La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca
 8815147063, 9788815147066 [PDF]

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il Mulino

La fragilità del bene Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca «Un libro straordinariamente ricco e stimolante»

Charles Taylor «Bellissim o libro»

Armando Massarenti

Questo volume va oltre i confini deN’antichistica, per inserirsi con forza nell’odierno dibattito sull’azione etica e politica. I greci furono consapevoli del fatto che valori e ideali devono venire a patti con la «fortuna», ossia con ciò che non prescinde da noi. È a questa commistione tra ambizione virtuosa e vulnerabilità alla sorte che guarda Nussbaum , rileggendo la tradizione tragica e filosofica. Sulla scia di Aristotele, l’autrice suggerisce che ciò che rischia di contaminare la purezza della virtù e della ragione - impulsi inconsci, passioni incontrollabili - è anche ciò che costituisce la specificità della sfera umana: l’importante è limitare i rischi e arginare il potere della fortuna.

Martha C. Nussbaum Insegna Law and Ethics nell’Università di Chicago. Con il Mulino ha pubblicato anche «Diventare persone» (2001), «Giustizia sociale e dignità um ana» (2002), «L’intelligenza delle emozioni» (2004), «Le nuove frontiere della giustizia» (2007), «Giustizia e aiuto materiale» (2008), «Lo scontro dentro le civiltà» (2009), «Libertà di coscienza e religione» (2009).



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Cover design: Miguel Sai & C







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ISBN 978-88-15-14706-6

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Biblioteca p aperbacks

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per Rachel

Martha C. Nussbaum

La fragilità del bene Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca

Società editrice il Mulino

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-14706-6

Edizione originale: The Fragìlity of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1986. Copyright © 1986 by Cambridge University Press, Cambridge. Copyright © 2001 by Martha C. Nussbaum. Copyright © 1996, 2004 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Merio Scattola. Traduzione dell’Introduzione alla nuova edizione di Rosamaria Scognamiglio. Edizione italiana a cura di Gianfrancesco Zanetti. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Introduzione alla nuova edizione

p.

1

Prefazione

39

I.

45

Etica e fortuna

pa r te pr im a : t r a g e d ia : f r a g il it à e a m b iz io n e

II.

Eschilo e il conflitto pratico

III.

L ’«Antigone» di Sofocle: conflitto, visione e semplificazione

Conclusione

83 133 189

pa r te s e c o n d a : p l a t o n e : il b e n e se n z a la f r a g il it à ?

Introduzione IV.

Il «Protagora»: una scienza del ragionamento pratico

Intermezzo 1. Il teatro antitragico di Platone V.

193 197 257

La «Repubblica»: il vero valore e il punto di vista della perfezione

281

Il discorso di Alcibiade: un’interpretazione del «Simposio»

331

VII. «Non è vero quel racconto!»: follia, ragione e ritrattazione nel «Fedro»

389

VI.

VI

INDICE

PARTE TERZA: ARISTOTELE: LA IRAG1L1TÀ DELLA VITA BUONA

Introduzione V ili. Salvare le apparenze di Aristotele IX.

p. 451

455

Gli animali razionali e la spiegazione dell’a­ zione

495

X.

La deliberazione non scientifica

539

XI.

La vulnerabilità della vita buona: l’attività e le sciagure

583

XII. La vulnerabilità della vita buona: i beni di relazione

623

Appendice. Umano e divino

671

Intermezzo 2. La fortuna e le emozioni tragiche

679

EPILOGO: LA TRAGEDIA

XIII. Il tradimento delle convenzioni: un’interpre­ tazione dell’«Ecuba» di Euripide

711

Bibliografia

759

Indice dei passi citati

785

Indice dei nomi

825

v.

Introduzione alla nuova edizione

1. Dalla prima edizione della Fragilità del bene sono passa­ ti più di quindici anni, e più di trenta da quando cominciai a scriverlo. In questi anni molto è cambiato, sia nel mio pensie­ ro che nel mondo filosofico in generale. Il mio crescente inte­ resse per l’etica stoica, e il mio sempre maggiore coinvolgi­ mento in problematiche filosofico-politiche, mi hanno fornito una prospettiva nuova su alcune delle tematiche qui discusse. Al contempo lo studio dell’etica greca antica, un tempo terri­ torio di un ristretto gruppo di specialisti, ha assunto una posi­ zione sempre più centrale nella filosofia morale anglo-ameri­ cana ed europea ’. Si tratta di una riflessione eterogenea, che fa appello ai modelli greci a sostegno di svariate posizioni, con alcune delle quali sono in forte disaccordo. Cosicché, anche se in questa nuova edizione il testo appare immutato, in que­ sta introduzione desidero integrare La fragilità del bene con le mie riflessioni su questi recenti sviluppi, e sui modi in cui essi influenzano la mia attuale posizione rispetto a questo vo­ lume. La fragilità del bene prendeva in esame il ruolo dell’esposi­ zione dell’uomo alla fortuna nel pensiero etico dei poeti tragi­ ci, di Platone e di Aristotele. Anche se il testo dedicava una certa attenzione al ruolo della fortuna nel formarsi della virtù o del buon carattere, esso si concentrava fondamentalmente sul divario tra l’essere una persona buona ed il riuscire a vi­ vere una vita umana prospera (flourishing), una vita in cui l’attività virtuosa ha un ruolo determinante (quindi il «bene» del titolo deve essere inteso come «il bene umano» o eudaitnonia, piuttosto che come «bontà di carattere»), Socrate, com’è noto, affermava che una persona buona non può essere dan­ neggiata - intendendo che tutto ciò che è importante per vive­ re una vita prospera è al sicuro, fino a quando è al sicuro la

2

in t r o d u z io n i : a it a n u o v a u d iz io n i ;

virtù. Io ritengo che quest’affermazione abbia segnato una tappa importante del ricco ed acceso dibattito sul ruolo etico della fortuna, durato ad Atene per tutto il quinto e quarto secolo, e a cui partecipavano sia poeti che filosofi. Nell’attaccare il ruolo della fortuna nel pensiero dei poeti tragici, Socrate pre­ parava la strada al più sistematico attacco platonico, e al com­ plesso tentativo aristotelico di conservare qualche elemento del quadro tragico, pur rendendo giustizia alla posizione so­ cratica. Anche se la tesi di Socrate ebbe dei seguaci, la sua conce­ zione esige un ripensamento alquanto radicale degli elementi che determinano il prosperare di una vita {eudaimonia). Molti elementi che consideriamo di solito indispensabili per l’eudai­ monia dovranno essere lasciati da parte. Non si può negare, infatti, che la capacità di operare quale cittadino, le attività inerenti alle diverse forme di amore ed amicizia, e persino quelle associate alle fondamentali virtù etiche (coraggio, giu­ stizia, e così via), esigano condizioni che la bontà dell’agente non può di per se stessa assicurare. Se tali condizioni vengono a mancare, eventi al di là del nostro controllo possono pro­ durre danni, anche etici. Vale a dire che eventi al di là del nostro controllo possono influenzare in senso positivo o nega­ tivo non soltanto la nostra felicità, il nostro successo o la no­ stra soddisfazione, ma anche componenti etiche essenziali del­ la nostra vita: il riuscire o meno ad agire in modo giusto nella vita pubblica, l’essere o meno in grado di amare e di prender­ ci cura di un’altra persona, l’avere o meno la possibilità di agire con coraggio. Così, anche senza sollevare il problema del ruolo della fortuna 2 nel renderci saggi o coraggiosi, o, soprat­ tutto, giusti, possiamo constatare che essa sembra avere un importante ruolo etico, in quanto ci mette o meno nelle condi­ zioni di agire eticamente, e di condurre così esistenze etica­ mente complete. I poeti, e anche alcuni filosofi, hanno am­ messo che ad una persona resa invalida da una prolungata e deturpante malattia, o ad una persona messa in prigione e torturata, o ad una donna stuprata dal nemico e ridotta in schiavitù, sono state negate almeno alcune componenti etica­ mente significative dell’umano prosperare. Queste persone non sono soltanto infelici: esse hanno meno possibilità di altri di usufruire di quegli elementi che costituiscono una vita com­ piutamente buona.

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

3

Solo identificando la vita prospera con un carattere virtuo­ so, quindi, o con certe attività, in particolare la contemplazio­ ne intellettuale, il cui compimento può apparire meno dipen­ dente da condizioni esterne, possiamo sostenere con un mini­ mo di plausibilità che la persona buona «non si lascerà facil­ mente smuovere dalla felicità» 3. Ma concezioni così ristrette dell’umano prosperare erano, come sono ancora, estremamen­ te controverse. Escludere gli amici dalla concezione del pro­ sperare sembrava ad esempio ad Aristotele, nonostante il suo interesse generalmente forte per la stabilità, come lasciare agli esseri umani una vita tanto impoverita da non meritare di essere vissuta. Che l’esposizione alla fortuna fosse un tema essenziale del­ la filosofia greca pre-aristotelica non era stato mai messo in dubbio, anche se quest’aspetto dell’etica ellenistica attendeva un’analisi più sistematica4. Ma fino a che punto Platone ed Aristotele condividessero l’interesse dei poeti tragici per il ruolo della fortuna nel plasmare le vite che gli uomini riescono a vivere era meno diffusamente riconosciuto, e lo stesso dicasi per molte altre linee di continuità tra poeti e filosofi su questo argomento. Riportare alla luce queste continuità, e i temi su cui si imperniano, è stata una motivazione essenziale di questo libro. Mi sembrava che la specializzazione professionale della vita moderna avesse posto in ombra l’evidente verità che nell’Atene del quinto e quarto secolo a.C. i poeti erano general­ mente considerati una fonte essenziale di sapere etico. I filoso­ fi si ponevano in competizione con essi, non considerandoli semplicemente colleghi di un ambito attinente. E competeva­ no sia nella forma che nel contenuto, scegliendo le strategie che più probabilmente avrebbero rivelato ai loro discepoli quelle realtà del mondo che consideravano vere. Un tema se­ condario del libro è quindi il dibattito su queste strategie e sulle facoltà cui fanno appello. I poeti tragici nutrivano l’opi­ nione, evidente nelle loro scelte formali, che le emozioni in­ tense, soprattutto la pietà e la paura, fossero fonti di sapere sulla vita umana buona. Platone lo negava, sviluppando una concezione del sapere etico che separa quanto più possibile l’intelletto dai perturbanti influssi della sensibilità e dell’emo­ zione 5. Aristotele tornò poi, come dicevo, almeno su alcune delle intuizioni dei poeti tragici, sia a proposito della vulnera­ bilità del prosperare di fronte alle catastrofi, sia a proposito

4

IN T R O D U Z IO N I. A l.l.A N U O V A I D IZ IO N I

della rilevanza eliea delle emozioni ncIFistruirci sul senso di questi rovesci ili lori una. Sino all'epoca della pubblicazione di questo libro il dibat­ tito su vulnerabilità e lumina era stato sorprendentemente assente nella filosofia morale contemporanea, nonostante la loro costanti' importanza per gli uomini. Così io vedevo quel riportare alla luce i dibattiti greci anche come un contributo al sapere etico contemporaneo. Pochi di noi credono che vivia­ mo in un mondo ordinato dalla provvidenza per il bene gene­ rale; pochi credono in una teleologia della vita sociale che vada verso una maggiore perfezione. E tuttavia, o così mi sembrava e mi sembra, le conseguenze etiche dell’ammissione che viviamo in un mondo che è in gran parte indifferente ai nostri sforzi non sono state ancora pienamente analizzate. La fragilità del bene era così inteso come un primo passo verso tale analisi. Sostengo ancora la maggior parte delle tesi del libro, sia sul piano interpretativo che sostanziale. Credo ancora, ad esem­ pio, che la concezione aristotelica dell’essere umano e della deliberazione pratica sia di grande importanza per il pensiero etico e politico contemporaneo; e credo che la descrizione della pluralità dei beni, e dei conflitti tra di essi, che ritrovia­ mo sia nei poeti sia in Aristotele, ci fornisca delle conoscenze assenti in molto del sapere sociale contemporaneo. Ma il mio crescente interesse per l’etica stoica mi ha indotto a vedere alcuni dei temi di questo libro in una luce nuova - in partico­ lare la natura delle emozioni ed il concetto di essere umano. Al contempo, il mio interesse per la filosofia politica mi ha condotto a ripensare diverse delle problematiche di questo libro, tra cui il significato etico della pluralità dei beni, la vulnerabilità della vita umana alla fortuna, e la natura del­ l’amicizia. A queste reinterpretazioni e ripensamenti sono de­ dicati il secondo e terzo paragrafo di questa introduzione. Per quel che riguarda l’esteso influsso del pensiero etico antico nella filosofia morale contemporanea, sento ora il biso­ gno di dire in modo esplicito alcune cose che davo per sconta­ te nella Fragilità. In particolare vorrei prendere le distanze da quegli appelli alla filosofia greca che spingono al rifiuto della teorizzazione sistematica in etica e dell’obiettivo illuminista di una vita sociale fondata sulla ragione 6. Queste alternative, sem plicemente, non erano in campo quindici anni fa, e quelli che

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

5

vorrebbero etichettare come «anti-teoria» la mia posizione, che non mira al rifiuto delle idee illuministe ma a conquistarsi i Greci come alleati per una versione ampliata del liberalismo illuminista, sono semplicemente in errore. Il quarto e quinto paragrafo trattano di questi problemi: il quarto si concentra sull’affermarsi dell’«anti-teoria» e dell’anti-ragione nel recente pensiero etico. Il quinto si occupa del (lieve) disaccordo fra la mia posizione e quella di Bernard Williams circa la reazione appropriata alle catastrofi tragiche. 2. Un tema fondamentale della Fragilità del bene, come ho suggerito, è il ruolo delle emozioni nel fornirci informazioni sulle questioni eticamente significative. Richiamandomi ai poe­ ti tragici, al Fedro platonico e alle concezioni etiche aristote­ liche, parlo spesso di un ruolo cognitivo delle emozioni; ma dico poco di quel che esse sono. E tuttavia una corretta analisi dell’emozione rappresenta una differenza significativa per la problematica che ho proposto: alcune analisi delle emozioni rendono ben più plausibile, rispetto ad altre, un loro ruolo cognitivo. La riflessione sulle emozioni è divenuta un tema centrale del mio lavoro successivo. Le mie concezioni sono state molto influenzate dal fatto di avere dedicato molti anni allo studio del pensiero etico e politico di tre fondamentali scuole ellenistiche: epicurei, scettici e stoici7. Tra questi, gli stoici hanno avuto maggior importanza per lo sviluppo delle mie idee sulle emozioni. Credo che essi ci forniscano il nucleo della concezione di cui abbiamo bisogno, se vogliamo rendere plausibile l’idea che le emozioni ci rivelano la realtà etica. Sostenendo che le emozioni sono forme di giudizio valuta­ tivo che attribuiscono alle cose e alle persone al di là del controllo dell’agente un grande significato per il prosperare dell’agente stesso, gli stoici passano poi ad affermare che tutti questi giudizi sono falsi, e che dobbiamo, per quanto possia­ mo, disabituarci ad essi. Visione normativa che io, in questa semplice forma, sostanzialmente rifiuto, anche se credo che abbia molto da offrirci per quel che riguarda il dissennato attaccamento al denaro, all’onore e allo status. L ’analisi degli stoici, che considerano le emozioni come giudizi di valore, tuttavia, è indipendente dalle loro controver­ se tesi normative. Opportunamente modificata, credo possa costituire la base per una concezione filosofica contempora-

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introduzioni : aita nuova iiii / k ini

nea delle emozioniH. Per essere adeguata, la teoria stoica deve essere sottoposta a tre fondamentali tipi di modifica. In primo luogo, essa necessita di una plausibile teoria del rapporto tra emozioni dell’adulto ed emozioni del bambino e degli animali non-umani (gli stoici negano, cosa implausibile, che bambini ed animali provino emozioni). Sviluppare una tale teoria ci conduce ad ampliare l’analisi cognitiva stoica per abbracciare una piìi ampia gamma ili forme di cognizione, come le perce­ zioni e le credenze di tipo non-linguistico. In secondo luogo, la teoria necessita di una buona analisi della variabilità cultu­ rale delle emozioni. Gli stoici mostrano, convincentemente, la misura in cui le norme sociali vengono interiorizzate nell’ar­ chitettura delle nostre emozioni; ma pensano che le norme in questione siano fondamentalmente le stesse in tutte le società, dedicando così poca attenzione alle piccole differenze. Ed in­ fine, è necessaria una storia genetica che mostri l’evoluzione delle emozioni adulte, a partire da quelle arcaiche del neonato e del bambino. Questa storia genetica complica la teoria stoica in molti modi, suggerendo che le emozioni adulte solitamente recano le tracce di prime esperienze significative, che implica­ no una perturbante ambivalenza nei confronti degli oggetti amati. Se adottiamo una versione della teoria stoica dell’emozio­ ne, anche in questa forma altamente modificata, dovremo ri­ conoscere, di conseguenza, che la guida delle emozioni è tal­ volta eticamente buona, talvolta eticamente cattiva. Le emo­ zioni sono affidabili solo nella misura in cui lo è il materiale culturale di cui sono fatte. Una buona critica filosofica delle norme culturali implicherà una critica delle emozioni cultural­ mente apprese9. Quest’importante considerazione si applica anche alla teoria dell’emozione di Aristotele, anche se egli non dà alla credenza lo stesso ruolo, nell’emozione, attribuitole della teoria stoica 10. Questo problema avrebbe dovuto essere evidenziato maggiormente, nella Fragilità del bene. Mi sembra che il mio interesse nel rivendicare la possibilità in generale di un ruolo cognitivo per le emozioni mi abbia condotto a con­ centrarmi troppo su quei casi (ad esempio gli amanti del Fe­ dro) nei quali la loro influenza è positiva; avrei dovuto ricono­ scere più pienamente la verità del giudizio platonico, secondo cui le emozioni possono incatenare la mente ad errori cultu­ ralmente consolidati.

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

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Se la concezione stoica pone così alcuni problemi a chiun­ que voglia affidarsi alla guida delle emozioni, essa contempla la possibilità che le emozioni aiutino il progresso collettivo, possibilità ignorata da alcune teorie illuministe, come quella di Kant, ad esempio, che tende a trattare le emozioni come componenti relativamente non-intelligenti della natura uma­ na. La concezione stoica suggerisce che, se da un lato il cam­ biamento non è facile, è possibile dall’altro che la persona «si illumini», combattendo i giudizi di valore che generano la rabbia e l’odio irragionevoli11. La concezione aristotelica del­ l’emozione offre un’analoga speranza; in effetti, l’opinione di Aristotele che l’emozione appropriata sia un elemento costitu­ tivo della virtù implica che un agente possa coltivare emozioni virtuose, imparando a provare rabbia nei confronti della per­ sona giusta, e non di quella sbagliata, al momento giusto, e così via. Aristotele è sicuramente troppo fiducioso per quel che ri­ guarda la misura in cui le emozioni, apprese nella prima infan­ zia, possano di fatto essere trasformate. Gli stoici constatano che le abitudini fortemente consolidate sono difficili da muta­ re, e ancor di più se sembrano essere profondamente radicate nella struttura motivazionale della personalità. In Terapia del desiderio sostengo che Seneca vede più a fondo di Aristotele, quando afferma che la lotta contro la rabbia richiede una vigilanza che dura una vita. E per quel che riguarda l’appas­ sionato amore erotico, le sue concezioni sono ancora più com­ plesse: nelle tragedie, ma non nelle opere filosofiche, egli insi­ ste sulla capacità dell’amore di eludere i controlli dell’etica, ritrovando in quest’energia amorale una fonte potenziale di bellezza come di pericolo. Le mie più recenti considerazioni sulle radici delle emozioni nell’infanzia suggeriscono ancora altre ragioni per supporre che le emozioni arcaiche possano costituire degli ostacoli alla formazione di un carattere virtuo­ so. Ciononostante, l’adozione di una teoria dell’emozione di tipo cognitivo ci suggerisce ancora delle indicazioni, per il progresso sociale, che non potremo cogliere se consideriamo le emozioni stesse come semplici stimoli o impulsi, prive di una intenzionalità ricca o di un contenuto cognitivo. Dovrem­ mo pensare, ad esempio, che la finalità propria di una società giusta non sia semplicemente la soppressione dell’odio razzia­ le, ma la completa assenza di tale emozione, da raggiungere

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INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

attraverso forme di discorso pubblico e (in particolare) di edu­ cazione pubblica, che insegnino il mutuo rispetto tra tutti i cittadini. Così il pensare correttamente alla natura delle emozioni può aiutarci a difendere meglio la tesi di fondo di questo libro a proposito del loro ruolo cognitivo. Rivelando, al contempo, sia alcuni rischi che corriamo nell’affidarci alla loro guida, sia alcune prospettive di progresso individuale e sociale prima non riconosciute. 3. La fragilità del bene non si incentrava su problematiche politiche, anche se il ruolo della fortuna nella nostra capacità di agire come cittadini era tra i suoi temi. Ma i temi etici del libro hanno in effetti delle significative implicazioni per il pen­ siero politico. In particolare, la concezione aristotelica dell’es­ sere umano come essere insieme capace e vulnerabile, e biso­ gnoso di una ricca pluralità di attività vitali (concezione che egli mutua, per molti versi, dai poeti tragici), ha straordinarie implicazioni per la riflessione contemporanea sul welfare e lo sviluppo. Dato che ho passato molto del periodo intercorso ad occuparmi di queste implicazioni, e dato che, anche a que­ sto proposito, vedo ora i problemi sotto una luce sostanzial­ mente nuova a causa del mio interesse per l’etica stoica, mi sembra valga la pena di esplicitare questi sviluppi, anche se la storia che ne risulta apparirà meno direttamente connessa al­ l’argomento di questo volume. Ne dovrebbe emergere una continuità maggiore, di quella che potrebbe a prima vista ap­ parire, tra il libro del 1986 e le mie costanti preoccupazioni politiche. La teoria politica moderna si è appropriata in molte diver­ se maniere del pensiero di Aristotele. Anche se ci limitiamo alle sue idee a proposito delle capacità e dell’operare dell’uo­ mo, queste sono state centrali per non pochi, e diversi, proget­ ti moderni: il cattolicesimo socialdemocratico di Jacques Ma­ ritain; il conservatorismo cattolico di John Finnis e Germain Grisez; il comunitarismo cattolico di Alasdair Maclntyre; l’uma­ nesimo marxista del primo Marx e dei successivi sostenitori di questo aspetto del pensiero marxiano; la tradizione bri­ tannica liberale socialdemocratica rappresentata dalle opere di T.H. Green e E. Barker 12. Tutti questi pensatori possono a ragione affermare di trovare, per ciò che sostengono, un fon-

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONI;

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damento in Aristotele; e questo in parte perché Aristotele è un pensatore politico dall’orizzonte insolitamente ampio, e talvol­ ta internamente incoerente u. Da più di un decennio attingo all’opera di Aristotele per sviluppare una teoria politica ed una teoria delle basi etiche dello sviluppo internazionale, che è una forma di liberalismo socialdemocratico molto legato alle concezioni di Maritain, Green e Barker. Anche se a volte perseguivo una rigorosa interpretazione testuale dell’opera aristotelica, il mio scopo primario era sviluppare una mia concezione, che, benché in un certo senso aristotelica nello spirito, si allontana da Aristo­ tele in molti modi, sia nella direzione del liberalismo che in quella del femminismo 14. In collaborazione con l’economista Amartya Sen 15, ma sviluppando una proposta politica norma­ tiva che è indipendente dall’uso comparativo di Sen delle «ca­ pacità» (capabilities) come misura, ho sostenuto che una de­ scrizione di alcune fondamentali capacità umane dovrebbe for­ nire un punto focale alla pianificazione politica: in qualità di necessaria condizione minima di giustizia sociale, ai cittadini dovrebbe essere garantito un livello minimo di queste capaci­ tà, qualsiasi altra cosa essi posseggano. Le capacità possono essere anche adoperate in senso comparativo, come indice della qualità della vita nei diversi paesi. Nel corso degli anni ho sempre più sottolineato l’impor­ tanza del rispetto per il pluralismo e del ragionevole disaccor­ do sul valore ultimo e sul significato della vita. Allontanando­ mi in modo deliberato da Aristotele, che era certamente con­ vinto che la politica dovesse promuovere l’operare in accordo con un’unica e comprensiva concezione della vita umana buo­ na, sostengo che la politica deve limitarsi a promuovere le capacità, non l’effettivo operare, per lasciare spazio alla deci­ sione di dedicarsi o meno ad una determinata funzione 16. E inoltre anche questo dovrebbe esser fatto in modo tale da lasciare spazio a scelte diverse in fatto di religione e di altre concezioni generali della vita. In altri termini, la mia concezio­ ne aristotelica - come quella di Maritain, ma diversamente da altre conosciute - è una forma di «liberalismo politico», inten­ dendo con ciò un liberalismo che riconosce l’importanza di rispettare le diverse forme di vita, comprese le forme ragione­ volmente non-liberali17. In ciò il mio aristotelismo è stato sempre più influenzato dalle idee di John Rawls e di Kant. Un

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INTRODUZIONI; M.I.A NUOVA UDIZIONI;

altro aspetto per il quale mi allontano da Aristotele è la mia attenzione pratica e teoretica alla condizione delle donne nei paesi in via di sviluppo, e alla loro lotta per l’eguaglianza. Le opinioni di Aristotele sulla donna non meritano un’analisi se­ ria, nemmeno come falsità. Nel lavorare su queste idee, ho attinto, rielaborandoli ulte­ riormente, a quegli aspetti del pensiero aristotelico che erano centrali nella fragilità del bene, l’insistere sul fatto che gli esseri umani sono insieme vulnerabili ed attivi, e sul loro biso­ gno di una ricca ed irriducibile pluralità di funzioni, l’enfasi sul ruolo dell’amore e dell’amicizia nella vita buona. Ma anco­ ra una volta il mio interesse per le concezioni stoiche è stato, anch’esso, di considerevole importanza. Lo studio degli stoici ci rende acutamente consapevoli di alcuni grandi difetti del pensiero aristotelico. E dato che questi difetti sono assenti nei pensatori stoici contemporanei di Aristotele (e ancor prima, nei cinici), non possono essere giustificati in base al fatto che non esisteva ancora la modernità 18. Credo che a questi difetti avrei dovuto dare perlomeno qualche rilievo nella Fragilità del bene, nonostante la diversa finalità del libro. Il primo e più impressionante difetto è l’assenza, in Aristo­ tele, di ogni senso dell’universale dignità umana, e a fortiori dell’idea dell’eguale valore e dignità degli esseri umani. Forse c’è davvero una tensione interna nel pensiero aristotelico: infat­ ti egli a volte sottolinea (e lo farò notare) che ogni essere natura­ le è degno di reverenza. Ma dobbiamo ammettere che nei suoi scritti etici e politici vengono riconosciute diverse gerarchie tra gli esseri umani: le donne subordinate agli uomini, gli schiavi ai padroni. Per lo stoico, al contrario, il semplice possesso della capacità di scelta morale dà ad ognuno un’infinita ed eguale dignità. Uomo e donna, schiavo e libero, greco e straniero, ricco e povero, altolocato o umile - tutti sono di pari valore, e questo valore impone stringenti doveri di rispetto a noi tutti '9. Gli stoici, seguendo i loro predecessori cinici, usarono que­ st’idea per attaccare radicalmente le gerarchie, moralmente ir­ rilevanti, di classe, rango, onore, e persino di sesso e genere, che dividevano gli esseri umani nel loro mondo 20. Queste idee han­ no avuto un influsso formativo sulla modernità, influenzando pensatori come Grozio, Rousseau e Kant. Ogni visione aristote­ lica contemporanea, per essere moralmente adeguata, deve in­ cludere sin dal principio qualche nozione del genere.

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE

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Inoltre, Aristotele non riconosce che abbiamo dei rapporti etici con persone che vivono al di fuori della nostra «cittàstato». Certo riconosciamo come esseri umani, afferma, coloro che vivono lontano. Ma non suggerisce che questo riconosci­ mento ci imponga qualche obbligo morale, anche quello di non scatenare una guerra di aggressione contro di loro. Anco­ ra una volta i pensatori stoici forniscono l’apporto necessario, sostenendo che siamo tutti, in primo luogo e soprattutto, dei kosmopolitai, cittadini del mondo intero, e che questa comune cittadinanza morale ha in effetti almeno alcune conseguenze per i nostri obblighi etici. Quali siano, è controverso nell’am­ bito della tradizione. La più importante riflessione soprav­ vissuta, quella del Dei doveri21 di Cicerone, chiarisce che la comune condizione umana impone fermamente il dovere di non condurre guerre d’aggressione, così come doveri nei con­ fronti del nemico durante la guerra, doveri di ospitalità nei confronti degli stranieri nel nostro territorio, e un complesso di altre regole. La descrizione ciceroniana di questi doveri ha avuto un enorme influsso sul pensiero politico e giuridico mo­ derno. Sfortunatamente il pensiero di Cicerone presenta serie la­ cune ed incoerenze; in particolare, egli sembra credere che non abbiamo il dovere di fornire aiuto materiale alle persone all’esterno della nostra «repubblica». Questa sfortunata lacu­ na dipende dalla sua adesione alla tesi stoica che le «cose esterne» come denaro e proprietà non hanno valore intrinse­ co, e che la virtù è completa in se stessa22. Il pensiero stoico, quindi, ci lascia con alcuni grandi problemi ancora da risolve­ re; e tuttavia fornisce anche la base necessaria per condurre la politica al di là del mondo della città-stato. Anche in questo caso, il bisogno di estendere in questo modo il nostro pensiero avrebbe potuto essere utilmente menzionato, in questo libro, in particolare nella riflessione sul ruolo dell’amore e dell’ami­ cizia nella vita buona. Infine, Aristotele manca di un elemento essenziale per un buon approccio politico moderno: una solida concezione de­ gli spazi di libertà protetti, di quelle attività in cui è sbagliato per Io stato interferire23. Il pensiero moderno non è in alcun senso in accordo sulla questione della natura della libertà, e di quali forme di essa siano le più importanti per uno stato ben governato. Ciononostante, ogni lettore moderno della Politica

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aristotelica, non importa di quale parte del mondo, giudicherà certamente che manchi qualcosa in un testo in cui le prescri­ zioni ai cittadini riguardano ambiti così personali come quan­ to esercizio fisico fare ogni giorno, trascurando il fatto che è moralmente discutibile per uno stato esercitare tale ruolo. Questi limiti avrebbero dovuto essere menzionati nelle parti di questo volume in cui sottolineo l’importanza della scelta e dell’agire per la virtù. Pur insistendo sulle condizioni monda­ ne della scelta, Aristotele non riflette a sufficienza sui tipi pertinenti di scelta e sulle condizioni che effettivamente ri­ chiedono. Gli stoici certamente non ci portano fino ad una moderna concezione della libertà, ma, di nuovo, offrono una valida base per un progresso. Lo stoicismo romano, in parti­ colare, si concentra intensamente sulla libertà come scopo cen­ trale di un buon governo, ed è in parte per questa ragione che definisce il «governo misto» superiore alla monarchia. Gli stoici posero più volte in pratica le loro idee, rischiando o perdendo la vita in cospirazioni anti-imperiali per la difesa della liber­ tà 24. Anche se il rapporto della libertà degli stoici romani con le libertà care al liberalismo moderno è stato discusso per secoli25, essi offrono perlomeno un punto di partenza per riflettere su questi temi cruciali. Ma, anche se gli stoici forniscono alcuni essenziali corretti­ vi al pensiero politico di Aristotele, non dovremmo costruire un approccio politico moderno basandoci esclusivamente su idee stoiche. La nostra prospettiva è migliore, credo, se restia­ mo fedeli ad un approccio che è, per alcuni cruciali aspetti, aristotelico, pur se modificato per correggere i reali difetti della concezione di Aristotele. Vi sono infatti alcune lacune nel pensiero degli stoici (trasmesse in una forma o nell’altra agli eredi liberali dello stoicismo) che un appello alle idee aristoteliche può aiutarci a correggere. E qui l’enfasi, nella Fragilità del bene, sulla vulnerabilità umana ci porta nella giusta direzione. Gli stoici sostengono che i «beni esterni» della vita - tra cui la ricchezza, l’onore, il denaro, il cibo, il riparo, la salute, l’integrità del corpo, gli amici, i figli, gli esseri amati, la cittadinanza e l’attività politica - non hanno alcun autentico valore. Essi ritengono, con Socrate, che la persona buona non può essere danneggiata. La virtù interiore è suffi­ ciente per l’umano prosperare. Ciò conduce, nelle loro conce­ zioni politiche, ad una prospettiva distorta, laddove è in que-

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stione il bisogno di questi beni. Un’analoga distorsione appare in Kant, con la sua descrizione dell’essere umano come appar­ tenente a due regni distinti, quello della natura e quello mora­ le dei fini, concepito, quest’ultimo, come relativamente inac­ cessibile alle trasformazioni del primo. Così, benché sia gli stoici che Kant sostengano che abbia­ mo il dovere di favorire il benessere degli altri, compreso quello materiale, l’urgenza e la centralità di tali doveri è meglio colta dalla teoria aristotelica che asserisce che viviamo in un solo regno, quello della natura, e che tutti i nostri poteri, compresi quelli morali, sono mondani e abbisognano di beni mondani per il loro prosperare. In una teoria del genere i nessi tra l’essere ben nutriti e l’essere liberi, tra l’integrità morale e il funzionamento del corpo, sono più direttamente e nitida­ mente individuati, per le ragioni espresse dalla tesi di fondo della Fragilità del bene-, l’essere umano è in realtà come una vite, «da verdi rugiade nutrita / tra gli uomini saggi e tra i giusti / levandosi nell’etere liquido». Riconoscendo questa vul­ nerabilità e il suo rapporto con un operare dotato di valore, attiviamo incentivi - mai presi in considerazione dagli stoici per promuovere un’adeguata distribuzione e redistribuzione dei beni materiali, tale che tutti i cittadini ne abbiano abba­ stanza. Perché ciò che è in gioco non è affatto un elemento accidentale, ma lo stesso operare intellettuale e morale del­ l’uomo. Possiamo portare questo discorso ancora un po’ più avan­ ti: l’approccio stoico scinde il bisogno dalla dignità. Il bisogno in sé non ha dignità; è solo contingentemente legato a ciò che ha dignità 26. Questo significa che non pensiamo alla fame del corpo, al suo bisogno di riparo, di cura durante la malattia, e di amore, come componenti, tra gli altri, della sua dignità. Si tratta di elementi in qualche modo imbarazzanti, in un essere che ha dignità. Questa concezione sottilmente influenza il modo in cui affronteremo il compito di dar sollievo al bisogno fisi­ co: lo concepiamo come un sostegno dato ad un aspetto relati­ vamente privo di dignità della vita umana, perché la parte degna deve potersene avvantaggiare. Credo che questo sia un punto di partenza distorto per pensare all’amore e alle cure che diamo ai bambini, ai malati, agli anziani, problemi che le società debbono continuamente e sempre più fronteggiare, in quanto la durata della vita si allunga e molti adulti passano un

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terzo della propria esistenza in una condizione che non con­ sente una piena operatività mentale e morale. Alcuni esseri umani, ovviamente, vivono le loro vite in uno stato di comple­ ta dipendenza, sul piano mentale, da altri: un buon pensiero politico deve provvedere a loro, e mostrare rispetto anche per loro. Un altro modo di esporre il problema è dire che lo stoici­ smo, diversamente dalla maggior parte delle altre scuole di pensiero antiche, segna una cesura netta tra l’uomo e l’animale. Il riconoscimento stoico della dignità e del valore dell’umanità si basa su fattori, nell’essere umano, che lo distinguono dalle «bestie» 27. Ciò è costantemente evidente nella retorica stoica della dignità umana. Anche quando magnificano l’essere uma­ no, facendone qualcosa dal valore prezioso ed infinito, deni­ grano allo stesso tempo l’animale, facendone qualcosa di bru­ tale ed inerte, qualcosa che è privo di dignità e che non suscita stupore. Ciò li conduce a fare affermazioni fattualmente false ad esempio, che gli animali non hanno emozioni o che gli animali mancano di intelligenza. E questo li porta a postulare una netta cesura dove in realtà vi è una sottile sovrapposizione e continuità. Aristotele, naturalmente, riconobbe questa conti­ nuità e costruì su di essa la sua concezione delle specie. Egli riteneva anche che in ogni creatura naturale, per quanto appa­ rentemente inferiore o persino repellente, vi fosse qualcosa di meraviglioso, di degno di reverenza (Parti degli animali, I, 5). Nel mondo moderno, abbiamo bisogno di un approccio politico che dia un senso razionale al nostro rapporto con gli altri animali, e con la nostra animalità, con i nostri corpi vul­ nerabili, con la nostra crescita e con il nostro declino 28. Non è necessario negare che i poteri razionali e morali dell’uomo si esprimano in interessi e doveri morali peculiari per ricono­ scere che vi sono interessi e doveri che appartengono alla sola animalità, e che la stessa animalità, in tutte le sue forme, meri­ ta rispetto. In realtà dovremmo riconoscere che le nostre uma­ ne forme di intelligenza e di emozione sono determinazioni dell’animalità, e non qualcosa di distinto da essa, o ad essa contrapponibile. Non possiamo pensare nel modo giusto alla nostra infanzia e alla nostra vecchiaia, al nostro rapporto mo­ rale con gli altri animali, o a quello con gli esseri umani con diverse forme di handicap mentale, se ci avviciniamo al mon­ do con in mente la rigida dicotomia stoica. Così anche le

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moderne forme di liberalismo di tradizione stoica - tra le quali comprenderei il liberalismo kantiano - si lasciano sfug­ gire un complesso di importanti problemi morali e politici. Naturalmente potremmo assumere la posizione giusta senza tornare affatto al pensiero greco. Ma la visione aristotelica di una natura che contiene una varietà di meravigliose creature, ognuna con il proprio specifico modo di operare, insieme alla sua concezione che i moti animali ed umani sono di natura affine e suscettibili di una «comune spiegazione», ci aiuta a pensare meglio a noi stessi e al mondo 29. Nei termini di Ari­ stotele: se proviamo disgusto per i corpi degli animali, signifi­ ca che proviamo disgusto di noi stessi: è di parti simili che siamo fatti. Ma non dovremmo provare disgusto, perché «in tutte le realtà naturali c’è qualcosa di meraviglioso»30. Potreb­ be essere utile riprendere, e rielaborare, le implicazioni etiche di quest’idea 31. 4. Questo per quel che riguarda i cambiamenti e gli svilup­ pi del mio pensiero. Nello stesso periodo, il mondo della filo­ sofia morale è molto cambiato, rendendo indispensabili alcu­ ne distinzioni e chiarimenti di cui prima non si vedeva la necessità. Da quando ho scritto La fragilità del bene c’è stata una grande ripresa di interesse per il pensiero etico della Gre­ cia antica, animata dall’influsso di molti diversi pensatori che si ispirano ai Greci. Tale ripresa coinvolge eminenti filosofi morali come Bernard Williams, Alasdair Maclntyre, Iris Mur­ doch, John McDowell e David Wiggins - che hanno tutti unito un lavoro originale in filosofia morale ad un serio e continuato interesse per i Greci include pensatori come Philippa Foot, Annette Baier e Cora Diamond, il cui lavoro sviluppa tematiche affini senza uno studio approfondito dei testi greci antichi; ed infine comprende un ampio gruppo di studiosi che hanno scritto fondamentalmente in qualità di spe­ cialisti dell’antica etica greca. Ormai non è più vero che i due approcci etici predominanti siano il kantismo e l’utilitarismo. La maggior parte delle introduzioni a questo argomento deb­ bono ora menzionare, come terzo grande paradigma, ^ a p p ro c ­ cio dell’etica della virtù». Io ritengo che questa tassonomia sia confusa32. Kant e i maggiori pensatori utilitaristi hanno delle teorie della virtù; di conseguenza l’affermazione che l’«etica della virtù» è un ap-

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proccio distinto dai primi due implica ovviamente un errore categoriale. Anche tra i pensatori che scrivono sulla virtù ri­ fiutando l’approccio kantiano e quello utilitarista, a favore di quelli ispirati dall’antico pensiero etico greco, vi è poca unità. Certi interessi accomunano questo gruppo alquanto eteroge­ neo: un interesse per il molo delle motivazioni e delle passioni nella buona scelta; un interesse per i patterns costanti della motivazione e dell’azione, in altri termini per il carattere; un connesso interesse per il corso complessivo della vita di un agente. Ma vi sono disaccordi altrettanto profondi, in particolare a proposito del ruolo che la ragione deve giocare nella vita eti­ ca, e del valore della teoria etica. Cerchiamo, molto schemati­ camente, di fare una mappa di questi dissensi. Un gruppo di moderni teorici della virtù si rivolge ad Aristotele, e ad altri pensatori greci, essenzialmente a partire da un’insoddisfazione nei confronti dell’utilitarismo33. Essi credono che l’utilitari­ smo trascuri la pluralità e l’eterogeneità dei valori, la possibili­ tà di intelligente deliberazione sui fini come sui mezzi, e la suscettibilità delle passioni ad essere socialmente educate (o, in altri termini, la natura endogena delle preferenze)34. Questi pensatori sono solitamente del tutto soddisfatti del compito di costruire teorie in etica; semplicemente, vogliono costruire una teoria etica di tipo non-utilitaristico, e trovano che Aristotele sia un’utile guida per realizzare questo progetto. E in genere vogliono ampliare, non ridurre, il ruolo della ragione nella nostra vita etica - mostrando, ad esempio, che è possibile una deliberazione distica sui fini ultimi, e che le passioni stesse sono sensibili alla deliberazione. Non tendono al conservatori­ smo sociale, e sono spesso attratti dalle concezioni antiche proprio perché esse mostrano come molte cattive motivazioni (come l’avidità e l’invidia) siano socialmente costruite, indi­ candoci così come potremmo operare, su di esse, una critica radicale. Anche se alcuni esponenti di questo gruppo sono avversi a Kant, sentendo (ad esempio) che la sua visione è ingiustamente ostile alle emozioni e disattenta nei confronti della pluralità di beni potenzialmente in conflitto, non vi è alcuna logica interna della loro concezione che li conduca a rifiutare qualche forma di alleanza con Kant. Ed in effetti alcuni aspirano a una sintesi dei migliori aspetti di Aristotele e di K ant35.

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È nell’ambito di questo gruppo che mi sono sempre senti­ ta a casa; gli scritti di David Wiggins ed Henry Richardson, paradigmatici dell’impegno anti-utilitarista di questo gruppo, mi sono sempre apparsi come mirabili alleati per ciò che cer­ cavo di dire 36. Un altro gruppo di teorici della virtù è sostanzialmente anti-kantiano. Essi credono che la ragione abbia conquistato un ruolo troppo dominante nella maggior parte delle teorie filosofiche in etica, e che un più ampio spazio debba essere dato ai sentimenti e alle passioni - che solitamente interpreta­ no, rispetto al primo gruppo, come meno basate sulla ragione. Questo gruppo è anch’esso molto eterogeneo, ma perlomeno una buona parte di esso è neo-humiano. Vediamo un interesse per un’etica del sentimento di tipo humiano negli scritti di Annette Baier e (credo sia giusto dire) di Bernard Williams 3'. Anche se non è un’inevitabile conseguenza della posizione neo-humiana, questi due pensatori, e i loro alleati, tendono ad opporsi all’impresa stessa della teorizzazione etica, che associano ad un ruolo eccessivo della ragione nella vita etica. Anche se Baier fa effettivamente appello, e con simpatia, al particolarismo aristotelico, lo descrive come una forma di anti-teoria, o come un’alternativa all’impresa della teorizza­ zione. Williams, al contrario, considera quella aristotelica come una teoria etica fallita 38. Ma ora dobbiamo introdurre una diversa, tripla distinzio­ ne: a) sostenitori sia della teorizzazione etica, sia di un grande ruolo per la ragione negli affari umani; b) sostenitori di un grande ruolo della ragione nella vita etica, ma che rifiutano l’impresa della teorizzazione etica; c) coloro che ridurrebbero di molto il raggio d’azione della ragione nella vita etica. Io appartengo al primo gruppo di teorici della virtù - insieme, credo, ad anti-utilitaristi come Wiggins e Richardson. Difen­ diamo tutti il ruolo della teoria; semplicemente cerchiamo una teoria di tipo aristotelico, con il suo interesse per la delibera­ zione sui fini ultimi e per una irriducibile pluralità di beni. Un oppositore della teoria in etica può ancora credere che le passioni socialmente apprese e i sentimenti siano proba­ bilmente corrotti, e che un uso critico della ragione giochi, di conseguenza, un essenziale ed apprezzabile ruolo nelle vicen­ de umane. Questa è, ad esempio, la posizione di Bernard Williams, che in molti modi fa rivivere l’ideale socratico della

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vita sotto esame 39. Ma è anche del tutto possibile che le ragio­ ni che un pensatore può avere per attaccare la teoria etica dipendano da un’obiezione di carattere più generale, nei con­ fronti del dominio della ragione negli affari umani: questo, in modi diversi, è il caso di Annette Baier e Alasdair Maclntyre. Anche se non vi è alcuna necessità che un simile approccio sia eticamente o socialmente conservatore, il suo ridimensiona­ mento della ragione come guida suggerisce che esista qual­ cos’altro più degno di guidarci. Per Baier, questo qualcosa sono i sentimenti. Per Maclntyre, è invece l’autorità politico­ ecclesiastica che rimpiazza la ragione, perlomeno quando si tratta di stabilire i principi fondamentali. Anche se mi differenzio da entrambi questi gruppi di pen­ satori anti-teorici40 quando rivendico un ruolo importante per la teoria nella vita etica e politica, le mie differenze rispetto a Williams sono di gran lunga più sottili di quanto lo siano quelle con pensatori che sono sia anti-teoria che anti-ragione e si appellano all’antica etica greca con questi presupposti41. Per dirla in parole semplici, non mi sento a casa in compagnia di questi ultimi, e sono rimasta esterrefatta dagli occasionali ten­ tativi di ritrovare nella Fragilità del bene una tale concezione anti-ragione ed anti-teoria. La mia difesa del detto aristotelico che il «giudizio» dei particolari «sottostà alla sensazione» 42, vedeva questa concezione del giudizio come un elemento inter­ no a ciò che è, ovviamente, una teoria etica che implica una concezione universale delXeudaimonia. La spiegazione univer­ sale deve sempre essere sensibile ai particolari, ed è, in questa misura, provvisoria; ma si tratta pur sempre di una teoria43. Inoltre, nel raccomandare i romanzi come mezzi per coltivare questa sensibilità aristotelica, ho sottolineato che essi avrebbe­ ro prodotto sapere etico solo unitamente ad uno studio siste­ matico della teoria etica - una tesi sulla quale Cora Diamond si è criticamente concentrata sin dal principio, comprendendo, a ragione, che essa segna una profonda divergenza tra la sua concezione (profondamente anti-teorica) e la mia 44. Se è vero che la mia difesa della teoria avrebbe dovuto essere chiara, così avrebbe dovuto esserlo la mia difesa della ragione come guida. Ho detto soltanto due cose che potreb­ bero sembrare limitare il suo ruolo: che la contemplazione intellettuale in sé non è sufficiente per una vita umana prospe­ ra, e che anche le emozioni giocano un ruolo nel ragionamen-

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to etico. La prima affermazione attribuisce un ruolo più limi tato di quel che vorrebbe Platone ad una forma di ragionamen­ to, posizione perfettamente compatibile con l’assegnazione alla ragion pratica di un ruolo centrale nella pianificazione ed or­ ganizzazione della vita, anche senza sostenere (come io faccio) che è essa stessa che rende tutte le nostre attività pienamente umane. La seconda affermazione non costituisce affatto una qualificazione del ruolo della ragione nella vita umana, poiché io ritengo che le emozioni siano forme di interpretazione va­ lutativa intelligenti, e che di conseguenza la dicotomia ragione/emozioni dovrebbe essere respinta. (Naturalmente questo non significa affermare che tutte le emozioni siano buone gui­ de, più di quanto lo siano tutte le altre forme di ragionamen­ to.) La mia posizione, quindi, lascia alla ragione tutto lo spa­ zio di cui ha bisogno per condurre la sua critica all’ingiustizia. Di recente, assistendo all’influenza diffusa di diverse forme di anti-teoria in etica, e trovandole in qualche modo fastidio­ se, poiché mi sembrava limitassero molto la possibilità di criti­ ca radicale di abitudini ingiuste, ho scritto per difendere la teoria etica dai suoi detrattori - chiarendo così, spero, perché gli antichi pensatori come Aristotele e gli stoici credevano che la teorizzazione etica avesse un valido ruolo da giocare negli affari umani A E estremamente bizzarro, mi sembra, per dei filosofi moderni, fare appello ai filosofi greci quali alleati in un attacco anti-teorico, quando proprio questi personaggi, in modo semi-consapevole, raccomandavano la filosofia alla propria cultura, e la propria cultura alla filosofia, come alternativa alle forme di interazione promosse dalla retorica, dall’astrologia, dalla poesia e dall’interesse egoistico irriflesso 46. Di certo i filosofi greci non avrebbero amato l’idea di una vita vissuta sotto la guida dei sentimenti e delle abitudini, o anche di raffinate opere letterarie. Volevano l’argomentazione critica, e la costruzione di teorie sistematiche del prosperare della vita umana. Io sono con loro. Con Socrate, io penso che le demo­ crazie moderne abbiano bisogno della filosofia, se vogliono realizzare il proprio potenziale47. E non hanno bisogno sol­ tanto dell’indagine e dell’autoanalisi socratiche, hanno biso­ gno anche di impegnarsi in complesse teorie etiche, soprattut­ to quelle della giustizia sociale. Le teorie possono, e debbono, comprendere un onesto ri­ spetto per i giudizi basati sull’esperienza e sulla sensibilità

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educata; Aristotele lo fa. Ma la sua intera teoria è pronta ad essere portata sulla scena, in ogni momento, per criticare le percezioni deformate. Naturalmente, il processo di critica sarà olistico, e il giudizio metterà alla prova le teorie, come le teo­ rie il giudizio 4S. Ma questo non significa dire che la teoria è inutile. Semplicemente, non lo è: perché ci costringe ad essere coerenti con il nostro miglior sapere; perché protegge il no­ stro giudizio dal divenire lo zimbello della razionalizzazione egoistica; e perché estende il nostro pensiero ad ambiti che possiamo non aver esplorato o sperimentato49. 5. Ma La fragilità del bene è soprattutto un libro sulla catastrofe, e sul modo in cui il pensiero etico si confronta con essa. Ed anche quest’aspetto dell’antico pensiero etico greco ha ricevuto un nuovo risalto nell’ambito della filosofia morale contemporanea. I teorici che non sono soddisfatti delle teorie etiche dell’Illuminismo possono talvolta trovare ciò che cerca­ no nelle teorie filosofiche di Platone ed Aristotele. Ma un’in­ soddisfazione nei confronti della moderna teoria etica può anche condurre i pensatori non ai filosofi, ma alle intuizioni della letteratura greca pre-platonica sulla fortuna e sulla vul­ nerabilità. Illustrare il valore di queste intuizioni era uno dei miei scopi fondamentali, ma non soltanto mio. E stato anche un interesse costante di Bernard Williams, il più raffinato dei moderni paladini della poesia tragica. A partire da questo co­ mune interesse, tuttavia, Williams ed io giungiamo ad inter­ pretazioni talvolta diverse proprio su quelle che sono le idee dei poeti su fortuna e vulnerabilità. Prima che io discuta le concezioni di Williams, sarà utile riassumere le conclusioni del presente volume a questo proposito. Quale comprensione del nostro rapporto con la fortuna e la necessità, quindi, può ottenere la filosofia morale contem­ poranea dal volgersi alla tragedia greca, e alle opere filosofiche che si alleano al sapere della tragedia (come credo faccia­ no, in certa misura, le opere etiche di Aristotele)? In questo libro ho sostenuto che opere del genere ci mostrano tre cose sui valori che gli uomini perseguono nella loro vita, e che la filosofia morale potrebbe facilmente dimenticare. In primo luogo, c’è il fatto che alcuni valori umani semplicemente espon­ gono l’essere umano al rischio. Prendersi cura dei bambini, degli amici, degli esseri amati; curarsi della cittadinanza e del-

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l’azione politica; avere a cuore, in generale, d’essere in grado di agire, piuttosto che semplicemente di essere - tutti questi interessi e legami pongono la persona che tiene ad essi, perlo­ meno per alcuni versi, alla mercé della fortuna. Tutti i filosofi, ho sostenuto, cercano di limitare questi rischi per salvaguardare la stabilità della vita. Alcuni di essi vanno troppo oltre, producendo una concezione del bene im­ poverita e ristretta. Ma una certa enfasi sulla stabilità è ragio­ nevole ed essenziale; in effetti, i poeti tragici si concentrano sulla stabilità, a loro modo, in quanto hanno a cuore i beni del nobile carattere e dell’azione virtuosa più di quelli più transi­ tori del denaro o della buona reputazione. Aristotele, ho so­ stenuto, va oltre, valutando alcuni beni, perlomeno in parte, in ragione della loro stabilità: così egli apprezza l’amicizia ba­ sata sul carattere più di altre e meno stabili forme di essa, in parte perché più stabile. Come i poeti tragici, tuttavia, egli non esalta mai la stabilità, o l’essere al riparo dalla fortuna, fino a farne un fine dominante al quale altre sfere di valore sono subordinate. Così egli continua a tenere in gran conto l’amicizia come uno dei più importanti beni dell’uomo, pur riconoscendo che i veri amici corrono sempre il rischio della perdita e del lutto. Una vita solitaria non ha alcun fascino, per lui: sarebbe semplicemente troppo povera di valore 50. Una seconda intuizione della tragedia che ho sottolineato nella Fragilità del bene concerne i rapporti tra le cose apprez­ zabili. Dato che le cose apprezzabili sono molte, e non sono riducibili ad una sola, della quale tutti gli altri beni sarebbero funzioni, gli agenti morali divengono vulnerabili alla fortuna in una seconda maniera, in quanto possono esservi dei conflit­ ti contingenti di valore, che rendono loro difficile o persino impossibile perseguire tutto ciò rispetto a cui hanno svilup­ pato un legame. Le tragedie ci forniscono ricchi esempi di tali conflitti; ma ho sostenuto che anche il pensiero di Aristotele — nonostante ancora una volta sia interessato all’armonia più dei poeti tragici - lascia spazio ad essi51. In terzo luogo, se le emozioni in sé hanno valore come elementi costitutivi di una buona vita, anche questo pone l’agen­ te in rapporto con eventi casuali al di là del controllo del Sé. (Sull’analisi dell’emozione ho una preferenza, ma questo non è che un modo di presentare il primo punto, in quanto le emozioni implicano giudizi di valore che attribuiscono una

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grande importanza a cose al di fuori di noi che non controllia­ mo pienamente, ed è in base a questi legami con l’esteriorità che le nostre emozioni ci rendono vulnerabili.) Così le tragedie, e le opere filosofiche che da queste trag­ gono degli insegnamenti, possono arricchire la nostra com­ prensione di come i valori umani siano vulnerabili al caso, e quindi porre in discussione i progetti di ridisegnare il nostro sistema di «scopi e fini» per rimuovere del tutto l’influsso del caso dalla vita umana ’2. Progetti del genere corrono il rischio di sopprimere autentici beni umani. Ma il saggio monito che una vita completamente invulnerabile è probabile si dimostri impoverita, non implica in alcun senso che dovremmo preferi­ re vite rischiose a vite più stabili, o cercare di massimizzare la nostra vulnerabilità, come se fosse un bene in sé. Sino ad un certo punto, la vulnerabilità è la necessaria condizione di fon­ do di alcuni genuini beni umani: così, chiunque ami un bam­ bino si fa vulnerabile, e l’amore per i bambini è un bene autentico. Ma io non ho mai appoggiato la posizione romanti­ ca che la vulnerabilità e la fragilità debbano essere apprezzate per se stesse. In effetti, aderisco alla ragionevole tesi di Aristo­ tele che le migliori forme dei beni vulnerabili (l’azione politi­ ca, l’amore e l’amicizia) siano quelle relativamente stabili piut­ tosto che quelle relativamente transitorie. Analogamente, pos­ siamo ammettere che chiunque sia legato all’azione politica corre così il rischio di una perdita (ad esempio, in tempo di guerra), senza concluderne che uno stato di continuo rivolgi­ mento politico sia in qualche modo da apprezzare. Chiara­ mente non lo è. Nel corso del tempo ho forse posto una maggiore enfasi su questo punto, ma penso che il cambiamento stia nell’accento, non nella visione. L ’importanza di non valorizzare la fragilità come un fine in sé emerge con particolare chiarezza quando ci si concentra sul pensiero politico. Perché se si pensa in qual­ che modo correttamente agli elementi vulnerabili della vita umana, si comprende che molta dell’umana vulnerabilità non scaturisce dalla struttura della vita umana in sé, o da qualche misteriosa necessità della natura. Scaturisce dall’ignoranza, dall’avidità, dalla malignità, e da diverse altre forme di malva­ gità. Dobbiamo tutti morire, un giorno, ma il fatto che molti di noi muoiano molto giovani (in guerra, o di malattie preve­ nibili, o di fame) non è affatto necessario, non più di quanto

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lo sia la morte del bimbo Astianatte nelle Troiane; si tratta del prodotto di strutture politiche imperfette. Ancora, il fatto stesso ili avere un corpo umano ci rende soggetti alle ferite; ma il latto che le donne vengano stuprate in tempo di guerra è, come Sofocle ed Euripide ben sapevano, il prodotto deH’umana malvagità, non della necessità naturale. E nemmeno l’estre­ ma fragilità che molti esseri umani sperimentano quotidiana­ mente (la mancanza di cibo, di riparo, di sicurezza fisica) è associata a qualche importante valore. Può certo esser vero che avere un corpo umano è la condizione necessaria di alcuni beni umani autentici; e può anche essere vero che avere un corpo umano ci espone alle aggressioni, allo stupro, alla fame e alla malattia. Ma questo non deve farci dire che l’aggressio­ ne, lo stupro, la fame e la malattia sono condizioni degli au­ tentici beni. Chiaramente, non lo sono; e se ci liberassimo di essi, non perderemmo niente che abbia valore. Le tragedie ci mostrano nitidamente che anche gli esseri umani migliori e più saggi possono incorrere in catastrofi. Ma esse ci mostrano anche, altrettanto nitidamente, che molte catastrofi sono il prodotto del cattivo comportamento, sia esso degli esseri umani o degli dei antropomorfi53. Sarà sempre difficile distinguere un tipo di catastrofe dal­ l’altro, dato che non scopriamo che cosa siamo in grado di prevenire se non per tentativi successivi, fino alla fine della nostra specie, usando tutti i mezzi a nostra disposizione. Ma certamente Cicerone ha ragione quando osserva che la perso­ na che non fa attivamente del male non può arrogarsi meriti di giustizia, se quello che ha fatto è stare seduto lì, senza scopo, quando poteva aiutare uomini aggrediti o danneggiati54. Così la fragilità degli esseri umani che scaturisce dal fatto che la maggior parte di essi sono pigri o egoisti (o, potremmo ag­ giungere, razzisti o nazionalisti o in altri modi pieni d’odio, ciechi alla piena umanità degli altri) non dovrebbe essere con­ siderata come una sofferenza necessaria; dovrebbe essere con­ siderata come un colpevole misfatto, e non dovremmo apprez­ zarne gli esiti in alcun modo, e nemmeno suggerire che do­ vrebbero essere delle condizioni di fondo per gli autentici beni umani. Il riconoscimento che la pigrizia, l’errore e la cecità etica causano molte tragedie ha conseguenze per la tematica del conflitto dei valori, conseguenze che non ho pienamente tratto

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in questo libro. Nel capitolo II descrivevo la tesi di Hegel secondo cui un conllitto contingente tra due beni autentici dovrebbe indurci a cercare una sintesi che preservi entrambi i beni e crei un mondo nel quale gli agenti non debbano costan­ temente trovarsi a fronteggiare tragici conflitti. Pur simpatiz­ zando parzialmente con questa tesi, sottolineavo che ogni rico­ noscimento di una pluralità di beni autentici lascia sempre aperta la possibilità del conflitto; dovremmo quindi essere più pessimisti di Hegel quanto alle possibilità di dominarlo. Con­ tinuo a credere che questo sia fondamentalmente giusto: alcu­ ne sfere di valore non possono mai essere bilanciate in modo tale da sedare per sempre il conflitto. La famiglia e lo stato sono due sfere di questo genere. Ciononostante, voglio ora sottolineare ulteriormente ciò che è giusto nella posizione di H egel55. Spesso la conclusione che il conflitto tragico deve rimanere nel cuore dell’ordine politico è tratta prematuramen­ te, prima di avere ben riflettuto su ciò che può essere conqui­ stato attraverso una buona pianificazione politica. Proprio come è possibile che vi sia uno stato che onora profondamente gli obblighi religiosi perseguendo allo stesso tempo il bene del­ l’ordine civile - credo che l’Atene del quinto secolo ne sia un esempio, e gli Stati Uniti contemporanei, in modo differente, un altro -, così tanti, troppi conflitti che a prima vista appaio­ no insormontabili possono essere superati attraverso un’intelli­ gente pianificazione. E stato a lungo ritenuto che vi dovesse essere un conflitto tragico, per una donna, tra carriera e fami­ glia. Ora abbiamo posto in discussione questa comoda conclu­ sione, chiedendoci se le strutture delle carriere non debbano essere modificate per adeguarsi agli aspetti della vita familiare, e chiedendo che gli uomini partecipino alla cura dei bambini. Si pensava, una volta, che i genitori poveri si trovassero di fronte ad una scelta tragica, tra l’educare i propri bambini e destinarli al lavoro infantile: scelta tragica, perché si credeva che il lavoro infantile fosse necessario per la sopravvivenza dei genitori stessi. Ora, anche se i genitori in molte zone del mon­ do si trovano ancora di fronte a simili tragiche decisioni, sap­ piamo che non è necessario che sia così: una buona pianifica­ zione politica può far sì che tutti i cittadini ricevano un’istru­ zione senza che nessuno muoia di fame. In breve, ciò che appare come cupa necessità è spesso soltanto avidità, pigrizia e mancanza di immaginazione. E io

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credo che tutti i tragici greci, in diversa maniera, sottolineino quest’elemento del cattivo comportamento, ponendo in rap­ porto la tragedia con la riflessione sulla giustizia. Eschilo chia­ ramente ritiene che i danni arrecati dal circolo vizioso della vendetta non siano del tutto necessari: molta inutile sofferenza può essere evitata da un ordine politico giusto. Euripide mo­ stra continuamente la malvagità e la follia degli esseri umani in tempi di guerra. Le sofferenze descritte nelle Troiane non sono - nessuna di esse - il prodotto della necessità, o qualcosa di intrinseco alla natura del valore umano. Nascono dalla fol­ lia e dall’avidità; anche gli dei sono corresponsabili, perché volutamente consentono che cose simili accadano. Scrivendo per un pubblico di imperialisti, che conducevano una guerra di aggressione, e che avevano, in prima persona, una reale possibilità di scelta su come trattare gli esseri vulnerabili al loro agire, Euripide non consiglia di certo la rassegnazione. Raccomanda la rabbia, nei confronti di chiunque si comporti come i Greci nelle Troiane, ed una vigile azione che garantisca che cose simili non avvengano. Persino Sofocle, i cui drammi più spesso si incentrano su tragedie che nemmeno la saggezza e la bontà avrebbero potuto evitare (la piaga di Filottete, il parricidio di Edipo), attira l’attenzione, al contempo, su molte malvagità evitabili. Neottolemo può scegliere se aiutare Fi­ lottete o approfittare di lui. Ancor prima, i Greci potevano scegliere se aiutare Filottete o abbandonarlo. Antigone e Creone possono scegliere come concepire il rapporto tra stato e famiglia (scelta che l’Atene periclea compie in modo diffe­ rente). Non dobbiamo confondere la religione greca con quella giudaico-cristiana, nella quale è generalmente vero che le azio­ ni di Dio debbono essere accettate come il misterioso operare di un ordine fondamentalmente morale. Giobbe ha ragione quando rinuncia al suo tentativo di accusare Dio di fargli tor­ to, ed accetta l’imperscrutabile mistero delle sue azioni. Nel mondo greco, al contrario, la moralità delle azioni degli dei è regolarmente contestata, e spesso si insinua che essi manchino di piena consapevolezza e di sensibilità alle norme morali, non trovandosi in quella posizione di bisogno e incompletezza che ne fa nascere la necessità. Aristotele porta questa prospettiva all’estremo, negando del tutto agli dei le virtù morali. Dato che è ridicolo immaginare degli dei che facciano contratti e

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restituiscano depositi, non si può dire che essi conoscano la giustizia. Se i poeti tragici non si spingono così lontano, c’è tuttavia una tendenza, a partire da Omero, a descrivere gli dei come insensibili ed egoisti nei loro rapporti con i mortali. Ma questo significa che anche le tragedie che sono causate dagli intrighi degli dei scaturiscono da ottusità, pigrizia e fallimento morale, non da una misteriosa necessità. Possiamo ora occuparci di Bernard Williams, e della sua densa riflessione su quel che la filosofia contemporanea può imparare dalla tragedia. Shamc and Necessity di Williams è un libro importante. Esso contiene molte argomentazioni mira­ bilmente lucide contro diverse forme di interpretazione «pro­ gressista» del pensiero greco. Williams mostra convincente­ mente, ad esempio, che la ricorrente accusa che ai Greci man­ casse la consapevolezza della deliberazione e della scelta, e che avessero una concezione rudimentale dell’agire, non regge ad un esame ravvicinato dei testi. Egli argomenta correttamente, mi sembra, anche quando contesta il fatto che i Greci avessero una «cultura della vergogna» nel senso spesso ipotiz­ zato, ovvero una cultura del tutto incentrata sulla valutazione esterna e sul riconoscimento. La concezione greca della vergo­ gna, egli sostiene, abbraccia molto dello specifico carattere etico, ed anche dell’interiorità, del moderno concetto di colpa. Ed infine egli sottolinea in modo molto convincente che, nel pensiero dei poeti, siamo di fronte ad una visione del mondo sulla quale faremmo bene a riflettere seriamente: un mondo nel quale le nostre prospettive non sono del tutto sotto il controllo della ragione, e nel quale siamo esposti in gran misu­ ra alla fortuna. Concordo pienamente con tutte queste affer­ mazioni. Alcuni indizi, nel libro, mostrano che le nostre posizioni su questi temi non sono identiche: il rifiuto di Aristotele da parte di Williams, ad esempio, suggerisce che egli lo consideri più di me distante dai poeti tragici; e questo può scaturire da una diversa interpretazione dei poeti, come da una diversa interpretazione di Aristotele. Ma il problema si mostra con ben maggiore nitidezza in un articolo pubblicato dopo il libro, che offre un’intensa interpretazione di una singola tragedia, legata ad una discussione generale sull’importanza della trage­ dia per il pensiero etico contemporaneo. Mi concentrerò quindi su questo saggio, e sulle differenze che esso rivela tra le conce-

in t r o d u z io n i ; a l l a n u o v a e d iz io n e

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zioni di Williams e le mie sul tema della fortuna 56. Se mi concentro qui sulle differenze, ciò non deve offuscare la gran­ dissima ammirazione che ho per l’impegno di Williams nel pensiero greco, come per il suo lavoro filosofico complessivo. Williams comincia la sua discussione sostenendo che la filosofia morale in genere è associata al progetto di portarci delle «buone notizie» sulla nostra condizione - o nella forma delle grandi narrazioni progressive alla Hegel, o della teodicea leibniziana. Anche il mero fatto kantiano della buona volontà è in sé una buona notizia. Le «narrazioni forti», fra cui le tragedie greche hanno un ruolo preminente, ci portano ad affrontare gli «orrori» che appartengono alla vita umana. In questo modo, esse «forniscono una necessaria integrazione ed una opportuna limitazione all’incessante aspirazione della filosofia morale a rendere il mondo sicuro per la gente bendisposta». Mostrando ci uno spazio eticamente rilevante sul quale gli agenti umani non hanno controllo, esse ci chiedono, in effetti, di lasciare questo spazio alla natura, al fato e agli dei capricciosi. Ora, naturalmente, non intendo negare che alcune trage­ die abbiano talvolta questo significato. Ma credo che la con­ cezione di Williams sia troppo semplicistica, come la sua vi­ sione di quel che costituisce le «buone» e le «cattive» notizie. Consideriamo la conclusione delle Trachinie di Sofocle, che è l’argomento di Williams. Il piano di Deianira di far bere al marito una pozione amorosa è fallito, nonostante le buone intenzioni, a causa della malignità del centauro. Non l’amore coglie Eracle, ma una terribile agonia. Vedendolo soffrire, il figlio Ilio chiede suggnomosune, comprensione agli astanti (gli spettatori), contrapponendo questa «simpatia» all’insensi­ bilità degli dei. Il famoso brano conclusivo viene posto ad esergo da Williams: Sollevatelo, compagni, e concedetemi piena indulgenza per ciò che faccio, nella consapevolezza che in tutti gli eventi che qui si stanno compiendo grande è l’insensibilità degli dei. Essi generano figli, si fanno chiamare padri, e stanno a guardare dall’alto tali sofferenze. Nessuno, certo, sa scorgere nel futuro; ma il presente è per noi pianto, per essi disonore, e peso incomparabilmente atroce per colui che soggiace a questa disgrazia. Non rimanere nemmeno tu lontana dalla casa, fanciulla, tu che sei stata testimone delle recenti terribili morti e di molte inaudite sciagure. Nulla c’è in questo che Zeus non abbia voluto57.

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Williams vede in queste righe un vero e proprio riconosci­ mento degli inevitabili limiti dei progetti umani. Ilio riconosce che l’universo è fondamentalmente ingiusto ed arbitrario, e che non c’è niente che si possa fare per contrastare questa realtà. In questo senso la tragedia, una «narrazione forte», ci pone direttamente di fronte agli «orrori» e ci mette in guardia dall’accettare «buone notizie» dai filosofi. Ma ci sono due problemi, in un’interpretazione del genere. In primo luogo, essa ignora la misura in cui il giudizio morale umano viene apprezzato e rivendicato anche di fronte alla catastrofe: la pietà e la simpatia della comunità umana hanno una nobiltà che, nei termini di Aristotele, «riluce» 58 nonostante l’orrore, contrastando positivamente con l’indifferenza degli dei. Non è esattamente lo stesso discorso di Kant sulle buone notizie e su come l’integrità morale del buono venga assediata dagli «acci­ denti della maligna natura», ma è certo più vicino a Kant di quanto Williams riconosca 59. In secondo luogo, la lettura di Williams non tiene abba­ stanza in considerazione, credo, la rabbia contenuta nel di­ scorso di Ilio. Williams non raccomanda esattamente la rasse­ gnazione alla necessità tragica; ma è alquanto difficile com­ prendere quale altro atteggiamento morale possa suggerire la sua prospettiva. La rassegnazione alla necessità tragica, tut­ tavia, non è certamente ciò che viene espresso dalle parole megalen theon agnomosunen, «grande è l’insensibilità degli dei», e tanto meno dalla caratterizzazione degli dei come genitori che stanno lì indifferenti mentre terribili eventi vengono rive­ lati. E alquanto ovvio che la famiglia greca avrebbe considera­ to estremamente reprensibile la condotta di un padre che avesse permesso, potendo fermarle, che cose del genere accadessero ai suoi figli. Una condotta del genere è davvero «vergognosa» e, come ha sostenuto Williams, la vergogna nel mondo greco è compatibile con le reazioni morali di indignazione e biasi­ mo 60. Dobbiamo prendere molto sul serio l’idea che gli dei sono agenti antropomorfi, simili agli umani ma molto più po­ tenti. Per esseri del genere, aver consentito tale catastrofe è altamente colpevole, specialmente quando pretendono di es­ sere genitori amorevoli. Un mondo del genere non sarebbe dovuto esistere; essi hanno permesso che esistesse. Pensate ad un osservatore indiano, che assiste allo scempio dopo il massacro di migliaia di civili innocenti ad Amritsar da

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parte del generale Dyer. Avrebbe ben potuto pronunciare un tale discorso, concludendolo con le parole: «nulla c’è in que­ sto che il Raja non abbia voluto». In altri termini, come osano questi potenti presentarsi pretendendo di essere nostri supe­ riori e genitori, e poi condursi in questi modi vergognosi e malvagi?61 Dato che i Greci vedevano i loro dei come agenti antropomorfici, e nemmeno moralmente perfetti, le domande sulla giustizia delle loro azioni erano domande autentiche, e non era inappropriato porle - o, se qualcuno pensava lo fosse (come Platone), si continuava comunque a farlo. (Immaginate come sarebbe scioccante assistere ad un dramma che rappre­ sentasse le azioni di Gesù come «vergognose» e insensibil­ mente ottuse, e capirete qualcosa della differenza tra la pro­ spettiva cristiana e quella greca.) Il dramma non ci dice che queste cose debbono accadere; ancor meno ci dice (come avreb­ be fatto, probabilmente, un testo ebraico-cristiano) che tutto ciò che è accaduto è giusto e buono, anche se non siamo in grado di comprendere la giustizia e la bontà divine. Ci dice l’opposto, e quindi biasima le scelte degli dei. E notate come si è trasformato, a questo punto, il tema delle buone e cattive notizie. La notizia che la sofferenza a cui assistiamo è il prodotto di una necessità remota, inconoscibile, implacabile, priva di intelligenza, sarebbe, in un certo senso, una cattiva notizia: perché significherebbe che ciò che è acca­ duto doveva accadere, e che cose simili continueranno ad ac­ cadere. Da una tale necessità non possiamo liberarci. Questo è quel che intende Williams, affermando che questa notizia è un correttivo alle proposte eccessivamente ottimistiche di «buone notizie». Ma credo ci sia un altro senso per cui questo tipo di notizia è buono: essa significa, infatti, che non c’è nessuno da biasimare e niente più da fare. Possiamo sederci, e rassegnarci al mondo così com’è, sapendo che non possiamo cambiarlo. Ma se pensiamo che dietro le sofferenze cui assistiamo possano esserci malvagità, ignoranza, insensibilità, bene, que­ sto in un certo qual senso è una buona notizia: perché signifi­ ca che c’è una speranza di cambiamento. Ma in un altro senso è una cattiva notizia: perché significa che la sofferenza era forse non-necessaria, e che se avessimo lavorato duro o pensa­ to meglio avremmo potuto prevenirla. Significa, in ultima ana­ lisi, che faremmo meglio a unirci per fare qualsiasi cosa in nostro potere per evitare cose simili nel futuro. Per Gandhi e

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Nehru e milioni di altri, il pieno riconoscimento del fatto che le sofferenze dell’India non erano necessarie comportò un im­ pegno politico e anni di dolore e di rischio, per sradicare la tirannia di questo mostruoso gruppo di «genitori» 62. Nel caso in cui la disparità di potere tra vittime e perpetratori sia anche maggiore, come tra mortali e dei (perché, dopo tutto, il gover­ no colonialista britannico non era Zeus, anche se qualche vol­ ta credeva di esserlo), non è molto chiaro che cosa si possa fare. Si tenta col negare loro la venerazione, sia nella tragedia (alla fine delle Troiane), che nella commedia (Gli uccelli)-, a parte questo, irate richieste di riconoscimento e di riparazione debbono essere avanzate ancora ed ancora. Anche se gli dei sono relativamente ottusi, non sono del tutto sordi alle accuse umane. Dato che la loro ottusità spesso sembra nascere non da una profonda malvagità ma da una reale mancanza di com­ prensione di ciò che gli esseri umani sperimentano, chiarire loro i costi delle loro azioni è un espediente che offre almeno qualche speranza. Ma certo nel caso, molto comune nella tragedia, nel quale i perpetratori sono, come il generale Dyer, umani, la conse­ guenza del riconoscimento del crimine come fonte della trage­ dia è chiara: il testimone deve opporsi a questo male a qualsia­ si costo, e denunciarlo ad altri. Un modo per farlo è scrivere un dramma che riveli il male a tutti i cittadini di una democra­ zia. E i drammi tragici frequentemente alludono alla propria capacità di riconoscere la sofferenza dei paria, favorendo una più adeguata concezione etica. La piaga purulenta sul piede di Filottete fa sì che i suoi comandanti lo evitino, e neghino così semplicemente la sofferenza che il loro comportamento per­ petua. Il dramma, al contrario, allude costantemente alla pro­ pria determinazione di vedere la sua sofferenza, e di giudicar­ la, associando questa attività dell’immaginazione alla finalità dell’azione morale appropriata 63. Dato che azioni del genere sono molto più difficili che contemplare gli orrori dell’esisten­ za, la notizia che il male e non la necessità sta alla base della sofferenza è una cattiva notizia. Per Neottolemo, la consape­ volezza che può decidere di agire con giustizia è penosa come la fitta di FÜottete: egli usa la stessa parola, papai, per espri­ mere il dolore del riconoscere la propria capacità d’agire 64. Credo che le «narrazioni forti» dei Greci sfidino il loro pubblico proprio a queste difficili riflessioni sulle cause delle

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catastrofi: la causa è un’immutabile necessità, o è dovuta alla malvagità e alla follia? Dove dovremmo segnare il confine tra l'una e le altre? Guadagniamo in comprensione dal modo sot­ tile e spesso vago in cui le tragedie pongono questa domanda, dal modo in cui ci sfidano a confrontarci con il ruolo dell’agi­ le riprovevole anche in qualcosa che sembra naturale come il respiro 63. Non dobbiamo mai dimenticare che le tragedie era­ no veicoli di deliberazione politica e di riflessione durante sacre festività civiche - in una città che manteneva il proprio impero come una «tirannide» e uccideva innumerevoli inno­ centi. Per quel pubblico, la tragedia non portava la buona notizia della rassegnazione; portava la cattiva notizia dell’auto­ coscienza e del cambiamento. (Nel 425 a.C., l’anno in cui fu scritto Le Troiane, gli ateniesi uccisero tutti i cittadini maschi della colonia ribelle di Melo, e ridussero in schiavitù donne e bambini.) In breve, invece di abbandonare quella parte dello spazio etico in cui avvengono le catastrofi all’implacabile necessità del fato, le tragedie, ritengo, sfidano il proprio pubblico ad abitarlo attivamente, come il luogo disputato della lotta mora­ le, un luogo nel quale è possibile che la virtù prevalga, in certi casi, sui capricci del potere amorale, e nel quale, anche se non prevale, ancora «riluce» per se stessa 6ù. Nel nostro mondo contemporaneo, nel quale possiamo correttamente presumere che la fame e molte delle altre mise­ rie cui assistiamo siano prevalentemente il prodotto della col­ pevole negligenza da parte dei potenti, la rassegnazione meta­ fisica 67 sarebbe, ancora una volta, una relativa buona notizia, liberando i potenti dalle loro responsabilità. Ma la vera notizia della tragedia greca, per noi, per gli ateniesi, è ben peggiore di questa: perché la cattiva notizia è che siamo colpevoli, come Zeus nelle Trachinie, come i generali greci delle Troiane, come Odisseo nel Tilottete, come molti altri dei e mortali in molti altri tempi e luoghi - se non e fino a quando non ci liberere­ mo della nostra pigrizia, della nostra ambizione egoistica e della nostra ottusità, e ci chiederemo come i danni a cui assi­ stiamo avrebbero potuto essere evitati. Come Filottete sapeva, pietà significa azione: intervento a favore di chi soffre, anche se è difficile e disgustoso 68. Se lasciate da parte l’azione, siete degli ignobili vigliacchi, forse anche degli ipocriti, e dei bu­ giardi. Se aiutate, avrete fatto qualcosa di bello.

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Sono molto grata a John Deigh, Michael Green, Andrei Koppelman, Charles Larmore, Michelle Mason, Richard Posner, Henry Ri­ chardson, David Sedley, David Strauss, Cass Sunstein e Bernard Williams per i loro preziosi commenti su una prima bozza di que­ st’introduzione. Il libro aveva già una dedica; dedico quindi questa introduzione al mio amico e maestro Bernard Williams, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, il cui affascinante lavoro sulla fortuna ha ispirato, e continua ad ispirare, le mie riflessioni su questi argomenti.

M.C.N.

Note all’introduzione alla nuova edizione 1 Non intendo escludere altre culture filosofiche: semplicemente non so dire se questo revival si verifichi anche altrove. So che la filosofia morale peruviana condivide l’interesse per l’etica della virtù che vado a descrivere; l’importante rivista «Arete» ne ha fatto una delle sue tematiche centrali. 2 Qui, come nel testo, adopero il termine «fortuna» per designare ciò che i Greci chiamavano tyche, ovvero gli eventi sui quali gli esseri umani non hanno controllo; non ha il senso di casualità, né implica una particolare concezione della causalità. Vedi cap. I, pp. 48-49 e cap. IV, nota p. 198. 3 L ’immagine è di Aristotele, vedi Etica Nicomachea, 1101 a 9 (in Ari­ stotele, Opere, voi. 7, Roma-Bari, Laterza, 1988). 3 Intraprendo quest’analisi, per alcuni aspetti, in Terapia del desiderio, uscito nel 1994 (trad. it. Milano, Vita e Pensiero, 1998), volume che si accompagna alla Fragilità del bene. 5 Ritengo tuttavia che non abbia mantenuto questa posizione per tutta la vita: il Fedro in particolare segna un mutamento di direzione, anche se molto sfumato. 6 Tra le concezioni a cui qui faccio riferimento, le più significative sono quelle di B. Williams, in L'etica e i limiti della filosofia, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1987, e Shame and Necessity (Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1993); e di A. Maclntyre, in Dopo la virtù, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1988, e Giustizia e razionalità, Milano, Anabasi, 1987. Per una discussione dei contenuti di Williams, vedi M.C. Nussbaum, Aristotle on Fluman Nature and thè Foundation of Ethics, in World, Mind and Ethics: Essays on thè Philosophy of Bernard Williams, a cura di J.E.J. Altham e R. Harrison, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 86-131; Wby Practice Needs Ethical Theory: Particularism, Principle, and Bad Behaviour, in «The Path of thè Law» and Its Influence: The Legacy of Oliver Wendell Holmes, Jr., a cura di S.J. Burton, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 50-86; Virtue Ethics: A Misleading Category?, in «The Journal of Ethics», 3 (1999), pp. 163-201; gli ultimi due articoli prendono anche in esame lavori attinenti di A. Baier e C. Diamond. Per una mia recensione

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critica di Giustizia e razionalità di Maclntyre, vedi la «New York Review of Books», 7 dicembre 1989. Nel quarto paragrafo argomenterò che la dif­ ferenza tra Maclntyre e Williams è molto significativa: Maclntyre è sia anti­ teoria (in un certo senso) che anti-ragione; Williams, se da un lato rigetta la teoria etica, difende l’idea illuministica (e socratica) di una cultura pub­ blica critica. 7 Soprattutto in Terapia del desiderio, ma gli stoici giocano un ruolo centrale anche in M.C. Nussbaum, Liiwyer for Humanity: Tbcory and Prac­ tice in Ancient Politicai Thought, in «Nomos», 37 (1995), pp. 181-215; «Eros» and thè Wise: The Stoics Response to a Cultural Dilemma, in «Oxford in Ancient Philosophy», 13 (1995), pp. 231-267 (ora, in forma rivista, in The Sleep of Reason: Erotic Expérience and Sexual Ethics in Ancient Grcece and Rome, a cura di M.C. Nussbaum e J. Sihvola, Chicago, The University of Chicago Press, 2002); Kant and thè Stoic Cosmopolitanism, in «Journal of Politicai Philosophy», 5 (1997), pp. 1-25, anche in Perpetuai Peace, Cambridge, MA, The Mit Press, 1997, pp. 269-374; For Love of Country: Dehating on Patriotism and Cosmopolitanism, saggio iniziale mio, con repli­ che e contro-repliche, Boston, Beacon Press, 1996; Politicai Animais: Luck, Love and Dignity, in «Metaphilosophy», 29 (1998), pp. 273-287; Duties of Justice, Duties of Material Aid: Cicero s Prohlemalic Legacy, in «Journal of Politicai Philosophy», 7 (1999), pp. 1-31; Four Paradigms of Philosophical Politics, in «The Monist», 83 (2000), pp. 465-490; Why Practice Needs Ethical Theory, cit.; L'intelligenza delle emozioni, trad. it. Bologna, Il Mu­ lino, 2004. 8 Lo scopo dell intelligenza delle emozioni è quello di elaborare una tale concezione. 9 Per un esempio, vedi la mia discussione della critica stoica dellYrar in «Eros» and thè Wise, cit.; quest’articolo contiene alcune modifiche della mia lettura del Fedro platonico nella Fragilità del bene (cap. VII). La fon­ damentale modifica sta nel collocare più rigorosamente l’argomentazione nel suo contesto sociale c storico. 10 Per la mia analisi della differenza, vedi Terapia del desiderio, cit., capp. 3 e 10. 11 Vedi Kant and thè Stoic Cosmopolitanism, cit., e per alcune implica­ zioni giuridiche contemporanee, M.C. Nussbaum, con D. Kahan, Lwo Conceptions of Emotion in Criminal Law, in «Columbia Law Review», 96 (1996), pp. 269-374. 12 Per J. Maritain vedi, tra l’altro, I diritti dell’uomo e la legge naturale, trad. it. Milano, Vita e Pensiero, 1977, e L’uomo e lo stato, trad. it. Milano, Vita e Pensiero, 1982; per J. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, trad. it. Torino, Giappichelli, 1996, che cita e sviluppa le opere di Grisez, che sono in genere meno note; per Maclntyre, vedi la precedente nota 6; una buona ricostruzione dell’influsso dei Manoscritti economico-filosofici marxia­ ni sul successivo marxismo umanista è in D.A. Cracker, Praxis and Démo­ cratie Socialism, New Jersey, Humanities Press, 1983; per Green, vedi T.H. Green, Prolegomena to Ethics, Oxford, Clarendon Press, 1980, e Lectures on Politicai Obligation, London, Longmans, rist. 1941. Le parti più perti­ nenti della copiosa produzione di E. Barker si trovano in The Politicai

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Thought of Plato and Aristotle, London, Methuen, 1906, ricco di osser­ vazioni sul rapporto tra la sua posizione filosofica (e quella di Green) e i Greci. 13 Per un’ulteriore discussione di questa varietà e delle sue fonti testuali, vedi Aristotle, Politics, and Human Capabilities: A Response to Antony, Arnerson, Charlesivorth and Mulgan, in «Ethics», 111 (2000), pp. 102-140. 14 L ’ultima e più elaborata formulazione di questa concezione è nel mio Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2001, che contiene anche una lista completa dei lavori precedenti che ad essa conducono. 15 Anche in questo caso, non elenco le pubblicazioni di Sen, che si possono trovare in Diventare persone, cit. 16 Per un’ulteriore discussione di questo punto, vedi Diventare persone, cit., e Aristotle, Politics, and Human Capabilities, cit. 17 L ’espressione è stata introdotta da Charles Larmore: vedi il suo Po­ liticai Liberalism, in The Morals of Modernity, New York, Cambridge Uni­ versity Press, 1996. Vedi anche il suo Le strutture della complessità morale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1990. Il concetto è ulteriormente sviluppato da lohn Rawls in Liberalismo politico, trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 1994. 18 Per quel che concerne l’irrilevanza politica della differenza di gene­ re, e il bisogno di criticare le norme sociali relative ad esso, è Platone, ovviamente, ad indicare la strada. 19 Naturalmente essi pensavano che esistesse una grande differenza tra virtù ed assenza di virtù; e tuttavia parevano ritenere che la presenza stessa dei requisiti di base necessari alla virtù fosse degna di rispetto. E, dato che pensavano che nessun essere vivente fosse realmente virtuoso (perlomeno dall’epoca dei grandi fondatori della scuola), il riconoscimento di questo iato non conduceva al riconoscimento di due classi di valore distinte, che sarebbero invece esistite, forse, se il presupposto fosse stato diverso. 20 Non sempre concludevano, a partire dalle loro argomentazioni, che le condizioni politiche necessitassero di un mutamento radicale, perché fa­ cevano l’errore di pensare che i «beni esterni» fossero irrilevanti per l'uma­ no prosperare: vedi la discussione seguente. 21 Anche se Cicerone è spesso molto critico nei confronti delle posizio­ ni stoiche, in Dei doveri sviluppa una posizione stoica sostanzialmente or­ todossa, pur se mediata dalla «media-stoa» di Panezio. 22 Sostengo questa posizione in Duties of Justice, Duties of Material Aid, cit. 23 Vedi il citato Aristotle, Politics, and Human Capabilities, per i rife­ rimenti alle discussioni precedenti; in esso concordo con la critica ad Ari­ stotele fatta da Green e, in particolare, da Barker. 24 Cicerone associava la sua difesa della repubblica ad ideali stoici. Sia Seneca che Lucano persero la vita nella cospirazione di Pisone contro l’im­ peratore Nerone. Thrasea Paetus, un altro storico del primo secolo d.C.,

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perse anche lui la vita in una cospirazione stoica anti-imperiale. Anche se Pimperatore-filosofo Marco Aurelio in realtà non preferì la restaurazione della repubblica all’ascesa al potere del malvagio e violento figlio Commo­ do, come accade invece nel film II Gladiatore (2000), ciò sarebbe stato molto più coerente con i suoi principi stoici. 25 Come ad esempio nella famosa discussione del problema di Constant. 26 Questo è complicato, dato che gli stoici sono fisicalisti; ma pare che concepiscano la persona in modo che sia possibile per un essere razionale (Zeus) aver dignità senza bisogni. 27 Vedi R. Sorabji, Animai Minds and Human Morals, Ithaca, Cornell University Press, 1993. Sorabji considera gli stoici responsabili della nostra moderna tendenza a separare nettamente gli esseri umani dagli altri ani­ mali; ma di certo anche le concezioni ebraico-cristiane meritano parte del biasimo. 28 Su tutto ciò, vedi II futuro del liberalismo femminista, in Diventare persone, cit., pp. 105-149. 29 La «comune spiegazione» fu il tema del mio primo libro, Aristotle's De Motu Animaltum, Princeton, Princeton University Press, 1978. 50 Aristotele, Parti degli animali, I (A) 5 , 645 a 15-16, in Aristotele, Opere, voi. 5, Roma-Bari, Laterza, 1990. 51 I problemi etici e politici cui mi riferisco non sono stati risolti dallo stesso Aristotele, che non trasferisce il suo profondo rispetto per gli animali nella sfera politica, ma al contrario giunge a considerare gli animali come finalizzati all’uso dell’uomo. 52 Vedi Virtue Ethics, cit., per un’analisi più dettagliata di tutto il ma­ teriale di questo paragrafo, e per una discussione più approfondita della posizione dei diversi pensatori e dei riferimenti alle loro opere maggiori. Questa osservazione era stata già fatta da Bernard Williams, ad esempio, nel suo articolo in Pbilosophy: A Guide tbrough thè Subject, a cura di A.C. Grayling, Oxford, Oxford University Press, 1994, p. 551. 33 Vedi, ad esempio, David Wiggins, Deliberation and Practical Reason, in Essays on Aristotle’s Ethics, a cura di A. Rorty, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1980, pp. 221-240; e Henry Richardson, Practical Reasoning about Final Ends, Cambridge, Cambridge University Press, 1994. 34 Naturalmente si dovrebbe dire molto di più su chi sia l’obiettivo della critica, e se questa sia giusta. Gli obiettivi fondamentali sia di David Wiggins che di Henry Richardson sono quelle forme semplificate di uti­ litarismo che troviamo nella teoria economica contemporanea; contro que­ ste forme, l’attacco sembra del tutto corretto. In un ampio dibattito con Sidgwick, Richardson argomenta che Sidgwick non ha fatto le affermazioni che lui contesta per ottusità: aveva scopi teoretici per molti versi lodevoli; e così ogni teoria che contesti la sua deve dimostrare di giungere a questi scopi per altra via. Quanto a Mill, molti aristotelici anti-utilitaristi lo con­ sidererebbero una figura ibrida, nominalmente un utilitarista, ma fonda­ mentalmente un eudaimonista aristotelico.

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35 Come propone, ad esempio, il lavoro molto interessante di Nancy Sherman, Making a Necessity nfVirtue: Aristotle and Kant on Virtue, Cam­ bridge, Cambridge University Press, 1997. 36 In Virine Ethics, cit., esamino il rapporto di questo gruppo con John McDowell e Bernard Williams, le cui idee sono troppo complesse per essere ridotte a categorie semplici. Non mi è chiaro in che misura Wiggins accet­ terebbe la definizione di «teoria etica» per quel che fa e vorrebbe veder fatto; Richardson chiaramente abbraccia tale definizione. 3' Ma, ancora una volta, le concezioni di Williams sono troppo com­ plesse per essere adeguatamente colte attraverso quest’etichetta: vedi Virtue Ethics, cit.; Simon Blackburn, uno dei più eminenti neo-humiani, distingue l’approccio dell’etica della virtù dal proprio, anche se ciò che sostiene è per molti versi analogo a ciò che altri sostengono appellandosi all’etica della virtù: vedi la mia discussione in Virtue Ethics. 38 Per la mia risposta a queste accuse, vedi Aristotle on Human Nature, cit. e, nello stesso volume, la replica di Williams. 39 Molto affini, io credo, sono le concezioni di Cora Diamond, che si concentra sul ruolo critico dell’immaginazione, ma che, come Williams, associa lo scetticismo sulle teorie ad un forte interesse per il ragionamento etico critico. Vedi M.C. Nussbaum, Literature and Ethical Theory: Allies or Antagonists?, in «Yale Journal of Ethics», autunno 2000, per un’ampia di­ scussione del mio rapporto con le posizioni della Diamond. 40 Nel citato Virtue Ethics, prendo in esame anche altri autori, che non posso adeguatamente trattare in questa sede, come Philippa Foot e Simon Blackburn. 41 Le mie differenze con Williams si sono molto attenuate, dato che egli sostiene ora che la teoria è valida nella vita politica e nel diritto; intende attaccare solo la teoria applicata all’etica. 42 Etica Nicomachea, 1109 b 23-24 (trad. it. cit.). 43 Parte della difficoltà, a questo punto, sta nel fatto che alcuni anti­ teorici assumono obiettivi mediocri e troppo semplici. C ’è un qualche emi­ nente teorico dell’etica che creda, ad esempio, che una teoria sia sempli­ cemente un sistema di norme? 44 Vedi M.C. Nussbaum, Love’s Knowledge: Essays on Philosophy and Literature, New York, Oxford University Press, 1990 per la discussione del ruolo della letteratura per coltivare la sensibilità; sulla Diamond, vedi Li­ terature and Ethical Theory, cit. 45 Why Practice Needs Ethical Theory, cit. 46 Per le diverse modalità di tale raccomandazione, vedi Lawyer for Humanity, cit., e Four Paradigms of Philosophical Politics, cit. 4' Vedi M.C. Nussbaum, Coltivare l'umanità: i classici, il multiculturali­ smo, l’educazione contemporanea, trad. it. Roma, Carocci, 1999, cap. 1, dove argomento a favore di un esame di filosofia per tutti gli studenti universitari. 48 Sia in Love’s Knowledge, cit., che in Diventare persone, cit., confron­ to questo processo con la teoria rawlsiana del ragionamento finalizzato al­ l’equilibrio riflessivo.

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49 Per uno sviluppo di questa tesi, vedi Why Practice Needs Ethtcal Theory, cit. 50 Su questo tema vedi Trascending Humanìty, in Love’s Knowledge, cit. 51 Questo tema è stato ora ben sviluppato da M. Stocker in Plural and Conflicting Values, Oxford, Clarendon, 1992. Vedi M.C. Nussbaum, The Costs of Tragedy: Some Moral Limits of Costs-Benefits Analysis, in «The Journal of Legai Studies», 129 (2000), pp. 1005-1036. 52 Su quest’aspetto della tragedia, vedi M.C. Nussbaum, Euripides’ «Bacchae»: Introduction, New York, Farrar, Straus e Giroud, 1990, pp. vii-xliv. 53 Vedi Politicai Animais, cit. ,4 Dei doveri, I, 28-30 (trad. it. Milano, Mondadori, 1994). 55 Come faccio in The Costs of Tragedy, cit. 56 B. Williams, The Women ofTrachis: Fictions, Pessimism, Ethics, in The Greeks and Us, Chicago, The University of Chicago Press, 1966, pp. 43 -53. 57 Sofocle, Trachinie, 1264-1274 (in Sofocle, Trachinie, Filottete, a cura di M.S. Mirto, Milano, Rizzoli, 1990). 58 Etica Nicomachea, 1100 b 30-33. Dopo aver osservato che grandi sventure possono opprimere e «inquinare» il prosperare della persona ar­ recandole dolore e ostacolandone l’attività, continua: «Tuttavia anche in ciò riluce la nobiltà (dialampei to kalon) allorché si sopportano molte e gravi sventure, non per insensibilità, bensì per generosità e grandezza d’animo» (trad. it. cit.). 59 Williams non sostiene mai che tutte le tragedie greche sopravvissute siano «narrazioni forti» in questo senso, né mai ha desiderato farlo. Egli sottolinea che anche la nobiltà, la comprensione e l’amicizia sono celebrate nelle tragedie, anche se si oppone all’assimilazione di questo materiale alla concezione kantiana, «se non nella misura in cui Kant ammette molte rea­ zioni che la sua teoria non consente» (quest’osservazione è di Williams, corrispondenza privata). 60 Vedi Williams, Shame and Necessity, cit., 90. 61 Nella sua Autobiografia, Nehru descrive un incontro con il generale Dyer su un treno, nel 1919. Inosservato, occupa la cuccetta superiore libera di uno scompartimento affollato, e ascolta la conversazione di un gruppo di ufficiali britannici: «Uno di loro stava pontificando, in tono aggressivo e trionfante, e presto scoprii che si trattava di Dyer, l’eroe di Jallianwala Bagh, e che stava descrivendo le sue esperienze ad Amritsar. Raccontò come avesse l’intera città alla sua mercé, e come avesse avuto l’impulso di ridurre la città ribelle ad un mucchio di cenere, ma avesse avuto pietà e si fosse fermato... Rimasi scioccato nell’ascoltare la sua conversazione e nell’osservare il suo atteggiamento insensibile. Scese alla stazione di Delhi, indossan­ do un pigiama a righe rosa brillante e una vestaglia». Se quest’ultimo tocco appartiene più ad Aristofane (Poséidon alla fine degli Uccelli ci si avvicina), il resto quadra bene con Euripide. In effetti il discorso di Dyer potrebbe esser stato tratto dal dialogo tra gli dei che apre Le Troiane (ancora una volta: pensate ad un dramma che rappresenti Gesù con un pigiama a righe rosa e coglierete la grande differenza tra la pietà greca e quella cristiana).

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62 Dopo che la commissione d’inchiesta scagionò Dyer, Gandhi affer­ mò che «la cooperazione in qualsiasi forma con questo governo satanico è peccaminosa». Vedi P. Speer, A llistory of India, vol. II, Delhi, Penguin, 1998, p. 191. 63 Vedi, per ulteriori sviluppi di quest’idea, M.C. Nussbaum, Invisibility and Récognition: Sophocle’s «Phtloctetes» and Ellison’s «Invisible Man», in «Philosophy and Literature», 12 (1999), pp. 157-183, in un confronto tra le strategie del Filottete e quelle dcìVUomo invisibile di Ralph Ellis (trad. it. Torino, Einaudi, 1993). 64 Per la struttura di questa scena, vedi Invisibility and Récognition, cit. 65 Per un’ulteriore discussione della comprensione come scopo della tragedia secondo Aristotele, che sviluppa l’analisi della Fragilità del bene, Intermezzo 2, vedi M.C. Nussbaum, Tragedy and Self-Sufficiency: Plato and Aristotle on Fear and Pity, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 10 (1992), pp. 107-160 (una versione ridotta appare in Essays on Aristotle’s Poetics, a cura di A. Rorty, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 261-290). 66 Nel suo notevole libro Life As We Know It (New York, Vintage, 1996), il teorico della letteratura Michael Bérubé descrive la vita di suo figlio Jamie, nato con la sindrome di Down. Dopo avere descritto a lungo sia le necessità biologiche, che l’ottusità istituzionale contro la quale lui e sua moglie Janet Lyon hanno dovuto combattere, non sapendo prima quale risultato avrebbero potuto ottenere, parla della tentazione di vedere la vita di Jamie come condannata: «Sappiamo che non possiamo essere d’aiuto, e allora perché darct pena? Sarebbe difficile immaginare un atteggiamento più irresponsabile nei confronti delle sue prospettive di vita». Questo momento del libro mi sembra richiamare il Filottete, e molto della tragedia greca in generale. 6' Ancora una volta, non sto suggerendo che Williams consigli la ras­ segnazione. Ma penso sia giusto dire che egli non pone l’accento, almeno nell’articolo in questione, sulla possibilità di miglioramento attraverso lo sforzo etico. 68 Vedi Ftlottete, 477-479, 500-506 (trad. it. in Trachinie, Filottete, cit.). I verbi eleeo e oiktiro, in questi brani, non significano soltanto «provare pietà per X», ma anche «aver pietà per X», nel senso di «far qualcosa per migliorare la situazione di X».

Martha C. Nussbaum

La fragilità del bene

Alcuni agognano l’oro, altri sterminati campi, io, caro ai miei cittadini, coprire il mio corpo di terra lodevoli imprese lodando, spargendo sui rei il vituperio. Ma cresce l’umana eccellenza, come si slancia la vite, da verdi rugiade nutrita, tra gli uomini saggi e tra i giusti levandosi all’etere liquido. Vario è il bisogno che hai dell’amico: supremo nei triboli; ma brama la gioia anche posare gli occhi su un uomo sicuro. Pindaro, Nemea Vili, 37-44 Questa bellezza [...] gli si rivelerà come essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bel­ lezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma ri­ mane intoccata [...]. Questo è il momento della vita — caro Socrate — continuava la forestiera di Mantinea — o mai più altro, degno di essere vissuto per l’uomo, quando contempli la bellezza in sé [...]. Forse credi che sia una vita da sciocco quella di un uomo che tenga lo sguardo su di lei e la contempli con il mezzo che le con­ viene e viva insieme a lei? O non pensi che solo qui, mi­ rando la bellezza per mezzo di ciò per cui è visibile, po­ trà produrre non simulacri di virtù, in quanto non è a contatto di un simulacro, ma virtù vera, perché è a con­ tatto col vero: e che avendo dato alla luce e coltivato vera virtù, potrà riuscire caro agli dei e, se mai altro uomo lo divenne, immortale? Platone, Simposio, 211 b-212 a so c r a te.

Cos’è dunque l’uomo? Non lo SO. Platone, Alcibiade primo, 129 e

ALCIBIADE.

Prefazione

Questo libro può essere letto in due modi. Ad eccezione della parte relativa ad Aristotele, ciascun capitolo si presenta come un saggio dedicato ad una singola opera, in modo da ri­ spettare la complessa struttura fìlosofico-letteraria di ciascuna composizione. Di conseguenza non offro una ricostruzione si­ stematica del pensiero morale del quinto secolo avanti Cristo, bensì presento un’interpretazione di singole tragedie (nel cap. II, di porzioni significative di due tragedie affini). Nel caso di Platone ho avanzato ipotesi sistematiche di ordine superiore solo con grande cautela (come nel cap. V) e ho tentato di con­ nettere i capitoli in modo generale solo dove ciò si accorda con i requisiti dell’interpretazione filosofico-letteraria dei singoli dialoghi. Credo che, di fronte alla complessità del materiale trattato, questo modo di procedere sia più adeguato di quanto non lo sia un approccio sistematico organizzato per argomenti. Ciascun capitolo, quindi, è relativamente autosufficiente; cia­ scuno di essi illumina a suo modo i problemi identificati nel ca­ pitolo I. Perciò i lettori possono sentirsi liberi di affrontare di­ rettamente quel capitolo o quei capitoli che sembrino più atti­ nenti ai loro interessi. Ma c’è anche un motivo storico di or­ dine generale, che riguarda lo sviluppo del pensiero greco sulle nostre questioni; questo, a sua volta, è strettamente legato ad un’argomentazione filosofica complessiva sui meriti delle varie proposte di esistenza autosufficiente. Poiché la struttura per opere da me scelta conferisce alle connessioni tematiche più la forma di un’eraclitea tela di ragno (vedi pp. 158-160) che quella di una rigida asta da misurazione, ho inserito delle guide per il lettore desideroso di seguire la discussione dei singoli temi attraverso il libro: la descrizione generale dell’argomenta­ zione nel capitolo I; i frequenti riferimenti incrociati all’interno dei capitoli.

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PREFAZIONE

La discussione di interpretazioni diverse, tutti i rinvii alla letteratura secondaria e alcune osservazioni filosofiche in mar­ gine sono stati collocati alla fine di ciascun capitolo. Le note con asterisco all’interno dei vari capitoli intendono fornire al lettore materiale d’importanza essenziale. Ringraziamenti Il mio primo lavoro di pianificazione di questo libro fu possibile grazie ad un periodo di congedo dalla Harvard Uni­ versity e a una Humanities Fellowship alla Princeton Univer­ sity nel 1977-1978. Nel 1979 una borsa di studio estiva del N a­ tional Endowment for thè Humanities sovvenzionò la prima fase del lavoro sulla sezione dedicata ad Aristotele. Una Guggenheim Fellowship mi permise di completare nel 1981 una prima versione del libro intero e il Bunting Institute del Radcliffe College offrì un ambiente di lavoro stimolante. Ho letto diverse parti di questo libro in molti luoghi; ho pubblicato parecchie sezioni separatamente e di altre ho distri­ buito copie dattiloscritte. Perciò devo ringraziare un numero straordinariamente grande di persone per le loro critiche e per i loro validi suggerimenti. Molti dei miei debiti particolari ven­ gono riconosciuti nelle note ai singoli capitoli. Qui vorrei rin­ graziare di cuore l’inestimabile assistenza di Julia Annas, Myles Burnyeat, Sissela Bok, Geoffrey Lloyd, Hugh Lloyd-Jones, Nancy Sherman, Gregory Vlastos e Bernard Williams, che les­ sero l’intero manoscritto in uno stadio prossimo alla conclu­ sione e molto generosamente mi fornirono i loro dettagliati commenti. Ho un debito meno definibile e più generale verso molte persone che con le loro conversazioni e i loro incoraggia­ menti hanno nutrito il mio lavoro nel corso degli anni — in modo particolare verso Stanley Cavell, Arnold Davidson, Ro­ bert Nozick, Hilary Putnam, David Wiggins, Susan Wolf e Ri­ chard Wollheim. L ’intero progetto nacque molti anni fa nella mia mente, ma si manifestò come possibilità concreta per la prima volta in un seminario sul Moral Luck tenuto da Bernard Williams ad Harvard nel 1972-1973. Le critiche di Williams e il suo stesso lavoro filosofico sono stati preziosissimi nella lunga elaborazione di questo materiale, anche dove ci troviamo in disaccordo. Desidero perciò ringraziarlo.

PREFAZIONE

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Ho portato a termine questo libro nel corso di un anno passato come Visiting Professor al Wellesley College. Sono molto grata a coloro che resero possibile questo soggiorno e al College per avermi fornito un’atmosfera serena e favorevole durante tale periodo di intenso lavoro; inoltre un Mellon Grant offerto dal medesimo College ha reso possibile la com­ pilazione della bibliografia in ordine alfabetico. Non ho scritto questo libro alla Brown University e, per­ ciò, non posso esprimere gli usuali ringraziamenti ai miei colle­ ghi. Tuttavia non posso omettere di testimoniare il mio ri­ spetto ed il mio affetto per i colleghi di filosofia e di studi clas­ sici. Il caloroso spirito collegiale che ho trovato qui, l’entusia­ smo di entrambi i dipartimenti per la filosofia antica e l’atmo­ sfera armoniosa e di rispetto reciproco nella quale i progetti re­ lativi alla mia materia sono stati discussi e sviluppati tra i due dipartimenti mi hanno convinta che questo è un luogo meravi­ glioso, nel quale fiorisce la ricerca sulla filosofia antica. Vorrei ringraziare in modo particolare i due direttori, Dan Brock e Kurt Raaflaub, per il calore e la gentilezza della loro acco­ glienza e per gli stimoli che mi sono derivati dalla loro conver­ sazione. I capitoli XI, XII, XIII e l’Intermezzo 2 sono stati presen­ tati nelle Eunice Belgum Lectures del St. Olaf College di Northfield, Minnesota, nel febbraio 1983. Eunice Belgum stu­ diò al St. Olaf e fu mia compagna di università ad Harvard al­ l’inizio degli anni Settanta. I suoi interessi filosofici include­ vano molti dei temi di questo libro: le concezioni greche della passione e dell’azione; la relazione tra fiducia ed autonomia; la relazione tra teorie filosofiche ed esempi letterari. Eunice morì suicida nel 1977 mentre insegnava al William and Mary Col­ lege. Parlando in sua memoria e discutendo con i suoi genitori del nesso che c’era tra l’argomento delle lezioni e i loro sforzi di comprendere la morte della figlia, cominciai a capire che a queste tematiche mi legava una relazione molto più complessa di quanto avessi mai creduto. Infatti, mentre scrivevo e tenevo le lezioni, mi resi conto di non essere completamente e passiva­ mente vulnerabile alla fortuna, ma di essere capace di attività autosufficiente. Mi sono chiesta se lo scrivere sulla bellezza della vulnerabilità umana non sia, paradossalmente, un modo per rendersi meno vulnerabili e per conquistare un maggior controllo sugli elementi incontrollabili dell’esistenza. Ai geni-

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tori di Eunice, Joe ed Ester Belgum, vorrei dedicare quei capi­ toli. Al lettore (e a me stessa) lascio una domanda: «Che azione etica è scrivere questo libro?». Essendo passato attraverso tante versioni in un periodo di tempo così lungo, questo libro ha beneficiato dell’abilità e delle cure di un gran numero di persone. Vorrei rendere un ca­ loroso ringraziamento a Cathy Charest, Peg Griffin, Lisa Lang, Susan Linder, Leslie Milne, Jan Scherer, Jane Trahan, Martha Yager, Paula Morgan, Russ Landau, Jeremy Mynott e Pauline Hire. M.C.N. Providence, Rhode Island Febbraio 1985 Alcune parti di questo libro sono già state pubblicate. Il capitolo II è apparso in «Ethics», 95 (1985), pp. 233-267; una sua versione abbreviata è stata pubblicata in H istoire et structure. A la mémoire de Victor Goldschm idt, a cura di J. Brunschwig, C. Imbert e A. Roger, Paris, 1985. Alcuni materiali del capitolo IV compaiono nel mio Plato on comm ensurability and desire, in «Proceedings o f thè Aristotelian Society», Supplementary Volume, 58 (1984), pp. 55-80. Una precedente versione del capitolo VI è stata pubblicata come The speech o f A lcibiades: a reading o f Plato s Symposium, in «Philosophy and Litcrature», 3 (1979), pp. 131-172. Una precedente versione del capitolo VII è stata data alle stampe come «T h is story isn ’t true» : poetry, goodness, an d understanding in P lato’s Phaedrus, in Plato on Beauty, Wisdom, and thè A rts, a cura di J. Moravcsik e P. Temko, Totowa, N J, 1982, pp. 79-124. Una versione abbreviata del capitolo V ili comparve in Language and Logos: Studies in Ancient Greek Phi­ losophy in Honour o f G .E .L . Owen, a cura di M. Schofìeld e M. Nussbaum, Cambridge, 1982, pp. 267-293. Una prima versione del capitolo IX venne pubblicata come The «com m on explanation» o f anim al m otion, in Zweifelhaftes in Corpus A ristotelicum , a cura di P. Moraux e J. Wiesner, Berlin, 1983, pp. 116-156.

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A vverten za

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d e l t r a d u tto r e

Nel caso di citazioni da classici e da testi già tradotti in italiano sono state utilizzate le principali edizioni disponibili. Tuttavia la tra­ duzione dell’autrice ha spesso un fine ermeneutico e in talune occa­ sioni si discosta dalle scelte delle versioni italiane. In questi casi il te­ sto della traduzione italiana è stato modificato per meglio rispondere all’interpretazione dell’autrice. Per Om ero è stata utilizzata la tradu­ zione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, 1950 e 1963. I tragici ven­ gono citati dall’edizione a cura di Carlo Diano, Firenze, 1970, ad ec­ cezione òe\YAntigone, tradotta da Raffaele Cantarella, Milano, 1977, e del Filottete, tradotto da Maria Pia Pattoni, Milano, 1990. Per 1’Ecuba viene riportata la versione di Filippo Maria Pontani, inclusa nel volume a cura di Diano, ma i frequenti necessari interventi non con­ sentono di mantenere la scansione metrica. Per i Presocratici, per Platone e per Aristotele sono state utilizzate le edizioni Laterza a cura di Gabriele Giannantoni. La traduzione adottata per la Nem ea V ili di Pindaro citata in esergo è, infine, con lievi modifiche, quella di Leone Traverso in Pindaro, O di e fram m enti, Firenze, 19892.

Capitolo primo

Etica e fortuna

«M a cresce l’umana eccellenza, / come si slancia la vite, da verdi rugiade nutrita, / tra gli uomini saggi e tra i giusti / levan­ dosi all’etere liquido» ' Così Pindaro espone un problema centrale nel pensiero greco e si chiede quale sia la vita buona per l’essere umano. Pindaro dedica tutta la sua carriera poetica a scrivere odi liriche per esaltare l’eccellenza umana. Perché questa scelta abbia senso, il poeta ed il suo pubblico devono essere convinti che l’eccellenza è qualcosa che una persona buona possiede e di cui è effettivamente responsabile sia quanto al possesso sia quanto all’esercizio2. Immediatamente prima dei versi citati Pindaro prega Zeus affinché gli sia con­ cesso di morire come ha sempre vissuto, «lodevoli imprese lo­ dando, spargendo sui rei il vituperio». Il «m a» iniziale, che po­ trebbe benissimo essere tradotto con un «e», continua e quali­ fica la preghiera del poeta. L ’eccellenza della persona buona, egli scrive, è come una giovane pianta: qualcosa che cresce nel mondo, sottile, fragile, costantemente bisognoso di alimento dall’esterno3. Un albero di vite deve essere di buon ceppo se deve crescere bene. Ed anche se possiede un buon retaggio, per rimanere in salute e raggiungere il pieno sviluppo, ha biso­ gno sia di un clima favorevole (piogge e fresche rugiade, miti temperature e venti blandi) sia delle cure di custodi seri ed in­ telligenti. Lo stesso, ci suggerisce il poeta, vale per noi. Dob­ biamo nascere dotati di capacità adeguate, vivere in circo­ stanze naturali e sociali favorevoli, preservarci da catastrofi im­ provvise, sviluppare legami associativi sicuri con altri esseri umani. I successivi versi dell’ode dicono: «Vario è il bisogno che hai dell’amico: / supremo nei triboli; ma brama la gioia / an­ che posare gli occhi su un uomo sicuro». La nostra esposizione alla fortuna e il nostro senso dei valori, ancora una volta, ci rendono dipendenti da ciò che sta fuori di noi: la nostra espo-

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sizione alla fortuna perché ci imbattiamo nelle avversità e pos­ siamo aver bisogno di qualcosa che soltanto un altro può dare; il nostro senso dei valori perché, anche quando non ci occorre Xaiuto degli amici e dei nostri cari, spinti dall’amore e dall’ami­ cizia, noi ci preoccupiamo per loro. Anche la gioia del poeta è incompleta se egli non la vede confermata dagli occhi di coloro che sa fidati per intelligenza, buona volontà e sincerità. La sua gioia è come quella di un cacciatore che si affatica sulle tracce di una preda in fuga4. Gran parte dell’ode è dedicata all’invi­ dia, al modo in cui le menzogne possono mandare in rovina il mondo. L ’amico fidato, invocato da Pindaro, è morto ed è ir­ raggiungibile persino dalle parole della sua poesia. Ma il biso­ gno di tutte queste cose, che sfuggono al controllo umano, non riguarda evidentemente soltanto i sentimenti di contentezza o di felicità. Ciò che l’esterno nutre, ed addirittura aiuta a for­ marsi, è l’eccellenza, ovvero il valore umano stesso. L ’immagine della vite, introdotta verso la fine dell’ode tra il desiderio di morire celebrando la bontà e l’invocazione del­ l’amico morto, ci pone di fronte ad un profondo dilemma, che riguarda in primo luogo il poeta, ma che è anche un nostro di­ lemma. Essa ci mostra la completa commistione tra ciò che è nostro e ciò che appartiene al mondo, tra ambizione e vulnera­ bilità, tra il fare e l’essere fatto, che sono presenti in questa come in ogni altra vita umana. In tal modo l’ode chiede quali siano le convinzioni che stanno alla base della prassi umana. Come può Pindaro essere un poeta encomiastico, se la bontà umana è nutrita ed addirittura formata dagli eventi esterni? Come possiamo dare o ricevere lodi, se il nostro valore è sol­ tanto una pianta bisognosa di acqua? Il pubblico viene invitato a considerare quali concezioni nutra su se stesso. Quando valu­ tiamo una vita umana, fino a che punto possiamo distinguere ciò che spetta al mondo da ciò che spetta a noi? Fino a che punto dobbiamo insistere a tracciare queste distinzioni, se vo­ gliamo continuare a lodare così come abbiamo sempre fatto? E come possiamo migliorare questa situazione, come possiamo compiere progressi e porre sotto il nostro controllo gli aspetti più importanti della nostra vita: la realizzazione personale, la politica, l’amore? Il problema viene reso più complesso da un’ulteriore im­ plicazione presente nell’immagine poetica. Quest’ultima ci suggerisce che una parte della particolare bellezza posseduta

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dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità. La tenerezza di una pianta non è la durezza abbagliante di una gemma. Sembrano essere qui presenti due tipi di valore, forse incompatibili. La bellezza di un vero amore umano non è la stessa dell’amore tra due dei immortali, soltanto più breve. Il cielo limpido che racchiude gli uomini e circoscrive le loro possibilità dona a questo mondo un rapido e scintillante splen­ dore che non ci aspettiamo di trovare nel paradiso degli dei. (Un poeta posteriore parlerà dell’umida, «rorida» freschezza del giovane Ganimede nell’atto di asciugarsi dopo il bagno come di una bellezza e di una sensualità da lui perdute dopo che il dio, folle d ’amore, gli concesse l’immortalità, condan­ nando così la propria passione)5. L ’eccellenza umana viene vi­ sta nell’ode di Pindaro, e generalmente nella tradizione poetica greca, come qualcosa dotato di una natura indigente, qualcosa che cresce nel mondo e che non può essere reso invulnerabile senza perdere la sua peculiare bellezza. (Odisseo scelse l’amore di una donna mortale e destinata ad invecchiare invece dello splendore immutabile di Calipso)6. Dunque l’accidentalità che rende problematica la lode è, per quanto in un modo non ancora ben chiaro, costitutiva di ciò che deve essere lodato. Se l’immagine passiva della vite comincia a sollecitarci e a dimostrarsi incompatibile con talune nostre aspirazioni (ed è probabile che essa abbia sollecitato nello stesso modo anche il pubblico cui l’ode era rivolta), ci resta la consolazione che Pin­ daro, finora, sembra aver trascurato qualcosa. Per quanto gli esseri umani vengano a somigliare a forme di vita inferiori, ri­ maniamo tuttavia dissimili — vogliamo insistere — su un aspetto cruciale: noi possediamo la ragione. Siamo in grado di deliberare e di scegliere, di fare un piano e di ordinare i fini, di decidere attivamente che cosa abbia valore e quanto ne abbia. Tutto questo deve pur contare qualcosa. Se è vero che molto di ciò che ci riguarda è disordinato, manchevole, incontrollato, sprofondato nel sudiciume e abbandonato sotto la pioggia, è anche vero che c’è qualcosa di noi che è puro e attivo, qualcosa che noi possiamo pensare come «divino, immortale, intelligi­ bile, unitario, indissolubile, sempre coerente con se stesso e in­ variabile»7. Sembra possibile che questo nostro elemento ra­ zionale possa guidare e dirigere il resto, evitando così che l’in­ tera nostra persona viva alla mercé della fortuna. Questa splendida ed equivoca speranza è una preoccupa-

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zione centrale del pensiero greco sul bene umano. Una cruda percezione della passività degli esseri umani nel mondo della natura e una reazione di orrore e collera per questa passività accompagnano e nutrono la convinzione che l’attività della ra­ gione può rendere sicura, e così salvare, la nostra vita — ov­ vero: deve salvare la nostra vita, se essa è umanamente degna di essere vissuta. Questo bisogno di una vita vivibile preoccu­ pava la gran parte dei pensatori greci arcaici, sia quelli che tra­ dizionalmente vengono considerati filosofi sia altri che abitual­ mente ricevono nomi diversi (per esempio: poeti, tragediografi, storici). Fu, presumibilmente, soprattutto questa esigenza che spinse i fondatori della filosofia etica ad intensificare la loro ri­ cerca per andare al di là delle credenze e delle pratiche ordina­ rie; e la tradizione filosofica greca rimase sempre dedita princi­ palmente alla realizzazione di una vita umana buona, anche nei suoi frequenti tentativi di indagine metafisica e scientifica. Ma sull’altro versante di questo tentativo di conseguire l’auto­ sufficienza, complicando e comprimendo lo sforzo di bandire la contingenza dalla vita umana, venne sempre acutamente per­ cepita la particolare bellezza del contingente e del mutabile, venne sempre conservato quell’amore per il rischio e per l’e­ sposizione alla fortuna deH’umanità empirica, che trova la sua ricorrente espressione nelle storie delle divinità innamorate dei mortali. Il problema di come «salvare la vita» divenne così una questione delicata ed importante per ogni serio pensatore. Di­ venne, in effetti, la questione del bene umano: come può il bene essere veramente buono ed essere ancora umanamente bello? Era evidente a tutti i pensatori di cui ci occuperemo che la vita buona deve essere in qualche misura ed in qualche modo autosufficiente, immune dalle incursioni della fortuna. Fino a che punto una vita possa e debba essere resa autosuffi­ ciente, quale ruolo giochi la ragione nella ricerca della autosuf­ ficienza, quale tipo di autosufficienza sia appropriato per una vita umana razionale — queste domande sollecitarono e diven­ nero parte di una domanda generale: chi pensiamo di essere e dove (sotto quale cielo) vogliamo vivere? Questo libro intende analizzare l’aspirazione all’autosuffi­ cienza razionale all’interno del pensiero etico greco: l’aspira­ zione a liberare dall’influsso della fortuna la bontà della vita virtuosa usando il controllo ed il potere della ragione. Userò il termine «fortuna» in un senso non rigorosamente definito, ma,

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spero, perfettamente intellegibile e strettamente connesso al si­ gnificato con cui gli stessi Greci parlavano di tyche8. Non in­ tendo sostenere che gli eventi in questione siano casuali o senza causa. Ciò che capita ad una persona per causa della for­ tuna è semplicemente ciò che non avviene attraverso una sua azione: ciò che semplicemente le capita, opposto a ciò che essa fa*. In generale, per eliminare la fortuna dalla vita umana biso­ gnerà mettere quella vita, o il suo aspetto più importante, sotto il controllo dell’agente (o di quei suoi elementi con cui egli * Il problema dei pronomi maschili e femminili mi ha tormentata per tutta la stesura del manoscritto. L’uso della forma pronominale non marcata «egli/ella» in ogni frase mi è sembrato intollerabilmente scomodo. Optare per «egli» dovunque mi sembrava in contrasto con la mia sensibilità politica e, per di più, falso rispetto all’attuale stato della lingua, dove ci si sforza sem­ pre più di assegnare un’uguale ricorrenza a «ella». Mi sembra inoltre chiaro che nei contesti dove «egli» ritorna maggiormente in questo libro (in riferi­ mento a «il filosofo», «il poeta», «l’individuo buono») la sua presenza è tutt’altro che realmente non marcata: il pronome ci incoraggia a immaginare il personaggio in questione come una persona di sesso maschile. E questo non è un problema irrilevante quando si scrive su questi argomenti. Infatti tutti i tragici pretendono di essere presi sul serio quando riflettono sui privilegi e sullo status morale delle donne. In entrambi i drammi che discuteremo, una donna difende la sua richiesta di uguaglianza politica e morale. A buon di­ ritto Platone può essere chiamato il primo filosofo femminista — tuttavia la sua posizione è ancora più radicale, poiché esprime il rifiuto che il corpo, e di conseguenza il genere, abbiano una qualche importanza di ordine etico (cfr. cap. V). Egli è perciò il primo pensatore a mia conoscenza che abbia messo in rilievo come il femminismo implichi l’introduzione di un genere lin­ guistico non marcato. In Repubblica, 540 c, Socrate osserva che Glaucone è incapace di usare sia il participio maschile sia quello femminile in riferimento ai governanti e ciò lo preoccupa perché ne può nascere la falsa impressione che essi stiano parlando soltanto di maschi. Il notevole antifemminismo di Aristotele è una questione che discuteremo. La mia prima idea, quando ho affrontato questo problema, fu quella di adottare una soluzione compietamente arbitraria ed usare «egli» come pronome non marcato nei capitoli pari ed «ella» nei capitoli dispari. Ma questo uso sarebbe risultato un motivo di confusione e una difficoltà per i lettori, le cui opinioni politiche sono molto varie. Inoltre non è una soluzione che il linguaggio naturale possa adottare. Dopo avere riflettuto a lungo, ho perciò deciso di seguire l’uso di Platone nel passo sopra ricordato. Perciò ho usato «egli/ella» abbastanza spesso, in modo che il lettore non pensi solamente a persone maschili, ma ho impiegato (come fa Platone) contemporaneamente anche solo il maschile per evitare che il ritmo della frase diventi insostenibile. Ho cercato inoltre di obbedire al contesto — dal momento che non è di nessuna utilità pretendere che «egli/ ella» sia appropriato per il governante immaginato da Aristotele, mentre è molto utile applicare questa forma in Platone.

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identifica se stesso), mentre non bisogna nutrire fiducia in quei fattori esterni ed incerti che vengono colti dalFimmagine della pianta. Perciò la mia domanda generale sarà: con quanta for­ tuna possiamo, secondo questi pensatori greci, umanamente convivere? Con quanta fortuna dobbiamo convivere affinché la nostra vita sia la migliore e la più valida? Questo problema, come ho detto, era centrale per i Greci. Ma, come ho già suggerito, esso è importante anche per noi. Tuttavia in alcuni momenti della sua evoluzione si è pensato che esso non fosse affatto un vero problema. L ’enorme in­ fluenza dell’etica kantiana" sulla nostra cultura intellettuale ha portato a trascurare per molto tempo questi aspetti dell’etica greca. E anche quando essi vengono trattati, si finisce spesso per concludere che i Greci hanno posto il problema dell’a­ zione e della contingenza in termini primitivi o erronei. Infatti per il filosofo kantiano esiste un solo dominio del valore, il do­ minio del valore morale, il quale è del tutto immune dagli as­ salti della fortuna. Non importa che cosa accade nel mondo: la buona volontà conserva un valore morale inalterato. Il kan­ tiano pensa, inoltre, che si debba tracciare una netta distin­ zione tra questo ed ogni altro tipo di valore e che il valore mo­ rale abbia un’importanza infinitamente più grande di qualsiasi altra cosa. Se tutto ciò è vero, allora una ricerca come la nostra può solamente servire a mettere in luce alcune opinioni errate intorno a questioni importanti e a rivelare opinioni corrette su problemi affatto banali. Può servire a mostrare che i pensatori greci sostennero l’opinione falsa e primitiva secondo la quale il valore morale è vulnerabile alla fortuna; e può mostrare che essi ebbero la convinzione vera, ma relativamente poco impor-* * Esistono naturalmente altre posizioni post-classiche che potrebbero influenzare la valutazione di questi problemi: per esempio le opinioni stoiche e cristiane sulla divina provvidenza e le opinioni cristiane sulla relazione tra bontà umana e grazia divina. Io punto l’attenzione sull’influenza di Kant per­ ché, come dimostrerò (soprattutto nei capp. II, XI, XII, XIII e nell’Inter­ mezzo 2), le opinioni kantiane hanno influenzato profondamente la critica e la valutazione di questi testi greci; e l’influenza pervasiva di queste posizioni costituisce tutt’ora il più grande ostacolo per poter stimare correttamente l’importanza di questi testi. All’infuori del capitolo II, dove discuto direttamente le opinioni di Kant sul conflitto tra le obbligazioni, parlo di «kantiani» e di influenza di Kant piuttosto che del solo Kant, che generalmente esprime posizioni più sottili e complesse.

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tante, che altri tipi di valore sono invece vulnerabili. L ’inda­ gine, procedendo, rivelerà con chiarezza il carattere primitivo di un pensiero etico che non tenta neppure di tracciare una netta distinzione tra valore morale ed altri tipi di valore. Se le opinioni kantiane e la distinzione kantiana tra valore morale e non morale* vengono assunte come punto di partenza per in­ dagare le opinioni greche su questi argomentig, i Greci non si trovano in buone acque. Di fatto finisce per essere messo in luce soltanto il loro peculiare modo di tormentarsi sulla con­ tingenza, mentre lamentano l’insolubile conflitto pratico e il rimpianto che esso lascia dietro di sé, mentre ponderano i ri­ schi dell’amore e dell’amicizia e mettono su un piatto il valore della passione e sull’altro i suoi eccessi distruttivi. E come se si trovassero in difficoltà perché non hanno scoperto ciò che ha scoperto Kant, come se non avessero saputo ciò che tutti noi kantiani ben sappiamo. Se tuttavia affrontiamo questi testi da un punto di vista di­ verso, che non oscuri, come fa la prospettiva kantiana, i pro­ blemi che essi pongono, diventa difficile non sentire in prima persona la forza di queste domande 10. Inizio questo libro da una posizione che ritengo comune: la posizione di chi trova gli interrogativi posti dall’ode di Pindaro tutt’altro che strani e che non riesce a capire come essi possano cessare di costituire un problema. Che io sia attivo, ma sia anche una pianta; che*

* Di fatto cercherò di evitare non solo la distinzione kantiana morale/ non-morale, ma anche tutte le versioni di tale distinzione e le relative dicoto­ mie tra ragionamento pratico morale e non morale o tra conflitto pratico mo­ rale e non morale. I testi greci non conoscono queste differenze. Essi comin­ ciano dalla questione generale: «Come dovremmo vivere?» ed accettano che tutti i valori umani pretendano di far parte costitutiva della vita buona; essi non presumono che ci sia un qualche gruppo dotato di una pretesa prima fa­ de ad essere supremo. Credo che il loro approccio sia fedele al procedere concreto del nostro ragionamento pratico intuitivo; così essi rivalutano aspetti della nostra vita pratica che tendono ad essere oscurati nei lavori im­ postati a partire dalla distinzione kantiana, comunque la si intenda. Nel capi­ tolo II descrivo diverse versioni di tale distinzione e mostro perché esse for­ niscono punti di partenza non appropriati alla nostra ricerca. Le nostre di­ scussioni sulla giustizia, sull’obbligazione civile e sulle esigenze della reli­ gione sono, tuttavia, intese a persuadere i più convinti sostenitori di quella distinzione che il nostro punto di vista sulla fragilità si applica perfino a quei valori che verrebbero normalmente considerati come valori morali centrali in molte versioni della dicotomia morale/non-morale.

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molte cose che non dipendono da me mi rendano oggetto di lode o di biasimo; che io debba costantemente scegliere tra beni tra loro in competizione ed apparentemente incommen­ surabili, e che le circostanze possano costringermi ad essere falso o a fare qualcosa di sbagliato; che un evento, qualcosa che semplicemente «mi capita», possa, senza il mio consenso, alterare la mia vita; che sia ugualmente problematico affidare il nostro bene agli amici, agli amati, alla patria e provare a vivere bene anche senza di loro — tutti questi non sono a mio avviso soltanto i materiali della tragedia, ma sono anche fatti concreti che la ragion pratica vive tutti i giorni. D ’altra parte sembra ugualmente impossibile, o ugual­ mente inumano, non sentire la forza della concezione platonica che postula un essere autosufficiente e puramente razionale, purificato dai «sassi» e dalle «conchiglie» della passione, «che le formano attorno una crosta spessa e scabra di terra e pie­ tre» n, liberato dalle accidentali limitazioni del suo potere. Pla­ tone ci mostra come Glaucone, un comune nobiluomo, scopra in se stesso attraverso la conversazione con Socrate un intenso amore per l’attività pura e costante del ragionamento matematico, un amore che implica la denigrazione di molte cose cui prima egli attribuiva un grande valore. In questo modo, quando leggiamo queste opere e ne rimaniamo affascinati, rammemoriamo vero­ similmente un’aspirazione alla purezza e alla libertà dalla for­ tuna che è parte profonda dell’umanità e che sta in una com­ plessa tensione con altre percezioni empiriche. E se provare questa tensione non costituisce un’esperienza esclusivamente personale e rara, ma un fatto nella storia naturale degli esseri umani, allora, se vogliamo che il ragionamento pratico sull’au­ tosufficienza della vita buona sia completo, dobbiamo esplo­ rare entrambe le immagini e provare il potere di entrambe. Noi analizzeremo il ruolo giocato dalla fortuna nell’area della eccellenza umana" e le attività ad essa associate, la­ sciando da parte gli infiniti modi nei quali la fortuna provoca i* * Eccellenza (arete) deve qui essere intesa in senso ampio, senza pre­ supporre l’esistenza separata di un gruppo speciale di eccellenze morali; noi, perciò, comprendiamo con questo termine tutte le caratteristiche delle per­ sone in virtù delle quali esse vivono ed agiscono bene, cioè in modo da meri­ tare la lode. Includiamo così sia ciò che Aristotele chiamerebbe «eccellenze del carattere» (un gruppo non equivalente alle «virtù morali» sebbene questa

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sentimenti di contentezza e di gioia*. Tre sono le questioni centrali nella nostra indagine. La prima riguarda il ruolo svolto nella vita buona da alcune attività e relazioni che, per natura, sono particolarmente vulnerabili ed esposte ai rovesci. Fino a che punto un piano di vita razionale può permettere elementi come l’amicizia, l’amore, l’attività politica, l’attaccamento alla proprietà, che, essendo tutti vulnerabili, rendono colui che ri­ schia il proprio bene su di essi sottoposto in ugual misura al caso? Questi «beni esterni» possono entrare nella vita eccel­ lente non solo come mezzi strumentali necessari per vivere bene, ma anche, se diamo loro sufficiente valore, come fini in se stessi; la loro eventuale assenza, quindi, può privare l’indivisia la più comune traduzione, cfr. cap. XI) sia il gruppo che per Aristotele è il più importante, le eccellenze dell’intelletto. * Molti testi che noi discuteremo sono su questo punto resi oscuri dal fatto che comunemente il greco eudaimonia viene tradotto con «felicità». Se consideriamo quale sia il retaggio kantiano ed utilitaristico nella filosofia po­ litica, dove «felicità» è considerato il nome di un sentimento di contentezza o di piacere e dove ogni posizione che ponga la felicità come il bene supremo viene, per definizione, assunta come una posizione che attribuisce il valore supremo agli stati psicologici anziché alle attività, questa traduzione risulta molto fuorviarne. Per i Greci eudaimonia significa qualcosa come «vivere una vita buona per un essere umano», o come ha suggerito uno scrittore re­ cente, John Cooper, «prosperità umana». Aristotele ci dice che l’espressione è equivalente a «vivere e fare bene». Molti Greci avrebbero inteso eudaimo­ nia come qualcosa di essenzialmente attivo, nel quale le attività lodevoli non sono solo mezzi produttivi, ma parti effettive. Per un pensatore greco è pos­ sibile anche concludere che Xeudaimonia è equivalente ad uno stato di pia­ cere; in questo senso l’attività non fa parte della nozione. Ma anche in questo caso dovremmo notare che molti pensatori greci concepiscono il piacere più come qualcosa di attivo che di statico (cfr. cap. V); l’equazione tra eudaimo­ nia e piacere potrebbe quindi non significare quello che ci aspettiamo in un autore utilitaristico. La convinzione che l'eudaimonia sia equivalente ad uno stato di piacere è una posizione non convenzionale e più che altro di valore polemico nella tradizione greca (cfr. cap. IV). Una posizione molto comune è quella di Aristotele, secondo il quale Xeudaimonia è un’attività in accordo con laje. eccellenza/e. Rimanendo all’interno di questa visione, dovremo in­ vestigare come la fortuna condizioni Xeudaimonia e l’eccellenza che ne è la base. Dove la chiarezza della nostra argomentazione lo renda necessario, viene lasciata la parola greca. Trascurerò anche un’altra parte della questione sull’eccellenza, ovvero la fortuna della nascita e della costituzione personale — il ruolo dei fattori che l’individuo agente non controlla, ma che gli forni­ scono le diverse abilità iniziali che servono per vivere umanamente bene. Presuppongo soltanto, come fanno anche i testi, che la risposta a questa do­ manda non sia tale da chiudere tutte le nostre altre questioni.

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duo agente non soltanto di alcune risorse, ma anche di un va­ lore intrinseco e della stessa possibilità di vivere bene. Può la vulnerabilità di questi beni costituire una ragione per non ascrivere loro un pieno valore o per non includerli tra i compo­ nenti di un piano razionale? Strettamente connessa al problema sui componenti indivi­ duali della vita buona è anche la nostra seconda questione, che riguarda la relazione tra tali elementi. Coesistono armoniosa­ mente o possono, in circostanze indipendenti dall’agente, ge­ nerare richieste conflittuali che possono menomare la bontà della sua vita? Se un individuo attribuisce un valore intrinseco a due o più attività e le coltiva entrambe, c’è sempre il rischio che in alcune circostanze siano richiesti simultaneamente due comportamenti incompatibili; il difetto diviene così una neces­ sità naturale. Quanto più il mio schema dei valori è ricco*, tanto più espongo me stesso a questa possibilità; inoltre una vita congegnata in modo da escludere questa eventualità po­ trebbe risultare povera. Questo problema è connesso con il primo in diversi modi. Infatti una vita centrata su attività che l’individuo può sempre perseguire indipendentemente dalle circostanze darà poche occasioni di conflitto; e le strategie ra­ zionali per minimizzare il conflitto diminuiscono (come ve­ dremo) la fragilità di certi importanti valori, singolarmente considerati. Finora abbiamo parlato di quella che potremmo chiamare la «contingenza esterna»12 — quella cioè della fortuna che co­ glie l’individuo provenendo da un mondo fuori di lui e del suo sistema di valori, nella misura in cui quest’ultimo lo lega al mondo esterno. Questo sarà il punto su cui fisseremo princi­ palmente la nostra attenzione. Ma dobbiamo sollevare anche un terzo problema e dobbiamo considerare anche la relazione tra l’autosufficienza e le parti più ingovernabili dell’interiorità Chiunque abbia dei dubbi sull’uso della parola «valore» a proposito di testi greci di etica spero sarà rassicurato in seguito, quando diverrà chiaro perché questa sia un’espressione appropriata per rendere certi termini dell’e­ tica greca. Non c’è nessuna parola per la quale «valore» sia sempre l’unica traduzione appropriata; ma è spesso la parola migliore per certi usi di agatbon, «buono», e soprattutto di kalon «bello», «intrinsecamente buono»1’. Altre espressioni importanti sono «ciò che vale» (axion), «ciò che è da prefe­ rire» (haireton) e varie altre locuzioni verbali con parole che indicano valuta­ zione, stima, scelta.

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umana. A partire dagli altri due problemi dovremo interro­ garci, in particolare, sul valore etico delle cosiddette «parti ir­ razionali deH’anima»: appetiti, sentimenti, emozioni. Infatti la nostra natura sensibile e corporea, le nostre passioni, la nostra sessualità, tutto funge da potente legame con il mondo del ri­ schio e della mutevolezza. Le attività associate con i desideri corporei non solo esemplificano, nella loro struttura interna, la mutevolezza e l’instabilità, bensì ci spingono verso il mondo degli oggetti deperibili legandoci, in tal modo, al rischio della perdita ed al pericolo del conflitto. L ’agente che attribuisce va­ lore alle attività connesse con gli appetiti e con le emozioni di­ penderà eo ipso dall’esterno, dalla natura e dalle altre persone per garantirsi la durata della sua buona attività. Inoltre queste affezioni «irrazionali» comportano, più di ogni altra, il rischio di conflitti pratici e quindi di un eventuale fallimento della virtù. E anche qualora le attività dominate dalla passione non vengano apprezzate in sé, le passioni possono sempre costi­ tuire una fonte di confusione perché disturbano la pianifica­ zione razionale dell’individuo, distorcono il giudizio e rendono incostante e debole l’azione. Nutrire tali passioni fino in fondo vuol dunque dire esporsi al rischio del disordine o della «fol­ lia» M. Dobbiamo, quindi, chiederci se la ristrutturazione del­ l’essere umano, la trasformazione o soppressione di certe parti a noi care, non possa portare ad un controllo razionale e ad una autosufficienza maggiori e se questa non possa essere la giusta forma di autosufficienza per una vita umana razionale. Rispondere a ciascuna di queste tre domande significa, na­ turalmente, anche proporre una concezione della ragione umana. Se pensiamo che la nostra vita venga salvata o trasfor­ mata dalla ragione o da un suo prodotto, la filosofia, allora, poiché siamo interessati a vivere bene, dobbiamo chiederci che cosa sia questa nostra facoltà, come riesca ad ordinare la vita e in che rapporto stia con il sentimento, l’emozione, la perce­ zione. I Greci pongono, in modo caratteristico, una strettis­ sima connessione tra questi problemi etici e la questione sulle procedure, sulle capacità e sui limiti della ragione. Infatti l’i­ stinto suggerisce loro che alcuni progetti di vita autosufficiente sono discutibili perché ci chiedono di andare al di là dei nostri limiti cognitivi; e, d’altra parte, molti tentativi di avventurarsi al di là dei limiti umani, nel ragionamento metafisico o scienti­ fico, sono ispirati da motivi etici discutibili, che hanno a che

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vedere con la necessità della chiusura, con la ricerca della sicu­ rezza e con la conservazione del potere. I limiti cognitivi umani circoscrivono la conoscenza ed il discorso dell’etica; e una parte importante t/rV/’argomentazione etica deve tendere a de­ terminare un atteggiamento umano appropriato verso questi li­ miti. Per entrambe queste ragioni la nostra indagine etica do­ vrà occuparsi dei principi primi, delle verità e dei requisiti del discorso. Questo libro descrive, seguendo di solito un ordine sto­ rico, una serie di riflessioni tra loro correlate, che affrontano questi problemi nelle opere dei tre grandi tragici, di Platone e di Aristotele. Invece di analizzare sistematicamente le opinioni di tutti i grandi pensatori greci su questo argomento, ho prefe­ rito studiare nel dettaglio un gruppo di testi che mi sembrano fondamentali e rappresentativi15. In breve, descriverò innanzi tutto come il problema sia stato esplorato in diverse tragedie del quinto secolo, che attribuiscono alla fortuna un ruolo irri­ ducibile nel modellare la vita umana ed il suo valore; quindi af­ fronterò l’eroico tentativo di Platone, nei dialoghi del periodo di mezzo, di salvare la vita degli esseri umani rendendola im­ mune dalla fortuna; infine mostrerò come Aristotele ritorni a molti punti di vista e a molti valori propri della tragedia e come egli articoli una concezione della razionalità pratica che do­ vrebbe rendere gli esseri umani autosufficienti in un modo ap­ propriato alla loro condizione. Ma questa semplice struttura è complicata dal fatto che, rispetto ai nostri problemi, tutte que­ ste opere contengono in sé più di una posizione. Le tragedie mostrano, tipicamente, la lotta tra l’ambizione di trascendere l’ambito meramente umano e il riconoscimento delle perdite provocate da tale ambizione. Del resto neppure i dialoghi di Platone si limitano semplicemente ad argomentare in favore della revisione etica che essi propongono; al contrario, Platone usa la forma del dialogo per confrontare e mostrarci i diversi punti di vista, chiarendo quello che ogni «soluzione» rischia di perdere o di trascurare. E successivamente, nel Fedro, viene, addirittura, formulata una critica esplicita contro i primi dialo­ ghi e contro il loro modo di contrapporre le diverse posizioni. Il procedimento di Aristotele consiste nel lavorare con posi­ zioni conflittuali, nel valutarle soppesandone la forza; neppure la sua «soluzione» è priva di tensioni e divisioni. Tutto ciò si-

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gnifica che, nonostante lo sviluppo del libro abbia una dire­ zione complessiva, il movimento tra ambizione al superamento e ritorno, tra trascendenza ed accettazione dei limiti, è sempre presente in quasi tutte le singole parti. Nei capitoli II e III mi occupo di tre tragedie e considero come esse mettano in scena l’uomo esposto alla fortuna, con particolare riferimento al problema del possibile conflitto tra i valori. (L’approfondimento di questo problema porta, comun­ que, a discutere la fragilità di certi valori individuali, poiché emerge che i valori capaci di generare più spesso conflitto sono tra quelli in sé più vulnerabili.) Specialmente nel capitolo II tento di mostrare in quali modi l’approccio kantiano ai pro­ blemi della fortuna ci abbia impedito di comprendere i testi greci; presento la caratterizzazione del problema fornitaci da Eschilo come una patente alternativa alla spiegazione kantiana e a quelle affini. Nel capitolo III, estendendo queste riflessioni sui casi individuali di conflitto pratico, considero l’aspirazione a pianificare il corso della vita intera in modo da minimizzare il rischio di conflitto. A mio avviso questa aspirazione si può rin­ tracciare, in forme diverse, ne\YAntigone di Sofocle. In questo caso analizzo il modo in cui il dramma rappresenta valori plu­ rali ed incommensurabili e il modo in cui esso critica l’ambi­ zione umana a governare la fortuna semplificando il nostro le­ game con i valori. Allo stesso tempo tento di mostrare la conti­ nuità sotterranea tra Eschilo e Sofocle nell’approccio al pro­ blema. Nel capitolo IV, ritornando a Platone, sostengo che la pro­ posta delle scienze del ragionamento pratico presentata nel Protagora risponde agli stessi problemi che avevano preoccu­ pato i tragediografi e rappresenta uno sviluppo delle strategie sviluppate nei drammi tragici per sconfiggere la fortuna. Que­ sto capitolo è particolarmente importante, non solo perché manifesta questa continuità tra le motivazioni di Platone e la tradizione letteraria, ma anche perché rivela chiaramente la correlazione esistente tra i nostri tre problemi, rivelando come la strategia per eliminare l’incommensurabilità ed il conflitto tra i valori renda più stabili anche i valori individuali. Inoltre tale strategia, rimodellando la natura dei nostri affetti, tra­ sforma le passioni, la nostra fonte interna di disordine. I capi­ toli V e VI mostrano come Platone sviluppi queste idee nei dialoghi del suo periodo di mezzo: nel Fedone, nella Repub-

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blica e nel Simposio. (L’Intermezzo 1, di transizione, solleva al­ cune questioni sulla forma del dialogo come alternativa al dramma tragico, suggerendo come in Platone la scelta della forma letteraria sia strettamente connessa alle sue opinioni sui contenuti etici.) Il capitolo V analizza come il Fedone e la Re­ pubblica difendano una vita di contemplazione autosufficiente, nella quale le attività instabili ed i loro oggetti non hanno un valore intrinseco. Il capitolo VI studia la proposta del Simposio nell’area dell’amore per le persone. Sebbene questi capitoli siano prevalentemente dedicati alla vulnerabilità dei valori in­ dividuali, il problema del conflitto dei valori non è mai lon­ tano; la sua importanza per le argomentazioni della Repubblica viene discussa alla fine del capitolo V. Nel capitolo VI diventa chiaro quanto profondamente la descrizione dell’amore fornita da Platone corrisponda alla bel­ lezza della fragilità umana, sebbene egli voglia spingerci ad ab­ bandonarla per una bellezza più stabile. In questo modo viene preparato l’argomento del capitolo VII, secondo il quale il Fe­ dro rimette in questione e modifica la precedente concezione del valore di Platone. Io sostengo che il Fedro assegna un ruolo rilevante nella vita buona, sia come mezzi strumentali sia come parti costitutive e valide in se stesse, alle relazioni passionali tra individui, relazioni che sono fragili per la loro stessa natura. La sezione dedicata ad Aristotele comincia con una discus­ sione sul metodo filosofico di Aristotele: infatti la sua conce­ zione generale del rapporto tra teoria filosofica e convinzioni umane ordinarie gioca un ruolo importante nel suo approccio ai problemi etici. Il capitolo IX esamina l’analisi aristotelica delle azioni e dei moti «volontari» chiedendosi quale rapporto debba intercorrere tra i nostri movimenti e gli avvenimenti del mondo affinché la prassi etica sia corretta. Il capitolo X si oc­ cupa della forma di razionalità pratica su cui Aristotele basa il suo quadro profondamente antiplatonico dell’autosufficienza umana; in questo caso mi chiedo quale sia, secondo Aristotele, la posizione di partenza e quali siano le procedure per formu­ lare giudizi etici corretti. Questo capitolo è, inoltre, la contro­ parte del capitolo V dove è contenuta la descrizione dell’epi­ stemologia platonica del valore; vedremo come la diversa epi­ stemologia di Aristotele sia associata ad una diversa descri­ zione del valore umano. Faremo anche riferimento all’ideale platonico di scienza etica articolato per la prima volta nel capi-

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lolo IV e ci chiederemo che cosa Aristotele voglia dire quando a più riprese afferma che il ragionamento pratico umano non è e non deve essere scientifico. I capitoli XI e XII analizzano la fragilità delle componenti individuali tipiche della vita umana migliore. Essi si chiedono in che modo Aristotele possa soste­ nere che la vita migliore è vulnerabile agli avvenimenti esterni e che, tuttavia, pur essendo così vulnerabile, essa è la migliore. Il capitolo XI esamina la vulnerabilità dell’attività buona in ter­ mini generali, mentre il capitolo XII considera due casi parti­ colari di attività buona vulnerabile, ovvero l’attività politica e l’amore personale. Entrambi i capitoli discutono la posizione aristotelica circa il conflitto tra valori. Come transizione, l’In­ termezzo 2 esamina quali implicazioni queste teorie abbiano, all’interno della concezione aristotelica, per quanto riguarda il ruolo della tragedia e delle emozioni tragiche nell’apprendi­ mento umano. Il capitolo XIII ritorna alla tragedia del quinto secolo con un’interpretazione dell’Ecuba di Euripide che mo­ stra come perfino il buon carattere sia vulnerabile alla corru­ zione provocata dai rovesci della sorte. Sebbene l’argomenta­ zione poggi soltanto su materiale del quinto secolo, questa in­ terpretazione è stata posta alla fine del libro per mostrare la continuità tra il tentativo di Aristotele e la tradizione tragica, tanto importante per lo Stagirita. Questa ricerca filosofica è basata sulla esegesi di testi sto­ rici: fa riferimento ad una concezione della teoria etica che ap­ prossimativamente si può definire aristotelica e che viene ana­ lizzata e difesa nel capitolo V ili '6. Essa sostiene che la teoriz­ zazione etica procede attraverso un dialogo reciproco tra le in­ tuizioni e le convinzioni dell’interlocutore, o del lettore, e una serie di concezioni etiche complesse, ivi presentate ai fini del­ l’indagine. (Queste ultime, secondo Aristotele, dovrebbero idealmente includere le opinioni sia dei «molti» sia del «sag­ gio». ) Una tale indagine non può cominciare senza lettori o in­ terlocutori che abbiano già ricevuto un certo tipo di educa­ zione. La ricerca intende descrivere i valori e i giudizi di per­ sone che già possiedono intuizioni ed affetti definiti17; questi devono essere, in ultima analisi, il materiale dell’indagine. Ciò, tuttavia, non significa che il risultato dell’indagine sarà una mera ripetizione delle opinioni che il lettore avrebbe dato all’i­ nizio. Infatti, come Aristotele puntualizza (e come Socrate

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aveva mostrato prima di lui), molte persone, quando debbono generalizzare, avanzano risposte incompatibili con la comples­ sità e il contenuto delle loro stesse convinzioni. Queste persone hanno bisogno di imparare quali siano davvero i propri pen­ sieri. Quando, attraverso il lavoro sulle alternative e attraverso il dialogo reciproco, giungono ad una sistemazione armoniosa delle loro convinzioni, sia individualmente sia insieme agli al­ tri, esse raggiungono la verità etica, nel senso aristotelico di ve­ rità: una verità che è antropocentrica, ma non relativistica*. (Nella pratica raramente la ricerca è completa o sufficientemente esaustiva; la concezione che ne risulta non sarà che un candidato, quello attualmente migliore, alla verità.) Per col­ mare il salto tra la convinzione e la teoria è spesso utile lavorare sui testi e guidare l’interlocutore attraverso la spiegazione e la valutazione di una qualche posizione complessa — o meglio, di diverse posizioni alternative — rispetto al problema in que­ stione. Ciò ci consente un certo distacco dai nostri pregiudizi teoretici; e, se compiamo la nostra selezione con sufficiente at­ tenzione, possiamo sperare di esplorare le alternative più im­ portanti. Poiché i materiali greci, per quanto vari, presentano sol­ tanto alcune delle alternative etiche disponibili, non è qui pos­ sibile studiare a fondo altre importanti concezioni rivali, in primo luogo quella kantiana. Di conseguenza questo progetto costituisce soltanto una piccola parte di un progetto aristote­ lico più ampio. Come diverrà in seguito chiaro, credo che le conclusioni di questa ricerca siano molto attraenti. Sulla scorta delle mie attuali riflessioni, credo che esse possano decisa-

* Sia Aristotele che Socrate ritengono che la formulazione ottimale del sistema interno di credenze di ciascun individuo rappresenterebbe anche una concezione condivisibile da tutti coloro che si dedicano con serietà alla ricerca della verità. Ciò è possibile perché i maggiori ostacoli all’accordo ge­ nerale sono i difetti di giudizio e di riflessione; se ciascuno di noi viene gui­ dato attraverso le migliori procedure di scelta pratica, alla fine concorde­ remo tutti sulle questioni più importanti, sia etiche sia scientifiche. Io credo che questa posizione sia sostanzialmente corretta. Essa non viene difesa qui direttamente, ma gli esempi concreti e l’ulteriore discussione del metodo ari­ stotelico dovrebbero mostrare la sua forza. Le difficoltà che sorgono quando non si è d’accordo sulle «migliori procedure di scelta pratica» e la minaccia di circolarità che esse generano sono discusse specificamente nei capitoli V

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mente aspirare, in senso aristotelico, alla verità etica; tuttavia non pretendo ch’esse costituiscano la totalità di un tale più va­ sto progetto. Se il mio metodo è aristotelico, non ne viene pregiudicata l’intera indagine verso conclusioni aristoteliche? Se, come sem­ bra verosimile, esiste una connessione non accidentale tra le procedure ed i risultati di Aristotele, non si ammette così che l’esito sarà scontato? Si presenta, qui, un grave problema. 11 metodo aristotelico pretende di essere corretto verso tutte le convinzioni e le concezioni in competizione: in tal senso esso pretende di essere corretto verso il platonismo. Ma Platone non attribuisce un grande valore a questa correttezza impar­ ziale. Egli sostiene innanzi tutto che solo pochissime persone sono in grado di produrre riflessioni e scelte etiche serie; agli altri bisogna solamente dire quel che devono fare. Il punto di vista da cui si formulano giudizi corretti è molto lontano dalla condizione degli esseri umani comuni. In secondo luogo, al­ cune posizioni etiche, per esempio certe concezioni sviluppate nella tragedia, sono, secondo Platone, così nocive per l’anima che in una città ben ordinata dovrebbero essere del tutto escluse. Perciò nessuna procedura così rispettosa ed imparziale verso così tante cose e così tante persone, nessuna procedura che presenti le sue concezioni ai «molti», fianco a fianco con le opi­ nioni dei poeti tragici, può essere corretta nei confronti delle concezioni platoniche, almeno non secondo il concetto plato­ nico di correttezza. Questo mio impegno a procedere in modo aristotelico ha le stesse radici di ogni altro mio impegno: credo che non saprei scrivere o insegnare in un altro modo. Nel capitolo V ili pre­ sento una difesa del mio metodo che è, almeno parzialmente, non circolare; difendo, inoltre, la residua circolarità giudican­ dola ricca ed interessante (cap. X); e nel capitolo V sostengo che Platone condivide con Aristotele molti più aspetti metodologici di quanti possano essere qui indicati sommariamente. Per ora posso solamente invitare ü lettore a tener sempre pre­ sente il modo in cui il mio metodo influenza il risultato. E così possibile valutare con maggiore comprensione la sfida plato­ nica contro questo metodo e può risultare più chiaro come essa sia legata alle conclusioni di Platone. C ’è una differenza ovvia tra il mio procedimento in questo

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libro ed il modo in cui alcuni filosofi contemporanei, per esem­ pio Sidgwick e Rawls, hanno affrontato un’indagine etica di tipo aristotelico. Si tratta del fatto che io ho scelto di usare certi testi, per la precisione quattro drammi tragici, che sono tradizionalmente considerati opere di «letteratura» piuttosto che di «filosofia». Abitualmente si pensa che questi testi appar­ tengano a generi molto diversi e che affrontino le questioni eti­ che con modalità molto differenti I Greci non la pensavano evidentemente così19. Per loro c’erano le vite umane con i loro vari problemi e i diversi generi di prosa e di poesia, con i quali si poteva riflettere su questi problemi. Difatti i poeti epici e tra­ gici erano generalmente considerati come i pensatori ed i mae­ stri più importanti della Grecia; nessuno credeva che le loro opere fossero meno serie, meno rivolte alla verità, dei trattati in prosa degli storici o dei filosofi. Platone non considera i poeti come colleghi di un altro dipartimento, dediti a scopi diversi, bensì come pericolosi rivali. La sua scelta di creare uno stile che noi consideriamo «filosofico» è legata a specifiche opinioni sulla vita buona e sull’anima umana; noi commettiamo una grave ingiustizia verso i suoi argomenti antitragici quando diamo per scontata questa distinzione tra filosofia e letteratura e assu­ miamo senza alcuna discussione che, in una indagine dedicata alla verità etica, si possano trascurare le opere letterarie. Discu­ teremo in seguito, nel primo Intermezzo, l’attacco di Platone contro i tragediografi; il problema viene considerato anche in altri luoghi, specialmente nei capitoli II, III, VII e nell’Inter­ mezzo 2. Ma dobbiamo sin d’ora fare alcune osservazioni pre­ liminari per chiarire l’importanza delle opere letterarie per il nostro studio. (Non si deve credere che queste osservazioni diano per scontata quella distinzione; esse fanno riferimento ai nostri modi convenzionali di classificare i testi ma non li giusti­ ficano.) Il classicista o il letterato saranno probabilmente con­ vinti in partenza che queste opere possano legittimamente aspirare alla verità ed alla conoscenza umana. Ma il lettore che affronta il libro dalla prospettiva della tradizione filosofica (so­ prattutto della tradizione anglo-americana) rimarrà con delle questioni irrisolte. Perché questo tentativo di lavorare con le più importanti alternative etiche dovrebbe rivolgersi alla poe­ sia drammatica anziché limitarsi alle opere dei filosofi cano­ nici? Perché un libro che associa se stesso all’aristotelismo di Sidgwick e Rawls usa un tipo di testi che né Sidgwick né Rawls

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includono nel loro esame della tradizione etica? Sono vera­ mente indispensabili questi testi? Innanzi tutto, se anche il nostro scopo fosse solamente quello di chiarire il pensiero di Platone ed Aristotele intorno ai problemi che ci siamo posti, sarebbe molto importante esami­ nare la tradizione etica della poesia, nella quale sono radicate le loro opere e sul cui sfondo essi sviluppano la propria rifles­ sione. Durante la composizione di questo libro nulla è per me emerso più chiaramente del fatto che bisogna considerare il pensiero di Platone come una risposta alla tradizione culturale greca, motivata dai problemi e dalle preoccupazioni in essa presenti. Inoltre lo stile di Platone, nella scelta delle immagini, dei miti e delle espressioni, allude con una altissima frequenza al suo contesto poetico, tanto che il significato di molti dettagli importanti viene perso se non si tiene presente tale contesto. Ma non intendo studiare le tragedie solo in modo strumen­ tale, cioè in vista di una migliore comprensione di Platone. Né intendo studiarle per ricostruire il contesto del pensiero popo­ lare al quale i filosofi si opposero per ricercare la verità20. In ogni caso il mio metodo aristotelico può rendere lo studio del pensiero popolare molto più rilevante per la ricerca della verità di quanto pensino molti storici della moralità popolare greca. Ma, per una cultura la cui moralità sopravvive in gran parte solo in testi di grande valore artistico, un così vasto e sistema­ tico studio storico presenta enormi problemi di ricostruzione e va molto al di là delle possibilità di questo libro. Io intendo, inoltre, studiare le opere dei poeti tragici così come le studiò Platone: come riflessioni etiche di pieno diritto, che costitui­ scono, sia nei contenuti sia nello stile, una particolare conce­ zione dell’eccellenza umana. In altri termini, pur conside­ rando, dove sia in qualche modo possibile, la relazione che lega le tragedie al pensiero dei «molti», esse verranno di regola trattate come creazioni del «saggio», come opere di particolare valore, cui una cultura guarda per raggiungere la conoscenza. Per difendere questa scelta posso offrire due argomenti preli­ minari. Il primo riguarda il valore di questi testi per l’indagine dei particolari problemi etici di cui qui mi occupo; il secondo intende difendere il valore di questo genere di testi per l’inda­ gine di qualsiasi problema etico in generale. E verosimile che le composizioni tragiche, in virtù della loro materia e della loro funzione sociale, scoprano ed espio-

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rino problemi concernenti gli esseri umani e la fortuna che un testo filosofico può omettere o evitare. Poiché le tragedie met­ tono in scena le storie elaborate da una intera cultura per riflet­ tere sulla situazione umana e poiché, al loro interno, esse ana­ lizzano le esperienze di alcuni personaggi complessi, ben diffì­ cilmente dissimulano la vulnerabilità della vita umana alla for­ tuna, la mutabilità della nostra condizione e delle nostre pas­ sioni, l’esistenza di conflitti tra i nostri principi21. Un’opera fi­ losofica di tipo tradizionale, che non si concentra intenzional­ mente sulle storie di personaggi concreti, ma ricerca una mag­ giore sistematicità o una maggiore purezza, può perdere di vi­ sta tutti i fatti appena accennati. Ciò è successo di frequente sia nella tradizione greca sia nella nostra. Per illustrare questo pro­ blema, nel prossimo capitolo metterò a confronto le riflessioni di due tragedie greche sul conflitto pratico con le presunte so­ luzioni date a questo problema da alcuni recenti testi filosofici, i quali, sommando la loro influenza a quella di Platone, hanno contribuito ad allontanare molti pensatori dalle concezioni tra­ giche. Questo paragone ci aiuterà sia a comprendere più chia­ ramente la tragedia sia a scoprire un motivo per ritornare alla tragedia. Se desideriamo esplorare concezioni etiche alterna­ tive e se la tragedia, per sua natura, ci offre una prospettiva in­ teressante, abbiamo con ciò una ragione per essere sospettosi verso i confini disciplinari convenzionali e per includere la poesia tragica nella ricerca etica. Tuttavia questa ragione non è sufficiente, poiché l’obiet­ tivo di riflettere sulla fortuna partendo dai contenuti complessi e concreti della tragedia può essere realizzato anche all’interno del discorso filosofico tradizionale, semplicemente usando esempi tratti dalla poesia tragica e dal mito22. Noi dobbiamo offrire al­ tri motivi per dimostrare che, invece, vogliamo leggere le tra­ gedie nella loro interezza e discuterle in tutta la loro comples­ sità poetica. Possiamo, dunque, vedere uno specifico contri­ buto alla nostra indagine proprio nel fatto che esse sono poemi tragici complessi? La risposta a questa domanda deve emer­ gere soprattutto dalla lettura dei singoli capitoli. Ma possiamo provvisoriamente dire che un intero dramma tragico, diversamente da una discussione filosofica sviluppata solo su esempi desunti dai tragici, è nella sua interezza in grado di tracciare la storia di un modello di deliberazione complesso, mostrando come esso sia radicato in un certo stile di vita ed anticipando le

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sue conseguenze future. In questo modo una tragedia riesce a percepire la complessità, l’indeterminatezza, la grande diffi­ coltà presenti in una effettiva deliberazione umana. Se un filo­ sofo dovesse usare la storia di Antigone come un esempio filo­ sofico, egli o ella, riportandola schematicamente, dovrebbe in­ dicare all’attenzione del lettore le cose degne di essere conside­ rate. Dovrebbe evidenziare soltanto ciò che è strettamente rile­ vante. Una tragedia non mostra i dilemmi dei suoi personaggi in modo prearticolato; essa mostra i personaggi mentre cer­ cano ciò che è moralmente importante; ed essa ci costringe, come interpreti, ad essere attivi nello stesso modo. Interpre­ tare una tragedia è un compito più confuso, meno determi­ nato, più misterioso che valutare un esempio filosofico; ed an­ che quando l’opera è stata interpretata, essa non è esaurita e resta soggetta a nuove valutazioni. Tutto ciò non vale per l’e­ sempio. Introdurre il materiale tragico al centro di una inda­ gine etica sui problemi della ragione pratica vuol dire, allora, aggiungere al suo contenuto un’immagine delle procedure e dei problemi razionali che non può essere opportunamente espressa in nessun’altra forma. Ma ancora una volta non è chiaro se questi argomenti co­ stituiscano un motivo sufficiente per usare le tragedie nella no­ stra indagine. Infatti, si potrebbe obiettare, le concezioni di Platone e di Aristotele potrebbero essere senz’altro assunte come metri di valutazione, e non solo contro gli esempi sche­ matici, ma anche contro i dati dell’esperienza di ciascun let­ tore. Infatti l’esperienza di ogni essere umano mostra quanto indeterminata ed ardua sia la nostra indagine, che si interroga proprio sulla nostra difficile relazione con la fortuna. (Pos­ siamo porre questo problema in termini storici, chiedendoci perché Aristotele, che insiste sul ruolo centrale dell’esperienza nella saggezza pratica, debba anche insistere sulla importanza dei componimenti tragici, considerandoli parte della educa­ zione morale di ogni cittadino; questo aspetto sarà affrontato nell’Intermezzo 2.) Di certo un’importante parte della nostra ricerca consisterà nell’esame che ciascun lettore farà del testo, mettendolo a confronto con la propria esperienza e con le pro­ prie intuizioni etiche. Ma, a differenza della esperienza di cia­ scuna persona, il componimento tragico è ugualmente accessi­ bile a tutti i lettori quando essi riflettono sulla vita buona. Esso rappresenta, inoltre, una rielaborazione abile ed accurata di

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una storia umana, volta a portare all’attenzione del lettore de­ terminati temi e questioni. Esso può, tra l’altro, far avanzare quella conversazione tra i lettori che è necessaria alla realizza­ zione del progetto aristotelico, i cui fini sono, in ultima istanza, definiti nei termini di un «noi», di persone che desiderano vi­ vere insieme e condividere una stessa concezione dei valori. Un componimento tragico sarà sufficientemente distante dal­ l’esperienza di ciascun lettore da non far emergere pregiudizi e interessi egoistici discordanti; e tuttavia (se ci riesce fino in fondo l’ardua operazione storica necessaria per mostrare fino a che punto dobbiamo e non dobbiamo condividere le perples­ sità dei Greci*) può valere come un’estensione o una condivi­ sione dell’esperienza di tutti i lettori. Può, dunque, promuo­ vere l’indagine personale, mentre facilita la discussione in co­ mune. In breve, ha tutti i vantaggi per cui noi innanzi tutto ci rivolgiamo ai testi, al «saggio», oltre ai benefici caratteristici che vengono dal suo carattere poetico. La poesia tragica può dunque donare ad un’indagine sulla fortuna e sulla bontà umana un carattere distintivo che può an­ dare smarrito se ci confiniamo ai testi filosofici convenzional­ mente ammessi; una tragedia può dare questo suo contributo nel modo migliore se viene studiata per esteso e in tutta la sua complessità poetica. Il suo contenuto non è separabile dal suo stile poetico. Diventare poeta non era considerato dai Greci, né dovrebbe esserlo da noi, come una questione eticamente * La risposta a questa domanda non può essere data tutta in una volta, ma può solo emergere dal lavoro sui casi particolari. Qui mi limiterò ad affer­ mare una mia convinzione: Nietzsche aveva ragione nel pensare che una cul­ tura in lotta contro le vaste perdite provocate dalla fede giudaico-cristiana può recuperare le sue costanti intuizioni sul valore ritornando ai Greci. Se ri­ fiutiamo le lenti della fede cristiana, possiamo non solo vedere i Greci in modo più vero, ma possiamo anche capire quanto essi siano veri per noi — cioè per quella duratura tradizione etica che non è stata né sostituita né irre­ vocabilmente alterata dalla supremazia dell’insegnamento cristiano (e kan­ tiano). I problemi della vita umana di cui si occupa questo libro non sono molto cambiati con il passare dei secoli; e se evitiamo di considerare primi­ tive le risposte dei Greci, possiamo vedere che essi hanno articolato su questi problemi certe intuizioni e certe risposte che gli esseri umani hanno nutrito da sempre. Tuttavia coglieremo l’elemento della continuità nel miglior modo se evidenzieremo con attenzione i punti nei quali la storia ha alterato l’a­ spetto del problema.

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neutra. Le scelte stilistiche — l’adozione di certi metri, di certe immagini e vocaboli — venivano considerate strettamente col­ legate ad una determinata concezione del bene. Anche noi dobbiamo essere coscienti di queste relazioni. Quando ci do­ mandiamo quale sia per noi la concezione etica più obbligante, dovremmo chiederci quale stile o quali stili esprimano nel modo più appropriato la nostra aspirazione a divenire esseri umani razionali. Questo ci porta alla seconda linea del nostro argomento. Infatti ora cominciamo a vedere i motivi per i quali le opere poetiche sono indispensabili ad un progetto etico aristotelico, anche indipendentemente dalle nostre specifiche questioni eti­ che. La tradizione filosofica anglo-americana è stata sempre in­ cline a credere che un testo etico debba, nel procedere dell’in­ dagine, entrare in rapporto solamente con l’intelletto; un testo non deve essere attraente per le emozioni, i sentimenti, le sen­ sazioni. Platone sostiene esplicitamente che l’apprendimento etico deve procedere separando l’intelletto dalle altre parti me­ ramente umane; molti altri scrittori continuano a far proprio questo assunto, anche senza condividere la concezione intellet­ tualistica di Platone23. L ’interazione che noi abbiamo con l’o­ pera di un poeta tragico non è di questo tipo. La nostra attività cognitiva, quando esploriamo le concezioni etiche rappresen­ tate in una tragedia, implica alcune fondamentali risposte emo­ zionali. Osservando i nostri sentimenti scopriamo quali sono le nostre convinzioni sugli eventi rappresentati; l’indagine della nostra geografia emozionale rappresenta un elemento fondamentale della nostra ricerca volta alla conoscenza di noi stessi. (Anche questa spiegazione è troppo intellettualistica, perché noi vedremo che le risposte emozionali possono talvolta essere non solo un mezzo per la conoscenza della propria situazione pratica, bensì anche una sua parte costitutiva) 2\ Spesso si suppone semplicemente che questa caratteristica della poesia tragica in particolare e dei testi letterari in generale li renda non idonei ad essere usati in una vera indagine etica. Anche Iris Murdoch, uno dei pochi filosofi anglo-americani che sia anche una notevole scrittrice di letteratura, sostiene che lo stile filosofico — lo stile che ricerca e che vuole compren­ dere la verità, che non mira quindi al semplice intrattenimento — è scevro da attrattive non intellettuali:

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Naturalmente i filosofi sono differenti e alcuni sono più «lette­ rari» di altri, ma sono tentata di dire che esiste uno stile filosofico ideale che possiede una particolare schiettezza e franchezza, uno stile austero, altruista, ingenuo. Un filosofo deve tentare di spiegare esat­ tamente ciò che intende ed evitare la decorazione retorica e vana. Naturalmente ciò non esclude l’arguzia e gli intermezzi occasionali; ma quando il filosofo si trova, per così dire, in prima linea, di fronte al suo problema, parla, secondo me, con una voce particolare: fredda, chiara, riconoscibile25.

Iris Murdoch sembra assumere l’esistenza di uno stile filo­ sofico neutro rispetto ai contenuti, adatto alla indagine impar­ ziale di tutte le opposte concezioni. Ella suppone, inoltre, che questo è lo stile della ragione, schietto e franco, scevro da ri­ chiami alle emozioni ed ai sensi. Questa idea, dominante nella nostra tradizione filosofica, può essere fatta risalire almeno a Locke, il quale scrive che gli elementi retorici ed emotivi dello stile sono simili ad una donna: piacevoli ed addirittura deliziosi quando sono mantenuti al loro posto, dannosi e fonte di corru­ zione se viene loro permesso di prendere il sopravvento. Ma queste conclusioni trascurano un importante problema nella ricerca della saggezza: quali parti della persona giocano un ruolo in questa ricerca ed in che modo sono fra loro correlate? Platone, il più importante creatore dello stile descritto da Iris Murdoch, non trascurò questo problema. Egli credeva che lo stile «schietto» e «franco» esprimesse una certa concezione etica e che per essere corretti verso una concezione differente fosse necessario adottare uno stile diverso. Se ciò è vero, una indagine aristotelica non può pretendere di essere imparziale verso tutte le alternative. Infatti il suo stile e gli stili che essa privilegia nei testi esprimono dal principio alla fine una parti­ colare concezione dell’indagine razionale, nella quale l’emo­ zione e l’immaginazione svolgono, al massimo, un ruolo deco­ rativo e sussidiario. Se noi permettiamo che questi elementi della personalità giochino un ruolo nel nostro discorso — e ciò diventa facile se esaminiamo testi che chiamano in causa quegli elementi — avremo probabilmente una valutazione completa ed equilibrata delle alternative etiche. Emerge qui una grave difficoltà, simile a quella che ab­ biamo incontrato a proposito del metodo. Infatti anche la no­ stra indagine è un’opera scritta e deve scegliere come attrarre il lettore e come organizzare la sua conversazione con lui. Quando

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leggiamo testi che posseggono stili differenti dobbiamo sce­ gliere anche noi il modo in cui vogliamo scrivere su di essi; la scrittura, come la scelta dei testi, avrà un’importante influenza sulla natura della nostra conversazione. Qui corriamo il peri­ colo di lasciarci trascinare in un famoso argomento scettico. Se dobbiamo giudicare tra diversi modi di insegnare e di scrivere in competizione tra di loro, ovvero se dobbiamo scegliere tra testi poetici e testi filosofici, abbiamo bisogno di un criterio che ci consenta di formulare una valutazione libera da pregiu­ dizi. Ma per sapere quale tipo di indagine e quale tipo di scrit­ tura ci forniranno il criterio di giudizio, dobbiamo avere già de­ ciso la questione in favore di una concezione. Possiamo inda­ gare nello schietto stile «filosofico» oppure con una scrittura che sia più vicina alla poesia e sappia attrarre più di una «parte» della nostra personalità; o possiamo usare stili differenti nelle diverse parti della indagine. Ma nessuna soluzione è neutrale e qualsiasi scelta pregiudica l’indagine a proprio favore. Naturalmente si corre un gravissimo pericolo se si cerca un punto di appoggio equidistante ed una scrittura pura, traspa­ rente, scevra da interpretazione. Non disponiamo né di questo punto privilegiato né di questa scrittura, né per questa né per altre questioni affini. E tuttavia, come nel caso del metodo, il critico ci sta ponendo una richiesta giusta dal momento che egli o ella chiede una maggiore autocoscienza mentre si pro­ cede. Possiamo raggiungere una qualche forma di obiettività esplicitando pazientemente le possibili fonti di pregiudizio per l’indagine. Troppe investigazioni concernenti il valore filoso­ fico del testo letterario vengono sviate sin dall’inizio perché si lavora esclusivamente, e senza esame, in uno stile filosofico convenzionale. Il ricercatore mostra, così, di sapere innanzi tempo che cosa sia la razionalità e come debba essere espressa nella scrittura. Considerate le mie forze di scrittrice, credo che il modo migliore di affrontare questo compito sia quello di ten­ tare di variare lo stile in modo che sia appropriato alla conce­ zione etica cui, caso per caso, faccio riferimento; vorrei inoltre mostrare nella mia scrittura lo spettro completo delle mie rea­ zioni ai testi tentando di evocare identiche risposte nel lettore. Questa soluzione presenta alcuni limiti. Io spero che la scrit­ tura nel suo complesso esemplifichi alcune virtù cui faccio rife­ rimento; e, pensando al modo di scrivere, non ho tentato di as­ segnare un tempo uguale al contrario di quelle virtù, come l’a-

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varizia ed il cauto riserbo. Come nel caso del metodo, alcuni compiti sono troppo profondi per essere considerati da una prospettiva neutrale. La flessibilità stilistica del libro è limitata anche dal fatto che io scrivo, ovviamente, una critica sulla poe­ sia e non una vera e propria poesia (cfr. Intermezzo 2). La mia scrittura, dunque, rimarrà sempre legata alle facoltà critiche, alla chiarezza ed alla coerenza argomentativa. Essa vuole anche rendere esplicite molte connessioni che nella poesia rimangono implicite. Ma io tento anche di occuparmi delle immagini tra­ giche (e platoniche) e delle situazioni drammatiche in modo tale che il lettore non solo rifletta, ma senta anche la loro forza. Se talvolta, dunque, scrivo «in modo poetico», ciò accade per­ ché ho deciso che nessun altro stile potrebbe in questo caso es­ sere imparziale verso le affermazioni del testo e verso la conce­ zione in esame. Il lettore che desidera seguire questi problemi dello stile at­ traverso il libro intero li troverà discussi in diversi capitoli. I capitoli II e III commentano ampiamente i contributi appor­ tati dalla forma e dallo stile tragici all’investigazione dei nostri argomenti. L ’Intermezzo 1 esamina il debito reale di Platone nei confronti del dramma tragico e le sue ragioni per abbando­ nare quello stile. Il capitolo VI continua queste riflessioni, mo­ strando come il Simposio colleghi le concezioni òeWeros espresse dai simposiasti alle loro opinioni e alle loro scelte stilistiche. Il capitolo VII afferma che nel Fedro il cambiamento nelle posi­ zioni etiche di Platone è accompagnato da trasformazioni nella teoria e nella pratica della scrittura. Quest’ultimo capitolo con­ tinua la discussione, già cominciata nell’Intermezzo 1, sulle cri­ tiche di Platone ai poeti e dimostra che il Fedro risponde a quelle accuse. Infine l’Intermezzo 2, nella sezione dedicata ad Aristotele, ritorna agli stessi argomenti e mostra che in Aristo­ tele la critica alle concezioni etiche di Platone si accompagna ad un’alta considerazione per lo stile e per l’azione tragici, in­ tesi come fonti di educazione etica. Possiamo ora delineare, in via introduttiva, alcuni dei risul­ tati concreti prodotti da questa giustapposizione tra testi filo­ sofici e loro precedenti letterari. Questa operazione può essere fatta nel modo più chiaro se confrontiamo i nostri risultati con le posizioni di due recenti studi. Nella sua ultima rassegna sulla storia della filosofia greca26 Bernard Williams conclude una se-

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/ione sul pensiero etico di Platone e di Aristotele con alcune osservazioni sulla fortuna e sull’autosufficienza razionale: La sensazione di essere esposti alla fortuna viene espressa più profondamente in altri luoghi della letteratura greca, soprattutto nella tragedia. Lì il continuo riferimento all'insicurezza della felicità riceve la propria forza dal fatto che i personaggi mostrano un grado di responsabilità, orgoglio, ossessioni, bisogni che li espone in egual misura al disastro e dal fatto che essi vanno incontro alla catastrofe con piena consapevolezza. Il senso di queste considerazioni, che ciò che è grande è fragile e ciò che è necessario può essere distruttivo, presente nella letteratura del quinto secolo e di quelli precedenti, scomparve dall’etica dei filosofi e forse anche dalla loro mente [...]. La filosofia greca, nella sua costante ricerca dell’autosufficienza ra­ zionale gira le spalle al tipo di esperienza e di necessità umana che viene espresso nella sua massima purezza e ricchezza dalla letteratura greca. Se alcune caratteristiche dell’esperienza etica del mondo greco possono non solo aver senso per noi oggi, ma anche avere un senso migliore di tante cose a noi più vicine, esse non si trovano tutte nella filosofia. Assodate l’ampiezza, la forza, l’immaginazione, la profon­ dità investigativa del fondamento dato dai Greci alla filosofia occi­ dentale, diviene ora importante considerare seriamente l’osserva­ zione di Nietzsche: «Tra le più grandi caratteristiche degli Elleni c’è la loro incapacità di tradurre in riflessione le loro cose m igliori»27.

Le affermazioni di Williams si accordano bene con gli ar­ gomenti che ho portato per includere la tragedia in questa in­ dagine. Ma se egli avesse ragione il mio studio potrebbe con­ cludersi con i primi tre capitoli. Infatti i filosofi, intenti a ricer­ care l’autosufficienza in un modo che altrove Williams chiama «bizzarro», semplicemente non sarebbero riusciti a sentire la forza dei problemi e l’attrazione dei valori tragici. Questi pro­ blemi e valori sarebbero «scomparsi» completamente dalla loro opera. La continuità tra la tragedia e la filosofia greche su questi temi è, tuttavia, molto più grande di quanto Williams ammetta. Da una parte la tragedia stessa offre notevoli ritratti dell’aspi­ razione umana all’autosufficienza razionale; essa ci fa capire che questa ambizione è legata al fatto che siamo esposti alla fortuna. D ’altra parte la ricerca filosofica platonica per una vita buona e autosufficiente è sorretta da una acuta percezione de­ gli stessi problemi. Lungi dall’aver dimenticato il vero argo-

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mento della tragedia, egli è così consapevole dei problemi che sorgono dall’esposizione umana alla fortuna, che solo una so­ luzione radicale gli sembra adeguata alla loro gravità. Inoltre Platone non è ignaro dei costi di questa soluzione. Come più tardi argomenterò, nei dialoghi come il Protagora o il Simposio egli riconosce che il conseguimento dell’autosufficienza ri­ chiede la rinuncia a gran parte della vita umana e della sua bel­ lezza, così come esse ci sono note sulla base della nostra espe­ rienza. Sosterrò anche che nelle sue ultime opere Platone svi­ luppa una profonda critica contro l’ambizione all’autosuffi­ cienza e che, in tal modo, si ricollega alla critica dell’umana ambizione formulate dalla tragedia (cfr. cap. VII, soprattutto n. 36). Nella terza parte mostrerò, quindi, come Aristotele tenti di sviluppare una forma di stabilità senza che ciò produca una perdita tragica dei valori specificamente umani. Egli arti­ cola una concezione dell’autosufficienza valida per una vita umana limitata; allo stesso tempo propone una visione del va­ lore umano strettamente connessa al quadro complessivo che di esso ci offrono le tragedie. La possibile conclusione è che, con pace di Nietzsche, i Greci tradussero in riflessione le loro cose migliori — in tutta la loro ampiezza e complessità. Un altro recente studio dedicato alle idee dei Greci sulla ragione pratica rovescia la prospettiva. In Le astuzie dell’intelli­ genza nell’antica Grecia28 Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne concordano con Williams sul fatto che la filosofia greca non è riuscita a descrivere adeguatamente il modo in cui il va­ lore e la ragione umani sono esposti alla fortuna; essi sono d’accordo sul fatto che alcune aree molto importanti della vita umana sono totalmente assenti dalla riflessione dei filosofi e che tali aree sono caratterizzate meglio nei testi non-filosofici. Ma qui le similitudini finiscono. Infatti, mentre Williams crede che la tradizione filosofica sia ossessionata dalla ricerca della autosufficienza pratica, Detienne e Vernant pensano che que­ sto sia l’obiettivo ossessivo della tradizione extrafilosofica. Essi sostengono che in Grecia vi sono due concezioni distinte ed opposte della ragione umana. Da una parte abbiamo la ragione speculativa dei filosofi che si occupa degli oggetti stabili e della contemplazione astratta. Questa ragione non deve preoccu­ parsi della fortuna e del controllo poiché i suoi oggetti sono stabili ed invulnerabili sin dall’inizio. Essa, inoltre non ha al­ cuna finalità pratica. (Gli autori non colgono mai nelle preoc-

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cupazioni pratiche le motivazioni originali delle posizioni dei filosofi.) Dall’altra parte c’è la ragione pratica presente in gene­ razioni di testi extrafilosofici, un tipo di intelligenza versatile e pieno di risorse che si occupa degli oggetti mutevoli di un mondo tutto costituito di particolari concreti. La finalità di questo tipo di ragione, che Vernant e Detienne associano alla parola métis (e ad altre parole affini come dolos e techne), è quella di sottomettere e padroneggiare gli oggetti del mondo esterno usando stratagemmi intelligenti. Le immagini tipica­ mente evocate a questo proposito sono quelle del cacciare e del tendere trappole, del pescare e del prendere al laccio, dell’aggiogare e del legare. Gli scopi attribuiti da Detienne e Ver­ nant alla ragione extrafilosofica assomigliano molto alle finalità dei filosofi secondo Williams: l’obiettivo della ricerca è l’auto­ sufficienza, l’eliminazione del potere della fortuna sregolata. Detienne e Vernant insistono sulla precarietà del dominio; stando alle immagini evocate, il controllo, anche quando venga raggiunto, è spesso instabile e di breve durata. Ma gli autori ri­ badiscono che per la tradizione greca il dominio dell’intelli­ genza è l’obiettivo di maggior valore e rappresenta senza dub­ bio qualcosa di bello. La mia ricostruzione sarà differente da quella di Detienne e Vernant per due aspetti. In primo luogo io sosterrò che la con­ cezione platonica della vita razionale, compresa la sua enfasi sugli oggetti stabili ed altamente astratti, continua direttamente quella aspirazione alla autosufficienza razionale, otte­ nuta «intrappolando» e «legando» le qualità inafferrabili del mondo, che viene ripetutamente messa in scena nei testi pre­ platonici. Le immagini che Platone usa nel suo tentativo filoso­ fico rivelano che egli stesso percepiva questa continuità di obiettivi. Ma allo stesso tempo io sosterrò che nella tradizione greca questa persistente immagine della ragione non è l’unico modello importante di relazione tra ragione e fortuna. Sia la métis sia l’autosufficienza platonica omettono la rappresenta­ zione dell’eccellenza mostrataci nell’immagine tradizionale dell'arete come pianta: un tipo di valore umano che è insepara­ bile dalla vulnerabilità, un’eccellenza che è per natura sociale e relazionata all’altro, una razionalità la cui natura non consiste nell’afferrare, trattenere, intrappolare e controllare, bensì con­ cede una parte importante all’apertura, alla ricettività, alla me­ raviglia. Come vedremo, in ogni momento del suo sviluppo

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cronologico l’immagine della ragione rappresentata come un cacciatore viene avversata, criticata e limitata dalle varianti del­ l’immagine vegetale, la quale vuole far valere proprio quel no­ stro essere esposti alla fortuna che la métis cerca di eliminare. (Io credo che questo sia il punto essenziale presente, secondo Williams, nella tragedia: il riconoscimento non solo del fatto che siamo esposti alla fortuna, ma anche del suo valore.) Stando a questa immagine, cacciare ed intrappolare non sol­ tanto sono difficili, bensì si presentano come scopi non adatti ad una vita umana (cfr. cap. VII, n. 36). Gli schemi non possono sostituire le argomentazioni: tutti gli elementi verranno ulteriormente indagati nelle nostre argo­ mentazioni; ma uno schema può aiutarci a tenere sott’occhio il progressivo sviluppo delle immagini in queste due concezioni normative della razionalità pratica umana29: A

agente: un cacciatore, maschile agente puramente attivo scopo: attività ininterrotta; controllo; eli­ minazione del potere dell’esterno anima: dura, impenetrabile fiducia riposta solamente neH’immutabile e in ciò che è completamente stabile intelletto come pura luce solare vita buona solitaria

B

agente: una pianta, un bambino, femmi­ nile (o con elementi sia maschili sia fem­ minili) agente sia attivo sia passivo/ricettivo scopo: attività e ricettività; controllo li­ mitato, bilanciato da rischio limitato; vi­ vere bene in un mondo in cui l’esterno ha potere anima morbida, porosa, tuttavia con una struttura definita fiducia riposta nel mutevole e nell’insta­ bile intelletto come acqua corrente, data e ri­ cevuta vita buona con gli amici, gli amati e in comunità

Se il lettore ricorderà alcune di queste opposizioni* esse potranno aiutare a coordinare il materiale delle diverse parti — mostrando, tra l’altro, quanto profondamente le immagini di Platone siano radicate nella tradizione culturale greca. La mia argomentazione, molto rozzamente, sarà la seguente: la trage­ dia sviluppa entrambe le norme, A e B, criticandoci rispetto al * E importante notare che B non è l’opposto polare di A: è la combina­ zione bilanciata degli elementi accentuati e coltivati in A con gli elementi che A evita e sfugge.

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valore umano specificamente contenuto soltanto in B; Platone, trovando intollerabili i rischi implicati da B, sviluppa una note­ vole versione di A, ma poi la critica perché insufficiente ri­ spetto ad alcuni importanti valori umani; Aristotele articola e difende una versione di B, sostenendo che essa si adatta alle nostre intuizioni pratiche più profonde e che quest’ultime ri­ guardano la giusta relazione che deve avere con la fortuna un essere posto tra la bestia e il dio e in grado di vedere certi va­ lori che non sono accessibili né all’una né all’altro30. Note al capitolo primo 1 Pindaro, Nemea V ili, 40-42, trad. it. L. Traverso, Firenze, 1989, con modifiche. Le citazioni seguenti sono dai versi 39 e 42-44. «Vite» risulta da una emendazione di Bury che viene accettata da molti anche se non da tutti; il testo non emendato leggerebbe: «come una pianta si innalza verso l’alto». Questa variante non muta in alcun modo la mia argomentazione. Su arete come «eccellenza» vedi p. 52. 2 Le convenzioni del genere epinicio sono state studiate a fondo nel lavoro ormai classico dell’ultimo E. Bundy, Studia Pindarica, Berkeley, 1962, che ha tra­ sformato la critica pindarica mostrando fino a quale punto siano le convenzioni comuni e non i puri fatti autobiografici a modellare sia l'immagine che il poeta offre di sé sia gli altri elementi della sua pratica. Su questi sviluppi della critica vedi H. Lloyd-Jones, Modem interprétation ofPindar, in «Journal of thè History ol Philosophy», 93 (1973), pp. 109-137; per un’acuta introduzione a Pindaro e alla critica che lo riguarda vedi H. Lloyd-Jones, « Pindar», lecture on a Master Mind, in «Proceedings of thè British Academy», 68 (1982), pp. 139-163. Due studi recenti sulla tradizione dell’epinicio e sul posto occupato in essa da Pin­ daro sono quelli di M.R. Lefkowitz, The Victor) Ode, Park Ridge, NJ, 1976 e di K. Crotty, Song and Action, Baltimore, 1982. 3 L’immagine della pianta è molto tradizionale: vedi per esempio l’o­ merico Inno a Demetra, 237-241 e Iliade, XVIII, 54-60; 437-441 per quanto riguarda la crescita di un eroe. Altre testimonianze posteriori verranno ana­ lizzate nei capitoli III, IV, VI, VII e XIII. Per una discussione molto interes­ sante sulla connessione tra l’immagine della pianta e il lamento, da cui viene confermata la nostra idea che la pianta esprima l’immagine dell’eccellenza ti­ picamente mortale e vulnerabile, vedi G. Nagy, The Best of Achaeans, Balti­ more, 1978, pp. 181 ss. Nagy offre un chiaro resoconto dello sviluppo, nella tradizione poetica arcaica, di un’immagine dell’eccellenza umana che è op­ posta alla condizione dell’essere autosufficiente o privo di bisogni. (Ho di­ scusso il precedente lavoro di Nagy dedicato allo stesso argomento nel mio Psyché in lìeraclitus, II, in «Phronesis», 17 (1972), pp. 153-170, dove identi­ fico in Eraclito un contrasto tra l’eccellenza autosufficiente degli dei e l’ec­ cellenza bisognosa degli esseri umani.) Per altro materiale attinente alle con­ cezioni della «condizione umana» nella poesia greca arcaica vedi J. Redfield, Nature and Culture in thè Iliad, Chicago, 1975, particolarmente pp. 60-66 e 85-88. L’uso peggiorativo che Aristotele fa delfimmagine della pianta sarà

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discusso in seguito nei capitoli Vili e XI. Vedi anche Platone, Timeo, 90 a, dove si insiste sul fatto che noi non siamo piante terrene, bensì celesti. Alcuni importanti materiali platonici ed aristotelici vengono discussi in E.N. Lee, Hoist with his own pétard: ironie and comic éléments in Plato’s critique of Pro­ tagoras (Thaet. 161-171), in Exegesis and Argument: Studies in Greek Philosophy Presented to Gregory Vlastos, in «Phronesis», suppl. 1, Assen, 1973. Per altri usi dell’immagine della pianta in questa poesia di Pindaro vedi eblasten al verso 7 (il bambino «germogliò»), phytytbeis del verso 28 (la prosperità può essere «piantata e custodita» con l’aiuto degli dei). 4 Ciò sembra essere implicato dalla presenza del verbo masteuei: con­ fronta Eschilo, Agamennone, 1093-1094 e il commento a questo passo di E. Fraenkel, Aeskylus: Agamemnon, Oxford, 1950, ad loc. La parola sembra, in generale, significare: «ricercare», «inseguire», «seguire le orme». Nel passo di Eschilo Clitennestra viene esplicitamente paragonata ad un cane da caccia che annusa la traccia del sangue; la frase seguente mateuei d’hon aneuresei phonon viene tradotta da Fraenkel con «ella è sulle tracce degassassimo [...]»; altri offrono versioni simili. Data la relativa rarità della parola è diffi­ cile sapere se la sua sola presenza implichi l’idea del cacciare e dell’inseguire. In ogni caso, dal passo di Eschilo possiamo inferire che essa veniva sentita come particolarmente appropriata per esprimere il cercare impaziente ed in­ tenso tipico di un cane da caccia. L’espressione en ommasi thesthai piston, che segue il verbo, è difficoltosa e ambigua sotto molti punti di vista. Alla let­ tera può essere resa con: «porre per se stessi il fidato negli occhi». Questo, a sua volta, può essere inteso almeno in quattro modi differenti: 1) porre la fi­ ducia (collocare il fidato per se stessi) negli occhi di qualcuno (dell’amico); 2) porre qualcuno o qualcosa di fidato (cioè l’amico) davanti ai propri occhi; 3) rendere visibile (porre davanti agli occhi) un oggetto sicuro e fidato (per esempio, l’ode?); 4) fare un patto o una promessa fidati davanti agli occhi della gente. In breve, non siamo in grado di determinare se gli occhi in que­ stione siano quelli della persona, dell’amico o del gruppo; e inoltre non sap­ piamo se to piston sia l’amico, l’ode, una particolare promessa o la fiducia in astratto. Io ho scelto e tradotto secondo l’interpretazione 1), che viene prefe­ rita e ben difesa anche da L.R. Farnell, The Works of Pindar, London, 1932; ciascuna delle altre versioni ha avuto influenti difensori. Non sono propensa a rendere arbitrariamente meno ambigua una espressione suggestiva la cui ambiguità è, almeno in parte, deliberata. Ma mi sembra che 1) e 2) in qual­ che modo si adattino al contesto meglio di 3) e 4). Il passo intero tratta del­ l’amicizia personale, del vincolo di fiducia e della familiarità che legano un amico all’altro. Il senso generale dovrebbe essere: «Noi abbiamo ogni genere di bisogni per gli amici che amiamo, soprattutto nelle difficoltà (o nelle fati­ che); ma dobbiamo essere capaci di fare affidamento su di loro anche nei momenti felici (o di dividere la nostra gioia per la vittoria con loro, con qual­ cuno di cui ci fidiamo). Ma io non posso fare ciò nel caso presente perché Mega è morto e non posso riportarlo in vita. Il mio desiderio di condividere con lui questa gioia è vano e vuoto. Ma posso almeno scrivere quest’ode». Sia 1) che 2) si accordano a questo senso generale; 1) sembra leggermente mi­ gliore perché en ommasi significa più facilmente «dentro» che «davanti» agli occhi di qualcuno; ma ci sono alcuni precedenti per la seconda interpreta­ zione e, perciò, non possiamo decidere con assoluta certezza. Lo scoliaste confronta Euripide, Ione, 732: es ommat’eunou photos emhlepein glyky,

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«guardare la dolcezza negli occhi di una persona benevola», intendendo il passo nel senso di 1). L’interpretazione 3), stando alla quale (almeno come mi è stata informalmente presentata da H. Lloyd-Jones) questi versi intende­ rebbero l’ode come un pegno di amicizia, non mi sembra molto corretta per­ ché il poeta in seguito dice che le sue speranze sono state frustrate dalla morte di Mega. Se la speranza en ommasi thesthai piston è frustrata, non può essere la speranza di scrivere l’ode. L’ode non viene presentata come la rea­ lizzazione di questa speranza — questo, secondo me, è molto importante per la grandezza e per l’importanza etica attribuite da Pindaro alla perduta ami­ cizia —, bensì come un sostituto o come una consolazione dopo che l’amici­ zia è terminata e dopo che alla fiducia è subentrata la morte. Per quanto ri­ guarda 4), non mi è del tutto chiaro quale sia la promessa cui pensano i di­ fensori di questa interpretazione; non ho, inoltre, visto paralleli convincenti per thesthai piston in questo senso. Una ragione finale per preferire 1) ci viene dall’idea in essa contenuta secondo cui gli occhi sono la sede della fidu­ cia tra due amici. Questa idea diffusa e profondamente radicata tra i Greci verrà ulteriormente discussa ed esemplificata nei capitoli III e XIII ed è una delle più appropriate per permettere a Pindaro ulteriori allusioni in questo contesto; essa arricchisce il significato dell’ode. 5 Euripide, Troiane, 820 ss. Ganimede ricomparirà nel Fedro di Platone come esempio di eccellenza tipicamente umana e vulnerabile. Cfr. capitolo VU. 6 Odissea, V, 214-220. 7 Platone, Phaed. 80 b. 8 Per un’ulteriore discussione della nozione di tyche nel pensiero pre­ platonico e per l’antitesi tra la tyche e la techne razionale vedi il capitolo IV con i relativi rinvìi. 9 Come, per esempio, nell’influente opera di A.W.II. Adkins, soprat­ tutto in Merit and Responsahility, Oxford, 1960, trad. it. La morale dei Greci da Omero ad Aristotele, Bari, 1987, che comincia (p. 11) con l’affermazione: «Noi tutti siamo oggi kantiani» e fa uso di assunti kantiani dal principio alla line sia nell’esegesi sia nella valutazione. Ho criticato la metodologia di Ad­ kins in M.C. Nussbaum, Conséquences and character in Sophocles’ Philoctetes, in «Philosophy and Literature», 1 (1976-1977), pp. 25-33. Per altre impor­ tanti critiche vedi IL Lloyd-Jones, The justice of Zeus, Berkeley, 1971; A.A. Long, Moral and values in Homer, in «Journal of LIelIenic Studies», 90 (1970), pp. 121-139; K.J. Dover, The portrayal of moral évaluation in Greek poetry, in «Journal of Hellenic Studies», 103 (1983), pp. 35-48. 10 Due recenti articoli che, in modi differenti, sfidano la morale kan­ tiana sono B.A.O. Williams, Moral luck, in «Proceedings of thè Aristotelian Society», Supplementary Volume, 50 (1976), ristampato in B.A.O. Williams, Moral Luck: Philosophical Papers 1973-1980, Cambridge, 1981, pp. 20-39, trad. it. Sorte morale, in Sorte morale, Milano, 1987, pp. 33-57 e T. Nagel, Moral luck, in «Proceedings of thè Aristotelian Society», Supplementary Volume, 50 (1976), ristampato in T. Nagel, Mortai Questions, Cambridge, 1979, pp. 24-38, trad. it. Questioni mortali, Milano, 19882. La posizione di Williams sul pensiero etico greco per quanto concerne questi argomenti viene discussa in questo capitolo alle pp. 71-75 e nel capitolo II, p. 89-90. 11 Resp. 612 a.

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12 Su kalon vedi capitolo VI, p. 349. 13 Questa è la terminologia usata da Williams, Moral luck, cit. Sebbene io usi le espressioni «contingenza interna» ed «esterna» da molto tempo e le trovi naturali, è probabile che io le abbia sentite per la prima volta in un se­ minario tenuto da Williams ad Harvard nel 1973. 14 Sulla follia [mania) e sul ruolo che secondo Platone essa gioca nella vita buona vedi capitolo VII. 15 Non ho esteso l’indagine sino ad includervi il periodo ellenistico, dove le proposte di autosufficienza e di immunità dalla fortuna sono decisa­ mente notevoli, mentre le relative questioni del libero arbitrio si sviluppano con una forma più vicina a quella familiare ai moderni. In primo luogo i testi più antichi, a differenza di gran parte del materiale ellenistico, sono conser­ vati nella loro forma completa; questo ci permette di sollevare la questione sulla relazione tra contenuto e stile che non può essere facilmente posta quando si usano delle fonti frammentarie. In secondo luogo una caratteri­ stica peculiare di molti scritti etici ellenistici è che l’immunità individuale dalla fortuna viene considerata un fine etico importante, anzi il fine etico. Questo significa che il dibattito per me più interessante — il dibattito sul va­ lore della autosufficienza (individuale o comune) in quanto fine e sulla sua relazione ad altri importanti valori — è meno sviluppato. Intendo tuttavia di­ scutere il materiale ellenistico nel 1986 nel quadro delle Martin Classical Lectures all’Oberlin College. 16 E stata in tempi più vicini a noi difesa ed usata in riferimento ad Ari­ stotele da H. Sidgwick, Methods ofEtbics, London, 1907' (vedi in particolare la prefazione alla VI edizione) e da J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, MA, 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1989. La posizione di Sidgwick sulla relazione tra teoria etica e convinzioni ordinarie, che sembra decisamente differente da quella di Aristotele, viene discussa nel capitolo IV. 17 Aristotele, Eth. Nic. 1095 a 3 ss.; 1095 b 3 ss. 18 Un esempio molto interessante viene offerto da I. Murdoch, Philosophy and literature: dialogue with Iris Murdoch in Men of Ideas, a cura di B. Magee, New York, 1978: «Questi due rami del sapere hanno scopi e stili così differenti che a mio parere dovrebbero essere separati l’uno dall’altro». 19 Vedi Intermezzo 1 e inoltre capitoli VI e VII e Intermezzo 2. Quanto agli altri miei scritti connessi a questa tematica vedi M.C. Nussbaum, Flawed crystals: James’s The Golden Bowl and literature as moral philosophy, in «New Literary Ilistory», 15 (1983), pp. 25-50, presentato in un’edizione della «New Literary History» dedicata all’indagine della relazione tra lettera­ tura e filosofia morale; M.C. Nussbaum, Fictions of thè soul, in «Philosophy and Literature», 7 (1983), pp. 116-157 (che riporta gli atti di una conferenza sullo stile tenuta ad Harvard nel marzo del 1982). 20 Alcuni studi di «moralità popolare» cominciano presumendo che la tragedia possa senz’altro essere usata come una testimonianza delle convin­ zioni comuni. Lo studioso metodologicamente più ingenuo in questo senso è Adkins, che considera i singoli versi di un’opera drammatica come una testi­ monianza delle convinzioni comuni, isolandoli completamente dal loro con­ testo drammatico. L. Pearson, Popular Ethics in Ancient Greece, Stanford, 1962, almeno si preoccupa di esaminare l’intera azione drammatica, chieden-

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dosi in che rapporto reciproco stiano le posizioni espresse dai diversi perso­ naggi. Un uso più cauto delle testimonianze tragiche viene fatto da K.J. Do­ ver, Greek Popular Morality, Oxford, 1974, trad. it. La morale popolare greca all’epoca di Platone e di Aristotele, Brescia, 1983. H. Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, cit., contiene un’ottima critica agli autori che, indagando le opinioni morali di un’opera, non riescono a lavorare con la complessità della sua struttura; questo studio contiene anche molte interpretazioni che non fanno violenza all’integrità interna dei testi. Come risultato questo procedimento (che sarà in seguito convalidato dai nostri studi su Aristotele e sulla tragedia) mostra che il pensiero etico greco possiede molta più continuità e costanza di quanta riescano a provare le procedure di Adkins. 21 Uno studio bello ed illuminante sul modo in cui la tragedia greca, sullo sfondo dei riti, elabora i problemi connessi alla vulnerabilità e alla mor­ talità dell’uomo è W. Burkert, Greek tragedy and sacrificial ritual, in «Greek, Roman, and Byzantine Studies», 7 (1966), pp. 87-121; discuteremo alcuni dettagli di questa posizione nel capitolo II. La frase finale dell’articolo rias­ sume la posizione di Burkert: «L ’esistenza umana faccia a faccia con la morte — questo è il nocciolo della tragoidia» (p. 121). 22 Tuttavia neppure questa scelta è valida, se un confronto adeguato con questi elementi della nostra natura richiede, come sostiene Burkert, la messa in opera davanti ai nostri occhi di una complessa struttura rituale­ drammatica. 23 Su Platone vedi capitoli V-VII e Intermezzo 1; vedi anche Nussbaum, Fictions of thè soul, cit. 24 Vedi capitoli II, III, X e Intermezzo 2. Sul nesso tra questa afferma­ zione e la posizione di Aristotele sulla katharsis, vedi Intermezzo 2. 25 Murdoch, Philosophy and lìterature, cit., p. 265; J. Locke, An Essay Conceming Human Understanding (1690), trad. it. Saggio sull’intelligenza umana, Bari, 1972'’, libro 3, cap. X. Su entrambi i passaggi vedi Nussbaum, Fictions of thè soul, cit. 26 B.A.O. Williams, Philosophy, in The Legacy of Greece: a New Appraisal, a cura di M.I. Finley, Oxford, 1981, pp. 202-255. Ora, tuttavia, il lettore può confrontare il suo importante Ethics and thè Limiti of Philosophy, Cambridge, MA, 1985, trad. it. L’etica e i limiti della filosofia, Bari, 1987 che offre una descrizione affascinante e coinvolgente dell’etica filosofica greca e che modifica alcune delle posizioni che io qui discuto. 27 Williams, Philosophy, cit., p. 253. 28 J.-P. Vernant e M. Détienne, Les Ruses de l’intelligence: la métis des Grecs, Paris, 1974, trad. it. Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari, 1984’. Le opinioni di Detienne e Vernant sono discusse ulteriormente nel ca­ pitolo VII, n. 37 e nel capitolo X. 29 Per una ulteriore connessione tra queste immagini vedi Platone, Leggi, 798 e, che introduce la natura «liquida» del bambino. 30 Per gli utili suggerimenti datimi nella revisione di questo capitolo sono grata a Sissela Bok, E.D. Hirsch Jr., Barry Mazur, Hilary Putnam, Char­ les Segai, Nancy Sherman e Harvey Yunis.

Parte prima

Tragedia: fragilità e ambizione

Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, comé quella dell’arco e della lira [...]. Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustizia è con­ tesa e che tutto accade secondo contesa e necessità. Eraclito, D K B 51 e 80 Qui ci imbattiamo in un fenomeno notevole, e carat­ teristico delle ricerche filosofiche: la difficoltà — potrei dire — non consiste nel trovare la soluzione, ma nel rico­ noscere come soluzione una cosa che sembra essere sol­ tanto un preliminare per la soluzione. «Abbiam o già detto tutto. Non qualcosa che ne segue, ma proprio que­ sta cosa è la soluzione!» Questo, credo dipende dal fatto che ci aspettiamo a torto una spiegazione: invece la soluzione della difficoltà è una descrizione, purché l’inseriamo correttamente nella nostra considerazione. Purché ci soffermiamo su di essa e non tentiamo di andare oltre. La difficoltà, qui, sta nel fermarsi. L. Wittgenstein, Zettel, 314

Capitolo secondo

E schilo e il conflitto pratico

La tragedia greca mostra persone buone rovinate da avve­ nimenti che semplicemente capitano loro e che esse non con­ trollano. Questo è un fatto senza dubbio triste, ma normale nella vita umana, e non può essere negato. Inoltre questa even­ tualità non minaccia nessuna delle nostre più profonde convin­ zioni sulla bontà, dal momento che quest’ultima può mante­ nersi indenne in mezzo ai cambiamenti della fortuna esteriore. Ma la tragedia mostra anche qualcosa di molto più molesto: mostra persone buone che compiono azioni malvagie, contra­ rie al loro carattere e ai loro principi etici, perché vengono co­ strette da circostanze che sfuggono al loro potere. Alcune di queste situazioni sono mitigate dalla presenza della costrizione fisica o di una ignoranza scusabile. In questi casi possiamo rite­ nerci soddisfatti perché l’agente non ha veramente agito malva­ giamente — o perché egli o ella non ha agito per nulla, o per­ ché (come nel caso di Edipo) ciò che egli fa intenzionalmente non è quella stessa cosa malvagia che inavvertitamente com­ pie ‘. Ma le tragedie si soffermano anche su un altro caso, più difficile da trattare e che viene solitamente chiamato situazione del «conflitto tragico». Qui assistiamo ad un’azione sbagliata commessa senza alcuna costrizione fisica e nella piena consa­ pevolezza della sua natura da una persona che, per carattere e principi etici, sarebbe altrimenti disposta a rifiutare quell’atto. La costrizione è dovuta alla presenza di circostanze che impe­ discono il corretto soddisfacimento di due richieste etiche va­ lide, ma opposte. La tragedia tende, in generale, a considerare molto seriamente queste situazioni. Essa le tratta come casi di comportamento sbagliato, importanti per valutare la vita etica dell’agente. Per la tragedia è utile soffermarsi su queste situa­ zioni, esplorarle in molti modi, chiedersi a più riprese che cosa sia il bene umano in situazioni così allarmanti.

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Per questa sua inclinazione la tragedia greca, e soprattutto quella di Eschilo, è stata ripetutamente criticata e ritenuta mo­ ralmente primitiva. L ’attacco comincia quando comincia la fi­ losofia morale. Socrate dice a Eutifrone (che possiamo pensare fosse irretito in un simile dilemma)2 che le storie dove si op­ pongono due pretese di diritto ripugnano alla ragione dal mo­ mento che affermano una contraddizione: «E cioè le stesse cose saranno sante e non sante, o Eutifrone, secondo il tuo ra­ gionamento» (Eutifrone, 8 a). Queste storie, così illogiche, non possono fornirci modelli adatti per analizzare che cosa sia la pietà. Poiché, seguendo una sua tipica caratteristica, la teologia greca tradizionale permette che avvengano conflitti di questo tipo ed anzi incrementa la loro frequenza — infatti è spesso difficile per un singolo essere umano onorare contemporanea­ mente le richieste di divinità così differenti come possono es­ sere, per esempio, Artemide ed Afrodite e tuttavia ogni essere umano è obbligato ad onorare tutti gli dei3 — , Socrate (cfr. cap. IV) di fatto lancia un attacco contro le vecchie divinità in nome della ragione, anche quando egli si accinge a rispondere alle accuse che gli erano state rivolte. L ’obiezione di Socrate è ormai diventata così influente che molti autorevoli interpreti della tragedia greca ritengono di po­ ter identificare nella messa in scena tragica del conflitto etico un esempio di pensiero primitivo e prerazionale. Un recente studioso americano di Eschilo nota con disapprovazione: Una dike (un’affermazione della giustizia o del diritto) può essere sfidata, e spesso lo è, da una dike opposta ed in tal caso non è per nulla necessario che una sola delle due sia la vera (o «giusta») dike [...]. Questa coesistenza di d ik ai valide ed opposte all’interno di un globale processo della dike è abbastanza illogica (per il nostro modo di pensare) e non deve essere identificata con il nostro concetto m o­ rale di giustizia [...]. Se mettiamo sullo stesso piano la dike e la giusti­ zia morale, senza dubbio finiamo per concepire la prima in modo molto più sistematico di quanto essa sia veramente f

Un importante critico tedesco, Albin Lesky, si spinge oltre e trova nel modo in cui Eschilo rappresenta questo conflitto due contraddizioni logiche: Se facciamo una netta distinzione logica, naturalmente dovremo dire: «U n uomo che agisca costretto dalla necessità non agisce volon-

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tariamente». Ma insistere sulla coerenza logica significa rinunciare ad alcune parti considerevoli delle tragedie di Eschilo [...]. Di fatto l’o ­ stacolo che blocca ogni tentativo di analisi logica giunge molto più lontano [...]. Non è forse la campagna contro Troia una giusta puni­ zione inflitta per conto della massima divinità, Zeus, che protegge i diritti dell’ospitalità? Così Agamennone agisce per conto della divi­ nità che vuole la punizione. E tuttavia la ricompensa per questa puni­ zione è una colpa terribile, che il re deve espiare con la propria vita. Qui non c’è nessuna coerenza ’ .

La tragedia eschilea commetterebbe un errore logico sia quando descrive il nesso tra costrizione e scelta, sia quando ri­ conduce le domande conflittuali all’agente e non consente nes­ suna scelta libera dalla colpa. Gagarin e Lesky (e non sono i soli) concordano nel rilevare una grave confusione nel pen­ siero di Eschilo. Entrambi credono che il pensiero moderno abbia superato tale confusione; e che, perciò, il pensiero di Eschilo non possa aiutarci ad esplorare le nostre convinzioni sulla bontà della scelta o i nostri (sistematici) principi etici. Intendo mettere alla prova queste posizioni, chiedendomi come mai alcune importanti concezioni etiche moderne ab­ biano negato l’esistenza del conflitto tragico e quali influenze teoretiche abbiano indotto la critica moderna a sottovalutare le riflessioni della tragedia. Mi chiederò contemporaneamente che cosa significhi quel «noi» che Gagarin pronuncia con sicu­ rezza: se, cioè, nella vita quotidiana noi veramente evitiamo questi conflitti e se le riflessioni della tragedia non corrispon­ dano, meglio di alcune teorie moderne, ad una profonda per­ cezione del problema. Studiando questo lato della questione cominceremo a cogliere in che modo l’azione tragica ed il pen­ siero religioso tradizionale che la sorregge mettano in relazione il bene umano con il mondo degli avvenimenti. Dal momento che mi sono proposta di indagare la relazione tra ciò che la tra­ gedia mostra e ciò che noi intuitivamente riteniamo accetta­ bile, comincerò dando una breve e schematica descrizione dei fattori che abitualmente noi consideriamo importanti per la va­ lutazione dei casi in questione. Quindi descriverò alcune im­ portanti soluzioni filosofiche che, con la loro influenza, hanno assai contribuito a rafforzare l’idea che la non-soluzione tra­ gica sia primitiva. Infine affronterò nel dettaglio due rappre­ sentazioni del conflitto dateci da Eschilo e sosterrò che esse ar-

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ticolano le nostre intuizioni pratiche meglio di quanto facciano le soluzione teoretiche. 1. Consideriamo, dunque, le situazioni nelle quali una per­ sona deve scegliere di fare (avere) o una cosa o un’altra6. Con­ siderato come vanno le cose del mondo, egli o ella non può fare (avere) entrambe. (Sospendiamo temporaneamente la que­ stione se con una pianificazione migliore si sarebbe potuto evi­ tare il dilemma. Questo problema sarà l’argomento del pros­ simo capitolo.) Il nostro soggetto in ogni caso, vuol fare (avere) entrambe le cose; o, senza considerare quello che realmente vuole, ha qualche motivo per fare (avere) entrambe le cose. Entrambe le alternative pongono una forte richiesta alla sua at­ tenzione pratica. Egli comprende che, in qualsiasi modo scelga, avrà il rimorso di non aver fatto l’altra cosa. Talvolta la decisione stessa può essere difficile: i suoi interessi sembrano in perfetto equilibrio. Talvolta è evidente quale sia la scelta mi­ gliore e, tuttavia, l’individuo prova dolore perché deve rinun­ ciare ad altri considerevoli interessi. Infatti è estremamente im­ portante ribadire sin dall’inizio che qui il problema non ri­ guarda soltanto la difficoltà nel decidere, bensì che tali conflitti possono essere presenti anche quando la decisione è in sé per­ fettamente ovvia. Aristotele parla di un capitano che, durante una tempesta, fa gettare in mare il carico per salvare la propria vita e quella degli altri passeggeri7. Quest’uomo vede anche troppo bene che cosa egli deve fare, una volta che abbia com­ preso l’alternativa; anzi, sarebbe pazzo se esitasse a lungo. E tuttavia gli sta a cuore anche il carico. Rimpiangerà di averlo gettato in mare e si rammaricherà che le cose abbiano preso una piega tale che egli ha dovuto scegliere ciò che nessuna per­ sona savia normalmente sceglierebbe, cioè di gettar via quel che una persona savia normalmente serberebbe con cura8. Abbiamo, quindi, un vasto spettro di casi nei quali inter­ viene una specie di conflitto fra desideri (sebbene siano da rite­ nere interessanti anche tutti quei casi nei quali l’agente non de­ sidera nessuna delle alternative in conflitto): l’agente vuole (ha motivo di perseguire) x e vuole (ha motivo di perseguire) y; ma per le circostanze contingenti non può perseguire entrambi. Vogliamo in definitiva chiederci se tra questi casi ve ne siano alcuni nei quali venga messa in pericolo non solo la soddisfa­ zione del desiderio, bensì la bontà etica stessa: se talvolta non

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sia in gioco soltanto la perdita di qualcosa che noi desideriamo, ma intervenga anche una trasgressione degna di riprovazione — e si dia quindi l’occasione non solamente per il rimpianto, ma anche per il rimorso. A prima vista sembra necessario fare un gran numero di di­ stinzioni (e la tragedia confermerà questa assunzione) per ana­ lizzare questo problema. Qualche volta ciò cui necessaria­ mente si rinuncia è un possesso, una ricompensa o qualche al­ tro bene esterno all’agente; talvolta è un’attività che l’agente desidera (ha motivo di) intraprendere. Talvolta si tratta sem­ plicemente di un’omissione o dell’insuccesso nel realizzare un progetto desiderato; talvolta la strada scelta implica che dob­ biamo agire contro un altro progetto o un altro impegno. Tal­ volta si rinuncia ad un «extra» o ad un lusso, a qualcosa di pe­ riferico nella concezione etica dell’agente; talvolta è qualcosa di fondamentale — o un componente centrale nella conce­ zione individuale del vivere bene o un mezzo necessario per conseguirlo. Talvolta ciò che viene perduto è periferico e tal­ volta centrale nella nostra concezione del vivere bene (la con­ cezione che nel complesso predomina), che può accordarsi o non accordarsi con quella dell’agente in questione. Talvolta ciò cui si rinuncia riguarda solamente l’agente; altre volte inter­ viene una perdita o un danno anche per altre persone. Qualche volta si rinuncia a qualcosa che non implica impegni o obbli­ ghi, impliciti o espliciti, per l’agente; altre volte questi impegni ci sono. Talvolta il caso può essere limitato e non avere ulte­ riori ripercussioni; talaltra la scelta di rinunciare in un certo momento ad y può portare con sé conseguenze di vasta portata per il resto della vita dell’agente e/o di altre persone coinvolte. Infine, alcuni di questi casi possono essere rimediabili; l’agente può avere in futuro l’opportunità di ovviare a ciò che ha fatto o di riprendere la via abbandonata; ma in altri casi è chiaro che non vi sarà nessuna riparazione. Questa lista non intende essere né formale né esaustiva; semplicemente ferma la nostra attenzione su alcune distinzioni che spesso facciamo. Noi intuiamo immediatamente che la se­ conda alternativa di ciascuna coppia rende la situazione molto più seria e, a parità di condizioni, rende molto più probabile la presenza del conflitto nella nostra valutazione etica dell’a­ gente. Tutti gli elementi elencati possono combinarsi in molti modi. Sarebbe difficile, e probabilmente sbagliato, stabilire

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prima che si presentino i casi concreti quale combinazione sia sufficiente perché un individuo sia colpevole per ciò che com­ pie spinto dalla forza delle circostanze. Nessuna persona ragio­ nevole biasimerebbe il capitano di Aristotele, che scarica pochi beni sostituibili per salvare la propria vita e quella degli altri, anche se egli si è impegnato a salvaguardare quei beni9. La si­ tuazione prenderebbe un altro aspetto se l’unico modo di sal­ vare la nave fosse quello di gettare sua moglie o suo figlio in mare; infatti questa perdita, che implica un’attività nociva per gli altri, è irreparabile e comporta conseguenze di vasta portata per tutto il resto della sua vita; inoltre coinvolge direttamente ciò che è o dovrebbe essere centrale nella sua concezione del vivere bene. Ma sembra comunque molto difficile stabilire un insieme stabile e fisso di regole o condizioni che ci aiutino a de­ terminare in anticipo e con precisione due classi di casi chiara­ mente distinti e cioè quelli degni di biasimo e quelli che non si possono propriamente biasimare. Finora non ho detto nulla sul conflitto «morale»; ho in­ cluso i casi che di solito recano questa etichetta in una classifi­ cazione più vasta e meno sistematica. Questa scelta è connessa con la generale diffidenza che nutro verso la distinzione morale/non-morale e che è stata tratteggiata nel capitolo I. Si pos­ sono vedere con particolare chiarezza alcune ragioni per que­ sta diffidenza se si pone mente al fatto che il «conflitto morale» viene spesso usato proprio per escludere f casi che ci interes­ sano. Innanzi tutto solo in pochi casi è chiaro che cosa si in­ tenda esattamente quando si dice che un conflitto è «morale» (cfr. cap. I). Sono state date tante definizioni differenti della distinzione morale/non-morale che la parola da sola non è in grado di dare nessuna spiegazione. Se si intende che il caso ri­ guarda valori in relazione con gli altri, o che implica i più im­ portanti interessi ed impegni dell’agente (o nostri), diventa tutto molto più chiaro se lo si dice direttamente così. Queste distinzioni sono presenti nel nostro schema intuitivo, sebbene nessuna sembri di per se stessa offrire una spiegazione com­ pleta dei fattori etici rilevanti. Se, tuttavia, si pensa di avere a che fare con impegni che non rientrano nel regno della contin­ genza naturale e che non possono essere condizionati dagli «accidenti di una natura matrigna», allora la distinzione morale/non-morale è un punto di partenza inadeguato per noi, dal momento che il nostro obiettivo è precisamente quello di

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indagare se qualche nostro importante principio o interesse possa essere condizionato dall’esterno. Intesa in questo modo, la distinzione evita il nostro problema. Ma anche se risolvessimo il problema circa il significato della distinzione, ci sarebbe un’ulteriore difficoltà. L ’uso delle due categorie «morale» e «non-morale» suggerisce a numerosi autori che i casi da investigare cadono in due categorie chiara­ mente demarcate ed opposte. Essi, di conseguenza, struttu­ rano la loro discussione proponendo una netta divisione. Il no­ stro schema intuitivo, al contrario, suggerisce che noi troviamo nella vita di tutti i giorni uno spettro complesso di casi, interre­ lati ed intersecantisi in modi che non possono essere catturati da nessuna tassonomia dicotomica. Se le caratteristiche impor­ tanti per la descrizione e la valutazione dei conflitti sono otto, potremmo sempre scoprire che un caso mostra (il secondo membro de) la mia prima, terza, quinta e sesta opposizione; un altro (il secondo membro de) la seconda, settima ed ottava coppia, e così via. Noi non vogliamo scartare o limitare questa possibilità. Vogliamo guardare e vedere. Bernard Williams, in un eccellente articolo strettamente collegato ai suoi interessi per la tragedia greca l0, ha proposto un argomento diverso per sostenere l’importanza della distin­ zione morale/non-morale nel selezionare e descrivere i conflitti pratici. I conflitti «morali», egli sostiene, sono differenti dagli altri conflitti tra desideri per il fatto che noi sentiamo che la ri­ chiesta morale non può essere evitata eliminando il desiderio. Alcune richieste fatte alla nostra attenzione pratica sono obbli­ ganti, non importa che cosa noi sentiamo o quali desideri effet­ tivamente nutriamo. E importante, egli continua, enfatizzare questa distinzione poiché essa condizionerà la nostra risposta ai diversi casi. Questa è un’argomentazione importante. Ne ho tenuto conto quando ho descritto i raggruppamenti dei casi e, perciò, ho incluso sia i casi nei quali l’agente veramente desidera le due scelte conflittuali sia quelli nei quali, al di là dei suoi reali desideri, egli ha qualche motivo per perseguirle. Inoltre di­ verse coppie di opposti — quelle riguardanti la concezione del vivere bene, i danni inferti agli altri e gli impegni precedenti — esprimono in ciascun caso una parte delle preoccupazioni di Williams. Non è chiara, dunque, la necessità della distinzione dicotomica per esplorare questi problemi. Inoltre essa può ri-

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sultare molto fuorviarne in alcuni casi che interessano lo stesso Williams. La sua caratterizzazione delle richieste morali po­ trebbe infatti descrivere correttamente (e ciò viene ammesso dallo stesso Williams in alcuni scritti recenti) anche altri inte­ ressi pratici che raramente vengono classificati come «m o­ rali» Le richieste di una ricerca intellettuale o di una rela­ zione personale basata sulle emozioni possono, per esempio, essere sentite come obbliganti anche senza considerare i desi­ deri presenti; e tuttavia la parola «morale» ci trattiene dal con­ siderare questi casi. Inoltre nella pratica noi non troviamo un contrasto netto tra richieste assolute e richieste che possono es­ sere facilmente evitate, bensì un confuso continuum di richie­ ste cui si attribuiscono diversi gradi di forza e di necessità. Per queste ragioni risulta più chiaro e molto più in armonia con lo spirito del progetto di Williams (reso esplicito nel suo più re­ cente lavoro) utilizzare una rete di distinzioni più concrete ed informali, piuttosto che la dicotomia morale/non-morale ,2. Se abbiamo omesso qualcosa di importante possiamo sperare che una descrizione precisa dei singoli casi possa portarlo alla luce. Poiché tuttavia queste conclusioni dovrebbero essere valide anche per coloro che raggruppano i casi secondo l’abituale di­ cotomia, selezionerò nella tragedia alcune situazioni di con­ flitto che anche costoro accetteranno come importanti casi di conflitto morale: casi che implicano il fare un danno irrepara­ bile ad altri, violando gravemente un impegno preso in prece­ denza sulla scorta dei valori più stringenti. Così, se mostriamo la forza della visione tragica in queste situazioni, avremo dimo­ strato che è fragile non soltanto una parte della eccellenza rite­ nuta (secondo l’opinione convenzionale) periferica rispetto alla vera bontà morale, bensì che è fragile una parte di (ciò che viene normalmente pensato come) bontà morale in sé, espressa nell’azione e nella scelta. 2. Abbandonando per ora il nostro schema intuitivo, vol­ giamoci ad alcune soluzioni filosofiche. A partire dall’Eutifrone una tradizione dominante della filosofia morale si è tro­ vata d’accordo su un punto: questi casi di conflitto manife­ stano un’incoerenza che costituisce un’offesa alla logica pratica e che deve essere eliminata Socrate compie il passo decisivo. Le richieste conflittuali nel dilemma di Eutifrone (il suo ob­ bligo di rispettare il padre e il suo obbligo di difendere la vita

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umana)14 identificano un caso di disaccordo etico: un conflitto fra convinzioni etiche su ciò che è appropriato e ciò che non lo è. Ma se due convinzioni collidono è razionale cercare di sco­ prire quale delle due è corretta. Solo una delle due può essere vera, mentre l’altra deve venir scartata come falsa e quindi come non più rilevante. Questa posizione porta Socrate a porre in dubbio nell’Eutifrone un elemento centrale della teo­ logia greca tradizionale: l’idea che gli dei impongano ai mortali richieste divergenti o addirittura conflittuali (7 e 8 e). Questa idea, insieme alla credenza che è suo dovere onorare tutti gli dei, genera (o spiega) per un antico greco la forza obbligante e l’inevitabilità delle richieste, anche nella situazione di conflitto. Ma secondo Socrate un quadro di questo tipo porta alla con­ clusione inaccettabile che alcuni dei hanno false credenze ed esercitano pretese ingiustificate. Egli, quindi, incoraggia Euti­ frone a correggere la tradizione e a considerare obbliganti solo quelle richieste sulle quali esiste l’unanimità divina; egli, poi, esprime dei dubbi sul fatto che gli dei possano veramente es­ sere in disaccordo fra loro (8 e). Alcuni filosofi hanno esteso la critica di Socrate a tutti i conflitti tra desideri o tra valori: in ogni caso c’è un’unica ri­ sposta corretta e le opzioni in competizione non sollevano nes­ suna ulteriore pretesa una volta che la scelta sia stata fatta. Se il desiderio persiste, l’agente deve considerarlo totalmente irra­ zionale. Alcuni, pur concedendo che questa non è una solu­ zione plausibile per tutti i conflitti, insistono sul fatto che c’è un gruppo speciale di casi, normalmente chiamati «conflitti morali» o «conflitti tra i doveri», che possono sempre essere assimilati al disaccordo. Questi filosofi, numerosi e di tradi­ zioni molto varie, hanno influenzato direttamente la critica sulla tragedia greca. E poiché articolano un modo di vedere che in alcuni momenti può attrarre fortemente una persona or­ dinaria appartenente alla nostra cultura, essi rivelano anche la presenza di influenze più indirette. Possiamo, quindi, sperare di riuscire a comprendere meglio gli ostacoli che si frappon­ gono sulla strada di chi oggi voglia valutare la posizione di Eschilo su questi argomenti, se esaminiamo tre esempi famosi e rappresentativi. In L ’esistenzialismo è un umanismo 15 Sartre ci presenta un tipico esempio di conflitto pratico. Un giovane deve scegliere tra il suo impegno patriottico verso la Resistenza francese e

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l’obbligo di provvedere alla sua anziana madre. Secondo Sartre noi impariamo da questo caso di «incoerenza» che i principi etici sistematici costituiscono in generale una guida inadeguata per l’azione. La miglior soluzione sarebbe quella di scartare del tutto i principi ed improvvisare liberamente le nostre scelte, con lucidità e senza rimpiantilé. R.M. Hare, in II linguaggio della morale 17, è d’accordo sul fatto che il problema risiede nei principi incoerenti, i quali vengono fatti collidere in un modo logicamente inaccettabile. L ’agente deve quindi modificarli alla luce della situazione diffi­ coltosa, in modo da avere un quadro nuovo e coerente, capace di padroneggiare il caso senza generare conflitti. Per esempio, il precetto morale «Non mentire», alla luce dell’esperienza della guerra, viene trasformato nella formula più adeguata «Non mentire, eccetto che al nemico durante la guerra». La si­ tuazione di conflitto viene inclusa nella regola come un’ecce­ zione che limita lo spettro della sua applicazione l8. Per Kant sarebbe addirittura sbagliato dire che i nostri principi sono in difetto e che hanno bisogno di una correzione. Infatti egli sostiene che fa parte della nozione stessa di regola morale che essa non possa mai collidere con un’altra regola morale: Siccome [...] dovere e obbligazione sono in generale concetti che esprimono la necessità oggettiva pratica di certe azioni e siccome due regole che si oppongono l’una all’altra non possono essere nello stesso tempo necessarie, ma anzi quando l’agire secondo una di esse è dovere, l’agire secondo la regola opposta non solo non è dovere, ma è contrario al dovere, così una collisione di doveri e obblighi non è concepibile (obligationes non colliduntur). In un soggetto e nella re­ gola che esso prescrive a se stesso potrebbero però benissimo essere uniti due motivi di obbligazione (rationes obligandi), di cui però o l’uno o l’altro non è sufficiente all'obbligazione (rationes obligandi non obligantes), nel qual caso allora uno di essi non è dovere. Quando due di tali motivi sono in opposizione, la filosofia pratica non dice che l’obbligazione più forte resta superiore (fortior obligatio vincit), ma che il motivo di obbligazione tiene il campo (fortior obligandi ratio vincit) 19. La necessità che le regole oggettive pratiche siano coerenti in ogni situazione e formino un sistema armonico corrispon­ dente ad un sistema di credenze vere scavalca, secondo Kant,

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la nostra sensazione intuitiva (da lui riconosciuta) che vi sia un vero conflitto di doveri. Sembra che i nostri doveri possano collidere, ma non può essere così, perché i concetti stessi di dovere e di legge pratica escludono l’incoerenza. Dobbiamo, perciò, trovare un modo più adeguato per descrivere l’appa­ rente conflitto. Dal momento che solo una delle richieste con­ flittuali può essere una vera obbligazione, dovremmo conside­ rare l’altra semplicemente come un motivo di obbligazione ( Verpflicbtungsgrund). Dopo che il «motivo» più forte è pre­ valso ci accorgiamo che esso era sempre stato il nostro dovere nel frangente in questione; noi lasciamo perdere, in quanto non obbligante, il «motivo» conflittuale. Esso abbandona il campo e non avanza più alcuna pretesa. Dire qualcos’altro si­ gnificherebbe, per Kant, indebolire il forte legame concettuale tra dovere e necessità pratica e tra questi e la coerenza logica. E ancor di più, significherebbe concedere che quanto capita per caso ad un agente (al quale semplicemente succede di essere posto in una situazione di questo genere) potrebbe spingerlo a violare un dovere. Per Kant questo sarebbe un pensiero incon­ cepibile 20. Tuttavia si potrebbe sempre rispondere che nella situa­ zione di conflitto non ci si sente così. Non ci si sente come se si stesse risolvendo un puzzle, dove basta trovare la risposta giu­ sta. Se anche si fa strada l’idea di risolvere o di chiudere il pro­ blema, essa non si manifesta come la speranza di scoprire la so­ luzione, ma come l’idea di una rottura radicale: come rifiuto, scelta di essere insensibili, addirittura pazzia o morte. Tali obiezioni intuitive non sono state ignorate dai filosofi che ab­ biamo citato e ciascuno di essi riconosce la loro presenza prima di rimuoverle. (Sartre e Hare oppongono alla delibera­ zione ordinaria un tipo di pensiero superiore o dotato di mag­ giore esperienza21. Kant suggerisce alla persona ordinaria che il suo attaccamento alla coerenza dovrebbe portarla a rifiutare uno dei principi conflittuali.) Così il difensore della posizione intuitiva non può semplicemente asserire che egli normal­ mente prova sensazioni differenti. Egli deve fare almeno altre due cose. Innanzi tutto deve sviluppare questa «posizione in­ tuitiva» molto più nel dettaglio di quanto facciano molte di­ scussioni filosofiche, descrivendo i casi con quanta più preci­ sione possibile e mostrandoci che cosa ci fa intuitivamente sen­

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tire la loro forza". (Ciò significa descrivere le situazioni in modo tale che sia possibile sia percepire la loro forza sia com­ prenderle con l’intelletto.) In secondo luogo, e questo aspetto è ancora più importante, egli ci deve mostrare che la descri­ zione intuitiva è connessa con altri importanti elementi della vita etica umana: rischiamo di rinunciare a qualcosa di vera­ mente importante se adattiamo le nostre intuizioni ad una so­ luzione filosofica. Tenterò ora di dimostrare che le opere «al­ quanto illogiche» di Eschilo soddisfano entrambe queste ri­ chieste. 3. All’inizio dell 'Agamennone22 di Eschilo avviene un por­ tento strano e carico di presagi. Il re degli uccelli appare al re delle navi. Due aquile, una nera ed una dalla coda bianca, di­ vorano di fronte a tutto l’esercito una lepre gravida con tutti i suoi figli non ancora nati (w. 111-120). E difficile non colle­ gare questo presagio con la strage dei cittadini innocenti di Troia che questo esercito è destinato a perpetrare. Per un pub­ blico familiarizzato con questa vicenda è difficile non connet­ terlo con il sacrificio imminente dell’indifesa vergine Ifigenia, che si renderà necessario per la partenza della spedizione. Ma il presagio riceve dall’indovino Calcante un’interpretazione stranamente banale23. Egli «conosce che la coppia dei guerrieri Atridi erano essi i divoratori della lepre, i capi della spedi­ zione» (w. 123-124); e tuttavia predice soltanto che l’esercito, cingendo d’assedio la città di Troia, ucciderà molte greggi di bestiame davanti alle sue mura. Egli pensa che il parallelo ap­ propriato per l’assassinio a sangue freddo e senza esitazione con cui le aquile uccidono la lepre si abbia quando gli uomini uccidono gli animali, non quando gli uomini uccidono altri uo­ mini. In un certo senso sembra che abbia ragione. Come un’a­ quila uccide una lepre, così un essere umano può macellare il* * È interessante notare che questa critica al momento attuale (1984) non possiede più quel largo spettro di applicazione che aveva quando questa sezione venne concepita (1973). Il grandissimo sviluppo dell’«etica appli­ cata» e l’interesse che i principali studiosi (anglo-americani) di etica nutrono per gli esempi concreti e complessi è ben accetto. Io non credo che questi esempi rendano superfluo il bisogno delle opere letterarie (cfr. gli argomenti del cap. I). Tuttavia, dal momento che gli esempi diventano sempre più com­ plessi, possiamo pensare che tra l’esempio e il testo letterario non vi sia un contrasto netto, ma, invece, un continuum.

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bestiame senza rimorso e per soddisfare i bisogni immediati. Quando le vittime sono umane ci aspettiamo deliberazioni e sentimenti più complessi. Il parallelo ha, dunque, una giustifi­ cazione. E, tuttavia, è chiaro che questa interpretazione del presagio non può essere considerata sufficiente. Nessuna profezia seria predice una cena a base di carne. Calcante è elu­ sivo. Tuttavia, collegando il suo parallelismo umano/animale con le indicazioni più sinistre della previsione, possiamo for­ mulare altre riflessioni pertinenti. Se noi pensiamo che il presa­ gio indichi i crimini di guerra dei Greci, esso ci ricorda il modo in cui la situazione di guerra può alterare ed erodere le normali convenzioni che regolano il comportamento degli uomini verso altri esseri umani, rendendoli, nella loro indifferenza al­ l’omicidio, o bestiali o macellai di bestie24. Se pensiamo che esso indichi l’assassinio di Ifigenia (poiché ella viene «sacrifi­ cata» prima della nascita dei figli ed è la vittima particolare del «re delle navi»), siamo già introdotti nell’argomentazione cen­ trale con cui il coro biasima Agamennone: egli ha assunto un at­ teggiamento sbagliato verso il suo conflitto, perché ha ucciso una fanciulla con minore angoscia, minore rivolta interiore che se si fosse trattato di un animale: Senza fare di lei nessun conto, come se avesse dovuto ammazzare una bestia da pascolo in mezzo a un numeroso gregge di belle pecore lanose, sacrificò la sua propria figlia (w. 1415-1417). Chi parla è Clitennestra; ma qui riprende, come vedremo, la risposta data dal coro agli eventi tragici. Il coro considera necessario il sacrificio di Ifigenia; ma allo stesso tempo biasima Agamennone. Alcuni critici hanno ten­ tato di eliminare o la necessità o la colpa, pensando che doves­ sero essere incompatibili. Altri hanno, invece, introdotto l’ipo­ tesi di una motivazione «sovradeterminata» o «doppia» che esemplificherebbe il disprezzo di Eschilo per il pensiero razio­ nale e logico25. E, tuttavia, possibile giungere ad una compren­ sione coerente di entrambi gli aspetti della situazione se sol­ tanto guardiamo con più attenzione alla natura ed alla genesi di questa necessità e, quindi, a ciò che il coro trova riprovevole nella condotta del suo capo. Innanzi tutto è chiaro che la situa­ zione che costringe all’omicidio è il risultato della intersezione contingente di due richieste divine e che Agamennone non si è

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trovato in questa tragica condizione per una sua colpa perso­ nale. La spedizione era stata ordinata da Zeus (w. 55-62) per vendicare la violazione di un crimine contro l’ospitalità. Il coro afferma questo fatto con la più grande certezza. Nel primo sta­ simo esso dice: «D i Zeus è il colpo: possono ben riconoscere questo i Troiani». Agamennone, dunque, combatte per una causa giusta, che egli non può abbandonare senza commettere la più grave empietà26. L ’uccisione è voluta da Artemide che, adirata, ha bloccato la spedizione con una bonaccia. Calcante predice che l’unico rimedio per questa situazione è il sacrificio di Ifigenia27. L ’ira della dea, che altre versioni della vicenda ri­ conducono ad una precedente offesa di Agamennone, viene qui lasciata senza spiegazione. L ’ira potrebbe essere provocata da una generica simpatia filotroiana oppure dall’orrore che la dea, protettrice dei giovani, prova per le imminenti stragi dei giovani Troiani; ma Eschilo, omettendo l’offesa personale, en­ fatizza con forza l’origine contingente ed esterna del terribile dilemma di Agamennone. Esso semplicemente si impone a lui, mentre esegue religiosamente i comandi di Zeus28. Più tardi gli uomini del coro, cantando il loro vago presagio della morte di Agamennone, evocano l’immagine di un uomo che, mentre ve­ leggiava su una corrente diritta, va in rovina su alcuni scogli nascosti (w. 1005-1007). In questa situazione agisce una colpa di fondo: la colpa di Atreo, la cui prole era stata maledetta da Zeus. Ma per questo non dobbiamo rinunciare a chiederci come la colpa familiare venga applicata ad Agamennone. La ri­ sposta è che Zeus ha imposto la colpa mettendo Agamennone, un uomo altrimenti innocente, in una situazione nella quale non è possibile nessuna libera azione esente da colpa29. Queste situazioni possono essere ripugnanti per la logica pratica, ma sono familiari nell’esperienza della vita. L ’indovino dice ad Agamennone che, se egli non offre sua figlia in sacrificio, l’intera spedizione verrà bloccata dalla bo­ naccia. Gli uomini stanno già soffrendo la fame (w. 188-189) e i venti provenienti dallo Strimone «corrodono il fiore degli Ar­ givi» (w. 197-198). Se Agamennone non soddisfa alla condi­ zione di Artemide, tutti, inclusa Ifigenia, moriranno. Egli, dun­ que, dovrà abbandonare la spedizione e, quindi, violerà il co­ mando di Zeus. Diventerà un disertore (liponaus30, v. 212). Inoltre, e ciò dipende dall’interpretazione che diamo alla ri­ chiesta di Artemide, egli potrebbe commettere anche una di-

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subbidienza nei confronti della dea. Ma eseguire il sacrificio si­ gnifica compiere un atto colpevole ed orribile. Una scelta, il sa­ crificio di Ifigenia, sembra chiaramente preferibile sia per le sue conseguenze sia per l’empietà implicata dall’altra scelta. Infine, è difficile immaginare che Agamennone possa razional­ mente scegliere un’altra soluzione. Ma entrambe le scelte fanno di lui un colpevole31. Agamennone ha la possibilità di scegliere: ciò significa che egli sa che cosa sta facendo. Non è né ignaro della situazione né sottoposto a costrizione fisica; nulla lo spinge a scegliere un’opzione piuttosto che l’altra. Ma è costretto dalla necessità perché tra le sue alternative non ce n’è alcuna desiderabile. Nel suo caso non c’è incompatibilità tra scelta e necessità — a meno che non si intenda che la scelta implichi la libertà dell’a­ gente di fare qualsiasi cosa. Al contrario, la situazione sembra descrivere abbastanza precisamente un tipo di interazione tra costrizione esterna e scelta personale che si trova ad un livello o ad un altro di ogni situazione di scelta ordinaria Una scelta avviene infatti sempre tra alternative possibili ed è raro che ad un agente sia possibile tutto. La situazione di Agamennone è particolarmente tragica perché nessuna delle alternative è in­ nocua. La prima reazione di Agamennone è l’ira e l’angoscia: «Percossero gli Atridi con lo scettro la terra e non frenarono il pianto» (w. 203-204). Egli quindi descrive la propria situa­ zione drammatica ed in apparenza riconosce completamente le due richieste conflittuali. Ravvisa che qualsiasi cosa egli farà conterrà un male: Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso l’altare, nei fiotti della vergine sgozzata, contammo le mie mani paterne. Quale delle due sorti è peggiore? Come potrei disertare le navi e tradire l’al­ leanza? (w. 206-213) Da come Agamennone descrive le alternative compren­ diamo che a suo avviso la migliore scelta in questa situazione è il sacrificio: il futuro indicativo in «se la figlia sacrifico» lei teknon daixo) non corrisponde al debole congiuntivo dubitativo di «Come potrei disertare le navi?» (pos liponaus gemmai). Ma egli mostra anche che entrambe le scelte implicano un male33.

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Fino a questo punto la situazione di Agamennone sembra assomigliare a quella di Abramo sulla montagna: un uomo buono e (fino a questo momento) senza colpe deve uccidere un bambino innocente per obbedire ad un comando divino oppure deve incorrere nella colpa ancora più grave della di­ subbidienza e dell’empietà34. Possiamo, dunque, aspettarci di assistere alla delicata lotta tra l’amore e l’obbligazione religiosa che cogliamo nelle ambigue parole di Abramo ad Isacco, se­ guite da un sacrificio eseguito con orrore e riluttanza. Ma suc­ cede qualcosa di strano. Il coro ci ha già preparati all’inizio del suo resoconto: «Non biasimò l’indovino Calcante e secondò egli stesso i venti che lo colpivano» (w. 186-188). L ’audace metafora del vento coniata dal coro (la parola sympneo è in ap­ parenza usata qui per la prima volta nella lingua greca) esprime una cooperazione innaturale delle forze interne con quelle esterne. Senza pronunciare una sola parola di biasimo contro l’indovino o contro il suo terribile messaggio, Agamennone co­ mincia ora a cooperare interiormente con la necessità, facendo in modo che i suoi sentimenti si accordino con la sua sorte. Dal momento in cui egli prende questa decisione, la migliore possi­ bile, si trasforma stranamente in un collaboratore, in una vit­ tima accondiscendente35. Una volta stabilite le alternative e annunciata la sua deci­ sione, ci saremmo aspettati che Agamennone dicesse qualcosa come: «Questa soluzione orribile è ciò che la necessità divina esige, tuttavia io la intraprendo con dolore e ripulsa». Ma ciò che egli dice è molto differente: «E dunque plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine36. E giusto e santo (thèmis) che questo io desideri con furore (orgai periorgos epithymein). E così sia bene» (w. 214-217). Due particolari bal­ zano agli occhi in questo discorso strano e spaventoso. In primo luogo l’atteggiamento verso la decisione muta dopo che essa viene presa. Dalla constatazione che un grave destino lo aspetta in ogni caso e che entrambe le alternative implicano un male Agamennone è passato ad un particolare ottimismo: se la soluzione scelta è la migliore, tutto potrà ora andare bene. Un atto che saremmo pronti a considerare come il crimine minore tra due orribili empietà diventa ora per Agamennone pio e giu­ sto, come se egli, attraverso una qualche strategia della deci­ sione, avesse risolto il conflitto e si fosse sbarazzato dell’altra «mala sorte». Allo stesso tempo notiamo che la correttezza

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della sua decisione viene da lui usata per giustificare non solo l’azione, ma anche la passione: se è giusto obbedire ad un dio, è giusto volere obbedirgli, avere un appetito (epithymein) per il crimine, addirittura bramarlo con furore. Agamennone sembra in primo luogo pensare che, se egli ha deciso in maniera giusta, l’azione scelta deve essere giusta; e, in secondo luogo, che se un’azione è giusta, è appropriato volerla, addirittura provare entusiasmo per essa. Dal «Quale delle due sorti è peggiore?» egli passa al «Così sia tutto bene». Il ritornello del coro è «In­ tona lugubre canto, lugubre canto intona; ma il bene trionfi» (w. 139, 159). La conclusione di Agamennone, che da un punto di vista sembra logica ed addirittura razionale, omette il dolore e la lotta, lasciando solamente il bene. Se accettiamo che il conflitto pratico possa essere assimilato al disaccordo e che le richieste pratiche siano uguali alle convinzioni, anche noi dobbiamo percorrere questo cammino con lui, dal mo­ mento che solamente una richiesta può essere legittima o va­ lida. Se la troviamo, essa è la vera obbligazione, mentre l’altra cessa naturalmente di esercitare qualsiasi pretesa sulla nostra attenzione. E che cosa potrebbe essere sbagliato nell’amore, nella verità o nel dovere? Il coro continua: «E immerse il collo nel collare della ne­ cessità. E spirando dal mutato cuore sacrilegio, empietà profa­ nazione, ecco, fu pronto a tutto osare. Perché i mortali inco­ raggia con suoi turpi consigli miserabile insania, fontana di ca­ lamità» (w. 219-224). Traendo quella sua inferenza, dalla ne­ cessità dell’azione alla sua giustezza ed alla giustezza dei senti­ menti che l’accompagnano, Agamennone pone il proprio collo nel giogo della necessità37, spira i propri pensieri nel vento. Sebbene si tratti di un grave crimine, il coro non biasima a fondo l’azione poiché sente che gli dei sono i principali respon­ sabili. Esso evoca Zeus, come per comprendere il senso della sua violenta intrusione nella vita umana (w. 160 ss.). Il coro imputa ad Agamennone il mutamento di pensieri e di passioni che accompagnano l’uccisione; di questo egli è chiaramente ri­ tenuto responsabile38. «Così osò {etla) il padre di farsi sacrifi­ catore della figlia» (v. 225) —- non solo si fece, ma si sforzò di farsi tale. Si rassegnò al fatto e non si oppose. La descrizione che il coro fa del suo comportamento mentre esegue il sacrifi­ cio fa pesare questa accusa. «Non valsero preghiere della figlia, né che il padre», questo padre, «ella chiamasse per nome, né la

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verginale età» (w. 228-230); egli trattò la figlia come un ani­ male scelto per essere immolato. Così la profezia delle aquile si avvera secondo l’interpretazione dell’indovino. Predicendo la rovina del proprio re, egli espone il presagio nel modo in cui il re lo avrebbe vissuto. Dopo la preghiera usuale Agamennone comanda all’aiutante di sollevare Ifigenia in aria sopra l’altare «come capra selvatica» (v. 232). L ’unico segno che egli dà di riconoscere la condizione umana della vittima è il comando di chiuderle la bocca, così che ella non possa pronunciare maledi­ zioni contro la casa (w. 235-237). Ed anche questo ordine uti­ lizza un linguaggio riferibile a un animale: essi devono frenare la sua voce «con la violenza di muti bavagli» (w. 238-239). Ap­ parentemente egli non vede ciò che il coro vede: Le scivolarono ai piedi le vesti del colore del croco; e dagli occhi pietosi con dardi di pietà feriva ora l’uno ora l’altro i suoi sacrifica­ tori. E pareva un’immagine dipinta, e voleva parlare, ella che tante volte nelle stanze del padre, ai conviti, aveva fatto udire il suo canto, e tante volte, con quella sua pura voce di intatta vergine, amorosamente, in onore del padre amato, intonato aveva il peana del buon augurio alla terza libagione (w. 239-245). Il passaggio dalla descrizione degli ordini di Agamennone ai ricordi del coro porta con sé la sola nota di umana compas­ sione in questa scena terribile. Mai, nella narrazione corale o in seguito, sentiamo il re pronunciare una parola di rimpianto o di dolorosa memoria. Senza dubbio egli approverebbe il bril­ lante riassunto della sua vita fornito da Apollo nella scena del giudizio delle Eumenidi: «La sua maggiore impresa l’aveva compiuta felicemente» (Eum. 631-632). L ’influente storico della religione greca Walter Burkert ha proposto una spiegazione delle origini della tragedia greca che, se accettata, potrebbe aggiungere un’ulteriore dimensione sto­ rica e religiosa alla nostra interpretazione di questa scena39. Sebbene io trovi le argomentazioni di Burkert convincenti, non mi baserò in alcun modo sulla loro correttezza per interpretare questa scena. Ma sarà suggestivo metterle a paragone con la mia lettura. La cerimonia del sacrificio animale, dalla quale, secondo Burkert, la tragedia deriva il proprio nome, esprime il timore e la paura provati da una comunità umana verso le sue possibi­

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lità omicide. Mettendo in scena ritualmente l’uccisione di un animale, non di una vittima umana, e circondando questa ucci­ sione con una cerimonia che indica l’innocenza dell’uccisore e il proprio rispetto per la vita, i sacrificanti, attori in questa commedia dell’innocenza (Unschuldskomòdie) 40, si distanziano dalla possibilità dell’omicidio, che risiede nella natura umana, e allo stesso tempo la riconoscono. Esprimendo la loro ambi­ valenza ed il loro rimorso per l’uccisione di un animale, uma­ nizzando l’animale e mostrando riguardo per la sua «volontà», i sacrificanti allontanano da sé la possibilità peggiore: che essi vogliano uccidere esseri umani, e uccidere senza pietà, diven­ tando essi stessi bestiali. La loro azione rituale afferma la loro umanità e al tempo stesso la loro paura di cessare di essere umani. «Il sacrificio umano [...] è una possibilità che, come terribile minaccia, sta dietro ad ogni sacrificio»41. Il compito della tragedia, nata dal sacrificio del capro, è quello di conti­ nuare ed approfondire questa funzione del rituale portando alla luce la minaccia nascosta e mettendo continuamente in scena la possibilità della bestialità nascosta ed allontanata dalla società umana. Il sacrificio di Ifigenia (come suggerisce il lavoro di Burkert) si adatta perfettamente a questo schema. La sosta di Aga­ mennone in Aulide era cominciata con un animale che ucci­ deva spietatamente un altro animale; questo spettacolo era stato interpretato come l’immagine degli uomini che uccidono in modo non rituale (e perciò senza rimorso) gli animali. Aga­ mennone usa ora (abusandone) il rituale del sacrificio animale per rappresentare la vera possibilità che questo rito scongiura. (Molte parole nel passo sono termini tecnici dei riti sacrificali ben noti al pubblico: la veste color del croco (v. 238) era indos­ sata solo dalle giovani alle feste di Artemide Brauronia, dove un capro veniva sacrificato ad Artemide; ataurotos, «non mon­ tata dal toro» (v. 245) è un termine tecnico rituale che indica la verginità; la proteleia (v. 227) è un sacrificio ad Artemide com­ piuto dalle giovani ateniesi prima del matrimonio.) Invece del­ l’uccisione rituale di un capro «accondiscendente», contem­ pliamo l’omicidio di una giovane «riluttante», di sua figlia, che egli tratta e vede come se fosse un capro «accondiscendente». Veniamo invitati ad essere testimoni della mostruosa facilità con cui vengono infranti questi limiti e vengono compiute que­ ste sostituzioni42. Noi siamo anche testimoni, ed è la cosa più

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importante, dell’intelligenza con cui le norme di razionalità e di coerenza vengono messe in atto quando possono portare la salvezza. Veniamo invitati a vedere quanto facilmente nella vita umana, con quale abile gioco di prestigio, gli esseri umani so­ stituiscano gli uomini agli animali e gli animali agli uomini e gli estranei ai cari, costretti da pressioni che sono endemiche in un mondo dove la scelta è costretta dalla necessità. Eteocle, re di Tebe e figlio di Edipo, affronta un esercito invasore guidato dal fratello Polinice43. Dopo aver scelto sei campioni tebani per combattere contro sei dei sette nemici presentatisi alle porte, egli ora scopre che il settimo avversario è suo fratello. All’inizio protesta, lamentando il destino della sua famiglia (Sette a Tebe, w. 653-655). Quindi egli riprende all’improvviso il controllo e dichiara che «non mi è dato pian­ gere, non devo / farne lamento» (v. 656), perché contro questa ingiusta violenza del fratello egli vuole porre un campione ap­ propriato, se stesso: [...] Chi ne ha più diritto (endikoteros)? Re contro re starò in campo, fratello contro il fratello, e nemico a nemico. Sù, presto, gli schinieri e la mia lancia e a schermo delle pietre l’armatura (w. 673-676). Il ragionamento mostra una particolarità: la categoria «fra­ tello» non sembra agire nello stesso modo delle altre due nel giustificare la decisione di Eteocle. L ’eroe sta apparentemente dimenticando qualcosa: egli non prova nessuna spinta contra­ ria, nessuna tensione tra i suoi obblighi civici e militari e i suoi doveri di fratello44. Gli evidenti bisogni della città si scontrano con una richiesta ugualmente profonda. Le lacrime, e non il ri­ fiuto delle lacrime, sembrerebbero la reazione più appropriata. Supponiamo che solo un capo sia veramente in grado di af­ frontare un capo; supponiamo che la salvezza della città di­ penda effettivamente da questa scelta e che, di conseguenza, la decisione di Eteocle sia nobile. Diciamo pure (cosa che la tra­ gedia lascia nel vago) che nessuno può rimproverare Eteocle di aver compiuto la scelta sbagliata tra tutte quelle possibili45. Ri­ mane, tuttavia, qualcosa di sbagliato in questo rifiuto netto del legame familiare. Il coro delle donne di Tebe, madri di fami-

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glia, percepisce questa stranezza e rimprovera il re non tanto per la sua decisione — o almeno non solo per la decisione — ma molto di più per la reazione e per i sentimenti con cui egli intraprende l’azione scelta. Oh, no, figlio di Edipo, a me il più caro d’ogni altro al mondo, non ti fare simile nell’ira (orgeti) a chi nel nome porta il marchio del più grande dei mali (w. 677-678). Eteocle mostra i sentimenti di un criminale, sebbene abbia ragionato correttamente. Le donne lo implorano un’altra volta: Figlio, a che pensi, che smania è la tua? Bada che il cieco errore (ata), ebbro d’ira (thymopletbes) e che avido è di ferro, non ti trascini, taglia alle radici la tua voglia funesta (kakou erotos) (w. 686-688). Eteocle, che, come Agamennone, è già passato dall’orrore alla fiducia, risponde con un’argomentazione simile a quella di Agamennone: «Questo è l’evento e un dio l’affretta» (w. 689690). La costrizione giustifica l’ardore. Le donne rispondono ancora una volta biasimando il suo entusiasmo: A crudo morde, e a forza ti sospinge la brama (himeros) di condurre al suo fine un eccidio che darà amaro frutto, e di versare un sangue che ogni legge interdice (w. 692-694). La risposta di Eteocle conferma che egli veramente sente un violento desiderio di commettere il fratricidio (si noti l’uso del gar)\ egli non lo nega né si pente, bensì cerca soltanto di spiegare le origini del desiderio46. Eteocle, come Agamennone, affronta una situazione nella quale sembra che non vi sia alcuna alternativa innocente. Di­ versamente da Agamennone, egli può essere in parte incolpato per aver contribuito alle circostanze che lo costringono, anche se è chiaro che gli elementi fondamentali sono forze e coinci­ denze al di fuori del suo controllo47. Diversamente da Aga­ mennone, egli può anche non aver compiuto la migliore scelta

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possibile. Ma noi, con le donne del coro, sentiamo nel modo più chiaro, come nel caso di Agamennone, quanto siano per­ verse le reazioni emotive del re di fronte al grave dilemma che gli viene posto. Sembra che egli non provi nessuna opposi­ zione, nessuna resistenza, nessuna riluttanza. Egli va avanti con ardore, persino con passione. E su queste deficienze della sua visione delle cose e della sua reazione che fa perno il rimpro­ vero del coro: il suo ardore, il suo cattivo eros, il suo desiderio bestialmente affamato. Qualsiasi sia la decisione da loro auspi­ cata, per le donne di Tebe rimane chiaro che il re ha reso le cose troppo semplici. Non è stato capace di vedere il conflitto e di reagire per quello che esso è; questo crimine appesantisce il già grave fardello della sua azione. Eteocle si era posto come scopo pratico per tutta la sua vita quello di dissociare se stesso, neU’immaginazione e nei senti­ menti, dalla famiglia che lo aveva generato, considerandosi un semplice cittadino ed il timoniere della città (w. 1 ss.)48. Egli tenta anche di imporre e di propagare il mito secondo il quale tutti i Tebani sarebbero nati da germogli nella terra, esten­ dendo a tutta la popolazione una leggenda che aH’inizio riguar­ dava solo alcuni dei primi abitanti. Parla dei suoi concittadini con un linguaggio appropriato alla vita ed alla crescita delle piante, paragonando i loro corpi a giovani germogli e chia­ mando la terra loro «madre» e «nutrice» (w. 12, 16 ss., 557). Anche le donne del coro, che spesso esprimono la loro preoc­ cupazione per la salvezza delle loro famiglie, vengono chiamate «Voi germogli insopportabili» (v. 181). Emerge dalle succes­ sive biografie dei campioni tebani che soltanto pochi cittadini viventi sono discendenti degli originari «uomini seminati»; e almeno uno di questi appartiene alla seconda generazione, nato da un padre biologico (cfr. w. 412-414, 473-474). Per una strana ironia Eteocle invoca «la giustizia che lega i consangui­ nei» (dìke homaimon, v. 415) proprio in relazione all’unico ap­ partenente alla razza degli «uomini seminati», che può infatti essere un discendente della terra senza genitori biologici. Que­ sta giustizia, egli sostiene, metterà in campo il campione in di­ fesa della città «a respingere l’aste dei nemici / dalla madre da cui ebbe la vita» (v. 416). Solo di Melanippo, infatti, si po­ trebbe veramente dire che la sua partecipazione alla guerra ci­ vile è pienamente conforme alla giustizia della consanguineità. E tuttavia Eteocle si comporta come se tutti i cittadini di Tebe

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fossero uguali, chiamando tutti gli uomini figli della madre terra e tutte le giovani donne germogli. Se egli è in grado di sciogliere il dilemma e di uccidere il fratello senza dolore, ciò avviene perché si è decisamente rifiutato di riconoscere l’esi­ stenza e l’importanza delle famiglie nella vita umana. La coe­ renza nel conflitto viene pagata con l’autoinganno. Non dobbiamo pensare che questo schema di reazioni sia un fatto idiosincratico e meramente patologico. Per un verso esso è la risposta di un buon governante e patriota. Per un al­ tro, potrebbe essere la reazione di ogni cittadino di sesso ma­ schile presente tra il pubblico degli Ateniesi. Infatti i maschi ateniesi vengono fatti risalire ad un mito di autoctonia che per­ sistentemente e paradossalmente sopprime il ruolo biologico femminile e quindi della famiglia nella continuità della città. La retorica politica spesso chiama i cittadini figli della città o della terra. Si dice che il primo fondatore di Atene, Erittonio sia stato generato direttamente dalla terra e che poi sia stato al­ levato da Atena, che a sua volta è nata senza una madre biolo­ gica 49. Questa mitologia era tanto importante nel discorso poli­ tico e religioso della città da riflettere e rinforzare la soppres­ sione dell’elemento familiare, anche se non veniva creduta alla lettera e se in altri contesti la famiglia riceveva un più che pieno rispetto. Questo stratagemma ha un’indubbia utilità civica: im­ plica che in caso di lotte fratricide i cittadini devono essere fe­ deli solo alla città; accettando il conflitto essi fraintendereb­ bero le loro origini. Sembra, dunque, che Eschilo rifletta su uno stile di pensiero, o di elusione del pensiero, che è molto lontano dall’essere una peculiarità personale, e che, al contra­ rio, è fondamentale nella sua concezione della vita. Egli mostra come questo rifiuto aiuti i cittadini ad evitare la lacerazione provocata dalle richieste conflittuali. Ma suggerisce anche che i costi di questa semplificazione possono essere troppo elevati. Essa infatti è accompagnata da una percezione sbagliata della città e da reazioni gravemente insufficienti verso i legami non civili, ai quali è dovuto invece un grande rispetto. Quando sop­ perisce a queste mancanze con i maledetti incubi fratricidi di Eteocle, figlio di Edipo (w. 709-711), egli ci sta probabilmente suggerendo che, trascurando le giuste reazioni familiari, si in­ coraggiano le passioni celate nei cuori di molte famiglie. Ci mostra anche che la città può coltivare un giusto riconosci­ mento della stirpe, poiché il messaggero che porta la notizia

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della morte di Eteocle si rivolge precisamente al coro con le parole «Voi che le madri crebbero» (v. 792). Ora che le fin­ zioni del re sono terminate, può essere riconosciuta la profon­ dità del legame familiare e il conflitto tra famiglia e città può essere riconosciuto per quello che è. Alla fine del dramma (ammesso che sia autentica50) il coro ri­ conosce ciò che Eteocle non ha riconosciuto. Mentre Creonte ed Antigone si scontrano sulla sepoltura di Polinice, il coro si di­ vide a metà. Con un finale unico in tutte le tragedie superstiti, il coro esce diviso: una parte segue Creonte con il cadavere di Eteocle, mentre l’altra segue Antigone e il corpo di Polinice. Dice il secondo semicoro: [...] noi andremo, avrà la sua sepoltura e noi l’accompagneremo. A tutta la stirpe di Cadmo comune è questo dolore, e la città spesso muta nei suoi giudizi la lode di ciò che ogni volta è giusto (w. 1068-1071). La divisione di ciò che prima era unito riconosce le richie­ ste di entrambe le parti. Se pensiamo che il coro sia composto di molti individui, il riconoscimento sembra incompleto, dal momento che viene ancora una volta concepito come una forma di disaccordo ed ogni individuo riconosce solamente una delle richieste. Ma se pensiamo, come probabilmente do­ vrebbe essere, che il coro impersoni ciascuno di noi ed abbia una sola immaginazione, un unico bagaglio di sentimenti, al­ lora ciò che noi vediamo rappresenta quella complessa rea­ zione individuale al dilemma che Eteocle non era riuscito a dare. Questa interpretazione è confermata dai versi finali del secondo semicoro, il quale ribadisce che la giustizia, anche la giustizia della città, non è una cosa semplice. 4. Abbiamo appena visto due conflitti pratici. Ciascuno di essi riguarda importanti valori che i cori di entrambi i drammi mettono in relazione all’eccellenza umana. Se riconsideriamo i nostri otto punti, i protagonisti si mostrano suscettibili anche di altri rimproveri morali. In entrambi i casi il conflitto pro­ voca un’azione contraria ai valori vigorosamente sostenuti dal

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coro e, in un caso, anche dallo stesso agente; in entrambi i casi l’azione viola anche un’obbligazione fondamentale dell’indivi­ duo agente, implicita o esplicita; in entrambi i casi c’è un danno irreparabile ad un’altra persona, con vaste conseguenze per il resto della vita dell’agente. Ma ora dobbiamo conside­ rare più da vicino due osservazioni sviluppate dai cori quando analizzano le manchevoli reazioni dei loro re. In primo luogo entrambi i cori ribadiscono l’importanza della distinzione tra crimini riparabili ed irreparabili, sostenendo che alcune ingiu­ rie hanno effetti così gravi che, anche se vengono commesse per la forza delle circostanze, devono essere seguite da una se­ ria punizione. Il coro dei Sette enfatizza la distinzione tra il normale uccidere in guerra, per il quale si può celebrare una purificazione rituale, e la molto più grave uccisione di un membro insostituibile della propria famiglia: «Non è macchia / che conosca mai tempo né vecchiaia» (w. 680-682). Il coro dell 'Agamennone ricorda la differenza tra una semplice perdita economica e la perdita della vita. Il mercante che è costretto a gettare il suo carico in mare sfugge alla morte. «Non affonde­ rebbe intieramente la casa» ed egli avrà la possibilità di rifarsi della ricchezza perduta (w. 1007-1017). «M a nero sangue di creatura ferita a morte, una volta caduto a terra, non c’è incan­ tesimo che lo possa avvivare una seconda volta» (w. 10181021). Il coro, perciò, sente che il suo re deve essere punito. Anche i crimini provocati dalla necessità, se sono di questa gravità, richiedono una punizione. Anche l’indifeso Oreste, co­ stretto da un ordine del dio ad uccidere la madre colpevole e molto più giustamente riluttante davanti a questo atto orrendo, deve avere la sua punizione: la pazzia del rimorso e la persecu­ zione delle Furie della madre. La rovina di Agamennone e le Furie di Oreste rispondono alla nostra domanda intuitiva. An­ che colui che commette un omicidio perché vi è costretto giunge a considerare se stesso un assassino e deve espiare sulla propria persona il suo atto. Questi interventi divini nella vita umana non sono arbitrari o capricciosi; rappresentano una ri­ sposta etica profonda, che sarebbe comprensibile anche in as­ senza della divinità51. Anche se Oreste fa la cosa migliore in quelle circostanze, ciò che egli ha compiuto, e compiuto inten­ zionalmente, ad occhi aperti, è così cattivo che egli non può continuare a vivere come se non l’avesse fatto. Potremmo dire che Oreste non è pazzo, ma in pieno possesso di sé quando ri-

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conosce che le Furie lo stanno inseguendo. Nella conclusione deWOrestea (cfr. anche il cap. XIII) la città savia non permette che la punizione di queste situazioni continui aU’infinito. La città, sotto la guida di Atena, escogita alcune procedure (che sono probabilmente pensate in modo da sembrare abbastanza arbitrarie) per permettere la completa liberazione di un colpe­ vole così sofferente. Stando al finale inoltre, non sarà più per­ messo che la colpa scenda senza limiti tra le generazioni. Ma, allo stesso tempo, Atena sottolinea che la paura associata alle Furie avrà un ruolo importante nella salute della città: la loro figura viene riformata, e tuttavia esse ricevono un posto d ’o­ nore. Infatti, ella dice, ci sono tempi nei quali la paura è un bene ed una cosa appropriata52. Le situazioni di conflitto pra­ tico assomigliano a quei tempi. I cori sollevano una seconda questione. Noi diciamo che l’agente sceglie ed agisce costretto dalle circostanze, e do­ vrebbe perciò ricevere una colpa minore per la sua azione cat­ tiva: ma il problema della lode e della colpa non finisce qui. Molti lati della faccenda sfuggono al suo controllo, ma ci sono anche altri aspetti su cui può in qualche modo agire: la sua rea­ zione emotiva al dilemma, le sue riflessioni sulle richieste che gli vengono rivolte. I cori sembrano credere che una persona buona, trovandosi in una situazione del genere, la veda per quello che è. Se ha un buon carattere, affronterà l’evenienza con una immaginazione vivida e con un insieme complesso di reazioni che la metteranno in grado di vedere il conflitto come una situazione che la costringe ad agire contro il proprio carat­ tere. Non inibirà questi pensieri al momento della scelta. Eteocle si ritrova con un insieme artificialmente impoverito di inte­ ressi che gli impedisce di vedere correttamente la propria si­ tuazione. Agamennone sembra inizialmente ripudiare o sop­ primere un giudizio accurato53. Una volta raggiunta la deci­ sione, il caso appare solubile, le richieste alternative «non con­ tano nulla». Una reazione appropriata, invece, comincerebbe riconoscendo che questo non è semplicemente un caso difficile in cui bisogna scoprire la verità; è un caso in cui l’agente dovrà fare il male. Questa reazione dovrebbe continuare con una vivida com­ prensione dei due corni del dilemma, sforzandosi di vedere nel modo più vero e distinto possibile le più importanti caratteri­ stiche del caso in questione. Infatti, anche se l’agente è fornito

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di buoni principi generali, il caso non si presenta subito chiaro, con un’etichetta che indichi le sue principali caratteristiche. Per cogliere quest’ultime l’agente deve interpretare la situa­ zione. E poiché spesso le qualità più importanti emergono di­ stintamente solo attraverso un complesso lavoro di memoria e di proiezione, egli dovrà utilizzare non solo la percezione, ma anche l’immaginazione. Agamennone dovrebbe vedere (come comincia a vedere) le pesanti conseguenze della disubbidienza al dio e, ancor più, la grave empietà che ne consegue. Egli do­ vrebbe riflettere sulla pietà religiosa, sulla sua concezione della divinità, su che cosa significhi realmente obbedire ad un dio, su che cosa implichi il fatto che questa teologia riconosce una pluralità di divinità che possono porre richieste conflittuali. Il coro si dedica proprio a queste riflessioni nel suo inno a Zeus, che interrompe la sua narrazione (w. 160-184). I coreuti si chiedono, attraverso immagini mitologiche, che cosa sia questo dio e che cosa intenda mostrarci con la sua violenza. Dall’altro lato Agamennone dovrebbe permettersi di vedere realmente sua figlia e non soltanto il capro sacrificale che egli si concede di vedere; dovrebbe vedere tutto ciò che il coro vede: la veste gialla trascinata al suolo, le preghiere, le invocazioni di «P a­ dre!», lo sguardo di accusa negli occhi silenziosi. Egli do­ vrebbe permettersi di ricordare, come ricordano i coreuti, la sua dolce voce, la sua sottomessa e amabile presenza alla mensa paterna. Eteocle dovrebbe immaginare, come fa, il de­ stino di una città divenuta schiava di un nemico straniero; e dovrebbe concedersi di vedere, come parte di quel destino, la tragedia delle famiglie colpite dalla guerra, così intensamente descritta dal coro con suo fastidio e dispiacere. Egli dovrebbe anche permettersi di riflettere su che cosa significhi essere cre­ sciuto assieme a suo fratello Polinice; aver condiviso con lui non solo la nascita, la ricchezza, il potere, ma anche la pesante consapevolezza del crimine di un padre-fratello, «che il campo sacro della madre / dove era stato nutrito / osò seminare» (w. 152-153) e, quando tutto questo venne alla luce, il peso del de­ stino del padre-fratello. Forse questa visione immaginativa ma veridica lo porterebbe ad una indecisione paralizzante, o forse la decisione si presenterebbe da sola in tutta la sua chiarezza. La percezione corretta di tali conflitti non presuppone l’inde­ cisione, dal momento che essi possono manifestarsi anche dove le richieste non sono perfettamente bilanciate. L ’indecisione in sé non è una virtù, né la risolutezza è una mancanza.

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Infine il buon agente proverà anche certi sentimenti e di­ mostrerà quei sentimenti che si addicono ad una persona di buon carattere presa in una tale situazione. A suo avviso la de­ cisione non consentirà sentimenti di autocompiacimento, an­ cor meno sentimenti di entusiasmo per l’azione scelta. Egli mostrerà nel suo comportamento emotivo, e, perciò, sentirà veramente, che quell’azione lo ripugna profondamente ed è contraria al suo carattere. Sebbene egli debba, fino ad un certo punto, agire come una persona che «nel nome porta il marchio / del più grande dei mali», egli mostrerà di essere compietamente diverso nelle disposizioni emozionali che formano il suo carattere da una persona dominata dal «furore». E dopo l’a­ zione egli ricorderà, proverà rincrescimento e, se è possibile, farà riparazione. La sua emozione, inoltre, non sarà semplicemente il dispiacere, che potrebbe essere provato ed espresso da uno spettatore non coinvolto e che non implica un’azione colpevole. Sarà un’emozione più vicina al rimorso, strettamente collegata con il riconoscimento del male che egli, sep­ pur agendo con riluttanza, ha provocato. (In un caso legale a me noto l’avvocato della difesa permise al suo cliente di espri­ mere soltanto dispiacere in una lettera ad un annoiato cancel­ liere, senza fare le proprie scuse o esprimere qualsiasi emo­ zione che implicasse l’ammissione di una qualsiasi azione man­ chevole. Il coro risponderebbe che l’agente in questi casi deve andare oltre quanto viene permesso da un buon avvocato di­ fensore. ) Dopo aver rilevato l’importanza dei fattori emozionali nel rimprovero formulato dal coro, siamo indotti a riconsiderare quel passo deli’Agamennone che ha sconcertato gli interpreti. Con una audace critica al loro re di ritorno gli anziani sem­ brano affermare esplicitamente che la loro condanna è contro le passioni e, in particolar modo, contro le passioni che essi considerano «volontarie», cioè corrispondenti alle condizioni per attribuire ragionevolmente la lode o il biasimo: «Quando tu armasti per Elena la spedizione di guerra, allora, non te lo voglio celare, una immagine non bella io ebbi di te, e tu non bene reggesti il governo dei tuoi pensieri, nutrendo una volon­ taria audacia del carattere (tharsos hekousion) a vantaggio degli eroi votati alla morte» (w. 799-804). Offro una versione lette­ rale del greco dei manoscritti54 che di solito vengono emendati sino ad essere incomprensibili. L ’espressione tharsos hekou-

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sion «volontaria audacia del carattere» è sembrata impossibile a molti interpreti, poiché certamente soltanto le azioni, non le passioni possono essere hekousion o akousion ” , passibili o no di lode e di biasimo56. E stata perciò rimossa con un’emenda­ zione o interpretata come una perifrasi di condanna per Elena, quell’«impudica donna accondiscendente»57. (In questo caso il verbo komizo deve essere inteso come «riportare», una tradu­ zione che comporta diverse difficoltà)58. Il riferimento alla colpa e agli eroi destinati alla morte richiama, tuttavia, gli eventi dell’Aulide. Il modo in cui Agamennone «non bene resse il governo dei suoi pensieri» nella prima descrizione di quegli eventi può essere ben colto dalla traduzione letterale di tharsos hekousion : egli nutrì e incoraggiò una mostruosa auda­ cia quando eseguì il sacrificio a favore dei soldati che mori­ vano. Solo un pregiudizio riguardante la natura volontaria delle passioni, un pregiudizio profondamente radicato dopo Kant e fortemente sostenuto da Platone, ma sconosciuto a Eschilo e criticato da Aristotele (cfr. capp. IX e X), ha impe­ dito di prendere seriamente in considerazione un’interpreta­ zione che coglie in questa osservazione un corretto riassunto della precedente narrazione, quando il coro espone gli avveni­ menti dell’Aulide. Senza dubbio questa proposta rimarrà con­ troversa, ma la mia interpretazione delle altre scene non di­ pende da essa. Tuttavia può rivelarsi come una interessante implicazione della mia ricostruzione, se promette di restituire senso al testo originale di un passo che ci ha fatto disperare. Altri due punti richiedono un commento. In primo luogo le biasimevoli reazioni del re sono descritte dall’esterno. Ciò è inevitabile in un dialogo drammatico: il coro parla di ciò che vede. Ma noi sappiamo che ci sarebbe una grande differenza tra una riuscita falsificazione delle emozioni appropriate e una reazione spontanea. Agamennone viene incolpato di nutrire la sua audacia, di aver cambiato i suoi pensieri; di Eteocle si dice che è simile ad una cattiva persona nella passione e non sol­ tanto nel comportamento. Le donne del coro accusano il suo «cieco errore / ebbro d’ira», la sua «smania» — sebbene esse deducano questi sentimenti solamente dal comportamento esteriore del re. Ed è chiaro che la loro richiesta di responsabi­ lità per l’immaginazione e per le emozioni non sarebbe soddi­ sfatta da una falsificazione, da un semplice comportamento ineccepibile. Le parole di biasimo con cui gli anziani salutano

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Agamennone mostrano che essi sono consapevoli della possi­ bilità di dissimulare i sentimenti, o di simulare la simpatia quando «non morda il cuore nessuna pena»; ma essi si disso­ ciano dai «molti uomini» che preferiscono il parere all’essere e giudicano la dissimulazione una trasgressione della giustizia. Essi credono che la presenza o l’assenza di certi sentimenti e pensieri riveli qualcosa di significativo sul carattere di cui essi si stanno occupando. Questi uomini e queste donne formulano giudizi differenti, di biasimo o di lode, se la persona non ha, ma solo finge, le sue reazioni, vuoi per ipocrisia, vuoi per un sincero desiderio di essere giusta. Essi sono ben consapevoli che in pratica non è possibile distinguere con certezza tra ve­ rità e simulazione; ciononostante essi sottolineano questa di­ stinzione. Abbiamo parlato della situazione di conflitto come di una prova del carattere. Infatti i casi di conflitto ci forniscono nuove informazioni sul carattere dell’agente. (E così, per tor­ nare allo sfondo teologico, la colpa della famiglia si sviluppa in queste tragedie attraverso le qualità interiori del protagonista. ) Ma ora dobbiamo aggiungere, seguendo il coro dell Agamen­ none, che l’esperienza del conflitto può essere anche un’occa­ sione di apprendimento e di sviluppo. Il profondo significato del detto proverbiale pathei mathos, ripetuto sia poco prima sia poco dopo la narrazione del sacrificio di Ifigenia (w. 177 e 250), è che casi gravi come questi, se ci si impegna veramente a vederli e a esperirli, possono portare anche un progresso oltre al dolore, un progresso che nasce dalla maggiore conoscenza di sé e del mondo. Uno sforzo onesto di rendere giustizia a tutti gli aspetti di un caso difficile, considerandolo e provandolo in tutti i suoi molteplici aspetti, può arricchire i futuri sforzi deli­ berativi. Attraverso l’esperienza della scelta Eteocle avrebbe potuto scoprire situazioni alle quali non era stata resa giustizia in precedenza; Agamennone avrebbe potuto giungere ad una nuova comprensione della pietà e dell’amore che egli deve alla sua famiglia. Naturalmente è possibile operare nel corso della vita ordinaria, senza dolori o conflitti tragici, per conseguire questo giusto apprezzamento delle richieste complesse che ci vengono poste. I tragediografi, tuttavia, ci fanno notare che spesso ci vuole l’urto di grandi sofferenze perché noi possiamo guardare e vedere. Neottolemo, nel Filottete di Sofocle, non sa che cosa significhi rispettare il dolore di un’altra persona fin-

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ché anch’egli non deve piangere di dolore. Quando, attraverso la sofferenza, impara che i suoi ambiziosi piani sono in con­ flitto con il suo attaccamento alla verità ed alla giustizia, egli non viene più chiamato «bambino» e prende su di sé la re­ sponsabilità di decidere 59. L ’Admeto di Euripide, finché non perde Alcesti, non sa che cosa significhi avere moglie e, ancor di più, che cosa voglia dire amare un altro essere umano. «Ora comprendo», esclama nel pieno del rimorso e dell’autoaccusa. E, quando la sua fortuna cambia, «da oggi a un’altra / e più fe­ lice vita il nostro corso / si è volto, che non fu per noi la prima» (Euripide, Alcesti, 1158). Possiamo dire di più. Finora abbiamo parlato dell’espe­ rienza dell’angoscia come di un mezzo per la conoscenza del­ l’io, la quale viene realizzata e risiede nel solo intelletto. Ab­ biamo parlato come se pathei mathos significasse «per mezzo della sofferenza (esperienza) giunge la conoscenza (intellet­ tuale)». La comprensione piena e corretta della nostra situa­ zione pratica è accessibile di principio all’intelletto senza biso­ gno di ulteriore aiuto; queste persone hanno bisogno di rea­ zioni passionali solo per la loro manchevolezza e cecità. Questa interpretazione, che di fatto trasforma l’intera esperienza della tragedia (sia nel teatro sia nella vita) in un mero strumento, sembra banalizzare le pretese dei poeti contro i filosofi (anti­ poetici) e sembra impostare la discussione attribuendo il van­ taggio a quest’ultimi. Saremmo più giusti verso le intenzioni di Eschilo se considerassimo un’altra possibilità. Dovremmo ve­ dere qui la reazione passionale, la sofferenza stessa, come una parte del riconoscimento o della percezione, come una compo­ nente parziale con cui un personaggio riconosce la propria si­ tuazione di essere umano. Lo sfogo di Neottolemo, l’insonne angoscia del coro non sono mezzi per una comprensione che risiede nel solo intelletto; essi hanno parte nel riconoscere la difficile condizione degli esseri umani. Esiste un conoscere che avviene attraverso la sofferenza perché la sofferenza riconosce in modo appropriato come sia la vita umana in determinati casi. E in generale: capire un amore o una tragedia con l’intel­ letto non è sufficiente per avere una vera conoscenza di essi. Agamennone sa che Ifigenia è sempre sua figlia, se con ciò in­ tendiamo che egli ha su di lei certe convinzioni giuste, può ri­ spondere correttamente a molte domande su di lei, e così via. Ma poiché nelle sue emozioni, nella sua immaginazione e nel

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suo comportamento egli non riconosce quel legame, vogliamo unirci al coro e dire che la sua condizione è più di illusione che di conoscenza. Egli non sa veramente che Ifigenia è sua figlia. Manca una parte della vera conoscenza (cfr. anche cap. X e In­ termezzo 2). Alcuni possono essere fortunati ed avere questa comprensione, questo riconoscimento e queste risposte senza aver provato situazioni tragiche estreme. Altri, come i nostri due eroi, possono attraversare le situazioni tragiche in condi­ zioni di illusione e di rifiuto. Altri possono essere resi più duri dall’esperienza dolorosa e diventare peggiori (cfr. cap. XIII). Ma ci sono anche coloro per i quali la buona sorte può essere uno svantaggio e la tragedia un’occasione fortunata, se per loro un giusto riconoscimento della condizione umana richiede la sorpresa della situazione tragica. Questo riconoscimento può poi favorire la comprensione di altri campi della vita. Forse il coro intende questo quando alla fine del suo inno a Zeus parla del «beneficio della violenza dei numi che saldamente seggono al sacro timone del mondo» {Ag. 182-183). E anche evidente che l’esplorazione di questi conflitti at­ traverso i nostri pathe di spettatori, le nostre reazioni di paura e pietà, dovrebbe aiutarci a realizzare proprio un insegna­ mento di questo tipo. I poeti non ci propongono semplicemente una diversa via alla conoscenza contemplativa o plato­ nica; il loro disaccordo con Platone è più profondo. Essi pre­ tendono di offrirci l’occasione per esercitare una conoscenza che neppure in linea di principio può essere detenuta dal solo intelletto. Se la loro rivendicazione è plausibile, allora i loro la­ vori (o i lavori come i loro) non sono facoltativi, ma sono ne­ cessari per indagare sino in fondo questi argomenti. (Conside­ reremo ulteriormente tale rivendicazione neH’Intermezzo 2.) Abbiamo cominciato a vedere una certa logica nell’illogico mondo di Eschilo. Abbiamo visto, in particolare, che un con­ flitto contingente tra due richieste etiche non deve necessaria­ mente essere considerato una contraddizione logica; e che l’«incoerenza» tra la libertà e la necessità può, similmente, es­ sere vista come una corretta descrizione del modo in cui le cir­ costanze naturali restringono le possibilità di scelta. A questo proposito le descrizioni di Eschilo sembrano essere molto vi­ cine alla nostra esperienza intuitiva del dilemma. Ma un ele­ mento continua a sembrarci strano ed estraneo. Per noi può

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ancora risultare difficile capire come sia ragionevole lodare o biasimare gli individui per cose che non sembrano sotto il con­ trollo della ragione o della volontà razionale: cose come la sen­ sibilità, il desiderio, la passione, l’immaginazione. Abbiamo già scorto la profondità di questa difficoltà quando si è trattato di interpretare il saluto del coro. Dal momento che questo è un tema centrale nella concezione aristotelica del carattere e della azione, verrà esaminato in seguito con maggiore esaustività60. Tuttavia gli esempi tragici ci forniscono sin d’ora un aiuto a questo proposito. Alcuni possono trovare qui una difficoltà perché assumono che le reazioni emotive non sono soggette ad alcun controllo e non possono far parte del carattere che un agente forma di proposito. Ma gli esempi mostrano che Aga­ mennone «favorisce», «spira», «muta» i suoi strani sentimenti e le sue reazioni e che Eteocle «si incita», formando e model­ lando i propri sentimenti in accordo con la sua ristretta visione della situazione. Proprio questi esempi ci mostrano gli uomini e le donne dei cori mentre si sforzano di guardare, notare, rea­ gire e ricordare, mentre coltivano la loro sensibilità rielabo­ rando la memoria degli eventi, finché «geme, dinanzi al me­ more cuore, rimorso di colpe» (Ag. 179-180)61. La presenza del coro a questa azione e il suo paziente lavoro, anche dopo anni, su tale vicenda ci ricordano che la razionalità pratica può e deve trattare con attenzione la complessità tragica e che que­ sto uso della razionalità chiede all’agente molto più dell’eserci­ zio della ragione o dell’intelletto, intesi nel senso più stretto62. Qui vediamo il pensiero e il sentimento agire insieme, tanto che è difficile distinguere l’uno dall’altro: il rimorso delle colpe dinnanzi al memore cuore. Tra emozioni e sentimenti, inoltre, è all’opera un interscambio reciproco, capace di illuminare e di favorire entrambi: vediamo sentimenti preparati dalla memo­ ria e dalla deliberazione e insegnamenti procurati dal pathos. (Se siamo buoni spettatori, scopriremo anche in noi stessi que­ sta interazione complessa.) Quando noi avvertiamo la fertilità di questi scambi, quando vediamo la razionalità di queste pas­ sioni, che conducono il pensiero alla comprensione umana, al­ lora probabilmente ci accorgiamo che l’onere della prova spetta a coloro che difendono solo l’intelletto e la volontà come oggetti appropriati della valutazione etica. Questa conce­ zione comincia a sembrare carente. I drammi ci mostrano la saggezza pratica e la responsabilità etica di un essere mortale e

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contingente in un mondo di avvenimenti naturali. Un tale es­ sere non è né un puro intelletto, né una volontà pura; né po­ trebbe deliberare meglio in questo mondo se lo fosse. 5. Dobbiamo ora ritornare a quei filosofi che assimilano questi conflitti a disaccordi e dobbiamo chiederci come ap­ paiano i loro argomenti alla luce dei casi tragici. Per Sartre la morale che si trae da questi casi difficili è che per un agente è inutile formare un sistema ordinato di principi etici e provare a vivere con il suo aiuto. Agamennone vede che i principi del­ l’obbedienza alla divinità e alla famiglia possono scontrarsi in modo inconciliabile, tanto che uno dei due deve essere violato. Evidentemente questa esperienza gli insegna che non c’è nes­ suna vita buona se ci si lega ai principi; chi rimane vincolato in generale a ciò che nel caso estremo non lo può guidare dimo­ stra una fede folle e cattiva. Se Agamennone fosse un eroe sartriano, egli, al momento del conflitto, si dissocerebbe comple­ tamente da entrambi i principi conflittuali e, considerando se stesso completamente libero e privo di qualsiasi vincolo, asseri­ rebbe la sua libertà con una scelta che non conosce rimorso. Questo approccio ha la virtù di considerare il dilemma di Agamennone come una seria crisi nella sua vita etica, ma su­ pera la difficoltà in un modo che sembra strano e arbitrario. Questo caso ci ha mostrato che due principi guida possono collidere in una particolare contingenza; non ci ha certamente mostrato che tra essi c’è contraddizione logica e tanto meno che essi offrono una guida insicura per gran parte delle situa­ zioni deliberative63. Non ci siamo ancora chiesti quanto debba essere grande il rischio di conflitto per rendere irrazionale un insieme di obbligazioni; ma ci accorgiamo che non c’è nulla di irrazionale in un insieme di obbligazioni che possono collidere in una situazione molto strana e molto rara. Inoltre non è an­ cora provato che in questa situazione strana le diverse obbliga­ zioni offrano ad Agamennone una cattiva guida. Esse sosten­ gono che egli deve sentirsi legato a ciascuna delle due azioni contingentemente incompatibili; e che, se esse sono contingen­ temente incompatibili, egli deve reagire e pensare come un uomo che è costretto ad agire contro ciò cui si sente legato. Ma, dal momento che questi pensieri e questi sentimenti sem­ brano esprimere e rafforzare un carattere virtuoso e impe­ gnato, la sua guida sembra essere buona. Difficile da capire è,

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invece, l’immagine data da Sartre di un agente senza carattere e senza principi, che improvvisa la sua libertà. Tutti i giudizi sulla bontà delle attività emotive ed immaginative nei nostri due casi presuppongono che vi siano un carattere costante e dei valori (dell’agente o, dove esso sia insufficiente, del coro) su cui possono essere valutate le azioni e le reazioni. La possi­ bilità stessa della valutazione morale sembra essere connessa alla costanza del carattere. Non sappiamo come potremmo parlare di un agente che continua ad improvvisare se stesso di momento in momento e che non è mai disposto ad identificarsi con alcuni principi generali. Il coro sicuramente proverebbe ri­ pugnanza per un Agamennone che audacemente affermi la propria libertà dai principi e che orgogliosamente rivendichi l’uccisione come un atto di libertà. Questo non è molto diverso da ciò che fa Agamennone: e il coro lo chiama pazzo. La proposta di Hare è più moderata. Non dobbiamo get­ tare via del tutto i principi che generano il conflitto. Dobbiamo semplicemente correggerli in modo che essi non producano un conflitto nei casi particolari. Inserendo alcune importanti ecce­ zioni nella formulazione delle regole, le rendiamo più precise e siamo meglio preparati alle situazioni future. Nel caso di Aga­ mennone Hare riformulerebbe il principio «Non uccidere» o «Non uccidere i membri della tua famiglia» in «Non uccidere i membri della tua famiglia a meno che tu non sia costretto dalla divinità». Questo dovrebbe essere sempre stato il suo princi­ pio. Ma i nostri due casi non sono equivalenti all’esempio di Hare della vita in tempo di guerra. In quel caso può ben essere vero che l’eccezione è implicita nella regola e che la modifica non produce nessuna importante alterazione. Nel nostro caso sentiamo che la regola è semplicemente «Non uccidere» e che essa, per come la comprendiamo, non ammette eccezioni si­ mili. Questo non significa che in nessuna circostanza la scelta migliore sia quella di uccidere; significa che anche tale ucci­ sione giustificabile razionalmente viola una richiesta morale e richiede emozioni e pensieri appropriati ad una situazione di violazione. Quando modifichiamo le regole secondo quanto suggerisce Hare avviene quel mutamento che abbiamo notato nella deliberazione di Agamennone: una trasformazione dal­ l’orrore al compiacimento, dal sentimento che bisogna fare il male al sentimento che abbiamo scoperto il giusto. Questa me­ tamorfosi non è compatibile con le intuizioni della tragedia.

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Infine dobbiamo ritornare a Kant, che dalla sua richiesta di coerenza tra i principi della ragione pratica viene condotto a ri­ fiutare quello che la sua stessa concezione porterebbe natural­ mente a considerare come un profondo conflitto tra le obbliga­ zioni pratiche. La richiesta di coerenza non è certamente sba­ gliata. Ma dobbiamo distinguere, cosa che Kant (come Sartre) qui non fa, l’incoerenza logica dal conflitto contingente. Sino a che punto le obbligazioni di un agente debbano evitare il con­ flitto per essere considerate razionali, rimane, come abbiamo detto, una questione aperta. Ma molti insiemi complessi di ob­ bligazioni rischiano, in certe situazioni, un certo grado di con­ flitto, senza apparire internamente incoerenti o irrazionali. Il rischio del conflitto è un fatto della vita pratica che richiede di essere riconosciuto ed esaminato. Kant, tuttavia, non può es­ sere d’accordo. Se nulla collide nella volontà, gli accidenti della «natura matrigna» non devono disturbare la delibera­ zione dell’agente razionale. L ’armonia interna e l’autorispetto della persona moralmente buona, che dà autonomamente la legge a se stessa, non possono essere condizionati dai meri eventi del mondo M. Ma pensiamo seriamente ad Eteocle e ad Agamennone come persone che kantianamente diano legge al loro mondo. Ci sembra di capire che il mondo contingente, ri­ luttante alle loro richieste legislative, ha condizionato la loro armonia interna. In particolare, li ha costretti a compiere cose vergognose, violando le loro stesse leggi, e ciò richiede una pu­ nizione secondo i criteri dei loro stessi codici. Possiamo obiet­ tare a Kant che un agente il quale prenda sufficientemente sul serio i propri principi non può che soccombere quando è co­ stretto a violarli. Se la legge è veramente una legge, la trasgres­ sione è realmente una trasgressione (almeno se si agisce di pro­ posito e con piena cognizione di ciò che si sta facendo), non importa se la situazione dipenda o no dall’agente. Il dovere di non uccidere è un dovere in tutte le circostanze. Perché mai nella situazione di conflitto dovrebbe cessare di essere un do­ vere? Ma se la legge viene infranta, deve esserci la condanna e la punizione. Così si prende la legge sul serio e si prende sul se­ rio la propria autonomia. La concezione di Kant, paradossal­ mente, produce proprio ciò che egli desidera evitare: aumenta la possibilità di allontanare un agente dalla autorità obbligante della legge morale. Noi, di fatto, seguiamo una parte delle mo­ tivazioni profonde della concezione kantiana del dovere quan-

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do ribadiamo che il dovere non scompare per gli interventi contingenti del mondo. Il politeismo greco, sorprendente­ mente, articola determinati elementi della moralità kantiana meglio di quanto potrebbe fare un credo monoteistico: vale a dire, esso afferma l’autorità suprema e vincolante, per così dire il divino, di ciascuna obbligazione etica in qualsiasi circostanza, anche quando gli stessi dei sono tra loro in contrasto. Eschilo, dunque, non ci mostra tanto una «soluzione» per il «problema del conflitto pratico», bensì la ricchezza e la pro­ fondità del problema stesso. (Questo risultato è strettamente connesso con i suoi mezzi poetici, che pongono la scena viva davanti ai nostri occhi, ci rappresentano mentre dibattiamo il problema ed evocano in noi le reazioni che ci consentono di valutare il dilemma.) Egli, dunque, compie la prima cosa che bisogna fare per sfidare le soluzioni teoretiche del problema. Ma se noi riconosciamo quello che ci pone davanti agli occhi, dobbiamo anche riconoscere che le «soluzioni» non risolvono veramente il problema. Esse semplicemente lo descrivono in maniera insufficiente o sbagliata; mancano di osservare cose che sono lì per essere viste: la forza delle richieste perdenti, la necessità dei personaggi buoni di pentirsi e di capire. Sospet­ tiamo che per avanzare verso una «soluzione» decisiva del pro­ blema dovremmo omettere o correggere alcuni elementi nella descrizione del problema. Di fatto, stando alle indicazioni di Eschilo, l’unica cosa che remotamente qui assomigli ad una so­ luzione è descrivere e vedere chiaramente il conflitto e ricono­ scere che non c’è nessuna via d’uscita. La cosa migliore che l’individuo può fare è accettare la propria sofferenza, l’espres­ sione naturale della propria bontà di carattere, e non soffocare queste reazioni per un erroneo ottimismo. La cosa migliore che noi (il coro) possiamo fare per lui è rispettare la gravità della sua situazione, rispettare le reazioni che esprimono la sua bontà e comprendere che il caso in questione mostra, più in generale, una possibilità della vita umana65. H secondo risultato significativo della esposizione di Eschilo è incluso nel primo: nella descrizione di questi casi Eschilo ci ha mostrato come il dolore ed il rimorso, che fanno parte del qua­ dro intuitivo, siano legati alla bontà etica in altri campi della vita: alla serietà dei valori, alla costanza negli impegni, alla sen­ sibilità simpatetica, che desideriamo mantenere e sviluppare in noi stessi e negli altri. Egli suggerisce che se non riconosciamo

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intuitivamente il potere tragico che le circostanze esercitano sulla bontà umana, non possiamo, di fatto, conservare le altre caratteristiche della nostra bontà: la sua integrità interna, la sua costante fedeltà alla propria legge, la sua capacità di ve­ dere. Se noi, nella crisi, potessimo dissociarci da un principio perché esso si scontra con un altro, saremmo meno buoni. La bontà stessa, dunque, ribadisce che non ci sono soluzioni di­ verse o più corrette. (Anche questo risultato, come il primo, sembra dipendere dai mezzi del dramma, con la sua capacità di mostrarci per esteso un personaggio o una scelta. ) In tal modo questi componimenti poetici ci fanno ritornare alle «apparenze» complesse della scelta pratica vissuta e le pre­ servano. Questo, a nostro avviso, potrebbe essere il vero con­ tributo che la letteratura offre all’etica. Ma ciò significa sotto­ valutare la complessità dei drammi tragici. Infatti essi mo­ strano non soltanto la forza delle posizioni intuitive, ma, allo stesso tempo, anche quanto sia potente il desiderio di fuggire da questa posizione per evitare il rischio della colpa e del ri­ morso che essa comporta. L ’impulso di creare una soluzione per il problema del conflitto non è estraneo alla tragedia e non rappresenta soltanto la creazione di una strana setta di filosofi. Nella tragedia è presente come possibilità umana: nelle delibe­ razioni di Agamennone e nelle strategie di Eteocle. Come ogni lavoro che esplori veramente le «apparenze» umane, queste tragedie ci mostrano, assieme alla «visione tragica», la nega­ zione di quella visione. Queste due immagini si illuminano a vi­ cenda. Non comprendiamo completamente la «visione tra­ gica» se non capiamo perché essa sia insopportabile e dolorosa per certi esseri razionali e ambiziosi. Sarebbe dunque troppo semplice considerare questi drammi come lavori che espri­ mono il rifiuto delle «soluzioni» teoretiche. Essi lo sono. Ma ri­ chiedono anche un’indagine completa della nascita e della struttura della teoria etica greca, la quale viene a presentarsi come un tentativo di esaudire il bisogno umano di trovare una soluzione. Gli altri due lati di questa indagine si trovano nelYAntigone di Sofocle, una tragedia in cui molti importanti filo­ sofi sono stati tentati di vedere adombrate le loro soluzioni ai problemi del conflitto e della contingenza66.

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Note al capitolo secondo 1 Su questo caso e sui problemi che apre per quanto riguarda la descri­ zione dell’azione vedi capitolo IX. 2 Vedi infra pp. 90-91 l’ulteriore discussione di questo caso. 3 Cfr. anche il capitolo III. Le implicazioni morali di questa particola­ rità della religione greca sono discusse a fondo da Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, cit., p. 160. Le sue conclusioni sono: «Ne consegue che è spesso diffì­ cile determinare se un particolare desiderio sia sbagliato e questa è una affer­ mazione che viene suggerita a quasi tutti gli esseri umani da una qualche loro esperienza di vita, sebbene ad essa il monoteismo dogmatico non presti mai ascolto». (Io sosterrò in seguito che la difficoltà non è solo quella di decidere che cosa sia meglio, ma riguarda anche casi nei quali la stessa decisione non viene messa in dubbio.) Forse non è corretto dire che la concezione greca del conflitto morale risulta da queste convinzioni teologiche; semmai la teologia e la morale insieme esprimono coerentemente una risposta tipica al pro­ blema della scelta umana. Si veda la nitida esposizione del problema in J.-P. Vernant, Tension et ambiguités dans la tragédie, in J.-P. Vernant e P. VidalNaquet, Mythe et tragédie en Grece ancienne, Paris, 1972, trad. it. Tensioni ed ambiguità nella tragedia greca, in Mito e tragedia nell'atìtica Grecia, To­ rino, 1972, pp. 24 s. Dal momento che in questo e nel prossimo capitolo trat­ terò i conflitti generati dalle obbligazioni di origine religiosa, è importante precisare che la relazione tra la sfera religiosa e quella pratico-morale non è la stessa nella religione olimpica dei Greci e nella tradizione giudaico-cristiana. Nel caso dei Greci le due sfere sono molto più difficili da distinguere. Seb­ bene non sia possibile esaurire qui la questione, posso far notare che alla reli­ gione olimpica manca l’idea secondo cui l’autorità divina è un principio in­ trinsecamente imperscrutabile, verso il quale bisogna avere un atteggiamento di fede irrazionale rifiutando ogni valutazione razionale. La religione è so­ prattutto un sistema di pratiche, in relazione di continuità con altre pratiche sociali convenzionali e concepito in modo da accentuare l’importanza di quei campi della vita morale e sociale che vengono avvertiti come più importanti. La continuità con la riflessione sul valore in altri campi è tanto stretta che viene considerato perfettamente plausibile discutere le ragioni degli dei e sti­ mare il loro valore. Gli dei sono esseri antropomorfi che agiscono in base a certi motivi; è corretto e non empio cercare di comprendere questi motivi. La fede giudaico-cristiana verso qualcosa di sconosciuto e di incomprensibile alla ragione ha poco spazio nella religione olimpica. Inoltre ogni campo della vita umana ritenuto importante viene protetto da una divinità; non è spesso chiaro (al contrario della tradizione giudaico-cristiana) se il sostegno divino aggiunga qualcosa di ulteriore alle profonde richieste etiche che l’uomo prova, o se si limiti soltanto a sottolinearne l’importanza, la permanenza e la natura obbligante. (Così, anche se in Aristotele manca un vero e proprio ri­ conoscimento delle divinità olimpiche, l’immagine etica non cambia molto.) Possiamo, dunque, dire che la forma delle istituzioni religiose dei Greci è in armonia con le loro convinzioni ed intuizioni etiche; esse si modellano e si ispirano a vicenda. Vedi, tuttavia, capitolo XIII, pp. 716-722. 4 M. Gagarin, Aeschylean Drama, Berkeley, 1976, p. 13. Osservazioni simili vengono fatte da J.-P. Vernant in Le moment historique de la tragédie,

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in J.-P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Mythe et tragedie en Grece ancienne, cit., trad. it. Il momento storico della tragedia in Grecia: alcune considerazioni so­ ciali e psicologiche, in Mito e tragedia, cit., pp. 3-7, e in Tensioni ed ambiguità, cit., pp. 20 s. Sebbene in un altro luogo Vernant descriva acutamente e senza accondiscendenza la visione tragica secondo la quale due richieste ugual­ mente valide possono collidere (supra, n. 3), qui egli sembra fondere tre di­ verse affermazioni: 1) che le richieste della dike possono collidere; 2) che le richieste della dike sono ambigue; 3) che le richieste della dike sono sottopo­ ste ad un processo di cambiamento e possono trasformarsi nel loro contrario. Mi sembra che la sua argomentazione convalidi solamente 1). 5 A. Lesky, Decision and responsibility in thè tragedy of Aeschylus, in «Journal of Hellenic Studies», 86 (1966), pp. 78-85; la citazione è da pp. 8283. Opinioni simili vengono espresse (tra gli altri) anche da John Jones, Denys Page and John Peradotto. Per indicazioni complete vedi infra, n. 22. 6 Per la discussione attuale su questo argomento vedi: I. Berlin, Con­ cepts and Categories, New York, 1978, passim-, P. Foot, Moral realism and moral dilemma, in «Journal of Philosophy», 80 (1983), pp. 379-398; B. van Fraassen, Values and thè heart’s command, in «Journal of Philosophy», 70 (1973), pp. 15-19; R.M. Hare, The Language of Morals, Oxford, 1952, trad. it. Il linguaggio della morale, Roma, 1968, pp. 54 ss., e Moral Thinking, Oxford, 1981, trad. it. Il pensiero morale, Bologna, 1989, soprattutto pp. 5776; J. Hintikka, Deontic logie and ìts philosophical morals, in Model for Modalities, Dordrecht, 1969, pp. 184-214; E.J. Lemmon, Moral dilemmas, in «Phi­ losophical Review», 71 (1962), pp. 139-158; R.B. Marcus, Moral dilemmas and consistency, in «Journal of Philosophy», 77 (1980), pp. 121-135; T. Na­ gel, War and massacre, in «Philosophy and Public Affairs», 1 (1972), ripor­ tato in Mortai Questions, cit., pp. 53-74; W.D. Ross, The Right and thè Good, Oxford, 1930; J. Searle, Prima facie obligations, in Philosophical Subjects: Essays Presented to P.F. Strawson, a cura di Z. van Straaten, Oxford, 1980, pp. 238-259; M. Walzer, Politicai action: thè problem of dirty hands, in «Philoso­ phy and Public Affairs», 2 (1973), pp. 160-180; B.A.O. Williams, Ethical consistency, in «Proceedings of thè Aristotelian Society», Supplementary Vo­ lume, 39 (1965), riportato in B.A.O. Williams, Problem of thè Self, Cam­ bridge, 1973, trad. it. Coerenza etica, in Problemi dell’io, Milano, 1990, pp. 202-226 e Conflicts of values, in Moral Luck, cit., trad. it. Conflitti tra valori, in Sorte morale, cit., pp. 97-110. In seguito discuterò nel dettaglio alcune af­ fermazioni di Williams. Gli articoli di Marcus e Searle, pubblicati quando questo capitolo era già in bozze ed era stato presentato al pubblico, non hanno influenzato lo sviluppo delle mie posizioni. Discuterò la critica di Searle contro l’obbligazione prima facie sotto nella n. 20. Il capitolo III cri­ tica le conclusioni dell’indagine di Marcus: che la possibilità di conflitti in­ conciliabili sia segno di irrazionalità nelle concezioni morali o politiche e che ci fornisca il motivo per correggerle. 7 Eth. Nie. Ili, 1 , 1110 a 4 ss. Aristotele nel luogo citato tenta di distin­ guere i casi che stiamo considerando dalle azioni chiaramente involontarie, akousion, provocate dalla costrizione fisica o da una ignoranza scusabile. Egli sottolinea che nei casi in questione l’origine dell’azione è nell’agente il quale è completamente cosciente di ciò che sta facendo. Egli riporta un secondo caso, quello di un tiranno che chiede ad un individuo un’azione vergognosa,

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minacciando di morte la sua famiglia se egli non obbedisce. Questi esempi vengono discussi ulteriormente nel capitolo XI. 8 Aristotele esprime questo contrasto dicendo che in tali circostanze l’azione è volontaria, ma in se stessa non lo è (haplos) poiché una persona non sceglierebbe mai questa azione se non costretta dalle circostanze. 9 La posizione di Aristotele per quanto riguarda la valutazione è la se­ guente: in alcuni di questi casi noi esprimiamo il nostro biasimo; in altri pro­ viamo compassione e biasimo in misura ridotta; in altri casi ancora noi pos­ siamo addirittura lodare l’agente per aver sopportato «alcunché di turpe o di doloroso come prezzo di cose grandi e belle». A suo avviso ci sono azioni che non sono giustificate da nessuna circostanza: per esempio il matricidio. De­ scrivendo il caso come se ci fosse un’alternativa innocente (l’agente può ucci­ dere se stesso, senza nuocere a nessun altro, piuttosto che commettere una azione cattiva), Aristotele evita alcuni dei problemi più difficili posti dai no­ stri casi. Vedi, tuttavia, il capitolo V dove si sostiene che la sua visione etica è in grado di ospitare la forma tragica del conflitto. 10 Williams, Coerenza etica, cit., vedi supra, n. 6. 11 In Sorte morale, cit., pp. 35-57 Williams mette seriamente in dubbio la concezione secondo la quale l’agente dovrebbe attribuire il più alto valore pratico soltanto alle richieste morali. Alla luce di questa posizione dobbiamo chiederci quale sia la sua caratterizzazione della morale; dagli esempi sembra essere una caratterizzazione di tipo contenutistico: le richieste morali sono quelle che implicano benefìcio o danno per altre persone. 12 Separando i conflitti tra «doveri» dagli altri casi affini Williams è in grado di puntare la propria attenzione sulla questione della loro struttura lo­ gica. L ’analisi logica di questi casi pone alcuni problemi, soprattutto se vo­ gliamo che l’analisi indichi la vera natura del conflitto. (Searle, Prima facie obligations, cit., mostra quanto sia facile per il filosofo conservare una certa immagine della logica deontica negando la natura reale del caso.) In quei casi nei quali crediamo che l’agente debba fare a e debba fare b, ma non possa fare entrambi, secondo Williams ci vengono date due alternative, se vo­ gliamo evitare che ciò si presenti direttamente come una contraddizione lo­ gica: 1) possiamo negare che il dovere implichi un potere-, 2) possiamo negare che da «Io devo fare a» e «Io devo fare b» segua «Io devo fare a e b»; in altre parole il «dovere» non è «agglomerativo». Williams difende la seconda solu­ zione; Lemmon, Moral dilemmas, cit., sceglie la prima. In L ’etica e i limiti della filosofia, cit., Williams abbandona esplicitamente la distinzione morale/ non-morale come base per l’indagine etica, sostenendo che il morale (cen­ trato sulle nozioni di dovere e di obbligazione) deve essere ritenuto una classe deviarne e male intesa dell’etico, che egli considera una categoria va­ sta, inclusiva e non rigidamente demarcata. Egli sostiene che la domanda greca «Come si deve vivere?» è il punto di partenza più promettente per l’in­ dagine etica e che un buono svolgimento di tale questione non porta a sepa­ rare rigidamente le richieste morali dagli altri interessi che si manifestano in risposta a questa domanda o a porre tali richieste al di sopra di tutti gli altri interessi. Sono grata a Williams per avermi permesso di leggere e di riportare questa importante argomentazione, che soddisfa le critiche che io qui gli muovo. 13 L ’articolo di Searle (Prima facie obligations, cit.) mostra quanto que-

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sta convinzione sia potente nella logica deontica contemporanea, perché so­ stiene che le strategie per eliminare il conflitto si fondano su una base intui­ tiva debole e su alcune gravi confusioni concettuali. Egli dimostra che, rimo­ vendo queste confusioni, non rimangono più ostacoli per una formalizza­ zione perfettamente coerente della situazione conflittuale. Vedi infra, n. 20. 14 Non è, tuttavia, chiaro se ci sarebbe stato un accordo generale quanto all’obbligo di Eutifrone di citare suo padre in giudizio per la morte del servo; ma la situazione sembra richiedere l’accusa in tribunale ed uno dei limiti più gravi della legge greca sull’omicidio è che non viene previsto il caso in cui la vittima sia uno straniero, verso il quale nessuno è obbligato a promuovere l’azione giudiziaria. Eutifrone potrebbe credere che, se qualcuno ha il dovere di intentare causa, l’obbligo cada naturalmente su di lui perché egli è il citta­ dino più vicino agli interessi della vittima. 15 J.-P. Sartre, L ‘existentialisme est un umanisme (1946), trad. it. L ’esi­ stenzialismo è un umanismo, Milano, s.d. La posizione di L ’essere e il nulla può essere più complessa, ma la stessa visione semplice è presente anche in Le mosche. 16 II problema è che, sebbene gli obblighi del patriottismo e il dovere di provvedere alla madre siano coesistiti armoniosamente fino a questo mo­ mento, il conflitto scoppiato ora dovrebbe mostrare all’agente che i principi etici sistematici sono sempre stati pessime guide. 17 Hare, Il linguaggio della morale, cit., pp. 54 ss. 18 Nel suo recente II pensiero morale, cit., Hare ha una posizione più complessa. Egli contrappone alla percezione intuitiva del conflitto morale un tipo «superiore» di pensiero critico che rimuove il conflitto. Egli associa la prima con uno stile di pensiero che egli chiama «il prolet», il secondo con una figura più esemplare che egli chiama «l’arcangelo». Egli quindi ammette che eliminare il conflitto richiederebbe un’enorme revisione del modo ordi­ nario di pensare. 19 I. Kant, Die Metaphysik der Sitten (1797), Akademieausgabe, vol. VI, p. 223, trad. it. La metafisica dei costumi, Bari, 19832, pp. 26 s. con modifi­ che. Seguo in gran parte la traduzione di J. Ladd, The Metaphysical Eléments of Justice, Indianapolis, 1965, ma nell’ultima frase adotto la versione propo­ sta da A. Donagan, Consistency in rationalist moral Systems, in «Journal of Philosophy», 81 (1984), pp. 291-309, qui p. 294. Donagan fa notare che il te­ desco distingue tra il semplice vincere («die Oberhand behalte») e il tenere il campo («behalt den Platz»). Perciò in Kant il «motivo» perdente non è solo sconfitto, ma cessa del tutto di rimanere in scena, sgombra il campo. 20 Alcuni filosofi, seguendo Ross, The Right and thè Good, cit., pp. 19 ss., modificano il quadro kantiano inserendo una distinzione tra doveri prima facie e doveri assoluti. Come Kant, Ross ribadisce che i doveri collidenti non possono essere entrambi veri doveri obbliganti; almeno uno è un semplice dovere prima facie e, quando viene scoperto il vero dovere, esso cessa di es­ sere obbligante. Ma, diversamente da Kant, Ross insiste sul fatto che il do­ vere perdente porta ancora con sé l’obbligazione a rimediare e forse anche il bisogno di provare «non certo vergogna o pentimento, ma almeno rincresci­ mento». Searle fa correttamente notare che la nozione di doveri prima facie ha avuto una cattiva influenza, in Ross e nei suoi seguaci, per la descrizione e

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la valutazione dei casi. Una nozione tecnica e non ordinaria è servita a fon­ dere diverse distinzioni ordinarie che dovrebbero essere mantenute chiara­ mente separate: 1) la distinzione tra obbligazioni meramente apparenti e ob­ bligazioni reali o genuine; 2) la distinzione tra obbligazioni di grado infe­ riore e obbligazioni di grado superiore; 3) la distinzione tra ciò che si do­ vrebbe fare dopo aver considerato ogni cosa e ciò che si è obbligati a fare. Solo la prima distinzione implica che l’alternativa perdente cessi di avanzare qualsiasi pretesa. Ma essa non coglie ciò che succede in molte situazioni con­ flittuali. La seconda distinzione sembra promettere di più, mostrandoci come la seconda obbligazione possa perdere e continuare a porre le sue ri­ chieste. Ma sarebbe sbagliato dire che in tutte le situazioni di conflitto una delle due obbligazioni deve essere di grado o di tipo inferiore. Solo la terza distinzione, secondo Searle, ci permette di descrivere i casi nei quali un’obbligazione chiaramente deve essere soddisfatta dopo aver considerato ogni cosa e dove, tuttavia, entrambe sono obbligazioni vere e di alto grado e con­ tinuano ad avanzare le loro richieste. I nostri casi di conflitto tragico confer­ mano la critica di Searle perché mostrano due obbligazioni reali, veramente serie e di alto grado che collidono in una situazione dove una condotta è chiaramente quella che deve essere tenuta dopo aver considerato ogni cosa; e nondimeno non si è tentati di supporre che ciò renda l’altra obbligazione ir­ reale o non seria. 21 Ciò è particolarmente evidente in Sartre, Le mosche e in Hare, Il pen­ siero morale, cit. (vedisupra, n. 18). 22 La letteratura secondaria sull 'Agamennone di Eschilo è troppo vasta perché possa essere citata completamente. Le opere che ho consultato più frequentemente ed alle quali farò riferimento in seguito sono: Aeschylus, Agamemnon, a cura di J.D. Denniston e D. Page, Oxford, 1957; E.R. Dodds, Morals and polìtics in thè Oresteia, in «Proceedings of thè Cambridge Philological Society», n.s., 6 (1960), pp. 19 ss.; K.J. Dover, Some neglected aspects of thè Agamemnon’s dilemma, in «California Studies in Classical Antiquity», 10 (1977), pp. 17-38; E. Fraenkel, commento a Aeschylus, Agamemnon, 3 voli., Oxford, 1950; Gagarin, Aeschylean Drama, cit.; N.G.L. Hammond, Personal freedom and its limitations in thè Oresteia, in «Journal of Hellenic Studies», 85 (1965), pp. 42-55; J. Jones, On Aristotle and Greek Tragedy, London, 1962; R. Kuhns, The House, thè City, and thè Judge: thè Growth of Moral Awareness in thè Oresteia, Indianapolis, 1962; A. Lebeck, The Ore­ steia, Cambridge, MA, 1971; Lesky, Decision and responsahility, cit.; H. Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, in «Classical Quarterly», n.s., 12 (1962), pp. 187-199 e The justice of Zeus, cit.; C. MacLeod, Politics in thè Oresteia, in «Journal of Hellenic Studies», 102 (1982), pp. 124-144; J.J. Pera­ dotto, The omen of thè eagles and thè ethos of Agamemnon, in «Phoenix», 23 (1968), pp. 237-263; W. Whallon, Why is Artemis angry, in «American Jour­ nal of Philosophy», 82 (1961), pp. 78-88. 23 Sulla stranezza di questa interpretazione vedi anche Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., p. 189; Fraenkel, Agamemnon, cit.; Peradotto, The omen of thè eagles, cit. Lloyd-Jones, trovando la spiegazione di Calcante «in­ credibile» nei termini in cui viene resa di solito, sostiene che noi dovremmo intendere «le numerose greggi del popolo» con «le numerose greggi che sono 11 popolo». Io credo che questa possa essere considerata come una tra le di-

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verse interpretazioni possibili per questo passo ambiguo. Tuttavia, se consi­ deriamo anche la traduzione più naturale, avremo una più ricca compren­ sione del crimine di Agamennone. 24 Su questo passo e in generale sul motivo del sacrificio in questa trage­ dia vedi le acute osservazioni di W. Burkert, Greek tragedy and sacrificial ritual, cit., in questo caso pp. 112 ss. 25 Denniston e Page, Agamemnon, cit., pp. XXVII s. giustamente sotto­ lineano la necessità dell’obbedienza a Zeus e il fatto che la situazione tragica in cui si trova Agamennone non è causata da nessuna sua colpa di fondo. Ma per questo motivo gli autori sono indotti ad esonerare del tutto Agamen­ none. Fraenkel, Agamemnon, cit., vol. Il, ad loc., evidenzia tutti gli elementi della scelta, ma poi stravolge il quadro sorvolando sulla evidenza della costri­ zione. Dodds, Morals and politics, cit., pp. 27 s. sottolinea che l’azione di Agamennone è un crimine. Lesky, Decision and responsibility, cit., sostiene che l’azione è determinata dalla necessità divina, ma anche scelta da Aga­ mennone; egli crede che questo sia un modello di spiegazione primitivo e non tenta di renderlo ragionevole. Egli assume, inoltre, che la necessità e la colpa si riferiscono agli stessi aspetti dell’azione di Agamennone. Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., p. 191 sembra essere potenzialmente il solo ad insistere correttamente sul fatto che ci sono contemporaneamente la necessità e la colpa: Zeus ha costretto Agamennone a scegliere tra due cri­ mini. 26 Vedi Denniston e Page, Agamemnon, cit., pp. 214 ss.; Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., pp. 188-191. 27 Sull’interpretazione di Calcante vedi Dover, Some neglected aspects, cit., pp. 61 ss.; Peradotto, The omen of thè eagles, cit., pp. 247 s.; Fraenkel, Agamemnon, cit., ad loc. Sul ruolo di Artemide come protettrice dei giovani vedi Peradotto, The omen of thè eagles, cit., pp. 242-245; A. Flenrichs, Hu­ man sacrifice in Greek religion: three case studies, in Le Sacrifice dans l’anti­ quité, numero monografico di «Entretiens sur l’Antiquité Classique», 27 (1981), pp. 195-235. 28 L ’omissione della causa dell’ira di Artemide e le differenze tra questa ed altre versioni a noi note della vicenda sono discusse da Fraenkel, Aga­ memnon, cit., vol. II, p. 99; Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., p. 189; Peradotto, The omen of thè eagles, cit., p. 242; Hammond, Personal freedom, cit., p. 48; Whallon, Why is Artemis angry, cit. L ’affermazione di Fraenkel secondo la quale la soppressione di questo racconto ben conosciuto contenente l’offesa personale di Agamennone contro la dea intensifica «gli elementi di scelta volontaria» non è convincente. Al contrario, essa affranca Agamennone dalla colpa circa l’origine della sua condizione tragica e ci co­ stringe a pensare che la necessità di scegliere di commettere un crimine gli si impone dall’esterno. Lloyd-Jones allega la generale simpatia filotroiana della dea; altri citano i delitti futuri contro gli innocenti a Troia. L ’interpretazione di Page secondo cui l’ira di Artemide sarebbe semplicemente suscitata dalla uccisione della lepre non è convincente perché fonde assieme il presagio e il significato che esso simbolizza (vedi Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., p. 189). Vedi anche il recente articolo di IL Lloyd-Jones, Artemis and Iphigenia, in «Journal of Hellenic Studies», 103 (1983), pp. 87-102, un acuto

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studio sulla doppia natura di Artemide, come protettrice e distruttrice di gio­ vani cose. 29 Vedi Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit., pp. 191 s. Molti di coloro che hanno criticato l’articolo di Lloyd-Jones non hanno compreso questo punto. Hammond, Personalfreedom, cit., p. 44, per esempio, sostiene che Lloyd-Jones ha trasformato Agamennone in un mero «pupazzo» senza «libertà di scelta o di azione». Ma questo chiaramente non corrisponde alla situazione. 30 Sulla connotazione fortemente peggiorativa di questa parola, vedi Fraenkel, Agamemnon, cit., ad loc., che la confronta con lipotaxis, il termine corrente per indicare il disertore. 31 Qui concordo con Lloyd-Jones, The guilt od Agamemnon, cit., p. 191; Whallon, Why is Artemis angry, cit., p. 51; Hammond, Personal free­ dom, cit., p. 47. L ’osservazione conclusiva di Fraenkel, Agamemnon, cit., voi. Ili, p. 276 sembra esprimere una opinione simile. Lesky, Decision and responsibility, cit. continua a fondere la domanda «Era possibile fare una scelta migliore?» con la domanda «Era possibile fare una scelta senza colpa?» così come farà più tardi Agamennone. Dover, Some neglected aspects, cit., sugge­ risce che la difficoltà nasce dall’incertezza e dai limiti della conoscenza. Vedi anche l’ammirevole discussione di alcune questioni affini in P.M. Smith, On thè Hymn to Zeus in Aeschylus’ Agamemnon, in «American Classical Studies», 5 (1980), n. 4. 32 Cfr. Hammond, Personal freedom, cit., pp. 47 e 55. Questa intera­ zione tra scelta e necessità viene sviluppata nella struttura del sillogismo pra­ tico di Aristotele. Cfr. capitolo X e M.C. Nussbaum, Aristotle’s De Motu Animalium, Princeton, 1978, Essay 4. 33 Su queste due questioni vedi Denniston e Page, Agamemnon, cit., ad loc. ; Hammond, Personal freedom, cit. Hammond offre una buona interpre­ tazione del discorso sostenendo che esso dimostra una profonda conoscenza dei problemi della guerra e del comando. 34 Per questo parallelismo vedi Henrichs, Human sacrifice, cit., p. 206. 35 Questo cambiamento viene notato anche da Hammond, Personal freedom, cit., p. 47. 36 Traduco il testo dei mss. difeso in modo convincente da Fraenkel, la cui sensibilità per la lingua di Eschilo è qui, come altrove, insuperabile. Egli pensa che la migliore difesa della frase stia nel fatto che essa è un eccellente esempio dell’espressione poetica di Eschilo. Io sono d’accordo. Le obiezioni a questa lezione hanno basi deboli. Alcuni critici sostengono che si tratta di una «tautologia»; ma Fraenkel dice giustamente che la ripetizione (alla let­ tera: «in passione più appassionatamente») enfatizza il carattere innaturale del desiderio di Agamennone. Egli adduce numerosi esempi di intensifica­ zione prodotta dalla giustapposizione di due parole affini, sia in Eschilo sia in altri autori. Sebbene nessuno degli esempi sia uguale a questo e mostri due elementi predicativi (uno dei due è il nome usato come complemento), que­ sto fatto non rappresenta un problema (con pace di Denniston e Page): nes­ suno ha mai sostenuto che la frase non è grammaticalmente corretta. I paral­ leli sono sufficienti a dimostrare che l’intensificazione per mezzo del raddop­ piamento è una peculiarità della pratica poetica arcaica in generale ed una

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caratteristica di Eschilo in particolare. Le emendazioni tentate sono state ef­ ficacemente criticate da Fraenkel. Alcuni filologi sostituiscono audai («egli dice»), una variante marginale in un ms. e in Triclinio, ad orgai e quindi in­ troducono Calcante come soggetto e trasformano l’intero periodo in una ri­ petizione delle parole dell’indovino. Questo è decisamente poco plausibile. Calcante non viene mai menzionato nel contesto, né dice qualcosa di simile. L’emendazione orgai periorgoi sph'epithymein themis (preferita da Denniston e Page) fa in modo che siano i soldati e non Agamennone a pronunciare il desiderio: «è giusto che essi debbano desiderare [...]». Questa soluzione si accorda bene con l’interpretazione degli autori, secondo la quale Agamen­ none sarebbe semplicemente una vittima innocente della necessità. Ma il contesto testimonia ampiamente che Agamennone si sente autorizzato dalla situazione ad eseguire il sacrificio con zelo e addirittura con insensibilità, mentre non c’è nessun altro riferimento ad un compianto dei soldati. Sph‘ potrebbe essere anche un singolare ed essere riferito ad Artemide. Questo tentativo viene bruscamente (e giustamente) rifiutato da Fraenkel, il quale nota che esso entrò nella discussione solo come risultato dello sfortunato tentativo di Casaubon di emendare themis con Artemis. Possiamo aggiun­ gere che sarebbe molto strano per un mortale in questa situazione sostenere che è themis per una divinità desiderare così e così. Una volta che si sappia che l’ordine viene da una divinità, ci si può certo chiedere se il comando sia giusto, ma non ci si chiede se esso si accorda con la themis. Se questo vale per il comando, vale ancor di più per i desideri che accompagnano o motivano il comando. Ma la più grande difesa della lezione tradizionale è che qui c’è, ec­ cellente e coerentemente difficile (ma in nessun modo scorretto sotto il pro­ filo grammaticale o metrico), un bell’esempio della poesia e del pensiero di Eschilo. 37 Sulla forza del transitivo edy vedi Peradotto, The omeri of thè eagles, cit., p. 253, il quale correttamente sostiene che il suo significato deve essere «mise» e non un significato più debole come «cadde in». Dover, Some neglected aspects, cit. tenta di sostenere che dynai può essere usato per movi­ menti sia deliberati che involontari; il parallelo di Ag. 1011 non è utile per­ ché qui dynai è intransitivo. 38 Lesky, Decision and responsibility, cit., p. 82 trova questo esempio in­ comprensibile poiché la colpa sicuramente non può concernere «la sfera ir­ razionale, che non ha nulla a che vedere con la volontà, la quale nasce da considerazioni razionali». Questo è un esempio molto chiaro della cattiva in­ fluenza di Kant sulla comprensione della tragedia greca. Lo si metta a con­ fronto con Dover, Some neglected aspects, cit., p. 66: «Essi reagiscono in que­ sto modo perché tagliare la gola ad una fanciulla come fosse una pecora è un evento penoso e ripugnante, sia esso necessario o no, comandato da una divi­ nità o prodotto dalla malizia e dalla perversità umane». 39 Burkert, Greek tragedy and sacrificial ritual, cit. Cfr. anche il suo Homo necans, Berlin, 1972, traci, it. Homo necans: Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Torino, 1981. 40 Burkert riprende questo nome da Karl Meuli, Griechische Opferbràuche, in Phyllobolia, Festschrift fur P. von der Miihl, Basel, 1960. Meuli eviden­ zia, come Burkert, il modo in cui l’azione rituale del sacrificante esprime (con le parole di Burkert, Greek tragedy and sacrificial ritual, cit., p. 106) «il ri-

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spetto umano profondamente radicato per la vita in quanto tale, che con­ sente all’uomo di non distruggere completamente gli altri esseri in modo autocratico». 41 Burkert, Greek tragedy and sacrificial ritual, cit., p. 111. 42 Su queste sostituzioni (e su altri casi affini) vedi Burkert, Greek trag­ edy and sacrificial ritual, cit., pp. 112-113 e n. 58; anche S. Freud, sugli im­ pulsi psicologici che sottostanno al sacrificio, Totem und Taboo (1912-1913), trad. it. Totem e tabù, in Opere, volume VII: 1912-1914, Torino, 1977, pp. 1-164. 43 Su questi aspetti dei Sette a Tebe e particolarmente sulla conclusione della tragedia vedi: S.G. Benardete, Two notes on Aeschylus’ Septem, in «Wiener Studien», 1 (1967), pp. 29 ss., 2 (1968), pp. 5-17; R.D. Dawe, The end of thè Seven Against Thebes, in «Classica! Quarterly», n.s. 17 (1967), pp. 16-28; H. Erbse, Zur Exodos der Sieben, in Serta Turyniana, a cura di J.L. Heller, Urbana, 1974, pp. 169-198; E. Fraenkel, Schluss des Sieben gegen Theben, in «Muséum Helveticum», 21 (1964), pp. 58-64; H. Lloyd-Jones, The end of thè Seven Against Thebes, in «Classical Quarterly», n.s. 9 (1959), pp. 80-115; A.A. Long, Pro and contra fratricide: Aeschylus’ Septem 653-719, in Studies in bonour of T.B.L. Webster, a cura di J.H. Betts, J.T. Hooker e J.R. Green, Bristol, 1986, pp. 179-189; C. Orwin, Féminine justice: thè end of thè Seven Against Thebes, in «Classical Philology», 75 (1980), pp. 187-196; A.J. Podlecki, The character of Eteocles in Aeschylus’ Septem, in «Transac­ tions of thè American Philological Association», 95 (1964); F. Solmsen, The Eryns in Aischylos’ Septem, in «Transactions of thè American Philological Association», 68 (1937), pp. 197-211; R.P. Winnington-Ingram, Septem con­ tra Thebas, in «Yale Classical Studies», 25 (1977), pp. 1-45; F. Zeitlin, Under thè Sign of thè Shield: Semiotics and Aeschylus’ Seven Against Thebes, Rome, 1982. 44 Vedi anche Orwin, Femmine justice, cit., p. 188; Benardete, Two no­ tes, cit. Il saggio di Long, Pro and contra fratricide, cit., fornisce un’analisi sottile e completa degli argomenti e delle reazioni di Eteocle nell’intero di­ scorso. 45 Di fatti questo punto non viene definito chiaramente nel dramma dal momento che non abbiamo nessuna testimonianza indipendente che Eteocle sia l’unico campione che avrebbe potuto salvare la città. 46 Lesky, Decision and responsibility, cit., p. 83, nota questo punto e sot­ tolinea il parallelismo con la reazione di Agamennone. Vedi anche Solmsen, The Eryns in Aischylos' Septem, cit., Long, Pro and contra fratricide, cit., sot­ tolinea la risposta di Eteocle: il desiderio stesso viene biasimato nelle opere dell’«oscuro destino» del padre, che «siede sui miei occhi aperti e asciutti» (w. 695-696). Il coro, tuttavia, non accetta questo argomento come se con esso Eteocle volesse esonerarsi dalla responsabilità per il suo desiderio. In­ fatti essi replicano immediatamente: «Ma tuttavia, non entusiasmarti» (v. 697). Long ritrae Eteocle come una persona ammirabile per la lucidità con cui coglie tutti gli aspetti della sua situazione tragica; io sottolineerei che il ri­ corso alla causalità per giustificarsi è un segno del fatto che egli non è del tutto lucido. 47 Questo problema rimane oscuro, dal momento che non è mai del

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tutto chiaro chi avanzi una giusta rivendicazione a governare. La presenza di Dike sullo scudo di Polinice non sembra essere la «teofania» decisiva pretesa da Orwin, féminine justice, cit., pp. 191-193, che segue Benardete, Two no­ tes, cit., p. 16. Long, Pro and contra fratricide, cit. enfatizza correttamente l’argomentazione con la quale Eteocle respinge la rivendicazione di Polinice (w. 667-671). 48 Cfr. Orwin, Féminine justice, cit., pp. 190 ss.; e per una descrizione in qualche modo differente della misoginia di Eteocle vedi Zeitlin, Under thè Sign, cit. 4’ Una eccellente analisi di questa mitologia e della sua funzione civica viene fornita da N. Loraux, Les Enfants d’Athéna: idées athéniennes sur la ci­ toyenneté et la division des sexes, Paris, 1981. Per l’atteggiamento di Creonte verso le donne vedi capitolo III; sull’uso platonico di questa mitologia dell’autoctonia e sul rifiuto della famiglia vedi capitolo V. 50 Per il dibattito critico vedi gli articoli citati supra, n. 43. Gli argo­ menti filologici non sono risolutivi e la decisione dipende dalla nostra valuta­ zione del contesto: possiede l’unità tematica richiesta rispetto a ciò che lo precede? Orwin, Femmine justice, cit. sostiene in modo persuasivo che l’u­ nità è presente, purché attribuiamo sufficiente attenzione in tutto il passo al carattere di Eteocle e alla sua concezione della giustizia. 51 Questo punto è stato sottolineato da molti recenti studiosi di Eschilo, soprattutto da Lloyd-Jones, The guilt of Agamemnon, cit. e The Justice of Zeus, cit. 52 Eumenidi,5\l-525. 53 Non prendo posizione sulla più vasta questione del carattere di Aga­ mennone. Peradotto, The omen of thè eagles, cit., per esempio, sostiene che questa sua reazione è intelligibile solo come il risultato di un precedente ethos cattivo ed incline all’assassinio. Io credo che l’iniziale precisione della sua reazione parli contro questa conclusione; il suo cambiamento può essere ispirato dall’orrore per la situazione che ha di fronte e che egli può soppor­ tare solo negandone l’esistenza. 54 Con Fraenkel ho cambiato thrasos, che contravviene alla scansione, con tharsos. Ma Fraenkel ha dimostrato in maniera convincente che la distin­ zione tra i due termini è poco rilevante e che probabilmente non esisteva al­ l’epoca di Eschilo. Sembra che non ci siano ostacoli a intendere tharsos in senso spregiativo. Vedi Fraenkel, Agamemnon, cit., vol. II, p. 364. 53 Su hekousion e akousion vedi capitolo IX; per usi affini vedi Eschilo [?], Prometeo, 19, 266, 671, 771, 854; cfr. anche Sofocle, Edipo a Colono, 827, 935, 965, 985-987. 5b Per questa obiezione vedi Fraenkel, Agamemnon, cit., ad loca, Denniston e Page, Agamemnon, cit., ad loc. Secondo un’altra lettura komizo deve significare «ristabilire» e l’intera espressione deve essere tradotta con «ri­ dando fiducia a uomini morenti». G. Flermann, Euripidis Opera, Leipzig, 1800', 1831! ha obiettato che komizo, comephero non può essere usato con il significato di ristabilire qualcosa con il risultato che la cosa ristabilita venga posta nella persona; deve, invece, significare che la cosa viene messa accanto alla persona. A questo possiamo facilmente obiettare che le passioni in Eschilo spesso vengono descritte come se prendessero posto accanto alle

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persone (ad esempio Agamennone, 13, 14, 976, 982-983). Se respingiamo questa obiezione e conserviamo tharsos [...] komizon, ma mettiamo in dub­ bio hekousion, possiamo allora accettare l’emendazione di Ahrens ek thysion «dai sacrifici». Ma questo espediente non sembra necessario. 57 E.G. Weil: «Feminae audaciam voluntariam, h. e. feminam perfidam, virorum morte recuperare conans». Oppure Verrall: «Che tu per una impu­ dica donna accondiscendente avresti sacrificato le vite degli uomini»; cfr. Pe­ radotto, The amen of thè eagles, cit., p. 255; Hammond, Personal freedom, cit., p. 46. 58 Questa traduzione implica una strana interpretazione di andrasi thneiskousi: il contesto, che nel complesso si riferisce all’Aulide, ci fa natu­ ralmente pensare a uomini morti lì, piuttosto che ai futuri costi umani della guerra. Inoltre il dativo di svantaggio ha un brutto effetto. In terzo luogo i participi presenti nomon e komizon dovrebbero andare letti in parallelo; ma è in Aulide che Agamennone non regge il governo dei pensieri; ed è sola­ mente nel futuro che egli recupererà Elena. Infine la perifrasi è di difficile comprensione — perché è molto più diffìcile vedere come una persona possa essere «volontaria», piuttosto che vedere come possano esserlo le sue pas­ sioni. Per quanto riguarda komizo nel senso di «proteggere», «nutrire», «cu­ rare», si tratta di un significato molto comune in Omero, che compare anche altrove in Eschilo, p.e. in Coefore, 262 e probabilmente 344; cfr. Stephanus, Thesaurus, 1778 d, 1779 a. 59 Vedi M.C. Nussbaum, Conséquences and character in Sophocles’ Philoctetes, in «Philosophy and Literature», 1 (1976-1977), pp. 25-53. 60 Cfr. capitoli IX, X. 61 Sulla necessità di coltivare i sentimenti appropriati vedi le osserva­ zioni nell’Intermezzo 1 e nei capitoli VII, IX e X, che contengono ulteriori rimandi. Su questo e su altri temi discussi in questa sezione vedi I. Murdoch, The Sovereignity of Good, London, 1970. 62 Vedi H. Putnam, Literature, science, and reflection, in H. Putnam, Meaning and thè Moral Sciences, London, 1979, trad. it. Letteratura, scienza, e riflessione, in Verità e etica, Milano, 1982, pp. 97-111. 63 Su questo punto sono totalmente d’accordo con Foot (vedi supra, n. 6), il quale sostiene che l’esistenza e l’insuperabilità di questi dilemmi non mina in nessun modo il realismo morale. Vedremo nei capitoli VIII-XII che si può costruire un certo tipo di realismo riconoscendo l’irriducibile pluralità dei valori e ammettendo, perciò, la possibilità permanente del conflitto. 64 Kant di fatto è in grado di risolvere questo particolare conflitto: in­ fatti i comandi divini che ingiungono un atto immorale non sono obbliganti (Die Religion innerhalb der Grenzen der hlossen Vemunft (1793), trad. it. La religione entro i limiti della sola ragione, Roma-Bari, 1985, IV, II, 4). Questa soluzione, tuttavia, non elimina la difficoltà generale. Kant, infatti, non può evitare in questo modo tutti i conflitti ed è tenuto a riconoscere come obbli­ gante almeno una richiesta. Inoltre, poiché a suo avviso Dio non conosce il conflitto umano, gli può essere imputata una concezione della divinità meno ricca di quella greca, nello stesso modo in cui la sua concezione morale è meno ricca di quella dei Greci. Aggiungiamo un’ultima osservazione sulla di­ mensione religiosa di questo conflitto. Donagan, Consistency, cit., p. 298, os-

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serva che San Gregorio Magno riconosce l’esistenza di veri dilemmi morali, ma li attribuisce all’opera del diavolo, che può attirare gli esseri umani in si­ tuazioni nelle quali essi sono costretti a violare alcuni comandamenti divini. Questa concezione si differenzia da quella greca perché il ruolo causale del mondo viene attribuito al diavolo; inoltre, come vedremo nel capitolo III, i Greci mettono in relazione la possibilità perenne del conflitto con le cose buone ed anche con quelle divine. Tali sono la ricchezza della vita e i diversi valori che in essa vanno riconosciuti. 65 Una visione del dilemma morale simile a questa viene espressa anche da Wittgenstein in una conversazione del 1947 con Rush Rhees, riportata in R. Rhees, Wittgenstein ’s lectures on ethics, in «Philosophical Review», 74 (1965), pp. 3-26, trad. it. Sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’este­ tica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, 1967, pp. 5-19. Dopo avere ribadito che è necessario discutere il problema per averne una descrizione dettagliata, così che possiamo realmente immaginarlo e provarlo (qui inter­ vengono alcune considerazioni sui manuali di etica), Wittgenstein affronta un caso esemplare di dilemma che presenta una struttura molto simile ai no­ stri. Dopo aver descritto la scelta tragica posta di fronte ad un agente, nella quale non c’è alcuna soluzione esente dalla colpa e noi possiamo solamente dire: «Dio l’aiuti», Wittgenstein sorprende Rhees affermando: «Secondo me questa è la soluzione del problema etico». Egli quindi indica la nostra rispo­ sta: che la descrizione esatta del caso, la ferma consapevolezza dei valori pre­ senti e dell’impossibilità di trovare una via d’uscita sono la vera soluzione; le così dette soluzioni filosofiche sono soltanto un travisamento del problema. 66 Ho letto precedenti versioni di questo capitolo alla Brandeis Univer­ sity, al Vassar College, alla University of Massachusetts di Boston, alla Uni­ versity of Maryland, alla University of Pittsburg e alla Stanford University. Sono grata a tutti i presenti in quelle occasioni e a A. Lowell Edmund, A.A. Long e Nick Pappas per le loro preziose osservazioni.

Capitolo terzo

L ’«Antigone» di Sofocle: conflitto, visione e semplificazione

Agamennone ed Eteocle si trovano, senza loro colpa, in una situazione nella quale il rivolgimento improvviso dei pro­ pri sentimenti, il rimorso e il dolore del ricordo sembrano, per persone di buon carattere non solo inevitabili, ma anche ap­ propriati. Anche ammettendo questa conclusione, potremmo tuttavia continuare a pensare che tra i compiti della saggezza pratica vi sia pure quello di evitare quanto più possibile il pre­ sentarsi di tali situazioni. Quella di Agamennone è una cata­ strofe estrema ed imprevedibile. Se gli esseri umani non pos­ sono salvarsi completamente da eventi così sfortunati e rari, essi possono almeno strutturare la loro vita e i loro principi in modo da riuscire a evitare nella vita ordinaria i conflitti più gravi. Un modo ovvio per raggiungere questo obiettivo è quello di semplificare la struttura dei valori, rifiutando di le­ garsi a quegli interessi che frequentemente, o anche raramente, generano richieste conflittuali. Si è spesso pensato che la capa­ cità di evitare il conflitto pratico a questo livello possa rappre­ sentare un criterio per valutare la razionalità delle persone — così come si è spesso pensato che un sistema politico possa dirsi razionale quando prescrive azioni che persone razionali devono sempre poter realizzare, solo che si applichino con im­ pegno. Questa concezione era conosciuta anche nell’Atene del quinto secolo1. Essa rappresenta un importante tema della tragedia, perché le esperienze dolorose ricordate nel nostro ul­ timo capitolo fanno nascere una domanda: «Come si può eli­ minare questo dolore?». Questo tema è strettamente intrec­ ciato anche al pensiero moderno e viene adottato in particolare da coloro che includono nella «visione tragica» i casi indivi­ duali di conflitto pratico2. Tale posizione ha condizionato ra­ dicalmente la critica moderna sulla tragedia antica5. Infatti si continua ad affermare che la relazione dell’essere umano al va-

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lore non è, o non dovrebbe essere, profondamente tragica: che è, o dovrebbe essere, possibile eliminare il rischio della situa­ zione tipicamente tragica senza essere colpevoli di negligenza o senza subire una perdita grave. La tragedia rappresenterebbe, quindi, uno stadio primitivo o ottenebrato della vita e del pen­ siero etici. Per comprendere come la tragedia tratti questa idea dob­ biamo, evidentemente, interpretare un dramma intero, consi­ derando in che modo esso analizzi «una vita intera»'1 e come venga valutata la vicenda. L 'Antigone di Sofocle sembra essere una scelta appropriata per questo progetto. Infatti questo dramma esamina due diversi tentativi di chiudere il conflitto e di eliminare la tensione semplificando la struttura dei principi e degli affetti. Il dramma si chiede che cosa motivi questi tenta­ tivi; come essi si trasformino nel momento della crisi tragica; e, infine, se si debba cercare la saggezza pratica in una strategia di questo tipo o in un approccio al mondo totalmente diffe­ rente. L ’'Antigone5 è un dramma sulla ragione pratica e sul modo in cui la ragione pratica ordina o vede il mondo. Il suo testo è straordinariamente ricco di termini che indicano deliberazione, ragionamento, conoscenza e visione6. Inizia ponendo la do­ manda «Sai?» (v. 2) in relazione ad una crisi pratica e indi­ cando il modo corretto di considerare la situazione. Finisce af­ fermando che la saggezza pratica (lo phronein) è la parte più importante del buon vivere umano (eudaimonia, w . 13481349). Il dramma riguarda anche l’insegnare e l’imparare, il cambiare la propria visione del mondo, il perdere la presa su ciò che sembrava una verità sicura e l’imparare un tipo di sag­ gezza più elusiva. All’inizio, davanti ad un caso complicato, viene rivendicata fiduciosamente la conoscenza, alla fine si ar­ riva al «Non so, ahimè sventurato, / dove io guardi, a quale dei due, dove volgermi» e si constata la presenza di una forma di saggezza nuova e meno sicura (v. 1353). Ciascun protagonista nutre una particolare visione sul mondo delle scelte, tesa a prevenire i conflitti pratici più gravi; ciascuno ha un modello deliberativo semplice e su di esso svi­ luppa un insieme di interessi chiaramente ordinati. Ciascuno, inoltre, affronta i problemi della scelta con una sicurezza ed una stabilità inconsuete; ciascuno sembra straordinariamente inaccessibile ai danni della fortuna. E tuttavia ci rendiamo

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conto che entrambi i protagonisti hanno una visione in qualche modo riduttiva. Ognuno di essi non sa riconoscere qualche elemento, nega alcune richieste, chiama talune situazioni con nomi secondari o falsi. Uno dei due è molto più corretto per quanto riguarda i contenuti della propria decisione, ma en­ trambi pongono dei limiti alla loro visione7. Dobbiamo inter­ rogarci su questa limitazione e su come essa venga criticata. Non sarà sufficiente indagare soltanto le ambizioni e le manchevolezze dei due protagonisti, anche se questo sarà sicu­ ramente un inizio necessario. Secondo una famosa interpreta­ zione di questo dramma, quella data da Hegel, la tragedia stessa va infatti oltre i limiti dei protagonisti e suggerisce la base per una sintesi libera dal conflitto degli opposti valori. I personaggi risolvono le tensioni nel modo sbagliato, ma il dramma ci mostra come risolverle nel modo giusto8. Dob­ biamo, quindi, valutare la lettura di Hegel alla luce dell’intero dramma e, in particolare, delle sue parti corali. Questo implica che dobbiamo indagare come Sofocle tratti il problema dell’at­ tività e della passività, del fare e dell’essere fatto, del coman­ dare e dell’obbedire; in breve, dobbiamo scoprire come egli narri le strane avventure della ragione pratica faccia a faccia con il mondo. Possiamo trovare un accenno a queste avventure nella pa­ rola greca deinon. Non è possibile tradurre questa parola con un unico termine. In generale, essa viene usata per ciò che ispira terrore o meraviglia. Ma in altri contesti può essere im­ piegata per esprimere Ìo splendore abbagliante dell’intelletto umano, per la mostruosità di un male o per il potere terribile del fato. Ciò che è deinon è in qualche modo strano, fuori po­ sto; la sua stranezza e la sua capacità di ispirare terrore sono in­ timamente connesse. (Il vocabolo è etimologicamente affine a deos «paura» e può essere confrontato con il francese formida­ ble.) Deinon spesso implica una disarmonia: qualcosa è in di­ saccordo con il suo ambiente, o con quello che ci si aspetta o che si desidera. Ci sorprende, in meglio o in peggio. Giacché le connotazioni della parola sono così varie, essa può venire usata da un personaggio per formulare apparentemente una lode, mentre possiamo scorgere un ironico accenno a qualcosa di or­ ribile. «Molte sono le cose deina, ma nessuna / è più deinon del­ l’uomo.» L ’inizio dell’ode corale sull’essere umano contiene, come vedremo, una lode profondamente ambigua. Ma ugual-

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mente ambigua è la conclusione apparentemente disperata: «M a la potenza del fato è detnon» (v. 952). L ’essere umano, emozionante e meraviglioso, può riuscire anche mostruoso nella sua ambizione di semplificare e controllare il mondo. La contingenza, oggetto di terrore e di ripugnanza, allo stesso tempo può diventare meravigliosa ed entrare a far parte di ciò che rende la vita umana bella o emozionante. La parola si adatta, quindi, bene ad essere un termine centrale in un dramma che intende investigare la relazione tra bellezza e di­ sarmonia, tra valore ed esposizione alla fortuna, tra eccellenza e sorpresa. Possiamo intendere 1’'Antigone come una indagine sul deinon in tutta la sua sfuggente molteplicità. 1. Poiché ci interrogheremo sulle diverse concezioni della deliberazione manifestate àaA’Antigone, cominciamo con un personaggio che sta deliberando e che non sa che cosa fare. Cammina sul palcoscenico strascicando i piedi; la riluttanza e la confusione sono evidenti nella sua faccia semplice e nei suoi gesti: Signore, non dirò che giungo ansante in gran fretta, con rapidi passi. Invece ho fatto molte soste per riflettere, volgendomi lungo la strada per tornare indietro; poiché l’animo molte cose mi diceva: «M isero, perché corri là dove al tuo arrivo sarai punito? Disgraziato, ti fermi ora? E se Creonte verrà a sapere la cosa da un altro, come non avrai a soffrirne?». Tali pensieri volgendo, procedevo lenta­ mente fra gli indugi: in questo modo anche un breve cammino di­ venta lungo. Infine prevalse comunque di venire da te [...]. Vengo in­ fatti aggrappato alla speranza che non mi accadrà altro, tranne quanto è destinato (w . 223-236).

Questa è una vivace descrizione di una deliberazione pra­ tica ordinaria. Molte persone tra il pubblico potrebbero rico­ noscere in questo racconto una situazione della loro vita quoti­ diana. Quest’uomo è in difficoltà perché non sa decidere tra due alternative spiacevoli. La sua anima formula argomenti per entrambi i lati della questione ed egli non può evitarli. La divi­ sione della sua mente viene mimata dal suo corpo che si volge ora di qua ora di là, mentre cammina avanti e indietro sulla via. Non alcuna teoria della decisione, né una chiara cognizione dei suoi processi decisionali. Tutto ciò che sa è che alla fine una soluzione «prevalse». Nel suo persistente sconforto la sua

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unica consolazione è il pensiero che accadrà ciò che deve acca­ dere. Per molti aspetti quest’uomo non può essere un essere umano modello. Egli è profondamente codardo e rozzamente egoista. Ma la sua narrazione, piena di modesti dettagli, ci ri­ porta alla realtà fisica — al caldo, allo sporco, agli odori sgra­ devoli — di cui i caratteri eroici non parlano. E similmente la sua confusione, la sua consapevolezza che ci sono sempre due lati nelle questioni deliberative — assieme alla sua convinzione sull’importanza di ciò che sta accadendo — ci riporta al pro­ fondo sconforto presente nella deliberazione ordinaria. Uno spettatore che ascolti quest’uomo subito dopo aver ascoltato Antigone e Creonte si convincerebbe che alle deliberazioni di quelle grandi figure mancano proprio questi elementi tipici del pensiero pratico quotidiano, proprio come mancano la polvere dell’estate e il fetore della corruzione. Entrambi i protagonisti rivendicano il possesso della conoscenza pratica9. In entrambi i casi si tratta di una conoscenza la cui «verità» permette loro di evitare continuamente le angosciose incertezze della guar­ dia. Come possono, ci chiediamo, allontanarsi tanto dalla espe­ rienza ordinaria ed arrivare ad un punto dove le preoccupa­ zioni di tutti i giorni sembrano appartenere soltanto ad una fi­ gura vile e comica, ad un popolano e non ad un re? 2. Le prime parole di Creonte annunciano la salvezza della città dopo il grande pericolo e riconoscono (v. 166) nel coro un gruppo di uomini rimasti fedeli «con saldo animo», nel corso degli anni, al governo ed ai suoi interessi (v. 169)l0. Come il coro (w. 1347-1348) e come l’indovino Tiresia, anche Creonte crede ed afferma che la cosa più importante che un uomo possa avere è la saggezza pratica, ovvero l’eccellenza nella deli­ berazione (w. 1050-1051), mentre la cosa più dannosa è la mancanza di saggezza (v. 1051). Questa lode, che paragona la lealtà civile degli anziani alla salute della mente, non è fortuita: per Creonte la mente sana è appunto completamente devota alla salvezza della città e al benessere civico ". L ’attacco di An­ tigone ai valori civici viene interpretato come un segno di in­ fermità mentale (v. 732). Allo stesso modo la simpatia di Ismene si rivela «fuori di senno» (w. 492, 561-562; cfr. v. 281). Emone viene pregato di non «perdere mai la ragione» (w. 648649) per seguire le convinzioni «malate» di Antigone. (Nel mo-

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mento cruciale dell’azione Tiresia volge contro lo stesso Creonte il suo linguaggio connesso alla salute mentale. Parlando a propo­ sito della mancanza di saggezza pratica, egli dice: «D i questo morbo, certo, tu sei pieno per natura», v. 1052; cfr. v. 1015.) E se, inoltre, esaminiamo le occasioni nelle quali Creonte pre­ tende di sapere qualcosa del mondo, sembra che per lui non ci sia nessuna conoscenza o saggezza pratica al di fuori della sem­ plice conoscenza della mente sana, la quale afferma la supre­ mazia del bene della città 12. Alla luce delle sue convinzioni Creonte è sicuramente un uomo dalla mente sana. Egli ha ereditato e usa molti e vari vo­ caboli valutativi: «buono» e «cattivo», «onorevole» e «vergo­ gnoso», «giusto» e «ingiusto», «amico» e «nemico», «pio» ed «empio». Tutte queste coppie corrispondono alle più comuni etichette che un ateniese del quinto secolo avrebbe usato per demarcare il mondo della pratica. E per il pubblico normale presente alla rappresentazione dell 'Antigone queste etichette identificano caratteristiche del mondo etico distinte e separate. Una singola azione o una sola persona di solito possiedono di­ versi attributi identificati da quei termini — dal momento che in molti casi essi si uniscono armoniosamente. Ma essi possono essere presenti anche separati; e anche quando sono compre­ senti rimangono distinti per la loro natura e per le risposte che presuppongono. Molti amici possono risultare giusti e pii; ma la qualità di amico è distinta da quella di giusto e di pio. Per­ ciò, secondo le aspettative ordinarie, in alcune circostanze im­ maginabili i valori riportati da queste tabelle possono produrre richieste conflittuali. L ’amicizia o l’amore possono richiedere un’ingiustizia; il corso giusto di un’azione può portare all’em­ pietà; la ricerca dell’onore può pretendere un’offesa alla amici­ zia. E non possiamo neppure pensare che ciascun valore sia privo di conflitto interno. Infatti la giustizia della città può col­ lidere, come riconoscerà il coro, con la giustizia degli dei in­ feri; e la pietà verso una divinità può implicare offese contro un altro dio. In generale, dunque, vedere chiaramente la natura di ciascuna di queste qualità significa comprendere come cia­ scuna di esse sia distinta da tutte le altre, come possa combi­ narsi con le qualità opposte alle altre ed anche con il suo stesso opposto. Per uno spettatore che abbia all’incirca questa visione del mondo la situazione di Creonte in questo dramma dovrebbe

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far nascere alcuni urgenti interrogativi sul conflitto tra i valori principaliu. Infatti Polinice è un parente stretto della famiglia di Creonte. Quest’ultimo ha anche un profondo obbligo reli­ gioso di seppellire il cadavere. E tuttavia Polinice era un ne­ mico della città; e non un semplice nemico, bensì un traditore. I corpi dei nemici potevano essere restituiti ai loro parenti per ricevere gli onori della sepoltura; ai traditori non era riservata tutta questa considerazione. Sebbene la legge apparentemente non proibisse ai parenti dei traditori di provvedere ai loro fu­ nerali fuori dell’Attica, la sepoltura in territorio attico era rigo­ rosamente proibita; la città stessa si incaricava di depositare il corpo insepolto fuori dei confini. Fare qualcosa di più avrebbe voluto dire sovvertire i valori della città onorando il tradi­ mento. Perciò, in quanto rappresentante della città, Creonte deve curare che il cadavere di Polinice non venga onorato — sebbene non si pretenda che egli giunga all’estremo di proibire o di impedire la sepoltura ad una considerevole distanza dalla città. E tuttavia, in quanto membro di una famiglia, egli sottostà all’obbligo irrevocabile di promuovere o di organizzare la sepoltura14. Il pubblico si aspetta, dunque, di trovare in Creonte una tensione estremamente dolorosa tra questi due ruoli e doveri. Quanto deve essere sorpreso a vedere una completa assenza di tensione o di conflitto, assicurata da una «sana» risistemazione delle valutazioni. Infatti, se esaminiamo il modo in cui Creonte usa i termini etici fondamentali, scopriamo che egli li stravolge e li sottrae al loro impiego ordinario. Essi vengono applicati alle cose ed alle persone soltanto in virtù della loro connes­ sione con il benessere della città, che per Creonte è il solo bene intrinseco. Egli usa tutto lo spettro del tradizionale vocabola­ rio etico — ma non nel modo tradizionale. Queste parole non nominano più qualità del mondo, separate dal bene generale della città ed in potenziale conflitto con esso, perché Creonte non ammette l’esistenza di beni separati. Attraverso questa strategia di aggressiva revisione egli si assicura la sincerità e l’assenza di tensioni. Si comporta come se potesse chiamare le cose con i nomi che più lo soddisfano, come se potesse vedere solo quelle qualità del mondo che il suo «ethos personale» richiede. In questo modo, buone e cattive, agathon e kakon, diven­ gono per Creonte (contro la tradizione, dal momento che tali

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qualità hanno un forte legame con l’eccellenza personale) solo quelle persone e quelle cose che sono buone o cattive per il be­ nessere della città. Uomo «pessimo» (kakistos) è chi, per inte­ resse personale, rifiuta di mettere a disposizione della città le proprie abilità (v. 181). «I cattivi» (boi kakoi) vengono con­ trapposti a «chi è devoto a questa città», come se si trattasse di una opposizione radicale (w. 208-209; cfr. w. 212, 284, 288). Come esempio di donna malvagia {kake) Creonte cita Anti­ gone, colpevole di essere cattiva verso la città. Anche tra i morti vi sono buoni e cattivi (cfr. w . 209-210) e i «migliori» sono coloro che saluteranno con gioia Eteocle, il re ed il cam­ pione della città, che fece «gran prova di valore con la lancia». Dare sepoltura al nemico della città vorrebbe dire, nel suo ra­ gionamento, riservare la stessa sorte ai buoni (chrestoi) e ai cat­ tivi {kakoi) (v. 520). In un’altra occasione egli ribadisce che gli dei certamente non onorano i cattivi (kakous, v. 288), cioè i ne­ mici della città 15. Anche l’onore e il rispetto spettano secondo Creonte sola­ mente a coloro che vengono in aiuto alla città, mentre la vergo­ gna è associata esclusivamente a chi rifiuta le responsabilità pubbliche. Dopo aver lodato i coreuti per il loro costante ri­ spetto (sebein), egli dichiara esplicitamente la sua politica in materia di onore: Questo è il mio pensiero: e mai i cattivi cittadini {kakoi) avranno da parte mia più onore (time) dei giusti {endikon). Ma chi è devoto a questa città, morto o vivo egualmente sarà onorato (timesetai) da parte mia (w. 207-210). La cura con cui Creonte enuncia questa politica indica che egli è consapevole del fatto che sta dicendo qualcosa di nuovo, qualcosa che non tutti saranno pronti ad accettare. In seguito veniamo a sapere che, a parere di molti concittadini, meritano onore anche coloro che disonorano la città, se ciò avviene men­ tre essi perseguono dei fini onorevoli (w. 730-733). Il rispetto tributato da Creonte al bene della città e ai suoi strumenti ge­ nera, secondo quei concittadini, un conflitto con altri doveri degni di rispetto. «Dunque sono colpevole, se rispetto il mio potere?», chiede Creonte al figlio (v. 744). La risposta è: «Ma non lo rispetti {ou sebeis), calpestando gli onori {timas) dovuti agli dei». Creonte, tuttavia, attacca la visione che genera il con-

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ditto: «E d è una bella azione onorare (sebein) i ribelli?» (v. 730). Egli ribadisce che la disubbidienza di Antigone non è né rispettosa, né degna di rispetto, ma è «vergognosa» (v. 510) e rappresenta «un onore empio» (v. 514). Non ci stupiamo, quindi, se scopriamo che Creonte ha un’idea ugualmente limitata anche sulla giustizia16. Le sole ri­ vendicazioni che vengono attribuite alla giustizia sono quelle che vanno a vantaggio della città, gli unici agenti giusti sono quelli che agiscono al servizio della città. Nel suo discorso sul rispetto dovuto ai benefattori e ai malfattori, l’aggettivo «giu­ sto» (endikos) viene usato come equivalente di «devoto alla città». L ’indovino Tiresia, quando predice le future disgrazie del governo, viene accusato di commettere un’ingiustizia; l’ac­ cusa di ingiustizia che Emone proferisce contro il padre viene rifiutata facendo appello al rispetto dovuto al governante e al suo potere (v. 744)17. Creonte dichiara al figlio che giusto è quell’uomo che nella città cerca il benessere della totalità e sa come governare e come essere governato (w. 662-669). Que­ sto discorso di autodifesa si conclude con una affermazione rivelatrice: E un tale uomo sono sicuro che comanderebbe bene e sarebbe disposto ad obbedire, e nel turbine della battaglia rimarrebbe fermo al suo posto, da compagno giusto e buono (dikaion kagathon parastaten) (w. 668-671). Qui «giusto» e «buono» non sono semplicemente attributi dell’uomo, bensì dell’uomo in quanto difensore della città. Non possono sussistere indipendentemente; essi fungono sol­ tanto da aggettivi di lode per l’attaccamento alla città. Ma Creonte usa sempre così questi aggettivi: «buono» vuol dire «buono nel difendere la città», «giusto» vale semplicemente «giusto nell’adempiere ai propri doveri verso la città». Non sorprende che nei suoi discorsi (dove kakos è opposto più a en­ dikos che a agathos e, a propria volta, endikos viene sostituito con «devoto alla città») vengano meno le ordinarie distinzioni tra le virtù. Solo un tipo di eccellenza umana è degno di essere lodato: l’utilità per il benessere della città. Tutte le parole che indicano eccellenza hanno la funzione di segnalare la presenza di questa virtù. (La dottrina sull’unità delle virtù elaborata nel Protagora nasce, come vedremo, da una strategia simile.)

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Ma la parte più audace della revisione intrapresa da Creonte non è la ridefinizione del giusto e del buono, che già manifesta una forte associazione con i valori della città, bensì è la violenta ridislocazione dei valori sui quali si fondano gli oppositori della sua politica: l’amore18 e la pietà religiosa. Creonte fa parte di una famiglia ed ha, perciò, una serie di obbligazioni vincolanti verso numerose persone o philoi*. Uno di questi philoi della famiglia è il figlio che egli, nelle nostre aspettative, dovrebbe amare. Creonte vede Antigone violare una norma della città per amore del fratello ed egli stesso ha doveri fami­ liari e religiosi verso il cadavere abbandonato. Ma, nel mo­ mento della deliberazione, egli è deciso a nascondere le richie­ ste dei legami familiari e di quelli affettivi, almeno sin tanto che essi collidono con gli interessi della città. In questo dramma sui fratelli, sui doveri verso i fratelli e sulla opposizione tra i fra­ telli, Creonte, il fratello di Giocasta, il cognato di suo nipote, usa per la prima volta la parola «fratello» in una maniera molto curiosa. La impiega, infatti, per indicare la stretta relazione tra i decreti della città: «E d ho proclamato un bando che è fratello di quanto precedeva» (v. 192). Creonte, come Eteocle, ma con molta più persuasione e sottigliezza, tenta di sostituire i legami di sangue con i vincoli dell’amicizia tra concittadini. I conflitti tra famiglia e città non possono sorgere, se la città è la famiglia, se l’unica nostra famiglia è la città. (Platone fu il primo ad in­ tuire l’importanza di questa idea per la teoria politica.) Ma, alla luce di questa idea, Polinice non sta in nessuna particolare re­ lazione con la famiglia di Creonte, se non nella relazione del nemico. «Ma il nemico (echthros) non è mai caro (philos), nep­ pure quando sia morto» (v. 522). I nostri vincoli personali, siano essi legami di sangue, sentimentali o l’uno e l’altro, pos­ sono essere riconosciuti ai fini della deliberazione solo se in qualche modo contribuiscono al bene supremo: «E non mi fa­ rei mai amico (philon) un uomo nemico della patria [...] e non tengo in alcun conto chi stima più importante della propria pa­ tria un philon» (w. 187 e 182-183). Secondo Creonte ci procu­ riamo (poioumetha, v. 190) i philoi stando al servizio della città. Egli riconosce soltanto i vincoli che ha scelto 19.

* Sul philos e sulla philia cfr. capitolo XI, p. 597 e capitolo XII, pp. 639 ss.

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Questo rifiuto è così efficace nel modellare l’immagina­ zione morale di Creonte che arriva a foggiare anche la sua con­ cezione dell’attrazione sessuale. Quando Creonte consiglia al figlio di non cedere alla sua passione per Antigone per non le­ garsi ad una donna «cattiva», non dice che bisogna resistere al piacere in vista del bene della città. Egli sostiene, invece, che in un uomo sano anche il piacere sessuale si trova associato solo al bene della città. Un uomo che non abbia «perso la ragione» troverà «gelido l’abbraccio» di una sposa non devota alla pa­ tria (w. 650-651). Non c’è motivo di supporre che Creonte non trovi Antigone particolarmente attraente, ma a suo avviso l’uomo che vede il mondo nel modo giusto non vede quel fa­ scino, non ne è avvinto. Chi è sano non si lascia catturare da nulla che possa far nascere un conflitto con il dovere verso la città, neppure dalle reazioni sessuali. Questa, secondo Creonte, è la saggezza pratica (v. 649). Il sapiente è colui che rifiuta di rico­ noscere cose che gli altri, gli uomini deboli, vedono tranquilla­ mente20. In precedenza Creonte aveva dato da intendere che un buon cittadino vede nella moglie soltanto la fertile genera­ trice di altri cittadini: se Emone non può sposare Antigone «Anche i campi di altre donne ci sono, da arare» (v. 569). Il pubblico avrà certamente riconosciuto in questa immagine il linguaggio del contratto di matrimonio ateniese: «Ti do mia fi­ glia per l’aratura dei figli legittimi». La posizione di Creonte si fonda sulle pretese familiari legittime e ignora le altre. Come ci possiamo aspettare, l’immaginazione di Creonte si rivolge anche agli dei e li trasforma in immagini coerenti con la sua domanda di ordine. A suo avviso le divinità hanno, devono avere, la mente sana, tipica del politico coscienzioso: Dici una cosa insopportabile, affermando che gli dei si danno pensiero di questo cadavere. Forse l’hanno seppellito onorandolo come un benefattore, lui che venne per incendiare i templi con tutte le loro colonne ed i doni votivi, e per distruggere la loro terra e le leggi? Hai mai visto gli dei onorare i malvagi? Non è possibile (w . 282-289).

Creonte, seguendo il proprio modo di sentire, deve respin­ gere l’asserzione che siano stati gli dei ad onorare Polinice e non solo perché ciò è falso, ma perché è intollerabile. Questa eventualità impone una tensione eccessiva alla razionalità deli-

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berativa. La mente, che pretende di trovare armonia ed ordine nella vita, detta ciò che la religione può o non può essere e ri­ fiuta il limpido racconto della guardia21. Subito viene invocato il nome di Zeus per rafforzare la promessa di catturare il colpe­ vole (w. 304 ss.). La sepoltura del cadavere è un «onore em­ pio» (v. 314). Ci coglie, così, il sospetto che l’ambiziosa razio­ nalità di Creonte voglia divinizzare se stessa. Creonte si è, quindi, costruito un mondo della delibera­ zione nel quale la tragedia non può entrare. Non possono in­ sorgere conflitti insolubili perché c’è un solo bene supremo e tutti gli altri valori sono in funzione di questo bene. Se io di­ cessi a Creonte: «Qui c’è un conflitto: da una parte le richieste della pietà religiosa e dell’amore, dall’altra gli obblighi della giustizia pubblica», egli direbbe che io descrivo il caso in modo sbagliato. Il vero occhio dell’anima sana non vedrà nel nemico una persona amata, o nel suo corpo abbandonato un’empietà. L ’apparente presenza di un conflitto contingente sta ad indicare che non ci siamo impegnati a sufficienza per ot­ tenere una visione corretta22. Due delle parole favorite da Creonte per descrivere il mondo che egli vede sono orthos, «di­ ritto», e orthoo, «raddrizzo» (w. 163, 167, 190, 403, 494; cfr. anche w. 636, 683, 706, 994). A lui piacciono le cose che sem­ brano diritte e non (come ci appariranno alla fine) storte (v. 1345) o girate (v. 1111); fisse e non fluide (v. 169); singolari e non plurali (v. 705); misurabili e non immense (v. 387)23. Ridu­ cendo tutti questi valori misurabili ad una sola moneta — lo assillano le immagini del coniare e del realizzare profitti in campo etico — , Creonte raggiunge una dirittura ed una appa­ rente stabilità24. Perché il mondo, il mondo che precede questa ricostru­ zione, spinge Creonte a inseguire questo progetto strano e ter­ rificante? Egli difende la sua posizione con un argomento che, secondo le sue parole, deriverebbe dalla conoscenza pratica: E non mi farei mai amico un nemico della patria, poiché so (gìgnoskon ) che essa è la nostra salvezza, e che ci procuriamo gli amici solo quando ne teniamo dritto il corso. Con tali principi io farò grande la nostra città (w . 188-191).

Creonte allude qui ad una immagine già consolidata nella retorica politica e che divenne rapidamente un luogo comune

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del patriotdsmo ateniese25. La città è una nave; senza di lei i cittadini non possono nulla. Essa deve essere in buono stato perché l’amicizia possa prosperare26. Tutto questo è ineccepi­ bile e questi versi furono citati con soddisfazione da Demo­ stene come esempio di ciò che Eschine (che sembra imperso­ nasse il ruolo di Creonte) avrebbe detto a se stesso anche fuori dal teatro per dimostrare di essere stato un buon cittadino21. Ma anche se dovessimo accogliere questa richiesta a favore della città, essa non sarebbe un buon motivo per giustificare le profonde innovazioni etiche di Creonte. Infatti una nave è uno strumento necessario per ottenere determinati beni; la sua «sa­ lute» è necessaria per la vita e per la salute dei suoi marinai. Ma chiaramente essi non sono sulla nave solo per farla navigare di­ ritta. Essi hanno altri fini, ai quali la nave offre un ambiente, un mezzo di trasporto. Non ci aspettiamo che questi fini siano de­ finibili soltanto rispetto alla salute della nave. Teognide, che fu tra i primi ad usare l’immagine, accenna ad una tensione tra i fini individuali dei marinai e il bene generale della nave (Ele­ gie, 670-685). Alceo associa l’utilità della città-nave con il biso­ gno di rendere onore ai parenti defunti (VI, 13-14), un fine che è tranquillamente separabile dalla salute della nave ed è poten­ zialmente in tensione con essa28. Infatti, con l’evoluzione dell’immagine, il marinaio diviene paradigmatico di qualcosa che è separabile, i cui fini sono distinti da quelli della nave, ridotta ad un mezzo utile e necessario29. Creonte, usando questa im­ magine per difendere una concezione che attribuisce un unico fine al valore, compie qualcosa di molto strano. E come se ci avesse detto che, non potendo io vivere senza il cuore, devo avere per amici soltanto specialisti cardiologi, totalmente de­ diti al benessere di questo organo. Quando egli afferma che la città è una condizione necessaria in vista di altri fini, egli non offre nessuna ragione perché non si debbano considerare beni intrinseci anche quelli non legati alla città (o avversi alla città). Usando l’immagine della nave, egli potrebbe giustificare la pu­ nizione di Antigone ed il proprio rifiuto di seppellire il cada­ vere, considerandoli empietà e mali necessari per preservare la vita, la salute e la virtù del tutto. Ma su questa base egli non può giustificare la sua affermazione che non ci sono pietà reli­ giosa e giustizia fuori dagli obblighi verso la città. Lo strano salto nella sua argomentazione ci rende desiderosi di cercare una ragione più profonda per le sue ridefinizioni etiche. E, in-

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

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fatti, la stessa immagine della nave suggerisce una motivazione più radicale. L ’immagine ci dice che una città, come una nave, è uno strumento costruito dagli esseri umani per soggiogare la for­ tuna e la natura. La città-nave, secondo la tradizione, è qual­ cosa di impermeabile, una barriera contro l’incombere dei pe­ ricoli esterni. Le onde si infrangono sui suoi fianchi, le correnti agitano il suo scafo; naturalmente i suoi intelligenti costruttori non devono lasciare nessuno spiraglio in cui possa penetrare la furia della natura incontrollata30. Sulla base di queste rifles­ sioni è facile concludere che lo scopo della città, in quanto strumento per salvare la vita, è quello di rimuovere la fortuna ingovernabile dalla vita umana. Navi e città ritorneranno in­ sieme nell’ode all’essere umano, come due invenzioni di questa creatura deinon, «ingegnosa», che soggioga il mondo ai propri fini. Creonte ed il coro, nel primo momento di ottimismo, cre­ dono che le risorse tecnologiche dell’uomo possano vincere ogni contingenza, esclusa la sola morte. Ma la soppressione della contingenza non richiede solo una tecnologia della natura fisica: navi, aratri, briglie, trappole. Essa richiede anche una tecnologia della natura umana, una tecnologia della ragione pratica. Per molto tempo la contingenza ha portato il terrore nella vita umana, soprattutto perché ha introdotto il conflitto in piani ben organizzati. Creonte è convinto che l’essere umano non possa sopportare questo terrore. Scegliendo l’immagine della nave egli ci mostra quanto sia per lui urgente il problema. Per fortuna non è necessario sopportare quel ter­ rore. Le qualità recalcitranti del mondo possono essere domi­ nate dalla razionalità pratica ed etica: con un riordinamento costruttivo degli interessi pratici e del linguaggio etico. Creonte effettua abilmente questo adattamento usando la città come modello del bene. Che cosa si rende necessario affinché questa strategia fun­ zioni? In primo luogo il bene finale deve essere unico e sem­ plice: non deve contenere conflitti od opposizioni al proprio interno. Se nel benessere della città compaiono delle richieste conflittuali, allora la strategia di Creonte non ha risolto nulla. In secondo luogo il fine deve offrire spontaneamente una mo­ neta comune, a cui possano essere ridotti tutti gli effettivi inte­ ressi e tutti i valori dell’agente. Tutto ciò che egli vede o ama deve poter essere considerato in funzione di quel fine, conver-

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tifo (per usare le immagini finanziarie di Creonte) nei suoi ter­ mini. Il fine deve essere abbastanza versatile per comparire in ogni cosa di valore, cosi da poter essere plausibilmente consi­ derato come l’unica fonte del valore. E tuttavia deve rimanere unico in tutti i molteplici casi, senza generare conflitti interni. (Il Socrate del Protagora suggerirà che le parti della virtù sono come le parti dell’oro: omogenee qualitativamente, una singola e comune moneta per il valore.) Il dramma tratta il fallimento di Creonte. Si conclude ab­ bandonando questa strategia e riconoscendo un mondo deli­ berativo più complesso. Il coro paragonerà Creonte ad un ani­ male arrogante, punito a suon di colpi (w. 1350-1352) — e si tratta di un uomo che ha dimostrato una profonda ossessione linguistica per le immagini di domare, rompere, punire (w. 473 ss.; cfr. w. 348-352). Il piano di Creonte crolla infatti su entrambi i fronti: il suo fine supremo, correttamente conce­ pito, non è così semplice come egli pensava; non riesce a ren­ dere giustizia a tutti i suoi interessi. Questi problemi comin­ ciano ad emergere sin dall’inizio, quando egli descrive la pro­ pria posizione. Quando entra, Creonte parla subito degli affari della città; poi si rivolge alle persone del coro. Le due parti del suo di­ scorso sono legate dalle particelle correlative men e de e questa struttura indica la presenza di un’opposizione o, almeno, sot­ tolinea una distinzione tra la città e i cittadini del coro. Sin dal­ l’inizio, dunque, siamo invitati a chiederci se la città, correttamente concepita, possieda un bene semplice, come ritiene Creonte. In seguito Emone ci dice esplicitamente che la città, intesa come il popolo (homoptolis leos, v. 733), sostiene Anti­ gone, anche se Creonte pensa che le azioni della giovane mi­ nacciano la sicurezza pubblica. Una città è una totalità com­ plessa, composta di individui e di famiglie, con tutti quegli in­ teressi disparati, caotici e spesso conflittuali che gli individui e le famiglie dimostrano, incluse le pratiche religiose e il deside­ rio di seppellire i parenti. Un piano che trasforma la città nel bene supremo non può negare così facilmente il valore intrin­ seco dei beni religiosi apprezzati dalle persone che la compon­ gono. Solo una concezione impoverita può avere la semplicità pretesa da Creonte. Questo problema diventa evidente anche nel campo dell’a­ more e della amicizia: ancora una volta la semplificazione di

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Creonte non rende giustizia alla complessità degli interessi della città. Nella vita di Creonte tutte le relazioni sono in fun­ zione della città; le persone sono valutate per il bene che pro­ ducono alla città. Così il vincolo tra marito e moglie è soltanto un mezzo per produrre nuovi cittadini; la relazione tra padre e figlio è una amicizia tra concittadini. Ma la città stessa non condivide questa visione. La tenacia dei legami di sangue è un fatto fondamentale nella vita della città, come lo è l’amore pas­ sionale tra gli individui. Al detto di Creonte «Anche i campi di altre donne ci sono, da arare» Ismene risponde: «Non c’è amore come quello che accorda lui a lei» (v. 570). Creonte, come è nel suo personaggio, respinge questa osservazione con un brusco: «Detesto cattive mogli per i miei figli». Il coro non la ripudia: la terza ode loda il potere dell 'eros. Creonte è implacabile nel considerare ogni oppositore della città esclusivamente come un ostacolo da vincere. La sua concezione della moglie come un mero campo da arare, della vera virilità come esercizio di potere su una materia remissiva (cfr. w. 484-485)31, tende già a disumanizzare l’altro elemento della relazione. Nel caso di una opposizione questo diventa an­ cora più ovvio. Il piano di Creonte non permette di rispettare un oppositore in base all’umanità della persona. Un uomo o una donna contengono soltanto un unico valore, la capacità di produrre il bene della città; se questa manca, la persona non merita di essere tenuta «in alcun conto». Fondendo in modo singolare relazioni normalmente tenute distinte, Creonte esprime il suo atteggiamento verso Antigone: Ma sappi che una volontà troppo dura cade più facilmente; e an­ che il ferro più indurito, cotto dal fuoco e temperato, spesso lo puoi vedere spezzato e infranto. Destrieri imbizzarriti, io lo so, vengono regolati da un piccolo morso: e non può fare il superbo chi è soggetto ad altri (w . 473-479).

Lavorare i metalli, domare i cavalli, possedere schiavi: per Creonte tutte queste figure sono la stessa cosa ed esprimono in modo appropriato la relazione tra il maschio dominante e la ra­ gione di un oppositore ostinato. E veramente questo il signifi­ cato che Creonte attribuisce a queste immagini? Egli sta par­ lando ad Antigone e deve presupporre che ella sappia inten­ dere la lingua ed interpretare le metafore. Ma questa è una dif-

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fcrenza implicita tra Antigone e il cavallo e Creonte è urgente­ mente costretto a rinnegarla. L ’essere umano è un ostacolo molto più arduo di un cavallo, che può essere domato da un piccolo morso. Creonte deve cancellare questa difficoltà parti­ colare, negandola, per domare l’uomo come l’uomo ha domato gli altri ostacoli32. Nella vita cui egli aspira ci saranno sola­ mente oggetti utili e non persone che rispondono (cfr. v. 757) ” . Ma questa non è una città. Poco prima Emone aveva tratto la conclusione giusta: «Certo, tu regneresti bene da solo su una terra deserta» (v. 739). Ancora una volta, dunque, la concezione di Creonte, che con­ templa un solo fine, gli impedisce di avere una corretta visione della città, la quale, nella pienezza delle sue relazioni, non sembra manifestare un unico bene. E Creonte non riesce a conservare questa visione semplificata; essa non rende giustizia neppure a tutti gli interessi che gli rimangono. Alla fine egli non può sotto­ mettere la sua umanità recalcitrante. Come ci dice il coro, viene educato venendo domato; come nel suo stesso esempio, devono essere usati i «colpi» per addomesticare l’orgoglio del suo spirito. Tuttavia, a differenza di quando si addomesticano i cavalli, la con­ clusione non è la muta obbedienza, ma la comprensione (v. 1353). In particolare Creonte è costretto a riconoscere il suo amore per il figlio e deve ammettere che quell’affetto ha un suo valore sepa­ rato. Le prime parole di Emone al padre erano state «Io sono tuo» (v. 634); e il suo nome significa «sangue» (come rivela il gioco di parole contenuto nella descrizione della sua morte, v. 1175) 34. Ma il padre, il cui nome significa «governante», comincia a sentire la forza di questo richiamo solo molto tardi, quando il profeta Tiresia lo ammonisce: «E tu sappi bene che non compirai ancora molti celeri giri di sole senza ripagare tu stesso, in cambio di morti, un morto delle tue stesse viscere» (w. 1064-1067). A questo punto Creonte, che sembrava un deinon, ispirando terrore con il suo potere (w. 243, 408, 690), e si considerava un essere in grado di controllare tutte le situazioni, si trova di fronte a qual­ cosa che sfugge al suo controllo e gli infonde terrore: Lo so (egnoka) anch’io, e il mio animo (phrenas) 55 è sconvolto. Cedere è terribile {deinon), ma non è meno terribile {deinon), che, opponendomi, Tira vada a cozzare contro la sventura (w. 10951097).

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Ora il fatto che Emone gli appartenga e sia nato dalle sue stesse viscere diviene per lui importante. Alla risposta del coro, secondo la quale c’è ora bisogno di una buona deliberazione 0euboulia), egli non replica riaffermando la teoria maschile della mente sana, ma con una domanda: «Dunque, che cosa bisogna fare?» (v. 1099). Egli comincia ad ammettere che le leggi della famiglia, da lui calpestate, possano avere una loro forza: «H o paura che la cosa migliore sia terminare la propria vita osser­ vando le leggi (nomous) stabilite» (w. 1113-1114). Poiché questo mutamento non riesce ad impedire la morte del figlio, Creonte, in lutto, ritratta molto più radicalmente la sua precedente visione della ragione pratica: Ahi, errori di irragionevole ragione ostinati apportatori di morte (phrenon dysphronon amartemata). Ecco, voi vedete uccisori e uccisi nello stesso sangue. Ahimè, miseria (an olba) dei miei propositi! Ahi, figlio, giovane in giovane morte, ahi, ahi moristi, te ne andasti, per mia e non per tua demenza! (w . 1261-1269)

L ’amore di Creonte per il figlio morto, un amore che non può essere più negato o adattato dentro la teoria del bene ci­ vico, lo costringe ad abbandonare tutte le sue teorie. Egli prova rimorso per le sue deliberazioni, in particolare per la loro grettezza e povertà. La loro moneta non era una valuta sufficiente: era una unità di misura povera perché lasciava fuori cose di grande valore. Creonte riconosce di avere fallito. E suicidio della moglie Euridice (il cui nome non a caso signi­ fica «ampia giustizia») conferma ed intensifica l’amaro inse­ gnamento. «Ahimè, su nessun altro dei mortali / tutto ciò rica­ drà, liberandomi dalla colpa! / Poiché io, io ti uccisi, lo sciagu­ rato; / io, dico il vero» (w. 1317-1320). Il precedente quadro etico non permetteva nulla di tutto ciò; con questa empatica affermazione della verità Creonte ci dimostra che il suo ri­ morso non riguarda solamente il suo errore particolare, ma im­ plica una ridislocazione generale. «Ahimè, troppo tardi, sem­ bra, vedesti la giustizia!» è il giudizio del coro (v. 1270). E pre­ cisamente Creonte vede che «tutto crolla ciò che avevo» (w.

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1344-1345), proprio a lui, al timoniere che un tempo teneva (o così credeva) la nave della città con un «corso dritto»36. 3. Finora abbiamo parlato solamente di Creonte. E tutti i commentatori di questo dramma sono d’accordo sul fatto che esso ci mostra l’insufficienza morale di Creonte, sebbene non siano sempre d’accordo sulla natura di tale insufficienza. La posizione di Antigone è più controversa. Hegel assimila i suoi difetti a quelli di Creonte, mentre alcuni critici più recenti la esaltano come un’eroina senza macchia. Senza affrontare uno studio esaustivo del ruolo di Antigone nella tragedia, è mia in­ tenzione sostenere (con la conferma di un sempre maggior nu­ mero di critici)37 che esistono alcuni motivi a sostegno dell’in­ terpretazione di Hegel — anche se dobbiamo essere molto più precisi e specifici di quanto egli faccia nelle sue brevi note. A mio avviso Antigone, come Creonte, è impegnata in una spie­ tata semplificazione del mondo dei valori, che di fatto elimina le obbligazioni conflittuali. Come Creonte, anch’ella può es­ sere biasimata perché rifiuta di vedere. Ma ci sono notevoli dif­ ferenze tra il suo progetto e quello di Creonte. Quando esse sa­ ranno portate alla luce, emergerà anche che la critica ad Anti­ gone non è incompatibile con il giudizio secondo il quale lei è moralmente superiore a Creonte. Ismene, sorella nel sangue comune, quale tra le sventure venute da Edipo credi tu che Zeus non vorrà ancora compiere nella nostra vita? [...] N e sai qualcosa? N e hai sentito parlare? Non vedi quali sciagure da parte dei nemici muovono contro i nostri cari? (w . 1-3, 9-10)

Una persona viene chiamata con una perifrasi che è allo stesso tempo intima ed impersonale e che, utilizzando termini estremamente enpatici, la caratterizza come un parente stretto di chi parla. Il suo atteggiamento nei confronti della sorella è tuttavia stranamente distante. Antigone vede Ismene solo nella forma della relazione familiare stretta38. Perciò la incalza con il sapere della famiglia: che i cari (philoi) vengono puniti come fossero dei nemici (echthroi). I parenti, che amano i loro cari, devono «vedere» la vergogna ed il disonore nelle «sventure tue e mie» (v. 6). C ’è stata una guerra. Da una parte c’era l’esercito guidato

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da Eteocle, fratello di Antigone e Ismene. Dall’altra parte c’era un esercito invasore, composto in parte di stranieri, ma con­ dotto da un altro loro fratello, da Polinice. Questa eterogeneità viene negata, in modi diversi, sia da Creonte che da Antigone. La strategia di Creonte è quella di tracciare una linea mentale tra le forze degli invasori e quelle dei difensori. Ciò che cade da una parte di quella linea è nemico, cattivo, ingiusto; ciò che cade dall’altra parte (se è leale alla causa della città) diventa senz’altro amico o caro. Antigone, invece, nega ogni rilevanza a questa distinzione. Ella traccia nella sua immaginazione un piccolo cerchio attorno ai membri della sua famiglia: ciò che sta dentro (con ulteriori limitazioni che menzioneremo) fa parte della famiglia ed è, perciò, caro ed amico; ciò che sta fuori non fa parte della famiglia, è in conflitto con essa, ne­ mico. Se si ascoltasse solo Antigone, non si verrebbe a sapere che c’è stata una guerra o che qualcosa chiamato «città» era in pericolo39. Per lei è ingiusto semplicemente il fatto che Poli­ nice non venga trattato come un amico. «Amico» (philos) e «nemico» sono, dunque, funzioni esclusive della relazione familiare40. Quando Antigone dice: «Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore (syrnphilein)» (v. 523), non esprime una generale inclinazione all’a­ more, ma la devozione alla philia della famiglia. E, per la pro­ pria natura, i vincoli di questa philia si impongono sugli impe­ gni e sulle azioni di una persona indipendentemente da ciò che essa veramente desidera. Questo amore non è qualcosa che si possa decidere; le relazioni che esso implica possono anche aver poco a che fare con la simpatia o con la tenerezza. Pos­ siamo dire (per usare la terminologia di Kant) che Antigone si riferisce all’amore «pratico», non a quello «patologico» (fon­ dato sulla tenerezza o sull’inclinazione). Per spiegare perché ella infrange i decreti della città, Antigone dice ad Ismene: «Ma è fratello mio ed anche tuo, pur se tu non voglia: non si dirà che sono io a tradirlo» (w. 45-46). La relazione in se stessa è una fonte di obbligazioni, senza alcuna considerazione per i sentimenti coinvolti. Quando Antigone parla di Polinice come del «fratello dilettissimo (philtatoi)» (v. 80-81), anche quando proclama: «Amata giacerò insieme a lui che io amo (phile [...] philou meta)» (v. 73), non c’è nessun senso di intimità, nessuna memoria personale, nessuna particolare animazione nel suo di­ scorso41. Ismene, la persona che dovrebbe esserle intima, è

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trattata sin dall’inizio con freddo distacco; viene, addirittura, chiamata nemica (v. 93) quando prende la posizione sbagliata in materia di obbligazioni religiose. E Ismene che noi vediamo versare «lacrime per la sorella amata» e agire in base ad un amore sincero. «E quale vita mi sarà cara, priva di te?» (v. 548) chiede con un’intensità che mai anima la pietà religiosa della sorella. Ad Emone, l’uomo che l’ama appassionatamente e la desidera, Antigone non rivolge una parola in tutta la trage­ dia'12. Emone, non Antigone, appare ispirato dall 'eros (w. 781 ss.). Antigone è lontana dall’amore tanto quanto lo è Creonte43. Per lei sono i morti quelli a cui «soprattutto devo piacere» (v. 89). «Hai un cuore ardente per cose che raggelano» (v. 88) os­ serva la sorella, incapace di comprendere questa passione im­ personale ed esclusiva. Il dovere verso i morti della famiglia rappresenta la legge più alta e la passione suprema. Ed Antigone struttura tutta la sua vita e la sua visione del mondo su questo sistema di doveri semplice ed autosufficiente. Anche se dovesse sorgere un con­ flitto all’interno di questo schema, ella dispone sempre di una priorità fissa che detta con chiarezza le sue scelte. Lo strano di­ scorso (w. 891 ss.) nel quale ella classifica i doveri verso i di­ versi defunti della famiglia e pone i doveri verso il fratello al di sopra di quelli verso il marito ed i figli è (se genuino) molto esplicito in questo senso: ci fa sospettare che lei sia capace di una semplificazione dei doveri senza scrupoli, corrispondente non tanto ad una legge religiosa, quanto alle esigenze della sua immaginazione pratica44. Altri valori emergono a confermare questa supposizione. La sua identificazione esclusiva con i doveri verso i morti (e solo verso alcuni di loro) produce una strana riorganizzazione della pietà religiosa, come anche dell’onore e della giustizia. Antigone è veramente, con le sue parole, hosia panourgesasa, una che vuole fare ogni cosa per pietà religiosa45; e la sua pietà corrisponde soltanto ad una parte della religione convenzio­ nale 46. Antigone parla della sua obbedienza a Zeus (v. 950), ma rifiuta di riconoscere che quel dio è anche il guardiano della città e il difensore di Eteocle. L ’espressione più indicativa della sua devozione è sospetta: «M a per me non fu Zeus a procla­ mare quel divieto {ou gar ti moi Zeus [...])» (v. 450). Ella pre­ tende di poter stabilire ciò che Zeus può o non può aver decre­ tato, proprio come Creonte pretendeva di indicare chi fosse

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protetto dagli dei e chi non lo fosse. Nessun altro personaggio fonda i diritti dei morti su una visione così esclusiva di Zeus. Antigone cita anche la dea Dike, la Giustizia, ma per lei Dike è semplicemente la giustizia «che dimora con gli dei inferi» (v. 451). Il coro, che conosce un’altra Dike47, più tardi le dirà: «Giunta all’estremo ardimento / contro il soglio eccelso di Dike / cozzasti o figlia fortemente» (w. 853-855). La giustizia si trova sia al di sopra, nella città, sia sotto la terra. La giustizia non è così semplice come sostiene l’eroina. Di conseguenza i coreuti pensano che Antigone non sia una persona pia secondo le tra­ dizioni, ma una persona che improvvisa la propria pietà reli­ giosa e decide da sola che cosa sia degno di venerazione. Ella è una persona «che si dà la propria legge» (autonomos, v. 821); il suo disprezzo è una «passione nata da se stessa» (autognotos orga, v. 875). I coreuti, infine, le dicono apertamente che il suo rispetto religioso è incompleto: «Riverenza (sebein), certo, è una parte della pietà (eusebeia tis)» (v. 872). La rigida adesione ad un unico e ristretto insieme di doveri ha indotto Antigone a interpretare male la natura della pietà stessa, una virtù dentro la quale uno sguardo più comprensivo vede la possibilità del conflitto. La sua strategia semplificante aveva condotto Creonte a considerare gli altri come un materiale da sfruttare aggressiva­ mente. La devozione rigorosa per i morti porta Antigone ad un risultato ugualmente discutibile, per quanto diverso (e di si­ curo meno odioso). La sua relazione con le persone di questo mondo è caratterizzata da una strana freddezza. «Tu sei viva», dice alla sorella, «ma la vita mia (psyché) già da tempo è morta, così da giovare i morti» (w. 559-560). La vita dedita al dovere richiede la distruzione della vita oppure coincide con essa'48. L ’atteggiamento di Creonte verso gli altri assomiglia alla ne­ crofilia: egli aspira a possedere la materia inerte e cedevole. L ’asservimento di Antigone al dovere è, invece, il desiderio di essere un nekros, un cadavere innamorato dei cadaveri. (La sua apparente somiglianza con i martiri della nostra tradizione, che si attendono una vita veramente attiva dopo la morte, non deve distrarci dalla stranezza del suo obiettivo.) Nel mondo di sotto non c’è il rischio di fallire o di sbagliare. Né Creonte né Antigone, dunque, sono esseri appassionati o animati dall’amore per qualcosa. Nessun dio, nessun essere umano sfugge al potere dell’eroe, sostiene il coro (w. 787-790),

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ma questi due strani esseri inumani, apparentemente, ci rie­ scono. Creonte vede le persone amate in funzione del bene della città, per produrre cittadini equivalenti l’uno all’altro. Per Antigone i cari sono morti o servi dei morti oppure oggetti assolutamente indifferenti. Nessun essere vivente è amato per le sue qualità personali, amato con l’amore che Emone prova e che Ismene loda. Alterando le loro convinzioni sulla natura e sul va­ lore delle persone i due protagonisti hanno, all’apparenza, alte­ rato o ricostruito le passioni umane. In questo modo essi conqui­ stano l’armonia, ma i costi sono altissimi. Il coro sostiene che eros è una forza importante, obbligante quanto lo sono gli antichi thesmoi ovvero le leggi, e che ribellarsi ad esso è cosa folle e, appa­ rentemente, biasimevole (w. 781-801). Come Creonte, anche Antigone impara quando viene co­ stretta a riconoscere che al centro dei suoi interessi esclusivi c’è un problema. Creonte si accorge che la città è pia e amorosa; che egli non può essere il suo campione se non apprezza ciò che essa loda, in tutta la sua complessità. Antigone scopre che il servizio ai morti ha bisogno della città, che i suoi fini religiosi non possono essere raggiunti senza le istituzioni della città. Diventando legge a se stessa, ella non solo ha ignorato una parte della pietà, ma ha anche messo a repentaglio la realizzazione dei doveri religiosi cui è così devota. Senza amici, senza possibilità di avere figli, lei non può ri­ manere viva per continuare il servizio ai morti, né può garantire che il suo cadavere venga trattato religiosamente. Nei suoi ultimi discorsi lamenta non tanto la morte imminente, quanto il suo iso­ lamento, la mancanza dei figli, degli amici, di persone in lutto per lei. Ella enfatizza il fatto che non si sposerà più, che rimarrà senza figli. Acheronte sarà suo marito, la tomba la sua camera nuziale49. Se non riuscirà a commuovere quegli stessi cittadini che lei ha ri­ fiutato di considerare in quanto tali, morirà e nessuno piangerà la sua morte50 o la sostituirà come guardiano della religione fami­ liare. In questa scena finale, dunque, ella si volge sempre più verso i cittadini e gli dei della città (w. 839, 843 ss.), tanto che le sue ul­ time parole riecheggiano un precedente discorso di Creonte (w. 199 ss.) fondendo i pensieri dell’uno e dell’altra: O terra di Tebe, città dei miei padri, e divinità progenitrici, sono condotta via, senza più indugi! Guardate, signori di Tebe:

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io, l’unica rimasta della stirpe regale, quali cose soffro e da chi, perché onorai la pietà (w . 937-943).

Abbiamo, dunque, due mondi pratici fortemente limitati, due strategie di difesa e di semplificazione. Nell’una un unico valore umano è diventato il fine ultimo; nell’altra un insieme di doveri ha eclissato tutti gli altri. Tuttavia ora possiamo ammet­ tere che, in ogni caso, ammiriamo Antigone molto più di Creonte. È importante considerare i motivi di questa diffe­ renza. In primo luogo sembra chiaro che nel mondo del dramma la scelta di Antigone è preferibile a quella di Creonte. L ’irrive­ renza ai valori della città implicata dal dare sepoltura ad un ne­ mico è molto meno grave della violazione religiosa implicata nell’atto di Creonte51. Antigone, sostenendo che il dovere di seppellire i morti è una legge non scritta, che non può venire sostituita dal decreto di un particolare governante, mostra una comprensione più profonda della comunità e delle sue leggi di quanto non faccia Creonte. La convinzione espressa da Anti­ gone che non tutti i valori siano relativi all’utilità, che certe ri­ chieste, quando vengono trascurate, distruggano la concordia comune e il carattere individuale, viene lasciata intatta dall’im­ plicita critica contenuta nel dramma. Inoltre Antigone ricerca in se stessa la virtù. Essa non coin­ volge nessun altro e per l’infrazione non si affida a nessun’altra persona. Il governo deve essere governo di qualcosa; le pie azioni di Antigone vengono eseguite in solitudine, per un im­ pulso solitario. Ella può essere stranamente lontana dal mondo, ma non fa violenza ad esso. Infine Antigone, per la singolarità della sua concezione del valore, è pronta a rischiare e a sacrificare i suoi fini in un modo che non è possibile per Creonte. La complessità della sua virtù permette ad Antigone un genuino sacrificio all’interno della di­ fesa della pietà. Muore senza ritrattare nulla, ma è straziata da un conflitto. La sua virtù è, dunque, pronta ad ammettere la presenza di un conflitto, almeno nel caso estremo, quando l’e­ sercizio coerente della virtù richiede la fine delle condizioni del suo esercizio. Dall’interno della sua devozione esclusiva alla morte ella riconosce il potere di queste circostanze contingenti e cede ad esse, paragonandosi a Niobe erosa dalla neve e dalla

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pioggia (w. 823 ss.)52- (In precedenza era stata paragonata, nel suo dolore, ad una rondine che piange sul nido vuoto; in que­ sto modo il suo agire eroico viene messo in relazione con l’e­ sposizione alla fortuna e con la vulnerabilità del femminile.) Il coro tenta di consolarla, suggerendole che la sua cattiva sorte non è di nessuna importanza rispetto alla sua fama futura, ma lei considera questa razionalizzazione una derisione della scon­ fitta. Questa vulnerabilità nella virtù, questa abilità a ricono­ scere il mondo della natura, lamentando le costrizioni che esso impone, contribuiscono certamente a fare di Antigone il più umanamente razionale e il più ricco dei due protagonisti. Ella è sia attiva sia ricettiva, non sfrutta gli altri, ma non è neppure una semplice vittima. 4. Sia Creonte che Antigone sono unidirezionali e limitati quando stabiliscono ciò che è importante. Nell’orizzonte di ciascuno dei due sono presenti importanti valori che l’altro non considera. Da questo punto di vista la famosa e spesso abusata interpretazione di Hegel è corretta. Hegel, forse, com­ mette un errore nel non sottolineare che la scelta di Antigone è chiaramente superiore a quella di Creonte, ma la critica gene­ rale di Hegel contro il rifiuto dei valori della città, come ab­ biamo visto, non è incompatibile con il loro riconoscimento53. Hegel, tuttavia, giudica insufficienti i protagonisti soltanto per­ ché sono limitati o unidirezionali, non perché si pongono l’o­ biettivo di evitare il conflitto. L ’eliminazione del conflitto è, per Hegel, un fine accettabile e plausibile in una concezione etica umana. Dalla tragedia noi impariamo a non eliminare il conflitto nel modo sbagliato attaccandoci in modo esclusivo ad un valore e trascurando gli altri. Ma, per inferenza, impariamo anche ad evitarlo correttamente: effettuando una sintesi che renda giustizia ad entrambe le richieste concorrenti. Hegel conclude: Queste sono le potenze (se. la famiglia e lo stato) più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esi­ stenza etica [...]. Il vero sviluppo consiste solo nel superamento delle opposizioni come tali, nella conciliazione delle potenze dell’agire che si sforzano nel loro conflitto di negarsi scambievolmente54.

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Questo approccio è stato recentemente ripreso da molti in­ terpreti moderni, secondo i quali il pubblico ateniese avrebbe accolto questo dramma come una sfida ad armonizzare senza conflitti i diversi orientamenti, senza negare nessuno di essi Questa sembra essere un’idea promettente. Sicuramente era uno dei motivi di orgoglio della Atene di Pericle quello di avere sviluppato un ordine civico che incorporava e rispettava le richieste delle «leggi non scritte» derivanti dall’obbligazione religiosa (cfr. Tucidide, II, 37). Ma una cosa è dire che lo stato rispetta in generale queste richieste, ed un’altra è dire, con H e­ gel, che la possibilità stessa del conflitto o della tensione tra le diverse sfere dei valori viene completamente eliminata. Per cancellare questa eventualità è necessaria una riforma molto più radicale di quella prevista da Pericle. Inoltre noi abbiamo ragione di pensare che essa potrebbe essere una cattiva ri­ forma: rischieremmo di trascurare la ricchezza del mondo del valore e le diverse richieste che esso contiene. Dal nostro stu­ dio sui due protagonisti possiamo giungere alla conclusione che rendere giustizia alla natura o alla identità di due valori di­ stinti vuol dire rendere giustizia alla loro differenza; e rendere giustizia alla loro differenza — sia alla loro diversità qualitativa che alla loro separazione numerica — significa vedere che ci sono, almeno potenzialmente, circostanze nelle quali essi colli­ dono 56. Essere distinti implica essere separati da e essere deli­ mitati contro qualcosa. Questo, a sua volta, implica la possibi­ lità dell’opposizione e — per l’agente che è obbligato ad en­ trambi i valori — del conflitto. Ma, per ora, questi sono sol­ tanto dei sospetti. Per esplorarli più a fondo, dobbiamo tor­ nare alle riflessioni e alle reazioni del coro ed, eventualmente, ad altri due personaggi della tragedia, Tiresia ed Emone. Le liriche corali dell 'Antigone possiedono uno straordina­ rio grado di densità e di intensità57. Ciascuna di esse possiede una precisa struttura interna e particolari risonanze; ciascuna riflette sulle azioni che l’hanno preceduta; ciascuna riflette sulle liriche precedenti. Dunque, per interpretare compietamente ogni singola immagine o frase, dobbiamo tracciare un complesso tessuto di rapporti e di connessioni, dal momento che ogni nuovo elemento modifica ed è modificato dalle imma­ gini e dai dialoghi che l’hanno preceduto. Ma, poiché anche l’elemento successivo modifica quelli precedenti o approfondi­ sce la nostra interpretazione, dobbiamo riconoscere che la

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trama delle connessioni da tracciare è ancora più complessa: infatti la risonanza di ciascun singolo elemento agisce in avanti e all’indietro. L ’immagine di una lirica deve essere letta non solo sullo sfondo dei dialoghi e delle liriche che l’hanno prece­ duta, ma, in definitiva, anche alla luce degli eventi e delle liri­ che che devono ancora presentarsi. Un’affermazione intrinse­ camente ottimistica (o — poiché non vogliamo concedere che questi riferimenti siano meramente estrinseci — un’afferma­ zione che, isolata, appare ottimistica) può essere attenuata o trasformata alla luce di successive testimonianze contenenti le stesse parole o immagini; un’immagine apparentemente lugu­ bre può mostrare un lato fiducioso. La comprensione com­ pleta di un’ode è più ricca e profonda delle intenzioni appa­ rentemente dimostrate dagli anziani del coro nell’atto di pro­ nunciarla — come se le odi fossero i loro sogni e, come i sogni, contenessero molte allusioni al loro mondo, sottili ed intense, molte più di quelle che il sognatore può inserire e molte più di quelle che egli può decifrare5S. Così un’interpretazione ricca e completa richiede un’attenta ricerca delle connessioni, dal mo­ mento che ogni immagine e ogni lirica acquistano maggiore densità dalle risonanze con altri passi e la densità interna di ciascuna lirica aiuta a trovare e a tracciare queste risonanze. Questa struttura è presente anche in altre forme di poesia li­ rica, dentro e fuori del dramma. Essa è in una relazione sor­ prendentemente stretta con lo stile compresso, denso ed enig­ matico del più importante pensatore etico vissuto nel cinquan­ tennio precedente questo dramma, cioè con lo stile di Era­ clito 59. Queste caratteristiche dello stile devono essere menzionate non solo per guidare l’interpretazione, ma anche per chiarire quale concezione dell’apprendimento e della riflessione umana sia presente in questo dramma. Abbiamo assunto che lo stile con cui viene discusso il problema della scelta umana non è, probabilmente, neutro: esso esprime già una visione su che cosa sia la comprensione e su come l’anima l’acquisisca. Prima di intraprendere il lavoro di decifrazione richiesto da queste li­ riche, possiamo, dunque, chiederci quale concezione esprima il loro stile denso ed enigmatico. Questa è, infatti, per molti aspetti diversa dal modello di apprendimento e di crescita psi­ cologica espresso ed approvato dalla filosofia platonica. Le liri­ che ci mostrano e producono in noi un processo di riflessione e

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di (auto)scoperta che si realizza attraverso una costante atten­ zione e (re)interpretazione delle parole, delle immagini, degli eventi concreti. Riflettendo su un evento, non lo sussumiamo entro una regola generale, né assimiliamo le sue caratteristiche ai termini di un elegante procedimento scientifico, ma sca­ viamo nella profondità del particolare, troviamo immagini e rinvii che ci permettono di vederlo meglio e di descriverlo con maggiore ricchezza; poi combiniamo questo lavoro di scavo con il disegno di connessioni orizzontali, così che ogni nesso orizzontale contribuisce ad approfondire la nostra visione del particolare ed ogni nuovo approfondimento crea nuovi nessi in superficie. L ’anima platonica si orienta, nella sua singolarità e purezza, verso oggetti etici dotati di un’unica natura, non me­ scolati, raccolti in se stessi. L ’anima immaginata da Sofocle è simile alla psyché di Eraclito: un ragno al centro della tela, ca­ pace di sentire e di reagire ad ogni vibrazione della complicata struttura60. Quest’anima non procede nella sua comprensione della vita e di se stessa muovendosi, platonicamente, dal parti­ colare all’universale, dal mondo percepito ad un mondo più semplice e chiaro, ma gira con i pensieri e l’immaginazione at­ torno aH’enigmatica complessità dei particolari (come il buon lettore di questo stile gira attorno ai dettagli del testo), seduta al centro della sua trama di connessioni, sensibile all’oscillare di ogni singolo filo. (Questo fatto ci viene segnalato dal coro che, vedendo Antigone entrare come prigioniera, dice es daimonion teras amphinoo tode, «guardo questo strano prodigio e lo considero da tutti i lati», v. 376.) La concezione dell’appren­ dimento espressa da questo stile, come la concezione della let­ tura da esso implicata, sottolinea la sensibilità e l’attenzione per la complessità; scoraggia la ricerca della semplicità e, so­ prattutto, della riduzione. Ci suggerisce che il mondo della scelta pratica, come il testo, viene articolato, ma mai esaurito dalla lettura; che la lettura deve riflettere e non oscurare questa condizione mostrando che il particolare (o il testo) rimane ine­ sausto, arbitro finale della correttezza della nostra visione; che la scelta corretta (o la buona interpretazione) dipende, innanzi tutto e soprattutto, dall’acume e dalla flessibilità della perce­ zione e non dalla conformità ad un insieme di principi sempli­ ficatori. (Aristotele, ritornando alla visione tradizionale della scelta, sosterrà esplicitamente tutta questa argomentazione.) Infine il coro ci ricorda che, per reagire correttamente ad

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un caso pratico (o ad un testo) che ci stia davanti, è necessaria non soltanto la valutazione dell’intelletto, ma anche un’appro­ priata risposta emozionale. Infatti il coro non «legge» le varie situazioni in termini freddamente intellettuali. Come gli an­ ziani deli’Agamennone, per i quali il penoso ricordo del dolore costituisce una via alla conoscenza, anche questi anziani si per­ mettono non soltanto di «considerare da tutti i lati», ma anche di provare profonde emozioni. Essi intrecciano quei legami con il loro mondo che sono la base per la paura, per l’amore, per il dolore profondo. Subito dopo aver parlato del potere dell 'eros (w. 781-801) «che siede presso le grandi leggi pos­ senti» essi si schierano con Emone contro i due protagonisti insensibili alla forza dell’eros e annunciano: «E ora ecco, an­ ch’io fuori dalle leggi (thesmoi) / sono tratto a questa vista; e più non posso / frenare fiotti di lacrime, / quando vedo Antigone / muovere al talamo che tutti addormenta» (w. 802-806). Per i coreuti vedere e piangere con passione sono azioni legate inti­ mamente; l’una evoca naturalmente l’altra. Una percezione pu­ ramente intellettuale di questo evento, che non fosse accompa­ gnata dall’«essere tratti» e dall’erompere delle lacrime, non sa­ rebbe un vedere naturale, o completo, o buono. Per percepire pienamente i particolari bisogna amarli. Questo ci suggerisce una norma anche per la nostra attività del leggere e dell’interpretare. Se tentiamo di bloccare il flusso delle lacrime, se resi­ stiamo con troppa determinazione e non ci lasciamo trascinare, non saremo in grado di cogliere tutto ciò che il testo ci offre. Finora abbiamo parlato di queste liriche come se fossero testi da leggere. Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che esse sono innanzi tutto e principalmente gli elementi corali di una rappresentazione drammatica. Esse vengono messe in scena con la voce, la musica, la danza da un gruppo di persone che lavorano assieme; vengono viste da un gruppo, un pubblico, che si è riunito per una festa religiosa e la collocazione fisica che circonda l’azione fa sì che il riconoscere la presenza dei concittadini sia una parte fondamentale ed inevitabile dell’e­ vento drammatico. Questo fatto approfondisce ulteriormente il nostro confronto con Platone. Infatti, mentre esperiscono la complessità della tragedia, gli spettatori formano una comu­ nità e non isolano la loro anima da quelle di tutti i loro compa­ gni; prestano attenzione a tutto ciò che è comune o condiviso, si trasformano in un gruppo che reagisce tutto assieme e non

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raggiungono la solitaria altezza della contemplazione, da cui si può tornare alla vita politica solo con una discesa dolorosa. Questa esperienza, dunque, accentua il valore fondamentale della comunità e dell’amicizia; non ci consente di cercare il bene al di fuori di esse61. Sembra importante interpretare queste odi in uno stile che rispetti tutte le loro suggestioni. La seguente lettura si occu­ perà solamente di certe parti delle liriche e al loro interno sot­ tolineerà alcune connessioni piuttosto che altre, alcune rea­ zioni emozionali invece di altre, quelle che fanno avanzare la nostra indagine sulla sintesi e sulla semplificazione. Ma cer­ cherò di raggiungere questo obiettivo in un modo coerente con il materiale. Raggio di sole, luce bellissima fra quante mai apparvero a Tebe dalle sette porte, sei apparso alfine, occhio di aureo giorno, movendo sulle correnti dircee, tu che il guerriero dal bianco scudo mosso dalla terra argiva, in piena armatura, fuggiasco in rotta con acuto colpo incalzasti. Lui contro la nostra terra Polinice incitato da ambigue contese addusse ostile; ed egli acutamente stridendo come aquila verso terra mosse il volo, spiegando le ali candide qual neve, con armi molte e con cimieri criniti (w . 100-116)62.

Il coro entra sul far dell’alba ed invoca i raggi del sole na­ scente. Questo «occhio di aureo giorno» appare, o viene rive­ lato (ephantes), come in passato, sopra le acque del fiume. Alla vista della luce il coro ricorda che il sole fu il testimone della vittoria tebana e che ora ne vede le sanguinose conseguenze fuori dalle solide porte della città. I coreuti riflettono: il sole deve aver visto il carattere anomalo delle forze nemiche, per­ ché mescolata ai cavalieri argivi giace l’aquila tebana, Polinice, «Grande Conflitto», con l’elmo adorno di cimieri. Quest’a-

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quila ricoperta di criniere, la cui anomala doppiezza indica la complessità del discorso morale su Polinice, giace ancora sotto l’occhio del sole, trascurata. I coreuti si rendono conto che Po­ linice ha due aspetti e che le contese riecheggianti nel suo nome sono ambigue (neikeon amphilogon, v. I l i ) ; ciò contra­ sta implicitamente con quanto essi sanno (e noi con loro) su quel semplice editto che ha rifiutato a questo traditore e ne­ mico il trattamento riservato ad un parente e ad un philos. Le tensioni e la complessità del mondo rivelatosi ieri contrasta con l’univocità delle strategie odierne. La lirica comincia, dunque, con un occhio che si apre pro­ prio come si apriva in passato e guarda una scena che presenta elementi confusi. Il discorso si sviluppa in due modi, uno sem­ plice e uno complesso. L ’occhio della natura coglie una visione complessa e capace di generare il conflitto. Creonte vede un mondo più semplice. La potente immagine dell’occhio che si apre, usata proprio mentre noi (in teatro, all’apparire del sole) apriamo i nostri occhi alla situazione che la luce nascente ci di­ spiega davanti, è la prima di molte immagini dell’occhio e della vista presenti nel dramma. Seguendole, riusciremo a compren­ dere le rivelazioni del coro sulla percezione pratica e sui pro­ getti di armonizzazione. Il discorso di Creonte sul vedere comporta implicitamente una particolare costruzione della realtà, una costruzione che ri­ fiuta gli elementi che non si accordano con essa63. Egli per­ mette che si riveli o che diventi evidente solamente ciò che si accorda con la sua immagine semplificata del valore: il danno imminente per la città (v. 185; cfr. v. 177), il cadavere abban­ donato del traditore (v. 206), la colpa evidente di Antigone (w. 307, 655), la follia del suo comportamento (v. 562), la terribile efficacia della punizione (v. 581) 64. Egli invoca «Zeus che sem­ pre vede tutto» per difendere la sua visione semplificata (v. 184). Colui che si oppone, che vede in modo diverso da lui, manca, nella sua immaginazione, della vista, è una persona che «trama male azioni nell’ombra» (v. 494). O se, come Antigone, osa avventurarsi nella luce, viene in breve fatto scomparire (v. 774). Secondo Emone, Creonte ha un omma deinon, un occhio strano e terribile — poiché egli vede solo ciò che vuole vedere, sente solo ciò che vuole sentire. (Anche Antigone, sebbene con enfasi minore, insiste a guardare soltanto i mali della sua fami­ glia — v. 6 — e la forza della legge dei morti — v. 457 — .) Alla

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fine Creonte sarà punito venendo privato della vista del figlio, alle cui richieste era stato cieco (w. 763-764). Il giro del sole misura la sua sconfitta (v. 1065); con dolore egli giunge a «ve­ dere» la morte dei membri della sua famiglia (v. 1264) e, alla fine, «troppo tardi a vedere la giustizia» (v. 1270). Questo omma deinon si oppone, dunque, implicitamente all’occhio del sole, che vede la forza delle due posizioni in con­ flitto — apparentemente indifendibili senza una qualche scon­ fitta, poiché Zeus sostiene Tebe, ma l’aquila rimane il suo sim­ bolo. La visione di Creonte si oppone anche alla visione del coro, perché i coreuti invocano il sole affinché li assista nella loro ricerca e chiedono di poter vedere ciò che lui ha visto. Essi aspettano l’illuminazione di un occhio esterno e non control­ lato dall’uomo. Essi lasciano che le rivendicazioni più impor­ tanti salgano dal mondo e si mostrino davanti a loro e non de­ cidono quale di esse vogliano o non vogliano vedere. L ’occhio di Creonte è attivo e corregge ciò che vede. Allo stesso modo Creonte immagina se stesso come attivo e non passivo: il capi­ tano della nave che avanza nella sua rotta; il domatore di ani­ mali; il forgiatore dei metalli, il maschio. Gli uomini del coro, sin dall’inizio, vedono se stessi in modo differente. La loro in­ vocazione ha più il carattere dell’attendere che quello del fare o del formare; essi chiedono che qualcosa si manifesti a loro senza pretendere che sia proprio ciò che essi vogliono. Appare all’alba, attraverso la nebbia del fiume, ed è visto. La stessa sensibilità alla visione si ripresenta in seguito, quando gli occhi dei coreuti vedono e piangono allo stesso tempo, costruiscono e vengono trascinati. Questo non è un atteggiamento hege­ liano. Nella rappresentazione tragica il pubblico occupa una po­ sizione che gli consente di riconoscere questo senso dell’attesa. L ’intelligenza, che ricerca attivamente, si unisce all’apertura, al desiderio di venire sorpresi e commossi, assieme agli altri. Questo modo di concepire la visione ci suggerisce alcuni dubbi non solo su Creonte, ma anche sui progetti di armoniz­ zazione e, più in generale, di sintesi, nella misura in cui la sin­ tesi implica la modifica delle condizioni presenti, sostenute da Zeus e viste dall’occhio della natura. Il nostro sospetto che il coro non presenti una visione hegeliana viene rinforzato dal­ l’ode seguente.

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Molte sono le cose deina, ma nessuna è più deinon dell’uomo: questa cosa attraverso il canuto mare pure nel tempestoso Noto avanza, fra le onde movendo che ingolfano intorno; e l’eccelsa fra gli dei, la Terra eterna, infaticabile egli travaglia, volgendo gli aratri di anno in anno, rivoltandola con i figli dei cavalli. E la razza spensierata degli uccelli e delle fiere selvatiche le stirpi e le marine creature dei flutti nei lacci delle sue reti avviluppa e fa preda l’uomo ingegnoso; e vince con le sue trappole l’agreste animale vagante per i monti, e il cavallo dalla folta criniera sottoporrà al giogo ricurvo, e il montano instancabile toro. E parola e pensiero (phronema) celere come vento e impulsi (orgas) a civili ordinamenti da solo apprese; e a fuggire di inospiti geli e di gravi piogge i rovesci dal cielo, ricco di risorse. N é mai senza risorse muove incontro ad alcun evento futuro: da Ade soltanto non troverà scampo, anche se ha escogitato salvezza da mali incurabili. Possedendo, di là da ogni speranza, l’inventiva dell’arte, che è saggezza, talora muove verso il male, talora verso il bene. Se le leggi della terra compie e la giustizia giurata sugli dei, elevata è la sua patria; ma senza patria è colui che per temerità si congiunge al male: non abiti il mio focolare né pensi come me chi agisce così (w . 332-375)65.

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A questo punto gli uomini del coro hanno già udito la di­ fesa che Creonte ha tenuto in favore della supremazia della po­ lis. Essi hanno anche udito la guardia raccontare la strana se­ poltura. La parola deinon compare due volte nel corso degli avvenimenti precedenti, in preparazione di questa lirica. In en­ trambi i casi essa viene usata dalla guardia, la quale definisce la sepoltura deinon (v. 243), paurosa ed incomprensibile e consi­ dera deinon, terribile, il fatto che Creonte sia così orgoglioso delle sue empie idee (v. 323). Queste occorrenze del termine ci fanno pensare ad un certo ottimismo. Infatti dopo essere stati testimoni di questi eventi e di queste ambizioni, gli uomini del coro pensano che l’uomo sia una cosa deinon-. un essere mera­ viglioso e strano, che non è a casa propria, né è in armonia nel mondo della natura; un essere naturale che strazia la natura per costruirsi una casa e modifica la sua stessa natura per farsi delle città. Niente è più deinon, ci suggerisce il testo, neppure gli dei. (Ciò, forse, avviene perché la loro vita è perfettamente armoniosa e controllata. Essi non possono essere ammirati come si ammirano gli esseri umani perché non hanno ostacoli da superare, né possono essere temuti o criticati dal momento che non hanno bisogno di allontanarsi dalla loro natura o di di­ ventare empi per realizzare se stessi.) «Questa cosa», dicono i coreuti e usano il pronome neutro per prendere le distanze dalla stranezza di questa creatura, mentre tentano di fornire una descrizione imparziale della sua natura e del suo comportamento. «Attraversa il canuto mare»; a prima vista è la storia di un progresso trionfante. Ci viene enumerata la considerevole lista degli strumenti escogitati da questa creatura per guadagnare il controllo sul contingente66. La nave e l’aratro, che compaiono come metafore politiche prima e dopo l’ode, ora vengono citate alla lettera, come esempi dell’inventività umana. É questa grande ricchezza di ri­ sorse non si limita a controllare l’esterno. Infatti l’essere umano ha creato se stesso come essere sociale, ha modellato pensieri, emozioni, istituzioni, ha governato gli aspetti della sua vita interiore prima ingovernabili. Sembra, dunque, che egli abbia una soluzione per tutto. Rimane solo il caso ultimo, la morte. Ma, nota il coro, molte malattie che un tempo erano senza speranza sono state curate con mezzi umani. La morte è stata allontanata. Forse che una creatura così ricca di risorse non potrà trovare una soluzione?

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Questa è la superficie del testo della lirica. Abbiamo tutta­ via detto che queste immagini devono essere seguite avanti e indietro per tutto il dramma, finché non cogliamo l’intero tes­ suto delle connessioni e delle suggestioni. Ma così facendo la storia diventa meno lieta. Infatti ognuna delle conquiste men­ zionate indica la presenza di un problema sulla strada del pro­ gresso umano. Più in particolare, ciascun elemento rivela la va­ rietà e la pluralità dei valori umani e mette in forse il tentativo di creare l’armonia attraverso la sintesi. Così l’ode ci porta ol­ tre la critica che abbiamo specificamente formulato contro i protagonisti, verso una critica generale all’ambizione di elimi­ nare il conflitto. Gli esseri umani costruiscono navi. Decidono di attraver­ sare il mare e si sforzano di farlo in piena sicurezza. Ma pen­ siamo ora alla nave dello stato di Creonte, ad un artefatto umano. Questa nave, come una nave vera, può essere fracas­ sata dalle tempeste: gli dei hanno scosso Tebe «in grande tem­ pesta» (v. 163) e più tardi il coro arriverà alla conclusione che «a chi un dio sconvolga la casa / [...] è come onda / di mare, quando per infesti soffi di Tracia / correndo sopra il tenebroso abisso marino / sommuove dal fondo / nera sabbia, e l’impeto dei venti / fa rimbombare di gemiti le rive colpite di fronte» (w. 584-593). Queste riflessioni ci rimandano non solo alla vulne­ rabilità delle imprese umane, esposte agli eventi esterni, ma an­ che (dal momento che la nave è la città di Creonte) al fatto che gli esseri umani sono spesso costretti a scegliere tra il valore del progresso e quello della pietà; tra la ricerca del benessere o della salvezza e la necessaria cura degli obblighi religiosi. Ve­ niamo, dunque, indotti a considerare il conflitto morale che sta al centro del dramma e a pensare che esso non può essere facil­ mente eliminato, neppure dal miglior legislatore. Infatti il mi­ glior legislatore sarà sempre, e legittimamente, impegnato a ga­ rantire la salvezza del suo popolo; e in talune circostanze que­ sto principio imprescindibile può spingerlo a commettere un’empietà. Qualche volta c’è una soluzione come quella di Pericle, qualche volta no. L ’immagine successiva rinforza ed estende questa rifles­ sione. La terra ci fornisce gli alimenti; e, tuttavia, la scelta di dissodarla sembra essere un’offesa che l’essere umano compie contro «l’eccelsa fra gli dei». Ancora una volta il progresso en­ tra in collisione con la pietà; la nostra sopravvivenza sembra

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dipendere da una violazione. In generale siamo indotti a pen­ sare che la scelta di compiere progressi tecnologici può spin­ gerci molto frequentemente a violare alcuni valori naturali, come l’integrità o la bellezza, o, addirittura, le condizioni della nostra salute e della futura prosperità. Una visione armoniz­ zante dello stato non potrebbe risolvere questi conflitti con fa­ cilità; anche un governante più hegeliano di Creonte vivrebbe un profondo conflitto. Questa situazione si manifesta anche quando consideriamo le altre immagini tecnologiche presenti nel dramma. Il discorso di Creonte sulle miniere tradisce la de­ terminazione a controllare l’oggetto a spese della sua integrità e della sua particolare bellezza: l’atteggiamento del minatore è irrimediabilmente opposto all’atteggiamento del collezionista di pietre preziose. Riconsideriamo anche quale uso faccia Creonte dell’aratura per esprimere la sessualità non erotica, le­ gata alla città. Qui (e più in generale nella formula del matri­ monio ateniese) un pericoloso terreno di conflitti viene armo­ nizzato ed eliminato solo attraverso il disprezzo della divinità di eros. Un corretto matrimonio sembra richiedere che si tra­ scuri un potere che, a parere del coro, è antico e vincolante quanto lo sono le norme etiche67. Il buon marito secondo Creonte non deve rispondere alla passione che «sulle tenere gote / della fanciulla si posa», alla follia che «dei giusti l’animo / rende ingiusto». Ma così una divinità si oppone ad un’altra; Demetra non è amica di Afrodite; una richiesta legittima sta in tensione con un’altra. La città hegeliana è costretta a scegliere tra il matrimonio e l’eros, e deve necessariamente scegliere il primo. Deve, dunque, trascurare un bene e cessare di essere hegeliana. Oppure, se tenta (come fa Atene) di onorare tutti gli dei, deve accogliere con disagio quelle divinità che non rispet­ tano le altre e si divertono a inviare conflitti ai mortali; ed an­ cora una volta la città cessa di essere hegeliana. Le successive immagini sulla cattura degli uccelli e sull’ad­ domesticamento degli animali possono essere seguite attra­ verso tutto il dramma, poiché rivelano la stessa struttura e por­ tano sempre alle medesime conclusioni. In seguito viene lodata la parola come una grande invenzione. Ma la parola, la trasfor­ mazione del discorso etico, è lo strumento centrale nelle sem­ plificazioni di Creonte (e di Antigone). Alla fine del dramma Emone, l’amante sensibile, rinuncia del tutto alla parola per morire «guardandolo fisso con occhi selvaggi [...] senza nulla

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rispondere» (v. 1232). Siamo costretti a chiederci quale tipo di discorso egli potrebbe non rifiutare. Sarebbe un discorso hege­ liano della sintesi, che nega e toglie le contraddizioni? O non sarebbe piuttosto un discorso nel quale le tensioni sono pre­ senti e riconosciute? Forse potrebbe essere il complesso di­ scorso della tragedia nella sua totalità. Phronema, il successivo oggetto di lode, è l’inconsueta parola usata da Creonte per indicare la mente, che, a suo avviso, deve preservare la propria salute semplificando e rifiutando (w. 176, 207, 473; cfr. v. 459). Gli «impulsi a civili ordinamenti» (astynomuos orgas) sono in definitiva una orge: collera ingovernabile, rabbia violenta (w. 280, 975, 766; cfr. v. 875) Così lo strano vo­ cabolario dell’ode ci invita a considerare che la città di Creonte è costruita propriamente sull’ira: la collera violenta per la nostra vulnerabilità di fronte al mondo è il sentimento che, al fondo, mo­ tiva le strategie di salvaguardia. Il progresso assume i caratteri di una rivincita. Anche il raffinato tentativo hegeliano di costruire una città armonizzata potrebbe essere nient’altro che un sottile ed astuto stratagemma della rivincita. Questo ci dimostra perché 1’hypsipolis e Yapolis, chi abita in alto e chi è senza città, siano, nelle riflessioni e nelle parole dell’ode, l’uno accanto all’altro: la rabbia del controllo esercitato dalla città mostra come suo lato oscuro il disprezzo o l’eliminazione delle forze particolari e sepa­ rate che riempiono la città e le forniscono la sua sostanza69. In tal modo l’asserzione dei trionfi ottenuti dalla ragione umana si trasforma in un documento sintetico dei limiti, delle tra­ sgressioni e dei conflitti della ragione. Essa suggerisce che quanto più il nostro schema dei valori è ricco, tanto più è difficile realiz­ zare l’armonia nel suo interno. Quanto più noi siamo aperti alla presenza del valore, della divinità, nel mondo, tanto più il con­ flitto si avvicina a noi. H prezzo dell’armonizzazione sembra es­ sere l’impoverimento, il prezzo della ricchezza la disarmonia. Ë quasi una «legge non scritta» (v. 613) che «nessuna vera gran­ dezza / viene senza sventura alla vita dei mortali» (w. 613-614). E a questo punto che gli uomini del coro dicono: «Guardo questo strano prodigio e lo considero da tutti i lati». Le anticipazioni antihegeliane dell’«Ode dell’uomo» vengono sviluppate ed esplicitate nell’ode più pessimista di tutto il dramma. Quando Antigone viene trascinata via nella sua tomba

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di pietra, il coro riflette sul fatto che la vita fa svanire le buone speranze. Soffrì pure Danae di mutare la celeste luce con bronzea dimora, e gettata in carcere entro funebre talamo fu costretta: lei che pure nobile era di stirpe — o figlia, o figlia! — e di Zeus custodiva il seme piovuto in oro. Ma la potenza del fato è terribile {deina ): ad essa né ricchezze né armi, non torri, non nere navi battute dai flutti possono sfuggire. E fu aggiogato anche l’ardente figlio di Driante, re degli Edoni, per le sue ire (orgais) ingiuriose rinchiuso da Dioniso in prigione di sasso. Così di follia egli stilla fiorente terribile (deinon ) furia: riconobbe di avere offeso il dio, nella sua follia, con ingiuriose parole. Intese infatti porre fine alle donne invasate dal dio e al fuoco bacchico, e provocava le Muse amanti del flauto. E presso le rupi Cianee, sul duplice mare, sono le sponde del Bosforo e la riva tracia di Salmidesso, dove Ares presso la città vide l’esecranda piaga dei due Fineidi accecati da una moglie selvaggia nelle orbite che cercavano vendetta degli occhi senza luce, trafitti con sanguinanti mani e punte di spole. E struggendosi miseri misera pena piangevano, nati da infelici nozze della madre; ed essa per stirpe risaliva agli antichi Eretteidi, e in antri lontani fu allevata fra le paterne procelle, Boreade pari ai cavalli su solido ghiaccio correndo, figlia di dei; ma pure contro di lei le Moire longeve mossero, o figlia! (w . 944-987)70

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Con quest’ode passiamo da un essere umano vittorioso, in viaggio sulle onde, ad alcuni esseri umani imprigionati in ca­ mere di roccia; dalla luce del sole, che sorge su Tebe, a stanze senza aria come una tomba; dalla esuberante leggerezza delle navi alla schiacciante pressione della Moira; da uomini che ag­ giogano orgogliosamente gli animali ad una fanciulla inno­ cente, ad un uomo colpevole, a due bambini indifesi, alla figlia del dio del vento piegati al giogo dalla sorte. L ’apertura espan­ siva delle liriche precedenti si è trasformata in una atmosfera densa e soffocante. Come Danae, ci sembra di aver scambiato la luce del paradiso per un’oscura prigione: l’occhio aperto del coro vedeva il potere del conflitto e della costrizione; questa visione è divenuta ora tanto intollerabile da accecarci. In due coppie di strofe ci vengono descritti tre prigionieri. All’inizio il coro parla di Danae, che, pur essendo del tutto in­ nocente, venne imprigionata da suo padre perché un oracolo gli aveva predetto la morte per mano del nipote. La fortuna della sua nascita, la sua bellezza, che anche Zeus aveva amato, la sua innocenza sono impotenti di fronte all’oscurità ed alla paralisi. Ella viene piegata al giogo; gli espedienti umani non le offrono nessuna possibilità di fuga. In un mondo dove i padri, per ottenere sicurezza e controllo, imprigionano le figlie e ten­ tano di impedire la nascita dei nipoti, la salvezza può venire solo da una fonte extraumana. E coro allude al racconto se­ condo il quale Zeus avrebbe fatto in modo di fecondare Danae nonostante le precauzioni del padre visitando la sua prigione sotto forma di una pioggia d’oro. Sappiamo che quando il pa­ dre pose la madre e il figlio in balia del mare, legati stretti, in una cassa di bronzo, piegando ancora una volta la figlia al giogo, Zeus la salvò nuovamente. Sappiamo che il figlio di D a­ nae era Perseo, il quale trasformò il nonno in pietra con la testa della Gorgone e restituì il dolore della madre a chi l’aveva pro­ vocato, roccia per roccia, collera spietata in cambio di collera spietata. Secondo il coro la salvezza richiede una pioggia d’oro, sandali alati, uno specchio che consente all’eroe di conquistare il terrore senza guardarlo. Antigone, come chiunque possa confi­ dare solo sulle cose umane, sarà meno fortunata. Ed anche nel lieto fine del mito la liberazione arriva solamente per il potere della collera e della vendetta, trasformando in pietra un geni­ tore. Quindi il coro pensa ad una figura più autoritaria, al re Li-

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curgo che, «per le sue ire», rifiutò di riconoscere la divinità di Dioniso. Per questo anch’egli venne legato alla roccia e fatto oggetto di disprezzo. La sua furia irridente venne piegata al giogo dallo scherno irridente del dio. Come Creonte (presente in scena durante l’ode) e, possiamo aggiungere, come Hegel, quest’uomo era apparentemente colpevole di una fede ecces­ siva nel progresso umano, di un eccessivo orgoglio per la po­ tenza della ragione e dell’ordine. Alla fine giunse a conoscere o a riconoscere il dio che aveva disprezzato. E il prezzo, o l’a­ gente, di questa conoscenza fu l’immobilità. Infine il coro introduce il caso più lugubre. I coreuti non riferiscono le linee generali della storia, ma soltanto vi allu­ dono, come se dire di più fosse superfluo o troppo doloroso. E la storia di una fanciulla allevata tra i venti agili e liberi, figlia del dio dei venti. Le sole grotte menzionate sono quelle dove giocava da bambina. Esse vengono paragonate alla prigione dove il marito la rinchiuse perché voleva sposare un’altra donna. L ’unica allusione a questa vicenda è il breve accenno — «ma pure contro di lei / le Moire longeve mossero, o figlia!» — che mette a confronto la sua situazione con quella di Anti­ gone. Il coro punta, invece, la sua attenzione sui figli, accecati dalla matrigna gelosa perché cercavano con gli occhi di vendi­ care la madre. Solo Ares, dio della guerra, vide la punta della spola penetrare gli organi dell’intelligenza. Attraverso i loro occhi questi fanciulli si liberarono, accusarono e domandarono riparazione. Essi chiesero che le loro richieste fossero viste-, questa domanda fu intollerabile per la colpevole. La matrigna (come Creonte) doveva rendere inerte ed ine­ spressiva l’opposizione, perché l’umanità dei bambini era un’accusa troppo evidente contro di lei. Se lei si fosse per­ messa di rispondere ai loro sguardi, sarebbe stata straziata nella lotta tra le pretese del marito e quelle, giuste, dei figlia­ stri. Ma ella non poteva sopportare tutto ciò; la pretesa dei bambini doveva essere estinta con la forza e la resistenza do­ veva essere trasformata in materia incapace di minaccia. Fu colta dalla collera per il modo in cui i fanciulli tentavano di for­ zare la tensione e ciò la spinse a prendere la spola, l’emblema della femminilità e del governo familiare, e a strappare via quelle richieste con il sangue. I fanciulli sono ora nelle tenebre e possono solo piangere senza vedere. Il loro struggimento o la loro sottomissione non sono accompagnati da nessun co­ mando o da nessuna ricerca attiva.

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Questa lirica, con un tratto lugubre, collega insieme molti dei temi che finora abbiamo rintracciato. Il racconto verte sul potere degli eventi esterni e sulla violenza della collera umana contro quel potere; sugli stratagemmi e sui rifiuti; sullo sforzo di salvarsi immobilizzando l’oggetto minaccioso; sulla sensibi­ lità e sulla visione aperta. Le scelte degli esseri umani, alla fine, sembrano poche; il progresso hegeliano non è compreso tra di esse. O la trasgressione o il ruolo della vittima: l’ira del distrut­ tore o la possibilità di essere distrutti. La visione òeWomma deinon oppure l’occhio strappato e sanguinante di un fanciullo sensibile. L ’occhio del coro si era aperto sulla presenza del conflitto; poteva quindi essere influenzato dal potere dell’a­ more e mosso alle lacrime. Ora il coro descrive la fine di questa apertura con l’immagine dei bambini piangenti ed insangui­ nati, la cui giusta visione è stata punita per tutta la vita. Ed essi non offrono maggiori speranze di vendetta, perché alla fine an­ che Licurgo viene deriso e punito. Tutti gli uomini finiscono allo stesso modo, piegati al giogo per la loro collera o per la loro innocenza. Dove Hegel coglie la speranza dell’armonia, il coro vede soltanto il terribile potere di un’illimitata contin­ genza. Chi tenta di soggiogarla commette un’infrazione e viene soggiogato; chi la riconosce viene distrutto. Le scelte sono senza appello. Inoltre, come succede a H e­ gel, esse ci mettono a confronto con un altro conflitto, di grado superiore, riguardante il conflitto stesso. Infatti dobbiamo sce­ gliere tra l’armonizzare o l’ordinare attivamente e la sensibilità dello «stare aperti», tra l’essere i costruttori di un mondo dei valori coerente e libero dai conflitti e l’essere ricettivi verso la pluralità dei valori esistenti nel mondo della natura e della sto­ ria. Ogni schema di valore sembra implicare un equilibrio tra le due opzioni analizzate dal dramma. La lirica non ci dà nes­ suna assicurazione sul fatto che queste opposte richieste cono­ sceranno una sintesi armoniosa, tale da rendere giustizia ad en­ trambe. Infatti ci dimostra che l’armonizzare e l’ordinare atti­ vamente implicano il rifiuto di qualcosa, mentre la sensibilità dello stare aperti ci allontana dal nostro obiettivo, quello di condurre una vita normale. L ’ottimismo di Hegel non viene giustificato dalla trama delle associazioni attraverso cui ci ha condotto la lirica. Pos­ siamo a questo punto pensare ad un altro autore che si è occu­ pato della tragedia e che, come noi, si è opposto alle ottimisti-

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che estrapolazioni di Hegel. Per Schopenhauer un momento di visione terribile come quello cui siamo arrivati è la conoscenza che la tragedia può offrire; il sentimento di paralisi che l’ac­ compagna è la reazione appropriata a questa e a ogni altra tragedia: Scopo di quest’altissima creazione poetica è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile; il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un significante segno intorno alla natura del mondo e dell’essere [...]. I motivi prima sì poderosi per­ dono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’es­ senza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere71.

Questa descrizione suona ora più corretta rispetto a quella di Hegel e sembra rappresentare meglio la nostra esperienza. 5. Ma l’Antigone non si conclude con questa visione para­ lizzante. Ora, nel momento più oscuro del dramma, entra un uomo cieco, guidato da un fanciullo. Sebbene sia cieco, l’uomo cammina, non è immobilizzato; il fanciullo, sebbene dipen­ dente, è attivo, non piange passivamente. Nessuno dei due è solo in un mondo ostile, bensì è in compagnia di un amico di cui può fidarsi. Da questa amicizia, da questa reciprocità viene la possibilità dell’azione. Il fanciullo sostiene il corpo del vec­ chio uomo; il vecchio provvede all’intelletto ancora immaturo del bambino. In questo modo, «vedendo in due con gli occhi di uno» (v. 989), vengono «insieme per la stessa via» (v. 988). Il vecchio è un sacerdote di Apollo, la divinità dell’ordinare e del legare. E un uomo dotato di un’arte (tecbne), perché la sua cecità gli ha donato una conoscenza inaccessibile anche ai più fortunati. Viene per insegnare (v. 992), per trasmettere la conoscenza mostrando i «segni» della sua arte (v. 998). Tiresia, secondo le sue stesse parole, si occupa soprattutto della buona deliberazione, «il migliore dei beni». Egli incita Creonte a guarire da una malattia della ragione cui vanno sog­ getti «tutti gli uomini» (w. 1023-1025, 1052). Questa malattia è, probabilmente, la furia del controllo, con le sue inevitabili empietà. Abbiamo visto quanto sia giusto considerarla comune

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a tutti gli uomini. Ma come può Tiresia proporre di «guarire» questa malattia senza cadere nella trappola opposta dell’immo­ bilità? Si può concepire una guarigione senza rinunciare del tutto alla scelta ed all’azione? Tiresia sostiene che la buona deliberazione è connessa con il «cedere» [eìke, v. 1029), con la rinuncia alla caparbietà osti­ nata (v. 1028), con l’essere flessibili (v. 1027). Questi consigli riprendono quelli dati in precedenza da Emone al padre72. Cri­ ticando Xomma deinon di Creonte, la sua dedizione ad un unico ethos, o a un unico principio (w. 690, 705), la sua ostina­ tezza nel considerare corretta soltanto tale esclusività (v. 706, cfr. 685), Emone chiede un comportamento diverso. Per evi­ tare il vuoto interiore della sua condizione (v. 709), Creonte dovrebbe imparare a non fonarsi troppo (v. 711). Emone, come Tiresia, collega questo non-forzarsi con l’abilità di impa­ rare (w. 710, 723) e con l’idea di cedere (v. 718). L ’indovino cita due esempi tratti dal mondo della natura. Sulle rive dei ra­ pidi torrenti gli alberi che si piegano salvano i loro rami, men­ tre quelli che rimangono rigidi vengono sradicati e distrutti (w. 712-714). Un timoniere che guida la sua nave diritta con­ tro il vento con tutte le vele tese farà naufragio; ma quello che asseconda i venti e le correnti si salva (w. 715-717). Sia Emone che Tiresia, quindi, stabiliscono una connessione tra imparare e cedere, tra saggezza pratica e flessibilità. Che cosa è questa concezione della saggezza pratica e come si propone di trattare i problemi di chi, come Creonte, «procede sul filo della for­ tuna» (v. 996)? Innanzi tutto dobbiamo notare che Emone e Tiresia non propongono il semplice opposto della rigidità, attiva e dedita al controllo, praticata da Creonte. Essi non gli dicono, cioè, che sarebbe meglio per lui diventare completamente passivo ed inerte, permettendo ad ogni cosa di condizionarlo e di spin­ gerlo da una parte e dall’altra, senza che egli prenda provvedi­ menti per controllare o modellare la sua vita. Emone e Tiresia, quindi, non accettano il suggerimento contenuto nell’ode di Danae, secondo il quale le due sole alternative sarebbero la violenza di Creonte contro l’esterno e la passività completa da­ vanti all’esterno. Una pianta ha una natura definita; è una cosa e non un’altra; essa richiede certe condizioni, «si preoccupa» di certe situazioni e reagisce a certe sollecitazioni e non ad al­ tre. E vulnerabile e bisognosa; ma ha anche i suoi fini determi-

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nati e, usando una metafora, il suo senso del valore. Anche la nave è un mezzo di trasporto definito e porta la gente da qual­ che parte per realizzare certi fini particolari. Non può andare con qualsiasi corrente e qualsiasi vento che soffi; ha le sue re­ gole e le sue esigenze. Emone, quindi, non ha chiesto a Creonte di rinunciare alla scelta attiva del bene e allo sforzo di realizzarlo. Egli, addirittura, accetta da Creonte l’immagine della nave per simbolizzare la vita deliberativa umana; accetta, cioè, l’idea che la nostra ricerca del bene debba escogitare al­ cuni sistemi per preservarci dal disastro naturale. Egli sostiene che è importante, nella ricerca dei propri fini umani, rimanere aperti alle richieste e alle sollecitazioni dell’esterno e coltivare una sensibilità flessibile invece di una rigida durezza. Egli pro­ spetta a Creonte (come anche Aristotele proporrà ai suoi op­ positori platonici) una saggezza pratica che risponde alla forma del mondo naturale adattandosi alla sua complessità e ricono­ scendola nel modo che le è dovuto. (Aristotele userà l’imma­ gine dell’architetto che misura una complicata colonna con una striscia di metallo flessibile, mettendo a confronto questa adatta­ bilità con la grossolanità di chi affronta la stessa colonna con una riga rigida)73. Quest’arte deliberativa combina in modo appropriato l’attività con la passività, la fedeltà ai propri fini con la sensibilità verso il mondo1A. Questi personaggi, come anche la stessa vita di Tiresia, suggeriscono che le lugubri alternative contenute nella ode di Danae sono troppo semplici: che la sensibilità (verso le per­ sone o verso il mondo naturale) può portare non all’immobi­ lità, ma a un movimento più raffinato e flessibile. E questo modo di procedere non è solo più sicuro e più prudente. Emone e Tiresia lo sostengono, ma essi (specialmente Emone, con il suo uso delle immagini naturali) indicano anche che que­ sta via è più ricca e più bella. Essere flessibilmente sensibili al mondo, invece di rigidi, è un modo di vivere che permette un grado accettabile di sicurezza e di stabilità, mentre rende an­ cora possibile riconoscere la ricchezza del valore del mondo. Uethos esclusivo di Creonte non è soltanto folle; come ab­ biamo visto, è anche brutto e povero. Si propone come un mezzo di civilizzazione, ma finisce per essere ferocemente inci­ vile 75. Secondo il consiglio di Emone, per essere un uomo vera­ mente civile, bisogna preservare il mistero e la particolarità del mondo esterno, mentre si deve conservare nell’interiorità la

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passione che induce al mistero. Questa vita ha uno spazio per l’amore e, come dimostra la vita di Tiresia, ha anche uno spa­ zio per la comunità e la cooperazione. Solo chi bilancia in que­ sto modo la protezione di sé con la cedevolezza può essere un amante o un amico: perché la vittima completamente passiva non può aiutare gli altri ed un agente come Creonte non può vedere gli altri. Il «filo della fortuna» richiede il più delicato equilibrio tra ordine e disordine, tra controllo e vulnerabilità. Quale contribuito può dare tutto ciò al nostro problema del conflitto, alla nostra consapevolezza che vi è un conflitto di livello superiore tra il valore della coerenza (libertà dal con­ flitto) e il valore della ricchezza? Qui veniamo invitati a formu­ lare alcune considerazioni: una vita senza contraddizione non ha il valore e la bellezza di una vita in cui può nascere il con­ flitto; il valore di ciascuna rivendicazione deriva dal fatto che essa è separata e distinta e che queste sue qualità verrebbero eclissate dalla armonizzazione. Dobbiamo pensare che, come dice Eraclito, la giustizia è contesa-, che, cioè, le tensioni per­ mettono la nascita della lotta e sono, al tempo stesso, parti co­ stitutive dei valori. Senza la possibilità della contesa la giustizia sarebbe distrutta e non sarebbe più tale. Il coro di Danae non aveva compreso fino a che punto la necessità e la scelta si con­ dizionino a vicenda e siano mescolate: fino a che punto ogni cosa degna di essere perseguita possieda il suo particolare va­ lore per il modo stesso in cui viene limitata dalle altre cose e quindi per la disuguaglianza o l’opposizione con esse. Emone non insegna a massimizzare la tensione o il conflitto, perché la possibilità stessa dell’azione richiede, come l’immagine della nave suggerisce, la strutturazione di un progetto preliminare e, quindi, probabilmente anche il rifiuto di alcune possibilità. Se, per esempio, potessimo vedere sempre in modo chiaro e venis­ simo commossi dal valore di ciascuna singola persona del mondo, non potremmo mai agire senza provare una sensazione intollerabile di dolore e di colpa perché faremmo del bene solo ad uno e non ad un altro — come l’amore o la giustizia richie­ dono in taluni casi. (Se io vedo e valuto i figli delle altre per­ sone come i miei, i miei figli non ricevono mai da me l’amore, il tempo e l’attenzione che dovrebbero avere, che è loro diritto avere.) Ma dobbiamo fermarci a un qualche punto e dimo­ strare questa cecità necessaria e giusta per equilibrare in modo appropriato la sensibilità e l’ordine.

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Il seguace di Tiresia dispone di una qualche regola per rea­ lizzare questo equilibrio? Sino a che punto si può semplificare senza cadere nell’insulto di Creonte, quanta sensibilità è com­ patibile con la salute della mente e con la giustizia? Infatti l’«arte» di Tiresia ingiunge a Creonte di seguire le convenzioni. «H o paura che la cosa migliore sia terminare la propria vita os­ servando le leggi (nomous) stabilite» (w. 1113-1114)76. A suo avviso, dunque, le tradizioni della comunità, stabilite nel corso del tempo, offrono una buona guida nei confronti di ciò che nel mondo deve essere riconosciuto, di ciò cui si deve cedere, di ciò che è importante e degno di attenzione. Le convenzioni preservano una grande pluralità di valori e ci insegnano il ri­ spetto per gli dei che, insieme, proteggono questa pluralità. Le convenzioni salvaguardano la speciale separatezza e l’impor­ tanza di ciascuna divinità assieme alle sfere da essa protette. Non offrono alcuna soluzione nello smarrimento delle situa­ zioni tragiche — eccetto la soluzione che consiste nell’essere fi­ ducioso e in armonia con il proprio senso del valore, ricono­ scendo la tensione e la disarmonia. Esse ci mostrano che, se­ condo le parole di Eraclito, «pur discordando in se stesso è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira». Il coro risponde a questa lode delle convenzioni con un’ap­ passionata invocazione a Dioniso77, il cui potere misterioso era stato disprezzato e schernito dalla ragione di Licurgo ed era stato trascurato, come era stato trascurato nelle strategie di Creonte e di Antigone. I coreuti immaginano il dio illuminato o visto da una fiamma fumante che brilla nelle tenebre (w. 1126-1127). Essi ricordano anche il lampo del fulmine che, pur provocando pericolo e morte (v. 1139), portò alla loro città, a Semele, la forza creatrice dellVror divino. Dioniso, nato da questa ambigua unione nella quale vengono congiunti il rischio e il valore, l’oscurità e la luce, viene invocato come colui che verrà per essere il guardiano e il protettore (w. 1136, 11481149). Anche se viene visto in un’atmosfera fosca, egli sarà la luce nel buio, il guardiano della città, e arrecherà la salute (w. 1140-1142) guidando la città nelle danze notturne. Il dio è te­ stimone di una struttura flessuosa e fluida che si muove nelle tenebre e assume da esse il proprio carattere; un discorso nato dall’artificio umano e, tuttavia, sensibile alla stranezza (phtheg-

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maton, v. 1148; cfr. v. 353), una follia (mainomenai, v. 1151) ordinata e rispettosa. Che terapia c’è in questa danza? Certamente non porta alla salute rigida di Creonte. Questo guarire non è un conquistare, ma solamente un comune riconoscere, nel movimento e nella musica, il potere di ciò che è strano e improvviso, l’indissolu­ bile intreccio di estasi e pericolo, di luce e ombra. Invocando Dioniso come colui «che guida il coro degli astri / spiranti fuoco» (w. 1147-1148), i coreuti ci ricordano che anche noi stiamo guardando e rispondendo ad una simile danza corale durante le feste di Dioniso. Essi suggeriscono che anche lo spettacolo di questa tragedia è un mistero ordinato, ambizioso e accondiscendente, una guarigione senza cure, la cui vera armonia (quando rispondiamo ad essa in comune) non è la semplicità, ma la tensione tra forme di bellezza distinte e separate7S. Note al capitolo terzo 1 Ho scelto di discutere la comparsa di questa concezione analizzando un solo esempio. Generalmente si ammette che le strategie ascritte a Creonte rimandino a certi aspetti del razionalismo sofistico — vedi infra, n. 10. Af­ fronto una concezione strettamente affine in Conséquences and character in Sophocles’ Philoctetes, in «Philosophy and Literature», 1 (1976-1977), pp. 25-53; sulla relazione tra questo dramma ed i sofisti vedi P. Rose, Sophocles Philoctetes and thè teachings of thè Sophists, in «Harvard Studies in Classical Philology», 80 (1976), pp. 49-105. Si possono trovare significative indica­ zioni di fondo in M. O’Brien, The Socratic Paradoxes and thè Greek Mind, Chapel Hill, 1967 e in W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, Cambridge, 1969, vol. III. Il capitolo IV discute per esteso, offrendo molti altri riferimenti, alcuni di questi argomenti, che forniscono lo slondo all’idea platonica di techne. 2 Naturalmente i filosofi che sostengono una visione «antitragica» nel caso individuale (cfr. cap. II) applicano una concezione simile anche in campi più vasti. Ma alcuni difensori della visione tragica riferita agli indivi­ dui hanno ribadito che l’eliminazione del conflitto è un fine, o addirittura un criterio, della razionalità politica. Si vedano, per esempio, R.B. Marcus, Mo­ ral dilemmas and consistency, in «Journal of Philosophy», 77 (1980), pp. 121 135 e M. Gibson, Rationality, in «Philosophy and Pubblic Affairs», 6 (1977), pp. 193-225. Anche se le posizioni di questi autori probabilmente non dipen­ dono da Hegel, esse manifestano uno spiccato spirito hegeliano. La posi­ zione opposta, nella più recente produzione filosofica, viene difesa con grande vigore da I. Berlin, Concepts and Categories, New York, 1978 e da Bernard Williams (vedi le indicazioni date nel cap. II).

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3 Per gli effetti che questa concezione ha avuto sull’apprezzamento cri­ tico di Eschilo vedi capitolo II; per l’influenza esercitata sulla discussione àeTTAntigone vedi infra, nn. 7 e 8. 4 Si confronti l’affermazione di Aristotele secondo cui la tragedia rap­ presenta un bios, lo sviluppo completo o la struttura completa di una vita. Per la discussione di questa posizione e per gli ulteriori riferimenti vedi l’In­ termezzo 2. 5 La letteratura sÆ Antigone è vasta; non tento neppure di ripercor­ rerla tutta. Le principali opere da me consultate sono: S. Benardete, A reading of SophocleA Antigone, in «Interprétation», 4 (1975), pp. 148-196; 5 (1975), pp. 148-184; R.F. Goheen, The Imagery of Sophocles’ Antigone, Prince­ ton, 1951; R. Bultmann, Polis und Hades in der Antigone des Sophokles, in Theologtsche Aufsàtze, Karl Barth zum 50. Gehurtstag, riportato in Sophokles. Wege der Forschung, a cura di H. Diller, Darmstadt, 1967, pp. 311-324, trad. it. Polis e Ade nell’Antigone di Sofocle, in R. Bultmann, Credere e compren­ dere, Brescia, 1977, pp. 378-390; R.C. Jebb, Sophocles: thè Antigone, Cam­ bridge, 1900; J.C. Kamerbeek, Sophocles’ Antigone, Leiden, 1945; B. Knox, The Heroic Temperi Studies in Sophoclean Tragedy, Berkeley, 1964; I.M. Linforth, Antigone and Creon, in «University of California Publications in Classical Philology», 15 (1961), pp. 183-260; Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, cit.; G. Millier, Sophokles, Antigone, Heidelberg, 1967; G. Perrotta, Sofocle, Messina-Firenze, 1935; G. Ronnet, Sophocle: poète tragique, Paris, 1969; M. Santirocco, Justice in Sophocles’ Antigone, in «Philosophy and Literature», 4 (1980), pp. 180-198; W. Schmid, Problème aus der sophokleischen Antigone, in «Philologus», 62 (1903), pp. 1-34; C. Segai, Sophocles’ praise of man and thè conflicts of thè Antigone, in «Arion», 3 (1964), riportato in So­ phocles: A Collection of Criticai Essays, a cura di T. Woodward, Englewood Cliffs, NJ, 1966, pp. 62-85; C. Segai, Tragedy and Civilization: an Interpréta­ tion of Sophocles, Cambridge, MA, 1981; J.-P. Vernant, Le moment histori­ que de la tragédie e Tensions et ambiguités dans la tragédie grecque, in Ver­ nant e Vidal-Naquet, Mythe et tragédie, cit., trad. it. Il momento storico della tragedia in Grecia: alcune condizioni sociali e psicologiche e Tensioni ed ambi­ guità nella tragedia greca, in Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia, cit., pp. 3-7 e 8-28; J.-P. Vernant, Greek Tragedy: Problems and Interprétation, in The Language of Criticism and thè Sciences of Man, a cura di E. Donato e R. Macksey, Baltimore, 1970, pp. 273-289; C. Whitman, Sophocles: a Study of He­ rnie Humanism, Cambridge, MA, 1951; R.P. Winnington-Ingram, Sophocles: an Interprétation, Cambridge, 1980. Tranne quando viene indicato diversamente, uso il testo degli Oxford Classical Texts edito da A.C. Pearson, Oxford, 1924. 6 Undici parole connesse alla deliberazione pratica compaiono in totale 180 volte nelle sette tragedie di Sofocle, mentre sono presenti per un totale di 50 volte nella sola Antigone. (Le parole in questione sono: houle, buolema, bouleuo, euboulos, euboulta, dysboulia, phronema, phronein, phreti, dysphron, dysnous; i miei calcoli sono basati su F.T. Ellendt, Lexicon Sophocleum, Ber­ lin, 1872 e non includono i frammenti). La parola phronema, che compare sei volte nell 'Antigone, non è presente in nessun altro dramma; Io stesso vale per dysboulia e per euboulia che ricorrono ciascuna due volte ne\\'Antigone-, phren compare 17 volte su 58 nell 'Antigone.

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' Dobbiamo evitare sin dall'inizio di confondere la valutazione della decisione e la valutazione delle deliberazioni che conducono alla decisione. E perfettamente possibile che una persona raggiunga la migliore decisione pos­ sibile attraverso un processo deliberativo che trascura alcuni requisiti validi; la decisione continua ad essere corretta — ma non per le ragioni giuste, bensì accidentalmente. La concezione del conflitto criticata nel capitolo II ha spinto molti critici a sostenere che, se la decisione di Antigone è la migliore, ella non può essere criticata perché trascura i doveri verso la città: dobbiamo soltanto chiederci chi è nel giusto. Sono di questo avviso Jebb, The Antigone, cit. ; Bultmann, Polis e Ade, cit., e Perrotta, Sofocle, cit. ; Perrotta sostiene che, se la decisione di Antigone è complessivamente corretta, il biasimo del coro finisce per essere «senza logica e senza coerenza» (p. 85). L ’importanza della distinzione viene ben colta da Knox, Heroic Temper, cit., pp. 114-116; Segai, Tragedy, cit., p. 170; Benardete, A reading, cit., passim, soprattutto 1.1, 2.4, 4.1; Vernant, Tensioni ed ambiguità, cit., (vedi infra, n. 8); Santirocco, Justice, cit., passim-, Winnington-Ingram, Sophocles, cit., p. 128. 8 Sono di questa idea molti critici che considerano le due richieste in conflitto entrambe valide ed ineliminabili all’interno del dramma. Di tale av­ viso è, per esempio, Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 257: «A tutti gli Ateniesi il dramma fa notare energicamente che le loro leggi non devono es­ sere in contrasto con le leggi degli dei». Cfr. anche Santirocco, Justice, cit., pp. 182 e 194. Le osservazioni conclusive di Segai, Tragedy, cit., p. 205 sem­ brano andare nella stessa direzione: «Attraverso il suo canto corale la polis sembra prendere coscienza delle tensioni che la circondano. Rappresentando tali tensioni nell’opera artistica, essa può affrontarle e riuscire a mediarle, an­ che se la mediazione non è possibile all’eroe tragico dello spettacolo. Il dramma, nel suo contesto sociale e rituale, ottiene per la società quei risultati che esso nella finzione rifiuta agli attori. Il suo contesto afferma quello che il suo testo nega». Tuttavia non mi è ancora chiaro fino a che punto Segai ed io nutriamo, quanto a questo punto, opinioni veramente contrastanti; ciò, pro­ babilmente, dipende da quello che si intende più precisamente per «media­ zione» e da quale relazione tutto ciò intrattenga con l’immagine della sag­ gezza pratica che svilupperò in seguito. La posizione di Vernant è, ancora una volta (vedi cap. Il, nn. 3-4), molto complessa. Sebbene egli caratterizzi in modo vivacissimo la natura inconciliabile della tensione rappresentata nella tragedia (cfr. soprattutto Tensioni ed ambiguità, cit., pp. 21-22, 24-25), egli suggerisce tre conclusioni che non conseguono dalle sue osservazioni: primo, che la concezione tragica della giustizia è ambigua-, secondo, che si sposta continuamente trasformandosi nel suo contrario (cfr. Il momento storico, cit., p. 6); terzo, che questi conflitti scompaiono con lo sviluppo di una conce­ zione chiara della volontà e della distinzione tra azione volontaria ed involon­ taria (Greek tragedy, cit., p. 288). La prima e la seconda conclusione potreb­ bero venire accettate da Platone e usate come critiche contro la visione tra­ gica; tuttavia per noi risulta importante non pensare che il conflitto contin­ gente di due richieste valide sia una confusione o un’ambiguità nella conce­ zione della giustizia, un problema che deve essere risolto con un chiarimento di natura intellettuale (cfr. cap. II). Per quanto riguarda la terza conclusione (che risulta molto simile a quella di Lesky — cfr. cap. II, n. 5), si può soltanto rispondere che queste situazioni sembrano presentarsi ogni giorno, ma una

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chiara nozione della volontà — a meno che non venga combinata con una dubbia concezione della coerenza — non riesce ad eliminarle. 9 Per Creonte vedi infra, n. 12; per Antigone vedi w. 2, 18, 448. 10 Per una analisi complessiva di questo discorso, del suo sfondo cultu­ rale, delle sue connessioni con il razionalismo sofistico vedi soprattutto Schmid, Problème, cit.; Knox, Hernie Temper, cit., p. 84; Winnington-Ingram, Sopbocles, cit., p. 123; Goheen, Imagery, cit., p. 152 e n. 28. 11 Per un’eccellente discussione delle immagini relative alla salute e alla malattia contenute nella tragedia vedi Goheen, Imagery, cit., pp. 41-44. 12 Ai versi 176-177 Creonte dice: «E impossibile d’altronde conoscere bene (ekmatheìn) l’animo e il pensiero e il senno di qualunque uomo, prima che abbia fatto prova nel governo e nelle leggi». Di conseguenza egli pre­ tende di conoscere le altre persone solo in relazione alla salute pubblica (w. 293-294). Egli afferma di conoscere solamente tre verità generali, tutte inti­ mamente connesse con la supremazia del bene della città: la facilità con cui può essere sottomesso un oppositore intransigente (w. 477-478), la difficoltà di vivere con una donna il cui spirito non è dedito alla città (w. 649-651) e il ruolo fondamentale della città stessa per preservare la vita ed i beni umani (w. 188 ss.). 13 Cfr. Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 191. 14 Questi argomenti vengono discussi in modo approfondito ed illumi­ nante soprattutto da Perrotta, Sofocle, cit., pp. 60-61 e Linforth, Antigone and Creon, cit., pp. 191 ss., 255 ss.; vedi anche Winnington-Ingram, Sopbo­ cles, cit., p. 120; Segai, Tragedy, cit., § II. Le testimonianze antiche vengono raccolte in D.A. Hester, Sopbocles tbe unpbilosophical: a study in thè Anti­ gone, in «Mnemosyne», 24 ( 1971), pp. 54-55, Appendice C. Tutti i commen­ tatori concedono che il dovere di seppellire il cadavere abbia un peso gran­ dissimo; vedi anche H. Bolkestein, Wohltàtigkeit und Armenpflege, Utrecht, 1939, pp. 69-71, che ricostruisce le arai bouzygioi, la famosa lista dei tradizio­ nali doveri che sarebbero stati impartiti dal fondatore della civiltà, da colui che per primo aggiogò i buoi all’aratro. Secondo Bolkestein questo elenco in­ clude anche l’ingiunzione: «Non lasciare un cadavere insepolto», ataphon soma meperioran. In Eschine I, 14 (cfr. Benardete, A reading, cit., 4.3, n. 11) viene chiarito che anche un figlio avviato dal padre alla prostituzione ha il dovere legale e morale di seppellirlo. D’altra parte è importante capire fino a che punto un traditore costituisse un’eccezione alla regola generale. I critici di Creonte citano spesso i costumi concernenti la restituzione del cadavere del nemico, non riconoscendo la grande differenza che la legge ateniese sta­ biliva tra un nemico e un traditore (stranamente pensa così anche Jebb, Anti­ gone, cit., pp. XX ss.). Winnington-Ingram, Sopbocles, cit., facendo riferi­ mento a O. Taplin, Recensione a W. Arrowsmith, Tbe Greek Tragedy in New Translations, in «Classical Review», N.S., 26 (1976), p. 119 e a W.R. Connor, Tbe New Politicians of Fiftb-Century Athens, Princeton, 1971, p. 51, sostiene che l’azione di Creonte sarebbe perfettamente accettabile se non dimostrasse di trascurare la parentela che lo lega a Polinice. Linforth, Antigone and Creon, cit. e Perrotta, Sofocle, cit. distinguono chiaramente tra il nemico ed il traditore e si appoggiano a Tucidide, I, 138 (dove non si permette che Temi­ stocle sia sepolto in Attica); Senofonte, Elleniche, I, 7, 22; Euripide, Fenicie, 1629. Perrotta mette in evidenza che i traditori ateniesi, sebbene non potes-

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sero essere sepolti in Attica, venivano seppelliti dai loro parenti a Megara. Anche il trattamento più crudele, quando il corpo veniva gettato in un abisso o barathron, non permetteva che il cadavere venisse divorato dai cani. Pos­ siamo concludere che Creonte rimane entro la tradizione ed è giustificabile (ignorando, per il momento, il legame familiare) solo nella misura in cui mo­ stra disprezzo per il corpo e vieta la sua sepoltura nei pressi della città; egli va al di là del costume quando tenta di impedire tutti gli sforzi in vista della se­ poltura (anche se la situazione è confusa perché egli impedisce un tentativo di sepoltura nei pressi della città, illegale secondo la legge ateniese). Natural­ mente egli è completamente fuori della tradizione quando, pur essendo un parente, trascura completamente i propri doveri familiari. 15 Cfr. anche w. 299, 313, 731. 16 Sulla concezione della giustizia dimostrata da Creonte vedi Segai, Tragedy, cit., pp. 169-170; Santirocco, Justice, cit., pp. 185-186; Bultmann, Polis e Ades, cit., p. 379. 17 In un passo sorprendente il temine «giustamente» viene addirittura usato per indicare la sottomissione e l’obbedienza dei cittadini al potere ci­ vico: «E non piegavano giustamente il capo sotto il giogo, così da rispet­ tarmi» (w. 291-292). lx In questo termine includo sia l'eros ovvero la passione (fondamental­ mente sessuale) sia la philia, che comprende i legami familiari (con la pre­ senza o meno dell’affetto) e l’amore degli amici (cfr. cap. XII). Si noti che, stando al dramma (e al suo contesto storico), la philia impone certi obblighi anche quando non c’è l’affetto. 19 Sulla strana concezione della philia dimostrata da Creonte vedi Schmid, Problème, cit.; Knox, The Heroic Temper, cit., pp. 80, 87; Segai, Tragedy, cit., p. 188; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 123, 129, 98 ss., 148; Benardete, A reading, cit., 12.6. Il bando «fratello» viene sottoli­ neato da Segai, Tragedy, cit., p. 188 e da Knox, Heroic Temper, cit., p. 87; la scelta dei philoi da Winnington-Ingram, Sophocles, cit., p. 123; Knox, Heroic Temper, cit., p. 87; Benardete, A reading, cit., 12.6. 20 Sul rifiuto dell eros espresso da Creonte vedi Schmid, Problème, cit., pp. 10 ss.; Vernant, Tensioni ed ambiguità, cit., pp. 21-22; Segai, Tragedy, cit., pp. 166, 198; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 97 ss. 21 Si confronti XEutifrone, a proposito del quale vedi capitolo II, pp. 84 e 90-91. Sulla concezione religiosa di Creonte vedi Schmid, Problème, cit., pp. 7 ss.; Segai, Tragedy, cit., pp. 174-175, 164; Linforth, Antigone and Creon, cit., pp. 80, 101; Knox, Heroic Temper, cit., p. 216; Benardete, A read­ ing, cit., 19.3 e, soprattutto, Vernant, Tensioni ed ambiguità, cit., p. 22: «Dei due atteggiamenti religiosi che XAntigone pone in conflitto nessuno di per sé potrebbe essere buono senza far debito posto all’altro, senza riconoscere quelle stesse cose che lo limitano e lo contestano». Dobbiamo, ancora una volta, notare (cfr. cap. II, pp. 96-97 e n. 29) che nessuno dei due ci obbliga a trascurare l’importanza del destino familiare, sottolineato da Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, cit.; da Perrotta, Sofocle, cit. e anche da Segai, Tragedy, cit., p. 190. Infatti, come correttamente sostiene Lloyd-Jones, Guilt, cit. (cfr. cap. II, n. 29), il destino stesso si esplica attraverso azioni umane valutabili. Segai, Tragedy, cit., p. 160 fa osservare giustamente che uno degli errori di

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Creonte è il fatto di trascurare il passato: «La vita è centrata su un presente statico e conoscibile gnomicamente o su un futuro razionalmente calcolabile in termini di profitto (kerdos)». 22 Sugli occhi e sul vedere cfr. questo capitolo, pp. 161-164 e pp. 170172, 174; cfr. anche i capitoli VII e XIII. 23 Cfr. Segai, Tragedy, cit., p. 179 e n. 85, p. 447. 24 Cfr. Segai, Tragedy, cit., pp. 145, 166; Goheen, Imagery, cit., pp. 1419. Per l’uso delle immagini monetarie da parte di Creonte vedi i versi 175177, 220-222, 295-303, 310-312, 322, 325-326, 1033-1039, 1045-1047, 1055, 1061, 1063. Cfr. Goheen, Imagery, cit., pp. 14-19. 23 Per l’uso dell’immagine prima della rappresentazione di questa trage­ dia (441 a.C.) vedi Alceo, 6; Teognide, Elegie, 670-685; Eschilo, Sette a Tebe, 1 ss., 62, 109, 192, 780, 1068; Eumenidi, 16. Per gli usi successivi vedi, per esempio, Aristofane, La pace, 699; Platone, Repubblica, 389 d, 488 a 489 a; Eutidemo, 291 d; Politico, 302 a ss., 299 b; Leggi, 641 a, 758 a-b, 831 d, 945 c. Ma esistono molte altre testimonianze, che vengono discusse in Jebb, Anti­ gone, cit., ad loc.; Kamerbeek, Antigone, cit., ad loc.\ Goheen, Imagery, cit., pp. 44-51; P. Shorey, Note on Plato Republic 488 d, in «Classical Review», 20 (1906), pp. 247-248 e nel commento di T.G. Tucker, The Seven Against Tbebes of Aeschylus, Cambridge, 1908. Lo scoliasta ad Aristofane, Le vespe, 29 osserva che l’immagine è un luogo comune poetico. 26 Per l’argomentazione complessiva confronta Tucidide, II, 60 (cfr. orthoumenon); Democrito, DK 68 B 252. 27 Demostene, De Falsa Legatione, 246-250. Si noti che Eschine era ap­ parentemente il tritagonistes-, ciò implica che l’immagine secondo cui Creonte è l’«eroe» della tragedia non viene giustificata dalla pratica teatrale antica. 28 La stessa idea compare anche in Tucidide, II, 60, dove i fini della «città nel suo complesso» (politi xympasan) vengono implicitamente opposti ai fini individuali dei cittadini privati (kath'hekaston ton politoti). Mostrando che Eschine opponeva to kath’heauton al bene della totalità, Demostene mise in luce quelle possibilità di conflitto che erano sempre state latenti nell’imma­ gine. 29 Cfr. Aristotele, De anima, 413 a 9, dove chiedersi se l’anima sia l’en­ telechia del corpo come lo è il nocchiero della nave pone, in apparenza, una domanda sulla separabilità; si confronti anche 406 a 6, dove il marinaio nella nave viene impiegato come esempio di qualcosa che si muove per mezzo di un’altra cosa in movimento. 30 L’idea del sozein, del salvare la vita, e dell’escludere i pericoli esterni sono presenti sin dall’inizio in quest’immagine. Vedi l’esauriente discussione in Jebb, Antigone, cit., ad loc. e il passo citato nella n. 25. 31 Sulla presenza del maschile e del femminile nella tragedia vedi so­ prattutto Segai, Tragedy, cit., § X. 32 Ai versi 201-202 Creonte sembra assimilare Polinice ad un animale; ai versi 775-776 egli pensa di lasciare della pastura per Antigone. Su questa assimilazione dell’umano all'animale vedi Segai, Tragedy, cit., § II e Goheen, Imagery, cit., pp. 26 ss., che nota come Creonte sia pressoché il solo perso­ naggio che usi immagini animali per le situazioni umane.

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33 Cfr. anche il paragone implicito che Creonte traccia tra Emone e un animale domestico: Paidos me sainei phthoggos, «La voce di mio figlio mi sa­ luta con guaiti festosi» (v. 1214). Goheen, lmagery, cit., pp. 34-35 commenta con grande sensibilità questo verso. (Si noti che questo verso, sebbene citato verso la fine del dramma, fa riferimento ad un momento anteriore al cambia­ mento di Creonte che descriveremo in seguito.) 34 Al verso 1175 il nunzio dice: «Emone è morto: e non per mano di estranei cola il suo sangue (haimassetai)». Cfr. anche v. 794. Vedi inoltre Knox, Heroic Temper, cit., p. 88 e n. 54 e Santirocco, Justice, cit., p. 184. 35 phrenes jn Sofocle è connesso principalmente al giudizio e alla ra­ gione pratica. Vedi Ellendt, Lexicon Sophocleum, cit. A titolo di esempio si vedano: Aiace, 445; Filottete, 1113; Edipo Re, 528; Antigone, 298, 492, 603, 792 e, soprattutto, 1015. 36 In questo passo viene rovesciata l’immagine dell’addomesticamento degli animali. Vedi Goheen, lmagery, cit., pp. 31-32; Segai, Tragedy, cit., p. 159. Su Euridice vedi Santirocco, Justice, cit., p. 194. 37 Cfr. supra, n. 7. 38 Cfr. Benardete, A reading, cit., 1.1; Knox, Heroic Temper, cit., p. 79. La parola autadelpbon, «fratello proprio» è carica di valenze emotive e viene usata due altre volte nella tragedia, sempre a proposito di Polinice: una volta da Antigone (w. 502-504) e una volta da Emone, per riassumere il discorso dell’eroina (w. 694-699). 39 Cfr. Benardete, A reading, cit., 2.4. 40 Vedi i w. 10, 11, 73, 99, 847, 882, 893, 898-899. Cfr. Benardete, A reading, cit., 8.6, 9.5; Segai, Tragedy, cit., p. 189; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 129 ss.; Knox, {demie Temper, cit., pp. 79-80. 41 Molti critici hanno affermato che Antigone è spinta da un profondo amore per la persona di Polinice: per esempio, Santirocco, Justice, cit., p. 188; Knox, Heroic Temper, cit., pp. 107 ss.; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., p. 130. Si confronti questa posizione con gli argomenti decisamente negativi di Perrotta, Sofocle, cit., pp. 112-114; Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, cit., p. 116; Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 250. Perrotta corret­ tamente osserva che ella ama Polinice non in quanto Polinice, ma perché ciò costituisce un dovere familiare. Antigone è animata esclusivamente dalla sua passione per i doveri della religione familiare e non dalla tenerezza verso gli individui: «Questa terribile eroina non è la donna d’amore che molti hanno voluto vedere in lei». Possiamo confrontare il suo compianto freddo ed astratto, per esempio, con il lamento straziante di Ecuba (nelle Troiane di Euripide, cfr. cap. X, pp. 571 ss.) sul corpo del nipote, dove ogni parte del corpo amato fa emergere un nuovo, sentito ricordo. I casi simili sono molti. 42 Cfr. Perrotta, Sofocle, cit., p. 112. Dobbiamo attribuire il verso «Ca­ rissimo Emone, come ti disprezza tuo padre!» (v. 572) a Ismene secondo la lezione di tutti i manoscritti. Pearson e altri editori l’hanno assegnato ad An­ tigone, perché desideravano che ella dicesse qualche parola affettuosa a Emone. Ma philtate, «carissimo», non è particolarmente forte entro la cer­ chia ristretta della famiglia e si addice perfettamente agli affetti di Ismene; infatti non deve necessariamente indicare neppure uno stretto vincolo affet­ tivo. Creonte risponde che il continuo riferimento al matrimonio lo «irrita» e

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questa reazione corrisponde alla sua relazione con Ismene (che in ogni caso è colei che «insiste» sul matrimonio), ma è troppo debole per esprimere il suo profondo odio e la sua ira verso Antigone. Vedi le argomentazioni di Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 209 e Benardete, op cit. 43 Sul rifiuto dell 'eros da parte di Antigone vedi Vernant, Tensioni ed ambiguità, cit., pp. 21-22; Benardete, A reading, cit., 8.6; confronta Segai, Tragedy, cit., § Vili. Vernant giustamente scrive: «Ma le due divinità (re. Dioniso ed Eros) si ritorcono anche contro Antigone, chiusa nella sua philia familiare, votata volontariamente ad Ade, perché fin nel loro legame con la morte Dioniso ed Eros esprimono le potenze di vita e di rinascita. Antigone non ha saputo intendere l’invito a staccarsi dai “suoi” e dalla philia familiare per aprirsi all’altra, accogliere Eros e, nell’unione con un estraneo, trasmet­ tere a sua volta la vita». 44 Questo discorso è notoriamente controverso. Sicuramente sarebbe stato bollato come spurio se Aristotele non l’avesse citato nella Retorica-, que­ sta circostanza lo fa risalire così lontano nel tempo che, se è spurio, non può essere che l’interpolazione di un attore. Ma è difficile immaginare che un at­ tore si inventi un discorso così legalistico e freddo in uno dei momenti sa­ lienti dell’azione drammatica. Quindi, nonostante i desideri espressi da Goe­ the, è quasi sicuramente genuino; ed è molto difficile spiegarlo come uno sfogo incoerente e confuso di passione amorosa — sebbene qualche critico abbia seguito questa via (p.e. Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 145 ss.; Knox, Heroic Temper, cit., pp. 144 ss.). Questa fredda gerarchia dei do­ veri si spiega se si pensa che Antigone non sia per nulla animata dall’amore verso le persone, ma dalla rigida determinazione a possedere un insieme fisso di principi ordinati, capaci di dettare le sue azioni senza generare conflitti; il suo rifiuto della componente erotica (cfr. supra, n. 43) è, quindi, sufficiente per spiegare il fatto che ella sceglie il fratello. Per ricostruire la controversia sull’autenticità e sul nesso di questo passo con Erodoto, III, 119 vedi Hester, Sophocles thè unphilosophical, cit., pp. 55-88; Jebb, Antigone, cit., Appen­ dice, pp. 258-263; Muller, Antigone, cit., pp. 198 ss., 106 ss.; Knox, Heroic Temper, cit., pp. 103-106; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 145 ss. Vedi anche D. Page, Actors' Interpolations in Greek Tragedy, Oxford, 1934. 45 Vedi Benardete, A reading, cit., 9.3. 46 Vedi Knox, Heroic Temper, cit., pp. 94 ss.; Segai, Tragedy, cit., § Vili. Winnington-Ingram, Sophocles, cit., p. 132 ritiene che il modo nel qua­ le Antigone nega l’odio reciproco dei fratelli dopo la morte sia un «decreto eroico», «lo sforzo supremo di imporre la volontà eroica ad un mondo recal­ citrante». 47 Sulla concezione della dike nutrita da Antigone e sulla sua novità vedi R. Hirzel, Themis, Dike und Verwandtes, Leipzig, 1907, pp. 147 ss.; vedi an­ che Santirocco, Justtee, cit., p. 186; Segai, Tragedy, cit., p. 170. 48 Segai, Tragedy, cit., discute questa convinzione di Antigone con grande acume ed in molti luoghi, soprattutto pp. 156 s., § Vili, p. 196. 49 Vedi soprattutto i w. 810-816, 867, 876-880, 891, 916-918. 50 Cfr. i w. 842-849, 876-877, 881-882. 51 Cfr. supra, pp. 137-140 e n. 14. 52 L’importanza di questo collegamento con il mondo della natura e con

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la sua cedevolezza viene colta da Segai, Tragedy, cit., pp. 154 ss., che cita i w. 423-425 e 433. 53 Cfr. A.C. Bradley, Hegels Theory of Tragedy, in «Oxford Lectures on Poetry», London, 1950, pp. 69-95 ristampato in Hegel on Tragedy, a cura di A. e H. Paolucci, New York, 1975, pp. 367 ss. 54 G.W.F. Hegel, Vorlesungen uber die Aesthetik (1836-1838), trad. it. Estetica, Milano, 1978, pp. 1607 e 1610. 55 Cfr. supra, n. 8. 56 Per uno sviluppo affine della stessa idea vedi Nussbaum, Crystals, cit. 57 Le mie osservazioni sulle liriche sono molto vicine alle considerazioni di Goheen, Linforth e Segai. Un altro studio dal quale ho appreso molto è A. Lebeck, The Oresteia, Cambridge, MA, 1971. 5S Questo confronto illuminante venne proposto per la prima volta da F. Nietzsche, Die Geburt der Tragòdie (1872), trad. it. La nascita della trage­ dia, Milano, 1972. (Bisogna ricordare che secondo gli antichi i sogni riguar­ dano sia il futuro sia il passato.) 59 I termini «densità» e «risonanza» vengono discussi ed approfonditi nell’eccellente analisi dello stile sviluppata da C.H. Kahn, The Art and thè Thought of Heraclitus, Cambridge, 1979, soprattutto pp. 87-95. 60 DK 22 B 67 a. Per l’interpretazione di questo frammento e per la di­ fesa della sua autenticità vedi il mio Psyché in Heraclitus, I, in «Phronesis», 17(1972), pp. 1-17. 61 Cfr. capitolo XII e Intermezzo 2. 62 Sul parodo vedi soprattutto Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 188; Benardete, A reading, cit., 11.4; Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 112 ss.; Segai, Tragedy, cit., § XIV. Per quanto riguarda il testo vedi H. Lloyd-Jones, Notes on thè Sophocles' Antigone, in «Classical Quarterly», n.s. 7 (1957), pp. 12-27; egli difende Yoxytoroi dei manoscritti al verso 108 ed in­ terpreta il colpo in modo metaforico, come se fosse il colpo della necessità o di Zeus. 65 Quest’idea viene ulteriormente sviluppata nel capitolo VI, dove pren­ diamo in considerazione l’affermazione di Diotima secondo cui la «vista del corpo» e la «vista dell’anima» si escluderebbero a vicenda, nel capitolo XIII, dove discutiamo le connessioni tra la vista e la philia, e nel capitolo X, dove esaminiamo l’asserzione aristotelica secondo cui «la discriminazione sta nella percezione». Sulle associazioni simboliche tra gli occhi e la visione nella cul­ tura greca e in quelle affini vedi W. Deonna, Le Symbolisme de l’oeil, Paris, 1965; per altre testimonianze antiche vedi capitolo XIII, n. 27. M Cfr. anche w. 2 15, 314, 325, 406, 562 e 581. 65 La mia interpretazione di questa ode è fortemente indebitata nei con­ fronti di Segai, Sophocles' praise, cit. che ha largamente contribuito alla na­ scita di queste mie riflessioni, sebbene io enfatizzi nell’ode aspetti differenti. Più recentemente ho approfittato dell’analisi delle immagini presente nel più ampio lavoro di Segai e ho imparato molto anche dall’acuta ricostruzione di Goheen. Si vedano anche Ronnet, Sophocle, cit., pp. 151 ss.; Linforth, Anti­ gone and Creon, cit., pp. 196-199; Benardete, A reading, cit.

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66 Sul progresso attraverso le arti o le technai e su altri racconti affini, ri­ guardanti la scoperta delle arti, vedi capitolo IV. 67 L ’ode sull’eros viene discussa da Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 92-98; cfr. anche Benardete, A reading, cit., 44.6; Santirocco, justice, cit., p. 191; Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 221. 68 Confronta le orgas eumeneis degli dei al v. 1200, dove Creonte com­ pie la sepoltura. 69 Sulla collera e sulla vendetta vedi capitolo XIII. 70 Vedi Winnington-Ingram, Sophocles, cit., pp. 98-100; Linforth, Antigone and Creon, cit., pp. 231-233; Goheen, Imagery, cit., pp. 64-74 e so­ prattutto Segai, Tragedy, cit., pp. 182 ss., secondo il quale la grotta potrebbe simboleggiare il mistero solitario rifiutato da Creonte. Sulla seconda anti­ strofe vedi Lloyd-Jones, Notes, cit., pp. 24-27. 71 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung (18593), trad. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, 1979“’, vol. Il, pp. 341-342. 72 Cfr. Segai, Tragedy, cit., pp. 154 ss. 73 Cfr. capitolo X. 74 Cfr. Segai, Tragedy, cit., p. 201. 75 Ibidem, passim. 76 Cfr. capitolo XIII per quanto riguarda il nomos (con riferimenti). 77 Su quest’ode vedi soprattutto Segai, Tragedy, cit., pp. 202 ss., verso cui ho un grande debito; vedi anche Linforth, Antigone and Creon, cit., p. 238; Santirocco, Justice, cit., p. 192. 78 Per quanto riguarda questo capitolo sono in debito con diverse gene­ razioni di studenti e di assistenti: in special modo con Janet Hook, Nick Pappas, Gail Rickert e Nancy Sherman. Sono grata anche a Stanley Cavell, con il quale ho tenuto lezioni su questo materiale e a Barry Mazur che è stato il primo ad ascoltare le idee che sarebbero confluite nella parte finale. Devo la mia gratitudine anche a Mary Whitlock Blundell e a Lowell Edmunds per i loro suggerimenti.

Conclusione

La nostra discussione sulla tragedia è sinora sempre partita dalla seconda questione, quella concernente la pluralità dei va­ lori e la possibilità del conflitto tra di loro. Questo tuttavia ci ha portati a trattare la prima questione, quella sulla vulnerabi­ lità di certi valori considerati singolarmente, e anche la terza, incentrata sul potere distruttivo delle passioni. Stando ai nostri risultati, infatti, alcuni valori singolarmente molto vulnerabili rappresentano pericolose fonti di conflitto e occasioni per l’a­ gitarsi delle passioni; e gli stratagemmi per eliminare il con­ flitto rendono ciascuno di essi più saldo nei propri diritti. (Queste connessioni saranno approfondite nei capitoli succes­ sivi, specialmente nel capitolo IV, pp. 236-237; nel capitolo V, § 3; nel capitolo VI, pp. 354-355 e 375-377; nel capitolo VII, pp. 420-421). Il nostro discorso potrebbe, tuttavia, apparire più simmetrico e sistematico se, a questo punto, dedicassimo un intero capitolo alla percezione tragica della vulnerabilità dei valori individuali, come l’amore, l’amicizia, l’impegno politico. Non faremo così per due ragioni. In primo luogo il capitolo XIII, leggendo una tragedia (euripidea), si interroga sulla fra­ gilità della vita buona provocata dalla dedizione all’amore e ai valori sociali. Il lettore interessato a seguire questa tematica può leggere subito questo capitolo, la cui argomentazione non si basa in nessun modo sui prossimi materiali. Esso inoltre svi­ luppa alcuni motivi del capitolo III: la relazione tra la sicurezza e l’amore, tra l’ambizione all’invulnerabilità e la volontà di ri­ vincita; l’importanza degli occhi, del vedere e della cecità nella esplorazione della fragilità umana; il modo in cui una persona buona è e non è simile ad una pianta. Il capitolo è collocato alla fine perché mostra con grande chiarezza come Aristotele «ritorni» alla concezione della vita umana tipica delle tragedie. In secondo luogo la concezione della vulnerabilità svilup-

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lore non è, o non dovrebbe essere, profondamente tragica: che è, o dovrebbe essere, possibile eliminare il rischio della situa­ zione tipicamente tragica senza essere colpevoli di negligenza o senza subire una perdita grave. La tragedia rappresenterebbe, quindi, uno stadio primitivo o ottenebrato della vita e del pen­ siero etici. Per comprendere come la tragedia tratti questa idea dob­ biamo, evidentemente, interpretare un dramma intero, consi­ derando in che modo esso analizzi «una vita intera»4 e come venga valutata la vicenda. L 'Antigone di Sofocle sembra essere una scelta appropriata per questo progetto. Infatti questo dramma esamina due diversi tentativi di chiudere il conflitto e di eliminare la tensione semplificando la struttura dei principi e degli affetti. Il dramma si chiede che cosa motivi questi tenta­ tivi; come essi si trasformino nel momento della crisi tragica; e, infine, se si debba cercare la saggezza pratica in una strategia di questo tipo o in un approccio al mondo totalmente diffe­ rente. L ’Antigone5 è un dramma sulla ragione pratica e sul modo in cui la ragione pratica ordina o vede il mondo. H suo testo è straordinariamente ricco di termini che indicano deliberazione, ragionamento, conoscenza e visione6. Inizia ponendo la do­ manda «Sai?» (v. 2) in relazione ad una crisi pratica e indi­ cando il modo corretto di considerare la situazione. Finisce af­ fermando che la saggezza pratica (to phronein) è la parte più importante del buon vivere umano (eudaimonia, w. 13481349). Il dramma riguarda anche l’insegnare e l’imparare, il cambiare la propria visione del mondo, il perdere la presa su ciò che sembrava una verità sicura e l’imparare un tipo di sag­ gezza più elusiva. All’inizio, davanti ad un caso complicato, viene rivendicata fiduciosamente la conoscenza, alla fine si ar­ riva al «Non so, ahimè sventurato, / dove io guardi, a quale dei due, dove volgermi» e si constata la presenza di una forma di saggezza nuova e meno sicura (v. 1353). Ciascun protagonista nutre una particolare visione sul mondo delle scelte, tesa a prevenire i conflitti pratici più gravi; ciascuno ha un modello deliberativo semplice e su di esso svi­ luppa un insieme di interessi chiaramente ordinati. Ciascuno, inoltre, affronta i problemi della scelta con una sicurezza ed una stabilità inconsuete; ciascuno sembra straordinariamente inaccessibile ai danni della fortuna. E tuttavia ci rendiamo

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conto che entrambi i protagonisti hanno una visione in qualche modo riduttiva. Ognuno di essi non sa riconoscere qualche elemento, nega alcune richieste, chiama talune situazioni con nomi secondari o falsi. Uno dei due è molto più corretto per quanto riguarda i contenuti della propria decisione, ma en­ trambi pongono dei limiti alla loro visione7. Dobbiamo inter­ rogarci su questa limitazione e su come essa venga criticata. Non sarà sufficiente indagare soltanto le ambizioni e le manchevolezze dei due protagonisti, anche se questo sarà sicu­ ramente un inizio necessario. Secondo una famosa interpreta­ zione di questo dramma, quella data da Hegel, la tragedia stessa va infatti oltre i limiti dei protagonisti e suggerisce la base per una sintesi libera dal conflitto degli opposti valori. I personaggi risolvono le tensioni nel modo sbagliato, ma il dramma ci mostra come risolverle nel modo giusto8. Dob­ biamo, quindi, valutare la lettura di Hegel alla luce dell’intero dramma e, in particolare, delle sue parti corali. Questo implica che dobbiamo indagare come Sofocle tratti il problema dell’at­ tività e della passività, del fare e dell’essere fatto, del coman­ dare e dell’obbedire; in breve, dobbiamo scoprire come egli narri le strane avventure della ragione pratica faccia a faccia con il mondo. Possiamo trovare un accenno a queste avventure nella pa­ rola greca deinon. Non è possibile tradurre questa parola con un unico termine. In generale, essa viene usata per ciò che ispira terrore o meraviglia. Ma in altri contesti può essere im­ piegata per esprimere lo splendore abbagliante dell’intelletto umano, per la mostruosità di un male o per il potere terribile del fato. Ciò che è deinon è in qualche modo strano, fuori po­ sto; la sua stranezza e la sua capacità di ispirare terrore sono in­ timamente connesse. (Il vocabolo è etimologicamente affine a deos «paura» e può essere confrontato con il francese formida­ ble.) Deinon spesso implica una disarmonia: qualcosa è in di­ saccordo con il suo ambiente, o con quello che ci si aspetta o che si desidera. Ci sorprende, in meglio o in peggio. Giacché le connotazioni della parola sono così varie, essa può venire usata da un personaggio per formulare apparentemente una lode, mentre possiamo scorgere un ironico accenno a qualcosa di or­ ribile. «Molte sono le cose deina, ma nessuna / è più deinon del­ l’uomo.» L ’inizio dell’ode corale sull’essere umano contiene, come vedremo, una lode profondamente ambigua. Ma ugual-

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mente ambigua è la conclusione apparentemente disperata: «Ma la potenza del fato è deinon» (v. 952). L ’essere umano, emozionante e meraviglioso, può riuscire anche mostruoso nella sua ambizione di semplificare e controllare il mondo. La contingenza, oggetto di terrore e di ripugnanza, allo stesso tempo può diventare meravigliosa ed entrare a far parte di ciò che rende la vita umana bella o emozionante. La parola si adatta, quindi, bene ad essere un termine centrale in un dramma che intende investigare la relazione tra bellezza e di­ sarmonia, tra valore ed esposizione alla fortuna, tra eccellenza e sorpresa. Possiamo intendere VAntigone come una indagine sul deinon in tutta la sua sfuggente molteplicità. 1. Poiché ci interrogheremo sulle diverse concezioni della deliberazione manifestate òAYAntigone, cominciamo con un personaggio che sta deliberando e che non sa che cosa fare. Cammina sul palcoscenico strascicando i piedi; la riluttanza e la confusione sono evidenti nella sua faccia semplice e nei suoi gesti: Signore, non dirò che giungo ansante in gran fretta, con rapidi passi. Invece ho fatto molte soste per riflettere, volgendomi lungo la strada per tornare indietro; poiché l’animo molte cose mi diceva: «M isero, perché corri là dove al tuo arrivo sarai punito? Disgraziato, ti fermi ora? E se Creonte verrà a sapere la cosa da un altro, come non avrai a soffrirne?». Tali pensieri volgendo, procedevo lenta­ mente fra gli indugi: in questo modo anche un breve cammino di­ venta lungo. Infine prevalse comunque di venire da te [...]. Vengo in­ fatti aggrappato alla speranza che non mi accadrà altro, tranne quanto è destinato (w . 223-236).

Questa è una vivace descrizione di una deliberazione pra­ tica ordinaria. Molte persone tra il pubblico potrebbero rico­ noscere in questo racconto una situazione della loro vita quoti­ diana. Quest’uomo è in difficoltà perché non sa decidere tra due alternative spiacevoli. La sua anima formula argomenti per entrambi i lati della questione ed egli non può evitarli. La divi­ sione della sua mente viene mimata dal suo corpo che si volge ora di qua ora di là, mentre cammina avanti e indietro sulla via. Non alcuna teoria della decisione, né una chiara cognizione dei suoi processi decisionali. Tutto ciò che sa è che alla fine una soluzione «prevalse». Nel suo persistente sconforto la sua

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unica consolazione è il pensiero che accadrà ciò che deve acca­ dere. Per molti aspetti quest’uomo non può essere un essere umano modello. Egli è profondamente codardo e rozzamente egoista. Ma la sua narrazione, piena di modesti dettagli, ci ri­ porta alla realtà fisica — al caldo, allo sporco, agli odori sgra­ devoli — di cui i caratteri eroici non parlano. E similmente la sua confusione, la sua consapevolezza che ci sono sempre due lati nelle questioni deliberative — assieme alla sua convinzione sull’importanza di ciò che sta accadendo — ci riporta al pro­ fondo sconforto presente nella deliberazione ordinaria. Uno spettatore che ascolti quest’uomo subito dopo aver ascoltato Antigone e Creonte si convincerebbe che alle deliberazioni di quelle grandi figure mancano proprio questi elementi tipici del pensiero pratico quotidiano, proprio come mancano la polvere dell’estate e il fetore della corruzione. Entrambi i protagonisti rivendicano il possesso della conoscenza pratica9. In entrambi i casi si tratta di una conoscenza la cui «verità» permette loro di evitare continuamente le angosciose incertezze della guar­ dia. Come possono, ci chiediamo, allontanarsi tanto dalla espe­ rienza ordinaria ed arrivare ad un punto dove le preoccupa­ zioni di tutti i giorni sembrano appartenere soltanto ad una fi­ gura vile e comica, ad un popolano e non ad un re? 2. Le prime parole di Creonte annunciano la salvezza della città dopo il grande pericolo e riconoscono (v. 166) nel coro un gruppo di uomini rimasti fedeli «con saldo animo», nel corso degli anni, al governo ed ai suoi interessi (v. 169)l0. Come il coro (w. 1347-1348) e come l’indovino Tiresia, anche Creonte crede ed afferma che la cosa più importante che un uomo possa avere è la saggezza pratica, ovvero l’eccellenza nella deli­ berazione (w. 1050-1051), mentre la cosa più dannosa è la mancanza di saggezza (v. 1051). Questa lode, che paragona la lealtà civile degli anziani alla salute della mente, non è fortuita: per Creonte la mente sana è appunto completamente devota alla salvezza della città e al benessere civico “ . L ’attacco di An­ tigone ai valori civici viene interpretato come un segno di in­ fermità mentale (v. 732). Allo stesso modo la simpatia di Ismene si rivela «fuori di senno» (w. 492, 561-562; cfr. v. 281). Emone viene pregato di non «perdere mai la ragione» (w. 648649) per seguire le convinzioni «malate» di Antigone. (Nel mo-

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mento cruciale dell’azione Tiresia volge contro lo stesso Creonte il suo linguaggio connesso alla salute mentale. Parlando a propo­ sito della mancanza di saggezza pratica, egli dice: «D i questo morbo, certo, tu sei pieno per natura», v. 1052; cfr. v. 1015.) E se, inoltre, esaminiamo le occasioni nelle quali Creonte pre­ tende di sapere qualcosa del mondo, sembra che per lui non ci sia nessuna conoscenza o saggezza pratica al di fuori della sem­ plice conoscenza della mente sana, la quale afferma la supre­ mazia del bene della città12. Alla luce delle sue convinzioni Creonte è sicuramente un uomo dalla mente sana. Egli ha ereditato e usa molti e vari vo­ caboli valutativi: «buono» e «cattivo», «onorevole» e «vergo­ gnoso», «giusto» e «ingiusto», «amico» e «nemico», «pio» ed «empio». Tutte queste coppie corrispondono alle più comuni etichette che un ateniese del quinto secolo avrebbe usato per demarcare il mondo della pratica. E per il pubblico normale presente alla rappresentazione de\YAntigone queste etichette identificano caratteristiche del mondo etico distinte e separate. Una singola azione o una sola persona di solito possiedono di­ versi attributi identificati da quei termini — dal momento che in molti casi essi si uniscono armoniosamente. Ma essi possono essere presenti anche separati; e anche quando sono compre­ senti rimangono distinti per la loro natura e per le risposte che presuppongono. Molti amici possono risultare giusti e pii; ma la qualità di amico è distinta da quella di giusto e di pio. Per­ ciò, secondo le aspettative ordinarie, in alcune circostanze im­ maginabili i valori riportati da queste tabelle possono produrre richieste conflittuali. L ’amicizia o l’amore possono richiedere un’ingiustizia; il corso giusto di un’azione può portare all’em­ pietà; la ricerca dell’onore può pretendere un’offesa alla amici­ zia. E non possiamo neppure pensare che ciascun valore sia privo di conflitto interno. Infatti la giustizia della città può col­ lidere, come riconoscerà il coro, con la giustizia degli dei in­ feri; e la pietà verso una divinità può implicare offese contro un altro dio. In generale, dunque, vedere chiaramente la natura di ciascuna di queste qualità significa comprendere come cia­ scuna di esse sia distinta da tutte le altre, come possa combi­ narsi con le qualità opposte alle altre ed anche con il suo stesso opposto. Per uno spettatore che abbia all’incirca questa visione del mondo la situazione di Creonte in questo dramma dovrebbe

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far nascere alcuni urgenti interrogativi sul conflitto tra i valori principali Infatti Polinice è un parente stretto della famiglia di Creonte. Quest’ultimo ha anche un profondo obbligo reli­ gioso di seppellire il cadavere. E tuttavia Polinice era un ne­ mico della città; e non un semplice nemico, bensì un traditore. I corpi dei nemici potevano essere restituiti ai loro parenti per ricevere gli onori della sepoltura; ai traditori non era riservata tutta questa considerazione. Sebbene la legge apparentemente non proibisse ai parenti dei traditori di provvedere ai loro fu­ nerali fuori dell’Attica, la sepoltura in territorio attico era rigo­ rosamente proibita; la città stessa si incaricava di depositare il corpo insepolto fuori dei confini. Fare qualcosa di più avrebbe voluto dire sovvertire i valori della città onorando il tradi­ mento. Perciò, in quanto rappresentante della città, Creonte deve curare che il cadavere di Polinice non venga onorato — sebbene non si pretenda che egli giunga all’estremo di proibire o di impedire la sepoltura ad una considerevole distanza dalla città. E tuttavia, in quanto membro di una famiglia, egli sottostà all’obbligo irrevocabile di promuovere o di organizzare la sepoltura l4. Il pubblico si aspetta, dunque, di trovare in Creonte una tensione estremamente dolorosa tra questi due ruoli e doveri. Quanto deve essere sorpreso a vedere una completa assenza di tensione o di conflitto, assicurata da una «sana» risistemazione delle valutazioni. Infatti, se esaminiamo il modo in cui Creonte usa i termini etici fondamentali, scopriamo che egli li stravolge e li sottrae al loro impiego ordinario. Essi vengono applicati alle cose ed alle persone soltanto in virtù della loro connes­ sione con il benessere della città, che per Creonte è il solo bene intrinseco. Egli usa tutto lo spettro del tradizionale vocabola­ rio etico — ma non nel modo tradizionale. Queste parole non nominano più qualità del mondo, separate dal bene generale della città ed in potenziale conflitto con esso, perché Creonte non ammette l’esistenza di beni separati. Attraverso questa strategia di aggressiva revisione egli si assicura la sincerità e l’assenza di tensioni. Si comporta come se potesse chiamare le cose con i nomi che più lo soddisfano, come se potesse vedere solo quelle qualità del mondo che il suo «ethos personale» richiede. In questo modo, buone e cattive, agathon e kakon, diven­ gono per Creonte (contro la tradizione, dal momento che tali

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qualità hanno un forte legame con l’eccellenza personale) solo quelle persone e quelle cose che sono buone o cattive per il be­ nessere della città. Uomo «pessimo» (kakistos) è chi, per inte­ resse personale, rifiuta di mettere a disposizione della città le proprie abilità (v. 181). «I cattivi» (boi kakoi) vengono con­ trapposti a «chi è devoto a questa città», come se si trattasse di una opposizione radicale (vv. 208-209; cfr. w. 212, 284, 288). Come esempio di donna malvagia (kake) Creonte cita Anti­ gone, colpevole di essere cattiva verso la città. Anche tra i morti vi sono buoni e cattivi (cfr. w. 209-210) e i «migliori» sono coloro che saluteranno con gioia Eteocle, il re ed il cam­ pione della città, che fece «gran prova di valore con la lancia». Dare sepoltura al nemico della città vorrebbe dire, nel suo ra­ gionamento, riservare la stessa sorte ai buoni (chrestoi) e ai cat­ tivi (kakoi) (v. 520). In un’altra occasione egli ribadisce che gli dei certamente non onorano i cattivi (kakous, v. 288), cioè i ne­ mici della città 15. Anche l’onore e il rispetto spettano secondo Creonte sola­ mente a coloro che vengono in aiuto alla città, mentre la vergo­ gna è associata esclusivamente a chi rifiuta le responsabilità pubbliche. Dopo aver lodato i coreuti per il loro costante ri­ spetto (sebein), egli dichiara esplicitamente la sua politica in materia di onore: Questo è il mio pensiero: e mai i cattivi cittadini (kakoi) avranno da parte mia più onore (time) dei giusti (endikon). Ma chi è devoto a questa città, morto o vivo egualmente sarà onorato (timesetai) da parte mia (vv. 207-210).

La cura con cui Creonte enuncia questa politica indica che egli è consapevole del fatto che sta dicendo qualcosa di nuovo, qualcosa che non tutti saranno pronti ad accettare. In seguito veniamo a sapere che, a parere di molti concittadini, meritano onore anche coloro che disonorano la città, se ciò avviene men­ tre essi perseguono dei fini onorevoli (vv. 730-733). Il rispetto tributato da Creonte al bene della città e ai suoi strumenti ge­ nera, secondo quei concittadini, un conflitto con altri doveri degni di rispetto. «Dunque sono colpevole, se rispetto il mio potere?», chiede Creonte al figlio (v. 744). La risposta è: «Ma non lo rispetti (ou sebeis), calpestando gli onori (timas) dovuti agli dei». Creonte, tuttavia, attacca la visione che genera il con-

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flitto: «Ed è una bella azione onorare (sebein) i ribelli?» (v. 730). Egli ribadisce che la disubbidienza di Antigone non è né rispettosa, né degna di rispetto, ma è «vergognosa» (v. 510) e rappresenta «un onore empio» (v. 514). Non ci stupiamo, quindi, se scopriamo che Creonte ha un’idea ugualmente limitata anche sulla giustizia16. Le sole ri­ vendicazioni che vengono attribuite alla giustizia sono quelle che vanno a vantaggio della città, gli unici agenti giusti sono quelli che agiscono al servizio della città. Nel suo discorso sul rispetto dovuto ai benefattori e ai malfattori, l’aggettivo «giu­ sto» (endikos) viene usato come equivalente di «devoto alla città». L ’indovino Tiresia, quando predice le future disgrazie del governo, viene accusato di commettere un’ingiustizia; l’ac­ cusa di ingiustizia che Emone proferisce contro il padre viene rifiutata facendo appello al rispetto dovuto al governante e al suo potere (v. 744)17. Creonte dichiara al figlio che giusto è quell’uomo che nella città cerca il benessere della totalità e sa come governare e come essere governato (w. 662-669). Que­ sto discorso di autodifesa si conclude con una affermazione rivelatrice: E un tale uomo sono sicuro che comanderebbe bene e sarebbe disposto ad obbedire, e nel turbine della battaglia rimarrebbe fermo al suo posto, da compagno giusto e buono (dikaion kagathon parastaten) (w. 668-671).

Qui «giusto» e «buono» non sono semplicemente attributi dell’uomo, bensì dell’uomo in quanto difensore della città. Non possono sussistere indipendentemente; essi fungono sol­ tanto da aggettivi di lode per l’attaccamento alla città. Ma Creonte usa sempre così questi aggettivi: «buono» vuol dire «buono nel difendere la città», «giusto» vale semplicemente «giusto nell’adempiere ai propri doveri verso la città». Non sorprende che nei suoi discorsi (dove kakos è opposto più a en­ dikos che a agathos e, a propria volta, endikos viene sostituito con «devoto alla città») vengano meno le ordinarie distinzioni tra le virtù. Solo un tipo di eccellenza umana è degno di essere lodato: l’utilità per il benessere della città. Tutte le parole che indicano eccellenza hanno la funzione di segnalare la presenza di questa virtù. (La dottrina sull’unità delle virtù elaborata nel Protagora nasce, come vedremo, da una strategia simile.)

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Ma la parte più audace della revisione intrapresa da Creonte non è la ridefinizione del giusto e del buono, che già manifesta una forte associazione con i valori della città, bensì è la violenta ridislocazione dei valori sui quali si fondano gli oppositori della sua politica: l’amore 18 e la pietà religiosa. Creonte fa parte di una famiglia ed ha, perciò, una serie di obbligazioni vincolanti verso numerose persone o philoi*. Uno di questi phtloi della famiglia è il figlio che egli, nelle nostre aspettative, dovrebbe amare. Creonte vede Antigone violare una norma della città per amore del fratello ed egli stesso ha doveri fami­ liari e religiosi verso il cadavere abbandonato. Ma, nel mo­ mento della deliberazione, egli è deciso a nascondere le richie­ ste dei legami familiari e di quelli affettivi, almeno sin tanto che essi collidono con gli interessi della città. In questo dramma sui fratelli, sui doveri verso i fratelli e sulla opposizione tra i fra­ telli, Creonte, il fratello di Giocasta, il cognato di suo nipote, usa per la prima volta la parola «fratello» in una maniera molto curiosa. La impiega, infatti, per indicare la stretta relazione tra i decreti della città: «Ed ho proclamato un bando che è fratello di quanto precedeva» (v. 192). Creonte, come Eteocle, ma con molta più persuasione e sottigliezza, tenta di sostituire i legami di sangue con i vincoli deH’amicizia tra concittadini. I conflitti tra famiglia e città non possono sorgere, se la città è la famiglia, se l’unica nostra famiglia è la città. (Platone fu il primo ad in­ tuire l’importanza di questa idea per la teoria politica.) Ma, alla luce di questa idea, Polinice non sta in nessuna particolare re­ lazione con la famiglia di Creonte, se non nella relazione del nemico. «Ma il nemico (echthros) non è mai caro {philos), nep­ pure quando sia morto» (v. 522). I nostri vincoli personali, siano essi legami di sangue, sentimentali o l’uno e l’altro, pos­ sono essere riconosciuti ai fini della deliberazione solo se in qualche modo contribuiscono al bene supremo: «E non mi fa­ rei mai amico (philon) un uomo nemico della patria [...] e non tengo in alcun conto chi stima più importante della propria pa­ tria un philon» (w. 187 e 182-183). Secondo Creonte ci procu­ riamo (poioumetha, v. 190) i philoi stando al servizio della città. Egli riconosce soltanto i vincoli che ha scelto l9.

* Sul philos e sulla philia cfr. capitolo XI, p. 597 e capitolo XII, pp. 639 ss.

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Questo rifiuto è così efficace nel modellare l’immagina­ zione morale di Creonte che arriva a foggiare anche la sua con­ cezione dell’attrazione sessuale. Quando Creonte consiglia al figlio di non cedere alla sua passione per Antigone per non le­ garsi ad una donna «cattiva», non dice che bisogna resistere al piacere in vista del bene della città. Egli sostiene, invece, che in un uomo sano anche il piacere sessuale si trova associato solo al bene della città. Un uomo che non abbia «perso la ragione» troverà «gelido l’abbraccio» di una sposa non devota alla pa­ tria (w. 650-651). Non c’è motivo di supporre che Creonte non trovi Antigone particolarmente attraente, ma a suo avviso l’uomo che vede il mondo nel modo giusto non vede quel fa­ scino, non ne è avvinto. Chi è sano non si lascia catturare da nulla che possa far nascere un conflitto con il dovere verso la città, neppure dalle reazioni sessuali. Questa, secondo Creonte, è la saggezza pratica (v. 649). Il sapiente è colui che rifiuta di rico­ noscere cose che gli altri, gli uomini deboli, vedono tranquilla­ mente20. In precedenza Creonte aveva dato da intendere che un buon cittadino vede nella moglie soltanto la fertile genera­ trice di altri cittadini: se Emone non può sposare Antigone «Anche i campi di altre donne ci sono, da arare» (v. 569). Il pubblico avrà certamente riconosciuto in questa immagine il linguaggio del contratto di matrimonio ateniese: «Ti do mia fi­ glia per l’aratura dei figli legittimi». La posizione di Creonte si fonda sulle pretese familiari legittime e ignora le altre. Come ci possiamo aspettare, l’immaginazione di Creonte si rivolge anche agli dei e li trasforma in immagini coerenti con la sua domanda di ordine. A suo avviso le divinità hanno, devono avere, la mente sana, tipica del politico coscienzioso: Dici una cosa insopportabile, affermando che gli dei si danno pensiero di questo cadavere. Forse l’hanno seppellito onorandolo come un benefattore, lui che venne per incendiare i templi con tutte le loro colonne ed i doni votivi, e per distruggere la loro terra e le leggi? Hai mai visto gli dei onorare i malvagi? Non è possibile (w.

282-289). Creonte, seguendo il proprio modo di sentire, deve respin­ gere l’asserzione che siano stati gli dei ad onorare Polinice e non solo perché ciò è falso, ma perché è intollerabile. Questa eventualità impone una tensione eccessiva alla razionalità deli-

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berativa. La mente, che pretende di trovare armonia ed ordine nella vita, detta ciò che la religione può o non può essere e ri­ fiuta il limpido racconto della guardia21. Subito viene invocato il nome di Zeus per rafforzare la promessa di catturare il colpe­ vole (w. 304 ss.). La sepoltura del cadavere è un «onore em­ pio» (v. 514). Ci coglie, così, il sospetto che l’ambiziosa razio­ nalità di Creonte voglia divinizzare se stessa. Creonte si è, quindi, costruito un mondo della delibera­ zione nel quale la tragedia non può entrare. Non possono in­ sorgere conflitti insolubili perché c’è un solo bene supremo e tutti gli altri valori sono in funzione di questo bene. Se io di­ cessi a Creonte: «Qui c’è un conflitto: da una parte le richieste della pietà religiosa e dell’amore, dall’altra gli obblighi della giustizia pubblica», egli direbbe che io descrivo il caso in modo sbagliato. Il vero occhio dell’anima sana non vedrà nel nemico una persona amata, o nel suo corpo abbandonato un’empietà. L ’apparente presenza di un conflitto contingente sta ad indicare che non ci siamo impegnati a sufficienza per ot­ tenere una visione corretta22. Due delle parole favorite da Creonte per descrivere il mondo che egli vede sono orthos, «di­ ritto», e orthoo, «raddrizzo» (w. 163, 167, 190, 403, 494; cfr. anche w . 636, 685, 706, 994). A lui piacciono le cose che sem­ brano diritte e non (come ci appariranno alla fine) storte (v. 1345) o girate (v. 1111); fisse e non fluide (v. 169); singolari e non plurali (v. 705); misurabili e non immense (v. 387) 2>. Ridu­ cendo tutti questi valori misurabili ad una sola moneta — lo assillano le immagini del coniare e del realizzare profitti in campo etico — , Creonte raggiunge una dirittura ed una appa­ rente stabilità24. Perché il mondo, il mondo che precede questa ricostru­ zione, spinge Creonte a inseguire questo progetto strano e ter­ rificante? Egli difende la sua posizione con un argomento che, secondo le sue parole, deriverebbe dalla conoscenza pratica: E non mi farei mai amico un nemico della patria, poiché so (gìgnoskon ) che essa è la nostra salvezza, e che ci procuriamo gli amici solo quando ne teniamo dritto il corso. Con tali principi io farò grande la nostra città (w . 188-191).

Creonte allude qui ad una immagine già consolidata nella retorica politica e che divenne rapidamente un luogo comune

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del patriottismo ateniese25. La città è una nave; senza di lei i cittadini non possono nulla. Essa deve essere in buono stato perché l’amicizia possa prosperare26. Tutto questo è ineccepi­ bile e questi versi furono citati con soddisfazione da Demo­ stene come esempio di ciò che Eschine (che sembra imperso­ nasse il ruolo di Creonte) avrebbe detto a se stesso anche fuori dal teatro per dimostrare di essere stato un buon cittadino27. Ma anche se dovessimo accogliere questa richiesta a favore della città, essa non sarebbe un buon motivo per giustificare le profonde innovazioni etiche di Creonte. Infatti una nave è uno strumento necessario per ottenere determinati beni; la sua «sa­ lute» è necessaria per la vita e per la salute dei suoi marinai. Ma chiaramente essi non sono sulla nave solo per farla navigare di­ ritta. Essi hanno altri fini, ai quali la nave offre un ambiente, un mezzo di trasporto. Non ci aspettiamo che questi fini siano de­ finibili soltanto rispetto alla salute della nave. Teognide, che fu tra i primi ad usare l’immagine, accenna ad una tensione tra i fini individuali dei marinai e il bene generale della nave {Ele­ gie, 670-685). Alceo associa l’utilità della città-nave con il biso­ gno di rendere onore ai parenti defunti (VI, 13-14), un fine che è tranquillamente separabile dalla salute della nave ed è poten­ zialmente in tensione con essa28. Infatti, con l’evoluzione del­ l’immagine, il marinaio diviene paradigmatico di qualcosa che è separabile, i cui fini sono distinti da quelli della nave, ridotta ad un mezzo utile e necessario29. Creonte, usando questa im­ magine per difendere una concezione che attribuisce un unico fine al valore, compie qualcosa di molto strano. E come se ci avesse detto che, non potendo io vivere senza il cuore, devo avere per amici soltanto specialisti cardiologi, totalmente de­ diti al benessere di questo organo. Quando egli afferma che la città è una condizione necessaria in vista di altri fini, egli non offre nessuna ragione perché non si debbano considerare beni intrinseci anche quelli non legati alla città (o avversi alla città). Usando l’immagine della nave, egli potrebbe giustificare la pu­ nizione di Antigone ed il proprio rifiuto di seppellire il cada­ vere, considerandoli empietà e mali necessari per preservare la vita, la salute e la virtù del tutto. Ma su questa base egli non può giustificare la sua affermazione che non ci sono pietà reli­ giosa e giustizia fuori dagli obblighi verso la città. Lo strano salto nella sua argomentazione ci rende desiderosi di cercare una ragione più profonda per le sue ridefinizioni etiche. E, in-

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fatti, la stessa immagine della nave suggerisce una motivazione più radicale. L ’immagine ci dice che una città, come una nave, è uno strumento costruito dagli esseri umani per soggiogare la for­ tuna e la natura. La città-nave, secondo la tradizione, è qual­ cosa di impermeabile, una barriera contro l’incombere dei pe­ ricoli esterni. Le onde si infrangono sui suoi fianchi, le correnti agitano il suo scafo; naturalmente i suoi intelligenti costruttori non devono lasciare nessuno spiraglio in cui possa penetrare la furia della natura incontrollata30. Sulla base di queste rifles­ sioni è facile concludere che lo scopo della città, in quanto strumento per salvare la vita, è quello di rimuovere la fortuna ingovernabile dalla vita umana. Navi e città ritorneranno in­ sieme nell’ode all’essere umano, come due invenzioni di questa creatura deinon, «ingegnosa», che soggioga il mondo ai propri fini. Creonte ed il coro, nel primo momento di ottimismo, cre­ dono che le risorse tecnologiche dell’uomo possano vincere ogni contingenza, esclusa la sola morte. Ma la soppressione della contingenza non richiede solo una tecnologia della natura fisica: navi, aratri, briglie, trappole. Essa richiede anche una tecnologia della natura umana, una tecnologia della ragione pratica. Per molto tempo la contingenza ha portato il terrore nella vita umana, soprattutto perché ha introdotto il conflitto in piani ben organizzati. Creonte è convinto che l’essere umano non possa sopportare questo terrore. Scegliendo l’immagine della nave egli ci mostra quanto sia per lui urgente il problema. Per fortuna non è necessario sopportare quel ter­ rore. Le qualità recalcitranti del mondo possono essere domi­ nate dalla razionalità pratica ed etica: con un riordinamento costruttivo degli interessi pratici e del linguaggio etico. Creonte effettua abilmente questo adattamento usando la città come modello del bene. Che cosa si rende necessario affinché questa strategia fun­ zioni? In primo luogo il bene finale deve essere unico e sem­ plice: non deve contenere conflitti od opposizioni al proprio interno. Se nel benessere della città compaiono delle richieste conflittuali, allora la strategia di Creonte non ha risolto nulla. In secondo luogo il fine deve offrire spontaneamente una mo­ neta comune, a cui possano essere ridotti tutti gli effettivi inte­ ressi e tutti i valori dell’agente. Tutto ciò che egli vede o ama deve poter essere considerato in funzione di quel fine, corner-

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tito (per usare le immagini finanziarie di Creonte) nei suoi ter­ mini. Il fine deve essere abbastanza versatile per comparire in ogni cosa di valore, così da poter essere plausibilmente consi­ derato come l’unica fonte del valore. E tuttavia deve rimanere unico in tutti i molteplici casi, senza generare conflitti interni. (Il Socrate del Protagora suggerirà che le parti della virtù sono come le parti dell’oro: omogenee qualitativamente, una singola e comune moneta per il valore.) Il dramma tratta il fallimento di Creonte. Si conclude ab­ bandonando questa strategia e riconoscendo un mondo deli­ berativo più complesso. Il coro paragonerà Creonte ad un ani­ male arrogante, punito a suon di colpi (w. 1350-1352) — e si tratta di un uomo che ha dimostrato una profonda ossessione linguistica per le immagini di domare, rompere, punire (w. 473 ss.; cfr. w. 348-352). Il piano di Creonte crolla infatti su entrambi i fronti: il suo fine supremo, correttamente conce­ pito, non è così semplice come egli pensava; non riesce a ren­ dere giustizia a tutti i suoi interessi. Questi problemi comin­ ciano ad emergere sin dall’inizio, quando egli descrive la pro­ pria posizione. Quando entra, Creonte parla subito degli affari della città; poi si rivolge alle persone del coro. Le due parti del suo di­ scorso sono legate dalle particelle correlative men e de e questa struttura indica la presenza di un’opposizione o, almeno, sot­ tolinea una distinzione tra la città e i cittadini del coro. Sin dal­ l’inizio, dunque, siamo invitati a chiederci se la città, correttamente concepita, possieda un bene semplice, come ritiene Creonte. In seguito Emone ci dice esplicitamente che la città, intesa come il popolo (homoptolis leos, v. 733), sostiene Anti­ gone, anche se Creonte pensa che le azioni della giovane mi­ nacciano la sicurezza pubblica. Una città è una totalità com­ plessa, composta di individui e di famiglie, con tutti quegli in­ teressi disparati, caotici e spesso conflittuali che gli individui e le famiglie dimostrano, incluse le pratiche religiose e il deside­ rio di seppellire i parenti. Un piano che trasforma la città nel bene supremo non può negare così facilmente il valore intrin­ seco dei beni religiosi apprezzati dalle persone che la compon­ gono. Solo una concezione impoverita può avere la semplicità pretesa da Creonte. Questo problema diventa evidente anche nel campo dell’a­ more e della amicizia: ancora una volta la semplificazione di

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Creonte non rende giustizia alla complessità degli interessi della città. Nella vita di Creonte tutte le relazioni sono in fun­ zione della città; le persone sono valutate per il bene che pro­ ducono alla città. Così il vincolo tra marito e moglie è soltanto un mezzo per produrre nuovi cittadini; la relazione tra padre e figlio è una amicizia tra concittadini. Ma la città stessa non condivide questa visione. La tenacia dei legami di sangue è un fatto fondamentale nella vita della città, come lo è l’amore pas­ sionale tra gli individui. Al detto di Creonte «Anche i campi di altre donne ci sono, da arare» Ismene risponde: «Non c’è amore come quello che accorda lui a lei» (v. 570). Creonte, come è nel suo personaggio, respinge questa osservazione con un brusco: «Detesto cattive mogli per i miei figli». Il coro non la ripudia: la terza ode loda il potere deWeros. Creonte è implacabile nel considerare ogni oppositore della città esclusivamente come un ostacolo da vincere. La sua concezione della moglie come un mero campo da arare, della vera virilità come esercizio di potere su una materia remissiva (cfr. w. 484-485)3I, tende già a disumanizzare l’altro elemento della relazione. Nel caso di una opposizione questo diventa an­ cora più ovvio. Il piano di Creonte non permette di rispettare un oppositore in base all’umanità della persona. Un uomo o una donna contengono soltanto un unico valore, la capacità di produrre il bene della città; se questa manca, la persona non merita di essere tenuta «in alcun conto». Fondendo in modo singolare relazioni normalmente tenute distinte, Creonte esprime il suo atteggiamento verso Antigone: Ma sappi che una volontà troppo dura cade più facilmente; e an­ che il ferro più indurito, cotto dal fuoco e temperato, spesso lo puoi vedere spezzato e infranto. Destrieri imbizzarriti, io lo so, vengono regolati da un piccolo morso: e non può fare il superbo chi è soggetto ad altri (w . 473-479).

Lavorare i metalli, domare i cavalli, possedere schiavi: per Creonte tutte queste figure sono la stessa cosa ed esprimono in modo appropriato la relazione tra il maschio dominante e la ra­ gione di un oppositore ostinato. E veramente questo il signifi­ cato che Creonte attribuisce a queste immagini? Egli sta par­ lando ad Antigone e deve presupporre che ella sappia inten­ dere la lingua ed interpretare le metafore. Ma questa è una dif-

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ferenza implicita tra Antigone e il cavallo e Creonte è urgente­ mente costretto a rinnegarla. L ’essere umano è un ostacolo molto più arduo di un cavallo, che può essere domato da un piccolo morso. Creonte deve cancellare questa difficoltà parti­ colare, negandola, per domare l’uomo come l’uomo ha domato gli altri ostacoli32. Nella vita cui egli aspira ci saranno sola­ mente oggetti utili e non persone che rispondono (cfr. v. 757)33. Ma questa non è una città. Poco prima Emone aveva tratto la conclusione giusta: «Certo, tu regneresti bene da solo su una terra deserta» (v. 739). Ancora una volta, dunque, la concezione di Creonte, che con­ templa un solo fine, gli impedisce di avere una corretta visione della città, la quale, nella pienezza delle sue relazioni, non sembra manifestare un unico bene. E Creonte non riesce a conservare questa visione semplificata; essa non rende giustizia neppure a tutti gli interessi che gli rimangono. Alla fine egli non può sotto­ mettere la sua umanità recalcitrante. Come ci dice il coro, viene educato venendo domato; come nel suo stesso esempio, devono essere usati i «colpi» per addomesticare l’orgoglio del suo spirito. Tuttavia, a differenza di quando si addomesticano i cavalli, la con­ clusione non è la muta obbedienza, ma la comprensione (v. 1353). In particolare Creonte è costretto a riconoscere il suo amore per il figlio e deve ammettere che quell’affetto ha un suo valore sepa­ rato. Le prime parole di Emone al padre erano state «Io sono tuo» (v. 634); e il suo nome significa «sangue» (come rivela il gioco di parole contenuto nella descrizione della sua morte, v. 1175) 34. Ma il padre, il cui nome significa «governante», comincia a sentire la forza di questo richiamo solo molto tardi, quando il profeta Tiresia lo ammonisce: «E tu sappi bene che non compirai ancora molti celeri giri di sole senza ripagare tu stesso, in cambio di morti, un morto delle tue stesse viscere» (w. 1064-1067). A questo punto Creonte, che sembrava un deinon, ispirando terrore con il suo potere (w. 243, 408, 690), e si considerava un essere in grado di controllare tutte le situazioni, si trova di fronte a qual­ cosa che sfugge al suo controllo e gli infonde terrore: Lo so (egnoka) anch’io, e il mio animo (pbrenas) 35 è sconvolto. Cedere è terribile (deinon), ma non è meno terribile (deinon), che, opponendomi, l’ira vada a cozzare contro la sventura (w. 10951097).

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Ora il fatto che Emone gli appartenga e sia nato dalle sue stesse viscere diviene per lui importante. Alla risposta del coro, secondo la quale c’è ora bisogno di una buona deliberazione Ceuboulia), egli non replica riaffermando la teoria maschile della mente sana, ma con una domanda: «Dunque, che cosa bisogna fare?» (v. 1099). Egli comincia ad ammettere che le leggi della famiglia, da lui calpestate, possano avere una loro forza: «H o paura che la cosa migliore sia terminare la propria vita osser­ vando le leggi (ttotnous) stabilite» (w. 1113-1114). Poiché questo mutamento non riesce ad impedire la morte del figlio, Creonte, in lutto, ritratta molto più radicalmente la sua precedente visione della ragione pratica: Ahi, errori di irragionevole ragione ostinati apportatori di morte (phrenon dysphronon amartemata).

Ecco, voi vedete uccisori e uccisi nello stesso sangue. Ahimè, miseria (anolba ) dei miei propositi! Ahi, figlio, giovane in giovane morte, ahi, ahi moristi, te ne andasti, per mia e non per tua demenza! (w. 1261-1269)

L ’amore di Creonte per il figlio morto, un amore che non può essere più negato o adattato dentro la teoria del bene ci­ vico, lo costringe ad abbandonare tutte le sue teorie. Egli prova rimorso per le sue deliberazioni, in particolare per la loro grettezza e povertà. La loro moneta non era una valuta sufficiente: era una unità di misura povera perché lasciava fuori cose di grande valore. Creonte riconosce di avere fallito. Il suicidio della moglie Euridice (il cui nome non a caso signi­ fica «ampia giustizia») conferma ed intensifica l’amaro inse­ gnamento. «Ahimè, su nessun altro dei mortali / tutto ciò rica­ drà, liberandomi dalla colpa! / Poiché io, io ti uccisi, lo sciagu­ rato; / io, dico il vero» (w. 1317-1320). Il precedente quadro etico non permetteva nulla di tutto ciò; con questa empatica affermazione della verità Creonte ci dimostra che il suo ri­ morso non riguarda solamente il suo errore particolare, ma im­ plica una ridislocazione generale. «Ahimè, troppo tardi, sem­ bra, vedesti la giustizia!» è il giudizio del coro (v. 1270). E pre­ cisamente Creonte vede che «tutto crolla ciò che avevo» (w.

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1344-1345), proprio a lui, al timoniere che un tempo teneva (o così credeva) la nave della città con un «corso dritto»36. 3. Finora abbiamo parlato solamente di Creonte. E tutti i commentatori di questo dramma sono d’accordo sul fatto che esso ci mostra l’insufficienza morale di Creonte, sebbene non siano sempre d’accordo sulla natura di tale insufficienza. La posizione di Antigone è più controversa. Hegel assimila i suoi difetti a quelli di Creonte, mentre alcuni critici più recenti la esaltano come un’eroina senza macchia. Senza affrontare uno studio esaustivo del ruolo di Antigone nella tragedia, è mia in­ tenzione sostenere (con la conferma di un sempre maggior nu­ mero di critici)37 che esistono alcuni motivi a sostegno dell’in­ terpretazione di Hegel — anche se dobbiamo essere molto più precisi e specifici di quanto egli faccia nelle sue brevi note. A mio avviso Antigone, come Creonte, è impegnata in una spie­ tata semplificazione del mondo dei valori, che di fatto elimina le obbligazioni conflittuali. Come Creonte, anch’ella può es­ sere biasimata perché rifiuta di vedere. Ma ci sono notevoli dif­ ferenze tra il suo progetto e quello di Creonte. Quando esse sa­ ranno portate alla luce, emergerà anche che la critica ad Anti­ gone non è incompatibile con il giudizio secondo il quale lei è moralmente superiore a Creonte. Ismene, sorella nel sangue comune, quale tra le sventure venute da Edipo credi tu che Zeus non vorrà ancora compiere nella nostra vita? [...] N e sai qualcosa? N e hai sentito parlare? Non vedi quali sciagure da parte dei nemici muovono contro i nostri cari? (w . 1-3, 9-10)

Una persona viene chiamata con una perifrasi che è allo stesso tempo intima ed impersonale e che, utilizzando termini estremamente enpatici, la caratterizza come un parente stretto di chi parla. Il suo atteggiamento nei confronti della sorella è tuttavia stranamente distante. Antigone vede Ismene solo nella forma della relazione familiare stretta3S. Perciò la incalza con il sapere della famiglia: che i cari (philoi) vengono puniti come fossero dei nemici (echthroi). I parenti, che amano i loro cari, devono «vedere» la vergogna ed il disonore nelle «sventure tue e mie» (v. 6). C ’è stata una guerra. Da una parte c’era l’esercito guidato

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da Eteocle, fratello di Antigone e Ismene. Dall’altra parte c’era un esercito invasore, composto in parte di stranieri, ma con­ dotto da un altro loro fratello, da Polinice. Questa eterogeneità viene negata, in modi diversi, sia da Creonte che da Antigone. La strategia di Creonte è quella di tracciare una linea mentale tra le forze degli invasori e quelle dei difensori. Ciò che cade da una parte di quella linea è nemico, cattivo, ingiusto; ciò che cade dall’altra parte (se è leale alla causa della città) diventa senz’altro amico o caro. Antigone, invece, nega ogni rilevanza a questa distinzione. Ella traccia nella sua immaginazione un piccolo cerchio attorno ai membri della sua famiglia: ciò che sta dentro (con ulteriori limitazioni che menzioneremo) fa parte della famiglia ed è, perciò, caro ed amico; ciò che sta fuori non fa parte della famiglia, è in conflitto con essa, ne­ mico. Se si ascoltasse solo Antigone, non si verrebbe a sapere che c’è stata una guerra o che qualcosa chiamato «città» era in pericolo39. Per lei è ingiusto semplicemente il fatto che Poli­ nice non venga trattato come un amico. «Amico» (philos) e «nemico» sono, dunque, funzioni esclusive della relazione familiare90. Quando Antigone dice: «Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore (symphilein)» (v. 523), non esprime una generale inclinazione all’a­ more, ma la devozione alla philta della famiglia. E, per la pro­ pria natura, i vincoli di questa philia si impongono sugli impe­ gni e sulle azioni di una persona indipendentemente da ciò che essa veramente desidera. Questo amore non è qualcosa che si possa decidere; le relazioni che esso implica possono anche aver poco a che fare con la simpatia o con la tenerezza. Pos­ siamo dire (per usare la terminologia di Kant) che Antigone si riferisce all’amore «pratico», non a quello «patologico» (fon­ dato sulla tenerezza o sull’inclinazione). Per spiegare perché ella infrange i decreti della città, Antigone dice ad Ismene: «M a è fratello mio ed anche tuo, pur se tu non voglia: non si dirà che sono io a tradirlo» (w. 45-46). La relazione in se stessa è una fonte di obbligazioni, senza alcuna considerazione per i sentimenti coinvolti. Quando Antigone parla di Polinice come del «fratello dilettissimo (philtatoi)» (v. 80-81), anche quando proclama: «Amata giacerò insieme a lui che io amo (phile [...] philou meta)» (v. 73), non c’è nessun senso di intimità, nessuna memoria personale, nessuna particolare animazione nel suo di­ scorso91. Ismene, la persona che dovrebbe esserle intima, è

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trattata sin dall’inizio con freddo distacco; viene, addirittura, chiamata nemica (v. 93) quando prende la posizione sbagliata in materia di obbligazioni religiose. E Ismene che noi vediamo versare «lacrime per la sorella amata» e agire in base ad un amore sincero. «E quale vita mi sarà cara, priva di te?» (v. 548) chiede con un’intensità che mai anima la pietà religiosa della sorella. Ad Emone, l’uomo che l’ama appassionatamente e la desidera, Antigone non rivolge una parola in tutta la trage­ dia42. Emone, non Antigone, appare ispirato dall eros (w. 781 ss.). Antigone è lontana dall’amore tanto quanto lo è Creonte43. Per lei sono i morti quelli a cui «soprattutto devo piacere» (v. 89). «Hai un cuore ardente per cose che raggelano» (v. 88) os­ serva la sorella, incapace di comprendere questa passione im­ personale ed esclusiva. Il dovere verso i morti della famiglia rappresenta la legge più alta e la passione suprema. Ed Antigone struttura tutta la sua vita e la sua visione del mondo su questo sistema di doveri semplice ed autosufficiente. Anche se dovesse sorgere un con­ flitto all’interno di questo schema, ella dispone sempre di una priorità fissa che detta con chiarezza le sue scelte. Lo strano di­ scorso (w. 891 ss.) nel quale ella classifica i doveri verso i di­ versi defunti della famiglia e pone i doveri verso il fratello al di sopra di quelli verso il marito ed i figli è (se genuino) molto esplicito in questo senso: ci fa sospettare che lei sia capace di una semplificazione dei doveri senza scrupoli, corrispondente non tanto ad una legge religiosa, quanto alle esigenze della sua immaginazione pratica44. Altri valori emergono a confermare questa supposizione. La sua identificazione esclusiva con i doveri verso i morti (e solo verso alcuni di loro) produce una strana riorganizzazione della pietà religiosa, come anche dell’onore e della giustizia. Antigone è veramente, con le sue parole, hosia panourgesasa, una che vuole fare ogni cosa per pietà religiosa45; e la sua pietà corrisponde soltanto ad una parte della religione convenzio­ nale 46. Antigone parla della sua obbedienza a Zeus (v. 950), ma rifiuta di riconoscere che quel dio è anche il guardiano della città e il difensore di Eteocle. L ’espressione più indicativa della sua devozione è sospetta: «M a per me non fu Zeus a procla­ mare quel divieto (ou gar ti moi Zeus [...])» (v. 450). Ella pre­ tende di poter stabilire ciò che Zeus può o non può aver decre­ tato, proprio come Creonte pretendeva di indicare chi fosse

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protetto dagli dei e chi non lo fosse. Nessun altro personaggio fonda i diritti dei morti su una visione così esclusiva di Zeus. Antigone cita anche la dea Dike, la Giustizia, ma per lei Dike è semplicemente la giustizia «che dimora con gli dei inferi» (v. 451). Il coro, che conosce un’altra Dike47, più tardi le dirà: «Giunta all’estremo ardimento / contro il soglio eccelso di Dike / cozzasti o figlia fortemente» (w. 853-855). La giustizia si trova sia al di sopra, nella città, sia sotto la terra. La giustizia non è così semplice come sostiene l’eroina. Di conseguenza i coreuti pensano che Antigone non sia una persona pia secondo le tra­ dizioni, ma una persona che improvvisa la propria pietà reli­ giosa e decide da sola che cosa sia degno di venerazione. Ella è una persona «che si dà la propria legge» (autonomos, v. 821); il suo disprezzo è una «passione nata da se stessa» (autognotos orga, v. 875). I coreuti, infine, le dicono apertamente che il suo rispetto religioso è incompleto: «Riverenza (sebein), certo, è una parte della pietà (eusebeia tis)» (v. 872). La rigida adesione ad un unico e ristretto insieme di doveri ha indotto Antigone a interpretare male la natura della pietà stessa, una virtù dentro la quale uno sguardo più comprensivo vede la possibilità del conflitto. La sua strategia semplificante aveva condotto Creonte a considerare gli altri come un materiale da sfruttare aggressiva­ mente. La devozione rigorosa per i morti porta Antigone ad un risultato ugualmente discutibile, per quanto diverso (e di si­ curo meno odioso). La sua relazione con le persone di questo mondo è caratterizzata da una strana freddezza. «Tu sei viva», dice alla sorella, «ma la vita mia (psyché) già da tempo è morta, così da giovare i morti» (w. 559-560). La vita dedita al dovere richiede la distruzione della vita oppure coincide con essa48. L ’atteggiamento di Creonte verso gli altri assomiglia alla ne­ crofilia: egli aspira a possedere la materia inerte e cedevole. L ’asservimento di Antigone al dovere è, invece, il desiderio di essere un nekros, un cadavere innamorato dei cadaveri. (La sua apparente somiglianza con i martiri della nostra tradizione, che si attendono una vita veramente attiva dopo la morte, non deve distrarci dalla stranezza del suo obiettivo.) Nel mondo di sotto non c’è il rischio di fallire o di sbagliare. Né Creonte né Antigone, dunque, sono esseri appassionati o animati dall’amore per qualcosa. Nessun dio, nessun essere umano sfugge al potere dell 'eros, sostiene il coro (w. 787-790),

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ma questi due strani esseri inumani, apparentemente, ci rie­ scono. Creonte vede le persone amate in funzione del bene della città, per produrre cittadini equivalenti l’uno all’altro. Per Antigone i cari sono morti o servi dei morti oppure oggetti assolutamente indifferenti. Nessun essere vivente è amato per le sue qualità personali, amato con l’amore che Emone prova e che Ismene loda. Alterando le loro convinzioni sulla natura e sul va­ lore delle persone i due protagonisti hanno, all’apparenza, alte­ rato o ricostruito le passioni umane. In questo modo essi conqui­ stano l’armonia, ma i costi sono altissimi. Il coro sostiene che eros è una forza importante, obbligante quanto lo sono gli antichi thesmoi ovvero le leggi, e che ribellarsi ad esso è cosa folle e, appa­ rentemente, biasimevole (w. 781-801). Come Creonte, anche Antigone impara quando viene co­ stretta a riconoscere che al centro dei suoi interessi esclusivi c’è un problema. Creonte si accorge che la città è pia e amorosa; che egli non può essere il suo campione se non apprezza ciò che essa loda, in tutta la sua complessità. Antigone scopre che il servizio ai morti ha bisogno della città, che i suoi fini religiosi non possono essere raggiunti senza le istituzioni della città. Diventando legge a se stessa, ella non solo ha ignorato una parte della pietà, ma ha anche messo a repentaglio la realizzazione dei doveri religiosi cui è così devota. Senza amici, senza possibilità di avere figli, lei non può ri­ manere viva per continuare il servizio ai morti, né può garantire che il suo cadavere venga trattato religiosamente. Nei suoi ultimi discorsi lamenta non tanto la morte imminente, quanto il suo iso­ lamento, la mancanza dei figli, degli amici, di persone in lutto per lei. Ella enfatizza il fatto che non si sposerà più, che rimarrà senza figli. Acheronte sarà suo marito, la tomba la sua camera nuziale49. Se non riuscirà a commuovere quegli stessi cittadini che lei ha ri­ fiutato di considerare in quanto tali, morirà e nessuno piangerà la sua morte50 o la sostituirà come guardiano della religione fami­ liare. In questa scena finale, dunque, ella si volge sempre più verso i cittadini e gli dei della città (w. 839, 843 ss.), tanto che le sue ul­ time parole riecheggiano un precedente discorso di Creonte (w. 199 ss.) fondendo i pensieri dell’uno e dell’altra: O terra di Tebe, città dei miei padri, e divinità progenitrici, sono condotta via, senza più indugi! Guardate, signori di Tebe:

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io, l’unica rimasta della stirpe regale, quali cose soffro e da chi, perché onorai la pietà (w . 937-943).

Abbiamo, dunque, due mondi pratici fortemente limitati, due strategie di difesa e di semplificazione. Nell’una un unico valore umano è diventato il fine ultimo; nell’altra un insieme di doveri ha eclissato tutti gli altri. Tuttavia ora possiamo ammet­ tere che, in ogni caso, ammiriamo Antigone molto più di Creonte. E importante considerare i motivi di questa diffe­ renza. In primo luogo sembra chiaro che nel mondo del dramma la scelta di Antigone è preferibile a quella di Creonte. L ’irrive­ renza ai valori della città implicata dal dare sepoltura ad un ne­ mico è molto meno grave della violazione religiosa implicata nell’atto di Creonte51. Antigone, sostenendo che il dovere di seppellire i morti è una legge non scritta, che non può venire sostituita dal decreto di un particolare governante, mostra una comprensione più profonda della comunità e delle sue leggi di quanto non faccia Creonte. La convinzione espressa da Anti­ gone che non tutti i valori siano relativi all’utilità, che certe ri­ chieste, quando vengono trascurate, distruggano la concordia comune e il carattere individuale, viene lasciata intatta dall’im­ plicita critica contenuta nel dramma. Inoltre Antigone ricerca in se stessa la virtù. Essa non coin­ volge nessun altro e per l’infrazione non si affida a nessun’altra persona. Il governo deve essere governo di qualcosa; le pie azioni di Antigone vengono eseguite in solitudine, per un im­ pulso solitario. Ella può essere stranamente lontana dal mondo, ma non fa violenza ad esso. Infine Antigone, per la singolarità della sua concezione del valore, è pronta a rischiare e a sacrificare i suoi fini in un modo che non è possibile per Creonte. La complessità della sua virtù permette ad Antigone un genuino sacrificio all’interno della di­ fesa della pietà. Muore senza ritrattare nulla, ma è straziata da un conflitto. La sua virtù è, dunque, pronta ad ammettere la presenza di un conflitto, almeno nel caso estremo, quando l’e­ sercizio coerente della virtù richiede la fine delle condizioni del suo esercizio. Dall’interno della sua devozione esclusiva alla morte ella riconosce il potere di queste circostanze contingenti e cede ad esse, paragonandosi a Niobe erosa dalla neve e dalla

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pioggia (w. 823 ss.)52. (In precedenza era stata paragonata, nel suo dolore, ad una rondine che piange sul nido vuoto; in que­ sto modo il suo agire eroico viene messo in relazione con l’e­ sposizione alla fortuna e con la vulnerabilità del femminile.) Il coro tenta di consolarla, suggerendole che la sua cattiva sorte non è di nessuna importanza rispetto alla sua fama futura, ma lei considera questa razionalizzazione una derisione della scon­ fitta. Questa vulnerabilità nella virtù, questa abilità a ricono­ scere il mondo della natura, lamentando le costrizioni che esso impone, contribuiscono certamente a fare di Antigone il più umanamente razionale e il più ricco dei due protagonisti. Ella è sia attiva sia ricettiva, non sfrutta gli altri, ma non è neppure una semplice vittima. 4. Sia Creonte che Antigone sono unidirezionali e limitati quando stabiliscono ciò che è importante. Nell’orizzonte di ciascuno dei due sono presenti importanti valori che l’altro non considera. Da questo punto di vista la famosa e spesso abusata interpretazione di Hegel è corretta. Hegel, forse, com­ mette un errore nel non sottolineare che la scelta di Antigone è chiaramente superiore a quella di Creonte, ma la critica gene­ rale di Hegel contro il rifiuto dei valori della città, come ab­ biamo visto, non è incompatibile con il loro riconoscimento53. Hegel, tuttavia, giudica insufficienti i protagonisti soltanto per­ ché sono limitati o unidirezionali, non perché si pongono l’o­ biettivo di evitare il conflitto. L ’eliminazione del conflitto è, per Hegel, un fine accettabile e plausibile in una concezione etica umana. Dalla tragedia noi impariamo a non eliminare il conflitto nel modo sbagliato attaccandoci in modo esclusivo ad un valore e trascurando gli altri. Ma, per inferenza, impariamo anche ad evitarlo correttamente: effettuando una sintesi che renda giustizia ad entrambe le richieste concorrenti. Hegel conclude: Queste sono le potenze (se. la famiglia e lo stato) più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esi­ stenza etica [...]. Il vero sviluppo consiste solo nel superamento delle opposizioni come tali, nella conciliazione delle potenze dell’agire che si sforzano nel loro conflitto di negarsi scambievolmente54.

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Questo approccio è stato recentemente ripreso da molti in­ terpreti moderni, secondo i quali il pubblico ateniese avrebbe accolto questo dramma come una sfida ad armonizzare senza conflitti i diversi orientamenti, senza negare nessuno di essi Questa sembra essere un’idea promettente. Sicuramente era uno dei motivi di orgoglio della Atene di Pericle quello di avere sviluppato un ordine civico che incorporava e rispettava le richieste delle «leggi non scritte» derivanti dall’obbligazione religiosa (cfr. Tucidide, II, 37). Ma una cosa è dire che lo stato rispetta in generale queste richieste, ed un’altra è dire, con H e­ gel, che la possibilità stessa del conflitto o della tensione tra le diverse sfere dei valori viene completamente eliminata. Per cancellare questa eventualità è necessaria una riforma molto più radicale di quella prevista da Pericle. Inoltre noi abbiamo ragione di pensare che essa potrebbe essere una cattiva ri­ forma: rischieremmo di trascurare la ricchezza del mondo del valore e le diverse richieste che esso contiene. Dal nostro stu­ dio sui due protagonisti possiamo giungere alla conclusione che rendere giustizia alla natura o alla identità di due valori di­ stinti vuol dire rendere giustizia alla loro differenza; e rendere giustizia alla loro differenza — sia alla loro diversità qualitativa che alla loro separazione numerica — significa vedere che ci sono, almeno potenzialmente, circostanze nelle quali essi colli­ dono 56. Essere distinti implica essere separati da e essere deli­ mitati contro qualcosa. Questo, a sua volta, implica la possibi­ lità dell’opposizione e — per l’agente che è obbligato ad en­ trambi i valori — del conflitto. Ma, per ora, questi sono sol­ tanto dei sospetti. Per esplorarli più a fondo, dobbiamo tor­ nare alle riflessioni e alle reazioni del coro ed, eventualmente, ad altri due personaggi della tragedia, Tiresia ed Emone. Le liriche corali àe\YAntigone possiedono uno straordina­ rio grado di densità e di intensità57. Ciascuna di esse possiede una precisa struttura interna e particolari risonanze; ciascuna riflette sulle azioni che l’hanno preceduta; ciascuna riflette sulle liriche precedenti. Dunque, per interpretare compietamente ogni singola immagine o frase, dobbiamo tracciare un complesso tessuto di rapporti e di connessioni, dal momento che ogni nuovo elemento modifica ed è modificato dalle imma­ gini e dai dialoghi che l’hanno preceduto. Ma, poiché anche l’elemento successivo modifica quelli precedenti o approfondi­ sce la nostra interpretazione, dobbiamo riconoscere che la

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trama delle connessioni da tracciare è ancora più complessa: infatti la risonanza di ciascun singolo elemento agisce in avanti e all’indietro. L ’immagine di una lirica deve essere letta non solo sullo sfondo dei dialoghi e delle liriche che l’hanno prece­ duta, ma, in definitiva, anche alla luce degli eventi e delle liri­ che che devono ancora presentarsi. Un’affermazione intrinse­ camente ottimistica (o — poiché non vogliamo concedere che questi riferimenti siano meramente estrinseci — un’afferma­ zione che, isolata, appare ottimistica) può essere attenuata o trasformata alla luce di successive testimonianze contenenti le stesse parole o immagini; un’immagine apparentemente lugu­ bre può mostrare un lato fiducioso. La comprensione com­ pleta di un’ode è più ricca e profonda delle intenzioni appa­ rentemente dimostrate dagli anziani del coro nell’atto di pro­ nunciarla — come se le odi fossero i loro sogni e, come i sogni, contenessero molte allusioni al loro mondo, sottili ed intense, molte più di quelle che il sognatore può inserire e molte più di quelle che egli può decifrare5S. Così un’interpretazione ricca e completa richiede un’attenta ricerca delle connessioni, dal mo­ mento che ogni immagine e ogni lirica acquistano maggiore densità dalle risonanze con altri passi e la densità interna di ciascuna lirica aiuta a trovare e a tracciare queste risonanze. Questa struttura è presente anche in altre forme di poesia li­ rica, dentro e fuori del dramma. Essa è in una relazione sor­ prendentemente stretta con lo stile compresso, denso ed enig­ matico del più importante pensatore etico vissuto nel cinquan­ tennio precedente questo dramma, cioè con lo stile di Era­ clito 59. Queste caratteristiche dello stile devono essere menzionate non solo per guidare l’interpretazione, ma anche per chiarire quale concezione dell’apprendimento e della riflessione umana sia presente in questo dramma. Abbiamo assunto che lo stile con cui viene discusso il problema della scelta umana non è, probabilmente, neutro: esso esprime già una visione su che cosa sia la comprensione e su come l’anima l’acquisisca. Prima di intraprendere il lavoro di decifrazione richiesto da queste li­ riche, possiamo, dunque, chiederci quale concezione esprima il loro stile denso ed enigmatico. Questa è, infatti, per molti aspetti diversa dal modello di apprendimento e di crescita psi­ cologica espresso ed approvato dalla filosofia platonica. Le liri­ che ci mostrano e producono in noi un processo di riflessione e

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di (auto)scoperta che si realizza attraverso una costante atten­ zione e (re)interpretazione delle parole, delle immagini, degli eventi concreti. Riflettendo su un evento, non lo sussumiamo entro una regola generale, né assimiliamo le sue caratteristiche ai termini di un elegante procedimento scientifico, ma sca­ viamo nella profondità del particolare, troviamo immagini e rinvìi che ci permettono di vederlo meglio e di descriverlo con maggiore ricchezza; poi combiniamo questo lavoro di scavo con il disegno di connessioni orizzontali, così che ogni nesso orizzontale contribuisce ad approfondire la nostra visione del particolare ed ogni nuovo approfondimento crea nuovi nessi in superficie. L ’anima platonica si orienta, nella sua singolarità e purezza, verso oggetti etici dotati di un’unica natura, non me­ scolati, raccolti in se stessi. L ’anima immaginata da Sofocle è simile alla psyché di Eraclito: un ragno al centro della tela, ca­ pace di sentire e di reagire ad ogni vibrazione della complicata struttura60. Quest’anima non procede nella sua comprensione della vita e di se stessa muovendosi, platonicamente, dal parti­ colare all’universale, dal mondo percepito ad un mondo più semplice e chiaro, ma gira con i pensieri e l’immaginazione at­ torno all’enigmatica complessità dei particolari (come il buon lettore di questo stile gira attorno ai dettagli del testo), seduta al centro della sua trama di connessioni, sensibile all’oscillare di ogni singolo filo. (Questo fatto ci viene segnalato dal coro che, vedendo Antigone entrare come prigioniera, dice es daimonion teras amphinoo tode, «guardo questo strano prodigio e lo considero da tutti i lati», v. 376.) La concezione dell’appren­ dimento espressa da questo stile, come la concezione della let­ tura da esso implicata, sottolinea la sensibilità e l’attenzione per la complessità; scoraggia la ricerca della semplicità e, so­ prattutto, della riduzione. Ci suggerisce che il mondo della scelta pratica, come il testo, viene articolato, ma mai esaurito dalla lettura; che la lettura deve riflettere e non oscurare questa condizione mostrando che il particolare (o il testo) rimane ine­ sausto, arbitro finale della correttezza della nostra visione; che la scelta corretta (o la buona interpretazione) dipende, innanzi tutto e soprattutto, dall’acume e dalla flessibilità della perce­ zione e non dalla conformità ad un insieme di principi sempli­ ficatori. (Aristotele, ritornando alla visione tradizionale della scelta, sosterrà esplicitamente tutta questa argomentazione.) Infine il coro ci ricorda che, per reagire correttamente ad

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un caso pratico (o ad un testo) che ci stia davanti, è necessaria non soltanto la valutazione dell’intelletto, ma anche un’appro­ priata risposta emozionale. Infatti il coro non «legge» le varie situazioni in termini freddamente intellettuali. Come gli an­ ziani dell’Agamennone, per i quali il penoso ricordo del dolore costituisce una via alla conoscenza, anche questi anziani si per­ mettono non soltanto di «considerare da tutti i lati», ma anche di provare profonde emozioni. Essi intrecciano quei legami con il loro mondo che sono la base per la paura, per l’amore, per il dolore profondo. Subito dopo aver parlato del potere dell’eros (w. 781-801) «che siede presso le grandi leggi pos­ senti» essi si schierano con Emone contro i due protagonisti insensibili alla forza dell’eroe e annunciano: «E ora ecco, an­ ch’io fuori dalle leggi (thesmoi) / sono tratto a questa vista; e più non posso / frenare fiotti di lacrime, / quando vedo Antigone / muovere al talamo che tutti addormenta» (w. 802-806). Per i coreuti vedere e piangere con passione sono azioni legate inti­ mamente; l’una evoca naturalmente l’altra. Una percezione pu­ ramente intellettuale di questo evento, che non fosse accompa­ gnata dall’«essere tratti» e dall’erompere delle lacrime, non sa­ rebbe un vedere naturale, o completo, o buono. Per percepire pienamente i particolari bisogna amarli. Questo ci suggerisce una norma anche per la nostra attività del leggere e dell’interpretare. Se tentiamo di bloccare il flusso delle lacrime, se resi­ stiamo con troppa determinazione e non ci lasciamo trascinare, non saremo in grado di cogliere tutto ciò che il testo ci offre. Finora abbiamo parlato di queste liriche come se fossero testi da leggere. Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che esse sono innanzi tutto e principalmente gli elementi corali di una rappresentazione drammatica. Esse vengono messe in scena con la voce, la musica, la danza da un gruppo di persone che lavorano assieme; vengono viste da un gruppo, un pubblico, che si è riunito per una festa religiosa e la collocazione fisica che circonda l’azione fa sì che il riconoscere la presenza dei concittadini sia una parte fondamentale ed inevitabile dell’e­ vento drammatico. Questo fatto approfondisce ulteriormente il nostro confronto con Platone. Infatti, mentre esperiscono la complessità della tragedia, gli spettatori formano una comu­ nità e non isolano la loro anima da quelle di tutti i loro compa­ gni; prestano attenzione a tutto ciò che è comune o condiviso, si trasformano in un gruppo che reagisce tutto assieme e non

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raggiungono la solitaria altezza della contemplazione, da cui si può tornare alla vita politica solo con una discesa dolorosa. Questa esperienza, dunque, accentua il valore fondamentale della comunità e dell’amicizia; non ci consente di cercare il bene al di fuori di esse61. Sembra importante interpretare queste odi in uno stile che rispetti tutte le loro suggestioni. La seguente lettura si occu­ perà solamente di certe parti delle liriche e al loro interno sot­ tolineerà alcune connessioni piuttosto che altre, alcune rea­ zioni emozionali invece di altre, quelle che fanno avanzare la nostra indagine sulla sintesi e sulla semplificazione. Ma cer­ cherò di raggiungere questo obiettivo in un modo coerente con il materiale. Raggio di sole, luce bellissima fra quante mai apparvero a Tebe dalle sette porte, sei apparso alfine, occhio di aureo giorno, movendo sulle correnti dircee, tu che il guerriero dal bianco scudo mosso dalla terra argiva, in piena armatura, fuggiasco in rotta con acuto colpo incalzasti. Lui contro la nostra terra Polinice incitato da ambigue contese addusse ostile; ed egli acutamente stridendo come aquila verso terra mosse il volo, spiegando le ali candide qual neve, con armi molte e con cimieri criniti (w . 100-116 ) 62.

Il coro entra sul far dell’alba ed invoca i raggi del sole na­ scente. Questo «occhio di aureo giorno» appare, o viene rive­ lato (ephantes), come in passato, sopra le acque del fiume. Alla vista della luce il coro ricorda che il sole fu il testimone della vittoria tebana e che ora ne vede le sanguinose conseguenze fuori dalle solide porte della città. I coreuti riflettono: il sole deve aver visto il carattere anomalo delle forze nemiche, per­ ché mescolata ai cavalieri argivi giace l’aquila tebana, Polinice, «Grande Conflitto», con l’elmo adorno di cimieri. Quest’a-

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quila ricoperta di criniere, la cui anomala doppiezza indica la complessità del discorso morale su Polinice, giace ancora sotto l’occhio del sole, trascurata. I coreuti si rendono conto che Po­ linice ha due aspetti e che le contese riecheggianti nel suo nome sono ambigue (neikeon amphilogon, v. I l i ) ; ciò contra­ sta implicitamente con quanto essi sanno (e noi con loro) su quel semplice editto che ha rifiutato a questo traditore e ne­ mico il trattamento riservato ad un parente e ad un philos. Le tensioni e la complessità del mondo rivelatosi ieri contrasta con l’univocità delle strategie odierne. La lirica comincia, dunque, con un occhio che si apre pro­ prio come si apriva in passato e guarda una scena che presenta elementi confusi. Il discorso si sviluppa in due modi, uno sem­ plice e uno complesso. L ’occhio della natura coglie una visione complessa e capace di generare il conflitto. Creonte vede un mondo più semplice. La potente immagine dell’occhio che si apre, usata proprio mentre noi (in teatro, all’apparire del sole) apriamo i nostri occhi alla situazione che la luce nascente ci di­ spiega davanti, è la prima di molte immagini dell’occhio e della vista presenti nel dramma. Seguendole, riusciremo a compren­ dere le rivelazioni del coro sulla percezione pratica e sui pro­ getti di armonizzazione. Il discorso di Creonte sul vedere comporta implicitamente una particolare costruzione della realtà, una costruzione che ri­ fiuta gli elementi che non si accordano con essa63. Egli per­ mette che si riveli o che diventi evidente solamente ciò che si accorda con la sua immagine semplificata del valore: il danno imminente per la città (v. 185; cfr. v. 177), il cadavere abban­ donato del traditore (v. 206), la colpa evidente di Antigone (w. 307, 655), la follia del suo comportamento (v. 562), la terribile efficacia della punizione (v. 581) M. Egli invoca «Zeus che sem­ pre vede tutto» per difendere la sua visione semplificata (v. 184). Colui che si oppone, che vede in modo diverso da lui, manca, nella sua immaginazione, della vista, è una persona che «trama male azioni nell’ombra» (v. 494). O se, come Antigone, osa avventurarsi nella luce, viene in breve fatto scomparire (v. 774). Secondo Emone, Creonte ha un omma deinon, un occhio strano e terribile — poiché egli vede solo ciò che vuole vedere, sente solo ciò che vuole sentire. (Anche Antigone, sebbene con enfasi minore, insiste a guardare soltanto i mali della sua fami­ glia — v. 6 — e la forza della legge dei morti — v. 457 — .) Alla

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fine Creonte sarà punito venendo privato della vista del figlio, alle cui richieste era stato cieco (w. 763-764). Il giro del sole misura la sua sconfitta (v. 1065); con dolore egli giunge a «ve­ dere» la morte dei membri della sua famiglia (v. 1264) e, alla fine, «troppo tardi a vedere la giustizia» (v. 1270). Questo omma deinon si oppone, dunque, implicitamente all’occhio del sole, che vede la forza delle due posizioni in con­ flitto — apparentemente indifendibili senza una qualche scon­ fitta, poiché Zeus sostiene Tebe, ma l’aquila rimane il suo sim­ bolo. La visione di Creonte si oppone anche alla visione del coro, perché i coreuti invocano il sole affinché li assista nella loro ricerca e chiedono di poter vedere ciò che lui ha visto. Essi aspettano l’illuminazione di un occhio esterno e non control­ lato dall’uomo. Essi lasciano che le rivendicazioni più impor­ tanti salgano dal mondo e si mostrino davanti a loro e non de­ cidono quale di esse vogliano o non vogliano vedere. L ’occhio di Creonte è attivo e corregge ciò che vede. Allo stesso modo Creonte immagina se stesso come attivo e non passivo: il capi­ tano della nave che avanza nella sua rotta; il domatore di ani­ mali; il forgiatore dei metalli, il maschio. Gli uomini del coro, sin dall’inizio, vedono se stessi in modo differente. La loro in­ vocazione ha più il carattere dell’attendere che quello del fare o del formare; essi chiedono che qualcosa si manifesti a loro senza pretendere che sia proprio ciò che essi vogliono. Appare all’alba, attraverso la nebbia del fiume, ed è visto. La stessa sensibilità alla visione si ripresenta in seguito, quando gli occhi dei coreuti vedono e piangono allo stesso tempo, costruiscono e vengono trascinati. Questo non è un atteggiamento hege­ liano. Nella rappresentazione tragica il pubblico occupa una po­ sizione che gli consente di riconoscere questo senso dell’attesa. L ’intelligenza, che ricerca attivamente, si unisce all’apertura, al desiderio di venire sorpresi e commossi, assieme agli altri. Questo modo di concepire la visione ci suggerisce alcuni dubbi non solo su Creonte, ma anche sui progetti di armoniz­ zazione e, più in generale, di sintesi, nella misura in cui la sin­ tesi implica la modifica delle condizioni presenti, sostenute da Zeus e viste dall’occhio della natura. Il nostro sospetto che il coro non presenti una visione hegeliana viene rinforzato dal­ l’ode seguente.

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Molte sono le cose deina, ma nessuna è più deìnon dell’uomo: questa cosa attraverso il canuto mare pure nel tempestoso N oto avanza, fra le onde movendo che ingolfano intorno; e l’eccelsa fra gli dei, la Terra eterna, infaticabile egli travaglia, volgendo gli aratri di anno in anno, rivoltandola con i figli dei cavalli. E la razza spensierata degli uccelli e delle fiere selvatiche le stirpi e le marine creature dei flutti nei lacci delle sue reti avviluppa e fa preda l’uomo ingegnoso; e vince con le sue trappole l’agreste animale vagante per i monti, e il cavallo dalla folta criniera sottoporrà al giogo ricurvo, e il montano instancabile toro. E parola e pensiero (phronema ) celere come vento e impulsi (orgas) a civili ordinamenti da solo apprese; e a fuggire di inospiti geli e di gravi piogge i rovesci dal cielo, ricco di risorse. N é mai senza risorse muove incontro ad alcun evento futuro: da Ade soltanto non troverà scampo, anche se ha escogitato salvezza da mali incurabili. Possedendo, di là da ogni speranza, l’inventiva dell’arte, che è saggezza, talora muove verso il male, talora verso il bene. Se le leggi della terra compie e la giustizia giurata sugli dei, elevata è la sua patria; ma senza patria è colui che per temerità si congiunge al male: non abiti il mio focolare né pensi come me chi agisce così (w . 332-375)65.

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A questo punto gli uomini del coro hanno già udito la di­ fesa che Creonte ha tenuto in favore della supremazia della po­ lis. Essi hanno anche udito la guardia raccontare la strana se­ poltura. La parola deinon compare due volte nel corso degli avvenimenti precedenti, in preparazione di questa lirica. In en­ trambi i casi essa viene usata dalla guardia, la quale definisce la sepoltura deinon (v. 243), paurosa ed incomprensibile e consi­ dera deinon, terribile, il fatto che Creonte sia così orgoglioso delle sue empie idee (v. 323). Queste occorrenze del termine ci fanno pensare ad un certo ottimismo. Infatti dopo essere stati testimoni di questi eventi e di queste ambizioni, gli uomini del coro pensano che l’uomo sia una cosa deinon: un essere mera­ viglioso e strano, che non è a casa propria, né è in armonia nel mondo della natura; un essere naturale che strazia la natura per costruirsi una casa e modifica la sua stessa natura per farsi delle città. Niente è più deinon, ci suggerisce il testo, neppure gli dei. (Ciò, forse, avviene perché la loro vita è perfettamente armoniosa e controllata. Essi non possono essere ammirati come si ammirano gli esseri umani perché non hanno ostacoli da superare, né possono essere temuti o criticati dal momento che non hanno bisogno di allontanarsi dalla loro natura o di di­ ventare empi per realizzare se stessi.) «Questa cosa», dicono i coreuti e usano il pronome neutro per prendere le distanze dalla stranezza di questa creatura, mentre tentano di fornire una descrizione imparziale della sua natura e del suo comportamento. «Attraversa il canuto mare»: a prima vista è la storia di un progresso trionfante. Ci viene enumerata la considerevole lista degli strumenti escogitati da questa creatura per guadagnare il controllo sul contingente66. La nave e l’aratro, che compaiono come metafore politiche prima e dopo l’ode, ora vengono citate alla lettera, come esempi dell’inventività umana. E questa grande ricchezza di ri­ sorse non si limita a controllare l’esterno. Infatti l’essere umano ha creato se stesso come essere sociale, ha modellato pensieri, emozioni, istituzioni, ha governato gli aspetti della sua vita interiore prima ingovernabili. Sembra, dunque, che egli abbia una soluzione per tutto. Rimane solo il caso ultimo, la morte. Ma, nota il coro, molte malattie che un tempo erano senza speranza sono state curate con mezzi umani. La morte è stata allontanata. Forse che una creatura così ricca di risorse non potrà trovare una soluzione?

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Questa è la superficie del testo della lirica. Abbiamo tutta­ via detto che queste immagini devono essere seguite avanti e indietro per tutto il dramma, finché non cogliamo l’intero tes­ suto delle connessioni e delle suggestioni. Ma così facendo la storia diventa meno lieta. Infatti ognuna delle conquiste men­ zionate indica la presenza di un problema sulla strada del pro­ gresso umano. Più in particolare, ciascun elemento rivela la va­ rietà e la pluralità dei valori umani e mette in forse il tentativo di creare l’armonia attraverso la sintesi. Così l’ode ci porta ol­ tre la critica che abbiamo specificamente formulato contro i protagonisti, verso una critica generale all’ambizione di elimi­ nare il conflitto. Gli esseri umani costruiscono navi. Decidono di attraver­ sare il mare e si sforzano di farlo in piena sicurezza. Ma pen­ siamo ora alla nave dello stato di Creonte, ad un artefatto umano. Questa nave, come una nave vera, può essere fracas­ sata dalle tempeste: gli dei hanno scosso Tebe «in grande tem­ pesta» (v. 163) e più tardi il coro arriverà alla conclusione che «a chi un dio sconvolga la casa / [...] è come onda / di mare, quando per infesti soffi di Tracia / correndo sopra il tenebroso abisso marino / sommuove dal fondo / nera sabbia, e l’impeto dei venti / fa rimbombare di gemiti le rive colpite di fronte» (w. 584-593). Queste riflessioni ci rimandano non solo alla vulne­ rabilità delle imprese umane, esposte agli eventi esterni, ma an­ che (dal momento che la nave è la città di Creonte) al fatto che gli esseri umani sono spesso costretti a scegliere tra il valore del progresso e quello della pietà; tra la ricerca del benessere o della salvezza e la necessaria cura degli obblighi religiosi. Ve­ niamo, dunque, indotti a considerare il conflitto morale che sta al centro del dramma e a pensare che esso non può essere facil­ mente eliminato, neppure dal miglior legislatore. Infatti il mi­ glior legislatore sarà sempre, e legittimamente, impegnato a ga­ rantire la salvezza del suo popolo; e in talune circostanze que­ sto principio imprescindibile può spingerlo a commettere un’empietà. Qualche volta c’è una soluzione come quella di Pericle, qualche volta no. L ’immagine successiva rinforza ed estende questa rifles­ sione. La terra ci fornisce gli alimenti; e, tuttavia, la scelta di dissodarla sembra essere un’offesa che l’essere umano compie contro «l’eccelsa fra gli dei». Ancora una volta il progresso en­ tra in collisione con la pietà; la nostra sopravvivenza sembra

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dipendere da una violazione. In generale siamo indotti a pen­ sare che la scelta di compiere progressi tecnologici può spin­ gerci molto frequentemente a violare alcuni valori naturali, come l’integrità o la bellezza, o, addirittura, le condizioni della nostra salute e della futura prosperità. Una visione armoniz­ zante dello stato non potrebbe risolvere questi conflitti con fa­ cilità; anche un governante più hegeliano di Creonte vivrebbe un profondo conflitto. Questa situazione si manifesta anche quando consideriamo le altre immagini tecnologiche presenti nel dramma. Il discorso di Creonte sulle miniere tradisce la de­ terminazione a controllare l’oggetto a spese della sua integrità e della sua particolare bellezza: l’atteggiamento del minatore è irrimediabilmente opposto all’atteggiamento del collezionista di pietre preziose. Riconsideriamo anche quale uso faccia Creonte dell’aratura per esprimere la sessualità non erotica, le­ gata alla città. Qui (e più in generale nella formula del matri­ monio ateniese) un pericoloso terreno di conflitti viene armo­ nizzato ed eliminato solo attraverso il disprezzo della divinità di eros. Un corretto matrimonio sembra richiedere che si tra­ scuri un potere che, a parere del coro, è antico e vincolante quanto lo sono le norme etiche67. Il buon marito secondo Creonte non deve rispondere alla passione che «sulle tenere gote / della fanciulla si posa», alla follia che «dei giusti l’animo / rende ingiusto». Ma così una divinità si oppone ad un’altra; Demetra non è amica di Afrodite; una richiesta legittima sta in tensione con un’altra. La città hegeliana è costretta a scegliere tra il matrimonio e l'eros, e deve necessariamente scegliere il primo. Deve, dunque, trascurare un bene e cessare di essere hegeliana. Oppure, se tenta (come fa Atene) di onorare tutti gli dei, deve accogliere con disagio quelle divinità che non rispet­ tano le altre e si divertono a inviare conflitti ai mortali; ed an­ cora una volta la città cessa di essere hegeliana. Le successive immagini sulla cattura degli uccelli e sull’ad­ domesticamento degli animali possono essere seguite attra­ verso tutto il dramma, poiché rivelano la stessa struttura e por­ tano sempre alle medesime conclusioni. In seguito viene lodata la parola come una grande invenzione. Ma la parola, la trasfor­ mazione del discorso etico, è lo strumento centrale nelle sem­ plificazioni di Creonte (e di Antigone). Alla fine del dramma Emone, l’amante sensibile, rinuncia del tutto alla parola per morire «guardandolo fisso con occhi selvaggi [...] senza nulla

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rispondere» (v. 1232). Siamo costretti a chiederci quale tipo di discorso egli potrebbe non rifiutare. Sarebbe un discorso hege­ liano della sintesi, che nega e toglie le contraddizioni? O non sarebbe piuttosto un discorso nel quale le tensioni sono pre­ senti e riconosciute? Forse potrebbe essere il complesso di­ scorso della tragedia nella sua totalità. Phtonema, il successivo oggetto di lode, è l’inconsueta parola usata da Creonte per indicare la mente, che, a suo avviso, deve preservare la propria salute semplificando e rifiutando (w. 176, 207, 473; cfr. v. 459). Gli «impulsi a civili ordinamenti» (astynomuos orgas) sono in definitiva una orge, collera ingovernabile, rabbia violenta (w. 280, 975, 766; cfr. v. 875) Così lo strano vo­ cabolario dell’ode ci invita a considerare che la città di Creonte è costruita propriamente sull’ira: la collera violenta per la nostra vulnerabilità di fronte al mondo è il sentimento che, al fondo, mo­ tiva le strategie di salvaguardia. H progresso assume i caratteri di una rivincita. Anche il raffinato tentativo hegeliano di costruire una città armonizzata potrebbe essere nient’altro che un sottile ed astuto stratagemma della rivincita. Questo ci dimostra perché 1’hypsipolis e 1’apolis, chi abita in alto e chi è senza città, siano, nelle riflessioni e nelle parole dell’ode, l’uno accanto all’altro: la rabbia del controllo esercitato dalla città mostra come suo lato oscuro il disprezzo o l’eliminazione delle forze particolari e sepa­ rate che riempiono la città e le forniscono la sua sostanza75n Wation, G „ 253n, 286 321n 322n Wcil, l'„( |3 lu WcrkmeÌKin , W 11 I H 5 ii Whallon, W . I25n I27n W hilc, N I ' . 32 2 11, 3.’ In t.'7h. )28n W h iirl ir a d , I >, M tm , m ,7 h W h iim an , ( , IKOn, 74H » W iclarul, W .'76n . 2 7 1 »

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INDICE DEI NOMI

W o o d , O ., 4 3 9n, 6 2 0 n W o o d ru ff, P .B ., 4 4 5 n W o o d w a rd , T ., 180n W o o zley , A .D ., 3 2 2 n , 32 4 n W righ t, G .H ., von , 5 3 6 n W ycherley, R .E ., 4 3 8 n

X e n a rc o , 25 7 Z eid in , F ., 129n, 130n Z e n o n e d i E le a , 2 7 6 n Z eyl, D J . , 2 5 3 n -2 5 5 n Z iirch er, W ., 7 4 7 n

Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 dalla litosei, via rossini 10, rastignano (bologna) www.litosei.com