un esordio e una coda. Egli rispetta la forma del chorus: per lui, l'estensione delle tecniche compositive consiste nell'imprestito di tecniche proprie della musica preclassica. Basta vedere come scrive a due voci, combinando una parte a valori lunghi e una a valori brevi, di solito semibrevi contro crome ("contrappunto di quinta specie" o "contrappunto fiorito", secondo i trattati). è il caso dell'introduzione di Move, e più ancora della stupenda esposizione di S'il vous plait, che proprio questo dettaglio ci fa attribuire senz'altro a Lewis. La chimera neobarocca fa capolino anche altrove. Nella variazione scritta di Move, che si tiene molto vicina al tema, c'è una spettacolare inversione di parti (batt. 5) in cui la melodia per un istante passa dalla tromba alla tuba alla tromba, al modo degli episodi "alla pedaliera" della letteratura organistica. Nello splendido e negletto Rouge, Lewis impiega invece allo scoperto l'artificio dei "cori battenti" caro ai Gabrieli. Tutto, qui, rimanda ai fasti della scuola veneziana: dal piglio di fanfara iniziale, insieme perentorio e aggraziato, al fitto gioco di rimbalzi tra i due "cori" di fiati, specie nell'inciso del tema, nell'introduzione e nella coda, e perfino - civetteria - nel dialogo scritto tra l'intera orchestra e il rullante di Kenny Clarke. In questo brano inisieme arcaizzante e sperimentale, quasi una sorta di personale Ricercare, Lewis si spinge perfino a emulare il vezzo gabrieliano di oscillare tra tempo binario e ternario (nel 1949, quando il jazz in 3/4 era una

stravaganza). L'introduzione di Rouge occupa le classiche quattro battute, ma solo la terza è in 4/4: le altre sono in 3/4 (3+3+4+3). Il 3/4 riappare poi nell'ampia coda, che rielabora l'iniziale cellulabase di cinque note. Questa però è un'eccezione in Lewis. Ben diverso è l'atteggiamento di Evans e Mulligan. Per mezzo di tecniche comuni nella musica colta, ma rivoluzionarie nel jazz, essi allungano e sviluppano il tema o una sua sezione, inseriscono battute soprannumerarie, alterano il metro. E anche a piccole dosi l'effetto è dirompente. Boplicity è uno dei vertici della Tuba Band. Si tratta di un tema AABA ortodosso, scritto da Davis ed Evans, e da questi arrangiato, la cui apollinea serenità è un distillato della poetica cool. L'arrangiamento occupa tre chorus. Nel primo è esposta una melodia di celestiale dolcezza; il secondo è metà per Mulligan e metà per una struggente variazione scritta condotta con libertà da Davis; il terzo è diviso tra Davis (A,A), John Lewis (B) e la ripresa del tema (A), più una battuta di coda. Davis entra così a cavallo tra due chorus, è ciò distrae l'ascoltatore, che non si accorge che nell'inciso del secondo chorus Evans furtivo aggiunge due battute. L'unisono dei fiati (tutti meno Davis) si apre a ventaglio in un'armonia a cinque parti e subito si richiude nell'unisono, che però resta per due battute sospeso nel vuoto, su un accordo di Sib maggiore non esplicitato. Se si tiene a mente il tema, questo è ben più che un trucco tecnico: è un momento di panico, un attimo in cui manca il terreno sotto i piedi e si fa distintamente percepibile la cognizione del vuoto. Lo stesso accade nel secondo inciso di Deception (vedi schema B). Questo pezzo, derivato da Conception di George Shearing, preannuncia l'impiego di forme estese con episodi su pedale che Davis e altri esploreranno anni dopo. Il tema è talmente lungo che nel disco solo un chorus è intero. La struttura è così davisiana che l'arrangiamento è stato attribuito a Miles. Ma il secondo B allungato a nove battute - è facile capire dove: è nel punto in cui Miles tace per prudenza -, insieme al predominio degli ottoni nell'impasto, rivelano la mano di Evans. E poi Davis, a ventidue anni, sapeva già scrivere a sei voci? No, è più logico semmai considerarlo un compito del giovane Miles con correzioni a matita rossa e blu del più anziano collega. Più numerose e complesse le manipolazioni della forma-chorus praticate da Gerry Mulligan. Jeru (vedi schema C) conta quattro chorus, e non ce ne sono due uguali. Solo il secondo ha il formato standard: gli altri derivano da questo per allungamento. In Godchild lo stesso artificio è usato solo nell'iniziale disegno rampante del tema, che con l'allungamento guadagna enormemente in fluidità e potenza espressiva. Venus De Milo segue uno schema più semplice, ma in modo sottile. C'è un'introduzione di sei battute, poi tre chorus e mezzo. Tra il primo e il secondo chorus c'è - come in molti temi swing e bop - una transizione, che rieccheggia l'introduzione. La gran trovata è però che anche la variazione scritta finale è un rigoroso sviluppo dell'introduzione, la quale così diventa quasi più importante del tema. Un ampio uso di sviluppi per allungamento si ha anche nel meno felice Rocker, che Mulligan poi rielaborò con il suo Tentette, dandogli un'altra struttura, più robusta, che dell'originale serba solo il B di lunghezza doppia. In questi tentativi di immettere a forza sviluppi compositivi nella forma-chorus, l'improvvisazione è ancora possibile, con qualche compromesso. Ma se il principio dello sviluppo compositivo è applicato con rigore fino alle estreme conseguenze, l'improvvisazione ne viene imbavagliata. Solo Gil Evans osò tanto. Il principio base è quello di Boplicity, ma su scala più ampia: si prendono gli accordi del tema, e li si "stira" su un numero maggiore (e irregolare) di battute. Nei varchi che si formano, Evans immette quindi le più svariate divagazioni armoniche, timbriche e contrappuntistiche. In forma ancora più prudente ciò accade in Why do I love you?, registrato al Roost. Esso si apre con un'introduzione che, per la sua asimmetria (quattro battute e mezzo) e per il civettuolo trillo di sax baritono e corno - genere ottavino da banda - è un vero e proprio autografo di Evans. Il tema è condotto da Davis e dal trombone di Mike Zwerin; una sognante transizione di cinque battute porta ai chorus di Davis e del mefitico cantante Kenny Hagood. A questo punto si entra in un giardino fatato: le prime note della melodia, riprese in un accenno di canone alla quarta superiore, inaugurano un conciso ma liberissimo sviluppo di venti battute, che fiorisce come un episodio a se

stante. Peccato solo che finisca subito, e che sia appeso a una canzonaccia che non lo merita. Ma questo non è che il cartone preparatorio dell'ineffabile Moon Dreams. Questa oscura canzone di trentadue misure, in forma ABAC, nelle mani di Evans diviene il pretesto per una partitura visionaria, per un delirio trascolorante che non ha raffronti nel jazz. Il tema è esposto per intero, a sei parti, in un irreale clima liturgico. La sezione C ha anche quattro battute soprannumerarie (l'implorante disegno ascensionale dei due sassofoni, batt. 27-30), del tipo che abbiamo già visto. Ma a partire da batt. 37, quando Davis riaccenna l'inizio della melodia, si entra in un episodio di puro sviluppo compositivo, senza una sola nota improvvisata. L'episodio, di ventitré battute, raggiunge subito un'intensità emotiva sconvolgente, quando tutti i fiati ascendono da una profonda regione baritonale verso un lancinante fa# acuto che Lee Konitz tiene per un tempo interminabile, mentre sotto di lui si fa dapprima il silenzio e il vuoto, e poi altri lo raggiungono, quasi che tutti gli strumenti vogliano gareggiare con il suo grido disperato; mentre il corno di Gunther Schuller fa risuonare una sorta di lontano richiamo di caccia, cui risponde la tuba di Bill Barber e poi Davis, in un clima via via più calmo, che infine si placa nella rassicurante risonanza di una quinta vuota. Qui tocchiamo il fondo del problema della Tuba Band. La possibilità di svolgere un intero discorso mediante mezzi compositivi sfocia - ed è inevitabile - nel silenzio dell'improvvisazione. Non stupisce che, toccato il baratro di Moon Dreams, gli stessi musicisti si siano tirati indietro. Avevano scosso le fondamenta del jazz: e forse, se n'erano spaventati anch'essi stessi.