La letteratura come menzogna
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Zitiervorschau

Giorgio Manganelli

LA LETTERATURA COME MENZOGNA

ADELPHI 345"9 1 9 3 7 4 1

Quando apparve La letteratura come menzo­ gna (1967), la scena letteraria italiana si presentava piuttosto agitata. Lo spazio era diviso fra i difensori di un establishment che vantava come glorie opere spesso medio­ cri e i propugnatori della «neo-avanguardia», i quali non si erano accorti che la pa­ rola «avanguardia» era stata appena colpi­ ta da una benefica senescenza. Per ragio­ ni di topografia e strategia letteraria, Man­ ganelli fu assegnato (e si assegnò egli stes­ so) a quest’ultimo campo. Nondimeno, sin dai suoi primi scritti, si capì che la lettera­ tura di Manganelli non apparteneva a quel­ la battaglia dei pupi, ma rivendicava u n ’a­ scendenza più rem ota e insolente: quella della letteratura assoluta. Che cosa si dovrà intendere con questa espressione? Tante cose diverse quanti sono gli autori che, esplicitamente o no, la praticano. Ma un presupposto è per tutti comune: si è dato, a un certo punto della nostra storia, un sin­ golare fenomeno per cui tutto ciò che era rigorosa ricerca e acquisizione di un vero teologico, metafisico, scientifico - apparve innanzitutto interessante in quanto mate­ riale, per nutrire un falso, una finzione per­ fetta e onniaw olgente quale è, nella sua ultima essenza, la letteratura. A questo dio oscuro e severo andava offerto tutto ciò che sino allora aveva presunto di essere giustificato in se stesso. Di questa ambizio­ sa eresia si può supporre fossero cultori, in secoli lontani, Callimaco o Góngora o fors’anche Ovidio. Ma rimane il fatto che nes­ suno osò formularla sino a tempi recenti, quando i romantici tedeschi cominciaro­ no a disarticolare con mano delicata ogni presupposto dell’estetica. Come il surrea­ lismo non può dirsi assente anche da lette­ rature lontane, e tuttavia occorreva che un giorno André Breton scrivesse il Manifesto del surrealismo perché la parola si divulgas­ se; così è accaduto che l’essenza menzo­ gnera della letteratura sia serpeggiata per anni in tante opere, sinché Manganelli de­

cise, con gesto brusco e quasi burocratico, di presentarla allo stato civile. E dunque molto grave la responsabilità che si prese, dando quel titolo a una raccolta di saggi dove si parla di Carroll e di Stevenson, di Firbank e di Nabokov, di Dickens e di Peacock, di Dumas e di Rolfe. Ma era un gesto doveroso: lo avvertiamo tanto più oggi, nel constatare che certe argomentazioni non hanno più bisogno di essere confutate. Già le aveva infilzate il cavalier Manganelli con la sua lancia. E accaduto perciò a questo libro, in breve tempo, qualcosa di simile a quello che avviene a tanti bei libri in tempi più lunghi. Nascere come scandalo e sor­ presa, e vivere poi tranquillam ente con la forza silenziosa dell’evidenza. Le opere di Giorgio Manganelli (1922-1990) sono in corso di pubblicazione presso Adelphi; il titolo più recente è Improvvisi per macchina da scrivere (2003).

La cornice della copertina è ripresa da un motivo Art Nouveau.

DELLO STESSO AUTORE:

Agli dèi ulteriori Centuria DalVinferno Encomio del tiranno Esperimento con l'India Hilarotragoedia Il presepio Il rumore sottile della prosa Improvvisi per macchina da scrivere La letteratura come menzogna La notte La palude definitiva Le interviste impossibili Lunario delVorfano sannita Nuovo commento Pinocchio: un libro parallelo Salons

Giorgio Manganelli

LA LETTERATURA COME MENZOGNA

&

ADELPHI ED IZIO N I

Seconda edizione: ottobre 2004 (Prima edizione in questa collana) © 1985 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO w w w .a d e l p h i . i t

ISBN 88-459-1937-4

IN D ICE

PARTE PRIMA

Ronald Firbank L'ordigno letterario I tre moschettieri Un luogo è un linguaggio Letteratura fantastica Grandi speranze Splendide larve II carnevale deirinferno La città blasfema La semantica di Humpty Dumpty Il mago astuto Qualcosa da dire Murphy Il sicario Adriano Isole volubili In onore di Ivy Compton-Burnett

11 22 34 43 54 63 72 76 81 85 90 95 99 103 107 112

PARTE SECONDA

Le fole di O. Henry UAntiquario di Scott Lady Chatterley e altre cose La scacchiera di Nabokov La critica di Edmund Wilson L'onestà faziosa Pertinenti menzogne T.L. Peacock PARTE TERZA

La letteratura come menzogna

PARTE PRIMA 117 129 138 146 151 193 198 202

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RONALD FIRBANK

Ronald Firbank è uno scrittore insieme frivolo e difficile. È uno snob, come si è detto sempre: e, co­ me tale, non si rivolge direttamente al lettore, non racconta, ma recita una storia, la disegna con gesti elegantissimi e discontinui in uno spazio arbitrario; la annota, disperde, frantuma: pare presupporre che il lettore già la conosca, che a lui interessi, ora, coglie­ re solo quegli indizi verbali, quelle labili e affascinan­ ti vegetazioni che indicano che in una certa zona gia­ ce sepolta, miracolosamente attiva, una «storia». Firbank ha tratto dal suo delicato, schizoide, discre­ to snobismo non solo uno stile verbale, che era cosa relativamente agevole e già sperimentata, ma un atteg­ giamento strutturale. Spaziare un racconto con grandi lacune di silenzio, di elusione, di reticenza, e soprat­ tutto collocare il centro del racconto negli spazi vuoti, mai sul personaggio ma in qualche modo al suo fianco, mai sull’evento ma sulla periferia dell’aura che lo ospita: a questo modo Firbank disegna i suoi erratici nastri narrativi, e coinvolge il lettore in una conver­ sazione di calcolata inconsistenza, speciosa e dispersi­ va, ma sempre minutamente lavorata. 11

Pur raccontando storie che talora, non senza punti­ gliosità, si potrebbero parafrasare, Firbank non ha al­ cun interesse al racconto: la zona narrativa è niente più che una sede su cui collocare fragili e ostinati in­ trichi verbali, in cui allevare improbabili, estrosi in­ setti lessicali; soprattutto, un luogo artificiale, astratto, un poco immorale, in cui muovere larve di personag­ gio, quei batuffoli di esclamazioni, di squisiti clichés, di dispersi, frammentari monologhi. Mancandogli l'interesse fabulatore, non mira a fru­ strare il lettore, ma a stimolarlo, assalirlo con una sor­ ta di minutissima agopuntura verbale: per cui il let­ tore sia costretto ad una tensione interpretativa, a or­ dinare e chiarificare i messaggi apparentemente disor­ dinati che lo raggiungono, a scoprire e decifrare una difficile coerenza. Firbank, con finto, ironico candore, osa costruire e avviare favole eccitanti, che paiono a primo assaggio fornite di tutte le attrezzature di un thriller: veleni, alluse passioni, eleganza e infantile ferocia; poi, su questa fola a sensazione stende, a spe­ gnere ogni furore, la più rarefatta ed elusiva delle sue trame verbali : e la storia di amore, odio ed omicidio si conclude con un aurorale gorgheggio di gallo. È La Principessa artificiale: inconsistente labirinto, offerto al lettore con una serie di gesti di finta consuetudine; per cui ad ogni personaggio compete un'aura di fami­ liarità che ne magnifica le dimensioni, e dà un illuso­ rio peso ai suoi gesti : ma poiché si tratta di familiarità pretestuosa ed anzi mistificata, codesta artificiale esten­ sione del personaggio trasforma il racconto in un gio­ co deliziosamente disorientante. Scopriamo una condi­ zione emotiva che richiama il déjà vu: lo scrittore ci persuade che noi « sappiamo » una quantità di cose su quei suoi socievoli fantasmi; e che pertanto a letto­ ri parenti, come noi, non occorrono informazioni, ma al più frammenti di conversazione, annotazioni, tra­ scrizioni di suoni e colori inconsueti; e ci offre, da go­ dere, certi immateriali fruscii di vesti, e perfidi voca­ lizzi, e nonsense sentenziosi ed elusivi: tutto ciò che 12

l'immediatezza dell’esperienza impedisce di cogliere. La Principessa artificiale non muove in nessuna dire­ zione, non conclude : ed anzi la fine è tagliata in modo da ironizzare retrospettivamente anche quel poco di favola che parve entrarvi; e ci irride, se per un attimo abbiamo creduto che non fosse, quella, una storia di puri suoni. Firbank racconta quasi costantemente in primo pia­ no : riporta dialoghi, annota gesti e rumori, talora con la devota minuzia di un autore teatrale; con pettegola competenza, ed una parlata di dama deliziosamente fanée, descrive minutamente vestiti, abbigliamenti, ac­ conciature, fiori, mobili; ignora il gesto del narratore epico, che abbraccia ventanni in una pagina; colti­ vando una artificiale miopia, si rifiuta di supporre che una somma di ore faccia una giornata, che delle nostre esili giornate sia possibile mettere assieme anni o, come taluni sostengono, anche una vita. Codesta concentrazione sul luogo minutissimo - vi­ sto con miracolosa e un poco mostruosa intensità —de­ termina un’altra qualità tipica, tra le più sottili di que­ sto scrittore: la sensazione di rarefazione, di distanza che separa ogni frammento da un altro, l'incommen­ surabile estraneità di questi minimi punti verbali, che non si giustappongono, e neppure si chiamano, non si cercano, ma paiono vivere della sola propria immoti­ vata vibrazione. E ancora: la trascrizione fanatica del frammento, del gesto e del suono, rende del tutto im­ possibile un rapporto del singolo luogo con la sotto­ stante materia, anzi la nega affatto, la ironizza. E non v’è dubbio che Firbank sia scrittore tutto ironico: ma di ironia metafisica, non sociale; e non diretta, non didattica. Incapace di accuse, di ira, di didascalici fu­ rori, di moralismi, di sermoni, inadatto ad ammonire, come corrotto nella misura in cui glielo consente la sua inettitudine, Firbank, a elusione e irrisione della dichiarata coerenza, gioca con una sorta di minima follia; mite e civilissima, ma, nella sua purezza, affatto impervia. 13

Si potrebbe parlare di struttura tangenziale: del duro e buio globo della materia narrativa, Firbank tocca solo la periferia, e mai tenta di penetrarvi; ne trae minimi indizi, e quelli coltiva come affatto auto­ nomi; di una vita, recupera un tè pomeridiano, una aigrette, alcuni colori inconsueti: quale discrezione. Infatti Firbank sceglie la materia del racconto solo per sapere esattamente di che cosa «non parlerà»; che cosa negherà e rifiuterà. Lo spazio narrativo sta tutto in quella intercapedine tra la materia e il suo rifiuto; e non ci stupiremo di trovare in Firbank, più che l’assenza della storia, una sua presenza negativa; e, allo stesso modo, una presenza negativa del perso­ naggio. Grazie alla calcolata dispersione, il personaggio di questi racconti non è niente più che una indiziaria co­ stante linguistica, una presenza vocale; è, veramente, una regola di grammatica. La tangenzialità della nar­ razione consente di cogliere, nella zona di competenza del personaggio, uno stile di gesti; vestiti, come nella Principessa artificiale; una caricatura di voci e toni, in Fuoco Nero; e forse l’unico personaggio la cui in­ consistenza sia più metafisica che narrativa è il Car­ dinal Pirelli, alle cui nobili e indiscrete « eccentrici­ tà » Firbank ha dedicato uno dei suoi racconti più affascinanti. Secondo il suo consueto procedimento, del Cardi­ nale Firbank non dice quasi nulla: la sua «storia» non esiste. Ed è qui come non mai chiarissimo come il fascino di questo tipo di personaggio, inventato ed usato a quel modo, stia nei vasti silenzi che lo circon­ dano, nelle affettuose reticenze; qui, i confini del Car­ dinale sono disegnati da una vaghissima aura di deli­ cata perversione, di tollerante e patetica corruttela, di malinconia e raffinatezza (« gastronomo esigentissi­ mo »), un che di indiscreto e di devoto, di ambiguo ma non di contraddittorio, giacché Firbank rifiuta la drammaticità esplicita. Il Cardinale è una preziosa macchia purpurea, un volto bello e stanco, un uomo 14

solo - forse meno, forse più di un uomo - circondato da forme di vita a lui estranee, anche ostili e sleali; alla cui pochezza e maliziosa ignobilità egli è affezio­ nato, disperatamente. Il Cardinal Pirelli è consapevol­ mente, intellettualmente, ciò che tutti i « personaggi » di Firbank aspirano ad essere: poche sillabe sconnes­ se ma delicatamente sonore, gesti che cercano senso e redenzione nello stile, neireleganza, una condizione implicitamente incline alla morte, alla sommessa dis­ soluzione. E occorre appena notare quel sapore di morte indiretta, innominata, che percorre le pagine di Firbank, con una ambigua e feroce gentilezza: vi è un romanzo, Vainglory, che è la storia di una lunga preparazione alla morte, anzi alla tomba, intesa come luogo di estrema e non superabile mondanità: ecce­ zionalmente, taciturna. A questo punto, sarà agevole intendere la funzione strutturale di questo modo di narrare, tutto per primi piani, senza sintassi che oltrepassi la pagina, per punti discreti. A Firbank interessa provocare la massima vi­ brazione locale, e ampliare quanto è possibile la distan­ za tra la favola e le parole che egli consegna al lettore; e insieme coltivare taluni estri, talune implicite figure retoriche che rendano quanto è possibile inafferrabile quella minima superficie narrativa che continua ad occupare. Con una misurata inesattezza dello sguardo, Firbank si volge al particolare irrilevante, lasciando appena apparire, grande e oscuro, l’elemento essenzia­ le. Anche nel Cardinal Pirelli, che pure è tra i rac­ conti più espliciti di Firbank, noi siamo continuamente distratti verso l’irrilevante, il dato minimo, il gioco: e solo poco alla volta ci si avvede quanto fun­ zionale e arguta sia tale distrazione, questo intelligen­ te spostamento di attenzione che consente quei singo­ lari echi, vuoti e significanti, che percorrono il rac­ conto. Maestro dell’errore esatto, della deviazione, Firbank mai commetterebbe la volgarità di puntare direttamente sul tema, sul personaggio. E solo se noi accette­ 15

remo di non vedere il tema centrale, se ci lasceremo persuadere ad accettare le proporzioni alterate e vizia­ te della sua descrizione, potremo toccare quella limi­ tata ma bruciante parte della materia che a Firbank interessava di offrire. Che è, in primo luogo, il lin­ guaggio. Le proposizioni di Firbank sono disarticolate, para­ tattiche: costruite per simulare una condizione effi­ mera. I suoi dialoghi sono di rado più che punti escla­ mativi articolati, o gesti, allusioni del corpo, delle mani. Tutte le civetterie, le false estrosità della con­ versazione personale, la sua qualità di maschera si ri­ conoscono in queste annotazioni fulminee; ed anzi ra­ rissimi sono i dialoghi, che presuppongono una qual­ che continuità; piuttosto, troviamo casuali ritagli di conversazione, registrazioni di voci che improvvisa­ mente si affacciano, in breve scompaiono: governate, tutte, da una vocazione anonima, anche quando sono modulate su espedienti verbali di calcolato artificio. In questa conversazione, Firbank utilizza una serie di figure linguistiche : la parola assurdamente enfatiz­ zata, il gioco sonoro, l'infantilismo, il nonsense; ed anzi potremmo dire che il linguaggio dei personaggi di Firbank tende, come a sua condizione naturale, al nonsense. Le femminette - e quasi sempre di costoro si tratta, giacché Firbank ama il loro mondo parassi­ tario e decorativo - indulgono alla cortesia leziosa, al manierismo degli affetti, non senza accenni di inno­ cente inverecondia. « Sua madre, credo, era una Con­ tessa Italiana » dice la Principessa artificiale, parlan­ do del suo Santo avvelenatore; e non ci stupiremo di apprendere che ha una voce da bambino di sei anni, e che sua madre la chiama My tall-tall school-boy, Il mio ragazzaccio lungo lungo. E troviamo gay-gay, det­ to di nastri, e meno innocenti, anche se elusivi, bigbig. La Baronessa della Principessa artificiale, la cui fatua sbadataggine ha mandato a monte un omicidio, si difende con impudica poeticità: « Dimmi, cara, tu trovi veramente triste il canto deirusignolo? ». E lo 16

snob ironizza lo snob : « Riuscirà a estorcere la verità a quel suo Santo coi capelli di papavero, prima che si faccia a tempo a esclamare "Spinoza!” ». Altre volte la conversazione non è più che un soffio, collegato da notazioni elusive: minimi trasalimenti fonetici. «Po­ vera cara... ». « Una breve visita in una notte come questa... ». « Pover’anima, per quel che sono!... ». « Monseigneur... » (Il Cardinal Pirelli). Appunti fonici, dunque, non destinati a descrivere situazioni o provocare reazioni emotive o a fornire informazioni : gesti inutili, destinati a chiosare ed or­ nare una elegante e intelligente solitudine. Nelle parti non dialogate, e in qualche modo narra­ tive, il linguaggio di Firbank soffre di una minima, costante agitazione; una condizione misuratamente feb­ brile, ma tanto continua ed elaborata, da dare il senso di uno stremato, lucido delirio. Il lettore si imbatte in un linguaggio inconsueto, artefatto, letterario, pie­ no di parole rare e di suono dolcemente esotico: pa­ role latineggianti, o estrose formazioni inedite, parole « quasi esistenti ». Ed anche, con estrema raffinatezza, parole lievemente inesatte, che conservano nella loro minima improbabilità l’eco della voce umana, una di quelle voci disincarnate e un poco dementi che percor­ rono questi racconti. Gli aggettivi, gli avverbi sono non di rado di calco­ lato, arduo artificio; talora deformano, talora conferi­ scono una ambigua grazia riduttiva; in un diario, una donna moribonda in un sotterraneo annota le most delicate phases, le fasi più delicate della sua finale so­ litudine; il segretario sonnacchioso viene strappato dalle sue siestose fancies; papa Terzo II ha coltivato una amicizia sincera, anche se brackish, « amarognola, salmastra», con la regina Vittoria; la risata del Car­ dinale nemico del Pirelli è short, abysmal, « breve, abissale » ; frequenti parole in inglese del tutto incon­ suete, come suave, perfervid, amative; o altre usate in accezioni marginali o analogiche, come abstruse, elabo­ rate. Invenzioni, comegloominous - in thè deep gloom17

inous room - da gloom, « buio » e ominous, « sini­ stro »; purissime fantasticherie: I adore all that mauvishness in him! è l'esclamazione amorosa di una ado­ lescente : « ma io adoro quella sua malvositàl » ; un manierismo che si finge, ed è, poetico: la vecchia pa­ drona invita il suo cane moribondo a ricordare leafy days in leafy parks, « fronzuti giorni per fronzuti par­ chi »; e, non raro, un manierismo di qualità agiogra­ fica: santa Teresa è sublime in laughter, exquisite in beatitude, « di riso sublime, ineffabile beatitudine», che diventa poi sublime in laughter>exquisite in tenderness. Infine, con estremo vezzo, il cadavere del Car­ dinale è a marvelment to behold. Firbank non è un distruttore o inventore radicale di linguaggi letterari, ma di strutture narrative. Con le sue alterazioni, gli errori, gli spostamenti, le distra­ zioni calcolate vuole raggiungere un risultato: una invenzione di assoluta, coerente artificialità. Implicita a tutto il lavoro di Firbank è la convinzione che ogni descrizione linguistica è artificiale, che nulla va fatto per nasconderne questa sua illuminante e difficile qua­ lità; giacché l'artificialità del discorso umano tocca ogni cosa, la deforma e adorna. Il linguaggio non ser­ ve a conoscere una eventuale realtà, ma a sfiorarla, a « non vederla » - pur sapendo esattamente dove si trova, anzi presupponendo appunto che questo si sap­ pia in modo indubitabile, e calcolando i modi dell'elusione su codesta distanza. Dunque, in Firbank, l'artificio, la decorazione, l'or­ namento sono strutturali, non elementi estetizzanti: fanno parte di una tecnica di rifiuto della narrazio­ ne; la decorazione allontana costantemente l’attenzio­ ne del lettore dal tema, e questo appunto interessa Firbank. « Con un gomito appoggiato tra i fiori di nespolo e i tulipani (rosa aurora e scarlatti, si ridestavano sen­ sitivi alla luce della candela), egli si riempi il bic­ chiere e continuò a riflettere». L'inciso deve disto­ glierci dalla solitudine del Cardinale, deve impedirci 18

una lettura psicologizzata. La solitudine diventa, iro­ nicamente, una figura dello stile: anzi, di retorica. Codesta artificialità investe ogni parte della narra­ zione : ne è metodo e unità formale. Ed è tutta dichia­ rata: ogni qualvolta un elemento originariamente na­ turale deve essere utilizzato, viene immediatamente trasvalutato in artificio, secondo una tecnica che è de­ liberata e costante. Una testa di ragazzo è very finished, « ben rifinita », come fosse testa di statua; « Temo che il tramonto sarà una delusione - a fallure », dice la Principessa, d'anima teatrale; « le ombre male assor­ tite degli ospiti » sul prato rammentano « l'arte pri­ mitiva dell’Abissinia : “persone che tornano dalla cac­ cia al leone” ». In Fuoco Nero - commedia di finta naturalità troviamo « la meravigliosa strategia delle nuvole al tramonto ». La luna splende sourly, « acidamente », nel cielo e, fingendo una consistenza che di rado han­ no anche i personaggi, la sera si immerge in un grey spleen. Ed ecco i piccioni della infantile capitale di La Principessa artificiale: «Vivevano per farsi foto­ grafare: posavano per'cartoline e souvenirs... meno discriminanti ancora della impertinente meretrix che si pavoneggiava per la strada sotto di loro quando scen­ deva la sera. Non erano esigenti, ma erano profonda­ mente annoiati della loro professione e si davano il turno quando, per sopravvivere, un destino borghese li costringeva a folleggiare e mostrare la fodera delle ali ». In quella capitale, un precipitoso scalpitio di cavalli può essere « raffinato », il fragore di una car­ rozza « superbo ». Non diversamente funzionano certi minori vezzi: ad esempio, il particolare irrilevante, inteso, anche più scopertamente della decorazione, a rifiutare la comuni­ cazione diretta, a ostacolare l'attenzione impura del lettore. Per attirare l’attenzione della Baronessa nel giardi­ no, la Principessa vi lancia un volume; Firbank preci­ sa, spostando e sbilanciando i dati deirimmagine: 19

« una rara prima edizione delle Conversazioni Impro­ babili ». La Baronessa, per guardarsi attorno sul tram apre nel giornale - la Gazzetta di Corte - una fine­ stra « lunga, gotica ». Talora il linguaggio si fa pette­ golo, alterando, con mostruosa eleganza, le dimensio­ ni degli oggetti : il Cardinale mitriato è cute to tears, « carino da morire ». Santa Eufraxia, acerbetta santa adolescente, immaturish, dolcemente inetta, è pre­ sentata con linguaggio socievolissimo. Che il Cardi­ nale mangi un consommé contenente hearts, coronets, and most of thè alphabet in vermicelli, cioè, appunto, pastina a forma di cuori, diademi e lettere dell’alfabeto, ci assicura che egli vive in un mondo di ango­ sce e desolazioni teatrali, e appunto perché teatrali, senza speranza. Così come la porticina segreta da usa­ re « in caso di rivoluzioni » dà a tutta la favola della Principessa le dimensioni di uno stizzoso e inane gio­ co infantile. Colori e fiori hanno una grazia artefatta e provo­ cante, non sono mai elementi naturali, ma sigilli di perfetto artificio. « Era una bellissima sera di giugno, i blu e i rossi del tramonto si fondevano in uno squi­ sito color lavanda. Poi il cielo divenne tutto color malva e, col sopraggiungere della notte, si tramutò in un sommesso viola. Attraversammo campi di trifoglio chiaro, cinti da canali d’acqua viola... I buoi bianchi che tornavano dai campi erano inondati di luce vio­ lacea, e la cipria rosea sulla punta del naso della mia governante si fece viola anch’essa » {La Principessa artificiale). Il sovraccarico di luce si svela come un gelido disegno di colori autonomi. Allo stesso modo, i fiori, artefatti e leziosi, ornano il « desolato splen­ dore » letterario di Firbank. Forsaken splendour : la luce abbagliante e rovinosa che, nel Cardinal Pirelli, aggredisce i « vasti chiostri chiusi », a presagio di decadenza di una fede, prean­ nuncia la « progressiva rovina dei templi », la « cac­ ciata dei sacerdoti ». Queste fastose e discontinue ro­ vine, queste pietre lavorate e dimenticate compongo­ 20

no un universo elegante e tragico: e lo tiene assieme una prosa ferma, e insieme capace di tutte le febbri­ cose delizie della corruttela. Un universo artificiale: separato da infinita distan­ za da ogni luogo abitabile, luogo astratto e dotto, soli­ tario e mortale capolavoro da snob. « Che prospetto elegante! Che spaziosità illusoria! Chi avrebbe indovinato che dietro Tondeggiante cor­ tina di alberi sorgeva la cancellata con i riccioli di ferro battuto, le impettite sentinelle dai vivaci cap­ pelli piumati, e le spade infuocate dal sole; e, più lon­ tano, la bianca città, con le sue innumerevoli guglie, e il Teatro dell’opera con la cupola dorata, e i teatri, e le strade spaziose, e i caffè, donde salivano a volte, nelle notti quiete, fluttuando capricciosamente come nastri al vento, le note dei violini. Chi avrebbe indo­ vinato che laggiù la vita era gaia, osservando dalle fi­ nestre del palazzo l'immobile delfino che gorgogliava impassibile tra le sue canne e le sue ninfee, con quella stolta fissità rivolta alle vetrate reali, indifferente alla danza delle farfalle e al balzo improvviso di una capra. Che prospetto elegante! Che spaziosità illusoria! Quel­ lo spazio così grande, racchiuso in uno spazio così pic­ colo, ricordava i paesaggi dipinti con delicata preci­ sione su una tazza o su un piattino, oppure sul pan­ nello di seta di un ventaglio ». [1964]

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L’ORDIGNO LETTERARIO

Per tre volte, nel Signore di Ballantrae, il protago­ nista affida la propria vita, il proprio destino ad una moneta, che egli frulla o scuote nelle mani chiuse: testa o croce. Una prima volta, quando i fratelli non ancora nemici dibattono chi debba lasciare la vecchia casa per arruolarsi nelle milizie legittimiste del prin­ cipe Charlie; una seconda volta, quando James e il cavalier de Burke, in fuga dall’esercito disfatto, deb­ bono decidere se « tagliarsi la gola o giurarsi amici­ zia»; la terza infine, quando James, durante la fuga dalla nave pirata sulle coste nord-americane, scorge una banda di pellirosse, e interroga la moneta, per sapere se quei selvaggi sono di tribù amica o nemica. Il ripetersi di un gesto tanto tipico, insieme solenne e fatuo, dà una precisa indicazione sulla funzione, la dinamica che spetta al personaggio nella narrazione. L’atto adolescente e splendidamente temerario è certa­ mente emblematico: occorre vedere di che. Quella noncuranza, forse insolenza, forse eroica di­ sinvoltura, è indizio di stile: James, che sappiamo ca­ pace di azioni infime, sa usare signorilmente di se stesso; la sua ribalda empietà accoglie una altera pie­ 22

tas. Ma codesto stile è anche destino: ubbidendo, in momenti decisivi, non al calcolo, e neppure all’intuizione, o ai sentimenti, ma al mero caso, James rivela una ironica vocazione ascetica; in lui non trovano luogo emozioni capaci di turbare la sua devozione alTestro del caso; egli è fedele a quella divinità esatta e arbitraria, incline al gioco ma non alla pietà, che sarebbe vano voler corrompere e sedurre, che non ha un volto in cui spiare l’esito di suppliche e preghiere. Il tirannico Signore di Ballantrae è totalmente ubbi­ diente solo alla distrazione arrogante e tirannica degli eventi. Il lancio della moneta non è solo un gesto ele­ gante e temerario: è un grado di esercizio spirituale. James non può collaborare con codesto destino, astratto e ignaro di discorso; esso non è significato, di­ rezione od ordine, ma provocazione: e di questa ag­ gressione impersonale James è oggetto volontario, e dunque complice. Secondo gli imperativi di questo universo d’inven­ zione, stile e destino sono dunque tutt’uno; e quindi non significato, e neppure serie di eventi coordinati o comunque necessari; ma, al contrario, forma impre­ vedibile e struttura gratuita. La qualità fatale del­ l’evento starà appunto nel non aver rapporto con quello che lo precede, di non essere necessario : ogni volta, la moneta poteva veramente cadere dall’altra faccia. Il caso totale è l’indizio del fatale. Essendo James, Signore di Ballantrae, elemento strutturale essenziale del racconto, il suo comporta­ mento illuminerà le leggi del raccontare stevensoniano. Che Stevenson sia scrittore di favole singolarmen­ te cattivanti, un grande « raccontatore », pare ovvio luogo comune; ed anche chi diffida della grazia one­ stamente leziosa di certa sua prosa, non resisterà alla sua capacità stregonesca di muovere immagini impro­ babili lungo tracciati insieme labirintici e fulminei. In Stevenson, non v’è dubbio, la « trama » è impor­ tante: è proprio importante sapere che cosa succede, come va a finire. Significa forse questo che Stevenson 23

è scrittore di mero entertainment; da leggere in modo privato, impuro; che vuole coinvolgerci, con frivo­ lezza domenicale, nelle spire domestiche delle sue favole; che ci suggerisce di identificarci con uno o altro personaggio, e affidargli la nostra sentimentale simpatia? In realtà, i personaggi stevensoniani sono inaccessibili: labili ed elusivi, li circonda una speci­ fica protezione, tra cerimoniale e prestigiatoria. Im­ possibile identificarsi con il principe Florizel delle Notti Arabe, come è impossibile identificarsi passio­ nalmente con il re di quadri delle carte francesi. Come al re di quadri, spetta a Florizel un destino intrica­ tissimo, fitto di innumerevoli casi; ma alla fine egli uscirà vergine, non logorato da alcun evento, idoneo a nuovi giochi, infinitamente. Possiamo chiederci se il fascino di questo narrare non venga dalla squisita suspense di cui è intessuto; ma noi sappiamo che delle più belle favole stevensoniane, e in primo luogo di questo Signore di Ballantrae, resta nella mente come l’impronta cava della struttura, vuota di ogni evento. Che è mai, dunque, questa cavità, questa immagine in negativo che ci suggerisce la trama? Ritorniamo al gioco delle monete: la singolare ec­ citazione che comunica al lettore non viene tanto da quel che accade al momento, ma dal salto ritmico che impone al racconto, l’irruzione di libertà sacra che comporta. ì: un gesto assolutamente, totalmente ecci­ tante, perché pone tutto in gioco, senza chiedere al­ cuna garanzia, in uno stato di rovinosa e illuminante disponibilità. Il fato si svela sotto specie di avventura, di rifiuto radicale del quotidiano: giacché quest’ul­ timo è il luogo che ignora stile e destino. Ecco una prima approssimazione: la trama stevensoniana è un tratteggiato, un sistema di asterischi, che indica dove il fatale, sotto specie di avventura e di caso, travolgerà le povere difese del quotidiano. La vita attenta, cauta, prevedibile si vanifica: irrompo­ no cabs che trasportano a improbabili appuntamenti, porte si aprono e si richiudono silenziose, volano mo­ 24

nete fatali. Il numen nobiliare del caso inventa giochi di vertiginosa delizia. Nei racconti di Stevenson, tutto ciò che supponia­ mo stabile e reale è al suo posto consueto: i vestiti, le convenzioni linguistiche e morali, le case grige, i giardini smorti, le rosse cassette postali; ma vi è un modo di attraversare queste strade, di salire quelle sca­ le, di aprire le porte, di rivolgere la parola ad uno sconosciuto che trasformerà ogni cosa in sede intempo­ rale di minaccia e illuminazione. Nel mondo quoti­ diano esistono ore deputate ai gesti noti, luoghi per nascere, persone cui essere fedeli, con cui vivere e morire: in queiraltro universo ogni porta si spalanca su prospettive abissali, ogni uomo è folletto, ogni og­ getto una carta da gioco. « Desidero istruirmi sulla vita » dice il prete del Diamante del Rajà. « Per vita io non intendo i roman­ zi di Thackeray; ma i delitti e le segrete possibilità della nostra società». Noi sappiamo che cosa significa « la vita dei ro­ manzi di Thackeray » in questo contesto: fedeltà, amo­ re, assenza di avventura, di caso, di stile. La « vita di Thackeray »' è un fatto sociale e socievole: ma il prete stevensoniano che, da paziente lettore, ha certo impa­ rato che cosa sono le estasi e le dannazioni, aspira ad una condizione asociale, delittuosa ed eccitante. E ve­ ramente Stevenson è uno scrittore asociale, come può essere asociale colui che, mentre viaggia in tram, me­ dita empie estasi e crimini liberatori. La sua innocen­ za è diabolica - anche il diavolo è grande, e probabil­ mente onestissimo raccontatore. Il suo candore, pro­ vocante; le sue storie, che potrebbero andare per mano ai bimbi vittoriani, destinati alle più laboriose e irre­ parabili inibizioni, non sanno solo di mare e nebbie e neve: ma sprigionano un esilarante tanfo infernale. Come il destino di James, i racconti di Stevenson vo­ gliono complici. Ma James non offre solo un’agevole analogia in­ terna; è l'emblema della narrativa stevensoniana, che 25

nel Signore di Ballantrae ha la sua summa, lucida ed inquietante. Gli elementi essenziali del racconto - l'odio frater­ no, le avventure di James, la pazienza di Henry - si possono agevolmente parafrasare: e tuttavia, anche catalogando attentamente questi contenuti suggestivi, questa materia veloce e violenta, non toccheremmo il centro della questione. La trama del Signore di Bal­ lantrae ci affascina e ci elude. Questo romanzo è in primo luogo una macchina, un ordigno. A prima lettura, ci appare come una orga­ nizzazione estremamente lavorata, un congegno ben commesso, di bella e funzionale complessità; l'esatta pertinenza con cui tutto si muove ha una sua gelida letizia; e a tutta l’invenzione presiede la nobile soperchieria del letterato. Tuttavia, si avverte che il tema strutturale, il pro­ getto mentale di questa macchinazione sta altrove. Gli scatti meccanici, le asciutte partizioni alludono ad un calcolo più arguto e malizioso. Veramente ordigno, il racconto non ha soltanto una ben congegnata efficien­ za: ha una vocazione, una destinazione; alla volontà matematica si allea un destino omicida. In questo modo, anche la ispirazione morale, la materia senti­ mentale diventano parte dell’ordigno, ne specificano la destinazione. Tutto diventa struttura. Donde quella impressione di intoccabilità, di compattezza metallica che ci dà questo libro: un universo minimo ed auto­ nomo, una fantasmagoria di emozioni e immagini che non hanno senso fuori della favola. La lettura si chiu­ de in un impersonale stupore, un terrore intellettuale, senza lacrime. Ecco la scena del duello tra i fratelli, nella gelida notte di febbraio: una delle pagine più straordinarie di tutto Stevenson. È, appunto, una scena, un pageant, non un avvenimento; ha la qualità formale, pubblica, angosciosa e insieme senza dolore, di una scena di opera lirica: l’assoluta artificialità della condizione indica la qualità emblematica deirevento. Decorose, 26

nobili parole; gesti misurati anche nella provocatoria insolenza; nella notte senza vento, le candele collo­ cate sulla neve disegnano insieme una fittizia navata, un progetto di chiesa che ha per tetto il nero della notte invernale; ed offrono, insieme, una camera ar­ dente al trafitto. Tutto è falso, perché tutto è stile, è forma. Ovviamente, la formalità della trama si articola ed esemplifica nella formalità dei personaggi: ai quali non chiederemo coerenza o presenza psicologica, e nep­ pure testimonianza morale. Nel tessuto di percorsi che diciamo trama, i personaggi si comportano come punti dinamici. La loro moralità, le loro emozioni non sa­ ranno che termini della loro collocazione in quella rete di tracciati, un dato come la velocità, la manovra­ bilità, la qualità luminosa. I rapporti tra i fratelli James e Henry, che descrivono come la mappa del racconto, sono le reciproche manovre tra due punti dinamici : occorrerà dunque descrivere questo rappor­ to, e il luogo ideale in cui si svolgono. Il luogo è, senza dubbio, di tipo infernale. Dell’inferno ha molte specificazioni: è di inequivoca, medie­ vale definitezza morale; non è solo una metafora sin­ golarmente pregnante, ma un qui determinato; anche abitabile, ma a prezzo di accanita, anche eroica coe­ renza. Lo spazio nel Signore di Ballantrae ha una sto­ ria: il racconto può essere descritto come una gra­ duale estensione della regione infernale. Di queirampliamento James è naturale ministro; di quello spazio esigente e senza indulgenze, il più ido­ neo, naturale abitante; « l'inferno ha nobili fiamme », dice il buon Mackellar; e James è una di queste ustio­ nanti e araldiche creature. Abitante deirinferno, Ja­ mes è devoto servitore del più nobilitante dei senti­ menti che vi imperano: l'odio. Occorre vedere brevemente quale è il senso formale di codesto odio che, inizialmente patrimonio del solo James, via via tocca e coinvolge la figura di Henry. Stevenson è mediocre narratore di casi amorosi : narra­ 27

tivamente, non li trova interessanti. Fedele alla rigo­ rosa coerenza del suo sistema di invenzioni, Steven­ son avverte l'intima contraddizione del destino amo­ roso. È l'avventura che rende impossibile ulteriori av­ venture; la situazione fatale che prelude alla perdita del fato. Incapace di tenerezze e indulgenze, Stevenson diffida di questa condizione affatto umana, stilisticamente infida. È il contrassegno del mondo di Thackeray, il mondo della fedeltà. L'unico sentimento che possa porre in rapporto due personaggi, esasperando, anziché mortificando, le prospettive avventurose e dun­ que fatali, è l'odio. L'odio che James porta a Henry è tanto puro, infer­ nalmente nobile, da non abbisognare di giustificazio­ ni; è gratuito, come il vero amore. È odio intellettuale, puro e coerente, e James lo professa con accanita de­ vozione; Henry lo imparerà con la sua lenta ostina­ zione di buon discepolo, e lo celebrerà forse con più monotona concentrazione: in lui riconosciamo il fer­ vore un poco scolastico del neofita. Questo elemento ascetico dell'odio fraterno informa l'asciutta eleganza del racconto; è odio stilistico. James è dunque il depositario dei gesti fatali e li­ beri; è la chiave morale e strutturale della favola; è destino e stile: ne verrà che chi si trova fuori di que­ sta concordia di nobili orrori è fuori, insieme, dell’uno e dell'altro: ed è appunto questa la condizione ini­ ziale di Henry. Costui non è il buono contrapposto al malvagio; è il quotidiano contrapposto al fatale. Da una condizio­ ne informe, inavventurosa, Henry viene condotto, gra­ zie alla disciplina e all’invenzione dell'odio, agli spazi rigorosi, totalmente formati del destino. Possiamo leg­ gere il libro come una serie di esercizi ascetici impo­ sti da James a Henry. La morte dei due fratelli nel gelido Canada è un tour de force agiografico; è un miracolo ed un segno come il fiore sbocciato sul pio bastone del pellegrino. La simultanea dannazione dei due fratelli ci rassicura sulla loro salvezza. 28

Vorrei insistere su questo carattere pedagogico - si intende, airinterno dell’universo narrativo del roman­ zo - dell’odio di James, perché il racconto ha qualche punto di contatto con altre favole di Stevenson, spe­ cie il Dottor Jekyll e M r. Hyde, e Markheim, alle qua­ li è stato spesso paragonato. In questi racconti la strut­ tura è affatto binaria: i due termini si affrontano in aperta lotta, o sono impegnati in una reciproca dia­ lettica. Non questo mi pare il tema del Signore di Ballantrae : ma piuttosto il « salire » - secondo un alto e un basso specifici del racconto - di Henry da una condizione quotidiana ad altra situazione, tanto in­ tensa che la vita vi è affatto impossibile. Questa qualità delle manovre dei personaggi viene forse chiarita da un esame dei caratteri che fan da corteggio ai maggiori : luoghi dinamici di secondo gra­ do, destinati a illuminare e spiegare i movimenti dei luoghi maggiori, come si dice facciano i satelliti at­ torno ai loro pianeti. Codesti personaggi sono essen­ zialmente due: il narratore Mackellar e Secundra Dass. Secundra e Mackellar sono in qualche misura, ma non veramente, simmetrici : e questa inesattezza è im­ portante. Mackellar è il servitore fedele di un uomo naturalmente fedele; l’uno e l’altro intimamente quo­ tidiani, ignari di avventure; la devozione impersonale di Mackellar si arricchisce di una fondamentale viltà : egli è definitivamente sacro alle anguste e patetiche dimensioni della vita domestica. È collaboratore di ge­ sti umili, il discreto assistente, anche l’amico tacitur­ no, abituato ad avari ma solenni consensi. È anche il cronista di gran parte della vicenda e, come tale, ha alcuni caratteri peculiari: usa un linguaggio pieno di gravità, un poco luttuoso, o forse chiesastico; il suo decoro di discorso è parte essenziale della dignità di quel che accade; grazie a lui, nessuna traccia delle la­ crime di Henry giunge al lettore. Rifacendo nella sua retorica la storia degli eventi tragici, Mackellar ne di­ fende la impersonalità. Ma un altro compito gli spet­ ta, inconsapevole ed essenziale: Mackellar deve non 29

capire quello che sta accadendo, deve registrare con occhi afflitti e diligenti il mostruoso miracolo, senza intenderlo; continuare a rappresentare le dimensioni, i tremori e le speranze del quotidiano anche quando esso si è totalmente sfasciato. La sinistra e abbaglian­ te lucentezza del racconto copre tutta quella regione cui Mackellar non ha accesso : la sua figura disadorna e un poco querula indica il confine tra i due « luo­ ghi » radicalmente estranei. Secundra Dass, perigliosa e forse temeraria inven­ zione, sottolinea con pertinenza didascalica la qualità della sorte di James. La sua fedeltà è non minore di quella di Mackellar, ma di qualità diversa: egli non pare testimone, quanto complice del destino di James. Secundra Dass non ha dimensioni integralmente uma­ ne: ma abbreviate, e come lievemente deformi. Vi è una traccia del mostro, in questo familiar spirit; gli spetta il compito del genio, delTafrita che l'eroe sa evocare, e al quale chiede gli strumenti che gli con­ sentano di tener testa al suo fato provocatorio. Losco e pio, sordidamente sacerdotale, Secundra unisce la privilegiata tecnica del mago alla docilità, un poco immonda, del folletto domestico; ed appunto la pre­ senza di Secundra ci assicura che la vicenda in cui è coinvolto il destino di James ha carattere sacro: che la sua morte è una empia parodia della ritualità, un ironico, dissacrato martirio. Quanto sia impersonale il rapporto tra James e Se­ cundra è confermato dal comportamento di quest'ul­ timo dopo la morte del suo signore : « e, verso rora meridiana, anche il fedel servo fu alfine persuaso. Si rassegnò con imperturbabile calma. « “Troppo freddo,” disse “buon mezzo in India, inu­ tile qui”. E, chiedendo del cibo che divorò avidamen­ te non appena gli fu messo dinanzi, s'appressò al fuo­ co e vi prese posto al mio fianco. Quando ebbe finito di mangiare, si distese lì dov’era, e cadde in un sonno infantile...: ...sembrava aver superato a un tratto... il rimpianto del suo padrone... ». 30

Collocato nell’ultima pagina del racconto, il gesto di stolido distacco di Secundra ha una funzione for­ male: conduce il lettore a riconoscere, in una finale, sarcastica epifania, la compresenza della mistificazio­ ne e deirilluminazione. Il punto più alto, e raro, del­ l'arte di Stevenson è l'artificialità tragica. È una ambizione « classica » : e Stevenson è classico, in modo anche letterale, scolastico. Studioso di scrit­ tori latini, ha cara la qualità colta e artefatta della prosa antica; ai suoi personaggi impone buone let­ ture: Mackellar cita Orazio, nella valigia di James troviamo le opere di Cesare, il vecchio padre di James e Henry attende la morte leggendo Livio; solo Henry, si noti, pare ignorare i classici. Come Mackellar, Stevenson sa quali compiti posso­ no essere affidati ad un discorso retoricamente impec­ cabile : tenere a bada le impressioni emotive, conferire grazia cerimoniale alla invenzione più rapinosa, di ogni evento fare forma e stile. Lo stile di Stevenson non è mimetico: al contrario, è costruito come una diligente sfida agli estri imprevedibili, alle aggres­ sioni della favola. Da questo colto disaccordo, questo squisito iato intellettuale, viene la qualità dinamica, la purezza da grafico, della fantasia stevensoniana, la sua segreta, saggia ilarità. Si veda, ad esempio, quale funzione abbiano i sin­ golarissimi, stupendi paesaggi stevensoniani : e quelli del Signore di Ballantrae sono tra i più incantevoli e memorabili. Ecco la descrizione del « fatale 27 febbraio 1757 », che vedrà i fratelli affrontarsi in duello: « Il tempo cattivo durò per tutto il 27: il freddo era crudo, il fiato dei passanti fumigava; nel grande camino del sa­ lone s'ardeva legna a cataste; e alcuni uccelli di prima­ vera, che già s'erano avventurati verso i nordici lidi, assediavano le finestre del palazzo o scorrazzavano smarritamente sulle zolle ghiacciate. Verso mezzogior­ no il sole occhieggiò fra la nuvolaglia, mostrando un pittoresco ed algente paesaggio di boschi e monti can­ 31

didi, il trabaccolo di Crail in attesa del vento sotto la Punta Craig, e il fumo saliente dritto nell’aria da ogni casolare e da ogni capanna. Al sopravvenir della notte, la caligine si richiuse nell’alto; il buio calò da un*cielo senz’astri in un’atmosfera immobile e gelida: notte inclementissima e adatta a strani eventi ». E mentre il terrorizzato Mackellar accompagna i fra­ telli, nella « notte inclementissima » sul terreno dello scontro, nota: «non spirava un alito; un gelo senza vento aveva fermato l’aria; e, mentre avanzavamo al lume delle candele, la tenebra pendeva come una vol­ ta sul nostro capo... Il freddo della notte mi si rove­ sciò addosso come un secchio d’acqua, accrescendo nelle mie vene il tremito provocato dal terrore... « “Ecco il luogo” disse Sua Signoria. “Mettete giù le candele”. « Feci quanto m’ordinava; subito le fiammelle si drizzarono, fisse come dentro una stanza, in mezzo agli alberi gelati». È interessante notare come taluni elementi della de­ scrizione ritornino, come tessere fisse di una imma­ gine musiva; ad esempio, ora, il fumo sopra le case: « Il giorno spuntò sulle cime dei monti, gli uccelli cominciarono a cinguettare, e il fumo dei casolari esa­ lò dal bruno seno delle lande... »; e ancora il gelo, candida presenza senza storia, nelle ultime pagine del romanzo : « Il campo era su un pianoro a specchio d ’un lago gelato, che misurava forse un miglio di lun­ ghezza; tutt’intorno a noi, la foresta si estendeva giù per le forre e sopra i declivi, più in alto s’ergevano i monti canuti, e più su ancora, la luna veleggiava nel cielo sereno. Non spirava un alito di vento; non v’era fruscio fra le frasche; e i suoni del nostro accampa­ mento erano attutiti o inghiottiti dalla circostante quiete. Ormai che il sole e il vento erano entrambi scomparsi, pareva quasi caldo, e s’aveva l’impressione d ’una notte di luglio: singolare illusione dei sensi, mentre la terra, l’acqua e l’aria erano intirizzite dal gelo ». 32

Vi è una miniaturistica letizia visiva in queste im­ magini del tutto prive di qualità psicologica e morale; non sono figure pertinenti alle singole fasi della storia, ma appunti scenografici fissi, alla maniera classica: come la prospettiva di portico inalterabile e astratta, pur nella minuzia della lavorazione, idonea ad acco­ gliere qualsivoglia favola e mito. Questi paesaggi luci­ di e fittizi non hanno rapporto col racconto: ma ne contrassegnano certi luoghi eminenti, sono un orna­ mento, una illuminazione retorica: una grazia inutile è decisiva; prati di smeraldo e nevi abbaglianti sono di­ segnati come quelle prospettive che si scorgono tra le volute delle iniziali miniate; e non ci stupiamo che in esse ritornino le medesime immagini e talora le mede­ sime parole, perché è chiaro che si tratta di una figura retorica, una invenzione formale, non di una descri­ zione. L'artificialità della macchina narrativa stevensoniana è esattamente misurata da una temeraria invenzio­ ne: la triplice falsa morte di James. Per tre volte il narratore porta il protagonista in prossimità del luo­ go per eccellenza avventuroso e fatale; e codesta tri­ plice recitazione di un gesto squisitamente unico è di una eroica guitteria. Solo una miracolosa esattezza di gesti può consentire alla storia di ruotare attorno a quei momenti insieme assurdi e privilegiati. Il Signore di Ballantrae è un esercizio ascetico ne­ gativo, completo fino all’estasi conclusiva. Ed è anche il rifacimento melodrammatico, la degradazione favo­ losa deH’iter illuminativo. Nelle sue pagine Stevenson ha celebrato con lucido furore la sua devozione alla letteratura come asocialità, provocazione, mistifica­ zione. Nel breve e perfetto ambito del suo cinismo di letterato, ogni orrore e dolore, verità e menzogna, odio e morte diventano destino e struttura. [1965] 33

« I TRE M OSCHETTIERI »

Sui nostri disordinati scaffali si allineano, si agglo­ merano libri, fascicoli, scartafacci di varia qualità ed estrazione : taluni si sono arrampicati lassù da genera­ zioni, da secoli, talora da millenni; sono i grandi e ter­ ribili classici, oggetti taciturni e indifferenti, ereditati da arcaici antenati, sacri alle biblioteche dei nascituri. Altri si sono invece insinuati lì dentro mescolando seduzione e prepotenza: sono presenze esili ed inso­ lenti, quanto provvisorie; non consegneremo ai nostri posteri i loro labili umori, noi stessi li allontaneremo fra breve dai nostri scaffali. Si danno tuttavia altri libri che non si lasciano così agevolmente collocare. Fragili, anche se non di rado impetuosi, sembrano appartenere alla razza dei peri­ turi. Invece, per non si sa quale parzialità della storia, del destino, degli dèi, questi libri per lo più leggeri, consumabili in poche ore di fulminea lettura, questa selvaggina della letteratura, che le piume sgargianti consacrano ad una giovane morte, resistono nelle no­ stre biblioteche; difficile sistemarli. Hanno l'arrogan­ za del capolavoro; degli effimeri hanno la svelta pro­ tervia. Sopravvivono di generazione in generazione: 34

forse sono eterni. Ma quanto bizzarri, irresponsabili eterni. I minimi e minori, talora, nel corso dei secoli, trovano chi li toglie dal morto grembo degli archivi, come fossili che danno informazioni preziose sul cli­ ma e la vegetazione di terre o età scomparse; ma que­ sti altri restano, sempre, libri frivoli, complici dona­ tori di ore di delizia, destinati a lettori comuni, ano­ nimi, non meno che agli smaliziati, alle « persone colte». Entrati di contrabbando in un empireo che non è stato progettato per loro, riescono a rimanervi grazie al festoso cinismo, al garbo delle loro favole lie­ vemente insensate: e così conseguono una frodolenta eternità. 1 tre moschettieri appartiene a questa razza irritan­ te e seducente. Da centovent’anni, questo libro che Dumas pubblicò nel 1844 assieme a quattro o cinque altri romanzi e racconti, questo libro scritto di furia, rifatto su una prima copia in parte di altra mano, que­ sto falso romanzo storico gremito di dimenticanze, di anacronismi, di astuzie da prestigiatore, di villane ed eleganti manomissioni, questo gioco di società corre di lettore in lettore, ed è fonte inesauribile di indeco­ rosa letizia. Beato colui che per la prima volta si ac­ cinge a inseguire le orme di d’Artagnan; beato colui che, avendo letto questo libro nell’adolescenza, come accade, in una edizione probabilmente ornata di trau­ matizzanti illustrazioni, non ne conserva che un con­ fuso ricordo, fatto di generosi e un po’ sciocchi duelli, di trame ingegnose, di agevoli uccisioni; attendono costoro alcune ore di indifesa, deliziata lettura: dalla quale non usciranno sotto nessun riguardo uomini migliori, o più colti, o più saggi. In questa favola, Alessandro Dumas sfoggia non po­ che qualità del grande scrittore: e non delle secon­ darie. In primo luogo una sovrana impudenza; un in­ sieme di complicità ed oltraggio nei confronti del let­ tore; nessun patetismo, neppure quando ricorre a si­ tuazioni obiettivamente patetiche: giacché nelle sue mani anche la morte deH’innocente si fa avventura, è 35

« divertente ». E ancora, il gusto del gioco, della mi­ stificazione; l'onesta carenza morale, che ci rassicura che nei labirinti di questa deliziosa macchinazione non si nasconde la pia frode di un messaggio; una nobile guitteria, che gli detta la mossa esatta per scatenare la saggiamente consenziente credulità del pubblico, e che insieme proibisce qualsiasi identificazione emoti­ va: il lettore è tenuto a bada nel momento stesso in cui è affascinato; è e deve restare spettatore. Né man­ cano, nei Tre moschettieri, altri, più sottili sintomi del grande libro: una labile inimicizia tra autore e personaggio, il docile rancore che lo scrittore talora avverte verso la presenza ipnotica di una figura, la sua petulanza di ombra; e, ancora, un'aura di galanteria, di piacere gratuito, la licenza del gran signore che si consente di cercare il proprio diletto via via nella far­ sa, nella commedia, nella pochade, nel melodramma, nelle atrocità. Infine, cinge e illumina ogni cosa l’au­ reola di una intima irresponsabilità, quella inafferra­ bile malizia di cui si alimentano l’estro, la libertà, l’iro­ nia della letteratura. Di rado tante stigmate da grande libro si sono rac­ colte in un libro che grande non è; giacché questa è la provocazione dei Tre moschettieri : di esigere e riscuo­ tere dal lettore una devozione quale, per intensità e durata, di solito si concede solo al capolavoro; ma di non esser tale : ed anzi di trarre dalla propria condi­ zione di capolavoro frustrato, o piuttosto eluso, un fascino leggero, che ci coglie affatto indifesi. Una velocissima cavalcata, che si svolge con accele­ razione sempre più nervosa e rovinosa, ci rapisce, per le strade di Francia e di Inghilterra, sulle tracce di d'Artagnan e dei tre moschettieri; in preda ad un bat­ ticuore lievemente degradante, gustando tutta la co­ darda letizia di essere « fuori », noi seguiamo le am­ bagi di una storia seducente quanto sfrontatamente improbabile. Di rado siamo commossi, mai coinvolti, ma costantemente eccitati, provocati, elusi. Le doman­ de ingenue ed arcaiche: che sta per succedere? che 36

accadrà dopo? ci spronano di capitolo in capitolo; e intanto ci consola la coscienza dell’artificio, della reci­ tazione, del ben lavorato inganno. Ma quando il libro è finito, e i personaggi, i vivi e i morti, si sono congedati dai nostri applausi, abbia­ mo la subitanea sensazione che qualcosa si corrompa e disfaccia; di un libro corposo ed aggressivo resta un vortice di ceneri. A questo punto, possiamo porci la domanda: che cosa, esattamente, non resta nelle no­ stre menti, a lettura conclusa? Non resta la geometria, la disposizione astratta, il disegno segreto, quella sorta di clandestino acrostico, indovinato ma non mai deci­ frato, che talora rende eterna, nella mente del lettore, la « forma » di un libro di cui ogni dato sensibile sia stato consumato dall’oblio. Quante miglia a gran ga­ loppo percorrono i quattro amici : ma sulla strada la­ sciano solo tracce esigue, quegli zoccoli sollevano sol­ tanto polvere; vanamente cercheremmo il labirinto, la mappa del percorso inventato ab aeterno. Dovunque, incontriamo soltanto eventi. Eppure il libro è gremito di situazioni che naturalmente aspirano ad una condi­ zione privilegiata, a comporsi in figura: amori segreti e impossibili, innocenti uccisi, solenni vendette. Ma non accade mai che una di queste condizioni e di que­ sti avvenimenti si presenti come nodo costruttivo, co­ me intuizione strutturale. Questa carenza geometrica comportava una assai sot­ tile insidia: gli avvenimenti, privati della protezione astratta di una salda struttura, potevano trasformarsi in messaggi privati, sentimentali; potevano, fingere po­ sticci ed ovvi significati. Il pericolo della identifica­ zione, della lettura passionale minacciava l'instabile equilibrio del libro. Dumas è riuscito a evitare code­ ste insidie grazie alla propria compatta, lucida frivo­ lezza; togliendo ogni traccia di destino dai suoi per­ sonaggi - con una sola, e parziale, eccezione; affasci­ nando il lettore e insieme sfidandolo; pronto a frustrar­ ne le attese emotive; a uccidere l’innocente, purché si salvi il libro. Morte e salvezza, peccato, malvagità, leal­ 37

tà, amore e odio, sono segni terrestri, capaci di com­ porre una trama, un divertimento per quella divinità mortale che è il lettore. Tuttavia, qualcosa di diverso dal disegno segreto resta nella memoria: un residuo forse impuro, elusivo; l’indizio della ostinazione, della fragile grandezza di questo libro. Vediamo più attentamente come è costruita questa macchina narrativa. Il libro si divide in due parti di mole quasi esattamente uguale: la dicotomia è netta­ mente segnata dall’apparizione di Milady in veste di protagonista. A nessun lettore può sfuggire la diffe­ renza per così dire di velocità tra le due parti. La prima metà, a dispetto di certe fulminee avventure, si muove con una certa indolenza. Non ha protagonista; i tre moschettieri, d’Artagnan, Mme Bonacieux, tutto si mescola in modo equo, amabile, in una giovane aura meridionale. Abbonda un colorito, disinvolto gusto deirantico, un arcaismo orecchiato, un poco da melo­ dramma. Vi è della commedia, di sapore e taglio clas­ sico. Porthos è della stirpe di Pirgopolinice, che alla miscela di arroganza e mentito stile aggiunge una ar­ rivistica sfrontatezza; d’Artagrian si apparenta a certi personaggi dei romanzi di Marivaux : « prévoyant et un peu avare », rozzo, diffidente, un po’ canaglia, ge­ neroso, lo protegge una adolescenza incolta e sangui­ gna; Aramis è un amoroso —un tenore di grazia - im­ preziosito di eleganze cavillose da confessore secente­ sco; Athos, il più serioso e baritonale, è il vecchio pa­ ladino; gran signore, giustiziere in proprio, freddo di sangue e di parola, capace solo di nobili e rovinosi pallori. I quattro servitori sono di arcaica, classica estrazione: goffi e devoti, ottusi, astuti e leali; i loro aneddoti —e ve ne sono di assai amabili —suscitano il riso umile; le loro licenze, i loro lazzi, sono plebei co­ me i loro cognomi, che hanno la insultante brevità dei nomi di cane. Per tutta la prima parte, i quattro amici duellano e uccidono sovente: ma sono uccisioni senza sangue; i trafitti cadono al suolo con molta grazia, da consu­ 38

mati attori, specialmente allenati alla morte violenta. Non v’è traccia di macabro, e neppure di atroce. T a­ lora, la commedia si insaporisce di certe grosse cor­ dialità, di una rustica grazia, un poco acerba. Della prima sorta sono gli amori di Porthos e della procureuse; della seconda, quelli di d’Artagnan e Mme Bonacieux. Al picaresco si aggiunge la favola amorosa, ignobile, galante, o passionale. La frodolenta avven­ tura di d’Artagnan con Milady ha la lubrica scal­ trezza cara agli antichi novellieri. Insomma, il libro inizia con misurata velocità, con frequenti batticuore, ma senza angoscia. Non vi sono indugi: rare ed elementari le descrizioni, poco più che didascalie per una fantasia sommaria; casuali, irrilevanti le chiose morali. Qualche ritratto grandeg­ gia disegnato con estro da teatrante. Lo stile di rado ci fa indugiare: è una lingua svelta, esangue, che cre­ pita come in una ininterrotta rapidissima conversa­ zione: non ha eleganze calcolate, né insinuanti mol­ lezze. Verso la metà, tutto cambia. Una sorta di gelo invade la scena, i colori si incupiscono, una qualità febbrile contrassegna i movimenti dei personaggi, una vita intensa e mostruosa occupa le pagine, che si fan­ no più concentrate, gremite. Capitoli interi descrivono eventi di poche ore; su tutto, una densità torva, una tetra tensione: è apparsa Milady. Mette conto discorrere brevemente di Milady poi­ ché essa è, a mio avviso, l’unica figura dotata in certa misura di una qualità strutturale, l’unica invenzione capace di illuminare la geometria specifica del rac­ conto, infine, l’unico personaggio capace di destino. Milady ha tutte le qualità per reggere un edificio com­ plesso e difficile: è una cariatide. Come tale, ha di­ mensioni mostruose, forme che imitano l’umano, ma che non nascondono l'intima deformità. È malvagia, di una malvagità insieme innaturale e fatale, senza perplessità, senza motivazioni; la ispira una dedizione all’atroce, che ha la segreta dignità, la bella impudi­ cizia delle vocazioni. Non è stata convertita al male, 39

non l’ha imparato; è nata contrassegnata da una ra­ rissima, privilegiata nequizia angelica: è della razza difficile di Jago. È altera e ignobile, corrotta e corrut­ trice, capace di arroganze da gran dama e di soperchierie da prostituta; infima, sa sgomentare Athos e il cardinale Richelieu. Lasciva, al di sopra di ogni lus­ suria coltiva le impervie voluttà dell'omicidio; non è tanto una seduttrice, quanto una procacciatrice di ani­ me per i soggiorni infernali. Non è complice di nes­ suno, ma chiunque l'ascolta diventa suo complice. È un essere solitario, capace di rapide e iraconde voglie, non di amori; naturalmente rovinosa; diabolica, e dun­ que partecipe di una deforme numinosità, semina at­ torno a sé disperazione e morte. Il suo contatto ustio­ na irreparabilmente. I suoi delitti partoriscono altri delitti. Le appartiene anche l'aneddotica dell'inferno: la sua enigmatica sopravvivenza alla prima esecuzione conferma la sua natura disumana; ha forma di don­ na, ma i suoi gesti, le sue speranze, le sue trame allu­ dono ad altro. Man mano che Milady si insinua nel racconto, que­ sto subisce una lenta trasformazione: acquista un fer­ vore patologico. Sono, nei primi capitoli, rare e rapide apparizioni, aspre, tigresche; subitanee ed effimere ac­ celerazioni. Il fantasma coagula per la prima volta la propria oscura materia nel racconto di Athos, discorso che ha del vaneggiamento, dell’incubo, del delirio da ubriaco. Poi, l'avventura con d’Artagnan, scatenando una serie di eventi, pone definitivamente Milady al centro del romanzo. Da quel momento, Milady è an­ che l'indicazione strutturale del libro: ma, intorno a lei, nessun personaggio è in grado di assecondarla. Tutti, dai moschettieri al duca di Buckingham, le si dispongono attorno, secondo i diversi gradi di una condizione servile, anche quando la contrastano; tut­ ti, senza eccezione, non sono che la sua periferia. Non le tiene testa d'Artagnan, che vediamo sconvolto da un affascinato terrore, e neppure Athos, dominato da sacro orrore. A lei, al suo tenebroso splendore, Du­ 40

mas dedica l’impresa più spettacolare del libro : i cin­ que capitoli in cui descrive altrettanti giorni di pri­ gionia, in Inghilterra; un primo piano estenuante, ipnotico. Una invenzione ai margini del « geome­ trico ». Priva di protezione astratta, non difesa dalle paliz­ zate di un disegno arbitrario e coerente, da un labi­ rinto faticoso e inestricabile, Milady corre il pericolo di trasformarsi in un essere didattico, un esempio: conclusione tristissima, per un demone. Dumas ha evi­ tato con estrema signorilità codesto esito, neirunico modo che gli fosse possibile: diventando suo complice. Affidandole un innocente da uccidere, Dumas ci ha avvertito di essere dalla parte di Milady, che, all’interno delle leggi del racconto, Milady ha ragione. Dumas l’ha descritta come una delinquente in cui il demoniaco e il guittesco si allacciano strettamente; forse le ha prestato troppi esclamativi; forse la fa rug­ gire troppo spesso. Ma la sua coerenza nel male, il suo pensare per morti violente, la fanno un personaggio privilegiato. Come non riconoscere la primazia di co­ stei, che non solo uccide, ma uccide inutilmente, e persone innocenti, e un attimo prima dell’arrivo dei salvatori? Dobbiamo a lei se 1 tre moschettieri non sono uno dei tanti libri di avventure che « finiscono bene ». Per un narratore competente, un innocente as­ sassinato a quel modo non ha prezzo. Inventando Milady, affidandosi a costei, alla sua sinistra genialità, Dumas si è vietato la facile complicità col lettore, l’equivoca lusinga del narratore amichevole. Il risul­ tato è un libro in cui il divertimento ha non solo le qualità asciutte e severe dello stile, ma la sua dignità. S’è parlato della frivolezza di Dumas: vorrei fosse chiaro che si tratta di un atteggiamento non meno se­ rio che sottile, un gusto geniale, un estro accorto ed esatto. Grazie ad essa, grazie alla sua irresponsabilità, Dumas riuscì a trovare, tra gli infiniti agguati del suo racconto, un percorso del tutto congruo, che gli 41

consentì di scoprire una delizia senza cautela, ma col­ ma di astuzie, agile e lucida. I tre moschettieri non hanno geometria, ma hanno velocità, che è anch’essa una qualità astratta, un segno certo dello stile. A libro chiuso, questo ci resta in men­ te: una mano che disegna nell’aria, alacre e leggera, una rete di labirinti, intricata e continua; forse una mano di disegnatore di arabeschi, talora di grotteschi. Ma al richiudersi dell’aria così agevolmente percor­ sa, il disegno che forse quella mano ha tracciato è de­ finitivamente scomparso. [1965]

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UN LUOGO È UN LINGUAGGIO

Non tratterò dei meriti scientifici e didattici di questo straordinario libretto, perché, non essendo in grado di apprezzarli, non mi interessano; ma vorrei attirare l'attenzione su taluni problemi di lettura, di­ rei di uso, che questa favola matematica pone con sin­ golare aggressività. Flatland di Edwin A. Abbott è, senza alcun dubbio, uno dei libri intellettualmente più eccitanti che mi sia accaduto di leggere da gran tempo; non intendo con ciò dire che si tratti di un libro supremo, ma piut­ tosto unico; una invenzione provocatoria, un proble­ ma deliziosamente esasperante. La lettura di Flatland offre un intricato piacere, una felicità perplessa, in cui riconosco tracce di acredine swiftiana, di delirio carrolliano; inoltre, un insieme di candore e di fero­ cia, una pedante concentrazione tra didattica e demen­ ziale, una gelida grazia astratta e, qualità più inquie­ tante, un ininterrotto affluire di brividi, di fulminei spasimi, di ammicchi che subitamente si trasformano in criptiche allusioni ad altro. Insieme alla asciutta ilarità del gioco intellettuale avvertiamo nel libro il fiato ustionante del terrorismo logico e pedagogico; 43

nella sua matematica chiarezza è inesauribilmente am­ biguo. Il suo spazio sta tra il bon mot e l'Apocalisse: uno spazio assai ampio, abitato da mostri tremendi quanto sommessi. Cercherò di descrivere la macchinazione, la struttu­ ra funzionante del libro, indicando quali siano, a mio avviso, i presupposti linguistici deirinvenzione. Flatland, la terra bidimensionale abitata da figure total­ mente piatte, è appunto invenzione in senso rigoroso : scoperta e delimitazione di uno spazio astratto me­ diante la creazione di un linguaggio. Un luogo è un linguaggio : noi possiamo essere « qui » solo accettan­ do le regole linguistiche che lo inventano. Essendo il porsi di un linguaggio arbitrario e non deducibile, i diversi linguaggi indicheranno luoghi totalmente di­ scontinui. Come è appunto Flatland, nei confronti di qualsiasi luogo umano. L'esempio di Flatland ci avverte di altro: il lin­ guaggio, pipistrello pendulo dai propri piedi, univer­ so che si impedisce di precipitare nel nulla reggen­ dosi alle proprie mani allacciate, assoluta contraddi­ zione che è tuttavia l'unica sede abitabile, è intima­ mente imparentato ad altro, a gesti ambigui, tra fri­ voli e cerimoniali: al gioco. Nell'uno e neiraltro, al­ l'arbitraria scelta iniziale segue la rigida deduzione. La scelta pone, simultaneamente, le leggi di svolgi­ mento del resto del discorso. L'universo, esplodendo alla nascita, si scopre segnato da tutte le proprie fu­ ture cerimonie. Un linguaggio è un gigantesco « co­ me se » : una legislazione ipotetica che in primo luogo inventa i propri sudditi: i luoghi, gli eventi. Con ge­ sto arbitrario fissiamo i valori delle carte, ma da quel momento subentra il rigore del gioco e del rito. Flatland è un luogo a due dimensioni, totalmente piatto, abitato da figure appena tracciate su di un pa­ vimento eternamente illuminato. Da questo presup­ posto, con l'estrosa coerenza delle mosse su una scac­ chiera, trae inizio il mite e gelido furore intellettuale dell'inventore. Se codesta terra ha due sole dimensio­ 44

ni, larghezza e lunghezza, nessun rilievo sarà percepi­ bile come tale; non vi sarà né un sopra né un sotto. Le case saranno disegnate in piatto sulla superficie, e il tetto non sarà « sopra » ma a nord. Gli abitanti non potranno vedersi nella loro forma totale : ma solo riconoscersi al tatto, o più finemente dedursi dalla vista, a seconda del più o meno rapido obnubilarsi dei lati nella foschia di Flatland. Il perimetro delle figure delimita qualcosa di misterioso, di naturalmen­ te inaccessibile, che essi chiamano interno. Ma esa­ miniamo più attentamente le figure di questo scon­ certante mazzo di carte; esse racchiudono una argu­ zia squisitamente narrativa, e i loro movimenti ci ri­ velano la commedia sociale, domestica, storica di Flat­ land. Figure poligonali sono esclusivamente i maschi: ed essi si collocano gerarchicamente, a seconda del nu­ mero dei lati, dagli infimi sciagurati Isosceli acuteangled rabbie, thè wretched rabbie of thè Isosceles passando per la piccola borghesia dei Triangoli equi­ lateri, per i Quadrati professionisti e i Pentagoni di rango, per la sempre più poligonale nobiltà fino alla classe ecclesiastica, dotata di tal numero di lati, e que­ sti dunque tanto minimi, da potersi, non senza indi­ zio di pia frode, intendersi come Cerchio. « It is always assumed, by courtesy, that thè Chief Circle for thè time being has ten thousand sides ».* Gli angoli variamente aguzzi dei poligoni sono te­ mibili armi: specialmente micidiali nei lavoratori e soldati, Isosceli di assai ristretta base, tanto più pun­ tuti, quanto più rozzi e incolti. Tuttavia, grazie alla « ammirevole Legge di Compensazione », la stessa po­ chezza mentale distrae la teppa dall’usare la propria potenza omicida. Se poi accade a taluno degli Isosceli di progredire in « intelligenza, scienza e virtù », an­ che quel loro angolo, allargandosi, verrà ad accostarsi a quello, assai meno rovinoso, dei Triangoli equila1. « Al Gran Circolo in carica si attribuiscono sempre, a titolo di cortesia, diecimila lati ».

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teri. Infine, grazie al cauto intervento dei medici di Stato, sarà possibile manipolare quegli Isosceli che si rivelino di animo più accanito alla ribellione, e adat­ tarli a Poligoni regolari, così da accoglierli nelle classi privilegiate. La capacità di nuocere dei maschi di Flatland, tut­ tavia, è sempre poca cosa, a petto di quel che possono le loro femmine. L’invenzione delle donne di Flatland è tra le più acremente argute del racconto, e si ali­ menta di una malvagia levitas, una secca ilarità senza indulgenza. Le donne sono brevi segmenti, con la bocca-occhio da una parte, e una letale punta dall’al­ tra. Si consideri dunque: la loro estremità inferiore sarà più aguzza di qualsivoglia angolo; non solo: ma quando le femmine rivolgono la loro parte più mici­ diale verso un Poligono, proprio allora, riducendosi a fioco punto, esse si fanno poco meno che invisibili. Si aggiunga che sono di temperamento bizzarro, falo­ tiche e iraconde; e ne verrà come necessaria conse­ guenza l’applicazione nei loro confronti di un codice vessatorio. Le case saranno costruite in modo da co­ stringerle a volgere sempre il lato o la parte anteriore ai Poligoni di famiglia; per la strada dovranno annun­ ciare la propria presenza lanciando il Grido di Pace, ondeggiando od oscillando. Infine, se taluna di esse sarà sospetta di soffrire di attacchi isterici o cronico starnuto, dovrà venire instantly destroyed. Esseri filiformi e passionali, aghi collerici, di intelli­ genza isosceloide, frodati anche dai loro mariti - che le vogliono incolte, e le segregano in casa, eccetto du­ rante le festività religiose, e che usano con loro un linguaggio fittizio, in cui grandeggiano parole come amore e dovere, pietà, speranza, giusto e sbagliato questi esseri, dico, riescono a mescolare la qualità dell’incubo e della commedia. Stolti e sinistri, i segmenti femminili sono estranei alla bella e crudele struttura della società geometrica; esclusi, per vocazione e astu­ ta coazione, dal mondo raziocinante, resta loro l’in­ 46

fima voluttà dei rudimentali sentimenti; infine, chiusi nel serraglio di un linguaggio fittizio, macchinato co­ me una escrescenza patologica all'interno dell’autentico, essi sono affatto ignari del mondo della storia. La gerarchia geometrica da un lato, e le non gerar­ chiche femmine da un altro, ci si dispongono davanti come segni tra convenzionali e magici, dadi per com­ porre altre più articolate figure. È naturale riconosce­ re in questa descrizione, mentitamente scientifica, una satira della società classista e statale. Ma il piacere del ravvisare sotto la favola matematica gli indizi del no­ to, con la specifica tensione che collega l’assurdo al quotidiano, il razionale al mondano, non deve distrar­ ci da quello che mi pare il problema critico essenzia­ le: cioè, la descrizione del modo in cui funziona questa invenzione sociale all*intemo della macchina narrativa. Codesta struttura fintamente sociale è un altro esempio di linguaggio e, insieme, degli elementi naturalmente tragici di ogni linguaggio: la sua fatale vocazione a porsi come definitivo, come la « realtà », e quindi la sua cattiva coscienza. Per reggere le pro­ prie membra, esso ricorre a due armi : al terrorismo e all’eufemismo. Cioè, allo Stato e alla Storia. La società di Flatland è terroristica; la sua crudeltà è logica, pacata, fondata su buoni argomenti, infine del tutto naturale. Si spiegano le rovinose conseguen­ ze di qualsivoglia indulgenza nei confronti dei Poli­ goni che il capriccio genetico e la naturale pravità hanno voluto irregolari; si argomenta a favore del­ l’uso didattico dei Triangoli isosceli, tenuti nelle scuo­ le a educazione del tatto dei superiori Poligoni, e la­ sciati morire di fame in capo a un mese; e non senza ragione si sostiene, contro coloro che vorrebbero una più prolungata fruizione di codesti miseri Triangoli, essere questo uno dei casi tipici in cui « chi più spen­ de meno spende » : giacché col prolungato uso gli Iso­ sceli si deteriorano e, infine, rapidamente sostituen­ doli, si assottiglia l’infima popolazione « an object 47

which every statesman in Flatland constantly keeps in view ».2 Il discorso della prima parte utilizza due toni stili­ stici principali, in qualche modo contigui : il didattico e l’eufemistico. Come è ovvio, il primo è una specifi­ cazione del terroristico. Fornisce le armi dialettiche alla repressione gerarchica, e serve insieme a dare sfo­ go ad una squisita pedanteria; il gusto minuto, mio­ pe, paziente dello svolgimento di un teorema. Enuncia i presupposti, deduce; esemplifica talora con aneddo­ ti, talora con disegni. Applicato al mondo fantastico e coerente di Flatland, il didattico ha un effetto iro­ nico allucinatorio. Il « come se » linguistico agisce al livello della gentile e argomentativa follia. Quando ci viene spiegato, con disegni, in qual modo i Poligo­ ni giungono a riconoscersi, noi avvertiamo che la ten­ sione ironica è tutt'uno con la compattezza logica del­ l'argomentazione. « Aver ragione » è la naturale voca­ zione della follia. Il mondo di Flatland non è ignaro di Storia. La Storia è il supremo eufemismo, appartiene alla stessa categoria della parola « pudende ». Come tale genera eufemismi di infiniti gradi e forme: oratorii, religio­ si, filosifici, dottrinari. Ogni qualvolta si toccano i lati atroci della civiltà di Flatland, lo stile mostra i se­ gni di un delizioso raggelamento : talora si piega alXunder statement, talora esibisce una concisione fero­ ce, ma assolutamente asettica. A denotare la violenta soppressione fisica, si usano espressioni variamente ac­ corte: consumed ne è un elegante esempio. Gli Iso­ sceli criminali vengono condannati dalla magistratura to be consumed, ed egualmente si propone che gli Ir­ regolari vengano painlessly and mercifully consumed. Dopo la ribellione di Cromatiste, il temerario in­ troduttore dei colori nel mondo monocromo delle fi­ gure geometriche, ogni città e villaggio viene systema2. « Obiettivo, questo, che ogni uomo di Stato della Flatlandia tiene costantemente presente ». 48

tically purged dell’« eccedenza delle classi inferiori »; painless death sarà la sorte dei Regolari riprovati agli esami; e, s’è già visto, le donne di moti imprevedibili dovranno essere instantly destroyed, dove l'accento sti­ listico cade sul chirurgico avverbio. La narrazione del­ la rivolta pericolosamente egualitaria di Cromatiste è svolta con accenti tory, senza infierire sui vinti, non senza qualche rimpianto per quello scomparso mon­ do policromo. Il male, come sappiamo, « non esiste », e al suo posto stanno la metafora e la litote. Nella prima parte di Fiat land si descrive una situa­ zione di tensione obiettiva: geometria e storia si af­ frontano come dati apparentemente inconciliabili, ma in realtà legati da una complicità che supera il loro antagonismo intellettuale. Per un istante, esse trovano uno spazio fittizio in cui coincidere. Potremmo defi­ nire la storia come il sistema delle menzogne poste in atto dalla geometria; la sua astuzia, la sua ferocia, il suo intimo terrore. S’è parlato della cattiva coscienza del linguaggio: ciascun linguaggio « sa » che altri sistemi linguistici sfidano la sua totalità; che infiniti possibili « come se » si pongono come alternativi; che in qualche modo oc­ cupano tutti il medesimo spazio. Dunque, essi sono legati da un conflitto formale, irrisolvibile. La lucida mitezza della prosa appena vela il disagio radicale delrintelligenza. T ra la prima e la seconda parte v’è un legame or­ ganico: il libro è un dittico. In qualche modo, il se­ condo libro presenta il problema contrario. Al tema del linguaggio che si finge unico, e dalla propria fin­ zione genera la menzogna della storia, si contrappone il momento antistorico della pluralità dei linguaggi. Al problema dello stare dentro un unico universo, si contrappone l’eroico problema del passaggio da uno ad altro universo. Il trapasso da un gioco ad altro alternativo e incom­ patibile col primo, il transito da un sistema ad altro che per definizione può solo abolire il primo è la si­ 49

tuazione di questi capitoli : una situazione per defini­ zione impossibile. Se il linguaggio si regge terroristi­ camente, se i suoi confini sono così aspramente defi­ niti,. se è insieme effimero ed eterno, ciò comporta che da linguaggio a linguaggio non vi sia spazio per un percorso dialettico, né per alcuna possibilità di de­ duzione. Il passaggio dall’uno all’altro potrà avvenire solo con un atto di violenza. Codesta violenza, irru­ zione di un universo all’intemo di un altro universo, questo transito incoerente e mortale è la visione. La seconda parte di Flatland è una serie di visioni. Non v’è più posto per la « storia ». I mondi si giu­ stappongono, o piuttosto si sovrappongono, estranei e inconciliabili, e vengono sperimentati grazie al salto dell’estasi. Non sarebbe esatto definire ironiche que­ ste visioni. Si tratta piuttosto di una ironia di secon­ do grado. Il problema intellettuale è assolutamente esatto, la sua formulazione è propriamente tragica; e che si eserciti nelFambito di un gioco forse non elude, ma eccita, grazie alla mostruosa lucidità delle minime dimensioni, la sua qualità di provocazione irresolvibile e che tuttavia occorre accogliere. È una sorta di platonismo miniaturistico, che ad una acre grazia ag­ giunge una ambigua intensità. Scompare l’eufemismo, e il linguaggio acquista coloriture volta a volta ceri­ moniali, profetiche, bibliche. Troviamo patetismi oratorii, accenti devozionali, appunti da sermone, sacre invettive. La prima visione - medievalmente, un sogno - è quella del mondo ad una sola dimensione: una linea su cui stanno collocati segmenti e punti. I segmenti sono maschi —ecco, di nuovo, la segnatura arbitraria delle carte essi dispongono di due voci, con le quali si accoppiano con due mogli, ciascuna delle quali è dotata di un’unica voce : in questo modo si forma una struttura articolata in quattro punti sonori natural­ mente armonici. I monodimensionali non hanno idea di destra e di sinistra e non si sperimentano recipro­ camente che come punti. Non possono toccarsi, non 50

percepiscono né capiscono movimenti al di fuori della linea su cui sono disposti. Ciò che esce dalla linea scompare, cessa di esistere, grazie, suppongono, ad un intervento magico. Anche i monodimensionali, dun­ que, praticano il terrorismo linguistico. Anche per costoro il loro spazio è la realtà, né può darsene altra. Vorrei confrontare subito questa con una successi­ va visione, inclusa nell’evento essenziale della seconda parte, l’apparizione della Sfera. Mi riferisco alla bre­ vissima visione del mondo senza dimensioni, il puro Punto. La sottigliezza di questa immagine è straordi­ naria. L’essere senza dimensioni, il punto pensante, nomina se medesimo come It, « esso ». In lui è avve­ nuta la identificazione con l’universo, linguaggio e parlante coincidono totalmente. Nello spazio non esi­ stente del punto adimensionale, non essendovi posto logico per l’altro, si celebra il trionfo della tautologia. Non vi è il « tu »; dunque non vi è 1’« io »; il punto non può avere visioni, giacché qualunque altro diven­ ta immediatamente It. Nessuna parte del punto può diventare portatrice del discorso-visione. Intorno al punto non vi è nessun altrove donde possano proce­ dere traumi rivelatori. « Infinite beatitude of existence! It is; and there is none else beside It ». « It is itself Thinker, Utterer, Hearer, Thought, Word, Audition; it is thè One, and yet thè All in All ».3 II lin­ guaggio ha toni biblico-miltoniani. Forse It è un Dio, enunciato in termini di linguaggio; un Dio autono­ mo, increato e non creatore e, in prospettiva, forse an­ che matto. Tuttavia, centro del secondo libro non è nessuna delle due visioni attive, ma una visione passiva. Una Sfera, una cosa a tre dimensioni, scende su Flatland, e parla con quel Quadrato che è anche il narratore. La 3. « Infinita beatitudine dell’esistenzaI Esso è; e non c’è altro al di fuori di Esso ». « È Esso stesso Pensatore, Parlatore, Ascol­ tatore, Pensiero, Parola, Audizione; è l’Uno, e tuttavia il Tut­ to nel Tutto ».

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Sfera porta la rivelazione della terza dimensione, e vuole farne partecipe il bidimensionale. Costui rea­ gisce con aggressivo terrore. Un mondo a tre dimen­ sioni non è abitabile. È una frode, una follia letale, un impossibile; ed è anche un delitto. Il Quadrato tenta di uccidere la Sfera, chiama al soccorso, vuole consegnarla alla giustizia. La accusa con biblica vio­ lenza, le rivolge il thou della preghiera e deiranatema. La Sfera non può né mostrare la terza dimensione, né dedurla; può suggerirla con ragionamento analogico. Infine, nei confronti del Quadrato che in ogni modo rilutta e si dibatte, non le resta che ricorrere alla vio­ lenza. Come nelle antiche visioni, il Quadrato è ra­ pito, portato in alto - queiralto, upward, che appunto il suo universo ignorava - dagli artigli di un mostro rivelatore. La visione è insieme conoscenza e terrore. « When I could find voice, I shrieked aloud in agony, “Either this is madness or it is H ell”. "It is neither,” calmly replied thè voice of thè Sphere “it is Knowledge; it is Three Dimensions...” ».4 Solo la violenza e la vertigine possono infrangere la malsana usanza del linguaggio. Il ratto del Quadrato - evento mistico, ascesa, intuizione —svela l’angusta strada che conduce da un universo all’altro, quell’orrendo essere fuori da tutti gli universi e insieme disponibile a tutti gli uni­ versi cui pare che l’intelligenza si rifiuti di sopravvi­ vere. Il rapimento è metodologico: uscito dal proprio linguaggio, il Quadrato è in grado di accogliere infi­ niti altri linguaggi. Diventa, da discente, maestro del­ la stessa Sfera, la induce ad ammettere una possibile quarta dimensione, e rammenta le oscure, misteriose visioni, forse indizio di circostanti altrove, in cui vi­ gono diverse, più ampie leggi conoscitive. La conclu­ sione del racconto è tragica: ma, come sempre, di una 4. c Quando potei ritrovare la voce, mandai un alto grido d'an­ goscia “Questo è la follia o l'Infernol*. "Nessuno dei due,” rispose calma la voce della Sfera "questo è il Sapere: sono le Tre Dimensioni..." ».

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tragicità frustrata, insieme reale e minima, non sai se arma omicida o gioco d’ingegno. Ritornato in patria, il Quadrato che tenta di dar testimonianza di quel che ha visto, vien trattato da sedizioso, e non v’è dub­ bio che lo sia, e incarcerato. Il terrorismo linguistico non può ignorarlo. Ma questo è ancora gioco satirico. Chiuso ormai da sette anni nel carcere di Flatland, il Quadrato non può dubitare che vi sia un’altra, più comprensiva verità, e può solo augurarsi che la sua esperienza possa eccitare una generazione di ribelli, impazienti del povero mondo delle due dimensioni. Ma continuare a pensare i termini di queiraltra espe­ rienza è estremamente difficile. Come può l’intelligenza bidimensionale « ricordare », « pensare » l’al­ tra dimensione? Non sarà forse ogni linguaggio, il no­ stro, e qualsiasi altro che possa prenderne il posto, un sistema di coerente follia, una delirante organizzazio­ ne del nulla? Flatland, questo universo di visioni tragiche e gno­ stiche, di invenzioni tra incubo e satira, tra puzzle e idea platonica, è una fittizia mappa cartacea; a dise­ gnarla, sono occorse geniale pedanteria, una fantasia strologante, una fratesca follia deduttiva. All’asciutta grazia dialettica si accompagna l’angolosità pedagogi­ ca. Non sappiamo dire se è un incubo, una farsa, un apologo, una satira, uri jeu d’esprit, una scommessa, una allegoria, una visione, o la satira di tutte le visio­ ni. È un libro leggero e inafferrabile, un capolavoro di illusionismo prospettico: come le anguste pareti su cui sono finti precipitosi corridoi che costringono oc­ chio e intelligenza a smentirsi a vicenda. Triangoli omicidi, deliri poligonali, visioni sferiche percorrono la piatta terra senza colore, invasa da una luce peren­ ne : sono segni, sigle di un discorso impersonale, disu­ mano, e insieme intelligibile; dementi e orrendamente ragionevoli, come impeccabili ed insensati esempi grammaticali. [1966]

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LETTERATURA FANTASTICA

Da sempre si aggira sulla terra, in diverse e ricono­ scibili incarnazioni, un uomo singolare: scostante, e affascinante; tiene del sordido, e certo dell’ambiguo; e alla spregevolezza mescola qualcosa di grandioso. Lo si direbbe imperfettamente umano: sebbene sia dif­ ficile dire se la sua sottile inesattezza venga da com­ mistione angelica o animale. È il Grande Mentitore. Percorre i secoli come un mercante i suoi itinerari, ca­ rico di merci lussuose e improbabili; frodatore, tra parassita ed ospite, costui è un elemento di eterno, sacro disordine nella instabile tessitura delle cose. La sua parlata è strana ed esotica, ma ignoriamo se ciò venga da naturale, invincibile simulazione, o da quel­ la umanità inesatta, o se a lui che, dovunque appaia, sembra giungere da altri luoghi, tutte le lingue siano straniere, sebbene non estranee. Infine, non ha dimo­ ra, e neppure nome certo. Quantunque sia inconfon­ dibile, indimenticabile una volta incontrato, bizzarro di gesti e di vesti, vi è in lui una fondamentale voca­ zione airanonimato. Forse, per estrema mistificazione, si è scelto un nome tanto ostico e impronunciabile, che si preferisce indicarlo con un termine allusivo : è 54

il Marinaio, il Cieco, l'Ospite, Tusitala - il racconta­ tore di belle storie. Quando vuole catturare altrui leg­ gende ed avventure, non esita a depredare altri dei loro nomi. Non ha mestieri né stabili passioni, se non queH’unica, maliziosa e solenne, del raccontare men­ zogne; le grandi cose non vere, i mostri inesistenti, le battaglie con esseri scesi da altri mondi, con uomini che hanno un piede in mezzo al petto. Poiché è costui Tescogitatore di ciò che con irto les­ sico vien detta letteratura fantastica, mette conto di veder più da presso come egli lavori, ed in quale uni­ verso viva questo essere estroso, le cui menzogne ab­ biamo assai più care delle altrui verità. « “Ohè, che dice mai? Lei ha dunque un fratello, signor archivista? Dove vive mai costui? È anche lui un servitore dello Stato, oppure è uno studioso pri­ vato?” chiesero tutti. « “No,” freddamente replicò Tarchivista, prenden­ do con indifferenza una presa di tabacco “ha preso una cattiva piega, ed è finito fra i draghi”. « “Come dice, signor archivista?” chiese il registra­ tore Heerebrand. “Fra i draghi?” fecero eco tutti gli altri. « “Già, fra i draghi!” proseguì Tarchivista. “Lor si­ gnori sanno che mio padre è morto da poco, al più trecentottant’anni, per cui io porto ancora il lutto, ed a me, suo prediletto, lasciò una magnifica onice, che mio fratello voleva ad ogni costo. Presso il cadavere paterno ci azzuffammo nel modo più sconcio, finché il defunto perse la pazienza, saltò su e fece rotolare per le scale lo sciagurato fratello, che, fuor di sé, lì sui due piedi se ne andò fra i draghi. Ora vive in una foresta di cipressi vicino a Tunisi; lì deve difendere un misti­ co carbonchio dalle insidie di un diavolo di negroman­ te, che ha una villa estiva in Lapponia; per cui mio fratello, quando il negromante ha da fare in giardino con le sue aiuole di salamandre, può allontanarsi, per non più di un quarto d’ora, per raccontarmi in gran fretta che belle novità ci sono alle sorgenti del Nilo” ».

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Il lettore non si adonterà di codesto villano cambia­ mento di discorso, subitanea aggressione che è nella più impeccabile tradizione del parlar fantastico. La citazione è tratta da un racconto di Hoffmann, Il vaso d’oro; e forse al lettore sarà accaduto di scorrere quelle righe con subitanea felicità, una tensione tra ilare e sbigottita, mentre il protocollo della mente registrava parole e immagini squisitamente impossibili: i dra­ ghi, il litigioso defunto, il quadrisecolare lutto, il ne­ gromante intento alle sue aiuole di salamandre, la villa estiva in Lapponia. Confessò che non v’è storia di didattici adulteri, o drammi interiori, o maturanti coscienze storiche, per i quali io sarei disposto a ba­ rattare queste poche righe assolutamente irresponsa­ bili, ma nelle quali non c’è parola che non prometta un cosmo di abbaglianti menzogne, una galassia di miracolose frodi. Chi ha conosciuto un negromante, un litigioso defunto, una aiuola di salamandre, non li cederà in cambio di un patetico adolescente, o di un esangue ed eccitato uomo di lettere, o di un fru­ strato oggidiano. Quelle righe di Hoffmann compitano sommaria­ mente un universo assurdo e insieme coerente. Per quanto ampie siano le lacune che separano il negro­ mante dalla Lapponia, le fonti del Nilo dall’onice con­ tesa, codesti luoghi sono continui, appartengono ad un medesimo hic, non sono punti discreti in uno spa­ zio casuale. Anzi, si riconosce nelle loro linee una ve­ loce precisione di incastro, da disegno araldico. Code­ sta coerenza è appunto attributo proprio di un uni­ verso impossibile che, come tale, sa essere perfetta­ mente compatto, impeccabilmente organizzato e irre­ futabilmente argomentato. Ciò non avviene a dispet­ to dell’universo che per quotidiana codardia di lin­ guaggio fingiamo prevedibile e maneggiabile, ma, al contrario, perché il fantastico sa che non v’è universo che non sia assolutamente impossibile. Donde l’inesau­ ribile dignità del Grande Mentitore, che sa di essere protagonista delle favole di altro, maggior Mentitore, 56

di essere una menzogna dentro una menzogna, un nome in un dizionario che è a sua volta nome di un ulteriore dizionario, così che, nella infinita affabulazione, vi sono solo nomi pronunciati da altri nomi, e la nostra coscienza sigilla una fantasticante sillaba. Nulla è più mortificante che vedere narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della men­ zogna, indulgere ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica. Essi ignorano o trascurano il fatto che l'ingegnere mon­ dano, l'attrice lasciva e l'affranta prostituta, che essi evocano con le loro dimidiate formule, sono non me­ no impossibili di quell'uccello Rukh che, secondo la veridica relazione del marinaio Sinbad, nutriva i suoi piccoli di elefanti. Sebbene siano costretti a mentire, come vogliono le punitive leggi delle lettere, lo fanno con angustiosa cattiva coscienza, palesemente soffren­ do sótto la coazione della frode, e inefficacemente na­ scondono l'autentico nocciolo di menzogne sotto un velo di una fittizia verosimiglianza. Il fantastico, intento a pronunciare l'universo, è il creatore dei segni, il raccoglitore degli esorcismi, il tra­ scrittore delle formule efficaci, il lessicografo che di­ ligentemente elenca le cose inesistenti, secondo il loro naturale ordine alfabetico, che egli ci ha insegnato, e che ci avverte che l'avvocato è stato creato prima del vampiro, e che l'ircocervo ha la tana tra l'assassino e il teologo. Affabulatore insocievole, egli ha assai vago rappor­ to col suo tempo e col luogo in cui soggiorna; vi è un salmastro odore di spazio attorno al suo corpo agile e paziente. Ma lo incalza una oscura, esigente obbe­ dienza, una devozione a immagini ambigue e peren­ torie. Con la cautela selvatica dei saggi arcaici, ma­ neggia il libro degli incantesimi, a quello ubbidisce; al libro che vuole mani impure, occhi astuti, animo fro­ dolento e coscienza della morte. Da sempre, prima figura retorica della letteratura è l'invenzione degli dèi e dell'inferno; è una pseudoteo­

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logia. A questo arcaico compito non si sottrae neppure la letteratura del verosimile. Un frusto san Brandano può far le veci di un decoroso intellettuale di sini­ stra - a che non si acconciano, questi vecchi santi, per libidine di esistenza! - e re Mida, trattato con acidi storicistici e sociologici, produce un funzionale capi­ tano di industria. Chiunque pronuncia parole dà vita ad un mondo affollato di versiere, astarrotti e necro­ manti, illustri di aureole, irrigati da Acheronti lutu­ lenti. Ma taluno, riottoso perfezionista, progetta sin­ dacati di maghi, e delira di esorcismi positivi. Ruotano, all’afelio dalla letteratura fantastica, ma pur sempre avendo quella per sole, degradati asteroidi, o forse corrotti e incolti angeli, cultori di angusti e tuttavia temibili prodigi: amore, morte, terrore. Nella trama mentitamente regolare degli eventi, l’amore impone un subitaneo rovesciamento del dise­ gno; l’amoroso abita tra i segni, è un testimone degli inferi; affatto anonimo, come vogliono talune grandi magie, scopre le tenebrose viscere del mondo. Pregnan­ te allusione, da includere un cosmo, o il nulla, è la morte; essa assume piena qualità di atto fantastico quando viene irrogata ad altri, o scelta per se mede­ simi; la letteratura non può rinunciare alla morte at­ tiva. Non è scrittore, né fantasma letterario, chi non è macchiato di sangue proprio o altrui. Le storie d’amore, le favole omicide, infima agiogra­ fia, stanno alla letteratura fantastica come le favole agresti di sant’Antonio alla medievale leggenda aurea. Grossolani ex voto appesi negli aditi degli autentici inferi, essi raccontano una fervida e confusa storia di biancheria di nailon e perplessa tachicardia; o balbet­ tano una fola mortuaria, esplosiva e assordante. Altro discorso vuole la fantascienza, deforme e mi­ rabile mostro. Se i romanzi rosa o gialli —araldica fa­ tuità di questi cenci cromatizzati - trattano di taluni limitati e specializzati prodigi, il romanzo di fanta­ scienza è una sorta di immondo carnaio del fantastico. Sinistramente esemplare, questa letteratura ha una 58

litigiosità ustionante, una prensilità serpentesca. È un coacervo di discontinue membra, per cui l'impossibile, lacerato e seviziato, si fa incapace di coerenza: che, nella retorica del fantastico, è un assai ingegnoso esem­ pio di adùnaton. Codesti romanzi sono silos di fran­ tumati cadaveri di chironi e tesei, aracni e simon ma­ go; se li frugate attentamente, con la schifata pietas con cui si scavano i nuraghi di cadaveri sui campi di batta­ glia, si troveranno frammenti di oggetti sacri ed empi, crani di cardinali, addomi di anticristo, coccigi di de­ moni, e metacarpi di arpie; e insieme pissidi, pitali, patene, placente vergini e feconde, esorcismi guastati da irreparabili refusi, risibili litanie goffamente dialet­ tali; e dovunque stagna un tetro, inconfondibile lezzo di putrefatta divinità, un sito di demone muffo. Non di rado, in questi sogni di un arcaico futuro, troviamo tracce di queirorrore che s'è rivelato capace di produrre una sua propria, specializzata letteratura. Il fantastico dell'orribile conosce pagine memorabili occorre appena ricordare « Monk » Lewis, i colti de­ liri di un Poe e, ai margini della letteratura, le pie oscenità di Lovecraft. Essa parte dal presupposto, in­ vero assai ragionevole, che esista unicamente l'inferno, e il nostro mondo ne sia l'autorizzata autostrada d'ac­ cesso. Di codesto inferno la letteratura è adeguata in­ terprete, e in qualche modo mediatrice. La letteratura dell'orrore vuole creare angosce, terrori, brividi, mi­ nuscoli traumi, così da fornire un titillamento augu­ rale, che ci predisponga a quell'inferno che è nostro naturale destino. La sintassi non è che un elaborato urlo d'orrore, e un articolato lessico orna e addita pia­ ghe verminose e vermiglie. Non v'è dubbio che il bri­ vido, il ribrezzo, in qualche modo riconoscano, sia pure emotivamente, l'impossibilità dell'universo. T ut­ tavia codesta letteratura tocca livelli di rozzezza forse imperfettibili: ed in realtà solo il privilegiato genio può cavar grandi cose da una letteratura che, ipnotiz­ zata da un'unica faccia della morte, è incapace di ese­ guirne il periplo completo. 59

Tutta questa letteratura è assai miserabile cosa; ma non senza motivo. Essa è fondamentalmente veritiera, colma di autentici sentimenti. Ignora il gesto conclu­ sivo della grande letteratura fantastica: la trasforma­ zione nella forma metallica della cerimonia di tutto ciò che fu privatamente miracoloso. Questo culmine contraddistingue tutta la lettera­ tura; ma in quella che si richiama airimpossibilità dell’universo essa assume una speciale drammaticità. Ma, insomma, nella cerimonia tutta la letteratura si scopre consanguinea: ed anzi nasce il pio dubbio che essa nella sua totalità aspiri al fantastico. Assai spesso scopriamo nel racconto fantastico una proliferazione vertiginosa della trama; penso a certe carsiche ambagi di Stevenson, agli speculari giochi hoffmanniani. Un tempo, ci avvertivano che non si debbono leggere libri per sapere « come vanno a finire », né voltare le pagi­ ne per sapere quel che accade « dopo ». Quale errore. Confesso di leggere appunto per sapere quel che acca­ drà, quel che mi apporterà la pagina dispari dopo la pagina pari. Vi sono tuttavia libri che ad ogni rilet­ tura si ripresentano intatti, che si richiudono alle no­ stre spalle come giungle indifferenti, o forse come il labirinto dal quale siamo usciti ad una ormai dispe­ rata salvezza. La duplice morte finale del Signore di Ballantrae che rammento come evento, come cerimo­ nia mi si offre intatta ad ogni rilettura. La trama è appunto un segno, l’ambage di un cerimoniale; uno stemma; una mappa; infine, l’ombra che proietta l’uni­ verso labirintico. Nel libro assolutamente fantastico, non esiste più un labirinto di deperibili eventi, ma un grafico astratto. L’intricato fascino di questo libro, il suo inesauribile partorire se medesimo - le Mille e una notte - è il riconoscimento di quale sia la forma del mondo e dunque delle frasi di cui è fatto. Cia­ scuna parola sulla pagina è adito ad un corridoio di parole segrete, sempre più sommesse e clandestine, alla fine inafferrabili effati. Il fantastico sa che vi è un 60

solo modo totalmente errato di percorrere, descrivere, inventare il mondo e la pagina, ed è quello di cammi­ nare sulla sua superficie, ignorando che strade e pro­ posizioni non sono che fratture segnaletiche, gli indizi astuti degli aditi segreti. Occorre sollevare le botole delle parole, per scoprire altre botole, e scendere così un precipizio di occulte invenzioni; così che per scri­ vere, per leggere questo infinitamente riscritto palin­ sesto universale, dobbiamo farci talpa, rettile, formica­ leone, e scovare tane, scavare cunicoli, finché tutta la creazione sia un prezioso e fragile termitaio di parole. Da sempre ci accompagna, questa figura esemplare e in qualche modo fraterna; ricordo la favola di Bor­ ges: alFuomo che costruisce un labirinto, si contrap­ pone colui che sa che nulla è più labirintico di uno spazio che coincida col mondo. In obbedienza a questo intrinseco emblema, tutta la letteratura, fantastica o meno, ambisce a partorire il libro onnicomprensivo; un libro capace di generare infiniti libri, capitoli in­ gegnosamente solidali, classificazione e descrizione di ciò che non esiste. Infine: il regno del fantastico è la dimora privile­ giata di ciò che non è lecito vi sia, ciò che non può, non deve esserci; la diserzione, intrinseca alla lettera­ tura, diventa nel fantastico sfida blasfema, obiezione, tradimento. È la letteratura della mano sinistra, del­ l'apostasia e deireresia. Nella tragica e inane strategia intesa alla cattura del nulla e degli dèi, spetta agli eresiarchi fantastici progettare l’insidia dei cunicoli, tramare gli ingegnosi e perversi agguati. Le strade di­ ritte per l’Olimpo in breve si logorano sotto il gra­ vame dei frettolosi calzari; si consumano i bei gesti cerimoniali, la guasta pronuncia vanifica le formule. Occorre che qualcuno rintracci nuove strade, proibite e stravaganti; usi tradizioni perente, interpreti smoz­ zicate favole di gozzuti montanari, per inventare nuo­ vi esiti. Talora uno di costoro, un Grande Mentitore, riesce a cogliere alle spalle gli dèi fastosi e distratti, 61

e li include, inconsapevoli, nella sua cerimonia; ne pronuncia gli inediti nomi, li canonizza ad inesauri­ bili menzogne; e ci accieca con il fulgore ustionante e gelido dello scudo, dello stemma indecifrabile che oppone al nostro sguardo mortale. [1966]

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« GRANDI SPERANZE »

Dickens è uno scrittore delizioso e irritante. Quan­ to è difficile da maneggiare questo cordiale, unghiuto, un po’ pingue, o forse pletorico, animale letterario, la cui gola poderosa sa articolare ogni sorta di voci : rug­ ghi, rantoli, stronfi, e anche delicatissime fusa, tiepidi sgnaulii. Domestico o feroce? Queirequivoco pelame, tra giaguaro e gatto domestico, ci fa cauti e perplessi. Scrittore straordinariamente ambiguo e anche con­ traddittorio, è capace di invenzioni straordinarie, di intuizioni fulminee e inquietanti, di fantasie furibon­ de ed ilari; e insieme inclina a una corrività da medio­ cre libertino dei sentimenti: non sa resistere agli ancheggiamenti di una creatura infelice. Dopo essersi di­ ligentemente crogiolato in onesto sangue generosamen­ te profuso in circostanze belle ed orrende, eccolo sul­ l'usta di esseri indifesi, situazioni nobili, anime edifi­ canti. Non sbaglia mai per eccesso di ambizione, ma per una sorta di masochismo affettuoso; vi sono mo­ menti in cui si ha l'orribile dubbio che Dickens sia uno scrittore « buono ». In realtà, Dickens è uno scrit­ tore « nero » che soffre di allucinazioni sentimentali. E che dire delle sue trame? Leggibili, leggibilissime; 63

da inseguire col fiato in gola : non meno poderose che temerarie. Colpi di scena, agnizioni, scene madri, sus­ pense; Dickens non rinuncia a nulla di insensato, di assurdo, di improbabile, di provocatorio. Sono inso­ lenti giochi di destrezza con le carte segnate - il let­ tore vedrà, a seconda lettura, quante annotazioni sul retro delle carte. Conosce anche la malizia delle con­ clusioni aperte: nella prima redazione, Grandi speran­ ze si chiudeva in minore, senza promessa di risolutiva felicità. Essendo assurda, la trama è attiva; essendo inverosimile, è coerente. Dunque, potrebbe essere la struttura portante dell’opera. Forse non è così. Appun­ to dalla trama può cominciare una breve analisi delle ambiguità dickensiane. Grandi speranze è un bell’esempio di gloriosa e im­ pura recitazione, da gran guitto. In tutta la prima par­ te — infanzia di Pip - il racconto si muove con con­ centrata lentezza: tra storia e figure non v’è alcun dia­ framma; la seconda parte, moderatamente accelerata, ha minor concentrazione; nel finale, ricco di pezzi di bravura, le fila si allacciano in precipitosa conclusio­ ne: ma resta la sensazione di un rapporto discontinuo tra i singoli gesti e il disegno che compongono. La fola è bizzarra, anzi tanto badialmente favolosa, da essere, specie a prima lettura, costantemente in primo piano: accadono tante cose sulla scena, che ci dimentichiamo di tener d’occhio altri segni, più complessi ed elusivi. Tuttavia, si ha l’impressione che la storia, la narrazio­ ne, non siano affatto il centro dell’invenzione lettera­ ria dickensiana. Vi sono libri in cui il racconto, la tessitura degli eventi, è la forma fondamentale, talmente ridotta a gra­ fico purissimo da perdere ogni connotazione concre­ ta: un labirinto, un puro segno. Non è questo il caso di Dickens. Il racconto è instabile, fluttuante; talora è la chiave interpretativa, il gesto organizzatore; ta­ lora non più che un filo erratico ed estroso; qualche volta una figura geometrica, più spesso un contenito­ re generoso ma alquanto disordinato. Oscilla tra strut­ 64

tura e quello che chiamerei pseudostruttura: una pre­ senza ambiziosa ma sommaria, un deposito di elementi disparati cui non impone la violenza della propria qualità grafica. Codesto genere di trama non è, non può essere, la macchina da cui l’opera trae movimento e senso; ma è, al contrario e, penso, deliberatamente, un percorso discontinuo e frammentario, quale potrebbe designare una serie di operazioni casuali : lancio di monete, aper­ ture di libri —gesti tra superstiziosi e sacri. È un trac­ ciato, una sonda che ha il compito di reperire quei materiali rari ed ardui, quegli indizi ambigui di og­ getti, che lo scrittore maneggerà, con la sua stupita ingegnosità, per scoprirli alla fine non meno signifi­ canti che assurdi. Che cosa potrà rivelarci una trama cosi fatta? In primo luogo, dei personaggi. Si è sempre detto che Dickens è grande creatore di personaggi: ed anche che la galleria di ritratti che egli ha consegnato alla letteratura non è da meno di quella di Shakespeare. Un modo di leggere assetato di psicologismi e insinua­ zioni emotive li cercava, e li trovava, nei nomina af­ fettivi deambulanti per queste pagine. Una lettura consapevole che il personaggio ha viscere di parole, e può avere solo quelle membra ed eseguire quei gesti che gli consente il linguaggio che l’ha partorito, non cercherà persone nascoste nei cunicoli maliziosi di aggettivi e sostantivi; non ne esalterà la mitologica to­ talità interiore; ma ne apprezzerà l’angolatura aspra e abbreviata, la sveltezza, la virulenza, la miscela di brutalità ed estro, infine la sconcia deformità. I per­ sonaggi dickensiani sono deformi e frammentari; tic nervosi, discontinue membra capaci di voce e gesti. Tendenzialmente umani, sono colti nel momento in cui, come feti bizzarramente autonomi, sono maturati a livello di mostro. È una ricca e diversificata teratologia. Abbiamo il deforme fulmineo dispettoso e risibile: « Mr. Wopsle’s great-aunt kept an evening school 65

in the village; that is to say, she was a ridiculous old woman of limited means and unlimited infirmity, who used to go to sleep from six to seven every evening, in the society of youth who paid twopence per week each, for the improving opportunity of seeing her do so ».! Dalla descrizione di un mostriciattolo da bottiglia alchemica, ad un animale totalmente immondo, il si­ gnor Pumblechook, splendido prodotto di odio fan­ tastico : « a large hard-breathing middle-aged slow man, with a mouth like a fish, dull staring eyes, and sandy hair standing upright on his head, so that he looked as if he had been all but choked, and had that moment come to »;2 noi sappiamo benissimo da chi sia stato « all but choked » il turpe Pumblechook; ed anzi, sap­ piamo che egli è nato appunto da quell’atto omicida, giacché, in letteratura, è l’omicidio che genera, alleva e conforma la propria congrua vittima. Certo, in que­ ste descrizioni si mescolano fosca ilarità e odio cor­ diale. L’odio è una regione fantastica ed eccitante, un modo caldo e veloce di agglomerarsi del linguaggio, direi un genere di animale linguaggio, di gusti aspri e sanguigni; o piuttosto un animale leggendario, una astuta ed ostinata anfesibena. Per funzionare al meglio, la fantasia linguistica di Dickens abbisogna di un additivo di carnale, tattile, odio o disgusto. All’inizio del secondo capitolo, tro­ 1. « La prozia del signor Wopsle teneva nel villaggio una scuo­ la serale; il che vale a dire che quella risibile vecchia di mezzi limitati e illimitati acciacchi, era solita farsi tutte le sere una dormitina dalle sei alle sette in compagnia di ragazzini che pa­ gavano ognuno due pence la settimana per godere del privi­ legio di assistere a questa dormitina ». 2. « Un uomo grosso di mezza età, che respirava con difficoltà e aveva una bocca da pesce, occhi strabuzzati, capelli brizzolati, che gli stavano diritti sulla testa, così che sembrava che fosse stato sul punto di morir soffocato e fosse rinvenuto proprio in quel momento ».

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viamo le descrizioni di Joe, il buon Joe, amico di Pip, e della moglie di costui e sorella di Pip, vittimistica e prepotente; si veda quanto sia virtuoso e codardo il linguaggio con cui viene inventato Joe (che ha ca­ pelli non sandy ma flaxen), e con quale rigorosa rissosità linguistica venga invece trattata quelPaltra stri­ dula femmina, illustrata da una « prevaling redness of skin ». Joe è un mostro eccitante, ma al più foolish, « sciocco »; ma la signora è tutt’altra cosa: un animale mentitamente domestico da seviziare con festoso ran­ core. In tutti gli esempi citati, all’ira si mescola l’umo­ rismo, il famoso umorismo dickensiano : ne parleremo ancora. Ma vale la pena di esaminare un’ultima im­ magine, in cui manca qualsiasi traccia sia di diverti­ mento che di ira. È Miss Havisham, forse invenzione emblematica del libro. « She was dressed in rich materials - satins, and lace, and silks - all of white. Her shoes were white. And she had a long white veil dependent from her hair, and she had bridal flowers in her hair, but her hair was white... I saw that everything within view which ought to be white, had been white long ago, and had lost its lustre, and was faded and yellow. I saw that the bride within the bridal dress had withered like the dress, and like the flowers, and no brightness left but the brightness of her sunken eyes. I saw that the dress had been put upon the rounded figure of a young woman, and that the figure upon which it now hung loose, had shrunk to skin and bone... ».3 3. « Era vestita di una ricca stoffa: raso, merletti, sete, e tutta in bianco. Anche le scarpe erano bianche. E dai capelli le scen­ deva un lungo velo e aveva tra i capelli fiori nuziali; ma i ca­ pelli erano tutti bianchi. Mi accorsi che tutto quello che mi stava davanti e che avrebbe dovuto essere bianco, era stato bianco molto tempo addietro e aveva perso la lucentezza, ed era opaco e giallastro. Vidi che, come l'abito nuziale, anche la sposa die lo indossava aveva perso la freschezza, e così pure i fiori; e di vivo e luminoso non le erano rimasti che gli occhi

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Dunque, personaggi tra mostri e spettri; e qualche folletto periferico, come il mite signor Pocket. Ma i personaggi, non diversamente dalla trama, possono essere strumenti adibiti alla scoperta del cuore torvo e vitale che nutre le membra del racconto. La trama violenta, i personaggi variamente consanguinei di Calibano o di un decomposto Ariele sono vie d’accesso, segnaletica che ci conduce al luogo centrale dell’in­ venzione dickensiana: e non v’è dubbio che sia una provincia degli inferi. Luogo ideale e metaforico, può variamente incarnarsi : in primo luogo sono le paludi, la black horizontal line di una terra nebbiosa, ge­ lida, inospite, oltre la quale sta ancorata la nave car­ ceraria; è il cimitero del villaggio; il tribunale londi­ nese, con la folla dei condannati a morte; i satelliti dei condannati, che vestono i mucidi e lisi panni degli impiccati; lo squallore di Barnard’s Inn, a Londra; il sordido studio dell’avvocato Jaggers; i ciondoli e anelli da lutto —retaggio di altrettanti clienti finiti appesi di cui il lepido e affettuoso signor Wemmick, suddito leale di Jaggers, ama ornarsi dita e panciotto. Ogni qualvolta Dickens tocca, direttamente o metaforica­ mente, la regione della morte, dello sfacelo, della fol­ lia, la sua fantasia si fa lucida, aggressiva, patetica ma non sentimentale, carica di una segreta, febbrile fosfo­ rescenza. E il riso che vi serpeggia è diaccio, lievemen­ te sinistro, ed ancor più tale perché affatto cordiale e complice. È un umorismo di genere patibolare e cimiteriale; combina un atto di violenza con una cerimonia apotropaica. « A blood-relation (in thè murderous sense)... ».4 « A highly popular crime had been committed... ».5 II signor Wopsle legge, con variata enfasi teaincavati. Capii che il vestito era stato fatto per la colma figura di una giovane donna, e che la persona dalla quale ora pen­ deva, cascante e vuoto, era ridotta a pelle e ossa... ». 4. « Un consanguineo (nel senso sanguinario della parola)... ». 5. « Era stato commesso un delitto molto popolare... ».

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trale, la relazione su quel delitto di gran successo ad un piccolo pubblico partecipe, e Pip chiosa: « He enjoyed himself thoroughly, and we all enjoyed ourselves, and were delightfully confortable ».6 Quando la signora Gargery, la moglie di Joe, è ridotta ad una larva paralitica ed afona, il commento è che « her temper was greatly improved».7 E basterà ricordare la pedagogica prozia del signor Wopsle, che, alla fine, « conquered a confirmed habit of living into which she had fallen ».8 Non sono esempi di umorismo mi­ te: e lo troviamo singolarmente dilettoso, perché ci consente di indulgere al nostro arcaico gioco degli as­ sassini e dei giudici impiccatori. Strutturalmente, ripe­ to, ha una funzione apotropaica: rendere manegge­ voli gli orrori della casa dei fantasmi, e tollerabile la convivenza con le immagini deformi e potenti. Attorno al luogo del disfacimento la fantasia dickensiana riesce ad essere insieme sinistra e calda. Ba­ sterà ricordare la prima pagina del libro - che si com­ pleta col primo paragrafo del settimo capitolo - in cui vediamo Pip cercar di ricostruire le immagini dei dimenticati genitori e dei fratelli premorti, avendo come materiale le lettere delle pietre tombali, e le goffe, stereotipate iscrizioni. La lingua di Dickens, ric­ ca, fitta, sempre allo stato fluido, tocca in taluni luo­ ghi tetramente privilegiati una calcolata malizia re­ torica, una concentrazione ritmica e verbale. Nella descrizione di Miss Havisham è quel white che prima indica la veste nuziale, poi le scarpe, infine i capelli, e che adempie a due funzioni opposte, ed è pertanto straordinariamente attivo, riuscendo, con un unico segno, a dirci come quella creatura partecipi insieme dei vivi e dei morti, e dunque sia fantasma. Nelle stes­ 6. « Egli si divertiva un mondo e ci divertivamo anche noi, e ci sentivamo pieni di benessere ». 7. « Il suo carattere era molto migliorato ». 8. « Ebbe ragione deirinveterata abitudine di vivere in cui era caduta ».

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se righe, la triplice ripetizione di un iniziale I saw e, poco oltre, di Once danno una torva e solenne scan­ sione cerimoniale. Un raschio di tarlo verbale descri­ ve il miserabile quartiere di Barnard's Inn : « dry rot and wet rot and all the silent rots that rot in neglected roof and cellar - rot of rat and mouse and coaching stables... ».9 E si ricorderanno certe aspre e bizzarre ap­ parizioni : « I had seen the damp lying on the outside of my little window, as if some goblin had been crying there all night, and using the window for a pockethandkerchief ».10 Dunque, la favola violenta, e i personaggi, abbre­ viati fantasmi, ruotano attorno al nucleo centrale, ad una struttura che immaginerei come un luogo pul­ sante, donde procedono immagini, appunti corporei, suoni, segnali. Sono il lessico di un linguaggio ilare e angosciato, in cui il terrore si insaporisce di un sar­ donico riso. Il terrore come struttura. Esiste un solo punto di vista, una sola collocazione dalla quale ogni immagi­ ne appaia intrisa sempre di nemica e frodolenta on­ nipotenza, ed è l’infanzia. L’infanzia dickensiana è un luogò abitato da oggetti di proporzioni abnormi; uno spazio minaccioso ed impreciso circonda ogni figura; la difesa è inane e disperata - donde il ricorso al fu­ rore immobile e clandestino dell’umorismo - per cui non v’è gesto che non sia enigmatico, fatale, esaspe­ rante. Il mondo non ha confini, in nessun luogo vi è riparo, la madre è morta da sempre, i muri già ce­ dono alle tentazioni della fatiscenza, le nebbie parto­ riscono volti maligni o inafferrabili. Il sistema dell'invenzione dickensiana, apparentemente così vago e dif­ 9. « Un putridume secco e umido e tutto il silenzioso putridu­ me che marcisce nei solai e nelle cantine abbandonate, mar­ ciume di ratti e sorci e stalle... ». 10. « Vedevo la nebbia fuori della mia piccola finestra, come se un folletto avesse pianto tutta la notte, e avesse usato i vetri come fazzoletto ».

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forme, disperso in un gioco di eventi agitati, dram­ matici e chiassosi, si unifica in conclusione in una zona continua, compatta, una palude, un luogo in cui la decadenza consegue una sua trista opulenza, e mo­ struosamente governa una infanzia impotente e fan­ tastica : « ... I have often thought that few people know what secrecy there is in the young, under terror. No matter how irreasonable the terror, so that it be terror... I was in mortal terror of myself... I had no hope of deliveran­ ce... I am afraid to think of what I might have done on requirement, in the secrecy of my terror».11 [1966]

11. «...H o spesso pensato come pochi si rendano conto della disperata solitudine in cui viene a trovarsi un ragazzo in pre­ da al terrore. Anche il terrore più irragionevole è pur sempre terrore... Avevo un terrore mortale di me stesso e non avevo speranze; e tremo al pensiero di quello che avrei potuto fare, in quell’occasione, nella solitudine del mio terrore ».

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SPLENDIDE LARVE

È ormai matura l’ora di rileggere D’Annunzio? Ce lo fa pensare questa massiccia antologia che ci consegna Mario Praz - Gabriele D’Annunzio, Poesie Teatro Prose, Ricciardi - felicissimo incontro « in su la cima » tra il gran teratologo delle nostre lettere e l’ani­ male più bizzarro e riluttante della nostra lettera­ tura tra recente e classica. Nella storia della fortuna di D’Annunzio questo è un momento delicato e dif­ ficile: nelle sue pagine, qualcosa continua a respin­ gerci, qualcosa comincia ad affascinarci. Ci troviamo forse ad assistere alla commovente metamorfosi di uno scrittore in « classico » : un subitaneo scatto nella mac­ china del tempo colloca l’artista in uno spazio silen­ zioso, governato da gesti lenti e perenni. Ma D’Annunzio ancora rilutta. Molti di noi hanno ancora l’orecchio aduggiato da una cantilena tra guer­ resca e guittesca, una sonora scansione oratoria non priva di echi carducciani, insieme languida e presun­ tuosa: ha poi armature fittizie, mitologie sardanapalesche, eroticità da latin lover che ha letto i classici, una squisitezza di oggetti e gesti che più triviale, più insolente non potrebbe essere. 72

Quale astuzia, quale calcolo occorrono oggi per sot­ trarsi a queste inefficienti trame. Bisogna eludere l’im­ maginifico, non dare orecchio alle sue vanterie, can­ cellare i punti esclamativi, le interrogazioni retoriche, quei nomi di personaggio che ancora sopravvivono nelle preziosità servili delle riviste donnesche, chiu­ dere l’apparecchio appena il declamatore comincia a smaniare. Occorre predisporre una lettura attenta, un poco filologica, leggermente degradata, rallentata, an­ che disamorata; ed allora ci sorprenderà la subitanea, esatta, felicemente effimera esplosione di un perfetto gesto linguistico, una remota pirotecnia verbale. D’Annunzio è una figura abnorme e poderosa: non v’è dubbio, ci costringerà a scoprire i nuovi strumen­ ti che ci consentiranno di leggerlo, a forzare quelli che già si stanno apprestando, così che siano idonei ad intenderlo. Allora, avremo definitivamente perso un irritante attore, e avremo guadagnato un classico. Co­ me si aiuta uno scrittore a diventare un classico? Uc­ cidendolo; trattandolo come un puro oggetto, un im­ personale organismo che ebbe per caso nome umano; dissanguandolo di tutto quel sangue che può assomi­ gliare al nostro, di oggi. Leggendo le note, eleganti e gelide, dotte come chio­ se dantesche, di questa silloge, ci accorgiamo che D’An­ nunzio non è più un contemporaneo, che già mostra le prime, definitive venature deH’antico. Ma, insomma, come leggerlo? Non credo che la sen­ sualità linguistica dannunziana, e magari la sua fan­ tasia paesistica, possano ancora interessarci. Egli ha certamente una sua ghiotta maniera di reggere le pa­ role in bocca, di modularle e macerarle. Ma forse si può trarne di più. Prendiamo il primo verso delYOleandro; verso che, anche nei tempi più oscuri e diffidenti, mi ha rassicurato sulle qualità letterarie dannunziane. Esso è: « Erigone, Aretusa, Berenice». Quale mirabile esempio di sensualità linguistica: puri suoni in nomi di femmina. Ma non si può tentare di leggerlo in altro modo? Auden ha parlato della qua­ 73

lità epifanica dei Nomi Propri; ha negato che possa avere alcun gusto per le lettere, capacità di intendere o scrivere poesia chi non sappia gustare, veramente e violentemente, il catalogo delle navi di Omero e le genealogie bibliche. È la fede, innaturale quanto è innaturale l'intera letteratura, nel valore esoreistico, magico, cerimoniale delle parole. « Erigone, Aretusa, Berenice » non è solo un verso; è una formula che agisce. E si veda, nello stesso Alcyone, L'alloro ocea­ nico : una perfetta poesia catalogo, una monotona no­ menclatura rituale. A taluni di noi interessa, oggi, il D’Annunzio che adopera la lingua come se fosse una lingua morta (ri­ cordo che Joyce - ammiratore, tra l’altro, del D’An­ nunzio romanziere - adoperava l’inglese « come se fos­ se una lingua straniera »); credo che questa assoluta indifferenza alla qualità parlata, quotidiana, socievole e trasportabile del linguaggio sia un insegnamento essenziale. La lingua di D’Annunzio è non solo mor­ ta; non è mai esistita; è totalmente artificiale, anzi risolutamente falsa: una «splendida larva». Non lo interessa la qualità comunicativa della pagina, ma uni­ camente la macchina verbale. Per questo i suoi senti­ menti sono posticci, le idee di quart’ordine, le visioni pretestuose, e la sua letteratura eccellente. Direi che D’Annunzio, che tanto spesso parla di poesia e non di rado la deturpa di maiuscola, non ha interesse per questa eccitata e vanitosa signora tardoromantica; il suo autentico amore intellettuale va alla letteratura, alla scaltra e ostinata confezione di oggetti fastosi, la­ vorati con difficile ambizione, privi di significato e assolutamente inutili. Da autentico letterato, egli non si suppone libero creatore; sa che il linguaggio ha una sua consistenza oggettiva, una attività naturale. «...Un pensiero esatta­ mente espresso è un pensiero che già esisteva, dirò co­ sì, preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dallo scrittore, seguita ad esistere nella co­ scienza degli uomini ». Nel Fuoco celebra la « straor­ 74

dinaria facoltà verbale » di Stellio Effrena, che tra­ duce in linguaggio « le più complicate maniere della sua sensibilità», così che «parevano non più appar­ tenergli, appena espresse, rese oggettive dalla potenza isolatrice dello stile ». Questo concetto, della oggettiva inventività della parola, può forse consentirci di intendere la sua infi­ nita ingordigia lessicale. Ogni parola è formula; e re­ cuperare parole desuete o inventarne nuove, vuol dire incarnare, evocare un fantasma preformato, nascosto ed ozioso nel grembo del linguaggio. La lettura di questa antologia giustifica l’impres­ sione che la prosa dannunziana più costantemente del­ la poesia acconsenta alla lettura cauta e rallentata. Nelle liriche, di rado D’Annunzio sa resistere alla ten­ tazione dell’esclamazione. Ma la prosa, non retta dal­ l’agevole busto di una gagliarda scansione, lo costrin­ geva ad una lavorazione più attenta e diffidente. Nella prefazione al Trionfo della Morte, leggiamo: « V'è soprattutto il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca di immagini e di musiche. Concorrere efficacemente a costituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace ». Dunque, « prosa moder­ na » è per D’Annunzio lavoro verbale, architettura linguistica; non astuzie per raccontare una storia, e neppure, come egli dice nella medesima prefazione, anzi nello stesso periodo, in una frase studiatamente ambigua, « per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità ». D’Annunzio fu obbediente alle ingiunzioni delle larve preformate; servì con accanimento mostruoso, da sicario, il demone della letteratura. Per questo me­ rita la morte; la merita veramente, la grande, nobile morte, quella che sa infliggere, sola e per sempre, la mano amorosa del lettore esatto. [1966] 75

IL CARNEVALE DELL’INFERNO

Dopo aver diligentemente letto e riletto questi Elisir del Diavolo che Hoffmann scrisse tra il 1814 e il 1815, in tempo di gran furore romantico; dopo averne trac­ ciato un pedante sommario, e schizzata una selva ge­ nealogica e una mappa su cui annotare nascite illegit­ time, trafugamenti, travestimenti, omicidi, adulteri, stupri e incesti; inevitabilmente dovremo concludere che questo è libro affatto inafferrabile, refrattario al­ l’umiliazione del riassunto, perversamente intricato, tanto da degradare un ingegnoso « giallo » a goffa prestidigitazione da sobborgo. Potremmo anzi descri­ vere gli Elisir come l’opposto del « giallo » : questo, infatti, dissolve il mistero dei suoi innocui incubi do­ menicali con lo smascheramento del colpevole, unico nodo in cui si accentrano le fila del male: reciso quel­ lo, col gesto rituale dell’arresto o della soppressione, gli innocenti ritorneranno alla loro trista onestà do­ mestica, cui per breve istante li ha sottratti l’ustio­ nante conversazione col delitto; negli Elisir, la con­ clusione svela un tessuto infinito di nodi, la rivela­ zione non semplifica, ma anzi salda una compatta rete di eventi variamente correlati, derivati, mimati gli 76

uni sugli altri, così che ne risulta una trama in s o l­ vibile, le cui maglie tenaci si librano in una suprema, perfetta immobilità. Il lettore innamorato degli intrichi, delle ambagi eccitanti e improbabili, potrà godere questo racconto come una inesauribile festa dell’estro; ma forse gli sfuggirà la segreta delizia matematica della costruzio­ ne, Tinvenzione del labirinto come puro disegno, mac­ chinazione senza centro e senza periferia, universo chiuso in cui tutto confluisce; conoscibile, abitabile, percorribile, ma dal quale non si dà uscita. Questo racconto mima appunto la struttura chiusa e ininterrotta: l'armoniosa follia del tappeto orien­ tale si accompagna alla geometrica irrequietezza di un parco settecentesco, che mescola architettura e vege­ tazione; e potremmo assumere come divisa hoffmanniana le parole con cui il protagonista Fra Medardo definisce la segreta ispirazione degli antichi maestri costruttori: «genialmente... legare elementi arbitra­ ri, per non dire cervellotici, a un insieme ricco di armonia e di espressione ». La favola di Fra Medardo, che un sorso di delizioso liquido infernale travolge in una serie di eventi sini­ stri e rovinosi, non ha nuclei centrali, ma piuttosto temi, segni ricorrenti, moduli. Segno dominante del racconto è il « doppio »; ogni personaggio è volta a volta se medesimo ed altro; vi sono più personaggi che volti, più nomi che destini. Il protagonista narratore, eluso dalla infinita ambi­ guità del proprio io proliferante, vede dovunque ri­ petuta la propria faccia, in uno specchio che insieme deforma e scopre. « Il mio io, diventato trastullo di un capriccioso e crudele caso, dissolvendosi in fanta­ stiche figurazioni, vagava alla deriva sul mare di tante vicende... Io sono ciò che sembro e non sembro ciò che sono e, a me stesso inesplicabile enigma, mi trovo in discordia col mio io! ». Quando a questo modo me­ dita sulla propria sorte, Fra Medardo è coinvolto in una tragica identificazione con l'immagine trista di

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sé, il fratellastro Vittorino, che egli ritiene di aver ucciso, col quale viene scambiato, dal quale infine ha ereditato amori e delitti ed anzi tutto un destino. Più maliziosamente, Aurelia, amore tra empio e sacro di Medardo, si replica nell'immobile immagine di Santa Rosalia; ed anche il quadro ha un suo proprio « dop­ pio » : una copia infatti ha preso il suo posto nella chiesa di Roma per cui originariamente venne dipin­ to da un pittore, avo di Medardo, che inconsapevole vi raffigurò una donna allora a lui ignota, e che più tardi avrebbe conosciuto ed amato: una prostituta, forse un essere infernale. In tal modo, tra la pia Au­ relia e quell’essere tenebroso si stabilisce una corri­ spondenza speculare, e ciascuna è il « doppio » di se­ gno contrario dell'altra. La duplicazione rende cielo ed inferno complici e partecipi, segni diabolici e ca­ rismatici si preannunciano e si completano a vicenda. Una ambiguità furiosa lacera e moltiplica ogni desti­ no. Aurelia odia Medardo quando lo conosce come assassino del fratello Ermogene, lo ama quando le si presenta come Leonardo, dunque come fittizio « dop­ pio » di se medesimo. Non esistono nomi certi. Me­ dardo non è solo identico a Vittorino: forma con co­ stui una macchina mostruosa, in cui si intricano de­ stini alternativi e compresenti. Questo tema del « doppio », che fu carissimo a Hoffmann - e basterà ricordare la deliziosa Principessa Brambilla, in cui l'incubo si esalta in perfetta ilarità di gioco - comporta alcune conseguenze di struttura che vai la pena di sottolineare. In primo luogo, eli­ mina il personaggio come autore, attivo o passivo, di eventi: la finzione nominativa è sostituita da un cen­ tro abbagliante e inafferrabile, un luogo dinamico, una allucinante girandola binaria in inesauribile rota­ zione, in « duplicazione cronica », come la definì, sot­ to specie di malattia, lo stesso Hoffmann nella Princi­ pessa Brambilla. In qualunque punto si posi, lo sguar­ do del lettore si trova di fronte una immagine ango­ 78

sciosa ed eccitante. La duplicazione, poi, estendendosi, come accade in questo racconto, dai personaggi agli eventi, per cui ciascun destino pare tendere alla imi­ tazione di un comune destino platonico, elimina ogni qualità propriamente narrativa; Hoffmann risolve co­ si uno dei problemi cruciali del narratore, come de­ scrivere eventi privandoli insieme di ogni qualità ef­ fettuale, riducendoli a segni. L'adulterio, l’omicidio, lo stupro che si ripetono nelle medesime circostanze in diversi destini non sono più avvenimenti, ma unità strutturali, motivi. La ripetizione dell’omicidio non accumula orrore, ma lo elimina affatto. Fondandosi sulla corrispondenza di elementi omogenei o contra­ stanti, la narrazione si articola come una architettura capziosa, assurda, e insieme perfettamente funzionan­ te. Hoffmann ripete gli omicidi, per mondarli di ogni traccia di sangue; moltiplica i personaggi, perché il luogo narrativo sia deserto di volti umani; costruisce un intrico inaudito di eventi, perché niente accada; infine, tesse una favola velocissima, perché solo in questo modo si può arrivare al nessun luogo, che è la terra promessa del raccontatore. 11 destino di cui qui si parla non ha tregue morali­ stiche; è solo la regola capricciosa e feroce cui si deb­ bono sottoporre queste larve febbrili dai nomi insta­ bili. Codesto destino — è un altro tema ricorrente — non è adoperabile da chi vi è coinvolto; suprema em­ pietà è voler possedere il proprio gioco, imporre l'ar­ roganza della coscienza ad un delirante movimento impersonale. Non è possibile descrivere la trama ful­ minea e orrenda; solo una cauta, ironica follia con­ sente di accedere ad una intelligenza passiva di questo ritmo da perpetua catastrofe. E tale è appunto la sorte del più incantevole personaggio del romanzo, il bar­ biere, burattinaio e infine frate Belcampo — Schònfeld, l’unico nel quale il doppio si sia definitivamente saldato, per cui lui solo può sperimentare la propria duplicità come ambiguità solidale. Il periglioso equi­ 79

librio della sua mente arguta e sconvolta è la sola tre­ gua, il solo luogo immobile nella vertiginosa danna­ zione. Ed anzi, di codesta dannazione egli è l’ilare co­ scienza, il riso liberatore e demente: « Il carnevale dell’inferno è salito sulla terra ». [1966]

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LA CITTÀ BLASFEMA

Airincirca tra il 1920 e il 1935 - mentre la lettera­ tura americana conquistava il mondo e i Nobel grazie a Hemingway, a Faulkner e gli altri -, un bizzarro ed oscuro signore di Providence, Rhode Island, scriveva racconti del terrore e dell'orrore, destinati a riviste di incolto e frettoloso consumo. Nato nel 1890, H. G. Lovecraft era destinato a breve vita - morì nel 1937; non conobbe alcuna forma di successo letterario; solo dopo la sua morte i racconti vennero raccolti in volu­ me; visse vita modesta, anche umile: riusciva a cam­ pare con quindici dollari la settimana, guadagnati, più che con i suoi racconti, col suo lavoro di « ghost writer », compilatore e redattore a nome altrui - tra gli altri, del « mago » Houdini; tentò anche un inielice esperimento coniugale, non del tutto inutile, tut­ tavia, giacché valse a insegnargli che « per chiunque abbia un temperamento ragionevolmente ascetico, i piaceri e le libertà di una vita immaginativa e crea­ tiva compensano largamente i vantaggi della vita do­ mestica ». Magro, aspramente sparuto, sognatore accanito e trascrittore di sogni, americano innamorato dell’anti­ 81

co, sedentario e fantastico, Lovecraft suscitò attorno a sé una curiosità vagamente mitologica, destinata a sopravvivergli, e ancora tenace, come sembrano confer­ mare certe polemiche recenti sui suoi manoscritti ine­ diti e su taluni eventi della sua biografia. Ebbe de­ voti che piamente gustarono le successive fasi della sua decadenza fisica, e che furono certamente bene impressionati dalla sua morte precoce; in breve, egli aveva alcune di quelle qualità sommariamente affa­ scinanti che sanno potenziare l’altrui inclinazione alla demenza. Come letterato, aveva gusti semplici e schietti, mo­ notoni, anche, come accade alle persone naturalmen­ te sobrie : defunti a vari stadi di decesso, cadaveri na­ ture, spettri, e soprattutto mostri, esseri, cose, indefi­ nibili presenze, abitanti dell’« altrove »; un altrove arcaico, misterioso, colmo di allucinanti orrori. « Nel­ l’esistenza, » aveva scritto in una lettera « nulla mi af­ fascina più dello strano e dell’antico; e quando rie­ sco a mettere in un racconto l’uno e l’altro insieme, ottengo, ne sono certo, risultati migliori, che con l’uno o l’altro da solo... ». Lovecraft odiava il mondo moderno, la civiltà urbana, meccanica, scientifica, « co­ sa mostruosa e artificiale, che non si incarnerà mai in arte o religione ». Nell’età di Ford, girava a piedi o in bicicletta per il New England, in cerca di vec­ chie case e strade arcaiche. Curioso di ogni macchina­ zione religiosa e magica, si dichiarò sempre « ateo di ascendenza puritana ». Recentemente, sono apparsi in Italia due volumi di racconti e romanzi di Lovecraft: subitaneo boom, da collocare nella generale rinascenza del terrore lettera­ rio. Due romanzi e due brevi racconti nelle Monta­ gne della follia (Sugar); e, in veste cromaticamente estiva, un buon gruppo di racconti in I mostri all’an­ golo della strada (Mondadori). È la prima volta che, da noi, Lovecraft esce dalle appendici di « Urania » e dalle antologie di fantascienza e del terrore; e ne esce con aggressivo, impetuoso fasto. 82

Una analisi dei racconti di Lovecraft non è agevole; grava sul lettore il pesante fascino della materia; l'ipno­ si che impongono gesti e riti mentitamente sacri. Vi è in Lovecraft qualcosa di risolutamente ingenuo, una cultura da incolto, una artificiosità elementare. E tut­ tavia non pare assurdo dirlo «scrittore». Forse per­ ché il suo puro, concentrato orrore stinge rapidamen­ te, e svela, sotto, qualcosa di duro, di ostinato: si so­ spetta, una scheggia di letteratura. È angusto, ma non sciocco; è sommario, talora anche rozzo, ma lo assiste una oscura intelligenza, una macchinosa astuzia da monomane. I suoi racconti sono incubi, ed è proprio degli incubi l’essere falsi: sgomenta non la concretez­ za deirapparizione, ma la sua sacrilega aspirazione ad esistere. Lovecraft fruga una regione germinale, affol­ lata di nulla sconciamente deformi, e gli accade talora di rintracciare e annotare i segnali deiraltrove, sfregi segnaletici violentemente significanti. Lovecraft non cerca solamente di evocare figure enormi e turpi; è un inventore di miti, di grandi fa­ vole che articola in più racconti. Lavora temi costan­ ti, immagini ricorrenti. Cerca il demonio, ma un de­ monio non cristiano; l’inferno, ma un inferno che non si rifletta in un ironico paradiso. L’inferno cui egli aspira deve essere tale per intrinseca definizione, un luogo empio, una città totalmente blasfema. Nel suo universo, solo il negativo può generare miracoli. In taluni racconti troviamo un complesso mito, rias­ suntivo di codesta ricerca. Milioni di anni or sono, esseri venuti da remote stelle, dèi di altri mondi, sce­ sero sulla terra; qui costruirono città di mostruosa grandezza, regnarono per innumerevoli secoli. Poi, gli astri tolsero loro il potere. Immortali, si sottrassero alla distruzione; ripararono in fondo all’oceano, ove ancora soggiornano. Tuttavia, prima di ritrarsi dalla superficie del nostro mondo, conobbero i primi uo­ mini, o forse esseri preumani, e stabilirono con co­ storo un clandestino rapporto; da quei tempi, in se­ greti conciliaboli una setta tramanda un culto infa­ mi

me; e ancora essi, quelli-di-prima, inviano messaggi, che giungono a noi come sogni, deliri, visioni di de­ menti. In questo modo ci avvertono che un giorno, quando le stelle si ricomporranno in un disegno ever­ sore, essi rioccuperanno la terra. Nell’una e nell’altra raccolta troviamo racconti tra i più eccitanti di codesto mito. Le montagne della fol­ lia descrive la scoperta delle rovine della città arcaica, nascosta sotto i ghiacci del Polo Sud. È un singolare racconto; manovrato con abile suspense, non ha il suo culmine in un evento drammatico e clamoroso, e nep­ pure tende al fasto abbagliante e pedagogico della vi­ sione; ma conclude in qualcosa di più sinistro, e mi­ natorio e pedantescamente fascinoso: una descrizio­ ne, la mappa della città empia disegnata secondo una geometria assurda: un catalogo di oggetti malefici e torvamente sacri. La maschera di Innsnouth racconta i maligni rapporti tra gli esseri marini e gli abitanti di una sciagurata città, immortale e maledetta proge­ nie; Colui che sussurrava nelle tenebre spiega gli atro­ ci artifici con cui quegli esseri e gli uomini loro se­ guaci tengono contatto con gli universi originari. Di rado, in questo scrittore tanto spesso congestio­ nato, manca totalmente l’immagine geniale, l’inven­ zione anche sottile: come gli uccelli che inseguono l’anima del morto recente (L'orrore di Dunwich), o la fosforescenza della fattoria moribonda (Il colore venuto dallo spazio). Vi è tuttavia una curiosa lite, in queste pagine, tra il letterato inventore di irresponsa­ bili ordigni, e l’incantatore che vuol fare agire i suoi esorcismi. Con ingenua fiducia, continuamente ripete talune parole: empio, blasfemo, mostruoso. Forse la goffaggine geniale di Lovecraft è solo l’indizio di una macchinosa cerimonia apotropaica, grazie alla quale egli tenta, vanamente, di tenere a bada l’ambiguo, « strano ed antico », mostro della letteratura. [1966] 84

LA SEMANTICA DI HUMPTY DUMPTY

In un « aureo pomeriggio », il 4 luglio 1862, le tre sorelle Liddell, tra gli otto e i tredici anni, fecero una gita in barca sul Tamigi, affidandosi alla innocente protezione del Reverendo Robinson Duckworth, e del signor Charles Dodgson, anch’egli insaporito di lievi spezie ecclesiastiche. « Un pomeriggio, » annoterà venticinque anni dopo quest’ultimo « che posso richiamare davanti ai miei occhi come fosse ieri, sopra di noi il cielo senza nubi, sotto, lo specchio delle acque, la barca che oziosamente procedeva lungo la corrente, il tintinnio delle gocce che cadevano dai remi che ondeggiavano sonnacchiosi, e (unico splendente raggio di vita in quella scena dor­ mitiva) quei tre volti intenti, affamati di notizie dalla terra delle fate, e che non volevano sentir parlare di “no”. “Un’altra storia, per favore!” aveva tutta la ri­ gorosa implacabilità del fato! ». E quel giorno Mr. Dodgson, l’uomo timido e goffo, la cui balbuzie cessava solo quando discorreva con una bambina, aveva, nella disperata ricerca di inediti esiti fiabeschi, mandato una sua eroina giù per una tana di conigli, « senza avere la minima idea di quel che sa85

rebbe accaduto dopo », e così, « to please a child I loved », nacque la favola ctonia e vittoriana di Alice: che era il nome della seconda delle sorelle Liddell. La prima parte, Alice*s Adventures in Wonderland, quella appunto che venne narrata in queir« aureo po­ meriggio » sul Tamigi, uscì in libro giusto cent anni fa, nel 1865; e nel 1871 uscì la seconda parte, Through thè Looking Glass (Attraverso lo specchio). Ci si assicura che ormai, anche in Inghilterra, i let­ tori infantili di Alice siano sempre di meno; e che di anno in anno una crescente barriera di allusioni sfug­ genti, di modi linguistici e usi sociali perenti, ren­ dano via via più impervio l'accesso a quello che fu già il classico della nursery. E chi ha avvertito quanto ci sia ormai di capziosamente intellettuale nel fascino inesauribile di Alice, quale colta arguzia mescoli la seriosa decenza vittoriana al farnetico di quei perso­ naggi da incubo benevolo; e quanta sottigliezza si sco­ pra in quei giochi secchi e allucinati; non stenterà a credere che Alice sia ormai sempre meno un libro da capezzale per la rissosa infanzia oggidiana, ma sempre più un classico per pensosi e lievemente maniacali let­ tori di mezza età, anche, francamente, un capolavoro per pedanti. A costoro appunto è dedicata una recente edizione, Annotated Alice, a cura di Martin Gardner (Blond, London) : dove al testo sono aggiunte, in margine, am­ pie e minuziose chiose; il tutto nobilitato dalle splen­ dide illustrazioni di Sir Tenniel. Non è una edizione critica, e nemmeno una ideale edizione da studio : ma un abbozzo, un po' sghembo, un po’ carrolliano; ta­ lora prezioso, ma non di rado svagato, dispersivo, un poco imbarazzante; un documento di bizzarra erudi­ zione, e insieme un estremo atto cultuale della nobile setta dei Carrolliani. È un volume massiccio, di di­ mensioni, in larghezza, inconsuete: esemplato certo sui vecchi libri per ragazzi; quei libri intensamente plastici, oggettuali, sulla cui carta robusta erano in­ cise con spreco di nerissimo inchiostro lettere badiali, 86

quasi esse stesse aspirassero alla dignità di figura; pa­ gine per occhi lenti, ostinati, scarsamente selettivi. In questo commento si incontrano annotazioni fi­ lologiche di rara pertinenza: e si vedano in primo luo­ go le note ai nonsense parodistici, che abbondano spe­ cialmente nel primo volume. In quei mirabili deliri, Lewis Carroll rifà in empio dileggio strofe e poesie che, neirimpettito e progressista ottocento, andava­ no per le mani delle obbedienti Alici in stivaletti, gon­ ne e capelli lunghi; ed è assai malizioso gusto intra­ vedere la stolta filatessa didattica di Robert Southey, You are old, Father William, dietro la ribalda fila­ strocca di Carroll; o la poesiola di Mary Howlitt die­ tro la canzoncina lagrimosa della Finta Tartaruga. Il piacere che noi ricaviamo da questa sconsacrazione non è esente da una certa nostalgica stizza: giacché le let­ tere italiane sono avarissime di giochi di genere nonsensicaL Ma non v’è dubbio che un brutale, indiscre­ to gaudio avrebbe sconvolto i nostri animi giovinetti, ci fosse mai stato offerto un nonsense ricamato sui Cipressetti carducciani, o su quella Conchiglia fossile dello Zanella, che ha già tutto il necessario sussultìo stolto e meccanico del nonsense; e come non sospet­ tare che certe poesie del Pascoli siano state scritte come offerta sacrificale ad un futuro autore di non­ sense} Certo, il senso di eccitazione, di libertà intel­ lettuale che ci dà la lettura di Alice viene da questa clandestina, innocente eversione, astuta e insensata, e che sa di disubbidienza, di ingegnosa effrazione. Alice è un libro singolarmente adoperabile: non solo interpretabile, intendo, ma adoperabile come una macchina, un meccano, un giocattolo che, secondo che corra, ruoti, si apra, si chiuda, rotoli, vada in cer­ chi o in linea retta, cambia colore, rumore, allusione, ed è sempre elusivo, eccitante ed inutile. Il commento del Gardner, che è attento soprattutto ai giochi lin­ guistici, simbolici, alle battute fulminee, alle capriole logiche, ci aiuta a non perdere mai d’occhio quel ver­ tiginoso movimento, quella fulminea prestigiazione 87

ornata dalla grazia scontrosa di una maneggevole fol­ lia. Si sono date di Alice interpretazioni freudiane, dalla macchinosa e seriosa impudicizia; e anche corag­ giose interpretazioni marxiste. Ma solo il gusto del trucco logico, del rovesciamento semantico, può dare accesso a questo baraccone di specchi deformanti. Gli specchi: la parola, emblematica e giocosa, non priva di una svagata vanità femminesca, è il segno riassun­ tivo del gioco, di tutti i giochi di Lewis Carroll. Alice è un catalogo di giochi; ma anche l’allegoria è un gioco, e non v’è gioco più comprensivo del lin­ guaggio, con le sue rigorose regole, gli arbitrii e le pene, le combinazioni infinite. Il primo gioco è il so­ gno : nel primo libro, il sogno di Alice contiene ogni cosa; nel secondo, poi, si avanza l’ipotesi che Alice stes­ sa che sogna venga sognata dal Re Rosso; una per­ fetta situazione a incastro, quale non poteva non deli­ ziare il signor Dodgson, instancabile inventore di mac­ chine illusorie, scatole ribaltabili e puzzles matema­ tici. Dentro i sogni, i due libri si spiegano come gi­ ganteschi luoghi da gioco: carte e scacchi. Come ci avverte il commentatore, tutti i movimenti di Alice in Attraverso lo specchio sono mosse sui riquadri di una scacchiera, divisa da siepi e ruscelli. Il duplice gioco si articola ulteriormente, in questo libro, giac­ ché il sistema binario dei sogni, contenente il gioco degli scacchi, è collocato nella terra al di là dello spec­ chio, dove, come si sa, si corre per stare fermi, una torta va prima servita e poi tagliata, si piange prima di farsi male, e i libri sono stampati al contrario e, per leggerli, bisogna collocarli davanti ad uno spec­ chio. Tweedledum e Tweedledee sono ovviamente simmetrici enantiomorfi, ci avverte il commentatore; il quale, con cruccio affatto carrolliano, si domanda se varcando la soglia dello specchio, Alice non sia diventata una Antialice: prospettiva, aggiunge, che alla luce delle recenti scoperte scientifiche parrebbe inevitabile; ché, altrimenti, posta a contatto con l’an­ timateria, che è la sostanza di cui sono fatte le cose 88

oltre lo specchio, un’Alice consueta non potrebbe che esplodere. La manipolazione che Carroll esegue delle parole, delle proposizioni, i suoi estri e spassi verbali presup­ pongono un atteggiamento intellettuale non meno lucido che allucinato. Consapevole del carattere arbi­ trario e insieme vessatorio delle regole linguistiche, Carroll suggerisce nuove leggi combinatorie, destinate a celebrare totalmente quel rigore e queirarbitrio. Ad altro linguaggio, corrisponde altro universo: che del primo è immagine speculare e distorta, deforme e li­ bera. Dagli esercizi di logica del Cappellaio Matto, agli arbitrii semantici di Humpty Dumpty, alle parole finte di Jabberwocky, Carroll, in un gioco tra felice e sinistro, ci mostra di quali sconcertanti cunicoli, di quali arguti labirinti e insidiose macchinazioni sia capace il linguaggio. Ma i dialoghi di Alice hanno an­ che una voce: uno splendido miscuglio di toni da governante, da parenti sentenziosi, da parroci sermoneggianti; è la voce di una società asseverativa e per­ fezionista: ma i suoi comandi, le sue massime, i suoi moniti sono tutti nonsense. Forse il culmine di questa mistificazione è il Jabber­ wocky, la straordinaria poesia dalle parole inventate o variamente deformate. Come dice Alice, Jabber­ wocky « mette tante idee in testa, ma non sai quali ». Agisce come un linguaggio intero, che a noi perviene solo con indizi, e che tuttavia ci coinvolge in un uni­ verso coerente quanto elusivo. Capolavoro di una se­ mantica fittizia ma efficiente, è il testo ideale da of­ frire alla esegesi di Humpty Dumpty, vanitoso e fra­ gile ovo, destinato a tragica fine, bizzoso teorizzatore del linguaggio come invenzione. [1965]

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IL MAGO ASTUTO

« Il pomeriggio del 24 ottobre 1917, quattro giorni dopo il nostro matrimonio, mia moglie, con mio stu­ pore, si provò nella scrittura automatica. Quel che ne venne fuori, frasi sconnesse in una grafia quasi illeg­ gibile, era così eccitante, talora tanto profondo, che la persuasi a dedicare una o due ore al giorno all’igno­ to dettatore e, dopo una mezza dozzina di ore, mi of­ fersi di consacrare quel che restava di vita a interpre­ tare e ordinare quelle sparse proposizioni. “No,” fu la risposta “noi siamo venuti a darti metafore per la poe­ sia...”. Al principio del 1919, il Comunicatore del mo­ mento - venivano cambiati continuamente - disse che tra breve avrebbero mutato metodo, passando dalla comunicazione scritta alla parlata, come meno one­ rosa per mia moglie, ma dovettero passare dei mesi... Ci trovavamo in uno scompartimento a due cuccette, su un treno della California meridionale; mia moglie, che si era addormentata da qualche minuto, prese a parlare nel sonno, e da allora quasi tutte le comuni­ cazioni pervennero a quel modo. I miei insegnanti, pareva, non parlavano da dentro il suo sonno ma, per così dire, da sopra, quasi fluttuassero su una distesa 90

di acque... Giacché i Comunicatori dovevano finire in breve, altri, che essi chiamavano i Frustratori, tenta­ rono di confonderci, di sprecare il nostro tempo. Non venne mai adeguatamente spiegato chi fossero codesti Frustratori, né perché agissero a quel modo... Allora lo scritto si deteriorava, diventava sentimentale o con­ fuso ». A questo modo, nelle prime pagine di A Vision, W. B. Yeats spiega come nacque quel suo singolare li­ bro che, da quando venne pubblicato, prima nel 1925, poi, in una assai più ampia redazione nel 1937, è pro­ vocazione e cruccio dei critici e dei lettori della sua poesia. Vi è qualcosa di impudico, una perversa luci­ dità didattica, e più che un sospetto di farsa in quella invenzione di un sistema esoterico, simbolico, magico, messo in opera a descrizione e illuminazione della sor­ te dell’uomo. E non v’è dubbio che questa ingegnosa escogitazione, troppo paziente e minuta per passare per mistificazione, troppo lucida e articolata per ri­ dursi a vaniloquio, è una assai sottile sfida alla devo­ zione degli esegeti. Forse qualche traccia di codesta non risolta perplessità si potrà riconoscere anche nel recente simposio In Excited Reverie, curato da A. Nor­ man Jeffares e K. G. W. Cross (Mac-Millan, 1965) col quale critici inglesi, australiani, americani, ed anche un arabo, hanno voluto far tributo al centenario della nascita di Yeats. Libro ineguale, e non rappresentativo della totalità degli studi yeatsiani —mancano, ad esem­ pio, l’estroso F. A. C. Wilson, e il lucidissimo Giorgio Melchiori - non di rado affascina il lettore per certi litigiosi o arguti commenti, e note in margine, dotte ed eccitanti. « William Butler Yeats è il massimo poeta che i po­ poli di lingua inglese abbiano avuto negli ultimi cento anni » ha scritto qualche settimana fa John Wain sull’«Observer»; sono parole solenni, e probabilmente non eccessive; dalla sua morte, nel 1939, la fama di Yeats continua a salire; in vent’anni si è messo assieme uno scaffale ormai imponente di biografie, chiose, spia­ ci

namenti e assaggi. E dunque il problema di quel che significasse nel suo fare poesia, e quella poesia, quella macchina occultistica ed ermetica, è difficile scrollar­ selo di dosso. Yeats non solo si dilettava di studi e letture di ma­ gia, ma la praticava; certo deiresistenza di esseri più che umani, saggiamente tentava di mettersi in contat­ to con costoro; giudicandoli fededegni e bene infor­ mati, si adoperò a trascriverne in bell’inglese le astratte e manierate dottrine, schizzando anche diligenti e cer­ to assai utili mappe del percorso dell’anima, secondo le reincarnazioni cui essa attende, travasandosi di cor­ po in corpo. A ciò aggiunse una ulteriore favola, le tradizioni di una fittizia tribù araba, i Judwali, o Diagrammatisti, che due personaggi, Robartes e Aherne, avrebbero riportato dall’Arabia. In uno dei saggi di In Excited Reverie, che è tra i più ghiotti per chi ha in simpatia consanguinei estrosi, Yeats’s Arabie In­ terest, di S. B. Bushrui, si racconta come, durante una seduta spiritica nel 1911, e dunque assai prima di A Vision, Yeats si imbattesse, tra gli altri fantasmi, in un officioso Leo Johannes Africanus, del quale divenne col tempo assai intrinseco; e mi pare assai bello che subito dopo le prime presentazioni, fatte, per così dire, a mezz’aria, Yeats si affrettasse a procurarsi referenze ricorrendo all’Encyclopaedia Britannica, volume sedi­ cesimo dell’undicesima edizione. L’Arabia di Yeats, quella cui egli spedì il sarcastico Robartes, è la pa­ tria di « Avicenna, ubriacone, ma signore di innume­ revoli legioni di spiriti; di Alfarabi, che nel suo liuto mise tanti spiriti da far piangere gli uomini, o farli ridere, o venir meno come morti, come gli piacesse; di Lullo, che si tramutò in galletto rosso... » : una terra allegorica, oltre la periferia dell’umano. « Io odio, e odio di un odio sempre crescente la let­ teratura del punto di vista » scriveva nel 1937, nella introduzione ad una progettata edizione completa del­ le sue opere; e più avanti : « Lo stile è quasi incon­ sapevole. Io so quel che ho cercato di fare, so ben poco 92

di quel che ho fatto». «Parlatemi di originalità, e mi rivolterò con furore contro di voi... ». « I traduttori della Bibbia, Sir Thomas Browne, taluni traduttori dal greco, quando i traduttori ancora cercavano di badare al ritmo, crearono una forma tra prosa e verso, che sembra naturale alla meditazione impersonale; ma quel che è personale in breve si corrompe; occorre proteggerlo con ghiaccio o sale ». Dunque, occorreva a Yeats qualcosa di idoneo a reg­ gere, o piuttosto imporre una « meditazione imperso­ nale»; che non tollerasse i patetismi del «punto di vista » ; capace di trasformare in segno, in luogo non umano, ogni evento, sentimento od oggetto, anche la morte. La magia, impervia, insensata e indifferente è lo strumento che lavora in geometria i gesti imperfetti e privati dei sentimenti. È anche ostinazione, imper­ sonale furore, dedizione feroce a immagini esigenti ed ingannevoli : « poco curano se Giulietta vada alle nozze, o Cleopatra alla morte; giacché nulla conta ai loro occhi, se non la passione ». La pratica della magia, il suo catalogo di gesti pri­ vilegiati e parole potenti, l’artificiale, dotta obbedien­ za alle regole delle sue operazioni, infine l’indifferen­ za alla sincerità, alle emozioni, formano, tutti insieme, una recitazione. Lo scrittore, il mago, l’attore sono fi­ gure drammatizzate, eroici guitti. La sacra funzione della menzogna, la frigida, disone­ sta ma accanita cerimonialità, consentono all’attore non i gesti agevoli e informi dell’amore, ma le tragiche figure di danza di Romeo. Protetto dagli esatti incan­ tamenti, lo scrittore indifferente inserisce un mate­ riale infimo, morituro, già morto, in una metallica, artificiosa armatura. Questo operare magico non dà accesso soltanto al tragico, ma anche al comico; e codesta comicità è es­ senziale al rapporto tra magia e mago, è l’astuzia che gli consente di operare i suoi riti, senza venirne con­ sumato. La costruzione occulta, offerta dai Comuni­ catori come matrice di « metafore per la poesia », non 93

lo interessa come rivelazione, ma per la sua disponi­ bilità a farsi usare come organica, perfetta menzogna: solo grazie a questo stravolgimento, questa sconsacra­ zione può diventare un linguaggio letterario. Ambi­ zione e imperativo dello scrittore è usare Iddio e il Diavolo come massicce figure retoriche, due cosmiche ipotiposi. Dunque: trovare una struttura sacra, e pro­ fanarla in arguzia, in recitazione. Ai gesti solenni, agli emblemi si contrappongono gli estri della farsa. Una notte la moglie sogna di essere gatto, e in tal modo disturba i Comunicatori; egli scaccia il gatto onirico abbaiando sommessamente all'orecchio della dormien­ te. La bella seguace di Madame Blavatsky coinvolta in amorose pratiche con due allievi asceti ha la intri­ cata ilarità della pochade; e se mai venne tentata una farsa teologica, la troviamo nelle pagine introduttive di A Vision: lancio coatto di stivali, innocenti festo­ samente percossi, anziani signori intenti ad insegnare al cuculo a fare i nidi. Cinicamente maneggiando la testimonianza che gli appartiene, Yeats trasforma una dubbia e invadente verità in efficiente « metafora per la poesia ». A que­ sto punto, non vi è più posto per la letteratura del « punto di vista », per la confessione umanistica. Re­ sta « l’artificio dell’eternità ». Dove erano cose maneg­ giate da uomini, sentimenti e morte, esplode uno stem­ ma: colore e disegno, segni autorevoli e tremendi. Anonimo, criptico, scostante, totalmente innaturale, lo stemma ci sfida : non significa nulla, e insieme ci as­ sedia di infiniti significati; sulla sua superficie liscia e dura i nostri occhi cercano indizi, vogliono ricono­ scere una faccia, una mano, una astrusa, illuminante allusione privata. Ma quel segno respinge l’uomo, di­ sdegna la vita: oltre, uno scrittore non può andare. Yeats aveva scritto: « Io sono una folla, sono un uomo solitario, sono nulla». [1965] 94

QUALCOSA DA DIRE

Quando uno scrittore, già noto per singolari impre­ se di romanziere e drammaturgo, ci affronta con un fascio di poesie, quasi fosse agli acerbi inizi di una incerta carriera, lo accogliamo con assai misti senti­ menti : una simpatia curiosa ma non generosa, ed anzi un poco ironica, per lo scrittore che osa esibirsi nella più ambiziosa e perigliosa delle imprese letterarie; cautela contigua alla diffidenza, giacché sa di soperchieria questo commerciar poesia sotto una insegna già altrimenti illustre; e anche una punta di deplo­ razione per il romanziere che, sospettiamo, mosso da una incauta pietas verso se medesimo, recupera i do­ cumenti di un estro da tempo estinto. Samuel Beckett sfida codesti sentimenti nelle venti poesie inglesi - datate tra il 1930 e il *48, e raccolte in volume nel 1961 - che Rodolfo J. Wilcock ha ora tra­ dotto, per la nuova collana di poesia di Einaudi. Va subito detto che, se queste poesie non sfiorano la te­ meraria intensità dei romanzi francesi di Beckett, né le capziose arguzie filosofiche del suo teatro, non sono né inutili né meramente documentarie. 95

Poesie difficili, non parafrasatali, oscure; elusive ed aggressive : affrontano il lettore con una sorta di pro­ vocazione sonora, una acredine fonica losca e rissosa. Ha qualcosa di sgangherato e lacerato, questo inglese irto di consonanti, pesantemente ambiguo, in cui le parole duramente si giustappongono, senza il riparo di alcuna sintassi. È una lingua mossa da un appena contenuto furore coprolalia) e blasfemo: tra empietà intellettuale e sordida ilarità plebea; e si alimenta della torbida miscela vocale, infima e colta, che Joyce, primo, colse per gli angiporti della sua Dublino, birrosa e cattolica. Si veda la prima, arrogante poesia: una estrema confessione di Cartesio, intitolata Whoroscope, Puttanoscopio; un Cartesio profanato, scurrile e iracondo, ellittico e impudente nella cui memoria sfinita si af­ follano immagini carnali, parole accoppiate in equi­ voci e sordidi connubi, tenute assieme da un tenace appetito per « una frittata di uova covate da otto a dieci giorni », e una invocazione di morte. L'ostinata, affettuosa empietà, l’insulto ambivalente, la pia scon­ cezza: in questa singolare poesia rintracciamo, abbre­ viati e rattratti, i temi del Beckett romanziere e dram­ maturgo e, in primo luogo, la smania di dissacrare, nella sua squisita contraddittorietà: giacché la profa­ nazione esige la presenza, ed anzi la complicità del sacro, dei suoi riti e delle sue gerarchie. Codesto sconsacramento Beckett persegue a più li­ velli : all’iracondia fonica si affianca la delirante pre­ gnanza verbale. I costrutti accolgono tutte le letture, manca qualsiasi scansione interpuntiva, le parole sono cariche di significati possibili e impossibili; ed altri ancora ne procreano aggrovigliandosi tra di loro, lu­ briche e dementi (« two lashed ovaries with prostisciutto », invoca Cartesio), o piuttosto riescono ad af ferrare per un lembo e a coinvolgere e compromettere altri innumeri significati, e così sconciarli e diffamar­ li; un discorso senza grazia ma che conferisce una de96

forme corposità, una massiccia e bieca concretezza agli oggetti che tocca: Exeo in a spasm tired of my darling’s red sputum from thè Portobello Private Nursing Home (Exeo in uno spasmo: stanco del rosso sputo della mia cara: dalla Clinica Privata Portobello); il violen­ tissimo inizio di Enueg I ci offre un catalogo di gesti beckettiani: il doppiosenso carnale, l'allusione alla morte e l'ironica riduzione dell’uomo a personaggio (exeo) insieme solenne e fittizio; l’indulgenza sarcasti­ ca - tired si accosta a darling - il lazzo dotto (sputum), il disgusto concreto e insieme simbolico; e, a conclu­ sione, l’indecorosa maestà del terzo verso, le sue men­ tite dimensioni epiche. Può sembrare una caricatura di Eliot, dei suoi pii e ascetici disgusti, questo disde­ gno così tetramente compromesso con la sua materia. Nell’opera di Beckett la poesia ha certamente una collocazione periferica: e tuttavia lucidamente ne il­ lustra una certa problematica. Beckett è dominato dal tema agonistico del rapporto col significato. Un ma­ teriale singolarmente significativo, anzi clamorosamen­ te didattico e sentimentale, preme sulla sua opera; Beckett aveva « qualcosa da dire » : per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel « qualcosa da dire » in struttura, in linguaggio; prendere la propria « verità » per i capelli e trascinar­ la in una regione in cui il vero non ha alcun privile­ gio sul falso; trattarla come la convenzione propria di un genere, o uno schema metrico, o un’arguzia allitterativa. A Beckett questo supremo compito del gran­ de scrittore è riuscito negli ultimi romanzi: in Molloy, in Malone meurt una immobile prosa tiene a fre­ no nelle sue strutture solenni tutte le disordinate am­ bizioni del significato. Nel teatro, di codesto signifi­ cato Beckett ha lasciato filtrare, con delicata malafe­ de, frammenti e presentimenti; e in questa poesia, che ha strutture meno eroiche, l’essudazione avviene na97

ruralmente. Ed è interessante vedere come, in questi testi difficili, l’oscurità non sia efficace riparo alle in­ sidie del significato. Una poesia arcana come da tagte es (si fece giorno) - Redimi gli addii surrogati / il foglio fluente nella tua mano / che altro non hanno per la terra / e il vetro terso sopra i tuoi occhi - mo­ stra come il mondo privato del sentimento possa ap­ pendersi al solo esiguo gioco fonico. Beckett poeta persegue la medesima meta che ha più felicemente toccato nelle opere narrative: ordi­ nare follia, morte, malattia, lasciandole tali, in una se­ vera, geometrica cerimonia intellettuale : fondare l’astratto sul mostruoso. Minore è, nella poesia, la ten­ sione, la fatica delle strutture; meno organica la vio­ lenza del linguaggio. E tuttavia in queste poesie Beck­ ett ha per la prima volta reso complici, per creare il suo gergo ebro e asciutto, « Thales and thè Aretino ». [1965]

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MURPHY

« La storia è un incubo da cui cerco di svegliarmi » dice Stefano, nell' Ulysses di Joyce. Se svegliarsi da un incubo privato è sempre operazione onerosa e di esito incerto, quanto più disperato ed estremo dovrà essere il gesto di chi vuol sottrarsi alla coatta e a suo modo rozzamente efficiente organizzazione della storia. Sui confini di codesta regione, governata da ipotesi eroiche ed ottimistiche, stanno doganieri pazienti e virtuosi, pronti a spiegarci minutamente i molti e de­ corosi motivi per cui non possiamo, non dobbiamo, non dovremmo volere disertare la grave milizia della società: il nostro linguaggio —ci fanno notare - è sen­ sato solo nella misura in cui lo certifica un assenso col­ lettivo; la ragione, poi, si realizza solo nelFopera co­ mune e, infine, sottolineano, da questa parte dei reti­ colati noi abbiamo tutti i nostri amici e parenti, tutti quelli che i doganieri designano del titolo di « fratel­ li »; e concludono quindi che, al di là dei posti di frontiera, non può esserci altro che incomprensibilità, solitudine e follia. Sono argomenti antichi e ragionevoli, un po’ fru­ sti, forse, come i moniti parentali sull’uso del gas o 99

sull’attraversamento delle strade di gran traffico, e c’è da stupirsi che non valgano a dissuadere i cocciuti, maliziosi asociali : tra i quali, senza dubbio, troveremo Beckett e il suo Murphy. Costui è verosimilmente protagonista dell'omonimo romanzo (Einaudi, trad. di Franco Quadri): ed anzi credo dovremmo considerare questo singolare libro un pio manualetto, un poco agiografico, una traduzione alla vita esemplare del transfuga, piuttosto che una in­ gegnosa narrazione. Beckett scrisse questo, che è il suo primo romanzo, nel ’35: e pertanto non è privo di certe minute pedanterie didattiche e documentarie, che poi verrà eliminando dalla sua opera. È, insomma, il primo gradus al parnaso della sublime, liberatoria decomposizione. Vi sono vari modi per attuare la fuga, la definitiva diserzione: estasi, malattie quanto più è possibile lai­ de e disumane, delirio, catatonia, paralisi e morte. Murphy diteggia estrosamente, e non senza allegria, questi aspri strumenti di liberazione. Vediamo più minutamente in che consista, come si attui la sua maliziosa diserzione. Murphy, irlandese di Cork, abita « nel vicolo del Bambino Gesù, WestBrompton, Londra » ; lo troviamo, nella prima pagi­ na, sulla sua sedia a dondolo, su cui si è legato, nudo, con sette fasce, che gli consentono « solo brevi movi­ menti locali»; una sedia, si noti «in teak naturale, garantita contro ogni difetto di fabbricazione, compre­ si gli scricchiolìi notturni»; apprenderemo più avan­ ti che egli rifiuta qualsiasi connessione tra causa ed effetto, e che professa una arcaica concezione di spiri­ to e corpo, inadeguata quanto basta per distoglierlo da ogni ulteriore ricerca di vero e falso e per avviarlo ad una minore forma di estasi : « Murphy si sentiva spaccato in due, da una parte un corpo, dall’altra uno spirito. Apparentemente comunicavano, altrimenti non avrebbe potuto sapere che avevano certe cose in comune. Ma sentiva che lo spirito era impermeabile al corpo, e non capiva per quale via si effettuava la 100

comunicazione, né come le due esperienze straripasse­ ro una neiraltra. Era persuaso che tra le due non ci fosse azione diretta. Non pensava un calcio perché ne sentiva uno, né sentiva un calcio perché lo pensava... Forse c'era al di fuori del Tempo e dello Spazio, un calcio non-mentale, un calcio non-fisico, nell’assolu­ ta eternità, oscuramente rivelato a Murphy in quelle due forme correlative di intendimento e di distendi­ mento, il calcio in intellectu e il calcio in re. Ma dov’era dunque la suprema Carezza?»; Murphy, poi, rifiuta di lavorare e prima rilutta poi si sottrae al­ l’amore; infine egli coltiva il disgusto di sé, le malat­ tie, la morte. A raccontare questa storia ilare ed angosciosa, Beckett usa un discorso che oscilla tra un appena rico­ noscibile mormorio di fondo, ed una tensione ustio­ nante, contrassegnata dall’apparizione di talune im­ magini, specialmente intense e significanti : il cata­ logo include, appunto, le malattie, gli escrementi, le deformità, ogni indizio, infine, della intrinseca im­ mondezza del reale. È un catalogo squisitamente ascetico, e il furore di cui si accende il linguaggio, a contatto di queste presenze, ha qualcosa di estatico. Coltivando la sua meravigliosa, articolatissima coprofilia, delibando immondezze, retoricamente indugian­ do su ogni sorta di liquame, Beckett dispiega una ac­ corta, efficiente difesa contro ogni insidia dell’otti­ mismo vitale, ogni astuzia delFistinto: e proprio die­ tro quella linea difensiva di deiezioni e sanie collo­ ca la dignitosa demenza dell’uomo. Murphy, pertanto, non solo si apprende ai propri morbi, ma li isola con paziente, dispettosa pervica­ cia, ed anche usa in prospettiva della propria morte, e se ne serve come un illustre predicatore potrebbe servirsi di una figura retorica prestigiosa e straordi­ nariamente efficace. Purché lo aiuti a questa opera di preparazione interiore, egli finirà anche per ac­ cettare un lavoro, quanto mai simbolico: far da guar­ diano di matti in un manicomio; come è ovvio, Mur­ ic i

phy ama e rispetta grandemente i pazzi, « svezzati » dalla realtà, «sfuggiti a un fiasco colossale». E in quel manicomio, o piuttosto « santuario », egli vivrà le sue rare ore serene, culminanti nella eterna parti­ ta a scacchi col signor Endon : « Al mattino al suo arrivo, Murphy sistemava i pezzi sulla scacchiera in un angolo tranquillo di una sala di ricreazione, fa­ ceva la sua mossa (prendeva sempre i bianchi), se ne andava, ritornava a trovare la risposta (la risposta!) del signor Endon, se ne andava, e così via per tutta la giornata. Si incontravano assai di rado davanti al­ la scacchiera ». « Per quel che concerne la disposizione dei qui allegati corpo, spirito e anima » leggiamo nel testa­ mento di Murphy, aperto dopo la sua morte, « desi­ dero che siano bruciati, messi in un sacchetto di car­ ta e portati all’Abbey Theatre, Abbey Street, Du­ blino, e di là, nei gabinetti, dove hanno trascorso le loro ore più felici, a destra, scendendo alle poltrone di prima fila, e desidero che sopra di loro, preferibil­ mente durante lo spettacolo, sia tirata l’acqua dello scarico... ». I funerali di Murphy saranno veramente anche più atroci ed esemplari: i suoi resti finiranno dispersi in una rissa d’osteria, e scopati via « con la segatura, la birra, le cicche, i cocci rotti, i fiammiferi, gli sputi, i vomiti ». È un finale retorico ed edifi­ cante: ma Beckett è anche un grande rètore, esperto a destare onesti e immaginosi terrori, fantastico in­ ventore di inferni senza Dio al centro dei quali ha collocato la solitaria, orrenda e intelligente risata del­ l’uomo «pericoloso a sé e agli altri». [1962]

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IL SICARIO ADRIANO

Ben raccontato, imprevedibile, estroso, scritto in una prosa elegante e insaporita di ragionevoli biz­ zarrie, VAdriano VII di Frederick Rolfe si legge age­ volmente: ma è agevolezza ingannevole. È libro scon­ certante non solo per la favola che propone - il mi­ serabile cacciato di seminario che sale al trono pon­ tificio, riforma ed emenda Chiesa e mondo -, per le macchinose fantasie ideologiche, per l'eccitato fervo­ re delle perorazioni; ma per la costante ambiguità, una inquietante commistione di grandezza e di gof­ faggine, quasi il continuo ritornare di un errore di pronuncia, o di un infimo solecismo in un discorso affascinante e temerario. Può essere un pamphlet contro il burocratico inaridimento della Chiesa; ma il lettore attento avverte che il gusto dell’accusa, del­ la lamentazione ha la meglio sull’argomentazione parenetica. E le idee sono predicate come tali, o non sono piuttosto sfarzosi ordigni concettuali, apparati stupefacenti di una fittizia regalità? E codesto sfarzo è da godere per la sua avventurosa estrosità, un po’ fin de siècle, un po’ esoterica, o dobbiamo ricono­ scervi il sinistro lusso che addobba la mente del folle? 103

Rolfe ebbe esistenza sventurata e torbida; come Mr. Rose, il protagonista di Adriano VII, seguì studi re­ ligiosi, visse anche qualche tempo a Roma, ma venne poi allontanato dal seminario; e di quel rifiuto, di quel negato accesso a quella che egli riteneva la sua vocazione, restò nella vita di Rolfe un segno fondo e irreparabile; ed attorno a quel diniego si raccolsero inesauribili rancori, patetici furori, ribellioni inani e disperate. Rolfe era non solo uno sventurato, ma un essere torbido e sordido, omosessuale, corruttore, per denaro, di minorenni, mezzano e parassita. A Ve­ nezia, in cui visse a lungo e dove morì a poco più di cinquantanni, campò di espedienti, alternando sup­ pliche, impudenti offerte, sdegnosi rifiuti, volta a vol­ ta amico, complice, accusatore, mescolando abiezione e patetica indipendenza. E tutto questo furore mali­ gno si illumina di qualità sacra: non si tratta di im­ moralità, ma di una elaborata empietà. Rolfe fu, dice Greene, come l’Enoch Soames di Beerbohm, un « diabolista cattolico»; ha bisogno di religione, perché solo un sistema di dogmi e riti gli consentirà di riconoscere infallibilmente i luoghi da profanare. Solo Iddio può dargli l’indirizzo del Dia­ volo; ed anche il Diavolo è un credente, anzi uno dei più documentati, e la sua colpa non è certo la tiepi­ dezza, ma piuttosto un calore insieme eccessivo e mal distribuito. Come accade, il commercio col Diavolo, l’ambiva­ lenza del sacro, la condizione di reietto, la genialità e la refrattaria arroganza alimentarono nella mente di Rolfe un discorso coerente e a suo modo illumi­ nante, che ha un nome clinico pertinente: paranoia. Illuminante ho detto: giacché in Rolfe noi assistia­ mo ad un rarissimo, improbabile miracolo, alla affa­ scinante riuscita di un esperimento assurdo: la fol­ lia genera un universo, diventa un linguaggio. Altri affronta la follia con la lucida ostinazione di un lin­ guaggio duramente coerente; altri ne mima gli estri in un discorso ai margini dell’esprimibile; e c’è an­ 104

che chi riesce a coltivare piccole, domestiche follie. Ma Rolfe è agli ordini della propria follia; ne è il complice, il mezzano. Mette al suo servizio il suo bel linguaggio, la fantasia temeraria, il piacere di misti­ ficare, una splendida malafede, che è anche la mala­ fede dello scrittore, ma non solo quella. A questo punto, la chiaroveggenza non si distingue più dalla demenza. Nello specchio minimamente, ma indubi­ tabilmente deformante, l'immagine che pareva esat­ ta e luminosa si popola di indizi mostruosi. Come quelle belve fiabesche che hanno occhi ragionevoli, voce mite ed umana, pelle candida, ma che si tradi­ scono - e debbono tradirsi, perché fa parte del gioco che non sappiano di essere mostri - quando rivela­ no le enormi mani unghiute e coperte di peli non umani. La storia dell’ascesa di Mr. Rose da reietto a pon­ tefice è insieme un mito e una favola privata. Rolfe si identifica con Rose, ma non alla maniera dello scrittore emotivo che consuma una rozza incarnazio­ ne passionale nel proprio eroe; Rose non è l’eroe, è piuttosto il sicario, e Rolfe è il mandante. Adriano VII accusa, perora, ammonisce, perché quella parte s’è scelto, quel travestimento, e per questo egli s’è imparato riti, dottrine, linguaggio ecclesiastici; solo la follia sa essere totalmente coerente nella sua simu­ lazione; solo il demente conosce la malafede totale; quelle nobili orazioni, quei solenni e accorati richia­ mi al Vangelo sono il contrario di quel che mostrano di essere: sono frodi, e sevizie, e uccisioni. Il sicario Adriano, come una bambola affatturata, che nel suo corpiciattolo fetale porta attorno tutte le sventure e gli orrori di chi l’ha plasmata, è carico delle torve ossessioni del suo mandante; ogni gesto traveste il suo isterismo; il rancoroso vittimismo si fregia del­ l’aureola del martirio; e il candore della malvagità copre ogni cosa. Persuaso, come esattamente ritiene il matto, di essere vittima di una congiura universa­ le, il guitto pontificale è impegnato in una parte co­ 105

smica; Dio e il mondo debbono riconoscere che egli è buono, è il santo, è il solo che possa salvare gli uo­ mini. E per un errore di prospettiva che ci avverte quali fondamenti abbia questo furore cosmico, noi vediamo che la grandiosità della fantasia copre ogget­ ti poveri e privati: Adriano VII assicura l’universo che egli non deve venti sterline alla vedova del car­ tolaio Crowe, «per oggetti di cancelleria». Libro di un lucido sarcastico mitomane, fantasia apocalittica e pettegola, querula e magnanima in cui l’ambiguità classica affronta l’impudicizia della fol­ lia, Adriano VII è delizioso, patetico e sconcio. È una guitteria di gran classe che, per perpetrare la sua minima fine del mondo, mette in opera false ideo­ logie, mentiti sdegni, miracoli truccati, maschere e travestimenti; di vero e talora grande, resta la fecon­ da, letale follia, un rancore inconsolabile, illumi­ nante. [1965]

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ISOLE VOLUBILI

La pubblicazione simultanea - che ha, si direbbe, l’educativa goffaggine della parabola - di due tradu­ zioni del Robinson Crusoe, ci ripropone il problema critico di questo singolarissimo libro, insieme casua­ le e sapiente; due editori colti, in elette collane, ci offrono in due traduzioni eleganti ed attente (Lodovico Terzi, edizioni Adelphi; Antonio Meo, Einaudi) questo classico di meraviglie bibliche e plebee, la fa­ vola ingegnosa di un pennivendolo fallito, di un av­ venturiero pervicace e maldestro. Apparso nell’aprile 1719, il libro conobbe in bre­ ve le più strepitose fortune: un pubblico incolto, avido di onesti stupori e di edificanti apprensioni, riconobbe nel Robinson il libro nuovo, ambiguo, af­ fascinante e sommario, qualcosa di stupefacente: un romanzo. E da due secoli e mezzo ci accompagna, ir­ to cetaceo, monstrum che elude i naturalisti, eccita gli incolti e turba i pensosi come emblema e indizio di insondabili, illuminanti orrori. Dove si fonda, più che il fascino, l’inesausta terri­ bilità di questo libro? Perché, una generazione dopo l’altra, ci lasciamo irretire da queste avventure che 107

imparammo a conoscere nelle massicce edizioni in­ fantili, e che ci appaiono sempre inedite; e cerchia­ mo e paventiamo i solenni terrori, le angosce solita­ rie, i tremori e le misurate audacie del marinaio di York? Noi sappiamo: non soccomberà sotto l’aggres­ sione delle magnifiche, impersonali ondate; non pe­ rirà neirisola, preda di belve e selvaggi; conosciamo il mistero dell'orma nella sabbia; eppure sempre la storia smuove in noi intatte emozioni. Dunque sono, questi, terrori, tremori, speranze, ringraziamenti più fondi di quel che può suggerire l'identificazione pas­ sionale col personaggio; la solitudine di Robinson mima una storia più grave ed oscura che, a nostra pro­ tezione, resta in noi per solito inarticolata. Il Ro­ binson è un mito: e ci domina non dilettandoci con una mera narrazione di eventi, ma guidandoci a ta­ luni nodi di privilegiato sgomento e rivelazione. Un recentissimo libro (Maximilian E. Novak, Defoe and thè Nature of Man, Oxford University Press) documenta lo sfondo intellettuale dei romanzi di Defoe: non certo il fondamento filosofico, che sareb­ be improprio cercare in una intelligenza tanto farra­ ginosa e frettolosa, ma piuttosto una certa temperie mentale, certe formule concettuali del tempo. Defoe avrebbe collocato i suoi eroi in una condi­ zione di « stato di natura » : condizione inospite ed aspra, e tuttavia duramente logica e compatta, domi­ nata da imperativi anelastici, ineludibili: sopravvi­ vere, procurarsi cibo e rifugio. Lo stato di natura è necessariamente presociale, e ignaro di leggi, e colui che lo abita non ha presidio alla propria salvezza se non nella spregiudicata frodolenza o fuga o crudel­ tà. Dunque, è condizione di intrinseca solitudine. Ma la solitudine è innaturale: l'uomo è siffattamente so­ ciale che « it is not good for him to be alone... it's really impossible he should be alone ». Dunque, lo stato di natura è innaturale. Questa scattante contraddizione illumina tutti i personaggi dei romanzi di Defoe: Moli Flanders, 108

Roxana, Singleton, abitano alla periferia della socie­ tà, hanno duri istinti di animali non protetti da al­ cuna istituzione, alcuna pietas collettiva; parte di­ samano, parte amano la loro solitudine; e, comunque, essa è il loro destino. Guardano la società non come preda, ma come luogo di certa e protetta convivenza, confermata da consuetudini e gesti religiosi: l'unzio­ ne religiosa di Moli, la sua piccola e mite ipocrisia, hanno il patetico fascino di riti imperfettamente imi­ tati e tuttavia in qualche modo efficaci. Ma, al di sopra di codesti personaggi, Robinson Crusoe grandeggia con l'inconsapevole imponenza del mito originario. La sua solitudine è perfetta; la sventura, paradigmatica; la sua pazienza ha la sacra devozione di un dovere non dedicato ad alcuno, è un rito perfezionato nel deserto. Come l’animula di un antico morto irrituale, Robinson è sottoposto a pene che non sono punizioni, a fatiche orribili ed oscure, che alla fine si riveleranno piene di significato. Robinson non ha voluto intendere i moniti della Provvidenza: ha scelto per sé la naturalità. Di conse­ guenza, si troverà costretto a sperimentarne la coe­ rente gravezza senza interruzione, senza difesa; verrà collocato in una condizione totalmente disumana, perché totalmente naturale. Ma, e solo a poco a poco egli se ne avvedrà, appunto la naturalità estrema del­ la sua condizione ha il segno del destino; la sua ri­ bellione non è stata né punita né stroncata, ma tra­ sformata in testimonianza. Ridotto ad esperienze insieme enormi ed anguste, rinchiuso in un’isola di poche miglia quadrate, Ro­ binson è costretto a compitare gli elementi primi del­ la sua esistenza. Nello stato di natura non si danno gesti naturali, tutto è fatica, gesto volontario, scelta. E dunque ogni istante, ogni movimento, ogni ogget­ to si caricano di senso, giganteggiano mostruosamen­ te. Notti secolari separano un tramonto da un’alba, l’ispezione mattutina verifica i confini di un regno. Ogni luogo è spaventoso e colloquiante. Nel Robin­ 109

son non ci sono eventi, ma schegge di significati, riti involontari, ieroglifici. Si è sovente voluto vedere in Robinson l’incarna­ to homo oeconomicus: che può esser vero, nella mi­ sura in cui quella finzione riporti alle condizioni dello stato di natura. Si è anche osservato come Ro­ binson opponga alla stremità della propria esistenza l’esattezza concreta del lavoro manuale; così da te­ nere a bada le aggressioni della disperazione, le ten­ tazioni del delirio. Ma forse è verità parziale : Robin­ son non è un umanista tecnologico; più della sua ef­ ficienza, conta la sua miope pazienza. Essa è teoreti­ camente inutile: ma proprio perché Robinson atten­ de accanitamente al suo compito di animale inteso a sopravvivere, proprio perché ha duramente operato, gli si consentirà alla fine di sfiorare l’esperienza visio­ naria. Dopo aver tratto il grano dal suolo vergine, Robinson è ammesso all’apertura casuale del libro, airintelligenza del versetto inatteso. Nella prefazione alla sua traduzione, Terzi insiste sulla praticità robinsoniana, sempre attenta al com­ pito immediato, al business. Ma poi ci avverte che la pianta dell’isola è incoerente, contraddittoria. Defoe non s’era disegnato una mappa, e gli accadeva di dimenticare le misure date di volta in volta, confon­ dere le correnti, dimenticarsi promontori e insenatu­ re. Dunque, mentre scriveva questo romanzo della praticità, Defoe era estremamente impratico; l’isola, che egli sa descrivere passo per passo, si dissolve in allucinazione; è più simile all’isola della Tempesta shakespeariana che non all’Isola del tesoro stevensoniana. È un gesto illusionistico, che presuppone ap­ punto che la realtà sia altra cosa da quella che appa­ re. Letterariamente, è la stessa cosa delle mentite sta­ tistiche dell’erm o della peste. L’isola non è un luo­ go, ma una situazione: dunque, è ragionevole che abbia coste volubili. È l’assenza di luogo, storica­ mente e socialmente,' e dunque il luogo privilegiato, idoneo alle penitenze ed alle rivelazioni. Nella prefa­ 110

zione ad una edizione ottocentesca, Kingsley definì Robinson «monaco protestante». Ma al destino di Robinson sono necessarie l'iniziale coazione, la pia e amorosa brutalità degli eventi. Con un misto di unzione, di malfida pietas, e for­ se di incolta intuizione, Defoe descrisse i suoi libri come « parabole » ; e parve toccare il centro della sua ispirazione quando, rivendicando a quelle favo­ le la libertà dell’improbabile pratico e del necessa­ rio esemplare, le definì « moral Romances ». [1964]

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IN ONORE DI IVY COMPTON-BURNETT

Ivy Compton-Burnett, scrittrice settantenne, è, a mio avviso, il massimo romanziere inglese di oggi: ed anche il più singolare, provocatorio e illuminan­ te. È scrittrice difficile e solitaria: donde le sue len­ te e ancora anguste fortune critiche. Ivy Compton-Burnett ha scritto finora meno di una ventina di romanzi: caratterizzati, tutti, da un impianto rigorosamente artificiale, un linguaggio nu­ do ed astratto, una trama improbabile e una ambien­ tazione fittizia. Il dialogo prevale sulle parti narra­ tive, che si riducono a mere didascalie. È un dialogo sconcertante. Del tutto innaturale, articolato per pre­ posizioni che hanno la dura e artefatta coerenza de­ gli esempi grammaticali, per parole gravi di sensi, duramente allusive, appena articolate. I singoli per­ sonaggi non hanno che un indizio di voce privata. Nessuna concessione al naturalismo, al realismo, al verosimile. Il romanzo è un artificio, ad ogni livello. La lingua è un inglese intellettuale, ellittico, niente affatto « moderno », gremito di citazioni implicite, ignaro di esclamazioni, scandito da una nuda inter­ punzione in proposizioni brevissime; assente la sin­ 112

tassi; le battute si giustappongono e contrappongo­ no dure, incordiali, provocatorie, legate solo dalla tensione intellettuale: perverse e rancorose sticomitie. Sulla scena accadono rari eventi, esemplarmente rovinosi: morti improvvise, scoperte di vergognosi e fatali segreti. I dialoghi, disposti lungo un arco di anni, per concise allusioni colmano le lacune della « storia ». Concentrando tutto il peso del « racconto » sui dialoghi, la Compton-Burnett, con altissima astuzia retorica, ha posto gli eventi interamente al di fuori della pagina. La parte raccontata copre una esigua zona: e quella ha un suo acre, insopportabile splen­ dore; ma ai margini di quella nasce il buio totale, la notte in cui accadono gli eventi; e ad ogni parola, ogni battuta degli impeccabili dialoghi compete il suo glorioso alone di tenebre. Ne viene una sonori­ tà innaturale, senz’eco, giacché, mancando ogni om­ bra intermedia tra luce e tenebre, dietro alla parola scritta fulmineamente si apre un enorme spazio, che le conferisce una dignità enorme, orrenda. Le trame di questi romanzi sono di assoluta arti­ ficialità: sembrano mescolare i gelidi orrori della tragedia classica con le improbabili avventure della commedia. Due giovani che si amano e sono in pro­ cinto di sposarsi scoprono di essere fratello e sorella; lettere dimenticate in un cassetto svelano antichi adulteri; un gesto casuale illumina tristi e irrepara­ bili passioni. I personaggi agiscono in un universo di reticenze, allusioni, sospetti; ognuno tiene nelle proprie mani un frammento dell’esile vita altrui, in ognuno splende una ferma, sommessa, lucida volontà omicida. Assenti le mozioni degli affetti, non v’è traccia di amore, di tenerezza, di indulgenza o lan­ guore; non v’è alcun abbandono alle sensualità del­ l’anima; ogni gesto è governato da un altero ranco­ re, coerente e perentoria invenzione stilistica. Il mon­ do di Ivy Compton-Burnett è totalmente infernale: ma le sue rovinose ustioni sono protette da ostinati, 113

empi understatements. I personaggi abitano grandi dimore di campagna, scenografie irreali appena di­ segnate. Tra quelle mura, sopraffattori e vittime, le­ gati da una mostruosa complicità, consumano una torbida e feroce collaborazione, squisitamente dome­ stica. Non il tema, non il personaggio, non una « mora­ lità » stanno al centro dei romanzi della ComptonBurnett: ma la struttura, il freddo gaudio intellet­ tuale che viene dalla composizione di un ordigno perfetto, di un artificio disumano, qualcosa che è in­ sieme matematico e rovinoso. In Ivy Compton-Burnett ammiriamo questo raro, scostante orgoglio del­ l’intelligenza, di una fantasia impietosa ed esangue. T utti i materiali di cui è formata la macchina del romanzo, dialoghi, uscite ed entrate, amori e mor­ te, sono dati, strumenti per comporre una struttura cerimoniale e geometrica. In una intervista di qualche anno fa, la scrittrice ebbe a osservare: « Mi sembra che un libro debba avere una struttura. Forse è una idea antiquata: ma certi libri moderni che non sono nient’altro che ri­ tagli di pezzi di vita, privi di qualsiasi struttura, mi lasciano perplessa. Per me non è naturale scrivere a quel modo. Mi occorre un fondamento osseo - a bo­ ne foundation ». E nella stessa intervista, alla do­ manda se ella non ritenesse giusta per i suoi roman­ zi, che ignorano la consolatoria punizione del colpe­ vole, la definizione di « amorali », rispondeva: « Non del tutto. A me poco importerebbe essere definita amorale: ma debbo aggiungere che non mi pare che, nella vita, i colpevoli vengano puniti. È una convenzione letteraria. Nell’insieme, ho l’impressio­ ne che il delitto renda ». [1966]

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PARTE SECONDA

LE FOLE DI O. HENRY

I racconti di O. Henry non offrono, sotto nessun punto di vista, una lettura problematica. Sebbene siano brevi e rapidi, spesso ristretti in poche pagine gremite di eventi, la loro dinamica è modesta; qua­ le che sia il groviglio di sentimenti e fantasia da cui nascono, non hanno nulla di inquietante, di aggres­ sivo. Presuppongono, attorno al lettore, un certo ozio, un agio breve ma non fittizio: per chi è abi­ tuato alla letteratura còme virtù, O. Henry è un mo­ desto, circoscritto vizio. Un vizio, aggiungerei, un poco infantile, come quello che talora spinge uomini di palato discriminante a indulgere a modesti dol­ ciumi da fiera, di ambizioni sobrie e riposanti: dolci minorenni. Anche il pericolo di uscire, dalla lettura di codesti racconti, più intelligenti, o comunque mi­ gliori, più disposti alle aspre imprese della moralità è, direi, nullo; il mondo morale di O. Henry è lar­ gamente sociale, e di una società, quella americana del primo anteguerra, provinciale ed incolta; per­ tanto, priva di ogni prestigio, e più che perenta, démodée e un po’ risibile; certe astinenze e cortesie, certe grazie socievoli e galanti sono pezzi di infimo 117

antiquariato; né O. Henry può dirsi propriamente intelligente, come a dire callido ricercatore e inven­ tore di problemi e documenti illuminanti. È altra cosa: uno scrittore divertente, straordina­ riamente amabile; cattivante in modo irresistibile, per chi abbia il gusto della ciarla erratica e svagata, delle favole oziose e improbabili, e nelle fantasie assurde, nelle imprese provocatorie del cantafavole sappia gustare il gesto della metafora e dell’iperbo­ le, la libertà della pura e semplice menzogna. Ci af­ fronta e cattura con indifeso candore; malizioso e dabbene, discreto quanto intollerante di dinieghi, ci irretisce in una euforica, ma mite, affabilità cui è difficile far contrasto; compagnevole e costumato, ci sollecita a momentanea astinenza da ogni forma di superiore vita intellettuale; ci degrada, parte rilut­ tanti, parte consenzienti, come un vinello conviviale, temperato ma insinuante, caldo di una spuria frater­ nità, che ci lusinga ad allentare le solenni imbraca­ ture delle inibizioni. O. Henry è l’uomo delle va­ canze; un entertainer, un corruttore. Scrittore modesto, come corruttore è nobilissimo; abituati alle infime veneri della nostra industria del divertimento, ritroviamo in costui il decoro del bel lavoro eseguito con gli strumenti appropriati, l’one­ stà cortese, la disinvoltura non senza goffaggine del galantuomo, infine la discrezione, la pacatezza di una civiltà umile ma non ignobile. Ci alletta con pretesti frivoli, ma non villani o compromettenti; non vuole né aggredirci né stordirci: ma è anzi mosso da una certa generosa abundantia dell’anima, un fervore né inetto né indiscreto, che vuole vederci svagati e cor­ diali. E nemmeno si immagini che sia scrittore di straordinaria, ingegnosa malizia, che sappia esibire artati effetti speciali; oh, no: è veramente, come uno dei suoi personaggi, il prestigiatore dilettante « cui riesce il gioco dell’ovo »; ed è parte non piccola del­ la sua amabilità, codesta modestia e pulitezza di mez­ zi e fini. 118

Dopo quel che s’è detto, va da sé che O. Henry è un fatuo, un frivolo; che il suo mondo concettuale è infantile, la sua moralità o timida o filistea; che i suoi giochi di destrezza sono da fiera paesana e per­ tanto incongrui in un’età che ambisce a produrre ilarità e diporto su scala planetaria; che, infine, è non di rado incondito e talora goffo. Ma forse non è onesto né saggio seviziare di così ovvii sdegni critici quest’uomo mite e programmaticamente inoffensivo, questo bucolico serpente a sonagli che ti tiene avvin­ to con occhi miopi e buoni, e non ti pietrifica con sibili letali, ma con canzonette orecchiabili e volgarucce. Può essere che, a saperlo prendere, a saperlo lusingare con ami ed esche di altra fattura, come il suo Jeff Peters, O. Henry abbia qualche sua minu­ scola, ma autentica favola da raccontare. Non cercheremo dunque nelle sue storie signifi­ cati e valori, a qualsivoglia livello; né cercheremo compenso nel suo mondo sentimentale; ma non ci sfuggirà la sveltezza, da animale narratore, della sua astuzia naturale, la sua furbizia da innocente volpecula, pronta d’occhio e zampa a trovare la traccia che la condurrà alla preda; l’orecchio infallibile per i tempi delle entrate e delle uscite, da buttafuori in­ sieme istrionico e matematico; l’agevolezza leale e cordiale con cui sa cogliere e porgere le situazioni, intricare e districare matasse grovigliose ma non mai confuse; il gusto mimetico con cui rifà le voci dei suoi personaggi, con quella intenzionalità caricatu­ rale che sollecita l’ilare compiacimento del lettore; in­ fine, il gusto innocente della burla, della beffa che egli trama a confusione del lettore. Come Judson Tate di Una storia istruttiva, gran parlatore e uomo bruttissimo, « mascherone gotico con lingua d’argen­ to » che grazie alla sua eletta laringe innamora di sé la meravigliosa Anabela, e racconta una storia arabe­ scata e spagnolesca di amori, gelosie e assurdità, al solo scopo di vendere una scatoletta di pastiglie per la gola, al prezzo di mezzo dollaro. 119

Non diversamente da costui, O. Henry ama mette­ re in movimento ordigni narrativi di grande solen­ nità, alzare policromi pennoni e lanciare mongolfie­ re avventurose, per poi sgonfiare, ammainare e spe­ gnere le sue astute macchinazioni in una battuta, un anticlimax frustrante e liberatore: operazione bellis­ sima, a vederla fare con tanta destrezza, ma che esi­ ge una frivolezza di grado eroico, difficile ed esigente come tutte le autentiche, profonde vocazioni. Così, il fragoroso Quattro di luglio nel Salvador mette in scena una rustica festa con arrosto, una bisboccia di americani in esilio, intossicati di alcool e amor pa­ trio deluso, che inconsapevolmente si trasformano in protagonisti decisivi di una rivoluzione liberatri­ ce; e II momento della vittoria spiega quanto contri­ buisse Willie Robbins alla vittoria americana sugli spagnoli a Cuba, e come egli eseguisse le sue temera­ rie imprese solo per poter rispondere a tono a Myra Allison, che, ad un ballo domestico, s’era presa gio­ co di lui: sublimazione epica dell 'esprit de Vescalier. Così l’epicità degli eventi, la dimensione della leggen­ da, è invilita a volatile filastrocca, a esile nuga. È il gesto di ridimensionamento non ideologico proprio del narratore popolare; gesto non di rivolta, ma ef­ fimera fuga. Non direi che codesto modo di trattare la materia indichi ambizioni realistiche; si tratta, piuttosto, di un conflitto al livello della favola, tra leggenda im­ personale e collettiva, e microscopico aneddoto indi­ viduale; è una lite tra due umori della fantasia, ed è logico e onesto che la meglio tocchi all’estro più umile e svelto. S’è detto che O. Henry è un galantuomo e genti­ luomo: se ascoltiamo i suoi discorsi, analizziamo le sue storie, consideriamo le situazioni che lo sollecita­ no a narrare, non troveremo mai nulla di men che decoroso; come si dice faccia il pipistrello nel suo volo, O. Henry evita, elude, tace, e con tanto agevole prontezza che nessun segno di innaturale fatica o 120

coazione mortifica il suo gesto. Il silenzio sul sesso è totale; rigorosa la sordina imposta agli atti di vio­ lenza; impeccabile la traduzione in linguaggio civi­ le dei presumibili eccessi verbali degli irregolari. T ro­ veremo fidanzati capricciosi ma non infedeli; sposi innamorati ma non passionali; coniugi vessatori ma leali. Per poter raccontare le sue storie, O. Henry ha espunto dal suo campo visivo tutto ciò che poteva essere variamente minaccioso e oltraggioso; quindi O. Henry, oltre che un frivolo, è anche un disonesto. Per ritagliarsi il suo mondo, O. Henry ha mano­ vrato le forbici sulla mappa dell’esistenza così da escludere rigorosamente tutti gli « hic sunt leones»; per farlo con tanto minuto rigore gli ci è voluta la mano ferma, e la improntitudine della persona dab­ bene; alla fine, ha potuto eleggere domicilio narra­ tivo in una zona angusta, anche innaturale, ma abita­ bile e non sterile; una zona che in letteratura ha avu­ to una larga non conclusa tradizione: chiamiamola Arcadia. Tanto netto e pulito è stato il lavoro delle forbici che nemmeno si avverte la cicatrice del confine; per sua vocazione, l’Arcadia è un’isola. Il mondo di O. Henry, la tribù dei suoi personaggi, non mostra trac­ ce di sviluppo anormale, o comunque coartato; ha le dimensioni congrue a quel genere di vita, e vive una vita apparentemente integrale. In realtà il rac­ contatore ha inventato esseri umani decenti, affettuo­ si, asessuati, efficienti; incapaci di passioni ingover­ nabili; di rado violenti; in breve, ingegnosi violato­ ri della legge, ma ignari della drammaticità del male, e pertanto immuni dalla impaccevole dignità che viene dall’esser partecipi di peccato. Ciò spiega come egli sia riuscito nella più improbabile delle sue im­ prese narrative: il racconto di vite di irregolari né blasfemi né sanguinari né libertini. Si veda Assalto al treno, che è una delle cose migliori di O. Henry. Codesta esclusione ha ovviamente delle motivazio­ ni sociali: O. Henry scriveva per una classe media 121

ancora fedele alle regole del gioco vittoriano; ma nasce, anche, da un oscuro e complesso compromes­ so tra rivolta e ossequio; a noi interessa, ora, perché O. Henry ne usò come di strumento essenziale per l’invenzione del suo mondo narrativo. Come s’è det­ to, O. Henry non spoglia i suoi personaggi di sessua­ lità e brutalità, ma li taglia nel legno dolce della sua fantasia in modo che nascano immuni da codeste in­ decorose tare del mondo reale; li fabbrica piccoli e completi, adatti ad abitare i minuscoli appartamenti dei racconti loro assegnati. Insomma, codesto artificiale dimidiamento, code­ sto rimpicciolimento delle membra dei personaggi, come fanno delle piante i perversi topiarii, corri­ sponde ad un disegno letterario : se non ad una ideo­ logia, certo ad una coerente prospettiva della fan­ tasia. Nell’Arcadia, mondo escluso dalla villana dialetti­ ca dell’esistenza, non si hanno esperienza, né storia, né violazioni di leggi eterne, ma tutto è recitazione e didascalia, e non si conosce altra luce se non quel­ la che scende da una calcolata, amica falsità. Non tro­ veremo il male, ma i «cattivi »; non la miseria, ma una sentimentale indigenza, un cascame di bohème; non odio, ma dispetto puerile; non sopraffattori, ma tiranni da operetta; non sventura, ma jella; infine, non amore, ma fidanzamenti e matrimoni. E tutta­ via sarebbe inesatto definire « falso » questo mondo; non è fittizio: è recitato. I suoi personaggi hanno di­ mensioni di perpetui infanti e adolescenti: gioco­ ioni, mitomani, affettuosi, psicologicamente somma­ ri. Morigerati anche se rumorosi, gentili anche se estrosi avventurieri, la loro sregolatezza non oltre­ passa i limiti di un ragionevole disordine nei cibi e nelle bevande. Divertenti, commoventi, intimamen­ te gentili, sono cuccioloni tra rissosi e giocosi, che, debitamente traumatizzati, si convertono — secondo le leggi di un mito squisitamente arcadico - agli im­ perativi della moralità tradizionale. È loro data li­ 122

cenza di ubriacarsi, giacché per classica e colta tra­ dizione un ubriaco è buffo, quando si tenga lontano dal comportamento «ripugnante e molesto»; posso­ no anche indulgere ad una moderata follia, giacché, in un contesto debitamente lavorato, anche un ma­ niaco depressivo a comportamento ciclico - come Cal­ liope Catesby - può essere estremamente dilettoso: tanto più che è sufficiente il più irreprensibile degli elettroshock - una madre - per ridurre a più rego­ lati costumi l’estroso demente. I poveracci che dor­ mono sulle panchine, come Soapy e Stuffy, sono tan­ to più amabili perché assistiti da una intima voca­ zione alla dignità; una banda dedita all’abigeato è una comitiva di rustici in scampagnata; in nessun caso ci troviamo di fronte alla tragedia e, propria­ mente, nemmeno alla commedia, che nel suo gesto vitale e potente può assumere tutta la dinamica del tragico. Anche la morte in questi racconti - si veda La stanza ammobiliata - veste morbidi veli senti­ mentali. A reggere ed alimentare codesta invenzione regres­ siva, O. Henry trovò varie arguzie di stile e tecnica: in primo luogo, si lavorò un linguaggio parte faceto, parte solenne, parte retorico e anche un poco, e non inutilmente, ignorante. È un linguaggio, o piutto­ sto un tono, ornato, figurato, di eleganza intenzional­ mente esilarante; ha lo scopo di avvolgere personag­ gi ed eventi in un’aura di assurdo, risibile decoro; Soapy, Stuffy, Aquila Nera si immergono in quella prosa sintattica, solenne, pseudodotta, come i clown si immettono nei loro variopinti, enormi calzoni, esi­ bendo le loro mosse maldestre e complicate con osti­ nata quanto inefficiente dignità: l’arcaica, seriosa di­ gnità dei buffoni. Questo linguaggio di solennità fittizia si lascia age­ volmente articolare su toni di infanzia; il riso intimo che lo alimenta non è irrispettoso né ironico, e non senza gentilezza sa indugiare ad accarezzare figure di minima grazia e consistenza. Si veda, ad esempio, 123

l’inizio di 11 dono dei magi: « Un dollaro e ottantasette cents. Era tutto. E sessanta cents erano in pennies... Tre volte Della contò il denaro. Un dollaro e ottantasette cents. E l’indomani era Natale. Era chia­ ro: non c’era altro da fare che lasciarsi cadere sul nu­ do lettino, e mettersi ad urlare. E così appunto si comportò Della ». La grazia, la decorazione leziosa di queste righe servono a renderci noto quanto Della sia « piccola »: creatura che abita una minuscola casa, in cui regna una piccola miseria, alleviata da un amore da infan­ ti, trepido e intenso. Il tono ci condiziona ad una favola di Natale, destinata forse a renderci « miglio­ ri », come usa fare, a proprio ignobile riscatto, la cattiva letteratura; e tuttavia miracolosamente il rac­ conto di O. Henry evita gli strapiombi di codesta let­ teratura, in grazia della coerenza del tono, della ten­ sione un poco ansimante che gli regge l’impeccabile falsetto. Si legga ancora l’inizio, anche più tipico, di Lo sbirro e l'inno, racconto in cui O. Henry sfoggia la sua apparente, illusoria complessità: « Soapy si agi­ tava sulla sua panca in Madison Square. Quando di notte le oche selvatiche fan suonare il loro clacson, e le donne sprovviste di pelle di foca trattano con gen­ tilezza i loro mariti, e irrequieto si agita Soapy sulla panchina del parco, siate pur certi che l’inverno è vicino. Una foglia morta cadde in grembo a Soapy. Era il biglietto da visita di Jack Gelo. Jack è cortese con gli abituali inquilini di Madison Square, e dà tempestivo preavviso della sua visita annuale. Agli angoli di quattro strade egli consegna il suo bigliet­ to al vento del Nord, lacchè di Magione di Tutti al­ l’Aperto, affinché gli inquilini di quella possano provvedere ai necessari preparativi ». È un esempio di retorica approssimativa, una divi­ sa nobiliare fastosa quanto araldicamente scorretta; linguaggio non ironico, quanto di solennità grotte­ sca e ilaritiva. Soapy, vagabondo di rigorosa dignità, 124

si fregia di codesto tono come un uomo-sandwich del suo oratorio cartellone; il suo stile di uomo libero e solitario, la sua mite follia ne sono illuminati e ri­ dicolizzati. Non sarà sfuggita, nel passo sopraccitato, l’onesta goffaggine che viene dalla modesta e fittizia tensione stilistica; l’invenzione è banalizzata dall’in­ trusione di Jack Gelo, grossa figura retorica, lezio tra decorativo e buffonesco, esempio di poeticità in­ fima; ne deriva una incongrua coabitazione di lin­ guaggi non concordabili, in definitiva una ulterio­ re ed autentica degradazione. La retorica di O. Henry ha una matrice facilmen­ te riconoscibile, quella stessa da cui nasce in larga misura la discontinua potenza del linguaggio popola­ re: l’iperbole. In questa arcaica figura retorica la fantasia plebea celebra una sua libertà estetica, ed esibisce il fasto di una invenzione estrosa, e illumi­ nante. Che si tratti di libertà e fantasia frammenta­ rie, discontinue, è carattere essenziale di questa sti­ listica popolare, che per vocazione vuol tenersi al di qua dell’ideologia, e restringersi a bizzarrie e scatti deirumore: è retorica di breve respiro, umile e con­ versativa. In O. Henry assai ampia è la gamma rico­ perta dall’autorità dell’iperbole: dalla battuta al rac­ conto intero. « Lo squassai finché gli tintinnarono le lentiggini » (Il riscatto di Capo Rosso) pare una pro­ fetica satira della più torva retorica dei gangster; « aveva l’aria di una foto composita di cinquemila orfani che hanno perso il vaporetto della gita » (I seggi dei potenti) è battuta ammirevole per movimen­ to di masse e irresponsabilità sociale. Ma O. Henry sa scrivere racconti interi che altro non sono che iperboli distese e allungate: appunto II riscatto di Capo Rosso, in cui si narrano le immaginose sevizie cui un mascalzoncello rapito sottomette i suoi rapi­ tori; e Febe, catalogo delle inaudite avventure che toccano a Kearny Jella e a quanti accettano la sua compagnia, ivi compresi un esercito liberatore e un comitato rivoluzionario; e, soprattutto, I seggi dei 125

potenti, in cui sfolgora la sfrenata oratoria plebea di Lucullus Polk. Codesti modi narrativi non hanno carattere ironi­ co. Raramente O. Henry indulge a questo vizio adul­ to, e di rado per più di una battuta. In Due genti­ luomini del Giorno del Ringraziamento O. Henry ha sfiorato l’invenzione ironica e l’ha deliberatamente frustrata: ha preferito non uscire da una atmosfera di svagata tenerezza, insinuante, lievemente ricatta­ toria. Finito il racconto, noi non sappiamo se quel­ lo cui abbiamo assistito era niente più che un gioco, o una piccola favola allusiva: e di queste ambiguità si alimenta il fascino delle storie di O. Henry. Si ve­ da con quanta esatta sensibilità narrativa egli si preoccupi di non farsi travolgere dalla tentazione della battuta rivelatrice, che darebbe senso e solen­ nità all’aneddoto, ma rischierebbe di ingrandire fuo­ ri di proporzione i suoi personaggi: quale astuzia egli sappia mettere in opera per dilatare i sensi di un racconto, senza toccare la fragile coerenza dei prota­ gonisti. In queste storie, le conclusioni hanno più di una funzione: con lo scatto esatto, un poco metallico, si­ gnificano la compiutezza, la finitezza del racconto; storie così tagliate e portate a conclusione non pos­ sono rimandare ad altro, neppure ad altre storie: so­ no artefatti, oggetti in sé completi, limitati e perfet­ ti; ma soprattutto il finale amplia retrospettivamen­ te la favola, la illumina bruscamente, senza tuttavia caricarla di intollerabili gravami di significato. Que­ sta fulminea aggressione, e l’altrettanto fulmineo vo­ latilizzarsi della luce che ne scaturisce, sono essenzia­ li alla economia del racconto. Si veda La palma di Tobin: le ultime righe trasformano l’aneddoto in un piccolo « miracolo » e insieme, con perfetto tempo narrativo, troncano il racconto prima che un fram­ mento di quella subitanea luce investa i protagoni­ sti, e li spogli di quel che è loro essenziale, la loro vitalità poetica e canagliesca; così la sentenza finale 126

di Lo sbirro e Virino tronca i sogni di redenzione del poveraccio e insieme elude di misura l’accesso all’iro­ nia sociale; l’ultima riga di 11 cocktail perduto ridu­ ce una deliziosa « bravata » di avventurieri al livello di un idillio domestico, ma non tocca la statura eroi­ ca dei protagonisti. S’è detto che O. Henry non è scrittore di vocazio­ ne ideologica, che non è il caso di sollecitare le sue storie a fornirci indicazioni morali o documenti illu­ minanti; e tuttavia il lettore affettuoso finirà col ri­ conoscere qualcosa che chiamerei un umore ideolo­ gico, poco più che un ammiccamento destinato agli ascoltatori più scaltri; vi sono racconti come Assalto al treno, La scomparsa di Aquila Nera, Memorie di un cane giallo, in cui pare di riconoscere una clan­ destina tensione, una impazienza elusa ma non re­ pressa nel riso. C’è in O. Henry una nascosta voca­ zione, un umore riottoso e capriccioso che lo porta verso la più minuscola delle utopie, l’unica ideolo­ gia privata: l’anarchia. Non una anarchia adulta, naturalmente, ché altri­ menti non capirebbe nelle misure di questi raccon­ ti; ma una acerba, clandestina utopia dell’umore. O. Henry non ama i deboli, sebbene li usi come effi­ cienti comparse in contesti sentimentalmente ricatta­ tori; ma ama fino alla adulazione più abbietta i di­ sertori, gli irregolari, i fuggiaschi, gli asociali; e l’ila­ rità di cui li circonda è un compromesso tra ossequio e rifiuto degli idoli sociali; ne deriva una tensione fantastica, un fervore verbale quasi isterico. O. Hen­ ry predilige quegli esseri refrattari, solitari stiliti di una America collettiva, transfughi da prigionia do­ mestica, facili all’alcool, alla vanteria improbabile, alla erratica mitomania del vagabondo; lestofanti, av­ venturieri, « uomini freddi, disinvolti, cospicui, pron­ ti a rischiar tutto a leva carta, a sfidare orsi grigi, fuoco o estradizione » ; anche, uomini pronti, assisti­ ti dalla agevole libertà del whisky, ad abbandonare una vessatoria consorte e a fuggire verso il west, in 127

compagnia di un cane giallo; non eroi, giacché l’eroi­ smo rende pur sempre omaggio ai più esigenti miti sociali; ma liberi in forza di una viltà ingegnosa, af­ fidata ad astute macchine di menzogne, truffe, imbro­ gli e spregevoli trame. I racconti di O. Henry sono affollati di hoboes, dairimpeccabile peccatore Soapy, di sapore harvardiano, all'incolto, loquace « Pollo » Ruggles, detto Aquila Nera; esseri improduttivi e ineducabili che, arrecando moderato danno all’economia nazionale, hanno conquistato, loro soli nella grande, altera e prospera nazione, un frammento di minima, infima indipendenza. Sono queste le clan­ destine figure di una mitologia privata, fatte in par­ ti uguali di onestà e sotterfugio, di candore e frode; non tragiche né illuminanti, ma di dinamica non fit­ tizia; grazie ad esse, O. Henry trovò una sua piccola libertà, dolce e vergognosa come un vizio, se non al di là, almeno al di qua del bene e del male. [1962]

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L’« ANTIQUARIO » DI SCOTT

È compito bello e amabile preporre poche pagine di presentazione ad una qualsiasi opera di un grande scrittore: uno scrittore, intendo, sulla cui eccellenza non si diano, per il momento, dubbi di sorta; bello chiosare la singolarità di una pagina, additare al let­ tore, indaffarato o insensibile, la frase, il personag­ gio, la battuta, certe segrete bellurie o le trovate in­ gegnose di una ispirazione mai incauta, né incolta. Sventuratamente, con Walter Scott le cose non stan­ no a questo modo: certo il suo nome ha lustro; è autore imponente, corpulento, invadente: per quasi un secolo di letteratura europea questo gentiluomo dalla faccia larga e cordiale lo si incontra dappertut­ to, continuamente; ha scritto romanzi a decine, e ver­ si, e vite di uomini illustri; le sue narrazioni colma­ no, come grandi fiumi ambiziosi, letti ampi cinque e seicento pagine; più che nome d'autore, duomo vis­ suto sessantanni, Walter Scott è un marchio, una in­ segna, una garanzia; né forse volle mai cosa diversa, quest’uomo tanto attento alle voglie dei suoi lettori, e ansioso di secondarle. Ma non è, la sua, corpulen­ za tutta sana: quella sua inesausta vena di narrato­ 129

re, quel parlare, non per frasi o periodi, ma per pa­ gine, quinterni, tomi, ci lascia disorientati e diffiden­ ti. Oggi, insomma, le fortune critiche di Scott, che parvero saldissime, sono perplesse, dubbiose. I fervori ottocenteschi, che lo volevano autore ro­ mantico e di potente fantasia di linfe popolari, gli han lasciato addosso una nomea un poco didattica, archeologica; e si veda quanto fu curiosa la sorte delFonesto scozzese: autore di Ivanhoe - a tutt'oggi, in Italia almeno, il suo romanzo più noto - gli riu­ scì di aggiungere al nome pedantesco un che di fri­ volo e volgarmente chiassoso : risultò insieme fatuo e podagroso, miscela improbabile quanto fatale. E non v'è dubbio che Ivanhoe, romanzo di grandi passioni e spadate, abbia tutti i caratteri equivoci del best­ seller: cattivante quanto sommario, è anticipazione prodigiosa del technicolor, atto di divinazione di un'anima naturalmente incline a presentire gli im­ perativi delFetà industriale, dei mass media. Chiunque, poi, si metta a leggere i suoi romanzi, con l'animo distaccato e lievemente ostile che con­ viene ad autore di tanto fragili strutture intellettua­ li e dubbia moralità professionale, può trovare, a apertura di pagina, tutte le grettezze, le goffaggini, le stonature, insomma i « limiti », quasi si trattasse di un manuale didattico sul come non debbano farsi i romanzi; a chi ama l'uso autorevole della matita ros­ sa e blu, Scott può dare delle intense soddisfazioni. « Per quel che mi riguarda, » scriveva E. M. Forster nel 1927 « io l'ho in fastidio, e la sua fama persisten­ te è per me incomprensibile ». « Ha l'anima volgare e lo stile greve ». Diciamo tutto, e subito: le sue sto­ rie sono messe assieme con fantasia meccanica, sono insieme prevedibili e assurde, vi ricorrono espedienti come l'agnizione, incredibili quanto gratuiti, i perso­ naggi si ripetono, il respiro psicologico è limitato, non v'è posto per sottigliezze di indagine, per le astu­ zie della dialettica interiore, della diplomazia mora­ le; il suo stile è ineguale, prolisso, e talora, specie 130

nelle parti descrittive, impacciato da decorazioni sco­ lastiche. « Il principiante più sensibile, » scrisse la Woolf « la cui penna oscilla, se viene esposta, ad un miglio di distanza, all’influenza di uno Stendhal, o Flaubert, o Henry James, o Cechov, può leggersi, uno dopo l’altro, tutti i romanzi di Waverley, senza per questo cambiare un solo aggettivo ». Infine, su tutto grava il tristo alone di una moralità « sana ». Anche i critici più ostili riconoscono allo Scott un uso di­ sinvolto del linguaggio nei dialoghi, specie se in scoz­ zese, e la vivacità di certe figure minori, piene di vita. Non molto, parrebbe, per il lettore moderno, so­ fisticato e malizioso. Eppure, si metta mano ad uno qualunque dei ro­ manzi « scozzesi » di Scott : a Waverley, romanzo ca­ postipite, o il Guy Mannering, o The Heart of Midlothian, Rob Roy, o questo Antiquario; ci si dimen­ tichi, va da sé, e di Stendhal, e di Henry James, e di Flaubert; si accetti, in via d’esperimento, il fascino greve del cantafavole, l’istrionismo, l’allegra fantasia mimetica, e quella oltraggiosa voglia di divertirsi e divertire; ed ecco, non è possibile tenergli testa; non servirà tener le sopracciglia inarcate, tenerlo a bada, trattarlo con benevolenza: la sua storia finiremo per ascoltarla per intero, leggeremo d’un fiato le cinque­ cento pagine (e fremeremo ai suoi dialoghi scozzesi da leggersi col glossario), e senza umiliazione, quasi spogliati di una onerosa dignità, ci lasceremo andare ad una qualche forma di inferiore assenso critico, un applauso, una esclamazione da sportivi, un ammicca­ re da complici. Scott riesce a farsi leggere nel modo che più gli conviene: ed a questa autorevole quanto mite coazione, questa efficiente fascinazione, dobbia­ mo un'analisi critica più attenta e curiosa. Non v’è dubbio che a conclusione di un qualsiasi libro di Scott —con l’eccezione, forse, di Waverley si indugia per qualche tempo in una condizione di sconcertata perplessità. A libro chiuso, si fanno luce le incongruenze, le ridondanze, gli svagamenti, tra­ ic i

scurati da una lettura ansiosa e intenta via via all’accadimento fisicamente visibile; né lo stile ci ha lascia­ to alcuna memorabile cadenza nella mente, ma solo un vago sentore di corposità, di comunicativa; e tut­ tavia il libro resta nella memoria come una esperien­ za non falsa né rozza, ma anzi singolarmente intensa, e direi illuminante: l’esperienza di qualcosa di vivo, di tangibile, di dinamico. I romanzi di Scott hanno, tutti, una dinamica, una direzione; né intendo dire una dinamica di eventi, o di sentimenti: ma un movimento assai più fondo, oscuro e necessario, non povero quanto istintivo e inconsapevole, di qualità tragica. Non dinamica me­ tafisica, indifferenziata; Scott non è il cronista di una volontà di vivere romantica o irrazionale: ma di quell’unica che noi concretamente sperimentiamo, come esseri sociali. Scott ha scritto, ripetutamente, quel che voleva fa­ re con i suoi romanzi e le raccolte di versi : « illustra­ re i costumi di Scozia », specie quelli che s’andavano smarrendo, e di cui egli aveva diretta o indiretta co­ gnizione; fermare in narrazioni calde di affettuosa memoria la testimonianza di una orgogliosa e morta civiltà; rammentare come codesta società, ancora igna­ ra della sopraffazione burocratica, vivesse di sponta­ nei e impetuosi assensi. Lavorando su questa mate­ ria, Scott sollecita un primo, e più fondo, livello del­ la nostra esperienza, racconta la favola della non di­ menticata tribù. Waverley, ad esempio, che porta per sottotitolo Sessantanni fa, e che si colloca nell’aria accesa e as­ surda deH’estrema rivolta scozzese del 1745, tratta di una Scozia banditesca e proterva, non pittoresca, ma di durissima solennità; una civiltà tribale, retta da devozioni individuali, insieme fascinose, repulsive, e tragicamente efficienti. Scarsissima la dialettica, la perplessità, il senso dell’alternativa, che possono tro­ var posto in quel covo fierissimo: la sanguigna devo­ zione non comprende che tradimenti, abiure e pro­ 132

fessioni di fede, e gli ingenui affetti dei guerrieri pos­ sono mutarsi solo in stolide, omicide esecrazioni. Non è una Scozia arcaica, sebbene vi abbondino illustri paesaggi e greggi e mandrie, ma un agglomerato di sentimenti e volontà solo parzialmente consapevoli; non tanto una volontà di vivere vi si esemplifica, quanto una volontà di « vivere qui, insieme, a que­ sto modo » : una volontà infinitamente specificata in gesti e rapporti, e tuttavia essenzialmente imperso­ nale. Questa volontà è anche la dignità, lo stile di quel mondo irto e aspro. Per tre quarti di Waverley quel movimento di fondo della narrazione di Scott ci si presenta nella sua forma più semplice, quasi sperimentale: una condizione incapace di alternati­ ve, ma solo di esistere o morire. E tuttavia fin dalle prime pagine si annuncia un altro tema, e insieme a questo altre, più differenziate dinamiche, e tragiche intuizioni. Il giovane inglese Edward Waverley, sviato da amore e malintesi a perdersi tra gli scozzesi in rivol­ ta, è già un elemento di frattura: il suo indulgere al fascino di quella vita coerente e severa è gioco ado­ lescente, da lettore disordinato e impressionabile; la Scozia feroce è dolcemente distorta, e ingentilita, nel suo sguardo di ragazzo fantasioso. E veramente la Scozia è un sogno irreale, velleitario: e lo conferme­ rà la stroncata rivolta, e poi il processo e l’uccisione dei capi. A conclusione del romanzo, Edward ri­ nuncia a sposare la fierissima Flora, sorella del capo dei ribelli decapitato a Carlisle; sarà marito della mi­ te figlia di un più moderato scozzese, e i malintesi che han rischiato di farlo un traditore verranno pa­ catamente risolti. Conclusione simbolica: Edward, fattosi uomo, si libera del fasto malsano delle sue fan­ tasticherie, rinuncia alla Scozia, terra mitologica e morta. Nella prospettiva, l’eroica arroganza dei capi dei clan si colora di follia: è, questa, l’ironia di Scott; la Scozia è non solo una figura mitica per cui gente ha ucciso ed è morta, ma è anche una forma di 133

follia, non tutta innocente e, insieme, una fantasia di adolescente. Il tema di fondo si è dunque articolato: non in­ veste solo una condizione di esistenza nella sua enun­ ciazione intemporale: ma la coglie nel suo decadere, nel tempo, dunque, in cui la pretesa autonomia di ogni scelta vitale si rivela inferma e inadeguata: con­ dizione che può concludersi solo nella follia o nel­ l'ironia. Scott non è cronista di un crepuscolo degli dèi, ma della quotidiana disillusione che accompa­ gna la perenne morte dei valori: la decadenza scoz­ zese è un esempio straordinariamente intenso, concre­ to, economico, di codesto morire. Scott pubblicava Waverley nel 1814 (anonimo: « del che non saprei dare migliore ragione di questa, che così voleva il mio umore »), e nello stesso anno scriveva Guy Mannering, pubblicato all’inizio del 1815. Era il secondo tempo della trilogia, destinata a concludersi con VAntiquario; trilogia puramente tematica: alla Scozia del 1745 si sostituisce ora la Scozia attorno al 1780, di cui Scott, nato nel 71, do­ veva avere qualche oscura memoria diretta. Vi è una differenza essenziale tra Waverley e Guy Mannering: non vi è più intrico di vicende private e pubbliche; la Scozia è stata espulsa dalla storia, tutto quel che vi accade è vicenda individuale o cronaca familiare. La grande struttura tribale si è sfatta: le antiche, solen­ ni convenzioni non proteggono più chi ancora con ostinato amore vi si attiene; decadono le grandi fa­ miglie, si fanno strada uomini spregiudicati, senza moralità e senza stile. Via via che vien mancando la forza aggregante di una comune devozione ad una società e ad una ideo­ logia efficienti, si liberano forze di una periferia anarchica e insieme conservatrice: banditi, contrab­ bandieri e zingari nascono dalla gran dissoluzione, e insieme conservano frammenti e documenti morali del mondo decaduto, ma incanagliti e degradati, co­ me lezioni sconciamente corrotte passando per mani

di inetti amanuensi; ma talora ne restituiscono la du­ ra coerenza, cui si aggiunge il senso tragico che vie­ ne dalla cosciente inutilità di codesta devozione. La zingara Meg Merrilies, che è tra le grandi figure del­ l’opera di Scott, è simbolo della tragedia che va sfa­ cendo la società scozzese: ed è simbolo di stile inten­ so, di grande, illustre retorica. Il linguaggio di Meg, dialettale e profetico, fedele alle eterne categorie della perorazione, della lamentazione, dell’invettiva, celebra, nei suoi ritmi rotti e luttuosi, l’estrema e or­ mai maligna vitalità dei miti sconfitti. In Guy Mannering Scott rinnova un altro tema a lui carissimo, ed essenziale: come in Waverley - co­ me poi nell’Antiquario - troviamo il giovane ingle­ se che in Scozia si lascia avvolgere in intrichi pratici e sentimentali: ma quanto più domestici ora, e più meccanici. Guy Mannering mostra crudamente quel che intendesse Scott per una storia da raccontare: il fanciullo rapito, l’agnizione tempestiva che disperde le trame dei tristi, gli amori contrastati, le circostan­ ze sospette che s’accumulano sul capo dell’innocen­ te, il precipitoso sciogliersi di tutti i nodi e di tutti gli equivoci. Ma per Scott una vicenda, una trama, non è che una formula, un mito - e sia pure un mi­ to scadente - per mettere in moto certe forze, le uni­ che che contano. Chiuso il libro, la storia si dimen­ tica: ma non quella sensazione di dinamica podero­ sa, articolata in personaggi di straordinaria intensi­ tà. È chiaro anche quale sia il senso, la funzione, del personaggio, e di quella elementare psicologia di cui sono i portatori: in costoro si specifica la fantasia della vita collettiva; talora vi si adeguano, e ne cele­ brano la ilare forza, o solennemente ne confermano la potestà sacrale, o, anche, la torva autorevolezza; talora avvertono che la loro devozione li lega a cosa ormai morta, segno non più di vita comune, ma di isolamento: e taluni vivono tragicamente questa con­ dizione, come appunto Meg; altri la rifiutano, e cer­ cano riparo nella follia, o nel delitto; altri conserva­ 135

no una affettuosa memoria, senza ira o rancore: co­ storo, che soli sono destinati a sopravvivere, ne pro­ teggono la vitalità umana ed onesta in un certo gu­ sto dei rapporti umani, ed un’idea aspra e solenne dell’esistenza. Forse VAntiquario, che, apparso nel 1816, chiude la trilogia scozzese, sommessamente celebra codesta conclusione, insieme amorosa ed ironica; donde un’a­ ria di cordialità che vi circola, e la sorta di tragica deformità che sconcia i fanatici devoti dell’arcaica mitologia scozzese. La favola di questo romanzo è fitta di improbabili incidenti, vi han luogo agnizioni, scomparse e ritro­ vamenti faustissimi di figli e documenti, amori osta­ colati e impossibili, e poi precipitosamente condotti a felice conclusione. Il lettore non mancherà di no­ tare altri impacci nel racconto: certe pagine paiono introdotte per pura illecebra emotiva, e non hanno necessità di racconto : come la famosa descrizione del­ la tempesta (i capitoli vii-vni), di cui la Woolf scris­ se che era sì un uragano di cartapesta, ma che l’acqua bagnava per davvero: condizione non infrequente nell’opera di Scott; o come il macchinoso sogno « go­ tico » di Lovel (capitolo x); ma, s’è detto, Walter Scott professava per le esigenze del pubblico una de­ vozione un poco degradante. Circola dunque per VAntiquario un’aria più diste­ sa e affabile: e i concitati capitoli che narrano i fu­ nerali della contessa, e la confessione e morte di Elspeth, danno in certo modo il negativo di quella con­ dizione di ragionevole, umano assenso che si celebra nelle figure dell’Antiquario e di Ochiltree. Follia e delitto segnano le figure violente della contessa e della fedelissima Elspeth: giacché la prima è distrut­ ta dal suo sogno delirante dei grandi e nobili tempi di Scozia, quando il capo di una potente famiglia po­ teva lietamente odiare e impunemente uccidere; e l’altra si allegra di codesto sogno demente, e si invol­ ge nelle iniquità della sua padrona; e non occorre 136

qui notare quanto abbiano di improbabile quelle iniquità, giacché qui conta la loro qualità morale, orgogliosa e torva. In Sir Arthur Wardour che si la­ scia ingannare dalle arti magiche di un tedesco im­ broglione, la decadenza è soltanto ignobile, e non va oltre la svagata irresponsabilità di una inetta de­ menza. Ma r Antiquario è, essenzialmente, il racconto del­ la Scozia pacificata, non più tesa a rinnovare vellei­ tari sogni di autonomo destino; e nell’Antiquario Oldbuck, sarcastico quanto ingenuo, affettuoso mi­ santropo, ed in Ochiltree, il libero e saggio « mendi­ cante del re », insieme ilare e severo, il vivere scoz­ zese si esprime come stile morale; passato il tempo del rancore, gli uomini di Scozia portano la loro ric­ chissima singolarità, fantasiosa quanto concreta, in un dialogo più ampio e disteso, dove ai sentimenti vien dato agio di più lenta e articolata maturazione. Non è un mondo di facile e povera• letizia: ma di una tragicità naturale, onesta; quel tragico naturale, condizione di chiarezza morale e intellettuale, che nell’Antiquario si rivela nelle cerimonie funebri per il pescatore annegato, il giovane Steenie. Questi temi poderosi e solenni nell’opera di Scott si muovono disordinatamente, con stile ineguale: ma la vitalità, la dinamica, l’oscura pressione che eserci­ tano ci sollecitano ad una lettura non casuale, né frettolosa: la stessa acerbità di tante pagine di Scott ha una qualità cattivante, come la sua voce mimeti­ ca, un poco istrionica da cantastorie di favole e miti impersonali. [1961]

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« LADY CHATTERLEY » E ALTRE COSE

Un quindici anni fa, Lawrence pareva entrato in eclissi: leggerlo si poteva; ma prenderlo troppo sul serio, in qualunque modo, avrebbe denotato sclerosi del gusto, volgarità estetica, moralità torbida e pove­ ra. Morto nel '30, a Lawrence era toccata in sorte una certa frettolosa fortuna negli anni del secondo ante­ guerra. Poi, parve perdere lo status di letteratura: il mito, da improbabile ma corrusco, si fece pettegolo: le sue idee parvero decadere a impertinenze di un uomo di cattivo carattere, lingua spedita e villana, e morbose ossessioni sessuali. In breve, un profeta gros­ solano, un uomo dalle idee confuse e, anche, un cat­ tivo scrittore. Non ha senso deirumorismo; scrive troppo spesso come un frettoloso giornalista; nemme­ no scrive, trascrive: la sua pagina è fiacca, retorica, ripetitiva, dispersiva; i libri cascano da tutte le par­ ti. I personaggi non esistono, sono pretesti messi as­ sieme con la cattiva coscienza del predicatore. Infine, è un puritano, fanatico e monotono; impossibile di­ scuterci. Come che sia, oggi si ricomincia a leggere Lawren­ ce; o che quei giudizi abbiano perso un poco del 138

mordente passionale; o che oltre a quelle grandissi­ me magagne, che sarebbe difficile negare, si trovi o si creda di trovare in lui qualcos’altro- Nel ’59 si è avuta la prima edizione americana di L'amante di Lady Chatterley : nel ’60 la prima edizione inglese; in Italia, in questi ultimi mesi sono uscite le Poesie, Lady Chatterley, e ora La volpe e La Coccinella. Sul­ la stampa e inglese e americana il processo contro Lady Chatterley, conclusosi con l’assoluzione dall’im­ putazione di oscenità, ha scatenato una esagitata dia­ triba; poco meno di quel che suscitò Lolita. Certa­ mente, Lawrence è uscito di eclissi. Non v’è dubbio che abbia modi pesanti da profe­ ta, questo inglese dalla faccia insieme dura e zinga­ resca, che ancora ci guata dalla fotografia cruda e se­ vera, dietro alla gran trincea moralistica della barba; da profeta corrucciato e ostinato. La sua voce predi­ cante, come ci pare di potercela inventare sulle sue pagine, tende al roco; usa gesti asseverativi, non di rado ridondanti. Come accade in genere ai profeti, non pare cerchi di farsi amare : se ci metteremo a di­ scorrere con lui, difficilmente eviteremo di farci in­ sultare, verremo umiliati, irrisi, coperti di sarcasmi; la nostra pochezza verrà definita, denunciata e pro­ posta alla nostra attenzione. Tutto ciò è vero: ma, insieme, quel suo sentenzioso corruccio stabilirà un rapporto personale; sarcasmi, sì: ma ad personam; e dunque attenti e a loro modo affettuosi. Vogliamo essere aggrediti da un discorso acceso, rapinoso, che ci prenda alla gola, e almeno per un istante ci sot­ tragga al dovere di dire « sì » o « no »; un discorso morale che abbia la coerenza inverificabile e indi­ scutibile della favola. Lawrence ci dà qualcosa del genere. In forme dirette o analogiche, molti dei suoi pro­ blemi sono di quelli che ci troviamo addosso ogni giorno; e nei suoi libri li troviamo in qualche modo volgarizzati, raccontati con parabole, con una durez­ za, una acerbità fascinosa. Lawrence non si liberò 139

quasi mai del gesto adolescente, dolcemente inesatto, ma quanto fisicamente prensile. Il suo sguardo emo­ tivo rende le cose semplici, ma insieme massicce, tan­ gibili e grandiose. Si prenda ad esempio questo romanzo, Uamante di Lady Chatterley. Ognuno sa di che si tratta: una Lady appunto, sposata ad uomo rimasto impotente per ferita riportata in guerra, si innamora del guardiacaccia del marito, ne diventa l’amante; il libro si conclude con una non irragionevole speranza di so­ luzione: forse ci saranno due divorzi (anche il guardiacaccia è sposato, e quanto sciaguratamente) e un nuovo matrimonio. Storia d’adulterio, dunque; di quelle che i nostri virtuosi quotidiani chiamerebbe­ ro « squallida ». Lawrence ne fa una parabola del ve­ ro amore: del corpo, dei sensi, della fantasia; un amore fatale, capace di sciogliere antiche e perente devozioni, e attraverso i due corpi accesi inventare nuovi valori, nuove guise di dialogo umano. Con la sua incantevole acerbità, l’improntitudine accanita ed onesta, ha descritto i rapporti sessuali dei due amanti, celebrandoli come momenti di alta, ardente rivelazione; quasi tecniche di una radicale trasforma­ zione dell’anima; e le parti che s’adibiscono alla bi­ sogna ha, come dire, cantato, e designato con le pa­ role acri e inequivoche che si imparano assieme alle fantasie della pubertà, e che gremiscono il discorso di ogni cittadino adulto, ma che non è consueto ven­ gano messe per iscritto (eccetto sui muri) e ancor meno stampate. Al processo londinese, il Queen’s Council accusa­ tore non mancò di attirare l’attenzione della giuria sugli aspetti « moralmente odiosi » della situazione descritta nelle trecento compatte pagine del roman­ zo: una donna che tradisce un marito invalido; le tri­ sti astuzie cui fa ricorso; una relazione eminentemen­ te fisica, che pare nascere in modo quasi affatto ca­ suale; un linguaggio da trivio, erotico ed escremen­ tizio, sfoggiato pagina dopo pagina, con intollerabile 140

insolenza. Può una comunità civile tollerare tanto sistematica provocazione? Uno scrittore, ha detto il Queen’s Council, vive in una comunità; dobbiamo consentirgli di insolentirne le più care consuetudini di convivenza? Lawrence è colpevole? Ha scritto un libro osceno? La giuria ha risposto: non è colpevole. No, L ’amante di Lady Chatterley non è libro ido­ neo a « pervertire o corrompere », come dice la leg­ ge inglese, la mente del lettore: sono trecento pagi­ ne di solenne, impetuoso, talora affascinante, talora pedantesco sermone moralistico; è predicatorio, sen­ tenzioso, assistito da scarso senso umoristico, verboso anche: ma corruttore no davvero. Ma non basta ri­ spondere a questo modo, al Queen’s Council: biso­ gna vedere qual sorta di lettura, quale atteggiamen­ to davanti al libro abbia ispirato quelle domande, quei rilievi, quelle denunce. Il Queen’s Council, per­ sonalmente o per dovere d’ufficio ostile all’adulterio consumato ai danni di un invalido, posto davanti al­ la descrizione di una siffatta situazione, si turba e protesta; altri reagirà analogamente davanti a nar­ razioni di rapporti omosessuali, o comunque a lui ripugnanti sul piano pratico. In tutti questi casi, il lettore si dichiara irretito personalmente, personal­ mente oltraggiato o insidiato. Non sempre è agevole quella sorta di lettura che sola merita il nome: tan­ to insistenti e petulanti sono le aggressioni passiona­ li; specie se poi sanno darsi coloritura di virtuosa in­ dignazione. Non la materia raccontabile, il personag­ gio anagrafico attende il nostro giudizio: ma il sen­ so della scelta, della sussunzione di temi o figure. Il lettore che si indigna di fronte ad una storia di adul­ terio o di invertiti qualitativamente si apparenta al lettore che si trangoscia per la morte del buono, fre­ me per le traversie dei virtuosi, e piange di onesta letizia per le nozze della sventurata; un uomo dabbe­ ne, certamente, specie quando se ne sta tutto quieto col suo libro in mano, astratto e smemorato; ma un 141

pessimo lettore. Che in Inghilterra, poi, allignino co­ siffatti magistrati, è veramente deplorevole. « Può sentirsi viva una donna nelle budella, nel grembo? » ha chiesto ad un certo punto il pubbli­ co ministero; la domanda era rivolta al testimone a discarico Graham Hough, critico letterario di sesso maschile, e tendeva a dimostrare l'arbitrarietà della fantasia di Lawrence, la sua fatuità morale; con qual­ che perplessità, da persona bene educata, il testimone ha risposto che egli riteneva che sì, lo poteva : « me­ taforicamente ». La domanda a me pare interessante; nel dialogo col letterato, l’Accusa rappresenta l’uo­ mo sociale, i rapporti collettivi, le statistiche del com­ portamento privato, e degli usi linguistici. In tale contesto, raramente si dà il caso di essere vivi « nelle budella, nel grembo»; anzi, è il genere di esperienza che va scoraggiata, se esiste; gli esseri sociali hanno obblighi e lealtà cui debbono attendere, doveri che impegnano totalmente, essenzialmente l’io; dal qua­ le io pendono giù le impaccevoli entragne, come in un quadro di Max Ernst. Ma che gli spasimi di codeste budella meritino qualcosa di più di un sedativo categorico, ecco un suggerimento asociale. Esattamente: il fascino di L'amante di Lady Chatterley è nella sua asocialità. Un amore non consacra­ to dalla legge, né dalla pia devozione ai propri dove­ ri, né dalla classe, o dal clan; un gesto di irrimedia­ bile egoismo, inizialmente; poi, un destino indivi­ duale, protetto, nutrito da valori individuali. A que­ sto punto, come ogni qualvolta si fa discorso d’anar­ chia, è stata avanzata un’altra sorta di obiezione. Katherine Anne Porter, americana, ha scritto all’incirca: questo è il maschio meridionale, che si stende sotto una pianta, protetto dal suo cielo pronubo, e si abbandona a sogni sessuali da adolescente. Anche questa è una obiezione sociale. Non v’è utopia, fantasia, farnètico di amoroso o visionario o impaziente del male che non nasca co­ me gesto asociale; anche adolescente, perché no? La 142

socialità è il privilegio dell’adulto, il suo tetro pri­ vilegio. Non v’è utopia o fantasticaggine che non dia un brivido a chi la tocchi; purché sia capace di aso­ cialità. Lady Chatterley non è un gran libro: ma la fre­ nesia che lo muove, che fa lecito l’illecito, imperati­ vo lo sconcio, umano il ferino, affettuoso l’osceno: la fantasia « delle budella e del grembo », insomma; tutto ciò lo fa un libro asociale. S’è fatto gran discorrere durante il processo e sul­ la stampa inglese delle famose « parolacce » di Law­ rence; le four-letter words. A che servono? chiedeva l’Accusa. E ancora Anne Porter: perché faticare a render decenti queste parole, nate appunto per es­ sere indecorose? Insomma, occorreva proprio adope­ rare quelle parole? Non si potrebbe dire la stessa cosa in altro modo? Val forse la pena di citare la ri­ sposta di Graham Hough : « Lawrence è d’avviso che manchi un linguaggio idoneo per discorrere delle cose del sesso. Se ne parla o in termini clinici, che le privano di ogni contenuto emotivo; o con parole ritenute rozze ed oscene. Crede che da codesta situa­ zione derivi un atteggiamento elusivo e morboso e desidera pertanto trovare un linguaggio che gli con­ senta di trattare del sesso in modo esplicito e non irriverente, e a tale scopo egli tenta di riscattare pa­ role normalmente oscene. Le adopera in un conte­ sto serio e tenta di mondarle di ogni senso di scher­ no o oltraggio ». Privilegio del discorso letterario è la capacità di allacciare gli opposti: operazione contraddittoria, ne­ gata ad ogni altra sorta di discorso. Nelle parole osce­ ne di Lady Chatterley, Lawrence ha eseguito l’opera­ zione con esemplarità da manuale. Il vocabolo turpe è fatto amoroso ed è amoroso solo perché è turpe; grasso, greve, pieno di vergogna, è l’unico vocabolo che può toccare il centro di una condizione senti­ mentale, di una passione; qualunque altro vocabolo sarà insieme più decoroso e più periferico. 143

Se debbo pensare a qualcuno che da noi abbia eseguito una operazione analoga, e volto al tragico l'osceno, mi vien fatto di ricordare il Belli; e basti ricordare il sonetto La vita dell’omo: ma si sa, quel­ lo scriveva in dialetto e si avvaleva dell’empia licen­ za delle plebi; dunque, non conta. Si è detto che Lawrence non ha interesse per i suoi personaggi, ma solo per le forze emotive che in quel­ li si incarnano. Certo, ha ben chiaro che i rapporti tra quelle figure non si esprimono, né si svolgono per idee. Sono oscuri rapporti di forze lente e ingra­ te, ostinate ed amare: quelle che esemplificò nel suo romanzo più potente, Figli e amanti. A libro finito, non indugiano nella memoria né facce né corpi; ma piuttosto le forme provvisorie in cui si è coagulata una grave, lenta massa psichica, una sorta di solen­ ne magma. E la medesima densità di materia psico­ logica mi par di ritrovare in La volpe. In una fattoria, tenuta e lavorata da due donne sole, arriva un giovanotto; lì si ferma; si innamora, e vuole sposare una di quelle donne; questa fatico­ samente va piegandosi al consenso; ma l’altra fa con­ trasto e sta per avere la meglio, coi suoi pianti e le sue angosce; e il ragazzo con incidente provocato la uccide. Quel giovane uomo di pelo biondo, ostinato e feroce, e insieme lieve, ha la sagoma, l’odore catti­ vante ed acre della volpe; ed ha una grazia, una scattosa fatalità di belva, tra quelle donne gravi, lente, ottuse, la cui goffaggine è appena riscattata, nell’una, dalla dolcezza del corpo che cautamente nasce al­ l’istinto, nell’altra, da una affettuosità stremata e im­ potente. Faticosi sono i dialoghi tra il giovane e la donna che egli ama: di persone inesperte di parole, e acerbe d’istinti; e la donna amata e scelta si scher­ misce con gesti mitemente sgraziati; mentre aspra e clamorosa si dispiega l’angoscia dell’altra. Più che per­ sone, queste, luoghi in cui si addensa una materia sentimentale restia a sciogliersi nella parola, reni­ tente all’intelligenza. Nemmeno quell’omicidio è ge­ 144

sto netto e consapevole, o di perfetta nequizia; ché, anzi, vi si mescola una sorta di opaco, carezzevole amore: « Era contenta (la sposa) che Jill fosse mor­ ta, perché aveva compreso che mai avrebbe potuto farla felice. Jill avrebbe continuato a tormentarsi, a diventare sempre più magra, sempre più debole. I suoi dolori crescevano invece di diminuire: sarebbe stato così per sempre. Meglio che fosse morta ». Tuttavia, l’amore di Lawrence narratore va più, forse, che alla materia emotiva di cui impasta i per­ sonaggi, alla loro situazione di destino. Per questo, non si cura di farli né intelligenti né specialmente consapevoli: ma atti a vivere il proprio compito, e oscuramente ansiosi di adeguarvisi. Figli e amanti è in primo luogo la cronaca della ricerca di codesto compito; ma ancor meglio si manifesta in Lady Chatterley. Prima di incontrare il suo guardiacaccia, co­ stei vive fuori da un destino: non l’assistono né va­ lori né sentimenti. La scelta amorosa che la investe con impersonale violenza la trasforma in creatura « ubbidiente » : docile al proprio fato, costei non te­ me più l'aggressione sociale; infatti, per la prima vol­ ta nella sua vita, ella sa che ogni suo gesto è colloca­ to in una fitta trama di valori. [1961]

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LA SCACCHIERA DI NABOKOV

Nabokov è, naturalmente, « l’autore di Lolita ». Gli editori, esperti dei più inconditi e stabili riflessi condizionati dei lettori, sanno che, presentando un li­ bro a quel modo, lo forniscono di credenziali auto­ revoli, esatte e allusive; un libro nuovo è in certa misura un bastardo, e pertanto giova che gli si getti addosso la grazia socialmente efficace di una genea­ logia insieme ineccepibile e ambigua. « È un giova­ ne di famiglia nobilissima e dedita airadulterio ». In questo caso, presentare un libro astratto e torvamen­ te asettico come Invito a una decapitazione sotto le insegne dell’« autore di Lolita » è preciso e ingan­ nevole come pubblicare il De Genealogia Deorum Gentilium insaporito di una fascetta ammiccante: «dell’autore del Decameron». Tuttavia è pur vero che Nabokov è l’autore di Lolita, libro inconsueto e intelligente, cui toccò una iniziazione infelice, pubblicitaria e scandalistica. Era un romanzo integralmente, irrimediabilmente pas­ sionale: genere oggi quasi affatto scomparso dalle buone lettere. Per attingere un risultato di così cla­ morosa ingenuità, Nabokov aveva scelto con scaltra 146

naturalezza la via diretta e mortale: volgare e dispe­ rato, immondo e filologicamente concentrato. L’amo­ re di Humbert Humbert è un « vero amore » ; inal­ bera perfino la già illustre, ora fatiscente, insegna della passione fatale: la vocazione infernale consape­ volmente coltivata. Devoto al suo compito di degra­ dazione, di invilimento eroico, Humbert si acconcia ad una iniziazione negativa, sulle tracce di quella infima Isotta, nutrita di cioccolata infantile e sca­ dente. Ma Lolita era anche un libro astuto: se Nabokov avesse presentato Humbert Humbert come es­ sere intimamente superiore, irretito in una miserabi­ le e rovinosa passione, avrebbe formulato i termini della tragedia nella forma classica, ovvia, esplicita. No: quell’uomo è affascinato da Lolita perché è a lei fatalmente legato da una eterna, infernale e futile consanguineità: il linguaggio di Humbert è poetizzante, fattizio, involgarito da una finzione di stile, astutamente autoironico. La tragedia è soffusa di una qualità equivoca, dolcemente sordida; per estrema arguzia letteraria, un autentico inferno è offerto il­ leggiadrito dalla grazia vilissima del cellophane. Questo Nabokov, letterato sottile e di onesta ma­ lizia, mistificatore leale, amante delle situazioni estre­ me e rovinose, ma riluttante al tragico esplicito, lo ritroviamo in due libri precedenti a Lolita, che è del ’56: Invito a una decapitazione (trad. di Bruno Od­ dera, ed. Mondadori), e La vera vita di Sebastiano Knight (trad. di Giovanni Fletzer, ed. Bompiani). Il primo, scritto in russo nel 1934, quando l’autore risie­ deva a Parigi, venne poi tradotto in inglese dal figlio di Nabokov, «traduttore mirabilmente congeniale»; il secondo, scritto in inglese, è del 1941. Di rado mi è accaduto di gustare con tanto diver­ tita ammirazione un gioco letterario di così maestre­ vole intelligenza, ed eseguito con quella necessaria, virtuosa soperchieria che mi assicura, ad ogni momen­ to, che il prestidigitatore sa benissimo quello che sta facendo, e sa che io lo so, anzi lo esige, perché in 147

qualche modo io faccio parte del gioco, sono un af­ fascinato « compare » ; e insieme suggerisce la possi­ bilità - non più di tanto, come conviene ad uomo di buon gusto - che non di divertimento si tratti, ma di qualcosa di più o di altro. Così accade sempre nei grandi e nobili giochi, futili e araldici, valevoli solo se ne vengono rispettati i nessi arbitrari e rigorosis­ simi. Di codesto gioco La vera vita di Sebastiano Knight fornisce in certo modo illustrazione e teoria; l’Invi­ to a una decapitazione è piuttosto una criptica parti­ ta, celebrata secondo regole segrete, puntigliosamen­ te osservate da giocatori estrosi e taciturni: al letto­ re, il compito di scoprire le regole, se ci sono. Semplice e cattivante come un travestimento di calcolata imperfezione, è il tema della Vera vita: un certo V., che parla in prima persona, uomo di sorte non gloriosa e ingegno umile, si propone di scrivere la vita del fratellastro Sebastiano Knight, grande scrit­ tore, uomo geniale, morto in giovane età. Con amo­ rosa pedanteria V. interroga amici, cerca le testimo­ nianze delle due donne che Sebastiano ha più amato; ma poco o nulla ne ricava. La partita di Sebastiano Knight (.Knight è anche il cavallo del gioco degli scacchi) dovrà essere ricostruita in astratto, come una serie di mosse riconoscibili solo sulle coordinate del­ la scacchiera. Più che racconto di una vita, questa fittizia biografia è la ricostruzione del farsi di una vita, lavorata dall’interno, dalle didascalie, dagli ap­ punti frettolosi, imperfetti, quasi illeggibili, del de­ stino: ricostruzione di una partita, dai punteggi an­ notati su un foglio poi sgualcito e dimenticato. In uno dei romanzi di Sebastiano, che V. riassume e ci­ ta, ritroviamo uno schema analogo: rincontro di per sé ovvio e insignificante di un uomo e di una donna destinati ad amarsi, dà l’avvio ad una attenta ricerca delle tecniche adottate dal fato per conseguire quel risultato apparentemente trascurabile, dei numerosi fallimenti che hanno preceduto la felice conclusione. 148

Sebastiano non è un personaggio, soggetto ed ogget­ to di passioni e scelte morali; è una ipotesi, la descri­ zione compendiosa e simbolica di una serie di mosse, unica realtà che conti, giacché, come osserva V., « tut­ te le anime sono intercambiabili ». Alla fine, proprio nelle ultime righe, il gioco si rompe, e pare di cogliere una allusione ad altro. Codesta scacchiera copre dunque totalmente la vita di un uomo? Non è dato ad alcuno saltare oltre i suoi bordi, non v’è un depositario cosmico dei giochi e delle regole che ad essi presiedono? Quando le luci cominciano a spegnersi, dice V., tutti i personaggi la­ sciano la scena; resta l’eroe, colui che dalle mosse di sua spettanza, dalle battute del copione, ha tratto un destino: che ha obbedito senza riserve, pur sa­ pendo sempre che si trattava « soltanto » di un gioco. In Invito a una decapitazione il gioco è esibito senza chiose allo spettatore perplesso: ma il teatro della partita suggerirà, più che una geometrica scac­ chiera, un viscerale, policromo labirinto. Coriolano C., riconosciuto reo di turpitudine gnostica - « un delitto così raro e indicibile che era necessario ricor­ rere a circonlocuzioni quali “impenetrabilità”, “opa­ cità”, “occlusione” » - viene condannato a morte; un giudice canuto e sorridente gli sussurra in un orec­ chio, come vuole la tradizione, la sentenza di deca­ pitazione; pregevole successo deirawocato difensore, questo, fautore di codesta forma classica di esecuzio­ ne, contro l’avviso del più inventivo pubblico mini­ stero. Va da sé che, non essendo stato possibile tro­ vare un difensore ed un pubblico ministero fratelli uterini, secondo il disposto della legge, si è almeno cercato di truccarli così da farli per quanto possibile rassomiglianti. Cincinnato, chiuso in un carcere di struttura instabile ma ferrea, è accolto con cordiali­ tà sana, quasi fanciullesca, dal direttore e dal carce­ riere, contro cui fa contrasto la schiva e, diciamo, scortese angoscia del decapitando. Un altro condan­ nato con cui Coriolano viene messo in contatto, uo­ 149

mo compagnevole e di ostinata affettuosità, si rive­ lerà nient’altro che il boia, ansioso di stabilire uno schietto affiatamento con la sua vittima. I consangui­ nei che vengono a far visita al morituro parte lo in­ solentiscono per la sua immoralità, parte amabilmen­ te motteggiano sul suo imminente decurtamento. Al­ la vigilia deiresecuzione, pingue banchetto, con au­ torità e luminarie. Ma al momento del supplizio, Coriolano, assistito da un oscuro cataclisma, che ha l’aspetto di un crollo di quinte teatrali, fugge dalle mani del giustiziere, e si dirige, finalmente, verso « la direzione, ove, a giudicare dalle voci, si trovavano esseri simili a lui ». In questa bizzarra storia Nabokov esibisce tutti i macchinismi e gli effetti speciali del tragico: suppli­ zi, attese angosciose, coazioni da incubo, frustrate il­ lusioni: ma la struttura abnorme, ilare e mostruosa, della favola inibisce una lettura tragica. I personag­ gi si sottraggono per una loro vitalità infima, teppi­ stica, al cerimoniale del tragico, sebbene siano certa­ mente partecipi di altro, non rivelato, cerimoniale: penso a quel boia oscenamente benevolo, la immon­ da moglie di Coriolano, il direttore officioso e per­ maloso: figure di corposità sconcia, come certe in­ venzioni oniriche che ci lasciano compromessi e col­ pevoli. Non meno ironicamente, l'Invito esibisce tutto il lessico, la sintassi del messaggio, ma senza il messag­ gio. Non dice nulla, e non lo dice con squisita esat­ tezza di linguaggio. Arbitrario, un poco turpe, sadi­ camente rigoroso, il gioco délYInvito è stato esegui­ to, e vuole essere gustato nella sua coerenza inverifi­ cabile: come La vera vita di Sebastiano Knight, è un caso esemplare di « letteratura » : nome di privi­ legiata infamia, che designa atti inutili, anche vizio­ si, di arbitraria, provocatoria libertà. [1962] 150

LA CRITICA DI EDMUND WILSON

La critica di Edmund Wilson copre un periodo che va dall’età degli anni venti ad oggi: e per essere critica militante, in contatto ininterrotto con lo svol­ gimento della letteratura e della cultura americana, è documento di primo ordine di quella storia. Wilson non ha indicato in modo coerente e defini­ to su quali fondamenti si collochi il suo lavoro di critico. È anzi evidente che l’impulso iniziale del suo lavoro non è da ricercarsi nell’inveramento di una qualche teoria dell’arte, o nel controllo sperimentale di una qualunque ipotesi : Wilson è critico di « gu­ sto », e di questa parola, sommesso e ostinato under­ statement di qualità illuministica, egli difende nel suo lavoro i risultati ed i limiti. Uomo di gusto, sol­ lecitato da varie ed eterogenee esperienze, Wilson non si limita ad esercitare la propria intelligenza nel campo della letteratura: ma insaporisce questa sen­ sibilità, rinvigorisce i suoi affetti di letterato con il piacere aggressivo delle idee militanti e con l’impa­ zienza del moralista, e di quest'ultimo accoglie an­ che le non sempre vitali e salutari contraddizioni, le secche preclusioni: e se non fa politica attiva, ad es­ 151

sa partecipa come intellettuale «liberale», oggi di­ remmo radicale: esemplificando nella sua opera l’in­ tensa miscela di audacia intellettuale e di colto mo­ ralismo dell’America rooseveltiana. Questa complessa curiosità intellettuale e vitale dà ragione di talune curiose oscillazioni della sua criti­ ca, che appare spesso sollecitata a correggere certe prospettive, ad accogliere nuovi strumenti, da consi­ derazioni non direttamente letterarie. Muovendo da presupposti di generico razionalismo, e dall’amore per il limpido ed intenso stile classico, questa critica si allarga di interessi verso il 1930, secondo le modifi­ cate prospettive che in quegli anni la crisi impose agli intellettuali liberali d’America. La sua simpatia per il marxismo lo porta ad esaminare con attenzio­ ne l’esperienza sovietica, ed a dedicare al comuniSmo - anche ai comunisti d’America - una ammirazione alimentata dei provvisori fervori dei sensi di colpa; la crisi del 1935-36, in Russia, il brusco rivelarsi di strutture mitiche e religiose in quel sistema sovieti­ co che lo aveva affascinato per la sua professata ra­ zionalità, lo inducono a correggere - ma non a rin­ negare - le sue posizioni; si aggiunge infine l’inte­ resse per la psicanalisi, riallacciata alle sempre effi­ caci esigenze storicistiche. Questi apporti, queste espe­ rienze, agiscono anche sulla sua critica letteraria: e non ci stupiremo di trovare pagine di critica in libri che vogliono essere di storia politica: ad esempio, l’analisi di Michelet e di Taine in To thè Finland Station; o in libri di viaggi: come le note sulla let­ teratura delle Antille, in Red Black Blond and Oli­ ve. La storia culturale di Wilson può rintracciarsi seguendo la storia della sua critica, indicando in qual modo si definisca non una sistematica, che in lui è assente, ma un organismo di problemi, di metodi, di tecniche di lettura: storia di un gusto e dei dati di cultura che lo toccano e modificano. 152

1. Edmund Wilson venne educato a Pottstown, Hill School, Pennsylvania: e di lì passò all’Università di Princeton. Della sua educazione di adolescente, nel­ l’atmosfera acre ed astratta di Pottstown, efficiente ed alquanto inibita, egli diede un prezioso documen­ to in una delle prose che aggiunse alla seconda edi­ zione (1948) di The Triple Thinkers. Il saggio è de­ dicato alla memoria di Mr. Rolfe, professore di gre­ co, figura di « perfetto ellenista », che ha il gusto del­ la « luminosità e sottigliezza, nobiltà e schiettezza » di quella cultura, ed è capace di imporre « l’alto gra­ do di disciplina intellettuale indispensabile per man­ tenere la classe all’altezza dello sforzo imposto dalle difficoltà dell’assunto » : difficoltà che per esser ri­ solte esigono una certa « esattezza di sentimento » (precision of feeling). Mr. Rolfe è la prima esperien­ za intellettuale di Edmund Wilson, e condiziona e prepara le successive: rappresenta nella sua persona quella concordia di disciplina intellettuale e di indipendenza di giudizio che permisero poi a Wilson di allacciare la cultura puritana da cui proveniva, con i suoi orgogliosi dinieghi e le solenni imposizioni, a quella cultura classica cui aspirava, il cui segno es­ senziale era la capacità di mostrare, nell’amore per le lettere in quanto tali, la conquistata « libertà di sorridere e di giocare »} All’esperienza illuminante di Mr. Rolfe successe, a Princeton, la decisiva opera maieutica di Christian Gauss; anzi l’influenza di quest’ultimo è indicata dal Wilson come affatto decisiva, secondo quel che ne dice nel saggio d’apertura di The Shores of Light: Gauss as a Teacher of Literature. Gauss egli ci pre­ senta come intelligenza di qualità socratica: uomo per nulla dogmatico, ma anzi aperto alla sperimenta­ zione di ogni strumento intellettuale, porta tuttavia costanti nel suo lavoro alcuni presupposti, di gusto 1. The Triple Thinkers, J. Lehmann, London, 1952, pp. 224 e 230.

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più che di metodo, che ritroveremo nell’opera di Wilson. La sua idea della letteratura comportava al­ cuni punti fermi, una sorta di canone: Dante, che egli tendeva sommessamente a contrapporre a Sha­ kespeare, notando, del primo, 1’« ordinata visione», la « ragionata moralità » cui il secondo non sarebbe mai stato in grado di pervenire; e Flaubert, di cui rilevava la capacità di realizzare « una concezione personale del mondo, messa assieme, senza traccia di commessure, con descrizioni apparentemente imper­ sonali, nelle quali, come in Dante, non c’era un toc­ co di troppo ».2 E ancora commenta: « Molte cose buone ci vennero da Gauss, ma le più importanti furono forse Dante e Flaubert».3 Molti anni di poi, una reminiscenza degli studi giovanili riappariva nel saggio Is Verse a Dying Technique? « Chi, a un’età sensibile, scopra Flaubert, e già co­ nosca Dante, s'accorgerà forse che le proposizioni del primo continuano a cantargli nella mente non meno dei versi del secondo... Comprenderà che, sebbene Dante possa essere scrittore più grande di Flaubert, entrambi appartengono alla medesima categoria ».4 Pare anzi che uno dei concetti essenziali di Ed­ mund Wilson, se non semplicemente il concetto es­ senziale, e cioè che l’arte, ed anzi qualsiasi lavoro in­ tellettuale, sia nient’altro che lo schema (pattern) che impone ordine, forma, intelligibilità al caos della realtà, derivi direttamente dalle dottrine di Christian Gauss. E lo stesso Wilson ne dà testimonianza, là do­ ve riferisce le parole di un collega di studi di que­ gli anni giovanili : « Mi fece scoprire nel linguaggio e nella lettera­ 2. The Shores of Light, Farrar, Straus and Young, New York, 1952, p. 14. 3. O p . cit., pp. 14-15. 4. The Triple Thinkers, p. 28.

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tura lo svolgersi della continua, inconclusa fatica umana, per pensare quei pensieri che, tradotti in azione, rappresentano il procedere della civiltà ».5 2. Nell’ambito dello stile, delle tecniche lettera­ rie, « classico » è per Wilson il gusto della parola esatta, idonea ad una espressione quanto più possi­ bile concreta e specifica, e pertanto intensa ed imme­ diata. Il linguaggio dello scrittore « classico » tende ad una condizione di oggettività, è stilisticamente impassibile di fronte alle più torbide ed acri aggres­ sioni emotive. « Noi studiavamo la scelta delle paro­ le », dice Wilson delle sue giovanili letture di Dan­ te e Flaubert « in quelle scorgendo via via un più pro­ fondo significato » .6 E confrontando Flaubert e Virgilio: «non meno del romanziere, il poeta comunica un’emozione me­ diante l’espressione oggettiva ».7 È poi proprio di una idea « classica » dell’opera d’arte il porre il problema dello stile, del linguaggio in modo non disorganico e frammentario, ma corre­ lato ed integrato in una più generale e comprensiva unità: l’opera d’arte è struttura e organizzazione. L’influenza delle idee letterarie di Christian Gauss, afferma Wilson, determinarono l’evoluzione di Scott Fitzgerald «da This Side of Paradise a The Great Gatsby, da una concezione del romanzo soggettiva ed imprecisa, ad una concezione organizzata ed imper­ sonale ».8 E la Divina Commedia definisce « così straordina­ riamente sostenuta e mirabilmente integrata».9 Ed è agevole vedere negli ampi riassunti che figu­ rano in AxeVs Castle, ed in alcuni saggi di The Tri­ 5. 6. 7. 8. 9.

The Shores of Light, p. 20. The Triple Thinkers, p. 28. Ibidem. The Shores of Light, p. 15. The Triple Thinkersf p. 26.

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pie Thinkers e di The Wound and thè Boia, veri stu­ di sperimentali della struttura delle varie opere: rit­ mo della narrazione e storia dei personaggi netta­ mente definiscono la struttura dell’opera di Proust, nel riassunto di trenta pagine che Wilson scrisse per AxeVs Castle. A comprendere esattamente quel che Wilson in­ tenda per « ordine » nell’ambito dell’opera lettera­ ria, servirà vedere in qual modo concreto egli usi quel concetto, o altri analoghi, nell’analisi di un autore greco e classico, Sofocle, del quale, unico degli anti­ chi, egli ebbe a occuparsi con una certa ampiezza: giacché Sofocle, con Dante, Virgilio e Flaubert, fi­ gura nella sua ideale ed eterna biblioteca classica. Di Sofocle egli tratta dapprima in un intermezzo meditativo di I Thought of Daisy, romanzo ampia­ mente autobiografico, pubblicato nel 1929; poi in due saggi del 1930, ora in The Shores of Light, in polemica con i critici « umanisti »; e, infine, nel sag­ gio conclusivo di The Wound and thè Bow (1939). In Sofocle i critici « umanisti » avevano voluto vedere un rappresentante dell’umanesimo come asten­ sione e autocontrollo: scrittore - essi affermavano - naturalmente sereno, ostile ad ogni disordine pas­ sionale, per quel che è possibile ad uomo, incline ad imperturbabilità. Pare che Wilson abbia letto per la prima volta Sofocle nella speranza di ritrovarvi una intuizione rasserenante. Così racconta e osserva il protagonista di I Thought of Daisy : « Rammentai quei grossi volumi di Jebb, nei qua­ li, poco tempo prima, sperando di placare il mio spi­ rito, avevo letto Sofocle. Quello sì era il culmine del­ l’impostura letteraria! Quei drammi erano diventati esempio insuperato di moderazione, di classica sag­ gezza, pietra di paragone da contrapporre all’inquie­ tudine moderna. Ma quale drammaturgo contempo­ raneo ha superato Sofocle in asprezza? Anche se ani­ mati da una fede appassionata, fanatica, i suoi per­ sonaggi non sono meno angusti ed egoisti dei perso­ 156

naggi di Ibsen, e quanto più rissosi, più violenti! E quanto a barbarie, è poi tanto grande la differenza tra Sofocle e Dostoevskij? ».10 Riprendendo la polemica nei medesimi termini in Notes on Babbitt and More, Wilson scrive: « Secondo Babbitt, a Sofocle spetta “un posto as­ sai alto tra gli umanisti occidentali”, pur ammetten­ do che un equilibrio perfetto è indubbiamente im­ possibile; nemmeno Sofocle riesce a vedere sempre la vita chiaramente e nella sua interezza. Ignoro a quale riguardo, secondo il professor Babbitt, Sofo­ cle abbia mancato di conseguire il perfetto equili­ brio; ma è certamente vero che i suoi personaggi so­ no per solito variamente notevoli, ma certo non per equilibrio; sono aspri e violenti non meno dei per­ sonaggi di O’Neill. La legge della misura non riguar­ da il comportamento dei personaggi di Sofocle, ma il modo con cui egli maneggia il suo materiale: la robusta presa intellettuale, il sicuro senso della for­ ma, il vasto intuito psicologico che gli consente di porci davanti le furie, le ambizioni, la fede di tanti personaggi passionali, che si sfidano e logorano a vi­ cenda, e spirano nell’aria chiara, lasciandosi dietro, insieme all’eco delle loro declamazioni, la vibrante tensione del verso ».n La chiarezza, dunque, l’ordine, la « measure », che sono proprie dell’artista, non si collocano all’intemo del suo mondo emotivo, ma sono un modo di pen­ sare quelle emozioni, di renderle non già più paca­ te - che sarebbe compito morale e pratico - ma in­ telligibili. Sofocle esprime deliberatamente e lucida­ mente una realtà che, per quanto atroce, egli rispet­ ta come autentica. Questa interpretazione Wilson ri­ prende in Sophocles, Babbitt and Freud, ove si di­ fende la lezione tradizionale del testo dell 'Antigone sofoclea, contro un proposto emendamento che ave­ 10. I Thought of Daisy, W.H. Alien, London, s.a., pp. 156-157. 11. The Shores of Light, pp. 453-454.

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va lo scopo di attenuare, e rendere meno inquietan­ te, la devozione passionale della protagonista per il fratello. Wilson difende il carattere realistico del te­ sto tradizionale: « Mi pare chiaro che in Antigone il poeta presen­ tava Coscientemente un caso, come noi diremmo og­ gi, di "fissazione fraterna”. Sofocle non la chiamava a questo modo, né la considerava, come noi, da un punto di vista clinico; ma la sua intelligenza degli impulsi umani era profonda e realistica » ,12 A Sofocle, Wilson ritorna infine nel capitolo con­ clusivo di The Wound and thè Bow; e l’analisi si concentra ora sul Filottete, che ha per tema lo stu­ dio di una condizione radicalmente patologica. Wil­ son sottolinea la particolare vocazione sofoclea ad in­ tendere la follia, a descrivere i deliri e le allucina­ zioni con impassibile lucidità clinica: « Per sua sventura, Sofocle appare nella tradizione accademica come il modello di quelle qualità di fred­ dezza e ritegno che codesta tradizione considera clas­ siche... Certo, ha equilibrio e logica: le qualità ap­ punto che i classicisti ammirano; ma tali qualità contano solo perché dominano tanta brutalità e de­ menza. Anche nel fortunato Sofocle si nascondeva un malato, furioso Filottete».13 Sofocle è dunque l’artista che oppone una eroica chiarezza intellettuale alla passione ed alla follia del­ l’esistenza. Codesta idea della classicità implica una dialettica che per sua natura non può aspirare ad al­ cuna conclusione: i sentimenti non tendono a tra­ mutarsi in diversi sentimenti, né l’angoscia può ri­ solversi in una condizione di quiete; le tensioni emo­ tive tendono solo a ordinarsi secondo schemi di in­ telligibilità. Quale che sia la violenza e la follia di codeste emozioni, ad esse non spetta, come tali, al­ 12. Op. cit.y pp. 472-473. 13. The W ound and thè Bow , Oxford University Press, New York, 1947, p. 293.

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cuna dignità intellettuale: lo scrittore le affronterà con non minore esattezza e impietoso rigore. 3. La concezione di classicità che si è ora descritta include dunque un rapporto dialettico: una quali­ tà ordinativa, formale, razionale in quanto delibe­ rata e funzionale, impone il proprio schema e rende intelligibile una materia naturalmente informe e pri­ va di senso. È necessario comparare questa idea del­ la razionalità con quella proposta dai critici detti « umanisti », per intendere il senso della polemica che contro costoro Wilson, a fianco di Mencken e di Van Wyck Brooks, condusse negli anni preceden­ ti alla crisi economica. Gli « umanisti » - Paul Elmer More, e soprattutto Irving Babbitt - affermano il primato del momento razionale, delle scelte con­ sapevoli; questa razionalità si presenta come volon­ tà di astensione — will to refrain -, rinuncia, esclu­ sione; l’astensione dall’impulso istintivo è imposta dalla devozione alla law of measure, all’equilibrio o poise. Agli umanisti sta dunque a cuore l’affermazio­ ne della dignità di un ordine da contrapporre alle suggestioni arbitrarie e discontinue del sentimento; ed a quest’ordine è affidato il compito di garantire efficacia e continuità dei valori che giudicano e or­ ganizzano i dati della realtà umana. È chiaro che il sistema « umanistico » può accogliere soltanto valo­ ri morali, e vuole che questi siano criterio di misura per ogni altra attività umana: così che nessuna au­ tonomia resterà all’attività estetica. In un siffatto contesto, ordine ed emotività, razio­ nalità ed irrazionalità si confronteranno come forze omogenee, intese a sopraffarsi, inidonee a pervenire a qualunque mediazione, incapaci di dialettica. La moralità umanistica, culmine e teologia di quella fi­ losofia, si definisce come un sistema di dinieghi, di severe autolimitazioni. Non è certo un caso che le concitate, sarcastiche chiose wilsoniane alla filosofia umanistica coincida­ 159

no per certi riguardi con le osservazioni ironiche, elegantemente settarie, di T. S. Eliot: tanto il criti­ co ateo e radicale, quanto il poeta « monarchico, an­ glocattolico, classicista » rilevano l’ossessione morali­ stica degli « umanisti », il fanatismo etico che rende inintelligibile tanta parte dell’esperienza umana. En­ trambi riconoscono in questo atteggiamento una vo­ cazione religiosa deviata e mutilata: « More è in real­ tà un puritano vecchio stile, che ha perso la teologia ma non il dogmatismo puritano».14 Quella moralità fondata sulla inibizione ripugna a Wilson, che la ritiene specialmente esiziale alla ci­ viltà americana, come naturalmente intesa a confer­ marne la tetra rozzezza, la barbara impotenza alla gioia intellettuale. Wilson ed Eliot concordano in un punto essenzia­ le: gli «um anisti» non possono avere alcun interes­ se per l’opera d’arte in quanto tale. Wilson aggiun­ ge che la stessa moralità « umanistica » è natural­ mente ostile a queU’impulso irrazionale che è « con­ dizione necessaria di qualsivoglia attività artistica ».15 « Paul Elmer More » nota Wilson « disapprova quel­ le opere d’arte che non propongono esplicitamente la morale del self-control ».16 A questo modo, sia pure in termini impliciti, Wil­ son afferma l’autonomia del momento estetico, e de­ finisce ulteriormente i termini del suo lavoro critico. 4. « L’anno prima di andare all’università, avevo scoperto H. L. Mencken ».17 Per Wilson l’incontro con l’opera di Mencken fu una decisiva scoperta in­ tellettuale. Con il suo linguaggio rissoso, plebeo, im­ prevedibile, Mencken prendeva le difese di una nuo­ 14. The Shores of Light, p. 466. 15. Op. cit., p. 143. 16. Op. cit., p. 462. 17. Classica and Commercials, Farrar, Straus and Co., New York, 3® ed., 1955, p. 73.

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va letteratura americana, destinata a rivelare una real­ tà ancora oscura e faticosa. « Costoro » scriveva Men­ cken dei nuovi scrittori « sono sofisticati, disillusi, spogli di clichés, e tuttavia hanno immaginazione». E ancora: « I membri della nuova civiltà letteraria sono im­ muni dalle due grandi illusioni che, fin dairinizio, sono state la maledizione delle lettere americane: l’illusione che l'opera d’arte sia in primo luogo un documento morale, che suo scopo sia fare degli uo­ mini migliori cristiani e più docile carne da canno­ ne, e l'illusione che si tratti di una esercitazione di logica, che abbia lo scopo di dimostrare qualcosa».18 Nello stesso tempo, Mencken aveva a sdegno la critica del suo tempo, i critici accademici, « gli adul­ ti studentelli che in America si occupano di critica... non apprezzano un’opera d'arte per la sua lucidità e schiettezza, per il fascino delle idee, il virtuosismo tecnico, l’originalità, il coraggio artistico, ma sempli­ cemente e unicamente per la sua ortodossia ».19 Solenne s’era levata la voce di Mencken a indicare, nel 1917, il primo scrittore della nuova letteratura: « Nel deserto della narrativa americana, popoloso e tetro, si erge Dreiser...20 « La critica di Mencken ebbe un’efficacia straor­ dinaria sui giovani che erano cresciuti all’epoca di Howells... Mencken ebbe la temerarietà di calpesta­ re la tradizione genteel, e subito si vide che il vec­ chio incantesimo non reggeva più. Si dispersero le ragnatele, il paese ci si svelò, e noi potemmo vedere 18. The American Novel , in Literary Opinion in America, ed. by Morton Dauwen Zabel, Harper and Brothers, New York, rev. ed., 1951, pp. 163 e 164. 19. Criticism of Criticism, in Prejudices: A Selection , made by James T. Farrell, Vintage Books, New York, 1958, pp. 6 e 7. 20. Theodore Dreiser, in The Shock of Recognition, ed. by Edmund Wilson, Farrar, Straus and Cudahy, New York, 1955, p. 1160.

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quel che vi si faceva di veramente interessante... Mencken aveva qualcosa che forse nessuno dei nostri uomini di lettere aveva avuto prima di lui: un ge­ neroso, illimitato appetito per la carta stampata ame­ ricana ».21 Nel 1936, recensendo la quarta edizione At\YAmeri­ can Language, Wilson ricordava Topera di Mencken di vent’anni prima : « La pubblicazione, nel 1917, del Book of Prefaces di Mencken, con il suo notevole saggio su Dreiser, fu uno degli eventi fondamentali della nuova lette­ ratura americana... Riusciva ad apprezzare, ed a stimolare in noi un certo appetito per il pur crudo americanismo di Dreiser».22 Wilson - è chiaro - sottolinea l’importanza prati­ ca dell’opera di Mencken: il suo metodo non è di per sé importante, quanto piuttosto un certo atteg­ giamento vitale, una gagliarda passionalità nel trat­ tare di opere letterarie: in entrambe le ultime cita­ zioni troviamo la parola «appetite». (E ancora a proposito di The American Language, nota: «he overindulges an appetite for paradox »). Mencken era un nuovo poderoso temperamento, un « umore » ; scrittore impetuoso ma nient’affatto casuale, i suoi amori e disdegni intellettuali gli ispiravano una sec­ ca e sarcastica ribalderia di linguaggio, capace di iro­ si lazzi, e anche slap-stick, immaginose, virili scurri­ lità; linguaggio che era anche un modo di trattare la letteratura, di portare nella lettura, neirintelligenza dell’opera letteraria una impetuosa cordialità di non inibite passioni. Tuttavia, Wilson non tardò a intendere quanto diverso fosse il mondo morale di Mencken da quello cui egli aspirava. Nel 1926, in una rassegna della cri­ tica letteraria in America, notava: « Le idee... su cui si basano gli scritti di Mencken 21. The Shock of Recognition , pp. 1155 e 1156. 22. The Shores of Light , p. 633.

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non sono né molte né sottili, e anche nelle opere più serie, anche in The American Language, indulge ec­ cessivamente al gusto del paradosso. Ma qualcosa del musicista e del poeta ha consentito a Mencken di volgere queste idee in letteratura: grazie, infatti, al colore, al ritmo di una prosa singolarmente perso­ nale, le idee di Mencken sono diventate tanto con­ tagiose »P Il dissenso tra Wilson e Mencken si manifestò spe­ cialmente nelle diverse idee che essi avevano dell’uomo e della società: Mencken amava infatti esibire un aggressivo e sdegnoso aristocraticismo, e clamoro­ samente professava il suo assoluto, sarcastico disde­ gno per l’uomo comune, negato aH'intelligenza delle arti e delle lettere, e per la società democratica, in­ tenta a lusingare la miseria morale e intellettuale dei cittadini. Wilson, radicale e poi new-dealista, ha a sdegno queste fantasie, che egli mette assieme ad altre inani cantafavole da letterati : « il culto della proletaria coscienza di classe » di Dos Passos; l’anglocattolicesimo di Eliot; la « Provenza medievale, in cui poveri ma eletti trovatori godono i favori di no­ bili dame » di Ezra Pound : « Nel caso di H. L. Mencken, è una sorta di città universitaria tedesca, in cui si beve molta birra, si divorano molti libri, e si rispetta la nobiltà locale ».24 Negli anni turbinosi che precedettero e seguirono la crisi economica, Wilson scrisse su Mencken parole dure e seccamente faziose. Nel 1929: « Mencken induce i suoi ammiratori a lavarsi le mani delle questioni sociali. Grazie a Mencken, è di­ ventato di moda trattare la politica come una farsa oscena E nel 1932: « Mencken e Nathan deridevano l'agente di cam­ 23. Op. cit., p. 235. 24. Op. cit., p. 439. 25. Op. cit., pp. 434*435.

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bio, ma giustificavano il sistema che lo produceva e andavano d'accordo con lui, purché apprezzasse Geor­ ge Moore, e si desse aria di intenditore di liquori ».26 E tuttavia l'influenza di Mencken fu profonda e decisiva: ed anzi, in alcune delle ultime opere di Wilson - penso a Europe without Baedecker e a A Piece of My Mind - par di riconoscere un certo di­ sdegnoso orgoglio aristocratico e, neH’aggressivo sar­ casmo con cui tratta la vita politica americana, trac­ ce dei sentimenti e delle idee di Mencken. 5. Fino alla crisi del 1929, o piuttosto fino alla pub­ blicazione, nel 1931, di AxeVs Gasile, la critica di Ed­ mund Wilson si concentra essenzialmente in brevi documenti, recensioni che di rado hanno l'ambizio­ ne del saggio, appunti di lettura; queste pagine re­ cano il segno di due concorrenti criteri critici: la sensibile adesione alle indicazioni del gusto, che im­ pone una precisa ed elegante fedeltà al dato testuale - carattere destinato a rimanere costante nell’opera di Wilson; e la esigenza di definire il significato che un libro, un autore, assumono nella storia di una cultura, la loro capacità di dar testimonianza, di il­ luminare problemi di una civiltà: donde il ricorso a impostazioni storicistiche ed a categorie proprie dell’indagine psicologica. In quei primi documenti del suo lavoro critico raccolti poi, nel 1952, in The Shores of Light - Wil­ son si tiene fedele alla sua idea della critica: che è, semplicemente, che la critica debba giudicare; com­ pito cui, a suo avviso, la critica americana tende a sottrarsi, con la eccezione di pochi nomi, tra i quali Mencken e Louis Untermeyer: « Oggi a mala pena si distingue la recensione dal­ l’annuncio pubblicitario: l’una e l’altro tendono a dare l'impressione che con la stessa regolarità si fab­ 26. Op. c i t p. 493.

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bricano capolavori e nuovi modelli d’automobili ».27 Alla esigenza di dar giudizio estetico, si unisce l’al­ tra, di collocare lo scrittore in un contesto storico e civile: compito, questo, che richiede una simpatia generosa, una discriminazione più acuta che non se­ vera: giacché occorre saper riconoscere i segni dei tempi anche in prove non mature, in opere sbaglia­ te. Di sé, Wilson dice: « Sente una certa simpatia umana per tutte le ma­ nifestazioni della nuova letteratura americana, anche quelle che, dal punto di vista artistico, disappro­ va ».28 In questo modo, la definizione storica delimita il senso del discorso propriamente estetico, e ne sta­ bilizza il significato. In un saggio del 1928, The Critic Who Does Not Exist, Wilson dà alcune indicazioni, prevalentemen­ te negative, sul compito e sulla dignità del critico. Non è compito del critico spiegare il contenuto di un libro, né raccontare le emozioni in lui suscitate dalla lettura; né dovrà far polemica contro o prò una certa idea della letteratura; e neppure dovrà aspira­ re alla enunciazione di giudizi assoluti, quasi egli fos­ se estraneo alle limitazioni, ai caratteri propri di una civiltà: al contrario, dovrà acquistare piena coscien­ za della propria collocazione storica, giacché solo a questo modo potrà fornire agli scrittori suoi contem­ poranei l’ausilio di una sensibilità matura, integrata in una personalità lucida e consapevole; e dovrà ve­ rificare i suoi canoni applicandoli alla esperienza concreta della cultura, ai nuovi libri, eccellenti o buo­ ni o mediocri —ai dibattiti, ai confronti con gli altri critici.29 Questo non è solo ideale strettamente lette­ rario, ma più genericamente civile: Wilson propo­ ne una certa tecnica intellettuale, un modo di usare l’intelligenza. 27. Op. cit.y p, 229. 28. Ìbidem. 29. Op. cit., pp. 367-372.

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La critica, dunque, aspira ad essere letteratura, e ad essere contemporanea; ma tende insieme alla lu­ cidità impersonale della coscienza storica; il giudizio estetico è una sentenza del « gusto » : ma codesta sen­ tenza ha senso solo in un contesto storico. Passiona­ lità e consapevolezza: la critica nasce dalla periglio­ sa dialettica di questi termini. Il primo e, in certa misura, l'unico libro di criti­ ca sistematica di Wilson, AxeVs Castle, è una prova sperimentale di codeste tecniche, e della loro reci­ proca integrazione. 6. Il tema critico essenziale di AxeVs Castle è il se­ guente: la cultura simbolista rappresenta un movi­ mento non solo letterario; si tratta della specificazio­ ne letteraria di un fatto storicamente complesso, che rappresenta, nel suo insieme, una rivolta filosofica, morale, politica, contro lo scientifismo meccanicisti­ co dell’ '800. Questa tesi WJiitehead aveva enunciato in Science and thè Modem World, e Wilson l'acco­ glie perché soddisfa una sua esigenza fondamentale: dà al discorso critico una esatta collocazione storica, ne precisa il significato, consente alla sua autonomia ma non al suo isolamento. Questo inquadramento consente a Wilson di definire ulteriormente quel che egli intenda per critica. Negli anni in cui Wilson attendeva alla prepara­ zione di AxeVs Castle, governavano la critica ameri­ cana le due opposte tendenze di H. L. Mencken e T. S. Eliot, e delle due loro riviste, « Mercury » e « Criterion ». Negli ultimi anni s'era fatta preponderan­ te l'influenza del secondo, affidata in particolar mo­ do alle brevi e asciutte note di letteratura: e la for­ tuna di questa critica aveva portato seco l’affermazio­ ne di nuovi canoni del gusto; i metafisici prendeva­ no il posto dei romantici - Shelley, Byron; Dante e Dryden succedevano a Milton. La critica eliotiana aveva tolto di mezzo gli estremi residui della critica « poetica », « quella sorta di critica che, quando si 166

occupa di poesia, si sforza di riprodurne gli effetti ri­ correndo alla prosa poetica »,* ed a questa aveva so­ stituito l’apparente freddezza di una analisi distac­ cata, scientifica, che procedeva al metodico confron­ to di diversi autori, assolutamente presi, senza ri­ guardo alla loro collocazione storica; Wilson ritiene che questo metodo, sebbene consenta nuovi e stimo­ lanti confronti tra scrittori e modi stilistici apparen­ temente remoti, non possa portare in conclusione ad un certo e stabile sistema critico: « non sembra con­ durre a nulla ».31 Con questa precisa enunciazione, Wilson indica una esigenza critica che cercherà va­ riamente di soddisfare senza mai pervenire ad una formulazione radicalmente nuova, capace di integra­ re giudizio storico ed estetico. La teoria di Eliot si fondava su una certa idea del­ la poesia, comune in parte a Paul Valéry, e già pre­ sentita e adombrata da Coleridge e da Poe. Secondo codesta concezione, la poesia si differenzierebbe ra­ dicalmente da ogni altro genere letterario, e sarebbe per sua natura estranea, ostile alla commistione con qualsivoglia elemento vitale, pratico o concettuale; e dunque finirebbe per definirsi come oggetto affat­ to astorico. Questa idea misterica della poesia giustifica un atteggiamento critico, che pretende a scien­ tifico rigore: la poesia è un oggetto, afferma Valéry, che vuol suscitare nel lettore un certo atteggiamen­ to dell’animo, facendo ricorso a qualsivoglia mezzo verbale, al di fuori di ogni limitazione imposta dal senso logico. Analogamente, « Eliot ritiene che un’opera d’arte sia non un oracolo, ma un oggetto deliberatamente costruito allo scopo di produrre un certo effetto ».32 Eliot tuttavia dissente da Valéry riconoscendo alla 30. Axel’s Castle, Charles Scribner's Sons, New York, 1954, p. 115. 31. Op. cit.y p. 123. 32. Op. cit., p. 117.

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filosofia, al pensiero concettuale, la capacità di farsi poesia, o facendosi sensibile, come accade nella poe­ sia dei metafisici, o tramutandosi in struttura, come accade in Dante; Eliot afferma a questo proposito che la forma originaria della filosofia non è di per sé poetica: per cui meglio riuscirà come poeta colui che si farà espositore di idee non proprie ma altrui, e quindi non pensate dallo scrittore direttamente in forma filosofica: come è il caso di Lucrezio. La critica di Wilson a questa affermazione è la seguente: la poesia non è un tipo di discorso umano non confrontabile con alcuna altra forma letteraria, né ha diritto ad alcuna particolare dignità; è, sem­ plicemente, una tecnica espressiva, usata per l’innanzi in modo assai ampio, oggi utilizzata solo nella poe­ sia lirica. Né questo uso via via più specializzato vuol significare che « noi per la prima volta cominciamo a cogliere la vera, schietta, suprema funzione della poesia; che è, come dice Valéry, quella di produrre uno “stato” o, come dice Eliot, di consentire “un superiore d iv e rtim en to È più probabile che, quale che ne sia la ragione, l’umanità stia abbandonando del tutto il verso come tecnica di espressione lette­ raria - forse perché è una tecnica più primitiva e pertanto più barbara della prosa ».33 Se la differenza tra poesia e prosa è puramente tec­ nica, e non qualitativa, andrà d’assai limitata l’im­ portanza che i simbolisti attribuiscono alla suggestio­ ne dei suoni e delle immagini; e d’altrettanto sottolineata l’importanza del mondo delle idee, intese ed usate come tali. L’affermazione, secondo cui il verso sarebbe una tecnica più « barbara » della prosa, non pare essere una avventurosa boutade, ma un concetto partico­ larmente caro al Wilson. Ne tratterà sistematicamen­ te in un saggio incluso in The Triple Thinkers: Is Verse a Dying Technique? 33. Op. rii., p. 120.

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« Con le parole “prosa” e “verso” designiamo semplicemente due diverse tecniche di espressione letteraria ribadisce in questo saggio. E continua osservando che ciò che la letteratura ha oggi di più intenso, « thè most beautifully composed »,35 è scrit­ to « talora secondo la tecnica poetica, talora secondo la tecnica della prosa, a seconda del gusto dell’autore e della moda del tempo».36 Nulla di più futile, afferma Wilson, che cercare di riportare entro le strutture metriche del passato forme letterarie ormai legate naturalmente ai ritmi soluti della prosa: basti per tutti l’esempio di Max­ well Anderson, che vanamente si provò a resuscita­ re l’uso drammatico del blank verse: « I vecchi pen­ tametri giambici non hanno più alcun rapporto con la scansione della vita di oggi ».37 In conclusione, Wilson ritiene che il verso, ormai scisso definitiva­ mente dalla musica strumentale cui un tempo s’ac­ compagnava, difficile e non naturale a leggersi, sia destinato a perdere via via le antiche possibilità espressive : « si ha l’impressione che oggi la tecnica della prosa stia assorbendo la tecnica del verso ».38 Occorre appena rilevare come questa concezione della poesia introduca una distinzione fra tecnica strumento generico, sorta di mera grammatica del­ l’espressione —e la concreta opera d’arte da intende­ re e giudicare: così che nell’analisi si insinua un elemento estraneo, non riducibile allo stile, alla qua­ lità letteraria propria di una singola opera. E tutta­ via, questo criterio, che non pare né ben fondato né cautamente enunciato, fu concretamente di grande utilità al lavoro critico di Edmund Wilson: in pri­ mo luogo, gli permise di vedere la storia letteraria 34. 35. 36. 37. 38.

The Triple Thinkers, p. 22. Op. cit., p. 27. Op. cit., pp. 27-28. Op. cit., p. 32; cfr. anche The Shores oj Light, p. 679. Op. cit., p. 35.

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al di fuori di ogni limitazione di generi, limitazione che era implicita nel discorso critico di Eliot e Va­ léry. Inoltre, gli permise di individuare e definire in un’opera letteraria grumi non risolti di tecniche let­ terarie non tramutate integralmente in stile: come s’è visto nelle osservazioni sul teatro di Maxwell An­ derson. E tuttavia, con precipitazione razionalistica, da quella affermazione egli ha voluto « dedurre » la storia della letteratura a venire. Il verso scompare. Perché? Perché è «barbaro»; ed è tale perché anti­ co. La scomparsa della versificazione fa dunque par­ te del processo di incivilimento. Ma che significa tecnica « barbara »? Questo termine vuol giudicare il possibile rapporto tra materia e tecnica, o solamen­ te la sua qualità astratta di strumento? Il termine « barbaro » implica un giudizio di valore? E se no, come pare, che utilità può avere per l’opera del cri­ tico? E se vuol designare, invece, un particolare nu­ cleo emotivo, intrinsecamente legato a quella tecni­ ca, che senso ha il confronto, ricorrente in Wilson, tra Virgilio e Flaubert, Dante e Flaubert, Sofocle e Dostoevskij? Possiamo citare Wilson, là dove, a pro­ posito deiridea simbolistica di poesia, nota: « Quando ci mettiamo a discutere di questi pro­ blemi ci perdiamo nelle assurdità. Quando leggia­ mo, giudichiamo correttamente».39 7. Edmund Wilson rifiuta dunque una critica let­ teraria che non vada oltre la letteratura, « which does not lead to anything beyond itself». S’è visto come egli abbia fatto ricorso ad una interpretazione di Whitehead per pervenire ad una integrazione del­ la letteratura nella totalità di una esperienza storica. Ciò gli consente in primo luogo di riaffermare il na­ turale legame tra letteratura e pensiero concettuale. Tanto oltre porta Wilson l’affermazione di codesta parentela, da fare della letteratura un momento, una 39. Op. cit., p. 28.

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sorta di incarnazione, una traduzione emotiva di una idea, una dottrina: « Il poeta romantico, col suo linguaggio torbido e opalescente, le sue simpatie, le passioni che lo im­ mergono in ciò che lo circonda, è il profeta di una nuova intuizione della natura: descrive le cose come realmente sono; e una rivoluzione nelle immagini poetiche è in realtà una rivoluzione metafisica».40 A questo si opporrà il naturalismo, che esemplifi­ ca il ritorno alle teorie meccanicistiche preromanti­ che, applicate non più alla fisica, ma alla biologia: « La teoria deirevoluzione ebbe l’effetto di ridur­ re l’uomo, dalle dimensioni eroiche cui i romantici avevano cercato di esaltarlo, alle proporzioni di un animale indifeso... L’umanità era il prodotto acciden­ tale della ereditarietà e dell’ambiente, e poteva es­ sere spiegata in questi termini. In letteratura, questa dottrina ebbe nome naturalismo, e venne professa­ ta da romanzieri come Zola ».41 Integrando a questo modo un movimento lettera­ rio con altri movimenti e tendenze, filosofiche o scientifiche, Wilson restituiva alla letteratura una complessità, una densità di allusioni e significati che la legavano a tutta una situazione storica; ed insieme sottolineava come un linguaggio letterario avesse ri­ lievo e significato non solo per quel che affermava, ma anche per quel che negava. Una letteratura ve­ niva ad essere non già un « oggetto assoluto », ma un sistema di risposte a tensioni e problemi, che giun­ gevano contemporaneamente a coscienza in filosofia ed in politica, religione e scienza. Il simbolismo ne­ gava la letteratura documentaria, l’oratoria, il misti­ cismo sensuale del romanticismo, la propaganda mo­ ralistica: affermava l’autonomia e l’integralità del­ l’individuo, la sua solitudine e la sua acre dignità, la sua fantasia ed integrale compenetrazione col mon­ 40. Axel’s Castle, pp. 5-6. 41. Op. cit., p. 6.

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do sensibile. I simbolisti erano scrittori tecnicamen­ te oscuri: ma si facevano chiari, se collocati in un più ampio contesto. « Dove la vita è disordine, i poe­ ti si esprimono col “nonsense” »,42 aveva già detto di Properzio : intendendo che quel « nonsense » sarà l'autentico ordine, l’organizzazione, come è possibile in termini letterari, di una vita senza ordine. Non pare che Wilson voglia fondare su codesta integrazione un sistema di giudizi di valore: quel che gli interessa, è rendere leggibile, intelligibile un testo letterario ricostruendo attorno alle pagine il si­ stema, la struttura storica e culturale che la giustifica e la regge. 8. Di idee radicali, incline a simpatie marxiste, Edmund Wilson in nessun caso fa ricorso a criteri ideologici, comunque acconciati, per dar giudizio di opere letterarie. Axel’s Castle discute e giudica l’ope­ ra letteraria dei simbolisti, e di costoro non nascon­ de le idee politiche reazionarie, l’inclinazione a fan­ tasie religiose, o magiche e mistiche; e tuttavia il li­ bro è colmo di schietta e attenta simpatia per la se­ vera coscienza artistica, il rigore intellettuale, l’orgo­ glio morale che giustificano la loro opera: e se quel­ le idee, come tali, non possono essere accette a Wil­ son, egli le tratta come indizi di una condizione del­ la civiltà, proposte di soluzione da cui dissente, ma che valgono ad illuminare i problemi, le contraddi­ zioni di una società, di una cultura. Esemplare di questo atteggiamento è il capitolo di AxeVs Castle dedicato alla poesia di Yeats ed alla sua posizione fi­ losofica. La storia della poesia di Yeats si muove attorno ad un unico problema: il rapporto con la realtà. Pre­ vale all’inizio una fantasia di fuga, d’evasione: è il tempo del fairyland; lo sviluppo della poesia di 42. The Shores of Light , p. 270.

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Yeats è contrassegnato da una graduale rinuncia al­ la fantasia irrealistica : « lo sviluppo più tardo dello stile di Yeats sembra coincidere con la fine di una illusione ».43 Ad un rinnovato rapporto con la realtà, corrispon­ derà una nuova idea della poesia: « Ma ora, nel periodo inaugurato da The Green Helmet (pubblicato nel 1912), la bilancia inclina verso l'altra parte. Con la frustrazione del primo amo­ re egli ha forse pagato il prezzo della sua fuga alla terra delle fate, e la memoria è penosa... Deve af­ frontare le dure condizioni della vita. E la coscienza dei limiti inesorabili ha messo più esattamente a fuo­ co la sua arte».44 Il linguaggio di Yeats si fa più intenso e nitido; il verso «definite and h ard » :45 è la purezza, l'intensi­ tà dei classici. Ma a questo punto si presenta al cri­ tico un nuovo, più oscuro problema: Yeats presenta, in A Vision, quel che egli vuole sia considerata una filosofia: organica, macchinosa, e shocking. Perché Yeats aveva fatto ricorso a quelle oscure e grevi fan­ tasie astrologiche? Wilson tratta con estrema cautela, senza mai respingere come aberrante, quella materia fantastica. Si tratta, ovviamente, di una fabbrica in­ gegnosa quanto irritante nei suoi termini letterali; ma in nessun caso priva di senso o inutile. È uno strumento di difesa, da utilizzare in certe particola­ ri condizioni: « Il poeta moderno... deve crearsi una personalità specifica, deve conservare uno stato d'animo che esclu­ derà molti aspetti del mondo contemporaneo, o re­ sterà ad essi indifferente».46 La filosofia di Yeats ha la sua giustificazione e la sua spiegazione in questi termini : « la sua mente è 43. 44. 45. 46.

AxeVs Castle, p. 29. O p . cit., pp. 34-35. Op. cit,, p. 35. Op. cit., p. 39.

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così ampia e attiva che egli ha avvertito la necessità di costruire un sistema: ed essendogli impossibile ammettere i presupposti su cui si fonda la maggior parte dei sistemi moderni ha fatto ricorso all’unica scienza che la sua posizione gli ha consentito di ac­ cettare, l’antiquata scienza dell’Astrologia ».47 E Wilson riconosce che quelle fantasie hanno di­ feso e alimentato tutta la grande poesia di Yeats, e in nessun modo hanno oscurato il suo poderoso sen­ so della realtà : « queste immagini fantastiche lo af­ fascinano... senza dubbio ne abbisogna per far fron­ te al suo compito di grande poeta ».^ Queste osservazioni sulla poesia e sull’astrologia di Yeats possono riassumere l’ambizione critica, il senso di AxeVs Castle: ricercare la particolare chia­ rezza di scrittori oscuri ed orgogliosi, indicare l’ordi­ ne necessario e illuminante di quei testi difficili, e soprattutto rivelare e difendere la qualità liberatri­ ce, schiettamente rivoluzionaria, intimamente razio­ nale di scrittori mistici, solipsisti, magici e « reazio­ nari ». 9. A sollecitare un allargamento negli interessi in­ tellettuali di Wilson, a favorire la sperimentazione di nuove tecniche di analisi, idonee a intendere o ad illuminare nuovi aspetti della realtà, intervenne, nel 1929, la grande crisi degli Stati Uniti. Wilson diri­ geva allora la sezione letteraria di « New Republic », la rivista degli intellettuali liberals. E specialmente su costoro la crisi agì come una sorta di rivelazione, insieme rovinosa e liberatrice: « Il crollo in borsa fu per noi poco meno della la­ cerazione della terra in preparazione del giorno del giudizio. Negli articoli dei mesi precedenti, avevo spesso esortato gli scrittori a rendersi conto delle 47. Op. c i t p. 47. 48. Op. cit., p. 59.

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“realtà della vita contemporanea ”, di dedicarsi “al­ lo studio della realtà contemporanea”, eccetera. Ep­ pure non m’ero accorto che la “prosperità america­ na” non era che una vescica destinata a scoppiare ».49 L’aggravata tensione sociale, la palese irresponsa­ bilità dei detentori del potere economico, il frequen­ te ricorso alla violenza di Stato contro le organizza­ zioni sindacali, avevano permesso a Wilson di pren­ der coscienza di una sua idea della società, non isti­ tuzionale ma essenzialmente economica : e questa concezione lo oppose ad altri liberais di « New Republic », in primo luogo al direttore Herbert Croly : « uno dei presupposti del suo pensiero politico era che negli Stati Uniti non dovesse esservi, né ve­ ramente vi fosse, lotta di classe a.50 In conseguenza, « era evidente che “New Republic”, che si propo­ neva di sostenere la causa del mondo del lavoro, ve­ niva meno proprio a questa parte del suo program­ ma » .51 La crisi fu per Wilson, e non per lui solo, una sor­ ta di rivoluzione oggettiva, un sussulto geologico che poneva fine alla violenza irresponsabile di un’epoca; e quello sfacelo Wilson esaltò con tetro entusiasmo: « come le condizioni peggioravano, e il presidente Hoover, incapace di capire quel che era accaduto, non faceva alcuno sforzo per affrontare la catastrofe, parve che discendessero le tenebre. Tuttavia, per gli scrittori e gli artisti della mia generazione, cresciuti all’epoca del boom, e che ne avevano odiato la roz­ zezza, l’ostilità a tutto ciò che essi avevano di più caro, quelli non furono anni deprimenti ma stimo­ lanti. Era impossibile non sentirsi euforizzati dall’im­ provviso, inatteso collasso di quello stupido, colossa­ le imbroglio. Ci dava un nuovo senso di libertà, e un nuovo senso di potenza, scoprire che noi tirava­ 49. The Shores of Light, p. 496. 50. Op. cit.y p. 497. 51. Op. cit., p. 498.

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mo avanti, mentre, una volta tanto, toccava ai ban­ chieri andare a fondo ».52 E mentre l’economia liberista crollava, e vacillava­ no le stesse istituzioni politiche degli Stati Uniti, « sempre più ci colpivano i risultati conseguiti nel­ l’Unione Sovietica, che poteva proclamare che i suoi problemi industriali e finanziari erano attentamen­ te studiati dal governo, e che era in grado di evitare tali crisi ».53 Furono anni di inquietudini emotive, di facili fortune di religioni e pseudofilosofie; e si ebbero in quegli anni le prime fortune del movimento comu­ nista tra gli intellettuali: « La gente aveva un gran bisogno di fedi e chiese, e sebbene io sia bravo a tener testa alle chiese, venni colto da una ondata di fede marxista».54 10. La citazione ora riportata indica come lo stes­ so Wilson fosse consapevole di essere mosso ad inte­ resse per il marxismo da esigenze irrazionali e mito­ logiche, mescolate ed allacciate ad altre affatto razio­ nali e laiche. Si alimentava la interpretazione mito­ logica del marxismo del non mai concluso vagheggia­ mento d’una società mondata di ogni « privilegio di classe fondato sulla nascita e sulla differenza di red­ dito... una società in cui il superiore sviluppo di al­ cuni non fosse pagato dallo sfruttamento e, quindi, dalla deliberata degradazione di altri... una società omogenea e armonica come non lo è la nostra socie­ tà commerciale, e guidata dalle menti coscientemen­ te creatrici, nel modo migliore ad esse possibile ».5S A intendere il carattere del democraticismo wilsoniano è specialmente importante l’ultima proposi­ zione, che in modo netto propone l’immagine di una 52. 53. 54. 55.

Op. cit., pp. 498-499. Op. cit., p. 499. Op. cit., p. 496. Op. cit.y pp. 742-743.

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società aristocraticamente retta dai migliori per fan­ tasia e intelligenza. Conferma questa interpretazione del socialismo wilsoniano l’idealizzazione dell’Unio­ ne Sovietica e di Lenin come si mostrano nel diario del suo viaggio in Russia del 1935. In questi termini descrive la salma di Lenin nella tomba della Piazza Rossa: « la testa nella tomba, la fronte alta, il naso diritto, la barba a punta... Le narici, le palpebre sen­ sibili,... se ne ha una impressione simile a quella che dà la supposta maschera mortuaria di Shakespeare. È un volto bellissimo, di squisita finezza; e - quel che ne prova l’autenticità - profondamente aristocra­ tico».56 Lenin è un illuminista, reso più efficiente nel suo lavoro intellettuale e pratico dalla possibili­ tà di utilizzare il metodo di analisi storica del marxi­ smo. Il marxismo wilsoniano passa per fasi chiaramente definite: al tempo del viaggio in Russia Wilson an­ cora vede nell’esperimento sovietico lo sforzo di crea­ re una società tutta umana, razionale, scientifica; ma poco dopo si vedrà costretto a denunciare il pro­ gressivo distacco dell’URSS dagli ideali umanistici del marxismo. Nel 1937 così scrive nel saggio Marxism and Literature : « Per il momento il marxismo in Russia si è cac­ ciato in una strada cieca o, meglio, è stato buttato in fondo a un pozzo. Oggi non si può nemmeno dire che i sovietici abbiano conservato almeno la cultu­ ra politica marxista, sia pure nella sua forma più roz­ za - per cui ci siamo tolti di dosso l’autorità della Russia, e insieme abbiamo perduto l’ispirazione che ce ne veniva ».57 Nello stesso tempo Wilson procedeva ad una at­ tenta analisi delle dottrine e dei testi del marxismo, concludendo la sua opera di ripensamento con To 56. R ed Black Blond and Olive , W. H. Alien, London, 1956, p. 376. 57. The Triple Thinkers, p. 194.

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thè Finland Station, storia e analisi degli ideali so­ cialisti e delle interpretazioni materialistiche della storia nell* ’800, da Michelet a Lenin. Wilson svolge in questa sua opera alcune critiche alla dottrina mar­ xista, che avrà poi occasione di ribadire nelle opere successive. Queste critiche riguardano la sopravvi­ venza di atteggiamenti mistici nella filosofia solo im­ perfettamente materialistica di Marx ed Engels. In primo luogo, la Dialettica, e la sua incarnazione, la Storia: « La Dialettica è un mito religioso, sgombra­ to della presenza di una personalità divina, e legato alla storia dell’umanità».58 Nel PostScript che chiude la recente ristampa del diario del viaggio in Russia, in Red Black Blond and Olive, Wilson scrive: « Non conoscevo ancora a sufficienza il marxismo per aver notato l’elemento religioso che Marx ed En­ gels avevano contrabbandato nel loro sistema, illu­ dendosi di rifiutare la religione, e di spogliare la dia­ lettica hegeliana dei suoi elementi idealistici. Non avevo ancora riconosciuto nell’apoteosi marxista del­ la “Storia” la Provvidenza dei protestanti, e nell’operare della “Dialettica” la dottrina calvinista della Grazia ».59 Due ordini di valori, due vocazioni, indica Ed­ mund Wilson come perenne patrimonio del marxi­ smo: l’esigenza dell’analisi della società in termini di economia, l’idea materialistica dell’uomo e, nello stesso tempo, l’ideale d’una società informata da una rigorosa moralità egualitaria, e integralmente gover­ nata dall’intelligenza dell’uomo. Codesta commistio­ ne di valori eterogenei è carattere costante ed essen­ ziale dell’atteggiamento intellettuale di Wilson. 11. Nel novembre del 1930 Edmund Wilson pub­ 58. To thè Finland Station , Doubleday & Co., Garden City, N.Y., 1953, p. 194. 59. R ed Black Blond and Olive, p. 496.

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blicava su « New Republic » un articolo non firma­ to - The Economie Interpretation of Wilder - inter­ venendo nella polemica sorta per la pubblicazione, sulla stessa rivista, di un saggio di Michael Gold de­ dicato al romanziere americano. Gold era critico marxista: allora, uno dei pochissimi che a quella dot­ trina si rifacessero esplicitamente; uno dei pochi che nello scriver critica tenessero presente un punto di vista chiaro e definito, anziché annotare, semplicemente, le varie e sconnesse idee suscitate dalla lettu­ ra distratta di un libro qualsiasi. Gold aveva tenuto nei confronti di Wilder un linguaggio « harsh and scurrilous » : Taveva denunciato come scrittore di fal­ so aristocraticismo, di pretestuoso spiritualismo, in­ tento a lusingare le sciocche ambizioni intellettuali di una classe di parvenus, ansiosi di sentirsi autoriz­ zati dalla propria squisitezza interiore a possedere i miliardi estorti ai lavoratori americani e stranieri.60 Wilson affermava che « malgrado le obiezioni che si possono muovere al tono del saggio di Gold, costui ha sollevato un problema fondamentale e con argo­ menti che non sembrano infondati ».61 Codesto « problema » riguarda il rapporto tra una certa struttura sociale ed economica e l'arte, la let­ teratura che in quell’ambiente e per quell’ambiente viene prodotta. Wilson accoglie le linee generali di una interpretazione marxista della società, ma nei confronti del lavoro artistico propone una correzio­ ne, il cui obiettivo è, chiaramente, di conservare l’au­ tonomia dell’opera d’arte e della critica che ne defi­ nisce i valori : « vi sono gruppi che tagliano le classi sociali, e tendono ad avere un’esistenza indipenden­ te. Gli scrittori formano un gruppo a sé; i pittori formano un gruppo; un altro, gli scienziati. E ciascu­ no di questi gruppi ha la propria tradizione, la pro­ pria arte, le proprie dottrine, trasmesse fino ad oggi 60. Cfr. The Shores of Light, p. 534. 61. Op. cit., p. 501.

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da membri provenienti da classi diverse di società di­ verse ».“ Dunque il critico deve indagare not only il valore sociale di un'opera letteraria, ma anche la sua arte (craft). Nel 1930, l'importanza della posizione marxista era determinata dal suo carattere non conformista: nel 1937, quando Wilson scrive l’articolo Communist Criticism, la posizione marxista non è più né singo­ lare né rivoluzionaria. « ... mezzo mondo è diventato di sinistra»;63 ma quel che più importa, la natura stessa di quella critica è cambiata: « Non si tratta di critica ispirata ad un punto di vista sociale, o marxi­ sta; ma di critica dominata dalle risse delle fazioni politiche russe».64 Codesta critica non presenta alcun interesse intel­ lettuale: denuncia semplicemente una condizione psicologica, una sorta di ipnotismo morale che ha per risultato di imporre o permettere una totale di­ storsione del compito del critico: « Questa tendenza è inoltre del tutto estranea al­ la pratica di Marx ed Engels, che in generale gusta­ vano l'arte per quel che valeva ».65 « Colui che, senza vera intelligenza della lettera­ tura, cerca di applicare i princìpi marxisti, rischia di fare dei terribili sbagli ».^ Ciò significa che Wilson ritiene infondata l'ambi­ zione del marxismo di dar fondamento storico ai giu­ dizi di valore: « Il marxismo di per sé non può dirci nulla sulla qualità di un'opera d'arte. Possiamo essere marxisti eccellenti, ma senza gusto e immaginazione saremo incapaci di scegliere tra un libro buono ed uno cat­ tivo, entrambi ideologicamente impeccabili ».67 62. 63. 64. 65. 66. 67.

Ibidem ; cfr. anche To thè Finland Station , p. 183. The Shores of Light, p. 643. Op. cit., p. 642. Op. cit., p. 647. The Triple Thinkers, p. 195. Op. c i t p. 194.

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L’importanza di quest’ultima annotazione sta nel rilievo conferito a due qualità - gusto e immagina­ zione - che di per sé non fanno riferimento ad un contesto storico: rifiutando in questi termini una critica di valore su fondamenta marxiste, Wilson pa­ re sottolineare la prevalenza nell’atto critico di un momento di « gusto », irrazionale e fantastico. 12. «Friedrich Engels» scrive Wilson in Marxism and Literature « afferma che Balzac, con le sue idee reazionarie, vale mille Zola » :68 « Engels nota che Balzac era, o credeva di essere, un legittimista deploratore della decadenza dell’alta so­ cietà; ma in realtà "la sua ironia non è mai così ama­ ra, la sua satira mai tanto tagliente, come quando ci mostra questi aristocratici... per i quali egli provava una simpatia così profonda” e che i soli uomini di cui parla con schietta ammirazione sono i suoi più decisi avversari politici, gli eroi repubblicani del Cloitre-Saint-Merri, che in quel momento (1830-36) rappresentavano veramente le masse popolari».69 Codesto tipo di analisi Wilson riprende e sviluppa in The Politics of Flaubert, che è del 1937. Flaubert, egli afferma, ha fatto della società il tema della sua opera (Wilson si riferisce essenzialmente a L ’Éducation sentimentale); nei confronti di questo materia­ le egli ha un duplice atteggiamento: ad una consa­ pevole scelta aristocratica si aggiunge una sorta di segreta ispirazione che potremmo dire socialista. La sua avversione alla volgarità del mondo borghese ha la stessa qualità morale, la medesima acutezza di in­ tuizione, illuminata dall’odio, che si ritrova in Marx. La descrizione della rivoluzione del 1848 in L ’Éducation sentimentale, nota Wilson, « corrisponde in maniera singolare all’analisi che Marx fa degli stessi 68. Op. cit., p. 195. 69. Ibidem; l’originale di Engels è in inglese.

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avvenimenti nel Diciotto Brumaio di Luigi Napo­ leone » .70 In tutto il saggio, la qualità artistica di Flaubert è presupposta: il compito dell’analisi non sarà tut­ tavia esteticamente irrilevante; essa varrà a mostrare l’ampiezza, l’intensità dell’interesse che Flaubert por­ ta alla materia della sua arte. Illuminando i contra­ sti, le contraddizioni tra i diversi piani di coscienza dello scrittore, si definisce il carattere drammatico, tragico, di una testimonianza artistica. Questo con­ cetto - che include una idea dialettica dell’ispirazio­ ne - riappare in un saggio su Shaw, Bernard Shaw at Eighty, che è insieme analisi dell’arte e delle idee shawiane : « Uno dei principali errori della recente critica ra­ dicale è il presupposto che i grandi romanzi e i gran­ di drammi li debba scrivere solo chi ha tutto chiaro in testa. Ma chi ha tutto chiaro in testa, chi è inca­ pace di identificazione fantastica con emozioni e pun­ ti di vista diversi e contrari, e non sa trasferirsi del tutto in questi, non scrive né romanzi né drammi almeno, non quelli che contano. E —dato il genio più violenti i contrari, più alta l’opera d’arte».71 L’indagine sui presupposti sociali di un’opera d’ar­ te potrà dunque mettere in luce la contraddizione fondamentale che fa tutt’uno con l’ispirazione. Per questa sua natura, l’analisi marxista può assi­ stere direttamente l’artista nel suo lavoro. Sempre a proposito di Shaw, confrontato con Dickens, Wilson scrive : « Nel caso di Shaw, l’analisi marxista, di cui Dick­ ens non era fornito, lo aiutò a conseguire quella più salda strutturazione che Dickens trovò nella com­ plessità della trama ».72 E crederà anche di poter de­ finire « thè final implication » di Our Mutual Friend 70. Op. cit., p. 80. 71. O p . cit,, p. 172. 72. The Wound and thè Boxo, p. 36.

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di Dickens, « in linguaggio marxista: che i rappre­ sentanti declassati della vecchia aristocrazia profes­ sionale possono allearsi al proletariato contro la bor­ ghesia commerciale » .73 L’analisi marxista potrà dunque fornire elementi idonei alla chiarificazione del mondo ideologico di uno scrittore, ed anche chiarire gli elementi d’una ispirazione: ma il problema dei valori viene toccato solo indirettamente. Esso è sempre affidato alla « emotional reaction » del critico. 13. S’è già visto come, durante la polemica con i critici « umanisti », Wilson facesse ricorso ad una in­ terpretazione freudiana della figura di Antigone per giustificare la lezione tradizionale del testo di Sofo­ cle. Successivamente, Wilson fece non di rado ricor­ so a indicazioni psicanalitiche: ed in qualche caso su di esse cercò di fondare ricerche di ordine pura­ mente letterario. Tuttavia, a differenza di quel che accadde per il marxismo, mai Wilson si provò a svol­ gere una compiuta problematica psicanalitica appli­ cata alla letteratura; ed anzi più che di psicanalisi, si potrebbe parlare di indagine psicologica integrata da elementi psicanalitici. È importante chiarire in quale contesto Wilson collocasse codesto apporto psicanalitico; la psicana­ lisi non rappresenta per lui un salto qualitativo nel­ la storia delle tecniche di interpretazione della real­ tà; non è una rivelazione, né fornisce una Weltanschauung autosufficiente: ed in ciò Wilson si tiene vicino alla posizione propriamente freudiana; al con­ trario, è un metodo che ha un senso solo in una cer­ ta struttura storica. In questo senso, è possibile una confluenza di marxismo e psicanalisi: l’una e l’altro potranno fornire al critico l’ausilio di metodi subor­ dinati: ed infatti Wilson ne tratterà simultaneamen­ 73. Op. cit., p. 81.

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te in The Historical Interpretation of Literature, ed allo stesso modo giudica il rapporto tra questi due metodi di analisi ed il lavoro del critico letterario: « Dai tempi di Marx, un elemento di diverso tipo si è aggiunto allo studio storico delle origini delle opere letterarie. Intendo parlare della psicanalisi di Freud. Questa si presenta come l'ampliamento di qualcosa che esiste da tempo, che era già apparso nelle Lives of thè Poets di Johnson, e il cui massimo esponente è stato Sainte-Beuve : l’interpretazione del­ le opere letterarie alla luce delle personalità che vi stanno dietro. Ma i freudiani hanno reso più rigoro­ sa e sistematica codesta interpretazione».74 L’esatta descrizione della condizione psicologica d’uno scrittore, della dinamica delle sue emozioni, è di grande importanza per il critico che cerchi di stu­ diare le fondamenta, la preistoria dell’opera d’arte: « gli atteggiamenti, le coazioni, i “temi” emotivi che ricorrono nell’opera di uno scrittore sono di grande interesse per il critico storico ».75 E così precisa come l’analisi psicologica si risolva in conclusione in una analisi storica: « Questi atteggiamenti, questi temi si collocano nella società, nel momento storico, e possono rive­ larne ideali e infermità, come la cellula mostra le condizioni del tessuto ».76 In nessun modo, tuttavia, queste analisi, comun­ que combinate, potranno aspirare a fondare giudizi di valore: « Il problema del valore artistico relativo rimane intatto dopo che abbiamo rivolto la nostra attenzio­ ne ai fattori psicologici freudiani, come dopo che atfbiamo preso in considerazione il fattore economi­ co marxista e i fattori geografici e razziali »T7 74. 75. 76. 77.

The Triple Thinkers, p. 251. Ibidem. Ìbidem . O p . cit.y p. 252.

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14. Il lavoro critico in cui più nettamente Edmund Wilson si sia impegnato in una descrizione in ter­ mini freudiani di una personalità estetica, è il sag­ gio Morose Ben Jonson, incluso nella seconda am­ pliata edizione di The Triple Thinkers: « Ben Jonson sembra un esempio evidente di un tipo psicologico che Freud ha descritto e designato col termine tecnico di "erotico anale”... posso pre­ sentarlo con una semplice citazione da un manuale di psicanalisi. Le tre caratteristiche principali sono: amore esagerato dell’ordine, pedanteria; parsimonia incline all’avarizia; infine, ostinazione anche aggres­ siva, e magari irascibile e vendicativa».78 Importa qui notare che le qualità psicologiche so­ pra indicate non vengono utilizzate per una inter­ pretazione della figura umana di Jonson, ma per una descrizione organica del suo modo di scrivere. « Pedantry » Jonson dimostra nella sua coazione a cita­ re classici, a interpolare frammenti di autori greci e latini, quasi fossero « amuleti apotropaici, “against failure” ».w E la sua cultura « è una sorta di accu­ mulazione; e le si accompagna l’abitudine di racco­ gliere parole. Gli piaceva registrare il gergo specia­ listico delle varie arti e mestieri... Jonson si affida alla esibizione di un deposito di cultura, capace di per sé di suscitare ammirazione».80 Questa struttura monomaniaca spiega la povertà e insieme la concen­ trazione di certi personaggi jonsoniani; la loro impo­ tenza affettiva, e la demenziale devozione ad una qualche stortura della coscienza. Come il marxismo, dunque, la psicanalisi può es­ sere utilizzata per porre in luce una occulta tensione drammatica. La vediamo appunto utilizzata in que­ sto modo nel saggio The Ambiguity of Henry James. Discorrendo di The Turn of thè Screw, egli propone 78. Op. cit., p. 207. 79. Ibidem. 80. O p . cit., p. 208.

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una interpretazione che parve uno dei più felici esempi di applicazione delle teorie freudiane alla letteratura: « Secondo tale teoria, la governante che narra la storia è un caso nevrotico di repressione sessuale, e gli spettri non sono reali, ma allucinazioni della go­ vernante ».81 Questa interpretazione permetterebbe, secondo Wilson, di inserire il racconto nella generale temati­ ca jamesiana: «scopriamo che è una variazione su uno dei suoi temi consueti: la frustrata zitella anglosassone ».K A queste donne jamesiane, non sempre « emotionally perverted » ma sempre inibite e passive,83 cor­ rispondono personaggi maschili che ne sono la con­ troparte : « Riescono a sottrarsi ad una esperienza emotiva, per timidezza, o per prudenza, o per eroica rinun­ cia a.84 Alla radice di queste figurazioni, ed in qualche misura di certe qualità astratte e di una inclinazio­ ne alla ripetizione - caratteri dello stile di James Wilson vede una rinuncia, una impotenza dello stes­ so James; in tutta l’opera di James, afferma, è rico­ noscibile un « castration theme».85 In un poscritto del 1948 Wilson nota un altro tema nevrotico, evi­ dente in una parte dell’opera jamesiana, « che si estende da The Other House a. The Sacred Fount: la violazione dell’innocenza».86 Tensione sociale, conflitto psicologico, infelicità pratica possono ritrovarsi alla radice dell’ispirazione artistica: e questo appunto è iltema della raccol­ ta di saggi che pubblicò nel1941 col titolo The 81. 82. 83. 84. 85. 86.

O p . cit., p. 89. O p . cit., p. 95. Op. cit., p. 96.

Ibidem. Op. cit., p. 127, nota. Op. cit., p. 124.

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Wound and thè Bow. In questo libro Wilson analiz­ za l’opera di alcuni scrittori ricorrendo volta a volta a strumenti psicanalitici e marxistici. Nel saggio Dickens: The Two Scrooges, che è del 1940, chiara­ mente si definiscono i due criteri di ricerca. All’analisi della società in cui vive lo scrittore, si aggiunge l’analisi delle reazioni emotive con cui lo scrittore si difende dalla società; e viene così a definirsi chia­ ramente il rapporto tra psicologia e storia, tra psico­ logia ed economia: una società può venire descritta in termini di psicologia individuale, o in termini di strutture economiche: il legame tra i due aspetti del­ la società è necessario e non casuale. La duplice in­ dagine fornirà al critico la chiave semantica che gli renderà intelligibile l’oscuro e anche inconsapevole intreccio dei temi emotivi di un’opera letteraria. La figura umana di Dickens è determinata da cer­ te esperienze d’infanzia, traumi che turbarono la nor­ male evoluzione del fanciullo: la miseria, la prigio­ ne per debiti per il padre, il tetro lavoro nella fab­ brica di lucido. Queste esperienze lo hanno reso de­ finitivamente estraneo, nemico alla società cui sa­ rebbe stato suo destino appartenere. Nei confronti della società vittoriana, Dickens conserverà per tut­ ta la vita una rancunosa tetraggine. Dopo aver riepi­ logato le vicende infantili di Dickens, Wilson com­ menta : « Val la pena di conoscere e tenere presenti tutte queste circostanze, perché ci aiutano a capire quello che Dickens cercava di dire. Era meno incline della maggior parte dei grandi vittoriani ai falsi atteggia­ menti morali, o alla paura delle opinioni rispettabi­ li; ma... il significato dell’opera di Dickens è stato oscurato da quell’elemento convenzionale che Dick­ ens non giunse mai a superare. È necessario vederlo come uomo per apprezzarlo come artista».87 Wilson indica come temi segreti ma essenziali e co­ 87. The Wound and thè Bow, p. 9.

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stanti dell’opera di Dickens la violenza del crimina­ le e la violenza del ribelle. I personaggi, già aveva notato Wilson a proposito di James,88 rappresentano la drammatizzazione del mondo interiore dello scrit­ tore. Ciò è evidente in Dickens, pronto a tradurre in figurazioni tetre e deformi i disordini e le ango­ sce del suo spirito: « si identificava prontamente col ladro, e anche più prontamente con l’assassino».89 In Barnaby Rudge, osserva Wilson, ci troviamo di fronte ad una fantasia indubitabilmente sadica: ed il suo culmine è la figura del carnefice, insieme dili­ gente funzionario e omicida per consenso della leg­ ge, pronto ad unirsi ai rivoltosi e pronto a giustiziar­ li, e destinato lui stesso a finire sul patibolo. Non ci stupiremo, a questo punto, di veder paragonato Dick­ ens a Dostoevskij, l’uno e l’altro mossi e ispirati da un profondo, ineliminabile « social maladjustement », che alimenta e giustifica una vocazione drammatica torva, impetuosa e talora ingovernabile. Dickens, conclude Wilson, è un instabile emotivo, vittima, come Scrooge, di un ciclo maniaco-depressi­ vo: e la sua qualità drammatica si alimenta direttamente di quella instabilità. Esaspera questa imper­ manenza il non risolto rancore contro la società: av­ versione che da infantile terrore evolve in repugnanza morale, disgusto per le sue grette virtù e l’intima brutalità. Tutta una serie di personaggi - Pecksniff, Dombey, Murdstone — esemplifica « un atto d’accu­ sa contro una specifica società: la borghesia, presun­ tuosa e moralistica v,90 priva di autonomia interiore, di spontaneità, di gioia. In questa sua avversione, no­ ta Wilson, Dickens concordava inconsapevolmente con l’analisi che di quella medesima società avevan dato Engels e Marx. Il metodo, così come si delinea nel citato saggio su 88. Cfr. The Triple Thinkers , p. 123. 89. The Wound and thè Bow, p. 16. 90. Op. cit ., p. 30.

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Dickens, ed in quello che lo segue nel medesimo li­ bro, The Kipling That Nobody Read, e che già era stato utilizzato in A. E. Housman, incluso in The Triple Thinkers, potrebbe così definirsi: ricerca di una tematica psicologica, tale da essere formulabile sia in termini storici, sociali, che in termini affatto individuali e privati; organizzazione della lettura dei testi attorno a questa tematica, così da illuminare non solo quel che nell’opera è compiuto ed espresso, ma anche le segrete tensioni, la occulta scelta vitale che ispira e determina l’autore all’elezione di una de­ terminata materia, alla elaborazione di uno stile e di un linguaggio. Se pur non voglia, questa, esser critica estetica, indica pur sempre, e in modo espli­ cito, un metodo di lettura, individua le costanti in­ torno alle quali articolare la lettura e dispone la ma­ teria così da permettere il giudizio conclusivo. 15. Seguendo la storia del lavoro critico wilsoniano, s’è visto come questo abbia avuto per obiettivo la formulazione di un giudizio critico integrato in una interpretazione storica dell’opera letteraria. Que­ sta integrazione può attuarsi attraverso la critica sti­ listica ed ideologica di una scuola letteraria (AxeVs Castle) o la definizione di una civiltà nei suoi ter­ mini letterari e critici - è l’obiettivo dell’antologia The Shock of Recognition - o, infine, attraverso l’in­ dagine psicologica e sociale. Ci si può chiedere ora in qual modo avvenga nel pensiero di Wilson la con­ fluenza di queste tecniche eterogenee, quale unita­ ria idea della letteratura possa in sé raccogliere i di­ versi metodi di lettura. Quel che sia letteratura Wilson dice sovente nella sua opera, in termini variamente adattati al conte­ sto in cui si collocano, ma il cui senso fondamentale è sostanzialmente uno solo: ed è questo, crediamo, il tema essenziale di tutto il lavoro di Wilson. Secondo questa concezione, la letteratura, come la scienza, co­ me ogni forma di attività teoretica, è una tecnica che 189

ha per obiettivo la creazione di un ordine intelligi­ bile dove è il disordine, l’imprevedibilità, la minac­ cia dell’esistenza, della realtà. La letteratura è uno schema, una struttura - pattern è la parola che co­ stantemente ritorna nelle pagine di Wilson: a que­ sto schema va piegata la realtà per renderla misura­ bile, comprensibile, maneggiabile. Nel 1927, in uno dei saggi più sottili e inquietanti fra quanti ne rac­ colse poi in The Shores of Light, A Preface to Per­ si us così scriveva: «Tale è il paradosso della letteratura: provocata soltanto dalle anomalie della realtà, i suoi stridori, il caos, la sofferenza, tenta, come poesia o metafisica, di imporre ordine a quel caos, di trovare una soluzio­ ne al conflitto, di rendere tollerabile il dolore; di se­ gnare una traccia permanente dello spirito sul mi­ sterioso flusso dell’esperienza che ci sfugge sotto la mano ».91 Nel saggio The Historical Interpretation of Literature, enuncia in termini più generali il medesimo tema: « A mio avviso, ogni nostra attività intellettuale, in qualsiasi campo si svolga, è un tentativo di dare un senso alle nostre esperienze - vale a dire, rende­ re la vita più abitabile; poiché ci è più facile soprav­ vivere e muoverci tra le cose che comprendiamo. L’af­ finità, da questo punto di vista, degli obiettivi della scienza e dell’arte appare chiara nel caso dei Greci; infatti, non soltanto ci soddisfano le strutture elabo­ rate da Euclide e Sofocle; ma quelle strutture sono sostanzialmente le stesse».92 E ancora: « Una lirica impone soltanto una struttura (pat­ tern) all’espressione di un sentimento; ma questo si­ stema di quantità metriche, e consonanti e vocali che si bilanciano, ha l’effetto di ridurre il sentimen­ 91. The Shores of Light , p. 271. 92. The Triple Thinkers, pp. 253-254.

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to - per quanto sregolato e penoso possa apparirci quando lo sperimentiamo nel corso della nostra vi­ ta - a qualcosa di ordinato, simmetrico e gradevole... il conflitto si è risolto, l'anomalia si è assoggettata alla disciplina ».93 Nell’ultimo saggio di The Wound and thè Bow, nell’analisi del Filottete sofocleo si esprime il mede­ simo pensiero, tradotto in termini psicanalitici. « Il concetto della forza superiore » afferma Wilson « è inseparabile dall’infermità ».94 Alla radice del lavo­ ro intellettuale e pertanto anche dell’arte sta una « ferita », una condizione di sofferenza non risolvi­ bile. Nasce da quella ferita, si nutre di quella soffe­ renza la vocazione a capire, a chiarire, a possedere intellettualmente la propria esperienza. Il Filottete egli interpreta come segue: « La vittima del nauseabondo morbo che lo rende ripugnante alla società, e periodicamente lo fiacca e avvilisce, è anche il padrone di un’arte sovrumana che tutti debbono rispettare e di cui l’uomo normale sa di aver bisogno ».9S All’artista, come al filosofo o allo scienziato, tocca in sorte, oltre ad una più acuta coscienza della mise­ ria umana, una ulteriore, privata sventura, una ano­ malia, che lo spinge alla solitudine e lo fa insieme capace di trovare le parole per un più intenso e si­ gnificante dialogo umano. La chiarezza, la salute del­ l’intelligenza nascono da una materia torbida e ma­ lata, di per sé inidonea ad esistere. La letteratura acquista dunque senso e valore nel­ l’ambito di una concezione tragica: essa non è un divertimento, né il suo obiettivo è di offrire un « pia­ cere»; ha per compito di rendere possibile l’esisten­ za dove più torva ed aggressiva è la minaccia di un radicale disordine; in qualche modo, il razionalista 93. Op. c i t p. 254. 94. The W ound and thè Bow, p. 287. 95. O p . cit., p. 294.

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Wilson conferisce alla letteratura un compito ma­ gico; ma di magia tutta umana e terrestre, « natura­ le », tanto più nobile ed eroica per la faticosa ina­ deguatezza con cui affronta un così grave compito. Spetterà al critico il compito di accertare e defi­ nire la particolare chiarezza, la qualità ordinativa che è il segno dell’opera d’arte. E quale debba esse­ re il criterio che ispira l’opera del critico, l’indizio che lo avverte della autenticità di un’opera letteraria, già si è detto: la sensazione che « siamo stati guariti di qualche tormentoso disordine, sollevati del fardel­ lo opprimente di eventi incomprensibili. Questo sol­ lievo, che dà il senso della potenza, e con la potenza la gioia, è l’emozione positiva che ci avverte che ab­ biamo incontrato una grande opera letteraria».96 [1958]

96. The Triple Thinkers, p. 255.

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L'ONESTÀ FAZIOSA

Un libro scritto più di trentanni fa; logorato da legioni di pazienti studiosi, dalle lenti spesse, dai pollici di lettori attenti e ostinati; un libro un po’ divulgativo e un po' critico; non per specialisti, né per soli lettori smaliziati; che tratta, infine, un argo­ mento, la letteratura simbolista, che allora era in gran parte in fieri: un capitolo su Joyce scritto pri­ ma della edizione completa di Finnegans Wake; su Eliot, prima del teatro e dei Four Quartets; su Yeats, prima di The Winding Stairs, e di Last Poems. Uno studio di questa sorta dovrebbe essere morto, non più che una nota in calce nella storia della critica contemporanea: ma non è così. Fondato su una in­ formazione parziale e invecchiata, insieme pedago­ gico e interpretativo, Il castello di Axel (Il Saggia­ tore; trad. di Marisa e Luciana Bulgheroni) resta una lettura deliziosa, un modello di eleganza discreta, di pacata lucidità intellettuale, un classico di criticaconversazione. Edmund Wilson è critico di varia apparecchiatu­ ra ideologica, fermo restando che le sue originarie fondazioni ideologiche sono razionaliste, giacobine, 193

ed improntate ad un ilare ed onesto ateismo; è pen­ satore bizzarro, riluttante alle grandi sintesi, capace tuttavia di estri tanto accortamente ragionati quan­ to temerari; lo ispira un settecentesco amore per il discorso chiaro, il gesto sobrio, il sarcasmo implicito; e ad una bella alterezza di modi accompagna il gu­ sto della sorvegliata iracondia. Il suo capolavoro cri­ tico sono forse le recensioni, le note sulla letteratura degli anni eroici, dal 1920 al ’40: in quelle svelte e asciutte pagine, di una elegante asprezza, riuscì a toccare la perfezione di quella miscela di faziosità e acutezza che è nelle ambizioni del buon lettore. Po­ lemico, capace del disprezzo senz’ira, della ferocia tec­ nica del buon giustiziere letterario, come recensore non bruciò socievoli incensi in onore di scrittori di quart’ordine; ed anzi fu sempre un good hater, un buon odiatore, come il suo consanguineo in bizzar­ ria e chiarezza mentale, Samuel Johnson. Il lettore rammenterà con gratitudine talune di quelle.pagine; e soprattutto, con intenso, complice gaudio, certe sue opere di alta giustizia letteraria: come le belle age­ voli decapitazioni di Louis Bromfield e di Somerset Maugham; lavoro di mano ferma, assai compe­ tente. Recensore di vocazione, cioè in primo luogo « uo­ mo che legge », Wilson è un maneggiatore, non un deduttore di testi letterari; recensore onesto, è un paziente lettore di tutto ciò che attiene alla sua ri­ cerca; né v’è per lui lavoro troppo umile, se lo av­ verte necessario alla lucidità del discorso : chi leggerà nel Castello di Axel il riassunto della Recherche prou­ stiana si renderà conto che la medievale arte del com­ pendio, fratesca e pedante, è tra quelle in cui più esattamente si apprezzano stile e scaltrezza dell’in­ telligenza. Per molti versi, uno studio del simbolismo moder­ no - che Wilson articola in Yeats, Valéry, Eliot, Proust, Gertrude Stein e Joyce - era per il suo au­ tore una provocazione; a prima vista, Wilson appa­ 194

riva estraneo a tutto ciò che il simbolismo voleva es­ sere; da raziocinante, avrebbe potuto scrivere un pamphlet caustico e intelligente; da moralista, avreb­ be potuto mortificare il gusto della lettura sotto una pioggia di idee generali. Ma poiché per Wilson il piacere di capire è ancora più acuto del piacere di avere ragione, Il castello di Axel è riuscito una disa­ mina straordinariamente accurata, una guida pazien­ te e giudiziosa. Il razionalista Wilson si muove nel labirinto dei fantasmi simbolisti con attenzione che non è da mero catalogatore di orrori; ha in uggia gli ammiccamenti esoterici, va da sé, ma non può non avvertire che in certi contesti vi sono formule magi­ che che funzionano, che sono necessarie e insosti­ tuibili. Il suo atteggiamento verso Yeats è esemplare; sen­ za indulgere alla agevole ironia, Wilson non solo de­ scrive le fasi della poesia di Yeats, ma riassume atten­ tamente e con chiarezza quel bizzarro libro, A Vision, in cui l'autore irlandese aveva esposto le sue lunari dottrine ermetiche; e possiamo aggiungere che nel 1931 leggere A Vision era meno di moda di adesso. Wilson, che ovviamente non può avere in simpatia quella macchina astrologica, ne apprezza tuttavia la funzionalità: non è bambagia teosofica, ma una so­ lida fabbrica, una gnosi ben disegnata e pulita; l’in­ telligenza che Tha lavorata è limpida e integra; e Wilson si avvede che appunto a quelle formule ben funzionanti Yeats affida l’efficienza della sua poe­ sia: « Mentre il giovane Yeats aveva studiato il fol­ klore d'Irlanda, aveva raccolto e classificato le fiabe irlandesi e si era inventato egli stesso le proprie fia­ be, lo Yeats più maturo elaborò, partendo dalle co­ municazioni medianiche della moglie, le ventotto fa­ si della personalità umana e le trasformazioni del­ l'anima dopo la morte. Yeats non è oggi meno reali­ sta di qualunque di noi; anzi la sua grandezza è in parte dovuta proprio al suo vivido senso del reale ». Wilson rilutta a credere che Yeats proponesse quel­ 195

le dottrine con perfetta buona fede; e da certe indi­ cazioni dello scrittore argomenta una sorta di doppiogioco intellettuale; che v’è senza dubbio, ma che non separa, come mostra di pensare Wilson, il pen­ satore onesto dall’impostore, ma il teosofo dallo scrit­ tore. « Benché le immaginose fantasie lo incantino, benché indubbiamente abbia bisogno del loro aiuto per sostenere il ruolo di grande poeta, pure, quando passa a descrivere gli spiriti e i loro messaggi, non riesce a farci partecipi ddl'impostura ». Wilson è dibattuto tra l’improbabilità delle dottrine e l’effi­ cacia delle formule: che è un assai sottile e onesto dilaceramento. Yeats si presenta al critico come tanto più intenso maneggiatore del quotidiano, quanto più è visiona­ rio. Ma v’è uno strumento per verificare l’onestà e fondatezza di quelle visioni, e Wilson l’ha assai ca­ ro: ed è la loro articolazione intellettuale, la loro grammatica e sintassi. Le visioni dal Maligno sono contraddistinte da un difettoso uso delle proposizio­ ni dipendenti. Nella conclusione del Castello di Axel, Edmund Wilson tenta una sintesi provocatoria e contraddit­ toria, che dimostra quanto profondamente l’abbia coinvolto ed eccitato l’invenzione simbolistica. « I nostri concetti di oggettivo e soggettivo sono indub­ biamente fondati su un falso dualismo; il nostro ma­ terialismo come il nostro idealismo sono perciò, a ben vedere, false alternative. E cosi potremo vedere il naturalismo fondersi al simbolismo per offrirci una visione della vita umana e deH’universo più ric­ ca, più sottile, più complessa e più completa di qua­ lunque altra già conosciuta dall’uomo in passato... il linguaggio suggestivo del poeta simbolista assolve in effetti lo stesso tipo di funzione che attribuiamo al linguaggio esatto del romanziere realista o, perfi­ no, all’austero linguaggio tecnico della scienza... Que­ sto nuovo linguaggio potrebbe, in effetti, determina­ re una rivoluzione nel nostro concetto di sintassi, 196

così come la filosofia moderna sembra rifiutare le nostre idee di causa e di effetto. Esso tende, eviden­ temente, ad elaborare, come le nuove teorie scienti­ fiche, una concezione totalmente nuova della real­ tà... Il risultato finale potrebbe essere non la specia­ lizzazione e la divergenza senza fine della scienza e delle arti, ma la loro definitiva fusione in un unico sistema ». La conclusione del Castello di Axel non è critica: è affettuosamente apocalittica. Edmund Wilson è un gentleman finito nella tebaide simbolistica; ma non da etnologo è sceso in quei luoghi impervii e magici, e ancor meno da casuale turista. [1965]

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PERTINEN TI MENZOGNE

Nel saggio iniziale di The Bit between my Teeth (Il morso fra i denti, W. H. Alien 8c Co.) Edmund Wilson dà un ritratto di sé come critico, insieme pertinente e fittizio. « Mi sono sforzato » egli dice « di concentrare sinotticamente in un unico sistema le letterature di diverse culture, che non sempre si sono trovate in stretto rapporto, e che talora si sono quasi affatto ignorate ». « Come critico militante, ho cercato di abbattere gli schemi convenzionali, di sot­ trarmi ai canoni accademici che tendono sempre a provincializzare la cultura». Un giorno «sapremo guardare oltre i nostri sistemi, e collocare soli e pia­ neti al loro posto in una più ampia costellazione, en­ tro la quale unicamente i soli, forse, conteranno ». È una nobile dichiarazione, quasi l'enunciazione di un saggio, classico sincretismo letterario: la lettera­ tura come gran tempio imparziale delle supreme di­ vinità terrestri. È anche una sorta di autoepitaffio ideale: ma si sa quanto gli accorti elogi delle lapidi circoscrivano l'uomo, che fu certo sensuale, litigioso e ostinato, e incomparabilmente più grande di quel che suggerisca l'epicedio vedovile. 198

Dubito che compito del critico sia di essere gene­ roso, onnicomprensivo, e vagamente neoclassico: e, comunque, Wilson non fu alcuna di codeste cose. Resterà come uno dei massimi critici americani per­ ché non fu né universale né sincretista; ma fazioso, orgoglioso, e sommamente capace di ira intellectualis. Wilson ha assolto puntigliosamente al supremo compito del vero critico, che è quello di non capire alcune cose, di essere totalmente impervio a taluni valori, perché altri gli si svelino con incontestabile chiarezza. Leggendo questa raccolta delle recensioni e saggi che Wilson scrisse tra il 1950 e il ’65, non vien fatto di ammirarne l’equità, ma la pacata asprez­ za, il calcolato disdegno. In patria o altrove, Wilson si considera uno stra­ niato; in questi ultimi anni ha elaborato una tecni­ ca di rifiuto della società contemporanea in cui il disprezzo non è mai disgiunto da una impaziente ma­ linconia. « Il problema » risponde ad un immagina­ rio intervistatore «è:« mi trovo io davvero in qual­ che luogo? Io non vivo veramente neppure in Ame­ rica. Nulla di quel che vi accade suscita in me sim­ patia o interesse ». Con feroce e assai ragionevole candore chiosa il problema della guerra nucleare: « Cerco di vederne il lato buono; mi dico che l’an­ nientamento atomico è dopo tutto l’unico modo per togliere di mezzo le orrende città americane; pertan­ to, io sono ostile a quel genere di armi che stermi­ nano gli esseri umani, ma risparmiano gli edifici. Mi è di conforto pensare che se, per esempio, New York venisse bombardata, Nelson Rockefeller, Henry Luce, il cardinale Spellman e Roberto Moses verreb­ bero sveltamente eliminati; e se toccasse poi a Wash­ ington, lo stesso accadrebbe del Pentagono, della Cia e della burocrazia. Spero tuttavia che tra Ameri­ ca e Russia la distribuzione sarà reciproca. Mosca è un luogo orribile, brulica di burocrati ». Quanto alla sua universale simpatia, sarà forse ba­ stevole esempio la seguente annotazione: « Non ho 199

mai potuto sopportare gli ispanofili, né cosa alcuna che mi sia accaduto di conoscere della Spagna, con la sola eccezione della pittura. Mi sono deliberatamente rifiutato di studiare lo spagnolo, e non ho nemmeno letto il Don Chisciotte fino in fondo». Questo libro ci fa sospettare una sorta di fastidio che distoglie Wilson dal seguire quel che accade nel­ le lettere con quella aggressività ilare che ha reso indimenticabili le sue cronache letterarie tra il ’20 e il ’40. Troviamo ancora brevi, asciutte recensioni, genere che Wilson portò ad una perfezione da so­ netto, da sestina: enunciati critici compatti quanto agili, e sempre, anche in venti righe, dense di impli­ cita struttura intellettuale: mai documenti di mero gusto. Ma ora cedono il passo a saggi di più lenta ar­ ticolazione, e di materia spesso non strettamente cri­ tica: come le note sulla sorte di singole parole, e quella amabilissima meditazione su grammatiche e dizionari, nella quale ammonisce che, per tenere a bada le noie e gli affanni mondani, non si dà usber­ go più saldo di un prospetto di verbi irregolari. Ci imbattiamo nelle sue svelte e oltraggiose battu­ te, in cui l’alterigia si aggrava di una intollerabile benevolenza. « Anhouil? Lo detesto. Uno dei proble­ mi della vita moderna è evitare di vedere i drammi di Anhouil ». « La sola obiezione che posso muovere ai romanzi di Snow è che sono quasi totalmente il­ leggibili ». Anthony Powell « diverte quanto basta per leggerselo a letto », e precisa « nelle notti estive ». Ammira Angus Wilson, apprezza Kingsley Amis, non ha mai letto Leavis, pare ignorare Ivy Compton-Burnett. Non si riesce ad evitare la sensazione che W il­ son non abbia fiducia nella letteratura attuale. De­ gli americani legge Salinger, James Baldwin, Edwin O’Connor. Ma non è una scelta critica. Gli altri non li ha letti, semplicemente. « Dobbiamo lavorare con i morti come alleati » aveva scritto molti anni fa. Ed il libro comunica un senso di distrazione tragi­ ca, un cauto guardare altrove. 200

Tuttavia i due lunghi saggi su Pastemak, e Tatticolo finale, dedicato a Mario Praz, testimoniano una diversa, quasi euforica eccitazione intellettuale. I te­ mi del Dottor Zivago sono per Wilson la vita umana, la morte e la resurrezione. Pertanto, egli lo legge, o piuttosto lo indaga, fruga e contempla, come una antica cattedrale, brulicante di simboli avventurosi e sacri, fitta di numinosi travestimenti. Il furore fi­ lologico con cui porta alla luce il sistema dei segni, il linguaggio clandestino della favola, ha una osti­ nazione rituale. Il discorso su Mario Praz rivela un interesse che va oltre l'ammirazione per una perso­ nalità, uno scrittore singolare. Wilson inventa un neologismo, il prazzesco, per designare una miscela di bizzarro, di macabro, di tetro, ma anche di gu­ stoso, di ricco, di oscuramente felice. Codesta teratologia non è solo una capziosa in­ venzione letteraria; ma un catalogo di percorsi not­ turni, dei labirinti anche patologici che si debbono percorrere per avere accesso alle adulte, insolenti gioie delFintelligenza. E di queste è simbolo, per Wilson, una Roma mitologica: qualcosa di infini­ tamente annoso, di protervo, di orgoglioso, un cor­ po arcaico mosso da arcaici, mai placati appetiti per oggetti, corpi, cibi e « letteratura », « da contempla­ re, aver cari, e gustare ». [1966]

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T.L. PEACOCK

Fa piacere imbattersi, nel cuore del primo rivelazionismo romantico, in una figura di regolata coe­ renza, esatta, incline, con elegante faziosità, a pre­ ferire la logica al fulmine emotivo; uno scrittore nel­ la cui pagina gli esclamativi si collocano con infalli­ bile suono ironico. Tale è il primo, persuasivo, in­ contro con Peacock. Nel tempo che vedeva un Co­ leridge, un Wordsworth, un Southey farsi, da conse­ quenziari giacobini, mitologi delle gerarchie eccle­ siastiche e ministeriali, è difficile negare simpatia a questo radicale indefettibile, innamorato delle idee chiare e dei nessi logici, impermeabile al brivido emotivo, irreligioso anarcoide, ingagliardito da buo­ na, svelta litigiosità. Queste sue idee Peacock racconta in sette romanzi singolarissimi, e che non hanno paragone nella con­ temporanea letteratura inglese, e in qualche sparso saggio critico, in primo luogo nelFultimo e più coe­ rente documento deirantiromanticismo razionalisti­ co, The Four Ages of Poetry. Una sola accusa si ritrova in tutte le sue opere, un solo giudizio sui romantici: non ragionano con chia­ 202

rezza, si compiacciono di diversivi emotivi di fronte al primo obbligo del ben ragionare, amano quel­ l'oscurità, quelFambiguità sotto cui prepotenza e corruttela trovano una legittimazione retorica. E per­ tanto li disprezza come disonesti. Moralista e intel­ lettuale, la fede neirintelligenza gli toglierà di vede­ re ogni possibilità di morale non individuale, ma col­ lettiva, sociale, storica: come la sua moralità gli in­ dicherà sempre nella contraddizione nient'altro che un indizio di disonesta fatuità. Come nei suoi ragionamenti, nei romanzi non c'è posto per le collettività che non siano provvisorie e imprevedibili : la società che si raccoglie ad un ballo, o una banda di ilari fuorilegge; né si indovina in alcun luogo qualcosa come un senso della storia. Non pare che egli veda negli accadimenti quelle moralità brutali e semplici che ne vogliono essere la posticcia spina dorsale: e poiché la politica si risolve nella moralità da attuare tra di noi, qui, adesso, secondo una legge squisitamente individuale, Peacock con­ clude alla sconsacrazione di tutte le gerarchie. Maid Marian, il romanzo di Robin Hood, pubblicato nel 1822, svelta parodia di Ivanhoe, è ironica celebrazio­ ne del ribelle, irrisione dell’autorità che, destituita di ogni intimo decoro, non possiede altra dignità che quella di esistere. In breve, nessuna moralità Peacock scopre in quella pesante macchina di organizzate vio­ lenze che è lo Stato. Non v’è traccia di quella mitologizzazione della polizia, su cui si fonda la vitalità di qualsivoglia corpo organizzato. Poiché l'intelligen­ za e la moralità sono qualità solitarie, nessuna collet­ tività può essere capace di ragionare o di scegliere: si riduce a null’altro che organismo repressivo a di­ fesa di ben riconoscibili predoni. Si potrà capire come dovesse da queste posizioni derivare anche un disdegno per la folla rivoluziona­ ria, che è adombrato neH’ultimo, tardo romanzo Gryll Grange, del 1860 (in cui, riprendendo a scri­ ver romanzi dopo trentanni, non rinnovò punto né 203

tecnica né stile) - poiché in ogni violenza riconosce il nocciolo della organizzazione tirannica degli in­ teressi. Su quest'idea deiruomo, della gerarchia dei suoi valori dal chiaro al meno chiaro, su questo gusto per le scelte solitarie e indubitabili, si fonda in gran parte la stessa tecnica della sua narrazione, e in pri­ mo luogo l’interesse che egli porta ai personaggi. Es­ si sono tutto fuorché in qualche modo esemplari: senza eccezioni, sottilmente maniaci; per lo più, un misto di dinamica cialtroneria, e di nativa, sottile stoltezza. Nessuna dialettica di autore e personaggio: né delle venti o trenta figure dei suoi romanzi una sola pare da ricordare : restano nella mente solo tipi, abbreviato, geometrico riassunto di una figura uma­ na, quasi una secca allegoria, o forse una marionetta. Tipi che ritroviamo con monotona eleganza in tutti i suoi libri, come i personaggi d’obbligo del teatro di Terenzio. Flosky di Nightmare Abbey - il nebuloso mitomane - diventa in Melincourt Lord Mystic di Cymmerian Lodge, e Skionar in Crotchet Cosile: e sono, queste, sarcastiche incarnazioni del « trascendentale » Coleridge. Il prete è forse l’unica figura cui non soccorra alcuna forma di redenzione: gretto e arrogante, intimamente tirannico, incapace di difendere la propria irrimediabile illogicità se non con l’aiuto dell’autorità costituita. In Headlong Hall il prete si chiama Gaster, in Nightmare Abbey, Larynx. Un poco si raggentilisce in Opimian di Gryll Grange, dove pare concludere in una sorta di qua­ lunquismo gastronomico. Né si sottrae a questa tipo­ logia una figura unica e irrepetibile, Sir Oran Hautton, del romanzo Melincourt, nient’altro che uno scimmione che illuminate protezioni avviano alla carriera politica. Non mancano, come si vedrà, inna­ morati veri e più spesso pretesi, e divertenti figure di fanciulle impegnate ad ammantare, nel puntiglioso gioco verbale della moralità, il più fondamentale gioco del sesso; le loro silhouettes stanno già in quei 204

nomi capricciosi: Tenorina, Caprioletta, Marionetta. Né, da quel che s’è detto, ci si dovrà attendere un conflitto di idee, nei suoi romanzi: idee non ce ne sono al mondo, se non scendono a covare e far nido in teste d’uomini; e in quello scendere sulla terra si colorano di tante assurdità e amene stoltezze da far­ si manie e, gli uomini, nient’altro che agglomerati di manie. Da questa intuizione aristofanesca nascono Escot - il deteriorazionista, persuaso della continua, inarrestabile decadenza dell’uomo: Forster, il perfettibilista; Jenkyson, lo statuquoista (Headlong Hall); e in Nightmare Abbey, oltre al tenebroso Flosky, si incontra il mistico Toobad, la cui visione del mondo sta tutta nel pessimismo teologico di una ci­ tazione biblica; o Atteriasi, l’ittiologo che con il fi­ glio al fianco percorre il mondo in cerca di sirene e tritoni. Pare avere più tangibile consistenza lo Scythrop di Nightmare Abbey, caricatura di Shelley; figura am­ bigua di simulatore tragico incapace di qualsivoglia soluzione, grottesco salvatore del mondo, che si ridu­ ce a salvarsi in una bottiglia di Madera, figura di patetica e anche affettuosa ironia, quasi Peacock si compiacesse di ritrovare nel fondo del falso deliran­ te e W erther mancato un solido istrionismo di per­ sona incline alla moda per pura vitalità, per nulla disposto a sfuggire agli ormeggi della terrena saggez­ za. Così che il finale « Bring some Madeira » — con cui Scythrop si disfa dell’armatura eroica prometei­ ca - non vuole essere irrisione, ma semplice riconcilia­ zione nell’ambito del ragionevole, del quotidiano, del vitale. Conclusione affettuosa. Costituzionalmente incapace di tragedia, Peacock adombra in un certo modo una condizione di esisten­ zialismo ironico. I dialoghi di quei maniaci non so­ no che contatti di solidi, che urtandosi si definiscono a vicenda, senza alcuna possibilità di mediazione dia­ lettica. Inibiscono al Peacock l’accesso alla tragedia gli insegnamenti deH’intellettualismo settecentesco, 205

in primo luogo l’elusione emotiva, il gusto di distac­ carsi e riconoscersi diverso dai propri fantasmi; men­ tre la tragedia vuole alimentarsi di una qualche for­ ma di identificazione, di una certa fede nel valore simbolico del sacrificio di una nostra immagine. Peacock inclina, piuttosto, ad un allegro, classico disprez­ zo degli uomini, che gli fa scoprire una gagliardissi­ ma voglia di vivere in codesti ideologi, nient’altro che retori vogliosi di colorare la loro vita istintiva di qualche ragione di filosofia. Da codesta idea del personaggio vengono alcune caratteristiche tecniche dei suoi romanzi, in primo luogo la natura dell'intreccio. Cinque su sette ro­ manzi hanno struttura del tutto identica: un signore invita una compagnia di ospiti nella sua dimora di campagna, che dà col suo nome il titolo del libro; si descrivono passeggiate, trattenimenti, pranzi; si vi svolge una festa con danze; e infine il libro si chiude con una serie di matrimoni. In realtà, l'intreccio, assurdo, prestabilito, astratto, non è che un pretesto, e quello che interessa è piut­ tosto il disegno ritmico, lo schema di danza, senza inizio e senza termine; la secca ironia verso il personaggio, il fastidio intellettuale per il dato spurio del­ la « storia », consentono a Peacock di sviluppare con estrema coerenza questo carattere ritmico, matemati­ co. Con movimento asciutto e assurdo ma ben bilan­ ciati gesti, i personaggi descrivono le prescritte figu­ re; ed anzi di qui nasce uno degli elementi tipici deH’ironia di questi libri: come in Nightmare Abbey, che fonda la sua sarcastica fantasia sul ritmo neo­ classico su cui sono costrette a muoversi quelle chias­ sose figure romantiche. Quei furori poetici ed emoti­ vi ad altro non servono che ad alimentare il mecca­ nismo castissimo e gelido di un gioco razionalistico. Di questo carattere calcolatamente meccanico il suo umorismo partecipa sempre: e oltre che in quel­ la macchina di eventi e passioni che s’è descritta, lo ritroviamo nel gusto verbale, nel piacere dell’assur­ 206

da consequenzialità, nella fantasia casuale delle pa­ role, che è inglese prima che rabelaisiana. Lo spiri­ to anarchico e avventuroso del nonsense - dérègle­ ment di proporzioni e decoro vittoriani - detta elen­ chi di parole, di oggetti, che in quella catena grotte­ sca si fanno pittoreschi e grandiosi: così, nel secon­ do capitolo di Headlong Hall, le provviste del signo­ rotto vengono elencate in cinquantadue articoli, di­ sposti in sequenza burchiellesca (libri, formaggi, vi­ ni, globi, strumenti matematici e tacchini, telescopi, giamboni, lingue e microscopi, quadranti, sestanti, flauti, violini, zucchero, tè, macchine elettriche, fi­ chi, spezie, pompe ad aria, acqua di seltz...). E sullo stesso tono discorrono Scythrop e Toobad (Nightmare Abbey): «Voi avete perfettamente ra­ gione, signor Cattivelli. Male, astuzia, miseria, con­ fusione, vanità, vessazione degli spiriti, morte, ma­ lattia, delitto, guerra, povertà, carestia, pestilenza, ava­ rizia, egoismo, rancore, gelosia, neurastenia, malevo­ lenza, disillusione nella filantropia, tradimento degli amori e delusione amorosa, tutto, tutto prova la giu­ stezza delle vostre opinioni e la verità del vostro si­ stema... ».* Al che Toobad risponde: « My dear boy, you have a fine eye for conséquences ». Vedo che ben sape­ te dedurre le necessarie conseguenze. E in Headlong Hall queirinvenzione di estrema eleganza, la descrizione che Escot dà della razza uma­ na in decadenza, che termina : « Da quel tempo la statura dell’umanità è in continua diminuzione, ed io non ho il minimo dubbio che essa continuerà a farsi, per gradi, sempre minore, sempre più misere­ volmente insignificante, finché tutta la razza, imper­ cettibilmente, svanirà dalla terra». È un buon esem­ pio del grottesco, della necessità logica, delle consé­ quences, e insieme della fredda intelligenza con cui 1. L'abbazia degli incubi , trad. di Attilio Bertolucci, Parma, 1952. Unica ed elegantissima traduzione italiana di Peacock.

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Peacock costruisce le sue esatte macchine intellet­ tuali. E tuttavia i caratteri estrinsechi possono indurci a porre i suoi romanzi tra i romanzi amorosi: le sue pagine brulicano di affetti e quindi - vittoriana­ mente - di matrimoni. Pare tuttavia che Peacock ab­ bia delFamore una concezione istintiva e terrestre. Ma l’intima socialità, il senso del decoro impedisco­ no di fame altro che una delle cariche più gagliarde tra quelle che muovono gli impettiti cavalieri e le volubili damigelle. E del decoro di cui riveste code­ sto sentimento pare ironia deliberata quella singola­ re fantasia dell’ultimo romanzo - Gryll Granger dove nella casa del protagonista troviamo la servitù costituita da un coro alla greca di sette incantevoli e pudibonde vergini, vera apoteosi del balletto nel romanzo. Peacock non pare insomma incline ad al­ cuna mitologizzazione di tale sentimento, ma al più ad accoglierlo come civile galanteria nelFambito di una decorosa società. Forse una più confessata tenerezza potrà vedersi nelFAthelia di Melincourt, probabile ritratto della moglie, e nel Foster dello stesso roman­ zo, che dovrebbe essere il Peacock, nelFetà dell’innamoramento. Indifferenza, dunque, di fronte ad ogni gioco emo­ tivo, nient’altro che corda per muovere marionette. Distacco dal personaggio: in nessuno di quei « tipi » lo possiamo identificare; e si pensi quel che vuol di­ re, in quelFetà di Prometei e Giaurri. Possiamo rin­ tracciare le sue idee disperse nel testo, ma prestate all’uno o all’altro personaggio, senza disegno: si sco­ prono ad una tensione della voce, una effimera con­ citazione retorica di stampo classico. La libertà di Peacock si fonda, e trova i suoi con­ fini, in questo distacco: che è scissione di logica e terrestre passione. È in primo luogo, quella libertà, un fatto di buo­ na e onesta intelligenza; il giusto ragionare è un im­ perativo morale, e solo morale: perché la logica si 208

lascia guastare solo dalla cattiva coscienza. Nulla di meno prometeico, di più lontano dai fremiti estati­ ci, dalla confusa aggettivazione di uno Shelley. La moralità, fatto intellettuale, nasce solo dall’abban­ dono dell’emotivo, come disonesto: tutte le emozio­ ni ci inducono in certa misura a venderci. A creare quell’aria dove si può salvare il nostro onesto nucleo intellettuale, occorre la protezione di una ragione­ vole solitudine: gli sfondi dei suoi romanzi - una casa di campagna, una foresta (Maid Mariarì), una dimora in terre selvagge (.M isfortunes of Elphin) disegnano lo spazio sufficiente, quel tanto di silen­ zio che occorrono al retto pensare. I confini di questa libertà, della sua spregiudica­ tezza intellettuale, stanno in quel decoro, nel buon gusto sociale che è sostanzialmente elusione delle passioni, una sorta di difesa: il suo maneggio delle faccende amorose è tipico, come il suo radicalismo politico, il cui limite è una certa « paura di sporcar­ si », ancora una necessità di distaccarsi e proteggersi. Alimentata da queste contegnose qualità, la sua arte tende alla qualità mediana del piacere, senza l’impe­ to della gioia, ma senza stanchezze e malinconie che parlano di passioni rimpiante. In frequenti pranzi si celebrano le gioie della tavola; piacere sociale, ma di piccola compagnia. La natura ha poca o nessuna importanza. Quantunque amasse comporre con mi­ surata grazia leggibili poesie, non fu natura lirica, e quel che disse della poesia vale la pena di ripetere, e considerare, a chiusura di questo breve discorso. Ne trattò in un breve saggio - The Four Ages of Poetry - del 1820, dove schizza una sarcastica storia della poesia in quattro tempi: età del ferro, in cui la poe­ sia nasce come piaggeria dei barbari potenti, nient’altro che un ammasso di frottole da vendere a chi meglio paga; tuttavia in quel tempo spetta ai poeti una certa preminenza perché al loro modo rozzo e ottuso si sforzano di pensare, di osservare; l’età del­ l’oro vede sparire la società fiera e instabile delle 209

origini: il poeta adulerà i potenti attraverso le lodi degli antenati; si celebrano le grandezze di una so­ cietà più che di un uomo; in un’età senza scienza, senza filosofia, il poeta è ancora l’unica figura intel­ lettuale: in lui traluce una rozza coscienza della sto­ ria. Il passaggio all’età d’argento è segnato dal na­ scere della lirica, e dalla fine della fantasia : così alla poeticità senza residui di Omero succede la mezza poesia di Erodoto e infine la prosa di Tucidide. In questa età si può al più aspirare ad una poesia di imitazione, in cui si ha non fantasia ma calcolo poe­ tico: Virgilio. Infine, col trionfo della scienza, della logica, degli interessi morali, la poesia finisce. Ormai alla poesia non compete più né la sovranità sui fatti, persa fin da quando nacque la storia, e neppure sulle idee, che sono ormai repugnanti alla poesia, e chiedono di essere dette in prosa. I tentativi di ridare vigore in questa fase alla fantasia poetica non possono che essere reazionari: come accade con i poeti laghisti che « rimanendo deliberatamente ignoranti di storia, dei problemi della società e della natura umana, col­ tivano la fantasia solo a spese della memoria e della ragione » : poeti che raccolgono in vecchie cronache « tutto quello che vi trovano di falso e inutile e as­ surdo, come sommamente poetico», aggiungendovi deliri teologici, e sdilinquimenti mistici. « Un poeta nella nostra società è un semibarbaro in una comu­ nità civile ». « Le sue concezioni, le sue idee, i suoi pensieri si richiamano a costumi barbari, usi scom­ parsi, superstizioni abbattute». Ormai la poesia non può ridursi che a sregolata passionalità, affranto sen­ timentalismo, affetti fittizi. Non serve più a nulla. Dunque deve scomparire, e cedere tutto il suo cam­ po intellettuale alla scienza, alla ragione, alla politi­ ca, cui ragionevolmente si rivolgono gli interessi di una società adulta. Moralismo, radicalismo, e ancora diffidenza e di­ sprezzo per il mondo delle emozioni confluiscono in 210

questa tarda rivendicazione illuministica dell’antipoesia. Forse questa singolare posizione può indicar­ ci in quale modo anche Peacock dovesse ridursi in un dead-end. L’avversione antiromantica di questo squisito artista, fattasi odio della poesia, fa il paio col grottesco destino dei suoi perfettibilisti. Cosi Pea­ cock era finito negli squisiti ghirigori della sua dan­ za intellettuale e, come Escot, vi era finito per amo­ re, smodato amore delle consequences. Quel che egli scrive della poesia è coerente, e fa­ ceva parte dei suoi doveri di buon ragionatore trar­ re e fermare delle conclusioni. A questo punto pos­ siamo chiederci se per rompere la meccanica danza settecentesca non occorra raccogliere la figura della contraddizione. Può essere. Ma in qual modo man­ terremo intatta la dignità del pensare coerente, quale alleanza escogitare tra le passioni che alimentano le contraddizioni, e la ragione che le rifiuta? Come non « vendersi »? Peacock non sapeva che nulla di meno di una tragedia si celava sotto la coreografia grotte­ sca dei suoi balletti. [1954]

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PARTE TERZA

LA LETTERATURA COME MENZOGNA

Qualche tempo fa, durante una discussione, qual­ cuno citò: « Finché c'è al mondo un bimbo che muo­ re di fame, fare letteratura è immorale». Qualcun altro chiosò: « Allora, lo è sempre stato ». Supponiamo che la saggezza dei governanti, la si­ stematica collera dei governati, la pia collaborazione dei venti e delle piogge consentano, tra qualche ge­ nerazione, di annunciare: «Da oggi, lunedì, nessun bambino morirà più di fame». Non sorgerà allora qualche onesto e lucido raziocinatore a rammentarci i suicidi, le morti precoci, i delitti passionali, gli alcoolizzati? O non sarà piuttosto, questo privilegiato odio di cui la letteratura gode da sempre, un indizio che in essa l'uomo, e soprattutto quella specie che chiamerei l'uomo umanista, ha sempre sospettato una attività immorale? E non sarà, codesta sua immorali­ tà, intrinseca alla sua qualità di oggetto, funzione, gesto quasi umano, e tuttavia insopportabile alico ­ rno, che pure ne è il portatore? Vi sono animali di capzioso pelame, sui cui volti aguzzi e astratti deretani splende un dizionario di mi­ niate immagini. Il loro corpo è saldato e assistito da 215

una sintassi di segni; una rete di avventurose isoglos­ se, sgargianti e silenziose, fa di membra casuali un discorso, un estro artificiale. Una assurda e perento­ ria nobiltà decora quel corpo estraneo che procede, inconsapevole bandiera, stoffa, stemma feroce e ve­ loce. Non diversamente, l'uomo porta attorno que­ sto inutile e prestigioso stendardo, manto e sudario che non coincide col corpo, guaina inesatta e fastosa. Come il mandrillo non può mortificare la retorica delle sue chiappe policrome, così non potremo to­ glierci di dosso, deliziosa maledizione, questo pieghe­ vole vello di verbi. Forse è vero: la letteratura è immorale, è immora­ le attendervi. Sarebbe già intollerabile se essa pre­ scindesse affatto dal dolore deiruomo, se si rifiutasse di medicarne le arcaiche piaghe; ma, con insolenza, con industriosa pazienza, essa fruga e cerca e cava fuo­ ri affanni, e malattie, e morti: con appassionata in­ differenza, con sdegnato furore, con cinismo ostina­ to li sceglie, giustappone, scuce, manipola, ritaglia. Una piaga purulenta si gonfia in metafora, una stra­ ge non è che un’iperbole, la follia un’arguzia per deformare irreparabilmente il linguaggio, scoprirgli moti, gesti, esiti imprevedibili. Ogni sofferenza non è che un modo di disporsi del linguaggio, un suo mo­ do di agire. Non v’è dubbio: la letteratura è cinica. Non v’è lascivia che non le si addica, non sentimento igno­ bile, odio, rancore, sadismo che non la rallegri, non tragedia che gelidamente non la ecciti, e solleciti la cauta, maliziosa intelligenza che la governa. E si ve­ da, per contro, quanto peritosamente, con quale in­ gegnoso sarcasmo maneggi gli indizi dell’onesto. Assai antica è l’ira dei dabbene per la letteratura. Da secoli viene accusata di frode, di corruzione, di empietà. O è inutile o è velenosa. Dissacrante, per­ versa, affascina e sgomenta. Numinosa e mutevole, non esita ad usare degli dèi per adomare le sue fa­ vole. Ma per quella squisita ironia che ne definisce 216

il destino, essa sola sa celebrare adeguatamente la grandezza, la gloria di quel dio che essa degrada e nobilita a personaggio, ipotiposi, iperbole. Il terri­ bile lanciatore di fulmini, entrato nella fragile rete della retorica, cessa totalmente di esistere, si trasfor­ ma in invenzione, gioco, menzogna. Corrotta, sa fingersi pietosa; splendidamente de­ forme, impone la coerenza sadica della sintassi; ir­ reale, ci offre finte e inconsumabili epifanie illusio­ nistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coe­ renza nasce dall’assenza di sincerità. Quando getta via la propria anima trova il proprio destino. Chiunque può accostatesi: nessuno se ne allon­ tanerà intatto. Anzi: nessuno ne è immune. Non v’è santo tanto selvatico da non avere in sé tabe di let­ teratura. Ciceronianus sum. Donde l’arcaico amore e furore per questa cosa mirabile ed immonda, que­ sto animale feroce e docile, sinistramente onnivoro. Taluno - tra i quali non rari grandi scrittori — meditò di togliere di mezzo affatto la letteratura. Deliziosa lite con le proprie entragne. Altri, libera­ le e umanista, volle e vuole rieducarla. Periodicamen­ te, taluno sogna un definitivo Ottimo Pastore, un Re­ gno ove addottrinati gentiluomini con voce nasale edu­ cheranno la letteratura a nobili missioni. Oppure, con avvocatesco fervore e astuzia da casista, scoprono che dopo tutto la letteratura già collabora alle migliori sorti dell’uomo, è illuminante e servizievole- Ne ra­ schiano l’epidermide di metafore finché ne vien fuo­ ri lo Spirito del Tempo, ed un liquame molliccio, biancastro, che è la Weltanschauung. Ma essa, corti­ giana di vocazione, rifiuta di farsi moglie virtuosa, onesta e schietta compagna. Vanamente la insidia­ no a farsi educatrice di figli sani ed eterosessuali, con­ sorte indaffarata ed elegante. Da cortigiana si farà prostituta dei porti, puttana da camionisti. A noi mortali, oppone la sua predilezione per la morte, in­ sostituibile figura retorica. È uno scandalo inesauribile. Per questo è tanto 217

difficile essere totalmente suoi sectatores. Il mondo ci alletta, ci vuole galantuomini. Possiamo definire la letteratura un adunatoti, un impossibile, trasfor­ mandola tutta intiera in una figura retorica. È indif­ ferente alFuomo. Mantiene i contatti con lui solo nella misura in cui costui cessa di essere umano. Nel­ l'istante in cui riesce a persuaderlo, anche implicita­ mente, che sofferenza, ingiustizia ed orrore altro non sono che gradus ad Parnassum, escogitazioni per la scoperta di una sintassi imperfettibile, lo possiede: lo induce al peccato irreparabile, lo fa adultero, omi­ cida e mentitore, e felicemente tale. Lo incorona di­ sertore. Non v’è letteratura senza diserzione, disubbidien­ za, indifferenza, rifiuto dell’anima. Diserzione da che? Da ogni ubbidienza solidale, ogni assenso alla propria o altrui buona coscienza, ogni socievole comandamento. Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile; quante volte gli si è gettata in faccia l’antica insolenza degli uomini utili: «buffone». Sia: lo scrittore è anche buffone. È il fool: l’essere approssimativamente umano che porta l’empietà, la beffa, Tindifferenza fin nei pressi del potere omicida. Il buffone non ha collocazione storica, è un lusus, un errore. Fondamentalmente asociale, il disertore dovrà cal­ colare le astuzie della fuga secondo le strutture coat­ tive del suo tempo. Detesta l’ordine e la buona co­ scienza, e la complicità dell’uno e dell’altra gli è fa­ tale. Dove trionfa quel risibile middle aged, l’Uomo, egli deve schermirsi, eludere, fuggire. Quotidiana­ mente, con gesto tragico ed esatto, deve mondarsi dei miti euforici della disonesta buona coscienza: saggez­ za collettiva, progresso e giustizia. Con lo sguardo ir­ requieto, codardo, in tralice, cerca instancabile gli in­ dizi della violenza, geroglifici minerali su mano par­ zialmente umana, il muschio che cresce sulla nostra 218

bocca, le geometriche piaghe della decomposizione; sta dalla parte della morte, abbagliante ingiustizia, difficilmente perfettibile, paradosso squisito, ironico luogo cui si perviene quando si cessa di camminare. Elegge a propria dimora cunicoli non asfaltatoli. Ab­ bisogna di una specifica libertà, diversa per ogni scrittore: comunque una libertà non «liberale», e che infatti il liberale non tollera, eversiva, blasfema. Lo soffoca la libertà affettuosa, che ha sapore di one­ sta, perfezionista collaborazione. Può sopravvivere in qualunque atmosfera, purché infetta. Dove regnano le tenebre deirottimismo egli è un clandestino, che porta seco, con sacerdotale cautela, il tabernacolo dei veleni. Naturalmente anarchico, è sempre in contat­ to con quei corridoi degli inferi, fitti di tende e su­ bitanei gomiti, quei labirinti in cui lo sguardo vir­ tuoso deiruomo umanista non osa avventurarsi. Anarchica, la letteratura è dunque un’utopia; e come tale ininterrottamente si dissolve e si coagula. Come è proprio delle utopie, essa è infantile, irritan­ te, sgomentevole. Scrivere letteratura non è un gesto sociale. Può trovare un pubblico; tuttavia, nella misura in cui è letteratura, esso non ne è che il provvisorio destina­ tario. Viene creata per lettori imprecisi, nascituri, destinati a non nascere, già nati e morti; anche, let­ tori impossibili. Non di rado, come il discorso dei dementi, presuppone l’assenza dei lettori. Di conse­ guenza, lo scrittore fatica a tenere il passo con gli eventi; come nelle vecchie comiche, ride e piange a sproposito. I suoi gesti sono goffi e clandestinamen­ te esatti. Assai imperfetto è il suo colloquio con i contemporanei. £ un fulmineo tardivo, i suoi discor­ si sono inintelligibili a molti, a lui stesso. Allude ad eventi accaduti tra due secoli, che accadranno tre ge­ nerazioni fa. 219

Lavorare alla letteratura è un atto di perversa umiltà. Colui che maneggia oggetti letterari è coin­ volto in una situazione di provocazione linguistica. Irretito, irrigato, immerso in una trama di orbite ver­ bali, sollecitato da segnali, formule, invocazioni, puri suoni ansiosi di una collocazione, abbagliato e ustio­ nato da fulminei, erratici percorsi di parole, voyeur e cerimoniere, egli è chiamato a dar testimonianza sul linguaggio che gli compete, che lo ha scelto, l’uni­ co in cui gli sia tollerabile esistere; unica condizione stabile e reale, sebbene affatto irreale e impermanen­ te; unica esistenza, anzi, riconoscendosi lo scrittore nient’altro che un’arguzia del linguaggio stesso, una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici. Avvolto nelle spire, nella sfera del suo linguaggio, non solo lo scrittore non è contemporaneo agli even­ ti che sono riusciti a procurarsi una cronologia non incompatibile con la sua biografia; ma nemmeno è contemporaneo a quegli altri scrittori con i quali convive, se non quando anch’essi siano in qualche modo coinvolti nel medesimo linguaggio: condizio­ ne, questa, metafisica, e non storica. Accade anzi, che, per la vessatoria esigenza dei linguaggi, e la loro rapinosa instabilità, e la naturale infedeltà dei mon­ dani, lo scrittore viva in discontinua contemporanei­ tà con se medesimo. Dunque, non gli eventi storici, non il salvacondotto delle storie letterarie ci danno accesso alla letteratura ma la definizione del linguag­ gio che in essa si struttura. Come accade ai testimoni, lo scrittore « non sa » : ma il suo è un modo altamente specifico di non sa­ pere. Ignora totalmente il senso del linguaggio in cui è coinvolto, donde la sua potenza, la sua capaci­ tà di viverlo come magma, coacervo di impossibili, falsi, menzogne, illusionismi, giochi e cerimonie. E tuttavia è anche un uomo che duramente opera su una materia ostile ed ostinata. Con il linguaggio, de­ finitivo ed illusorio, instabile ed aggressivo, deve co­ struire un oggetto la cui compatta, dura perfezione 220

chiuda una dinamica ambiguità. Non lavora secon­ do estro o fantasia, ma secondo ubbidienza; cerca di capire che cosa vuole da lui il linguaggio, dio barba­ ro e precipitosamente oracolare. La sua devozione è fanatica e inadeguata. Durante la lavorazione del­ l’oggetto verbale, è vincolante codesta condizione di dotta ignoranza. Egli sa fare perfettamente solo ciò che non conosce. L'oggetto che nasce dalla complici­ tà della sua scienza e della sua ignoranza gli è total­ mente impervio. Sa che è un ordigno, fabbricato se­ condo le regole, uniche e inderogabili, con cui si fab­ bricano gli ordigni: ma egli ignora affatto in quali e quanti attentati, da quali mani, verrà lanciato que­ sto esplosivo inesauribile; e solo lo assiste la clande­ stina, odiosa speranza che, col tempo, esso finirà con Toffendere tutti. Dunque, Fautore non sa, non deve sapere sul suo lavoro neppure quanto ne sanno gli altri. Di più: egli ha l’oscura sensazione che queiram­ biguo essere che egli ha dato alla luce con la calliditas corporale e l’eroica nescienza delle madri, venga stuprato da ogni volontà di capire quel che vuol di­ re. E sebbene sappia di averlo destinato allo stupro fin dairinizio, il pensiero che si voglia spiegare « che cosa vuol dire » lo riempie di istintivo orrore. Un na­ turale impeto lo porterà a dire sempre di no, o addi­ rittura a non capire quel che gli altri «capiscono». L’oggetto letterario è oscuro, denso, direi pingue, opa­ co, fitto di pieghe casuali, muta costantemente linee di frattura, è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente ambiguo, percorribile in tutte le direzio­ ni, è inesauribile e insensato. La parola letteraria è infinitamente plausibile: la sua ambiguità la rende inconsumabile. Proietta attorno a sé un alone di si­ gnificati, vuol dire tutto e dunque niente. Nella sua fragile, incorruttibile carne non nasconde alcun tu­ more di Weltanschauung. (Paragrafo di periferica iracondia: da codesto sel­ vatico, lucido « non sapere » si deduce che lo scritto­ re non rientra nel misto sindacato degli intellettuali. 221

Mai lo scrittore venne più insolentito di quando lo si volle includere, a protezione del suo decoro socia­ le e storico, in questo risibile quinto stato. Meglio chiamarlo «buffone». Ovviamente, la figura abba­ stanza repulsiva deirintellettuale è una invenzione umanistica, ed oggi rappresenta la reazione genteel). L'opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L'artifi­ cio racchiude, ad infinitum, altri artifici; una propo­ sizione metallicamente ingegnata nasconde una ron­ zante metafora; dissecandola, metteremo in libertà dure parole esatte, incastri di lucidi fonemi. Nel cor­ po della proposizione, le parole si dispongono con disordinato rigore, come astratti danzatori cerimonia­ li: tentano l'ipallage che le colloca in reciproco afe­ lio, il chiasmo che le dispone in immobilità specula­ re; si allineano nella scandita processione dell'ana­ fora, osano la vertigine dell'ossimoro, la mite disub­ bidienza dell'anacoluto; la tmesi mima l'attacco schi­ zofrenico, l'homeoteleuton è pura ecolalia. Recipro­ camente, ad una struttura demenziale corrisponde l'articolazione di una retorica. La perorazione para­ noica si integra nel monologo maniaco depressivo. Obiettivo costante delle invenzioni retoriche è sem­ pre il conseguimento di una irriducibile ambiguità. Il destino dello scrittore è lavorare con sempre mag­ gior coscienza su di un testo sempre più estraneo al senso. Frigidi esorcismi scatenano la dinamica furorale dell'invenzione linguistica. Le immagini, le parole, le varie strutture dell'og­ getto letterario sono costrette a movimenti che han­ no il rigore e l'arbitrarietà della cerimonia; ed ap­ punto nella cerimonialità la letteratura tocca il cul­ mine della rivelazione mistificatrice. Tutti gli dèi, tutti i demoni le appartengono, poiché sono morti: e appunto lei li ha uccisi. Ma, insieme, ne ha tratto la potenza, l'indifferenza, l'estro taumaturgico. La 222

letteratura si organizza come una pseudoteologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mor­ tali e immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito. E qui si raccoglie e salda la provocazione fantastica della letteratura, la sua eroica, mitologica malafede. Con le sue proposizioni «prive di senso», le affer­ mazioni « non verificabili », inventa universi, finge inesauribili cerimonie. Essa possiede e governa il nul­ la. Lo ordina secondo il catalogo dei disegni, dei se­ gni, degli schemi. Ci provoca e sfida, offrendoci un illusionistico, araldico pelame di belva, un ordigno, un dado, una reliquia, la distratta ironia di uno stem­ ma. [1967]

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