Introduzione al Nuovo Testamento
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Zitiervorschau

MARTIN EBNER STEFAN SCHREIBER (edd.)

INTRODUZIONE AL NUOVO TESTAMENTO Martin Ebner, Marlis Gielen, Gerd Hafner, Martin Karrer, Matthias Konradt, Joachim Ki.igler, Dietrich Rusam, Thomas Schmeller, Stefan Schreiber, Michael Theobald OM

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QUERINIANA

Titolo originale: Martin Ebner- Stefan Schreiber (edd.), Einleitung in das Neue Testament

© 2008 by W. Kohlhammer GmbH, Stuttgart Die italienische Ùbersetzung ist durch die Vermittlung der Verlagsagentur EULAMA zustande gekommen.

© 2012 by Editrice Queriniana, Brescia via Ferri, 75- 25123 Brescia (Italia/VE) te!. 030 2306925- fax 030 2306932 e-mail: [email protected] Tutti i diritti sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in

qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'autorizzazione scritta dell'Editrice Queriniana.

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Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate,

nei limiti del 15% di ciascun volume, dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4-5, della Legge n. 633 del 22 aprile 1941. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi (www.clearedi.org).

ISBN 978-88-399-0114-9 Traduzione dal tedesco di ANNAPAOLA LALDI (parti A, C, E) -VALENTINO MARALDI (parte B) ARMIDO RIZZI (parte D .I-IX)- GIANNI POLETTI (parte D .X-XXI)

www.queriniana.it Stampato da Grafiche Artigianelli- Brescia

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MISTO Corto dafontlgastnaln maniera responsabile

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Prefazione

Una Introduzione al Nuovo Testamento intende chiarire delle questioni fondamentali che si pongono prima della lettura di un libro neotestamentario, per esempio quelle riguardanti il suo autore o l'epoca della sua stesura. La presente Introduzione ha di conseguenza come punto di riferimento generale l'ordine canonico dei libri: a un'introduzione al canone e al testo (Parte A) seguono i vangeli (Parte B), gli Atti degli apostoli (Parte C), le lettere (Parte D) e l'Apocalisse (Parte E). Le questioni trasversali sono poste all'inizio di ognuna di queste parti. In linea di massima la trattazione dei singoli scritti si articola in tre sezioni, in modo tale che si possa trovare rapidamente la risposta a questioni specifiche: l. Struttura: per i testi narrativi viene analizzata la struttura interna del racconto, nel caso dei testi più discorsivi la struttura dell'argomentaziOne. 2. Origine: qui si discutono non solo l'epoca della stesura, ma anche le fonti e le tradizioni utilizzate, gli stadi iniziali del testo e le ipotesi di suddivisione del materiale. 3. Trattazione: si presenta la prospettiva sotto la quale viene delineato il messaggio cristiano: in quale ambiente culturale esso viene annunciato, rispetto a che cosa prende risalto, quali contenuti impiega per farlo. Si mostra il modo in cui la 'teologia' si sviluppa in situazioni storiche. I caratteri tipografici offrono un aiuto alla lettura: i passaggi scritti in carattere piccolo contengono informazioni di approfondimento che, a una prima veloce lettura, possono essere tranquillamente tralasciate. La bibliografia a cui nel testo si fa riferimento citando il nome degli autori

6

Prefozione

(e, laddove la chiarezza lo esiga, anche il titolo abbreviato) è elencata alla fine di ogni saggio ed è generalmente suddivisa in quattro sezioni: commentari, studi monografici, sintesi sullo stato della ricerca e opere di altro genere. Tre appendici poste alla fine del volume offrono la legenda delle abbreviazioni principali, un glossario dei termini specialistici relativi alle scienze bibliche, nonché alcune cartine che illustrano la geografia del Nuovo Testamento. Il nostro ringraziamento va in primo luogo alla collega e ai colleghi che hanno contribuito alla realizzazione di quest'opera con i loro saggi, apportandovi il proprio sapere di esperti. Molte teste e molte mani diligenti hanno fornito il proprio contributo 'dietro le quinte' alla realizzazione di questa Introduzione: hanno trasportato libri, trascritto manoscritti e corretto bozze. In particolare ringraziamo sentitamente per tutto questo lavoro Elfriede Briining e Angelica van Dillen, Markus Lau, Eva Riinker e Thomas Schumacher, Hanna Mehring, Michael Holscher e Manuel V erhufen. Per la fatica della redazione formale definitiva, con le diverse uniformazioni e standardizzazioni dei manoscritti, rivolgiamo il nostro vivo ringraziamento a Annedore Wilmes e Anika Thockok. Al direttore della collana, il collega Hans-JosefKlauck, esprimiamo la nostra gratitudine per le tranquille conversazioni sostenute alla vigilia e per la verifica del manoscritto. Infine il nostro grazie va alla casa editrice Kohlhammer per l'accompagnamento e la cura competenti e interessate dell'Introduzione, e in particolare a chi ha svolto la funzione del lettore (il signor Jiinger Schneider e il signor Florian Specker). La signora Andrea Siebert ha preparato con grande cura l'impaginato per la stampa: anche a lei va il nostro sentito ringraziamento.

Miinster, marzo 2008

Martin Ebner- Stefon Schreiber

A.

INTRODUZIONE MARTIN EBNER- 5TEFAN 5CHREIBER

I.

Il canone cristiano (Martin Ebner)

l.

Il tuo libro ti tradisce!

L'edizione della Bibbia tradisce ancora, ai nostri giorni, colui che la usa. Un occhio esperto sa riconoscere dall'indice a quale indirizzo confessionale appartiene, o si sente di appartenere, il lettore.

1.1

LE EDIZIONI MODERNE DELLA BIBBIA

Se fra i libri anticotestamentari e quelli neotestamentari si trova una sezione apposita intitolata per esempio 'Gli apocrifi dell'Antico Testamento', si tratterà di un'edizione che viene dalle chiese della Riforma. Per essere più precisi: se vengono semplicemente elencati l e 2 Maccabei, Giuditta, Tobia, Siracide e Sapienza, abbiamo a che fare con la Bibbia di Zurigo (chiese riformate), se sono menzionati anche Baruc, le aggiunte allibro di Ester e il libro di Daniele, nonché la preghiera di Manasse, si tratta allora della Bibbia di Lutero (chiese luterane). Nella sua prima Bibbia completa del 1534 Martin Lutero ha considerato canonici esclusivamente quei libri dell'AT di cui all'epoca era certa la tradizione ebraica (veritas hebraica). Tutti gli altri libri anticotestamentari tramandati solo in lingua greca li inserì invece nella sezione 'Apocrifi' (= [libri] nascosti/segreti): «Sono i libri che non sono ritenuti uguali alle sacre Scritture, ma che tuttavia sono utili e buoni a leggersi>>. A differenza dei luterani, le chiese riformate hanno escluso formalmente dal canone gli apocrifi. Sul mercato librario attuale si trovano di solito edizioni alternative con o senza gli apocrifi. La nuova edizione della Bibbia di Zurigo (2007) torna tuttavia a rinunciare totalmente agli apocrifi.

IO

A. Introduzione

Se invece gli apocrifi anticotestamentari risultano inseriti tra i libri storici ( Tobia, Giuditta, aggiunte a Ester, l e 2 Maccabet), tra i sapienziali (Sapienza, Siracide) e i profetici (Baruc, aggiunte a Daniele), si tratta di una edizione della Bibbia tipica dell'ambiente cattolico. Sulla linea del concilio tridentino (1546), per quanto attiene alla rivelazione, gli apocrifi che i riformatori avevano messo in secondo piano, pur ricevendo la definizione di 'Deuterocanonici' ('appartenenti a un secondo canone') sono considerati di pari valore. Un po' più sottili sono le distinzioni fra i libri neotestamentari. Qui conta l'ordine in cui sono disposte le lettere. I testi che rappresentano un caso sono Giacomo ed Ebrei. In un'edizione cattolica della Bibbia Giacomo è la prima delle 'Lettere cattoliche'. In una Bibbia di Lutero, invece, essa si trova inserita al penultimo posto di tutte le lettere; si tende a evitare di dar vita a una sezione intitolata: 'Lettere cattoliche'. La Lettera agli Ebrei, che nelle edizioni cattoliche chiude la raccolta delle lettere di Paolo, nelle edizioni di Lutero è spostata in fondo e si trova prima di quella di Giacomo. La Bibbia di Zurigo, pur concordando con l'ordine delle edizioni cattoliche, toglie però Ebrei dalle lettere di Paolo e la mette all'inizio delle 'Altre lettere' (così l'edizione del 1955; l'edizione del2007 non presenta alcuna suddivisione).

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AlTRE lETTERE lETTERE CATTOLICHE Gc 1Pt 2Pt 1Gv 2Gv 3Gv

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1Pt 2 Pt 1Gv 2Gv 3 Gv Eb Gc Gd

APOCALISSE

APOCALISSE

Eb Gc 1Pt 2Pt 1Gv 2Gv 3Gv

Gc 1Pt 2Pt 1Gv 2Gv 3Gv

Gd

Gd

APOCALISSE

SCRITTI APOCALITTICI

I. Il canone cristiano

11

La responsabilità del diverso ordine in cui sono poste le lettere risale a scelte di carattere teologico: per Lutero, Giacomo è , perché - al contrario delle lettere paoline - dà troppo risalto alle opere rispetto alla fede ( Gc 2, 14); quanto a Ebrei, io scritto non risultava congeniale a Lutero (per costui il perdono dei peccati per sola grazia rappresenta il cuore della teologia) per il semplice fatto che in 6,4-8 nega la cosiddetta seconda penitenza.

Un segno distintivo infallibile dei diversi campi confessionali è infine, per l'ambito tedesco, il modo di scrivere i nomi propri: se si trova «Cafarnaum» anziché il più familiare «Kapharnaum», vuoi dire che si ha in mano la Einheitsilbersetzung (traduzione concordata), una traduzione iniziata da parte cattolica nel 1963, immediatamente dopo il concilio Vaticano II, il cui obiettivo originario era quello di fornire una traduzione della Bibbia con una precisa responsabilità sul terreno ecumenico. Un'effettiva collaborazione fra incaricati della chiesa evangelica di Germania e del Deutsches Evangelisches Bibelwerk la si poté ottenere, tuttavia, soltanto per il libro dei Salmi, per le lettere ai Romani e ai Galati, e per le letture delle domeniche e delle festività. Per quanto concerne i nomi e le indicazioni delle località, è stata comunque redatta un'opera normativa comune - sono le cosiddette 'Direttive di Loccum' - che doveva superare «per il futuro le attuali differenze confessionali» (Introduzione alla Einheitsilbersetzung, 1972); ma a quel punto non siamo ancora arrivati. Mentre in ambito cattolico la Einheitsilbersetzung ha trovato accesso ai libri liturgici e quindi conferisce l'impronta alla prassi liturgica, in ambito protestante ciò non accade neppure per quei passi sui quali esiste una responsabilità comune. In modo perfettamente parallelo stanno le cose con l'applicazione effettiva delle 'Direttive di Loccum': sotto questo criterio gli autori di studi scientifici sono associabili in modo piuttosto sicuro a un determinato campo confessionale. Una semplice spaziatura fa risaltare la differenza: chi- seguendo la normativa di Loccum- scrive «l Con> (e dice «Corinzi uno») si qualifica cattolico, chi invece scrive > (C. MARKSCHIES, Gnosis, 174).

2.2.2

Il Diatessaron di Taziano

La seconda alternativa al canone divenuto ortodosso è concepita, dal canto suo, in modo totalmente diverso. Consiste di un unico scritto in cui tutti e quattro i vangeli sono riuniti e armonizzati a formarne uno solo; si parla perciò di una 'armonia dei vangeli'. Stando a una notizia trovata in Eusebio (Hist Ecc! IV 29,6) - la prima menzione in assoluto - il suo redattore si chiamava T aziano e dette all'opera il titolo di Diatessaron. Il concetto 8tà n;crmiQ>.

L'armonia dei vangeli nel Diatessaron recita così (ricostruzione dal commentario di Efraim il Siro, IV secolo): Non prendete oro né argento o rame nelle vostre cinture, non una sacca per il viaggio o due tuniche, ma solo un bordone (shabta), non un bastone (hutra), enon scarpe, ma sandali.

Il problema della contraddizione circa l'equipaggiamento con un bastone viene risolto grazie al fatto che in siriaco per il termine greco QU~Òov, 'bastone', vi sono due termini diversi: viene consigliato uno shabta, con il quale si indica un 'bastone da viaggio', mentre viene proibito lo hutra, con il quale si intende il 'bastone del comando', ossia, in senso figurato, l'autorità e il potere. In questo caso forse è proprio negli stessi vangeli sinottici che Taziano ha intravisto questa via d'uscita, basandosi sulla differenziazione dei termini. Nel nostro passo vengono usati anche termini differenti per indicare le 'calzature', e Taziano li riprende uno a uno: le 'scarpe' (unoòijJ.LaTa) vengono proibite da Mt 10,10 e Le 10,4, mentre i 'sandali' (cravòaÀta) vengono permessi da Mc 6,9 (W.L. PETERSEN, Diatessaron [2004], 58s.).

Scopo del Diatessaron è dunque quello di sgombrare il campo, nel modo più abile possibile, dalle incongruenze esistenti fra i singoli vangeli. In tal modo Taziano, guardando ad intra, concepisce una versione perspicua dei vangeli e crea- proprio con la scelta, l'esclusione e perfino il cambiamento di certe versioni testuali - un proprio canone de facto, in cui sono già prese le decisioni sui punti controversi. Ad extra, egli può imbattersi nella critica di un Celso (circa 180 d.C.) che lo tratta con sufficienza e che, in ragione delle debolezze presenti negli scritti cristiani, ne mette in dubbio la veridicità (cfr. Origene, Cels V 52). T aziano ha sicuramente redatto l'armonia dei vangeli di maggior successo, ma non è stato il primo: è probabile che abbia avuto come modello Giustino, il suo maestro, di cui T aziano, originario della Siria, divenne discepolo allorché approdò a Roma, viaggiando alla ricerca della «vera filosofia». Dopo la morte di Giustino (163-167 d.C.), Taziano fondò una propria scuola nella capitale dell'impero, ma si venne a

l. Il canone cristiano

33

trovare in difficoltà con la comunità cristiana, la quale prese le distanze da lui, probabilmente verso il172 d.C., a causa delle tendenze ereticali. T aziano fece allora ritorno in patria, e in Siria fondò una scuola dove cominciò- forse verso il 175 d.C.- a scrivere il Diatessaron (a quanto pare in siriaco). L'opera ottenne un enorme successo: fino al425 d.C. rimase il testo evangelico 'standard' della chiesa siriaca. Solo Teodoreto, vescovo di Ciro dal 423 al 457 d.C., durante un suo viaggio pastorale ordinò di toglierne dalla circolazione tutte quante le copie (più di duecento), sostituendole con il 'vangelo dei separati' (espressione con cui si intendevano i quattro vangeli canonici). Il Diatessaron era in uso nelle liturgie di più di un quarto delle comunità grecofone (W.L. PETERSEN, Diatessaron [2004], 56). Ha certo a che fare con questa radicale espunzione il fatto che non ci sia conservata neppure una copia del Diatessaron in siriaco. Il testo ci è stato tramandato soltanto in traduzioni e citazioni. Il frammento di papiro più antico con il testo della deposizione nel sepolcro in lingua greca proviene da Dura Europos e perciò, dato che la città fu distrutta nel236 o 237 dai persiani, è distante meno di ottant'anni dallo scritto originale. Le traduzioni in arabo, latino, alto tedesco antico e persiano rivelano che non vi è stato praticamente alcun altro documento della prima cristianità- a parte i vangeli canoniciad aver avuto tanta diffusione.

2.3

LE SOTTOLINEATURE DEL CANONE DIVENTATO ORTODOSSO E LE SUE CARATTERISTICHE TEOLOGICHE

Rispetto alle alternative effettive, per il canone cristiano divenuto ortodosso si evidenziano delle chiare sottolineature e alcune caratteristiche teologiche identificabili in tre voci: la pluralità, il dialogo e la tradizione ebraica quale base. Di fronte all'unico vangelo di Marcio ne e all'armonia dei vangeli di T aziano nel canone cristiano si trovano i quattro vangeli. Mediante i loro titoli strutturati in modo perfettamente uguale, essi vengono indicati quali versioni equivalenti dell'unico messaggio originario. Così, all'opposto della pretesa di esclusività dell'unico vangelo di Marcione e del principio di uniformazione dell'armonia dei vangeli, quello che si viene ad esprimere è un chiaro principio pluralistico. Nel canone cristiano si possono leggere non solo le lettere di Paolo, come in Marcione, ma anche le lettere degli apostoli ebrei: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda (le lettere cattoliche). Per quanto riguarda

34

A. Introduzione

l'ordine di lettura, il canone vi premette Atti, cioè quello scritto che narra dei molti apostoli e li mette tutti sulla linea di continuità con Gesù. Visti attraverso la lente di Atti, gli apostoli ebrei godono peraltro di un primato cronologico rispetto a Paolo, aggiuntasi più tardi (il che, nel mondo antico, significa automaticamente sempre anche un primato concreto). Questa è un'esplicita sottolineatura contraria rispetto a Marcione. In modo corrispondente, nei manoscritti anteriori al IX secolo, le lettere di Paolo sono abitualmente disposte dopo quelle degli apostoli ebrei. Se Marcione premette alla sua raccolta di lettere (di Paolo) quella ai Galati, in quanto manifesto a favore dell'unico vangelo, nel canone tocca a Romani introdurre la raccolta delle lettere di Paolo, cioè tocca proprio a quello scritto che si preoccupa dell'unità della chiesa composta di giudei e pagani, ma che difende anche la causa del rispetto reciproco e si batte perché essi possano stare insieme e andare d'accordo. Il principio dialogico si esprime specialmente nel fatto che le lettere cattoliche sono ordinate proprio nella sequenza in cui si presentano gli interlocutori di Paolo nell'incontro di Gerusalemme di Gal2,9: Giacomo, Pietro, Giovanni (con l'aggiunta di Giuda che viene presentato come fratello di Giacomo, il fratello del Signore, e per questo chiude il quadro della raccolta delle lettere). Ciò che Marcioné voleva archiviare una volta per tutte, ovvero il confronto con la parte ebraica e giudeocristiana, viene fissato per sempre attraverso i libri del canone. La discussione teologica e la lotta per il reciproco riconoscimento di strade diverse - quindi proprio la situazione dialogica - che Paolo riferisce in Gal2, 1-1 O vengono per così dire insediate come istituzione permanente attraverso i libri del canone: nelle loro lettere gli apostoli ebrei parlano al lettore esattamente come fa Paolo nelle sue. Il dialogo sui differenti approcci teologici deve essere proseguito a livello dei ricettori. Tutto ciò viene elevato a programma. Sulla base del suo principio antitetico, Marcione punta a separare una volta per tutte il Dio buono di Gesù - del quale, secondo lui, si fanno garanti soltanto Paolo e il suo vangelo -, dal Dio creatore degli ebrei e quindi dalla tradizione ebraica. Nel canone cristiano, invece, le Scritture dell'ebraismo restano tangibilmente la tradizione di base: rappresentano la prima parte del canone cristiano. Dopo che le Scritture neotestamentarie, nella loro disposizione, furono accordate in modo estremamente preciso ai gruppi di quelle anticotestamentarie, la tradizione neotestamentaria appare formata secondo le linee-guida di quella tradizione di base, cioè la sequenza ebraica delle Scritture si presenta co-

I. Il canone cristiano

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me il progetto architettonico dell'ordine dei libri neotestamentari. Da ultimo, dovette rivestire una particolare finalità simbolica il fatto che in tutte e due le parti del canone cristiano si possono trovare i nomina sacra abbreviati nella stessa maniera: il Dio di Gesù è il medesimo Dio di cui parlano anche le Scritture ebraiche.

3.

La formazione del canone cristiano

La data precisa in cui fu fissato il canone cristiano, gli impulsi determinanti che ne furono alla base, così come chi vi ebbe parte sono tutti elementi più che mai controversi. Di questa situazione è responsabile soprattutto la scarsità di dati a disposizione, che non consente di trarre conclusioni chiare. Abbiamo a che fare con liste canoniche in cui i libri cristiani autorevoli sono enumerati sotto forma di catalogo, ci confrontiamo con manoscritti che documentano un precoce accostamento e raggruppamento di testi cristiani, nonché con testi di scrittori del primo cristianesimo in cui è testimoniato l'uso effettivo di Scritture anticotestamentarie e/ o neotestamentarie. Di fronte all'esiguità della documentazione si arrivano a capire quelle asserzioni stando alle quali la formazione del canone va ricondotta alla providentia Dei (K. ALANO 17) oppure al caso (W. MARXSEN 290). Di solito però gli esegeti sono più portati alla ricostruzione. I padri fondatori degli studi sul canone ponevano la nascita del canone cristiano alla metà del II secolo d.C. Il tema principale delle loro discussioni verteva sulla questione se fosse stato Marcione con il suo modello di canone a far reagire la chiesa (A. von Harnack) o se Marcione avesse potuto già fare riferimento a un ben definito gruppo di scritti che venivano letti nelle comunità (T. Zahn). La corrente principale della ricerca odierna sposta invece la 'chiusura normativa' del canone (U. SCHNELLE 399) al IV secolo (K. ALANo 139; E. LOHSE, Entstehung, 15-17; A. SUNOBERG; K. GRESCHAT 60). Per il II secolo d.C. si accetta l'idea che esso abbia rappresentato una sorta di 'pista di decollo' per una prima formazione del canone, e a questo proposito si ammettono soprattutto quegli che vengono definiti intrinsic foctors (fattori intrinseci). Della chiusura definitiva tuttavia si rende responsabile la decisione autoritativa dei vescovi, adducendo come esempio Atanasio di Alessandria (H.

36

A. Introduzione

VON LIPS, Kanon, 92). Nella sua lettera per la Pasqua del 367, oltre a comunicare, secondo la consuetudine, la data della Pasqua e dell'inizio della Quaresima, il vescovo definì anche vincolanti i libri considerati «fonti della salvezza»: dopo l'elenco dei libri dell'AT secondo l'ordine dei Settanta(+ 2.1), fanno la loro apparizione i ventisette scritti del NT nell'ordine che ci è familiare; le sette lettere cattoliche - in conformità all'ordine anteriore al IX secolo - sono poste subito dopo Atti. La responsabilità di simili tendenze unificatrici, come quelle che si possono osservare più tardi anche nei concili svoltisi in Occidente (Ippona, 393; Cartagine, 397), la si attribuisce di solito al nuovo quadro politico: la chiesa imperiale costantiniana- si dice- non sopportava più l'antica molteplicità e pretendeva definizioni univoche (W. ScHNEEMELCHER 43). Aumenta così anche la produzione libraria del canone, ora fissato in modo definitivo, e a questo proposito si può citare, quale esempio perspicuo, la grossa ordinazione fatta dall'imperatore Costantino: costui, nel 332, tramite Eusebio di Cesarea, ne commissiona cinquanta copie per la sua nuova capitale, Costantinopoli (Eusebio, Vita Const IV 36); stando a quanto sostiene T.C. Skeat ( Codex), i primi due grandi codici della cristianità - il Codex Sinaiticus e il Codex Alexandrinus sono da mettere in relazione con quell'ordinazione. Alla fine del XX secolo, tuttavia, gli studi sul canone si sono risvegliati e ciò si deve a una tesi che ha letto e analizzato i dati a disposizione in modo completamente diverso: la sorprendente omogeneità formale che si può rintracciare risalendo ai primissimi manoscritti, dai nomina sacra alla nuova forma del codice, passando per il titolo dei singoli scritti, secondo D. Trobisch riconduce all'attività di una 'redazione finale' (Die Endredaktion des Neuen Testaments è il titolo del suo saggio) che va collocata alla metà o alla fine del II secolo d.C. Il canone non è nato né per una decisione autoritativa né per un'accettazione di certi libri andata affermandosi lentamente, bensì è stato presentato e diffuso sotto forma di libro. Finora sono stati in pochi a seguire questa ricostruzione delle cose (M. KLINGHARDT, Veroffentlichung, con lievi tagli, G. THEISSEN 277-308), e nondimeno essa è interessante- e innanzitutto per le decisive problematiche che ha posto, rimettendo in moto la discussione e il lavoro di ricerca. Vi è pur sempre un importante elemento che viene a intralciare quel consenso maggioritario che, datando tardivamente !"imposizione normativa', si richiama soprattutto alle liste canoniche del IV e V secolo: si tratta del cosiddetto frammento di Muratori (canone muratoriano), una

I. Il canone cristiano

37

lista del canone del II secolo che fa già riflettere sulla costruzione della collezione dei libri neotestamentari (-+ 3.1.3). Quel fenomeno viene di conseguenza ritenuto «Una anomalia che, in ultima analisi, non si può chiarire» (K. GRESCHAT 59) oppure viene fatto risalire senza esitazione al IV secolo (G.M. HAHNEMANN). Vi sono però ulteriori indizi che fanno pensare a un processo normativa di canonizzazione avvenuto nel II secolo d.C. Il frammento fu pubblicato nell740 da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Il testo è contenuto in un manoscritto dell'VIII secolo. Si tratta della traduzione in un latino abbastanza barbarico di un testo originariamente scritto in greco. Dato che del Pastore di Erma viene detto che è stato scritto a Roma , il testo- nel caso in cui il riferimento non sia un depistaggio pseudoepigrafìco - deve essere stato scritto ancor prima della fine del II secolo.

3.1

INDIZI A FAVORE DELLA FORMAZIONE DEL CANONE NEL II SECOLO D.C.

Per i primi cristiani 'la Scrittura' per antonomasia consisteva nei libri della Bibbia ebraica. Per quanto riguarda, invece, l'insegnamento di Gesù e degli apostoli, Papia di Hierapoli, nella sua Esposizione degli oracoli del Signore (uno scritto risalente al 125 d.C. circa), favorisce le notizie orali, di cui va avidamente alla ricerca: «Non credevo infatti che le notizie dei libri mi sarebbero state utili quanto quelle che mi venivano da una voce viva e ferma» (Eusebio, Hist Eccliii 39,4). Ma da allora si può osservare all'improvviso uno spostamento piuttosto decisivo.

3 .1.1

Le parole di Gesù come 'Scrittura' e la letteratura cristiana nella percezione esterna

Alla metà del II secolo d.C. le parole di Gesù tratte dai vangeli vengono introdotte per la prima volta allo stesso modo delle citazioni dell' AT: «come sta scritto» (Mt 22,14 in Barn 4, 14), oppure: «e un'altra Scrittura dice» (Mt 9,13 in 2 Clem 2,4). In questo stesso periodo, all'inverso, per la prima volta il cristianesimo viene avvertito all'esterno per il tramite della sua letteratura. Ne è il miglior testimone il filosofo Celso: nel suo pamphlet contro i cristiani (176/180 d.C. circa) egli si

38

A. Introduzione

riferisce non solo ai quattro vangeli (non del tutto certo: il Vangelo di Marco), ma si occupa anche del dato di fatto canonico che la storia di Gesù è raccontata in versioni differenti: «tre volte, quattro volte e molte volte» (Origene, Cels II 27). Ciò gli fa sorgere dei dubbi sull'affidabilità dei vangeli. Inoltre Celso ha letto Paolo (cita Gal6, 14). La letteratura cristiana, dunque, non solo è accessibile in linea di principio a chi sta fuori, ma ha già il carattere di autorappresentazione di questo movimento, e a questo proposito se le differenti versioni della raffigurazione di Gesù costituiscono un accento tipico, d'altro canto si presentano al contempo come punti deboli. 3.1.2

La giustificazione del numero quattro per i vangeli (Ireneo)

La prima motivazione del numero quattro per i vangeli si trova nell'Adversus haereses di lreneo di Lione (siamo nel 180 d.C. circa). Sul piano della teologia della creazione, ricorre all'analogia dei quattro venti e dei quattro punti cardinali, su quello della teologia della redenzione si riferisce ai quattro esseri presso il trono di Dio nonché alle quattro conclusioni dell'alleanza (III 11,8). Nell'originale greco dello scritto sono attestati gli inusitati titoli dei vangeli (xa:r:a, 'secondo'); nel commentario breve sugli autori tramandato da Eusebio (Hist Ecc!V 8,2-4), lreneo nomina gli evangelisti nella sequenza Matteo, Marco, Luca, Giovanni. Per quanto concerne gli esseri presso il trono di Dio, lreneo si riferisce già alla ricezione di Ez l, l O (ogni essere vivente ha quattro volti) in Ap 4,7, dove gli esseri in quanto tali somigliano a un leone, a un toro, a un'aquila o hanno le sembianze di un essere umano.

In lreneo si trova l'idea del canone: come richiesto dall'intenzione generale del suo scritto, egli si stacca espressamente da tutti quei gruppi che si richiamano a un numero maggiore o minore di vangeli. «Sono pazzi, ignoranti e per giunta temerari coloro che rifiutano la vera concezione di vangelo e introducono un numero maggiore o minore di forme dei vangeli rispetto a quelle (quattro) citate. Gli uni lo fanno per far credere che hanno scoperto più verità, gli altri con l'intenzione di rifiutare le disposizioni di Cristo per la salvezza» (Haer III 11,9). Marcione viene nominato esplicitamente come esempio della seconda corrente. Con tutto ciò, per lo stesso lreneo il discorso dei quattro vangeli non sembra essere facile. Lo sentiamo parlare rarissimamente dei 'vangeli' al plurale (Haer II 22,3; III 11,7-9): nella stragrande maggioranza dei

l. Il canone cristiano

39

casi parla di 'vangelo' al singolare (Y. REED 19s.); due volte, peraltro, aggiungendo l'aggettivo 'quadriforme' (Haer III 11,11.47). In effetti un unico vangelo avrebbe potuto rappresentare simbolicamente assai meglio l'unità della chiesa (S. PETERSEN 251), in base al principio:« ... un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti ... » (Ef4,5s.). La tetrade evangelica è una disposizione particolare della cristianità delle origini: «La chiesa ha quattro vangeli, l'eresia molti» (Origene, Hom Le 1,1). Anche i numeri tre, sette o dodici sarebbero stati facilmente giustificabili. 3.1.3

La giustificazione dell'esclusione della Lettera ai Laodicesi (il canone di Muratori)

La presentazione canonica delle lettere di Paolo in combinazione con Apocalisse è giustificata nel cosiddetto frammento di Muratori. Le sette lettere alle comunità in Ap 2-3 sono messe in analogia con le sette comunità alle quali Paolo scrive le proprie epistole. Questa osservazione rappresenta la base per escludere dai testi ufficiali di riferimento della chiesa una Lettera ai Laodicesi e una Lettera agli Alessandrini, che sarebbero state contraffatte a favore della setta di Marcione. Quanto questa argomentazione sia artificiosa e al contempo tesa a uno scopo preciso lo si vede dal fatto che non si opera con tutto l'insieme delle lettere paoline né vengono prese in considerazione le lettere ai collaboratori. La focalizzazione sulle lettere alle comunità mira chiaramente a negare una raccolta alternativa delle lettere di Paolo. A tal fine dal plico dei documenti già esistente viene scelto un aspetto molto preciso, in questo caso il riferimento alle lettere alle comunità riportate nell'Apocalisse. Nella sua enumerazione dei singoli scritti, ciascuno dei quali viene brevemente commentato, il frammento di Muratori conta già tutti i vangeli e separa gli Atti degli apostoli dal Vangelo di Luca. Delle lettere cattoliche sono nominate soltanto Giuda e la Prima e la Seconda lettera di Giovanni. Del tutto indipendentemente dal fatto che le altre lettere cattoliche siano note o riconosciute, il numero sette, collegato con una argomentazione al numero delle comunità, non si sarebbe potuto comunque applicare alle sette lettere cattoliche, che sono scritte da quattro autori. Sia le sottili riflessioni di Ireneo sia quelle del frammento muratoriano presuppongono la chiara idea di un insieme di documenti cristiani

40

A. Introduzione

già presente nel II secolo. Comprovano il tipico segno di riconoscimento del processo di canonizzazione, nella misura in cui escludono raccolte di diverso genere.

3.2

IL PROCESSO DI RACCOLTA: AUMENTANDO GLI SCRITTI, SE NE PRIVILEGIANO ALCUNI

Quando da parte della tendenza maggioritaria degli studi sul canone vengono sottolineati gli intrinsic foctors che, nel II secolo, avrebbero portato a una determinata costituzione del canone, è sicuramente giusta l'osservazione che il processo di canonizzazione non comincia da zero, ma può rifarsi a un materiale che si presenta già in alcune unità di raccolta. Ora, questo caso si dà già nel II secolo, e precisamente per quegli scritti che evidentemente godono di una accettazione particolarmente ampia: le lettere di Paolo e i vangeli. Prima del processo di canonizzazione si deve dunque stabilire un processo di raccolta (S. PETERSEN 266), inteso nel senso di un processo di accrescimento. Se si marcano i confini e ci si discosta da posizioni diverse, ciò avviene mediante il confronto sui contenuti, eventualmente tramite la produzione di ulteriori scritti in cui viene chiarita la propria posizione, ma non attraverso l'esclusione di determinati scritti o il rifiuto nei confronti di determinate raccolte di scritti; l'autodefinizione si svolge - corrispondentemente - privilegiando determinati scritti, non definendo un corpus di scritti ben delineato. 3.2.1

La collezione delle lettere di Paolo

È stato lo stesso Paolo a disporre la trasmissione delle proprie lettere fra le singole comunità: fra le comunità della Galazia (Gal l ,2), da una parte, e fra quelle di Corinto e dintorni (2 Cor l, l), dall'altra. In 2 Ts 2,2 si mette in guardia da lettere paoline contraffatte, che portano il nome dell'apostolo. Lo scritto più recente del NT, la Seconda lettera di Pietro, presuppone un corpus ben delineato delle lettere di Paolo (3, 15). Dal punto di vista della sua genesi questo corpus di scritti potrebbe essersi formato nel senso di una riscrittura ( Weiterschreibung) della

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I. Il canone cristiano

teologia di Paolo in seno alle comunità paoline. Intendiamo dire che hanno luogo quei processi di rilettura grazie a cui nascono nuove lettere pseudoepigrafìche (cfr. Colossesi, Efesini, 2 Tessalonicest). In almeno un caso a una lettera autentica di Paolo viene aggiunta una glossa perché la posizione della riscrittura secondaria non può più essere fatta passare come una pura e semplice correzione dello stesso Paolo («autoreferenza testuale fittizia»: A. MERZ). Il divieto di insegnare per le donne, quale è espresso dalle lettere pastorali (cfr. l Tm 2,9-15), viene 'preparato' nella collezione delle lettere dalla glossa di l Cor 14,33-36 (__._ D.IV.2.2). Si tratta dunque di movimenti interni al pensiero teologico, la cui legittimazione riposa sul fatto che le lettere autentiche di Paolo (Romani; l e 2 Corinzi; Galati; Filippesi; l Tessalonicesi; Filemone) rappresentano la base sia dell'ulteriore sviluppo delle idee paoline (Efesini; Colossest) sia del benestare concesso ad alcune persone (lettere pastorali). Per questo la raccolta degli scritti è il presupposto della pretesa avanzata. D. Trobisch (Entstehun~ ha sostenuto la tesi che il corpus degli scritti paolini si sia formato per gradi, in tre raccolte parziali. Nella sequenza testimoniata in modo generalmente costante nei manoscritti (con l' eccezione di P46 ), colpisce il fatto che le lettere siano disposte secondo due princìpi ordinativi: secondo i destinatari (lettere indirizzate alle comunità/ai collaboratori) e secondo la lunghezza. Ma questo principio ordinativo all'interno delle lettere alle comunità si riavvia una seconda volta: con Efesini, che è più lunga di Galati. Secondo Trobisch è questo il motivo per cui Efesini rappresenta la lettera iniziale di una nuova raccolta parziale, che venne inserita nella raccolta originaria in un secondo momento. Le lettere pastorali (con l'aggiunta della lettera al collaboratore indirizzata a Filemone) rappresentano la seconda appendice. Le cifre fornite nella seguente tabella indicano ciascuna il numero delle lettere dell'alfabeto contenute nel testo greco: Rm 7Cor 2Cor Gal

34.410 32.767 22.280 11.091

Ef Fil Col 7Ts 2Ts

12.012 8.009 7.897 7.423 4.055

7Tm 2Tm Tt Fm

8.869 6.538 3.733 1.575

La Lettera agli Ebrei è stata probabilmente inserita nella collezione di Paolo soltanto in un secondo tempo. Ha lasciato le sue tracce nella misura in cui la sua posizione è vistosamente variabile all'interno di

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A. Introduzione

un ordine che, per il resto, è assai costante: o alla fine delle lettere alle comunità o alla fine dell'intero corpus. Il luogo predestinato per la collezione è Efeso, il centro della scuola paolina; entrano nella discussione anche Corinto o Roma (una panoramica delle teorie sulla collezione delle lettere di Paolo si trova in S.E. PORTER). Quali autori sono chiamati in causa esclusivamente discepoli di Paolo, e a questo proposito va detto che chi ha scritto le lettere pastorali è competente anche della redazione finale. Secondo D. Trobisch (Entstehung) potrebbe essere stato Paolo in persona a ordinare la raccolta delle proprie lettere (prima unità di raccolta).

J. Murphy O'Connor (Letter- Writer, 123s.) richiama l'attenzione sul fatto che inantico si usava calcolare la lunghezza di un testo conteggiandone le righe (stichor). Adottando questo punto di vista, perde valore l'argomento della bipartizione delle lettere alle comunità: infatti Galati ed Efesini, la cui lunghezza (a seconda delle varianti testuali) si differenzia per 700-900 lettere, stando all'uso tradizionale per l'Antichità contano lo stesso numero di righe. P 46 mette Efesini prima di Galati. Di conseguenza S.E. Porter si dichiara a favore di una semplice bipartizione della collezione degli scritti paolini (Pauline Canon, 125).

3.2.2

Una collezione dei quattro vangeli o una tendenza all'armonia dei vangeli?

Il più antico codice dei vangeli pervenutoci, in cui sono contenuti tutti e quattro i vangeli (insieme ad Attt), ovvero il papiro Chester Beatty (P 45 ), viene fatto risalire al III secolo. Se P64 , P67 e P4 appartenessero a un unico codice, avremmo addirittura una testimonianza del 200 d.C. circa (T.C. SKEAT, Manuscript). Per spingersi cronologicamente ancora più a ritroso, si fa di solito riferimento a Giustino (metà del II secolo), il quale parla di 'vangeli' (al plurale): li inserisce nella letteratura delle memorie e, come autori, nomina «gli apostoli di Gesù e i loro seguaci» (Diall 03,8). È provato che egli conosce i vangeli sinottici, verosimilmente anche il Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 3,3-5 in l Apol6I,4), sebbene in verità non vi ricorra quasi mai. Anche la conclusione secondaria di Marco (Mc 16,9-20; + B.V.1.2) presuppone la conoscenza di (almeno) quattro vangeli Q.A. KELHOFFER, Miracle, 121-122.227s.): lì l'apparizione pasquale a Maria di Magdala (Vangelo di Giovanm) viene combinata con l'apparizione ai discepoli di Emmaus (Vangelo di Luca) e con l'invio dei discepoli in tutto il mondo (Vangelo di Matteo)

l. Il canone cristiano

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e la loro missione universale (Attt). Dato che Mc 16,20 è già citato da Giustino (l Apol45,5), il testo deve risalire al più tardi intorno al 150 d.C. Q.A. KELHOFFER, Book, 10). Alla ricerca di prove il più possibile precoci per quei quattro vangeli che successivamente divennero canonici è collegata una disputa importantissima nell'ambito degli studi relativi al canone: ci si chiede se i nostri quattro vangeli abbiano già una posizione canonica indipendentemente e anteriormente rispetto a Marcione (T.K. HECKEL, Evangelium, 284, riguardo alla conclusione secondaria di Marco: «componenti che, distanziandosi dagli altri scritti [ ... ], forniscono informazioni sulle apparizioni>>; G.N. STANTON, Gospe~ 329-332, spec. guardando a Giustino) oppure se non sia stato proprio l'unico vangelo di Marcione a provocare la formazione di un 'controcanone' costituito dai quattro vangeli (H. VON CAMPENHAUSEN). U. Schmid tenta una proposta di compromesso e, osservando la menzionata combinazione dei manoscritti, invece che di un canone dei quattro vangeli parla di una semplice collezione dei quattro vangeli esistente già prima di Marcione, la quale però non pretendeva di avere valore canonico (U. SCHMID, Evangelium).

A ben guardare, tuttavia, né la conclusione secondaria di Marco né Giustino forniscono la prova di un canone dei quattro vangeli o di una collezione dei quattro vangeli, bensì attestano piuttosto la tendenza ad armonizzare i vangeli. Le citazioni dai vangeli fatte da Giustino hanno un carattere armonizzante e risalgono probabilmente alla medesima 'armonia dei vangeli' che poi Taziano ha usato per il suo Diatessaroncon l'unica differenza che in Giustino, a parte un'eccezione, non viene preso in considerazione il Vangelo di Giovanni, mentre in T aziano esso rappresenta la spina dorsale del racconto. Inoltre in Giustino sarebbe vano cercare una chiara linea di demarcazione nei confronti dei materiali evangelici non canonici. Anche in un racconto così importante come l'episodio del battesimo T aziano può riprendere senza problemi alcuni elementi che non sono noti dai vangeli canonici («la grande luce>>: .... 2.2.2; W.L. PETERSEN, Diatessaron [1994], 14-16.27-29: H. KOESTER 360-402). Stando, per così dire, dalla parte dei produttori, i vangeli già esistenti in quest'epoca, che non sono diventati canonici, documentano il modo di procedere rispecchiato dall'utilizzatore Giustino: incorporano, combinano e variano materiali dei nostri vangeli, senza tuttavia limitarsi alle (successive) tradizioni canoniche (cfr. il Vangelo di Pietro, il Vangelo di Egertone, l' Epistula apostolorum). Si tratta dunque di una riscrittura di materiali evangelici esistenti, forse anche tramandati oralmente, i quali vengono montati ciascuno in una nuova struttura narrativa.

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A. Introduzione

Sicuramente bisogna riconoscere una certa qual predilezione per i quattro vangeli diventati canonici, ma bisogna osservare che i vangeli sinottici e quello di Giovanni registrarono in Oriente e in Occidente un consenso talmente diversificato che una raccolta dei quattro vangeli fa già pensare a un compromesso fra le due parti(+ 3.4). Sia Luca sia Matteo, ciascuno dal suo punto di vista, intendono sostituire Marco: non è assolutamente nelle loro intenzioni avere un valore parallelo. E quindi non sorprende il fatto che, oltre alla riscrittura (Fortschreibung) omologante che mischia le tradizioni, sia possibile osservare per i vangeli una variazione supplementare dello sviluppo ulteriore del processo di crescita, variazione che, pur essendo altrettanto contraria alle intenzioni della collezione dei quattro vangeli, si adatta benissimo alle caratteristiche della fase di raccolta (prima del processo di canonizzazione). 3.2.3

Raggruppamenti di testi omogenei (cluster)

Nella letteratura cristiana del I e II secolo è possibile osservare più volte la tendenza a integrare un vangelo esistente con un altro scritto. Ciò accadde in diversi passi in modo indipendente (G. THEISSEN 297300). Di questi fenomeni, tecnicamente indicati come clusters ('gruppi, insiemi, raccolte' di testi con caratteristiche simili, omogenee), il più noto è la duplice opera lucana: il Vangelo di Luca trova il suo proseguimento negli Atti degli apostoli; questi ultimi narrano ciò che rimane non realizzato nel vangelo, vale a dire il preannunciato invio dello Spirito (Le 3, 16). Dopo che, oltre alla 'Pentecoste dei discepoli' (At2), si dà anche una 'Pentecoste dei pagani' (At 10), la missione ai pagani, oggetto di controversie nel cristianesimo delle origini, viene allo stesso tempo messa in continuità con l'intenzione di Gesù. Lo stesso corpus iohanneum è formato dal vangelo e dalle lettere: mentre la Seconda e la Terza lettera di Giovanni consentono di gettare uno sguardo sulla storia delle comunità, la Prima lettera, nel contenuto, è direttamente connessa al vangelo, in quanto serve come garanzia della lettura ortodossa del quarto vangelo. Gerd Theissen vorrebbe infine riconoscere un cluster anche per il Vangelo di Matteo: la Didaché si riferisce più volte a «il vangelo» (8,2; 11,3; 15,3.4), dicitura con la quale non può intendersi altro che il Vangelo di Matteo (T.K. HECKEL, Evangelium, 276s.). Dal punto di vista del contenuto, la Didaché spiega la dottrina del battesimo, for-

I. I l canone cristiano

45

mula dunque indicazioni per l'attuazione pratica dell'ultimo mandato di Gesù sul monte, con cui si chiude il vangelo (Mt 28, 16-20; cfr. G. GARLEFF). Che lo scritto integrativo del Vangelo di Matteo non sia poi stato accolto nel canone, Theissen lo giustifica con il fatto che i gruppi giudeo-cristiani di Siria che stanno dietro il Vangelo di Matteo e la Didaché non furono abbastanza forti da imporre il loro scritto integrativo; essi inoltre si trovavano al di fuori del bacino in cui il canone è stato discusso, cioè l'Asia minore e Roma.

3.3

LA CANONIZZAZIONE: RISTRUTTURAZIONE DELLE RACCOLTE DI TESTI

Se si considerano le tendenze di accrescimento degli scritti del cristianesimo primitivo fino alla metà del II secolo, bisogna dire che nel canone viene ripreso l'esistente (la collezione delle lettere paoline), che viene al contempo" completato (lettere cattoliche); si prende una decisione contro la tendenza ad armonizzare i vangeli e a favore di insiemi di testi (cluster); questi ultimi tuttavia vengono ristrutturati: a) Insiemi già esistenti di testi vengono smembrati. Con la separazione delle Lettere di Giovanni dal Vangelo di Giovanni si forma il gruppo di base delle lettere cattoliche. Atti vengono inseriti non come prosecuzione del Vangelo di Luca, bensì come introduzione narrativa alle lettere apostoliche. b) Con la combinazione di Atti degli apostoli e lettere apostoliche viene creata artificiosamente una nuova raccolta che, peraltro, aggiunge subito due appendici a un unico scritto di base: le lettere cattoliche e le lettere di Paolo. Fino nel cuore del periodo bizantino resta in piedi una raccolta unitaria che risulta dalla combinazione di Atti e lettere cattoliche (Praxapostolos). c) La forma dell'insieme di testi (cluster) sorta nel periodo di crescita degli scritti neotestamentari è ripresa dal canone come forma strutturale, tanto in piccolo (Atti in combinazione con le lettere apostoliche) quanto in grande: nell'insieme il canone presenta il cluster 'vangelo con lettera', a ogni buon conto molto ampliato e integrato. d) In questo contesto, gli ampliamenti e le integrazioni si possono intendere direttamente come reazione a Marcione e contemporaneamente come correzione di rotta nei confronti della tendenza all'armonia dei vangeli: questa forma rilevante nella fase della raccolta non viene

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A. Introduzione

ripresa. Invece di un unico vangelo, il canone mette all'inizio quattro vangeli che, in parte, dovettero essere separati dalle originarie unità a cluster. Il canone non si limita a offrire un'unica raccolta di lettere come fa Marcione (cioè quelle di Paolo), bensì due raccolte epistolari, laddove gli Atti, in veste di 'testo narrativo iniziale' per le lettere, garantisce il primato cronologico - e, stando al criterio dell'anzianità proprio dell'epoca antica, anche il primato contenutistico - delle lettere degli apostoli ebrei (lettere cattoliche). e) Nel canone sono per così dire stratificate l'una nell'altra due raccolte parziali. La struttura principale 'vangeli e lettere' viene attraversata dalla substruttura 'Atti degli apostoli e corpora delle lettere', che la interseca, e completata inoltre da Apocalisse. f) L'ordine di queste quattro unità - vangeli, Atti degli apostoli, lettere, Apocalisse- prende come riferimento l'ordine dei libri nei Settanta (-+ 2.1) - ossia: T orah, Storia, Sapienza, Profezia - che forse era stato fissato dai cristiani (adottando la forma del codice). Questo orientamento di principio sui Settanta potrebbe essere anche il motivo per cui Ebrei, che, in quanto trattato teologico- come Atti e Apocalisse- rappresenta proprio un genere autonomo all'interno degli scritti neotestamentari, sia stata: inserita nella raccolta delle lettere paoline. I rotoli dei Settanta, che evidentemente sono stati ordinati già con lo sguardo rivolto ai futuri scritti canonici del NT, non presentano alcun gruppo di scritti che abbiano analogia con questo genere letterario.

Nel complesso il risultato è questo: le caratteristiche tipiche del canone cristiano, il suo vangelo quadripartito, la combinazione di due raccolte di lettere precedute da Atti, la posizione finale dell'Apocalisse, nonché l'acclusione della Bibbia ebraica in traduzione greca, sono comprensibili, sul piano dei contenuti, come progetto opposto al canone di Marcione e contemporaneamente come rifiuto delle tendenze ad armonizzare i vangeli. Dal punto di vista della struttura, però, viene ripresa la forma della associazione di scritti (cluster) già esistente nel II secolo, che nella sua forma tipica completa sempre il rispettivo vangelo con uno scritto ulteriore. Lo scritto iniziale, però, nel canone è già 'quadripartito', e inoltre la riscrittura viene continuata lasciando molteplici tracce nelle lettere cattoliche e nelle lettere paoline, restando tuttavia collegata all'origine per mezzo di Atti. In tal modo, sul piano del contenuto, la riscrittura differenziata di una tradizione originaria che è già all'insegna della differenziazione viene elevata al rango di paradigma. Si pone un freno sia alla tentazione di operare una selezione dalla molteplicità degli

l. Il canone cristiano

47

approcci teologici del cristianesimo primitivo, quindi alla unilateralità (Marcione), sia alla tentazione di livellare semplicemente gli approcci differenti ricorrendo all' uniformazione (armonia dei vangeli). Queste caratteristiche tipiche del canone cristiano sono testimoniate già verso la fine del II secolo, così che il vero e proprio lavoro di costruzione deve essere avvenuto prima della fine del II secolo. Una prova del chiaro rifiuto verso la forma rilevante dell'armonia dei vangeli e, insieme, a fovore dell'uso dei cluster, è rappresentata dalla stessa conclusione secondaria di Marco: questa armonia dei vangeli manca comunemente nei codici più antichi (+ B.V.1.2) e non è quindi stata accolta nelle primissime edizioni 'canoniche'. Da parte sua, il testo si rifà invece alla duplice opera lucana (cfr. Mc 16,17 con At 2,4.11) e non rappresenta affatto una linea di separazione tra i vangeli (diventati più tardi canonici; cfr. J.A. KELHOFFER, Miracfe, 227s.).

3.4

CATALIZZATORI DELLA FORMAZIONE DEL CANONE

3.4.1

Marcione e la pretesa di esclusività dei suoi cluster imitativi

Rispetto alla forma della raccolta parziale di scritti (cluster), determinante per lo sviluppo della tradizione del cristianesimo primitivo, occorre dire che, con il suo canone, Marcione non ha inventato niente di nuovo. Si è agganciato piuttosto alla tendenza alla formazione di cluster propria del cristianesimo primitivo e ha scelto una forma analoga a quella del corpus iohanneum: la combinazione di vangelo e lettere. Marcione si rifà, dunque, a una struttura esistente, ma la usa in maniera diversa: a differenza delle unità di cluster cristiane già esistenti, Marcione non si ferma alla preferenza per il proprio cluster, ma pretende l'esclusività. Questa pretesa risulta dal fatto di conjèrire un peso determinante proprio a quegli scritti che vengono combinati con il vangelo: in Marcione è a partire dagli scritti di integrazione, cioè le lettere di Paolo, che il vangelo viene sottolineato e valorizzato - fondando infine la pretesa che, oltre al vangelo che le precede, non debba esserci alcun altro scritto. Nelle altre unità di cluster cristiane esistenti il peso delle due parti risulta rovesciato: gli scritti che vengono rispettivamente aggiunti rappresentano una effettiva integrazione o continuazione del vangelo, così che il vangelo resta la base dell'ulteriore sviluppo della tradizione, senza che venga avanzata una pretesa di esclusività.

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A. Introduzione

L'antica disputa degli antesignani degli studi sul canone (~ 3.) -se Marcione presupponga il canone cristiano o il canone cristiano reagisca alla proposta di Marcione- può essere così liberata dal suo inasprimento esclusivista: Marcione riprende un modello della tradizione (quello delle raccolte parziali: i cluster), presente nel cristianesimo primitivo, dandogli un peso inverso e considerandolo esclusivo. A questo reagisce il canone cristiano. In questo senso ci sono validi motivi per indicare Marcione come catalizzatore della formazione del canone cristiano.

3.4.2 Il clima intellettuale nella disputa sulla celebrazione della Pasqua Nel II secolo d.C. è rinvenibile un'altra situazione che potrebbe aver messo le ali all'intenzione teologica del canone cristiano: molteplicità invece che esclusività (Marcione) o armonizzazione (armonia dei vangeli)? In altri termini: esiste un ulteriore catalizzatore nel senso di un clima intellettuale e spirituale che possa aver contribuito alla nascita del canone cristiano? È Ireneo a informarci di una circostanza che si verificò a Roma intorno al155 d.C., in cui rappresentanti del cristianesimo dell'Asia minore e rappresentanti del cristianesimo occidentale poterono conservare la pace e l'unità del movimento cristiano in virtù del fatto di considerare reciprocamente valide le differenti pratiche religiose che si richiamavano a tradizioni apostoliche a loro volta diverse. Si tratta della controversia sulla data della Pasqua. I cristiani dell'Asia minore, richiamandosi al Vangelo di Giovanni, celebrano la Pasqua in concomitanza con la festa ebraica di pesah- indipendentemente dal giorno della settimana in cui cada il 14/15 di nisan (in Giovanni Gesù viene crocifisso nel momento in cui nel tempio si sacrificano gli agnelli pasquali: 3, 14s.). In Occidente, seguendo la cronologia dei sinottici, si celebra la Pasqua la domenica successiva (di conseguenza la quaresima può durare ora di più, ora di meno). Verso il 155 d.C., a causa fra l'altro di queste date differenti della Pasqua, si arriva a un incontro fra Policarpo di Smirne e Aniceto di Roma; tuttavia i due non riescono a raggiungere un accordo. Scrive Eusebio di Cesarea: Né Aniceto riuscì a persuadere Policarpo a non mantenere più quell'usanza che questi aveva sempre osservato con Giovanni, il discepolo del Signore, e con gli altri apostoli con cui aveva rapporti; né Poli carpo persuase Aniceto a

I. Il canone cristiano

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osservarla, perché quest'ultimo dichiarò che doveva attenersi alla consuetudine dei presbiteri che lo avevano preceduto. Nonostante queste differenze, i due si mantennero in comunione. E Aniceto, in segno di reverente rispetto, consentì a Policarpo di celebrare l'eucaristia nella sua chiesa (Hist Ecc! V 24,16s.; per l'analisi della fonte, cfr. N. BROX).

Questo compromesso appare come paradigmatico del canone. Ed è precisamente questa l'epoca in cui a Roma Marcio ne vive il suo periodo aureo, sotto Aniceto (Ireneo, Haer III 4,3), e conquista molti seguaci (Giustino, l Apol58,2). Si arriva a una prima disputa letteraria: grazie a Giustino (cfr. Eusebio, Hist EccliV 18,9). Particolarmente importante è il fatto che anche Policarpo, il rappresentante dell'Asia minore, deve essersi scontrato con Marcione. Ad ogni modo, di Policarpo è tramandato un giudizio pesante su Marcione: «Riconosco in te il primogenito di Satana» (Ireneo, Haer III 3,4). Questa situazione di sfida comune, nel contesto di un clima di reciproca disponibilità al compromesso, potrebbe aver favorito l'idea di un canone strutturato in modo pluralistico, come risposta a Marcione. In questo contesto, all'inizio vengono presi in esame tutti gli scritti che venivano letti soprattutto a Roma e nell'Asia minore. Ma anche tutti quelli che erano preferiti in una sola delle due aree- specialmente allorché potevano allo stesso tempo essere interpretati come argomenti contro Marcione. Questo fu il caso soprattutto del Vangelo di Giovanni. Particolarmente amato in Oriente, esso serviva, fra l'altro, come fondamento della tradizione per la differente data della Pasqua. In Occidente le cose stavano in modo completamente diverso: negli scritti di Giustino esso resta praticamente ignoto; vi è addirittura un gruppo intorno a un certo Gaio di Roma che sospetta di gnosi Giovanni. Nel giro di vent'anni al massimo la valutazione del Vangelo di Giovanni in Occidente cambia repentinamente: nel Diatessaron di Taziano (175 d.C. circa), discepolo di Giustino, è Giovanni che funge da spina dorsale narrativa(+ 2.2.2). Nel quadro della disputa con Marcione proprio il prologo di Giovanni poteva apparire particolarmente importante: come praticamente nessun altro testo del canone, esso garantisce l'affinità, anzi l'unità, di Gesù con il Dio creatore. È vero che, nella costruzione del canone, il cluster del corpus iohanneum fu smembrato, ma, in cambio, la sua forma fondamentale 'vangelo con lettere' fu ripresa per la struttura complessiva del canone stesso. Anche la duplice opera lucana fu smembrata, ma, in cambio, da scritto di integrazione gli Atti degli apostoli furono rivalutati

50

A. Introduzione

come scritto iniziale per le lettere. Le lettere pastorali, che formano la conclusione della raccolta delle lettere di Paolo nata molto probabilmente a Efeso (nella raccolta epistolare paolina di Marcione non è dato trovarle, forse per il semplice fatto che egli non le conosceva ancora), furono le grandi benvenute nella misura in cui rappresentavano un'autocorrezione di Paolo e inoltre rifiutavano le vuote chiacchiere e le 'antitesi' (!)di quella che falsamente è detta 'gnosi-conoscenza' (cfr. l Tm 6,20).

3.5

UNA REDAZIONE FINALE DEL CANONE CRISTIANO

3.5.1

Il canone: diffuso in forma di codice?

Per quanto concerne la forma e la diffusione del canone, D. Trobisch (Endredaktion) ha avanzato la tesi che esso sia stato presentato sotto forma di libro, vale a dire nella veste di codice, che, con le sue caratteristiche editoriali - spiegate tecnicamente come opera di una redazione finale - incarna il contromessaggio principale: per mezzo della perfetta uniformazione delle abbreviazioni dei nomina sacra, si dimostra che il Dio dell'AT è lo stesso identico Dio di cui si parla anche nel NT e di cui Gesù è l'inviato. Con l'uniforme intitolazione di tutti e quattro i vangeli, che al contempo deve saltare necessariamente agli occhi per la sua forma anticonvenzionale (+ 1.2.3), essi vengono dimostrati quali variazioni di pari valore dell'unico messaggio originario. Una carenza di questo punto di vista consiste, a ogni buon conto, nel fatto che i primi codici completi sono testimoniati soltanto per il IV secolo; prima non si trovano che raccolte parziali. Soprattutto negli antichi papiri non si trovano praticamente tracce del fatto che le raccolte parziali fossero state combinate fra di loro. Da nessuna parte è testimoniato un vangelo pubblicato insieme con una lettera, mentre si trovano i vangeli uniti ad Atti (P 45 e P 53, entrambi del III secolo); da nessuna parte si trova una combinazione fra le lettere cattoliche e le lettere di Paolo; si trovano invece dei papiri in cui sono tramandate alcune (P 36 , III secolo; P 92 , 300 d.C.) o tutte (P 46 , 200 d.C. circa) le lettere di Paolo, o ancora alcune delle lettere cattoliche (1-2 Pietro + Giuda: P72 , III/IV secolo). Se dunque deve essere accettata la tesi di Trobisch di una redazione finale, bisogna comunque fare i conti con edizioni (normali) del canone cristiano presentate in raccolte parziali.

l. Il canone cristiano

3.5.2

51

Le Scritture che vengono confutate sono una prova del canone?

Trobisch vede nella Seconda lettera di Pietro qualcosa che assomiglia all'editoriale dell'edizione completa (oltre a Gv 21; Atti; 2 Timoteo: cfr. D. TROBISCH, Endredaktion, 125-154). Questo scritto, che dal punto di vista del contenuto è un duplicato della Lettera di Giuda, si riferisce a tutte le parti del canone: alla storia della trasfìgurazione nei vangeli sinottici (1,16-18); alla predizione del martirio di Pietro nel Vangelo di Giovanni (1,14); a una collezione compiuta di lettere paoline (3,15s.); le lettere cattoliche vengono già usate: Giuda serve da modello, del quale però si tralascia ciò che non ha la copertura delle Scritture ebraiche ( Gd9.14s.); forse nella speranza di un nuovo cielo e di una nuova terra si può riconoscere addirittura un richiamo trasversale ad Apocalisse e nella visione dell'apostolo come testimone oculare un riferimento ad Atti. Appunto a causa della sua straordinaria funzione per la collezione completa è strano che proprio a questa lettera sia stato negato per tanto tempo il riconoscimento. Sia Origene (185-253 d.C.) sia Eusebio (264/265-339/340 d.C.) elencano la Seconda lettera di Pietro fra gli scritti «controversi» o «confutati» (Eusebio, Hist Ecc/IV 25,8; III 25,17). Oppure bisogna fare un'altra cosa? Cioè ritorcere l'accusa e dire: proprio il fatto che uno scritto sia controverso rivela che si è davanti a un'idea di canonicità contro la quale si cerca di difendersi. Nella fase della raccolta e del processo di crescita si prediligono determinati scritti, mentre non se ne prendono in considerazione altri. È solo quando viene innalzato il grado di valore della canonicità o quando esso è in gioco che occorre difendersi da uno scritto. Stranamente, oltre alla Seconda lettera di Pietro, hanno dovuto lottare per ottenere riconoscimento anche Giacomo, 2 e 3 Giovanni, Giuda, Ebrei e Apocalisse, quindi proprio quegli scritti che sono stati accolti nel canone ex novo accanto a quelli comunque stabiliti e che - in particolare per quanto riguarda le lettere cattoliche - erano pensati come radicale opposizione a Marcione. N o n appena si concordi su una formazione de facto del canone nel II secolo, bisognerà di conseguenza procedere a una nuova valutazione delle successive discussioni e liste del canone, considerandole, cioè, come confronti con l'entità già stabilmente delineata del canone cristiano o anche come tentativo di imporre davvero questa entità nelle comunità cristiane (cfr. l'interpretazione che D. BRAKKE offre della lettera di Atanasio sulla celebrazione della Pasqua).

52 3.5.3

A. Introduzione

L 'interfoccia utente: armonia fra i redattori in presenza di una differente teologia

Di solito viene ignorata la seconda tesi principale del contributo di Trobisch, ovvero la seguente: le tendenze teologiche differenti e, in parte, reciprocamente contraddittorie che vengono presentate nei singoli scritti del canone possono coesistere l'una accanto all'altra perché i loro autori - come rivelano le notizie biografiche soprattutto in Atti, ma anche nelle lettere di Paolo -, nonostante la disputa teologica e il duro conflitto (cfr. Gal2,I-I4; At 15), continuano a cercare vie d'incontro e alla fine, anche se le posizioni rimangono instabili, sul piano personale sono in armonia fra di loro. Come fa Trobisch ad arrivare a questa tesi? Nel complesso, per i ventisette scritti del NT, non vi sono che otto nomi di autori: Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, Giacomo, Pietro e Giuda. Dato che anche gli scritti del NT, soprattutto i vangeli, in origine tramandati anonimamente, vengono indicati in tutti i manoscritti e in tutte le edizioni, fin dall'inizio e comunemente (cfr. P66 , 200 d.C. circa; P 4164167 , 200 d. C. circa; P75 , III secolo), con il nome del medesimo autore, senza che i testi forniscano di per sé un chiaro indizio del nome del possibile autore, Trobisch (Endredaktion, 73-94) parte dal fatto che i nomi di questi autori - anche sull'onda della redazione finale - siano stati appositamente assegnati per ottenere l'immagine degli apostoli e dei discepoli degli apostoli che, pur disputando fra di loro, tornavano ogni volta a riconciliarsi. Ciò è particolarmente eclatante per il titolo dei vangeli. Nella 'interfaccia utente' del NT, in ciò che appare insomma agli occhi del lettore, stando ai dati biografici interni, risulta che di fronte all'unico vangelo per il quale lotta Paolo (l'apostolo prediletto da Marcione), vangelo attribuito dall'edizione canonica all'accompagnatore di Paolo, Luca (cfr. Col4,I4; Fm 24;-+ B.VI.2.3; C.2.4), si trovano -equiparati- i vangeli degli apostoli ebrei Matteo e Giovanni. Marco sta a metà strada fra le due parti: a volte viene nominato in relazione a Pietro (At 12,12), a volte in relazione a Paolo (At 12,25). Ma è proprio a causa di Marco che nasce la lite fra Paolo e Barnaba, perché egli li aveva piantati in asso in Panfilia. Paolo rifiuta Marco come accompagnatore di viaggio (At 15,37-41); ma questa rottura non dura: stando a Col 4, l O si deve essere arrivati a una riconciliazione fra i due, il che è confermato da 2 Tm 4,11 («perché mi sarà utile per il ministero»). Marco non è riconosciuto come collaboratore soltanto da Paolo (Fm 24), ma è anche indicato da Pietro come proprio «figlio» (l Pt 5,13).

I. Il canone cristiano

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Considerato nell'interfaccia utente, il Vangelo 'secondo Marco' è come una garanzia per quell'intesa personale fra Paolo e Pietro che, in un primo tempo, nell'incidente di Antiochia, non c'era stata(+ D.II.3.[f]). Quindi è anche attraverso i nomi degli autori, in parte assegnati fittiziamente, che si manifesta il programma del canone. Il reciproco rispetto personale rende possibile la coesistenza, con pari dignità, di posizioni teologiche e pratiche liturgiche differenti. Così, in ultima analisi, se si segue la tesi di Trobisch, il paradigma dell'intesa fra Policarpo e Aniceto riguardo alla data della celebrazione della Pasqua viene, dai responsabili del canone, retroproiettato sugli autori degli scritti neotestamentari, facendolo diventare attivo, al contempo, come modello opposto alla pretesa di assolutezza di un'unica posizione sostenuta da Marcio ne, da un lato, e alla tendenza all'armonizzazione propagandata dall'armonia dei vangeli, dall'altro. Guardando alla formazione dei titoli dei vangeli, negli studi che vanno per la maggiore si sono affermate le due ipotesi seguenti: a) Il Vangelo di Marco, che reca nella sua frase iniziale il termine 'vangelo', rappresenterebbe il modello. Alle prime copie di questo vangelo inviate ad altre comunità sarebbe stato aggiunto il titolo Vangelo secondo Marco come segno di distinzione (forse già in quell'anno di crisi che fu il69 d.C.). Ciò avrebbe esercitato un'influenza formativa (M. HENGEL 48-51). b) Il termine 'vangelo', di conio paolina, che in realtà è associabile a un messaggio orale(+ B.III), sarebbe stato collegato per la prima volta a un racconto riguardante Gesù proprio da Marcione, collegato anzi proprio a quel racconto che egli premette alle sue lettere di Paolo (H. VON CAMPENHAUSEN 187). Quel testo, che il canone presenta come Vangelo di Luca, da Marcio ne, che segue le orme di Paolo, sarebbe stato titolato 'vangelo' tout court (A. VON HARNACK 39.184*; cfr. Tertulliano, MarciV 2,3s.): una differenziazione in base all'indicazione degli autori avviene solo nell'edizione canonica. c) S. Petersen (Evangelienuberschriften, 271-274; cfr. anche T.K. HECKEL, Evangelium, 192) ha aggiunto una nuova variante che va inserita cronologicamente fra le due ora citate: Cv 21,25, forse un'aggiunta successiva al testo, con l'accenno a «molte altre cose compiute da GesÙ>> paleserebbe la possibilità che fossero contemporaneamente in circolazione svariati racconti su Gesù, senza che essi dovessero essere redatti in vista di una comune trama narrativa. In tal caso, i titoli sarebbero la conseguenza dell'incontro di diversi vangeli e della corrispondente riflessione di Cv 21,25 (inizio del II secolo). Nessuna di queste teorie, tuttavia, può rendere plausibile la concreta assegnazione dei nomi per i vangeli. E neppure trova spiegazione il fatto che la forma non convenzionale del titolo dei vangeli ('vangelo secondo .. .'; ... 1.2.3) resti limitata ai quattro vangeli canonici - a differenza degli altri vangeli che, pur esistendo già (+ 3.2.2), non furono accolti nel canone. Sulla linea finora presentata, la genesi più plausibile sembra essere la seguente: il termine 'vangelo' come indicazione di un genere letterario riferito al racconto su Gesù fu coniato da Marcione (ipotesi b) e ripreso, nel processo di canonizzazione (redazione

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A. Introduzione

finale), in modo differenziato, per quattro racconti su Gesù: la formulazione 'vangelo secondo .. .'(_.. 1.2.3) garantisce la concreta parità del loro valore. La scelta dei nomi degli autori mira al progetto di armonia nella prospettiva (interfaccia) degli utenti.

3.6

CRITERI DI CANONICITÀ

La questione inerente i criteri per la canonicità di uno scritto viene affrontata intenzionalmente alla fine del presente capitolo, dopo aver visto la struttura e la storia del canone. Stando agli studi in genere più accreditati, la paternità apostolica di uno scritto e la conformità alla regula fidei - quindi un principio personale e uno oggettivo - sono state determinanti per conferire canonicità a uno scritto (H. VON LIPS, Kanon, 114-116). Guardando alla storia del canone si vede però che né il contenuto da solo né l'attribuzione di uno scritto a un apostolo o a un discepolo degli apostoli gli hanno conferito qualità canonica. Di fatto, a essere determinanti nel processo di canonizzazione del II secolo furono dei criteri completamente diversi che dipendono dall'uso dei rispettivi scritti da parte di determinati gruppi o teologi: a) La valutazione di alcuni scritti (privilegiandoli) rispetto ad altri. Quanto a questo, Marcio ne è l'esempio migliore: nella sua collezione delle lettere di Paolo egli ha raccolto scritti senza dubbio apostolici; anche per il suo vangelo il successivo canone avalla l'autorità di un discepolo di un apostolo e accompagnatore di Paolo, ovvero Luca. Tutti gli scritti di Marcione vengono integrati nel canone e quindi approvati sul piano canonico. Dal punto di vista del contenuto gli scritti di Marcione corrispondono dunque completamente alla regula fidei. Ciò che rende sospetta la collezione degli scritti di Marcione non è il contenuto degli scritti da lui raccolti, bensì, da un lato, la pretesa di esclusività sollevata da Marcione per il suo canone (che quindi nega, al tempo stesso, la canonicità ad altri scritti); dall'altro, il fatto che egli, partendo dalle lettere di Paolo, ammette un'unica tendenza interpretativa per il messaggio cristiano originario (e, di conseguenza, seleziona determinati passi testuali già all'interno degli scritti da lui raccolti). In tal modo, riguardo al canone ortodosso è acquisito un criterio (formale) negativo: la canonicità viene negata quando è avanzata la pretesa di esclusività per una determinata scelta di scritti e un determinato approccio esegetico del messaggio originario.

I. Il canone cristiano

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b) Testi e gruppi. L'asserita autorità dell'autore apostolico non è una garanzia decisiva perché uno scritto sia riconosciuto canonico. In ultima analisi, a essere determinanti sono i gruppi che basano su un dato scritto la propria formazione nella teologia e nella prassi. Se l'indirizzo teologico o la prassi di questo gruppo non vengono accettati, l' eventuale scritto 'apostolico' cade automaticamente in discredito. Esempio 1: Serapione, vescovo di Antiochia intorno al200 d.C., durante una visita pastorale arriva in una comunità che legge il Vangelo di Pietro e accetta questo fatto. Solo quando viene a sapere che a leggere questo vangelo sono anche dei gruppi gnostici, ne proibisce la lettura alla sua comunità (Eusebio, Hist EcclVI 12,2-6; cfr. É. ]UNOD). Esempio 2: Persino il Vangelo di Giovanni poté cadere in discredito. Certi ambienti- dal vescovo Epifania di Salamina (IV secolo) furono chiamati 'alogeri' (gente senza cervello) -lo attribuivano allo gnostico Cerinto e non lo consideravano degno di essere usato nella liturgia. Le vere cause di questo fatto non sono del tutto chiare. Apparentemente veniva esagerata la discrepanza con i vangeli sinottici (Epifania, Haer 51 ,3s.), ma il motivo recondito era il rifiuto di quei gruppi montanisti che vedevano agire fra di loro il Paràdito promesso in Giovanni. A Roma la campagna era guidata da un certo Gaio (198-217 d.C.)(+ 3.4.2; una presentazione differenziata in A. MARJANEN). Così si è acquisito un criterio di ricezione: non è in primo luogo il contenuto di un dato scritto a decidere della sua canonicità, ma piuttosto l'uso di questo scritto da parte di determinati gruppi. Una interpretazione gnosticheggiante non viene accettata. L'opposizione alle tendenze gnostiche si vede, in realtà, già negli scritti più tardi del NT (cfr. l T m 4,2s.; l Gv 4,2s.). Ma durante la fase della raccolta degli scritti cristiani si svolge una discussione e si tracciano le linee di demarcazione sul piano del contenuto. Durante la fase della canonizzazione, invece, vengono sospettati gli scritti di quei gruppi che mostrano tendenze gnostiche. Oppure gli scritti che si riferiscono specialmente a gruppi riprovati vengono attribuiti ai corrispondenti eretici e quindi pure gli stessi gruppi vengono emarginati. Ambedue i criteri dipendono dunque dalla formazione dei gruppi e dalla loro giustificazione mediante l'uso di un determinato scritto. È l'uso effettivo di quel dato scritto ciò che garantisce la sua 'apostolicità' ovvero che ne attesta la conformità alla regula fidei. Con ciò si dimostra che, secondo gli studi più recenti, con l'espressione regula fidei non si in-

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A. Introduzione

tende semplicemente la forma originaria delle successive confessioni di fede, bensì quanto nella chiesa era autorevole e normativa (H. OHME). Sia il criterio formale sia quello contenutistico sono formulabili soltanto per via negativa. Ambedue segnano il limite estremo del tollerabile: a) criterio contenutistico: chi nega la bontà della creazione e quindi il Dio creatore dell'AT quale Dio di Gesù e chi nega la vera umanità del Logos inviato da Dio non può stare nel quadro del canone; b) chi- all'interno di un confine tracciato sul piano del contenutoassolutizza la propria scelta degli scritti o il proprio approccio interpretativo e si chiude alla coesistenza di approcci teologici differenti, non può rivendicare per sé alcuna canonicità. Detto in altri termini: il canone, così come è stato realizzato nel II secolo, garantisce, mediante la sua struttura, la possibilità di coesistenza di gruppi diversi, i quali si basano, per la loro stessa formazione, su determinati testi- comunque con l'obbligo di riconoscere allo stesso modo altri gruppi che si appoggiano su altri testi. Con ciò è determinante il fatto che nell'adattamento dei testi alla propria prassi - in analogia con l'AT, dove la Torah resta la base di ogni ulteriore sviluppo della tradizione - i diversi vangeli rappresentano la base di partenza, mentre non viene tollerata una selezione in base a una 'riscritrura' dei vangeli nelle lettere. Per quanto riguarda il canone fissato come criterio di partenza per stabilire la canonicità di progetti teologici successivi che si richiamano al canone, risulta di conseguenza che è la comunità di fede a sorvegliare direttamente la canonicità dei propri singoli gruppi. Con la decisione a favore del principio della raccolta parziale (cluster. vangelo più testo di riscrittura) fu presa la decisione di un aggiornamento pluralistico di un messaggio originario di per sé plurale. Fin tanto che questo spirito di indirizzo viene osservato nell'uso degli scritti per la formazione del proprio gruppo, restano aperte tutte le possibilità. Nella fedeltà a questo 'principio canonico' possono essere dichiarati non canonici soltanto quei gruppi che, nell'uso degli scritti, scalzano o il principio della creazione o della vera umanità dell'inviato divino, Gesù, oppure non ammettono che altri gruppi prediligano scritti diversi dai propri, negando in tal modo la molteplicità degli approcci teologici possibili. Il canone mette a disposizione la piattaforma per un cristianesimo differenziato che basi l'annuncio di Gesù e delle prime comunità su una storia degli effetti improntata in modo diversificato sul piano culturale. Le differenziazioni che, in questo processo, si sono sviluppate e hanno

I. Il canone cristiano

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trovato espressione nella prassi concreta furono ratificate dal canone- a condizione che non si arrivasse ad alcuna esclusione reciproca.

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A. Introduzione

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II. Il testo del N uovo Testamento (Stefan Schreiber)

Chi con una certa qual fatica abbia imparato il greco potrebbe rallegrarsi adesso di essere in grado di leggere il NT nell'originale. La faccenda è tuttavia più complicata: noi non possediamo alcun manoscritto originale di un autore del primo cristianesimo, come Paolo o 'Luca'. Ciò corrisponde, del resto, anche alla situazione di tutte le altre opere della letteratura classica dell'Antichità o di quella del cristianesimo delle origini. Il materiale su cui si scriveva aveva una conservazione limitata, e le prime lettrici e i primi lettori di uno scritto che diventerà più tardi parte integrante del NT non pensavano di farne una raccolta; il valore di un testo risiedeva nell'uso concreto quale risposta a questioni esistenziali - e non in una dignità materiale. Le difficoltà in merito alla trasmissione dei testi neotestamentari consistono nel fatto che ne è conservata una molteplicità di copie più tarde, le quali presentano fra di loro differenze più o meno grandi. Le edizioni del testo greco del NT che abbiamo oggi davanti e che, per lo meno indirettamente, improntano la vita delle chiese contengono tutte quante un testo ricostruito dagli studiosi. Questo testo è assolutamente affidabile, e purtuttavia bisognoso di continuo riesame e di discussione sul piano critico.

l.

Inventario: l'ordine dei manoscritti

A confronto con il resto della letteratura che ci viene dall'Antichità, dove di solito di un'opera sono conservate solo poche copie e spesso

62

A. Introduzione

tardive, la base testuale del NT si rivela sostanzialmente più favorevole: possediamo un grande numero di manoscritti differenti, molti di più di ogni altra opera della letteratura antica. Il più antico è verosimilmente un piccolo frammento di papiro (P 52) contenente parti di Gv 18,3133.37s., che deve risalire alla prima metà del II secolo. Oggi conosciamo circa 5.500 singoli manoscritti che in gran parte comprendono solo pochi frammenti, ma in alcuni casi anche il NT al completo. La classificazione dei manoscritti non segue una logica rigorosa, ma è contrassegnata da convenzioni scientifiche; tale classificazione viene riferita vuoi al materiale scrittorio (per esempio: il papiro), vuoi al tipo di scrittura (maiuscola o minuscola), vuoi al tipo di libro (lezionari). Di fatto vi sono sia papiri scritti in lettere maiuscole sia lezionari in minuscole, e la pergamena serve da materiale scritto rio in tutte le categorie sunnominate, tranne che nei papiri.

La consuetudine esibisce la seguente ripartizione in quattro gruppi dei manoscritti greci: a) I papiri vengono indicati con la lettera P (o, in caratteri gotici: sp) seguita da un numero scritto in apice. Di solito sono antichissimi e possiedono un elevato valore testuale; sono però cons.ervati tutti quanti solo per frammenti. Il nome rimanda al materiale scrittorio: si tratta di fogli ricavati dagli steli della pianta del papiro. Un'età ragguardevole e una maggiore quantità di testo contraddistinguono i papiri Chester Beatty (P 45 , P46 , P47 ) e i papiri Bodmer (P 66 , P72 , P73 , P 74, P75 ); i più antichi sono P46 e P 66 (risalenti all'incirca al 200 d.C.); di P75 si sono conservati ventisette fogli pressoché completi. Altrettanto antichi sono P90 (contiene Gv 18,36-19,1; 19,2-7), P 104 (Mt21,34-37.4345) ed eventualmente P 98 (Ap 1,13-20), tutti del II secolo(!), intorno al200 P64 ' 67 , fine II secolo/inizi III secolo P77 (Mt23,30-39) e P 103 (Mt 13,55s.; 14,3-5). Una parte considerevole di tutti i papiri conservatici proviene dalla città egiziana di Ossirinco dove, con migliaia di altri testi, resistettero ai secoli sui cumuli di rifiuti dell'Antichità- così infine pwo_pm si sono aggiunti al patrimonio dei papiri neotestamentari (oggi tutti quanti conservati a Oxford). La numerazione adesso è arrivata a P 116 , quest'ultimo un minuscolo frammento del VI/VII secolo che contiene Eb 2,9-11; 3,3-6 (sull'argomento, cfr. A. PAPATHOMAS; S. SCHREIBER).

Alcune nozioni sul materiale scrittorio: gli steli della pianta del papiro, estremamente diffusa in Egitto nella zona del Nilo, venivano tagliati in strati sottili; le strisce così ottenute venivano disposte le une accanto alle altre e su questo strato di strisce verticali se ne incollava un altro di

II. Il testo del Nuovo Testamento

63

strisce orizzontali. Quindi il tutto veniva pressato, lasciato asciugare e ripulito per ottenere i singoli fogli di papiro. Per formare un rotolo si assemblavano una ventina di questi fogli e di solito si scriveva soltanto nella parte interna del rotolo, là dove la direzione orizzontale delle fibre del papiro rendevano agevole la scrittura, la quale veniva ordinata su colonne verticali. Il papiro dominò come materiale scrittorio fino al IV secolo compreso, quando si affermò la pergamena, la quale era prodotta dalle pelli degli animali e quindi si conservava meglio; solo a partire dal XII secolo diventerà usuale la carta. Una particolarità dei manoscritti cristiani è rappresentata dalla forma del codice (paragonabile al libro odierno): il modo più semplice per attenerlo consisteva nel piegare a metà un foglio di papiro, inserirne alcuni uno dentro l'altro e cucirli insieme nella piegatura. N e sono famosi gli esemplari più antichi che possediamo: il papiro Chester Beatty II (P 46 , del 200 circa, oggi conservato in parte a Dublino, nella Biblioteca Chester Beatty) e il papiro Bodmer XIV/XV (P 7 S, III secolo, dal2006 in possesso della Biblioteca vaticana). Di solito venivano legati insieme più fascic~li, e a questo proposito si può dire che ancora oggi nella stampa dei libri si è imposto il numero corrente di quattro fogli (= 16 pagine) per fascicolo. I fascicoli venivano cuciti poi sul dorso in modo da formare un 'libro'. Resta un mistero il motivo per cui i primi cristiani abbiano scelto questa forma. In realtà, oltre che essere un segno di distinzione esteriore rispetto all'ambiente circostante o essere preferita per la maggiore maneggevolezza (per esempio, nei viaggi) o ancora per motivi economici (il materiale, che era costoso, si poteva scrivere sia sul recto sia sul verso), la forma del codice, che veniva usata soprattutto per scritture di tutti i giorni, quali appunti e conteggi, riflette semplicemente l'ambiente sociale dei primi cristiani. b) I manoscritti maiuscoli sono indicati con un numero arabo a cui è premesso lo zero (03), e in parte vengono identificati con l'aggiunta di una lettera maiuscola ebraica, latina o greca (B). Devono il loro nome al fatto di essere scritti esclusivamente in lettere maiuscole (onciali), senza spazi di separazione fra le parole (scriptio continua). Il materiale scrittorio usato è la pergamena. Essi offrono complessi testuali maggiori, in parte addirittura il NT al completo. I codici maiuscoli più importanti per la ricostruzione del testo sono:

64 Codex Sinaiticus

A. Introduzione

IV secolo, contiene il NT al completo

Oggi a londra (British library)

Scoperto nel periodo 1844/1859 nel monastero di S. Caterina sul Monte Sinai da Tischendorf (vedi sotto); elevato valore testuale (ma inferiore al Codex Vaticanus)

Codex Alexandrinus (A02)

Vsecolo, tutto il NT con lacune

londra (British library)

Valore testuale basso per quanto concerne i vangeli, per il resto elevato (si basa evidentemente su modelli differenti)

Codex Vaticanus (B03)

IV secolo, tutto il Città del Vaticano Elevatissimo valore testuale: è il maiuscolo più importante (imparentato con P75 ) NT. si interrompe (Biblioteca Vaticana) con Eb 9,14

Codex Ephraemi Syri rescriptus (C04)

Vsecolo, Parigi tutto il NT (Bibliothèque con ampie lacune Nationale)

Èun palinsesto: un manoscritto del NT fu cancellato e, nel Xli secolo, vi fu scritto sopra un trattato di Efrem Siro; grazie alla fotografia a raggi ultravioletti èdi nuovo leggibile il testo originario

CodexBezae Cantabrigiensis (D05)

Vsecolo, vangeli eAtti con lacune

Deve il nome al suo primo proprietario, Theodor Beza (vedi sotto); è bilingue (edizione latina e greca); il valore testuale è limitato; interpolazioni eccentriche, ma anche omissioni emodifiche nella duplice opera lucana. (Da non confondere con il Codex C/aromontanus D 06: contiene lettere di Paolo)

(~01)

Dal 1581 in possesso deii'Università di Cambridge (Regno Unito)

Fra i maiuscoli si annovera anche, del resto, il frammento del Diatessaron rinvenuto a Dura Europos (-+ A.I), che è identificato con la sigla dei maiuscoli 0212 (del III secolo; oggi alla Yale University, New Haven/CT, USA) e che rientra fra le testimonianze testuali più antiche in nostro possesso; contiene solo Mt 25,56s.; Mc 15,40.42; Le 23,4951.54; Gv 19,38. c) I manoscritti minuscoli vengono indicati con cifre arabe. Fanno la loro comparsa a partire dal IX secolo e sono scritti in lettere minuscole con spazi di separazione fra le parole, segni d'interpunzione e accenti. Ne rendono difficoltosa la decifrazione numerose abbreviazioni e logotipi, che compaiono specialmente nelle sillabe iniziali e finali. Sono noti oltre 2.800 minuscoli, la maggior parte dei quali (circa 1'80%) offrono il testo bizantino. Alcuni minuscoli conservano però anche un testo antico di grande valore, per esempio i minuscoli 33, 1739 e 2427. Alcuni minuscoli, che storicamente dipendono gli uni dagli altri e che quindi rappresentano tutti un unico modello, sono riuniti insieme nelle famiglie dei minuscoli F e j'l 3 • d) I lezionari sono indicati con l seguita da un numero arabo. Si tratta di libri in funzione del culto divino, che raggruppano pericopi dal NT nella sequenza che corrisponde all'ordine delle letture liturgiche. N e esistono quindi diversi tipi: letture per le domeniche, letture per i giorni feriali ecc. I lezionari contengono quasi esclusivamente il testo bizantino e perciò hanno un'importanza alquanto relativa a livello di critica testuale.

II. Il testo del Nuovo 7èstamento

65

Sono conservate anche antiche traduzioni, soprattutto in lingua latina, siriaca e copta, e oltre a queste anche traduzioni armene, georgiane, etiopiche e altre ancora. Tutte queste traduzioni possono essere utilizzate come termine di paragone.

2.

Alle origini: il processo di trasmissione del testo

Le prime copie delle lettere di Paolo divennero necessarie allorché fra le comunità si destò il desiderio di uno scambio delle missive dell'apostolo (cfr. Col4,16). Così, per esempio, intorno al 96 d.C. a Roma erano disponibili la Lettera ai Romani, la Prima lettera ai Corinzi e la Lettera agli Ebrei in copie sotto forma di una piccola raccolta (cfr. l Clem). A partire dalla metà del II secolo la richiesta crebbe più fortemente, perché la lettura degli scritti del cristianesimo delle origini diventò consuetudine nell'assemblea liturgica. Ogni comunità di nuova fondazione aveva bisogno inoltre di copie dei vangeli e delle lettere. È così che nacquero i primi manoscritti neotestamentari: in un primo tempo come 'copie' dell'originale, e subito dopo come copie di copie. All'epoca in cui si formarono tali prime raccolte degli scritti del cristianesimo delle origini, soprattutto delle lettere di Paolo, risalgono anche le più antiche testimonianze testuali: manoscritti redatti solitamente su papiro (di rado su pergamena) dal II secolo fino al IV. Quasi tutti si sono conservati in Egitto, perché la sabbia del deserto, calda e asciutta, ha reso possibile una conservazione del papiro, che è un materiale molto sensibile. Questi manoscritti documentano un testo primitivo del NT e sono di elevato valore nella ricostruzione del testo originario, data la loro grande antichità. L'evoluzione ulteriore avvenne nel passaggio dal III al IV secolo con un periodo quarantennale di pace fra la fine della persecuzione dei cristiani a opera di Decio e Valeriano (250/260 d.C.) e l'inizio della persecuzione di Diocleziano (303 d.C.), e poi finalmente con la cosiddetta svolta costantiniana (313 d.C.) che comportò il riconoscimento del cristianesimo da parte dello stato. A quel punto crebbe considerevolmente il numero delle comunità cristiane e, dato che la maggior parte dei manoscritti, durante le persecuzioni, era andata parzialmente distrutta in pubblici roghi, si registrò una considerevole richiesta di

66

A. Introduzione

testi. Negli scriptoria (scrittorii) cristiani istituiti proprio a questo scopo furono copiati in grande quantità i manoscritti del NT, seguendo adesso un apposito piano, vale a dire copiandoli a mano e diffondendoli; in quest'epoca si registra anche la stesura dei grandi manoscritti in pergamena l'\, A, B. Ciò ebbe come conseguenza che il testo di una chiesa locale influente, dotata di grandi scrittorii, trovasse una diffusione più vasta in paragone ad altre realtà. Fino a poco tempo fa gli studi partivano dal fatto che (almeno a partire dal 300 d.C. circa) si erano imposti tipi testuali che davano l'impronta a singole regioni ecclesiastiche: Il testo alessandrino proveniente dall'Egitto

Possiede elevato valore testuale, in virtù della sua veneranda età e della trasmissione accurata; ha alla base, fra l'altro, P46 e P" (intorno al200); una variante di questa forma testuale, con minime differenze, è rappresentata dal testo egiziano

Vi rientrano P75 (inizio Ili secolo) e gli importanti maiuscoli ~ e B; anche A (a parti re da At), nonché i minuscoli 33 (da At) e 1739 (nelle lettere di Paolo)

Il testo (imperiale) bizantino o testo della koinédi Antiochia

Universale (koiné), vale a dire di ampia diffusione: dominò la chiesa bizantina a partire dal IX secolo. Cambiamenti testuali piuttosto rilevanti: miglioramenti stilistici, aggiustamento delle diverse lezioni, facilitazione della comprensione. A confranto con il testo alessandrino, Il valore testuale è minore in diversi passi, ma in altri il testo antico è tramandato in modo affidabile Origine sconosciuta (nella parte orientale dell1mpero romano). Si basa su un ecce!lente modello testuale, ma specialmente in Le e At vi sono forti cambiamenti e aggiunte (At diventa chiaramente più lungo!). Il valore testuale è elevato solo là dove concorda con il testo alessandrino

La maggior parte dei manoscritti oggi conosciuti rientrano in questa forma testuale

(e Costantinopoli)

Il testo O (già testo occidentale)

Ne sono esponenti il (odex Bezae (antabrigiensis (D 05), scrittori degli inizi della chiesa latina, come Tertulliano eCipriano, e antiche traduzioni in latino

E.]. Epp (Issues, 660s.) distingue inoltre un testo C (specialmente per il Vangelo di Marco), rappresentato da P45 e W, ma che non fu tramandato ulteriormente (prima si parlava di un testo cesareense); il suo profilo situava il testo C fra il testo alessandrino (Epp lo chiama testo B) e il testo D.

L'epoca di questi tipi testuali è controversa. Secondo K. Aland - B. Aland ( Text, cfr. J.H. PETZER), all'interno del testo primitivo, quindi prima del III secolo d.C., si può operare una distinzione fra un testo (relativamente) stabile che è testimoniato da numerosi papiri in grande concordanza, e delle tradizioni testuali libere; soltanto a partire dal 300, di fronte al moltiplicarsi delle copie, si formano a poco a poco i diversi

Il. Il testo del Nuovo Testamento

67

tipi testuali. E.J. Epp (Issues, 662-666) e altri studiosi, specie americani, invece, vedono la nascita e lo sviluppo dei tipi testuali del testo B e del testo D già nel II secolo, perché trovano già nei primissimi papiri le forme testuali riconoscibili nei maiuscoli del IV/V secolo. La frammentarietà di molti papiri rende difficile fare affermazioni veramente sicure. L'esistenza dei grandi tipi testuali è riconosciuta in linea di principio in entrambi i modelli. Proprio però questa ripartizione in poche, grandi forme testuali ordinate per località, che ha a lungo determinato il consenso degli studiosi, è oggi ritenuta incerta. Attualmente si sta avviando un cambiamento radicale, perché gli studi più recenti in Germania e negli Stati Uniti sono per la prima volta in condizione di partire da una conoscenza completa di tutta la tradizione testuale; le prime analisi mostrano che la delimitazione di questi tipi testuali urta contro difficoltà sempre più grandi (comunicazione verbale del direttore dell'Institut fi.ir Neutestamentliche Textforschung di Mi.inster, H. Strutwolf; primi approcci in relazione ai papiri in E.J. EPP, Issues, 682-691, il quale parla di testi B/C/D, rinunciando ad associarli a una località). Da questo genere di classificazione si passa a una visione strettamente genealogica: ci si concentra sulla parentela contenutistica dei singoli manoscritti, senza che siano determinanti il luogo dove sono state eseguite le copie e l' associazione a un tipo testuale; in primo piano passa la posizione dei manoscritti individuali e del testo in essi offerto nel flusso della tradizione. L'esistenza di alcune poche solide forme testuali diventa incerta. N o n è più possibile delineare un modello semplice. I rapporti di dipendenza sono molto più complessi e influenzeranno il lavoro di ricerca delle . . . prossime generaziOni.

3.

La ricerca: una piccola storia della moderna critica testuale riguardo al NT

Dopo che la Vulgata latina ebbe dominato la ricezione della Bibbia nelle chiese dell'Occidente fino all'Età moderna (l'Oriente conosce una tradizione testuale greca ininterrotta), l'Umanesimo ridestò un nuovo interesse per le fonti autentiche del NT nella sua lingua originaria, vale a dire il greco. Fu così che Erasmo da Rotterdam (t 1536) pubblicò il

68

A. Introduzione

primo NT greco in un'edizione a stampa del 1516 per i tipi di Johann Froben, a Basilea; pur basata su una scelta casuale e limitatissima di manoscritti greci (e su una modalità di lavoro assai arbitraria da parte del maestro), quella pubblicazione assicurò nondimeno al curatore e all'editore la gloria e il vanto di aver offerto la prima edizione. A diventare accessibile con questa edizione fu in massima parte la forma testuale bizantina (il testo della koini). Neppure successivamente vi furono sostanziali mutamenti, sicché quel tipo testuale divenne la forma standard per oltre trecento anni e acquisì un'importanza quasi 'canonica' (il cosiddetto textus receptus). Grande influenza esercitarono le edizioni del francese Robert Estienne (Stephanus, 1503-1559) del 1550/1551, in cui per la prima volta, all'interno dei singoli capitoli, fu introdotta la numerazione dei versetti. Grande influenza ed elevata accoglienza registrarono pure le edizioni del teologo e dirigente ecclesiastico ginevrino Theodore Beza (1519-1605) fra il1565 e il1604.

Nello stesso tempo, tuttavia, ebbe inizio la ricerca di altri manoscritti greci che si pensava fossero sparsi nelle diverse biblioteche d'Europa. E poiché, in effetti, i rinvenimenti furono frequenti, poté accadere, per esempio, che Johann Saubert riuscisse a raccogliere nel 1672 varianti diverse al textus receptus, che John Mill, nel 1707, stampasse a Oxford un'edizione della Bibbia con numerose varianti e che il francese Richard Simon (1638-1712) basasse il suo testo su raffronti filologici di tutti i manoscritti greci che era riuscito a consultare. Con lui ha inizio la critica testuale condotta in modo scientifico, che in seguito fu pian piano in grado di affinare il proprio metodo. Così, Johann Albrecht Bengel, di Tubinga (1687-1752), riuscì a suddividere la massa dei manoscritti per gruppi e famiglie seguendo un ordine genealogico e ad attribuire determinate forme testuali a determinate aree geografiche; la cosa per intere generazioni incontrò quel consenso generale, che solo recentemente viene messo in dubbio. Diventò possibile una valutazione delle varianti e quindi una fondazione scientifica del testo: a fronte del textus receptus dominante, ha trovato accesso in ambienti piuttosto vasti un testo ricostruito in questo modo, e ciò è accaduto a seguito delle importanti edizioni di Johann Jakob Wettstein (1693-1754) del 1751/1752 e di Johann Jakob Griesbach (1745-1812) del1775/1777, oltre al successivo fondamentale lavoro del filologo classico Karl Lachmann, di Berlino (1793-1851). Nuovi manoscritti furono scoperti da Constantin von Tischendorf (1815-1874) durante delle spedizioni in

II. Il testo del Nuovo Testamento

69

Palestina, soprattutto il prezioso Codex Sinaiticus nel monastero di S. Caterina presso il Sinai; nel Codex Ephraemi Syri rescriptus, un palinsesto, egli riuscì a rendere visibile, per mezzo di una tintura di noce di galla, il testo sbiadito e soprascritto del NT, decifrandolo. Poterono prodursi nuove importanti edizioni che, tuttavia, di propria iniziativa davano importanza a differenti (gruppi di) manoscritti, al punto che i testi riuscivano del tutto diversi: Tischendorf nel 1869/1872 (del resto veniva ancora ristampato nell965!), B.F. Westcott e F.J.A. Hort nell881, Bernhard Weiss nell894-1900, e poi Hermann von Soden nell902-1913, il quale però non si impose a causa dei modelli testuali problematici e dato l'apparato assai complicato.

Ad aprire una nuova strada venne il Novum Testamentum graece, pubblicato a Stoccarda nel 1898 da Eberhard Nestle, che si basava sul semplice principio del confronto di tre edizioni (Tischendorf, Westcott - Hort e, dalla terza edizione datata 1901, Weiss), ma con il quale si combinavano in modo geniale i risultati del lavoro di critica testuale prodotti fino a quel momento. Il prodotto finale fu un testo notevolmente affidabile, ~he corrisponde in ampie parti a quello conosciuto oggigiorno. Con la tredicesima edizione del 1927, curata dal figlio, Erwin Nesde, si ebbe una revisione del testo e soprattutto l'aggiunta di un apparato critico, dal quale si potevano desumere le varianti dei manoscritti greci, delle antiche traduzioni e dei padri della chiesa; ne derivò un'edizione scientifica ridotta, che fu rapidamente promossa a standard della scienza neotestamentaria. A partire dalla ventunesima edizione del 1952 fece la sua comparsa come coeditore Kurt Aland, e da quel momento ebbe luogo una considerazione sistematica, basata sul riesame di tutti i manoscritti conosciuti, allo lnstitut fiir Neutestamentliche Textforschung [Istituto per la ricerca testuale del Nuovo Testamento] di Miinster, in Germania. Ne risultò la ventiseiesima edizione rivista e corretta del 1979, che fornisce, in un apparato critico riorganizzato, informazioni precise sulle varianti presenti nei singoli manoscritti (importanti), verificate direttamente sulle copie dei manoscritti esistenti. La stabilità del testo ricavato in tal modo si rivela anche nel fatto che la ventisettesima edizione del 199 3 può riprendere questo testo, apportandovi soltanto alcune modifiche nell'apparato. Il Nestle-Aland della ventisettesima edizione (NA 27 ) è attualmente il fondamento scientifico del testo e del lavoro per l'esegesi neo testamentaria.

70

A. Introduzione

In parallelo con quest'opera esiste il Greek New Testament (nella quarta edizione: GNT 4 ), il cui testo è identico a quello del NA27 • Esso però offre una diversa struttura dell'apparato: l'attestazione delle varianti, dalle più importanti alle meno selezionate, viene presentata nella sua globalità, e un sistema di valutazione articolato in quattro gradi rende più semplice ai profani giudicare l'importanza della variante stessa: il GNT 4 è concepito specialmente per il lavoro 'pratico' con il testo greco, per esempio per i traduttori nelle lingue nazionali. Quale responsabile del testo delle due edizioni si firma oggi un gruppo internazionale e interconfessionale di curatori. Il lavoro di critica testuale tuttavia procede: all'Istituto di Mi.inster sta nascendo una grande edizione critica del NT (Editio critica maior) con l'inclusione completa di tutte le varianti; di quest'opera, nel periodo 1997-2003, è comparso in dispense il volume IV dedicato alle lettere cattoliche ( Gc, 1-2 Pt, l Gv).

L'aver stabilito un nuovo testo standard si può considerare in tutto e per tutto un guadagno, perché, diversamente dal textus receptus, questo testo si basa sul confronto accurato di tutti i manoscritti greci e perché, con il suo significativo apparato, riserva agli utenti la possibilità di controllare il testo e di prendere eventualmente una decisione diversa.

4.

I compiti: la ricostruzione della storia del testo e la ricostruzione del testo più antico

La copiosità e la diversità dei manoscritti oggi conosciuti comporta il fatto che in diversi passi si presentano delle differenze sostanziali nel testo; inoltre vanno segnalate molte divergenze minori. La maggior parte di queste varianti o lezioni non rivestono, sul piano del contenuto, un'importanza rilevante, per esempio quando si tratta di errori materiali o di inversioni. La frequente copiatura si è rivelata una fonte inevitabile di errori. Dato che spesso si copiava sotto dettatura - in tal modo potevano essere redatte contemporaneamente parecchie copie di un modello - potevano darsi degli errori involontari nella lettura, e anche errori di scrittura e di audizione. Gli errori tipici di lettura e di audizione (sull'argomento, K. ALANO - B. ALANO 286-293) nascono, per esempio, con l'itacismo (nel greco tardo le vocali e i dittonghi 1, u, T\, 1:1, 01 erano pronunciati allo stesso modo di l, il che provocava confusione, per esempio fra ÌJJ.!!:Ìç e DJ.!EÌç), con lo scambio di lettere (le maiuscole greche C E E> O nella scrittura si somigliano, e così pure r II T, AA M,~ A), con l'omoioteleuto (quando parole o parti di frasi terminano allo stesso modo, ciò porta a saltare una parola, una riga), con la dittografia ('scrittura doppia' di una lettera, di una

II. Il testo del Nuovo Testamento

71

parola, di una parte della frase, perché l'occhio salta all'indietro) o l'aplografia ('scrittura semplificata' di una lettera doppia), con la scriptio continua (sono possibili separazioni differenti delle parole: AAAOIL come à).).. ' otç oppure iiìJ..otç in Mc 10,40). Ma sono riconoscibili anche delle modifiche introdotte appositamente: 'miglioramenti' di stile o di contenuto oppure spiegazioni di testi difficili, assimilazioni di un testo sinottico al testo di altri sinottici, cambiamenti intenzionali per motivi teologico-dogmatici (cfr. B.D. EHRMAN; D.C. PARKER, Living Text).

Il grande numero di manoscritti favorisce notevolmente, tuttavia, anche la probabilità che in qualche passo (magari isolato) della tradizione testuale sia stato conservato un testo antichissimo. Si parla del principio di tenacità, con cui il testo che esisteva una volta viene tenuto fisso persino contro le varianti vincenti. Da queste idee nasce quello che è il compito della critica testuale, cioè la ricostruzione del testo che stava assolutamente alla base di tutti i manoscritti e che si avvicina il più possibile all'originale (all" autografo'). In concreto ciò significa effettuare un confronto di tutti i manoscritti in un punto (collazione) e ponderare in termini metodici quale sia il modo di lettura più originario rispetto a ciò che si presenta come un miglioramento, una interpolazione o genericamente un cambiamento realizzati in tempi successivi. L'esecuzione di questo confronto richiede tutto un complesso lavoro che presuppone vaste conoscenze linguistiche e storiche sull'età e il valore dei singoli manoscritti e che, in ultima analisi, può essere svolto esclusivamente da esperti altamente specializzati. Questa è la ragione per cui Kurt Aland fondò nel 1959, all'Università di Miinster/ Westfalia, l'Institut fiir Neutestamentliche Textforschung, la cui direzione, dopo la sua morte, passò alla moglie, Barbara Aland, e che, dal 2004, è nelle mani del suo successore, Holger Strutwolf. In quell'Istituto possono essere effettuati i confronti dei manoscritti, perché in esso c'è a disposizione una raccolta di (quasi) tutti i manoscritti (su microfilm o fotografie).

Nella ricostruzione del 'testo originario' gli studiosi si fanno guidare da una griglia di regole metodiche, cioè di argomenti possibili, che in linea di principio hanno valore in tutta la filologia. Il procedimento si differenzia, in linea di massima, fra testimonianza esterna - cioè l'età, la parentela e il valore testuale dei manoscritti (regole 1-5) - e criteri interni che permettono una ponderazione fra punti di vista contenutistici (regole 6-9). In questo contesto la prima cosa da fare è chiarire la testimonianza esterna prima di chiamare in causa criteri interni. Le nuove regole della critica testuale si possono formulare nel modo seguente:

72

A. Introduzione

1) La lezione meglio testimoniata è quella originaria. Non conta la quantità dei manoscritti, bensì la qualità del testo. Aquesto proposito K. AlANO- B. AlANO hanno sviluppato una ripartizione dei manoscritti in cinque categorie (l-V) che permettono anche ai profani di dare una valutazione. 2) Bisogna tener conto della parentela dei manoscritti. Le copie non hanno alcun valore testuale proprio rispetto alloro modello. Se è dunque dimostrabile (per mezzo del criterio degli errori comuni) il fatto che da un manoscritto siano state prodotte parecchie copie, queste, nel loro insieme, contano quanto il manoscritto-modello. In questo modo si distinguono, per esempio, due famiglie di minuscoli (f 1 e f 13 ) eil cosiddetto 'testo maggioritario' (M). in cui è riassunto un gran numero di manoscritti (fra l'altro, il testo bizantino). 3) l gruppi di testimoni vanno ponderati confrontandoli gli uni con gli altri. Ciò riguarda i tipi testuali alessandrino, egiziano, bizantino e il testo D, dove il primo ha un pregio particolare. La probabilità di una lezione aumenta se essa si presenta in parecchi tipi testuali. Aquesto proposito, in futuro, bisognerà certamente tener in maggior conto la parentela dei singoli manoscritti. 4) Occorre tener conto dell'influenza parallela e, nelle citazioni dell'AT, dell1nfluenza dei Settanta. In particolare nei sinottici accade spesso che un vangelo venga 'corretto' guardando ai passi paralleli. 5) Bisogna fare attenzione alle lezioni dipendenti. Nelle frasi dipendenti o nelle parti di frasi ripetute un cambiamento può comportarne altri, per esempio un cambiamento del tempo del verbo. 6) La lectio difficilior è quella originale. Idea di fondo: rendere più facile un testo difficilmente comprensibile è cosa. più probabile che renderne complicato uno facile. Certamente non si deve applicare questa regola in maniera meccanica. 7) La lectio brevior è quella originale. Idea di fondo: un ampliamento, un completamento, un chiarimento ecc. di un testo, specialmente quando si tratti di un 'testo base' importante per una comunità, è più probabile di una omissione o abbreviazione. Neppure questa regola va applicata meccanicamente: in effetti, nei primi papiri, non risulta vera (cfr. E.J. EPP, /ssues, 650-653). 8) Deve esserci armonia con il contesto. Una variante in contraddizione con il suo contesto immediato ocon il pensiero dello scritto in cui compare non può praticamente essere originale. 9) Le varianti devono potersi spiegare apartire dalla lezione preferita. Si tenta, per così dire, come controprova, di ricostruire una piccola storia del testo di un determinato passo: se da una lezione è plausibile dedurre ospiegare altre lezioni, la prima è probabilmente quella originale. Le congetture sono l'ultima ratio e, di fatto, oggi non giocano più alcun ruolo. Un a congettura è una ricostruzione ipotetica del testo a favore della quale non c'è alcuna testimonianza testuale: essa viene dedotta da uno studioso. È giustificata solo quando i manoscritti a disposizione non forniscono un testo sensato. Una congettura può diventare necessaria quando di un'opera dell'Antichità non esistono che pochissimi manoscritti; data l'abbondanza di manoscritti del NT, le congetture non sono più giustificate.

È importante la regola empirica secondo la quale una decisione di critica testuale è tanto più affidabile quanto più ampiamente è so-

Il. Il testo del Nuovo Testamento

73

stenuta dall'applicazione delle singole regole, vale a dire quanto più numerose sono le regole che parlano a suo favore. In questo contesto, i criteri interni da soli difficilmente possono giustificare una decisione di critica testuale. Anche per il futuro, naturalmente, il compito degli studi testuali resta quello della ricerca del testo più antico del NT, ma, di fronte allo stato della ricerca, questo compito è concretizzabile nei termini di un'indagine sulla prima tradizione testuale nel l/II secolo. Sempre di più, tuttavia, gli studi testuali vanno scoprendo anche un altro campo di lavoro: quello di comprendere lo sviluppo del testo del NT come indicatore degli sviluppi verificatisi nella storia del pensiero cristiano e della vita cristiana, invitando ad analizzare più da vicino l'interazione fra la storia del testo e la storia della chiesa (per esempio, B. ALAND, Rolle, D.C. PARKER, Living Text).

5.

Alcuni risultati: esempi

l) La conclusione canonica di Marco. I manoscritti più importanti (!'\, B) vedono terminare il Vangelo di Marco con Mc 16,8 (regola 1) .. In tal modo siamo di fronte anche alla lectio brevior (regola 7). Fra gli altri manoscritti, una antica traduzione latina offre una conclusione più breve, la grande maggioranza ('testo maggioritario') una chiusura più lunga: la conclusione 'canonica' del vangelo, cioè Mc 16,9-20 (cfr. regole 2 e 3), e pochi altri manoscritti presentano ambedue le conclusioni. La migliore spiegazione per le diverse varianti è quella dell'assenza originaria della conclusione, che più tardi fu sentita come un deficit e portò alla correzione (regola 9). Nella conclusione (secondaria) di Mc 16,9-20, inoltre, è visibile anche l'influenza dei racconti delle apparizioni presenti negli altri vangeli (regola 4). Inoltre la fine improvvisa e il silenzio irritante delle donne in Mc 16,8 si può intendere come lectio difficilior (regola 6). Tirando le somme: il Vangelo di Marco, in origine, finiva con Mc 16,8. (Mc 16,9-20 rientra nel canone cattolico che fu definito dal concilio di Trento 1'8 aprile 1546 in risposta alle edizioni della Bibbia della Riforma, in base alla sua esistenza nella Vulgata). 2) Gesù e l'adultera di Gv 7,53-8,11. La testimonianza esterna è qui chiarissima (regole 1-3): tutta una serie dei migliori manoscritti non

74

A. Introduzione

contiene la pericope (P 66 ·7S, ~' B, 33 e molti altri manoscritti greci, oltre a diverse traduzioni), altri manoscritti la inseriscono in passi differenti -in Gv7,36; 21,25; Le(!) 21,38; 24,53; alcuni mettono in evidenza la pericope come secondaria ricorrendo a segni diacritici nel testo. Inoltre c'è da osservare che la pericope, per il suo vocabolario e il suo stile, si differenzia dal resto del Vangelo di Giovanni e viene piuttosto a interrompere il contesto di Gv7,52 e 8,12 (regola 8). Poiché nella tradizione cristiana la pericope possiede una grande importanza, in NA27 è lasciata nel testo, ma contrassegnata come chiaramente secondaria con una doppia parentesi quadra. In tal modo, del resto, non è affatto escluso che si tratti di un'antica parte della tradizione orale che, forse, getta addirittura uno sguardo sull'operato del Gesù storico. 3) Il dialogo .fra Gesù e gli altri crocifissi con lui di Le 23,42. Gesù 'va' nel suo regno (dç TJÌV ~acnÀEiav; moto a luogo: in 'cielo') oppure 'viene' nel suo regno (ÈY "tfj ~acnÀEi> (B, 0, f'', 700 e altri).

La testimonianza esteriore si pronuncia chiaramente contro b). Si potrebbe prendere in considerazione la questione se b) vada vista come lectio difficilior, ma, in ultima analisi, una tale lezione sarebbe assurda (compie la volontà di Dio chi, nonostante aver detto di sì, rifiuta il lavoro?) e in pratica andrebbe a vanificare l'istanza del racconto. Che D qui sviluppi una lezione antifarisaica, sostenendo che i farisei danno solo a intendere di compiere la volontà di Dio? Restano a) e c), e fra queste riesce difficile prendere una decisione. Bisogna comunque fare attenzione al rapporto fra le lezioni (regola 5). La prevalenza delle testimonianze a favore di a) non è che poca cosa (regola 1). A favore di a) parla la migliore logica del racconto, perché se il primo figlio avesse già detto di sì, non ci sarebbe stato bisogno di chiedere al secondo. Il cambiamento in c) si spiegherebbe con l'intenzione di porre il peso narrativo sul secondo figlio, come quello obbediente, per mezzo di un'aggiunta cronologica (regola 9). Di conseguenza a) sta anche nel testo di NA27 (cfr. B.M. METZGER, Textual Commentary, 44-46; K. ALANO- B. ALANo 316-320). Il fatto che comunque restino aperte delle questioni sottolinea la necessità di proseguire con il lavoro di critica testuale e di continuare nella collaborazione fra questa e l'esegesi dei testi.

II. Il testo del Nuovo Testamento

77

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78

A. Introduzione

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1.3

COMPAGINE DEGLI ATTORI

H.T. Fleddermann ha elaborato una illuminante compagine degli attori. Se si lasciano da parte le comparse o le singole descrizioni di certe figure, in Q sono posti in rilevo soprattutto i seguenti quattro protagonisti (Reconstruction, 108): GGO

discepoli

t:>>);infine si arriva all'applicazione concreta (« ... quanto più il Padre vostro darà cose buone»; cfr. Q 11,9-13). In questa struttura si può riconoscere uno schema retorico che può essere stato d'aiuto per 'presentazioni' orali.

II. La fonte Q

113

A. Kirk ha messo in evidenza dodici instructional speeches, ovvero 'discorsi con carattere di istruzione', aventi fondamentalmente la stessa struttura (Maxime im Mittelpunkt, 152-272); tuttavia egli parte fermamente dal presupposto di una attività redazionale scritta (ibid., 269) e non vuole in alcuna maniera annoverare queste unità tra la (ibid., 270).

Tra i modelli costruttivisti di composiZwne, M. Sato (cfr. A.D. ]ACOBSON) parte, per così dire, da un livello più alto: presuppone fin dal principio due grandi unità compositive (redazione A: unità GesùBattista, Q 3-7; redazione B: unità della missione, Q 9-10), che poi una redazione C avrebbe messo insieme e ampliato con materiale ulteriore. Caratteristica tipica di quest'ultimo livello redazionale sarebbero in particolare i detti di giudizio contro Israele (Q 7,31-35; 11,14-52; 13,24-35). Stando a questo modello, è possibile che la redazione finale non sia stata particolarmente persuasiva; è infatti proprio l'ultima parte di Q a essere strutturata nel modo meno chiaro. C'è un consenso sempre più ampio sul fatto che Matteo e Luca abbiano avuto sotto gli occhi la fonte dei detti in lingua greca: le numerose corrispondenze letterali, anche nei passaggi più lunghi (cfr. Q 3,7-9), ne sono una prova capitale. Anche le citazioni dell'AT sono tratte da traduzioni greche (cfr. H.T. FLEDDERMANN, Reconstruction, 97). I tentativi di risalire a uno stadio originario (scritto) in lingua aramaica restano dubbiosi (M. CASEY, Approach; al riguardo: H.T. FLEDDERMANN, Reconstruction, 156s.; in generale: J.S. KLOPPENBORG, Formation, 51-64). Ad ogni modo, se i termini principali vengono ascoltati nell'idioma ebraico, dietro certe espressioni si possono scoprire dei bei giochi di parole, come per esempio nel detto del sale (Q 14,34: «Se il sale diventasse insipido, con cosa gli si darebbe sapore?»), nel quale probabilmente c'è nell'originale aramaico un gioco di assonanze fra tafol, 'sciocco, insipido', e taval, 'insaporire' (cfr. M. BLACK, Approach, 166). Il greco della fonte dei detti, quindi, porta con sé ancora una certa atmosfera ebraica, che in parte si manifesta nella grammatica. Che dietro Q ci sia una un «native Greek writer» (H.T. FLEDDERMANN, Reconstruction), ovvero uno scrittore greco di origine, resta per il momento un'opinione individuale.

114 2.2

B. I quattro vangeli GENERE LETTERARIO

Al momento sono oggetto di dibattito principalmente i seguenti quattro generi letterari: raccolta di detti sapienziali, libro profetico, biografia, vangelo. A favore del genere vangelo depongono due diversi ordini di motivazioni. In una prima direzione, si suppone che Q debba portare avanti una rivendicazione ben precisa. Dal punto di vista di 'politica culturale', si deve reagire alla emarginazione teologica di Q, equiparando il documento ai quattro vangeli canonici (A.D. ]ACOBSON, Gospel31). Dal punto di vista di storia della chiesa, la rivendicazione teologica posta dalla fonte dei detti deve essere messa in risalto, per così dire, con un effetto retroattivo, come quella di essere un 'altro vangelo' nella disputa di opinioni che caratterizza il cristianesimo primitivo- in analogia all'affermazione polemica di Paolo in Gal1,6-9 (G.M. RoBINSON, Sayings Gospel 331). N eli' altra direzione, la fonte dei detti viene valutata avendo come riferimento il Vangelo di Marco, vale a dire il concetto cristiano del genere 'vangelo' (III.), così come esso viene dedotto da quell'antichissimo racconto su Gesù. Il giudizio cambia in base alla criteriologia che si assume. Se si dà la priorità a criteri strutturali, vale a dire alla dimensione narrativa e all'orientamento al destino del protagonista principale (+ III.1.1), allora la fonte dei detti non può essere definita in alcun modo 'vangelo' (A. LINDEMANN, Fragen, 14-16). Se invece si dà la priorità a criteri contenutistici, quindi alla risposta alla domanda: (cfr. Mc4,41; 8,29; cfr. Q 7,19) oppure a > (cit., 40s.). Ci si riferisce all'imperatore Augusto: alla data del suo compleanno, nella provincia d'Asia, deve essere trasferito in futuro il primo giorno dell'anno. Per una giusta valutazione di questa affermazione si devono considerare tre componenti che ne costituiscono lo sfondo concettuale: l) una componente religiosa: è la provvidenza divina a inviare l'imperatore Augusto sulla terra come salvatore del genere umano (ci t., 32-35); 2) l'idea di una nuova era che supera tutte le precedenti (cit., 5-6.9-10.48s.; cfr. l'iscrizione di Alicarnasso: CAGIIV, 894, e anche la caratterizzazione dell'era augustea come saeculum aureum: Virgilio, Ecl 4; Id., Aen VI 791-823; al riguardo, cfr. A. BRENT, Luke-Acts, 414-437); 3) una vittoria militare: il colpo decisivo fu dato de facto con la vittoria militare di Augusto sugli avversari che lo osteggiavano nella guerra civile, evento che nell'iscrizione viene rappresentato come fine del conflitto e inizio di un'era di pace e di ordine (cit., 6-9.36). In generale si deve notare: già con la nascita dell'imperatore iniziano i 'vangeli', anche se Augusto darà origine solo in età adulta a quella svolta epocale che sarà occasione di nuovi 'vangeli'. L'affermarsi di questo nuovo uso linguistico non resterà senza effetti sul giudaismo ellenistico: lo documentano alcuni passi in Filone di Alessandria e in Flavio Giuseppe. Accanto a un uso non spettacolare del termine, in parte con il tipico significato ellenistico di 'proclamare', Filone si inserisce nel solenne linguaggio della propaganda: l'ascesa al trono (Leg Gai 231) e la guarigione (Leg Gai 8s.) dell'imperatore Gaio (Caligola) sono . Particolarmente interessante, in quanto è al contempo testimonianza di un uso critico della regola linguistica, è Leg Gai 99-1 Ol: nella descrizione del dio Ermes si riconosce il messaggero di pace di fs 52,7, ma lo si riferisce ora al modo in cui Caligola presenta se stesso allo scopo di screditarlo: in verità quello è un uccello del malaugurio che diffonde annunci di terrore e porta ovunque guerra e discordia. Nel suo Bellum iudaicum Flavio Giuseppe usa tutto il campo semantico EÙayyEÀ.- per riferirsi sen-

146

B. I quattro vangeli

za eccezioni al comportamento, ai piani politici (Belli 607; II 420: èìavòv ~:ùayyÉÀ!Ov) e alle vittorie militari (Bel! III 503) dei prìncipi clientelari e dei governatori romani, senza dimenticare l'ascesa di Vespasiano al trono imperiale (Bel! IV 618-652: EÙayyÉÀta; ~ V.3.1). Troviamo, però, anche l'uso critico: la notizia della morte di Tiberio è, per il re giudaico Agrippa, una 'buona notizia' (~:ùayy~:Àia: Ant XVIII 229).

2.2

L'ORIGINARIO VANGELO ORALE DEL PRIMO CRISTIANESIMO

Il linguaggio missionario del cristianesimo delle origini, conservato soprattutto nelle lettere paoline (• 1.), si riallaccia alle formule linguistiche imperiali, analogamente a quanto avviene in Filone e Flavio Giuseppe, collegando anch'esso il termine 'vangelo' - in una sorprendente analogia con la concezione dell'ideologia imperiale - all'inizio di una nuova epoca, la cui irruzione è provocata dalla mano divina, la quale però si serve di una figura umana che si spende per realizzare sulla terra il cambiamento di signoria destinato a portare agli esseri umani benefici e pace. Nell'ambito cristiano la nuova era si chiama 'regno di Dio'; la figura umana è Gesù di Nazaret; la sottomissione delle potenze avverse a Dio inizia con la morte di Gesù sulla croce; perché la sua risurrezione, come si crede, significa- nella mentalità apocalittica -l'atto iniziale del grande giudizio di Dio sul mondo. La risurrezione di Gesù di Nazaret, come inizio della risurrezione universale dei morti, è ritenuta essere ciò che dà inizio agli eventi apocalittici attesi per la fine (K. MOLLER): la sottomissione di tutti i dominatori terreni e delle potenze mitiche avversarie di Dio (cfr. I Cor 15,24-28). Il protagonista di questa campagna di sottomissione è quel Gesù di Nazaret crocifisso che è stato costituito da Dio proprio patrocinatore e mandatario, come viene espresso- in analogia all'investitura regale (cfr. Sal2) -dal titolo 'Figlio di Dio' o 'Unto' (cfr.]. MAIER, Messias). Alla fine della campagna c'è la parusia di Cristo (l Ts 4, 13-18) ovvero il giudizio finale che Dio fa portare a termine 'per mezzo' di Cristo (Rm 2, 16). Così ha inizio la vita definitiva nel regno di Dio. Il suggello del cambiamento di signoria avviene con la riconsegna di ogni potere nelle mani di Dio (l Cor 15,28) (G. DAVTZENBERG, Posaune, 8-15).

Questo è il vangelo originario del cristianesimo delle origini - un audacissimo progetto in netto contrasto con l'ideologia imperiale. Dal punto di vista terminologico, la differenza consiste nel fatto che i missionari del cristianesimo delle origini contrappongono ai 'vangeli' che vengono da Roma (sempre al plurale!) l'unico 'vangelo' che viene dalla loro bocca (sempre al singolare!).

111. 'Vangelo'

147

A fronte di questa derivazione, a livello di storia della tradizione, dal 'culto imperiale' (cfr. G. STRECKER) si cerca- seguendo la linea ebraica- di creare un collegamento, sempre a livello di storia della tradizione, dal verbo EÙayyEAisoJlm e dal messaggero di gioia di fs 52,7 LXX, con Mt 11,2-6; Ap 14,6; 10,7 (P. STUHLMACHER, Evangelium, 207-225). Un'altra tesi ancora è sostenuta da H. Frankemolle (Evangelium, 254): i missionari del cristianesimo delle origini avrebbero trasferito il contenuto del verbo nei LXX al sostantivo 'vangelo', comune nell'ambito della cultura pagana.

2.3

l 'VANGELI': UNO SVILUPPO NARRATIVO DEL 'VANGELO ORIGINARIO' ORALE?

È in particolare nella prima fase della ricerca (per un resoconto: H. Evangelium, 204-222) che si è cercato di spiegare come si è sviluppata la relazione tra il vangelo originario orale, così come è testimoniato in Paolo, e il Vangelo di Marco, il racconto più antico su Gesù, che ha collocato il termine 'vangelo' nella prima riga del proprio testo(-+ 1.): il vangelo originario, in particolare i primi segni di 'dettagli biografici' così come si possono trovare nelle formule di fede antiche in riferimento a nascita, morte e risurrezione (cfr. Rm l ,3s.; l Cor 15,35), sarebbero stati sviluppati in senso narrativo per la prima volta nel Vangelo di Marco. Contro questa idea depone il fatto che in Paolo non si trova alcun genere di segni che vadano nella direzione di uno sviluppo biografico; sembra anzi che egli addirittura vi opponga resistenza: non mostra interesse né per la figura di Gesù «secondo la carne» (2 Cor 5,16), né per le sue parole (le 'parole del Signore', nei suoi scritti, s1 possono contare facilmente: l Cor7,IO; 9,14; l Ts4,15). FRANKEMOLLE,

Paolo è interessato al Crocifisso cui Dio ha conferito un potere escatologico, mentre il Vangelo di Marco è interessato alla figura umana di Gesù di Nazaret (vista con gli occhi della Pasqua) e alla sua missione terrena. Nel 'vangelo originario' di Paolo i riferimenti biografici a nascita, morte e risurrezione servono soltanto da base per arrivare a sottolineare il paradosso della imronizzazione divina proprio di questo uomo Gesù come (provvisorio) Signore universale. Il Vangelo di Marco, invece, non è interessato a nient'altro se non alle singole tradizioni sulla condotta di vita, le opere e le parole di questo uomo prima della sua imronizzazione; tutto quello che Gesù dice e fa è tuttavia posto nel quadro di un'azione iniziata da Dio (Mc 1,1-15; H.-]. KiAUCK, Vorspiel); solo in questo orizzonte trova espressione, nelle sue parole e opere, l'inizio del regno di Dio sulla terra.

In termini precisi, il vangelo originario di Paolo afferma che Gesù di Nazaret crocifisso è stato costituito da Dio Signore universale, espri-

148

B. l quattro vangeli

mendone, al tempo stesso, le conseguenze per le comunità. Il Vangelo di Marco, invece, narra la storia precedente e fa agire sulla terra, come maestro e taumaturgo, quel Gesù che Dio ha scelto come Signore. Quindi il vangelo originario paolina e il Vangelo di Marco si incontrano in un punto: entrambi affermano l'inizio di una nuova epoca, vale a dire del regno di Dio. Lo fanno però da prospettive differenti, perseguendo scopi diversi e rielaborando tradizioni diverse, di modo che i loro prodotti letterari non possono essere visti l'uno come evoluzione dell'altro.

2.4

IL

VANGELO DI MARCO COME 'NUOVO' PARADIGMA

In riferimento ai generi effettivamente utilizzati e ai testi concreti effettivamente noti del I secolo, si potrebbe dire: l'analogia più vicina dell'originario vangelo cristiano trasmesso oralmente è costituita dalle iscrizioni imperiali nelle quali è presentata, in termini discorsivi, l'ideologia imperiale della nuova epoca - riassunta, a volte, con il concetto generale di 'vangeli'. Invece, un'analogia dei racconti su Gesù, composti per la prima volta da Marco, è rappresentata dai racconti della propaganda imperiale romana, soprattutto quelli messi in circolazione sotto l'epoca dei Flavi(~ V.3.2), successivamente trasformati nella forma di 'vite' (M. EBNER, Viten). Il Vangelo di Marco è nuovo e, in questo senso, è effettivamente un paradigma, in quanto per la prima volta porta le storie su Gesù, in circolazione già da tempo, dentro il concetto letterario di 'vita' e scrive il termine militare 'vangelo' nella sua prima riga - senza parlare del fatto che Gesù riceve, accanto al titolo regale ebraico di 'Cristo', cioè 'Unto', anche i titoli tipici dell'imperatore romano; infatti il titolo tipicamente biblico («il figlio di/del[l'unico] Dio») appare in Mc l, l senza articolo: «un figlio di un Dio» - proprio come accade nelle iscrizioni delle monete dell'impero romano (M. EBNER, Kreuzestheologie, 153-158). In breve: il Vangelo di Marco adatta la forma propagandistica della 'vita' dell'imperatore a Gesù di Nazaret. Questa idea ha fatto scuola in Matteo e Luca che, da parte loro, dipingono Gesù come Signore che si oppone alla signoria imperiale romana; tuttavia i due riprendono, nella struttura generale e nel titolo della loro opera, modelli propri della storiografia ellenistica e giudaica. Luca non chiama più la sua opera 'vangelo', bensì òtiJYTJ>) (U. Luz, EKK l/P, 253-255).

1.3.2

La raccolta dei racconti di miracoli

Più difficile è la struttura della raccolta dei racconti di miracoli dei capp. 8s. a) Una prima proposta, di carattere piuttosto formale, evidenzia tre triadi di racconti di miracoli. Siccome vengono raccontati nell'insieme dieci miracoli, ma il racconto della guarigione della figlia di Giairo (9,18-19.23-26) è intrecciato con quello della donna ammalata di perdite di sangue (9,20-22), formando così un'unica narrazione, risultano esserci tre gruppi con ciascuno tre racconti di miracoli (W.D. DAVIES- D.C. ALLISON; E.]. VLEDDER). Tutti i brani che, in base al genere letterario, non possono essere contati tra i racconti di miracoli, quindi i sommari (8,16s.; 9,33b-35), le dispute (9,10-13.1417) e il racconto della chiamata del pubblicano Matteo (9,9), vengono associati alle triadi di racconti di miracoli con il ruolo di introduzioni o di conclusioni. b) Una proposta di struttura fortemente connotata in senso contenutistico vede nello svolgimento narrativo della raccolta una rappresentazione esemplare di ciò che il vangelo nel suo insieme intende raccontare (cfr. K.-C. WONG; U. Luz, EKK l/2, 64-68): di come cioè Gesù, re respinto dal suo popolo ('messia'), si rivolga a Israele, ma eserciti allo stesso tempo una forza di attrazione sui pagani (8,5-13), incontrando stupore tra la folla, rifiuto invece tra i capi dei giudei e i farisei (9,33s.). Al centro (8, 18-9,17) è raccontata la nascita della comunità dei discepoli in mezzo a Israele. Al riguardo è decisiva la domanda se si è pronti o meno a salire sulla barca insieme a Gesù (8, 18-22) e a lasciarsi trasportare, ponendo in Gesù la propria fiducia, verso rive sconosciute (8,23-27). La comunità dei discepoli si connota per una propria prassi rispetto al perdono dei peccati, alla convivia-

158

B. I quattro vangeli

lità, alla questione del digiuno. In tre dispute Gesù difende questa prassi nei confronti dei gruppi rispettivamente interessati: il perdono dei peccati di fronte agli scribi (9, J-8), la convivialità con i peccatori di fronte ai farisei (9,9-13), il comportamento rispetto al digiuno di fronte ai discepoli di Giovanni (9,14-17). Alcuni interpreti vogliono vedere nei dieci racconti di miracoli del Vangelo di Matteo un'analogia in contrasto con le dieci piaghe con cui Dio ha colpito l'Egitto al momento dell'esodo del suo popolo (Es7-12) (D.C. ALLISON, Moses, 207-213).

1.3.3

La correlazione .fra discorsi e racconti

La costruzione rigorosa della sezione 4,23-9,35 getta luce sulla difficile correlazione esistente fra i discorsi e le parti narrative del Vangelo di Matteo: a) sono i segnali testuali all'interno del testo narrativo (4,23; 9,35) a legare insieme nel nostro caso il 'discorso della montagna' con la raccolta di racconti di miracoli. b) La connessione tra le due parti non si può cogliere partendo dalla struttura superficiale. In questo caso, può servire da chiave ermeneutica Dt7,12.15: Se avrete dato ascolto a queste norme e se le avrete osservate e messe in pratica, il Signore, tuo Dio, conserverà per te l' allean~a e la bontà che ha giurato ai tuoi padri ... Il Signore allontanerà da te ogni infermità e non manderà su di te alcuna di quelle funeste malattie d'Egitto, che ben conoscesti, ma le manderà a quanti ti odiano.

Gli insegnamenti di Gesù, che nel senso del programma di M t 5,17 sono intesi come compimento della legge e dei profeti, rappresentano dunque la base affinché poi possano avvenire anche guarigioni. La rara parola greca che sta per 'infermità' (f..taÀmda), si trova sia in Dt7,15 sia in Mt 4,23 e 9,35. A differenza dell'affermazione di Dt 7, conformemente alla composizione concentrica di Mt4,23-9,35, non è la messa in pratica delle norme a procurare guarigioni nel popolo, ma l'insegnamento stesso con la sua infallibilità, vale a dire con la sua coincidenza con la volontà divina, purché Gesù venga riconosciuto come colui che parla in nome di Dio (cfr. 8,2.6.8; 9,27.28). c) Nell'insieme è il ductus narrativo ad essere determinante. La frase programmatica di 4,23 non è semplicemente ripetuta in 9,35, ma in entrambi i casi porta a un'azione che accade di seguito. In 4,23 sono le azioni di Gesù, lì raccontate con un sommario, a provocare l'afflusso di pagani dalla Siria (4,24) e di giudei da Israele, la cui terra viene rappresentata richiamando i confini classici avuti sotto il re Davide (4,25; N. LOHFINK). L'annotazione che

IV Il Vangelo di Matteo

159

funge da cornice in 9,35, invece, riguarda le folle che Gesù vede davanti a sé nel suo ulteriore (!) tour per «tutte le città e villaggi», venendo così spinto a dare nuovi pastori a questo popolo che ne è privo (9,36-38). Ciò accade in l O, l con la trasmissione del potere di guarire ai dodici apostoli, i cui nomi sono elencati in l 0,2-4, e con l'incarico loro conferito di portare l'annuncio, i cui contenuti sono espressi in maniera esemplare nel discorso missionario (l 0,5-42). Dal punto di vista del ductus generale del vangelo, l'istituzione dei Dodici come pastori del popolo si ricollega a quella chiamata dei primi discepoli in 4,18-22, che viene raccontata immediatamente dopo il contrassegno narrativo di struttura (4, 17), con cui inizia la presentazione dell'attività pubblica di Gesù. Coloro che sono stati chiamati da Gesù (4,18-22), e che in un primo momento sono uditori delle sue parole e spettatori delle sue azioni (4,239,35), devono agire loro stessi seguendo il suo esempio (9,36-10,5a). Per lo schema generale del vangelo è dunque il ductus narrativo ad essere determinante. I discorsi hanno un ruolo subalterno.

1.4

SUDDIVISIONE GENERALE

L'ultimo versetto del vangelo, affidando ai discepoli l'incarico: «Insegnate loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato ... » (Mt28,20), riprende le parole conclusive di 26,1, con le quali si compendia quanto detto da Gesù nei discorsi: «... Gesù, terminate tutte queste parole ... ». In questo modo l'insegnamento dei discepoli viene collegato alle parole di Gesù che il vangelo ha fissato nei discorsi. Dal punto di vista strutturale, 26, l svolge la funzione di un pilone che sostiene un ponte e delimita chiaramente una sezione con cui, nel ductus narrativo, avviene il passaggio al racconto della passione. Se prendiamo 4, 17 e 16,21 come ulteriori riferimenti narrativi per stabilire la struttura, si ottiene la seguente suddivisione:

prologo ORIGINE DI GESÙ

epilogo MORTE DI GESÙ E SGUARDO SUL FUTURO

1-4,16

26,1-28,20

160

B. I quattro vangeli

Nella parte principale (4,17-25,46) si racconta l'attività pubblica di Gesù in Israele. Il 'prologo' (l, 1-4, 16) ha per contenuto l'origine di Gesù, fino alla sua apparizione pubblica in Israele. Nell"epilogo' (26,128,20) si trova il nuovo obiettivo dei discepoli di Gesù, assegnato loro da Gesù che è stato ucciso per iniziativa dei capi di Israele, ma che Dio ha risuscitato e intronizzato come Signore del mondo. La tensione narrativa, che abbraccia tutto il vangelo, è quella della promessa dell'Emmanuele. Essa in l ,23 si collega all'annuncio della nascita («gli sarà dato il nome Emmanuele, che significa Dio-con-noi»); secondo 28,20 viene realizzata nella persona di Gesù stesso («Io sono con voi»), sempre che i suoi discepoli adempiano il compito da lui ricevuto, vale a dire quello di far diventare tutti i popoli discepoli del suo insegnamento. La realizzazione della promessa dell'Emmanuele, quindi, è collegata a un'attività missionaria che supera i confini di Israele. Ciò è sorprendente in quanto, nella parte principale, Gesù ritiene di essere inviato al solo Israele e vieta espressamente non solo di aprire la strada verso i popoli/i pagani, ma addirittura di andare in una città dei samaritani (10,5s.; 15,24). È proprio questo divieto a volgersi in positivo, in bocca al Signore del mondo, e ad essere elevato al rango di comandamento (28,18-20): e questo capovolgimento va ricondotto a Dio stesso. Ora, infatti, è quel Gesù che è stato da Dio risuscitato e intronizzato come Signore del mondo a stabilire la nuova direzione. D'altra parte, è la trama della parte principale che ha l'intento di rendere almeno comprensibile questo capovolgimento. La prima sezione racconta la missione di Gesù a Israele e il rifiuto da parte dei capi di Israele (9,33s.) che provoca un ritiro di Gesù da Israele e la nascita in Israele della comunità dei discepoli (12, 1-16,20). La seconda sezione, poi, prende in considerazione la vita della comunità dei discepoli e traduce la resa dei conti con i capi di Israele (cap. 23) in avvertimenti a prepararsi al giudizio rivolti alla stessa comunità dei discepoli (capp. 24-25). La prima sezione culmina nella professione di fede di Pietro, momentovertice della nascita della comunità dei discepoli in Israele; la risposta è la consegna delle chiavi del regno dei cieli (16,13-20). Alla fine della seconda sezione questa comunità dei discepoli viene messa davanti a un'anticipazione immaginaria del giudizio del Figlio dell'uomo alla fine dei tempi, mostrando quali saranno i criteri decisivi per essere ammessi effettivamente ad entrare nel regno dei cieli o per esserne esclusi: il comportamento nei confronti dei bisognosi (25,31-46). Pertanto, se da un parte la trama del Vangelo di Matteo riflette come Dio stesso abbia aperto la missione di Gesù al di là dei confini di Israele, missione che

161

IV Il Vangelo di Matteo

consiste nella trasmissione dell'insegnamento di Gesù e il cui compito è affidato ai discepoli, dall'altra è questa stessa comunità dei discepoli in via di formazione ad essere sottomessa alle regole di Gesù, misurando in base ad esse la sua fedeltà a tale insegnamento. Motivare il cambiamento a riguardo del superamento dei confini è una questione affrontata dalla trama; la precisazione contenutistica di quel programma che Gesù ha inaugurato dentro i confini di Israele, e che invece i suoi discepoli devono portare oltre quei confini, avviene nelle sezioni dei discorsi.

1.5

I DISCORSI

INSERITI NELLA TRAMA

I cinque discorsi, ciascuno dei quali termina sempre con la stessa formula conclusiva, hanno un elemento in comune: non fanno procedere in avanti l'azione. Ciò è particolarmente evidente in M t l 0: pur essendo stati inviati, non sono i discepoli di Gesù a mettersi in cammino subito dopo, ma Gesù stesso (Il, l). Nonostante ciò, nel Vangelo di Matteo ci sono senz' altro dei discorsi che si intrecciano con lo svolgimento dell'azione, per esempio 12,25-37 (dove segue una reazione degli scribi e dei farisei, in 12,38), oppure 21,24-44 (un discorso che funge da risposta alla domanda dei sommi sacerdoti e degli anziani, in 21 ,23, e che provoca la loro collera, in 21,45s.). Diversamente da questi casi, i discorsi caratterizzati dalla formula conclusiva sono pronunciati, per così dire, «stando alla finestra» (U. Luz, EKK 1/P, 38); con i loro contenuti, Gesù parla rivolgendosi (anche) agli uditori e lettori del vangelo. Un elemento caratterizzante è che in tutti e cinque i discorsi i destinatari principali sono i discepoli; nel discorso della montagna, essi stanno nell'immediata vicinanza di Gesù, con il ruolo, per così dire, di futuri diffusori, mentre la folla resta in pianura (5,1). Tutti i cinque discorsi si trovano all'interno delle due sezioni della parte principale. Dal punto di vista compositivo, sono collocati a mo' di griglia sopra la trama. N e nascono alcune analogie: il primo e l'ultimo discorso sono i più lunghi. Presentati nella posizione tipica dell'autorità dottrinale, vi vengono contrapposti Gesù (5,1: si siede) e gli scribi/farisei (23,2: siedono sulla cattedra di Mosè). I due racconti più brevi, quello sulla missione (cap. IO) e quello sulla comunità (cap. 18), affiancano il discorso in parabole che sta al centro (cap. 13) e che stabilisce allo stesso tempo il tema comune a tutti i discorsi: il regno dei cieli. I singoli discorsi sottolineano di volta in volta differenti sfaccetta-

162

B. I quattro vangeli

ture: la condotta di vita (discorso della montagna), l'annuncio (discorso missionario), la trasposizione a livello della comunità (discorso comunitario) e la ratifica escatologica (discorso sul giudizio). L'opera propria dell'evangelista è quella di intrecciare questi discorsi con la trama dell'azione che si sta svolgendo. Essa andrà chiarita in riferimento all'origine del vangelo(-+- 2.) e discussa in riferimento all'obiettivo teologico (-+- 3.).

2.

Origine

2.1

FONTI

Il fatto particolare che la trama narrativa venga tessuta utilizzando cinque discorsi ha a che fare con le due fonti principali del Vangelo di Matteo: il Vangelo di Marco e la fonte dei detti Q. Il. Vangelo di Marco costituisce la spina dorsale della narrazione, la fonte dei loghia offre il materiale dei discorsi. Tuttavia, la trama di Marco va a ricevere un nuovo inizio e una nuova fine: la narrazione marciana inizia con la comparsa sulla scena di Giovanni il Battista (Mc l ,4; cfr. M t 3, l), mentre il Vangelo di Matteo antepone un elemento genealogico nel quale sono documentati l'origine di Gesù (1,1-17.18-25) e i luoghi della sua infanzia (2,1-23). Diversamente dal Vangelo di Marco, le donne non fuggono dal sepolcro senza dire niente a nessuno (Mc 16,1-8), ma danno subito esecuzione al compito assegnato loro dall'angelo, quello di portare l'annuncio della risurrezione ai discepoli di Gesù; e incontrano lo stesso Gesù (Mt 28,1-10). Diversa è anche la realizzazione della promessa fatta dall'angelo di vedere Gesù in Galilea, come avviene nella scena conclusiva sul monte in Galilea (28, 16-20). Inoltre, il racconto della visita delle donne al sepolcro è posta tra le due pericopi delle guardie del sepolcro (27,62-66; 28,11-15). Oltre al Vangelo di Marco e alla fonte dei detti, nel Vangelo di Matteo si trovano altri materiali che vengono designati con il termine di 'materiale speciale' (Sondergut). Nella (vecchia) ricerca anglosassone fu postulata, per questo materiale, l'esistenza di una fonte speciale scritta e indipendente, siglata 'M' (B.H. STREETER; con notevoli differenze: S.H.

IV. Il Vangelo di Matteo

163

BROOKS). È però qualcosa di molto improbabile. Per una parte notevole, il materiale consiste in integrazioni alla tradizione marciana (per esempio Mt4,13-16; 8,17; 12,57; 27,3-9.19.24-25.62-66; 28,11-15) o in una intenzionale rielaborazione di alcune sue parti (per Mt 13,36-43, cfr. Mc 4,26-29). Se in parte quel materiale è costituito da blocchi autonomi più estesi (2,13-23; 6,2-6.16-18), nella parte preponderante è però costituito da tradizioni singole, tra le quali sono incluse molte parabole, alcune delle quali particolarmente lunghe (18,23-35; 20,1-15; 21,28-32; 22,1-13; 25,1-30). Le problematiche trattate sono molto diversificate. Il ricorso alle citazioni bibliche e la polemica contro i farisei e la classe dirigente di Gerusalemme (Mt23; 27,62-66; 28, 11-15) rimandano a un contesto caratterizzato dallo studio della Scrittura. Da un'altra prospettiva sembrano essere raccontate quelle parabole che promuovono un comportamento misericordioso gli uni verso gli altri (18,23-35) o che scandalizzano con una concezione nuova e sbalorditiva della giustizia di Dio (20,1-15) e che richiamano alla vigilanza di fronte all'arrivo inaspettato del giudice. Esse non rispecchiano il punto di vista di un gruppo particolare. Nel giudizio finale non si fanno differenze. Qui sono forse (10,42; 18, l 0.14) a prendere la parola nella comunità, oppure si tratta di un dottore della legge che espone la sua posizione? Siccome nei materiali speciali di Matteo sono presenti particolarità linguistiche redazionali in misura superiore alla media, si può affermare che è stato l'evangelista ad averli messi per primo in forma scritta: è lui che li conosce dalla tradizione orale delle sue comunità di riferimento. Solo nei casi in cui è evidente lo smembramento successivo di chiare strutture compositive antecedenti, si può supporre la presenza di un testo scritto (U. Luz, EKK III', 50s.). È questo il caso, per esempio, della triade di regole sulle osservanze religiose (6,2-6.16-18) al cui centro Matteo colloca il Padre nostro e che incornicia con il commento di alcune ammonizioni (6,7-8.9-13.14s.), oppure anche della triade del racconto della fuga da Gerusalemme in Egitto per giungere infine a N azaret (2, 1321.23), nella quale l'autore inserisce il motivo per cui si evita di passare dalla Giudea (2,22). Lo stesso si può dire della integrazione alla triade delle cosiddette antitesi primarie (5,21-24.27-28.33-37), che Matteo amplia facendola diventare una doppia triade (5,31-32.38-48) utilizzando altro materiale dalla fonte dei detti e dal Vangelo di Marco (Q 12,57-59 = Mt5,25s.; Mc9,43-48 = Mt5,29s.). Dato che la suddivisione (1,17) della genealogia rimanda, dal punto di vista della gematria, al re Davide (il valore delle lettere ebraiche del nome 'David' è 14), mentre non è chiara dal punto di vista aritmetico, si può pensare che Matteo abbia utilizzato un elenco originario di quaranta nomi, rimaneggiandolo ed eventualmente integrandolo con i nomi delle donne pagane proprio nella parte della genealogia che precede il re Davide e suo figlio Salomone (Tamar, Racab, Rut e Bersabea, ricordata come moglie di Uria) (K.-H. OSTMEYER).

2.1.1

Sincronizzazione di Marco e fonte Q

Il lavoro compositivo e teologico svolto dall'evangelista consiste nell'aver sincronizzato l'una con l'altra le due fonti principali. Da una parte, ciò avviene dando piena forma ai passi che nel Vangelo di Marco avevano già un carattere dottrinale, integrandoli con i materiali-Q, oppure facendo in maniera che quei passi marciani che riportavano

164

B. I quattro vangeli

l'insegnamento di Gesù in maniera generica siano seguiti da brani che in Matteo hanno un tenore esplicitamente dottrinale. Il materiale per compiere queste operazioni l'evangelista lo trae, volta per volta, dalla fonte dei detti (insieme al suo materiale speciale). Dall'altra parte, egli provvede a riordinare il materiale, a volte totalmente, o a collegare le due fonti sotto punti di vista tematici. Mt 12-28 si attiene, in modo piuttosto rigoroso, al filo narrativo di Mc 2,23-16,8, anche se però le parti dei discorsi vengono notevolmente sviluppate: il discorso in parabole di Mc 4 viene considerevolmente ampliato in M t 13 con materiali di Q e materiali speciali propri. L'insegnamento per i discepoli di Mc 9,33-35 diventa il punto di partenza per il discorso sulla comunità di Mt 18. L"insegnamento di Gesù nel tempio', nel quale Gesù mette in guardia il popolo dagli scribi (Mc 12,38-40), è utilizzato dall'evangelista come aggancio per l'ultimo grande (doppio) discorso di Mt 23-25, per il quale egli ricorre anche alle invettive di Q 11 e al discorso apocalittico di Mc 13, collegato con elementi del discorso apocalittico di Q 17. Le cose stanno diversamente in M t 3-11, dove viene ripreso il filo narrativo di Mc 1,2-2,22, modificandolo però fortemente dal punto di vista della composizione. Mc Mt3

M(1;2-11

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Q10,2-12 Q12,2-9 Q7,18-35 Q10,13-15.215.

IV. Il Vangelo di Matteo

165

La forma compositiva data dall'evangelista si può vedere nella maniera più evidente nel brano del 'vangelo del regno' (4,23-9,35). Nel punto in cui il Vangelo di Marco racconta l'insegnamento di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Mc l ,21), di fronte al quale tutti i presenti sono presi da grande stupore (Mc 1,22) anche se il contenuto di tale insegnamento non viene esplicitato, l'evangelista Matteo inserisce il discorso della montagna (Mt 5-7). Qui egli combina i seguenti materiali di Q: il discorso programmatico (Q 6), la serie di detti sul non preoccuparsi (Q 12,22-31) e i l6ghia sulla preghiera (Q 11,2-4.913). Per i capitoli sui miracoli, Mt8-9, l'evangelista mette insieme i racconti di miracoli di Mc 1,29-45 e del ciclo marciano di miracoli 4,35-5,43, completati con l'unico racconto dettagliato di un miracolo che si trova nella fonte dei detti, Q 7,1-10 (il centurione di Cafarnao). Nella prospettiva fondamentale di far nascere in Israele una comunità di discepoli sulla base del 'vangelo del regno', si affrontano questioni legate alla problematica della sequela o dei confini di questa comunità, utilizzando testi corrispondenti tratti da Marco (sequela: 2,14; dispute: 2,1-22) e da Q (sequela: 9,57-60). In linea di principio, in Mt 3-11 è conservato l'ordine dei materiali di Q, anche se questi vengono amalgamati abbondantemente, anche al di fuori dei discorsi, con materiali di Marco analoghi dal punto di vista tematico: la predicazione del Battista (Mc l ,4-8) è completata con i corrispondenti materiali della fonte dei detti (Q 3,7-9.16s.). Il racconto marciano delle tentazioni (Mc l, 12s.) nel Vangelo di Matteo forma la cornice (Mt 4, 1-2.11) al cui interno sono collocate le tre prove di cui parla Q 4,3-12 (cfr. M t 4,3-1 0). L'informazione rinvenibile nel racconto marciano della moltiplicazione dei pani e dei pesci secondo la quale, agli occhi di Gesù, la folla è senza pastori (Mc 6,34; cfr. Mt 9,36), tanto che egli insegna subito loro «molte cose>>, va a formare nel Vangelo di Matteo il punto d'avvio del discorso missionario. Qui l'evangelista non unisce soltanto la scelta e l'istituzione dei Dodici, raccontate separatamente in Marco (3, 13-19; 6,7-13), ma completa e combina le istruzioni marciane per la missione con i l6ghia corrispondenti del discorso missionario di Q IO (insieme ad alcuni detti rivolti ai discepoli sul non avere paura, tratti da Q 12,2-10), cosicché in qualche misura si ottiene un testo in cui è particolarmente spiccata la mescolanza di Marco e Q (cfr. Mt 10,9s. =Mc 6,8s. + Q 10,4). Rispetto alla sequenza presente in Q, è cambiato soltanto l'ordine dei materiali sul Battista (Q 7,18-35 =Mt 11,2-19). Inoltre, Matteo colloca le invettive contro le città galilaiche, che in Q formano la conclusione del discorso missionario (Q 10,13-15), alla fine del passo sul Battista (Mt 11,20-24).

2.1.2

Aggiustamento teologico delle fonti

Matteo non ha soltanto combinato insieme le sue due fonti principali, ma ha anche operato un aggiustamento del loro significato teologico. a) Dichiarazioni sul giudizio. Per la fonte dei detti quella del giudizio è un'idea-guida. Essa abbraccia l'intero documento: dall'annuncio di giudizio del Battista (Q 3,7 -9) fino all'annuncio che i seguaci di Gesù siederanno su dodici troni e giudicheranno le dodici tribù di Israele (Q 22,28.30); tale idea, inoltre, rappresenta l'apice di ciascuna sezione:

166

B. I quattro vangeli

della prima sezione sul Battista (Q3,16s.), del discorso programmatico (Q 6,46-49), della seconda sezione sul Battista (Q 7,31-35), del discorso missionario (Q 10,2-15), della sezione dei miracoli (Q 11,31s.), delle invettive (Q 11,49-51), della parenesi ai discepoli (Q 13,28-29.34s.), e culmina infine nel discorso escatologico (Q 17,24-30; 22,28.30). L'evangelista riprende questa idea-guida, imprimendole però un'altra direzione, in un duplice senso: sia dal punto di vista della struttura della comunicazione sia dal punto di vista del criterio del giudizio. Nella fonte dei l6ghia le minacce di giudizio sono rivolte verso l'esterno, verso Israele come destinatario dell'annuncio: il giudizio è una minaccia per coloro che in Israele si decidono contro Gesù e contro i suoi messaggeri. In Matteo le minacce di giudizio sono rivolte verso l'interno, proprio verso i discepoli di Gesù: sono loro i destinatari delle parole di giudizio. Per questo, il criterio del giudizio non è più l'accoglienza o il rifiuto di Gesù, ma il 'portare frutto': il punto, allora, è se le parole di Gesù vengono messe in pratica oppure no. Al fine di operare questo aggiustamento teologico, l'evangelista effettua dei cambiamenti redazionali decisivi nel materiale della tradizione in suo possesso: le dichiarazioni di giudizio che, nella fonte dei detti, sono rivolte a tutto Israele e ~i riferiscono al rifiuto opposto ai messaggeri inviati da Dio, dall'evangelista vengono indirizzate ai farisei (per Q 11,29-32, cfr. Mt 12,38-42; per Q 11,49-51 e 13,34s., cfr. Mt23,34-39). Anche le invettive sulle città galilaiche vengono riferite, storicizzando, solo al rifiuto di Gesù o del Battista (11,16-19.20-24) e non vengono estese, come nella fonte Q, anche al rifiuto dei messaggeri inviati da Gesù (cfr. Q 10,2-12.13-15). Il giudizio sulle 'opere cattive' delle città galilaiche e in particolare degli abitanti di Gerusalemme, che dai capi di Israele si sono lasciati indurre a invocare su di sé il sangue (Mt 27,25), secondo Mt 22,7 si è già compiuto nella distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani. Quella colpa è espiata. Come criterio per il giudizio del mondo, che invece rimane in sospeso, resta ancora il 'portare frutto'- sulla bocca del Battista rivolto specialmente ai farisei e ai sadducei (Mt 3,7-10, cfr. Q3,7-9), sulla bocca di Gesù a tutti i suoi destinatari e, com'è naturale, in maniera particolarmente forte, ai suoi discepoli. Decisivo è il mettere pratica le parole di Gesù (Mt7,24-27, cfr. Q 6,47-49): la vigilanza consiste nel praticare incessantemente i comandamenti di Gesù (Mt24,42-51, cfr. Q 12,39-46). L'evangelista mette ancor di più l'accento su questo punto con le parabole tratte dal suo materiale speciale, alle quali egli dà in parte un nuovo orientamento: non basta farsi invitare al grande banchetto (Mt 22,1-10); piuttosto, quel che conta è presentarsi indossando un abito nuziale adatto alla festa (Mt 22,11-14). Non basta aspettare in casa l'arrivo dello sposo; bisogna piuttosto avere olio nelle lampade al momento del suo arrivo (Mt25,1-12). Non basta conservare premurosamente il talento che si è ricevuto, nascondendolo sotto terra, ma bisogna farlo fruttare (Mt 25, 14-30). Altrimenti c'è la minaccia dell'inesorabile giudizio: si sarà gettati fuori nelle tenebre, e «là sarà pianto e stridore di denti>> (Mt 22, 13; 25,30; cfr. 8, 12) come ripete, a mo' di ritornello, il Vangelo di Matteo.

IV. Il Vangelo di Matteo

167

L'aspettativa, presente nella fonte dei detti, che coloro che seguono fedelmente Gesù siedano a giudicare Israele (Q 22,28.30, cfr. M t 19,28) viene problematizzata dall' evangelista facendo seguire immediatamente la parabola dei lavoratori a giornata (Mt 20,116), secondo la quale i primi saranno gli ultimi- e sono proprio i primi a capire meno di tutti che cosa sia la giustizia di Dio. Il punto culminante del discorso escatologico matteano chiarisce in maniera inequivocabile, con la scena del giudizio del mondo (25,3146), chi sarà il giudice nel giorno finale: nessun altro se non lo stesso Figlio dell'uomo. Egli siede come giudice non solo di Israele, ma di tutti i popoli. Se si legge questo passo nel ductus dell'intero vangelo, sono compresi qui anche i discepoli. E una caratteristica di coloro che saranno collocati tra i 'giusti' è che si meraviglieranno di questo giudizio. Per i discepoli di Gesù che annunciano i suoi insegnamenti valgono, nel caso estremo, gli stessi criteri che valgono per coloro che non hanno accolto affatto l'insegnamento di Gesù: entrambi i gruppi saranno giudicati secondo il criterio di un comportamento che segue le regole fondamentali di umanità. Essendo questa prospettiva universale così sorprendente e stupefacente, si propone in senso opposto un'interpretazione esclusiva: il giudice del mondo si rivolgerebbe solo ai non-cristiani e li giudicherebbe sul modo in cui essi si sono comportati nei confronti dei cristiani (= fratelli). I 'fratelli' cristiani starebbero a fianco del giudice del mondo e non verrebbero giudicati. Dopo il giudizio sulla comunità, di cui parlerebbe la parabola delle vergini (Mt25,1-12), in 25,14-30 si rappresenterebbe il giudizio del mondo. L'interpretazione classica circoscrive le affermazioni del giudizio del mondo ai confini della comunità cristiana. sono «tutti i cristiani": si tratterebbe di un giudizio sul comportamento che i discepoli della comunità cristiana hanno gli uni nei confronti degli altri (su questa problematica generale: U. Luz, EKK I/3, 521-530).

b) La legge. Rivolto com'è alle problematiche dei pagano-cristiani, il Vangelo di Marco si è affrancato dalla legge rituale ebraica. Al riguardo, l'affermazione culminante si trova in Mc7,19, dove Gesù dichiara puri tutti gli alimenti. Matteo cancella proprio questa affermazione: per lui la legge rituale resta pienamente valida. Egli fa senz' altro discutere Gesù su quale sia il modo giusto di mettere in pratica i comandamenti (comandamenti sulla purità: M t 15, 1-20; comandamenti sul sabato: 12, 114) e gli fa prendere una posizione (23,23), ma fondamentalmente vale il principio: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della legge ... » (5,18). Matteo trae questa affermazione cruciale dalla fonte dei l6ghia (Q 16, 17); tuttavia, egli non si limita a far sì che Gesù metta nuovamente l'accento sulla legge ebraica, come avviene nella fonte Q, ma fa del «compimento della legge e dei profeti» (5, 17) il vero programma di Gesù. Con ciò non si intende soltanto l'interpretazione della legge migliore e momentaneamente più adeguata alla situazione di vita, ma anche la sua attuazione pratica esemplare. L'evangelista può rappresentare questa compenetrazione reciproca della legge nella sua interpretazione gesuana (cfr. 24,35: «cielo

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B. I quattro vangeli

e terra passeranno, le mie parole non passeranno») e nella sua attuazione pratica abbinando insieme i testi discorsivi (insegnamenti di Gesù dalla fonte Q) e i testi narrativi (azioni di Gesù secondo il Vangelo di Marco). Dalla vita di Gesù si può ricavare come il «compimento della legge e dei profeti» avvenga attraverso le azioni. Le cosiddette 'citazioni di compimento' inseriscono queste idee in modo esplicito all'interno del testo narrativo. Il compimento della legge lo si può tuttavia vedere nel comportamento di Gesù anche al di là delle citazioni di compimento, e questo a cominciare dal battesimo, quando Gesù si sottomette umilmente al Battista «per compiere ogni giustizia» (Mt 3, 15), fino alla sua crocifissione, quando il pastore è colpito e le pecore vengono disperse (26,31). Con un'espressione forte, si potrebbe dire: nel Vangelo di Matteo le citazioni di compimento ricoprono la funzione che nel Vangelo di Marco ha il 'segreto messianico', espresso nelle diverse intimazioni a tacere date ai vari gruppi di persone (+ V.3.2); in un caso Matteo sostituisce addirittura un ordine di silenzio con una citazione di compimento (Mc 3,12: cfr. con M t 8, 17). Se in Marco il significato di Gesù e del suo titolo si comprende solo a partire dalla croce, in Matteo lo si comprende soltanto mediante le Scritture. Se in Marco il programma di Gesù si ricava dalla rinuncia alla posizione che gli apparteneva con la morte di croce e viene in tal modo realizzato (cfr. Mc 10,45), in Matteo il discorso programmatico del «compimento della legge e dei profeti» si realizza nell'intero corso della vita di Gesù. In altre parole: il 'portare frutto' di Gesù lo si può vedere nelle sue azioni. Quando si parla di citazioni di compimento, dette talvolta citazioni di riflessione, ci si riferisce alle dieci citazioni dei libri profetici che si trovano nel Vangelo di Matteo e che sono introdotte, al termine di un racconto, con la locuzione stereotipa: (1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4; 27,9). Dal punto di vista del contenuto, la caratteristica di queste citazioni di compimento è quella di collegare il racconto che le precede con una citazione profetica. In ciò consiste la differenza rispetto alla cosiddetta tecnica Pesher, che viene utilizzata per esempio a Qumran: mentre si porta avanti il commento, si collegano delle affermazioni prese dai libri profetici con eventi del momento attuale. A differenza di ciò, le citazioni di compimento guardano al passato mettendo gli eventi narrati nel Vangelo di Matteo in collegamento con parole profetiche; sono particolarmente frequenti nel prologo: lì vengono collegate al comportamento di persone che, con le loro azioni (buone o riprovevoli), accompagnano per vie traverse Gesù, nato nella città regale di Betlemme, fino a Nazaret in Galilea. Nella parte principale, invece, è nello stesso comportamento di Gesù che si realizza in modo conforme alle Scritture l'idea di un re di pace per Israele (= messia= Cristo), mentre l'unica citazione di compimento si riferisce al comportamento di colui

IV Il Vangelo di Matteo

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che prova rimorso per aver tradito sangue innocente, che però si trova a dover incassare in cambio un rifiuto infame da parte dei sommi sacerdoti e degli anziani (Mt27,3-10). Due dettagli: l) mentre sono stati già gli scribi presenti nella comunità matteana ad aver collegato, cronologicamente prima dell'evangelista, citazioni anticotestamentarie con particolari tradizioni che avevano tra le mani (per esempio: Mt2,l3-23; 27,3-10), sembra che sia stato lui di suo pugno ad aver collocato intenzionalmente in determinati punti la formula introduttiva stereotipata, 'trovata' in 2 Cr 36,21 (disanima in U. Luz, EKK I/P, 189-199).- 2) In un caso, una citazione di Zaccaria viene erroneamente attribuita al profeta Geremia (Mt 27,9 = Zc 11, 13), in un altro caso una citazione di Zaccaria non viene identificata (Mt2l,5 = Zc9,9). Considerando il testo nella forma in cui ci è arrivato, si potrebbe dedurre che gli scribi della comunità di Matteo non avevano a disposizione né un rotolo dei dodici profeti né un rotolo di Geremia, ma probabilmente solo un rotolo di Isaia.

c) La missione ai pagani. In questo caso Matteo si lascia ispirare dal Vangelo di Marco. Tuttavia, la forte tradizione narrativa di quest'ultimo viene temperata da Matteo attingendo al proprio materiale speciale: Gesù sa di essere inviato soltanto alla casa di Israele e chiude espressamente la strada verso i pagani o i samaritani (Mt 10,5s.). Nel Vangelo di Marco Gesù, durante la sua vita, entra ampiamente in contatto con pagani (Mc 5,1-20; 7,24-30.31-37) e, rivolto ai suoi discepoli, incoraggia l'interesse nei confronti dei pagani (Mc 8,1-3;...., V.1.3.2). Rielaborando questi testi, Matteo sottolinea invece, per esempio nel racconto dei geraseni, l'atteggiamento ostile di tutta la città pagana e blocca sia il compito di annuncio nei confronti dell'indemoniato guarito sia l'attività di annuncio nella decapoli (Mt 8,34). Nel colloquio con la donna pagana, Matteo fa sottolineare a Gesù il carattere esclusivo della sua missione a Israele (materiale speciale: 15,24); cancella il contatto con il sordomuto e sposta il secondo racconto della moltiplicazione dei pani, che in Marco si svolge in territorio straniero, all'interno del territorio giudaico (Mt 15,29-31.32-39; cfr. Mc 7,31-37 e 8,1-10). Invece egli riprende espressamente la visione di una jùtura missione ai pagani, che il Vangelo di Marco racconta proletticamente (Mc 13,10; 14,9), nella scena finale di Mt 28,16-20, come incarico che Gesù, ora costituito Signore universale, affida ai suoi discepoli. Egli può riagganciarsi, in tal modo, alla fonte dei l6ghia, che in via di principio mostra un'apertura verso i pagani nella misura in cui essi si avvicinano nel senso del pellegrinaggio dei popoli verso Israele (Q 7,1-10; 13,28s.; cfr. Mt 8,5-13) oppure in quanto vengono presentati come figure esemplari virtuali con lo scopo di servire da sprone (Q 10,13-15; cfr. Mt 11,20-24).

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B. l quattro vangeli

Nella combinazione della fonte dei detti, orientata in senso giudeocristiano, con il Vangelo di Marco, orientato in senso pagano-cristiano, come anche nel loro aggiustamento, da una parte si riflette qualcosa della storia della comunità (_.. 2.4) e dall'altra si possono cogliere i punti di partenza di un lavoro di riformulazione della tradizione ricevuta(_.. 3.).

2.2

AUTORE

La denominazione '(Vangelo) secondo Matteo', che è data al nostro scritto nei codici (~, B) per differenziarlo dagli altri vangeli, riprende il ".nome dell'apostolo (Mt 10,3). Che sia stato effettivamente l'apostolo Matteo a scrivere questo vangelo è assai improbabile. Come mai un ' testimone oculare si sarebbe dovuto rifare a un testimone non-oculare, appunto al Vangelo di Marco, per descrivere quegli eventi che lui stesso aveva vissuto? Anche quanto viene riportato da Papia, e cioè che Matteo avrebbe raccolto le tradizioni (tà Myta) in lingua ebraica (Eusebio, Hist Eccl III 39,16), è storicamente improbabile: tanto la fonte dei detti, quanto il Vangelo di Marco furono composti fin dall'inizio in lingua greca. Letto internamente al testo, però, il nome 'Matteo' diventa estremamente interessante: questo infatti - a differenza del testo del Vangelo di Marco- è il nome del pubblicano chiamato da Gesù in 9,9 (=Mc 2,14). Ora, non tutti i testi del Vangelo di Matteo sono molto amichevoli nei confronti dei pubblicani: in 5,46s. vengono messi sullo stesso piano dei pagani, dal cui comportamento i veri discepoli di Gesù dovrebbero prendere le distanze! Secondo 18, 17la formula di esclusione definitiva per un membro della comunità, che non vuole ravvedersi neppure dopo diversi colloqui che si susseguono secondo un preciso procedimento in tre tappe, suona: « .•. allora sarà per te come un pagano e un pubblicano». Tuttavia, nello sfondo narrativo dell'intero vangelo, Gesù fa vedere come ci si deve comportare con un pubblicano ' come quello: non solo chiama Matteo, ma gli affida anche il compito di apostolo. Con la dicitura '(Vangelo) secondo Matteo' un pubblicano diventa una figura programmatica. In riferimento all'identità religiosa dell'autore o della comunità, in riferimento alla loro posizione nel giudaismo e verso di esso, e in riferimento all'attività missionaria verso i pagani, la ricerca su Matteo è segnata da tendenze addirittura opposte.

IV. Il Vangelo di Matteo

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Se negli anni Ottanta del XX secolo era ancora necessario portare degli argomenti per affermare che l'autore fosse un giudeo-cristiano, fedele alla legge, in quanto si dava per acquisito che si trattasse di un cristiano proveniente dal paganesimo (W. TRILLING, J.P. MEIER, G. STRECKER), trent'anni più tardi è necessario portare degli argomenti per affermare che Matteo abbia interrotto i rapporti con la sinagoga. Infatti il new consensus parte dal presupposto che la comunità matteana sia un gruppo deviante che agisce totalmente e pienamente all'interno del giudaismo (A.I. SALDARINI) e - cosi la posizione estrema- nutra delle riserve nei confronti della missione verso i pagani (D.C. SIM). L'altra posizione estrema è sostenuta da R. Deines, secondo il quale Matteo e Paolo si trovano sulla stessa linea. Rispetto alla missione verso i pagani, c'è in parte un'oscillazione aritroso: Matteo non promuoverebbe la missione verso i pagani (U. Luz; EKK III, 67), ma dovrebbe ricordare la missione ai giudei divenuta nel frattempo controversa (H. FRANKEMOLLE, Matthaus II, 76.545s.) oppure sarebbe costretto a giustificare la missione verso i pagani già iniziata (U. Luz, EKK I/P, 91, correggendo le sue posizioni precedenti).

Noi partiamo dal presupposto che l'autore sia un giudeo-cristiano, che scriva per una comunità giudeo-cristiana, la quale però si trova a un punto di svolta, precisamente in una crisi per uscire dalla quale serve la stesura del vangelo. La posizione nei confronti della comunità sinagogale locale deve essere abbozzata sulla base delle differenti posizioni che sono rappresentate all'interno della comunità e che è ancora possibile rintracciare nel testo del vangelo.

2.3

DESTINATARI

Sia l'autore che la comunità hanno una buona conoscenza dell' ebraismo: le spiegazioni delle usanze ebraiche che si trovano per esempio nel Vangelo di Marco (Mc7,3s.; 14,12) vengono cancellate dall'autore. La domanda se si possa fare del male in giorno di sabato (Mc 3,4), che suona maliziosa per orecchie ebraiche, viene ugualmente eliminata senza alcuna sostituzione (cfr. Mt 12,12); al posto di tutto ciò, seguendo l'argomentazione tipicamente ebraica secondo la quale in caso di pericolo di vita i precetti sabbatici non valgono (cfr. 2 Mac 2,41), si introduce l'esempio - noto anche dal dibattito interno al primo giudaismo- della pecora che cade nel fossato (Mt 12,11; cfr. CD 11,13s.; bShab 128b), traendone la conclusione: «Perciò è lecito fare del bene in giorno di sabato» (Mt 12,12). La comunità segue evidentemente il precetto sabbatico che vieta di percorrere un certo tragitto (24,20) e non trascura neppure i precetti meno importanti della legge, come

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B. I quattro vangeli

quelli della decima sulla menta, sull'aneto e sul cumino (23,23; cfr. K. M DLLER,

2.3.1

Ruckbesinnung).

La storia della comunità rispecchiata nella sua tradizione

Il rapporto con la fonte dei detti non è solo di carattere letterario, ma si può constatare anche una continuità a livello sociologico e storico. Probabilmente la comunità matteana è stata fondata da missionari-Q itineranti, vale a dire da trasmettitori della fonte Q, e continua a restare in un contatto stabile con loro (U. Luz, EKK l/P, 90). Concretamente: l'annuncio di coloro che appartengono al gruppo-Q ha riscosso buona accoglienza presso certi membri della sinagoga del luogo, anche presso certi scribi. Costoro riprendono la tradizione dei l6ghia, la integrano e ne completano autonomamente la stesura scritta. I missionari fondatori ritornano di tanto in tanto nel nuovo punto di appoggio che si sono conquistati. Ciò trova espressione all'interno del testo nel modo seguente: accanto ai 'profeti' e ai 'sapienti', come si designano i missionari-Q itineranti, compaiono anche, come terzo gruppo, gli 'scribi' (Mt 23,34, cfr. Q 11,49; Mt8,19, cfr. Q9,57). C'è dunque un altro gruppo che in loco partecipa allo stesso incarico missionario che i missionari-Q itineranti riferiscono a se stessi (Mt 23,34: «... Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi ... »); questi ultimi però, da parte loro, visitano ormai la comunità solo occasionalmente (Mt 10,41; cfr. 7,15). Il consolidamento teologico delle tradizioni-Q è opera degli scribi locali. In primo luogo si tratta di mettere in rapporto i detti di Gesù riguardanti la vita quotidiana, che hanno in parte un carattere sapienziale, con le tematiche tipiche della T orah oggetto di discussione, quindi di rendere rilevante !"insegnamento di Gesù' per il dibattito teologico di cui si occupano gli scribi. Ciò accade in modo fondamentale nelle cosiddette 'antitesi' (5,21-48). Tanto la denominazione di 'antitesi' quanto la forma («Avete inteso che fu detto ... ma io vi dico ... ») sono ingannevoli: non si tratta affatto di prese di posizione contro la legge, ma piuttosto del tentativo di collegare i consigli di Gesù su questioni di vita quotidiana con le tematiche della tradizione («Avete inteso che fu detto agli antichi ... »), mostrando come siano un contributo nuovo («ma io vi dico ... ») all'interno di quel particolare dibattito (H. FRANKEMOLLE, Matthiius l, 225-235; K. MDLLER, Beobachtungen).

IV. Il Vangelo di Matteo

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Il consiglio, dato da Gesù, di riflettere attentamente, quando si va in pellegrinaggio a Gerusalemme, se non si sia in cattivi rapporti con qualcuno a casa prima di portare solennemente e devotamente la propria offerta all'altare del tempio (Mt5,23), viene ricondotto al comandamento del decalogo attraverso la forma dell'antitesi: > (12,6). Ci si intende riferire al comportamento misericordioso nei confronti altrui. In questo consiste, per il Vangelo di Matteo, il «compimento della legge>>. In maniera del tutto conseguente, con la morte di Gesù, vertice del compimento della legge, si realizza ciò che normalmente viene realizzato soltanto attraverso il sacrificio del tempio: il perdono dei peccati. Ciò viene ricordato in ogni celebrazione della cena del Signore. Solo nel Vangelo di Matteo si crea questo collegamento attraverso le parole dette sul calice: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati>> (26,28). L'applicazione sociale si realizza nella disponibilità al perdono che viene sottolineata in modo particolarmente forte - offrendo un correttivo alla procedura di esclusione indicata in 18,15-18- nel discorso comunitario(+ 2.3.c). Per definizione tutti e due gli aspetti, sempre soltanto secondo il Vangelo di Matteo, sono collegati insieme: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe>> (6,14s.). Il perdono dei peccati non avviene con il battesimo, inteso come rito di iniziazione (28, 19; 3,1; cfr. invece Mc 1,4), ma nella pratica di quel programma etico che sono disposte a seguire le persone conquistate dai discepoli di Gesù. Dal punto di vista rituale, viene celebrato nella cena del Signore. b) Un'idea propria del Vangelo di Matteo è quella del «regno del Figlio dell'uomo>> (13,41; 16,28; 20,21) che ha inizio con la risurrezione di Gesù (28,18). Il campo nel quale il Figlio dell'uomo getta il suo seme-parola è il mondo (13,37s.). Il regno del Figlio dell'uomo è quindi caratterizzato dal fatto che l'etica di Gesù è 'seminata' come possibilità di vita. Gli strumenti di questa 'semina' sono i discepoli di Gesù che devono fare discepoli tutti i popoli, insegnando loro ad osservare tutto quello che Gesù ha comandato. Quindi, anche i discepoli di Gesù non formano una piccola unità separata, ma sono portatori dell'etica di Gesù con la loro stessa persona(+ 3.3). La chiesa sorge nell'intero ambito del mondo terreno. Chi veramente vi appartenga, chi sia veramente 'grano' nel campo (13,24-30), chi dunque abbia veramente osservato i comandamenti di Gesù, è cosa che sarà decisa alla fine dal Figlio dell'uomo (13,24-30.36-43; 25,31-46) e sarà lui

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B. I quattro vangeli

ad introdurre questi 'giusti' nel (13,41.43; 25,34; G. HEININGER 103-105).

3.2

VANONI -

B.

L'ETICA UNIVERSALE

Mfinché l'etica di Gesù possa essere vissuta da tutti, è necessario, però, che venga recepita in prospettiva universale. Presentando l'etica di Gesù nei cinque discorsi, il Vangelo di Matteo tiene presente la costruzione di questo ponte verso il mondo pagano. Nel primo discorso, «la legge e i profeti» sono messi sullo stesso piano di quella regola d'oro (7, 12) che, nel mondo pagano, rappresenta una specie di norma etica fondamentale (G. THEISSEN, Regel). Nell'ultimo discorso del vangelo i criteri seguiti dal giudice nel giudizio finale consistono in sei opere di misericordia. Qui, misericordia e cristologia vengono intrecciate l'una con l'altra. Tutti gli esseri umani - a prescindere dal fatto che siano ebrei o pagani, a prescindere da quale sia il popolo da cui provengono - saranno giudicati sull'aiuto dato a chi è nel bisogno: · Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi (25,35s.)

Quando coloro che vengono chiamati 'giusti' per questo loro comportamento domandano come mai in questi bisognosi abbiano aiutato il giudice, si sentono dire per tutta risposta: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me>> (25,40). È sorprendente che il tema della circoncisione non venga mai affrontato all'interno dell'intero vangelo: da questo fatto non si può concludere né che essa venga presupposta in modo automatico (D.C. SIM), né che sia diventata priva di significato (R. DEINES). Per il Vangelo di Matteo la valutazione dei comandamenti ebraici è determinante. In modo esplicito, il doppio comandamento dell'amore (22,37-40) e la triade 'giustizia, misericordia e fedeltà' (23,23) sono messi in primo piano, mentre i comandamenti rituali, le prescrizioni sulla purità (15,1-20) o la decima degli alimenti (23,23) passano in second'ordine.

IV Il Vangelo di Matteo

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In nessun modo la circoncisione ha in Matteo la qualità di un segno di distinzione (come è tipico per l'ebraismo). È possibile che nella comunità matteana tanto il battesimo quanto la circoncisione, a seconda della provenienza culturale, siano praticati come riti di iniziazione equivalenti, senza che a ciò sia collegato il significato di separazione o addirittura di certezza della salvezza(+ 3.1.a). Ciò che conta, tanto per il battezzato quanto per il circonciso, è fore la misericordia (nel senso di compimento della legge).

3.3

IL NUOVO 'cORPO DOCENTE'

N ello scenario del discorso della montagna, con la sua predicazione etica Gesù da una parte viene accostato a Mosè (D.C. ALUSON, Moses): come Mosè, egli sale sul monte per annunciare i comandamenti di Dio al popolo che resta nella pianura (cfr. Es 19-20); dall'altra parte viene messo in parallelo agli scribi: sul monte non riceve delle tavole, ma annuncia egli stesso - stando seduto nella posizione del maestro - la volontà di Dio, allo stesso modo degli scribi «che si sono seduti sulla cattedra di Mosè» (Mt23,3). Diversamente dal Vangelo di Marco, dove i discepoli di Gesù sono presentati sempre nella parte di coloro che non comprendono o addirittura di coloro che non credono(+ V.1.3.4), nel Vangelo di Matteo i discepoli sono, nel peggiore dei casi, gente di poca fede (6,30; 8,26; 14,31; 16,8; cfr. la cancellazione di Mc 4,13; 6,52; 8, 17s.), ma in ogni caso sono sempre persone che vanno ammaestrate. Sono costantemente i destinatari dell'insegnamento di Gesù, che, secondo M t 28, 19s., devono portare a tutti i popoli. Essendo i discorsi in Matteo pronunciati 'stando alla finestra' ed essendo rivolti agli uditori del vangelo, si viene a creare una continuità di tradizione. Infine, come momento iniziale e prima pietra della sua comunità di discepoli, Gesù consegna a Pietro «le chiavi del regno dei cieli» che significano il potere di legare e di sciogliere (Mt 16,19), vale a dire la potestà di impartire un insegnamento morale vincolante; il passo riceve una diversa interpretazione a seconda delle confessioni cristiane: viene inteso o come incarico una tantum (questa l'interpretazione evangelica) o come ufficio permanente (interpretazione cattolica; cfr. C. BbTTRICH; M. EBNER). Come criterio contenutistico per chi ha il compito di stabilire le norme religiose vale il contrasto creato dallo sfondo buio delle invettive contro

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B. I quattro vangeli

gli scribi (23,13): gli insegnamenti morali devono aprire il regno dei cieli agli uomini e non chiuderlo, in altre parole non si devono caricare sulle spalle della gente dei pesi insopportabili (23,4), ma si devono dare prescrizioni che siano espressione di misericordia (Il ,28-30). Il seguente aspetto colpisce: sebbene l'evangelista dia grande importanza alla funzione degli scribi per la diffusione e l'attualizzazione dell'insegnamento di Gesù, allo stesso tempo regola la loro pretesa di autorità e la mette alla pari di altre - e precisamente sia rispetto ai colleghi di ufficio nella sinagoga madre, sia rispetto ai membri della comunità. Secondo 23,3, anche tutto quello che gli scribi e i farisei della sinagoga decidono lo si deve fare e osservare; è solo come esempi da seguire che non vanno considerati: dalle loro azioni non si può dedurre l'insegnamento da impartire. Secondo il Vangelo di Matteo gli scribi devono diventare, a loro volta, «discepoli del regno dei cieli» (13,52). Lo scopo non è quello di fondare una propria scuola (così la tradizione prima di Matteo), ma lo sviluppo e la trasmissione di un'etica che nel 'campo del mondo' dia forma a quel regno di cui parla la storia di Gesù in 4,23-9,35. Tale regno non si identifica con la terra di Israele né dal punto di vista etnico né da quello territoriale, ma cresce laddove viene praticata l'etica· di Gesù. N o n è l'accettazione o il rifiuto della persona di Gesù a decidere l' appartenenza (Mt 16,27; diversamente Mc8,38), ma semplicemente l'accettazione o il rifiuto del suo insegnamento - insegnamento documentato dai cinque discorsi del Vangelo di Matteo e la cui traduzione in pratica è testimoniata nel ductus narrativo del vangelo stesso. Ciò che importa non è chi sia vincitore nella disputa tra le varie scuole, ma chi nell'agone della pratica dei comandamenti di Dio ('giustizia'; cfr. Mt 5,20) sia in grado di conquistare più persone per il regno di Dio. Solo allora si arriva alla metafora della ekklesia: essere «luce del mondo» e «sale della terra» (5, 13s.). Il giudizio universale su tutti i popoli alla fine dei tempi, siano essi ebrei o pagani, siano ammaestrati o meno nell'insegnamento di Gesù, non si opera sulla base di azioni straordinarie dal punto di vista etico, ma separa i 'giusti' dagli 'ingiusti' considerando se essi abbiano seguito o meno un éthos umano elementare, esibito innanzitutto nel prestare un aiuto primario a quanti sono nel bisogno (25,31-46). Il nuovo corpo docente del Vangelo di Matteo è dunque costituito da persone dalla cui condotta si possono dedurre gli insegnamenti di Gesù, insegnamenti che appaiono così desiderabili per la vita del mondo che si può soltanto lodare Dio per essi. Nelle parole originali

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di Matteo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (5, 16).

BIBLIOGRAFIA

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v. Il Vangelo di Marco (Martin Ebner)

l.

Struttura

1.1

TRAMA

Il Vangelo di Marco racconta la vicenda di Gesù con i seguenti tratti caratteristici: la storia si svolge in cinque località e si estende per un periodo di cinquanta giorni; il protagonista della storia proviene daNazaret, in Galilea, ma il suo successo non lo raccoglie lì, quanto piuttosto in piccole città intorno al cosiddetto 'mare di Galilea'. Le sue parole, ma soprattutto le sue opere, destano meraviglia. Nella vasta schiera di persone che lo seguono, Gesù sceglie dodici uomini che stanno sempre con lui e che devono seguire le sue orme. Dalla parte opposta si forma però anche un gruppo ostile: gruppi di autorità politiche e religiose, il cui ordine stabilito è messo sottosopra dal comportamento di Gesù. Il quale sa che quelli progettano di farlo morire. Sebbene Gesù, preannunciando per tre volte la sua tragica sorte, anticipi ai discepoli anche che 'il terzo giorno risorgerà', questi se la danno a gambe prima ancora della sua crocifissione a Gerusalemme. Solo alcune donne della sua cerchia assistono in lontananza alla sua triste fìne. Al quarantanovesimo giorno regna il silenzio del sepolcro. Il cinquantesimo giorno, arrivando di buon mattino alla tomba, le donne vengono stravolte soprattutto dalle parole di un giovanetto che affìda loro un messaggio per i discepoli di Gesù. Atterrite e piene di paura fuggono via dalla tomba e non raccontano niente a nessuno. Solo la narrazione trasmette il messaggio,

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B. l quattro vangeli

lasciando al lettore il compito di continuare o meno la 'missione' di Gesù. Ciò, però, dipenderà da quanto egli si lascerà convincere dalla storia che è stata narrata. L'autore, che con la tradizione chiamiamo Marco, ha utilizzato a tal scopo i suoi mezzi con grande maestria.

1.2

SUDDIVISIONE E COMPOSIZIONE

Se con B.M.F. van Iersel si seguono le indicazioni topografiche della narrazione (Markus, 272-292), si cristallizzano cinque località nelle quali si svolge l'azione. Per il palcoscenico che si disegna nella mente del lettore, ci sono alcune indicazioni date dalla regia, che vengono inserite chiaramente nel testo. La prima parte si svolge nel deserto (Mc l ,1-13): quattro volte sentiamo la parola-chiave EQlll·taç; che può essere tradotta con 'deserto', ma anche semplicemente con 'regione disabitata' (l ,3.4.12.13). Lì fa la sua comparsa Giovanni il Battista per proclamare un battesimo di conversione, lì Gesù si lascia battezzare da Giovanni e viene subito dopo tentato da Satana nel deserto. La seconda parte conduce al mare di Galilea (1,16-8,21): lì Gesù chiama·i suoi primi discepoli (l, 16-20), sulla riva del mare o dal mare Gesù parla alla folla (2, 13; 3,9; 4, l s.). Dal mare (o dal deserto) si dirige verso Cafarnao (1,21; 2, l) o cerca di andare all'altra riva (4,1-2.35). Si raccontano tre traversate in barca, il cui esito non è sempre ugualmente positivo (... 1.3.2), e un viaggio via terra: da Tiro «passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decapoli» (7 ,31; ... carta geografica l, pag. 749). Mentre in occasione del suo primo arrivo all'altra sponda, a Gerasa, Gesù viene cacciato dagli abitanti della città nonostante la guarigione dell'indemoniato (5, 1-20), la seconda volta egli incontra un'accoglienza carica di attese: come la gente a Cafarnao (1,32-34) o a Gennesaret (6,53-56) porta a Gesù i propri ammalati, così anche nella Decapoli la gente gli conduce un sordomuto per farlo guarire (7,31-38). La terza parte del racconto si svolge lungo il cammino, come suggeriscono le indicazioni della regia nel primo (8,27) e- dopo numerose ripetizioni (9,33.34; l 0,32) - e nell'ultimo versetto della sezione 8,27-10,52. Il cammino inizia nella zona più a nord di Israele, a Cesarea di Filippo, e ha come meta finale Gerusalemme, nella parte più meridionale. In 11, l si raggiunge Gerusalemme, più precisamente Betfage e Betania, presso il monte degli Ulivi; come in Galilea Gesù si spostava

191

V Il Vangelo di Marco

continuamente tra le due rive del mare, allo stesso modo nella parte del racconto ambientata a Gerusalemme (Il, 1-15,39) si sposta di continuo fra Betania e il tempio: di giorno Gesù si ferma nel tempio, di sera torna a Betania. Nell'unica notte che passa a Gerusalemme, Gesù viene condannato a morte. L'ultimo luogo del nostro racconto è il sepolcro (15,42-16,8). Giuseppe di Arimatea depone Gesù nella tomba di sua proprietà, le donne stanno ad osservare - e in fretta, il giorno dopo il sabato, vi fanno ritorno, ma non trovano il corpo di Gesù; incontrano invece un giovane che le sconvolge con il suo messaggio. Tra un 'palcoscenico' e l'altro sono inseriti dei testi-cerniera o dei racconti-cornice. Mc l, 14s. è il testo-cerniera tra il deserto e la parte che si svolge in Galilea: fa uscire di scena il primo attore del racconto evangelico, il Battista («dopo che Giovanni fu arrestato»), e anticipa in maniera sintetica quella che sarà l'attività di Gesù in Galilea («proclamava il vangelo di Dio»). Il testo-cerniera in 15 ,40s. introduce le donne come nuove figure dell'ultima parte, dando solo ora l'informazione retrospettiva che anch'esse erano con Gesù in Galilea e che hanno percorso con lui il cammino verso Gerusalemme. All'inizio e alla fine della parte centrale, lungo il cammino, sono collocate due guarigioni di ciechi (8,22-26; 10,46-52): si tratta delle uniche guarigioni di ciechi dell'intero vangelo; con un'unica eccezione (9,17-32), nella parte lungo il cammino non c'è alcun altro racconto di guarigione; tutti gli altri sono concentrati nella parte galilaica. Questa cornice intorno alla parte centrale, dunque, è messa intenzionalmente. Ne risulta la seguente suddivisione generale. NEL DESERTO (1,1-13) cerniera: Il Battista esce di scena, entra in campo Gesù (1, 14s.) Sulle due rive dal MARE DI GALILEA (1, 16-8,21)

Guarigione del cieco (8,22-26) LUNGO IL CAMMINO (8.27-10.45)

Guarigione del cieco (10.46-52) Tra il MONTE e il TEMPIO di GERUSALEMME (11, 1-15,39) cerniera: le donne che hanno accompagnato Gesù lungo il cammino (15.40s.) AL SEPOLCRO (15.42-16,8)

La suddivisione, qui ulteriormente sviluppata rispetto alla parte che si svolge in Galilea e a Gerusalemme, è approfondita da B.M.F. van lersel sulla base di osservazioni semantiche e compositive, mentre la ricerca precedente si richiamava piuttosto a considerazioni contenutistiche. La cesura principale è 8,27. A seconda che vengano

192

B. I quattro vangeli

individuate o meno delle parti a sé stanti lungo le altre cesure (l, 14 o l, 16 e 11, l), si fanno proposte con due (R. PESCH), tre (U. SCHNELLE), quattro (1. BROER) o cinque sezioni Q. MARCUS). La collocazione di l, 14s. è sempre discussa. Il racconto della tomba viene per lo più isolato come parte conclusiva (quindi senza 15,42-47). Nei commentari recenti, probabilmente sotto l'influsso di van lersel, le due guarigioni dei ciechi vengono considerate a parte (R. T. FRANCE; J.R. DONAHUE- D.J. HARRINGTON). Criteri specifici per la loro struttura dettagliata sono presentati per esempio da P. Miiller (questione della identità di Gesù) oppure da L. Schenke (struttura temporale). Le grandi cesure restano però inalterate, cosa che depone a favore della loro plausibilità.

La struttura generale ha un carattere concentrico, il cui centro è individuabile nella parte lungo il cammino. La parte galilaica del racconto e quella gerosolimitana si corrispondono dal punto di vista quantitativo: sono le due parti più lunghe dell'intera narrazione. Al loro centro si trova un discorso di Gesù che riprende, nell'ambientazione, gli aspetti topografici fondamentali della rispettiva sezione. Nella parte della Galilea è il discorso in parabole (4,1-34): Gesù siede (in una barca) sul mare per spargere- come il seminatore della parabola (4,3-9)- il seme della parola sulla folla che è «sulla terra» (4,1s.). Nella parte di Gerusalemme è il discorso apocalittico (13,1-36): Gesù si trova sul monte degli Ulivi e guarda in basso verso il tempio, di cui preannuncia.la distruzione. Dal punto di vista del contenuto, le due parti stanno in contrasto l'una con l'altra: in Galilea Gesù predica e guarisce, ottiene un'accoglienza entusiastica, conquistando a sé anche la popolazione scettica della sponda opposta; nella parte gerosolimitana del racconto il gruppo dei seguaci di Gesù si disgrega: tutti i discepoli fuggono (14,50). Al contrario della Galilea, a Gerusalemme Gesù non riesce a conquistare a sé i suoi oppositori, i sommi sacerdoti e gli scribi; ed essi portano a compimento la loro condanna. Tuttavia, la parte di Gerusalemme getta la sua ombra sulla parte galilaica che la precede: due volte vengono gli scribi «da Gerusalemme» per osservare Gesù e chiedergli spiegazioni (3,22; 7,1s.). Anche le parti ai due estremi, deserto e sepolcro, si corrispondono: sono le due parti più brevi. Ciascuna è lunga solo una dozzina di versetti. Entrambi - deserto e sepolcro - sono luoghi di morte. Però, nella tradizione biblica, Dio pone il suo nuovo inizio con Israele proprio nel deserto, vuoi aprendo una strada nel deserto (esilio babilonese) vuoi attraverso il mare come potenza del caos (esodo). Quando il lettore, alla fine del testo, viene condotto nel sepolcro, può solo sperare che lì- parallelamente all'inizio del vangelo- abbia luogo il racconto di un nuovo inizio. Ed effettivamente anche lì, come nella parte del deserto,

V Il Vangelo di Marco

193

compare un messaggero di Dio: qui il giovane, là Giovanni Battista; se Giovanni proclamava la venuta di Gesù, il giovane annuncia come si possa 'vedere' Gesù anche se non è più presente. Il fatto che le donne non abbiano detto niente a nessuno (16,8) ha, fin dal principio, disorientato i copisti, spingendoli a inserire delle aggiunte secondarie. Si possono trovare due versioni della conclusione: quella breve e quella lunga. Quest'ultima è entrata addirittura a far parte dei versetti del vangelo: 16,9-20. Sul piano del contenuto si tratta di una serie di riassunti di racconti pasquali, soprattutto del Vangelo di Luca e del Vangelo di Giovanni (per Mc 16,9s., cfr. Cv 20,1.11-18; per Mc 16,11-16, cfr. Le 24,11-49), come anche di alcuni episodi degli Atti degli apostoli (per Mc 16,17s., cfr. At 16,16-18; 2,1-11; 28,3-6; cfr. la tabella in J.A. KELHOFFER 121s.). La conclusione breve, invece, fa eseguire l'incarico dato dall'angelo e racconta un nuovo comando missionario dato da Gesù. L'una o l'altra versione viene scelta, a partire dal V secolo, per essere aggiunta nei manoscritti; in certi casi vengono combinate l'una con l'altra (K. ALANo). I codici più antichi del IV secolo (~. B) e anche il minuscolo 304 del XII secolo (!) testimoniano invece la conclusione del testo con 16,8. Anche gli interpreti moderni continuano a cercare nuove ipotesi sulla conclusione di Marco. Dall'inizio del XVIII secolo si fanno speculazioni su una conclusione andata perduta o distrutta intt:nzionalmente; altri ancora cercano altri possibili testi al posto di quelli proposti (informazioni in R. PESCH, HThK 11/1, 44-46). Di fronte alla chiara tradizione testuale questi tentativi non risultano convincenti.

La parte centrale, che costituisce il cuore del vangelo, prepara al duro cambiamento che avviene passando dalla Galilea a Gerusalemme. Se nella parte della Galilea si trovano di fronte, come destinatari di Gesù, le folle che stanno da una parte e dall'altra del mare, e se a Gerusalemme si trovano a confronto gli oppositori di Gesù con i suoi seguaci che ogni giorno lo accompagnano da Betania, nella parte lungo il cammino Gesù è solo con i suoi discepoli. Egli li precede e li ammaestra sulla natura della vera sequela e su che cosa significhi seguirlo lungo il cammino dalla Galilea fino a Gerusalemme.

1.3

LE LINEE NARRATIVE E IL LORO SCOPO TEOLOGICO

1.3.1

I tre annunci della passione della parte centrale e l'apprendimento della 'sequela'

La parte centrale di Marco è articolata intorno ai tre annunci della passione (8,31; 9,31; l 0,33s.): ciascuno di essi è seguito da una incom-

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B. l quattro vangeli

prensione dei discepoli, alla quale Gesù reagisce con un insegnamento per i discepoli. La prima volta è Pietro a voler tenere lontano Gesù dalle sue sofferenze a Gerusalemme (8,32). Gesù 'rimprovera' Pietro - un atteggiamento che, altrimenti, viene detto esclusivamente del rapporto di Gesù con i demoni (cfr. 1,25; 3,12; 4,39) -,convoca la folla insieme ai suoi discepoli, e lo fa per dire loro: «Se qualcuno vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (8,34). Ciò avrebbe dovuto significare, per Pietro in modo particolare, rinnegare se stesso, non Gesù, nel cortile del sommo sacerdote, dunque confessare di conoscere Gesù; in quel caso avrebbe mostrato di aver compreso l'insegnamento di Gesù stesso (B.M.F. VAN IERSEL, Markus, 179). Con la sequenza 'annuncio della passione- incomprensione dei discepoli- insegnamento per i discepoli', insegnamento con il quale Gesù interviene espressamente come maestro dei suoi, si mette in evidenza che l'insegnamento sulla passione (e sulla risurrezione) comporta delle conseguenze per il comportamento dei discepoli. Il contenuto della fede (annuncio della passione) è collegato con la prassi (incomprensione dei discepoli e insegnamento rivolto a loro). Così facendo si ottiene anche una correzione della concezione comune di messia. Infatti, sia il primo annuncio della passione sia l'intera parte centrale stanno sotto il brano capitale della 'confessione messianica' di Pietro, che apre la sezione centrale (8,27-30). Il titolo di 'messia' suscita, sullo sfondo delle tradizioni ebraiche, l'attesa di un dominatore regale destinato a sconfiggere i suoi nemici e a fare un ingresso plateale nella sua città regale. Questa concezione riceve una correzione dall'annuncio della passione: la via maestra di Gesù è una strada di sofferenza che riceve il suo sigillo dalla crocifissione nella città regale; questa strada di sofferenza comporta inoltre delle conseguenze per i discepoli di Gesù, nella misura in cui essi vogliono 'seguire' il Maestro. Perché questa procedura viene ripetuta tre volte? La cosa ha a che fare, da una parte, con motivi didattici: si impara attraverso la ripetizione. Però, ha a che fare anche con l'applicazione dell'insegnamento: nonostante l'ermeneutica della sequenza rimanga sempre la stessa (applicazione della via della passione alla vita del discepolo), nel secondo e nel terzo annuncio l'insegnamento di fede non viene applicato al momento del racconto (quindi a Pietro), ma è formulato per il presente dei lettori. In 9,32-34 e l 0,35-41 l'incomprensione dei discepoli non consiste nel fatto di voler tenere lontano Gesù dalla via della passione, ma nel fatto di discutere tra di loro su chi sia il più grande (9,34) o nel chiedere di avere il posto dei ministri, di sedere alla destra e alla

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sinistra del trono di Gesù nel regno venturo (10,37). Così mostrano di non aver compreso la 'parola' del Maestro (9,32). L'insegnamento di Gesù- che in 9,35 viene presentato mentre siede, nella posizione tipica del maestro - ha un contenuto corrispondente: «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35; cfr. 10,42-45). L'insegnamento di Gesù che viene trasmesso lungo il cammino, in tre dialoghi con i discepoli aventi esattamente la stessa struttura, traduce la sequela della croce in categorie di etica sociale. Chi rinuncia alla ricerca di posti importanti e di prestigio, praticando invece una rinuncia al rango di appartenenza, mostra di aver compreso l'insegnamento di fede della via della passione seguita da Gesù. Parallelamente a questo insegnamento, il tradizionale titolo messianico è collocato nell'orizzonte della via della passione di Gesù: al dono che egli fa della propria vita viene dato espressamente il significato di rinuncia ad essere servito, dunque di scelta consapevole della posizione di òuixovoç, 'servo' (10,45). La parte centrale del Vangelo di Marco vuole far aprire gli occhi su questi procedimenti di applicazione dell'insegnamento di Gesù. Ciò viene mostrato in maniera simbolica nei due racconti di guarigione di un cieco che incorniciano questa parte. Mentre la prima guarigione non avviene al primo colpo, ma necessita di un secondo intervento (8,22-26; cfr. la ripetizione degli insegnamenti per i discepoli), la seconda guarigione (10,46-52) ha un successo immediato- in un doppio senso:« ... e subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada», si dice, a mo' di conclusione, per il cieco Bartimeo. Qui si trova il potenziale di speranza che la vicenda del Gesù marciano nasconde in sé per i lettori. Poiché i discepoli di Gesù, all'interno della narrazione, restano ciechi sino alla fine.

1.3.2

Le tre traversate in barca della parte galilaica e l'avvicinamento ai pagani

Come la parte centrale viene strutturata dai tre annunci della passione, così la parte galilaica lo è da tre traversate in barca. Esse hanno una meta chiara: la riva dall'altra parte del mare. Tutte e tre sono caratterizzate da diverse peripezie e ostacoli; per due volte la barca finisce in mezzo a una tempesta (4,35-41; 6,45-52). La prima volta si arriva nella regione di Gerasa (5, 1), la seconda volta la meta prestabilita, Betsaida (6,45), non viene neppure raggiunta e la barca approda invece a Gennesaret (6,53); nella terza traversata (8,13-21), i discepoli sono totalmente presi dalla preoccupazione di aver dimenticato le provviste di cibo.

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Le tre traversate dirette all'altra riva, però, risultano essere delle peripezie anche per chiunque cerchi di verificarle su una cartina geografica. Infatti, Gerasa si trova a 50 km dal lago di Gennesaret. Betsaida, invece, dista solo alcuni chilometri da Cafarnao - per questo sarebbe stato molto meglio raggiungerla a piedi. Rimane fino ad oggi un enigma l'esatta collocazione geografica della località chiamata 'Gennesaret'. Seguendo le indicazioni del racconto, la mappa che si delinea agli occhi del lettore è in realtà una cartina geografica religiosa. Essa diventa decifrabile quando i luoghi e le attività che vi si svolgono sono osservati dal punto di vista della appartenenza religiosa. Quando si trova su questa riva del mare, Gesù sta soggiornando in territorio ebraico, invece passando all'altra riva si reca dai pagani(-+ carta geografica l, pag. 749). Gerasa fa parte della Decapoli, una confederazione di dieci città pagane. Secondo la mentalità mitica dell'Antichità, i venti contrari possono essere interpretati come potenze demoniache del caos, appartenenti agli dèi pagani, che vogliono impedire l'arrivo di Gesù nella loro regione. Quando, dopo la seconda traversata, che fallisce completamente la mèta, Gesù cerca di raggiungere «l'altra riva>> percorrendo, per così dire, la deviazione via terra, ossia passando per le città pagane di Tiro e Sidone (!) che si trovano sulla costa, egli arriva effettivamente di nuovo al è il luogo in cui abitano i pagani, la riva da cui parte Gesù è invece quella degli ebrei. La verifica è presto fatta: il ritorno dall'altra riva avviene sempre senza problemi. Inoltre Gesù incontra subito persone che rendono immediatamente chiaro alletto re in quale parte della carta geograficoreligiosa egli si trovi. Dopo il ritorno da Gerasa, si fa incontro a Gesù uno dei capi della sinagoga (5,22). Gesù fa appena in tempo a tornare dalla misteriosa Gennesaret, che è subito scrutato dagli sguardi dei farisei e degli scribi che lo vogliono controllare (7, 1).

Dunque, la parte galilaica, con i suoi viaggi tra le due rive del 'mare', racconta di come Gesù, con il suo messaggio e con le sue opere, cerchi di raggiungere tanto gli ebrei quanto i pagani. Gli ostacoli che si frappongono all'incontro con i pagani non sono soltanto di natura mitica, ma hanno anche a che fare con riserve umane; più precisamente con gli stili di vita tipicamente ebraici che, con le loro prescrizioni sui cibi e sulla purità, tracciano una chiara linea di separazione nei confronti della società pagana. Ciò si riflette nella narrazione marciana: quando la barca approda a Gerasa, solo Gesù scende a terra, non i discepoli (5,2.18). Da parte sua Gesù, con l'esorcismo, purifica la regione dai maiali, vale a dire dall'animale più aborrito dagli ebrei. Prima di poter arrivare a un vero e proprio incontro con i pagani, sono necessari un confronto e un chiarimento teologico. Ciò avviene nella disputa sulla purità rituale che Gesù ha con i farisei e gli scribi in 7,1-15, disputa che si conclude nella cerchia ristretta dei suoi discepoli, dove Gesù può dichiarare in modo definitivo la purità di tutti gli alimenti (7, 19). L'impurità non viene dall'esterno, ma dall'interno: non è determinata da una tecnica alimentare, ma lo è in senso etico (7,21-23). Mentre nel

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suo primo incontro con una pagana, nella regione di Tiro, sono necessarie delle argomentazioni prima di convincere Gesù a guarire la figlia della donna (7,24-30), nel suo secondo incontro con un pagano nella Decapoli Gesù non ha più alcuna remora nell'entrare in contatto: mette le dita nelle orecchie del sordomuto e tocca la sua lingua con la saliva (7,33), e subito dopo il sordomuto «parla correttamente». Quando i pagani, avendo visto ciò, lodano il Dio di Israele con parole prese dalla Bibbia (Mc7,37; cfr. Gen 7,31; fs 35,5s.), il terreno è pronto anche per la commensalità con i pagani, fra i quali alcuni stanno seguendo Gesù «da tre giorni» e «da lontano» (appunto da Sidone e Tiro: Mc 8,2s.). Il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che in 8, 1-9 avviene in terra pagana, è messo in parallelo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci in terra ebraica raccontata in 6,35-44. La parte galilaica del racconto, allora, presenta la via verso i pagani. Sebbene il 'mare' attraversato da Gesù sia, fin dall'inizio, il punto di partenza adatto a prendere contatti con entrambe le sponde, egli ha bisogno di diversi tentativi prima di arrivare a un rapporto libero da condizionamenti nei confronti dei pagani (cfr. R. FENEBERG 145-186). 1.3.3

I sette giorni a Gerusalemme e le sette settimane dell'attività di Gesù

La condivisione della mensa con i pagani avviene esattamente al centro del tempo occupato dalla narrazione del Vangelo di Marco: al quarto giorno della quarta settimana. Si arriva a questa considerazione seguendo la tesi di L. Schenke (Markusevangelium, 13-15) che, per la suddivisione temporale di Marco, propone una struttura sabbatica scandendo l'attività pubblica di Gesù (da l, 14) in sette settimane. La parte gerosolimitana del racconto, infatti, conta precisamente sette giorni. lnnanzitutto il ritmo giornaliero è precisato in riferimento agli spostamenti geografici da Betania al tempio e viceversa (11 ,11-12.19s.), poi tenendo come riferimento la vicina festa di Pasqua (14,1.12). Il giorno del silenzio del sepolcro è un sabato (15,42; 16,1); se da questo momento si conta all'indietro, l'ingresso a Gerusalemme va collocato al primo giorno di questa settimana (la nostra 'domenica') - proprio come l'annuncio del giovane al sepolcro (Gesù precederà i discepoli in Galilea). Anche la parte galilaica porta il lettore sulla pista del ritmo sabbatico. In giorno di sabato, alla fine della prima settimana di attività, Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao (1,21). Di nuovo in giorno di sabato, dunque alla fine della seconda settimana di attività, ha luogo la diatriba con i farisei a motivo delle spighe raccolte dai discepoli (2,23-28) e, nella stessa sinagoga, la discussione a motivo della guarigione dell'uomo con la mano paralizzata (3,1-6). Il terzo

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sabato Gesù va nella sinagoga della sua città (6, 1-6). Un'altra notte viene raccontata per il secondo viaggio con la barca (6,48). Dopo la disputa sulla purità rituale, Gesù inizia il suo viaggio nella Decapoli e lì moltiplica i pani per le persone che sono con lui già «da tre giorni>>, vale a dire che lo hanno seguito lungo la strada che lo ha portato a Tiro (primo giorno), Sidone (secondo giorno) e nella Decapoli (terzo giorno)- nella struttura settimanale siamo quindi alla fine del quarto giorno della quarta settimana di attività. L'indizio successivo si trova in 9,2: >; così 3,7; cfr. 1,11; 9,7) e disturba il verbo al passato («era>>). Tuttavia, per orecchie romane, l'attribuzione di questo titolo è una provocazione: 'figlio di un Dio' è infatti il titolo dato all'imperatore mentre è in vita, in quanto suo padre è stato divinizzato (divus) e lui può farsi chiamare di conseguenza divi filius, che normalmente nelle iscrizioni greche viene tradotto con uiòç Swù ('figlio di un dio', senza articolo). È proprio con questo titolo imperiale, riservato ai 'primi' dell'impero romano, che l'autore del Vangelo di Marco presenta il protagonista all'inizio della sua opera (1,1). Successivamente, nello svolgimento della narrazione, il centurione romano pretende lo stesso titolo per Gesù crocifisso, dunque per un uomo che muore subendo il supplizio previsto solo per i ribelli e gli schiavi e che toglie ogni dignità a coloro che vi vengono condannati. Con la sua 'confessione' sotto la croce, il centurione ha compiuto quel ribaltamento sociale che rappresenta il punto centrale dell'insegnamento di Gesù lungo il cammino. Lo esprime nel titolo imperiale che anche Vespasiano, non senza difficoltà iniziali, esigeva per sé.

3.2

PERSONE CHE NON FANNO PROPAGANDA, MA METTONO IN PRATICA IL REGNO DI DIO

Diversamente dall'imperatore Augusto e dai suoi successori della dinastia giulio-claudia, V es pasiano non proviene dall'alta aristocrazia e soprattutto non ha un padre già divinizzato. Per legittimare il suo ufficio e per dargli il diritto di portare il titolo di 'figlio di un dio', i propagandisti di V es pasiano devono escogitare qualche buona idea: rimandare a segni e oracoli divini capaci di rivelare come dietro l'ascesa al potere di V es pasiano ci siano gli dèi. Si mettono in circolazione raccon-

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ti di miracoli: ad Alessandria Vespasiano avrebbe guarito, toccandoli, un cieco e un paralitico (Tacito, Hist IV 81,1-3; Svetonio, Vesp 7,2s.). Alcuni storici suppongono che siano stati i sacerdoti egizi a inscenare questi miracoli in occasione di un'udienza di Vespasiano all'ippodromo di Alessandria: si doveva dimostrare come in lui operassero forze divine. Si mormorava addirittura che Vespasiano, in quell'occasione, fosse stato acclamato dal popolo 'figlio di dio' (del dio Ammon: PFouad 8; cfr. G. ZIETHEN). Su questo sfondo, una caratteristica della narrazione del Vangelo di Marco acquista un nuovo spessore: gli ordini di mantenere il silenzio impartiti alle persone guarite e ai testimoni dei miracoli (l ,44; 5,43; 7,36; 8,26), ai discepoli (8,30; 9,9) e ai demoni (1,34; 3,11s.) che gridano il titolo - biblicamente corretto - della figliolanza divina di Gesù. La prima ricerca biblica ha designato questa caratteristica narrativa con il termine di 'segreto messianico' (W. WREDE; critica significativa: H. RAISÀNEN; 'segreto protettivo', con corrispondenze nel contesto sociale della comunità: G. THEISSEN, Bedeutungen; critica totale del concetto: R.H. GUNDRY, Mark). Dal punto di vista della storia della tradizione vengono così riferite l'una all'altra la tradizione dei miracoli e la storia della passione. Teologicamente il punto culminante consiste nel mettere la figliolanza divina di Gesù sotto la riserva della croce. Sullo sfondo della situazione storica, però, si ottiene un altro effetto: diversamente da Vespasiano, Gesù non ha bisogno di propagandisti. Le guarigioni non servono a legittimarlo, ma a manifestare gli effetti del regno di Dio. Le persone guarite non vengono strumentalizzate come oggetti di dimostrazione, ma stanno esse stesse al centro o vengono portate dai margini al centro: l'impuro viene accolto nella comunità (l ,40-45), la fanciulla morta torna alla vita (5,21-24.35-43), il pagano è toccato da un ebreo (7 ,31-3 7). Nessuna sorpresa che queste persone, come le altre coinvolte, a dispetto dell'ordine di tacere divengano, per loro iniziativa e autonomamente, propagandisti di Gesù. A differenza della strategia di propaganda di Vespasiano, lo scopo di Gesù non è che le persone, a motivo del miracolo, acclamino lui con il titolo di 'Figlio di Dio', ma che esse percorrano, a loro volta, il suo cammino. Neppure i discepoli di Gesù sembrano peraltro immuni dal volerlo trasformare in un taumaturgo da spettacolo, onde ottenere ciò che Gesù ha seccamente rifiutato di fare di fronte ai farisei: un segno dal cielo (8, 11). In 8,22 sono infatti (e qui pare che ci si riferisca ai discepoli) che portano un cieco da Gesù per farglielo toccare; Gesù guarisce sì il cieco, ma fuori dal villaggio, vietandogli di tornarvi (8,23-26). In tutt'altro modo vanno le cose nella seconda guarigione di un

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cieco, nella quale i discepoli non vogliono permettere al mendicante, che è sul ciglio della strada, di parlare con Gesù (10,46-52). Costui, però, molto prima della guarigione, confessa Gesù come «Figlio di Davide>>, come si dice nell'antica tradizione regale di Israele, e, una volta guarito, segue Gesù lungo il cammino.

Per due volte viene intimato il silenzio anche ai discepoli: una volta in riferimento alla confessione di Pietro (8,29s.) e un'altra in occasione della trasfigurazione (9,2-9). Se in questo secondo caso ricorre per l'ultima volta quell'ordine di silenzio, collegato all'annuncio della risurrezione (~ 3.5), nel primo caso manca alla confessione di Pietro («Tu sei il Cristo») il collegamento al precedente insegnamento lungo il cammino(~ 3.3).

3.3

NON MENTALITÀ DA ARRAMPICATORI SOCIALI, MA RINUNCIA AL PROPRIO RANGO

Nell'ultimo inse·gnamento dato ai discepoli nella sezione lungo il cammino, la comunità cristiana viene rappresentata come società alternativa: Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (10,42-45).

Da una parte vediamo la piramide del potere così come viene messa in pratica nell'impero romano: l'imperatore, il 'primo' (princeps, agxwv), trasmette il suo 'potere' (nel senso di potere illimitato: imperium, Èçouaia) ai suoi maggiorenti, che a loro volta esercitano il potere delegato 'verso il basso' (xar-Èçouauiçoumv), occupandosi, come governatori delle province, di mantenere tranquillità e ordine con la forza dell'esercito e di riscuotere le imposte. Dall'altra parte, nella comunità cristiana, c'è la piramide della rinuncia al rango: invece del dominio dall'alto verso il basso, si tratta lì di servire dal basso verso l'alto- e precisamente come obiettivo proprio per chi vuole essere 'grande'. Si noti bene: anche ai discepoli di Gesù viene dato potere (Èçouaia: 6,7), però per cacciare i demoni che opprimono gli esseri umani. Ancora: con l'ascesa al potere di Vespasiano, una sensazione scuote tutto l'impero:

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tutti vogliono 'arrampicarsi' come ha fatto lui. V es pasiano e i suoi figli 'fanno tendenza' nella società; e alimentano questa mentalità rampante in maniera attiva e consapevole: proprio dalla classe equestre, da cui essi stessi provengono, cooptano dei seguaci fedelissimi per farli entrare nel consesso più alto dello stato, il senato romano (cfr. Tacito, Hist II 82,2). Chi dimostra fedeltà personale verso l'imperatore può diventarne un seguace lungo il suo cammino di ascesa. A ciò si contrappone fortemente il Vangelo di Marco con il cammino alternativo di Gesù e il suo 'insegnamento' della sequela della croce. La morte di Gesù viene interpretata come via della rinuncia al rango (di un diacono o di uno schiavo), mentre il racconto della crocifissione è immerso nella luce del corteo trionfale.

3.4

LA VIA DELLA CROCE COME CORTEO TRIONFALE E LA RISURREZIONE COME APOTEOSI

Il racconto della via crucis di Gesù (15,16-27) è accompagnato da diverse incoerenze che, a un lettore competente, fanno venire in mente i cortei trionfali con i quali gli imperatori o i generali romani celebravano le loro vittorie (T.E. ScHMIDT, Crucifixion; ID., March; C.A. EvANS xc). La flagellazione di Gesù avviene in un cortile chiamato 'pretorio' (15,16): normalmente questa parola indica la tenda del generale; l'intera coorte, circa seicento-mille uomini, viene convocata in quel luogo (15,16). Esattamente allo stesso modo si formava il corteo trionfale al campo marzio di Roma: il generale vincitore, che ha trascorso la notte nella sua tenda, è rivestito delle insegne del trionfatore (il mantello di porpora e la corona di alloro) e riceve le acclamazioni dei soldati. Nella scena della flagellazione di 15,17-19, questo rito viene pervertito (R. AMEDICK). Nel momento culminante del corteo trionfale, che come una processione solenne si snoda lungo le strade della città, al trionfatore viene offerto del vino che costui, però, si rifiuta di bere (cfr. 15,23). La presentazione delle offerte di ringraziamento, con cui si inaugura la festa che segue, inizia dopo che un messaggero ha annunciato la morte del generale nemico, che è stato portato in corteo per essere esibito. Nella passione di Marco, il 'trionfatore' Gesù ricopre anche questo ruolo- un rovesciamento dei ruoli che non potrebbe essere più sottile e più provocatorio di così. Se collochiamo la comunità dei destinatari a Roma, questa ha il corteo trionfale di Vespasiano ancora davanti agli occhi

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(cfr. Flavio Giuseppe, BellVII 123-157). Un dettaglio inusuale gioca qui un ruolo particolare: Vespasiano è accompagnato lungo il trionfo dai suoi due figli, andando a formare così quello che potremmo chiamare il trio del potere. Nella passione di Marco abbiamo il trio dell'impotenza: Gesù in mezzo a due malfattori (15,27). In questa immagine di contrasto diventa chiaro come i 'posti d'onore' alla destra e alla sinistra di Gesù (10,37) sono per coloro che seguono Gesù sulla sua via. La 'via regale' di Gesù nel Vangelo di Marco viene portata avanti coerentemente fino in fondo in contrasto con il potere imperiale romano: al sepolcro la risurrezione di Gesù è annunciata insieme a una notizia: Àiçctv) del regno di Dio «anche in altre città» -cioè non solo a Nazaret e a Cafarnao: è questo il compito della sua missione. Questo vuol dire, però, che l'annuncio inaugurale fatto a Nazaret (4,18-21.23-27) altro non era se non appunto un annuncio di questo vangelo del regno di Dio (cfr. Mc 1,15). In questo annuncio, però, con le parole di fs 61,1s.; 58,6, non vengono descritte

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nient'altro che le opere che Gesù compirà in seguito. Questo implica, allora, che nel Vangelo di Luca il regno di Dio viene legato strettamente alla persona del Gesù terreno: «Di conseguenza, il Gesù terreno è [ ... ] non solo annunciatore, ma anche latore della salvezza promessa» (M. WOLTER 549s.). Questa interpretazione è conforme anche agli altri passi. Se Gesù scaccia i demoni con il dito di Dio, allora è giunto il regno di Dio (Le 11,20). I settanta-settantadue discepoli inviati in missione possono annunciare, apparentemente in modo simile al Vangelo di Marco, la prossimità del regno di Dio perché Gesù li ha inviati davanti a sé, in modo tale che essi fondamentalmente annunciano la vicinanza del Gesù terreno. N e consegue che, con l'ascensione al cielo, il regno di Dio diventa una grandezza celeste; Teofìlo, vale a dire il destinatario di Luca, può parteciparvi soltanto passando anche lui attraverso la morte, in maniera simile al malfattore sulla croce (23,42). In questo modo l'attesa del ritorno del Risorto non viene semplicemente accantonata (12,40; 17,24), ma al contrario risulta ancora assolutamente viva e guarda alla venuta del regno celeste sulla terra, venuta che si deve ancora realizzare (11 ,2). Per questo il Gesù terreno esorta direttamente il lettore di Luca alla pazienza (8,15) e alla vigilanza (12,35s.; 21,34.36). Il momento del ritorno e dell'irruzione del regno di Dio sulla terra resta, però, 'inconoscibile', poiché anche l'arrivo dei segni premonitori descritto in 21,9-11.25-28 non è prevedibile. In sintesi si può dire: Luca lega strettamente l'idea del regno di Dio alla persona del Gesù terreno e, dopo l'ascensione, al Gesù celeste; per questo il ritorno di costui si identifica con l'instaurazione del regno di Dio sulla terra. Ciò accadrà 'prima o poi'. Nondimeno, questo 'prima o poi' potrebbe essere già domani; Luca, di conseguenza, esorta i suoi destinatari alla vigilanza e alla pazienza. N el frattempo - dato che il tempo si prolunga- al posto della domanda sul momento della venuta del regno, Luca si occupa della descrizione della sua natura (Le 4, 18s.; 11,20). H. Conzelmann, nella sua nota tesi di abilitazione del1954, Die Mitte der Zeit [Il centro del tempo], partendo da Le 16,16 ha ritenuto di poter distinguere tre epoche storicosalvifiche nella duplice opera lucana, nelle quali si realizza il disegno di Dio con l'umanità: a) il tempo di Israele è il tempo della legge e dei profeti (16, 16); b) il tempo di Gesù è il centro del tempo (4, 14-22,2) ed è caratterizzato dall'assenza di Satana (4, 13-22,3); c) il tempo della chiesa è l'epoca dello Spirito (At2). È merito di Conzelmann aver richiamato l'attenzione sulla concezione storico-salvifica di Luca, sebbene, nell'esegesi recente, ci sia la tendenza a fondere la seconda e la terza epoca di Conzelmann in un'unica epoca,

VI. Il Vangelo di Luca

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quella del tempo del compimento (cfr. Le 1,1) o dell'annuncio del regno di Dio. Sulla base di quanto si è finora osservato si può dire: il tempo della legge e dei profeti è per Luca il tempo dell'annuncio di ciò che arriverà con Gesù; con Gesù di Nazaret giunge il regno di Dio; il modo in cui il tempo della chiesa sia in relazione con il tempo del Gesù terreno, viene poi spiegato narrativamente negli Atti.

Per il tempo che porta alla parusia si è riferiti formalmente a quanto viene trasmesso dai discepoli e dagli apostoli (6,13): lo stesso Vangelo di Luca, infatti, risale alla loro testimonianza oculare! Per questo il terzo evangelista non ha interesse alcuno a mettere i discepoli sotto una luce sfavorevole. Così, egli tralascia tanto il rimprovero rivolto ai discepoli (Mc 8, 14-21), quanto la richiesta dei figli di Zebedeo di avere un posto accanto a Gesù nel suo regno (Mc 10,35-45). In Luca, inoltre, Pietro non si oppone a Gesù in occasione del primo annuncio della passione e di conseguenza non deve neppure essere ripreso da Gesù (Mc l 0,32b33). Ed è sempre Pietro che, dopo l'arresto, segue Gesù, per quanto da lontano (Le 22,54c), mentre nel testo di Marco (Mc 14,50) si nota come tutti abbiano abbandonato Gesù e siano fuggiti. Queste correzioni dell'immagine dei discepoli hanno il loro motivo nel fatto che nel Vangelo di Luca i discepoli di Gesù- nonostante qualche errore che continuano a compiere- sono già i futuri apostoli e i garanti della tradizione: sono per il futuro la garanzia del fondamento storico di quanto è raccontato su Gesù e sono strumenti della «solidità degli insegnamenti» (Le 1,4). Non è un caso che Pietro- nonostante l'incontro dei discepoli di Emmaus con il Risorto (24,13-33)- sia il primo destinatario di una visione pasquale (24,33s.). In Luca abbiamo una concezione che si basa su quella ebraica della morte dei martiri, secondo la quale il defunto viene giudicato subito dopo la morte ricevendo il trattamento corrispondente. Questa visione rende più facile da sopportare per la comunità l'attesa della parusia, in quanto non si deve aspettare fino al ritorno (come ancora si pensa in l Ts 4, 18-23). Il defunto o viene portato dagli angeli nel seno di Abramo oppure viene sepolto e finisce negli inferi (Le 16,22). In questo senso si muove anche la promessa fatta al malfattore pentito sulla croce: «Oggi sarai con me in paradiso» (23,43).

250 3.3

B. I quattro vangeli

I CONFLITTI CON IL POTERE STATALE ROMANO E CON LA SINAGOGA EBRAICA

N el Vangelo di Luca si trovano delle singole annotazioni che, pur non riferendosi certamente a una persecuzione, tuttavia alludono a una 'minaccia' che i cristiani cui Luca si rivolge subiscono da parte degli organi statali (W. STEGEMANN 268). Già il fatto che Gesù venga giustiziato con l'accusa di essersi proclamato re (23,38) poteva infatti rappresentare un vero pericolo per i suoi seguaci: dopo la guerra giudaica gli imperatori romani erano particolarmente sensibili a questo aspetto. La triplice dichiarazione di innocenza di Gesù fatta da Pilato (23,4.1415.22) e altrettanto la sua triplice intenzione di liberarlo (23, 16.20.22) fanno dedurre quanto Luca sia esplicitamente interessato a non presentare Gesù come un nemico dello stato. In questi eventi ricoprono un ruolo particolare i giudei che, secondo Luca, sono i principali responsabili della passione e della croce di Gesù. Lì si rispecchiano le intenzioni dell'ebraismo di prendere le distanze dalle comunità cristiane nella diaspora, di cui abbiamo parlato sopra. Dal punto di vista di Luca, gli ebrei e il potere statale· romano stringono talvolta un'alleanza estremamente pericolosa contro le comunità cristiane- come mostra chiaramente l'amicizia fra Erode e Pilato (23, 12). Qui è in gioco qualcosa di importante per le comunità cristiane e lo si vede in particolare nella richiesta che Gesù fa di riconoscerlo pubblicamente (12,1-12). A questo proposito si può dire: con il suo comportamento, Gesù viene presentato alla comunità lucana come esempio da seguire. Gesù- così la narrazione di Luca- ha sempre pregato: 3,21; 5,16; 6,12; 9, 18.28s.; 11, l. Anche le ultime parole di Gesù sulla croce sono una preghiera e testimoniano l'intima unione fra Dio e il suo Figlio (23,46): «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Tutti questi passi vanno riferiti all'opera redazionale di Luca. Oltre a ciò, anche la parabola del giudice e della vedova (18,1-8) va compresa, secondo il v. l, come un invito alla preghiera incessante. Se si confronta Le 11,13 con Mt 7,11 si constata come, a coloro che pregano, in Luca non si promettano doni (terreni), bensì lo Spirito santo. È sempre lo Spirito santo ad essere ancora una volta necessario quando si è accusati davanti a un giudice (12, 12). Infìne, l'efficacia della preghiera si può vedere nello stesso Gesù: pieno di angoscia nel giardino del Getsemani, dopo la preghiera

VI. Il Vangelo di Luca

251

riceve in forma straordinaria il conforto di un angelo (22,43); questo conforto gli permette di affrontare con coraggio coloro che sono venuti ad arrestarlo (22,47-53). In fondo, nel suo stesso arresto Gesù gioca la parte del protagonista: chiede spiegazioni a Giuda, placa i discepoli (22,5la) e guarisce l'orecchio del servo del sommo sacerdote (22,5lb). E conseguentemente, in conformità a ciò che lui stesso ha richiesto (12,8-12), si dichiara Figlio di Dio davanti al sinedrio (22,70) e re davanti a Pilato (23,3). Sulla croce prega per i suoi aguzzini (23,34)come farà Stefano nella sequela di Gesù (At7,60). E il centurione sotto la croce, di fronte alla morte di Gesù, non lo riconosce Figlio di Dio (Mc 15,39), ma uomo giusto (23,47). In questo modo, nel Vangelo di Luca, Gesù viene presentato come il giusto sofferente, il primo martire, modello per la comunità lucana; egli incarna il migliore esempio per il comportamento da tenere nei confronti della sinagoga (o del tempio) e dello stato romano. Nello stesso tempo, per Luca Gesù è molto di più di un semplice esempio: come Figlio di Dio secondo la genealogia, egli è il messia profetizzato dalle ·scritture e il portatore dello Spirito (l ,35; 3,22; 4, 1.14.18; l 0,21). La risurrezione del giovane di Nain, che è già nella bara (7,11-17), sia rispetto al Vangelo di Marco- dove si propone 'soltanto' la risurrezione della figlia di Giairo, morta qualche istante prima (Mc 5,35-42) - sia rispetto all'AT (l Re 17,23; 2 Re 4,36), mostra quanto sia grande la sua forza nel compiere miracoli. Diversamente da Marco (e Matteo), Gesù viene chiamato non solo 'Signore' (xuQtE) quando ci si rivolge a lui (5,8; 6,46; 7,6; 9,54), ma viene designato come 'Signore' anche sul piano della narrazione (22,61). Questa consapevolezza che Gesù è il Signore (2, 11) del mondo ed è il sovrano del proprio destino corrisponde alla presentazione di Gesù come modello da seguire nella sofferenza. In questo modo, infatti, viene data la possibilità ai cristiani della comunità lucana, ripetutamente minacciati nella loro esistenza, di contrastare le difficoltà, di essere certi della protezione del Risorto e di superare così la loro paura di tutto ciò che li minaccia - così come l'ha superata lo stesso Gesù.

252

B. I quattro vangeli

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B. I quattro vangeli

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VII. Il Vangelo di Giovanni (]oachim Kugler)

Da sempre il Vangelo di Giovanni si presta a riflessioni teologiche elevatissime; tuttavia queste ultime devono la loro forza speculativa più al genio degli interpreti che alla qualità letteraria del testo. Con il Vangelo di Giovanni abbiamo a che fare con un racconto di episodi che, dal punto di vista estetico-letterario, non è da collocare all'interno della cultura alta dell'Antichità, quanto piuttosto nell'ambito della letteratura popolare.

l.

Struttura

1.1

PREMESSA

Nei commentari e nelle introduzioni si propongono strutture del vangelo molto diversificate e spesso molto complicate. A differenza dei testi moderni, non ci sono riferimenti 'materiali' su cui basare la suddivisione, come per esempio titoli, paragrafi o capitoli. La suddivisione in capitoli e versetti fu introdotta infatti solo fra il XIII (Stephan Langton) e il XVI secolo (Robert Estienne): è quindi secondaria, così come lo sono i titoli che troviamo nelle edizioni moderne! Oltre a ciò, il Vangelo di Giovanni non è una trattazione scientifica, ma un testo narrativo che invita il lettore a seguire in modo lineare il filo narrativo. Per lo schema sintetico che proponiamo qui sotto, pertanto, viene scel-

256

B. l quattro vangeli

ta una struttura con una gerarchia prudentissima. Lo scopo è quello di prestare maggiore attenzione al normale processo di lettura rispetto allo sguardo analitico dell'esegesi tradizionale. Come riferimenti narrativi 'formali' su cui basare la struttura, si considerano solitamente i cambiamenti di tempo, di luogo, di persone, di tematiche, come anche variazioni del ritmo narrativo, vale a dire modifiche del rapporto fra il tempo narrato e il tempo richiesto per la lettura della quantità di testo corrispondente. Questi riferimenti testuali, tuttavia, generano strutture di intensità molto differenziata e spesso non permettono alcun ordinamento gerarchico. Di certo le pericopi non sono semplicemente accostate l'una all'altra, ma si costruiscono degli archi narrativi e tematici per mezzo di rimandi avanti o indietro. Tuttavia, i riferimenti strutturali narrativi del Vangelo di Giovanni sono piuttosto tenui: le variazioni tematiche si verificano in modo sfumato, le persone possono comparire o scomparire a seconda del bisogno e alcuni passi danno l'impressione di essere senza spazio o senza tempo (cfr. Cv 9, 1-1 0,21) poiché le indicazioni in tal senso vengono date solo successivamente oppure mancano del tutto. Così, le indicazioni temporali, per esempio, si riferiscono a feste ebraiche: la festa delle capanne ( Gv7,2), la festa di Pasqua (2,13; 6,4; 11,55) o la festa della dedicazione del tempio (10,22). Queste indicazioni, che conferiscono al Vangelo di Giovanni un certo schema temporale, hanno soprattutto una funzione teologica, in quanto il rimando alle feste e alla loro tradizione teologica colloca il racconto su un determinato sfondo narrativo. Per esempio, mettendo l'intero racconto della passione sullo sfondo della festa di Pasqua (a partire da Cv 11,55 la Pasqua viene citata cinque volte!), ciò che importa più di ogni altra cosa è che Gesù muore come vero agnello pasquale e solo secondariamente interessa indicare concretamente il momento temporale del decesso. Quanto sia predominante l'effetto teologico di queste indicazioni, si vede bene in occasione della «festa dei Giudei» citata in 5, l: non dicendo esattamente di che festa si tratta (festa delle settimane, ovvero 'Pentecoste'?), l'indicazione temporale non è una vera datazione e non contribuisce affatto a determinare lo schema cronologico; si tratta piuttosto di motivare la visita di Gerusalemme e di richiamare lo scenario di un pellegrinaggio: una folla numerosa in un luogo centrale. Questa tecnica della datazione 'non cronologica' si deve vedere anche nel riferimento alla festa della dedicazione del tempio in l 0,22: quel riferimento arriva improvviso, dato che le indicazioni temporali pre-

VII. Il Vangelo di Giovanni

257

cedenti rimandano alla festa delle capanne e niente fa intendere che intanto sia passato un lungo lasso di tempo; non si segnala neppure una svolta tematica, poiché il discorso seguente continua la tematica del pastore. Quindi, probabilmente, si tratta anche qui in primo luogo di un simbolismo teologico. Questo uso delle indicazioni temporali dà alla narrazione l'aura di essere in un qualche modo senza tempo, anche se però il legame con la storia concreta non viene tagliato del tutto. Nonostante ciò, le indicazioni temporali devono essere considerate seriamente nella loro utilità a stabilire la struttura. Per esempio, se in Gv 19 fra il giorno della sepoltura (venerdì) e i racconti pasquali (domenica) passa un giorno intero sul quale non si dice nulla, ci troviamo di fronte a un distacco netto fra i racconti pasquali e ciò che precede, e uno stacco simile dev'essere preso in considerazione nella proposta di struttura che faremo in seguito. In maniera altrettanto libera il Vangelo di Giovanni si rapporta alle indicazioni di luogo: anch'esse hanno in parte una funzione in primo luogo simbolica. Quando, per esempio, dopo il discorso sul pane di vita del cap. 6 si dice che Gesù lo ha tenuto nella sinagoga di Cafarnao (6,59), non si tratta tanto di stimolare l'immaginazione del lettore e neppure di creare una certa atmosfera- a tal scopo, infatti, l'informazione doveva essere data all'inizio! Lo scopo è piuttosto quello di aprire alla fine un'ulteriore dimensione di significato, precisamente attraverso le associazioni richiamate dalla citazione della 'sinagoga'. Un altro esempio rimarchevole di localizzazione 'simbolica' è la purificazione del tempio (non a caso posta all'inizio di Giovannz), dove Gesù viene presentato come corpo-tempio in alternativa all' edificio-tempi.o: Gesù in persona è il luogo della presenza di Dio (2,21). Questo continuerà a trapelare anche in seguito ogni volta che viene citato il tempio di Gerusalemme. Le indicazioni di luogo di Giovanni sono quindi spesso dei link intertestuali che aprono potenziali semantici aggiuntivi.

258

1.2

B. I quattro vangeli PROPOSTA DI SUDDIVISIONE (UTILIZZANDO COME RIFERIMENTI TESTUALI LE INDICAZIONI DI TEMPO E DI SPAZIO)

Prologo: Natura e attività del L6gos (Gv1, 1-18)

tempo

Gerusalemme (2,13)

3.22-36

Attività di battezzatore in Giudea e nuova testimonianza del Battista

(3,22)

Giudea (3,22) Ennon (3,23)

4,1-42

In cammino verso la Galilea: incontro con la Samaritana (Gesù come Cristo)

{4,3); mezzogiorno (4,6)

pozzo aSicar, Samaria (4,5)

4.43-54

Secondo segno in Galilea: guarigione di un bambino in punto di morte

due giorni dopo (4.43)

Galilea (4.43); Cana (4.46)

5,1-47

Visita a Gerusalemme in occasione di una festa: guarigione di un paralitico, discorso sul potere del Figlio e sulla sua unità d'azione con il Padre

; festa (5,1); sabato (5,9)

Gerusalemme: piscina Betzatà (5 ,2)

6,1-71

In Galilea poco prima della seconda Pasqua: miracolo del pane - tempesta sedata -discorso del pane (>)- disputa- conflitto nella cerchia dei discepoli

prima della festa di Pasqua (6.4); di sera (6, 16); il giorno dopo (6,22)

Mare di Tiberiade: riva orientale (6,1); sul mare (6, 17);

Discussione con i fratelli sulla sua andata a Gerusalemme Disputa nel tempio- tentativo di arresto - > > come figli del diavoloGesù è prima di Abramo

(7, 1); Galilea (7, 1); Gerusalemme: prima della festa delle al tempio (7, 14) capanne (7,2); seconda metà della settimana di festa (7, 14); ultimo giorno di festa (7,37); (8,12.21)

7,1-8,59

Cafarnao: sinagoga (6,59)

[L'episodio dell'adultera (7,53-8,11). con il suo famoso , non appartiene al testo originario di Giovonni.l manoscritti migliori non conoscono la pericope. Quando è riportata, essa si trova per lo più dopo Gv 7,52, avolte però anche dopo 7,36 o 21,24.1n casi isolati la si trova inserita anche nel Vangelo di Luca (dopo Le 21,38)] sabato (9,14) presso il tempio? Guarigione di un cieco9,1-10.42 (8,59-9,1) conflitto con i farisei Discorso del pastore: >; >; al tempio (10,23) inverno: festa della > dedicazione del tempio territorio a est Tentativo di cattura (10,22) del Giordano (10.40) Ritiro di Gesù

259

VII. Il Vangelo di Giovanni

11,1-54

Risurrezione di lazzaro (>) Decisione di uccidere Gesù Ritiro di Gesù

11,55-57

l Giudei si riuniscono/ordine di arresto

12,1-11

Cena da lazzaro con unzione di Gesù

12,12-50

Ingresso regale a Gerusalemme -ultimo appello alla decisione di Gesù Riepilogo negativo dell'attività di Gesù

Betania vicino a Gerusalemme(11,1); Efra im/deserto (11,54) prima della Pasqua Gerusalemme (11,55); (11,55); sei giorni prima della festa Betania (12,1) di Pasqua (12,1) cinque giorni prima della Pasqua (12,12)

Gerusalemme

prima della Pasqua (13,1); di notte (13,30)

(ambiente interno)

Il parte: Il ritorno al Padre (Gv 13-19) 13,1-30

Cena d'addio con lavanda dei piediIl discepolo amato - Giuda esce

13,31-14,31

15,1-17 15,18-16,33 17,1-26

Comandamentodell'amore;«losonolavia, la verità e la vita>>; promessa del Paraclito «lo sono la vera vite>> Tribolazioni nel mondo - promessa del Paraclito 'Preghiera sacerdotale': unità dei credenti col Figlio e col Padre e gli uni con gli altri

18,1-14

Arresto

Discorsi d'addio fuori (14,31)

di notte (13,30-18,3)

18,15-27

giardino vicino al Cedron (18,1) palazzo del sommo sacerdote (18, 15) pretorio (18,28)

Interrogatorio da Anna - rinnegamento di Pietro 18,28-19, 16a Processo davanti a Pilato (Gesù «re dei mattino presto (18,28) Giudei>>) Crocifissione - donne e discepolo ama- Parasceve (19,31) Golgota (19,17) 19, 16b-37 to sotto la croce - morte di Gesù come agnello pasquale Sepoltura «dopo questi fatti>> (19,38) giardino (19,41) 19,38-42

111 parte: Il compimento pasquale della storia di Gesù (Gv 20)

Pasqua 20,1-18

20,19-23 20,24-29 20,30s.

presso il sepolcro (20, 1) Maria Maddalena, il discepolo amato e primo giorno della Pietro settimana: mattino presto (20,1) (ambiente interno) Gesù appare ai discepoli - dono dello sera (20, 19) Spirito Gesù eTommaso («Mio Signore e mio otto giorni dopo (20,26) «in casa>> (20,26) Dio>>) Prima conclusione del libro

Epilogo: li significato sempre attuale della Pasqua (Gr 21) 21,1-14

21,15-23 21,24s.

Pesca senza risultati - il Risorto appare «dopo questi fatti>> (21,1) «per la terza volta>> ai discepoli notte (21,3) alba (21,4} Incarico a Pietro - il rimanere del discepolo prediletto Seconda conclusione del libro

Mare di Tiberiade (21, 1)

260

B. I quattro vangeli

2.

Origine

2.1

FONTI, TRADIZIONI DEL TESTO TRASMESSO E FASI CHE L'HANNO PRECEDUTO

La maggioranza degli studiosi del Vangelo di Giovanni, in riferimento alla storia della formazione del vangelo, presuppone un modello a tre stadi: a) fonti/tradizioni ._ b) testo-base/vangelo ._ c) redazione finale.

R. Bultmann ritiene che il testo trasmesso sia il prodotto di una redazione 'ecclesiale' che fece il tentativo - conseguendo un risultato mediocre - di recuperare l'opera dell'evangelista, che non si possedeva più nel suo stato e ordine originario, e allo stesso tempo di adeguarla alla teologia della 'grande chiesa'. L'evangelista, la cui opera è il vero oggetto dell'interpretazione di Bultmann, era un teologo geniale e audace - se si vuole, un misto fra Martin Lutero e Martin Heidegger - che per il suo vangelo attinge a diverse fonti: la 'fonte dei segni' (una raccolta di racconti di miracoli), una raccolta di 'discorsi di rivelazione' e un insieme di racconti della passione e di racconti pasquali. Mentre i 'discorsi di rivelazione' non hanno mai avuto vera accoglienza tra gli studiosi, l'idea dei tre stadi ha caratterizzato la ricerca per decenni, come si vede ancora nel commento di J. Becker. Nel frattempo, però, si è affermata la posizione opposta: attualmente è diffusissima tra gli studiosi una lettura sincronica del vangelo. Il caso estremo è quello di rinunciare a ogni genere di ipotesi sulla storia della formazione. Così H. Thyen (HNT 6, 1-5), legge Gv 1,1-21,25 come un'opera letteraria unitaria. Nonostante ciò, non si sono del tutto esauriti i tentativi di ricostruire gli stadi antecedenti del testo attuale. In parte essi continuano la tradizione degli studi del XIX secolo che era alla ricerca di un testo «migliore>> (cfr. F. SIEGERT), in parte viene scelta una metodologia basata su una determinata teoria del testo, che rispetta il primato della sincronia e comprende la critica letteraria come verifica della coerenza/coesione e la critica delle fonti come indagine del repertorio (cfr., per esempio, i lavori di M. THEOBALD e di J. KDGLER). La giustificazione oggettiva della questione critico-letteraria si trova, malgrado tutti i problemi me-

VII. Il Vangelo di Giovanni

261

todologici, nel riconoscere necessariamente che il Vangelo di Giovanni, da una parte, mostra di avere una forte unità teologica e linguistica (cfr. E. RUCKSTUHL- P. 0SCHULNIGG), dall'altra, però, porta in sé anche le tracce di un lungo processo di formazione. È ovvio che, facendo una lettura radicalmente sincronica come quella realizzata da H. Thyen (HNT 6, 6), si può rinunciare al tentativo di evincere quale sia stato il processo di formazione. Tuttavia, un'interpretazione che escluda con successo la prospettiva diacronica purtroppo non riesce a rispondere alle domande storiche che un'introduzione si deve porre. Ciò significa: il fatto che il Vangelo di Giovanni possa essere interpretato come un'opera letteraria geniale con tematiche sinottiche non comporta affatto, necessariamente, che sia un'opera letteraria unitaria, composta tutta in una volta. Non significa che esso presupponga, da parte del lettore, la conoscenza dei vangeli sinottici.

Per questo l'esegesi giovannea del futuro, se si comprenderà come teologia contestuale piuttosto che come interpretazione avulsa da riferimenti temporali e spaziali, dovrà mettere diacronia e sincronia metodologicamente in rapporto l'una con l'altra, come del resto già da tempo si sta cercando di fare. 2.1.1

Redazione finale e vangelo pre-redazionale

Anche nel caso in cui prevalga una lettura sincronica, c'è un ampio consenso sul fatto che in Gv 21 si tratti di una integrazione redazionale (cfr. U. SCHNELLE; K. WENGST, ThKNT 4/1-2; U. WILCKENS). Una volta riconosciuta però l'esistenza di un intervento redazionale, si deve porre seriamente la questione di ulteriori parti testuali redazionali. Così, anche i riferimenti, a mo' di ritornello, alla futura risurrezione dei morti nel discorso del pane di vita ( Gv 6,39.40.44.54) sono spesso classificati come redazionali. Anche i testi sul «discepolo che Gesù amava» sono ritenuti in parte (R. BuLTMANN) o interamente (cfr. E. HAENCHEN 601-605 e passim; J. KLùGER, funger, M. THEOBALD, funger) redazionali. Un certo problema è rappresentato dai discorso di addio di Gv 15-17: da J. Wellhausen in poi - a motivo della corrispondenza di 14,31 («andiamo via di qui») con 18,1 («Gesù uscì») -vengono ritenuti anch'essi redazionali, seppure non mostrano affatto di avere un profilo redazionale completo, mentre viceversa è riconoscibile il lavoro della redazione giovannea già anche in 13,31-14,31. In ogni modo, la parte di testi che viene attribuita, con argomenti più o meno cogenti, a una redazione finale è nel frattempo così aumen-

262

B. I quattro vangeli

tata che H. Thyen, prima di seguire l'idea della sincronia radicale, volle chiamare 'evangelista' la redazione finale e non l'autore di un supposto stadio antecedente del Vangelo di Giovanni. Questa scelta linguistica sarebbe di per sé logica, soprattutto se si pensa che nessuna ricostruzione di un Giovanni pre-redazionale ha goduto di pieno riconoscimento. Tuttavia, essa non si è potuta imporre tra gli studiosi poiché la parte redazionale all'interno dell'intero testo continua a essere valutata in maniera estremamente diversificata. Ciò dipende anche dal fatto che il profilo teologico e politico-ecclesiale dell"evangelista' e della redazione giovannea viene determinata in maniera molto differente(+ 3.).

2.1.2

Fonti

Per quanto riguarda le fonti del Vangelo di Giovanni si può affermare che alla base del prologo si trova un testo a forma di inno, proveniente da un ambiente ellenistico-giudeocristiano (cfr. per esempio B.H. MERKLEIN), che è stato agganciato alla storia di Gesù presentata nella parte principale del vangelo attraverso i passi del Battista. Se l'affermazione sull'incarnazione ( Gv l, 14) viene classificata ·come redazionale, allora si può riconoscere l'esistenza di un triplice processo di formazione che potrebbe aver caratterizzato anche il testo seguente. In ogni caso, il vangelo pre-redazionale potrebbe aver avuto a disposizione dei racconti di miracoli che, secondo la prospettiva tipica di Giovanni, potrebbero essere stati ri-raccontati come semeia, 'segni'. Con ciò non è tuttavia affatto stabilito che sia esistita una 'fonte dei segni' come documento a sé stante e neppure un 'vangelo dei segni' (cfr. R.T. FORTNA). Di fronte ai problemi che emergono già al momento di distinguere una redazione giovannea da un vangelo pre-redazionale, una ricostruzione sicura di queste fonti, capace di incontrare ampio consenso, è in ogni caso improbabile. Un'altra parte nella quale si può presumere ci sia stato un utilizzo di fonti, è il racconto della passione (A. DAUER); nondimeno, anche qui risulta difficile arrivare a ricostruire una fonte, senza per questo doverne mettere in discussione l'esistenza. In generale si può senz' altro affermare che permangono notevoli problemi irrisolti per quanto riguarda la ricostruzione delle fonti, ma che la loro esistenza solo di rado viene messa in discussione. La maggioranza degli studiosi presuppone pertanto una formazione suddivisa in tre stadi: fonti - vangelo pre-redazionale - redazione finale.

VII. Il Vangelo di Giovanni

2.1.3

263

Rapporto con i vangeli sinottici

La scena esegetica è stata a lungo dominata dalla tesi di una fondamentale indipendenza del Vangelo di Giovanni dai vangeli sinottici. Negli ultimi anni si può riscontrare, al riguardo, un movimento opposto, fino alla tesi che il Vangelo di Giovanni sia da intendere come un gioco intertestuale con i vangeli sinottici, nel ruolo di pre-testi (così H. THYEN, HNT 6, 4). Ciò vorrebbe dire che l'autore non solo avrebbe conosciuto gli altri vangeli nella loro stesura finale, ma avrebbe presupposto questa conoscenza anche da parte dei suoi lettori. Tuttavia, fra i due estremi si sostengono per lo più delle soluzioni intermedie. In merito si deve osservare che il Vangelo di Giovanni è comprensibile anche senza la conoscenza della tradizione sinottica e 'funziona' anche senza i corrispondenti percorsi intertestuali: senza conoscenza dell'AT il Vangelo di Giovanni non è comprensibile, senza conoscenza dei vangeli sinottici lo è certamente. Un rinvio diretto ai sinottici non è dimostrabile nel testo, né .con intenzione positiva (a sostegno del canone dei quattro vangeli) né negativa (correzione/rimozione). Piuttosto sono gli elementi linguistici e teologici propri del cristianesimo giovanneo a formare la cornice di riferimento per la lettura del Vangelo di Giovanni (cfr. S. SCHREIBER 23s.). Riducendo in questo modo sensibilmente il significato della questione del rapporto con i vangeli sinottici, si può però provare a elaborare un modello. Se si accetta l'ipotesi di un processo di formazione più lungo, allora questo modello per il rapporto con i sinottici può e deve essere sviluppato in maniera corrispondentemente differenziata. Da una parte, ci sono indizi chiari per affermare che, sul piano della redazione finale, si disponeva di uno o più dei vangeli sinottici nella loro forma definitiva - senza che p~rò questa conoscenza venisse presupposta anche per i lettori. Dall'altra, un collegamento a livello di storia della redazione fra la tradizione giovannea pre-redazionale e la tradizione sinottica è altamente probabile. Così, in futuro gli studiosi dovranno tener conto di entrambi gli aspetti: legame a livello di storia della tradizione con la tradizione sinottica e conoscenza letteraria dei vangeli sinottici (cfr. l. DUNDERBERG 190-192).

264

2.2

B. I quattro vangeli

QUESTIONI SUL GENERE LETTERARIO

Il Vangelo di Giovanni, insieme ai vangeli sinottici, viene di solito inquadrato nel genere 'vangelo', che appartiene al genere maggiore della biografia ideale antica. Tuttavia, ultimamente si propone anche di collocarlo nel genere 'dramma' (L. SCHENKE), e precisamente nel dramma destinato alla lettura: quello che non era pensato per il teatro, ma per la lettura pubblica o personale. Soprattutto a motivo della grande quantità di testo redatto sotto forma di discorso, questa proposta ha qualche buon motivo che fa propendere per una sua plausibilità. Vi sono però altri indizi (per esempio il fatto che dopo i discorsi ci siano le indicazioni di località) che osteggiano questa attribuzione. Il Vangelo di Giovanni funziona inoltre bene anche come testo epico. Ad ogni modo, la constatazione degli elementi drammatici del Vangelo di Giovanni pone l'attenzione sul fatto che - rispetto ai vangeli sinottici - ci troviamo di fronte a una caratterizzazione autonoma della forma 'vangelo: Questo ha grande rilevanza per la questione di quanto possa essere probabile che nell'ambito giovanneo sia nuovamente avvenuta l'invenzione del genere 'vangelo' senza che si fosse. a conoscenza dei vangeli sinottici. Quanta più importanza viene data al genere letterario maggiore dell'Antichità, la 'biografia', e quanto più si sottolinea la particolarità del Vangelo di Giovanni all'interno di questo genere maggiore, tanto meno sostenibile è lo scetticismo nei confronti di un secondo passaggio alla forma 'vangelo', in origine indipendente dal Vangelo di Marco (e dagli altri vangeli sinottici).

2.3

AUTORE

Il Vangelo di Giovanni è l'unico tra i vangeli del NT a dare indicazioni esplicite sul proprio autore. In Gv 21 ,24 il «discepolo che Gesù amava» è dichiarato essere testimone e autore. Un gruppo («noi sappiamo» al v. 24 è probabilmente un plurale vero, non semplicemente letterario), per il quale poi parla di nuovo una singola persona («penso»: v. 25), conferma la testimonianza di questo discepolo. Tuttavia, questa indicazione di paternità semplifica solo apparentemente la questione riguardante l'autore. I tentativi di rivelare l'identità del 'discepolo amato' sono non solo senza numero, ma anche senza successo.

VII. Il Vangelo di Giovanni

265

All'incirca dal 180 d.C. la chiesa antica ha scommesso su Giovanni, figlio di Zebedeo, fratello di Giacomo (Mc 1,19), appartenente alla cerchia dei Dodici (Mc 3, 17; cfr. le considerazioni dettagliate di E. HAENCHEN 2-21). Anche se questa tesi della chiesa antica è stata ripresa di recente (cfr. W. FENSKE), la distanza del Vangelo di Giovanni dall'annuncio del Gesù storico va decisamente contro il fatto che il vangelo possa essere stato composto da un diretto discepolo di Gesù. Per questo, si suppone normalmente che in Gv 21,24 si tratti di un caso di finzione di paternità letteraria (pseudoepigrafia). I testi sul 'discepolo amato' vengono intesi conseguentemente come riferentisi a una immagine letteraria ideale di una figura che giocava un ruolo importante nel cristianesimo della comunità giovannea e che cronologicamente veniva fatta risalire all'epoca di Gesù (M. THEOBALD, funger). Che si trattasse di un personaggio singolo conosciuto o piuttosto di una personificazione narrativa dell'origine apostolica (anonima) del cristianesimo giovanneo Q. KOGLER, Liebe des Sohnes, 218-222), resta ancora da chiarire. Recentemente H. Thyen (HNT 6, 793-796) ha proposto una variante della tesi pseudoepigrafica considerando l'identificazione del 'discepolo amato' con Giovanni figlio di Zebedeo come adeguata dal punto di vista intratestuale. Il Vangelo di Giovanni di fatto non fu scritto da Giovanni; purtuttavia l'identificazione con il figlio di Zebedeo è nelle intenzioni dell'autore. A motivo di Cv 21,2 (), dal punto di vista intratestuale questa è un'interpretazione possibile, sebbene non sia né necessaria né probabile. Infatti, 21 ,2 nomina anche altri due discepoli anonimi. N eppure la figura del discepolo anonimo in l ,3 7-40 si deve riferire necessariamente a Giovanni. Pure nel caso in cui la si interpreti a partire dai vangeli sinottici, può essere riferita a Giovanni oppure a Giacomo. Probabilmente, però, non si vuole fare un riferimento diretto a uno dei due figli di Zebedeo, ma si deve soltanto preparare l'introduzione successiva del 'discepolo amato' come testimone presente 'fin dal principio'.

È chiaro che, indicando l'autore, si ottiene che al Vangelo di Giovanni deve essere conferita un'autorità altissima e definitiva: Cristo stesso vuole che il discepolo «rimanga» (21 ,22s.) nella sua testimonianza (il Vangelo di Giovannz) sino alla fine del mondo. Come nel prologo si dice che la Parola si è fatta carne, così alla fine del vangelo il discepolo amato, come testimone del Logos incarnato, è diventato totalmente parola. L'autore reale della redazione finale del Vangelo di Giovanni faceva parte probabilmente di un gruppo che, all'interno delle comunità giovannea, aveva la funzione di conservare e portare avanti la tradizione propria di Giovanni. Al riguardo, tra la maggior parte degli studiosi, si

266

B. I quattro vangeli

parla della 'scuola giovannea', anche se forse per questo gruppo non ci si dovrebbe immaginare un grado di istituzionalizzazione troppo alto (cfr. C. CEBULJ). Di fronte agli aspetti imponderabili ddla ricostruzione di un testo pre-redazionale, le affermazioni sull'autore (l'autrice?) di questi stadi precedenti al testo attuale dovrebbero restare caratterizzate dalla prudenza. Ad ogni modo, di fronte all'unitarietà linguistica e teologica dd Vangelo di Giovanni non è ammissibile supporre una distanza eccessiva fra i diversi stadi della genesi dd testo. La netta contrapposizione fra la tradizione giovannea e la redazione 'ecclesiale' si deve considerare superata: nella genesi dd Vangelo di Giovanni si tratta piuttosto di un processo intragiovanneo nd quale si opera la rilettura attualizzante della propria tradizione di fronte alle mutate condizioni esterne.

2.4

DESTINATARI

Abitualmente tra gli studiosi si suppone l'esistenza di una comunità (o di un gruppo di comunità) giovannea vissuta, almeno provvisoriamente, in maniera separata, lontano dalla trasmissione della tradizione sinottica. Il testo presuppone la missione ai pagani (cfr. 11 ,52). La chiara distanza dal giudaismo e la spiegazione dei termini e delle usanze ebraiche, inoltre, fanno vedere chiaramente come ci si rivolga a dei lettori prevalentemente pagano-cristiani. Nello stesso tempo, però, il rapporto con l'AT e con le concezioni ellenistico-giudaiche (per esempio nelle metafore cristologiche) è così stretto che certamente l'origine dd cristianesimo di marca giovannea va cercata in un contesto ebraico (eventualmente con influenze ellenistiche). La forte presa di distanza dai 'giudei' o dai 'farisei', presentati come oppositori di Gesù, è indizio di conflitti con un giudaismo di impronta farisaica. Il testo, tuttavia, lascia intendere che si tratta di un conflitto passato piuttosto che di un problema recente. Per quanto riguarda la localizzazione geografica dd gruppo dei destinatari, da una parte si è proposto di cercarlo nella Transgiordania settentrionale («Gaulanitide e Batanea»: K. WENGST, Verherrlichter Christus; in senso critico, cfr. J. KOGLER, ]ohannesevangelium), dall'altra viene presa in considerazione, a motivo della tradizione della chiesa antica, Efeso in Asia minore. Se si suppone, come è stato sopra proposto, un processo di origine dd testo suddiviso in diversi stadi (fonti - vangdo pre-redazionale - redazione finale), allora la localizzazione può essere mutata, anche se non si deve necessariamente

VII. Il Vangelo di Giovanni

267

supporre uno spostamento dell'intero gruppo giovanneo. È altrettanto possibile che abbiamo a che fare con la mobilità di un gruppo relativamente piccolo di persone che portano avanti la tradizione. Inoltre, è piuttosto evidente come, in una determinata fase della propria storia, il cristianesimo giovanneo vivesse in un ambiente a prevalenza ebraica che mostrava un atteggiamento ostile verso il gruppo di Giovanni, al punto da provocarne l'uscita dalla sinagoga locale. Dato che, però, una situazione simile poteva presentarsi in qualsiasi città piuttosto grande nella quale la comunità ebraica godesse di una certa autonomia amministrativa, ogni localizzazione precisa appare essere eccessivamente speculativa. Degno di nota è anche l'interesse di Giovanni per la Samaria e la Transgiordania. Tuttavia, bisognerà riconoscere onestamente come la ricerca scientifica sia ancora molto lontana dal trovare un consenso sulla localizzazione. Questo non deve del resto sorprendere se si comprende che un testo narrativo, nel quale la storia di Gesù viene raccontata in maniera tale da renderla illuminante per la vita del lettore, da una parte potrà dare solo indicazioni indirette sulle circostanze storiche esterne, dall'altra rielaborerà gli eventi passati di questa storia esterna al testo come paradigma di esperienze successive. È così probabile, per esempio, che l'esperienza di Gesù con 'i giudei' in un primo tempo venga valutata in riferimento all'ostilità sperimentata in un ambiente a predominanza ebraica e poi, in seconda battuta, sia collegata a Giuda, il 'traditore', e resa significativa per i conflitti interni alla comunità cristiana. Questi processi di rilettura rendono notevolmente più complicato il problema dell'indagine sul contesto storico ed è raro che si lascino analizzare in maniera precisa. Probabilmente, a motivo dei limiti che il Vangelo di Giovanni, con la sua natura di testo narrativo (di 'finzione'), pone a ogni indagine storica, per la localizzazione del vangelo non si potrà fare altro che dare indicazioni meramente plausibili.

2.5

COLLOCAZIONE TEMPORALE

Se a livello della redazione finale si presuppone la conoscenza dei vangeli sinottici e se questi non giunsero alla loro forma finale prima del periodo che va dal 70 (Marco) al 90 (Matteo- Luca) d.C., allora il Vangelo di Giovanni è da collocare verso la fine del I secolo. L' argomen-

268

B. I quattro vangeli

to secondo cui la 'cristologia alta' di Giovanni non sarebbe pensabile se non nel II secolo inoltrato, da tempo non è più convincente poiché, da una parte, la cristologia della preesistenza si trova già nella tradizione p re-paolina (cfr. l'inno di Fil2) e, dall'altra, affermazioni ebraiche su Mosè e sul Logos come 'Dio' (in quanto sua immagine) si trovano già in Filone d'Alessandria, contemporaneo di Gesù (cfr. su questo]. KùGLER, Konig, 157-160). In questo senso, la 'cristologia alta' del Vangelo di Giovanni non può motivare una datazione estremamente tardiva. Neppure le affermazioni sull'esclusione dalle sinagoghe di coloro che credono in Cristo ( Gv 9,22; 12,42; 16,2) aiutano a precisare la datazione, in quanto le cognizioni frammentarie che possediamo sulla formazione dell'ortodossia ebraica dopo il 70 d.C. non permettono di trarre conclusioni dettagliate su ciò che accadeva a livello regionale. Comunque, la constatazione che il Vangelo di Giovanni, almeno nella sua redazione finale, prenda già in considerazione un conflitto con un giudaismo caratterizzato dall'egemonia dei farisei, che presupponga la separazione dalla sinagoga locale come un dato di fatto e che consideri di rivolgersi a destinatari per lo più pagano-cristiani, rende improbabile una datazione molto precoce. Sulla datazione del cc:;mflitto giovanneo con l'ebraismo locale si dovrà ammettere onestamente che non possiamo dire granché su particolarità regionali. Ad ogni modo, già negli anni Trenta i giudeo-cristiani poterono essere perseguitati da ebrei pieni di zelo (come per esempio il fariseo Paolo), con l'appoggio di certe autorità ebraiche. Neppure quanto ricaviamo dai manoscritti ci permette una datazione più precisa. Il papiro più antico (P 52) proviene dall'Egitto e viene fatto risale alla prima metà del II secolo. Pur accettando che il Vangelo di Giovanni non sia stato scritto in Egitto, non si ha alcun aiuto nel precisare la datazione. I testi, infatti, non hanno piedi e nessuno può dire di quanto tempo abbiano bisogno per diffondersi (quale che sia il punto di partenza) fino all'Egitto. P 52 stabilisce quindi soltanto il terminus ante quem. Una forma pre-redazionale del testo potrebbe tuttavia risalire senz'altro allo stesso periodo del Vangelo di Marco- o anche prima? Dato che, però, nei manoscritti non c'è prova alcuna di una forma del testo pre-redazionale, si deve supporre che fra questa e la redazione finale sia passato molto tempo. Se i testi del NT non hanno un momento preciso di consegna, ma piuttosto una zona di consegna, e se dunque nelle fasi iniziali di un testo la consegna ('pubblicazione'), la copiatura ('cura del testo') e l'attualizzazione ('redazione') si sovrapposero le une alle altre, allora si deve supporre che le due forme

VII. Il Vangelo di Giovanni

269

testuali si susseguirono prima che la forma pre-redazionale si fosse diffusa al di là della cerchia giovannea. Ad ogni modo, i manoscritti più antichi documentano sempre solo frammenti del testo e non permettono così di formulare un giudizio fondato sulla stesura del testo nella sua interezza.

Quello che si può dire è: al più tardi intorno al 150 d. C. (e al più presto poco dopo i vangeli sinottici) il Vangelo di Giovanni era pronto nella sua stesura redazionale finale. Trattandosi di un testo antico, è una datazione relativamente precisa e non se ne dovrebbe essere troppo scontenti.

3.

Trattazione

3.1

UNA CRISTOLOGIA 'ALTA'

Il contenuto essenziale del Vangelo di Giovanni è Gesù Cristo. In questo il quarto vangelo si differenzia nettamente dai sinottici, nei quali al centro del messaggio di Gesù si trova il regno (~amÀEia) di Dio. Le due prospettive dalle quali il Vangelo di Giovanni considera Gesù sono quelle del monoteismo ebraico e della cristologia della preesistenza. Le due prospettive si conciliano mediante la relazione Padre-Figlio: Gesù, il L6gos incarnato, in quanto Figlio è l'immagine del Padre. Il Figlio è uguale al Padre, anche se il Padre è sempre più grande del Figlio. Il Padre è presente nel Figlio, in quanto è colui che lo ha mandato: chi vede Gesù, vede il Padre che lo ha mandato. Così, l'unità di Dio e l'uguaglianza di Gesù con Dio- in quanto sua immagine- vengono collegate l'una all'altra. Che la teologia giovannea potesse essere convinta di questa soluzione dipende dalle speculazioni sull'idea di immagine che ebbero modo di svilupparsi nel contesto ellenistico-giudaico e che fondevano insieme la teologia della sapienza anticotestamentaria e il concetto stoico-platonico di L6gos. Un esempio di teologia ebraica di questo genere, con un'impronta chiaramente filosofica, nella quale viene sottolineata soprattutto la trascendenza di Dio, è riscontrabile in Filone d'Alessandria (contemporaneo di Gesù). Oggi non si tende più ad affermare la 'dipendenza' di Giovanni da Filone: basti pensare al greco semplice nel quale è scritta la maggior parte del vangelo, e che

270

B. I quattro vangeli

talvolta contrasta con il livello delle idee esposte, per vedere chiarissimamente come con il Vangelo di Giovanni abbiamo a che fare con un ambiente sociale diverso da quello dei ceti alti a cui appartiene il dotto Filone. Tuttavia, si può supporre una stessa mentalità religiosa. La cristologia giovannea, infatti, utilizza svariate metafore soteriologiche note dalla teologia della Sophia/Logos. Con queste immagini, familiari ai destinatari giudeo-ellenistici, il significato soteriologico di Gesù non viene soltanto illustrato, ma anche reso plausibile. Ai destinatari non si deve evidentemente spiegare che cosa significhi parlare di duce del mondo», «pane della vita», «buon pastore», «vera vite», «agnello pasquale». L'affermazione nuova è che Gesù, il Logos fatto carne, è- o dà - tutto questo.

3.2

LA FEDE IN GESÙ COME FONTE DELLA SALVEZZA

Conformemente alla soteriologia del presente, tipica della teologia giudeo-ellenistica della Sophia!Logos, il Vangelo di Giovanni trasforma la tradizione del cristianesimo primitivo. Per questo il vangelo pre-redazionale formula come propria intenzione pratica quella di far nascere o di fortificare la fede in Gesù, Cristo e Figlio di Dio, affinché i lettori abbiano «vita» ( Gv 20,31): collegando fede e possesso della vita, i concetti e le promesse escatologiche vengono concentrati sul presente della decisione di fede. In questo senso anche la teologia esistenziale di R. Bultmann ha il suo fondamento permanente nel testo. Nell'adesso della fede è il tempo della salvezza e nell'adesso dell'incredulità è l'ora del giudizio: chi crede ha la vita eterna, chi non crede è giudicato (cfr. Gv 3,15-19.36; 4,14; 5,24-26; 6,40.47; 11,25s.; 12,31). Certamente non si deve affermare né che l'escatologia pre-redazionale neghi la prospettiva del futuro, né che la redazione giovannea neghi l'aspetto del presente (così giustamente J. FREY III, 464-481); però si devono distinguere i diversi accenti: come l'accento sul presente è caratteristico della soteriologia pre-redazionale, così la redazione giovannea sottolinea più fortemente la dimensione del futuro, senza rimuovere le affermazioni sul presente(_. 3.5). Nel suo insieme, la soteriologia di Giovanni, grazie a questo doppio movimento- dall' éschaton al presente e dal presente di nuovo all' éschaton - giunge a una sintesi carica di tensione che rappresenta una sfida teologica elevata e che racchiude in sé tutti i problemi

271

VII. Il Vangelo di Giovanni

e le potenzialità delle affermazioni soteriologiche cristiane (da Gesù, passando per Paolo, fino ad oggi). Una soteriologia che mette l'accento sul presente si vede necessitata a spiritualizzare i beni della salvezza, se non vuole essere immediatamente contraddetta dalla dura esperienza della vita quotidiana. Quando si afferma che coloro che credono non avranno più sete, non avranno più fame e non moriranno (4,14; 6,35; 11,25s.), non ci si può riferire a fame, sete o morte corporali, poiché ai credenti non sono risparmiate queste cose. Così, la vita eterna è appunto soprattutto una nascita/ generazione «da Dio» (1,13) oppure- perché Dio è Spirito (4,24) «dallo Spirito» (3,5s.) e consiste nella conoscenza di Dio (17,3), nella figliolanza divina (1,12), nella comunione d'amore con il Padre e il Figlio (16,27; 17,23.26). Chi crede nel Figlio riceve dal Figlio quello che il Padre ha donato al Figlio (17,2), entrando così nella relazione che il Figlio ha con il Padre. I credenti, in quanto «figli della luce», formano la comunità dei figli di Dio, figli che non ricevono lo Spirito solo passivamente ma che, grazie alla mediazione del Figlio, ne diventano sorgente e addirittura lo hanno in se stessi (4,14; 7,38). Non meraviglia che un gruppo di questo genere, formato da persone a cui è stato donato lo Spirito, non debba/possa costruire strutture istituzionali forti (cfr. H.-J. KLAucK, Gemeinde).

3.3

IL CONFLITTO CON

'r GIUDEI'

Sullo sfondo della teologia giudeo-ellenistica della Sophia/L6gos, che con la sua concentrazione sulla trascendenza di Dio racchiude sempre in sé un certo scetticismo nei confronti del mondo, si spiega fra l'altro anche il dualismo giovanneo, senza dover ricorrere al problematico collegamento con la gnosi. L'altra fonte socio-culturale del dualismo rinvenibile in Giovanni è probabilmente il conflitto con un ambiente segnato da un dominio ebraico che non considerava la cristologia come una soluzione, ma come un problema. In numerosi passi del Vangelo di Giovanni si deve notare come la fede giovannea in Cristo sia stata considerata, da parte giudaica, come un atto blasfemo contro l'unicità di Dio. Questo genere di obiezioni difficilmente può provenire da un ambiente affine a quello di Filone. Molto più probabilmente il cristianesimo giovanneo dovette scontrarsi con la formazione di un'ortodossia

272

B. l quattro vangeli

di stampo farisaico tanto poco in grado di accettare la cristologia di Giovanni quanto poco aveva potuto accettare le affermazioni filoniane sul Logos. In realtà Filone distingue attentamente l'unico e vero Dio(= «il Dio») dal Logos come sua immagine (= «Dio» senza articolo; Som I 229s.), ma si può pensare che il suo uso linguistico avesse suscitato sospetti di eresia nell'ambiente con il quale si scontra il Vangelo di Giovanni. Per esempio, quando Filone ritiene che il Logos possa essere detto certamente «secondo Dio» (= immagine del Dio, a lui subordinata), ma non «altro Dio» (=concorrente dell'unico Dio), si tratta di una distinzione che era di sicuro troppo raffinata per molti gruppi giudaici. L'ortodossia giudaica 'in divenire', che nel Vangelo di Giovanni assume i tratti di 'mondo' ostile, reagì evidentemente con l'esclusione dei credenti in Cristo dalla sinagoga locale. Questa perdita di patria, nel senso religioso-sociologico del termine, fu rielaborata da parte giovannea con l'interpretazione dualistica dell'incredulità. Coloro che non credono sono nati «dalla carne» ( Gv l, 13; 3,6); a loro il Padre non ha concesso di venire a Gesù (6,37.44); invece, mediante la fede si manifestano coloro che sono nati «dall'alto», da Dio o dallo Spirito: i figli della luce. Il fatto che i giudei o farisei 'increduli' (= non-cristiani) vengano presentati come 'mondo' ostile a Dio e come figli del diavolo ha avuto conseguenze catastrofiche nella storia della ricezione. Contro l'uso antigiudaico o addirittura antisemita del Vangelo di Giovanni si deve però obiettare che, nel caso delle affermazioni antigiudaiche contenute in esso, non si trattava ancora del conflitto tra due religioni, ma innanzitutto di un duro scontro interno al guidaismo. Questo spiega anche l'ambivalenza delle affermazioni giovannee su 'i giudei'. Similmente a quanto accade in alcuni testi di Qumran, il gruppo socialmente più debole rivendica per sé gli aspetti positivi dell'intera tradizione e cerca di annientare ideologicamente la maggioranza che prevale nel proprio ambiente: Gesù è «giudeo» (4,9), «le Scritture», Mosè, Abramo e Isaia testimoniano per Gesù (1,45; 5,39.45-47; 8,56; 12,41), e la salvezza viene dai giudei (4,22). Per questo il Vangelo di Giovanni considera 'i giudei' che non credono in Cristo come traditori della propria tradizione: hanno per padre non Abramo, ma il diavolo (8,44).

VII. Il Vangelo di Giovanni

3.4

273

LA CROCE COME INNALZAMENTO

Se esista una teologia giovannea della croce è oggetto di discussione tra gli studiosi. Se si prende come criterio di riferimento l'interpretazione paolina della croce, nella cornice della sua dottrina della giustificazione, allora certamente no. Se invece ci si libera da questo riferimento, allora si potrà riconoscere l'esistenza in Giovanni di una profonda interpretazione della morte di croce. Questa interpretazione ha due dimensioni: a) Da una parte la morte di croce è interpretata come innalzamento. Il conflitto fra la tradizione messianica regale e l'umiliante morte di Gesù viene rielaborato in un paradosso classico: proprio nell'abbassamento di questa morte si rivela l'elevazione del Figlio. Questa morte è un innalzamento poiché essa è il compimento della volontà del Padre, e il Figlio dà la sua vita liberamente e la riprende di nuovo. Quando l'innalzamento sulla croce viene interpretato come fonte di salvezza ( Gv 3, 14), non si riprende però la concezione anticotestamentaria della morte espiatrice, bensì la concezione apotropaica di N m 21 ,8s., ovviamente in un'ottica allegorica che si basa sull'esegesi giudeo-ellenistica (cfr. per esempio: Filone, Leg Al! II 81). b) Dall'altra parte quella di croce è concepita come esempio di morte per amore. Per amore Dio manda il suo Figlio nel mondo come Salvatore. Il Figlio, assomigliando al Padre, ama anch'egli i suoi. Il dono della vita sulla croce è il compimento di questo amore che, al medesimo tempo, è esempio dell'amore fraterno che spetta ai discepoli vivere. Si può supporre che questo secondo aspetto sia stato accentuato in maniera particolare dalla redazione giovannea.

3.5

CONFLITTI INTERNI AI CRISTIANI

Per la redazione finale del Vangelo di Giovanni il conflitto con i giudei non dovrebbe più rappresentare un problema grave. Ci sono 'figli di Dio' non-giudei, i lettori non comprendono più molte cose e il narratore- che evidentemente conosce il giudaismo -le deve spiegare. Oltre a ciò, troviamo degli indizi di un nuovo terreno di conflitto, questa volta interno ai cristiani: la maggior parte dei 'discepoli' ha voltato le spalle

274

B. I quattro vangeli

(Cv 6,66) - parole che alludono a uno scisma interno alla comunità. È in questa nuova situazione conflittuale che probabilmente fu portata a termine la redazione finale. La sua intenzione pragmatica potrebbe essere stata quella di affrontare teologicamente il conflitto e stabilizzare quello che restava della comunità dopo la separazione. In conseguenza della centralità che la tradizione giovannea attribuisce alla cristologia, il conflitto viene spesso interpretato a livello cristologico. Talvolta si parla di una offensiva in direzione antidocetica (cfr. U. ScHNELLE, che qui si riferisce tuttavia ali' evangelista, non alla redazione finale). Al riguardo, però, si suggerisce prudenza, poiché il conflitto cristologico fondamentale con 'i giudei' è precedente dal punto di vista della storia della tradizione e anche la redazione finale può essere interpretata pur sempre in senso docetico. Ciò emerge in maniera assolutamente chiara dalla storia dell'interpretazione. Dall'epoca antica, l'interpretazione docetica del Vangelo di Giovanni arriva fino a E. Kasemann, che critica il Cristo giovanneo come «Dio che marcia sulla terra>> Uesu letzter Wille, 22 [trad. it., 21]) e domanda: (ibid, 22s. [trad. it., 22]). L'interpretazione di Kasemann può essere spesso esagerata, ma la sua polemica mette senza pietà il dito nella piaga di ogni interpretazione antidocetica del Vangelo di Giovanni. Proprio riferendosi a testi che vengono attribuiti talvolta alla redazione giovannea, Kasemann mostra chiaramente come la redazione giovannea non abbia affatto né attenuato né cancellato tutto ciò che poteva essere interpretato in chiave docetica.

Così si deve affermare che le correzioni della redazione si trovano anche nel campo della cristologia, ma sono incentrate su altri aspetti teologici: a) L'affermazione salvifica al presente (« ... ha la vita eterna») viene nuovamente completata da un aspetto futuro (« ... lo risusciterà»): Cv 6,39.40.44.54. Questo vale anche per il giudizio (cfr. 5,28s.; 12,48). b) Viene ulteriormente sottolineata la mediazione sacramentale del dono/offerta della vita (inclusa la dimensione ecclesiale della comunità, che le compete). La redazione giovannea mostra un grande interesse per

VII. Il Vangelo di Giovanni

275

il battesimo e la cena del Signore, collegando entrambi con la morte di Gesù. c) L'aspetto sociale della fede è accentuato anche attraverso il comandamento antico/nuovo dell'amore che diventa opere (13,34s.; 15,9-13.17). In questo contesto la morte di croce è interpretata come compimento paradigmatico dell'amore. d) L'ecclesiologia giovannea, che sottolinea tradizionalmente l' uguaglianza dei credenti (in quanto figli di Dio che hanno l'unzione dello Spirito) ed esibisce una certa presa di distanza dalle strutture gerarchiche, viene accresciuta: accanto al Paraclito, che continua l'opera di Gesù, compaiono altre due figure maschili - nel senso di guide che hanno il compito di affrontare una crisi ecclesiologica- che succedono a Gesù: Pietro come pastore e il discepolo amato come testimone. Il fatto che allo stesso tempo il significato di Maria Maddalena passi in secondo piano e che il suo incontro con il Risorto non conti (21, 14) potrebbe indicare che le donne ricoprissero all'inizio un ruolo importante nella tradizione giovannea e nella parte della comunità giovannea avversata dalla redazione. L'emarginazione redazionale delle donne, accompagnata dall'introduzione di strutture a dominio maschile, sarebbe allora da vedere in analogia a quanto accade nelle lettere pastorali: l'autorità di alcuni uomini, fondata con attribuzioni pseudoepigrafiche, è utilizzata per emarginare le donne.

Collegando il lavoro della redazione giovannea con le informazioni presenti nella Terza lettera di Giovanni, l'anonimo 'anziano' che scrisse la lettera potrebbe essere un rappresentante della funzione di testimonianza e Diòtrefe un esempio (problematico) della funzione di guida, senza che però il discepolo amato e Pietro fossero i loro diretti modelli ispiratori (-+ D.XX.3). In questo contesto, Pietro viene considerato spesso come rappresentante di un cristianesimo 'petrino' all'interno del quale si collocherebbe anche il gruppo giovanneo; si tratta, però, di un anacronismo che non ha fondamento nel testo. Nemmeno il compito di pastore affidato a Pietro ha le caratteristiche di un incarico supremo e universale, e tra il 70 e il 150 non c'era un cristianesimo normativa di cui egli potesse diventare il simbolo intratestuale. Qui è ancora necessario superare degli stereotipi di una teologia controversistica che, al tempo di R. Bultmann (perlomeno mentre l'esegeta era ancora in vita), avevano ancora un certo contenuto reale, ma che oggi sono del tutto obsoleti. Neppure l'amato 'esotismo' nella ricostruzione del cristianesimo giovanneo ha una giustificazione oggettiva. Il fatto che il cristianesimo di Giovanni eventualmente si sia sviluppato per un lungo periodo in maniera indipendente dalla tradizione sinottica, non significa ancora, da solo, che qui avremmo a che fare con un cristianesimo 'speciale' che avrebbe dovuto giustificarsi in un qualche modo nei confronti della 'norma' sinottica.

276

B. l quattro vangeli

Probabilmente le figure di Pietro e del 'discepolo amato' non rappresentano dei ministeri nel senso successivo del termine; piuttosto, si tratta di giustificare le funzioni di guida e di testimonianza di Gesù (come autorità suprema) sulla base di due figure narrative che vengono associate l'una all'altra. Così i lettori devono saper accettare e correlare nella giusta maniera queste funzioni anche nella loro realizzazione extra-testuale, vale a dire nella loro comunità. Un'interpretazione di questo genere si adatterebbe anche ai conflitti presenti nelle lettere di Giovanni. e) Vengono sottolineate la realtà dell'incarnazione, della sofferenza salvifica (con il suo carattere esemplare per i discepoli) e la corporeità della risurrezione. Questi accenti cristologici fanno parte di una grande strategia che mette al centro il corpo. Certamente, la 'carne' resta nella tradizione giovannea un concetto negativo; eppure, accanto a ciò, si fa spazio anche un aspetto positivo: «Il L6gos si è fatto carne» (l, 14) e per questo la carne del Figlio dell'uomo può donare la vita eterna (6,5156). L'uso dialettico che la redazione giovannea fa del concetto tradizionale di 'carne' lo si osserva bene in 6,63: il detto giovanneo «la carne non giova a nulla» viene sì citato, ma in maniera tale che diventano «spirito e vita» proprio quelle parole di Gesù che parlano del significato salvifico della sua carne e del suo sangue. f) La redazione giovannea attualizza la vecchia immagine ostile de 'i giudei' in riferimento ai conflitti del momento presente all'interno della comunità, divenuta nel frattempo a maggioranza pagano-cristiana. Ciò avviene, per esempio, collegando quell'immagine con Giuda e con i discepoli che se ne vanno. Il brano di 6,61-71 è il più evidente, ma anche in altri passi si può pensare che il motivo dei giudei che giungono alla fede e poi la perdono (cfr. per esempio 2,23; 8,30s.; 11,45; 12,11.42) vada ricondotto a una rilettura attualizzante di questo genere. Nel suo insieme, la redazione giovannea non deve essere vista necessariamente come reazione a uno sviluppo erroneo in senso docetico; la si potrebbe spiegare anche con l'intento di togliere la base cristologica alle dottrine che la redazione giovannea vuole combattere, le quali, però, riguardavano piuttosto tematiche di ordine soteriologico. A parer mio, per spiegare la maggior parte degli accenti teologici della redazione di Giovanni è più che sufficiente una situazione in cui si voleva portare avanti una dottrina soteriologica entusiastica che, radicalizzando l' affermazione centrale «chi crede ha la vita eterna» e interpretandola nel

VII. Il Vangelo di Giovanni

277

senso del disprezzo ellenistico del mondo e della corporeità, rompeva l'equilibrio precario di una ripresa della tradizione escatologica con l'accentuazione del presente. Uno sviluppo erroneo di questo genere si potrebbe spiegare con i cambiamenti sociologico-religiosi avvenuti nel passaggio in direzione di una comunità a maggioranza pagano-cristiana, a seguito della rottura con la patria giudaica. Se però si vuole affermare che gli sviluppi erronei della comunità toccavano anche l'ambito della cristologia, allora l"eresia' dovrebbe essere compresa come conseguenza cristologica di una specifica variante giovannea dell'entusiasmo ellenistico-cristiano e - anche secondo quanto troviamo nella Prima lettera di Giovanni - dovrebbe essere definita al meglio come «cristologia della separazione)) (K. WENGST, Haresie, 15-23). Probabilmente, però, anche questa ipotesi è frutto di un inutile ed esagerato dispendio di energie interpretative (+ D.XVIII).

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VII. Il Vangelo di Giovanni

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C.

GLI ATTI DEGLI APOSTOLI DIETRICH RUSAM

C. Atti degli apostoli (Dietrich Rusam)

l.

Struttura

Che gli Atti degli apostoli e il Vangelo di Luca siano strettamente collegati e abbiano con certezza il medesimo autore lo dimostra già il proemio, indirizzato a T eofilo, di ciascuno dei due scritti. La cerniera fra le due opere è rappresentata dal racconto dell'ascensione, narrato in Le 24,50-53 e in At l ,9-11, con i discorsi tenuti da Gesù in quell'occasione (Le 24,44-49 e At 1,7s.). Così, per esempio, l'affermazione che la croce e la risurrezione sono conformi alle Scritture e quella che la conversione e il perdono dei peccati dovranno essere predicati fra tutte le genti (Le 24,46s.) vengono verificate soltanto nel corso di Atti (specialmente nell'annuncio di Pietro in At 2 e 3 e nella preghiera della comunità in 4,24-30). E questo già ci fa capire come la duplice opera lucana fosse stata programmata dal suo autore proprio così fin dall'inizio. Nel discorso di Gesù in At 1,8-11 viene poi aperto un arco immenso: alla domanda se il Risorto avrebbe ricostituito in quel tempo il regno per Israele (l ,6) Gesù risponde con l'incarico di essere suoi testimoni «fino ai confini della terra» (l ,8). L'inizio (!) di questo arco è narrato di seguito negli Atti degli apostoli. Se nel Vangelo di Luca l'unico protagonista era stato Gesù, adessodopo la sua ascensione al cielo - il personaggio principale cambia. In un primo tempo è Pietro - insieme con i discepoli di Gesù e il figlio di Zebedeo, Giovanni - a portare avanti l'incarico menzionato in At 1,8 (capp. 1-5), prima che sia presentata l'attività missionaria di altri personaggi (Stefano, Filippo, Paolo). Benché Paolo, dal punto di vista

284

C Atti degli apostoli

puramente quantitativo, occupi lo spazio maggiore negli Atti degli apostoli, in prima battuta Luca riconosce la massima importanza teologica a Gerusalemme quale punto di partenza della missione. Per lui è importante la comunità primitiva di quella città, che aveva al centro le figure dei discepoli di Gesù, Pietro e Giovanni, nonché quella del fratello carnale di Gesù, Giacomo. Così è Pietro a preparare teologicamente la missione ai pagani (At l O) e più tardi, nell'incontro con Paolo a Gerusalemme, a giustificare davanti agli altri apostoli la missione ai pagani libera dalla legge (15, 7-11). In tale contesto, al fratello del Signore, Giacomo, è riservato invece il compito di addurre la prova della Scrittura ed è concessa l'ultima parola (15, 13-21), mentre Paolo e Barnaba fanno la parte di coloro che ricevono gli ordini. Tutto ciò è interessante soprattutto perché Paolo in Gal 2 delinea un quadro completamente diverso di quella che molto probabilmente è la stessa assemblea. Nonostante questa subordinazione teologica di Paolo a Pietro, a partire da At 13 Paolo svolge nella narrazione la parte determinante. Nel corso di tre grandi viaggi egli evangelizza vaste porzioni dell'Asia minore e della Grecia. Infine viene arrestato a Gerusalemme e condotto a Roma, dopo che il suo processo ha subito un rinvio di anni a causa del fatto di essersi appellato all'imperatore. Atti termina con la notizia che Paolo ha predicato Gesù Cristo a Roma per due anni con franchezza e senza impedimenti (28,30s.); l'esecuzione capitale di Paolo non è narrata, ma è evidentemente presupposta (cfr. 20,24s.; 21,13). Questa conclusione è in relazione con il discorso di congedo di Gesù nel cap. l. Atti non è assolutamente in grado di chiudere l'arco lì iniziatosi (e cioè la storia della missione fino ai confini della terra: l ,8). Questo libro narra la storia della missione dai margini dell'impero universale (Gerusalemme) fino al suo centro (Roma), e quindi, tutt'al più, la prima metà dell'arco cominciato con 1,8. La seconda metà è aperta ancora oggi. Con questa fine aperta l'autore di Atti fa entrare le sue lettrici e i suoi lettori all'interno della storia della missione e della trasmissione della solidità dell'insegnamento in cui sono stati istruiti (Le 1,4). Tutti costoro sono parte di questa storia della missione che deve spingersi fino ai confini della terra.

285

C. Atti degli apostoli

LA SUDDIVISIONE DI

ATTI

In Atti l'argomento principale è la diffusione del messaggio cristiano e, solo in seconda battuta, il destino dei singoli personaggi e missionari. Per questo motivo si raccomanda - come già per il Vangelo di Luca un'articolazione geografica. Il particolare significato di Gerusalemme era diventato già chiaro nel vangelo. Adesso la descrizione particolareggiata dell'ascensione di Gesù rappresenta l'inizio di quella che sarà la storia della missione. In un certo senso l'ascensione è il polo opposto della storia della nascita (Le 1-2): se nei primi due capitoli di Luca era stato descritto l'arrivo di Gesù sulla terra, in At l ,4-12 abbiamo a che fare con il suo congedo. Adesso il nucleo dei seguaci che attorniava Gesù a Gerusalemme è affidato solo a se stesso (l, 13s.). Con i suoi 'preparativi' (1,15-26), la festa di Pentecoste (2,1-41) produce come conseguenza la prima comunità cristiana (1,42-47). I capitoli successivi si svolgono tutti a Gerusalemme: con Pietro e Giovanni - e poi Stefano - come protagonisti, descrivono le condizioni di quella comunità. Per l'autore di Atti illinciaggio di Stefano, in ultima analisi, non è che un esempio della persecuzione montante della comunità gerosolimitana, al punto che ha inizio una dispersione dei membri della comunità, in un primo tempo in Giudea e Samaria (8,1-3). La storia della missione cristiana in queste due regioni del paese della provincia romana di Siria è illustrata fino a 11, 18. È in questa fase che avvengono anche sia la chiamata di Saulo (Paolo) sia, in virtù delle apparizioni a Pietro (10,1-48), la fondazione teorica di quella che più tardi sarà la missione ai pagani. Con 11,18- un versetto che, come 8,1, allude a 1,8- viene narrato l'avvio della missione universale ai pagani. Qui (ad Antiochia) emerge anche per la prima volta il termine christianoi, 'cristiani', attribuito alla comunità (11,26). Con ciò la nuova comunità si è separata dagli ebrei a livello locale e organizzativo, affermandosi come entità autonoma. In questa fase vengono narrati i tre viaggi missionari di Paolo, l'incontro di Gerusalemme con Giacomo, Pietro e Giovanni, nonché l'arresto e il processo di Paolo, che finisce con il suo trasferimento a Roma. Qui Paolo annuncia per due anni il regno di Dio e insegna le cose riguardanti Gesù Cristo con tutta franchezza e «senza impedimento (àxmÀ:u'tmç)»: questa è anche l'ultima parola di Atti. La fine aperta di Atti è stata spesso problematizzata. Due sono i motivi che depongono in modo particolarissimo a favore dell'intenzione

286

C. Atti degli apostoli

dell'autore di dare deliberatamente alla conclusione proprio questa forma e non un'altra: a) La morte di Paolo, che sembra essere presupposta in 20,24; 21, 13, sottolineerebbe una conclusione che non è prevista in quel modo. Come stanno a dimostrare la presentazione dell'articolazione e proprio anche l'ultima frase di Atti, ciò che importa all'autore è che si continui a portare avanti il vangelo. I singoli sono, al massimo, «ministri della Parola» (cfr. Le 1,2), niente di più, per quanto abbiano reso numerosi servigi alla diffusione del cristianesimo, com'è il caso di Paolo. b) Il piano salvifico prospettato dal Risorto al momento dell'ascensione in 1,8 e affidato alla testimonianza dei discepoli a Gerusalemme, in Giudea e Samaria e fino ai confini della terra, non è affatto giunto a compimento con l'arrivo del messaggio a Roma- il centro del mondo di allora. Comunque negli studi sull'argomento non si è mai d'accordo su che cosa s'intenda con l'espressione . Una formulazione paragonabile si trova in fs 5,26, in Ger6,22, nonché in fs 46,11 (cfr. Ps Sal8,15). Ogni volta il discorso verte su una superpotenza militare (Assiria, Babilonia e Persia) che, con l'aiuto dei suoi soldati, produce effetti positivi (la Persia: fs 46, 11) o negativi (l'Assiria: fs 5,26; Babilonia: Ger 6,22) sulla situazione di Israele. Partendo da qui, si potrebbe effettivamente supporre che con l'espressione > (195). Gli scritti di Paolo sarebbero in questo senso delle lettere, mentre la missiva di Giacomo e quella agli Ebrei costituirebbero esempi di epistola. Se oggi si è abbandonata questa divisione così netta, è perché proprio le lettere di Paolo contrastano con queste classificazioni così semplici (cfr. M.I. STIREWALT, Pau!, 26.113-116): saldano elementi di attualità personale con altri elementi, alcuni decisamente letterari e altri ancora- in misura limitata - di carattere 'pubblicocomunitario', tanto da essere perciò ancor oggi conservate in una pluralità di trascrizioni. In scritti come la Lettera agli Ebrei e l'Apocalisse sono costitutivi della forma alcuni elementi epistolari da fiction, collegati con tratti discorsivi narrativi, che pure rispecchiano in tal modo una situazione concreta. Le fiction d'autore sono un mezzo frequente, nella seconda e terza generazione cristiana, di una ermeneutica viva della tradizione (lettere deuteropaoline, lettere cattoliche;~ 7.).

!. Letteratura epistolare nel Nuovo Testamento

315

Anche autori antichi si sono occupati di teoria della composizione epistolare. Sotto il nome di Demetrio viene tramandato uno scritto De elocutione, 'Sullo stile', da collocare tra il II secolo a.C. e il I d.C. In una digressione sullo stile epistolare (Eloc 223-235), l'autore mette a confronto la lettera con uno dei due ruoli di un dialogo, dove però la lettera dev'essere scritta con più diligenza (Eloc 223s.); va pure salvaguardato il carattere colloquiale, così che la lettera non può degenerare in un discorso (in Eloc 225-229 vengono nominati discorsi solenni/epideittici e discorsi giudiziari/ di cani ci). Con ciò si intende- come l'autore sostiene a più riprese- uno stile semplice e senza pretese. Quale essenziale pietra di costruzione della teoria, egli sottolinea la filoft6nesi, ovvero il sentimento di amicizia, come base della comunicazione epistolare, con cui emerge al tempo stesso la cura della relazione come istanza epistolare fondamentale. Nella lettera sono stati adottati diversi mezzi stilistici e forme espositive. Ancora a un certo Demetrio (designato talora come PseudoDemetrio) viene attribuita un'opera sui 'tipi epistolari', redatta nella sua versione finale nel III secolo d.C., elaborando però chiaramente un materiale più antico (in parte del II secolo a.C.). All'inizio dell'introduzione l'autore accenna a una teoria epistolare che conosce un numero rilevante di modelli linguistici, i quali permettono una scelta conforme alla situazione concreta nel comporre una lettera. L'autore distingue ventun generi di lettere, dei quali soltanto alcuni considero importanti per le lettere del NT: lettera di amicizia, lettera di raccomandazione, lettera consolatoria, lettera di rimprovero, lettera elogiativa, lettera di consiglio (simboleutica), lettera di petizione, lettera di ringraziamento. Questi generi epistolari vogliono essere il risultato di una riflessione teorica sulla prassi epistolare corrente a quell'epoca; rispecchiano soprattutto il carattere pratico della scrittura epistolare, quindi situazioni sociali concrete e sfere d'azione in cui vengono scritte delle missive. Per una classificazione formale dei tipi di lettera essi risultano appropriati solo a determinate condizioni (sulla teoria epistolare dell'Antichità: H. KOSKENNIMI; K. THRAEDE; A.J. MALHERBE, Ancient Epistolary Theorists; S.K. STOWERS 51-57; H.-J. KLAUCK, Briefliteratur, 148-165 [ed. it., 173-191]). Va almeno menzionato il fatto che anche nella cultura giudaica, in cui si è sviluppato il cristianesimo primitivo, era ovviamente abituale la pratica della composizione epistolare (P.S. ALEXANDER; I. TAATZ; H.-J. KLAUCK, Briejliteratur, 181-226 [ed. it., 211-265]).

316 3.

D. Le lettere

Formulario epistolare

Una pagina scritta è subito riconoscibile come lettera in base a determinati modelli linguistici. Il confronto tra una molteplicità di lettere dell'epoca antica permette di ricavare questo modello fondamentale o formulario epistolare. In questa prospettiva, la lettera di Appio riportata sopra (-+ I.) appare di carattere pressoché esemplare. Un prospetto ne riassume il risultato: mittente (superscriptio; al nominativo) prescritto

destinatario (odsaiptio; al dativo) saluto (salutatio; all1nfinito: xaiQEtv, 'per salutare') preghiera-augurio di buona salute, di benessere

l. Preambolo

ringraziamento proemio

garanzia di ricordo, intercessione (la cosiddetta formula-proskynema)

esortazioni conclusive epilogo

riflessione sull'atto della scrittura (talvolta) relazione come tema, per esempio richiesta di intercessione, desiderio di visita saluti: saluti del redattore al destinatario

Ili. Conclusione

incarico di inviare saluti (=saluti del redattore ad altri) poscritto

saluti inoltrati (=saluti di altri ai destinatari) auguri del tipo: «Sta'/state bene>> annotazione di proprio pugno (talvolta) indicazione della data

Un'osservazione a proposito della forma del prescritto: la forma greca abituale è la seguente: A (mittente) aB (destinatario), xaiQEtv = 'per

I. Letteratura epistolare nel Nuovo Testamento

317

salutare' (cfr. lettera di Appio,- 1.). Nelle lettere del primo giudaismo compaiono in parte altre forme, per esempio: da A aB, shà!Dm (augurio di pace come saluto); oppure: A aB, sh!t!Dm; o ancora: aB, come saluto, A. È tipico l'augurio di pace. Paolo adotta di solito lo schema A (Paolo + titolo come 'apostolo' + co-mittente), a B («alla comunità di ... »), augurio di pace (.

Un secondo test è rappresentato dalla raccolta epistolare di Cicerone (cfr. H.-J. KLAucK, Compilation; T. SCHMELLER, Cicerobriefe): si tratta dell'unica raccolta di lettere autentiche nell'Antichità, nata più o meno allo stessa epoca di Paolo e idonea per fare un confronto. Di Cicerone si conservano circa ottocento lettere, in parte pubblicate poco dopo la morte dell'autore dal suo segretario Tirone, ma in parte pubblicate soltanto un secolo dopo. All'interno di queste raccolte epistolari ci si

l. Letteratura epistolare nel Nuovo Testamento

323

imbatte in oltre sessanta compilazioni, che possono essere riconosciute chiaramente sulla base di tensioni formali, strutturali e contenutistiche. Un confronto con le lettere di Paolo offre risultati interessanti: a) Una differenza consiste senza dubbio nel numero di lettere conservate, che nel caso di Paolo appare subito di gran lunga inferiore. Paolo ha scritto per Corinto il numero maggiore di lettere, ma anche il loro numero è rimasto ben visibile: l) una 'pre-lettera' (menzionata in l Cor 5,9; andata perduta); 2) l Corinzi; 3) una 'lettera intermedia' (menzionata in 2 Cor 2,4; 7,8; andata perduta); 4) 2 Corinzi.

Perciò in Paolo sono inverosimili compilazioni tecniche e di lettere per risparmiare materiale per scrivere; mentre sono verosimili compilazioni casuali (perché, per esempio, era andato perduto l'inizio di una lettera) nella maggior parte delle lettere; infine, sono possibili compilazioni calcolate (per esempio: composizioni tematiche) quando è a disposizione una scelta notevole di singole lettere. Nel caso delle lettere di Paolo, rispetto al c.aso delle lettere di Cicerone, già in base al rapporto numerico appaiono dunque meno verosimili delle compilazioni. b) Fratture nel ductus della lettera si ritrovano anche in Cicerone. Come ragione possibile si può riconoscere il fatto che una lettera sia stata redatta nel corso di più giorni; può anche darsi, inoltre, che sia stato aggiunto un post-scriptum - anche lungo, se è il caso - dopo aver ricevuto nuove notizie (ma in Paolo è assente la caratteristica del poscritto, abituale invece in Cicerone). Con questi procedimenti sarebbe possibile spiegare per esempio la frattura tra 2 Cor 1-9 e l 0-13. c) lnterpolazioni di lettere o di loro parti non possono essere dimostrate per il corpus delle lettere di Cicerone. Spesso vi si incontra una compilazione - in corretta successione cronologica - di più lettere, con cui si è creato un allineamento di fasci di luce storici, dunque una sequenza narrativa di lettere. Non viene creata artificiosamente un'apparenza di unitarietà: le singole lettere permangono facilmente riconoscibili, per esempio nei loro inizi o nelle loro conclusioni. Non trovano dunque alcuna analogia nella raccolta delle lettere di Cicerone quelle complicate ipotesi di divisione che da una lettera di Paolo traggono due o più lettere originarie e presumono una fusione delle lettere singole attraverso una consapevole inversione della successione. E sempre le lettere di Cicerone non presentano analogia alcuna con un'intenzione potenziale di un redattore che abbia voluto dare una sintesi della dottrina e dell'auto-comprensione di Paolo sciolta da situazioni particolari, unitaria e dotata di valore universale.

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D. Le lettere

Il confronto con le condizioni e i procedimenti nell'edizione dell' epistolario ciceroniano rende inverosimile la tesi che nell'attuale configurazione delle lettere di Paolo sia riconoscibile una fusione di più missive singole; dovrebbero dunque esserci ben altre ragioni e motivi per condurre a quell'ipotesi. Per l'interpretazione odierna mi sembra consigliabile lavorare quanto più possibile in base alla tesi dell'unitarietà.

7.

Pseudoepigrafia .

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Nel caso di sei lettere che portano come nome del mittente 'Paolo'(~

'·}\-::X!IU e nel caso della Lettera di Giacomo, della Prima e Seconda lettera di Pietro e della Lettera di Giuda, una quota consistente di studiosi parte dal presupposto che esse non derivino dagli autori di cui portano il nome. Le chiamiamo lettere 'pseudoepigrafe' perché trasmettono la fiction storicamente non pertinente di essere state scritte da un autore noto; perciò la pseudoepigrafia è un caso particolare di pseudonimia (l'uso del nome di scrittori estranei, anche liberamente inventati). Tale pseudoepigrafia va riconosciuta come fenomeno verosimile nel caso in cui la situazione per cui una lettera è stata pensata, la teologia che essa sviluppa e il linguaggio con cui si esprime non siano in consonanza con il tempo della prima generazione cristiana, ma presuppongano già un ulteriore sviluppo storico. A partire dagli anni Sessanta-Settanta del I secolo, in effetti, si sono verificati nelle comunità cristiane dei cambiamenti notevoli. a) I personaggi apostolici degli inizi delle comunità-di-Cristo, come Paolo e Pietro, erano morti. b) All'interno delle comunità vigevano forme organizzative ancora in costruzione, in una fase sperimentale: non esisteva un'organizzazione 'toto-ecclesiale'. c) Il differimento della parusia di Cristo divenne sempre più evidente, e con esso sorse il problema del dubbio su un'attesa fondamentale della prima generazione cristiana. d) Separandosi dalle locali sinagoghe giudaiche (la separazione si sviluppava rapidamente, in forma progressiva e differenziata), le comunità persero sicurezza dal punto di vista teologico e sociale. e) All'interno delle comunità cristiane si manifestarono contrasti a proposito della retta comprensione della propria fede: l'unità delle comunità era in pericolo. f) Conflitti con la società e soprattutto con le autorità politiche vennero acutizzandosi; nel 64la persecuzione contro i cristiani nella città di Roma, sotto Nerone, deve aver provocato un'apprensione persistente.

I. Letteratura epistolare nel Nuovo Testamento

325

Si trattava di una situazione di radicale cambiamento e di ti-orientamento. A tale situazione i cristiani della seconda e terza generazione potevano reagire soltanto ritornando alla loro tradizione, alla trasmissione del tempo iniziale. Gli inizi teologici dovevano essere rielaborati e attualizzati in ordine alla mutata situazione. A questo fine si ricorreva alla finzione letteraria che un'autorità dei primi tempi si rivolgesse alle comunità. Prima però di squalificare queste lettere come dei 'falsi' secondo i canoni dell'odierna coscienza di verità, dobbiamo prendere in considerazione i rapporti che l'Antichità aveva con la pseudoepigrafia (a questo proposito, cfr. N. BROX; H.-J. KLAUCK, Briejliteratur, 301-305 [ed. it., 344-350]; E. REINMUTH 190-202). Anche nel mondo antico dominavano sia la consapevolezza del valore del bene intellettuale e della sua paternità sia, di conseguenza, una valutazione critica di presunzione di autenticità o di falsificazione (cfr. anche solo CICERONE, Att XI 16,1; Fam III 11,5). Malgrado questo, esistevano forme diffusissime di pseudoepigrafia. La cosa vale per innocenti esercizi scolastici di retorica, in cui il discente si metteva al posto di una personalità. intellettuale ben nota e componeva un discorso o una lettera come li avrebbe composti il modello in una data situazione (tecnica della 'prosopopea': da rcQ6cro:mov, 'persona', e rcotÉffi, 'fare'): ben lungi dall'intenzione di trarre in inganno, era un test per vedere se se ne avesse inteso bene il pensiero. Come mezzo retorico adottato, per esempio, davanti al giudice in tribunale, valeva quello di insinuarsi nel ruolo di un altro e descrivere la situazione dalla sua prospettiva. Nelle tradizioni filosofiche di scuola è nota la pubblicazione di scritti posteriori con il nome del caposcuola (per esempio, gli scritti pitagorici): i discepoli continuano a pensare sulla scia del maestro e ne prolungano la tradizione; compare la 'letteratura di tradizione'. La pseudoepigrafia si lascia trasporre con particolare agio via lettera, poiché era sufficiente fare il nome di un autore, cui corrispondeva lo schema formale del prescritto, e inoltre la forma letteraria risultava particolarmente idonea soprattutto per la trasmissione di affermazioni importanti. Di alcune grandi personalità della vita intellettuale dell'epoca antica- ricordiamo soltanto Euripide, Platone e Socrate- sono circolate lettere inventate. Interessante è il fenomeno delle lettere ciniche pseudoepigrafe, attribuite ai fondatori della scuola, Diogene di Sinope e Cratere di Tebe (rispettivamente 51 e 36 esemplari: vedi O. GIGON; F.G. DOWNING; M.L. STIREWALT 43-64; H.-J KLAUCK, Briejliteratur, 140-147 [ed. it., 166-172]). Le lettere sono state redatte da diversi autori nel periodo che va dal I secolo a. C al II d.C., limitando il quadro epistolare allo stretto necessario oppure

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D. Le lettere

rinunciando del tutto ad esso. I complessi rapporti di storia della tradizione rendono evidente il modo in cui una lettera fittizia venisse sviluppata sulla base della tradizione conosciuta: o venivano riversati in forma di lettera aneddoti o apoftegmi tramandati attraverso i due fondatori (un esempio è la rinuncia di Cratete alla proprietà in Diog Laert VI 87 e in Diogene, Lettera IX; Cratete, Lettera VIII), oppure- con un procedimento più aperto - sulla base della dottrina nota e del carattere del fondatore (mediante la tecnica della prosopopea) venivano redatte delle lettere nel senso di quanto era stato reclamato. Alla base di tutto questo sta il giudizio che il modello del fondatore è più efficace dell'argomentazione oggettiva di un contemporaneo, in ordine a rendere plausibile come principio di identità l'ideale di vita cinico (cfr. l'impressionante 'autopresentazione' dell'attenzione al cinismo in Diogene, Lettera XX){ 1-4). Dietro questo comportamento sta l'intenzione concreta di motivare il proprio gruppo a perseverare e a conquistare nuovi adepti. Dal momento che era comune ad autori e lettori la conoscenza della tradizione a proposito del fondatore della scuola e della tecnica del 'gioco delle parti', falsificando le lettere non si intendeva in alcun modo ingannare i lettori, bensì mettere per iscritto la ricerca comune di un orientamento di vita riuscita, nel quadro della tradizione della scuola cinica. Questi aspetti della formazione della tradizione, della funzione del modello e del sapere comune sono importanti anche per capire la pseudoepigrafia del NT.

La stessa cultura giudaica lavorava con lettere pseudoepigrafiche, per esempio nella trasmissione del profeta Geremia e del suo discepolo Baruch (Ep]erLXX..; 2 Bar78-86; Par]erVI 17-23; VII 23-29) e nelle parti epistolari dei libri dei Maccabei (spec. 2 Mac l, 10-2, 18) e del libro etiopico di Enoch (l Enoc 91-105). Nel Primo Testamento è pseudoepigrafico il libro del Deuteronomio (Dt l, l: «Parole che Mosè rivolse ... »); e l'intero Pentateuco viene così inteso come opera di Mosè. Nella letteratura profetica, per esempio, il libro di Isaia (fs 1-39) viene integrato con prolungamenti successivi nel nome dello stesso Isaia (Deuterosaia: fs 40-55; Tritoisaia: fs 56-66). In particolare la letteratura apocalittica contiene numerosi scritti che sono stati composti con il nome di personaggi autorevoli della storia di Israele, come Enoch, Mosè, Baruc ed Esdra, e a questi personaggi ridanno la parola. Nel quadro di questa diffusa prassi culturale operarono anche gli autori che scrissero lettere in nome di Paolo (deuteropaoline) e altre autorità cristiane delle origini. Ma con questo non è ancora detto tutto. Proviamo a prendere in considerazione le due funzioni essenziali della pseudoepigrafia: la rivendicazione di autorità e di una determinata tradizione culturale. a) L'autorità di una personalità celebre del passato viene rivendicata per legittimare le proprie affermazioni; in tal modo si istituisce un vincolo. Questo modo di procedere a noi appare problematico, in quanto falsa attribuzione. In ordine a una delucidazione, però, bisogna tener

l. Letteratura epistolare nel Nuovo Testamento

327

presente che la linea di pensiero di chi scrive una lettera, cioè mediare la presenza di una persona assente, può funzionare anche attraverso una distanza temporale. Un'autorità degli inizi continua a possedere validità anche per persone di un tempo successivo. Dobbiamo inoltre fare i conti con la possibilità che la finzione d'autore fosse già un fatto intuibile da parte dei primi lettori: la cosa è senz' altro pensabile per le lettere pastorali e per la Seconda lettera di Pietro, almeno per quanto riguarda i membri colti di una comunità. L'autorità della lettera pseudoepigrafica, allora, non risulta tanto da una falsificazione, quanto dal marcare la linea della tradizione in cui l'autore si pone con la 'finzione': in tal modo egli conquista l'udienza da parte dei destinatari. b) La lettera viene collocata all'interno di una determinata tradizione culturale. Un cristiano della seconda o della terza generazione cerca la risposta a interrogativi incalzanti del presente a partire dall'eredità dei tempi degli inizi, eredità che egli interpreta in presenza di nuove sfide. Già i diretti collaboratori di Paolo operavano come suoi rappresentanti: come co-mittenti e latori di lettere, come inviati alle comunità; per esempio, secondo ·1 Cor 4, 17 Timoteo ha il compito di ricordare alla comunità di Corinto la dottrina di Paolo. La prassi della rappresentanza continuò anche dopo la morte di Paolo. A prescindere dalla questione se sia esistita una regolare scuola paolina (con un centro consolidato in un determinato luogo e con un esercizio sottoposto a regole), nelle comunità paoline venne ricordata, trasmessa e ripensata la tradizione di Paolo come figura fondatrice. Le deuteropaoline, che sono il risultato di questo processo, son espressione di una relazione viva con la tradizione delle comunità. Un punto di riferimento in questo processo interpretativo venne forse trovato in dichiarazioni trasmesse oralmente dello stesso Paolo (cfr. le informazioni in 2 Ts 2,5.15; 3, l O). Il vantaggio della distinzione raggiunta grazie alla ricerca storica tra lettere autentiche e lettere pseudoepigrafe consiste, non da ultimo, nello sviluppo di un'immagine differenziata del primo cristianesimo. Sappiamo, per esempio, che la mancata attenzione alle donne nei ministeri di guida delle comunità (lettere pastorali) non rispecchia la visione di Paolo, ma proviene dall'intenzione- da attribuirsi alla terza generazione cristiana - di creare un stabile ordinamento comunitario e di ridurre la pressione sociale da fuori. Al tempo stesso, la rivendicazione paolina espressa dalla pseudoepigrafia ci dischiude la possibilità teologicamente legittima di saggiare in termini critici l'interpretazione successiva sull" originale'.

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D. Le lettere

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IL Cronologia e datazione della vita di Paolo (Stefan Schreiber)

l.

Situazione delle fonti

Possediamo lettere redatte da Paolo in persona, quindi fonti primarie da cui possiamo desumere un ritratto della sua vita e del suo pensiero. Al confronto, invece, per quanto riguarda le date storiche la valutazione si presenta più difficile, visto che nessuna lettera di Paolo è datata e dal momento che si tratta di scritti d'occasione, che possono avere alle spalle retroterra diversi senza offrire indicazioni precise. Negli Atti degli apostoli abbiamo una fonte ulteriore nella quale un autore cristiano successivo ('Luca') racconta, nello stile della storiagrafia antica, la diffusione del movimento di Gesù verso l'Occidente: dunque una fonte secondaria. Qui viene attribuito un peso notevole all'attività di Paolo, ma anche su questo la valutazione storica è problematica, poiché Luca non è interessato all'enumerazione di singoli fatti storici, bensì a una comprensione d'insieme dell'azione di Dio nella storia dei primi cristiani. Egli si rifà certamente a tradizioni dotate di un retroterra storico, ma le subordina alla sua concezione teologica. Il lavoro critico dello storico deve tenere in conto l'intenzione di Luca, e nel caso di contraddizioni tra gli Atti degli apostoli e le lettere di Paolo deve dare di regola la preferenza a queste ultime come fonti primarie. Senza trascurare il fatto eh~ anche Paolo, con la configurazione retorica delle sue lettere, persegue una certa intenzione. Quando è possibile comporre assieme i due fili delle fonti, il nostro ritratto ne guadagna in certezza.

Il. Cronologia e datazione della vita di Paolo

2.

331

La cronologia assoluta

Attraverso la distinzione concettuale tra cronologia relativa e assoluta la retrospettiva storica acquista una struttura operativa. La cronologia assoluta ricerca nella vita di Paolo date che coincidono con gli avvenimenti della storia universale (potendo così essere stabilite) e che inseriscono Paolo nel corso della storia universale. N el secondo passo l'elaborazione di una cronologia relativa cerca poi, entro la cornice generica dei punti fissi in tal modo stabiliti, di inserire altre date della vita di Paolo desunte dalla tradizione, stabilendo così il rapporto fra i dati cronologici. Il risultato è un compendio cronologico come base di una biografia. Data di nascita e data di morte di Paolo non possono essere decise in base a informazioni parallele della storia del tempo. Un inserimento nella storia universale ha comunque successo per quanto riguarda tre date nella vita di Paolo: la fuga da Damasco dopo la sua conversione, il primo soggiorno a.Corinto per la fondazione della comunità e il richiamo del governatore romano Felice, sotto il cui successore Pesto Paolo viene tradotto a Roma. Su questo piano sono quasi sempre gli Atti degli apostoli a offrirei le indicazioni necessarie. l) Il primo soggiorno di Paolo a Corinto (At 18,12-17) narra come l'apostolo nel suo soggiorno di fondazione a Corinto sia stato denunciato da parte giudaica al governatore romano Gallione. La ragione di questo fatto è stata probabilmente la preoccupazione del gruppo giudaico di Corinto di essere sospettato da parte delle autorità romane di rapporti con 'sobillatori', rischiando di perdere la protezione dei privilegi necessari per praticare la vita giudaica. Ma Gallione non volle intervenire in questo conflitto. Non c'è ragione di dubitare dell'indicazione di Atti sulla coincidenza cronologica del soggiorno di Gallione e Paolo a Corinto. Sono documentati da un'epigrafe il fatto che e l'epoca in cui Gallione è stato proconsole della provincia senatoriale dell'Acaia, da quando nel 1905 è stata ritrovata la cosiddetta 'epigrafe di Gallio ne' (una iscrizione oggi conservata nel Museo di Delfi). L'epigrafe può essere ricostruita come segue (fonte: Fouilles de Delphes III, 4, Paris 1970, n. 286; cfr. J. MURPHY O'CONNOR, Corinth, 161-169.219-221): Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, nel XII anno della sua potestà tribunizia, acclamato imperatore per la XXVI volta, padre della patria, saluta ...

332

D. Le lettere

Già da tempo sono stato non solo ben disposto verso la città di Delfi, ma anche attento alla sua prosperità; ho sempre sostenuto il culto di Apollo pitico. Dal momento, tuttavia, che si sente dire che essa viene abbandonata anche dai cittadini, come recentemente mi ha riferito il mio amico e proconsole L. Giunio Gallione, e poiché sono desideroso che Delfi continui a mantenere intatto il suo splendore passato, ordino di invitare persone illustrissime anche da altre città a Delfi come nuovi abitanti e di permettere loro e ai loro discendenti di godere come cittadini di tutti i privilegi della città di Delfi, sulla base di una piena uguaglianza di diritti ... Per il retro terra: l'antica città greca degli oracoli, Delfi, nel I secolo aveva subìto un calo deciso sia di importanza sia, conseguentemente, quanto a popolazione. Per impedire la minaccia di decadenza, mediante il proconsole dell'Acaia la città si rivolse all'imperatore Claudio (41-54 d.C.), facendogli presente la situazione problematica; il rescritto imperiale venne inciso su pietra ed esposto a Delfi. L'epigrafe menziona come proconsole un certo Lucio Giunio Gallione. Si tratta di un figlio del retore Lucio Anneo Seneca, e fratello maggiore del più celebre filosofo Seneca, precettore di Nerone. Delfi si trova nella provincia senatoriale dell'Acaia, con capitale Corinto. Le province senatorie erano amministrate da un proconsole scelto dal senato; normalmente restava in carica un anno, che egli inaugurava agli inizi dell'estate, di solito l'l luglio. La datazione dell'epigrafe, andata distrutta, dev'essere ricostruita: significa la 26' proclamazione a imperatore (cioè: Claudio venne proclamato imperatore la 26' volta dopo un successo militare). La data precisa è ignota, ma può essere dedotta: nell'undicesimo anno del governo (e del potere tribunizio) di Claudio si succedettero le proclamazioni 22', 23' e 24'; la 27' ebbe luogo nel dodicesimo anno, conosciuta in ragione dell'arco dedicatorio dell'Aqua Claudia, un importante acquedotto romano che fu ufficialmente inaugurato l'l agosto del 52 d.C. Perciò l'epigrafe dev'essere stata composta prima di quella data. Allora la 26' acclamazione può essere avvenuta o alla fine dell'undicesimo anno di governo (il che però implicherebbe - cosa eccezionale - molte acclamazioni in un anno) oppure nella prima metà del dodicesimo anno di governo - cosa più verosimile. Il > (si intende: a Gerusalemme) per puntare da qui ad Antiochia. Questo percorso suscita diversi interrogativi: perché Paolo va a Cesarea e perché visita Gerusalemme se meta del viaggio sembrano essere la Siria e soprattutto Antiochia (18,18.22)? Perché ha interrotto la predicazione, così ricca di frutti, in Macedonia e in Asia minore per andare ad Antiochia? Le circostanze fortuite del viaggio (per esempio, il vento contrario) non spiegano nulla e, soprattutto, dalle lettere di Paolo non veniamo a sapere alcunché di questa quarta visita a Gerusalemme. Ancora una volta in 18,22 vediamo all'opera Luca, che intende sottolineare il legame retrospettivo di Paolo con Gerusalemme come garanzia di continuità. È destinato a restare un problema aperto se e perché mai, dopo la missione a Corinto, Paolo si sia recato ad Antiochia, prima di muoversi di nuovo verso Efeso.

Il. Cronologia e datazione della vita di Paolo

341

Con questo diventa estremamente inverosimile anche la proposta di identificare cronologicamente l'incontro di Gerusalemme ( Ga/2, 1-1 O) con la visita a Gerusalemme di A t 18,22 già descritta da Luca per ragioni teologiche in At 15 (G. LODEMANN 165-173 e 211; R. ]EWETI 129-141; J. GNILKA 66s.; K.B. DONFRIED 109). La concisa osservazione di At 18,22 è perciò forzata ed è ben difficile spiegare il cambio del tutto verosimile dell'équipe missionaria (Paolo-Barnaba nel 'primo viaggio missionario'; Paolo-SilaTimoteo in 15,36-16,3; e, nell'incontro di Gerusalemme, di nuovo Paolo-Barnaba).

h) Fa seguito un viaggio missionario a Efeso (At 19) che, stando alle informazioni di At 19,8.10 e 20,31, dev'essere durato più di due anni e mezzo. Si è dunque esteso sugli anni 53-55. Probabilmente in questo lasso di tempo si è verificata anche una carcerazione di Paolo (cfr. 2 Cor 1,8s.; Rm 16,7; diversamente ora M. GIELEN). È in questo luogo che Paolo ha composto la Prima lettera ai Corinzi e -verosimilmente quella ai Filippesi e quella a Filemone. i) Viene poi il cosiddetto 'viaggio per la colletta' attraverso la Macedonia e l'Acaia-Grecia; meta del viaggio era evidentemente Corinto (At 19,21; 20,1-3; l Cor 16,5s.; 2 Cor 1,15-16.23; 2,12s.). Paolo ha raccolto in questo viaggio l'offerta, concordata nell'incontro di Gerusalemme, delle comunità della diaspora per la comunità originaria di Gerusalemme, e ha scritto la Seconda lettera ai Corinzi e la Lettera ai Galati (cfr. 2 Cor 8-9; Rm 15,25-28). L'arrivo a Corinto dev'essere avvenuto all'inizio dell'anno 56; Paolo vi rimase tre mesi (At 20,2s.) e vi compose la Lettera ai Romani. Per la pentecoste (rrEVtTJ'XOcr-rij o 'festa delle settimane') dello stesso anno Paolo arriva certamente a consegnare la colletta a Gerusalemme (At 20,16; 21,15). Qui, in relazione ai conflitti interni al giudaismo, egli viene arrestato dalle autorità romane e portato a Cesarea (21,27-36; 23,23-35), dove rimane agli arresti circa un biennio (At 24,27), dunque durante gli anni 56-58. Sembra in tal modo che sia fallita la consegna della colletta a Gerusalemme e sia di conseguenza vacillata l'unità tra la comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme e le comunità miste della diaspora. In occasione della sostituzione del procuratore Felice con Pesto, nell'anno 58, Paolo viene mandato a Roma con altri prigionieri che vi vengono tradotti, e giunge nell'urbe agli inizi del 59 (At 27,1-28,16). Secondo At 28,30s. Paolo vive a Roma due anni in stato di detenzione leggera: poté, in altri termini, risiedere in una casa in affitto (sotto la sorveglianza di alcuni soldati) e ricevere visite, dunque anche continuare a predicare. Si concludono così le notizie degli Atti degli apostoli.

342

D. Le lettere

j) Paolo ha forse lasciato ancora una volta Roma? Colpisce il fatto che nelle fonti più antiche, verso la fine del I secolo si ritrovino due diverse tradizioni su una ulteriore attività di Paolo. La prima tradizione è in l Clem 5,7 (attorno al 96 d.C.). Paolo sarebbe giunto dç 1:Ò "ttQ~-ta "tfìç òUm;roç, 'ai confini dell'Occidente', che significa probabilmente in Spagna. Allora Paolo dovrebbe essere stato ancora una volta liberato dalla cattività romana (vi riconosce un retroterra storico, per esempio, H. LOEHR). Ma l'indicazione può anche essere desunta da Rm 15, dove Paolo a Corinto, ancora prima del suo ultimo viaggio a Gerusalemme, aveva manifestata l'intenzione di recarsi in Spagna per un'ulteriore predicazione dell'evangelo. L'affermazione di l Clem 5,7 sarebbe in tal caso priva di valore. La seconda tradizione sottende le lettere pastorali, che presuppongono una permanenza di Paolo in Macedonia e a Corinto, a Creta (dove egli ordinò episkopos Tito), a Mileto ed Efeso (Timoteo come episkopos), e in altre città dell'Asia minore. 2 Tm 1,8; 4,6.16 parla di una rinnovata prigionia di Paolo, della minaccia di un nuovo processo, la cui favorevole conclusione è incerta. L'attendibilità storica delle lettere pastorali è comunque discutibile, dal momento che esse hanno il carattere di lettere deuteropaoline e perseguono l'interesse 'politico' della comunità, quello di attribuire a Paolo l'istituzione di ministeri(+ XIII.). Forse l'esposizione delle lettere pastorali è motivata dalla speranza, espressa da Paolo in Fm 22, di visitare ancora una volta la comunità domestica di Filemone (in Asia minore).

k) La morte di Paolo avviene così verosimilmente a Roma, senza che egli abbia potuto lasciare ancora una volta la città. La predizione della morte in A t 20,24s. (cfr. 21,13), enunciata da Paolo nel discorso stilizzato di addio dinanzi agli anziani di Efeso, ci permette di presumere che Luca abbia saputo della morte di Paolo a Roma. Non conosciamo l'anno in cui essa è avvenuta. La tradizione più antica, in l Clem 5,5-7, accenna al suo martirio: «Egli si congedò dal mondo [ ... ] dopo aver reso testimonianza dinanzi ai dominatori». Anche se in questo testo non si parla né dell'imperatore Nerone né di Roma, è più che possibile che ci si riferisse alla persecuzione dei cristiani avvenuta nella capitale sotto Nerone a partire dall'anno 64. In ogni caso la tradizione successiva (per esempio Eusebio, Hist Ecc! II 25,5-8) anticipa questa data. Non è però da escludere che Paolo abbia trovato la morte a Roma già all'inizio degli anni Sessanta. Sulle circostanze di questa morte non sappiamo nulla (salvo la motivazione politica). Le date biografiche centrali, in conclusione, possono essere sistemate in questo specchietto per uno sguardo d'insieme:

343

II. Cronologia e datazione della vita di Paolo

Morte di Gesù

attomoal~O

Conversione-vocazione di Paolo

33/34 circa

Incontro di Gerusalemme

48/49

Incidente di Antiochia

48/49

Soggiomo a Corinto

ftne del SO- inizio/metà (tel 52

1 Ts

Soggiorno a Efeso

52-55

1(or,Fii,Fm

Viaggio per la colletta

55/Sé inizio anno 56

2(or, Gal

Ultimo soggiorno a Corinto Arrivo a Gerusalemme

attorno alla pentecoste del 56

Partenza da Gerusalemme

58

Arrivo aRoma

primavera del 59

Morte di Paolo

inizio anni Sessanta (64?)

Rm

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III. La Lettera ai Romani (Stefon Schreiber)

La Lettera ai Romani contiene un confronto, linguisticamente denso e argomentativamente diffuso, con il tema che nel corso della predicazione di Paolo è andato facendosi per lui sempre più incalzante: in che modo l'identità cristiana si definisce a partire da queste premesse: a) l'evento escatologico Cristo; b) la base di fede e di tradizione ebraica; c) e la società ellenistica e romana. L'estraneità di queste premesse per lettrici e lettori odierni rappresenta una preliminare distanza ermeneutica per la nostra comprensione ed esige anzitutto una percezione del contesto paolina situazionale, prima che si possano addurre gli interessi teologici attuali nei confronti della lettera. La sua storia degli effetti conferisce alla Lettera ai Romani un'elevata rilevanza ecclesiale. Agostino, per esempio, riconosce di dovere a Romani degli stimoli decisivi per lo sviluppo della sua dottrina antipelagiana della grazia, ma soprattutto la Riforma e - particolarmente Martin Lutero - poterono impiegare la «giustizia dalla fede» (cfr. Rm l, 17) nel senso di una giustificazione del peccatore (iustijìcatio impit) come arma teologica contro gli inconvenienti creati dalla predicazione ecclesiastica del peccato e della salvezza, e in tal modo ristabilire il rapporto tra chiesa e stato rifacendosi alla cosiddetta 'dottrina dei due regni' (cfr. Rm 13, 1-7). La struttura argomentativa della lettera schiude un primo accesso al pensiero in essa contenuto, il cui tenore di fondo è dato dalla riconciliazione dell'essere umano con Dio.

346

D. Le lettere - Lettere paoline

l.

Struttura

1.1

LA CORNICE EPISTOLARE

L'inizio e la conclusione della lettera sono strutturati in partenza, sul piano formale, in base alla convenzione epistolare: costituiscono il luogo in cui attivare la relazione personale tra mittente e destinatari, là dove acquistano rilievo le tonalità emozionali. E proprio tenendo presente la situazione di partenza, cioè che Paolo scrive a comunità presenti a Roma e a lui fino ad allora sconosciute, si impongono qui le prime decisioni a proposito del successo della comunicazione. Per quanto attiene all'esordio della lettera (1,1-15): nel prescritto (vv. 1-7) Paolo amplia l'informazione sul mittente con una sintesi del contenuto e dell'effetto del vangelo, nella quale inserisce una formula di fede cristologica (vv. 3s.); ciò che collega mittente e destinatari, al di là di ogni estraneità, è il vangelo di Gesù Cristo! Colpisce il fatto che Paolo, a differenza del suo stile abituale nelle altre lettere, in quella ai Romani non nomini alcun collaboratore. Non ha fondato personalmente le comunità romane insieme con una équipe, e in questa lettera intende presentare la propria persona e la propria prassi. Il proemio (l ,8-15) contiene un'azione di grazie per la fede dei destinatari e un'auto-raccomandazione di Paolo. Con l'azione di grazie (vv. 8-12) Paolo dimostra non soltanto la propria elevata stima per le comunità, ma sottolinea pure la reciprocità della loro relazione, dal momento che di fronte a comunità non conosciute egli non può richiamarsi alla propria autorità di apostolo fondatore. L'auto-raccomandazione epistolare (vv. 13-15) contiene una breve retrospettiva biografica che dichiara l'intenzione di Paolo di annunciare il vangelo anche a Roma. In tal modo l'intenzione comunicativa della lettera è chiara sin dall'inizio: nella missiva Paolo anticipa la sua esposizione personale del vangelo, presentandosi così alle comunità di Roma a lui sconosciute. Quanto alla conclusione della lettera ( 15, 14-16,23): l'avvio è una metariflessione del processo di comunicazione compiuto nella lettera stessa; lì Paolo mette in rilievo espressamente l'autonomia delle comunità romane negli interessi della loro vita di fede e, di fronte a quest'ultima, giustifica la propria lettera con il suo servizio al vangelo promosso da Dio stesso (15, 14-16). Paolo parla dunque della sua

III. La Lettera ai Romani

347

missione di apostolo (15,14-21) e presenta i propri futuri progetti missionari in Spagna, per i quali cerca l'appoggio delle comunità romane (15,22-24): emerge così l'aspetto pratico del suo scritto. Per la sua visita imminente alla comunità originaria di Gerusalemme, a cui Paolo guarda con scetticismo a causa dei durevoli disaccordi sul rapporto tra i giudeo-cristiani e i cristiani di provenienza pagana, egli chiede le preghiere dei destinatari (15,25-32). Questa richiesta presuppone la reciprocità della relazione fra Paolo e gli stessi destinatari. A un augurio di pace (15,33) fa seguito una raccomandazione per Febe, una diaconessa di Corinto, che verosimilmente deve portare la lettera (16,1s.). Segue un lungo elenco di saluti che documentano e rinnovano una relazione personale dell'apostolo con singoli membri della comunità romana (16,3-16). Persone di origine giudaica (Prisca e Aquila, vv. 3s.; i c:ruyycvdç, 'connazionali', vv. 7.11) e pagana si trovano le une accanto alle altre, mostrando in concreto la effettiva realizzazione della richiesta della lettera. Alla fine (v. 16b) Paolo allarga l'ambito di coloro che salutano, abbracciando «tutte le comunità di Cristo» per sottolineare l'importanza dell'appartenenza reciproca. Dopo un ammonimento polemico (inatteso a questo punto) nei confronti di coloro che con una prassi di fede deviante creano irrequietezza, Paolo conclude - è tipico delle lettere- con un augurio di grazia (16,17-20). In un poscritto si trovano altre dichiarazioni di saluto da parte di collaboratori e aiutanti dell'apostolo (16,21-23). Questa conclusione che appare affrettata provoca la successiva aggiunta di due differenti frasi conclusive appartenenti a manoscritti diversi. L'augurio che la grazia sia con i destinatari con !"amen conclusivo' (16,24), come pure la dossologia finale (16,25-27), in base alla critica testuale e letteraria vengono considerate secondarie (+ 2.2).

1.2

IL CORPO DELLA LETTERA

Non tutti gli snodi dell'argomentazione nel corpo della lettera possono essere individuati con la stessa chiarezza. Necessitano di particolare discussione la frase di 1,16s. e il passo di 5,1-21, mentre sufficientemente chiara è la definizione dei capp. 9-11 e di 12,1-15,13. La maggior parte degli interpreti ambientano l'espressione tematica di 1,16s. in apertura della lettera (fanno eccezione per esempio U. SCHNELLE, Einleitung; H.-]. KLAUCK,

348

D. Le lettere - Lettere paoline

Briejliteratur, 229 [ed. it., 268]; D. STARNITZKE). Essa riprende il termine 'vangelo' da l, 15 e deriva quindi il tema della lettera dall'intenzione di Paolo ivi esposta. Ma al tempo stesso al v. 17 fa seguito antiteticamente il v. 18: il v. 18 riprende il verbo àrcoxaÀ\nrtEtUI, 'diventa evidente', dal v. 17, applicandolo alla collera di Dio; in contrasto con la giustizia, cioè la salvezza dei vv. 16s., troviamo al v. 18l'ingiustizia e la collera di Dio. Dunque l, 16s. conduce direttamente al primo tema della lettera. Ricorrono inoltre qui dei lemmi che diventano determinanti per i campi semantici dell'intera lettera: salvezza/vita, giustizia di Dio, fede, giudei/greci. In corrispondenza con I, 16s. sta la conclusione del corpo della lettera in 15,7-13, dove sia il duplice destinatario (giudei e greci) sia il tema della fede e della Mvalltç, 'forza', di Dio o dello Spirito vengono ancora una volta ripresi nella lode. Le due sezioni incorniciano così il corpo della lettera.

Rm l, 16s. formula i temi per la lettera nel suo insieme: il vangelo rappresenta una forza salvifìca di Dio, la rivelazione. della giustizia di Dio nei confronti di tutti coloro che credono, siano essi giudei o pagam. Il corpo della lettera sviluppa questo tema in molteplici passaggi argomentativi. E lo fa seguendo una disposizione rigorosa che può essere articolata in cinque grandi blocchi tematici. Il primo blocco tematico termina in 4,25 o in 5,21? La proposizione contenuta in 4,23-25 presenta un carattere di sintesi e indica così in 4,25 una certa conclusione (è questa l'opinione della maggior parte degli interpreti; pongono invece la cesura dopo 5,21 U. WILCKENS, EKK VI/l; ].D.G. DUNN, Word Biblica! Commentary 38A, 242244; M. THEOBALD, SKK 6/1; Io., Romerbrief, 48-53; K. HAACKER). La frase ricapitolariva di 5,1- - riprende lo stato della discussione raggiunto nella sezione centrale 3,21-31 e la prolunga in ordine alla prassi di vita che ne risulta. Il confronto tra Adamo e Cristo in 5,12-21 acquista rilievo anche in 7,7-13, ribadendo la funzione del peccato e della Torah. I concetti teologici centrali di 5,1-11 (speranza, vita, amore, Spirito, morte) ridiventano importanti nel cap. 7 e specialmente nel cap. 8, rendendo in tal modo evidente la co-appartenenza dei capp. 5-8 nel procedere argomentativo.

a) Come primo tema Paolo contrappone al peccato del mondo la giustizia di Dio (1,18-4,25). Egli afferma: non soltanto i pagani (1,1832), cosa più che ovvia nella prospettiva giudaica, ma gli stessi giudei (2,1-29) vivono in stato di colpa e di peccato perché non conducono una vita conforme alla volontà di Dio. Fedeltà e giustizia di Dio permangono incrollabili (3,1-8), ma «giudei e greci sono tutti sotto il [dominio del] peccato» (3,9), affermazione che Paolo rafforza con citazioni scritturistiche (3, l 0-18). La funzione della legge, della Torah, in questo processo non consiste nella mediazione della giustificazione, ma nella

!Il La Lettera ai Romani

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denuncia dei peccatori e nella coscienza del peccato (3, 19s.). In uno dei passi centrale della lettera Paolo contrappone a questo stato negativo la nuova giustizia di Dio, che si rivela escatologicamente nella morte e risurrezione di Gesù e agli uomini dona la giustificazione, la liberazione dal potere del peccato; ne deriva insieme anche una nuova visione prospettica dell'identità giudaica, che include una nuova valorizzazione e applicazione della legge (3 ,21-31). Che la fede costituisca l'accesso a questa giustizia di Dio è quanto Paolo dimostra in 4,1-25 sulla base della stessa Torah: la sua interpretazione dell'elezione di Abramo da parte di Dio ( Gen 15) collega la giustificazione divina alla fede di Abramo nel potere vivificatore di Dio; la circoncisione vi si aggiunge solo come contrassegno secondario. b) Il secondo tema applica queste prospettive alla vita del cristiano, trattando la vita nel tempo finale e il significato della Torah (5,1-8,39). Il brano 5,1-11 dimostra la qualità escatologica della vita cristiana proprio nelle difficoltà e nelle fatiche del presente. In virtù dell'amore di Dio, manifestatosi in misura insuperabile nella morte di Gesù, c;oloro che appartengono Cristo vivono in un nuovo rapporto con Dio: nella pace, riconciliati, nella speranza di una vita presso Dio. Nei confronti con il 'prima' si è dunque verificato un mutamento decisivo, come ", Paolo mostra contrapponendo le figure emblematiche di Adamo e di Cristo (5,12-21): in Cristo è vinto definitivamente il potere del peccato e della morte, che si è sventuratamente collegato alla legge. L'esperienza di questa nuova realtà inizia con il battesimo, che inserisce come membri nella sfera della signoria di Cristo, il che significa libertà dal potere del peccato apportatore di morte; ne consegue una nuova prassi di vita conforme a quella giustizia di Dio di cui s'è fatta esperienza (6,1-23). Irrompe a questo punto (6, 14) l'osservazione difficile: la signoria del o~ • ~~~;; peccato sui cristiani è spezzata, poiché questi non sono sotto la legge bensì sotto la grazia; legge e grazia sono dunque contrapposte? Come può il giudeo Paolo affermare questo? La domanda incalzante sul ruolo della legge in questo mutamento di vita e di signoria viene affrontata in 7,1-25. Ricorrendo all'esempio della morte di un coniuge, Paolo chiarisce ancora una volta che nella prospettiva cristiana si è verificato un cambiamento della realtà, ed è quindi necessaria una nuova comprensione della legge (7, 1-6); la dicotomia terminologica 'novità dello Spirito' /'vecchio regime della lettera' (v. 6) sintetizza modi diversi di intendere la legge ed è espressione di una nuova ermeneutica della legge da parte di Paolo. In 7,7-13 l'apo-

a

i.

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D. Le lettere - Lettere paoline

stola fa parlare l" io' di Adamo con la 'sua' esperienza: il potere del peccato strumentalizza la legge per la realizzazione dei suoi scopi mortiferi; la legge in sé rimane quindi illimitatamente buona, ma il peccato ne abusa. Nell"io' di un giudeo fedele alla legge Paolo espone di nuovo quest'esperienza (7,14-25): il peccato si impadronisce anche dell'agire umano e scava un solco esistenziale tra volontà buona e agire cattivo (vv. 14-20). Paolo dipinge qui a tinte fosche la 'tipica' interpretazione giudaica della legge, poiché essa è contrassegnata dalla signoria del peccato contro il bene della volontà: un dilemma in apparenza senza via d'uscita (vv. 21-25). La soluzione consiste nella mutata percezione di tutto ciò alla luce dell'evento-Cristo. Rm 8,1-4 riprende 3,21-26 e fissa la liberazione da parte di Dio che capovolge la realtà; in tal modo viene fondata una nuova comprensione della legge (v. 2). Coloro che sono stati liberati da Cristo hanno «nello Spirito» una nuova vita che mai tramonta, che si distingue qualitativamente dalla vecchia vita «nella carne» (8,1-11): essi sono figli di Dio (8,12-17). Rm 8,18-30 esprime la speranza affidabile dei cristiani in un compimento futuro che li aiuta a vivere nella libertà anche nelle difficoltà e nelle contingenze del presente, e al tempo stesso a guardare con occhio critico alle presunte benedizioni dell'impero romano. Tutto ciò sfocia in un inno di lode all'amore salvifico di Dio «in Cristo Gesù, nostro Signore» (8,31-39), inno che può essere letto come sintesi di tutto quanto è stato esposto finora. c) Il terzo tema (capp. 9-11) è rappresentato dal problema, che a questo punto si impone necessariamente, della posizione occupata in questa compagine della liberazione escatologica da quella maggioranza di Israele che non ha accolto Cristo; più esattamente: è il problema se Dio abbia ritirato la propria giustizia ed elezione nei confronti di Israele; in questo modo viene proseguita organicamente quella discussione con la tradizione giudaica che Paolo conduce fin da Rm 3, l. La profonda, addolorata tristezza nei confronti di Israele espressa dai primi versetti del cap. 9 dà voce a un forte contrasto affettivo con la lode travolgente di 8,31-39. Paolo tematizza il suo coinvolgimento personale (9,1-5), la libertà dell'elezione divina (9,6-29), la decisione di Israele contro la giustizia che viene dalla fede in Cristo (9,30-10,21); e pone poi la domanda centrale se Dio abbia respinto il suo popolo (11,1). La risposta riflette su un resto di Israele, sull'intenzione divina di suscitare la gelosia di Israele mediante l'inclusione dei pagani e giunge infine alla paradossale

III. La Lettera ai Romani

351

affermazione che alla fìne tutto Israele verrà salvato (11, 1-32). Tutto ciò può essere compreso soltanto come mistero della fedeltà di Dio all'alleanza (vv. 25-27). La conclusione di questa parte della lettera è ancora una volta un inno di lode a Dio (11,33-36). d) Con la forma verbale 1taQaxaÀ&, 'esorto, consiglio', inizia la quar- -ta parte: Paolo trae le conseguenze di quanto ha scritto per la vita concreta delle comunità nel mondo (12,1-13,14). Egli disegna anzitutto lo specifico della vita comunitaria come differenziazione dall'ambiente romano (12,1-21) e tratta poi in maniera critica e insieme realistica la vita delle comunità sotto il dominio dell'impero romano (13,1-7), per mettere infìne in rilievo il criterio dell'amore e il carattere escatologico dell'esistenza cristiana (13,8-14). Paolo fìssa così l'identità cristiana in un mondo estraneo. e) Con il quinto tema (14,1-15,6) Paolo rivolge un'attenzione speciale a una problematica formazione di gruppi all'interno delle comunità romane. Egli vuole muovere un gruppo, apostrofato come 'forte' nella sua sicurezza teologica, ad avere riguardo verso un altro gruppo di 'deboli' scrupolo~i, fortemente attaccati alla tradizione giudaica, per conservare in tal modo l'unità delle c-omunità. La conclusione di questo tema è costituita da una esortazione sintetica in 15,7-13, che può essere intesa come conclusione d'insieme di tutto il corpo della lettera, e soprattutto al v. 13 riassume alcuni concetti centrali dell'intera missiva (M. MDLLER 220-239).

352

1.3

D. Le lettere- Lettere paoline

SCHEMA PANORAMICO

Uno schema sintetizza l'analisi strutturale della Lettera ai Romani:

Esordio: 1,1-15

Conclusione: 15,14-16,23

III. La Lettera ai Romani

2.

Origine

2.1

TRADIZIONI

353

L'argomentazione della Lettera ai Romani è dovuta alla riflessione teologico-pratica di Paolo, maturata attraverso la sua esperienza di predicazione; è dunque una 'prestazione' dell'apostolo. La propria riflessione sul significato di Gesù Cristo Paolo non la intende però come innovazione intellettuale, sapendo ancorarsi qui in maniera fondamentale alla tradizione del cristianesimo delle origini. Questo ancoraggio dimostra la base di fede che chi scrive ha in comune con le comunità romane, e compare formalmente nella nostra lettera per esempio in quei passi in cui Paolo riprende formule cristologiche già composte (diffusamente: M. THEOBALD, Romerbrief, 89-97). Tali formule non sono sempre chiaramente identificabili, dal momento che Paolo non· utilizza qui alcuna terminologia tradizionale (come fa per esempio in l Cor 15,3); in un caso (Rm l 0,9) adotta il linguaggio della confessione di fede. Per lo più viene considerata come formula giudeo-cristiana quella di l ,3s., che potenzia la figliolanza davidica terrena di Gesù (sullo sfondo della promessa di Natan in 2 Sam7,l2-l4) mediante l'insediamento come Figlio di Dio nella risurrezione. Per raggiungere la punta del climax che Paolo ha posto all'inizio del v. 3 con 7tEQÌ 'tOÙ uìoù aùwù, 'riguardo al Figlio suo', l'idea della preesistenza, e con f.v ÒUVUJ..I.Et, 'nella forza', ha descritto al v. 4 l'effetto della risurrezione come insediamento nella potenza celeste. Testimonianza di una formula preesistente sono: a) la struttura parallela delle due metà della formula (ogni volta tre membri); b) l'interruzione della sequela dei titoli: «del Figlio suo)) (v. 3a)- «Gesù Cristo nostro Signore)) (v. 4); c) il vocabolario non paolina (per esempio, «Spirito di santità))); d) la graduazione cristologica fra il Terreno e il Risorto espressa dalla formula (U. WILCKENS, EKK VI/l, 56-61). Nelle sue affermazioni su Cristo, Paolo combina formule tradizionali sulla risurrezione come risveglio (4,24; 8,11; 10,9) con formule sulla morte (5,6.8; 14,15). Una combinazione (morte, sepoltura, risurrezione) si ritrova nello sfondo della formula battesimale di 6,3s., che richiama alla memoria l Cor 15,3b-5 e disegna l'effetto del battesimo come partecipazione a Cristo. Una tradizione di formule dovrebbe essere alla

354

D. Le lettere - Lettere paoline

base anche di 8,34 (morte di Cristo, risurrezione, insediamento alla destra di Dio, intercessione per i suoi). Dietro i singoli elementi di 4,25 - sacrificio di Cristo a causa dei nostri peccati, risurrezione per la nostra giustificazione- c'è indubbiamente la tradizione di fede, che potrebbe contenere una applicazione a Cristo di aspetti centrali del quarto carme del Servo di YHWH (cfr. fs 53,lls.). Anche il modo in cui è formulato il sacrificio di Cristo, il Figlio, come consegna da parte di Dio, in 8,32 è tradizionale. L'idea dell'invio-missione in 8,3 è debitrice di una struttura di pensiero sapienziale (cfr. Sap 9,10), il che presuppone una 'preesistenza celeste' dell'Inviato. Un'ampia maggioranza di interpreti considera anche 3,25s., nella sua struttura di fondo, come tradizione (cfr. per esempio E. LOHSE, KEK 4, 129 e 131-133; M. THEOBALD, SKK 6/1, 99-103; diversamente, per esempio: K. HAACKER, ThHK 6, 89). Paolo riprenderebbe così una concezione tradizionale di morte espiatrice, l'iÀacrTi]QtoV, 'propiziatorio', viene identificato con la tavola che copriva l'arca dell'alleanza nel (primo) tempio di Gerusalemme, che svolgeva un ruolo decisivo nel rituale del giorno dell'espiazione in Israele, secondo Lv 16. A questo dato viene collegata un'interpretazione tipologica: il tempio come luogo dell'espiazione viene superato (e sostituito) dall'azione definitiva di Dio nella morte di Gesù. Spesso l'origine della formula viene fatta risalire alla critica del tempio da parte degli 'ellenisti' attorno a Stefano (At6,13s.). Contro quest'ipotesi bisognerebbe riflettere sul fatto che il vocabolario di questo passo è prevalentemente paolino e che l'estraneità in Paolo della figura cultuale-concreta dell'idea di morte espiatrice cade come argomento se la si fa derivare dall'antica prassi del dono di consacrazione c~ 3.2).

Le formule riprese da Paolo portano in buona parte l'impronta della applicazione giudeo-cristiana delle Scritture. Fondano a più riprese l'argomentazione di Paolo e, in tal modo, tengono sveglia la base della fede comune con i destinatari, così da diventare elementi di unità. La frequentazione paolina di queste tradizioni è contrassegnata da un'elevata misura di creatività, così che la sua applicazione rappresenta un vivo processo interpretativo e non una rigida 'trasmissione'; decisivo è lo sviluppo dei contenuti in riferimento alla situazione linguistica concreta, perché solo in questo modo il vangelo può conquistare l'essere umano. Nelle loro concezioni di fondo, molte proposizioni derivano da una tradizione dottrinale paolina già sviluppata, come mostra il confronto con formulazioni parallele: in parte segnalano questa situazione attraverso inserimenti metacomunicativi, come (Rm 3, 19; 8,28) o > (W. SCHRAGE, EKK VII/l, 105). Dal momento che l'aggiunta interpretata in questo modo si inserisce bene nell'insieme della lettera, possiamo rinunciare a ipotizzare un'interpolazione.

Più difficile è il caso di l Cor 14,33b-36 (ovvero 14,34s.- quanto si estenda una possibile interpolazione viene giudicato in maniera differenziata; per la discussione sul passo in esame, cfr. spec. H. MERKLEIN -M. GIELEN 213-218; w. SCHRAGE, EKK VII/3, 481-487; c. WOLFF 341-345). L'indicazione secondo cui le donne nelle assemblee comunitarie devono tacere viene introdotta nel v. 33b con il richiamo alla prassi di tutte le altre comunità; il che è conforme alla linea 'cattolicizzante' di cui stavamo appunto parlando. D'altra parte, però, questa indicazione contraddice quanto i lettori e le lettrici hanno recepito poco prima da 11,5: lì Paolo sottolinea con forza che delle donne che parlano profeticamente devono farlo coprendosi il capo o adottando una determinata acconciatura di capelli (i particolari sono oggetto di discussione); qui è del tutto chiaro il fotto che vi sono donne che parlano o pregano in forma profetica. Questa tensione viene rafforzata dal seguente elemento: in 14,33b-36 (o 34s.) si osserva uno spostamento tematico rispetto al contesto che precede e che segue: se si prova a togliere quei versetti, si ottiene un testo scorrevole. Meritano di essere menzionati altri quattro argomenti che possono deporre a favore di un'interpolazione: a) la tradizione di critica testuale dei vv. 34s. non è uniforme (alcune testimonianze testuali pongono questi due versetti dopo il v. 40, il che potrebbe indicare che quelle parole costituivano inizialmente un'osservazione a margine, inserita in diversi passi); b) la formula di citazione «come dice anche la legge» (v. 34) non si trova altrove in Paolo; c) il divieto di parlare per le donne si trova in maniera simile anche in l Tm 2, lls., il che suggerisce un collegamento a livello di storia della tradizione (non incondizionatamente una dipendenza letteraria); d) un inserimento in seconda istanza

IV La Prima lettera ai Corinzi

389

in questo passo potrebbe essere spiegato in maniera pertinente come collegamento lessicale (i lemmi 'tacere' e 'stare sottomessi' si trovano anche al v. 30 e al v. 32, rispettivamente). C'è però qualcosa che porta a escludere l'ipotesi di un'interpolazione. L'argomento principale è che i versetti in questione non mancano in alcun manoscritto (anche la collocazione diversa riguarda soltanto i vv. 34s., non i vv. 33b e 36, che secondo alcuni interpreti costituiscono un'unità con quelli). Ancora: è difficile spiegare in che modo si possa praticamente immaginare l'inserimento in questo passo. Un'osservazione marginale alla quale potrebbero risalire questi versetti sarebbe quella di aspettarseli piuttosto al cap. 11, dove si è parlato per la prima volta di profezia e dove - a differenza del cap. 14 - si menzionano donne che parlano profeticamente. Si tenta perciò spesso di accettare il testo tramandato e di spiegare come squilibrio soltanto apparente la tensione con 11,5. Vi sono diversi tentativi di collegare tra loro i due passi: in 11,5 si parlerebbe di una situazione non cultuale ma domestica, alla quale certo non si riferisce 14,34s.; in 11,5 si parlerebbe di donne sole, in 14,34s. invece di donne sposate; in 11,5 si tratterebbe del discorso effettivamente profetico, mentre 14,34s. proibirebbe soltanto delle intromissioni arbitrarie e di disturbo. Si deve quindi pensare a situazioni, persone o attività differenti. Chi si lascia convincere da queste o analoghe spiegazioni non vede naturalmente necessità alcuna di cambiare qualcosa nel testo. Prendere una decisione è difficile, anche perché ambedue le opzioni potrebbero essere influenzate da interessi degli/delle interpreti. Chi suppone un'interpolazione dovrebbe chiedersi se nel far questo non sia spinto dall'istanza di difendere Paolo dal rimprovero di ostilità verso le donne. Chi invece argomenta contro l'interpolazione dovrebbe chiedersi se non tende ad armonizzare, per poter conservare il testo tramandato. Vale qui a maggior ragione quanto è stato detto sopra a proposito di mutevoli plausibilità.

Attualmente la maggioranza esegetica, a proposito del problema se l Cor 14,33b-36 sia al posto giusto o non sia invece un'interpolazione successiva, propende per questa seconda soluzione; ma il problema è complicato e dovrà essere ulteriormente dibattuto.

390

2.3

D. Le lettere- Lettere paoline

EPOCA E LUOGO DELLA REDAZIONE

Il soggiorno fondativo di Paolo a Corinto durò circa diciotto mesi (A t 18, 11). Lo si può datare con una certa sicurezza in base alla de n uneia davanti a Gallione (At 18,12-16). Dall'epigrafe ritrovata a Delfi risulta che Gallione aveva iniziato il suo incarico di governatore in Acaia verosimilmente l'l luglio del 51. Se la denuncia, come suggerisce il racconto di Atti, è stata inoltrata nella prima fase del suo incarico, Paolo ha lasciato Corinto nell'estate o nell'autunno del 51 (cfr. At 18, 18; .. 11.2). In At 18,18-23 vengono indicati diversi viaggi- Efeso, Cesarea, Gerusalemme, Antiochia, Galazia, Frigia-, prima che Paolo giunga al suo lungo soggiorno a Efeso, durante il quale è nata anche la Prima lettera ai Corinzi. Non possiamo precisare il tempo trascorso fra il congedo da Corinto e l'arrivo a Efeso, ma è quasi impossibile che Paolo vi sia giunto ancora nell'anno 51; dobbiamo mettere in conto una data indeterminata nel corso dell'anno 52. Da Efeso l'apostolo ha scritto anzitutto la lettera precedente, ricordata in l Cor 5,9, la quale secondo le riflessioni sopra esposte è andata verosimilmente perduta. Dalla Prima lettera ai Corinzi possiamo soltanto desumere che in quella missiva Paolo mettesse in guardia contro i 1tOQVOt, 'lussuriosi'. La comunità denunciava su questo punto alcuni problemi, formulati in una lettera apposita (l Cor 7, l). La Prima lettera ai Corinzi è la risposta di Paolo alla lettera che sottoponeva il problema e a notizie giunte a voce(-+ 1.2.1). Anch'essa viene redatta a Efeso (l Cor 16,8), chiaramente verso la fine del soggiorno sul posto: lo garantisce l'annuncio di voler restare a Efeso fino a pentecoste, annuncio che ha senso soltanto se questa data non si riferisce a un futuro lontano. In questa stessa direzione si muove la menzione dei successi missionari (l Cor 16,9.19), ma anche delle situazioni di persecuzione a Efeso (l Cor 15,32; 16,9; [2 Cor l ,8s.]). Stando agli Atti degli apostoli (At 19,8-10.22; 20,1.31), il soggiorno di Paolo a Efeso durò da due a tre anni, anche se le singole informazioni non hanno chiari riferimenti reciproci. Ne risulta comunque, per la Prima lettera ai Corinzi, la prima parte dell'anno 54 o 55 come data verosimile di composizione.

IV La Prima lettera ai Corinzi

3.

391

Trattazione

L'analisi della struttura svolta al punto l. ha messo in evidenza che, nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo tratta molti problemi che gli sono stati presentati o comunicati per iscritto o a voce. I fatti più importanti su cui l'apostolo prende posizione sono i seguenti: a) La comunità è divisa in diversi gruppi, in conflitto fra loro (l,lls.). b) Sono accaduti episodi diversi: incesti tollerati dalla comunità (5, 113); conflitti di carattere giuridico portati davanti a tribunali pagani (6,1-11); frequentazione di prostitute (6,12-20). c) Vi sono tendenze ascetiche, che si esprimono come pretesa di continenza sessuale (7, l). d) È in discussione la giusta presa di distanza dal culto pagano (8, 111, 1), dove una parte argomenta rivendicando il proprio possesso di 'conoscenza' (8, 1). e) Nella liturgia si riscontrano un'insolita comparsa di donne (11,216), divisioni ndla celebrazione della cena del Signore (11,17-34), nonché una particolare esaltazione di alcuni carismi spirituali, soprattutto il parlare in lingue (12, 1-14,40). f) 'Alcuni' nella comunità non attendono la risurrezione dei morti (15,12). Spesso è difficile determinare dove fosse esattamente il problema, dal momento che Paolo poteva ovviamente presupporre da parte dei cristiani di Corinto una consapevolezza della situazione che a noi manca, e alcuni dei problemi appena nominati forse per loro non erano tali. Ancora più difficile è sistemare questi fenomeni all'interno di un quadro complessivo più ampio. Si tratta forse di aspetti diversi di uno stesso problema di fondo, oppure i problemi singoli sono indipendenti l'uno dall'altro? Li si può spiegare meglio dal punto di vista della storia delle religioni, quindi mediante fattori religiosi e teologici, oppure dal punto di vista della storia sociale, quindi mediante fattori sociali? Prima di affrontare queste domande nelle pagine che seguono, bisogna tenere presente che nell'esegesi odierna esiste ampio accordo almeno su di un punto: non c'è una spiegazione monocausale. Non bisogna quindi dimenticare che la situazione comunitaria a Corinto è segnata da una pluralità di influssi che possono essere situati a livelli diversi, e che perciò i singoli fenomeni erano forse collegati l'uno con l'altro senza con questo essere riconducibili a un problema di fondo dominante. Con

392

D. Le lettere - Lettere paoline

ciò non è escluso che i numerosi e diversi gruppi e tendenze che appaiono sulla scena debbano essere in parte collegati a vicenda, così che lo spettro potrebbe ridursi alquanto; ma su questo punto è necessario essere cauti. Per esempio, non è facile sapere con certezza se si debbano attribuire ai diversi partiti di l, Il s. determinati comportamenti o idee che si riscontrano in altri passi della lettera. Cominceremo dando uno sguardo all'ambiente culturale della città di Corinto in cui viveva la comunità dei destinatari, per interrogarci poi sulle analogie storico-religiose con le posizioni riconoscibili nella Prima lettera ai Corinzi, e analizzare infine le condizioni sociali che influenzavano la vita della comunità di Corinto.

3.1

LA CITTÀ DI CORINTO

Un fattore importante per lo sviluppo di Corinto (a questo proposito, cfr. W. ELLIGER 201-209) è sempre stato la sua collocazione sull'istmo, cioè sullo stretto di circa 6 km di larghezza tra il golfo di Corinto e quello del Saronico. Da questa posizione Corinto controllava il commercio che transitava sulla strada tra nord (per esempio Macedonia) e sud (Peloponneso). Cosa ancor più importante: anche la via marittima tra l'Adriatico e l'Egeo, e dunque tra l'Italia e l'Asia minore, veniva in parte controllata da Corinto con i suoi due porti, Lecheo e Cenere. Ben presto si fece il possibile per evitare la pericolosa e troppo lunga circumnavigazione della punta meridionale del Peloponneso: il carico scaricato dalle navi veniva trasportato via terra tra i due porti appena nominati. Già dalla fine del VI secolo a.C. veniva utilizzata persino una specie di strada navale sulla quale, mediante dei cilindri posti sotto le navi, le imbarcazioni venivano trainate attraverso l'istmo. Il traforo iniziato sotto Nerone nel 67 d.C., in cui furono impiegati tra l'altro seimila giudei fatti prigionieri nella guerra giudaica, fallì; sarebbe stato realizzato soltanto alla fine dell'Ottocento. A causa di questa situazione favorevole Corinto fu colonizzata prestissimo e, dall'VIII fino al II secolo a.C. fu una delle città più importanti della Grecia- peraltro soltanto sul piano economico, non su quello politico. La catastrofe giunse quando, nel II secolo a.C., partecipò alla resistenza contro l'espansione romana: nel 146 venne totalmente distrutta dai romani, che in tal modo misero fine a una potenza commerciale concorrente. Tra gli abitanti di Corinto che non fuggirono, gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini

IV. La Prima lettera ai Corinzi

393

venduti come schiavi. Per più di cent'anni la città restò ampiamente disabitata. Soltanto nel44 a.C. venne rifondata da Giulio Cesare come colonia romana. Fu una nuova città quella che venne colonizzata anzitutto da coloni italiani (cittadini romani, liberti, poveri, alcuni veterani di Cesare), ma presto anche da greci e stranieri (a causa della crescente forza di attrazione del centro economico).

La nuova fondazione ebbe come conseguenza che, fino al III secolo d.C., furono i discendenti dei cittadini romani a costituire gli strati superiori e che la lingua ufficiale divenne il latino, la lingua quotidiana il greco. Dal27 a.C. Corinto fu la sede del governatore dell'Acaia. Fino alla visita di Paolo era ridiventata una città importante. Pare che nel frattempo vi sia stata presente anche una quota di popolazione giudaica (cfr. At 18,4-17; FILONE, Leg Gai 281). La famosa epigrafe [I:YNA]rnrH EBP[AIQN], 'sinagoga degli ebrei', proviene in ogni caso da un'epoca posteriore al NT. Il fatto che Paolo con la sua predicazione abbia avuto un grande successo a Corinto può aver avuto a che fare con la storia caratteristica della città. L' apert~ra nei confronti del nuovo era qui molto più marcata che, per esempio, ad Atene (dove l'attività di Paolo attestata in l Ts 3, l evidentemente non aveva portato alla fondazione di una comunità). Gli abitanti, trasferiti da un tempo relativamente breve, non avevano un'identità comune, plurisecolare, e dimostravano già una certa mobilità per il fatto di aver traslocato in questo centro economico. Sia giusta o meno questa supposizione, sta di fatto che la realtà urbana riscontrata da Paolo era caratterizzata da un alto numero di gruppi e correnti religiose. Non soltanto vi erano onorate le antiche divinità greco-romane, ma vi erano anche fortemente rappresentati culti misterici (Cibele, Iside e Serapide, Demetra e Core) e il culto dell'imperatore. «Quest'ambiente tollerante, multireligioso, fu da una parte favorevole alla diffusione del cristianesimo, ma dall'altra comportò il pericolo di un livellamento pluralistico. Soprattutto i cristiani che provenivano dal paganesimo dovettero anzitutto fare i conti con l'istanza di esclusività del cristianesimo e la sua incompatibilità con determinati comportamenti abituali» (H. MERKLEIN, OTBK 7/1, 28s.). Dato questo retroterra, non sorprende che a Corinto diventasse un problema la presa di distanza sia da pratiche cultuali pagane (carne sacrificata agli idoli), sia dalla configurazione sociale di gruppi religiosi in cui spesso si presentavano culti misterici.

394

3.2

D. Le lettere- Lettere paoline

ANALOGIE DALLA STORIA DELLE RELIGIONI

Esistono tre tentativi diffusi di spiegare la situazione della comunità di Corinto al tempo della Prima lettera ai Corinzi in base alla storia delle religioni (solo di rado viene sostenuta l'idea che gli avversari oggetto della polemica della Seconda lettera ai Corinzi siano già riconoscibili anche nella Prima lettera: vedi D.R. HALL 3; M.D. GOULDER). a) In talune pubblicazioni meno recenti (W. LOTGERT; W. SCHMITHALS, Gnosis; L. SCHOTTROFF) la gnosi veniva caratterizzata come lo sfondo sul quale trovavano la loro spiegazione migliore molti fenomeni propri di Corinto. Anche se nei particolari vengono citate diverse analogie, a essere posti in collegamento con la gnosi sono soprattutto l'accentuazione della yv&mc;, 'conoscenza', da parte di molti membri della comunità (8,1), il dualismo tra nvEÙf.la, 'spirito', e 'lfUXTJ, 'anima' (2,14s.) e un mito dell'uomo primitivo presupposto come sfondo della tipologia Adamo/Cristo (15,21-22.45-49). Questa spiegazione è stata abbandonata: da un lato, perché oggi è considerato problematico che al tempo di Paolo si parlasse già in generale di gnosi, dall'altro, perché sono state più chiaramente riconosciute le differenze con la gnosi successiva (così, per la comunità non si tratta di rifiuto del mondo creato, ma di una sua qualche irrilevanza). b) Una possibilità di interpretazione ancor oggi diffusissima è invece la connessione di alcuni dei fenomeni nominati qui sopra con la sapienza protogiudaica: «La dottrina sapienziale religiosa esoterica (spec. 2,6-16), il dualismo di nvEÙf.la e 'lfUXTJ, il disprezzo del a&f.ta [corpo], il modo di intendere i carismi (capp. 12-14), l'alto apprezzamento per la yv&mc; (8, 1-6; 13,2) e la rappresentazione di due uomini originari (15,45): tutto ciò segnala l'influsso della teologia sapienziale alessandrino-giudaica, quale la conosciamo da Sapientia Salomonis, da Aristobulo e soprattutto da Filone» (G. SELLIN, Hauptprobleme, 3021). Possiamo lasciare aperta la domanda sul modo in cui queste concezioni sono giunte a Corinto. È possibile una mediazione da parte di Apollo, presente a Corinto (l Cor 3,5-9; 4,6; 16, 12; At 18,24), oppure una derivazione dalla sinagoga di Corinto, a cui molti cristiani erano appartenuti in precedenza. c) Di recente viene intrapresa una terza via: almeno il fascino sapienziale che ha portato alla nascita di divisioni viene qui derivato da due ambiti strettamente connessi l'uno all'altro, ovvero la filosofia greco-ro-

IV La Prima lettera ai Corinzi

395

mana (così H.D. BETZ; H. LIETZMANN- W. G. KDMMEL, 9; S. MASON 48; T. SCHMELLER 103-126) ovverosia la retorica (così G.O. KrRNER 38s. e 48s.; D. LITFIN 170-173, 188-190 e 206; S.M. POGOLOFF 109111 e 140s.; B.W. WINTER, Paul and Philo, 13-14 e 232-244). La problematica che sottende i capp. 1-4 è nata da «intellettuali» (così H.D. BETZ 586-588) che, come tutti gli intellettuali greci, aspiravano alla sapienza, erano quindi interessati al piano filosofico e retorico, e si collegavano in più gruppi concorrenti. L'analogia più vicina ai partiti riferentisi a personalità - in l, 18 - è la relazione discepolo-maestro nell'ambiente greco-romano, che in parte si definiva attraverso una polemica massiccia contro altre scuole (di filosofia o di retorica). Nella comunità di Corinto «SÌ impose la concezione che il cristianesimo assomigliasse alla filosofia, in quanto si presentava in configurazioni diverse di 'sapienza', cioè di un'arte della vita fondata religiosamente con una certa istanza intellettuale; di questa sapienza ci si poteva e doveva nutrire con il proprio sforzo, coadiuvati da diversi maestri» (T. SCHMELLER 122). Paolo si oppose a quest'interpretazione secondo una duplice prospettiva: da un lato rifiutava la concorrenzialità e il conflitto che quel fenomeno portava con sé, dato che secondo Paolo in tutti i cristiani va trovata la vera sapienza divina. Dall'altro lato egli non nutriva grande fiducia nelle possibilità umane: la vera sapienza non può in ultima analisi essere insegnata e imparata, ma soltanto ricevuta da Dio; perciò non ha importanza neppure la sua formulazione fatta ad arte, attraverso mezzi retorici. Malgrado queste due riserve si possono cogliere già, in molti tratti dell'argomentazione paolina, spunti di un coordinamento positivo tra messaggio cristiano e filosofia, quale si è espresso più tardi chiaramente in Giustino, per il quale il cristianesimo era l' «unica filosofia garantita (àmpaÀfj) e adeguata (cr6f.HPOQOV)» (Dial8,1).

3.3

CONDIZIONI SOCIALI

Come punto di partenza può servire la domanda sulla composizione e la stratificazione sociale della comunità. Su questo argomento esiste- con qualche restrizione- un 'nuovo consenso'. La novità consiste nel differenziarsi dalla prospettiva che era abituale all'inizio degli anni Venti, secondo cui i cristiani paolini - come pure tutti gli altri cristiani delle origini - appartenevano agli

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D. Le lettere - Lettere paoline

strati sociali più bassi (per esempio: A. DEISSMANN). Sorto negli anni Settanta e affermatosi negli anni Ottanta del secolo scorso, il 'nuovo consenso' includeva quanto segue: le comunità paoline- e quella di cui sappiamo di più è la comunità di Corinto - costituivano, dal punto di vista sociale, una sezione trasversale della popolazione cittadina. In forza di una tale stratifìcazione sociale ad ampio raggio, esse si distinguono da gruppi non cristiani (tipo associazioni) comparabili; mancavano però i ceti sociali agli estremi: i ceti più alti e quelli più bassi. I cristiani provenivano in grande maggioranza, come pure avviene per la popolazione cittadina nel suo insieme, dagli strati inferiori (ma non dagli ultimi): erano quindi schiavi (urbani), liberti, braccianti e lavoratori a giornata ecc. C'erano comunque anche appartenenti al ceto medio e a quello superiore (non ai ceti più alti in assoluto), quindi singoli membri e persone 'al seguito' del ceto alto sub-decurionale (su questo punto, cfr. E.W. STEGEMANN- W. STEGEMANN 71-74 e 261), e questi erano i membri più attivi della comunità, quelli che le davano il tono. Stando al 'nuovo consenso', il movimento cristiano nelle società ellenistiche si è diffuso dall'alto in basso, non viceversa. Nel frattempo questo 'nuovo consenso' non è più_ nuovo; anzi non è più un consenso, se mai lo fosse stato. Vi sono posizioni contrarie che, trattando diversamente i dati disponibili, giungono alla conclusione che Paolo stesso, come pure le sue comunità, fossero sempre appartenuti alla schiacciante maggioranza della popolazione povera, la cui vita sarebbe stata caratterizzata dal lavoro duro e dalla lotta per un minimo di beni di sussistenza. Nelle comunità non ci sarebbero mai stati membri provenienti dai ceti medi, benestanti Q.J. MEGGITT 96, 153, 179s.; così pure S.J. FRIESEN). A mio avviso, queste posizioni sono così poco fondate che non possono giustificare un ritorno alla prospettiva di Deissmann e non avranno influenza (cfr. la critica in G. THEISSEN, Structure, ID., Conflicts; D.G. HORRELL 358s.). Mostrano certo come anche la valutazione storico-sociale dei testi non conduca a risultati pienamente garantiti e universalmente accettati. Ma non cambiano nulla a proposito del fatto che noi possiamo assumere come verosimile una stratifìcazione sociale relativamente ampia delle comunità paoline. Non deve stupire che tale stratifìcazione portasse con sé dei problemi. Nella Prima lettera ai Corinzi vi sono soprattutto due inconvenienti corretti da Paolo, che da molti autori e autrici vengono collegati alle condizioni sociali: la celebrazione della cena del Signore e il consumo di carne offerta agli idoli. Peraltro, accanto a J.] . Meggitt, vi so n pure

IV. La Prima lettera ai Corinzi

397

altre voci che mostrano un atteggiamento scettico nei confronti di tali tentativi di spiegazione 'sociologica' (per esempio: D.R. HALL 77; A. LINDEMANN, Ekklesiologie, 69-74). 3.3.1

Le divisioni in occasione della cena del Signore (11, 17-34)

La ricostruzione della situazione a Corinto è straordinariamente problematica. Una cosa chiara è che la celebrazione del pasto del Signore praticata nella comunità viene biasimata da Paolo perché divisioni e fazioni mettevano a rischio la dimensione comunitaria; si discute tuttavia sul modo in cui tali divisioni si presentassero in concreto e su quale fosse la loro base. Nei tentativi di spiegazione si possono individuare tre orientamenti, che si differenziano soprattutto sull'interpretazione di 1tQOÀaJ..LpavEt al v. 21 («prende prima» oppure «prende per sé», dunque con o senza l'aspetto temporale; di conseguenza àÀÀijÀouç; txoéxccrSE al v. 33 viene interpretato come «aspettatevi gli uni gli altri» o come «accoglietevi gli uni gli altri») e nella determinazione del rapporto tra azione sul pane e sul calice da un lato o pasto normale dall'altro (l'azione sul pane e sul calice avviene alla fine del pasto o ne rappresenta la cornice?). a) Il primo tentativo di ricostruzione decide a favore dell'aspetto temporale e per la collocazione finale dell'azione sul pane e di quella sul calice (allora già combinate l'una con l'altra: così G. BORNKAMM; H.-J. KLAUCK, Herrenmahl, 292-297; Io., Gottesdienst, 47-49). Il pasto normale veniva iniziato dai cristiani benestanti, che potevano disporre più liberamente del loro tempo, prima che arrivassero quelli più poveri, per esempio gli schiavi; anzitutto si mangiavano in una cerchia socialmente omogenea le provviste di cibo che ognuno aveva portato con sé. Soltanto nell'azione sul pane e sul calice, per la quale venivano usati unicamente pane e vino, si riunivano tutti quanti. A questo punto valeva effettivamente: «Uno ha fame, l'altro è ubriaco» (v. 21). Poiché questa parte rappresentava il vertice del pasto, nel seguire tale prassi i più ricchi non dimostravano un cattiva coscienza. b) Alquanto diversa appare la ricostruzione se si prende alla lettera il v. 25, dove si parla di un pasto tra l'azione sul pane e quella sul vino, e si postula la stessa successione anche per la celebrazione a Corinto. Coloro che seguono questo secondo orientamento (cfr. G. THEISSEN, Integration; P. LAMPE) ritengono impossibile che Paolo, tramandando la parddosis della cena del Signore, non presupponga o non sottolinei

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che la comunità debba attenersi alla successione ivi contenuta. Anche in quest'interpretazione coloro che si trovano in una condizione sociale migliore iniziano con un pasto, da loro stessi preparato, prima che arrivino gli altri. Dopo che si sono riuniti tutti quanti, ha inizio l'azione sul pane e sul calice, che fa da cornice a un pasto 'normale'. Ma per questa celebrazione non vengono distribuite alla comunità tutte le vivande portate in dono, bensì soltanto pane e vino, perché nei detti del Signore soltanto di questi si parla (così G. THEISSEN, Integration). In alternativa (così P. LAMPE), l'azione sul pane e sul vino può essere equiparata agli altri 'dessert' (secundae mensae, nell'uso greco-latino dell'Antichità), dove ovviamente non veniva offerto ciò che era stato consumato nel precedente pasto principale (cena, primae mensae). Nell'un caso come nell'altro i poveri restano affamati. c) Una terza possibilità consiste nel non presupporre alcuni pasti consumati in successione temporale, ma un unico pasto comune cui fa da cornice l'azione sul pane e sul calice (così M. KLINGHARDT). L'inconveniente criticato da Paolo consiste allora nel fatto che ognuno consuma delle vivande portate con sé, ben differenti in quantità e qualità; in questo caso i più poveri non solo restano affamati, ma vengono . umiliati dai ricchi (v. 22). Naturalmente, a seconda delle diverse ricostruzioni risulta anche una differente interpretazione delle istruzioni paoline. Paolo si trova di fronte a queste alternative: o che tutti inizino comunitariamente con il pasto normale, o che tale pasto venga consumato a casa (privatamente), o che tutte le vivande portate con sé vengano messe a disposizione di tutti. Non è facile decidere tra queste alternative. In ogni caso esse hanno un elemento comune: presuppongono un influsso di fattori sociali sulla cena del Signore praticata a Corinto e un intervento di correzione di questa prassi da parte di Paolo. Di fatto è ben difficile negare un influsso del genere. Senza entrare nei particolari, non si possono ignorare due indicazioni del v. 22 (con G. THEISSEN, Conjlicts, 378s., contro J.J. MEGGITT 119-121): «!lit yàQ obdaç oùx EXETE, non avete case» non deve essere riferito al possesso di ville in campagna, ma è rivolto prima di tutto ai proprietari di una casa (l'alternativa alle 'ville' è sostenuta da D.G. HORRELL), perché 'a casa' dovrebbe essere Èv o'lxcp, come al v. 34; e, nello stesso versetto, «Toùç llTt t:xov1:aç ... , coloro che non hanno [nulla] ... » non va integrato come oggetto soltanto con 'pane e vino', avendo la formula un tenore così generale che ai proprietari di case vengono lì contrapposti chiaramente i 'nullatenenti'.

IV La Prima lettera ai Corinzi

3.3.2

399

Il rapporto con la carne offerta agli idoli (capp. 8-10)

In l Cor 8, l con «I1EQÌ ÙÈ TÒlV EiùmÀo3unov ... , Per quanto riguarda la carne offerta agli idoli ... » Paolo affronta un problema che era stato presumibilmente sollevato nella lettera contenente le domande dei fedeli di Corinto: i cristiani possono mangiare della carne che proviene dalle macellazioni compiute ritualmente? Un gruppo della comunità, i 'forti', non vi vede alcun problema, perché ha conosciuto la nullità degli idoli. A causa dell'esempio che riceve, un altro gruppo, i 'deboli', viene indotto nella tentazione di mangiare anch'esso carne offerta agli idoli, sebbene questo non sia compatibile con la coscienza di quelle persone e corrano dunque il rischio di andare in rovina a causa della conoscenza dei 'forti' (8, 11). Paolo discerne fra tre distinte situazioni in cui il problema può presentarsi: a) carne acquistata al mercato (l 0,25s.), di cui non si sa in precedenza se provenga da macellazioni rituali o meno (su questo punto, cfr. D.-A. KocH, Al/es, 213-215); b) inviti da parte di ospiti pagani (l 0,27 s.), nel qual caso vale la stessa soluzione; c) pasti sacrificali nel tempio (8, l O; l O, 14-22). Paolo rifiuta questa terza opzione, mentre lascia aperte le prime due, nella misura in cui la provenienza da macellazioni rituali non è diventata pubblica attraverso una informazione corrispettiva. Chi sono i forti e i deboli? Una equiparazione con giudeo-cristiani e pagano-cristiani non è possibile, né nell'uno né nell'altro senso. La connotazione di 'forti' la si può assegnare ad ambedue i gruppi. Per quanto riguarda l'identificazione dei 'deboli', si potrebbe al più cavare qualcosa da 8,7: essi hanno praticato gli idoli, e questa pratica lascia il segno nella loro esistenza cristiana. Anche questo vale in ogni caso sia per i giudeocristiani sia per i cristiani provenienti dal paganesimo: presso i primi opera ancora l'antico tabù, presso gli altri il rapporto- prima positivo - con il culto pagano. G. Theissen (Starken) ha proposto un'identificazione in base a criteri sociologici. Delle sue osservazioni sui comportamenti specifici dei diversi strati sociali sono per noi rilevanti soprattutto le seguenti: a) I ricchi mangiavano in sostanza più carne dei poveri. I poveri si nutrivano di farinacei e potevano godere della carne soltanto in riunioni cultuali (pasti sacrificali, feste religiose, associazioni religiose). Perciò nella loro realtà pratica la carne era strettamente collegata con il culto idolatrico, mentre nel caso dei ricchi la relazione non era così chiara.

400

D. Le lettere - Lettere paoline

Al tempo stesso, per i cristiani benestanti si poneva più spesso il problema del rapporto con carne offerta agli idoli. b) Anche per questa ragione i cristiani di un rango socialmente elevato avevano un interesse maggiore a una soluzione (positiva), dal momento che erano meglio integrati nella società non cristiana e venivano spesso invitati a dei banchetti in cui era possibile che, nel menù, venisse presentata della carne offerta agli idoli. Un rifiuto da parte loro sarebbe stato più grave e avrebbe avuto conseguenze più negative che non per i cristiani degli strati sociali inferiori. c) Il riferimento dei forti alla propria conoscenza, tale da permettere loro un accesso libero alla carne offerta agli idoli (lo si può desumere da 8, 1.4; l 0,23), trova dei paralleli posteriori presso gli gnostici, paralleli che possono essere spiegati così: «Da una parte come dall'altra avviene una trasformazione tipica della fede cristiana quando approda ai ceti superiori» (G. THEISSEN, Starken, 284). Presso ambedue i gruppi dobbiamo presupporre una certa formazione che, in relazione con ampi indicatori, ci permette di concludere per uno stato sociale elevato. G. Theissen porta un argomento ulteriore in una recente pubblicazione ( Conflicts, 384): quando in l Cor 10,25 Paolo parla di acquisto di carne al1.UlXEÀÀov, bisogna intendere il 'mercato delle carni' che veniva frequentato soltanto da acquirenti del ceto elevato (cfr., a questo proposito, anche D.-A. KocH, Alles, 210; V. GACKLE 199). I cristiani di Corinto che andavano lì a fare acquisti dovevano dunque appartenere a quei pochi membri della comunità che erano benestanti. In base a queste e ad altre osservazioni, G. Theissen argomenta a favore dell'identificazione dei forti con i cristiani appartenenti alle classi sociali più elevate, e di quella dei deboli con i cristiani appartenenti ai ceti sociali più bassi. E poiché i cristiani di rango più elevato erano quelli che davano il tono predominante alla comunità, il loro punto di vista si è certamente diffuso tra la maggioranza semplice. Purtuttavia, c'erano evidentemente anche alcuni che non si lasciavano convincere. Contro quest'interpretazione sono state avanzate tre obiezioni soprattutto: a) il consumo della carne non era limitato agli strati superiori; esistevano delle semplici 'tavole calde' (popinae) in cui anche i poveri potevano acquistare pasti caldi, poiché i loro alloggi spesso non disponevano neppure di una cucina; in quelle taverne veniva acquistata anche carne Q.J. MEGGIIT 109-112; V. GACKLE 199). b) Quando in l 0,28 viene descritta l'eventualità che, in occasione di un invito privato, «qualcuno vi dica: "Questa è carne di animali immolati in sacrifi-

IV. La Prima lettera ai Corinzi

401

cio"», può trattarsi soltanto dell'intervento di uno dei cristiani deboli; allora è evidente che forti e deboli si incontrano agli stessi banchetti, il che smentisce una distinzione basata sul livello sociale O.]. MEGGITT 112s.). c) L'argomentazione in base alla propria 'conoscenza' non va spiegata con il riferimento a gnostici posteriori e non ha nulla a che fare con il ceto sociale elevato O.J. MEGGITT 113-116; D.R. HALL 63; cfr. V. GACKLE 198; A.T. CHEUNG 314). La terza obiezione mi sembra la più giustificata. Sebbene già G. Theissen sia stato estremamente cauto nel fare riferimenti alla gnosi, su questo problema si è oggi- circa trent'anni dopo -ancor più circospetti. Che il riferimento alla 'conoscenza' abbia davvero a che fare con la formazione più elevata, risulta dalla Prima lettera ai Corinzi soltanto in quanto vi appare un rimando alla gnosi. Le altre due obiezioni sono invece meno convincenti (cfr. le giustificate repliche: G. THEISSEN, Conflicts). La possibilità di acquistare carne nelle popinae si dava certamente; ma vi si faceva ricorso soltanto in casi eccezionali (per esempio per celebrazioni familiari, che avevano anche un aspetto religioso), non nella vita di tutti i giorni, e si riferiva soltanto a carne di minor qualità. Ben difficilmente l'indicazione di l 0,28 riferita alla provenienza religiosa della carne servita in tavola può riguardare un membro cristiano (del gruppo dei deboli), anch'esso invitato: da dove poteva venire a sapere questo cristiano della provenienza di quella carne? È assai più verosimile che tale informazione venisse da chi ospitava o da un parente, quindi un pagano (così anche H. MERKLEIN, OTBK 7/2, 277s.; diversamente [ma con grande cautela] W. SCHRAGE, EKK VII/2,469s.). A favore di questa tesi parla anche il termine pagano qui adottato, tEQ6Smov, 'carne [di animali] sacrificati', che, diversamente dal protocristiano EÌOc:oÀ6Su'tOv, 'carne sacrificata agli idoli', di 8,1, non contiene alcuna connotazione negativa. Vi sono motivi del tutto diversi che possiamo presupporre per il fatto che si dia un'indicazione di questo genere, che non ha neppure una volta incondizionatamente a che fare con l'appartenenza dell'ospite ai cristiani, e quindi con la scelta tra riservatezza o curiosità. Si deve forse mettere in evidenza semplicemente la qualità della carne: infatti per i rituali venivano usati solo animali da macello di prima classe. Non soltanto per la cena del Signore, ma anche per la controversia sulla carne sacrificata agli idoli è dunque verosimile un influsso di valori sociali. Con ciò non vanno esclusi motivi religiosi.

402

D. Le lettere- Lettere paoline

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2.

Origine

Per chiarire le circostanza dell'origine dello scritto bisogna premettere una immagine approssimativa della sua preistoria. Chi sono i destinatari della lettera e dove abitano? In quali circostanze Paolo aveva loro predicato? Che cosa volevano i missionari stranieri che si trovavano tra di loro e da dove venivano? Nel dibattito più recente sull'argomento svolgono un ruolo importante gli Atti degli apostoli, sebbene soltanto in due passi della loro narrazione su Paolo essi parlino espressamente di «regione della Galazia»: in At 16,6 e 18,23 (altrove nel NT 'Galazia' compare soltanto in 2 Tm 4,10 e l Pt 1,1).

436

2.1

D. Le lettere- Lettere paoline

« ... ALLE

COMUNITÀ DELLA GALAZIA» (1,2)

Paolo indirizza la sua lettera a 'comunità (domestiche)' situate in diversi luoghi: nell'indirizzo infatti non nomina alcuna città determinata, ma una zona più estesa, o una regione. Certamente questi piccoli gruppi cristiani (non si può ancora parlare di chiese 'locali'!) sono collegati a vicenda e sono pure alle prese con gli stessi problemi, perché diversamente Paolo non scriverebbe a tutti loro assieme. Dove vanno localizzati? 2.1.1

La Galazia e i Galati

Le difficoltà nel rispondere a questa domanda iniziano già dal fatto che il nome Galatia al tempo di Paolo poteva designare diverse zone (cfr. H.D. BETZ, Hermeneia, 34-37 [bibl.]; C. BREITENBACH 149152). Inizialmente venne usato per indicare la Gallia. Che poi nel periodo ellenistico venisse trasferito sulla regione al centro dell'Asia minore, attorno alle città di Pessinunte, Ancira e T avio (nell'attuale Anatolia centrale; • carta geografica 2, p. 750) dipende dal fatto che tre tribù celtico-galliche, situate fra il Danubio e l'Adriatico, in circostanze belliche concomitanti, nel278/277 a.C. si erano trasferite in quest'area. Pausania osserva: «Soltanto più tardi venne usato da loro il nome di 'Galati'. Prima si chiamavano tra di loro, e venivano chiamati da altri, Celti>> (Periegesi della Grecia I 4, 1). In conseguenza di questo, le due designazioni di Celti e di Galati divennero sinonime. Questi Galati servirono dei potenti locali come soldati e abbastanza spesso si segnalarono per aver saccheggiato delle città. Questa situazione cambiò soltanto quando, nel 189 a.C., i Romani giunsero in quel territorio e i Galati vennero annientati in due battaglie. Da allora questi ultimi si schierarono dalla loro parte, li appoggiarono nelle loro conquiste in Asia minore e, nella riorganizzazione del paese da parte di Pompeo, vennero premiati per la loro lealtà con un regno vassallo, che dominava anche altri territori al di là della regione della Galazia.

Dopo la morte del re galata Aminta, nel 25 a.C., Augusto creò da questo insieme molto eterogeneo la provincia romana di Galazia che, oltre alla regione Galazia (dell'Anatolia centrale), abbracciava anche la Paflagonia, la Frigia, la Pisidia, la Licaonia, la Isauria e parte della Panfilia. Essa si estendeva dunque sull'odierna Turchia centrale, dal Mediterraneo fin quasi al Mar Nero a Nord.

VI. La Lettera ai Galati

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L'inserimento dei Galati nella sfera di dominazione romana ebbe come conseguenza l'ellenizzazione delle loro poche città (cfr. K. STROBEL 129), così che anche qui si diffuse la lingua greca, mentre quella celtica continuò a dominare sul paese fino al IV secolo (H.D. BETZ, Hermeneia, 35, nota 8). Se i destinatari di Paolo furono Galati in senso etnico, allora le loro 'comunità' vanno cercate in città, il che non ha però niente di singolare, dal momento che Paolo esercitava già una missione del tutto cittadina. Ma il suo scritto si rivolgeva a cristiani nella regione Galazia in generale o non piuttosto a cristiani nella parte meridionale della provincia Galazia, forse a Perge (Panfilia), ad Antiochia (Pisidia), !conio, Listra e Derbe (Licaonia), là dove - stando alla testimonianza degli Atti - Paolo fondò insieme con Barnaba molte comunità nel cosiddetto primo viaggio missionario (At 13s.; cfr. anche 2 Tm 3,11)?

2.1.2

L 'importanza dell'alternativa tra le due ipotesi

A lungo gli studiosi hanno seguito in maggioranza !"ipotesi-regione' (H. OEPKE, H. SCHLIER, F. MUSSNER, H.D. BETZ ecc.; ancor oggi J. BECKER, F. VOUGA, U. SCHNELLE ecc.), ma nel frattempo si è dissolta la fiducia con cui questo accadeva, poiché un numero crescente di autori propende con argomenti di tutto rispetto per !"ipotesi-provincia' (C. BREYTENBACH, ].D.G. DUNN, C.J. HEMER, R.N. LONGENECKER, S. MITCHELL, M. ÙHLER, R. RIESNER ecc.). Prima di pendere in considerazione i pro e i contro delle due ipotesi, dovrebbe essere chiaro quale importanza possa rivestire la decisione nell'una o nell'altra direzione.

Chi sostiene l'ipotesi che propende per il sud della Galazia ovvero della 'provincia' ritrova in At 13s.la storia di fondazione delle comunità gala te - con l'effetto collaterale (desiderato) che assumere l'affidabilità storica degli Atti degli apostoli viene rafforzato proprio da quel primo viaggio missionario che studiosi critici come H. Conzelmann e E. Haenchen avevano liquidato come costruzione lucana di un «viaggio modello» missionario. Chi allora vede in Gal4, 13 l'allusione a tre visite dell'apostolo ai Galati come retro terra della sua lettera rivendicherà la seconda visita (dopo il soggiorno di fondazione) di At 16, 1-5/6; questo apre la possibilità di una pre-datazione della Lettera ai Galati: la si colloca cioè all'inizio della missione paolina in Europa (Filippi, Tessalonica; così, fra gli altri, T. ZAHN e R. RlESNER 259, con nota 60 [bibl.]; in più anche P. STUHLMACHER 226s.). In tal caso la Lettera ai Galati sarebbe se possibile la più antica lettera di Paolo conservataci (contro questa soluzione depone però Gal2, l O)! Diversamente si presenta la situazione nell'ipotesi che propende per il nord della Galazia, ovvero per la 'regione' galata. I rappresentanti di questa ipotesi collocano la visita di fondazione in At 16,6, all'inizio del

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D. Le lettere - Lettere paoline

cosiddetto secondo viaggio missionario, e la seconda visita in At 18,23, all'inizio del terzo viaggio missionario- con la conseguenza che allora la Lettera ai Galati verrebbe spostata nella fase tardiva dell'attività paolina, nella parte orientale dell'impero, e quindi temporalmente vicina alla Lettera ai Filippesi e a quella ai Romani. Gal4, 13 potrebbe peraltro riferirsi anche soltanto alla visita di fondazione di Paolo in Galazia, così da non dover inserire incondizionatamente una seconda visita nella cronologia paolina. Quest'ipotesi aprirebbe la possibilità che Paolo durante il suo soggiorno triennale a Efeso abbia fondato da qui le comunità in Galazia (ipotesi sostenuta ora da U. ScHNELLE 115s.). D.A. Koch (Barnabas, 105) considera . Resta comunque non chiarito in questa supposizione in che modo si possa allora collocare il soggiorno di Paolo in carcere, attestato dalla Lettera ai Filippesi, nel suo periodo di Efeso (-VII.).

Per la ricostruzione della teologia paolina l'alternativa tra 'ipotesiregione' e 'ipotesi-provincia' riveste grande importanza. Il fatto di decidersi per una datazione anticipata della Lettera ·ai Galati vorrebbe dire che Paolo aveva dato forma alla sua 'dottrina della giustificazione' molto precocemente, il che renderebbe in pratica impossibile un'interpretazione della sua teologia in chiave di sviluppo storico. Le cose sarebbero diverse nel caso di una datazione posteriore: allora nulla sarebbe d'intralcio all'opinione secondo cui Paolo, condizionato dai problemi postigli, sia giunto all'elaborazione del messaggio della giustificazione soltanto nel corso del tempo. Anche Paolo avrebbe conosciuto una evoluzione: la sua teologia non gli sarebbe caduta dal cielo già al momento della vocazione sulla via di Damasco. Sul piano metodologico ambedue le ipotesi sono legate al problema di come coordinare obiettivamente le fonti costituite degli Atti e della Lettera ai Galati. Dovrebbe valere come principio che le testimonianze paoline hanno la precedenza. Prima di affiancare loro la ricostruzione storica lucana, dovrebbero essere chiarite criticamente le testimonianze di questa in base al loro valore di fonte. Dati questi presupposti, come si presenta nei dettagli la situazione argomentativa?

VI. La Lettera ai Galati

2.1.3

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Pro e contro delle due ipotesi

Argomenti a favore dell'ipotesi-provincia. - a) Dal punto di vista di una strategia missionaria Paolo pensa nel quadro dell'organizzazione maggiore delle province romane: egli le vuole percorrere per diffondere il vangelo in tutto il mondo (Rm 15,19). Basti pensare al fatto che egli utilizza per lo più designazioni riguardanti province (cfr. l Ts 1,7s.; 4,10; Fil4,15; l Cor 16,5.15; 2 Cor 1,1.8.16 e passim; Rm 15,19.26; 16,5). Dal momento che egli «soltanto in Oriente, dove i Romani consideravano persino la Siria Flavia come la loro provincia più orientale, utilizzava per la Giudea e per l'Arabia nomi regionali senza ulteriore qualifica, è più verosimile che in Gal1 ,2 e l Cor 16, l abbia inteso come 'Galazia' le comunità della provincia e non quelle della regione galata» (C. BREYTENBACH 15ls.). b) Nella regione di Galazia non è stata finora documentata la presenza di abitanti giudei, a differenza della parte sud della provincia (cfr. C. BREYTENBACH 144-146, 167s.). Paolo tuttavia avrebbe iniziato abitualmente la propria missione nelle sinagoghe, e la stessa Lettera ai Galati presuppone, con la sua abbondante argomentazione scritturistica, la presenza spirituale della vita giudaica nelle immediate vicinanze. R. Riesner pensa inoltre che gli avversari giudaizzanti di Paolo provenienti dalla Palestina abbiano creato certamente nella Galazia del sud una organizzazione (basata sulla Torah), prima di essere attratti al nord. C. Breytenbach dubita soprattutto che una missione giudaica (e giudeo-cristiana) avesse come scopo di conquistare dei proseliti (egli diffida di Mt 23,25); ragion per cui deve postulare delle sinagoghe sul posto, dalle quali sarebbe partita la giudaizzazione delle comunità giudeo-cristiane di Paolo. Queste premesse lo portano necessariamente a sposare l'ipotesi-provincia (At 13s.).

c) Secondo At 20,4 tra gli accompagnatori itineranti di Paolo (si tratta verosimilmente di delegati delle comunità per la consegna della colletta a Gerusalemme) vi sarebbero stati dei cristiani provenienti dal sud della provincia di Galazia, cioè Gaio da Derbe e Timoteo da Listra; nessuno invece dal nord della provincia. Poiché Paolo, stando all'indicazione di l Cor 16,ls., si sarebbe fermato anche in Galazia per la colletta, questo dato parlerebbe a favore dell'ipotesi-provincia. Argomenti contro l'ipotesi-provincia o a favore dell'ipotesi-regione. Chi si pronuncia contro un'identificazione delle 'comunità della Galazia' con quelle di At 13s. prende normalmente posizione a favore del-

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D. Le lettere - Lettere paoline

l'ipotesi-regione. Questo di per sé non sembra necessario, dal momento che la provincia di Galazia abbracciava anche altre regioni oltre a quella galata meridionale di At 13s. e la regione centrale al nord. a) Anche i sostenitori dell'ipotesi-provincia concedono che, a livello dei nomi, in Gal l ,2 e l Cor 16, l «sono possibili ambedue le cose» (C. BREYTENBACH 152): sia il riferimento alla provincia sia quello alla regione. Nel primo caso ci si riferirebbe alla Pisidia e alla Licaonia, ma soltanto se si utilizza subito anche At 13s. Non va dimenticato che nella Lettera ai Galati Paolo utilizza solo designazioni regionali: accanto ad «Arabia>> (l, 17; 4,25) e a (l ,22; vedi sopra), anche . In questo modo egli li caratterizza, secondo il punto di vista corrente, come individui di discendenza celtica (cfr. soltanto H. SCHLIER, Gall6; P. VIELHAUER 104s.; C. BREYTENBACH 149s.). In passato si è interpretato questo fatto - in via normale - a favore dell'ipotesiregione; ma nel frattempo una considerazione più esatta dell'uso di questa parola (per esempio in Pausania e in Strabone) consiglia maggiore prudenza. Ambedue gli autori, infatti, con quella formula designano non soltanto gli abitanti celtici nella regione della Galazia, ma anche i Celti o Galli altrove (cfr. Pausania, Periegesi della Grecia I 3,5; X 3,4; 7, l; 8,3 ecc.: C. BREYTENBACH 149s.). Dunque sulla base di Ga/3, l non si può concludere incondizionatamente a proposito del luogo di residenza. Forse- è l'opinione di Breytenbach - Paolo si rivolge a > di Gerusalemme? Si comprende meglio lo stato d'animo dell'apostolo se si possono mettere in conto eventuali difficoltà nelle relazioni, nonché il fatto che la crisi in Galazia era stata provocata dai circoli gerosolimitani, e gli eventi nonché la reazione di Paolo erano noti a sufficienza nella città santa.

Vi sono dunque buone ragioni a favore dell'ipotesi che le cattive notizie dalla Galazia abbiamo raggiunto Paolo verso la fìne del suo soggiorno a Efeso o durante il suo viaggio attraverso la Macedonia, e che egli abbia allora scritto da qui la sua Lettera ai Galati (55/56 d.C.).

448

3.

D. Le lettere - Lettere paoline

Trattazione

Di quali istanze argomentative si serve Paolo? Quale forma mentis contrassegna la sua lettera? E come traduce sui singoli punti il suo programma: «salvezza mediante Cristo soltanto»?

3.1

LE ISTANZE ARGOMENTATIVE DELLA LETTERA: ESPERIENZE, TRADIZIONE E SCRITTURA

Nella Lettera ai Galati Paolo presenta un approccio biografico, in quanto attribuisce alle esperienze proprie (Gall-2; 4,12-20), così come a quelle dei Galati (3,1-5.26-29; 4,14), la dignità di un argomento teologico. Per quanto riguarda lui personalmente, si tratta soprattutto della sua vocazione (1,15s.), che egli interpreta come vocazione all'apostolato tra i pagani, rifacendosi a categorie bibliche (cfr. Ger 1,5; fs 49,1.5; 6,1-13 ecc.). Le sue esperienze successive nel rapporto con le autorità gerosolimitane (Gal! ,17-2,21) vengono da lui integralmente lette attraverso il segno indicatore di questa prima esperienza di grazia (l, 15), che è diventata per lui in assoluto la ragione sorgiva della sua teologia (fermo restando che qui possiamo prescindere dalla questione se già alla sua vocazione gli fossero chiare tutte le implicazioni teologiche - questione a cui sembra si debba dare piuttosto una risposta negativa). Per quanto riguarda i cristiani di Galazia, in 3,1-5 egli può rifarsi alla 'dimostrazione di forza' dello Spirito (miracoli?) seguita alla loro conversione, a quei portenti che avrebbero offerto loro la prova della verità del suo vangelo 'affrancato dalla legge'. Già il prescritto (1,1.4) mostra quale importanza abbia per Paolo il ricorso a tradizioni già costituite, in cui si è sedimentato in formule il consenso cristologico delle prime comunità (+ 1.). La serie è lunga: formula della risurrezione (1,1), patrimonio di formule a proposito del senso soteriologico della morte di Gesù (1,4; 2,10), schema di missione (4,4s.), sentenze o 'canoni' teologici sul battesimo (3,28), sulla circoncisione (5,6; 6, 15) nonché sulla giustificazione (2, 16); ma pure detti proverbiali (5,9; 6,5.7b.9) e cataloghi di vizi e di virtù (5,20-21.22s.). L'esclamazione «Abbà, Padre» (4,6) dimostra la sua antichità già in base a quel bilinguismo.

VI. La Lettera ai Galati

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Facendo ricorso così ad ampio raggio alle tradizioni, Paolo intende chiarire che la sua comprensione del vangelo, per quanto possa apparire provocatoria a molte orecchie giudeo-cristiane, ha però come spina dorsale la fede in Cristo riconosciuta. Molti di questi punti Paolo li ha appresi ad Antiochia, presso la comunità che per la prima volta si è aperta programmaticamente ai pagani. La terza istanza argomentativa è la Scrittura. Paolo presenta dieci citazioni di rilievo: otto dalla Torah, due dai profeti, la maggior parte in 3,6-16. L'allegoria di 4,22-30 potrebbe derivare dalla tradizione Q. BECKER 71). Gal3,6 (Gen 15,6); Ga/3,8 (Gen 12,3/18,8); Ga/3,10 (Dt27,26); Ga/3,11 (Ab 2,4); Ga/3,12 (Lv 18,5); Ga/3,10 (Dt 21,23); Ga/3,6 ( Gen 13,15 e passim); Ga/4,27 (fs 54,1); Ga/4,30 (Gen 21,10); Ga/5,14 (Lv 19,18). Ga/4,22 offre un concentrato di espressioni tratte da Gen 16s. e 21. Si aggiungano alcune allusioni scritturistiche (cfr. Gal 1,15; 2,6c; 2,16 ecc.).

Innovativa è soprattutto l'esegesi di Gen 15,6 e di Ab 2,4, i due passi scritturistici più importanti per il messaggio paolino sulla giustificazione. Ma è con la sua argomentazione scritturistica al cap. 3 che Paolo complessivamente susciterà stupore.

3.2

AUT-AUTINVECE DI ET-ET. LA FORMA MENT!S DELLA LETTERA

I pagani devono convertirsi al giudaismo per diventare membri a pieno titolo della comunità escatologica (di salvezza) di Gesù Cristo oppure è necessaria alla salvezza soltanto la loro fede in Cristo? I missionari esterni sostenevano «sia una cosa che l'altra» (fede nel messia e obbedienza alla Torah), ma nel momento in cui esigevano dai cristiani di origine pagana l'obbedienza alla Torah, questa assurgeva secondo Paolo al rango di criterio salvifìco concorrenziale rispetto a Cristo. A questa posizione egli non poteva che reagire con un «O Cristo o la legge»: «Se la ~iustifìcazione (arriva) dalla legge, allora Cristo è morto invano» (2,21). E comprensibile che in questo clima di dibattito acceso Paolo smorzi diversi aspetti di un'esistenza «sotto la legge» - egli non utilizza nella Lettera ai Galati il sintagma «legge di Dio», mentre lo fa in Rm 7,22 (cfr. 7,12-14), perché si trattava per lui soltanto della coerenza immanente (egli dice: «della verità») del vangelo. Perciò nella Lettera ai Galati

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D. Le lettere - Lettere paoline

ogni polemica è in ultima analisi espressione della chiara alternativa che egli, in base alle sue premesse cristologiche, non poteva non assumere presso i suoi destinatari: riconoscete che «Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di riscattarci da questo mondo malvagio, secondo la volontà di Dio» (1,4), o invece non vi fidate di questo e volete garantirvi anche attraverso le opere della legge (circoncisione ecc.)?

3.3

LA REALIZZAZIONE DEL PROGRAMMA

Il cardine su cui è imperniata la lettera (tra narratio e argumentatio) è il discorso di Paolo a Pietro, in cui il primo contrappone al secondo l'affermazione di base del messaggio della giustificazione: «L'uomo non viene giustificato per le opere della legge, ma in forza della fede in Gesù Cristo» (2, 16). La verità di questa proposizione viene raggiunta da Paolo attraverso diversi passaggi, alcuni dei quali vengono indicati qui di seguito: a) La contesa con i missionari esterni decolla con il problema di chi possa rivendicare un diritto legittimo alla figliolanza di Abramo. Soltanto coloro che, secondo il loro modello, sono anche circoncisi? N o, dice Paolo: «coloro che sono dalla fede sono (i) figli di Abramo» (3,7); infatti Abramo è stato giustificato da Dio in base alla sua fede (cfr. Gen 15, 6). La discendenza di Abramo è dunque universale, perché è scritto che «in lui sono benedetti tutti i popoli (pagani)» (Gen 12,3 = Gal3,8). b) Questa 'benedizione' (cfr. anche 3,9.14) è il «dono-promessa dello Spirito» (3,14; cfr. 3,2-5.22; 4,6) ricevuto dai credenti in Cristo. «Se voi siete di Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi in forza della promessa» (4,29). Tipico della struttura argomentativa della Lettera ai Galati è il tentativo di restringere a Cristo la promessa di una benedizione universale garantita ad Abramo, mediante l'affermazione che egli sia la sua discendenza autentica (cfr. 3,16). Soltanto chi è «in Cristo GesÙ» (3,26) partecipa anche alla promessa comunicata attraverso di lui. c) Paolo tenta la controprova della verità del testo-base con l'affermazione secondo cui «è manifesto che nessuno viene giustificato davanti a Dio per la legge» (3,11). Ma egli non dà una dimostrazione di ciò che sembra essere 'manifesto' (lo fa nella Lettera ai Romam), limitandosi invece a rifarsi ad Ab 2,4, secondo cui il principio della giustificazione

VI. La Lettera ai Galati

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è la fede. Al contrario di questa, la legge poggerebbe sul principio del fare, e perciò soltanto colui che fa quanto dicono i precetti della Torah «vivrà in forza di essi» (Lv 18,5); chi non li esegue starebbe sotto la 'maledizione' di morte minacciata dalla legge (Dt27,26). Ora, la dinamica dell'argomentazione nell'insieme del cap. 3 muove verso l'affermazione che tutti stanno sotto questa maledizione (cfr. 3,22), che nessuno adempie la legge, e questa è pure incapace di «rendere vivi» (3,21). Per Paolo questo non è un incidente della storia, ma è voluto da Dio per indirizzare tutti senza eccezione all'atto redentivo di Cristo. Paolo inserisce dunque la legge nel 'disegno divino di salvezza', ma come fattore che collabora con Cristo secondo un percorso negativo. Elemento decisivo per costruire l'argomentazione è la convinzione che Cristo ha portato la maledizione della legge nella sua morte vicaria «per noi» e a nostro favore (3, 13). È questa la ragione per cui ai pagani viene partecipata la benedizione di Abramo mediante la fede in Cristo Gesù.

Summa summarum: Paolo lotta appassionatamente per il riconoscimento a pieno titolo di uno status ecclesiologico ai cristiani di origine pagana da lui convertiti. E lo fa - in chiave di teologia della Scrittura, sulla base della tradizione e richiamando all'esperienza dello Spirito da parte dei suoi destinatari- indicando che l'unica via necessaria alla salvezza è la fede in Cristo Gesù.

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VI. La Lettera ai Galati

453

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VII.

La Lettera ai Filippesi (Michael Theobald)

Paolo si rivolge ai cristiani di Filippi, la prima comunità da lui fondata sul continente europeo, comunità a cui lo legava un rapporto particolarmente amichevole: soltanto da questa comunità egli arrivò ad accettare del danaro. Malgrado ciò, Paolo non ha peli sulla lingua quando si tratta della causa del vangelo.

l. Struttura

Il prescritto (1, 1s.), in cui come secondo mittente accanto a Paolo compare anche Timoteo (a suo riguardo cfr. 2,19-23), è semplicissimo; l'unico elemento che colpisce è la denominazione di «vescovi e diaconi» come co-destinatari. Nell'annessa formula di azione di grazie epistolare (1,3-11), che conclude con un climax escatologico (1,6.10s.; cfr. anche l Ts 1,10 ecc.; F. SCHNIDER- W. STENGER 46), Paolo è interamente concentrato sui destinatari, che vengono ringraziati per la loro attiva collaborazione nell'annuncio evangelico. N ella auto-raccomandazione epistolare (Fil 1,12-30; cfr. F. SCHNIDER- W. STENGER 50-68) la prospettiva cambia: ora Paolo parla di se stesso e della propria situazione personale in carcere, dove egli però pone tutto l'accento sulla sorte del vangelo. È quanto mostra già il 'principio conduttore' al v. 12, che egli antepone a tutta la sezione: «Desidero rendervi noto, fratelli, come le vicende che mi riguardano ('rà xa•' Èf.lÉ) si siano volte piuttosto al progresso del vangelo».

VII. La Lettera ai Filippesi

455

Ciò che comunica in aggiunta a questo, Paolo lo articola in due parti: anzitutto parla di come sia al presente tanto la sua situazione quanto quella del vangelo (1,12-18a), poi rivolge lo sguardo dal presente al futuro (1,18b-26). La cerniera tra le due parti è costituita dal v. 18: «Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o in verità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro. E continuerò anche a rallegrarmene>>.

In Fil1,27-30 Paolo cambia di nuovo prospettiva. Se in 1,12-26 egli guarda a tà xat' ÈJ..lÉ (v. 12), ora invece gli interessano tà 1tEQÌ DJ..lcDV, dunque le vicende che riguardano i Filippesi (cfr. anche 2, 19). Come ha considerato tutto ciò che lo ha colpito e ancora lo colpirà nella prospettiva del vangelo (v. 12), così al v. 27 egli implora i suoi destinatari di tenere lo stesso atteggiamento: «Vivete dunque come comunità degna del vangelo di Cristo, affinché - sia che io venga e vi veda, sia che io rimanendo lontano abbia notizie di ciò che vi riguarda (tà 1tEQÌ DJ..lcDV) - (io abbia notizie) che voi siete in un solo spirito e che combattete insieme con un 'anima sola per la fede del vangelo ... ». Anche quando in l ,30 Paolo ritorna sulla propria 'battaglia' di l, 12-26 (perciò F. SCHNIDER- W. STENGER 55 inserivano anche i vv. 27-30 all'interno dell'auto-raccoma~dazione epistolare), l'esortazione di 1,27s. (in connessione con l, 12) annuncia qual è l'argomento del corpo della lettera: l'esortazione a uno stile di vita conforme al vangelo! Il corpo stesso della lettera è complesso. Un primo blocco (A) con l"inno a Cristo' come motivazione fondamentale al centro, offre istruzioni positive per la formazione della vita comunitaria. Esse surrogano per così dire la 'presenza' dell'apostolo a Filippi (cfr. 2, 12). Ma subito dopo questo (B) Paolo viene a parlare dei programmi di viaggio dei suoi collaboratori, e dei suoi collaboratori - così egli pensa - nessuno potrebbe rappresentarlo meglio di Timoteo. Nondimeno, Paolo nutre la speranza di «andare presto da loro di persona» (2,24). Nel frattempo essi hanno la sua lettera, che Epafrodito (2,25) porterà loro. Dopo un passaggio sconnesso (3,ls.) il tono cambia. Ora Paolo mette in guardia i suoi destinatari dai «falsi maestri» e cerca di immunizzarli da costoro con uno sguardo alla propria biografia (D= 3,lb-21). Ma il temporale scompare fulmineamente. Paolo richiama ancora i destinatari alla gioia e si limita ad aggiungere una parenesi di chiusura (4, 1-9). Prima però di concludere nel poscritto con gli abituali incarichi e destinazioni di saluti (4,21-23), egli formula ancora un grazie cordiale per i doni con cui i Filippesi lo hanno sostenuto durante la prigionia (F).

456

D. Le lettere- Lettere paoline

Prescritto

Esordio: 1,1-11

Proemio: azione di grazie

Aperttlra; auto·raC(~Mazione

A. Esortazioni «in Cristo»

·.

. Corpo~ 1,12"'4,10

Conclusione: 4,21-23

2.

Jer~

. ·~tcenti'Q, imse · B. Progetti di vìa~to per i collaboratori (Timoteo ed Epafrodito) C. Appello~lla gillta · D. Me5sa mguardia contro 'eretk:r E. Parenesl > (N. W ALTER, Phil87).

c) Vanno notati i seguenti doppioni: (l) Il testo si avvia con un «per il resto, fratelli miei» (3,la/4,8), una formula stereotipa che in alcune lettere paoline introduce la parte parenetica conclusiva (F. SCHNIDER W. STENGER 76): così in l Ts4,1; 2 Cor 13,11 («per il resto, fratelli, rallegratevi!»); Ef6, lO e 2 Ts 3, l. Ebbene, nella Lettera ai Filippesi questa formula la si trova due volte! (2) Della parenesi epistolare conclusiva delle lettere di Paolo fa parte un augurio di benedizione in forma di intercessione che, in conformità allo stile giudaico di orazione, associa la designazione di Dio a un genitivo (ibid., 87s.); la formula «il Dio della pace» si trova, come qui, sette volte (Rm 15,33; 16,20a; 2 Cor 13,11; Fil4,9b; l Ts 5,23s.; 2 Ts 3,16; Eb 13,20). Salta all'occhio il fatto che la Lettera ai Filippesi presenti due volte questo augurio di benedizione: in 4,7 (da pace di Dio ... ») e 4,9 («il Dio della pace ... »); altrove un doppione come questo lo si ritrova soltanto in Rm 15,33 e 16,20a, dove però la polemica contro gli eretici in 16,17-20a dovrebbe essere stata interpolata in un secondo momento (F. SCHNIDER - W. STENGER 82; M. THEOBALD, SKK.NT 6/2 [+III.], 249-253). d) Il grazie di 4,10-20 per l'appoggio finanziario venuto da Filippi, stando al parere di alcuni critici (W. Schenk ecc.) arriva troppo tardi, sotto un duplice punto di vista. Anzitutto, quello letterario. Infatti già in 2,25-30, dove Paolo si esprime con lode a proposito di Epafrodito,

VII. La Lettera ai Filippesi

459

il latore del dono (4,18), il grazie sarebbe stato opportuno; ma non vi leggiamo nulla del genere. Paolo inoltre avrebbe lasciato trascorrere troppo tempo, sconvenientemente, per compiere questo gesto, se si pensa che lo rende noto soltanto dopo molte settimane. Secondo 2,2530, anzi, dopo il suo arrivo presso Paolo, Epafrodito era ammalato a morte, e dovette ristabilirsi prima che questi potesse rinviarlo con la sua lettera a Filippi. Se ne conclude che 4,10-20 debba essere una lettera di ringraziamento originariamente autonoma, scritta da Paolo immediatamente dopo l'arrivo di Epafrodito con la somma donata da Filippi. Sarebbe questo verosimilmente il brano più antico della sua corrispondenza con Filippi. e) Qualcuno pensa di poter attingere alla lettera di Policarpo ai Filippesi (all'incirca 135 d.C.) una testimonianza esterna per l'esistenza di una composizione epistolare (così J. GNJLKA); in 3,2 Policarpo parla di 'lettere' (al plurale) ai Filippesi. Ma di recente J.B. Bauer invita alla cautela, quando definisce l'antica supposizione che Policarpo in 3,1 () possa aver dedotto l'esistenza di più lettere di Paolo a Filippi Q.B. BAUER 46). Del resto in 11,3 Policarpo parla dell'unica determinata lettera al cui inizio «il beato Paolo» ha lodato i Filippesi.

2.1.2

Argomenti a favore dell'unitarietà dello scritto

Nell'insieme le ipotesi di divisione hanno fecondato la ricerca, avendo obbligato a interrogare con maggior decisione la lettera a proposito della sua coerenza formale e semantica e, ispirandosi all'antica epistolografia e retorica, costringendola a cercare nuove vie metodologiche. Come si esprimono nei particolari gli argomenti dei difensori dell'unitarietà dello scritto? a) Per quanto riguarda il repentino cambiamento di tonalità fra 3, la e 3, l b-11, a lungo lo si è voluto spiegare con il fatto che Paolo, dopo 3,la, avesse inserito una pausa di dettatura, e in seguito, stupito da nuove informazioni (giunte da Filippi), fosse stato costretto a introdurre un cambiamento nella sua strategia epistolare. Effettivamente nell'antica letteratura epistolare si può dimostrare la presenza di pause di dettatura. Per esempio, M. Celio Rufo in una lettera indirizzata a Cicerone rimanda a quanto ha e, a proposito delle attività di un concorrente nelle faccende politiche, osserva: > in 1,7.8 si poteva in concreto intendere Corinto (cfr. l'uso linguistico attestato in l Cor 16,15; 2 Cor9,2 e 11,10; Rm 15,26). La composizione avvenne abbastanza all'inizio del soggiorno, dal momento che da l Ts 3,6-1 O risulta che Timoteo era tornato ben presto da T essalonica; e inoltre alla fine della lettera non compaiono saluti (non esisteva ancora alcuna comunità a Corinto). Luca semplifica il corso degli eventi: a Berea il gruppo dei missionari si separa (At 17, 14) e Paolo punta da solo verso Atene (17, 16-34); soltanto a Corinto Sila/Silvano e Timoteo si imbattono nuovamente in Paolo (17,16; 18,5). In tal modo Luca offre un esempio perspicuo di narrazione storica.

3.

Trattazione

Forse già all'epoca della fondazione, in ogni caso poco dopo la partenza dei missionari, la giovane comunità di T essalonica si è trovata in presenza di difficoltà di carattere sociale (l Ts 1,6; 2,14; 3,3-5), provenienti dal suo ambiente urbano, dai suoi 'concittadini'. Agli occhi della cultura ellenistica i cristiani apparivano come un corpo estraneo, e il fenomeno diventava appariscente per il fatto che essi non partecipavano ai suoi atti cultuali: i cristiani non appartenevano né alla popolazione pagana né- in modo più chiaroalla sinagoga. Costituivano una minoranza che, per di più, poteva diventare rapidamente sospetta dal punto di vista politico, non appena Cristo venisse predicato con i tratti di un sovrano (cfr. 4,15-17). Al tempo stesso si possono presumere delle ostilità anche da parte della sinagoga, poiché il gruppo-di-Cristo poteva essere percepito come concorrenziale

486

D. Le lettere - Lettere paoline

e come un latente pericolo politico per i privilegi garantiti ai giudei (cfr. At 17,5): per la sinagoga di Tessalonica, ancora piccola nel I secolo, un pericolo da prendere molto sul serio. Su questo sfondo diventerebbe ben comprensibile- almeno in parte -l'aspra polemica contro i giudei presente in 2,14-16, come reazione da parte di Paolo.

Come conseguenza non è difficile pensare a sospetti, discriminazione, isolamento sociale ed emarginazione. In termini concreti questo poteva significare, per esempio, l'esclusione da quegli importanti rapporti sociali nei quali erano coinvolti sia legami familiari sia relazioni economiche. Poiché le comunità non erano indipendenti sul piano economico: potevano essere colpite sensibilmente dall'isolamento sociale. Le poche indicazioni segnalano un gruppo socialmente molto eterogeneo: in tanti vivevano di 'lavoro manuale' (4, 11s.), il che fa pensare a piccoli artigiani 'autonomi', ma anche a lavoratori salariati e a schiavi; alcuni operavano in campo commerciale (cfr. 4,6); delle donne nobili menzionate in At 17,4 rimangono incerti status e numero (forse una sola vedova benestante?); in 2 Cor 8,2 Paolo ricorda !' delle comunità macedoni.

L'emarginazione sociale ed economica poteva significare una minaccia alla propria identità. Che cosa spingeva propriamente a permanere nel giovane gruppo-di-Cristo? La forza di attrazione dei culti agli dèi protettori della città non poteva che accrescere la problematicità di questa appartenenza.

3.1

AUTOCERTIFICAZIONE DELLA COMUNITÀ

Per rafforzare l'identità della comunità così messa alla prova Paolo lavora con singoli elementi di un sistema teologico di convincimento, che egli ricorda in tal modo come fondamento di vita cristiana. a) La coscienza della propria elezione da parte di Dio deve definire l'idoneità della comunità: Paolo richiama a più riprese (l ,4; 2, 12; 4, 7; 5,9.24) questa elezione. La comunità fa parte dei salvati del tempo escatologico, poiché Dio stesso l'ha scelta. Ne è espressione visibile sia il fatto che ha abbandonato gli idoli della cultura ellenistica sia la sua dedizione al Dio unico di Israele, che la incontra in Gesù Cristo (l ,9s.). b) Portatore e forma di questa convinzione è il vangelo, che ha dimostrato la sua 'potenza' all'apparire dell'équipe di missionari a T essalonica (1,5). La formulazione «il nostro vangelo» (1,5) esprime il legame

VIII. La Prima lettera ai Tessalonicesi

487

inscindibile tra il vangelo di Dio e la predicazione umana: il primo può essere ascoltato soltanto attraverso la parola di un uomo, eppure rimane pur sempre parola di Dio, rimane la sua valida promessa fatta agli esseri umani. È nella relazione con chi l'ha predicato che la comunità ha conosciuto il vangelo, il quale come parola di Dio diventa la base della vita comunitaria (2, 13). c) Vivere secondo il vangelo significa imitare gli annunciatori. I cristiani di T essalonica imitavano il predicatore, e dunque il Signore, in quanto accoglievano la sua parola malgrado le tribolazioni (l ,6; 2, 13s.; 3,3-5). La relazione della comunità con l'annunciatore diventa in tal modo trasparenza del rapporto propriamente fondatore di senso con il Signore (3, 1-13), al servizio del quale si pone l'annunciatore.

3.2

PRASSI DELLA COMUNITÀ

Paolo sintetizza !'.identità della comunità nella triade fede-carità-speranza (l ,3; 5,8); il che significa in concreto: la convinzione si sedimenta nel comportamento e possiede una prospettiva di futuro. La comunità contrassegna il proprio comportamento, il proprio particolare stile di vita, differenziandosi dall'ambiente circostante (4, 1-12). Comportamento pieno di rispetto nel rapporto coniugale e collaborazione nelle relazioni d'affari (4,4-6) rendono possibile la coesione e disegnano il profilo della vita comunitaria. L'amore reciproco - all'interno della comunità e nei confronti delle comunità vicine - è la condizione necessaria per l'esistenza dei gruppetti marginali (4,9s.). L'esortazione a una vita tranquilla, dignitosa, e al lavoro autonomo in ordine al sostentamento (4,11s.) deve garantire che la comunità non rappresenti per il suo ambiente un elemento provocatorio anche per queste ragioni (come già avviene comunque in ragione del suo stile di vita) e che essa conservi il più possibile la propria indipendenza. Essa può confidare che lo Spirito protegga e guidi la sua esistenza (4,8; 5,19).

3.3

CREDIBILITÀ DEI MISSIONARI

Elemento decisivo, accanto a tutto ciò, è la credibilità di Paolo (e del gruppo missionario), perché la convinzione della comunità si fonda

488

D. Le lettere - Lettere paoline

sul suo annuncio del vangelo: egli ha predicato il vangelo malgrado resistenze sociali (2,2), si è comportato con sincerità, senza secondi fini, senza mostrare sete di guadagno o smania di onori (2,3-6.9s.), ha reso visibile il suo affetto personale alla comunità facendola partecipare alla propria vita e, come una 'madre', come un 'padre', ha contribuito alla sua educazione (2,7-S.lls.). Queste assicurazioni diventano dirompenti nell'ambiente culturale della città di Tessalonica: le formulazioni di Paolo lasciano trasparire assonanze con il linguaggio di quei filosofi itineranti popolari che, secondo il modello dei predicatori itineranti cinici (cfr. Diogene), sono comparsi sulle piazze ufficiali e hanno predicato dottrine tese a introdurre a una vita salutare, riuscita; e dal momento che tra questi filosofi itineranti vi erano pure alcuni ciarlatani, essi erano tenuti a giustificarsi nei confronti di una critica diffusa (a proposito di questo fenotipo, cfr. J. HAHN 33-45; A.J. MALHERBE, Popular Philosophers, 103s.). Si trovano esempi evidenti dei temi qui toccati nell'opera del retore Dione Crisostomo (noto anche come Dione di Prusa; t dopo il 112), il quale cerca di difendersi dalla potenziale diffidenza da parte della popolazione e di difendere la propria onestà (spec. Or XII 5.10.15s.; XXXII 9-12; LXXVII/LXXVIII 40-42). Ambiti sensibili sono: a) l'efficacia esterna dei predicatori, la loro capacità retorica, il loro aspetto, il numero dei loro discepoli; all'estremo opposto stanno l' éthos del vero cinico e la sua legittimazione attraverso una designazione divma; b) l'adulazione come caratteristica del discorso, a cui si oppone il libero discorso diretto; c) l'inganno, l'occultamento delle proprie intenzioni attraverso promesse illusorie di felicità e seduzione da una parte e, dall'altra, un discorso duro e oltraggiante; all'estremo opposto, la cura genuina degli uditori; d) l'aspirazione al profitto materiale e alla fama; all'estremo opposto, il lavoro disinteressato. Per non essere giudicato erroneamente in questo ambiente culturale, e non compromettere in tal modo il successo della predicazione nel suo insieme, Paolo 'si' raccomanda alla sua comunità prendendo posizione su questi temi e richiamando alla comunità le esperienze fatte con lui. Forse Paolo temeva anche che potesse ricadere sulla sua persona una opinione sfavorevole, temeva di essere partito troppo in fretta da TessaIonica e di essersi preoccupato troppo poco di quella comunità.

V!Jl. La Prima lettera ai Tessalonicesi

489

Non soltanto quanto esposto in l Ts 2,1-12, ma addirittura il suo sforzo di spingere decisamente in primo piano il livello della relazione possono essere letti come reazione a questa situazione: Paolo sottolinea ripetutamente la sua intenzione di fare una visita, mandata a monte da un potere superiore; egli pone un forte accento sull'invio di Timoteo che viene a colmare questa lacuna, sulla propria inquietudine e il proprio legame emotivo con quanto è accaduto a T essalonica, e sulla sua reazione rasserenata alle buone notizie riportate da Timoteo stesso (2, 17-3, l O). In ogni caso, nella prospettiva di Paolo la relazione con la comunità sopravvive con una intensità immutata.

3.4

PROBLEMI DELL'ATTESA DELLA PARUS!A

Numerosi interrogativi solleva la trattazione paolina del tema 'parusia di Gesù' in 4,13-18. Il testo si serve di un modello rappresentativo apocalittico per tracciare alcune tappe della parusia: ai segni che la annunciano, fa seguito la discesa dal cielo del Signore pieno di potenza, quando 'anzitutto' risuscitano i morti in Cristo; 'poi' coloro che sono ancora vivi vengono, insieme con i defunti, sollevati in aria, per il 'ricevimento' del Signore (4, 16s.). Al fondo di questa rappresentazione, in 4, 14, sta una formula di fede- «Gesù è morto e risorto» - che sostiene il modello di pensiero fondamentale per la speranza cristiana oltre la morte: poiché Gesù è morto ed è risuscitato, coloro che appartengono a lui (coloro che, mediante il battesimo, hanno preso parte alla sua morte) partecipano anche alla sua risurrezione (cfr. 5, IO; l Cor 6, 14; 15,12-22; 2 Cor4,14; Rm 6,3-5.8; 8,11); in tal senso Gesù è «il primogenito di coloro che dormono» (l Cor 15,20). Rimane oscura l'occasione di queste spiegazioni. L'interrogativo è importante, perché l'efficacia di un testo dipende da cosa pensassero ascoltatori e ascoltatrici a proposito della risurrezione dei morti e della parusia, prima di recepirlo. Che l'argomentazione di Paolo abbia un riferimento alla situazione, lo si riconosce dall'indicazione linguistica JtcQi, 'a proposito di', in 4,13. La ricerca offre numerose possibilità di ricostruzione: a) sarebbe stato problematico il destino dei defunti in generale, essendo sorti dubbi sulla loro partecipazione alla salvezza. Il presupposto di tutto ciò è che la predicazione missionaria non aveva messo a tema il

490

D. Le lettere - Lettere paoline

destino dei defunti; tutti sarebbero partiti con la certezza di fare da vivi I' esperienza della parusfa. Di conseguenza il verificarsi di casi di morte di membri della comunità avrebbe generato una grande incertezza (così, per esempio, T. HOLTZ 186s.; G. HAUFE 80-82; C.R. NICHOLL 47s.; secondo M. KONRADT 128-134 era dominante l'antica idea del rapimento sulle nubi dei viventt). Ma è difficile pensare che il problema della morte sia stato a lungo messo tra parentesi: lo sfondo apocalittico di tutto il modello di pensiero riguardante la risurrezione di Gesù e dei cristiani esclude necessariamente una questione come questa. b) Problematica sarebbe stata la modalità della risurrezione, in particolare il suo collegamento con la parusfa. Il retroterra sarebbe l'idea apocalittica che la risurrezione sarebbe avvenuta soltanto tkpo l'avvento del messia (documenti: 4 Esd7, 26-44; 2 Bar 28s.; 49-51); coloro che ancora vivevano si sarebbero così trovati in vantaggio rispetto ai defunti (per esempio: E. REINMUTH 142). Rimane però aperto il problema del perché la parusfa fosse in assoluto così importante per la comunità: il Quarto libro di Esdra e l'Apocalisse siriaca di Baruc sono scritti posteriori a Paolo (risalgono alla fine del I l inizio del II secolo d.C.). c) Sarebbero comparsi falsi profeti che insegnavano un ritardo della parusfa; dal momento che per la comunità la comunione con la parusia di Cristo era decisiva per la salvezza, quest'ultima diventava problematica per i viventi e crollava del tutto per i defunti: un fatto che avrebbe generato afflizione (A.J. MALHERBE, AncB 32B, 283-285); ma la lettera non porta traccia di falsi profeti, e il problema non è la vicinanza della parusia.

La situazione del testo permette due affermazioni: l) l'accento in 4,15 è posto con evidenza sulla parusia e sulla dorrianda se i morti vi prenderanno parte; 2) causa dell'incertezza fu il confronto vissuto con alcuni (pochi) casi di morte (4,13). Una spiegazione del perché la partecipazione alla parusfa fosse così importante per la comunità può essere tentata ipoteticamente guardando alla vita quotidiana della città. Nei culti misterici, di cui a Tessalonica si possono documentare almeno quello di Dioniso e quello di Iside/Osiride, l'istanza della partecipazione a forze vitali divine, il superamento dei confini del quotidiano, la speranza di trovare un aldilà oltre la morte vengono narrate nel mito e rappresentate con forte espressività nel rito; esercizi concreti, cerimonie misteriche trasmettono esperienze e idee di un aldilà post mortem (per esempio la descrizione in Apuleio, Met XI 23,7: iniziazione ai misteri di Iside). La forza estetica delle immagini messe in scena era un elemento capace di plasmare l'identità. Forse a questa semantica culturale la predicazione di Paolo ha contrapposto l'idea della parusia, che era altrettanto concreta e riguardava ognuno/a individualmente; la struttura di pensiero è comparabile: come in vita si è partecipato a Dioniso/Iside/Cristo, così sarà anche dopo la morte. In tal modo diventerebbe comprensibile il significato di una parusia che per i defunti viene a mancare (cfr. S. SCHREIBER, ]enseitshoffnung, 339-344, con riferimento alla pluralità delle rappresentazioni ellenistiche dell'aldilà).

Per la soluzione del problema Paolo riporta alla 'sequenza corretta' la ben nota tradizione apocalittica, così che risulta chiaro: i morti sperimentano anch'essi in pienezza la parusia. Così quest'ultima, in quanto

VIII. La Prima lettera ai Tessalonicesi

491

contrassegno cristiano di identità, può continuare ad essere presente. Al tempo stesso Paolo pone il suo accento personale: il segno escatologico appropriato risiede - al di là di immaginari dettagli apocalittici - nella definizione personale di una comunione ininterrotta con Cristo; dopo la parusia «noi saremo sempre con il Signore» (4, 17). Queste esposizioni comportano inoltre una ubicazione storica della comunità. Essa vive già in una qualità escatologica, nel tempo che precede di poco la parusia del Signore. A partire da qui, in 5,1-11 Paolo polemizza contro le speculazioni sulla data della venuta di Cristo, che Dio solo conosce, e sollecita a una vita in direzione di una fede nuova, come > (E. SCHNACKENBURG 18). Ma si tratta già di (E. KASEMANN, RGG, Il, 517.520), di dell'apostolo). Nel frattempo, il pendolo ha oscillato e ~desso si pone al centro l'interesse etico dell'autore (così fa soprattutto U. Luz, NTD 8/1, 108). Forse però i due aspetti non vanno considerati come alternativi. La domanda 'che cosa dobbiamo fore? è collegata strettissimamente al 'chi siamo?. Perciò si comprende bene perché l'autore si rivolga ai suoi destinatari richiamando prima di tutto la loro biografia e ricordando loro che cosa erano prima del battesimo (2, 1-3.11-12.19a) e quale spazio di senso ha dischiuso per loro il battesimo. Conoscere questo dovrebbe ora determinare anche il loro agire.

Se, per trovare l'intento prevalente della Lettera agli Efesini, se ne considera il profilo elevato in confronto alla Lettera ai Colossesi, si scopre prima di tutto l'intenzione di chiarire ai destinatari (cristiani provenienti dal paganesimo) la loro autocoscienza dentro la chiesa. E qui la prospettiva si sposta quando si passa dalla prima alla seconda metà della lettera: nella prima l'autore si rivolge ai destinatari come paganocristiani e ricorda loro che in tutto e per tutto sono debitori all'eredità di Israele realizzatasi nella chiesa (2, 11s.). Di fronte a una boria paganocristiana rispetto alla situazione dei giudeo-cristiani (cfr. 2,9: «perché nessuno possa vantarsene», con Rm 11,18), un'alterigia che può accrescersi sul terreno della missione paolina della «libertà dalla legge», l'autore vuole promuovere l'unità della chiesa, sia nelle grandi che nelle piccole cose. Nella seconda metà della lettera la prospettiva cambia.

X La Lettera agli Ejèsini

517

Ora l'autore si rivolge ai destinatari per spiegare come possono entrare nella chiesa composta da ebrei e pagani, ma si rivolge loro in quanto cristiani che dovrebbero distinguersi dai loro concittadini pagani di un tempo per lo stile di vita determinato da Cristo. Per l'autore si tratta quindi di una chiesa vissuta, che deve dimostrare la sua elevata autorità soprattutto nell'ambiente romano-ellenistico, facendo vedere che unisce in sé ciò che nella società vive relazioni di ostilità- ebrei e pagani- e che inoltre dovrebbe essere definita sostanzialmente da un «camminare nella carità» (5, 1), che riesce a concretizzarsi fino nella struttura sociale dell'antico 6ikos (5,21-33). Se fin qui appare chiaro in che cosa consiste il vero obiettivo dello scritto - la costruzione di un'estesa autocoscienza ecclesiale nelle differenze caratterizzanti rispetto alla società pagano-profana circostante -, manca ancora un elemento importante che riguarda la parte formale dello pseudoepigrafo: l'autore vuole rafforzare l'autorità di Paolo; anzi, come mostra nel suo scritto la 'paolinizzazione' di una cristologia cosmica e di una teologia della comunità tramandate da Colossesi, intende con forza presentare e sostenere Paolo come autorità apostolica nella chiesa universale. Pertanto la ragione che porta l'anonimo 'discepolo' di Paolo a produrre la Lettera agli Efesini va cercata nel proposito di legittimare il suo progetto ecdesiologico di uno stile cristiano di vita, fondato sullo spirito biblico e inteso come un duraturo «legato» (M. GESE) dell'apostolo alla chiesa postpaolina, e di far parlare quindi indirettamente lo stesso Paolo.

2.4

EPOCA E LUOGO D'ORIGINE DELLA LETTERA

Il luogo non deve necessariamente, ma può concordare con l'indirizzo dello scritto. Questo indirizzo, tuttavia, continua ad essere oggetto di discussione. Nei manoscritti più antichi (P46 , ~, B) mancano le due parole di l, l, che sono documentate nei testi biblici solamente a partire dal V secolo. D'altra parte, fin dalla fine del II secolo, secondo la testimonianza di molti padri della chiesa - lreneo di Lione, T ertulliano, Clemente di Alessandria - lo scritto è considerato una lettera dell'apostolo diretta ad Efeso e, fin dal suo inserimento nella raccolta delle lettere paoline (quindi sicuramente già nel II secolo), è collegato alla inscriptio . Da questi fatti tuttavia non si può ancora derivare l'originalità dell'indirizzo di Efeso. Sarebbe plausibile infatti

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D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

l'ipotesi che l'indirizzo della circolare sia collegabile a una lacuna («ai santi che sono a ... »), nella quale di volta in volta si doveva inserire il nome della comunità destinataria (H. SCHLIER 3ls.). Alcuni copisti della lettera, o quelli che l'hanno inserita nella raccolta delle lettere paoline, avrebbero poi aggiunto l'indirizzo di Efeso; comunque Tichico (6,21) viene presentato come collegato all'Asia minore in At 20,4 e addirittura a Efeso in 2 Tm 4,12. Contro questa ipotesi, tuttavia, depone tra l'altro il fatto che le circolari dell'Antichità non documentano una siffatta lacuna nell'indirizzo e depone più ancora il fatto che Paolo non ha mai fatto ricorso a questo espediente. E il nostro autore, collegandosi alla Lettera ai Co!ossesi, voleva comunque simulare una lettera di Paolo e doveva quindi attenersi in tutto alle convenzioni seguite dall'apostolo. Da ciò si può quindi dedurre con una certa probabilità che lo scritto- al pari di tutte le lettere autentiche di Paolo (compreso il pre-testo, Colossesz1) - contenesse fin dalla sua origine l'indicazione del luogo. La controprova è data dalla frase , da cui non si può ricavare alcuna spiegazione di rilievo. Intende l'autore affermare che vi sono anche dei santi che non credono in Cristo, come per esempio gli ebrei (cfr. la discussione in P. POCORNY 50)? G. Sellin (Adresse, 177s.) e con lui I. Broer (Einleitung, 511) minimizzano le difficoltà, parafrasando così l'indirizzo: > (cfr. 2,2)

Regno delle potenze demoniache (del diavolo) (1,21; 2,2; 3, 10; 6, 12)

«Terra>> (1, 10; 3, 15; 4,9; 6,3)

Gli esseri umani

È controverso se dalla discesa di Cristo «nella parti inferiori della terra>> (4,9) possa far pensare anche a un regno dei morti sotto la terra (così ritiene F. MussNER; è incerto R. SCHWINDT) o se le «le parti inferiori>> dell'universo, cioè la terra ( Gen apocrifo), vadano intese come la regione del mondo più lontana dal trono di Dio, che sta «sopra tutti i cieli>> (così ritiene per esempio R. SCHNACKENBURG 181). È più logica la seconda ipotesi per due ragioni: per il contesto (si vuole soltanto affermare che Cristo, che attraversa l'universo dal basso all'alto, 'riempie tutto'); e, in secondo luogo·, per via dell'immagine del mondo presupposta. Alcuni dubbi sulle visioni del regno dei morti erano legate alla tendenza del modello geocentrico del cosmo, proprio delle posizioni aristoteliche e stoiche, un modello impostasi in epoca imperiale (cfr. R. SCHWINDT, Weltbild, 193245). Per tale modello tuttavia era determinante l'idea di sfere poste attorno alla terra. Lì trovano posto anche le anime dei defunti (cfr. Plutarco); secondo 2 Enoc, uno scritto ebraico-ellenistico del I secolo, il terzo dei sette cieli era riservato al paradiso e all'ade.

La terminologia usata dall'autore di Ejèsini è biblico-ebraica ('sedere alla destra' [Sa/110,1]: trono di Dio; 'Principati e Potenze': l Enoc 61,10; TestLev 3,4-8 ecc.) e al tempo stesso così aperta e ampia (cfr. soltanto lo schema a quattro di 1,21, che designa simbolicamente una totalità: R. SCHNACKENBURG 76s.) che vi possono essere comprese tutte le forze divine, per esempio le forze planetarie, le divinità astrali o le potenze demoniache «dell'aria» (2,2; per il ruolo cosmico dell'Artemide di Efeso, cfr. R. ScHWINDT, Weltbild, 103-134). La stregoneria e la magia potrebbero essere sullo sfondo di l ,21 («ogni nome che viene nominato»), cosa che bene si adatta all'ambiente dell'Asia minore (cfr. At 19,17-19; C.E. ARNOLD).

X La Lettera agli Efesini

3.1.2

521

Influssi di storia delle religioni

Non c'è nulla di più controverso come la risposta che viene data alla domanda su influssi storico-religiosi sulla Lettera agli Efesini. Molto è stato ampiamente ripreso e poi rigettato (gnosi; filosofia popolare stoica; visioni del panteismo ellenistico; Qumran; ebraismo ellenistico ecc.), quanto meno con il risultato di non abbandonarsi a spiegazioni monocausali. In particolare si tratta dello sfondo in cui si collocano le affermazioni sulla discesa e ascesa del Redento re (4, 7-11), della chiesa come corpo di Cristo (l ,22s.; 2, 15; 4,3s. ecc.) con lui come capo, del consorzio a due (sizigia) di Cristo e della chiesa sua sposa (5,22-32), dei termini 'pienezza' (rrAi]Qcofw), av9gcorroç o 'uomo perfetto'. Per quanto concerne la questione della gnosi, da una parte la fede dell'autore nella creazione rappresenta una barriera indiscutibile contro qualsiasi deprezzamento gnostico del mondo, mentre d'altra parte vi sono 'parti sistemiche' che richiamano la pre-gnosi: un pensiero della salvezza caratterizzato in senso gnoseologico e ampiamente slegato dal tempo (si osservi l'impçmanza della terminologia della conoscenza: l, 18; 3, 18s.; 4,13 ecc.), il concetto della sapienza che opera spiritualmente (1,9.17; 3,3s. ecc.) o ancora la ripresa e la rrasposizione della risurrezione nel presente (2,6; cfr. 2 Tm 2,18: «la risurrezione è già avvenuta»; VangFil [NHC II/3, 37,2-8]; lreneo, Haer II 31,2 ecc.). Se tuttavia si considera la consistente ricezione della Lettera agli Ejèsini nei testi gnostici del II secolo (cfr. E. PAGELS 115-133), lo scritto si presenta come (R. SCHWINDT, Weltbild, 508), più che come una testimonianza gnostica.

Sotto l'aspetto delle affinità, lo scritto affonda le sue radici in una terza entità, l'ebraismo ellenistico di stampo alessandrino, che ha approntato qualche «materiale grezzo di tipo gnostico» (H. CHADWICK in R. SCHWINDT, Weltbild, 350). In tal modo, per la comprensione della Lettera agli Efesini, oggi è sempre più riconosciuta anche l'importanza di Filone come rappresentante dell'ebraismo ellenistico (E. FAUST, G. SELLIN, R. SCHWINDT ecc.). L'Alessandrino mostra come un pensiero profano-ellenistico, un medioplatonismo, un patrimonio concettuale neopitagorico ecc. possano collegarsi alla fede biblico-ebraica, in un amalgama che si incontra in qualche modo anche nella Lettera ai Co-

lossesi. Un esempio in proposito ci è offerto dalla rappresentazione del macrocosmo come un organismo gigantesco che è governato da un 'capo', come il corpo dall'anima. Questa rappresentazione si trova già in Platone ( Tim 30: «Questo mondo ordinato è sorto come entità animata e invero dotata di ragione grazie alla provvidenza di Dio»), ma è diffusa

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D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

anche nel I secolo (cfr. per esempio Seneca, Ep XV 95,52: «Uno è tutto ciò che tu vedi, e per esso divino e umano sono congiunti. Noi siamo membra di un grande corpo>>). Un inno orfico vede in Zeus il padre degli dèi, il 'capo' del mondo: (in Eusebio, Praep Ev III 9,2). Filone trasferì simili rappresentazioni al L6gos, cioè alla potente parola di Dio, per mezzo della quale Dio creò il mondo, e pensò che fosse «il capo di tutte le cose>> ( Quaest in Ex II 117) che riempie «il mondo, corpo immensa>>, e lo governa con le sue forze (Plant7-9).

Qui poi si trova anche la matrice della cristologia cosmica di Efesini, la cui attrattività è consistita non da ultimo dall'essere stata capace di agganciare aneliti religiosi completamente diversi. Chi guardava a una pacificazione del cosmo lacerato doveva prestare orecchio all'offerta di senso della Lettera agli Efesini.

3.2

LA CRISTOLOGIA

Secondo Efesini la pacificazione del cosmo avviene per mezzo di Cristo che «è la nostra pace» (2, 14). La sua intronizzazione pasquale alla destra di Dio sopra tutti i Principati e le Potenze è l'evento fondante che rende possibile «ricondurre tutte le cose» (l, l O) sotto il suo «capo» (1,22). Questa cristologia pasquale ha diversi aspetti: l'unificazione del mondo in sé lacerato con la sottomissione delle «Potenze» (l ,22), fatto che riesce a togliere a tutti quelli che sono 'in Cristo' la paura di queste forze, ma anche l'unificazione di ciò che è storicamente separato e ostile, degli ebrei e dei pagani nell'unica chiesa; infine l'unificazione di tutti, per quanto possano essere differenti i loro ruoli sociali (5,21-6,9: uomo/donna; genitori/figli; padroni/schiavi) per mezzo del «vincolo della pace» (4,3) e dell'amore. Alla fine il pensiero dell'unificazione irradia anche il concetto del ministero ecclesiastico, il cui senso ultimo è il servizio «all'unità della fede» (4,13). È importante osservare che la posizione pasquale di Cristo 'capo' ha due aspetti: quello della signoria cogente del trono di Dio rispetto al mondo e agli spazi del mondo occupati dalle Potenze (l ,22: «tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi!») e quello di un 'capo' che riempie di vita il suo 'corpo' -la chiesa- nei confronti di coloro che sono stati 'scelti' e chiamati alla fede in lui (l ,4-5.11). A differenza di quanto troviamo nei dati storico-religiosi, l'autore di Efesini riserva (cfr. anche Col

X La Lettera agli Efesini

523

l, 18) la metafora del corpo alla relazione Cristo-chiesa, proprio perché questo 'organismo' (4, 15s.) va considerato in modo qualitativamente del tutto diverso rispetto alla posizione di Cristo come signore del mondo (cfr. 1,22s.). Si aggiunga che la relazione Cristo-chiesa- che, secondo 5,2ls., è come una relazione tra marito e moglie- non può essere compresa solamente partendo dall'intronizzazione pasquale, ma come derivante dal sacrificio della sua morte in croce (2,16; 5,2.25), che è la prova del suo 'amore' (5,2) e quindi anche la sorgente prima di questo 'amore' che d'ora in poi deve vivificare l'organismo del suo corpo (4,15).

3.3

L'ECCLESIOLOGIA E L'ESCATOLOGIA

L'ecclesiologia non è a sé stante, ma 'insediata' nella cristologia. Ciò che l'autore dice dell'esaltazione e dell'intronizzazione di Cristo vale, in termini includenti, anche per coloro che credono in lui: essi sono risorti con lui (nel battesimo), sono stati trapiantati nei cieli e qui sono stati intronizzati assieme a lui (2,6; cfr. l ,3), con la conseguenza che i regni del mondo, nella loro vacuità, per i fedeli sono stati spezzati: elevati al di sopra delle costrittive Potenze astrali, del dominio della morte e della lontananza da Dio (2, 1-3) e sottratti a tutto ciò, il Dio conciliatore li ha «resi vivi con Cristo» e li ha fatti partecipi della «ricchezza della sua grazia» (2,7). È importante che si colga la mentalità che ne sta alla base: l'autore non intende la chiesa come un'entità propria o come uno spazio di salvezza qui sulla terra rispetto al Cristo celeste, ma come il 'corpo' di Cristo, di cui Cristo è il 'capo'; è insomma il Cristo stesso vivente. Egli lo spiega ricorrendo ad alcune metafore, non in modo concettuale. Per esempio, l'immagine del tempio di Dio, della sua 'dimora nello Spirito', è qualcosa che sta 'al di sopra dello spazio', che dischiude cioè cielo e terra l'uno all'altra, qualcosa che è saldamente fondato, ma che è anche soggetto a crescita esteriore e interiore. Si profila qui una struttura concettuale per pensare questa concezione 'sovraspaziale' di un'ecclesiologia cristologica: è la realtà dello 'Spirito di Dio' che mantiene aperto !"accesso' al regno del trono e 'riempie' di vita il corpo di Cristo. In questo modo entra in gioco anche la dimensione della chiesa, che secondo l'autore di Efosini fonda il suo profilo di Israele: la 'promessa' che Dio ha proclamato in molteplici 'patti' (2, 12:

524

D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

òtaSipcat, 'alleanze' [al plurale!]) alla noÀxrcia -roù 'lcrQaJÌÀ, non condusse soltanto a realtà terrene (patria, discendenza, benedizione sulla terra; cfr. pure il discorso sulla circoncisione esteriore di 2, Il), ma portò anche alla realizzazione della 'cittadinanza' con lui stesso (2, 19). In altre parole: il contenuto della 'promessa' è il suo 'Spirito' (1,13s.; cfr. Gal 3, 14; At2,33), che è «caparra della nostra eredità» (l, 14; cfr. l, 18; 5,5), non possesso di una regione, ma acquisto di uno spazio celeste. Anche qui si avverte l'influsso dell'ebraismo ellenistico (Filone!) con la sua 'spiritualizzazione' di theologumena biblici centrali. Il fatto che in 2,11-21 non sia presente (come in Rm 9-11) l'attuale Israele che ha rifiutato Cristo, non può essere addebitato all'autore come una dimenticanza, perché il suo obiettivo è opposto all' antiebraismo paganocristiano (come detto sopra).

Se il dono dello Spirito è «caparra dell'eredità» (con l, 14; cfr. anche 4,30) significa anche che l'escatologia presente della lettera non può del tutto fare a meno della dimensione futura (cfr. 1,14.21; 2,7; 4,30; 6,89.13). Non si capisce bene però com'è questa dimensione: non è chiaro se il «giorno della redenzione» (4,30; cfr. l, 14) è ancora il giorno del giudizio universale alla fine dei tempi o non si debba piuttosto pensare a un'escatologia collegata alla morte di ogni individuo. In ogni caso questo 'giorno' perde chiaramente la sua drammaticità dinanzi a ciò che nel regno 'celeste' fu dischiuso già nella 'risurrezione' dei battezzati.

3.4

L'ETICA

All'autore della Lettera agli Efesini non importava molto fondare antologicamente lo spazio 'celeste' di salvezza acquisito nel battesimo (2,6). «Siamo opera sua», afferma in 2,10, «creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo». Da nessuna parte il nuovo essere dei 'risorti' in Cristo, ricevuto in dono, appare meglio che nella possibilità di compiere le 'opere buone'! Lo ricorda la parenesi dei capp. 4-6, a cui tende tutto il resto (vedi sopra), quando mette concretamente dinanzi agli occhi «l'uomo nuovo creato secondo Dio» (4,24). L'etica della lettera conferisce contorni più oggettivi all'eredità sapienziale ebraica (cfr. 4,25s. e passim). Inoltre la 'novità' dell'uomo 'nuovo' non è intesa nel senso che rivoluzionerebbe il contesto sociale dell'antico 6ikos. Rimane il dislivello tra il pater

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525

fomilias e la moglie, tra i genitori e i figli, tra i padroni e gli schiavi, persino il linguaggio dell" amore' è regolato dalla prospettiva del marito (5,25.28.33: «ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso suo marito»). L'autore però- e questo viene spesso trascurato - ha ripolarizzato il suo modello, la Lettera ai Colossesi, proponendo a mariti e mogli la seguente massima: «Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri» (5,21). Se questo motto venisse preso alla lettera, dovrebbe trasformare dal di dentro i modelli di comportamento precodifìcati e i ruoli dell' oikos.

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XI. La Lettera ai Colossesi (Michael Theobald)

l.

Struttura

La lettera comincia con un prescritto di stile orientale, come ci si aspetta da una lettera di Paolo. Segue, sempre in apertura, un ampio esordio (1,3-2,5). A prima vista quest'apertura sembra alquanto complicata, ma la sua struttura si manifesta con chiarezza se la si legge partendo dalla situazione epistolare della comunicazione: all'inizio l'autore è tutto preso dai suoi destinatari con parole di ringraziamento, di supplica e di ricordo (1,3-23), poi cambia prospettiva e parla di se stesso, del suo ruolo di apostolo e del suo rapporto con la comunità (1,24-2,5) (F. SCHNIDER- W. STENGER 42-49; seguiti da M. WOLTER 49.98; l. MAiscH 53). I passaggi personali di 1,3 ( in l ,24 e 2,5): dapprima (l ,24-29) in linea di principio con il suo ministero «in mezzo alle genti» (v. 27) che egli svolge per «ogni uomo» (v. 28); poi (2,1-5) concretamente con il suo impegno per i destinatari: per coloro che sono a Colasse e a Laodicea (la vicina città nella valle del fiume Lico) e per tutti quelli che non lo hanno mai visto di persona. Stando ai due passaggi di questo 'autoaccreditamento', compito del suo ministero è proclamare il 'mistero' di Dio, cioè annunciare Cristo (1,26s. Il 2,2s.), e qui la preoccupazione espressa in 2,4, che contiene una riflessione generale di collegamento («dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti>>), fa emergere la ragione della lettera, cioè il pericolo che corrono i destinatari per la retorica affascinante di propagandisti venuti da fuori. In questo modo l'autore passa al corpo epistolare, che è una discussione intavolata con la 'filosofia' avversaria. Questa discussione si svolge per tre gradi: un insegnamento cristologico di principio (2,6s.), una presentazione positiva della dottrina di Cristo, orientata all'evento iniziatico del battesimo (2,8-15), e infine un rigetto di dottrine soteriologiche accessorie (2,16-23). Se vogliamo esprimere tutto questo in categorie retoriche, si può dire che 2,6s. costituisce la propositio, 2,8-15 la probatio e 2,16-23 la rejùtatio (di diversa opinione è M. WOLTER).

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D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

Ci sono altri segnali letterari che ci aiutano a chiarire la struttura: la probatio e la rejùtatio sono aperte da due frasi di costruzione analoga, nel v. 8 () e nel v. 16 («nessuno dunque vi condanni ... »). Le due parti dell' argumentatio sono comprese in un'inclusione che è indicativa per tutto il testo, con l'opposizione (v. 8) (v. 22).

La seconda parte del corpo della lettera (3, 1-4, l) è di carattere parenetico. Già l' argumentatio era stata orientata dall'ammonimento cristologico «in lui camminate!» (2,6). Questo insegnamento viene ora sviluppato nella parenesi, prima in via di principio (3, 1-4), poi con indicazioni concrete che dicono quale stile di vita va evitato («impurità, immoralità, desideri cattivi ... »; cfr. il catalogo di vizi di 3,5 e 3,8s.) e quale stile corrisponde invece al 'cammino in Cristo' (cfr. il 'catalogo di virtù' di 3, 12 e la descrizione delle relazioni comunitarie dei vv. 13-15). Il seguente 'codice familiare' (3, 18-4, l) presenta aspetti etico-sociali per un'organizzazione della vita cristiana della fomilia nel quadro della concezione antica. La conclusione della lettera (4,2-18; per i singoli elementi formali nel contesto del formulario epistolare paolino, cfr. F .. SCHNIDER- W. STENGER 71-167) comprende una parenesi finale, informazioni sui latori della missiva (Tichico e Onesimo), saluti e compiti, e un 'protocollo finale' (= saluto conclusivo con un'annotazione relativa alla scrittura autografa e alla firma). Siccome la parenesi finale (4,2-6) mette al centro la persona e il compito di Paolo (vv. 3s.: l'apostolo chiede preghiere per se stesso!), ne deriva, sia per la forma che per il contenuto, una corrispondenza con la sezione dell"autoaccreditamento' dell'autore di 1,24-2,5 che si trova nell'esordio della lettera (I. MAISCH 260), in modo che possiamo dire che il corpo della lettera è incorniciato da notizie personali sull'apostolo (cfr. il motivo dell'apostolo che soffre ed è in prigione, di l ,24 e 4,3, poi 4, 7 s. e 4, 18b)!

531

Xl. La Lettera ai Colossesi

1,3-23

Proemio 1. Ringraziamento e preghiera 2. Inserto cristologico: Cristo creatore econciliatore 3. Indirizzo rivolto ai destinatari

Esordio: 1,3-2,5

1,3-8.9-14 1,15-20 1,21-23

Autopresentazione/autoaccreditamento dell'autore

Corpo: 2,6-4,1

1. Parenesi finale

Conclusione: 4,2·18

.2. Compito dei latori della lettera 3. Saluti per incarico dei collaboratori 4. Saluti ecompiti dell'autore 5. Protocollo finale

2.

Origine

2.1

LA LETTERA Al COLOSSESl COME PSEUDOEPIGRAFO

4,2-6 4,7-9 4,10-14 4,15-17 4,18

Nel primo e nell'ultimo versetto della lettera l'autore afferma di essere Paolo (1,1; 4,18; anche 1,24). Il fatto fu messo seriamente in dubbio per la prima volta nel XIX secolo (E. Mayerhoff [Berlin 1838]; per la storia, cfr. E. PERCY 5s.). Nel frattempo si è ampiamente affermata la paternità non paolina della lettera, soprattutto nell'esegesi di lingua tedesca, mentre l'esegesi inglese continua a rivendicare la paternità dello stesso Paolo (cfr., per esempio, M. BARTH- H. BLANKE; C.E. ARNOLD). Anche una forma originaria dello scritto, ricavabile dalla critica letteraria, fa pensare alla possibilità di poter salvare la paternità paolina (bibliografia in E. SCHWEIZER, EKK XII, 25s.). L'ipotesi che la Lettera

532

D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

ai Colossesi sia uno pseudoepigrafo - il primo in assoluto nel NT! - ha tuttavia buoni fondamenti. Stile.- Dove Paolo usa formule stringate e precise, cercando di strutturare con chiarezza la sua argomentazione mediante segnali sintattici ('infatti', 'ma' ecc.) e conclusioni ('quindi'), l'autore di Colossesi abbonda di parole, usa associazioni traballanti, rinunciando in svariati casi alle congiunzioni e introducendo spesso participi e proposizioni relative. Sorprende la sua preferenza per un modo di esprimersi ridondante (ricchezza di sinonimi, di complementi di specificazione). Nelle sue indicative ricerche sullo stile della lettera, W. Bujard afferma: «Mentre in Colossesi a produrre una particolare impressione sono l'ammasso e l'accumulo delle parole, Paolo preferisce ottenere effetti intensi con l'uso di termini precisi, spesso stravaganti o desueti; non maneggia la sciabola, ma il fioretto» ( Untersuchungen, 164s.).

Teologia. - Il fatto che nella lettera manchino idee tipicamente paoline, come quella della giustificazione per la sola fede in Gesù Cristo, non è di per sé sorprendente (cfr. anche la Prima ai Tessalonicesi e la Prima ai Corinzi, se si prescinde da l Cor 1,30; 6,11), ma se si suppone la paternità paolina questa assenza risulta strana per la polemica contro la colossese 'dottrina della sapienza', con la sua esautorazione del solus Christus. Contro Paolo depone soprattutto il fatto che i theologumena centrali della lettera non approfondiscano e trasformino il patrimonio paolina o non si aggancino a pensieri esterni a Paolo. In particolare vanno nominati i seguenti punti: - la cristologia cosmica (1.15-20; 2,15); - l'escatologia nel presente (risurrezione nel battesimo: una dottrina estranea a Paolo); - l'ecclesiologia (la 'chiesa' non è più la comunità locale, ma la chiesa universale; la metafora del corpo non si collega, come avviene ancora in l Cor 12,12-27 e Rm 12,4s., a visioni di tipo stoico e sociale, ma assume un carattere cosmico: cfr. Col!, 18.24; 2,19); - manca un interesse per Israele e il giudaismo (cfr. 4, l I); - l'immagine di Paolo (adesso egli è /apostolo per antonomasia!) è tratteggiata nella forma di un'icona (Paolo non potrebbe parlare delle sue 'sofferenze' in maniera così fiera ed esclusiva come in l ,24; qui è un altro a parlare di lui!).

La finzione epistolare. - Anche questa lascia trasparire la situazione non paolina. Sorprende anzitutto ciò che non si dice. Nelle sue lettere

XI. La Lettera ai Colossesi

533

autentiche Paolo manifesta di solito il desiderio di incontrare i destinatari (Rm 1,11; 15,23; l Ts2,17 ecc.) o promette loro una sua visita (Rm 15;28; l Cor4, 19; 2 Cor 12, 14; Fil2,24 ecc.), al punto che si parla del t6pos della «parusia apostolica» (R. W. FUNK; cfr. F. SCHNIDER- W. STENGER 92-107)! Nella Lettera ai Colossesi (e in quella agli Efesim) Paolo invece annuncia solamente la visita di un inviato apostolico (Col 4,7s.; Ef6,2ls.; anche già l Cor 16,10s.; Fi/2,19-24 ecc.). Se altrove Paolo lo fa per essere informato di persona sulla situazione delle sue comunità ricorrendo ai suoi discepoli (cfr. l Cor 16,11; Fil2,19; l Ts 3,5), in Colossesi (ed Efesim) Tichico è 'mandato' alla comunità «affinché voi conosciate come noi stiamo» ( Col4,3; cfr. Ef6,22)! Si tratta quindi di destinatari, cioè della comunità postapostolica, alla quale dev'essere messa «continuamente dinanzi agli occhi l'esemplare vita di sofferenza dell'apostolo» e va «comunicata la sua costante presenza per mezzo dei suoi discepoli, dei suoi "(cari) fratelli, fedeli ministri e compagni del servizio del Signore" ( Col4,7; cfr. Ef6,21)» (F. SCHNIDERW. STENGER 103): Si adatta bene anche il t6posepistolare che l'apostolo è «lontano con il corpo, ma tra voi con lo spirito» (2,5; cfr. l Cor 5,3). Il fatto che la lettera sia diretta a una comunità che non è stata fondata da Paolo, ma dal suo collaboratore Èpafra (1,7s.; 4, 12s.), dà all' autore reale dello scritto l'opportunità di allargare i fittizi destinatari alla schiera di «tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona» (2, l), cosa che naturalmente vale tanto più per gli effettivi destinatari della lettera dell'epoca postpaolina. L'annotazione relativa alla 'scrittura autografa' e la firma di 4,18 (cfr. l Cor 16,21; Ga/6,11; Fm 19) non depongono contro l'ipotesi di uno pseudoepigrafo, ma sottolineano al contrario la simulazione di autenticità (questa è l'opinione diffusa) o l' «intensità della presenza dell'apostolo nella chiesa postapostolica» (F. SCHNIDER- W. STENGER 159). Abbiamo quindi a che fare con il tentativo di una falsificazione; nel giudicarla va tenuto presente l'interesse ad esso collegato per la 'riscrittura' della tradizione paolina. Va osservato, ancora, che in tutte le sue lettere Paolo si rivolge ai destinatari chiamandoli 'fratelli', il che non si verifica soltanto in Colossesi (e nemmeno in Efesini e nelle lettere pastorali: E. SCHWEIZER).

534

2.2

D. Le lettere- Lettere deuteropaoline

PRE-TESTI E MATERIALI

Naturalmente, per dare un esito positivo alla finzione dell'autore, non bastava il nome di Paolo: la lettera aveva bisogno di possedere anche nel suo insieme un riconoscibile colorito paolina. In che modo l'autore riuscì a soddisfare quest'esigenza?

2.2.1

La Lettera a Filemone, pre-testo della Lettera ai Colossesi

Come mostrano le impressionanti consonanze della Lettera ai Colossesi con quella indirizzata a Filemone nei nomi dei numerosi collaboratori dell'apostolo, l'autore deve aver conosciuto la lettera di Paolo a Filemone e deve averla utilizzata per delineare la cornice della sua lettera: prescritto, rendimento di grazie e conclusione (E. LOHSE 246s.; M. KILEY 83s.; HDBNER 9). Lettera ai !olìlssesi

.... •..

Paolo+ Timoteo (1, 1) (cfr. anche 2 Cor 1, 1; Fi/1, 1)

.

lettera aFilemone

;

··~·

mitt~!Jle.•

Paolo+ Timoteo (vv. 1s.)

destitnltarf

Fede-carità (+speranza) (1 ,4s.) (cfr. anche 1Ts 1,3) Epafra, un 'ministro' per i Colossesi (l} s.)

r

.-~· di•te" .

Filemone e la comunità della sua casa (tra gli altri: «Archippo, nostro compagno nella . lotta per la fede>>)

. Fede-carità (vv. Ss.)

.•(oqlo . . . t r «Ti prego per Onesimo, figlio mio>> (v. 10) Inviati dell'apostolo: Tichico + Onesimo, «Che è dei vostri>> (4,7-9) a) Aristarco; Marco, cugino di Barnaba; Gesù (=Giusto) (=giudeo-cristiani) (4,10s.) b) Epafra, «uno dei vostri>>; Luca, il medico; Dema (=pagano-cristiani) (4, 12-14) ad Archippo (al quale è stato assegnato uno speciale'ministero': 4, 17) Annotazione relativa alla scrittura autografa e alla firma (4, 18a)

(-~ :

lnditiaidl-0. "'"" Epafra, «mio compagno di prigionia>>;

...

Marco,Aristarco ··



Dema,Luca (= «miei collaboratori>>) compltla~ti

in chiusura

Annotazione relativa alla scrittura autografa e alla firma (v. 19a)

Perché l'autore di Colossesi ha scelto proprio Filemone come pretesto? Prima di tutto perché anche lui voleva scrivere una 'lettera dalla

Xl. La Lettera ai Colossesi

535

prigionia' (Fm l: «Paolo, prigioniero di Gesù Cristo»), e lì, soprattutto sulla base di Col l ,24, si propende a pensare all'ultima prigionia di Paolo a Roma, nella quale egli doveva 'portare a compimento' la sua vita. Ma se per l'autore fosse stata importante solamente l'immagine dell'apostolo sofferente, avrebbe potuto scegliere come modello anche la Lettera ai Filippesi. Deve esserci quindi un'altra ragione. La possiamo trovare soltanto nell'ipotesi che la comunità che si raduna in casa di Filemone, alla quale Paolo scrive, si trovasse a Colosse. Che cosa ci sarebbe stato allora di più ovvio per l'autore di uno pseudoepigrafo collegato al medesimo nome che richiamarsi nella sua finzione all'autentica 'lettera ai Colossesi' dell'apostolo? In questo modo l'autore pensava che quanti avrebbero ricevuto la lettera pseudonima indirizzata ai cristiani di Colosse avrebbero potuto scorgere il legame con le precedenti situazioni della Lettera a Filemone, e questo non avrebbe fatto altro che rafforzare la simulazione dell'autore. Sono interessanti le tradizioni personali che l'autore della Lettera ai Colossesi presenta oltre a quelle della Lettera a Filemone (Luca, il medico; Marco, cugino di Barnaba), ma anche la notizia che inserisce circa gli inizi del cristianesimo nella valle del fiume Lico (per esempio che Èpafra vi fu attivo come missionario e fondatore della comunità in nome di Paolo). Queste tradizioni non possono essere verificate (M. WOLTER 217 ipotizza la presenza di parla A. Detrwiler (86 e passim). I. Maisch (78), invece, parla di una .

XI. La Lettera ai Colossesi A.

l Egli è immagine di Dio [invisibile], 2 primogenito di tutta la creazione, l perché in lui furono create tutte le cose 2 nei cieli e sulla terra [quelle visibili e quelle invisibili, Troni, Dominazioni, Principati, Potenze;] 3 tutte le cose per mezzo di lui e in vista di lui sono state create.

B.

l Egli è prima di tutte le cose 2 e tutte in lui sussistono, 3 ed egli è il capo del corpo [cioè della chiesa].

C.

l Egli è il principio, 2 primogenito di quelli che risorgono dai morti, [perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.] l Perché è piaciuto che in lui abiti tutta la pienezza 2 e che tutte le cose per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate, [avendo pacificato con il sangue della sua croce] 3 sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

537

Come mostrano i numerosi riferimenti a questo testo nella seconda parte della lettera (cfr. 1,24 con 1,18a; 2,9s. con 1,19.16; 2,15 con l, 16; 2,19 con l, 18), l'inno deve avere svolto per l'autore il ruolo di un testo-base. Il «tutte le cose per mezzo di lui e in vista di lui» (= A3 l C2) e l'affermazione «in lui>> (=AI l B2 l CI) (cfr. l ,2.9.10.11) gli fornirono il criterio con cui andava valutata la 'dottrina di sapienza' degli avversari, la loro 'filosofia' che andava oltre il solus Christus. Possiamo immaginare che anche i destinatari conoscessero la 'lode a Cristo', così che qui l'autore pratica una teologia di anamnesi, (A. DETTWILER 84).

2.2.3

La 'filosofia' avversaria come causa della lettera

Cercare di comprendere su che tipo di conflitto intervenga l'autore della Lettera ai Colossesi nella sua argumentatio si presenta come questione di difficile soluzione. Per risolverla è consigliabile chiarire prima i possibili modelli a partire dai quali ci si propone di interpretare i pochi dati testuali. È fondamentale tenere presente che, se l'autore fa intervenire il 'suo' Paolo a mettere in guardia i fittizi destinatari di Colasse da una certa 'filosofia', è immaginabile che egli avesse davanti agli occhi i

538

D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

pericoli relativi al suo tempo. I pochi accenni - mangiare, bere, feste, culto degli angeli, comandamenti - dovevano bastare ai lettori per riconoscervi i pericoli presenti (si aggiunga che, poiché per 'Paolo' non era necessario parlare in termini chiarissimi, ma gli bastava per il momento accennare solamente ai pericoli, si inserisce nella finzione anche il fattore tempo; cfr. 2,8: ,,fate attenzione che nessuno faccia [con senso futuro!] di voi sua preda ... >>). In ogni caso il vero autore era preoccupato soltanto del fatto che la cerchia dei suoi lettori comprendesse a che cosa si riferiva. Noi invece non disponiamo che degli scarsi indizi del testo per farci, sulla base di essi, un possibile quadro, richiamandoci a elementi storico-religiosi desunti da altre fonti e presupponendo determinate opinioni sociologiche (riguardanti la conversione, la formazione dell'identità di gruppi religiosi, le forme di religiosità ecc.). Perciò il rischio di errore è elevatissimo. La distanza temporale della Lettera ai Colossesi dagli inizi cristiani, la provenienza pagana dei lettori a cui lo scritto è diretto, il sincretismo e il pluralismo religioso dell'Asia minore nel I secolo e infine l'apertura del testo stesso (la traduzione di 2, 18, per esempio, è già estremamente controversa!) contribuiscono a generare un'ampia gamma di ipotesi. Le argomentazioni e le posizioni più importanti che si vanno affermando nella situazione attuale della ricerca sono le seguenti: a) L'errata dottrina della salvezza era di tipo domestico, era nata cioè nella cerchia dei lettori destinatari della lettera o delle comunità a cui pensava l'autore (al) oppure si trattava di un insegnamento che le minacciava da fuori (a2)? Soltanto nel primo caso si può parlare di una (P. MOLLER 70), di una Q. GNILKA 169) o di (2, 16) è biblica e propria dell'amico Israele (Ez 45.15; Os 2, 13; l QM 2,4; cfr. anche fs 1,13s.; ]ub l, l 0.14). È abbastanza discutibile che, richiamandosi tra l'altro alla vicinanza linguistica tra shabbtith e Shabazios (divinità dell'Asia minore; cfr. M.P. NILSSON 662, 665-667), si possa spiegare questa triade come un'allusione al culto locale o a giorni fortunati del mondo pagano (C.E. MNOLD 148s.; M. BARTH- H. BLANKE 14s.; l. MAISCH 185s.; cfr. anche M. WOLTER 143). Si tratta sicuramente di manifestazioni religiose collegate al calendario giudaico. c) I precetti relativi al cibo rivestono un ruolo importante, come mostrano la duplice menzione di 2,16 () e 2,21, ma la triade- biblicamente non documentata- del v. 21 sembra essere la citazione di un preciso divieto, appunto: . Forse non sono soltanto precetti alimentari, ma hanno presente anche altre prescrizioni di purità o alcuni tabù sessuali (U. Luz 216). d) Co/2,23, laddove il termine 'umiltà' (derivante dall'ambiente linguistico biblico) s'incontra già nel v. 18, rimanda inoltre a una severa ascesi («mortificazione del corpo>>), non coperta da norme giudaiche convenzionali. e) Il passaggio di 2,18 è enigmatico: il discorso di un (cfr. C.E. ARNO LO 9ls.) non deve necessariamente richiamare l'ambiente giudaico (cfr. tuttavia Ap 19, l O; 22,8s.); può far pensare anche a una magia pagana o a divinità locali della fede popolare dell'Asia minore (il termine ayyEÀoç, 'angelo', era diffusissimo: cfr. l. MAISCH 193-199): ci si riferirebbe in concreto all'invocazione di questi esseri contro gli spiriti e le potenze maligne. È ambiguo anche l'accenno (alla lettera Co/2, 18 dice: ). La frase non si riferisce senz'altro a un'iniziazione al culto dei misteri; è preferibile pensare a 'visioni' celesti (angeliche?).

540

D. Le lettere - Lettere deuteropaoline

f) Si esita a riferire 2,8 alla parte avversa. Se questa può avere rivendicato per se stessa la parola d'ordine 'sapienza' (cfr. 2,23 con 1,9.28; 2,3), che la dottrina sapienziale sia classificata con il termine 'filosofia' (dottrina di sapienza umana) -termine che nel NT ricorre soltanto qui- potrebbe forse risalire all'autore di Colossesi. Non si può ricavare molto neppure dagli (terra, acqua, aria e fuoco), perché il t6pos (Filone per esempio parla di al posto dell'unico Dio: Vit Cont 3s.) potrebbe voler squalificare polemicamente la religiosità avversaria - forse proprio il suo «culto degli angeli>> - dichiarandola conforme al mondo.

Premesso che gli elementi testuali indicati non sono riferiti a una diffusa situazione di pericolo derivante da fonti diverse, ma che essi comunque la segnalano, qualcosa fa pensare che l'autore abbia presente 'asceti giudeo-cristiani' (modello b2) che praticano il culto degli angeli, assegnano alla comunità compiti accessori e per essa avanzano proposte religiose aggiuntive (U. Luz 219). La causa della lettera deve esser stata quella di affrontare questo conflitto e far valere la perenne autorità di Paolo. Il profìlo ebraico del gruppo cristiano concorrente è testimoniato, oltre che dall'accenno a manifestazioni religiose collegate al calendario ebraico, dal fatto che l'autore definisce il battesimo una circoncisione «non fatta da mano d'uomo» (2,11), senza per questo che si possano ricavare da ciò esigenze di circoncisione da parte della concorrenza. A favore del carattere cristiano della parte avversa si mette l'accento sul v. 19, dove l'autore rimprovera agli avversari (per tre volte parla di «nessuno»: 2,8.16.18) di non stringersi «al capo dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione». Va tenuta presente infìne la ricezione di Colossesi da parte di Efesini (+X.), che guarda alla relazione fra giudei e pagani nell'unica chiesa, elemento che si può leggere come nuova valutazione di Colossesi per quanto attiene ai 'giudeo-cristiani' (cfr. anche Co/4,11!). In secondo luogo questo fa luce anche sulla stessa Lettera ai Colossesi.

2.3

AUTORE, EPOCA E LUOGO DI COMPOSIZIONE

La questione dell'autore fu per molto tempo gravata dalla discussione circa l'autenticità della lettera, questione che si pensava di 'sdrammatizzare' distinguendo da Paolo l'autore reale, scelta resa necessaria dagli elementi testuali, ma vedendolo nel ruolo di un segretario o collaboratore vicinissimo all'apostolo (così E. SCHWEIZER e U. Luz). Contro

XI. La Lettera ai Colossesi

541

questa ipotesi depone però l'immagine di Paolo nella lettera: Colossesi presenta l'apostolo come 'ministro' di tutta la chiesa, in un modo che era possibile solamente con riguardo a tutta l'opera della sua vita (cfr. l ,24s.). L'autore è da ritenere quindi un anonimo che si collocava nella viva tradizione paolina (senza per questo dover incomodare una 'scuola' paolina [cfr. T. SCHMELLER]) e che compose la lettera sicuramente dopo la morte di Paolo nel 62 d. C. «Forse in Coli, 14 si può vedere un primo tentativo di elaborare teologicamente la morte di Paolo come martire» (M. GESE, Vermachtnis, 267). Se nella lettera non si delinea ancora un corpus paulinum- o una sua prima forma - non si può neppure datare lo scritto troppo tardi. Forse risale già ai primi anni Settanta. Il luogo d'origine della Lettera ai Colossesi è senz'altro l'Asia minore. Lo segnalano non solo le tradizioni locali, ma anche la ricezione dello scritto da parte di Ejèsini. Oltre a Colasse, la lettera nomina anche altre città della valle del fìume Li co - Gerapoli (4, 13) e Laodicea (2, l; 4, 13.15 .16) -, per cui anche quei cristiani potrebbero forse aver ricevuto una lettera di Pa,olo, che i destinatari dovevano scambiarsi e leggere assieme a quella destinata a loro (4,16). Prescindendo dal fatto che, in termini del tutto generali, questa notizia presuppone la circolazione delle lettere paoline (cfr. già l Ts 5,27), non possiamo trarre da essa troppe conseguenze, soprattutto non possiamo per questo concludere che i reali destinatari fossero a Laodicea (come ritiene A. LINDEMANN, ZBK lO, 36). Siccome questa 'lettera a Laodicea' non esisteva assolutamente (la lettera apocrifa a quella comunità [II-IV secolo?] intende colmare questa lacuna: cfr. NTApo II 41.44), l'autore di Colossesi «avrebbe rimandato senza bisogno i suoi destinatari a una lettera che non avevano ricevuto», per cui avrebbe «direttamente nuociuto alla credibilità del suo farsi passare come l'autore» (M. WOLTER 221). Colasse non può essere la patria dei lettori a cui è diretta Colossesi, per i seguenti motivi: In Tacito si legge: >. Quanto più la venuta del Signore si fa attendere, tanto più giustificata dovette apparire la posizione della sképsis a proposito dell'arrivo di questo evento e con maggiore probabilità i giudizi dei

XVII. La Seconda lettera di Pietro

659

nega tori della parusia trovarono orecchi pronti all'ascolto. Viene citato esplicitamente un giudizio del genere in 2 Pt 3,4: «Dov'è la sua venuta, che egli ha promesso?». E un giudizio analogo si avverte in 1,16, quando l'autore respinge il rimprovero degli avversari (A. V OGTLE, EKK XXII, 117; l. BROER II, 644), affermando che la speranza nella venuta del Signore non è una «favola artificiosamente inventata». Nella sua reazione, l'autore della Seconda lettera di Pietro non entra qui in una disamina argomentativa con i negatori della parusia. La discussione, piuttosto, mira a mantenere o riportare i destinatari della lettera sulla linea ortodossa garantita dagli apostoli (1,12-21). Da una parte questo avviene mediante una fortissima squalifica degli avversari, che sono presentati come meritevoli di condanna e come un pericolo per i destinatari della lettera (2,1-22); dall'altra ricordando i diversi aspetti che possono fornire ai destinatari una plausibilità nuova per l'attesa della venuta del Signore (3,5-13), di modo che le esortazioni (1,5-7.9s.; 3,12.14-18) possano cadere su un terreno fertile.

BIBLIOGRAFIA

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XVIII. La Prima lettera di Giovanni (foachim Kugler)

La Prima lettera di Giovanni è sicuramente fra i testi più letti del NT, perché il suo messaggio sull'amore, il cui apice risiede nell' affermazione «Dio è amore» (l Gv 4,8.16), sviluppa in modo efficace un tema centrale della fede cristiana: fede e vita vanno di pari passo; chi non si comporta in modo che la sua condotta di vita sia guidata dall'amore, dimostra di non aver conosciuto Dio. Questo insegnamento non è presentato in modo piano ed equilibrato, ma è accentuato polemicamente, e questo a volte ha fatto sorgere la questione della serietà con cui lo stesso autore ha messo in pratica il comandamento dell'amore nei confronti dei suoi avversari.

l.

Struttura

La difficoltà di dividere in parti la Prima lettera di Giovanni dipende «dal modo di pensare e di scrivere relativamente uniforme» del suo autore (H.-J. KLAucK, EKKXXIII/1, 27). Svariati passaggi sono smussati e dolci, e l'individuazione di versetti o sezioni di passaggio crea molta confusione. La suddivisione che qui proponiamo si basa sul fatto che l'autore utilizza nel testo diversi segnali: meta-affermazioni sul suo scritto (per esempio «questo è il messaggio», «vi scrivo», oppure «ho scritto a voi») che aprono o chiudono le sezioni; gli appellativi rivolti direttamente ai destinatari («figlioli», «carissimi» e altri); parole-guida (per esempio «amore» o «spirito»).

662

D. Le lettere - Lettere cattoliche

Tuttavia la Prima lettera di Giovanni è costruita con una tecnica associativa concatenata: per esempio, i concetti-guida della nuova sezione appaiono già alla fine della precedente, oppure l'indirizzo rivolto ai destinatari si trova nel mezzo della sezione o alla fine di essa. Per queste ragioni non c'è accordo in tema di suddivisione del testo. Prologo: 1,1-4

Conclusione: 5,13 Epilogo: 5,14-21

«..• Vi ho scritto>>: i credenti possiedono la vita

5,13

Franchezza efiducia dei credenti

5,14-21

XVlll. La Prima lettera di Giovanni

2.

663

Origine

Siccome tradizionalmente le tre Lettere di Giovanni sono state considerate un gruppo, le questioni riguardati l'origine della Prima lettera non possono essere trattate in maniera isolata, ma vanno viste sempre in relazione alle due lettere minori. Va tenuto presente, inoltre, anche il rapporto con il Vangelo di Giovanni.

2.1

FONTI, TRADIZIONI E REDAZIONE FINALE DEL TESTO

Mentre nella letteratura scientifica più antica (per esempio R. Bultmann) si ipotizzò per la Prima lettera di Giovanni l'esistenza di un testo base, la ricerca più recente parla di solito di unitarietà della lettera e sottolinea il fatto che Bultmann, senza validi motivi, ha applicato alla Prima lettera di Giovanni l'ipotesi a tre stadi che aveva elaborato per il Vangelo di Giovanni allo scopo di spiegarne l'origine storica (K. WENGST, OTBK 16, 20-24; H.-J. KLAUCK, EKK XXIII/l, 21-23). L'unico 'modello' che ancora viene discusso seriamente è il Vangelo di Giovanni, nel senso tuttavia di una relazione intertestuale (= Cv è un 'pre-testo' per l Cv). È chiaro infatti che la Prima lettera di Giovanni riprende più volte modelli linguistici e concettuali che sono in Giovanni. Le differenze stilistiche si fondano peraltro nella diversità dei tipi di testo. Sorprendono tuttavia alcuni spostamenti semantici nei concetti centrali, che rendono improbabile un'identità del nostro autore con !"evangelista' pre-redazionale e con la redazione del quarto vangelo. Nondimeno, il testo della Prima lettera di Giovanni si colloca sicuramente nell'ambito della teologia giovannea: è soprattutto questo il contesto di tradizione a cui si ricollega. Per quanto riguarda l'ipotesi di una più ampia rielaborazione redazionale della Prima lettera di Giovanni, neppure qui la soluzione proposta da Bultmann vanta dei seguaci. L'unica eccezione è rappresentata dai versetti conclusivi (5,14-21) che, anche indipendentemente dal modello bultmanniano a tre stadi, sono ritenuti un'aggiunta posteriore. Gli argomenti in proposito sono illuminanti: questi versetti ignorano la chiara chiusura di 5,13 e anche dal punto di vista semantico sono in parte in chiaro contrasto con le affermazioni precedenti del testo

664

D. Le lettere - Lettere cattoliche

(cfr. K. WENGST, OTBK 16, 21; H.-J. KLAUCK, EdF, 56-58; di diversa opinione è, per esempio, J. BEUTLER, RNT, 13s.). Probabilmente l'appendice fu aggiunta sotto l'impressione delle persecuzione statale in Asia minore, allo scopo di attualizzare la lettera (K. WENGST, OTBK 16, 215-226).

2.2

IL PROBLEMA DELL'AUTORE

La Prima lettera di Giovanni non nomina il proprio autore proprio come fa il Vangelo di Giovanni, ma al pari del vangelo dev'essere stata scritta da un testimone oculare. Se in Gv 21,24 abbiamo il 'discepolo prediletto' che viene presentato come l'autore del vangelo, all'inizio del suo scritto l'autore della Prima lettera di Giovanni si fa conoscere come membro di un gruppo (oppure abbiamo qui un plurale letterario?) che ha visto, udito e toccato Gesù. Siccome questa pretesa risulta storicamente ardua(-+ 2.4), «ci troviamo dinanzi a un caso di pseudoepigrafia anonima» (H.-J. KLAucK, EKK XXIII/l, 45), anonima perché nessun grande nome del passato viene proposto come autorità. L'autore reale potrebbe essere appartenuto alla cerchia dei discepoli della scuola giovannea, dalla quale provengono anche il Vangelo di Giovanni e le altre Lettere di Giovanni. Tutti i tentativi volti a risolverne l'anonimato sono contestabili. L'a ttribuzione risalente alla chiesa antica - quella all'apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo - è stata dichiarata errata dalla ricerca critica, ma non è stata ancora raggiunta una soluzione alternativa che sia in grado di riscuotere il consenso degli studiosi. Se non appaiono nuove fonti, una siffatta soluzione potrebbe non rientrare nell'ambito della ricerca scientifica, perché il testo non offre alcun appiglio. Alcune concordanze e differenze tra la Prima lettera di Giovanni e la redazione finale del Vangelo di Giovanni suggeriscono una grande vicinanza teologica, senza però far pensare a una identità degli autori. In virtù di alcuni riferimenti all'inizio e alla prima conclusione di Giovanni(-+ 2.4.1), la Prima lettera di Giovanni fa pensare che sia stata scritta dall'autore di Giovanni (questo però non nella sua stesura finale). Lo scopo di questa finzione dell'autore è quello di «opporre l'autorità dell'evangelista ad avversari che la riconoscono» (K. WENGST, OTBK 16, 28).

XVIII. La Prima lettera di Giovanni

2.3

665

DESTINATARI

Il gioco intertestuale con il quarto vangelo ( + 2.4.1) fa pensare che i destinatari della Prima lettera di Giovanni si debbano collocare nel medesimo ambiente giovanneo. Si tratta sicuramente di cristiani e cristiane che, come presupposto anche in Giovanni, erano in prevalenza provenienti dal paganesimo, sebbene vi sia anche un forte sfondo ebraico della tradizione giovannea, come si può scorgere pure nell'elaborazione di materiale della tradizione ebraica da parte della lettera. Se esiste una stretta connessione temporale con la redazione giovannea del Vangelo di Giovanni(-+- 2.4.1) e se per questa non è improbabile una localizzazione ad Efeso, questo vale anche per la Prima lettera di Giovanni.

2.4

COLLOCAZIONE TEMPORALE

La Prima lettera di Giovanni si vuole scritta da un testimone oculare della storia di Gesù. Il che deporrebbe per un'origine antica. Se si tratta tuttavia di un testo pseudoepigrafico (+ 2.2), queste indicazioni sono fittizie e non aiutano a datare lo scritto. Così, siccome il testo di fatto non fornisce in altre parti delle indicazioni direttamente utilizzabili per la datazione, siamo costretti a fermarci a deduzioni indirette, che si fondano su una correlazione con il quarto vangelo e con le altre due Lettere di Giovanni. 2.4.1

Rapporto con il Vangelo di Giovanni

Fino a che punto il Vangelo di Giovanni è un pre-testo della Prima lettera di Giovannz? Soprattutto l'inizio della lettera sembra alludere al prologo giovanneo, ma anche altrove si possono indicare delle analogie. Presentiamo di seguito una piccola sinossi, senza alcuna pretesa di completezza (H.-J. KLAucK, EdF, 94s.).

666

D. Le lettere - Lettere cattoliche

Pdma flttera t~t6iovamt Vangelo di Giovanni l,la l,lc l,ld l, l s. 1,2a 1,2b 1,2c 1,2e

Quello che era da principio quello che abbiamo veduto quello che contemplammo del Logos l Verbo della vita la vita infatti si manifestò noi l'abbiamo veduta edi ciò diamo testimonianza che era presso il Padre

1,3b 1,4b

noi lo annunciamo anche avoi perché la nostra gioia sia piena

1,5a 1,5d 1,5e 2,3c 2,5ab 2,8a 3,11 3,12a 3,14b 3,16ab 4,9

4,12a

questo èil messaggio Dio èluce ein lui non c'è tenebra alcuna se osserviamo i suoi comandamenti chi invece osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio èveramente perfetto eppure vi scrivo un comandamento nuovo questo èil messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri perché le sue (di Caino) opere erano malvagie noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita in questo abbiamo conosciuto l'amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi in questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui nessun mai ha visto Dio

In principio era il Logos l il Verbo Dio, nessuno lo ha mai visto noi abbiamo contemplato la sua gloria ain lui (nel Logos l Verbo) era la vita eil Verbo si fece carne evenne ad abitare in mezzo a noi per dare testimonianza e il Verbo era presso Dio ed ènel seno del Padre è lui che lo ha fatto conoscere pieno di grazia e di verità dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto questa èla testimonianza di Giovanni ela vita era la luce degli uomini la luce splende nelle tenebre se osserverete i miei comandamenti se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà vi dò un comandamento nuovo questo èil mio comandamento: che vi arniate gli uni gli altri come io ho amato voi le sue (del mondo) opere sono cattive

l,la 1,18a 1,14c 1,4 1,14a 1,14b l}b l,lb 1,18b 1,18c 1,14e 1,16a

ma èpassato dalla morte. alla vita

5,24g

1,19a 1,4b 1,5a 15,10 14,23 13,34 15,12 7,7d

nessuno ha un amore più grande di questo: 15,13 dare la sua vita per i propri amici Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare 3,16 il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna Dio, nessuno lo ha mai visto 1,18

Malgrado qualche accento diverso, queste allusioni sono chiarissime e questo ha delle conseguenze per la collocazione nel tempo dell'origine della lettera. Inoltre da H.-J. Klauck (EKK XXIII/l, 319s.) e altri è stato messo in evidenza che la fine della lettera riprende la prima conclusione di Giovanni, quella in 20,31. Anche qui si possono constatare accentuazioni diverse, ma le somiglianze di queste conclusioni sono ancora più chiare di quelle degli inizi dei testi e obbligano a ipotizzare una ripresa imitativa: 7Gv 5,13

Gv 20,31

Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate di Dio. la vita nel suo nome.

XVIII. La Prima lettera di Giovanni

667

Non ci sono queste somiglianze con la seconda conclusione del Vangelo di Giovanni (21,24s.), che di solito viene attribuita alla redazione giovannea, così come si può notare in generale che nella Prima lettera di Giovanni non si nomina la figura del discepolo prediletto, quantunque si avrebbe potuto usarla benissimo per la finzione di paternità(-+ 2.2). Evidentemente il discepolo prediletto non era ancora conosciuto. Se i testi corrispondenti del Vangelo di Giovanni sono considerati un inserimento redazionale, ne deriva in generale l'idea che, da un lato, la Prima lettera di Giovanni presuppone il quarto vangelo, ma che, dall'altro, non ne conosce ancora la redazione definitiva. Considerando le inevitabili incertezze circa la datazione della redazione ultima di Giovanni, si dovrà essere prudenti nel proporre una datazione della Prima lettera di Giovanni. 2.4.2

Rapporto con la Seconda e la Terza lettera di Giovanni

L'ordine degli scritti del NT non costituisce una prova della loro antichità, perché nell'ordinamento canonico giocarono un ruolo altri criteri (come, per esempio, la lunghezza dello scritto). Pertanto, neppure la disposizione delle tre Lettere di Giovanni nel NT certifica che la Prima lettera di Giovanni sarebbe la più antica e la Terza lettera invece la più recente delle tre. Le somiglianze tra la Seconda e la Terza lettera di Giovanni sono maggiori di quelle tra la Prima lettera e le altre due brevi missive. Le analogie riguardano sia l'ampiezza - le due piccole lettere sono lunghe all'incirca in modo uguale - come pure singole formulazioni (cfr. la sinossi che H.-J. KLAUCK, EKK XXIII/2, propone in Appendice). La Seconda e la Terza lettera di Giovanni risalgono al medesimo autore oppure una delle due è un'imitazione dell'altra. Nelle due piccole lettere, però, nulla fa pensare a una finzione della paternità. I due scritti non sono tra quelli di maggiore importanza teologica del NT, perché non argomentano granché: non si propongono una grande e importante revisione della tradizione giovannea, appellandosi a una spacciata autorità, ma piuttosto di regolare concrete questioni di una situazione conflittuale. Questo indurrebbe a pensare che abbiamo a che fare con vere e proprie lettere occasionali, risalenti al medesimo aurore. Per quanto concerne la successione temporale, le notizie riguardanti la situazione che portò alla loro stesura sono troppo imprecise per farci

668

D. Le lettere - Lettere cattoliche

approdare a una decisione chiara. Neppure questo è sorprendente per delle vere e proprie lettere, perché l'autore presuppone che i suoi destinatari posseggano una certa conoscenza della situazione, mentre i lettori odierni non sono più in grado di condividere questo comune orizzonte comunicativo. La situazione conflittuale comunque è simile a quella della Prima lettera di Giovanni: si tratta di dispute fra cristiani. Come accade per la lettera grande, le due missive più piccole dovrebbero quindi essere collocate tra la stesura pre-redazionale del Vangelo di Giovanni e la sua redazione ultima. La base informativa sembra essere troppo povera per decidere se sia più antica la Seconda o la Terza lettera di Giovanni. Quello che si riesce a ricavare dai due brevi testi non basta comunque per negare la successione tramandata. In fondo questo vale anche per la collocazione della Prima lettera di Giovanni, dove però la finzione dell'autore pone una differenza qualitativa. Se si suppone che l'autore fosse talmente conosciuto ai suoi destinatari da non dover neppure indi carne il nome, e se si osserva d'altra parte che egli avanza l' inappropriata pretesa di appartenere alla generazione dei testimoni oculari, si può seguire Klauck e ritenere che la lettera maggiore sia il testo più antico, al quale il medesimo autore ha fatto seguire poi le altre due lettere. Sull'argomento non è possibile arrivare a una sicurezza definitiva. Rimangono aperte alcune questioni: verso la fine del I secolo (o anche dopo) potevano veramente i destinatari o le destinatarie ritenere l"anziano' (ovvero il 'presbitero') un contemporaneo di Gesù? È molto probabile che, nel suo primo scritto, l'autore metta in campo un'autorità che poi non utilizza quando il conflitto si acuisce? Quell"anziano' poteva ottenere con la sua personale autorità qualcosa che non aveva potuto ottenere con l'autorità di un testimone oculare, alla quale non ricorre mai nelle due lettere piccole? Non è più probabile che egli ricorresse alla finzione della paternità della lettera quando non bastava più l'autorità personale? Di conseguenza, le due piccole lettere non potrebbero essere più antiche della Prima lettera di Giovannt? Si dovrà certamente ammettere che gli eventi storici non si svolgono in modo lineare, ma sarebbe quanto meno più probabile supporre che !"anziano' cerchi dapprima di intervenire nella situazione con la sua personale autorità, per poi, quando questa non basta, ricorrere con una finzione alla superiore autorità di un testimone oculare. Può averlo fatto lui stesso o qualcuno della cerchia giovannea che gli era teologicamente e linguisticamente molto vicino. Il risultato di questo processo

XVIII. La Prima lettera di Giovanni

669

porterebbe allora alla figura redazionale del discepolo prediletto quale autore inventato del Vangelo di Giovanni, per il quale non si è costretti a supporre ancora una volta il medesimo autore. Ci sembra però che non ci sia dubbio che gli autori della redazione finale del vangelo e delle lettere fossero vicinissimi fra loro, che provenissero tutti dalla comune tradizione giovannea e che tutti elaborassero il medesimo conflitto (in stadi diversi).

2.4.3

Bilancio sulla cronologia

H.-J. Klauck (EKK XXIII/l, 49), K. Wengst (0TBK 16, 30) e altri propongono come periodo di origine della Prima lettera di Giovanni (e delle altre due lettere) il 100-110 d.C. Non deve essere trascorso molto tempo fra le tre Lettere di Giovanni e neppure fra le lettere e la redazione del vangelo. Siccome la data più antica per la redazione finale del Vangelo di Giovanni con un possibile utilizzo dei vangeli sinottici va collocata tra il 70 e il 90 d.C. e il terminus ante quem va collocato nel periodo 125-150 d.C. sulla base di P 52 (+ B.VII), l'ipotesi avanzata sopra appare possibile, anche se forse si può considerare un po' troppo audace la precisazione della proposta. Mi pare comunque che possegga alcune ragioni a suo favore la successione: stesura pre-redazionale di Gv - 2 Gv l 3 Gv- l Gv- redazione ultima di Gv. Tuttavia, per quanto riguarda l'ordine delle tre lettere, non è possibile andare al di là di ipotesi probabili.

2.5

QUESTIONI SUL GENERE LETTERARIO

La Prima di Giovanni è davvero una lettera? Il fatto che questo dato sia stato ripetutamente messo in dubbio nella ricerca è collegato alla circostanza che il testo non presenta le usuali formule di inizio epistolare e alla fine manca la solita conclusione con la lista dei saluti. Inoltre essa è chiaramente troppo lunga per una lettera privata dell'Antichità, ma qui noi siamo stati abituati dalle principali lettere paoline a prendere atto che, in questo, le lettere del cristianesimo delle origini fanno eccezione. Se si accetta come lettera quella ai Romani, la Prima lettera di Giovanni non esce assolutamente dallo spettro del genere epistolare (+ I.). Per quanto riguarda l'inizio e la fine, non si può pensare che qui sia andato

670

D. Le lettere - Lettere cattoliche

perduto qualcosa, ma queste particolarità possono essere ricondotte anche alla finzione della paternità dello scritto. Se si tiene conto di questo, nulla si oppone a collocare la Prima lettera di Giovanni nel genere letterario delle lettere antiche, come generalmente fa la ricerca più recente (cfr., per esempio, K. WENGST, OTBK 16, 27s.; J. BEUTLER, RNT, 12s.).

3.

Trattazione

3.1

«DIO È AMORE»: UN PRINCIPIO TEOLOGICO E LE SUE CONSEGUENZE

Normalmente il tema specifico della Prima lettera di Giovanni viene individuato nella cristologia. I problemi etici che il testo affronta sono considerati per lo più una semplice conseguenza di un de:ficitcristologico. Al contrario, H. Thyen ha affermato categoricamente che «al centro non c'è la cristologia» (TRE, 190). Infatti, l'inizio del testo presenta come orientamento principale dei lettori non un problema cristologico, ma un enunciato teologico di fondo: «Dio è luce e in lui non c'è tenebra alcuna» (I Cv 1,5). Nello stesso corpo del testo, sul piano puramente statistico dominano concetti derivati dall'ambito etico-pratico, come per esempio 'amore' /'amare' (oltre quaranta volte). Questa centralità del concetto dell'amore viene fondata anche teologicamente: Dio stesso, infatti, «è amore» (I Cv 4,8.16). Da queste affermazioni su Dio sono tratte delle conseguenze per l'esistenza cristiana. Siccome cioè i figli assomigliano al loro papà, i credenti, in quanto sono stati generati/nati (il verbo greco ycwaw può avere entrambi i significati) da Dio, sono persone che amano. Se i credenti si amano a vicenda, amano con questo anche Dio, perché lui è presente nei suoi figli. Siccome Dio è amore, giustizia e luce, i suoi figli praticano l'amore e la giustizia e non commettono peccati. Il testo si rivolge chiarissimamente ai destinatari nella loro condizione di salvezza in quanto figli di Dio: essi sono passati dalla morte alla vita (3,14), sono forti, i loro peccati sono stati perdonati, hanno conosciuto Cristo e il Padre, il Maligno è stato vinto, la parola di Dio rimane in loro

671

XVIII. La Prima lettera di Giovanni

(2,12-14), hanno la conoscenza perché hanno ricevuto l'unzione dello Spirito (2,20) e questo dono è duraturo, completo e assolutamente affidabile rispetto alla verità (2,27). Questa indicazione della grazia, che aumenterà escatologicamente fino alla somiglianza con Dio (3,2), viene collegata all'imperativo pratico: l'essere figlio redento di Dio e l'amore concreto vanno di pari passo. Viceversa, chi non ama non è generato/ nato da Dio. Come si inserisce la cristologia in quest'argomentazione? Per amore Dio manda il suo Figlio nel mondo. Gesù, allora, in quanto Figlio di Dio incarnato, è la rivelazione dell'amore di Dio nel mondo. Per amore egli dà la sua vita sulla croce e opera la redenzione con il suo sangue. L'amore di Dio possiede quindi uno stretto collegamento cristologico con la croce ed è orientato alla croce. Quindi chi accetta nella fede l'amore di Dio non accoglie un concetto generale di amore, ma l'amore concreto come dono della vita. Così anche i credenti figli di Dio sono persone che si danno con amore, amando i fratelli e le sorelle fino a dare la loro vita (3, 16), anzi fino a sacrificare le proprie ricchezze (3, 17).

3.2

UN CONFLITTO: CHI

È

«FIGLIO DI DIO»?

La maggior parte degli studiosi ha riconosciuto che la Prima lettera di Giovanni ha davanti a sé un conflitto interno alla comunità. A volte, in passato, ci si è occupati degli 'avversari' dell'autore fino a perdere di vista lo specifico messaggio della lettera. Al contrario, negli studi più recenti l'esistenza degli avversari viene persino negata (cfr., per esempio, H. SCHMID), posizione questa che può anche essere esagerata. Si ha una ragionevole via di mezzo se si parte dalle osservazioni di l Gv 2,18s. (ma anche di 4,1-5 e 2 Gv 7-10; 3 Gv 9s.), senza per questo sopravvalutare la questione degli avversari. Va tenuto presente, inoltre, che una lettera pseudoepigrafica è un testo basato su una finzione che non fornisce alcuna descrizione di una realtà esterna al testo. Non basta quindi soffermarsi sulle caricature polemiche, ma si deve cercare la via che conduce a conclusioni storiche oltre l'intento pragmatico: che cosa vuole ottenere il testo? E in quale situazione questo obiettivo è adeguato? Nell'ambiente rappresentato dal testo si è arrivati chiaramente a una spaccatura: alcuni non sono «rimasti», ma «sono usciti}} (l Gv 2, 19; cfr.

672

D. Le lettere - Lettere cattoliche

Giuda in Gv 13,30!). Una simile situazione di separazione fa diventare evidente la divisione tra 'buono' e 'cattivo'. Gli apostati sono coloro che non hanno mai fatto veramente parte della comunità: sono sempre stati infedeli, come «i Giudei». Questa spiegazione dualistico-deterministica si adatta a una spaccatura già avvenuta: l'insicurezza prodotta dalla divisione in coloro che rimangono va affrontata ed eliminata. D'altra parte, il testo si sforza di definire cosa sono fede cristiana giusta e vita cristiana giusta. In questo sforzo per la formazione dell'ortodossia e dell' ortoprassi, sono caratteristiche le numerose definizioni («chiunque ... » oppure «se... allora»; al riguardo, cfr. J. KùGLER, Tat, 66.74). Quest'opera di definizione, che attraversa tutto il testo, è più sensata in una situazione in cui 'bene' e 'male' non sono ancora completamente evidenti. Il tentativo di tracciare delle delimitazioni farebbe pensare che il testo si collochi nell'immediata anticamera di una spaccatura. Per spiegare storicamente questa divisione si può supporre, per esempio, che la parte della comunità che è 'uscita' sia stata la maggioranza (o almeno di consistenza pari all'altra parte), così che quelli che 'restano' devono essere ancora di più persuasi che loro sono i veri credenti e gli altri gli apostati. Si può tuttavia pensare anche all'indipendenza di un testo basato su una finzione che, in quanto testo 'antico', descrive una situazione 'del suo tempo'. In questo caso la divisione presentata nel testo potrebbe fungere da deterrente anche in considerazione dell'incombente divisione esterna: non accettate che accada questo! Pare che non si possa arrivare a una decisione sicura e fondata sulla sola base della Prima lettera di Giovanni; si deve notare però che nelle altre due brevi Lettere di Giovanni si riscontrano già delle contrapposizioni avanzate (divieto di salutare, ospitalità negata, insegnamenti cattivi ed esclusione dalla comunità). Se la Seconda e la Terza lettera di Giovanni dovessero essere effettivamente più antiche della Prima, l'obiettivo della lettera maggiore potrebbe essere una ripresa della divisione esterna, che in gran parte è già avvenuta.

Che cosa si può dire della posizione della parte avversa? Se il baricentro della lettera, collocato sulle questioni etico-pratiche, è un segnale di come l'autore giudica la situazione esterna, egli potrebbe aver visto il problema principale nel fatto che mancava un amore concreto (anche nel senso di una solidarietà finanziaria). Questo turbamento della struttura e delle relazioni comunitarie potrebbe essere stato l'esito di una consapevolezza della redenzione troppo accentuata sulle ali dell' entusiasmo (cfr. J. BEUTLER, RNT, 22-24). Il fatto che il testo non cerchi di contestare lo stato di salvàti dei figli di Dio fa capire che questa visione

XVIII. La Prima lettera di Giovanni

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soteriologica è condivisa da lui e dai destinatari della lettera. Potrebbe esserci qui un solido dato della tradizione. Esso non viene smantellato, ma viene negato per «chi non ama»: chi, in quanto unto dallo Spirito, pensa di potersi esimere dai doveri sociali nella comunità, mostra veramente di non essere figlio di Dio. In linea di principio non si può contestare che un siffatto comportamento sbagliato possa avere conseguenze anche nell'ambito della cristologia, ma la questione è vedere se è lì che va individuato un punto centrale e specifico della contrapposizione. Va anche osservato che il testo utilizza il cliché degli avversari della tradizione giovannea: molti passi in cui si parla della fede in Gesù in quanto Cristo, per esempio, suscitano l'impressione che gli avversari siano «i Giudei» (al riguardo, cfr.]. KùGLER, Tat, 76s., che prende le distanze da H. THYEN, TRE 17, 193), anche se si tratta di fratelli cristiani (per il passato). Quest'ipotesi non si basa solamente sulla constatazione che uno pseudoepigrafo sembra essere sempre più antico di quello che è, ma ha la sua logica nel fatto che agli 'altri' viene contestato il loro essere cristiani; essi sono quindi come «i Giudei» inàeduli che conosciamo da Gv 8. Le sporadiche affermazioni sulla venuta di Gesù Cristo «nella carne» (I Gv4,2; cfr. anche 2 Gv7) e «con sangue» (I Gv 5,6.8) possono essere comprese come dirette contro i doceti (cfr., per esempio, W. UEBELE 118-146) o come contrapposizione a una cristologia della separazione, ma ci si deve domandare se questi singoli passi possono reggere il peso eccessivo di questa prova, tanto più che risulta arduo costruire una convincente fisionomia degli avversari: la critica diretta all'interpretazione antidocetica di G. Richter (un «corpo d'acqua» non è documentato nella storia delle religioni: K. WENGEST, Hiiresie, 19s.) è convincente tanto quanto la critica opposta, rivolta all'affermazione di una cristologia della separazione (se la discesa di Cristo avviene solamente nell'acqua del battesimo, questa è una conferma della divisione tra Cristo e Gesù: G. RrcHTER 124s.). Forse l'esegesi della Prima lettera di Giovanni deve imparare a interpretare le affermazioni della lettera nel loro contesto interno. Infatti, non si deve subito negare l'esistenza di avversari, ma è necessario mettere in evidenza il messaggio del testo prima di ricostruire in base ad esso una posizione contraria. Questo contesto interno è il programma di una fondazione teologica e cristologica dell' éthos cristiano. Qui la cristologia acquista una funzione paradigmatica e può quindi essere letta come affermazione riguardante la vita cristiana: come Cristo è

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D. Le lettere - Lettere cattoliche

venuto nella carne, non solo nell'acqua del battesimo, ma anche nel sangue della morte sulla croce, così anche l'esistenza cristiana non può consistere solo nel possesso dello Spirito, ma deve farsi 'carne e sangue' come amore concreto fino al dono delle proprie ricchezze e della propria vita per le sorelle e per i fratelli. Se poi, oltre a questo, sia necessario ricostruire anche un deficit cristologico negli avversari o nelle avversarie che l'autore individua, il fatto resta probabilmente controverso tanto quanto la questione che si tratti già di «uno gnosticismo iniziale» (cfr., per esempio, J. BEUTLER, RNT, 24; ancora un po' più cauto è H.-J. KLAUCK, EdF, 149-151). Forse però, per la comprensione del testo, questo è meno importante, come sostiene la maggior parte degli studiosi, perché molte affermazioni cristologiche sono dovute alla fittizia situazione conflittuale (un 'anziano' autore combatte avversari 'giudei') di uno scritto pseudoepigrafico.

3.3

ORIENTAMENTO 'PROTOCATTOLICO' A UN PASSATO NORMATIVO

A patto di emanciparsi dalla tradizione teologica controversistica riguardante il concetto di 'protocattolicesimo' (su questo è critico H.J. KLAUCK, EKK XXIII/l, 344-347), si può benissimo usare questo termine per descrivere determinati cambiamenti nella visione e nella struttura della chiesa che si verificarono tra la fine del I secolo e l'inizio del IL Le caratteristiche importanti di questo cambiamento sono: l'orientamento a un passato normativa; la formazione di più forti strutture ministeriali, compresa la formazione di una gerarchia; l'orientamento a modelli strutturali conservativi dell'ambiente pagano; il respingimento delle donne nell'assegnazione dei ruoli nella chiesa. In questo ampio processo di formazione strutturale sembrano entrare anche la redazione del Vangelo di Giovanni e le Lettere di Giovanni, ma qui non si riesce a dare una buona risposta al problema di precisare fino a che punto il conflitto fattoci conoscere dalla Prima lettera di Giovanni fosse anche un conflitto tra i sessi. Da una parte sorprende che il testo non dica che sono donne gli individui che vuole tirare dalla sua parte: il testo usa termini neutri ('figlioli') o maschili ('padri', 'giovani'). Questo comunque potrebbe essere un indizio. D'altra parte i credenti sono sempre designati in modo inclusivo come 'figli di Dio' (di genere neutro) e non come figli maschi, anche se per la somiglianza a Cristo la distinzione sarebbe molto sottile. Inoltre, gli avversari sono sempre indicati con

XVl/1. La Prima lettera di Giovanni

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termini maschili ('anticristi', 'falsi profeti'). -L'esame della Prima lettera di Giovanni non ci fornisce quindi un indizio chiaro per la lotta di genere.

È sicuramente un anacronismo (derivato ancora una volta da R. Bultmann) pensare che nel 'protocattolicesimo' giovanneo si tratti dell'adattamento di una libera carismaticità a un 'grande chiesa sinotticopetrina'. La 'chiesa grande' sorge solamente un po' alla volta e si devono forse supporre corrispondenti processi di formazione delle strutture, in maniera abbastanza sincrona e decentrata, in ognuno degli ambiti di tradizione (paolina- sinottica- giovannea). Probabilmente, per quanto concerne il 'protocattolicesimo' giovanneo, si tratta quindi prima di tutto di un fenomeno intra-giovanneo, il quale crea al tempo stesso il presupposto per sviluppi ulteriori assieme ad ambiti che conoscono o hanno conosciuto trasformazioni analoghe. In questo contesto, la finzione della paternità della Prima lettera di Giovanni non può essere considerata solamente come un letterario «gioco delle perle di vetro» (come suona il titolo di un celebre romanzo di Hermann Hesse, del 1943). Si tratta piuttosto di un fondamento nuovo dell'autorità (cfr. J. KOGLER, Belehrung), in una comunità che non è 'istruibile', nel senso che tutti i suoi membri hanno conosciuto l"unzione' ad opera dello Spirito (2,27). Uomini e donne sono sapienti che hanno conosciuto Dio e il suo Unto. Per voler istruire un gruppo del genere non ci si può richiamare allo Spirito, perché lo possiedono già tutti; perciò nella lettera il termine 'spirito' (pnèuma) viene usato con parsimonia e con senso ambivalente: si deve distinguere lo spirito buono da quello cattivo! Per crearsi una posizione differente rispetto agli unti dallo Spirito, deve essere introdotto qualcosa di nuovo, cioè l'argomento della testimonianza oculare. A questo genere di formazione 'storica' dell'autorità è collegato un orientamento a un'origine normativa. Il bene, l'antico e il vero stanno nel passato, e solamente chi era presente «fin da principio», chi ha visto e udito Gesù in persona, può testimoniare in modo attendibile questa verità originaria. Qui però non si tratta solamente di Gesù quale fondamento e origine della fede cristiana; nel conflitto con il gruppo rivale, si tratta anche della questione della continuità intra-giovannea. Mediante la «storicizzazione della teologia giovannea» (T.K. HECKEL), la tradizione del gruppo giovanneo e l'autorità ad essa collegata devono essere sottratte al gruppo avversario. L'imitazione della stesura pre-redazionale del Vangelo di Giovanni indica che la Prima lettera di Giovanni deve essere

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D. Le lettere - Lettere cattoliche

stata scritta dal medesimo autore. Nelle divisioni entra sempre in gioco anche la questione di chi fino a questo momento è erede della tradizione comune, la interpreta correttamente e la trasmette in modo giusto. Così, nella giovannea «guerra delle due rose» per la casa comune, viene posto un segnale inequivocabile: il gruppo a cui si rivolge la Prima lettera di Giovanni deve conoscere e riconoscere che il Vangelo di Giovanni, in quanto testo che garantisce l'identità della cerchia giovannea, va compreso così come lo spiega il 'testimone oculare'. Nella lotta «per la giusta comprensione della comune eredità» (H.-J. KLAUCK, EdF, 147), l'autore della lettera rivendica- e lo fa anche per il gruppo che sta alle sue spalle - che è la sua spiegazione, non la spiegazione degli «anticristi», a porsi in continuità con la verità che era «da principio» e che alla fine è la verità di Dio. Perciò è importante per i destinatari essere in comunione con coloro che rappresentano la posizione della Prima lettera di Giovanni. Questi testimoni e maestri sono in comunione con Dio e con il suo Figlio: chi vuole raggiungere o conservare questa comunione, deve stare dalla loro parte. In base a quanto detto, viene fatta luce anche sulla Terza lettera di Giovanni e sulla relazione fra Pietro e il discepolo prediletto in Gv 21 (e sugli altri testi del discepolo prediletto). Se nella Terza lettera di Giovanni «il Presbitero», in quanto testimone, combatte il capo ribelle della comunità, Diòtrefe, che non cerca la comunione con lui, la redazione giovannea - quasi come controfigura di questo conflitto - rappresenta, nella relazione tra discepolo prediletto e Pietro, il rapporto ideale del legittimo pastore con il giovane testimone: il pastore adempie il suo compito lasciando che sia Gesù a coordinarlo al testimone. È costui che conosce Gesù e sa chi sono gli infedeli e i traditori. Se si presuppone che la Prima lettera di Giovanni sia davvero la più recente delle tre Lettere di Giovanni, si individua una linea di sviluppo che parte dal conflitto della Terza lettera di Giovanni, passa la finzione della paternità della Prima lettera di Giovanni, che fonda l'autorità, e arriva alla redazione del Vangelo di Giovanni.

BIBLIOGRAFIA

.. D.XX (alla fine).

XIX. La Seconda lettera di Giovanni (joachim Kugler)

La Seconda lettera di Giovanni è (con la Terza) tra gli scritti più brevi del NT: persino la più breve delle epistole di Paolo, la Lettera a Filemone, è più lunga delle due piccole Lettere di Giovanni. Le quali non sono suddivise in capitoli (pertanto 2 Gv 3 non indica il cap. 3, ma il versetto 3!), non sono particolarmente rilevanti per l'aspetto teologico, e tuttavia forniscono una buona idea dell'estensione e delle caratteristiche di una normale lettera privata dell'Antichità: «La loro lunghezza- ciascuna delle due lettere supera di poco i 1.000 caratteri (per la precisione: 1.126 la 2 Gv; 1.105 la 3 Gv) - ci dicono che ciascuna riempiva un foglio di papiro di pari grandezza» (R. SCHNACKENBURG 295).

l.

Struttura

Siccome, nella forma, la Seconda lettera di Giovanni segue ampiamente le usuali tradizioni epistolari antiche, è semplicissimo suddividerla, come risulta alla pagina che segue:

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D. Le lettere- Lettere cattoliche

Prescritta

..

vv. 1-3

mittente destinatari saluto

v.4

ProemiOgioia/elogio

vv.S-11

Cerpo: comandamento dell'amore messa in guardia contro i cattivi maestri esortazioni/istruzione

.

(OildUsione

vv.12s.

annuncio di una visita saluti

2.

Origine

2.1

FONTI, TRADIZIONI E REDAZIONE FINALE DEL TESTO

La brevità del testo sconsiglia di dedicarvi una trattazione critico-letteraria eccessivamente approfondita. Risulta peraltro difficile discutere delle fonti e della rielaborazione redazionale. Data la somiglianza tra Seconda e Terza lettera di Giovanni, nella ricerca scientifica più antica ci si chiese quale delle due lettere potrebbe essere un'imitazione dell'altra (cfr., per esempio, R. BuLTMANN 103s.). La questione però, nel frattempo, ha perso interesse. La Seconda lettera di Giovanni è, come la Terza, una vera e propria lettera. In un testo così breve e relativamente privo di importanza teologica, una finzione dell'autore avrebbe anche poco senso (-+ 2.5). Con questo non sono escluse naturalmente delle relazioni intratestuali della Seconda lettera di Giovanni con le altre due lettere giovannee e con il Vangelo di Giovanni. La Seconda lettera di Giovanni non imita la Terza o la Prima lettera di Giovanni, e neppure viceversa. Gli aspetti comuni del linguaggio e della teologia si basano piuttosto sulla comune tradizione giovannea, su una concezione teologica simile e su un'analoga situazione comunicativa. È evidente che il testo più recente può mutuare motivi da uno più vecchio, ma questo

XIX La Seconda lettera di Giovanni

679

potrebbe essere valutato nell'interpretazione solamente se si potesse decidere con esattezza come ordinare cronologicamente la letteratura giovannea. Qui noi siamo obbligati a fermarci a supposizioni più o meno probabili (--.. 2.4).

2.2

IL PROBLEMA DELL'AUTORE

Lo scrittore della lettera non dice il proprio nome, ma si definisce

Come nella Seconda lettera di Giovanni, mittente è «il presbitero, l'anziano» (7tQccr~1rtEQO