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Juan Cabriel Ascencio
(~ IF Press
ATENEO PONTIFIC IO REG INA APOSTO LO RUM
ATENEO PONTIFICIO REGINA APOSTOLORUM
FILOSOFIA
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Juan Gabriel Ascencio, L. C.
LA CULTURA E LA NATURA Temi d) introduzione alla filosofia della cultura
IF Press
ATENEO PONTIFICIO REGINA APOSTOLO RUM
ASCENCIO,Juan Gabriel Filosofia della cultura: temi d'introduzione alla filosofia della cultura l Juan Gabriel Ascendo. Roma Morolo: Ateneo Pontificio Regina Apostolorum- If press, 2011. 151 p.; 21 cm. (Filosofia; 10) ISBN 978-88-95565-55-2
INTRODUZIONE
l. Filosofia 2. Cultura L Ascencio,Juan Gabriel 301.2 (ed. 18) - CULTURA E PROCESSI CULTURALI
Volume pubblicato con il contributo della Facoltà di Filosofia dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma
In copertina: Castello di Estavayer-le-Lac, Neuchatel, Svizzera (foto di f. G. Ascencio)
Copyright© 2011 by Ateneo Pontificio Regina Apostolorum Ateneo Pontificio Regina Apostolorum Via degli Aldobrandeschi, 190- 00163 Roma www.uprait.org IF Press srl Ctr. La Murata, 49-03017 Morolo (FR) www.if-press.com
ISBN 978-88-95565-55-2
Sono passati dieci anni da quando assunsi, pieno di entusiasmo, la cattedra di filosofia della cultura nell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. In quest'arco di tempo non ho mai lasciato invariato lo schema della materia: l'esperienza didattica, le letture e gli approfondimenti suggerivano modifiche su modifiche. Un primo frutto di questo processo è stato il libro "Il pensiero ·culturale. Tra filosofia metafisica e razionalità postmoderna" (APRA, 2004). Non penso di aver scritto allora cose sbagliate; ma forse non erano cose sufficientemente mature. In particolare, l'impostazione strutturale del libro sembrava poco chiara. La ricerca doveva continuare. In questo modo, i due ultimi corsi (2008 e 2009) hanno visto persino cambiamenti forti nella struttura e nel metodo. Con questo percorso alle spalle, ottenuto anche il dottorato in filosofia, e soprattutto con l'esperienza pedagogica, la fine del corso 2009 mi diede l'occasione per visionare e per mettere a confronto gli schemi utilizzati durante l'intero decennio. Lariflessione allora svolta mi portò a compiere alcune scelte di fondo riguardanti lo schema definitivo da seguire. Poi nel2010 venne il tempo della stesura del testo, seguito da diverse revisioni. n testo finale vuol condurre il lettore verso uno scopo ben preciso, consistente nel fornire un orizzonte storico e speculativo la cui ampiezza renda possibile raggiungere tre obiettivi: l) riflettere su che cosa sia la cultura 2) facendo attenzione al con5
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testo storico-culturale attuale, 3) ma senza mettere a rischio il rapporto fondamentale con l'essere. Per raggiungere questo obiettivo, si comincia dall'esperienza e dalla semantica della cultura (ciò che in qualche modo costituisce "il dato", ovvero la questione sul "an sit" dei classici). Tale esperienza costituisce il Tema l. Seguono due parti ben distinte: quella storica e quella sistematica, ognuna divisa in diversi temi, per facilitare la didattica. La parte storica presenta il modo graduale in cui la cultura raggiunse un posto principale nella considerazione :filosofica. Ciò permetterà di acquisire l'orizzonte speculativo e problematico per far partire un movimento risolutivo-sistematico. In questo modo, il Tema 2 presenta i tratti generali della "modernità" :filosofica, e il Tema 3 ne studia la crisi. n Tema 4 si sofferma sull'antropologia culturale, vista la sua importanza per la riflessione sulla cultura in genere. Finalmente, il Tema 5 chiude il discorso sull'orizzonte speculativo e problematico della postmodernità entro la quale si svolge la riflessione sulla cultura. Tenuto conto delle problematiche rinvenute, la parte sistematica spiega gradatamente le principali dimensioni nelle quali la cultura e la natura si presentano. Esse sono le seguenti: la metafisica (Tema 6), l'antropologica (Tema 7), l'epistemologica (Tema 8) e la morale (Tema 9). In conclusione delle due parti, considero brevemente i rapporti che intercorrono tra la natura, la cultura e la :filosofia (Tema 10). Vorrei segnalare infine tre elementi che vanno tenuti presenti per una corretta comprensione di questo libro. Primo: sebbene il discorso trovi nella cultura il suo punto di partenza e il suo interrogativo principale, la prospettiva fondamentale che qui ho adottato è quella che non disgiunge mai la cultura dalla natura, anche se questo rapporto sia tutt'altro che univoco. Sono arrivato alla convinzione che la prospettiva più 6
sicura per avviare una riflessione :filosofica sulla cultura sia quella che coglie il riferimento essenziale della cultura alla natura (specificamente: alla natura umana). Tale accorgimento giustifica a mio avviso il titolo di questo libro. Una riflessione sulla natura è già qualcosa di culturale (non esiste una riflessione naturale sulla natura). Invece, una riflessione culturale sulla cultura (cioè, a prescindere dalla natura), oltre ad essere un'impresa ad alto rischio di autoreferenzialità e di relativismo è soltanto possibile a mio avviso se si concede previamente discutibile carattere di quasi-naturalità alla cultura che viene resa oggetto di studio. In secondo luogo, si tenga presente che questo discorso sulla natura e la cultura viene sviluppato senza indugiare molto nelle questioni più attuali e nelle correnti di pensiero culturale più recenti. Forse dò potrà deludere qualche lettore. Fatto sta che tali argomenti vanno piuttosto seguiti sulle pagine delle riviste, non sui libri monografìci che cercano di presentare ciò che per propria natura rimane stabile. n progresso degli studi permetterà ad ognuno di trovare il momento giusto per interessarsi alle questioni più complesse che riguardano la cultura nell'attualità. Terza segnalazione: per qualche motivo, la mia esperienza come docente e come scrittore ha fatto scemare in me l'antica vo~lia di collocare abbondanti note a piè di pagina in ogni scntto. Forse ha avuto un impatto su di me un commento lasciato cadere da Hans-Georg Gadamer in una conferenza del 1955. Diceva Gadamer che la vera "scientificità" di un testo il ' suo merito, non si misura in base alla quantità di citazioni "scientifiche" e di note a piè di pagina, ma alla luce della pertinenza e profondità delle domande che muove, e della maturità delle impostazioni date a tali domande. Perciò sin dall'inizio ho deciso di eliminare per intero le note a piè di pagina. Le poche citazioni letterali, e i brani che riflettono da vicino testi di altri autori, riportano immediatamente la dichiarazione della fonte
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in modo completo o come rimando alla bibliografia. In questa si troverà l'indicazione della totalità delle fonti che in vario modo sono confluite in quest'opera.
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CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA
Esigenza primaria di ogni discorso comprensibile è di assicurare il contatto con il suo oggetto. Nella misura in cui questo venga "visto", sarà più facile capire le riflessioni fatte in proposito. Qui si parlerà della "cultura". E se è chiaro che essa esiste, è difficile dire di preciso che cosa essa sia. La filosofia riconosce qui un problema aperto e un compito. Perciò ci occupiamo anzitutto di riflettere sul termine "cultura" e sui significati più immediati che esso racchiude.
l. La polisemia del termine ((cultura))
Aristotele di solito inizia le sue ricerche filosofiche ascoltando "cosa dice la gente". Allora, cosa s'intende per "cultura" oggi? Subito appare uno dei problemi della cultura: la sua complessità. La cultura è una realtà con tante sfaccettature, e quindi il suo concetto corrispondente ha "molti sensi" (poli-semia). Tutti sono collegati, ma non tutti sono ugualmente importanti! Alla luce dei sensi che ora saranno presentati si capisce subito che la cultura è una realtà massimamente "poliedrica". È difficile cogliere insieme tutte le sue molte dimensioni in un unico concetto "chiaro e distinto". Perciò questo corso non inizia con una definizione di cultura, bensì con la riflessione sulla polisemia del termine "cultura". 8
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1o Si può fare un'indagine etimologica. Essa rivela che il termine "cultura" proviene dal mondo latino, legato al ve~bo cole~e con la sua triplice valenza: fisica (coltivare la terra), et1ca (colt~ vare se stessi, per realizzare un ideale di uomo perfetto), e rehgiosa (dare culto a Dio). 2° Ci si può rivolgere ai giornali per vedere cosa c'è nella solita "sezione culturale". In questa luce, "cultura" sarebbero le arti la letteratura, la storia. Insomma, un piccolo mondo cresci~to all'ombra dell'ozio, lontano dalle cose importanti della vita (che si trovano in altre sezioni del giornale: politica, economia attualità internazionale, sport). ' . . 3 o La cultura va vista anche in rapporto ai suol esponent1: gli "uomini colti". Cultura sarebbe allora un~ vast~ c?noscenza di svariati argomenti: di tipo storico, letterano, art1st1c~, filoso~ fico, politico. Avere questa "cultura" è d~stintivo d1 alcunl . . gruppi umani: l'aristocrazia, le elite. cultu~ah. Questi primi tre sensi sono statl mess1 per lungh1 secoh al centro della comprensione della cultura. La cultura era qualcosa che riguardava alcuni gruppi privilegiati, mentre ip_iù restavano esclusi. Ma nella seconda metà del secolo XVIII s1 e fatta strad.a una nuova comprensione della cultura quale fenomeno che nguarda ogni essere umano, ?es~un~ esc~uso. Si dove~a cercare questa cultura nella vita ordmana d1 ogn1 popolo. Cos1 sono apparsi tre nuovi sensi del termine "cultura". 4o La cultura è ciò che unifica un gruppo umano, rendendolo un popolo particolare. La cultura è la fonte. de~la sua id~nti:à. In questo senso, la cultura consiste in ~a. sene c:h el~menu,chla mati luoghi culturali. Evidentemente, qw il termme .luogo non si riduce al senso locale, ma viene inteso nel senso d1locus usato dai classici, cioè quale "punto di riferimento" rilevante~ ~ual che ambito. Per esempio, Anima est quodammodo omnza e un focus della cultura filosofica. monologo che inizia con le p arole To be or not to be è un focus letterario inglese. Va pensiero
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CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA
è un focus musicale italiano. n churrasco è un focus culinario brasiliano. Auschwitz è un focus geografico ma anzitutto storico per gli ebrei. Come si vede, i luoghi culturali sono presenti praticamente in tutti i campi e in tutte le dimensioni della vita: vi sono luoghi morali, cognitivi, storici, estetici, pratici, religiosi, criteriologici, letterari ... D'altra parte, tutti questi "luoghi" non contano soltanto come elementi oggettivi, da studiare singolarmente. Conta anzitutto la percezione soggettiva che essi generano nella collettività, cioè il modo come i membri della cultura li hanno compresi e interpretati fino a costruire la loro specifica identità culturale attorno a tali luoghi. Infatti, questi luoghi culturali, oltre ad essere da tutti conosciuti, devono essere anche considerati validz~ vincolanti. Sono fonti di doveri, di modi di agire e di pensare. Tutti si devono sentire "identificati" con quei luoghi; li devono sentire vicini, cari. Tramandando questi luoghi, la cultura si prolunga nel tempo, passando da padre a figlio. Questi luoghi sono dei punti di riconoscimento: condividendoli, i membri di una cultura si riconoscono a vicenda come uniti da una cultura comune, e così facendo si differenziano dagli "altri", cioè da coloro che non conoscono questi "luoghi". Perciò, questo quarto senso della parola "cultura" ci invita a parlare non solo di "cultura" al singolare. Si parla anche di tante culture esistenti nel mondo, sebbene il criterio per contarle sia discusso. Per alcuni, esse sono circa 5000; per Samuel Huntington nel suo saggio del1996, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, esse sono otto: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, hindu, slavo-ortodossa, latino-americana e africana. 5° Al fondo dei "luoghi culturali", intesi nel modo più immediato, fenomenologico e quasi folklorico, si può dire che esista un numero ristretto di concetti e di valori di base, rapportati l'uno con l'altro, in modo da formare un insieme ben integrato. Si pensi, per esempio, a concetti come "la dignità", "la natura", 11
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CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA
"Dio", "la ragione", "la tecnica", "la persona"; e a valori come "il dovere", "la libertà", "il progresso", "la realizzazione", "l'onore". Ogni individuo li riceve tramite i luoghi culturali, e alla loro luce egli interpreta e guida tutta la sua vita. L'insieme così formato riceve il nome di visione del mondo. Tutta la persona ne viene segnata: il pensiero e l'agire, non meno che la sensibilità e l'emotività. Ogni cultura e ogni epoca ha la propria visione del mondo. più delle volte, quei concetti di base risultano evidenti alla persona che li accetta: raramente vengono sottoposti all'indagine critica, e ai membri della cultura riuscirebbe difficile giustificare il loro modo di vita e le loro scelte senza fare riferimento ad essi. N on passa loro facilmente per la testa che quei concetti e quei valori siano ingiustificati. Perciò, quando quei concetti vengono visti con diffidenza o quando cambiano, si può parlare senza dubbi di un cambiamento culturale. Se la cultura viene intesa così, non è difficile capire come la filosofia della cultura possa occuparsene in diversi modi. Per primo, la filosofia può occuparsi di saggiare la validità di quelle visioni del mondo che presuppongono altri concetti più complessi (come "realtà", "esperienza", "oggettività" e "valore"). Poi, la filosofia può far venire a galla il valore universale presente nelle singole culture, che di per sé sono universali soltanto in modo potenziale. Finalmente, la filosofia può fare attenzione ai diversi processi e saperi che configurano la cultura e il pensiero sulla cultura, in modo da poter dirigere questo processo con un senso di responsabilità e di verità. L'assenza di questi apporti dati dalla filosofia non può che impoverire le culture. 6° Spesso si parla di "cultura" in opposizione a "natura". Questo binomio sarà molto importante per l'approfondimento filosofico. "Natura" è ciò che non è stato modificato dall'uomo, ciò che esiste indipendentemente dall'uomo. Perciò la natura può anche significare ciò che è all'inizio, ciò che è puro e intatto.
Una volta che c'è l'intervento umano, appare la "cultura". Essa indica ciò che l'uomo produce. Perciò si aggiungono altri sensi: cultura può significare ciò che è più sviluppato, ciò che volge verso un fine, e perfino ciò che si oppone alla barbarie. Ma la cultura può anche significare ciò che è "artificiale" (lontano dalla natura) e perfino ciò che è "innaturale", incompatibile con la natura. Senz' altro si potrebbero prendere in esame altri sensi del termine "cultura". Ad ogni modo, i sei significati che abbiamo indicato bastano per dare il senso dell'ampiezza e dell'importanza della riflessione affidata alla filosofia della cultura. Ora dobbiamo trarre soltanto una conseguenza immediata: siamo immersi nella cultura. Essa non si trova soltanto "fuori di noi", come un oggetto che si potrebbe prendere in esame con imparzialità, senza essere coinvolti. La cultura è anche dentro di noi e intorno a noi. Anzi, è tramite la cultura (in questo caso, tramite l'esperienza che ognuno porta con sé, e tramite gli strumenti filosofici che ognuno ha imparato) che ci si rende conto di essere immersi nella cultura, e che ci si dispone a studiare che cosa sia la cultura. Capire la cultura è, in qualche modo, capire se stessi. Ma è altrettanto importante non perdere il concetto e la realtà della natura.
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2. La filosofia della cultura: statuto e missione Avendo già in mente una comprensione iniziale di ciò che è la cultura, conviene volgere l'attenzione verso la branca della filosofia che la studia: appunto, la filosofia della cultura. Ogni "oggetto" (qui, la cultura) può essere studiato da diverse scienze, filosofiche o "umane" quale la sociologia e la psicologia. Perché queste scienze siano legittime, basta che ognuna abbia una prospettiva propria (un "oggetto formale") che la identifi-
CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA TEMA l
chi la renda diversa dalle altre e che gli assegni un metodo e un~ specifico "livello di discorso" (positivo, fenomenologico, filosofico, ecc.). Quando di ogni scienza si capiscono questi fondamentali punti di riferimento, cioè il suo oggetto materiale. e forma~e, il suo "livello" proprio e il suo metodo, possiamo d1re che s1 conosce lo statuto epistemologico di quella scienza. In questo modo, lo statuto della filosofia della cultura permette di inserirla al posto giusto nell'insieme del sapere umano. Ci domandiamo allora quale sia lo statuto epistemologico della filosofia della cultura. A questo scopo, due prospettive ci possono aiutare: quella sistematica e quella storica. La prospettiva sistematica deve prendere avvio dalf epistemologia delle scienze. Secondo questa prospettiva, le diverse scienze filosofiche sono fondate sulla metafisica, che potrebbe somigliare alla base ultima sulla quale poggia una grande p iramide. La metafisica è allora la scienza subordinante massima. Sopra questa base, sorge un primo livello: la filosofia del m~ndo fisico. Questa scienza riceve i principi fondati dalla metafis1ca e li applica al suo oggetto, il mondo fisico. La filosofia del mor:do fisico è allora una scienza subordinata riguardo alla metafis1ca, ma diventa subordinante verso le altre scienze filosofiche (antropologia, etica, filosofia della religione, ecc.), collocate o.gr:i volta più in alto nella piramide. A queste scien~e c~mpete d: n~ cevere principi sempre più specifici per apphcarh a camp1 d1 studio altrettanto più specifici, ottenendo così anche i principi propri. Secondo questa prospettiva, la filosofia de~a cultura sa~ rebbe la scienza filosofica massimamente subord1nata. Essa s1 trova, per così dire, in cima alla piramide della filosofia perenne. Riceve i principi di tutte le altre discipline filosofiche, n:a specialmente dall'etica, dall'antropologia e dalla gnoseolog1a. Questa situazione epistemologica in qualche modo "privilegiata" ha anche una controparte negativa. Se difatti una filosofia 14
della cultura si costruisce sulla base di posizioni metafisiche, epistemologiche, antropologiche ed etiche prese in precedenza, ciò significa che diverse persone, partendo da basi diverse, costruiranno filosofie della cultura assai diverse. La diversità di posizioni nell'ambito della filosofia della cultura è difatti notevole. Finalmente, si noti che la filosofia della cultura, perché collocata in cima alla piramide, può svolgere in modo privilegiato il ruolo di ponte di dialogo tra la filosofia e altre discipl~ne quali le scienze umane (sociologia, psicologica, ecc.), le coslddette scienze esatte (matematica, fisica, ecc.), e anche le scienze teologiche. I ponti sono luoghi di incontro e quindi anche di possibile scontro. Il dialogo-scontro della filosofia della cultura con le scienze umane è di massima importanza per una comprensione della cultura. N on solo: la filosofia della cultura può spesso far tesoro dei risultati che le scienze umane ottengono nel loro studio sulla cultura. Vediamo ora la seconda prospettiva per capire lo statuto epistemologico della filosofia della cultura: quella storica. Una prospettiva storica invita a considerare la filosofia d~lla c~ltura come una scienza giovane che non ha ancora consohdato 1 propri schemi e i propri metodi. Esistono relativamente pochi "manuali" di filosofia della cultura, anche se la letteratura sul tema generale della cultura è cresciuta rapidamente negli ultimi tre decenni. Se si prendono in mano dei manuali di filosofia della cultura, ci si accorge che le impostazioni e i temi ivi trattati possono essere molto diversi. La filosofia della cultura è tuttora priva di un contenuto tematico ben definito. . . Come spiegare questa fluttuazione? Nella prospett1va slstematica si è già accennato al fatto che la filosofia della cultura è sempre una scienza subordinata. Ma subordinarla all' antropologia filosofica non è lo stesso che subordinarla alla psicologia, alla semiotica, allo strutturalismo o ad altre discipline o correnti di pensiero. Ora, la prospettiva storica illumina maggiormente 15
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CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA
questa situazione, ricordando come nascono le nuove scienze. La @o sofia nacque nella Grecia antica sotto le vesti di una riflessione di tipo cosmologico. Ma col tempo varie branche acquisirono un'identità propria: antologia, epistemologia, ecc. Nel XVII secolo nacquero le scienze positive, che pure conobbero una continua diversificazione. Ciò vale anche per la filosofia della cultura. Quando nel XIX secolo sorsero le scienze umane positive, e in particolare l'antropologia culturale e la sociologia, le loro affermazioni implicavano spesso una presa di posizione in campo filosofico. Questo richiedeva un ripensamento specificamente @osofico del tema, arricchito dai dati certi offerti da queste nuove scienze. Ecco uno dei fattori essenziali della nascita della @osofia della cultura. A nostro avviso, la @osofia della cultura si trova in questa fase di consolidamento del proprio statuto epistemologico. Tale fase è da paragonare alla circostanza in cui si disegna il tracciato delle strade principali di un centro urbano: esse rimarranno invariate lungo il successivo crescere della città. rischio è alto. Ci si domanda quale impostazione verrà seguita in futuro.
che diventa così un "ambiente" a lui connaturale. Evidentemente, si tratta di un mondo affidato per intero alla responsabilità umana. Infine, si deve dire che, se il mondo naturale è soltanto uno, esistono molti mondi culturali. n mondo naturale è sottomesso al tempo (cicli di nascita, crescita e morte); ma il mondo culturale o umano è sottomesso alla storia. Infatti, la storia riguarda una vicenda umana legata a idee e avvenimenti inspiegabili senza la libertà. Trovandoci immersi in uno specifico mondo culturale, ci troviamo per ciò stesso immersi in una specifica storia. La riflessione @osofica sulla cultura deve tener conto di questo fatto perché, come si è detto, è tramite la cultura che si pensa la cultura. Non si può fare @osofia della cultura nel vuoto storico e culturale: ogni riflessione sulla cultura avviene all'interno di una cultura, cioè in una situazione specifica che va attentamente determinata. Anzi, ci possiamo spingere a dire che il problema di oggi non sono tanto le culture, ma il modo di pensarle. Questi rilievi sulla differenza e relazione tra "mondo umano" e "mondo naturale" sono sufficienti per il momento. Riprendiamo ora il @o del discorso. Per portare avanti la nostra riflessione sulla cultura, si aprono davanti a noi due possibili vie. La prima sarebbe quella che approfondisce il fenomeno riscontrato nei primi tre significati del termine, ne cerca le cause, ne evidenzia l'essenziale. Questa via, se da una parte si presenta "in sintonia" con la tradizione realista, dall'altra corre il rischio di non vedere la forte carica di problemi che si è accumulata attorno alla cultura nel contesto storico del pensiero moderno. Insomma, la prima via sarebbe una riflessione valida, ma priva di contesto storico e, perciò, forse insensibile ai problemi contemporanei. Non resta che fare lo sforzo per guadagnare un contesto storico adeguato entro il quale pensare la cultura.
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3. Il mondo culturale e la sua rilevanza per la riflessione sulla cultura Romano Guardini diceva che il mondo esiste "due volte": la prima volta, come "mondo naturale" (ted. Welt); la seconda volta, come "mondo umano" (ted. Umwelt; ambiente), quello che viene forgiato dall'uomo a partire dalla natura preesistente. Questo "secondo mondo" è il mondo culturale, il mondo delle idee, dei valori, dei mezzi, degli artefatti, del linguaggio, delle tecniche. Nasce dal fatto che l'uomo ha la capacità di modificare il mondo naturale per conformarlo secondo un piano ideale preconcetto. In tal modo, l'uomo colloca un insieme di significati (conoscenze, valori, richiami, spinte ... ) nel nuovo mondo, 16
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Allo scopo di guadagnare tale contesto (ecco la seconda via), ricordiamo che di "cultura" si parla in Occidente già dai tempi dei Greci e dei Romani. A quel tempo, però, il concetto non creava particolari problemi. Si è dovuto aspettare fino alla metà del secolo XIX perché "la cultura" si imponesse come tema all' attenzione dei maggiori filosofi. A questo punto ci si deve domandare: perché soltanto verso la metà dell'Ottocento l'attenzione filosofica si volge specificamente sulla cultura? Perché non prima? La risposta è semplice: in quegli anni cominciava a delinearsi nel pensiero europeo la coscienza della crisi della modernità. Di conseguenza, lo sviluppo del pensiero occidentale sulla cultura si svolge contemporaneamente alla crisi del pensiero ((modernd) e all'imporsi di nuovi modi di pensare. Questo accorgimento storiografico è d'importanza capitale per la filosofia della cultura che vogliamo sviluppare. Infatti, c'è il rischio di accogliere opinioni e conclusioni che, in quanto infidate da quella crisi, difficilmente ci permetterebbero di portare avanti una riflessione serena e, per quanto possibile, oggettiva sulla cultura. Certo è che nessuno può riflettere sulla cultura al di fuori di una cultura. Ma chi vuol capire la cultura in generale o la propria cultura, deve assumere con la più alta consapevolezza possibile l'influsso esercitato dalla cultura sulla sua riflessione. Torniamo alla domanda: perché soltanto verso la metà dell'Ottocento l'attenzione filosofica si volge specificamente sulla cultura? Un tentativo di risposta, estremamente veloce, ci dice come la filosofia dell'Occidente abbia attraversato tre stadi filosofici. Inizialmente c'è stata una riflessione di carattere metafisico dove "la realtà" era posta al centro dell'attenzione. Poi, con la fine del medioevo, si è puntato lo sguardo sul "pensiero". Infine, è stato il "dire" (il linguaggio, nel senso più ampio) a collocarsi al centro dell'attenzione filosofica. Solo fino al momento del passaggio dal "pensare" al "dire", la filosofia è divenuta con18
CONTATTO CON LA CULTURA- RIFLESSIONE SULLA CULTURA
sapevole dell'influsso della cultura e ha cominciato a riflettere su questo fatto, cioè, ha cominciato a fare filosofia della cultura. Sempre allo scopo di guadagnare un orizzonte storico per svolgere la nostra riflessione sulla cultura, ci possiamo servire delle osservazioni del Card. Giacomo Biffi. Nelle sue Memorie e digressioni di un italiano cardinale (2007, 222-223) egli scrive: «Innumerevoli sono le definizioni di "cultura" che sono state date. È una ":ore~ta" n~lla quale è. facile perdersi. Per orientarsi e mettere un po' d or~~e m1 ~,~re che s1a necessario individuare tre significati primari e quas1 fontali , che potranno salvare dalla confusione e dalle ambiguità. n ~.rimo è. un' e.red.it~ irrin~nciabile del mondo classico, che ci propone un rmmagme di ongme agncola: cultura è la coltivazione dell'uomo nella sua vita interiore. Tale coltivazione, secondo l'illuminata intuizione che gli antichi, si attua mediante i "valori assoluti": dunque "coltivazione dell'uomo mediante il vero, il bene, il giusto, il bello". Si passò poi naturalmente ad ampliare il concetto; e per "cultura" si intese non solo la "~oltiv~zion~ dell'uomo", ma anche il suo risultato: la parola prese a indlcare il patrrmonio di verità, di rettitudine, di bellezza, acquisito da una persona. Con l'esaltazione dell'idea di popolo e di nazione, il termine prese anche una dimensione, per così dire, collettiva. E si cominciò a parlare della cultura di un paese, di una gente, di una comunità umana· cioè. delle sue scuole e dei suoi istituti di ricerca, nonché della sua pro~ duzwne filosofica, letterarie, giuridica, artistica, musicale. Dalla seconda metà del secolo XIX, a partire dal linguaggio delle discipline antropologiche ed etnologiche, si affianca alla prima una seconda e ben diversa nozione. "Cultura" di un raggruppamento umano è latotalità dei suoi elaborati e dei suoi comportamenti in tutti i campi, da esso r,ossed~ta a tit~lo di patrimonio comune. Non ha alcuna importanza il valore oggett1vo del prodotto: le capanne, le costumanze, le fiabe dei pigmei costituiscono la loro "cultura" con lo stesso diritto che fa entrare il Partenone, le tragedie di Sofocle, le opere di Platone nella "cultura" degli antichi ateniesi. E si potrà parlare di una "cultura contadina" e di una "cultura operaia". Lungo il XX secolo si afferma anche una terza accezione. "Cultura" vie?e a i~dicare. un si~ten:a concordato di valutazione delle idee, degli attl, degli event1, e qumd1 anche un complesso di "modelli" di vita socialmente ricercati o quanto meno socialmente accolti. Ogni cultura in
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TEMA l
questo senso supporrà una specifica "gerarchia di valori" proposta e accettata. Si può ancora capire perché si citi una "cultura idealista", una "cultura marxista", una "cultura radicale" eccetera».
Questa sintesi gode di non poca precisione e mette in luce i principali nodi. Cerchiamo di sintetizzarla ulteriormente, seguendo i tre momenti principali indicati dal Biffi. l) Cultura come "coltivazione dell'uomo" con "valori assoluti" (cultura soggettiva), ampliato con i suoi risultati (cultura oggettiva, collettiva, alta: essa sarà potenzialmente universale perché viene qualitativamente valutata sulla base dell'uomo da coltivare). 2) Fonte antropologica-etnologica (seconda metà del s. XIX): cultura come totalità degli elaborati di un raggruppamento umano. Si tratta di una cultura oggettiva e collettiva, comune e particolare, priva di considerazioni qualitative, senza un criterio universale. 3) XX secolo: cultura come sistema sociale (modello) condiviso dai membri di un gruppo, per la valutazione gerarchica della cultura oggettiva collettiva (cioè, del2o senso di "cultura"). In questa sintesi sono apparsi i concetti di "cultura oggettiva" e "cultura soggettiva". Si tratta di concetti ampliamente utilizzati e consolidati nel contesto delle discipline che studiano la cultura. La "cultura soggettiva" è la cultura che sta "dentro" l'essere umano. La si può chiamare anche "cultura spirituale", specialmente se si fa riferimento ai valori e alle conoscenze. Invece, la cultura che esiste "fuori" dell'uomo si chiama "cultura oggettiva", e può dirsi anche "cultura materiale", specialmente se si fa riferimento agli elementi tecnici, architettonici, economici e simili. N ella seconda parte del corso si spiegherà per quali motivi e in quale senso occorre privilegiare la cultura soggettiva su quella oggettiva.
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Va rilevato pure che non a caso la visione del Biffi si sviluppa in prospettiva storica. Ciò ci conferma che occorre impostare così la prima tappa del corso. Cercheremo dunque di capire perché mai la cultura si sia collocata sempre più al centro; perché le scienze umane sono state le prime ad accogliere questa novità; e perché sono andate perdute la natura e la dimensione normativa della cultura. La prima parte del corso prenderà spunto da questa tesi: mentre il binomio natura-cultura ci consente di lavorare con entrambi i termini in modo equilibrato, la perdita della natura comporterà l'affermazione unilaterale della cultura. Volgiamo dunque gli occhi ad alcuni dei principali momenti della storia del pensiero nei quali si è attuata la perdita della "natura".
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PRIMA PARTE
RIFLESSIONE STORICA: IL PROGRESSIVO IMPORSI DELLA CULTURA AL CENTRO DEL PENSIERO FILOSOFICO
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IL PENSIERO SULLA CULTURA NEL CONTESTO DELLA CRISI DELLA MODERNITÀ
a. La sintesi scolastica TEMA2
IL PENSIERO SULLA CULTURA NEL CONTESTO DELLA CRISI DELLA MODERNITÀ OCCIDENTALE
Il contesto storico che ora si presenterà non vuoi porsi come sostituzione dei corsi di storia della filosofia moderna e contemporanea, sede propria della comprensione approfondita dei singoli autori. Qui ci limitiamo a proporre dei brevi cenni, consapevolmente parziali perché scelti alla luce dell'impostazione prima indicata: il rapporto tra la natura e la cultura lungo la storia dell'Occidente. l. Dalla scolastica tradizionale fino a Kant: t imporsi del ((soggetto autonomo)) moderno
Se si vuole "misurare" la portata della novità introdotta dalla modernità, occorre considerare quanto questa sia divergente dalla migliore tradizione scolastica che si era consolidata nelle Università europee nel secolo XIII. Eredi del pensiero greco e romano, e collocati nel contesto cristiano arricchito del contributo dei pensatori ecclesiastici orientali e occidentali, gli scolastici medievali che rimasero fedeli all'orientamento aristotelico raggiunsero una sintesi attorno al tema della natura e della cultura. La figura di san Tommaso d'Aquino è in qualche modo l'espressione più alta di questa tradizione.
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La prospettiva di questi scolastici era prevalentemente metafisica. Per loro, la natura era un principio intrinseco di ogni ente: uomini, animali e cose (sebbene ognuno secondo il suo modo di essere). Inoltre, grazie alla loro natura, gli enti vivi sviluppano un movimento rivolto al proprio perfezionamento. Nel caso dell'uomo, quello sviluppo produce la cultura, fondata sulla natura e messa al suo servizio. Da tutto ciò risultava una concezione del mondo secondo la quale l'uomo (quale essere dotato di una natura al contempo spirituale e fisica) abitava e operava in un contesto di oggetti naturali e di artefatti culturali.
b. Francis Bacon e t empirismo inglese La crisi della visione scolastica era già iniziata al tempo di Guglielmo di Ockam e del beato Giovanni Duns Scoto. Comunemente ci si riferisce, però, a Francis Bacon (1561-1626), erede intellettuale di Ockam, per osservare una prima espressione chiara dell'ideale moderno. Forse il motivo risiede nel fatto che con la pubblicazione del suo Novum Organum (1620) Bacon si oppone esplicitamente ad Aristotele, autore del cosiddetto Organon.
L'allontanamento dalla posizione scolastica è visibile dal modo in cui Bacon intende l'intelletto umano: il suo empirismo e il suo nominalismo lo hanno spinto a dire che l'intelletto è inadatto alla conoscenza delle essenze e alla speculazione filosofica. Inoltre, egli pensa che la considerazione della finalità delle cose d risulti totalmente inutile. Perciò, in assenza di finalità naturali, toccherebbe all'uomo stabilire i fini da raggiungere. Quali fini si potrebbero perseguire? Per Bacon, la mente umana potrebbe servire per creare una scienza dell'utile, allo 25
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scopo di raggiungere dei risultati pratici. Ma se si vuole questo, bisognerà assoggettarsi ad un metodo che possa evitare il modo disordinato e arbitrario che la mente tende a seguire se essa viene lasciata a se stessa. Occorrerà anche liberare la mente dai pregiudizi acquisiti a contatto con la società (i famosi quattro tipi di idola: della tribù, della spelonca, del foro e del teatro). Soltanto così la mente sarà in condizioni di capire perfettamente la natura, per poi "comandare" la natura- cioè applicare le conoscenze metodiche acquisite in modo da ottenere la desiderata "potenza", accresciuta continuamente dal progresso. Allora avverrà il vero "regno dell'uomo", una sorta di "regno di Dio" sulla terra creato dalla scienza umana. Si osserverà che il concetto scolastico di natura, di portata metafisica e di valore analogico, è stato sostituito da Bacon con due concetti diversi (entrambi univoci). Nel mondo fisico lanatura equivarrebbe alla semplice materia. Invece, nel caso dell'uomo la natura indicherebbe le tendenze spontanee che sorgono dalle diverse potenze umane. Finalmente, la "cultura" alla quale Bacon aspira è di tipo tecnico, mentre non dimostra alcun interesse per la cultura "umanistica". c. Le guerre di religione in Europa
I colpi contro la sintesi scolastica non si verificarono soltanto allivello dell'alta cultura, nella quale Bacon ed altri erano già al lavoro. TI movimento di Riforma iniziato nel 1517 da Martino Lutero comportò nei decenni successivi un cambiamento profondo sul piano della vita ordinaria in diverse nazioni dell'Europa. Secondo Lutero, la natura umana (compresa la ragione) sarebbe stata completamente corrotta a causa del peccato originale. Non poteva più essere considerata quale strumento affidabile per la ricerca della verità e- del bene. L'unica speranza
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IL PENSIERO SULLA CULTURA NEL CONTESTO DELLA CRISI DELLA MODERNITÀ
era riposta nel volgersi alla "sola fide s'' (la fede fiduciale, che non tiene in conto le esigenze della ragione). Le guerre di religione produssero lotte incessanti fra le maggiori potenze europee durante la seconda metà del secolo XVI e la prima metà del secolo XVII. Non soltanto le strutture ecclesiastiche, ma anche quelle civili e culturali ne furono toccate. Infatti, la pace civile era minacciata costantement_e d_al_fatt? ~h~ da secoli la convivenza sociale era fondata su prmc1p1 rehg1os1 ereditati dal Medioevo. Se proprio la religione era diventata ora la fonte degli scontri, occorreva trovare nuo_vi f?nda_rr:enti a ~i~ presto. Si doveva far attenzione alle quest1on1 poht1co-_so~1al~ che richiedevano una pronta risposta. Invece, le quest1on1 d1 fondo (religiose e metafisiche) furono messe prima tra parent~si, e poi collocate nel contesto della vita privata (ecco la nasclta della "secolarità"). Finite le guerre di religione, l'antico fondamento religio~~ della vita sociale europea fu sostituito dal concetto alquanto p1u "laico" di natura. Apparvero sistemi di legge naturale, di moralità naturale, di governo naturale e perfino di religione naturale. Il concetto di "natura umana" era presente dappertutto alla base di quelle proposte. Ma che cosa significava di preciso la "natura umana"? La sua comprensione non era più quella ereditata dalla scolastica (cattolica), bensì quella data dai nuovi filosofi europei (spesso calvinisti, luterani e deisti) che generarono i sistemi sociali e po~tici di _cui_ si era avuto urg~nte bisogno. Ecco sorgere i grand1 nom1 d1 Hobbes, Grot1us, Locke, Rousseau, Hume, Voltaire ed altri. Il metodo ed il progresso costituiscono, insieme alla natura, forse i tre concetti più condivisi dalla nuova epoca che albeggiava sull'Europa. Soffermiamoci sulla considerazione del_ metodo. Sia che si accettassero le idee di Bacon per la costruz1on~ di un nuovo "regno dell'uomo", sia che si condividessero le ~es1 di Lutero a proposito dell'incapacità della ragione peccatnce, 27
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IL PENSIERO SULLA CULTURA NEL CONTESTO DELLA CRISI DELLA MODERNITÀ
si era concordi nell'affermare che i metodi accurati potevano servire a sorreggere e a guidare la debole ragione umana, come un bastone serve ad un anziano per camminare.
lasciando quello dell'essere, che era stato privilegiato dalla tradizione classica e medievale. Ecco il "giro copernicano" iniziato da Descartes ed approfondito, tra gli altri, da Kant. La modernità seguirà perlopiù tre diversi metodi per risolvere il problema della conoscenza. Descartes si sforzerà per trovare un punto fisso dal quale tutto pende; Locke e Hume cercheranno gli elementi semplici, i "mattoni" di ogni complessità; Kant vorrà trovare le regole invariabili del processo conoscitivo legittimo. Nonostante questa diversità di approcci, in qualche modo tutti lavoreranno con il soggetto moderno escogitato da Descartes, e tutti cercheranno di dare ai loro risultati la forma di un sistema quasi-matematico dove poche premesse indubitabili sorreggono l'intera costruzione, rigorosamente articolata fino alle ultime conclusioni, in modo da assicurarne la perfetta certezza. L'ideale moderno è definito dalla realizzazione di questo progetto teorico, e il progresso è l'indice e insieme la giustificazione della sua graduale realizzazione.
d. Il grande progetto scientifico-filosofico di Descartes Combattente nella guerra dei Trent'anni, diffidente verso la scolastica decadente imparata in gioventù, di spirito irrequieto ed inquisitivo, ma soprattutto affascinato dalla chiarezza concettuale riscontrata nel campo della matematica, René Descartes (1596-1650) concepì nel1619 un progetto per ridare vita alla :filosofia, ma stavolta fondata sul metodo matematico. Questo metodo avrebbe assicurato la validità indiscussa ed universale della :filosofia. Era già nell'aria la concezione della realtà fisica come pura materia estesa, e della natura umana come spontaneità. Descartes le unì insieme sotto il concetto di res extensa e ne affidò lo studio alle nuove scienze naturali, mentre conservò alla :filosofia la res cogitans. Quest'ultima rappresenta l'autentica novità da lui scoperta. Essa viene identificata con l'autentico "io", quel "soggetto" che guarda in modo perfettamente oggettivo tutte le cose che trova davanti a sé. A questo punto va segnalato che ciò che il soggetto trova davanti a sé sono gli oggetti mentali, e non più gli "enti reali"; in questo modo Descartes ha dato inizio a una teoria della conoscenza con tre termini (soggetto -oggetti - cose reali) al posto dei soli due termini (res- intellectus) della teoria scolastica classica. Visto che il "soggetto" non può dubitare della sua esistenza (Cogito} ergo sum), la sua certezza fa sì che esso venga messo a fondamento dell'intero progetto. n soggetto come fondamento è forse l'eredità più duratura lasciata da Descartes alla :filosofia moderna. Infatti, la riflessione :filosofica posteriore a Descartes si concentrerà sempre di più sul problema della conoscenza, tra28
e. Immanuel Kant} culmine della modernità illuministica
I campi in cui questo instancabile pensatore prussiano lavorò sono assai ampi. Conoscitore della scolastica allora vigente (nella quale spicca la sistemazione razionalistica data da Christian Wolff), ed interessato alle scienze da poco rinnovate da Newton, Immanuel Kant (1724-1804) sentì la necessità di ripensare la possibilità stessa di una conoscenza :filosofica valida allorché venne fatta oggetto della critica rivolta da Hume al razionalismo :filosofico del tempo. Lavorando sempre nel solco del soggetto moderno di matrice cartesiana (ora chiamato l"' Io penso in generale", Ich denke uberhaupt), Kant portò a compimento il "giro copernicano": d'ora in poi sarebbe stato il pensiero a determinare, non l'esistenza delle cose, ma sì il loro essere intelligibile. Ciò vuoi 29
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~ire che il soggetto moderno, anziché "vedere" con distacco e ~parzialità gli oggetti che appaiono nella mente, interviene at_
t1vamente .nella}oro pr?du~i?ne ..Detto più brevemente, il soggetto kant1ano cost1tu1sce 1 suo1 oggetti. Questa "costituzione di oggetti" è forse l'apporto più importante di Kant nella teoria della conoscenza. "Costituire oggetti" significa che la cono~cenz~ opera continu~mente una sintesi di due elementi: 1) il dato (ottenut~ tram~te !a percezione), e 2) ciò che la ragione pone.(le catego~1e a pnon della sensibilità e della ragione). Ciò che Vlene propnamente conosciuto non è nessuno di questi due el~menti, bensì la loro sintesi risultante, ovvero l'oggetto costi_ tu1to. Specia~mente .con la sua Critica della Ragion Pura (1781) Kant ragg1unse d1verse conclusioni in sede di filosofia della conoscenza che pe~~ranno sui posteri. Tra queste si possono ricordare tre: l) s 1mpone una moratoria sine die alla scienza metafisica; i~ poche parole, Kant considera che la ragione umana non s1a adatta al compito di fare metafisica; 2) di conseguenza, la sola modalità d'uso della ragione consistente con la s.ua struttura è quella di tipo empirico-razionale che viene uti _ hzzata nelle "scienze naturali" e nella matematica; 3) la filosofia della conoscen~a ha tra i suoi compiti principali quello di segnalare alla rag1one i suoi "limiti", e di custodirli nei confronti dei ricorrenti tentativi di oltrepassarli. Un altro elemento kantiano che non può essere dimenticato alla luce del progressivo allontanamento dalla sintesi scolastica è quello che riguarda il rapporto tra la natura umana e la libertà. Se san Tommaso aveva insegnato che la ragione e la volontà libera. appartengo?o all'unica (ma analogica) natura umana, dinam1camente onentata verso il proprio compimento secondo la ~~a final!tà intrinseca, Kant non è stato capace di mantenere un1t1 quest1 concetti. In particolare, non ha più saputo conciliare la natura e la libertà. Da una parte, la kantiana ragion pura si 30
occupa della natura (deterministica - cioè inconciliabile con la libertà- sia nell'uomo che al di fuori dell'uomo). Dall'altra, la kantiana ragion pratica riposa sulla libertà come il suo fondamento "a priori". In sintesi, Kant opera uno smembramento radicale della realtà in tre campi autonomi: quello dell'essere, di cui si occupa la ragion pura; quello dell'agire, oggetto della rag~on pratica; quello della finalità, affidato alla critica del giudiZ1o. Per concludere, si vorrebbe segnalare una conseguenza antropologica, la cui importanza deriva dall'influsso della filosofia kantiana nella riflessione filosofica posteriore. Per lo studio dell'uomo, Kant prevede ben due discipline diverse. C'è d'una parte la "antropologia teorica" che studia l'uomo sotto una prospettiva universale e atemporale perché coglie anzitutto la sua natura fissa. Dall'altra parte c'è l"' antropologia prammatica" che studia l'uomo nella sua vita concreta, cioè nel suo agire fondato sulla libertà. Sarà quest'uomo "prammatico" a creare la cultura; e lo farà senza poter ricorrere alla "natura" per ottenere degli orientamenti concreti. La cultura sarà l'opera della libertà umana.
2. I due tratti essenziali del soggetto moderno
Lungo i secoli del suo sviluppo, il "soggetto" moderno ha presentato senza dubbio diverse modalità e fasi di maturazione. Lo si può pensare come soggetto logico-psicologico (Descartes), come soggetto trascendentale (Kant), o come soggetto logiconoetico (Husserl). Gli si possono attribuire idee innate (Descartes) o categorie strutturali proprie (Kant) o persino negargli ogni elemento innatistico o aprioristico (Locke). Si possono teorizzare diversi modi in cui esso interviene (o no) per la produzione dei suoi oggetti: associazione, semplice recez1one, 31
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costituzione, ecc. Tutto ciò può cambiare senza mettere a rischio l'essenza del soggetto come è stato pensato dai :filosofi della modernità e dell'illuminismo. Ciò che invece non può mutare nel soggetto moderno è anzitutto il suo ruolo di fondamento. Perciò, se mai si venisse a scoprire qualche "forza" o "fattore" in grado di condizionare il soggetto moderno (cioè di porsi come "fondamento del fondamento"), il soggetto moderno perderebbe immediatamente la sua validità: il suo ruolo di "fondamento non fondato" sarebbe così ipso facto azzerato. Se il soggetto è "fondamento", esso deve godere anche di una forte autonomia. Agli autori moderni, il soggetto sembrava talmente autonomo, cioè talmente completo e, per così dire "pronto per l'uso", indipendentemente dalla cultura e dalla storia in cui esso fosse calato, che non dubitavano della validità universale delle loro scoperte. TI soggetto non cambia mai: soltanto occorre riconoscerne l'autonomia. A ciò bastava - una volta accertata la sua qualità di fondamento e le leggi del proprio funzionamento - che fossero state superate le antiche e fuorvianti dottrine che facevano dipendere il soggetto da Dio, dalla tradizione religiosa, dalla :filosofia medievale, e dagli oggetti esterni. L'altro tratto essenziale del soggetto moderno riguarda il progetto al quale esso serviva. Dal tempo di Bacon, la modernità ha mirato a ottenere una conoscenza completa ed esauriente della natura materiale (cioè della realtà opposta al soggetto) per esercitarne il dominio. Lo scopo - più chiaramente ambito tra i razionalisti continentali che tra gli empiristi inglesi- era quello di costituire un sistema perfettamente razionale e completo, cioè in grado di spiegare compiutamente la natura. Quel sistema doveva essere simile ad una "copia" del reale e, perciò, corrispondervi in modo perfetto.
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IL PENSIERO SULLA CULTURA NEL CONTESTO DELLA CRISI DELLA MODERNITÀ
La coerenza di un tale sistema esigeva, inoltre, che, una volta completato, il sistema fosse pensabile dal soggetto moderno senza dover ricorrere ad alcun elemento esterno o estraneo al sistema stesso; in altre parole, il sistema pienamente sviluppato doveva essere autofondato e capace di giustificare autonomamente ogni sua parte. Come nel caso del soggetto autonomo, anche nel caso del sistema c'era una paura da esorcizzare: se fosse dimostrata la necessità di ricorrere ad elementi esterni al sistema per garantirne la fondazione o il funzionamento, si dovrebbe dichiarare votato al fallimento ogni intento di costruire tale sistema. Visto il suo ruolo strumentale, la matematica era per diritto il primo ambito in cui si doveva realizzare quel sistema perfetto. Poi sarebbe seguito il sistema della :fisica, del quale il sistema Newton aveva già fatto pregustare un anticipo. Nel seguente tema si vedrà in quale modo la modernità fu costretta a riconoscere il fallimento di questi due tratti essenziali. Devono essere evidenziate le fonti di queste novità e il loro lento sviluppo. Lo sforzo che la modernità ha dispiegato a difesa del suo doppio nucleo è stata lunga e faticosa, ma alla :fine si è rivelata inutile. Si è dovuto prendere atto della crisi della modernità, e il pensiero :filosofico sulla cultura è stato toccato da questa vicenda epocale.
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LA CRISI DELLA MODERNITÀ
l. Tratti generali del romanticismo
TI romanticismo rappresenta per certi versi una reazione alle esagerazioni e alle evidenti unilateralità dell'illuminismo razionalista. All'esaltazione illuministica della ragione (percepita come eccessivamente tecnica e formale) segue l'esaltazione romantica della libertà e della storia. All'innalzamento moderno del soggetto come entità autonoma e completa, segue la valorizzazione romantica della totalità (natura, nazione, storia) entro la quale le differenze interne all'individuo, come quelle tra un individuo e l'altro, rischiano di sparire. Il soggetto autonomo della modernità, chiuso su se stesso, aveva poco da fare con la vita ordinaria, la storia, le tradizioni, i sentimenti, la religiosità. Anzi, queste cose sembravano intralciare il suo corretto funzionamento metodico. Ora invece, nel romanticismo tutti questi elementi saranno considerati come dei valori di prim'ordine. Mentre nella modernità ogni cosa veniva vista alla luce delle categorie formali e universali del soggetto scientifico e metodico, nel romanticismo contano i contenuti particolari con la loro diversità e dinamicità, irriducibili a schemi universali. L'uomo stesso sarà visto alla luce di quelle nuove categorie, entro le quali la sua individualità autonoma non apparirà più come qualcosa di compiuto, bensì come qualcosa che è sottomesso al divenire. 34
Altro ancora. Se nella modernità l'uomo si sentiva sicuro in se stesso, perché capace di rifugiarsi dentro il suo cogito, fondamento delle sue teorie e fonte della sua identità, nel romanticismo appare invece l'uomo amante della natura, del sentimento e della storia del suo popolo: è proprio là - nel mezzo del gruppo storico - che egli si sente al sicuro, e dal gruppo storico il singolo uomo deriva la sua identità. L'uomo del romanticismo vuole un contatto con la realtà che sia diretto; non vuol vivere in un mondo troppo "concettuale" come quello costruito dall'illuminismo. Anche il modo di vedere "il tempo storico" cambierà. Nella modernità, lo sguardo verso il passato non scorgeva in esso valori reali. Semmai, il passato faceva vedere l'esordio di un cammino verso il progresso attuale; e lo sguardo verso il futuro era roseo, perché il progresso tecnico avrebbe spianato sempre di più la strada alla felicità e al benessere. Invece, il romantico è un uomo che, gettando il suo sguardo verso il passato, scorge un mondo pieno di valori, un mondo che aveva trovato un equilibrio nel quale si poteva vivere bene. Il romantico prova perciò la malinconia verso quel mondo perduto, e si domanda se esso possa essere ripristinato. Nasce così la prima grande sfida all' ideale proposto dalla modernità. Evidentemente, i moderni cercarono in tutti i modi di superare la sfida romantica. Grandi sforzi furono fatti per generare sintesi su basi moderne, piegando le novità romantiche alle esigenze del soggetto moderno. Altri, però, elaborarono delle sintesi senza far ricorso alle idee della modernità. Questa "lotta di posizioni" spiega la proliferazione di correnti filosofiche e di tentativi di sintesi dalla seconda metà del secolo XVIII fino all'inizio del secolo XX.
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2. Il romanticismo: nascita in Francia) maturità e crisi in Germania
Rousseau insegna che una tale libertà comporta che l'uomo abbia un'altra caratteristica intrinseca: la sua per/ettibilità, cioè la capacità di "acquisire" nuovi tratti, nuove "facoltà". La perfettibilità è stata, però, la sorgente di tutte le sventure dell'uomo. Infatti, Rousseau segnala che essa ha reso possibile la perdita dello stato di natura in cui il buon selvaggio trascorreva felicemente i suoi giorni. Rousseau ipotizza che a causa di un litigio sulla proprietà privata, il buon selvaggio ha dovuto cominciare a ragionare. È entrato così in uno stato nuovo. In altre parole, la sua perfettibilità gli ha fatto "acquisire" la ragione e la socievolezza, uscendo ipso facto dallo stato di natura ed entrando nella "condizione sociale" (diciamo: nello "stato di cultura"). Beninteso, né la ragione né la socievolezza sono qualcosa di originale nell'uomo: esse sono cose nocive, che portano dietro di sé grandi problemi. La ragione è una facoltà secondaria, che si sviluppa tardi, e che non è autonoma perché le sue radici sono da cercarsi nella natura deturpata dell'uomo sociale. Come si trova la libertà dell'uomo nella "condizione sociale"? Chiaramente male. Per primo, la libertà ha perduto la sua norma naturale: le passioni. Entrato nello stato di società, l'uomo non ha più i criteri "naturali" che servono per guidarlo a scoprire le forme giuste per la vita sociale. La ragione come norma della libertà non funziona bene. Agli occhi di Rousseau, le norme "razionali" sono tutte arbitrarie, anzi, cattive, perché favoriscono la disuguaglianza (contraria all'uguaglianza naturale). Con Rousseau (e con diversi autori che seguono la sua impostazione), tra la natura e la cultura si vedrà un'opposizione: se la natura cresce, la cultura deve decrescere, e inversamente. Non si vede più il mutuo rinforzo proposto dalla scolastica classlca.
a. Rousseau: libertà/ragione)· natura/cultura
Je an -Jacques Rousseau (1712-177 8) era nato dodici anni prima di Kant, ma apparteneva intellettualmente ad un'epoca più nuova: il romanticismo. Rousseau conosceva bene l'Illuminismo moderno al quale Kant dedicava allora i suoi sforzi, ma finì per allontanarsene sul punto essenziale. Infatti, gli illuministi affermavano che la razionalità era essenziale per l'uomo e perciò affidavano all'intelletto il ruolo di fondamento e di guida del loro progetto. Rousseau, invece, aveva appena escogitato un modo assai diverso di guardare all'uomo e alla ragione. Anzitutto, Rousseau nega che la "natura umana" che si osserva abitualmente (natura come spontaneità) sia la vera natura dell'uomo. Infatti, questa è già a suo avviso un misto di natura e di cultura. E la stessa cosa può dirsi della ragione: è già una ragione modificata negativamente dalla cultura. Perciò, se si vuole conoscere la vera natura dell'uomo, Rousseau dice che occorre prescindere da ogni elemento che si sia aggiunto da quando è andato perduto uno stato iniziale che egli chiama "stato di natura". Secondo Rousseau, l'uomo naturale, collocato nello "stato di natura", cercava il proprio benessere fisico erifuggiva dalla sofferenza. A fare ciò gli bastavano le proprie passioni. La vita di questo "buon selvaggio" era beata e semplice, trascorsa in una pacifica solitudine in mezzo alla natura che provvedeva ad ogni sua necessità. La vera novità antropologica di Rousseau consiste nel dire che ciò che qualifica essenzialmente l'uomo non è la ragione, bensì la libertà. Essa è la sola caratteristica intrinseca dell'uomo, il solo tratto che non va mai perduto. Questa libertà è da interpretarsi come libertà dal determinismo della natura e degli istinti (ecco ciò che distingue l'uomo dagli animali). Perciò 36
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b. Hegel: la storia) la perdita del particolare)· lo spirito oggettivo Otto anni prima della morte di Rousseau, nasceva a Stoccarda in Germania colui che avrebbe portato il romanticismo alla sua più alta espressione filosofica: G.W.F. Hegel (17701831). L'ampio respiro della sua riflessione, ispirata anche allo stile fortemente unitario-monista di Spinoza, lo portò a voler sintetizzare la tradizione cartesiana-kantiana (la sua "scienza metodica" e il suo "soggetto moderno", ora sotto la veste di "spirito") con delle tematiche care al romanticismo quali la storia, la società e la cultura. Per questa volontà di non restare semplicemente all'interno del romanticismo, Hegel è stato anche un critico di questo stesso movimento. È ben saputo che per dare dinamismo e storicità alla sua filosofia, Hegel escogitò un metodo a tre tappe. Ad ogni tesi si oppone un'antitesi; e il meglio di entrambe viene conservato in una sintesi che, divenuta tesi, inizia nuovamente il movimento. In questo modo, lo "Spirito" (che è e resta l'unico "vero soggetto" lungo tutto il processo) percorre il suo cammino fino alla sua pienezza metastorica. In questo modo la storia (tematica romantica) sfocia nella verità assoluta (temati ca moderna). Hegel scrisse diverse versioni della sua grande visione filosofica. L'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, ampliata nel1827) presenta il solito sistema hegeliano a tre tappe. Qui le tre parti principali sono: logica, filosofia della natura, filosofia dello spirito. Forse la parte più rilevante è la "filosofia dello spirito". Consideriamo ora alcuni degli elementi di quest'opera di Hegel che possono risultare più utili per la nostra riflessione sulla cultura. La filosofia dello spirito è divisa a sua volta in tre tappe: spirito soggettivo, spirito oggettivo e spirito assoluto. Se nello spirito soggettivo Hegel studia le attività dell'individuo spirituale singolarmente considerato (qui troverebbe la sua collocazione
l'antropologia aristotelica), nello spirito oggettivo Hegel studia le attività che implicano un rapporto tra individui: diritto, famiglia, società civile, Stato, storia universale. Si noti come vengono a collocarsi, l'una accanto all'altra, dentro la sintesi totalizzante di Hegel, l'" alta cultura" (filosofia, scienze: cultura nel senso classico e moderno), e la cultura nel senso romantico (istituzioni sociali, tradizioni letterarie, folklore, ecc.). punto culmine dello spirito oggettivo è la storia universale, della quale gli attori erano allora gli Stati (le nazioni europee sviluppate, che in quel tempo andavano ritrovando la loro unità). C'era però un prezzo da pagare per mantenere lo spirito oggettivo come mirabile sintesi di storia e di scienza, di modernità e di romanticismo. n prezzo consisteva nell'accettare che tutto ciò non aveva in sé il suo senso ultimo. "I particolari" (i singoli enti esistenti) non possedevano un loro valore proprio. Invece, tutto mirava alla sintesi finale data dallo spirito assoluto, dove una "filosofia assoluta" segnava il compimento di tutte le fasi precedenti. In altre parole, ogni tappa e ogni elemento particolare della storia convergeva nello spirito assoluto e da esso riceveva la sua verità definitiva, il suo senso vero. Ciò era comprensibile: soltanto una "filosofia assoluta" era in grado di garantire la sintesi tra la natura e la storia, tra la modernità e il romanticismo. E quella filosofia assoluta era appunto quella di Hegel. Al n. 3 84 della sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio si legge: «L'assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell'assoluto. - Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto, tale, si può dire, è stata la tendenza assoluta di ogni cultura e filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo». Un ultimo tratto di Hegel va messo in rilievo. Si tratta dell'importante concetto di "totalità" (das Ganze), che dal pensiero moderno passò al pensiero romantico. Infatti, già Kant utiliz-
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zava il concetto di "totalità", in un senso logico ed epistemologico. Egli faceva osservare che per giungere a una vera conoscenza del "mondo", questo dovrebbe essere dato "come totalità" all'intuizione sensibile (il che è evidentemente impossibile). Da parte sua, Hegel applicò la totalità in senso più realistico e storico: sarebbe "vero" soltanto ciò che si fonda su una totalità, ciò che riguarda una totalità. L'applicazione principale è evidente: mentre la storia si svolge, nulla può essere dichiarato "vero" perché la storia non è ancora arrivata al suo compimento (lo spirito assoluto) e perciò non è data come una totalità. Diversi filosofi post-hegeliani hanno conservato il concetto di "totalità" per applicarlo in vari modi, come si vedrà più avanti. Il sistema hegeliano causò una forte sorpresa iniziale. Ma la filosofia non poteva fermare la sua corsa. I filosofi dell'epoca cominciarono a dichiararsi indisposti ad accettarlo nella sua interezza. In particolare, lo spirito assoluto fu trovato inaccettabile e venne rigettato. Ma lo spirito oggettivo- vista la ricchezza di elementi ivi contenuti - attirò a lungo l'attenzione di diversi gruppi: gli uni (chiamati "la destra hegeliana", fedeli alla "lettera" del sistema) fecero specialmente tesoro della teoria dello Stato; gli altri (chiamati "la sinistra hegeliana", contrari in particolare al carattere "astratto" del sistema) conservarono le intuizioni hegeliane riguardanti la società, la persona e l' economla. Se lo spirito oggettivo sembrava allora il vero apporto duraturo di Hegel alla filosofia, va osservato che quel dono si è tramutato presto nelle mani di tutti in una vera "bomba". Infatti, se si prescinde dallo spirito assoluto (esso serviva a unificare lo spirito oggettivo), come mai se ne potrà mantenere l'unità di fondo, la comprensibilità unificata? Dopo Hegel, non ci sarà più nessuna filosofia in grado di assicurare l'ordine e la comprensibilità di tutta la ricchezza degli elementi contenuti nello spirito oggettivo. Esso, diviso in parti irreconciliabili, sarà di se-
guito studiato da singole "scienze umane" (sociologia, politica, storiografìa, antropologia culturale, ecc.). A sua volta, la filosofia posteriore a Hegel - non più in grado di svolgere il suo tra dizionale ruolo di sintesi di tutto il sapere - sarà declassata per diventare "una disciplina tra le altre", sempre meno rilevante.
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c. Dilthey: il fallito tentativo di sintesi tra Filluminismo e il romanticismo
I tratti più importanti della filosofia di Wilhelm Dilthey (1833-1911) si capiscono alla luce della situazione creatasi dopo il rigetto dello "spirito assoluto" di Hegel. Ad eccezione degli aderenti alla destra o alla sinistra hegeliana, si può dire che la filosofia nell'area germanica fece allora largamente ritorno a Kant e al suo soggetto trascendentale. Ecco allora comparire il neokantismo nel panorama filosofico dalla fine del 1800 fino agli anni della prima guerra mondiale. A differenza del primo kantismo, il neokantismo post-hegeliano accentuò il suo carattere "epistemologico", cioè la sua attenzione verso la conoscenza scientifica. Dilthey, però, non condivideva appieno l'orientamento del neokantismo. Egli amava anche le tematiche del romanticismo. Apprezzava la visione storica offerta da Hegel nello "spirito oggettivo", prescindendo però dalla sintesi operata dallo spirito assoluto. Perciò, la filosofia di Dilthey può essere interpretata come un tentativo di stabilire una sintesi tra la storia (tema caro a Hegel e al romanticismo) e il soggetto moderno (tema centrale del neokantismo e della modernità illuministica). Quella sintesi, però, non era facile da raggiungere. La principale sfida consisteva in questo: se da una parte Dilthey accoglieva la prospettiva storica, dall'altra egli desiderava sottometterla a un'analisi kantiana (moderna, scientifica) che ne rivelasse le "categorie a priori". In altre parole, se nel caso
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del "mondo naturale" Kant aveva trovato le categorie della "ragion pura" che rendevano possibile il suo studio preciso, Dilthey cercò di fare altrettanto nei confronti del "mondo storico". Cercò, cioè, di trovare le categorie della "ragione storica". Queste sarebbero la base in grado di assicurare la scientificità delle cosiddette "scienze dello spirito". Infatti, la "ragione storica" veniva intesa da Dilthey come fonte di tutte le espressioni esterne della vita e della cultura. Questo ambizioso progetto, presentato nell'opera principale del1883, Introduzione alle scienze dello spirito, non ebbe successo. Gli anni successivi non portarono frutti migliori. Dilthey si trovò ripetutamente nell'impossibilità di individuare delle categorie della ragione storica capaci di "funzionare" nel contesto delle espressioni della storia. Non poteva essere altrimenti. Infatti, la ragione storica concreta si serve, non di categorie universali, bensì di categorie storiche, modellate lungo la storia, che ogni membro di un gruppo riceve dalla propria tradizione. L'attenzione di Dilthey fu da allora attirata verso la "visione del mondo" (Weltanschauung). Essa era costituita dall'insieme delle "categorie storiche" presenti nella cultura storica di ogni popolo. Secondo Dilthey, tali categorie guidavano il pensiero dei popoli, e perciò dovevano costituire la fonte della @osofia. La Weltanschauung si presentava dunque come più ricca e più originale di ogni @osofia teorica. Ogni teoria non sarebbe altro che l'esplicitazione e la sistematizzazione di quanto è già dato in modo diretto nella Weltanschauung di base. Dunque, Dilthey propose di capire la @osofia speculativa alla luce della Weltanschauung, e non inversamente. Ciò comportava privilegiare decisamente la prospettiva romantica (storia - vita) sulla prospettiva moderna (scienza- teoria). Le scienze dello spirito non potevano, anzi, non dovevano offrire una spiegazione teorica e universale, come facevano le scienze della natura. N ell' ambito delle scienze dello spirito (storia, @osofia, letteratura,
estetica ... ) ci si doveva accontentare di un approccio piuttosto descrittivo. Gettando lo sguardo verso gli sviluppi futuri, per almeno tre motivi si può dire che il pensiero di Dilthey è stato decisivo per la @osofia occidentale in senso antimoderno. l) Da una parte, con Dilthey viene a mancare la convinzione che esista una storia ("la storia universale" di cui parlava Hegel): vi saranno invece tante storie quante sono le culture che posseggono un modo di capire il loro passato. 2) Dall'altra, viene a mancare la convinzione che la @osofia stessa - come veniva praticata da secoli in Occidente - sia qualcosa di universale: piuttosto, ogni epoca storica di una cultura svilupperebbe la propria @osofia, che sarebbe il suo "specchio", cioè la descrizione di ciò che la cultura particolare pensa e vive. 3) Finalmente, su quelle basi è stato possibile pensare la verità stessa in modo non-moderno e perfino antimoderno. La verità non poteva dipendere da qualcosa di fisso e di universale (il soggetto moderno o le categorie a priori di Kant). Infatti, se le categorie del "mondo storico" sono tutte acquisite storicamente, ogni oggetto costituito con l'intervento di tali categorie è "culturale", e gode di un'universalità relativa alla cultura che sta alla sua base. Ogni pretesa di "autonomia" del soggetto è inaccettabile alla luce di questa scoperta. Almeno nelle sue conoscenze (se non addirittura nel suo modo di funzionare), il soggetto non può essere pensato come separato dalla storia.
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3. Alcuni momenti della crisi del ((soggetto moderno)) L'impossibilità di piegare la nuova conoscenza storica ai rigidi schemi universali della "scienza naturale" fu un primo segnale della crisi del soggetto moderno. Nei paragrafi seguenti si cercherà di far vedere in modo veloce alcune delle sconfitte
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che il soggetto moderno dovette incassare ininterrottamente fino alla sua squalifica definitiva. Evidentemente, la visione storica che ora percorreremo può essere vista come l'ascesa e l' affermazione definitiva delle novità anti-moderne, anziché come la crisi della modernità. a. Il filo rosso da seguire
n panorama storico nel quale ora dobbiamo muoverei è sempre più complesso. Per evitar la confusione, occorre identificare subito una dinamica di fondo che governa in qualche modo tutte queste "sconfitte" del soggetto moderno. Per capire quella dinamica, occorre tenere a mente almeno quattro fattori: l) Il neokantismo e, più tardi, il neopositivismo. Sono gli eredi del pensiero moderno, i difensori del soggetto autonomo nel XX secolo. Si tratta di scuole dedicate interamente alla conoscenza "scientifica" (matematica, scienze naturali ... ), ritenuta la più rigorosa, la sola veramente conforme ai canoni di "conoscenza certa" richiesta dal soggetto moderno. Queste conoscenze si esprimono in modi universali e normativi (come "leggi"). 2) Il concetto di verità in uso presso il neokantismo e il neopositivismo. Esso viene inteso alla luce della corrispondenza tra il fatto reale e la proposizione elaborata dal soggetto. Tra questi due poli ci sarebbe una corrispondenza perfetta: la proposizione rispecchierebbe il fatto in modo totalmente oggettivo, senza alcuna aggiunta da parte del soggetto. 3) Il neopositivismo generò ciò che solitamente si chiama "l'immagine scientifica del mondo". Quest'immagine aveva la pretesa di dire esattamente quali e come fossero le cose reali, respingendo ogni altra "cosa" nel campo dell'irrealtà. A questo "mondo scientifico" (che avanzava la pretesa di rappresentare "la vera realtà") corrispondeva la totalità delle proposizioni del
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sistema scientifico. Queste erano perfettamente vere (cioè, quasi una "traduzione in proposizioni" della realtà del mondo). Veniva fuori un'immagine del mondo molto strutturata e "razionale", alla quale aveva accesso l'uomo che fosse stato "iniziato" alla visione scientifica delle cose. 4) Le novità che la filosofia aveva acquisito lentamente dai tempi del romanticismo (la storia, le culture, la Weltanschauung, le tradizioni, ecc.). A queste si aggiungono altre novità simili, spesso dipendenti dalle prime (il linguaggio, la vita e le sue forze, l'esistenza, l'interpretazione, ecc.). Con il tempo, si affermò la persuasione che queste "cose nuove" non fossero soltanto - come dicevano i moderni e gli scienziati neokantiani e neopositivisti- delle apparenze, delle maschere che impedivano l'accesso al "mondo scientifico": esse erano invece una parte importante della realtà, che si manifestava dunque piena di movimento e di diversità. Anzi, si trattava delle cose che costituivano il "mondo umano", diverso dal "mondo scientifico", e certamente più ricco e significativo di esso. Perciò, occorreva studiare la realtà intera con nuovi metodi, liberi da ogni tintura di modernità razionalistica. A sua volta, la dinamica di fondo che si stabilisce tra questi quattro fattori si può presentare come un processo sovente articolato in tre fasi: l) Le "novità" cominciano a imporsi come cose reali di cui si deve tener conto. Così, il soggetto moderno capisce che deve interessarsi a queste, con l'intento di conoscerle per integrarle nel contesto dei suoi campi di dominio. 2) Inizialmente queste "novità" vengono studiate dal soggetto moderno come fossero degli "oggetti", cioè come delle realtà collocate fuori del soggetto moderno, davanti ad esso. Il soggetto conserva così gelosamente la sua autonomia e il suo ruolo di fondamento.
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3) Con l'approfondirsi degli studi, ci si rende conto del fatto
che quegli "oggetti" non si collocano soltanto fuori- davanti il soggetto, ma anche al suo interno. Ci si accorge inoltre del fatto che essi giocano un ruolo determinante nel funzionamento del soggetto moderno: sono dei fattori non riconducibili alle sole categorie razionali proprie del soggetto moderno. Di conseguenza, tale soggetto perde la sua autonomia e il suo ruolo di/andamento. Prima di iniziare la presentazione sintetica di alcuni momenti rilevanti della dissoluzione del soggetto moderno, va detto che queste crisi non si sono verificate in modo isolato o autonomo. Spesso s'incrociano, s'influenzano reciprocamente, condividono gli orientamenti e i risultati.
b. Prima crisi: la messa in dubbio della filosofia della conoscenza dopo Kant
n soggetto moderno si era imposto e aveva vinto ogni battaglia con lo strumento della "critica", attenta a trovare il fondamento razionale che, solo, poteva rendere "ragionevole" l'accettazione di qualunque dottrina. Il progresso da Bacon a Descartes, e da questi a Kant e a Hegel, era stato acquistato tramite la critica sistematica degli autori precedenti, di cui si doveva mettere in luce, per rigettarlo, ogni passo non giustificato, ogni resto di "irragionevolezza", ogni inadempienza nella ricerca di un fondamento assoluto. Nei decenni successivi a Kant, sembrava che si fosse arrivati al fondatnento ultimo del soggetto moderno grazie alla scoperta del "soggetto trascendentale" (che stava a fondo del soggetto logico-empirico di Descartes). Si potevano dichiarare finalmente soddisfatti i pensatori moderni? No, perché la "critica" non può mai cessare. Essa doveva esercitarsi anche sullo stesso soggetto trascendentale kantiano. Nei suoi confronti si poteva 46
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porre questa scomoda domanda: E che cosa fa sì che si debba accettare il soggetto kantiano? Orbene, non potendo andare più a fondo del soggetto trascendentale, è apparsa questa forte difficoltà epistemologica: come si potrebbe sapere con certezza se davvero le categorie a priori e le leggi trascendentali scoperte da Kant fondano la conoscenza, senza usare la ragione fondata su quelle stesse strutture e categorie? Detto in modo più semplice, se la ragione kantiana doveva essere giudicata per accertarne la verità, cosa succederebbe se non ci fosse altro tribunale che la stessa ragione kantiana? Davanti a una tale sfida, vi erano soltanto due vie di uscita: o accettare "dogmaticamente" (e non più "criticamente"!) il soggetto trascendentale, pagando l'alto prezzo di collocare un'evidenza non razionale alla base della teoria moderna, erinunciando al fermento della critica; o puntare tutta la forza della critica contro il soggetto kantiano alla ricerca delle sue condizioni di possibilità. Se fosse stata scelta questa seconda via, ci sarebbe stato senz' altro il rischio di "sfondare" il soggetto moderno. Ciò sarebbe successo se al fondo del soggetto fossero state trovate delle "condizioni di possibilità" non più interne al soggetto critico stesso (come quelle trovate da Kant), ma al di fuori di esso. Ciò avrebbe compromesso radicalmente la sua condizione di fondamento non fondato, minando così per intero tutto il progetto moderno, centrato sul soggetto autonomo. c. Seconda crisi: la storicità intrinseca del soggetto
Wilhelm Dilthey non aveva potuto fare la sintesi del soggetto moderno con la storia. Le categorie a priori della ragione storica non furono mai trovate. Ma sembra che Dilthey, nonostante le sue ricerche sulla storicità, non abbia mai rinunciato al grande ideale metodico della modernità e al soggetto moderno. Ciò lo si può costatare vedendo che egli rimase sempre fedele al com-
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pito di studiare le Scienze dello spirito (ciò si rispecchia nel titolo della sua influente opera del1883 ). Queste scienze potevano essere diverse dalle "scienze della natura", ma tuttavia restavano "scienze", regolate alla luce dei procedimenti metodici della moderna scienza della natura. Con Dilthey, il soggetto moderno non trovava più la storia come un "semplice oggetto" davanti a sé. Tuttavia, egli limitò le sue ricerche alle espressioni della vita culturale e storica che sono esterne al soggetto. Non si dimostrò pronto a portare la storicità fin nel profondo del soggetto stesso. Per lui, i tempi non erano maturi per passare dal soggetto moderno (fondamento non fondato) al soggetto storico (fondato dalla storia). Ad affermare in modo compiuto che il soggetto fosse intrinsecamente storico è stato principalmente Heidegger, erede degli sforzi di Dilthey e di Nietzsche per liberarsi dalla prospettiva moderna nello studio della storia. Martin Heidegger sostiene l'intrinseca storicità del soggetto, portando così fino alle ultime conseguenze le premesse di Dilthey. Già da Essere e Tempo (1927) Heidegger concepisce l'uomo come un essere totalmente storico, calato nella storia fin nel più profondo del proprio essere. L'uomo di Heidegger non solo vive "nel tempo", ma in qualche modo "è" tempo. Se questo è così, se cioè l'uomo è sottomesso al tempo, anche la conoscenza umana doveva essere ripensata da capo a fondo, e spiegata in termini nuovi. Occorreva -superare definitivamente la teoria della conoscenza scientifica e metodica elaborata dalla modernità. Al suo posto si doveva presentare una visione della conoscenza adeguata al soggetto storico-culturale. Tale visione si fonda su questo presupposto: ogni teoria nasce da un fondo precedente, di carattere storico-esistenziale. La riflessione sorge in un momento posteriore a quelle conoscenze esistenziali. Perciò, lo sviluppo della riflessione avviene necessariamente a contatto con tali conoscenze esistenziali, cioè 48
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influenzata e guidata da queste, e non da una struttura propria al soggetto stesso. Di conseguenza, la conoscenza scientifica non può essere più vista come un semplice "apprendere dati oggettivi". D'ora in avanti si dovrà parlare piuttosto di "progetti" e di "interpretazioni" calati nella storia. In breve, l'interpretazione esistenziale sostituisce la verità come corrispondenza tra fatto e proposizione; la proposizione "teorica" viene vista come qualcosa di poco fidato e sostituita dal discorso vivo; la scienza non si colloca più come misura del vissuto, bensì inversamente. Finisce così la corrente di filosofia della conoscenza iniziata da Aristotele e continuata fino a Husserl, dove si cercava di raggiungere una "verità" ultima, costruita su un fondamento solido, al riparo da ogni cambiamento. D'ora in avanti non ci sarà più un "fondamento", inteso come un punto fermo a partire dal quale si possa ragionare senza incertezze.
d. Terza crisi: il linguaggio e il significato Seguendo il De interpretatione aristotelico, la scolastica medievale aveva accolto la tradizione greca che vedeva nellinguaggio uno strumento del quale l'uomo si serve per comunicare ad altri i propri pensieri. Secondo questa visione, la verità logica avviene nel pensiero che, giudicando, si adegua alla realtà. Di conseguenza, il linguaggio appare come qualcosa di estrinseco al giudizio del pensiero, essendo questo la parte essenziale del processo della conoscenza. n giudizio non è toccato dal linguaggio, che serve soltanto ad esprimerlo all'esterno. Nonostante i forti cambiamenti operati dalla modernità, questa visione del linguaggio come strumento comunicativo del soggetto rimase sostanzialmente invariata fino al neopositivismo del XX secolo. Una sola eccezione deve essere indicata: mentre Aristotele e la scolastica riconoscevano che il linguaggio era uno strumento segnato profondamente dall'analogia, i moderni, in 49
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sintonia con il loro progetto scientifico e metodologico, avevano cercato di fare del linguaggio uno strumento univoco, che potesse trasmettere i risultati altrettanto univoci e precisi ottenuti dalla scienza, al riparo da ogni ambiguità. Autori romantici quali Johann Gottfried Herder e Karl Wilhelm von Humboldt introdussero un altro modo di vedere il linguaggio. Attenti allo studio delle culture tradizionali, loro si resero conto del fatto che la cultura è qualcosa che esiste nella lingua: in essa viene conservata e con essa viene trasmessa. Non si può apprendere una lingua senza venire a contatto con la cultura ivi contenuta. Se ciò era così, allora la molteplicità delle lingue implicava la molteplicità dei modi di vedere il mondo: ogni lingua aveva un suo modo di comprendere la realtà. In questo modo veniva messa in dubbio la convinzione moderna che il linguaggio fosse un "semplice strumento" in grado di rispecchiare oggettivamente il mondo che ci circonda. Se il significato delle parole non coincideva con le cose di quel mondo, allora il significato non era esterno al linguaggio, bensì interno: il linguaggio si dimostrava carico di significati, che erano come dei contenuti dai quali non poteva essere separato. Quei "significati" intrinseci al linguaggio non erano fissi né universali: venivano modellati dalla storia ed erano relativi alla cultura particolare. Da quando si comprese che il significato non s'identifica con "la cosa" (il referente), si aprì la via per pensare un soggetto non più "logico" o "scientifico", bensì "linguistico". Ad ogni modo, Herder e Humboldt non hanno tratto subito tale conclusione. Il loro pensiero, invece, si è servito della distinzione tra la lingua e il linguaggio: se da una parte la lingua era un fattore di diversità (esistono molte lingue, in continuo sviluppo, e ognuna è carica di significati particolari), il linguaggio era una capacità spirituale di ogni soggetto umano. Esso garantisce così un fondamento comune per tutte le lingue, assicurandone la traduci-
bilità reciproca. Questo modo di distinguere la lingua dal linguaggio permetteva al soggetto moderno di guadagnare una "distanza di sicurezza" nei confronti delle "relatività" della lingua, a scopo di studiarla in modo oggettivo ed imparziale. Detto più semplicemente, nel romanticismo il soggetto moderno non è ancora "invaso" dal fattore linguistico, anche se comincia a prendere coscienza di tale rischio. Già dalla fine del XIX secolo, il fattore linguistico ha attirato sempre di più l'attenzione dei filosofi. Diverse vie condussero alla messa in dubbio di quella "distanza di sicurezza" tra il soggetto e il linguaggio. Nel contesto delle scienze storiche venne ammesso il fatto che non esiste un pensiero puramente con cettuale, un pensiero non-linguistico. Si pensa con le parole, anzi, si pensano parole, inseparabili dai significati in esse contenuti. Anche qui Nietzsche e Heidegger giocarono un ruolo fondamentale. Per entrambi, anche se in modi diversi, vale l'affermazione secondo cui "tutto è interpretazione" (cioè, tutta la conoscenza si colloca nel contesto delle strutture linguistiche). Per Heidegger, la conoscenza umana è intrinsecamente linguistica, e questa "linguisticità" predetermina ciò che egli conosce. Ecco la fine del soggetto moderno, e l'inizio del soggetto linguistico. Dopo Heidegger, gli studi sul linguaggio si sono moltiplicati notevolmente. Le linee d'indagine si sono divise, ma non è stata revocata la convinzione fondamentale secondo la quale per comprendere il pensiero umano e la sua "verità" bisogna anzitutto comprendere il linguaggio. In filosofia, il XX secolo è stato veramente "il secolo del linguaggio".
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e. Quarta crisi: la crisi delF epistemologia delle scienze
Nell'intervallo tra le due guerre mondiali il soggetto moderno non dominava più l'ambito delle scienze umane, passato in mano alle nuove filosofie. Soltanto le cosiddette "scienze
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esatte" continuavano a richiedere un soggetto moderno come fondamento. Di queste scienze si occupavano allora i pensatori del Circolo di Vienna, fondato nel1927. Essi s'ispiravano al Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato nel1921, che forniva linee importanti per lo studio dei fondamenti epistemologici della scienza. I pensatori del Circolo di Vienna sostenevano che la verità della scienza fosse perfettamente oggettiva e capace di descrivere la realtà senza ombre di distorsioni introdotte dal linguaggio, perché fondata sulla stretta corrispondenza tra i "fatti" della realtà e le singole "proposizioni" della scienza. A sua volta, la logica del Tractatus serviva per gestire le proposizioni in modo da costruire con esse un sistema coerente e completo. A scuotere definitivamente questo progetto del neopositivismo fu la crisi della matematica, nonché il conseguente cambiamento di orientamento filosofico di Wittgenstein. La matematica continuava ad essere il vero modello ideale del progetto moderno. In essa, la mente raggiungeva delle certezze assolute, e riusciva a strutturare dei sistemi sempre più perfetti ed autonomi. Verso la fine del1930, Hilbert e Carnap avevano cercato il modo di ridurre la matematica alla logica per gestire i dati all'interno di un sistema logico molto preciso. Non ebbero successo. Anzi, nel1931la fiducia nelle possibilità del sistema completo fu duramente colpita dal logico austriaco Kurt Godel. Egli dimostrò in modo incontrovertibile il suo secondo teorema, relativo all'incompiutezza dei sistemi formali. Secondo quel teorema, era impossibile dimostrare la non contraddittorietà di un sistema logico restando all'interno del medesimo. Detto più semplicemente, si doveva sempre far ricorso a dei presupposti esterni ad ogni sistema per risolvere alcuni problemi interni al sistema. Per questo motivo, era impensabile costruire il sistema totalmente autonomo, che rappresentava il punto di arrivo di tutti gli sforzi della modernità. Anzi, il se52
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condo teorema di Godei veniva in qualche modo a dimostrare che non esisteva alcuna conoscenza scientifica priva di presupposti esterni. Per molti scienziati e filosofi ciò voleva dire che non esisteva una scienza etseria", poiché ogni scienza doveva ammettere dei presupposti e delle dipendenze incontrollabili (in quanto non integrabili dentro il rigore e la chiarezza del sistema). Se la logica non poteva fondare la matematica, allora ci si doveva volgere alla cosiddetta scuola dell'"intuizionismo" dell' olandese Brouwer, che negava la possibilità di "formalizzare" le basi della matematica e, perciò, di sottometterle ad un controllo rigoroso. Wittgenstein ascoltò una delle conferenze di Brouwer e ciò lo portò ad abbandonare quanto aveva scritto nel Tractatus. Al suo posto, Wittgenstein accettò l'idea che per capire il linguaggio non serviva la logica, né la verifica e la strutturazione delle singole proposizioni nel contesto di un linguaggio tecnico. Ci si doveva volgere piuttosto al linguaggio ordinario. In esso, i discorsi sono guidati non dalle regole fisse della logica, bensì dalle regole flessibili dettate dall'"uso" nel contesto dei singoli "giochi linguistici". Questa è stata la nuova linea iniziata dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, dopo la seconda guerra mondiale. Il Circolo di Vienna non proseguì i suoi lavori dopo la guerra: alcuni dei suoi membri erano morti da combattenti, altri erano emigrati, e il loro progetto era caduto nel discredito. D'altra parte, il nuovo orientamento "sociale" di Wittgenstein portò la riflessione sulle scienze verso una maggiore consapevolezza del condizionamento sociale del lavoro scientifico. L'accento non si metteva più sulla "verità assoluta" delle affermazioni scientifiche, bensì sui modi con cui la comunità scientifica porta avanti il proprio lavoro, come descritto dai sociologi della scienza come Thomas Kuhn. Dietro l'opera del "secondo Wittgenstein" quanto dietro l'opera di Kuhn, non c'è più posto per 53
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un soggetto moderno: là regna soltanto il soggetto postmoderno, linguistico e temporale.
avviso le nostre conoscenze sono totalmente relative alle strut' ture profonde che ci condizionano. Le scienze sono "giochi linguistici", e la ricerca della verità non è che un condizionamento dal quale l'uomo occidentale dovrebbe ora liberarsi. Si mettono in luce i limiti della mente, e d si dedica alle questioni pratiche e procedurali. È il tempo del "pensiero debole" che rinuncia alla ricerca della verità e del fondamento. Quando l'uomo del Terzo Millennio guarda dentro di sé, non trova più un cogito cartesiano, un punto libero da ogni errore. Egli trova bensì che, stando all'opinione delle ultime correnti filosofiche, la sua personalità e tutto il suo pensiero sono una costruzione artificiale, relativa, convenzionale, e forse anche arbitraria. Non si vorrebbe certo chiudere questo capitolo con toni così cupi. Come detto prima, qui trova voce soltanto quella "metà" della storia che racconta la "crisi della modernità". C'è un'altra metà che racconta le novità positive, quelle che hanno aperto nuove vie ad una più approfondita comprensione della cultura e dell'uomo. Ma di dò si dovrà trattare più avanti.
4. Conclusione: il soggetto moderno) sostituito dal soggetto postmoderno
Il soggetto moderno aveva giocato fino in fondo la sua pretesa di essere il fondamento di un nuovo sapere sicuro e certo. Dall'inizio della modernità, esso aveva rappresentato il solo punto libero da ogni dubbio. Ora invece il soggetto era diventato "sospetto". La sua pretesa autonomia veniva posta sotto accusa sia dai filosofi che dagli scienziati, diffidenti nei confronti del soggetto e concordi nel dire che la ragione non poteva essere autonoma proprio perché affondava le sue radici nella storia, negli interessi, nel linguaggio, nella cultura ... Tutte queste erano altrettante fonti di pregiudizi. Dove mai si potevano trovare quelle conoscenze "pure ed universali" dei padri della modernità? Il soggetto moderno non poteva esistere. Come se non bastassero i motivi filosofici e scientifici, tre famosi pensatori indicarono altri condizionamenti. Freud aveva parlato dell'inconscio che domina il pensiero cosciente; Nietzsche aveva parlato della "vita" come di una forza non-razionale che agisce quale motivo di ogni azione; Marx aveva studiato l'impatto dei condizionamenti sociali ed economici nel pensiero. Non potendo liberarsi di tutto questo esercito di condizionamenti, la mente risultava allora essere una struttura totalmente eteronoma, cioè sottomessa alla storia, al linguaggio e alla cultura. Il filosofo Paul Ricoeur coniò il titolo di "maestri del sospetto" per quei tre filosofi. Evidentemente, il sospetto è rivolto contro il soggetto moderno. Molti dei filosofi dell'ultimo trentennio del secolo XX trovarono il modo di dar voce a questa nuova situazione. A loro
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L'ANTROPOLOGIA CULTURALE
Il crescente interessamento nei confronti della cultura che si è andato sviluppando dal tempo del romanticismo non ha utilizzato un approccio metafisica, come quello in uso nei tempi classici e nella scolastica. Lentamente si sono sviluppati nuovi approcci, che in tempo sono maturati per diventare nuove discipline. Tutto ciò si è verificato in contemporaneità con la grande crisi del soggetto moderno, e ne ha subito l'influsso. Una di queste discipline si occupa specificamente dello studio della cultura: l'antropologia culturale. Essa ha esercitato un forte influsso sul modo abituale di concepire "la cultura". Perciò ci dobbiamo occupare di capirne la storia, lo statuto e i presupposti.
l. Radici storiche e principali correnti delt antropologia culturale
L'antropologia culturale trova i suoi primi esordi nell'illuminismo di Kant, e più precisamente nella sua nota scissione tra la natura e la libertà. Sono così sorte due possibilità per lo studio antropologico: l'antropologia teorica o naturale (vorrebbe spiegare l'uomo con leggi fisse, di portata universale), e quella prammatica o della libertà (vorrebbe studiare l'uomo in un modo più particolare e storico, guardando alle forme di vita). Hegel ha
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seguito la via teorica, mentre la line~ pramm~t~ca è ~tat~ in qualche modo favorita da Rousseau e dal romant1c1 dell uluma parte del XVIII secolo come Herder e von Humboldt, attenti ai rapporti tra la cultura, il linguaggio e la st.oria. , A causa dell'influsso di Hegel, la prnna meta del1800 ha conosciuto il predominio dell'indirizzo teorico dell' antr~po~~gia, volto alla scoperta delle leggi. Il successo di questo 1nd1nzzo per quanto riguarda l'antropologia culturale è però legat.o al fatto che nel1859 Charles Darwin scrisse il suo famoso hbro On the origin o/ Species by means o/ "f!atu~al Sel~ctio~. L' evol'-:zionismo darwiniano ha permesso d1 ord1nare 1 datl allora dlsponibili, guidando la ricerca empi~ica verso la. formulazione .di una teoria generale in grado di sp1egare lo svilup~o della Vlta nella terra. Il darwinismo fu applicato al concetto d1 cultura nel 1877 dallo studioso americano Lewis Henry Morgan nel suo Ancient Society, nel quale si cercava di scoprire scientificamente le leggi della parentela allo scopo di capire le strutture.delle culture. L'inglese Edward Tylor si è mosso nella stessa lm~a. Con questi due studiosi ha avuto inizio ~na fo.rte. corre~:e d1 a~tro pologia culturale. In essa, la base e cost1tu1ta dall1potes1 eh~ tutta l'umanità evolve in una direzione unica, seguendo pass1 comuni che possono essere fatti con maggiore o minor.e velocità, ma sempre partendo dall'irrazionale e d~l semphce per giungere al razionale e al complesso. Lo s~opo e sempre quello di capire la legge che spiega questa evoluz1one. Questa corrente ha beneficiato degli apporti di Freud e delle scuole del determinismo biologico. Il discredito in cui è caduto l'idealismo hegeliano nella seconda metà del1800 ha posto in auge l'indirizzo prammatico. Qui si colloca la figura di Dilthey. Secondo quest'ultimo, non la speculazione teorica, ma la vita storica ci dà la vera co~pren sione dell'uomo, sempre relativa alla Weltanschauung di un, periodo storico. Le idee di Dilthey hanno trovato presto un eco
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nella scuola neokantiana di Heidelberg (anche detta "scuola del Baden"), di Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert. Questi hanno ripreso le idee di Kant, sottolineando ora in modo più attento la questione del metodo che si dovrebbe seguire per costituire una scienza valida. Secondo i neokantiani di Heidelberg, soltanto le scienze della natura dovevano cercare delle leggi universali per spiegare il loro oggetto di studio; di conseguenza, il loro metodo si chiamava nomotetico ("porre-leggi"). Invece, le scienze dello spirito dovevano seguire un metodo detto idio grafico, perché ci si doveva concentrare nella descrizione e nella comprensione dell'uomo visto in una prospettiva particolare. La linea prammatica di Dilthey, promossa dalla scuola di Heidelberg, ha portato i suoi migliori frutti tramite lo studioso tedesco Franz Boas (1858-1942). Discepolo di Dilthey, Boas accoglie anche le indicazioni dei neokantiani di Heidelberg secondo cui le scienze umane (ivi compresa l'antropologia culturale) dovevano seguire il metodo idiografico. Trasferitosi negli Stati Uniti, Boas è diventato colui che ha portato finalmente l'antropologia culturale al grado di scienza positiva pienamente sviluppata. Secondo Boas, l'antropologia culturale deve studiare non "ogni cultura in generale", bensì i singoli gruppi umani, in modo descrittivo e comparativo, facendo attenzione ai loro tratti distintivi. Per Boas esistono "le culture" non "la cultura". Inoltre, visto che ogni cultura è solo sé stessa: per capirla l'antropologo non deve utilizzare criteri, schemi o categorie previamente apprese dalla propria cultura. Perciò occorre che l'antropologo "si spogli" dei propri parametri di pensiero, a scopo di "immergersi" totalmente nella cultura da studiare, per comprenderla con i parametri interni ad essa. Egli cercherà di capire la cultura come la capisce ogni suo membro, cioè "con gli occhi degli aborigeni". Boas fu altresì il fondatore della grande linea americana di antropologia culturale, radunatasi attorno all'American Anthro58
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pology Association, con forti tendenze verso il relativismo culturale. Si affermava infatti che la cultura diventa la fonte dell'identità e della personalità dei suoi membri. Tra i discepoli di Boas ricordiamo Ruth Benedict, Melville Herskovits, Margaret Mead, Robert Lowie, Alfred Kroeber, Paul Radin e Clifford Geertz. Quest'ultimo, morto nel 2006, ha aggiunto agli insegnamenti di Boas quelli di filosofi quali Heidegger, Gadamer e Foucault. Ciò portò Geertz a dire che la pretesa di totale imparzialità dell'antropologo insegnata da Boas ("vedere la cultura con le categorie dei suoi membri") non era che un'illusione. Di èonseguenza, non era permesso di seguire la via idiografica in senso stretto. E siccome era altrettanto impossibile fare scienza delle culture al modo nomotetico della scienza naturale, Geertz affermò nel suo The Interpretation o/ Cultures (1983) che l'antropologia culturale non poteva più muoversi nell'orizzonte neokantiano. Si doveva seguire l'impostazione ermeneutica (interpretativa), iniziata da Dilthey e perfezionata da Heidegger e da Gadamer. Secondo questa impostazione, l'antropologo comincia a capire alcuni "tratti" della cultura studiata, e poi cerca di integrarli dentro un "tutto" (una teoria più generale) che possa accogliere e unificare i diversi tratti particolari. n risultato sarà soltanto la sua interpretazione della cultura, e non una descrizione della medesima. L'attenzione di Boas, come abbiamo visto, andava quasi totalmente ai particolari, a scapito di qualsiasi considerazione generale. Perciò altri studiosi proposero di ripristinare qualche "totalità" come chiave dell'antropologia culturale. Secondo l'antropologo polacco Bronislaw Malinowski, padre del funzionalismo, ogni tratto culturale, se esiste, svolge una funzione all'interno della società. A sua volta, quella funzione viene integrata dentro funzioni più generali. Queste funzioni soddisfano i diversi bisogni. Da una parte vi sono i bisogni biologici comuni a tutti gli animali, cosicché anche la cultura umana si 59
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basa su fatti biologici. La differenza tra uomini e animali sta nel fatto che le condizioni fisiologiche proprie dell'uomo sono continuamente modificate da condizioni di carattere culturale in ' modo tale che l'uomo non soddisfa mai direttamente le proprie necessità: lo fa tramite un processo culturale più o meno comp lesso. La linea funzionalista di Malinowski, più attenta alla dimensione sociale della cultura, trovò importanti continuatori: l'inglese Reginald Radcliffe-Brown, e i francesi Marcel Mauss e Lucien Lévy-Bruhl. L'antropologo Claude Lévi-Strauss, prolifico scrittore morto nel2009, prolungò con il suo strutturalismo quest'ultima linea, integrandovi degli elementi linguistici. Tutte queste correnti, attive durante il XX secolo, furono in qualche modo influenzate da un fenomeno che occorre ricordare: il colonialismo europeo, in crescita fino alla fine del XIX secolo, ma entrato in crisi nella prima metà del XX secolo. Le potenze colonizzatrici erano interessate a capire le società colonizzate allo scopo di governarle più facilmente. Perciò appresero con gioia lo sviluppo degli studi di antropologia culturale. L'antropologo cominciò a far parte delle squadre di lavoro delle potenze europee. Inizialmente, gli antropologi si ritenevano politicamente neutrali, ma le loro simpatie si sono spostate gradualmente verso i sudditi coloniali. Quella simpatia divenne aperta difesa dopo la seconda guerra mondiale. L'antropologo diventò allora una figura rivoluzionaria, perché capace di difendere le ragioni dei popoli colonizzati nel contesto del dibattito ideologico dell'Occidente postmoderno. Per cogliere in qualche modo la portata del mutamento dell'antropologo nei confronti del colonialismo, si può riflettere ad esempio nel fatto che Lucien Lévy-Bruhl aveva sostenuto in Le funzioni mentali nelle società inferiori (1910) che presso i popoli primitivi non c) era pensiero logico. Nel contesto del colonialismo, questa tesi fu accettata perché sembrava giustificare 60
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la bontà dell'intervento europeo, in quanto forniva alle società "inferiori" (le colonie) una vera educazione in grado di elevarle culturalmente. Tramontata l'era del colonialismo, Claude LéviStrauss scrisse Il pensiero selvaggio (1962) mostrando, contro Lévy-Bruhl, che i popoli primitivi erano razionali come gli europei, e che avevano sviluppato complesse riflessioni sulla propria organizzazione sociale. Non avevano, perciò, alcun bisogno della "cultura europea". La tesi di Lévi-Strauss venne accettata. In questo contesto di crisi si sviluppò rapidamente la critica di tutta l'impresa colonialista. Essa venne interpretata dagli studiosi di antropologia culturale e di altre discipline umanistiche come un grande atto di imperialismo culturale, cioè come un'espressione particolarmente riprovevole dell'etnocentrismo europeo. Non poche scuole di antropologia culturale sono diventate fonti di critica alla cultura occidentale ("maschilista", "imperialista", "intollerante") in nome di un relativismo culturale che invita a lasciare che ogni cultura si sviluppi senza interferenze dall'esterno. Queste critiche ammettono spesso il principio dell' incommensurabilità tra le culture, secondo il quale, visto che non esistono misure o criteri comuni per le culture, ogni rapporto di una cultura verso un'altra sarebbe ipso facto scorretto. Se questo è così, se vige l'incommensurabilità, come ci si deve comportare in quest'era di globalizzazione? Come devono rapportarsi le diverse culture in vista della crescente interdipendenza? Come deve agire un governo che constata una pluralità culturale all'interno del suo territorio nazionale? Se non esiste un rapporto legittimo tra le culture, come si possono capire i rapporti tra le religioni, i dialoghi interculturali, nonché i più diversi interventi internazionali di carattere umanitario, sanitario o altro?
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2. Quale è lo statuto dell'antropologia culturale) e il suo rapporto con la filosofia?
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Vista la diversità di scuole di antropologia, con i loro indirizzi particolari e con i mutamenti che si sono verificati a causa della vicenda del colonialismo, è difficile portare avanti una riflessione filosofica su questo tema. Comunque, non ci si può esimere dal farlo perché - come si è già detto - l'antropologia culturale ha avuto un ruolo di primo piano nella configurazione del modo in cui si pensa e si valuta la cultura in Occidente. Va detto che l'antropologia culturale, come scienza umana positiva, è legittima ed utile. Essa cerca di gettare uno sguardo al di là della propria cultura per aprirsi alla diversità culturale, traendo spesso diverse conseguenze per la propria cultura. Il suo metodo è vario: mentre alcuni privilegiano la descrizione, altri preferiscono l'interpretazione, e altri ancora vanno alla ricerca di leggi universali. Il suo oggetto è sempre la cultura nella quale vive l'uomo in quanto essere socievole, ma risulta difficile precisare di più quell'oggetto. Esso sembra variare a seconda delle scuole e dei periodi: ci si può dedicare allo studio delle culture primitive (scomparse o ancora esistenti in luoghi remoti), delle grandi civiltà o dell'evoluzione dell'umanità in generale. Forse la chiave per riflettere con frutto sull'antropologia culturale risiede nel modo di pensare il rapporto che questa disciplina ha nei confronti della filosofia. Infatti, prima che l'antropologia culturale diventasse sotto F ranz Boas una disciplina pienamente autonoma, gli studi sulla cultura venivano condotti alla luce di un preciso orientamento filosofico (hegeliano, neokantiano, storicistico, ecc.). Quell'orientamento forniva un'immagine chiara dell'uomo e del suo agire. Finché l'antropologia culturale accettò l'orientamento filosofico es p licito, si cercò perlo più di capire "che cosa" fosse la cultura (al
singolare) e quali fossero le sue cause. Ma una volta acquisita l'autonomia, l'antropologia culturale s'interessò piuttosto di capire il "come" delle singole culture (al plurale): come funzionano, come siano diverse l'una dall'altra, come determinino il pensiero e l'agire dei loro membri. Questo "spostamento dell'attenzione" verso quesiti reali, ma meno profondi, ha fatto sì che l'antropologia culturale si dimostrasse meno attenta verso i propri presupposti. In realtà, l'antropologia culturale non è stata mai priva di presupposti filosofici. Orbene, se in passato questi presupposti erano assunti in modo esplicito e controllato dopo un'attenta analisi, ora essi restano perlopiù nel contesto delle cose implicite che passano inosservate. Ciò non può succedere che ai danni della validità della riflessione dell'antropologo culturale, che smarrisce la vera immagine dell'uomo (aperto alla trascendenza, dotato di una natura universale, capace di verità, ecc.) e rischia di produrre delle immagini appiattite e unidimensionali: al posto dell'uomo che è al contempo figlio e padre della sua cultura, subentra l'uomo che è interamente determinato dalla cultura. Sarebbe interessante analizzare diverse teorie di antropologia culturale alla luce dei loro presupposti filosofici. Ora, però, ci si limiterà a considerare, a modo di esempio, due casi di particolare importanza. Il primo è la filosofia della conoscenza di cui si serve l'antropologo. Riconosce o no la capacità della mente umana per capire una verità oggettiva e universale? Se la riconosce, allora può utilizzare strumenti "universali", sviluppati dalla capacità scientifica della mente (per es., studi etnografici ed etnologici fondati sulla parentela, che riescono a scoprire alcune leggi di valore universale). Se invece non siriconosce tale capacità, allora è costretta a rivolgersi ad un membro qualsiasi della cultura studiata per ottenere le sue categorie e le sue interpretazioni, che sono le sole da utilizzare nello studio di quella cultura specifica. Ogni cultura interpreta se stessa.
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Non si possono trovare leggi, ma solo descrizioni. L'universalità è perduta. Il secondo caso è lo "statuto ontologico" della cultura: se essa è vista come "una totalità", come un sistema completo e autonomo (per cui si accetta la tesi dell'incommensurabilità), o se invece si riconosce alla sua base o all'interno della cultura qualcosa in grado di fondare l'unità delle culture (per il realismo, questo è la natura umana). Se non si riconosce una natura comune a tutti gli uomini, è difficile scappare dal materialismo biologico che nega l'esistenza dell'anima umana e la trascendenza in generale. Orbene, la scelta da fare in entrambi i casi supera i confini di ogni scienza umana positiva, quale l'antropologia culturale. Essa si colloca pienamente nel contesto della filosofia. E a nessuno si nasconde che la scelta che verrà fatta avrà delle conseguenze di prim'ordine su tutto il seguito dello studio propriamente culturale. Ecco perché è opportuno che l'antropologia culturale non tema di riconoscere che il suo oggetto (l'uomo -le culture) richiede di per sé un approccio interdisciplinare. Altrimenti la sua autonomia comporterà una riduzione artificiale dell'oggetto, che è sempre più di quanto non si possa dire dal punto di vista di una singola disciplina.
dict, però, non ha condiviso l'idea boasiana della "immersione totale" dell'antropologo nella cultura da studiare. Ella ricevette anche l'influsso di Rousseau, per il quale la natura dell'uomo sarebbe puramente fisica (istinti, fisiologia), mentre la cultura sarebbe qualcosa di interamente sociale e storico. Tuttavia, Benedict non si occupa, come Rousseau, di ricostruire la storia della cultura. Ella cerca bensì di capire la cultura sincronicamente, cioè come essa si presenta, le sue funzioni e i suoi processi, in un preciso momento del suo sviluppo. Per fare ciò, ella ha considerato opportuno volgersi alle culture più semplici (culture "primitive") allora esistenti. Infine, anche il funzionalismo di Malinowski si colloca tra le nozioni fondamentali dell' antropologia di Ruth Benedict.
3. Un esempio concreto: t antropologia culturale di Ruth Benedict a. Identikit e percorso scientifico Ruth Benedict (1887 -1948) è stata una figura centrale della scuola americana di antropologia culturale. Ha studiato inizialmente sotto la direzione di F ranz Boas, che le ha trasmesso le dottrine neokantiane e storicistiche di Dilthey, nonché l'impostazione metodologica della scuola di Heidelberg. Ruth Bene64
b. Presupposti filosofici della sua antropologia culturale Una delle opere più note di Ruth Benedict è Patterns o/ culture (1934), diventata per decenni "la Bibbia" degli antropologi americani. Vediamo tre elementi di quest'opera per discernere l'elemento filosofico sottostante. l) Dualismo natura-cultura: Benedict vede un vincolo tra la natura e la cultura ma questa articolazione tra i due concetti non è fondata sulla teleologia intrinseca della natura, bensì sulla '"adattabilità" della natura fisico-biologica, puramente passiva (mutuata dal concetto di "plasmabilità" di Rousseau). Su questa natura non si fonda l'unità specifica dei diversi gruppi umani: la natura passiva soltanto può porre delle necessità fisico-biologiche comuni a tutti. L'unità propriamente culturale è data piuttosto dall'insieme dei "costumi" (norme, leggi, credenze, idee ... ) con i quali ogni società cerca di dare risposte alle necessità comuni. Tutto ciò presuppone un'antropologia dualista: non c'è un fondamento solido per garantire l'unità personale
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tra il corpo (natura biologica) e la mente (culturalmente determinata). Questo sforzo per separare la cultura da ogni influsso positivo proveniente dalla natura è dovuto in Benedict, almeno in parte, al tentativo di opporsi al pensiero "razzista", molto forte nel periodo tra le due guerre mondiali. Secondo le tesi del razzismo, la razza è un concetto biologico che comporta delle necessarie conseguenze culturali. Perciò, la superiorità biologica e la superiorità culturale camminano assieme, e ciò giustificherebbe il predominio di certe razze sulle altre. 2) Universalità e particolarità: Il dualismo antropologico sottostante fa sì che l'universale e il particolare si trovino separati, su piani diversi. Si è visto che, secondo Ruth Benedict, ogni cultura trova delle risposte differenti alle comuni necessità che sorgono dalla natura fisico-biologica e passiva. La differenza di risposte fa sì che l'unità culturale non possa essere universale; essa riguarderà soltanto le singole società, che vengono a trovarsi separate l'una dall'altra. Questa mutua estraneità delle singole società non si può superare in forza di uno scopo comune. Infatti, la natura, appunto perché passiva, non è dotata secondo Benedict di una teleologia in grado di fissare una finalità comune a tutti gli uomini e a tutte le società. Perciò le finalità e i criteri di ogni cultura sono fissate dalla cultura stessa. La particolarità di ogni cultura è data anzitutto dai suoi specifici "costumi". Orbene, questi costumi non sono da considerarsi come degli elementi irrelati, ognuno essendo una soluzione a un problema concreto. In quel caso i costumi sarebbero accomunati soltanto dal fatto che sono presenti in una cultura. Al contrario, Ruth Benedict insegna che i costumi sono strettamente correlati gli uni con gli altri. Il modello (pattern) è ciò che imprime all'insieme dei costumi questa configurazione unitaria. Si può dire che il modello sia qualcosa di simile al "carat-
tere" di una persona, che configura tutti i tratti particolari della sua personalità. In Patterns o/ culture, ella presenta lo studio di tre culture primitive, sforzandosi di stabilire quale sia il modello proprio ad ognuna. 3) Il relativismo culturale di tipo gnoseologico: Visto che la natura non può influenzare la cultura, viene a mancare un elemento universale in grado di fondare l'incontro delle culture. Ogni cultura è solo se stessa. I suoi costumi (concetti, istituzioni, criteri, ecc.) sono validi soltanto per essa. Questo avvitarsi della cultura su se stessa, senza rapporti forti con la natura, porta con sé delle importanti conseguenze di relativismo sul piano gnoseologico, geopolitico ed epistemologico. Sul piano gnoseologico, si può scorgere una tendenza kantiana, nel senso che la Benedict sembra presupporre che la conoscenza dei membri di una cultura avvenga sulla falsariga della "costituzione" di oggetti, sulla base di categorie conoscitive culturalmente apprese. Perciò il membro della cultura, anziché conoscere le cose e, in qualche modo, le loro nature, si limita a conoscerne l'interpretazione impostagli dalla sua educazione culturale. In sintesi, si può dire che per Ruth Benedict, l'uomo non "conosce" le cose (conoscenza diretta), bensì le "riconosce" (rilettura alla luce delle categorie apprese). Si tratta sempre di una conoscenza indiretta, interpretativa, che esclude il con. tatto diretto con la realtà. N ella conoscenza non si riscontra alcuna tensione tra la natura e la cultura: la conoscenza è prettamente culturale. Sul piano "geopolitico", la Benedict si misura con la fortuita diffusione della "civiltà dell'uomo bianco" (europeo occidentale-anglosassone). Ne teme il falso universalismo, nel senso che, nonostante la sua larghissima presenza (nel senso di un universalismo geografico), continua ad essere una cultura particolare (non-universalismo culturale). Perciò questa cultura tenderebbe a considerare i suoi costumi, sempre modellati dal proprio pat-
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tern (idee, concetti ... sempre particolari) come fossero universali, stabilendo con ciò un rapporto del tutto ingiusto nei confronti delle altre culture. Si fa strada così un'incommensurabilità delle culture di principio, e non c'è niente di più contrario a questo che il falso universalismo presente nel seno della civiltà dell'uomo bianco. Sul piano epistemologico, Ruth Benedict deve affrontare una difficile domanda: se ogni cultura è qualcosa di particolare, in quale modo si può fare "scienza" delle culture? Infatti, la scienza si colloca sempre sul piano universale. La risposta si basa sulla possibilità di stabilire paragoni tra diverse culture (tramite la tecnica delle "culture comparate"). Il paragone da stabilire è questo: i problemi sono comuni (dati dalla natura fisico-biologica dell'uomo), ed ogni cultura trova nel suo "modello" la sua risposta particolare. Una volta stabilito che i costumi unificati dal "modello" rispondono a dei bisogni reali, l'antropologia culturale non fa che vedere "modi diversi" di dare risposte, nessuno migliore o peggiore degli altri (perché, infatti, manca un criterio di tipo teleologico fondato sulla natura umana).
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Questo ultimo tema della prima parte del corso ha un doppio compito. In relazione ai temi seguenti, qui si deve preparare il passaggio dalla dimensione storica e fenomenologica al fondamento e alla dimensione sistematica. E in relazione ai precedenti temi di carattere storico, qui si vuole presentare una sintesi che aiuti a capire e a valutare la situazione attuale, detta "postmoderna". Infatti, dobbiamo tener presente che tutta la panoramica storica che abbiamo guadagnato era richiesta dal fatto che non si riflette mai sulla cultura in modo asettico e imparziale: lo si fa dentro un contesto storico che, nel nostro caso, coincide con la crisi della modernità e il sorgere della postmodernità. Ci sia permesso di ripetere che "il problema di oggi non sono tanto le culture, ma il modo di pensarle".
l. La postmodernità) destino inevitabile?
Si possono individuare tre processi fondamentali di transizione verso la postmodernità, tutti in qualche modo legati alla crisi della modernità: l) la caduta di ogni credenza religiosa e di ogni certezza morale largamente condivisa; 2) la nascita di una cultura globale pluralistica: tutti i "sistemi di credenze" diventano consapevoli dell'esistenza di tanti altri sistemi, cosicché non si può accettare nessuno come assolutamente vero; 3) una 68
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nuova polarizzazione sui conflitti riguardanti la verità sociale, giacché si presenta con urgenza il problema su come dobbiamo rapportarci. Difatti non c'è una verità per tutti che possa regolare quei rapporti. È facile cogliere in tutti questi tratti come la postmodernità non si possa comprendere fino in fondo se non si riesce a percepirne il nucleo di disincanto che la contraddistingue. Ma questo senso di fallimento non è solo l'insieme dei piccoli fallimenti della modernità, bensì una nuova visione che nasce come semplice conclusione del fallimento della modernità. Perciò definiamo la postmodernità come la visione del mondo che nega ogni visione del mondo che abbia pretese di verità oggettiva. Questo è, secondo alcuni pensatori contemporanei come Gianni Vattimo, Stanley Fish e Richard Rorty, il nucleo della postmodernità, e porta il nome di "antifondazionalismo". In questo contesto, c'è posto soltanto per una ragione strumentale e tecnica incapace di aprirsi all'essere, alla trascendenza e ai valori oggettivi. Si noti che questo modo di definire la postmodernità è anzitutto negativo. La postmodernità nasce, quindi, come conseguenza del crollo delle certezze e degli ideali della modernità, al cui centro c'era il "soggetto autonomo". N on è che la postmodernità cerchi idee nuove e forti da sostituire alle idee moderne cadute in discredito. Piuttosto le idee della postmodernità sono prevalentemente la totale negazione, per via di disincanto e non di reazione, delle idee moderne. Perciò, la definizione fondamentale della postmodernità è negativa: coincide con l'antifondazionalismo (la totale assenza di fondamenti) che sarebbe il risultato del fallimento della modernità. Tuttavia, la postmodernità porta avanti alcune affermazioni nella misura in cui crede alla ragione "debole", propria non dell'uomo o della persona, bensì dell'individuo come membro di un gruppo dal quale riceve le poche "verità" alle quali crede.
Certamente la postmodernità non ha ancora invaso tutta la cultura occidentale, dotata di molti settori e di vari livelli, e nella quale vengono ancora coltivate diverse tradizioni filosofiche che non rientrano nei parametri moderni e postmoderni. Ma il clima generale è quèllo, e ciò che è iniziato come una crisi allivello filosofico, cioè sul piano dell'alta cultura, ha cominciato già da tempo a colare giù verso i gradini più bassi del sapere. Dopo queste considerazioni veniamo alle due domande fondamentali. Prima domanda: si deve forse dire che la postmodernità sia la conseguenza della crisi di tutto quanto è stato detto, fatto e pensato in Occidente? Rispondiamo: non è così. Sia ben chiaro: la postmodernità è solo il risultato della crisi della modernità, e solo della modernità. A cadere è stato il soggetto moderno, la verità moderna, l'oggetto moderno, il sistema moderno, e non altro. Evidentemente, chi nella sua memoria culturale non ricordasse altro che questi elementi, penserà a torto che tutto sia crollato. Ma il pensiero occidentale e la cultura da esso generata sono qualcosa di molto più grande della sola modernità. L' enciclica Fides et Ratio ammonisce: "In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente" (n. 4). In altre parole, se il sistema filosofico della modernità è crollato, il pensare filosofico può sempre ripartire alla ricerca di nuove vie. Peraltro, il realismo aveva sempre adottato uno sguardo critico nei confronti della modernità. Va detto, però, che il realismo non sogna il ritorno alla scolastica premoderna: la modernità c'è stata, e non si può far finta che essa non abbia inciso profondamente nel pensiero e nella cultura. Seconda domanda: tutto ciò che la modernità e la sua lenta dissoluzione ha portato è stato cattivo? Rispondiamo: non è così. La riflessione filosofica e scientifica condotta negli ultimi quat-
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tro secoli ha aperto nuove strade e trovato nuovi elementi di grande valore. Tale è il parere dei :fìlosofi più attenti: ribadendo le affermazioni contenuti nell'enciclica Fides et Ratio (n. 48), essi ritengono che il pensiero moderno abbia anche scoperto nuove dimensioni e nuovi elementi. Questi devono essere studiati con attenzione per integrarli rettamente con la base metafisica classica. Alcuni di questi elementi - per esempio, il "mondo della vita" (Lebenswelt) e la "visione del mondo" (Weltanschauung)- saranno studiati nei capitoli successivi di questo corso, e i loro frutti positivi saranno evidenziati. Ecco dunque la chiave fondamentale del :fìlosofo realista davanti alla postmodernità: non ritenerla un fenomeno assoluto (la crisi di tutto), bensì parziale e contingente, da superare tramite un'autentica ricognizione delle sue cause e uno sforzo per profittare degli elementi utili che sono venuti alla luce. Da ciò dovrà nascere una nuova proposta che si deve far valere per la sua intelligenza e la sua potenzialità benefica per Fuomo.
Per elaborare quella proposta da opporre alla postmodernità, si deve allargare lo sguardo. Lo facciamo sinteticamente tramite la diacronia dell'Occidente. La parola "diacronia" (spesso unita a quella complementare di "sincronia") indica una prospettiva di studio: quella, appunto, che considera un oggetto nel suo sviluppo attraverso il tempo (dia-kronos). All'inizio del corso si è detto che la cultura viene data da un insieme di concetti e di valori che sono condivisi largamente dai membri di una società. L'Occidente non è l'eccezione. Si può tracciare la sua storia guardando alle visioni del mondo che si sono succedute lungo i due millenni e mezzo della sua vita, divisi in tre parti: epoca classica (o pre-moderna), modernità, po-
stmodernità. I concetti o valori di base che qui verranno presentati sono i seguenti: il mondo, la visione completa della realtà, il sommo bene, la scienza somma, l'uso della ragione. La caratterizzazione culturale che si farà di ognuno di questi termini è estremamente generica: cerca di ricostruire una posizione ideale, anziché una posizione che sia stata articolata da qualche autore realmente esistito. Procediamo a indicare i tratti di ogni epoca, segnalando anche i momenti di passaggio. Finiremo con una sintesi del percorso compiuto. Nell'epoca classica, il "mondo" è fatto di enti concreti ' ognuno di essi dotato di una natura e di diversi rapporti verso gli altri enti. In questo senso, universalità e particolarità convivono in modo armonico. La "visione completa" è data daltanalogia della natura, che, non limitandosi alle "cose naturali" ' percorreva tutti gli enti. Infatti, per il pensiero classico esiste il mondo naturale (enti privi di vita o di ragione), superato dalla natura umana (che unisce l'elemento materiale a quello spirituale), e in cima si colloca il mondo soprannaturale di Dio. Il "bene sommo" è appunto Dio, in quanto conosciuto e amato. La "scienza somma" è la scienza teologica, ben armonizzata con la metafisica. L'"uso della ragione" è quello definito dal binomio intellectus-ratio: l' intellectus coglie i principi, e la ratio li sviluppa nel pieno rispetto delle cose per ottenere una scienza oggettiva, necessaria e universale. La crisi della visione del mondo classico risale alle dispute gnoseologiche del basso medioevo. La figura di Guglielmo di Ockam (1285-1347) è emblematica di questa crisi. Forse l'elemento centrale dell'epoca classica era il "mondo". Perciò, quando le dispute medioevali mettono in crisi la "densità metafisica" e l'analogia degli enti del mondo, la visione classica del mondo non ha potuto continuare ad esistere. Nell'epoca moderna, il "mondo" annovera due tipi di entità: quella materiale (res extensa) ed il soggetto razionale (res cogi-
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2. La diacronia deltOccidente
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tans). La "visione completa", anche se esiste solo come ideale non ancora raggiunto, è il sistema scientifico autonomo che tispecchia perfettamente la realtà. n "bene sommo" è la razionalità (intesa in senso razionalistico: certezza del soggetto, anziché apertura di questo ad una realtà a lui esterna). La "scienza somma" è la matematica, perché permette di avere la rappresentazione più chiara, nonché di fondarla in modo molto strutturato. Dalla matematica dipende la fisica, che produce la tecnica. L'"uso della ragione" dipende dai due tipi di realtà: per le cose materiali serve la "ragione calcolante", mentre la "ragione critica" è quella indicata per il funzionamento interno al soggetto razionale. La crisi della visione del mondo moderno si colloca nella prima guerra mondiale (perché lì appare che la tecnica può produrre degli effetti pericolosi) e nella crisi della matematica e della scienza che si sviluppò negli anni Venti e Trenta, culminando nel2o teorema di Godei (1931). Nell'epoca postmoderna non esiste una nuova proposta, una visione del mondo che goda dell'accettazione comune. Esistono piuttosto diverse visioni che interpretano il crollo della modernità. In genere, si accetta che "il mondo" (che coincide con la "visione completa") sia costituito da cose naturali (ecologia), da cose artificiali (prodotti della tecnica), e da esseri umani (che, secondo alcuni, potrebbero ridursi a "cosa naturale" o essere prodotti artificialmente dalla tecnica). La differenza sta nel fatto che le cose naturali e gli artefatti godono di una certa "universalità", mentre le cose propriamente umane (opinioni, culture, stili di vita ... ) sono "particolari". n "sommo bene" è la libertà, intesa in senso negativo (libertà da ... , senza teleologia) o come spontaneità. La "scienza somma" è doppia: nel campo delle cose artificiali, la tecnica; e nel campo umano, l'insieme delle "scienze umane" (psicologia, sociologia, antropologia culturale).
L' "uso della ragione" è anche doppio: razionalità tecnica per le cose artificiali e naturali, e ragione debole per le cose umane. Sarebbe interessante sforzarsi di scorgere i segni della crisi della visione postmoderna. Essi in verità non mancano, perché sulle basi postmoderne è impossibile garantire a lungo l'esistenza di un ordine sociale equo, così come è impossibile dare risposte reali e lungimiranti ai problemi altrettanto reali che si presentano: inverno demografico, corrosione del tessuto sociale, scontri culturali interni all'Occidente, terrorismo internazionale a sfondo religioso, le sfide della tecnica all'identità e alla dignità umana, ecc. In questo senso, la crisi della postmodernità potrebbe pensarsi alla luce di quest'analogia: allo stesso modo in cui la modernità ha tentato di conservare i valori classici e cristiani senza accettarne la radice (la fede cristiana e l'analogia dell'essere), così anche la postmodernità tenta ora invano di conservare diversi valori moderni (parità, giustizia, diritto ... ) senza accettarne la radice (l'unicità/dignità/libertà dell'uomo, le certezze oggettive del soggetto). Come sintesi della diacronia dell'Occidente, si possono fare due serie di considerazioni. La prima è quella che cerca di cogliere l'essenziale di ognuna delle tre epoche. Così, l'epoca classica sembra girare intorno all'analogia, mentre la modernità gira intorno al concetto di totalità omogenea, e la postmodernità si colloca all'ombra della parzialità eterogenea. La seconda considerazione mira a cogliere quale, tra i diversi concetti di base utilizzati per l'analisi delle singole epoche, è quello principale. N el caso dell'epoca classica è da privilegiare il concetto di "mondo" (enti ilemorfici che fondano il rapporto tra l'universale e il particolare); nella modernità conta di più la "visione completa" perché fa vedere il grande ideale da raggiungere: il sistema perfetto che integra tutte le conoscenze della natura; nella postmodernità "il sommo bene -la scienza somma" (la libertà e le scienze um~ne) sono al centro perché servono a impedire il ritorno della
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verità oggettiva, garantendo all'individuo la maggiore soddisfazione possibile dei suoi voleri.
2) Superare una crisi culturale. Se la cultura entra in crisi, tale situazione non può protrarsi indefinitamente. La cultura offre punti di riferimento senza i quali l'uomo non può vivere umanamente (cioè vivere nella verità, nel senso, nel possesso di un significato stabile). Nei momenti di crisi culturale, i migliori pensatori reagiscono aguzzando il loro ingegno, rivisitando con maggiore libertà e criticità gli elementi tradizionali, alla ricerca di un fondamento più adeguato. 3) ~imbattersi nella diversità culturale. Questo capita a singoli membri, ma anche a gruppi interi. È una forte spinta alla riflessione sulla validità dei modi in cui la propria cultura risponde alle domande fondamentali. Colpisce di più quando la stessa cultura di base ha "assolutizzato" i propri modi. Insomma, è una spinta per interrogarsi sull'universalità della cultura (propria e in generale): quale validità ha la mia cultura, e quale quella altrui? Le culture sono delle entità autoreferenziali? Esiste un fondamento comune valido per ogni cultura? Sono domande molto impegnative. 4) ~insufficienza delle definizioni della cultura. Nella cultura occidentale contemporanea, il modo più abituale di pensare la cultura non s'ispira più alla filosofia, bensì all'antropologia culturale. Le definizioni di "cultura" si rifanno per lo più alla definizione data nel1871 dallo studioso inglese Edward Tylor nel suo libro Primitive Culture. Secondo Tylor, la cultura sarebbe un "insieme complesso che abbraccia il sapere, le credenze, l'arte, l'etica, le leggi, le usanze e ogni altra attitudine o abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società". L'UNESCO ha allargato leggermente nell982 la definizione di Tylor, affermando che la cultura "ingloba, oltre alle arti e alle lettere, anche i modi di vita, i diritti fondamentali dell'essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni e le credenze". Notiamo che i tre tratti fondamentali di questa definizione . di . . . " , 2) ".1mparato e traman d ato " , 3) "del sono: l) un ((•1ns1eme
3. Possibilità e necessità di andare oltre la ((pura cultura}} La visione storica, nonché la diacronia dell'Occidente, danno come risultato un'acuta percezione del momento attuale. La perdita della realtà e della natura ha fatto sì che, nella modernità, il soggetto si collochi aL centro della realtà, ma che, dopo il crollo della modernità, l'uomo si trovi relegato a vagare nell'irrealtà e nell'assenza di senso (postmodernità). Infatti, per l'individuo postmoderno tutto ha il gusto dell'irreale, cioè di ciò che ha soltanto un modo di esistenza e di giustificazione di tipo "culturale". Il mondo artificiale, tecnico e mediati co nel quale si muove, così come i suoi desideri e progetti personali, sono semplici realtà culturali che mancano di fondamenti veri e di senso oggettivo. Tutto è cultura, e perciò tutto è relativo. Ecco la convinzione che occorre superare per prima. Come diceva la Fides et Ratio, il pensare filosofico deve farsi strada in mezzo alle macerie filosofiche della crisi della modernità, a scopo di ripristinare il contatto con ciò che non è puramente "cultura": l'essere, la natura. Perciò occorre considerare che "da sempre" siano esistiti quattro motivi principali per andare ol tre l a " pura cultura " . l) Saggiare la validità ultima della propria cultura. Quest' azione si presenta come uno sviluppo della fiducia che ognuno abitualmente ripone nella verità della propria cultura, che vuole essere posseduta in modo ancora più pieno. Si tratta di comprendere la cultura alla luce di nozioni che essa stessa ha maturato: l'essere, la capacità intellettuale dell'uomo, la verità, l'intelligibilità, la ricerca di senso ...
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gruppo". Una tale definizione ha un suo valore ed utilità, ma risulta anche insufficiente. Difatti, essa risponde piuttosto al "come è strutturata la cultura" e al "come funziona", ma non dice "che cosa è" (causa formale) o "perché esiste" (causa finale). Neanche s'indica quale sia il nucleo della cultura (visto che tutti i suoi contenuti sono delle "differenze"), né si vede con chiarezza se la cultura sia da identificare con la morale, la religione e la filosofia. In base a ciò, le culture sarebbero simili a dei giganteschi "contenitori di differenze" dove tutto rientra, tanto da poter dire che "tutto è cultura". Per di più, studi sul comportamento delle scimmie antropomorfe hanno mostrato che anch'esse avrebbero una "cultura" perché vi si riscontrano "insiemi di tratti" che le scimmie imparano e tramandano. Dunque, forse che tra l'uomo e gli animali non ci sarebbe differenza sul piano della cultura? In sintesi, la definizione di Tylor/UNESCO, nonostante il suo valore descrittivo, pone dei problemi di fondo ai quali non si può dare risposta senza un approfondimento specificamente filosofico. Ecco il quarto motivo per andare oltre la "pura cultura".
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SECONDA PARTE
RIFLESSIONE SISTEMATICA SUL RAPPORTO TRA LA NATURA E LA CULTURA
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l. La cultura e la sua apertura verso la natura
Prendiamo in esame in primo luogo il binomio natura-cultura nel senso più largo possibile. Aristotele aveva insegnato (cf. Metafisica, 1014bl6- 1015al2) che il termine "natura" ha diversi sensi, ma la loro unità analogica è garantita dal costante riferimento a un senso principale: l'essenza di quegli enti che possiedono il proprio principio di movimento. Insomma, lanatura di un ente è la sua essenza considerata come principio del proprio agire. Da parte sua, san Tommaso d'Aquino (cf. C.Gentes IV, 35; S. Th. I-II q. 10 a. l ad c.) accolse questa tradizione sottolineandone la dimensione di finalità: la natura agisce, sì, e lo fa in vista di un fine (S. Th. I-II q. l a. 2 ad c.). TI tema della finalità, che è fondata sulla dinamicità della natura stessa, è forse la chiave più preziosa di cui si sono serviti gli scolastici medievali per capire l'integrazione tra la natura e la cultura. Cercando di fare una sintesi, si possono evidenziare quattro elementi riguardanti la natura (cf. Lukac de Stier, 2007, 259): - È un principio metafisica: ci fa conoscere qualcosa di intrinseco e di costitutivo della struttura di ogni ente. Perciò non si riduce a qualcosa di materiale o di biologico. - È un principio analogico: la sua presenza in tutti gli enti segue la loro essenza, e perciò le differenze di essenza indicano differenze di natura e del movimento che da questa deriva. 80
- È un principio dotato di un valore morale: in prospettiva etica, già dal tempo degli stoici antichi la natura ha rivestito una grande importanza perché la norma etica impone di agire "se' dll con d] o a natura " , e"nel nspetto e a natura " . -È un principio teleologico (finalistico), nel doppio senso di essere indirizzato ad un fine, e di non essere arrivato al suo compimento antologico, sebbene non manchi di un'identità essenziale. I: importanza di questa concezione metafisica della "natura" risiede nel fatto che apre la strada verso una comprensione non univoca della natura. Se la natura fosse compresa come un qualcosa di univoco (e perciò, come qualcosa di compatto, di autonomo, di identico a sé), il suo rapporto verso la cultura sarebbe necessariamente estrinseco e accidentale. Su una tale base sarebbe impossibile svolgere uno studio sul rapporto tra la cultura e la natura. La difficoltà è impossibile d'aggirare: a una natura univoca (e perciò determinata ad unum) non serve un co-principio che la guidi in senso teleologico verso una più grande determmazione in vista di un compimento finale. Di più: sulla base di una natura univoca non si può fondare alcun tipo di molteplicità o di diversità. Questi fenomeni sarebbero estrinseci alla natura, e perciò da studiare in assenza di un principio unificante, di u~ criterio adeguato. Ancora di più: sulla base di una natura umvoca, la ragione e la libertà appaiono come qualcosa di estrinseco; non è più possibile integrare natura e libertà, natura e ragione. Per finire: sulla base di una natura univoca non c'è modo di stabilire un ordine tra diversi tipi di nature; non si può dire che la natura sia presente nell'uomo non meno che negli esseri privi di ragione, ma in modi essenzialmente diversi. . In sintesi, soltanto una visione analogica e finalistica della natura può servire da co-principio alla cultura, la quale per esistere e per svilupparsi in mille modi diversi richiede alcune con81
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dizioni specifiche: soltanto queste vengono espletate dal tipo di natura che è presente nell'uomo, cioè dalla natura umana. Perciò, d'ora in avanti ci concentreremo sul modo in cui la natura e la cultura sono presenti nell'uomo, anche se lo facciamo privilegiando una prospettiva di studio di tipo metafisica.
2. Lo habitus, chiave d'incontro tra la natura e la cultura nella struttura dell'uomo La filosofia della cultura è subordinata all'antropologia filosofica e alla metafisica. Queste scienze spiegano che la natura dell'uomo appartiene contemporaneamente a due livelli: quello dell'essere e quello del dover-essere. In forza del primo livello (!'essere), l'uomo gode di una natura umana specifica e stabile: egli non è "pura libertà" né "puro spirito", bensì "spirito incarnato". Da parte sua, il secondo livello (dover-essere) vuoi dire molto di più che un semplice "dover agire": dover-essere indica il fatto che la perfezione umana non è un dato iniziale. Occorre raggiungerlo tramite l'autodeterminazione data dal proprio agire. Ciò lo si può capire come uno sforzo per attualizzare la misura di potenzialità che sussiste nella natura, oppure come un cammino per completare la parziale incompiutezza antologica dell'uomo. La potenzialità/incompiutezza di cui si è parlato si verifica anzitutto nelle facoltà superiori dell'uomo. Dal fatto che queste facoltà sono libere, sappiamo che è lì che avviene principalmente quella crescita legata al "dover-essere". Di conseguenza, sarà anche quello il luogo dove si collocherà la base della cultura come crescita antologica propria alla struttura metafisica dell'uomo. Per studiare tale crescita antologica, san Tommaso ha sviluppato il concetto di habitus. Esso era stato scoperto da Ari-
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stotele, che però ne fece un uso alquanto limitato nel capitolo VI dell'Etica Nicomachea. San Tommaso, invece, ne fece un uso straordinariamente ampio ed analogico fino a farlo diventare il cardine della sua visione dinamica dell'uomo. Si noti per inciso che san Tommaso si è servito inizialmente degli habitus quale risposta al bisogno di ridurre l' indeterminazione presente nelle facoltà superiori (cf. S. Th., I-II q. 49 a. 4), collocandosi così nelle vicinanze della riflessione sulla potenzialità/incompiutezza. Ma san Tommaso non dimentica mai che ciò che permette di superare l'indeterminazione è l'orientamento teleologico (dover-essere) delle stesse facoltà in quanto facoltà naturali, appartenenti alla natura umana. Perciò la prospettiva decisiva sarà quella teleologica, e non quella dell'indeterminazione da rimediare. Gli habitus sono qualcosa di simile a un "luogo interno" dove l'uomo recepisce tutti gli influssi che vengono su di lui: influssi esterni dei più svariati generi (l'ambiente, gli altri, Dio, gli avvenimenti, ecc.), ed influssi che l'uomo stesso esercita su di sé tramite il proprio agire. Tutti questi influssi diventano importanti per il proprio dover-essere soltanto se lasciano una traccia stabile in quel "luogo interno", cioè se fondano un habitus. L'insieme degli habitus che ogni uomo riesce a sviluppare liberamente (san Tommaso ribadisce più volte il vincolo tra gli habitus e la libertà) diventano davvero una sua "seconda natura", cioè quello sviluppo antologico fondato sulla sua natura ma diretto verso la sua pienezza. Si può anche parlare degli habitus come del punto d'intreccio tra la natura e la cultura. Dal momento in cui si è sviluppato un habitus, non si può trovare una "natura pura", né una "pura cultura", bensì una "natura
culturizzata" o una "cultura naturalizzata". Per questi motivi, risulta spontaneo vedere l'habitus come il concetto fondamentale per capire la cultura nell'essere dell'uomo. Così rispondiamo
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alla fondamentale domanda su "che cosa" sia la cultura nel suo punto fondamentale: l'essere umano. Vista l'importanza dell'habitus, facciamo ancora alcune osservazioni antropologiche e metafìsiche a scopo di puntualizzare meglio lo statuto di questa nozione. Si tratta anzitutto di un accidente metafisica, cioè di qualcosa che modifica la sostanza, nel senso che la perfeziona. Di conseguenza, se si guarda agli habitus alla luce delle potenze in cui essi ineriscono (atto primo), essi sono degli "atti", perché favoriscono l'attuazione delle potenze (facoltà) verso il loro scopo. Se però si guarda agli habitus alla luce dell'atto secondo (]'azione), gli habitus appaiono come potenze. Di conseguenza, gli habitus vanno sempre visti (e misurati) alla luce della teleologia propria della natura umana. Lo habitus come accidente metafisica rientra nella categoria della qualità, di cui rappresenta il primo tipo: habitus vel dispositio. Nel caso dello habitus come tipo di qualità, la radice latina è l'espressione se habere, cioè "trovarsi", "essere in questo o quello stato", e quindi si tratta di una "maniera di essere" del soggetto, di una struttura della soggettività. Secondo san Tommaso, la differenza tra lo habitus e la dispositio risiede nel fatto che la determinazione o modo d'essere del soggetto indicata dalla dispositio è ancora poco stabile, mentre lo habitus indica una determinazione stabile e più perfetta: qualitas de difficili mobili. Finalmente, non bisogna confondere gli habitus con le abitudini, che significano anzitutto ciò che noi facciamo in modo "automatico", con poco impegno della volontà: degli habitus dice la tradizione scolastica che "li usa chi lo vuole". Ciò vuol dire che una persona può possedere uno habitus, ma soltanto lo eserciterà se lo vuole, cioè se sceglie di agire impegnando decisamente lo habitus di cui dispone.
3. La natura umana come causa propria degli habitus e della cultura
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Si è parlato degli habitus come quel luogo interno all'uomo in cui egli recepisce tutti gli influssi. Dal fatto che la cultura sta dentro di noi a modo di habitus di una facoltà intellettiva e libera, la possiamo configurare secondo le esigenze della natura umana, che è razionale. La cultura può e deve essere "posseduta", e non solo "contratta" al modo come si contrae una malattia quando si è esposti a un ambiente malsano. Ecco perché si deve dire che la cultura "soggettiva" (quella che è dentro l'uomo, spesso a modo di habitus) goda di un primato antropologico e critico su quella "oggettiva" (quella esterna all'uomo), anche se dal punto di vista cronologico e sociale la cultura oggettiva viene per prima. La natura umana, considerata nel suo dinamismo libero verso il fine e con le sue facoltà, è quindi la causa propria della cultura. Questa semplice osservazione ha un valore decisivo per il nostro discorso perché ci permette di discernere ordinatamente il grado d'importanza che hanno i diversi elementi collegati in qualche modo alla cultura. Spesso si sbaglia pensando che l'essenza della cultura, la sua causa propria, sia qualche altro elemento come la coscienza sociale, il linguaggio, i fattori economici, il sistema semiotico, ecc. Non si vuoi dire che questi elementi non siano importanti. Difatti essi sono sempre presenti, e perciò non li si può chiamare elementi accidentali. Ma tali elementi non determinano l'essenza della cultura, non sono la causa propria. La differenza tra la causa propria e gli elementi essenziali risiede nel fatto che la causa propria determina direttamente l'essere (ad esse simpliciter), mentre gli elementi essenziali determinano l'agire o le condizioni dell'essere (ad melius esse vel ad congruentem operationem). La priorità dell'essere sulla conoscenza fa sì che, se la natura umana è sul piano metafisica la causa propria della cultura, sul
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PROSPETTIVA METAFISICA: NATURA-CULTURA NELL'ESSERE
La fondazione della cultura sulla natura garantisce l'unità e la generale commensurabilità di tutte le culture. Ma ciò non significa che le culture siano tutte uguali. C'è un legittimo posto per la considerazione delle differenze. Ora dobbiamo trovare dei criteri metafisici per dare il giusto peso alle diversità reali senza cancellare l'unità.
l) Non appena si viene a contatto con una cultura estranea, le differenze vengono immediatamente percepite. Diremmo che queste sono le differenze presenti nei settori più superficiali della cultura (folklore, usi, costumi). A parte le differenze che denotano chiari errori morali o intellettuali, si constata una diversità del tutto legittima: modi di mangiare, di vestirsi, di gestire la politica, di vivere in società, di fare il saluto, ecc. Lo si capisce filosoficamente alla luce della differenza che esiste tra il fondo e la /orma delle tendenze naturali dell'uomo. Le forme possono cambiare (per es., diversi modi di mangiare), ma il fondo resta uguale (il bisogno umano di nutrirsi). 2) C'è poi una diversità che è dettata dalla condizione storica dell'uomo. ll "tempo" è un concetto la cui analogia occorre elaborare per capire questo. C'è anzitutto il tempo "fisico" che scorre in modo uniforme e misura i movimenti naturali. Poi c'è il tempo "umano" che non scorre in modo uniforme: esistono momenti che "passano veloci" mentre altri "sembrano durare per sempre"; esistono momenti di festa, di attesa, di conversione, etc. Da parte sua, il tempo "culturale" è quasi un orologio proprio di ogni cultura, che condiziona la velocità dello sviluppo culturale e fa da sfondo del tempo umano. 3) C'è anche il fatto che vi sono perfezioni della natura che non possono presentarsi contemporaneamente. I valori esistono talora in coppie che sono non-compossibili. Ogni cultura tende verso uno di questi due valori, e ciò segna il suo orientamento fondamentale, quasi il "suo temperamento". Alcune delle coppie sono: laboriosità - meditatività; osservanza delle tradizioni - apertura alle innovazioni; ordine - adattabilità; valore del singolo - valore degli elementi comuni o sociali; riservatezza - allegrezza; temperamento giovanile - adulto. 4) C'è infine una radice ultima della diversità culturale: il mistero dell'uomo, che fa riferimento al mistero di Dio. La "richezza antologica" dell'uomo è tale che non può venire esaurita
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piano critico la natura indica la prospettiva principale per considerare la cultura. Gli elementi essenziali della cultura possono generare altrettante prospettive di studio della cultura, spesso molto utili. Ma è cruciale non dare a nessuna di queste prospettive secondarie il posto privilegiato che spetta alla natura come prospettiva principale, come categoria fondamentale. Le conclusioni di questa prospettiva devono essere privilegiate contro le conclusioni contrarie che sembrano derivare da altre prospettive. Notiamo, per inciso, che la profonda unità del binomio natu~a -cultura sul piano dell'essere assicura ulteriormente la prionta della natura quale categoria e prospettiva principale da utilizzare per lo studio dei fenomeni culturali. Se natura e cultura non fossero un binomio reale e originale, dovremmo volgerei altrove per ottenere la causa propria della cultura, e di conseguenza anche per trovare la prospettiva fondamentale per lo svolgimento di questo studio. Orbene, ciò porterebbe immancabilmente all'utilizzo di prospettive e di categorie che portano presto o tardi - lo insegna anche l'esperienza ottenuta lungo la storia della filosofia - a smarrire l'autentico valore e peso delle realtà culturali, che appaiono deformate, prive di verità propria. Tale è, ad esempio, il caso della prospettiva hegehana della cultura, ancorata alla categoria di "verità assoluta" che relativizza ogni verità presente nella storia.
4. Unità e diversità nella natura e nella cultura
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da nessuna visione culturale particolare. Certo è che ogni cultura si sforza per capire questi misteri, ma lo fa sempre alla luce di certe prospettive, domande o concetti che segnano una inevitabile "parzialità" nel suo approccio. Da ciò deriva una forte corrente di diversità alla base di ogni cultura. Noi dobbiamo affermare, tuttavia, la radicale unità della cultura (di ogni cultura), fondata dall'unità della natura. Orbene, questo è qualcosa che non si vede immediatamente: occorre far uso dell'intelligenza per trovarla. Nella cultura occidentale moderna e postmoderna non sono mancate delle filosofie che, chiuse alla dimensione dell'essere, non trovano che dei fattori di diversità tra le culture. Costumi, modi di pensare, categorie, giudizi morali ... tutti questi sarebbero degli elementi senza fondamento comune, da collocare dentro l'"insieme di contenuti" di cui parlava la definizione di cultura data da Tylor. Ne deriva una visione improntata alla totale diversità delle culture. Così, si tende a ridurre ogni "insieme di contenuti" (2 subculture, 2 nazioni, ecc.) a "differenze culturali" che vengono opposte sistematicamente le une alle altre. Ciò serve, tra l'altro, a rendere poco credibile l'affermazione di una verità o di un valore "universale". Si scivola nel relativismo culturale e si rende impossibile ogni paragone tra le culture che non sia strettamente descrittivo. I pochi elementi che risultano essere comuni a più culture non sono considerati propriamente "cultura", ma "civiltà", perché consistenti soltanto in pratiche e tecniche abbastanza impersonali e materiali. A questo riguardo va segnalato che nel campo della cultura non si deve chiedere l'unz/ormità. Non è necessario trovare espressioni la cui forma è identica senza eccezioni, come succede nei fenomeni delle scienze naturali. Basta l'unità, che siriscontra nelle espressioni di un fondo antropologico naturale, presente nella maggioranza dei casi. Infatti, si è detto che nelle culture vi sono dei fattori di diversità di cui bisogna tener conto.
Occorre lavorare sempre con il binomio natura-cultura, che garantisce il giusto rapporto tra l'unità e la diversità, sia all'interno di una cultura, sia tra una cultura e un'altra.
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PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA: NATURA.CULTURA NELL'UOMO
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PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA: NATURA-CULTURA NELL'UOMO
l. La cultura e la biologia umana
tanto la sua "natura biologica". Ecco perché fa difetto il fattore teleologico, che risulta decisivo per il concetto positivo di libertà: "libertà per ... ". Di conseguenza, non si può fondare sul concetto di plasmabilità una riflessione completa sulla condizione culturale dell'uomo, anche se tale concetto risulta utile per argomentare la differenza tra la biologia e la cultura. Occorre guadagnare sempre il senso metafisica della natura umana se si vuole garantire il vero fondamento sul piano dell'essere.
2. Lo scopo della cultura e il patrimonio culturale
Si ricorderà che Rousseau aveva parlato della "perfettibilità" del buon selvaggio. Questa "perfettibilità" (detta anche "plasmabilità") è un concetto di cui fa tesoro l'antropologia culturale. Esso aiuta a capire che la cultura non viene trasmessa per via biologica, bensì per tradizione . In altre parole, la cultura non dipende dalla genetica che determina la "razza". La cultura non viene ereditata con i geni, ma viene appresa tramite un processo di trasmissione culturale. Si dice giustamente che la natura di ogni neonato è "plasmabile" da qualsiasi cultura: il neonato può essere portato in questa o quella cultura, che egli farà sua senza difficoltà. Non c'è niente nella dimensione biologica dell'uomo che lo possa "destinare" a far parte di una cultura anziché di un'altra. Ciò che conta è il processo di "inculturazione primaria" di un bambino in una certa cultura. Questa convinzione si oppone efficacemente ad ogni pensiero "razzista" che pretenda di connettere direttamente la cultura alla razza biologica. La plasmabilità/perfettibilità di cui parlava Rousseau ha alla sua base un dato antropologico importante: il fatto che l'uomo, a differenza degli animali, non è sottomesso al determinismo degli istinti. Perciò la plasmabilità è da intendersi come una "libertà da ... " Questa libertà è, però, una libertà "negativa", nel senso che non riguarda la natura metafisica dell'uomo, ma sol-
Lo scopo della cultura non è da pensarsi in riferimento all'uomo come essere biologico, bensì all'uomo come essere culturale, sulla base di una natura metafisica. Artefice e fine della cultura è appunto quest'uomo naturale-culturale. Detto semplicemente, lo scopo di ogni cultura è che ogni suo membro possa capire e realizzare presto, facilmente e con sicurezza ciò che lo porta al suo perfezionamento umano integrale, come singolo dotato di una natura e come membro di una comunità culturale e storica. Allora, quali sono gli elementi che permettono un tale perfezionamento? Clifford Geertz, uno degli ultimi esponenti della scuola americana di antropologia, spiega che ogni cultura trasmette ai suoi membri tre cose che costituiscono il cuore della sua "inculturazione primaria". Queste tre cose sono: una visione del mondo (Weltanschauung), un sistema di valutazione (una morale) e una religione (un deposito dei significati ultimi). Che ciò sia così non è casuale. Infatti, questi tre elementi vanno capiti in funzione dello scopo della cultura appena indicato. Essi sono la parte più essenziale del "patrimonio" che ognuno riceve da chi gli è stato "padre" (pater- patrimonio- chi ci ha preceduti nel tempo e ci insegna a coltivare autenticamente la propria
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natura verso il suo compimento). n padre vuole che il figlio non debba cominciare daccapo il lavoro di "capire e realizzare presto, facilmente e con sicurezza" ciò che lo perfeziona. E il figlio, da parte sua, normalmente cerca la propria perfezione secondo quella proposta che gli viene fatta dal padre e, in modo più generale, dalla cultura nella quale ha fatto la sua inculturazione pnmana. Si noti che i tre doni del patrimonio culturale valgono come un "punto di partenza" più progredito in vista del pieno raggiungimento dello scopo della cultura. Inoltre, i tre doni - in ciò che essi hanno di essenziale- non sono "esterni" all'uomo: riguardano il suo modo di porsi davanti al mondo, le risposte alle domande essenziali che gli consentono di capire se stesso e di muoversi verso il suo vero scopo, come suggerisce al n. 30 la Fides et Ratio. Tutte le novità successive che il figlio potrà incontrare verranno a collocarsi come un "andare oltre", ma sempre "a partire da" quel patrimonio a lui preesistente. In tutto ciò si vede all'opera la teleologia della natura, unita al buon uso della razionalità.
PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA: NATIJRA.CULTURA NELLUOMO
Chi ha ricevuto un patrimonio, acquisisce un'identità culturale. Ecco la funzione principale della cultura, funzione che deve essere valutata alla luce dello scopo della cultura. Sotto la sua apparente semplicità, il tema dell'identità culturale nasconde presupposti e problemi filosofici di grande portata. Forse per questo motivo l'identità culturale dei singoli e dei gruppi è un tema molto dibattuto nell'attualità. Sembra perciò indispensabile operare un'analisi filosofica dei diversi sensi del
termine "identità", perché non tutti sono ugualmente utili per capire bene l'identità culturale. Ci sembra di poter scorgere tre tipi principali di "identità". l) L'identità metafisica e finalistica. La sintesi scolastica insegnava che l'essere umano godeva di un'identità fondamentalmente stabilita: quella data dalla sua natura umana. Questa identità, però, non era statica né compiuta perché era dotata di una spinta teleologica verso un compimento finale da raggiungere tramite l'agire e la grazia soprannaturale. 2) L'identità matematica. La modernità accolse la tendenza a vedere ogni ente (uomo, cultura, cosa materiale, ecc.) come qualcosa di compiuto, di perfettamente determinato nella sua essenza. Tale tendenza, detta "essenzialismo", poteva essere espressa dal concetto matematico d'identità che, essendo un'astrazione formalizzata, presenta un'identità totale (per esempio, 2 = 2). Quest'identità è priva di dinamica teleologica, di apertura profonda verso l'agire e verso il compimento. La potremmo dire un'identità "parmenidea" (l'essere è uno e immutabile, e tale è anche la sua identità). 3) L'identità dialettica. Se la modernità si era dimostrata "parmenidea", il romanticismo si dimostrerà "eracliteo" (tutto si muove). Esso dirà che l'identità dell'uomo, come di qualsiasi altro ente, non è qualcosa che "già c'è", bensì qualcosa che "si fa" interamente, che "diviene" costantemente. Non si riconosce una natura umana stabile a fondamento dell'identità. n romanticismo fa attenzione piuttosto a quell'identità che deriva dalla personalità e dai suoi sviluppi nella storia, dai ruoli che le persone ricoprono nella società, ecc. In questo senso, l'influsso più forte è venuto da Hegel. Egli ha trovato nella famosa "lotta per il riconoscimento" (sviluppata nella Fenomenologia dello Spirito) la chiave romantica più potente per riflettere sul divenire dell'identità dell'uomo. Per spiegare quella lotta, Hegel portava, tra gli altri, l'esempio del rapporto tra padrone e servo. Secondo
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3. L'identità, prima conseguenza del patrimonio ricevuto a. Comprendere bene l'identità culturale
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Hegel, il padrone non può avere l'identità di padrone come qualcosa di proprio. Ha bisogno del servo. Cioè, il padrone viene a sapere di essere padrone (cioè, acquisisce la sua identità di "padrone") vedendo la sua autorità negli occhi impauriti del servo che gli si sottomette. Orbene, il problema insito nel modo hegeliano di pensare l'identità risiede nel fatto che essa è un'identità dialettica: non essendo fondata su una natura, essa dipende interamente dall'opposizione della tesi (padrone) con !'antitesi (servo). 4) I:identità accidentale. Ne! nostro tempo, tale identità è promossa da una mentalità orientalista di stampo buddista. Insegna che il nostro essere non ha alcuna stabilità, alcuna realtà. Siamo soltanto un fascio di sensazioni, impressioni e brame. Non lontano da questo c'è una certa interpretazione liberalista dell'uomo per cui questi non avrebbe altri legami, altri diritti e doveri, che quelli che egli ha liberamente scelto di avere. Non ci sarebbero cose "precedenti" alle sue scelte. Tutto ciò ha radici filosofiche profonde. Dal tempo di Francisco Swirez, e poi in certe correnti linguistiche attuali, le realtà (specialmente quelle storiche ed umane) sono simili ai "numeri". Nel caso dei numeri, appunto perché privi di struttura essenziale (di natura), se cambia uno degli elementi integranti, il numero cambia (per es., se al numero 10 si aggiunge l, non è più 10, ma 11). In modo analogo, per Smirez un ente era soltanto il risultato dell'unione di forme accidentali. Allo stesso modo, un uomo può esser visto come il risultato dell'unione di esperienze, conoscenze, vissuti, riflessioni, stati d'animo. La sua identità è accidentale, molto instabile.
PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA: NATURA,CULTURA NELL'UOMO
Allivello del singolo uomo, è stato facile pensare che la sua identità culturale fosse di tipo accidentale o dialettico, perché non era ricavata principalmente da qualcosa che si ha in se stessi (dalla propria "natura") bensì ottenuta dal contatto con un "altro": appunto, la cultura nella quale gli era capitato dinascere. La cultura diventa così la sola fonte di quell'identità che segna l'uomo in modo decisivo. Orbene, allivello del gruppo, si può dire che tutti coloro che hanno acquisito una specifica cultura hanno un'identità culturale di tipo matematico: non essendoci un'altra cultura perfettamente uguale, essi sono soltanto identici a se stessi e, perciò, diversi da tutti gli altri. Ma che cosa succede quando s'incontrano due culture dotate d'identità matematica? Non è pensabile che si stabilisca un rapporto su una base comune che possa garantire l'interazione rispettosa e positiva. Di conseguenza, il rapporto tra due culture dotate d'identità matematica, se non segue la v1a della semphce esclusione dell'altro ("loro non sono uomini", "loro non hanno vera cultura"), seguirà quella della lotta dialettica per ottenere dall'altro il riconoscimento della propria superiorità, come tra il servo e il padrone. c. Soluzione realista al riguardo dell'identità
I dibattiti sull'identità culturale dell'uomo hanno privilegiato l'identità matematica e l'identità dialettica, ognuna su un livello diverso. Occorre capire questo con chiarezza.
Da quanto detto dovrebbe risultare chiaro che quei due modi di pensare l'identità umana e culturale non portano buom frutti. Se invece si riconosce all'uomo un'identità metafis1ca, essa potrà interagire con l'identità culturalmente acquisita. Non solo: essa darà il fondamento per un rapporto rispettoso tra culture diverse. Anzi, nella misura in cui la stessa identità metafisica umana è presente in ogni cultura, non è più pensabile una totale diversità-estraneità tra due culture. In questo modo Sl viene stabilire un interessante rapporto tra identità e diversità
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b. La riflessione antropologica e culturale sull'identità
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(allivello dei singoli esseri umani), e tra unità e molteplicità (al livello delle diverse culture). La filosofia della cultura di matrice realista propone, dunque, di riconciliare l'identità metafisica con altre dimensioni dell'identità che sono più vicine al divenire e alla variabilità. Detto con altre parole, il concetto realista di identità metafisica non esclude la diversità. Infatti, chi riconosce l'identità metafisica non deve escludere l'identità culturale acquisita dal singolo uomo nel processo della sua inculturazione primaria, né deve rinunciare ad essa una volta che la si sia acquisita. n riconoscimento dell'identità metafisica può, però, aiutare a discernere se quell'identità culturale acquisita sia di aiuto per portare a compimento la tensione finalistica presente nell'identità metafisica (di ciò si dirà più avanti). In questo senso, l'identità metafisica chiede il contributo di una buona identità culturale per poter attuarsi correttamente. Su queste basi si può avviare un' interazione positiva tra l'identità e l'alterità su tutti i piani: interculturale, in tra culturale e personale. Infatti, se l'identità è data da una natura umana aperta alla storia e dotata di una teleologia, si colloca un fondamento solido per superare la mutua esclusione tra le culture. In questo modo, Giovanni Paolo II ha potuto delineare all'ONU, nel suo discorso del5 ottobre 1995, una nuova "grammatica" per l'incontro ed il mutuo arricchimento delle culture, e in Memoria e identità (capitoli 15 e 23, tra gli altri), una visione dell'identità nazionale che non si chiude all'alterità. Per finire, osserviamo che l'identità culturale del singolo e del gruppo non è qualcosa di dato "una volta per tutte". Non è mai stati ca. Infatti, sapere "chi siamo noi" e "come siamo diversi da altri gruppi" è qualcosa che va continuamente ridefinito con l'andare del tempo. Orbene, questi cambiamenti che avvengono lungo la storia non cancellano né distruggono l'identità metafisica di base. La spinta teleologica insita in essa l'apre verso uno
sviluppo diacronico. La stessa cultura evolve, e incontra altre culture. La diacronia fa vedere che la maggioranza delle culture attualmente esistenti deve molto della propria identità all'incontro con altre culture. Diventa ancora una volta palese che l'identità culturale non si può pensare in modo esclusivamente matematico o dialettico senza far torto alla realtà storica che attesta il positivo scambio tra le culture.
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4. La tradizione La consegna del patrimonio culturale da una generazione a quella successiva è un processo molto importante e delicato, che riceve il nome di tradizione. Esso fa vedere il movimento della cultura nel tempo. In questo senso, la tradizione è una dimensione intrinseca dell'identità culturale ed è legata allo scopo della cultura. Perciò la tradizione conclude lo studio della dimensione antropologica della cultura. Notiamo subito i due sensi della parola "tradizione": essa può indicare sia i contenuti tramandati (patrimonio), sia l'atto tramite il quale si tramandano i contenuti. Notiamo anche i due modi di rapporto con la tradizione: l o n modo "attuale", per cui lo stato attuale ("il presente") della cultura riconosce una dipendenza reale nei confronti della tradizione passata (cf. Bernardo di Chartres t 1105: "Siamo dei nani appollaiati sulle spalle di giganti"). 2° Il modo "storicistico", che indica una presa di distanza, dove il soggetto che vive nel presente si stacca dal passato per giudicarlo. Tale è il modo in cui l'illuminismo ha guardato verso il passato, che si dimostra diffidente nei confronti di ogni contenuto trasmesso per via di tradizione. Questo modo storicistico di rapporto con la tradizione facilmente avvia progetti di rivo-
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luzione culturale, cercando di ricominciare daccapo la costruzione della cultura su basi completamente nuove. Se si guarda al modo in cui si compie l'atto della tradizione nel rapporto tra il padre e il figlio, si capisce che ci sono dei criteri che regolano tale atto. Infatti, si tratta di un rapporto tra persone intelligenti e libere. Possiamo individuare quattro criteri affidati al padre, e un criterio affidato al figlio. l) Il criterio di validità intrinseca: il grave dovere di trasmettere soltanto "cose buone" al figlio, costringe il padre a interrogarsi più seriamente al riguardo della validità e della coerenza (unità) del patrimonio che deve trasmettere. In questo modo avviene un processo di purificazione costante della cultura. 2) Il criterio della ragionevolezza: visto che il patrimonio è qualcosa che deve venire accettato liberamente, il padre cercherà di incentivare il figlio ad accogliere il patrimonio. Ciò sarà fatto nel modo migliore se il padre può indicare i motivi che sorreggono e spiegano i diversi elementi del patrimonio. Così il figlio vedrà in quale modo il patrimonio risponda al bisogno di avviare un rapporto intelligente con se stessi, con la realtà, con gli altri. 3) Il criterio della causa esemplare: il padre cerca di trasmettere un'identità culturale che non è puramente teorica. Egli stesso deve brillare davanti al figlio come testimone ed esempio del tipo di uomo che la propria cultura vuole che sia. Ci deve essere qui una virtuale identificazione tra il patrimonio tramandato e colui che lo tramanda. Del resto, il padre deve anche insegnare al figlio, con il suo esempio, il modo concreto di applicare il patrimonio alla sua vita concreta. 4) Il criterio dell'anagogia: il padre deve far capire al figlio che il patrimonio tramandato non è qualcosa di definitivo, che sia stato fissato una volta per sempre. Esso andrà sempre arricchito, e perciò c'è lo spazio e la flessibilità perché ogni nuovo membro dia il proprio apporto. Il figlio deve diventare a sua volta "padre" della cultura in cui è immerso.
Il solo criterio affidato al figlio è questo: il patrimonio, come proposta unitaria, intelligente e coerente, richiede di essere verificato (e non solo ripetuto!) dal figlio. Occorre, cioè, che egli possa constatare di persona che il patrimonio nella sua totalità come nelle singole parti è vero, cioè che è adeguato alla realtà dell'uomo e alla realtà del mondo culturale e naturale che lo circonda. Si esclude dunque che il patrimonio sia solo un insieme di precetti e concetti antichi, svincolati dalla realtà e dall' esperienza. Perciò si richiede: l o che il figlio faccia esperienza della verità del patrimonio, soprattutto nel caso della "cultura spirituale" (elementi intellettuali, morali e religiosi del patrimonio). Questa esperienza da fare è la chiave della dimensione pedagogica della morale e della religione, che sono al cuore della cultura. L'esperienza è un fa ttore decisivo per la giusta accoglienza del patrimonio, visto che la diversità dei suoi contenuti richiede l'uso di due tipi di evidenza: quella da applicare alle "cose materiali", e quella da applicare agli elementi della cultura spirituale. Nel primo caso l'evidenza è immediata (si pensi alle tecniche di caccia, di costruzione, ecc.), mentre nel secondo caso l'evidenza viene soltanto raggiunta se il figlio accetta previamente di impegnare la propria libertà. Soltanto l'esperienza liberamente accettata ed intelligentemente guidata può generare un'adesione convinta del figlio agli elementi profondi del patrimonio culturale. 2° che la cultura stessa fornisca al figlio gli strumenti per questa verifica del patrimonio. È evidente che gli strumenti più importanti non possono essere estrinseci al figlio. Difatti, lo strumento principale per verificare un patrimonio è la retta ragione (nelle sue diverse forme: ragione filosofica, ragione critica, ragione morale, ragione religiosa, nel modo in cui ognuna di queste venga praticata in ogni cultura). Di conseguenza, spesso il processo di trasmissione della tradizione conosce tre fasi: ricezione mnemonica del patrimonio, ricezione degli strumenti
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per la verifica, e applicazione di questi strumenti al patrimonio. Questo processo prevede sovente alcuni momenti in cui il figlio VIene messo alla prova. Ad ogni prova fa seguito ordinariamente una cerimonia di passaggio o d'iniziazione alle tappe successive finché si raggiunge la piena maturità.
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PROSPETTIVA CRITICA: NATURA-CULTURA NEL PENSIERO
Finché i moderni sostennero l'idea di un soggetto autonomo, capace di una perfetta oggettività e libero da ogni dipendenza nei confronti della tradizione, sembrò che la cultura non ponesse dei particolari problemi nel contesto del pensiero. Questo si muoveva secondo un metodo sicuro per cogliere la verità oggettiva. La crisi del soggetto autonomo si verificò precisamente quando si dovettero constatare diverse dipendenze "scomode" del pensiero nei confronti della cultura: dipendenze storiche, linguistiche, vitali, sociali, ecc. Allora fu chiaro a tutti che non esisteva un soggetto autonomo capace di "pensiero puro", così come non poteva esserci una sola teoria universalmente vera. Ciò ha portato molti a ritenere che il pensiero sia qualcosa di eteronomo, incapace di governare se stesso in modo responsabile. Ma è vero questo? Non è così. Se la modernità sbagliò nel teorizzare un tipo di pensiero totalmente naturale (quello fondato sul soggetto autonomo), di tipo puramente scientifico, la postmodernità sbaglia nel teorizzare un pensiero totalmente culturale. Occorre invece guadagnare il giusto equilibrio tranatura e cultura anche nel pensiero. l. Ricuperare la vera ampiezza del pensiero
Forse la prima cosa da fare è ridare al pensiero tutta la sua ampiezza. Questo bisogno si sente principalmente in tre ambiti: 100
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l) Ricollegarlo all'essere e al linguaggio. Se nella modernità l'essere è stato abbandonato in favore del pensiero, nella postmodernità il pensiero è stato abbandonato in favore del linguaggio. In realtà, non bisogna abbandonare nessuno dei tre elementi (essere- pensiero -linguaggio, o come diceva la tradizione scolastica, res- ratio- nomen), perché tutti e tre esistono ed esercitano un loro influsso nella conoscenza. Infatti, l'uomo che conosce è un uomo che si trova a contatto con le cose (che non si riducono a "cose materiali"), e che si serve di concetti, i quali si esprimono in parole. Certo, gli intrecci tra res - ratio - nomen sono complessi, ma in linea di massima si può discernere che cosa compete ad ognuno, sebbene nessuno dei tre si possa identificare in modo isolato e "puro", cioè prescindendo degli altri due. 2) Riconoscere i diversi modi di razionalità. Davanti alla riduzione della razionalità alla "razionalità scientifica" come unica modalità valida, occorre riconoscere che esistono diversi modi di razionalità: culturale (p re-scientifica), religiosa, morale, scientifica, filosofica. Tutti questi, con i loro corrispettivi metodi e le loro dipendenze reciproche, devono essere armonizzati. Altrimenti si potrebbe perdere l'unità analogica del patrimonio, che verrebbe appiattita su un singolo tipo di razionalità. Privilegiando la razionalità religiosa si ottiene il fondamentalismo e il fideismo; privilegiando quella morale si ottiene il moralismo; privilegiando quella scientifica si ottiene lo scientismo e il positivismo; privilegiando quella filosofica si può ottenere l'astrattismo; privilegiando quella culturale si ottiene il relativismo culturale. 3) Colui che conosce è uno spirito incarnato. L'uomo che conosce non è mai un "soggetto autonomo", puro e astratto, insensibile alla storia e alla cultura. Egli è piuttosto uno "spirito incarnato". Ecco la "formula" che ci consente di trovare l'equilibrio tra la natura e la cultura nel pensiero. Dire "spirito" è dire
dimensione metafisica, capacità teoretica, significati trascendenti, apertura all'universale. Dire "incarnato" è dire storicità ed interpretazione, punti di riferimento concreti, bisogno di sviluppo, dipendenza dalla tradizione e dalla cultura. Perciò, porre uno "spirito incarnato" quale soggetto della conoscenza porta a trovare la giusta unità tra le due serie di caratteristiche.
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2. Diversi aspetti della cultura nel pensiero
Soffermiamoci sul terzo aspetto appena indicato, che essendo quello meno noto, e forse quello di cui c'è più bisogno nel momento attuale. La natura della mente, nel suo senso più essenziale (cioè alla luce della sua causa propria), è quella di essere una facoltà per la verità. Da ciò segue che ciò che si oppone alla mente non è la cultura, bensz' la falsità. Infatti, "cultura" non è necessariamente un equivalente di "falsità", e perciò la cultura non va automaticamente opposta alla ragione. Questo accorgimento è cruciale per sbloccare ogni incompatibilità tra il pensiero e la cultura. Detto ciò, applichiamo ora il principio che distingue tra la causa propria e gli elementi essenziali. Ecco la chiave: la base metafisica già stabilita che vede la priorità della natura (causa propria) sulla cultura (elementi essenziali), viene tradotta sul piano conoscitivo come una priorità della adaequatio intellectus et rei sulle dimensioni che inevitabilmente accompagnano l'atto conoscitivo di uno spirito incarnato. Infatti, se si afferma con chiarezza che la "causa propria" della conoscenza è la verità come adaequatio, non c'è alcuna difficoltà nell'affermare la copresenza di diverse dimensioni culturali sempre presenti, quali il linguaggio comune, la storicità delle formulazioni, le sfumature dei significati (cf. Fides et Ratio, n. 95), e perfino alcune dimensioni antropologiche come quella legata alla decisione 103
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richiesta da alcune conoscenze, o quella che vede il rapporto tra conoscenze previe e conoscenze acquisite recentemente. L'uomo che conosce la verità è appunto un uomo che vive nella storia e nella cultura, un uomo che si sviluppa secondo una modalità propria. Al contrario, se si dimentica l'ordine fondato dalla "causa propria" e si colloca al suo posto qualche "dimensione essenziale", si perde il collegamento tra l'essere ed il pensiero, e si ottiene una ragione interamente linguistica, ermeneutica o storica che dovrà ammettere la sua completa "dipendenza culturale". A che cosa di preciso ci si riferisce qui, quando si parla di "dimensioni culturali della conoscenza"? La risposta potrebbe portarci lontano, ma cerchiamo qui di far vedere in concreto perlomeno alcune dimensioni culturali del pensiero. l) La cultura "fa vedere" la natura. La realtà della natura esiste per sé, è sempre presente; ma non tutti i popoli hanno raggiunto un concetto specifico di "natura", né tanto meno l'hanno elaborato speculativamente come invece ha fatto la cultura occidentale. Da ciò consegue che la natura e tutto ciò che ad essa si riferisce intrinsecamente va raggiunta in modo esplicito solo tramite la filosofia (cioè per via culturale). Difatti, risulta impossibile "mostrare" un principio puramente naturale senza l'utilizzo della cultura (termini filosofici, esempi, discorsi ... ). Ma un conto è che non si possa mostrare un elemento naturale senza l'utilizzo della cultura, e un altro conto è che non possa esistere un principio naturale! La prima impossibilità va accettata, mentre la seconda va decisamente respinta. Un'altra applicazione dello stesso principio dice che anche la via per tendere efficacemente verso il fine naturale richiede una dimensione culturale. Tutte le "verità" della natura, i "principi" e gli "orientamenti" morali insiti nella natura, devono venire "rivestiti culturalmente", cioè devono acquisire un "volto culturale", una presentazione concreta nella cultura, affinché
possano essere percepite efficacemente dai membri della cultura. Detto con altre parole, ogni verità speculativa, morale o religiosa deve essere concretizzata in un insieme di pratiche, istituzioni, parole ecc., che vengono modellate dalla cultura. Il motivo di ciò è doppio. D'una parte, san Tommaso insegna che inizialmente l'uomo ha soltanto una "tendenza" verso il fine, ma non una "conoscenza" esplicita di esso (cf. S. Th. I-II q. l a. 7). Dunque, la ricerca che l'uomo fa del suo fine implica uno sforzo cognitivo per chiarire a se stesso dove si trovi quel fine e in che cosa esso consista. D'altra parte, l'universale si raggiunge tramite un particolare storico e culturale. Per l'uomo, in quanto "spirito incarnato", l'apertura a realtà universali avviene sempre per via della mediazione data dall'appartenenza a realtà concrete (famiglia, istituzioni, gruppi intermedi, nazione o Stato). 2) Il nostro incontro con la realtà è mediato dal "mondo culturale", e più precisamente dalla Weltanschauung ricevuta come patrimonio. Orbene, ciò non significa- come sembrano suggerire Ruth Benedict ed altri- che sia impossibile il contatto reale con le cose. In questo caso occorre sbarazzarsi da ogni kantismo (che pensa l'atto di conoscere come una "costituzione"), ma anche da ogni concezione meccanica della conoscenza che porti a vedere l'atto come una ricezione piuttosto passiva di certi contenuti conoscitivi. Lavorando nella grande tradizione realista, Romano Guardini insegna che la conoscenza umana ha diverse fasi e livelli. Dopo la fase iniziale (dove predomina l'elemento della ricezione passiva), c'è una fase intellettiva nella quale la mente ha la possibilità di "elaborare" in modo più attivo e libero il contenuto ricevuto a scopo di valutario ed eventualmente di renderselo proprio. In questo secondo momento si compie "l'incontro" con la realtà, che è sempre più di un sem- . plice "scontro" conoscitivo e quasi meccanico con essa. Nel contesto di un vero incontro con il reale, la mente lo può m ettere in rapporto con diverse conoscenze già possedute, lo può
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Visto che nel pensiero convivono la natura e la cultura, possiamo cercare un altro modo di studiare l'influsso della cultura
sul pensiero. Perciò ci rivolgiamo alla Weltanschauung, l' elemento più spiccatamente cognitivo del patrimonio culturale. La Weltanschauung, insieme alla Lebenswelt, si collocano al centro dei guadagni positivi che le nuove correnti antropologiche e gnoseologiche hanno dato alla filosofia della cultura. Autori quali Dilthey, Husserl, Scheler, Heidegger, Guardini e Ratzinger ne hanno parlato in diversi modi, ma sempre in senso anti-moderno. A loro avviso, la conoscenza non poteva più intendersi in modo moderno, cioè come corrispondenza tra un sistema di proposizioni ed un insieme di fatti. E il motivo era questo: il modo moderno di capire la conoscenza era troppo "teorico". Orbene, la teoria ha qualcosa che la precede; c'è qualcosa dalla quale la teoria nasce. Non è comprensibile la teoria senza questo sostrato pre-teorico. Si tratta di un tipo di conoscenze che precedono ogni riflessione di tipo scientifico o filosofico, e delle quali tutti i membri di una cultura sono in possesso (e non solo "i saggi"). Questa è appunto la Weltanschauung. Ma c'è di più. La Weltanschauung non è un fatto puramente "soggettivo", qualcosa che obbedisce soltanto alla creatività dell'individuo. La Weltanschauung è il rispecchiamento cognitivo di un qualcosa di reale. Questo qualcosa, però, non è il "mondo materiale" - detto anche "mondo della scienza". Questo "mondo materiale" è lo stesso per tutti. Del suo studio si occupano validamente le "scienze della natura". Quel "qualcosa di reale" rispecchiato dalla Weltanschauung è il "mondo umano" o "mondo culturale", chiamato anche Lebenswelt - "mondo della vita" -nel contesto della filosofia del XX secolo. Tutto sta nel capire che le realtà che esistono nella Lebenswelt hanno un modo di esistere reale (e non meramente "soggettivo"), ma che è diverso dalle realtà del "mondo materiale". Le cose della Lebenswelt non offrono la "fredda stabilità" e là "totale oggettività" che si riscontra, per esempio, nelle pietre e negli atomi. Al contrario, le cose di cui è fatto il "mondo della
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analizzare, lo può sviluppare in diversi modi, ecc. Tutte queste sono delle azioni riflessive, ed ogni azione riflessiva nei confronti del contenuto implica una tale "elaborazione". La dimensione culturale s'inserisce lungo tutto questo processo. 3) La cultura può ostacolare o facilitare la conoscenza. Nel discorso su natura-cultura nell'uomo, si è detto che ogni cultura ha il proprio tempo. Sul piano conoscitivo, ciò implica che, sebbene ogni idea sia logicamente possibile per la mente umana considerata in generale, non ogni idea è praticamente possibile per ogni cultura a ogni momento. Ci sono delle idee e dei valori di cui soltanto si può venire a conoscenza quando la cultura ha raggiunto una certa maturità, una certa situazione. Infatti, si è detto che la cultura deve provvedere gli strumenti che servono per verificare la validità di se stessa, per capire alcune verità poco evidenti e alcuni valori impegnativi. Questi strumenti vengono preparati lentamente lungo lo sviluppo della tradizione culturale, e senza tali strumenti la ragione non riesce nella pratica ad afferrare quelle verità. 4) La teleologia della natura deve essere interpretata culturalmente. Si è detto che uno dei tratti della natura è la sua teleologia. Ciò ha una grande rilevanza per l'etica. Orbene, questa teleologia non è qualcosa di evidente o di immediato. Come ha dimostrato Robert Spaemann (1994, 281-283), la ragione, dotata di una formazione culturale, ha il compito di interpretare la vera spinta teleologica della natura in ogni situazione. In questo senso, "vivere secondo la natura" è soltanto possibile tramite l'interpretazione della medesima fatta dalla ragione (cioè, tramite la cultura). 3. L analisi della Weltanschauung tramite la struttura del sillogismo
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vita" sono molto più significative per l'uomo. La Lebenswelt è, infatti, il mondo che comprende la totalità dei rapporti, dei valori, delle tecniche, delle esperienze, delle istituzioni culturali, dei significati, delle associazioni, della giustizia, dei progetti, ecc. Tutte queste cose "esistono", anche se non al modo delle pietre e degli atomi. Ciò, però, non crea alcun problema alla filosofia realista, il cui oggetto di studio non si limita alla "realtà materiale" (ciò sarebbe una fatale concessione al materialismo e all'empirismo scientistico), ma si estende verso tutto ciò che è "ente", tutto ciò che partecipa all'essere, in qualunque modo ciò avvenga. Detto semplicemente: se cose come i rapporti umani e le istituzioni culturali "esistono" (anche se non al modo in cui esistono le pietre), allora essi possono venire legittimamente studiati dalla filosofia. A nostro avviso, la chiara distinzione tra il "mondo della scienza" e il "mondo della vita" è da collocarsi tra i frutti positivi che sono maturati nel difficile contesto della crisi della modernità. Quella distinzione ha ridato nuovo slancio e ha aperto nuovi orizzonti agli studi filosofici e culturali perché li ha liberati dalla secolare tendenza ad assumere come propri i metodi e i presupposti delle scienze della natura. Tale deplorevole tendenza non di rado ha provocato in passato una comprensione incompleta e riduttiva dell'oggetto di studio della filosofia perché si tendeva ad appiattire le realtà umane su quelle "materiali", di cui si occupano le scienze naturali. Tre chiarimenti sembrano opportuni per concludere il presente argomento. Primo: è chiaro che la Lebenswelt di una cultura o di un particolare momento storico non sarà identica a nessun'altra. In questo senso, lo studio filosofico della Lebenswelt, se deve essere universale, considererà soltanto le strutture e i tratti generali di ogni Lebenswelt, nonché il suo rapporto generale con la natura e la cultura, lasciando gli studi su casi particolari alle scienze umane. Secondo chiarimento: la conoscenza
che la Weltanschauung conserva della Lebenswelt non è da intendersi al modo di una presentazione pura ed oggettiva, quasi fosse una fotografia. Si tratta piuttosto di un'interpretazione culturale della Lebenswelt, della quale la filosofia può tener conto, senza però dover limitarsi a ciò che in essa viene detto. Terzo chiarimento: la Weltanschauung, come interpretazione umana che guida la cultura, include anche l'interpretazione del semplice "mondo materiale".
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a. Precisazioni importanti sulla Weltanschauung culturale nel pensiero Come si è detto, la Weltanschauung è un "livello di conoscenza" acquisito insieme con la semplice esistenza umana, ed un presupposto di ogni conoscenza ottenuta per via di riflessione. Anche la Fides et Ratio (n. 30-31) afferma che ogni uomo -nessuno escluso - guida il suo agire e il suo pensare alla luce di una Weltanschauung acquisita nel vissuto sociale. Se il pensiero pratico e speculativo nasce da una Weltanschauung, e non da principi logici, astratti e generalissimi (come voleva in certo modo la modernità), ciò vuoi dire che nei ragionamenti che facciamo utilizziamo delle "premesse" (principi, convinzioni, ideali) il cui peso teorico può essere più o meno esplicito. Alla luce di tali premesse, più "culturali" o "riflesse" che siano, interpretiamo i fatti e le vicende della nostra vita. Quando si sottomette la Weltanschauung acquisita spontaneamente alla luce della riflessione teorica, si genera un tipo di pensiero più riflesso e chiaro. n tipo di pensiero privilegiato per lavorare tra la Weltanschauung e la riflessione matura (filosofia) non sarà quello "lineare" dei moderni (far derivare conclusioni da premesse), bensì sarà "a spirale", simile a un continuo rimbalzo tra la base culturale e le conclusioni teoriche, dove ognuna esercita un influsso sull'altra. Sottomessa all'attenzione rifles109
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siva, la base culturale (il "livello esistenziale" della conoscenza) viene esplicitata o "tematizzata", ma mai del tutto: non la si può "esplorare" riflessivamente per intero, facendola così passare dal livello vitale-culturale verso il livello teorico-riflessivo. Dall' altro canto, il livello teorico consente di raggiungere un più alto grado di controllo critico, ma non può mai diventare teoria pura e definitiva, visto che non può eliminare del tutto la base culturale, ricca di intuizioni e di concetti polisemici. Ciò che la teoria guadagna allivello di maggiore univocità, lo perde allivello di maggiore ricchezza di significati. Visto che la riflessione e la Weltanschauung sono chiamate a coesistere e ad esercitare un influsso reciproco, possiamo distinguere tre livelli qualitativi nel possesso di una Weltanschauung. n criterio per questa distinzione sarà doppio: il grado di consapevolezza riflessa della validità del sillogismo, e la completezza della sua struttura. l) Weltanschauung possedute quasi senza pensiero. È il caso di chi non avverte chiaramente la presenza delle premesse. Può provocare un'esistenza depauperata. Si segue una conclusione operativa ingiustificata criticamente (ma non perciò invalida). Questa situazione è abbastanza vicina ad un determinismo culturale de facto, sebbene non manchi nella realtà il binomio natura-cultura. Qui si rispecchia la quotidianità di chi agisce come semplice "individuo" del gruppo, per il quale risulta "evidente" tutto ciò che il gruppo pensa e fa. 2) Weltanschauung posseduta a modo di entimema. È il caso di chi avverte soltanto l'esistenza di una premessa, e non cerca più. Può essere sufficiente se la premessa è buona, ma la conclusione è imperfettamente posseduta. D'altra parte, si è incapaci di giustificare l'universalità del valore o della verità che sono state affermate. 3) Cultura alta. È il caso di chi riesce a chiarire a sé l'intero ragionamento, mettendo in luce le premesse maggiori (prossime
ed ultime), ed è consapevole del loro valore. Questo è il privilegio del filosofo. In questo caso, la Weltanschauung, il cui valore universale è soltanto potenziale, diventa universale in atto: la Weltanschauung diventa filosofia.
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b. Le premesse maggiori ultime del pensiero culturale l
La possibilità di far chiarezza per via di riflessione teorica sui livelli più alti del "sillogismo culturale" ci permette di accedere a una prospettiva privilegiata per lo studio dei problemi che la cultura può generare nel pensiero. Infatti, lo schema del sillogismo aiuta a vedere che vi sono state ben due premesse maggiori ultime alla cui luce si è elaborata la teoria filosofica della cultura: quella che accetta il binomio "natura-cultura", e quella che accetta solo la "pura cultura". A seconda che venga utilizzata l'una o l'altra (in modo consapevole o inconsapevole), si farà una "filosofia della cultura" dai contorni molto diversi. Di conseguenza, una filosofia della cultura elaborata in chiave realista e un'altra elaborata in chiave relativista risolveranno gli stessi problemi in modi fortemente divergenti, visto che utilizzano premesse ultime opposte l'una all'altra. Per esempio, se la versione realista scorge una "natura" alla base della cultura, e ciò la porta ad affermare la possibilità del dialogo tra le culture, la versione relativista vede soltanto delle "culture chiuse" senza scorgere un fondamento universale in grado di fondare un dialogo interculturale. La questione su quale delle due premesse maggiori ultime sia da preferire si gioca sul doppio terreno della storia della filosofia e dei fondamenti metafisici e antropologici. Per quanto riguarda il terreno storico, forse il punto decisivo è Husserl. Egli, avendo scoperto la Lebenswelt (il livello di conoscenze· previo ad ogni riflessione), ne diede un'interpretazione tendenzialmente cognitiva, quasi identificandola con un puro conte111
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nuto mentale. Invece, altri autori capirono che la Lebenswelt doveva avere un riferimento strutturale a un "mondo umano" reale, anche se storico e mai riducibile a un insieme di cose materiali. In questo modo si è conservato il rapporto tra il pensiero e l'essere. Il secondo terreno sul quale si potrà giocare la scelta fra le due premesse nasce da quanto detto. Se c'è un rapporto tra il pensiero e l'essere, si apre lo spazio per accogliere l'analogia dell'essere (secondo la quale c'è anche un ordine tra l'essere, il conoscere e il dire) e la distinzione tra la causa propria e glielementi essenziali. Se queste due basi metafisiche non trovano accoglienza, le conseguenze non tarderanno a venire: perduta l'analogia, si perde subito il rapporto tra l'essere, il conoscere e il dire, cadendo nel "dlogon" (la mancanza di "logos" e di "analogia" fra l'essere, il conoscere e il dire). Si è perciò destinati a percorrere la parabola che va dalla ragione autonoma alla ragione puramente culturale. Se la riflessione sulla cultura nel pensiero viene svolta in questo contesto, non troverà alcun principio-guida, e sarà una preda facile per le filosofie postmoderne. Possiamo addebitare a questo errore fondamentale non poche delle correnti di pensiero culturale attuali. Esse coincidono nel vedere le culture come "totalità", dove ogni cultura è un "tutto chiuso", autofondato e sempre impegnato nell'autogiustificazione. Ciò implica che le culture sono incommensurabili. Da parte sua, il filosofo della cultura di orientamento realista colloca sempre i principi fondamentali dell'analogia dell'essere e della distinzione tra la causa propria e gli elementi essenziali. Così si trova facilmente la giustificazione del binomio naturacultura, e lo si può utilizzare per "pensare la cultura". Il pensiero deve prendere l'essere (analogico) come guida e criterio, e non inversamente. Di conseguenza, si capisce che non si devono mai sostituire le teorie alla realtà. Infatti, il realista sa bene
che la verità antologica è sempre più ricca della verità logica. Tra l'una e l'altra esiste una "tensione" e un'eterogeneità che impediscono la loro confusione. Purtroppo, questa confusione è stata frequente nella filosofia moderna. Per ultimo, va notato che se la cultura in quanto pensata non riesce mai a prendere possesso di tutta la ricchezza della cultura reale, ciò vuol dire che la cultura non cesserà mai di svilupparsi: torna così a farsi vedere l'influsso vicendevole tra la riflessione e le sue basi culturali.
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c. Altri modi per capire una filosofia alla luce della sua Weltanschauung Se è vero che la Weltanschauung guida il pensiero e l'agire degli individui sul livello vitale, è anche vero che ogni filosofia possiede/implica una Weltanschauung, sebbene non si riduca a ciò, come pensava Dilthey. Di conseguenza, un modo veloce e significativo per capire i tratti caratteristici di una filosofia è quello di far attenzione alla sua Weltanschauung. Possiamo indicare qui tre modi per analizzare la Weltanschauung di una filosofia. l) La struttura del sillogismo già studiata può applicarsi utilmente. Allora si potrà scoprire la premessa maggiore ultima di una filosofia, il che permette di vedere, tra l'altro, come si pensi il rapporto tra l'essere, il conoscere e il dire. 2) La triade filosofica. Tradizionalmente, ogni filosofia sistematica gira intorno a tre temi o poli fondamentali, denominati con i termini: Dio - uomo - mondo. Questi tre termini non devono essere presi nel senso specifico che possono acquisire in talune filosofie, bensì nel senso più largo possibile. Tra i poli si stabilisce un rapporto organico per cui, modificando qualsiasi polo, nessuno degli altri due resterà immutato. Si possono studiare allora i singoli poli (come vengano intesi), i rapporti tra i 113
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poli, nonché l'ordine tra i poli (quale sia il punto di partenza, quale il punto di arrivo). 3) Finalmente, si può vedere la filosofia in prospettiva pratica alla luce delle risposte che essa darà a queste tre domande: Che cosa è andato male? Come siamo arrivati a questo punto? Cosa dobbiamo fare? La Weltanschauung espressa in una filosofia gode di un alto grado d'nnportanza anche perché è la fonte della comprensione culturale che ogni persona ha di se stessa. Ecco perché nella vitalità, profondità e coerenza della filosofia fondata su una visione del mondo "ne va" dell'uomo stesso. Tra l'altro, nella Weltanschauung filosofica si gioca ciò che non può assolutamente manca~e nell'uomo: la ricerca del senso della propria vita, e la perceziOne dei valori. Giacché l'uomo capisce se stesso alla luce di una Weltanschauung filosofica, non può accettare un collasso della medesima, cioè non può accettare nessuna impostazione o i~terpretazione della sua visione del mondo che renda impossibile la ncerca di verità e senso per la sua vita. I.: uomo non può rassegnarsi definltlvamente a restare nel vuoto di verità e senso benché possa provare a farlo per qualche breve periodo. N es: sun problema speculativo, nessuna crisi filosofica, può dichiarare l'abbandono della ricerca di verità e di senso. Qualsiasi filosofia che dichiari il "senza senso" e suoni la tromba di ritirata dal senso espresso nella visione del mondo, anziché scartare la razionalità ivi espressa, scarta se stessa. Il motivo di questa autosqualifica è chiaro: se qualche filosofia dichiara il fallimento assoluto del pensiero, deve motivarlo, deve renderne ragione, e non è possibile darne ragione senza affermare in quello stesso atto la ragionevolezza e il senso.
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Ogni cultura trasmette come patrimonio ai suoi membri una visione del mondo, una morale e una religione. Avendo già studiato la prospettiva conoscitiva legata alla Weltanschauung, ora considereremo la prospettiva morale, spesso vincolata alla dimensione religiosa.
l. La cultura, presente sul piano morale
Per iniziare, raccogliamo alcuni elementi visti in precedenza che saranno utili per questo tema. Aggiungiamo spesso qualche sviluppo allo scopo di farne l'applicazione sul piano morale: l) "Non si parte da zero" né in campo conoscitivo, né in quello morale. La cultura tramanda un patrimonio morale (un insieme di norme, di massime, di pratiche, di valori, vizi e virtù) più o meno unificato, che i membri accolgono come parte della loro identità culturale. 2) I.: agire morale non si riduce a un "fare", cioè a un semplice atto di dominio sul mondo che modifica lo "stato di cose". esterno al soggetto, che rimarrebbe invariato. n realismo afferma invece che l'agire è più del fare, perché modifica e qualifica l'agente. Ecco perché l'agire morale è rilevante per
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comprendere il dialogo tra la natura (con il suo dover-essere) e la cultura (risultato dell'agire dell'uomo su se stesso). 3) In prospettiva storica, così come c'è stata una lotta dei moderni contro la "cultura nel pensiero", c'è stata pure una loro lotta contro la "cultura nella morale". I moderni hanno cercato di rendere la morale un campo perfettamente razionale, idealmente privo di "intrusioni" culturali. Così Bacon si appellava nel Novum Organum alla "retta ragione" e alla "vera religione" come ai criteri morali per proteggere la tecnica da ogni applicazione moralmente sbagliata. Descartes non volle applicare il suo metodo alla morale, per cui nel Trattato del Metodo si limitò a scrivere una breve "morale provvisoria". Kant stesso portò avanti un progetto di razionalizzazione della morale allo scopo di misurare il bene secondo le leggi della ragione pratica. Ciò lasciava poco spazio alla cultura. Tuttavia, pur di salvare la moralità (cui era legata la libertà e, in un certo senso, la possibilità di una religione), separò la ragion pura dalla ragion pratica. Invece, Spinoza non esitò a collocare la moralità dentro categorie univoche, matematicamente articolate (cf. la sua Ethica, more geometrico demonstrata), portando così al suo vertice il tentativo di eliminare la cultura dall'agire morale. Per il romanticismo e per i postmoderni, la mancanza di autonomia della ragione implicò di solito una facile critica all'etica, giudicata priva di razionalità. Per questa via si è arrivati facilmente all'opposto della spinta razionalistica: al "non -cognitivismo" etico, che riduce la morale al determinismo culturale e a diverse forme di condizionamento (emotivismo, biologismo, ecc.). L antropologia culturale (speciahnente la scuola americana) ha sostenuto il relativismo morale per motivi culturali. Infatti, chi non vede altro che "culture diverse", non vedrà altro che "morali diverse". Senza riconoscere una natura umana presente in tutte le culture, le diverse morali diventano incommensurabili.
2. Il sillogismo come strumento di analisi della cultura nell'agire
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Il sillogismo serve alla filosofia della cultura in diversi modi. Due sono particolarmente utili nel contesto del presente capitolo, dedicato allo studio dell'intreccio di natura e cultura nell'agire. Visto che in tutte le culture gli uomini cercano di guidare rettamente il loro agire, da secoli l'etica ha riflettuto sulle basi e sulle strutture di questo movimento della ragione. Il risultato è stato una teoria detta "sillogismo pratico". La si utilizzerà ora per capire l'impatto positivo e/o negativo della cultura nell'agire morale concreto dell'uomo. Ecco il primo contributo dato dal sillogismo. Il secondo contributo riguarda la riflessione che la filosofia della cultura conduce direttamente sui precetti culturali, non sulle loro conseguenze operative. Si cerca di capire quanto giusti essi siano. Lo si può fare perché i tre livelli di possesso intellettuale della cultura (visti anch'essi alla luce del sillogismo) valgono anche per il campo morale e per tutti i precetti esistenti nelle culture. In questo senso appaiono ancora una volta tre livelli o modi in cui una cultura trasmette i suoi precetti. l) Le culture meno sviluppate (o in crisi) trasmettono soltanto "conclusioni" del sillogismo senza pretesa di fondarle razionalmente: ecco allora il patrimonio morale vissuto come qualcosa di "evidente", che va semplicemente applicato. 2) Le culture alquanto più sviluppate sul piano morale trasmettono principi più alti. Da questi discendono particolari comandi (applicazioni dei principi), che trovano nei principi la loro motivazione. 3) Soltanto le culture che hanno sviluppato una riflessione filosofica possono raggiungere il livello di "scienza etica" al momento di strutturare e di vagliare in modo riflesso il loro patrimonio morale. Soltanto allora si potrà ottenere una chiara consapevolezza della validità universale eventualmente presente in taluni ele117
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menti della propria tradizione morale. Ecco quanto si può fare con lo strumento del sillogismo per valutare la rettitudine dei precetti culturali. Iniziamo subito con lo studio di questo secondo contributo del sillogismo alla filosofia della cultura.
La riduzione o riconduzione di una norma morale concreta verso il principio che la conferma avviene grazie al "termine medio". Esso consente alla ragione di cogliere una proporzione tra il giudizio concreto e il principio. Per esempio, se una persona dice "Noi, per rispetto agli altri, non usiamo i nomignoli", sta dimostrando di possedere una cultura morale a livello di "entimema". Perciò, se si vuoi passare dal "entimema" all'intero sillogismo, occorre poggiare sul termine medio che vi si trova implicito a scopo di far venire in luce ciò che manca. In questo caso avremmo questa struttura:
a. La valutazione filosofica dei precetti culturali
Ricordiamo: è inaccettabile il progetto moderno di generare una morale in modo strettamente deduttivo, cioè a partire dai principi universali ed evidenti a tutti, per derivare tutte le applicazioni concrete. Questo modo lineare di procedere misconosce la situazione culturale dell'uomo e del patrimonio morale da lui posseduto. Perciò è sbagliato utilizzare il sillogismo come strumento per tentare di dedurre l'insieme dei doveri morali retti a partire dai contenuti della sola ragione naturale, come ha fatto Spinoza e, in genere, la corrente razionalistica. Detto più semplicemente, non si può partire dal solo principio di ragion pratica che comanda "Fa' il bene ed evita il male", o da qualsiasi altro principio generalissimo, per ottenere, ad esempio, la conclusione che la guerra difensiva sia giusta e che l'aggressione immotivata sia ingiusta. Invece, la struttura teorica del sillogismo può risultare molto utile alla filosofia della cultura nell'operazione contraria: operare la riduzione di concreti comandi presenti nel patrimonio culturale verso i principi ultimi della morale. È così che si può sapere se essi siano giusti dal punto di vista teorico. Per esempio, se nella cultura è presente il comando morale che dice "È giusto difendersi respingendo l'aggressione immotivata", chi vuoi possederlo non solo a modo di "conclusione culturale", ma a modo più critico (cioè, come "sillogismo completo"), si può domandare se esso si riduca ragionevolmente al principio "Fa' il bene ed evita il male" come una sua valida concretizzaZIOne. 118
PM- li rispetto per gli altri porta a evitare ciò che possa recare loro disturbo (principio universale) p m- Usare i nomignoli spesso reca disturbo agli altri (principio meno universale, più concreto) Conci.- Di conseguenza, "noi non usiamo i nomignoli" (conseguenza pratica, norma culturale) In questo caso, il termine medio è stato "il disturbo agli altri". Alla luce dell'intero sillogismo si vede che la riduzione del comando culturale "non si deve usare i nomignoli" al principio universale indicato dalla PM è stato fatto in modo giusto: le leggi del sillogismo sono pienamente rispettate. Possiamo anche indicare che la PM qui usata non è ancora una PM ultima in senso assoluto. Essa è a sua volta riducibile al principio veramente ultimo della moralità che ingiunge "Fa' il bene ed evita il male". Così, per via di riduzione e di esplicitazione si è ottenuta la verificazione teorica (non la deduzione!) della validità razionale del comando culturale portato nell' esempio precedente.
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b. Il sillogismo pratico Veniamo ora a considerare l'uso del sillogismo per scopi pratici. Il sillogismo pratico porta, nella sua conclusione, un comando totahnente concreto: "Fa' questo"- "Non fare questo". Ci occupiamo di questo uso pratico per far vedere in quale modo la cultura possa servire o nuocere al retto procedere della coscienza morale. Ricordiamo per sommi capi la struttura del "sillogismo pratico". Lo facciamo servendoci largamente della dottrina di San Tommaso (cf. specialmente: S. Th., I-II q. 17 aa. 3-6; q. 19 a. 5; q. 76 aa. 1-2; q. 79 a. 12; q. 94 aa. 2, 4, 6; e Doolan, 1999). Essa ci aiuterà a cogliere quando e come la cultura fa la sua comparsa nel campo dell'agire morale. l) La struttura del sillogismo pratico è composta da una premessa maggiore (PM, sempre universale), una premessa minore (pm, che implica la valutazione di un caso concreto), e una conclusione (ciò che si deve fare o no in quel caso). Essa deriva dalle due premesse che la precedono. 2) Se si guarda alle PM, la sua base ultima si trova nella sinderesi, che è l'habitus dei primi principi della "ragion pratica" (la ragione in quanto utilizza la verità per guidare rettamente l'azione). Come si vede, qui siamo in un ambito dove predomina la "natura". Il primo principio della ragion pratica, sul piano del giudizio, è la nota massima universale: "Fa' il bene ed evita il male". 3) Oltre alla sinderesi (naturale e universale), si dice che vi sono nell'uomo tre inclinazioni che mettono in luce alcuni beni che tutti riconoscono senza difficoltà: l) beni derivanti dell'uomo in quanto essere sostanziale- preservare la sua unità, la sua vita; 2) beni che riguardano l'uomo in quanto animaleprocreare e curare i figli; 3) beni che riguardano l'uomo in quanto razionale - cercare la verità e vivere nella società. 120
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4) Questi tre campi della legge naturale, sebbene siano noti a tutti in modo universale in quanto principi (non, però, in modo riflessivo-teorico, bensì in modo pratico-attuale!), non sempre sono chiari nelle loro applicazioni più particolari. Qui la cultura comincia a farsi vedere. Il binomio natura -cultura si ripropone fortemente. Infatti, vi possono essere dubbi, imperfezioni ed errori quando la ragione pratica procede da quelle tre inclinazioni generali verso le loro conclusioni pratiche. Perciò appare la necessità che "i saggi" insegnino ai loro popoli precetti particolari che, nonostante appartengano di per sé alla legge naturale, non si può presupporre che siano conosciuti bene da tutti. Precisamente qui entra in gioco il peso della cultura e della tradizione nell'agire morale dell'uomo in quanto essere culturale e storico. Si dice, perciò, che i precetti culturali sono "particolari", nel senso che non derivano immediatamente dalla sinderesi: richiedono quindi una mediazione culturale concreta che li insegni e li proponga. c. Analisi di due casi dz/ficili riguardanti la cultura e la natura nell'agire
È evidente che nessuna cultura è totalmente libera da errori morali, che vengono tramandati da una generazione all'altra come parte del patrimonio culturale. L'uomo è un essere moralmente fragile. Se ci si domanda sul perché di tali errori, appare che possono essere ricondotti a dei motivi teorici (principi sbagliati, trasmessi per tradizione) o all'ambiente morale degradato (pratiche sbagliate più o meno abituali e comuni, che si oppongono al retto funzionamento della ragione). Vediamo come "funzionano" questi errori, e che cosa la filosofia della cultura possa dire a riguardo. Un comando culturale erroneo può venire a collocarsi come pm di un sillogismo. Il risultato è che la ragione non riesce più 121
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a vedere i veri valori. Infatti, in un tale caso si parte da una PM giusta, ma poi interviene il "medio" della p m sbagliata, generando così una conclusione difettosa. Per esempio, san Tommaso ricorda che Giulio Cesare, vedendo alcune tribù germaniche, capì che per loro il furto non era considerato un atto moralmente cattivo. Certo, quelle tribù riconoscevano la PM "non rubare", ma poi collocavano una pm imperfetta: "Non si deve rubare le cose della propria tribù". l: imperfetta universalità di tale premessa culturalmente accettata vaniiìcava la giusta universalità della PM. All'atto pratico, venivano lasciati "moralmente indifesi" i possedimenti di altre tribù. Essi non venivano riconosciuti come un'applicazione contenuta virtualmente nella PM. Consideriamo un altro caso, forse più complesso. La presenza nella cultura di una pm sbagliata, vista l'universalità della sua formulazione, può far sì che essa venga collocata anche come PM di ciò che potremmo chiamare un "sillogismo perverso". Ciò capita con i comandi positivi. Per esempio, l'eschimese eredita il comando erroneo che ingiunge: "Lascerai i membri improduttivi del gruppo a galleggiare sul giacchio per farli morire", e lo accoglie come PM. Poi quell'eschimese aggiunge la pm che valuta il particolare e dichiara: "Questo anziano qui è un membro improduttivo". Allora verrà fuori la triste conclusione "Questo anziano va subito messo a galleggiare sul pezzo di ghiaccio". Cosa dire su questo "sillogismo perverso"? Che la "doppia conoscenza" (PM + p m) con la quale la ragione guida l'agire è stata totalmente corrotta: la PM è scorretta, e la pm implica un'applicazione incompleta. Spieghiamo: l o La PM si dimostra scorretta perché non può essere giustiiìcata razionalmente: è impossibile farne la "riduzione" teorica ai principi primi. E come non tutti i membri di una cultura hanno la formazione filosofica richiesta per capire tale errore,
la responsabilità ricade sui "maestri" della cultura, i "saggi" che trasmettono quelle conoscenze e che dovrebbero prima vagliarle rettamente. 2° La p m è incompleta nel senso che è stato omesso l'atto di conoscenza rispettivo, cioè l'atto che deve valutare rettamente il particolare sul quale si applicherà la PM. Qui il particolare è un uomo, e non solo "un anziano improduttivo", come diceva la p m erronea. Ecco un caso di ciò che chiameremmo "categorizzazione culturale imperfetta". Anziché sforzarsi per valutare giustamente il particolare, ci si lascia trascinare dal modo come esso viene correntemente "visto" dalla cultura. Una giusta valutazione dovrebbe evitare ciò, visto che le culture si sforzano di capire il mistero dell'uomo, il che si oppone sempre alla riduzione dell'uomo ad un semplice "bonum utile". Peraltro, è un dovere di tutti conoscere certi particolari a motivo della loro importanza. Tra questi particolari non va dimenticato il valore dell'uomo. Esso può sempre venire "visto", ma forse manca l' attenzione, l'onestà. Perciò se si compie soltanto un'opera di "applicazione" della PM su questo "anziano improduttivo", in realtà il valore dell'uomo non è stato conosciuto "per quel che veramente è".
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3. Melville Herskovits e il relativismo morale di matrice culturale a. Linee generali del relativismo morale di Herskovits
N el tema 4 abbiamo avuto l'occasione di fare il nome di Melville Herskovits (1895-1963), famoso antropologo culturale statunitense e allievo diretto di Franz Boas. Egli sviluppò i presupposti di Boas, ma anche quelli del funzionalismo di Bernard Malinowski, che cercava di spiegare ogni azione umana
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dal punto di vista della funzione che essa svolge all'interno di un sistema culturale. Attento all'impatto della cultura nell'agire umano, Herskovits constatò le differenze dei costumi dei diversi popoli e culture. Constatò altresì che quei costumi trovavano sempre una giustificazione all'interno di quelle culture. Questo lo portò a formulare la tesi della relatività culturale dei valori morali. Secondo Herskovits, non esisterebbe alcun ordine morale obiettivo o un criterio universale. Piuttosto, ogni cultura avrebbe il proprio sistema di valori, i quali avrebbero la loro origine e la loro configurazione concreta soltanto all'interno di una specifica cultura. In sintonia con l' olismo linguistico, la visione Herskovits insegna che la moralità di ogni cultura è un mondo quasi autocreato e capace d' autogiustificazione. Un mondo chiuso che genera i suoi parametri di verità e di bontà, giacché l'esperienza umana è sempre interpretata alla luce dei pregiudizi ricevuti dalla propria cultura. Di conseguenza, soltanto i giudizi che vengono formulati all'interno di una cultura sono validi per essa: chi giudica le culture "dal di fuori", le giudica con i parametri validi solo per la sua cultura, e perciò i suoi giudizi non sono validi. A partire da queste persuasioni, Herskovits presentò nel 1947 una raccomandazione alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. In essa, Herskovits sostenne, tra altri, questi due punti: che il concetto di rispetto per le differenze culturali trova la sua conferma nella constatazione che non esiste alcuna tecnica scientifica per valutare qualitativamente le culture; e che i costumi e i valori sono relativi alla cultura cui appartengono. Non risulta strano che un antropologo, abituato a muoversi in mondi culturali assai diversi, sia particolarmente sensibile a queste varianti. Del resto, non si tratta di una novità nella storia
del pensiero. Abbiamo fatto cenno a casi simili, noti sin dall'antichità classica. Dobbiamo ora vedere se la posizione di Herskovits si dimostri sostenibile una volta che la si porti sotto la lente d'ingrandimento del sillogismo, e specialmente alla luce di quanto è già stato detto sul rappotto tra la natura e la cultura nell'agire.
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b. Valutazione del pensiero di Herskovits alla luce del sillogismo Chi guarda ai fatti messi in luce dall'antropologia culturale (di Herskovits e di tanti altri studiosi della cultura) sembra poter constatare: "Infatti, quello che una cultura ritiene giusto è ritenuto ingiusto da altre!". Oppure, "I valori davvero variano da una cultura all'altra!". A questa luce sembra che si possa concludere: Quindi la bontà e cattiveria morale variano da una cultura a un'altra; sono relativi alla cultura. Praticamente ogni tipo di azione, ritenuta proibita da una o più culture, è stata legittimata all'interno di altre culture che la insegnano e la praticano. In questa prospettiva, il relativismo culturale di tipo morale (relatività dei valori) si presenta non più come una posizione teorica, bensì come qualcosa che deriva con naturalezza da un insieme di fatti che vanno constatati e non discussi. Esso ha avuto una grande forza di persuasione nella cultura contemporanea. La filosofia, però, deve considerare bene ogni cosa prima di accettarla. Possediamo gli strumenti concettuali per svolgere un lavoro di valutazione attento. Bisogna vedere per prima cosa quello che Herskovits ha presentato: un insieme di fatti (la cui validità non possiamo mettere in discussione, e che si potrebbero moltiplicare) seguiti da una conclusione nella quale si palesa il relativismo culturale come naturale risultato dei fatti riscontrati. Cominciamo ad analizzare il ragionamento di Herskovits, portando il suo argomento allivello della piena chiarezza: il si!-
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logismo completo. Così, ci domandiamo: In quale rapporto si trovano i fatti e la conclusione? La domanda può sembrare inutile, ma è fondamentale. Rispondiamo: i fatti funzionano qui come una premessa argomentativa che prova la conclusione. Domandiamo ancora: Dal punto di vista strettamente logico-formale, basta forse una premessa, e basta quella premessa, perché la conclusione sia del tutto fondata ed accettabile? Non è così. Per trarre fuori una conclusione di tipo morale e universale (come quella del relativismo culturale in campo morale, prodotta da Herskovits), non basta una premessa fattuale e non universale. Fare così è un semplice errore logico, un non sequitur per cui si tenta di dimostrare più di quanto non permettano le premesse. Bisogna avere anche una premessa maggiore universale di tipo morale. Per esempio, dal punto di vista del sillogismo completo secondo la logica si deve dire: L'assassinio è un male (premessa maggiore universale, morale) pm Il genocidio è un assassinio (premessa minore universale, più concreta) Concl. Il genocidio è un male (conclusione morale, valutazione su un tipo di atti) PM
Ci si deve domandare: Quale premessa maggiore universale di tipo morale ci ha dato Herskovits? Questa sembra mancare. È sottintesa. Comunque, per dare forma completa dal punto di vista logico-formale al ragionamento di Herskovits, la premessa maggiore nascosta deve essere chiarita. Essa potrebbe essere formulata magari nei seguenti termini: "la rettitudine morale è dettata dall'obbedienza ai valori della cultura", oppure: "la rettitudine morale è relativa alla cultura, è dettata dalla cultura". Senza una tale premessa, il ragionamento non può concludere. 126
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A questo punto scatta forzosamente la domanda: quella premessa maggiore è valida? Considerando ancora soltanto l'ordine logico-formale, rispondiamo: no, perché presuppone come dato per certo che la cultura non conosce altre istanze morali superiori, essendo essa il solo criterio della rettitudine nell'agire. Ma questa non è altro che la tesi di fondo del relativismo culturale. Quindi, al semplice livello di correttezza logica formale, l'argomento di Herskovits si rivela scorretto perché inficiato del vizio logico chiamato petitio principii. La petitio avviene quando si presuppone come provato ciò che si deve provare. In questo caso, il "da provarsi" è il relativismo morale di matrice culturale, sul quale parecchie scuole di pensiero morale non concordano. Contro il relativismo culturale si sono levate diverse voci di ieri e di oggi. Jerzy Szaszkiewicz osservava nel suo libro Filosofia della cultura (1988, 177): >, Il Canocchia/e, 3, 1993, 3-52. KANT I., Fondamentazione della metafisica dei costumi. - - , Critica della ragion pura. - - , La religione entro i limiti della sola ragione. KREEFT P., Ecumenica! ]ihad, Ignatius Press, San Francisco 1997. - - , A Re/utation of Mora! Relativism, Ignatius Press, San Francisco 1999. LEWIS C. S., I: abolizione dell'uomo,]aca Book, Milano 1979. LLANO A., Filosofia della conoscenza, Le Monnier, Firenze 1987. LOBATO A., El hombre en cuerpo y alma, EDICEP, Valencia 1994. LONERGAN B., Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975. LòPEZ QurNTÀS A., Romano Guardini y la dialéctica de lo viviente. Estudio metodol6gico, Ediciones Cristiandad, Madrid 1966. . - - , Romano Guardinz; maestro de vida, Ediciones Palabra, Madnd 1998. LOWIER., The History o/Ethnological Theory, Holt-Rhineart, New York 19607 LUCAS R., I: uomo, spirito incarnato. Compendio di filosofia dell'uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997'. - - , Orizzonte verticale. Senso e significato della persona umana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007. LUKAC DE STIER M.L., «Naturaleza humana e historia en la doctrina del .· Aquinate>>, Sapientia, 70 (2007), 259-265. LYOTARD ].-F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltnnelli, Milano 1987 3 .
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