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Italian Pages 428 Year 2003
Da quando la corte di Camelot risuonava dei loro giochi da bambini, Uther e Merlino sono stati amici e compagni inseparabili. Una volta cresciuti, c'è stata solo una persona che Merlino abbia amato più del cugino: sua moglie Cassandra. Alla morte di lei, avvenuta per mano di un assassino sconosciuto, i sentimenti di Merlino verso il cugino, che egli ritiene colpevole dell'omicidio, si tramutano in un odio tanto profondo quanto era stato forte il suo affetto. Oltre a questo episodio, che lo segnerà profondamente, Uther, salito al trono della Cambria, deve affrontare altre difficili prove. L'eterno nemico re Lot di Cornovaglia si prepara a sferrare un attacco combinato alla Cambria e a Camelot e per questo sta cercando di rinsaldare le vecchie alleanze. Ma per farlo ha bisogno di avere accanto l'odiata moglie Ygraine, figlia del re dell'Eire, che Uther fa strategicamente rapire. In un complesso gioco di tradimenti e amicizie, Uther riesce a creare una rete di odio intorno a Lot. A partire proprio da Ygraine che, innamoratasi di lui, tornerà dal marito portando in grembo il frutto del suo amore. E sarà durante l'incalzare della campagna contro gli invasori, tra il furore delle armi, che Uther saprà della nascita di suo figlio, a cui è stato dato il nome di Artù. Da qui inizia la leggenda.
Jack Whyte è poeta, regista cinematografico e romanziere. Nato in Scozia, vive ora a Vancouver. Le cronache di Camelot sono ormai un bestseller in tutto il mondo. Per Piemme ha pubblicato La pietra del cielo, La spada che
canta, La stirpe dell'aquila, Il sogno di Merlino, Il forte sul fiume, Il segno di Excalibur e Le porte di Camelot.
Sovraccoperta: Studio Aemme [email protected]
In sovraccoperta: Foto di Simon Marsden ISBN: 88-384-7204-1 Titolo originale dell'opera: Uther © 2001 by Aquilifer Holdings Ltd. Traduzione dall'inglese a cura di Annalisa Carena Realizzazione editoriale: Conedit Libri s. r. l. - Cormano (Mi) I Edizione 2003 © 2003 - EDIZIONI PIEMME Spa 15033 Casale Monferrato (AL) Via del Carmine, 5 Tel. 0142/3361 Fax 0142/74223 www.edizpiemme.it Stampa: arti grafiche TSG s. r. l. Via Mazzini 4 - 14100 Asti
A mia moglie, Beverley, e al clan: Jode, Mitch e Holly, Jeanne e Michael, e Phyllis
Prologo Figlio di Uric Pendragon, capo e re della Federazione dei Pendragon di Cambria, e di Veronica Varro, appartenente a una delle più illustri famiglie di Camelot, Uther conduce fin da bambino un'esistenza divisa a metà. Da una parte Tir Manha, sede di governo del padre, con le sue cupe usanze celtiche e la tradizione di guerrieri feroci e indomabili; dall'altra Camelot, l'ex Colonia romana, depositaria dell'eredità militare, amministrativa e culturale dell'impero in Britannia. A premere perché il piccolo Uther trascorra il maggior tempo possibile a Camelot insieme al cugino Caio Merlino Britannico, suo coetaneo e grande amico, è soprattutto la madre Veronica, che spera in tal modo di sottrarlo alla barbarie e alla violenza che considera innate nel popolo cambriano e delle quali è stata testimone al suo arrivo a Tir Manha. Impensierito dai timori della madre e disorientato dall'acuto contrasto fra le sue due patrie, Uther trova un inaspettato sostegno in Garreth il Fischiatore, il Campione del Re, il quale si incarica della formazione complessiva del ragazzo con il beneplacito di re Ullic Pendragon. Sotto la guida di nonno Ullic e di Garreth, Uther viene educato al suo futuro ruolo di capoclan e di probabile re, sviluppando un carattere nobile ma impetuoso e una grande passione per la cavalleria. Ai suoi tradizionali amici, Garreth e Merlino, si aggiunge molto presto anche Nemo, una ragazza poco più grande di lui scappata di casa e ritrovata ferita in un bosco. Brutta e scontrosa, Nemo sviluppa per Uther un affetto morboso che la induce a sfruttare il suo fisico mascolino per entrare a far parte del reparto di cavalleria da lui guidato, i Dragoni. Il lungo apprendistato militare di Uther si svolge a Camelot, sotto la guida degli ufficiali veterani dell'impero e a fianco di Merlino, con il quale condivide amori e avventure. Il legame fraterno tra i cugini si spezza però alla comparsa di Cassandra, una giovane sordomuta ritrovata dai due nel corso di un pattugliamento: in una tragica notte
la ragazza viene trovata in fin di vita, stuprata e picchiata da un misterioso aggressore, e Merlino si convince che a compiere il misfatto sia stato Uther in seguito a uno dei suoi leggendari scoppi d'ira. Una serie di eventi gravi e luttuosi riavvicina i due giovani, pur senza sanare i loro dissidi. Un attacco proditorio del re di Cornovaglia, Gulrhys Lot, causa la morte di Pico Britannico, padre di Merlino e comandante in capo delle truppe di Camelot, mentre Uric, diventato re della Federazione dei Pendragon, cade vittima di un complotto ordito da Meradoc, capo di un clan dei Llewellyn, che ambisce a prenderne il posto. La morte di Uric promuove automaticamente Uther al ruolo di capo del suo clan, e lo include tra i pretendenti al trono chiamati a riunirsi per l'elezione del re in una cerimonia chiamata la Scelta. Per impedire che lo scomodo concorrente partecipi alla Scelta, Meradoc assolda un sicario per eliminarlo, Owain delle Grotte; ignaro di tutto, Uther salva l'uomo dalle fauci di un orso e si guadagna così la sua fedeltà, sventando i piani del rivale. Giunto a Tir Manha, sfida apertamente Meradoc rinfacciandogli i suoi misfatti e lo uccide. Gli altri capiclan, tra cui il giovane Huw Fortebraccio, lo acclamano così nuovo re della Federazione dei Pendragon.
PARTE PRIMA
CASSANDRA
I. Il mese di luglio, che avrebbe dovuto portare cieli azzurri e brezze estive, quell'anno era stato più simile a un tardo novembre: cieli grigi ingombri di nuvole gonfie di pioggia e venti freddi che si insinuavano anche negli abiti più pesanti gelando il corpo fino all'osso. Il temporale in corso, l'ultimo di una lunga serie, era iniziato il giorno prima, investendo Nemo con raffiche ghiacciate e acqua a catinelle. Nel giro di un'ora si era ritrovata fradicia e intirizzita, gravata dal peso aggiuntivo del suo spesso mantello di lana incerata col cappuccio, ormai zuppo. E mancava ancora un giorno intero di viaggio per arrivare a Camelot. Era passato un anno dalla Scelta e nove mesi da quando Uther aveva ricacciato in Cornovaglia l'esercito di Lot, un periodo segnato da crisi e difficoltà quotidiane. L'inverno era stato duro a Tir Manha, le scorte di grano e di foraggio erano calate con allarmante rapidità, e ora l'estate portava scarso sollievo, minacciando con il suo umore cupo e piovoso i futuri raccolti. Abbandonata la strada, Nemo cavalcò per ore tra gli alberi in cerca di un qualche riparo ma non trovò nulla, nemmeno una grotta o la tana di un grosso animale in cui infilarsi. Molti anni prima un enorme incendio aveva divorato l'intera foresta, e la vegetazione non era ancora ricresciuta interamente. Nemo aveva incontrato solo il rudere isolato di una capanna in una stretta gola sul fianco di una collina ma non le era stato di alcun aiuto: abbandonata da decenni, quel che restava della costruzione non aveva più il tetto e i muri cadenti non offrivano riparo dalla furia del vento. Nemo puntò direttamente verso l'unico luogo in cui sapeva di poter trovare almeno una rudimentale protezione dalla pioggia: una stalla di pietra, vuota da tempo immemorabile e ormai in rovina, che conservava però sulle travi marce il residuo di uno spesso tetto di zolle erbose. Se quel brandello di tetto non era crollato durante l'ultimo inverno, la ragazza avrebbe almeno potuto provare ad accendere un fuoco.
Il sole era tramontato da più di un'ora quando finì di percorrere le dieci o dodici miglia che la separavano dal bivio presso il quale si trovava la stalla, e un'altra ora trascorse prima che riuscisse a localizzare, nell'oscurità, l'edificio semidistrutto. Il tetto, o quel che ne restava, era ancora al suo posto, e sollevando il mantello per ripararsi dalle raffiche di vento, Nemo creò un angolo abbastanza asciutto per far scaturire qualche scintilla dall'acciarino e accendere una piccola fiamma, proteggendola con il suo corpo dalle folate gelide e insidiose. Attese che il fuocherello acquistasse un po' di vigore, poi cercò nella bisaccia la spessa candela che aveva sempre con sé e l'accese con un rametto ardente. A quel punto, tenendo la fiammella nell'incavo del braccio sotto il mantello, si spostò verso il muro contro il quale era accatastata una scorta di legna secca che altri viaggiatori come lei avevano utilizzato e reintegrato. Con molta pazienza riuscì allora ad accendere un vero falò, alimentandolo poco alla volta con i rami secchi. A poco a poco il suo umore migliorò vedendo le fiamme che iniziavano a danzare allegramente, rischiarando con la loro luce dorata l'angolo della baracca e proiettando ombre mutevoli contro i muri in rovina. Si rialzò e si tolse il mantello fradicio, poi con la mano sinistra afferrò la lama nuda della spada che portava sulla schiena e la spinse verso l'alto con un gesto deciso e ben calibrato, afferrando l'elsa con la destra per sfilare l'arma dall'anello di ferro che la teneva sospesa tra le scapole. Impugnandola come un coltello, Nemo la piantò con forza nel terreno e si chinò a raccogliere il suo scudo, un disco di legno ricoperto di cuoio con borchie di ferro. Lentamente, attenta a posizionare il tutto in maniera corretta, ancorò lo scudo al pomo dell'elsa legandolo con le cinghie applicate sul retro, in modo che fosse il suo stesso peso a tenerlo in equilibrio. A quel punto, soddisfatta, riprese il mantello e lo dispose delicatamente su quella struttura improvvisata per farlo asciugare al calore del fuoco, assicurandosi che non cadesse. Poi si slacciò il fodero della daga e a malincuore andò a occuparsi della sua cavalcatura. Di norma, un soldato di cavalleria avrebbe dovuto provvedere alle necessità dell'animale prima che alle proprie, ma Nemo era esausta e intirizzita, quasi allo stremo delle forze, mentre il cavallo
era ancora in buone condizioni, stanco e infreddolito forse, ma in grado di sopportare la furia delle intemperie per un'altra ora. Non aveva modo di metterlo al riparo perché il tetto era appena sufficiente a coprire lei e il suo falò, ma lo sistemò a ridosso del muro esterno, per proteggerlo almeno in parte dal vento. Per prima cosa rimosse le preziose bisacce e il mazzafrusto di ferro simile a quello di Uther, di cui era molto orgogliosa. Poi dissellò il cavallo e gli tolse la gualdrappa, rimasta incredibilmente calda e asciutta nella zona protetta dalla sella. Il grosso castrato scosse la testa con uno sbuffo di sollievo, tese i muscoli del dorso e voltò il posteriore in direzione del vento, chinando il capo in cerca di erba da brucare. Nemo sapeva che non si sarebbe mosso finché lei non fosse tornata. Portando con sé il mazzafrusto, andò a sistemare la sella accanto al fuoco, drappeggiandovi sopra la gualdrappa affinché si asciugasse. Da una bisaccia estrasse tutto il necessario per la cura del cavallo: una musetta cilindrica di cuoio ripiegata, un corredo di pastoie, una grossa striglia dalle setole dure e una sacca di avena chiusa da un cordone, piena per un quarto. Dall'altra tirò fuori una coperta ben legata e ripiegata, fatta di uno spesso tessuto di lana spazzolata e incerata, e il suo tesoro più prezioso: una ciotola di cuoio per cucinare donatale anni prima da Uther, assicurata a un largo anello di ferro. Come sempre, la esaminò accuratamente per accertarsi che non avesse subito danni durante il viaggio, poi la mise da parte insieme al treppiede pieghevole dalle lunghe gambe che serviva per reggerla. Nella ciotola c'era un altro involucro di cuoio più piccolo che ospitava un cucchiaio e una scodella, entrambi di corno; la scodella conteneva del sale avvolto in un fazzoletto insieme a varie piante ed erbe sigillate una per una: cipollotti, spicchi d'aglio e funghi secchi. Prese solo la scodella di corno e ritirò tutto il resto salvo la coperta, che sistemò sotto l'ala della sella, accanto al fuoco. Riempì la musetta di avena, poi staccò dal suo elmo di metallo il rivestimento di cuoio all'interno. Da un'estremità del tetto colava giù un costante zampillo d'acqua piovana e Nemo capovolse l'elmo per raccoglierla; quando fu quasi pieno, si chinò a raccogliere la sacca con l'avena e tornò verso il muro in fondo alla stalla.
Il cavallo era abituato a farsi impastoiare e non reagì quando lei si inginocchiò a fatica, ostacolata dall'armatura, per immobilizzargli le zampe anteriori; l'animale sapeva che subito dopo Nemo gli avrebbe tolto le briglie e l'odiato morso dalla bocca. Qualche attimo dopo cacciò la testa finalmente libera nell'elmo e bevve rumorosamente; ma non aveva molta sete, e ben presto scosse il capo per indicare che ne aveva abbastanza. Parlandogli dolcemente per tranquillizzarlo con il suono della sua voce, Nemo gli agganciò la musetta e lo lasciò mangiare. L'animale scrollò leggermente la testa e si spostò per assumere una posizione più comoda, poi abbassò il collo per appoggiare la musetta sul terreno e si mise a ruminare la sua avena. Nemo lo osservò per qualche istante, poi raccolse l'elmo e tornò accanto al fuoco. Seduta sulla sella, si slacciò la giubba e la aprì in modo che il calore penetrasse nell'umida tunica trapuntata. Estrasse da sotto l'ascella lo spesso astuccio di cuoio contenente i dispacci che Uther le aveva affidato perché li consegnasse a Merlino e controllò che fosse ancora sigillato, poi strinse bene la cinghia che assicurava l'astuccio al petto e lo rimise al suo posto. Con la coperta estratta dalla bisaccia si ripulì la faccia e il collo meglio che poté, strofinandosi la corta chioma bagnata. Per asciugarsi bene avrebbe dovuto togliersi l'armatura, compito tutt'altro che facile visto che era gelata, rigida e bagnata. Rimetterla addosso in seguito le sarebbe stato praticamente impossibile, e la turbava l'idea che nell'oscurità qualcuno potesse vederla nuda, schermata solo in parte dai muri cadenti e da un pezzo di tetto fatiscente, illuminata dal tremulo bagliore del falò. Quando si fu asciugata a sufficienza, Nemo distese la coperta accanto al fuoco, ne bloccò un'estremità a terra con qualche grosso sasso e fissò il lembo opposto, rivolto verso il falò, alla sommità di due lunghi rami piantati nel terreno; quindi si accoccolò in quel rifugio improvvisato. A quel punto estrasse dei pezzi di carne di cervo salata che teneva in una tasca della borsa di pelle appesa alla cintura e masticò lentamente un boccone dopo l'altro, gustandone il forte sapore affumicato mentre il tepore del fuoco penetrava a poco a poco lo spessore della tunica. Dopo aver dato un'ultima occhiata al cavallo, finalmente si distese avvolgendosi nella coperta e si addormentò, svegliandosi ogni tanto e alimentando il fuoco nel
timore di non riuscire più a riaccenderlo se lo avesse lasciato spegnere completamente. Al mattino era ancora gelata fino alle ossa, tremante sotto le vesti bagnate e la pesante armatura. La luce del giorno, per quanto poco invitante, la indusse a prendersi cura di se stessa, così si fece coraggio e tornò sotto la pioggia a raccogliere qualche bracciata di legna per rimpiazzare quella che stava utilizzando. Riattizzò il fuoco fino a far divampare la fiamma e si spogliò completamente, esponendosi al calore; poi mise gran parte dei suoi abiti a scaldarsi accanto al falò e si sedette avvolta nella coperta per pianificare le attività della giornata, sgranocchiando cereali abbrustoliti, nocciole sgusciate e frutta secca spezzettata. Dopo una breve sortita per soddisfare i bisogni corporali, si accoccolò nuda per un po' davanti alle fiamme, allargando la coperta per farsi inondare dal calore finché non si sentì tirare e pizzicare in tutto il corpo. Quando capì di non poter più resistere senza scottarsi, si infilò della biancheria leggera e asciutta estratta dalla bisaccia, assicurò al petto il prezioso astuccio dei dispacci e indossò di nuovo la spessa tunica ancora umida, i gambali, le pesanti calze di lana e gli stivali con le borchie di ferro; poi andò rapidamente a prendere il cavallo e lo condusse all'interno della stalla. Riparandolo sotto il tetto, lo strigliò meglio che poté, strofinandolo a lungo ed energicamente con le setole dure della spazzola per liberare il manto dall'umidità notturna, soprattutto sul dorso dove il ruvido peso della sella, se male equilibrato, poteva rapidamente diventare intollerabile all'animale. A quel punto gli agganciò la sella e vi posò sopra i pezzi principali della sua armatura: la pesante giubba e i gambali di spesso cuoio rivestiti da migliaia di piccoli anelli di metallo sovrapposti; legò lo scudo, l'elmo, la corazza e i cosciali l'uno all'altro con le loro cinghie e fibbie di cuoio, li depose sulla giubba e ricoprì il tutto con il suo mantello di lana. Nemo portava in vita un alto e robusto cinturone al quale erano assicurate due daghe di tipo romano, una sul fianco sinistro e l'altra sul fianco destro, subito dietro un'ampia borsa di cuoio. A tracolla aveva un'altra cintura dello stesso peso e spessore sul retro della quale, tra le scapole, era attaccato il grosso anello di ferro che sosteneva la spada. Quest'ultima era rimasta per tutta la notte
conficcata nel terreno per sorreggere il mantello; Nemo andò a recuperarla e la rimise nel fodero usando entrambe le mani. Dato che senza l'armatura era in grado di muoversi più agilmente e velocemente, decise di proseguire a piedi per rimanere più calda e risparmiare le forze del cavallo, e afferrate le briglie trascinò l'animale all'aperto sotto le intemperie, dirigendosi verso Camelot. Circa sei ore dopo, Nemo era giunta allo stremo delle forze. Non vedeva l'ora di raggiungere Camelot e i suoi bagni caldi. Un'ora prima aveva smesso di piovere, e uno squarcio tra le nuvole e un frammento di cielo azzurro alla sua destra l'avevano indotta a fermarsi in una stalla deserta per rimettersi l'armatura, in modo da entrare in città nella tenuta adeguata. Ma appena risalita in sella la pioggia aveva ricominciato a cadere, più fitta che mai. Quel poco di pazienza che le era rimasto era svanito quasi istantaneamente, sebbene fosse ormai in vista delle mura posteriori della fortezza, e avesse spronato il cavallo affrontando la dura salita. Le mura erano molto vicine, ma quasi completamente nascoste da una nuvola bassa e gonfia di pioggia che avvolgeva la cima della collina. Imprecando e borbottando fra sé, Nemo seguì il sentiero che si faceva a poco a poco meno ripido e quando alzò lo sguardo sotto la pioggia battente udì il grido di una sentinella e il suono di una tromba che chiamava il comandante della guardia. «Chi va là?» Nemo drizzò la testa sperando di identificare la voce, ma non la riconobbe. «Nemo» rispose a voce alta. «Decurione dei Dragoni di Uther. Ho un messaggio di re Uther per Merlino Britannico.» Ci fu un attimo di silenzio, poi si udì una nuova voce, questa volta molto familiare. «Nemo? Sei tu? Cosa ti accadde l'ultima volta che tornasti da Glevum?» «Mi desti quattro mesi di consegna di rigore, centurione Dedalo. Lo sai che sono io. Fammi entrare.»
Il pesante cancello si spalancò e Nemo si infilò nel nuovo stretto passaggio di sbarramento costruito dopo il primo, quasi fatale assalto di Lot. Alzò lo sguardo verso le guardie che la osservavano dall'alto delle mura, riconoscendone alcune, e per la prima volta si rese conto di quanto fosse efficace quel tortuoso corridoio. Chiunque in futuro avesse sferrato un attacco da quella parte avrebbe dovuto percorrere una stretta galleria fiancheggiata da alte mura sulle quali erano allineati i difensori. «Ehi, Muso-Duro, si direbbe che tu abbia preso un po' di pioggia!» Nemo ignorò quella battuta e tutte le altre, arrivando fino alla fine del cunicolo. Là, in uno spazio più ampio ma ancora cintato, trovò Dedalo insieme a un soldato che venne verso di lei per prenderle la cavalcatura. Stava per allontanarlo con un gesto quando Dedalo la prevenne. «Lascia a lui il cavallo, Nemo, e pensa a te stessa; direi che ne hai bisogno. Fossi in te, per prima cosa mi fermerei ai bagni. Dovrebbe esserci poca gente a quest'ora.» Nemo esitò, lanciandogli un'occhiata scontrosa, poi scrollò le spalle e recuperate le bisacce dalla sella se le sistemò su una spalla, abbandonando il suo cavallo al soldato con un secco cenno del capo. «Merlino Britannico?» «È fuori per un pattugliamento, ma sarà di ritorno nel tardo pomeriggio. Stanno preparando una spedizione a Verulamium, dall'altra parte del paese, per partecipare a una riunione di ecclesiastici.» Nemo non aveva alcun interesse per gli ecclesiastici. «Ho dei dispacci per lui da re Uther.» «Lo so, ti ho sentito. Nel tempo che impiegherai a scongelarti sarà di ritorno. Hai degli abiti asciutti? No? Allora va' a riscaldarti e a riacquistare un aspetto umano. Manderò qualcuno in lavanderia perché prenda delle vesti pulite e te le porti ai bagni. Gli dirò di gridare il tuo nome e di posarle negli spogliatoi. Lascia lì la tua armatura: la porterà a uno dei fabbri per farla asciugare accanto alle fucine, prima che si arrugginisca.»
«Non fa la ruggine. Gli anelli sono di bronzo.» Dedalo fece una smorfia e scosse la testa con aria di compatimento. «Nemo, credi davvero che non lo sappia? Ora va', togliti dai piedi.» Rimase in silenzio mentre lei si avviava, poi la richiamò. «No, aspetta, Nemo... Prima che tu vada ai bagni, forse saresti più tranquilla sapendo che i tuoi dispacci per il comandante Merlino sono al sicuro. Dove li hai messi?» Nemo gli lanciò un'occhiata, poi si batté il petto sulla destra. «Sono al sicuro.» Dedalo sorrise. «Già, adesso. Ma te li porterai dietro anche nella piscina di acqua calda?» Nemo sussultò e il centurione, vedendola sempre più preoccupata, si impietosì. «Devi trovare qualcuno di cui ti puoi fidare, Nemo... e se non c'è nessuno di cui tu ti fidi, trovare qualcuno di cui si fiderebbe Uther. Fossi in te, porterei i miei dispacci all'amministrazione e li affiderei a uno dei legati anziani prima di andare ai bagni. Tito o Flavio, fa lo stesso. Sono entrambi degni di fiducia.» Nemo lo fissò socchiudendo gli occhi ed esitò per qualche istante, poi annuì e si avviò verso il palazzo dell'amministrazione. Un'ora dopo, attraversati i bagni intermedi, Nemo si crogiolava nel calidarium, la profonda piscina d'acqua calda, chiedendosi se valesse la pena di uscirne per passare nel sudarium, la stanza del vapore, dove i muri piastrellati e le tende di pelle imprigionavano le nuvole di vapore che, alimentate dalla fornace posta sotto lo stabilimento, uscivano da aperture a livello del pavimento. Decise di rimanere dov'era, poiché le sembrava di non potersi mai saziare di quella magnifica acqua fumante, sebbene solo qualche ora prima fosse convinta che non sarebbe mai più riuscita a riscaldarsi. C'era solo un paio di persone ai bagni oltre a lei, e altre due ne stavano uscendo quando era arrivata. Tutta gente che lei conosceva e che le aveva rivolto un cenno di saluto nel vederla. Nessuno di loro le aveva rivolto la parola, né aveva prestato attenzione al suo sesso, ignorando intenzionalmente la sua nudità come se fosse perfettamente naturale, come la loro. Nemo non ci aveva badato. Era una questione che aveva liquidato senza esitazione parecchi anni prima.
Al di là della sua evidente appartenenza al sesso femminile, aveva un fisico decisamente mascolino. Fin da bambina era stata bassa e tozza, dotata di una forza immensa rispetto alla sua taglia e alla sua età, e quando si era offerta volontaria nelle truppe a cavallo di Uther aveva già il torace e le braccia robusti e muscolosi. Seni e pettorali erano meno pronunciati di quelli di molti uomini, benché privi di peli e forniti di capezzoli grandi e inequivocabilmente femminili. Fianchi e natiche, ventre e cosce erano asciutti e sodi. Solo il pube coperto da un vello nero contrastava con la sua immagine di forza e vitalità. Ciononostante alcuni cavalieri di Camelot, spinti dal desiderio, continuavano a vedere in lei soltanto una donna. Il suo corpo inviolato era un insulto alla loro virilità. In molti avevano provato a possederla con la forza, da soli o in gruppo. E tutti avevano fallito, umiliandosi pubblicamente, poiché non erano riusciti a prevedere e tanto meno a fronteggiare l'implacabile e violenta reazione di Nemo ai loro assalti. Ogni volta che avevano tentato di sopraffarla e di conquistarla, lei si era ribellata come un uomo in pericolo, malmenandoli e mettendoli invariabilmente in fuga pesti e sanguinanti. Proprio in quei bagni una volta l'avevano aggredita in sei, e due ci avevano lasciato la pelle. Uno era stato ucciso da un manrovescio di Nemo che gli aveva sfondato il setto nasale, l'altro era morto scivolando mentre tentava di schivare un calcio che lo avrebbe evirato: nella brutta caduta si era fracassato il cranio sul bordo della piscina. Dei quattro sopravvissuti, uno si era fratturato una gamba e l'altro si era ritrovato con le costole rotte, mentre gli ultimi due avevano tagliato la corda. L'inchiesta ufficiale sull'accaduto aveva scagionato Nemo, stabilendo che aveva agito per legittima difesa. Nel corso del procedimento, in più di un'occasione Merlino Britannico aveva mostrato perplessità, ma ogni volta si era inchinato al giudizio di Uther che aveva difeso accanitamente il suo subordinato, insistendo che venisse considerato prima di tutto un soldato, e solo incidentalmente, e con riserva, una donna. E nei frequenti casi in cui uno degli ufficiali di Camelot, addestrato come gli altri secondo le consuetudini romane, metteva in discussione l'opportunità di avere delle donne nei propri ranghi, Uther lo fulminava con un'occhiata
sprezzante portando a esempio Budicca e una dozzina di altre illustri donne celte, tutte famose guerriere, oltre a svariati capitani dei Pendragon. Snocciolava i loro nomi con rapidità citandole come dimostrazione indiscutibile del fatto che le donne della Britannia celtica avevano sempre combattuto a fianco dei loro uomini in completa parità. Dopo quell'evento, tutti avevano capito che non valeva la pena di perdere tempo con Nemo. Se per possederla bisognava lottare con lei come se fosse un uomo, suggeriva il buon senso, allora lei era un uomo... e il loro tentativo sarebbe risultato ambiguo. Da allora Nemo si mescolò tranquillamente agli altri soldati, girando nuda fra loro nei bagni, e solo i nuovi arrivati si interessavano a lei per un breve periodo prima di essere tratti in disparte e avvertiti. Dopo aver indossato abiti freschi di bucato e la leggera armatura dei cavalieri della guarnigione di Camelot, Nemo uscì dallo stabilimento e scoprì che nel frattempo il temporale era cessato. Il cielo era azzurro e senza nuvole, e nell'aria pulita si sentiva finalmente il calore di luglio. Anche i ciottoli infangati della strada si stavano asciugando rapidamente. Un paio di soldati a cavallo venivano verso di lei, diretti ai bagni, e Nemo capì immediatamente che tornavano da un pattugliamento, perché avevano i mantelli inzuppati e sporchi. Alzò un braccio per attirare la loro attenzione e domandò se Merlino era tornato. I due annuirono e uno di loro fece un cenno in direzione del palazzo dell'amministrazione. Nemo superò le guardie poste all'ingresso e a lunghi passi raggiunse la postazione dell'ufficiale di giornata, dove il legato Tito era immerso in una conversazione con un altro soldato appena rientrato. Vedendola avvicinarsi con la coda dell'occhio, Tito si chinò sotto il tavolo per recuperare l'astuccio che lei gli aveva affidato e senza smettere di chiacchierare glielo riconsegnò. Nemo allora si diresse verso la porta della stanza di Merlino, si fermò sulla soglia e bussò. «Avanti!» Merlino Britannico era seduto su una sedia dall'alto schienale e
senza braccioli, davanti a una lunga scrivania illuminata da una finestra a doppio arco. Teneva un rotolo di papiro alzato verso la luce con entrambe le mani e leggeva a voce bassa, con aria preoccupata. Non badò a Nemo finché non ebbe finito, poi buttò il rotolo richiuso sul tavolo. «Maledizione» borbottò, alzando lo sguardo verso il nuovo venuto. Dapprima la osservò con aria perplessa: era evidente che, pur conoscendo la persona che gli stava davanti, non riusciva a darle un nome. Poi, di colpo, scattò in piedi corrugando la fronte. «Fai parte delle truppe di Uther, vero? Sei quella che chiamano Nemo... Già... Il tuo re è qui? A Camelot?» Nemo rimase sull'attenti ma scosse il capo, incapace come sempre di proferire parola, e si limitò a tendergli l'astuccio di pelle facendo un passo avanti. Merlino si avvicinò scrutandola con attenzione, ma appena le sue mani si chiusero sull'astuccio lei indietreggiò, salutò e girando sui tacchi fece per lasciare la stanza. «Aspetta!» Nemo si voltò. Merlino seguitava a guardarla con aria pensosa. «Uther sta bene?» Nemo annuì e Merlino si rabbuiò. «Che ti prende, sei forse muta?» Nemo si schiarì la gola. «Sì, signore... comandante. Re Uther sta bene» rispose con voce roca. «Ottimo. Ed è sempre a Tir Manha?» «Sì, signore.» «E come vanno le cose nel suo regno? Tutto a posto? È passato un anno, mi sembra, da quando è diventato re, e nove mesi da quando ha rispedito la marmaglia di Lot in Cornovaglia con la coda fra le gambe. Non ha intenzione di farci visita, nel prossimo futuro?» Strani pensieri attraversarono la mente di Nemo. Qualcosa nel tono di voce di Merlino la mise istintivamente in allarme. Guardandolo negli occhi ebbe la sensazione che pensasse il contrario di ciò che stava dicendo e che sarebbe stato ben felice di non rivedere più il cugino. Per quanto assurdo e inspiegabile, era chiaro che Merlino Britannico non desiderava affatto che Uther tornasse a
Camelot. Non disse niente e si limitò a fissarlo ritta sull'attenti, stringendo l'elmo nel cavo del braccio sinistro, gli occhi impenetrabili sotto la striscia folta e ininterrotta delle sopracciglia. «Allora? Mio cugino ha intenzione di venire a farci visita?» Nemo sussultò e si rese conto che doveva dare una risposta. Chinò il capo. «Non so, signore. Non parla con me. Quantomeno non dei suoi piani.» «Uhm... Molto bene. Grazie di avermi portato questi» disse, mostrando l'astuccio di pelle. «Hai l'ordine di attendere una risposta?» «No, signore.» «D'accordo, puoi andare.» Con un brusco saluto Nemo girò sui tacchi e si allontanò con passo marziale, avvertendo lo sguardo di Merlino puntato su di lei. Appena fu fuori dall'edificio e abbastanza lontana dal palazzo, abbandonò il passo di marcia e si rimise l'elmo, calandolo bene sugli occhi. Si allacciò la cinghia sotto il mento e sistemò la protezione sulle guance, poi proseguì ad andatura normale pensando con stupore e preoccupazione a Caio Merlino Britannico. Conosceva Merlino fin da quando era un ragazzo, mentre Merlino non sapeva praticamente niente di lei; per qualche motivo noto solo a lei e Uther, entrambi avevano fatto in modo che Merlino ignorasse la sua esistenza. E ora l'istinto le diceva che quell'uomo rappresentava una minaccia molto concreta per Uther. Merlino era cambiato e così il suo atteggiamento verso Uther. Non sprizzava più quell'entusiasmo e quel sentimento sincero di solidarietà e fratellanza che l'avevano sempre ingelosita e fatta sentire esclusa tutte le volte che i cugini erano insieme. Merlino non voleva più bene a Uther. Quella constatazione la fece sussultare. Era davvero così? Non sapeva cosa pensare. Ma era assolutamente certa che Merlino non salutasse più con gioia la prospettiva di rivedere l'amico. Per qualche istante si domandò quale strada prendere, poi girò
risolutamente a destra, e così facendo si scontrò con una donna che veniva verso di lei. La fragile figurina vestita di azzurro quasi rimbalzò contro il suo corpo massiccio e cadde all'indietro mulinando le braccia; ma Nemo si gettò immediatamente in avanti e riuscì ad afferrarla prima che finisse a terra. Il cappuccio che nascondeva il volto della donna le ricadde sulle spalle rivelando una lunga chioma nera spruzzata di grigio e grandi occhi di un azzurro stupefacente che esprimevano sorpresa e spavento. Nemo la riconobbe, ed ebbe un tuffo al cuore pensando che aveva messo a rischio la vita della nonna di Uther, Luceia Varro. Luceia fece capire che non si era fatta male e che voleva rimettersi in piedi e Nemo imbarazzata la lasciò andare, dopo averla sostenuta per qualche istante. L'anziana donna fece un cenno col capo e si rassettò gli abiti, rassicurando con qualche colpetto sul braccio la giovane donna che la accompagnava, poi si rivolse a Nemo guardandola dritta negli occhi. «Grazie, giovanotto» disse. «Non so come tu abbia fatto a reagire così in fretta, ma sono molto contenta che ci sia riuscito. Mi manca un po' il fiato, ma tutto il resto è a posto. È stato come finire addosso a un muro, solo che non mi è mai capitato di sbatterci contro così forte.» Si interruppe e si guardò intorno, accorgendosi solo in quel momento che una piccola folla di spettatori si era fermata a osservarla. «Grazie a tutti» disse in tono deciso per congedarli. «Sto bene e non mi è successo nulla, grazie alla prontezza di riflessi di questo giovane. Tornate alle vostre occupazioni, per favore.» Attese che le persone dopo un attimo di esitazione si fossero allontanate, poi si voltò di nuovo verso Nemo, piegando la testa da un lato. «Quella è l'uniforme delle guardie dei Pendragon, giusto? I Dragoni?» Nemo si schiarì la voce ma riuscì solo a fare un cenno di assenso. La donna la osservò socchiudendo gli occhi. «Mi pareva. Non posso non riconoscere l'emblema di mio nipote. E qual è il tuo nome?» Nemo si schiarì di nuovo la gola e cercò di rendere la sua voce il più profonda possibile, sapendo che Luceia la credeva un uomo. «Geddio, signora. Mi chiamo Geddio.» La menzogna le sfuggì dalle labbra prima che se ne rendesse conto, scaturita dall'assurda preoccupazione che Luceia potesse lamentarsi col nipote di essere
stata spintonata da uno dei suoi uomini. Si fosse trattato di chiunque altro, Nemo non ci avrebbe badato, ma sapeva bene quanto affetto e quanto inspiegabile timore Uther nutrisse nei confronti della nonna. Luceia la fissava con sguardo penetrante, cercando di distinguere i suoi lineamenti sotto la maschera protettiva dell'enorme elmo da cavaliere, ma Nemo sapeva che la vecchia non poteva scorgere che lo scintillio dei suoi occhi. «Hai portato messaggi da Uther?» Annuì. «Sì, signora. Dispacci per il comandante Merlino.» «Capisco. Bene, suppongo che ne sarò informata entro la fine della mattinata. Per adesso, grazie ancora, giovanotto. Ma sarà meglio che in futuro tu faccia più attenzione a dove vai. Ti auguro una buona giornata. Vieni, Deirdre.» Nemo fece un passo indietro, osservando intimidita la vecchia signora che si incamminava, e solo all'ultimo momento i suoi occhi si posarono sulla giovane donna che Luceia Varro aveva chiamato Deirdre. Si accorse che la ragazza la stava guardando, la fronte liscia lievemente corrugata, e qualcosa scattò nella sua mente. Conosceva quella donna, anche se non aveva idea di dove l'avesse incontrata. Poi, mentre Luceia Varro prendeva la compagna sottobraccio e si allontanava, notò un gonfiore sotto la veste di Deirdre che mostrava senza possibilità di errore il suo stato di avanzata gravidanza. Nemo rimase in mezzo alla via osservando le due donne che si dirigevano verso il palazzo dell'amministrazione, e vide che la gente le scrutava con espressione quasi reverenziale. Un terzetto di cavalieri fuori servizio che chiacchieravano accanto all'ingresso interruppero la loro conversazione e si misero rispettosamente sull'attenti di fronte a loro, riprendendo a parlare solo quando Luceia e la sua compagna furono scomparse all'interno. Nemo li raggiunse, sforzandosi di non apparire troppo interessata. I soldati smisero di parlare vedendola avvicinarsi, e uno di loro le rivolse un cortese saluto. Nemo contraccambiò e adottò la sua voce "maschile". «Sono appena arrivato dalla Cambria. Chi è la ragazza insieme a
donna Luceia?» L'uomo che l'aveva salutata sorrise. «È donna Deirdre. La moglie del comandante Merlino.» «Uhm...» Nemo gli fece un cenno di ringraziamento e di saluto e si allontanò, meditabonda.
II. "È donna Deirdre. La moglie del comandante Merlino." Quelle parole riecheggiavano nella mente di Nemo mentre scendeva verso il cancello principale della fortezza. In quel momento della giornata era spalancato e lei notò che le sentinelle in servizio, a lei tutte sconosciute, non avevano granché da fare; si limitavano a ciondolare pigramente controllando i pochi carri che andavano e venivano e tenendo gli occhi aperti nel caso arrivasse qualche ufficiale. Era quasi giunta al cancello quando si rese conto che qualcuno dietro di lei la chiamava e si girò. Un uomo dal volto colorito e dagli occhi enormi e scintillanti la salutava sorridendo e Nemo si pentì di essersi voltata e di non aver riconosciuto immediatamente quella voce così particolare. Era Nennio, uno dei massaggiatori che lavoravano ai bagni. Nemo era estranea a qualsiasi tipo di sessualità e il suo interesse per l'argomento era praticamente nullo, quindi non aveva difficoltà ad accettare il fatto che Nennio nutrisse una predilezione per uomini e ragazzi, ma si trattava di un pettegolo inveterato, incapace di tenere la bocca chiusa e di farsi gli affari suoi: il suo incessante chiacchiericcio rischiava sempre di farle perdere la pazienza. Ciononostante, Nennio non si era mai stancato di cercare l'amicizia di Nemo fin da quando lei era arrivata a Camelot, rifiutando ostinatamente di farsi mortificare o scoraggiare dalla perenne ostilità che lei mostrava nei suoi confronti. Come poteva offendersi, le aveva detto più volte, quando capiva fin troppo bene il dramma che doveva tormentarla, ogni singolo giorno? Secondo lui erano entrambi della stessa razza ma di aspetto differente, come due facce di una medaglia. Nemo era un uomo condannato da un destino crudele a vivere in un corpo di donna, mentre Nennio era una donna imprigionata nel corpo di un uomo. Era stato così sfacciato nell’inseguirla, e così amabile e sensibile nei suoi confronti, da esaurire persino le incommensurabili riserve di scontrosità di cui
lei era dotata. Nemo aveva finito per sviluppare una certa tolleranza verso le sue attenzioni e ad accettare e addirittura apprezzare le sue sedute terapeutiche nella sala massaggi dopo il bagno e la sauna, pur ostinandosi a conservare un silenzio che, per Nennio, era quasi intollerabile. Quel giorno Nemo non aveva né il tempo né la pazienza per dedicarsi a lui e lo scacciò con un tale cipiglio che l'amico, malgrado la sua capacità di sopportazione, non poté far altro che adeguarsi, alzando le braccia in segno di scusa mentre lei usciva dalla fortezza. Merlino Britannico aveva preso moglie e non aveva detto niente: non aveva mandato un messaggio, né prima né dopo, a Uther Pendragon. L'offesa era intollerabile. Nemo sapeva che nulla al mondo avrebbe impedito a Uther di presenziare alla festa nuziale di suo cugino, se l'avesse saputo. In preda a un improvviso attacco di nausea, inspirò profondamente e trattenne il fiato in modo da allontanare il malessere. Quale che fosse la sua opinione personale su Merlino Britannico - e nel corso degli anni aveva nutrito molti sentimenti contrastanti nei suoi confronti, dall'ammirazione all'antipatia, dall'invidia all'indifferenza fino alla cieca gelosia - era una delle costanti della sua vita. Sotto molti aspetti, l'esistenza di Merlino condizionava la sua. Il comportamento del giovane aveva sempre avuto una benefica influenza sul più volubile cugino, e Nemo ne aveva indirettamente beneficiato. Per questo motivo la notizia che aveva appena ricevuto, rafforzando la sua convinzione che l'atteggiamento di Merlino nei confronti di Uther si fosse gravemente deteriorato, la sconvolgeva. E tutto ciò a causa di una donna. Era un fatto sconvolgente, incomprensibile. Una donna sconosciuta stava mettendo in pericolo tutto ciò che per Nemo aveva un valore. Una completa estranea, una persona comparsa dal nulla e del tutto ignota a Uther Pendragon, stava per distruggere il suo mondo strappandogli, a fini personali ed egoistici, l'amico più stretto e il più caro compagno. Distruggendo la fiducia che Merlino riponeva nel cugino, come evidentemente aveva già cominciato a fare, questa donna avrebbe certamente impedito a Uther di fidarsi di chiunque altro in futuro. Rubandogli l'amicizia di Merlino senza motivi plausibili, questa donna, chiunque fosse, si era dimostrata disonesta e insensibile.
Nemo aveva trascorso la sua vita adulta circondata da soldati rozzi e brutali, e tutti prima o poi avevano descritto, alcuni con cinica ironia, altri con iroso disprezzo, il modo in cui una donna qualsiasi donna - poteva dividere e mettere l'uno contro l'altro anche gli amici più cari, a causa di quella cosa terribile chiamata amore. Lo aveva sentito raccontare cento volte e ne aveva sempre dubitato, prendendo quelle storie con il beneficio dell'inventario. Ora però non poté fare altro che affrontare quella realtà e cominciò a riflettere sul da farsi. Non si era mai trovata in una situazione simile, ma sapeva come agire, perché una delle prime lezioni che Garreth il Fischiatore aveva impartito a Uther Pendragon, e che lei aveva fatto propria, era che nessuno, nemmeno un comandante di alto rango, doveva impegnarsi in un combattimento o in una battaglia senza prima aver scoperto tutto ciò che c'era da sapere sul proprio avversario. «Conosci il tuo nemico.» Ricordando quell'insegnamento, Nemo cominciò immediatamente a domandarsi come ottenere informazioni su questa Deirdre e si diede subito una risposta che la stupì per la sua semplicità. Nennio il massaggiatore doveva sapere tutto sulla nuova sposa di Merlino Britannico perché era proprio il tipo di pettegolezzo di cui amava occuparsi. La donna era giovane, incinta, ed era apparsa all'improvviso. Nemo ne era certa, dato che l'ultima volta che aveva portato dispacci di Uther a Camelot, quattro mesi prima, non c'era traccia di quella sconosciuta. Quindi Deirdre era sbucata dal nulla conquistando l'amore di Merlino Britannico. Da dove era venuta? E quando potevano essersi conosciuti? Nemo sapeva che Nennio non doveva aver lasciato nulla di intentato per soddisfare la sua insaziabile curiosità su una questione così importante. Qualche attimo dopo stava già tornando verso i bagni, pronta a levarsi il mantello insieme al resto degli abiti e agli stivali per raggiungere rapidamente la stanza sul retro che ospitava i plinti di pietra dei massaggiatori. Una volta spogliata si diresse verso la stanza del vapore, avvertendo Nennio che avrebbe avuto bisogno dei suoi servigi. Le riuscì più difficile del previsto rimanere distesa tranquillamente
senza dire una parola mentre Nennio la massaggiava, chiacchierando in continuazione. Più di una volta Nemo si trattenne a fatica dall'apostrofarlo malamente, nel timore che per una volta potesse offendersi e rifiutarsi di dirle altro. Bruciava dalla voglia di confessargli ciò che la turbava, ma sapeva che sarebbe stata una pessima idea, poiché non poteva rischiare che un tipo come Nennio nutrisse anche il minimo sospetto sul suo interesse per la nuova moglie di Merlino Britannico. Così strinse i denti e cercò di non dare ascolto al suo cicaleccio, lamentandosi di tanto in tanto perché, a dispetto della loro affinità spirituale, Nennio la stava trattando senza molti riguardi, punendola, sia pur dolcemente, per lo sgarbo di poco prima. Al suo arrivo Nemo aveva biascicato una scusa, borbottando che aveva cose molto importanti per la testa. Nennio le aveva fatto cenno che la cosa non aveva importanza e si era lanciato nella sua consueta cronaca di notizie e informazioni provenienti da tutta la Britannia, raccolte da ogni possibile fonte a cui avesse accesso. Nennio era molto orgoglioso di quelli che chiamava «i suoi confidenti», ovvero la rete di informatori che lo tenevano costantemente aggiornato, e ci teneva a far credere che se non conosceva proprio tutti quelli che bisognava conoscere, conosceva almeno qualcuno che li frequentava. Non a caso Nemo si era scusata della propria maleducazione sostenendo che aveva dei pensieri per la testa. Nennio sapeva perfettamente che lei era il messaggero più fidato di re Uther, e che ogni volta che veniva a Camelot da sola era per portare dispacci del re a Merlino; in passato però non era mai riuscito a ottenere il più piccolo indizio su quei messaggi ed era la prima volta che vedeva Nemo preoccupata, o almeno così credeva, per qualche aspetto della sua missione. Alla fine, convinto di agire con grande astuzia, Nennio pilotò la conversazione in modo da chiederle, ostentando la massima naturalezza, cosa l'avesse turbata così visibilmente quel pomeriggio. Nemo brontolò e si voltò verso di lui, inarcando un sopracciglio per fargli capire che la sua domanda era impertinente. Nennio scrollò le spalle e proseguì spiegando che non voleva
sapere niente di particolare, era solo curioso di capire cosa avesse contrariato la sua cara Nemo al punto da renderla così sgarbata con un vecchio amico che passava per caso e l'aveva salutata. Nemo annuì, dandogli ragione e ammettendo di essere stata ingiustamente scortese. Era arrabbiata, spiegò, perché quando si era presentata al palazzo dell'amministrazione chiedendo del comandante Merlino aveva dovuto attendere a lungo, dato che il comandante era chiuso nella sua stanza con una giovane donna, una donna prossima al parto. Di norma non le avrebbe dato fastidio aspettare, disse, ma appena arrivata era andata direttamente a consegnare i suoi dispacci perché le era stato detto che erano urgenti. Il motivo di quell'urgenza le era ignoto, ma re Uther le aveva dato precise istruzioni di consegnare senza un attimo di indugio l'astuccio contenente i dispacci nelle mani di Merlino Britannico. Così aveva trovato irritante che, dopo aver cavalcato notte e giorno in mezzo alle intemperie per eseguire i suoi ordini, fosse costretta ad aspettare mentre il comandante Merlino se la spassava con una sgualdrinella. Nennio la ascoltò a bocca aperta, sgranando gli enormi occhi luccicanti segnati da una riga nera di antimonio. Non la interruppe, ma appena Nemo ebbe finito di parlare fece un gesto significativo con la mano e annuì, dicendo che capiva perfettamente il suo malumore. Ma in realtà, aggiunse con una luce maligna negli occhi, non era proprio corretto definire la giovane donna "una sgualdrinella". Si chiamava Deirdre, ed era la nuova moglie del comandante. Nemo si tirò su appoggiandosi a un gomito, cercando di fingere il più assoluto stupore. La moglie del comandante? Il comandante Merlino era sposato? Quando era accaduto, e come? Dieci giorni prima, spiegò Nennio, gongolante per l'effetto del suo annuncio... No, Nemo non ne era stata informata, non ne sapeva assolutamente nulla. Se era stato mandato un messaggio a re Uther in Cambria, doveva essere successo mentre lei era in viaggio. Erano sposati da dieci giorni? Ma il ventre della donna era molto grosso... vicinissimo al parto. Da dove era spuntata fuori? Dove l'aveva tenuta nascosta Merlino?
Nennio allargò le braccia e scosse la testa, poi con una pacca sul fianco nudo di Nemo segnalò che la seduta era finita. Malgrado le apparenze, continuò, il parto era tutt'altro che imminente. Da quel che aveva saputo, mancavano ancora due mesi prima che donna Deirdre si liberasse del suo fardello. Mentre Nemo si metteva seduta sul bordo del plinto di pietra, risistemandosi il lenzuolo sui fianchi, Nennio ammise tuttavia che con sua grande delusione, nessuno era stato in grado di dirgli dove avesse vissuto la donna fino a quel momento. Era figlia di qualche re barbaro dell'Ibernia, di questo era sicuro, perché era emerso che si trattava della sorella del principe iberno Donuil, il gigante che Merlino aveva preso in ostaggio due anni prima durante il primo attacco di Lot a Camelot. Ma non poteva essere arrivata dall'Ibernia già in quello stato, a meno di qualche sinistra stregoneria, poiché da più di un anno Merlino non si assentava da Camelot per più di due o tre giorni alla volta. Come si spiegava, allora, la sua gravidanza? In base alle sue informazioni e a ciò che suggeriva la logica, Nennio riteneva che donna Deirdre fosse rimasta nei dintorni almeno per tutto quell'anno. E tuttavia nessuno a Camelot - né altrove, a dire il vero l'aveva mai vista prima che facesse il suo ingresso nella fortezza quasi un mese prima, splendente di bellezza e di salute come una sorgente di montagna, seduta su un piccolo calesse in compagnia di Caio Merlino e della sua prozia, Luceia Varro. Con la consueta ruvidezza, Nemo si dichiarò stupita che Nennio non fosse riuscito a estorcere qualche informazione a una delle inservienti o delle compagne della giovane donna. Nel corso di un mese doveva pure aver detto qualcosa che indicasse dov'era stata e da dov'era venuta... a meno che non fosse muta. Ma lei era muta, replicò Nennio, e Nemo rimase senza fiato, perché di colpo nella sua mente si erano ricomposti tutti i pezzi del mosaico.
Cassandra! Ecco perché a prima vista donna Deirdre le era parsa
così familiare, anche se quella nobile dama ben vestita e con la pancia prominente aveva ben poca somiglianza con la ragazza pallida ed emaciata che Nemo aveva trovato abbandonata nella foresta tanti mesi prima. Quanto tempo era passato? Nemo fece un
rapido calcolo e si rese conto che erano trascorsi tre anni da allora. Avevano trovato quella ragazzina grigia e insignificante durante uno dei consueti pattugliamenti perimetrali della Colonia, e Uther l'aveva portata a Camelot sul suo cavallo. In seguito si era scoperto che era muta, e le era stato dato il nome di Cassandra. Tre anni prima! D'un tratto Nemo si rese conto che Nennio la stava osservando attentamente con la testa piegata da un lato, e si costrinse a rilassarsi e a respirare normalmente, cercando nello stesso tempo di non tradire il proprio sbalordimento. Borbottò confusamente qualcosa sui muti, poi, colta da un'improvvisa ispirazione, guardò Nennio negli occhi e gli chiese se i muti fossero anche privi dell'udito. Lui sgranò gli occhi allargando le braccia per rispondere che non lo sapeva e Nemo annuì allontanandosi con tranquillità mentre l'altro, ancora sconcertato, la ringraziava. Soddisfatta dell'inconsueta disinvoltura con cui aveva ottenuto quelle informazioni, si rivestì rapidamente e uscì dai bagni senza smettere di pensare a Cassandra. Cassandra... il solo nome le provocava un senso di disagio, poiché la riportava direttamente alla radice dei problemi tra Uther e Merlino. Ricordava quella notte nei quartieri privati che un tempo Uther e Merlino definivano la stanza dei giochi. Nemo non era mai riuscita a scoprire esattamente cosa fosse successo, perché solo Uther e Merlino erano presenti in quel momento e nessuno dei due ne aveva mai parlato. Ma c'era anche la povera Cassandra con loro, insieme a un gruppetto di altre donne che erano partite l'indomani in un carro coperto, scomparendo da Camelot definitivamente. Nemo aveva assistito soltanto ad alcune scene del dramma: Cassandra che si precipitava fuori dalla stanza dei giochi, come se temesse per la sua vita; Merlino che appariva sulla soglia qualche istante dopo, nudo, poi indietreggiava e chiudeva la porta vedendo una guardia che lo osservava; Uther che usciva di corsa, chiaramente fuori di sé. In seguito aveva scoperto che Uther, accompagnato da un piccolo gruppo di Dragoni, era partito improvvisamente da Camelot per fare ritorno in Cambria. Quella stessa notte Cassandra era stata rapita e trascinata in un fienile dove il suo aggressore, la cui identità non era mai stata accertata, l'aveva picchiata, brutalizzata e
infine abbandonata, convinto evidentemente di averla uccisa. La donna era stata ritrovata il mattino seguente in fin di vita e Lucano, il capo dell'infermeria militare di Camelot, l'aveva curata per ore mentre Merlino Britannico, che in assenza del padre impegnato in un pattugliamento rivestiva la carica di ufficiale in comando, la teneva sotto stretta e continua sorveglianza per proteggere la sua incolumità. La notte successiva, come per magia, Cassandra era svanita senza lasciare traccia da un edificio rigidamente controllato all'interno e all'esterno. Per molto tempo erano circolate voci di ogni tipo, tra cui quella che Merlino avesse avuto un sogno premonitore sulla scomparsa di Cassandra. Da quelle voci ebbero origine altre dicerie secondo le quali Merlino era una sorta di mago. Nemo aveva anche sentito dire che Uther era responsabile della violenza alla ragazza, ma era un'ipotesi così palesemente assurda e contrastante con i fatti che Nemo si era limitata a scuotere la testa e a ignorarla. Di una cosa però era certa, e non era una diceria. L'affetto che per tutta la vita aveva legato Merlino Britannico e Uther Pendragon si era spezzato la notte della rissa nella casa dei giochi. Da allora i due uomini, che per tanto tempo erano stati inseparabili, raramente erano stati visti in compagnia l'uno dell'altro. Nemo non aveva mai osato chiedere apertamente a Uther cosa fosse successo fra loro quella notte, e lui non si era mai offerto di raccontarglielo, ma ora come allora lei era convinta che alla radice di tutto ci fosse Cassandra. Prima che la donna venisse ritrovata nella foresta, Uther e Merlino erano stati più che fratelli per venticinque anni ma in soli tre giorni, dalla comparsa di Cassandra nelle loro vite, quel legame era stato reciso. A quel tempo Nemo non aveva dovuto fare un grande sforzo per collegare Cassandra a tutte le leggende sulla stregoneria e sulle creature maligne che le erano state narrate durante la sua miserabile infanzia in casa del druido, e aveva finito rapidamente per considerarla una strega, venuta a distruggere l'amicizia fra i due splendidi giovani conosciuti in tutto il paese come i "Principi di Camelot". Come avrebbe potuto, altrimenti, evadere da una stanza sorvegliata senza che nessuno la vedesse? Spinta da quella
convinzione, Nemo aveva passato mesi a cercare quella donna per costringerla in qualche modo a riparare al male compiuto o, in alternativa, per assicurarsi che non costituisse più una minaccia per Uther Pendragon. Ma Cassandra sembrava davvero svanita nel nulla, ingoiata dal buio della notte. Passato un anno senza che nessuno la vedesse o la sentisse, Nemo aveva finito col dimenticarla o, per meglio dire, aveva cessato di pensare a lei come a una persona viva, reale, pur restando consapevole del danno che aveva provocato. E ora, dopo tre anni, Cassandra era tornata, incinta del figlio di Merlino. Come ci fosse riuscita restava un mistero, e Nemo ripensò terrorizzata alle storie che aveva sentito narrare dalle donne anziane quando era piccola, storie che parlavano di incantesimi, stregonerie, sortilegi, e più raramente di "magia", l'arcana, terrorizzante scienza occulta che prendeva il nome dai sapienti che la praticavano, i magi. Fin dal suo arrivo a Camelot aveva sentito parlare di Merlino come di un mago che praticava le arti della stregoneria, e Nemo non era tipo da trascurare una simile possibilità. Nemo era convinta che Cassandra, o Deirdre, come evidentemente si faceva chiamare ora, fosse una strega tornata sotto falsa identità per circuire Merlino con le lusinghe del suo giovane corpo. E il fatto che ci fosse riuscita nel più totale segreto, era la prova decisiva che i suoi sospetti erano giusti. A causa della debolezza di Merlino, caduto nelle grinfie della strega, la tranquillità di Uther avrebbe presto cominciato a sgretolarsi, e con essa anche la vita di Nemo, appena a Tir Manha fosse giunta notizia di ciò che era accaduto. Sapendo che le restava poco tempo per contrastare i malefici di Cassandra, Nemo tentò di ricordare ciò che sapeva sull'uccisione delle streghe. Le tornò in mente una donna vecchia e grassa conosciuta da bambina, che spargendo una manciata di erbe tritate in una pentola di stufato aveva raccontato a tutti che esistevano solo due modi per uccidere le streghe senza rischiare di essere trascinati negli inferi. Uno era il fuoco, aveva detto la vegliarda, smuovendo un ciocco ardente e spargendo intorno una nuvola di cenere e
scintille. Una strega bruciata era una strega distrutta. L'altro era il ferro, ma Nemo non ricordava come, secondo la vecchia, lo si dovesse usare. L'unica cosa che le era rimasta in mente era che il ferro utilizzato per uccidere una strega non poteva mai più essere adoperato da mano umana. Ripensandoci, la cosa le parve assurda, perché la scelta più ovvia sarebbe caduta su una spada... al limite una lancia, o un'ascia, ma soprattutto una spada. E chi sarebbe stato così sciocco da tentare di uccidere una strega sapendo che in caso di successo avrebbe perso la sua arma più preziosa? Il problema era troppo impegnativo per lei, e Nemo smise di pensarci. In un modo o nell'altro, con il fuoco o con il ferro, avrebbe trovato il modo di sventare i piani della strega. Sarebbe rimasta vigile, in attesa della prima occasione che le si fosse presentata. Due giorni dopo Merlino Britannico lasciò Camelot alla testa di un ampio contingente formato da quattro squadroni di cavalleria ciascuno composto da quaranta elementi, più tutto l'equipaggiamento e il personale necessario a mantenere una simile milizia per un mese o più, compresi carri con provviste, riserve d'acqua e cavalli di scorta. Il gruppo comprendeva centosettantacinque soldati, inclusi gli ufficiali, e con gli addetti ai viveri e gli stallieri il numero complessivo saliva a oltre duecento. Fu uno spettacolo grandioso vederli sfilare attraverso la porta principale di Camelot e discendere il tortuoso sentiero che portava alla pianura sottostante. Ma i cavalieri non stavano partendo per la guerra. Erano diretti alla lontana città di Verulamium per assistere a un dibattito tra vescovi cristiani riunitisi per decidere su questioni gravi e importanti riguardanti gli dèi e discutere sul modo in cui le loro speculazioni sarebbero state accolte nei tempi a venire. Nemo se l'era fatto spiegare da diverse persone, ma aveva ritenuto la cosa uno spreco di tempo e di fatica e si era rallegrata di non essere cristiana. Grazie a quell'evento, però, Merlino si allontanava da Camelot, abbandonando la moglie. Mentre assisteva alla partenza, Nemo vide Cassandra, donna Deirdre, seguire suo marito con lo sguardo facendogli un gesto di
saluto ogni volta che lui si voltava verso di lei, e provò un senso di disgusto, come se avesse mangiato qualcosa di indigesto. Non ebbe alcun problema a trattenersi a Camelot senza farsi notare, la settimana successiva alla partenza di Merlino. Non era attesa con urgenza a Tir Manha, quindi non la preoccupava il fatto di ripresentarsi con un po' di ritardo. Il suo volto e la sua uniforme erano abbastanza familiari a Camelot per permetterle di rimanere alla fortezza senza bisogno di nascondersi, limitandosi a non attirare l'attenzione e a non farsi notare da personaggi importanti che avrebbero potuto stupirsi di vederla ancora lì dopo che aveva consegnato i dispacci. Al calar della sera lasciava la fortezza accampandosi sul fianco della collina o nei boschi al margine del campo di addestramento sottostante, e presto capì che scegliendo un luogo differente ogni notte sarebbe rimasta del tutto inosservata. Rientrava nella fortezza al mattino passando dalla porta principale, ma i turni di guardia assicuravano che le sentinelle non fossero mai le stesse da un giorno all'altro. Le sue visite quotidiane ai bagni furono l'unica sua attività significativa in quella settimana, e l'unico a notarle fu Nennio che, anche ammesso che fosse stupito dalla sua lunga permanenza in città, non ne fece parola con nessuno. Nelle ore diurne Nemo teneva d'occhio la casa di Luceia Varro, aspettando che donna Deirdre ne uscisse per seguirla. Raramente la strega si avventurava all'esterno da sola, ma usciva almeno una volta al giorno insieme a donna Luceia o con una delle domestiche di casa Varro. Anche quando non aveva compagnia, comunque, si manteneva sulle vie pubbliche più affollate e Nemo non ebbe mai modo di avvicinarla. Poi, alla fine della settimana, si verificò un fatto nuovo. La strega, vestita con un abito di un giallo acceso, lasciò Camelot da sola su un piccolo calesse dalle ruote alte e strette, trainato da un unico cavallo. Nemo osservò da lontano la processione di inservienti delle cucine dei Varro che a metà mattina riempirono il calesse di viveri, di abiti, coperte e lenzuola; stimò che le provviste fossero sufficienti a mantenere tranquillamente almeno due persone per circa una settimana. Tuttavia, nessuno si unì alla donna, e Nemo cominciò a
sperare che fosse finalmente giunta l'occasione tanto attesa. Verso mezzogiorno Luceia Varro in persona uscì di casa, abbracciò Cassandra e rimase a guardarla agitando la mano mentre si allontanava da sola, tenendo lei stessa le redini e uscendo senza fretta dalla porta principale. Nemo la seguì a piedi fino al cancello e vide il calesse prendere il sentiero che portava a est, verso la grande strada romana che percorreva la Britannia da nord a sud in tutta la sua lunghezza. A quel punto andò direttamente alle stalle a sellare il cavallo, recuperò in pochi minuti le proprie cose dallo stalliere e si mise subito in cammino, senza che nessuno la notasse. Solo quando fu ai piedi della collina spronò il grosso castrato baio al galoppo e l'animale si lanciò nella corsa divorando la distanza che separava Nemo dalla sua preda. Galoppando a grande velocità, Nemo non si accorse che Cassandra aveva lasciato la strada che portava a est e aveva svoltato a destra, in direzione sud. Per sua fortuna un lampo di giallo brillante attirò la sua attenzione quando ormai aveva già passato il bivio. Tirò bruscamente le redini rizzandosi sulle staffe per vedere al di là dei cespugli oltre i quali aveva scorto l'abito della donna e la vide scomparire in un boschetto verso le colline. Nemo si rese conto che non avrebbe mai scoperto dov'era finita Cassandra se non fosse stato per il vestito della donna, e capì che era meglio non rischiare di tradirsi allo stesso modo. Era un pomeriggio d'estate e l'armatura che indossava era di metallo brunito. Sarebbe bastato il riflesso di un raggio di sole a segnalare la sua presenza. Rapidamente si tolse l'elmo e lo appese al pomo della sella, poi srotolò il lungo e pesante mantello da viaggio e se lo drappeggiò addosso in modo da nascondere completamente l'elmo e le parti lucide dell'armatura. Fatto ciò, abbandonò la strada e si diresse verso il punto in cui aveva visto per l'ultima volta Cassandra. Per due ore Nemo tenne dietro alla donna su per le colline, lontano da ogni sentiero, seguendo le tracce deboli e indistinte che le strette ruote cerchiate di ferro del calesse lasciavano sul terreno indurito. Non fidandosi della presunta sordità di Cassandra, procedette silenziosamente, badando a non farsi scorgere e
tenendosi a distanza dalla sua preda. Poi d'improvviso, la donna si dileguò. Se in quel momento Nemo non avesse avuto lo sguardo puntato su di lei, forse sarebbe fuggita in preda a un terrore superstizioso di fronte a quella sparizione così repentina. Invece la vide come sprofondare nel terreno con il suo calesse, cambiando contemporaneamente direzione; facendo appello a tutte le sue risorse avanzò con estrema cautela, pronta a fuggire in qualsiasi momento. Quando raggiunse il punto in cui Cassandra era scomparsa, scoprì l'accesso a un sentiero nascosto da fitti cespugli su entrambi i lati, invisibile a più di dieci passi di distanza, che scendeva bruscamente descrivendo un tornante. Con un colpo di reni si alzò sulle staffe e si guardò intorno, cercando di valutare, dall'altezza e dalla densità dei cespugli e degli alberi che aveva davanti, quanto potesse essere ampia e profonda quell'apertura. Dopo qualche istante di riflessione, strinse i denti e usando entrambe le mani sfilò la lunga spada che portava sulla schiena. La soppesò per un attimo, poi spronò il cavallo e si avviò lentamente lungo la china. In pochi istanti si ritrovò completamente circondata dalla vegetazione, poiché gli arbusti ai lati dello stretto sentiero si curvavano per il peso formando un arco proprio sopra la sua testa. Le fronde oscuravano quasi completamente la luce pomeridiana e Nemo proseguì in una tenebra verdastra sempre più fitta guardando nervosamente in giro anche se non c'era nulla di allarmante intorno a lei. Il fitto rigoglio dell'erba, degli esili arboscelli e del sottobosco sembrava minacciarla da ogni parte. Capì che un tempo il sentiero che stava percorrendo era più largo, ma i bordi erano stati inghiottiti dall'erba e dai rami dei cespugli, e in molti punti le ruote sottili del calesse di Cassandra avevano occupato tutto lo spazio a disposizione, lasciando tracce sull'erba ai due lati e talvolta strappando la corteccia ai teneri arbusti. Nemo tese il braccio che brandiva la spada e la lama si infilò tra i cespugli prima ancora che fosse riuscita a completare il movimento. Era chiaro che si trattava dell'arma sbagliata in quel posto, dato che era troppo lunga per un ambiente così angusto e
fitto di vegetazione. Fermò il cavallo e rimise la spada al suo posto, cercando di non far rumore, poi si piegò in avanti per prendere il pesante mazzafrusto di ferro appeso a un robusto gancio sul bordo della sella. Era un'invenzione di Uther, un dono prezioso che lei aveva persino dipinto di un rosso cupo e opaco perché fosse identico al suo. Infilò la mano destra nella cinghia di cuoio e afferrò la spessa asta di legno dell'arma vicino all'anello di ferro a cui era agganciata la catena. Il peso della palla di ferro che dondolava al capo opposto della catena fece tendere i muscoli del braccio. Nemo si sentì più a suo agio con il mazzafrusto che con la spada e affrontò la successiva svolta del sentiero un po' più sollevata. Dopo aver superato molte altre curve e la parte più ripida del pendio - una discesa brusca e diritta di almeno quaranta passi che culminava in un tornante e proseguiva poi per analoga lunghezza senza interruzione - giunse finalmente in fondo e attraverso lo schermo degli alberi intravide una piccola valle amena di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Misurava probabilmente meno di sessanta passi di lunghezza e altrettanti di larghezza, ma era profonda e ben nascosta, protetta da colline ricche di vegetazione, soprattutto betulle e salici, a perdita d'occhio. Il centro della valle era occupato da un delizioso laghetto alimentato da una cascatella che precipitava dalla ripida parete di roccia in fondo al bacino. Dall'altezza della cascata, Nemo dedusse che doveva essere molto profondo e probabilmente gelido anche in estate. Una stretta striscia di spiaggia correva lungo il bordo del lago, e in lontananza, quasi completamente coperta dagli alberi che la fiancheggiavano, sorgeva una piccola casetta di pietra. La scena era idilliaca, e Nemo comprese subito che si trattava del luogo in cui Merlino aveva tenuto nascosta Cassandra per tanto tempo. Proprio mentre era immersa in questa riflessione, la donna uscì dalla casetta portando un canestro e si inginocchiò accanto ad alcune pietre annerite dal fuoco per accendere un falò. Nemo la osservò affascinata finché una scintilla evocò istantaneamente, quasi magicamente, una fiamma, ricordandole lo scopo per il quale era venuta. In preda al terrore, si convinse che sarebbe morta lì, in quel luogo nascosto, ma era pronta a farlo portando la strega con sé nell'oltretomba.
Si calò l'elmo sulla testa, raccolse la palla oscillante del mazzafrusto e spronò brutalmente il cavallo per farlo uscire dal nascondiglio. Colto di sorpresa, l'animale fece un balzo e sbuffò, tentando di impennarsi ma, controllandolo con le redini, Nemo lo costrinse ad abbassare la testa e ad avanzare. In lontananza la donna sollevò lo sguardo e per un attimo restò paralizzata. Nemo non sapeva se era stato il rumore o il movimento del cavallo ad avvertirla, ma non aveva importanza; ora che la strega l'aveva vista, era in pericolo di vita. Piantò gli speroni in profondità nei fianchi dell'animale e si lanciò verso la donna all'estremità della spiaggia. Cassandra rimase ferma a guardarla per un tempo che parve eterno, poi si voltò e si mise a correre quanto le sue condizioni glielo consentivano verso il calesse, dove il cavallo era ancora attaccato alle stanghe. Nemo accelerò l'andatura, convinta per qualche oscuro motivo che se la donna avesse raggiunto il calesse prima del suo arrivo, lei e Uther sarebbero stati perduti. Giunta a destinazione, si alzò sulle staffe e sollevò il pesante mazzafrusto sopra la testa; lo fece roteare due volte e poi lo calò in un colpo mortale. Ma proprio mentre l'arma micidiale le veniva incontro con un sibilo, Cassandra inciampò e cadde in ginocchio. La palla la mancò, le sfiorò la spalla e si abbatté sulla fiancata del calesse strappando uno dei pannelli laterali dai sostegni, aprendo uno squarcio nel legno e deformando l'asta di ferro che lo teneva al suo posto. In preda al terrore, Cassandra si chinò ancor di più e strisciò carponi sotto la pancia dell'enorme cavallo che si impennava sopra di lei, poi si gettò a sinistra e tentò di fuggire lontano dall'acqua, verso gli alberi. Nemo lanciò un grido selvaggio e gli zoccoli poderosi del suo cavallo si abbatterono sulla spalla destra della strega, spingendola in avanti e facendole perdere l'equilibrio. Allora scagliò di nuovo la pesante palla di ferro che colpì la donna sotto la clavicola con una potenza devastante, sollevandola in aria e scaraventandola verso la riva come fosse un fuscello. La strega finì contro un salice cresciuto sul bordo dell'acqua, penzolando da uno dei rami più bassi come un sacco vuoto da cui il sangue colava sul terreno in spessi rivoli vischiosi.
Cassandra era già morta dopo quel primo terribile assalto, ma Nemo non volle rischiare. Costrinse ancora il cavallo a impennarsi in modo da avere abbastanza slancio per compiere una rotazione completa del braccio, e questa volta la palla assassina si abbatté sul ventre gonfio che portava il figlio della donna. La violenza spaventosa del colpo scaraventò il corpo nell'acqua bassa al margine del lago. A quel punto, con gli occhi annebbiati e il cuore che le martellava in petto per la paura, Nemo si lasciò scivolare giù dalla sella e cadde in ginocchio, barcollando; poi, dopo alcuni lunghi istanti, crollò lunga distesa con la faccia nell'erba, tremante. Molto tempo dopo, quando riuscì a convincersi di essere ancora viva e di aver vinto la battaglia contro la strega, Nemo cominciò ad avere dei dubbi sulla facilità con cui aveva ottenuto quella vittoria. Si era aspettata poteri sovrumani evocati contro di lei dall'oltretomba. Si era aspettata di affrontare furie che sputavano fuoco e potenze infernali. Si era aspettata che combattere, per non dire uccidere, una strega rappresentasse uno sforzo disumano. E si era aspettata, soprattutto, di morire nell'impresa. Invece non era successo niente di tutto ciò. Era ancora viva, respirava, e a poco a poco, terrorizzata, cominciava a rammaricarsi per la mancanza di tutte le cose che si era aspettata... a desiderare che ce ne fosse stata almeno una. Una qualsiasi. E prima che potesse stringere i denti e scacciare dalla mente quel pensiero angosciante, le venne in mente che forse la sua vittoria sarebbe stata altrettanto facile se la strega abbattuta fosse stata una normale, inerme donna incinta. Una volta concepita, quell'idea cominciò a tormentarla e Nemo si impose di andare a esaminare il cadavere della strega. Si inginocchiò accanto al corpo martoriato e osservò il massacro che aveva compiuto. Cercò di convincersi che era opera della stregoneria di Cassandra, che quella donna aveva la capacità di dominare la mente delle persone e di convincerle a vedere qualcosa di diverso dalla realtà. Se fosse rimasta in vita, sarebbe stata un pericolo e una minaccia per Uther, e dunque per tutto ciò che aveva importanza per Nemo. Ma osservando il cadavere che giaceva
supino nelle acque basse sulla riva del lago, il viso che affiorava in superficie con gli occhi chiusi e la pelle candida, rimase sconvolta dalla bellezza e dalla serenità che quel volto emanava, malgrado la terribile brutalità della morte. Non c'era traccia di dolore o di paura su quel volto, come se qualcuno fosse venuto a tranquillizzarla al momento del trapasso. Nemo si ritrovò ad ammirare la dolcezza di quei tratti, terrorizzata dai pensieri che le passavano per la mente. Si costrinse ad alzarsi e si avviò, trascinando nell'acqua e poi sulla stretta striscia d'erba mista a sabbia che formava la spiaggia, il mazzafrusto ancora agganciato al polso con il laccio di cuoio.
Due modi di uccidere una strega: fuoco e ferro. Ma il ferro utilizzato non può mai più essere usato da mano umana. Nemo divaricò le gambe, sganciò il laccio di cuoio dal polso e alzò il mazzafrusto sulla testa facendolo roteare finché non lo sentì sibilare e si convinse di avergli dato il massimo slancio. A quel punto aprì le dita e lo lasciò andare, convinta che sarebbe affondato nel centro del laghetto. Ma aveva calibrato male il tiro. L'arma volò per oltre venti passi, ma alla sua destra invece che in avanti, e dunque colpì l'acqua molto vicino alla riva, anche se abbastanza lontano dal cadavere della donna da sfuggire al ritrovamento. Nemo andò a controllare se si notava qualcosa ma non vide nulla. Il mazzafrusto era atterrato su un letto di canne affondando nel fondo melmoso del lago. Non era una gran perdita, se non per il fatto che era la prima arma di quel genere mai realizzata. Da allora però, era diventato abbastanza comune vedere dei cavalieri con quell'arnese agganciato alla sella. Dopo che Uther e Merlino avevano cominciato a usarlo, altri si erano affrettati a copiarne il disegno, perché era molto più semplice da realizzare rispetto a una buona spada. Nemo non avrebbe avuto difficoltà a trovarne un altro. Tornò verso il punto in cui giaceva il corpo di Cassandra, una forma scomposta e insanguinata. I lembi del vestito ondeggiavano e mulinavano nella corrente e tutt'intorno l'acqua arrossata dal sangue faceva risaltare la pelle nivea del viso. Affascinata, Nemo la scrutò a lungo ripensando a ciò che era successo. Proprio mentre si stava convincendo di aver fatto la cosa giusta, un movimento colto con la
coda dell'occhio la prese di sorpresa scatenando in lei un terrore del tutto sproporzionato rispetto a ciò di cui si trattava realmente. Era il cavallo di Cassandra che scuoteva la testa, e Nemo si domandò cosa farne. Era ancora agganciato alle stanghe del calesse e lei sapeva che sarebbe stato crudele abbandonarlo lì in quel modo. Ma se lo avesse liberato o anche lasciato attaccato al calesse, l'animale forse sarebbe riuscito a tornare a Camelot, dove il suo arrivo avrebbe destato allarme e accelerato la scoperta del cadavere della strega. Con un profondo sospiro, sapendo di non avere altra scelta, si diresse verso la bestia che si girò a guardarla mentre si avvicinava. Dapprima sfilò la lunga spada da cavaliere dall'anello di ferro sulle spalle e la brandì con le braccia tese, mirando al collo del cavallo. Ma pensando alle ossa e ai muscoli di quel collo possente, cambiò idea, decidendo di usare il suo micidiale pugnale a doppio taglio. Si piegò leggermente insinuando le braccia sotto il collo dell'animale e vibrando un colpo dal basso verso l'alto affondò con tutte le sue forze la lama aguzza nella giugulare della bestia. Poi, reggendo saldamente l'elsa con entrambe le mani, tirò la lama con decisione verso di sé, aprendo uno squarcio profondo. Il cavallo non emise alcun lamento tranne un iniziale grugnito di dolore, e non ebbe nemmeno il tempo di reagire. Sprizzando una fontana di sangue crollò immediatamente sulle zampe anteriori e morì in pochi istanti, ancora agganciato alle stanghe. Nemo indietreggiò e scoprì con disgusto che aveva la parte inferiore del corpo completamente inzuppata di sangue. Trovò un pezzo di stoffa bianca sul retro del calesse e dopo averlo immerso nell'acqua, ben lontano dal punto in cui si trovava il cadavere, la usò per ripulire la sua armatura, strofinando i piccoli anelli di bronzo che ricoprivano i pesanti gambali di cuoio. Quando ebbe finito, immerse di nuovo la stoffa nell'acqua e la lasciò lì, poi dette un'ultima occhiata all'amena vallata e al corpo immerso nell'acqua, chiedendosi quanto tempo sarebbe passato prima che qualcuno lo trovasse, poi sospirò e tornò al suo cavallo, rimontando in sella. Decise di non rientrare a Camelot per la cena, come aveva inizialmente pianificato ma di partire subito per la
Cambria, accampandosi dove il tramonto l'avrebbe sorpresa. Entro tre giorni sarebbe stata di nuovo a Tir Manha con Uther, rassicurata dal pensiero che la minaccia che incombeva su di lui era stata sventata e che lui e suo cugino Merlino potevano di nuovo essere amici.
III. Meno di un'ora dopo la partenza di Nemo da Camelot all'inseguimento di Cassandra, Uther in persona arrivò nella Colonia da occidente, accompagnato da un gruppo scelto di compagni. Bastava un'occhiata per capire che avevano percorso la strada senza quasi fermarsi a riposare, perché i cavalli erano sudati e sporchi di fango e i cavalieri non erano in condizioni migliori. Senza fermarsi, Uther attraversò la porta principale rivolgendo un breve cenno alle sentinelle di turno e si diresse verso il palazzo dell'amministrazione, dove chiese di vedere immediatamente Merlino Britannico. L'ufficiale in servizio quel giorno era Jacobus, un giovane decurione di fresca nomina. La cosa non era insolita, poiché di rado le decisioni prese quotidianamente in quel palazzo richiedevano una particolare esperienza. Dal modo in cui Uther chiese di Merlino, Jacobus capì che non avrebbe preso bene la sua risposta. Il decurione scattò sull'attenti e fece il saluto militare, poi schioccò le dita per attirare l'attenzione di una delle staffette in servizio. Non era necessario: la staffetta era già al suo fianco e fissava alternativamente lui e Uther in attesa che gli venisse dato un ordine. Jacobus lo mandò di corsa a chiamare il legato Tito, comandante di Camelot in assenza di Merlino, poi si schiarì la voce e informò il re che colui che cercava era partito parecchi giorni prima diretto a oriente, verso quella zona della Britannia occupata dai Sassoni che veniva chiamata Costa dei Sassoni, per partecipare a un dibattito tra preti cristiani nell'antica città di Verulamium, circa trenta miglia a nord-ovest di Londinium, ex centro amministrativo della Britannia romana. Uther restò apparentemente calmo, schioccò la lingua in segno di disappunto, poi annuì seccamente. «Aspetterò Tito. Dove posso sistemarmi, intanto?» Jacobus gli indicò il cubiculum situato verso il muro esterno dell'edificio, che ospitava la scrivania e la sedia dell'ufficiale comandante. Uther lo ringraziò con un cenno del capo e gli chiese il
suo nome prima di entrare nell'ufficio ad aspettare. Qualche attimo dopo, Tito lo raggiunse e si chiuse la porta alle spalle appoggiandocisi contro, un po' ansante. «Tito!» lo salutò Uther con un sorriso. «Ti trovo bene, ma mi sembri un po' stanco.» «L'età, Uther, l'età. Non ho più il vigore di un tempo.» Il legato, datosi un contegno, andò ad abbracciare l'ospite, poi si ritrasse in modo da osservarlo bene. «Capiterà anche a te uno di questi giorni, anche se ti credi immortale. Prima che tu te ne renda conto, vedrai i massaggiatori strapparti i capelli grigi dal capo e comincerai a sentirti sempre più anchilosato nelle mattine fredde.» «Mi capita già, amico mio. Quanto pensi che starà via Merlino?» «Almeno un mese. Perché, c'è qualcosa che non va?» Il volto di Uther si rabbuiò di colpo davanti a quella complicazione inattesa. «Tutto. Tutto, dannazione! Possiamo mandare qualcuno a raggiungerlo per farlo tornare indietro?» «Non è facile. Non sappiamo con certezza che strada prenderà. Sta andando a Verulamium con un gruppo di duecento persone per partecipare a un dibattito... si tratta di una missione di rappresentanza, più che altro. Il suo scopo è di dimostrare la potenza di Camelot a tutti coloro che saranno presenti al dibattito tra i vescovi.» «Quale dibattito? E che cosa ci fa Merlino tra i vescovi, per tutti gli dèi?» «Te lo spiegherò fra un momento, ma prima dimmi che cosa sta succedendo e perché sei qui. Credevo che non avessi intenzione di lasciare Tir Manha quest'anno. Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» Uther girò intorno al tavolo, picchiando il pugno sulla palma della mano. «Gulrhys Lot, e chi sennò? Nemo era appena partita con i miei ultimi dispacci per Merlino quando ho saputo che in Cornovaglia l'esercito è di nuovo in fermento. A proposito: dov'è Nemo? È ancora a Camelot?»
Tito alzò le spalle. «Non ne ho idea, ma ne dubito. Ha consegnato i dispacci una settimana fa.» «A Tir Manha è giunta notizia che Lot potrebbe ricominciare a creare problemi, che la Cornovaglia è in armi. All'inizio non ho dato importanza alla cosa. Mi sembrava impossibile che Lot potesse aver radunato un altro esercito in un tempo così breve, dopo la batosta che gli abbiamo inflitto meno di un anno fa. Poi ho ripensato alla natura di quella belva e senza perdere tempo, lo stesso giorno in cui ho ricevuto il rapporto, ho mandato degli uomini in ricognizione con l'ordine di controllare se stesse accadendo qualcosa di insolito laggiù e di farmelo sapere il più rapidamente possibile. Ho inviato due squadre, una via mare e l'altra, composta da alcuni dei miei migliori Dragoni, via terra. La prima squadra, imbarcata su due galee, è tornata nel giro di una settimana. Avevano appena attraversato l'estuario del fiume quando hanno notato del movimento, e non si sono nemmeno avventurati in mare aperto. A dire il vero, sono sfuggiti alla cattura per un pelo. Secondo i due capitani, tutta la costa settentrionale della penisola brulica di navi, e scommetto che ciò vale anche per quella meridionale. Mi hanno detto che ogni giorno arrivano galee da tutte le direzioni che sbarcano uomini nelle piccole baie lungo la costa e poi ripartono, probabilmente per andare a imbarcarne altri. Quel rapporto mi è bastato. So che Lot ha ereditato da suo padre il vezzo di reclutare mercenari oltremare, così ho deciso di venire qui di persona per prendere provvedimenti insieme a voi senza perdere un istante. Ma prima ancora che partissi è rientrata anche l'altra squadra di ricognizione... o meglio, quel che ne è rimasto. Si erano diretti a sud-ovest verso la Cornovaglia, muovendosi con cautela per non attirare l'attenzione, tenendosi a occidente di Isca dove il territorio è brullo e desolato. Ma non avevano ancora percorso sessanta miglia nel regno di Lot quando sono stati individuati, attaccati e costretti a ripiegare. Fortunatamente avevano già visto tutto ciò che c'era da vedere, ma sono stati impegnati duramente sulla via del ritorno e hanno perso oltre metà degli uomini. Lot sta radunando un grosso esercito in quella zona, Tito, e non ha che una strada da seguire, come io e te sappiamo bene. Credo
che non ci sia tempo da perdere. Ma non ti ho ancora detto la cosa più importante che abbiamo scoperto grazie alla spedizione via terra. L'esercito che i miei hanno visto laggiù, l'armata meridionale, non è che una parte del piano. Secondo i prigionieri catturati e interrogati dai miei uomini, è stato organizzato un enorme concentramento di truppe, tutte sotto la bandiera di Lot, a nord-est di qui, vicino ad Aquae Sulis. Una volta riunite, cominceranno a razziare sistematicamente le città della zona, a partire da Aquae stessa e da Glevum.» «Cosa? Ma è assurdo! Non è rimasto nulla da saccheggiare ad Aquae Sulis, e nemmeno a Glevum. Vent'anni fa, o forse ancora dieci, poteva avere un senso, ma di questi tempi le città sono gusci vuoti. Lot non può non saperlo.» Uther annuì, impassibile. «Anche se lo sa, non fa alcuna differenza per lui. L'idea del saccheggio gli serve per il reclutamento. Raduna il suo esercito motivando gli uomini con la prospettiva di ricche città da razziare e depredare e puoi star certo che quella marmaglia non sa che le sue sono false promesse. Quando scopriranno la verità andranno su tutte le furie ma allora Lot sarà già tornato in Cornovaglia, e a quel punto saremo noi a dover far fronte alla situazione.» «Uhm...» Tito socchiuse gli occhi, pensieroso. «Cosa ti hanno detto i tuoi uomini sui preparativi di Lot? Sono a buon punto? Ha dei soldati addestrati fra le sue truppe?» «Se ne ha, devono essere unità che hanno già combattuto insieme sul continente, per i Romani, e sono comunque una minoranza. La gran parte, come sempre, è rappresentata da barbari, gente piuttosto temibile nei combattimenti corpo a corpo ma totalmente incapace di agire in maniera coordinata sul campo di battaglia. Sul fatto che siano più o meno pronti a partire, ne so quanto te. Ma la prudenza ci impone di non correre rischi mostrandoci troppo sicuri.» Tito annuì. «Ascolta, è inutile sperare di raggiungere Merlino e riportarlo qui. È partito da troppo tempo. I miei uomini non saprebbero nemmeno dove cercarlo. Sappiamo che all'inizio si è diretto verso est, passando per Sorviodunum e Venta, ma non abbiamo altre informazioni. Da lì in poi la sua intenzione era di
improvvisare a seconda di ciò che trovava lungo il cammino, e se in qualche punto ha incontrato dei problemi potrebbe aver lasciato le strade principali. Quindi sarà meglio che tu e io organizziamo la campagna da soli, senza il suo coinvolgimento.» Uther fece una smorfia. «E sia. La cosa non mi piace, ma pare che non ci sia altra scelta. Dimmi di questa riunione a Verulamium... come l'hai definita, un dibattito?» «Proprio così...» Tito si lanciò in una breve descrizione delle questioni che si agitavano nella comunità cristiana della Britannia. Qualche anno prima, ricordò a Uther, dei preti venuti in visita a Camelot avevano intimato a tutti gli abitanti di rinunciare immediatamente alle loro convinzioni terrene e di dedicarsi alla salvezza delle loro anime, minacciandoli di scomunica e dannazione. Il padre di Merlino, Pico Britannico, aveva rifiutato di sottomettersi alle angherie e alle intimidazioni di quegli zeloti e li aveva espulsi dalla Colonia, dichiarando pubblicamente in Consiglio che non avrebbe preso decisioni riguardanti la salvezza delle anime della sua gente finché cambiamenti così repentini e profondi non fossero stati motivati e illustrati da una fonte dotata di maggiore autorevolezza e dignitas di quel gregge di luridi preti vagabondi e intolleranti. Per dirimere la questione, entro il mese seguente si sarebbe svolto un dibattito nel grande teatro romano di Verulamium e Merlino aveva deciso di presenziare alla riunione, come avrebbe fatto suo padre, per tenersi al corrente di ciò che stava accadendo nella dottrina della Chiesa e anche per assicurarsi che i vescovi incaricati di prendere le decisioni fossero ben consapevoli dell'esistenza di un forte centro di influenza cristiana a Camelot. Uther era solo formalmente un cristiano, dato che il nuovo Dio non lo attirava più delle vecchie divinità della Cambria e della Britannia, o anche di Roma. Era stato battezzato anni prima, ma solo per compiacere sua nonna, non per convinzione personale. Mentre guardava Tito, con le braccia incrociate sul petto, il suo volto esprimeva una profonda irritazione. «Tu credi che questo suo viaggio, questa spedizione in un territorio straniero e ostile sia giustificato, anche se lo allontana dal suo popolo nel momento del bisogno? Non è semplicemente una
colossale stupidaggine?» Tito scrollò le spalle. «Che ne so io di queste cose? Non basta che Merlino ne sia convinto?» Per qualche istante Uther fu sul punto di replicare rabbiosamente, poi sospirò, rassegnato. «Già... allora suppongo che dovremo lasciarlo alle sue occupazioni, visto che non abbiamo alternative, ed elaborare i nostri piani per difenderci durante la sua assenza.» Uther si passò una mano sul viso e chiuse gli occhi, come per scacciare la delusione e concentrarsi. «Dovremo unire le nostre forze, quelle di Camelot e quelle della Cambria, meglio di quanto abbiamo mai fatto prima, mescolando arcieri e fanti in un contingente formato da due o possibilmente tre armate compatte e autosufficienti, come Pico Britannico ci ha illustrato mille volte. Ogni armata sarà autonoma e seguirà la propria tattica in battaglia, ma tutte e tre dovranno essere pronte ad agire come un'unica legione se necessario. E a schermarle e proteggerle ci saranno formazioni d'attacco di cavalleria pesante, mobili ed efficaci, che si irradieranno in tutte le direzioni ma sempre partendo dal fulcro rappresentato dall'esercito. Che ne pensi?» Tito sorrise. «Penso che Pico Britannico sia stato un buon maestro. E tu sai che non mi opporrei mai a uno stile di combattimento al quale sono stato addestrato fin dall'infanzia. Fortunatamente abbiamo già cominciato ad addestrare i nostri soldati a combattere insieme, combinando le loro diverse specialità, dopo gli eventi dell'anno scorso. Non vedo grandi difficoltà da questo punto di vista, tranne, ovviamente, il poco tempo per i preparativi. Fa' convocare Flavio. Ho la sensazione che avremo bisogno del suo contributo fin dall'inizio.» Uther rimase a Camelot per tre giorni, dormendo a casa di sua nonna. Da Luceia, durante una lunga chiacchierata serale, apprese della gravidanza di Deirdre e del matrimonio di Merlino, e se provò dolore per essere stato escluso dalle nozze, non ne fece parola, ricordando i sospetti nutriti dal cugino sulla notte in cui Deirdre, a quel tempo ancora chiamata Cassandra, era stata aggredita e crudelmente seviziata. La nonna gli raccontò anche come fosse emerso il vero nome di Deirdre quando la ragazza aveva ritrovato il
fratello Donuil, dopo anni di separazione. Uther trascorse il resto del suo tempo a Camelot a discutere con Tito e Flavio, comandanti congiunti ad interim, e gli ufficiali di stato maggiore dell'esercito e della guarnigione di Camelot, formulando piani per respingere l'invasione che tutti si attendevano dalla Cornovaglia e cercando di prevedere ogni eventualità. Quando ripartì per Tir Manha, il quarto giorno dal suo arrivo, era stato stabilito che Uther avrebbe guidato un'intera brigata di cavalleria pesante, forte di mille uomini, nella futura campagna. Nel frattempo, doveva rientrare in Cambria e radunare entro un mese tutti gli arcieri Pendragon di cui poteva disporre, conducendoli a Camelot perché si esercitassero insieme alla fanteria finché le circostanze lo avrebbero permesso. L'addestramento intensivo di fanteria e cavalleria iniziò ancor prima che Uther lasciasse la fortezza, e la grande spianata ai piedi della collina di Camelot fu di nuovo offuscata da nuvole di polvere ogni giorno, dall'alba al tramonto. Appena tornato a Tir Manha, Uther ripartì di nuovo, questa volta per reclutare guerrieri nei territori più occidentali dei clan dei Griffyd. Dergyll ap Griffyd, un giovane di età poco superiore a quella di Huw Fortebraccio, aveva assunto il ruolo di capo dopo la morte di Cativelauno di Carmarthen, caduto alla fine dell'inverno precedente in un fiume di montagna ghiacciato e ricoperto di neve. Uther e Dergyll si erano frequentati brevemente un'estate durante la loro infanzia diventando buoni amici, quindi fu facile per loro ritrovarsi dopo un intervallo di molti anni. La spedizione ebbe grande successo e Uther tornò a Tir Manha accompagnato da Dergyll in persona e da parecchie centinaia di guerrieri. Al suo arrivo, scoprì che erano appena giunte notizie da Camelot e che Veronica voleva parlargli immediatamente. Incuriosito, andò direttamente dalla madre, dalla quale apprese che Deirdre, la giovane moglie di Merlino, era stata assassinata insieme alla creatura che portava in grembo. Tre giorni prima era arrivato un corriere da Camelot con una lettera di Luceia Britannico che raccontava quel poco che sapeva sull'accaduto. Luceia era al corrente di dove si
trovava Deirdre, anzi aveva preparato il viaggio insieme alla ragazza, che aveva nostalgia della solitudine di cui aveva goduto per mesi nella sua valle isolata; così erano passati più di sette giorni senza che Luceia avesse motivo di preoccuparsi. Ma non vedendola tornare come previsto la settimana seguente, Luceia, sempre più turbata, aveva pregato Daffyd, il druido amico di Merlino, di far visita alla ragazza per accertarsi che stesse bene. Daffyd si era trovato di fronte una scena agghiacciante: la giovane moglie di Merlino assassinata, il figlio che portava ancora in grembo morto con lei, il corpo in decomposizione della donna che galleggiava nel lago, gonfio e devastato fino ad apparire irriconoscibile. Secondo la stima iniziale di Daffyd, confermata in seguito da altri indizi, Deirdre era morta da non meno di una settimana al momento del ritrovamento, e a ucciderla erano stati i colpi brutali di un individuo dotato di grande forza. Fin dalla sua prima valutazione oggettiva del crimine, Daffyd aveva escluso che l'aggressione avesse una motivazione sessuale, dato che il cadavere aveva ancora addosso tutti i suoi abiti. Ma non poteva trattarsi nemmeno di una rapina, poiché dal carro non era stato rubato nulla. Daffyd aveva ritenuto che fosse meglio per tutti - in particolare per la sensibilità di Luceia - seppellire semplicemente i poveri resti di madre e figlio il più vicino possibile a dov'erano stati trovati, invocando su di loro il rispetto e la benevolenza degli dèi. Dopo averli inumati in riva al lago sotto gli alberi sacri - tutti gli alberi erano sacri agli occhi dei druidi - aveva ispezionato minuziosamente l'intera zona in cerca di tracce dello sconosciuto aggressore. Ma non aveva trovato nulla tranne un'area di terreno smosso e calpestato, che poteva essere stato sollevato dagli zoccoli del cavallo di un assalitore o, con altrettanta probabilità, da quelli del cavallo della stessa Deirdre, che giaceva morto poco lontano, ancora attaccato alle stanghe. Quella notte era rimasto a vegliare accanto alla tomba della giovane donna pregando per lei; poi, convintosi che non era possibile ricavare altri indizi da quella scena, era tornato a Camelot a portare la tragica notizia. Luceia si era ritirata nelle sue stanze ed era rimasta in lutto per
due giorni, straziata dal pensiero di non poter avvertire Merlino in tempo perché anticipasse la data del ritorno. Se anche i messaggeri fossero riusciti ad attraversare sani e salvi l'intero paese per raggiungerlo a Verulamium, a quell'ora per Merlino sarebbe già stato tempo di riprendere la strada di casa. Uther ascoltò in silenzio il racconto di sua madre e il contenuto della lettera di sua nonna. Alla fine si alzò e rimase in piedi di fronte a Veronica per qualche istante, stringendole forte una spalla con la mano, senza riuscire a pronunciare parola. Poi si voltò e uscì dalla stanza. Preoccupata dalla sua espressione, Veronica si levò subito in piedi per seguirlo e lo vide uscire di casa e dirigersi verso il blocco di lunghi edifici costruiti vari anni prima per ospitare i destrieri della cavalleria. Il truce soldato che Veronica non amava, l'uomo-donna conosciuto come Nemo, lo aveva atteso all'esterno della casa, ma Uther la cacciò con un gesto irritato e lei si ritrasse all'istante e si allontanò; evidentemente conosceva il suo superiore abbastanza bene per giudicare il suo stato d'animo e capire che in quel momento desiderava star solo. Veronica rimase in attesa finché non vide il figlio riemergere poco dopo dalle stalle in sella al suo imponente castrato marrone, e mentre Uther scompariva in direzione della porta principale di Tir Manha senza guardarsi intorno, chiese a un soldato di passaggio di rintracciare Garreth il Fischiatore e di mandarlo immediatamente da lei. «Hai intenzione di ricominciare a parlare, prima o poi?» Uther si voltò lentamente e lanciò un lungo sguardo penetrante a Garreth il Fischiatore, poi spronò il cavallo fino al fiumiciattolo che serpeggiava in fondo alla gola. Garreth chinò il capo in un suo tipico gesto, come a dire "Be', ci ho provato", e seguì cavallo e cavaliere giù per la china. Aveva raggiunto Uther senza difficoltà a cinque miglia da Tir Manha, poiché il giovane non andava veloce, e a quel punto non aveva
fatto alcun tentativo di imporgli la sua presenza, accontentandosi di cavalcare a mezza lunghezza di distanza in attesa che l'altro lo notasse. Ma Uther, dopo una rapida occhiata per verificare chi lo seguisse, lo aveva completamente ignorato, e da allora era trascorsa più di un'ora. Garreth era sicuro, tuttavia, che a Uther non fosse sgradita la sua presenza. Erano rimasti seduti in sella fianco a fianco per quasi mezz'ora, limitandosi a osservare il torrente nella gola sottostante; ora Uther aveva raggiunto la riva e stava scendendo da cavallo. Garreth aspettò che si sedesse sul tronco di un albero caduto accanto al fiume, poi smontò anche lui ed estrasse da una delle sue bisacce un fazzoletto contenente del pollo freddo, una fetta di pane e un piccolo corno pieno di sale chiuso da un tappo, il tutto fornito dalla madre di Uther. Raggiunse il giovane seduto sul tronco e si accovacciò accanto a lui, piazzando il fazzoletto fra loro e sciogliendo il nodo. «Su, mangia. Tua madre mi ha raccontato quello che è successo. Mi ha anche detto che devi essere affamato.» Uther abbassò gli occhi sul cibo e scosse la testa, come se non fosse ancora pronto a parlare. Garreth alzò le spalle e staccò una coscia dal pollo, la cosparse abbondantemente di sale e la addentò, poi senza smettere di masticare aggiunse: «La stai prendendo in modo molto personale... come se avessi conosciuto quella donna... Come si chiamava? Deirdre?». Finalmente, Uther parlò. «Sì, Deirdre, ma prima la chiamavano Cassandra. Non hai mai saputo dello scontro che ci fu tra me e Merlino la notte in cui lei fu aggredita, o sbaglio?» «No, non proprio. So solo che dopo essere stati praticamente inseparabili per tutta la vita, avete trascorso quasi un anno senza vedervi.» Uther scosse il capo e sospirò. «Sai, Garreth, ancora oggi rimpiango quella notte. Ma anche nel momento più drammatico, quando io e Merlino eravamo a un passo dall’avventarci l'uno alla gola dell'altro, non avevo idea che il divario fra noi si sarebbe
allargato fino a questo punto...» La voce di Garreth si fece più bassa. «Voi due vi siete saltati alla gola?» «Già, quasi, o almeno io ci provai. Ero di un umore terribile quella notte, avevo voglia di menare le mani.» Garreth non disse né fece nulla che potesse turbare l'atmosfera mentre Uther proseguiva, come parlando a se stesso. «Fu la notte in cui Cassandra venne aggredita, stuprata e picchiata con tanta brutalità da essere ridotta in fin di vita, e per giorni tutti pensarono che sarebbe morta. Tu eri a Tir Manha quando accadde tutto questo, non a Camelot. Ricordo quanto fui felice di vederti al mio ritorno a casa. Ero ancora arrabbiato, amareggiato, tentavo ancora di addossare ad altri le colpe di cui io mi ero macchiato.» «È un'affermazione grave la tua. Che cosa avevi fatto?» «Tutto ciò che non avrei dovuto fare. Sfogare la mia ira su una ragazzina, tanto per cominciare. Questo fu il mio primo errore.» «Non ti seguo.» «Su Cassandra, intendo. La insultai, la trattai in modo abominevole, tentai di picchiarla. Fu allora che Merlino e io ci scontrammo per la prima volta. Lui mi buttò a terra e mi trattenne finché la ragazza non riuscì a mettersi in salvo.» Garreth non fece commenti ma si limitò a inarcare le sopracciglia con aria interrogativa. «Te lo giuro, Garreth, non sto scherzando.» «Allora spiegati meglio. Che cosa facesti alla ragazza?» «Ah, be'... fu... Sai come vanno queste cose. Merlino e io eravamo nella stanza dei giochi con qualche ragazza compiacente, e tutto era... come al solito. Ma a un certo punto notai... notai la bocca di Cassandra. Lei era nella stanza con noi e ci osservava, vedeva tutto.» Tacque per un lungo istante. «Notai la sua bocca, e da quel momento non riuscii a smettere di pensare come sarebbe stato...» «...farselo succhiare.» «Già.»
«E com'era?» «Non lo so. Lei non voleva. Strinse i denti e si rifiutò di aprire la bocca, e quando io cominciai ad arrabbiarmi e la obbligai... lei mi diede un morso.» «Caspita! Forte?» «Abbastanza. Io ero di pessimo umore e quel morso mi mandò su tutte le furie. Tu conosci i miei accessi di collera. Diedi il peggio di me.» «Così la colpisti, Merlino ti buttò a terra e lei fuggì.» «Sì.» «Tutto qui? Non accadde altro? Tu e Merlino continuaste a battervi una volta scomparsa la ragazza?» Uther scrollò le spalle. «No. Merlino lasciò che mi rialzassi, e io andai dritto verso le stalle, raccogliendo lungo la strada qualcuno dei miei Dragoni, non qualcuno in particolare, soltanto quelli così sfortunati da incrociarmi mentre ero di quell'umore. Li portai con me e tornai a Tir Manha, come ti ho detto.» «E per questo motivo, per questo scontro, vorresti farmi credere che tu e Merlino non vi siete parlati per un anno intero?» Attese, ma non ebbe risposta; così continuò: «Non ha senso, Uther. Insomma, non era la prima volta che Merlino ti vedeva perdere il controllo, e gli dèi sanno quante volte vi siete picchiati da quando siete stati abbastanza grandi da menare le mani. E non credo che sia stata una questione di gelosia, che Merlino si sia risentito per il tuo approccio a una ragazza che gli piaceva: avete condiviso le vostre donne fin dal momento in cui avete incominciato a interessarvi al sesso femminile. Quindi c'è qualcos'altro che non mi hai detto. Che cosa?». Uther si alzò e fece qualche passo, dando le spalle a Garreth il Fischiatore. «Be', ci sono alcuni particolari che non ho menzionato. Ti ho raccontato che fra noi non ci fu altro che quello scontro, ed è vero. Ma non ti ho raccontato che cosa fu detto allora.» «Detto? Da chi? Non capisco, Uther.» «Detto da me, Garreth, da me. Giurai che l'avrei uccisa.» Uther fece una smorfia di disgusto. «Un uomo non dovrebbe mai
pronunciare minacce senza senso. Fu una delle prime lezioni che io e Merlino ricevemmo da nonno Varro. "Mai pronunciare minacce insensate, perché finiranno per confondervi e per perdervi."» Garreth scrollò le spalle. «E così eri arrabbiato e hai esagerato. Ma lei aveva appena tentato di staccarti l'uccello, no?» Uther lo guardò negli occhi per qualche istante, poi fece un cenno affermativo con il capo. «Minacciai di ucciderla, Garreth, poi scappai via e abbandonai Camelot senza dire nulla a nessuno. E quella stessa notte, qualche tempo dopo che avevo lasciato la stanza, qualcuno cercò davvero di uccidere Cassandra e per poco non ci riuscì. Ora, se tu fossi stato Merlino Britannico, cosa avresti pensato?» «Aaah...» Il suono che sfuggì dalle labbra di Garreth fu più eloquente di qualunque frase. L'uomo rimase completamente senza parole, e mentre il significato delle affermazioni di Uther si faceva strada nella sua mente, un profondo sgomento affiorò nei suoi occhi. «Non dimenticare, Garreth, che la ragazza era sordomuta. Non poteva dire chi era stato ad aggredirla. Non poteva dirlo a nessuno. Poteva solo sperare - e tutti gli altri con lei - di puntare il dito quando e se avesse riconosciuto il colpevole. Ma ciò implicava che la sua vita era in costante pericolo dato che l'ignoto assalitore avrebbe dovuto ucciderla per non essere riconosciuto. Così il cugino Merlino riuscì in qualche modo, anche se non ho idea come, a far scomparire Cassandra da un palazzo strettamente sorvegliato. È davvero un tipo in gamba, il nostro Merlino.» «Ma... aspetta un momento, Uther, aspetta un momento... Se Merlino credeva che fossi tu il responsabile, perché avrebbe dovuto arrivare fino a questo punto per proteggere la ragazza? Sapeva che ti eri allontanato da Camelot, quindi come poteva Cassandra essere in pericolo? Perché non si è limitato a denunciarti?» Per la prima volta Uther sorrise, un sorriso lieve e amaro. «Perché oltre a essere in gamba, il nostro Merlino è anche un uomo giusto. Non era del tutto convinto della mia colpevolezza. Mi sospettava, ma doveva ammettere che restavano dei dubbi, e per questo prese tali misure.» «Non ti ha mai accusato di qualcosa?»
«No, non pubblicamente. Merlino non darebbe mai voce ai suoi sospetti senza avere le prove per sostenerli. Me ne parlò successivamente. Aveva fatto fuggire Cassandra per proteggerla, mi spiegò, nel timore che l'aggressore potesse essere qualcun altro, ma non appena la ragazza fosse stata in grado di reggere un confronto, era deciso a metterci nuovamente uno di fronte all'altra.» «E questo ti avrebbe scagionato, no?» «Certo, Garreth, ma a questo non ho mai pensato, perché sapevo di non aver fatto nulla di male alla ragazza dopo quell'esplosione d'ira. Ciò che mi fece soffrire in modo quasi intollerabile fu il fatto che mio cugino Merlino potesse sospettare che avessi compiuto un'azione così depravata. Per quanto grande fosse la mia ira, come poteva pensare che mi comportassi con tanta brutale malvagità?» In quell'attimo Uther provò una stretta al cuore rammentando che coloro che conoscevano la sua collera avevano sempre scorto un lato oscuro in lui. «Merda!» L'esclamazione rifletteva la profonda costernazione di Garreth, e fu l'ultima parola pronunciata dai due per un po', ma alla fine il Fischiatore scosse la testa e si fregò il naso con la mano. «C'è ancora qualcosa che non mi torna... qualcosa che non riesco a capire. Hai detto che eri di pessimo umore. Che cosa ti rendeva così rabbioso e infelice quel giorno da farti precipitare in un abisso di furia?» Uther fissò di nuovo Garreth e sorrise, scuotendo la testa. «Qualcosa di cui non voglio parlare, amico mio.» «Mi dispiace molto, Uther, perché tu sei il mio re e se io avessi un briciolo di pietà nel mio cuore, soffrirei per te. Parlami, liberati da questo peso. Cura la ferita aperta che affligge la tua mente e lascia che la tua coscienza torni a respirare liberamente. Qual è il tuo immane segreto, la cosa che ti ha causato tanta sofferenza?» «Questo posto.» «Questo posto?» domandò Garreth perplesso, guardandosi intorno. «Non questo in particolare, ma la Cambria, e Tir Manha. Non è il mio regno, Garreth, anche se ne sono il re. Non è casa mia... non è
la mia vera patria, quella che porto nel cuore.» «È Camelot, allora.» «Sì.» Uther afferrò fra pollice e indice la lama della lunga spada da cavaliere che portava appesa alla schiena e la spinse verso l'alto facendola scivolare fuori dall'anello che la tratteneva; quando la spada cadde in avanti la prese per l'elsa, la fece ruotare e la conficcò nel terreno, lasciandola ondeggiare leggermente. Garreth la guardò e non disse nulla. «È partito tutto da questo, laggiù.» «Da una spada?» «Da una spada di cavalleria, una spada lunga. La cavalleria è sempre stata la prima cosa che mi veniva in mente pensando a Camelot. Ogni volta che sento quel nome, penso alla cavalleria: uomini giganteschi su cavalli giganteschi, tutti con l'armatura. Camelot non potrebbe esistere senza cavalleria, e senza cavalleria non ci sarebbero spade lunghe come questa. Ciò che sto tentando di dire, Garreth, è che Camelot e la Cambria sono come luce e ombra per me. I miei ricordi di Camelot, tutti i miei ricordi di Camelot, sono pieni di luce, risate, divertimento. La gente si gode la vita laggiù. Invece qui, a quanto pare, viviamo gran parte dei nostri giorni nell'oscurità. I sorrisi sono rari a Tir Manha, come in tutto il resto della Cambria. È come se il nostro popolo non avesse alcun desiderio di divertirsi. Come se lo considerassimo un segno di debolezza. Non abbiamo voglia di ridere, o se l'abbiamo, la teniamo dentro finché non possiamo ridere delle disgrazie di qualcun altro, beffarci delle sue sofferenze. I nostri vecchi sono austeri, inflessibili, privi di umorismo; le nostre donne hanno volti scuri e arcigni. Non sempre, lo ammetto, non sempre... Ma spesso è così. Quell'anno mia madre si era ammalata, una febbre l'aveva costretta a letto per alcune settimane. Mia nonna era preoccupata per lei, e sapeva che anche mio padre lo era. A ogni modo, mia nonna aveva suggerito che forse io avrei preferito tornare a casa da mia madre, almeno finché lei non fosse migliorata, e a quel punto avrei potuto portarla con me a Camelot per il resto dell'estate.
Ebbene, l'idea che qualcuno mi dicesse cosa fare, e per di più una donna anziana, fosse anche mia nonna, mi indispettì, e soprattutto mi irritò il sottinteso che io potessi non essere consapevole di quale fosse il mio dovere. Avevo deciso che era impossibile per me tornare a casa; ero troppo necessario al benessere della Colonia per prendermi una licenza e sparire per un periodo di tempo indeterminato. Poteva succedere qualunque cosa durante la mia assenza, ed ero deciso a non permettere a nessuno di affermare che avevo trascurato i miei obblighi o le mie responsabilità militari. Naturalmente, la verità era soltanto che non volevo tornare a Tir Manha. I consiglieri anziani di mio padre manifestavano apertamente la loro disapprovazione per le mie lunghe assenze... le consideravano riprovevoli. Da parte mia, temevo di rimanere bloccato qui per chissà quanto tempo... L'ultima notte del nostro pattugliamento, quella che precedette l'incidente con Cassandra, feci un sogno in cui vedevo mia madre morta nel suo letto a Tir Manha, mentre io mi divertivo a Camelot. Fu un vero incubo. Mi svegliai in un bagno di sudore, senza capire dov'ero, dimenticando che ero impegnato in un pattugliamento e che eravamo a parecchie miglia di distanza da tutto ciò, circondati dalla foresta. Non riuscii assolutamente a riprendere sonno, così scivolai fuori dalle coperte ben prima dell'alba e andai a ispezionare le sentinelle. Probabilmente mi presero per matto, ma la mia unica preoccupazione era che mi avessero sentito urlare nel sonno. Il ricordo di quel sogno non mi abbandonò per tutto il giorno, e continuò a ossessionarmi anche a tarda notte mentre facevo il porco con quelle donne nella stanza dei giochi. Me la stavo spassando con una di loro quando l'immagine di mia madre distesa nel letto malata e forse morente, si affacciò nella mia mente. Era impossibile andare avanti con quel pensiero che mi ossessionava, così mi guardai intorno cercando qualcosa che mi distraesse dal mio turbamento. Fu allora che vidi Cassandra e notai la sua bocca. È proprio così che ebbe inizio l'intera faccenda. E adesso tutto è finito con lei seviziata e uccisa da assassini sconosciuti... Povera donna, sembra quasi che fosse destinata a una morte violenta. E sai qual è l'aspetto più paradossale di tutto ciò?»
«Non lo so, Uther, dimmelo.» Uther lo guardò negli occhi e sorrise. «Io ero lì, Garreth, ancora una volta. Se ciò che Daffyd il druido sospetta è vero, allora Cassandra o Deirdre, come la chiamano ora, è morta il giorno stesso del suo arrivo in quel luogo segreto che divideva con Merlino, e io ero a Camelot quando è partita. A quanto pare, era andata via da meno di un'ora quando sono arrivato, ma io ero lì quando Deirdre ha incontrato la morte. Mi chiedo cosa ne penserà mio cugino Merlino.» Garreth lo fissò a lungo senza dire una parola, poi abbassò gli occhi sull'osso di pollo che stringeva ancora in mano. Sbatté le palpebre come se si svegliasse da un sogno, poi gettò l'ossicino nel fiume, ripulendosi la mano sulla tunica mentre si alzava. «Cosa dovrebbe pensare? Non c'è nulla da pensare. Non eri solo a Camelot, giusto? Non eri l'unica persona presente nella fortezza.» «No, naturalmente.» «Bene, allora qualcuno ti avrà visto e potrà testimoniare che sei stato lì tutto il giorno, no? E per quanti altri ancora?» «Tre.» «E cos'hai fatto in quei tre giorni?» «Ho discusso strategie e tattiche con gli ufficiali.» «Ottimo, dunque non puoi aver fatto tutto questo e contemporaneamente essere andato in qualche ignoto luogo di campagna a massacrare una giovane donna, no? E ora che abbiamo stabilito questo fatto, possiamo, tu e io, tornare a Tir Manha a discutere di strategie e tattiche con i nostri ufficiali? Abbiamo una campagna da organizzare, e vorrei ricordarti che entro questa settimana è previsto che tu parta nuovamente per Camelot. Per quel momento tutti i nostri preparativi qui dovranno essere completati, e Huw Fortebraccio, Dergyll, Owain e tutti gli altri, me compreso, dovranno sapere con precisione a chi spetta ogni compito e chi risponde a chi. Abbiamo tempo per farlo?» Uther sorrise. «Sì. Abbiamo tempo.» I due rimontarono in sella e mentre si avviavano Garreth si voltò
a gridare al compagno che lo seguiva su per la salita: «Non è a me che devi parlare, Uther... bisogna che Merlino... ascolti tutto quello che mi hai detto oggi... soprattutto ora... che ha perso sua moglie». Quando furono in cima e poterono proseguire affiancati, Garreth abbassò il tono di voce. «E tu devi dirglielo, e guardarlo negli occhi mentre lo fai. Ha bisogno di ritrovare il suo amico, e credo che si sentirà molto in colpa per i suoi sospetti, quindi sta a te fare in modo che riesca a perdonarsi. Pensi di poterlo fare?» «Sì, credo di sì... Quel che avverrà dopo è interamente nelle mani degli dèi.» Alzò lo sguardo verso il cielo. «Sta per piovere. Andiamo!» L'uomo propone, ma Dio dispone, e Uther non avrebbe mai avuto la possibilità di esprimere al cugino il proprio dolore per la morte di Deirdre. Un mese dopo la sua discussione con Garreth, Uther rivide Merlino in circostanze piuttosto inattese. Da giorni stava cercando di costringere allo scontro una gran parte delle forze di Lot, attaccandole ripetutamente e spingendole verso le colline Mendip dove con gran fatica aveva preparato loro un'imboscata. Non avrebbe mai immaginato che al ritorno da Verulamium Merlino e il suo gruppo potessero transitare proprio da lì mandando all'aria la trappola. Ma così fu, e nei momenti iniziali della battaglia che ne scaturì, il plotone di Merlino subì pesanti perdite prima che Uther potesse precipitarsi in suo soccorso. Da quel momento in poi, i cugini lottarono ferocemente fianco a fianco finché, nella furia del combattimento, Uther vide Merlino disarcionato e abbattuto da un colpo micidiale sferrato con il mazzafrusto. Lo scontro - poco più di una schermaglia, per quanto violenta - fu vinto poco dopo la caduta di Merlino, e Uther riportò a Camelot il corpo incosciente e quasi senza vita del cugino. Merlino giacque per mesi nel suo letto, con la testa immobilizzata, mentre il medico Lucano gli perforava il cranio salvandogli la vita. La vita, ma non la mente. Da quel giorno in poi, Merlino Britannico si riprese lentamente, ma anche quando il suo recupero fu in apparenza completo e lui fu di nuovo in grado di parlare e muoversi normalmente, la sua mente rimase devastata e la sua memoria cancellata, come se non avesse mai ospitato alcun
ricordo.
PARTE SECONDA
YGRAINE
Salve, madre cara spero che questa mia missiva ti trovi in buona salute. So che è passato meno di un mese da quando ti ho scritto l'ultima volta, quindi mi auguro che tu non ti allarmi ricevendo un'altra lettera da me in così breve tempo, io sto benissimo, ma ho notizie che potrebbero interessare Uther, e poiché non ho modo di sapere se e quanto si tratterrà a Camelot, ho deciso di informarlo tramite te. Forse ricorderai che parecchi anni fa ti parlai di una donna di nome Mairidh che visse con noi qui a Tir Manha per qualche mese. Suo marito Balin era al servizio del duca Emrys di Cornovaglia a quell'epoca, ma per molti anni fu in ottimi rapporti con il nostro caro Ullic. Anche io e Mairidh diventammo buone amiche, e lei mi ha scritto in varie occasioni da quando è stata richiamata in patria insieme a suo marito. Di recente ho ricevuto un'altra lettera da lei, e il tenore del suo contenuto mi ha indotto a scriverti. Dopo la morte del duca Emrys, Mairidh e Balin avevano condotto una vita tranquilla e ritirata, ma pare che più di un mese fa Gulrhys Lot abbia convocato Balin e gli abbia affidato lo stesso tipo di incarico che egli aveva svolto così bene e per tanto tempo per conto del vecchio duca, Lot, da creatura sinistra qual è, ha dapprima tentato di piegarlo alla sua volontà proponendo di trattenere Mairidh con sé come ostaggio per assicurarsi che Balin svolgesse nel migliore dei modi il suo compito, ovvero quello di inviato speciale in Eire. Ma ha sottovalutato la tempra del suo uomo; infatti Balin, ben sapendo quanto fosse importante il suo ruolo in quell'impresa, ha sfidato Lot apertamente, sostenendo che data la sua età avanzata era necessario che la moglie lo accompagnasse per occuparsi della sua salute e del suo benessere. Lot ha ceduto, vedendo che non aveva altra scelta, e ha permesso a Mairidh di seguire il marito. La stupidità di Lot ha forse giocato a nostro favore, poiché ha indotto Mairidh a scrivermi per raccontarmi del nuovo incarico di suo marito e di quanto sia disgustata da Lot e dal suo maldestro tentativo di controllare Balin. In breve, qualche tempo fa Lot ha stretto un'alleanza con il re degli Scoti Iberni in Eire. Il risultato di quell'alleanza è stata l'invasione di Camelot da parte degli Scoti,
durante la quale Merlino catturò e prese in ostaggio il loro principe, Donuil. Da allora, gli Scoti dell'Eire non hanno più compiuto incursioni ostili in questa terra, e l'alleanza non ha più dato frutti. Ma forse tutto questo sta cambiando. Secondo Mairidh, Lot sogna di sfruttare la potenza marittima del re scoto Athol Mac Iain - che a quanto pare possiede grandi flotte di galee - e ha inviato Balin in Eire per negoziare un rinnovo di quell'alleanza, formalmente ancora in vigore. Se dovesse avere successo, Lot potrebbe di colpo avvalersi di cospicue forze navali e sarebbe in grado di spostare grandi quantità di uomini e di armi lungo la costa, minacciando sia la Cambria sia Camelot. Credo sia fondamentale che Uther ne venga a conoscenza immediatamente. Ti prego di farglielo sapere al più presto e nel modo più diretto. In un altro brano della lettera, Mairidh racconta che Lot ha fatto in modo di screditare sistematicamente Uther agli occhi del suo popolo, diffondendo spaventose bugie e dicerie sul suo conto. Lei sa, naturalmente, che nessuna di queste voci è vera, ma consiglia a me e a mio figlio di tenere in considerazione ciò che si dice di lui. Sono state diffuse storie di atrocità e violenze commesse da Uther e dal suo esercito. Parlano di saccheggi e di carneficine compiute in paesi e villaggi, di bambini e anziani impiccati e giustiziati sommariamente, di donne, vecchie e giovani, seviziate, mutilate e stuprate, in gran parte da Uther in persona. La campagna denigratoria è stata così efficace, mi ha detto Mairidh, che ora le donne della Cornovaglia usano il nome di Uther Pendragon per spaventare e indurre all'obbedienza i figli irrequieti. La cosa non mi è del tutto nuova, perché abbiamo sentito dire cose del genere in passato dai viaggiatori in transito. Ne parlai anche con Uther sei mesi fa, ma lui si limitò a ridere della mia indignazione e a liquidare l'accusa come se fosse un complimento. «Solo coloro che incutono timore e costituiscono un'autentica minaccia per il nemico sono oggetto di una tale maligna attenzione» mi disse. Il fatto che Lot di Cornovaglia arrivi al punto di infangare il nome di Uther è semplicemente una testimonianza di quanto Lot tema Uther. In quel momento il buonumore di mio figlio riuscì a calmarmi, malgrado i miei timori, ma ora torno a interrogarmi sulla vicenda. La
reputazione di cui gode in Cornovaglia sarà forse d'aiuto alla sua campagna, seminando terrore, ma non vedo come possa fare del bene alla sua futura memoria. Trasmetti il mio amore a Uther, se è ancora insieme a te a Camelot, e rispondimi presto. La tua affezionata figlia Veronica.
IV. Lagan il Saggio aprì la mano destra a ventaglio e posò delicatamente i polpastrelli sul filo della lama dell'ascia che reggeva nella sinistra. Le dita lasciarono una nitida impronta sulla sottile pellicola di olio di semi di lino che l'uomo aveva appena spalmato sulla testa di ferro dell'arma per proteggere il metallo dalla ruggine. "Merda!", pensò, e subito cancellò i segni con un lembo dello straccio usato per ungerla, poi posò con cautela l'ascia sul ceppo dell'albero che aveva accanto. Fatto ciò, si pulì accuratamente le mani con un altro straccio e completò il lavoro sfregando dita e palme contro la ruvida pelle di pecora dei gambali che gli proteggevano le cosce. A quel punto afferrò il manico dell'ascia e la sollevò, flettendo i potenti muscoli dell'avambraccio. Ignorò il cinturino di cuoio che penzolava all'estremità del manico; solo in battaglia lo avvolgeva intorno al polso. La magnifica ascia era la sua arma preferita e il suo bene più prezioso. La testa larga e pesante, sormontata da una punta aguzza e micidiale dello spessore di un pollice, mandava un cupo bagliore, e il filo della lama temprata era in grado di tranciare di netto ossa e metallo. L'impugnatura di legno, perfettamente cilindrica e interamente ricoperta di complicati e squisiti intagli che riproducevano rovi intrecciati fitti di spine e di foglie, aveva assunto un caldo colore bruno scuro ed era levigata da decenni d'uso e di cure. Lagan non aveva idea di quanto fosse vecchia quell'arma, ma sapeva che era appartenuta a suo nonno che se n'era impadronito nel corso di un combattimento contro invasori stranieri. La risollevò e appoggiò la parte più alta dell'impugnatura contro il cavo della mano sinistra per prendere di mira un altro ceppo, alto e pieno di solchi, a una quindicina di passi da lui. In quel momento sentì suo figlio arrivare di corsa gridando e drizzò la testa, tenendo le braccia ancora tese. Sebbene Cardoc fosse dall'altra parte della casa, ne indovinava l'eccitazione dal tono della voce e dalla rapidità con cui si avvicinava. Udì sua moglie Lydda gridare al ragazzo che il
padre era sul retro, poi tornò a prendere la mira. Piegò il braccio destro all'indietro e scagliò l'ascia nell'istante preciso in cui suo figlio sbucava a lato dell'edificio alle sue spalle. L'arma volò, roteando su se stessa fino a trasformarsi in una macchia indistinta, e si schiantò contro il ceppo, cadendo a terra. Il ragazzo si bloccò in scivolata, con gli occhi sgranati. Raramente aveva visto suo padre sbagliare un colpo. Lagan si voltò verso di lui, impassibile. «Va' a prenderla.» Il ragazzo gli riportò l'ascia caduta e Lagan annuì. «Sta' indietro.» Cardoc obbedì e Lagan ripeté il lancio, questa volta effettuando una rotazione completa del braccio e scagliando l'arma quando l'intero peso del corpo si era trasferito sul piede sinistro. La lama si conficcò nel legno così profondamente che Lagan si guardò bene dal chiedere al figlio di recuperarla ma ci andò lui stesso; fece leva sul manico per liberare la lama, poi si voltò verso il ragazzo. «Hai un'aria mortificata, figliolo. Che ti succede?» Il giovane Cardoc scosse la testa, arrossendo. «Nulla, ma mi spiace di averti distratto spuntando da dietro l'angolo.» Suo padre infilò il manico dell'ascia nell'anello di metallo che portava alla cintura, in modo che la testa dell'arma poggiasse contro il suo fianco sinistro. «No, non sei stato tu. Ti avevo già sentito arrivare. Ho calcolato male il tiro, ecco tutto.» Il ragazzo aveva un'espressione seria. «Non ti capita spesso.» «No, infatti; non quando il bersaglio è fermo. Comunque, lanciare un'ascia è proprio una stupidaggine. Un'ascia è fatta per essere brandita, non lanciata. Nell'attimo stesso in cui la lasci andare sei disarmato, e un bersaglio vivente non se ne starà lì fermo ad aspettare di essere ucciso. Se è possibile mancare un albero, pensa quanto sarebbe più facile mancare un uomo che corre... Se poi quell'uomo corre verso di te per ucciderti, allora sei morto.» Si pulì di nuovo le mani sui gambali, poi le strofinò una contro l'altra. «Ti ho sentito gridare mentre arrivavi, ma non sono riuscito a capire cosa dicevi. Che cosa c'è?» «Il re ti vuole, e nessuno sapeva dove ti trovavi. Mastro Lestrun ha mandato della gente a cercarti. Uno di loro mi ha visto e mi ha
spedito qui per vedere se eri a casa. Lestrun dice che devi andare immediatamente.» Con un sospiro Lagan si chinò a raccogliere i suoi stracci e una ciotola di olio di semi di lino, riponendoli sul piccolo scaffale appeso sul muro in fondo alla sua casa di legno e argilla. «Be', quando il re da un ordine, bisogna obbedire.» Si voltò verso il figlio. «Immagino che tu non sappia di cosa si tratta.» Il ragazzo scosse la testa senza dire nulla e seguì il padre davanti alla casa. Lydda era in attesa accanto alla porta aperta, con il lungo mantello da viaggio del marito sul braccio. «Potresti averne bisogno.» Lagan lo guardò senza entusiasmo, alzando le spalle sotto la spessa e calda tunica di lana che lo ricopriva dal collo a metà coscia. «Ne dubito. Semmai tornerò a prenderlo. Lot è il re e i suoi affari sono certamente importanti, ma non ho intenzione di mettermi in viaggio a metà mattina senza salutare come si deve la mia famiglia, solo perché lui conservi il buonumore vedendo che i suoi ordini sono eseguiti all'istante.» Lydda sorrise. «Dici così, vecchio brontolone, ma sai benissimo che fai tutto quello che vuole e quando lo vuole.» Lydda era una donna alta e imponente, ma suo marito le mise un braccio intorno alle spalle e la attirò a sé senza difficoltà. Lei aderì al suo fianco con la spontaneità e la docilità dettate dall'abitudine, e lui si chinò a baciarle il capo. «È meglio che vada a vedere cosa vuole. Può essere urgente. Ma speriamo che non sia necessario un viaggio. Se così fosse, ripasserò da casa prima di partire.» La strinse a sé e le sollevò il mento per baciarla sulla bocca, poi si allontanò lasciandola sulla soglia a guardarlo con il mantello ancora sul braccio. Cardoc si sedette sul gradino d'ingresso, osservando il padre senza dire una parola. Lydda allungò una mano per scompigliargli i capelli. «Che combini oggi?» Il ragazzo si voltò a guardarla con un sorriso timido. «Oh, niente
di speciale. Stavo giocando con Tomas ed Ewan. Credo che tornerò da loro.» «Va', allora.» Lydda lo guardò dileguarsi, poi rientrò in casa lasciando la porta socchiusa, chiedendosi perché Gulrhys Lot avesse così tanta urgenza di vedere Lagan. Provava una certa simpatia per il re, che conosceva da molti anni, e l'amicizia del sovrano per suo marito si era estesa fino a lei, ma non era certa di potersi fidare ciecamente di lui. Lagan, dal canto suo, gli era assolutamente devoto. In diverse occasioni Lydda aveva sentito la gente definirlo "l'uomo di fiducia del re", con un tono che la portava invariabilmente a domandarsi se c'era del risentimento, del sarcasmo, o addirittura del disprezzo in quell'espressione, o se fosse semplicemente una sua supposizione. I due uomini erano amici per la pelle sin dall'infanzia, e la loro amicizia si era accresciuta e rafforzata nel tempo, anche se dalla nascita di Cardoc le visite di Lot si erano fatte molto meno frequenti. Lagan non voleva sentire parlar male di "Gully", anche se le critiche rivolte al re erano tante e tali da arrivare fino agli inferi. I racconti delle atrocità commesse da Gulrhys Lot e da altri in suo nome — soprattutto da quei due abominevoli forestieri, Caspar e Memnone - erano innumerevoli e strazianti. Lydda represse un brivido ricordando i malefici stregoni egiziani del re, da tempo scomparsi dalla Cornovaglia senza che nessuno li rimpiangesse. Si diceva, anche se Lot in persona negava decisamente, che fossero morti a Camelot, tra i selvaggi senza dio che vivevano laggiù. Se questo era vero, pensò Lydda, il mondo non poteva che trarne vantaggio. Lagan non aveva mai avuto la minima prova che i racconti e le dicerie sugli orrori commessi per conto di Lot fossero veri, e dunque non vi prestava ascolto. Lydda sapeva che il re attribuiva un immenso valore all'innocenza e all'onestà di Lagan e sospettava che Gully avrebbe fatto qualsiasi cosa per nascondere le sue infamie agli occhi e alle orecchie dell'amico. Quel sospetto la turbava profondamente poiché faceva apparire il suo ottimo marito come un uomo ingenuo e stupido, mentre lei sapeva che le cose non stavano così. Certo Lagan era onesto, fiducioso, leale e aperto, e sempre
disposto a concedere il beneficio del dubbio finché mancava una prova certa di colpevolezza. Ma una volta messo di fronte a tale prova, suo marito era implacabile. Quella stessa dirittura d'animo che lo spingeva ad attendersi un comportamento nobile e corretto dagli altri, lo rendeva il più intransigente nel fare giustizia e punire il colpevole, quando era il caso. Colpita da quel pensiero, Lydda si fermò accanto alla finestra con lo sguardo perso nella chiara luce mattutina. Gully considerava forse Lagan uno stupido, un credulone, un ingenuo facilmente influenzabile? Poteva essere così malvagio, così subdolo? Lydda sbatté le palpebre e scosse la testa, dandosi della sciocca. Si guardò intorno cercando di ricordare cosa stesse facendo prima, e tornò alle sue faccende. Quando Lagan sbucò dall'ombra delle case che fronteggiavano la residenza del re e si immerse nel sole del mattino, intuì, più che vedere, il movimento delle guardie del re che scattavano sull'attenti scorgendolo avvicinarsi. A Lagan il Saggio non erano mai piaciute le guardie, già prima della morte del vecchio duca Emrys che le aveva volute a proteggerlo nel timore di essere assassinato. Il duca era morto da tempo ormai, ucciso dall'età e dalla cattiva salute e i suoi scherani erano stati incapaci di tenere lontani quei due furtivi sicari. Ma erano rimaste lo stesso, in teoria per proteggere la vita del figlio e successore di Emrys, Gulrhys Lot, autonominatosi re di Cornovaglia. Entrando dalla porta principale nell'intricata cinta muraria, Lagan tenne lo sguardo fisso di fronte a sé ignorando gli sguardi delle sentinelle. Ce n'erano tre a ogni lato della porta, e il loro superiore doveva essere poco lontano, all'interno delle mura. Non l'avrebbero fermato, poiché sapevano che Lagan era il più caro amico del re alcuni sussurravano malignamente che fosse anche l'unico — e che aveva accesso illimitato al sovrano, cosa che lo poneva al di sopra di tutti gli altri. Oltre la porta si apriva uno stretto cortile, un'area di raccolta lunga circa quindici passi e larga sei con una guardiola per l'ufficiale in servizio a destra dell'entrata. All'estremità opposta c'erano altre
due guardie ai lati di una porta massiccia con battenti lavorati a mano e montanti di ferro; vedendo arrivare Lagan lo scrutarono dalla testa ai piedi finché lui non li superò immergendosi nella frescura di un'ampia sala. "Otto uomini" pensò Lagan sbattendo le palpebre nell'improvvisa oscurità dell'ambiente. Otto mercenari stranieri armati per proteggere il re dal contatto con il suo stesso popolo. C'era qualcosa di intrinsecamente sbagliato in questo. Si fermò, in attesa che i suoi occhi si adattassero alla scarsa luce. Un odore acre e opprimente di legna bruciata ristagnava nell'aria, e qualche sottile spirale di fumo si alzava dalle braci nell'imponente focolare sul lato opposto alla porta. I cani del re, otto molossi dal pelo irsuto grossi come pony, erano distesi sui giunchi che ricoprivano il pavimento, e uno solo di loro alzò la testa per osservare, con la lingua penzoloni, il nuovo venuto. A eccezione di due guardie armate poste ai lati di un'altra porta presente nella sala alla sinistra di Lagan, i cani erano gli unici occupanti dell'enorme ambiente. Lagan tossì, la gola irritata dall'aria viziata e fumosa della sala, e appena i suoi occhi furono in grado di guidarlo fra i massicci tavoli e le panche che ingombravano la stanza, si diresse verso le sentinelle. Quando fu a due passi di distanza, una di esse sguainò la spada e la puntò minacciosamente verso la gola del nuovo arrivato. Lagan si immobilizzò, abbassò lo sguardo sulla punta della spada, poi lo rialzò per guardare l'uomo dritto negli occhi. Era uno sconosciuto. Imperturbabile, Lagan spostò lentamente lo sguardo sul suo compagno, che aveva un volto familiare. Per una manciata di secondi nessuno parlò, poi la seconda guardia posò una mano sulla lama del collega, borbottando qualcosa nella sua lingua. L'altro brontolò e rimase immobile per qualche istante, poi con un lieve sogghigno sollevò la spada, avvertendo Lagan con lo sguardo che per questa volta gli era andata bene ma che era pronto a tagliargli la gola. Lagan non reagì: si limitò a passargli accanto senza degnarlo della minima attenzione e a spingere la maniglia di ferro della porta. Lot era affacciato a una finestra con gli occhi puntati sul cortile e si
voltò sentendolo entrare. «Ah, eccoti» ringhiò. Gulrhys Lot attraversò saltellando la stanza e tentò di agganciare Lagan con una presa che si trasformò rapidamente in un potente abbraccio. Lagan lo ricambiò meravigliandosi, come sempre, di essersi abituato a quell'inconsueto modo di salutare. Il re era l'unico tra i suoi conoscenti a indulgere in un gesto così intimo e personale, un vezzo che risaliva alla sua adolescenza in Gallia e che metteva estremamente a disagio la maggioranza dei suoi uomini costretti a riceverlo e a ricambiarlo, a eccezione dei mercenari galli. Per l'austera mentalità celtica, quell'aperta dimostrazione di amicizia era eccessivamente espansiva, e Lagan aveva visto molti valorosi capitani e guerrieri arrossire di imbarazzo nell'accoglierla. Lot si staccò dall'amico e tenendolo per le spalle lo scrutò in viso socchiudendo gli occhi. «Qualcosa ti ha fatto arrabbiare. Che cosa?» Lagan accennò con la testa e col pollice alla porta dietro le sue spalle. «Non sono arrabbiato, Gully, sono solo seccato. Uno dei tuoi sicari addomesticati là fuori ha alzato la spada contro di me quando ho tentato di entrare qui.» Lot si rabbuiò immediatamente. «Cosa? Contro di te? Ti ha minacciato? Voglio la testa di quel bastardo!» Si era già diretto verso la porta quando Lagan lo prese per la manica e lo costrinse a voltarsi. «A che scopo, Gully? È nuovo, e non mi conosce. Il suo compagno lo ha trattenuto. E poi stava solo facendo il suo dovere.» «E quale sarebbe? Quello di minacciare i miei amici?» «No, quello di proteggere il culo del re da pericoli immaginari. Sto morendo di sete. Hai qualcosa da bere?» Lot scoppiò in un'aspra, improvvisa risata e subito si avvicinò a un tavolo sul quale erano posate varie brocche di argilla coperte da un panno e un vassoio con delle coppe. Quella stanza era il suo dominio esclusivo, e nessun servo aveva il permesso di violare la sua intimità. Il capo della servitù aveva stabilito degli orari per i domestici che dovevano pulire e rassettare la stanza, ma in presenza del re avevano l'ordine tassativo di tenersi alla larga.
Alle pareti di nuda pietra erano stati appesi alcuni pesanti tessuti di lana grezza che secondo il padre di Lot contribuivano a proteggere dai rigori dell'inverno. Sul muro orientale, una finestra in stile romano con due archi separati da una colonna centrale si affacciava sul cortile interno dove si esercitavano i ragazzi. Due serie di imposte, interne ed esterne, consentivano al re di isolarsi dal freddo e dal mondo quando voleva. Accanto alla finestra c'era un caminetto con la canna fumaria aperta verso il cortile, all'interno del quale era sospeso un pesante braciere di ferro. Il pavimento, a eccezione dell'area più vicina al focolare, era ricoperto di giunchi essiccati che venivano rinnovati regolarmente. La stanza aveva un arredo assai spartano, ma conforme alle necessità di Lot. Conteneva una poltrona rivestita di morbida pelle conciata e una seconda meno lussuosa ma confortevole, con uno schienale imbottito, per un eventuale ospite. Entrambe erano disposte davanti al caminetto, una per lato. A esse si aggiungevano tre semplici sedie di legno senza braccioli, disposte lungo le pareti della stanza e due tavoli: uno piccolo sempre ingombro di brocche contenenti idromele e vino, e uno da lavoro più lungo e molto più largo dell'altro, addossato alla parete di fondo della stanza e accompagnato da un semplice sgabello di legno a tre gambe. A quel tavolo il re trascorreva la maggior parte della sua giornata di lavoro, poiché Gulrhys Lot ci teneva moltissimo a far sapere a tutti che fare il re era un lavoro. Lagan sapeva che era la verità, non un'esagerazione. Ma sapeva anche che Lot godeva della sensazione di potenza che gli derivava dalla sua istruzione, in un tempo e in un luogo in cui pochissimi erano in grado di leggere e scrivere. Lot leggeva bene e la sua grafia chiara e armoniosa non smetteva di sorprendere Lagan per la sua metodica precisione, che la rendeva più nitida e leggibile della sua. Avevano studiato insieme da bambini sotto la guida di uno scriba romano vecchio e storpio, che aveva accettato di istruire sia il duca Emrys sia suo figlio in cambio di un tetto sopra la testa e della protezione che ne derivava. Lot, testardo e determinato fin da allora, si era rifiutato di studiare a meno che il suo amico non potesse farlo con lui, e così Lagan il Saggio si era distinto tra tutti i suoi compagni imparando a leggere e scrivere.
Osservando il tavolo da lavoro ingombro di stili, calamai e pergamene, Lagan notò che vi erano sparpagliati vari rotoli di papiro, alcuni chiusi e un paio svolti e tenuti aperti con dei pesi. Gulrhys Lot aveva capito rapidamente i vantaggi dell'alfabetizzazione, e ora pretendeva che i suoi consiglieri più importanti sapessero leggere e scrivere. La cosa faceva sorridere Lagan, poiché a suo giudizio molti di quei consiglieri erano alfabetizzati quanto un ceppo d'albero, ma erano tutti abbastanza furbi da tenersi accanto degli uomini più istruiti di loro e riuscivano così a sopravvivere servendo il re e conservando i propri privilegi. Mentre Lot mesceva del vino delle Gallie per entrambi, dalla finestra giunse un grido infantile e affacciandosi Lagan vide un gruppo di sei ragazzi riuniti intorno a un settimo che aveva le braccia strette intorno alla testa e si lamentava con voce acutissima. Uno dei più piccoli si tirò indietro stringendo un pesante bastone di frassino con espressione preoccupata. In disparte, un guerriero anziano dall'aria severa osservava in silenzio, con aria di disapprovazione. Lagan soffocò una risatina. «Sembra che il piccolo Twoey le abbia suonate a Owen. È questo che stavi guardando, quando sono entrato?» domandò prendendo la coppa che il re gli offriva. Lot annuì. «Sì. Migliorano giorno per giorno, imparano a combattere in modo intelligente malgrado l'antipatia che provano l'uno per l'altro.» «O forse proprio per questo. Sono piuttosto litigiosi, non trovi?» Lot si limitò a spostare lo sguardo verso il cortiletto, senza rispondere. Lagan trasalì al pensiero di averlo offeso. Gully era imprevedibile quando si trattava dei suoi figli. Lui poteva criticarli, gli altri no. Questa volta, comunque, Lot non parve offendersi. «Sono sei» brontolò. «Almeno due di loro potrebbero andare d'accordo.» «Forse è colpa delle madri» rispose Lagan tranquillamente, girandosi a metà verso il re che osservava la scena. «Forse? Questa sì che è una fesseria. C'è più invidia fra quelle sei sgualdrine che fra tutti i miei capitani messi insieme. Dovrei scacciarle
tutte quante.» Lagan si concesse un sorriso. Anche questo era un tema di discussione frequente tra loro. «Le hai scelte tu, mio re» gli fece notare. «Scelte un corno! Si sono scelte da sole, restando incinte. Sono una mandria di vacche!» «Le regali concubine...» Lot si voltò di scatto. «A volte sei troppo romano, amico mio. Sei impertinente con tutto il tuo latino.» «L'ho imparato al tuo fianco, Lot, dai tuoi stessi maestri.» «Già, e meglio di me!» grugnì il re ridacchiando e buttò giù un sorso di vino, tornando a guardare il cortile. Anche Lagan bevve un sorso dalla sua coppa. «Mi hai mandato a chiamare. Per quale motivo?» Senza guardarlo in faccia, Lot si allontanò dalla finestra e andò a posare la sua coppa sul tavolo da lavoro; prese un rotolo di pergamena, lo inserì in un astuccio tubolare di cuoio e lo porse a Lagan. «Voglio che tu vada da Herliss oggi stesso. Consegnagli questo e portami la sua risposta il più rapidamente possibile.» Lagan prese l'astuccio dalla mano del re, saggiandone il peso. «Mio padre lo aspetta? O ne sarà sorpreso?» «No, non lo aspetta... non subito, almeno. Ma non ne sarà sorpreso. Gli causerà qualche problema, forse, ma è un compito che gli spetta in qualità di mio amministratore.» Lagan annuì. «E perché così all'improvviso, Gully? Ieri, quando ci siamo parlati, non ne hai fatto cenno.» «Ieri non lo sapevo ancora.» «Posso chiederti di cosa si tratta?» «Sì, naturalmente. Siediti, amico mio, siediti. Da quando in qua devi stare in piedi in mia presenza?» Non era mai successo, in effetti, ma Lagan preferì non dirlo per
non guastare l'atmosfera. Gully aveva alcuni atteggiamenti tipici nel trattare con lui, e questo ne era un esempio: ricordando a Lagan che non era necessario che restasse in piedi, gli faceva capire che aveva il potere di costringerlo a farlo. Lagan si accomodò sulla sedia che il re gli aveva indicato e Lot ne avvicinò un'altra col piede e si sedette, chinandosi verso di lui. «Il ruolo di amministratore ricoperto da tuo padre coinvolge due questioni di grande peso: questa missiva riguarda entrambe. Non potrei sopravvalutare la loro importanza nemmeno se volessi, Lagan. Ti basti sapere che solo tu puoi portare questo messaggio per me. A nessun altro potrei o vorrei affidare una simile missione, e capirai il perché se ti dico che la prima questione riguarda il mio tesoro. Tuo padre custodisce grandi ricchezze a mio nome: oro, gioielli e, soprattutto, armi. In questo momento ne ho bisogno. Credo che le abbia disseminate nelle sue roccaforti sulla costa, per metterle al sicuro.» Lagan annuì. Suo padre possedeva quattro roccaforti costiere, ciascuna a guardia di un porto per le flotte di predoni di Lot. In cambio di un approdo sicuro, i pirati versavano a Lot la metà del bottino che riportavano da ogni viaggio. Herliss raccoglieva questi tributi e li custodiva per conto del re. «Lagan, credo che con la bella stagione Uther Pendragon verrà di nuovo a bussare alle nostre porte. L'inverno è stato mite, e la primavera non è lontana.» Il re cercava di mostrare la sua faccia migliore, parlando in tono confidenziale con voce bassa e profonda. Lagan attese, senza dire nulla. Si udì bussare alla porta e il braccio di una guardia spalancò uno dei battenti per far passare Lestrun, il più anziano fra i consiglieri di Lot. Il vecchio si infilò sotto il braccio teso della sentinella ed entrò con passo strascicato, fece un cenno di saluto a Lagan e uno leggermente più ossequioso al suo re, ed estrasse da sotto il braccio destro due rotoli di pergamena. Lot li guardò con disprezzo e per un attimo Lagan pensò che stesse per aggredire il vecchio Lestrun per averli interrotti.
Invece il re annuì seccamente, indicando col capo il lungo tavolo da lavoro. «Mettili laggiù insieme agli altri.» Lestrun chinò la testa ma rimase di fronte al re. «Farò come dici, mio signore» disse con una voce bassa e sibilante segnata dall'inconfondibile, ritmica cadenza della regione nordoccidentale della Cambria. «Ma non prima che tu mi abbia promesso di leggerli, appena sarai solo. Sono due questioni molto importanti, ed è necessario che almeno una di esse venga decisa entro oggi se vuoi che i tuoi desideri vengano esauditi.» Mentre l'altro parlava, il re impallidì di rabbia. «Maledizione a te! Ti aspetti che esegua i tuoi ordini come un bambino impaurito? Posali e vattene!» Il vecchio annuì, per nulla impressionato. «Lo farò, ma solo dopo che mi avrai dato la tua parola. Sono in gioco i tuoi piani, i tuoi obiettivi. Puoi inveire contro di me quanto ti pare, ma se non mi assicuro che tu faccia ciò che va fatto, te la prenderai con me ugualmente.» Come in molte altre occasioni, Lagan si meravigliò vedendo l'anziano consigliere sfidare senza la minima paura un uomo notoriamente pericoloso da contraddire, ma la collera del re sfumò di colpo e Lot esplose in una risata, forse di ammirazione. «Per tutti gli dèi, Lestrun, uno di questi giorni mi farai uscire dai gangheri e mi pentirò di averti ammazzato quando sarà ormai troppo tardi... E va bene, ti prometto che leggerò quei maledetti fogli appena sarò solo e subito dopo prenderò una decisione. Ora sparisci.» Il vecchio si inchinò e salutò Lagan con aria impassibile prima di ritirarsi, e di nuovo una guardia invisibile tenne la porta aperta per lui finché non fu uscito. Alla vista di quel braccio senza corpo, rivestito di un'armatura di cuoio e teso attraverso la soglia, di colpo Lagan andò su tutte le furie, e quando la porta fu chiusa si rivolse a Lot. «Che te ne fai di questa gente, Gully? Non ne hai alcun bisogno.» «Chi, i miei consiglieri?» rispose l'altro con un mezzo sorriso.
«No, maledizione, queste guardie. Non hai bisogno di guardie. Per guardarti da chi, dal tuo stesso popolo? Ne ho incrociate dieci tra la porta principale e le tue stanze. Sei fuori, due in cortile e due qui davanti alla tua stanza. Temi forse di essere attaccato?» Il re continuò a sorridere ma non rispose subito e a Lagan venne in mente, per l'ennesima volta, che quel familiare sorrisetto nascondesse molto più di quanto apparisse. «Secondo te mi aspetto di essere attaccato qui, in casa mia? No, Lagan, no.» Ora il sorriso si era fatto più ampio, il tono di voce mellifluo e confidenziale. «Non è l'uomo che ha bisogno di guardie. È il rango, la carica.» Lagan lo guardò con aria interrogativa. «Non ti seguo.» «È semplice. Io sono un re, Lagan. I re hanno bisogno delle guardie, non perché queste li proteggono, almeno, non sempre, ma perché li rendono visibili.» «Li rendono visibili in che senso, Gully? E di fronte a chi? Ai miei occhi, tu sei perfettamente visibile oggi come lo eri più di vent'anni fa, quando diventammo amici.» «Già, ma ai tuoi occhi, amico mio. Per te io non sono cambiato, e in nome di tutti gli dèi ti giuro che è così. Ma per gli altri...» Lot diede alla frase un'intonazione retorica. «La mia posizione è cambiata. Sono un re, ora...» Di colpo si alzò e andò ad appoggiarsi al bordo del tavolo posando il piede destro sulla sedia di legno che si trovava accanto. «Siediti lì, dove posso osservare la tua faccia.» Senza dire una parola Lagan si sedette di fronte a Lot, socchiudendo lievemente gli occhi quando il sole di fine inverno gli colpì il viso. Lot attese che si fosse accomodato con la coppa in mano e proseguì, chinandosi leggermente e appoggiandosi col gomito sul ginocchio. «Quando mio padre divenne capo del clan, la sua fama e la sua influenza si accrebbero ed egli fu in grado di viaggiare oltre questi lidi, in Gallia prima di tutto, e poi a sud fino all’Iberia. Nel corso di questi viaggi, non tutti di carattere bellico, incontrò i re dei Burgundi della Gallia meridionale e centrale, e anche quelli dei Franchi che vennero dopo, le cui terre si estendono ancora più lontano. E prese
nota del comportamento di quegli uomini: come vestivano, come vivevano, come governavano il loro popolo. Fu al suo ritorno da uno di quei viaggi, vittorioso e con un ricco bottino, che assunse il titolo di dux, o duca, di Cornovaglia, e adottò lo stile di vita di un duca. I Romani, che attribuivano grande importanza a queste cose, erano tutt'altro che stupidi. Sapevano che la gente vede solo ciò che le si fa vedere. Mostra loro un poveraccio vestito di stracci, e lo tratteranno come una nullità. Mostra loro lo stesso uomo vestito di cuoio e pellicce, con dei guerrieri alle spalle, e si inchineranno di fronte a lui umiliandosi per ottenere i suoi favori, anche se non sanno distinguere un duca da un cuoco... Come duca, mio padre pretese e ottenne molto più rispetto e obbedienza di prima. Il duca divenne molto più forte e più potente dell'uomo. Divenne un simbolo... un simbolo del suo popolo, del suo clan, dei suoi territori.» Lot abbassò lo sguardo e mosse un dito della mano destra in modo che la luce proveniente dalla finestra si riflettesse sul pesante anello con cui sigillava lettere e documenti. «Anche questo sigillo è un simbolo. La testa di cinghiale che vi è incisa è il mio marchio, la mia identità. La sua impronta sul sigillo di cera di un documento mostra chiaramente a tutti che io ne ho approvato e autorizzato i contenuti.» Si tolse l'anello e alzò la mano, allargando le dita. «Ma se tu me lo porti via e lo distruggi, mi impedisci di manifestare la mia autorità a chi è lontano finché non me ne sarò fatto fare un altro. Ti è chiaro, no?» Lagan annuì lentamente, sorseggiando la sua bevanda. «Ottimo. Ebbene, un re è un simbolo, come questo, ed è più importante, più forte, più ricco di un duca. Mio padre ha dato prosperità alla Cornovaglia sotto la sua guida. Alla sua morte, ho giurato di migliorare i suoi risultati in ogni campo, e ci sono riuscito. Ho rinegoziato l'accordo con i suoi mercenari ampliando il loro raggio di azione. Ho accresciuto le sue ricchezze e i suoi possedimenti. E soprattutto, ho aumentato il suo potere... il mio potere. Ora il mio compito è quello di preservare e difendere quel potere, quella prosperità e quell'autorità, per tutti coloro che dipendono da esse.» Lot fece una pausa, fissando con sguardo penetrante il suo
ascoltatore. «Parliamoci chiaro, Lagan. Oggi la Cornovaglia è un regno, e io ne sono a capo. A tutti coloro che vengono da fuori devo apparire come un re, con la potenza e le risorse di un re. Così, i visitatori che giungeranno alle nostre porte troveranno delle guardie il cui sacro dovere è quello di proteggere il sovrano. Tutto qui.» Si interruppe, corrugando la fronte. «Cosa c'è che non va, adesso?» Lagan scuoteva la testa, increspando le labbra. «Non abbiamo visitatori qui» disse in tono piatto, temendo per un attimo che Lot andasse su tutte le furie, come spesso accadeva. Ma il re scoppiò a ridere. «Per gli dèi, Lagan, a volte non ti sopporto, ma apprezzo comunque il tuo cocciuto buon senso. Hai ragione, naturalmente. Nessuno viene qui in visita... non ancora, almeno. Ma verranno, Lagan, verranno, e presto. Verranno numerosi a invocare il favore e la clemenza della Cornovaglia.» «Le macchine da guerra.» «Già... le macchine da guerra. È giunto il momento che la Cornovaglia si espanda.» «Uhm... E che mi dici di Camelot? Potrebbe impedire la tua espansione. Ora che Merlino Britannico non comanda più a Camelot, dicono che Uther Pendragon guidi le sue armate oltre che le proprie. E, da quel che ho saputo, il Pendragon è un tipo deciso e un nemico scomodo. Più duro di quanto sia mai stato suo cugino Merlino. Finché avrà vita farà tutto ciò che è in suo potere per impedirti di uscire dalla Cornovaglia.» Gli occhi di Lot si accesero d'ira. «Allora quel bastardo non vivrà ancora a lungo! Ho dei progetti per lui e per la sua lurida schiatta. Quando tuo padre porterà qui i carri da sud, le cose cambieranno, vedrai. Saremo armati meglio del nemico, e i nostri uomini verranno addestrati a servirsi di quegli strumenti di offesa.» Lagan aveva sentito abbastanza e non aveva alcuna voglia di riaprire la discussione sugli armamenti. A suo parere, per quello che era venuto a sapere e per le sue limitate esperienze dirette di combattimento in questa guerra, le forze di cavalleria schierate da
Camelot erano superate solo dai micidiali archi e dalle frecce dei guerrieri cambriani di Uther Pendragon. Lagan era convinto che quegli archi lunghi fossero la più pericolosa arma esistente in circolazione e che la Cornovaglia non avesse i mezzi per contrastare efficacemente la loro mortale minaccia. Tornò alla finestra e scoprì che i ragazzi se n'erano andati, messi in libertà dal loro tutore che era rimasto in cortile a riporre ordinatamente le loro armi giocattolo sotto la tettoia. Lagan riprese la parola, sperando di distogliere Lot dal tema delle armi. «Hai detto che il tuo messaggio tocca due questioni. Qual è la seconda?» «Mia moglie, Ygraine.» Lagan gli lanciò un'occhiata da sopra la spalla. «Che le succede? L'ho vista l'ultima volta che sono stato da mio padre, e mi è parso che stesse bene. Te l'ho detto, no?» «Ah sì? Non ricordo. E ti ha detto di salutarmi?» «Non ho avuto occasione di parlarle. L'ho vista da lontano.» Lagan si voltò del tutto e notò per la prima volta l'espressione sul volto del re. «Cosa c'è che non va, Gully?» Lot gettò indietro la testa rabbiosamente per scacciare un ciuffo di capelli dalla fronte. «Nulla, ma bisogna che mia moglie, la mia regina, torni qui. Io ho bisogno che torni qui, in modo da poterla tenere d'occhio.» Lagan lo fissò sconcertato. «Che significa tenerla d'occhio? Che cosa ha fatto?» «Niente...» Lot ebbe una breve esitazione. «Non è lei che devo controllare, ma la sua famiglia» aggiunse con un mezzo sorriso. «Parlavamo di simboli un attimo fa. Ecco, Ygraine è un altro simbolo, il simbolo dell'alleanza tra me e la sua famiglia in Eire.» Lagan annuì, corrugando lievemente la fronte. «Se non ricordo male, non fu un grande successo quell'alleanza, o sbaglio?» «No, infatti, ma ho bisogno di tenerla viva, ora più che mai. Forse ricorderai che in occasione della mia prima marcia verso nord il padre di Ygraine, che si fa chiamare re Athol Mac Iain, spedì un
esercito a combattere contro Camelot. Fu un disastro. Quel porco di Merlino li colse di sorpresa e li massacrò, rimandandoli a casa con la coda tra le gambe. Da allora si sono rifiutati di riprendere le armi contro Camelot, sostenendo che un loro principe è trattenuto laggiù come ostaggio a garanzia della loro neutralità.» «Allora perché pensi che valga la pena di tenere in vita l'alleanza?» Lot lanciò un'occhiata a Lagan, poi spostò lentamente lo sguardo verso la finestra. «Perché Athol Mac Iain controlla due grandi flotte di galee. E uno di questi giorni avrò bisogno di mezzi di trasporto.» «Capisco. Ma perché Ygraine è diventata di colpo così importante?» «Io...» Lot si interruppe, poi proseguì. «Tuo zio Balin si trova in Eire. Lo sapevi?» Lagan si limitò a scuotere la testa. Non sapeva nulla del fratello di suo padre da molti mesi, e gli aveva a malapena parlato da quando era rientrato in Cornovaglia. «Be', è così. L'ho inviato laggiù più di un mese fa per tenere i contatti con il vecchio Athol. Ora mi scrive, l'ho saputo ieri sera, che il vecchio ha desiderio di rivedere sua figlia e che potrebbe venire a trovarci quest'estate.» «Ah, per questo vuoi che donna Ygraine sia ben sistemata qui come tua regina prima del suo arrivo. Be', è comprensibile.» Ma il volto duro del re non tradiva né ironia né indulgenza. «Mi fa piacere sentirtelo dire, ma la comprensione degli altri mi è del tutto indifferente. È per motivi politici che la voglio qui con me, in modo che il suo affezionatissimo genitore non rinneghi la nostra alleanza con la scusa che ho maltrattato sua figlia.» Lagan guardò l'amico dritto negli occhi. «Ma tu lo hai fatto, Gully, non puoi negarlo. Forse "maltrattata" è un termine troppo duro, ma l'hai trascurata.» Ignorò lo sguardo gelido di Lot e proseguì. «A costo di sembrarti sfacciato, credo che tu debba domandarti se sei davvero convinto di poter curare l'orgoglio ferito della tua signora. Deve covare un bel risentimento per essere stata sepolta laggiù e ignorata per tutti questi mesi.» Fece una pausa, sostenendo lo sguardo irato del re senza battere ciglio e parlandogli francamente, da amico. «Non ho mai capito perché tu l'abbia spedita a vivere con mio padre
in quel luogo isolato sulla costa.» Lot sorrise, ma con tale fatica che il risultato fu più simile a una smorfia. «È una bisbetica, Lagan, peggio di tutte le altre sei messe insieme. Non può esserci pace fra noi due sotto lo stesso tetto. E poi ho già abbastanza figli. Lei è il prezzo che ho dovuto pagare per questa alleanza: una moglie intrattabile incapace di maneggiare una scopa. Ma ora le cose sono cambiate... e in primo luogo le mie esigenze. La riprenderò in casa mia nell'interesse del regno, prima di tutto. La tratterò da regina davanti a tutti e magari le farò perfino fare un cucciolo...» Il suo sguardo si perse di nuovo, poi tornò a farsi attento. «A proposito di figli, come sta il tuo ragazzo, il piccolo, bellicoso Cardoc?» Il volto di Lagan si illuminò. «A parte Lydda, è la più grande gioia della mia vita. Ogni volta che mi assento anche solo per qualche giorno, quando lo rivedo mi sembra cresciuto di un palmo.» «Ciò mi ricorda che l'ultima volta hai rischiato di non tornare affatto e ci è voluto un bel po' prima che io lo sapessi.» Per qualche istante Lagan parve imbarazzato, poi sorrise e scrollò le spalle. «Non vale la pena di parlarne. Ormai è passata, e non è successo niente.» Il re fece una smorfia di disapprovazione. «Devi assolutamente prendere qualcuno con te quando viaggi. Per essere soprannominato il Saggio, sai essere notevolmente stupido e cocciuto a volte. Mi hanno raccontato della tua avventura, ma non nei dettagli. Cos'è successo?» Lagan scosse la testa. «Niente di particolare, ma è stata una fortuna che Docca e i suoi compagni siano capitati lì proprio in quel momento. La banda di zotici in cui mi ero imbattuto era più coraggiosa e più numerosa di quanto avessi sospettato all'inizio. Stavamo scambiandoci... i rispettivi punti di vista quando è arrivato Docca.» «Docca ha sostenuto che ne avevi uccisi tre quando ti ha raggiunto.» «Quattro, ma sono stato felice di vederlo. Mi sono accorto della
sua presenza solo quando una freccia ha colpito in un occhio uno dei miei aggressori. A quel punto la zuffa si è conclusa rapidamente. È incredibile come certi bravacci si perdano d'animo appena vedono scemare il loro vantaggio.» Lagan andò a riprendere il cinturone e il mantello. «Sono stato imprudente quella volta, è vero, e ho imparato la lezione. Ma preferisco ugualmente viaggiare da solo e di solito non ho problemi.» Appese il cinturone a una spalla e si avvolse nel mantello. «Ora bisogna che avverta mia moglie che devo andar via di nuovo. Vuoi proprio che parta oggi?» Lot annuì, con il suo solito sorrisetto. «Sì. A quanto pare non abbiamo molto tempo e ogni ora può essere preziosa. Diversamente, ti lascerei libero di decidere.» «Mio padre dovrà recuperare le tue armi dai suoi vari castelli prima di poterle spedire qui, dunque ci sarà da aspettare. Vuoi che io resti da lui e torni indietro insieme ai carri, o preferisci che rientri immediatamente per farti sapere quanto tempo ci vorrà?» «Lascio a voi due la decisione, almeno entro certi limiti.» Il re assunse un'aria pensosa, tamburellando le dita sullo schienale della sedia, prima di proseguire. «Ma se non fosse necessario attendere più di una decina di giorni, potresti scegliere di rimanere lì per assistere ai preparativi e poi rientrare con il convoglio. Se invece l'attesa si preannuncia più lunga, sarà meglio che tu torni indietro appena possibile per informarmi di quanto ci vorrà prima che il materiale sia nelle nostre mani.» «Bene, così sia.» Lagan si allacciò rapidamente il cinturone alla vita prima di riprendere la coppa e vuotarla, schioccando le labbra. «Prendo congedo, allora, e vado a salutare mia moglie e mio figlio prima di mettermi in cammino.» Stava per avviarsi quando un'idea improvvisa lo fece fermare. «Sai, potrei prendere Cardoc con me. Gli farebbe bene rivedere suo nonno e il viaggio sarà relativamente sicuro visto che attraverseremo i nostri territori. Oltretutto, ho promesso di portarlo a pescare.» Il re ebbe un'esitazione quasi impercettibile. «Allora portalo con te, amico mio... e porta anche la deliziosa Lydda, ne sarà felice. Evidentemente sei certo che non rallenteranno il tuo viaggio. Se avrò bisogno di te per qualcosa, un giorno in più non sarà un problema.
Va' e goditi la tua famiglia, ma ricorda che la tua missione ha un carattere di estrema urgenza e importanza.» Il sorriso di Lagan il Saggio si spense. «Già» disse. «Hai ragione, come sempre. Forse non è una buona idea, dopo tutto.» «Ci saranno altre occasioni. Al tuo ritorno avrai tutto il tempo che vuoi, sempre che Camelot non venga a darci fastidio.» «D'accordo, farò così. Addio.» Quando la porta si chiuse alle spalle di Lagan, il sorriso del re svanì lentamente per lasciare il posto a un'espressione stanca e corrucciata. Mordicchiandosi il labbro inferiore, Lot fissò con aria pensosa la solida porta di quercia, poi si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra, guardando nel cortile vuoto. Udì un tuono in lontananza, e sporgendosi ancor di più per guardare in alto si accorse che il cielo si era ricoperto di una spessa coltre di nuvole grigie. Gulrhys Lot brontolò e si avvicinò al lungo tavolo da lavoro dove Lestrun aveva lasciato i due rotoli di pergamena. Lagan si allontanò dalla residenza del re profondamente assorto nei suoi pensieri, senza degnare di un'occhiata le guardie. Non era così ingenuo da non riconoscere i sistemi di Lot, e la sua piccola manipolazione finale non gli era sfuggita. Era stato un errore manifestare il desiderio di portare con sé il figlio, ma non aveva saputo resistere all'impulso, e una volta espresso il desiderio gli era stato impossibile tornare indietro. Di conseguenza, Lagan aveva capito prima ancora di finire il discorso che non avrebbe avuto il permesso di condurre con sé il ragazzo. Sarebbe stato meglio tacere e portarselo dietro invece che ventilare quella possibilità a Lot, dato che il re, come tutti sapevano, esigeva una dedizione assoluta. Non tollerava debolezze o distrazioni in nessuna circostanza. Pretendeva a tutti i costi di essere solo al centro dell'attenzione, e più di un guerriero aveva imparato a proprie spese che non gli era concesso sposarsi finché il re aveva bisogno di lui. Lagan diede un calcio a un ciottolo sul cammino, maledicendo il proprio entusiasmo e rammaricandosi di non aver tenuto la bocca chiusa.
Malgrado l'urgenza delle richieste di Lot e il desiderio di tutti di esaudirle, non fu impresa da poco per Herliss riunire tutto il materiale richiesto e predisporre una consegna sicura. Le macchine da guerra, in particolare, ponevano problemi di trasporto che apparivano quasi insuperabili, finché un tipo ingegnoso non ebbe l'idea di staccare le ruote e gli assali dai carri e attaccarli direttamente alle massicce basi di legno delle macchine. I pesanti manufatti romani non erano fatti per coprire lunghe distanze. Erano marchingegni ingombranti che dovevano essere dotati di resistenza, stabilità e robustezza; le solide ruote di cui erano forniti dovevano assicurare loro un certo grado di mobilità, ma solo allo scopo di poterli posizionare e di spostarli lungo il campo in battaglia. Potevano essere manovrati a mano, ma non erano stati concepiti per affrontare un viaggio via terra. Il duca Emrys aveva acquistato quelle macchine al tempo della ritirata dei Romani dalla Britannia, e conscio del loro valore, le aveva custodite con cura per le future necessità. Le aveva fatte smontare numerando i singoli pezzi per poterli riassemblare, e poi le aveva suddivise, per ragioni di sicurezza, tra le quattro roccaforti costiere di Herliss. Ma da allora erano passati decenni, e in quell'intervallo di tempo gli enormi carri usati in origine per trasportarle erano stati adoperati per altri scopi e alla fine erano andati perduti. Di conseguenza, Herliss si trovò di fronte a un compito immane, e non osò correre il rischio di scambiare o sistemare in modo errato le singole parti di ciascuna macchina, che si trattasse di una balista, di una catapulta o di una torre, poiché gli uomini che avrebbero dovuto trasportarle e riassemblarle non avevano alcuna esperienza in quel campo. Il tempo volò e quando Lagan si trovò oltre il limite di dieci giorni stabilito da Lot, secondo suo padre mancavano ancora due settimane di lavoro prima che tutti i singoli pezzi fossero pronti a partire. Costretto a spostarsi continuamente dall'uno all'altro dei quattro forti sulla costa meridionale, quando si rese conto che era giunto il momento di tornare dal re per dargli la sgradita notizia del ritardo, Lagan non aveva ancora trovato il tempo di far visita alla regina Ygraine a Tir Gwyn, la fortezza di Herliss, a venti o trenta miglia nell'entroterra.
Sia pur malvolentieri, si rimise dunque in cammino verso il forte di Golant con la notizia che suo padre non sarebbe stato pronto a partire per il nord insieme al suo tesoro prima di due settimane. Sapeva che Lot non avrebbe accolto la notizia con grande entusiasmo. Ma in fondo, rifletté, la regina Ygraine sarebbe stata ancor meno entusiasta della prospettiva di riunirsi al marito. Secondo Herliss, la regina non nutriva una grande considerazione per Gully. Herliss era talmente indaffarato che si accorse a malapena della partenza del figlio. Aveva la mente troppo occupata dai problemi logistici per preoccuparsi della famiglia. Gli bastava sapere che nel giro di qualche settimana avrebbe seguito Lagan e si sarebbe finalmente liberato di ogni responsabilità riguardo ai beni di Lot. Quanto alla regina Ygraine, per giorni rimase all'oscuro del fatto che suo marito si fosse ricordato di lei e l'avesse richiamata a Golant, e non seppe nemmeno del viaggio di Lagan nel sud. Alla fine fu Herliss, che lei aveva imparato a considerare quasi un padre, a informarla del viaggio imminente. Ygraine ascoltò le sue parole senza discutere. Sapeva fin troppo bene che Herliss non aveva altra scelta che obbedire agli ordini di Lot, e dunque si rassegnò all'inevitabile. Ma le novità che le erano state annunciate erano così poco incoraggianti, e la sua mente così dominata dalla sgradevole prospettiva di riunirsi a un marito che le era estraneo, che non ebbe alcun pensiero sui rischi che avrebbe potuto correre durante il viaggio dalla fortezza di Herliss a quella di Lot.
V. L'imboscata - rapida, infallibile, e resa ancor più impressionante dalla scarsa quantità di sangue versato - trasformò in pochi istanti Ygraine da regina a ostaggio. Per quanto imponente, la sua scorta, colta completamente alla sprovvista, non ebbe alcuna possibilità di reagire. Stavano attraversando un'ampia vallata poco profonda in una bella giornata di inizio primavera, quando in un attimo si ritrovarono stretti fra due gruppi di guerrieri sconosciuti, silenziosi, dall'espressione determinata, terribilmente diversi da quelli che Ygraine aveva conosciuto fino a quel momento. Erano letteralmente sbucati dal terreno ai due lati dell'angusto sentiero, già disposti in formazione d'attacco con centinaia di lunghi archi puntati. Nel temporaneo caos che seguì, Ygraine riuscì con sorprendente chiarezza a vedere cosa stava accadendo. Mentre gli uomini della sua scorta tentavano inutilmente di organizzarsi in una formazione difensiva e la sua guardia personale si disponeva intorno a lei per proteggerla, nel momento in cui la prima scarica di frecce avrebbe dovuto seminare panico e morte tra i suoi paladini, Ygraine, sovrana di Cornovaglia, figlia di Athol Mac Iain re dell’Eire, percepì chiaramente e indubitabilmente che qualcuno, per ragioni a lei ignote, stava impedendo il massacro. Un unico gruppo di guerrieri guidati da Gylmer, il capitano più fedele e irruente di Lot, era riuscito a formare una falange e a gettarsi contro il nemico sul fianco della collina che li sovrastava. Ma i venti uomini si erano appena staccati dal sentiero incitati dal capo che cavalcava al centro del gruppo sul suo pony di montagna, quando furono sterminati all'istante da una pioggia di lunghe frecce mortali, scagliate con incredibile precisione dalla collina opposta, dietro di loro. Sentendo i dardi sibilare sulla sua testa, Ygraine si girò a guardare, evitando così di assistere alla carneficina che si abbatté d'improvviso sui suoi difensori più impetuosi, e vide con sgomento che a scoccare i dardi erano state solo le ultime file di arcieri disposti sulla collina alle sue spalle, in risposta a un segnale invisibile. Mentre
costoro già incoccavano nuove frecce, la regina si voltò a controllare il risultato del loro assalto. Nessuno tra i venti uomini era rimasto in piedi. E nessun arciere sembrava aver sprecato un colpo. L'avvertimento fu chiaro a tutti, compreso Herliss, l'anziano comandante al quale il re aveva affidato il compito di condurre la sua regina e un prezioso carico di materiali e provviste attraverso le fortezze reali che costellavano il suo territorio. Ygraine lo vide abbassare lentamente il braccio destro che aveva levato a pugno chiuso per chiamare a raccolta i suoi uomini, con un'espressione di rabbia e disperazione sul volto. Ultimo cavaliere rimasto in tutto il convoglio, Herliss fu sconvolto dalla rapidità e dalla totalità della sconfitta e dalla propria impotenza. I nemici erano emersi dal sottosuolo come demoni, spuntando da buche e trincee scavate nel soffice terreno delle colline ai lati del sentiero, annunciati solamente dall'improvviso sollevarsi delle zolle erbose che li nascondevano. Avevano teso gli archi, con le frecce già incoccate, disponendosi con incredibile rapidità in ranghi compatti, ordinati, distanziati l'uno dall'altro per consentire a ogni blocco di tirare sopra la testa degli arcieri che stavano sotto; una schiera puntata spietatamente verso il lungo convoglio in preda alla confusione. Il giovane Gylmer, come al solito, era stato il primo a reagire, spronando il suo pony con un grido e attirando l'attenzione dei suoi uomini prima che il panico li immobilizzasse. Ma la sua prontezza gli era stata fatale e i suoi uomini erano morti con lui, annientati da una risposta così rapida e devastante che tutti i presenti compresero che era stata preparata proprio a un simile scopo. Herliss si guardò intorno, considerando la situazione in cui si trovava. I suoi uomini erano immobili, paralizzati dall'indecisione, come congelati dallo sguardo di qualche divinità maligna. In mezzo a loro, proprio al centro del sentiero, si agitava il gruppo di dame della regina, ancora troppo sconvolte per mettersi a strillare. Alle sue spalle udiva le grida terrorizzate di coloro che guidavano i carri. Solo la guardia personale di Ygraine, composta da guerrieri dell'Eire, sembrava pronta ad affrontare la minaccia delle truppe che incombevano dall'alto. Avevano formato un cerchio rannicchiandosi dietro una solida muraglia di scudi, pronti a morire per la loro regina.
Una quiete mortale calò sulla scena. Le voci si spensero, e nel silenzio, gli uomini sulla collina abbassarono gli archi. Fu allora che Herliss si rese conto della terribile realtà: solo metà degli arcieri li teneva sotto tiro. L'altra metà sollevò gli archi ribadendo la minaccia di morte e tuttavia dilazionando la sua esecuzione. Ancora nulla si mosse in fondo alla valle. Herliss respirò profondamente, avvertendo lo sguardo della regina puntato su di lui. Era il comandante del re, e Gulrhys Lot lo avrebbe fatto impiccare e squartare a causa di ciò che era accaduto. L'unica opportunità che gli rimaneva era di scegliere come morire. Raddrizzò le spalle ed estratta la pesante spada di bronzo fece per sollevare nuovamente il braccio, pronto a essere colpito in qualsiasi momento. «Herliss! No! Te lo proibisco!» La voce della regina echeggiò nel silenzio. «Statemi tutti a sentire! Deponete le armi.» Alcuni si voltarono verso di lei, incluso Herliss. Ygraine proseguì con voce squillante: «Siete impazziti? Non capite che non vogliono ucciderci? Se così fosse, saremmo già morti! Deponete le armi». Qualcuno fu tentato di crederle, ma nessuno fece un gesto per eseguire il suo ordine. «La donna ha ragione, Herliss!» A parlare con voce tonante era stato un individuo gigantesco che si trovava a circa trenta passi di distanza dietro di lei, sulla collina, e Ygraine si voltò a guardarlo imitata da tutti gli altri. L'uomo era a capo scoperto, ma una chioma folta e nera e una barba corta gli mascheravano quasi completamente il volto. Era uno dei pochi sulla collina a non impugnare un arco. Teneva le braccia incrociate sul petto e sembrava perfettamente a suo agio. Aveva un mantello giallo lungo fino ai piedi gettato sulle spalle, e indossava un'armatura realizzata con strati di pelle di bue e piastre di ferro nero. Malgrado la distanza e gli uomini della sua guardia personale che la circondavano, Ygraine vedeva i suoi occhi azzurri brillare di ironia o di disprezzo. Mentre lei lo guardava, l'uomo proseguì rivolgendosi direttamente a Herliss, ancora paralizzato nell'atto di sollevare il braccio con la spada.
«Il nostro signore non fa guerra alle donne, ed è per questo che siete ancora vivi. Deponete le armi e sarete risparmiati. Altrimenti morirete qui, e subito.» Herliss ritrovò prontamente la voce e rispose in tono minaccioso: «Il vostro signore? Queste sono le terre di re Lot. Chi sarebbe questo vostro signore?». «Un sovrano molto più potente del vostro.» La voce dell'uomo dai capelli neri esprimeva un'arrogante sicurezza. «Avete duecento uomini intrappolati qui, più dieci donne e una ventina di piccoli archi. Noi abbiamo quattrocento archi lunghi puntati su di voi. Quindi il nostro signore ha più potere del vostro. Arrendetevi, o siete morti. La mia pazienza ha un limite.» Ygraine si sentì afferrare il gomito dal cugino Alasdair Mac Iain, capitano della sua guardia personale, mentre era ancora concentrata su Herliss; si divincolò, ma le dita dell'uomo si aggrapparono ostinatamente alla sua manica. «Ascoltami, Herliss» disse a voce bassa per non farsi sentire dagli uomini sulla collina. «La tua morte non sarebbe di alcuna utilità né a me né a nessun altro. Fa' quel che dice, e che io ti ordino. Di' ai tuoi uomini di deporre le armi.» Per un lungo istante Herliss parve combattuto, poi chinò le spalle e Ygraine capì di aver vinto; attese comunque che l'uomo ordinasse la resa prima di voltarsi verso il capitano della sua guardia. «Mia signora» esordì Alasdair, ma lei lo zittì bruscamente prima che potesse dar voce alla sua protesta. «Taci, Alasdair. So quello che vuoi dire e non voglio ascoltarti. Mio padre ha affidato a te la mia vita, e non approverebbe che tu la ponessi a rischio in questa situazione.» Prevenne la reazione disperata dell'uomo affibbiandogli un buffetto con la mano. «Siamo in trappola, cugino! Cosa vorresti fare? Combattere per proteggermi e farti uccidere, lasciandomi nelle loro mani?» «Ma noi dobbiamo combattere, Ygraine, non abbiamo altra possibilità! Noi...» «Voi avete due possibilità!» replicò seccamente Ygraine, soffocando le proteste di Alasdair con il suo tono deciso.
«Combattere e morire, o arrendervi e vivere. Nessun'altra! Pensa bene a quello che stai dicendo. Se ci comportiamo nel modo giusto, possiamo ancora ottenere qualcosa.» Il capitano la fissò a bocca aperta, senza capire, e lei abbassò la voce scandendo ogni parola. «Hai sentito cos'ha detto quell'uomo, Alasdair. Il suo signore, chiunque sia, non fa guerra alle donne. Hai mai sentito una cosa del genere? Forse ha un debole per la bellezza femminile, come mio marito. Se così è, ne approfitteremo e ne usciremo vivi tutti quanti. Queste sono truppe ben disciplinate. I nostri sono guerrieri coraggiosi ma non soldati. Quindi, ti prego, evita di metterti contro di me o contro di loro. Fidati. Non ci faranno alcun male.» Alasdair Mac Iain trasse un profondo respiro e trattenne il fiato, fissando dritto negli occhi la testarda cugina. Poi si arrese e rinfoderando la spada intimò ai suoi di imitarlo e di abbassare gli scudi. Gli uomini obbedirono con palese riluttanza, lanciando occhiate di sfida ai nemici che li circondavano. «Non reagite,» ordinò il capitano «ma fate vedere a questi animali che non avete paura. Ci sarà un'altra occasione per combattere. Per il momento, seguite le istruzioni di donna Ygraine, ma restate ai vostri posti e siate pronti a morire per difendere l'onore di Athol, nel caso in cui questi selvaggi non tengano fede alla loro parola.» Mentre i membri della guardia eseguivano gli ordini di Mac Iain, Ygraine si rivolse alla donna che le stava accanto, una bella ragazza alta di circa venticinque anni, con lunghe trecce bionde che spuntavano dal cappuccio di seta. «Morgas, chiama qui Herliss ma sottovoce. Digli di smontare da cavallo e di avvicinarsi, ma non a me. Digli di venire da te. Poi avverti quel tizio sulla collina che è tutto finito, anche se mi sembra che lo sappia già. Sbrigati.» La donna di nome Morgas posò i magnifici occhi azzurri sulla regina e domandò: «Perché io, Ygraine?». Ygraine sorrise. «Perché tu, mia cara, sei la più bella del gruppo e sarai la regina finché non avrò avuto modo di valutare ciò che sta
succedendo qui. Forse il loro signore ha un debole per le donne, chissà? Questo lo renderebbe malleabile. Se è così, gli piacerai, e magari lui piacerà a te. Cos'è quell'aria preoccupata? Fa' come ti ho detto.» «Ma... loro sanno già che sei tu la regina. Ti hanno sentito quando hai ordinato a Herliss di non reagire.» Il volto della regina si indurì. «No, hanno sentito la voce di una donna che li implorava di aver salva la vita. Loro non sanno quale donna abbia parlato. La nostra guardia e il gruppo di Herliss ci dividono dai nemici e loro avevano gli occhi puntati sulla barriera di scudi. Ammesso che ci stessero guardando, hanno visto solo delle figure femminili e la prospettiva di soddisfare la loro lussuria. Non siamo ancora persone per loro. E ora fa' quello che ti ho ordinato.» Morgas chinò il capo e obbedì. Appena i suoi ordini furono eseguiti, Ygraine vide l'individuo dalla barba nera prendere un corno che portava alla cintola ed emettere due distinti segnali, non troppo forti. Subito i suoi uomini si misero in movimento: metà di loro scese verso il sentiero con l'arco a tracolla mentre gli altri si distribuirono in modo da affrontare ogni eventualità e aumentando, se possibile, la loro vigilanza. Herliss aveva ordinato ai suoi uomini di arrendersi, e ora, deposte le armi, questi si riunirono di malavoglia in singoli gruppi, osservando impauriti il nemico che calava su di loro. Il gigante dalla barba nera andò direttamente verso la regina e le sue dame, passando tra due uomini della guardia disarmati. Osservandolo, Ygraine si accorse che era ancora più imponente di quanto le era sembrato da lontano e superava persino Alasdair, che era il più alto della sua scorta. Herliss era stato informato dei desideri della regina e sceso da cavallo si era piazzato alla destra di Morgas, fissando accigliato il vincitore. Mentre lo straniero si avvicinava, Ygraine rimase colpita dalla sua avvenenza, e ancor di più dalla barba nera e dalla sua sconcertante giovinezza. Non poteva avere più di ventuno o ventidue anni, meno di lei e di tutte le altre donne. «Chi di voi è la regina?» Il giovane aveva una voce roca e profonda, ma stranamente gradevole, e si esprimeva in una lingua
celta poco familiare a Ygraine, ma comprensibile. Ignorando gli uomini, lo sconosciuto passò in rassegna le dame e il suo sguardo ebbe un lampo quando si posò sul volto di Ygraine; lei capì che stava per rivolgerle la parola e abbassò gli occhi pudicamente guardando altrove, nella speranza di dissuaderlo. Era sorpresa di se stessa, delle strane sensazioni che si agitavano dentro di lei, dell'ondata di calore che le accendeva le guance, dell'impulso che provava di fissare gli occhi azzurri di quell'uomo e di parlare con lui, uno straniero sconosciuto e chiaramente nemico, un brigante e un ladro. Chiuse gli occhi e strinse le braccia al petto cercando di dominarsi, finché ebbe la sensazione che lui non la stesse più guardando; allora li riaprì e vide che tutte le sue dame stavano fissando l'uomo, il quale a sua volta scrutava Morgas. Ygraine riprese fiato, sollevata. Non c'era da stupirsi che si fosse concentrato su Morgas, ma era comunque rassicurante sapere che non si era sbagliata. Lo sconosciuto aveva scartato Ygraine, attratto dal fiore più bello. Vedendo l'uomo avvicinarsi, Ygraine si accostò ancor di più a Morgas, quasi interponendosi tra i due, e chinò la testa con aria di sottomissione nei confronti della fanciulla bionda. «Signora,» domandò lo sconosciuto «sei tu la regina fra queste dame?» «Lo sono» rispose Morgas freddamente, senz'ombra di cortesia. Il gigante si inchinò di fronte a lei, sfiorando il petto di Ygraine con la spalla. Le narici della regina fremettero, ma al posto dell'odore sgradevole che si attendeva le giunse soltanto un debole effluvio di sudore caldo e pulito. «Signora...» Lo sconosciuto si interruppe, raddrizzandosi. «Ti chiedo perdono, come devo chiamarti?» «Così può bastare» concesse Morgas, con tono sprezzante. L'uomo annuì. «Sono Huw, detto Huw Fortebraccio, capitano di Uther, re dei Pendragon.» Ygraine si sentì venir meno. Uther Pendragon, il re di Cambria in persona, era già in Cornovaglia, a meno di una settimana dallo scioglimento delle nevi! La sua gente aveva riposto ogni speranza sul
fatto che arrivasse tardi, dopo un inverno lungo e rigido, e lui era già qui! Accigliata, diede un'altra occhiata al giovane gigante di nome Huw. Non era molto credibile come capitano delle leggendarie orde dei Pendragon. Come tutti, Ygraine aveva sentito parlare a lungo della ferocia di quei guerrieri e soprattutto di Uther, la figura leggendaria che questi avevano eletto loro sovrano, con la sua bramosia di saccheggi, massacri e torture di innocenti. Tutti sapevano che i suoi amici erano tanti quanti i nemici che aveva incontrato: nessuno sopravviveva, in un caso o nell'altro. Il suo nome era pronunciato con terrore dalla gente onesta. Lui e il marito di Ygraine erano nemici mortali fin dall'infanzia, e lei sapeva che Lot lo detestava dal profondo dell'animo. Chiaramente imbarazzato dal silenzio di tomba con cui erano state accolte le sue parole, il gigante si schiarì la voce. «Il mio signore è stato trattenuto. Doveva arrivare questa mattina, poiché sapeva che sareste passati di qui oggi...» «Come faceva a saperlo?» domandò Morgas, con tono secco e inespressivo. Huw la fissò e Ygraine ebbe l'impressione di vedere l'accenno di un sorriso sulle sue labbra. Ma l'uomo si limitò ad alzare le spalle. «Lo sapeva. Comunque dobbiamo aspettare qui vicino, sulle colline, finché non arriva. Nel frattempo bisogna scaricare la roba dai carri e distribuirla fra i nostri uomini.» «Siete pazzi? Volete portare il carico sulla schiena? Avete ben poco cervello sotto quei muscoli.» Huw osservò Morgas per il tempo di tre battiti, poi inarcò un sopracciglio. «Abbiamo usato i muscoli per scavare queste buche ai lati del sentiero... ma è stato il nostro cervello a suggerircelo. I carri lasciano ampie tracce, signora. Le orme sono meno evidenti e più difficili da seguire.» Spostò lo sguardo su Ygraine per un attimo e lei abbassò gli occhi immediatamente, non senza cogliere un sorrisetto sulle labbra dell'uomo mentre si rivolgeva di nuovo a Morgas. «Noi abbiamo costruito la trappola, signora. Voi ci siete cascati.» Morgas si morse il labbro, incapace di trovare una risposta
adeguata. «In quale carro sono le tue tende? Le farò scaricare dalle mie truppe e i tuoi uomini potranno trasportarle separatamente, in modo che tu possa attendere a tuo agio l'arrivo del re.» «Uther Pendragon non è affatto re, non in Cornovaglia! Qui il re è Gulrhys Lot.» Con le guance infiammate e gli occhi che brillavano di disprezzo, Morgas fissò a testa alta il suo interlocutore, fulminandolo con lo sguardo. Gettò una rapida occhiata a Ygraine poi alzò la voce, tentando di far passare per collera la tensione che la animava. «Derwyn!» L'interpellato si voltò subito verso di lei, e Morgas lo indicò a Huw, aggiungendo in tono gelido: «Derwyn è il nostro economo. Sa dove si trova ogni cosa, e i suoi uomini scaricheranno i nostri carri. Non ha bisogno del vostro aiuto». Huw annuì. «No, naturalmente. Ma i miei uomini lo assisteranno ugualmente per tenere sotto controllo i tuoi. Vieni» aggiunse rivolto a Derwyn. Ygraine attese che i due fossero abbastanza lontani da non sentirla e che nessuno degli stranieri badasse a loro prima di rivolgersi a quelli che le stavano intorno. «È andata bene. Ora andate e trovatevi qualcosa da fare, il lavoro non manca. Ma ricordatevi, tutti quanti, che fino a nuovo ordine Morgas è la regina, dunque portate a lei la mia sedia, e viceversa.» Si voltò verso Morgas. «Vieni con me, ma stammi davanti, e tieniti lontana da questa gente. Non voglio che qualcuno mi senta. Dillys, cammina al mio fianco, dietro Morgas.» Si avviarono senza che nessuno, in apparenza, badasse a loro, ma Ygraine non ci mise molto ad accorgersi che un terzetto di uomini con l'arco in spalla seguiva i loro movimenti dalla collina soprastante, senza perderle di vista. A tutta evidenza avevano il compito di controllarle e di prevenire ogni tentativo di fuga. Ygraine li ignorò e diede un'occhiata attorno: i suoi compagni erano stati suddivisi in gruppi di prigionieri, ciascuno sorvegliato da una squadra di arcieri. I membri della sua guardia personale, anch'essi disarmati, erano a due passi da lei, con un'aria demoralizzata e insieme quasi
minacciosa. Passando, Ygraine fece un cenno silenzioso ad Alasdair, poi attese di trovarsi in un tratto di strada sgombra prima di parlare. «Huw ti piace. Be', non perdere la testa. Sei la mia esca ma per quel mostro di Uther Pendragon, non per il suo lacchè.» Morgas si voltò verso di lei, sgranando gli occhi. «Di che parli? Quell'uomo è un porco.» Ygraine alzò una mano per zittire la compagna. «Ti prego, Morgas! È un tipo attraente, non lo nego, ma ciò è irrilevante. Non dimenticare chi rappresenti, almeno per il momento, e perché. La nostra preda è molto più importante di Huw Fortebraccio. Nel migliore dei casi, ci tratterranno per chiedere un riscatto. Solo la nostra presenza, se dobbiamo credere a quanto ci hanno detto, ha impedito che i nostri uomini fossero sterminati all'istante come è successo a Gylmer e al suo gruppo. Il loro signore non fa guerra alle donne. Puah! Uther Pendragon, il cui nome viene usato per spaventare i bambini? Meglio essere torturate dai Sassoni che essere trattate bene da gente simile, Morgas. Questi sono i nostri più acerrimi nemici. Vengono per ammazzarci tutti! Ci fanno guerra per saccheggiare, rubare, uccidere, devastare le nostre case, impiccare e mutilare i nostri figli!» Ma Morgas non la stava più ascoltando. Irritata dalle parole iniziali di Ygraine, aveva distolto lo sguardo da lei e ora stava fissando intensamente qualcosa alle sue spalle. Corrugando la fronte, la regina si voltò per vedere cosa l'aveva distratta. Un gruppo di nove cavalieri era spuntato in cima alla collina e ora si dirigeva verso gli uomini che si affaccendavano più in basso. Montavano cavalli giganteschi, e quattro di loro sembravano dèi con la loro statura colossale enfatizzata dai grandi elmi dotati di cimiero. Gli altri cinque erano meno imponenti e non portavano né elmi né armature, ma avevano abiti sontuosi realizzati con tessuti dai magnifici colori che indicavano ricchezza e privilegio. Procedevano diagonalmente rispetto al punto di osservazione delle tre donne, senza accorgersi della loro presenza, dando loro modo di osservare le pesanti armature indossate dai guerrieri e gli schinieri di metallo che proteggevano le gambe sopra gli stivali, infilati in lunghe staffe di cui esse non avevano mai sentito parlare.
«Romani» sussurrò Morgas mentre li guardava allontanarsi con gli occhi sbarrati. «No, non credo, non sono Romani» replicò la regina in tono sprezzante, ma la sua compagna non se ne accorse. «Sono enormi! Pensavo che Huw fosse grosso, ma questi sono dei giganti.» «No, sono effettivamente grossi, ma sono le loro armature a farli apparire ancora più imponenti.» «Non il capo. È il più grande di tutti.» Morgas si voltò verso Ygraine, cogliendo finalmente lo strano tono della sua voce. «Cosa sono allora, se non sono Romani? Quelli sono gli elmi di Roma.» «Già, ma quei maiali sono Celti, come noi. Non ci sono più Romani in Britannia, da prima ancora che noi nascessimo. Sono dei Pendragon, Morgas, e scommetto che il capo, quello che indossa il mantello rosso col dragone d'oro e l'armatura dorata, è Uther, il loro re.» Ygraine si rivolse a Morgas con un'espressione grave. «Colui che ci ha fatto prigioniere. Il tuo nuovo amante... ammesso che sia un essere umano, cosa di cui dubito. Vieni, è meglio che torniamo indietro.»
VI. A Huw Fortebraccio non sfuggì il repentino silenzio creato dall'apparizione di Uther Pendragon in cima alla collina. Stava istruendo due suoi capitani sulle loro mansioni di custodi della regina e del suo seguito di dame, quando si accorse che sopra di lui, sul pendio, i rumori erano scemati di colpo fino a cessare del tutto e, compreso il motivo, congedò i suoi ufficiali con un secco cenno del capo. Vedendoli andar via con lo sguardo fisso verso il punto in cui doveva essere apparso Uther, Huw non poté fare a meno di sorridere e di meravigliarsi ancora una volta del timore reverenziale che Uther Pendragon ispirava immancabilmente ai suoi rudi seguaci. Un tempo Huw aveva creduto che quella soggezione si fondasse sulla paura, ma da anni ormai aveva capito come stavano le cose. La verità era che Uther Pendragon rappresentava una figura eroica, soprannaturale, simbolo di energia, coraggio ed entusiasmo e i suoi guerrieri vedevano in lui qualcosa che non avrebbero mai potuto essere. Cosa fosse esattamente quel "qualcosa", però, era pressoché impossibile stabilirlo. Huw ci aveva provato molte volte, ma aveva finito per arrendersi e per considerare la cosa come una parte del mistero di Uther, suo amico e comandante, capo e re. Huw non si voltò, pur sapendo di essere probabilmente l'unico a dare le spalle ai nuovi arrivati, e si concesse un'ultima occhiata alla scena del suo recente trionfo. Alla sua destra erano raccolte in due mucchi enormi le armi dei guerrieri della Cornovaglia fatti prigionieri. Erano state gettate lì a casaccio con gesto sprezzante dai soldati che avevano disarmato i loro precedenti proprietari prima di portarli via come una mandria di animali e metterli sotto stretta sorveglianza. In quel momento le due cataste venivano esaminate da un distaccamento di soldati cambriani di Huw. I pezzi migliori sarebbero stati requisiti come bottino di guerra, gli altri, seppelliti e abbandonati alla ruggine. Persino gli uomini impegnati nella cernita delle armi si erano fermati a osservare il loro comandante che si avvicinava, così come il
gruppetto di prigionieri formato da Herliss e dai suoi dodici ufficiali anziani che si trovava poco più in là. Huw sorrise di nuovo nel constatare quanto questi ultimi fossero lontani da ciò che i Cambriani di Uther, addestrati a Camelot, erano abituati a riconoscere come un ufficiale. Si voltò verso le dame della regina, notando che la sovrana stessa e le due compagne con cui si era appartata stavano tornando a raggiungere le altre. Uno sguardo sulla collina di fronte gli confermò che Owain delle Grotte non aveva perso di vista l'illustre prigioniera, secondo le istruzioni ricevute. Sentendo alle sue spalle il rumore degli zoccoli del cavallo di Uther, Huw finalmente si voltò e fece due passi avanti per farsi riconoscere. Il re puntò dritto verso di lui e si fermò a osservarlo dall'alto del suo gigantesco destriero. «Huw» disse, salutandolo con un cenno del capo. «Mi sembra tutto perfettamente sotto controllo. Qualche problema?» «No, comandante, tutto è andato come previsto. È bastata una scarica di frecce. Quando hanno visto i loro uomini migliori falciati e uccisi in un attimo, hanno capito di cosa sono capaci i nostri archi e hanno rinunciato a ogni resistenza.» «Quanti prigionieri?» «Centosettanta in tutto.» «Per il Cristo dei Cristiani, Huw! Cosa ce ne facciamo di duecento prigionieri? È l'ultima cosa di cui avevo bisogno.» Uther lanciò un'occhiata apparentemente casuale alla sua sinistra verso il gruppetto di donne. «Dimmi delle donne. Non erano menzionate nel nostro rapporto.» Huw corrugò la fronte e alzò le spalle. «Un'aggiunta dell'ultimo momento, da quel che ho capito. Erano tutte sistemate nei carri per ripararsi dalla pioggia, così ci siamo accorti di loro solo al momento dell'attacco. Sono tutte sane e salve.» «Lo vedo, ma chi sono?»
«Una di loro è la regina di Lot. Le altre sono le sue dame.» Sotto il pesante mantello e l'armatura, Huw vide il corpo di Uther irrigidirsi per la sorpresa e passarono alcuni istanti prima che il re riprendesse a parlare. «La regina di Lot? Ygraine? No, non può essere.» «Non so come si chiami, ma è la regina» ribadì Huw in tono deciso. «Ho parlato con lei. Ho chiesto chi di loro fosse la regina e lei mi ha risposto.» Uther sollevò le guance dell'elmo per osservare meglio Huw. «E tu come facevi a saperlo? Non erano previste donne nel convoglio, quindi come hai fatto a capire che una di loro era la regina?» Huw annuì con aria solenne. «Me l'hanno fatto capire loro, nell'attimo stesso in cui abbiamo lanciato l'attacco. La soldataglia di Lot si è fatta cogliere impreparata, come previsto, ma gli altri - quel gruppo dietro di me, sulla destra - si sono dimostrati di ben altra tempra. Hanno subito formato un cerchio difensivo intorno alle donne, un muro di scudi. Erano pronti a morire per proteggere quelle signore... o una di esse. Appena li ho visti disporsi in formazione, ho capito dal loro comportamento che erano una guardia d'onore o una scorta di qualche genere.» Scrollò le spalle. «Non so chi siano né da dove provengano, ma sono uomini d'arme, e nessuno di loro porta le insegne di Gulrhys Lot. Credo che siano tutti mercenari, soldati di guarnigione dell'esercito personale di qualche potente condottiero. Tutti gli altri hanno le merdose insegne di Lot.» Uther si grattò il naso con un dito per mascherare un sorriso. «E quale di loro è la regina? Non guardarle!» Huw, che era sul punto di indicargli la donna, si bloccò. «Quella alta e graziosa, con la veste gialla.» Uther riabbassò le guance dell'elmo, nascondendo il viso. «Come l'ha presa?» «Male, ma cosa credevi? Non ama i Pendragon, e soprattutto te. Decisamente non riscuoti le sue simpatie.» Uther piegò la testa da un lato, inclinando il cimiero. «Sta' attento
a non mostrarti irriverente, giovane Fortebraccio.» «Io, comandante? Come puoi pensare una cosa del genere?» Huw credette di distinguere il lampo di un sorriso sotto l'elmo di Uther, ma si sforzò di rimanere impassibile. «Ha strabuzzato gli occhi quando ho fatto il tuo nome, comandante, e ho temuto che desse di stomaco.» Stavolta Uther scoppiò a ridere: una risata breve e rauca. «Già, probabilmente le avevano detto che non sarei arrivato prima del mese prossimo. Ma tu le hai permesso di allontanarsi indisturbata. Perché?» «Niente affatto.» Huw scosse la testa. «Era sotto costante sorveglianza. Owain delle Grotte controllava ogni sua mossa dall'alto della collina. Se lei avesse tentato qualcosa, l'avrebbe bloccata senza problemi. Vuoi che la conduca da te?» «No, non ancora. Ottimo lavoro, Fortebraccio. Ci sono tracce di altre attività militari nella zona?» «Nessuna. Ho sguinzagliato esploratori in tutte le direzioni in un raggio di venti miglia ieri, appena siamo arrivati. Nessun movimento, tranne questo gruppo.» «Bene.» Uther si sollevò sulla sella per dare un'occhiata intorno, poi tornò a sedersi e sorrise di nuovo a Huw. «Ora dimmi del convoglio. Cosa c'è nei carri?» «Non ne ho idea, comandante. Non abbiamo avuto il tempo di guardare, li abbiamo presi meno di un'ora fa. Finora ci siamo occupati dei prigionieri, ma appena finito con loro, avevo pensato di svuotare i carri e poi bruciarli. Non conviene lasciarli qui a disposizione di Lot.» «Bene. Quanti sono?» «Ventiquattro, senza contare i quattro carri che trasportavano le donne e i loro bagagli. Un ricco bottino.» Uther piegò la testa da un lato. «Ingente, quantomeno. Se sia ricco o no, lo scopriremo più tardi.» Reggendosi al pomo della sella, si rizzò sulle staffe e dopo essersi calato l'elmo sul capo si guardò intorno ancora una volta. I tre ufficiali e i cinque uomini senza
armatura che lo avevano accompagnato attendevano pazientemente sui loro cavalli, in silenzio. Uther non si soffermò con lo sguardo sull'uomo che comandava le truppe della Cornovaglia, né diede segno di averlo notato, ma Huw non fu sorpreso quando il re gli domandò: «Il capo, laggiù, come si chiama?». «Herliss. Non so altro.» «Herliss! Per tutti gli dèi, se è così, siamo fortunati, indipendentemente dal fatto che la donna sia la regina di Lot oppure no. Conosco questo Herliss, o almeno conosco alcuni dei suoi parenti, e ho sentito parlare a lungo di lui. È uno degli uomini migliori di Lot... certamente uno dei più esperti, poiché ha servito il vecchio duca Emrys prima di lui. Herliss è un autentico guerriero, a differenza del suo re. D'altra parte, se quella donna è veramente la regina, non ci si può aspettare di meno dall'uomo incaricato di proteggerla. Temo che il suo signore non sarà molto contento di lui. Di' a uno dei tuoi uomini di condurlo qui, ma non subito. Quanto all'altro gruppo di prigionieri laggiù, sulla sinistra, chi è il loro capo? L'hai isolato dagli altri?» «No, comandante. Finché ci teniamo stretta la regina, non ci daranno fastidio, e se li dividiamo potremmo pentircene. Così ho deciso di non separarli dal loro comandante. Ho fatto male?» «Non saprei, Huw. Dipende dall'abilità del capo. Ma se tu ti fossi sbagliato, ce ne saremmo senz'altro accorti. Benissimo, procediamo allora. Sarà meglio che io resti in sella per il momento, così potrò guardarli dall'alto in basso e imporre loro soggezione. Manda qualcuno a prendere Herliss e comincia a far scaricare i carri.» Uther si voltò verso uno dei civili elegantemente vestiti alle sue spalle. «Sansone, tu sai leggere e scrivere. Occupati delle operazioni di scarico e prepara una lista di tutto quello che c'è. Non mi interessano le quantità precise, per adesso, ma vorrei avere un'idea generale di ciò che ci porteremo dietro sulle colline. Potremmo decidere di seppellire qualcosa per tornare a recuperarla più tardi. Pensaci tu, d'accordo?» L'uomo di nome Sansone annuì, smontò immediatamente da cavallo e, recuperata una borsa di cuoio appesa al pomo della sella, fece un cenno a Huw e si allontanò in sua compagnia. Uther li
osservò per un attimo, poi si rivolse all'uomo che stava alla sua destra. «Qui non c'è lavoro per te, Quinto, e ti confesso che la cosa mi preoccupa. Cosa ne farò di duecento prigionieri? Mi aspettavo che almeno qualcuno di loro combattesse... e morisse. La presenza della regina avrebbe dovuto indurli a fare qualche sforzo per difendere la sua vita, se non il suo onore.» Colui al quale Uther si era rivolto era Muzio Quinto, un medico veterano delle truppe della Colonia di Camelot, addestrato nel corpo sanitario dell'esercito romano; era uno dei pochissimi ufficiali rimasti ad aver combattuto nelle legioni romane insieme al legato Pico Britannico. Secondo di grado al suo amico Lucano, Muzio Quinto era responsabile delle cure mediche per l'intera popolazione di Camelot, militare e civile. In questa campagna di Cornovaglia era stato distaccato presso l'armata di Uther per garantire la salute delle sue truppe. Quinto accennò col capo alla ventina di cadaveri allineati sul ciglio della strada. «Qualcuno ha tentato di combattere, ma a quanto pare non ha versato altro sangue che il proprio.» «Già, ma non è abbastanza, Muzio: troppi pochi cadaveri, troppo poco sangue.» Uther spostò lo sguardo sulla massa di prigionieri. «Cosa faremo di tutta questa gente, in nome degli dèi? Non possiamo semplicemente passarli per le armi. La gente di queste parti avrebbe davvero qualcosa da raccontare per spaventare i bambini. Mi sembra già di sentirli: Uther il divoratore di uomini... Cosa farebbe il cugino Merlino se fosse qui, secondo te?» «Probabilmente quello che farai tu» replicò Muzio Quinto, con un lieve sorriso. «Disarmarli, incatenarli l'uno all'altro come schiavi, terrorizzarli per un po' con la prospettiva di una morte sicura, e poi abbandonarli da qualche parte, a distanza di sicurezza, lasciando che si liberino da soli.» Uther schioccò le labbra e tranquillizzò il cavallo innervosito da una puntura d'insetto. «Liberarsi per fare cosa? Tornare a casa e chiedere clemenza a Lot dopo essersi fatti rubare sua moglie? Tu lo
faresti?» Quinto scosse la testa lentamente ma con decisione. «No, comandante Uther; se solo metà di ciò che dicono sul carattere di Lot è vero, non lo farei. Ma io vengo da Camelot e non sono un guerriero.» Lanciò un'occhiata ai cavalieri alle loro spalle, quattro dei quali facevano parte del suo personale medico. Nessuno di loro sembrava prestare attenzione alla conversazione tra lui e Uther. Alzò le spalle e aggiunse: «Da questa gente non hai più nulla da temere. Lontani da Lot, non prenderanno più le armi contro Camelot o la Cambria». «È vero, forse abbiamo sottratto definitivamente duecento uomini all'esercito di Lot. Ora guardami bene negli occhi, Muzio, e anche voi, fate attenzione.» Attese finché non fu certo che l'intero gruppetto lo stesse ascoltando, poi proseguì: «L'uomo che sta venendo verso di noi ha motivo di conoscere bene l'ira di re Lot quando non è soddisfatto. In nome della nostra amicizia, non guardatelo. Se penserà che lo consideriamo importante, comincerà senz'altro a comportarsi come se lo fosse. Non ho idea di cosa ci diremo io e lui, ma è un uomo potente, e vicino a Gulrhys Lot. Se dovessi accorgermi che ci sono cose che solo lui deve ascoltare, alzerò la mano, così... A quel punto, voglio che tutti voi vi allontaniate, lasciandoci soli a parlare». Cogliendo l'occhiata di uno dei due ufficiali in uniforme che gli erano accanto, si voltò verso di lui. «Credimi, Philip, non sarò in pericolo. E ora osservatemi attentamente. Tutto dipenderà dall'idea che mi farò di quest'uomo.» Herliss si avvicinò lentamente accompagnato da due guardie con le spade sguainate, fissando a testa alta gli uomini a cavallo. Li aveva visti arrivare, aveva visto Huw prendere ordini e poi, accompagnato da due dei suoi soldati, venire dritto verso di lui. Lungo la strada Fortebraccio si era fermato a dare disposizioni a un suo subordinato che subito si era avviato con passo deciso infilandosi a tracolla il lungo arco, chiamando a sé altri soldati, e ora Herliss vedeva una folla di persone raccogliersi intorno al convoglio di carri. Senza dire una parola, Huw si era fermato di fronte a lui e gli aveva fatto cenno di seguire i suoi uomini. I due soldati avevano
affiancato Herliss senza mettergli le mani addosso, ma uno dei due, muovendo leggermente la spada verso il lontano gruppo di cavalieri, gli aveva fatto capire chiaramente di avviarsi in quella direzione. Mantenendo il volto impassibile, Herliss si era incamminato a testa alta, senza badare alle asperità del terreno che stava attraversando. "Meglio inciampare in un ciuffo d'erba e cadere," pensava "che camminare a capo chino con l'aria vinta e abbattuta." Il suo sguardo fiero era puntato sul comandante in sella a un gigantesco cavallo. Era sicuro che fosse Uther Pendragon. Lo aveva visto posare per un attimo gli occhi su di lui e poi guardare altrove, ignorandolo. Gli era parso che stesse parlando con l'uomo grasso e più anziano che gli stava accanto, ma non ne era sicuro poiché il volto di Uther era celato sotto un raffinato elmo romano. Nessuno degli uomini a cavallo degnò Herliss di un'occhiata mentre si avvicinava. Solo quando si fermò di fronte al re e lo fissò con aria di sfida, il Pendragon abbassò gli occhi su di lui e fece muovere leggermente l'enorme destriero per osservarlo dall'alto; il viso era nascosto dall'elmo, ma gli occhi puntati sul comandante nemico scintillavano. Herliss era un uomo di dimensioni notevoli, anche se non raggiungeva la statura imponente di Uther Pendragon. Le spalle erano larghe e muscolose, e il volto angoloso sembrava scolpito nell'argilla. Gli occhi color nocciola erano grandi quasi quanto quelli di una donna, ma non c'era ombra di femminilità né di debolezza nello sguardo che brillava in fondo alle orbite scavate. Una spessa fascia di stoffa gialla tessuta con filo d'oro gli cingeva la fronte alta e spaziosa, sormontata da una folta chioma castana appena spruzzata di grigio, malgrado Herliss fosse ormai prossimo ai sessantanni. Due lunghe trecce gli ricadevano sul petto, ornate da nastri della stessa stoffa dorata che gli cingeva il capo. Il viso, privo di barba e solcato da cicatrici, era dominato da un naso imponente e severo, segnato da una vecchia frattura, e da baffi folti che sottolineavano due rughe profonde ai lati della bocca, larga e sottile. Uther non aveva alcun dubbio sul rango dell'uomo che gli stava
dinanzi. Bastava il suo volto fiero a proclamarne la condizione di nobile e di guerriero, ma anche i lussuosi abiti attiravano l'attenzione sull'eccezionalità di colui che li indossava. Il loro sfarzo indicava ricchezza, privilegio e possibilità fuori dal comune. L'armatura, priva soltanto dell'elmo, era di tipo romano come quella di Uther, e consisteva in una corazza fatta di strati sovrapposti di pelle di bue e guarnita di borchie di metallo, e in un gonnellino dello stesso materiale che proteggeva l'inguine e le cosce, anch'esso rinforzato da piastre metalliche e cucite alle strisce di pelle con filo di ferro. Due pesanti schinieri che proteggevano la parte inferiore delle gambe sopra le calzature militari romane completavano l'armatura. Sulle spalle, Herliss portava un caldo mantello di lana rossa altrettanto sfarzoso, bordato di pelliccia e fermato sul petto da una pesante catena d'argento. Uther tacque finché non fu certo che il suo avversario non avrebbe parlato per primo; poi, un attimo prima che il silenzio si trasformasse in una sfida fra i due, fece un cenno col capo e lo apostrofò in latino, sapendo dalle lunghe conversazioni con Balin che suo fratello Herliss conosceva perfettamente quella lingua. «Herliss, ho sentito molto parlare di te. Avrei preferito incontrarti in un'altra situazione.» Herliss fremette e inarcò un sopracciglio con aria sdegnosa, senza dire nulla. Uther lo ignorò. «Sono Uther Pendragon.» «So chi sei» ruggì l'altro con voce profonda, in un latino impeccabile. «L'Imbroglione.» Uther corrugò la fronte e si chinò verso di lui. «Cosa? Come mi hai chiamato?» «L'Imbroglione. Perché no? Vuoi forse negare che ti chiamano così?» «Mi hai confuso con qualcun altro. Io non sono un imbroglione, né sono conosciuto come tale.» «Perché mentire quando tutto il mondo ti conosce per quello che sei? Non trattarmi come se fossi il tuo zimbello. Non hai forse fatto sparire una donna da una stanza chiusa e ben sorvegliata, come
testimoniano in molti?» Uther, che inizialmente si era irrigidito ascoltando le parole di Herliss, quando udì la conclusione gettò indietro la testa e scoppiò in una sonora risata. «Ah, Herliss, ora comprendo il tuo errore, anche se a te ancora sfugge. Il tempo e la distanza possono deformare qualunque verità, a quanto pare. Fu mio cugino, Merlino Britannico di Camelot, a ideare quello stratagemma e a metterlo in atto, guadagnandosi la reputazione che ora tu attribuisci a me. È Merlino il tuo Imbroglione, non io. E lo è diventato semplicemente dimostrandosi molto più furbo di tutti coloro che avevano a che fare con lui, compreso me.» Raddrizzandosi sulla sella, Uther alzò la mano nel segnale convenuto, e subito udì alle sue spalle il rumore dei compagni che si allontanavano lasciandolo solo con Herliss; attorno a loro una cerchia di persone li osservava, troppo distanti per comprendere le loro parole. Mentre il suo interlocutore tentava di capire cosa stesse succedendo, il re attirò di nuovo la sua attenzione con una domanda. «Dove hai imparato la lingua dei Romani? La parli molto bene.» «È naturale. L'ho imparata presso di loro, anni fa.» Herliss si stava chiaramente interrogando sul repentino e inatteso allontanamento della scorta di Uther. «Dove stanno andando, e perché?» «Sono andati via perché li avevo avvertiti che forse avrei voluto parlare con te senza testimoni. Ho dato il segnale convenuto, come hai visto, e loro hanno obbedito. Non c'è alcun trucco.» «Forse no, ma sei ugualmente un imbroglione. Hai vinto questa battaglia con un trucco.» «Può darsi, ma i trucchi sono leciti in guerra, e sono convinto che tu lo sai molto bene. Da quel che mi hanno detto, eri famoso per i tuoi stratagemmi. Inoltre, la tua affermazione è opinabile. In questo caso non ho fatto altro che tendere una trappola. Sei tu che ci sei caduto dentro alla luce del sole. Non c'è alcun trucco, Herliss. Trascuratezza da parte tua, semmai. Negligenza... forse si potrebbe dire così. Ma un trucco? No, non da parte mia. Se i tuoi esploratori avessero effettuato la loro ricognizione come si deve, ci avrebbero
scoperto, o come minimo avrebbero trovato traccia dei nostri preparativi. Avevamo centinaia di uomini nascosti in queste buche, Herliss... impossibile nascondere tanta gente senza lasciare tracce. Ma i tuoi uomini non hanno trovato niente, e ciò perché non hanno guardato abbastanza attentamente.» Di fronte a quella logica inoppugnabile Herliss rimase senza parole, ma Uther continuò. «Conosco tuo fratello Balin, e sua moglie Mairidh. Siamo amici da anni, noi tre, e ho per loro una grande simpatia.» Attese una risposta, ma Herliss rimase muto. «Tuo figlio Lagan sta bene?» proseguì il re. «Non l'ho mai conosciuto, ma anni fa tuo fratello mi parlò del suo nipote preferito per convincermi che il mio odio per tutto ciò che veniva dalla Cornovaglia era sciocco e irrazionale; così sono cresciuto con la strana sensazione di avere tra la tua gente un amico che non ho mai incontrato.» Fece una pausa, fissando il suo interlocutore, poi continuò. «Mi rendo conto che ti senti confuso e disorientato davanti a parole che non ti aspettavi, quindi per adesso mi limiterò a chiederti solo questo: cerca di avere pazienza e di accettare i vincoli cui ti sottoporrò come mio prigioniero. Se ti lasciassi libero e solo, in questo momento, Lot ti farebbe ammazzare sapendo che sei rimasto in vita a prezzo della libertà della sua regina. Nel trattenerti qui, dunque, non faccio che proteggerti. Se la tua regina deve continuare a vivere, libera o prigioniera, avrà bisogno di qualcuno, un uomo forte e dotato di autorità, con cui parlare e di cui fidarsi. Sarai tu quell'uomo. Quindi, se non causerai problemi agli incaricati della tua sorveglianza, la tua prigionia non sarà per nulla gravosa. Ti avverto, però: se mi metti i bastoni fra le ruote, ti farò legare come un galletto pronto a finire in pentola.» Si interruppe e fissò il vecchio. «Accetti?» Herliss increspò le labbra e annuì. «Sì, a condizione che tu non maltratti i miei uomini.» «Il loro trattamento dipende da come si comportano. Se staranno buoni, bene, altrimenti peggio per loro.» Uther fece un cenno al più anziano dei due uomini che avevano accompagnato il prigioniero.
«Riporta il nobile Herliss dagli altri, ma quando stasera pianteremo le tende, tienilo in disparte e fa' in modo che sia ben nutrito e ben sistemato.» Dopo un ultimo sguardo a Herliss e un gesto di commiato, Uther si alzò sulle staffe per guardarsi intorno e vide Huw Fortebraccio venire verso di lui con passo rapido e deciso. Sapendo che l'unico motivo che poteva averlo spinto a tornare così precipitosamente era la natura del carico presente nei carri, appena Huw fu arrivato il re lo interrogò. «Che cosa abbiamo catturato? Armi?» Huw fece un cenno di assenso. «Sì» disse. «Ma armi particolari. Grosse tavole di legno grigio e stagionato, sezioni di ruote enormi e miglia di corde di canapa. È meglio che tu venga a vedere con i tuoi occhi.» Meno di un'ora dopo, completata l'ispezione ai carri, Uther, ancora in sella, chiese nuovamente che Herliss venisse condotto da lui, ma questa volta non perse tempo in convenevoli e quando il comandante arrivò non gli diede l'opportunità di parlare finché non gli disse ciò che pensava. «Macchine da guerra» esordì, con una punta di incredulità nella voce. «State trasportando macchine da guerra? Dove le ha trovate Gulrhys Lot? E che intende farne? Nessuno le ha utilizzate in Britannia da quando i Romani sono andati via, quasi trent'anni fa, e anche loro non le usavano da un secolo.» Non attese la risposta di Herliss. «Ma se Lot si prende la briga di trasportarle, vuol dire che ha intenzione di servirsene, ma dove? Di sicuro non in Cornovaglia. Qui le fortificazioni sono primitive, tutte fortezze collinari, compresa la sua Golant. Eccellenti roccaforti ben difendibili, ma dotate di ripidi pendii e profondi fossati, Herliss. Niente mura di pietra o torri. Le fortezze collinari possono essere attaccate, circondate e isolate in modo da prenderle per fame, lentamente, ma non possono essere conquistate con le macchine da guerra. Per quanto rudimentali, sono anche quasi imprendibili, e resistono a qualunque arma tranne il tempo, la sete e la fame.» Fece una pausa e rivolse al nemico uno sguardo penetrante. «La sola eccezione che conosco in tutta la
Cornovaglia è casa tua, Tir Gwyn, la Fortezza Bianca. Balin mi ha detto che è ben fortificata, situata in cima a una cresta e dotata di possenti mura di pietra bianca e lucida visibili da miglia di distanza. Lot potrebbe assediarla e probabilmente conquistarla, se volesse. Ma allora perché tu dovresti fornirgli i mezzi per farlo? Non ha senso... L'unica cosa che mi sembra ragionevole è che il tuo signore stia di nuovo progettando di attaccarci a Camelot, di portare ancora una volta la guerra entro i nostri confini, sperando così di costringerci a richiamare le armate dalla Cornovaglia e a tenerle impegnate nei nostri territori, lontano dai suoi possedimenti e dai tuoi. Ma chi porterebbe a termine una simile impresa? Non Lot, questo è sicuro. Non ha il fegato per farlo, sapendo i rischi che comporta. Per due volte ha mandato le sue truppe nei nostri territori con l'inganno, uccidendo, saccheggiando e depredando senza essere stato provocato, e in entrambe le occasioni i suoi uomini sono morti giurando che lui fosse con loro. Ma a battaglia finita, con i resti delle sue armate costretti a fuggire, è emerso che il potente monarca di Cornovaglia aveva scelto in entrambi i casi di non seguire il suo esercito e di rimanersene al sicuro a casa propria.» Herliss non fece alcun tentativo di replicare. «Quelle due incursioni mi sono costate care e un giorno o l'altro Gulrhys Lot me ne pagherà il prezzo con il suo sangue. Il primo attacco, favorito da due subdoli negromanti che ora giacciono sottoterra a Camelot, mi ha privato di un adorato zio e di un vecchio amico, uccisi da frecce avvelenate. Il secondo, meno di un anno fa, come ben sai mi è costato il mio caro cugino, Merlino Britannico, ancora vivo nel corpo ma con la mente devastata da un colpo subito alla testa. Ho imparato molto tempo fa che Lot non ha il coraggio di combattere in prima persona. Non oserebbe mai venire a Camelot. Preferisce di gran lunga impegnare un gruppo di subalterni in schermaglie infinite senza ottenere nulla, come è successo l'ultima volta, piuttosto che correre un rischio personale. E questo, Herliss, è il motivo per cui mi trovo qui in Cornovaglia. Non ho alcun interesse a devastare le tue terre, ma sono pronto a tutto pur di strappare le budella alla fetida carcassa di quel rospo infame.»
Fissò Herliss dritto negli occhi. «Quindi, se Lot ha intenzione di marciare di nuovo su Camelot, questa volta con macchine da guerra, manderà un suo ufficiale. Ma dev'essere qualcuno che conosce le tecniche della guerra d'assedio. Sei tu?» Herliss scrollò le spalle. «No, non questa volta. Oltretutto non so nulla di questo tipo di combattimento. Io combatto con le mani.» «Già. E chi allora? Me lo diresti, se lo sapessi?» «No. Ha importanza?» Uther sorrise - un lieve, feroce sogghigno - e scosse la testa. «No, non ne ha, ora che mi sono impadronito di quelle macchine. Da dove venivano?» «Dai miei possedimenti. Erano custodite in alcune delle mie proprietà sulla costa meridionale. Appartenevano al padre di Lot, il duca Emrys, che le aveva acquistate molti anni fa dalle guarnigioni romane lungo la Costa dei Sassoni, a sud-est, quando le strade costiere erano ancora aperte. Alla morte del vecchio duca, sono passate nominalmente a re Lot, rimanendo sotto la mia custodia. Lot ha sempre saputo che erano lì; di recente mi ha chiesto informazioni in proposito e ha preso accordi perché io gliele portassi. Non ha detto né dove intende usarle, né di volerle affidare a me per utilizzarle.» «Fa lo stesso, tanto non le userà più ormai.» Uther si voltò verso un soldato a cavallo alle sue spalle per dare un ordine, ma cambiò idea e si rivolse nuovamente a Herliss. «Aspetta un attimo. Tu stavi portando a Lot le macchine da guerra, giusto?» Herliss chinò il capo, considerando scontata la risposta. «Allora da dove veniva la regina di Lot? Era nel sud, insieme a te?» Herliss si sentì avvampare, ma non poté far altro che confermare, maledicendosi e tentando di non dare importanza alla cosa. Si rese conto, però, che il suo volto l'aveva già tradito. «Sì» borbottò. «Era mia ospite a Tir Gwyn.» «Tua... ospite?» «Già, mia ospite. Che c'è di strano? Lei e la mia ultima moglie sono buone amiche.»
«Capisco. E da quanto tempo si trovava lì? Ti assicuro che scoprirò ugualmente la verità, quindi non cominciare a mentirmi ora, Herliss.» L'altro alzò le spalle e distolse lo sguardo, biascicando una risposta. «Perdonami, non ho sentito. Cos'hai detto?» «Ho detto che era con noi da qualche mese.» «Ah, quindi doveva certo avere nostalgia di suo marito e viceversa.» «Sì, può darsi.» Uther si voltò verso il soldato. «Nemo, va' subito da Huw. Digli di bruciare tutto ciò che c'è nei carri tranne i viveri e le attrezzature trasportabili. Digli di dar fuoco anche ai carri, e di non preoccuparsi di nascondere il fumo. Se qualcuno verrà a indagare, gli daremo ben altri guai che un semplice falò. Va'.» Mentre il soldato si allontanava, Uther fece un cenno col capo al vecchio. «Ti ringrazio per la tua sincerità, anche se non avevi altra scelta. Puoi tornare dai tuoi uomini.» Con un gesto congedò la scorta di Herliss, e si mise a riflettere su quanto era accaduto e sulle misure da prendere. Poi finalmente si diresse verso uno dei fuochi accesi per la cucina, dove molti del suo gruppo avevano impastoiato i cavalli che attendevano di essere sfamati. Per la prima volta da quando era salito in sella quella mattina, quasi sei ore prima, Uther smontò e andò a prendere una forma aperta di pane dalla crosta dura, ne staccò un grosso pezzo e l'addentò. Mentre lo masticava a lungo per ammorbidirlo, Huw Fortebraccio lo affiancò, e il re lo osservò con aria interrogativa. «Qualcosa non va?» «No, è tutto a posto. Volevo solo un goccio d'acqua.» «Bene. Bevi e prenditi qualcosa da mangiare. Quando saremo certi che i fuochi non si spengano, ci trasferiremo al sicuro sulle colline. Sai già cosa fare: i prigionieri devono avere i polsi bloccati dietro la schiena e procedere in fila legati l'uno all'altro per il collo,
come schiavi. Lascia che credano di essere destinati a morire, ma assicurati che nessuno li maltratti senza motivo. Li lasceremo andare quando Lot saprà dove siamo e chi siamo. A quel punto non saranno più una minaccia per noi. Nel frattempo, tienili sotto stretta sorveglianza. A chi hai affidato l'incarico di bruciare i carri?» Con la bocca piena di pane mezzo masticato, Huw biascicò: «Nemo». «Bene.» Uther si tolse il pesante elmo e lo posò al suo fianco prima di stendersi per terra accanto ai cavalli. «Mezz'ora. Svegliami quando siamo quasi pronti a partire.» Dopo qualche istante era già addormentato.
VII. Ygraine non aveva parole per descrivere ciò che vide quel giorno. Inorridita, osservò le truppe di Camelot che con metodica efficienza bruciavano i carri con tutto il loro contenuto e poi abbandonavano il luogo dell'imboscata con i suoi falò ardenti e le imponenti colonne di fumo nero che si libravano nell'aria. Controllati dai soldati a cavallo, i prigionieri, disposti in file di venticinque uomini legati l'uno all'altro per il collo, furono portati via, quasi letteralmente trascinati dietro gli animali al trotto. Esonerati dalla responsabilità dei prigionieri, anche gli arcieri si misero subito in marcia, muovendosi in compatte formazioni regolari. Dal suo punto di osservazione, Ygraine si stupì della rapidità con cui procedevano e ben presto li vide risalire i fianchi delle colline come l'ombra di una nube, portando gli archi e le faretre a tracolla in modo da avere le mani libere per arrampicarsi. Capì che si muovevano in anticipo in previsione di rappresaglie e inseguimenti, e avrebbe potuto avvertirli che non avevano motivo di preoccuparsi. Non c'erano truppe della Cornovaglia abbastanza vicine da notare le enormi colonne di fumo che segnalavano il luogo, e sarebbero passati molti giorni prima che Lot si rendesse conto che Herliss tardava ad arrivare. Ma naturalmente non disse nulla. Ygraine e le sue dame, ognuna in sella a un cavallo dietro a uno dei rapitori e costretta a cingergli la vita con le braccia per timore di cadere, affrontarono una dura cavalcata di oltre tre ore, fermandosi solo di tanto in tanto, per breve tempo, a far riposare i cavalli. Con grande meraviglia di Ygraine, gli arcieri tenevano il passo con loro. Finalmente raggiunsero una vallata attraversata da un ampio fiume, dove era già stato montato un grande accampamento ben organizzato. I pesanti carri degli approvvigionamenti circondavano una vasta radura disseminata di fuochi attorniati da sedili fatti di tronchi, e tutt'intorno si stendevano file ordinate di animali e di tende.
Ygraine si rese conto con sgomento che il numero di cavalli e cavalieri accampati lì era superiore a quello degli arcieri che li avevano catturati nell'imboscata. Quella di Uther era sì una forza di incursione, ma ampia e ben equipaggiata. Lei e le sue compagne suscitarono grande curiosità tra i soldati abbastanza vicini da notare che erano delle donne ma furono aiutate a scendere dai cavalli con una certa cortesia e poi raggruppate insieme sotto una blanda sorveglianza mentre i loro rapitori iniziavano alacremente a predisporre i loro bivacchi. Poco tempo dopo un soldato, che dall'armatura Ygraine identificò come un ufficiale, venne verso di loro accompagnato da una squadra di dieci uomini e da un pesante carro trainato da quattro robusti cavalli. Ispezionò il terreno circostante e scelse una zona a metà strada tra il punto in cui si trovavano le donne e la riva del fiume. Poi cominciò a impartire ordini indicando dove e come voleva che venissero fatte certe cose, e i suoi soldati si misero immediatamente al lavoro. Le donne non prestarono molta attenzione a ciò che stava accadendo - c'erano ben altre cose interessanti da vedere - tranne Ygraine che, affascinata dalla profonda concentrazione sul volto dei soldati affaccendati intorno al carro, si avvicinò al punto in cui lavoravano, senza che nessuno se ne accorgesse, e si appoggiò al tronco nodoso di un vecchio biancospino per spiare cosa stavano facendo. Per due ore rimase a osservarli mentre scaricavano un numero incredibile di pali di varie dimensioni, balle di pelli, fasci di paletti o picchetti di metallo, pulegge di legno, e miglia e miglia di funi. Da tutto quel caos i soldati eressero un alto edificio fatto di pelli, dall'aspetto stupefacente. Era una tenda diversa da tutte quelle che Ygraine aveva visto in precedenza, più grande, più spaziosa e più accurata nella realizzazione. Immaginò che potesse essere una tenda di comando romana, ma solo perché in passato aveva ascoltato, con una punta di scetticismo, coloro che tentavano di descriverne le caratteristiche e le dimensioni. I teli erano fatti delle migliori pelli conciate a mano, giuntate con doppie cuciture e poi scrupolosamente incerate per renderle impermeabili e più resistenti. Notò che i teli laterali, e anche alcuni di quelli che formavano il tetto, avevano delle aperture sormontate da pannelli che in caso di
bel tempo si potevano arrotolare e legare, o sospendere a lunghe aste sottili alloggiate in apposite tasche. Ygraine pensò che suo marito sarebbe morto d'invidia vedendo una cosa del genere. Contò dodici pali portanti sul perimetro della tenda - la lunghezza dei quali superava di un braccio la statura di un uomo compreso l'elmo - più altri quattro pali interni, più grossi di quelli perimetrali, che formavano un quadrato di quattro passi di lato. In corrispondenza dei quattro pali interni il tetto si elevava a una volta e mezza l'altezza dei lati, mentre al centro dell'edificio si trovava un palo robusto e straordinariamente alto, di circonferenza quasi pari alla vita di Ygraine. Questo pilastro centrale era diviso in sezioni di dimensioni più maneggevoli che potevano essere facilmente assemblate o smantellate e si potevano trasportare in un unico grosso carro. Quando veniva eretto, il palo recava in cima una sorta di anello al quale venivano agganciati i teli che formavano la parte più alta del tetto. Ogni elemento - le pelli ben tese delle pareti e del tetto, così come i pali stessi - era assicurato con funi avvolte intorno a pulegge e fissate a pesanti picchetti di ferro piantati in profondità nel terreno. Naturalmente Ygraine suppose che la tenda fosse destinata al re Uther Pendragon, e fu dunque più che sorpresa quando Huw Fortebraccio disse a Morgas che la metteva a disposizione delle sue dame. All'inizio entrambe pensarono che l'uomo si stesse prendendo gioco di loro, ma presto fu chiaro che non scherzava, e con un'occhiata e un cenno impercettibile del capo Ygraine intimò a Morgas di accettare quella concessione nel modo più cortese possibile. La notte stava calando rapidamente, e le donne furono riunite al centro della tenda, raggruppate intorno al braciere portato all'interno da due soldati di Huw Fortebraccio e piazzato sotto un'ampia apertura sul tetto per lasciare uscire il fumo. C'erano lampade accese e torce che si consumavano sui loro supporti di ferro posti in cima a dei pali conficcati nel terreno. Solo Morgas era seduta, con tutte le altre intorno. Ygraine, in piedi alle sue spalle, le aveva sciolto i capelli e si preparava a spazzolarli quando una dama rimasta accanto all'entrata a spiare nelle tenebre si irrigidì di colpo.
«Arriva qualcuno. Credo che siano i Cambriani!» A quelle parole le donne rimasero paralizzate, e nel silenzio improvviso si udì chiaramente il crepitio delle fiamme che ardevano nelle lampade. Morgas si voltò a guardare Ygraine, con gli occhi sbarrati, ma la vera regina aveva già segnalato alla sua sentinella di allontanarsi dalla soglia. «Ricordatevi, tutte quante,» disse con voce bassa e calma «nessuna deve guardarmi. È Morgas la regina.» Fece cenno a un'altra dama di prendere il suo posto, e quella di nome Dyllis si fece avanti con una spazzola e si mise subito a pettinare Morgas. Aveva appena cominciato quando i lembi della tenda vennero sollevati e fece il suo ingresso il primo di due uomini, chino in avanti e con un braccio alzato come se temesse che il tetto della tenda gli rovinasse addosso. Aveva il viso completamente nascosto da un enorme elmo di bronzo sormontato da un alto cimiero tinto di rosso, ma dalla mole e dal modo di camminare Ygraine comprese che si trattava di Huw Fortebraccio. Dietro di lui entrò un uomo ancora più gigantesco: era Uther, re dei Pendragon. Era la prima volta che le donne lo vedevano da vicino e i loro occhi erano tutti puntati su di lui, anche se gli abiti e l'armatura rivelavano ben poco dell'uomo. Quando i due raggiunsero il centro della tenda, Uther si fermò e rimase in silenzio, limitandosi a fissare Morgas e le sue dame. Ygraine ne approfittò per osservarlo, colpita dalla sua statura imponente enfatizzata dall'armatura e dall'ombra gigantesca che proiettava sulle pareti della tenda. Se l'ambiente fino a quel momento era sembrato enorme, la presenza di quei due uomini alti con il mantello sulle spalle, la massiccia armatura e l'elmo dall'alto cimiero lo faceva apparire di colpo più piccolo e affollato, cosa che, a sua volta, rendeva gli uomini ancora più grossi, scuri e minacciosi. Sulle pareti danzavano ombre sfuggenti e le guance dell'elmo di Uther rendevano praticamente invisibile il suo volto. Ygraine decise immediatamente che la cosa non le piaceva affatto. Voleva poter vedere i suoi occhi, capire cosa stava pensando. Poi, sentendosi lei stessa osservata,
spostò subito gli occhi su Huw Fortebraccio, che vedendola restituire il suo sguardo, le fece un cenno col capo. Ygraine intuì dal riflesso della luce sulla sua bocca che sorrideva, ma lo ignorò e passò in rassegna i volti delle altre donne del gruppo. Stavano tutte fissando Uther Pendragon, come paralizzate. Il silenzio crebbe e si prolungò, ma nessuno si mosse finché, finalmente, Uther fece un abbozzo di inchino e abbassò lo sguardo su Dyllis, la più piccola di tutte le dame di Ygraine, che aveva ancora la spazzola in mano. Di tutto il gruppo, Dyllis era la più ingenua e la più impressionabile, e il minuzioso esame di Uther la fece arrossire per l'imbarazzo. Il re le porse la mano, e di fronte a quell'inequivocabile invito la ragazza, ormai in preda al panico, si guardò intorno rapidamente in cerca di aiuto da parte delle sue compagne. Le dame la ignorarono, e Ygraine si irrigidì temendo che Dyllis potesse rivolgersi a lei direttamente. Alla fine, tuttavia, la giovane si alzò e prese la mano di Uther. Col braccio levato, il re la separò con garbo dal gruppo e la accompagnò fino a uno dei quattro sostegni centrali; poi, senza lasciarla andare e senza dire una parola, spostò lo sguardo su Ygraine, che in quel momento era la più vicina a Dyllis, e con l'altra mano le fece cenno di avvicinarsi. Corrugando la fronte, Ygraine obbedì, chiedendosi il motivo di quella messinscena. Quando lo ebbe raggiunto, lui la sistemò alla destra di Dyllis e andò a prendere una alla volta tutte le donne finché non le ebbe tutte allineate di fronte a sé, tranne Morgas. Quest'ultima, vedendosi progressivamente isolata e totalmente ignorata da Uther, lanciò un'occhiata irosa a Huw Fortebraccio, ma l'uomo stava osservando il suo re e non ricambiò il suo sguardo. Il re si piazzò di fronte alla piccola Dyllis. «Come ti chiami?» le domandò, in tono cortese. «Dyllis» gemette la ragazza, senza fiato e terrorizzata. «Dyllis. Un bel nome.» Uther passò a Ygraine. «E tu?» «Deirdre.» Ygraine era preparata alla domanda e fece il nome di una delle sue sorelle, morta da molti anni. Lo disse in tono gelido e formale, scandendo nitidamente le sillabe.
«Deirdre?» ripeté lentamente Uther. «Deirdre... È un nome non comune qui in Britannia. Perdonami...» Tese la mano e la prese dolcemente per il mento. Ygraine sentì Dyllis boccheggiare accanto a lei, e per un attimo temette che la reazione indignata della giovane finisse per tradirla. Uther le voltò leggermente la testa da un lato, verso la lampada più vicina. Lei ebbe l'impulso di resistergli, poi cambiò idea e gli permise di avvicinare il suo volto alla luce. Ma un violento sussulto la fece sfuggire alla presa non appena udì le parole pronunciate dal re. «Non sei Deirdre dagli occhi viola, però... Lo vedo.» Quando Ygraine riuscì a riprendere fiato e si ricompose, Uther aveva già smesso di interessarsi a lei ed era passato alla donna alla sua sinistra, una giovane e voluttuosa bellezza, appena un po' troppo formosa, di nome Amarilli. Controllando a poco a poco la paura che si era impadronita di lei, Ygraine lo osservò procedere lungo la fila chiedendo a ogni donna il proprio nome. Quando ebbe parlato con ognuna di loro tranne Morgas, il re tornò sui suoi passi e si rivolse a tutte, e Ygraine si sorprese a pensare, suo malgrado, che aveva una voce attraente: profonda, potente e armoniosa. «Temo di avere brutte notizie per voi, signore. Resteremo in questa valle almeno per i prossimi dieci giorni.» Tutta la fila di dodici donne fu percorsa da mormorii e chiare manifestazioni di sconforto, che Uther placò con un gesto della mano. «Sono spiacente di dovervi tenere confinate qui, ma non abbiamo altra scelta... non possiamo certo lasciarvi libere di rivelare la nostra presenza o i nostri spostamenti, giusto? Purtroppo, non aspettandoci compagnia femminile, non abbiamo avuto il tempo di fare preparativi per il vostro arrivo, e ne sono mortificato. Posso solo sperare che vi troverete a vostro agio con ciò che siamo riusciti ad approntare senza preavviso. Come sapete, questa sarà la vostra tenda finché rimarrete con noi, e sarete al sicuro finché starete qui dentro senza aggirarvi per l'accampamento.
Non ho certo bisogno di ricordarvi che tutti gli uomini intorno a voi sono soldati, e soldati nemici per giunta. Non sono abituati alla presenza delle donne quando sono impegnati in una campagna, e tendono a considerarle, quando ci pensano, e ciò si verifica in continuazione, una parte del bottino. Ormai è tardi perché io possa rapidamente far loro cambiare idea su questo argomento. Ma non sono cattivi, e in generale rispettano gli ordini e si comportano bene. Non sono affatto bestie feroci, qualunque cosa vi abbiano detto al riguardo. Le guardie che vi ho assegnato sanno tenerli a bada e vi proteggeranno da loro se necessario, ma solo se cooperate ed evitate di accendere il loro desiderio attirando la loro attenzione. La vostra sola vista può costituire una provocazione sufficiente a generare violenza. Sono stato chiaro?» «Perfettamente.» La risposta, pronunciata in tono sprezzante, proveniva da Morgas. «E ora che ti sei assolto da qualunque responsabilità nel caso che una di noi venga violentata e uccisa, dandocene in anticipo la colpa, cos'altro hai in serbo per noi?» Uther rimase immobile finché la donna non ebbe finito di parlare, poi raddrizzò le spalle e si voltò lentamente verso di lei. «Con te parlerò più tardi, mia signora. Per il momento, non ho niente da dirti.» Si rivolse di nuovo alle donne. «In questo momento, i miei uomini stanno scavando delle latrine per voi alla luce delle torce. Quando avranno finito, chiuderanno con uno steccato il percorso tra l'ingresso di questa tenda e il luogo in cui si trovano le latrine, alla vostra sinistra. Potrete usarle in tutta sicurezza, e saranno personali. Dall'altra parte, a destra dell'ingresso, costruiremo dei bagni per le vostre necessità. Saranno bagni militari, in stile romano, ma molto rudimentali, senza fornace e stanza del vapore. L'acqua non sarà molto calda, ma nemmeno del tutto fredda, e le pareti saranno schermate per vostra sicurezza. Le provviste per sfamarvi verranno da uno dei nostri carri, e finché saremo accampati avrete un pasto caldo, con carne appena cucinata, tutte le sere. Per il resto del tempo mangerete quel che mangiano i nostri uomini, negli stessi orari.» Si guardò intorno. «Siete dodici. Entro un'ora verranno portate qui dodici brande. Dovrebbe esserci ampio spazio per tutte voi.» Morgas intervenne. «Siamo
tredici, non dodici.» Uther si voltò di nuovo verso di lei, poi fece un cenno con la mano a Huw che andò a parlare con una delle guardie ferme all'esterno. Un attimo dopo, due soldati semplici con la stessa uniforme entrarono nella tenda e andarono a piazzarsi ai lati di Morgas. La falsa regina rimase seduta, con un'aria di gelido distacco, e suo malgrado Ygraine ebbe un fremito di ammirazione per la sua sostituta e per il suo comportamento coraggioso. Uther si mise di fronte a Morgas e chinò lo sguardo su di lei. «Puoi portare con te anche la sedia se vuoi, mia signora, e se insisti, puoi persino rimanerci seduta mentre ti spostiamo, ma non rimarrai qui con le tue dame. Andrai dove potrò tenerti d'occhio.» Alzò una mano per soffocare l'improvvisa ondata di proteste da parte delle donne, e parlò sovrastando il rumore. «La vostra regina sarà al sicuro, ve lo prometto. Ricordatevi che questa donna ha sposato Gulrhys Lot. Dopo una tale sventura, posso assicurare a tutte voi che non soffrirà di alcun torto da parte mia. Ve la porto via solo perché non posso credere che gli dèi abbiano posto la regina di Lot sotto la mia custodia, e non intendo farmela scappare in nessun caso e per nessun motivo.» Si rivolse di nuovo a Morgas. «Dunque, signora, spero che tu non russi, perché ci sarà solo la parete di una tenda a difendermi dal rumore. Quanto a me, ovviamente non russo.» Fece un cenno alle guardie e si voltò verso la fila di donne mentre Morgas si alzava e usciva insieme ai due soldati, accettando il soffice mantello di lana che Huw le tese mentre lei gli passava davanti. Le altre dodici donne stavano guardando Uther, silenziose e con gli occhi sgranati, e nessuna di loro la degnò di un'occhiata. Lui le scrutò e annuì. «Sarete al sicuro qui, credetemi. Buon riposo.» Si inchinò e raggiunto l'ingresso della tenda si dileguò, subito seguito da Huw Fortebraccio. Ygraine corrugò la fronte, sconcertata. Aveva preparato Morgas a sedurre Uther, ma nessuna delle due aveva immaginato che lui potesse semplicemente rapirla. Tuttavia aveva la sensazione che Uther non potesse fare nulla di più favorevole ai suoi piani, poiché sottraendo Morgas alla compagnia delle altre donne, aveva salvato Ygraine dal suo più grande timore: quello che col tempo, in un
ambiente così ristretto e sotto la costante vigilanza delle guardie, una delle dame tradisse con un'azione, una parola, un gesto, o anche soltanto con la propria devozione, il fatto che era lei la regina e non Morgas. Si voltò verso le altre, che cominciavano a ritrovare la voce e bisbigliavano fra loro. Ma prima che potesse dire una parola, dall'esterno una voce tonante annunciò che le brande e le coperte erano arrivate. Poco dopo, mentre stavano sistemando i giacigli, giunse la notizia che le latrine erano pronte e funzionanti. Si era già fatto buio da un pezzo e la luce delle lampade si era ormai abbassata quando le donne andarono a dormire, e prima di prendere sonno, Ygraine si domandò cosa stesse accadendo a Morgas. Proprio in quel momento, Morgas era sola nell'imponente tenda militare di Uther. Il re l'aveva accompagnata lì personalmente scortato da due guardie munite di torce, e mentre una di esse provvedeva ad accendere numerose lampade a olio, le aveva mostrato come lo spazio interno fosse suddiviso da teli disposti a forma di "T" in modo da creare tre stanze, quella sul davanti grande il doppio delle altre. Il divisorio principale era formato da pelli morbide e sottili, leggermente oliate e alte come un uomo, che attraversavano tutta la larghezza della tenda da un palo all'altro lasciando alle estremità due accessi alle piccole stanze da letto. Lo spazio sul retro era diviso in due parti uguali da un secondo schermo simile al primo, teso fra altri due pali infissi nel terreno: uno attaccato alla parete posteriore della tenda, l'altro discosto dal divisorio principale quel tanto da permettere a una persona di passare da una stanza all'altra senza dover fare tutto il giro. Ogni stanzetta conteneva una semplice branda militare e un bauletto, più un lavamani pieghevole con una brocca e una bacinella di terracotta. L'ambiente principale ospitava un tavolo grande e uno più piccolo che serviva da lavamani, con una bacinella e una brocca d'acqua e una rastrelliera su un lato cui era appeso un asciugamano. C'erano poi una sedia di legno con i braccioli, uno sgabello a tre gambe, altri due bauli e una struttura fatta di pali incrociati che serviva a riporre
l'armatura e gli abiti smessi. Uther accompagnò Morgas nella stanza sulla destra e le indicò la branda. «Tu dormirai qui. Io sarò dall'altra parte della parete.» Lei gli rivolse un'occhiata sdegnosa. «Sarai là? E quanto ci rimarrai? Ti aspetti che basti la tua parola a farmi dormire tranquilla, sicura che non verrò molestata? Mi credi forse così stupida?» Uther rimase in silenzio per un po', con una piega ironica sulle labbra che somigliava a un sorriso di compatimento. Alla fine scosse la testa. «Io non mi aspetto niente da te, mia signora, e quanto alla tua stupidità, l'hai già dimostrata sposando il sedicente re di Cornovaglia. Non temere per la tua castità, perché se ti avessi voluto nel mio letto, ci saresti già. Ricorda che sei mia prigioniera. E a questo proposito, non tentare di uscire da questa tenda. Le guardie all'esterno hanno l'ordine di controllarti e persino di farti trascorrere la notte legata e imbavagliata, se necessario. A te la scelta.» Congedò con un cenno i due soldati in attesa, poi riportò lo sguardo su Morgas. «Qualche domanda?» Lei drizzò la testa con aria di sfida, mettendo in mostra il seno magnifico. «Tu affermi che non hai intenzione di approfittare di me. Allora perché... con quale diritto mi separi dalle mie dame?» «Col diritto di chi ti ha catturato.» Uther non degnò di uno sguardo il petto di Morgas e continuò a guardarla negli occhi. «Ogni giorno ti sarà concesso di trascorrere un po' di tempo con le tue donne. Tre o quattro alla volta, non di più, potranno venire a farti visita e fermarsi per un paio d'ore al massimo. Ma nessuna di loro avrà accesso alla tua guardia personale o a qualunque uomo del tuo seguito o della tua scorta. Tieni a mente questo avvertimento e assicurati che non cerchino di violare questa regola. Se una di loro verrà sorpresa a tentare di comunicare con la tua gente sarà punita severamente. Il responsabile della tua sorveglianza si chiama Nemo. È un decurione della mia guardia personale di cui mi fido ciecamente.» Sorrise di nuovo, un sorrisetto gelido e un po' divertito. «La tua... virtù... sarà al sicuro con lui, e la sua con te, qualsiasi stratagemma tu riesca a escogitare nei suoi confronti. Nemo non si può sedurre, quindi è inutile cercare di irretirlo. Ma se vorrai fare ugualmente un
tentativo, solo per dimostrare quanto sei irresistibile... be', ricordati che ti avevo avvertito.» Controllò che le lampade fossero tutte accese, poi si voltò di nuovo verso di lei. «Tra poco riceverai da mangiare, e farò in modo che ti venga portata una brocca di acqua calda prima che tu vada a letto. Buonanotte.» Prima che a Morgas venisse in mente qualcosa per fermarlo e replicare per le rime, Uther si girò sui tacchi e uscì dalla tenda, lasciandola furiosa e decisamente di malumore. Non capitava spesso che gli uomini ignorassero le sue attrattive fisiche. Fin da giovanissima aveva potuto disporre non solo di un viso grazioso e di una bocca grande dalle labbra morbide e sensuali, ma anche di un seno alto e formoso, di una vita stretta sui fianchi morbidi e pieni, e di gambe lunghe e diritte. Tutti i maschi impazzivano per lei, prima o poi, e la divoravano continuamente con gli occhi. Nel corso degli anni si era abituata a darlo per scontato e ora non si aspettava niente di meno. Persino il re, Gulrhys Lot, si era fatto rapidamente stregare da lei, e nessun uomo che le piacesse l'aveva mai rifiutata, e tanto meno ignorata, come questo villano venuto dalla Cambria. Si consolò preparandosi a respingere sdegnosamente il suo approccio e a trattarlo con disprezzo al successivo incontro, senza immaginare che sarebbero passati ben tre giorni e tre notti prima che lo rivedesse. Il mattino successivo al "rapimento" di Morgas da parte di Uther, il medico del corpo di incursione di Camelot, Muzio Quinto, si presentò a sorpresa alla tenda delle donne, e dopo aver chiarito il suo ruolo all'interno delle truppe si mise a loro disposizione nel caso che qualcuna avesse avuto bisogno delle sue cure. La sua visita scatenò reazioni scandalizzate tra le dame, che non avevano mai sentito parlare di medici o chirurghi addestrati in modo professionale. Nel loro regno, tutte le malattie e le situazioni che richiedevano un intervento medico venivano affidate alle cure dei druidi specializzati nella conoscenza di erbe e medicamenti. Ygraine le ignorò, continuando a interrogarsi su cosa fosse successo tra Uther
e Morgas. Poco dopo, quando una delle guardie annunciò che tre donne potevano andare a far visita alla "regina" nei suoi appartamenti, Ygraine si fece avanti immediatamente, e lungo il tragitto non cessò di osservare e prendere nota di tutto quello che c'era da vedere. La prigione di Morgas - la Tenda del re, come veniva chiamata - si trovava a qualche centinaio di passi in riva al fiume, su una formazione rocciosa a picco sull'acqua, in una radura circondata su tre lati da salici. Ygraine rimase sbalordita quando Morgas, rispondendo alla sua prima domanda, le rivelò che il re, dopo averla accompagnata alla tenda, non si era fatto più vedere per tutta la notte. Com'era possibile che Uther Pendragon, un uomo il cui mostruoso comportamento e i cui voraci appetiti sessuali erano leggendari, disdegnasse le evidenti e accessibili attrattive del corpo di Morgas? Ygraine si spremette le meningi per trovare una spiegazione a un comportamento così inusuale, ma non le venne in mente che Uther potesse semplicemente essere ripartito quella stessa notte, a così breve distanza dal suo arrivo. Lo scoprirono solo molto più tardi, apprendendo inoltre che questa volta Uther era partito in compagnia di Huw Fortebraccio e del gruppo di cavalieri che chiamava i suoi Dragoni, affidando l'accampamento a un comandante in seconda e Morgas, come promesso, al decurione di nome Nemo. Così per tre giorni le donne non poterono far altro che aspettare e annoiarsi. Non appena sentì dire che Uther era tornato, Morgas chiamò una delle guardie e gli ordinò di riferire al re che voleva parlare con lui, ma l'uomo la fissò in silenzio e poi sbuffando tornò tranquillamente al suo posto. Morgas fu invasa da una rabbia impotente, ma riuscì a controllarsi e attese con pazienza che il suo rapitore tornasse. Le cose e il letto di Uther erano lì, e lei era convinta che dopo tre notti passate per terra sotto le stelle, il re avrebbe scelto di dormire nella sua branda. Così decise di prepararsi per il suo arrivo. Quel giorno si vestì con particolare cura, in modo da esaltare al massimo la propria bellezza. Il risultato fu così spettacolare da attirare persino gli sguardi ipnotizzati delle sue sentinelle, che Morgas
cominciava a sospettare fossero state scelte per la loro insensibilità alle sue grazie. Scelse un abito dalla linea ampia e morbida, di un tessuto così fine da risultare quasi trasparente, e si premurò di non indossare nulla sotto, in modo da porre in risalto eccitanti dettagli delle sue curve e fugaci silhouette del seno, del ventre, dei fianchi e delle gambe ogni volta che si trovava tra la luce del sole e gli occhi degli uomini, cosa che si premurò di fare il più spesso possibile, per meglio valutare l'effetto di quella vista. Più di ogni altra cosa la confortò l'espressione sgomenta dei suoi guardiani che si fermarono a guardarla a bocca aperta, invece di passeggiare avanti e indietro come al solito. Ebbe un tale successo, in realtà, che il semplice fatto di sentire il corpo libero e non costretto sotto le gonne, e il contatto della pelle nuda, e in particolare dei capezzoli, con il tessuto cominciò a risvegliare in lei uno stimolo erotico. Man mano che la sua eccitazione aumentava, però, il pomeriggio divenne sera, scese l'oscurità e venne servita la cena senza che Uther Pendragon si fosse fatto vivo. Alla fine Morgas si coricò nella sua branda, continuando ad agitarsi e a rivoltarsi a lungo prima di prendere sonno, arrabbiata e delusa. Si svegliò dopo qualche tempo, senza poter dire quanto avesse dormito. Sapeva solo che a destarla era stato un rumore vicino, sordo e soffocato, e aprì gli occhi confusa e spaventata, senza capire dov'era. L'ambiente era buio e silenzioso, ma una luce dorata, un pallido chiarore, rischiarava un lato dell'ambiente in cui si trovava. Morgas rimase distesa con gli occhi sbarrati, lottando per soffocare il panico, e quando il battito del cuore fu quasi normale capì dove si trovava, e ricordò che fuori dalla tenda vigilavano almeno due guardie, non solo per proteggerla, ma anche per impedire ogni suo tentativo di fuga. Udì di nuovo il rumore, questa volta distintamente, e nello stesso istante vide muoversi delle ombre sulla parete divisoria principale accanto al suo letto, oltre la quale era accesa una luce. Uther Pendragon era tornato e si stava togliendo l'armatura, tentando di non fare rumore per non svegliarla. Poi Morgas udì una voce bassa e soffocata e vide l'ombra
colossale proiettata sulla parete dividersi in due sagome umane: una scomparve sulla destra, mentre l'altra rimase al suo posto. Subito le tornò in mente il supporto di legno a forma di croce fatto per accogliere l'intera armatura - corazza e cinturone, elmo e gonnellino di cuoio - e capì che Uther era assistito da un soldato che era andato ad appendere l'armatura al supporto, mentre il suo capo si metteva comodo. Un attimo dopo l'unica ombra rimasta si ingrandì fino a occupare l'intera parete e poi svanì completamente, e Morgas comprese che Uther si era spostato al di là del lume. Sentì versare dell'acqua dalla brocca nella bacinella, poi udì un saluto a bassa voce quando il soldato lasciò la tenda portando evidentemente un lume con sé, poiché il chiarore oltre la parete diminuì bruscamente. Morgas rimase distesa in silenzio per un po' col fiato sospeso, drizzando le orecchie, ma non si distingueva altro che uno sciacquio e di tanto in tanto il respiro dell'uomo al di là della parete. Di colpo udì un grugnito soffocato e un lieve strofinio, e l'accostamento di quei rumori all'immagine dell'uomo che si lavava a poca distanza, nudo nella semioscurità, scatenò in lei un'eccitazione che accelerò i battiti del suo cuore e le rese il respiro più affannoso. Prima ancora di rendersi conto di quel che faceva, si era già alzata dal letto e si muoveva silenziosamente verso l'estremità del divisorio per vedere cosa accadeva dall'altra parte. Come aveva immaginato lui era lì, nudo, intento a lavarsi alla pallida luce di un'unica candela che avvolgeva gran parte del suo corpo in una luce dorata, lasciando il resto immerso nell'ombra. La sua statura e l'ampiezza del torace e delle spalle lo facevano apparire gigantesco, e la sua mole era posta in risalto dall'enorme ombra nera proiettata sulla parete di fronte a lei. A ogni suo minimo movimento la fiamma dalla candela guizzava e l'ombra si muoveva fino a occupare metà della parete e il tetto della tenda. Senza preoccuparsi della propria nudità, sapendo che lui non poteva vederla nell'oscurità che la circondava, Morgas si accostò con cautela all'apertura badando a non entrare nel cono di luce che filtrava verso la sua stanza, e con il cuore che le martellava nel petto si lasciò eccitare da quello spettacolo.
Il petto dell'uomo era ampio e muscoloso, ricoperto di peli neri e ricciuti che scendevano fino ai lombi mescolandosi all'ombra scura e impenetrabile che nascondeva la parte anteriore del corpo. Dietro, la luce dorata della candela delineava i contorni delle braccia e del torso e diffondeva un liquido chiarore sul profilo della natica sinistra, sull'ampia e robusta colonna della coscia e sul polpaccio tornito. Uther posò un piede su un basso sgabello e strizzato il panno che aveva in mano lo adoperò per lavarsi l'inguine, strofinando scrupolosamente. Morgas faticava a distinguere ogni dettaglio, anche se l'immaginazione la aiutava generosamente, e quando lo vide gettare il panno nel catino e allungare il braccio alle sue spalle per cercare un asciugamano, si rallegrò che non riuscisse a raggiungerlo e fosse costretto a voltarsi verso la luce per prenderlo, così da mostrarsi a lei interamente. Con movimenti pigri e sensuali l'uomo si asciugò accuratamente, poi si voltò verso la bacinella per fare pipì nell'acqua con cui si era lavato. Quand'ebbe finito, prese la bacinella con le due mani e andò a vuotarla fuori dalla tenda. Tornò indietro, versò nel bacile l'acqua rimasta nella brocca, lo agitò e andò di nuovo a vuotarlo all'esterno. Alla fine si asciugò le mani e dopo aver gettato il panno nella bacinella si voltò di colpo e prese la candela, proteggendo la fiamma con la mano per non farla spegnere. Il movimento fu così brusco e inaspettato che Morgas, presa alla sprovvista, non ebbe il tempo di reagire o almeno di provare a raggiungere il suo letto. Paralizzata e incapace di respirare, vide la luce attraversare la stanza dirigendosi verso l'altra cameretta sul retro. Morgas era sul punto di rientrare nel suo letto quando la luce cambiò direzione e tornò rapidamente e silenziosamente verso di lei. A tutta evidenza Uther aveva deciso di darle un'occhiata prima di andare a dormire, e Morgas indietreggiò bruscamente fino a trovarsi addossata a un angolo della tenda. In meno di tre passi Uther raggiunse l'apertura sul lato opposto a quello in cui si era rifugiata lei, e senza entrare nella stanza ma fermandosi sulla soglia, si sporse dal bordo del divisorio a guardare il letto della ragazza. Vedendolo vuoto, fece un fischio di sorpresa e si raddrizzò, entrando nella stanza e muovendo la candela finché la luce non cadde sulla pallida sagoma nuda della donna. Con un altro uomo, in un altro momento, Morgas si sarebbe
divertita a leggergli sul volto la rapida successione dei suoi pensieri: sorpresa, dubbio, sconcerto e finalmente un totale sbalordimento nel vedere che non solo lei stava bene e non era fuggita, ma era sveglia e fuori dal suo letto, meravigliosamente nuda davanti a lui. In un altro luogo, in un altro momento, lei stessa avrebbe reagito in modo ben diverso, ma in quella situazione si ritrovò completamente smarrita. Aveva già preparato parole sferzanti e piene di ironia sul finto disinteresse di Uther, ma le morirono sulle labbra quando lo vide accorgersi di lei. Aveva anche pensato di andare a prendere una coperta e di gettarsela addosso per sottrarsi al suo sguardo, ma scoprì che non poteva o non voleva muoversi, e lasciò che gli occhi dell'uomo studiassero ogni dettaglio del suo corpo. Sapeva di dover fare qualcosa, chiamare aiuto o tentare di fuggire da lui, e invece rimase immobile, col cuore che le batteva forte, mentre lui spostava lo sguardo da un seno all'altro, poi giù fino all'ombelico. Avrebbe dovuto dire qualcosa, qualunque cosa, protestare e lamentarsi, ma l'ultimo istante per farlo era già passato e perduto per sempre. Così rimase in silenzio a guardarlo, conscia della crescente eccitazione dell'uomo e della propria. Fu lui a rompere il silenzio, con una voce bassa e abbastanza ferma dalla quale si capiva tuttavia che l'uomo era sorpreso, turbato, e consapevole della presenza di altre persone nelle vicinanze. «Per gli dèi, signora... non me l'aspettavo.» Morgas capì che era sincero - lo leggeva chiaramente sul suo viso — ma soprattutto capì perfettamente ciò che lo turbava, poiché sapeva per esperienza che l'eccitazione che lei provava in quel momento nasceva da un ardente e reciproco desiderio. Fece per parlare, ma si bloccò, e sentì una vampata di calore inondarle il ventre. «Che cosa ti aspettavi?» sussurrò infine, sapendo di dover dire qualcosa. Lui scosse la testa, abbassando lo sguardo sui seni di Morgas e passandosi la lingua sulle labbra, e Morgas proseguì: «Hai detto che non avresti fatto... ciò che ci si aspettava...». Lui respirò profondamente e sbuffò, come se stesse cercando di dominarsi. «È vero» disse alla fine. «L'ho detto.» «E... lo farai ora?»
Uther scosse di nuovo la testa, questa volta in modo più deciso. «No.» «Nemmeno se ti fosse spontaneamente offerto?» «Cosa...?» Morgas lasciò che l'eco delle sue parole aleggiasse per un po' nel silenzio, poi alzò lentamente le mani e le posò a coppa sui seni. «Spontaneamente offerto» mormorò. Senza staccare gli occhi da lei, Uther posò la candela per terra e avanzò fin quasi a toccarla, e quando Morgas si fece più vicina sfiorando con il ventre il pene eretto, sussultò e la attirò dolcemente a sé. Cingendola alla vita la sollevò e chinò la testa per andare incontro alle sue labbra, e Morgas si lasciò andare di colpo fra le sue braccia, pensando che quell'improvviso abbandono gli avrebbe fatto perdere l'equilibrio. Ma continuando a reggerla con un braccio intorno alla vita, Uther fece passare l'altro braccio dietro le sue ginocchia e la sollevò senza sforzo come fosse una bambina. Si accostò alla branda nell'angolo e si inginocchiò, deponendola delicatamente sul letto mentre lei gli avvolgeva le braccia intorno al collo e lo stringeva a sé.
VIII. Per più di una settimana Uther si tenne a distanza da Ygraine e dalle altre donne, pur continuando a informarsi del loro benessere e del loro morale presso i suoi intermediari. L'unica donna che lo vide in tutto quel tempo fu Morgas, perché lui entrava nel suo letto tutte le notti. Ma il re non accennò in alcun modo a parlarle dei suoi progetti, né rispose alle sue domande. Veniva solo per fare l'amore con lei e lo faceva magnificamente, con immensa soddisfazione di Morgas i cui appetiti sessuali erano pari ai suoi. Quand'era sazio, tuttavia, come inevitabilmente accadeva tutte le notti, si alzava e tornava alla sua branda, e nelle due occasioni in cui lei tentò di seguirlo e di interrogarlo, lui uscì dalla tenda e se ne andò a dormire altrove. All'inizio Morgas ne fu irritata, ma fini per accettare la situazione, fiduciosa che col tempo Uther sarebbe giunto a confidarsi con lei. Informò Ygraine che l'uomo era in sua balia, mantenendosi sul vago circa le loro conversazioni a letto. Poi, il decimo giorno dopo la cattura, arrivò una notizia che scatenò nel re una furia così incontrollabile da spingerlo a lasciare l'accampamento per non cedere alla tentazione di fare violenza alla regina e alle sue dame. Owain delle Grotte gli aveva portato il triste annuncio che gli emissari inviati a Gulrhys Lot il primo giorno di prigionia della regina erano stati ricevuti e poi massacrati ferocemente, subito dopo aver riferito il messaggio. Owain e una squadra di arcieri avevano accompagnato il gruppo, formato da Dragoni a cavallo guidati da un giovane e capace centurione di nome Lodder, e si erano nascosti nelle vicinanze quando gli altri erano usciti allo scoperto per attirare l'attenzione di Lot. I "messaggeri da Camelot", come erano stati chiamati, avevano ricevuto un'accoglienza cortese ed era stato loro accordato il permesso di tenere le armi. Lot non aveva potuto incontrarli subito dopo il loro arrivo, poiché aveva altri compiti e responsabilità di cui occuparsi, ma li aveva invitati a parlare più tardi, in serata, a un banchetto cui avrebbero partecipato i suoi capi e alleati più
importanti. Quella sera Lodder aveva riferito il messaggio del suo re, spiegando che la regina, Ygraine, era prigioniera di Uther e illustrando i termini del riscatto richiesto. Alla fine del suo discorso, Lot lo aveva interrogato minuziosamente su ogni dettaglio, informandosi sulla regina e la sua scorta e sull'imboscata durante la quale erano state catturate. Quando però era passato a fare domande sulla schermaglia e sul luogo in cui si era svolta, Lodder si era rifiutato di rispondere, scatenando in Lot un'ira di breve durata, ma spietata, in seguito alla quale Lodder e i suoi uomini avevano perso la vita, fatti a pezzi dagli altri commensali. Dopo la strage perpetrata nella sua stessa sala, Lot aveva schernito i morti e la loro missione, confiscando inoltre i loro cavalli con tutto l'equipaggiamento. Aveva bevuto alla salute della sua povera e sventurata regina, giurando di fare tutto ciò che era in suo potere per strapparla alle grinfie di Uther, ma a suo modo e non su invito del nemico o alle sue condizioni. A conclusione del suo discorso, alla presenza di tutta la sua marmaglia ubriaca e sporca di sangue, aveva pronunciato un'aspra e sprezzante condanna nei confronti di Herliss, accusandolo di aver causato con il suo comportamento inetto e vile la perdita della moglie del re. Per sistemare le cose, aveva incaricato il figlio di Herliss, Lagan il Saggio, di mettersi immediatamente alla testa di una spedizione per localizzare e liberare la regina Ygraine e le sue dame. Lagan avrebbe dovuto anche liberare e poi arrestare Herliss, riportandolo alla fortezza di Tir Gwyn dove avrebbe affrontato un processo per tradimento e codardia. Per assicurarsi che padre e figlio tornassero a Tir Gwyn, Lot aveva disposto per la moglie e il figlio di Lagan quella che definiva una "custodia protettiva", anche se tutti sapevano che ciò significava trattenerli come prigionieri-ostaggi per garantirsi il ritorno di Lagan. Owain aveva impiegato quattro giorni per ricostruire i dettagli di ciò che era successo quella sera, poiché aveva dovuto raccogliere le notizie con grande cautela da una varietà di fonti e informatori, in modo che nessuno di loro si accorgesse e nemmeno sospettasse che li stava interrogando. Ora era in grado di riferire che Lagan il Saggio stava battendo le colline a sud-ovest dell'attuale posizione di Uther con un grosso esercito di mercenari. Era già partito da due giorni
quando Owain aveva appreso la notizia, e aveva iniziato la sua ricerca dall'estremità sud-ovest della Cornovaglia poiché quella era la regione in cui si trovava la maggior parte delle terre e delle proprietà di suo padre. Uther ascoltò tutto questo in silenzio, anche se lo sguardo, il pallore del volto e il contrarsi spasmodico delle mani tradivano la rabbia che si andava accumulando dentro di lui. Quando Owain ebbe terminato, aprì la bocca per parlare ma subito la richiuse, come se avesse paura di ciò che stava per dire. Alla fine, dopo un lunghissimo periodo di assoluto mutismo, puntò il dito verso Owain con un gesto imperioso. «Non dire nulla. Nulla... di tutto ciò. A nessuno. Fino al mio ritorno.» Si girò sui tacchi e si allontanò. Owain lo osservò da lontano e vedendolo sellare il cavallo e prepararsi a partire, andò a prendere il suo arco lungo e la faretra con l'intenzione di seguirlo. Ma mentre si chinava a raccogliere le frecce, sentì la voce di Uther alle sue spalle. «Resta qui, Owain, e non cercare di seguirmi. Farò una cavalcata per schiarirmi la mente, e non mi succederà nulla. Ho semplicemente bisogno di restare solo.» E con queste parole se ne andò. Quando tornò all'accampamento, dopo aver trascorso lunghe ore solitarie sulla collina a meditare su quanto gli era stato detto, la notte era già scesa da tempo. Malgrado l'ora tarda, andò direttamente da Huw Fortebraccio, convocando nella sua tenda anche Owain e Garreth il Fischiatore. Con frasi secche e concise, Uther narrò loro tutto quello che Owain gli aveva detto in precedenza. Era evidente, disse, che Lot non temeva la collera di Uther. Lo aveva dimostrato giustiziando con tanta spietatezza gli inviati, anche se non si poteva escludere che la sua spettacolare crudeltà fosse solo il gesto simbolico di un millantatore dato che li aveva chiamati "messaggeri da Camelot", facendo così capire che forse non sapeva con chi aveva realmente a che fare. Comunque fosse, Uther aveva deciso che il prezzo di quel crimine sarebbe stata la pelle di Lot, e che l'avrebbe scorticato vivo il giorno stesso in cui fosse caduto nelle sue mani.
Era altrettanto chiaro, proseguì Uther, che a Lot non importava nulla della sorte di Ygraine e delle donne così sventurate da trovarsi insieme a lei al momento della cattura, altrimenti si sarebbe comportato in tutt'altro modo. La regina non era che una donna, un oggetto di cui era entrato in possesso tramite un matrimonio di convenienza, in vista di un'alleanza con un re che aveva ormai perso ogni importanza. Quindi il destino di Ygraine gli era indifferente, cosa tutt'altro che sorprendente in un uomo come Gulrhys Lot. Ben più indicativo, tuttavia, era il fatto che si disinteressasse fino a quel punto delle altre dodici prigioniere. Certo, aveva giurato pubblicamente di ritrovarle e liberarle tutte, compresa Ygraine, e aveva mobilitato un esercito per riuscirci, ma era solo una dimostrazione di ipocrisia a cui era stato costretto. L'esercito che aveva inviato era un'accozzaglia di mercenari guidata da un comandante perlomeno discutibile: un figlio costretto a marciare contro suo padre per salvare la vita della moglie e del figlio. Dieci tra le dame della regina, sottolineò Uther, erano della Cornovaglia, mentre le altre due erano venute dall'Eire con la loro signora. Ma quelle dieci dame erano tutte figlie di sostenitori di Lot, i più ricchi e potenti capi e condottieri della Cornovaglia, e alcune di loro, se non tutte, dovevano essere preziose agli occhi dei genitori. Cosa significava, dunque, questo palese disinteresse di Lot nei confronti dei suoi sudditi più illustri e influenti? Come poteva rischiare di mostrarsi così insensibile alla loro opinione? I tre uomini, i suoi più fedeli seguaci, lo fissarono senza parlare, cercando di trovare un senso in tutto ciò che avevano sentito. Fu Garretti il Fischiatore a rompere finalmente il silenzio. «Uther,» disse: «c'è qualcosa che non va in tutto questo, qualcosa che non riesco ad afferrare... Verrebbe da pensare che Lot sia impazzito. È mai possibile? Questa storia assurda degli ostaggi, di prendere la moglie e il figlio di Lagan per assicurarsi che lui si metta contro suo padre...» Uther era proteso in avanti, gli occhi ridotti a due fessure. «In sostanza ti stai chiedendo se quell'uomo sia arrivato al punto di garantirsi la fedeltà di tutti quelli che lo circondano tramite degli ostaggi. O mi sbaglio?»
«Proprio così. Può essere? Non ho mai sentito una cosa simile.» «Io nemmeno, amico mio, ma non è inconcepibile... se sei abbastanza pazzo da accettare che tutti quelli che ti circondano provino odio e paura nei tuoi confronti.» Uther spostò lo sguardo da Garreth agli altri due. «Owain, hai mai visto qualcosa del genere?» Owain delle Grotte alzò le spalle, scuotendo la testa. «Sì. Mi ha dato da vivere per un po'.» Si rivolse a Garreth. «È quello che stava succedendo con Meradoc. Era ebbro di potere e si sentiva più forte se la gente aveva paura di lui. Ma il potere gli stava dando alla testa, e lui andava peggiorando... Comunque non avrebbe mai preso degli ostaggi. Troppo faticoso. Avrebbe dovuto nutrirli e tenerli in salute. Ma aveva noi. Eravamo noi a incutere la paura della morte in tutti quelli che gli stavano intorno. Per gran parte del tempo non dovevamo far nulla, bastava essere lì, farsi vedere, e incutere timore.» Si interruppe e lanciò un'occhiata a Uther. «Credi sia questo che sta facendo Lot?» «Sì, Owain, credo che si sia circondato di un esercito di mercenari abbastanza forte da eseguire ogni suo ordine senza esitazioni, e la loro forza garantisce la sua.» «Allora è stupido, oltre che pazzo!» intervenne Huw Fortebraccio. «Sono solo uomini prezzolati, senza vincoli di fedeltà nei suoi confronti.» «Sì, può darsi. Ma non dubitare mai della fedeltà di un mercenario verso colui che tiene i cordoni della borsa, Huw. Finché Lot continua a ricompensarli — con bottino, oro, cibo, o donne obbediranno ai suoi ordini e saranno utili ai suoi scopi, anche se per farlo devono terrorizzare a morte il suo popolo.» «E a noi cosa resta da fare?» «Be', prima di tutto dobbiamo occuparci dell'esercito che ci sta cercando. Sappiamo che sono a sud-ovest, o almeno c'erano fino a qualche giorno fa. Quel che dobbiamo fare è trattenerli laggiù, in modo che non interferiscano con i nostri piani.» «E come ci riusciremo?» domandò Garreth. «Sarai tu a farlo, Garreth, guidando laggiù i nostri Dragoni, individuando Lagan il Saggio e vendicando Lodder e i suoi dieci
uomini. Quando gli sgherri di Lot si troveranno di fronte i nostri Dragoni, saranno come agnelli tra i lupi, specialmente dopo che avrai spiegato ai nostri soldati che fine hanno fatto i compagni che sono andati a parlare con Lot e con i suoi mangiatori di cadaveri. Ma il tuo compito sarà quello di attaccarli ripetutamente, Garreth, non di impegnarli in battaglie. Colpite duro e fuggite, poi fate dietrofront e colpite di nuovo. Non concedete loro né riposo, né pietà. Attaccateli e non date loro il tempo di riprendersi. Teneteli impegnati, e lontano da qui.» «D'accordo. Quando vuoi che parta?» «Non so ancora, ma molto presto. Probabilmente domani.» «Bene. E mentre sono via, che cosa farai di tutte queste donne maledette, ora che sappiamo che il loro re non vuole riscattarle?» «Mi servirò di loro, Garreth, contro Lot. E ho intenzione di farlo con grande astuzia. In effetti, ci ho pensato molto in quest'ultima settimana e ho escogitato uno stratagemma che potrebbe funzionare... se riesco a ingraziarmi la loro regina.» Owain tossicchiò, tentando senza successo di soffocare un risolino. Uther gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Owain?» «Ti chiedo scusa» disse l'uomo, sorridendo apertamente. «Ma... te la sei portata a letto, perché non dovresti essere nelle sue grazie?» Uther osservò il grosso uomo del Nord con aria impenetrabile, poi fissò uno dopo l'altro Huw e Garreth e annuì. «E se vi dicessi che quella con cui sto andando a letto non è la regina?» «Non è la...» Huw Fortebraccio saltò sulla sedia, posando istintivamente la mano destra sull'elsa della spada. «Ma certo che è la regina!» «Come no, Huw.» Uther scoppiò in una sonora risata. «Te l'ha detto lei, giusto? Me n'ero scordato. Tu le hai chiesto se era la regina e lei ti ha risposto di sì.»
«Infatti.» «E non ti è mai venuto in mente che forse non era vantaggioso per la sovrana farsi riconoscere? O che la donna a cui l'hai chiesto potesse mentire, così come tutte le altre, per proteggere l'identità e dunque la persona della regina?» «Be', io...» La voce di Huw si spense e il giovane rimase in silenzio. «Qual è la vera sovrana, allora?» domandò il Fischiatore, e Uther sorrise. «Dovresti saperlo, Garreth. Hai conosciuto sua sorella, o quantomeno l'hai vista, due volte che io sappia. E anche suo fratello.» Garreth lo fissò incredulo. «Suo fratello? Ho incontrato suo fratello? Com'è possibile che io conosca il fratello di una regina della Cornovaglia?» «Ma lei non è della Cornovaglia, e nemmeno della Britannia. Pensaci, amico, pensaci! Ricordi l'aiutante di mio cugino Merlino, Donuil? Be', aveva una sorella...» «Sì, me l'hai detto. Cassandra, la ragazza ritrovata nel bosco. Ma poi è risultato che si chiamava...» «Deirdre, dai capelli rossi. Ora sentite che cos'ho in mente.» «Aspetta, Uther» intervenne Owain con tono perplesso. «Prima di continuare, rispondi a questa domanda... Come pensi di ingraziarti la vera regina se continui ad andare con quella falsa?» «Ho già smesso di andare con quella falsa.» «Davvero? E quando?» «La scorsa notte. No, in realtà è stato oggi pomeriggio, quando ho cominciato a riflettere su questa faccenda. È allora che ho deciso di smettere.» «E pensi che lei la prenderà bene? Si arrabbierà.» «E perché? Per essere stata ingannata? Non credo. Ricorda che finge di essere la regina, e dunque è lei a ingannarmi. E adesso ascoltatemi attentamente. Non diremo nulla di questo fallito approccio con Lot, in nessuno dei nostri incontri con le donne, ma
voglio separarle tutte dalla vera sovrana, dunque ecco cosa faremo...» L'indomani, nel pieno di una splendida mattinata, Dyllis fu prelevata da quattro guardie e separata dalle sue compagne senza spiegazione; due di loro la affiancarono sospingendola con gentilezza, mentre gli altri due usavano le lance come barriere per impedire che le dame tentassero di aiutarla. Sconcertata, più che spaventata, da quell'improvviso allontanamento, Dyllis aveva appena cominciato a rendersi conto di quel che le accadeva quando le guardie si fermarono davanti a un'altra tenda, più piccola di quella del re nella quale Morgas era segregata. Di fronte alla tenda c'erano un tavolo e due sedie pieghevoli di legno e pelle, e sulla destra, legato a un biancospino, un enorme cavallo sauro con la sella e le briglie, che brucava l'erba. «Siediti, mia signora» Una guardia le indicò una sedia, e non appena Dyllis ebbe obbedito timidamente, i due soldati fecero un passo indietro all'unisono e rimasero immobili con le lance accanto al piede destro, la mano sinistra dietro la schiena e gli occhi fissi su un punto lontano. Qualche istante dopo i teli della tenda si aprirono e apparve Uther Pendragon, con la figura gigantesca coperta dall'armatura e il pesante elmo nel cavo del braccio sinistro. Avanzò finché lei non fu costretta a tirare indietro la testa per poterlo vedere, poi sorrise e posò l'elmo sul tavolo, prendendo posto sull'altra sedia. «Donna Dyllis, spero che i miei uomini non ti abbiano maltrattata.» Dyllis aprì la bocca per rispondere, ma era talmente sorpresa che non ne uscì alcun suono. Aveva sentito dire cose terribili di quest'uomo, eppure il suo viso era aperto e sorridente, liscio e senza cipiglio. Era un volto giovane, con un lungo naso diritto, affabile e ben rasato, tranne che per un paio di baffi che si allungavano fino al mento. Dimostrava forza e fiducia, invece che la crudeltà, l'arroganza e il disprezzo che si era aspettata di vedere. E Dyllis si rese conto di essere lì seduta a guardarlo a bocca aperta. Deglutì,
tossì leggermente per schiarirsi la gola, poi tentò nuovamente di parlare, questa volta con più successo, anche se dalle sue labbra non uscì che un suono stridulo e inarticolato. Uther sorrise di nuovo e proseguì come se avesse compreso perfettamente ciò che lei avrebbe voluto dirgli. «Ti ho mandata a chiamare perché ho qualcosa di importante da fare... una decisione da prendere, che riguarda te, le tue compagne e la regina... e mi è sembrato che tu fossi la persona ideale a cui rivolgermi.» A quel punto Dyllis ritrovò la voce, corrugando la fronte a quella supposizione. «Perché hai pensato questo, sire?» Lui inarcò le sopracciglia, ma prima che potesse interromperla, lei continuò, questa volta trovando le parole senza difficoltà. «Per ciò che riguarda la regina, è lei stessa la persona giusta cui rivolgersi. Io non ho il diritto di parlare in sua vece. Poiché tu sei un rapitore di donne, e dunque privo di onore, non hai il diritto di chiedermi nulla, ma soprattutto non hai il diritto di interrogarmi su ciò che a mio parere la regina può pensare, dire o fare.» Si interruppe, spaventata a sufficienza della propria franchezza, ma Uther annuì. «Non ho nulla da eccepire, mia signora... tranne per ciò che riguarda l'onore. Ti dirò solo questo: sta a me salvaguardare il mio onore, e fino a ora non ho fatto nulla che possa infangarlo in relazione a te, alla tua signora e al resto delle dame. Ma a parte ciò, ammetto che per quanto riguarda la regina ciò che dici è vero, e non ho motivo di aspettarmi che tu parli in sua vece su qualsiasi argomento. Ma non è questo che volevo chiederti. La mia esigenza è un'altra. La tua regina è nelle mie mani, e come ostaggio è più che preziosa: è inestimabile. E tuttavia, se faccio la cosa sbagliata, o non agisco saggiamente, rischio di perdere ogni vantaggio nei negoziati con Lot per la sua liberazione. La libererò, e senza farle alcun male - di questo ti do la mia parola, credi quello che vuoi - ma siamo in una fase cruciale, e io ho bisogno che tu mi aiuti rispondendo a questa domanda: quale, fra tutte le dame della regina, sarebbe più giusto mandare a Lot per informarlo della cattura di sua moglie?» Uther smise di parlare, scrutandola attentamente, e nell'attimo
stesso in cui la vide tirare il fiato per parlare, alzò la mano con un gesto perentorio. «Prima che tu mi risponda, voglio fornirti ulteriori elementi di valutazione: colei che invierò deve godere di una certa autorità fra tutte voi e deve ispirare rispetto ai vostri occhi, poiché solo in questo caso, ritengo, riuscirà ad avere credito presso Lot. Ma deve anche essere capace di esporre il caso con chiarezza e decisione, e deve godere della fiducia della regina stessa. Mi comprendi?» Dyllis annuì. «Sì.» «E avete una donna del genere fra di voi?» «Sì, ma solo una. La donna che desideri si chiama Deirdre. Ha tutto ciò che cerchi, e più di ogni altra ha il potere di convincere re Lot a fare ciò che è necessario per salvaguardare e riportare a casa sua moglie, la regina Ygraine.» Uther corrugò la fronte. «Mi incuriosisci. Lei, più di ogni altra, ha il potere di convincere Lot? Vuoi dire che... questa Deirdre è l'amante del re? In questo caso, sarebbe la persona peggiore da inviare, poiché trarrebbe vantaggio dal lasciare la regina a marcire qui in prigionia.» Dyllis arrossì violentemente e rispose a testa alta. «Credimi, Deirdre non è l'amante di re Lot, e non hai da temere riguardo ai suoi obiettivi. Nulla farebbe più felice donna Deirdre che sapere la regina Ygraine al sicuro a casa sua il prima possibile, sottratta alla tua custodia.» Uther la osservò per qualche lungo istante con aria pensosa, poi annuì con decisione. «E sia. Mi servirò della tua Deirdre come messaggero. Sarà il mio interlocutore nelle trattative con Lot.» «Ma... ma tu non puoi...» Dyllis sembrava scandalizzata. «Non penserai certo di mandare Deirdre da sola a presentare la tua proposta! Di sicuro le offrirai una compagnia.» «Compagnia? Avrà una scorta armata. Non le sarà fatto alcun male.» «Una scorta armata? Sarà sufficiente a proteggerla durante il viaggio, ma lei avrà bisogno di un'amica, qualcuno con cui possa
confidarsi. Le sarà più utile di una scorta di soldati ubriachi. Credi che la tua marmaglia sia una compagnia adatta per una dama di alto rango?» Uther parve riflettere per un po', poi annuì. «Benissimo, le permetteremo di portare una compagna. Vuoi andare con lei?» Dyllis lo guardò a bocca aperta, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, e annuì senza una parola. Uther sorrise e si alzò. «Ti ringrazio, donna Dyllis, mi sento più sollevato. Ora ti prego di informare le tue amiche che saranno presto trasferite, insieme alla loro regina, in un luogo sicuro, dove troveranno alloggi privati, puliti e confortevoli, lontani dalla rozza soldataglia. Saranno tutte ospitate lì finché il negoziato non sarà portato a termine e potranno tornare alle loro case. Così io potrò riprendere a guerreggiare mentre donna Deirdre tratta con Lot la vostra liberazione.» Rifletté per un attimo, poi aggiunse: «Ora le guardie ti riaccompagneranno, ma vuoi chiedere alla tua Deirdre di tornare qui con loro, e dirle, se non ti dispiace, che non le verrà fatto alcun male?». Dyllis annuì. «Ti ringrazio» ripeté Uther, e si rivolse a una delle guardie. «Riportate la signora dalle sue compagne e tornate qui con la donna di nome Deirdre.» Ygraine si recò all'incontro con Uther piena di dubbi, ancora ossessionata dall'incredibile frase da lui pronunciata a proposito di Deirdre dagli occhi viola. Facendo quel nome, l'uomo aveva distrutto quel poco di serenità che Ygraine era riuscita a conservare, poiché per quanto ne sapeva era assolutamente impossibile che lui ne fosse a conoscenza. Uther Pendragon non avrebbe mai potuto in alcun modo sapere qualcosa di Deirdre dagli occhi viola, poiché Deirdre dagli occhi viola era morta ancora bambina molti anni prima, e nel corso della sua breve vita non aveva mai lasciato la sua casa al di là del mare, in Eire, lontano da ogni possibile contatto con un rozzo selvaggio delle montagne cambriane. Dyllis l'aveva informata su ogni dettaglio della sua conversazione con il re Pendragon, ma mentre procedeva lentamente Ygraine continuava a domandarsi che cosa l'attendeva. Le guardie, con sua sorpresa, non avevano tentato di farle fretta, ma si erano limitate a
camminarle a fianco, adattando il loro passo al suo. Quando se ne rese conto, Ygraine si fermò di botto solo per vedere come avrebbero reagito, e loro la imitarono, aspettando in silenzio che lei riprendesse a camminare. In breve arrivarono alla tenda che Dyllis le aveva descritto, dove il grosso cavallo sellato continuava a pascolare accanto al biancospino. Non v'era traccia di Uther Pendragon, e quando una delle guardie la invitò a sedersi, Ygraine prese posto su una delle due sedie. Poco dopo Uther sbucò dagli alberi, cogliendola di sorpresa, poiché era convinta che lui si trovasse nella tenda. Si avvicinò a lunghi passi, levandosi l'elmo e asciugandosi il sudore dalla fronte con il braccio, e quando giunse al tavolo al quale lei era seduta chinò il capo in un saluto informale. «Sono lieto che tu abbia accettato di parlare con me» disse. «E ti ringrazio.» Lei lo fissò, rimanendo impassibile. «Mi ringrazi? Vuoi dire che avrei potuto scegliere di non venire?» «Certamente.» «E in tal caso, che cosa sarebbe successo?» «Le mie guardie ti avrebbero condotto qui comunque, ma non con la stessa cortesia.» «Capisco. Bene, ora che entrambi conosciamo i termini della mia presenza qui, che cosa vuoi da me? Non ho alcun desiderio di trattenermi più del necessario.» «Signora,» fece il gigante con un sorriso mortificato «stavo scherzando. Se tu avessi scelto di non venire, sarei stato io a venire da te.» Alzò lo sguardo verso le due guardie rimaste sull'attenti e fece un cenno col capo a una di loro. «Non ho più bisogno di voi. Mi occuperò io stesso della signora. Andate.» Attese che si allontanassero, poi si rivolse a Ygraine che lo stava osservando. «Non ti tratterrò a lungo. Immagino che Dyllis ti abbia già informato di ciò che voglio da te.» «Ti riferisci alla regina e al suo riscatto?»
«Sì.» Posato l'elmo sul tavolo, Uther avvicinò l'altra sedia e dopo essersi tolto il mantello posandolo sul braccio in modo che non gli desse fastidio, si accomodò di fronte a lei dall'altra parte del tavolo e la fissò negli occhi. «Saresti disposta a fare da collegamento fra me e Gulrhys Lot per risolvere la questione della regina e della vostra prigionia?» «A che scopo?» Uther corrugò la fronte, sorpreso di sentirsi rivolgere quella domanda. «Come sarebbe...? Allo scopo di ottenere la liberazione della vostra regina. Che altro scopo potrebbe esserci?» Ygraine piegò la testa da un lato senza tentare di mascherare un profondo scetticismo. «Be', vediamo... Tu sei un uomo, come Gulrhys Lot, dunque potrebbero esserci intenti secondari, motivi urgenti, persino egoistici, nel tuo interesse per la sorte della regina. Non ho intenzione di offenderti, ma comprendi certamente che qualcuno potrebbe attribuire la tua preoccupazione per lei a ragioni legate più al tuo bene che al suo. Dal possesso della sua persona potresti, per esempio, sperare di ottenere qualche vantaggio militare o addirittura economico su re Lot.» Lui la fissò impassibile, ma a lei parve di scorgere un'ombra di malizia nei suoi occhi. «No, mai! Come puoi anche solo pensare una cosa del genere? Che io, o chiunque altro, possa tentare di ottenere vantaggi personali da una simile circostanza?» «Ridi di me se vuoi, sire, e continua a sperare. Le tue aspettative saranno presto deluse.» Lui la scrutò a lungo, poi domandò: «Perché?». Ygraine rispose tranquillamente: «Perché rimarrai deluso contando sul senso dell'onore di Gulrhys Lot e sulla sua considerazione per la regina sua moglie». Uther fece un sorrisetto gelido. «Signora, non sarei mai così pazzo da pensare che Lot possa sapere che cos'è l'onore, quindi come potrei fondare le mie speranze su questo? Ma tu dicevi che non ha considerazione per la sua regina?» «No. Ti sto dicendo che Gulrhys Lot non è così debole da
permettere che il suo attaccamento per una donna qualsiasi, anche sua moglie o sua madre, interferisca con quello che considera il suo destino. Puoi mandare chi vuoi a parlare con lui e a definire le condizioni per la liberazione della regina, ma alla fine lui ti ingannerà e si servirà del tuo stupido onore per distruggerti quando meno te lo aspetti.» «Anche se ciò gli costasse la vita della sua regina? Ne dubito, signora. Nemmeno Gulrhys Lot può essere così indifferente alla sorte di sua moglie.» Ygraine sorrise, ma senza allegria. «Dubita finché vuoi, la cosa non mi interessa.» «Quindi non andrai da Lot a trattare con lui per conto della regina?» Lei non rispose, ma spostò lo sguardo sul cavallo che nel frattempo aveva smesso di brucare e aveva rialzato la testa, incuriosito dai rumori che sentiva intorno. «Signora? Ti prego di darmi una risposta. Stai dicendo che non andrai da Gulrhys Lot a portargli il mio messaggio? Ti assicuro che non andrai sola. Dyllis ti accompagnerà.» «Me l'ha detto. E ci andrò, se insisti per mandarmi, ma ti dico fin da ora che se lo farò, Lot non mi permetterà di tornare. Non avrebbe alcun motivo per farlo.» «Ma sì, invece. Avrebbe indietro la sua regina.» «Già, ma a quale prezzo? E poi, Ygraine non è una regina. Budicca degli Iceni era una regina: regnava davvero sui suoi sudditi, ma gli uomini la uccisero più di quattrocento anni fa. Ygraine è la moglie di un re, niente di più: neppure una compagna, e meno di una concubina. È una moglie provvista di dote, assegnata a Lot da suo padre per sigillare un accordo fra due uomini. Il suo valore può essere calcolato con precisione in termini di armi, guerrieri, barre d'oro e d'argento, e Lot è già entrato in possesso di queste cose. Se eliminiamo tutto ciò, Ygraine, la cosiddetta regina, è una donna come un'altra, e nessun re manca mai di donne... non lo sapevi? A Lot basterebbe trattenere me e Dyllis per annullare tutto il vantaggio che credi di avere accumulato fino ad adesso. Lo avresti privato di
una donna che era semplicemente una moglie, ma nel farlo gli avresti offerto due rimpiazzi, due potenziali concubine di cui approfittare senza impegno.» Ora Uther fissava Ygraine con occhi sbarrati. «Per gli dèi, signora» mormorò. «Non provi un grande amore per il tuo re, a quanto pare.» «Amore? Non ho parlato di amore. Ma non ho grande considerazione per i re. A dire il vero, non amo molto gli uomini in generale, e ho imparato che quando gli uomini s'immischiano con le questioni di governo, le donne ci rimettono sempre. Gulrhys Lot è un uomo, come te, e tutti e due siete orgogliosi di essere re. Insieme possedete tutta la ricchezza e tutte le armi di cui avete bisogno per farvi la guerra, e ciò rende noi donne insignificanti.» «Uhm...» Uther continuò a guardarla, pizzicandosi il labbro inferiore con il pollice e l'indice. Alla fine sospirò e si alzò. «Cosa rende insignificante una persona, o un evento? Non mi aspetto che tu risponda a questa domanda, donna Deirdre, ma mi viene in mente che c'è una cosa che devo dirti ora, in modo che tu trasmetta l'informazione alla tua regina prima che senta dire qualcosa di diverso da altri.» Fece una pausa e si grattò il mento. «Di recente si è verificato un evento che potrebbe apparire più importante di quel che è in realtà, se venisse riferito in modo scorretto. Cinque giorni fa, centoventi uomini catturati nell'incursione in cui anche voi siete state fatte prigioniere, e che portavano le insegne di Herliss, sono partiti scortati da un gruppo di miei soldati. Oggi i miei uomini sono tornati, ma senza prigionieri. Che cosa ne pensi?» Lei lo guardò, sconvolta. «Li hai uccisi? No, non puoi averlo fatto» esclamò in tono dubbioso, e dalla sua espressione Uther comprese che lo credeva capace di una simile impresa. «Li hai massacrati tutti? Centoventi uomini?» «Ecco,» disse lui, sospirando «sapevo che l'avresti pensato... è la prima cosa che ti è venuta in mente. No, mia signora, non li ho uccisi, e non ho nemmeno ordinato ai miei uomini di farlo al posto mio. Ho restituito loro le armi insieme a un po' di viveri e li ho lasciati liberi nella brughiera, in un luogo isolato.»
«Ah! E ti aspetti che io ci creda? Lasciarli liberi di tornare a casa e riprendere le armi contro di te? Sarei una stupida a pensarlo!» Lui scrollò le spalle e vide negli occhi di Ygraine un disperato bisogno di credergli. «Forse lo sei, allora. È da stupidi pensare che uno di quegli uomini osi tornare da Lot e contare sul suo perdono dopo aver perso i suoi carri e le sue macchine da guerra, insieme a sua moglie con tutte le dame... ma prima di tutto le sue macchine da guerra. Io stesso non so se sarei così coraggioso, o così incosciente... Li ho liberati, signora, cosa che Lot non avrebbe mai fatto, e sono convinto che loro lo sappiano. Nessuno di quegli uomini combatterà più contro di me, e questa è la pura verità.» Guardandolo, Ygraine capì che aveva ragione, e qualcosa dentro di lei si spezzò, liberandola da una pena acuta e straziante. Con un tocco leggero su una spalla, Uther la volse dolcemente verso la direzione da cui era venuta. «Vieni, ti riaccompagno.» Lasciò l'elmo sul tavolo e si avviò lentamente, assorto nei suoi pensieri, e lei lo seguì allungando il passo finché non l'ebbe raggiunto. Lungo la strada lui riprese a parlare, in tono disinvolto. «Domani la regina e le sue dame partiranno da qui dirette verso nord, a Camelot. Abbiamo predisposto un carro per loro, dunque non dovranno camminare. Laggiù saranno alloggiate in modo confortevole e godranno di una sicurezza ben maggiore di quella che posso offrire loro nel mezzo di una campagna militare, finché Lot non sarà venuto a patti con me. Se dovesse rivelarsi l'uomo che tu mi hai descritto, allora... non so cosa farò. C'è un limite che non voglio varcare, a meno che non ci sia costretto. Ma ormai ho deciso, quindi ti prego di informare le altre donne delle mie intenzioni in modo che si preparino. In seguito, anche tu e Dyllis partirete per raggiungere Lot e lo informerete sulle mie condizioni per il rilascio della regina. Quando avremo raggiunto un accordo, la sovrana e tutte le sue dame saranno libere di tornare a casa. Ah, eccole. Devono essere in ansia per te. Io mi fermo qui.» Invece di affrettarsi verso le donne che la attendevano, Ygraine si voltò di colpo e fece un gesto per impedirgli di allontanarsi. Uther si
trattenne scrutandola con aria interrogativa, mentre lei si guardava attorno cercando le parole con cui formulare la sua domanda. «Le mie da... le donne, le mie amiche, e la regina... se re Gulrhys Lot dovesse rifiutarsi di discutere... come le hai chiamate...? le condizioni per il loro rilascio... Se ciò accadesse, tu... tu le uccideresti?» Uther Pendragon la guardò con aria grave, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Barbaro» disse. «E così che mi definiresti, nel migliore dei casi? No, signora, non ucciderei le tue amiche, non le darei in pasto ai miei cani né consentirei ai miei uomini di spassarsela con loro. Non le terrei nemmeno prigioniere, aggiungendo un ulteriore insulto al disprezzo del re nei loro confronti. Se tu dovessi dire questo a Gulrhys Lot, lui si rifiuterebbe certamente di trattare con me per la loro liberazione, ma in questo modo tradiresti la tua regina e le tue amiche, quindi pensaci. E ora addio, mia signora, ti manderò a chiamare più avanti.» Si inchinò e sotto lo sguardo della donna tornò verso il suo cavallo. Ygraine non dormì bene quella notte, poiché l'annuncio dell'imminente partenza per Camelot aveva sollevato fra le sue dame un'ondata di ansiose congetture che nemmeno la sua autorità era riuscita a placare, e che si era spenta solo quando la cena era già stata servita da un pezzo. Che reazione avrebbe avuto Uther scoprendo di essere stato ingannato? Ygraine riferì della sua promessa, ma se era davvero il mostro che veniva descritto, la sua ira sarebbe stata tremenda e spietata. Chi di loro si sarebbe salvata dalla sua furia? Furono rievocate le dicerie sulla brutalità dei predoni di Camelot che avevano invaso per la prima volta la Cornovaglia anni prima, le atrocità che si diceva avessero commesso contro pacifici agricoltori e cittadini, e si dormì poco nella tenda di comando, quella notte. Ma anche Uther restò sveglio per ore a tormentarsi. Era stato importante per lui, quel giorno, rassicurare Ygraine sulle sue intenzioni e cancellare l'immagine di temibile selvaggio che Gulrhys Lot gli aveva affibbiato. Molto più importante di quanto lui non si fosse reso conto al momento. Uther continuò ad agitarsi e a rivoltarsi nel letto, dilaniato come sempre dalla contraddizione tra
ciò che era e ciò che avrebbe dovuto essere, cercando di dissipare le ombre che lo opprimevano e di sconfiggere il mostro che si agitava dentro di lui. Aveva visto la paura negli occhi della donna, e ciò gli ricordava, suo malgrado, i timori di sua madre che non voleva partorire un altro figlio segnato dagli odi del clan dei Pendragon. Così rimase sveglio finché la luce del mattino non filtrò all'interno della tenda, scacciando le tenebre.
IX. Al mattino c'erano guardie dappertutto che sotto lo sguardo severo dell'arcigno soldato di nome Nemo sorvegliavano le dame, intente a riunire le loro cose e a prepararsi alla partenza per il nord. Ygraine le osservava stupefatta, incapace di credere che in pochi giorni di isolamento, in uno spazio limitato, un numero così ristretto di donne fosse riuscito a lasciare in giro tanti abiti e oggetti personali. Ma in poco più di un'ora tutto era stato assemblato e impacchettato, e un flusso di soldati aveva trasportato i bauli dall'enorme tenda di comando all'altrettanto gigantesco carro messo a disposizione delle donne per il viaggio. Sei cavalli appaiati, i più grossi che Ygraine avesse mai visto fino ad allora, furono legati alle stanghe del colossale carro, dotato di strati di molle di ferro attaccati agli assi e di quattro grandi ruote con robusti cerchioni di ferro spessi più di un palmo. Era un veicolo così massiccio e con il pianale così alto che le donne dovettero usare una scaletta per salirci sopra. Ygraine e Dyllis abbracciarono una dopo l'altra tutte le dame che si arrampicavano sull'alto carro, e la regina fu una delle poche a restare con gli occhi asciutti, anche se attribuì gran parte delle copiose lacrime delle sue compagne a una comprensibile paura, piuttosto che al dolore di lasciarsi alle spalle lei e Dyllis. Quando il conducente prese le redini nella sua mano enorme e fece schioccare la frusta sulla testa dei cavalli, i muscoli dei giganteschi animali si tesero, azionando le stanghe e mettendo in movimento il veicolo. Ygraine indietreggiò con la mano alzata in un gesto di saluto e rimase immobile a guardare, con Dyllis al suo fianco, finché il carro non svoltò scomparendo dietro un gruppo di alberi. Presso la tenda del re, le guardie dovevano essere impegnate a caricare Morgas e le altre donne, con tutte le loro cose, nel calesse. Ygraine avrebbe voluto parlare con lei prima della separazione, ma da quando aveva saputo che stavano per partire non aveva avuto neppure la possibilità di avvicinarla. Aveva tuttavia inviato una delle
altre dame, Fyrgas, a darle consigli e istruzioni su come comportarsi nel suo ruolo di regina. Scuotendo il capo al pensiero che la testarda Morgas era ormai fuori dal suo controllo, Ygraine prese sottobraccio Dyllis e si avviò verso la tenda di comando, ormai vuota. Nemo, il capitano della guardia, le stava aspettando insieme a due soldati che tenevano fra le braccia le poche cose che lei e Dyllis avevano conservato. Appena le vide, Nemo ordinò seccamente ai suoi uomini di muoversi, facendo chiaramente capire alle due donne che dovevano seguirli. Ygraine obbedì, senza affrettare il passo, ma quando vide dove la stavano portando si bloccò di colpo. Nemo si voltò e tornò verso di lei, prendendola per un braccio e trascinandola senza molti riguardi fino alla tenda del re. Le due guardie all'entrata, due uomini alti con la stessa uniforme e l'elmo in testa, non la degnarono di un'occhiata quando con un gesto brusco Nemo la fece passare in mezzo a loro. «Aspetta qui.» Il decurione la spinse verso una sedia e lei si accomodò, obbediente, intuendo che lui avrebbe finito per legarla se avesse fatto resistenza. Nemo la fissò per un attimo con i suoi occhi vacui, e mentre lei soffocava un brivido chiamò a sé i due uomini che portavano i bagagli delle dame. Questi entrarono direttamente in una delle due stanze da letto, posarono i loro fardelli e uscirono salutando Nemo, che li congedò con un gesto e tornò a squadrare Ygraine da capo a piedi senza tradire interesse o curiosità. «Aspetta qui e non muoverti» ripeté, prima di allontanarsi dalla tenda. Ygraine chiese a Dyllis di lasciarla sola, e quando la sua compagna si fu spostata nella sua camera da letto rimase seduta in silenzio per un po', prendendo coscienza della sua nuova situazione ed esaminando la tenda e la sua parca attrezzatura. Era esattamente come l'aveva vista nelle sue visite precedenti a Morgas: spoglia, funzionale, e senza traccia di presenza umana. I pali del sostegno che reggeva l'armatura erano spogli; i bauli erano chiusi. Si accostò al lavamani e sollevò la brocca, ma la superficie sul fondo era asciutta. «È vuota.»
Sentendo quella voce appena dietro di lei, per poco Ygraine non lasciò cadere la brocca per lo spavento e la sorpresa. Si voltò di scatto, in preda all'ira, e scoprì che Uther Pendragon non si era avvicinato furtivamente alle sue spalle come lei aveva creduto, ma si stagliava sulla soglia con il peso mollemente appoggiato su una gamba e la mano aggrappata a un lembo della tenda. Il sole lo illuminava da dietro trasformandolo in una sagoma inquietante. «Vuoi che ti faccia portare dell'acqua, mia signora?» domandò, e Ygraine si accorse che sul suo volto c'era l'ombra di un sorriso. «No» rispose lei scuotendo la testa, e tornando rapidamente alla sua sedia. «Intendi tenermi prigioniera qui come...?» «Come la regina Ygraine?» Uther alzò le spalle ed entrò nella tenda. «Non ho altra scelta. Non potete certo rimanere tutte sole nella tenda grande, giusto?» Si guardò intorno. «Ma sei sola, vedo. Dov'è l'altra dama, Dyllis?» «Dietro il divisorio.» Uther annuì. «Bene. Dunque rimarrete qui. Starete bene, e non durerà molto.» «Sarà sempre troppo, temo. Questa è la tua tenda. Dove dormirai?» Lui inarcò un sopracciglio. «Come hai appena detto, questa è la mia tenda. Ho pensato di sistemare la mia branda qui, nella parte anteriore. Preferiresti forse che dormissi fuori, per terra?» «In mancanza di alternative, sì. Ma pensavo che potessi dormire nella tenda in cui ti trovavi ieri.» «Quella è la tenda del mio comandante in seconda, Huw Fortebraccio. Lui dorme lì.» Ygraine scosse la testa. «Dovrebbe esserci spazio a sufficienza per tutti e due. Inoltre, penso che sarebbe più al sicuro lui nel dividere la tenda con te, piuttosto che una donna... o due donne.» «Hai una lingua tagliente, mia signora...» replicò lui chinando la testa con un sorrisetto di compatimento «ma scarsa considerazione per i comandanti in seconda. Non esproprierò lo spazio del giovane Huw per soddisfare il tuo capriccio, nemmeno se lui fosse disposto
ad accettarlo. Non è nel mio stile. Ma farò come chiedi e dormirò fuori, non per terra ma sulla mia branda. Così potrai riposare tranquillamente.» «La mia regina ha riposato tranquillamente qui?» Uther fece una smorfia e allargò le braccia. «Non ha sofferto, che io sappia. Si è forse lamentata con te?» Ygraine non rispose, e Uther si guardò intorno e alzò leggermente la voce. «Donna Dyllis?» La testa di Dyllis sbucò da dietro il divisorio. «Sì?» «Abbi cura della tua signora» le disse Uther, voltandosi poi con un sorriso verso Ygraine. «Sarò assente un giorno o due, per studiare il territorio e assicurarmi che non ci siano pericoli imprevisti in giro, ma tornerò. Nel frattempo, Nemo si occuperà di voi e vi fornirà tutto ciò di cui avrete bisogno.» Con un rapido saluto uscì dalla tenda, mentre Ygraine si voltava a guardare Dyllis con la bocca spalancata. «"Abbi cura della tua signora", è questo che ha detto?» Dyllis annuì, e Ygraine scosse la testa, turbata. «Dobbiamo aver capito male.» Uther mantenne la parola e tornò due giorni dopo, trovando Ygraine e Dyllis sedute fuori al sole primaverile, intente a rammendare gli abiti più malconci sotto stretta sorveglianza. Senza badare a ciò che stavano facendo, pretese che lo seguissero immediatamente nella tenda, e quando si accorse che non c'era posto per sedersi, tornò fuori a prendere le sedie per loro e si accomodò su due bauli messi uno sopra l'altro. «Vi hanno trattato bene durante la mia assenza?» Le donne ammisero e lui annuì, come se non si aspettasse niente di meno. «Bene, è tempo che vi dia qualche dettaglio in più sulla vostra situazione. Dovete sapere che dopo avervi catturato, ho subito inviato degli emissari a Gulrhys Lot con il compito di discutere i termini del vostro rilascio.» «E...?»
Lui alzò le spalle. «E in quel momento pensavo che se tutto fosse andato bene, avrei saputo qualcosa da loro entro due settimane... oggi o domani al più tardi.» «E...?» Questa volta lui non rispose ma si limitò ad alzare un sopracciglio, e Ygraine proseguì. «E se non fosse andato tutto bene? Se Lot avesse ucciso i tuoi inviati o li avesse tenuti prigionieri? È capace di farlo. Ha i suoi mercenari, e non teme le conseguenze.» «Non dubito che ne sia capace. Ma credi che in questo caso avrebbe fatto una cosa del genere, sapendo che la regina e le sue dame avrebbero pagato lo scotto di un simile comportamento? È forse così meschino?» Ygraine rimase impassibile e rispose con calma: «È un uomo e un re. Tu sei un uomo e un re. Quindi rivolgi questa domanda a te stesso, non a me. Tu l'avresti fatto?». Il volto di Uther si rabbuiò così bruscamente che Ygraine si sentì gelare. «No, signora, non l'avrei fatto» sibilò, con un ringhio rabbioso. Si alzò di scatto e senza guardare le due donne andò ad affacciarsi sulla soglia, aggrappandosi nervosamente ai lembi della tenda e guardando fuori nel caldo sole pomeridiano. La regina e la sua compagna si guardarono in faccia, perplesse e meravigliate, senza aprire bocca. Alla fine Uther sospirò e si voltò verso di loro, con gli occhi puntati su Ygraine. «Non prenderei mai in considerazione una cosa del genere, signora. Ma Gulrhys Lot l'ha fatto. Ha ucciso i miei messaggeri, malgrado fossero tutelati dal suo giuramento di protezione. E per questo, te lo assicuro, gli strapperò le budella e le farò essiccare in modo da farne corde per gli archi lunghi dei miei uomini. Puoi essere orgogliosa di tuo marito, signora.» «Cosa?» Ygraine impallidì. «Cos'hai detto?» «Ho detto "tuo marito", Gulrhys Lot, l'uomo del quale sei condannata a essere moglie...» Si interruppe di colpo vedendola balzare in piedi, bianca come un cencio, e credendo che fosse la paura a farle sbarrare gli occhi si rabbuiò ancora di più.
«Ebbene?» ringhiò esasperato. «Stai per metterti a urlare? Credi che me la prenderò con te perché sei la moglie di Lot? Hai riso quando Huw Fortebraccio ti ha detto che non faccio guerra alle donne, ma era la verità. Ci pensa Gulrhys Lot a farla, per tutti e due. Fa parte della sua natura, che lo distingue dai normali esseri umani. Non ti considero responsabile delle azioni di quell'uomo, e nemmeno di averlo sposato. Conosco la tua storia, tu non ne hai colpa.» Ygraine si torse le mani fino a piantarsi le unghie nel palmo, imponendosi di restare calma e di pensare con lucidità. Lui conosceva la sua identità, su questo non c'era più niente da fare... ma non aveva importanza. La cosa importante era che... Deglutì, cercando di non farsi prendere dal panico. La cosa importante era che Lot aveva ucciso i messaggeri di Uther, li aveva massacrati pur avendo giurato di proteggerli. «Quando hai scoperto questo... tradimento?» «Parecchi giorni fa, signora.» «E perché non hai detto nulla finora? Perché questa messinscena di inviarmi a Lot come tua messaggera? Tu sapevi, allora, che sarebbe stato del tutto inutile.» «Sì, signora. Lo sapevo.» «E sapevi già chi ero?» «Sapevo anche questo.» «E quando l'hai scoperto?» «La prima volta che ti ho vista sul ciglio della strada, dopo l'imboscata nella quale Huw Fortebraccio ha catturato voi e il vostro convoglio.» «E Morgas, che si era presentata come la regina? Perché hai accettato quella finzione?» «Perché mi faceva comodo. Non mi dispiaceva farti credere che il tuo segreto fosse al sicuro.» «Ma sei andato a letto con lei!» Lui alzò le spalle. «Sono andato a letto con una donna, non con una regina. Non è stata una sofferenza, né per lei né per me. Ne
abbiamo goduto entrambi, credo.» «Ma... ma allora, perché l'hai mandata via e hai tenuto me qui?» «Perché dovevo separarti dal resto delle donne. Una volta saputo che Lot aveva respinto l'opportunità di riprenderti, rappresentavano un intralcio, mentre tu assumevi una nuova importanza.» «Anche se sapevi che non avrebbe trattato per riavermi?» «Soprattutto per questo.» Ygraine scosse la testa. «Hai detto di avermi riconosciuto alla prima occhiata, ma questo è semplicemente impossibile. Significa che dovevi avermi già visto da qualche parte, e io non sono mai uscita dalla Cornovaglia da quando ho messo piede in Britannia.» Lui scosse la testa. «Non ho detto che ti avevo già visto. Semplicemente ho capito chi eri. Per questo ho menzionato Deirdre dagli occhi viola.» Nel sentirlo pronunciare per la seconda volta quel nome, Ygraine rimase così sconvolta che non ebbe nemmeno la forza di protestare. «Spiegati» sussurrò. Lui spostò per un attimo lo sguardo su Dyllis, poi lo riportò su Ygraine. «Deirdre era tua sorella, colpita da una strana malattia durante l'infanzia e morta molti anni fa, giusto?» Lei annuì, troppo stupita per parlare. «Ebbene, lei non morì quando voi credete. Visse per vari anni, sordomuta, e alla fine giunse in Britannia, dove conobbe e sposò il mio amato cugino, Merlino Britannico di Camelot. Lui e io la trovammo un giorno sola e abbandonata nella foresta durante un pattugliamento - o meglio, fui io a trovarla, anzi, Nemo, per essere precisi - e la portammo con noi a Camelot. Aveva il tuo stesso volto, impossibile confondersi.» «Aveva il mio volto...» «Già. Fu uccisa, assassinata, quasi un anno fa, e il colpevole non è mai stato scoperto. Morì portando in grembo il figlio di mio cugino Merlino.»
«Ma...» Ygraine cercò di trovare le parole, ma si sentiva girare la testa ed era troppo sconvolta per far fronte a tutte quelle notizie inaspettate. Imponendosi di fare ordine nella sua mente, si aggrappò all'unica inesattezza che aveva individuato nelle parole di Uther. «Ma aspetta... lei era sordomuta sin dall'infanzia. Il suo era un mondo di silenzio. Come può avervi svelato chi era?» «Non ce l'ha detto lei. È stato tuo fratello Donuil a rivelarlo a Merlino, quando ha ritrovato sua sorella a Camelot... Signora!» Nell'udire il nome di suo fratello sulle labbra di quell'uomo, gli strani ronzii nella testa che Ygraine da tempo aveva iniziato a percepire si trasformarono in un rombo assordante; di colpo vide la tenda girare intorno a lei e si sentì fluttuare nell'aria come fosse senza peso e senza sostanza. Qualche istante dopo, quando riprese conoscenza, Ygraine trovò il volto di Uther Pendragon vicinissimo al suo, con una espressione profondamente preoccupata, e dietro di lui Dyllis che la fissava con occhi sbarrati. Tentò disperatamente di mettersi a sedere, e solo allora si accorse che l'uomo sosteneva il suo peso cingendola alla vita, come se l'avesse presa in braccio. Capì che era svenuta e che lui doveva averla sorretta mentre cadeva, trasportandola poi verso il letto dove ora la aiutò ad adagiarsi. Con il cuore che le batteva come impazzito, Ygraine si mise seduta sulla branda e spostò le gambe in modo da poggiare i piedi per terra, rifiutando l'aiuto di Uther con la scusa che stava perfettamente bene e che era in grado di fare da sola. Lui si rialzò immediatamente e fece un passo indietro, mentre la donna cercava di ricomporsi imponendosi di non guardarlo. Alla fine, quando si sentì di nuovo padrona di se stessa, Ygraine fece un breve cenno con la testa per ringraziarlo tacitamente. «Signora, ho detto troppo, e troppo in fretta. Hai molte cose su cui riflettere in questo momento. Ti lascio alle domande che di sicuro si agitano nella tua mente, e tornerò più tardi. Allora forse sarò in
grado di rispondere ad alcune di esse. Quando sarò di nuovo qui, non parleremo più di Gulrhys Lot. Ha commesso il suo crimine e dimostrato la sua infamia, e nessuno di noi due può incolpare l'altro della sua depravazione. Che il suo nome resti maledetto e sottaciuto fra di noi, d'ora in avanti.» Si batté il pugno sul petto in segno di saluto e dopo un rigido inchino fece per andarsene. Proprio mentre stava per uscire, tuttavia, esitò e si voltò verso di lei aggiungendo: «Perdonami, signora, se la mia brutalità ti ha sconvolto. Non intendevo dire tutto ciò che ho detto, e non ho considerato quanto ti avrebbero turbato tante notizie così improvvise e inaspettate. A dire il vero, non ci ho pensato affatto... Anch'io, dunque, ho bisogno di rimanere solo per riflettere sulle molte stranezze di questa vicenda». Le due donne lo osservarono mentre abbandonava la tenda, poi Dyllis si voltò verso la regina con gli occhi pieni di stupore e aprì la bocca per parlare, ma Ygraine la prevenne. «Lasciami sola, Dyllis, ti prego. Trovati qualcosa da fare. Come ha detto il nostro carceriere, ho molte domande che esigono una risposta, e non so nemmeno come formularle. Devo riflettere, e l'ultima cosa di cui ho bisogno è che tu mi gironzoli intorno, fissandomi con gli occhi sgranati.» Appena la sua compagna si fu allontanata, Ygraine si allentò il busto, allargò la veste intorno a sé per maggior comodità e si distese sul letto chiudendo gli occhi. Nella sua mente si agitavano i ricordi a lungo sopiti della sua infanzia in Eire, e lo sciame di fratelli, cugini e parenti fra i quali era vissuta. Alcuni erano scomparsi dalla sua memoria da anni. Persino Deirdre, la sua sorellina, alla quale aveva rubato il nome nel vano tentativo di ingannare il cambriano, era rimasta sepolta finora in qualche angolo della sua mente; aveva scelto quel nome solo perché lo riteneva sicuro e credeva fosse impossibile collegarlo a lei. Ora, tuttavia, rievocò il terrore che si era impadronito di lei e di tutti i suoi familiari quando la bimba era scampata, dopo molte sofferenze, alla terribile malattia che l'aveva colpita, una malattia diversa da tutte quelle conosciute dai druidi più anziani e sapienti che vivevano nelle terre di suo padre.
Deirdre si era aggrappata testardamente alla vita e alla fine si era salvata, ma a un prezzo terribile. I magnifici occhi viola cui doveva il suo nome erano rimasti perennemente offuscati, le febbri terribili che avevano consumato il suo gracile corpo li avevano misteriosamente privati del loro colore tingendoli di un grigio pallido, e anche i suoi folti capelli castani avevano perso la loro lucentezza. In quella malattia Deirdre aveva perso anche la voce e l'udito, e nel ricordarlo Ygraine pensò con un brivido che non c'era da stupirsi che il popolo del regno di suo padre avesse guardato la bimba con sospetto da allora in poi, bisbigliando di atti di stregoneria e di interventi delle divinità oscure della notte e della morte. Vari anni dopo quella malattia, la piccola Deirdre si era ammalata nuovamente e questa volta si era allontanata di notte con la febbre alta dall'accampamento di suo padre senza che nessuno la vedesse; da allora in poi era scomparsa. Tutti l'avevano data per morta, poiché era inconcepibile che la bambina, che aveva appena dodici anni all'epoca, potesse sopravvivere una seconda volta, priva di voce e di udito e incapace di difendersi nella selvaggia foresta che circondava la loro casa. Ora questo cambriano, questo barbaro straniero, le annunciava che Deirdre non solo era sopravvissuta, ma aveva sposato suo cugino, Merlino Britannico di Camelot. Era inconcepibile! Per anni, ancor prima di venire in Britannia per diventare la sposa di Gulrhys Lot, Ygraine era stata assillata dai racconti sulla barbarie di Uther Pendragon, sulla sua improvvisa e violenta ferocia, sulla sua brama di sangue e di conquista. E insieme a quelle storie, aveva sentito parlare a lungo del vile comportamento di suo cugino, Merlino di Camelot, un esemplare della stessa razza, cresciuto nella medesima depravazione ma meno coraggioso, anche se altrettanto malvagio, del suo parente. Ora le si chiedeva di credere che sua sorella avesse sposato quello stesso Merlino Britannico, e che suo fratello Donuil vivesse anch'egli a Camelot in amicizia con queste persone? Era ridicolo solo a pensarci. Ygraine scavò ferocemente in se stessa per ritrovare e rinfocolare l'odio che aveva sempre covato nei confronti di Uther Pendragon.
Ricordava quando Gulrhys Lot aveva esposto a suo padre tutti i motivi per cui i due re e i loro popoli dovevano formare una forte e durevole alleanza. Uniti, sarebbero riusciti a respingere l'avanzata e a frustrare le ambizioni di questa arrogante e ibrida tribù legata al nome di Camelot, che era nata di recente dall'alleanza fra i clan Pendragon della Cambria e la feccia costituita dai disertori e dai peggiori resti dell'esercito romano partito dalla Britannia. Uther Pendragon e Merlino di Camelot erano sempre stati tra i principali avversari di Ygraine, nemici giurati del popolo di Cornovaglia. Perché dunque, si chiese ora, non riusciva a risvegliare il rancore e l'odio che era certa di serbare nel cuore? Si accorse che era scossa da brividi come se avesse la febbre, e di colpo capì che stava tremando di rabbia. E che la sua collera non era diretta contro i suoi rapitori. Si tirò su, fissando la parete con sguardo assente, poi chiamò Dyllis a gran voce. I teli all'entrata si spalancarono e due guardie fecero irruzione nella tenda con le spade sguainate e pronte a colpire, ma vedendola sola sul letto si arrestarono. «Signora?» brontolò una di esse, mentre l'altra, Nemo, si guardava attorno. Ygraine scosse il capo, tentando di ritrovare la voce. «Un sogno» balbettò. «Mi ha spaventato. Stavo dormendo. Solo un sogno, nient'altro. Vi ringrazio.» Le guardie indietreggiarono lentamente e uscirono rinfoderando le spade e dando un'occhiata in giro, non completamente convinte che fosse tutto a posto. Dyllis era in piedi davanti all'apertura nel divisorio, e fissava Ygraine con aria preoccupata. «Va tutto bene, Dyllis. Vieni qui e siediti vicino a me. Ho bisogno di parlarti.» Ygraine si mise a sedere sulla branda posando i piedi per terra, mise le mani sotto le cosce e si protese verso Dyllis per guardarla negli occhi. «Tu sei della Cornovaglia, Dyllis» esordì. «Dunque parlami di Gulrhys Lot, mio marito. Ma parlamene come se io fossi un'amica, non sua moglie o la sua regina.» «Mia signora?» La fanciulla piegò leggermente la testa, confusa.
Ygraine ricominciò. «Dyllis, ascoltami bene, mia cara... Siamo insieme da quanto, tre anni? In tutto questo tempo, non ho mai sentito te o una qualsiasi delle mie dame dire qualcosa del mio signore e marito che si potesse ritenere offensiva, sleale o maligna. E nemmeno sincera, se è per questo. Giusto?» Scosse la testa e chiuse gli occhi per non vedere lo sguardo angosciato di Dyllis. «Eppure io so che Morgas è stata l'amante di Lot prima che io lo sposassi, e lo è ancora, di tanto in tanto. So anche che mio marito ha posseduto tutte le mie dame, te compresa, da quando mi ha sposato. Di fatto, fra noi tredici, io sono colei che più raramente è oggetto del suo desiderio.» Udì un piagnucolio e aprì subito gli occhi, scorgendo sul volto della compagna un'espressione smarrita, un misto di dolore, paura e mortificazione. «No, Dyllis, no, non sono arrabbiata. Per gli dèi, giuro che ne sono felice, perché...» si interruppe e trasse un profondo respiro, conscia dell'enormità di ciò che stava per dire e pregustando il piacere che avrebbe provato nel dirlo. «Perché, Dyllis,» continuò «io, Ygraine Mac Athol dell'Eire, disprezzo, detesto e odio il mio cosiddetto signore e padrone, Gulrhys Lot di Cornovaglia. È un rospo schifoso e malvagio, malgrado i suoi sorrisi falsi e melliflui e le sue maniere accattivanti. È un uomo crudele, infame e arrogante, una vergogna per il genere umano. E mi ci sono voluti tre anni per accorgermene. Da quando sono giunta in Cornovaglia, il mio ignobile consorte è stato con me cinque volte. La prima io ero felice, eccitata e spaventata, e piena di curiosità... e lui mi ha brutalizzata. La seconda, più di un mese dopo, non ero più vergine ma avevo ancora più paura, e lui mi ha legata e picchiata, violentandomi e lasciandomi terrorizzata e dolorante... Le ultime tre volte sono rimasta distesa sotto di lui come un pezzo di legno, rabbrividendo di disgusto e di vergogna per ciò che ero costretta a fare essendo sua moglie. Due volte, Dyllis, gli sono bastate per trasformare sua moglie da una trepidante fanciulla in una donna sottomessa e piena di disprezzo, un oggetto su cui sfogarsi a proprio piacimento. Ho ringraziato in silenzio gli dèi sin da allora - gli dèi della Cambria, dell'Eire e di qualunque altro luogo - del fatto che ci fossero molte donne disposte a soddisfare gli appetiti del re in ogni momento. E li
ho ringraziati ancor di più quando lui ha scelto di farmi vivere in esilio con il nostro amico Herliss, nella bianca fortezza di Tir Gwyn. Laggiù, lontana dalla sua lussuria e dalla sua brutalità, ho trovato un po' di felicità.» Ygraine rimase seduta in silenzio per qualche istante, poi tese d'impulso le mani verso Dyllis. La giovane le prese nelle sue e si strinse alla sua padrona rimanendo tuttavia ostinatamente muta. «Ciononostante» proseguì la regina «mi sono affannata... ho fatto di tutto... per conservare un'apparenza di fedeltà e di rispetto verso quel... mostro che era mio marito. Perché? Sai dirmelo, Dyllis? Sai dirmi perché mi sono data tanta pena per un uomo che ha corrotto tutte le mie dame e ha infranto ogni vincolo di lealtà che potevano avere nei miei confronti seminando il terrore fra loro e le loro famiglie? Sai dirmi perché sono rimasta in silenzio tanto tempo pur sapendo dentro di me che vessava, traviava e terrorizzava con il suo abietto e disumano comportamento le mie amiche e i loro familiari? Dyllis, da anni ormai sono sposata a una creatura al cui confronto anche un serpente apparirebbe nobile e retto. Sai dirmi come e perché ho permesso che ciò accadesse?» Strinse le mani dell'amica fra le proprie. «Non temere, mia cara, non mi aspetto una risposta. Sto solo parlando a me stessa ad alta voce, finalmente, con gli occhi aperti e senza paura. Ma ora ascolta attentamente. Vorrei che tu enumerassi per me, se non ti dispiace, tutti gli esempi della famigerata ferocia e brutale depravazione di Uther Pendragon cui hai assistito o di cui hai sentito parlare. Dimmi come e quando ha infierito su di noi o sui nostri compagni della Cornovaglia, da quando siamo caduti nelle sue mani.» Fece un gesto con le mani per invitarla a parlare, poi attese in silenzio. Dyllis la fissò a lungo senza aprire bocca, poi fece un cenno col capo, allargando le braccia. «Mia signora, non posso.» «No, non puoi. Nemmeno io posso, Dyllis. E c'è un'altra cosa che non posso fare, molto più importante: non posso ricordare di aver sentito un solo racconto sulla perfidia di Uther Pendragon che non venisse, in un modo o nell'altro, da quella serpe di Gulrhys Lot.»
Ygraine si alzò, andò a spalancare l'ingresso della tenda e chiamò la guardia. Un attimo dopo Nemo si affacciò e la guardò con aria interrogativa. Ygraine gli fece un cenno col capo e parlò con calma e cortesia. «Il tuo re ha detto che sarebbe tornato più tardi per parlare con me. Puoi informarlo che gradirei vederlo, se ha tempo?» Nemo sbatté le palpebre, fissò incuriosita l'altra donna, poi si voltò e sparì senza dire una parola. Pochi istanti dopo, fuori dalla tenda echeggiò la voce di Uther che chiedeva il permesso di entrare. Ygraine lo invitò dentro e lui obbedì, chinandosi per evitare l'architrave della porta sebbene non portasse l'elmo. «Desideri parlarmi?» «Sì. Vorrei farti alcune domande. Siediti, ti prego.» Uther si sedette sui due bauli ancora disposti uno sopra l'altro e Ygraine si avvicinò a lui tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. «Raccontami in quale modo mio fratello Donuil è finito a Camelot.» Uther annuì. «Merlino lo catturò tre anni fa, quando il tuo popolo ci aggredì da nord mentre Lot attaccava da sud. Merlino fece prigionieri quasi duemila dei tuoi compatrioti e poi li liberò, trattenendo Donuil a garanzia della promessa di tuo padre di non farsi coinvolgere nel conflitto. Doveva tenerlo in ostaggio per cinque anni, ma i due sono diventati amici e mio cugino lo ha sciolto dal suo vincolo l'anno successivo. Una volta ottenuta la libertà, Donuil ha scelto di rimanere a Camelot e di lavorare per Merlino.» «Ha scelto di rimanere?» Uther alzò le spalle. «Sì. Voleva diventare aiutante di campo di Merlino. Ho pensato che fossero matti tutti e due, e l'ho detto a mio cugino, ma lui non ci ha badato.» «Che cos'è un aiutante di campo?» «È una carica romana di tipo amministrativo... un ufficiale
dell'esercito.» «Un ufficiale dell'esercito. Un ufficiale dell'esercito romano. Mio fratello. Perché faccio tanta fatica a crederlo?» Lui scosse la testa. «Non più di quella che ho fatto io, signora. Ma in fondo, ora non ci sono più Romani in Britannia. Tuo fratello fa parte dell'esercito di Camelot, e come ho detto, lui e Merlino sono amici.» «E Deirdre? Raccontami di lei.» «Ti ho già detto quasi tutto quello che so. Molte cose sono accadute mentre io ero in Cambria e non a Camelot.» «Ridimmelo, se non ti dispiace.» Uther raccontò di nuovo, in sintesi, tutto ciò che sapeva, terminando con la scoperta del corpo di Deirdre nella sua valle nascosta. Ygraine lo ascoltò attentamente seduta su una delle sedie, e quando lui ebbe finito rimase silenziosa per qualche istante. «E Merlino di Camelot cos'ha fatto per risolvere il mistero del suo assassinio e vendicare la sua morte?» Uther trasse un profondo respiro. «Proprio in quel periodo Lot scatenò un'invasione nei nostri territori: in Cambria dal mare e a Camelot via terra. Merlino era assente da un po' di tempo e non sapeva nulla, finché tornando a casa cadde in un'imboscata sulle colline di Mendip, nei pressi di Camelot, e rischiò di morire. In quel momento io mi trovavo da quelle parti con la mia cavalleria, all'inseguimento di un gruppo di mercenari germanici a cavallo che Lot aveva assoldato in qualche parte della Gallia. Sapevo che rappresentavano per noi il maggior pericolo di quell'invasione, poiché possedere una forza di cavalleria permetteva a Lot di eguagliare il nostro potenziale, e per tutta la vita, avevo sentito mio nonno lodare la cavalleria leggera germanica usata da Cesare nei tempi antichi. Ritenevo che Lot non si rendesse conto di ciò che aveva tra le mani... non ancora... ma sapevo che se quegli uomini avessero riportato anche una sola vittoria di rilievo, lui avrebbe frugato ogni angolo della terra per trovarne degli altri e noi avremmo corso il rischio di essere schiacciati.
Dunque eravamo lì, dopo aver inseguito quei mercenari attraverso mezza Britannia per settimane cercando di spingerli in un luogo dove poterli intrappolare e annientare, e ci stavamo preparando allo scontro definitivo quando loro incrociarono Merlino e i suoi uomini. Fu una fortuna che fossimo così vicini, poiché le truppe di Merlino erano molto meno numerose di quelle nemiche ed erano cadute in una trappola mortale. Se non ci fossimo stati noi, sarebbero morti tutti. Invece battemmo la cavalleria germanica e riuscimmo a salvare la maggior parte degli uomini di mio cugino.» Uther fece una pausa, rendendosi conto che lui e la sua prigioniera avevano in comune dolori e perdite. «Quanto a Merlino, ricevette un colpo tremendo alla testa. Da allora non si è più ripreso, e probabilmente non lo farà più. Non ricorda più chi era. Non riconosce me né nessun altro. Non ricorda chi era sua moglie e nemmeno di averne avuta una. È vivo, ma non è... non è più mio cugino Merlino.» Ygraine si alzò e si avvicinò lentamente all'ingresso della tenda, scostando i teli e guardando fuori nella luce del tardo pomeriggio così come Uther aveva fatto in precedenza. Alla fine si voltò verso di lui. «Dimmi esattamente cos'è accaduto quando i tuoi inviati sono andati a incontrare Gulrhys Lot.» «Uno dei miei migliori esploratori, un uomo di nome Owain, si è infiltrato nell'accampamento di Lot e ha vissuto lì per giorni finché non ha scoperto tutto ciò che c'era da sapere su quanto era avvenuto nella sala di Lot quella sera.» Narrò la storia in modo succinto, senza omettere nulla e informandola anche che Lagan il Saggio era stato spedito in missione per ritrovare e arrestare il padre Herliss. Quando il triste racconto fu terminato, Ygraine scosse la testa incredula. «Conosco Lagan» mormorò, poi proseguì con voce decisa e piena di rabbia. «È una cosa ingiusta. Odiosa. Lot non ha... non aveva... seguaci più fedeli o leali di Herliss e suo figlio, Lagan il Saggio. E ora tiene in ostaggio la moglie e il figlio di quell'uomo, minacciandoli di morte, per garantirsi la sua amicizia. È pazzo.»
Rimase a lungo in silenzio, poi domandò: «Ora dimmi onestamente, ti prego, cosa avevi in mente quando hai deciso di trattenermi qui e di mandar via le mie dame?». Lui la fissò, riflettendo su quella domanda, e lei ricambiò impassibile il suo sguardo senza dire una parola, aspettando che lui parlasse. «Sono tentato di rispondere alla tua domanda con un'altra domanda: cosa hai pensato che avessi in mente? Ma non sarebbe un bene per nessuno dei due. Quindi ti dirò la verità, anche se questo potrà farmi apparire sciocco ai tuoi occhi. Avevo in mente che tu potessi essere... più preziosa per me come ostaggio nei confronti di tuo padre in Eire di quanto saresti mai stata in qualunque trattativa con Lot.» «Preziosa... in che senso?» Uther scrollò le ampie spalle e scosse lievemente la testa. «Era un pensiero assurdo e passeggero, anche se immagino potesse venirne fuori qualcosa. Mi era venuto in mente che se tuo padre avesse saputo che Lot ti aveva abbandonato al tuo destino in mani nemiche, avrebbe potuto infuriarsi abbastanza da rinnegare la sua amicizia e il suo sostegno a tuo marito in cambio del tuo ritorno sana e salva a casa sua. Abbiamo un precedente, nel caso di Donuil, e pensavo che tuo padre poteva essere disponibile a trattare ancora una volta con Camelot, sapendo che rispettiamo gli accordi con maggiore onestà del suo attuale alleato.» «Ma lui lo sa? Mio padre sa che Donuil ha scelto di rimanere a Camelot dopo essere stato liberato?» Uther sbatté le palpebre, chiaramente in difficoltà, poi annuì, poco convinto. «Credo di sì. Dovrebbe saperlo.» «Dovrebbe? È convinto che suo figlio sia vincolato per cinque anni, mi hai detto. Questi cinque anni sono scaduti?» «No.» Uther fece un rapido calcolo. «Sono passati tre anni, ma Donuil è libero da due.» «Sì, ma mio padre potrebbe non saperlo, e ciò manderebbe a monte il tuo ragionamento al momento di trattare con lui la mia liberazione.»
Uther annuì con aria pensosa. «Già, forse hai ragione. Ma potrei sempre mandare Donuil da lui come mio inviato e amico di Merlino. Questo è fattibile.» «Sì, e mio padre ne sarebbe molto impressionato.» Ygraine fece una pausa. «Hai detto che questo avrebbe potuto farti apparire sciocco ai miei occhi. Non è così.» Uther sorrise. «No, sono stato sciocco a pensare che lui potesse convincersi a rinnegare la sua alleanza con Lot e a impegnare le sue truppe in questa guerra al nostro fianco. E tuttavia, malgrado la tua presenza qui, sospetto che sia riluttante a impegnarsi nuovamente con Lot.» «Quindi mi rivenderesti a mio padre?» «Sì, ma non per denaro. Sarebbe vantaggioso per la mia causa se lui si rifiutasse di sostenere la Cornovaglia. Ti dispiacerebbe tornare a casa tua, in Eire?» «No.» «Bene. La tua guardia personale verrebbe liberata insieme a te, naturalmente, poiché presumo che siano tutti uomini di tuo padre e non di Lot.» «Infatti. Ma che ne sarà del povero Herliss? È vecchio ormai, e non verrebbe con me in Eire. Non credo che abbia molta voglia di cominciare una nuova vita in una terra sconosciuta, alla sua età. E non può rimanere qui in Cornovaglia poiché, come hai detto, Lot lo ha già condannato a morte. Cos'hai in mente per lui? Non ha fatto del male a nessuno, né a te né a Lot, e non merita di morire solo per avermi protetto.» Uther scosse la testa. «Non ho in mente nulla per quanto riguarda Herliss.» «Be', dovresti, sire. Io ho in mente qualcosa. Sei disposto ad ascoltare il parere di una donna in merito?» «Volentieri, se la donna ha pensato qualcosa che vale la pena di ascoltare.» «Ancora una domanda, allora. Perché sei venuto in Cornovaglia con il tuo esercito?»
Lui sussultò come se lei lo avesse schiaffeggiato, ma la sua espressione era serena. «È una domanda seria, che esige una risposta onesta?» «Naturalmente.» «Naturalmente. Bene, allora ti risponderò con brevità e sincerità. Potrei dire che sono venuto qui per liberare il mondo da una spaventosa pestilenza, ma non ho bisogno di parole così altisonanti, perché la verità ha una forza ben maggiore. Sono qui per impedire che Gulrhys Lot invada nuovamente i miei territori e che uccida ancora i miei sudditi. Sono qui per garantire che non mandi più un esercito a invadere le terre di mio cugino, a Camelot, e non massacri più la sua gente. Sono qui per assicurarmi che non causi la morte di altri membri della mia famiglia o, incidentalmente, della tua, visto che tuo fratello ora combatte con noi. Ecco perché sono qui con il mio esercito, e nel momento in cui Gulrhys Lot sarà morto per mano mia o grazie ai miei sforzi, mi ritirerò con le mie truppe e non mi avventurerò mai più in questi luoghi.» «Stai parlando dell'uomo al quale sono sposata.» «Lo so, signora. Avresti preferito che mentissi?» «No. Nessun'altra risposta avrebbe potuto essermi più gradita.» Uther inarcò le sopracciglia, sorpreso, ma lei proseguì. «Se fossi un uomo, un re, e provassi per mia moglie ciò che io provo ora per mio marito, la allontanerei da me e divorzierei. Io non sono un re, ma sono una regina, e dunque scelgo di divorziare da Gulrhys Lot. Per me è morto, non fa più parte della mia vita. Così sia.» Ygraine ignorò lo sguardo sbalordito del re dei Pendragon e continuò. «Ho un'idea riguardo a Herliss che credo possa funzionare anche per te, per me e per gli uomini di mio padre. E per Dyllis e tutte le altre donne, naturalmente. È ancora incompleta, ma ci sto pensando. Lascia che ci rifletta su, stanotte, e domani mattina te la esporrò.» Uther balzò in piedi, con un aperto sorriso, gli occhi pieni di ammirazione e di maliziosa ironia, e si inchinò profondamente di fronte a lei, battendosi il pugno sul petto in segno di saluto. «Signora,» disse «mi auguro che la tua notte sia buona e che ti porti consiglio. Tornerò in mattinata.» Si voltò verso Dyllis e si
inchinò anche a lei. «Lo stesso valga per te, donna Dyllis. Dormi bene.» Quando se ne fu andato, Ygraine si raddrizzò sulla sedia e fissò Dyllis con sguardo pensoso. «Presto sarà buio, noi abbiamo cambiato bandiera e io ho rinunciato a un marito sbagliato. Hai fame, piccola? Io potrei mangiarmi l'intero cavallo di re Uther.»
X. Il mattino seguente furono svegliate dal rumoroso andirivieni di un gran numero di persone fuori dalla loro tenda, ma malgrado gli sforzi non riuscirono a vedere nulla oltre le imponenti figure delle guardie che presidiavano l'entrata e che non si degnarono di rispondere alle loro domande. Subito dopo arrivò Uther per informarsi se erano già alzate, e le due donne lo fecero aspettare finché non ebbero avuto il tempo di finire le loro abluzioni mattutine e di rendersi presentabili. Finalmente il re entrò nella tenda, a capo scoperto e con il sorriso sulle labbra, seguito da un soldato che portava un contenitore di legno coperto da un panno. Slacciò la fibbia che chiudeva il grande mantello da guerra e lo posò per terra dopo averlo accuratamente ripiegato, poi prese il contenitore dalle mani del soldato congedandolo con un cenno di ringraziamento. Si avvicinò al tavolo piazzato in un angolo della tenda e si mise ad armeggiare, dando le spalle alle donne in modo da nascondere ciò che stava facendo. Mentre osservava i riccioli scuri sulla nuca dell'uomo e le sue ampie spalle sotto la tunica di lana, Ygraine si rese conto che era la prima volta che lo vedeva senza armatura, e anche la prima volta che lo vedeva a proprio agio in sua compagnia. Uther Pendragon aveva poco del re guerriero quella mattina, fatta eccezione per la pesante torque celtica, la collana d'oro massiccio lavorata a mano che gli cingeva il collo possente. Pur non avendo mai visto un romano, Ygraine si era fatta un'idea dell'aspetto che doveva avere, e Uther corrispondeva a quell'immagine. L'uomo indossava una tunica di lana, semplice ma di buona fattura, con la scollatura quadrata e le maniche lunghe fino al gomito e gli orli decorati da una greca purpurea. La tunica era stretta in vita da un ampio cinturone di cuoio al quale era appesa l'unica arma che portava, una corta spada inserita nel fodero; le gambe erano inguainate in una sorta di braghe aderenti anch'esse di lana, fermate alle caviglie da stringhe intrecciate. Spesse calze di maglia spuntavano fra le larghe cinghie
dei calzari aperti, robuste calzature militari le cui massicce suole di cuoio erano rinforzate da chiodi. Finalmente Uther si girò, reggendo nelle mani due coppe di terracotta che offrì alle sue prigioniere. Ygraine guardò dentro la sua, che era sorprendentemente gelata, e vide che conteneva un liquido nero e vischioso. «Che cos'è?» Uther sorrise, alzando la coppa che aveva preso per sé. «Assaggiate e vedrete.» Sorseggiò la bevanda, con insolita grazia per un uomo di quella mole, e il suo sorriso si fece ancora più ampio. «Coraggio, provate.» Ygraine bevve, subito imitata dalla compagna, ed entrambe lo fissarono con aria deliziata. Fu Dyllis la prima a identificare la bevanda. «More! È succo di more.» «Già, ma c'è qualcos'altro... ha del miele dentro» aggiunse Ygraine. «Avete ragione tutte e due, succo di more e miele con un goccio d'acqua, quanto basta per diluire leggermente il composto.» «Ma come fa a essere così freddo?» «È un trucco che abbiamo imparato dai Romani, signora. Lo portiamo dalla Cambria, avvolto in neve e ghiaccio delle nostre montagne.» «Neve? Ma è quasi estate...» «È vero, ma su alcune cime nel nord delle nostre terre la neve rimane per tutto l'anno. Non andiamo spesso da quelle parti, ma quando capita ci premuriamo sempre di tagliare grossi blocchi di ghiaccio e trasportarli a Tir Manha - la mia sede - su appositi carri. Avvolgiamo ogni singolo blocco nella paglia, poi li impiliamo e li copriamo bene, in modo che non si sciolgano troppo rapidamente. I Romani ci hanno insegnato anche che il ghiaccio tritato, mescolato con segatura e sale comune, diventa per qualche motivo ancora più freddo, e i liquidi protetti con questa mistura si conservano ghiacciati per periodi molto lunghi, purché siano sigillati e i contenitori rimangano intatti.»
Bevve un altro sorso prima di continuare. «Avete sentito il trambusto stamattina? Era la mia fanteria giunta dalla Cambria. Hanno portato con sé questa bevanda e ho pensato che vi avrebbe fatto piacere assaggiarla. Raramente possiamo concederci simili lussi, e la quantità è molto scarsa, ma sufficiente, mi è parso, per dividerla con voi. E ora possiamo sederci?» Qualche istante dopo Uther terminò di bere e posò la coppa vuota per terra. «Ieri sera mi hai chiesto del tempo per elaborare uno stratagemma che potrebbe salvare la vita a Herliss e contemporaneamente essermi utile. A me pare impossibile, e non so perché dovrei prenderlo in considerazione, ma sono disposto a farmi convincere. Sei pronta a illustrarmi la tua idea?» Ygraine annuì e venne subito al punto sul quale aveva riflettuto per tutta la notte. «Deve fuggire. Herliss deve fuggire.» «Fuggire... Come e dove, signora? Lot lo farebbe impiccare immediatamente se Herliss riuscisse ad arrivare vivo fin da lui. Non dimenticare che è già stato dichiarato fuorilegge e traditore. Chiunque ha il diritto di ucciderlo se lo incontra.» «Questo non accadrà se si trova con me e con le mie guardie. In quel caso nessuno oserebbe avvicinarci, e Lot non potrebbe far nulla contro di noi se riuscissimo a tornare liberi a casa.» «Ah, quindi fuggiresti anche tu, con la tua guardia personale. Perdonami, non avevo capito.» Uther si portò una mano alla bocca per nascondere un sorriso ma non poté celare un guizzo divertito negli occhi. Ygraine ignorò il suo tono sarcastico e corrugò la fronte. «Non mi credi?» «No, no, signora, ti assicuro che ti credo» replicò il re agitando la mano. «Ti credo ciecamente...» Fece una pausa, tentando di soffocare l'ilarità. «Quello che... scusami... quello che però non riesco a comprendere è come puoi pensare che io accetti la tua proposta, dato che, se non ho capito male, mi stai suggerendo di permettere semplicemente a te e alla tua gente di fuggire via illesi e indisturbati.» «Non ti fidi di me, dunque.»
Lui la fissò sorpreso, poi scosse la testa. «Non è una questione di fiducia, mia signora. Perché dovrei lasciarti scappare? Sei mia prigioniera. Il mio unico ostaggio. Sarei un pazzo a lasciarti andar via.» «Lo saresti senz'altro se questo non ti portasse dei vantaggi» precisò la regina senza alcuna ironia. «Ah! Quindi tu ritieni che sarebbe vantaggioso per me questa tua... fuga?» «Ma certo. Sempre che, naturalmente, tu mi creda e ti fidi di me.» «Capisco. Bene, fammici pensare un attimo... comprenderai che è un fatto del tutto nuovo per me pensare di fidarmi di qualcuno che abbia un legame anche remoto con Lot di Cornovaglia... E che ne sarebbe delle tue dame, partite ieri per Camelot? Verrebbero abbandonate, o fuggirebbero anche loro, lungo la strada?» «Be', sì...» «Naturalmente. Ci avrei giurato. Ma come? Come faranno a fuggire? E dove andrete tutti quanti, una volta liberi? In Eire?» «No, ti ho già spiegato che Herliss è troppo vecchio per lasciare la sua patria. Torneremo da Lot, ovunque lui sia in questo momento.» «Da Lot? Tornerai da Lot? Dopo tutto quello che hai detto ieri sera sul tuo divorzio da lui?» «No. Tornerò da Lot proprio per tutto quello che ho detto ieri sera sul mio divorzio da lui.» Uther spostò lo sguardo su Dyllis, poi si rivolse di nuovo a Ygraine. «Spiegati, se non ti dispiace.» Ygraine balzò in piedi di colpo, paonazza di rabbia. «Per gli dèi, uomo, non capisci? Possibile che debba spiegarti una cosa così ovvia...» Si interruppe bruscamente, fissandolo con i pugni serrati e il respiro affannoso, poi si voltò verso Dyllis, che la guardava terrorizzata e quasi scandalizzata. «Quanti uomini fanno la guardia alla nostra tenda, in questo momento?» domandò Ygraine, rivolgendosi a Uther sebbene gli desse le spalle. «Due. E Nemo, il loro capitano, è poco lontano.»
«Mandali via. Chiedi loro di accompagnare Dyllis a fare una passeggiata, per una mezz'oretta. Tu e io dobbiamo parlare da soli.» Palesemente disorientato, Uther andò ad affacciarsi all'ingresso della tenda e ordinò a una delle guardie di condurre da lui Nemo. Il capitano non doveva essere a più di dieci passi di distanza perché si materializzò immediatamente ed entrò nella tenda, mettendosi sull'attenti. Con lo sguardo puntato su Ygraine, il re gli ordinò di condurre donna Dyllis a fare una lunga passeggiata insieme alle due guardie e di non tornare prima di un'ora. Quando tutti furono partiti, Uther si sedette di nuovo in cima ai due bauli senza smettere di fissare Ygraine, e il silenzio fra i due si prolungò rischiando di trasformarsi in una sfida, finché Uther chinò il capo con un sorriso ironico, come per dargliela vinta. «Ebbene, signora? Volevi parlarmi...» «Conosci bene mio fratello Donuil?» «No, solo superficialmente. Ti ho detto che è amico di mio cugino Merlino.» «Amico, dici. Ma un vero amico? O piuttosto un favorito, un beniamino da vezzeggiare? Perché sorridi? Mi trovi divertente?» «Niente affatto, mia signora. Per gli dèi, sei davvero permalosa! Sorridevo immaginando il tuo fratellone che si fa coccolare docilmente come un bambolotto.» Scosse la testa e si fece serio. «No, signora, sono amici e sono sicuro che tuo fratello Donuil si è guadagnato il suo ruolo e il privilegio che ne consegue. Fra loro due esiste una fiducia solida e ben radicata, lo so bene.» Ygraine rispose in tono un po' raddolcito, ma ancora chiaramente poco convinto. «Tu dici che lo sai. Ma cosa sai, in realtà? Quanto conosci davvero questo tuo cugino, Merlino?» Uther si rabbuiò. «Meglio di qualunque altra persona al mondo. Siamo stati allevati quasi come gemelli. Non c'è uomo sulla terra che mi sia più caro.» «E lui prova la stessa cosa nei tuoi confronti?» Uther accolse quella domanda con un lungo silenzio, e Ygraine percepì nei suoi occhi, e anche nella sua voce quando si decise a
rispondere, un dolore profondo. «Un tempo... un tempo era così... E spero che lo sia anche adesso...» «Perché ne dubiti?» «Io... te l'ho già detto ieri, non è più lui...» «Ma c'è qualcos'altro che ti fa esitare...» Lui scrollò le spalle. «Fu tanto tempo fa, mi sospettò di un crimine... un fatto grave, che meritava di essere punito... Ma dubito che in quella stessa situazione io sarei stato così inflessibile. Merlino sa essere molto severo nei suoi giudizi. Nel mio caso, io ero innocente, ma il pensiero che lui abbia potuto credermi capace di una cosa del genere mi ha fatto soffrire più di tutto ciò che ha fatto o detto in proposito.» «Molto bene. È evidente che tu ammiri molto tuo cugino, dunque ti chiedo: perché Lot lo definisce un codardo?» Con grande stupore di Ygraine, Uther gettò indietro la testa e scoppiò in una sonora risata. «Un codardo? Caio Merlino Britannico, un codardo? Ah, signora, Lot lo definisce tale perché non può sopportare che la gente intuisca la semplice verità: che Merlino Britannico è tutto quello che Gulrhys Lot non potrà mai sperare di diventare. Lot se la farebbe sotto dalla paura se si ritrovasse anche solo a un miglio di distanza da Merlino di Camelot. Odia mio cugino non solo perché è un nemico formidabile e un uomo irreprensibile, ma perché è la persona che è. Oh, lo teme, ma soprattutto lo odia, perché Merlino fu testimone della prima sconfitta di Lot per mano mia, quando mio cugino e io avevamo dodici anni e Lot ne aveva quattordici o quindici ed era più grosso di noi.» «Di cosa stai parlando? Conosci Lot da così tanto tempo?» Uther corrugò la fronte distogliendo lo sguardo, poi posò di nuovo gli occhi su di lei, illuminandosi in volto. «Sì, Merlino e io conoscemmo Lot in quei giorni lontani, e cioè... quanto?... dodici, tredici anni fa? Non fu amore a prima vista, te l'assicuro. Arrivò a Camelot con suo padre, il vecchio duca Emrys, e fin dall'inizio si comportò in modo odioso con noi, tentando di dominarci e vessarci. Non era solo sgradevole, era...» Uther si interruppe, cercando le parole. «Era assolutamente disgustoso:
disgustoso nel parlare e disgustoso nell'animo; ripugnante in tutto ciò che diceva e faceva... e in più borioso e prepotente. Merlino e io sapevamo di poter sconfiggere qualunque attaccabrighe insieme, e dunque non badammo a quel tanghero. Ma quando lui insultò mia madre calunniandola in modo intollerabile, non mi fu più possibile ignorarlo, e ci battemmo. Andò via da Camelot subito dopo, appena si fu ristabilito.» «Lo avevi bastonato così forte?» «Bastonato? No, signora, niente bastonate. Combattemmo con spade romane. Lo ferii, ma sfortunatamente per tutti, non feci le cose per bene... mio padre intervenne per separarci prima che riuscissi a finire il lavoro.» Ygraine lo fissò con gli occhi sgranati. «Avresti voluto ucciderlo?» «Avrei dovuto ucciderlo. Se l'avessi fatto, centinaia di persone non avrebbero perso la vita.» Si interruppe, notando l'espressione di Ygraine. «Qualcosa non va, mia signora?» Lei scosse la testa. «Nulla, credo, ma in passato ci sono state molte cose che ho sbagliato, compresa la mia folle, ostinata cecità.» Distolse lo sguardo, fissando un punto lontano senza vedere nulla, poi trasse un profondo respiro e si raddrizzò sulla sedia. «Per tre anni ho maledetto te e quelli di Camelot, ignara che mio fratello e mia sorella vivevano felici laggiù con te e la tua famiglia mentre io venivo umiliata e oltraggiata da mio marito.» Fece un'altra pausa, corrugando la fronte, poi si voltò verso di lui. «Tu non... non sei affatto il mostro che mi era stato descritto.» Raddolcito, Uther ricambiò il suo sguardo e fece un breve sospiro. Quando riprese a parlare, la sua voce era calma e serena. «Hai detto che noi due dovevamo parlare, e io ho mandato via le guardie insieme a Dyllis. Allora, che cosa volevi dirmi?» «Solo questo: Lot non tratterà per riavermi indietro. Non lo farà, perché io non significo niente per lui e non gli sono necessaria, quindi sarà soddisfatto di essersi liberato di me senza dover prendere l'iniziativa. Ma in questo modo io divento un intralcio per te, cosa di cui lui non tarderà ad approfittare. Tu non vedi altra soluzione che rispedirmi in Eire da mio padre, nella speranza che lui rinunci ad
appoggiare Lot. Ebbene, ciò può esserti utile, ma non più di tanto, poiché difficilmente i pochi uomini di mio padre possono fornire un contributo rilevante all'esercito di Lot. Restituirmi a mio marito, invece, è una possibilità molto concreta, e potenzialmente vantaggiosissima.» «Come sarebbe? Non ti seguo.» «Allora ascoltami bene. Io tornerei da Lot come spia ai tuoi servigi. Così facendo, potrei salvare la vita di Herliss - un caro amico del quale mi sento responsabile - e contribuire alla caduta di quest'uomo abominevole al quale sono stata data in moglie. È una scelta facile da fare, anzi, è già fatta. Non la ritengo sleale. Per pretendere lealtà, bisogna sapere che cosa sia e ricambiarla in eguale misura. Che io sappia, Gulrhys Lot non si è mai mostrato leale con nessuno: né con me, né con i suoi più fedeli seguaci, né certamente con il popolo di cui si è proclamato sovrano. I suoi sudditi sono terrorizzati da lui e dalle sue fantasie malate, vivono nella paura di scatenare le ire dei suoi mercenari con qualche ipotetica offesa, inducendoli a seminare morte e distruzione nelle loro famiglie.» Ygraine parlava come se riflettesse ad alta voce, ma a questo punto si voltò e fissò Uther dritto negli occhi. «Devi capire che non si tratta di vani timori. Lot ha appestato l'intera Cornovaglia. Si è circondato di una schiera di mercenari che non hanno rispetto per niente e per nessuno, responsabili di atrocità che non soltanto restano impunite, ma sono ispirate, il più delle volte, dall'uomo che li ha assoldati.» Fece un'altra pausa e lo fissò con lo sguardo fiammeggiante. «Forse tu ritieni che la mia conversione alla tua causa sia stata troppo rapida. Non posso far nulla per farti cambiare idea o influenzare la tua opinione. Ma fino a ieri... fino a oggi... non riuscivo a trovare una soluzione al mio turbamento. Non soltanto sono una donna, ma una donna ormai priva di qualsiasi potere o influenza. Sono prigioniera da due anni, da molto prima che tu mi catturassi. La mia prigione era la Fortezza Bianca di Herliss, nella quale sono stata confinata da mio marito, e fino a pochi giorni fa, quando ci siamo incontrati, ci stavo bene, ed ero grata di essere stata sottratta alla malvagità di Lot. A Tir Gwyn potevo sfuggire alla mia
coscienza, potevo chiudere ostinatamente gli occhi di fronte a ciò che stava accadendo in questa meravigliosa terra nella quale vivo. Potevo far finta, insomma, di non avere alcun legame con l'uomo che si definiva mio marito.» Tacque di colpo, e un'unica lacrima le sfuggì dalle ciglia e scivolò sulla guancia destra. Ygraine l'asciugò con un gesto rabbioso. «A questo punto, sire di Cambria, sono disposta a sottoscrivere un patto con te per mettere fine al... dominio di quest'uomo. Alla sua tirannia. Volentieri e per mia scelta. Ma se vogliamo approfittare fino in fondo di questa opportunità, sarà meglio far presto. La Cornovaglia non è molto grande, e se Lagan sta cercando suo padre allo scopo di proteggere sua moglie e suo figlio, prima o poi finirà per trovarti.» Uther annuì. «Ma c'è la mia cavalleria a impegnarlo e a tenerlo lontano da qui.» «Lo so, ma per quanto tempo potrà riuscirci? Quant'è grande l'esercito di Lagan? Lo sai tu? E lui, cosa sa delle tue forze? Crede che sia il tuo intero esercito ad attaccarlo, a circondarlo? O pensa piuttosto che tu lo stia solo punzecchiando per tenerlo bloccato lì dove si trova?» Uther fece una smorfia e alzò le spalle. «Non so risponderti, non ancora, anche se mi aspetto di ricevere presto queste informazioni.» Ygraine annuì. «E questo tuo esercito che è appena arrivato, quant'è grande?» «Tremila uomini.» «Non riuscirai mai a tenerlo segreto. Tremila bocche mangiano molto.» Uther assentì, con aria cupa. «Già... Allora, va' avanti con il tuo stratagemma. Cosa accadrà dopo la tua fuga, e come farai a salvare Herliss?» «Cercheremo di evitare Lagan e di tornare alla fortezza di Lot prima che Lagan ti trovi. A quel punto fingeremo che sia stato Herliss a ideare il piano e coinvolgeremo anche Alasdair, il capitano della mia guardia personale. Nessuno oserà negare l'eroismo di Herliss se verrà sostenuto da qualcuno che non ha interessi personali nella
vicenda, e Lot sarà costretto ad accordargli nuovamente i suoi favori... Inoltre, penso che questa volta non correrà il rischio di offendere ulteriormente Lagan. Lui e suo padre godono entrambi di potere e influenza, e contano parecchi amici. Se Lot ha preso in ostaggio Lydda e Cardoc, la moglie e il figlio di Lagan, sono sicura che non ha fatto loro alcun male, e dopo la riabilitazione di Herliss crederà ancora di riuscire a convincere suo figlio che è stato tutto un equivoco. L'arroganza di quel mostro è incredibile.» Uther accentuò la sua espressione dubbiosa. «Temo che tu ti sbagli sull'accoglienza di Lot ai fuggiaschi. Come farà Herliss a evitare che la sua storia venga considerata falsa?» «Userà gli stessi mezzi di cui si serve sempre Lot: denaro, corruzione e inganno. Diremo che ha corrotto alcune delle tue guardie, offrendo loro una lauta ricompensa in cambio del loro aiuto.» «Ma Herliss è un prigioniero, e persino Lot non crederà che i miei uomini siano tanto stupidi da accontentarsi di semplici promesse. Se qualcuno dovesse corromperli, vorrebbero mettere le mani sul bottino immediatamente. E dove avrebbe trovato Herliss questa lauta ricompensa?» «Nei miei forzieri e in quelli delle mie dame... gioielli, vestiti sfarzosi e altri oggetti di valore.» Uther sgranò gli occhi sorpreso. «E voi avete queste cose?» «Certo che le abbiamo. Nessuno ce le ha portate via dopo la nostra cattura.» «Può darsi, ma ormai sono in viaggio per Camelot insieme alle loro proprietarie.» «Certo, ma noi stiamo inventando una storia, re di Cambria! Stiamo discutendo di un sotterfugio... di una falsa ricompensa.» «Già, hai ragione.» Uther si lasciò sfuggire un sorriso. «Me n'ero già dimenticato. Ma...» Si fece di nuovo serio mentre un altro pensiero gli attraversava la mente. «Puoi fidarti che le tue dame e gli uomini della tua guardia non rivelino l'inganno? Ricorda che le donne
torneranno da Camelot con tutti i loro gioielli.» «Le mie dame... di alcune di loro mi fido. Di altre no. Ma come hai detto tu stesso, sono in viaggio per Camelot e possono comodamente rimanerci per un po'. Se tu e io ci mettiamo d'accordo, verranno trattate bene e potranno tornare tranquillamente a casa più tardi. Quanto alla mia guardia personale, di loro mi fido ciecamente. Sono miei parenti, incaricati da mio padre della mia protezione. Tuttavia, non sono che uomini, e gli uomini, quando bevono, parlano troppo. Dev'esserci un modo per evitarlo...» «C'è, ma richiede che Herliss sia messo a conoscenza del nostro piano.» Lei lo guardò stupita. «E quale sarebbe? Cosa intendi dire?» «Be', se lui fosse d'accordo, potrebbe mettere in atto la sua fuga come se fosse autentica senza coinvolgere altri. In questo modo gli uomini della tua guardia potrebbero restare all'oscuro della verità e tornare nelle terre di Gulrhys Lot a testa alta, vantandosi in tutta sincerità di essersi liberati dei Cambriani, nel caso che dovessero alzare il gomito.» «E se Herliss rifiuta?» «Allora, purtroppo, dovrà rimanere qui. Per tua stessa ammissione, Herliss è un uomo d'onore e l'onore è difficilissimo da insidiare o traviare.» «Sì, ma il vero onore è sempre disponibile a raccogliere una sfida morale.» Ygraine si voltò verso di lui, il volto animato da un'allegra eccitazione. «Non sei d'accordo?» Lui fece una smorfia e scrollò le spalle. «Mia signora, non ha importanza ciò che penso io. La decisione dipende esclusivamente dalle possibilità a disposizione di Herliss.» «Vuoi farlo condurre qui da me, allontanando le guardie?» «Certo, lo faccio subito.» «No!» Uther si bloccò, sorpreso dalla veemenza di Ygraine, e lei sentì un lieve rossore colorirle le guance e moderò il tono, abbassando la
voce. «No, non subito. Non ancora. Prima io e te dobbiamo fare un patto.» Lui si alzò lentamente. «E quale, signora?» «Che da questo momento in poi saremo alleati, fidandoci l'uno dell'altra, e lavoreremo insieme per scalzare Gulrhys Lot dal trono di Cornovaglia.» «Ciò significherà ucciderlo, signora.» «E sia, se così dev'essere. E voglio che tu ti rivolga a me con il mio nome, Ygraine, oppure donna Ygraine, se preferisci, basta che non mi chiami più semplicemente "signora".» Lui annuì e le sue labbra si distesero in un ampio sorriso che la riempì di piacere. «E sia, donna Ygraine» mormorò. «Vuoi stringermi la mano per suggellare il nostro patto?» Prese la mano della donna nella sua, e Ygraine sentì come una coperta calda avvolgerla lentamente e dolcemente, carezzandole la pelle. Uther la accostò gentilmente alle labbra e la tenne vicinissima al viso per un po', scaldandole le dita con il suo fiato, poi con l'altra mano le prese il braccio con un tocco così suadente che il cuore di Ygraine si mise a battere all'impazzata. Chinò lievemente la testa verso di lei, poi la lasciò andare. «Vado da Herliss per condurlo qui. Non andare via.» Mentre lei rimaneva in silenzio, Uther raccolse l'ampio mantello e ne scosse le pieghe prima di posarselo sulle spalle. Allacciò la fibbia, si inchinò di fronte a Ygraine e scomparve. Uther raggiunse Herliss nel piccolo quartiere in cui era tenuto prigioniero e attese pazientemente che si infilasse la tunica e si posasse il mantello sulle spalle. Avevano appena lasciato la recinzione quando il vecchio guerriero ritrovò la voce. «Dove mi stai portando?» «Da donna Ygraine.» «La regina è partita ieri con le sue dame» ringhiò Herliss a bassa
voce. «Sei ben informato per essere un prigioniero, ma in effetti hai ragione... quella regina, almeno, è partita. Ma io sto parlando di quella vera. Per di qua.» Uther si fece da parte e il vecchio chinando la testa si infilò a fatica attraverso una barriera di rami di salice che dava accesso al prato davanti alla tenda del re. Herliss notò immediatamente l'assenza delle guardie e si voltò a guardare Uther, esitando. «Sì, lo so. Niente guardie. Nessun testimone. Non preoccuparti, Herliss, se avessi voluto ucciderti saresti già morto. Non sono Gulrhys Lot. La tua regina è là che ti aspetta. Io rimarrò in attesa finché non mi chiamerai, e grida forte, perché non ho intenzione di origliare.» Uther si allontanò sentendo su di sé lo sguardo sbalordito del vecchio, e l'ultima cosa che udì fu la voce di Ygraine che chiamava Herliss dall'interno della tenda. Sorrise tra sé e andò a sedersi su un tronco corto e robusto piazzato accanto a una buca per il fuoco a circa venti passi dall'ingresso della tenda, sicuro che da lì non avrebbe udito altro che il trambusto dei soldati alle sue spalle e alla sua destra. Non un suono giungeva dalla tenda dove Ygraine ed Herliss avevano cominciato una conversazione che si preannunciava estremamente importante. Soffocando la sua impazienza e sapendo che non avrebbe resistito a starsene seduto lì senza niente da fare, Uther si guardò intorno in cerca di qualcosa oppure di qualcuno che potesse distrarlo mentre aspettava l'esito dell'incontro fra i suoi due prigionieri. Per un po' resistette alla tentazione di alzarsi e di mettersi a gironzolare, poi si arrese e si avviò verso la fila di salici per andare in riva al fiume. Rimase in piedi a fissare l'acqua aspettandosi di veder passare delle trote, finché non gli venne in mente che solo qualche settimana prima aveva guidato in quel luogo oltre un centinaio di uomini, molti dei quali da allora avevano utilizzato ogni momento libero per pescare lungo l'intero corso del fiume. Sorrise e scosse la testa, poi si sedette su un sasso ricoperto di muschio per slacciarsi le cinghie di cuoio dei pesanti e massicci calzari, allontanandoli con un
calcio. Qualche istante dopo si liberò anche delle calze, e rimboccate le gambe dei pantaloni fin sopra le ginocchia immerse i piedi nudi nella gelida acqua del fiume, trasalendo per un attimo a quel contatto improvviso per poi rammentare con piacere che da ragazzo faceva esattamente la stessa cosa. Quel pensiero lo indusse a domandarsi da quanto tempo non faceva una cosa così semplice per il puro gusto di farla, e si rese conto con sgomento che erano passati più di dieci anni. Camminando oltre la sponda, in precario equilibrio, si spinse nel greto del fiume. L'acqua gli salì oltre le ginocchia, bagnando le estremità dei calzoni arrotolati. Goffamente, un po' malfermo sulle gambe, Uther si slacciò il mantello e lo fece roteare sopra la testa prima di scagliarlo sulla riva erbosa. Ma il movimento non fu abbastanza veloce e nel suo volo l'indumento sollevò con l'orlo un arco di goccioline d'acqua; con i piedi bloccati nel fondo fangoso del fiume, Uther si voltò a guardare e per poco non perse l'equilibrio, ondeggiando pericolosamente e sventolando le braccia per non cadere. Ci riuscì a fatica e quando si raddrizzò, barcollante, si domandò cosa avrebbe pensato Ygraine se l'avesse visto vacillare in modo così ridicolo, rischiando di finire nell'acqua. Con molta attenzione si arrampicò allora lentamente sulla riva viscida e fangosa e si rimise a sedere sull'erba, agitando i piedi nell'acqua per ripulirli dal fango. Quando gli parvero ben lavati, li asciugò sommariamente con l'orlo del mantello e abbassò le estremità bagnate dei calzoni legandole alla caviglia, lasciando che i suoi pensieri si rivolgessero a quella donna che aveva catturato senza volerlo. A un primo sguardo, paragonata al biondo fascino dell'alta e voluttuosa Morgas, la bellezza di Ygraine si notava appena: quieta, riservata, ed efficacemente nascosta da un'aria di modestia e di timidezza. Ma quando Uther aveva compreso che un simile atteggiamento era dettato dal suo ruolo nell'accampamento, si era accorto che dietro quello schermo la donna era, a suo modo, sorprendentemente affascinante. Aveva i capelli di un rosso cupo e profondo, che si accendevano di riflessi dorati alla luce del sole. Il volto, piccolo e ovale, era di carnagione chiara e aveva un'espressione tranquilla, anche se i grandi occhi verdi che lo
dominavano sapevano emettere lampi e scintille quando il temperamento della donna veniva stuzzicato, e sul fatto che lei avesse del temperamento, Uther non aveva avuto più dubbi dopo aver scrutato oltre la sua aria di tacita riservatezza. La bocca, grande e sensibile, sorrideva e rideva volentieri, anche se lui glielo aveva visto fare solo da lontano, e i denti bianchi e regolari erano privi di macchie e difetti. Il naso non era né dritto né arcuato, ma era dotato di un profilo ben definito, con piccole graziose narici. Gli occhi, perfettamente spaziati sugli alti e ampi zigomi che parevano cesellati nella pietra, erano sormontati da sopracciglia di un rosso più chiaro di quello delle folte trecce. "Una donna di nobile bellezza in tutto e per tutto," pensò "degna di essere la moglie di un re." E subito scacciò rabbiosamente quell'idea dalla mente. Molte cose erano cambiate da quando la regina di Lot era divenuta sua prigioniera, ed era arrivato al punto di lasciarla sola e senza sorveglianza con uno dei suoi uomini... potenzialmente il più pericoloso tra i nemici confinati nell'accampamento. Era un'alleata della Cambria ormai, di Camelot e sua. Ancora incredulo, Uther ripensò a come l'aveva vista quando si era congedato per andare a prendere Herliss. Era bella, persino nel semplice e disadorno abito marrone che indossava quella mattina. Privo di fermagli o cinture ornate di gemme, le ricadeva addosso in drappeggi e pieghe fruscianti che sottolineavano ogni curva del suo corpo. Accorgendosi che cominciava a provare un turbamento carnale a questi pensieri, Uther si raddrizzò e si mise a raccogliere le calze che si era levato. Le indossò, tirandole sopra le estremità dei pantaloni, poi si rimise i pesanti calzari, legando strette le cinghie di cuoio. Proprio allora udì Herliss che lo chiamava, e rimessosi il mantello sulle spalle tornò sui suoi passi. L'uomo lo stava aspettando di fronte alla tenda, e appena Uther sbucò in mezzo ai salici venne verso di lui a lunghi passi, alzando una mano in un gesto perentorio. Uther si fermò sorpreso e attese che l'altro lo raggiungesse. «Qualcosa non va?» Herliss lo fissava. «Nulla, ma io e te dobbiamo parlare, da soli. Ho bisogno di sapere dove ci porterà tutto questo.»
Un sorriso di soddisfazione si disegnò sulle labbra di Uther. «Significa che sei favorevole?» «Mi prendi per un completo idiota? Certo che sono favorevole, e non soltanto perché la prima vita che sarà risparmiata è la mia.» Il vecchio si guardò intorno. «Ho bisogno di bere qualcosa di fresco. Il tuo popolo beve birra?» «Vieni.» Uther gli fece strada lungo la riva del fiume verso il cuore dell'accampamento. Giunsero a un albero caduto e disteso a cavallo del fiume, e lo attraversarono. Quando arrivarono alle tende del vettovagliamento, Uther andò subito a chiedere della birra e qualche attimo dopo tornò da Herliss con due grossi bricchi schiumanti in mano. «Tieni. È la migliore della Cambria.» Herliss bevve una sorsata enorme svuotando metà del suo boccale, poi annuì soddisfatto e ruttò rumorosamente. Accanto a loro, davanti a una delle tende, c'era un tavolo poggiato su cavalletti e fiancheggiato da una lunga panca su ciascun lato. Uther andò a sedersi su una di esse ed Herliss si accomodò di fronte a lui, posando il bricco sul tavolo. «Un'ottima birra. Ora parliamo di cosa fare da adesso in poi.» «Non ci hai messo molto a decidere.» La risposta di Herliss fu immediata e tagliente. «Pensi che ti stia imbrogliando?» Uther rimase in silenzio, impassibile, e alla fine l'altro brontolò, con la sua voce roca e profonda: «O la pensi così, o mi ritieni un idiota e un voltagabbana». Attese, inarcando un sopracciglio con aria di sfida, ma vedendo che Uther si ostinava a non rispondere, proseguì. «Per gran parte della mia vita ho prestato lealtà e obbedienza al padre di Lot e in ricordo del vecchio duca sono stato leale nei confronti di suo figlio. Non sempre obbediente comunque, e non nell'ultimo periodo. Ma leale sì. Forse troppo. È una strana parola, lealtà. Lealtà vuol dire onore, o questo era il suo significato dove sono cresciuto... e durante la mia educazione...
Quando sono in gioco la lealtà, l'onore e persino l'obbedienza, capita di diventare ciechi e sordi di tanto in tanto, e possono accadere cose che non vengono osservate con troppa attenzione. Ma anche la lealtà ha le sue esigenze. Dev'essere reciproca, altrimenti non dura a lungo. È una questione di dare e avere, non c'è niente da fare. Chi non riceve lealtà dagli altri in cambio della propria, prima o poi smette di essere leale. E comincia a vedere cose che prima non vedeva, a sentire cose che prima non sentiva, a prestare attenzione alle cose che accadono intorno a lui... Cose come il fatto che suo figlio riceve l'ordine di riportarlo indietro in catene, e viene costretto a farlo sotto la minaccia di far del male alla sua famiglia. Lot tiene sospesa la vita di mio nipote sopra la mia testa come una spada... Ah, ma perché sorprendersi? Ha fatto la stessa cosa per anni a quasi tutti quelli che conosco. È così che si assicura la loro lealtà.» Herliss riprese il suo boccale e lo vuotò. «Dimmi, quali sono i tuoi progetti per la Cornovaglia?» Uther lo guardò a lungo con espressione assorta, poi scosse il capo. «Per la Cornovaglia? Non ho progetti per la Cornovaglia, se non quello di uccidere questo malvagio che la governa e tornarmene a casa il più in fretta possibile. Ho centinaia di progetti per la Cambria, la mia terra, e tutti urgenti, ma non posso occuparmene se ho fra i piedi questo cane rabbioso che si proclama vostro re e che trama continuamente alle mie spalle. Lo voglio morto. Morto e fatto a pezzi. Voglio appendere la pelle di quella carogna a un muro in modo che tutti possano vederla e sputarci sopra. Voglio che sparisca dalla faccia della terra perché non faccia più del male a un altro essere vivente, che il suo cranio roso dai vermi sia impalato davanti alla mia tenda, come monito a tutti quelli che vogliono comportarsi come lui. Ciò che voglio, in conclusione, è la possibilità di vivere la mia vita tra la mia gente, in pace e tranquillità. Voglio una moglie, e dei figli che portino il mio nome, e voglio che vivano felicemente a Tir Manha, in Cambria.» Herliss ascoltò la dichiarazione di Uther inarcando lievemente le sopracciglia man mano che lo sfogo cresceva in fervore e veemenza, e alla fine annuì. «Bene. Vogliamo entrambi la stessa cosa: che Lot muoia e che tu
ritorni in Cambria o a Camelot o dovunque tu voglia, in modo che la Cornovaglia possa riprendersi dal caos e dalle devastazioni che lui ha causato. Lot è un cane rabbioso e dev'essere trattato come tale, abbattuto immediatamente, rapidamente e definitivamente. Per farlo, però, dobbiamo avvicinarci a lui e godere della sua fiducia. Vicino possiamo arrivarci, ma la seconda condizione è quasi irrealizzabile. Non si fida di nessuno. Questa follia di Lagan e di mio nipote ne è la prova.» «Ma se tu esci libero da qui e riporti indietro la regina con una fuga spettacolare, sarà costretto ad accogliervi per salvare le apparenze, non credi?» «Sì... o almeno, così sarebbe se fosse un uomo normale. Ma io credo che sia impazzito, e che continui a peggiorare. Quindi ciò che accadrà realmente quando ritorneremo è nelle mani degli dèi. Ma ammesso che la cosa riesca e che nessun disastro si abbatta su di noi, cosa faremo? La regina comincerà a mandarti informazioni sui piani di Lot? Vuoi che lo faccia anch'io?» «Sì, ma solo nel caso in cui tu o la regina veniate a conoscenza di nuovi sviluppi, e agendo con la massima cautela. Se vogliamo liberarci di quel mostro, dobbiamo cooperare strettamente ma nello stesso tempo correre meno rischi possibili, poiché tu e la tua gente non potrete fidarvi di nessuno dei mercenari di Lot.» «D'accordo. Come procediamo, allora?» «Tu comincerai a corrompere i miei soldati, immediatamente e generosamente, perché organizzino una tua visita alla guardia personale della regina. Una volta lì, dirai ad Alasdair, il loro capitano, che la regina ti ha affidato degli oggetti preziosi di proprietà sua e delle sue dame per corrompere i nostri soldati e organizzare una fuga in massa. Il tuo piano apparirà vincente fin dall'inizio, poiché sarò io a scegliere le persone da corrompere, e saranno i miei uomini migliori e più fidati. Si occuperanno di tutto senza che i tuoi ne sappiano nulla. La tua fuga avrà successo e tornerai da Lot, evitando di incontrare tuo figlio lungo il cammino, e quando sarai di nuovo al sicuro nella tua casa e avrai ripreso la tua vita, troverò un modo per venire da te e potremo definire metodi e mezzi per rimanere in comunicazione l'uno con l'altro.»
«Bene. Scommetto che Lagan sarà il nostro contatto principale.» Uther sorrise e annuì. «Me lo auguro. Mi piacerebbe conoscerlo. E poi abbiamo un'amica comune in Cambria, donna Mairidh.» «Già, la sorella di Lydda. E sposata a mio fratello Balin.» Uther chiese altri due boccali di birra prima di voltarsi sorridendo verso il veterano. «Abbiamo preso accordi importanti qui, tu e io. Il nostro mondo non sarà più lo stesso, credo, dopo quanto è accaduto oggi.» Arrivarono le birre, e dopo aver lasciato una piccola offerta sul terreno per placare e ringraziare gli dèi, Herliss annuì, fissando la schiuma che incappucciava il suo boccale. «Sì... Uther, Ygraine ed Herliss. Una strana alleanza, direi. Chissà se in futuro qualcuno se ne ricorderà?»
XI. Fino a un attimo prima di baciarla, Uther non aveva mai considerato l'idea di andare a letto con Ygraine di Cornovaglia. Tanto per cominciare lei era un ostaggio, e il suo valore come merce di scambio, e l'onore di Uther come suo rapitore, imponevano di trattarla con cura, rispetto e cortesia, restituendola sana e salva al termine della sua prigionia. Il rifiuto di suo marito di trattare per riaverla era uno smacco, ma Uther aveva previsto l'indifferenza di Lot e fin dal momento della cattura aveva calcolato di poterla vantaggiosamente restituire al padre, Athol Mac Iain, re degli Scoti Iberni dell'Eire. Bastava questo, dunque, a convincere Uther che sarebbe stato inutile, irresponsabile e riprovevole considerare Ygraine dal punto di vista sessuale. Per di più, era appena uscito dalle braccia della bellissima Morgas, la quale, se mancava degli attributi della moglie perfetta, era provvista di tutte le qualità di un'amante ideale. C'era un altro fattore, però, che prima di ogni altro lo avrebbe dissuaso da qualunque approccio nei confronti di Ygraine di Cornovaglia, ed era il senso di colpa per ciò che era accaduto alla sventurata sorella di lei, Deirdre. A distanza di anni dai tragici eventi che l'avevano allontanato da Merlino, il ricordo degli eventi di quella notte nella stanza dei giochi a Camelot aveva ancora il potere di turbarlo e farlo sentire colpevole. Non gli era capitato spesso di sentirsi in colpa nel corso della sua vita; era un sentimento al quale non era avvezzo e che non era preparato ad affrontare. Sapeva essere temibile nei suoi scoppi d'ira e implacabile nella sua collera, ma raramente aveva motivo di pentirsene o di riconsiderare le conseguenze delle sue azioni in tali occasioni. Dopo l'incidente con i tre assalitori di Nemo non aveva più combattuto in preda all'ira. Aveva imparato a sfogare rumorosamente la sua rabbia senza nasconderla a nessuno, ma sbollito l'impulso iniziale agiva con calma, vendicando con freddezza i torti subiti senza alcun rimorso.
La vergogna, invece, era un sentimento che conosceva bene, anche se non aveva mai ammesso coscientemente di esserne ossessionato, ed era abbastanza simile al senso di colpa da apparirgli quasi indistinguibile da quest'ultimo. Era la vergogna, e non il senso di colpa, a farlo sentire sulle spine, a suscitare le sue peggiori angosce. A volte si svegliava di colpo in piena notte, fradicio di sudore e tutto tremante, scosso dal ricordo confuso delle follie commesse da ragazzo nel tentativo caparbio e ingiustificato di guadagnarsi con grandi imprese l'approvazione di nonno Ullic. Suo nonno e suo padre erano stati uomini di grande probità, e lui ricordava perfettamente la loro ferma disapprovazione per chi infangava in qualunque modo il loro onore o quello della loro famiglia. Ciò che era successo quella notte nella stanza dei giochi determinante per gli eventi successivi - terrorizzava Uther e costituiva il suo più oscuro e infame segreto. Era partito da Camelot in uno stato d'animo terribile, spronando ferocemente il suo cavallo ed esponendo i pochi uomini che lo accompagnavano ai rischi di un viaggio precipitoso e sconsiderato, trascinandoli ciecamente in una notte tempestosa e nera come la sua disperazione, fra scrosci di pioggia gelida e raffiche di vento. E mentre costringeva lo sventurato destriero a un'andatura forsennata, farneticava e imprecava fra sé, prendendosela con la ragazza che aveva osato morderlo, umiliarlo, rifiutarlo. Quando la rabbia iniziale sbollì, Uther si accorse dal dolore che provava alla mano gelata e contratta che stava brandendo furiosamente la spada senza motivo, e fu allora che cominciò ad affiorare in lui la vergogna. La ragazza non aveva fatto nulla di male. Si era semplicemente difesa nell'unico modo che aveva a disposizione. Era una creatura spaventata e minacciata, una fanciulla muta, sorda e indifesa. Lui, con caparbia arroganza, aveva introdotto il pene fra le sue labbra riluttanti, e quando lei, giustamente, lo aveva morso, preso da una furia insensata aveva tentato di picchiarla. Solo Merlino glielo aveva impedito. Uther ebbe un fremito di disgusto per il proprio comportamento, bruciando di vergogna malgrado la pioggia sferzante. Da quel momento in poi, ridusse l'andatura e si mise a riflettere profondamente come non faceva da anni, senza autoindulgenza,
guardando in faccia l'amara verità. Sua madre era malata, forse morente, e lui si era sottratto al dovere di tornare a casa, cercando inutilmente di convincersi che il suo posto era a Camelot. Per questo quella notte aveva cercato di distrarsi nella stanza dei giochi con ragazze compiacenti, ma nemmeno loro erano riuscite a fargli dimenticare il suo comportamento abominevole e il tradimento verso se stesso rifiutandosi di tornare nella tetra e inospitale Cambria e a Tir Manha, alla patria che non amava e alle persone che disprezzava per la loro cupa intolleranza e intransigenza. Si rese conto con orrore che a causa di quelle fisime assurde e ingiustificabili non era stato vicino a sua madre nel momento del bisogno, e si interrogò, non per la prima volta, sull'ostinata, profonda insensibilità che talvolta guidava le sue azioni, malgrado tutti gli stimoli che provenivano dalla parte migliore della sua natura. Fu lungo e triste il viaggio verso Tir Manha, e Uther non avrebbe mai dimenticato il sollievo quasi doloroso che aveva provato al suo arrivo scoprendo che Veronica era guarita dalla sua infermità. La sua vergogna, però, non svanì, anzi si accrebbe enormemente quando, molte settimane dopo, venne a sapere ciò che era accaduto a Camelot dopo la sua partenza. Uther sapeva con assoluta certezza che se la sua esplosione di rabbia non avesse spinto la ragazza a fuggire terrorizzata nella notte, lei non avrebbe incontrato colui o coloro che dopo averla brutalizzata, violentata e sodomizzata l'avevano abbandonata malconcia e sanguinante, sicuri di averla uccisa. Il disgusto che provava nei confronti di se stesso era tale che non fu in grado di difendersi dai sospetti di Merlino sulle sue responsabilità in quella vicenda. Dal suo punto di vista, lui era stato responsabile della fuga della ragazza. Ma il fatto che suo cugino potesse crederlo colpevole di un'infamia così grave come quella perpetrata con il favore delle tenebre sulla povera trovatella, lo aveva addolorato e rattristato in modo inimmaginabile. Quel dolore lo avrebbe perseguitato per tutta la vita, e proprio per questo Uther non si sarebbe mai imposto consapevolmente su un altro membro della famiglia di Cassandra. Per quanto irrefrenabili potessero essere i suoi appetiti, li avrebbe indirizzati altrove. Ygraine, dal canto suo, non aveva simili scrupoli, ma non aveva nemmeno desideri sessuali... o almeno, così credeva. Avrebbe
considerato ridicola l'idea di abbandonarsi ai piaceri del sesso con chiunque, figuriamoci con il suo rapitore cambriano. Da quasi tre anni Ygraine di Cornovaglia non stava con un uomo, e credeva di essersi liberata per sempre della necessità di conoscerne un altro. I pochi rapporti fisici che aveva avuto con suo marito erano stati così depravati e disgustosi da terrorizzarla e segnarla profondamente. Dentro di sé, Ygraine aveva finito col ritenere che nessun uomo potesse essere attratto da lei dopo che suo marito l'aveva insozzata, e nello stesso tempo si era convinta che tutti gli uomini erano come lui, e che a nessuno avrebbe mai più concesso l'opportunità di trattarla in quel modo. Eppure i due erano destinati ad amarsi, e mesi dopo avrebbero ammesso di comune accordo che il dado fu tratto nel corso del primo pomeriggio, mentre illustravano a Herliss il piano escogitato per salvargli la vita. L'intimità creata dalla cospirazione li aveva avvicinati mentalmente e fisicamente, rendendoli acutamente consapevoli l'uno dell'altra; fu come la fiammata che avvolge e consuma una falena volata troppo vicina a una candela accesa: una svolta del tutto inaspettata che li sorprese entrambi impreparati e li travolse, stringendoli in un abbraccio fatale. Eccitato dal loro progetto, a un certo punto Uther strinse d'impulso il braccio di Ygraine, allentando quasi istantaneamente la pressione senza ritrarre la mano mentre le parlava e guardandola negli occhi. Fu allora che lei si rese conto per la prima volta del desiderio che la infiammava. «Funzionerà. Herliss ha accettato di partecipare. Ora dobbiamo lavorarci, tutti e tre... ma con prudenza. La cosa peggiore che possa capitare è che qualcuno scopra cosa stiamo architettando.» Ygraine seguitò a guardarlo mentre lui illustrava le successive mosse, ma capì a malapena quello che diceva, poiché era rimasta folgorata, sconvolta, completamente frastornata dall'improvviso contatto della mano di Uther sul suo braccio. Tutte le reazioni che le sarebbero parse normali erano state spazzate via istantaneamente dalle incredibili sensazioni che il tocco di quella mano aveva scatenato nel suo corpo, sia pure attraverso la stoffa della manica. Aveva la pelle d'oca, i capezzoli turgidi, la gola stretta al punto da
non poter respirare, e un ronzio nella testa che le dava la nausea. Spaventata da quelle sensazioni tumultuose, Ygraine si rese conto con angoscia che un acceso rossore le aveva invaso il volto. Se n'erano accorti? Com'era possibile che non l'avessero notato? Ma Uther ed Herliss erano immersi nella loro discussione, e a poco a poco il battito del suo cuore rallentò, il suo respiro si calmò fino a diventare quasi normale, e Ygraine sentì il rossore svanire finché non fu certa che i due uomini potessero osservarla senza vedere nulla di diverso dal normale. Dentro di sé, tuttavia, Ygraine si sentiva tutt'altro che normale. Mai in vita sua era stata travolta da un ardore così inaspettato, e l'esperienza aveva scosso la sua sicurezza spingendola a dubitare delle sue stesse emozioni. Durante la sua permanenza alla Fortezza Bianca di Herliss, Ygraine era stata casta, ma ora quella violenta ondata di emozioni le faceva capire che aveva una ben scarsa conoscenza del proprio corpo e delle sue esigenze. Respirò profondamente, poi cercando di assumere un'aria naturale e disinvolta riportò lo sguardo sui suoi compagni. I due erano impegnati a definire i dettagli della fuga, tentando di conciliare le proprie esigenze e necessità con la realtà che si trovavano di fronte. Dovevano organizzare la sparizione, in silenzio e di nascosto, di circa cinquanta persone, quasi tutte appiedate. Solo Herliss, la regina e Dyllis avrebbero avuto a disposizione un cavallo; gli altri, per lo più membri della guardia personale di Ygraine, sarebbero andati a piedi com'erano soliti fare. Paradossalmente, in questo caso tutte le normali difficoltà di una fuga sarebbero state rovesciate. I consueti problemi da affrontare nel caso di un'evasione in massa stavolta non avrebbero comportato la minima difficoltà, dato che si trattava di un piano preordinato. La vera difficoltà, che rasentava l'impossibile, consisteva nel tenere segreta la sua vera natura alle stesse persone che avrebbero dovuto scappare. «Non possiamo permetterci di sottovalutare Popilio Cirro in tutto questo» stava dicendo Uther a Herliss quando Ygraine riprese ad ascoltare. «Chi? Quel tizio che è arrivato questa mattina con le tue truppe?» «Sì. Popilio è un'ottima persona - la migliore - ma non è
esattamente uno dei miei, ed è un uomo all'antica, come i vecchi romani.» «Che intendi dire?» «Popilio è l'ufficiale anziano di Camelot, il militare di più alto rango in tutto il loro esercito. Nelle legioni romane lo avrebbero definito primus pilus, Prima Lancia, e a dire la verità, è così che lo chiamano a Camelot. Da ragazzo ha effettivamente prestato servizio nelle legioni con mio zio Pico Britannico, in Asia Minore, quando Pico era legato di cavalleria agli ordini di Stilicone... Hai sentito parlare di Stilicone, vero?» «Sì, credo di sì, molto tempo fa. Non era l'imperatore?» «Quasi. Era reggente imperiale dell'imperatore Onorio.» «E... che significa?» «Reggente imperiale? Indica un monarca temporaneo, che governa in nome di un imperatore troppo giovane per farlo da solo. Stilicone lo divenne dopo la morte di Teodosio, quando il figlio dell'anziano imperatore, Onorio, era ancora un bambino. Ma non gliene venne un gran bene. Appena Onorio fu abbastanza grande da salire al trono, si liberò di tutti i suoi ex amici e sostenitori, e fece assassinare Stilicone assieme a tutti gli altri. Avrebbe ucciso anche zio Pico se lui non fosse riuscito a sfuggirgli e a tornare qui in Britannia, quando Merlino e io avevamo sette anni. Portò con sé un piccolo gruppo di amici, e Popilio Cirro era il più giovane, poco più che un ragazzo. Ma per quanto giovane fosse, aveva salvato la vita di Pico ed era rimasto accanto a lui durante la fuga, così Pico lo addestrò personalmente dopo aver assunto la carica di comandante in capo di Camelot. Ora Popilio risponde esclusivamente al legato comandante, e la sua lealtà fa di lui un pericolo per noi...» «Perché?» Ygraine intervenne per la prima volta, stupita di non avvertire un tremito nella propria voce. Uther si voltò verso di lei. «Per causa tua, signora. Non ha idea della tua vera identità, e penso che sarebbe sciocco rivelargliela.» «Per quale motivo?» «Be', tanto per cominciare, potrebbe opporsi alla tua liberazione,
e probabilmente lo farebbe, anche se io tentassi di convincerlo. Considera le cose dal suo punto di vista. Io sono suo alleato in questa guerra, ma le mie priorità e le sue, quelle della Cambria e quelle di Camelot, potrebbero non coincidere. Tu sei un bottino prezioso, la sposa del comandante in capo del nemico. Popilio troverebbe assurdo lasciarti andare, e mi considererebbe un pazzo o addirittura un traditore perché ho accettato il tuo piano di fuga. Ma anche ammesso che fosse d'accordo con noi e facesse tutto ciò che gli chiediamo, sarebbe pur sempre obbligato a fare rapporto sulle mie azioni, una volta tornato a Camelot. E una volta consegnato quel rapporto, addio al nostro segreto! Non si può impedire che informazioni di questo tipo trapelino, una volta rivelate, e Lot ha spie e informatori ovunque, persino a Camelot, perché quel luogo è sempre pieno di stranieri che vanno e vengono. Credimi, in un modo o nell'altro Lot lo verrebbe a sapere in pochi giorni, quindi è meglio non dire nulla a Popilio. Abbiamo già mandato una regina a Camelot. Lasciamogli credere che sia quella vera. Entro questa settimana partirò con lui per un'incursione sulle coste meridionali, come avevamo preventivato. Per allora, dovete aver organizzato tutto. Tratterete esclusivamente con i miei uomini, i Dragoni di Cambria. Mentre sarò via, lasciando qui solo un piccolo presidio, tu e i tuoi fuggirete e vi dirigerete a nord-ovest, evitando assolutamente Lagan. Popilio non saprà niente di fughe o di evasioni, e se dovesse chiedermi dove sono le mie prigioniere, gli dirò che le ho rimandate a casa. Io non faccio la guerra alle donne. Popilio lo sa.» "Il mio signore non fa guerra alle donne". Ygraine ricordò il disprezzo con cui aveva accolto quelle parole quando Huw Fortebraccio le aveva pronunciate, e fu scossa da un brivido. Uther le lanciò un'occhiata. «Hai freddo, donna Ygraine? Stai tremando.» «No» disse lei raddrizzandosi e scuotendo la testa con decisione. «Bene, non c'è altro?» Uther si rivolse a Herliss. «Sai cosa fare d'ora in poi?» Herliss emise un brontolio di assenso, e Uther proseguì. «Ottimo. Ora ti riaccompagno ai tuoi quartieri, e questo pomeriggio parlerò con i miei uomini. Discuterai tutti i tuoi accordi con Nemo, il
soldato più leale e affidabile che ho. È con me da anni, fin da quando eravamo entrambi dei monelli. Gli dirò di assegnarti due guardie, Cadwyn e Lohal, e almeno uno di loro ti starà accanto continuamente d'ora in poi, giorno e notte. Ma considerali dei messaggeri scelti, non delle guardie. Sono assolutamente fidati. Faranno da tramite fra me e la regina... e te, naturalmente. Tutti penseranno che sei stato messo sotto stretta sorveglianza per qualche trasgressione, quindi sarà meglio che escogiti una buona spiegazione, perché qualcuno sicuramente ti chiederà il motivo di questa improvvisa promozione...» Poco dopo la partenza dei due uomini, Dyllis tornò dalla sua lunga passeggiata, quasi senza fiato per l'eccitazione prodotta dal gran numero di uomini giunti nell'accampamento. Ygraine aveva saputo da Uther che Popilio Cirro aveva portato con sé un migliaio di uomini, ma non aveva mai visto mille persone riunite in un solo posto e non riusciva nemmeno a immaginare che effetto potesse fare un simile assembramento. Le era stato detto spesso che suo padre, re Athol, poteva riunire mille guerrieri del suo clan e metterli in campo in tre giorni, ma per quel che ne sapeva, non l'aveva mai fatto. E suo marito, Lot, che ingaggiava migliaia di uomini mettendo insieme eserciti di mercenari in continuazione, non aveva mai osato riunire una folla così grande, potenzialmente ostile e incontrollabile. Dyllis le raccontò che dietro il loro alloggio erano sorte file e file di tende militari abbastanza grandi da ospitare ciascuna quattro uomini distesi uno accanto all'altro, disposte in griglie fino a occupare l'intero pendio della collina sulla sponda meridionale del fiume. Le tende erano collocate in modo da trovarsi a una distanza rigorosamente fissa l'una dall'altra, e tra questi blocchi regolari c'erano spazi più ampi che fungevano da strade, larghe a sufficienza da accogliere colonne di dieci fanti o di quattro cavalieri affiancati. Dyllis era stata accompagnata dalle due guardie in servizio quel giorno, Cavan e il più anziano Derek lo Sfregiato, così chiamato per la spettacolare cicatrice che gli attraversava il lato sinistro della faccia, una ferita da coltello che andava da oltre il sopracciglio fino all'angolo della bocca. In qualche modo il colpo, per quanto
violento, era stato abbastanza superficiale da non intaccare il globo oculare, limitandosi a incidere la palpebra. Aveva però reso insensibile quel lato del volto di Derek, paralizzandogli la guancia e lasciandogli chiazze di peli grigi al posto del sopracciglio e dei baffi. Derek lo Sfregiato era un veterano, uno dei primi Dragoni di Uther. Cavan, invece, era più giovane e molto più avvenente con il suo viso liscio, gli occhi chiari e la dentatura bianca e solida. Aveva spalle larghe, mani e braccia quasi glabre e muscolose. Cavan non aveva mai parlato a Dyllis fino a quel giorno, ma entrambe le donne sapevano che era fortemente attratto da lei, poiché fin dal primo giorno era stato praticamente incapace di toglierle gli occhi di dosso mentre lei attendeva alle sue occupazioni. Ci avevano persino riso sopra, ma ora Ygraine si rese conto che anche la sua compagna non era rimasta insensibile al fascino dell'uomo. Mentre Dyllis continuava a chiacchierare, ignara del fatto che la sua regina aveva smesso di ascoltarla, Ygraine le dava le spalle e pensava a Uther Pendragon che le sorrideva a capo scoperto con un'espressione che poteva sembrare beffarda eppure non lo era. Risentì la sua voce che le diceva "Signora?" in tono ridente e le venne la pelle d'oca. Rivide la sua mano che si tendeva verso di lei, le dita lunghe e forti, i ciuffetti di peli neri sulle nocche, e un brivido di piacere le fece mancare il fiato. Ygraine trasse un respiro brusco e profondo, esortandosi a pensare ad altro. Sapeva che Uther non coltivava pensieri analoghi nei suoi confronti. Da tempo aveva imparato a riconoscere i più piccoli segnali di interesse negli uomini che le stavano attorno, e sapeva come ignorarli e scoraggiarli. In Uther Pendragon non aveva visto né intuito la minima traccia di attrazione verso di lei. «Ygraine, mia signora?» Di colpo si rese conto che Dyllis le stava parlando, e si voltò verso la compagna scacciando quei pensieri pericolosi. Ma non riusciva a mantenere la sua presenza di spirito ascoltando le espressioni entusiastiche di Dyllis a proposito del giovane Cavan. Di colpo l'aria le pareva umida e afosa e si sentiva soffocare dentro la tenda di comando. Aveva voglia di uscire a passeggiare all'aria aperta. Spedì l'amica nella sua stanza a rammendare uno scialle strappato, senza
preoccuparsi di ferire i suoi sentimenti, e uscì sulla soglia, pregando Cavan di accompagnarla da Uther. Uther non era nella sua tenda e non c'erano guardie all'esterno, ma sapendo che non doveva essere lontano Ygraine decise di aspettarlo. Congedò Cavan dicendogli di tornare al suo posto, e quando il giovane si mostrò non troppo felice di lasciarla fuori dalla tenda del re, senza sorveglianza, gli sorrise e gli domandò se temeva che rubasse qualcosa o che progettasse di fuggire in pieno giorno con tutti quei soldati in giro. Cavan annuì e se ne andò, imbarazzato e turbato dall'ironia della donna. Rimasta sola, Ygraine incrociò le braccia sul petto e si guardò intorno. Non c'era posto per sedersi, ma poiché le fronde degli alberi rinfrescavano l'aria con la loro piacevole ombra, indugiò fuori dalla tenda guardando verso occidente. Una densa nube temporalesca incombeva nel cielo per miglia: una minacciosa colonna color azzurro cupo, nero e porpora, squassata da inquietanti bagliori giallo-bruni. Ygraine la osservò a lungo, tentando di capire in quale direzione si muoveva e domandandosi se il vento l'avrebbe spinta via o se sarebbe venuta più vicina, rovesciando il suo fardello sopra di loro. Era ancora lì con la testa alzata e gli occhi chiusi, il respiro lento e profondo, quando arrivò Uther. Ygraine sentì i suoi passi che si avvicinavano e aprì gli occhi, appena in tempo per assistere a uno di quei momenti il cui ricordo non abbandona più coloro che li hanno vissuti. Uther era a meno di quattro passi da lei con un'espressione piacevolmente sorpresa negli occhi, nell'atto di alzare la mano in un gesto di saluto o di domanda, quando un lampo improvviso parve materializzarsi proprio in mezzo a loro inondando il mondo di una luce bianca e accecante, un'esplosione netta eppure stranamente muta, come lo schiocco silenzioso di un'enorme frusta. Entrambi avvertirono fisicamente la violenza della scarica che li lasciò storditi e spaventati, riempiendo le loro narici di uno strano odore quasi sulfureo, come se l'aria stessa fosse rimasta scottata. E poi, prima che potessero riprendersi, un diluvio di pioggia gelata li investì, inzuppandoli all'istante e lasciandoli senza fiato. Uther fu il primo a riaversi. Venne verso di lei, la sollevò fra le sue braccia come fosse un fuscello e in tre passi la mise al riparo sotto la
tenda. Appena furono al sicuro all'interno, la depose a terra e fece per ritrarsi, ma Ygraine si aggrappò a lui con un gemito, tremando per quello che lui credette terrore, e che in realtà non era che l'improvviso scatenarsi di quell'ardente desiderio che l'aveva assalita poco prima. Uther la tenne goffamente fra le braccia, conscio della dolce flessuosità di quel corpo femminile sotto la stoffa leggera dell'abito e della pressione delle cosce di Ygraine contro le sue, domandandosi stupidamente cosa fare. I suoi occhi non si erano ancora ripresi dal bagliore accecante del fulmine caduto così vicino a loro, e ciò che restava del suo udito era sopraffatto dal rumore della pioggia battente sul tetto di pelle sopra la loro testa. Ygraine si mosse di nuovo, e Uther percepì distintamente la pressione delle sue gambe contro di lui. Si schiarì la gola, imbarazzato, e tentò una seconda volta di staccarsi da lei, ma Ygraine si strinse a lui ancora più forte e Uther si arrestò, rimpiangendo di non aver avuto la preveggenza di indossare la sua armatura, o almeno una corazza di cuoio e una cotta che impedissero alle morbide curve della donna di premersi contro il suo corpo. Per la prima volta da quando l'aveva catturata, era acutamente consapevole della sua femminilità, e posandole una mano sulla nuca le premette dolcemente il volto contro la sua spalla. Ma proprio in quel momento lei rovesciò il capo all'indietro e lo guardò con i suoi occhi immensi, socchiudendo le labbra come se volesse dirgli qualcosa. Uther si chinò su di lei per ascoltare, ma Ygraine continuò a fissarlo in silenzio, abbandonandosi ancor di più al braccio che la cingeva e spingendo la parte inferiore del corpo contro di lui in un movimento deliberato e inequivocabile. Infiammato da quel contatto, Uther capì che doveva allontanarsi da lei. Con la mano libera tentò di sciogliersi dall'abbraccio, ma lei si alzò in punta di piedi, gli prese la testa fra le mani e lo attirò a sé offrendogli la bocca e insinuando la lingua fra le sue labbra. La sorpresa di Uther - rapida, sconvolgente ed enorme - svanì in un attimo di fronte alla realtà incalzante di ciò che stava accadendo. In pochi battiti del cuore fu perduto, tutta la sua fermezza e le sue nobili intenzioni spazzate via dall'imprevedibilità dell'evento e dal calore umido e vivo di quelle labbra.
Ygraine, da parte sua, aveva perso tutto il suo autocontrollo nell'attimo stesso in cui Uther l'aveva presa in braccio sotto la pioggia, e nella fulminante, vorace bellezza di quel primo bacio, per un breve attimo si diede della pazza per aver pensato di poter vivere senza ciò che stava provando in quel momento. Arrendendosi definitivamente al turbine di emozioni che la assalivano, gli cinse le braccia intorno al collo e si abbandonò completamente, facendogli perdere l'equilibrio; ma Uther riuscì a rimanere in piedi e dopo una rapida occhiata in giro la trascinò verso il robusto tavolo sul quale erano posati il catino e la brocca. Sgombrato il mobile, vi distese Ygraine stringendola alla vita e cercando nuovamente le sue labbra, e in pochi istanti lei si ritrovò nuda con le gambe serrate intorno ai fianchi di Uther, mentre lui la possedeva. Fu un amplesso breve e violento, accompagnato dal tambureggiare della pioggia e salutato al suo apice da un coro incessante di tuoni. Alla fine Uther rimase chino sopra di lei, tremante, con la fronte posata sui suoi seni, mentre Ygraine, con il capo rovesciato oltre il bordo del tavolo, gli accarezzava i capelli bagnati sulla nuca cullandolo dolcemente e ritmicamente tra le ginocchia. Lui sospirò e si sollevò su un gomito, allungando l'altro braccio per accarezzarle la nuca. «Signora,» disse, ancora ansimante «non sapevo che sarebbe successo questo.» «So che non lo sapevi. Non lo sapevo nemmeno io, fino a oggi.» «Oggi? Quando?» «Prima, quando mi hai preso il braccio.» «Quando ti ho... non mi sembra di averti preso il braccio. Ah, sì, ora ricordo. Cosa c'era di speciale in quel gesto?» Lei gli sorrise. «Era... significativo, e non dirò nulla di più. Ah!...» Emise un piccolo gemito quando lui ritrasse senza preavviso il pene ormai floscio. Lui brontolò e si accostò come se volesse penetrarla di nuovo malgrado fosse troppo presto, e lei si strusciò contro di lui. «Ancora» mormorò. «Voglio farlo ancora.»
Lui annuì, con finta gravità. «Fra non molto sarà possibile.» «E poi ancora.» Lui sorrise e scosse la testa. «Ma io ho delle cose da fare, signora, che riguardano il tuo piano. Mi hai affidato dei compiti, e non ho ancora avuto tempo di svolgerli. Non ho ancora parlato con Popilio Cirro...» Tacque, riflettendo. «Ma potrei parlargli stasera nel refettorio, quando andremo a mangiare...» «No.» Lei si inarcò voluttuosamente sotto di lui. «Vacci ora, parlagli in fretta, fa tutto il resto che devi fare e poi torna qui da me.» Lui piegò la testa con un sorriso malizioso. «Credevo che volessi rimanere sola stanotte.» «Lo volevo e lo voglio ancora, stupido. Voglio rimanere sola con te.» «Davvero? È magnifico. Quasi incredibile, a dire il vero, ma sono felice di sentirtelo dire. Ancora un bacio, poi andrò a tranquillizzare il vecchio Cirro. Dopo non mi resterà altro da fare che dire a Nemo che non voglio essere disturbato e sarò di ritorno.» «Bene, allora baciami e va'. Aspetta! Ma che succede? Oh, che rapidità...» «Incredibile, vero? Devo portarlo con me o lasciartelo qui?» «Mmm... lasciamelo, ma giurami che tornerai a riprenderlo.» «Tornerò, mia signora, te lo giuro. Entro un'ora. Devo portarti qualcosa da mangiare? Avrai fame più tardi?» «No, non ce n'è bisogno. Può darsi che mi venga fame più tardi, ma solo di te e di quello che mi dai... Ora va', e torna presto. Io andrò a letto e ti aspetterò.» «Non è necessario, ti porto io a letto. Aggrappati a me.» Ygraine allacciò le dita dietro la sua nuca gemendo appena quando lui la penetrò, poi Uther la sollevò dal tavolo agganciandole le ginocchia con le braccia e così impalata la condusse fino al letto, dove alla fine la lasciò in attesa del suo ritorno.
XII. Quella lunga notte di piacere con Ygraine, iniziata e conclusa alla luce del giorno, fu la prima delle sole quattro occasioni in cui i due riuscirono a stare insieme, e l'ultima non si sarebbe presentata che dopo la nascita del loro bambino, Artù. Al mattino Uther la lasciò sola e senza sorveglianza per un tempo brevissimo, perché aveva un altro appuntamento con Popilio Cirro e sapeva che se non si fosse presentato, l'ufficiale sarebbe venuto a cercarlo. Così soffocò la sua rabbia per essere costretto ad alzarsi e ad abbandonarla nel letto, riconoscendo, come sempre, che il suo dovere aveva la precedenza su ogni altra cosa. Quando, poco dopo, entrò nella tenda di Cirro era l'incarnazione del classico comandante di cavalleria di Camelot, rivestito della sua lucente armatura. Uther confermò a Popilio Cirro che nulla impediva loro di partire entro trentasei ore per l'incursione che avevano pianificato più di un mese prima a Camelot. Le sue truppe erano accampate in quella valle da più di una settimana, da quando avevano catturato la regina e il suo seguito, ma in tutto quel tempo i suoi esploratori non avevano trovato tracce di attività degli uomini di Lot nel raggio di una giornata di viaggio a cavallo, che equivaleva a quasi due giornate di marcia a piedi. Popilio ne fu sorpreso ma soddisfatto e non fece nulla per nascondere il suo sollievo. I suoi mille uomini erano una presenza ingente, pressoché impossibile da nascondere, e la necessità di penetrare in profondità in quel territorio ostile senza che venissero individuati gli aveva causato una grande preoccupazione. Per questo li aveva obbligati a marce notturne fin da quando avevano abbandonato la strada a ovest di Isca, e quell'esperienza così dura e punitiva non era stata piacevole per nessuno, soprattutto nelle notti senza luna in cui l'oscurità era assoluta e ogni buca nel terreno poteva provocare gravi incidenti e danneggiare piedi e caviglie. Era comunque riuscito a far passare i suoi uomini senza che venissero intercettati, e per ricompensarli li aveva messi tutti in libertà per
l'intera giornata avvertendoli di presentarsi all'alba dell'indomani per l'addestramento, che sarebbe stato particolarmente intenso in preparazione della spedizione prevista per il giorno successivo. Quando Uther lo lasciò, si erano messi d'accordo non solo sulle esercitazioni che le loro forze combinate avrebbero compiuto il giorno dopo - esercitazioni che prevedevano un assalto della cavalleria e degli arcieri di Uther alle due coorti di Cirro - ma anche sulla formazione di marcia per la spedizione. Metà dei Dragoni di Uther avrebbe formato un'avanguardia precedendo il corpo di fanteria principale e l'altra metà avrebbe cavalcato in retroguardia, mentre gli arcieri di Pendragon si sarebbero disposti sui due lati della colonna principale secondo una linea di marcia diritta e larga non meno di duecento passi in ogni punto. Contento di aver sistemato tutto e di aver congedato in precedenza le guardie di sorveglianza, Uther entrò nella tenda slacciandosi le cinghie dell'armatura e si bloccò appena passata la soglia, sbalordito. A confronto con il sole sfolgorante del tardo pomeriggio, l'interno della grande tenda di pelle sembrava buio, eppure in alcuni punti rifulgeva di un bagliore accecante. Lame di luce intensa filtravano da tre aperture sul tetto della tenda, facendo apparire il resto dell'ambiente molto più oscuro di quanto fosse in realtà. Poi, con la vista ancora offuscata da quel curioso effetto, Uther individuò il letto che era stato realizzato al centro della tenda. Ygraine aveva disteso uno strato di paglia intrecciata sopra un telo di cuoio robusto, e in cima aveva disposto affiancati i sottili pagliericci delle due brande. Sopra quei materassi di paglia aveva accumulato delle pelli utilizzate come coperte militari, trovate nei quattro bauli della tenda. Lo sguardo di Uther colse tutto questo in un istante prima di posarsi sulla regina che sedeva immobile su una delle due sedie accanto al letto, trasformata dalla colonna di luce che pioveva alle sue spalle in una sorta di fantasma indistinguibile. Uther non riuscì a capire cosa indossava, ma si rese conto che era completamente avvolta in un indumento che ne mascherava e irrigidiva le curve. Ygraine non accennò ad alzarsi e non disse nulla, limitandosi a
guardarlo, e lui, dopo essersi levato l'elmo, si produsse in un leggero inchino di fronte a lei. «Sei una dea o una regina? E se sei una regina, chi è stato a preparare il letto?» Ygraine si alzò e Uther si accorse che aveva addosso semplicemente un leggero lenzuolo che le copriva le braccia e le spalle ricadendo a terra dietro di lei. Ora che era in piedi, la sua squisita figura si distingueva nitidamente in controluce. «Sono stata io a preparare il letto» disse a bassa voce. «E non sono né una regina né una dea. Sono una donna, e quelle brande sono decisamente troppo strette.» Lasciò cadere gli angoli del lenzuolo che si afflosciò per terra senza rumore, mentre il sole le accarezzava i morbidi contorni dei fianchi, delle spalle e del collo. Gli occhi di Uther si stavano rapidamente adattando alla luce, e quando la videro distintamente per la prima volta il battito del suo cuore accelerò. Nel silenzio assoluto della tenda, l'uomo tentò di deglutire e scoprì di avere la bocca completamente asciutta. Trasse un profondo respiro e trattenne il fiato contando fino a cinque, poi fece per avvicinarsi a lei, ma l'intera armatura emise un sonoro scricchiolio e l'elsa della spada tintinnò battendo contro il bordo della corazza. Uther si fermò di colpo, afferrando il fodero della spada e del pugnale perché non facessero rumore, e si rese conto che non era in condizione di approfittare della nudità di Ygraine. Lei colse la sua espressione e sorrise, coprendosi i seni con le mani. «Ti stavo aspettando, pensando a questo momento e a come ti avrei accolto...» Il suo sorriso si accentuò. «Invece ho sbagliato tutto. Chi poteva immaginare che saresti tornato con l'armatura? Temi di essere in pericolo qui, re Uther? Non ti attaccherò, te lo prometto.» Coprendosi il seno con un avambraccio abbassò la mano per nascondere lo scuro triangolo fra le cosce. «Almeno finché hai indosso quella gelida corazza e tutte quelle armi, fibbie e cinture.» Negli attimi che seguirono, Uther ebbe l'impressione di non ricordare più nulla del sistema che aveva imparato per togliersi l'armatura con rapidità ed efficienza, e pensò che all'inizio del suo
addestramento si sarebbe meritato lunghi periodi di punizione se avesse buttato i pezzi per terra con l'incuria e l'impazienza che mostrava in quel momento. Non si era mai comportato in quel modo, ma non aveva mai avuto di fronte a sé una simile ricompensa, che per di più lo rimproverava per la sua lentezza. Libero infine dei suoi indumenti, Uther si avvicinò a Ygraine che era rimasta immobile a guardarlo mentre si spogliava, senza fare un gesto per aiutarlo a privarsi delle armi o dell'armatura. Ma appena il suo piede nudo sfiorò il pelo caldo e liscio di una delle coperte, la sua sicurezza svanì di colpo e si fermò, confuso e imbarazzato, fissandola negli occhi. Lei ricambiò il suo sguardo con un'espressione serena e leggermente divertita sul volto. «Che succede, re Uther?» disse, quasi in un sussurro. «Sua maestà si ferma davanti a quello che desidera? Vieni, sire, e prendi ciò che ti appartiene.» Lentamente, dolcemente, Uther le posò le mani sui fianchi e la attirò a sé, chinandosi per prenderle la bocca e scacciando l'immagine di Merlino Britannico e di sua moglie Deirdre che subito gli era balenata nella mente. Lei gli cinse il collo con le braccia, e per lui non ci fu più nulla se non l'umido tepore di quelle labbra che si chiudevano sulle sue. Ygraine si abbandonò nelle sue braccia, ma questa volta lui non la sorresse e si lasciò trascinare sul letto dal suo dolce peso. La lasciò a malincuore prima che il sole fosse giunto allo zenit, facendola scortare con discrezione fino alla sua tenda, e fu costretto a dedicare un po' di tempo ai comandanti della fanteria, della cavalleria e degli arcieri per accertarsi che fossero tutti pronti per la marcia dell'indomani e per la campagna che stava per iniziare. Alla fine del pomeriggio si incontrò di nuovo brevemente con Ygraine ed Herliss nella tenda del re, mentre Dyllis veniva mandata a distrarsi insieme al giovane Cavan, e i due amanti si trovarono così a proprio agio nella loro nuova intimità che non ebbero difficoltà a tenerla nascosta al vecchio comandante. Discussero gli ultimi sviluppi del piano di fuga, e Uther ripeté loro ciò che aveva detto esattamente al soldato Nemo. L'indomani, alla partenza del grosso delle truppe, Nemo sarebbe rimasta
nell'accampamento con un piccolo presidio di Dragoni per sorvegliare i prigionieri rimasti e la guardia personale della regina e garantire la loro sicurezza fino al ritorno di Uther. Poi, nei giorni immediatamente successivi, avrebbe finto insieme a quattro compagni scelti di farsi corrompere da Herliss in cambio di oro e gioielli. I cinque si sarebbero assunti il compito della guardia notturna e col favore del buio, mentre gran parte dei loro compagni erano assopiti, avrebbero aggredito e immobilizzato uno alla volta quelli che montavano la guardia con loro e poi quelli che stavano dormendo, prima di liberare Herliss e la guardia della regina. Uther rassicurò i suoi compagni che tutto sarebbe filato liscio, poiché nessuno dei suoi uomini avrebbe fatto resistenza al momento di essere "sopraffatto". Alasdair Mac Iain e la guardia della regina sarebbero rimasti all'oscuro di tutto ciò, naturalmente. Avrebbero visto solo i risultati. Nemo e i suoi quattro compagni sarebbero scomparsi insieme ai fuggitivi, e subito dopo le sentinelle "legate" si sarebbero liberate riprendendo i loro compiti di difesa dell'accampamento. Giunti nei pressi della costa, Nemo e gli altri quattro avrebbero abbandonato il gruppetto di fuggiaschi sostenendo di volersi imbarcare su una nave diretta in Gallia, ma una volta soli sarebbero immediatamente tornati all'accampamento. Herliss annuì ripetutamente durante quel discorso, chiaramente impressionato dall'accuratezza di Uther e rassicurato da tutti i dettagli del piano. Al termine della discussione, Uther si scusò con Herliss e Ygraine e andò a farsi consegnare dal capocuoco un pesante cesto coperto contenente selvaggina e pollo appena cotti, una grossa forma di pane fresco, un formaggio di capra e un involto con fette di mela essiccate al sole. Una brocca di birra, sigillata con la cera, e due boccali di terracotta si aggiunsero al sostanzioso peso del cesto. Quando Uther tornò alla tenda, Herliss era uscito e Ygraine lo stava aspettando. Mangiarono tranquillamente e senza interruzioni, gustando la cena e la birra, e quand'ebbero finito Uther andò a chiudere con cura i teli all'ingresso della tenda. Poi, con gesti quasi rituali ed evitando di toccarsi, ricrearono il loro letto, prolungando intenzionalmente l'attesa per far crescere la
loro eccitazione. Quando il letto fu pronto lui tentò di baciarla, ma Ygraine lo tenne a distanza ancora un po' mentre si spogliava, invitando anche lui a fare altrettanto. Dopo essersi divorati con gli occhi, si adagiarono sul letto e fecero l'amore in continuazione, con brevi pause per recuperare le forze e bisbigliare fra di loro, finché più di tre ore dopo non scese il buio. Dormirono un po' di più quella seconda notte, ma non molto. Per due volte Ygraine lo svegliò sfiorandolo con le labbra e con dita vogliose, e per due volte lui la penetrò dolcemente mentre lei dormiva, strappandola a poco a poco al sonno con le sue carezze. Prima dell'alba Uther si alzò e andò a lavarsi imponendo a Ygraine di stargli lontana, poiché entrambi sapevano che era una tentazione per lui averla accanto mentre era nudo. La regina lo aiutò a indossare l'armatura, fece scivolare la lunga spada di cavaliere nell'anello di ferro sulla schiena e gli porse l'elmo, mentre lui spiegava l'ampio mantello da guerra rosso con il drago dorato e se lo posava sulle spalle, assicurandolo con il fermaglio. Quando fu pronto, Uther rimase davanti a lei a capo scoperto, reggendo l'elmo col braccio sinistro, e Ygraine gli circondò la vita con le braccia lasciando che il mantello le ricadesse sulle spalle e sulla schiena. Era nuda e aveva sulla pelle l'odore del loro amore. Lui la baciò e abbassò lo sguardo su di lei. «Ebbene, mia signora, ci rivedremo?» Lei sollevò il capo e lo fissò. «Se farai bene e in fretta la tua parte, liberando la Cornovaglia da Gulrhys Lot, allora, sire, ci rivedremo.» «Liberando la Britannia da Gulrhys Lot, vorrai dire. La sua perniciosa influenza non si limita alla Cornovaglia. Non temere, mia signora, farò la mia parte.» «E io la mia. Non so come, ma ti farò avere notizie tramite un messaggero fidato ogni volta che sentirò dire qualcosa che ti possa essere utile a contrastare Lot e le sue mire... Per la prima volta in vita mia vorrei saper leggere e scrivere, così potrei raccontarti nelle mie lettere tutto ciò che mi passa per la mente. Ma in Eire non ho mai imparato. Scrivere dev'essere un'abitudine romana.» Uther sbuffò. «Infatti. Io ho imparato, ma non molto bene. Leggo
ma non scrivo mai, anche se saprei farlo, credo, se fossi costretto. È Merlino lo scrivano di famiglia.» «Quindi dovrò accontentarmi di mandarti messaggi orali, mandati a memoria.» «Il ricordo della tua bocca renderà più sopportabile l'attesa.» Lei corrugò la fronte, pensosa. «Come ti ho detto, non so quando questo accadrà, Uther, né chi potrebbe essere il mio messaggero, ma in qualche modo mi farò viva. E se mai tu giungerai nei pressi del luogo in cui mi trovo, in qualunque momento, troverò la maniera di venire da te o di farti condurre da me.» Lui sorrise. «E passeremo tutto il tempo a letto, mia signora, senza parlare.» Ygraine ricambiò il suo sorriso. «Quale modo migliore di trascorrere il tempo? Ci sarà tempo a sufficienza per parlare quando saremo vecchi. La tua virilità non ha nulla di vecchio, non trovi? È ancora giovane e dritta ma soprattutto si fa capire straordinariamente bene, se si tiene conto che non ha detto nemmeno una parola nelle due notti che abbiamo passato insieme. È un tipetto in gamba e pieno di risorse e ho imparato ad apprezzarlo, quindi ti prego, re Uther Pendragon, abbine cura per me.» «Puoi contarci» replicò lui con un sorriso. Si chinò a baciarla, a lungo e con passione, poi rialzò la testa e fissò un punto lontano. «Ora devo andare. Non vorrei, ma è già tardi. Arrivederci, dolce Ygraine, al nostro prossimo incontro. Dopodomani sarai di nuovo libera.» «Libera di tornare dal mio favoloso marito. Per gli dèi, preferirei morire! Ma ci andrò, e gli dirò quello che lui vuole sentire... gli parlerò della tua depravazione e della tua deliberata crudeltà. Fingerò di non sapere che ha rifiutato di riscattarmi e che ha messo a rischio la mia vita uccidendo dei pacifici inviati, e gli chiederò vendetta a gran voce. Starò sempre all'erta, e qualunque cosa senta dire te la farò sapere in tempi brevi. Quando tornerai in Cambria?» «In ottobre, se il tempo tiene. In guerra tutto dipende dal tempo. Fin quando riuscirò a muovere le mie truppe senza che muoiano assiderate, rimarrò qui.»
«Se dovessi avere notizie per te, come farà il mio messaggero a trovarti, e dove?» «In Cambria, nella mia fortezza di Tir Manha, nel sud-ovest. Durante l'inverno non mi muovo spesso da lì, a meno che non debba far visita a uno degli altri clan della Federazione. Comunque non resto mai fuori a lungo e il tuo messaggero non avrà difficoltà ad attendermi per qualche giorno. Se invece non è previsto un mio ritorno a breve, potrei essere a Camelot, a quattro giorni di viaggio.» «E il mio messaggero potrà cercarti senza temere per la sua vita?» Lui la fissò, socchiudendo gli occhi, poi si sfilò un anello dal mignolo della mano destra. Era d'oro massiccio, foggiato a forma di drago con le ali ripiegate e la coda attorcigliata, e piccole pietre preziose incastonate come scintillanti occhi rosso sangue. Uther lo premette sulla palma della mano di Ygraine, richiudendola a pugno. «Sono i miei colori, rosso e oro. Questo anello apparteneva a mio padre, e prima ancora al padre di mio padre. Avvertirò i miei uomini che chiunque rechi quest'anello dovrà essere condotto immediatamente da me, ovunque io sia. Non perderlo.» Lei alzò le sopracciglia. «Ma io perdo sempre tutto! Non ho forse perso il mio cuore e la mia castità con te? Ora baciami e va', prima che ti riporti a letto.» Lui la baciò appassionatamente, poi si allontanò, prima che gli venisse la tentazione di farlo ancora. La spedizione che Uther, con l'odore di Ygraine sulla pelle, inaugurò quella mattina ebbe uno straordinario successo, poiché le truppe puntarono direttamente a sud-ovest giungendo fin quasi alla punta della lunga penisola di Cornovaglia senza che nessuno li individuasse. Laggiù, su entrambi i lati dello sperone, le coste erano disseminate di baie e insenature, spesso dotate di calette e di alte scogliere protettive che il popolo di Lot sfruttava a proprio vantaggio per far sbarcare le truppe di mercenari in luoghi riparati e per tirare in secco le navi. Come suo padre prima di lui, Gulrhys Lot offriva un approdo sicuro a chiunque volesse usare le profonde insenature della
Cornovaglia come nascondiglio. Non dava giudizi morali, non mostrava interesse per le attività dei visitatori e non aveva pretese nei loro confronti, tranne una. In cambio di protezione e sicurezza e del diritto di transito, i predoni dovevano pagargli un compenso pari alla metà del loro bottino sotto forma di specie, ossia monete, vasi e ornamenti d'oro, argento, rame e bronzo, e qualunque gioiello di cui venissero in possesso. Ormai quasi nessuno batteva moneta, tutto veniva barattato, e i metalli un tempo preziosi avevano perso gran parte del loro valore. A cosa serviva possedere monete d'oro e d'argento se non servivano a comprare più nulla? Così i forzieri di Lot erano sempre pieni di monete, e i pirati erano ben felici dello scambio. Ciò che pochi di loro sapevano, però, era che Lot fondeva le monete in lingotti. Pesanti barre d'oro, argento e rame massiccio erano sempre in grado di eccitare il cuore e la mente di uomini avidi e abbastanza ricchi da comprarle. Uomini del genere erano ormai rari in Britannia a quel tempo, ma ce n'era ancora un numero sufficiente in Gallia e nelle altre province del continente da costituire un lucroso mercato. Così Lot poteva trasformare i suoi lingotti in navi, uomini e armi, assicurandosi una fornitura pressoché infinita di mercenari per le sue guerre. Sulle scogliere che dominavano la più ampia e la più importante delle insenature destinate a proteggere le flotte di pirati che gli procuravano i suoi lingotti, Lot aveva costruito alcune fortificazioni che guardavano verso l'interno. Molte di esse erano poco più che barricate: tronchi impilati uno sopra l'altro e rinforzati con sabbia, talvolta dotati di una trincea a gradini da cui gli arcieri potevano difendere l'accesso allo stretto sentiero che portava alla spiaggia sottostante. Parecchie, tuttavia, più di una ventina in tutto, erano abbastanza sofisticate da potersi definire fortezze, sia pur rudimentali; potevano ospitare degli uomini quasi in permanenza e in alcuni casi avevano una guarnigione stabile. L'esercito di Uther si abbatté su questi avamposti come un fulmine seminando il terrore fra i difensori, poiché nessuno di loro si era mai veramente aspettato un attacco di truppe ostili dall'interno. Non avevano mai immaginato una forza di invasione così potente da attraversare il cuore della Cornovaglia e raggiungere senza perdite la
costa sudoccidentale. La loro sorpresa giocò a favore di Uther che ne approfittò a pieno, colpendo con violenza e senza pietà; i nemici, demoralizzati, erano costretti a lasciare le loro trincee per scendere alle spiagge dove si sparpagliavano e fuggivano come potevano. A volte i suoi soldati impiegavano più tempo a distruggere le fortificazioni che non a prenderle. Uther evitò una sola fortezza durante quella spedizione, ovvero Tir Gwyn, la Fortezza Bianca di Herliss, una costruzione massiccia che appariva non solo inespugnabile, ma indistruttibile, in quanto costruita interamente con il quarzo candido della zona. Uther fece fermare i suoi per permettere loro di ammirare da lontano il castello che brillava nel sole come un faro, poi fece invertire la marcia, e prima che fosse notte erano già a molte miglia di distanza. Quell'incursione segnò l'inizio di una stagione di guerra durante la quale i Dragoni di Uther passarono di successo in successo e si guadagnarono una tale reputazione presso le forze di Lot che spesso le truppe della Cornovaglia gettavano le armi e fuggivano senza nemmeno tentare una reazione. Solo i più combattivi mercenari di Lot impedirono che quell'anno fosse un trionfo completo per i Dragoni. Molti dei loro gruppi, per lo più formati da uomini delle tribù germaniche che avevano combattuto come mercenari per l'impero, unirono le forze sotto il comando di due abili generali di nome Cerdic e Tewdric, e in una occasione furono a un passo dal fermare l'avanzata incontrastata di Uther. I due eserciti si incontrarono un tardo pomeriggio in una stretta valle dai fianchi scoscesi, e Uther capì di non essere il solo, quel giorno, a tremare di paura e di apprensione. Ma mentre le due forze contrapposte si squadravano in attesa degli ordini dei loro comandanti, un temporale si abbatté su entrambe con inaudita violenza. Gli avversari rimasero immobili, sferzati dal vento, in attesa che i nuvoloni si allontanassero, ma il tempo passava e la tempesta non dava segno di volersi placare. La pioggia gelata, mista a grandine, fece precipitare la temperatura. Gli uomini erano fradici e congelati, ma il maltempo non smetteva di imperversare su di loro, con fulmini che squassavano gli alberi terrorizzando i soldati. Cadde la notte, e il campo di battaglia divenne un pantano. Venne il giorno, e sulla collina di fronte alla postazione di Uther non c'era più
nessuno. I Dragoni non subirono né rovesci disastrosi né sconfitte, e in Cambria e a Camelot non si parlava che dell'idea vincente di Uther di combinare la fanteria con gli arcieri e la cavalleria contro nemici che avrebbero dovuto ottenere schiaccianti vittorie solo in virtù del loro numero. Uther, però, aveva difficoltà in altri ambiti - ambiti trascurabili - delle quali riusciva sempre meno a darsi una spiegazione. All'inizio sembravano solo banali seccature, piccoli fastidi che andavano eliminati: spie ed esploratori che si facevano catturare e uccidere mentre avrebbero dovuto essere al sicuro da ogni pericolo; messaggi e messaggeri che si perdevano e non giungevano mai a destinazione; rifornimenti spediti da Camelot che arrivavano parzialmente depredati e in un caso del tutto inutilizzabili. Parallelamente, Uther cominciò a registrare casi di incompetenza e di cattiva gestione nelle sue truppe. Nello spazio di un mese gli giunsero quattro rapporti separati su comandanti che avevano ricevuto informazioni imprecise e le avevano prese per buone senza verificarle, con conseguente perdita di tempo e di fatica, esponendo a rischi inutili i soldati. Il caso più grave era quello di una squadra di dieci uomini mandata a perlustrare un sentiero in una fitta foresta nel nord della Cornovaglia. Il capo esploratore aveva assicurato che dal punto di partenza al margine della foresta il territorio era percorribile e libero da forze nemiche. Così non era. Ricostruendo la scena a posteriori, il comandante aveva trovato chiari segni che il gruppo era caduto in un'imboscata tesa da non meno di cento uomini, e prove inequivocabili del fatto che tali uomini avevano vissuto senza nascondersi e per diverso tempo in grotte non lontane dalla strada utilizzata dai soldati. Tutti e dieci gli esploratori erano stati uccisi e i loro cavalli rubati. Incompetenza e cattiva gestione, per quanto deplorevoli, erano inconvenienti rimediabili, e Uther diede la massima priorità alla soluzione del problema. Molti dei comandanti furono sottoposti a un esame rigoroso; il capo esploratore, che risultò aver mentito per nascondere la propria pigrizia, venne giustiziato; due comandanti intermedi furono immediatamente degradati a soldati semplici, accolti tutt'altro che calorosamente dai loro ex subordinati. Questi
provvedimenti servirono non solo a punire gli ufficiali coinvolti, ma anche a rendere noto a tutti che chi perdeva un grado elevato era destinato a una lunga e rovinosa caduta. Contro quella che molti definivano autentica sfortuna, tuttavia, Uther era impotente come chiunque altro: dodici esploratori a cavallo, sorpresi in una valle angusta da una folta banda di mercenari di Lot, si divisero fuggendo verso est nella ragionevole speranza che la velocità dei loro animali li portasse in salvo. Finirono invece in una gola arida e ricoperta di cespugli ai quali i nemici appiccarono il fuoco con frecce incendiarie, uccidendoli tutti. In un altro caso, una febbre sconosciuta infettò i cavalli di un intero squadrone di cavalleria, composto di trentasei uomini. La pestilenza si diffuse nello spazio di due giorni uccidendo ventotto animali su cinquanta. Le bestie rimaste avevano tutte mostrato i sintomi della malattia, ma alla fine del quinto giorno erano guarite. Il comandante dello squadrone, un giovane di nome Rollo che era nato e cresciuto nelle stalle di Camelot, non osò accollarsi il rischio di riportare animali potenzialmente contagiosi all'accampamento-base di Uther, mescolandoli a quelli sani. Di sua iniziativa, ordinò che tutti i cavalli sopravvissuti fossero abbattuti, e insieme ai suoi uomini percorse a piedi ventitré miglia per ricongiungersi all'esercito, portando a mano selle ed equipaggiamenti. A poco a poco Uther e coloro che gli erano più vicini si accorsero che in quell'anno di campagna militare qualcosa di fondamentale era cambiato nel suo esercito. Prima dell'inizio della campagna, tutti davano per scontato che quello di Uther fosse un esercito fortunato, ma nell'ultimo scorcio dell'estate quella sensazione mutò radicalmente, e la «cattiva stella di Uther», come venne definita, diventò un argomento abituale di conversazione intorno ai falò del suo accampamento. La frequenza dei suoi insuccessi, malgrado le migliori intenzioni e l'attenta pianificazione, cominciò ben presto a generare una sorta di timore superstizioso tra i suoi seguaci, e Uther giunse al punto di non poterli biasimare né accusare apertamente di slealtà per questo, dato che anche lui sospettava un intervento maligno e soprannaturale nelle sue vicende. In seguito ebbe la sensazione che da quella prima notte con Ygraine nulla di ciò che aveva pianificato fosse andato esattamente
come aveva immaginato, e finì per convincersi che andare a letto con lei era stata la cosa peggiore che avesse potuto fare. Non riusciva a dimenticare che Ygraine era sorella di Deirdre, la defunta moglie di Merlino, e che prima ancora Deirdre era stata Cassandra. Dimenticando il piacere provato, non riusciva a liberarsi dalla vergogna di aver usato la prigioniera per soddisfare i suoi desideri, contro tutto ciò che gli era stato insegnato in tema di onore, agendo nel modo più meschino e dando libero sfogo al suo lato oscuro. Era certo che la falsità di coloro che gli stavano attorno fosse una punizione per la sua trasgressione e questo gli bruciava, specie quando pensava che aveva rinunciato a tutti i suoi legami di ragazzo in Cambria - persino a essere un Pendragon - per rimanere fedele a Merlino e a Camelot. Un sacrificio così grande in nome della lealtà, si diceva nelle rare occasioni in cui indulgeva all'auto-compatimento, dovrebbe proteggere chiunque dalla slealtà altrui. Generalmente, però, Uther non si soffermava su queste cose. Non sopportava quelli che guardavano continuamente al passato. Solo di notte le ombre avevano la meglio, insinuando in lui timori superstiziosi e ricordandogli l'oscurità che percepiva in se stesso. Non stupisce, dunque, che indulgesse solo di rado a tali riflessioni, sforzandosi invece di rimanere nella chiara luce dell'amore del suo popolo.
PARTE TERZA
CORNOVAGLIA
XIII. Nell'autunno di quell'anno, verso la fine della stagione di guerra, un guerriero sconosciuto su un alto cavallo fulvo fece il suo ingresso una sera nell'accampamento di Uther Pendragon e chiese di parlare con il re. Fu trattenuto ma non disarmato, mentre Nemo, decurione di guardia, andava a cercare Uther. Il re, tuttavia, lo aveva visto arrivare ed era già accorso per scoprire quel cavaliere che osava entrare nell'accampamento con tanta fierezza e in sella a un animale così magnifico. Lo straniero tentò di andargli incontro, ma fu afferrato e costretto a inginocchiarsi dalle guardie. In tono brusco, Uther ordinò loro di allontanarsi e di lasciare che lo sconosciuto si rialzasse, e l'uomo si rimise in piedi, guardando i suoi carcerieri a testa alta e con aria di sfida. Ignorandolo completamente, Uther dedicò tutta l'attenzione al suo cavallo. Controllò la dentatura, passò la mano esperta sul garrese e poi si rivolse al padrone. «Magnifica bestia. Non se ne vedono spesso in questa parte del mondo. Sono Uther Pendragon. Tu chi sei?» Invece di rispondere, lo sconosciuto tese la mano sinistra e la aprì con la palma rivolta verso l'alto, mostrando l'anello di Uther infilato a rovescio sul mignolo. Il re lo fissò in silenzio per qualche istante, poi posò la mano sul braccio di una delle guardie. «Marek, va' a farti dare delle coppe e una brocca di birra da portare alla mia tenda... una brocca grande, direi. Il nostro amico mi sembra assetato.» Poi, rivolgendosi al nuovo arrivato, aggiunse: «Vieni con me. Mentre parliamo qualcuno si occuperà del tuo cavallo». Lanciò un'occhiata a Nemo che stava squadrando lo straniero. «Pensaci tu, Nemo, per favore.» Si incamminò a passo svelto verso la sua tenda e il visitatore gli andò dietro, mentre le guardie si guardavano con muto stupore, senza capire. Stava calando il buio e dappertutto venivano accese lampade e
torce cosparse di pece. Nella tenda trovarono un soldato impegnato ad accendere alte candele di sego in aggiunta alle fioche e fumose lampade militari. Uther offrì una sedia all'ospite e si appoggiò sul bordo del tavolo con le braccia incrociate sul petto, in attesa che il soldato si allontanasse. Appena furono soli, parlò. «Donna Ygraine sta bene, mi auguro.» «Sì. Ed è qui vicino. Mi ha incaricato di condurti da lei, se hai tempo di farle visita.» Uther stava osservando lo straniero, soppesandolo così come aveva fatto fin dal primo momento. Non era un comune guerriero, né un servo. Oltre al magnifico cavallo che montava, anche il suo modo di parlare e i suoi abiti lo identificavano come un uomo di alto rango. «Chi sei?» «Il mio nome è Lagan. Mi chiamano Lagan il Saggio.» Il re sorrise. «Ma certo, il figlio di Herliss. Ora noto la rassomiglianza. Tuo padre sta bene? Non ho più saputo niente di lui dall'ultima volta che l'ho visto.» Lagan chinò il capo con solennità. «Sta bene ed è al sicuro a casa sua, a Tir Gwyn. Ti sono grato di averlo liberato, e per il modo in cui lo hai fatto. Hai salvato la vita a lui e forse anche a me, a mia moglie e mio figlio. Tutto il mio clan è in debito nei tuoi confronti.» Uther scosse la testa. «Non è il caso, Lagan. Ciò che ho fatto l'ho fatto per mio interesse, credimi. Mi servivano alleati nella guerra contro Lot, e tuo padre e la regina avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse a riprendersi una parte della loro vita. Ne abbiamo beneficiato tutti.» Fu interrotto dall'arrivo di Marek con una brocca di birra e due boccali. Uther versò da bere e subito Lagan alzò la sua coppa e ne vuotò metà tutto d'un fiato. Con un lieve sorriso, il re riprese la brocca e riempì di nuovo il boccale dell'ospite prima di sorseggiare la sua birra, osservando l'ospite dall'alto. «Avevi davvero sete! A che distanza si trova la regina?» Lagan si pulì la bocca col dorso della mano, ruttando. «Tre ore a
cavallo... quattro col buio, ma c'è luna piena stanotte. È a Forte Crag, una delle più piccole roccaforti di mio padre, anzi la più piccola, ma calda e confortevole. Se vuoi possiamo partire immediatamente, credo che la regina ti aspetti con impazienza. Domani deve tornare a Tir Gwyn dove la raggiungerà suo marito, il nostro amatissimo re. E mentre lui sarà lì, a meno di un giorno di viaggio da dove la regina dormirà stanotte, mio padre spera che tu brucerai Forte Crag.» Uther si stupì. «E perché dovrei farlo? Tuo padre è così ricco che può permettersi di perdere un castello solo per fare un gesto dimostrativo?» «Forse. Ma soprattutto non può permettersi di non farlo. Lot comincia a chiedersi perché quest'anno le proprietà di mio padre siano state così poco attaccate.» «Così poco? Vuoi dire che alcune sono state attaccate?» «Sì, due.» «Non lo sapevo.» «Già, e ringrazio gli dèi per questo. Quando tutti gli altri castelli della regione vengono assaliti, il fatto che quelli appartenenti a un unico, potente signore non subiscano alcuna minaccia salta agli occhi. Di recente tu hai attaccato due castelli di mio padre, a un mese di distanza l'uno dall'altro, e uno dei due l'hai ridotto piuttosto male, rubando tutto il grano che vi era immagazzinato e bruciando i granai vuoti. È successo appena in tempo per dissipare i sospetti di Lot. Ora è passato un altro mese, e la completa distruzione di un terzo castello di proprietà del nobile Herliss dovrebbe spostare l'ago della bilancia, almeno agli occhi di Lot, verso la fiducia.» «Uhm...» Uther tamburellò con le dita sull'orlo del suo boccale, assorto, poi chinò la testa in un cenno d'assenso. «E sia. Se vuoi aspettarmi qui, vado a parlare con alcune persone e a predisporre qualche particolare in modo da coprire la mia assenza. Darò istruzione ai miei stallieri di strigliare il tuo cavallo e di prepararlo per il viaggio e tornerò qui appena possibile. Partiremo immediatamente. Devo portarmi una scorta?» «No, a meno che tu non voglia a tutti i costi attirare l'attenzione
su di te. Ma se pensi di averne bisogno, portala.» Uther fissò il suo interlocutore negli occhi, ricordando ciò che aveva sentito dire di lui anni prima. Erano quasi coetanei, Lagan era forse di un paio d'anni più vecchio, e stando alle parole della sua vecchia amica Mairidh avevano anche un temperamento simile. Lagan ricambiò il suo sguardo con un'espressione non proprio arrogante, ma certo non priva di sicurezza. Uther sorrise. «No, non credo. Niente scorta. Aspettami, non ci metterò molto.» Stava per avviarsi quando l'altro lo chiamò, facendolo voltare incuriosito. «Che c'è?» Lagan lo squadrò dalla testa ai piedi, poi fece un gesto con la mano. «Guardati» disse. «Se hai intenzione di metterti quella, tanto vale che ti porti una scorta.» «Mettermi cosa?» «L'armatura di re Uther Pendragon. Ti ho riconosciuto non appena ti ho visto arrivare: mantello rosso fiamma e oro, drago dorato, armatura di bronzo smaltata di rosso, cimiero color cremisi sull'elmo. Non è molto discreta, no? Se vuoi puoi portarti anche un trombettiere, in modo da allertare chi non dovesse riconoscerti alla prima occhiata...» Uther lo guardò, sbalordito dalla sua sfrontatezza, poi le sue labbra si distesero lentamente in un sorriso e annuì. «Hai ragione. Fammi cercare qualcos'altro da mettermi addosso. Pochi hanno la mia taglia fra le truppe, ma qualcuno c'è. Aspettami. Tornerò appena posso.» Lagan rimase immobile per un istante, poi vuotò il suo boccale e si alzò per attingere di nuovo alla brocca. Quando l'ebbe riempito di nuovo fino all'orlo tornò a sedersi posandolo per terra accanto a sé e si stiracchiò con un mugolio di piacere. Quando Uther tornò, indossando un semplice mantello nero di lana col cappuccio e un'indescrivibile accozzaglia di pezzi di armatura, trovò il suo visitatore addormentato col mento posato sul
petto, le lunghe gambe distese e il corpo sprofondato nella sedia. Il boccale accanto a lui era ancora pieno. Uther imparò più cose su Gulrhys Lot in quella notte di quante fosse riuscito ad apprenderne in tutta la vita. Non avrebbe saputo dire in quale momento il tenore della loro conversazione era cambiato, ma alla fine tutto ciò che Lagan il Saggio si teneva rigorosamente dentro a proposito di Gulrhys Lot - tutta la rabbia, la frustrazione, l'amarezza e il dolore - era venuto fuori in una sorta di catarsi purificatrice. Fin dalle prime parole che si scambiarono, appena lontani dall'accampamento, Uther sentì che fra lui e Lagan esisteva un legame indefinito che permetteva loro di aprirsi l'uno con l'altro senza timore. Era un fenomeno completamente nuovo per lui, poiché non era nella sua natura essere molto loquace con gli amici o fidarsi facilmente degli sconosciuti, ma si limitò ad accettarlo senza discutere, mentre Lagan non parve aver notato niente di insolito. Uther iniziò parlando di Merlino, e in qualche modo la conversazione scivolò spontaneamente sulla sua lealtà verso il cugino e poi su Camelot e sui suoi Dragoni. Ma poiché l'argomento continuava a tornare su Merlino, sulla lealtà e infine sul disinganno che portava al tradimento, Uther si ritrovò a confessare i suoi dubbi e le sue incertezze. E dopo un po' Lagan il Saggio cominciò a sua volta ad aprirsi parlando delle sue esperienze di lealtà e di tradimento e dell'amicizia che da decenni lo legava a Gulrhys Lot. «Per gli dèi!» lo interruppe Uther. «Parli come se ritenessi di aver perso qualcosa di prezioso!» «Io ho perso qualcosa di prezioso.» Lagan lanciò un'occhiata a Uther e vedendo la sua espressione incredula sorrise e scosse la testa. «Ma il valore che tutti noi attribuiamo alle cose cambia col passare del tempo. Tu non hai mai conosciuto Lot come l'ho conosciuto io. Ha un senso dell'umorismo straordinario e in tempi felici ci siamo divertiti un mondo insieme, lui e io, ridendo fino alle lacrime.» «Gulrhys Lot? Stai parlando di Lot di Cornovaglia? Non è possibile.»
«Perché no? Ora sono contro di lui, ma per più di vent'anni gli sono stato amico con sincerità e devozione, e non perché fosse un miserabile, subdolo e disumano tiranno, te l'assicuro. Sapeva essere questo e molto peggio quando voleva, ma non lo è mai stato con me. Mai. Non l'ho mai conosciuto sotto questo aspetto. So che la gente mi riteneva ingenuo, cieco e sciocco. Persino mia moglie Lydda lo pensava, e ha cercato molte volte di mettermi in guardia, ma naturalmente non l'ho mai ascoltata. Ero un uomo, e lei solo una donna, quindi cercavo di avere pazienza dicendole che si sbagliava. Be', non era così, e sono stato io a comportarmi da stupido.» Per un po' Lagan rimase in silenzio e Uther lo lasciò in pace, sapendo che non aveva ancora finito. «Lui ti piacerebbe, Uther, e molto, che tu lo creda o no. Ti andrebbe subito a genio e ti sentiresti perfettamente a tuo agio con lui... prima di vedere oltre la maschera che indossa. Ha una maschera diversa per ogni persona, persino per me. E mi ha ingannato così bene, così maledettamente bene, che per tutta la mia vita mi sono rifiutato di credere alla sua ipocrisia, chiunque me ne parlasse.» «Come ha fatto a comportarsi così con te per tutto questo tempo, e non con gli altri? E come hai potuto non accorgertene?» «Già, come?» Lagan fece una smorfia. «Quando ha preso in ostaggio mia moglie e mio figlio per garantirsi la mia obbedienza, mi ha perduto per sempre, ma lui e io eravamo amici per la pelle da bambini, e crescendo siamo rimasti legati. Il Lot che amavo era il Lot della nostra infanzia.» «Lo conobbi quand'era un ragazzo, ed era un porco schifoso. Tentai di ucciderlo» brontolò Uther disgustato. «Lo so, Ygraine me l'ha detto. Ricordo che stava molto male quando tornò a casa quell'anno. Passarono settimane prima che mi permettessero di vederlo, e non seppi mai cos'era successo veramente. Ma Lot aveva quattordici anni allora. Quando parlo della nostra infanzia, mi riferisco ai tempi in cui eravamo bambini, sette, otto, nove e dieci anni... i tempi in cui non avevamo ancora conosciuto il sangue, la maturità, la corruzione del sesso. L'infanzia, Uther. Non puoi non ricordarla. Devi averne avuta una anche tu.»
Uther sorrise, poi si rifece serio. «Certo che l'ho avuta. Ma quelle stesse cose hanno cambiato anche te e me, Lagan, eppure non siamo diventati dei pazzi scatenati che vogliono dominare il mondo.» «È vero. Ma per quanto sia caduto in basso ai nostri occhi, Lot conserva un'infinita riserva di fascino e di comunicativa alla quale può attingere quando vuole. E se trova qualcuno che può essergli utile, che è nella posizione di potergli arrecare nuovi benefici, o che lui vuole piegare ai suoi fini per determinati motivi, non c'è limite a ciò che è disposto a fare per ingraziarselo. Gliel'ho visto fare per anni e, credimi, sa essere incredibilmente accattivante e convincente quando si tratta di far fare alla gente quello che vuole. Sarebbe capace di farsi consegnare il miele da un orso affamato. Ma, come puoi immaginare, quelli che sono stati gratificati dalla sua considerazione e dalla sua approvazione si ritrovano abbandonati e ignorati nel giro di una settimana, se i suoi interessi sono cambiati. E avendo conosciuto luce e calore, soffrono ancora di più a ripiombare nel gelo in cui avevano vissuto prima, e l'oscurità della loro vita diventa una tenebra. Non c'è da stupirsi che provino amarezza.» «No, ma credevo che Lot fosse troppo scaltro per permetterlo, per farsi una cattiva nomea senza bisogno. È una pessima condotta per un capo... per un re. Una pessima politica, da ogni punto di vista.» Uther rifletté per un momento, poi concluse: «D'altronde, è Lot di Cornovaglia, ed è pazzo». Lagan scoppiò in un'aspra risata. Tra una parola e l'altra, era calata su di loro all'improvviso una fitta oscurità, ed entrambi si fermarono a guardare la luna che si trovava ormai alle loro spalle. Era coperta dalla frangia di una grande nube che stava rapidamente oscurando le stelle, ma non appena si fermarono a guardarla riemerse inondando di nuovo il mondo con la sua luce. Lagan esplorò il cielo verso nord-est. «Temporale in arrivo. Quella nuvola si muove molto velocemente, ed è solo la prima. Guarda là, il cielo è nero come gli inferi. Sarà meglio aumentare l'andatura.» «Quanta strada ci rimane?»
«Cinque miglia. Un'ora di viaggio, a questo passo. Saremo fradici ben prima.» «Allora affrettiamoci, finché la luce è buona.» Si lanciarono al piccolo galoppo, interrompendo la conversazione. Stavano attraversando la brughiera e non c'erano alberi o cespugli a ostacolare il loro cammino, ma sapevano che il terreno, disseminato di ciottoli e di buche scavate dagli animali, poteva essere insidioso per gli zoccoli dei cavalli. Dopo un quarto d'ora a quell'andatura le bestie cominciarono ad avere il fiato corto e i due rallentarono, procedendo di nuovo al passo. Il cielo sopra di loro era ancora sereno, tranne per quella casuale nuvoletta dall'aria inoffensiva, e i banchi di nubi temporalesche che si ammassavano a nord-est parevano muoversi molto lentamente. Uther aveva riflettuto sulle parole di Lagan e gli era rimasta in mente un'unica domanda, un punto del quale voleva essere sicuro. «Saresti ancora suo amico, se tornasse a chiedertelo?» Lagan gli lanciò una rapida occhiata, poi scosse la testa con decisione. «No. Ha passato il limite ormai.» «E lui lo sa?» Per un bel po' Lagan non rispose, poi fece un cenno di diniego. «No. Non ha idea di ciò che provo.» «Ne sei sicuro?» Lagan si voltò di scatto e replicò bruscamente: «Certo che ne sono sicuro! Se non fosse così sarei già morto, e insieme a me tutta la mia famiglia, da mio padre all'ultimo dei miei nipoti». Si interruppe per un attimo, poi riprese a parlare in tono normale. «Sono costretto a vivere nella menzogna, capisci, per salvare delle vite. Non la mia - quella non ha importanza - ma... quelle di altri. Non hai idea, amico mio, del piacere che proverei a farmi largo tra le sue onnipresenti guardie per dirgli ciò che veramente penso di lui e del suo infame comportamento. Ma sai qual è la cosa peggiore?» Fissò Uther e scosse la testa, come rispondendo alla sua stessa domanda. «La cosa peggiore di tutte è che se anche decidesse di farmi braccare e uccidere con tutto il mio clan, si sentirebbe
comunque ferito e vessato. Ciò che devi capire di Lot è questo suo assurdo amore per se stesso. Si crede senza difetti, pensa di non poter far nulla di sbagliato. Nella sua vita sono sempre gli altri a tradirlo, in un modo o nell'altro. Non esiste mai la possibilità che la colpa possa essere sua... Che cos'è stato? Hai sentito qualcosa?» Uther si fermò di colpo, alzandosi sulle staffe e coprendo la testa del suo cavallo con l'orlo del mantello per accecarlo. L'animale era addestrato a rimanere in silenzio e non fece alcun rumore. «Qualcosa» disse. «Mi è parso un grido interrotto.» «Anche a me. Vedi niente?» «No. Taci e ascolta.» Per un lungo istante non udirono nulla, poi dalla cima di un leggero pendio di fronte a loro venne un tintinnio metallico, seguito a breve distanza da un altro. I due uomini smontarono rapidamente e Uther lasciò cadere le redini a terra per far capire al suo cavallo ben addestrato che non doveva muoversi. Poi, avvoltosi nel mantello nero preso a prestito, si acquattò e seguì Lagan sulla salita, strisciando sulla pancia nell'ultimo tratto finché non fu in grado di vedere oltre la cresta. Sull'altro versante della collinetta il terreno precipitava bruscamente verso quello che un tempo doveva essere stato un corso d'acqua di ampia portata, e l'intero letto del fiume, profondo e ormai asciutto, appariva stipato di uomini pesantemente armati in marcia da nord a sud. Proprio di fronte al loro punto di osservazione c'era un uomo seduto in disparte che veniva soccorso da altri due, e presto fu evidente che doveva essere stato lui a gridare, perché uno dei compagni gli teneva ferma la gamba mentre l'altro gli fasciava la caviglia, ignorando la litania soffocata di maledizioni che sfuggivano dalle labbra del ferito. Assistendo a quella scena, Uther pensò di nuovo a quanto erano pericolose per i viaggiatori notturni le tane che gli animali scavavano in abbondanza in quelle brughiere. Terminata la fasciatura, i due uomini rimisero in piedi il compagno e lo trascinarono via zoppicante, reggendolo per le spalle. I due osservatori non si scambiarono neppure un'occhiata, ma
Uther sentì la testa di Lagan accostarsi alla sua e si piegò ad ascoltare. «Non so chi sia questa gente, ma potrebbero essere mercenari di Lot» mormorò Lagan all'orecchio di Uther. «Sono diretti a sud, a Tir Gwyn, dove Lot arriverà domani. Ma non capisco perché marcino di notte, di nascosto e senza far rumore. A meno che, naturalmente, Lot non li abbia mandati in avanscoperta per assicurarsi che Herliss non gli stia preparando una sorpresa.» «Chi possono essere, altrimenti? Insomma, è possibile che non siano uomini di Lot?» «No, a meno che non siano i tuoi. Devono essere di Lot. E stanno andando a sud, quindi sono diretti a Tir Gwyn. Forte Crag è a est, proprio davanti a noi, quindi non stanno andando là. Non ci resta che attendere che siano passati, ma sarà meglio che ci allontaniamo un po'.» «Non dovresti tentare di avvertire tuo padre che stanno arrivando?» «Sì, e lo farò quando saremo arrivati a Forte Crag. È lì che ci aspetta.» Uther annuì e i due indietreggiarono strisciando finché non osarono rimettersi in piedi. A quel punto raggiunsero i cavalli e si sedettero accanto a loro. Poco tempo dopo un gocciolone si abbatté sull'orecchio di Uther. Il giovane alzò lo sguardo al cielo, che si era fatto tutto nero, si rimise l'elmo e si avvolse completamente nel mantello. L'attimo seguente il cielo si aprì e ogni rumore fu coperto dal tambureggiare della pioggia sulla calotta di metallo. Era inutile tentare di proseguire. Uomini e cavalli rimasero immobili come statue, investiti da un diluvio così torrenziale da renderli invisibili a più di cinque passi di distanza. Uno dopo l'altro, sette lampi squarciarono le tenebre rivelando la terra nera e desolata percorsa da raffiche di pioggia scrosciante, poi il peggio passò e l'acqua cominciò a cadere con minore violenza. A poco a poco i due uomini furono di nuovo in grado di distinguersi, sia pur vagamente, ma attesero ancora con pazienza che la pioggia cessasse. Quando ripresero il cammino il fiume di guerrieri era svanito,
come se il temporale e la notte l'avessero cancellato. Uther rabbrividì, con la mascella indolenzita per lo sforzo di non battere i denti. «Non preoccuparti» disse Lagan. «Ci resta ancora un miglio, ma quando arriveremo a Forte Crag troveremo fuoco e calore, birra e carne arrosto.» «Se corriamo, possiamo arrivarci in meno di un miglio?» Lagan sorrise e si asciugò con la mano una goccia di pioggia che gli colava dal naso. «Può darsi... c'è sempre una prima volta, dicono.»
XIV. «E così, Lot ha sciolto i suoi cani per distruggermi.» Herliss era seduto accanto al focolare nella sala principale della cittadella fortificata nota come Forte Crag. Sopra di lui si elevava il tetto spiovente dell'edificio, avvolto in un'oscurità fumosa. Ygraine, regina di Cornovaglia, era all'altro lato del caminetto, affiancata da due dame. Uther stava alla destra di Herliss e Lagan era in piedi accanto a lui. Il resto della stanza era immerso nel buio, tranne un tavolo contro il muro opposto al focolare, illuminato da candelabri di ferro. «Questa è stata l'impressione di Lagan» rispose Uther. «Ha subito immaginato che fossero diretti alla Fortezza Bianca, anche se non capiva perché dovessero farlo in segreto...» «Ma dopo averci pensato un attimo tutto mi è stato chiaro» intervenne Lagan. «Sono uomini del nostro re, e si occupano dei suoi onesti affari» aggiunse con pesante ironia, strappando a Uther un mezzo sorriso. «A ogni modo,» proseguì il re di Cambria «io non so dove stessero andando e perché. So solo che non erano miei uomini. Dunque l'unica ipotesi possibile era che fossero quelli di Lot... uomini della Cornovaglia fedeli alla sua causa. Così mi sono tenuto nascosto.» Lanciò un'occhiata a Lagan per vedere se aveva qualcosa da aggiungere, ma l'altro osservava le fiamme senza prestare attenzione alla conversazione, con le braccia incrociate sul petto e un boccale di birra in mano. Uther spostò lo sguardo su Herliss, evitando accuratamente di guardare Ygraine. Era perfettamente conscio del fatto che lei lo stava fissando, e temeva, ricambiandola, di rivelare i suoi pensieri e i suoi sentimenti a coloro che si trovavano nella stanza. Una delle due donne sedute accanto alla regina era Dyllis, l'altra era una sconosciuta. Uther era arrivato a Forte Crag con Lagan un'ora prima ed era
rimasto impressionato dall'accoglienza ricevuta. Il forte era ben sorvegliato da due cerchi di sentinelle, il più lontano a circa cento passi dalle mura; ogni cerchio era formato da coppie di guardie a una distanza di venti passi l'una dall'altra. La fortezza era piccola ciascun lato della cinta rettangolare di mura non misurava più di settantacinque od ottanta passi - ma era una costruzione robusta, fatta con pietra locale, e Uther aveva subito compreso che si trattava di un'installazione militare eretta secoli prima dai Romani per ospitare pattuglie di ricognizione regolari o addirittura una guarnigione permanente di circa centoventi tra uomini e ufficiali, ovvero il numero di componenti di un manipolo, l'unità tattica di combattimento di una coorte. La massiccia porta di legno all'ingresso principale era protetta da un compatto raggruppamento di sentinelle, ma fin dall'inizio era risultato chiaro che Lagan era atteso, perché nessuno aveva tentato di interrogare lui o il suo compagno mentre dissellavano i cavalli e li affidavano agli stallieri di Herliss, prima di attraversare le linee di guardia e penetrare nel forte. Entrando, Uther aveva avuto l'impressione che tutti evitassero persino di guardarlo in faccia, per quanto la cosa gli sembrasse incredibile, e si era limitato a prendere atto che quantomeno gli uomini di Herliss erano vigili e consci della situazione, pronti a salvaguardare la loro parte di Cornovaglia. Una volta al sicuro dentro le mura, Lagan aveva accompagnato Uther nell'edificio principale, una struttura realizzata con tronchi d'albero che un tempo aveva ospitato il quartier generale della guarnigione. Era l'edificio più grande della cittadella ed era circondato da qualche decina di edifici più piccoli, anch'essi fatti di tronchi, con quattro o sei pilastri di sostegno. Metà di queste costruzioni, lunghe e basse, erano chiaramente delle caserme, mentre altre erano utilizzate come magazzini o laboratori di manutenzione o altri locali di servizio. Fra le rimanenti, alcune sembravano robuste abitazioni, e Uther ne aveva viste almeno tre collegate da passaggi coperti. Nella sala grande trovarono Herliss che li aspettava, mentre alcuni servitori disponevano del cibo su un tavolo in fondo, già traboccante di piatti: cibi caldi e freddi, carne, selvaggina, pesce, frutta, verdura e pane. Herliss spiegò che la regina e le sue dame li
avrebbero raggiunti a breve ed erano già state informate del loro arrivo. Nessuno aveva ancora mangiato, aggiunse, poiché la regina aveva deciso di attendere che giungessero gli ospiti, e quindi erano tutti affamati e impazienti. Herliss ordinò a una delle guardie di accompagnare Uther alle stanze che gli erano state assegnate, dove avrebbe trovato un braciere acceso e degli abiti puliti e asciutti, ma prima che il re riuscisse a ringraziarlo, Ygraine fece il suo ingresso nella sala. Uther riuscì in qualche modo a salutare la regina e le sue dame senza far trapelare la sua confusione, poi si scusò e si avviò in fretta dietro la guardia che lo stava aspettando. Una volta solo e al sicuro nella sua stanza, non sentì più alcuna premura di cambiarsi per tornare nella sala e si rivestì con calma asciugandosi bene, godendosi il tepore del braciere mentre indossava abiti caldi e puliti e riesaminando, per la prima volta dall'arrivo di Lagan all'accampamento, tutti i pensieri caotici che gli erano passati per la mente. Inizialmente l'inatteso invito di Lagan gli aveva fatto sospettare un'imboscata, ma questo pensiero aveva avuto vita breve. Lagan aveva al dito l'anello di Uther, secondo l'accordo preso con Ygraine, ed era impossibile che la regina avesse rivelato quel segreto a qualcuno. Neppure Herliss ne era a conoscenza. Così Uther aveva deciso di fidarsi, e quella decisione lo aveva portato a riflettere sui sentimenti che provava per Ygraine. Erano trascorsi molti mesi dall'ultima volta che aveva visto la regina di Cornovaglia, e a essere sinceri era parecchio tempo che non pensava a lei. Solo ora, nell'intimità di quella strana stanza riscaldata dal braciere, ammise con sincerità che era stato attratto dal pensiero di rivederla e di fare di nuovo l'amore con lei. Diede un'occhiata al letto, un mobile massiccio con solide gambe e un ricco corredo di lenzuola e coperte. Era un letto robusto, adatto a soddisfare qualunque esigenza maschile, e Uther sorrise fra sé. Gli era bastato vederla per rimanere abbagliato, quasi stordito dal suo splendore e dalla sua avvenenza. Incredulo, si era reso conto all'improvviso che si era quasi dimenticato quanto fosse bella, e aveva esitato ad andarle incontro per salutarla, conscio che i suoi
occhi lampeggianti di desiderio e la sua espressione tradivano ciò che provava molto più di quanto fosse richiesto. A quindici passi di distanza, lo splendore di quella chioma fiammeggiante e lo scintillio dei grandi occhi verdi sul candore incredibile del volto perfetto lo avevano infiammato istantaneamente, e il ricordo del fianco nudo e liscio su cui un tempo aveva posato la mano lo aveva lasciato senza fiato. Aveva rivisto Ygraine indifesa e abbandonata fra le sue braccia, che lo trascinava sul letto baciandolo con la bocca generosa dalle labbra grandi e piene. Quando si era ritrovato a fissare i suoi occhi sorridenti aveva temuto di non poter trovare le parole per salutarla degnamente, ma era riuscito ugualmente a borbottare qualcosa senza suscitare commenti o sorpresa. Dal calore delle mani di Ygraine che stringevano le sue aveva compreso senz'ombra di dubbio che era contenta di vederlo, ancor più di quanto lo fosse lui, e aveva provato l'impulso di cingere con un braccio quella vita sottile e affondare il viso nella pelle serica del suo collo. A quel pensiero, all'idea del respiro caldo di Ygraine si era sentito stringere la gola dal desiderio e dall'imbarazzo, ma Ygraine non aveva battuto ciglio e senza smettere di sorridere aveva distolto lo sguardo da lui per dire qualcosa a Herliss. Confuso e balbettante, Uther era riuscito a mostrarsi educato con Dyllis e con la sua compagna che aveva un nome romano, Lydia, poi era fuggito evitando ulteriori turbamenti, approfittando volentieri dell'intimità della sua stanza per soffocare quel panico inconsueto. Gli tornò in mente quando molti anni prima zio Publio gli aveva raccontato del suo colpo di fulmine, l'amore timido di un ragazzo adolescente per una bella donna che vedeva per la prima volta. Ma lui non era più un ragazzino, e questo non era il suo primo incontro: lui era Uther Pendragon, re della Federazione dei Pendragon della Cambria meridionale, e aveva fatto l'amore con quella donna qualche mese prima. Perché, allora, era ammutolito in quel modo vedendola? La verità era imbarazzante, e quando Uther tornò nella sala era tutt'altro che pronto a incontrare la regina di Cornovaglia con serenità. Lagan era già arrivato, e alla comparsa di Uther tutti presero posto intorno alla tavola senza formalità, con le due dame insieme a
un capo della tavola e Ygraine all'altro. Uther era impaziente come tutti gli altri, poiché aveva mangiato ben poco dalla sera precedente. Solo quand'ebbero calmato la fame i commensali iniziarono a conversare spigliatamente, finché Uther non chiese a Herliss di raccontargli la loro fuga e il loro ritorno a casa. Era stato facile, aveva esordito il vecchio. Dopo la partenza di Uther con Popilio Cirro e gran parte delle truppe, le forze lasciate a guardia del campo e dei prigionieri erano rimaste all'erta per ventiquattr'ore, poi si erano rilassate, e la notte successiva era stato messo in atto il piano. Quando le guardie rimaste erano state "sopraffatte" dal gruppo di Nemo, i fuggitivi avevano abbandonato la valle senza ostacoli e in pochi giorni erano riusciti a tornare sani e salvi a Golant, la base principale di Lot. Nemo e gli altri erano rimasti con loro per un paio di giorni, poi li avevano abbandonati nei pressi della costa sostenendo di voler cercare una nave che li portasse in Gallia. Gli uomini della regina avevano pensato che il gruppetto non sarebbe mai riuscito ad arrivare vivo sulle coste straniere, ma si erano astenuti dall'interferire. La cosa più importante era che nessuno dei membri della guardia, compreso il capo Alasdair Mac Iain, aveva espresso dubbi sull'intera vicenda ed erano tutti convinti di dovere la vita e la salvezza a Herliss, alla sua lealtà e al suo ingegno. Credevano davvero, disse il vecchio a Uther, che i loro carcerieri li avrebbero uccisi piuttosto che lasciarli liberi, dato che gli altri prigionieri, partiti con una scorta di guardie, non si erano più visti. Uther sospirò. «Qualcuno è tornato?» Herliss fece un grugnito d'assenso. «Sì. Morgas, la falsa regina, e le altre dame sono rientrate nel giro di due settimane, non appena a Camelot è giunto il tuo ordine di lasciarle libere e ricondurle a casa. Alcuni soldati le hanno accompagnate al confine e hanno fatto sapere a Lot che poteva venirle a prendere. Quando lui è arrivato se n'erano già andati.» Uther annuì. «Bene, era ciò che volevo. Ma non stavo parlando delle donne. Mi riferivo agli altri vostri guerrieri... quelli che abbiamo abbandonato nelle brughiere.» Il vecchio si voltò verso di lui inarcando un sopracciglio. «Hai
liberato centoventi uomini, tutti appartenenti alle mie truppe. Nessuno li ha più visti.» «Vuoi dire che sono tutti spariti?» domandò Uther, piuttosto perplesso. «Ufficialmente sì. Lot li ha dichiarati morti e ha detto a tutti che tu li hai barbaramente uccisi durante la prigionia; la loro morte è stata testimoniata dai membri della guardia personale della regina. Nessuno conosceva il loro nome... o almeno nessuno lo ha riferito agli uomini di Lot. Una tragica perdita... avrebbe potuto creare il caos fra la mia gente, qui nel sud, se il vuoto che avevano lasciato non fosse stato prontamente riempito. Più o meno in quel periodo, centoventi stranieri sono giunti nelle mie terre, ci crederesti? Hanno finito per stabilirsi fra la mia gente, adottando e consolando le vedove e le famiglie degli uomini uccisi.» «Una circostanza straordinariamente fortunata.» «Già... Miracolosa, se ci pensi...» Uther si guardò intorno e vide che tutti sorridevano, compresa la giovane di nome Lydia. Trovò il coraggio di guardare Ygraine all'altro capo del tavolo e pose a lei la domanda successiva. «Raccontami, signora, se non ti dispiace, qual è stata la reazione del tuo re alla notizia che eri ancora viva ed eri fuggita.» Sempre sorridendo, Ygraine invitò con un gesto Herliss a proseguire, e l'uomo non si fece pregare. «L'ha presa molto bene, se si considera tutto ciò che ha fatto per impedirlo. Come ti dicevo, siamo andati direttamente alla fortezza di Golant, che era in effetti molto più vicina al tuo accampamento di quanto non fosse il mio forte di Tir Gwyn, e al nostro arrivo abbiamo scoperto che Lot era atteso lì il giorno successivo. La cosa mi ha sorpreso, perché credevo che fosse sulla costa settentrionale per sovrintendere alla costruzione della nuova fortezza di Rosnant.» «Rosnant?» Uther si raddrizzò sulla sedia. «Lot ha una nuova fortezza? E da quando?» Herliss si grattò la barba. «Be', in realtà c'è sempre stata. Forse la conosci col nome di Tintagel. La gente del posto la chiama così.» Uther scosse la testa e il vecchio lanciò un'occhiata al figlio prima di
proseguire. «È una fortezza naturale, imprendibile, assolutamente sicura da ogni attacco: sorge su uno sperone di roccia collegato alla costa da un piccolo istmo che anche una capra farebbe fatica ad attraversare, e che anche un cieco riuscirebbe a difendere. Non si può conquistare con un attacco frontale perché non è raggiungibile. Non può essere assediata e ridotta alla fame perché è circondata dal mare su tutti i lati. E non la si può attaccare neanche dal mare perché le scogliere sono troppo scoscese. I rifornimenti possono arrivare fin lì ed essere issati sugli scogli dai difensori, ma nessun assalitore potrà mai arrampicarsi fin lassù. È impossibile.» Lagan intervenne per la prima volta. «Non credo che tu debba preoccuparti di Rosnant, Uther. È una postazione difensiva, adatta a una resistenza estrema. È vero, Lot è inattaccabile laggiù, ma non può nemmeno azzardare una sortita contro di te. E se dovesse tentare di fuggire via mare, sarebbe costretto ad arrivare fino in Gallia o qualche altro posto, perché non potrebbe approdare in nessun luogo da queste parti. La gente appoggerebbe te contro di lui. C'è un male che affligge la nostra patria, e il suo nome è Gulrhys Lot. Il nostro popolo farebbe qualunque cosa per liberarsene, credimi.» «Ma che mi dici dei mercenari? Ho l'impressione che siano più numerosi dei locali, in Cornovaglia.» Herliss riprese la parola. «Forse hai ragione, ma sono stranieri, e se combatteremo per la nostra terra il nostro popolo vincerà. Naturalmente, tu ci aiuterai.» «Io? E quando?» «Quando e dove sarà possibile, immagino, dato che abbiamo lo stesso obiettivo.» Uther decise di non approfondire la cosa, per il momento. «Parlami di quell'altro posto, la roccaforte di Golant. È a nord di qui, giusto?» «Be', sì, ma più a est che a nord, a circa trenta miglia, lungo la costa. Che cosa vuoi sapere?» «Di che tipo di fortezza si tratta... è possibile espugnarla?»
«Con un assedio, vuoi dire? Ne dubito. È una delle vecchie cittadelle circolari costruite prima dell'avvento dei Romani, con due cinte di mura di terra concentriche divise da un fossato. L'ingresso principale è a est. Lì la cinta interna resta circolare, con un semplice accesso che conduce alla cittadella centrale, mentre quella esterna si allunga verso est e diventa ovale, creando un'area interamente circondata da alti bastioni sui quali è possibile concentrare le truppe per tentare una sortita o per bloccare e massacrare chiunque si avvicini alla porta esterna.» «E questa porta ha i cardini?» Herliss lo fissò perplesso, poi comprese la domanda di Uther e il suo volto si distese. «No, non è una porta in quel senso. Non ha i battenti. Per capirlo, devi partire dai bastioni, le mura esterne. Conosci l'unità di misura romana chiamata pesi» «Sì, dovrebbe essere la lunghezza del piede di un uomo di alta statura. Non la usiamo, ma sappiamo cosa significa.» Herliss sorrise. «Noi la adottiamo comunemente, ormai. Fu il vecchio duca a introdurla, sostenendo che era più sensato che esprimere le distanze in passi, e da quando ho iniziato a usarla sono d'accordo con lui. Cento passi fatti da un uomo sono molto più di cento passi fatti da un ragazzo, mentre un piede è una misura comprensibile per entrambi. A ogni modo, la cinta esterna ha uno spessore di trentacinque, quaranta piedi, è alta circa sei, e ha davanti un fossato profondo dodici piedi e largo ventidue. La porta non è che uno stretto corridoio rivestito di legno con un'ampiezza massima di sei piedi. La sua lunghezza è pari allo spessore delle mura esterne ossia da trentacinque a quaranta passi - e i bastioni lo sovrastano da entrambi i lati come torri, con dei ponti gettati da una parte all'altra. Chiunque voglia penetrare in quel luogo deve attraversare tale passaggio, ed è un percorso piuttosto lungo se non si è bene accetti.» Fece una pausa. «L'unica alternativa è quella di superare il fossato esterno e salire in cima ai bastioni. Ammesso che tu ce la faccia, avrai un altro fossato e un altro muro da superare prima di raggiungere la cittadella, e che gli dèi della guerra e della fortuna ti proteggano, perché ne avrai bisogno.» «L'altra cinta di mura, quella interna, ha le stesse dimensioni della
prima?» «Non proprio. È perfettamente circolare, ma è leggermente più stretta, ventidue piedi, direi. Ha lo stesso tipo di ingresso, con pareti di legno e sentinelle su entrambi i lati e sui ponti che lo attraversano. L'area circolare all'interno delle fortificazioni misura circa duecentocinquanta piedi di diametro, ossia almeno un centinaio di passi, comunque tu li misuri.» Herliss tacque, continuando a fissare Uther e a grattarsi la barba. «Perché sei tanto interessato alle difese di Lot? Pensi di attaccarle?» Uther rise e scosse la testa. «No, niente affatto, ma preferisco sempre sapere quello che ho di fronte. Se dovessimo confinare quell'uomo nel suo rifugio, vorrei sapere se conviene tenerlo bloccato lì dentro o snidarlo.» Si rivolse di nuovo a Lagan. «Avrei dovuto chiedertelo prima... tua moglie e tuo figlio stanno bene?» Lagan annuì. «Sì, sono tornati a casa.» Uther non riuscì a nascondere la sua sorpresa. «Li hai lasciati tornare? Ero convinto che li avresti tenuti sott'occhio continuamente, d'ora in poi.» Non aveva ancora finito di parlare che si rese conto di essere stato inopportuno, ma era ormai troppo tardi. Lagan però non si offese e si limitò a scuotere il capo. «Qui in Cornovaglia le cose non sono sempre come sembrano. In realtà, è più sicuro per me lasciare la mia famiglia indifesa che tenerla vicino a me.» «Ciò che intende dire mio figlio» ringhiò Herliss «è che la follia di Lot cresce di giorno in giorno. Ma finché lui lascia la sua famiglia esposta alla sua minaccia, il re sarà convinto che Lagan non stia tramando contro di lui. La verità, naturalmente, è che Lydda e Cardoc sono protetti notte e giorno più dello stesso re, anche se lui è così cieco da non vederlo. Al primo accenno di minaccia contro uno dei due, il re si vedrebbe crollare il mondo addosso e la sua testa maledetta rotolerebbe a terra. Nel frattempo, Lagan è libero di fare ciò che vuole: di venire a trovarti, per esempio, e di condurti qui da noi, poiché Lot non immagina neanche che qualcuno possa essere così coraggioso o pazzo da complottare contro di lui lasciando i propri cari alla mercé della sua follia.»
«Bene» mormorò Uther. «Come ci libereremo da questa pestilenza e quando?» «Abbiamo un piano.» Era stata Ygraine a parlare. «Per questo ho deciso di mandarti a chiamare. Herliss, vuoi illustrare la nostra strategia a Uther?» Ma Uther alzò una mano. «Aspetta!» Puntò lo sguardo sulla donna seduta accanto a Dyllis, quella chiamata Lydia, poi lo riportò sulla regina. «Donna Ygraine,» disse «non voglio offendere nessuno, ma con i miei uomini adotto una politica che si è dimostrata valida. Non parliamo mai di progetti futuri o segreti in presenza di persone che non conosciamo abbastanza da potercene fidare.» Indicò Lydia. «Io non la conosco, e finché non sarò molto più sicuro qui nel paese di Lot, non accetterò nemmeno la tua parola o quella di Herliss a garanzia di questa giovane donna o di qualunque persona a me ignota.» Si voltò verso la ragazza allibita e chinò il capo. «Perdonami, signora, ma qualunque cosa io dica potrebbe giungere alle orecchie di Gulrhys Lot.» La giovane impallidì e si alzò, fece un rigido inchino alla regina e al resto del gruppo e scomparve dalla sala. Anche Dyllis chiese alla sua padrona il permesso di ritirarsi, affermando che la sua presenza non era necessaria. Ygraine annuì e non appena Dyllis ebbe raggiunto la sua compagna si rivolse a Uther. «Mi è parsa una precauzione eccessiva, sire.» Herliss risparmiò al Pendragon la risposta. «Sciocchezze, bambina, Uther ha assolutamente ragione» ringhiò come un vecchio orso appena destatosi dal letargo invernale. «Dal momento che quel figlio di puttana è capace di costringere Lagan a prendere le armi contro suo padre per salvare la vita del suo ragazzo, non ci si può fidare di nessuno. Forse Lydia ci resterà male, ma le passerà. Le auguro di non avere dolori più grandi di questo nella sua vita.» Uther si stava di nuovo guardando intorno. «Come fate a proteggervi da un eventuale tradimento qui? Dev'esserci almeno una cinquantina di persone, contando tutte le vostre guardie. Mi aspettavo di trovare questo posto vuoto e abbandonato, e invece mi avete scortato fin qui sotto gli occhi dei vostri uomini e abbiamo avuto gente intorno fin dal nostro arrivo. Uno di loro, o tutti,
potrebbero essere sul libro paga di Lot.» Herliss sorrise e scrollò le spalle. «Non sono stupido come credi, né così ingenuo e fiducioso.» Fece un gesto con la mano a indicare tutto ciò che stava loro intorno. «Ogni essere umano qui presente è stato tradito e colpito dalla perfidia di Lot. Alcuni hanno perso i loro cari, membri della famiglia o amici; altri sono stati spogliati dei propri averi e poi cacciati; molti hanno subito torture e mutilazioni, e altri ancora sono stati semplicemente derubati e picchiati. Ma ti giuro che nessuno di loro prenderebbe in considerazione l'idea di tradirci o di rivelare a Gulrhys Lot ciò che ha visto e sentito qui. Su questo ho scommesso le nostre vite.» Uther osservò il vecchio per qualche istante, poi annuì. «Benissimo allora, spiegatemi il vostro piano.» Il piano, ideato da Ygraine e messo a punto da Herliss, era semplice e lineare, e si basava sulla probabilità che Lot continuasse a far giungere soldati da oltremare. Al momento c'erano migliaia di mercenari in Cornovaglia. Herliss non sapeva quanti fossero, ma affermò che si trattava di un numero enorme, e sostenne, chiamando Lagan a testimone, che ne sarebbero arrivate altre migliaia l'anno successivo. Lot non mancava di uomini armati, sottolineò l'anziano comandante, e quindi non era costretto a preoccuparsi troppo della fedeltà o degli umori delle truppe locali. Riteneva che la superiorità numerica dei suoi sgherri prezzolati annullasse ogni potenziale rivolta da parte dei suoi soldati, ed era diventato sempre più arrogante, offendendo tutta la nobiltà e i guerrieri. Stranamente, però, sembrava non rendersi conto che gli mancavano dei buoni comandanti, generali e strateghi per utilizzare adeguatamente i mercenari che aveva assoldato. Lagan intervenne dicendo che il motivo di tale mancanza non era difficile da spiegare, poiché Lot aveva sistematicamente eliminato ed emarginato tutti i capi della Cornovaglia che temeva potessero insidiare il suo dominio. Aveva tuttavia dalla sua parte qualche buon comandante, sottolineò Herliss, citando Cerdic e Tewdric, i generali germanici con i quali Uther si era trovato faccia a faccia il giorno della tempesta, e
altri due di nome Issa e Loholt, che preferivano combattere ognuno col proprio esercito rispondendo esclusivamente a Gulrhys Lot. Non c'era nessuno oltre quei quattro, a meno che non si volessero considerare i due comandanti locali Cuneglas e Ralla, che erano abbastanza inetti da non suscitare la gelosia del re e abbastanza docili da fargli credere di poter contare sulla loro lealtà. Lot non aveva altri condottieri di valore, e questo era un elemento che andava sfruttato, dato che la gelosia tra i sei capi legava continuamente le mani al re. Tutti e sei si consideravano comandanti supremi, autonomi e non erano disposti a sottomettersi agli altri. Uther corrugò la fronte ascoltando quelle parole. In che modo, domandò, quella situazione poteva risultare vantaggiosa? La risposta di Herliss fu semplice e diretta. «Lot sta progettando di invadere il tuo regno all'inizio della primavera, via mare e via terra contemporaneamente, nella speranza di intercettarti prima che tu venga a sud e di tenerti impegnato laggiù. L'invasione dal mare avrà inizio a Carmarthen, dove ci sono spiagge per sbarcare gli uomini e moli per scaricare provviste e armi. Da Carmarthen le truppe si muoveranno verso est, seguendo la strada costiera romana in direzione di Caerdyff. Hanno intenzione di usare la strada stessa e di sfruttare ciò che resta degli antichi forti romani, consolidando progressivamente la loro avanzata e lanciando incursioni nei tuoi territori settentrionali mentre procedono verso est. Sarà un grosso esercito... probabilmente la più grande forza d'invasione che abbia mai investito le tue coste. I due generali Cerdic e Tewdric, al comando congiunto delle truppe, saranno responsabili delle operazioni in Cambria.» Uther non rispose. Si rendeva conto che Herliss diceva la verità e che sarebbe stato inutile interromperlo. Rimase dunque in ascolto, attento a ogni sfumatura del discorso del vecchio. Herliss fece una pausa, riflettendo su ciò che stava per dire. «Quanto ai mercenari di Lot... il paese brulica di quella plebaglia straniera, come hai potuto vedere venendo qui. Sono ovunque e rappresentano una minaccia per tutti, dato che Lot ritiene che nella sua adorata patria nessuno lo ami, chissà perché... Il fatto è che questi forestieri si credono invincibili perché nessuno
li ha mai combattuti in Cornovaglia.» Tacque per un attimo, riconsiderando la sua affermazione. «Be', sono stati affrontati dai tuoi uomini in varie occasioni, ma solo in scaramucce, e non hanno mai subito un'autentica batosta... Se la cosa ti interessa, posso darti l'opportunità di sconfiggerli nei prossimi giorni.» Uther corrugò la fronte. «Che vuoi dire?» «Ti sto offrendo l'occasione di distruggere un esercito immediatamente e senza grandi rischi. Un grosso contingente di mercenari, forte di almeno mille uomini, partirà da nord-ovest diretto da queste parti nel giro di tre giorni, quattro al massimo. Formalmente sarà Cuneglas a guidarli, il che significa che saranno privi di un comando efficace e quindi facili da affrontare. La loro direttrice di marcia li porterà molto vicini al luogo in cui si trovano ora le tue truppe, e il punto in cui potreste incontrarli è perfetto per tendere loro un'imboscata con i tuoi letali archi lunghi. Ti interessa?» «Certo, ma tu vuoi che io bruci questo forte nei prossimi giorni... Non posso fare entrambe le cose.» «Non importa.» Il vecchio sorrise. «Lo brucerò io stesso e darò la colpa a te. Se sei interessato ne parleremo più tardi, e domani andrai via da qui sapendo tutto quello che c'è da sapere sui mercenari, sul loro itinerario e sul luogo in cui puoi tendere la tua trappola.» Herliss si interruppe con aria pensosa, poi domandò: «Che mi dici di tuo cugino Merlino? Come sta?». Uther si sforzò di rimanere impassibile e rispose con tono casuale: «Merlino? Sta bene. È stato gravemente ferito l'estate scorsa, ed è rimasto invalido per parecchi mesi, ma migliora di giorno in giorno e con il nuovo anno sarà quasi guarito. Perché me lo domandi?». «Perché non è questo che dicono le spie di Lot. Gli hanno riferito che Merlino di Camelot ha perso la ragione... che l'anno scorso è stato colpito da una palla di ferro appesa a una catena e che la sua testa non ha più funzionato bene da allora in poi. Dicono che il cranio si è rotto e la sua memoria è fuggita, che ormai non ricorda più nemmeno il suo nome. Dicono che non comanderà mai più l'esercito di Camelot, che non esce mai dalla fortezza... e che non riesce neppure a ricordare il nome di sua moglie. Quanto di questo è vero, Uther?»
Uther si raddrizzò sulla sedia, spostando lo sguardo da Herliss a Lagan e infine a Ygraine, poi chinò il capo. «Tutto» disse. «È tutto vero. Ma non è grave come sembra. Può recuperare la memoria in qualsiasi momento e il suo fisico è in ottima forma. È forte e capace com'è sempre stato.» «Sì, ma non è più lui, giusto? E chi lo ha sostituito come comandante di Camelot?» «Nessuno... o meglio, nessuno in particolare. Abbiamo molti eccellenti ufficiali anziani, ciascuno dei quali è in grado di comandare le nostre truppe in qualsiasi momento.» «Bene. Qualcuno di loro è bravo quanto Merlino?» Uther esitò, restio a mentire, passando mentalmente in rassegna i candidati al comando supremo al posto di Merlino. Ma prima che potesse rispondere, Herliss aveva già ripreso a parlare. «Già... è ciò che pensavo. Be', bisognerà che lo siano, perché gli altri due bastardi, Issa e Loholt, hanno convinto Lot ad affidare loro il compito di sferrare un duplice attacco a Camelot, da sud e da est. Vorrei che tu comprendessi bene questo punto. Non sto parlando di un doppio attacco portato da un solo esercito diviso in due, ma di due attacchi coordinati sferrati da due singoli eserciti. Issa e Loholt sono gelosi l'uno dell'altro come due puttane velenose e sanno che la prima armata che entrerà a Camelot non prenderà solo la parte migliore del bottino, ma tutto quanto, quindi la concorrenza per il saccheggio di Camelot sarà feroce. L'unico compromesso che quei due hanno raggiunto finora è di lanciare una moneta per decidere chi di loro attaccherà da sud e chi da est. La strada da sud è più breve, ma l'altro esercito partirà una settimana prima. Vedremo cosa accadrà.» «Che succederà se l'armata che parte per prima prenderà la strada da sud?» «Già, che succederà? Non ne sarei affatto sorpreso, specialmente se sarà Issa a vincere il sorteggio. Sono uno peggio dell'altro, ma se proprio dovessi scegliere, mi fiderei più di Loholt che di Issa. Ma ho già parlato fin troppo di questo argomento. Scommetto che hai delle domande da farmi.»
Uther si alzò e cominciò a camminare per la stanza. «Già, e almeno un centinaio. Hai detto che hai un piano, ma finora non mi hai spiegato che non sarò qui l'anno prossimo, dato che sarò troppo impegnato a evitare la catastrofe in Cambria e a Camelot. Mi devo essere perso qualcosa.» «Non hai perso nulla se non il nesso tra i fatti. Ora sai che sono previste queste invasioni, sai da dove verranno, soprattutto per ciò che riguarda la Cambria, quindi hai tutto l'inverno per preparare qualche sorpresa agli invasori. Ti basterà? Riuscirai a essere pronto in tempo?» «Per batterli in Cambria, sì. Saremo sul mio terreno, e ciò va a mio vantaggio, ma...» Uther ripensò a Camelot e all'enorme campo di addestramento ai piedi della collina, poi annuì in direzione di Herliss che lo osservava con sguardo penetrante. «Sì,» bofonchiò «e anche a Camelot, ora che ci penso. Ho un'idea che potrebbe funzionare... e come dici, abbiamo almeno sei, forse sette mesi, per prepararci. Saremo pronti ad accoglierli con tutti gli onori quando arriveranno... Qual è allora il nesso che ho perso?» «I numeri, Uther. Abbiamo parlato di quattro validi generali di Lot che invadono le tue terre. Ne ha sei, ricorda.» «Quattro capaci più altri due incompetenti che hai citato prima... Ralla e... ho dimenticato il nome dell'altro.» «Cuneglas. Non sono capaci nemmeno di andare alla latrina da soli, ma resteranno qui a presidiare la Cornovaglia. Avranno l'onore di garantirne la sicurezza per conto di Gulrhys Lot.» «E allora?» «E allora, quando tu avrai cominciato a massacrare gli invasori convincendoli che le cose non saranno semplici come previsto, noi io e mio figlio, con il valido aiuto di tutti gli uomini onesti rimasti in questo paese - avremo assunto il controllo dell'esercito di Cornovaglia... il vero esercito di Cornovaglia. Gran parte dei mercenari saranno in Cambria e a Camelot, perché nessuno di loro vorrà rimanere qui perdendosi l'opportunità di un ricco bottino. Il presidio sarà formato da truppe della Cornovaglia, forse con un rinforzo di stranieri. Non ci metteremo molto a liberarci di loro, e
anche di Ralla e di Cuneglas. E se, con l'aiuto degli dèi, Lot deciderà di restare in patria, ci sbarazzeremo contemporaneamente anche di lui e gran parte dei nostri problemi sarà risolta. Dubito, comunque, che il nostro nobile re correrà il rischio di rimanere qui dopo che tutti i suoi mercenari saranno partiti. Sarebbe sperare troppo. A quel punto, amico mio... tutto dipenderà da te, poiché se farai bene la tua parte e stroncherai gli aggressori al primo assalto, dovresti riuscire a radunare le tue truppe subito dopo aver respinto gli invasori sia in Cambria sia a Camelot. Se farai buon uso delle tue informazioni colpendoli duramente, sventerai gran parte dei loro piani, e quando loro torneranno a casa battuti scopriranno che le loro roccaforti sono in mano a un nemico ben determinato. A quel punto dovrai incalzarli con l'esercito più imponente che riuscirai a radunare. Noi terremo le fortezze di Lot impedendo loro di entrare, e tu con la tua cavalleria e i tuoi fantastici arcieri li bersaglierai alle spalle: in questo modo dovremmo riuscire finalmente ad annientarli e a liberarci di Gulrhys Lot. Che ne dici?» «Che ne dico? Dico che sarei un pazzo a fare qualunque commento prima di averci riflettuto a fondo. Da dove vengono le tue informazioni?» Herliss alzò le spalle e si agitò sulla sedia, indicando la regina. Uther strizzò le palpebre, colto di sorpresa da quella risposta, e Ygraine posò lo sguardo su di lui, mentre un lieve rossore le tingeva le guance. Dopo un intervallo che gli parve incredibilmente lungo, Uther riuscì a schiarirsi la voce e a parlarle. «Io, ehm... Significa che tu...?» Preso dal panico si interruppe, poi espresse apertamente il suo pensiero. «Significa che tu sei rientrata nelle grazie di tuo marito al punto da riacquistarne la fiducia?» Ygraine ricambiò impassibile il suo sguardo, perfettamente calma. «No, sire, non l'ho riacquistata. Non ne avevo mai goduto prima. Ci sono riuscita solo adesso, da quando sono tornata dalla mia prigionia. Non è piacevole per me. Ma non era forse il motivo principale per cui sono tornata qui?» «Cosa?» Uther aggrottò la fronte, suo malgrado, e capì che si stava avventurando su un terreno pericoloso, anche se non avrebbe
saputo dire il perché. Si schiarì la voce di nuovo nel disperato tentativo di guadagnare tempo, poi decise che la cosa migliore era essere franco. «Ti chiedo scusa, donna Ygraine, ma non ho capito. Quale doveva essere il motivo principale del tuo ritorno?» «La fiducia di mio marito. Non sono forse tornata per guadagnarmi l'accesso ai suoi favori, agendo in modo tale da conquistare la sua fiducia? Se così non è, mio signore, avrei gravemente frainteso le ragioni della mia presenza qui nei mesi passati, e mi rattristerebbe sapere che non era necessaria.» «Sì, mia signora, sì! Devi scusarmi, ho capito male, ma...» «Ma... cosa, signore?» «Io...» Uther alzò una mano in segno di resa, scuotendo la testa. «Ti chiedo sinceramente di perdonarmi, signora, poiché solo ora comincio a rendermi conto di ciò che ho preteso da te da quando sei tornata in Cornovaglia. Non so come ho potuto essere così stupido da non pensarci, e...» «Re Uther!» Ygraine lo interruppe con voce stridula. «Sapevo fin dall'inizio che cosa comportava, e se non ho creduto che valesse la pena di parlarne allora... trovo ancor meno giustificato farlo adesso.» Uther sprofondò in un silenzio pieno di imbarazzo, mortificato come raramente si era sentito nella sua vita, e per qualche istante nessuno parlò. Poi, a sorpresa, Herliss si alzò e con un cenno del capo invitò il figlio a seguirlo. «Vieni» borbottò. «Dobbiamo parlare, noi due.» Uther li osservò a bocca aperta mentre abbandonavano la sala, e quando si voltò nuovamente verso la regina si accorse con stupore che sorrideva. Ammutolito, puntò l'indice verso la porta dalla quale Herliss e Lagan erano usciti. «Lo sa? Herliss lo sa?» «Di te e me?» Il sorriso di Ygraine si accentuò. «Non credo, ma non ne sono certa. Herliss non è uno stupido, ed è più vecchio di te e me messi insieme, quindi ha più esperienza di noi. Inoltre sa che non amo Lot, sebbene divida il letto con lui. Herliss è perfettamente al corrente della mia finzione.»
«Ma lui... la approva.» «No, non approva, Uther. Non sopporta di dover fare ricorso a un espediente del genere. Herliss è un uomo degno e rispettabile, ed è profondamente amareggiato dal fatto che io sia costretta a umiliarmi fino a questo punto. Ma non può fare altro che accettare la necessità di ciò che sto facendo, proprio come me. Se il mio sacrificio porterà a una rapida fine del dominio di Lot in Cornovaglia e di tutto il male che ne deriva, farò questo e altro.» «Posso farti una domanda che forse ti farà arrabbiare?» «Sì.» «Tu vuoi la morte di Lot?» Ygraine piegò leggermente la testa riflettendo sulla risposta da dare. «No,» disse alla fine «non ho alcun desiderio di vederlo morto. Credo che morirà prima che tutto sia finito, perché si aggrapperà con le unghie e con i denti a tutto ciò che vogliamo portargli via, ma personalmente non desidero togliergli la vita. Ciò che voglio è spodestarlo dal trono che occupa indegnamente, privarlo del suo potere e della sua ricchezza; senza il primo requisito cadrà anche il secondo. Voglio vedere la Cornovaglia libera da mercenari stranieri e governata da uomini che conoscano l'onore e la giustizia, in modo che i suoi sudditi possano dormire sonni tranquilli finché non ricorderanno più che è esistito un tempo in cui non potevano farlo. È questo che voglio e che mi auguro, e per farlo è necessario deporre Lot, rovesciarlo. A quel punto non mi interessa quello che fa o dove va. Sa essere affascinante, quando vuole.» La voce di Ygraine traboccava di amarezza e di rabbia inespressa. «Quando Lot vuole rendersi amabile, è impareggiabile... ed è stato così con me, da quando sono tornata. Invariabilmente. È stato perennemente cortese, premuroso e attento a ogni mio bisogno, e mi ha persino accolto nel suo letto come se fossi la sua adorata moglie, l'orgoglio della sua vita... Ho scoperto il motivo di questo cambiamento poco dopo il mio arrivo. Mentre ero tua prigioniera, anzi appena prima che tornassi, mio fratello Connor era venuto a fare visita a Lot chiedendo di me.
Mio marito non voleva offendere né lui né l'altro mio fratello Brander.» Un leggerissimo sorriso affiorò sulle sue labbra. «Molti dei sudditi di mio padre vivono lungo la costa. Sono costruttori di navi, famosi in tutta l’Eire per la qualità delle loro galee. Mio padre comanda flotte di galee e i miei fratelli, Connor e Brander, sono suoi ammiragli. Lot si vanta di essere un comandante di pirati, ma sa che i miei fratelli potrebbero spazzare il mare da qualunque imbarcazione, se lui li offendesse. Prima di tornare dalla mia prigionia, dalla mia avventura con te, Connor è venuto a cercarmi a Rosnant. Io non c'ero, naturalmente, ma ciò che ha spaventato Lot - e si è spaventato sul serio, per qualche motivo - è stato il fatto di non potergli dire dov'ero. Non poteva neanche mentirgli, perché Connor avrebbe potuto insistere per raggiungermi. Non ho idea di cosa si siano detti, ma quell'incontro deve averlo impressionato, perché dal momento in cui sono riapparsa mi ha coperto di attenzioni, assecondando ogni mio desiderio e cercando di mostrarsi il più affettuoso e sensibile dei mariti.» «Quindi dormi con lui...» «Sì» rispose Ygraine levando la testa con un lampo negli occhi. «E faccio persino l'amore con lui, sebbene non molto spesso... Gli ho detto che l'avrei ucciso nel sonno se avesse solo osato trattarmi come faceva nei primi tempi del nostro matrimonio.» «Come sarebbe?» Uther si drizzò sulla sedia. «Che cosa faceva?» «Non è necessario che tu lo sappia, e lui non oserà farlo mai più. Ma c'è qualcosa che devi sapere, invece. Sono entrata nel suo letto senza protestare perché esisteva la possibilità che fossi incinta di un figlio tuo. Non lo ero, ma ho pensato che avrei potuto esserlo.» «Ma sono state solo due notti!» «Ne basta una, Uther, se è il momento giusto. Credo che tu sia abbastanza grande per saperlo, no?» Uther si schiarì la voce e domandò: «Ti è... ti sarebbe dispiaciuto scoprire di essere incinta?». «Non saprei, perché non ho dovuto pensarci a lungo. Il mestruo è
arrivato regolarmente e la vita ha ripreso il suo corso. Ma nel frattempo, Lot mi è stato vicino a sufficienza da potersi credere il padre del bambino se il mio ventre avesse cominciato a gonfiarsi, e questo mi faceva comodo. Non ha senso morire per qualcosa di così effimero come il tempo che abbiamo passato insieme, non trovi?» Mentre Uther, turbato, si chiedeva cosa dire, si accorse che Herliss e Lagan stavano tornando, e Ygraine parlò rapidamente, abbassando la voce. «Ti ho assegnato una stanza lontano da tutti, ma abbastanza vicina alla mia da essere raggiungibile. Ne sei felice?» Uther ebbe un tuffo al cuore. «Sì. Come raggiungerò la tua stanza, e quando?» «Tieniti pronto. Verrò io da te. Conosco la strada e nessuno mi vedrà o mi sentirà. Ora parliamo d'altro.» Uther si voltò e vide che Herliss e Lagan erano accompagnati da un'altra persona, un uomo alto con la veste lunga che portava un'arpa sotto il braccio, la più piccola che il re avesse mai visto in vita sua. «Guarda chi abbiamo trovato» esclamò Herliss. «Anrac è qui! Sono passati più di sei anni dall'ultima volta che ha cantato per noi, ed eccolo spuntare dal nulla proprio quando avevamo bisogno di canti e di musica.» Nella confusione creata dall'arrivo del druido l'atmosfera della serata cambiò, e mentre l'uomo accordava l’arpa preparandosi a suonare per loro, Ygraine mandò a chiamare Dyllis e Lydia perché godessero anche loro di quell'intrattenimento. Fu attizzato il fuoco, candele e lampade vennero sostituite e alimentate, i servi furono invitati ad ascoltare e per diverse ore la grande sala fu piena di musica.
XV. Nel pieno della notte si svegliarono e fecero l'amore per la quarta o quinta volta. Non avevano più fretta ora, e godettero voluttuosamente l'uno dell'altra assaporando la lenta progressione del piacere finché non diventò intollerabile. Si crogiolarono nel morbido tepore del letto e nell'intimità dell'amplesso, e alla fine Ygraine si distese supina con un gemito di soddisfazione, aderendo col bacino al ventre di Uther e adagiando una gamba sulla sua vita. Lui si mosse per adattarsi alla posizione, agganciandole con un braccio il ginocchio per non rischiare di staccarsi dal suo abbraccio, e rimasero in silenzio, ognuno consapevole che l'altro era sveglio. Non sentivano il bisogno di parlare. Avevano già parlato per ore, prima discutendo con gli altri intorno al tavolo, poi accanto al fuoco e infine in privato quando lei era entrata nel suo letto ben prima della mezzanotte. Ora, stesi uno accanto all'altra, inseguivano ciascuno i propri pensieri, e non sentivano la necessità di condividerli né di comunicare se non attraverso le sensazioni fisiche che ancora li univano. Fu Uther a parlare per primo, accarezzandole la coscia. «Sono felice che tu mi abbia mandato a chiamare, mia signora.» «Mmm, anch'io...» «Ma perché l'hai fatto? Perché mi hai convocato, intendo... Se ti fidavi di Lagan al punto da affidargli questo incarico, avresti potuto tranquillamente incaricarlo di riferirmi le tue informazioni.» «Avrei potuto, ma preferivo parlartene di persona.» Ygraine si irrigidì leggermente, poi domandò: «Vuoi dire che non ti è venuto in mente che potessi semplicemente volerti vedere? Per mio esclusivo piacere?». «No... probabilmente pensavo che non avresti corso un rischio simile per motivi puramente carnali.» «Quale migliore motivo potrebbe avere una donna per convocare un uomo? Ma a dire la verità, visto che sei così schietto
nell'esprimere il tuo pensiero, ti ho mandato a chiamare perché...» Il silenzio si prolungò così a lungo che Uther la incalzò, impaziente, temendo che si stesse prendendo gioco di lui. «Perché cosa?» «Perché potevo farlo. Mi ci erano voluti dei mesi per organizzare il mio viaggio qui, nell'unico luogo in cui potevo incontrarti in sicurezza, senza temere che ti catturassero e ti uccidessero.» «Avrebbero ucciso anche te.» «Avrei accettato volentieri lo scambio.» Esitò, poi riprese, in tono più amaro: «No, non è vero. Lot non oserebbe uccidermi adesso, non dopo l'ultimo scontro con mio fratello. Se dovessi scomparire per qualche ragione sarebbe la fine per lui, ed è troppo prudente per esporsi a questo pericolo». «Capisco, ma saresti stata comunque disposta a correre il rischio, vero? Sono dunque così speciale?» «Vieni qui.» Ygraine si girò per baciarlo con passione, inebriandolo col profumo dei suoi capelli fino a fargli dimenticare tutto il resto. Ma quando stava per ritrarsi, lui la tenne stretta e le sussurrò all'orecchio: «Allora, cosa farai questa volta se dovessi essere incinta?». «Ne sarei felice, amerei questo bambino e lo crescerei come nostro figlio.» «Ma non lo diresti a Lot.» «Mi prendi per pazza? Una vendetta simile si ritorcerebbe contro di noi. Lui ucciderebbe il bambino rivalendosi ampiamente su entrambi, me e te... non per gelosia, ma semplicemente perché non vuole che circolino certe voci.» «Già, effettivamente, nessun uomo vuol sentir circolare certe voci.» «Certo, ma questo vale a maggior ragione per Lot. Credo che mio marito non possa avere figli, e ne sono profondamente felice. Comincio a sospettare che abbiano ragione i cristiani, e che esista un Dio saggio, giusto e onnipotente che provvede a tutti.» Malgrado fosse buio pesto, Ygraine si rese conto che lui la stava
fissando. «Che cosa intendi quando dici che non può avere figli? Non hai detto di essere andata a letto con lui prima di tutto per stornare i suoi sospetti?» «Infatti. È perfettamente in grado di amare una donna... è un vero stallone. Ma questo non significa che possa avere dei figli.» «Oh, avanti, Ygraine, certo che può!» «No, non può!» «Sì, invece. Se fosse incapace di... se non potesse... avere un'erezione o un rapporto, sarei d'accordo con te, ma tu stessa ammetti che è in grado di farlo.» «Ma questo non significa niente, Uther, proprio niente.» Con una nota di perplessità nella voce, Ygraine proseguì: «O forse tu pensi che...? Non crederai che solo le donne possano essere sterili, vero? E che mi dici allora delle altre mogli, quelle che mi hanno preceduto? Ne ha avute tre, lo sai, e sono tutte ancora vive. Credi che fossero tutte e tre sterili? È questo che pensi?». Uther rimase in silenzio, senza fare commenti. «Be', se così fosse, si tratterebbe di una ben strana coincidenza, perché non c'è altra possibilità, se ci rifletti un momento. Due di quelle cosiddette "donne sterili" hanno avuto dei figli dopo averlo lasciato.» Uther non disse una parola. «Da mesi vado a letto con lui, e per parecchio tempo ho avuto il terrore di rimanere incinta. Ma non è accaduto, e non perché lui non ci abbia provato. Credo che mio fratello lo abbia convinto che un figlio e un erede sarebbe considerato con grande favore nel regno di mio padre, in Eire. Comunque sia, non è riuscito a fecondare il mio ventre, così ho parlato con le madri dei suoi sei presunti figli. E cosa credi che abbia scoperto?» Uther non rispose, ma lei stava già proseguendo. «Lot non è il padre di nessuno di quei marmocchi, neanche uno. E gli uomini che li hanno generati sono stati tutti uccisi, in un modo o nell'altro, prima che i bimbi nascessero. Apparentemente Lot non è implicato nella loro morte e non li conosceva personalmente,
eppure ha adottato tutti i loro figli, sapendo che non potevano essere suoi. Si è assicurato, però, che le madri dei ragazzi tenessero la bocca chiusa sulla vera paternità dei loro bambini se volevano aver salva la vita.» Ygraine lasciò che quelle parole aleggiassero fra loro per qualche istante prima di proseguire. «Per quanto appaia disgustoso e spregevole, Lot ha adottato quei bambini esclusivamente perché vuole che il mondo pensi che siano suoi. E ciò non può che significare altro che lui stesso sospetta di non poterne avere. Tuttavia, non ammetterebbe mai un problema del genere nemmeno con se stesso; anzi, soprattutto con se stesso. Ed è qui che la logica delle sue azioni crolla. Non sopporta l'idea di essere incapace di generare un erede e si rifiuta di credere all'evidenza. Naturalmente, lui non immagina che io sappia queste cose, e io sono disposta a tutto pur di evitare che abbia dei sospetti. Ma visto che le so, sono riuscita a fargli alcune domande e a toccare alcuni argomenti con apparente ingenuità, scoprendo delle cose interessanti. Si irrita, o meglio, va su tutte le furie quando lo si costringe a considerare anche indirettamente, l'idea di non poter procreare un erede. Si infiamma al minimo accenno a un'eventualità del genere e diventa una belva.» Uther si fece più vicino moltiplicando le carezze sul corpo di Ygraine, e ben presto si accese in lui una nuova scintilla. La penetrò e rimase dentro di lei, muovendosi appena. «Hai creduto davvero di poter essere incinta di un figlio mio?» Lei allungò un braccio nel buio per passargli una mano fra i capelli, e Uther la afferrò per il polso e fece scorrere le dita lungo il braccio di lei fino al gomito; poi lasciò scivolare la mano su un seno, saggiandone la pienezza e titillando il capezzolo tra il pollice e l'indice, e lei si inarcò sul suo membro con un mugolio di piacere. «L'idea mi era venuta, re di Cambria, perché sono una donna sana e normale in età fertile, e avevo ricevuto piena soddisfazione da un valido maschio nel corso di due notti lunghe ed estremamente appaganti. Hai già avuto dei figli?» Lui ci pensò per un istante, poi scosse la testa nel buio. «Non credo... Non che io sappia, almeno.»
«Non ne sarei cosi sicura, fossi in te. Ti ricordi di Morgas?» «Certo che me ne ricordo. Che le è successo?» «Non è più con me. Poco dopo il suo ritorno da Camelot, ha lasciato la mia casa ed è tornata al suo paese per sposarsi, ma ho saputo da una delle mie dame che il suo mestruo era già in ritardo quando è partita.» Uther si sollevò su un gomito. «Pensi che ci sia qualcosa di vero?» «Non ne ho idea, ma è possibile, non credi? Ti preoccuperebbe molto, se fosse vero?» «No, suppongo di no...» rispose lui con aria pensosa «ma mi I piacerebbe saperlo.» «A che scopo? Se Morgas ora è sposata, suo marito penserà che il bambino sia suo, quindi sarebbe meglio lasciar perdere.» «Già, forse hai ragione.» «E ora,» disse Ygraine sorridendo nel buio «scaccia dalla tua mente il pensiero di Morgas e della sua bellezza.» «Ti confesso,» mormorò lui lentamente, spingendo di nuovo l'inguine contro di lei «che sono geloso sapendo che ora dovrai darti a Lot solo per stornare i suoi sospetti.» «Geloso? Questo ti renderebbe geloso?» Uther colse una nota di divertimento nella voce di Ygraine. «Sì, mi renderebbe geloso.» «Ebbene, non hai ragione di esserlo, perché ciò che lui pretende da me è suo per diritto di matrimonio, ma quello che scelgo di negargli appartiene solo a me. E poi non sono costretta a fare l'amore con lui questa volta. Siamo stati insieme abbastanza di recente da stroncare ogni suo sospetto. E spero di riuscire a stroncare anche te, alla fine.» Con una mossa sensuale lo attirò ancor di più dentro di sé, e non ebbero più voglia o bisogno di parlare. Poco dopo l'alba erano tutti alzati, e Uther e Ygraine riuscirono in qualche modo ad apparire ben riposati e ristorati come gli altri. Durante la colazione, composta di uova strapazzate insieme a pezzetti di carne affumicata in una padella rovente e servite su spesse fette di pane fritte in grasso animale, Uther discusse di come rimanere in contatto con Herliss e Lagan nel corso dell'inverno
successivo. Lo stratagemma dell'anello aveva funzionato bene e nessuno di loro vedeva il motivo di cambiare quella procedura, così Ygraine la conservò per un uso futuro. Tuttavia, Uther riconobbe che il rapporto di amicizia e di fiducia creatosi fra lui e Lagan avrebbe facilitato altri futuri incontri fra loro, sempre che si evitassero sguardi indiscreti e venisse utilizzato un messaggero nelle fasi finali per definire tempi e luoghi. Poiché entrambi potevano avere l'esigenza di sollecitare un colloquio, Uther ottenne da Lagan un pegno simile a quello che lui aveva dato a Ygraine. Il contrassegno di Lagan era un sassolino di granito della dimensione di un pollice, molto particolare. Sembrava dipinto a strisce alternate nero e arancio, ma i colori erano costituiti da strati naturali della pietra, e la superficie, levigata fino a diventare liscia come vetro, aveva un foro in cui era infilato un laccio di cuoio. Uther prese il laccio e se lo mise al collo in modo che il sassolino pendesse sul suo petto, sotto la tunica. Herliss, che era rimasto a osservare e ascoltare i due giovani, si protese in avanti ingoiando l'ultimo boccone della sua colazione. «Dunque,» brontolò «la stagione è quasi finita, e i sudditi di Lot si stanno già preparando all'inverno. Non prenderanno iniziative in un periodo dell'anno così avanzato, e nemmeno tu, suppongo. Quando pensi di tornare a Camelot?» «A Camelot? Non so. Popilio Cirro e la sua fanteria rientreranno direttamente quando avremo finito in Cornovaglia, ossia fra qualche settimana o un mese al massimo se l'inverno tarda ad arrivare, mentre io devo tornare in Cambria e sistemare le cose in patria prima di poter ripartire. Camelot ha molti capi di valore e un'amministrazione di stampo romano in grado di garantire l'ordine, ma a Tir Manha non godiamo di questi lussi. Io solo sono il re, e manco da casa da più di sette mesi. Solo gli dèi sanno cosa mi attende al mio ritorno.» «Quindi se avessimo bisogno di te o volessimo mandarti notizie, dovremmo cercarti in Cambria?» «Sì, sarà meglio... E quando deciderò di andare a Camelot, vi avvertirò e vi farò sapere anche quanto intendo fermarmi laggiù. Che sistema mi converrà usare? Non c'è bisogno di usare la pietra se
non sono previsti incontri diretti, non credi?» «No» concordò Herliss, scuotendo la testa. «Quando sarà il momento, non devi far altro che mandare un messaggero a Tir Gwyn. La Fortezza Bianca è conosciuta in tutta la Cornovaglia e non gli sarà difficile trovarla. Digli di chiedere di me e di mostrare...» Si fermò a riflettere per un istante, poi proseguì: «... di mostrare un sigillo di cera con impressa una croce. Sarà il suo segno di identificazione; il simbolo cristiano si usa di rado da noi, e men che meno su un sigillo di cera. Te ne ricorderai?». «Puoi contarci. Un sigillo di cera con impressa una croce. Sai leggere o scrivere in latino, Herliss?» «Molto male, ed è trent'anni che non ci provo, quindi penso che la risposta sia no. Ma Lagan ne è capace.» «Per gli dèi, sul serio?» esclamò Uther senza nascondere la sua sorpresa, rivolgendosi a Lagan il Saggio. «Dove hai imparato?» Lagan sorrise. «Quando ero molto piccolo ed ero grande amico di Lot, suo padre, il duca Emrys, decise che non sarebbe stato un male per suo figlio imparare la lingua latina. Lot era cocciuto già allora e protestò che se doveva prendere lezioni, bisognava che qualcuno condividesse la sua sofferenza. Avevamo una splendida insegnante che mi trasmise il suo amore per il latino. Tu la conosci come Mairidh, la moglie di mio zio Balin. Ha vissuto nelle tue terre per un po'.» «Già... proprio a Tir Manha, per la precisione. Quindi se io dovessi scriverti, tu saresti in grado di leggere la mia lettera e di rispondermi?» «Sì.» «Eccellente.» Herliss si schiarì la voce. «E ora occupiamoci della tua partenza. Il tuo elmo è abbastanza semplice e anonimo, ma arrotola quel mantello nero che hai indosso e coprilo con una coperta, poi legalo dietro la sella. È troppo facile da vedere, troppo particolare. In Cornovaglia tutti i mantelli sono marroni o grigi. Te ne presteremo uno dei nostri, con i miei colori, per andare via. Sei arrivato col buio ma te ne vai in pieno giorno, e il paese pullula di uomini di Lot.
Lagan verrà con te montando il tuo cavallo - tutti conoscono il suo amore per i cavalli - e tu lo seguirai in una partita di caccia, confuso tra i dodici uomini della sua scorta tutti in sella a semplici pony. Vi fermerete nella foresta a cacciare, naturalmente, e a tarda sera loro torneranno senza di te. A quell'ora, col buio, nessuno dovrebbe accorgersi che Lagan torna indietro su un cavallo diverso da quello che montava quando è partito.» Il vecchio si alzò e tese la mano a Uther attraverso il tavolo. «Che gli dèi ti accompagnino, e speriamo, tutti insieme, di riuscire ad abbattere il nostro nemico entro l'anno prossimo. Addio.» Si inchinò brevemente di fronte alla regina, poi a Uther, e si allontanò. Il sorriso con cui Uther aveva salutato Herliss scemò immediatamente quando il suo sguardo si posò su Ygraine. «Signora,» disse «devo ringraziarti per la tua ospitalità.» Udì un rumore di passi alle sue spalle e voltandosi vide Lagan che andava verso l'ingresso per lasciare loro, suppose, un po' di intimità. Ygraine fece per avvicinarsi, ma Uther la respinse con un gesto impercettibile della mano infilata nella cintura. «No, signora» mormorò, abbassando la voce in modo che solo lei potesse sentirlo. «Resta dove sei. Ti ringrazio ancora per la tua ospitalità... per tutto quanto... porterò con me il ricordo del tuo sorriso, dei tuoi baci, del profumo dei tuoi capelli e del tocco della tua pelle, finché non ci rivedremo. Addio.» Si inchinò profondamente davanti a lei, poi si girò e uscì dalla stanza diretto all'ingresso dove Lagan lo stava aspettando. Il suo nuovo amico gli strinse brevemente la mano prima di dargli le ultime istruzioni, indirizzandolo verso la porta principale e informandolo sui membri del gruppo che lo avrebbe accompagnato. Erano i suoi uomini migliori, disse, scelti per quel compito sulla base della loro fedeltà e della loro provata abilità nell'eseguire i suoi ordini. Sapevano solo che Uther era un importante alleato suo e di suo padre, e Lagan era sicuro che nessuno di loro gli avrebbe parlato né avrebbe prestato troppa attenzione a lui. Ma se un estraneo avesse cercato di avvicinarsi al gruppo o avesse minacciato un attacco diretto, si sarebbero battuti per lui come avrebbero fatto per il loro comandante. Lagan li avrebbe seguiti da solo nel giro di un'ora e si sarebbe incontrato con Uther nella tarda mattinata, a
distanza di sicurezza da Forte Crag e lontano dagli occhi indiscreti delle spie di Lot che potevano aggirarsi nei dintorni. Qualche istante dopo, Uther raggiunse il gruppo di cavalieri che lo attendevano già in sella; uno di loro teneva per le briglie il robusto cavallino che gli era stato destinato. Era un gruppo di uomini eterogenei e con armi altrettanto diverse. L'unico elemento che avevano in comune era il mantello lungo e grigio, simile a quello che Lagan aveva dato a Uther. Uno di loro, alto ed eretto sul suo cavallino nero, si teneva leggermente in disparte: il suo elmo, più sofisticato di quello dei compagni, lo indicava come il capo del plotone. Uther lo ignorò e andò direttamente verso il centro del gruppo, salutando con un breve cenno del capo. Prese le redini del suo pony dall'uomo che gliele tendeva e montò con facilità sulla groppa bassa e larga dell'animale, stringendo le ginocchia. Erano molti anni che non saliva su una simile cavalcatura, pensò divertito, e ringraziò gli dèi che i cavalli di Camelot fossero molto più alti dei pony celtici, dato che toccava terra con le gambe da entrambi i lati. Il cavallino drizzò la testa e ruotò le orecchie quando avvertì la presenza dello sconosciuto sul dorso, pronto a contestare l'autorità del suo cavaliere, ma un braccio ferreo gli spinse giù la testa e la tenne abbassata, controllando il morso che aveva in bocca. Uther fece un cenno impercettibile al capo del plotone e l'uomo annuì, dando il segnale di partenza. Lasciarono il forte tranquilli e inosservati, e come Lagan aveva promesso nessuno rivolse la parola al forestiero né gli prestò la minima attenzione; solo tre di loro osarono lanciargli un'occhiata. Dapprima puntarono verso nord, finché non ebbero oltrepassato la dorsale della penisola che in quel punto misurava solo una ventina di miglia, con il mare che si stendeva a poco più di dieci miglia di fronte a loro, a nord-ovest del forte. Appena superato il crinale, scesero in una valle boscosa dove attesero che Lagan li raggiungesse. Passò un'ora abbondante, e Uther ne approfittò per recuperare un po' del sonno perso la notte precedente. All'arrivo di Lagan, i due amici non persero tempo in convenevoli. Il nuovo arrivato smontò e regolò le staffe di Uther
facendosi guidare dai nitidi segni incisi dalle fibbie sulle cinghie di cuoio, e quand'ebbe finito il re balzò in sella e si chinò a stringergli la mano ancora una volta. Dopo un breve ringraziamento e un augurio di rivedersi ancora, Uther si diresse verso nord badando a tenersi sotto il profilo dell'altopiano alla sua destra, ben sapendo che al di là di esso, a parecchie decine di miglia da Forte Crag e vicino alla costa, sorgeva la roccaforte di Golant, sede di Gulrhys Lot. Dopo circa quattro ore, due delle quali trascorse a lottare contro un vento impetuoso e molesto che aveva preso a spirare da chissà dove e aveva ripetutamente minacciato di disarcionarlo con le sue raffiche violente, Uther avvistò la lunga cresta trasversale che saliva dall'estuario del fiume Cam verso l'interno. La cresta impediva di vedere l'accampamento da sud, ma nulla avrebbe potuto celare l'enorme nuvola di fumo nero e denso che si allungava all'orizzonte, spinta dal vento. Soffocando l'ansia che gli gonfiava il petto, Uther spronò il cavallo e lo lanciò in un galoppo sfrenato, chiedendosi cosa mai fosse accaduto questa volta. Non ci mise molto a scoprirlo. Una banda di pirati gaelici o forse franchi - Uther capiva solo che erano stranieri - aveva risalito l'estuario del piccolo fiume ed era sbarcata in cerca di luoghi da razziare. Avevano visto l'accampamento della cavalleria, che ospitava solo un doppio squadrone, e avevano ritenuto che il vento che soffiava alle loro spalle avrebbe giocato a loro favore e a svantaggio degli avversari. Così avevano dato fuoco all'erba pensando di impaurire i cavalli e disperderli, in modo da poter caricare direttamente l'accampamento nascosti dal fumo che li precedeva. Ma non si erano accorti dell'altro doppio squadrone di Dragoni che stava arrivando alle loro spalle, di ritorno da un pattugliamento a nord-ovest, e non avevano visto l'accampamento dei mille uomini di Popilio Cirro in fondo a una stretta valle ben fornita d'acqua, poco oltre quello della cavalleria. La battaglia fu breve e violenta, e Uther, che era ancora lontano ma stava arrivando a gran velocità, vide Garreth il Fischiatore, al comando del secondo squadrone, sospendere la caccia a tutti i predoni sopravvissuti. Approvò quella decisione, perché difficilmente
i pochi rimasti sarebbero stati in grado di manovrare la loro imbarcazione e chiaramente Garreth aveva cose più urgenti per la testa. Il fuoco appiccato dai forestieri si stava estendendo senza controllo, cenere e scintille volavano dappertutto portate dal vento, alimentando voracemente l'incendio. Le fiamme avevano già superato il crinale ed erano calate nella stretta valle sottostante, dove il vento le incanalò spingendole direttamente verso le tende della fanteria allineate sui fianchi della collina. L'incendio durò poco ma ebbe conseguenze disastrose. Oltre metà delle tende della fanteria furono distrutte con tutto il loro contenuto, e due dei quattro carri di vettovaglie rimasti furono gravemente danneggiati, dato che il legno secco di cui erano fatti aveva preso fuoco prima che si riuscisse a trascinarli nel letto del fiume che scorreva sul fondo della valle. Tutte le provviste e i rifornimenti che contenevano furono completamente distrutti o risultarono inutilizzabili. Era l'ennesima dimostrazione della cattiva stella di Uther, e l'unica cosa di cui il re poté rallegrarsi fu che le tende e i carri riservati all'infermeria fossero stati sistemati lontano, in una zona bassa e piatta oltre un'ansa del fiume, sulla riva nord. Quattro carri più grandi, vuoti da tempo e destinati alle cure mediche, non subirono alcun danno. Il terreno alluvionale sull'altra sponda del fiume non favoriva la vegetazione e così, malgrado le scintille e la cenere avessero attraversato il corso d'acqua, l'erba rada non aveva preso fuoco. Assistendo alla scena e pensando alla strage che si sarebbe verificata se i feriti fossero rimasti intrappolati sul lato del fiume più vicino all'incendio, coperto d'erba fitta e secca, Uther si consolò pensando che la campagna di guerra era agli sgoccioli e che stavano per tornare a casa comunque. Celando il suo disappunto, si riunì con Popilio Cirro, Garreth il Fischiatore, Huw Fortebraccio e gli altri ufficiali e diede ordine di smontare l'accampamento e di mettersi in marcia per l'ultimo attacco a una colonna nemica di passaggio, dopo di che sarebbero tornati a Camelot per godersi una stagione
invernale di ben meritato riposo. Il ritorno a casa fu privo di difficoltà, malgrado la penuria di viveri provocata dall'incendio. Persino la colonna nemica, forte di quasi mille uomini ben armati, non causò loro grossi problemi, poiché la precisione delle informazioni fornite da Herliss, unita alla profonda conoscenza che il vecchio aveva del territorio, assicurò la vittoria ai soldati di Camelot. Uther tese la sua trappola in una gola lunga e stretta dai fianchi scoscesi che costituiva l'unico passaggio praticabile tra due valli contigue. Era un luogo perfetto per un'imboscata, e il comandante nemico la fece perlustrare a fondo prima di far avanzare i suoi uomini, ma Uther se lo aspettava e si era preparato. I suoi esploratori erano nascosti in piccoli avvallamenti del terreno ai due lati della gola, protetti da reti intrecciate con erba strappata dalle macchie di verde circostanti. Erano invisibili per gli esploratori nemici, che cercavano solo gruppi numerosi, e rimasero invisibili anche alla stessa avanguardia di Uther finché non si alzarono per segnalare che la pattuglia si era ritirata, convinta che la strada fosse sicura. A quel punto gli arcieri di Uther Pendragon abbandonarono il luogo in cui si erano nascosti durante la perlustrazione, coprendo di corsa il mezzo miglio che li separava dalla gola. Una volta raggiunta la sommità del canalone su entrambi i lati, si distesero pancia a terra e restarono in attesa finché non giunse il segnale che li fece scattare in piedi, e in quel preciso istante la cavalleria di Uther caricò da entrambi i lati dello stretto passaggio impedendo al nemico sia di avanzare sia di ritirarsi. Gli sventurati mercenari, quasi tutti a piedi, caddero rapidamente sotto la pioggia mortale delle lunghe frecce dei Pendragon, contro le quali non avevano difesa. Quando tutto fu finito, Uther poteva ritenersi molto soddisfatto. I suoi uomini avevano concluso la campagna con una magnifica vittoria di cui si sarebbe parlato da un capo all'altro dei domini di Lot. Mandò qualcuno a recuperare il convoglio di salmerie e provviste del nemico, un ricco e prezioso bottino, e a contare i morti, e non fu sorpreso di apprendere che i caduti erano oltre
settecento, e che non c'erano state perdite fra gli uomini della Cambria e di Camelot. Non tutti i nemici erano rimasti vittime delle frecce, e molti erano stati uccisi sommariamente dopo essersi arresi. Uther lo sapeva, ma non fece discussioni. Le centinaia di feriti rimasti in vita dovevano essere in pessime condizioni e non avrebbero più rappresentato una minaccia per lui o per i suoi, mentre i feriti meno gravi, che avrebbero potuto riprendere le armi, erano stati finiti dai vincitori. Era così che si combattevano le guerre. Nessuna delle parti aveva tempo o risorse per tenere un gran numero di prigionieri. I guerrieri della zona, nati nella terra in cui combattevano, potevano almeno sperare di essere risparmiati per tornare alle loro case. Ma non i mercenari. I mercenari conoscevano i rischi cui andavano incontro quando si arruolavano. Una volta abbandonato il luogo dell'imboscata, non incontrarono altre forze ostili lungo la strada. Si fecero precedere in continuazione da gruppi di cacciatori, e con grande sorpresa e piacere di tutti la caccia ebbe sempre successo. Gli uomini si nutrirono di selvaggina quasi ogni giorno, e nella prima parte del viaggio, quasi a smentire la loro cattiva sorte, trovarono persino una fattoria bruciata con un paio di granai quasi pieni, uno di avena e l'altro di grano. Li trovarono per puro caso, perché il proprietario li aveva abilmente nascosti dietro un fitto boschetto a un centinaio di passi dalla fattoria, sapendo che era meglio rendere poco visibile il suo tesoro. Sfortunatamente, ciò non era stato di grande aiuto a lui e alla sua famiglia, poiché i predoni che avevano assalito la sua fattoria avevano raso al suolo la sua abitazione comunque, uccidendo lui e tutti i suoi cari, senza scoprire il deposito di cereali. Otto giorni dopo, in piena forma, i soldati giunsero al punto più vicino a Camelot sul loro itinerario, e il mattino seguente Popilio Cirro e i suoi mille uomini si separarono dal contingente cambriano dirigendosi senza indugi verso nord-ovest per l'ultimo breve tratto di viaggio. Uther fu molto tentato di andare con loro, anche solo per una breve visita, poiché il suo lato infantile continuava ancora, di tanto in tanto, a considerare Camelot la sua vera casa. Si disse che era suo dovere far visita ai legati Tito e Flavio o a chiunque fosse al comando in quel momento per riferire le sue informazioni sull'invasione prevista per la primavera, e stava quasi per cedere
all'impulso, ma il suo buon senso non gli permise di ingannare se stesso e a malincuore resistette al richiamo di Camelot e delle sue attrattive. Trascorse invece un'intera serata con Popilio Cirro, illustrandogli prima a grandi linee e poi nel dettaglio, con grande enfasi, le istruzioni cruciali che il comandante avrebbe dovuto trasmettere alle autorità. Uther sapeva che la sua intesa con Ygraine, Herliss e Lagan il Saggio era ancora un segreto e che Popilio Cirro non sospettava nulla. Sapeva anche, però, che per salvaguardare quell'intesa, dato che la vita dei suoi nuovi amici dipendeva da questo, doveva essere estremamente cauto nel parlare dell'invasione di primavera e scegliere accuratamente le parole, per non rischiare di suscitare curiosità sulle sue raccomandazioni o suggerire a qualcuno, anche indirettamente, che lui potesse disporre di informazioni segrete o privilegiate sui piani di Lot. Non poteva dire la verità nemmeno ai suoi, nel timore che uno di loro si facesse sfuggire il segreto in un momento di disattenzione, non deliberatamente ma per semplice, umana debolezza. Decise quindi di presentare le sue convinzioni come un insieme di suggerimenti basati su opinioni e impressioni raccolte durante la campagna in Cornovaglia. Le sue argomentazioni dovevano risultare abbastanza autorevoli da stimolare una risposta immediata e positiva da parte dell'alto comando di Camelot. Uther sapeva che se fosse riuscito a trasmetterle nel modo giusto attraverso Popilio, ciò sarebbe bastato, e a quel punto avrebbe potuto lui stesso aggiungere ulteriori dettagli e sostanza al suo discorso nella sua prossima visita a Camelot. Parlò con Cirro per ore, finché non fu convinto di avergli illustrato a sufficienza la situazione e di non poterlo persuadere ulteriormente dell'urgenza e della solidità delle sue idee. A quel punto chiese al vecchio di trasmettere il suo affetto filiale a sua nonna, Luceia Britannico, insieme alla promessa di tornare a Camelot il più presto possibile con la speranza di trovare suo cugino Merlino ristabilito e in piena salute. Solo allora permise al distaccamento di Popilio di partire, trasportando i pochi feriti gravi nei carri rimasti. Poi, senza nemmeno attendere che la colonna di fanti scomparisse alla vista, fece segno al suo trombettiere e guidò i
suoi Dragoni e il grosso contingente di arcieri sulla strada per la Cambria. Ma la cattiva sorte lo accompagnò anche a Tir Manha. Al loro ritorno i soldati scoprirono di essere i più sani in tutto il paese, e nel giro di tre giorni cominciarono anch'essi a soccombere alla pestilenza che affliggeva la Cambria dall'inizio dell'autunno. Non era una malattia mortale, ma debilitante e dolorosa. Si presentava con febbre alta accompagnata da vomito e diarrea e con una fastidiosa orticaria che generava un prurito insopportabile in vista della guarigione, che apparentemente si verificava dopo un periodo di quattro-sei giorni. Grattandole, le pustole finivano per fare la crosta e lasciavano in seguito delle piccole tracce permanenti sulla pelle, quando la crosta scompariva. Uther fu uno dei primi nel suo gruppo ad ammalarsi, parecchi giorni prima dell'equinozio di Samhain, e poiché era il re, i druidi fecero appello a tutta la loro sapienza e a tutta la conoscenza che avevano accumulato sul morbo per curarlo. Gli ricordarono costantemente di non grattarsi se non voleva rimanere sfigurato mettendo a rischio il suo diritto al trono, poiché secondo la legge il re doveva essere fisicamente integro e totalmente privo di difetti. Così per tutta la durata della malattia Uther rimase chiuso in casa, sottoposto alla bonaria persecuzione di Garreth il Fischiatore che in quel momento godeva di una salute perfetta e alle più dolci e premurose cure di sua madre e delle sue donne, immergendosi in un miscuglio di farina d'avena e acqua fredda per combattere l'insopportabile prurito che gli tormentava le braccia, le spalle, la schiena e il torace. Passò il tempo e anche il contagio; tuttavia quell'anno le celebrazioni di Samhain, giunte in coincidenza con il culmine dell'epidemia, furono modeste, e quando giunse il tempo dei Saturnalia romani, verso la fine di dicembre, Tir Manha non era ancora tornata alla normalità. Le cose cambiarono con il nuovo anno, e Uther notò con soddisfazione che gennaio si annunciava con una temperatura eccezionalmente mite. Ormai aveva recuperato le forze ed era di nuovo in forma, pronto per il compito che lo attendeva, e quando Aelle di Carmarthen arrivò a Tir Manha lo accolse passeggiando nervosamente, ansioso di tornare al lavoro.
Aelle era la cosa più simile a un esperto lupo di mare di cui disponesse la Federazione dei Pendragon. Suo padre era stato costruttore di navi, e lui stesso si era applicato a quell'arte, ma aveva scoperto ben presto che preferiva di gran lunga governare le navi che costruirle. Aveva ceduto la sua quota del cantiere al fratello più giovane in cambio di una galea tutta sua, aveva messo insieme una ciurma e aveva cominciato a navigare su e giù per la costa, facendo commercio di tutto ciò che riusciva a trovare. Dato che lui e il suo equipaggio avevano dovuto combattere per difendere i loro beni, negli anni Aelle di Carmarthen si era guadagnato la reputazione di valoroso guerriero, e ora capitanava un terzetto di formidabili galee. Uther condusse Aelle nelle sue stanze in modo che non fossero disturbati e gli disse tutto ciò che sapeva dei futuri piani di invasione di Lot. Gli domandò quali punti della costa sarebbero stati più idonei allo sbarco di un esercito e avrebbero attratto più facilmente l'occhio di un generale invasore. Aelle ascoltò con serietà e passò mentalmente in rassegna i possibili siti, poi si raddrizzò sulla sedia e trasse un profondo respiro. «Fra una decina di luoghi possibili me ne vengono in mente cinque, tutti a non più di un giorno di marcia da qui, a nord o a sud, ma si trovano su questa sponda del Severn. Pensi che quei bastardi ti vogliano attaccare a Tir Manha?» Il re scosse la testa. «Non so, Aelle. Mi è stato detto che colpiranno Carmarthen, e anche se vorrei potermi fidare completamente di questa informazione, per il momento si tratta solo di una voce, quindi la tua opinione in proposito vale probabilmente più della mia.» «Già, peccato. Sarebbe molto più semplice se sapessimo che vengono per colpire te. Così, invece, dobbiamo considerare dieci leghe di costa rivolta a nord da questa parte dell'estuario, e altrettante di litorale rivolto a sud oltre il fiume, con cinquecento baie per ciascuna lega... baie, attenzione, non spiagge.» Era la pura verità, e Uther lo sapeva. Una lega celtica era una distanza compresa tra due e mezzo e tre miglia romane. Aelle stava facendo delle smorfie, scuotendo il capo. «Ascolta, hai
bisogno di una risposta subito, oggi stesso? Puoi darmi tre giorni o una settimana? Vorrei battere la costa su e giù con la mia nave per vedere le cose con gli occhi di un invasore, anziché con i miei. Ho visto quelle baie almeno cento volte, ma non mi è mai venuto in mente di osservarle come punto di sbarco per un esercito... capisci cosa voglio dire? C'è una grossa differenza, re Uther. Quindi preferirei andare a controllare e rifletterci sopra, perché potrei farmi un'opinione diversa da quella che avevo prima, non so se mi spiego.» Sia pur malvolentieri, Uther ne convenne e concesse ad Aelle tutto il tempo necessario. Il marinaio lo fissò con gli occhi ridotti a fessure. «Stammi a sentire» disse bruscamente. «So cos'hai in mente e quello che devi fare. Hai decisioni importanti da prendere, per tutti noi, quindi non ho intenzione di farti perdere tempo. Ma come può essere tempo perso se in realtà te lo fa risparmiare? Pensaci, re Uther. Se io riesco a tornare qui e a dirti dove farei approdare il mio esercito dovendo invadere queste terre, tu puoi basarti sulle mie parole e prepararti a respingere uno sbarco in quel punto. Se riesco a scegliere tra due o tre posti, puoi lavorare su quelli. Ma se non ti dico niente o tu non mi mandi a controllare, non saprai nulla più di quello che sai adesso, e potresti finire col dover scegliere tra dieci o venti posti possibili. Quella sarebbe una vera perdita di tempo, credi a me.» Uther annuì, sorridendo. «Hai ragione, Aelle, e capisco perfettamente il tuo ragionamento. Va' a fare quel che devi, e io sarò ben contento di vederti tornare.» L'uomo si assentò per una settimana e un giorno; quando tornò, il suo volto solitamente cupo era disteso in un sorriso, e Uther si sentì meglio al solo guardarlo. Aelle non lo tenne a lungo sulle spine, ma venne subito al punto: «Birra, re Uther... mi serve qualcosa di freddo e di bagnato per togliermi la sete, non so se mi spiego». La birra, ancora fredda di cantina, fu servita all'istante, e Aelle vuotò il suo boccale, lo riempì nuovamente e ne bevve un altro quarto prima di dare l'impressione di essere pronto a parlare. Ruttò e si appoggiò allo schienale della sedia. «Tre punti» disse. «Sono tre i punti che userei, e tutti sono ottimi.
Uno si trova sulla costa meridionale e gli altri due sulla sponda opposta dell'estuario. Quello che giace su questo versante è l'unico che si può ragionevolmente utilizzare su tutto questo tratto di costa, ed è a quattro leghe di distanza, verso la bocca del fiume. È una spiaggia sgombra e quasi piatta in una baia ben protetta da un promontorio, e dunque gli uomini possono sbarcare e raggiungerla a piedi senza dover lottare con onde troppo alte. Oltre la spiaggia in questione c'è un ampio prato circondato da una fitta cinta di alberi. Puoi sbarcare lì un'intera legione romana e nasconderla nel bosco senza che nessuno sospetti della sua esistenza. Io stesso sono sceso a terra per dare un'occhiata, e scommetto che sono stato il primo a mettere piede in quel posto da cent'anni. Un esercito può sbarcare lì in tutta tranquillità senza temere di essere visto o attaccato. È abbastanza lontano da Tir Manha da permettere alla flotta di approdare senza essere avvistata, nemmeno dal forte a nord del promontorio; ma l'esercito, una volta sbarcato e organizzato, potrebbe essere qui a darti noia in mezza giornata. È perfetto. L'unico punto di tutta questa costa che un uomo dotato di cervello sceglierebbe per uno sbarco in armi, non so se mi spiego.» «E gli altri due punti?» «Nessuno dei due vale il primo, anche se entrambi potrebbero essere utili, in caso di necessità. Ma un capo, o come lo chiamate voi un legato o un generale che cerca un posto per attaccarti... non ho dubbi che sceglierebbe il primo, quello sulla costa meridionale. Attenzione, però: tutto dipende da quello che vuole ottenere o da chi vuole colpire, e se intende combattere davvero oppure no. Potrebbe non avere intenzione di aggredirti. Se invece volesse attaccare Caerdyff, sceglierebbe la spiaggia più a levante, sbarcando a tre leghe di distanza a nord e tornando indietro verso sud-ovest. Anche questo è fattibile senza grandi problemi. Ma se vuole attaccare Carmarthen, come tu hai ipotizzato all'inizio, allora non ha altra scelta che scegliere la spiaggia a ponente, che è molto lontana da qui. Anche in questo caso si tratta di un buon punto d'approdo, ed è abbastanza vicino alla città per far sbarcare l'esercito e mandarlo a circondare l'abitato. A quel punto potrebbe fare una sortita nottetempo e cercare di impadronirsi del porto. Ma non dimenticare che sbarcando lì avrebbe tutta Carmarthen contro, e le
uniche vie di fuga sarebbero ancora verso ovest o verso est in direzione di Caerdyff. Come ho detto, tutto dipende da quello che vuole ottenere questo tizio, chiunque sia.» Uther rimase in silenzio per un bel po' a riflettere sulle parole di Aelle, poi prese la sua decisione. Aelle era di Carmarthen, quindi era del tutto naturale che la considerasse la postazione più forte della Federazione cambriana, il luogo più adatto per respingere qualunque invasione armata. Ma Uther non ne era così convinto. Carmarthen gli sembrava sempre più il punto di partenza ideale per l'ultima insidia di Lot. Lagan ed Herliss si erano mostrati assolutamente sicuri che Cerdic e Tewdric, i generali germanici responsabili dell'invasione, avrebbero lanciato l'attacco proprio in quel punto, e più Uther ci pensava, più si convinceva che i suoi alleati erano nel giusto, per svariate ragioni. Aggredendo la Cambria da ovest, gli invasori avrebbero goduto di numerosi vantaggi: avrebbero costretto Uther, nel suo ruolo di re, a spostarsi molto lontano dalla sua sede per guidare la campagna, e ciò avrebbe probabilmente creato delle frizioni fra gli alleati della Federazione poiché gli scontri iniziali sarebbero avvenuti in pieno territorio dei Griffyd, e i capi locali non sarebbero stati molto felici di farsi comandare da qualcuno che non aveva una goccia di sangue dei Griffyd nelle vene, fosse pure il re della Federazione. Inoltre, la presenza di Uther nella regione di Carmarthen durante l'invasione avrebbe trattenuto lui e i suoi Dragoni, e soprattutto i suoi arcieri, lontano da Camelot e dall'altra invasione - quella condotta da due eserciti separati - che avrebbe avuto luogo contemporaneamente. Per tutti questi motivi, Uther era sempre più orientato a ritenere che l'attacco alla Cambria sarebbe partito da Carmarthen. Gli restavano tre mesi di tempo per prepararsi, ma ne sarebbe bastata la metà se avesse saputo dove e quando era previsto l'attacco, e supponendo che le sue informazioni fossero aggiornate. Decise di prendere le raccomandazioni di Aelle per quello che erano, ma di concentrarsi in futuro sull'approdo di Carmarthen come obiettivo più probabile. Era possibile rafforzare il contingente della città con soldati provenienti da Tir Manha e da Caerdyff, lasciando queste ultime con le truppe dimezzate ma in stato di allerta e sulla difensiva, il che, a suo parere, era meglio che mantenerle a pieni
ranghi ma tranquille e senza alcun sospetto. In questo modo, anche se i comandanti nemici avessero modificato i loro piani, non tutto sarebbe stato perduto, e da Carmarthen le truppe avrebbero potuto spostarsi rapidamente per sostenere quella fra le due città che fosse stata attaccata. Per incrementare il più possibile il suo vantaggio, comunque, Uther decise di mandare una lettera a Lagan, chiedendogli se erano disponibili o prevedibili ulteriori notizie. Ciò stabilito, domandò ad Aelle se la settimana successiva era disposto a portarlo a visitare il punto d'approdo che aveva individuato a Carmarthen. Il marinaio si offrì non solo di fare ciò che Uther gli aveva chiesto, ma anche di fargli vedere gli altri siti principali e di spiegargli perché non li aveva scelti. Soddisfatto, il re lo ringraziò e gli concesse di tornare a casa a riposarsi per qualche giorno. Quella sera Uther trascorse lunghe ore ad armeggiare con carta e inchiostro, alla luce dei ceri, per tentare di trovare e mettere per iscritto le parole destinate a Lagan il Saggio. Era uno dei compiti più ingrati e faticosi che si fosse imposto da anni, poiché comportava un intenso sforzo mentale; l'obbligo di rimanere a testa bassa a scrivere per ore rappresentava in effetti per lui la cosa più sgradevole, ma alla fine riuscì a ottenere una versione dignitosa e priva di errori di ciò che voleva comunicare al suo alleato in Cornovaglia. Il mattino seguente convocò Nemo e le spiegò ciò che voleva da lei. Doveva recarsi da Lagan, portando al collo la pietra da mostrargli, consegnargli la lettera di Uther e tornare a Tir Manha. L'eventuale risposta sarebbe stata portata in seguito da un altro messaggero. Nemo ascoltò, annuì, salutò e partì immediatamente per la sua missione, e Uther si rassegnò ad aspettare imponendosi di avere pazienza.
XVI. Alla fine di gennaio un messaggero dalla Cornovaglia portò una lettera di Lagan il Saggio, tre pagine dense di informazioni. Uther lo ringraziò e incaricò Garreth il Fischiatore di accompagnarlo nelle cucine; poi, appena fu solo e sicuro di non essere disturbato, si rifugiò nelle sue stanze e si sedette accanto a un braciere. Lesse il messaggio lentamente e con grande concentrazione, compitando le lettere maiuscole che Lagan aveva tracciato con mano ferma e ascoltando la musica delle parole latine che si andava formando nella sua mente, dapprima con qualche incertezza, poi in modo sempre più sicuro quando iniziò a comprendere il senso di quello che stava recitando ad alta voce. La regina, riferiva Lagan, aveva fatto di tutto per ingraziarsi i due generali germanici, Cerdic e Tewdric, e aveva appreso che i loro piani erano definiti ben oltre le fasi iniziali. L'attacco sarebbe partito dalla Cornovaglia intorno alla metà di aprile, più o meno nel periodo delle idi romane, e lo sbarco sarebbe avvenuto a Carmarthen, sul lato opposto dell'estuario rispetto a Tir Manha. La scelta della metà di aprile era legata a motivi di coordinamento. Issa e Loholt, che la regina non era riuscita assolutamente ad avvicinare, avrebbero dato inizio all'altra invasione muovendosi in direzione nord via terra verso i loro obiettivi nella prima settimana del mese, tempo permettendo. I due eserciti sarebbero partiti a sette giorni di distanza l'uno dall'altro in modo che il primo, che aveva un percorso molto più lungo da compiere, portasse a termine la lunga manovra di aggiramento necessaria per attaccare Camelot da est. Per assicurare ai tre attacchi combinati il massimo impatto e garantire l'effetto sorpresa, Cerdic e Tewdric avrebbero trattenuto le loro truppe in Cornovaglia per due intere settimane dopo la partenza del primo esercito terrestre. Solo quando gli altri due contingenti fossero stati prossimi a prendere posizione, le truppe imbarcate avrebbero preso il largo. L'attacco dal mare alla Cambria si sarebbe svolto in due fasi.
All'inizio la flotta della Cornovaglia avrebbe preso terra in un'ampia baia a circa tre leghe a ovest di Carmarthen, ben protetta e dotata di una spiaggia con scarsa pendenza, sbarcando l'esercito alla luce del giorno. Le truppe si sarebbero rapidamente dirette verso la città, passando la notte sulle colline dietro l'ex forte romano, e avrebbero attaccato all'alba sperando di sorprendere i difensori e di sopraffarli prima che riuscissero a organizzare una resistenza. Ygraine, scriveva Lagan, aveva riferito che i comandanti responsabili dell'operazione erano ottimisti e sicuri di sé. Avevano informazioni precise sulle difese di Carmarthen e sulla conformazione del terreno nell'area circostante le mura, e disponevano di due piani di attuazione alternativi per gestire l'esito del loro attacco iniziale. Se l'effetto sorpresa avesse funzionato come previsto, avrebbero semplicemente preso possesso della città e utilizzato moli e magazzini per sbarcare e stivare il loro materiale. Se, invece, la sorpresa iniziale fosse stata inferiore alle attese, l'avanguardia si sarebbe ritirata in tempo per celare la vera portata delle forze d'attacco, disponendosi in assetto di battaglia nella pianura intorno alle mura della città e provocando i Griffyd di Carmarthen finché i loro guerrieri non fossero usciti a combattere. A quel punto, a un segnale convenuto, una decina di galee che non avevano ancora sbarcato il loro carico di uomini avrebbero invaso i moli e le banchine del porto, scaricando un numero di soldati sufficiente ad attaccare e sfondare le porte della città. Lagan non aveva altro da riferire, ma prometteva di scrivere ancora se fosse venuto in possesso di altre informazioni. Concludeva la sua lettera annunciando che negli ultimi tempi Lot era apparso ringalluzzito dalla notizia che sua moglie, la regina Ygraine, era incinta e avrebbe partorito in giugno, appena in tempo per la celebrazione della sua vittoria. Uther impallidì e rimase a bocca aperta a fissare la lettera, improvvisamente ignaro di tutto ciò che lo circondava, vacillando sull'orlo di un baratro chiamato "paternità". Aveva scherzato con Ygraine su quella eventualità, ma nemmeno per un attimo aveva pensato che potesse accadere davvero una cosa del genere. Le gravidanze inattese, dovute ad accoppiamenti fuggevoli ma senza importanza, erano comuni e di solito passavano inosservate, ma la
generazione di un erede, la paternità volontaria, era una cosa per gli altri... per quelli che erano pronti per questo. Era per uomini che la volevano, che erano consci della propria mortalità; uomini sposati e innamorati della propria moglie. Lui era un re, ancora molto giovane e inesperto, con gravi responsabilità. Non aveva tempo per essere padre... Cercò di dominarsi, e gli venne in mente che quella paternità non sarebbe stata un peso per lui, poiché Gulrhys Lot sembrava ben felice di accettare e di riconoscere il bambino, nel caso fosse un maschio, come suo futuro erede... il suo primo figlio legittimo... Ma questo sarebbe stato il primogenito di Uther, non di Lot... certamente non di Lot! Di colpo Uther fu invaso da una collera profonda e viscerale al pensiero che Gulrhys Lot osasse rivendicare la paternità di un piccolo Pendragon. Era già abbastanza grave che si dichiarasse padre di una mezza dozzina di orfani bastardi, ma che tentasse ora di servirsi di un discendente del sangue di Ullic e di Uric per sostenere le sue false pretese di virilità... questo era davvero troppo! «Santo cielo, che cos'hai?» Uther sussultò e vide con sorpresa che Garreth il Fischiatore era entrato nella stanza senza che lui se ne accorgesse, seguito da Owain delle Grotte. Il re finse irritazione di fronte a quella domanda inaspettata. «Che significa "che cos'ho"? Non ho proprio nulla. Buon giorno, Owain.» Owain fece un cenno col capo senza parlare, e Garretti sorrise alzando le mani in segno di resa. «Oh, ti chiedo scusa allora. E solo che ti ho visto stringere furiosamente nella mano quella pergamena accartocciata con un'espressione... Dunque le notizie di Lagan erano buone? Ti confesso che guardandoti in faccia ho pensato che fossero disastrose.» Uther abbassò gli occhi sulla lettera appallottolata e scosse energicamente la testa. «Io... non me n'ero reso conto. Sedetevi, ascoltate e giudicate voi stessi se ho ragione o meno di essere preoccupato.» Spiegò il foglio e lesse ad alta voce, omettendo
soltanto la gravidanza di Ygraine. Quand'ebbe finito, Garreth rimase in silenzio per un po', mentre Owain delle Grotte fissava Uther negli occhi. Alla fine, Garreth parlò. «Da dove vengono quelle notizie? Sono precise. E non sono il genere di informazioni che gira tra la comune soldataglia.» Uther annuì. «Infatti non lo sono. Vengono dal mio informatore tra le fila di Lot.» «Il tuo informatore. Capisco. Tra le fila di Lot. Ma certo, non poteva essere diversamente. Da quanto tempo ce l'hai?» Uther sospirò e dopo averli fatti accomodare raccontò loro ogni cosa sui suoi accordi con Herliss e Ygraine. I due ascoltarono senza interromperlo fino alla fine, poi Garreth il Fischiatore domandò: «Perché non ce l'hai detto prima?». «Perché non era necessario che lo sapessimo.» Fu Owain a rispondere, con tale prontezza che gli altri due si voltarono a guardarlo, sorpresi. «Be', è la verità, no? Ciò che non sapevamo non potevamo farcelo sfuggire davanti a un bicchiere di birra. Ora è chiaro che tu vuoi che sappiamo. Qual è la tua prossima mossa?» «Non ne sono sicuro. E per questo vi chiedo un consiglio» disse Uther rivolgendo un'occhiata penetrante a Garreth il Fischiatore. Quest'ultimo scrollò le ampie spalle e distolse lo sguardo con aria dubbiosa. «Io so che potremo rendere la vita difficile agli invasori che giungeranno a Carmarthen dal mare» disse alla fine, fissando i carboni ardenti del focolare. «Il terreno ci sarà favorevole laggiù, e avremo il vantaggio della sorpresa, quindi confido che riusciremo a sconfiggerli e a ricacciarli là da dove sono venuti...» Si voltò verso il suo pupillo. «Ma cosa possiamo fare contro gli altri due eserciti che attaccheranno Camelot? È questo che mi chiedo... e vedo che te lo domandi anche tu. Lì il terreno non è favorevole per i nostri alleati... e nemmeno per noi. Nel raggio di un miglio ci sono foreste in tutte le direzioni, tranne che lungo la strada maestra, e una fitta foresta può essere sia un vantaggio sia uno svantaggio. La cavalleria è inutilizzabile e anche gli arcieri. Troppi alberi e troppo poco spazio per tirare.» Si interruppe e fissò Uther con sguardo sagace. «Hai
qualcosa in mente, o ti aspetti che la gente di Camelot se la cavi da sola?» «Non possono cavarsela da soli! Be', non è vero, immagino che possano farcela... dovranno farcela. Ma Merlino non è ancora tornato in sé, ed è questo che mi spaventa più di tutto. Lui è l'unico in grado di affrontare questa situazione. Tito e Flavio sono in gamba, ma ormai sono vecchi tutti e due, e troppo arrugginiti, dato che per tutta la vita hanno potuto contare sulla mano forte di Merlino e di suo padre Pico. E poi sono innanzitutto ufficiali di cavalleria, con un addestramento e una mentalità di tipo romano, e la battaglia che ci attende non avrà proprio nulla di romano. Camelot avrà un gran bisogno di noi, e noi non saremo in grado di fornire loro un grosso aiuto, anche se sbaragliassimo gli invasori a Carmarthen. Nel tempo necessario ad arrivare fino a Camelot potrebbe essere già tutto finito. Quindi dovrò trovare rapidamente una soluzione. E quello che dici è giusto: conoscere il terreno non ci darà alcun vantaggio in questo caso. Proprio nessuno...» Tacque, con gli occhi fissi sul braciere. «La cosa peggiore è che questi due individui, Issa e Loholt, sono i migliori comandanti di Lot, e probabilmente tra i migliori di tutta la Britannia, poiché non solo hanno ricevuto un addestramento romano, ma hanno anche un'esperienza di mercenari indipendenti. Sono soldati di guerriglia, abituati ad agire da soli senza dover rispondere a una catena di comando. Brutta gente con cui fare i conti. Erano al soldo di Roma ben prima che Lot li arruolasse, e da quanto ho saputo si odiano a morte, il che significa che non agiranno insieme e che noi non potremo trattarli come un'unica forza nemica. Andranno all'assalto separatamente, cercando di aggiudicarsi la preda rappresentata dalla ricchezza di Camelot, e questo vuol dire che non perderanno tempo, né l'uno né l'altro. E come avete sentito, i due eserciti sono grandi ciascuno come un'intera legione.» Uther fissò alternativamente i suoi interlocutori. «Due eserciti, ciascuno grande come una legione... Anche ammettendo che si tratti di una notevole esagerazione, significa almeno tremila o forse quattromila uomini ciascuno. Uomini avidi in cerca di bottino, e
timorosi di perderlo se i loro alleati arriveranno per primi. In sostanza, ottomila mercenari imprevedibili e spietati che marciano su Camelot da due diverse direzioni.» Sbuffò, sconfortato. «L'unica soluzione sarebbe che vengano colpiti da un flagello, un'epidemia come quella che ci ha colpiti di recente, ma molto più fatale... e immediata. Non serve che sia diffusa, ne basta una piccola che uccida Issa e Loholt. Senza quei due, l'esercito di Lot non oserebbe nemmeno mettersi in marcia, perché nessun altro è in grado di guidarlo.» «E gli altri due di cui parlammo mesi fa, come si chiamavano...?» «Cuneglas e Ralla, i comandanti di Lot? Sono degli incompetenti. Probabilmente i mercenari germanici non accetterebbero nemmeno di farsi guidare da loro. Ma immagino che sia tempo sprecato sperare in un'eventualità del genere. Gli dèi non si sono mai degnati di sorridermi finora, quindi la probabilità che uno di loro ci mandi un'epidemia in questo momento è risibile. Issa e Loholt sono in piena salute e non vedono l'ora di mettersi in marcia. Il concentramento delle loro truppe è previsto fra sei settimane. A proposito, è tutto pronto per il nostro viaggio di domani a Carmarthen?» Garreth annuì. «Sì, tutto a posto. Partiremo alle prime luci dell'alba.» «Bene. Voglio essere di ritorno entro dieci giorni, dopo di che intendo fare una breve visita a Camelot per vedere come vanno le cose laggiù. Sarò di nuovo qui la settimana successiva, e allora sarà quasi giunto il momento di indossare la nostra armatura da battaglia. Ma dimmi, Owain, dove sei stato? È da mesi che non ti vedo.» Uther si mise ad ascoltare il resoconto di Owain delle Grotte, distratto in continuazione dall'immagine di Ygraine di Cornovaglia seduta su una sedia dall'alto schienale, con un bimbo ridente sulle ginocchia. Quella visione lo avrebbe costantemente accompagnato da quel momento in poi, cogliendolo di sorpresa nei momenti più impensati, e Uther avrebbe presto imparato ad amarla. Ma tutti i suoi pensieri su Ygraine svanirono di colpo quando si rese conto che Owain gli stava ponendo una domanda importante. Aveva lavorato volentieri per Uther, diceva Owain, ed era contento della nuova vita che gli era stata concessa in Cambria tra i
guerrieri Pendragon, che lo avevano adottato come uno di loro. Il fatto che gli avessero insegnato a usare e a curare il magnifico arco lungo era per lui più importante di ogni altro riconoscimento che avesse ricevuto in tutta la sua vita. Ma adesso che sapeva che era possibile vivere una vita totalmente diversa dalla miserabile esistenza che aveva condotto prima di conoscere Uther, qualcosa dentro di lui gli diceva di andarsene e di approfittarne prima che fosse troppo tardi. Promise di combattere nella guerra imminente, ma subito dopo voleva tornare nel suo luogo d'origine, nel nord del paese, per vedere se poteva rifarsi una vita laggiù. Uther ascoltò senza commenti finché Owain non ebbe terminato, poi sorrise, nascondendo il suo sgomento e facendo buon viso alla domanda che gli era stata rivolta. L'uomo del nord lo aveva servito bene, facendo le poche cose che gli venivano chieste senza obiezioni o lamentele, e Uther aveva finito per contare su quell'omone silenzioso. Sapeva perfettamente che non sarebbe servito a niente opporsi, ma sentiva anche che era importante non solo acconsentire alla richiesta di Owain, tutt'altro che irragionevole, ma anche incoraggiarlo a seguire i dettami del suo cuore. Si alzò e lo abbracciò, dandogli la sua benedizione e incoraggiandolo a partire appena ne avesse sentito la necessità, con l'assicurazione che se la vita nelle terre del nord non si fosse rivelata all'altezza delle sue aspettative, sarebbe sempre stato il benvenuto a Tir Manha. Owain restò senza parole e fissandolo con occhi scintillanti di gratitudine si inchinò a baciargli la mano prima di voltarsi e uscire dalla stanza. Uther lanciò a Garretti il Fischiatore un'occhiata inquisitoria, ma l'altro si limitò a scrollare le spalle e a uscire anche lui. Rimasto solo, Uther restò seduto accanto al braciere a osservare i carboni incandescenti per un bel pezzo, finché le candele sul tavolo accanto non si furono consumate e cominciarono a languire, e il fuoco stesso non fu soffocato dalla cenere. A quel punto si alzò e andò a coricarsi. Dormì molto male, oppresso da sogni e visioni confuse, e quando il mattino seguente si alzò, stanco come se non avesse chiuso occhio, Owain delle Grotte non era più a Tir Manha. Si era allontanato la
notte precedente, senza dire a nessuno dove stava andando. Uther non disse nulla quando Garreth gli portò la notizia, ma si sentì abbandonato, e considerò la scomparsa di Owain un cattivo presagio. Il viaggio a Carmarthen durò quasi due settimane, anziché dieci giorni, ma Uther fu molto soddisfatto dei risultati. Dergyll ap Griffyd, che viveva laggiù, era stato eletto capo supremo di tutti i clan dei Griffyd un anno prima e si stava rapidamente dimostrando un superbo guerriero e un'ottima guida. Era un bel giovane - Uther stimò che non potesse avere più di ventitré o ventiquattro anni dalle spalle larghe e di non alta statura, con un corpo agile, muscoloso e una straordinaria fiducia nelle proprie capacità, accompagnata da un senso dell'umorismo contagioso. Era rispettato e ammirato da tutta la popolazione, e da quel che Uther aveva sentito dire non aveva né difetti né debolezze apparenti. Uther e Dergyll si erano conosciuti brevemente durante l'adolescenza ed erano diventati amici, ma erano passati molti anni prima che si rivedessero in occasione del funerale del vecchio Cativelauno di Carmarthen. Uther sapeva che l'anziano capo aveva un pupillo di nome Dergyll, ma non gli era mai venuto in mente che potesse essere lo stesso con cui aveva trascorso una delle lunghe estati della sua giovinezza. Dergyll ap Griffyd si era costruito una temibile reputazione di guerriero alla quale univa spiccate doti di comando. Uther lo aveva incaricato di preparare il terreno sopra e intorno alle spiagge che sarebbero state utilizzate da Cerdic e Tewdric. Aveva lasciato lì anche Huw Fortebraccio, assegnato al comando di Dergyll con un contingente di quattrocento arcieri Pendragon; disposti esattamente come Uther aveva ordinato, gli arcieri sarebbero stati in grado di decimare le truppe di invasori sfuggiti alla prima reazione di Dergyll e così temerari da tentare di attaccare ugualmente. La postazione delle forze dei Pendragon si trovava sull'unica strada che portava dalla spiaggia a Carmarthen e dunque non poteva essere evitata o aggirata; qualunque truppa diretta in città avrebbe dovuto passare per la valle in cui gli arcieri di Uther avevano scelto di posizionarsi.
Uther sapeva che l'invasione da ovest era sotto controllo. I nemici, che non si aspettavano alcuna opposizione, sarebbero sbarcati senza sospetti e nessuno avrebbe alzato un dito contro di loro finché non fossero tutti sbarcati. Solo allora, quando fossero stati pronti a marciare verso est contro Carmarthen, sarebbe scattata la trappola di Dergyll. Un potente esercito si sarebbe materializzato dal nulla di fronte a loro, colpendoli duramente e incessantemente. Tra i Griffyd di Dergyll, gli arcieri Pendragon di Huw e i guerrieri Llewellyn inviati a dare man forte, l'esercito della Federazione avrebbe contato quasi seimila uomini, tutti impegnati a difendere la patria contro un nemico colto di sorpresa e con il mare alle spalle. Uther era molto più preoccupato dei due eserciti destinati a piombare su Camelot, uno da sud e l'altro da est. Non vedeva l'ora di andare laggiù per verificare i piani di difesa e i preparativi, perché lo scontro si preannunciava molto arduo. Privi del loro condottiero più abile, Caio Merlino, avrebbero avuto un drammatico bisogno di assistenza, ben più di quella che Uther era in grado di offrire. Prima di partire per Camelot, tuttavia, doveva occuparsi di affari interni alla Federazione dei Pendragon. Aveva invitato i capi del clan dei Llewellyn a raggiungerlo a Tir Manha per discutere gli ultimi accordi sulla loro partecipazione alla campagna di primavera, compreso il numero e la disposizione dei guerrieri che avrebbero mandato a Carmarthen. I capi erano Cunbelyn e Hod il Forte, entrambi presenti alla Scelta che aveva eletto Uther re della Federazione, e un uomo più giovane, Brochvael, che dopo la cerimonia aveva preso il posto del defunto Meradoc come capo del più numeroso clan dei Llewellyn. Non c'era grande amore fra Uther e i tre capi dopo lo scontro che lui aveva avuto con Meradoc, ma nemmeno aperta ostilità. Da quando era diventato re, i Llewellyn avevano fatto tutto ciò che era stato loro richiesto comportandosi correttamente, e Uther non poteva che esserne soddisfatto. Il giorno stabilito Uther parlò con i capi per un giorno intero, illustrando l'esatta portata della minaccia che la Federazione si trovava ad affrontare e specificando in dettaglio le sue richieste nei confronti dei tre clan riuniti. All'inizio ci furono alcune domande, soprattutto da parte di Hod il Forte, sulla fonte dei dati forniti da
Uther e sull'affidabilità dei suoi informatori, ma Hod era fatto così, esponeva senza mezzi termini ogni dubbio che gli passava per la mente senza badare a sottigliezze. Era disposto ad accettare che Uther tacesse alcune cose per timore di mettere in pericolo i suoi amici in Cornovaglia, e dichiarò che voleva soltanto avere la certezza che non avrebbe esposto i suoi uomini a rischi inutili. Uther rispose apertamente a tutte le sue domande, rifiutandosi di fare nomi o di dire cose che potessero risultare rischiose per i suoi amici ma esponendo con franchezza le sue ragioni ogni volta che era necessario, senza nascondere altro. Alla fine concordarono che i tre clan dei Llewellyn avrebbero messo in campo un esercito complessivo di duemila uomini per rafforzare i quattromila di Dergyll ap Griffyd e i quattrocento arcieri Pendragon di Huw Fortebraccio già a Carmarthen. Brochvael, il giovane capo che Uther conosceva poco, protestò per quello che gli sembrava uno scarso impegno dei Pendragon nella campagna di Carmarthen, appena quattrocento arcieri contro le migliaia di Llewellyn, ma con sorpresa di Uther fu Hod a mettere a tacere quelle preoccupazioni osservando che un arciere Pendragon, collocato nella giusta posizione con un buon raggio d'azione e un numero adeguato di frecce al suo arco lungo, valeva dieci, forse venti dei guerrieri che lui stesso poteva mettere in campo. Quattrocento uomini di quel tipo, sostenne, strategicamente piazzati secondo le indicazioni di Uther, erano in grado di vincere un'intera battaglia da soli e senza aiuto purché una forza di supporto alle spalle del nemico impedisse agli avversari di sfuggire alle lunghe frecce letali dei Pendragon. Brochvael non sembrava convinto, e Uther era sul punto di manifestargli il suo rammarico quando gli venne in mente che, per quanto assurdo potesse sembrare, Brochvael non aveva mai visto gli archi lunghi dei Pendragon utilizzati in guerra, e risolse immediatamente il problema organizzando una dimostrazione per l'indomani. La giornata era bella, fredda e pungente, e gli arcieri approfittarono dell'occasione per dimostrare la loro perizia, felici di pavoneggiarsi davanti agli ospiti.
Dopo le incredibili prove individuali di abilità che lasciarono a bocca aperta i tre capi, l'esibizione pomeridiana si chiuse con una dimostrazione di tiro rapido collettivo: quattro formazioni di cento uomini ciascuna, poste a distanze regolari, miravano a un bersaglio costituito da cento pali piantati nel terreno a centocinquanta passi dalla prima fila di arcieri. Ogni squadra era disposta in due file di cinquanta uomini sistemate una davanti all'altra a una distanza di due passi; poiché tra una squadra e l'altra correvano venti passi, l'ultima fila di arcieri distava dai bersagli circa duecentoventi passi. Al segnale stabilito, gli arcieri cominciarono a tirare, e in ogni istante si videro almeno due scariche di cento frecce nell'aria, una che saliva verso la sommità della sua parabola e l'altra che piombava sul bersaglio. L'intero esercizio fu completato in un tempo inferiore a quello che avrebbe impiegato uno degli uomini in prima linea a percorrere metà della distanza che lo separava dai pali. Ogni arciere scagliò dieci frecce, e al segnale di cessate il fuoco l'area dei bersagli era ricoperta di quattromila frecce. Nell'assalto nessuno dei pali era stato mancato, e i tiri sbagliati erano stati meno di un centinaio. Durante l'esercitazione Uther osservò attentamente i suoi ospiti e si accorse divertito che Hod il Forte assisteva all'esibizione sorridendo e dando di gomito ai suoi vicini, poiché aveva già assistito a quello spettacolo, mentre Cunbelyn e Brochvael erano sbalorditi e senza parole. Ma anche allora Uther non ebbe bisogno di parlare, perché Hod trionfante continuava a punzecchiare l'attonito Brochvael chiedendogli se aveva mai visto nulla di simile. Uther capì chiaramente che il giovane capo non aveva mai visto e neppure immaginato una cosa del genere, e che non avrebbe più sollevato obiezioni, né allora né in futuro. Quattro giorni dopo la partenza dei Llewellyn, nel pallido sole invernale di un tardo pomeriggio, Uther stava costeggiando a cavallo una guarnigione sul confine esterno di Camelot che a tutta evidenza era stata notevolmente allargata e massicciamente fortificata in tempi molto recenti: i pali di legno acuminati sulla sommità delle mura di terra recavano ancora i segni dei colpi di
accetta ricevuti. Rincuorato nel vedere attuati alcuni dei suoi suggerimenti, si avvicinò e dopo essersi qualificato presso il comandante della postazione ispezionò rapidamente l'installazione. La postazione, un tempo poco più che una fattoria sperduta, era ora una poderosa roccaforte, interamente circondata da un profondo fossato colmo di paletti mortalmente aguzzi. Il terreno rimosso per scavare il fossato era stato utilizzato per creare un'alta barriera difensiva, rinforzata con la palizzata che aveva visto all'inizio e dotata sul retro di un parapetto da cui gli occupanti potevano respingere gli attacchi. La roccaforte pareva in grado di ospitare comodamente una guarnigione di parecchie centinaia di uomini e aveva due ingressi, entrambi costituiti da uno stretto corridoio chiuso all'estremità da un cancello. I corridoi erano sormontati da ponticelli dai quali i difensori potevano attaccare chiunque tentasse di percorrerli, un ponte levatoio fatto di grossi tronchi e manovrabile con delle pulegge permetteva di uscire dal forte per manovre offensive e di negare l'accesso agli aggressori. Uther fu molto impressionato non solo dall'evidente robustezza della fortificazione, ma anche dalla rapidità con cui era stata eretta. Fu ancora più impressionato, risalendo verso Camelot alla testa del primo squadrone dei suoi Dragoni, da quello che trovò nell'enorme spianata che ospitava il campo di addestramento ai piedi della collina. Ai tempi del primo proditorio attacco di Lot a Camelot, Popilio Cirro vi aveva edificato una fortezza temporanea. Era servita egregiamente allo scopo, ma in seguito era stata smontata per permettere alla cavalleria di utilizzare di nuovo il campo di addestramento. Ora era stata ripristinata e dotata di una guarnigione. Come sempre, le notizie viaggiavano con incredibile velocità a Camelot, e ben prima di raggiungere l'enorme porta in cima alla collina della fortezza, Uther vide spuntare un gruppo di persone venute a dargli il benvenuto. Ebbe un tuffo al cuore nel riconoscere fra loro suo cugino Merlino, inconfondibile per la sua statura e per l'oro della sua chioma. Anche a quella distanza riuscì a distinguere il bagliore candido del suo sorriso, e con una morsa allo stomaco sperò che Caio Merlino fosse tornato di nuovo se stesso.
E così sembrava, perché quando Uther si accostò al gruppo il gigante biondo gli venne incontro prima di tutti gli altri afferrando le redini del suo cavallo. «Pesciolino» esclamò. «Sei in ritardo, come sempre, non sei mai dove dovresti essere. Sono tre giorni che ti aspettiamo. Bentornato a casa.» Ignorando tutti gli altri nella sua felicità, Uther si liberò con un calcio delle staffe, balzò a terra e gettò le braccia al collo del cugino stringendolo a sé. Poi, incapace di parlare, afferrò Merlino per le spalle e gli agganciò un ginocchio con la gamba destra, ruotando su se stesso. Era una mossa incompleta, uno scherzo mille volte praticato durante l'adolescenza e che richiedeva una particolare risposta. Merlino reagì immediatamente, facendo d'istinto e con consumata abilità la giusta contromossa, e Uther ebbe un sussulto. «Ah!» ruggì. «Da quanto tempo non lo facevi?» Si ritrasse e fissò Merlino negli occhi tenendolo per un braccio. «Solo qualche settimana fa parlavo con Dergyll ap Griffyd proprio di questa mossa.» Gli parve di cogliere un lampo di incertezza nello sguardo del cugino e si affrettò a proseguire. «Ti rammenti di Dergyll ap Griffyd, vero? Lo gettasti a terra proprio in questo modo la prima volta che mio padre ci condusse a Carmarthen, da ragazzi. Lui se la ricorda bene, perché si esercitò per mesi a rifarla. Mi ha chiesto di salutarti.» Mentre parlava Uther sentì la sua speranza venir meno. Era chiaro che Merlino non ricordava affatto Dergyll né l'incidente che il cugino gli stava descrivendo. I suoi chiari occhi dorati erano diventati assenti e si erano riempiti di una sorta di panico, subito sostituito dal rammarico. Uther fece il possibile per non tradire la sua immensa delusione, ma aveva perso il filo delle parole che gli erano così prontamente affiorate alle labbra e rimase ancora un attimo a fissare il cugino con un groppo alla gola. Non era cambiato nulla, confessò finalmente a se stesso. Merlino era felice di vederlo e sapeva chi era, ma solo perché gli era stato detto. Sebbene quell'uomo avesse le fattezze di Caio Merlino Britannico, di fatto continuava a non esserlo. Questo era il Merlino che non aveva mai conosciuto sua moglie
Deirdre, o l'aspettativa gioiosa di un'imminente paternità. Quel pensiero, venuto da chissà dove, riuscì quasi a confonderlo, ricordandogli il figlio che stava per avere e risvegliando la sua vergogna per il ruolo che, sia pure involontariamente, aveva giocato nelle traversie di Merlino. Sbatté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e si costrinse a sorridere, poi con la nocca dell'indice diede un colpetto alla fronte del cugino. «Sono contento di rivederti, Cai. E bello sapere che la tua testa è dura come prima.» Trasse un profondo respiro, poi si rivolse agli altri che erano venuti ad accoglierlo e che li stavano osservando: «Ben ritrovati, signori». Come sempre accanto a Merlino c'era il colossale Donuil, sorridente, e al suo fianco il malinconico medico Lucano, che chinò la testa in un silenzioso saluto. Molte altre persone ai margini del gruppo erano familiari a Uther, anche se in quel momento i loro nomi gli sfuggivano. Gli anziani legati Tito e Flavio erano davanti a tutti, rivestiti della loro vecchia e onorata armatura imperiale, e dietro di loro incombeva l'enorme mole di Popilio Cirro, emblema, come sempre, del dignitoso centurione veterano. Prima di avvicinarsi a loro per salutarli, Uther si voltò verso Nemo che stava sull'attenti, tenendo le redini del cavallo di Uther in una mano e quelle del proprio nell'altra, e le fece cenno di mettere in libertà lo squadrone. Solo allora andò ad abbracciare i due anziani legati e a salutare Popilio che gli diede il benvenuto non proprio con un sorriso, ma mostrandosi chiaramente felice di vederlo. Mentre entravano nel forte, però, Uther fu colto da un pensiero e si rivolse a Merlino che era al suo fianco. «Mi hai chiamato "pesciolino". Mi ero dimenticato quel nome. Era da vent'anni che non lo sentivo. Come hai fatto a ricordartelo?» Merlino sorrise e scosse la testa. «Me l'ha detto zia Luceia. Ricorda tutto della nostra infanzia.» Uther sentì riaffiorare un senso di delusione e si rivolse a Tito e Flavio per dissimularlo. «Dov'è mia nonna?» chiese in tono preoccupato, rendendosi conto di colpo che non era venuta a
salutarlo malgrado non lo vedesse dall'anno precedente, e sentì pesare sotto la tunica la lettera scritta da sua madre Veronica e indirizzata a lei. «Non sta bene?» Fu il legato Tito a rispondere. «Donna Luceia sta benissimo, e sarà dispiaciuta di non essere stata presente al tuo arrivo.» Flavio, completò la risposta, e Uther sorrise notando per l'ennesima volta come i due uomini fossero stati insieme per così tanto tempo da pensare quasi come una persona sola. «È giù alla villa con alcune donne del suo Consiglio, ma non chiederci che cosa stia facendo, per favore. Raramente lo sappiamo, e non indaghiamo mai. Vieni dentro e parlaci del tuo viaggio. Abbiamo molte cose da discutere, e forse riusciremo ad affrontarne qualcuna...» «Prima che tua nonna ritorni» concluse Tito. «Abbiamo dell'eccellente vino rosso, portato dalla Gallia da un vescovo in visita. Vieni.» Quando Uther ebbe salutato tutti e lasciato la sua attrezzatura da viaggio nell'alloggio destinatogli, Tito, Flavio, Popilio e un assortimento di dignitari, compreso il comitato di governo del Consiglio di Camelot e parecchi ufficiali della guarnigione tra cui suo cugino Merlino, passarono le due ore successive ad aggiornarlo sui provvedimenti d'urgenza che avevano adottato per bloccare la futura avanzata di Lot contro la Colonia. Le dieci postazioni di guardia ai margini esterni del territorio erano state rinnovate e rinforzate, e in sei di esse le guarnigioni erano state raddoppiate. Le altre quattro, quelle che controllavano gli accessi da sud e da est di Camelot, erano state notevolmente ingrandite fino a due volte le dimensioni originarie, e le guarnigioni aumentate di conseguenza. La postazione che Uther aveva incontrato arrivando era una di quelle. Al ritorno di Popilio erano già in atto i lavori per l'allargamento della strada che dai cancelli della fortezza portava alla spianata sottostante, al fine di migliorare l'accesso e la fuga in caso di necessità, e il forte temporaneo nel campo di addestramento era stato rapidamente ripristinato affidando a più di un migliaio di persone, compresi vecchi, donne e ragazzi, il compito di erigerlo. Era un'installazione transitoria, disse Cirro, fatta di fango e tronchi, con un fossato e dei bastioni, ma
sarebbe rimasta finché ce ne fosse stato bisogno. Inoltre sulle colline di Camelot erano state costruite delle piattaforme affacciate sugli spazi aperti che circondavano la base della fortezza, sulle quali erano state montate delle macchine da guerra: colossali meccanismi con carica a torsione in grado di lanciare massi e proiettili fatti con pesanti tronchi d'albero. Ascoltando quella litania di preparativi, Uther cominciò a sentirsi più tranquillo sulle prospettive di sopravvivenza di Camelot agli attacchi previsti. Fu il veterano Tito, però, a dar voce a quello che tutti stavano pensando: tutti quei preparativi erano per una guerra difensiva, e non prevedevano una sortita per sfidare il nemico in una battaglia di cavalleria, l'unico sostanziale vantaggio di Camelot. Nella sua breve storia, la Colonia non era mai stata coinvolta in una guerra difensiva. Ma tutto considerato, Uther comprese che la situazione era migliore di quanto si aspettasse. La Colonia era in grado di difendersi combattendo efficacemente per tutto il tempo necessario. L'intera popolazione si sarebbe ritirata entro le mura sicure della fortezza, e il luogo disponeva di acqua e provviste a sufficienza per resistere a un assedio di sei mesi o più, se ce ne fosse stato bisogno. La riunione informale sfociò in una discussione generale su molti argomenti, e presto Uther prese congedo prendendo a pretesto la stanchezza del viaggio e la necessità di trovare dell'acqua calda in cui immergersi. Tito e Flavio lo accompagnarono ai bagni riscaldati situati presso la parte posteriore delle mura e rimasero con lui mentre si spogliava e si immergeva nel piacevole calore della piscina. Quando lo lasciarono, Uther completò le sue abluzioni, si vestì e andò a trovare sua nonna. Luceia Britannico Varro era una fonte perenne di meraviglia per suo nipote. Doveva avere più di sessantanni, un'età che per Uther era inimmaginabile. Conosceva solo una donna altrettanto anziana in Cambria ed era una vecchia grinzosa, curva e deformata dagli anni che tutti guardavano con terrore e superstizione, poiché si credeva che fosse in contatto con le divinità oscure che regnavano sulla notte cambriana. Come spiegare altrimenti una tale longevità in una terra dove le poche donne che riuscivano ad arrivare a quarant'anni erano già vecchie e appassite?
Ma Luceia Varro portava i suoi anni con dignità e conservava i segni inconfondibili della superba bellezza che era stata in gioventù. Aveva una schiena lunga e dritta che il tempo e le sofferenze non avevano piegato, e lunghi capelli che ricadevano in una folta criniera d'argento, spruzzata di lucenti tracce di nero corvino. La bocca era ancora piena e generosa. Le labbra erano in effetti più tirate di una volta, e i denti erano ormai più gialli che bianchi, ma li aveva ancora tutti, e il suo sorriso era una vera meraviglia, pieno d'amore e di calore. Mentre la salutava attirandola dolcemente al suo petto, Uther si interrogò, come sempre, sullo spirito che la sosteneva e la manteneva giovane. Come faceva a rimanere così vitale quando altri suoi coetanei erano già morti da tempo? Poi pensò che se in Cambria non c'era nessuno come Luceia, a Camelot c'erano invece parecchie donne anziane come lei ed erano tutte sane, linde e ben vestite malgrado l'età. Erano in primo luogo le donne del suo Consiglio, le matriarche delle famiglie fondatrici. Vivevano una vita piacevole, circondate dalle cure dei figli e dei discendenti, e non conoscevano la durezza che segnava l'esistenza delle donne cambriane. Il caloroso saluto di Luceia scacciò ogni altro pensiero dalla mente di Uther. La nonna era in ottima forma, come al solito, e contenta di vedere suo nipote. Quand'ebbe finito di commentare il suo aspetto, lo prese per mano e lo fece entrare in casa, insistendo perché passasse la notte lì. Uther si scusò e insistette a sua volta per rimanere nelle stanze che gli erano state assegnate, poiché poteva essere svegliato a qualunque ora della notte ora che si era sparsa la voce della sua presenza a Camelot, e per un tempo così breve. Luceia accettò il suo rifiuto con un semplice sospiro di disappunto e gli chiese di raccontarle tutte le novità, comprese le sue prime impressioni su Camelot in quella visita. Per prima cosa Uther le consegnò la lettera dell'amata figlia e non si stupì vedendo che la donna non accennava ad aprirla e leggerla in sua presenza, poiché sapeva che Luceia preferiva assaporare il piacere che ne avrebbe tratto quando fosse stata sola per godersela. Ora voleva dedicarsi solo al nipote, e lo ascoltò attentamente
passando di volta in volta dal sorriso alla preoccupazione. E quando lui ebbe finito, riuscì a stupirlo ancora una volta. «Parlami di quelle donne che hai catturato e poi spedito qui. Quella alta e bella, bionda come Cai, era a dir poco sensazionale... Diceva di essere Ygraine, la moglie di Lot, e per un po' tutti gli uomini qui hanno pensato di avere in mano un trofeo di grande valore.» Uther sorrise. «Naturalmente, tu hai capito che non lo era.» «Be', non proprio, non subito. Sapevo che la vera Ygraine è sorella di Donuil e della povera Deirdre, e sentivo fin dall'inizio che c'era qualcosa che non andava. Ho scambiato a malapena due parole con quella donna, senza tradirmi. Chiamalo intuito femminile, se vuoi. Ma ho semplicemente deciso di aspettare Donuil e sentire cosa ne pensava... Sapevo che sarebbe tornato l'indomani, perché era andato a caccia con Caio il giorno prima, così sono stata all'erta e l'ho preso da parte non appena è tornato, prima che avesse l'opportunità di incontrare sua "sorella". Ovviamente gli è bastata un'occhiata.» Il sorriso di Uther si era fatto più ampio. «E allora cos'hai fatto? L'hai affrontata?» «No, Donuil e io abbiamo deciso di non dire nulla. Non sapevamo cosa stesse accadendo, cosa ci fosse in gioco, ma ho pensato che non fosse saggio farle capire che sapevamo della sua falsa identità. Ero incerta se tenere il segreto sulla sua impostura, ma ho deciso di aspettare per vedere se veniva fuori qualcosa. Poi, qualche giorno dopo, è arrivato un messaggero con un tuo dispaccio scritto che informava Tito e Flavio del fatto che lei non era la regina, e li pregava di tenere nascosta la verità e di liberarla con le sue donne, sotto scorta, ai confini della Cornovaglia. Quindi ho una domanda da farti, nipote: come sapevi che lei non era quel che diceva di essere? Per quel che ne so, non avevi alcuna informazione su Ygraine, e conoscevi a malapena sua sorella Deirdre e suo fratello Donuil.» Uther scosse la testa ammirato. «Sei una donna intelligente, nonna Luceia.»
«No, sono semplicemente una donna. La mia mente non è limitata come quella maschile. Allora dimmi, come hai scoperto chi era, o chi non era?» «L'ho capito perché la donna che lei pretendeva di essere era lì con lei, e si fingeva una delle dame della regina.» Uther le raccontò tutta la storia dall'inizio, senza omettere nulla tranne i dettagli intimi della sua relazione con Ygraine. Luceia rimase in silenzio per tutto il racconto, osservandolo con sguardo penetrante, e quando lui ebbe finito si chinò per prendere un piccolo campanello d'argento da un tavolino basso. In risposta alla sua chiamata apparve una donna, e Luceia le chiese di portare del vino per sé e per il nipote, poi tacque osservando il braciere nel caminetto. «Trovo che a mano a mano che invecchio, il freddo si fa più pungente» disse, poi ripiombò nel silenzio, muovendo ogni tanto le labbra mentre ripensava a tutto quel che lui le aveva detto. La serva tornò con un vassoio su cui erano poggiati due calici gemelli d'argento e una magnifica brocca anch'essa d'argento velata di goccioline d'umidità. Uther la ringraziò con un cenno e lei sistemò il vassoio sul tavolo e si ritirò. Silenziosamente, badando a non distrarre la nonna dai suoi pensieri, Uther si alzò e riempì le due coppe di un vino color paglierino, poi ne pose una accanto a lei. Alla fine Luceia sollevò lo sguardo verso di lui e fece un cenno col capo. «Dunque è lei la tua fonte, Ygraine, e questo duca, Herliss. E l'altra donna, quella bionda... Morgas... che ne è stato? Sa la verità?» «Per gli dèi, no! Non è nemmeno più in Cornovaglia. È tornata a casa sua, nel nord, per sposare qualche re della zona. Non l'ho più vista da quando ha lasciato il nostro accampamento per venire qui a Camelot.» «Bene, mi fa piacere. Parlava di te, e ho capito che ti conosceva, almeno in parte, ma c'era qualcosa in lei che non mi convinceva.» Per un attimo Uther si sentì a disagio e si domandò quanto l'anziana donna sapesse o indovinasse, ma era inutile tentare di scoprirlo, e lasciò perdere.
Le disse invece che aveva riflettuto su come proteggere sua madre nella guerra imminente, e che aveva stabilito che la cosa più sicura per lei era rimanere a casa sua, a Tir Manha; propose a Luceia di raggiungerla per attendere senza rischi che la campagna di primavera si concludesse, ma la donna non ne volle sapere. Era troppo vecchia e legata alle sue abitudini ormai per lasciare la sua casa di Camelot e andare a cercare temporanea salvezza in un'altra terra. Sarebbe rimasta dov'era vissuta per tanti anni, vicina ai suoi ricordi e alle tombe di suo marito e suo fratello. Quanto a Merlino, Luceia non era in grado di alimentare le speranze di Uther per il futuro. Merlino era fisicamente a posto, gli disse, lucido, felice e nel pieno possesso di quasi tutte le sue facoltà, tranne la memoria. Ma aveva perso la sua aggressività e il suo amore per il combattimento. Le brillanti e istintive doti di un tempo per le campagne militari e le questioni strategiche e tattiche erano svanite. Le avevano detto che era ancora in grado di combattere, ma era come se lo facesse solo per il piacere dell'esercizio fisico. Il giovane Donuil era convinto che Merlino avesse completamente perso la propensione a uccidere, e se avesse dovuto affrontare un vero combattimento si sarebbe fatto ammazzare semplicemente perché non era disposto a far del male a un avversario. Luceia posò la sua mano su quella di Uther. Aveva sempre voluto bene a Merlino, gli disse, ma dopo l'incidente aveva preso ad amare il nuovo Merlino Britannico, con la sua gentilezza e la sua natura affettuosa, ancor più di quanto avesse creduto possibile. Sarebbe stata molto felice di riavere indietro suo nipote, affermò, ma se ciò fosse accaduto e di colpo Merlino fosse tornato quel che era sempre stato per loro, forse avrebbe rimpianto quella sua inedita dolcezza. Furono interrotti dalle donne di Luceia che portavano la cena e dopo il pasto rimasero a parlare per ore accanto al braciere ardente, rievocando il passato e i cari ricordi di Caio Britannico, di suo figlio Pico e di Publio Varro. Quella notte Uther andò a letto con una serenità che non provava da molto tempo, e dormì bene e profondamente. Il giorno seguente Uther si alzò e passò dalle cucine prima del
canto del gallo; poi, al sorgere del sole, con la pancia piena e il cuore in pace, si riunì con Tito, Flavio, Donuil, Merlino e Popilio Cirro per definire gli ultimi dettagli dei loro piani con la maggiore precisione possibile, data la natura dei compiti che li attendevano. A metà della mattina aveva finito; convocò Nemo, ordinando ai suoi Dragoni di prepararsi a partire a mezzogiorno, e si prese il tempo di salutare in modo appropriato tutti quanti, compresa sua nonna. All'ora stabilita, mentre stava per montare in sella nel cortile principale, notò qualcosa che non andava fra le sue truppe e prese Nemo da parte, facendo in modo che non lo sentissero. «Che succede qui? Gli uomini sembrano nervosi.» Nemo lo osservò con il suo solito sguardo vacuo. «Alcuni di loro non hanno voglia di partire.» «Be', mi dispiace, ma devo tornare subito a Tir Manha. Potrebbero esserci delle novità dalla Cornovaglia.» Fece per allontanarsi, ma esitò e si voltò. «E tu che cos'hai?» Nemo stava guardando le mura alle spalle di Uther e alzò le spalle, impassibile. «Mi piace qui. Dovremmo tornare a viverci, un giorno. Questo posto dovrebbe appartenere ai Pendragon.» Uther rimase sorpreso. Raramente Nemo si avventurava a esprimere un'opinione su qualcosa. Osservò da vicino quegli occhi vacui che avevano fatto parte della sua vita per tanti anni, e dietro il consueto volto stolido e un po' ostile gli parve di distinguere, per la prima volta, i lineamenti della bambina che lui e Garreth avevano salvato, invece che la inflessibile Nemo Muso-Duro. Inesplicabilmente, sentì un nodo alla gola e tossicchiò per celare il suo improvviso imbarazzo, voltandosi a guardare ciò che lei stava fissando così intensamente, ma non vide altro che le alte mura del forte. «Be',» disse, girandosi e parlandole a bassa voce «se gli dèi ci saranno favorevoli in questa guerra, forse torneremo a vivere qui un giorno, tu e io.» Poi fece qualche passo, afferrò le redini del suo cavallo e balzò in sella.
XVII. Il viaggio di ritorno a Tir Manha fu rapido e senza incidenti e durò meno di tre giorni, poiché Uther forzò costantemente il ritmo di marcia. A Tir Manha non c'era l'attività di fortificazione così evidente a Camelot, ma avvicinandosi a casa si vedevano ovunque segni della preparazione alla guerra. Uther ebbe la sensazione che tutti i guerrieri dei clan Pendragon fossero convenuti a Tir Manha, e dappertutto c'erano gruppi e squadre di arcieri che si esercitavano. Smontò rapidamente, gettando le redini del suo cavallo a Nemo, e andò in cerca di sua madre, sapendo che Veronica doveva essere ansiosa di sapere se lui portava con sé la risposta di Luceia alla sua lunga e dettagliata lettera. Uther non l'aveva, perché sua nonna non aveva avuto tempo di scriverla, ma le raccontò tutto ciò che aveva discusso con Luceia e le riferì che l'anziana donna aveva promesso di scriverle immediatamente e di farle avere la lettera a Tir Manha tramite uno dei suoi preti. Veronica volle a tutti i costi che Uther si fermasse a mangiare da lei e lui la accontentò, facendo onore al rapido spuntino che lei gli fece preparare: pane fresco e carne salata fredda con birra fatta in casa. Quando finalmente raggiunse le sue stanze, che erano contigue alla Sala del Re e separate da quelle di sua madre, disse alla guardia alla porta che non voleva essere disturbato. Una delle prime cose che aveva visto entrando in città era una giovane donna seduta su un muretto che offriva a un bimbo affamato il seno gonfio di latte. Quella vista lo aveva profondamente colpito, ricordandogli Ygraine e il figlio che aspettava, e fino a quel momento non aveva avuto tempo di restare solo e dare sfogo ai pensieri che si affollavano nella sua mente. Il pomeriggio cedeva il posto alla sera, e la piccola stanza in cui si trovava, buia anche nei giorni più luminosi, era avvolta nell'ombra. Il recipiente di ferro che occupava il rozzo caminetto sulla parete di fondo era pieno di legnetti, e con un ramoscello e la fiamma della
lampada posata sul tavolo Uther accese il fuoco. Rimase accovacciato di fronte al focolare finché le fiamme ebbero preso vigore, poi si raddrizzò e tornato al tavolo accese tre spesse candele di sego. Rinfrancato dalla luce brillante e danzante delle candele, si abbandonò sulla sedia e chiuse gli occhi, dando sollievo alla stanchezza accumulata durante il viaggio. Stava sonnecchiando quando udì un rumore di passi e alzò la testa, vedendo un'ombra gigantesca disegnarsi sulla soglia. Sorpreso, riconobbe Owain delle Grotte. «Bene» disse. «Probabilmente non hai mai pensato che qualcuno ti dicesse che era felice di vederti, ma così è. Pensavo che fossi partito per il nord. Siediti, amico. Che ci fai qui?» Il gigante scosse la testa. «La guardia non voleva farmi entrare, ma l'ho convinta. Non sono andato al nord. Ti ho detto che avrei combattuto questa guerra con te.» «E allora dove sei stato? È un mese che non ti si vede.» «Sono andato a cercare questo.» Owain estrasse dalla bisaccia qualcosa che gettò con disinvoltura sul tavolo di fronte a Uther. Era una piccola borsa sudicia, fatta di pelle rozzamente conciata e chiusa con una stringa. Uther la osservò con sospetto, pensando che fosse uno scherzo, poi sollevò gli occhi sul visitatore con aria interrogativa. «Che cos'è?» «Apri e guarda. È un regalo.» Uther prese la borsa con circospezione e ne saggiò il contenuto con le dita. Era qualcosa di piatto, ma non completamente, perché c'erano sporgenze e irregolarità che non riusciva a definire. Incuriosito, la sollevò per annusarla. «Tienilo lontano dal naso, amico, se vuoi apprezzarlo! È un flagello, ma non è più pericoloso.» Ormai confuso e piuttosto sconcertato, Uther aprì il laccio che stringeva la borsa e ne rovesciò il contenuto sul tavolo. Due oggetti caddero sul legno quasi senza fare rumore, e nel vederli Uther si tirò indietro, con un'espressione di stupore. Udì lo scoppio di risa di
Owain, ma non riuscì a staccare gli occhi dal tavolo. Di fronte a lui c'erano due orecchie umane, che a giudicare dai ciuffi di capelli neri che le accompagnavano erano appartenute alla stessa persona. «Allora, ti piacciono?» Passò un po' di tempo prima che Uther fosse in grado di rispondere. «Di chi sono... cioè di chi erano?» «Di Issa.» «Chi è Issa?» «Issa, amico! Quello che volevi morisse di una pestilenza.» «Vuoi dire Issa il...?» «Già, il generale di Lot. Sono sue. Segno che è morto. Per l'altro bastardo, Loholt, dovrai accontentarti della mia parola. Non sono riuscito ad avvicinarmi abbastanza da tagliargli le orecchie, aveva troppa gente intorno. Ma la mia freccia ha beccato quel figlio di puttana da duecento passi proprio in mezzo alla testa, sopra l'orecchio. Il miglior tiro che abbia fatto in vita mia. Non mi hanno neanche visto. Non sapevano da dove veniva la freccia, perché l'ha colpito con tanta forza da farlo ruotare su se stesso e cadere all'indietro, come un uccello preso al volo. Quando hanno cominciato a cercare io ero già lontano. Ma ho pensato che mi avresti perdonato di non essere rimasto per prendere le sue orecchie.» Uther ci mise un bel po' per assimilare il significato di quelle parole. La più grave minaccia a tutto ciò che gli stava a cuore era stata apparentemente, inverosimilmente allontanata da un singolo uomo, quello strano, solitario, enigmatico sicario senza amici che al loro primo incontro aveva tentato di ucciderlo, e che lui aveva salvato quasi senza riflettere, in base a un impulso irrazionale. Uther lo fissò a bocca aperta, incapace di parlare o di muoversi. «Da solo» riuscì a spiccicare, alla fine. «Li hai uccisi tutti e due da solo?» «Non c'era altro modo. Un uomo solo può andare dove vuole, se non fa stupidaggini. La cosa più difficile è stata nascondere l'arco mentre andavo e venivo.»
Uther sbatté le palpebre, tentando di riaversi dallo stupore. «E come hai fatto a nasconderlo?» domandò. A poco a poco stava ritrovando la parola, anche se nella sua mente faticava a mettere ordine tra i fatti e le loro possibili conseguenze. «Non l'ho affatto nascosto! Ho sfruttato un sistema che usano i medici a Camelot. Gli ho messo intorno dei rametti per il lungo, come fanno loro per steccare una gamba rotta, poi ho legato le estremità con striscioline di pelle intrecciate. Alla fine non era più un arco... ma solo un lungo bastone da viandante. Nessuno ci ha badato. Ma avresti dovuto vedere la freccia che ho scagliato contro Loholt. Duecento passi di distanza. Con l'altro, Issa, è stato facile. L'ho visto uscire per andare a caccia e l'ho seguito. Ho aspettato che fosse solo, all'inseguimento di un cinghiale, e l'ho abbattuto con una freccia tra le scapole. Non ha avuto nemmeno il tempo di accorgersene. Allora, ti senti meglio, ora?» Uther, che aveva finalmente ripreso il controllo, si alzò e fissò Owain negli occhi. «Sì, amico mio, grazie a te ora sto benissimo. Non potrò mai ricompensarti per il tuo servigio, ma sappi che tutto ciò che possiedo è tuo, e che farò qualunque cosa per te nell'attimo stesso in cui me lo chiederai. Forse hai salvato diecimila vite con due sole frecce.» L'uomo delle grotte arrossì violentemente per l'imbarazzo di fronte a quelle lodi, ma Uther capì che nonostante tutto era compiaciuto. Chinò il capo e si schiarì la voce. «Già... be', ne sono felice. Ora penso che andrò a farmi un sonnellino.» Il suo sguardo si posò sulle orecchie che giacevano ancora sul tavolo. «Vuoi che le porti via?» Uther le osservò. «No» mormorò. «No... meglio di no, non ancora. Forse so cosa farne. Grazie ancora, Owain.» Dopo quell'episodio, gli eventi si susseguirono rapidamente e il tempo volò nella frenetica attività dei mesi successivi. La sera dell'incredibile rivelazione di Owain, dopo ore di profonda riflessione, Uther si sedette a tavolino e con grande difficoltà e imprecando a mezza voce scrisse una lettera importante a sua nonna a Camelot. Sapeva che Luceia avrebbe afferrato la situazione nella sua interezza e avrebbe fatto in modo che da quel momento in poi
le cose andassero nel modo giusto. La morte inattesa dei due tirapiedi sarebbe stato un colpo terribile ai piani di Lot, scrisse, ben più di quanto un evento analogo potesse esserlo per Camelot o per la Cambria. Camelot aveva un esercito ben disciplinato e sostituti ben addestrati pronti a colmare il vuoto lasciato dalla morte di chiunque, per quanto importante potesse essere. E persino in Cambria i suoi uomini erano uniti, e uno qualsiasi dei suoi capitani si sarebbe fatto avanti a prendere il suo posto, in caso di necessità. Per Lot era diverso. I suoi sudditi nutrivano timore e sfiducia nei suoi confronti, e la sua unica forza consisteva nel colossale esercito di mercenari di cui disponeva. Che era anche la sua principale debolezza, però, dato che l'unica fedeltà che li legava a Lot era quella che lui aveva comprato e pagato. Per controllarli aveva bisogno di condottieri forti come Issa e Loholt, che dominavano i loro uomini grazie alla volontà, alla personalità, al potere che derivava loro dal coraggio e dall'esperienza, e che erano in grado di condurre le loro armate alla vittoria, al saccheggio e alla conquista. Ora, senza quei due condottieri, Lot aveva due eserciti di selvaggi senza guida nel suo territorio, e non sarebbe stato facile venire a patti con loro. Cuneglas e Ralla, uomini deboli e di scarso valore, erano inutilizzabili, e Lot non aveva altri capi a disposizione. In base a questi fatti, scrisse Uther ai suoi amici di Camelot, e al caos che ne sarebbe probabilmente derivato, era ragionevole pensare che l'attacco di primavera contro di loro non avesse luogo. Ma non potevano fidarsi completamente di questa ipotesi. Lot aveva gli eserciti e poteva anche, con un po' di fortuna, rimpiazzare i comandanti defunti con altri. Era una possibilità che non potevano escludere. Il suo consiglio, dunque, era che Camelot non abbassasse la guardia. Se in primavera l'attacco non si fosse verificato, i governatori della Colonia dovevano tenersi pronti a dividere le forze, mantenendo guarnigioni a ranghi ridotti nelle loro postazioni e destinando l'esercito più numeroso che riuscivano a mettere insieme - una combinazione di fanteria e cavalleria ben più poderosa di quella che lui aveva comandato l'estate precedente - a un attacco preventivo, come lo chiamava Herliss, nel cuore della Cornovaglia, dove i nemici interni di Lot avrebbero dato loro man forte. Uther
avrebbe condotto di persona l'attacco a ovest, sicuro che si sarebbe svolto come previsto con la massima rapidità ed efficacia possibili, e avrebbe poi raggiunto il contingente di Camelot con il fior fiore delle sue truppe, comprendenti almeno mille arcieri e duemila Cambriani appartenenti ai clan della Federazione. Piombando con prontezza e decisione nel mezzo dei tumulti e del caos intorno a Lot - anche queste erano parole di Herliss, ma Uther le sottoscrisse pienamente una volta compreso il loro significato - sarebbero finalmente riusciti a spodestare il re di Cornovaglia e a mettere fine al suo dominio di terrore. Uther attendeva che il Consiglio approvasse il suo suggerimento o fornisse delle alternative alla sua proposta. Era da tempo passata la mezzanotte quando la lettera fu conclusa in modo soddisfacente: erano molti i dettagli da specificare e Uther era determinato a non omettere alcun particolare che potesse rivelarsi cruciale in un secondo momento. Quand'ebbe finito sigillò con cura la missiva e andò a dormire. Il mattino seguente, prima dell'alba, convocò Nemo e dopo averle spiegato con precisione qual era il suo compito la spedì immediatamente a Camelot da Luceia Britannico. Verso mezzogiorno, un messaggero esausto portò una succinta lettera di Lagan il Saggio dalla Cornovaglia.
In breve: qui il paese è precipitato nel caos. Forse la cosa non ti sorprenderà. Issa e Loholt sono morti. Uccisi nel giro di tre giorni, a dieci miglia di distanza. Prima Issa, poi Loholt. I sicari sono fuggiti. Due uniche frecce, lunghe quanto un braccio. La notizia ci è giunta a Tir Gwyn due giorni dopo la seconda esecuzione. Uther, ha detto mio padre appena lo ha saputo. Ha mozzato la testa ai serpenti. Niente attacco a Camelot, ora. Nessun altro che guidi gli eserciti. E poi ha detto, a meno che... Sono passati tre giorni. G è folle di rabbia e sta rivoltando l'intero paese in cerca dei sicari, ma dovrebbero essere già a casa ormai. Mio padre e io spariremo per un po' appena questa mia sarà partita. Almeno finché non si calma il tumulto. Ben fatto.
Improbabile ormai che accada qualcosa da voi nella zona sudorientale, ma l'altro attacco, secondo noi, andrà avanti come previsto. Avrai altre notizie se cambierà qualcosa. Tutto lì: niente firme, nessun rischio inutile, anche se Uther capì immediatamente che "G" era Gulrhys Lot. Mostrò la lettera a Garreth, poi uscì da solo per ragionare sul da farsi alla luce dei nuovi sviluppi. Entro la fine della giornata aveva deciso che le sue mosse iniziali erano giuste e non restava altro da fare che tenersi in stretto contatto con Camelot, portando avanti i preparativi dei suoi uomini per l'invasione della Cambria in aprile. Per una volta il fatto che i suoi montanari non tenessero in gran conto l'agricoltura si dimostrava una fortuna: infatti, non avrebbero avuto problemi a combattere nel periodo in cui si seminavano le messi. La metà di aprile passò senza che gli invasori si facessero vivi, ma nel frattempo Uther aveva ricevuto da Ygraine un messaggio, scritto sotto dettatura dallo stesso prete fidato che lo aveva consegnato: era la prima indicazione della fede cristiana di Ygraine che Uther avesse mai avuto. Gli diceva che stava bene, in buona salute, e che il parto era previsto per l'inizio di giugno, ma il paese era in condizioni spaventose e la gente viveva nel terrore non solo per la propria vita, ma anche per il futuro dei propri figli. L'assassinio dei due generali aveva fatto precipitare il regno di Lot in un caos troppo grande per poterlo descrivere. Privi dei loro comandanti i due eserciti si erano ribellati, e sfuggendo per più di un mese al controllo di Lot avevano messo a ferro e fuoco il paese e rubato viveri e provviste ai clan locali, mandandoli in rovina. Solo grazie agli sforzi di Cerdic e Tewdric, gli ultimi due generali rimastigli, ed elargendo agli ammutinati vasti appezzamenti delle sue terre, Lot era riuscito a ristabilire l'ordine e a recuperare qualche brandello di autorità. E anche questa misura era precaria, poiché le proprietà promesse ai mercenari appartenevano ai suoi sudditi, e
dunque Lot stava spogliando i membri del suo clan delle terre dei loro antenati per placare l'avidità di forestieri che lui stesso aveva portato nel paese. Lot non si sarebbe mai più ripreso da quel tradimento, scriveva Ygraine, ma per il momento aveva forza a sufficienza per soffocare l'odio e la rabbia della sua gente. Ora i mercenari parlavano di riorganizzarsi e di portare a termine l'invasione di Camelot, ma erano solo chiacchiere, diceva la regina. Tra i guerrieri stavano emergendo nuovi capi, ma nessuno di loro si era ancora conquistato un'autorità indiscussa e difficilmente le cose sarebbero cambiate nell'immediato futuro. Nel frattempo Lot smaniava e strepitava, assillato dal sospetto, e vedeva tradimenti e complotti ovunque. Era nel giusto, ma per i motivi sbagliati. Nella sua logica perversa, si riteneva in qualche modo defraudato e accusava tutto il mondo di cospirare per abbatterlo mentre lui non aveva fatto altro che cercare di migliorare le condizioni dei suoi sudditi. I suoi sospetti si estendevano persino a Ygraine, anche se lei, temendo per il bambino che portava in grembo, si era astenuta da qualunque atto potesse dispiacergli o ispirargli sfiducia, salvo scrivere quella lettera grazie a un amico fidato. Ygraine pregava Uther di non fare alcun tentativo di contattarla poiché era tenuta continuamente sotto stretta sorveglianza, e non poteva lasciare le mura della fortezza di Lot, a Golant. Persino il prete che era venuto a trovarla era stato spogliato e perquisito prima che gli fosse permesso di vederla. Ygraine terminava dicendo che l'invasione dal mare, guidata da Tewdric e Cerdic, era tuttora in previsione, ma con l'aggiunta di oltre trenta galee piene di soldati. Herliss e Lagan si erano nascosti nell'entroterra e Lot, furibondo, li accusava di tradimento e diserzione. Lei non aveva idea di come la cosa si sarebbe risolta, né sapeva se uno dei due fosse rimasto in contatto con Uther, ma ringraziava il cielo che almeno questa volta Lagan fosse riuscito a portare con sé la moglie e il figlio. Così, anche se gli invasori erano in ritardo, Uther sapeva che sarebbero arrivati, e più numerosi di quanto previsto inizialmente. Preparò duramente gli uomini dei suoi clan ricorrendo a ogni mezzo per tenerli tesi e vigili, pronti a un combattimento aspro e feroce.
Poi, in una giornata spazzata dai venti verso la fine del mese, dopo una violenta burrasca primaverile, furono avvistate le navi. La flotta d'invasione penetrò nell'ospitale rifugio della baia e sbarcò il suo carico di uomini - molti dei quali afflitti dal mal di mare - sul suolo della Cambria. I nemici indugiarono sulla spiaggia, felici di essere a terra. Perfettamente convinti di aver raggiunto la riva senza che nessuno li vedesse né sospettasse il loro arrivo, i loro capi si presero il tempo di disporli in divisioni regolari prima di avventurarsi all'interno. Le galee che avevano trasportato le truppe non sembravano aver alcuna fretta di tornare nel mare aperto sconvolto dalla burrasca, così indugiarono a lungo, ben oltre il momento in cui avrebbero dovuto disperdersi e allontanarsi, pericolosamente vicine l'una all'altra nelle tranquille acque della stretta baia. Praticamente invisibili fino al momento in cui colpirono i primi bersagli, raffiche di frecce incendiarie cominciarono a piovere con letale precisione dalle alte scogliere che fiancheggiavano la baia sopra le navi di legno, ogni dardo avvolto in stracci impregnati di pece e dati alle fiamme. In pochi attimi dal primo attacco, una ventina di vascelli avevano preso fuoco, e mentre le urla crescenti dei marinai terrorizzati intrappolati sul mare cominciavano a giungere alle orecchie degli uomini ammassati sulla spiaggia, la cascata di frecce continuava a seminare distruzione; fiamme altissime iniziarono a propagarsi tra le imbarcazioni strette l'una all'altra. I comandanti dell'esercito sulla spiaggia reagirono immediatamente. Corni e trombe dettero l'ordine di avanzare mentre le prime pesanti gocce di pioggia iniziavano a cadere dal cielo plumbeo. Le formazioni alla testa degli invasori si gettarono nella foresta che cingeva la spiaggia, ma a soli quindici passi dalla prima cortina di alberi si trovarono di fronte una selva così fitta da risultare impenetrabile. Da quel punto in poi era impossibile proseguire, poiché per mesi centinaia di guerrieri Griffyd agli ordini di Dergyll avevano lavorato di nascosto all'interno della foresta per trasformarla in un'enorme trappola, scavando tra i giovani alberi delle profonde buche una accanto all'altra, in modo da non lasciare spazio per camminare, e costellando le ripide pareti e il fondo di ogni fosso di micidiali paletti appuntiti.
Lo sgomento iniziale lasciò rapidamente il posto a una confusione generale e poi al panico quando gli invasori si resero conto di essere in trappola e già condannati, poiché le poche navi sfuggite alla pioggia di frecce alle loro spalle si erano già allontanate, e la superficie del mare era cosparsa di rottami carbonizzati e galee ancora in fiamme. Uther assistette alla scena con feroce soddisfazione da una brulla altura a nord-est della foresta che circondava la spiaggia. Verso l'interno, dove si trovava il re, la costa saliva bruscamente e la dura roccia era ricoperta solo da un lievissimo strato di terreno. L'esercito di Uther era allineato su quell'area spoglia con gli occhi puntati sulla foresta, immobile, mentre gli arcieri Pendragon che avevano appiccato il fuoco alle navi lasciavano le loro postazioni in alto e si andavano rapidamente disponendo in una lunga, doppia linea davanti alle truppe, rivolti verso gli alberi. Appena dalla selva cominciarono a emergere, esausti, i primi uomini scampati alla trappola tesa fra le piante, gli arcieri li falciarono spietatamente, segnando il confine del bosco con una fila di cadaveri. Quando Uther ritenne che li avessero colpiti abbastanza duramente, fece segno agli arcieri di ritirarsi, ed essi si affollarono intorno ai due grossi carri carichi di frecce che si trovavano alla sua destra. Dopo aver riempito le faretre vuote, tornarono sui picchi che dominavano la spiaggia da entrambi i lati, all'estremità opposta della foresta. Da quelle cime, tenendo sotto controllo la spiaggia priva di difese, avrebbero creato una zona di tiro incrociato, sfruttando la lunga gittata dei loro archi per impedire ai mercenari di cercare salvezza sulla spiaggia. Nel frattempo, i nemici che sempre più numerosi emergevano con cautela dalla foresta, arrampicandosi sui corpi crivellati di frecce dei loro compagni caduti, si ritrovavano di fronte file di guerrieri che li osservavano tranquillamente dall'alto, freschi e pronti a combattere, in attesa che si avvicinassero. Non pochi si diedero alla fuga e tornarono nel bosco, ma non avevano via di scampo, perché la foresta era piena di uomini disperati e terrorizzati che venivano verso di loro. Uther respirò profondamente e si guardò attorno. Sapeva cosa
stava per accadere. I suoi subordinati avevano ricevuto ordini precisi e non avrebbero mostrato alcuna pietà nei confronti degli invasori stranieri. Non c'era tempo né modo di fare prigionieri. E l'imprevista distruzione dell'intera flotta nemica significava che per i mercenari non sarebbe arrivata salvezza dal mare. Ci sarebbe stato un terribile massacro quel giorno, lo sapeva, ma non poteva far nulla per evitarlo. Se quei forestieri fossero rimasti in vita non gli avrebbero dimostrato alcuna gratitudine, anzi, avrebbero interpretato la sua indulgenza come un segno di debolezza. Non sarebbero tornati a casa loro con la coda fra le gambe, grati di essere stati risparmiati. Avrebbero seguito la loro natura attaccando di nuovo, quindi bisognava ucciderli tutti. Sotto di lui la carneficina continuava, e gran parte del suo esercito non aveva ancora fatto un passo verso il nemico. Uther fece cenno a Dergyll ap Griffyd di prendere il comando, poi guidò il cavallo verso la cima della collina dove si trovava il suo accampamento, sperando di essere abbastanza lontano dalla battaglia da non sentirne il clamore. Grazie agli informatori di Uther, l'invasione era finita quasi prima di cominciare, fornendogli un terribile esempio di quanto fosse importante mantenere il segreto, agire in sicurezza, e guadagnarsi la fiducia della gente. Uther riprese la strada per Camelot all'inizio di maggio, con un mese di anticipo rispetto a quel che avrebbe ritenuto possibile solo tre mesi prima, e alla testa di un esercito più numeroso di quanto avrebbe mai potuto prevedere; un esercito, inoltre, più sereno e fiducioso, ancora ebbro della rapida e schiacciante vittoria ottenuta sugli invasori di Lot. Camelot non aveva subito alcuna minaccia, così Uther portava con sé sua madre Veronica. Veronica e Luceia si sarebbero prese cura l'una dell'altra durante la sua assenza, e Uther ringraziava gli dèi di aver vegliato su di lui e sulla sua gente invece di voltarsi dall'altra parte. Forse, osò mormorare fra sé, la fortuna era girata dalla sua parte. Ma nonostante la gratitudine per la sua buona sorte, Uther era cupo e di poche parole, e cavalcava da solo per gran parte del
tempo, seguito da Nemo che lo sorvegliava gelosamente con un'arma sguainata. Garreth il Fischiatore e Huw Fortebraccio lo osservavano senza dire nulla, chiedendosi, ognuno per proprio conto, cosa potesse angustiare il re. Avrebbe dovuto essere raggiante dopo la sua schiacciante vittoria, e invece in apparenza era tutto il contrario. Uther era ancora dello stesso umore tetro quando giunsero a Camelot, né apparve cambiato quando partì a cavallo con Tito e Flavio, Merlino, Donuil e Lucano per ispezionare il perimetro della Colonia e stabilire e verificare la composizione dell'esercito che Camelot gli aveva destinato. Uther, in realtà, si sentiva semplicemente oppresso dal consueto senso di responsabilità e dalla nuova, insolita necessità di agire con grande cautela e ponderazione nell'avventura che stava per intraprendere, poiché la situazione politica nella travagliata terra di Cornovaglia non poteva essere presa alla leggera da un esercito proveniente dall'esterno. Stava per effettuare un'incursione ostile in quel territorio, e sebbene non fosse la prima, finora non si era mai trovato di fronte una Cornovaglia così pericolosa, brulicante di truppe locali - fazioni ed eserciti privati - i cui sentimenti di fedeltà erano difficilmente prevedibili. Alla caduta di Lot, inevitabile nel prossimo futuro, gli scontri tra i condottieri della Cornovaglia sarebbero probabilmente sfociati in una guerra civile. Quella lotta era già di per se stessa abbastanza pericolosa da richiedere un approccio prudente, ma il rischio di una catastrofe era aumentato ancor di più dalla presenza delle migliaia di mercenari privi di guida, ma estremamente volubili, che avevano formato gli eserciti di Issa e Loholt. Questi uomini potevano spostare il loro appoggio in qualsiasi momento dall'uno all'altro dei condottieri in lizza, a seconda di chi riusciva a negoziare più efficacemente con loro. O potevano invece produrre nuovi capi dalle loro file, come aveva pronosticato Ygraine, e unire le forze per impadronirsi della Cornovaglia sconfiggendo gli oppositori locali. Ma ancor più della preoccupazione per la minaccia di una guerra nella guerra in Cornovaglia, era la prospettiva incombente della paternità a opprimere Uther. Ygraine avrebbe messo al mondo il loro bambino - non gli era nemmeno passato per la testa che potesse
essere una bambina - nel giro di qualche settimana, forse giorni, e non si poteva nemmeno escludere che l'avesse già fatto: il che significava che Uther poteva già avere un figlio ed erede in Cornovaglia. Era questa considerazione, più di ogni altra, a farlo esitare e a gettarlo in quell'umore cupo che i suoi uomini avevano notato. Uther era stato educato alla responsabilità di comando, elaborata dai Romani e ben radicata a Camelot, che imponeva a ogni comandante di non rischiare mai inutilmente la vita dei propri uomini. Ma ciò non valeva per la sua, di vita, la cui importanza era del tutto trascurabile. Il fatto che la sua esistenza fosse costantemente a disposizione degli uomini che si affidavano alla sua guida e venisse dedicata alla loro salvaguardia era un semplice dato di fatto, qualcosa che faceva parte di lui al punto di non essere più nemmeno messo in discussione. Ora, tuttavia, per la prima volta nella sua vita, Uther si trovava a riflettere sulla propria mortalità, vedendosi come era davvero in battaglia: isolato alla testa della sua formazione, inconfondibile condottiero per tutti i suoi uomini, ma anche primo bersaglio per il nemico. Dal momento in cui aveva scoperto che Ygraine era incinta e che Lot aveva riconosciuto quel figlio come proprio, Uther si era rifiutato anche solo di prendere in considerazione l'idea che potesse svilupparsi un qualsiasi rapporto fra il bimbo e il re di Cornovaglia. Sapeva che Lot sarebbe presto morto per sua mano e a quel punto non avrebbe potuto più rivendicare la paternità di nessuno. Ma più di recente, un nuovo pensiero gli era passato per la mente: cosa sarebbe successo se lui stesso fosse stato ucciso, lasciando orfano il figlio? Il piccolo sarebbe stato indifeso come qualunque altro bambino - come tutti i bambini che non erano suoi figli ed eredi dei Pendragon - esposto per anni a tutte le sventure che il destino poteva riservare a un bimbo senza padre, finché non fosse stato abbastanza grande da badare a se stesso. Non si illudeva che Ygraine potesse farcela da sola. Sarebbe rimasta bloccata in Cornovaglia, dove essere una donna significava essere una schiava, una proprietà, il cui unico valore consisteva in ciò che la sua bellezza poteva procacciarle giorno per giorno. Una madre poteva certamente occuparsi delle necessità più immediate di
un bambino, ma la protezione di un padre forte e premuroso era qualcosa di cui nessun figlio avrebbe mai dovuto fare a meno. Gli venne in mente che l'amore di suo padre per lui era stato immenso, e che la maggior parte dei padri che aveva conosciuto e osservato era stata poco incline a mostrare apertamente i propri sentimenti al figlio o a chiunque altro, al contrario di Uric Pendragon. A ogni modo, Uther decise che se fosse sopravvissuto avrebbe assicurato un affetto illimitato al suo bambino. Se fosse sopravvissuto. Se avesse smesso di fare da bersaglio ai nemici. Se fosse rimasto in vita abbastanza da veder crescere suo figlio invece di costringerlo a contare su sua madre soltanto. Ma se ciò non fosse avvenuto, se lui avesse trovato la morte nei combattimenti che lo attendevano in Cornovaglia, cosa poteva fare per assicurare il futuro di suo figlio in un caso del genere? Come poteva organizzare le cose in modo da garantire immediata e infallibile assistenza a Ygraine e al bambino, il suo bambino? Nessuno sapeva che il figlio era suo, tranne lei. Condividere quel segreto con un altro, chiunque altro, significava accrescere il rischio che la voce si propagasse, e se fosse arrivata all'orecchio di Lot, madre e figlio sarebbero morti molto prima che lui riuscisse a raggiungerli. Poteva scrivere una lettera, un testamento, e affidarlo a sua nonna Luceia a Camelot prima di partire per la guerra con la disposizione di aprirlo dopo la sua eventuale morte in battaglia. Avrebbe riconosciuto come suo il bimbo nato a Ygraine e avrebbe lasciato istruzioni per il salvataggio di madre e figlio e per il loro trasferimento a Camelot, dove entrambi avrebbero potuto vivere confortevolmente e felicemente tra familiari che li avrebbero amati. A quel punto, sarebbe rimasto solo il problema di ritrovare madre e figlio nel caos della Cornovaglia di Lot. E se ciò si fosse rivelato impossibile? Quanto tempo sarebbe passato prima che il ragazzo si emancipasse dalla protezione di sua madre e diventasse abbastanza forte da cavarsela da solo? Almeno quindici anni, pensò, mentre il panico gli stringeva la bocca dello stomaco. Be', almeno dodici, si disse poi... dodici anni perché un ragazzo fosse in grado di scappare e salvarsi la pelle. Dopotutto, persino una monella di sette anni come Nemo era riuscita a darsela a
gambe e a nascondersi. Ma dopo sette anni di vita da orfano in Cornovaglia, come avrebbe fatto il ragazzo a sapere che apparteneva alla stirpe dei Pendragon? Oppresso dalla frustrazione e dalla rabbia, Uther si rese conto che quei pensieri potevano deprimerlo e decise allora di gettarsi in altre attività, di farsi distrarre da altre urgenze. Ma qualunque cosa facesse, la preoccupazione per il benessere del figlio non ancora nato era sempre nei suoi pensieri, e la visione di Ygraine che sorrideva al bimbo seduto sulle sue ginocchia non lo abbandonava mai. Quando tornò a Camelot dal suo giro di ispezione al perimetro difensivo, era arrivato a una decisione concreta: la sua priorità principale penetrando in Cornovaglia sarebbe stata quella di trovare Ygraine e il suo bambino, separarli da Lot e portarli rapidamente in salvo a Camelot. Solo allora, sapendoli sicuri nelle mani di sua madre e di sua nonna, avrebbe potuto dedicarsi all'impresa militare nel modo dovuto e con tutta l'attenzione che essa richiedeva e meritava. Aveva abili e leali sostituti che potevano prendere il suo posto all'inizio della campagna, finché il suo primo e più importante compito - garantire un futuro al suo erede - fosse stato portato a termine. A quel punto avrebbe ripreso le redini e, alla testa della sua cavalleria - sua e di Camelot - avrebbe spazzato via Gulrhys Lot, la sua perfidia e il suo esercito non solo dalla Cornovaglia, ma dalla Britannia intera. Scrisse il suo testamento lentamente e con grande cura, rielaborandolo parecchie volte finché non fu certo che il suo significato fosse chiaro e che nessuno potesse fraintendere le sue volontà. Poi lo affidò a sua nonna Luceia, dandole precise istruzioni su come e quando aprirlo. Il maltempo causò gravi problemi a Uther e gli fornì parecchi motivi di nervosismo. Con gli alleati e le salmerie già pronti, il suo esercito era fermo da oltre due settimane mentre tutti i suoi piani, accuratamente preparati, indicavano che avrebbe già dovuto essere in cammino da almeno sette giorni, diretto a sud-ovest lungo la grande strada romana che portava all'antica città di Isca, dove avrebbe deviato verso ovest penetrando nella penisola della
Cornovaglia. Ma Uther aveva esitato di fronte a quella che il suo buon senso gli indicava come la scelta migliore, sperando testardamente in una schiarita e rifiutandosi di dare il segnale di partenza fino all'ultimo momento. Gli pareva insensato mandare in guerra uomini in cattive condizioni di salute, già raffreddati e fradici prima ancora di partire. Il loro entusiasmo - sostenne di fronte alla lieve opposizione che incontrò - sarebbe crollato prima ancora di veder scomparire gli edifici di Camelot se avessero dovuto arrancare col fango alle caviglie tra la pioggia battente e il vento gelido. Così decise di aspettare, nella speranza che il maltempo cessasse e i suoi uomini potessero marciare asciutti sotto il sole almeno nei primi giorni di campagna. Passarono otto giorni dalla data prevista perché il suo desiderio si realizzasse, ma finalmente il tempo cambiò, e sebbene non si annunciasse una giornata di sole sfolgorante, di primo mattino si videro squarci d'azzurro fra i banchi di nuvole, mentre la pioggia era cessata durante il secondo turno di guardia notturna. Incoraggiato dai primi segni di miglioramento, Uther tenne i suoi uomini pronti a partire e rimase in attesa finché il sole non riuscì a penetrare con decisione la coltre di nubi. A quel punto, mentre il calore e la luce aumentavano, convocò Popilio Cirro e il comandante anziano della cavalleria di Camelot insieme a Garreth il Fischiatore e Huw Fortebraccio. Disse loro di montare a cavallo e di seguirlo fino al margine del grande campo di addestramento sotto la collina di Camelot, e lì si fermò davanti alle truppe allineate, in attesa che la sua presenza imponesse il silenzio. Era un esercito ben più piccolo di quello che in origine aveva intenzione di comandare - solo duemila uomini, contro i seimila che aveva immaginato mesi prima - ma era convinto che sarebbe stato più efficace e micidiale di uno più numeroso. Le riflessioni sullo stato della Cornovaglia suscitate dalla lettera di Ygraine lo avevano persuaso che i vantaggi derivanti dal numero sarebbero stati annullati dalla difficoltà di nutrire e mantenere una grossa armata in un paese distrutto, e i suoi alleati avevano finito per concordare con lui. Un esercito doveva sostenersi a spese del territorio che attraversava, ma la Cornovaglia, come testimoniavano i rapporti dei gruppi di esploratori inviati a tale scopo, era totalmente devastata e
non era nemmeno in grado di nutrire se stessa dopo i saccheggi dei mercenari senza guida e le lotte intestine dei vari condottieri locali. E dovunque fossero Herliss e Lagan in quel momento, a tutta evidenza le consistenti forze che avevano sperato di riunire contro Lot non si erano materializzate. Uther non aveva più saputo niente dei due uomini dopo la loro scomparsa in seguito alla morte di Issa e Loholt. A malincuore aveva finito per rendersi conto che portare un enorme esercito in Cornovaglia in quelle condizioni sarebbe stata una follia, e aveva discusso con i suoi alleati, sia a Camelot sia in Cambria, su come affrontare al meglio quella situazione sfavorevole. La Cornovaglia di Lot doveva essere invasa — di questo erano tutti convinti - ma l'invasione che Uther proponeva adesso era più simile all'infiltrazione di una lama nelle linee di clivaggio di un pezzo di carbone che non all'arco descritto da una falce. Sarebbe stata una penetrazione lungo una linea retta piuttosto che un'avanzata su un ampio fronte. Così l'esercito che ora era pronto a partire era composto di soli duemila uomini, metà cavalieri e metà fanti, e comprendeva parecchie centinaia di arcieri Pendragon. Erano stati scelti con cura uno per uno e rappresentavano gli elementi migliori di Camelot e della Cambria messi insieme. Mentre attendeva che facessero silenzio, Uther Pendragon si sentì orgoglioso - e in un certo senso imbarazzato - dalla competizione che avevano ingaggiato fra di loro per ottenere un posto fra quei ranghi. Imponendosi di non pensare che forse li stava portando tutti alla morte, respirò profondamente prima di rivolgersi a loro con voce tranquilla. L'esercito, raggruppato da ore nelle sue varie divisioni - fanteria, cavalleria e clan cambriani - si zittì completamente in attesa delle sue parole. Uther indugiò, assaporando l'eccitazione palpabile sia in loro sia in lui, poi si tolse l'elmo appendendolo al pomo della sella e si slacciò la fibbia del grande mantello rosso con l'emblema del drago dorato. Fece ruotare in alto l'indumento come una grande ala colorata, lo ripiegò e lo distese sulla sella di fronte a sé. Solo allora cominciò a parlare con voce stentorea, in modo che tutti i presenti lo udissero distintamente. «Bene, amici, il tempo sta cambiando. Si direbbe una bella giornata per andare alla guerra.» Le sue parole d'esordio furono accolte da un brontolio sordo,
come un tuono lontano, che si diffuse rapidamente per poi sfumare di nuovo nel silenzio. Uther percorse lentamente con lo sguardo le truppe allineate, da sinistra a destra, cogliendone ogni particolare. «Fra tre giorni saremo in Cornovaglia, e voi tutti sapete il perché. Una pestilenza affligge quel paese, e noi siamo stati scelti per stroncarla. Credete di esserne all'altezza?» «Sì, Uther, lo siamo!» disse una singola voce, appartenente a chissà chi, seguita da scoppi di risa e da un coro di acclamazioni. Mentre il clamore si placava, Uther esclamò: «Quest'uomo si è guadagnato una brocca di birra per sé e per tutti i compagni della sua squadra. Chi è stato?». Un movimento fra i ranghi e una lieve agitazione indicarono l'origine di quel grido, e l'uomo, un soldato di cavalleria di Camelot, alzò una mano. Uther lo indicò a tutti coloro che non l'avevano visto. «Come ti chiami?» «Cascady, re Uther.» «Bene, Cascady, presentati questa sera all'addetto ai rifornimenti per ricevere il tuo premio, ma porta con te un amico che ti aiuti a portare la birra e ti impedisca di scolartela tutta da solo.» Ci fu un altro scroscio di risa, acclamazioni e battute, e Uther attese che si esaurissero prima di proseguire, stavolta con un tono serio e grave. «Siamo duemila, amici. Non siamo l'armata più numerosa che Camelot abbia mai mandato in guerra, ma per gli dèi, saremo forse la più forte e la più agile. Abbiamo sia uomini a cavallo sia fanti, e i migliori archi e arcieri del mondo. Camelot e Pendragon, fianco a fianco. Lot di Cornovaglia non è in grado di resisterci, ma dobbiamo sperare con tutte le nostre forze che decida di provarci. Se lo farà - e sono certo che lo farà - maledirà il giorno in cui ci ha visti arrivare. Siete pronti per affrontarlo?» «Sì!» gridarono in molti. «È vero, lo siamo, ma ascoltatemi attentamente. Non stiamo marciando sulla Cornovaglia per combattere grandi battaglie. Siamo una forza d'assalto. Il nostro obiettivo è muoverci velocemente e
continuamente, colpendo con forza e rapidità ogni volta che incontriamo resistenza, e se non dovessimo trovare il viscido re Lot, sbaraglieremo i suoi mercenari annientando la sua guardia del corpo. E ora, siete pronti a combatterlo?» «Sì!» «E lui è pronto per noi?» «No!» «Bene! Andiamo allora, e facciamogli capire che errore ha commesso quando ha invaso Camelot e la Cambria. Muoviamoci!» Si drizzò sulle staffe, alzò la lunga spada e la agitò sopra la testa nel segnale convenuto, e mentre le acclamazioni cominciavano a spegnersi si notarono i primi segni di un movimento ordinato tra le colonne di uomini e cavalli. Uther li osservò ancora per qualche istante, poi si voltò verso i suoi compagni e li salutò uno per uno con un cenno del capo prima di lasciarli alle loro mansioni. A questo punto risalì la collina verso il punto da cui si dominava il campo, dove sua madre e sua nonna, in compagnia di Merlino, Donuil, Tito, Flavio e parecchi altri, erano riuniti a veder partire per la guerra un altro esercito di Camelot. Dal centro dell'assembramento, in mezzo alla vasta spianata, cominciarono a muoversi faticosamente una ventina di enormi carri con gli approvvigionamenti, ognuno trainato da otto giganteschi cavalli e guidato da un uomo esperto seduto a cassetta con le redini in una mano e una lunga frusta di cuoio nell'altra, appollaiato sul suo alto seggiolino come un marinaio sulla coffa di una galea in alto mare. Lenti e composti, i carri si disposero a coppie per prendere posto in mezzo alla lunga colonna della fanteria di Popilio Cirro, dove sarebbero stati più protetti da attacchi e saccheggi. Quei carri erano un'ancora di salvezza per i soldati, significavano cibo, acqua e calore, e a nessun nemico veniva concesso di raggiungerli con facilità. La forma e il numero di quei maestosi veicoli, la loro grave imponenza e l'enorme sciame di carri di supporto più piccoli che li seguivano, fornirono a Uther la rappresentazione più evidente dello scopo e della durata dell'avventura in cui tutti loro, i suoi Cambriani e i migliori uomini di Camelot, si stavano lanciando. Al ritorno da
quella campagna - per quelli fra loro che sarebbero tornati - quei massicci veicoli e i carri di supporto, ormai vuoti, sarebbero stati adibiti al trasporto dei feriti gravi. Ma sarebbero passati molti mesi prima che ciò avvenisse. Uther aveva detto addio a tutti, e mai come questa volta si era reso conto che avrebbe potuto non rivedere i suoi più cari amici e i suoi familiari. Lo strazio maggiore per lui era stato separarsi dal cugino Merlino, che sorridendo lo aveva abbracciato e gli aveva augurato buona fortuna con assoluta convinzione e sincerità. Il Caio Merlino Britannico con cui lui era cresciuto avrebbe dovuto essere legato al letto e rinchiuso in una cella munita di sbarre per lasciare che Uther Pendragon partisse per la guerra senza di lui, al comando di un esercito di Camelot. Mentre il corpo principale della fanteria cominciava a raggrupparsi nella formazione di marcia, Uther si voltò a guardare per l'ultima volta suo cugino. Merlino stava osservando con attenzione le truppe, chiaramente affascinato dalla complessità delle loro ordinate manovre, ma nulla nel suo sguardo ricordò a Uther il Caio Merlino della sua giovinezza. Con un sospiro pieno di amarezza si chinò su sua nonna, seduta accanto a Veronica in un leggero calesse che il marito Publio Varro aveva costruito anni prima. Luceia lo vide protendersi verso di lei dalla sella, e allungò un braccio per afferrare la sua mano tesa. Lui le baciò le dita, le strinse lievemente, e dopo un ultimo cenno col capo e un bacio lanciato alla madre piantò gli speroni nei fianchi del cavallo, riportandolo verso l'esercito in partenza.
XVIII. Ancor prima di entrare in Cornovaglia, Uther aveva deciso che non voleva perdere tempo e uomini assediando fortezze, così fin dall'inizio della campagna adottò manovre evasive ogni volta che i suoi esploratori individuavano una postazione fortificata ben difesa. Preferiva aggirare l'ostacolo piuttosto che correre il rischio di restare invischiato in un assedio lungo, oneroso e insoddisfacente che avrebbe assorbito gran parte delle sue risorse. Soprattutto si tenne lontano da molte delle roccaforti maggiori e meglio conosciute, in particolare Golant, il più solido baluardo di Lot e quello che il re utilizzava più spesso come base, e Tir Gwyn, la Fortezza Bianca di Herliss. Uther sapeva che Herliss era fuggito e sospettava che la sua roccaforte fosse caduta nelle mani di Gulrhys Lot. Ignorando come stavano le cose, aveva deciso di essere prudente e di non avvicinarsi a quel luogo. Giunto nel punto più vicino al forte, tuttavia, aveva inviato Nemo sola e a piedi a scoprire tutto ciò che poteva sulla situazione della Fortezza Bianca. Nemo era partita di buon grado travestita da contadino e armata solo di un pesante randello e di un pugnale dalla lama arrugginita ma ancora buona, esplicitamente avvisata, se ce ne fosse stato bisogno, dei potenziali pericoli cui andava incontro penetrando in una postazione nemica. Nemo non si fece vedere per quasi tre settimane e tornò con notizie contrastanti. Come Uther aveva immaginato, Tir Gwyn era stata confiscata a Herliss per punirlo della sua prolungata assenza, ed era attualmente presidiata da un grosso distaccamento di mercenari stranieri. Nemo era entrata nel forte senza difficoltà trovandolo pieno di sbandati il cui unico tratto comune era di non essere della Cornovaglia, e aveva immediatamente cominciato a mescolarsi a loro, senza attirare l'attenzione ma drizzando le orecchie e aspettando che la sua faccia diventasse familiare a quelli che le stavano attorno. Passati dieci giorni, aveva iniziato, con aria casuale
e in modo indiretto, a fare domande. Tutti sapevano che Lot era impazzito di rabbia nell'apprendere della defezione di Herliss e Lagan: aveva massacrato l'intero gruppo di persone che gli avevano portato la conferma della scomparsa, pur sapendo benissimo che era stato lui stesso a mandarli in cerca di notizie. Evidentemente, non gli era sembrato paradossale che morissero per aver portato a termine il loro compito. Nessuno conosceva il nascondiglio di Herliss e Lagan, disse Nemo, ma correva voce che molti altri potenti capi e condottieri della Cornovaglia si fossero uniti a loro, e che stessero mettendo insieme e addestrando oltre confine un esercito formato da uomini dei clan locali per invadere la patria e rovesciare Gulrhys Lot. Proprio a causa di queste voci Lot aveva richiamato gran parte delle sue forze mercenarie sparse per il paese e le aveva nuovamente raggruppate in armate, dislocandone grossi contingenti entro le mura delle sue oltre venti fortezze collinari, talvolta antiche e rimaste inutilizzate per secoli, disseminate per tutta la Cornovaglia. Uther accolse con sollievo le notizie di Nemo perché, come ogni altro membro del suo esercito, aveva faticato ad accettare che in oltre quattro settimane di marcia da un'estremità all'altra della Cornovaglia non avessero mai incontrato nemici armati abbastanza numerosi da combattere. Avevano visto molti piccoli gruppi, ma erano sempre esigui e abili a sufficienza da dileguarsi appena avvistavano le truppe di Camelot. Gli esploratori cambriani di Uther, per lo più arcieri Pendragon, precedevano il grosso delle truppe spingendosi fino a tre miglia di distanza e formando intorno a loro uno schermo semi-circolare in continuo movimento; erano loro a combattere i pochi scontri che si verificavano, cogliendo di sorpresa i piccoli gruppi armati solitamente impegnati in battute di caccia e colpendoli con rapidità ed efficacia da centinaia di passi di distanza. Pur mancando di una presenza tangibile, era evidente che i nemici erano passati di recente, poiché l'intera zona appariva devastata dalla rivolta dei mercenari. Ovunque gli uomini di l'Uther trovavano costruzioni bruciate e diroccate; capanne, case, prigioni ed edifici pubblici, in gran parte fatti di legno e appena riconoscibili dalla
forma dei loro resti carbonizzati. Trovarono anche grossi insediamenti dove la gente si era organizzata in villaggi e accampamenti stabili, di solito nei pressi di qualche crocevia, anche se le "strade" erano spesso poco più che piste ben tracciate o mulattiere. Accanto a questi insediamenti, tutti distrutti e abbandonati, le truppe di Camelot non poterono fare a meno di notare, principalmente a causa dell'inevitabile fetore, i cadaveri in putrefazione appesi a quasi ogni albero. Garreth il Fischiatore fece osservare a Uther che tra i fabbricati bruciati molti edifici in pietra erano stati abbattuti dopo che le fiamme avevano fatto sprofondare le travi del tetto, poiché invariabilmente le pietre cadute dei muri si trovavano sopra le assi bruciacchiate e le ceneri dei tetti di paglia. Evidentemente quel danno non era semplicemente il prodotto accidentale di un'azione di guerra. Gli edifici erano stati volutamente demoliti in modo da privare la gente di un riparo e di un luogo per vivere. Uther annuì e memorizzò l'informazione in modo da rifletterci con calma più tardi. Al momento aveva altre cose per la testa, non ultimo il problema di dove si trovasse Ygraine. Aveva contato ciecamente sul fatto che si mettesse in contatto con lui al suo arrivo in Cornovaglia, ma ora, dopo giorni di vigilanza e di attesa, era costretto a riconoscere che non aveva idea di dove fosse e che non c'era modo di scoprire se stesse bene o meno, se fosse libera o confinata contro la sua volontà in una delle tante fortezze di Lot. La frustrazione causata da quella mancanza di informazioni dominava tutte le sue azioni. Così, seduto accanto a un piccolo falò in una notte gelida, dopo una giornata lunga ed estenuante passata ad arrancare nel fango sotto una pioggia battente, Uther si confidò apertamente con Garreth il Fischiatore e gli rivelò tutto ciò che era successo tra lui e Ygraine. Il Campione del re lo ascoltò con attenzione senza interromperlo e al termine del racconto rimase per un po' a fissare il fuoco in silenzio. Aveva capito, disse alla fine, che Uther aveva qualcosa in mente che lo distraeva dai suoi compiti immediati. Ora che sapeva cos'era si sentiva molto più sollevato, soprattutto perché poteva affermare che
quell'angoscia era ingiustificata. Uther protestò, sorpreso che i suoi timori venissero ridimensionati con tanta disinvoltura, ma Garreth alzò le spalle e osservò che la regina era al termine della gravidanza, un momento difficile e impegnativo per qualsiasi donna, e i suoi pensieri erano probabilmente dominati dalla paura e dalla preoccupazione per la propria vita, per la nascita e la sopravvivenza del figlio e per il benessere e la salute di entrambi. Non era realistico, disse Garreth, aspettarsi che lei trovasse il tempo di mettersi seduta, sgombrare la mente dai propri affanni e scrivergli una lettera, anche ammettendo che fosse libera di farlo e avesse a disposizione uno scrivano fidato e disponibile. Inoltre, osservò, dall'ultima lettera di Ygraine era emerso chiaramente, per esplicita ammissione di Uther, che la regina era circondata da spie di Lot e sottoposta a un'attenta vigilanza, e che era riuscita a scrivergli solo grazie all'inattesa opportunità offertale da un prete errante mandato dal cielo a farle visita. Doveva forse, chiese il Campione, rischiare di rovinare se stessa e il bambino affidando un messaggio alla gente che aveva intorno solamente per alleviare l'angoscia di Uther? La preoccupazione del re era immotivata e assurda, dato che per spiegare il silenzio della regina bastava il buon senso. E poi, brontolò, era un comportamento da femminuccia, indegno di un re alla testa di un esercito che confidava nella sua virilità e nella sua capacità di comando. Naturalmente Uther reagì protestando ma Garreth il Fischiatore non gli diede scampo. Era probabile, continuò, che Ygraine non fosse ancora giunta al momento del parto. In fondo, se la sua legittima sposa avesse felicemente dato alla luce un erede, Lot avrebbe strombazzato la notizia ai quattro venti in tutta la Cornovaglia. Se invece fosse accaduto qualcosa a Ygraine o al suo bambino, maschio o femmina, la cosa si sarebbe risaputa, che Lot lo volesse o no. Ma dato che non si era sentito parlare né dell'uno, né dell'altro evento, Garreth riteneva più sensato presumere che il parto non fosse ancora avvenuto. Uther ascoltò con gratitudine le parole dell'amico, pur sapendo che esse non lo rassicuravano sulla sorte di Ygraine. Il destino della
madre di suo figlio contava meno di niente per Gulrhys Lot, paragonato al fatto di avere un erede. Se Lot avesse dovuto scegliere tra la vita e la salute della moglie e quelle del neonato, avrebbe sacrificato Ygraine senza pensarci un attimo. La nascita di una bambina, d'altro canto, sarebbe stata irrilevante per Lot, ma avrebbe protetto dal pericolo madre e figlia. Il discorso di Garreth tranquillizzò Uther e lo convinse che la sua preoccupazione era ingiustificata e prematura, poiché le argomentazioni sensate dell'amico erano proprio il parere intelligente e pragmatico che aveva imparato ad aspettarsi da quell'uomo straordinario. Garreth il Fischiatore era ormai stato il Campione di tre re dei Pendragon, trasferendo con naturalezza la sua devozione a re Uric dopo la morte di Ullic Pendragon e accettando, con grande gioia di Uther, di essere anche il suo Campione quando il giovane era salito al trono al posto di suo padre. Quella notte, sdraiato sulla sua branda, Uther continuò a pensare all'amico con un sorriso di gratitudine per la sua fedele amicizia, e dormì meglio di quanto non gli capitasse da lungo tempo. Tre giorni dopo quella conversazione, tutto cambiò con l'arrivo di un messaggero che portava appeso a un laccio intorno al collo l'anello che Uther aveva lasciato alla regina. Aveva legato alle reni un morbido astuccio di pelle che conteneva una lettera di Ygraine, cinque pagine di fine papiro scritte da una mano forte e sicura.
Molte novità, poco tempo per dirle. Questa lettera dev'essere completata e spedita entro un'ora, una fugace opportunità giunta quando meno me l'aspettavo. Sto parlando ad alta voce a Joseph, il mio prete e confessore, capitato al momento giusto per scriverla al posto mio. Tuo figlio è nato ed è bello, il ritratto di suo padre, fatta eccezione per i suoi luminosi, meravigliosi occhi dorati di cui non ho mai visto l'eguale. È venuto alla luce tre settimane fa, alla seconda ora del mattino, e l'ho chiamato Artù perché tu non eri qui a
suggerirmi un altro nome. È meraviglioso a vedersi e perfetto in ogni particolare. Che Dio ci protegga, perché se questa lettera viene trovata e letta da occhi ostili, siamo morti, il mio bambino e io. Conosco da sempre l'uomo che te la porta. Viene dall'Eire, il suo nome è Calum, ed è uno degli uomini più fidati di mio fratello Connor che me lo ha inviato in segreto, travestito da mercenario, per scoprire se sto bene. Connor vuole farmi uscire dalla Cornovaglia e riportarmi da mio padre in Eire. Dopo averti lasciato, Calum tornerà dalla mia famiglia portando con sé il racconto delle mie sventure, anche se non sa nulla di noi o del nostro bambino, e presto Connor verrà a prendermi per portarmi a casa. Nel frattempo, ho mio figlio. Il Mostro non l'ha visto e non sa nemmeno che esiste, sebbene siano già trascorse tre lunghe settimane di felicità per me. Da parecchi mesi ormai sono di nuovo circondata dalla mia gente, cosa di cui ringrazio Dio ogni giorno, e siamo riusciti a compiere un miracolo malgrado la presenza delle creature del Mostro che presidiano le mie stanze. Una delle mie ancelle, Clara, ha dato alla luce un bimbo la notte prima di me, e così siamo riusciti a nascondere il mio parto. È stato improvviso e relativamente silenzioso, e inizialmente non pensavamo di tenerlo nascosto, finché ci siamo accorti che nessuno fuori dalle mie stanze si era accorto dell'evento. Ora Clara allatta il mio bambino, anche se lo faccio anch'io quando nessuno può vedermi. Un'altra delle mie dame mi ha cucito una guaina che contiene un cuscino abbastanza grosso da farmi sembrare ancora incinta, e in questo modo siamo riusciti a simulare che non sia ancora successo niente. Non so per quanto tempo saremo in grado di mantenere il segreto, ma finché ci riusciremo lo faremo. Ecco alcune notizie che dovrebbero essere importanti per te: c'è un ingente concentramento di truppe sassoni nella regione costiera verso est, appena oltre il confine della Cornovaglia. I biechi sgherri del Mostro l'hanno giudicata una seria minaccia e lui ha mandato un esercito ad affrontare gli intrusi e ricacciarli da dove sono venuti. C'è bisogno che ti dica che non è andato di persona? L'esercito, forte di diecimila uomini e comandato da un nuovo campione dei
mercenari, un tanghero dalla faccia truce di nome Nabur, è partito qualche settimana fa, poco prima del tuo arrivo. Non ci sono ancora giunte notizie di come si stia comportando. Altre novità, ben più dolorose, forse sai già che Lot aveva confiscato Tir Gwyn e dichiarato Herliss e Lagan traditori, decretando la loro uccisione non appena catturati. Questo accadeva parecchi mesi fa. Ma l'ultima infamia è difficile da immaginare, e ancor meno da descrivere ed esprimere in parole. A quanto pare, alcuni uomini di Lot sono riusciti a infiltrarsi tra i sostenitori di Herliss e hanno scoperto dov'era accampato. Lagan non era presente al momento dell' attacco, ma sono riusciti a catturare Herliss e la moglie e il figlio di Lagan, Lydda e Cardoc. Herliss è stato ucciso immediatamente, e la sua testa è stata portata a Lot in un barile d'acqua salata, ma la donna e suo figlio sono stati tenuti in vita e condotti, in catene, davanti al re. Che Cristo mi assista, non riesco neppure a parlarne, ma se mai ci fosse bisogno di una prova che il mio dissennato consorte è pazzo e dev'essere ucciso, è contenuta in ciò che sto per dirti. Lot ha consegnato Lydda ai suoi soldati perché se la spassassero, e loro hanno abusato di lei fino al punto di ucciderla. So che la cosa in se stessa, per quanto mostruosa, non è inaudita, ma ciò che segue lo è. Ha costretto il ragazzo, che aveva undici anni, ad assistere alle atrocità commesse sulla madre, ripetendogli in continuazione che la colpa di quanto stava accadendo era di Lagan, suo padre. Il povero bambino, fuori di sé, ha finito per perdere la ragione, e a quanto dicono si è ammutolito e non ha più detto una parola. Poi, quando Lydda è morta, Lot le ha fatto tagliare i piedi e li ha mandati, insieme alle mani del bambino che ha poi fatto uccidere, all'accampamento in cui si trovavano Herliss e i suoi prima di essere catturati, per ricordare a Lagan il castigo che spetta a chi tradisce un amico. Non so nulla della reazione di Lagan e non voglio nemmeno pensarci, ma il disgraziato dev'essere impazzito dal dolore. Per finire: in questo momento Lot è nascosto nella sua roccaforte più settentrionale, un sito antico conosciuto semplicemente come "il Covo". È sulla costa, a circa dodici leghe a nord dell'isola- fortezza di
Rosnant, dove stanno ampliando le fortificazioni e costruendo caserme, anche se il posto non è ancora abbastanza confortevole per i gusti di Lot. A quanto pare resterà nel Covo finché non gli giungerà notizia di una vittoria contro i Sassoni a sud-est. Ho anche sentito dire, ma è soltanto una voce, che sia andato lì ad attendere l'arrivo di una nuova flotta di galee dall'Eire, ma non ha nulla a che fare con me o con la mia gente. Ammesso che questa voce sia vera, potrebbe trattarsi di una flotta appartenente ai nostri vecchi nemici che si fanno chiamare Figli di Condran. Se Lot è terrorizzato da mio fratello Connor come credo, avrebbe un senso per lui cercare un'alleanza con i Figli di Condran, e sarebbero degni l'uno degli altri. Credo che tu possa avere l'occasione di affrontare Lot una volta per tutte se riesci a coglierlo finché è rinchiuso nel Covo. Lo considerano un forte costiero, ma non è esattamente sulla costa. Da quel che ho capito si trova su un promontorio affacciato sul mare, ma le scogliere sono di pietra tenera e soggette a frane e cedimenti, quindi le mura del forte sono arretrate rispetto all'orlo delle rupi. Mi hanno detto, comunque, che potresti riuscire a circondarlo completamente e a conquistarlo. Ma giudicherai meglio tu stesso quando lo vedrai. Queste sono tutte le novità da parte mia, e il mio scrivano ha le dita sporche d'inchiostro e ha sopportato con pazienza le mie esitazioni e i miei ripensamenti. Mi assicura comunque che quando avrà ricopiato le mie parole non vedrai più traccia di queste correzioni. Non ho che un'ultima cosa da dirti, ed è questa. Non abbiamo mai parlato d'amore noi due, e a dire la verità, io non ho mai saputo cosa fosse l'amore. Ma ora, osservando nostro figlio, so che il sentimento che mi consuma è amore, ed è stranamente simile a ciò che si agita dentro di me dall'ultima volta che ti ho visto. So che quando ti guarderò di nuovo negli occhi e ti vedrò stringere tuo figlio tra le braccia, saprò finalmente cos'è l'amore, e per sempre. Addio, vieni da me senza correre rischi. Presto ci sposteremo in un'altra roccaforte di Lot, poiché siamo rimasti qui fin troppo a lungo, e quando questo accadrà troverò il modo di avvertirti
cosicché tu possa venirci a prendere. Addio, e pensa a me qualche volta. Pensa a me qualche volta. Uther sorrise per un istante leggendo
per la prima volta quelle parole. Poi, scombussolato dalla profusione di informazioni contenute dalla lettera, uscì dai suoi quartieri, sellò il cavallo e si allontanò, in cerca di un luogo dove restare solo senza essere disturbato. Giunto alla riva di un torrente si sedette su un ceppo ricoperto di muschio e lesse nuovamente le parole di Ygraine parecchie volte ad alta voce, dando sfogo alle emozioni contrastanti che si agitavano dentro di lui. Tra di esse c'erano innanzitutto l'orgoglio e una sorta di incredulo stupore. Aveva un figlio. Quella sola notizia lo commuoveva più di quanto gli fosse mai capitato in vita sua. Un figlio, Artù Pendragon. Quel nome gli piaceva, era abbastanza simile al suo da suonare bene quando lo pronunciava ad alta voce, come fece più volte. Artù Pendragon, Uther Pendragon; Artù Pendragon. E non solo un figlio, ma un essere straordinario, bello, il ritratto di suo padre ma con luminosi occhi dorati dei quali sua madre non aveva mai visto l'eguale. Ma lui sapeva che c'erano occhi simili tra i suoi antenati. Caio Britannico, fratello di Luceia, aveva quegli occhi; occhi d'aquila, li chiamava sua nonna. E ora erano riemersi in suo figlio, gli occhi di un'aquila dorata. Rimase a lungo in silenzio con la lettera in mano, gli occhi persi nel vuoto, tentando di immaginare il bimbo e come sarebbe cresciuto. Ma altri pensieri si intromisero, spegnendo la luce che brillava nei suoi occhi. Anche Lagan il Saggio aveva un figlio, e stravedeva per lui. E ora il ragazzo era morto, le sue mani amputate e mandate al padre insieme ai piedi della madre, quale prova della vendetta di Lot. Uther sentì una fitta allo stomaco al pensiero dei tormenti che il suo amico doveva aver patito vedendo quei resti, e non faticava a credere, come Ygraine, che Lagan dovesse essere folle di dolore e di rabbia. Gli tornarono in mente le informazioni della regina sull'attuale dislocazione di Lot e di colpo balzò in piedi pieno di determinazione. Avrebbe trovato questo Covo, l'avrebbe bruciato sotto gli occhi di Lot e avrebbe mandato a Lagan la testa mozzata di
quel bastardo. Presa quella decisione, e più ottimista di quanto fosse mai stato dal momento in cui era penetrato in Cornovaglia qualche settimana prima, passò a elaborare una nuova strategia e appena tornato all'accampamento chiamò i suoi capi di stato maggiore a discutere della loro prossima incursione nel nord per isolare Lot nel rifugio chiamato il Covo. Pur volendo evitare assedi prolungati, nel recente passato Uther aveva discusso parecchie volte con i più alti gradi del suo esercito la possibilità di un attacco diretto a una postazione fortificata, nell'ipotesi circoscritta che fossero così fortunati da conoscere con esattezza la posizione di Lot e sicuri di poterlo inchiodare in un unico posto, senza vie di fuga. In questo caso, il secondo punto era discutibile per varie ragioni, fra cui la totale mancanza di informazioni sul luogo chiamato il Covo, e i capi anziani di Uther non esitarono a sollevare obiezioni. Il rapporto su cui era basato il suo piano, dissero, non era più affidabile di un altro rapporto precedente che parlava di un esercito di guerrieri dell'Eire chiamati Galloglas, il cui sbarco sulla costa nordoccidentale della Cornovaglia era previsto nei prossimi giorni. Se c'era qualcosa di vero in questo secondo rapporto, Uther avrebbe esposto il suo esercito a un rischio inutile, e una sanguinosa battaglia contro un nemico sconosciuto non sarebbe stata di grande utilità se il vero obiettivo era Gulrhys Lot. Uther protestò. I nemici descritti come Galloglas in quel rapporto, che proveniva da un anonimo simpatizzante, dovevano essere, secondo lui, la stessa flotta menzionata nel suo, quella che Lot era andato ad attendere nel nord. Sulla base di tale convinzione, riteneva che i nuovi arrivati fossero diretti al luogo in cui Lot li attendeva, ovvero al forte conosciuto come il Covo. Malgrado la sua strenua convinzione, però, non riuscì a persuadere alcuni dei comandanti più esperti — fra cui Muzio Quinto, il medico militare del contingente di Camelot - che le sue informazioni fossero una verità incontrovertibile, e aumentò il loro scetticismo rifiutandosi ostinatamente di rivelare l'identità del suo informatore, consapevole come sempre della necessità di proteggere Ygraine. Le obiezioni di Quinto riguardavano il rischio di una
carneficina gratuita. I massacri erano parte integrante di una guerra, e Quinto lo sapeva, ma un massacro senza motivo era inconcepibile per lui. La marcia che Uther proponeva di intraprendere era sconsiderata in quelle circostanze, un rischio inaccettabile che contrastava con tutte le norme sulla scelta degli obiettivi militari e sullo schieramento responsabile delle truppe, norme che Uther stesso aveva stabilito. Dichiarandosi d'accordo con Quinto, Popilio Cirro si spinse a definire il suggerimento di Uther vergognosamente impulsivo; esso era da considerarsi inaccettabile finché non si fossero ottenute informazioni più solide, da una fonte addizionale, sull'ipotetica minaccia dell'esercito sassone che secondo il rapporto si stava concentrando ai confini orientali di Lot. Non c'erano prove che i Sassoni fossero lì, sostenne Popilio, e ancor meno che il grosso dell'esercito di Lot fosse stato mandato ad affrontarli. Quella mancanza di certezze, da cui derivava la possibilità molto concreta di essere minacciati alle spalle in un'eventuale marcia verso nord, unita all'altro rapporto non confermato su un'avanzata di un esercito dell'Eire da nord, doveva essere affrontata e risolta prima di prendere qualsiasi decisione importante su movimenti di truppe e obbiettivi. Uther li ascoltò ma respinse le loro critiche, dichiarando che l'esistenza del rapporto scritto che aveva ricevuto era una prova sufficiente. Lesse persino ad alta voce la sezione incriminata della lettera nel tentativo di dimostrare la sua buona fede, ma il suo continuo rifiuto di dare un nome al suo informatore toglieva credibilità a quelle notizie. Alla fine, naturalmente, la volontà del re prevalse, ma rimase un certo grado di incertezza sul risultato dell'attacco progettato da Uther, perché nessuno dei suoi uomini aveva mai visto il forte descritto da Ygraine e dunque era impossibile sapere quanto fosse accessibile la costa dalle mura, o quanto spazio libero ci fosse intorno al forte tra gli spalti e la cima della scogliera. Era un'informazione vitale, e Uther stesso giurò che non avrebbe attaccato la postazione se Lot avesse avuto la possibilità di fuggire via mare, lasciando i suoi mercenari a coprirgli le spalle. Ma il problema era irrisolvibile, poiché per rispondere a quelle domande
dovevano avvicinarsi al luogo e osservarlo con i loro occhi. Una volta presa la decisione di recarsi sul posto, comunque, Popilio e gli altri capi assecondarono i suoi desideri e il resto del piano fu definito rapidamente, anche se il re invitò tutti, come sempre, a rispettarne i dettami in relazione alla situazione del momento. Uther aveva imparato da tutti i suoi mentori e istruttori che a memoria d'uomo nessun piano di battaglia, per quanto valido e preparato con cura, aveva mai superato intatto il primo impatto con il nemico. Era un assioma riconosciuto di qualunque guerra: per essere efficace e vincente, un piano di battaglia - così come la mente del comandante — doveva prevedere un certo margine di flessibilità. Uther e i suoi comandanti passarono tre giorni a mettere a punto la strategia e al quarto giorno partirono per la costa nordoccidentale. Come nei mesi precedenti, non incontrarono grande opposizione e riuscirono così a mantenere una media eccellente, macinando miglia su miglia. Nel tardo pomeriggio del quarto giorno di marcia, gli esploratori mandati in avanscoperta comunicarono che avevano raggiunto la costa e avvistato il Covo. Uther fermò le truppe e fece immediatamente allestire l'accampamento. Come lui, molti dei suoi soldati avrebbero trascorso una notte insonne in attesa della battaglia dell'indomani, e tutti sarebbero stati svegli e pronti ad avanzare prima che l'alba cominciasse a tingere il cielo notturno. Quella notte insonne, però, si rivelò inutile. Appena Uther fu in vista della roccaforte chiamata il Covo e si fermò a valutarla attentamente, capì che quel viaggio avrebbe rappresentato l'ennesima delusione in una campagna già dominata dallo sconforto e dall'inazione. Aveva appena formulato questo pensiero, però, quando Garreth il Fischiatore e Huw Fortebraccio vennero a smentirlo. Si erano accorti anche loro che la situazione era senza sbocchi, ma erano andati oltre, individuando un vantaggio da sfruttare finché le truppe si trovavano lì. Il forte, una tipica costruzione concentrica con un terrapieno e un fossato, sorgeva su un promontorio, come aveva detto Ygraine, con le mura prudenzialmente arretrate rispetto al bordo della scogliera fatta di roccia friabile, e intorno al perimetro un'area libera che
poteva teoricamente accogliere un'esercito di assedianti. Ma solo uno stupido avrebbe tentato di ammassare una tale forza in quel luogo, perché le informazioni di Uther mancavano dei dettagli fondamentali: il promontorio si ergeva ripido sul mare terminando bruscamente con una parete impossibile da scalare, e nel corso di centinaia d'anni i costruttori avevano magnificamente adattato la fortificazione al terreno scosceso, creando delle superfici artificialmente piane all'interno dei bastioni sostenute da pali. Inoltre le mura anteriori del forte, affacciate sulla terraferma, erano alte più del doppio di quelle posteriori. Quelle mura convinsero subito Uther che era impossibile conquistare il forte con un assalto diretto: nessuna forza d'assedio poteva scalare quelle enormi pareti verticali. E non era nemmeno possibile aggredire in forze i bastioni più bassi sul retro, perché per farlo bisognava prima aggirare la cerchia percorrendo la stretta striscia di terreno fra le mura e la sommità della scogliera. Non c'era un minimo di protezione in alcun punto. Gli attaccanti sarebbero stati costretti ad avanzare faticosamente addossati al ripido pendio, mentre i difensori sui bastioni avrebbero goduto di un terreno artificialmente piatto. Sarebbe stata una strage. «Non è proprio quello che ci aspettavamo, eh?» fece Huw Fortebraccio. Garreth il Fischiatore non disse nulla, limitandosi a osservare Uther stringendo le labbra. «Ma poteva andar peggio, dal nostro punto di vista.» «Davvero?» domandò Uther. «E perché?» «Be', Lot è là dentro e non può muoversi finché noi siamo qui.» «Non possiamo sapere se è là dentro, Huw.» «Sì, invece. C'è, l'ho appena saputo.» «Da chi, e perché io non l'ho saputo?» Huw alzò le spalle. «Perché mi è stato riferito da uno dei miei uomini solo qualche momento fa e sono venuto per dirtelo. Una delle nostre pattuglie si è imbattuta in due contadini stamattina presto. Non avevano molta simpatia per il loro re e non c'è voluto molto per persuaderli a dirci tutto quello che sanno su questo posto. Hanno assistito all'arrivo di Lot otto giorni fa e da allora nessuno l'ha più visto. Quindi è in trappola, chiuso là dentro. Non vedo vie di
fuga.» «Da qui non si vede la parte posteriore della scogliera, Huw. Potrebbero avere rampe di scale che portano fin giù alla spiaggia, per quel che sappiamo. Lot potrebbe essere partito giorni fa.» «Sì, è possibile, te lo concedo. Ma scommetto che non l'ha fatto, e se è lì, ci rimarrà fin quando noi non gli permetteremo di andare via. C'era una via di fuga sul retro, ma alcuni dei miei compagni l'hanno individuata e interrotta. Non dimenticare che mi hai affidato la responsabilità di tutti i nostri esploratori. La prima cosa che avevo detto loro di fare, una volta giunti qui, era di esplorare la zona rivolta verso il mare. Esiste una via per scendere alla spiaggia, sul retro, ma non è fatta dall'uomo. Ci sono alcune rozze gradinate ma il resto della strada è come la natura l'ha fatta: ripida, stretta e pericolosa. A due terzi circa del percorso, scendendo, c'è un precipizio, come se l'intera scogliera fosse crollata da una parte. I miei compagni mi hanno detto che non se ne vede il fondo, è come un buco che arriva fino alle viscere della terra. Comunque misura circa dieci passi nel punto più stretto, ed è attraversato da un ponte. O meglio, lo era. I miei compagni lo hanno abbattuto.» «Lo hanno abbattuto... Vuoi dire che non era sorvegliato?» Huw sorrise e lanciò un'occhiata a Garreth il Fischiatore. «Oh no, era sorvegliato. C'è una torre di guardia sopra e una sotto il ponte, ma sono state costruite per sventare un attacco dal mare, e gli occupanti non si aspettavano l'arrivo dei nostri esploratori e non li hanno visti avvicinarsi. Col favore della notte i miei uomini hanno raggiunto la base del promontorio e si sono arrampicati ai due lati del sentiero appena prima dell'alba. Poi hanno raggiunto entrambe le torri di guardia e hanno abbattuto tutte e dieci le sentinelle prima ancora che quegli sciocchi si rendessero conto di essere attaccati. A quel punto hanno tagliato il ponte. Così nessuno fuggirà dalla strada posteriore, a meno che non gli spuntino le ali e attraversi l'abisso volando. E non potranno nemmeno arrivare rifornimenti dal mare per quella via.» Quando Huw ebbe finito, Uther scosse la testa ammirato. Ma Garreth il Fischiatore intervenne. «Gli uomini di Huw potrebbero esserci molto utili sulla scogliera, Uther.»
«Perché?» «Be', lì sono al sicuro da attacchi dall'alto. Nessuno può vederli dalle mura, e men che meno raggiungerli. Inoltre avranno il vantaggio dell'altezza e della distanza quando arriverà la flotta che Lot sta aspettando... se arriverà. Gli occupanti del forte non avranno modo di avvertire i nuovi arrivati che sono in pericolo. La flotta si avvicinerà, contando di approdare senza rischi alla base del promontorio, e i miei arcieri useranno lo stesso trucco adottato contro la flotta di invasione: frecce incendiarie impregnate di pece. Se nel frattempo, tu disporrai il tuo esercito laggiù, proprio alla base della fortezza, Lot si ritroverà legato mani e piedi come un pollo pronto per lo spiedo. Non potrà andarsene, non potrà fuggire.» «Ma ci troveremmo coinvolti in un assedio che non possiamo vincere. Non ne abbiamo né il tempo, né le risorse.» «Non ci servono. Se la flotta dall'Eire arriva quando previsto, la attacchiamo e la rispediamo a casa battuta. Sarebbe una vittoria, e proprio sotto il naso di Lot, che non potrebbe far altro che stare a guardare. Poi, partita la flotta, potremmo tenerlo bloccato qui lasciando sul posto un piccolo contingente, mentre il resto del nostro esercito riprende la marcia verso sud.» Uther sospirò e si guardò attorno, osservando il movimento dei suoi uomini e l'antica fortezza che incombeva sopra di loro. Dal suo punto di osservazione, su una collina di fronte alla rocca, vedeva a malapena il mare. Il promontorio occupava gran parte della sua visuale, lasciando solo due strisce di piatto orizzonte marino ai due lati. «Benissimo, ci proveremo, ma per non più di tre giorni. Non ho alcuna intenzione di invecchiare in questo posto aspettando una flotta che forse non esiste neppure. Date disposizioni e convocate una riunione di tutti gli ufficiali nella tenda di comando per questo pomeriggio, un'ora prima di cena.» Quando gli altri si furono allontanati, Uther diede un'occhiata a Nemo che con una squadra di Dragoni stava montando l'enorme tenda e stimò che sarebbe passata almeno mezz'ora prima che potesse entrarci e levarsi qualche pezzo della sua pesante armatura. Rassegnato, si spostò verso l'area in cui le singole unità del suo
esercito, congedate dai loro comandanti, cominciavano a montare il proprio accampamento. Sapeva che poteva essere utile trascorrere quell'intervallo tra i suoi soldati, impegnati ad allineare perfettamente le loro baracche in modo da non attirare le ire dei decurioni. Mentre scherzava con alcuni dei suoi uomini di Tir Manha, una staffetta venne a cercarlo per dirgli che uno straniero portava notizie chiedendo specificamente di lui. Uther si scusò e seguì la staffetta. Riconobbe immediatamente nel nuovo arrivato un servo di Ygraine che aveva visto fra il seguito della regina a Forte Crag. L'uomo appariva molto cambiato. Se allora aveva un aspetto florido, lindo e ben nutrito, ora sembrava smunto e spaventato, aveva gli abiti strappati e logori e la faccia e le mani nere di sporcizia. Uther lo osservò con aria cupa finché l'uomo, che si chiamava Finn, non l'ebbe rassicurato che la regina stava bene e che a conciarlo così erano state solo le difficoltà incontrate durante il viaggio per nascondersi ai mercenari che affollavano ovunque le strade del sud. Tranquillizzato da quelle parole, Uther chiese che portassero della birra, accolse il nuovo arrivato nella propria tenda ormai pronta e lo fece sedere accanto a un braciere acceso che presto cominciò a emanare un gradevole tepore. La regina stava bene, riferì Finn quasi senza fiato dopo avere attinto generosamente alla caraffa che gli era stata portata, e anche suo figlio, ma di recente erano stati trasferiti in una fortezza a meno di venti miglia di distanza da lì, verso sud, molto più vicino a Uther e al suo esercito di quanto Ygraine avesse osato sperare. Sapendo che Uther si trovava solo a un giorno o due di cammino da lei, la regina aveva deciso di avvertirlo subito perché venisse a prendere lei e il bambino. Stava aspettando che il suo confessore, Joseph, tornasse da un viaggio in modo da poter scrivere una lettera per lei, quando la situazione era precipitata. All'improvviso uno dei suoi informatori l'aveva avvertita che il grosso dell'esercito di Lot concentrato a sud-ovest, dopo aver tentato inutilmente di attirare laggiù i Sassoni per combatterli, aveva invertito la marcia e stava ritornando in Cambria a prendere rinforzi e unirsi al resto delle truppe per sterminare l'esercito di Camelot. Stando a ciò che le era stato detto, ormai era noto che l'esercito di Uther non contava più
di duemila soldati in tutto, e il contingente a sud-ovest, prima di ricevere rinforzi, era già grosso il triplo. La regina sapeva che tre mercenari senza disciplina non erano in grado di tener testa a un soldato a cavallo di Camelot, ed erano ancor meno pericolosi se paragonati a un arciere dei Pendragon, ma aveva preferito che Uther sapesse immediatamente di questa minaccia alle sue spalle. A nord, Lot era stato avvisato via mare del cambiamento di programma e del ritorno del suo esercito, e Ygraine non aveva idea di quale sarebbe stata la sua reazione. A suo parere, comunque, la situazione non prometteva nulla di buono per Uther, e lei gli consigliava di non dar nulla per scontato. Donna Ygraine, concluse Finn, attendeva che il re andasse a prenderla appena possibile circondata da uno stretto nucleo di fedeli seguaci, tra cui la sua guardia personale. Il forte in cui ora si trovava era una postazione secondaria, distante dai consueti itinerari degli eserciti e dalle battaglie, e ospitava una guarnigione ridotta, poiché doveva solo fornire un rifugio tranquillo alla regina per partorire suo figlio e nessuno si aspettava problemi. I suoi uomini si occupavano della difesa insieme alla guarnigione, ed erano perfettamente in grado di impadronirsi del forte quando Uther avesse annunciato il suo arrivo. Nel frattempo, disse Finn, la regina non era in pericolo, ma non vedeva l'ora che Uther vedesse suo figlio. Il re ascoltò le parole dell'uomo prendendo nota mentalmente di alcuni punti, e ben presto si pentì di essersi fatto convincere ad assediare il Covo. Non sapeva se l'esercito meridionale di Lot si stesse avvicinando alle sue spalle oppure no, ma aveva comunque il tempo di occuparsene, se il problema si fosse presentato. Ad assillarlo in quel momento era soprattutto l'impazienza di vedere suo figlio. Disse a Finn di tornare dalla regina e di informarla che sarebbe andato a prenderla fra una settimana, ma prima ancora di congedare l'uomo fu interrotto dall'arrivo dell'ennesimo messaggero, una staffetta dei Griffyd mandata da Aelle di Carmarthen, la cui galea si trovava in quel momento a meno di una lega a sud dell'attuale rifugio di Lot. Aelle, navigando verso nord lungo la costa due giorni prima, aveva visto un'intera flotta di galee dell'Eire sbarcare un
esercito a circa dieci leghe - fra le trenta e le quaranta miglia romane - a nord dell'attuale posizione di Uther. La scoperta era stata imprevista e casuale, e solo per puro caso Aelle non era stato individuato. Non appena la situazione glielo aveva consentito era tornato a sud, e sapendo che l'esercito di Uther era diretto a nordovest, aveva inviato messaggeri per tutta la costa, a una lega di distanza l'uno dall'altro, per rintracciare e mettere in guardia il re. Quella notizia mandò all'aria tutti i piani di Uther. Aveva male interpretato l'informazione ricevuta in precedenza, e ora aveva un esercito che gli veniva incontro da nord e probabilmente un altro che marciava verso di lui da sud. Sforzandosi di rimanere impassibile e di non far trapelare i suoi pensieri, ringraziò il messaggero e lo mandò a rifocillarsi, poi congedò anche Finn pregandolo di tornare immediatamente da Ygraine e dirle di prepararsi a partire in capo a tre giorni, metà del tempo che aveva annunciato prima. Quando fu di nuovo solo, Uther si sedette e passò in rassegna le sue possibilità, ma comunque le esaminasse, l'unica alternativa praticabile era la fuga: ritirarsi in un luogo a sua scelta e attendere lì l'attacco. Stava per mandare una delle guardie a cercare Popilio Cirro quando udì intorno a lui un tumulto crescente e, incuriosito, uscì dalla tenda dirigendosi verso il punto da cui provenivano grida soffocate. Vide un gruppo di persone che si alzavano in punta di piedi, cercando di distinguere qualcosa sul mare. Uno degli arcieri di Huw Fortebraccio gli passò accanto correndo e Uther lo afferrò per un braccio. L'uomo tentò di divincolarsi, ma si bloccò quando riconobbe il re. «Che succede?» domandò Uther. «Una flotta, mio signore. C'è una flotta laggiù. Centinaia di galee.» «Le hai viste?» «Sì, con i miei occhi.» «Dove stai andando, allora, così di fretta?» «A dirlo al capo.» Uther sapeva che l'uomo si riferiva a Huw Fortebraccio. «Bene. Trovalo in fretta e mandalo direttamente da me. Digli che lo aspetto qui nella tenda di comando. Sbrigati, e se vedi il Fischiatore,
mandami anche lui.» Si rivolse a una guardia che era lì accanto e li stava ascoltando. «Trovami Popilio Cirro il più in fretta possibile. Digli che lo voglio qui adesso.» Soffocando l'istinto di correre a guardare il mare contando le navi nemiche come uno qualsiasi dei suoi soldati, Uther tornò alla fresca ombra della sua tenda e si costrinse a pensare, scacciando il pensiero che tutto questo non poteva essere, non tutto insieme, nello stesso giorno, a pochi attimi di distanza. Un esercito a sud, un esercito a nord sbarcato da navi, e ora una flotta al largo della costa. Non poteva rimanere lì, questo era chiaro. Persino i suoi uomini sulla scogliera, con le loro frecce incendiarie, adesso erano in pericolo, perché l'armata di Galloglas proveniente dal nord era a meno di quaranta miglia due giorni prima, e ora poteva trovarsi dietro la cresta della prima collina a nord. Se il nemico fosse arrivato prima che gli arcieri Pendragon venissero recuperati dalle loro postazioni sulla scogliera, quegli uomini sarebbero stati tagliati fuori, massacrati o condannati a morire di fame. Doveva richiamarli immediatamente, ma anche questo richiedeva parecchio tempo, poiché gli arcieri erano isolati e andavano contattati uno per uno. Garreth il Fischiatore arrivò subito, seguito qualche attimo dopo da Popilio Cirro, poi da Muzio Quinto e da Huw Fortebraccio. La riunione improvvisata trovò tutti d'accordo, e nessuno si azzardò a dire una parola sui consigli o i dubbi espressi in precedenza. Venne dato ordine di ritirarsi immediatamente e i comandanti vennero inviati a svolgere i propri compiti. Uther mandò una staffetta a cercare Nemo, e si accinse a scrivere un breve messaggio. Quando lei entrò nella tenda togliendosi il pesante elmo Uther le indicò una sedia e le porse una grossa coppa di idromele. Non aveva mai fatto una cosa del genere, e Nemo la accettò senza dire nulla, mentre il suo re seduto di fronte a lei alzava la coppa in un brindisi e beveva un sorso, preparandosi a dire qualcosa che evidentemente non era ancora in grado di formulare. Nemo attese in silenzio, come sempre. Alla fine Uther sorrise. «Ti chiamano ancora Muso-Duro?» Nemo annuì. «È perché ti rispettano. Lo sai, vero?» Nemo annuì nuovamente.
«Già... e tutti pensano a te come a un uomo. Questo, amica mia, è un risultato stupefacente. Pensano tutti che tu sia un uomo. Nemo. Eppure Nemo significa Nessuno. Nessun Nome. Nessun Uomo. Curioso, vero? Nessun Uomo. È quello che sei diventata, ma anche quello che sei sempre stata... Io so chi sei veramente, perché tu e io siamo amici da tanto tempo. Ma non ho mai saputo il tuo vero nome.» Lei corrugò la fronte, «jonet.» «Cosa?» «Jonet. Il mio vero nome... Jonet. Mia madre si chiamava Naomi. Ho preso il suo nome quando sono fuggita... quando ti ho incontrato. Poi tu mi hai chiamato Nemo. Era un nome simile, e mi è piaciuto.» «Jonet? Non lo sapevo. Preferisco Nemo.» «Anch'io.» «Allora sarai Nemo per sempre, e nient'altro che Nemo. Ho una missione da affidarti, Nemo, un compito molto difficile e pericoloso per una persona sola. Non lo chiederei a nessun altro. Sei disposta ad accettarlo?» «Sì.» Uther la fissò. «Tutto qui? Non sai ancora cos'è.» Nemo si limitò a guardarlo con aria impenetrabile. «Lo farò. Di che si tratta?» «Devi trovare un uomo e condurlo da me. Il suo nome è Lagan.» «Il Saggio.» «Ah, giusto, tu lo conosci. Sì, Lagan il Saggio. Ora, il problema è che non so dove sia. Potrebbe persino essere morto.» «Se è vivo, lo troverò. Perché è così rischioso?» Uther scrollò le spalle. «Per varie ragioni. Prima di tutto sarai sola, e il paese brulica di mercenari di Lot.» Fu Nemo questa volta a scrollare le spalle, con genuina indifferenza.
Uther proseguì. «Un'altra ragione è che potrebbe essere impazzito, e dunque imprevedibile. Hai saputo cos'è successo a sua moglie e suo figlio?» Nemo scosse la testa e Uther le riassunse brevemente l'accaduto. Alla fine lei fece cenno di aver capito. «Quando vuoi che parta, e cosa vuoi che gli dica quando lo trovo?» Uther vuotò la coppa tutto d'un fiato. «Voglio che tu vada non appena sei pronta, e che quando lo trovi lo porti qui da me. Digli che la regina è salva, e che lei e io abbiamo bisogno del suo appoggio. Puoi memorizzare queste precise parole?» «La regina è salva e tu e lei avete bisogno del suo appoggio. Me ne ricorderò.» «Ti serviranno questi» disse Uther, frugando nella bisaccia ed estraendone due piccoli oggetti. «Sono i contrassegni che ho concordato di usare con Lagan. Questo sassolino colorato è suo. Gli proverà che sono stato io a mandarti. L'altro, il sigillo di cera con una croce, era il mio segno di riconoscimento per lui o per suo padre Herliss. Tienili stretti e custodiscili bene, non separarti mai da tutti e due contemporaneamente. Conservane sempre almeno uno con te. Sono il tuo salvacondotto per l'esercito di Lagan, ovunque si trovi.» Nemo chiuse le dita intorno ai due oggetti e annuì. «Bene. Ora vado.» Si alzò e finì di bere il suo idromele, poi ripose i due contrassegni al sicuro sotto la tunica, insieme al breve messaggio che il re era riuscito a scrivere nei pochi momenti che avevano preceduto il suo arrivo. Uther rimase seduto a guardarla. «Ripetimi ciò che dirai a Lagan.» «La regina è salva e tu e lei avete bisogno del suo appoggio.» Uther annuì, con espressione grave. «Non ti propongo una ricompensa per questo, ma quando Lot sarà morto e noi saremo di nuovo al sicuro in Cambria, potrai chiedermi quello che vorrai e lo avrai, se sarà in mio potere concedertelo.» «Voglio vivere a Camelot con te e i Dragoni.» Uther fu sorpreso e commosso dalla semplicità con cui lei pronunciò quelle parole, così vicine a ciò che lui stesso desiderava.
Ma non se la sentì di dirle apertamente che non sarebbe mai più tornato a vivere a Camelot. Sapeva, e lo avrebbe saputo anche lei se ci avesse riflettuto, che la sua vita ormai era in Cambria tra la sua gente, come loro re. Lo aveva giurato. Così non disse nulla, ma accolse la richiesta con un sorriso. «Ebbene, amica mia, nessuno di noi sa cosa ci aspetta domani, ma se la fortuna ci arride e tutto va come deve andare in questa terra selvaggia, forse riusciremo a realizzare i nostri sogni. Noi partiremo da qui oggi, appena saremo in grado di allontanarci senza dare l'impressione che sia una fuga. Andremo dritti a sud, verso il forte di Herliss a Tir Gwyn. Tu ci sei già stata. Quando avrai trovato Lagan, puoi intercettarci in qualunque punto lungo quella strada, o direttamente a Tir Gwyn, se ci vuole più tempo. Che gli dèi della Cambria ti accompagnino, Nemo, e speriamo di rivederci presto. Addio.» Tese la mano, e forse per la prima volta Nemo la strinse in segno di amicizia e fedeltà, poi sospirò e distolse lo sguardo, cercando inutilmente di nascondere le lacrime che le brillavano negli occhi. Fece un cenno col capo, con gli occhi bassi, girò sui tacchi e uscì, calandosi l'elmo sulla testa. Mentre si allontanava, giunse un altro decurione che si rivolse a Uther. «Ti chiedo scusa, signore, ma dobbiamo smontare la tua tenda. Hai finito, qui?» Uther si guardò intorno sospirando. A parte il sedersi accanto al braciere e versare due coppe di idromele dalla brocca, non aveva toccato nulla da quando era stata allestita la tenda, qualche ora prima. «Sì» mormorò. «Fa' entrare i tuoi uomini. Ho finito, qui.» Meno di due ore dopo, due ore di lavoro intenso per tutti coloro che erano impegnati nei preparativi, l'esercito di Uther si era ricostituito ed era di nuovo in marcia verso sud, la direzione da cui era venuto. Un'intera squadra di esploratori disposti a ventaglio lo precedeva nella sua avanzata, e un'altra simile si sarebbe schierata al seguito dopo la sua partenza. Uther aveva chiesto dei volontari per
la retroguardia, una posizione pericolosa nel caso in cui l'esercito del nord fosse stato vicino come lui sospettava, e il comando del contingente fu affidato a un giovane ufficiale di nome Marco Basso, un abile comandante di Camelot molto orgoglioso di rappresentare la quarta generazione della sua famiglia arruolata nell'esercito della Colonia. Mentre i suoi uomini si allontanavano, Uther Pendragon rimase solo a fissare l'imponente promontorio dove forse il suo nemico lo osservava dall'alto. Poi, quando l'ultimo dei suoi soldati fu sul punto di scomparire alla vista, spronò il cavallo e li seguì, lasciando il giovane Basso a disporre la sua guardia mista di arcieri e fanti alla retroguardia dell'esercito in ritirata. Nel tardo pomeriggio del giorno successivo, le retrovie furono raggiunte e attaccate da un contingente di truppe ben organizzate, costringendo Uther ad adottare una formazione difensiva raramente prevista nei programmi di addestramento. Impegnato a formare una barriera di cavalleria pesante per coprire la fanteria che si stava raggruppando, Uther non ebbe il tempo di riflettere sulle conseguenze di quell'attacco per Basso e la sua retroguardia, o per la squadra di esploratori che li seguivano, limitandosi a riconoscere il fatto che dovevano essere tutti morti. L'avanzata e l'attacco del nemico erano stati incredibilmente veloci, impedendo ai suoi in un primo momento di calcolare con precisione la consistenza delle forze avversarie, ma Uther era incline a valutarla fra i settecentocinquanta e i mille uomini, divisi in tre gruppi che si muovevano in modo indipendente, ciascuno guidato da un comandante. Erano Germani, non uomini dell'Eire. Lo si capiva dal fatto che erano disciplinati e in generale ben equipaggiati, con cotte di maglia di ferro e scudi rettangolari tutti uguali. Uther notò che molti di loro brandivano pesanti asce, mentre gli altri avevano lunghe lance dall'aria minacciosa. Pur non avendo mai visto dei veri soldati romani, poiché erano scomparsi dalla Britannia quando lui era ancora bambino, Uther capì immediatamente che gli attaccanti erano veterani addestrati secondo l'uso romano, duri e perfettamente ordinati; erano veri soldati e non rozzi banditi, uomini che combattevano insieme da anni e che non si sarebbero dati tanto facilmente alla fuga. Guardando come si muovevano
nell'affrontare le sue truppe, si rese conto inoltre che conoscevano la cavalleria e non la temevano. Mantenevano la formazione senza difficoltà ed erano magnificamente addestrati, e ciò lo indusse a domandarsi se poteva sfruttare la loro disciplina a proprio vantaggio. Lanciò il cavallo in un galoppo sfrenato e seguito da Garreth il Fischiatore, Huw Fortebraccio e un piccolo gruppo di ufficiali anziani del contingente di Camelot, salì in cima a un poggio per vedere dall'alto ciò che stava accadendo. Nestore Strabone, l'ufficiale di Camelot che comandava la cavalleria mandata a proteggere la fanteria di Uther, aveva disposto i suoi uomini in una formazione a cuneo e stava per attaccare quando fu costretto a dare il segnale di arresto: due delle tre unità nemiche avevano cominciato a riunirsi nella famosa configurazione romana a testuggine, mentre la terza unità ruotava e si staccava dalle altre. Le prime due unità realizzarono la classica formazione ovale coprendosi completamente con gli scudi parzialmente sovrapposti in modo da creare due perfette cupole protettive che arrivavano fino a terra, due impenetrabili carapaci costellati di lunghe lance che spuntavano tra gli scudi lungo tutto il perimetro. Le lance neutralizzavano efficacemente le truppe di Nestore Strabone impedendo ai cavalli di penetrare fra le due formazioni strette l'una all'altra, ma anche se i soldati di Camelot fossero riusciti ad avvicinarsi agli scudi difensivi, le loro spade non erano abbastanza lunghe e pesanti da infliggere danni. Strabone emanò nuovi ordini e lanciò il suo cuneo di cavalieri al galoppo verso la terza falange di nemici che si stava rapidamente muovendo per aggirare le sue truppe, ma anch'essa istantaneamente si dispose a testuggine, mentre le altre due si scioglievano per attaccare Strabone alle spalle. L'ufficiale si accorse della manovra e fece cenno a coloro che lo seguivano di interrompere la carica e di rivolgere di nuovo l'attacco verso le due prime formazioni, che tornarono a radunarsi vedendolo arrivare. Strabone alzò un braccio per fermare gli uomini e si sollevò sulle staffe per osservare le tre unità nemiche. La situazione era statica: entrambe le parti cercavano un vantaggio, ma nessuna delle due era
in grado di portare un attacco risolutivo. Anche Uther stava osservando quei movimenti, e constatando l'incapacità delle truppe di Strabone di avvicinarsi al nemico gli venne un'idea. Sganciò dalla sella il suo pesante mazzafrusto e lo puntò verso Garreth il Fischiatore reggendo senza sforzo il peso della palla di ferro che dondolava all'estremità della catena. «Hai uno di questi?» esclamò. «No, perché?» «Quanti dei tuoi uomini ce l'hanno?» «Quasi tutti. È la tua arma, e sono i tuoi Dragoni. Fanno quello che fai tu. Perché?» «Guarda le truppe di Strabone, laggiù. Sono inutilizzabili. Quelle lance non sono una vera minaccia per loro. Il nemico può usarle soltanto per tenere lontani i cavalli, ma non può né lanciarle né usarle per colpire. Eppure gli uomini di Strabone sono bloccati, perché le loro spade non arrivano agli scudi dei nemici. Non riescono a oltrepassare quelle lance, e anche se ci riuscissero, non potrebbero penetrare la barriera di scudi.» Uther brandì il mazzafrusto, facendolo roteare sopra la testa. «Ora, se io fossi laggiù con questo, avvolgerei la catena intorno all'asta di una lancia strappandola dalle mani di chi la tiene, e continuerei così fino ad aver eliminato un numero sufficiente di lance per potermi avvicinare e scaraventare la palla su uno degli scudi. O lo spezzo, o lo butto giù. Che ne pensi? Svelto, amico, ti sembra fattibile?» «Sì.» «Bene. E se io aprissi un varco in questo modo nel guscio della testuggine, credi che altri dieci o venti uomini insieme a me, tutti muniti di mazzafrusto, potrebbero fare altrettanto? Naturalmente! E se ci fossero anche dieci o venti arcieri lì vicino, potrebbero scagliare delle frecce nei varchi che abbiamo creato.» Huw Fortebraccio giunse alla conclusione prima di Garreth ed ebbe un lampo negli occhi. «Ma certo, Uther, e sarebbe la fine della testuggine, perché riempiremmo di frecce quei varchi al punto di
massacrare tutti gli uomini all'interno del guscio, e la testuggine crollerebbe.» Uther si voltò a guardare gli ufficiali intorno a lui. «Avete sentito? È tutto chiaro? Avete capito di cosa si tratta?» Tutti annuirono, ci fu qualche grido di approvazione, e Uther sorrise alzando il mazzafrusto sopra la testa. «Bene, proviamoci allora. Vediamo se sono pazzo oppure no!» Voltò il cavallo facendolo impennare sulle zampe posteriori. «Garreth, ci servono tre squadroni di cavalleria, tutti Dragoni e tutti col mazzafrusto, e altri tre squadroni, senza mazzafrusto se necessario, per spalleggiarli e aggiungere peso. Comunque vada, voglio che ogni soldato in possesso di quest'arma sia coinvolto nell'attacco. Quindi, sei squadroni in tutto. Un doppio squadrone per ogni testuggine. Huw, ci servono tre squadre di arcieri che agiscano insieme a loro, aspettando che si creino dei varchi nella testuggine per riempirli di frecce. Di' loro che non devono sprecare colpi mirando alla superficie della testuggine, ogni dardo deve entrare in un varco. Poi, quando i gusci cominciano a crollare, voglio che intervengano delle robuste formazioni di fanteria per distruggerli. A quel punto gli arcieri si ritireranno e la cavalleria si sgancerà muovendosi in cerchio per occuparsi degli sbandati e dei fuggitivi. Sono stato chiaro?» Da quel momento in poi, le sorti della battaglia mutarono lentamente ma inesorabilmente a favore di Uther. La nuova tattica non ebbe un effetto immediato o sconvolgente, semplicemente perché era troppo nuova e strana per gli uomini di Uther. Per lungo tempo parve non portare ad alcun risultato. Ma dopo vari fallimenti e attacchi senza esito, alcuni Dragoni cominciarono a capire che dovevano modificare il loro approccio roteando i mazzafrusti di traverso invece che verticalmente, e ben presto le lance, sferzate dalle oscillazioni delle palle di ferro e avvolte nelle spire delle pesanti catene, cominciarono a spezzarsi e a cadere. A quel punto divenne sempre più facile per i cavalieri avvicinarsi al nemico al punto di abbattere gli scudi e creare dei varchi nei quali gli arcieri Pendragon potessero scagliare le loro frecce. Il combattimento fu lungo e movimentato, malgrado la natura statica delle difese nemiche; una serie di schermaglie più che una
battaglia vera e propria. Uther non assistette all'esito della sua nuova strategia, poiché gli scontri si prolungarono fino al giorno successivo, e a quel punto, sapendo che le sue truppe stavano vincendo, lui era già partito con una robusta scorta per andare a prendere Ygraine. Alla fine, come aveva intuito, i Germani furono distrutti proprio dalla perfezione della loro disciplina e del loro addestramento, troppo rigidi per permettere loro di adattarsi al nuovo stile di attacco cui erano sottoposti. Lottarono ferocemente, senza chiedere né concedere pietà, e respinsero un attacco dopo l'altro, allontanandosi e poi tornando alla carica, formando ogni volta la testuggine finché non ebbero più i numeri per farlo. A quel punto si disposero in cerchio dietro ai loro scudi e si difesero fino alla morte. Ma portarono con sé un buon numero di seguaci di Uther, e il sentiero cui si erano affrontati per un giorno e mezzo si ricoprì di guerrieri morti o moribondi, tra cui molti fanti, cavalieri e arcieri di Camelot e della Cambria. Quando raggiunse la fortezza isolata in cui era rinchiusa Ygraine con il suo seguito, Uther trovò una situazione confusa ma sotto controllo. Le tracce degli aspri combattimenti erano evidenti, con cadaveri sparsi intorno al sentiero d'accesso e in una densa coltre di fumo che aleggiava su tutto. Ma Uther era atteso, e capì dai cenni di saluto delle figure sul terrapieno che gli uomini di Ygraine avevano vinto la battaglia. Anche la regina lo stava aspettando, circondata dalle sue guardie, e quando lui varcò l'ingresso principale e smontò da cavallo, si staccò dal suo cordone protettivo e venne ad accoglierlo. Aveva il volto raggiante, la lunga chioma trattenuta sulla fronte da un nastro di tessuto verde, e avanzava verso di lui senza correre reggendo fra le braccia il loro bambino. Malgrado la fretta e i tanti problemi che lo assillavano, Uther si rese conto con sorpresa che da quando la conosceva non aveva mai notato quanto fosse piccola. Nella sua mente l'aveva sempre vista più alta e prosperosa di quanto non apparisse in quel momento, malgrado i seni gonfi di latte e la vita ancora appesantita dalla gravidanza. Finalmente libera da ogni obbligo di segretezza o prudenza,
Ygraine gli si avvicinò con un sorriso di benvenuto e gli porse suo figlio, e quando Uther lo sollevò in modo da poterlo vedere bene, tutto il dolore e la stanchezza della battaglia lo abbandonarono istantaneamente. Il bimbo era bellissimo, persino lui se ne rendeva conto malgrado la sua totale ignoranza in fatto di neonati. Aveva capelli fitti e scuri con riflessi castani, ed enormi, sfolgoranti occhi di uno strano colore dorato che Uther non aveva mai visto prima. Un nodo alla gola gli tolse il respiro e per qualche istante temette di scoppiare a piangere per la bellezza di ciò che provava. Si rendeva vagamente conto che tutti lo stavano osservando, ma aveva occhi solo per il bambino, suo figlio, Artù, e sentiva su di sé lo sguardo di Ygraine che spiava le sue reazioni. Fece un profondo respiro e trattenne il fiato, finché non fu certo che la sua voce non tremasse. «Artù hai detto che si chiama? Artù? Non ha molto di cambriano.» Vide Ygraine irrigidirsi, turbata, e sorrise prima di proseguire. «Mi sembra un romano, più che un cambriano, ma un romano della Britannia. Mi hai dato un bel bambino, signora, con occhi d'aquila. Mia nonna mi ha parlato spesso di suo fratello, Caio Britannico, il fondatore di Camelot. Aveva occhi come questi, luminosi, dorati, occhi d'aquila. Gli occhi di un soldato. Gli occhi di un capo. Gli occhi di un re, in verità. Questo sarà un re come non ce ne sono mai stati finora.» Posò finalmente il suo sguardo su Ygraine e tenendo il bambino con un braccio la attirò a sé con l'altro, notando uno scintillio di lacrime nei suoi occhi. «Ora vuoi baciarmi di fronte a tutto il mondo, così che tutti vedano e sappiano che sei mia moglie e la madre di mio figlio?» Soffocando un singhiozzo, lei sollevò il volto verso di lui e lo baciò appassionatamente, e mentre erano stretti in quell'abbraccio qualcuno cominciò ad applaudire, presto imitato da tutti gli altri, restituendo bruscamente a Uther la coscienza di dov'era e di ciò che restava da fare. «Non vedo l'ora che arrivi questa notte» le sussurrò all'orecchio, cingendola alla vita e tenendola stretta. «Dobbiamo farne subito un altro.» La strinse più forte, ma già cominciava ad alzare lo sguardo
oltre il cancello, all'interno della roccaforte, prendendo nota della situazione. «Prima però abbiamo parecchie cose da fare. Lagan è qui?» Ygraine scosse la testa e si staccò da lui, riprendendo in braccio il bambino. «No. Non ho idea di dove sia, ma pare che stia mettendo il paese a ferro e fuoco in cerca di Lot, con un esercito alle spalle composto di membri dei clan di tutta la Cornovaglia. Nessuno sa dove si trovi, ma si dice che sia dappertutto. Dove sono i tuoi uomini?» «Stanno arrivando. Sono dietro di me. Abbiamo avuto uno scontro con dei mercenari germanici. Gente ostica, molto superiore alla consueta marmaglia di Lot. Ma la situazione era sotto controllo quando li ho lasciati e non dovrebbero essere lontani. Siete pronti a partire?» «Sì, siamo pronti.» «Quante persone hai con te?» «Cinquanta membri della guardia agli ordini di mio cugino, Alasdair Mac Iain, altri trenta uomini del clan di Herliss e dodici delle mie dame, con alcuni servitori e aiutanti.» «Dodici donne? Per gli dèi, Ygraine, siamo in guerra! Cosa me ne faccio di dodici donne? Posso a malapena badare ai miei uomini.» «Cosa vorresti fare, Uther? Non posso semplicemente affidarle alla clemenza di Lot; le ucciderebbe tutte. Abbiamo tre carri, ciascuno trainato da quattro cavalli. Non ti daremo noia.» «Tu non potresti mai darmi noia, amore mio, non con mio figlio fra le braccia... ma dodici donne... Be', faremo del nostro meglio. Quando sarete pronti a partire?» «Lo siamo fin dalla notte scorsa. Al tramonto i combattimenti qui erano già finiti. Ma mezz'ora prima del tuo arrivo abbiamo saputo che Lot sta venendo qui ed è a sole quattro leghe di distanza.» «Dannazione!» La notizia fu un brutto colpo per Uther. «Significa non più di dieci, dodici miglia. Quanti uomini ha con sé?» «Non lo sappiamo. L'uomo che ci ha dato la notizia non li ha visti, ma gli hanno detto che era un esercito... centinaia di soldati.»
«Sbarcati dalle galee che abbiamo visto in precedenza. Che sia dannata la sua anima nera!» Ygraine lo scrutò. «Come ha fatto a sfuggirti nel nord?» «Non ha avuto bisogno di fuggire. Non potevo far nulla per catturarlo. I nemici ci stavano accerchiando da ogni parte. Non potevamo aspettare che fosse lui a venire da noi e non potevamo attaccarlo. Te lo spiegherò dopo. Ora dobbiamo metterci in marcia, subito, e l'unica via di scampo per noi è a sud. Hai saputo qualcosa di più sul suo esercito meridionale?» Ygraine scosse la testa. «No, so solo che si stanno spostando verso nord vivendo di quello che trovano, il che significa che non possono muoversi troppo in fretta. Ma non so dirti se siano a est o a ovest, e non ho la minima idea di quanto siano vicini. So che mio fratello Connor sta venendo a cercarmi ma approderà a più di sette leghe a sud-ovest di qui, alla foce del fiume che chiamano Camel, vicino a dove mi trovavo prima. Connor non sa che mi hanno portato via. Calum, l'uomo che ti ha portato la mia ultima lettera, ha preso accordi perché io e le mie guardie lo incontriamo laggiù. Conosciamo il posto, ma è molto lontano da dove siamo ora. Connor arriverà entro questa settimana, se i nostri calcoli sono giusti.» «Bene, allora ci dirigeremo a sud-ovest, verso la foce del fiume, e speriamo di non incontrare il grosso delle truppe di Lot prima di raggiungere il luogo fissato per l'incontro.» Mentre parlava cominciò a guidarla verso il cancello, tenendole un braccio sulle spalle. «Ti lascerò laggiù con un numero di uomini sufficiente a proteggerti fino all'arrivo di tuo fratello, poi andrò a fare quel che devo fare. Gli uomini che abbiamo incontrato ieri ci hanno colpito duramente. Non sapevo che Lot avesse truppe di tale qualità, e spero che non ne abbia altre. Ci hanno falcidiati, massacrati, e la colpa è stata mia. Ho sottostimato il nemico. Ora dovrò affrontare Lot privo di centinaia di ottimi elementi, e il suo esercito è già almeno il triplo del nostro. Mi auguro solo di riuscire a trovare Lagan e i suoi seguaci. Non c'è tempo da perdere. Facciamo salire le tue donne su quei carri e mettiamoci in cammino.»
XIX. Con l'aggiunta degli ottanta uomini di Ygraine il gruppo di Uther era più che raddoppiato, ma procedette speditamente e si riunì all'esercito di Camelot senza incidenti nel giro di due ore. Questo, però, fu l'ultimo dei piani di Uther ad andare in porto. Appena i due gruppi si furono riuniti, e ancor prima che venissero presi accordi per aggregare i nuovi carri al convoglio, un messaggero di Popilio Cirro venne a convocare Uther a un consiglio di guerra. Il re si mosse immediatamente, sapendo che Cirro doveva avere solide ragioni per una convocazione così perentoria, ma rimase costernato vedendo che il soldato lo conduceva verso i carri adibiti a infermeria, dove scoprì che Popilio era stato ferito due volte nel corso dei combattimenti di quella giornata. La prima ferita, causata da una freccia che gli aveva trapassato la parte superiore del braccio, lo aveva buttato a terra, e mentre lui cercava inutilmente di strapparsi dalla carne la punta aguzza della freccia con il braccio sano, un mercenario di passaggio lo aveva colpito alla coscia sinistra, prima di essere abbattuto a sua volta. La seconda ferita, molto più seria della prima, aveva reciso i muscoli della coscia di Cirro, rendendogli impossibile camminare e privandolo così della capacità di esercitare il comando. Ma il vecchio, coriaceo soldato si era rifiutato di cedere al dolore e di affidarsi alle cure di Muzio Quinto prima di aver formalmente passato le consegne a Uther e al suo secondo in comando, il veterano Dedalo, colui che aveva terrorizzato Uther e Merlino nei primi tempi del loro addestramento. Dedalo era in primo luogo un uomo di cavalleria, ma aveva una vasta esperienza come comandante di fanteria ed era soprattutto un individuo capace di valutare e di guidare gli uomini. Uther aveva un grande rispetto per lui, conoscendolo come istruttore severo e inflessibile ma assolutamente equo e imparziale. Ciononostante, gli riusciva difficile
accettare o anche solo immaginare Dedalo al posto di Cirro, e passò qualche istante prima che riuscisse ad accettare una situazione che gli sembrava irreale. Popilio Cirro, uno degli ultimi veterani delle legioni imperiali rimasti in Britannia, era uno dei pochi uomini al mondo per cui Uther Pendragon nutrisse un timore reverenziale. Fin da quand'era un ragazzino, Uther si era sentito intimidito da quell'uomo gigantesco e sempre impeccabile sia nell'uniforme sia nell'atteggiamento. Ora Uther scopriva un Cirro che non aveva mai visto, privo della sua scintillante divisa e coperto solo da una tunica bianca lunga fino al ginocchio, lacera e ampiamente macchiata di sangue. I capelli, che di solito erano completamente nascosti dall'elmo, erano interamente bianchi e appiccicati al cranio dal sudore. L'anziano centurione era seduto su una sedia da campo con la schiena appoggiata al tronco di un'enorme quercia, il volto pallido e stravolto, gli occhi infossati e lucidi, le guance bagnate di sudore. La coscia sinistra era interamente avvolta in spesse bende annerite dal sangue rappreso e il braccio destro era fasciato strettamente e fissato al petto per tenerlo immobile. Il tenace vecchio soldato era immerso in una conversazione con i quadri dell'esercito, disposti a semicerchio sotto i rami della quercia. Il gruppo comprendeva Fortebraccio e il Fischiatore, in rappresentanza rispettivamente degli arcieri Pendragon e dei Dragoni, e i comandanti della cavalleria e della fanteria di Camelot capitanati da Dedalo. La gran parte degli ufficiali si voltò a guardare Uther che stava arrivando, poi tutti riportarono rapidamente il loro sguardo su Cirro, come se temessero che, da un momento all'altro, l'uomo potesse spirare. Cirro fu l'unico a non staccare gli occhi dal sovrano e fece un cenno col capo per salutarlo, con aria solenne. Tutti i presenti erano al corrente del fatto che Uther aveva portato con sé delle donne e un bambino, e il re sapeva che dovevano nutrire un'immensa curiosità sull'identità di quelle persone e sui motivi per cui si erano unite a loro, dato che lui non aveva fornito alcuna spiegazione e aveva imposto il silenzio ai suoi uomini. Ora era convinto che Cirro, malgrado la sua palese sofferenza e
spossatezza, gli avrebbe domandato cosa stava succedendo, com'era suo diritto in qualità di comandante del contingente di Camelot. Uther andò dritto verso di lui, gli posò affettuosamente una mano sulla spalla e gli chiese come si sentisse; sapeva che si trattava di una domanda stupida, ma non gli venne in mente qualcosa di più indicato da dire. Cirro liquidò le preoccupazioni del re con un gesto della mano e con grande sorpresa di Uther non fece alcun riferimento alla sua assenza o alle persone che aveva portato con sé. Aveva cose più importanti da dire e da discutere prima di cedere il comando. Avevano sconfitto i mercenari germanici, sussurrò stringendo i denti, ma avevano perso più di cento uomini nello scontro, e quasi altrettanti in seguito alle ferite. Oltre sessanta fra i caduti erano soldati di fanteria, ma venti erano arcieri Pendragon, isolati e falcidiati dal nemico con manovre improvvise. Un'altra decina o più erano cavalieri, abbattuti da frecce o, in qualche caso, da asce e lance nemiche. Ma prima ancora che si spegnessero gli echi della battaglia, gli esploratori della retroguardia avevano portato di corsa l'annuncio che un altro esercito molto più numeroso stava calando da nord, in apparenza composto esclusivamente da Galloglas dell'Eire. Secondo le stime di Cirro, gli esperti mercenari germanici che avevano causato loro tanti problemi ammontavano a settecento-ottocento unità, mentre il nuovo contingente che avanzava verso di loro sembrava due volte più numeroso. Uther trattenne il fiato mentre ascoltava il rapporto fatto con grande sforzo e sofferenza dal comandante, e riconobbe di aver commesso un grave errore di valutazione. Quando i mercenari germanici avevano attaccato con tanta forza e determinazione, aveva ipotizzato che fosse quello l'esercito di cui era stato avvertito, e che l'informazione che lo indicava come proveniente dall'Eire fosse sbagliata. Ora, di fronte all'evidenza di una seconda e più numerosa schiera non prevista, era costretto a rivedere le sue possibilità e si accorse con terrore che non sapeva quasi nulla di ciò che stava effettivamente accadendo. Questo secondo esercito doveva essere quello dei Galloglas che Ygraine aveva citato in precedenza, coloro che si definivano Figli di Condran, e doveva essere sbarcato, proprio
come lei aveva anticipato, da una grossa flotta di galee approdate in qualche punto a nord-ovest del Covo. Uther sentì affiorare le prime, inconsuete sensazioni di panico e le represse severamente, costringendosi a considerare la situazione con la maggiore obiettività possibile. Voltando le spalle a Cirro e agli altri, passò rapidamente in rassegna le varie possibilità. Ormai riteneva altamente improbabile che il gruppo di mercenari con cui aveva combattuto, anch'esso venuto da nord, potesse essere un'unità avanzata dell'esercito dei Galloglas. La tentazione di accettare quell'ipotesi era forte, ma la combinazione di mercenari imperiali disciplinati e temprati alle battaglie e di rozzi guerrieri dell'Eire nella stessa compagine era troppo assurda per essere presa in considerazione. Inoltre, si disse, i mercenari lo avevano tenuto impegnato per un giorno e mezzo. Se i Galloglas avessero fatto parte dello stesso esercito, per quanto indisciplinati, riluttanti o in ritardo, avrebbero raggiunto la loro avanguardia ben prima che lo scontro si esaurisse. Da dove erano venuti, allora, quei Germani, e dove stavano andando? E se, come sosteneva Ygraine, un'ulteriore flotta aveva appena sbarcato lo stesso Lot in quel tratto di costa, da dove era saltata fuori? Difficilmente poteva far parte della squadra navale dell'Eire. Ma se così era, chi la comandava, e quanti uomini aveva sbarcato? Stringendo le labbra, Uther si voltò verso Cirro e gli altri che attendevano in silenzio di conoscere le sue reazioni all'annuncio di questa nuova minaccia. Senza giri di parole, disse loro che le donne che aveva portato con sé erano la regina di Lot, Ygraine - quella vera questa volta - e le sue dame. Con un tono secco che non ammetteva interruzioni né commenti spiegò, fra lo sbalordimento generale, che la sua spia nel campo avverso era la regina stessa, e che Ygraine era sorella di Donuil, amico di Merlino e suo ex ostaggio, e anche della defunta moglie di Merlino, Deirdre. Ygraine aveva con sé un bambino, l'erede riconosciuto di Lot, disse Uther evitando, in base a un impulso improvviso, di dire che era suo figlio. Aggiunse che la regina doveva essere prelevata sulla costa sudoccidentale dal fratello Connor, comandante della flotta di galee di suo padre, re Athol Mac Iain degli Scoti Iberni. Uther, in qualità di comandante in capo
dell'esercito combinato di Camelot e della Cambria, si era impegnato a condurla sana e salva al luogo dell'appuntamento, sia per ricompensarla del leale e rischioso appoggio fornito fino a quel momento, sia per garantire la neutralità di re Athol in quella guerra, e in considerazione del potere contrattuale di cui avrebbero goduto tenendo in ostaggio il legittimo erede di Lot. Riferì anche l'ultima informazione di Ygraine sullo sbarco a occidente, e li informò che Lot in persona stava calando verso il forte dove era stata rinchiusa la regina, a sole poche miglia dal luogo in cui si trovavano in quel momento. Concluse affermando senza mezzi termini che, a suo parere, le circostanze erano ormai troppo avverse per poter ribaltare la situazione, e con suo grande sollievo tutti, compreso Popilio Cirro, si dichiararono subito d'accordo con lui, senza tentare di discutere o contraddire le sue conclusioni. La cosa migliore da fare, disse Cirro con voce sempre più debole, era ritirarsi all'istante, il più rapidamente e discretamente possibile, puntando dritti a sud per sfuggire alla minaccia della flotta di Lot appena sbarcata a occidente con il suo carico di guerrieri. Una volta al sicuro dall'incursione di Lot a ovest, e lontani dai Galloglas che li inseguivano, avrebbero deviato in direzione sud-ovest verso la foce del fiume Camel, dove avrebbero potuto recuperare le forze per un po' in attesa delle galee mandate da Connor a riprendere la sorella. Uther ascoltò in silenzio, soffocando i suoi dubbi. Non aveva nessuna voglia di vedere Ygraine prendere il mare per l'Eire portandosi dietro suo figlio, ma non voleva nemmeno che lei e il bambino restassero in Cornovaglia col rischio di essere catturati e uccisi da Gulrhys Lot. Così non disse nulla, limitandosi ad approvare il piano generale di fuga e augurandosi che Nemo riuscisse a raggiungerli prima che deviassero a sud-ovest, portando notizie su Lagan il Saggio, sulla sua posizione e sul numero di uomini sotto il suo comando. Uther accontentò Cirro ratificando la promozione di Dedalo al comando generale della fanteria con effetto immediato, poi diede disposizioni per le cure al suo veterano. Due soldati adagiarono con delicatezza il loro comandante su una lettiga e accompagnati
dall'ufficiale medico Muzio Quinto lo trasferirono in uno dei carri adibiti a ospedale; appena si furono allontanati, Uther rivolse la propria attenzione al resto dei preparativi. La fanteria, ridotta ormai a circa novecento soldati ma rafforzata dall'aggiunta dei trenta uomini di Herliss e dei cinquanta della guardia personale della regina, sarebbe partita entro un'ora verso sud alla massima velocità, scortando il convoglio di bagagli e provviste cui si erano uniti i carri delle donne, mentre i mille soldati a cavallo, con il sostegno dei quattrocento arcieri di Huw Fortebraccio, li avrebbero seguiti più lentamente, cercando un luogo aperto da usare come campo di battaglia per arginare i Galloglas in arrivo. Una volta individuato il posto giusto, spiegò Uther, l'idea era quella di trattenere lì il nemico abbastanza a lungo perché la fanteria con il suo carico sfuggisse all'inseguimento. Gli arcieri Pendragon avrebbero fatto ciò che sapevano fare meglio in una situazione difensiva, ovvero scoraggiare e decimare da grande distanza il nemico che avanzava finché i Galloglas non si fossero trovati alla portata della cavalleria. A quel punto, gli arcieri dovevano disperdersi e mettersi rapidamente in cammino per raggiungere la fanteria, lasciando che i cavalieri si accanissero contro i Galloglas in un'azione di contenimento che Uther prevedeva assolutamente vittoriosa. In termine, anche la cavalleria si sarebbe ricongiunta al resto dell'esercito, muovendosi a una velocità da tre a cinque volte superiore a quella della colonna di fanteria o di qualunque Galloglas che fosse ancora in grado di inseguirla. Era un buon piano, e avrebbe funzionato bene se i Galloglas si fossero comportati come Uther si aspettava. Invece gli avversari si tennero a distanza e si rifiutarono di farsi coinvolgere in un combattimento, dileguandosi dalla vista degli arcieri tutte le volte che venivano attaccati. La mancanza di uno scontro decisivo si rivelò frustrante e generò una gran perdita di tempo, e a poco a poco Uther si rese conto che i suoi uomini si stavano rapidamente logorando. Era ancora in territorio nemico ed estremamente vulnerabile, separato da sua moglie e suo figlio, esposto alla minaccia di un attacco da quasi tutte le direzioni e tuttavia completamente ignaro di dove si trovasse il suo principale nemico. Alla fine, dopo un'ennesima giornata di scarsi progressi, poco
dopo il tramonto ordinò agli arcieri di disperdersi e di raggiungere la colonna della fanteria, poi raddoppiò la guardia e avvertì i suoi cavalieri di farsi trovare in sella prima dell'alba e pronti a tutto. Quella sera un evento inatteso venne ad accrescere la sua frustrazione. Era seduto accanto al fuoco dopo aver congedato i suoi arcieri quando fu raggiunto da Owain delle Grotte. Uther fu lieto di vedere il suo taciturno amico, ma Owain non era venuto a scambiare convenevoli e come sempre andò subito al punto. «Perché ti preoccupi di questa regina e del suo moccioso?» Uther lo guardò sorpreso, ma rispose con una certa calma: «Perché devo. Ho fatto una promessa e il mio onore mi impone di mantenerla». «Quale promessa? Di lasciare che si sottraggano al tuo stesso potere?» «Se vuoi metterla in questi termini, sì, è quello che ho promesso.» «Allora sei un pazzo, Pendragon. Più pazzo di quanto avrei mai creduto. Sono creature di Lot e saranno la tua morte. Il marmocchio è sangue del suo sangue. Meglio tagliare la gola a tutti quanti e lasciarli sul ciglio della strada. È quel che farebbero loro al posto tuo. Non ti verrà alcun bene da tutto ciò.» «Oh» disse Uther, senza cambiare tono. «Credo che tu ti sbagli.» «Sì? Be', io so che non è così. Saranno la tua morte. Dico sul serio. Tienilo a mente. Per quanto mi riguarda, voglio restarne fuori. Se tu me lo ordini, li ucciderò io per te. In caso contrario, me ne vado.» «Non voglio che sia fatto loro alcun male, Owain.» «Come vuoi. Addio, allora, e buona fortuna.» L'uomo girò sui tacchi e si allontanò. Uther provò la forte tentazione di richiamarlo e di dirgli la verità, ma c'erano troppe orecchie indiscrete in giro e preferì non dire nulla, senza sapere che non avrebbe mai più rivisto Owain delle Grotte. Venne l'alba, e Uther lanciò i suoi squadroni in un attacco a sorpresa su un ampio fronte; i Galloglas, colti alla sprovvista, si
dispersero in tutte le direzioni, terrorizzati dal loro primo impatto con una carica di cavalleria. Quando l'assalto iniziale ebbe cancellato ogni residua resistenza o coesione tra i nemici, Uther permise ai suoi cavalieri di braccare i fuggiaschi per un po', e il resoconto dei massacri compiuti risultò impressionante, pur ammettendo la naturale tendenza all'esagerazione dei guerrieri, eccitati dalla bramosia di sangue. Uther sapeva che, malgrado la reputazione di ferocia e di coraggio, i Galloglas non erano assolutamente in grado di competere con la sua cavalleria. Non potevano nemmeno fuggire poiché i cavalli che li inseguivano erano più veloci di loro, e le armi che portavano erano inefficaci contro la mole, il peso e l'altezza dei cavalieri in (armatura, quasi tutti dotati di micidiali mazzafrusti di ferro. Quando Uther ritenne di aver infierito abbastanza, ordinò di richiamare gli uomini e di ricomporre gli squadroni. Nessun cavaliere era caduto nel corso dell'attacco. A quel punto fece invertire la direzione e si lanciò verso sud per ricongiungersi il prima possibile al gruppo che li precedeva. Impiegò tutto il giorno, ma al calar delle tenebre il suo esercito era di nuovo riunito e apparentemente al sicuro da attacchi immediati. Finalmente poté passare la notte fra le braccia di Ygraine, con il loro bambino nella branda accanto. Prima che spuntasse l'alba, però, fu bruscamente riportato alla realtà da un segnale d'allarme e si svegliò in mezzo a un frastuono di scontri e di grida. Senza riflettere un attimo rotolò giù dal letto, afferrò il cinturone della spada e la sguainò immediatamente, accorgendosi solo qualche istante dopo che era nudo come la spada che brandiva. Ma ormai era già fuori dalla tenda, e mentre scrutava nell'oscurità tentando di distinguere amici e nemici tra le sagome in movimento, qualcuno gli venne incontro con il braccio alzato per colpire. Di scatto Uther anticipò la mossa spostandosi a sinistra e chinandosi per evitare l'arma che calava sibilando verso di lui, poi con un balzo in avanti affondò la spada sotto il braccio levato dell'avversario. Mentre l'altro strillava, si tirò indietro per liberare la lama e dopo averla sollevata la calò di taglio sul collo indifeso dell'uomo. L'avversario crollò e Uther, accucciato, stava già muovendosi alla ricerca di un altro bersaglio quando si sentì chiamare e vide Garreth
il Fischiatore e quattro cavalieri in armatura che correvano verso di lui. Il Fischiatore lo afferrò per un braccio e lo riportò dentro, intimandogli di vestirsi e di armarsi mentre lui e gli altri sorvegliavano la tenda della regina. Qualche istante dopo Uther riemerse completamente rivestito della sua armatura, ma gli aggressori, chiunque fossero, erano già stati respinti. L'intero accampamento era ancora in subbuglio e quando Uther uscì dalla tenda con la spada in mano, Garreth stava salendo in sella. Appena vide il re, gli indicò un soldato che teneva le briglie della sua cavalcatura, già pronta e sellata. Uther montò e si sollevò sulle staffe, cercando di distinguere ciò che stava accadendo intorno a lui. L'alba cominciava a rischiarare il cielo a oriente e dove pochi istanti prima si vedevano solo tenebre e ombre la luce faceva emergere figure familiari. Non si vedevano nemici da nessuna parte. Uther si voltò verso il Fischiatore che si stava portando al suo fianco. «Chi erano?» gridò. «E chi lo sa? Chiunque fossero, sapevano quello che facevano. Hanno superato due cerchie di sentinelle - una di uomini a cavallo, l'altra di fanti - senza che nessuno se ne accorgesse.» Il cavallo di Garretti si impennò e l'uomo lo costrinse a riabbassarsi, con aria cupa. «Una cosa è certa, anzi due: puntavano ai cavalli e dovevano avere dei complici nelle vicinanze. Non riesco a immaginare un altro motivo per cui meno di cento uomini senza appoggi dovrebbero attaccare un esercito di questa portata, a meno che non fossero tutti impazziti. Potrebbero essere gli amici Galloglas di ieri che si sono ricompattati, ma ne dubito. Non credo che possano essersi riorganizzati così in fretta dopo il trattamento che gli abbiamo riservato. Ma il fatto che abbiano tentato un'impresa del genere mi suggerisce che ce ne sono altri come loro nei dintorni, e che potremmo averli addosso da un momento all'altro. Stiamo già smontando l'accampamento.» «Ottimo.» Uther continuava a guardarsi intorno, prendendo nota della situazione. «Quanti uomini abbiamo perso, e chi sta inseguendo gli aggressori?» «Nessuno sta inseguendo nessuno: non sappiamo cosa c'è là fuori. Quanto alle sentinelle, ho mandato uno dei miei uomini a fare il
giro delle postazioni di guardia. La mia ipotesi è che ne abbiamo perse almeno dieci, ma potrebbero essere anche il doppio. Voglio capire come ha fatto questa gente ad avvicinarsi agli uomini a cavallo e a ridurli al silenzio. C'è stata anche qualche perdita nei combattimenti qui all'accampamento. Avremmo potuto perdere anche te allo stesso modo, visto che sei uscito allo scoperto completamente nudo, come un pazzo. Ah, ecco il mio uomo. Tornerò appena avrò delle risposte.» Mentre il Fischiatore si allontanava, Uther smontò e rientrò rapidamente nella tenda, dove trovò Ygraine e le sue dame impegnate a rifare frettolosamente i bagagli disfatti il giorno prima. Il bimbo dormiva ancora, ignaro e indifferente al trambusto che lo circondava. Uther scambiò una parola con la regina, sfiorò con una carezza la guancia del figlio e poi tornò a sorvegliare le attività all'esterno, gettandosi sulle spalle il grande mantello rosso e oro. Entro un'ora erano in marcia, prima ancora che il sole si affacciasse all'orizzonte, diretti a sud in condizione di estrema allerta: la cavalleria avanzava a ranghi serrati, muovendosi costantemente in cerchio attorno alla colonna di fanteria per formare una barriera protettiva. Gli esploratori di Fortebraccio, inviati in ricognizione subito dopo la scorreria, erano tornati prima del previsto riferendo di imponenti formazioni nemiche a nord, nord-est e ovest, e sia pur nei limiti di un calcolo molto approssimativo fatto a distanza, Uther e i suoi comandanti si convinsero che i tre eserciti uniti erano superiori al suo di quasi il cinquanta per cento, tremila uomini contro i loro duemila. Uther non aveva modo di valutare la qualità delle truppe avversarie, ma il suo recente scontro con i mercenari germanici non lasciava spazio all'ottimismo, e mentre avanzava verso sud scrutando l'orizzonte in ogni direzione, era più preoccupato che mai. Forse le tre formazioni nemiche alle sue spalle si stavano coalizzando in un'unica massa compatta, rinunciando alle loro divisioni nell'enfasi della caccia, ma Uther sapeva che una marmaglia di tremila uomini contro i suoi duemila soldati ben disciplinati non era un grosso problema: la sua cavalleria era agevolmente in grado di sbaragliarne il doppio. Ciò che lo turbava era il pensiero dell'esercito principale di Lot diretto a nord, verso di lui. Avrebbe
dato qualsiasi cosa per sapere a che distanza si trovava e qual era la sua consistenza, e senza quell'informazione non si fidava ad aggredire il nemico che lo tallonava. Se fosse tornato indietro per combatterlo e nel corso della battaglia si fosse trovato addosso l'altro esercito, lui e i suoi sarebbero rimasti intrappolati fra l'incudine dei tremila uomini che lo stavano inseguendo e il martello delle forze di Lot. Non poteva permettersi di contare sull'esercito di Lagan il Saggio, o sul fatto che avesse intercettato le forze nemiche. Non aveva altra scelta che continuare a marciare in direzione sud, nel disperato tentativo di riuscire a deviare verso sud-ovest e assicurare la salvezza di Ygraine e del suo gruppo prima che fosse avvistato l'esercito meridionale. A malincuore emanò l'ordine tassativo che qualunque scontro avvenisse nel corso della marcia fosse esclusivamente di natura difensiva. In nessun caso i suoi squadroni dovevano farsi coinvolgere in un attacco che li allontanasse dalle loro posizioni. Un atteggiamento così passivo lo irritava, ma era costretto a soffocare il suo amaro risentimento per non trasmetterlo alle sue truppe. Per il momento, non aveva nessun'altra scelta ragionevole a disposizione. I primi due attacchi giunsero simultaneamente da ovest e da est a meno di due ore dalla partenza, nella prima tappa del loro viaggio. Si trattò solo di schermaglie, gruppi di uomini armati che si scagliavano contro la colonna in modo caotico e senza un piano che governasse i loro movimenti. Entrambe le aggressioni furono respinte da cariche coordinate della cavalleria. Ma era solo l'inizio. Seguirono altri assalti simili, nessuno dei quali costituì una seria minaccia alla sicurezza o all'ordine della colonna in movimento; sommati l'uno all'altro, però, finirono per determinare un rallentamento complessivo della marcia, poiché la velocità del convoglio era condizionata dalla necessità di avere vicina la cavalleria che la difendeva. La fanteria di Dedalo era frustrata dal fatto di non poter far altro che guardare e avanzare, poiché il nuovo comandante non dava loro alcuna possibilità di partecipare ai combattimenti. Gli arcieri di Huw Fortebraccio non se la passavano molto meglio; i loro ordini erano altrettanto rigidi di quelli imposti alla fanteria. Non potevano allontanarsi e avevano il permesso di
mirare solo a bersagli abbastanza vicini per non poterli mancare. La colonna comprendeva tre carri carichi esclusivamente di frecce di riserva, legate strette e impilate come fascine di legna, ma Uther sapeva che doveva tenerle di scorta. Era inutile sprecare frecce preziose su nemici in movimento troppo lontani da colpire. Verso metà della mattinata giunsero a un fiume, e Uther rischiò di nuovo di abbandonarsi alla disperazione osservando dall'alta sponda le acque che turbinavano sotto di lui. Non erano particolarmente profonde - al massimo arrivavano alla coscia e il tratto da attraversare non superava i quaranta passi - ma la corrente era rapida, incanalata tra rive alte, e il letto del fiume disseminato di pietre trasformava il corso d'acqua in un impetuoso torrente che minacciava di distruggere i carri. C'era un'isola nel mezzo, ma era cosparsa di ciottoli come il greto del fiume e non sembrava offrire alcun aiuto. In una situazione normale, Uther avrebbe inviato i suoi esploratori a scandagliare le rive in entrambe le direzioni cercando un punto in cui guadare più facilmente, ma il nemico lo tallonava ormai da entrambi i lati e lui sapeva che non poteva azzardarsi a inviare i suoi uomini da una parte o dall'altra senza rischiare un disastro. Chiamò Dedalo e gli espose il suo ragionamento; il taciturno comandante della fanteria concordò con lui dando disposizioni senza fare ulteriori commenti, e rapidamente fu organizzato e messo in atto l'attraversamento del fiume. La fanteria fu divisa in tre gruppi, ognuno di circa trecento uomini, e due di essi formarono subito un perimetro difensivo intorno al convoglio di carri, creando una linea di difesa secondaria nel caso in cui qualche aggressore penetrasse la barriera della cavalleria. Agli arcieri Pendragon fu ordinato di attraversare rapidamente il fiume per costituire un ulteriore semicerchio protettivo sulla riva opposta, vigilando contro eventuali attacchi nemici da quella parte. Nel frattempo, i trecento fanti rimasti furono incaricati di realizzare un percorso di attraversamento per i carri. Cento uomini si misero immediatamente a lavorare con pale e picconi abbassando gli argini in modo da creare uno scivolo verso l'acqua su entrambe le sponde, mentre gli altri duecento si affannarono a rimuovere le pietre più grosse e insidiose per facilitare
il passaggio dei carri e permettere loro di attraversare il fiume senza spaccare le assi o le ruote. Fu un'impresa ciclopica, accompagnata dai mugugni degli uomini bagnati e infreddoliti che immersi nell'acqua cercavano di smuovere i sassi ostinati e di farli rotolare da un lato o dall'altro, variando così continuamente l'intensità e la direzione della corrente che si abbatteva su di loro. L'opera fu completata in meno di tre ore e poco dopo mezzogiorno i carri erano stati tutti spostati senza incidenti sulla riva opposta, ognuno prudentemente imbrigliato da funi per evitare che si inclinasse o fosse rovesciato dalla furia delle acque. A lavoro finito, Uther non concesse tregua ai suoi esausti soldati ma ordinò loro di rimettersi in movimento, raggruppandoli e incitandoli a marciare con gli abiti ancora zuppi. Avevano accumulato un grave ritardo e l'avversario ne aveva fatto buon uso, poiché era ora numericamente molto più forte e più concentrato di quanto fosse in precedenza. Molti guerrieri nemici avevano guadato il fiume a monte o a valle del punto in cui lo aveva attraversato Uther nella speranza di accerchiarlo sulla riva opposta, e solo le lunghe frecce degli arcieri Pendragon erano riuscite a tenerli a debita distanza. Per tutto il resto della giornata Uther costrinse il suo esercito a una marcia forzata, maledicendo la necessità di pressarli fino a quel punto. La fanteria si era addestrata per anni a quell'evenienza e, se non altro, manteneva la stessa andatura della cavalleria, che procedeva costantemente al passo o al trotto per non stancare gli animali. Ma quella marcia sostenuta era punitiva per i soldati a cavallo, le cui membra erano continuamente sollecitate dal ritmo irregolare delle loro cavalcature, e ogni volta che si fermavano per far riposare le bestie, si levavano mugugni e proteste. Erano i cavalli da tiro che trainavano i carri degli approvvigionamenti a soffrire di più per quel lungo spostamento, poiché il carico che portavano era enorme e la costante fatica che sopportavano minava seriamente la loro resistenza. Ma mentre la colonna percorreva miglio dopo miglio, lasciava dietro di sé anche i nemici, che mancavano della disciplina necessaria a uno sforzo così sostenuto.
Quand'ebbero percorso quasi sedici miglia giunsero a un altro ampio corso d'acqua, questa volta basso e con il fondo sabbioso, che non pose alcuna difficoltà di attraversamento. Da parecchio tempo non vedevano segni del nemico e gli esploratori stavano cercando da più di un'ora un luogo idoneo a piantare le tende per la notte. La colonna stava passando tra due colline basse e coperte di arbusti quando la pattuglia fece sapere di avere individuato un posto ideale a meno di un miglio di distanza: un enorme prato quasi pianeggiante, lungo circa un miglio e largo la metà, in un incavo formato dalle pendici di quattro alture. Dedalo stava cavalcando accanto al re, un po' avanzato rispetto al gruppo di comando, brontolando che odiava le alture e ancor di più passarci in mezzo, quando la stretta valle che stavano percorrendo si allargò verso est rivelando la spianata scelta per l'accampamento. Uther si drizzò sulla sella appena vide il luogo, e i suoi occhi corsero immediatamente ai fianchi della collina più a ovest, privi di alberi e attraversati da due curiosi affioramenti di roccia che scendevano fino ai piedi dell'altura da entrambi i lati, formando una coppia di rozze mura di protezione che abbracciavano la valle a sud-ovest per tutta la sua larghezza terminando ad almeno cento passi l'una dall'altra. Osservando il luogo per valutare il suo potenziale difensivo, Uther individuò, a circa metà del dolce pendio della collina, una sorta di terrazza proprio sopra il punto in cui le due muraglie di roccia affioravano da una faglia comune. Sopra la terrazza, gli alberi ricoprivano l'altura fino alla cima. «Là» disse, indicandola a Dedalo. «Se quell'area piatta lassù è abbastanza profonda, possiamo dominare il campo e combattere qui. Basta che riusciamo a far salire i carri fin là e saranno al sicuro. Non sembra troppo ripido. La cavalleria si disporrà ai due lati, sopra quelle barriere di roccia, in modo da accorrere ovunque sia necessario. Gli arcieri sulla terrazza avranno il campo sgombro per tirare. La fanteria si schiererà ai piedi dell'altura, protetta dalle colline su tutti i lati.» Dedalo annuì. «Già, ma è abbastanza profonda?» «Così sembra, vista da qui. Se misura anche solo trenta passi dal bordo fino al fondo, possiamo utilizzarla. E una volta installati lassù, chi ci vuole
dovrà venire a prenderci. Li vedremo arrivare e saremo in grado di accoglierli alle nostre condizioni. Quelle muraglie di roccia sono abbastanza divaricate in fondo da permetterci di attaccare, ma sono alte a sufficienza da evitare che veniamo aggirati o assaliti nel buio com'è successo la notte scorsa. Resteremo qui e affronteremo questi Galloglas quando ci raggiungeranno. Ho corso abbastanza in questa campagna.» Dedalo fece un cenno d'assenso. «Sta a te decidere.» «Infatti. Mandiamo i nostri lassù. Ordina ai tuoi trombettieri di dare il segnale e fa' tornare tutti qui, anche gli arcieri. Basta con gli indugi. Abbiamo tenuto lontani i nemici a sufficienza. È tempo che vengano a prenderci. Sbrigati!» Si voltò e fece un segnale col braccio ai comandanti che cavalcavano dietro di lui, gridando i suoi ordini prima ancora che lo raggiungessero. Quando si girò di nuovo verso Dedalo, Uther ebbe la sensazione che l'uomo non si fosse mosso di un millimetro. Il comandante della fanteria stava ancora fissando la terrazza sulla collina. Uther seguì il suo sguardo, poi lo riportò su di lui. «Be'? Sei ancora qui? Cosa c'è che non va?» Dedalo non lo degnò di un'occhiata. «Ho mandato i trombettieri, sono già partiti. Ma non possiamo portare i carri lassù, Uther. Il pendio è troppo ripido oltre quelle barriere di roccia. Dovremmo trascinarli fino in cima, e non abbiamo il tempo... E non voglio nemmeno pensare a cosa accadrebbe se dovessimo ridiscendere in fretta e furia. E poi, i cavalli sono esausti. Non funzionerà.» Il re lo fulminò con lo sguardo. «Non dirmi cosa non possiamo fare, Ded! Trova il modo di farlo.» Dedalo si limitò a scrollare le spalle. «Sbraita quanto vuoi, ma è la verità. Sarà un disastro se tentiamo di portare i carri lassù. Meglio ammassarli tutti dietro la fanteria, in un punto riparato ai piedi della collina. Probabilmente avremo quei dannati Gallonas a fiatarci sul collo prima ancora di cominciare. Non possono essere lontani.» Uther stava per rispondere per le rime ma si frenò e guardò di nuovo la collina. Sospirò, poi disse in tono più calmo: «Hai ragione». Si voltò verso uno dei comandanti della cavalleria in attesa di ordini.
«Philip, prendi uno dei tuoi squadroni e accompagna le donne a quella terrazza lassù sulla collina. Una donna per ogni cavallo, tutti quelli che servono. E un uomo fidato per portare il bimbo che hanno con loro, ma con delicatezza, senza fargli male. Avranno bisogno anche di tende e di giacigli. Pensaci tu.» Quando Philip si allontanò, Dedalo stava già ordinando di riunire i carri alla base della collina e di montare sulla terrazza la tenda del re. La notte arrivò lentamente e la luce del giorno indugiò a lungo nel cielo di inizio estate dopo che il sole era tramontato. Uther passò le prime due ore facendo il giro delle postazioni di guardia insieme a Dedalo, scambiando qualche parola di conforto e di incoraggiamento con gli uomini in servizio. Del nemico che li inseguiva non si erano viste tracce. Pochi dormirono bene quella notte, Uther compreso, perché sapevano che allo spuntare dell'alba si sarebbero di nuovo trovati faccia a faccia con la morte. Il re rimase seduto accanto al fuoco per ore con Dedalo, Philip e parecchi dei suoi ufficiali anziani, preparandosi agli eventi che li attendevano il giorno successivo; poi, quando fu finalmente solo e tutti gli altri si furono addormentati, tentò di riposare anche lui. Consapevole del fascino esercitato dal corpo femminile che giaceva all'interno della tenda accanto a suo figlio, soffocò il suo desiderio e avvoltosi nel pesante mantello si distese per terra accanto al fuoco, senza togliersi l'armatura. Al mattino, i guerrieri dell'Eire erano di nuovo in vista. Le trombe di Uther destarono l'esercito che si dispose in formazione. «Gentaglia. Guardali.» Dedalo affiancò il suo cavallo a quello di Uther sul bordo della terrazza che dominava la scena dall'alto. Le orde nemiche erano sciamate dalla valle compresa tra le due colline a nord ammucchiandosi in una massa disordinata all'estremità del lungo prato, palesemente riluttanti ad avvicinarsi alla zona sotto la collina dove la fanteria di Camelot era schierata in assetto di battaglia.
Uther non rispose immediatamente, concentrato sulle tre formazioni legionarie di fanteria sotto di lui. Ciascuna di esse era disposta in perfetto ordine: quattro file di cinquanta uomini, con una quinta addizionale dietro la quarta, formata dalle riserve pronte a sostituire i caduti. La distanza tra le file era quella classica di due lunghi passi: il primo occupato dal soldato con il suo lungo scudo posato per terra, l'altro libero per il combattimento. Il dovere di ciascun soldato era di proteggere l'uomo alla sua destra, assicurandosi che nessun nemico si avvicinasse al punto da poterlo abbattere. Dietro la prima linea, le altre file erano sfalsate in modo che gli uomini davanti potessero ripiegare per riposarsi e mettersi al sicuro mentre la fila successiva avanzava per prendere il loro posto. Questa tecnica, in uso sin dal tempo dei Cesari, aveva consentito alle legioni romane di dominare il mondo, e i fondatori del piccolo esercito di Camelot non avevano ritenuto di doverla abbandonare. La maggior parte dei fanti schierati di fronte al nemico in attesa che avanzasse erano nati e cresciuti a Camelot ed erano stati educati fin dall'infanzia alla severa disciplina che ora li dominava. Uther sapeva che sarebbero rimasti lì a combattere fino alla vittoria o alla morte, e il suo cuore si gonfiò di orgoglio nel guardarli. Due formazioni guardavano a nord, fronteggiando il nemico: quella centrale rivolta direttamente verso i Galloglas, quella a sinistra disposta ad angolo verso nord-ovest nel caso che il nemico tentasse un'attacco sul fianco da quella direzione. Le file più a ovest di quest'ultima formazione avevano le spalle protette dall'affioramento di roccia sulla collina. La terza formazione, a destra, era disposta ad angolo retto verso est, in direzione del prato che in quel momento non sembrava presentare minacce. Dietro la fanteria, stretti contro la base della collina sulla quale si trovavano Uther e i suoi ufficiali, Dedalo aveva posizionato i carri dei rifornimenti, quelli dell'infermeria e i carri leggeri su cui avevano viaggiato le donne. Carri e fanteria erano al sicuro per quanto possibile, protetti dalla collina alle loro spalle, dalle lunghe cornici di roccia sul fianco orientale e occidentale, e dagli squadroni di cavalleria allineati e vigili sui fianchi della collina sopra di loro. Uther controllò ancora una volta la disposizione dall'alto, giudicandola la migliore possibile, poi alzò gli occhi verso la massa di avversari all'estremità della
spianata e finalmente rispose all'osservazione di Dedalo, senza degnarlo di un'occhiata. «Hai ragione, sono gentaglia. Ma sono tanti.» Dedalo si raschiò la gola e sputò. «I numeri non contano in una situazione come questa, Uther. Te l'ho insegnato tanto tempo fa. Sono più di noi, ma non sembrano ansiosi di attaccarci. Sanno che sarebbe come andare contro una roccia.» Uther si guardò attorno. Lui e Dedalo erano al centro di un gruppetto di dodici comandanti che presto sarebbero scesi a raggiungere le unità sottostanti, ma alle loro spalle erano raggruppati in semicerchio più di una quarantina di staffette e portaordini, sia a cavallo sia a piedi, e dietro di loro la guardia personale di Ygraine e gli uomini dei clan della Cornovaglia in attesa di subentrare come riserve. In fondo alla terrazza erano situate le tende delle donne e del seguito del re, invisibili dalla valle sottostante. Sopra la testa di Uther, grossi banchi di nubi gonfie di pioggia stavano calando da ovest, tingendo lentamente di grigio l'azzurro del cielo mattutino. «Sta per piovere. Il temporale viene dritto verso di noi.» Dedalo alzò gli occhi verso le nuvole. «Qualche scroscio, niente di più.» «Può darsi, ma non ci aiuterebbe l'erba bagnata sotto gli zoccoli dei cavalli. Vedi traccia di qualcuno al comando laggiù? Dedalo si protese sulla sella a scrutare il nemico, proteggendosi gli occhi con una mano. «No, ma non significa niente. Aspetta un momento. Vedi quel gruppo colorato alla nostra sinistra, sulla collina sopra di loro? Devono essere i comandanti, chiunque siano. Il colore è un simbolo del rango per loro. Più brillanti sono i colori, più importante è la persona.» «Mi chiedo cosa stiano aspettando.» «Di prendere coraggio. Te l'ho detto, hanno paura di attaccarci. Sono due, tre, forse quattro volte più numerosi di noi, ma sanno che non basta.» «No!» Uther scosse la testa. «No, Ded, non è questo. Forse non hanno la nostra disciplina, ma non mancano di coraggio. Stanno
aspettando qualcosa.» «Una staffetta in arrivo, signore, da sud. Uno dei tuoi.» Il grido risuonò alle sue spalle e il re si girò a guardare. Effettivamente l'esploratore era chiaramente visibile: era uno degli arcieri di Uther Pendragon, che attraversava di corsa l'erba alta in fondo alla valle, a sud del loro punto di osservazione, dirigendosi verso le file di uomini più vicine a lui. Anche da quella distanza si vedeva che l'uomo era esausto, perché mulinava le braccia e a un certo punto inciampò rischiando di cadere. «Deve avere notizie importanti» disse Uther fra sé. «Altrimenti si risparmierebbe un po' di più. Speriamo che venga ad annunciarmi l'arrivo di Lagan il Saggio.» Si voltò verso uno dei suoi aiutanti. «Vagli incontro con un cavallo in più e conducilo da me più in fretta che puoi. Non vorrà salirci, non saprà cavalcare, ma tu legalo alla sella se necessario.» Un altro grido si levò dietro di lui, ma più lontano questa volta, proveniente dagli alberi sulla collina soprastante. «Va' ora.» Uther congedò l'aiutante con un cenno e si voltò immediatamente a guardare verso la cima. Lassù gli alberi erano piccoli, quasi dei cespugli, per lo più biancospini e noccioli, ma fornivano un nascondiglio efficace agli sguardi dal basso. Uther scandagliò l'intera collina fin dove arrivava il suo sguardo, ma non gli parve di notare alcun movimento, sebbene ci fosse un centinaio dei suoi arcieri fra gli alberi. Poi d'improvviso un uomo venne giù saltellando con il lungo arco dei Pendragon in una mano e la faretra stretta sotto il braccio. Era un uomo di nome Brock, che Uther conosceva da sempre. Raggiunse la terrazza e corse verso il re, ma dovette aspettare di riprendere fiato prima di poter parlare. «Siamo sotto attacco lassù, Uther. Centinaia di uomini stanno risalendo il versante opposto della collina. Ci servono altre frecce.» Uther si rivolse immediatamente a un altro dei suoi aiutanti. «Occupatene tu, Spartek, subito. Due squadre di uomini, ciascuno con due fasci di frecce. Portatele su immediatamente.» Si voltò verso Huw che stava ascoltando. «Huw, voglio che tu mandi altri cento
dei tuoi arcieri a dar man forte agli uomini lassù. Prendine cinquanta da ciascun lato e spediscili in cima prima che puoi. Se ci stanno attaccando a centinaia, come dice Brock, i nostri devono essere sotto pressione.» Huw si allontanò rapidamente, parlò in fretta con il suo vicecomandante e i due uomini si divisero scendendo ai due lati della collina. Uther si rivolse di nuovo a Brock. «Centinaia, hai detto?» «Sì, centinaia. Sono forestieri, Uther. Autentici forestieri. Alcuni hanno la faccia nera. E hanno degli archi. Dei piccoli affari infernali, curvati in modo strano, ma robusti.» «Da dove sono venuti, lo sai?» «No, ma so dove vogliono arrivare: in cima a questa collina. Se ci riusciranno vorrà dire che siamo tutti morti, e ti piomberanno addosso, quindi è meglio che io torni indietro.» Uther annuì. «Bravo, e di' ai tuoi compagni che un centinaio di arcieri stanno venendo a combattere insieme a loro. Va', ora, e che gli dèi ti proteggano. Ma appena riesci a capire quanti stanno venendo contro di voi, fammelo sapere.» Mentre Brock si allontanava, Uther parlò di nuovo con Dedalo. «Ded, forma un'altra unità con i tuoi uomini e fa' salire anche loro lassù, più presto che puoi. Prendine cinquanta da ognuno dei tre gruppi di riserve qui sotto. Forse non ce ne sarà bisogno, ma non c'è modo di sapere quale sia la situazione dall'altro lato della collina. Non so chi siano questi bastardi dalla faccia nera o da dove vengano, ma non possiamo correre il rischio di perdere il controllo sulla vetta e avere un nemico che incombe su di noi.» «Giusto.» Dedalo chiamò tre staffette e diede loro gli ordini, spedendoli giù dalla collina di corsa. Poi si voltò a guardare la sommità dell'altura alle loro spalle, alla distanza di un tiro d'arco. «Quante armate ha questo maledetto figlio di puttana, Uther?» «Troppe. Che fine ha fatto quella staffetta da sud?» Dedalo alzò un braccio puntando il dito. «Eccola che arriva.» L'uomo si stava avvicinando con gli occhi sbarrati per la paura,
reggendosi stretto al pomo della sella, e non tentò nemmeno di nascondere il suo sollievo quando si lasciò cadere a terra accennando un gesto di saluto e di rispetto. Un lieve sorriso piegò le labbra di Uther mentre ricambiava il saluto. «Ti abbiamo visto arrivare e abbiamo immaginato che avessi notizie importanti. È così?» L'uomo annuì. «Sì, re Uther, è così. Cattive notizie, però. Non ti piaceranno.» «Lascia che sia io a giudicare. Cosa devi dirmi?» «Un esercito, signore, proveniente da sud-est, a tre, forse quattro ore di marcia.» «L'esercito di chi? Stiamo aspettando degli alleati, uomini dei clan della Cornovaglia in rivolta contro la tirannide di Lot. Potrebbero essere loro.» L'uomo aggrottò la fronte e Uther ricordò che si chiamava Garreth, come il Fischiatore. «Io non li ho visti, re Uther, ma da quanto mi è stato detto non sono della Cornovaglia. Sono stranieri, con armature diverse da quelle dei clan di queste parti. Marciano in formazione, mi hanno detto, e portano l'insegna del Cinghiale.» «Maledizione!» Il cinghiale era il simbolo di Lot, e Uther sentì crescere dentro di sé la rabbia e la frustrazione. «Quanti sono, lo sai?» «Migliaia, dicono. L'uomo che mi ha informato era quasi morto dalla fatica. Ha detto che era impossibile capire quanti fossero, ma che erano stati individuati la notte scorsa grazie alle luci dei falò, e che si erano messi in marcia all'alba. Ha detto che erano a tre leghe di distanza, e lui era la sesta staffetta della catena. Io sono la settima, e l'ho lasciato ad almeno una lega dietro di me.» «Hai corso per un'intera lega? Tre miglia?» «Sì, o almeno per la gran parte. Ho dovuto fermarmi due volte per riposare. Avrebbe dovuto esserci un altro uomo a metà strada per darmi il cambio, ma non sono riuscito a trovarlo, così ho
aspettato giusto il tempo di riprendere fiato e poi ho continuato a correre.» «Bravo!» Uther fece in modo di non tradire la sua collera e prese l'uomo per una spalla. «Riprendi quel cavallo e va' al carro dei rifornimenti qui sotto. Mangia,e bevi. Ti meriti riposo.» Si staccò da lui e parlò a voce bassa con Dedalo, il cui volto era rimasto impassibile. «Quattro leghe. mezzogiorno.»
Cioè
dodici
miglia.
Saranno
qui
entro
«Meno di quattro leghe. Hanno continuato a muoversi da quando è partita la prima staffetta, quindi devono aver già percorso parecchia strada. Diciamo che sono a nove, forse dieci miglia di distanza. Ma se sono migliaia, quei bastardi non possono essere molto veloci, a meno che non si facciano precedere da un contingente più agile. Ma perché dovrebbero? Non sanno nemmeno che siamo qui.» «Non possiamo esserne sicuri. Proprio qualche istante fa dicevo che quelli qui sotto stavano aspettando qualcosa. Potrebbero essersi già messi in contatto con i nuovi arrivati, probabilmente usando il nostro stesso metodo, esploratori e staffette. Se è così, siamo nei guai fino al collo.» Uther si rivolse di nuovo al messaggero, che si era rifiutato di rimontare a cavallo e stava per avviarsi a piedi. «Garreth! La strada che hai preso per venire qui era l'unica possibile?» L'uomo prese del tempo per rispondere, poi scosse la testa. «Credo di sì. È una lunga valle, dritta e stretta, e ho dovuto tenermi sul sentiero centrale. Non c'erano altre vie. Niente varchi tra le colline... nessuno che consentisse un passaggio agevole, almeno. Lunghe file dritte di colline su entrambi i lati. Quindi sì, direi che ho fatto l'unica strada possibile per venire qui.» «Ti ringrazio. Ora va'.» «A che cosa stai pensando, Uther?» sussurrò Dedalo alle sue spalle. «A cosa fare, ovviamente. Una valle stretta, ha detto, una lega di lunghezza, senza vie d'uscita.»
«Già, ma non possiamo bloccarla, non con questa marmaglia di Galloglas alle nostre spalle.» «No, ma abbiamo tre ore, forse quattro, e come hai detto tu stesso, i Galloglas non hanno il coraggio di affrontare la nostra cavalleria. Potremmo colpirli ora, come abbiamo fatto prima: disperderli e metterli in fuga verso nord.» Dedalo parve dubbioso e si voltò a guardare il nemico in lontananza. «Non credo, non questa volta. L'altro ieri li abbiamo dispersi perché li avevamo presi allo scoperto, senza un posto per nascondersi. Guardali ora. Hanno una valle stretta alle loro spalle, quindi non cercheranno di fuggire in quella direzione. Per quanto stupidi, si renderebbero conto anche loro che sarebbe un suicidio ammassarsi in quello stretto passaggio. Secondo me, se li attacchiamo ora si disperderanno senz'altro, ma sulle colline, nei boschi ai due lati, da dove potranno colpirci senza che la nostra cavalleria riesca a raggiungerli. Che cosa ne pensi, Philip?» L'ufficiale di cavalleria concordò con Dedalo, che proseguì. «Inoltre, se sono in contatto con la plebaglia in arrivo da sud-est, come dici tu, non hanno motivo di fuggire. Nascondersi tra gli alberi e aspettare che arrivino gli altri, lo capisco, ma fuggire? No, Uther. Non ha senso. Credo sia meglio restare fermi dove siamo e aspettare che siano loro a venire da noi.» «E se non vengono? Sembra che non ne abbiano intenzione. E non mi piace l'idea di starmene qui ad aspettare che arrivi un altro esercito. Dannazione! Che sta accadendo lassù, e dove sono i rinforzi?» In cima alla collina era scoppiato un tumulto, e l'eco dei combattimenti e delle urla giungeva chiaramente fino a loro. Dedalo si spostò per guardare nella valle, poi si voltò verso di lui. «Gli arcieri di Fortebraccio sono già qui, stanno salendo da entrambi i lati. I miei dovevano essere raggruppati. Sono alla base della collina in questo momento.» Una rapida occhiata confermò a Uther che i rinforzi erano in arrivo, ma non era convinto che sarebbero giunti sul posto in tempo. Alzò una mano e il capo degli uomini di Herliss gli si
avvicinò. Uther spiegò cosa stava accadendo e chiese all'uomo se era disposto a portare lassù i suoi seguaci per dare una mano; l'altro annuì, fece un segnale ai suoi, e dopo qualche attimo il gruppo stava già muovendosi rapidamente verso gli alberi, chiaramente attratto dalla prospettiva di un combattimento. Uther li guardò appena. Aveva gli occhi puntati sugli Scoti che formavano la guardia personale della regina, e Dedalo parve leggergli nel pensiero. «Dobbiamo portare via quelle donne, Uther. Giù nei carri o da un'altra parte, perché non è più sicuro qui con un esercito che ci attacca alle spalle. Se qualcuno oltrepassa quella cima, sarà molto difficile per noi difenderle.» Uther si guardò attorno con aria interrogativa. «Da un'altra parte? E dove?» «A sud-ovest, superando il fianco della collina e scendendo nella valle che corre parallela a quella che ha usato il tuo esploratore, dietro la serie di alture che ha detto di non poter superare. Avranno le loro guardie, e possiamo mandare con loro una scorta di nostri uomini per maggiore protezione. Ma devono muoversi in fretta se vogliono fuggire senza che nessuno le veda.» Il re annuì e smontò, dirigendosi alla sua tenda. Trovò Ygraine che lo aspettava. Le disse chiaramente ciò che stava accadendo: che era sotto attacco su tutti i fronti, che si preparava una grossa battaglia e che doveva farla partire con le sue donne, a piedi ed evitando i sentieri battuti, verso la costa dove l'aspettava suo fratello. L'avrebbero accompagnata la sua guardia personale, una scorta di soldati di Camelot e un consistente gruppo di arcieri Pendragon. Le donne dovevano portare solo l'essenziale, lasciando la maggior parte dei loro beni all'accampamento. Alcuni uomini della Cornovaglia le avrebbero guidate sane e salve fino al fiume Camel e da lì al luogo dell'appuntamento. Ygraine era tutt'altro che felice di lasciarlo lì, ma accettò la situazione e offrì qualche suggerimento. Avrebbe incontrato Connor imbarcandosi sul suo vascello come previsto, disse, ma avrebbe trattenuto il fratello in quella zona per due giorni navigando al largo, al sicuro da attacchi. Dopo la vittoria,
Uther l'avrebbe raggiunta per portarla con sé nel suo regno o per salutare temporaneamente lei e suo figlio con l'accordo di ritrovarsi più tardi, una volta terminata la campagna in Cornovaglia. Uther promise di riunirsi a lei appena possibile, magari ancor prima che raggiungesse la costa, se gli dèi l'avessero permesso. Erano stretti l'una all'altra in un ultimo abbraccio quando Dyllis sbucò dal retro della tenda con in braccio il piccolo Artù. Uther si raddrizzò, respinse con dolcezza Ygraine e la voltò verso Dyllis che li stava osservando. «Dovrete cambiarvi d'abito, Ygraine, tu e tutte le tue dame. Guarda Dyllis. Il suo vestito giallo è visibile a miglia di distanza. Una decina di donne con abiti sgargianti come quello attirerebbero gli inseguitori come mosche sul miele. Raduna subito le tue dame. Di' loro di togliersi tutto ciò che hanno di vistoso e di scegliere colori smorti. Non ne saranno contente, lo so, ma se vogliono vivere e fuggire da qui sane e salve, è il prezzo che devono pagare. E ora, amore mio, fa' presto, ogni istante è prezioso. Non c'è tempo da perdere. Io andrò a parlare con tuo cugino Alasdair. Tuo padre lo ha incaricato di proteggerti, ed è venuto il momento di farlo.» La attirò a sé e la baciò un'ultima volta, a lungo e con passione, poi prese il bimbo dalle braccia di Dyllis e baciò anche lui. «Non sono mai stato un tipo che prega, Ygraine, ma tempesterò il cielo di suppliche per la tua salvezza finché non ci rivedremo. Adesso sbrigati, e che gli dèi ti accompagnino.» Il gruppo che alla fine lasciò la terrazza contava quasi cento persone, ma scomparve rapidamente fra gli alberi senza che nessuno dall'alto o dal basso se ne accorgesse. Si mossero lungo il fianco della collina, molto più in basso dei combattimenti sulla cima, e una volta fuori pericolo superarono la cresta della lunga catena di alture che si stendeva verso sud-est e puntarono verso la valle giù in fondo. Uther provò una stretta al cuore vedendo Ygraine voltarsi a guardarlo un'ultima volta prima di scomparire alla vista. Accanto a lei suo cugino Alasdair, il capitano della guardia, portava il suo nuovo cugino Artù, il figlio di Uther, in uno zaino di pelle appeso sulle spalle. Mentre madre e figlio svanivano tra le fronde, Uther ebbe la sensazione che gli venisse a mancare una parte vitale di se
stesso. Da sud era arrivata un'altra staffetta, e Dedalo strappò Uther al suo tormento informandolo che l'esercito nemico era ormai a meno di un'ora di marcia e stava avanzando in buon ordine. Uther lo ignorò finché ogni traccia del gruppo di Ygraine non fu svanita, poi si voltò verso la valle sottostante. «In buon ordine, eh? Ebbene, non durerà. Siamo pronti ad affrontarli, come sempre, e daremo battaglia, in modo che quelli fra loro che resteranno in vita avranno qualcosa da ricordare. Quello che mi chiedo, però, è in quale buco d'inferno siano andati a finire Nemo e Lagan il Saggio.»
XX. Nemo era a meno di due miglia da Uther e dal suo esercito, e avrebbe potuto effettivamente considerare un inferno il luogo in cui si trovava se avesse avuto la voglia o il tempo di pensarci. Aveva perso il conto dei giorni impiegati a cercare Lagan il Saggio, benché l'uomo avesse con sé un esercito e dunque dovesse essere facile da rintracciare; dopo dieci giorni di costante ricerca aveva perso la nozione del tempo. Sapeva che Lagan, a causa della soldataglia di Lot sparsa per il paese, aveva preso l'abitudine di nascondere le sue truppe nei boschi durante il giorno e di muoversi di notte per creare scompiglio, lanciando brillanti e feroci attacchi contro qualsiasi installazione mercenaria si trovasse di fronte. Nemo aveva battuto la Cornovaglia da un capo all'altro per cercarlo, racimolando informazioni sui suoi movimenti dai pochi membri dei clan locali disposti a parlare con uno straniero. Ma ogni volta che arrivava in uno dei suoi nascondigli, Lagan se n'era già andato. Finalmente una sera, dopo che si era accampata per la notte, fu catturata da una pattuglia dei suoi esploratori, che la risparmiarono solo perché era priva di armi e di armatura e perché uno di loro riconobbe i contrassegni che portava con sé. La condussero dal loro capo, e Nemo trovò un uomo ben diverso dall'amabile Lagan che aveva incontrato mesi prima. Uther le aveva raccontato che il padre, la moglie e l'unico figlio dell'uomo erano stati uccisi per ordine di Lot a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, ma lei, come suo solito, non aveva riflettuto sulla cosa, né aveva fatto il minimo sforzo per comprendere l'effetto che quella tragedia poteva avere avuto su di lui. Ora, presso il piccolo falò dell'accampamento al calare della notte, ne vedeva le conseguenze con i propri occhi e persino la sua indifferenza fu scossa da quei cambiamenti. Lagan il Saggio era sempre stato un uomo di bell'aspetto, aitante e ben vestito, con un viso aperto e florido e un sorriso che rifletteva la
sua natura socievole ed estroversa. Il Lagan che ora le stava davanti era una persona completamente diversa. Era ancora alto e forte, ma appariva curvo e più vecchio della sua età, e aveva perduto molta della sua carne soda e dei suoi muscoli possenti assumendo un'aria malaticcia. Ma era soprattutto il volto a portare i segni dei dolori che gli erano stati inflitti. Aveva le guance scavate e macilente, la faccia profondamente segnata, e il mento, di solito perfettamente rasato, coperto da una lunga barba sporca e disordinata. Gli occhi infossati sotto le folte sopracciglia brillavano di una luce febbrile ma gelida che sapeva di follia. All'inizio non riconobbe Nemo, e nemmeno gli oggetti che Uther le aveva affidato. Ma alla fine li prese, quasi con riluttanza, e seduto su un ceppo accanto al fuoco li strinse a lungo nel pugno prima di aprire le dita per osservarli. Oltre al sassolino di vari colori, c'era un semplice sigillo di cera con un segno di croce, lo stesso contrassegno che Nemo aveva mostrato a lui e a suo padre in varie occasioni. Sospirò e mormorò qualcosa di incomprensibile. Nemo tentò di avvicinarsi, ma le guardie la trattennero. «Signore,» disse allora a voce alta, tentando di spezzare il suo stato di trance «leggi ciò che ti scrive re Uther.» Lagan fece un profondo respiro e si voltò a guardarla, poi allontanò le guardie. «Il tuo nome è Nemo.» «Sì, signore.» «Mi ricordo di te. Uther Pendragon è il tuo re. Lot era il mio, e l'ho servito fedelmente. Che mi dici del tuo?» «È in Cornovaglia, signore, in guerra con Lot, e ti manda a chiamare perché ti unisca a lui.» «Mi manda a chiamare. Perché mi unisca a lui. Perché dovrei farlo? Solo un pazzo si fiderebbe di un re.» Nemo non seppe cosa rispondere e tacque per un po'. «Dici che è in guerra con Lot? Tu menti. Io sono in guerra con Lot tutte le notti e non ho visto traccia del tuo re.» Nemo rimase in silenzio. La lettera che aveva consegnato era ai
piedi di Lagan, dove lui l'aveva lasciata cadere senza leggerla, e alla fine lei la indicò. «Leggi il suo messaggio, mio signore. Lo ha scritto per te qualche settimana fa.» Lagan osservò la lettera ai suoi piedi, poi tornò a fissare Nemo. «Un messaggio» disse. «I messaggi non vincono battaglie. Mia moglie e mio figlio sono stati uccisi per mandarmi un messaggio.» «Leggilo, signore. Ho fatto molta strada per portartelo.» Lagan sospirò di nuovo, poi indicò col piede un altro ceppo accanto al suo. «Siediti. Mangia.» Si rivolse a uno dei suoi uomini. «Portagli del cibo.» Poi si chinò a raccogliere il plico, ruppe il sigillo con il pollice e spiegò il foglio contenuto nell'involucro di pelle. Lo lesse compitando le parole e subito dopo, senza dire nulla a Nemo, diede ordine di riunire l'esercito e prepararsi a marciare verso nord. Nemo osservò sbalordita le truppe che si radunavano nell'oscurità tra i falò, in un silenzio assoluto. Non era un grosso esercito. Secondo le sue stime, doveva essere meno di un quarto di quello di Uther. Ma rimase colpita dall'aria di feroce determinazione che emanava da quegli uomini. Indossavano tutti pesanti armature composte da un miscuglio di pezzi spaiati, e sotto quelle protezioni male assortite portavano indumenti semplici e grezzi, talvolta poco più che pelli di animale con una rozza conciatura, senza la minima uniformità e senza alcuna insegna o colore che li distinguesse l'uno dall'altro. Erano anche armati fino ai denti con strumenti di ogni tipo, lance, pesanti bastoni o lunghe aste robuste, e in genere avevano degli scudi appesi a tracolla. Qualcuno portava un arco, qualcuno un'ascia, ma la maggior parte aveva una lancia e una spada. Si muovevano in un silenzio quasi minaccioso, senza bisogno di comandi e senza una formazione prestabilita. E non c'era traccia di buonumore nei loro scambi, nemmeno l'umorismo macabro tipico dei guerrieri annoiati e spaventati. Nemo sapeva che marciavano e combattevano di notte, usando l'oscurità come un'arma per seminare paura e terrore fra i nemici, così le parve naturale che agissero in quel cupo silenzio.
Solo quando le truppe cominciarono a sciamare in mezzo agli alberi lasciando languire i loro piccoli falò, Lagan il Saggio si voltò nuovamente a guardarla. Non le propose di andare con loro, ma Nemo interpretò il suo sguardo come un invito e fece per seguirlo. Lui si fermò immediatamente e la squadrò dalla testa ai piedi. «Non hai armi, un'armatura?» «No, signore, solo questo.» Gli mostrò il corto e robusto pugnale che nascondeva sotto la tunica. «Re Uther non ha voluto che portassi delle armi. Non dovevo attirare l'attenzione finché non ti avessi trovato, e in questo stato nessuno si sarebbe preso la briga di inseguirmi. Se qualcuno l'avesse fatto, il pugnale poteva bastare.» Lagan la fissò, poi si rivolse a uno dei suoi uomini. «Noric, trovagli qualche pezzo di armatura e una spada.» L'interpellato fece cenno a Nemo di seguirlo e la portò dove Lagan teneva i suoi rifornimenti, un piccolo carretto a mano su cui erano ammucchiati vari pezzi di armatura e delle armi, in gran parte macchiati di sangue incrostato. Dopo una rapida ricerca, Nemo scelse una malconcia corazza di metallo e una protezione dorsale di cuoio robusto, entrambi troppo piccoli per lei, un elmo ammaccato che le andava abbastanza bene e un vecchio gonnellino romano corazzato per proteggere l'inguine. Trovò persino una vecchia daga romana dall'elsa consumata con un cinturone ancora utilizzabile, e un brutto scudo pesante di forma rettangolare fatto di strati di cuoio rinforzati, losanghe di ferro e irrobustito sul retro da una griglia di legno. Quando tornò da Lagan insieme alla sua guida, Nemo si sentiva pronta a difendersi adeguatamente in caso di combattimento. Marciarono per tutta la notte, anche se a Camelot nessuno avrebbe definito "marcia" la loro avanzata. Era piuttosto un progredire lento e costante verso nord sotto i raggi della luna, attraverso infinite macchie di alberi stentati intervallate da distese malsicure di terreno spoglio e roccioso, ricoperto di erica. Continuarono ad avanzare anche quando la luna fu tramontata, trovando la strada con maggior lentezza alla sola luce delle stelle ma procedendo ugualmente senza interruzioni, come se quegli uomini di Cornovaglia fossero in qualche modo dotati di una vista più acuta di
quella degli altri. Poi, nel primo tenue grigiore dell'alba, quando la rugiada sul terreno si fu trasformata in una nebbia leggera che li avvolse in un umido manto spettrale, incrociarono un grosso contingente di uomini che marciavano verso est. Gli esploratori di Lagan avevano individuato troppo tardi il nemico per evitare il pericolo, così gli uomini indietreggiarono il più possibile e si gettarono immediatamente a terra, giacendo immobili nella speranza che gli altri passassero senza vederli. Ci erano quasi riusciti, quando un'unità dell'esercito avversario deviò verso destra rispetto ai compagni calpestando letteralmente alcuni di loro, e il dado fu tratto. Gli uomini di Lagan, preparati a quell'eventualità, sfruttarono al massimo la sorpresa prodotta dalla loro insospettata presenza, ma i nemici erano più numerosi e meglio equipaggiati: molti di loro indossavano cotte di maglia metallica in grado di deviare anche la punta di lancia più acuminata. A poco a poco, le sorti della battaglia si volsero contro gli uomini della Cornovaglia. Nemo aveva perso di vista Lagan nei momenti iniziali della battaglia e temeva che potesse essere morto. Lei stessa rimase isolata con circa una ventina di compagni, poco dopo aver sentito odore di erba bruciata. Formarono allora un blocco difensivo e lottarono spalla a spalla, in un silenzio quasi totale, contro l'infinita marea di uomini che sbucavano dalla nebbia mista a fumo. Poi Nemo fu colpita alla testa e cadde a terra priva di sensi. Qualche tempo dopo tornò in sé, mezza soffocata dal fumo ma perfettamente consapevole di dove si trovava e del pericolo che correva restando sola e inerme sul terreno. Sentiva un dolore terribile al capo, e solo dopo aver vomitato riuscì a rimettersi in piedi, scoprendo di aver perso sia l'elmo sia lo scudo. Stringeva ancora in pugno la spada, però, e mentre barcollava sbattendo gli occhi per schiarirsi la vista ne vide un'altra per terra accanto a lei. Attese qualche attimo che il mondo smettesse di girare, poi si chinò a raccoglierla. Mentre lei era priva di conoscenza, il gruppo di uomini con cui prima stava combattendo si era ridotto alla metà, ma erano ancora lì
vicino, e menando fendenti alla schiena dei pochi nemici che la dividevano dai suoi compagni Nemo li raggiunse di corsa, sapendo che sarebbe stata più sicura in mezzo a loro. Combattendo all'estremità del gruppo, che continuava ad assottigliarsi, avvertì a un certo punto una minaccia alla sua sinistra e fece appena in tempo a girarsi che una punta di lancia le penetrò nel fianco. Senza sentire il dolore della ferita, mentre il suo aggressore ritirava l'arma Nemo gli piombò addosso e gli tagliò la gola con la daga, recidendo di netto le arterie. Crollarono a terra uno sull'altro, e il loro sangue mescolato dovette farli sembrare morti entrambi, perché nessuno si fece avanti per darle il colpo di grazia. Combatteva da ore, o almeno così le pareva perché non aveva idea di quanto tempo fosse passato, e attimo per attimo si sentiva sempre più debole. Aveva le braccia appesantite dallo sforzo, tutto il corpo macchiato di sangue, in gran parte suo, e doveva lottare contro il dolore acuto al fianco sinistro, dove la lancia era penetrata sotto il bordo della corazza troppo piccola. I bordi frastagliati della punta avevano lacerato carne e muscoli, e anche se al momento Nemo era troppo concentrata sull'uccisione del suo avversario per accorgersene, ora il dolore minacciava di sopraffarla. Sapeva che se non si fosse fermata per riposarsi e tamponare la ferita in qualche modo sarebbe crollata, e avrebbe finito per morire o farsi uccidere mentre giaceva per terra. Proprio mentre formulava questo pensiero sentì le ginocchia che cedevano e crollò a terra, rischiando di svenire in uno spasimo di agonia. La coscienza del pericolo che correva era così acuta che subito tentò di rialzarsi, ma non ci riuscì. Lacrimando per lo sforzo si issò su un ginocchio puntellandosi con la più lunga delle due spade, ma non poté fare di più. Solo allora si rese conto confusamente che era rimasta sola e che la battaglia si era spostata altrove. Gli unici rumori di scontri che riuscisse a sentire venivano da lontano,, soffocati dal ruggito delle fiamme fra gli alberi. Qualcuno gemette accanto a lei, ma non c'era minaccia in quella voce, e Nemo la ignorò. Un uomo gridò, ma era lontano, alla sua destra.
Stringendo in pugno la daga, Nemo si mise carponi e iniziò a strisciare lentamente verso un'enorme betulla, sapendo che il terreno alla base del tronco era coperto di spesso e morbido muschio. Quando l'ebbe raggiunto, si sedette in modo da appoggiare la schiena contro il tronco e cominciò ad armeggiare per togliersi la corazza. Era fatta per un corpo più piccolo del suo, per questo la punta della lancia aveva trovato un varco per infliggerle la ferita che per poco non l'aveva uccisa. Debole com'era, non riuscì a sganciare le fibbie rese viscide dal sangue, così tagliò le fettucce di cuoio, si liberò della corazza e sollevò la tunica, mettendo a nudo la ferita. Era ampia e profonda, con brandelli di carne viva che penzolavano, strappati dai barbigli della lancia. Il sangue sgorgava dal lungo squarcio colando sul fianco. Nemo strinse i denti e dopo aver faticosamente spostato la sua bisaccia di pelle su un lato ne estrasse il rotolo di bende che usava per assorbire le perdite del suo ciclo mensile. Mise da parte le bende più lunghe e unì le altre fino a formare uno spesso tampone, poi strappò due manciate di muschio e lo premette sulla ferita aperta, scatenando una nuova ondata di dolore. Quando le fitte lancinanti diminuirono, vi posò sopra con cura il tampone di stoffa e lo fissò con sei lunghe bende, ciascuna arrotolata due volte intorno alla vita e annodata il più stretta possibile. Lo spasmo diminuì istantaneamente, e quando Nemo riabbassò la tunica le parve che la fasciatura fosse ferma e robusta. Si allacciò il cinturone di cuoio e lo strinse fino al punto di non poter respirare, poi con la punta del coltello aggiunse un nuovo buco alla cinghia. A quel punto si mise la spada fra le ginocchia e dopo aver ripulito le mani dal sangue con un'altra manciata di muschio frugò ancora nella bisaccia in cerca di un pacchettino contenente carne di cervo essiccata e affumicata. Era praticamente immangiabile e lei non aveva appetito, ma sapeva che doveva nutrirsi per recuperare le forze. All'inizio le parve di masticare corteccia d'albero, ma continuò a ruminare ostinatamente finché la saliva non riuscì ad ammorbidire il boccone spremendone il sapore rancido e affumicato. Era un grosso pezzo di carne, e lei si costrinse a restare seduta a consumarlo, un morso dopo l'altro, sino alla fine, finché le palpebre non cominciarono a chiudersi contro la sua volontà.
Nemo aprì gli occhi all'improvviso, stupita di aver dormito e scossa dal panico. Non c'era nessuno vicino a lei. Era ancora appoggiata al tronco della betulla, e la sofferenza al fianco era diminuita trasformandosi in un dolore sordo. Tastò delicatamente la fasciatura per controllarla, poi si osservò la mano in cerca di sangue fresco, ma l'emorragia sembrava cessata. Qualche attimo dopo udì di nuovo il rumore che l'aveva svegliata. Era un lamento acuto, lacerante, che proveniva da un essere torturato; una serie di grida folli e disumane che le misero i brividi e le diedero una fitta di nausea. Sapeva che era un uomo a gridare, e ricordava vagamente di averlo già sentito prima, ma allora le era sembrato più lontano. Ora era lì accanto, ancor più terribile di prima, e questo la spaventò, perché sapeva che nessun uomo con ferite così gravi da provocare simili urla poteva essere in grado di muoversi. Un terrore superstizioso la invase al pensiero che quella voce infernale potesse appartenere non a un uomo ma a qualche spirito maligno, strappato alle tenebre degli Inferi dall'odore di tutto il sangue sparso in quel luogo. Prima ancora di rendersi conto che era in grado di muoversi era già in piedi, col fiato sospeso e l'elsa della spada stretta in entrambe le mani, e rimase addossata al tronco della betulla guardandosi freneticamente attorno finché quell'urlo disperato non si spense. Fu allora che si accorse del silenzio che la circondava. La nebbia mattutina si era dileguata e in assenza di vento i fuochi si erano spenti; gli alberi bruciacchiati si consumavano lentamente, mentre un fumo acre si levava ai margini del suo campo visivo verso le nuvole gonfie di pioggia. Né il canto di un uccello, né un alito di vento turbavano quella calma minacciosa. Non c'era rumore di battaglia né movimento. Nulla, tranne il battito del suo cuore. Nemo osservò gli innumerevoli caduti disseminati sul terreno intorno a lei e vide che i corpi dei suoi compagni formavano una linea precisa che terminava in un groviglio di cadaveri, come una lunga narrazione della loro lenta marcia verso la morte. Di colpo il lamento riprese, ancora più forte e più straziante, e questa volta lei capì che aveva origine al di là di una modesta altura
alla sua sinistra. Sebbene fosse l'ultima cosa al mondo che voleva fare, Nemo ripose la spada nel fodero e premendosi la mano sinistra sul voluminoso tampone applicato alla ferita si avviò barcollando verso quel suono spaventoso. Procedette con cautela passo dopo passo, stupita di avere ancora la capacità di muoversi, appoggiandosi a tutto quello che era in grado di reggere il suo peso lungo la salita. Prima ancora di arrivare alla cima vide la corona degli alberi e riconobbe subito con terrore ciò che rappresentavano: un circolo druidico di antiche querce che torreggiavano sugli arbusti circostanti. Proseguì finché non riuscì a vederli chiaramente dall'alto e rimase sconvolta, ma non sorpresa, di scoprire che le grida inaudite provenivano da lì. Di colpo, oltre il velo delle lacrime causate dallo sforzo di risalire quel leggero pendio, si stagliò di fronte a lei, enorme, l'immagine del volto di suo padre, odiato e temuto per tutta l'infanzia e ormai da tempo dimenticato. Era venuto per lei, lo sapeva, e quelle urla erano sue: rabbia e rancore, odio e disperazione si mescolavano in un richiamo imperioso e implacabile. Un brivido le percorse le membra al ricordo del cieco terrore che aveva provato inseguendo la strega, Cassandra, fino al suo rifugio. Ma aveva ucciso la strega e forse, con l'aiuto degli dèi, avrebbe ucciso lo spettro di Leir il druido allo stesso modo: col ferro. Intontita e malferma sulle gambe, Nemo estrasse di nuovo la spada e scese verso il circolo di querce. Non fece caso al tempo che impiegò per raggiungere la quercia più vicina, avanzando lentamente e faticosamente tra le macchie di biancospini e di noccioli cresciuti intorno al cerchio in un tempo immemorabile. La sua attenzione era tutta rivolta alle grida che sembravano farsi sempre più deboli e meno penetranti man mano che si avvicinava. Finalmente raggiunse il primo grande albero e appoggiò il viso contro la corteccia, con le gambe tremanti e il corpo madido di sudore. E mentre esausta cercava di convincersi ad andare avanti, una mano si posò sulla sua spalla. Con un urlo di terrore Nemo si voltò e colpì alla cieca con la sua daga, come anni di addestramento militare le avevano insegnato. Ma dietro di lei non c'era uno spettro, come aveva immaginato, bensì un uomo, e mentre gli affondava la lama della spada nel collo indifeso lo riconobbe. Era Noric, quello che l'aveva accompagnata a
prendere l'armatura il giorno prima. Con espressione stupita l'uomo chinò la testa per guardare la lama che l'aveva ucciso, poi la luce nei suoi occhi si spense. Il suo corpo si piegò in avanti trascinato dall'arma che Nemo tentava di estrargli dal collo, e lei gli posò la mano sinistra sul petto e lo spinse via, liberando la spada mentre lui crollava a terra. Poi si voltò immediatamente verso il cerchio di alberi, conscia che il violento sforzo di ucciderlo le aveva riaperto la ferita al fianco. Le urla erano nuovamente cessate. Nemo abbassò lo sguardo sulla spada ancora insanguinata, poi la sollevò e riprese ad avanzare. Notò subito un movimento sotto l'albero più vicino, alla sua destra, ma all'inizio non riuscì a distinguere ciò che stava accadendo. Strizzò le palpebre, strofinandosi gli occhi con la manica, e finalmente vide di cosa si trattava: erano due uomini, uno dei quali stava appendendo l'altro a un ramo basso della quercia dopo avergli stretto una corda intorno al petto. L'uomo appeso sembrava morto, il volto senza barba era esangue, e Nemo si accorse che aveva le mani e i piedi amputati. L'altro, coperto di sangue e riconoscibile solo dalla mole, era Lagan il Saggio. Nemo non perse tempo a chiedersi cosa stesse facendo o chi fosse il suo compagno. Sapeva soltanto che doveva portare Lagan da Uther. Questo aveva ordinato il re, e per lei nulla contava di più che obbedire ai suoi voleri. Cercò di chiamarlo per nome, ma dalle sue labbra non uscì che un brontolio strozzato e a quel suono Lagan reagì immediatamente. Nemo vide l'uomo portarsi rapidamente una mano alla cintura e scagliare qualcosa verso di lei, mentre il cadavere crollava a terra, ed ebbe appena il tempo di capire che si trattava di un'ascia roteante prima che l'arma affondasse nel suo cranio, uccidendola all'istante. Lagan il Saggio le lanciò un'occhiata distratta mentre recuperava l'ascia dal cranio sfondato, ma anche se l'avesse guardata con più attenzione, Nemo era comunque irriconoscibile. Con l'arma in mano, l'uomo rimase acquattato guardandosi intorno finché, non fu convinto che non c'erano altri aggressori, poi tornò al suo lavoro infilando il manico dell'ascia nel cinturone che portava in vita. Giunto accanto al cadavere, Lagan raccolse la fune e cominciò a
riavvolgerla, osservando il ramo sopra la sua testa. All'improvviso, però, notò che il morto aveva una grossa e sfarzosa borsa di broccato legata in vita e si chinò a tastarla. «Oh, Gully, Gully, Gully» bisbigliò con voce impastata. «Cosa abbiamo qui? È perfetta. Su, ora ti metto a sedere.» Afferrò il cadavere per le spalle e lo trascinò fino alla base della quercia, mettendolo seduto con la schiena appoggiata al tronco. Poi, dopo essersi assicurato che non cadesse in avanti, si piegò per slacciare la cintura intessuta a colori vivaci che gli cingeva la vita. «Ecco qui» brontolò, sollevando la borsa e sciogliendo i legacci prima di rovesciarne il contenuto sull'erba. «Ora possiamo fare le cose per bene, Gully. Non posso mandarti all'altro mondo senza tutti i tuoi pezzi.» Si voltò a scrutare fra l'erba e muovendosi come un ragno andò a recuperare le mani e i piedi recisi disseminati intorno a lui. Quando li ebbe raccolti tutti nell'incavo del braccio, tornò a inginocchiarsi davanti al cadavere e li depose ordinatamente di fronte a sé, poi riprese la borsa e allargò il laccio che la chiudeva. «Ora,» sussurrò «prima i piedi, così si fa.» Le caviglie frantumate dei piedi erano irte di aguzzi frammenti d'osso, a dimostrazione della difficoltà incontrata a rimuoverli dalla loro sede naturale. «Stai guardando, Gully, ci vedi? Non vorrai morirmi proprio ora! Resta con me, abbiamo quasi finito. Ecco. Due piedi e due mani, di cui una con due dita quasi mancanti. Colpa tua, Gully. Non volevi star fermo.» Quella che era stata la mano sinistra di Gulrhys Lot mostrava chiari segni di tre distinti colpi d'ascia uno dei quali aveva quasi amputato due dita, il mignolo e l'anulare, mentre un secondo, meno violento, aveva sfondato il dorso della mano, frantumando le ossa senza penetrare del tutto nella carne. Il terzo era stato un colpo netto e deciso che era affondato direttamente nel polso tranciando la mano. Lagan il Saggio la infilò nella borsa e si protese a prendere l'altra. Il polso della mano destra recava le tracce di due colpi violenti e sovrapposti, e il dito indice portava ancora il massiccio anello d'oro col sigillo del Cinghiale, simbolo personale di Lot. Lagan alzò il suo
trofeo per mostrarlo al morto, come se questi potesse ancora vederlo e apprezzarlo. «E qui c'è il tuo sigillo. Lo vedi? Per fortuna questa borsa è grande abbastanza. Ora, se mettiamo questa mano con l'anello sopra l'altra, gli dèi vedendoti ti riconosceranno, Gully. Vedranno un re, proprio come volevi tu. Ti riconosceranno per il fetente mucchio di merda che sei, amico mio, mio vecchio e fidato amico.» Legò insieme le due estremità della cintura e la appese al collo del cadavere, poi si rialzò, raccolse la fune e la riavvolse accuratamente prima di lanciarla oltre il ramo. Senza degnare il corpo di un'occhiata, lo issò assicurando la fune al possente vecchio tronco e quand'ebbe finito fece un passo indietro, alzando lo sguardo sul morto che dondolava sopra di lui. «Ecco fatto. Ora sei sopra tutti gli altri, come hai sempre voluto essere. Quando gli dèi verranno a cercarti, mostra il tuo potente sigillo e di' che è stato Lagan il Saggio a mandarti.» Afferrò il cadavere penzolante per una gamba e con una spinta violenta lo fece ruotare su se stesso, poi affondò il volto fra le mani e cadde in ginocchio gridando il nome della moglie così forte da rimanerne sconvolto. Solo dopo molto tempo si rialzò e si guardò intorno con aria minacciosa, con l'ascia in pugno, prima di scomparire nella foresta, lasciando che il circolo dei druidi tornasse al suo silenzio turbato solo dal ronzio delle mosche intorno al sangue appena versato. A due miglia di distanza, Uther aveva smesso di pensare a Lagan il Saggio e stava ormai per cedere alla disperazione. Secondo i suoi calcoli doveva essere da poco passato mezzogiorno, e sotto di lui i suoi soldati venivano massacrati, sopraffatti da un esercito così numeroso da travolgere le sue formazioni ben addestrate e di norma insuperabili. Circa tre ore prima era stato avvistato l'esercito proveniente da sud, una massa impressionante e ben ordinata che si era riversata nella valle dal lato orientale lanciandosi inesorabilmente all'attacco dei miseri ranghi della sua fanteria. Le truppe da nord si erano unite a loro con entusiasmo, circondando completamente le forze drammaticamente inadeguate di Uther. E oltre il clamore degli
scontri che si svolgevano giù nella valle, al re giungeva chiaramente il rumore delle schermaglie in atto sopra di lui, dove arcieri e fanti stavano combattendo quella che si preannunciava una battaglia persa contro le forze ignote che risalivano l'altro versante della collina. Tre eserciti coalizzati in un unico scontro: diecimila uomini, forse più, contro i suoi duemila. Un'ora prima aveva guidato lui stesso il primo vittorioso assalto della cavalleria alla testa di duecento uomini, calando da destra verso sinistra lungo le linee assediate e seminando la morte tra la massa compatta dei nemici. Philip, l'ufficiale di Camelot, aveva condotto una carica altrettanto veemente dalla parte opposta, muovendosi da sinistra verso destra, incrociando il contingente di Uther a metà del percorso. L'attacco era risultato miracolosamente efficace e aveva permesso alla fanteria duramente provata di Camelot di serrare di nuovo i ranghi, ma per quanto devastante fosse stata quella doppia aggressione, era come uno schiacciamosche contro uno sciame di api, e il nemico aveva ricominciato a incalzare appena la carica della cavalleria era passata. La cosa peggiore, disgraziatamente, era che la manovra aveva funzionato una volta sola. La seconda ondata di cavalieri era stata accolta dagli avversari, ormai avvertiti, da una fitta barriera di lance, nascoste fino all'ultimo momento dalle truppe in prima linea. I lancieri avevano ignorato i soldati puntando a massacrare i loro animali, e così i pesanti cavalli erano crollati rovinosamente senza riuscire a penetrare le compatte formazioni che avevano di fronte. Uther, furibondo, aveva assistito alla scena dall'alto senza poter fare nulla per cambiare la situazione. D'improvviso si sentì chiamare e voltandosi lentamente vide Garreth il Fischiatore che veniva verso di lui in compagnia di Dedalo, portando un cumulo di abiti multicolori che le dame di Ygraine avevano abbandonato prima della fuga. «Uther! Scendi da cavallo! Vieni qui!» Allibito, Uther smontò e colse subito l'occasione che gli si offriva per dar sfogo alla sua rabbia.
«Per tutti gli dèi, cosa state facendo voi due? Ci stanno massacrando laggiù, e voi raccogliete abiti da donna?» «Già» rispose seccamente Dedalo. «E ci stanno massacrando anche là in alto. Siamo spacciati, Uther. La battaglia è finita, salvo per quelli che moriranno. Non possiamo far altro che salvare il salvabile e tentare di vivere per combattere ancora.» Uther lo fissò senza capire, poi scosse la testa. «Vivere per combattere, che vuoi dire con questo? Stai forse suggerendo che dovremmo fuggire? Abbandonare il campo? Dannazione, se dobbiamo morire moriremo, quindi diamoci da fare!» «No, Uther, non dobbiamo morire tutti. Dedalo ha trovato un modo per limitare le perdite. Con questi.» Garreth il Fischiatore mostrò il mucchio di abiti che portava in braccio. «Diglielo, Ded.» «Con questi...» Dedalo lasciò cadere il suo fagotto per afferrare il mantello rosso di Uther «...e questo. Lo conoscono tutti, quei bastardi laggiù. Ti hanno visto comandare la carica e sanno chi sei. Abbiamo un'opportunità di impedire il massacro, ma tu devi fuggire insieme alle donne.» «Quali donne? Sei impazzito? Credi che me la darei a gambe come Lot? Ti ha dato di volta il cervello!» «No, il mio piano funzionerà. Ma anche se non funzionasse, ci darà almeno la possibilità di fare qualcosa.» Dedalo si interruppe, accorgendosi che il re non riusciva a seguirlo. «Ascolta, Uther. Questi abiti sono troppo sgargianti per passare inosservati, come hai detto tu stesso. Per questo le donne hanno dovuto toglierseli. Sarebbero state visibili per miglia. Lo stesso vale per te. Anche tu lo sei, con quel mantello rosso e oro. Se facciamo montare dietro i nostri cavalieri degli uomini che indossano questi vestiti, sembreranno delle donne visti da laggiù. E se tu ti metti alla testa del gruppo, con il resto della nostra cavalleria e il tuo portabandiera davanti, e ti muovi verso sud-ovest lungo il fianco della collina, cosa credi che faranno quei bastardi vedendoti partire?» «Scoppieranno a ridere, cosa che farei anch'io se ne avessi la forza.» «Già, può darsi» disse Garreth il Fischiatore, «ma ti seguiranno,
bramosi di catturare e uccidere un re e di godere delle sue donne. Lot li ricompenserebbe lautamente se gli portassero la tua testa. E se loro ti seguono, se almeno la metà di loro ti seguirà, i nostri ragazzi qui sotto avranno altrettante probabilità in più di sopravvivere a questa giornata. Sono stati battuti dal numero, non dai guerrieri o dalla loro tattica.» Affranto, Uther si guardò intorno in silenzio, poi annuì e si slacciò il mantello. «Può funzionare. Fate indossare questo a qualcuno, insieme all'elmo, e mettete in atto il vostro piano.» Dedalo scosse la testa. «Così non va, Uther. Non può essere un altro ad andare. Devi farlo tu. Sei tu il re.» «Proprio così, io sono il re e non fuggirò lasciando qui i miei uomini a morire.» «Devi, Uther» disse Garreth in tono pressante. «Devi. È l'unica scelta ragionevole. Perderemmo tutto quello in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo combattuto se tu morissi qui lasciando la vittoria a Lot inutilmente. Scappando rischi lo stesso di farti ammazzare da qualche altra parte, ma almeno avrai una probabilità di sopravvivere e mettere insieme un altro esercito. Nessun altro può farlo, Uther. Nessuno. Forse Merlino, un tempo, ma adesso non più. Ci sei solo tu ormai. Tu devi vivere per combattere ancora ed eliminare Lot, vendicando coloro che sono morti qui oggi. E se parti subito, salverai più vite fuggendo di quante potresti salvarne restando.» Uther esitò, ancora riluttante ma quasi convinto, e Dedalo unì la propria voce a quella di Garreth. «Noi rimarremo qui e terremo insieme l'esercito, o quel che ne rimane. Fidati di me, Uther. So che quando ti vedranno andar via - e faremo in modo che ti vedano bene - quei figli di puttana laggiù penseranno che tu stia fuggendo con le tue donne e ti braccheranno come cani dietro a un cervo. Ma dovranno risalire questa collina per prenderti, tu sarai a cavallo, e loro vedranno solo un piccolo gruppo partire con te. Ti faremo precedere dal resto della cavalleria, di nascosto, lungo lo stesso itinerario seguito dalle donne. Vi ricongiungerete dall'altra parte delle colline, e quando quei bastardi ti raggiungeranno, ammesso che ci riescano, ti troveranno a capo di quattrocento, quasi cinquecento cavalieri, e le "donne" che
avrebbero dovuto rallentare il tuo cammino si riveleranno degli arcieri Pendragon. Che ne dici?» Uther spostò lo sguardo da Dedalo a Garreth il Fischiatore. «Garreth, non posso credere che sia tu a dirmi questo... a dirmi di abbandonare il mio esercito per salvarmi la pelle. Sei il mio più vecchio e caro amico... quindi ti chiedo di essere sincero con me, di parlarmi non come amico, ma come Campione del re. Credi, in tutta onestà, che sia questa la linea d'azione che dovrei seguire per il bene di tutti?» Garreth il Fischiatore annuì lentamente, fissando il suo re dritto negli occhi. «Sì, Uther. Lo credo fermamente. Credo che sia tuo dovere e tuo onere, in quanto re. E so quanto questo ti costi. Ma tieni a mente la convinzione di tuo padre, e di suo padre prima di lui: viene il momento in cui un re deve sopportare il fardello di essere molto più di un uomo comune. Quel fardello si chiama dovere, e il dovere di un re è quello di salvaguardare il suo popolo.» Uther si voltò per nascondere le lacrime, angosciato dalle parole del Campione del re, e dopo un lungo e teso silenzio, si girò verso i due amici e colleghi e parlò, con la voce traboccante di rassegnazione e di rimorso. «Così sia, dunque. Fuggirò. Date disposizioni, e che gli dèi vi proteggano entrambi.» «Tutti noi, Uther. Che proteggano tutti noi, compresi i nostri uomini ancora vivi laggiù nella valle, e tuo figlio e sua madre. Se farai in fretta, li raggiungerai senza difficoltà. Sono a piedi e non hanno strade da seguire, quindi dubito che possano andare molto veloci.» Dedalo cominciò a dare ordini spedendo uomini in tutte le direzioni, e Garreth il Fischiatore si mise a districare e a disporre gli sgargianti abiti femminili che gli arcieri di Uther avrebbero indossato cavalcando dietro i soldati a cavallo. Ancor prima che i resti dell'esercito scomparissero alla sua vista, mentre procedeva lentamente sulla collina a ovest della vallata da cui era arrivato l'esercito meridionale, Uther capì che lo stratagemma
di Dedalo stava funzionando. Un lungo boato si era levato tra i nemici quando alcuni di loro avevano visto e indicato agli altri le "donne" che aggrappate alla schiena dei cavalieri si allontanavano con andatura incerta, seguendo l'enorme stendardo rosso e oro di Uther. Un movimento lento ma crescente dal luogo della battaglia verso l'imbocco della valle aveva annunciato l'inizio di una frenetica caccia all'uomo, scatenata come previsto dalla prospettiva di catturare un re in fuga con il suo seguito di nobili dame. Uther si premurò di rimanere in vista e di muoversi senza fretta, esagerando le difficoltà che incontrava lungo il cammino, finché il fondo della valle non fu pieno di uomini che correvano e cominciavano a inerpicarsi sul colle in direzione del gruppetto a cavallo. Uther non avrebbe saputo dire quanti fossero, ma ben presto fu chiaro che una volta creatasi, la marea di inseguitori si era gonfiata al massimo, perché pochi erano disposti a lasciare un bottino così ricco nelle mani di quelli più avidi che li avevano preceduti. Vedendoli sciamare sotto di lui, Uther cominciò a sperare che il resto del suo malconcio esercito riuscisse a riorganizzarsi e a sopravvivere alla catastrofe che l'aveva colpito. Lo strazio per averli abbandonati, tuttavia, era intollerabile, e Uther cavalcava immerso in un amaro, rabbioso silenzio. Mantenne un'andatura lenta per oltre quattro miglia, frenando la sua cavalcatura e tuttavia distanziando facilmente i primi inseguitori che gli stavano alle calcagna. Poi, quando vide i fianchi della collina brulicanti di uomini che si arrampicavano, fece cenno ai suoi di cambiare direzione e di accelerare, raggiungendo la vetta e poi scendendo dal lato opposto fino alla vallata dove oltre quattrocento cavalieri lo attendevano per unirsi ai suoi quaranta. Da lì in poi divorarono la strada, lasciandosi alle spalle un certo numero di arcieri perché gli inseguitori li vedessero e si illudessero di averli quasi raggiunti; ogni mezz'ora una squadra tornava indietro per dare loro il cambio, creando un costante flusso di soldati tra il contingente principale e le orde di nemici. Impiegarono meno di un'ora a raggiungere il gruppo di Ygraine alla fine della valle, poiché le donne, prostrate dalla difficoltà di attraversare a piedi la foresta senza un sentiero da seguire, stavano
ormai arrancando. Gli uomini della regina, frustrati dagli scarsi progressi compiuti, avevano sentito avvicinarsi il gruppo di Uther e si erano raggruppati intorno alle dame, pronti alla morte. Sorpresa e felice di rivederlo a sole sei ore da quand'era partita, Ygraine volle sapere immediatamente com'era andata la battaglia, ma Uther le fece cenno di tacere e non perse tempo a spiegare cos'era accaduto. Sottraendosi alle sue domande, diede ordine di far montare le donne in sella dietro i cavalieri, mentre gli arcieri, doloranti e indolenziti per la lunga cavalcata, smontavano e si sgranchivano le gambe. Malgrado la rabbia e lo sconforto, Uther accolse con piacere Ygraine sul suo cavallo, seduta di fronte a lui, e ordinò a uno dei suoi comandanti di caricarsi sulle spalle il bambino. Solo allora chiamò il capo delle guide locali che avevano scortato le donne. «A che distanza siamo dal fiume, ora?» L'uomo alzò le spalle e indicò il ruscello che scorreva sul fondo della valle. «Una lega, forse una e mezzo. Non di più. Tutti questi corsi d'acqua finiscono nel Camel. Mantenendo questa direzione lo incontreremo a circa una lega dal mare.» «Ne sei sicuro?» «Sì, assolutamente. Ho passato tutta la vita fra queste colline. Vedi come si abbassano man mano che ci muoviamo verso sud, mentre gli alberi diventano sempre più alti? Ciò significa che ci stiamo avvicinando al Camel. Quando saremo laggiù, non vedrai un'altura fino alle scogliere sulla costa, ancora più a sud.» «Bene, allora muoviamoci. Anche se la strada dovesse peggiorare, possiamo coprire una lega in meno di un'ora, quindi dovremmo arrivare alla costa prima di notte.» Si voltò per sussurrare all'orecchio di Ygraine: «Se tuo fratello è puntuale, dovrebbe essere già lì. A che distanza dalla foce del fiume ti aspetta?». «C'è un punto di approdo, una baia con una spiaggia che digrada bruscamente verso il mare sotto il terzo promontorio a sud della foce del fiume. Non l'ho mai vista, ma è quel che mi ha detto Calum, ed è lì che ci aspetterà Connor. Verrai con noi?» «No, non posso, non ancora, ma mi accerterò che tu sia arrivata
là senza rischi prima di lasciarti.» Diede il segnale di ripartire, e mentre i suoi si muovevano in colonne di quattro uomini affiancati, notò la macchia gialla dell'abito di Dillys infilato nella cintura di uno di loro. Si accorse allora che molti degli altri cavalieri si erano portati dietro gli abiti a tinte vivaci che i loro passeggeri "donna", una volta lontani dagli inseguitori, avevano abbandonato. «Abbiamo con noi i vostri abiti, quelli che vi ho costretto a lasciare stamattina. Li abbiamo usati per far credere ai nemici che foste con noi, in modo da distoglierli dal nostro esercito. Te li consegnerò quando ci fermeremo, e tu li farai indossare alle tue dame quando avrete raggiunto la costa... ma solo allora, non prima.» Ygraine si volse verso di lui. «Perché? Hai detto che erano troppo sgargianti, ed è vero. Tu li hai usati proprio per questo. Il tuo stratagemma ha funzionato?» «Sì, ci hanno seguiti e ora sono dietro di noi. Ecco perché dobbiamo muoverci in fretta. Ma una volta sulla costa quegli abiti colorati, facilmente visibili, attireranno l'attenzione dei tuoi amici. Ciò che è da evitare qui sarà utile laggiù.» Ygraine era ancora girata verso di lui, con il collo piegato per guardarlo in faccia. «Cos'è successo stamattina, Uther? Non puoi avere avuto il tempo di vincere prima di raggiungerci.» Il re scosse la testa sfuggendo gli occhi di Ygraine finché lei non si girò e tornò a guardare di fronte a sé, ma dopo un po' cominciò a parlarle all'orecchio, raccontandole con voce bassa e amareggiata come avesse vergognosamente abbandonato il suo esercito. Lei ascoltò la sua confessione senza interromperlo e solo quando la voce di lui si spense parlò, con gli occhi fissi davanti a sé ma premendosi la mano di Uther sul ventre. «Hai degli amici saggi, sire di Cambria, e coraggiosi. Dovresti essere orgoglioso di loro. Il consiglio che ti hanno dato era giusto e sensato. Hai fatto ciò che dovevi fare e in questo modo hai salvato centinaia di vite che sarebbero andate perdute. Non solo quelle di coloro che sono qui con te, ma anche quelle di coloro che sono
sopravvissuti dopo la tua partenza. Non hai motivo di vergognarti o di sentirti in colpa. Lot era là?» Ygraine udì appena la risposta. «No, c'erano solo i suoi uomini, a migliaia. Il tuo sposo non ama il pericolo. Eppure pensavo che potesse essere lì, a gongolare...» «Allora lo troverai da qualche altra parte, in un'altra occasione, e lo distruggerai.» «Può darsi.» «Può darsi? Non ho alcun dubbio su questo, amore mio.» «Sì, lo distruggerò, un giorno. Ma dubito che persino il tuo Dio cristiano sappia dirmi come posso trovarlo. Quell'uomo è sfuggente e circospetto come una serpe.» In quell'istante una folata di vento sollevò i lunghi capelli sciolti di Ygraine fino alle guance di Uther e lui si irrigidì, raddrizzandosi sulla sella. Un'altra folata lo colpì, e il re fermò il cavallo finché non giunse una terza raffica, più forte delle precedenti, e il vento cominciò a soffiare stabilmente da sud. Uther attese per vedere se si calmava, ma lo sentì rafforzarsi. Uno squadrone di cavalleria stava partendo in quel momento per andare a rilevare la retroguardia, ancora impegnata a fare da richiamo agli inseguitori, e Uther agitò una mano per attirare l'attenzione del capo, un celta di nome Declan, che gli stava passando accanto. «Declan, sei in grado di accendere un fuoco? Hai l'occorrente con te?» «Sì, signore.» «Bene, allora ho un compito da affidarti. Gli dèi ci hanno mandato questo vento e dobbiamo sfruttarlo. Torna indietro con i tuoi uomini come previsto e da il cambio alla retroguardia, ma durante il cammino osserva attentamente il punto in cui la valle si allarga, a meno di mezzo miglio da qui. Laggiù è pieno di erbe alte e secche e di cespugli. Lascia qualcuno dei tuoi uomini laggiù ad accendere un piccolo fuoco, sufficiente a fornirvi un buon numero di torce accese quando ne avrete bisogno. Poi andate a rilevare gli
uomini della retroguardia e quando loro saranno lontani e al sicuro abbandonate il campo. Fate in modo che il nemico vi veda scappare, e vi insegua. Poi, quando sarete arrivati al punto in cui hai lasciato i tuoi uomini, date fuoco all'erba. Incendiatela, capito? Fermatevi tutto il tempo necessario per diffondere le fiamme in modo che il fuoco non possa estinguersi. Questo vento da sud farà il resto, incanalando il fumo e le fiamme nella valle, verso il nemico. Ora va', e fa' quel che ti ho detto.» Il capo dello squadrone salutò e spronò il cavallo al galoppo. Uther posò di nuovo la mano sul ventre di Ygraine. «Se funziona, questo ci risparmierà un sacco di guai. E adesso cerchiamo il fiume Camel.» Poco tempo dopo giunsero in un punto in cui la valle si divideva in due tronconi, uno dei quali si protendeva verso est alla loro sinistra. Uther si fermò per interrogare la sua guida e l'uomo gli disse che la valle orientata a est conduceva a una via molto frequentata che attraversava l'intera penisola della Cornovaglia, intersecando una delle strade minori costruite dai Romani. Quest'ultima, a sua volta, si collegava all'arteria principale che correva da nord a sud toccando la città abbandonata di Isca. Uther valutò per un po' quell'informazione, poi fece scendere Ygraine e andò incontro a Declan che era di ritorno. La valle era in fiamme, riferì l'uomo, e il vento sostenuto aveva fatto dilagare l'incendio verso nord come un fiume di fuoco. Non aveva notizie dei suoi effetti sugli inseguitori, ma difficilmente sarebbero tornati a fiatare sul collo di re Uther molto presto. Uther lo ringraziò e raggiunse i suoi ufficiali che lo stavano aspettando. Il comandante anziano del gruppo di cavalieri era Philip, e Uther andò direttamente da lui per comunicargli la decisione che aveva preso forma nella sua mente quando aveva parlato con la guida della Cornovaglia. Philip doveva prendere con sé i sette ottavi del loro attuale contingente, circa trecentosessanta tra soldati e ufficiali, e ricondurli immediatamente in patria. Le truppe rimanenti un doppio squadrone di Dragoni composto da quaranta uomini e cinque ufficiali - avrebbero scortato la regina e le sue dame insieme a Uther, per appoggiare la guardia personale di Ygraine e i trenta
arcieri Pendragon che l'accompagnavano. Il gruppo così formato avrebbe superato le cento unità, più le donne. Uther non si aspettava problemi a sud, ma se anche si fossero presentati riteneva che il suo piccolo contingente sarebbe stato in grado di affrontarli. Philip era dubbioso sull'opportunità di dividere le forze, ma rimase saggiamente in silenzio limitandosi a chiedere a quale distanza il re prevedeva di trovarsi da lui e dai suoi uomini, una volta accompagnata la regina al luogo del suo appuntamento. Uther stimò che non sarebbero passati più di tre giorni prima che ripartissero per raggiungere Philip, ma gli proibì tassativamente di aspettarli. Il suo compito era quello di portare gli uomini a Camelot sani e salvi il prima possibile. Philip ascoltò, annuì e senza esprimere opinioni sulla decisione del re cominciò subito a riunire le sue truppe. Uther attese finché gli altri non scomparvero diretti a est, poi diede il segnale di riprendere la marcia verso sud. All'orizzonte, dietro di loro, il cielo era oscurato da una bassa, densa nuvola di fumo.
XXI. Raggiunsero il fiume Camel un'ora prima del tramonto, quando ormai la brezza da sud si era trasformata in un vento di burrasca, sia pur senza pioggia. Uther lasciò indietro una squadra di cavalleria, piazzandola sul punto più alto per controllare che non ci fossero movimenti ostili lungo la strada che avevano seguito. Non riteneva che potessero giungere ancora dei pericoli da quella direzione, ma preferiva non rischiare. Aveva deciso di accamparsi per la notte in qualche punto riparato lungo l'ultima lega che li separava dal mare. Il fiume era placido, né ampio né profondo, anche se la guida locale aveva spiegato che ciò dipendeva dal periodo dell'anno, e che in inverno e in primavera era impossibile guadarlo. Uther se n'era già accorto dal fatto che su entrambe le rive c'erano ampie distese di ciottoli e che gli alberi e i cespugli sui due lati, sommersi durante le piene, erano costellati di rami secchi portati dalla corrente; la comparsa di erbe morte e di muschi attaccati ai ciottoli segnava il livello massimo raggiunto dalle acque. Oltre il bacino alluvionale, da una parte e dall'altra, la foresta era fitta, anche se gli alberi di grande dimensione erano rari. Uther costeggiò il fiume controllando attentamente la vegetazione su entrambe le sponde, ma la zona non gli parve né sospetta né disagiata e la sua intenzione di accamparsi nell'entroterra si rafforzò. Non aveva nessuna voglia di proseguire e di arrivare sulla costa nella piena oscurità, cosa che lo avrebbe costretto ad accamparsi in fretta in un luogo inesplorato dove potevano ritrovarsi in trappola, con il mare alle spalle. Le belle tende di pelle con tutte le loro comodità erano rimaste sulla terrazza che dominava il campo di battaglia e dunque la loro sistemazione per la notte sarebbe stata piuttosto spartana. Avrebbero dormito per terra, sotto le stelle, avvolti nei loro mantelli, cosa alla quale tutti loro, tranne la regina e le sue dame, erano abituati. Meglio dunque, pensò Uther, dormire sul fango secco depositato dal
fiume, che era relativamente morbido, piuttosto che sulla superficie sassosa e dura di una spiaggia marina. Trovarono infine un luogo sicuro sulla sponda opposta del fiume, a metà strada tra il punto in cui avevano incrociato il Camel e quello in cui il fiume si gettava in mare; appena Uther lo ebbe giudicato soddisfacente diede l'atteso segnale di smontare. Il posto era ombreggiato da enormi sempreverdi e aveva alle spalle un'alta parete di roccia da cui scaturiva una sorgente di acqua chiara che si riversava sui ciottoli a lato del fiume. Appena smontati, alcuni uomini affidarono i loro cavalli ai compagni e cominciarono ad accendere fuochi e preparare il bivacco, mentre altri andavano a procurare del cibo per la cena. Quelli rimasti si divisero il compito di dissellare e strigliare i cavalli degli altri, dopo essersi occupati dei propri. La caccia fu fortunata: c'erano pesci nel fiume e cervi nella foresta, e la stanca comitiva ebbe cibo in abbondanza per quella sera. Più tardi, prima ancora che venisse buio, Uther osservò sorridendo il figlio neonato che veniva lavato con acqua calda e preparato per la notte; poi, mentre il bimbo attaccato al seno della madre cominciava a strizzare i magnifici, strani occhi dai riflessi dorati fino a chiuderli definitivamente, rimase in piedi alle spalle di Ygraine, sfiorandole il collo con una mano. Intorno a loro l'accampamento era in preda a una piacevole eccitazione per la fine di quella faticosa giornata e gli aromi stuzzicanti del pasto quasi pronto. Le sentinelle del primo turno di guardia erano al loro posto e nulla turbava la pace della serata, ma un'improvvisa, familiare sensazione di formicolio alla nuca indusse Uther a voltarsi distrattamente per controllare chi lo stesse guardando. Non vide nessuno, e scacciò quella sensazione rivolgendosi nuovamente alla sua nuova, piccola famiglia. Ygraine andò a sistemare il bambino nel suo involucro di pelle e Uther la aiutò a tenerlo aperto finché lei non si fu assicurata che il piccolo fosse ben riparato e comodo per la notte. Poi, affidatolo alle cure di Dyllis, i due si avviarono lentamente mano nella mano, commentando con soddisfazione il dolce carattere del figlio, verso il centro della radura, dove gli uomini che avevano preparato i vari piatti erano pronti a servirli. Uther tagliò per ognuno un grosso
pezzo di carne di cervo dall'interno della coscia, posandolo su due spesse fette di un pane integrale cotto la notte prima della battaglia, poi condusse Ygraine verso la riva vicino alla sorgente e si sedette al suo fianco, mentre il canto degli uccelli li rassicurava sull'assenza di pericoli nella foresta. Alle loro spalle, tuttavia, dal lato opposto alla parete di roccia, sulla cima erbosa di una collinetta che dominava l'accampamento da ovest, qualcuno li stava effettivamente osservando. C'era un uomo disteso lassù, nascosto dietro una macchia d'erba. Giaceva quasi immobile, raccogliendo le forze e osservando la scena sottostante, e intanto si grattava macchinalmente il mozzicone dell'unico dito rimastogli alla mano sinistra. Lui e i suoi compagni erano riusciti per un pelo a sfuggire all'incendio arrampicandosi sulla cresta occidentale e mettendosi al sicuro nella valle successiva, dove si erano fermati a riposare in attesa che il loro capo decidesse cosa fare. Sapevano che il nemico che stavano braccando non poteva essere lontano, e che le donne rallentavano la marcia dei fuggitivi dando agli inseguitori la possibilità di raggiungerli. Ma ora si trovavano dalla parte sbagliata della cresta e le colline sul lato opposto erano in fiamme. Prima o poi avrebbero dovuto tornare sui propri passi e riguadagnare la valle che avevano appena lasciato. Il capo lo sapeva, e convocate le sei staffette più veloci tra gli ottanta uomini che gli erano rimasti, le aveva spedite a sud, intimando loro di correre il più lontano e il più in fretta possibile fino a trovare un punto in cui riattraversare la cresta e rintracciare il nemico. Il Monco, che era il più forte, si era lasciato indietro una dopo l'altra le altre staffette prostrate dalla stanchezza, divorando la strada con le sue lunghe gambe muscolose e il suo passo agile. La conformazione del terreno e la densità della vegetazione che ricopriva le colline gli avevano dettato l'itinerario spingendolo sempre più a ovest, lontano dalla cresta che si andava abbassando verso il livello del mare, finché non si ritrovò distante da essa un paio di miglia e circondato da una massa impenetrabile di arbusti spinosi che gli ostacolavano la strada. Era sul punto di crollare a terra e rinunciare quando finalmente era sbucato fuori dalla macchia e si
era ritrovato sulla riva di un fiume. Si era precipitato a bere e a ristorare nell'acqua il suo corpo esausto, poi si era arrampicato sul masso più alto che aveva trovato per cercare un punto da cui controllare la situazione. L'unico possibile era la cima di una collinetta solitaria che sbucava fra gli alberi da cui era appena emerso, a circa una lega di distanza a est. Si era avviato in quella direzione e l'aveva scalata, appena in tempo per assistere all'arrivo del gruppo di Uther nel luogo in cui si erano accampati. Ora, mentre li osservava, sentiva crescere la sua eccitazione. Se fosse riuscito a ritrovare rapidamente i suoi amici, poteva guidarli per la strada appena fatta fino al fiume. I nemici sarebbero passati di lì l'indomani, di buon'ora, e lui e i suoi potevano tendere loro un'imboscata. Con cautela, a testa bassa, il Monco si mosse strisciando finché non fu più visibile dall'accampamento. A quel punto si rialzò, respirò riempiendosi bene i polmoni e con passo fermo si avviò verso nord. Uther e Ygraine avevano appena iniziato a mangiare quando fu dato l'allarme e un cavaliere, solo, entrò al galoppo nell'accampamento. Uther si alzò scordandosi la cena appena sentì gridare il nome di Garretti il Fischiatore, e un'inquietudine profonda lo invase. Malgrado la distanza, aveva riconosciuto Garreth prima ancora di sentire quel grido in lontananza, poiché il Campione del re cavalcava a capo scoperto e i lunghi capelli biondo cenere catturavano gli ultimi raggi del sole. Anche Ygraine si era alzata e gli aveva afferrato il polso per calmarlo e aiutarlo a scacciare le sue paure. Uther sapeva che difficilmente Garreth poteva portare buone notizie, e nella sua mente balenò l'immagine di un campo di battaglia in cui i corvi la facevano da padroni. Sforzandosi di rimanere calmo almeno in apparenza, si sciolse dalla stretta di Ygraine e avanzò lentamente finché Garreth non lo riconobbe e deviò verso di lui, mantenendo il cavallo al passo finché non l'ebbe raggiunto. A quel punto il re aveva già notato un ampio sorriso sul volto dell'amico, ma lo ignorò, irrigidendo il volto in una maschera che non lasciava trapelare nulla. L'unica percezione che contava era quella del comandante:
l'uomo che si avvicinava era solo un subordinato che avrebbe dovuto essere con i propri uomini. Uther si sforzò di tenere sotto controllo la sua immaginazione. Il Fischiatore si fermò e sollevando agilmente la gamba destra oltre la testa del cavallo scivolò giù senza sforzo avvicinandosi per abbracciare il suo re. Ma Uther alzò un braccio per arrestarlo e sibilò a denti stretti: «Che cosa fai qui, Garreth? Ti avevo dato chiare istruzioni di rimanere con Dedalo». Garreth il Fischiatore si arrestò, ma il suo sorriso non si spense. «Non aveva bisogno di me. Aveva tutto sotto controllo, e più aiuto di quanto gli servisse. Ho pensato che sarei stato più utile a te che a lui.» Spostò lo sguardo dal volto di Uther a quello di Ygraine che li stava osservando e fece un profondo inchino. «Mia signora, spero che tu stia bene.» «Stiamo tutti bene, Garreth, come vedi. Grazie della tua premura.» «Sto aspettando» disse Uther in tono basso e gelido. «Riferisci.» Il sorriso di Garreth finalmente svanì e l'uomo chinò la testa. «Certo, mio signore. Perdonami. Ho buone notizie sul tuo esercito. Migliori di quel che tutti noi potessimo aspettarci stamattina. Il piano suggerito da Dedalo ha funzionato alla perfezione. I nemici si sono lanciati al tuo inseguimento sempre più numerosi, lasciandoci campo libero.» Uther sbatté le palpebre. «Campo li...? Vuoi dire che sono venuti tutti dietro a noi?» «Sì, signore, è così. Quantomeno la maggior parte. Ma non tutti insieme. I primi vi hanno seguito puntando a un lauto bottino e sperando di catturarvi rapidamente. Poi altri se ne sono accorti e si sono messi anche loro in caccia, sperando di partecipare alla tua cattura e specialmente allo stupro delle donne che credevano tu avessi con te... chiedo scusa, mia signora.» L'ultima frase era rivolta a Ygraine, che si limitò ad annuire e non disse nulla. «A quel punto, altri ancora si sono aggregati finché il flusso di inseguitori è diventato
una marea e quelli rimasti indietro, incerti sul da farsi, si sono resi conto che Dedalo stava rafforzando le sue formazioni preparandosi di nuovo a combattere fino alla morte. Credo che a quel punto ne avessero avuto abbastanza. Ded insisteva che non avevano il coraggio di combattere contro di noi, e che era solo il numero a imbaldanzirli. Aveva ragione. Vedendo che più di metà dell'esercito si era lanciato al tuo inseguimento, gli altri, a tutta evidenza, hanno pensato che fosse meglio imitarli. Di sicuro nessuno di loro è tornato all'attacco. E, come ho detto, ci hanno lasciato campo libero.» «Quanti uomini abbiamo perso, complessivamente?» «Troppi. Più di metà. Ma alla fine avevamo ancora cinquecento soldati in formazione, alcuni con ferite leggere, e più di cento cavalieri sulla collina.» Ci fu un lungo silenzio mentre Uther rifletteva su quelle parole. Intorno a loro gli uomini avevano formato un cerchio silenzioso, ansiosi di ascoltare le notizie portate da Garreth. Il re non tentò di allontanarli, ma quando riprese a parlare alzò lievemente la voce. «Stai descrivendo una vittoria.» Garreth alzò le spalle e sul suo volto riapparve un sorriso, anche se solo l'ombra del precedente. «Sì, re Uther, infatti. Quando un esercito rimane padrone incontestato del campo di battaglia dopo il combattimento, ha riportato una vittoria, quale che sia.» Un brusio di commenti stupiti percorse il cerchio di ascoltatori e Uther, la cui ira era completamente sbollita, li lasciò parlare prendendo Garreth da parte. «Vieni a mangiare, devi essere affamato.» «Come un lupo.» «Già, lo immaginavo.» Uther chiese a un soldato di portare pane e carne a Garreth, poi condusse il Campione nell'angolo in cui si era seduto a mangiare con Ygraine. Garreth scambiò qualche parola con la regina a bassa voce, chiedendole di suo figlio, poi si sedette soddisfatto su un sasso. Uther, traboccante di felicità nello scoprire che i suoi timori erano
infondati, lasciò riposare l'amico per qualche istante, prima di fargli un'altra domanda. «Cos'è accaduto dopo che il nemico si è allontanato?» «Siamo rimasti fermi per un'ora, nel caso che qualcuno di loro tornasse indietro, poi siamo andati a riorganizzarci. Muzio Quinto ha messo in piedi il suo ospedale da campo e si è messo al lavoro, e metà degli uomini sono stati assegnati ai compiti di sepoltura dei morti e di trasporto dei feriti. L'altra metà ha creato una barriera difensiva, anche se non ce n'era gran bisogno. Ormai persino i nemici feriti avevano capito che era tutto finito e che avevamo vinto, e non ci hanno più dato fastidio. Gli assistenti di Quinto si sono occupati anche di loro. Gli ho chiesto il perché e lui ha detto che avevano smesso di essere nemici, e ora erano dei feriti.» «Già, lui la pensa così, come il suo amico Lucano.» Il soldato tornò con la cena per Garreth, che dopo averlo ringraziato si gettò sulla sua razione di carne. Uther e Ygraine rimasero seduti a guardarlo mangiare, senza riprendere il loro pasto interrotto ma godendo semplicemente di essere lì, tranquilli, l'uno accanto all'altra. Alla fine, quando Garreth ebbe trangugiato l'ultimo boccone e bevuto dalla borraccia che aveva al fianco, Uther riprese a parlare. «Hai visto le mie guardie, arrivando?» «Intendi la squadra che hai lasciato a guardarti le spalle? Sì, l'ho vista. C'era Giunio Lepone al comando. Lui e i suoi uomini erano svegli e vigili... metà di loro, almeno. Quelli del turno di notte dormivano.» «Bene. Ora dimmi perché sei qui.» Il Campione del re lo osservò con aria interrogativa. «Me lo stai chiedendo come Uther, mio amico e pupillo, o come Uther Pendragon, mio re e comandante?» «Tutt'e due.» Garreth sbuffò. «Te l'ho già detto, ho pensato di poter essere più utile a te che a Dedalo. Lui aveva con sé gran parte dei suoi ufficiali... ne abbiamo persi relativamente pochi, tenuto conto di
quello che abbiamo passato. Aveva già dato disposizioni per caricare i feriti sui carri e stava riunendo le truppe rimaste per tornare a casa. Non aveva bisogno di me. E poi sapevo quanto ti era costato fuggire in quel modo, e ho pensato che sarebbe stato un sollievo per te sapere com'erano andate a finire le cose. Così ho salutato Dedalo e sono venuto a cercarti, facendo la stessa strada che hai fatto tu.» «Uhm... Il pensiero di tutte quelle truppe nemiche fra noi non ti preoccupava?» «No, finché continuavo ad andare nella loro stessa direzione. Ma dimmi, ti sembro forse più vecchio rispetto all'ultima volta che mi hai visto?» Per la prima volta dall'arrivo dell'amico, Uther sorrise. «No, affatto. Perché?» «Perché credo di essere invecchiato di dieci anni quando hai appiccato il fuoco facendo fuggire quel nido di vespe verso di me. Il vento da sud - immagino che tu abbia ringraziato gli dèi per avertelo mandato — ha trasformato l'intera valle in una canna fumaria, e le fiamme inghiottivano tutto: alberi, cespugli, ogni filo d'erba, e chissà quanti degli uomini di Lot. Sono stato davvero contento di avere un cavallo, credimi, perché in caso contrario sarei stato cotto a puntino come il cervo che ho appena mangiato. Ho visto il fumo che invadeva la valle venendo verso di me e ho immaginato cosa significasse, così ho cambiato direzione e senza fermarmi a pensare ho spronato il cavallo fino in cima alla collina prima che le fiamme mi aggredissero. Era un vero spettacolo, te lo giuro. Mai vista una cosa del genere. Un fiume di fuoco che andava più veloce di un cavallo.» Fece una pausa, guardando lontano, poi spostò lo sguardo su Uther. «Dove sono gli altri? Avevi quattrocento cavalieri. Che fine hanno fatto?» «Li ho rimandati a casa quasi tutti qualche miglio più indietro, dove la valle si biforca.» Uther espose brevemente i ragionamenti fatti allora mentre l'altro lo ascoltava annuendo, ma il re era più interessato a sapere come Garreth era riuscito a raggiungerlo. «Mi stavi dicendo che l'incendio ha funzionato a meraviglia. Va'
avanti.» Garreth alzò le spalle e fece una smorfia. «Be', sono riuscito a sfuggire alle fiamme, come vedi, ma per poco non ci ho lasciato le penne perché non sono stato l'unico a cercare riparo sulla cresta. Mi sono ritrovato in mezzo a un gran numero di persone poco simpatiche lassù. Nessuno di loro sembrava accorgersi di chi ero. Erano tutti troppo occupati a salvarsi la pelle, credo, e a riprendere fiato. Ma dopo un po', uno di loro mi ha dato un'occhiata più attenta e sono dovuto scappare giù dalla collina per togliermi di mezzo. Avrei potuto finir male anche lì, perché il cavallo si è gettato giù dal pendio terrorizzato, ed è rimasto in piedi solo per miracolo. Non so come abbiamo fatto a non ammazzarci. Poi, dopo circa mezz'ora, che sia dannato se non mi imbatto in un gruppo di uomini a cavallo. Per pura fortuna ero sopra di loro e li ho visti prima che loro vedessero me. Passavano fra gli alberi alla mia sinistra, e io ho sentito nitrire uno dei loro destrieri. Doveva essere scivolato e caduto sul pendio. Non sono riuscito a contarli esattamente a causa degli alberi, ma dovevano essere circa una cinquantina. Chiunque fossero, sapevo che non erano dei nostri e ho tentato di tenermi a distanza.» «Vuoi dire che non ci sei riuscito? Ti hanno visto?» «Sì, mi hanno visto e mi hanno inseguito, ma sono riuscito a seminarli.» Uther si accigliò. «Chi potevano essere? Non c'erano cavalli nell'esercito con cui abbiamo combattuto.» «No, infatti. Per questo ho pensato che non facessero parte della marmaglia di Lot. Ma non ho avuto la tentazione di andar loro incontro. Conosco il vecchio motto secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico, ma non riuscirai mai a convincermi che sia vero. E poi, a giudicare dal modo in cui mi sono venuti dietro, non erano ben disposti nei miei confronti.» «E come hai fatto a seminarli?» Garreth scrollò le spalle. «C'era una gobba sul fianco della collina, una specie di protuberanza nella roccia. Mentre loro salivano cercando di prendermi da un lato, io sono ridisceso dall'altro, sono
arrivato in fondo e poi ho deviato di nuovo verso sud, seguendo la strada lungo la valle. In realtà è solo un sentiero, ma passando di lì per andare verso nord l'esercito di Lot l'ha battuta abbastanza da farla somigliare a una strada. Ho cavalcato per circa otto o nove miglia, e quando ho creduto di essere abbastanza lontano da aver seminato qualunque inseguitore, ho risalito di nuovo la cresta e sono tornato nella valle che tu avevi percorso. Ero a sud dell'incendio ormai, vicino alla biforcazione in cui mi hai detto di aver congedato gli altri. Ora che ci penso, non ho visto tracce lasciate dalle centinaia di cavalieri passati per quella strada. Come avete fatto?» «Il terreno era duro in quella zona, tutto qui. Nuda roccia e poca erba. Philip sapeva che era importante non lasciare impronte per chi ci seguiva e si è assicurato che lo capissero anche i suoi uomini.» Si schiarì la gola. «Quindi non hai più visto tracce di questi uomini a cavallo da quando li hai distanziati?» «No, nessuna traccia.» «Bene. Ora andiamo a dormire. È stata una giornata lunga e faticosa, e ne avremo un'altra domani, dopo questa breve notte.» Mentre parlavano si era fatto buio e l'intero accampamento era quasi completamente silenzioso, poiché pochi avevano conservato energie a sufficienza per stare alzati a parlare accanto al fuoco come facevano di solito. Uther cinse con un braccio Ygraine, mentre Garreth il Fischiatore spariva in cerca delle sue bisacce e delle sue coperte, e la condusse accanto a uno dei fuochi vicini. Poi la ricoprì con il suo ampio mantello rosso, drappeggiandoci sopra la sua coperta, e si distese accanto a lei senza levarsi l'armatura, coprendosi anche lui. Si scambiarono qualche bacio e qualche parola di conforto, poi si addormentarono abbracciati l'uno all'altra. Uther fu svegliato prima dell'alba, nella più nera oscurità, dagli uomini che riaccendevano i fuochi. Per qualche istante rimase disteso a guardare le stelle, poi sollevò le coperte e scivolò fuori dal suo letto improvvisato, riabbassandole immediatamente in modo che l'aria gelida non disturbasse Ygraine. Faceva freddo e tutto era bagnato di rugiada, così dopo essersi allontanato dal punto in cui aveva dormito cominciò a battere i piedi e agitare le braccia per scaldarle, sgranchendosi le gambe. Appena capì di poter camminare
senza far scricchiolare le giunture, andò a lavarsi la faccia con l'acqua gelata del fiume. Al suo ritorno, trovò tutti in piedi, anche la regina e le sue dame, e si sedette con Ygraine accanto a uno dei fuochi a fare colazione con la consueta razione di cereali abbrustoliti e nocciole mescolati con frutta secca spezzettata, annaffiandola con l'acqua fresca della sorgente. Da qualche parte sentivano il bimbo piagnucolare e protestare mentre una delle donne gli cambiava le fasce, pulendolo e preparandolo per il viaggio. Poi, quando il primo, debole annuncio del nuovo giorno cominciò a rischiarare il cielo a oriente, tutti si misero a smontare l'accampamento, gli uomini arrotolando e legando le coperte e le donne riunendo le loro poche cose, mentre gli arcieri di Cambria si preparavano alla marcia controllando archi e corde, e ripulendo le lame dall'umidità. I cavalieri verificarono i finimenti e le armi e andarono a prendere i propri animali, sellandoli e imbrigliandoli e fissando le coperte e le bisacce prima di montare in sella. Dopo il breve intervallo di confusione, tornò l'ordine e i soldati si disposero in formazione. Era ormai spuntato il giorno. Uther, a capo scoperto e con l'enorme elmo in braccio, aveva atteso impaziente che si concludessero i preparativi e stava levando il pugno chiuso per dare il segnale di partenza quando dal cerchio più esterno delle sentinelle giunse un grido e un soldato a cavallo avanzò al galoppo verso di loro, lanciando l'allarme. Uther gli andò incontro immediatamente e gli fece cenno di fermarsi, già sapendo quello che il soldato, di nome Curio, stava per dirgli. L'uomo annunciò che un contingente di quaranta o cinquanta cavalieri armati fino ai denti e dotati di armatura si stava avvicinando rapidamente da nord per la stessa strada seguita da Uther il giorno prima. Erano comparsi alle prime luci del giorno, disse Curio, muovendosi lentamente sul terreno sconosciuto e ancora avvolto nell'oscurità, ma il giovane Telas, l'uomo con la vista più acuta fra le sentinelle, li aveva individuati appena erano apparsi e aveva dato l'allarme.
Giunio Lepone aveva subito mandato Curio ad avvertire Uther al galoppo, mentre lui e i dieci cavalieri rimanenti si mettevano al riparo preparandosi a cogliere i nemici di sorpresa. Tutto ciò accadeva circa mezz'ora prima. Curio non sapeva per quanto tempo Giunio Lepone e i suoi dieci uomini sarebbero stati in grado di resistere, e neanche se sarebbero riusciti a trattenere gli sconosciuti, ma aveva cavalcato a briglia sciolta per tutta la strada, fuggendo senza essere visto e sicuro di averli abbandonati alla morte. Uther lo ascoltò, soffocando l'istinto di maledire Garreth il Fischiatore per la sua insubordinazione del giorno prima. Non era affatto certo che gli sconosciuti avessero seguito lui, si disse, forse erano venuti a sud di loro iniziativa, in cerca di bottino. Ma nell'attimo stesso in cui formulava quel pensiero ne dubitò. «Molto bene» disse a Curio. «Vieni con me e stammi vicino, ma tieni la bocca chiusa. Lascia parlare me.» Spronò il cavallo e tornò verso gli altri, tenendosi però a una certa distanza in modo che nessuno potesse sentirlo parlare a bassa voce. «Garreth» chiamò. «Una parola.» Il Fischiatore si avvicinò. «Quegli uomini a cavallo che hai seminato ieri, erano soldati di cavalleria?» Il Campione corrugò la fronte. «No. Erano a cavallo ma si muovevano in modo disordinato e senza alcuna disciplina. Non li definirei soldati di cavalleria. Perché?» «Perché ci stanno piombando addosso proprio in questo momento. Giunio Lepone e i suoi uomini stanno tentando di trattenerli, ma sono in inferiorità numerica. Richiama le sentinelle e mettile in formazione con gli altri. Catone, qui!» Garreth partì e Uther ordinò al giovane comandante di cavalleria di mandare uno dei suoi migliori uomini a cavallo lungo il sentiero alle loro spalle per avvistare il nemico in avvicinamento e riferire a quale distanza si trovava e a quale velocità stava arrivando. Mentre Catone si allontanava, Uther stava già convocando il capitano della regina, Alasdair Mac Iain, il capitano della trentina di
arcieri Pendragon rimasti, Ivor, e Catt, la guida della Cornovaglia. Li informò schiettamente su quanto stava accadendo e ordinò che radunassero i loro uomini e partissero immediatamente per la costa con Ygraine e le altre donne. Erano in sessanta, osservò, probabilmente più che sufficienti a combattere i nemici in arrivo, ma gli stranieri erano a cavallo e apparentemente protetti da armature, e questo avrebbe fornito loro un enorme vantaggio anche contro gli arcieri Pendragon in un combattimento in ritirata. Per questo motivo, lui e i suoi cavalieri sarebbero rimasti indietro per bloccarli, dando al loro gruppo a piedi l'opportunità di raggiungere la costa dove, se gli dèi lo volevano, Connor Mac Athol li stava aspettando insieme alle sue truppe. I tre uomini si guardarono l'un l'altro ma nessuno di loro parlò. Alla fine, Alasdair annuì. «Così sia. Combatti bene, sire di Cambria.» Uther sbarrò gli occhi sentendo quell'appellativo che, per quanto ne sapeva, usava soltanto Ygraine. Poi annuì. «Devo spiegare agli altri cosa sta succedendo e ho bisogno di rimanere solo per qualche istante con tua cugina e mio figlio. Appena avrò finito ce ne andremo, e voi farete lo stesso. Non perdete tempo lungo la strada, amico mio, a costo di portare in braccio qualcuna delle donne.» Salutò i tre uomini, poi si rivolse al resto del suo gruppo ripetendo brevemente ciò che aveva detto ai loro comandanti. Non sprecò parole e non tentò di attenuare l'impatto delle sue affermazioni. Tutti ascoltarono preoccupati, poi i due gruppi, quello a cavallo e quello a piedi, si separarono. Uther si levò l'ampio mantello rosso e lo ripiegò due volte sul braccio prima di affidarlo a uno dei suoi soldati. «Tieni, ripiegalo bene e legalo dietro la mia sella, se non ti dispiace, insieme alla mia coperta.» Smontò da cavallo e andò direttamente da Ygraine, che stava prendendo il bambino dalle braccia di Dyllis. Quando Uther le fu accanto, la regina si girò verso di lui tendendogli il piccolo, che per il viaggio era stato avvolto nella morbida pelliccia di un orso nero che gli lasciava scoperto solo il volto. «Tuo figlio, sire di Cambria. Artù Pendragon. Porta l'emblema dell'orso di tuo cugino Merlino, ma solo per proteggerlo dal freddo
del mattino. È figlio di suo padre sotto ogni aspetto. Bacialo, bacia anche me e auguraci buona fortuna. Poi va' a fare ciò che devi e raggiungici presto. Ti aspetteremo.» Uther baciò il bambino, riempiendosi le narici dell'odore di latte e di pulito del piccolo, poi abbracciò Ygraine. «Uther, amore mio» gli sussurrò lei all'orecchio, facendogli venire la pelle d'oca. «Fa' presto e torna da me appena puoi. Ti amo.» «E io amo te, mia signora. Avrò il tuo nome nella mente e nel cuore qualunque cosa accada. Mio amore. Mia Ygraine. Va', e abbi cura di mio figlio.» Di colpo i suoi occhi si riempirono di lacrime e si strappò rapidamente da lei, tornando al suo cavallo e balzando in sella. «Andate, ora» gridò. «Addio. E possano gli dèi della Cambria proteggervi finché non ci rincontreremo.» Fece voltare il cavallo con un'impennata e puntò il braccio nella direzione da cui erano venuti. Spronò l'animale e partì, sentendo alle sue spalle il cigolio della colonna che si metteva in movimento. Uther guidò lentamente i suoi uomini verso est lungo la riva del fiume, procedendo sulla stretta striscia di sabbia compresa tra la distesa di ciottoli e la fitta foresta. Mentre avanzava teneva d'occhio attentamente la riva opposta e osservò che il terreno laggiù era migliore di quello su cui si trovava. Sulla sponda settentrionale del Camel non potevano avanzare più di due cavalli appaiati, mentre l'alta parete che dominava il lato opposto del fiume aveva favorito la crescita di alcuni grandi alberi tra cui un'ampia macchia di enormi abeti che attirò la sua attenzione. Si rivolse a Garreth il Fischiatore che cavalcava alla sua sinistra. «Spero che Giunio Lepone stia ancora trattenendo quei figli di puttana, perché qui non possiamo combattere e non mi viene in mente un posto migliore fino all'imboccatura della valle da cui siamo venuti.» Garreth brontolò: «Neanche a me, ma è un problema per noi come per loro. Forse dovremo combattere due contro due se li incontriamo in questo tratto, e in tal caso saremo io e te a dover reggere l'impatto. Vuoi tirarti indietro e mettere qualcun altro
davanti?». Uther ignorò il tono scherzoso dell'amico e scosse la testa. «Ti sbagli, Garreth. L'hai detto tu stesso, non stiamo andando ad affrontare dei soldati di cavalleria. Quando sarà il momento scommetto che quei tizi, chiunque siano, salteranno giù dai cavalli e combatteranno a piedi. Ciò significa che potranno farlo in mezzo agli alberi, noi no. E non possiamo nemmeno portare i cavalli fino al letto alluvionale del fiume: quei ciottoli sarebbero la morte certa per loro.» Garreth osservò gli strati di sassi lisci e tondeggianti, di ogni dimensione. «Non ho mai visto tante pietre. Da dove sono venute fuori?» «Da quella parete laggiù, nel corso di migliaia di anni. Secolo dopo secolo, le pietre franate si sono spaccate e sono state levigate dalla corrente.» Si interruppe sentendo un rumore di zoccoli e vide l'esploratore inviato da Catone che si precipitava verso di loro. Il nemico era appena dietro di lui, riferì, a non più di un miglio. Oltre una ventina di cavalieri. «Una ventina? Sono meno della metà di quelli che ho visto io» disse Garreth con aria stupita. «Dannazione!» imprecò Uther a denti stretti. «Ecco perché sono così vicini. Non capisci cos'hanno fatto? Hanno lasciato metà del gruppo a vedersela con Giunio e i suoi dieci uomini, mentre il resto è andato avanti. Questo significa che sanno che siamo qui, e sono astuti e determinati.» Ritto sulle staffe, Uther si voltò verso la macchia di abeti sul lato opposto del fiume, poi si rivolse di nuovo all'esploratore. «C'è un punto dietro di te dove il fiume si restringe e le sue sponde si fanno più alte, con un gigantesco albero morto che lo attraversa da una parte all'altra. Ieri abbiamo dovuto passare dentro la foresta per aggirarlo. A che distanza si trova da qui?» «Meno di un quarto di miglio, re Uther, forse meno. Anch'io ho dovuto aggirarlo, andando e venendo.»
«Bene. Ecco che cosa faremo, Garreth, ma non c'è molto tempo. Quell'albero fermerà loro come ha fermato noi. Dovranno smontare e passare dal sottobosco. Noi li aspetteremo lì, tra gli alberi. Da questo lato del tronco l'acqua è bassa, ma dall'altra parte c'è una pozza grande e profonda, alimentata da una cascata. Non potranno venirci incontro da lì, nemmeno a piedi, perché l'albero va da una sponda all'altra e l'acqua è troppo rapida e profonda. Quando saremo sul posto manderemo metà dei nostri uomini a piedi sull'altra riva del fiume, ognuno con due cavalli. Lasceranno gli animali laggiù, fra quei giganteschi abeti, e torneranno a raggiungerci. Noi aspetteremo quei bastardi nella foresta, come dicevo, poi ripiegheremo formando una linea nel fiume, e sarà lì che dovranno venire a prenderci. Non potranno usare i cavalli, proprio come noi, e noi saremo fermi mentre loro dovranno farsi strada tra i ciottoli per raggiungerci. Dovrebbe funzionare. Poi, al momento giusto, batteremo in ritirata andando a riprendere i cavalli lasciati fra gli alberi. Sono piante gigantesche e il terreno sottostante dev'essere privo di vegetazione. Il nemico ci seguirà a piedi, e noi saremo in sella ad attenderli. Che cosa ne pensi?» «Diamoci da fare» rispose Garreth in tono risoluto, e Uther si rivolse agli uomini che lo seguivano. «Statemi a sentire, tutti quanti! Combatteremo non lontano da qui, nei pressi di quel grande albero caduto che abbiamo incontrato ieri. Non è il luogo ideale, ma è l'unico che abbiamo e dovremo farcelo andar bene, quindi ascoltatemi attentamente.» Fece una pausa, dando loro l'opportunità di distribuirsi in modo che tutti potessero vederlo e sentirlo. «Non possiamo usare i cavalli qui. Non possono tenersi in equilibrio nel letto del fiume e non hanno spazio di movimento nel sottobosco, ma potremmo sfruttare la cosa a nostro vantaggio se riusciamo a prepararci in tempo. Quando giungeremo a quell'albero, al mio ordine smonteremo e metà degli uomini prenderà due cavalli ciascuno e li condurrà sull'altra riva del fiume. Li lasceranno laggiù, ben nascosti, poi torneranno rapidamente su questa sponda. Gli uomini rimasti mi seguiranno nel bosco, mentre quelli di ritorno seguiranno Garreth, il Campione del re. E venuto il momento di
insegnare a questi forestieri chi sono i guerrieri della Cambria. All'inizio combatteremo a piedi, ma poi guadagneremo l'altra sponda per riprendere i cavalli. Quindi ringraziate i vostri istruttori di Camelot per tutta la pratica di fanteria che vi hanno costretto a fare e portate con voi le vostre armi e i vostri scudi preferiti. Vi fate chiamare Dragoni da anni: eccovi l'occasione di mostrarvi all'altezza del vostro nome e di seminare morte e distruzione tra quegli stranieri contando solo su voi stessi.» Uther guardò il suo portabandiera, l'uomo che cavalcava al suo fianco o davanti a lui da più di dieci anni. «Gwyn, tu prenderai il mio stendardo, lo porterai con te sull'altra riva del fiume e lo nasconderai da qualche parte... un punto in cui tu possa recuperarlo facilmente in seguito, quando vorremo mostrarlo ai bastardi che vengono contro di noi. Poi tornerai da me, senza dimenticare il tuo corno.» Alzò la voce in modo che tutti potessero sentirlo. «Fate attenzione al corno di Gwyn mentre combattete fra gli alberi. Appena lo sentite, liberatevi degli avversari, andate verso il fiume e formate una linea a circa due terzi della sua larghezza, dove l'acqua è sotto il ginocchio. Ci fermeremo lì e aspetteremo che vengano di nuovo verso di noi, attraversando la parte più profonda e più rapida del fiume. Poi, al successivo segnale lanciato da Gwyn o da me, ripiegheremo ulteriormente verso la macchia di abeti in cui avremo nascosto i nostri cavalli. Monteremo in sella e annienteremo i nemici appena usciranno dall'acqua.» Osservò il gruppo per accertarsi che tutti lo avessero ascoltato e compreso, poi annuì. «È tutto, allora. Lottate con valore e determinazione. So che lo farete, e che sarete per me motivo d'orgoglio più di quanto già non siate. Muoviamoci ora, e aspettate il mio ordine per smontare!» In pochi attimi giunsero all'albero caduto e Uther dette ordine di scendere da cavallo. Mentre i soldati smontavano e cominciavano a radunare gli animali, Uther si accorse che Garreth aveva un'espressione pensosa e gli occhi puntati sul grande albero morto che attraversava il fiume. «A che stai pensando? Mi sembri perplesso.» «Ho un'idea. Dei nuotatori. Ho bisogno di dieci uomini che sappiano nuotare. Verremo con voi nel bosco per vedere com'è la situazione, ma poi
torneremo qui al fiume e ci toglieremo l'armatura. Il mio piano non funzionerà se avremo addosso il peso del ferro. Ci toglieremo l'armatura e quando tu darai il segnale di arretrare, scivoleremo sotto l'albero e nuoteremo fino alla riva opposta alla vostra. Così prenderemo alle spalle il nemico e potremo colpirlo da dove meno se l'aspetta.» «Potreste rimanere tagliati fuori e farvi ammazzare.» «Anche voi. Ma potremmo anche avere successo e prendere il nemico tra due fuochi.» «Sì, è possibile. Benissimo, allora, trovati degli uomini che sappiano nuotare.» La battaglia nel bosco fu cruenta fin dall'inizio, poiché come Uther aveva previsto i guerrieri avversari abbandonarono le loro cavalcature ai primi segni di ostilità per combattere a piedi, perfettamente a loro agio tra alberi e cespugli. Gli uomini di Uther, invece, che si sforzavano di restare in formazione, erano continuamente ostacolati dall'intricato sottobosco e non riuscivano a manovrare le armi come avevano imparato a fare. Uther si rammentò di colpo ciò che suo padre gli aveva insegnato in un lontano passato, ovvero che tutti i piani di battaglia diventavano inutili al primo impatto delle armi e dei guerrieri. Vide parecchi dei suoi cadere uccisi, con gli scudi trafitti da violenti colpi di lancia. Le lance si incastravano negli scudi appesantendoli eccessivamente e impedendo ai guerrieri di continuare a reggerli. Calati gli scudi, arrivavano le spade. Molto prima di quanto avrebbe voluto, Uther ordinò a Gwyn di dare il segnale della ritirata. Le truppe di Uther si disimpegnarono immediatamente, felici di togliersi di lì, e corsero verso il fiume tra le grida di trionfo dei nemici alle loro spalle. Uther ebbe il tempo di dare una rapida occhiata per controllare che non ci fosse traccia di Garreth il Fischiatore e dei suoi volontari prima di rivolgere tutta la sua attenzione ai ciottoli scivolosi su cui camminava. Solo in un'occasione inciampò sopra un sasso traballante e pensò che fosse la fine, ma una pietra più solida dietro la prima bloccò il movimento e Uther fu in grado di spostarsi in una posizione più stabile.
Raggiunse le acque basse del fiume e proseguì, meno velocemente di quanto avrebbe voluto dato che i sassi bagnati e ricoperti di muschio lo costringevano ad avanzare con grande cautela. Nel punto più profondo l'acqua gli salì oltre le ginocchia, ma lui andò avanti caparbiamente, usando la spada come un bastone per sondare il terreno, finché l'acqua non ricominciò ad abbassarsi e la corrente a diminuire. A quel punto si fermò e si voltò divaricando le gambe per tenersi più saldo, mentre i suoi uomini si disponevano in linea accanto a lui, su entrambi i lati, e coloro che disponevano ancora di uno scudo si piazzavano fra le coppie di guerrieri che ne erano privi. Uther ordinò loro di rimanere fermi e dedicò la sua attenzione al nemico. Gli avversari si affollavano disordinatamente sulla riva del fiume, ma non accennavano ad avventurarsi nell'acqua. Quando Uther capì il perché, ebbe un tuffo al cuore. Alcuni di loro, una dozzina o forse più, erano arcieri e stavano preparandosi a tirare, stretti in gruppo sulla destra della linea nemica proprio davanti alla trentina di uomini di Uther, divenuti di colpo inermi bersagli viventi. Nel momento stesso in cui Uther li vide, la prima freccia attraversò il fiume sibilando e si piantò con forza in uno scudo di legno, rischiando di gettare a terra il soldato che lo portava. Qualche istante dopo iniziarono a piovere frecce, una pioggia micidiale che alla prima raffica abbatté tre uomini, anche se due di loro si rialzarono subito con le corazze scorticate e ammaccate dal violento impatto. Uther stesso rappresentava un bersaglio rilevante a causa delle sue dimensioni gigantesche e della sua lucente armatura, e due frecce si conficcarono nel suo scudo mentre un'altra rimbalzò sulla cupola tondeggiante dell'elmo e parecchie gli passarono accanto sibilando. In quel momento Uther ringraziò il cielo che gli archi schierati contro di lui fossero armi comuni, e non i temibili archi lunghi dei suoi guerrieri. Le frecce dei Pendragon erano in grado di attraversare scudi e armature penetrando fino alla carne, e bastava il semplice impatto a uccidere o a disarmare completamente un uomo. Fu allora che Garreth il Fischiatore sbucò dagli alberi dietro al nemico roteando la lunga spada luccicante sopra il capo, seguito da
dieci uomini nudi e silenziosi che aggredirono alle spalle gli arcieri e li annientarono tutti prima che potessero reagire all'attacco. Quando gli altri si voltarono ad affrontare quel nuovo e inatteso assalto, il Fischiatore e i suoi uomini erano già corsi verso il fiume, attraversando nudi la distesa di ciottoli e balzando di sasso in sasso fra grandi spruzzi d'acqua. Uno solo mise un piede in fallo e cadde, ma si rialzò prontamente e proseguì a qualche passo di distanza dai compagni. I guerrieri allineati ai due lati di Uther esplosero in urla di gioia vedendo gli amici correre verso di loro, ma Uther fece un passo avanti e afferrò Garreth per un polso, bloccando il Campione che sbuffava come un mantice. «Dove avete lasciato le armature?» «Dietro di voi... fra gli alberi.» «Andate a rimettervele, allora. Noi li tratterremo mentre vi rivestite.» Mentre Garreth obbediva, lo sguardo di Uther tornò alla riva opposta e all'uomo a cavallo che era emerso dagli alberi e stava incitando i suoi uomini ad attraversare il fiume e ad attaccare. Era un individuo gigantesco, rivestito di una pesante armatura opaca e malconcia sulla quale Uther, malgrado la distanza, distingueva una patina di ruggine. Aveva il volto completamente celato da un grande elmo di ferro dalla calotta tonda e dalle guance intere, e apparentemente non aveva che un'unica arma appoggiata alla coscia, con una lunga lama curva rivolta in avanti. Era un arnese dall'aspetto insolito, simile a una falce dalla lama ampia e seghettata montata su una sorta di lungo manico d'ascia. Anche trascurando il fatto che era l'unico uomo ancora in sella, Uther non ci mise molto a capire che era il capo della marmaglia che gli stava di fronte. Sotto la spinta del loro comandante che li dominava dall'alto della sua poderosa cavalcatura, i nemici cominciarono ad attraversare il letto del fiume, procedendo lentamente e con prudenza, dividendo l'attenzione fra la minaccia degli uomini di Uther che li attendevano e i pericoli del terreno che avevano sotto i piedi.
Mentre si avventuravano sul greto sassoso, però, ci fu un movimento alle loro spalle e ai margini della foresta apparve il resto del loro gruppo, dieci o dodici elementi; i nuovi arrivati circondarono rapidamente il loro capo e Uther comprese dai gesti impazienti di quest'ultimo che li stava esortando ad attaccare. Molti si lanciarono immediatamente a recuperare gli archi degli uomini uccisi dal gruppo di Garreth, ma erano chiaramente incapaci di usarli e i loro dardi imprecisi, puntati troppo in basso, finirono in gran parte nell'acqua senza provocare danni. Tuttavia, Uther vide con terrore una freccia planare sulla superficie dell'acqua e schizzare in alto, dritta verso di lui. Ebbe appena il tempo di tirarsi indietro che il dardo gli colpì una coscia lacerando i muscoli. Non era una ferita grave, poiché la freccia aveva conservato forza appena sufficiente a perforargli la pelle, ma era pur sempre una ferita e sanguinava copiosamente. Uther si strappò il dardo dalla gamba con la mano sinistra, senza curarsi del dolore, e tornò a osservare i nemici che avanzavano curvi preparandosi allo scontro, chiaramente riluttanti a combattere. Ignorando la ferita, Uther fece un passo in avanti e si voltò verso i suoi uomini. «Tenete duro, ragazzi. Quelle appena arrivate non sono truppe fresche. Sono il resto del gruppo che stavamo aspettando, quelli che erano rimasti indietro a combattere contro il gruppo di Giunio Lepone. Ne ho contati dodici, ma dovevano essere almeno il doppio, quindi Giunio e i suoi hanno venduto cara la pelle. Guardate questa gente, come viene avanti. Hanno paura di voi e così dev'essere. Non dobbiamo far altro che stare qui a guardarli e aspettare. Che vengano loro a prenderci. La loro paura crescerà man mano che si faranno più vicini.» «Chi è quel gigante, Uther, lo sai?» Uther fissò il Dragone che gli aveva posto la domanda e sorrise. «No, non so chi sia, Owen, ma grosso com'è, farà un bel rumore quando cadrà a terra, non credi?» «Già, proprio così. È grosso quasi quanto te.» «Può darsi, ma io non cadrò. Basta con le chiacchiere, ora. Aspettiamo in silenzio.»
Si girò verso il nemico, scrutando di tanto in tanto il capo che sedeva tranquillamente in sella forse ricambiando il suo sguardo, anche se la massiccia mole dell'elmo non permetteva a Uther di verificarlo. A quel punto accadde qualcosa di totalmente estraneo all'esperienza di Uther, qualcosa di così strano da gelargli il sangue come raramente gli era capitato in vita sua, riportandolo di colpo alla sua infanzia e ai macabri racconti di spiriti maligni e terrori notturni che a volte lo spaventavano quand'era ragazzo e che gli uomini raccontavano solo per terrorizzare e angosciare i loro ascoltatori. Ogni rumore cessò intorno a lui: le urla e le acclamazioni dei suoi uomini e dei nemici sfumarono per far posto a un silenzio vibrante. Tutto ciò che si trovava fra lui e il comandante avversario parve allontanarsi e scemare finché Uther ebbe l'impressione di vederlo in fondo a un lungo tunnel oscuro, ma l'immagine era nitida e brillante, come se fosse incorniciata da un raggio di sole. Affascinato e stranamente spaventato, Uther vide l'enorme cavallo del suo avversario avviarsi lentamente verso il bordo del fiume e avanzare fra i sassi con esasperante lentezza, posando ogni zoccolo con estrema cautela per verificare la solidità dell'appoggio prima di procedere, un passo dopo l'altro, finché tutte e quattro le zampe non furono nell'acqua. E mentre il cavallo avanzava, ineluttabile come un incubo, Uther fu sorpreso dal terrore che inaspettatamente lo invase minacciando di fargli perdere la ragione. La figura che si avvicinava aveva un fetore di morte, intorno a lui l'aria tremolava come sopra un falò acceso, e Uther guardandolo si sentì stringere la gola e si dimenticò di respirare. "La Morte, con la sua falce", pensò, incapace di scacciare quell'idea dalla mente. Non vedeva nulla della faccia oscurata dall'ombra e dal buio sotto il pesante elmo arrugginito, ma la sua immaginazione gli suggerì l'immagine di un teschio scarnificato, ghignante, con le orbite cieche e vuote sotto l'elmo ammaccato, e Uther si sentì accapponare la pelle per l'orrore e il disgusto. «Uther!» Ci volle un po' di tempo prima che il grido disperato alle sue spalle lo scuotesse dal suo stordimento, e solo quando venne
ripetuto Uther tornò alla realtà. La voce era quella di Garreth il Fischiatore. «Uther! Arretra e sali a cavallo! Ce ne sono degli altri da questa parte!» Intontito e ancora soggiogato dalla visione che lo aveva paralizzato, Uther scosse la testa come per scacciare quei pensieri. Poi riprese coscienza e si rese conto che c'era una nuova minaccia, e alle loro spalle. Si voltò, rischiando di perdere l'equilibrio, e abbandonò ogni pensiero sul nemico dall'altra parte del fiume. «Indietro, ragazzi» ruggì. «Tornate subito ai cavalli!» Nel bosco trovò un enorme confusione, i soldati correvano dappertutto cercando di rimontare in sella. Il suo cavallo era già pronto, tenuto a bada da uno dei suoi Dragoni, e a poca distanza Garreth il Fischiatore stava lottando per domare il suo che recalcitrava e si impennava, tenendolo a freno e facendolo girare intorno a testa bassa finché l'animale non si fu calmato. «Che succede?» gridò Uther mentre montava in sella e cercava di dominare il suo destriero altrettanto nervoso. «Che sia dannato se lo so,» rispose Garreth «ma decine di questi bastardi stanno arrivando qui da ovest, dov'eravamo accampati la notte scorsa. Non so chi siano né da dove vengano, ma sono qui e ci hanno quasi preso alle spalle.» «Maledizione! Dobbiamo liberarcene. Avanti! A me, Pendragon! A me!» Sguainò la lunga spada e la agitò sopra la testa mentre i suoi cavalieri avanzavano verso di lui per circondarlo. Da quel momento in poi, fu il caos: armi che cozzavano l'una contro l'altra, sangue che schizzava, urla di paura, di rabbia, di dolore, e il tuono sordo degli zoccoli dei cavalli di Camelot che scalpitavano sul terreno disseminato d'aghi sotto gli abeti, gettandosi in avanti e scalciando contro i nemici com'erano stati addestrati a fare. Qualcuno alla sinistra di Uther si avventò su di lui afferrandolo convulsamente e tentando di disarcionarlo, ma il re gli trapassò il corpo con un colpo terribile e l'aggressore crollò a terra con un urlo. Mentre cadeva, però, le sue dita contorte si chiusero sulla coscia ferita di Uther e una fitta di dolore acuto scosse il corpo del re che vacillò sulla sella, quasi sul punto di perdere conoscenza. Un altro
sotto di lui gettò un grido di trionfo colpendolo al petto con il piatto della spada, senza ferirlo, e Uther deviò bruscamente il cavallo verso destra servendosi del peso e dell'impeto dell'animale per gettare a terra gli uomini che gli stavano accanto. Ne vide tre, tutti con lo sguardo alzato verso di lui, e con un paio di fendenti della sua spada spaccò il cranio di netto a due di loro. Il terzo se la diede a gambe e per un attimo Uther fu libero di guardarsi attorno. Fu sorpreso di ritrovarsi di nuovo vicino alla riva del fiume, dato che solo qualche attimo prima si trovava molto più a ovest, nel mezzo della nuova orda di aggressori. Con la coda dell'occhio vide che il grosso cavaliere stava ancora attraversando il fiume, lento, silenzioso e severo, brandendo la sua arma sopra la testa. Ma non aveva tempo di guardare e si girò immediatamente a fronteggiare i pericoli che lo minacciavano alle spalle. Gli passò per la mente che avrebbe dovuto uccidere l'uomo sul fiume, ma fu un pensiero effimero, subito dimenticato nell'urgenza di lottare per salvarsi la pelle. Fu allora che vide Garretti il Fischiatore cadere. Il Campione era stato duramente attaccato e combatteva con la consueta, invincibile perfezione, guidando il suo cavallo con assoluta maestria e contemporaneamente menando colpi con un'ascia agli uomini che lo circondavano. Ma mentre faceva impennare l'animale per sfruttare la forza distruttiva dei suoi zoccoli anteriori, un uomo balzò tra le zampe sollevate del cavallo e affondò la spada nel petto della magnifica bestia, uccidendola quasi istantaneamente. Uther vide Garreth saltare a terra immediatamente, come un gatto, scalciando per liberare i piedi dalle staffe. Ma proprio in quell'attimo l'animale morente, dimenandosi negli spasimi dell'agonia, lo colpì violentemente alla spalla con uno zoccolo, proiettandolo verso un albero come un giocattolo gettato da un bambino; Garreth si schiantò contro il tronco e rimbalzò indietro, vacillando spaventosamente prima di cadere a terra a faccia in giù. In un attimo i cinque aggressori rimasti gli furono sopra, ansiosi di uccidere un nemico che temevano terribilmente. In un'impeto d'ira, Uther spronò il cavallo fino a farlo sanguinare e l'animale piombò a testa bassa nella calca che circondava l'uomo
caduto a terra, scagliando corpi in tutte le direzioni. Liberando i piedi dalle staffe un attimo prima dell'impatto, Uther balzò giù dalla sella senza sforzo e atterrò accanto a Garreth il Fischiatore, brandendo la spada con entrambe le mani. Uccise uno dei nemici prima ancora che si rendesse conto del suo arrivo staccandogli di netto la testa dalle spalle con un unico poderoso fendente, poi in rapida successione eliminò gli altri quattro menando colpi con la sua spada. Finalmente fu solo accanto all'amico. Si inginocchiò e gli cercò il battito sotto la mascella, ignorando il dolore pulsante della ferita che seguitava a sanguinare. Ma non percepì nulla. Il Campione del re era morto, e Uther sentì il suo cuore spezzarsi mentre cocenti lacrime gli salivano agli occhi. Poi, con un urlo che sfogava tutto il suo disperato bisogno di sangue e di vendetta, strinse l'elsa della spada con entrambe le mani e si alzò, guardandosi intorno in cerca di qualcuno da uccidere. E lì, a meno di dieci passi di distanza, con lo sguardo puntato su di lui dall'alto di un enorme destriero e la lunga, strana falce nella mano alzata, c'era il gigante dall'armatura arrugginita che aveva attraversato il fiume con tanta lentezza: il capo di quella banda di cavalieri sconosciuti, portatori di morte. Appena Uther ebbe posato gli occhi su di lui, la sua rabbia impotente si infiammò di colpo, condensandosi subito dopo in una gelida furia rivolta contro un ben preciso obiettivo. Per tutta la vita si era attenuto alla regola di non combattere in preda all'ira, ma in quel momento la ignorò, consumato dalla necessità di distruggere quell'enigmatico intruso che aveva seminato la rovina tra i suoi amici e compagni. Ora non pensava più che potesse trattarsi della Morte stessa. Era un uomo, sporco e segnato dal viaggio, che meritava di morire per ciò che aveva causato in quel luogo maledetto. E tuttavia, Uther si trattenne dal gettarsi a testa bassa all'attacco. Sapeva che doveva rimontare in sella, che correva un grave pericolo lì solo, a piedi, contro quell'uomo a cavallo - contro qualsiasi uomo a cavallo - perché nel breve intervallo precedente aveva ucciso oltre una ventina di nemici proprio perché lui era a cavallo e loro no. Con passo fermo, stringendo i denti e brandendo la spada con le due mani davanti a sé, indietreggiò finché non sentì dietro le spalle il tronco dell'albero più vicino, e finalmente diede
una rapida occhiata in giro. C'erano molti uomini intorno a lui, ma nessuno dei suoi, ed erano tutti fermi a guardarlo, lanciando ogni tanto un'occhiata al loro gigantesco comandante. Con la coda dell'occhio intravide il suo cavallo che brucava pacificamente da una zolla erbosa, sul lato opposto rispetto al minaccioso cavaliere e più o meno alla stessa distanza da lui. Mentre il gigante alzava di nuovo la sua strana falce e si metteva in movimento, Uther rinfoderò rapidamente la lunga spada, raccolse l'ascia caduta a Garreth e corse disperatamente verso il cavallo. Appena l'ebbe raggiunto, si voltò verso il suo avversario e sollevò la pesante ascia scagliandola con tutte le sue forze. Vedendola arrivare, il colosso abbassò prontamente la testa e l'ascia roteante rimbalzò sulla sommità del suo elmo, riuscendo comunque a farlo barcollare e rischiando di disarcionarlo. Uther si fermò a guardare per un istante, poi si gettò in avanti e afferrò le redini del suo cavallo, alzando con imprevista difficoltà il piede sinistro per infilarlo nella staffa e poi piegandosi in avanti nello slancio per sollevare il corpo. Ma il corpo si rifiutò di sollevarsi. La gamba sinistra era inutilizzabile; i muscoli feriti, lacerati inesorabilmente dallo sforzo fatto per correre, erano ormai incapaci di reggere il suo peso. Provò ancora, incredulo, tentando disperatamente di alzare il corpo da terra, ma invano. Dietro di lui sentì un calpestio di zoccoli: il gigante aveva ripreso il controllo del suo cavallo e muoveva di nuovo all'attacco. Uther tentò ancora di montare in sella, e questa volta un colpo robusto si abbatté sulla sua schiena protetta dall'armatura, schiacciandolo contro il fianco del cavallo che proprio allora aveva cominciato ad agitarsi nervosamente roteando gli occhi, spaventato dai movimenti incerti del suo padrone. Ostinatamente, in attesa del colpo successivo, Uther si agganciò col gomito del braccio destro al pomo della sella e lottò per issarsi sull'arcione. Il colpo arrivò, ma lui rimase aggrappato caparbiamente, deciso a montare a tutti i costi. Una volta a cavallo, sapeva di poter combattere, gamba o non gamba. E poi un terzo colpo, questa volta il calcio di un massiccio stivale, si abbatté sulle sue reni, e la violenza dell'impatto gli chiuse la gola mozzandogli il respiro. Non sentì dolore quando la terribile lama seghettata della falce gli affondò nella carne, penetrando in profondità nella gabbia
toracica con un movimento verso l'alto dal bordo della corazza, e nemmeno quando l'uomo la estrasse, lacerandogli inesorabilmente la schiena. Ma ebbe coscienza del flusso di sangue caldo e abbondante che fuggiva da lui privandolo delle forze, e delle tenebre che gli riempivano gli occhi mentre le sue mani scivolavano dal pomo della sella. Lentamente, mentre la sua vista si annebbiava, si voltò a guardare la gigantesca figura che torreggiava sopra di lui, e quando aprì la bocca per parlare, un fiotto di sangue purpureo gli salì alle labbra riversandosi sulla corazza. «Ygraine» disse Uther Pendragon. «Ygraine.» Ma nessuno lo udì. Il gigante osservò dall'alto della sella il corpo di Uther, poi si rivolse a uno dei suoi compagni. «Quelli là, i nuovi arrivati. Portami qui il loro capo.» L'uomo tornò con l'individuo alto e allampanato chiamato il Monco, il quale riferì che il suo capo, Othoc, lo aveva mandato con metà del gruppo a trattenere i cavalieri in retroguardia mentre lui e gli altri catturavano le donne. L'imponente cavaliere si raddrizzò sulla sella. «Quali donne?» Il Monco raccontò allora la battaglia di due giorni prima e la caccia che ne era seguita, e quand'ebbe finito l'altro si voltò di nuovo verso il suo secondo. «Fa' rimontare in sella gli uomini immediatamente e andate a cercare le donne. Fate in modo di trovarle prima che questo Othoc ci metta le mani sopra.» Posò di nuovo lo sguardo sul cadavere con l'armatura di bronzo, poi sul possente cavallo appartenuto al morto. «Vi seguirò non appena avrò spogliato questo corpo e destinato la sua armatura a miglior uso. Se questa gente era di Camelot, e mi sembra possibile, allora tutto ciò che abbiamo sentito dire su quel luogo è vero e faremo bene a tenercene alla larga. Ma questa è la prima armatura della mia taglia che vedo da anni. Va' ora, e prendi con te tutti gli altri. Lasciami solo due uomini, mi basteranno. Quando avrò finito qui, vi seguirò.» Aspettò che tutti gli altri si incamminassero, poi smontò e andò a
inginocchiarsi accanto all'uomo che aveva ucciso. Uther aveva gli occhi spalancati e assenti, incuranti della spoliazione che stava per essere perpetrata sul suo corpo. L'uomo inginocchiato li chiuse e si mise a spogliarlo. Man mano che toglieva i singoli pezzi dell'armatura li esaminava per vedere se erano macchiati di sangue, passando a uno dei suoi compagni quelli da pulire e mettendo da parte gli altri ordinatamente. Ebbe qualche difficoltà con alcune cinghie e fibbie rese viscide dal sangue, e a un certo punto chiamò uno dei suoi uomini perché lo aiutasse a girare Uther faccia in giù in modo da raggiungere l'allacciatura sulle reni, ma non maltrattò il cadavere, e quando ebbe finito e il corpo fu nudo, si voltò e cominciò a togliersi la propria malconcia e arrugginita armatura. Mentre slacciava una delle cinghie che fissavano la sua corazza tutta ammaccata si girò parecchie volte a guardare il morto disteso accanto a lui, come se si aspettasse di vederlo riaprire gli occhi e fissarlo. Alla fine biascicò una bestemmia e si rivolse ai suoi due compagni. «Prendete quest'uomo e portatelo via.» Si guardò intorno e vide un massiccio abete non lontano, con il tronco circondato da rami morti. «Lasciatelo laggiù, sotto quell'albero.» I due si scambiarono un'occhiata sorpresa ma non dissero una parola, e afferrato Uther per le braccia tentarono di tirarlo su. Ma non ci riuscirono, e il più robusto si voltò verso il capo. «Per il sacro cerchio, Derek, questo figlio di puttana è grosso e pesante quanto te!» «Lo so. È per questo che gli sto prendendo l'armatura. Ora fate quel che vi ho detto e spostatelo sotto l'albero. Merita di giacere con dignità. Trascinatelo, se è necessario, ma sistematelo con delicatezza. Non maltrattatelo. Era un guerriero forte e capace, ed è morto con onore. Non è stata colpa sua se la gamba non l'ha sorretto.» Mentre gli uomini eseguivano i suoi ordini, Derek di Ravenglass finì di indossare gli abiti e l'armatura di Uther e alla fine si calò sulla testa il grande elmo romano. Tutto gli calzava a pennello, come se fosse stato fatto per lui; aveva soltanto il capo leggermente più piccolo e la vita più grossa del precedente proprietario. Ciononostante, Derek fu soddisfatto. Si avvicinò al cavallo del
caduto e vedendo che dietro la sella era fissato un rotolo di tessuto rosso e prezioso ne sciolse i lacci, spiegò l'enorme mantello e fece un fischio alla vista del drago dorato ricamato sulla stoffa. Gli uomini avevano lasciato il corpo di Uther sotto l'albero ed erano tornati indietro; alla fine Derek aveva smesso di badare a loro e i due avevano abbandonato il cadavere per terra in una posa scomposta, con un ginocchio ripiegato su un ramo caduto. Nel vedere il mantello da guerra sgranarono gli occhi. Derek di Ravenglass sfiorò con le dita il drago dorato. «Chissà chi era questo comandante.» Il più piccolo dei due uomini scosse la testa. «Quello è il mantello di un re, Derek, e quell'elmo viene direttamente da Roma. Forse era un re romano.» Derek sbuffò. «I Romani non hanno dei re, amico, hanno degli imperatori!» «Forse era Uther di Camelot» disse l'altro. «Lui è un re, no?» «Già, così dicono. Uther di Camelot è un re... un potente re, come Lot di Cornovaglia. Credi che uno come lui si troverebbe in un buco come questo con soli trenta uomini? Il suo esercito conta migliaia di soldati, amico. No, questo non era un re, ma forse il Campione di un re. Non lo sapremo mai. Ma almeno il bastardo era abbastanza grosso da procurarmi una nuova armatura. E ora, andiamo a cercare queste donne.»
Epilogo Mentre Derek di Ravenglass si allontanava in sella al suo nuovo cavallo da guerra, una figura solitaria vestita interamente di nero, con un'armatura di cuoio e argento brunito e un arco appeso a tracolla sopra il mantello, sbucò dalla valle a meno di due miglia a nord e spronò risolutamente la sua cavalcatura verso ovest lungo la riva del fiume, in direzione del mare. Completamente e dolorosamente tornato in sé dopo una parentesi di due anni, Merlino Britannico non sapeva esattamente dove si trovava in quel momento. Sapeva solo che suo cugino Uther lo stava precedendo, e che fra non molto lui lo avrebbe trovato e affrontato prima di vendicare l'assassinio di sua moglie e suo figlio. Da più di una settimana Merlino stava attraversando la penisola di Cornovaglia sconvolta dalla guerra diretto a sud-ovest, seguendo il sentiero battuto da grossi contingenti di uomini prima di lui. Chi fossero quegli uomini, e se i contingenti fossero abbastanza numerosi da costituire degli eserciti, non era in grado di dirlo, ma sapeva senz'ombra di dubbio che l'armata del cugino era stata attaccata a ogni passo lungo il suo cammino. I corpi disseminati lungo la strada che stava percorrendo, alcuni carbonizzati al punto da non poter stabilire se fossero amici o nemici, testimoniavano in modo eloquente i duri scontri che avevano segnato l'avanzata di Uther Pendragon. Prima di imbattersi nelle devastazioni create dalla battaglia di due giorni prima, a nord, Merlino aveva continuato a credere nel mito del suo invincibile, implacabile cugino, ed era rimasto sbalordito nell'apprendere che Uther aveva ignominiosamente abbandonato il campo. Ma i rapporti che gli erano stati fatti da Muzio Quinto e Popilio Cirro, i due ufficiali anziani sopravvissuti tra i resti dell'esercito di Camelot, erano sufficientemente simili su un aspetto fondamentale da indurlo a trascurare altre discordanze nei loro racconti. Entrambi avevano affermato che Uther era fuggito portandosi
dietro un gruppo di prigioniere d'alto rango una delle quali era Ygraine, la moglie di Gulrhys Lot. Merlino si era sentito turbato e ferito da quell'ennesima prova della perfidia di suo cugino: Ygraine era la sorella di Deirdre, sua moglie, il cui barbaro assassinio era venuto a vendicare nella convinzione che fosse avvenuto per mano di Uther. Il fatto che ora il cugino avesse rapito Ygraine, aggravando ulteriormente la sua infamia, chiuse definitivamente il cuore di Merlino a colui che per tanto tempo era stato per lui l'amico più caro. Se ancora nutriva dei dubbi sulla legittimità della sua missione, le notizie su Ygraine li avevano dissipati. Il fatto che Muzio Quinto gli avesse suggerito, ragionevolmente, che con la sua fuga Uther aveva salvato la vita a tutti gli uomini ancora in vita in quella valle non aveva alcuna importanza per lui. Né gli passò per la mente di dubitare dell'esattezza delle parole del medico quando gli disse che Uther era fuggito alla testa di mille uomini a cavallo, l'intero contingente di cavalleria col quale era partito da Camelot. Merlino non aveva interesse a spiegare, scusare o giustificare l'apparente vigliaccheria del cugino. Voleva soltanto trovare il re dall'insegna rosso e oro e fare giustizia. Ogni altra considerazione era superflua rispetto a questa impellente necessità. Così si era congedato dai due veterani ed era ripartito a caccia di Uther e della sua scintillante armatura. Il mattino seguente Merlino trovò Gulrhys Lot in persona, riconoscibile malgrado gli anni trascorsi dall'ultima volta che l'aveva visto. Il re di Cornovaglia era appeso al ramo di un grosso albero; ma Merlino aveva una tale urgenza di raggiungere Uther che non si soffermò a esaminare il cadavere o a chiedersi chi lo avesse ridotto in quel modo. Fu naturalmente un po' sorpreso dalle sue mutilazioni e dal fatto che le mani e i piedi amputati fossero infilati in una borsa di broccato che portava l'insegna dei Pendragon. Stranamente il sigillo del re, un massiccio anello d'oro, era stato abbandonato intatto al dito di una mano. Lo prese come prova della morte del re, ma non perse tempo a indagare sui motivi di quella esecuzione, né prestò la minima attenzione al cadavere col cranio sfondato che giaceva ai margini della radura. Sapeva che Gulrhys Lot aveva ampiamente meritato una morte così terribile, e che erano
probabilmente centinaia gli uomini che sarebbero stati ben felici di procurargliela. Stava per andarsene quando esitò e si voltò a guardare il cadavere penzolante con improvviso furore. Quella carcassa morta e dissanguata apparteneva allo scellerato responsabile della guerra che aveva devastato e distrutto la Britannia sudoccidentale, ma soprattutto al mandante di innumerevoli omicidi fra cui quello del padre di Merlino, Pico Britannico. Questo esigeva una forma di vendetta, sia pure post mortem. Merlino tornò sui suoi passi e accese sotto il cadavere un piccolo fuocherello, alimentandolo fino a farlo divampare. Non mancava la legna secca lì attorno e presto la pira si fece enorme, le fiamme raggiunsero i fianchi del morto e gli consumarono gli abiti aggredendo la corda che gli stringeva il petto. Merlino montò in sella e attese che la fune cedesse lasciando cadere il corpo in quell'inferno, poi si allontanò con il pensiero di nuovo rivolto al cugino. Il sentiero lungo il fiume su cui Merlino si avventurò era stretto e a tratti pericoloso, ma era l'unico disponibile ed era stato chiaramente percorso da decine di cavalieri prima di lui. Procedette con cautela, tenendo strette le redini del suo cavallo, e ben presto giunse al punto in cui un gigantesco vecchio albero attraversava il fiume come un ponte, bloccando il sentiero con i rami e costringendolo a smontare per aggirare l'ostacolo. Fra gli alberi al margine della foresta trovò oltre una ventina di corpi, di cui tre con l'insegna del drago dei Pendragon sull'armatura, e quando riguadagnò il sentiero vide altri cadaveri nel greto del fiume: alcuni galleggiavano a testa in giù, gonfi, mentre altri giacevano sulle pietre dell'altra sponda, uccisi mentre tentavano di attraversare il corso d'acqua. Stordito e nauseato alla vista di tanti morti, Merlino non provò l'impulso di guadare il fiume per vedere cos'era successo sulla riva opposta e proseguì, passando ignaro a soli cento passi dal corpo nudo del cugino. Qualche tempo dopo il sentiero si allargò, permettendogli di avanzare più speditamente attraverso un paesaggio disseminato di cadaveri, e notò che quelli che riusciva a riconoscere dagli abiti e
dall'equipaggiamento sembravano molto meno numerosi delle loro vittime. Trovò anche un gruppo di guerrieri caduti stretti l'uno all'altro lottando fino all'ultimo uomo, che formavano con i loro corpi un cerchio compatto. Ignorando l'esistenza del corpo di guardia di Ygraine, li reputò semplicemente dei forestieri che avevano venduto a caro prezzo la pelle combattendo contro altri forestieri, e accettò quella stranezza come l'ennesimo inesplicabile mistero di quella che ormai considerava la guerra di Uther. La direzione della fuga e della battaglia, tuttavia, gli suggeriva che il gruppo di suo cugino era ancora vivo, così accelerò ulteriormente l'andatura, spronando impietosamente i fianchi del cavallo con i suoi speroni. Solo in un punto interruppe il suo risoluto inseguimento. Aveva ripreso il viaggio dopo essersi fermato a metà giornata per mangiare qualcosa accanto a un ruscello, e sbucando di colpo in una radura trovò una fattoria bruciata e con i corpi massacrati della famiglia che la abitava. Solo la madre era sopravvissuta, resa folle dal dolore, ed era inginocchiata accanto al suo bimbo assassinato con gli occhi asciutti pieni di orrore. Merlino si fermò e smontò da cavallo per aiutarla, ma lei lo aggredì con la ferocia di un animale in trappola, graffiando e mordendo, decisa a proteggere a tutti i costi il patetico corpicino che aveva davanti, e lui si ritirò precipitosamente e risalì in sella, allontanandosi dalla tremenda scena con un senso di nausea, di rabbia e di intollerabile vergogna. Meno di un'ora dopo raggiunse la cima di una scogliera affacciata sul mare e vide sulla spiaggia sottostante un'ampia traccia di zoccoli che andava da ovest verso est. Conscio che il suo distacco dalla preda si stava assottigliando, Merlino scese al galoppo dalla collina per risalire su quella successiva e fu ricompensato dalla vista in lontananza dell'inconfondibile mantello rosso del cugino, con il drago d'oro ricamato. Malgrado la leggendaria reputazione di mago che sarebbe sorta in seguito intorno al suo nome e alla sua memoria, Merlino Britannico era prima di tutto un uomo, con tutti i limiti di un essere umano, compresa la tendenza a una collera cieca e arbitraria. Era così assorbito dalla sua caccia e dall'avvicinarsi della tanto sospirata vendetta che il riconoscimento del cugino fu immediato. Senza
immaginare che ciò che vedeva erano solo gli abiti e le insegne di Uther, diede di sprone al cavallo e sfiancandolo senza pietà si gettò al galoppo giù per la china, divorando la distanza che lo separava dal gruppo. Il suo destino gli imponeva di affrontare il cugino e Merlino era pronto ad accettarne le conseguenze, a costo di morire nello scontro. Si mosse verso ovest costeggiando la spiaggia dall'alto, e il terreno più solido gli consentì ben presto di superare la sua preda rimanendo tuttavia ben lontano da ciò che accadeva in riva al mare. Assistette così a eventi che da quella distanza sfuggivano alla sua comprensione: Uther, che in teoria avrebbe dovuto scortare la regina di Cornovaglia e le sue dame, sembrava dar loro la caccia deciso a catturarle, mentre le donne, cosa ancora più strana, erano protette accanitamente ed efficacemente da un gruppo di uomini dotati di lunghi archi dei Pendragon, uomini che a rigore avrebbero dovuto far parte delle forze di Uther. Quando Merlino vide la grossa barca tirata a secco oltre il margine dell'alta marea e si rese conto che era quello l'obiettivo dei fuggitivi, era già troppo tardi per influenzare l'esito dell'incomprensibile scena cui stava assistendo. Il suo cavallo, sfinito dalla lunga corsa, scivolò verso la spiaggia affondando in una sabbia profonda che gli prosciugò le ultime energie, e in preda a un orrore impotente Merlino vide i cavalieri di Uther, troppo lontani per essere raggiunti dal grande arco africano di Publio Varro che aveva con sé, raggiungere le donne raccolte intorno alla barca e piombare in mezzo a loro. Agendo all'unisono, i guerrieri issarono in sella le poverette, usandole come scudi umani contro gli arcieri che disposti in formazione stavano seminando morte con le loro frecce micidiali. La loro tattica ebbe successo, poiché per lunghi, fatali attimi gli arcieri esitarono, restii a tirare sulle donne, e prima che capissero di dover mirare ai cavalli invece che ai cavalieri avevano già i nemici addosso. Allora ruppero i ranghi e si dispersero in tutte le direzioni, ma furono inseguiti e massacrati impietosamente. Quando anche l'ultimo arciere venne eliminato, gli unici rimasti in vita sulla spiaggia maledetta erano Uther, due donne e sei cavalieri, e mentre Merlino tentava disperatamente di raggiungerli, incapace
anche solo di alzare un grido, Uther finì una delle due sopravvissute e si gettò sull'altra per violentarla. In quel momento Merlino comprese con penosa, straziante certezza che tutti i sospetti che aveva nutrito nei confronti di suo cugino erano giustificati, anche se nemmeno le tenebre e la furia demoniaca che albergavano in Uther giustificavano l'efferatezza della scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi. Qualche tempo dopo - non più di un'ora, ma interminabile per il suo corpo esausto - Merlino Britannico era su quella stessa barca che aveva visto per la prima volta dall'alto circondata da guerrieri a cavallo e da uomini e donne a piedi che tentavano inutilmente di spingerla verso l'acqua. Ora quella barca era in mare, con lui sopra, e si allontanava sempre di più dalla spiaggia disseminata di corpi insanguinati e senza vita. Una folata di vento freddo gli incollò la tunica zuppa al corpo facendogli venire la pelle d'oca. Rabbrividendo, si voltò a guardare l'armatura nera di ferro e cuoio che giaceva alle sue spalle fra le assi fradice e macchiate dall'acqua. Da lì il suo sguardo si spostò sulla pelliccia d'orso nero appoggiata al piccolo albero al centro del ponte. Scosse la testa incredulo e incrociando le braccia sul petto si girò nuovamente verso la costa che si stava rapidamente allontanando. Dalla spiaggia il suo cavallo lo osservò attentamente drizzando le orecchie, poi chinò la testa e si allontanò in cerca di erba da brucare. Sulla sabbia si distingueva ancora la sagoma del suo mantello nero e argento ammonticchiato sopra l'enorme arco africano. Merlino si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che la corda tesa dell'arco si smollasse o si spezzasse, poi si staccò brontolando dalla fiancata della barca per esaminare ancora una volta l'incomprensibile miscuglio di arnesi, sartie e paranchi sistemati con ordine intorno a lui. Sapeva vagamente che tutto ciò era necessario a manovrare l'imbarcazione, ma non era mai salito su una barca in vita sua e faceva fatica a intuire l'utilità di tutte quelle attrezzature così accuratamente disposte. Riconobbe i remi allineati su entrambi i lati dell'imbarcazione, ma erano tutti enormi, fatti per essere azionati da
due o tre uomini affiancati. Sapeva anche che l'ampio tessuto appeso ai due pennoni disposti a croce ai piedi dell'albero era una vela, ed era in grado di distinguere le sartie e le pulegge che servivano a issarla in modo da catturare il vento. Ma la vela era spessa e pesante, fatta di strati sovrapposti di stoffa, e il pennone superiore cui era assicurata era collegato a quattro robuste corde, ciascuna manovrata dal proprio blocco di pulegge sulla cima dell'albero maestro. Per issare il pesante pennone e il suo fardello ci sarebbero voluti almeno quattro uomini contemporaneamente, uno per ogni fune, e Merlino rinunciò a provarci da solo. Tanto, si disse, non c'era un alito di vento. Ma la barca continuava a muoversi inesorabilmente, e Merlino sapeva quantomeno che una barca alla deriva era una barca in pericolo. Si voltò nuovamente verso la spiaggia, frustrato, ma si accorse che la barca si era girata e ora la terra si trovava dietro di lui, alla sua destra. Masticando un'imprecazione attraversò il ponte e si protese in quella direzione, scoprendo che la spiaggia si era ridotta a una semplice linea lontana. Il suo cavallo era ormai scomparso e persino i cadaveri erano appena distinguibili, ridotti a minuscole macchie colorate contro la grigia strisciolina di sabbia. Merlino sentì la barca oscillare pericolosamente, colta da un'onda, e soffocò un attacco di nausea. Guardò ammutolito la distesa d'acqua che lo separava dalla riva, il verde cupo degli abissi, e stimò la distanza che aveva percorso. Già quando si era levato l'armatura, dopo essere salito a bordo, era troppo lontano da terra per arrischiarsi a tornare a nuoto, specialmente con un fardello fra le braccia. Si voltò di nuovo a osservare il nero involto appoggiato all'albero maestro e senza distogliere lo sguardo si liberò della tunica bagnata e la distese sul bordo dell'imbarcazione. Poi, godendosi il calore del sole sulla pelle nuda, si adagiò sul ponte, allungando le gambe e appoggiandosi alla fiancata intiepidita dal sole, concedendosi il tempo di ripensare a quanto era accaduto quel pomeriggio. Era tutt'altro che pronto alle sorprese che lo attendevano su quella spiaggia — in tutta la sua vita non si era mai trovato così
impreparato ad affrontare gli eventi - e ne era rimasto sbigottito. All'inizio, la vista di Uther che si strappava di dosso l'armatura per violentare l'unica donna sopravvissuta gli aveva ispirato una rabbia incontenibile e un ardente desiderio di vendetta: vendetta per la moglie morta e per tutte le altre innumerevoli anime infelici barbaramente massacrate e condannate dalla brama di guerra e di rapina di Uther. Così Merlino aveva guidato il suo cavallo sfinito nella sabbia cedevole e insidiosa, pronto ad affrontare e uccidere il malvagio cugino. I sei cavalieri di Uther rimasti in vita, sorpresi dall'inattesa apparizione, avevano compreso facilmente le sue intenzioni ed erano venuti al galoppo verso di lui, decisi ad ammazzarlo. Quasi senza rendersene conto, Merlino li aveva abbattuti uno per uno con feroce determinazione, accordando loro solo il tempo che gli fu necessario per prendere la mira e scoccare le lunghe frecce mortali col suo potentissimo arco africano. Finalmente Uther si era accorto del suo arrivo e aveva abbandonato la donna per terra, risalendo rapidamente in sella e voltandosi bruscamente verso di lui. Anche adesso, ripensandoci, Merlino fu sopraffatto dalla stessa stupefatta incredulità che lo aveva fatto sobbalzare sulla sella in quel momento, scoprendo che l'uomo sul cavallo di Uther e con l'armatura di Uther non era Uther Pendragon, e che la scena che aveva osservato dalla cima della scogliera era l'opposto di ciò che gli era sembrata. In quel momento la sua mente, la sua intera coscienza, si era ribellata di fronte all'assurdità di ciò che vedeva e aveva smesso di funzionare per un po', precipitandolo in un vuoto oscuro e angoscioso che riusciva ancora a ricordare, ma non a definire. In quell'intervallo qualcosa di profondo era cambiato dentro di lui, trasformandolo per sempre. L'uomo si tolse l'enorme elmo di Uther e Merlino lo riconobbe come un nemico che aveva incontrato e soccorso tempo prima, un individuo gigantesco del nord-ovest della Britannia che si faceva chiamare re: Derek di Ravenglass. Neppure lo stupore che provò nel riconoscerlo, tuttavia, riuscì a sconvolgerlo quanto la constatazione dell'assenza di Uther.
Mentre Merlino lo ascoltava in silenzio, stordito e svuotato, Ravenglass raccontò come avesse incontrato e ucciso Uther, impadronendosi dell'armatura, del cavallo e delle armi che gli erano appartenuti prima di raggiungere il gruppo di donne in fuga che il Pendragon aveva protetto fino a quel momento. La sua sorpresa nell'apprendere che l'uomo che aveva ammazzato era Uther Pendragon era troppo genuina perché Merlino potesse dubitarne. Derek aveva semplicemente visto un nemico la cui armatura si adattava alle sue enormi dimensioni. Qualunque curiosità sull'identità dello sconosciuto era stata spazzata via dalla notizia che a breve distanza c'era un gruppo di nobili dame in fuga sulle quali lui e i suoi uomini avrebbero potuto mettere le mani. Ravenglass non aveva alcun desiderio di combattere con Merlino, perché la sua passata esperienza con lui lo aveva convinto che fosse una sorta di stregone, ma era pronto a farlo se quella era la volontà degli dèi. Merlino, da parte sua, guardava il mondo con uno sguardo nuovo e non era più in grado di capire se il cugino meritasse di essere vendicato oppure no. Nauseato da tutte le morti violente di cui era stato testimone nei pochi giorni appena trascorsi, non aveva voglia di incrementarne il numero. Così i due si separarono senza combattere, e Ravenglass si allontanò con l'armatura di Uther lasciando Merlino solo sulla spiaggia. Prima che si congedassero, Merlino si fece consegnare da Derek il pesante mazzafrusto con vecchie tracce di vernice rossa appeso al pomo della sella di Uther e lo assicurò alla propria, al posto di quello che aveva smarrito sulle colline Mendip il giorno stesso in cui aveva perso la memoria. Qualche tempo prima si era convinto di averlo ritrovato nel luogo in cui Deirdre era stata assassinata: come faceva a trovarsi qui, ora, appeso alla sella del suo proprietario? La presenza del mazzafrusto non cambiava nulla, si disse. Uther poteva essersene fatto fare uno nuovo dopo aver buttato via quello con cui aveva ucciso Deirdre. Ma nell'attimo stesso in cui formulò questo pensiero si ricordò ciò che Muzio Quinto gli aveva detto sul campo di battaglia solo qualche giorno prima: la terribile arma di Uther, facile da realizzare, era stata ampiamente copiata dai suoi
soldati per anni, e da altri ancora dopo di loro. Quei brutali, rudimentali strumenti di morte erano ormai ampiamente diffusi. Di colpo gli tornò alla mente suo padre, Pico Britannico, che lo esortava a concedere il beneficio del dubbio; poi l'immagine fu sostituita da quella di Uther, che scopriva i denti scintillanti in una risata di gioia. Un rumore accanto all'albero maestro gli fece sollevare bruscamente la testa, e Merlino restò in ascolto per qualche istante finché fu certo che non si sarebbe ripetuto. Ygraine. L'ultima donna rimasta in vita sulla spiaggia era la sorella di Deirdre e anche quel riconoscimento lo aveva scosso profondamente, restituendogli un'immagine spettrale del volto della moglie amata e da tempo perduta. Merlino si era accorto solo per caso che Ygraine era ancora viva, e quando si era precipitato ad assisterla aveva scoperto che era ormai agonizzante. L'enorme cavallo da guerra di Derek, impennandosi e scalciando per adattarsi all'ingrata mole dell'uomo in armatura che portava in groppa, l'aveva calpestata e ferita alla testa con i suoi zoccoli. Merlino non aveva potuto far altro che cullare fra le sue braccia la donna morente, sostenendole il capo ferito mentre lei lo implorava disperatamente di prendersi cura del suo bambino, il figlio di Uther, Artù. Dapprima Merlino aveva creduto che la donna stesse delirando, sconvolta da tutto ciò che le era accaduto, perché non c'era traccia di alcun bambino sulla spiaggia deserta. Poi la marea crescente aveva cominciato a lambirgli le ginocchia e dalla barca improvvisamente circondata dall'acqua e trascinata verso il mare era giunto il vagito di un neonato. In un lampo si era proteso ad afferrare la fiancata del natante, quando già si sentiva mancare la terra sotto i piedi, sapendo che se avesse mollato la presa il fardello dell'armatura lo avrebbe trascinato sul fondo. Era rimasto lì aggrappato per un'eternità, sentendosi diventare sempre più pesante, e finalmente con un possente sforzo era riuscito
a sollevare la parte inferiore del corpo e ad ancorare la gamba destra alla fiancata dell'imbarcazione, incastrando lo sperone sotto la battagliola di legno. Era restato agganciato in quel modo per un bel po', raccogliendo le forze, poi si era tirato su mettendosi in salvo. Seguendo il filo del ricordo, Merlino riportò lo sguardo sulla pelliccia d'orso, si alzò e si mosse in quella direzione. Il bimbo era sveglio, e i suoi strani occhi dai riflessi dorati scrutarono con aria grave la figura che lo sovrastava. Con cautela mista a timore, Merlino si mise a sedere sul ponte e sfiorò timidamente con una mano la tenera e calda guancia del neonato. Gli occhi dorati lo seguirono con uno sguardo enigmatico, quasi senza tempo. Già, quanto tempo poteva avere? Merlino non ne aveva idea, probabilmente non più di un paio di mesi. Di colpo un velo di lacrime gli calò sugli occhi, mentre un dolore immenso gli gonfiava il petto. Piegò il mignolo e il bambino lo prese nella sua manina, scalciando con le piccole gambe robuste sotto la pelliccia d'orso. Immobile, Merlino lasciò che le lacrime gli scendessero lungo le guance e sul mento, e che tutto il dolore e lo strazio che sentiva dentro di sé affiorassero alla luce del sole. Quando smise di piangere, gran parte della sofferenza che lo opprimeva era sparita, ma il bimbo era ancora lì a guardarlo, con le mani incredibilmente piccole strette intorno alla bocca. «Be'...» sussurrò Merlino con voce rauca, deglutendo per dare sollievo alla gola dolorante, «siamo proprio una bella coppia, piccolo Artù Pendragon. Come farò a portarti via da questa maledetta barca?» Il bimbo restituì il suo sguardo come se lo stesse ascoltando. «Io sono tuo cugino Merlino... Merlino Britannico... Ma sono anche tuo zio Merlino, perché tua madre era sorella di mia moglie. Conoscevo tuo padre fin dalla nascita. Lui non è qui ora, ma noi eravamo... Noi siamo stati amici, i migliori amici che esistessero al mondo... per un lungo periodo.» Merlino distolse gli occhi che si erano di nuovo riempiti di lacrime, e quando finalmente riprese a parlare il suo sguardo rimase fisso su un punto lontano. «Eravamo diversi, io e lui. E io ero stupido... stupido e...» Si interruppe, riportando lo sguardo sul piccolo. «Arrogante. Ecco
cos'ero. Arrogante e cocciuto. Ma questo fa ormai parte del passato, e adesso dobbiamo toglierci da questa barca e tornare a Camelot. Non so come, ma ce la faremo, perché tu hai una nonna laggiù, ragazzo, che sarà felice di vederti. Tu crescerai a Camelot, ci penserò io.» Fece una pausa e rivolse al bimbo un sorriso esile ma caloroso. I grandi occhi dorati lo fissarono. «Sai, non molto tempo fa mi arrabbiai quando sentii che la gente chiamava tuo padre Uther di Camelot, perché in realtà lui non era affatto di Camelot. Viveva in Cambria, ed era un re. Ma tu, tu vivrai a Camelot, sarà la tua casa, e quando sarai cresciuto forse la gente non si ricorderà nemmeno che sia esistito un Uther di Camelot... o anche un Merlino di Camelot.» Il suo sorriso si allargò e la sua mano accarezzò nuovamente il volto liscio del piccolo. «Ma tu, aquilotto con gli occhi dorati... sono pronto a giurare che sarai conosciuto e ricordato da tutti come Artù di Camelot.» FINE