La cetra intarsiata
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Zitiervorschau

I Trasversali ************* Ge Fei LA CETRA INTARSIATA traduzione e postfazione di Paola Iovene ******************** ©2000 Edizioni Fahrenheit 451 Vicolo del Giglio 14 00186 Roma tel. e fax 06/68804909 [email protected] Progetto grafico: Gemma Fiorentini Immagine di copertina: bastoncini divinatori Stampa: Lineagrafica Via delle Zoccolette, 25 - 00186 Roma ISBN 88-86095-41-4 *********************** Nota dell’autore

Nella Cina antica vi fu un grande filosofo e poeta, uno dei maestri del pensiero taoista: si chiamava Zhuangzi, e scrisse una favola sul sogno. Egli narra che in sogno s’era trasformato in una farfalla. Quella del sogno probabilmente è condizione naturale, ma le riflessioni di Zhuangzi in proposito hanno un significato molto profondo. Egli infatti si chiese: sono io a essermi trasformato in farfalla, o è la farfalla che ha sognato di essere diventata Zhuangzi? Questa famosa favola è stata citata e riscritta da generazioni e generazioni di poeti e scrittori. Il grande Li Shangyin, del periodo Tang, con la poesia La cetra intarsiata finì ancora una volta nello stesso labirinto. Si tratta di una poesia estremamente oscura, sul cui senso si dibatte tuttora. A mio parere, nella storia della letteratura cinese le opere migliori hanno tutte a che vedere con il sogno. Il sogno della camera rossa di Cao Xueqin è forse l’esempio più famoso. Il sogno esprime il desiderio latente dell’uomo di trascendere la realtà, ed è anche una metafora della relazione dell’individuo con l’esistenza. Quando devo parlare delle mie opere, mi coglie sempre un senso di inadeguatezza: tutto quello che posso dire della Cetra intarsiata è che essa narra di un “sogno nel sogno”. In Cina, molti lettori ritengono che questo sia un testo difficile. Perciò quando ho saputo che sarebbe stato tradotto in italiano mi sono un poco meravigliato, ma soprattutto ne sono stato felice, perché tra tutte le mie opere questa è una delle mie preferite. Secondo Jorge Luis Borges, tutti i libri del mondo sono opera di un unico autore. Le sue parole suggeriscono che le differenze di razza, di lingua, persino di fede religiosa, non possono costituire un ostacolo insormontabile alla vera comunicazione letteraria. Quando ho avuto il piacere di leggere in traduzione cinese i racconti del grande Calvino, io non ho avvertito alcuna distanza. Naturalmente spero che anche i lettori italiani, attraverso la traduzione, possano apprezzare questo piccolo libro. Ge Fei

Aprile 2000 ****************** Ge Fei La cetra intarsiata traduzione e postfazione di Paola Iovene ********************** Farfalle

Quando Feng Zicun fu tirato fuori dalla stalla buia, già splendeva il sole di mezzogiorno. L’aria era calda, umida, il vento fresco gli accarezzava ogni angolo del corpo, ma quel vago odore di letame continuava ad avvolgerlo. Feng Zicun per un po’ aveva perso la nozione del tempo. Dal giorno in cui era stato rinchiuso nella stalla, non aveva smesso di fare congetture su un destino che non poteva prevedere. Non sapeva che trattamento gli avrebbero riservato i miti abitanti del villaggio. Né era preparato ad affrontare i pericoli che ora i muti raggi del sole nascondevano. Appena superò la soglia della stalla, il canto degli uccelli tra i cespugli lontani attirò la sua attenzione. Era tanto che non ne vedeva: notte dopo notte, nell'oscurità, non gli era restato che riascoltare nella memoria il loro canto, rievocare le nuvole grigie che vagavano nel cielo, il luccichio delle stelle. Fin dalla nascita aveva amato le cose yin1. Amava l'acqua di fiume quieta e silenziosa, la malinconia del profumo dei fiori, il suono di uno sgocciolio lontano, il lento spostarsi dell’ombra sulla meridiana. E ora i violenti raggi infuocati gli infliggevano un’ennesima umiliazione. Trascinato come una bestia, brancolava tra rovi spinosi verso l’ingresso del villaggio. Sotto le albizzie sulla riva del fiume stava riunito un gruppo di coltivatori di cotone. Gli spigoli del tetto incurvati verso l’alto erano bizzarri, come se vi fossero posati pipistrelli sul punto di librarsi in volo. Guardando da lontano i coltivatori sotto il sole e le loro ombre allungate sulla sabbia provò, come in passato, una sensazione di familiarità, di vicinanza. Li aveva a lungo osservati attraverso le fessure del recinto. Coltivavano la terra, raccoglievano, liberi come il fiume, placidi e inespressivi come gli alberi. Feng Zicun se ne stava all’ombra del tetto, l’aria fresca del fiume gli accarezzava il volto. I campi sulla riva opposta, sotto il sole cocente, apparivano remoti, finti. “Dammi un sorso d’acqua” disse a un giovane vicino a lui. Questi gli dava le spalle, tentava di aprire una giara di vino. Si voltò, gli gettò un’occhiata, e, senza scomporsi, con tono beffardo disse: “Bere o non bere, ormai non ha più importanza”. Che intendeva? Un brutto presentimento gli tolse il respiro. Cercò di analizzare le parole del giovane, i suoi oscuri sottintesi: vuole solo spaventarmi, certo non arriveranno al punto di uccidermi. Sul fiume galleggiavano ciuffi di fiori di sofora dall’intenso, dolce profumo; uno stuolo di farfalle agitava le ali variopinte, andandosi a posare dove il profumo era più forte. Ancora una volta a Feng Zicun venne in mente la famosa favola di Zhuangzi e la farfalla. Aveva quasi la sensazione di trovarsi egli stesso, in quel preciso istante, nel cuore della favola. Poteva essere un sogno? La confusione del tempo aveva spesso sbiadito il confine tra sogno e realtà. Aveva sognato più volte di svegliarsi in una stalla con il viso

imbrattato di letame. Il risveglio dall’incubo era sempre un sollievo: man mano che la mente si schiariva e la realtà gli sopraggiungeva in aiuto, il pericolo fuggiva furtivo nell’oscurità, tutto tornava quieto: poteva bere tranquillo un sorso di tè, sfogliare un vecchio libro, immergersi nei pensieri alla luce azzurrognola della luna… Se lo desiderava, poteva anche uscire dalla capanna e andare a sdraiarsi tra i freschi profumi delle piante negli angoli più nascosti del campo, osservare la rugiada sulle spighe di grano, soppesare tra le mani le capsule di cotone; oppure, addentrarsi nel boschetto di bambù sul retro della capanna e, tra lo stormire dei rami, solo nella radura, sorvegliare la notte in attesa dell’alba… Qualche anno prima, quando Feng Zicun si era trasferito in questo paese sperduto, nessuno sapeva veramente chi fosse. Non era andato a stare al villaggio, ma si era costruito una capanna sulla riva del fiume poco lontano e vi si era stabilito. Si intendeva d’agricoltura e si era industriato a piantare fagioli, grano e cotone su un terreno incolto accanto al fiume. Ma non per questo gli abitanti del villaggio lo consideravano un contadino. In realtà, il pallore della sua pelle, i tratti tormentati, il fisico gracile e il temperamento taciturno parevano del tutto incongrui con il posto; per forza d'abitudine, la gente lo considerava un commerciante in miseria, un disertore, o un misterioso artista di strada. Feng Zicun si concedeva lunghe pause dai leggeri e sporadici lavori agricoli: nei momenti di quieto riposo, con un libro tra le mani, chiusa la porta si immergeva nello studio; oppure, in compagnia solo della sua ombra, passeggiava lungo il fiume. Questo carattere eccentrico e riservato non gli aveva procurato il rispetto degli abitanti del villaggio; anzi, li aveva indotti ancor più a guardarlo con sospetto. Quanto a Feng Zicun, era egli stesso all’oscuro del proprio passato. Gli insignificanti eventi della sua vita sembravano essersi d’improvviso nascosti dietro al tempo, e le sue ricerche in quel senso per lo più non davano frutto. Sapeva solo che questo villaggio sconosciuto corrispondeva in ogni dettaglio al suo ideale, e per certi versi andava persino oltre le sue speranze. Il clima dolce, la lontananza dai clamori cittadini, la silenziosa esistenza da eremita avevano ben presto reso il suo cuore tranquillo come uno specchio d’acqua. Quella mattina Feng Zicun si era recato al fiume di buon’ora. Sull’alta chioma degli alberi stava appollaiato uno stormo di uccelli acquatici, di tanto in tanto scrollavano giù degli escrementi e qualche penna, lanciando richiami metallici. Il cielo era scuro, ancora non albeggiava, il villaggio era immerso nel sonno, la nebbia che si levava dal fiume sfumava i contorni delle cose. La voce del fiume risuonava tra gli alberi, sembrava provenire da un luogo lontano. Feng Zicun sedeva sulla riva, l’aria fresca odorosa di resina lo assaliva in viso; percepì la vastità del tempo, un frammento del Caos, ne realizzò pure il concreto, sottile mistero. Vide una crisalide giocare con il polline nei bui recessi di un’ortensia: arrampicandosi con il corpo grassoccio lungo lo stelo e sui fiori, cominciava a sbattere le ali mentre i petali, grondanti di rugiada, tremavano al vento. A lungo fissò la crisalide solitaria. I raggi del sole nascente si distendevano nell’aria, ma lui non si avvide di nulla. Dal villaggio si levò piacevole il tintinnio di una campanella: Feng Zicun sapeva che era la scuola che cominciava. Un vecchio maestro comparve presso il muro basso all’ingresso del villaggio. La bacchetta in mano, schermandosi con il palmo dai raggi accecanti, gettò un’occhiata dalla sua parte, e poi si avviò verso il fiume attraverso il buio sentiero del bosco. Cantilenanti voci che leggevano risuonavano alle sue spalle. Scuotevano la pigra aria di mezzogiorno, si propagavano in lontananza, inducevano al sonno. Questo maestro dagli abiti lisi veniva spesso, dopo la lezione, a bere il tè nella capanna di Feng Zicun. Di tanto in tanto facevano qualche partita a scacchi, parlavano di qualche fatto senza importanza. Tuttavia per la maggior parte del tempo non avevano nulla da dirsi. Feng Zicun non aveva mai avuto in simpatia tipi come il maestro, che declamavano antichi precetti come “Eliminate la santità e respingete la conoscenza”2 solo per mettersi in mostra, non facendo così che

traviare le giovani generazioni. Il maestro arrivò da Feng Zicun e, dopo i saluti di rito, gli rivolse questa domanda: “Il signore se ne sta tutto il giorno in panciolle sulla riva del fiume, non fa la guardia, non piglia pesci, ma insomma che viene a fare?”. Feng Zicun gli lanciò un’occhiata sprezzante. Ricordava che lo stesso quesito il maestro gliel’aveva già posto più volte. Lui non aveva dato una risposta diretta, ma in modo metaforico aveva preso a parlargli della freccia in volo che non si muove3, del cuore simile a uno specchio d’acqua. “Da dove viene, signore, e perché vive in solitudine sulla riva del Pinshui?”. “Ho udito che nell’India del nordovest c’è un uccello chiamato macchestrano, non si posa che sugli alberi di wutong, non si ciba che di semi di melia, non beve che a fonti cristalline. Lo sapeva?”4. “Macchestrano, macchestrano…”. Il maestro, completamente smarrito, non poté trattenersi dal tormentarsi le orecchie e sfregarsi le guance. Dietro al maestro, lungo la striscia di sabbia rossiccia sul bordo del fiume, lo sguardo di Feng Zicun si spingeva verso l’ingresso del villaggio. Nel rado boschetto deserto due alberi di albizzia erano in piena fioritura, il vento soffiava dolcemente tra i cespugli. Nei giorni precedenti vi aveva scorto di tanto in tanto una graziosa figura di donna. Talvolta andava col secchio ad attingere al fiume, talvolta stendeva i panni presso il muro diroccato. Le sensazioni che la sua immagine suscitava gli erano a un tempo sconosciute e familiari; al solo pensiero di quell’incantevole figura di donna perdeva ogni controllo, cadeva preda di un tumulto improvviso. Questi ansiosi sguardi in lontananza, ancorché ben dissimulati, attirarono l’attenzione del maestro. “Aspetta forse qualcuno?”. “No, no” rispose Feng Zicun, visibilmente turbato. “Se non vado errato” disse il maestro lanciandogli una gelida occhiata con tono non privo di una traccia di scherno, “la persona che il signore aspetta oggi non si farà vedere”. “Che dice?” chiese Feng Zicun con una calma forzata. “È morta”. La serenità di Feng Zicun subì una scossa, il volto gli si fece terreo. Evidentemente quest’erudito maestro non era tanto stupido come se l’era immaginato, aveva certo un acume straordinario e, senza che lui se ne fosse accorto, da tempo gli aveva letto nell’animo. Il maestro gli annunciò che, all’improvviso, la figlia del capovillaggio, colta da un grave malore la notte prima, era passata a miglior vita. Il funerale si sarebbe tenuto tre giorni dopo, all’alba... Il sole lentamente volgeva al tramonto. Feng Zicun, sotto un albero di melia vicino al fiume, meditava su un destino che non aveva modo di prevedere. Si prefigurò ogni sorta di bizzarro finale, l’unico a cui non pensò fu la morte; non certo perché fosse convinto di non meritarla, solo che quella era un’ipotesi che non voleva neanche considerare. Un cattivo presagio si manifestò verso sera. Un carro proveniente dalla buia imboccatura del sentiero si dirigeva lentamente al fiume; due cavalli cinerei nitrivano sbuffando. Una bara nero lacca traballava sul carro, emettendo un suono simile a uno scalpiccio. Ben presto Feng Zicun avvertì l’odore di vernice fresca e il profumo del polline che impregnava l’aria. Alcuni uomini del villaggio tirarono giù la bara, la deposero su uno spiazzo in riva al fiume. Feng Zicun fu percorso da un brivido: vogliono uccidermi davvero? La folla di spettatori si faceva sempre più fitta, gli sguardi gelidi, i volti impassibili. Solo due ragazze accanto al pozzo parevano raccontarsi qualcosa di divertente e, con affettata ritrosia, se la ridevano tra loro. Feng Zicun, in preda allo stordimento, fu liberato dai lacci. Poi, dovette affrontare una serie di complicati e raccapriccianti rituali: abluzione del viso,

rasatura del capo, prostrazione in ginocchio. Infine, gli si parò dinanzi un uomo di mezza età dal corpo tatuato, che, porgendogli una ciotola di vino di riso, gli fece cenno di bere. “Mi volete far morire davvero?” sussurrò Feng Zicun, che ancora sperava in un rivolgimento della sorte. Udita la risposta affermativa, capì che le cose non si mettevano bene. Che ignobile beffa, che crudele finzione: se avevano già deciso di ucciderlo, come poteva tranquillizzarlo una tazza di vino? Feng Zicun non prese la ciotola, ma agitando una mano la rovesciò e gridò con voce alterata: “Che fai? Ti ho forse detto che voglio bere?”. L’uomo di mezza età sorrise, si voltò senza rispondergli, e pazientemente gli riempì di nuovo la tazza. Tutto era accaduto così all’improvviso che non aveva avuto ancora il tempo di riflettere. In un certo senso, Feng Zicun non pareva temere la morte; eppure dover morire quando la primavera è nel pieno splendore e la natura rinasce, nella stagione in cui i rigogoli spiccano il volo e l’erba ricresce, lo faceva sentire inevitabilmente smarrito. Qualche notte prima, mentre seduto da solo alla finestra leggeva La cetra intarsiata, aveva avvertito il presentimento di una paura mai provata. L’aveva letta già tante volte, ma ogni volta non riusciva a trattenere le lacrime; gli sembrava che nella poesia di Li Shangyin fosse racchiusa una tremenda metafora: nelle sue profondità, esisteva un impenetrabile vuoto. Mentre Feng Zicun prendeva la tazza dalle mani dell’uomo, si vide di nuovo davanti agli occhi quella graziosa figura femminile. Con il secchio in mano risaliva lentamente lungo l’argine, sotto il sole gocce d’acqua schizzavano in ogni direzione, gli alberi di albizzia erano scossi dal vento, alcuni fiori cadevano silenziosi. Feng Zicun, completamente stordito, fu portato sulla riva. Due mani sconosciute gli allentarono il colletto e gli strofinarono il collo con acqua fredda. Vide un pugnale balenargli davanti agli occhi come un sottile pesce argenteo, poi una sensazione di freddo, trafiggendogli fulminea la gola, gli si riversò in cuore. Ben presto, sentì un suono come di acqua che scorre. Quando nel bosco vicino al villaggio era comparso il corteo funebre, dal cielo cupo era venuto giù un improvviso acquazzone. Una furia di vento e pioggia aveva oscurato in un istante cielo e terra, rendendo tutto fosco, desolato. I rami degli alberi piegati dal vento meridionale oscillavano violentemente, scoprendo un pezzo di cielo plumbeo. Feng Zicun sedeva alla finestra della capanna, gocce di pioggia portate dal vento bagnavano i libri sul tavolo. Teneva lo sguardo fisso in lontananza, al di là della spessa cortina di pioggia che cadeva dalla gronda. La processione che seguiva il funerale, portando alti stendardi bianchi, procedeva lentamente sullo sfondo degli alberi nella nebbia fitta: a guardarla da lontano, pareva un corteo di fiori che marciava nel bruno grano primaverile. La bara rosso scuro, lucidata dall’acqua, scivolava come un sampan sul fiume; a Feng Zicun parve di sentire l’odore scialbo e finto dei fiori di carta: smorto, cupo, privo di vita. All’estremità del suo campo visivo, l’ampio fiume serpeggiava verso oriente, giovani giunchi ondeggiavano nell’acqua, i caprifogli sulla riva sembravano sbiadirsi tristemente sotto la pioggia. Il giorno che Feng Zicun aveva visto la ragazza al fiume per la prima volta, era stato profondamente colpito dal suo frivolo e sensuale sorriso: come un frutto maturo sospeso in mezzo a un cespuglio aveva inesorabilmente catturato il suo sguardo. Gli sembrava d’averla già vista da qualche parte, anche se al momento non gli veniva in mente dove. Il languido sole di mezzogiorno aveva reso ancora più intensa la sensazione d’essersi già conosciuti: il tempo, seguendo una traiettoria inconsueta, vagava silenzioso, si rimescolava, confuso tornava al punto di partenza. Feng Zicun si era presto abituato a quella vita libera e solitaria, alle letture notturne accanto alla finestra, alle oziose riflessioni. Aveva speso quasi una vita intera prima di approdare a quest’eremitaggio che gli aveva dato pace. Eppure, un

pomeriggio come gli altri, l’inaspettata visione di quella donna aveva in un attimo polverizzato i suoi sogni, l’aveva turbato, sconvolto. Il tempo delle tenebre pareva aver tramato contro di lui: aveva aperto una piccola crepa in quella vita che egli riteneva perfetta, e se ne faceva beffe. La luce azzurrognola della luna silenziosamente si levava sul cimitero. Il monotono sgocciolio dell’acqua gli faceva ancora da sottofondo nella solenne, quieta contemplazione. Il cimitero era vicinissimo, separato dalla capanna solo da una fitta macchia di bambù. Mentre i versi delle tortore nel bosco formavano un coro uniforme, Feng Zicun si voltava e rivoltava nel letto: era difficile dormire da solo. In quella sera d’inizio di primavera non riusciva a ritrovare la composta, solitaria tranquillità dei giorni andati; anzi, gli parve di sentire che una cosa nuova, mai provata prima, gli crescesse segretamente nel cuore. A notte inoltrata, sentì qualcuno che lo chiamava per nome dall’altra sponda del fiume. Ebbe la sensazione di essersi improvvisamente diviso in due: uno era nella capanna immersa nella notte, ad attendere l’alba sul cuscino; l’altro, sotto il sole splendente del pomeriggio, era fermo all’ingresso del villaggio, la mente affollata di pensieri. Seguendo la voce, Feng Zicun uscì silenziosamente dalla capanna, attraversò l’umido bosco di bambù e, senza rendersene conto, si avviò verso il cimitero. La mattina dopo, quando Feng Zicun venne legato dagli abitanti del luogo e trascinato come una bestia verso l’ingresso del villaggio, il maestro, che in quel momento usciva dal recinto della latrina, vide i suoi piedi sanguinare copiosamente. “Me li sono graffiati coi chiodi della bara” gli disse Feng Zicun con un mesto sorriso. L’esecuzione di Feng Zicun cadde proprio nel giorno dei morti. Il maestro, approfittando del buio, andò a bruciare un mucchio di carta gialla sulla sua tomba. L’anno prima, in quello stesso giorno, aveva avuto la fortuna di trascorrere una notte indimenticabile nella capanna di Feng Zicun. La splendida interpretazione che costui aveva dato della Cetra intarsiata l’aveva riempito di profonda ammirazione: non aveva potuto fare a meno di concludere che non aveva mai capito questa poesia Tang, pur conoscendola a fondo. Il maestro, ossequioso, pendeva dalle labbra di Feng Zicun; nello stesso tempo, perplesso, gli aveva rivolto questa domanda: “Il signore è così erudito, perché non va a Chang’an a conquistarsi un titolo e farsi una posizione?”. Feng Zicun non aveva risposto subito, ma nel consueto modo metaforico gli aveva raccontato la storia che segue. Stordimento

Dopo un viaggio spossante durato più di un mese, nel giorno del solstizio d’estate Feng Zicun giunse finalmente alla stazione di posta settentrionale dell’antica città di Jiangning. Non ascoltò il consiglio della sorella di fermarsi per una sosta in quel luogo desolato, e la sera stessa, troppo impaziente per rimandare, entrò in città. La riva del fossato era deserta, antichi salici sparsi si levavano nel crepuscolo, il vento di ponente sollevava una nuvola di sabbia giallo pallido attraverso la merlatura diroccata del muro di cinta, corvi volavano bassi, di tanto in tanto lanciavano desolati richiami. Feng Zicun, sulla riva del fossato con il bagaglio in spalla, ovunque dirigesse lo sguardo non incontrava che desolazione. Non trovava una città animata, brulicante di carri e cavalli, né l’atmosfera solenne che aveva immaginato circondasse i candidati agli esami sulla soglia del successo. Eppure, la vista della città in declino non guastò l’ottima disposizione d’animo che da tempo aveva raggiunto: letterato che aveva a lungo vissuto in campagna, al solo pensiero che dopo dieci anni di intenso studio le aspirazioni che persino nei sogni l’assillavano stavano finalmente per realizzarsi, si sentiva battere forte il cuore. Non poteva trattenere la gioia: esse erano lì, davanti ai suoi occhi, fluttuavano nell’umida

aria di luglio, quasi le toccava con mano. Alla vigilia della partenza, su consiglio della sorella, si era fatto divinare la sorte da un ex-monaco taoista: la linea “i piedi del tripode si rompono, i cereali si rovesciano”5 sembrava un infausto presagio, e aveva gettato un’ombra oscura su questo viaggio alla capitale. La sorella era stata tutto il giorno in preda all’ansia, e pure il riverito maestro che l’aveva iniziato agli studi gli aveva suggerito di lasciar perdere, di rimandare all’anno venturo. Feng Zicun non gli aveva prestato ascolto, e con straordinaria saggezza aveva ammonito quel vecchio maestro che appariva ormai istupidito: “Ci andrò in barca, e i cattivi presagi spariranno”. Il maestro, perplesso, gli aveva chiesto che differenza vi fosse tra un carro e una barca, e Feng Zicun gli aveva dato una risposta stravagante: “La barca va sull’acqua, non ha piedi che si possano rompere”. Il maestro era rimasto a lungo in silenzio, e visto che il discepolo era ormai irremovibile, aveva annuito il proprio assenso. Come molti studiosi che vivono immersi nei libri, Feng Zicun aveva piena fiducia nei classici. A suo avviso, l’intera cultura di quell’antico paese era mirabile, perfetta: non solo guidava a una comprensione razionale della realtà, istruiva al principio della vita e della morte e rendeva consapevoli del proprio ruolo nella società, essa era anche in grado di salvare da pericoli e disastri. Feng Zicun aveva preparato in fretta un leggero bagaglio, si era recato sull’altra sponda del canale e, presa a nolo una barca, si era diretto verso nord. Il tedioso, interminabile viaggio gli aveva fatto lentamente perdere la cognizione del tempo; per questo, quando sul calar della sera era silenziosamente entrato in città, il paesaggio desolato che gli si era offerto alla vista gli sembrò un sogno, e non poté fare a meno di chiedersi se per una deviazione del corso del fiume non fosse in ritardo sulla data d’esame. Seguendo la sorella, si avvicinò lentamente al fiume Qinhuai. In confronto alla città, buia e desolata, gli ondeggianti riflessi delle lanterne sul fiume gli lasciarono un’impressione meravigliosa. L’aria era intrisa di un profumo di cipria che inebriava l’animo, il vento increspava la superficie dell’acqua, le luci fioche e le barche variopinte si distinguevano appena. Dopo aver camminato lungo la riva per circa due ore, nelle vicinanze di Yanziji deviarono per un angusto sentiero di montagna, giungendo ben presto davanti a un edificio i cui lati erano nascosti dagli alberi. Era un tempio taoista, silenzioso e austero. Come il maestro aveva consigliato, vi cercarono ospitalità. Venne ad aprirgli un novizio dall’aspetto di bambino: la lanterna in mano, scrutava i due ospiti notturni da uno spiraglio della porta, e un’espressione di disagio gli affiorò in viso. Il priore era in peregrinazione da mesi, disse il novizio, e non era ancora rientrato; il tempio al momento era privo di un superiore, non potevano ospitare nessuno. Feng Zicun, senza proferire parola, estrasse dal petto una lettera e gliela consegnò. Il novizio la prese, non la aprì neanche, rimase un poco pensieroso, infine spalancò il portone. Il tempio era situato sul versante meridionale del monte Zijin, in tutto simile ai templi e ai monasteri imperiali cui Feng Zicun era avvezzo, se non per il fatto che l’edificio, addossato alla parete della montagna, tra fitti boschi e ruscelli gorgoglianti, aveva un’aria fredda, tetra e solenne. Feng Zicun e la sorella furono alloggiati nell’ala sinistra del monastero, nelle stanze della Montagna della Nuvola Azzurra. Si trattava di una piccola costruzione appartata, con un cortile interno, sul cui lastricato sorgeva un vecchio pozzo in rovina; accanto si levava un maestoso albero di canfora, una parte della fitta chioma pendeva pesantemente verso il muro del cortile, il suolo sottostante era tappezzato di erba epatica e di escrementi di uccelli. In questo solitario ritiro montano, senza che se ne avvedessero, il tempo trascorse veloce. Ogni giorno alle prime luci dell’alba, quando i bengalini annunciavano il mattino, Feng Zicun, incurante della rugiada che gli ammantava le spalle, si immergeva nello studio e solo a notte inoltrata, quando la luna saliva sul muro orientale, chiudeva i libri contento. Solo una parete separava la sua stanza da quella della sorella; lei provvedeva ai suoi tre pasti quotidiani, e nei momenti liberi ricamava un poco. Di tanto in tanto

il novizio passava a trovarli e portava loro del tè e dell’incenso. La sorella aveva ventisei anni, ma la morte prematura dei genitori aveva rimandato il suo matrimonio a un indefinito futuro. Al pensiero che il proprio studio continuava a procrastinarlo, Feng Zicun non poteva fare a meno di provare una certa tristezza. La data dell’esame di giorno in giorno si avvicinava. All’inizio di agosto in montagna fiorì l’osmanto, il suo profumo si faceva sempre più intenso; a fare bene i conti, era già più di un mese che Feng Zicun alloggiava al tempio. In questo periodo aveva scritto come al solito versi e prose, studiando senza sosta; quindi, a parte qualche occasionale notte insonne, non accadde nulla degno d’essere raccontato. Quella sera, come sempre solo davanti alla finestra, leggeva La dottrina del mezzo6. L’aria era assai afosa, non si muoveva una foglia, le zanzare facevano strage. Feng Zicun contemplava il fiume Qinhuai sotto la montagna, sovrastato da una densa foschia: guardando in lontananza le barche variopinte che scivolavano sul fiume, gli giunse un vento fresco, un profumo di cipria lo colpì in pieno viso. D’un tratto una commozione lo colse, il cuore gli si gonfiò di tristezza. Questo scoramento svanì in un istante, ma lo fece perdere in vuote fantasie. Un intenso profumo di gelsomino si diffondeva dalla tazza di tè freddo posata sul tavolo che la sorella gli aveva appena portato. La sorella gli era parsa un po’ strana, aveva esitato a lasciare la stanza, quasi volesse dirgli qualcosa. Quando, confusa, era andata via, aveva dimenticato sul tavolo il suo ciondolo di giada, un piccolo gioiello a forma di pesca, con un nastrino rosso legato in cima. Feng Zicun lo prese, se lo rigirò con cautela tra le mani. Nebbiosi eventi passati riaffiorarono confusamente davanti ai suoi occhi. Nella seconda metà della notte cominciò a cadere una fine pioggia intermittente. Le gocce tamburellavano sul tappeto di foglie marce fuori della stanza; ben presto avvertì una folata di odore di terra. Disteso sul letto di bambù, sotto il ticchettio della pioggia, non riusciva in alcun modo a prendere sonno. Il volto sereno della sorella di tanto in tanto affiorava dal buio della notte piovosa; a volte diventava la madre, a volte si trasformava in un’altra donna. Da bambino, dopo la scuola, Feng Zicun era solito andare nella stanza da ricamo della sorella. Nei suoi ricordi talvolta la sua figura si confondeva con quella delle altre ricamatrici, sorridenti, eleganti, con indosso un odore di broccato e di seta. Le lucide sete sembravano possedere una vita propria, ogni volta che le accarezzava leggermente il cuore prendeva a palpitargli senza sosta. L’atmosfera malinconica della stanza da ricamo gli era rimasta impressa, pareva un fiore in boccio: tante volte aveva sognato di trasformarsi in un minuscolo scarabeo, e di insinuarsi nelle sue profondità. Quando smise di piovere Feng Zicun si alzò dal letto e intontito uscì alla luce della luna. Vide che nella stanza della sorella la lampada era ancora accesa, come avvolta in una fine peluria dalla nebbia che si levava; sulla carta rossa della finestra era riflessa la sua sagoma nera. Prese il ciondolo di giada, freddo e liscio, e silenziosamente le si avvicinò. La sorella, il telaio appoggiato sulle ginocchia, la testa reclinata contro la finestra, pareva immersa in un sonno profondo. Non la svegliò, ma in punta di piedi andò a sedersi accanto a lei, e rimase a guardarla in silenzio. Si ricordò di un anno, in autunno, quando l’aveva portato nel campo dietro il villaggio a raccogliere il cotone. Nella vasta distesa regnava il silenzio, nuvole bianche sovrastavano dense le chiome degli alberi ombrosi, alberi e case sembravano morti. Aveva girato per il campo senza riuscire a scorgere la sorella; dappertutto era un’esplosione di capsule bianche, la triste luce solare che vi si riversava dall’alto lo soffocava. Si sentì abbandonato a se stesso, divorato dall’ansia; infine, appoggiatosi tutto solo al tronco di un albero, era scoppiato in un pianto sommesso... Dopo la pioggia l’aria pian piano si rinfrescò. Poi, si sentì avvolgere da un sonno pesante. Ben presto albeggiò. Gli esami provinciali si tenevano ogni tre anni all’accademia Wenchang, sulla riva

del lago Xuanwu. Dopo una serie di complicati rituali e procedure, Feng Zicun, seguendo alcuni ispettori d’esame, entrò in aula. La sala buia e angusta era stipata di candidati provenienti da tutte le città e i villaggi della provincia, tra cui anche dei xiucai7 che erano stati ripetutamente bocciati. In confronto agli studenti più giovani, entusiasti e sicuri del proprio successo, questi avevano per lo più un aspetto abbattuto, triste, un’aria sfiduciata perfettamente in tono con l’atmosfera rigida e il silenzio di tomba che regnava nella sala. Era il mese di agosto, nel pieno dell’estate, l’aria era umida, soffocante, fuori le cicale debolmente frinivano; il vento caldo che aderendo alla superficie del lago entrava dalla finestra induceva a un’irresistibile sonno. Nell’aula non si sentiva volare una mosca, l’aria era intrisa di un debole puzzo di sudore. Durante la lunga, tediosa attesa, Feng Zicun sembrava avere la mente altrove: la solennità dell’aula d’esame non gli comunicava affatto l’ansiosa eccitazione che si era immaginato; al contrario, tutto gli appariva piatto, arido, privo di ogni attrattiva. Si sentì nascere in cuore un sentimento inspiegabile, come se i dieci anni di duro studio al freddo della finestra gli si rivelassero ora un assurdo errore... Dopo poco più di un’ora, in un fruscio di voltare di fogli, Feng Zicun ricevette finalmente il titolo del componimento e la carta per scrivere. Sotto ogni punto di vista un titolo come “La cetra intarsiata” appariva del tutto fuori luogo. A parte la mediocre ottava di Li Shangyin che ben conosceva, non gli veniva in mente nessun altro personaggio o evento storico che gli si potesse ricollegare. Qualche giorno prima, in una casa da tè sul Qinhuai, Feng Zicun si era imbattuto in alcuni studenti dell’Accademia Imperiale giunti con qualche giorno di anticipo sulla data degli esami. I discorsi prolissi e boriosi di quegli intellettuali così bene informati sugli avvenimenti d’attualità avevano attirato la sua attenzione: correva il quattordicesimo anno dell’era Wanli8, il ministro di Stato Zhang Juzheng aveva assunto il controllo della corte e del paese, tutto il potere era nelle sue mani9; Qi Jiguang, nominato comandante della flotta navale, aveva respinto con successo i ripetuti attacchi dei pirati giapponesi lungo le coste sud-orientali; grazie al vento propizio e alle piogge abbondanti, la produzione di cereali in tutte le province del sud era notevolmente aumentata; Hai Rui, il rigoroso amministratore della legge, era stato riabilitato; si stavano sperimentando nuovi programmi politici e nuove regole cerimoniali; la riforma del sistema fiscale aveva messo il popolo nelle condizioni di rafforzarsi e moltiplicarsi. Da questi discorsi gli era parso di intuire che i segni di prosperità emersi nell’antico impero avrebbero in qualche modo determinato le coordinate generali dell’esame che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno. Ma che scherzo era quel titolo, “La cetra intarsiata”? Secondo quanto gli aveva insegnato il maestro, gli esami provinciali vertevano sempre su temi morali come le relazioni umane e i princìpi celesti, le tre guide cardinali e le cinque virtù costanti. Poesie e composizioni in rima non venivano toccate quasi mai; inoltre, qualora pure si fosse trattato di poesia, sarebbero stati scelti dei versi dallo Shijing, o dei fu di epoca Han, o i sublimi Li Bo e Du Fu dei Tang10. Che diamine c’entrava Li Shangyin? Era proprio vero che, come aveva deplorato il maestro, nei circoli accademici non c’era più scienza degna di questo nome. Oppure, come aveva detto una prostituta del Qinhuai, l’epoca degli intellettuali, ormai, era bella che tramontata. Se solo pensava al seducente sorriso di quella prostituta si sentiva scosso, turbato, perdeva il controllo. Non ricordava più come fosse giunto al Qinhuai, ma i suoi ampi, sodi fianchi ondeggianti e il suo sguardo giocoso ancora gli riempivano gli occhi. Camminava dietro di lei sulla banchina del fiume, diretto verso una barca di piacere. L’inebriante aroma di belletto lo stordì. Gli parve che tutto il fiume fosse impregnato di profumo. Il cuore gli batteva all’impazzata, quanto più cercava di dominarsi, tanto più profonda l’ebbrezza gli penetrava nella carne, gli si versava nel sangue. Nella barca umida e scura si mise a sedere su una stuoia fredda; nell’allungare la mano verso una tazza di tè che la donna gli porgeva, per la troppa eccitazione, il braccio prese a tremargli senza controllo. La donna sorrise felice, poi, come nuvole di cenere, una dopo l’altra le vesti le caddero in

terra. Questo effimero pomeriggio gli procurò sentimenti ed emozioni contrastanti. L’acqua della gioia gli lavò il corpo, ma in un istante scorse via, inafferrabile. Verso sera, seduto con la donna sulla prua della barca, in silenzio di fronte al fitto groviglio di tettoie e alberi sul fiume, fissando le libellule che in fila volteggiavano nel crepuscolo, fu colto da un’ineffabile malinconia. Estrasse allora dal petto un piccolo gioiello di giada e glielo porse. Era un ciondolo a forma di pesca, tondo e setoso, con un nastrino scarlatto legato in cima; apparteneva alla sorella: una sera afosa che era passata a portargli il tè, l’aveva dimenticato sulla sua scrivania. Gli venne in mente che poco prima, sulla barca, nell’istante in cui l’ansito della donna gli aveva inondato l’orecchio, aveva continuato a stringere in mano questo ciondolo, accarezzandolo dolcemente con l’indice. Gelido come un pezzo di seta, nascondeva rari segreti. Gli comparvero davanti agli occhi i tratti adirati della sorella, il volto rigato di lacrime, il respiro affannoso: com’è che più studi e più diventi stupido... Quella sera, quando era tornato al tempio, la sorella stava nel cortile a fare il bagno: la porta era chiusa, dall’interno si diffondeva un suono d’acqua. Era rimasto un poco fuori della porta, poi era andato via deluso, smarrito. Feng Zicun guardava intontito dalla finestra. Un giovane servo gli portò una tazza di tè al crisantemo. Nell’aula d’esame regnava il silenzio, i fogli frusciavano lievemente, su tutto aleggiava l’odore d’inchiostro. Aveva la testa vuota, come se il cervello gli fosse stato pezzo per pezzo mangiato dai vermi. Gli parve di trovarsi in una caverna dall'insondabile profondità, nel buio completo, senza poter scorgere un solo filo di luce, proprio come quando, da piccolo, la sorella lo rinchiudeva in un magazzino scuro. Continuava a sfogliare I dialoghi, e distrattamente a sbirciare fuori della finestra: sul fiume galleggiavano fiori di sofora, le chiome degli alberi erano inondate di sole. Vide la sorella che, in piedi su una scala, coglieva l’uva dalla gronda del portico. Quando ormai l’esame stava per volgere al termine, il foglio davanti a Feng Zicun era ancora bianco. Con l’animo altrove prese il pennello e scrisse due versi. Erano il distico finale di La cetra intarsiata di Li Shangyin: Questo sentimento poteva diventare un ricordo, Ma fin d’allora ero smarrito. Tre giorni dopo, quando dall’accademia Wenchang ritornò alla residenza della Montagna della Nuvola Azzurra, trovò la sorella che lo attendeva da tempo fuori della porta, sotto la gronda. Vedendo l’aria abbattuta del fratello, questa avvertì una violenta stretta al cuore. Era una donna che credeva nel volere del cielo: l’infausta profezia del monaco taoista alla vigilia del viaggio l’aveva messa in ansia, e senza curarsi della ferma opposizione del maestro e del fratello, si era travestita da uomo e l’aveva accompagnato a Jiangning. Nel mese e più trascorso al tempio aveva passato notti insonni, s’era sentita continuamente angustiata; benché stesse sempre in guardia, e malgrado la sua prudenza, in quel remoto tempio montano erano comparsi dei funesti presagi. Una sera, destata da un tuono, aveva sorpreso il fratello a dormire nella sua stanza; dopodiché, all’improvviso, aveva perso il ciondolo di giada che portava sempre con sé: era un amuleto a forma di pesca che la madre le aveva lasciato, tante volte l’aveva contemplato e pregato in silenzio, nella speranza che tenesse lontani i pericoli, che trasformasse la cattiva sorte in fortuna. Nei giorni precedenti all’esame, le era sembrato che al fratello brillassero gli occhi, come se nascondesse un imbarazzante segreto. Stava tutto il giorno imbambolato davanti alla finestra, ripassava i classici svogliato, scuro in volto, non toccava cibo. Eppure, questo viaggio non era andato troppo male: benché sul viso sconvolto del fratello avesse subito letto il risultato dell’esame, dopotutto non si era verificata la terribile disgrazia che il monaco taoista aveva profetizzato. Quella sera, fratello e sorella sedevano a prendere il fresco sotto l’albero di canfora nel cortile, in silenzio l’uno di fronte all’altra, senza scambiarsi una

sola parola. La sorella aveva già fatto i bagagli ed era andata a ringraziare il superiore e il novizio, preparandosi a lasciare Jiangning in barca l’indomani mattina presto per tornare al paese. La saggia donna non si era data troppa pena di confortare il fratello, nel timore che le sue parole aggravassero il suo avvilimento. A mezzanotte, la luna alta nel cielo, gli raccontò una strana storia che aveva sentito dalla bocca di un mercante di tè vicino al fiume Qinhuai. Feng Zicun chiuse gli occhi. Malgrado il caldo insopportabile, continuava a sentire freddo in tutto il corpo. Mentre la sorella gli raccontava la storia, era assorto in altre considerazioni. La luna, abbarbicata sulla cima dell’albero, emanava un chiarore azzurro. Il suo sguardo oltrepassò i cespugli e la merlatura del muro sotto la montagna, posandosi sui riflessi rosso scuro delle onde del Qinhuai. Sospiri del vento fra i pini, profumo di osmanto nell’aria. Feng Zicun a un tratto sentì che era già fuori dal tempo. Anche la sorella quel giorno sembrava sfinita; giunta a metà della storia, sprofondò nel regno dei sogni. La mattina dopo, al risveglio, scoprì che il fratello si era impiccato al maestoso albero di canfora lì accanto. La storia del mercante di tè

Feng Zicun si risvegliò stordito nel suo letto d’ammalato che era circa mezzanotte. Il tempo avanzava lento, come una molla troppo allungata ormai priva di elasticità. La luce fredda della luna illuminava un angolo della finestra, il cortile era deserto, ombre grigiastre di muri si sovrapponevano sul margine del bosco come uno stormo di piccioni neri fermi a riposare nella buia cortina della notte. Era maggio, tarda primavera. Se non erano sorti imprevisti, i carri inviati nel Jiangnan avevano caricato il tè e avevano raggiunto la zona di Tongzhou e Wanqing. In poco più di un mese, il tè sarebbe stato regolarmente trasportato alla capitale Chang’an, poi, attraverso l’antico corridoio di Hexi, i Monti Occidentali e il Qinchuan, sarebbe stato esportato in Persia, nel Rarestan, in India. In genere, le carovane rientravano nella capitale verso la fine dell’autunno, portandogli rotoli e rotoli di tappeti persiani, malachite dal Rarestan, collane dalla Turchia, coppe d’oro dall’India. A questo pensiero sentì che il suo corpo si era per un momento distaccato dal letto, aveva lasciato la silenziosa, imponente residenza di Chang’an, viaggiava sulle strade che conducevano alle regioni occidentali. Feng Zicun aveva trascorso tutta la vita in viaggio. Quelle strade buie gli erano familiari come le sottili linee della sua mano: nel Jiangnan, in primavera, a marzo, la pioggia cadeva incessante, riducendo le vie a pantani di fango; l’antico alveo del fiume Huangshui, ai piedi del monte Qilian, era invece un immenso deserto dove i lupi compivano feroci scorribande. Avvertì di nuovo l’aroma aspro delle foglie di tè. In un certo senso, quello era l’unico odore che conosceva: trasudava da ogni angolo della casa, giungeva da fuori le mura di Suzhou dove volteggiavano api e farfalle, dai luoghi più remoti del Gobi dove la sabbia risuonava nel vento. Amava l’odore che seguiva da lontano i solchi dei carri, si propagava in tutte le direzioni, gli portava ricchezze, onori, tranquillità quotidiana. Disteso nel suo morbido letto, tra i tormenti della malattia, non riusciva a prendere sonno. Sapeva che non gli restava che attendere l’alba, quando il medico sarebbe comparso alla finestra, si sarebbe avvicinato al suo capezzale e gli avrebbe somministrato l'analgesico di semi di papavero tritati. Non ricordava più quand’era cominciata la sua disgrazia. Forse in quell’estate di vent’anni prima un funesto presagio gli si era silenziosamente rivelato: una sera aveva pernottato in una stalla nei pressi di Guoluo, e la mattina al risveglio si era ritrovato con il viso imbrattato di letame. L’uomo non può prevedere l’improvviso voltafaccia della sorte. Per quanto sia preparato, che abbia il rango di imperatore o sia povero come

un mendicante, comunque la sfortuna lo coglierà di sorpresa, come una piattola gli si attaccherà addosso, nulla riuscirà a scrollarla via. L’anno prima, il ventiquattro dicembre, l’attività cui Feng Zicun aveva votato tutta la vita era stata insignita del più alto degli onori. Quella mattina stava come sempre da solo nello studio a esaminare i conti di fine anno. Negli ultimi decenni, nella capitale Chang’an aveva aperto venti tessitorie, tredici negozi di stoffe, due farmacie e un’agenzia di prestiti su pegno; alla fine dell’anno, una marea di doppi registri giungeva inarrestabile sulla sua scrivania. A mezzogiorno, la settima moglie era entrata nello studio senza bussare, facendolo trasalire dallo spavento; agitata, gli aveva detto che un servitore le aveva appena riferito che un corteo imperiale galoppava verso casa loro e già aveva varcato la porta posteriore che dava a occidente. Feng Zicun nell’udire queste parole era stato percorso da un brivido: come mai il corteo imperiale veniva a casa sua? L’imperatore aveva forse scoperto i suoi brogli sulle tasse? Senza il tempo di riflettere, col cuore carico d’angoscia aveva infilato un tortuoso corridoio dietro l’altro e, sconvolto, era uscito fuori. Aveva eseguito il cerimoniale in preda al terrore: si era scosso giù le maniche e si era inginocchiato a ricevere gli ordini imperiali. Per la troppa agitazione non aveva capito neanche una parola; in un brusio di voci festose, qualcuno gli disse che Sua Maestà l’imperatore lo invitava a corte la sera seguente per assistere a uno spettacolo. Restò a lungo carponi: finché il corteo imperiale non scomparve nella fitta tormenta di neve, rimase come di rito inginocchiato davanti all’ingresso. Al pensiero che il mendicante che un tempo aveva vagato ramingo stava ora per essere accolto a palazzo imperiale, la sua irrefrenabile gioia si tramutò in tristezza: come in sogno, quando i servi lo avevano sollevato da terra, aveva il volto rigato di lacrime. La neve continuava a cadere, il vento del nord che sibilava basso lungo la gronda sferzava i secchi rami degli alberi; nella stanza rosseggiava la stufa, emanando un piacevole tepore. Feng Zicun stava impalato davanti all’ingresso, completamente smarrito. La moglie, con sguardo amorevole, gli si avvicinò in silenzio. L’insolito profumo che il suo corpo sprigionava gli diede una scossa: gli venne in mente che negli ultimi tempi, tutto preso a controllare i conti, non era più andato nella sua camera. Quando in modo rude e precipitoso la trascinò nella stanza da letto, questa donna seducente, avvampata in volto, già ansimava flebilmente. Conosceva a fondo la natura del marito, sapeva come al sopraggiungere del piacere egli condivideva la gioia con lei. Ma mentre ella preferiva rimandare alla notte il meraviglioso momento per goderne lentamente, il marito era frettoloso, maldestro come un bambino, rozzo, senza modi. Feng Zicun naturalmente non sapeva che quella era l’ultima volta che provava i piaceri del letto. Nel pomeriggio, quando si era alzato, si era sentito girare un poco la testa. Dopo cena, ebbe un attacco di nausea e vomitò, ma questa leggera indisposizione non lo mise in allarme: come al solito fece una mano a majang con la moglie, poi si recò nella stanza dell’amministratore per discutere dei regali da portare all’imperatore l’indomani. In piena notte, all’improvviso, gli era salita la febbre; poco dopo si era sentito scoppiare la testa, cielo e terra gli giravano tutt’intorno. Questo lo aveva messo in ansia: se l’indomani la febbre non fosse scesa, non sarebbe stato decoroso andare a corte col raffreddore. Alla luce fioca della lampada, vide l’amministratore, la moglie e i servi accanto al letto che lo fissavano. La moglie era preoccupatissima, il terrore scolpito in volto. Verso la fine della notte, quando si era risvegliato dall’incoscienza del sogno, Feng Zicun vide che nel cortile fuori della finestra il cocchiere imbrigliava i cavalli: la luce della lanterna illuminava i fiocchi di neve che volteggiavano nell’aria tra gli alberi radi, i cavalli nitrivano, scalpitando sulla neve gelata. Forse andava in città a chiamare il dottore; Feng Zicun percepiva che la sua malattia non era cosa da poco. Il cocchiere, sulle spalle una mantellina di paglia, balzò sul carro e agitò le briglie; il carro, sgretolando il ghiaccio, scricchiolò via dal cortile.

Feng Zicun non sapeva se stava sognando. Gli sembrava di aver vissuto questa scena già altre volte. Il passato gli affiorò alla mente. Non riusciva a distinguere il volto della moglie, velato dalla luce della lampada come da una zanzariera. Stava disteso nel letto, incosciente. Avvertiva appena il misterioso alternarsi del giorno e della notte, sentiva quelli che venivano a fargli visita sfilando davanti al suo letto come cavalli in una giostra, li udiva sussurrare qualcosa, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Tuttavia di un fatto aveva chiara coscienza: per quella casuale malattia, aveva perso l’udienza da Sua Maestà l’imperatore. Finalmente fu giorno. Quando gli intensi, caldi raggi del sole illuminarono il letto, sollevato emise un lungo sospiro: ancora una volta libero dal giogo della notte, ritornava alla realtà. Tanto anelava il sopraggiungere del sole, il suo gradevole tepore, il suo vigoroso sostegno. Nei giorni in cui fu costretto a letto dalla malattia, sul far del mattino i numerosi figli si erano avvicendati al suo capezzale, eseguendo un rito che gli pareva del tutto superfluo. Tenevano le labbra serrate, stando attenti a trattenere il respiro, come se tutti gli oggetti in quella stanza buia stessero marcendo, emanando un puzzo nauseabondo. Sapeva che dopo quel vuoto rituale il figlio maggiore sarebbe andato come al solito a caccia nei boschi montani a nord della città, mentre la seconda figlia si sarebbe imbrattata il viso di uno spesso strato di trucco e avrebbe continuato a sprecare le sue giornate nei teatri della capitale. C’era poi il settimo figlio, veniva sempre per ultimo e se ne andava sempre per primo, la fretta con cui entrava e usciva faceva pensare che avesse distrattamente sbagliato stanza. Tutte queste persone rimanevano immobili come statue ai piedi del letto, senza neanche sforzarsi di pronunciare un saluto: la loro visita non era che una costrizione imposta dai riti stantii di quell’antico paese, una mera abitudine: lo fissavano con vacuo sgomento, muti, ognuno assorto nei propri pensieri. Con il passare del tempo, anche questa parvenza degenerò. Sempre meno persone venivano a visitarlo dopo mangiato, nel giro di un mese il loro numero si era dimezzato, alla fine era rimasta solo la sua bambina prediletta. Quella mattina, tuttavia, la sua figura fece solo una breve apparizione sotto alla finestra, gli disse qualche parola attraverso la tenda, e senza entrare nella stanza si dileguò. Passato mezzogiorno, il medico entrò nella stanza, seguito dalla moglie. Mentre quello si avvicinava al letto per sentirgli il polso, lei aprì le spesse tende per far entrare il vento fresco, poi andò a sedersi su uno sgabello accanto al tavolo e prese a guardarlo in silenzio. Nei suoi occhi Feng Zicun non riusciva a scorgere alcuna traccia di sentimenti: non esprimevano dolore, né d’altra parte vi trapelava gioia - a meno che non sapesse celare bene la gioia che magari provava. Come al solito, appoggiata al tavolo, lentamente si puliva le unghie. Il medico gli sentì il polso, gli rivoltò una palpebra per esaminarla, gli diede qualche colpo sul petto e poi, assumendo un aria compita, per l’ennesima volta scrollò il capo. Perché diamine scrollava il capo? Feng Zicun aveva detestato quel medico fin dal giorno in cui aveva messo piede nella stanza. Dietro le sue parole prudenti, fredde, sempre ben misurate, si celava un viscido sadismo. Di certo aveva un secondo fine, la sua compassione era finta, puro autocompiacimento; non faceva che scrollare la testa, sospirare, come se si trovasse davanti un astruso rompicapo. Il medico distese un foglio sul tavolo, inumidì con la lingua la punta del pennello e, sussurrando qualcosa alla moglie, gli prescrisse la medicina. Feng Zicun non poté in alcun modo sentire le sue parole, ma riuscì tuttavia a intuire qualcosa dalla loro espressione. La moglie era rossa in volto, il sorriso sino ad allora represso le riaffiorò sulle labbra. Quel rossore era dovuto al fatto che le parole del medico l’avevano messa in imbarazzo, o era il riflesso scarlatto della tenda? Dopo avergli prescritto la medicina, il dottore uscì dalla stanza. La moglie si avvicinò al letto a rimboccargli le coperte, poi uscì anche lei. Sembrava un po’ assente, come assorbita da altre preoccupazioni, che al momento di varcare la soglia la fecero pesantemente inciampare. Una volta che la figura della moglie scompariva nei raggi del sole fuori della porta, Feng Zicun era condannato a riaffrontare da solo l’insopportabile silenzio

del tempo. Il vento di maggio impregnato di resina gli soffiava in faccia. Nelle lontane pianure del Jiangnan i fiori dell’albicocco cominciavano a cadere, l’aria odorava di pioggia; al confine nord-occidentale, sulle rive dello Huangshui, ancora ghiacciato, cadeva la neve primaverile. Le strade buie custodite nella memoria emergevano una a una davanti ai suoi occhi: gli parve di vedere ancora una volta i cavalli lanciarsi al galoppo, sfiorare granai e cumuli di fieno, passare tra le cupole dorate delle moschee e dei templi lamaisti, scomparire dietro una folla di pellegrini. Infine, vide preziosi tesori scorrere inarrestabili come un flusso d’acqua, sommergerlo fin sopra la testa, premere su di lui fino a farlo soffocare. Su un comodino al capezzale del letto stava appoggiato un burattino di legno che gli era stato venduto da un commerciante nepalese; al monotono rumore meccanico della molla, il burattino girava la testa piatta, di tanto in tanto spalancava la bocca e gli sorrideva. Accanto c’era un vaso con un mazzo di pratoline che da tempo non erano state cambiate: i fiori avvizziti, prosciugati della loro umidità, sprigionavano un odore come di polvere. Verso mezzogiorno, sentì la risata della moglie propagarsi verso di lui dalla sala accanto, scuotere il mortale silenzio della stanza, rimbombare nella muta luce del sole. Debolmente sollevò un braccio e, tastando sotto il cuscino, tirò fuori un libro. Era una raccolta di poesie in edizione economica11, vi aveva letto e riletto la famosa La cetra intarsiata, e ogni volta non aveva saputo trattenere le lacrime: composta da Li Shangyin all’età di cinquant’anni, questa poesia dall’atmosfera desolata, il tono affranto, sembrava in ogni sua parola essere stata scritta apposta per lui. Benché la sua erudizione non bastasse a interpretarne il complesso significato, aveva la sensazione che essa racchiudesse tutti i segreti dell’universo. Gli sembrava che lui e Li Shangyin fossero uguali: intrappolati nel rigido schema del tempo, senza un modo per tirarsene fuori. Forse non gli restava che ritirarsi in solitudine nella stanza della musica, e rievocare il passato. Per caso la cetra intarsiata ha cinquanta corde Perché mai avrà detto “per caso”? Dopo chissà quanto tempo, la sagoma di una serva comparve nella stanza. Teneva in mano uno straccio, e mentre spolverava i mobili, continuava a guardare fuori della finestra. “Che stai guardando?” le chiese Feng Zicun. “Un carro, signore”. “Cos’è questo rumore qui fuori?”. “Stanno scaricando qualcosa” rispose la serva lanciandogli un’occhiata. Feng Zicun udì il rumore degli zoccoli che affondavano nel fango. Di tanto in tanto davanti alla finestra passavano rapide le ombre grigie dei servi, furtivi come a volergli nascondere qualcosa. Gli alberi risuonavano al vento della sera, che muovendo la tenda recava odore di vernice. Feng Zicun fu colto dal panico. “Va’ a vedere cos’hanno portato” disse alla serva. La serva annuì, posò lo straccio, e scostando la tenda uscì. Un momento dopo tornò nella stanza e lo guardò esitante. “Sono già tornati con il tè?”. “No” la serva rispose. “È una bara”. Che stava succedendo? Feng Zicun si sentì sprofondare, non osava credere a quelle parole. Possibile che stavolta io sia davvero spacciato, pensò, e lacrime roventi gli sgorgarono dagli occhi. Nulla poteva più essere cambiato: il tempo, scorrendo veloce, avanzava per conto proprio, lo distanziava, si sbarazzava di lui. Adesso doveva riflettere bene su questa faccenda della morte. Aveva l’impressione che tutta la vita non fosse che una silenziosa preparazione al sopraggiungere di questo momento: con l’arrivo della morte, tutto il passato sarebbe stato rimosso d’un colpo. Le speranze si realizzano sempre troppo tardi, l’attesa imbianca i capelli; la sfortuna, invece, è ostinata,

violenta, colpisce a tradimento. Dal momento in cui la malattia l’aveva costretto a letto, un tremendo destino, seguendo regole proprie, aveva sistematicamente polverizzato i suoi sogni, lo aveva instancabilmente attaccato nel corpo e nello spirito, non gli aveva dato un attimo di tregua, infine lo aveva ridotto a uno scheletro, il suo respiro a un flebile lamento. Infido, astuto, crudele, estremamente paziente, aveva predisposto in anticipo l’intera sequenza. Feng Zicun con rabbia pensò che tutto il corso degli eventi sembrava un’opera teatrale provata nei minimi particolari, architettata con cura, compatta, inattaccabile: 1. L’anno scorso, ventiquattro dicembre. Una delegazione imperiale a cavallo, affrontando una fitta tormenta di neve, giunge a casa di Feng, recandogli la notizia che Sua Maestà l’imperatore lo invita a corte. Per la troppa eccitazione si mette a piangere, nello stesso tempo prova un vago senso di oppressione, di tristezza: secondo la sua esperienza, dietro un’immensa gioia si nasconde sempre un potenziale pericolo. 2. Nella camera della moglie, i meravigliosi piaceri del letto gli fanno momentaneamente accantonare il cattivo presentimento. 3. Quando nel pomeriggio si alza non si sente molto bene. Vale a dire che ha il naso chiuso e ogni tanto starnutisce, nessun problema serio. 4. Vomita. Fa qualche mano a majang con la moglie, poi va nella stanza dell’amministratore per discutere le questioni concernenti la visita a corte dell’indomani. Il cattivo presentimento riemerge, ma subito svanisce. 5. Il giorno dopo, poco prima dell’alba, il dottore fa la sua comparsa nella stanza. Questo stupido ciarlatano gli assicura: andrà tutto benissimo, la febbre scenderà prima di mezzogiorno, al più tardi entro sera. 6. Feng Zicun in uno stato di semi-incoscienza perde la visita a corte. 7. Gli viene diagnosticata la febbre tifoide. Feng Zicun non può che rassegnarsi e sperare che il suo corpo malato si rimetta entro i primi di marzo, in modo da poter andare almeno un’altra volta a sud con la carovana. 8. Metà aprile. Feng Zicun propone di cambiare medico, evidentemente ha perso la pazienza, per la prima volta ha la sensazione che le cose non si mettano bene, forse che… 9. Il cattivo presentimento si impadronisce di lui. Ha paura, ma ancora spera in un rivolgimento della sorte. 10. Un’ora fa. Sente i cavalli arrivare al galoppo nel cortile. Pensa che forse la carovana mandata nel Jiangnan sia tornata in anticipo alla capitale, ma la serva gli dice che il carro ha portato una bara. Il presentimento si avverava. Solo che lui non si era ancora abbastanza preparato: schiacciò il viso contro il muro gelato, e di fronte al burattino che cigolava accanto al letto, come un bambino prese a mormorare tra sé: “Non lasciarmi morire. Fammi ritornare il mendicante di un tempo, trasformami in un cane randagio che elemosina per strada”. Più di due settimane dopo, al crepuscolo, Feng Zicun si risvegliò dal coma. Non sapeva che la sua vita era ormai giunta alla fine. Eccitato, chiamò a sé la moglie e prese a raccontarle lo strano sogno che aveva appena fatto. Morì senza fare in tempo a finire il racconto del sogno. Il sogno nel sogno

La notte in cui Wu il Ladrone, re di Chu occidentale, conduceva sotto le stelle e la luna centomila soldati contro Canghai, Feng Zicun stava nel padiglione del Prezioso Ricamo nei quartieri femminili del palazzo, disteso a dormire. Urgenti richieste d’aiuto custodite sul petto da messaggeri a cavallo giungevano senza sosta al palazzo imperiale, ma venivano tutte bloccate dalle guardie fuori del portone. Il generale Li Er, di guarnigione nella zona dell’Yishui, alla testa di una schiera di soldati superò un ostacolo dopo l’altro, a rischio della propria vita entrò nel palazzo e fece rullare i tamburi d’allarme.

Il caotico frastuono di passi e i concitati rulli di tamburo destarono infine Feng Zicun dal sogno. La prima frase che pronunciò al suo risveglio la rivolse a un’attrice che gli teneva compagnia: “Cos’è, piove di nuovo?”. Quando fu giorno, nel trambusto generale, finalmente fece il punto della situazione: Wu il Ladrone durante la notte aveva varcato il confine, e si era spinto all’interno del paese; l’avanguardia aveva raggiunto ora le rive dell’Yishui, aveva già conquistato la postazione del monte Shouyang. Feng Zicun governava il paese da più di trent’anni, e nei momenti critici non perdeva la calma; il suo carattere tranquillo e sereno aveva impercettibilmente contagiato i cortigiani e le guardie dei quartieri interni del palazzo. Di fronte ai funzionari civili e militari inginocchiati in fila davanti al padiglione del Prezioso Ricamo, il primo ordine che Feng Zicun impartì fu la condanna a morte lenta, per smembramento, di quel generale Li Er dal temperamento impulsivo. Il generale Li Er era un uomo retto, un valente condottiero che si era più volte distinto in battaglia, ma nei momenti cruciali non si sapeva controllare. Incurante dello sbarramento delle guardie imperiali, a notte fonda aveva fatto irruzione a palazzo, aveva fatto rullare i tamburi; sconsiderato come un bambino si era messo a urlare e strepitare davanti al padiglione del Prezioso Ricamo, per poco non gli aveva fatto venire un colpo. Nei recessi del palazzo regnava una quiete mortale. I ministri civili e militari, ancora scossi per il terrore, come mosche impazzite fuggivano da ogni parte. Nel suo ruolo di sovrano di stato Feng Zicun, invece, non mostrò troppa paura. Prima di lasciare il padiglione del Prezioso Ricamo, come sempre non dimenticò di dar da mangiare ai suoi amati pappagalli. Dopodiché, con tutta calma, se ne andò nella sala della Rugiada Preziosa a fare un bagno caldo, e poi al Tempio degli Antenati a bruciare l’incenso in onore degli avi. Il tumulto causato dall’esercito nemico che avanzava non gli aveva provocato mutamenti nel sereno stato d’animo, tranquillo come uno specchio d’acqua. Verso mezzogiorno, quando comparve fuori del palazzo bardato con abiti militari, i ministri, che lo attendevano da tempo, vedendo com’era vestito non poterono trattenere lo stupore: possibile che Sua Maestà volesse condurre personalmente la spedizione? I comandanti dei tre eserciti si inchinarono uno dopo l’altro, ammonendolo con le più varie argomentazioni, alcuni vecchi ministri si misero persino a piangere. Questa scena rese Feng Zicun molto scontento. Confutò punto per punto le accorate ammonizioni dei ministri, citando gli antichi esempi dei tanti sovrani delle precedenti dinastie che si erano personalmente recati in battaglia; poi balzò in sella, ansioso di partire. Feng Zicun conduceva più di diecimila soldati. Tra squilli di tromba e rulli di tamburo uscirono maestosi dalla città interna, e costeggiando il versante meridionale del monte Shouyang si diressero rapidi verso occidente. Feng Zicun aveva una sua idea su questa spedizione. Lo stato di Chu occidentale era vicinissimo, negli ultimi due anni aveva più volte violato i confini di Canghai. La loro terra era sterile, i prodotti scarsi: giunto l’inverno, i campi desolati si coprivano di morti per la fame. Ecco perché Wu il Ladrone aveva più volte attaccato Canghai, solo per procurarsi provviste e abiti per superare l’inverno. Tenendo conto di ciò, anche quest’ultimo episodio probabilmente non faceva eccezione. Feng Zicun fin dal primo momento aveva elaborato un piano: voleva recarsi personalmente al fronte per appurare i fatti, sentire cosa avessero da dire quei maledetti briganti e cercare di trovare un accordo. L’ampio corso del fiume serpeggiava verso oriente, la superficie dell’acqua era sferzata da folate di vento freddo, l’aria gelida lo colpiva dritto in faccia. I due eserciti si fronteggiavano dalle opposte rive del fiume, entrambi con gli archi in posizione di tiro. Tra centinaia di soldati, Feng Zicun stava sul ciglio dell’acqua. La gelida aria del fiume gli fece venire i brividi. Un concitato rullo di tamburi si levò improvviso dai ranghi di Wu il Ladrone. Il comandante supremo frustando il cavallo si portò in prima fila e, piegatosi in un inchino, prese la parola. Pronunciò il suo discorso in un curioso dialetto del nord, rozzo e volgare; a sentirlo veniva il voltastomaco. Solo grazie all’intervento dell’interprete Feng Zicun ne comprese per sommi capi il contenuto.

Il comandante disse: “Il nostro sovrano in autunno inoltrato è andato a caccia, finendo per sbaglio nello splendido territorio del vostro paese. Abbiamo sempre sentito dire che i soldati di Canghai sono valenti cavalieri, ineguagliabili nell’arco e nella freccia, nella lancia e nella spada, le vostre truppe schierate in battaglia sono una meraviglia mai vista. Oggi il cielo ci concede la grande occasione di apprendere da voi sulle rive dell’Yishui: se non disdegnerete di confrontarvi con il nostro esercito, vi saremo profondamente grati”. Le parole del comandante si erano appena smorzate che Feng Zicun vide il vecchio ministro della guerra al proprio fianco voltarsi e scendere da cavallo: zoppicando avanzò sulla riva e, come recitando a memoria, pronunciò la risposta. Il ministro era maestro dell’arte oratoria e retore raffinato, per naturale disposizione amava far sfoggio di un linguaggio forbito: il suo discorso, complicato e prolisso, durò due ore piene. Alla fine, concluse così: “Per anni abbiamo atteso con ansia che il vostro esercito, incurante della distanza, si facesse avanti a mostrare di cosa è capace. Adesso il tempo non aspetta: se non vi sono impedimenti, si tendano gli archi, si scaglino le frecce, passate il fiume e venite alla carica!”. Questo nauseante rituale fu come la prima di uno di quegli spettacoli a cui il pubblico non sa come reagire. Da sovrano di stato, Feng Zicun naturalmente sapeva che le parole in apparenza cerimoniose del ministro nascondevano intenzioni assassine: con due eserciti contrapposti sulle due sponde del fiume, il primo che lo avrebbe attraversato sarebbe stato di certo sconfitto. Le truppe di Feng Zicun rimasero immobili sulla riva, e fino al tramonto del sole da entrambi i lati non si mosse una freccia. Infine al sovrano non restò che dare l’ordine di difendere l’Yishui fino alla morte, abbandonare il campo e tornarsene a palazzo. Quando fece ritorno in città, non convocò alcuna riunione, si ritirò in solitudine nei quartieri femminili, chiuse le porte e si immerse nei suoi pensieri, ignorando i funzionari che affollavano la corte. Agli occhi dei ministri, in un simile frangente di emergenza nazionale, col nemico che premeva alle porte, l’eccessiva calma di Sua Maestà appariva piuttosto fuori luogo. Tuttavia essi non andarono a importunare il riposo dell’imperatore e trascorsero un’intera notte insonne riuniti nella sala Xuanwu. In un certo senso, le interminabili discussioni di quei ministri accalcati come formiche non erano che un inutile passatempo. Da un lato non potevano rimanere indifferenti agli sviluppi della guerra e lavarsene le mani una volta per tutte; dall’altro neanche potevano sostituirsi all’imperatore nell’elaborazione di strategie e piani di battaglia, per cui l’unica cosa che potevano fare era aspettare. In genere i funzionari civili erano meno irascibili, meno ansiosi e angosciati dei funzionari militari: per la maggior parte esperti di metafisica, maestri di logica e dialettica, erano capaci di tirar fuori argomenti a volontà, uno più astruso dell’altro, per poi completarli con una citazione. Quando i funzionari militari prefiguravano scenari catastrofici, i funzionari civili sprezzanti arricciavano il naso difronte a quelle che essi ritenevano paure infondate: a loro parere nel giorno stesso in cui il nemico avrebbe occupato il paese l’esercito l’avrebbe battuto. La loro era una confutazione logica di disarmante semplicità: da un certo punto di vista la perdita del territorio non era affatto una cosa negativa. Non era che un pezzo di terra, qualcuno a coltivarlo ci sarebbe sempre stato, e quanto a chi avrebbe spinto l’aratro e chi l’avrebbe trascinato, questo non aveva alcuna importanza… Mentre i funzionari civili e militari, arroccati sulle proprie posizioni, non riuscivano a trovare un punto d’accordo, solo una persona rimaneva muta: il principe Zijin. Rannicchiato in un angolo buio, ascoltava attentamente e di tanto in tanto sul viso gli affiorava un’espressione perplessa. All’alba, Zijin lasciò silenziosamente il suo posto, furtivo abbandonò la sala Xuanwu e si diresse verso i quartieri femminili. Tenendosi a distanza dai muri del palazzo e dai porticati, senza alcun impedimento giunse al cospetto del padre. La fitta bruma del mattino tingeva di bianco gli aceri in fila davanti al padiglione del Prezioso Ricamo, si udiva ancora nell’aria il vago suono della

clessidra. Guardando la luce che si schiariva, in piedi accanto alla finestra, Feng Zicun sembrava aspettare con impazienza. Il suono familiare dei passi del figlio si avvicinava. Feng Zicun si voltò. “Che dice quella banda di farabutti nella sala Xuanwu?” chiese senza scomporsi. “Una massa di incapaci” si limitò a rispondere il principe. Il modo di esprimersi del figlio lo metteva a disagio. Era un tipo di poche parole. Le rare volte che diceva qualcosa rimaneva evasivo, come se di proposito non volesse far capire le sue intenzioni. “Cosa ha detto il ministro dei riti?”. “Un pagliaccio” disse Zijin, lanciando al padre una gelida occhiata. Feng Zicun si aspettava una risposta del genere. L’apparenza di buono a nulla e la reticenza nel parlare mascheravano bene la natura straordinariamente acuta del principe. Feng Zicun rimase un poco esitante, poi cambiò discorso. “Che notizie ci sono dai Chu occidentali?”. Questa volta ottenne una risposta estremamente dettagliata. Il principe gli disse che Wu il Ladrone approfittando dell’oscurità aveva attraversato rapidamente l’Yishui e aveva cinto la minuscola capitale in un assedio così stretto da non lasciar filtrare neppure una goccia d’acqua. Feng Zicun impaziente agitò la mano verso il principe, che con un inchino si allontanò. Dal momento in cui era scoppiata quell’improvvisa catastrofe, Feng Zicun aveva subito pensato a delle misure d’emergenza. La sera prima, il suo ritiro nei quartieri femminili non era stato che un trucco per confondere gli altri; in realtà, durante la notte, tramite una persona fidata, aveva di nascosto inviato all’accampamento di Wu il Ladrone più di trecento metri di seta, ottanta destrieri di Canghai e mille libbre d’argento, accompagnate da una lettera segreta. Nell’incipiente brumoso mattino, il messaggero, completamente coperto di fango, esausto per il viaggio, si presentò al padiglione del Prezioso Ricamo. Wu il Ladrone si era rivelato un vero principe: secondo il rapporto del messaggero, non aveva neanche sfiorato i regali che gli aveva fatto avere, li restituiva intatti con mille ringraziamenti, inoltre gli mandava una splendida boccetta da oppio. Evidentemente Wu il Ladrone era uno che non scherzava, questa spedizione a Canghai non si risolveva con qualche libbra d’argento: a questo pensiero, Feng Zicun non seppe reprimere una profonda preoccupazione, un senso di smarrimento. Il messaggero aveva appena lasciato il padiglione del Prezioso Ricamo, che zoppicando si fece avanti il ministro della guerra. Era venuto a riferire sulla situazione militare. Secondo il rapporto del ministro, il nemico si era aperto una breccia nella linea dell’Yishui e premeva sulla capitale. L’esercito di Canghai aveva certo subìto qualche lieve perdita, ma d’altro canto non mancavano i risultati positivi. Di seguito gli enumerò esultante i trecento metri di seta, gli ottanta destrieri, e le mille libbra d’argento strappati alle mani nemiche. Udendo questo Feng Zicun si sentì venir meno, colto a un tempo da dolore e vergogna. Il secondo regalo inviato alla tenda di Wu il Ladrone fu un gruppo di giovani donne, graziose e affascinanti, scrupolosamente selezionate tra le cantanti e le attrici dell’harem imperiale. Avevano corpi flessuosi, e un modo di fare ammaliante. Garrule e vivaci, furono convocate davanti al padiglione del Prezioso Ricamo, e in fila sotto una profusione di raggi solari furono una a una esaminate da Feng Zicun. Di fronte a quelle donne colte, sane nel corpo e belle d’aspetto, il sovrano pensò con tristezza ai molti anni trascorsi senza sapere nulla delle seducenti bellezze della corte. Le concubine che gli tenevano compagnia avevano tutte un aspetto avvizzito, i volti simili a carta incenerita. Insieme al rimpianto per non averle incontrate prima, Feng Zicun avvertì la profonda solitudine di anni buttati al vento. Era di certo stato il ministro dei riti a giocargli quel tiro mancino: al pensiero che quell’individuo astuto e scaltro l’aveva beffato su una questione talmente cruciale, Feng Zicun si sentì riempire di rabbia. Questo evento da una parte evidenziò il senso di sconfitta che egli non osava ammettere con se stesso, dall’altra gli aprì gli occhi sul vero volto della vita di corte. Aveva sempre pensato di essere lui a gestire in ogni momento tutto ciò che riguardava il

paese. E invece la realtà era l’esatto contrario. Tre giorni dopo, quando le eleganti fanciulle tornarono come piccioni viaggiatori al padiglione del Prezioso Ricamo, Feng Zicun le attendeva impaziente in giardino già da tempo. La faccia lugubre del messaggero gli fece subito capire tutto. Il messaggero portava con sé una lettera scritta di proprio pugno da Wu il Ladrone. Quel bifolco del nord scriveva che aveva molto apprezzato il senso dell’umorismo di Sua Maestà l’imperatore di Canghai. Le fanciulle pure come la giada e immacolate come il ghiaccio gli avevano fatto trascorrere una notte meravigliosa, ma dopo aver goduto di metà di esse, si era sentito stremato dalla stanchezza, e alla fine aveva dovuto invitare i comandanti dei tre eserciti nella sua tenda perché se la spassassero con le restanti. Quanto all’invito di Sua Maestà a ritirarsi, riteneva che al momento i tempi non fossero ancora maturi. Se non fossero sorti imprevisti, sarebbe andato a corte di persona il mese dopo per parlare della faccenda con Sua Maestà. All’alba della festa del doppio nove12 i ministri civili e militari di Canghai si recarono fuori del palazzo, rannicchiati nel vento gelido in attesa dell’udienza imperiale. Appena fece giorno, Feng Zicun, reduce da una notte insonne, seguito da alcuni fedeli servitori giunse davanti alla sala delle Campane d’Oro. I ministri con un certo timore notarono che, per quanto Sua Maestà si sforzasse di apparire calmo, la tensione causata da giorni e giorni di aggressione straniera l’aveva scavato in volto, l’aveva ridotto a uno scheletro. Feng Zicun sedeva in alto nella sala delle Campane D’oro, la sua sottile ombra nei pallidi raggi del sole mattutino fluttuava al vento come un abito vuoto. Parlò in modo sconnesso, ripetendosi più volte, come in preda ai tormenti di una malattia; i ministri non poterono che concentrarsi trattenendo il fiato, e tra sé e sé tentare di indovinare le intenzioni di Sua Maestà. In seguito, quest’editto imperiale, dopo essere stato riveduto e corretto dagli storiografi di corte, fu inviato nella forma di comunicato ufficiale a tutti i funzionari medi e inferiori, i quali con rapidità ne trasmisero i passaggi principali al popolo in città. Grossomodo il senso dell’editto era questo: lo stato di Chu occidentale ha invaso il sud, centomila soldati stringono d’assedio la capitale. Il nostro esercito possiede valenti soldati, cavalli robusti e viveri in abbondanza; in caso di una battaglia in città la vittoria è sicura, ma la rovina del popolo e la distruzione totale saranno inevitabili. I Chu occidentali non vogliono che la nostra terra. Se oggi cediamo Canghai, la devastazione della guerra verrà evitata. Io, l’imperatore, ho deciso di rinunciare a Canghai e di andarmene nel Lantian ad accudire le pecore. I sudditi del paese possono venire con me, o rimanere in città a servire il nuovo padrone; che ci riflettano bene, prima di decidere sul da farsi. Due giorni dopo, sotto una fitta pioggia autunnale e un cielo plumbeo, una processione di gente e cavalli lunga decine di miglia usciva da una strada fangosa dell’odierna zona orientale della città, migrando mille miglia lontano, nel Lantian. Quando Feng Zicun, travestito da musicista di corte, mescolato alla folla imponente si voltò a guardare la capitale, vedendo le mura gialle del palazzo che pian piano si allontanavano nella pioggia, fu assalito da un’irrefrenabile tristezza, come se tutto fosse perso. Questo famoso esodo della storia della Cina viene raccontato in molti testi posteriori13. Mentre i saggi confuciani criticano aspramente questa celebre resa, Laozi e Zhuangzi vi attribuiscono invece altissimo valore. Quanto a quello che accadde a Feng Zicun dopo il suo arrivo nel Lantian, nei testi non ci sono che scarsi accenni: se di tanto in tanto se ne parla, è solo di sfuggita, senza dovizia di particolari. Un mezzogiorno che splendeva il sole, Feng Zicun, solo nello studio del palazzo in esilio, suonava il qin14 e cantava, visibilmente malinconico. Un ex-giardiniere del palazzo di Canghai in silenzio gli andò vicino. Dopo aver spezzato due corde del qin, prese il pennello con il desiderio di scrivere; il giardiniere si affrettò a svolgergli il foglio di seta e gli macinò l’inchiostro. Feng Zicun tirò un lungo sospiro, e scrisse una quartina. In essa, il distico “Nel Canghai, perle in lacrime alla luce della luna / nel Lantian, giada in fumo al calore del sole”15 traboccava

del suo dolore. Il giardiniere notò che l’imperatore era triste, gli si fece accanto e lo confortò con parole affettuose. Dal suo punto di vista, l’imperatore, anche se aveva perso Canghai, non aveva perso il sostegno del popolo: tutti i sudditi erano migrati nel Lantian, pascevano le pecore ed estraevano la giada, vivevano in pace e lavoravano contenti, avevano fondato un prospero stato. Feng Zicun sollevò il capo a guardare il giardiniere: non aveva inteso le sue parole di conforto, e con aria indifferente gli chiese: “Hai visto il principe Zijin in questi giorni?”. “No” rispose il giardiniere. Lo sguardo rivolto fuori dalla finestra, Feng Zicun come parlando a se stesso disse con un sospiro: “Se i miei calcoli non sbagliano, in questo momento si sta avvicinando al palazzo armato di sciabola”. “Che viene a fare?”. “A uccidermi”. “Perché mai il principe vuole farle del male?”. “Avevo un esercito di duecentomila soldati, ma senza neanche tentare di respingere il nemico mi sono ritirato nel Lantian, un’umiliazione enorme per lui: ha le sue ragioni per volermi uccidere, non trovi?”. “Perché non lo prende in contropiede e lo uccide lei finché è ancora per strada?”. “Non c’è più tempo”. Il volto di Feng Zicun fu percorso da una nuvola scura: “Su di lui mi sbagliavo: facendosi passare per sciocco e per folle, ha aspettato già più di dieci anni”. Il giardiniere rimase in silenzio. Sovrano e suddito si guardarono, e piansero insieme. Poi d’improvviso al giardiniere venne in mente qualcosa, e schiaritosi la voce disse: “Secondo la mia umile opinione, visto che il principe non è ancora arrivato, sarebbe meglio se Sua Maestà scappasse lontano, se andasse a nascondersi tra remote montagne e valli isolate: scomparire sulla riva del Pinshui, sedersi a guardare le nuvole levarsi, camminare tra il respiro dei pini…”. “Ci avevo già pensato” lo interruppe Feng Zicun, “solo che la notte scorsa ho fatto un sogno, che a pensarci bene potrebbe essere un presagio funesto”. “Modestamente, conosco un poco l’arte d’interpretare i sogni, se non disprezza la mia ignoranza, la prego di raccontarmelo” disse il giardiniere con voce sommessa. Feng Zicun esitò un poco, poi cominciò a raccontare il sogno della notte prima: era appena all’inizio, che nell’aria silenziosa si udì il suono della sciabola. Si alzò di scatto, guardò fuori della finestra, e vide il principe Zijin, armato, che lungo un sentiero nel campo di grano procedeva svelto in direzione del palazzo. Era l’ora del crepuscolo, fuori della finestra gli alberi mormoravano, il sole al tramonto tingeva di rosso le greggi di pecore sulle pendici della montagna, i richiami degli agnelli si sentivano appena, distinguibili a stento. Questo era il sogno che Feng Zicun raccontò al giardiniere: Dopo tre anni di vita appartata sulle rive del Pinshui, in primavera, Feng Zicun sentì dire che una donna che veniva ad attingere l’acqua al fiume si era ammalata ed era morta. Il funerale si tenne in un giorno di pioggia, prima del giorno dei morti. Quella sera, disteso sul letto nella capanna ad ascoltare il picchiettio della pioggia primaverile, Feng Zicun non riusciva in alcun modo a dormire. Aveva impressa negli occhi la sua immagine seducente; lo stato d’animo tranquillo come uno specchio d’acqua lo aveva abbandonato, si sentiva in preda al tumulto. A notte inoltrata gli parve di sentire la donna che lo chiamava per nome. Senza rendersene conto uscì dalla stanza, e lungo il campo di grano blu scuro nell’aperta campagna, s’avviò verso il cimitero… La di La di

cetra intarsiata Li Shangyin e cetra intarsiata Ge Fei

In Cina, gli anni 1985-89 costituiscono un periodo di grande fermento

intellettuale. Compaiono sulla scena letteraria giovani scrittori, tra cui Ge Fei, Su Tong, Sun Ganlu e Yu Hua; le loro “strane storie” vengono definite dai critici cinesi “sperimentali” o “d’avanguardia”. Essi liberano definitivamente la letteratura dal ruolo politico-morale di cui era stata per anni investita: le loro opere non contengono alcun chiaro messaggio, talvolta si portano ai limiti del nonsenso. I giovani scrittori cinesi non hanno memoria personale del recente passato rivoluzionario, ed è loro estranea la passione civile che alimenta gli scritti degli autori di qualche anno più anziani. Nelle loro opere si avverte un tono distaccato e perplesso, una diffidenza nei confronti della realtà che sembra a portata di mano, e una tensione espressiva derivante dalla consapevolezza dei limiti della lingua che essi hanno a disposizione. La ricerca letteraria diviene soprattutto sinonimo di ricerca linguistica: questi scrittori hanno effettivamente rianimato il cinese moderno, lingua ancora giovane e immatura, ma già agonizzante sotto i colpi di una semplificazione perpetrata dall’alto a suon di slogan e formule burocratiche. Essi si avventurano in esperimenti formali che li allontanano dal realismo, ma che d’altro canto mirano a stabilire un contatto con la realtà più diretto e individuale, non mediato da alcun valore precostituito. Oltre all’originalità delle sue opere rispetto alla produzione letteraria cinese precedente, penso vi sia in Ge Fei una qualità essenziale: sa raccontare bene delle belle storie. La singolarità della sua vena narrativa, sorretta da un linguaggio soffuso di qualità proprie della poesia, lo rende uno scrittore interessante anche se considerato al di fuori dei suoi confini nazionali, anche se isolato dal proprio contesto. La poetica di Ge Fei è incentrata su un complesso rapporto tra memoria, immaginazione e sogno: l’immaginazione e il sogno – e l’invenzione narrativa che di essi si nutre - “fanno riemergere sentimenti vaghi, eppure reali”, acquattati nei recessi della memoria e refrattari alla rete del linguaggio quotidiano. Il passato, in se stesso, è un’idea irrecuperabile, che si ripresenta sotto spoglie di volta in volta alterate: Ritornare [all’esperienza originaria] non è possibile, essa può solo riemergere. Il suo riemergere include qualcosa di nuovo: pensieri e sentimenti del passato sono contaminati dal presente, da elementi dell’immaginazione1. Ge Fei si diverte a giocare con forme narrative aperte, in cui i legami temporali vengono sostituiti da iterazioni e isotopie tematiche, labirinti in cui il lettore, attraverso un percorso circolare, è ricondotto al punto di partenza. Egli riprende e rimescola generi diversi della tradizione letteraria cinese, li restituisce sotto forma di parodie e pastiche, rianimati da una narrazione accattivate, quasi da cantastorie. La lingua è intessuta di espressioni del repertorio letterario classico, di citazioni e allusioni a testi dell’antichità. Secondo alcuni critici, la stagione d’oro dell’avanguardia cinese finisce nel 1989. Certo, l’atmosfera di entusiastica sperimentazione giunge a una battuta d’arresto con i fatti di Tiananmen. Tuttavia, nel caso di Ge Fei, è proprio all’inizio degli anni ’90 che il dialogo con le forme letterarie tradizionali si approfondisce, divenendo più consapevole e maturo. La cetra intarsiata (Jinse), pubblicato nel 1993, si ispira all’omonima poesia di Li Shangyin (813-858), una delle opere più criptiche della tradizione cinese. Fortemente evocativa, pregna di allusioni ad antichi miti e leggende, La cetra intarsiata di Li Shangyin “ha tante letture quanto lettori”2: ne esistono interpretazioni tra le più disparate, che ancora oggi dividono gli studiosi in diversi gruppi o scuole di pensiero3. Ne diamo qui una possibile traduzione4: Per caso la cetra intarsiata ha cinquanta corde,5 Ogni corda, ogni tasto mi ricorda un anno

giovanile. Un mattino Zhuangzi si perse nel sogno della farfalla, Una primavera il re Wang affidò il suo cuore al cuculo.6 Nel mare, perle in lacrime alla luce della luna, Nel Lantian, giada in fumo al calore del sole.7 Questo sentimento poteva diventare un ricordo, Ma fin d’allora ero smarrito. È la inafferrabilità di questa poesia, il suo “impenetrabile vuoto” ad avere attratto Ge Fei: Adoro Li Shangyin: La cetra intarsiata è stata analizzata da generazioni e generazioni di studiosi, ma nessuno è mai riuscito a spiegarla con chiarezza. (…) Le idee e i sentimenti che la sua lettura ha suscitato in me, al momento di scrivere si sono combinate con diverse riflessioni, con le mie opinioni sulla cultura, ad esempio8. Il racconto “Stordimento” nella Cetra intarsiata di Ge Fei riprende un tema molto comune nella narrativa tradizionale, ovvero quello della partecipazione agli esami imperiali, e nello stesso tempo riecheggia alcuni eventi della biografia di Li Shangyin. Per i letterati dell’antichità, gli esami imperiali, basati sulla conoscenza mnemonica dei classici confuciani, costituivano la porta d’accesso alla carriera di funzionario dello stato. Era dunque consuetudine dedicare gli anni della giovinezza a uno studio forsennato; dal momento che non vi erano limiti d’età per la partecipazione agli esami, non di rado si verificava che il sospirato successo giungesse in età già matura e solo dopo una serie di tentativi fallimentari. Li Shangyin tentò per la prima volta gli esami imperiali nella capitale Chang’an (nei pressi dell’odierna Xi’an) nell’833, senza successo. L’anno dopo non poté parteciparvi a causa di una malattia, e l’anno successivo ci si riprovò per la terza volta, nuovamente con esito negativo. Questi eventi contribuirono ad avvicinarlo allo studio del Taoismo, che esaltava le virtù di una vita ritirata, al riparo dai successi e gli insuccessi mondani. Nell’837 finalmente riuscì a superare gli esami: quell’anno le prove d’esame richiedevano tra l’altro di scrivere un componimento sul tema “Armonia di qin e se”, due strumenti a corda simili alla cetra. Successivamente, nell’839, venne nominato compilatore presso la biblioteca imperiale, da cui fu destituito ben presto e trasferito a un incarico di minore importanza in una cittadina di provincia. I suoi ultimi anni Li Shangyin li trascorse vagando da un posto all’altro. Erano gli ultimi decenni della dinastia Tang, periodo di disordini politici che nel 906 condurranno alla caduta della dinastia. Altri motivi della letteratura cinese classica rivivono nel testo di Ge Fei: il protagonista del primo racconto sembra voler ripercorrere le tracce degli antichi amanti che riesumavano il cadavere dell’amata e lo facevano ritornare in vita: la più famosa di queste storie si ritrova nell’opera teatrale Il padiglione delle peonie del drammaturgo Tang Xianzu (1550-1616), in cui tra l’altro il tema del sogno riveste un ruolo fondamentale. Il terzo racconto, “La storia del mercante di tè” riprende il tema della “donna volpe”, la femme fatale che irretisce l’uomo e lo conduce alla sua distruzione, motivo comune a molte storie della tradizione cinese. Citata, ma non presa sul serio, è l’antica storiografia, tradizionalmente considerata come la scrittura esemplare, fonte di modelli di comportamento, maestra di vita: nell’ultimo racconto, l’autore rielabora un noto evento storico, e attraverso l’invenzione fantastica rivela lo scarto che sempre separa gli eventi originari – quasi inconoscibili – e la loro fortuita e lacunosa registrazione.

Nelle storie tradizionali gli amanti si sposano e vivono felici e contenti, gli uomini superano gli esami e le donne volpe si redimono, o vengono eliminate. Nella Cetra intarsiata, invece, non c’è bene che trionfi e non c’è male che funga da esemplare ammonizione. Perché il fato capriccioso regola il destino dell’uomo, e alla morte non sopravvive che la poesia, che continuerà a commuovere altri Feng Zicun. Paola Iovene ***************** 1. Nell’antica filosofia cinese, il principio femminile o negativo. Originariamente indicava il versante settentrionale di una montagna; è associato all’acqua, all’ombra, alla luna. [Tutte le note al testo sono a cura della traduttrice.] 2. Esortazione ricorrente nei classici taoisti, in polemica con la conoscenza razionale e l’ossequio per l’autorità predicate da Confucio e dai suoi discepoli. Per i taoisti la conoscenza razionale, le istituzioni e i beni materiali sono responsabili della decadenza dell’umanità. Si veda ad esempio Zhuangzi, cap. x: “Eliminate la santità e respingete la conoscenza, e i grandi ladri spariranno. Buttate via le giade e distruggete le perle, e anche i ladruncoli saranno eliminati”. Una traduzione italiana del Zhuangzi, condotta sulla versione francese di Liou Kia-hway, è stata pubblicata da Adelphi nel 1982. 3. Allusione a uno dei paradossi del dialettico Hui Shi (“Nonostante la velocità, vi sono momenti in cui la freccia in volo non si muove, e momenti in cui non è ferma”), riportati nel cap. xxxiii del Zhuangzi. 4. Nel cap. xvii, Zhuangzi racconta di essere andato a far visita a Huizi, ministro del principato di Liang. Temendo che Zhuangzi intendesse subentrare come ministro al suo posto, Huizi lo fece cercare per tutto il principato. Zhuangzi, che disdegnava qualsiasi carica pubblica, quando arrivò dal ministro si prese gioco dei suoi timori con queste parole: “Sai che nel Sud c’è un uccello chiamato yuanchu? Quando vola dal Mare del Sud a quello del Nord non si posa che sugli alberi di wutong, non si ciba che di semi di melia, non beve che a fonti cristalline. Un giorno, una civetta che aveva un topo putrido in bocca lo vide passare e levando in alto lo sguardo gli lanciò un grido minaccioso e impaurito. Adesso anche tu vuoi minacciarmi a proposito del tuo principato di Liang?”. Ge Fei cita appunto le prime frasi di questo brano, ma chiama l’uccello guaizai: guai vuol dire “strano”, zai è una particella esclamativa. 5. Si tratta della quarta linea del cinquantesimo esagramma dell’Yijing (Il classico dei mutamenti), l’antico manuale di divinazione cinese. 6. Uno dei “Quattro libri”, testi attribuiti ai discepoli di Confucio, che costituivano la base degli studi dei letterati dell’antichità. 7. Titolo attribuito a tutti coloro che avessero superato gli esami a livello locale. 8. L’era Wanli, che corrisponde al regno dell’imperatore Shenzong della dinastia Ming, va dal 1573 al 1619. Il quattordicesimo anno è dunque il 1587. 9. Si parla, in questo brano, di personaggi storici realmente vissuti. Zhang Juzheng, tuttavia, nel 1587 era già morto da cinque anni. 10. Lo Shijing (Il classico delle odi) è un’antica raccolta di poesie, la cui compilazione è tradizionalmente attribuita a Confucio. La versione giunta fino a noi è stata redatta nel ii secolo a.C. dal letterato Mao Chang, ma alcune delle poesie che vi sono contenute risalgono al ix-viii secolo a.C. Il fu è un genere letterario a metà tra prosa e poesia sviluppatosi nell’epoca Han (ii sec. a.C. – ii sec. d.C.). Li Bo (701-762) e Du Fu (712-770) sono considerati i più grandi poeti cinesi di tutti i tempi. 11. Shupaben: letteralmente “libro e fazzoletto”. In epoca Ming, libri dalla qualità di stampa inferiore, rilegati alla buona, che i funzionari di ritorno alla capitale da una missione in provincia o nelle regioni periferiche ricevevano in regalo insieme a un fazzoletto. 13. Il nucleo degli eventi qui narrati si ritrova effettivamente nelle Memorie Storiche di Sima Qian (ii-i sec. a.C.), monumentale opera storiografica dell’antichità, e inoltre nel Mencio, uno dei classici confuciani, e nel Classico

delle Odi. 14. Strumento a sette corde simile alla cetra. 15. Si tratta di altri due versi della poesia di Li Shangyin. Canghai in realtà vuol dire “mare”. ***** 1. Lin Zhou, “Zhihui yu jingjue. Ge Fei fangtanlu” (“Saggezza e prontezza di spirito. Intervista a Ge Fei”), Huacheng, 1996, 1. 2. A.C. Graham, Poems of the Late T’ang, Harmondsworth, Penguin Books, 1977 [1965]. 3. Per una rassegna delle varie interpretazioni della poesia si rimanda a James J. Y. Liu, The Poetry of Li Shang-yin. Nineteenth Century Baroque Chinese Poet, Chicago & London, The University of Chicago Press, 1969. 4. Si confronti anche la traduzione di Martin Benedikter, Le trecento poesie T’ang, Torino, Einaudi, 1961. 5. L’antico strumento musicale di cui si parla, il se, è una sorta di cetra a venticinque corde, che veniva suonata tenendola appoggiata sul tavolo o sulle ginocchia. Secondo una leggenda, in origine il se aveva cinquanta corde. L’imperatore mitico Fuxi chiese a una sua concubina di suonargli qualcosa, ma dal momento che la melodia era troppo acuta e triste, e lei non acconsentiva a smettere di suonare, Fuxi spezzò la cetra nel senso della lunghezza, lasciandola con venticinque corde. 6. La leggenda racconta che il re Wang ebbe una relazione con la moglie del suo primo ministro, in seguito alla quale fu preso da un tale rimorso che ne morì. La sua anima si trasformò in un cuculo, e il suo dolore continua a essere cantato nel triste verso dell’uccello. 7. Lantian è una zona famosa per la produzione di giada. Questo verso potrebbe inoltre riferirsi a un’altra leggenda, che racconta di una principessa di nome Giada (Yu) che morì di dolore poiché il padre non le aveva permesso di sposare l’uomo che amava. Dopo la sua morte, il suo spirito inquieto continuò ad apparire al padre, dileguandosi ogni volta come fumo. 8. “Saggezza e prontezza di spirito. Intervista a Ge Fei”, cit. ******************* Indice Nota dell’autore

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La cetra intarsiata

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Cronologia delle dinastie cinesi La cetra intarsiata di Li Shangyin e La cetra intarsiata di Ge Fei di Paola Iovene 91

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